Teorie della formazione s. polenta a.a. 2011-12 Si migliorano le piante con la coltivazione, e gli uomini con l’educazione. Se l’uomo nascesse grande e forte, la sua natura e la sua forza gli sarebbero inutili fino a che non avesse imparato a servirsene. Esse gli sarebbero state dannose, impedendo agli altri di imparare ad assisterlo e, abbandonato a sé stesso, morrebbe di miseria, prima di aver conosciuto i suoi bisogni. Rousseau, Emilio Sempre di più oggi il problema dell'educazione è quello di formare un individuo che sappia costruire un futuro che non è affatto predeterminato, ma che dipende in maniera critica dalle capacità di visione e di immaginazione. Mauro Ceruti http://www.mauroceruti.it/index.htm L‘immaginazione è più importante della conoscenza. La conoscenza è limitata, l'immaginazione abbraccia il mondo, stimolando il progresso, facendo nascere l'evoluzione, Albert Einstein (cit. in George Sylvester Viereck, What Life Means to Einstein, The Saturday Evening Post, 26 ottobre 1929, p. 17) So che la maggior parte degli uomini, compresi quelli che si trovano a loro agio nell’affrontare problemi estremamente complessi, possono solo di rado accettare persino la verità più semplice e più ovvia se essa è tale da costringerli ad ammettere la falsità delle conclusioni che hanno spiegato con piacere ai loro colleghi, che hanno insegnato con orgoglio ad altri e che hanno intessuto, un filo dopo l’altro, nella trama della loro vita. Tolstoj (cit. in Gleick, 1987, tr. It 1989, p. 40, che a sua volta riporta la citazione di Joseph Ford, del Georgia Institute of Technology) Eppure occorre che l’uomo si svegli dal suo millenario sogno per scoprire la sua solitudine completa, la sua estraneità radicale. Egli ora sa che, come uno zingaro, è ai margini dell’Universo in cui deve vivere. Un Universo sordo alla sua musica, indifferente alle sue speranze, alle sua sofferenze, ai suoi crimini. J. Monod 1970, tr. it. Il Caso e la necessità, 1976, p. 136 Educazione/Istruzione/Formazione (da Frabboni, Pinto Minerva, p. 42) • Educazione deriva dalle parole latine educāre, che vuol dire allevare, nutrire, ed e-ducěre, che vuol dire trarre fuori. «Educazione» rappresenta la parola madre su cui il sapere pedagogico si struttura e si ramifica. Essa fa riferimento soprattutto alla riflessione valoriale, affettivorelazionale, etico-sociale, esplicandosi e realizzandosi prevalentemente nelle istituzioni non formali quali famiglia, chiese, libere associazioni, oltre che nella scuola • Istruzione (dal latino instruere = rendere abile, preparare a) allude all’ambito cognitivo e ai processi dell’acquisizione di conoscenze, saperi e competenze (analitiche e descrittive, interpretative e critiche, euristiche e creative). Essa si esplica e realizza prevalentemente nelle istituzioni formali e principalmente nella scuola, luogo specializzato dei processi di insegnamento-apprendimento. • Formazione, reinterpretata in questi ultimi anni a partire dalla paideia greca e dalla Bildung tedesca, viene proposta come la «categoria comprendente» del sapere pedagogico, il momento nel quale si integrano le istanze etiche (acquisizione di valori e comportamenti) e le istanze cognitive e affettive. • Essa è un processo dinamico che si esplica in una duplice dimensione: una prima attiene al «con-formarsi» alla conoscenza e alla cultura di un gruppo sociale; una seconda dimensione è relativa al «formar-si», «ossia ai processi auto-costruttivi attraverso i quali il singolo soggetto elabora e trasfigura tale cultura con l’apporto della propria specifica individualità»; la «formazione» rappresenta quindi la dimensione nella quale si realizza l’integrazione critico-costruttiva del nesso (intricato e dialettico) educazione-istruzione (pp. 9, 42) Per indicare il complesso dell'esistenza di un essere reale, il tedesco si serve della parola Gestalt, forma; termine nel quale si astrae da ciò ch'è mobile, e si ritiene stabilito, concluso e fissato nei suoi caratteri, un tutto unico. Ora, se esaminiamo le forme esistenti, ma in particolar modo le organiche, ci accorgiamo che in esse non v'è mai nulla d'immobile, di fisso, di