Teorie della formazione A.A. 2013-14 Educazione/Istruzione/Formazione (da Frabboni, Pinto Minerva, p. 42) • Educazione deriva dalle parole latine educāre, che vuol dire allevare, nutrire, ed e-ducěre, che vuol dire trarre fuori. «Educazione» rappresenta la parola madre su cui il sapere pedagogico si struttura e si ramifica. Essa fa riferimento soprattutto alla riflessione valoriale, affettivorelazionale, etico-sociale, esplicandosi e realizzandosi prevalentemente nelle istituzioni non formali quali famiglia, chiese, libere associazioni, oltre che nella scuola • Istruzione (dal latino instruere = rendere abile, preparare a) allude all’ambito cognitivo e ai processi dell’acquisizione di conoscenze, saperi e competenze (analitiche e descrittive, interpretative e critiche, euristiche e creative). Essa si esplica e realizza prevalentemente nelle istituzioni formali e principalmente nella scuola, luogo specializzato dei processi di insegnamento-apprendimento. • Formazione, reinterpretata in questi ultimi anni a partire dalla paideia greca e dalla Bildung tedesca, viene proposta come la «categoria comprendente» del sapere pedagogico, il momento nel quale si integrano le istanze etiche (acquisizione di valori e comportamenti) e le istanze cognitive e affettive. • Essa è un processo dinamico che si esplica in una duplice dimensione: una prima attiene al «con-formarsi» alla conoscenza e alla cultura di un gruppo sociale; una seconda dimensione è relativa al «formar-si», «ossia ai processi auto-costruttivi attraverso i quali il singolo soggetto elabora e trasfigura tale cultura con l’apporto della propria specifica individualità»; la «formazione» rappresenta quindi la dimensione nella quale si realizza l’integrazione critico-costruttiva del nesso (intricato e dialettico) educazione-istruzione (pp. 9, 42) Per indicare il complesso dell'esistenza di un essere reale, il tedesco si serve della parola Gestalt, forma; termine nel quale si astrae da ciò ch'è mobile, e si ritiene stabilito, concluso e fissato nei suoi caratteri, un tutto unico. Ora, se esaminiamo le forme esistenti, ma in particolar modo le organiche, ci accorgiamo che in esse non v'è mai nulla d'immobile, di fisso, di concluso, ma ogni cosa ondeggia in un continuo moto. Perciò il tedesco si serve opportunamente della parola Bildung, formazione, per indicare sia ciò che è già prodotto, sia ciò che sta producendosi. Ne segue che, in una introduzione alla morfologia, non si dovrebbe parlare di forma e, se si usa questo termine, avere in mente soltanto un'idea, un concetto, o qualcosa di fissato nell'esperienza solo per il momento. Il già formato viene subito ritrasformato; e noi, se vogliamo acquisire una percezione vivente della natura, dobbiamo mantenerci mobili e plastici seguendo l'esempio ch'essa stessa ci dà. Goethe J.W. Goethe, Die metamorphose der Pflanzen, (1790), trad. it. di B. Groff, B. Maffi, S. Zecchi, La metamorfosi delle piante e altri scritti sulla scienza della natura, Guanda, Parma, 1983, p.43. • Bildung è un termine tedesco col quale si fa riferimento al processo di formazione dell’uomo nel suo rapporto con la cultura, concetto che fa riferimento al far progredire, al far sviluppare certe capacità; di fronte alla cultura (Kultur) l’individuo non ha un atteggiamento passivo ma attivo, cercando di chiarirsi le idee sul suo destino, sui suoi orientamenti di vita. Bildung, pertanto ha due valenze: una estetico-organicistica e una teleologica (Givone, 1996) – La forma che l’individuo si dà è sempre aperta e soggetta a modificazione, per cui il processo di formazione dura tutta la vita. • Paideia allude alla formazione come crescita etica e cognitiva del soggetto che tende a coordinare se stesso secondo un modello estetico (Cambi, 1996) Punti di vista contrastanti sul concetto di formazione • Cambi e Orefice evidenziano che si preferisce “processo formativo” di “processo educativo” sia per la maggiore valenza pratica del primo, sia perché il termine “educativo” ha una connotazione troppo valutativa, che discende dal discorso sui fini della tradizione pedagogica. – Nel mondo anglosassone “educative” ha una dimensione valutativa, mentre “educational” è più empirico. → “Formativo” attiene a quel processo che consente all’uomo di percorrere stadi di autorealizzazione progressivamente più complessi. (Cambi-Orefice, 1996) • Per Acone (2001) la formazione è più stimolo esterno e non valorizza adeguatamente l’educere, l’autoformazione, l’autorealizzazione. → Così la formazione è condizione necessaria, ma non sufficiente, per il darsi dell’educazione (Acone, 2001). è nota la posizione estrema di chi dissolve lo spessore di specificità della pedagogia nelle varie discipline di supporto o nella molteplicità delle cosiddette scienze dell’educazione (Visalberghi, Laporta, Massa) perché si ritiene ideologico e non scientifico il concetto di educazione e si tende a sostituirlo con quello di istruzione o, tutt’al più, con quello di formazione (Laporta, Massa) (Acone, 2001, p. 63) • Massa (1992) evidenzia come spesso il termine “formazione” è visto come il complementare negativo di “educazione” e piuttosto sinonimo di “istruzione” e in genere sta a indicare qualunque pratica consapevole, intenzionale, finalizzata, settoriale, organizzata e controllata rispetto all’apprendimento strutturato e permanente di conoscenze, abilità o atteggiamento determinati. – Quando se ne parla in un senso più tradizionale, invece si fa riferimento a un modello ideale. Dove è sempre essenziale la centralità di un’azione esterna o di un’assunzione interna mirata e programmata. Quanto alla formazione come romanzo individuale, come vicissitudine e come avventura educativa segnata fondamentalmente da processi diffusi di socializzazione e di inculturazione, si tratta di quel significato vitale ed esistenziale di formazione meglio depositato, più ancora che nella psicoanalisi e nelle scienze sociali, nelle grandi produzioni artistiche, filosofiche e letterarie, o in tanta parte dell’attuale produzione cinematografica. La clinica della formazione vuole cogliere un tale significato (Massa, 1992) Da: Franco Cambi, Introduzione alla filosofia dell’educazione, Laterza 2008 • Quello di distinguere educare/istruire/formare è un problema costantemente aperto della pedagogia, da Socrate in poi. • Il pensiero del ’68 legava educazione a “ideologia”, educazione e conformazione a conformismo. Si è messo in luce il valore dell’istruzione nelle società avanzate. L’istruzione è più controllabile, l’educazione più sfuggente. Comunque sia, questa “opposizione ternaria” è stata un elemento fondamentale della problematicità pedagogica. «Ogni attività educativa è, appunto, educazione (da ex ducere, trarre fuori, o edere, nutrire, che implica un’attività direttiva e modelli da realizzare, da nutrire, far vivere, sviluppare) e conformazione; l’educazione è funzionale a una società, ai suoi scopi e alle sue strutture (anche antropologiche); ma è anche istruzione, poiché educa attraverso gli apprendimenti e poiché l’istruzione è un’altra (parallela) istanza delle società (anche di quelle più primitive), legata alla loro sussistenza. Essa ha però anche bisogno del soggetto». • Oggi è forse la formazione (pur diversamente intesa) a essere dominante, a svolgere una funzione di guida, poiché all’educazione si è venuta assegnando una valenza sempre più conformativa e quindi anche autoritaria. Anche l’istruzione sta regredendo, perché lascia fuori troppi aspetti dell’educare (la crescita, la socializzazione ecc.) e inoltre tende a intellettualizzare il processo educativo e pure a scolasticizzarlo, istituzionalizzarlo. Ma anche questo primato assegnato alla formazione vale oggi. «la formazione è un processo di oggettivazione di sé nella cultura, è universalizzarsi uscendo la sé, ma anche un riportare a sé tutta questa produzione dell’uomo, per riviverla, appropriarsene, per operare su di essa una sintesi vitale che diviene la forma del soggetto» (p. 137). • Tale rapporto non è mai lineare, ma contrassegnato da tensioni, rotture, catastrofi. Sono stati in particolare i teorici della Bildung (Schiller, Goethe fino a Gadamer, Habermas, passando per Hegel e Marx, Dilthey, Simmel, il nostro Banfi e molti altri) a mettere in chiaro il suo procedere additivo/ristrutturante, il suo disporsi a sintesi di io/sé e “mondo”, la sua intrinseca tensionalità e il suo giocarsi sull’acquisir forma che è sempre un processo incompiuto. Non solo, questi teorici hanno legato la formazione all’io-individuo e l’hanno vista come sempre più centrale nella società degli individui che ha contrassegnato sempre di più la Modernità. La formazione è, così, categoria di lunga e altissima tradizione, ma è anche una categoria chiave dell’Età Moderna e della Contemporanea. • Oggi, quella categoria, è sottoposta a una serie di slittamenti semantici e torsioni di significato che inquietano la riflessione pedagogica e reclamano una messa a punto della categoria. Anche perché la categoria della formazione