N. 551/2002 R.G.N.R. N. 16/2006 R.G. DIB REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO IL TRIBUNALE MILITARE DELLA SPEZIA composto dai signori: dott. Luca Massimo BAIADA - presidente estensore dott. Piergiorgio PONTICELLI - giudice estensore sottotenente E.I. Matteo CIPRIANI - giudice militare con l'intervento del Pubblico ministero in persona del dott. Giovanni MUSCOGIURI, e con l'assistenza del S.Ten.v. Alessandro Carpitella, ha pronunciato in pubblica udienza la seguente SENTENZA nel procedimento penale a carico di: Heinrich NORDHORN, nato il 12 novembre 1919 a Hattingen/Ruhr (Germania) e residente in 48268 Greven, Martinistrasse n. 30, Germania; contumace; domiciliato ai sensi dell'art. 169 c.p.p. in Savona, via del Vergerio n. 6/4, presso lo studio del difensore di fiducia avv. Luigi Trucco. IMPUTATO DI: A) DELITTO MILITARE DI GUERRA DI CONCORSO IN VIOLENZA CON OMICIDIO IN DANNO DI PRIVATI NON BELLIGERANTI, PLURIAGGRAVATO E COMMESSO IN CONCORSO FORMALE E CONTINUATO DA MILITARI NEMICI TEDESCHI IN BRANZOLINO PRESSO FORLÌ ALLA DATA DEL 28 AGOSTO 1944 (artt. 13, 23, 185 commi 1 e 2 c.p.m.g.; artt. 110, 61 n. 1, 81, 112 comma 1 nn. 1 e 3, 575, 577 nn. 3 e 4 c.p.; artt. 47 nn. 2 e 3, 58 comma 1 c.p.m.p.), per avere usato nella propria qualità di militare in servizio alle armi nell'esercito regolare tedesco (Wehrmacht), avente grado di sottotenente ed incarico di comandante del plotone genio pionieri (Pionier Zug) della compagnia comando del 525° reggimento corazzato cacciacarri pesanti (Schwere HeeresPanzerjäger-Abteilung 525), con più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso, compiute in concorso con altri militari del medesimo reparto (tra cui il deceduto comandante di corpo, maggiore Friedrich Karl Guttmacher), senza necessità o giustificato motivo e per cause non estranee alla guerra all'epoca corrente tra Italia e Germania, violenza contro privati nemici non belligeranti consistita nel cagionare la morte di quattro cittadini italiani che non prendevano parte alle operazioni belliche; in particolare, predisponendo le strutture adoperate per il supplizio e dirigendo la esecuzione mediante impiccagione dei civili Ivo GAMBERINI (nato a Forlimpopoli il 16 luglio 1911), Secondo CERVETTI (nato a Forlì il 7 dicembre 1907), Ferdinando DELL'AMORE oppure DALLAMORE (nato a Forlì il 31 maggio 1906) e Giovanni GOLFARELLI (nato a Forlì il 23 giugno 1911), già detenuti in Forlì e tradotti sul luogo del fatto per poi esservi impiccati ai bordi della strada (due delle vittime venivano finite con un colpo d'arma da fuoco alla testa) a scopo di rappresaglia antipartigiana e di intimidazione della popolazione del luogo. Con le circostanze aggravanti di avere commesso il fatto nella qualità di militare rivestito di un grado; di avere commesso il fatto con uso delle armi in dotazione; di avere commesso il fatto in concorso con altri militari inferiori in grado; di avere commesso il fatto in concorso con quattro e più persone; di aver determinato a commettere il fatto militari subalterni soggetti alla propria autorità e vigilanza; di aver commesso il fatto per motivi abietti; di aver commesso il fatto con premeditazione (artt. 47 nn. 2 e 3, 58 comma 1 c.p.m.p.; artt. 112 comma 1 nn. 1 e 3, 61 n. 1 e 577 n. 3 c.p.); B) DELITTO MILITARE DI GUERRA DI CONCORSO IN VIOLENZA CON OMICIDIO IN DANNO DI PRIVATI NON BELLIGERANTI, PLURIAGGRAVATO E COMMESSO IN CONCORSO FORMALE E CONTINUATO DA MILITARI NEMICI TEDESCHI IN SAN TOMÈ PRESSO FORLÌ ALLA DATA DEL 9 SETTEMBRE 1944 (artt. 13, 23, 185 commi 1 e 2 c.p.m.g.; artt. 110, 61 n. 1, 81, 112 comma 1 nn. 1 e 3, 575, 577 nn. 3 e 4 c.p.; artt. 47 n. 2, 58 comma 1 c.p.m.p.), per avere usato nella propria qualità di militare in servizio alle armi nell'esercito regolare tedesco (Wehrmacht) con grado di sottotenente ed incarico di comandante del plotone genio pionieri (Pionier Zug) della compagnia comando del 525° reggimento corazzato cacciacarri pesanti (Schwere HeeresPanzerjäger-Abteilung 525), senza necessità o giustificato motivo e per cause non estranee alla guerra all'epoca corrente tra Italia e Germania, operando con più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso ed in concorso con altri militari del medesimo reparto (tra cui il deceduto comandante di corpo, maggiore Friedrich Karl Guttmacher), violenza contro privati nemici non belligeranti consistita nel cagionare la morte di sei cittadini italiani che non prendevano parte alle operazioni belliche; in particolare, dirigendo personalmente la esecuzione mediante impiccagione dei civili Emilio ZAMORANI (nato a Ferrara il 20 settembre 1890), Massimo ZAMORANI (nato a Ferrara il 22 aprile 1919), Michele MOSCONI (nato a Civitella di Romagna l'11 settembre 1905), Celso FOIETTA (nato a Santa Sofia il 14 aprile 1907), Antonio GORI detto Natale (nato a Teodorano, ora Meldola, il 22 dicembre 1918), e probabilmente Antonio ZACCARELLI (nato a Teodorano, ora Meldola, il 2 ottobre 1924), già detenuti in Forlì e tradotti sul luogo del fatto per poi esservi impiccati ai bordi della strada (con conseguente esposizione dei cadaveri sul posto nei giorni successivi) a scopo di rappresaglia antipartigiana e di intimidazione della popolazione del luogo, all'uopo rastrellata e costretta ad assistere al supplizio. Con le circostanze aggravanti di avere commesso il fatto nella qualità di militare rivestito di un grado; di avere commesso il fatto in concorso con altri militari inferiori in grado; di avere commesso il fatto in concorso con quattro e più persone; di aver determinato a commettere il fatto militari subalterni soggetti alla propria autorità e vigilanza; di aver commesso il fatto per motivi abietti; di aver commesso il fatto con premeditazione (artt. 47 n. 2, 58 comma 1 c.p.m.p.; artt. 112 comma 1 nn. 1 e 3, 61 n. 1 e 577 n. 3 c.p.). Conclusioni delle parti (udienze 2 e 3 novembre 2006) Il Pubblico ministero ha chiesto la condanna dell'imputato alla pena dell'ergastolo e ha depositato una memoria scritta a sostegno delle proprie conclusioni, ai sensi dell'art. 482 comma 1 c.p.p. Le parti civili si sono associate alle richieste della pubblica accusa e hanno prodotto, per parte loro, gli atti scritti di conclusioni per il risarcimento dei danni e per la rifusione delle spese processuali, con allegate relative note (nota spese non prodotta dall'Avvocatura dello Stato). La difesa dell'imputato ha concluso richiedendo l'assoluzione del proprio assistito ai sensi dell'art. 530 c.p.p., per non avere egli commesso il fatto, e in subordine, solo per il capo di imputazione sub B), perché il fatto non costituisce reato 1. Il rinvio a giudizio All'udienza preliminare dell'1.2.2006, conseguente a rinnovazione degli atti per la dichiarata nullità della prima udienza preliminare svolta il 30.9.2005, Heinrich Nordhorn è stato rinviato a giudizio e citato a comparire innanzi a questo Tribunale per rispondere del reato indicato in imputazione. Con provvedimento del Giudice per l'udienza preliminare, adottato ai sensi dell'art. 431 c.p.p. in data 1.2.2006, sono stati acquisiti al fascicolo per il dibattimento i seguenti documenti: documentazione d’archivio tedesca relativa all’imputato con annessa traduzione in lingua italiana; elenco di tutti gli appartenenti al 525° reparto corazzato (Schwere Heeres-Panzerjäger-Abteilung 525) per il periodo 1944-1945, fornito dalla Deutsche Dienstelle (WASt) di Berlino, con la traduzione delle relative parti di interesse; schemi organici dei reparti militari del 525° reparto corazzato e relative traduzioni; atti relativi alla posizione del militare Ernst Daniel (sottufficiale tedesco del 525° reparto corazzato, 2° compagnia, addetto alle munizioni) ed elenco delle piastrine militari di riconoscimento, con relative traduzioni in lingua italiana; elenco delle piastrine militari di riconoscimento relative al comando compagnia e al plotone officina del 525° reparto corazzato per il periodo dal 1940 al marzo del 1945; elenco delle piastrine militari di riconoscimento relative alla 1°, alla 2° ed alla 3° compagnia del 525° reparto corazzato per il periodo del giugno 1943; elenchi delle perdite del sopraindicato reparto nel periodo dal luglio all’ottobre 1944 (il tutto con traduzione delle parti di interesse); documenti concernenti la formazione delle truppe del reparto corazzato cacciatori Panther (volume denominato «fascicolo del dibattimento faldone 1»); atti delle rogatorie nn. 15/03 e 17/03 R. mod. 40 Rog.; atti della rogatoria n. 33/04 R. mod. 40 Rog. e relativa corrispondenza; atti d'archivio relativi a soggetti diversi dall'attuale imputato, tra i quali la documentazione relativa a Hans Hopp; atti relativi alla nuova trasmissione dell'elenco delle piastrine militari di riconoscimento; atti assunti in fase di indagini suppletive ai sensi dell'art. 419 comma 3 c.p.p. e trasmessi al Giudice per l'udienza preliminare con missive del 13.5.2005 (lettere del 17 e del 18 marzo 2005 della Deutsche Dienstelle di Berlino, con allegati e traduzioni; lettera del Bundesarchiv del 23.3.2005 con atti allegati, relativi a Friedrich Wogerbauer, di nascita austriaca, tenente della 2° compagnia del 525° reparto corazzato, e relativa traduzione), del 29.6.2005 (lettera dell'11.5.2005 della Deutsche Dienstelle di Berlino con allegati e traduzione, atti relativi all'attestazione del ferimento e del decesso di Walter Müller; atti della rogatoria n. 37/05 R. mod. 40 Rog., cioè certificato penale dell'imputato e relativa traduzione), del 14.9.2005 (richiesta della polizia giudiziaria militare presso la Procura militare della Spezia, in lingua italiana ed in lingua tedesca, datata 10.8.2005, diretta all’acquisizione di documentazione, in specie fotografica, presso l'Archivio federale tedesco di Friburgo; risposta in pari data del predetto Archivio, con relativa traduzione e con un documento allegato, già agli atti del procedimento), del 21.9.2005 (richiesta di assistenza giudiziaria in materia penale, del 14.9.2005, registrata al n. 43/2005 R. Mod. 40, diretta alla Procura di Dortmund, per l'esecuzione di decreto di perquisizione e sequestro presso l'abitazione dell'imputato, in lingua italiana e tedesca; relativo decreto di perquisizione e sequestro, in data 20.9.2005, in lingua italiana e tedesca; documentazione trasmessa dall'autorità tedesca, relativa all’esecuzione della predetta rogatoria, pervenuta tramite fax in data 21.9.2005, in lingua tedesca, comprendente gli atti di cui al punto precedente e, in aggiunta, due lettere dell’autorità giudiziaria e della polizia criminale tedesca; traduzione degli atti in lingua tedesca di cui ai due punti precedenti; interrogatorio di Daniel Werner – caporale in forza alla 3° compagnia del 525° reparto corazzato dal 3.6.1943 al 18.4.1944 – e di Heinrich Nordhorn, con relative traduzioni) e del 19.7.2005 (copia del verbale dell’interrogatorio svolto, a seguito di rogatoria n. 16/2005 R. mod. 40 Rog. dalla Procura militare della Spezia, dal Tribunale distrettuale di Hernals, Austria, in data 20.6.2005, nei confronti di Friedrich Wogerbauer, nato l'1.12.1920 a Perg, Austria, con relativa traduzione ed annessa documentazione, anch'essa tradotta, utilizzata per il compimento dell'atto istruttorio, libretto militare personale, copia dell'atto di rogatoria in lingua italiana ed in lingua tedesca e dell'avviso di compimento dell'atto in favore del difensore dell’imputato), (volume denominato «fascicolo del dibattimento faldone 2»). 2. Le udienze collegiali Alla prima udienza collegiale del 19.4.2006, in sede di verifica della regolare costituzione delle parti, il collegio ha constatato che l'imputato, pur regolarmente citato, non era comparso senza addurre alcun legittimo impedimento e ne ha dichiarato quindi la contumacia; ha confermato l'ammissione delle parti civili già costituite in udienza preliminare, di seguito elencate. Comune di Forlì, Provincia di Forlì-Cesena, Regione Emilia Romagna, Comunità ebraica di Ferrara, Albano Mosconi (nato a Civitella di Romagna il 9 settembre 1929), Iva Gamberini (nata a Forlì il 10 aprile 1945), Zenia Balestri (nata a Forlì il 16 febbraio 1940), Gianpaolo Balestri (nato a Forlì il 2 luglio 1936), Maria Grazia Golfarelli (nata a Forlì il 24 settembre 1942), Fernanda Gori (nata a Teodorano, ora Meldola, il 5 novembre 1922), Maria Gori (nata a Civitella di Romagna il 25 aprile 1930), Vera Dell'Amore (nata a Forlì il 29 settembre 1930), Eustella Zaccarelli (nata a Teodorano, ora Meldola, il 16 marzo 1915). Inoltre il collegio ha ammesso la costituzione di parte civile della Presidenza del Consiglio dei Ministri. La difesa ha eccepito la nullità del decreto di rinvio a giudizio, in relazione all'asserita violazione dell'art. 6 comma 3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo, ed il Pubblico ministero si è opposto. Il collegio ha acquisito l'originale della richiesta di rinvio a giudizio in lingua tedesca e il verbale di udienza preliminare dell'1.2.2006, nella parte attinente alla modifica del capo di imputazione, necessari ai fini del decidere; con separato provvedimento ha deciso quindi il rigetto dell'eccezione, come da ordinanza che qui integralmente si trascrive: ««A seguito dell'eccezione formulata dalla difesa, di nullità del decreto che dispone il giudizio ai sensi dell'art. 429 comma 2 in relazione alla lettera c) del comma 1 c.p.p., rileva che: la richiesta di rinvio a giudizio contiene, sia nel testo italiano che nel testo tedesco, l'aggravante di cui all'art. 61 n. 4 c.p. completa di numero e di descrizione in parole; all'udienza preliminare l'imputazione è stata riformulata escludendo tale aggravante; il decreto che dispone il giudizio, nel testo italiano, corrisponde alla modifica formulata all'udienza preliminare e perciò non contiene quell'aggravante; invece lo stesso decreto, nel testo tedesco, contiene quell'aggravante indicata sia con il numero che con la descrizione in parole, come se la modifica all'udienza preliminare non fosse stata effettuata; l'errore di traduzione, pur attribuibile ad un uso maldestro della videoscrittura, rende difformi, seppur solo per l'aspetto di una circostanza aggravante, il testo italiano e quello tedesco; tuttavia, non versandosi assolutamente in caso di omessa traduzione dell'atto, la mera difformità tra il testo in lingua italiana e quello nella lingua dell'imputato non è prevista tra le ipotesi tassative di nullità; nel caso di specie, peraltro, l'errore di traduzione non pregiudica né limita l'esercizio concreto del diritto di difesa, atteso che l'imputato con la notifica del decreto ha avuto piena cognizione, in forma né generica né indeterminata, del fatto e delle circostanze effettivamente contestategli, senza che ciò sia compromesso dall'avere erroneamente ricevuto anche contestazione di un'ulteriore circostanza aggravante, in un primo tempo facente parte dell'accusa ma poi espunta; per questi motivi, rigetta l'eccezione e dispone procedersi oltre»». La difesa dell'imputato ha quindi chiesto l'espunzione dal fascicolo per il dibattimento ai sensi dell'art. 431 c.p.p. di alcuni atti indicati in apposito elenco all'uopo prodotto; il Pubblico ministero si è opposto. Il collegio ha rigettato la richiesta difensiva come da ordinanza anch'essa qui integralmente trascritta: ««A seguito della richiesta formulata dalla difesa, di espunzione dal fascicolo del dibattimento di un elenco di atti, rileva che: il provvedimento del G.u.p. dell'1.2.2006 contiene l'elenco degli atti per la formazione del fascicolo; dopo la richiesta del difensore, su sollecito di chiarimenti da parte del collegio, la stessa difesa ha dichiarato di avere a suo tempo prestato il suo assenso alla formazione del fascicolo, ma di avere poi successivamente meglio valutato la documentazione, e diversamente considerato la sua acquisibilità; il criterio di cui all'art. 431 c.p.p., anche tenuto conto del principio di cui al suo secondo comma, e cioè di una sorta di potere dispositivo delle parti, induce a ritenere che non sia possibile revocare il consenso già prestato all'esito dell'udienza preliminare; resta comunque impregiudicata ogni questione sulla eventuale inutilizzabilità di singoli atti. Per questi motivi, rigetta la richiesta e dispone procedersi oltre»». In mancanza di ulteriori questioni preliminari, il presidente ha dichiarato aperto il dibattimento. Il Pubblico ministero ha indicato come prove, chiedendone l'ammissione, l'esame dei testi della propria lista, l'esame dell'imputato e numerosi documenti, in dettaglio: nomina difensiva fiduciaria dell'avv. Trucco e contestuale elezione di domicilio in Italia presso lo studio del predetto difensore depositata il 6.10.2004; seconda ed ultima pagina del foglio matricolare relativo all'imputato acquisito per rogatoria, il tutto come atti integrativi del fascicolo per il dibattimento formato dal Giudice per l'udienza preliminare se non già presenti nel medesimo; certificati anagrafici delle vittime, allegati all'informativa della stazione Carabinieri di Villafranca del 14.2.2005; documentazione storica originale relativa agli atti della inchiesta del 1945 sul crimine di guerra (War crime summary) raccolti dal Dipartimento investigazioni speciali (S.I.B.) costituito presso l'ufficio di polizia militare del Quartier generale delle forze armate alleate (rapporto SIB.HQ/X/45/6: informative sull'accertamento dei fatti, corredate dalle schede individuali dei ricercati, e dai verbali delle dichiarazioni di trentuno persone); fascicolo della Procura del Regno presso il Tribunale di Forlì r.g. n. 995/1945, relativo alle indagini di polizia giudiziaria sull'eccidio di San Tomè: atti di indagine dell'autorità giudiziaria italiana sull'eccidio di San Tomè acquisiti dall'autorità alleata ed uniti al fascicolo dell'inchiesta sul crimine di guerra contenenti verbali di sopralluogo, di ispezione medico legale cadaverica e di identificazione di cadavere formati in data 3.4.1945 dalla Procura del Regno, verbali del 3.4.1945 di dichiarazioni rese alla stessa Procura da Enzo Fulgori, Maria Ruscelli Mosconi e Celso Gori, nonché verbali del 4.4.1945 di dichiarazioni rese alla stessa Procura da Armando Guardigli ed Ermanno Foietta, attestazione del 24.5.1945 dell'Associazione nazionale partigiani d'Italia, sede di Forlì, sugli impiccati in località San Tomè; relazione tecnica di traduzione dalla lingua inglese degli atti dell'inchiesta SIB.HQ/X/45/6; manuale sulle forze militari tedesche del Ministero della guerra degli Stati Uniti d'America del 1945; pubblicazioni ed appunti sulle caratteristiche organizzative, tecniche e logistiche delle unità militari tedesche; documentazione da tradurre pervenuta alla Procura militare in sede il 22.11.2005 dalla Deutsche Dienstelle (WASt) di Berlino (estratto dell'elenco delle piastrine di riconoscimento ed estratto di una pubblicazione militare), poi tradotta in dibattimento all'udienza del 5.10.2006. La parte civile Regione Emilia Romagna ha richiesto l'esame del teste indicato nella propria lista; l'Avvocato dello Stato, per la Presidenza del Consiglio dei Ministri, si è associato alle richieste del Pubblico ministero, mentre le restanti parti civili hanno chiesto l'esame di testi, l'esame dell'imputato e, da ultimo, l'ammissione di alcuni documenti segnatamente dettagliati in apposito allegato elenco: lista delle vittime degli eccidi nazifascisti in provincia di Forlì-Cesena a cura del Coordinamento provinciale dei luoghi della memoria; copie di alcune pagine del libro Diario degli avvenimenti in Forlì e Romagna dal 1939 al 1945, autore Antonio Mambelli, editore Piero Lacaita; fotografia del monumento alle vittime, a Branzolino; fotografia del monumento alle vittime, a San Tomè; comunicazione del 9.8.1944 della Guardia nazionale repubblicana, Comando provinciale di Forlì, sull'arresto di Giovanni Golfarelli, Ivo Gamberini, Ferdinando Dell'Amore e Secondo Cervetti; mattinale dell'1.9.1944 della Prefettura repubblicana di Forlì con annuncio delle fucilazioni [sic] a Branzolino; mattinale del 10.9.1944 della Guardia nazionale repubblicana, Comando provinciale di Forlì, con un cenno alle impiccagioni a San Tomè. Il difensore dell'imputato nulla ha prodotto od eccepito. Il Tribunale ha ammesso tutte le prove richieste dalle parti ed ha rinviato la trattazione all'udienza del 10.7.2006, nel corso della quale il collegio, preso atto della dichiarazione di adesione all'astensione dalla partecipazione alle udienze proclamata dall'assemblea generale degli ordini forensi, fatta pervenire dal difensore di fiducia dell'imputato, preso altresì atto della revoca delle citazioni dei testimoni disposta dal Pubblico ministero, ha dichiarato il legittimo impedimento del difensore e ha rinviato la trattazione al 4.10.2006. All'udienza dibattimentale del 4.10.2006, preso atto del mutamento della composizione del collegio a causa dell'intervenuta promozione del giudice militare con il quale il dibattimento era iniziato, il presidente ha invitato le parti a pronunciarsi sul punto. La difesa dell'imputato ha osservato che «cambiando il collegio occorre rinnovare tutti gli atti perché abbiamo un collegio nuovo ed un giudice nuovo». Quindi, accogliendo l'osservazione della difesa, con il collegio in nuova composizione il dibattimento è stato nuovamente dichiarato aperto. Tutte le parti hanno riformulato le richieste istruttorie già avanzate all'udienza del 19.4.2006; il difensore dell'imputato ha chiesto inoltre l'espletamento di una perizia storico-scientifica sulla posizione militare dell'imputato all'interno del reparto di appartenenza e sulla situazione militare e gerarchica del reparto medesimo. Il collegio ha ammesso tutte le prove richieste dalle parti ad eccezione della perizia, ritenuta non necessaria ed eventualmente espletabile d'ufficio. Sono stati quindi sentiti i seguenti testimoni: Daniele Guglielmi, teste del Pubblico ministero, esperto in materia militare e storica, autore di pubblicazioni di storia militare con particolare riguardo agli aspetti tattici e logistici; Fabrizio Casini, tenente colonnello dei Carabinieri, teste del Pubblico ministero, ufficiale di polizia giudiziaria militare delegato alle indagini; Roberto D'Elia, tenente colonnello dei Carabinieri, teste del Pubblico ministero, ufficiale di polizia giudiziaria militare delegato alle indagini; Maurizio Denaro, maresciallo dei Carabinieri comandante la stazione di Villafranca di Forlì, teste del Pubblico ministero, ufficiale di polizia giudiziaria militare delegato alle indagini, all'esito della cui deposizione il Pubblico ministero ha prodotto una cartografia dei luoghi; Luigi Di Mari, appartenente alla Guardia di finanza, membro dell'Ufficio coordinamento di polizia giudiziaria della Procura militare in sede; Christian Michelotto, ufficiale di polizia giudiziaria militare delegato alle indagini. Le parti, con reciproco consenso, hanno rinunciato alla testimonianza già ammessa, su richiesta del Pubblico ministero, dei sottufficiali dei Carabinieri Marco De Mattei e Franz Stuppner, e del sottufficiale della Guardia di finanza Rudolf Falkensteiner. È stata acquisita su richiesta della parte civile rappresentata dall'avv. Valenti una copia dell'articolo del giornale La Voce di Romagna del 16.4.2006, di cui il collegio ha dichiarato l'inutilizzabilità nella parte del testo scritto e delle didascalie delle fotografie; queste ultime, per contro, utilizzabili. Il Pubblico ministero, infine, ha prodotto il certificato comprovante la morte di Enzo Fulgori, teste già ammesso. Nel corso di questa udienza il collegio ha convocato una traduttrice e le ha conferito l'incarico di tradurre dal tedesco all'italiano la documentazione di cui alla cartella n. 7 delle produzioni del Pubblico ministero, pervenutagli in data 22.11.2005 dalla Deutsche Dienstelle (WASt) di Berlino. All'udienza del 5.10.2006 il dibattimento è