concluso, ma ogni cosa ondeggia in un continuo moto. Perciò il tedesco si serve opportunamente della parola Bildung, formazione, per indicare sia ciò che è già prodotto, sia ciò che sta producendosi. Ne segue che, in una introduzione alla morfologia, non si dovrebbe parlare di forma e, se si usa questo termine, avere in mente soltanto un'idea, un concetto, o qualcosa di fissato nell'esperienza solo per il momento. Il già formato viene subito ritrasformato; e noi, se vogliamo acquisire una percezione vivente della natura, dobbiamo mantenerci mobili e plastici seguendo l'esempio ch'essa stessa ci dà. Goethe • Bildung è un termine tedesco col quale si fa riferimento al processo di formazione dell’uomo nel suo rapporto con la cultura, concetto che fa riferimento al far progredire, al far sviluppare certe capacità; di fronte alla cultura (Kultur) l’individuo non ha un atteggiamento passivo ma attivo, cercando di chiarirsi le idee sul suo destino, sui suoi orientamenti di vita. Bildung, pertanto ha due valenze: una estetico-organicistica e una teleologica (Givone, 1996) – La forma che l’individuo si dà è sempre aperta e soggetta a modificazione, per cui il processo di formazione dura tutta la vita. • Paideia allude alla formazione come crescita etica e cognitiva del soggetto che tende a coordinare se stesso secondo un modello estetico (Cambi, 1996) Punti di vista contrastanti sul concetto di formazione • Cambi e Orefice evidenziano che si preferisce “processo formativo” di “processo educativo” sia per la maggiore valenza pratica del primo, sia perché il termine “educativo” ha una connotazione troppo valutativa, che discende dal discorso sui fini della tradizione pedagogica. – Nel mondo anglosassone “educative” ha una dimensione valutativa, mentre “educational” è più empirico. → “Formativo” attiene a quel processo che consente all’uomo di percorrere stadi di autorealizzazione progressivamente più complessi. (Cambi-Orefice, 1996) • Per Acone (2001) la formazione è più stimolo esterno e non valorizza adeguatamente l’educere, l’autoformazione, l’autorealizzazione. → Così la formazione è condizione necessaria, ma non sufficiente, per il darsi dell’educazione (Acone, 2001). è nota la posizione estrema di chi dissolve lo spessore di specificità della pedagogia nelle varie discipline di supporto o nella molteplicità delle cosiddette scienze dell’educazione (Visalberghi, Laporta, Massa) perché si ritiene ideologico e non scientifico il concetto di educazione e si tende a sostituirlo con quello di istruzione o, tutt’al più, con quello di formazione (Laporta, Massa) (Acone, 2001, p. 63) • Massa (1992) evidenzia come spesso il termine “formazione” è visto come il complementare negativo di “educazione” e piuttosto sinonimo di “istruzione” e in genere sta a indicare qualunque pratica consapevole, intenzionale, finalizzata, settoriale, organizzata e controllata rispetto all’apprendimento strutturato e permanente di conoscenze, abilità o atteggiamento determinati. – Quando se ne parla in un senso più tradizionale, invece si fa riferimento a un modello ideale. Dove è sempre essenziale la centralità di un’azione esterna o di un’assunzione interna mirata e programmata. Quanto alla formazione come romanzo individuale, come vicissitudine e come avventura educativa segnata fondamentalmente da processi diffusi di socializzazione e di inculturazione, si tratta di quel significato vitale ed esistenziale di formazione meglio depositato, più ancora che nella psicoanalisi e nelle scienze sociali, nelle grandi produzioni artistiche, filosofiche e letterarie, o in tanta parte dell’attuale produzione cinematografica. La clinica della formazione vuole cogliere un tale significato (Massa, 1992) Franco Cambi (1996): Formazione e processo nella pedagogia occidentale: momenti, modelli, funzioni • Se l’e-ducere comportava un “estrarre” ma anche un conformare, in qualche modo legato a un’autorità, la formazione pone in rilievo l’aspetto dello sviluppo organico, di acquisizione di una “forma”. La formazione è un acquisir-forma. Il formativo allude anche ad una processualità dinamica, aperta, tensionale, organico-evolutiva. • La