ha avuto un forte rilancio, ma a partire da vie lontane, anzi contrarie, alla pedagogia. Il suo rilancio nell’ambito economico-sociologico, in particolare, quale esigenza di sostituire una professionalità rigida e una più plastica. Formazione qui vale come formazione professionale. • Positivo è stato il ripensamento della formazione professionale, svincolata da canoni di rigidezza; meno, anzi equivoco, è stata l’espropriazione fatta alla pedagogia della categoria, che si è depedagogizzata, castrata nei suoi significati più alti e nobili. La pedagogia ha risposto con approfondimenti analitici e con una riflessione sulla formazione. Tale ripensamento è centrale perché, sia detto senza enfasi, su tale categoria si gioca il destino della pedagogia, della sua autonomia, della sua generalità, della sua funzione. • È un confronto che si è nutrito di numerosi dibattiti: si ricordi, ad esempio, l’opposizione di Luhmann e Habermas intorno all’interpretazione della Bildung. – Per Luhmann il paradigma della Bildung è ormai archiviato, tramontato con l’avvento della società tecnologica, perché è sempre più centrale l’uomo come mente e come agire piuttosto che l’uomo come “forma di sé”, come autoconsapevolezza e come microcosmo (concezione cara al mondo umanistico e borghese); – per Habermas, l’uomo come autotrascendenza e come “donatore di senso”, come molla dialettica del divenire, è non solo centrale, ma insostituibile. – Nel Postmoderno il formarsi si è sempre fatto più instabile, articolato/disarticolato, facendo perdere alla nozione di forma l’idea di struttura compatta. Oggi ci si forma in quanto si è sempre in formazione. Franco Cambi (1996): Formazione e processo nella pedagogia occidentale: momenti, modelli, funzioni • Se l’e-ducere comportava un “estrarre” ma anche un conformare, in qualche modo legato a un’autorità, la formazione pone in rilievo l’aspetto dello sviluppo organico, di acquisizione di una “forma”. La formazione è un acquisir-forma. Il formativo allude anche ad una processualità dinamica, aperta, tensionale, organico-evolutiva. • La formazione è al centro della pedagogia. Sin dall’illuminismo greco la formazione ha posto in luce la vocazione squisitamente antropologica della pedagogia, il suo legarsi alla crescita-sviluppomaturazione del soggetto e al suo qualificarsi come individuopersona lasciando più in ombra – ovvero in secondo piano – gli aspetti sociali e conformativi. All’educere, al “trarre fuori”, è connessa una valenza formativa, uno svilupparsi secondo una regola interna. Il soggetto-individuo-persona non è dato naturale, ma costruzione psicologico-etico-culturale, struttura-compito e non struttura-datità, che viene elaborandosi attraverso un complesso intreccio di rapporti fra la coscienza e la società. • In Occidente l’educazione è formazione, in quanto acquisizione di una forma interiore (che è anche modello armonico, costruzione ideale) e in quanto processo aperto e autoregolato di questo acquisir forma. È il modello teorizzato in maniera esplicita e luminosa con la nozione di paideia, che allude alla formazione come crescita etica e cognitiva del soggetto che tende a coordinare se stesso secondo un modello estetico. Siamo di fronte a un modello etico-estetico della formazione, del farsi persona come soggetto autonomo, responsabile, fedele al proprio sé. • Nel Seicento, con la Modernità, questo modello è posto in sordina a favore dell’educazione civile e dell’inserimento sociale. • È con il romanticismo, con Goethe, Schiller, von Humboldt, che ritorna un’idea di formazione in senso antropologico ed estetico. Il concetto di Bildung. • Oggi dobbiamo interrogarsi sul superamento, come dice Luhmann, della formazione. La cultura filosofica, da Heidegger a Benjamin, a Sartre fino a Vattimo e a Rorty non ha valorizzato il formarsi in senso classico, ma la frammentarietà dell’io, l’incontro duro con l’oggettività, il collocarsi nel flusso degli eventi, che caratterizza la condizione attuale dell’uomo. • Il processo non è più visto sotto categorie filosofiche, ma con quelle dell’evoluzionismo. Luciano Gallino, in L’incerta alleanza, tenta una lettura sinottica e comparativa dei modelli epistemologici delle scienze naturali e di quelle umane, cercando di sottrarle al riduzionismo e all’aut-aut. Mette a fuoco l’altalenare di stazionarietà e ciclicità, teleonomia e caoticità, catastroficità. Il modello-catastrofe può essere utile a leggere certi momenti di crescita. Si pensi all’adolescenza. • La pedagogia della complessità si sta affermando come modello. Si tratta di una “nuova alleanza fra scienza e filosofia”? Dice Cambi che è ancora un’oscillazione… • Come vanno ricollegate, dunque, processo e formazione nel pensiero contemporaneo? – si osserva che la pedagogia sta assumendo nel suo lessico nozioni più oggettive e meno valutative di quelle del passato: si parla di apprendere/insegnare e non di educare/istruire; di comunicazione educativa piuttosto che di rapporto educativo; di processo formativo invece di atto educativo; – questa nozione di processo formativo risulta più vera perché ci consegna un modello di evento educativo connotato in senso processuale; – anche l’idea di formazione va assunta dal punto di vista più alto, come acquisir-forma da parte dell’uomo in vista di una sua crescita spirituale, come soggettività capace di acquisir cultura ma capace di sintesi centrata, di essere dotata di un proprio centro. Proprio la pedagogia ha elaborato due categorie di fortissima tenuta storica, quelle di paideia e di Bildung, del soggetto che attraversa hegelianamente lo spirito oggettivo rielaborandolo alla luce dello spirito soggettivo, acquistando così la sua humanitas. La pedagogia nel suo sviluppo storico ha posto in rilievo sia il concetto-limite della formazione sia il modo in cui esso deve essere assunto: spirituale, dinamico, oggettivo/soggettivo, storico, dotato di un centro e di un certo attivo (l’io) che si regola secondo il criterio dell’autonomia nel momento stesso in cui si struttura un “bagno” nell’oggettività Cambi (1996, pp.98-99) • Rispetto a questo modello di formazione si è parlato oggi, come fa Luhmann, di una fine della Bildung. Si parla di formazione professionale, aziendale… in netta separazione col concetto tradizionale di formazione. Ma la perdita è netta per una comprensione adeguata del processo educativo dal punto di vista propriamente umano. • Si tratta pertanto di recuperare il concetto in tutto il suo spessore. Tale nozione è presente in Marx e nel suo concetto di uomo onnilaterale, nella scuola di Francoforte, ma anche in Nietzsche e perfino in Heidegger, anche in maniera critica e radicale come oltrepassamento dell’intellettualismo, del moralismo, del logocentrismo. • Come mettere insieme “processo” e “formazione”, essendo l’uno maturato in schiave scientifico-epistemologica e l’altro ricco soprattutto del suo passato? Si dovrà connetterli in modo problematico e dialettico, utilizzando quel paradigma della complessità che oggi viene da più parti indicato come il criterio base per dar vita a un nuovo codice pedagogico? La questione • Formazione come ex-ducere (portare fuori), ma anche come in-ducere (portare dentro) → come conciliare questi due aspetti? ↓ Cioè: come pensare che il «portare fuori» si armonizzi con la dimensione sociale e oggettiva, aggirando, da un lato, il rischio che il soggetto rimanga asservito ad essa o che, per formarsi, debba obbedire a logiche di tipo autoritario; e, dall’altro, la possibilità che egli rimanga senza realtà, monade autoreferenziale e tendenzialmente narcisista? Il mondo è la «valle che fa l’Anima» Il nome che viene comunemente dato a questo mondo dalla gente superstiziosa e fuorviata è «una valle di lacrime», da cui dovremmo essere redenti da un intervento arbitrario di Dio e assunti in Cielo. Che concetto ristretto e limitato. Chiamiamo per favore il mondo la «valle che fa l’Anima». Vedrete allora a che serve il mondo (parlo ora di natura umana nel senso più alto, dando per scontata la sua immortalità perché voglio comunicarvi un pensiero che mi ha colpito al riguardo). John Keats (Londra, 31 ottobre 1795 – Roma, 24 febbraio 1821) è stato un poeta inglese, uno dei principali esponenti del romanticismo. Dico «che fa l’Anima»: Anima in quanto la distinguo dall’Intelligenza. Ci possono essere intelligenze o scintille della divinità a milioni, ma non ci sono Anime finché quelle scintille non acquistano identità, finché ognuna non è personalmente sé stessa. Le intelligenze sono atomi di percezione, sanno e vedono e sono pure, in breve sono Dio. Ma com’è che si formano le Anime? Come fanno queste scintille che sono Dio ad acquistare identità, così da avere ciascuna una beatitudine propria […]? Come, se non tramite il mondo? È proprio questo il punto su cui vorrei insistere, perché credo che ci sia un sistema di salvazione più valido di quello cristiano, e cioè un sistema di salvazione dello Spirito. Questo si realizza attraverso tre grandi elementi che interagiscono l’uno