proseguito con l'escussione dei seguenti testimoni: Irma Missiroli, teste del Pubblico ministero, di anni ventiquattro all'epoca del fatto, abitante nella frazione di Roncadello, nei pressi del luogo dell'eccidio di San Tomè; Gino Fiorentini, teste del Pubblico Ministero, di anni diciannove all'epoca del fatto, testimone oculare dell'impiccagione avvenuta in San Tomè di Forlì; Giorgio Pettini, teste di parte civile, all'epoca del fatto partigiano con compiti di intelligence e di sabotaggio nella regione; Giampiera Alessandrini, teste di parte civile, funzionaria della Regione Emilia Romagna. Poi il collegio ha disposto l'esame a domicilio dei testi già ammessi Marcello Cimatti, teste di parte civile, e Duilio Fulgori, teste del Pubblico ministero, nonché, a scioglimento della riserva assunta all'udienza del giorno precedente, l'ammissione delle testimonianze di Loriana Moroni, dirigente dei servizi demografici del Comune di Forlì, di Gabriele Brunelli, funzionario dell'ufficio di anagrafe del medesimo Comune, e di Otello Gavelli, già addetto allo stato civile, ritenuti assolutamente necessari al fine di sciogliere i dubbi circa le date di morte delle vittime degli eccidi, riportate negli estratti degli atti di morte acquisiti nel corso delle indagini preliminari dal comandante della stazione dei Carabinieri di Villafranca di Forlì, maresciallo Maurizio Denaro (la citazione del Gavelli non è stata effettuata, e l'ordinanza di ammissione dei tre suddetti testimoni è stata poi revocata nella parte riguardante il Gavelli, con provvedimento all'udienza del 16.10.2006, stante l'accertata superfluità del teste). Da ultimo, tutte le parti concordemente hanno rinunciato all'assunzione della deposizione di Maria Gori, teste del Pubblico ministero, già ammesso. La traduttrice ha consegnato al collegio la traduzione dei documenti del Pubblico ministero contenuti nella cartella n. 7 delle sue produzioni dibattimentali. Il 9.10.2006 si è svolta l'udienza a Forlì, presso i domicili dei due testi, Marcello Cimatti e Duilio Fulgori; il primo, all'epoca del fatto di diciannove anni, abitante in Branzolino, precettato come militare dalla R.s.i. a Udine e successivamente disertore dalla R.s.i. medesima, testimone oculare dell'impiccagione a San Tomè, subito dopo deportato in Germania, e rientrato in Italia nell'estate del 1945; il secondo, all'epoca del fatto di trentuno anni, obbligato dai militari tedeschi a scavare per la sepoltura dei cadaveri, dopo l'eccidio di San Tomè. All'udienza dibattimentale del 16.10.2006 l'istruzione è proseguita con l'assunzione delle testimonianze di Saura Dall'Agata, teste del Pubblico ministero, all'epoca dei fatti di quindici anni di età, figlia di Aurelio Dall'Agata, presente all'impiccagione di San Tomè, subito dopo deportato in Germania, e rientrato in Italia nel settembre del 1945; di Enio Gamberini, teste di parte civile, all'epoca dei fatti di dieci anni di età, nipote di Ivo Gamberini, impiccato a Branzolino, che di persona vide sul posto, dopo l'eccidio, i cadaveri delle vittime ancora appesi; di Loriana Moroni, dirigente dei servizi demografici del Comune di Forlì, e di Gabriele Brunelli, funzionario dell'ufficio di anagrafe del medesimo Comune, sentiti come testi per l'esigenza di accertare i motivi per cui gli estratti degli atti di morte di alcune vittime riportano date diverse da quelle, incontestate, degli eccidi. Il Pubblico ministero ha dichiarato di voler rinunciare all'assunzione della testimonianza di Celso Gori, già ammessa; la difesa dell'imputato non ha prestato il consenso. Il collegio, con ordinanza, rilevato che Celso Gori fu presente all'esumazione dei cadaveri delle vittime dell'eccidio di San Tomè, fu sentito dagli Alleati nel 1945 e non riferì mai di essere stato presente ai fatti né di essersi recato sul posto, ma anzi riferì di avere appreso i fatti da altra persona, sua zia, ha ritenuto superfluo l'esame, ed ai sensi dell'art. 495 c.p.p. ha revocato l'ordinanza con cui era stata ammessa la sua deposizione. Poi il collegio ha acquisito la documentazione portata in udienza dal teste Moroni ed ha respinto l'istanza dei difensori, anche di parte civile, di acquisire ulteriore documentazione presso gli archivi custoditi al Tribunale civile di Forlì, sul presupposto che alla luce della documentazione in atti, costituita dai verbali di ricognizione cadaverica per i fatti di San Tomè, e dal mattinale della Prefettura di Forlì per quelli di Branzolino, tale acquisizione appariva superflua. Infine, ha rigettato le istanze della difesa dell'imputato di acquisire due verbali di testimonianza resa innanzi alla autorità giudiziaria tedesca da Herald Rudiger, militare tedesco asseritamente teste oculare dei fatti di San Tomè, e di assumere la deposizione di quest'ultimo; ciò considerando il mancato consenso delle altre parti all'acquisizione documentale, e la tardività della richiesta di prova testimoniale, anche tenuto conto della riapertura del dibattimento, ai sensi dell'art. 493 comma 2 c.p.p. All'udienza dibattimentale del 2.11.2006 il Pubblico ministero ha chiesto che venisse acquisito e dichiarato utilizzabile ai sensi dell'art. 513 c.p.p. il verbale di interrogatorio reso dall'imputato in data 14.12.2004, di cui alla rogatoria n. 33/2004, comprensivo degli allegati. Ha fondato tale istanza sul presupposto che l'imputato era stato dichiarato contumace e non era comparso in udienza. Le parti civili si sono associate alle richieste del Pubblico ministero, mentre la difesa dell'imputato, pur consentendo alla sola lettura del verbale di interrogatorio, si è opposta all'acquisizione del documento contrassegnato dalle pagine 663 e 664 del fascicolo del Pubblico ministero, sul presupposto che si tratta di dichiarazioni spontanee assunte senza i requisiti di legge. Il Tribunale, dato atto dell'acquisizione all'udienza dibattimentale del 19.4.2006 di copia del provvedimento di formazione del fascicolo del dibattimento adottato in un primo tempo dal G.u.p. il 30.9.2005, e ribadito dal G.u.p. l'1.2.2006 (dopo la dichiarazione di nullità della prima udienza preliminare), ha disposto l'acquisizione al fascicolo per il dibattimento di tutti gli atti richiesti dal Pubblico ministero, compreso il documento dell'11.11.2004, con relativa traduzione in italiano, a cui si era opposta la difesa. Infatti il collegio ha ritenuto che tale ultimo documento datato 11.11.2004, non acquisibile ai sensi dell'art. 513 c.p.p., pur nella contumacia dell'imputato, poiché non sottoscritto dal Nordhorn e privo della veste del verbale, fosse però acquisibile ai sensi dell'art. 431 lett. d) c.p.p., trattandosi di documento acquisito all'estero mediante rogatoria internazionale. Nella medesima ordinanza il collegio ha dato conto del fatto che il termine preclusivo, previsto per le questioni concernenti la formazione del fascicolo dall'art. 491 c.p.p., riguarda unicamente le questioni dirette all'esclusione di atti erroneamente inseriti dal Giudice per l'udienza preliminare e non anche quelle concernenti l'inserimento nel medesimo fascicolo per il dibattimento di atti rimasti nel fascicolo del Pubblico ministero. Si trascrive per completezza il testo dell'ordinanza: ««Il Pubblico ministero - a seguito di richiesta di chiarimento da parte del collegio - ha insistito per l'acquisizione di atti compiuti in Germania, completi di traduzione; i difensori delle parti civili si sono associati e la difesa, presa visione degli atti, si è opposta solo alla acquisizione dell'atto compiuto l'11.11.2004; si è dato atto della acquisizione, compiuta all'udienza dibattimentale del 19.4.2006, della copia del provvedimento di formazione del fascicolo del dibattimento, provvedimento preso in un primo momento dal G.u.p. il 30.9.2005, e ribadito dal G.u.p. l'1.2.2006; il documento cui si è opposta la difesa non può essere acquisito ai sensi dell'art. 513 c.p.p. - pur essendo contumace l'imputato - poiché non risulta sottoscritto dall'imputato e non possiede la veste del verbale; il documento è tuttavia acquisito ai sensi dell'art. 431 c.p.p. lett. d), trattandosi di documento acquisito all'estero mediante rogatoria internazionale; esso infatti viene indicato proprio nel verbale del 15.12.2004 come allegato n. 2 (Ermittlungsbericht 11.11.2004); la mancata acquisizione del documento prima dell'apertura del dibattimento, termine previsto per le questioni concernenti la formazione del fascicolo del dibattimento dall'art. 431 c.p.p., non preclude la sua odierna acquisizione, poiché tale preclusione riguarda solo le questioni dirette all'esclusione di atti erroneamente inseriti dal G.u.p., mentre non restano precluse dalla mancata trattazione prima dell'apertura del dibattimento le questioni concernenti l'inserimento nel fascicolo dibattimentale di atti rimasti nel fascicolo del Pubblico ministero (Cass. 18.4.2000, imp. Benvenuto); p.q.m. dispone l'acquisizione al fascicolo del dibattimento di tutti gli atti richiesti dal Pubblico ministero, compreso il documento in data 11.11.2004, con relativa traduzione in italiano, e dispone procedersi oltre»». Il Tribunale ha quindi invitato le parti a rassegnare le conclusioni. Le parti hanno concluso come in epigrafe. All'odierna udienza, infine, l'avv. Valenti, per le parti civili da lui patrocinate ed anche in sostituzione dell'avv. Giampaolo per quella rappresentata da quest'ultimo, ha replicato alle conclusioni della difesa, ha insistito per l'accoglimento delle conclusioni già rassegnate ed ha prodotto copia di una lettera a firma di Antonio Gori, detto Natale, diretta ai familiari, e di alcune fotografie dell'edificio in cui aveva sede, nel 1944, la prigione tedesca a Forlì. Dopo le repliche dell'Avvocato dello Stato e le controrepliche del difensore dell'imputato, che hanno ambedue insistito per l'accoglimento delle rispettive conclusioni, esaurita la discussione, il dibattimento è stato dichiarato chiuso ed il collegio si è ritirato in camera di consiglio per deliberare. 3. Premessa sulla ricostruzione dei fatti Le impiccagioni di cittadini italiani per le quali è processo furono oggetto di una tempestiva indagine da parte del 78° Dipartimento investigativo speciale, denominato S.I.B. (Special Investigation Branch), del Quartier generale delle forze armate alleate. L'indagine, condotta sino all'estate del 1945, fu classificata con il protocollo SIB.HQ/Z/45/34. Gli atti originali dell'inchiesta del 1945 sul crimine di guerra (war crime summary) raccolti dal S.I.B. e inerenti i fatti di Branzolino e di San Tomè (rapporto SIB.HQ/X/45/6) sono stati prodotti dal Pubblico ministero all'udienza del 19.4.2006, insieme alle relative traduzioni in lingua italiana. La documentazione comprende le informative sull'accertamento dei fatti, corredate dalle schede individuali dei ricercati - in lingua inglese - e dai verbali delle dichiarazioni delle seguenti persone (l'età di ciascuna è quella indicata nella dichiarazione). Carmen Belli Marangoni, di 50 anni, dichiarazione del 28.6.1945. Evaristo Zambelli, di 35 anni, dichiarazione del 2.7.1945. Ezio Lega, di 24 anni, dichiarazione del 20.6.1945. Alessandra Bassetti, di 22 anni, dichiarazione del 4.7.1945. Aurelio Rossi, di 50 anni, dichiarazioni del 27.6.1945 e del 29.6.1945. Hans Hopp, di 29 anni (prigioniero di guerra, catturato il 2.5.1945), dichiarazione del 9.7.1945. Guglielmo Furgani, di 51 anni, dichiarazione del 10.7.1945. Gino Fiorentini, di 20 anni, dichiarazione del 22.6.1945. Ines Golfarelli, di 32 anni, dichiarazione del 22.7.1945. Livia Mariani Gamberini, di 67 anni, dichiarazione del 20.7.1945. Mario Cervetti, di 62 anni, dichiarazione del 19.7.1945. Ernesta Arfelli Dallamore, di 57 anni, dichiarazione del 19.7.1945. Gaetano Lugaresi, di 35 anni, dichiarazione del 19.7.1945. Domenico Sansoni, di 40 anni, dichiarazione del 18.7.1945. Celso Gori, di 20 anni, dichiarazione del 20.7.1945. Lucia Perrini, di 42 anni, dichiarazione del 25.5.1945. Elvira Zanchini Foietta, di 37 anni, dichiarazione del 19.7.1945. Maria Ruscelli Mosconi, di 45 anni, dichiarazione del 18.7.1945. Michele Guidi, di 55 anni, dichiarazione del 19.7.1945. Pasquino Buscherini, di 57 anni, dichiarazione del 19.7.1945. Elvio Vital, di 31 anni, dichiarazione del 5.7.1945. Maria Rossi Zamorani, di 60 anni, dichiarazione del 3.7.1945. Amilcare Monti, di 58 anni, dichiarazione del 5.7.1945. Costanto Biffi, di 40 anni, dichiarazione del 12.7.1945. Luigi Foschi, di 60 anni, dichiarazione del 12.7.1945. Armando Guardigli, di 34 anni, dichiarazione del 2.7.1945. Decio Lombardi, di 33 anni, dichiarazione del 2.7.1945. Marco Pordes, di 34 anni, dichiarazione del 5.7.1945. Romeo Gaudenzi, dichiarazione del 18.7.1945. Onorato Ciani, dichiarazione del 28.5.1945. Saura Dall'Agata, di 16 anni, dichiarazione dell'11.7.1945. Tali dichiarazioni sono in lingua italiana, tradotte in inglese dall'autorità alleata, ad eccezione di quelle di Alessandra Bassetti e di Marco Pordes, che sono in lingua inglese, e di quella di Hans Hopp, che è in lingua tedesca. Comprende anche il fascicolo della Procura del Regno presso il Tribunale di Forlì, r.g.n. 995/1945, relativo alle indagini di polizia giudiziaria sull'eccidio di San Tomè (atti di indagine dell'autorità giudiziaria italiana sull'eccidio di San Tomè acquisiti dall'autorità alleata ed uniti al fascicolo dell'inchiesta sul crimine di guerra, contenenti verbali di sopralluogo, di ispezione medico legale cadaverica e di identificazione di cadavere formati in data 3.4.1945 dal Pubblico ministero; verbali del 3.4.1945 di dichiarazioni rese allo stesso Pubblico ministero da Enzo Fulgori, Maria Ruscelli Mosconi e Celso Gori; verbali del 4.4.1945 di dichiarazioni allo stesso Pubblico ministero rese da Armando Guardigli e Ermanno Foietta; attestazione del 24.5.1945 della Associazione nazionale partigiani d'Italia, sede di Forlì, sulle vittime delle impiccagioni a San Tomè). Un sintetico riassunto dei due eccidi è già contenuto nell'annotazione a firma del capitano Middleton della sezione 78 del S.I.B., formato sulla base del rapporto del sergente Hall, a sua volta redatto dopo che questi aveva assunto informazioni, a pochi mesi dai fatti, dalle persone che avevano assistito personalmente all'impiccagione di San Tomè, o comunque che avevano ricevuto a loro volta notizie da altri soggetti, o che erano informate sui fatti o su aspetti precedenti o successivi. Una prima e sommaria annotazione di indagine, risalente al 4.2.1945, era peraltro già stata stilata anche dal sergente Morris della sezione 77 del S.I.B.. Gli atti del S.I.B. contengono inoltre l'elenco delle persone uccise nelle località di Branzolino e di San Tomè, formato sulla base delle dichiarazioni assunte dagli investigatori alleati. Indicano le unità militari e le persone che su tale base si sospettavano responsabili, e riportano la lista dei cosiddetti «reperti» (consistenti in un biglietto lasciato in casa di Guglielmo Furgani recante il nome, l'indirizzo militare e l'indirizzo dell'abitazione dello Stabsgefreiter Hans Hopp, che alloggiò in casa Furgani dal luglio all'ottobre del 1944, ed in una fotografia del Feldwebel Walter Horsfeld (in realtà Hossfeld), con la dedica «in recordo a familga Dall'Agata», da lui firmata, e consegnata al S.I.B. da Saura Dall'Agata, anche sentita come teste in dibattimento). Contengono, infine, la lista dei criminali di guerra ricercati, con le relative schede personali redatte all'esito dell'indagine, e la traduzione in inglese degli atti del procedimento penale della Procura di Forlì. Gli atti dell'indagine del S.I.B. e di quella dell'autorità giudiziaria ordinaria italiana furono poi trasmessi alla Procura generale militare, e qui riversati in un fascicolo rimasto inevaso presso detta autorità giudiziaria militare per decenni (così come tanti altri fascicoli riguardanti crimini nazifascisti commessi in Italia). Dalla Procura generale militare, infine, detti atti (insieme ad altri fascicoli riguardanti crimini analoghi) sono stati trasmessi alla Procura militare in sede, che al termine delle indagini preliminari ha esercitato l'azione penale nei confronti dell'imputato. 4. L'utilizzabilità dei verbali S.I.B. La ricostruzione dei fatti si fonda in gran parte sui verbali di dichiarazioni rese nell'ambito dell'inchiesta militare britannica del 1945, contenuti nel rapporto dello Special Investigation Branch (S.I.B.), i cui atti sono stati acquisiti al fascicolo per il dibattimento. Coloro che resero le dichiarazioni, ad oggi, sono per la gran parte deceduti. Il difensore dell'imputato non si è opposto all'acquisizione dei documenti concernenti quelle indagini ma, in sede di conclusioni, ha precisato che gli atti dell'inchiesta del S.I.B. debbono, a suo dire, essere utilizzati dal collegio come semplici documenti (dichiarativi) ai sensi dell'art. 234 c.p.p. Deve quindi essere affrontata dal collegio la questione dell'utilizzabilità e del valore probatorio dei verbali di dichiarazioni rese agli investigatori del S.I.B.. Una recente pronuncia della Corte di cassazione, a giudizio del collegio, sgombra il campo dal dubbio sulla loro piena utilizzabilità e sul loro pieno valore probatorio, alla luce dei principi del codice di procedura penale in materia di acquisibilità dei verbali di dichiarazioni, per loro sopravvenuta impossibilità di ripetizione. Con la sentenza 23.1.2002, dep. 19.6.2002 n. 23597, Seseri, la prima sezione penale della Corte, infatti, nell'occuparsi di una questione concernente l'utilizzabilità di dichiarazioni rese da persona straniera alla polizia straniera, nella fattispecie tedesca, ha precisato che tali dichiarazioni «non possono essere ricondotte alla disciplina dell'art. 78, co. 2, delle norme di attuazione del codice di rito, che riguarda l'acquisizione di atti non ripetibili "compiuti" dalla polizia straniera, previo - salvo accordo delle parti - l'esame del loro "autore". La disposizione si riferisce ad atti di accertamento direttamente eseguiti dalla polizia (rilievi tecnici, ispezioni, sequestri e simili), e non già da questa "assunti" o "raccolti" da fonti esterne (secondo una distinzione terminologica e funzionale già presente, ad es., negli artt. 347 e seguenti c.p.p.); per le informazioni testimoniali assunte da inquirenti stranieri vale quindi la meno restrittiva disciplina di acquisizione di cui all'art. 512 bis c.p.p., cui ha fatto riferimento il giudice a quo, poiché le speciali disposizioni dell'art. 78, co. 2, d.a. presuppongono la normale reperibilità e possibilità di esame - quanto meno per rogatoria - del personale di polizia "autore" (e non già mero verbalizzante) dell'atto (cfr., per l'affermazione di principio che l'art. 512 bis si applica alle dichiarazioni rese da soggetto sentito "da autorità giudiziarie straniere o dalla p.g.", Cass., sez. 3°, 14.6.1994, dep. 27.7.1994, Kukielka)». Risulta evidente, a giudizio del collegio, che un siffatto principio di diritto - che va riferito anche alla diversa e più garantita ipotesi di irripetibilità sopravvenuta contemplata dall'art. 512 c.p.p. rende pienamente utilizzabili ai fini della decisione tutti i verbali delle dichiarazioni rese agli investigatori del S.I.B. pochi mesi dopo i fatti di Branzolino e San Tomè. È infatti pacifico che gli autori delle dichiarazioni rilasciate agli investigatori del S.I.B. sono per la gran parte deceduti e che quindi - per fatti o circostanze allora imprevedibili - è divenuta impossibile la ripetizione, in dibattimento, del loro esame. Si aggiunga che nel caso in esame le dichiarazioni furono sì assunte da personale di polizia straniero dotato dei necessari poteri autoritativi e certificativi e quindi dell'imprescindibile requisito dell'ufficialità - ma non in territorio estero, bensì in territorio italiano (circostanza, quest'ultima, che vieppiù escluderebbe già in astratto qualsiasi necessità dell'esperimento, se mai ve ne fosse stato bisogno, di rogatoria internazionale). È fuor di dubbio, quindi, che anche le modalità con cui sono state assunte quelle dichiarazioni, valutate secondo i criteri dettati dalle norme processuali vigenti in Italia, non si sono poste in contrasto con i diritti fondamentali della persona (in proposito vedasi Cass. 20.5.1993, dep. 23.6.1993 n. 6359, Nicosia). In definitiva, il collegio reputa che, per i motivi suesposti, non si possa fare applicazione dell'art. 78 comma 2 disp. att. c.p.p., secondo cui «gli atti non ripetibili compiuti dalla polizia straniera possono essere acquisiti nel fascicolo per il dibattimento se le parti vi consentono ovvero dopo l'esame testimoniale dell'autore degli stessi, compiuto anche mediante rogatoria all'estero in contraddittorio», ma che la fattispecie in questione, con riguardo ai testi deceduti o altrimenti irreperibili, rientri sotto la previsione dell'art. 512 c.p.p. (peraltro recentemente novellato dall'art. 2 del d.l. 22.9.2006 n. 259, convertito con modificazioni con la legge 20.11.2006 n. 281). Anche Corte d'assise Santa Maria Capua Vetere 25.10.1994, Lehnigk Emden, ha ritenuto utilizzabili gli accertamenti compiuti all'epoca, con le dichiarazioni verbalizzate, dagli inquirenti delle forze armate alleate (in quel caso statunitensi). E favorevole all'utilizzabilità degli atti dell'autorità inquirente delle forze armate alleate è anche Corte mil. appello Roma 24.11.2005 n. 99, Langer, secondo cui tale utilizzabilità non viola l'art. 11 Cost. né la Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, Roma 4 novembre 1950, ratificata con la legge 4.8.1955 n. 848. Per questo aspetto, insomma, l'applicazione di un rito penale più favorevole in tema di garanzie concernenti il materiale istruttorio (tra gli «effetti perversi» dell'archiviazione provvisoria di procedimenti come questo, notati anche da Trib. mil. Verona 24.11.2000, Seifert), non nuoce alla completezza del materiale istruttorio stesso. La richiesta della difesa dell'imputato, di considerare i predetti verbali di dichiarazioni come semplici documenti (dichiarativi) ai sensi dell'art. 234 c.p.p., è perciò destituita di fondamento e come tale deve essere rigettata. 