formazione è al centro della pedagogia. Sin dall’illuminismo greco la formazione ha posto in luce la vocazione squisitamente antropologica della pedagogia, il suo legarsi alla crescita-sviluppomaturazione del soggetto e al suo qualificarsi come individuopersona lasciando più in ombra – ovvero in secondo piano – gli aspetti sociali e conformativi. All’educere, al “trarre fuori”, è connessa una valenza formativa, uno svilupparsi secondo una regola interna. Il soggetto-individuo-persona non è dato naturale, ma costruzione psicologico-etico-culturale, struttura-compito e non struttura-datità, che viene elaborandosi attraverso un complesso intreccio di rapporti fra la coscienza e la società. • In Occidente l’educazione è formazione, in quanto acquisizione di una forma interiore (che è anche modello armonico, costruzione ideale) e in quanto processo aperto e autoregolato di questo acquisir forma. È il modello teorizzato in maniera esplicita e luminosa con la nozione di paideia, che allude alla formazione come crescita etica e cognitiva del soggetto che tende a coordinare se stesso secondo un modello estetico. Siamo di fronte a un modello etico-estetico della formazione, del farsi persona come soggetto autonomo, responsabile, fedele al proprio sé. • Nel Seicento, con la Modernità, questo modello è posto in sordina a favore dell’educazione civile e dell’inserimento sociale. • È con il romanticismo, con Goethe, Schiller, von Humboldt, che ritorna un’idea di formazione in senso antropologico ed estetico. Il concetto di Bildung. • Oggi dobbiamo interrogarsi sul superamento, come dice Luhmann, della formazione. La cultura filosofica, da Heidegger a Benjamin, a Sartre fino a Vattimo e a Rorty non ha valorizzato il formarsi in senso classico, ma la frammentarietà dell’io, l’incontro duro con l’oggettività, il collocarsi nel flusso degli eventi, che caratterizza la condizione attuale dell’uomo. • Il processo non è più visto sotto categorie filosofiche, ma con quelle dell’evoluzionismo. Luciano Gallino, in L’incerta alleanza, tenta una lettura sinottica e comparativa dei modelli epistemologici delle scienze naturali e di quelle umane, cercando di sottrarle al riduzionismo e all’aut-aut. Mette a fuoco l’altalenare di stazionarietà e ciclicità, teleonomia e caoticità, catastroficità. Il modello-catastrofe può essere utile a leggere certi momenti di crescita. Si pensi all’adolescenza. • La pedagogia della complessità si sta affermando come modello. Si tratta di una “nuova alleanza fra scienza e filosofia”? Dice Cambi che è ancora un’oscillazione… • Come vanno ricollegate, dunque, processo e formazione nel pensiero contemporaneo? – si osserva che la pedagogia sta assumendo nel suo lessico nozioni più oggettive e meno valutative di quelle del passato: si parla di apprendere/insegnare e non di educare/istruire; di comunicazione educativa piuttosto che di rapporto educativo; di processo formativo invece di atto educativo; – questa nozione di processo formativo risulta più vera perché ci consegna un modello di evento educativo connotato in senso processuale; – anche l’idea di formazione va assunta dal punto di vista più alto, come acquisir-forma da parte dell’uomo in vista di una sua crescita spirituale, come soggettività capace di acquisir cultura ma capace di sintesi centrata, di essere dotata di un proprio centro. Proprio la pedagogia ha elaborato due categorie di fortissima tenuta storica, quelle di paideia e di Bildung, del soggetto che attraversa hegelianamente lo spirito oggettivo rielaborandolo alla luce dello spirito soggettivo, acquistando così la sua humanitas. La pedagogia nel suo sviluppo storico ha posto in rilievo sia il concetto-limite della formazione sia il modo in cui esso deve essere assunto: spirituale, dinamico, oggettivo/soggettivo, storico, dotato di un centro e di un certo attivo (l’io) che si regola secondo il criterio dell’autonomia nel momento stesso in cui si struttura un “bagno” nell’oggettività Cambi (1996, pp.98-99) • Rispetto a questo modello di formazione si è parlato oggi, come fa Luhmann, di una fine della Bildung. Si parla di formazione