sull’altro […]. Questi tre elementi sono l’Intelligenza – il cuore umano (distinto dall’intelletto o Mente) e il Mondo, o lo spazio materiale dove si incontrano la Mente e il Cuore con il proposito di formare l’Anima o l’Intelligenza destinata a possedere il senso dell’Identità. Riesco a fatica a esprimere ciò che vedo ancora solo vagamente, e tuttavia credo di vederlo; perché possiate giudicare meglio proverò a spiegarmi nel modo più semplice possibile: chiamo il mondo una Scuola che ha lo scopo di insegnare a leggere ai bambini. Chiamo il cuore umano il libro che si usa in quella Scuola, e chiamerò il Bambino che impara a leggere, l’Anima fatta in quella Scuola e da quel libro. (Keats, 1817-20, pp. 157-59) • Il cuore = i sentimenti universali degli uomini • La scintilla di intelligenza = il nucleo di agency che ciascuno possiede in sé • Il mondo = la realtà esterna, che è una Scuola dove si apprende a trasformare la scintilla di intelligenza in anima • Il «fare anima» = il processo di formazione che fa sì che l’agency cresca e si formi nel e con l’esperienza del mondo • Keats suggerisce che la formazione è un «fare Anima», che è un processo diverso da quello dell’usare l’intelligenza*; • Infatti, le scintille di intelligenza (che sono espressione di Dio) non sono l’Anima fin quando non acquistano una propria soggettività e non diventano «personalmente sé stesse»; • Queste scintille divine diventano anima «tramite il mondo»** → il mondo è una Scuola nella quale il bambino costruisce la propria Anima. • Keats precisa che la Mente è diversa dal Cuore: il Cuore è il libro che il bambino deve imparare a leggere nella Scuola del mondo per diventare un’Anima → Con questa affermazione che ad apprendere è il Cuore, Keats si riconnette idealmente a quelle correnti di pensiero che vedono nelle emozioni il punto di partenza di qualsiasi autentico apprendimento • Quindi, per Keats, siamo come dei bambini che stanno al mondo per imparare a leggere nel loro cuore umano e non possono farlo se non tramite esperienza stessa, tramite il mondo, la realtà – Il cuore umano rappresenta la natura umana, l’ «essenza» dell’essere umani. Citando Wordworth, Keats dice infatti: «tutti noi abbiamo uno stesso cuore umano» • Il «fare anima» allude a una crescita qualitativa della persona, non soltanto un incremento quantitativo di nozioni, competenze, informazioni, non solamente un accumulo di dati, ma un cambiamento del proprio «essere»… → Keats ci parla del mistero della nascita e della crescita della soggettività Quali modelli per una teoria della formazione? – Whitehead parla della concrescenza fra individuo e mondo – Bion utilizza il concetto di «apprendere dall’esperienza» – Winnicott, sostiene che tutti gli individui sani vivono non solamente nel mondo interno e neanche nel mondo esterno, ma in un mondo intermedio, che egli chiama «spazio transizionale»; – Per Dewey, analogamente, anche se da un altro punto di vista, l’interazione fra l’azione intenzionale dell’individuo (purposeful) e la realtà è all’insegna di una continua tensione e vitalità che egli definisce con il concetto di «transazionalità» – Per Varela esistiamo in una «via di mezzo» fra autonomia ed eteronomia → siamo «auto-eteronomi» • Per fare da cornice teorica a questi approcci verrà chiamata in causa l’epistemologia della complessità – L’epistemologia della complessità ammette l’esistenza di processi costruttivi, ovvero la possibilità che dall’interazione fra parti (particelle, molecole, individui…) emergano nuove proprietà in ossequio della regola: «il tutto è più della somma delle parti» Intenzionalità • Una delle caratteristiche più evidenti delle persone è che sono attive e manifestano un comportamento «intenzionale». • Il concetto di intenzionalità è più semplice da riconoscere che non da descrivere. – Il biologo S. Kauffman dice: quando chiamo il mio cane, mi guarda. È un comportamento intenzionale. • Per W. Freeman (neuroscienziato) l’intenzionalità e il produrre azioni dirette verso uno scopo è una caratteristica di base del nostro cervello. …la diade deterministica natura-cultura… non riesce a tenere conto della capacità degli esseri umani di costruire e perseguire i propri obiettivi personali nell’ambito del contesto sociale (Freeman, 1999, Come pensa il cervello, tr. it. 2000). • Gli individui sono «centri attivi» di interessi e motivazioni, che percepiscono le esperienze come «proprie»: …alla base del nostro senso di essere un centro indipendente di iniziativa e di percezione, integrato, con le nostre ambizioni e i nostri ideali più centrali, con la nostra esperienza che la mente e il corpo formano un’unità nello spazio e un continuo nel tempo. Questa configurazione psichica coesiva e permanente forma il settore centrale della personalità (Kohut, 1977). La concezione del neonato come groviglio di impulsi e bisogni meramente fisici, come tabula rasa governata solo da impulsi, non tiene presente che… …la caratteristica più notevole dei bambini di ogni età è tuttavia la loro capacità di generare intenzioni o stati motivazionali coerenti: non sono in balia degli stimoli, né in costante conflitto di impulsi. (Trevarthen*, 1980, tr. it 1998, p. 34) * C. Trevarthen è neuroscienziato e psicologo dello sviluppo. Sin dall’origine, l’essere umano può essere immaginato come un centro attivo dotato di intenzionalità, con caratteristiche proprie (anche se solo potenziali), impegnato a evolvere e a conoscere se stesso e il mondo che lo circonda. Donald Winnicott ha utilizzato il termine di “vero Sé” per alludere alla spontaneità originaria del soggetto. Un individuo è «sano» quando riesce a percepire di «star vivendo la propria vita» Per Piero Bertolini e Marco Dallari l’intenzionalità, sulla scorta della tradizione fenomenologica (depurata però da ogni idealismo), è incontro fra persone reali, soggetti a pieno titolo, soggetti attivi in relazione Per Colwin Trevarthen (1997) è possibile parlare in modo sensato di “intenzionalità” nei neonati. A suo parere i neonati hanno un’innata capacità di autoriferimento. John Dewey pone al centro della sua pedagogia l’ «esperienza» intesa come interazione fra l’io (self) e l’ambiente. Tale interazione è resa significativa dal fatto che l’azione compiuta dal self è intenzionale (purposeful) e intelligente I ricercatori dell’Infant Research parlano di dello sviluppo del Sé non solo quale esito di regolazioni intersoggettive ma anche di “autoregolazioni”, cioè di avere una propria «logica» interna di funzionamento, di essere «autonomo» e non solo «eteronomo». In Carl Rogers alla base dello sviluppo della personalità vi è il concetto di organismo inteso come un tuttounico, irriducibile alla semplice somma delle parti, una «persona» e dotato di una «tendenza attualizzante» Heinz Kohut parla di un Sé nucleare. Una delle difficoltà del lavorare con i neonati è che possiedono menti proprie. Talvolta, quando non fanno determinate cose, è perché non vogliono farle, mentre quando vogliono fare qualcosa, ce la mettono davvero tutta. Trevarthen (1997, p. 149). • Il neonato viene alla luce con un sé giocoso, espressivo e portato alla sperimentazione, pronto ad esplorare ed ad usare oggetti e a comunicare con le altre persone su come usarli Un bimbo di due mesi è una personalità complessa, capace di distinguere le persone da altri oggetti “fisici”, trattandole come una categoria di importanza primaria per il proprio sviluppo. Trevarthen (1974, tr. it. 1998, p. 43) • Un bambino ha una sua “voce” che non ha niente a che vedere con l’esigenza di essere nutrito, rimanere al sicuro e protetto: le protoconversazioni hanno inizio quando il bambino non si accontenta di rimanere al sicuro e si cimenta in “conversazioni” con i fratelli, i genitori, altri bambini della sua età. Questo comportamento rappresenta uno scambio reciproco. (Trevarthen 1997, p. 147) Centralità dell’emotività • Trevarthen sostiene anche che le emozioni sono regolatrici delle attività psicologiche, non i loro prodotti: «sono cause, non effetti, della percezione e dell'azione». Anche Greenspan e Brazelton, nel loro testo del 2000 (tr. it. 2001) I bisogni irrinunciabili dei bambini, affermano qualcosa di simile a proposito delle emozioni e del Sé: Greenspan: «L’organizzazione delle emozioni si sviluppa prima del controllo motorio. A ogni stadio della crescita cognitiva corrisponde uno stadio precedente nella sfera affettiva che anticipa le interazioni col mondo fisico. Questa organizzazione delle emozioni rappresenta la prima modalità che il bambino ha di acquisire una conoscenza del mondo, e dà avvio alla costruzione del pensiero. Allo stesso modo, è da qui che comincia a delinearsi il senso di Sé, che necessita della consapevolezza di un confine tra le proprie emozioni e quelle che provengono dall’esterno. Anche questa consapevolezza ha le sue radici necessariamente nelle relazioni interpersonali. Non si può fare un esame di realtà senza il senso di sé. Tutto questo comincia nel primo anno, ma poi il bambino lo