5. Alcuni fatti non controversi Dal compendio probatorio di cui sopra, il cui contenuto sarà richiamato anche nel prosieguo, è emerso in modo non controverso quanto segue. Tra la fine di giugno e l'inizio di luglio del 1944 (più probabilmente intorno al 9 luglio: dichiarazione 27.6.1945 di Aurelio Rossi al S.I.B.) un reparto della Wehrmacht, e segnatamente lo Schwere Heeres-Panzerjäger-Abteilung 525 (in inglese, Heavy Panzer Jager Regiment), occupò le campagne nei dintorni di Forlì, nelle quali si acquartierò. Per la struttura posseduta, è più corretto (come ha precisato l'esperto di storia militare Daniele Guglielmi in dibattimento il 4.10.2006) definire il reparto non reggimento, ma battaglione, e così sarà qui di seguito denominato. Durante l'acquartieramento i militari del 525° battaglione portavano di regola uniformi color kaki; occasionalmente indossavano anche uniformi grigioverdi o nere, con fregi su ambedue i lati del colletto ritraenti un teschio con ossa incrociate (dichiarazione 27.6.1945 di Aurelio Rossi al S.I.B.). Il battaglione (come ha riferito in dibattimento l'esperto Daniele Guglielmi), fin dal 1943 si trovava in Italia, dove aveva partecipato alle campagne militari di Cassino, Firenze e Pisa (dichiarazione 28.6.1945 di Carmen Belli Marangoni al S.I.B.). Il battaglione era stato costituito nel 1940 come unità specializzata nel combattimento contro i mezzi corazzati. Aveva partecipato a varie campagne ed aveva avuto un lungo periodo operativo sul fronte orientale, subendo molte perdite. Inizialmente aveva operato con cannoni trainati. Nel maggio-giugno del 1943 era stato ritirato dal fronte orientale ed era stato equipaggiato con il cacciacarri Ornis, poi denominato Nashorn (rinoceronte). Nel settembre del 1943 il reparto arrivò in Italia, ed affrontò i primi scontri significativi a partire dal febbraio del 1944, prima intorno alla testa di ponte Anzio-Nettuno, poi a Cassino. Dopo il superamento alleato di quella linea del fronte, il reparto subì ulteriori perdite nel corso della ritirata, si riorganizzò in Toscana e fu poi spostato sul fronte adriatico intorno ai mesi di giugnoluglio del 1944. Partecipò a combattimenti, rimase in Emilia Romagna e terminò le sue operazioni a sud del Po nel marzo-aprile del 1945. Il reparto doveva essere interamente ritirato in Germania per essere equipaggiato con altri mezzi, ma per la situazione bellica del fronte italiano solo una compagnia, la prima, nel luglio-agosto del 1944 si trasferì in Germania (circostanza, questa, confermata dalla dichiarazione al S.I.B. 9.7.1945 del prigioniero di guerra Hans Hopp, che dichiarò che la prima compagnia si trasferì in Germania circa un mese dopo l'arrivo del reparto a Roncadello, da lui datato tra la fine di giugno e gli inizi di luglio del 1944), mentre la seconda e la terza compagnia continuarono a operare in Italia. Fino alla fine della guerra, la seconda e la terza compagnia, oltre ovviamente alla compagnia comando, rimasero operative sul fronte italiano (deposizione dibattimentale di Daniele Guglielmi). Il 525° battaglione era comandato dal maggiore Friedrich Karl Guttmacher. I mezzi in sua dotazione avevano come segno distintivo non ufficiale una testa di animale, con la bocca dipinta di rosso e la lingua sporgente. Per ciascuna compagnia dipendente poteva teoricamente contare su quattordici mezzi corazzati anticarro, impropriamente e comunemente denominati Tiger, armati di cannoni collocati sulla torretta, sulla quale era dipinto in bianco il numero 2/4 o 214 (dichiarazioni al S.I.B. di Hans Hopp del 9.7.1945, di Alessandra Bassetti del 4.7.1945 e di Ezio Lega del 20.6.1945; documenti acquisiti presso Daniele Guglielmi). La dotazione teorica dell'intero battaglione prevedeva quindi quarantacinque mezzi semoventi cacciacarri denominati Nashorn (rinoceronte), suddivisi tra la compagnia comando (tre) e ciascuna delle tre compagnie operative (quattordici per ognuna); la compagnia comando, oltre al plotone pionieri alle proprie dipendenze (Pionier Zug), aveva in dotazione anche tre semicingolati contraerei (documenti acquisiti presso Daniele Guglielmi, che sostanzialmente riscontrano quanto dichiarato al S.I.B. da Hans Hopp il 9.7.1945). Sulla base dei documenti di archivio acquisiti, è stato possibile accertare, con ragionevole margine di certezza, che il battaglione era formato da un comando, da tre compagnie operative, da una compagnia comando (talvolta denominata o menzionata come compagnia di quartier generale, o compagnia di stato maggiore, e dalla quale dipendeva il plotone pionieri) e da un reparto (o compagnia) di rifornimento, oltre che da un plotone officina. Tale composizione è sostanzialmente confermata dai documenti contenuti nella cartella n. 6 delle produzioni del Pubblico ministero, acquisiti presso l'esperto di storia militare Daniele Guglielmi. Secondo gli studi di quest'ultimo, infatti, il battaglione era basato su una compagnia comando, da cui dipendeva il plotone pionieri, e su tre compagnie cacciacarri, oltre al reparto officina e rifornimenti e a piccole unità di servizi. Ogni compagnia cacciacarri era composta da tre plotoni operativi e da un plotone comando; ciascuno dei tre plotoni operativi di ciascuna compagnia cacciacarri aveva in dotazione quattro semoventi, mentre il plotone comando di ogni compagnia operativa ne aveva due; la compagnia comando, infine, aveva in dotazione, come già detto, tre semoventi (e ancora si riscontrano le dichiarazioni rese sul punto specifico da Hans Hopp al S.I.B.). Poiché all'epoca dei fatti il 525° battaglione aveva subìto gravi perdite, non è da escludere che operasse a ranghi ridotti, con due plotoni anziché tre per ogni compagnia. Sempre sulla base dei documenti agli atti (consistenti sostanzialmente negli specchi degli ufficiali del reparto, acquisiti dall'Archivio federale di Aachen, e nelle loro schede personali) e alla luce delle dichiarazioni di Hans Hopp è stato possibile accertare, con ragionevole margine di certezza, chi fossero gli ufficiali delle varie compagnie all'epoca dei fatti. La compagnia comando (o compagnia di quartier generale, o compagnia di stato maggiore) era certamente comandata dal capitano (Hauptmann) Karl Ernst Funk; in tale compagnia era inquadrato anche il tenente (Oberleutnant) Hans Otto Gross come ufficiale di trasmissione, e da essa dipendeva il plotone pionieri (Pionier Zug), comandato dal sottotenente (Leutnant) Heinrich Nordhorn (dichiarazione in data 9.7.1945 al S.I.B. di Hans Hopp, in forza alla 2° compagnia del 525° battaglione). Per quanto riguarda il Gross, va subito rilevato che nelle dichiarazioni di Hans Hopp, sin dall'originale verbale manoscritto in lingua tedesca (poi seguito dalle traduzioni in lingua inglese ed italiana), tale ufficiale è appellato con il grado di Oberleutnant, vale a dire di tenente. Con lo stesso grado di tenente il Gross è anche annotato negli atti trasmessi dall'Archivio federale di Aachen datati 15.3.1945. La sua anzianità nel grado di Oberleutnant risaliva all'1.11.1942. Sempre nella compagnia comando, secondo le dichiarazioni di Hopp, era inquadrato un altro ufficiale, il sottotenente (Leutnant) Hoffmann. Egli si identifica nel sottotenente Alfred Hofmann, nato l'1.8.1920, con anzianità nel grado dall'1.8.1942. Detto ufficiale risulta poi trasferito, alla data del 15.3.1945, al reparto comando del 525° battaglione, ma non si può escludere che già all'epoca dei fatti fosse formalmente inquadrato non nella compagnia comando bensì nel reparto comando del battaglione, e che tale formale e sottile distinzione non fosse nota all'Hopp, che apparteneva ad una compagnia operativa, anche perché dal punto di vista sostanziale l'inquadramento nella compagnia comando o nel reparto comando non comportava di fatto alcuna differenza mansionale. Tale ufficiale compare nella dichiarazione al S.I.B. di Alessandra Bassetti del 4.7.1945 con il cognome Hoffman, il prenome Rudolf e il grado di tenente. A tal proposito sono evidenti, a giudizio del collegio, l'irrilevanza della leggera difformità grafica del cognome (neppure percepibile nella pronuncia), e l'irrilevanza della difformità del grado, ascrivibile o alla mancata conoscenza da parte della Bassetti delle precise gerarchie militari o, più probabilmente, al fatto che nel comune parlare, ancora oggi, non si distingue tra i due gradi (sottotenente e tenente). Occorre invece sottolineare che, mentre nella traduzione in lingua italiana degli specchi degli organici acquisiti dall'Archivio di Aachen l'Hofmann compare con il grado di sottufficiale del Reich, negli originali in lingua tedesca, nella colonna riferita al grado gerarchico, in corrispondenza del nome di Alfred Hofmann compare l'indicazione «Lt. d. R.», in cui le lettere "Lt." sono abbreviazione della parola Leutnant (sottotenente). Non residuano dubbi, quindi, sul fatto che Alfred Hofmann fosse sottotenente del Reich, e non semplice sottufficiale, come pure, per un evidente errore materiale di trascrizione nella traduzione, risulta nel documento in italiano. Gli uffici della compagnia comando, e probabilmente anche quelli del comando dell'intero battaglione (comando di quartier generale), furono sistemati in San Martino di Villafranca, nei locali di Villa Todghem. La seconda compagnia era comandata dal tenente (Oberleutnant) Kurt Scholz, giunto a tale unità dalla compagnia di stato maggiore del medesimo reparto l'1.7.1944, e che aveva alle proprie dipendenze il tenente (Oberleutnant) Friedrich Wogerbauer (di nascita austriaca, passato tenente dal grado di sottotenente - Leutnant - l'1.8.1944) ed il sottotenente (Leutnant) Friedrich Ramisch, catturato il 2.5.1945, con l'incarico di capo plotone ed il grado di sottotenente, come si ricava dalla scheda di prigionia in lingua originale tedesca, dove compare l'abbreviazione «Lt.», che sta per Leutnant (sebbene nel testo italiano sia erroneamente stato tradotto come «tenente»). La prima compagnia era comandata dal capitano (Hauptmann) Karl Koob, che lasciò la zona delle operazioni con la propria unità, spostata in Germania, circa un mese dopo il suo arrivo, e quindi intorno al luglio-agosto 1944 (ufficiale che viene ricordato da Hans Hopp come capitano Koop, e che invece viene menzionato con il suo corretto cognome dal teste Evaristo Zambelli, nelle sue dichiarazioni al S.I.B. del 2.7.1945 ). La terza compagnia, infine, era comandata dal tenente (Oberleutnant) Waldemar Paffrath, il quale, dopo i fatti, ed almeno fino alla data del 15.3.1945, fu assegnato al comando della prima. Anche in questo caso, Hopp lo ricorda come tenente Pafrath (anziché Paffrath). I militari tedeschi del 525° battaglione presero alloggio nelle abitazioni private delle varie località della zona: chi a Roncadello, chi a Villafranca di Forlì, chi a San Martino di Villafranca, chi a San Tomè e chi a Branzolino. Il comandante Guttmacher prese dimora, inizialmente, a Villa Belli a San Tomè, dalla quale dopo circa quindici giorni si trasferì a Villa Bernabei a Roncadello. Il tenente Scholz, insieme ad altri sei militari tra i quali l'Hofmann, prese dimora a Roncadello, nei locali della proprietà di Nella Matteucci. Un altro tenente di cui agli atti non risultano le generalità prese dimora a Roncadello in casa di Domenico Sansoni, insieme al proprio attendente (non meglio identificato, ma di nome Fritz). Il caporalmaggiore Hopp, insieme ad altri quattro militari, si sistemò nella casa di Guglielmo Furgani, nella cui proprietà fu anche messa in sosta un'autobotte con il carburante. Altri sette militari tedeschi, tra i quali tre sottufficiali (di cui uno di nome Ernesto o Ernst) presero sistemazione a Roncadello in casa di Gino Fiorentini. Altri tre sottufficiali, invece, in casa di Marcello Cimatti, Aldo Cimatti e Arturo Cimatti (dichiarazioni al S.I.B. di Carmen Belli Marangoni, Alessandra Bassetti, Domenico Sansoni, Hans Hopp, Guglielmo Furgani, Gino Fiorentini, rispettivamente datate 28.6.1945, 4.7.1945, 18.7.1945, 9.7.1945, 10.7.1945 e 222.6.1945; testimonianza di Marcello Cimatti in dibattimento il 9.10.2006). Nell'abitazione di Aurelio Rossi in San Martino di Villafranca prese invece dimora un ufficiale privo di un occhio, presumibilmente identificabile con il capitano Funk (che risulta essere stato ferito sul fronte orientale ad un occhio il 15.6.1942, ed alla testa il 22.7.1942). Presso la casa di Aurelio Rossi fu anche installata un'insegna con la scritta «Pio/Zug» (dichiarazione al S.I.B. di Aurelio Rossi), evidentemente identificativa del plotone pionieri, come da lista degli acronimi ufficiali prodotta in dibattimento. Insieme a quello che quasi certamente era il capitano Funk, presso il Rossi alloggiava un altro ufficiale, che il teste riferì avere il grado di tenente, la cui identità, all'esito dell'istruzione dibattimentale, per i motivi che saranno illustrati nel prosieguo, secondo il collegio è risultato provato essere quella di Heinrich Nordhorn (dichiarazione al S.I.B. del 27.6.1945 di Aurelio Rossi). Il 525° battaglione lasciò la zona di Forlì nel mese di ottobre del 1944, si diresse verso quella di Ravenna, ed infine più a nord, dove fu catturato dalle forze armate alleate il 2 maggio 1945 (dichiarazioni al S.I.B. di Carmen Belli Marangoni del 28.6.1945, di Domenico Sansoni del 18.7.1945 e di Hans Hopp del 9.7.1945). Sullo specifico punto dei movimenti del 525° battaglione successivi alle date di commissione dei fatti per cui si procede ha pure riferito, in sede di interrogatorio ed in qualità di coindagato, Friedrich Wogerbauer, all'epoca tenente del 525° battaglione, in forza alla 2° compagnia, che in sostanza ha confermato tali postfatti così come in passato riferiti agli investigatori del S.I.B. dalla Belli, da Sansoni e da Hopp. 6. L'eccidio di Branzolino Dell'eccidio di Branzolino del 28 agosto 1944 furono vittime Giovanni Golfarelli, Ivo Gamberini, Secondo Cervetti e Ferdinando Dell'Amore, arrestati il 2 agosto 1944 dalla milizia fascista, torturati e in seguito condotti alla prigione, allestita nell'ospedale pediatrico di Forlì dai tedeschi, a disposizione di questi ultimi (dichiarazioni al S.I.B. di Ines Golfarelli del 22.7.1945, di Livia Mariani Gamberini del 20.7.1945, di Ernesta Arfelli Dallamore del 19.7.1945). Proprio in quella prigione li vide il sacerdote Gaetano Lugaresi (dichiarazione al S.I.B. di Gaetano Lugaresi del 19.7.1945), che udì quando essi furono chiamati per nome e portati via. La notte tra il 27 ed il 28 agosto 1944 un soldato tedesco era rimasto ferito per lo scoppio di un ordigno esplosivo; un'azione apparentemente ascrivibile ad una delle formazioni partigiane in quel periodo operanti, diversamente organizzate (ma sul punto della riconducibilità dell'azione alla Resistenza, le deposizioni dibattimentali dei testi Pettini e Fulgori introducono elementi di dubbio, come si vedrà in seguito). Il giorno dopo i quattro italiani, prigionieri a Forlì, furono portati sul luogo del fatto e lì impiccati ai bordi della strada, nello stesso luogo dove si era verificato lo scoppio (deposizione dibattimentale del 9.10.2006 di Marcello Cimatti, e varie dichiarazioni al S.I.B.). Proprio quel giorno, un gruppo di militari tedeschi dipendenti da un ufficiale con il grado di tenente, lo stesso che alloggiava da Aurelio Rossi nei pressi di San Martino di Villafranca e che li comandava, aveva requisito un asino del Rossi medesimo, e sull'animale aveva caricato picconi, vanghe e legname; aveva lasciato la fattoria e si era incamminato in direzione di Villafranca (dichiarazione al S.I.B. di Aurelio Rossi del 27.6.1945). Domenico Sansoni verso le ore 17 vide passare il gruppo davanti alla sua proprietà, notando anche l'asino carico di picconi, pale e travi di legno. Un militare tedesco non compiutamente identificato, ma che per certo si chiamava Fritz, ed era l'attendente dell'ufficiale che come lui alloggiava dal Sansoni fin dall'inizio del mese di agosto 1944, disse al Sansoni medesimo che quei militari tedeschi che passavano, stavano andando ad impiccare alcuni partigiani. Sansoni, il giorno dopo, seppe che effettivamente quattro italiani erano stati impiccati a Branzolino (dichiarazione al S.I.B. di Domenico Sansoni, 18.7.1945). Proprio per l'impiccagione i militari tedeschi radunarono sul posto un gruppo di italiani abitanti nella zona, tra i quali Aldo Cimatti ed Arturo Cimatti, oggi deceduti, fratelli di Marcello Cimatti. Per l'impiccagione fu utilizzato un patibolo formato da una trave sormontante due fusti, legati a delle corde, sui quali poggiava una tavola, sulla quale le vittime furono fatte salire con le mani legate dietro la schiena. Le vittime furono quindi tradotte sul luogo dell'uccisione dopo che i militari tedeschi ebbero provveduto a radunare le persone costrette ad assistere. Prima di dar corso all'impiccagione, l'ufficiale tedesco che la dirigeva parlò ai presenti avvertendo che quel giorno sarebbero stati impiccati dei prigionieri del carcere, ma che un'altra volta, le vittime sarebbero state scelte tra la popolazione. Nell'occasione, anche Arturo Cimatti vide bene l'ufficiale che dirigeva le operazioni, e che avrebbe poi rivisto dirigere anche quelle di San Tomè (deposizione di Marcello Cimatti in dibattimento). Alcune delle persone costrette ad assistere, furono anche obbligate a collaborare all'impiccagione. Aldo Cimatti, in particolare, fu costretto a mettere il cappio intorno al collo di una delle vittime, e dopo lo raccontò al fratello Marcello (deposizione di Marcello Cimatti in dibattimento); poi furono abbattuti al suolo i fusti su cui poggiavano le vittime, determinandone così l'impiccamento. Ad alcune vittime fu anche sparato un colpo alla testa con le armi di ordinanza. L'eccidio di Branzolino si svolse sotto la direzione e agli ordini di un ufficiale tedesco che vi presenziava, lo stesso ufficiale che dopo pochi giorni avrebbe diretto anche l'eccidio di San Tomè. Testimoni oculari dell'eccidio di Branzolino furono sia Aldo Cimatti, che Arturo Cimatti. E la deposizione dibattimentale di Marcello Cimatti consente di ritenere che l'ufficiale tedesco che diresse l'impiccagione a Branzolino fu lo stesso che, a distanza di pochi giorni, diresse anche quella a San Tomè. Mentre all'eccidio di Branzolino furono presenti Aldo Cimatti ed Arturo Cimatti, invece per quello successivo di San Tomè fu quest'ultimo Arturo Cimatti, e non anche Aldo, ad assistere alle impiccagioni insieme al fratello Marcello (deposizione di Marcello Cimatti, sull'eccidio di Branzolino: «teste: "c'erano due miei fratelli"; Pubblico ministero: "Due? Uno era Aldo"; teste: "Sì, [...] e l'altro era Arturo"»). I parenti delle quattro vittime, così come anche tutte le altre persone che furono sentite dagli investigatori alleati nel 1945, furono informati dell'eccidio da terze persone, e non immediatamente (dichiarazioni al S.I.B. di Ines Golfarelli del 22.7.1945, e di Livia Mariani Gamberini del 20.7.1945). Taluni si recarono sul luogo dell'eccidio e videro i corpi delle vittime ancora appesi ai patiboli; fra quelli che vi si recarono, Enio Gamberini e suo padre (fratello di Ivo Gamberini), che videro i segni di torture (deposizione dibattimentale di Enio Gamberini del 16.10.2006). Alcuni parenti delle vittime si recarono a San Martino di Villafranca per ottenere l'autorizzazione, da chi aveva il potere di concederla, a rimuovere e seppellire i corpi. Tutti i corpi, infatti, rimasero appesi ai patiboli almeno il 29 agosto, senza che fosse consentito di staccarli subito dai patiboli: «col calcio del fucile ci tenevano lontani [...] non volevano nemmeno che tagliassero la corda di questa gente che pendeva, e loro li scacciavano "fuori, fuori, via, raus!"» (deposizione di Enio Gamberini in dibattimento). Poi furono sepolti in una fossa comune (due di loro senza cassa). Tre delle salme avevano lesioni non solo conseguenti ad impiccagione ma anche ad uso di arma da fuoco alla nuca o comunque alla testa (dichiarazioni al S.I.B. di Ernesta Arfelli Dallamore del 19.7.1945, di Mario Cervetti del 19.7.1945, di Decio Lombardi del 2.7.1945). Ernesta Arfelli, madre di Ferdinando Dell'Amore, fu informata dell'eccidio il giorno successivo; recatasi sul posto immediatamente, vide appese le quattro salme, fra cui quella di suo figlio. I cadaveri degli altri tre presentavano ferite di arma da fuoco ed uno aveva la testa parzialmente asportata. L'Arfelli seppe dagli abitanti del luogo che i militari tedeschi responsabili delle impiccagioni alloggiavano a Villafranca, dove ella si recò per avere l'autorizzazione alla sepoltura. Fu autorizzata a seppellire la salma, ma non a trasportarla in altro luogo (dichiarazione al S.I.B. di Ernesta Arfelli Dallamore, datata 19.7.1945). Anche Mario Cervetti, padre di Secondo Cervetti, seppe dell'eccidio il giorno successivo. Giunto sul posto, vide i quattro corpi ancora appesi alle forche. Tra i corpi, c'era appunto quello di suo figlio Secondo, con un foro di proiettile alla testa. Recatosi a San Martino di Villafranca, ebbe da un militare tedesco, presumibilmente un ufficiale, l'autorizzazione a seppellire la salma, ma non quella a trasportarla altrove (dichiarazioni al S.I.B. di Mario Cervetti del 19.7.1945). Decio Lombardi seppe anch'egli delle impiccagioni di Branzolino il giorno successivo, 29 agosto 1944. Recatosi sul posto il 30 agosto, vide i corpi ancora appesi alla trave di legno, con ferite di arma da fuoco alla testa (dichiarazione al S.I.B. di Decio Lombardi il 2.7.1945). Aurelio Rossi era presente quando un uomo e una donna si presentarono in lacrime a casa sua, dicendogli che il loro figlio era stato impiccato il giorno prima, e chiedendo al tenente tedesco che ivi alloggiava il permesso di rimuovere e seppellire la salma. L'ufficiale li cacciò via insultandoli: «va via traditori!». Più tardi, un soldato tedesco confermò che quattro partigiani erano stati impiccati (dichiarazione al S.I.B. di Aurelio Rossi il 27.6.1945). Guglielmo Furgani, abitante a Roncadello, presso la cui casa alloggiavano alcuni militari tedeschi tra i quali il caporalmaggiore Hans Hopp, apprese dell'eccidio di Branzolino solo agli inizi del mese di settembre del 1944. In particolare, apprese che quattro civili erano stati impiccati in località Branzolino, per il ferimento di un soldato tedesco. Pochi giorni dopo, un militare tedesco gli fece leggere un comunicato destinato alla popolazione civile in cui si minacciavano ulteriori violenze in caso di attacchi partigiani, violenze consistenti in uccisione di uomini, deportazione delle donne ed incendio delle case (dichiarazione di Guglielmo Furgani al S.I.B. il 10.7.1945). Tale comunicato, o uno simile, era stato redatto dal comandante Guttmacher, che lo fece leggere a Carmen Belli Marangoni in occasione di una sua visita nella casa di costei, e fu anche affisso alla porta di tutte le abitazioni dove erano alloggiati i tedeschi del reparto (dichiarazione al S.I.B. di Carmen Belli Marangoni, 28.6.1945, che ricordò come la minaccia di deportazione riguardasse anche i bambini). 