professionale, aziendale… in netta separazione col concetto tradizionale di formazione. Ma la perdita è netta per una comprensione adeguata del processo educativo dal punto di vista propriamente umano. • Si tratta pertanto di recuperare il concetto in tutto il suo spessore. Tale nozione è presente in Marx e nel suo concetto di uomo onnilaterale, nella scuola di Francoforte, ma anche in Nietzsche e perfino in Heidegger, anche in maniera critica e radicale come oltrepassamento dell’intellettualismo, del moralismo, del logocentrismo. • Come mettere insieme “processo” e “formazione”, essendo l’uno maturato in schiave scientifico-epistemologica e l’altro ricco soprattutto del suo passato? Si dovrà connetterli in modo problematico e dialettico, utilizzando quel paradigma della complessità che oggi viene da più parti indicato come il criterio base per dar vita a un nuovo codice pedagogico? La questione • Formazione come ex-ducere (portare fuori), ma anche come in-ducere (portare dentro) → come conciliare questi due aspetti? ↓ Cioè: come pensare che il «portare fuori» si armonizzi con la dimensione sociale e oggettiva, aggirando, da un lato, il rischio che il soggetto rimanga asservito ad essa o che, per formarsi, debba obbedire a logiche di tipo autoritario; e, dall’altro, la possibilità che egli rimanga senza realtà, monade autoreferenziale e tendenzialmente narcisista? • Nietzsche: «come si diventa ciò che si è»? Come dovrebbe essere secondo voi una «formazione» che rispetti sia l’ «interno» che l’ «esterno», la soggettività e l’oggettività, la libera iniziativa della persona e l’inevitabile e necessario conformarsi alle esigenze della realtà (norme, bisogni di sopravvivenza, opportunità)? • Ogni azione formativa è una specie di «concrescenza» (cfr. Whitehead), dove il «dentro» e il «fuori» risultano armonizzati, com’era implicito nei concetti di Bildung o paideia. • Si tratta di comprendere quali modelli e quali prospettive ci permettono di «tenere» e pensare assieme libertà e compito, autonomia ed eteronomia, spontaneità del soggetto e realtà. → cosa vuol dire, dunque, «formarsi» e «formare»? • Adotteremo un’ottica che vede il soggetto come un «agente», dotato di una propria prospettiva e di una propria intenzionalità, che interagisce transattivamente con la realtà, riuscendo così ad apprendere dall’esperienza. »Cosa significa? Il mondo è la «valle che fa l’Anima» Il nome che viene comunemente dato a questo mondo dalla gente superstiziosa e fuorviata è «una valle di lacrime», da cui dovremmo essere redenti da un intervento arbitrario di Dio e assunti in Cielo. Che concetto ristretto e limitato. Chiamiamo per favore il mondo la «valle che fa l’Anima». Vedrete allora a che serve il mondo (parlo ora di natura umana nel senso più alto, dando per scontata la sua immortalità perché voglio comunicarvi un pensiero che mi ha colpito al riguardo). John Keats (Londra, 31 ottobre 1795 – Roma, 24 febbraio 1821) è stato un poeta inglese, uno dei principali esponenti del romanticismo. Dico «che fa l’Anima»: Anima in quanto la distinguo dall’Intelligenza. Ci possono essere intelligenze o scintille della divinità a milioni, ma non ci sono Anime finché quelle scintille non acquistano identità, finché ognuna non è personalmente sé stessa. Le intelligenze sono atomi di percezione, sanno e vedono e sono pure, in breve sono Dio. Ma com’è che si formano le Anime? Come fanno queste scintille che sono Dio ad acquistare identità, così da avere ciascuna una beatitudine propria […]? Come, se non tramite il mondo? È proprio questo il punto su cui vorrei insistere, perché credo che ci sia un sistema di salvazione più valido di quello cristiano, e cioè un sistema di salvazione dello Spirito. Questo si realizza attraverso tre grandi elementi che interagiscono l’uno sull’altro […]. Questi tre elementi sono l’Intelligenza – il cuore umano (distinto dall’intelletto o Mente) e il Mondo, o lo spazio materiale dove si incontrano la Mente e il Cuore con il proposito di formare l’Anima o l’Intelligenza destinata a possedere il senso dell’Identità. Riesco a fatica a esprimere ciò che vedo ancora solo vagamente, e tuttavia