esplicita, simbolicamente, nel secondo e nel terzo anno, utilizzando parole che hanno un significato affettivo: ‘dammelo’ e ‘no, non puoi averlo’. Ogni interscambio del genere ha un ‘io’ e un ‘tu’ e crea un confine simbolico». Brazelton: «Credo che anche l’intenzionalità cominci nell’utero. I neonati hanno un’intenzionalità» (p. 11) Natura o cultura? Sulla scorta di tali considerazioni, Trevarthen è convinto che una visione più chiara di come il cervello umano si sviluppa possa fornire un contributo alle teorie dello sviluppo e ai connessi metodi educativi (1980, tr. it 1998, pp. 1-2). Ma… … sottolinea che man mano che le nostre conoscenze sul cervello aumentano, non diminuisce la distanza fra la logica materialistica della biologia e la consapevolezza che abbiamo come esseri umani di essere dotati di sentimenti complessi e una vita consapevole. Tutto ciò appare alquanto frustrante per lo scienziato moderno, che probabilmente si risolverà ad accogliere una prospettiva di tipo dualistico e a cercare spiegazioni diverse per gli eventi fisiologici da una parte e per quelli mentali o spirituali dall’altra. A chi non è un biologo, o non è impegnato a semplificare il comportamento umano, la natura biologica ereditata dall’uomo appare irrilevante, uno strumento subordinato alla mente, o una fonte di impulsi fastidiosi per la vita personale del “Sé”. Io penso invece che, se vogliamo comprendere il neonato in quanto essere umano, sia necessario affrontare il paradosso che sorge fra mente e materia biologica, da che un bambino piccolo è una giovane mente immersa in materia biologica. Ma ammetto che è facile cadere in una spiegazione molto rozza della mente in termini di pezzettini di strutture cerebrali. Condivido le preoccupazioni di chi si chiede se sarà mai possibile conoscere abbastanza sui pallidi labirinti del cervello da poter indicare il loro esatto contributo alla vita mentale e al comportamento. In particolare, mi sembra lecito domandare che cosa abbiano a che fare i discorsi che facciamo sul cervello con lo sviluppo della coscienza, delle intenzioni e delle relazioni personali nel bambino (Trevarthen). • Gli psicologi sembrano spesso credere che le caratteristiche umane sia determinate alla nascita geneticamente e che in seguito vengano modificate dalle influenze ambientali. Ma è davvero così? (Trevarthen, 1997, tr. it. 1998, p. 3) Se osserviamo lo sviluppo di un essere umano, notiamo che esso inizia sotto la forma di una cellula entro la quale sono combinati i cromosomi di un uomo e quelli di uno spermatozoo. Attraverso migliaia di cicli di divisione cellulare, le molecole dei geni costruiscono immagini di se stesse e le distribuiscono in maniera uguale a ciascuna cellula. Questa chimica eccezionale spiega come i cromosomi riescano a trasmettere informazioni in maniera indistruttibile per formare sempre la stessa specie di organismo (Crick 1962). Alcuni prodotti delle molecole dei geni agiscono “all’indietro”, in modo da esercitare un controllo sul destino dei geni stessi cosicché, poco tempo dopo l’inizio della trascrizione del codice genetico, i processi significativi dello sviluppo non interessano più solamente il livello molecolare, ma quello sovraordinato in cui avviene un’interazione fra membrane e fibre cellulari ripiegate o fra raggruppamenti e strati di cellule, che agiscono come complemento dei geni. Non vi è dubbio, cioè, che il codice genetico agisca come la matrice che può generare infinite copie identiche di giornali, cosicché la trasmissione delle funzioni viventi viene assicurata in maniera assai affidabile attraverso le molteplici replicazioni cellulari. Tuttavia questo non spiega interamente la formazione dei complessi organismi pluricellulari. Il fatto è che i geni, seppure essenziali, non possiedono, in se stessi, alcuna funzione vivente; il loro “codice” deve essere interpretato all’interno della chimica cellulare, della fisiologia e delle abitudini di vita all’interno dell’intero organismo (Srb, Owen, Edgar 1965; Waddington 1966). I geni possiedono significati diversi in diverse forme di vita. Sono come animali domestici in una fattoria di strutture cellulari e, man mano che l’evoluzione procede, essi certamente mutano, adattandoli alle modalità di “allevamento” intracellulare (Grant 1977). Si è ipotizzato che l’evoluzione degli animali sociali operi attraverso geni per l’ “egoismo” o per l’ “altruismo” (Dawkins 1976); ma questi sono concetti che si applicano alla personalità umana, e qualsivoglia egoismo o altruismo il gene possa avere gli viene attributo dalla persona nella quale si trova. Da questo punto di vista è la persona a causare il tratto ereditario o genetico (Trevarthen, 1997, tr. it. 1998, p. 4). • Anche Gabbard (2000, tr. it 2002) evidenzia “che vi sono nella vita periodi definiti durante i quali l’espressione di un gene è dipendente da un certo tipo di influenza ambientale”. – L’impatto dei fattori ambientali spiega le differenze fenotipiche e la discordanza di molte malattie tra gemelli monozigoti. Egli cita alcuni esprimenti: – È stato osservato che in una colonia di scimmie il 20% che manifestava una vulnerabilità genetica alla separazione dalla madre (rilevata in base alle reazioni depressive sviluppate in seguito a brevi separazione e al conseguente aumento del cortisolo e di ACTH). Se queste scimmie venivano affidate a madri particolarmente accuditive riuscivano a integrarsi perfettamente nel gruppo tanto da raggiungere i vertici della gerarchia sociale. – Rosenblum e Andrews (1994) assegnarono piccoli di scimmia casualmente a madri normali e madri rese ansiose da un programma di alimentazione imprevedibile. Le scimmie che erano state accudite da madri ansiose mostravano una diminuita capacità di interazione gruppale ed erano socialmente subordinati, che tuttavia si manifestava quando stavano diventando adulte, confermando l’ipotesi psicoanalitica che disturbi della prima fase dello sviluppo si manifestano in periodi evolutivi successivi. – In Finlandia alcuni ricercatori hanno dimostrato che la terapia psicoanalitica può avere un impatto significativo sul metabolismo della serotonina. Un paziente di 25 depresso e affetto da un disturbo borderline di personalità dopo un anno di psicoterapia presentava, pur senza aver assunto farmaci, una captazione della serotonina normale. Quindi, l’esperienza mentale può influenzare la biologica e viceversa. Se ne deduce che ogni tipo di intervento (educativo, psicologico, psichiatrico, medico) va considerato come “biopsicosociale”. - Ad esempio, i farmaci usati nella psichiatria hanno anche un effetto “psicologico” e gli interventi “psicoterapeutici” influenzano il cervello al di là del loro impatto psicologico. ripensare il rapporto natura-cultura – Il rapporto mente-cervello non è una questione di aut-aut, ma di et-et. – Gabbard parla di una “deplorevole tendenza verso la dicotomizzazione” in cui da un lato si mettono i disturbi di stampo psicologico e dall’altro quelli di origine biologica (da curare farmacologicamente). Questa suddivisione in un approccio biologico e uno psicologico non risponde più alle conoscenze che si stanno acquisendo nell’ambito delle neuroscienze, alla plasticità del cervello, al fatto che i modelli mendeliani dell’ereditarietà non si applicano alle malattie mentali. Pur dovendo preesistere un sostrato genetico che predispone all’insorgenza di una certa malattia mentale, gli studi sulla plasticità cerebrale mostrano che le modalità di sviluppo cellulare non sia regolato solo dai geni, ma ci sia una forte dipendenza da segnali ambientali (Hyman 1999). - Nell’ambito della medicina si assiste a una grande rivalutazione degli aspetti educativo-sociali (arte-terapia, sorrisoterapia, pet-terapia, musico-terapia ecc.), perché si è visto che sono in grado di migliorare assai il benessere del paziente, non solo sul versante “psicologico”, ma anche nella sua capacità di reagire “fisicamente” alla malattia. L’uomo come essere biologicamente incompleto L’uomo può essere definito come il primate che emerse in quella determinata fase dell’evoluzione in cui la determinazione istintiva scese al minimo e lo sviluppo del cervello raggiunse il massimo. Fromm (1973) • Ha pertanto bisogno di stabilire dei nuovi legami affettivi con i suoi compagni, senza i quali soffrirebbe di un forte isolamento e smarrimento. Ha bisogno di rimettere radici (Fromm 1973). L’uomo – di qualsiasi età e civiltà – è messo di fronte alla soluzione di un eterno problema: il problema di come superare la solitudine e raggiungere l’unione (Fromm 1956). • Un’intera tradizione di pensiero (che parte da J. G. Herder e giunge fino a Geertz), sostiene che l’uomo è un essere biologicamente incompleto. – Per riferirsi a questa caratteristica dell’uomo, oggi si usa anche il termine neotenia, mutuandolo dalla biologia, per riferirsi alla minor specializzazione dell’uomo rispetto ad altri animali e alla conseguente maggior adattabilità ambientale. • L’azione quasi-meccanica dell’istinto animale nell’uomo si allenta: l’istintualità umana non è autosufficiente, tanto che il piccolo dell’uomo ha bisogno di molte più cure e per molto più tempo di tutti gli altri animali. – La psicoanalisi di Freud è basata sulla differenza fra la «pulsione» e l’ «istinto». Quest’ultimo allude a qualcosa di interamente predeterminato; la pulsione, pur avendo un sostrato biologico, è più indeterminata, più plasmabile, sublimabile ha bisogno di «oggetti» da «investire» (→ investimento oggettuale). Freud la chiama «libido»: la libido evolve e si struttura lungo il percorso di vita. Freud riconobbe l’esistenza di tappe particolarmente importanti lungo tale percorso, tappe che appartengono ai primi anni di vita (fase orale/anale/genitale) – Erich Fromm distingue le «pulsioni» dalle «passioni»: infatti, a suo parere, anche gli animali hanno «pulsioni» (fame, protezione, sessualità, attaccamento); le «passioni» sono invece tipicamente umane perché rappresentano le risposte al dilemma fondamentale della vita umana: Le passioni fondamentali dell’uomo non sono radicate nei suoi bisogni istintivi, ma nelle specifiche condizioni dell’esistenza umana, nel bisogno di trovare, dopo la perdita della correlazione dello stadio preumano, una nuova correlazione tra l’uomo e la natura (Fromm, 1955) • La differenza risiede nel fatto che l’animale vive le pulsioni come qualcosa che sono tutt’uno con il suo appartenere all’ordine naturale. • Invece l’uomo si «stacca» dalla natura: è, sì, ancora parte della natura, ma anche separato: non angelo, non animale. • Tale mancanza di autosufficienza del funzionamento istintuale umano richiede che l’uomo trovi all’esterno – nei rapporti sociali, nella cultura (intesa in senso lato) – una dimensione dove poter trovare dei criteri per risanare la rottura dell’impulso, per sapere come agire e chi è. – La cultura è la seconda natura dell’uomo. (Remotti 2000). – La cultura è necessaria, secondo tale concezione, perché l’uomo non è dotato di un corredo istintuale che, al pari di quello degli animali, possa indirizzarlo e guidarlo: egli ha bisogno della cultura per sapere cosa deve fare. Se non riuscisse a mettersi in rapporto con un sistema capace di dare senso alla sua esistenza sarebbe un essere paralizzato (E. Fromm 1941). – Il patrimonio culturale acquisisce uno status oggettivo, costituisce un corpus di valori e conoscenze che dialoga con i meccanismi mentali degli esseri umani, strutturandoli. Ogni volta che un elemento culturale si è prodotto entra a far parte della «cultura»: non viene perso, ma capitalizzato: la cultura arricchisce le possibilità di scelta dell’uomo fornendogli un patrimonio non solo di strumenti mentali e tecnologici, ma anche di significati e di visioni del mondo, che costituiscono una «esternalizzazione” dei loro processi mentali, una ricchezza oggettivamente presente a cui le menti degli individui possono attingere (Wilson- Keil, 1999). L’interiorizzazione delle attività radicate socialmente e sviluppate storicamente è l’aspetto caratteristico della psicologia umana, il fondamento del salto qualitativo dalla psicologia animale a quella umana. […] I processi psicologici, così come avvengono negli animali, di fatto cessano di esistere; essi sono incorporati in questo sistema di comportamento e sono ricostruiti culturalmente e sviluppati fino a formare una nuova entità psicologica. Vygotskij (1930-1935, p. 88) • l’uomo, quindi, «emerge» dall’indifferenziazione con la natura, diventa individuo, cosciente di sé, e solo: egli vive «in prima persona», non più come parte di un qualcosa, della Natura: egli è «individuato» e non può, neanche da ubriaco, cedere la propria individualità. Questa lo perseguita, come un dono, ma anche come un maleficio e una tortura. • L’uomo è costretto a diventare un «traditore» (Jung) in quanto deve tradire i rapporti di appartenenza; e, come i traditori, si guarda sempre alle spalle… Albero della Conoscenza del Bene e del Male Lucas Cranach detto il Vecchio (1472 –1553) Fromm interpreta la cacciata dal Paradiso terrestre come l’esito di un essere diventato consapevole di sé dell’uomo: egli ha mangiato dall’Albero della conoscenza e da quel momento diventa cosciente di sé, si vergogna della propria nudità e non può più restare nella beata, ma incosciente, appartenenza con tutte cose che si respira nel Paradiso terrestre. • L’uomo diventa inquieto perché, da un lato, non può abbandonarsi e appartenere totalmente, perché ciò gli farebbe perdere il suo essere individuo; dall’altro la sua separatezza gli crea disagio, senso di isolamento, paura. • Ecco perché per Fromm la libertà è dono ambiguo che occorre accettare con coraggio: dà all’uomo autonomia, ma gli toglie sicurezza. – Fuga dalla libertà (1941) è costruito attorno all’idea che gli uomini, inconsciamente, rinuncino alla libertà e si leghino a feticci o ideologie. → l’ambiguità dell’essere umano è che egli cerca contemporaneamente autonomia e appartenenza • L’uomo inizia a provare nostalgia per la Natura da cui proviene e la percepisce come una Grande Madre avvolgente. • Se, come evidenzia Fromm, non vuole «impazzire» per la sensazione di separatezza deve ristabilire dei legami, delle appartenenze. • Ma l’appartenenza va ottenuta senza rinunciare all’individualità e alla separatezza; se appartenesse «troppo», cederebbe nuovamente la sua identità, si rifonderebbe nel tutto, come avviene nelle appartenenze tribali, fusionali, nell’adorazione di un’ideologia ecc. • Questo essere dentro e fuori dalla natura genera quella sensazione di innaturalezza del comportamento umano. Se amassi i paradossi, potrei affermare che è naturale per l’uomo comportarsi in maniera innaturale. Róheim (1950, p. 498) Dewey, nel suo Arte come esperienza (cap. 1), afferma che l’arte ambisce a ritornare all’istintività animale, all’essere un tutt’uno con l’esperienza che si va compiendo. Per afferrare le fonti dell’esperienza estetica è perciò necessario ricorrere alla vita animale al di sotto della scala umana. Gli atti della volpe, del cane e del tordo possono valere almeno a ricordare e simboleggiare quella unità dell’esperienza che noi frazioniamo tanto, quando il lavoro diventa fatica, e il pensiero ci astrae dal mondo. L’animale vivo è pienamente presente, tutto là, in ognuna delle sue azioni: nelle sue occhiate caute, nel suo annusare accorto, nel suo drizzare gli orecchi improvvisamente. Tutti i suoi sensi indistintamente stanno sul chi vive. Se state attenti, vedete il movimento confondersi con la sensazione e la sensazione con il movimento, determinando quella grazia animale con la quale all’uomo riesce così difficile gareggiare. • Pirandello affermava che l’uomo è come se avesse la “febbre” Sì, perché un cane, poniamo, quando gli sia passata la prima febbre della vita, che fa? mangia e dorme: vive come può vivere, come deve vivere; chiude gli occhi, paziente, e lascia che il tempo passi, freddo se freddo, caldo se caldo; e se gli danno un calcio se lo prende, perché è segno che gli tocca anche questo. Ma l’uomo? Anche da vecchio, sempre con la febbre; delira e non se n’avvede; non può fare a meno d’atteggiarsi, anche davanti a sé stesso, in qualche modo, e si figura tante cose che ha bisogno di creder vere e di prendere sul serio (Pirandello, L’umorismo, 1908). L’uomo si annoia e l’animale no O greggia mia che posi […] Quanta invidia ti porto! Non sol perché d'affanno Quasi libera vai; Ch'ogni stento, ogni danno, Ogni estremo timor subito scordi; Ma più perché giammai tedio non provi. Quando tu siedi all'ombra, sovra l'erbe, Tu se' queta e contenta; E gran parte dell'anno Senza noia consumi in quello stato. Ed io pur seggo sovra l'erbe, all'ombra, E un fastidio m'ingombra La mente, ed uno spron quasi mi punge Sì che, sedendo, più che mai son lunge Da trovar pace o loco. E pur nulla non bramo, E non ho fino a qui cagion di pianto. Quel che tu goda o quanto, Non so già dir; ma fortunata sei. Ed io godo ancor poco, O greggia mia, né di ciò sol mi lagno. Se tu parlar sapessi, io chiederei: Dimmi: perché giacendo A bell'agio, ozioso, S'appaga ogni animale; Me, s'io giaccio in riposo, il tedio assale? (Leopardi, Canto notturno di un pastore errante dell'Asia) • Per G. Róheim, il complesso di Edipo non è un evento innato della psiche, ma un inevitabile processo umano che trova la sua ragion d’essere nel prolungamento della condizione infantile di dipendenza dalla madre. Infatti, il complesso edipico nasce dal conflitto tra la naturale tendenza a crescere ed il desiderio di restare, simbolicamente, nell’utero materno. • È nostalgia per un’appartenenza totale. – Di tale avviso sono anche E. Fromm e C. G. Jung • La “simbiosi”, il “narcisismo primario”, la “fase autistica” del neonato su cui hanno insistito molti psicoanalisti oggi sono concetti non più sostenibili dalla moderna scienza psicologicoevolutiva. • Ha tuttavia senso parlare di momenti “simbiotici” di fusione fantasticata tra rappresentazioni di sé e rappresentazioni dell’oggetto in situazioni d’intensa attivazione affettiva (Kernberg 2005, pp. 