7. L'eccidio di San Tomè L'eccidio di San Tomè fu consumato a distanza di pochi giorni da quello di Branzolino, il 9 settembre 1944. Ne furono vittime Michele Mosconi, Celso Foietta, Antonio Gori detto Natale, Antonio Zaccarelli, Emilio Zamorani e Massimo Zamorani. Michele Mosconi era stato arrestato dai fascisti il 26 agosto 1944. Fra i fascisti che lo avevano trattenuto prigioniero per alcuni giorni a Civitella di Romagna, uno era chiamato Alvaro, un altro Pontiglio (dichiarazione al S.I.B. di Maria Ruscelli Mosconi, 18.7.1945). Celso Foietta, arrestato una prima volta nell'aprile 1944 e poi rilasciato, era stato ancora arrestato dai fascisti il 26 agosto 1944 (dichiarazione al S.I.B. di Elvira Zanchini Foietta, 19.7.1945). Suo fratello Ermanno (dichiarazioni di Ermanno Foietta rese al Pubblico ministero del 4.4.1945) riteneva di essere stato denunciato ai fascisti insieme a Celso (in relazione all'uccisione di due tedeschi), da Francesco Agnoletti detto Cuco. Antonio Gori detto Natale era stato arrestato nel luglio 1944 da alcuni fascisti comandati da un tenente (dichiarazione al S.I.B. di Celso Gori, 20.7.1945). In prigionia, aveva scritto ai familiari una lettera, datata «5-9-44 Civitella», in cui dava per imminente la sua morte. Il 9 settembre 1944, nella prigione tedesca di Forlì, Elvio Vital (dichiarazione al S.I.B. del 5.7.1945), che era stato arrestato il giorno prima, vide portare via tre uomini, chiamati per cognome da un militare tedesco; in seguito, gli sembrò di ricordare due di quei cognomi, cioè Gori e Mosconi, e disse con certezza che uno dei tre era invalido ad un braccio (l'invalidità ad un braccio di Antonio Gori è confermata dalla dichiarazione al S.I.B. di Celso Gori; fu anche notata da Decio Lombardi a San Tomè, e riferita nella dichiarazione al S.I.B.). Sulla durezza del trattamento nella prigione tedesca di Forlì, riferì Marco Pordes, un prigioniero che vi aveva anche lavorato come medico (dichiarazione al S.I.B. del 5.7.1945). A Civitella di Romagna, tra i fascisti che effettuavano gli arresti (compreso quello di Antonio Gori, detto Natale) c'erano Renato Bonavita, Alessandro Ricci, e un tenente (dichiarazione al S.I.B. di Pasquino Buscherini, 19.7.1945). Dopo gli arresti di Gori e Mosconi, un tenente fascista, che diceva di chiamarsi Raffaele Sgambati, disse a Michele Guidi (dichiarazione al S.I.B. del 19.7.1945) che i due erano stati arrestati perché partigiani, e che sarebbero stati condotti alla prigione di Forlì. Emilio e Massimo Zamorani erano stati arrestati a Villa Vezzano il 28 agosto 1944 da dodici fascisti della Brigata nera di Riolo, capeggiati da Raffaelli, segretario del partito fascista di Faenza, fra i quali era anche un certo Chino. Non erano presenti tedeschi. I fascisti, saputo che Massimo Zamorani aveva venticinque anni, avevano chiesto perché non fosse militare, e alla risposta «mio padre è ebreo e mia madre è cattolica», Raffaelli aveva detto: «è lo stesso, dovete andare ad un campo di concentramento» (dichiarazione al S.I.B. di Maria Rossi Zamorani, 3.7.1945). Quanto ad Antonio Zaccarelli, non vi sono dati precisi su come egli fosse stato incluso fra le vittime, ed in particolare su quando e con che accusa fosse stato arrestato, ma risulta dal documento dell'A.n.p.I. che egli fosse fra gli impiccati. Il libro Diario degli avvenimenti in Forlì e Romagna dal 1939 al 1945, autore Antonio Mambelli (di cui sono state prodotte alcune pagine), contiene qualcosa in proposito. Si tratta di un'opera importante per mole di dati, ma il suo frequente riferire voci («si è narrato», «si vuole», «taluni affermano»), ed alcune imprecisioni (come quella di escludere Golfarelli dagli impiccati a Branzolino) non consentono di farvi affidamento, per ricostruire come Zaccarelli sia stato incluso fra i sei da impiccare a San Tomè. Antonio Zaccarelli però (documento del 24.5.1945 dell'Associazione nazionale partigiani d'Italia), era un partigiano. Nella notte tra l'8 ed il 9 settembre 1944 un altro tedesco era rimasto ferito dall'esplosione di una mina. Si trattava del caporalmaggiore Walter Müller, effettivo alla compagnia comando del 525° battaglione, ferito da un ordigno esplosivo collocato sulla strada tra Branzolino e San Tomè, nei pressi di Villa Belli (dichiarazioni al S.I.B. di Evaristo Zambelli, Ezio Lega e Guglielmo Furgani, rispettivamente datate 2.7.1945, 20.6.1945 e 10.7.1945). Walter Müller sarebbe deceduto in ospedale dopo circa due settimane. Massimo Marangoni, figlio trentunenne di Carmen Belli Marangoni, aveva udito l'esplosione. Proprio per questo la Belli Marangoni il giorno successivo, avendo timore che il figlio potesse rimanere coinvolto nelle ritorsioni già minacciate, era andata personalmente due volte (la prima in compagnia del figlio) dal maggiore Guttmacher a Roncadello, a Villa Bernabei - maggiore che ella conosceva per avere egli alloggiato in precedenza a Villa Belli - allo scopo di intercedere in favore del figlio. Il tentativo era fallito, tant'è che Massimo Marangoni sarebbe stato catturato lo stesso pomeriggio del 9.9.1944, e poi avviato alla deportazione, anziché venire interrogato e rilasciato come era stato promesso dal Guttmacher. Carmen Belli Marangoni non vide gli impiccati («Mi hanno detto che sei uomini furono impiccati dietro la casa, ma essendo impaurita non sono andata a vederli», dichiarazione al S.I.B. di Carmen Belli Marangoni, 28.6.1945). Dopo il ferimento del Müller, già nel primo pomeriggio del 9.9.1944 iniziò un rastrellamento da parte dei militari del reparto tedesco, con la collaborazione di fascisti italiani; l'operazione fu compiuta con la minaccia delle armi e si svolse in danno della popolazione civile del luogo, che fu successivamente costretta in gran numero a presenziare all'impiccagione, per l'intera sua durata (sul fatto e l'antefatto di San Tomè, dichiarazioni rese al S.I.B. da Aurelio Rossi il 27.6.1945, da Guglielmo Furgani il 10.7.1945, da Gino Fiorentini il 22.6.1945, da Domenico Sansoni il 18.7.1945, da Luigi Foschi il 12.7.1945, da Armando Guardigli il 2.7.1945, da Decio Lombardi il 16.7.1945). Per il rastrellamento fu utilizzata presumibilmente l'intera compagnia comando del battaglione, ad eccezione di quei singoli militari incaricati di compiti particolari di speciale rilievo e che quindi rimasero ai posti di servizio loro assegnati; fu il caso del caporalmaggiore Hopp, che rimase a custodire l'autobotte del carburante (dichiarazione di Hans Hopp al S.I.B. il 9.7.1945). Già intorno alle ore 14 del 9 settembre un gruppo di militari tedeschi giunse a Villa Belli, luogo prescelto in quanto più prossimo a quello dell'esplosione, per prelevare Massimo Marangoni e per allestirvi, pochi minuti dopo, un ufficio (dichiarazione al S.I.B. di Carmen Belli Marangoni il 28.6.1945). Poi, nel rastrellamento moltissime persone furono prelevate dalle case oppure fermate per le strade, riunite in punti di raccolta e fatte confluire verso il luogo dell'esecuzione (dichiarazione al S.I.B. di Gino Fiorentini in data 22.6.1945). Tra queste vi erano Marcello Cimatti ed Arturo Cimatti, ma non anche Aldo Cimatti (deposizione di Marcello Cimatti in dibattimento). Molte persone, nel timore che il rastrellamento fosse finalizzato a procurare più vittime possibile, fuggirono o tentarono di fuggire. Tra coloro che provarono a sottrarsi al rastrellamento, erano il figlio ed il fratello di Guglielmo Furgani (rispettivamente Ezio Furgani, di 18 anni, e Domenico Furgani, di 45 anni), che furono però catturati, obbligati ad assistere alle impiccagioni e poi deportati, nonostante l'intercessione del caporalmaggiore Hans Hopp (dichiarazioni al S.I.B. di Guglielmo Furgani del 10.7.1945 e di Hans Hopp del 9.7.1945). Il luogo scelto fu il podere retrostante Villa Belli. Qui erano stati costruiti due patiboli, posizionati ai due lati della strada, e formati da bidoni legati con funi e sormontati da travi di legno da cui pendevano le corde. Inizialmente le corde per le impiccagioni erano sette (dichiarazioni al S.I.B. di Decio Lombardi del 2.7.1945, e di Guglielmo Furgani del 10.7.1945), ma prima delle uccisioni la settima, che era la quarta di un patibolo, fu rimossa (dichiarazione al S.I.B. di Gino Fiorentini del 22.6.1945). Radunate circa duecento persone, all'incirca tra le ore 17,30 e le ore 17,50 giunse sul posto un'autovettura da cui scese l'ufficiale tedesco che comandava l'esecuzione; poi giunse un autoveicolo da cui scesero sei prigionieri italiani, le mani legate dietro la schiena, con la scorta di sei militari tedeschi armati (dichiarazioni al S.I.B. di Gino Fiorentini del 22.6.1945, di Armando Guardigli del 2.7.1945 e di Aurelio Rossi del 27.6.1945). L'ufficiale tedesco era accompagnato da fascisti e da un interprete italiano, Luigi Foschi, reclutato tra la popolazione del luogo lo stesso giorno, e che aveva cooperato alla traduzione del comunicato rivolto alla popolazione (dichiarazione del 4.4.1945 resa da Armando Guardigli al Pubblico ministero; dichiarazione al S.I.B. di Armando Guardigli del 2.7.1945; dichiarazione al S.I.B. di Luigi Foschi del 12.7.1945; dichiarazione al S.I.B. di Decio Lombardi del 2.7.1945). Erano presenti alcuni sacerdoti: Luigi Foschi li vide proprio lì, subito prima dell'impiccagione (dichiarazione al S.I.B. del 12.7.1945), e Armando Guardigli fu rastrellato insieme a loro prima, e condotto via con loro dopo l'impiccagione; in particolare Guardigli notò la presenza di don Mangelli, cappellano di San Mercuriale (dichiarazione al Pubblico ministero, 4.4.1945). Erano presenti anche altri ufficiali tedeschi, fra i quali un tenente che alloggiava in casa di Domenico Sansoni e che giunse sul luogo dei fatti in bicicletta (dichiarazione al S.I.B. di Domenico Sansoni il 18.7.1945). Erano presenti inoltre alcuni miliziani fascisti, tra i quali furono riconosciuti il tenente Leonetti, Nello Sgarzani detto Manzèn, Alfredo Fabri ed Edmondo Ranieri (dichiarazioni di Guglielmo Furgani il 10.7.1945 al S.I.B., di Aurelio Rossi il 27.6.1945 al S.I.B., di Domenico Sansoni il 18.7.1945 al S.I.B., di Gino Fiorentini il 22.6.1945 al S.I.B., e di Armando Guardigli il 2.7.1945 al S.I.B. e il 4.4.1945 al Pubblico ministero). L'ufficiale tedesco che comandava l'esecuzione, leggendo da un foglio di carta, comunicò che in seguito al ferimento di un tedesco avvenuto in quel luogo, sarebbero stati impiccati sei uomini presi dal carcere. Aggiunse che se vi fossero state altre azioni contro i tedeschi, sarebbero stati impiccati uomini presi dalla popolazione del luogo, e non dal carcere, e fece un riferimento al numero di venti (dichiarazioni al S.I.B. di Gino Fiorentini del 22.6.1945, di Domenico Sansoni del 18.7.1945, di Decio Lombardi del 2.7.1945, di Guglielmo Furgani del 10.7.1945, di Luigi Foschi del 12.7.1945, di Armando Guardigli del 2.7.1945; dichiarazione dello stesso Guardigli al Pubblico ministero del 4.4.1945, testimonianza di Marcello Cimatti in dibattimento il 9.10.2006). I prigionieri furono fatti salire sui due patiboli, tre per ciascuno, scortati dai militari tedeschi, che collocarono un laccio al collo ad ognuno di loro. Una delle vittime, Michele Mosconi, gridò la sua innocenza, il suo cognome e la provenienza da Civitella di Romagna, ed inneggiò all'Italia. L'ufficiale che comandava l'esecuzione gli intimò di tacere, ed il fascista Leonetti lo schernì (dichiarazioni al S.I.B. di Aurelio Rossi, di Guglielmo Furgani del 10.7.1945, di Gino Fiorentini del 22.6.1945, di Domenico Sansoni del 18.7.1945, di Luigi Foschi del 12.7.1945, di Armando Guardigli del 2.7.1945, di Decio Lombardi del 2.7.1945; dichiarazione al Pubblico ministero di Armando Guardigli del 4.4.1945). Va precisato che secondo Guglielmo Furgani e Armando Guardigli (ma essi ammisero di avere un ricordo incerto proprio su questo aspetto) la sequenza dei fatti sarebbe stata differente: prima i prigionieri sarebbero stati fatti salire sui patiboli, poi secondo Furgani le grida di Michele Mosconi avrebbero preceduto la lettura da parte dell'ufficiale; invece secondo Guardigli, la avrebbero seguita. Questa versione, contraddetta da quella degli altri cinque presenti che resero dichiarazioni al S.I.B., non è verosimile: la lettura finale da parte dell'ufficiale sarebbe stata interrotta dalle grida vigorose di Michele Mosconi, e l'ufficiale certamente volle su di sé tutta l'attenzione, leggendo il comunicato coi patiboli ancora vuoti. I militari tedeschi tirarono le corde dei bidoni su cui poggiava la tavola, e i condannati rimasero sospesi. Morirono tutti, quasi subito (dichiarazione al S.I.B. di Gino Fiorentini del 22.6.1945 e dichiarazione al Pubblico ministero di Armando Guardigli del 4.4.1945). Dopo, tra le persone in precedenza rastrellate, furono selezionate quelle per la deportazione in Germania. Furono rilasciati gli ultracinquantenni, i militari in licenza, le persone con tessera fascista o con certificati medici attestanti malattie, e quelle presso cui alloggiavano militari tedeschi (dichiarazione al Pubblico ministero di Armando Guardigli del 4.4.1945; dichiarazioni al S.I.B. di Aurelio Rossi, di Luigi Foschi e di Armando Guardigli). Alcuni, come Armando Guardigli e Aurelio Rossi (quest'ultimo con l'aiuto di un tedesco), riuscirono a sottrarsi o fuggirono quasi subito, quando ancora si trovavano in Italia. I restanti, ventotto persone, furono avviati al lavoro forzato in Italia o in Germania. Di loro, Gino Fiorentini tornò a casa dall'Austria il 21 giugno 1945 (dichiarazione al S.I.B. di Gino Fiorentini); Massimo Marangoni tornò a casa da Peschiera il 15 maggio 1945 (dichiarazione al S.I.B. di Carmen Belli Marangoni). Altri deportati, invece, non ritornarono più, come il figlio e il fratello di Guglielmo Furgani (dichiarazione di quest'ultimo al S.I.B.). Quando l'eccidio era già stato compiuto, a sera, verso le ore 20, nella prigione tedesca a Forlì, riguardo all'ordigno esploso venne interrogato Costanto Biffi, abitante vicinissimo al luogo dell'esplosione. Costanto Biffi era stato arrestato dai tedeschi quel giorno stesso alle ore 13,30. L'interrogatorio si svolse anche mediante un inizio di impiccagione (sotto un albero nel giardino della prigione, in piedi su uno sgabello, con un cappio al collo), presente anche un uomo vestito da sacerdote (visto dal Biffi, poche ore prima, in abiti laici), che gli chiese di confessare. Biffi negò e venne in seguito liberato (dichiarazione di Costanto Biffi al S.I.B.). Anche nel caso dell'eccidio di San Tomè, come già era successo per quello di Branzolino (deposizione dibattimentale di Enio Gamberini del 16.10.2006), le salme furono lasciate appese ai patiboli per quasi due giorni. Infatti, il 10 settembre Lucia Perrini (dichiarazione al S.I.B. del 25.5.1945) vide il corpo di suo nipote Antonio Gori detto Natale. Due giorni dopo l'impiccagione, l'11 settembre 1944, fra le ore 8 e le ore 10, alcuni abitanti del posto furono costretti dai tedeschi allo scavo della fossa comune e alla sepoltura dei sei, senza casse (dichiarazione al S.I.B. di Romeo Gaudenzi del 18.7.1945, dichiarazione al S.I.B. di Onorato Ciani del 28.5.1945, dichiarazione al S.I.B. di Costanto Biffi del 12.7.1945, e deposizione dibattimentale di Duilio Fulgori del 9.10.2006), e anche senza una sistemazione composta della posizione dei corpi: «Hanno fatto il buco, poi mio marito è andato giù, e poi mio cognato e gli altri due. Prima li hanno staccati, gli hanno tagliato la corda, li hanno messi per terra. Quando hanno messo giù il primo, lo voleva accomodare un po'; il morto, voleva stendere, capito? Allora gli hanno detto: "tu vuoi bene ai partigiani", con il fucile puntato, e allora mio marito quando ha preso il secondo, poi l'ha messo giù com'era, capito?» (deposizione di Irma Missiroli in dibattimento). Le sei salme furono riesumate nell'aprile del 1945. La salma di Michele Mosconi fu riconosciuta dalla vedova Maria Ruscelli Mosconi (verbale di ricognizione cadaverica), e quella di Celso Foietta fu riconosciuta dal fratello Ermanno e dalla vedova Elvira Foietta (verbale di ricognizione cadaverica). Celso Gori riconobbe la salma del fratello Antonio detto Natale, e confermò il riconoscimento di quelle di Michele Mosconi e Celso Foietta (verbale di ricognizione cadaverica e dichiarazione S.I.B. del 20.7.1945 di Celso Gori). Altre due salme rimasero formalmente considerate come di persone ignote, e quindi i parenti non furono subito rintracciati, anche se già all'atto della verbalizzazione delle operazioni di descrizione cadaverica risultò chiaro, dai documenti cartacei rinvenuti nelle tasche degli abiti (lettere indirizzate, tessere intestate), che si trattava di Massimo Zamorani e di Emilio Zamorani. Alcuni oggetti rinvenuti sui due corpi furono affidati in consegna al custode del cimitero di Forlì (dichiarazione al S.I.B. di Amilcare Monti), e poi riconosciuti da Maria Rossi Zamorani. Anche per la sesta salma non fu possibile il riconoscimento, ma già in data 24.5.1945 l'Associazione nazionale partigiani d'Italia attestò che si trattava di un partigiano, Antonio Zaccarelli, che fu successivamente meglio individuato con le precise generalità. Le operazioni di riesumazione e di ricognizione cadaverica furono effettuate nell'ambito dell'indagine penale aperta dalla Procura del Regno presso il Tribunale di Forlì registrata al n. 995/1945, e i cui atti furono riversati nel relativo fascicolo. Tali atti comprendevano i verbali di sopralluogo, quelli di ispezione medico legale cadaverica e di identificazione di cadavere formati il 3.4.1945 dal Pubblico ministero, i verbali del 3.4.1945 di informazioni testimoniali rese al Pubblico ministero procedente da Enzo Fulgori, Maria Ruscelli Mosconi e Celso Gori, quelli datati 4.4.1945 di dichiarazioni rese al Pubblico ministero da Armando Guardigli e da Ermanno Foietta e, infine, l'attestazione in data 24.5.1945 della Associazione nazionale partigiani d'Italia, sede di Forlì, sull'appartenenza alla Resistenza di alcune vittime delle impiccagioni di San Tomè (Foietta, Gori, Mosconi e Zaccarelliaaa). 8. La qualificazione giuridica È corretta la qualificazione degli eccidi come violenze consistenti in omicidi contro privati nemici, ai sensi dell'art. 185 c.p.m.g. In particolare - ricordando che la dichiarazione di guerra contro la Germania da parte dell'Italia intervenne alle ore 15 del 13 ottobre 1943 - va ribadito che le vittime non sono da considerare cittadini di uno stato alleato della Germania, pur trovandosi nell'area non soggetta al controllo dell'allora Regno d'Italia. Ciò poiché la Repubblica sociale italiana nella sua breve durata non ebbe mai un vero, autonomo controllo del territorio, né fu accompagnata da un significativo riconoscimento internazionale. A confermare il carattere di sudditanza della R.s.i. nei confronti dello stato tedesco è proprio un atto entrato a far parte di questo processo, ossia la relazione in data 9.8.1944. In questo documento la Guardia nazionale repubblicana, dopo gli arresti di Golfarelli, Gamberini, Cervetti e Dell'Amore (ed anche di Francesco Baraghini, nato a Sorbano il 10 maggio 1898), dà atto che Golfarelli, Gamberini, Cervetti e Dell'Amore sono stati interrogati il 2 agosto 1944. La tortura è agevole desumerla dal frasario: «Negava di aver mai appartenuto a partiti sovversivi. Nel successivo interrogatorio, però, ammetteva...», e «L'interrogatorio del Gamberini si iniziava con le consuete negative a tutte le contestazioni, ma poi egli finiva per confessare...». Inoltre, la tortura è confermata dalla dichiarazione al S.I.B. del 22.7.1945 di Ines Golfarelli, che vide il marito il 10 agosto: «era battuto e gonfio e disse che era stato torturato». La relazione dà anche atto che la S.D. tedesca ha preso in consegna Gamberini, Cervetti e Dell'Amore, lasciando ai fascisti solo Golfarelli. Perciò, la Guardia nazionale repubblicana chiede se del caso debbano occuparsi la Germania oppure il tribunale speciale. In quest'ultimo caso «si prega» la S.D. tedesca di restituire Gamberini, Cervetti e Dell'Amore. Le già dure regole della Repubblica sociale italiana si inchinavano alla regola più plumbea, quella dell'arbitrio in favore di uno stato occupante. E a ribadire la sudditanza è anche la dichiarazione di Foschi al S.I.B. del 12.7.1945, secondo cui furono i militari tedeschi, all'eccidio di San Tomè, a mettere in libertà i rappresentanti del partito fascista presenti: la frase di un fascista italiano subito dopo l'impiccagione («disse "non andate a vedere i burattini?" che erano quelli che avevano impiccato, e nessuno parlò», testimonianza di Marcello Cimatti in dibattimento) forse tradisce nell'arroganza, e nel silenzio che seguì, proprio la consapevolezza inconfessabile che fossero i capi fascisti, a comparire e sparire come burattini. Prima lo zelo servile di quel dubbio poliziesco (dubbio quasi virtuale, perché tre degli arrestati erano già stati consegnati ai tedeschi), presto risolto con la consegna ai tedeschi anche di Golfarelli. E poi la presenza convocata e congedata del partito, imprimono a questa vicenda un tratto ferocemente esemplare, un barlume di quale fosse la cancrena istituzionale in uno stato fantoccio. 9. La giurisdizione La giurisdizione dell'autorità giudiziaria militare si fonda sul d.lgs.lgt. 21.3.1946 n. 144, art. 6, che attribuisce ai tribunali militari di pace la competenza per i reati militari previsti dal codice penale militare di guerra commessi durante lo stato di guerra, nonché per i reati contro le leggi e gli usi di guerra commessi dagli appartenenti alle forze armate nemiche. Sono stati già superati tutti i dubbi sulla compatibilità di questa norma con la Costituzione: «Posto il raffronto tra la norma impugnata e la norma della Costituzione, è sicuramente da escludere che l'art. 103 abbia avuto una incidenza qualsiasi sulla disposizione dell'art. 6 del citato d.lgs.lgt., la quale svolge per suo conto, e senza ledere alcun principio costituzionale, la sua efficacia, in rapporto ad una esigenza del tutto transeunte, manifestatasi nel passaggio dall'una all'altra legge militare» (così Corte cost. 15.7.1959 n. 48). L'applicabilità dell'art. 6 del d.lgs.lgt. 21.3.1946 n. 144, già affermata esplicitamente da Trib. mil. territoriale Roma 16.10.1948 n. 835, Wagener, da Trib. mil. territoriale Bologna 31.10.1951 n. 483, Reder, e da Trib. mil. territoriale Padova 16.6.1962, Niedermajer, è stata più recentemente ribadita da Cass. 10.2.1997, dep. 12.2.1997 n. 897, Priebke, e da Cass. 10.2.1997, dep. 12.2.1997 n. 898, Hass, che hanno anche escluso la tacita abrogazione della norma per effetto dell'entrata in vigore della legge 11.12.1985 n. 762 (legge di ratifica ed esecuzione del 1° protocollo addizionale alle convenzioni di Ginevra del 12 agosto 1949, relativo alla protezione delle vittime dei conflitti armati internazionali, e del 2° protocollo addizionale alle convenzioni stesse, relativo alla protezione delle vittime dei conflitti armati non internazionali). 