credo di vederlo; perché possiate giudicare meglio proverò a spiegarmi nel modo più semplice possibile: chiamo il mondo una Scuola che ha lo scopo di insegnare a leggere ai bambini. Chiamo il cuore umano il libro che si usa in quella Scuola, e chiamerò il Bambino che impara a leggere, l’Anima fatta in quella Scuola e da quel libro. (Keats, 1817-20, pp. 157-59) • Keats suggerisce che la formazione è un «fare Anima», che è un processo diverso da quello dell’usare l’intelligenza*; • Infatti, le scintille di intelligenza (che sono espressione di Dio) non sono l’Anima fin quando non acquistano una propria soggettività e non diventano «personalmente sé stesse»; • Queste scintille divine diventano anima «tramite il mondo»** → il mondo è una Scuola nella quale il bambino costruisce la propria Anima. *qui si potrebbe richiamare la distinzione fra educazione e istruzione ** interagendo col mondo, essendo col mondo in un rapporto «transattivo» • Keats precisa che la Mente è diversa dal Cuore: il Cuore è il libro che il bambino deve imparare a leggere nella Scuola del mondo per diventare un’Anima → Con questa affermazione che ad apprendere è il Cuore, Keats si riconnette idealmente a quelle correnti di pensiero che vedono nelle emozioni il punto di partenza di qualsiasi autentico apprendimento • Quindi, per Keats, siamo come dei bambini che stanno al mondo per imparare a leggere nel loro cuore umano e non possono farlo se non tramite esperienza stessa, tramite il mondo, la realtà – Il cuore umano rappresenta la natura umana, l’ «essenza» dell’essere umani. Citando Wordworth, Keats dice infatti: «tutti noi abbiamo uno stesso cuore umano» • Il «fare anima» allude a una crescita qualitativa della persona, non soltanto un incremento quantitativo di nozioni, competenze, informazioni, non solamente un accumulo di dati, ma un cambiamento del proprio «essere»… → Keats ci parla del mistero della nascita e della crescita della soggettività Quali modelli per una teoria della formazione? • Si utilizzeranno quei modelli che permettono di pensare a una crescita «qualitativa» dell’individuo, che metta in luce l’importanza degli aspetti emotivi-intenzionali rispetto a quelli cognitivi in senso stretto: – Whitehead parla della concrescenza fra individuo e mondo – Bion utilizza il concetto di «apprendere dall’esperienza» – Winnicott, sostiene che tutti gli individui sani vivono non solamente nel mondo interno e neanche nel mondo esterno, ma in un mondo intermedio, che egli chiama «spazio transizionale»; – Per Dewey, analogamente, anche se da un altro punto di vista, l’interazione fra l’azione intenzionale dell’individuo (purposeful) e la realtà è all’insegna di una continua tensione e vitalità che egli definisce con il concetto di «transattività» – Per Varela esistiamo in una «via di mezzo» fra autonomia ed eteronomia → siamo «auto-eteronomi» • Per fare da cornice teorica a questi approcci verrà chiamata in causa l’epistemologia della complessità – L’epistemologia della complessità ammette l’esistenza di processi costruttivi, ovvero la possibilità che dall’interazione fra parti (particelle, molecole, individui…) emergano nuove proprietà in ossequio della regola: «il tutto è più della somma delle parti» Intenzionalità • Una delle caratteristiche più evidenti delle persone è che sono attive e manifestano un comportamento «intenzionale». • Il concetto di intenzionalità è più semplice da riconoscere che non da descrivere. – Il biologo S. Kauffman dice: quando chiamo il mio cane, mi guarda. È un comportamento intenzionale. • Gli individui sono «centri attivi» di interessi e motivazioni, che percepiscono le esperienze come «proprie»: …alla base del nostro senso di essere un centro indipendente di iniziativa e di percezione, integrato, con le nostre ambizioni e i nostri ideali più centrali, con la nostra esperienza che la mente e il corpo formano un’unità nello spazio e un continuo nel tempo. Questa configurazione psichica coesiva e permanente forma il settore centrale della personalità (Kohut, 1977). La concezione del neonato come groviglio di impulsi e bisogni meramente fisici, come tabula rasa governata