90-91). → la ricerca dell’ «oggetto totalmente soddisfacente» Spiega G. Róheim: • L’essere umano vuole crescere ma, contemporaneamente, non tollera “la separazione, sempre prematura, dalla madre” (1950, p 491). • La cultura, freudianamente, è per Róheim un tentativo di attingere in maniera sublimata al soddisfacimento pulsionale; ma a tale dimensione se ne aggiunge un’altra, quella che richiama l’uomo al ricordo dei beati momenti dell’onnipotenza infantile e, inevitabilmente, ai connessi sentimenti di solitudine e di perdita: “il grande pericolo contro cui il genere umano ha sviluppato la cultura è la perdita oggettuale, l’essere lasciato solo al buio” (1943, p. 91). • In tale visione concettuale, la natura umana si trova in “una situazione conflittuale fra due tendenze, regressione e maturazione” (Róheim, 1950, p. 511); ciò costituisce l’aspetto “tragico” dell’uomo. • Cedere alla regressione significherebbe rinunciare all’identità, al compito di umanizzazione che ognuno porta con sé; significherebbe ridiventare l’uomo tribale, l’uomo fuso con la Natura, rinunciare alla libertà. → Per Fromm l’alternativa è: produttività o fuga dalla libertà? Accettare la sfida a cui l’essere umano si trova di fronte per progredire verso la costruzione di una dimensione propriamente umana, basata sulla solidarietà e sulla produttività a tutti i livelli (emotivo, cognitivo, artistico ecc.) oppure legarsi a dei feticci, regredire verso forme simbiotiche di appartenenza? • L’uomo deve ‘inventare’ la sua umanità, deve escogitarla e crearla dal nulla; nascendo si assume l’onere di ‘diventare’ umano. Scrive Francesco Remotti. Diventare umani è un compito a cui gli esseri umani non possono sottrarsi: l’umanità non è data e garantita biologicamente: esige invece di essere costruita culturalmente. Essa non è un presupposto, se non in minima parte: è invece un telos, una meta, un qualcosa che va cercato (e non è detto che venga raggiunto): più radicalmente un qualcosa che va inventato (Remotti 2000). • L’uomo è sia parte della natura, sia staccato da essa. Mantiene, da un lato, un radicamento precategoriale con la natura e dall’altro si stacca da essa per costruire la propria individualità. • Jung parla in tal senso di processo di individuazione per significare il mai concluso percorso dell’uomo verso una maggiore individuazione ↓ l’uomo non deve assumere acriticamente i valori della cultura, della comunità di appartenenza, ma distaccarsene e diventare «individuo» Carl Gustav Jung (1875-1961), fu allievo di Sigmund Freud. Destinato a succedergli nella direzione della società psicoanalitica, elaborò dagli anni ‘10 una propria visione della psicodinamica dell’essere umano, basata non su una spinta pulsionale di carattere sessuale, ma su un’energia che conduce l’uomo verso livelli via via più elevati di integrazione e ampiezza psichica e spirituale (processo di individuazione). L’uomo di Freud si può capire guardando al «da dove»; quello di Jung al «verso dove» • Anche le potenzialità della natura umana – che per Jung giacciono nell’inconscio collettivo, dimensione transpersonale abitata da archetipi (percorsi universali della psiche a forte valenza emotiva) – non possono essere vissute «impersonalmente», ma «personalmente», incluse in un «progetto» personale (individuazione), necessariamente problematizzate. → il processo di individuazione conduce l’uomo, allora, ad emergere dall’inconscio per conquistare il proprio Sé. • Tale emergere si configura, in Jung, come un assumere e integrare a livello cosciente quei contenuti mentali che appartengono alla dimensione inconscia universale, nella quale sono presenti i simboli condivisi da tutti gli uomini, che per Jung sono gli archetipi. – L’uomo «individuato» è un uomo «onnilaterale», per usare un termine di Marx • All’inizio l’uomo esiste in quanto parte di una collettività, di una appartenenza tribale, è «tutt’uno con» – Levy-Bruhl: partecipation mistique: stato originario di incoscienza e quindi di indifferenziazione (Jung 1928, p. 125) → all’inizio l’uomo ha una sola identità, ovvero quella data dall’inconscio collettivo. • Il percorso dell’uomo consiste nell’affrancarsi da questa appartenenza universale, acquisendo una propria personalità separata e autonoma. Se rinuncia a questo percorso, resta in balia degli archetipi: • diventa come l’ubriaco che non riesce a vincere il vizio dell’alcool, • come il giocatore che si brucia con la sua stessa passione, • l‘ammalato di potere che distrugge le relazioni della propria vita… • Infatti, per Jung i contenuti della psiche collettiva (gli archetipi) hanno natura bivalente: bene/male, forza/debolezza, calma/imprudenza ecc. • Questi entrano in contraddizione quando inizia lo sviluppo personale della psiche (Jung 1929, tr. it. p. 56): l’animale non si rende conto della sua bontà o della sua cattiveria: agisce questi sentimenti e basta! L’uomo, che diventa consapevole di sé, sa cos’è il bene e cos’è il male. • Una società che impedisca l’emergere dell’individualità espone l’individuo al rischio della rimozione dell’individualità nell’inconscio, che da lì agisce come tendenza alla distruttività e all’anarchia. – Il primitivo inizia la separazione dal collettivo creando attorno a sé un involucro che può essere definito Persona. In realtà l’attribuzione della Persona è un processo collettivo, in quanto il collettivo aveva bisogno di questa figura → La Persona è un’individualità apparente: in realtà è un ritaglio nel collettivo avvenuto in virtù di certe condizioni (si fa un certo lavoro, si occupa un certo posto, …). La Persona, in definitiva, non è nulla di reale. • L’individuo che si sottrae al proprio percorso di individuazione diventerà più meschino, limitato, più razionalista di prima. …non si può dire che questo risultato debba forzatamente essere una sciagura per tutti gli uomini, perché ve ne sono fin troppi che per la loro notoria inettitudine prosperano meglio in un sistema razionalistico che nella libertà. Quest’ultima è una delle cose più difficili (Jung 1929, p. 76) Il mito dell’eroe • Colui che ha il coraggio di intraprendere il proprio percorso di individuazione è un Eroe che intraprende un viaggio che lo allontana dall’Appartenenza primitiva, simbolizzata dalla Grande Madre. • La Grande Madre è il simbolo dell’origine, del grembo materno e dell’inconscio che contiene in sé gli opposti. Esistere, all’interno della Grande Madre, significa esistere pigramente nell’inconscio (Neumann 1949, p. 35), in una dimensione in cui prevale l’inerzia e la volontà di restare nell’inconscio. • Ma, come si è visto, Jung riteneva che esistesse anche una forza altrettanto potente quanto quella che lega l’individuo al grembo materno, ovvero la spinta ad individuarsi, ad emergere dal tutto indistinto dell’inconscio. ↓ Quando l’Eroe assume la decisione di separarsi dalla Grande madre per individuarsi, egli avvertirà ciò che abbandona con una grande nostalgia, come le sirene che richiamano Ulisse con un canto di sovrumana dolcezza. In più, l’eroe è solo, impaurito, si sente piccolo e inerme… • Ma non appena decidesse di cedere alle lusinghe della Grande Madre, questa gli mostrerà il suo lato terribile e divoratore, che riaccoglie a sé i suoi figli ma a patto di distruggerli. → La Grande Madre è anche la Grande Madre Terribile che vuole ringhiottirsi il nascente Io, la balena che inghiotte Giona. – Così, Ulisse si lega per bene all’albero della nave. La distruttrice dea Kali • Il percorso di individuazione ci fa affrontare: – la nostra Ombra, ovvero gli aspetti “peggiori” della nostra personalità che abbiamo rimosso nell’inconscio personale; – La nostra Anima/Animus, che da potenze estranee alla nostra coscienza debbono diventare delle funzioni psichiche; – Il Vecchio Saggio/la Grande Madre (rispettivamente per i maschi e per le femmine), che rappresentano la ricchezza del mondo inconscio; – Infine incontriamo il Sé, che è la tappa finale del percorso di individuazione, che rappresenta la grande conciliazione degli opposti. Mandala (simbolo del Sé) • Funzione trascendente: è l’unione degli opposti, che consente di conseguire una coscienza più elevata. • Vi è una costante circolarità fra bisogni di individuazione e bisogni di appartenenza: – Si va per il mondo ma poi si torna a casa; – la nostra società molto «individualizzata» nutre un «sogno di appartenenza» (Baumann); – Se gli altri non ci capiscono si prende un cane che lui, sì, ci ama e ci capisce; – Si litiga con il compagno/a e poi si fa la pace; –… • L’uomo ha bisogno sia di individuarsi (realizzare i propri scopi, i propri impulsi, prendersi le proprie soddisfazioni) sia di appartenere: – individuandosi si esiste in quanto di realizzano scopi; appartenendo si esiste e basta, in un sacro silenzio; – l’individuazione ha a che fare con la soddisfazione, è il versante «maschile»; l’appartenenza ha a che fare con il rilassamento ed è il versante «femminile» • «Femminile» e «maschile» sono «funzioni» e non un’esclusiva appartenenza di donne o uomini Ai