10. Gli elementi di prova a carico dell'imputato, e quelli solo apparentemente a suo discarico L'istruzione dibattimentale ha ampiamente provato, al di là di ogni ragionevole dubbio, per ambedue gli eccidi in contestazione, la responsabilità penale di Heinrich Nordhorn, che all'epoca comandava il plotone pionieri del 525° battaglione. Anzitutto, è superata la questione del prenome del Nordhorn, che in alcuni atti risulta essere «Heinz» e non «Heinrich» (mentre tale ultimo prenome risulta in tutti i documenti militari che lo riguardano). Sul retro della fotografia al n. 4 del fascicoletto fotografico prodotto all'udienza del 5.10.2006, sulla cui riferibilità all'imputato all'epoca dei fatti non vi sono dubbi, il Nordhorn, rivolgendosi alla madre, si firma «Heinz», a dimostrazione del fatto che quest'ultimo era un prenome diverso da quello anagrafico, che egli però utilizzava frequentemente e con cui era comunque noto. Tale fotografia, peraltro, è stata sequestrata all'esito della perquisizione domiciliare a carico del Nordhorn in data 20.9.2005, e faceva quindi già parte del fascicolo per il dibattimento formato su provvedimento del Giudice per l'udienza preliminare. Essa ritrae un giovane Nordhorn in uniforme dell'esercito tedesco con grado di sottotenente, e la firma «Heinz» è accompagnata dall'indicazione del luogo (Schwedt/Oder) e dell'epoca (maggio 1943). Ciò premesso, occorre innanzitutto sottolineare che Hans Hopp, nella dichiarazione resa al S.I.B. il 9.7.1945, con riguardo all'eccidio di San Tomè, riferì che poco dopo le sette di sera di un giorno agli inizi di settembre del 1944 incontrò i quattro militari con cui divideva l'alloggio nella casa di Guglielmo Furgani (dichiarazioni Furgani al S.I.B., datate 10.7.1945) e che fu da costoro informato che era stato loro ordinato di riunire i civili maschi italiani della zona e di avviarli nei pressi di un raccordo stradale in località San Tomè, per assistere ad un'impiccagione organizzata e diretta dal sottotenente Nordhorn, e che loro avevano dovuto, al termine delle operazioni, consegnare gli uomini rastrellati alla sede della compagnia comando (i miei quattro camerati ritornarono più tardi e mi dissero che gli era stato ordinato di radunare tutti gli uomini che si trovavano nella zona e di portarli sulla strada a San Tomè, dove si svolgeva l'impiccagione. «Essi dissero che l'ufficiale responsabile della retata che diede l'ordine di impiccare gli uomini era il sottotenente Northorn. Dopo le impiccagioni essi dovevano portare gli uomini alla compagnia quartier generale e consegnarli», così la traduzione agli atti; più esattamente, nel testo tedesco «Sie sagten Leutnant Northorn hätte das Kommando geführt und war für die Ausführung der Hängung verantwortlich. Sie sagten das sie haben nach dem die Zivilisten zur Stabskompanie geführt und übergegeben»). A questo proposito è necessario rilevare che non costituisce motivo di benché minimo dubbio il fatto che in alcuni atti del S.I.B., e finanche nelle dichiarazioni dell'Hopp, il cognome venga storpiato da «Nordhorn» in «Northorn», errore che si riflette anche nell'intestazione del fascicolo della Procura generale a tre militari tedeschi (Guttmacher, Northorn, Daniel), fascicolo in cui la descrizione del fatto è firmata dal sergente Hall del S.I.B. È forte e marcata l'assonanza tra i due cognomi, e incontroversa è l'assenza, nei documenti giudiziari e militari dell'epoca, di commilitoni con cognomi anche soltanto simili. L'identificazione del «Northorn» con Heinrich Nordhorn, nato a Hattingen il 12.11.1919, è dunque certa ed incontrovertibile. Risulta adeguatamente accertato, poi, che l'ufficiale tedesco che diresse l'impiccagione di San Tomè era lo stesso che aveva diretto quella di Branzolino. Il teste Marcello Cimatti, all'udienza dibattimentale del 9.10.2006, ha infatti espressamente chiarito che il fratello (non Aldo, che non fu rastrellato per l'eccidio di San Tomè, ma Arturo, che invece lo fu, e che prima, all'eccidio di Branzolino aveva personalmente veduto sul posto anche l'ufficiale tedesco che dirigeva le operazioni di impiccagione dei quattro italiani) gli riferì che il comandante che diresse l'esecuzione di San Tomè era lo stesso comandante che egli aveva visto a Branzolino (evidentemente insieme al fratello Aldo, anche lui presente a Branzolino, e che infatti pure raccontò a Marcello l'eccidio). È quindi provato al di là di ogni ragionevole dubbio, già sulla base delle dichiarazioni di Hans Hopp e di Marcello Cimatti, che Heinrich Nordhorn diresse non solo l'esecuzione di San Tomè, ma anche quella di Branzolino. Con la dichiarazione di Aurelio Rossi resa agli investigatori del S.I.B., poi, è stato accertato che presso la sua abitazione in San Martino di Villafranca aveva preso alloggio un ufficiale tedesco, che secondo il teste aveva il grado di tenente, insieme al suo attendente, tale Eric. Secondo la descrizione fornita dal Rossi, quel tenente tedesco aveva circa trenta anni, era alto circa un metro e cinquantasette, aveva corporatura media, faccia roseo-bruna, capelli castani pettinati all'indietro, occhi grigi, era privo di barba, di bell'aspetto, fumava sigarette, parlava bene la lingua italiana ed era nativo di Essen in Germania, circostanza, quest'ultima, riferita al Rossi dal tenente in persona (dichiarazione di Aurelio Rossi del 27.6.1945 al S.I.B.). Il giorno dei fatti di Branzolino quel tenente fu visto dal Rossi allontanarsi insieme ad altri militari tedeschi dalla abitazione in cui dimorava, con al seguito un asino carico di legname ed attrezzi vari. Il Rossi riferì di un giorno verso l'inizio di settembre, ma in realtà si trattava della fine di agosto: ciò si ricava ampiamente dal seguito delle dichiarazioni del teste, che riferì al S.I.B. che il giorno dopo aver veduto quel gruppo incamminarsi, un uomo e una donna andarono a casa sua per chiedere la restituzione del corpo del loro figlio, che era stato impiccato dai tedeschi «il giorno precedente», cioè il 28 agosto. Il gruppo di militari tedeschi con l'animale da soma ed i materiali fu visto transitare anche da Domenico Sansoni lo stesso giorno dell'eccidio di Branzolino. Il Rossi non conosceva la destinazione del gruppo di militari tedeschi, ma dichiarò al S.I.B. che questi si diressero verso la località di Villafranca. Sempre il Rossi riconobbe quel tenente nell'ufficiale che diresse le operazioni di impiccagione a San Tomè, accompagnato dall'attendente di nome Eric, quest'ultimo armato di fucile. È quindi provato che l'ufficiale responsabile dell'esecuzione di San Tomè era il medesimo che alloggiava nell'abitazione di Aurelio Rossi. Ciò è anche confermato dal fatto che il tenente che alloggiava presso il Rossi era lo stesso al cui cospetto si recarono i familiari di una delle vittime dell'impiccagione di Branzolino cercando di ottenere la restituzione della salma, e dal quale furono invece scacciati ed ingiuriati come «traditori». L'ufficiale tedesco che alloggiava dal Rossi, quindi, fu subito noto tra la popolazione come colui che aveva il potere e l'autorità di autorizzare la restituzione dei corpi delle vittime, autorità e potere che, secondo le regole di comune esperienza, non possono appartenere se non a chi quell'esecuzione aveva organizzato, gestito e diretto. Mediante le dichiarazioni di Aurelio Rossi è stato inoltre accertato che innanzi all'abitazione di questo erano state apposte delle insegne contenenti contrassegni militari, tra le quali una in particolare recava la scritta «Pio/Zug», chiaramente identificativa del plotone dei pionieri del battaglione, anche sulla scorta di quanto attestato dall'elenco ufficiale degli acronimi allora in uso nell'esercito tedesco. D'altro canto è risultato provato, mediante documenti, che il plotone pionieri rispondeva direttamente al sottotenente Heinrich Nordhorn, che ne era il comandante. Deve quindi ritenersi adeguatamente dimostrato, secondo un criterio di ragionevole organizzazione militare, che quell'insegna era stata lì affissa per segnalare che in quel luogo, la casa di Aurelio Rossi, alloggiava colui che comandava il plotone pionieri, vale a dire Heinrich Nordhorn. È stato poi accertato, con la testimonianza del comandante della stazione Carabinieri di Villafranca maresciallo Maurizio Denaro, ufficiale di polizia giudiziaria e conoscitore del territorio, che il percorso più agevole e immediato, soprattutto per chi non è dei luoghi, per recarsi da San Martino di Villafranca a Branzolino, è ancora oggi quello che passa dalla località di Villafranca, verso la cui direzione furono visti andare i militari che, condotti dal tenente tedesco che alloggiava presso il Rossi, portavano al loro seguito un asino con il carico. Con la dichiarazione al S.I.B. di Domenico Sansoni, d'altro canto, è stato accertato che quel gruppo di militari tedeschi si stava recando ad impiccare alcuni partigiani. Infatti il Sansoni il 18.7.1945 riferì al S.I.B. che verso le ore 17 di un giorno alla fine di agosto 1944, passarono dei militari tedeschi portando un asino con un carico di picconi, pale e travi di legno. L'attendente dell'ufficiale, che era accanto al Sansoni, disse: «Vanno a impiccare dei partigiani»; il giorno dopo Sansoni seppe dell'eccidio di Branzolino. Si può quindi ritenere adeguatamente provato che il gruppo di militari tedeschi che furono notati sia dal Rossi che dal Sansoni il giorno dell'eccidio di Branzolino, si stava recando proprio in quest'ultima località, attraverso la via più agevole, quella di Villafranca, allo scopo di allestirvi i patiboli destinati all'uccisione delle vittime, e che a tal fine il gruppo si era portato al seguito sia il materiale necessario sia gli indispensabili attrezzi da lavoro, caricati sul dorso di un animale da soma. Tale gruppo di militari era guidato dal tenente che alloggiava dal Rossi, e che a questo aveva riferito di provenire da Essen. Il luogo di nascita dell'odierno imputato è Hattingen, che è una località a circa tredici chilometri da Essen. È quindi adeguatamente provato che il tenente che alloggiava dal Rossi e che guidò il manipolo di militari tedeschi alla volta di Branzolino, per allestirvi i patiboli destinati all'esecuzione delle vittime con tutto il materiale occorrente, altri non era che il sottotenente Heinrich Nordhorn. Egli evidentemente - a grande distanza dalla sua terra d'origine - indicava Essen come la sua città, con una semplificazione in uso ancora oggi, quando si proviene da centri più piccoli e meno conosciuti, specialmente da parte di interlocutori che abitano in un altro paese. Peraltro il Nordhorn, come comandante del plotone pionieri, era l'ufficiale più indicato e qualificato, dal punto di vista tecnico, ad organizzare le impiccagioni, reperendo il necessario materiale e i necessari strumenti di lavoro, e facendo costruire ed erigere le forche. La descrizione fisica dell'altezza del tenente tedesco fornita da Aurelio Rossi è compatibile con quella riferita in dibattimento dal teste Christian Michelotto, che in qualità di ufficiale di polizia giudiziaria militare delegato dalla Procura militare in sede ha avuto modo di vedere personalmente il Nordhorn, durante una delle rogatorie giudiziarie all'estero nel corso delle indagini. Più in generale, poi, la descrizione fisica fornita dal Rossi appare non incompatibile né con quelle, ulteriori, fornite al S.I.B. da altri testi dell'impiccagione di San Tomè, in particolare con quelle date da Hans Hopp (che lo descrive come un giovane di circa ventuno anni, alto circa un metro e sessantacinque), da Luigi Foschi, da Armando Guardigli e da Decio Lombardi, né con il materiale fotografico d'epoca in cui il Nordhorn è ritratto, materiale acquisito al fascicolo per il dibattimento già all'esito dell'udienza preliminare, in quanto oggetto di sequestro conseguente a perquisizione domiciliare. È qui il caso di osservare che il riconoscimento fotografico dell'imputato effettuato dalla teste Irma Missiroli non può avere gli effetti che deriverebbero da un riconoscimento genuino, privo di qualsiasi precedente condizionamento; il riconoscimento effettuato dalla Missiroli è infatti successivo ad un mancato riconoscimento, basato sulle stesse fotografie, effettuato nel corso delle indagini preliminari, ed anche all'apparizione sul giornale di una fotografia, quella contrassegnata col numero 4 nel gruppo delle fotografie prodotte. Peraltro, successivo alla pubblicazione sul giornale è anche il riconoscimento effettuato dal teste Marcello Cimatti, che tuttavia ha indicato sia la fotografia n. 4 che - seppure in forma dubitativa - quella n. 11, anch'essa ritraente l'imputato, aggiungendo di ricordare la presenza del berretto e non dell'elmetto). Non costituisce elemento di dubbio il grado gerarchico che secondo il teste Rossi l'ufficiale che alloggiava presso di lui rivestiva, quello di tenente. Nel comune parlare, infatti, ancora oggi è d'uso comune l'appellativo di «tenente» non solo per gli ufficiali che effettivamente rivestono tale posizione gerarchica, ma anche per quelli di grado immediatamente inferiore, appunto i sottotenenti. In ogni caso, la prova certa che l'ufficiale che diresse l'esecuzione di San Tomè aveva il grado di sottotenente (Leutnant) proviene dalle dichiarazioni rese al S.I.B. da Luigi Foschi, come si vedrà in seguito. Non costituiscono motivo di ulteriore dubbio per il collegio nemmeno le discrepanze rilevabili in alcune dichiarazioni dei testimoni dell'eccidio di San Tomè relativamente all'altezza dell'ufficiale tedesco che lo diresse, discrepanze che sono ampiamente e ragionevolmente spiegabili, più che con l'ovvia ragione del tempo trascorso, con lo stato di terrore che durante quell'eccidio attanagliò tutti gli italiani presenti, come del resto era nelle intenzioni di chi lo volle, e che pertanto giustifica ricordi difformi tra i testi. Per altro verso, poi, le discordanze tra i testi sull'età del comandante dell'esecuzione sono altrettanto ragionevolmente spiegabili anche con la natura prettamente soggettiva e relativa del giudizio che ognuno di quei testi si può essere formato sull'età di quella persona. La descrizione fornita da Aurelio Rossi è ben compatibile anche con quella fornita da Luigi Foschi, che in qualità di interprete si trovò presente all'eccidio di San Tomè, a disposizione dell'ufficiale che ne fu il responsabile; tale compatibilità non riguarda solo l'aspetto fisico di quest'ultimo, ma anche l'importante dettaglio della sua conoscenza della lingua italiana. È infatti risultato provato che l'ufficiale che comandava l'esecuzione di San Tomè, pur avendo a sua disposizione l'interprete, lesse personalmente il comunicato intimidatorio destinato alla popolazione locale, usando a tal fine la lingua italiana (dichiarazioni rese al S.I.B. da Luigi Foschi il 12.7.1945, da Gino Fiorentini il 22.6.1945, da Domenico Sansoni il 18.7.1945 e da Armando Guardigli il 2.7.1945). Il Foschi, teste particolarmente attendibile perché, conoscendo la lingua tedesca, fu a stretto contatto con l'ufficiale tedesco carnefice di San Tomè, lo descrisse comunque al S.I.B. come una persona di circa trenta anni, alto circa un metro e sessanta, faccia rosea e corporatura media, al quale i militari sottoposti si rivolgevano di regola con l'appellativo di Leutnant (così nel testo manoscritto italiano e in quello dattiloscritto inglese, poi erroneamente tradotto in italiano come «tenente»), vale a dire con l'appellativo di sottotenente, e ciò prova che il carnefice di San Tomè rivestiva tale ultimo grado. Peraltro le dichiarazioni del Foschi collimano sostanzialmente con quelle rese al S.I.B. da Hans Hopp, datate 9.7.1945, con riguardo alla deportazione di uomini successiva all'impiccagione. La descrizione del Rossi non è incompatibile con quelle di Armando Guardigli e di Decio Lombardi. Il Guardigli, anch'egli testimone oculare dell'eccidio di San Tomè, descrisse il comandante del plotone come un tenente carrista (dichiarazione del 4.4.1945 al Pubblico ministero), di circa ventitré anni, alto circa un metro e cinquantotto centimetri, senza barba, con corporatura media, capelli castani e carnagione rosea (dichiarazione del 2.7.1945 al S.I.B.). Il Lombardi riferì che l'ufficiale tedesco che aveva comandato l'esecuzione e che aveva letto il comunicato era un giovane di circa ventisette anni, magro e biondo (dichiarazione al S.I.B. del 2.7.1945). È stato pienamente accertato nell'istruzione dibattimentale, specialmente considerando le dichiarazioni di un teste particolarmente qualificato quale era l'interprete Foschi, che l'ufficiale responsabile dell'esecuzione di San Tomè (e di quella di Branzolino, avuto riguardo alla deposizione di Marcello Cimatti) era un sottotenente. È stato altresì sufficientemente dimostrato che in servizio presso la compagnia comando all'epoca dei fatti, con il grado di sottotenente (Leutnant), vi erano soltanto Heinrich Nordhorn (il cui servizio come comandante del plotone pionieri è ulteriormente attestato, ancora alla data del 15.3.1945, dagli atti acquisiti presso l'Archivio Federale di Aachen) e Alfred Hofmann. Invece Hans Gross, come già detto e comprovato, era tenente (Oberleutnant). Tuttavia, anche volendo ipotizzare che Hans Gross fosse, all'epoca dei fatti, sottotenente (Leutnant), le conclusioni non muterebbero. Il Gross era ufficiale personalmente conosciuto da Aurelio Rossi, anche nel cognome, oltre che dal caporalmaggiore Hopp e dai commilitoni di questo. Tuttavia, il Rossi, nel riferire agli investigatori del S.I.B. ciò che sapeva circa l'autore dei due eccidi, non si riferisce al Gross, ma ad altra persona. Lo dimostrano efficacemente le rettifiche manuali apportate sull'originale manoscritto in lingua italiana del verbale delle sue dichiarazioni rilasciate il 27.6.1944 al S.I.B. (si tratta di ben otto rettifiche a pag. 3, ognuna accompagnata dalla sigla R.A., cioè Rossi Aurelio, posta a lato del testo), e la sua successiva precisazione, verbalizzata in data 29.6.1945, con cui ebbe a dichiarare: «durante il tempo che questo reparto stava in questa zona, conoscevo un altro tenente che faceva parte di questa compagnia. Suo nome era Hans Gross. Aveva circa trentadue anni, un metro e settantacinque di altezza, corporatura media, faccia rosea, capelli biondi pettinati all'indietro, ed era sbarbato. Vestiva un uniforme di kaki e stivaletti neri». Quanto a Hopp e ai suoi commilitoni, questi gli fecero chiaramente il nome di Nordhorn (non essendo affatto rilevante, come già sottolineato, che il nome verbalizzato sia stato Northorn, con la «t» piuttosto che con la «d», poiché non è in alcun modo risultato che in quell'unità militare, all'epoca dei fatti, fosse presente un ufficiale con siffatto cognome o con cognome anche solo simile) e non di Gross, che pure, come detto, essi conoscevano. Per quanto riguarda Alfred Hofmann, questi non ebbe mai ad alloggiare nella casa di Aurelio Rossi, essendo stato alloggiato nel luglio del 1944 nell'abitazione di Alessandra Bassetti, da dove se ne andò per frequentare una non meglio precisata scuola, così lasciando del tutto la zona interessata dagli eccidi, e ciò prima della loro consumazione (dichiarazione di Alessandra Bassetti al S.I.B., 4.7.1945); senza considerare, poi, che è stato già evidenziato come non si possa escludere che costui, già all'epoca dei fatti, fosse formalmente inquadrato non nella compagnia comando bensì nel reparto comando del battaglione. Deve conclusivamente escludersi che la persona che si rese responsabile dei due eccidi per cui oggi è processo possa essere identificata con uno dei due menzionati ufficiali, Hans Gross o Alfred Hofmann. Non è nemmeno ipotizzabile che la persona che si rese responsabile dei due eccidi possa essere identificata con il sottotenente Friedrich Ramisch. Da una parte costui era in forza alla 2° compagnia del 525° battaglione, di cui non era nemmeno il comandante e che anzi aveva come suoi superiori sia lo Scholz che il Wogerbauer, mentre dall'altra la vittima tedesca dell'esplosione dell'8.9.1944, Walter Müller, apparteneva alla compagnia comando. Sarebbe pertanto stato privo di logica, se la reazione contro i civili italiani fosse stata organizzata e diretta da un ufficiale che dal punto di vista funzionale non aveva alcun collegamento con il Müller e che, soprattutto, non aveva funzioni di comando. In ogni caso, risulta dalla dichiarazione al S.I.B. resa da Alessandra Bassetti che il Ramisch era persona alta, mentre le dichiarazioni pressoché unanimi sul carnefice di San Tomè descrivono quest'ultimo come persona di statura tutt'altro che alta. L'altezza del Ramisch è indicata addirittura in centimetri 190 nei documenti di prigionia che lo riguardano (la Bassetti, in data 4.7.1945, riferì agli investigatori alleati che spesso si recavano a trovare lo Scholz a Villa Matteucci altri due ufficiali tedeschi. Uno lo conobbe come «tenente Frederick Ramish», che era alto, biondo, con gli occhi blu e giovane. L'altro lo conobbe solo come «Frederick», era basso, scuro, sempre molto allegro, e le disse che era di Vienna. È evidente che quest'ultimo ufficiale si identifica nel tenente Friedrich Wogerbauer, austriaco di nascita). Di primaria importanza, dunque, appare anche la deposizione dibattimentale di Marcello Cimatti, all'esito della quale il collegio ritiene certa l'identità tra l'ufficiale tedesco che diresse l'esecuzione a Branzolino e l'ufficiale tedesco che la diresse a San Tomè, e che quindi vi sia la prova, tenuto conto di quanto detto sopra, che il Nordhorn si rese responsabile di ambedue gli eccidi. Di particolare rilevanza, poi, appaiono le deposizioni dibattimentali di Daniele Guglielmi, di Christian Michelotto e di Maurizio Denaro, per le conferme che apportano agli elementi di prova a carico del Nordhorn. Il Guglielmi, nella sua qualità di esperto in materia militare della seconda guerra mondiale, ha riferito che il plotone dei genieri era l'unità militare più appropriata per l'allestimento dei patiboli, in ragione delle specifiche competenze tecniche dei suoi appartenenti e dei particolari strumenti di cui era dotato, ed ha fornito una descrizione delle uniformi dei pionieri tedeschi alla luce della quale queste sono risultate compatibili con quelle che sono state oggetto delle informazioni rilasciate dai testimoni. Il Michelotto ha deposto sull'attuale fisionomia dell'imputato, da lui personalmente veduto in occasione dell'espletamento di una rogatoria internazionale in Germania, e ne ha confermato l'altezza in circa un metro e sessanta centimetri. Ha dunque confermato che trattasi di persona di bassa statura, appunto come l'ufficiale che diresse l'impiccagione di San Tomè secondo le pressoché unanimi risultanze delle dichiarazioni acquisite. Il Denaro, nella sua qualità di ufficiale di polizia giudiziaria militare delegato alle indagini, ha riferito in dibattimento che alcuni dei certificati di morte delle vittime riportavano date di decesso diverse da quelle in cui si verificarono i due eccidi. La questione è stata già affrontata e risolta con l'ordinanza del 16.10.2006, con la quale il collegio ha respinto l'istanza dei difensori, anche di parte civile, di acquisire ulteriore documentazione presso gli archivi custoditi al Tribunale di Forlì, sul presupposto che alla luce della documentazione in atti, costituita dai verbali di ricognizione cadaverica per i fatti di San Tomè e dal mattinale della Prefettura di Forlì per quelli di Branzolino, tale acquisizione appariva superflua. Dal mattinale della Prefettura di Forlì dell'1.9.1944 si ricavano l'identità ed il numero delle vittime dell'eccidio di Branzolino e, di conseguenza, anche la data dei decessi. L'identità ed il numero delle vittime dell'eccidio di San Tomè, per contro, risultano dal verbale di sopralluogo del 3.4.1945 e dai verbali di ricognizione cadaverica datati 3.4.1945 relativi a Celso Foietta, Antonio Gori detto Natale e Michele Mosconi. Quanto a Emilio Zamorani e a Massimo Zamorani, nei verbali di ricognizione cadaverica del 3.4.1945 si attestò il ritrovamento indosso alle vittime di documenti e corrispondenza che comprovavano già allora trattarsi proprio dei corpi dei due (dichiarazione al S.I.B. del 3.7.1945 di Maria Zamorani). Per Antonio Zaccarelli, infine, l'attestazione dell'A.n.p.I. del 24.5.1945 comprova che egli fu tra le vittime dell'eccidio di San Tomè avvenuto il 9.9.1944. Il compendio dei documenti e dei verbali succitati rende del tutto irrilevanti le discrepanze tra le date dei fatti e quelle di morte di alcune delle vittime, risultanti dagli atti anagrafici di queste ultime, atti anagrafici che peraltro furono redatti a distanza di un anno dagli effettivi decessi. Non residuano dubbi, in conclusione, né sull'identità delle vittime dei due eccidi, né sul loro numero complessivo (dieci), né sulle date dei decessi medesimi. Va preso atto che l'affermazione della difesa secondo cui l'imputato non conoscerebbe la lingua italiana, e quindi non potrebbe essere l'ufficiale indicato come il responsabile, è rimasta sfornita di prova. Ciò senza considerare che, a distanza di molti anni, egli potrebbe non sapere più l'italiano, appreso magari frettolosamente proprio durante la guerra. Che la sua conoscenza dell'italiano non fosse completa, è dimostrato anche dal fatto che, per l'eccidio di San Tomè, l'imputato volle un riscontro dell'esattezza del testo da leggere, e così poche ore prima se lo fece tradurre in tedesco da Luigi Foschi (dichiarazione di quest'ultimo al S.I.B. del 12.7.1945). Del resto, Aurelio Rossi dichiarò al S.I.B. che l'ufficiale tedesco che aveva preso alloggio presso la sua abitazione in San Martino di Villafranca, parlava bene la lingua italiana; ma Rossi non dichiarò che quella buona conoscenza si estendesse alla lingua scritta. E sembra anche che per Rossi bastasse esprimersi in modo comprensibile, per parlare bene: secondo Rossi, l'ufficiale aveva detto a due persone «va via traditori!», cioè una frase errata. Quindi è ragionevole che l'imputato, maldestro nella composizione delle frasi, ma capace di leggere con scioltezza ad alta voce un comunicato scritto, volesse prima dell'eccidio essere certo che il testo fosse proprio corrispondente a quello che voleva dire. Questo può confermare il suo successivo oblio della lingua italiana: quando una lingua non è posseduta pienamente sia parlata che scritta, è più facile dimenticarla. Irrilevante è inoltre che Foschi e Rossi lo abbiano descritto in modo diverso dal punto di vista del carattere; l'impressione sull'indole dipende da relazioni personali, e da percezioni che di solito sono profondamente soggettive. Rilevante, poi, risulta la deposizione dibattimentale di Irma Missiroli, moglie di Enzo Fulgori e cognata di Duilio Fulgori, nella parte in cui ella, rispondendo alle domande del Pubblico ministero, cioè se sapesse chi comandò l'esecuzione a San Tomè e chi avesse dato gli ordini ai soldati tedeschi incaricati di portare le vittime al patibolo, ha riferito che, mentre i tedeschi stavano organizzando il rastrellamento e la successiva esecuzione, sentì i militari (che alloggiavano nella sua casa) parlare del «comandante Nordhorn», pur non comprendendo il significato dei loro discorsi in lingua tedesca. Anche se tale asserzione della teste, letta nel contesto dell'intera sua deposizione, da sola non assumerebbe un significato inequivocabilmente certo e tale da consentire di