solo da impulsi, non tiene presente che… …la caratteristica più notevole dei bambini di ogni età è tuttavia la loro capacità di generare intenzioni o stati motivazionali coerenti: non sono in balia degli stimoli, né in costante conflitto di impulsi. (Trevarthen*, 1980, tr. it 1998, p. 34) * C. Trevarthen è neuroscienziato e psicologo dello sviluppo. • Per W. Freeman (neuroscienziato) l’intenzionalità e il produrre azioni dirette verso uno scopo è una caratteristica di base del nostro cervello. …la diade deterministica natura-cultura… non riesce a tenere conto della capacità degli esseri intenzionali di costruire e perseguire i propri obiettivi personali nell’ambito del contesto sociale (Freeman, 1999, Come pensa il cervello, tr. it. 2000). Sin dall’origine, l’essere umano può essere immaginato come un centro attivo dotato di intenzionalità, con caratteristiche proprie (anche se solo potenziali), impegnato a evolvere e a conoscere se stesso e il mondo che lo circonda. Donald Winnicott ha utilizzato il termine di “vero Sé” per alludere alla spontaneità originaria del soggetto. Un individuo è «sano» quando riesce a percepire di «star vivendo la propria vita» Per Piero Bertolini e Marco Dallari l’intenzionalità, sulla scorta della tradizione fenomenologica (depurata però da ogni idealismo), è incontro fra persone reali, soggetti a pieno titolo, soggetti attivi in relazione Per Colwin Trevarthen (1997) è possibile parlare in modo sensato di “intenzionalità” nei neonati. A suo parere i neonati hanno un’innata capacità di autoriferimento. John Dewey pone al centro della sua pedagogia l’ «esperienza» intesa come interazione fra l’io (self) e l’ambiente. Tale interazione è resa significativa dal fatto che l’azione compiuta dal self è intenzionale (purposeful) e intelligente I ricercatori dell’Infant Research parlano di dello sviluppo del Sé non solo quale esito di regolazioni intersoggettive ma anche di “autoregolazioni”, cioè di avere una propria «logica» interna di funzionamento, di essere «autonomo» e non solo «eteronomo». In Carl Rogers alla base dello sviluppo della personalità vi è il concetto di organismo inteso come un tuttounico, non scindibile in parti separate, un tutto irriducibile alla semplice somma delle parti, una «persona». Heinz Kohut parla di un Sé nucleare. Una delle difficoltà del lavorare con i neonati è che possiedono menti proprie. Talvolta, quando non fanno determinate cose, è perché non vogliono farle, mentre quando vogliono fare qualcosa, ce la mettono davvero tutta. Trevarthen (1997, p. 149). • Il neonato viene alla luce con un sé giocoso, espressivo e portato alla sperimentazione, pronto ad esplorare ed ad usare oggetti e a comunicare con le altre persone su come usarli Un bimbo di due mesi è una personalità complessa, capace di distinguere le persone da altri oggetti “fisici”, trattandole come una categoria di importanza primaria per il proprio sviluppo. Trevarthen (1974, tr. it. 1998, p. 43) • Un bambino ha una sua “voce” che non ha niente a che vedere con l’esigenza di essere nutrito, rimanere al sicuro e protetto: le protoconversazioni hanno inizio quando il bambino non si accontenta di rimanere al sicuro e si cimenta in “conversazioni” con i fratelli, i genitori, altri bambini della sua età. Questo comportamento rappresenta uno scambio reciproco. (Trevarthen 1997, p. 147) Sulla scorta di tali considerazioni, Trevarthen è convinto che una visione più chiara di come il cervello umano si sviluppa possa fornire un contributo alle teorie dello sviluppo e ai connessi metodi educativi (1980, tr. it 1998, pp. 1-2). Ma… … sottolinea che man mano che le nostre conoscenze sul cervello aumentano, non diminuisce la distanza fra la logica materialistica della biologia e la consapevolezza che abbiamo come esseri umani di essere dotati di sentimenti complessi e una vita consapevole. Tutto ciò appare alquanto frustrante per lo scienziato moderno, che probabilmente si risolverà ad accogliere una prospettiva di tipo dualistico e a cercare spiegazioni diverse per gli eventi fisiologici da una parte e per quelli mentali o spirituali dall’altra. A chi non è un biologo, o