suoi occhi adesso la vita appariva come un’ombra, il giorno come un’ombra bianca. La notte, la morte, l’inazione, il silenzio: questo era “essere”. La vitalità, l’irrequietudine, il desiderio: questo era “non essere”. E il sommo di tutto era appunto quello sciogliersi nel buio, identificandosi nell’essere Supremo […] Forse è questa la morte: addormentarsi nello stupore […] Potersi liberare dalla propria individualità, di quelli che sono i nostri sforzi, la nostra volontà! Vivere così, abbandonati a questa specie di sonno cosciente! Dev’essere molto bello. Sarà questa l’altra nostra vita, la nostra immortalità. D.H. Lawrence (Figli e amanti) • L’individuazione comporta una crescita costante e non è mai completa: ogni essere umano ha il compito di rimetterla in discussione e allargare il proprio sguardo, includendo nuovi aspetti dell’essenza umana, fin quando non avrà compreso tutte le potenzialità umane, realizzando così una sorta di appartenenza ideale con il genere umano, non scartando niente di ciò che è umano. Sono uomo: nulla di ciò che è umano mi è estraneo. (Publio Terenzio Afro, 195 a.C. – 159 a.C., commediografo latino) …in qualsiasi cultura, l’uomo ha tutte le potenzialità; egli è, nel contempo, l’uomo dei primordi, l’animale del sacrificio, il cannibale, l’idolatra, e un essere dotato di disponibilità per la ragione, l’amore e la giustizia. Ma allora il contenuto dell’inconscio non è né il bene, né il male, né il razionale, né l’irrazionale: è tutte queste cose insieme; è quella parte dell’uomo che corrisponde alla società di cui fa parte. La coscienza rappresenta l’uomo sociale, le limitazioni contingenti poste dalla situazione storica, in cui un individuo è gettato. La non-coscienza rappresenta l’uomo universale, l’uomo per intero, radicato nel cosmo; essa rappresenta, nel contempo, la sua parte vegetativa, animale e spirituale; ne rappresenta infine il passato sino agli albori dell’esistenza umana e il futuro sino al giorno in cui l’uomo diverrà pienamente umano e in cui la natura sarà umanizzata nella misura in cui l’uomo a sua volta risulterà «naturalizzato». Erich Fromm (1960, p. 113) http://fidest.wordpress.com/tag/radici/ Perché dunque ti spaventi? Agli uomini accade ciò che accade all’albero. Quanto più in alto e più nella luce vuole ascendere, con tanta più forza le sue radici si spingono dentro la terra, verso il basso, nel buio, nel profondo, - nel male. Nietzsche (Così parlò Zarathustra) crescita, formazione T.S. Eliot, East Coker (da: Quattro Quartetti) […] La casa è il punto da cui si parte. Man mano che invecchiamo Il mondo diventa più strano, la trama più complicata Di morti e di vivi. Non il momento intenso Isolato, senza prima né poi, Ma tutta una vita che brucia in ogni momento E non la vita di un uomo soltanto Ma di vecchie pietre che non si possono decifrare C’è un tempo per la sera a ciel sereno Un tempo per la sera al paralume (La sera che si passa coll’album delle fotografie). L’amore si avvicina più a se stesso Quando il luogo e l’ora non importano più. I vecchi dovrebbero essere esploratori Il luogo e l’ora non importano Noi dobbiamo muovere senza fine Verso un’altra intensità Per un’unione più completa, comunione più profonda Attraverso il buio, il freddo, la vuota desolazione, il grido dell’onda, il grido del vento, la distesa d’acqua Della procellaria e del delfino. Nella mia fine è il mio principio Donald Winnicott (Playmouth 1896 – Londra 1971) Vero Sé, creatività e sviluppo del soggetto • Winnicott utilizza il concetto di Vero Sé non rifacendosi ad una concezione metafisica o a una teoria dell’anima (pur non essendo concetti che si escludono!) → il concetto di Vero Sé contiene un’idea di per sé evidente, cioè che l’individuo è agente, intenzionale: il Vero Sé è la spontaneità originaria del soggetto. • Il Vero Sé contiene il senso del Sé, la certezza di esistere e di essere reali, di poter essere se stessi, creativi e spontanei; ad esso appartiene la percezione di una continuità della propria esistenza. al centro di ciascuna persona, c’è un elemento segregato, e questo è sacro ed estremamente degno di essere preservato (Winnicott). • Per Winnicott rappresenta quindi la creatività originaria del soggetto. La creatività corrisponde al naturale senso di espansione di sé che si sperimenta in quanto si è vivi. Quando siamo creativi ogni cosa che facciamo aumenta il senso di essere noi stessi (Winnicott 1970). Senza questo piano, per W., non c’è nulla. Felice è colui che è sempre creativo nella sua vita personale come pure nei rapporti con i partner, con i figli, con gli amici ecc. (1970, tr. it. 1986, p. 41) • Essere creativi significa essere “soggetti” a pieno titolo. Essere soggetti significa esistere anche indipendentemente dallo stimolo esterno. Se il nostro sentirci vivi dipendesse esclusivamente da stimoli esterni, cessato lo stimolo cesserebbe anche la sensazione di sentirsi vivi. L’essere creativi di cui parla Winnicott allude proprio al sentirsi vivi anche quando non c’è lo stimolo che proviene dal mondo esterno. “Fuori dalla mia finestra c’è una pianta, e il sole, e razionalmente so che deve essere uno spettacolo piacevole, per chi lo può vedere. Ma questa mattina per me tutto ciò non ha senso. Non riesco ad esserne partecipe e ciò mi rende profondamente conscio del fatto di non sentirmi reale” (Winnicott 1970). Il mondo... questo grosso essere assurdo. [...] Scoprire che il mondo non ha senso, che è assurdo, provoca la nausea. [...] L'essenziale è la contingenza [= la non necessità delle cose]. Voglio dire che, per definizione, l'esistenza non è la necessità. Esistere è essere lì, semplicemente: gli esistenti appaiono, si lasciano incontrare ma non li si può mai dedurre. C'è qualcuno, credo, che ha compreso questo. Soltanto ha cercato di sormontare questa contingenza inventando un essere necessario e causa di sé. Orbene, non c'è alcun essere necessario che può spiegare l'esistenza: la contingenza non è una falsa sembianza, un'apparenza che si può dissipare; è l'assoluto, e per conseguenza la perfetta gratuità. Tutto è gratuito, questo giardino, questa città, io stesso. E quando vi capita di rendervene conto, vi si rivolta lo stomaco e tutto si mette a fluttuare... ecco la Nausea [...] La Nausea non è in me: io la sento laggiù sul muro, sulle bretelle, dappertutto attorno a me. Fa tutt'uno col caffè, son io che sono in essa [...] Ed ora lo so: io esisto - il mondo esiste ed io so che il mondo esiste. Ecco tutto. Ma mi é indifferente. E' strano che tutto mi sia ugualmente indifferente: é una cosa che mi mette paura. E' cominciato da quel famoso giorno in cui volevo giocare a far rimbalzare i ciottoli sul mare. Stavo per lanciare quel sassolino, l'ho guardato, ed è allora che è cominciato: ho sentito che esisteva. E dopo, ci sono state altre Nausee; di quando in quando gli oggetti si mettono ad esistervi dentro la mano. (Sartre, La Nausea) • La creatività riguarda l’ “essere” sé stessi, e viene prima del “fare”. Laddove il vero Sé sia stato traumatizzato, esso non deve più essere ritrovato e ferito di nuovo. Si sviluppa un falso Sé a difesa del vero Sé. Questo falso Sé può funzionare perfettamente, eppure sta all’opposto della salute psichica perché sorge dalla negazione del vero Sé. Cos’è la salute mentale? • La salute non è sinonimo di tranquillità. La vita di un individuo sano è caratterizzata da paure, sentimenti conflittuali, dubbi e frustrazioni, come pure da elementi positivi. La cosa fondamentale è che si senta di stare vivendo la propria vita, assumendosi le responsabilità di quanto si fa, il merito del successo e la colpa del fallimento. In tal caso si può dire che l’individuo è passato dalla dipendenza all’autonomia. • Essere e sentirsi reali sono le caratteristiche della salute. Soltanto quando l’essere è acquisito (cioè quando sentiamo di essere noi stessi) possiamo procedere verso altre mete. Senza dubbio la gente dà per scontato il sentirsi reali. Ma a quale prezzo? In quale misura essi negano la verità che di fatto esiste il pericolo di sentirsi non reali, posseduti, di non essere se stessi, di precipitare all’infinito, di non avere una direzione, di essere separati dal proprio corpo, annientati, di essere un nulla, di non avere un luogo in cui stare… (D. Winnicott, Il concetto di individuo sano) Lo sviluppo della creatività: fra onnipotenza e principio di realtà • La vita creativa che corrisponde alla possibilità di non essere continuamente uccisi o annientati dalla compiacenza verso o dalla reazione a un mondo che fa violenza all’individuo; si tratta di riuscire a vedere ogni cosa in modo sempre nuovo. • L’esperienza dell’onnipotenza è qualcosa di più di un controllo magico, ma include l’aspetto creativo dell’esperienza (Winnicott 1963) Le fotografie dei grandi cacciatori che, come H. Hemingway, si fanno immortalare di fianco a un leone massacrato, ci danno un’idea degli sforzi estremi che un essere umano può compiere nel tentativo di trionfare sull’oggetto percepito oggettivamente (Winnicott) • Essere creativi significa, afferma Winnicott, “mantenere qualcosa che appartiene all’esperienza infantile: la capacità di creare il mondo”. in ogni atto creativo c’è sempre una porzione di “onnipotenza” • Ma l’essere creativi implica incontrare il mondo, la realtà esterna. • Inizialmente è la madre che si adatta ai bisogni del bambino per consentire che egli compia esperienze che sono coerenti con i suoi stati mentali. • La madre, con la sua capacità empatica è capace di dare qualcosa di buono al bambino che, al suo livello, può solo fantasticare e “allucinare” degli oggetti: il bambino è solo con le sue illusioni, la madre conosce la realtà e può far sì che la fantasia del piccolo si connetta con la realtà. Ella, infatti, basandosi sulla sua intuizione, può fornire al bambino quegli oggetti che egli sta allucinando. • Winnicott parla a tale proposito di “presentazione d’oggetto”. – Dobbiamo supporre che il bambino abbia dei guizzi creativi in base ai quali cerca il contatto con la realtà; non essendo “organizzato” non riesce a contattare il mondo. Allora la madre, intuendo le volontà nascenti del piccolo, gli fornisce quegli oggetti che il bambino sta “allucinando”. Il bambino, cioè, è solo con le sue fantasie, la madre conosce la realtà e può far sì che la fantasia del piccolo si connetta con la realtà. Ella, infatti, basandosi sulla sua intuizione, può fornire al bambino quegli oggetti che egli sta allucinando. • L’esperienza del piccolo risulterà arricchita di elementi reali ed egli stesso inizierà a sentirsi reale. Il suo essere e sentirsi reale, che sta alla base della salute psichica, dipende dunque dal fatto che le connaturali tendenze alla crescita e all’espansione del suo Sé hanno trovato un ambiente favorevole e degli oggetti che corrispondevano alle sue fantasie. • Più in generale, la madre, insomma, supporta l’Io del bambino: calandosi al suo livello, gli consente di credere che le esperienze che compie possano trovare un corrispettivo nella realtà esterna, protegge l’Io del bambino e supporta l’evoluzione della sua identità (”preoccupazione materna primaria”). L’ “essere” viene garantito al bambino dalla madre. Approfondimento: l’aggressività e «l’uso di un oggetto» • L’aggressività è un modo per esteriorizzare l’altro troppo intimo: per separarci dobbiamo aggredirlo! • Finché non acquisiamo la capacità di usare le persone («oggetti») restiamo loro legati nella maniera della dipendenza totale. Siamo tutt’uno con loro, non sono esterne, sono parte del Sé: il nostro Sé dipende ancora da loro. Non abbiamo raggiunto la capacità di amare. Per amare qualcuno, questo qualcuno deve essere altro da noi! …non è possibile per me accettare come scontato il fatto che il primo impulso, nel rapporto del soggetto con l’oggetto (percepito oggettivamente, non come soggettivo), sia distruttivo ((Winnicott, 1971) L’oggetto transizionale • L’oggetto transizionale consente di mantenere interrelate due aree altrimenti separate, quella della realtà interna e quella della realtà esterna. • L’oggetto transizionale compare tra i quattro e i dodici mesi. • Il bambino ha bisogno di investire un oggetto del potere transizionale, tali che rappresentino un ponte tra la realtà interna e quella esterna. Si colloca tra la “creatività primaria e la percezione obiettiva basata sull’esame di realtà”. • Anche se non tutti i bambini vi fanno ricorso, la presenza dell’oggetto transizionale è un indice sicuro di una potenziale capacità di elaborare l’onnipotenza e la separazione. • L’oggetto transizionale viene quindi progressivamente dimenticato. • Può rimanere nell’adulto nella consapevolezza di mantenere un “luogo di riposo”, ove lasciar fluttuare la mente e giocare con le proprie idee. Oppure come spazio del gioco, della creatività, del sentimento religioso, ma anche della perdita del sentimento affettuoso, dell’assuefazione alla droga, dei rituali ossessivi. • W. distingue a tal proposito l’oggetto transizionale dall’oggetto feticcio o oggetto tossico. Quest’ultimo mantiene il soggetto in uno stato di continua dipendenza, distoglie da sé e dalla realtà esterna. Comunicare o non comunicare? (Winnicott 1963) Nell’ambito della salute esiste un nucleo della personalità che corrisponde al vero Sé. Ritengo che tale nucleo non comunichi mai direttamente con il mondo degli oggetti percepiti e che l’individuo sappia che questo nucleo non deve entrare in comunicazione con la realtà esterna né venirne influenzato. Sebbene le persone sane comunichino e amino comunicare, è anche vero che ogni individuo è un essere isolato che non comunica in modo permanente, in permanenza sconosciuto e mai realmente scoperto. […] Al centro di ogni persona c’è un elemento incomunicabile, inviolabile, che è sacro e va preservato. Le esperienze traumatiche, che portano all’organizzazione delle difese primitive, rappresentano una minaccia al nucleo isolato, la minaccia che venga scoperto, modificato e che ci si metta con esso in contatto. La difesa consiste in un ulteriore occultamento del Sé nascosto… Essere stuprati o essere mangiati dai cannibali sono cose di poco conto rispetto alla violazione del nucleo del Sé mediante la comunicazione che si insinua attraverso le difese. …possiamo capire l’odio che la gente ha verso la psicoanalisi, la quale è penetrata assai nella personalità umana e costituisce una minaccia per il bisogno che l’individuo ha di restare segreto e isolato. Il problema è: come isolarsi senza doversi circondare di barriere? Credo che, inerente in ogni tipo di artista, si possa scoprire un dilemma dovuto alla coesistenza di due tendenze: il bisogno urgente di comunicare e il bisogno ancora più urgente di non essere scoperto. Ciò potrebbe spiegare la nostra impossibilità a concepire un artista che arrivi alla fine del compito che impegna totalmente la sua natura. (Winnicott 1963) Forse non è stata data abbastanza attenzione al fatto che il mistico si ritira in una posizione in cui può comunicare segretamente con oggetti e fenomeni soggettivi, poiché la perdita di contatto col mondo della realtà condivisa è compensata da un vantaggio nel sentirsi reale (Winnicott 1963). Tutto ciò che è profondo ama la maschera; le cose più profonde provano perfino odio per l’immagine e il simbolo […]. Esistono fatti così delicati che si fa bene a coprirli e a renderli irriconoscibili sotto una grossolanità; esistono atti d’amore e di traboccante generosità, in seguito ai quali non c’è nulla di più consigliabile di prendere un bastone e picchiare di santa ragione il testimone oculare: e con ciò offuscare la sua memoria […] il pudore è ingegnoso. Non sono le cose peggiore quelle di cui ci si vergogna di più (F. Nietzsche, Al di là del bene e del male, 40). Ogni profondo pensatore teme più l’essere compreso che l’essere frainteso (F. Nietzsche, idem, 290). • La parte principale della vita degli adulti, degli adolescenti, dei bambini e dei lattanti si svolge all’interno di quest’area intermedia, a metà strada fra soggettività e oggettività, fra sogno e realtà. La stessa civiltà può essere descritta a partire da questa visuale, dice Winnicott (1970). Nei fenomeni transizionali occorre accettare il paradosso ce collega la realtà interna a quella esterna. Non chiediamo mai dell’orsacchiotto del bambino (che è un simbolo della disponibilità materna) se è stato creato o se era già lì. • Negli adulti l’area transizionale è l’area degli interessi culturali, lavorativi, religiosi, politici, artistici ecc. • Tutto è «transizionale» in quanto «abitiamo» la realtà non passivamente, subendola, ma in modo attivo, tentando di comprenderla dal nostro punto di vista: non ci sono «cose», ma le cose come sono per noi, pur restando che le cose qualcosa di reale, di altro da noi, non costruzioni soggettive. – Ad esempio, chi crea utilizza la propria spontaneità originaria, il proprio peculiare punto di vista, la propria prospettiva per «vedere» qualcosa dal proprio punto di vista; contemporaneamente si «connette» con la realtà: la creazione è, così, un qualcosa di «oggettivo-soggettivo» – Anche l’umorismo può essere visto come un fenomeno transizionale in quanto chi ride si distacca per un attimo dal dato oggettivo e lo rilegge secondo la propria prospettiva; c’è un guizzo di onnipotenza nell’umorismo, un qualcosa di «antidepressivo», in quanto chi fa umorismo non accetta di essere passivo: pur stando dentro la realtà, la assume in modo soggettivo, la sovrasta e la sorpassa, pur stando dentro la realtà. L’umorismo di Einstein che fa la linguaccia è il simbolo della libertà del creare, il richiamo ad esercitare la propria «onnipotente» prospettiva soggettiva, con libertà, ma anche con serietà, tendendo dell’ «oggettività» della realtà. • «Formarsi», nella prospettiva di Winnicott, significa modificare il proprio Sé adeguandolo alla realtà ma continuando a essere sé stessi. È abitare lo spazio «tra» soggettivo-oggettivo, uno spazio che Winnicott definisce appunto transizionale, di costante passaggio e dialogo fra le due dimensioni