identificare in modo incontroverso nel Nordhorn colui che dette l'ordine di portare le vittime al patibolo, mantiene il valore di una dichiarazione importante, poiché prova che il nome del Nordhorn venne comunque fatto dai militari tedeschi in concomitanza con la preparazione dell'esecuzione. Si deve invece ribadire l'inattendibilità della Missiroli quanto al riconoscimento fotografico dell'odierno imputato, di cui si è già detto; inattendibilità per così dire «specifica», di cui il collegio ha avuto riprova in occasione delle dichiarazioni da ella rilasciate, sempre in dibattimento, concernenti il suo presunto riconoscimento del Nordhorn nella persona di un ufficiale tedesco accampato in un podere adiacente la sua casa. È di tutta evidenza che la persona vista quella sera dalla Missiroli non era e non poteva essere l'odierno imputato, così come è altrettanto agevole spiegarsi i motivi dell'errore in cui è incorsa la testimone, che ha riferito di una persona veduta per qualche attimo più di sessanta anni fa, all'imbrunire, a notevole distanza e con poca luce naturale. Il collegio prende anche in considerazione la testimonianza di Saura Dall'Agata (figlia di Aurelio Dall'Agata), che depose già al S.I.B. l'11.7.1945. Allora Saura Dall'Agata riferì di aver appreso dal padre, poco dopo l'eccidio di San Tomè, che il comandante era stato Walter Hossfeld, sottufficiale dell'esercito tedesco, all'epoca conosciuto personalmente per prenome ed anche per cognome (benché deformato in Horsfeld) sia dalla giovane Saura sia da suo padre. Dell'eccidio fu teste oculare il padre, non la figlia. In dibattimento, chiestole se suo padre le avesse detto di aver visto Hossfeld fare qualcosa a San Tomè, Saura Dall'Agata ha inizialmente risposto: «Mio padre non mi ha mai detto niente. Ho saputo tramite altre persone, che c'era anche lui quando hanno fatto le esecuzioni, mio padre non me l'ha detto». Nel prosieguo della deposizione: «Sessant'anni sono troppi, però mi ricordo che mio padre disse che ci fosse anche lui alle esecuzioni». Poi, alla domanda «Lei ha detto che [suo padre] il giorno 9 settembre aveva visto il maresciallo Walter e gli apparì essere stato al comando dell'esecuzione?», ha risposto: «Può darsi». Ancora, alla domanda se il padre, anche dopo il ritorno dalla prigionia, le avesse detto il ruolo di Hossfeld nell'impiccagione, ha risposto: «Questo no, non ha detto il ruolo che aveva, era presente ma il ruolo non lo so». Insomma, il ricordo che secondo il racconto paterno Hossfeld fosse al comando dell'esecuzione, riferito nella dichiarazione al S.I.B., in dibattimento non è riemerso. Ma la teste ha confermato di aver sempre detto la verità. Ma la discordanza con quanto dichiarato da altri testimoni, che riferiscono la presenza sul luogo dell'eccidio di almeno un ufficiale (che pertanto, secondo i principi gerarchici, non avrebbe potuto cedere il comando ad un sottufficiale), è solo apparente. È infatti ragionevole ritenere che Hossfeld fosse effettivamente presente nel luogo in cui si consumò l'eccidio, alle dipendenze, però, del sottotenente Nordhorn, che comandava il plotone e l'intera operazione, e che in tale sua qualità abbia girato gli ordini di quest'ultimo ai militari a sua volta a lui sottoposti. L'apparente discrepanza, quindi, si può spiegare con il fatto che il padre di Saura Dall'Agata rimase particolarmente colpito ed impressionato dalla presenza di Hossfeld in quel luogo ed in quel contesto, al punto da fraintendere sulla esatta individuazione di colui che comandava l'operazione (valutazione, quest'ultima, peraltro non scevra da aspetti soggettivistici, non facilmente oggettivabile, specialmente in un contesto di terrore come quello creato prima, durante e dopo l'impiccagione, contesto che ben poteva trasmettere percezioni erronee e indurre in inganno i presenti). La presenza di Hossfeld, poi, deve essersi imposta all'attenzione del padre di Saura Dall'Agata per effetto di un forte contrasto emotivo. Hossfeld aveva frequentato casa Dall'Agata, ma riguardo all'impiccagione si era espresso in senso molto duro: quando dopo l'impiccagione Saura Dall'Agata gli disse che le sei vittime erano innocenti, Hossfeld le rispose «Io avrei impiccato un centinaio per atti simili» (dichiarazione S.I.B. di Saura Dall'Agata dell'11.7.1945). Questo fa ritenere che egli durante l'impiccagione, comandata dal sottotenente Nordhorn, anziché limitarsi a ubbidire agli ordini senza entusiasmo, abbia tenuto un contegno visibilmente ancora più ostile alle vittime, o forse zelante, o addirittura soddisfatto; abbia assunto insomma un atteggiamento protagonistico tale da indurre Aurelio Dall'Agata, che lo aveva conosciuto in un contesto quasi amichevole, a credere che il comandante fosse lui. Ma è anche possibile che la frequentazione tra Hossfeld, che diceva di essere sposato e di avere una bambina (deposizione di Saura Dall'Agata, 16.10.2006), e Saura Dall'Agata quindicenne (è nata il 26 ottobre 1928) non fosse vista con favore dal padre Aurelio. Quest'ultimo, dopo l'eccidio di San Tomè, incontrò sua figlia a Forlì il 12 settembre, già prigioniero e mentre veniva deportato. L'incontro fu breve e agitato: «Un attimo solo per salutarli, non c'era verso, erano tantissimi, avevano tutti gli zaini, abbiamo portato un pochino di viveri e poi sono andati via subito [...] eravamo trenta o quaranta, due parole e basta» (deposizione di Saura Dall'Agata in dibattimento). È possibile che l'uomo, raccontando frettolosamente, abbia esagerato il ruolo di Hossfeld nell'impiccagione; e ciò proprio perché, anche colpito dalla durezza di Hossfeld, voleva che la giovanissima lo tenesse a distanza. Va anche aggiunto che dopo la deportazione del padre, Saura Dall'Agata venne informata da una terza persona che fra la convivente del padre e Hossfeld vi era una relazione; la quindicenne si accorse che era vero (deposizione di Saura Dall'Agata in dibattimento). Probabilmente Aurelio Dall'Agata sospettò la relazione fra la sua convivente e Hossfeld, e sospettò anche che il motivo per cui quest'ultimo non era intervenuto in suo favore per impedirne la deportazione, fosse che il sottufficiale voleva sbarazzarsi di lui. Forse proprio al momento della deportazione, ebbe conferma dei suoi sospetti. Aurelio Dall'Agata preferì non parlarne alla figlia, sapendo che se lei avesse saputo, la situazione domestica che egli era costretto a lasciare sarebbe entrata in crisi: che è quanto accadde non appena la giovanissima venne a sapere da altri della relazione («infatti ho constatato che era vero. Dissi un qualcosa, la mattina mi alzai e non c'era più nessuno, né lui, ne la matrigna», deposizione di Saura Dall'Agata in dibattimento). Per questo forse, per mettere in cattiva luce Hossfeld agli occhi della figlia, ma senza dirle della relazione tra il sottufficiale e la sua convivente, lo indicò confusamente come il comandante dell'eccidio. Quanto al teste Gino Fiorentini, è stato escusso in dibattimento ed aveva già rilasciato una dichiarazione al S.I.B. nel 1945. Ha ricordato genericamente l'eccidio di San Tomè, cui assistette, e però ha ricordato bene di essere stato sentito dal S.I.B. Ha confermato che ciò che riferì all'epoca, proprio il giorno dopo il suo ritorno dalla deportazione in Germania, era la verità su quanto era a sua conoscenza dell'accaduto a San Tomè. Le dichiarazioni al S.I.B. non sono state rilette in dibattimento solo perché si trovavano già agli atti del processo. Il contenuto di esse, quindi, essendo state sostanzialmente confermate in dibattimento, rimane pienamente probante ed utilizzabile. Assume rilevanza il documento prodotto all'udienza dibattimentale del 2.11.2006, e di cui all'ordinanza in pari data, contenente un'annotazione del funzionario di polizia tedesco redatta in sede di valutazione dell'idoneità dell'imputato ad essere interrogato, e per il quale è opportuno riepilogare il percorso processuale che ha condotto alla sua legittima acquisizione. Il Pubblico ministero ha chiesto che venisse acquisito e dichiarato utilizzabile ai sensi dell'art. 513 c.p.p. il verbale di interrogatorio reso dall'imputato in data 14.12.2004 di cui alla rogatoria n. 33/2004, comprensivo degli allegati. Ha fondato la sua istanza sul presupposto che l'imputato era contumace e non era comparso in udienza. Le parti civili si sono associate alle richieste della pubblica accusa, mentre la difesa dell'imputato, pur consentendo alla sola lettura del verbale di interrogatorio, si è opposta all'acquisizione del documento contrassegnato dalle pagine 663 e 664 del fascicolo del Pubblico Ministero, sul presupposto che si tratta di dichiarazioni spontanee assunte senza i requisiti di legge. Il Tribunale, dato atto dell'acquisizione all'udienza dibattimentale del 19.4.2006 di copia del provvedimento di formazione del fascicolo del dibattimento adottato in un primo tempo dal G.u.p. il 30.9.2005 e ribadito dal G.u.p. l'1.2.2006 (dopo la dichiarazione di nullità della prima udienza preliminare), ha disposto l'acquisizione al fascicolo per il dibattimento di tutti gli atti richiesti dal Pubblico ministero, compreso il documento dell'11.11.2004, con relativa traduzione in italiano, a cui si è opposta la difesa. Ha ritenuto infatti, il collegio, che tale ultimo documento datato 11.11.2004, non acquisibile ai sensi dell'art. 513 c.p.p., pur nella contumacia dell'imputato, poiché non sottoscritto dal Nordhorn e privo della veste del verbale, fosse però acquisibile ai sensi dell'art. 431 lett. d) c.p.p., trattandosi di documento acquisito all'estero mediante rogatoria internazionale. Nella medesima ordinanza il collegio ha dato conto del fatto che il termine preclusivo previsto per le questioni concernenti la formazione del fascicolo dall'art. 491 c.p.p., riguarda unicamente le questioni dirette all'esclusione di atti erroneamente inseriti dal Giudice per l'udienza preliminare, e non anche quelle concernenti l'inserimento nel medesimo fascicolo per il dibattimento di atti rimasti nel fascicolo del Pubblico ministero. Siffatta annotazione costituisce dunque documento utilizzabile, rappresentativo del fatto che l'imputato Nordhorn ha rilasciato dichiarazioni in data 11.11.2004, e che nell'occasione ha mostrato di serbare un ottimo ricordo degli avvenimenti accaduti in quel periodo del 1944 nel territorio di Forlì. In altre parole, tale documento conferma al di là di ogni ragionevole dubbio che il Nordhorn era presente in quei luoghi quando si consumarono gli eccidi, ed è a conoscenza dei fatti che vi avvennero. Occorrono adesso alcune considerazioni sulle risultanze documentali dell'istruzione dibattimentale, che sono state illustrate, nella parte che riguarda i documenti di provenienza o di natura militare, sia dal teste D'Elia, ufficiale superiore dei Carabinieri ed ufficiale di polizia giudiziaria militare, sia dal teste Di Mari, membro dell'Ufficio coordinamento di polizia giudiziaria della Procura militare in sede. La loro deposizione è stata fondamentale sia per l'intelligibilità e la comprensione dei predetti documenti, sia per la ricostruzione della carriera militare dell'imputato e di altri ufficiali, come per esempio del comandante Guttmacher. Di particolare rilevanza è stata l'illustrazione dell'elenco ufficiale degli acronimi in uso nell'esercito tedesco all'epoca dei fatti, dal quale si ricava con certezza non solo l'abbreviazione ufficiale del termine (in tedesco) «pioniere», ma anche che la parola Zug sta per «plotone». Altrettanto rilevante è stata l'illustrazione degli specchi contenenti le cosiddette piante organiche degli ufficiali del 525° battaglione. Dalla scheda personale di Heinrich Nordhorn, acquisita presso l'archivio federale tedesco denominato Deutsche Dienstelle (WASt) e contrassegnata dal numero 389/121, risulta provato che egli era militare dell'esercito tedesco (Wehrmacht), era giunto al grado di sottotenente (Leutnant) della riserva, aveva militato nel 525° battaglione corazzato cacciacarri pesanti, ed era stato assegnato alla compagnia comando con la specialità di geniere (o pioniere). Quest'ultima circostanza, in particolare, risulta provata dal raffronto tra la sigla «Pi» annotata sulla scheda personale e l'elenco ufficiale delle abbreviazioni; ma risulta altresì provata dal fatto, anch'esso documentalmente dimostrato, che il Nordhorn era appartenuto in precedenza ad un altro reparto di pionieri, il 29° Panzer Pionier Ersatz Battalion, fino al 1° giugno del 1943. Dalla pianta organica degli ufficiali del 525° battaglione, denominata Offizier-Stellenbesetzung, alla data del 15.3.1945 risulta che l'ufficiale dei pionieri Heinrich Nordhorn, nato il 12 novembre 1919, era ingegnere civile nella vita civile ed era stato promosso sottotenente il 1° aprile 1943. I documenti per così dire «caratteristici e matricolari» del Nordhorn, sopra menzionati, contengono tutta la sua carriera militare, trascorsa pressoché interamente nell'ambito delle unità di pionieri. Alla data del 14.4.1940 apparteneva al 26° Pionier Ersatz Battalion Hoexeter, il 16.9.1940 fu trasferito al 57° Panzer Pionier Battalion, il 14.11.1942 al 29° Panzer Pionier Ersatz Battalion e l'1.6.1943, infine, allo Schwere Heeres-Panzerjäger-Abteilung 525, cioè al reparto in cui prestava servizio al tempo dei crimini di Branzolino e di San Tomè. Il Nordhorn, quindi, aveva accumulato un proficuo e ricco bagaglio tecnico e specialistico, sia da civile che da militare, e tale circostanza conferma ulteriormente che si trattava della persona più adatta e più idonea ad organizzare le esecuzioni e ad allestire i patiboli. Dal cosiddetto elenco delle piastrine di riconoscimento (Erkennungsmarkenverzeichnis) del periodo 1940-1945 risultano confermate la data di arrivo dell'imputato presso il 525° battaglione, e la sua provenienza. La lista nominativa delle perdite n. 37 riguardante il 525° battaglione (Namentliche Verlustmeldung nr. 37), relativa al periodo 1° gennaio 1945 - 31 gennaio 1945 (Berichtszeitraum 1.1.1945-31.1.1945) comprova che il sottotenente pioniere Nordhorn faceva parte della compagnia comando di predetta unità militare, era stato in servizio in Italia e il 5.1.1945, abbandonata con l'intero 525° battaglione la zona di Forlì, era stato lievemente ferito ad Alfonsine, in provincia di Ravenna, a circa trenta chilometri dai luoghi dei fatti per cui si procede. La lista nominativa delle perdite n. 33 (Namentliche Verlustmeldung nr. 33) poi, contiene le generalità del militare tedesco che fu ferito nei pressi della località di San Martino. Si trattava di Walter Müller, nato a Remstadt il 26.1.1907, caporalmaggiore della compagnia comando, ferito l'8 settembre 1944 vicino alla predetta località, morto in conseguenza delle ferite il 22 settembre 1944 nell'ospedale da campo n. 200 prossimo ad Imola, dove era stato ricoverato (cartella matricolare n. M-2008/002 relativa al Müller, lettera dell'11.5.2005 della Deutsche Dienstelle (WASt) di Berlino, cui tale cartella è allegata). L'inquadramento militare del Müller è un'ulteriore conferma delle responsabilità dell'odierno imputato, giacché consente di ricondurre l'eccidio ad una specifica unità militare, quella appunto del plotone pionieri, al quale presumibilmente apparteneva il Müller, comandato proprio dal Nordhorn, che nell'esplosione aveva subìto il ferimento di uno degli uomini alle sue dipendenze, e che agì contro i civili. Risponde ai criteri di quella logica criminale, il legame fra l'organizzazione e la direzione dell'eccidio e il Nordhorn, che non solo aveva uno stretto rapporto di sovraordinazione funzionale e gerarchica con il Müller (e questo anche nel caso che questi, pur appartenendo alla compagnia comando, non appartenesse anche al plotone pionieri), ma aveva anche funzioni di comando. La scheda personale relativa a Hans Hopp, poi, conferma che questo militare, teste di primaria importanza non solo per la ricostruzione dei fatti ma anche per l'attribuzione di responsabilità all'odierno imputato, era effettivamente inquadrato nel 525° battaglione, cui apparteneva anche il Nordhorn. Le notizie storiche ricavabili dal manuale sulle forze armate tedesche edito nel 1945 dal Ministero della guerra degli Stati Uniti d'America, inoltre, confermano in linea di massima la composizione, la struttura e l'armamento del 525° battaglione della Wehrmacht, e che l'organico del plotone pionieri prevedeva un solo ufficiale. 11. L'assenza di necessità o giustificato motivo Che il fatto sia stato commesso, come prevede l'art. 185 c.p.m.g., «senza necessità o, comunque, senza giustificato motivo», costituisce un vero e proprio elemento negativo della fattispecie, con conseguente necessità di prova della sua sussistenza e del corrispondente elemento soggettivo, prova che il collegio ritiene raggiunta. Sul punto, è evidente che non si possono ricondurre la necessità o il giustificato motivo alla semplice comodità di sbarazzarsi di civili che abitano un territorio da controllare, poiché con quella interpretazione le forze armate sarebbero autorizzate allo sterminio. Di più, nel caso in esame le persone uccise si trovavano tutte - resta incerta solo la vicenda di Antonio Zaccarelli - già in prigionia, certamente già fiaccate dai maltrattamenti, almeno alcune di loro torturate, con sevizie inflitte ancor prima della decisione di ucciderle. Perciò assolutamente nulla giustificava la loro uccisione per esigenze belliche, né è ragionevolmente pensabile che la necessità o il giustificato motivo fossero rappresentati neppure erroneamente - nella mente dell'imputato, che proprio per la sua già solida esperienza bellica conosceva le reali esigenze del conflitto. Altro tema, è che gli eccidi siano stati commessi per cause non estranee alla guerra, anch'esso elemento della fattispecie. Come già notato in giurisprudenza, «il concetto di non estraneità abbraccia un'area più ampia del concetto di attinenza; nel senso che quello, a differenza di questo, richiede l'esistenza di un nesso causale meno immediato, sicché non occorre che l'azione delittuosa sia stata posta in essere proprio per ragioni di guerra, ma è sufficiente che essa sia comunque riconducibile alla guerra» (Trib. mil. Verona 24.11.2000, Seifert). Anche Trib. mil. La Spezia 17.3.2004 n. 57, Schiffmann, ha ritenuto commesse per cause non estranee alla guerra le uccisioni di persone «in esecuzione di una operazione militare connessa alla lotta antipartigiana, interrogate e torturate, selezionate tra il maggior numero di coloro che furono imprigionati, quindi eliminate con un colpo alla nuca senza alcun processo». Nel caso in esame, due eccidi furono commessi per affermare, ribadire, ostentare con il terrore il potere di controllo sul territorio italiano occupato, mentre era in corso la guerra che ne consentiva l'occupazione. 12. L'elemento soggettivo L'imputato consapevolmente e volontariamente prese parte attiva negli eccidi. Come sarà approfondito di seguito, in tema di scriminante dell'aver eseguito un ordine, l'ipotesi che gli eccidi siano stati commessi conformemente a ordini del maggiore Guttmacher non è dimostrata. Ma in ogni caso, la sussistenza dell'elemento soggettivo con riferimento a Heinrich Nordhorn è evidenziata, ed anzi è resa particolarmente intensa da vari fatti. La specifica preparazione ingegneristica dell'imputato gli è tornata utile al momento della costruzione dei patiboli per le impiccagioni: l'attivazione di una parte importante della sfera psichica, quella formata in un'istruzione accademica, coinvolge profondamente la persona e la sua volontà. L'aver successivamente scacciato e insultato i genitori che, per darle sepoltura, in lacrime chiedevano la salma del figlio, e l'aver imposto in entrambi gli eccidi che i corpi rimanessero lungamente appesi ai patiboli, senza che ai familiari fosse consentito staccarli («non volevano nemmeno che tagliassero la corda di questa gente che pendeva, e loro li scacciavano "fuori, fuori, via, raus!"», deposizione di Enio Gamberini in dibattimento), dimostra una convinta adesione al crimine, al punto che persino dopo la sua realizzazione l'imputato fu tra coloro che ne vollero far patire il più possibile gli effetti. Molto significativo è anche l'aver ammonito i presenti, dicendo che se si fossero ripetute azioni contro i tedeschi sarebbero state uccise persone non prese fra i prigionieri, bensì fra gli abitanti del luogo, e facendo riferimento al numero di venti. Questa ammonizione sotto l'aspetto oggettivo suona quasi grottesca, perché a mettere le persone in prigione erano appunto i militari tedeschi e i loro alleati fascisti, che quindi attingevano ad una scorta di esseri umani creata da loro, ma di cui si parlava come se si fosse formata per altre cause, e come se non fosse composta di persone, concittadine, compaesane, spesso parenti di quelle costrette ad ascoltare la minaccia. Invece, sotto l'aspetto soggettivo indica sia una determinazione psichica solida, al punto da prevedere, prospettare e ostentare la ripetizione della condotta criminosa, sia una sostanziosa autonomia di determinazione: valgono in proposito le considerazioni che si svolgeranno sul multiplo dieci italiani per ogni tedesco, mentre nell'ammonizione tratteggiata in questa vicenda si fa riferimento al numero venti, elemento significativo di una spiccata intensità del dolo. Inoltre, le due persone che - né durante il primo eccidio, né durante il secondo - presero visione di uno scritto contenente l'ammonizione, ossia Carmen Belli Marangoni e Guglielmo Furgani (dichiarazioni al S.I.B. 28.6.1945 e 10.7.1945), non dichiararono che lo scritto contenesse un riferimento al numero venti. A far leggere a Carmen Belli Marangoni lo scritto fu il maggiore Guttmacher, mentre a mostrare a Furgani lo scritto fu un soldato tedesco. Il numero venti comparve invece in seguito, nel comunicato letto dall'imputato dirigendo l'eccidio di San Tomè. Perciò quel riferimento al numero venti fu un'iniziativa particolarmente ostile, una crudeltà tutta imputabile allo zelo di Heinrich Nordhorn, che esprime la sua vivace partecipazione al crimine, ed anzi il suo sforzo nell'assumere un duro ruolo primario. 