non è impegnato a semplificare il comportamento umano, la natura biologica ereditata dall’uomo appare irrilevante, uno strumento subordinato alla mente, o una fonte di impulsi fastidiosi per la vita personale del “Sé”. Io penso invece che, se vogliamo comprendere il neonato in quanto essere umano, sia necessario affrontare il paradosso che sorge fra mente e materia biologica, da che un bambino piccolo è una giovane mente immersa in materia biologica. Ma ammetto che è facile cadere in una spiegazione molto rozza della mente in termini di pezzettini di strutture cerebrali. Condivido le preoccupazioni di chi si chiede se sarà mai possibile conoscere abbastanza sui pallidi labirinti del cervello da poter indicare il loro esatto contributo alla vita mentale e al comportamento. In particolare, mi sembra lecito domandare che cosa abbiano a che fare i discorsi che facciamo sul cervello con lo sviluppo della coscienza, delle intenzioni e delle relazioni personali nel bambino (Trevarthen). • Gli psicologi sembrano spesso credere che le caratteristiche umane sia determinate alla nascita geneticamente e che in seguito vengano modificate dalle influenze ambientali. Ma è davvero così? (Trevarthen, 1997, tr. it. 1998, p. 3) Se osserviamo lo sviluppo di un essere umano, notiamo che esso inizia sotto la forma di una cellula entro la quale sono combinati i cromosomi di un uomo e quelli di uno spermatozoo. Attraverso migliaia di cicli di divisione cellulare, le molecole dei geni costruiscono immagini di se stesse e le distribuiscono in maniera uguale a ciascuna cellula. Questa chimica eccezionale spiega come i cromosomi riescano a trasmettere informazioni in maniera indistruttibile per formare sempre la stessa specie di organismo (Crick 1962). Alcuni prodotti delle molecole dei geni agiscono “all’indietro”, in modo da esercitare un controllo sul destino dei geni stessi cosicché, poco tempo dopo l’inizio della trascrizione del codice genetico, i processi significativi dello sviluppo non interessano più solamente il livello molecolare, ma quello sovraordinato in cui avviene un’interazione fra membrane e fibre cellulari ripiegate o fra raggruppamenti e strati di cellule, che agiscono come complemento dei geni. Non vi è dubbio, cioè, che il codice genetico agisca come la matrice che può generare infinite copie identiche di giornali, cosicché la trasmissione delle funzioni viventi viene assicurata in maniera assai affidabile attraverso le molteplici replicazioni cellulari. Tuttavia questo non spiega interamente la formazione dei complessi organismi pluricellulari. Il fatto è che i geni, seppure essenziali, non possiedono, in se stessi, alcuna funzione vivente; il loro “codice” deve essere interpretato all’interno della chimica cellulare, della fisiologia e delle abitudini di vita all’interno dell’intero organismo (Srb, Owen, Edgar 1965; Waddington 1966). I geni possiedono significati diversi in diverse forme di vita. Sono come animali domestici in una fattoria di strutture cellulari e, man mano che l’evoluzione procede, essi certamente mutano, adattandoli alle modalità di “allevamento” intracellulare (Grant 1977). Si è ipotizzato che l’evoluzione degli animali sociali operi attraverso geni per l’ “egoismo” o per l’ “altruismo” (Dawkins 1976); ma questi sono concetti che si applicano alla personalità umana, e qualsivoglia egoismo o altruismo il gene possa avere gli viene attributo dalla persona nella quale si trova. Da questo punto di vista è la persona a causare il tratto ereditario o genetico (Trevarthen, 1997, tr. it. 1998, p. 4). • Anche Gabbard (2000, tr. it 2002) evidenzia “che vi sono nella vita periodi definiti durante i quali l’espressione di un gene è dipendente da un certo tipo di influenza ambientale”. – L’impatto dei fattori ambientali spiega le differenze fenotipiche e la discordanza di molte malattie tra gemelli monozigoti. Egli cita alcuni esprimenti: – È stato osservato che in una colonia di scimmie il 20% che manifestava una vulnerabilità genetica alla separazione dalla madre (rilevata in base alle reazioni depressive sviluppate in seguito a brevi separazione e al conseguente