13. L'esecuzione di un ordine È stata invocata la scriminante dell'aver eseguito un ordine. Nel caso in esame è certo, con riferimento all'eccidio di San Tomè, che il maggiore Guttmacher fosse al corrente del rastrellamento (dichiarazione di Carmen Belli Marangoni al S.I.B.), ed è impensabile che egli non fosse al corrente che il rastrellamento era finalizzato proprio alla pubblicizzazione dell'eccidio, e poi alla deportazione di molte persone. Non è invece altrettanto certo, con riferimento ad entrambi gli eccidi, se il maggiore abbia impartito veri e propri ordini all'imputato, ed in che termini. Sul punto, vanno sottolineati alcuni aspetti. Il maggiore non fu presente a nessuno dei due eccidi, e ciò malgrado (almeno per quanto riguarda quello di San Tomè) egli fosse in zona. Non è risolutivo il testo che il maggiore Guttmacher fece leggere a fine agosto 1944 - né durante il primo eccidio, né durante il secondo - a Carmen Belli Marangoni. Secondo quest'ultima «in quella carta si leggeva parole di questo effetto: "Dovesse essere fatto un attentato e causare ferite a qualcheduno delle forze germaniche la pena sarà la morte. Gli uomini saranno uccisi, le donne e i bambini saranno deportati in campi di concentramento e le case bruciate"». Il testo indicava sì la determinazione di compiere azioni violente; eppure quanto poi realmente accadde non gli corrisponde: a San Tomè (e neppure precedentemente, a Branzolino) le donne e i bambini non furono deportati, e le case non furono bruciate. Inoltre il testo non diceva quante persone sarebbero state uccise. Per gli stessi motivi, non è risolutivo neppure il testo che un soldato tedesco mostrò a Guglielmo Furgani, pochi giorni dopo l'eccidio di Branzolino - né durante il primo eccidio, né durante il secondo - cioè un documento con «parole di questo effetto: "Dovesse un attentato essere fatto e causare delle ferite a dei militari tedeschi, la punizione sarà la morte. Gli uomini delle case vicine saranno fucilati, le donne deportate a dei campi di concentramento e le case saranno bruciate al suolo"». Quest'ultimo testo, non è neppure sicuro che fosse il medesimo fatto leggere a Carmen Belli Marangoni, e quindi che provenisse dal maggiore Guttmacher. Ancora, non è risolutivo neppure il testo letto da Luigi Foschi: egli, su richiesta dell'imputato, lesse quel testo poche ore prima dell'eccidio di San Tomè, e glielo tradusse in tedesco. L'imputato aveva conoscenza della lingua italiana, ma per quel comunicato che considerava così importante - al punto da leggerlo di fronte ai patiboli, mentre erano ancora vuoti, per avere tutta l'attenzione per sé - volle un riscontro dell'esattezza del testo, e se lo fece tradurre in tedesco da Foschi. Si trattava di «una carta sulla quale erano scritte parole di questo effetto: "Un soldato tedesco fu ferito. Stavolta impiccheremo sei uomini presi dalle prigioni, ma dovessero accadere altri atti simili, condanneremo a morte venti civili dei villaggi circostanti"». Differenziandosi dallo scritto già noto a Carmen Belli Marangoni e a Guglielmo Furgani, il testo non conteneva il riferimento alla deportazione di donne e bambini, né all'incendio di case; ma conteneva, ancora differenziandosi dallo scritto già noto alla Belli Marangoni e a Furgani, il riferimento al fatto che in futuro sarebbero state uccise persone non provenienti dalla prigione, ed anche il riferimento al numero di venti. Dunque Foschi non lesse lo stesso testo già noto alla Belli Marangoni e a Furgani. La dichiarazione di Hans Hopp al S.I.B., con riferimento all'eccidio di San Tomè, mette in evidenza il ruolo del Nordhorn, non quello del maggiore Guttmacher: «Sie sagten Leutnant Northorn hätte das Kommando geführt und war für die Ausführung der Hängung verantwortlich». I militari che riferirono quei fatti a Hopp, gli avrebbero verosimilmente riferito anche di un eventuale ordine del maggiore, almeno per sentito dire; si trattava proprio dei quattro militari con cui Hopp divideva l'alloggio nella casa di Guglielmo Furgani, militari coi quali era in continua dimestichezza. Un ordine del maggiore, e specialmente un ordine preciso, diverso da qualche labile indicazione di massima, non sarebbe rimasto inosservato, anzi, sarebbe stato notato e raccontato fra i militari del reparto, alla cui attenzione si impose invece il ruolo del Nordhorn. Tutti questi elementi non consentono di riferire gli eccidi a precisi ordini del maggiore Guttmacher, ed in particolare non consentono di superare il dubbio che il maggiore, interessandosi poco agli eccidi ed ai fatti connessi, abbia dato disposizioni generiche, senza intervenire né per determinare concretamente quante e quali persone uccidere, e quante e quali deportare, né per sottrarre qualcuno alla deportazione (non intervenne per impedire la deportazione di Massimo Marangoni), così lasciando all'imputato un ampio margine di autonomia. Coerentemente con questo, il riferimento al numero di venti, nel comunicato letto all'eccidio di San Tomè, riferimento fatto dall'imputato inasprendo il contenuto dello scritto già noto a Carmen Belli Marangoni e a Guglielmo Furgani (aspetto già esaminato, in tema di elemento soggettivo), esprime una condotta dell'imputato non di meccanico adeguamento a un ordine, ma invece di iniziativa autonoma, malevola contro la popolazione. Insomma, l'ipotesi dell'ordine proveniente dal maggiore Guttmacher - ipotesi verosimile, relativamente ad un generico ordine di uccidere civili, ma assai più sbiadita, relativamente a quali e quanti - non è dimostrata. L'ordine, del resto, non è neppure menzionato nel capo d'imputazione («in concorso con altri militari del medesimo reparto (tra cui il deceduto comandante di corpo, maggiore Friedrich Karl Guttmacher)»); e il suo ingresso nella ricostruzione dei fatti non può essere dato per scontato. D'altra parte, il dubbio sulla concreta esistenza di ordini deve necessariamente avere rilevanza in favore dell'imputato, trattandosi di un dubbio sul fatto. Si impone quindi un approfondimento giuridico. La scriminante dell'aver eseguito un ordine è regolata in generale dall'art. 51 c.p., e per i militari più specificamente dall'art. 40 c.p.m.p., norma abrogata dalla legge 11.7.1978 n. 382, ma da considerare ancora in vigore, per i fatti commessi prima dell'abrogazione, in quanto più favorevole. In giurisprudenza, ha ripercorso i più importanti riferimenti sul tema della manifesta criminosità dell'ordine Cass. 16.11.1998, dep. 1.12.1998 n. 12595, Hass, secondo cui «Deve trattarsi di ordine che abbia per contenuto un fatto "indiscutibilmente" delittuoso "secondo un generale apprezzamento", o "secondo l'apprezzamento di chiunque", ovvero "secondo un comune apprezzamento" (Cass. 28.9.1984 n. 178, Sciotti; Cass. 21.4.1983 n. 9424, Rognato; Cass. 9.4.1969 n. 630, Pautassi; Cass. 5.2.1968 n. 205, Gagliati; Cass. 27.11.1967 n. 1349, Gandolfi; Cass. 22.6.1967 n. 1307, Ballerini; Cass. 1.3.1967 n. 418, Carosi). Si aggiunge anzi che il palese carattere delittuoso della condotta ordinata, nel comportare la sindacabilità dell'ordine impartito, ne esclude l'efficacia esimente non solo sotto il profilo obiettivo ma anche sotto quello putativo (Cass. 28.5.1984 n. 7866, Guerrieri; Cass. 11.1.1974 n. 2921, Sarti)». Ebbene, se vi furono precisi ordini da parte del maggiore Guttmacher, con attivazione dell'imputato in tutta una serie di operazioni affinché i due eccidi avessero piena esecuzione, la manifesta criminosità di quegli ordini esclude che la scriminante possa operare. Va sottolineato che si trattò del plateale assassinio di dieci persone, diviso in due episodi distinti ma preparati con identica meticolosa serialità. Significativo, che i mezzi per la costruzione dei patiboli dopo il primo eccidio fossero stati tenuti da parte, o comunque a disposizione, e poi riutilizzati per l'altro. Marcello Cimatti in dibattimento ha raccontato: «ci avevano portato lì nel cortile e passarono con dei pali e le corde che avevano adoperato a Branzolino, e mio fratello disse "guarda, quelle sono le corde che hanno impiccato alla Minarda" e così passò, andò avanti così». Gli eccidi furono preceduti dalle torture di alcune delle vittime; le torture non sono ascritte all'imputato, essendo precedenti la sua condotta, tuttavia le loro conseguenze furono imposte anch'esse come spettacolo. Il tutto, con ampio coinvolgimento di un'intera località nelle operazioni, con la costrizione ad assistere, e con la successiva deportazione di molte persone. Furono uccisi solo maschi, ma non sarebbe esatto ritenere che le vittime fossero uomini in età adulta: Antonio Zaccarelli aveva diciannove anni. Del resto, un ordine non perde la sua manifesta criminosità se va a danno di vittime tutte di sesso maschile. Non sarebbe neppure esatto considerare le donne e i bambini totalmente estranei agli eccidi, poiché all'impiccagione di San Tomè furono presenti proprio donne e bambini (deposizione di Marcello Cimatti in dibattimento: «sì, lì c'erano anche delle donne e dei bambini»), e quanto all'eccidio di Branzolino, i cadaveri furono lasciati a lungo esposti, anche di fronte a donne e bambini: Enio Gamberini, all'età di dieci anni, vide gli impiccati, presenti anche donne («una contadina, una persona grossa, mi mise la faccia di fronte alla sua pancia e mi portò nella casa del contadino lì vicino», deposizione di Enio Gamberini in dibattimento). Particolarmente significativo è poi l'intreccio di persecuzione e di violenza che accomuna quattro componenti di una cellula comunista operaia, quattro partigiani e due ebrei. Il groviglio dei fatti, pur restando chiuso per qualche aspetto nei nodi dei dettagli (in particolare, per quanto riguarda Antonio Zaccarelli), risulta chiarissimo nella trama generale di ferocia a profitto dell'occupazione, e due bracciate di odio stringono dieci persone per farle morire, a monito esemplare contro un'intera località. Ma a dispetto dell'apparente assurdità, proprio quell'intento di fondo riconduce il comportamento di chi volle ed eseguì gli eccidi alla sua effettiva sostanza: al crimine. Sul punto, proprio la precedente esperienza militare dell'imputato, il quale non si trovò d'improvviso a Forlì per la prima volta in guerra, ma anzi proveniva da vari, prolungati fronti bellici (tra cui il fronte orientale e Cassino), esclude che egli potesse non aver percepito la manifesta criminosità degli eccidi. Che non si possano applicare al fatto, stante la loro irretroattività, le norme delle quattro Convenzioni di Ginevra del 12 agosto 1949 e dei due protocolli addizionali dell'8.6.1977, ratificati in Italia rispettivamente con legge 27.10.1951 n. 1739 e con legge 11.12.1985 n. 762, e quelle sul genocidio di cui alla legge 9.10.1967 n. 962, è irrilevante, quando si tratta di eccidi «in violazione sia del diritto bellico che dei più elementari principi umanitari dello ius gentium (nel pur inadeguato quadro normativo di riferimento vigente all'epoca)» (così Cass. 16.11.1998, dep. 1.12.1998 n. 12595, Hass). Ancora sul punto dell'esecuzione di un ordine, va ricordato quanto prevede lo statuto del Tribunale militare internazionale (cd. Tribunale di Norimberga), allegato all'atto che lo istituisce, ossia all'Accordo di Londra dell'8.8.1945. Per inciso, fra le premesse dell'Accordo di Londra è citata la dichiarazione di Mosca del 30.10.1943, che impegna gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e l'Unione Sovietica alla futura punizione delle atrocità («Let those who have hitherto not imbrued their hands with innocent blood beware lest they join the ranks of the guilty, for most assuredly the three Allied powers will pursue them to the uttermost ends of the earth»). Inoltre, stando all'art. 6 dell'Accordo nulla esclude le giurisdizioni nazionali, neppure nei territori alleati: «Nothing in this Agreement shall prejudice the jurisdiction or the powers of any national or occupation court established or to be established in any allied territory or in Germany for the trial of war criminals». Ebbene, l'art. 8 dello statuto impedisce che l'esecuzione di un ordine abbia di per sé effetto scriminante: «The fact that the Defendant acted pursuant to order of his Government or of a superior shall not free him from responsibility [...]». Proprio l'art. 6 dello statuto del Tribunale militare internazionale, al comma 2 lettere b) e c) definisce i crimini di guerra e i crimini contro l'umanità: «(b) WAR CRIMES: namely, violations of the laws or customs of war. Such violations shall include, but not be limited to, murder, ill-treatment or deportation to slave labor or for any other purpose of civilian population of or in occupied territory, murder or ill-treatment of prisoners of war or persons on the seas, killing of hostages, plunder of public or private property, wanton destruction of cities, towns or villages, or devastation not justified by military necessity. (c) CRIMES AGAINST HUMANITY: namely, murder, extermination, enslavement, deportation, and other inhumane acts committed against any civilian population, before or during the war; or persecutions on political, racial or religious grounds in execution of or in connection with any crime within the jurisdiction of the Tribunal, whether or not in violation of the domestic law of the country where perpetrated.». Con la risoluzione 95 (I) dell'11 dicembre 1946 l'Assemblea generale delle Nazioni Unite ha confermato i principi di diritto internazionale riconosciuti dallo statuto del Tribunale militare internazionale («affirms the principles of international law recognized by the Charter of the Nürnberg Tribunal»). Inoltre, su incarico dell'Assemblea generale (risoluzione 177 (II) del 21 novembre 1947), nel 1950 la Commissione di diritto internazionale delle Nazioni Unite ha stabilito il testo dei Principi di diritto internazionale riconosciuti nello statuto e nel giudizio del Tribunale di Norimberga (cd. Nürnberg principles, Principi di Norimberga). Ebbene, alle lettere b) e c) del principio VI la Commissione ha sostanzialmente ripreso le lettere b) e c) dell'art. 6 dello statuto del Tribunale, ed al principio IV ha escluso che l'esecuzione dell'ordine abbia un automatico effetto scriminante: «The fact that a person acted pursuant to order of his Government or of a superior does not relieve him from responsibility under international law, provided a moral choice was in fact possible to him». L'Assemblea generale (risoluzione 488 (V) del 12 dicembre 1950) ha preso atto dei Nürnberg principles e ha incaricato la Commissione di predisporre il Draft Code of offences against the peace and security of mankind. Il Draft Code è stato predisposto nel 1954, e all'art. 4 ripete sostanziamente lo stesso principio: «The fact that a person charged with an offence defined in this Code acted pursuant to an order of his government or of a superior does not relieve him of responsibility in international law if, in the circumstances at the time, it was possible for him not to comply with that order». Significativo è anche l'art. 33 dello statuto della Corte penale internazionale (Convenzione di Roma, 17.7.1998), secondo cui «orders to commit genocide or crimes against humanity are manifestly unlawful». Ad analogo principio si attengono lo statuto del Tribunale penale internazionale per la Jugoslavia (risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite 25 maggio 1993 n. 827/93), lo Statuto del Tribunale penale internazionale per il Ruanda (risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite 8 novembre 1994 n. 955/94), ed anche lo Statuto della Corte speciale per la Sierra Leone (risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite 14 agosto 2000 n. 1315/2000, cui ha fatto seguito l'accordo di Freetown del 16 gennaio 2002). Tutto questo sforzo di lunga elaborazione giuridica e di articolato approfondimento, in cui il processo di Norimberga costituisce la base iniziale di studio, porta a ritenere che il suo risultato sia la presa d'atto di principi di diritto preesistenti, contro i quali perciò non potrebbe obiettarsi che i fatti qui giudicati sono stati commessi prima della loro entrata in vigore. In base a questi principi, vi sono ordini cui si ha il dovere di ubbidire, e ordini cui si ha il dovere di disubbidire. Cioè, nell'ambito del ragionamento giuridico, è conforme a diritto sia imporre l'ubbidienza sia imporre la disubbidienza. Quindi è giustizia sia punire la disubbidienza che punire l'ubbidienza. L'eccezione non è meno giusta della regola, e il diritto è custode dell'una come dell'altra. I ranks of the guilty della dichiarazione di Mosca del 30.10.1943 possono abitare la regola, come l'eccezione. E non è senza significato giuridico, che ranks stia a significare sia gli elementi della colpevolezza, sia i gradi militari, a indicare come anche nelle strutture militari esista la responsabilità. 14. Dieci italiani per ogni tedesco È stato fatto riferimento all'uccisione di dieci italiani per ogni tedesco ucciso (sul punto è stata anche ricordata la sentenza Trib. mil. Torino 15.11.1999, Engel). Un approfondimento di questo tema è necessario. Se fosse formalmente esistita una regola generale fissa, proprio di quel contenuto, certamente sarebbe stata manifestamente criminosa, ma il comportamento di chi - malgrado il dovere di disubbidire - vi si fosse attenuto, benché criminoso potrebbe aprire la strada a qualche considerazione con riferimento alla misura della pena. La pena dell'ergastolo è una pena fissa, ma l'isolamento diurno, che il collegio ritiene applicabile per i motivi che saranno esposti in seguito, ha un minimo ed un massimo. Della fama di una tale regola in Italia, possono individuarsi almeno due remote tracce scritte. Una è il comunicato tramite l'agenzia Stefani apparso, dopo l'eccidio delle Fosse Ardeatine, su vari quotidiani italiani sabato 25 e domenica 26 marzo 1944. L'ultimo paragrafo dice: «Il Comando tedesco è deciso a stroncare l'attività di questi banditi scellerati [il riferimento è all'attacco partigiano in via Rasella, n.d.e.]. Nessuno dovrà sabotare impunemente la cooperazione italo-tedesca nuovamente affermata. Il Comando tedesco, perciò, ha ordinato che per ogni tedesco assassinato, dieci criminali comunisti-badogliani saranno fucilati. Quest'ordine è già stato eseguito. - (Stefani).». Peraltro nel comunicato gli uccisi sono indicati come «criminali comunisti-badogliani», non sono identificati con la sola nazionalità; anzi, la parola italiano non compare come sostantivo, ma solo come aggettivo, nell'ambito della cooperazione. Quindi sembra esclusa - nel resoconto, e di conseguenza nella minaccia della successiva ripetizione l'uccisione indiscriminata di italiani. E alle Fosse Ardeatine muoiono (non per fucilazione, ma per massacro) italiani e stranieri, partigiani e non, comunisti e anticomunisti. Fin dall'inizio, non vi è stata l'esatta esecuzione di un ordine. L'altra - ma sempre connessa all'eccidio delle Fosse Ardeatine - è proprio nelle dichiarazioni degli alti ufficiali tedeschi processati subito dopo la guerra, ed in particolare di von Mackensen, Mälzer e Kesselring. In proposito, Law-Reports of Trials of War Criminals, The United Nations War Crimes Commission, Volume VIII, London, HMSO, 1948, case No. 43, The Trial of Von Mackensen and Maelzer, British Military Court, Rome, 18th-30th november, 1945, ed anche 1949, case No. 44, The trial of Kesselring, British Military Court at Venice, 17th february-6th may, 1947. Forse lasciata intendere da chi aveva interesse a fabbricarsela, e poi custodita da innumerevoli racconti, la regola dieci italiani per ogni tedesco è divenuta chiave di una storia orale, e allo stesso tempo testo invisibile su cui si fondano chiose e argomenti, si agitano moniti e rabbuffi; è un esempio sconcertante di come la categoria del fatto notorio possa trasformarsi in una trappola. Di solito se ne parla attribuendole esattezza numerica, durata illimitata, estensione a tutto il territorio occupato e remota origine: balugina da enormi altezze, si carica di ineluttabilità, terrifica e allo stesso tempo giustifica. Chi cerca di discolparsi la invoca come severo riferimento e come prova di incrollabile fedeltà, chi ne fa un elemento d'accusa la esecra e la monumentalizza: entrambi attingono alla stessa aura di leggenda. Per chi esercita la violenza essa dimostra la fermezza, quindi l'autocontrollo, cioè l'elezione; per chi la subisce dimostra l'inevitabilità del lutto, quindi l'inferiorità, cioè la colpa, quasi in una simmetria che avvicina gli assassini e le vittime nella difesa di un mito. Cioè di una sistemazione ordinata della realtà: il mito di una regola è realmente una regola. Certo, l'uccisione di più di uno dei loro per ognuno dei nostri è una realtà atroce di cui difficilmente si troverebbe il primo inventore, essendo stata messa in atto ben prima della seconda guerra mondiale. Qui si ipotizza tuttavia una specifica regola di proprio dieci per ognuno, pubblicizzata e impartita in via generale alle forze armate tedesche in tutta l'Italia occupata, per tutta la durata dell'occupazione. Una regola generale e fissa, diversa da ordini limitati nel tempo e nello spazio. Ebbene, l'esistenza di una regola proprio in questi termini non è dimostrata, ed anzi essa manca nei più importanti provvedimenti generali di Kesselring (alcuni citati in Corte mil. appello Roma 24.11.2005 n. 99, Langer). I provvedimenti di Kesselring contro la Resistenza in Italia sono successivi a quelli decisi dalla Germania contro la Resistenza nell'Europa orientale, ossia alla Kampfanweisung für die Bandenbekämpfung im Osten vom 11. November 1942, Anhang 2 zur H.Dv.1ª, Seite 69, Lfd. Nr.1 (nota anche come Merkblatt 69/1), ed alla sua integrazione con la Bandenbekämpfung del 16.12.1942. Anche quelli di Kesselring preannunciano conseguenze gravissime per chi contrasta l'occupazione tedesca, ma non contengono la proporzione proprio dieci italiani per ogni tedesco. In proposito, ancora Law-Reports of Trials of War Criminals, The United Nations War Crimes Commission, Volume VIII, London, HMSO,1949, case No. 44, The trial of Kesselring, British Military Court at Venice, 17th february-6th may, 1947. Di fatto, degli eccidi commessi dalle forze armate tedesche in Italia, molti non sono affatto successivi a morte di tedeschi; molti di quelli che lo sono, hanno vittime in numero anche superiore al multiplo dieci (sino al multiplo settanta, ed oltre). Del resto, considerando proprio i fatti di questo processo, l'unico tedesco morto per causa delle due azioni cui sono seguiti gli eccidi di Branzolino (28 agosto 1944) e di San Tomè (9 settembre 1944), è morto in ospedale il 22 settembre 1944, e perciò sia al momento del primo eccidio, che al momento del secondo, non era morto nessun tedesco. Tuttavia anche nel caso in esame vi è stata una minaccia contenente un multiplo, di cui è bene ricostruire dettagliatamente i passaggi secondo il materiale istruttorio, cominciando dal primo eccidio, il cui comunicato col multiplo, però, è riferito dalla deposizione testimoniale più recente. Secondo il teste Cimatti, sentito in dibattimento il 9.10.2006, durante l'eccidio di Branzolino il comandante dice: «guardate che li abbiamo presi dalla galera, se succede un'altra volta così li prendiamo tra di voi». Non c'è multiplo. Secondo la dichiarazione S.I.B. 28.6.1945 Belli Marangoni, a fine agosto 1944 - né durante il primo eccidio, né durante il secondo - il maggiore Guttmacher fa leggere a Carmen Belli Marangoni uno scritto: «in quella carta si leggeva parole di questo effetto: "Dovesse essere fatto un attentato e causare ferite a qualcheduno delle forze germaniche la pena sarà la morte. Gli uomini saranno uccisi, le donne e i bambini saranno deportati in campi di concentramento e le case bruciate"». È sufficiente che un tedesco sia ferito, e non c'è multiplo. Secondo la dichiarazione Guardigli al Pubblico ministero del 4.4.1945, all'eccidio di San Tomè un ufficiale legge «un foglio dove si diceva che per il ferimento di un tedesco dovevano essere impiccati sei italiani». Secondo la dichiarazione S.I.B. Guardigli del 2.7.1945, all'eccidio di San Tomè un ufficiale legge un comunicato: «Perché una mina esplose in questo luogo e ferì un soldato tedesco andiamo ad impiccare sei uomini. Li abbiamo presi dalle prigioni, però dovesse una tale cosa accadere di nuovo, noi impiccheremo della gente presa dai vostri villaggi». È sufficiente una tale cosa, e non c'è multiplo. Secondo la dichiarazione S.I.B. Fiorentini del 22.6.1945, all'eccidio di San Tomè un ufficiale legge un comunicato: «Perché una mina esplose in questo luogo ed ha ferito un soldato tedesco, noi impiccheremo sei uomini. Stavolta li abbiamo presi dalle carceri, ma dovesse una cosa simile accadere di nuovo contro le forze armate germaniche, noi impiccheremo degli uomini presi dai vostri villaggi». È sufficiente una cosa simile, e non c'è multiplo. Secondo la dichiarazione S.I.B. Sansoni del 18.7.1945, all'eccidio di San Tomè un ufficiale legge un avviso «del senso che in seguito al ferimento di un soldato per lo scoppio di una mina dovevano venir impiccati sei uomini, che questa volta vennero scelti dalle carceri, ma che se succedesse una simile azione verrebbero scelti fra gli uomini del paese». È sufficiente una simile azione, e non c'è multiplo. Secondo la dichiarazione S.I.B. Lombardi del 2.7.1945, Lombardi è portato dai tedeschi a San Tomè fra i rastrellati, e incontra un fascista che ha collaborato al rastrellamento: «egli disse: "Hanno ucciso un soldato tedesco [era ferito, n.d.e.], e sei di voi saranno