aumento del cortisolo e di ACTH). Se queste scimmie venivano affidate a madri particolarmente accuditive riuscivano a integrarsi perfettamente nel gruppo tanto da raggiungere i vertici della gerarchia sociale. – Rosenblum e Andrews (1994) assegnarono piccoli di scimmia casualmente a madri normali e madri rese ansiose da un programma di alimentazione imprevedibile. Le scimmie che erano state accudite da madri ansiose mostravano una diminuita capacità di interazione gruppale ed erano socialmente subordinati, che tuttavia si manifestava quando stavano diventando adulte, confermando l’ipotesi psicoanalitica che disturbi della prima fase dello sviluppo si manifestano in periodi evolutivi successivi. – In Finlandia alcuni ricercatori hanno dimostrato che la terapia psicoanalitica può avere un impatto significativo sul metabolismo della serotonina. Un paziente di 25 depresso e affetto da un disturbo borderline di personalità dopo un anno di psicoterapia presentava, pur senza aver assunto farmaci, una captazione della serotonina normale. Quindi, l’esperienza mentale può influenzare la biologica e viceversa. Se ne deduce che ogni tipo di intervento (educativo, psicologico, psichiatrico, medico) va considerato come “biopsicosociale”. - Ad esempio, i farmaci usati nella psichiatria hanno anche un effetto “psicologico” e gli interventi “psicoterapeutici” influenzano il cervello al di là del loro impatto psicologico. ripensare il rapporto natura-cultura – Il rapporto mente-cervello non è una questione di aut-aut, ma di et-et. – Gabbard parla di una “deplorevole tendenza verso la dicotomizzazione” in cui da un lato si mettono i disturbi di stampo psicologico e dall’altro quelli di origine biologica (da curare farmacologicamente). Questa suddivisione in un approccio biologico e uno psicologico non risponde più alle conoscenze che si stanno acquisendo nell’ambito delle neuroscienze, alla plasticità del cervello, al fatto che i modelli mendeliani dell’ereditarietà non si applicano alle malattie mentali. Pur dovendo preesistere un sostrato genetico che predispone all’insorgenza di una certa malattia mentale, gli studi sulla plasticità cerebrale mostrano che le modalità di sviluppo cellulare non sia regolato solo dai geni, ma ci sia una forte dipendenza da segnali ambientali (Hyman 1999). - Nell’ambito della medicina si assiste a una grande rivalutazione degli aspetti educativo-sociali (arte-terapia, sorrisoterapia, pet-terapia, musico-terapia ecc.), perché si è visto che sono in grado di migliorare assai il benessere del paziente, non solo sul versante “psicologico”, ma anche nella sua capacità di reagire “fisicamente” alla malattia. Centralità dell’emotività • Trevarthen sostiene anche che le emozioni sono regolatrici delle attività psicologiche, non i loro prodotti: «sono cause, non effetti, della percezione e dell'azione». Anche Greenspan e Brazelton, nel loro testo del 2000 (tr. it. 2001) I bisogni irrinunciabili dei bambini, affermano qualcosa di simile a proposito delle emozioni e del Sé: Greenspan: «L’organizzazione delle emozioni si sviluppa prima del controllo motorio. A ogni stadio della crescita cognitiva corrisponde uno stadio precedente nella sfera affettiva che anticipa le interazioni col mondo fisico. Questa organizzazione delle emozioni rappresenta la prima modalità che il bambino ha di acquisire una conoscenza del mondo, e dà avvio alla costruzione del pensiero. Allo stesso modo, è da qui che comincia a delinearsi il senso di Sé, che necessita della consapevolezza di un confine tra le proprie emozioni e quelle che provengono dall’esterno. Anche questa consapevolezza ha le sue radici necessariamente nelle relazioni interpersonali. Non si può fare un esame di realtà senza il senso di sé. Tutto questo comincia nel primo anno, ma poi il bambino lo esplicita, simbolicamente, nel secondo e nel terzo anno, utilizzando parole che hanno un significato affettivo: ‘dammelo’ e ‘no, non puoi averlo’. Ogni interscambio del genere ha un ‘io’ e un ‘tu’ e crea un confine simbolico». Brazelton: «Credo che anche l’intenzionalità cominci nell’utero. I neonati hanno un’intenzionalità» (p. 11)