uccisi; ciò ragguaglierà un po' le cose». Si fa allusione a un ragguaglio effettuato solo un po', quindi non raggiunto. Nella stessa dichiarazione S.I.B., in seguito l'ufficiale «leggendo da una carta che teneva nelle mani disse delle parole dell'effetto che "Un soldato tedesco fu ferito in questo luogo da una bomba esplosa. È per questo che noi impiccheremo sei uomini. Questa volta essi sono presi dalle prigioni, ma dovesse accadere un altro attentato contro la vita di un soldato tedesco, gli uomini saranno presi dai vostri villaggi"». È sufficiente un attentato, e non c'è multiplo. Secondo la dichiarazione S.I.B. 10.7.1945 Furgani, pochi giorni dopo l'eccidio di Branzolino - né durante il primo eccidio, né durante il secondo - un soldato tedesco mostra a Furgani un documento con «parole di questo effetto: "Dovesse un attentato essere fatto e causare delle ferite a dei militari tedeschi, la punizione sarà la morte. Gli uomini delle case vicine saranno fucilati, le donne deportate a dei campi di concentramento e le case saranno bruciate al suolo"». È sufficiente che un tedesco sia ferito, e non c'è multiplo. Nella stessa dichiarazione S.I.B., all'eccidio di San Tomè «un ufficiale cominciò allora a leggere in italiano da una carta che egli teneva nella mano. Erano parole di quest'effetto: "dovesse nel futuro un soldato tedesco essere molestato da italiani, venti civili dei nostri villaggi sarebbero stati messi all'esecuzione"». È sufficiente che un tedesco sia molestato, e si allude a un multiplo. Secondo la dichiarazione S.I.B. 12.7.1945 Foschi, a San Tomè è letto un comunicato: «una carta sulla quale erano scritte parole di questo effetto: "Un soldato tedesco fu ferito. Stavolta impiccheremo sei uomini presi dalle prigioni, ma dovessero accadere altri atti simili, condanneremo a morte venti civili dei villaggi circostanti"». Sono sufficienti atti simili, e si allude a un multiplo. Insomma, vi è stata sicuramente una minaccia, ed essa durante l'eccidio di San Tomè ha indicato la quantità di venti italiani. La minaccia prospettava l'uccisione di italiani non solo in caso di morte di tedeschi, ma anche in caso di ferite, di cose tali o simili, di azioni o atti simili, di attentati, di molestie. Sembra che vi sia allusione ad un multiplo, ma esso non è chiaramente esplicitato: non si dice che in caso di più di una vittima tedesca saranno uccisi italiani in numero di venti per ognuna. Questo caso - anche considerata l'iniziativa di Heinrich Nordhorn riguardo al numero venti, già esaminata in tema di elemento soggettivo - ribadisce la prevalenza di un arbitrio locale su un sistema di ordini concernente il territorio occupato, ma privo di un multiplo fisso e valido ovunque in via generale. Se non vige una disposizione rigida, ma invece un ampio potere di vita e di morte, allora esiste il presupposto della responsabilità: esiste una possibilità di scelta. Il mito della regola dieci italiani per ogni tedesco sembra offendere le forze armate occupanti; invece, mediante una irreale meccanizzazione della struttura militare, ed una immaginaria mostrificazione delle persone che la compongono, pone le premesse dell'irresponsabilità individuale. Quel mito avallerebbe la tesi dell'automatismo sostenuta da Kappler, nel processo a suo carico, quando riferendosi alle attività preparatorie di quell'eccidio disse: «la ruota che girava» (parole citate da Corte mil. appello Roma 7.3.1998 n. 24, Hass). Insomma, quel mito scarica sulla struttura - cioè su nessuno - le responsabilità di ciascuno. L'esistenza del dieci italiani per ogni tedesco è stata smentita anche, incidentalmente ma con rilevanza nel caso deciso, da Trib. Roma 27.11.1975, Katz: «nessuna delle ordinanze emesse dal comandante supremo del fronte sud, che avevano valore in tutto il territorio italiano controllato dai tedeschi, ha mai previsto e tanto meno nella proporzione di 1 a 10, misure di rappresaglia». A conferma, la sentenza aggiunge la dichiarazione del generale Harster del 22.2.1946 nel processo Kappler. Eppure ancor oggi la regola di proprio dieci italiani per ogni tedesco ricompare, asserita con solennità, mormorata con sgomento. Non può escludersi che il suo mito corrisponda ad una lettura della storia solo in parte dolorosa, ma in parte quasi confortante: all'epoca negli eccidi tedeschi in altri territori, e specialmente contro gli slavi, venivano applicati multipli molto superiori a dieci. È possibile che una storia orale in Italia abbia visto nel multiplo fisso dieci un modo per rivendicare agli italiani un rango intermedio fra chi si proclamava Herrenvolk e i popoli schiavizzati, popoli che la propaganda fascista ha sempre offeso; specialmente gli slavi, appunto, che l'Italia fascista aveva contribuito ad aggredire. Anche i miti delle vittime, possono essere violenti. È anche possibile che abbia avuto un ruolo, in un ambiente già condizionato da lunghi anni di propaganda guerrafondaia, l'immagine della contrapposizione fra combattenti che hanno un inquadramento militare e combattenti che ne sono privi: è facile che il combattimento di questi sia presentato come disonorevole. Il mito della loro inferiorità sarebbe allora una faccia della questione del monopolio della violenza da parte dell'autorità. Il monopolio della violenza comporta lo svilimento di chi la rivendica senza ubbidire al monopolista: la tecnica di combattimento spesso imprecisa di chi non possiede un proprio apparato industriale e burocratico, favorisce la presentazione di quel combattente come essere inferiore, e del conflitto come uno scontro di civiltà fra una società evoluta e un'orda brutale e confusa. Da questo, la presenza di un multiplo nel raffronto deriva come agevole conseguenza. È facile prevedere che neppure questa sentenza smentirà l'arcano, e che si continuerà a ripetere che per le truppe tedesche vigeva la specifica regola di uccidere proprio dieci italiani per ogni tedesco ucciso, regola operante in via generale per tutte le forze armate tedesche in Italia, ovunque e durante tutta l'occupazione. Chi si sente ben informato ribadisce di conoscere perfettamente quella regola, chi ne ha sentito parlare confida nell'attendibilità delle fonti, alcuni più anziani precisano di averla letta affissa su un muro, di averla sillabata insieme ai passanti, di vederla «come se fosse adesso». Certo la vedono, ma appunto adesso, perché così hanno elaborato il ricordo. Il mito non conosce smentita ragionevole, perché - qualcuno per tornaconto, qualcuno per assestamento interiore - ci si vuole credere. Ma di fronte al mito non si può essere equidistanti: la credulità di un intero ambiente va ascritta a coloro che uccisero, perché essi sono colpevoli anche degli incubi delle loro vittime. Probabilmente anche le persone costrette ad assistere ai due eccidi, e specialmente a quello di San Tomè, svolto dinanzi a moltissimi rastrellati, che temevano per la loro stessa vita, ebbero in mente il dieci italiani per ogni tedesco. Oggi, la calma della redazione di una sentenza, e la calma della sua lettura, non disprezzino quell'angoscia. 15. Lo stato di necessità È da escludere la scriminante dello stato di necessità, i cui rigorosi presupposti non sono ravvisabili nel caso in esame. Non vi è alcuna prova che vi siano stati momenti coercitivi nei confronti dell'imputato, nella preparazione ed esecuzione degli eccidi. E per riconoscere la scriminante non basterebbe la prospettiva di un danno qualsiasi, ma occorrerebbe un danno grave, accompagnato da una attualità del pericolo, attualità di cui non sussiste la minima traccia. Del resto, come già rilevato dalla giurisprudenza più specifica (in particolare da Trib. mil. La Spezia 22.6.2005 n. 45, Sommer) non è stato mai dimostrato - e al tempo dei processi celebrati subito dopo la guerra vi erano ancora molti militari tedeschi in vita, anche in prigionia, che avrebbero potuto testimoniarlo - che un militare tedesco abbia subìto un danno alla sua persona per aver disubbidito ad un ordine manifestamente criminoso. Né può obiettarsi che casi del genere sarebbero rimasti ignoti, poiché semmai i comandanti più severi avrebbero avuto interesse a farli conoscere, per ottenere più pronta ubbidienza. Sul punto, va ricordato che mentre era in corso di preparazione l'eccidio delle Fosse Ardeatine, un ufficiale rifiutò di eseguire quel crimine, senza subire conseguenze (ciò è evidenziato in Trib. mil. Roma 22.7.1997 n. 322, Hass, che a sua volta riporta Trib. mil. territoriale Roma 20.7.1948 n. 631, Kappler; ed è anche ricordato da Trib. mil. La Spezia 22.6.2005 n. 45, Sommer). E Trib. mil. Roma 1.8.1996 n. 305, Priebke, riporta come il consulente tecnico, lo storico Gerhard Schreiber, abbia dichiarato e documentato in quel processo che durante la guerra, in molti casi di disobbedienza, anche di ufficiali, nessuno fu mai punito con la morte. Anche Corte mil. appello Roma 7.3.1998 n. 24, Hass, ricorda come lo stesso Kappler, nelle sue dichiarazioni al Trib. mil. territoriale di Roma, disse: «più di una volta, quando l'ordine fu ritenuto illegale non fu da me eseguito» (udienze del 4.6.1948 e del 7.6.1948, citate nella sentenza della Corte). E Trib. mil. Torino 9.6.1999, Saevecke, ricorda come l'imputato, con il grado di capitano, abbia sottratto alla fucilazione persone detenute nel carcere milanese di San Vittore, ed abbia persino liberato antifascisti importanti, senza subire conseguenze. Queste considerazioni sono ancora più decisive per le fasi della guerra in cui la Germania si trovò più in difficoltà, e in cui non avrebbe certo potuto privarsi di un militare, specialmente di un ufficiale, solo per l'essersi sottratto all'esecuzione di un ordine manifestamente criminoso; ciò, con riferimento alle forze tedesche in Italia, riguarda segnatamente il periodo dopo lo sbarco di Salerno, e ancor più la fase successiva alla battaglia di Cassino, quando la situazione militare divenne per la Germania sempre più difficile. È appena il caso di aggiungere che non potrebbe avere nessun effetto scriminante la prospettiva, in caso di disubbidienza all'ordine, di altri pregiudizi, diversi dal danno alla persona, come le difficoltà di carriera, oppure il ricevere incarichi sgraditi, o ancora la disistima degli altri militari. È significativo, con riferimento all'eccidio delle Fosse Ardeatine, che per ordine di Kappler (ancora Trib. mil. Roma 22.7.1997 n. 322, Hass) ogni ufficiale che vi partecipò fosse chiamato a uccidere almeno una persona, come se appunto la partecipazione al crimine servisse a rinsaldare un legame e a costruire una stima. L'incrinarsi di questo legame, l'offuscarsi di questa stima, erano le immediate conseguenze certe per chi si sottraeva all'esecuzione dell'ordine manifestamente criminoso. Lo conferma, nel caso qui giudicato, anche la dinamica del numero delle vittime future. Nel comunicato letto all'eccidio di San Tomè, il sottotenente Nordhorn fece un riferimento al numero venti, così inasprendo il contenuto dello scritto già noto a Carmen Belli Marangoni e a Guglielmo Furgani (aspetto già esaminato, in tema di elemento soggettivo). E almeno il testo letto dalla Belli Marangoni, proveniva dal maggiore Guttmacher. Dopo l'eccidio, il sottufficiale Hossfeld disse a Saura Dall'Agata: «Io avrei impiccato un centinaio per atti simili». Più si scende nel grado militare, più la violenza - del fatto realizzato o auspicato - si inasprisce, come se i rapporti gerarchici non fossero strutturati solo sulla costrizione, ma spesso su una forma di gara allo zelo. E questo, non per effetto di un automatismo inevitabile, ma in rapporto con scelte strettamente individuali: il caporalmaggiore Hopp tentò di evitare la deportazione di Ezio Furgani e di Domenico Furgani, e ciò benché il tedesco ferito, Walter Müller, fosse anche un suo parigrado. In ambienti a forte coesione emotiva, specie se accompagnati da un'identità ideologica violenta, il timore dell'emarginazione dal gruppo può avere un forte effetto condizionante, ma - proprio perché ciò dipende pur sempre da scelte individuali - la giustizia penale non può mai consentire che la tutela dell'identità di gruppo prevalga sull'integrità personale di esseri umani. Comunque, anche la reiterazione dell'eccidio e le meticolose preparazioni escludono che l'imputato si sia trovato in uno stato interiore conflittuale, che il breve lasso di tempo non avrebbe consentito di risolvere. Sul punto, l'osservazione della difesa secondo cui non è corretto giudicare oggi l'imputato con lo stato d'animo e la formazione, ed insomma con il metro, di chi vive in una società altamente tecnologica, mentre egli si trovava a vivere in una società profondamente diversa, non giova. Anzi: le considerazioni sulla natura criminosa di un eccidio non sono dipendenti dal grado di complessità tecnologica della società. E in ogni caso, il paese e il territorio da cui l'imputato proveniva per nascita e formazione (la Germania ed in particolare il Ruhrgebiet) erano all'epoca fra le aree più sviluppate del mondo, con alto livello di comunicazioni e di istruzione. E proprio l'imputato, all'epoca quasi venticinquenne, aveva una formazione accademica. In ogni caso, il fatto che l'imputato abbia commesso gli eccidi servendosi di mezzi certo inferiori a quelli oggi esistenti, porta a ritenere che egli abbia avuto più tempo per riflettere su quello che stava facendo. Un dettaglio: nell'ambito dell'organizzazione pratica degli eccidi, il plotone pionieri comandato dall'imputato (il Pio/Zug) si è servito di un asino. Se l'ubbidienza ad un ordine manifestamente criminoso è inescusabile persino nel quadro di una guerra ad alta tecnologia, certamente l'utilizzo di mezzi lentissimi, propri di un contesto prevalentemente agricolo, impedisce di ritenere che l'imputato si sia trovato costretto a prendere decisioni fulminee. Anche questo induce comunque il collegio a escludere che l'imputato si sia pur solo rappresentato che l'ordine non fosse manifestamente criminoso. 16. La liceità della Resistenza Quanto avvenuto nella notte tra l'8 ed il 9 settembre 1944 fu un'azione partigiana. Infatti il documento in data 24.5.1945 dell'Associazione nazionale partigiani d'Italia, sede di Forlì («Relazione sugli impiccati nella località San Tomè»), riferisce che Celso Foietta, Antonio Zaccarelli, Michele Mosconi e Antonio Gori detto Natale collaboravano attivamente con le armate partigiane, ed in particolare che Celso Foietta e Antonio Zaccarelli facevano parte dell'8° Brigata Garibaldi. Maria Ruscelli Mosconi e Celso Gori dichiararono al S.I.B. che anche Michele Mosconi e Antonio Gori, detto Natale, appartenevano alla stessa 8° Brigata Garibaldi. Il documento in data 24.5.1945 aggiunge che in seguito ad un'azione effettuata dai partigiani - non precisa di quale formazione - furono impiccate sei persone, ossia i quattro e altre due persone non identificate (Emilio e Massimo Zamorani sono stati identificati successivamente). Si tratta dell'eccidio di San Tomè, seguito all'azione della notte immediatamente precedente. L'azione rientra nell'ambito di applicazione del d.l.vo.lgt. 12.4.1945 n. 194, che dispone: «Sono considerate azioni di guerra, e pertanto non punibili a termini delle leggi comuni, gli atti di sabotaggio, le requisizioni e ogni altra operazione compiuta dai patrioti per la necessità di lotta contro i tedeschi e i fascisti nel periodo dell'occupazione nemica. Questa disposizione si applica tanto ai patrioti inquadrati nelle formazioni militari riconosciute dai comitati di liberazione nazionale, quanto agli altri cittadini che li abbiano aiutati o abbiano, per loro ordine, in qualsiasi modo concorso nelle operazioni per assicurarne la riuscita». Secondo Cass. 23.2.1999, dep. 18.3.1999 n. 1560, Bentivegna, è da escludere che le operazioni considerate nell'articolo unico del decreto luogotenenziale siano «esclusivamente quelle "di contorno", non coinvolgenti diritti primari della persona umana. Il termine "operazioni", applicato ad un contesto che storicamente è di lotta armata, comprende qualsiasi atto, anche cruento, volto a combattere il nemico. La legge di guerra approvata con r.d. 8.7.1938 n. 1415, all. A, dedica l'intero titolo II alle "operazioni belliche", che comprendono "atti di ostilità" (capo II, sez. I) implicanti "l'uso della violenza" (art. 35), e il "bombardamento" (capo II, sez. II). L'interpretazione riduttiva del termine appare infatti non corretta dal punto di vista letterale, poiché contrasta con l'espressione "ogni altra" che immediatamente lo precede; collide con la struttura sistematica dell'articolo unico del decreto luogotenenziale, che collocando nell'ambito delle "azioni di guerra" gli atti menzionati non può prescindere da quelle che sono in genere la caratteristiche delle azioni nel cui novero gli atti medesimi sono inseriti; stride con la volontà del legislatore, desunta dalla situazione storica nella quale la norma è stata emanata, indirizzata ad attribuire riconoscimento di liceità ad ogni azione diretta alla liberazione del territorio nazionale ed alla fine del regime fascista, volontà palesemente espressa in una serie di disposizioni di legge dell'epoca e successive [disposizioni che la sentenza ricapitola, n.d.e.]. Si tratta di provvedimenti normativi connessi alla nostra storia, alla formazione della Repubblica Italiana ed ai principi sui quali la Costituzione si fonda (si pensi alla XII disposizione transitoria alla Costituzione), conformi alla "intenzione del legislatore" pur se considerata oltre al momento in cui è stata espressa ed in senso attuale». Per questo, già in precedenza Cass. SS.UU. civili 19.7.1957 n. 3053 ha stabilito che la lotta partigiana è una legittima attività di guerra. E del resto, la legge 11.11.1947 n. 1317, modificando l'art. 290 c.p., ha previsto come reato il vilipendio delle forze della Liberazione. Per quanto la somiglianza possa far pensare che anche l'accaduto precedente, quello della notte tra il 27 ed il 28 agosto 1944 fosse un'azione partigiana, non risulta un'attestazione dell'A.n.p.I. e restano alcuni dubbi. Il teste Pettini, comandante partigiano per il Comitato di liberazione nazionale, ha dichiarato: «avevamo dato un preciso ordine tassativo che non potevamo fare nessuna azione isolata in attesa del movimento degli inglesi [...] l'ordine era di non fare pazzie [...] non eravamo uomini così esperti nell'uso degli esplosivi come poi quell'attentato ha dimostrato essere, quindi c'era qualcuno che era molto esperto [...] già l'uso di quelle mine comportava rischi per la stessa persona che le usava». D'altra parte, considerato che le due azioni sono simili, e che una fa parte della Resistenza per esplicita dichiarazione dell'A.n.p.I., bisogna ridimensionare anche la valenza dell'ordine di non eseguire azioni isolate, e del tipo di congegno esplosivo usato, aspetti che sembrerebbero applicabili ad entrambe le azioni. Inoltre, ammesso che l'accaduto della notte tra il 27 ed il 28 agosto 1944 fosse opera di elementi non dipendenti dal Comitato di liberazione nazionale, non per questo sarebbe estraneo alla Resistenza, perché «l'art. 7 del d.legisl. 21.8.1945 n. 518 considera partigiani combattenti gli appartenenti sia alle formazioni armate inquadrate dipendenti dal Comitato di liberazione nazionale, sia a quelle non inquadrate. Quindi anche le squadre indipendenti sono state qualificate come organi combattenti dello Stato Italiano» (Cass. SS.UU. civili 19.7.1957 n. 3053). Va anche detto che almeno altre attività dannose per i tedeschi, quelle nocive alle linee telefoniche, potevano essere compiute dai fascisti italiani, come ha ricordato il teste Duilio Fulgori in dibattimento: «La notte tagliavano i fili, dicevano che erano i partigiani. Invece dopo passato il fronte tre o quattro di Roncadello non sono mica venuti più a casa, sono rimasti al nord, e sono andati a casa e hanno trovato i fili che tagliavano: erano i fascisti». Non è chiaro se si trattasse di atti con fine di danneggiamento, oppure di furti del metallo, ma il teste si riferisce chiaramente a fascisti italiani che con lo spostamento del fronte verso nord, seguirono poi le forze armate tedesche, lasciandosi in casa alcuni fili tagliati. Quindi, l'azione della notte tra l'8 ed il 9 settembre 1944 fu lecita. Anche l'azione della notte tra il 27 ed il 28 agosto 1944 lo fu, a meno che fosse un'azione dei fascisti, come sembra ipotizzabile secondo la deposizione del teste Fulgori. Ma anche in quest'ultimo caso, non sarebbe stata comunque legittima una rappresaglia su vite umane, come si argomenta di seguito. 17. La rappresaglia È stato invocato l'istituto della rappresaglia. Il tema della rappresaglia, proprio come istituto giuridico, è condizionato da vari fattori. Un primo fattore, sta nelle caratteristiche oggettive dei fatti giudicati in tutte le vicende processuali più conosciute, relative ad omicidi di italiani compiuti da militari tedeschi durante l'occupazione. In particolare, è condizionato dal rapporto numerico fra i morti italiani negli eccidi e i morti tedeschi nei fatti che li precedettero. È opportuno un accenno (basato sulle sentenze, ma con l'avvertenza che le quantità dei morti possono essere rettificate da ricerche successive). Nell'eccidio delle Fosse Ardeatine: trentatré tedeschi, trecentotrentacinque italiani. Nell'eccidio del Turchino: cinque tedeschi, cinquantanove italiani; nell'eccidio di Cravasco: otto tedeschi, venti italiani (Trib. mil. Torino 15.11.1999, Engel). Nell'eccidio di Falzano di Cortona e di San Pietro a Dame: due tedeschi, sedici italiani (Trib. mil. La Spezia 28.9.2006 n. 43, Stommel). In uno degli eccidi giudicati da Trib. mil. Verona 15.11.1988 n. 217, Schintlholzer: modeste perdite tedesche, trentatré italiani. Nell'eccidio di Bardine San Terenzo, diciassette tedeschi, cinquantatré italiani (Trib. mil. territoriale Bologna 31.10.1951 n. 483, Reder). Gli altri casi giudicati più noti si riferiscono a omicidi di italiani dopo azioni contro i tedeschi in cui non è morto nessun tedesco (è il caso dell'eccidio di Alano, dopo un attacco ad un trasporto ferroviario: Trib. mil. territoriale Padova 16.6.1962, Niedermajer), oppure dopo azioni contro i tedeschi in cui sono morti italiani (è il caso dell'eccidio di piazzale Loreto, dopo l'azione contro un autocarro tedesco: Trib. mil. Torino 9.6.1999, Saevecke). Oppure si riferiscono a omicidi di italiani per i quali non è stato mai possibile accertare con sicurezza un effettivo collegamento con precedenti azioni specifiche contro i tedeschi. O ancora, si riferiscono a omicidi di italiani in campi di concentramento (Corte d'assise Bolzano, sezione speciale, 13.12.1946 n. 33, Gutweniger; Trib. mil. Verona 24.11.2000, Seifert), o in prigionia (Trib. mil. territoriale Roma 16.10.1948 n. 835, Wagener). Anche per questo la giurisprudenza, a scapito della questione - logicamente antecedente - dell'esistenza dell'istituto della rappresaglia su vite umane, si è diffusa sull'aspetto della proporzionalità, tendendo spesso a considerarlo prevalente. Con conseguenze mai risolte, fra cui quella di un'irrimediabile incertezza su quale sia la soglia della proporzione accettabile fra il numero di morti da una parte, e il numero di morti dall'altra. Un secondo fattore, si ricava dal segno delle sentenze in tema di rappresaglia. Fra le sentenze più note che hanno giudicato omicidi commessi da militari tedeschi durante l'occupazione, non è rintracciabile alcuna assoluzione per rappresaglia. Fra i processi in cui è stata invocata la rappresaglia vi sono state assoluzioni, ma per altri motivi, specialmente in ordine alla partecipazione individuale dell'imputato al fatto, o per aver eseguito ordini. Nessun imputato risulta assolto per il solo motivo di aver eseguito una rappresaglia. Ma le motivazioni delle sentenze, quando è stato invocato il diritto di rappresaglia, hanno riconosciuto l'esistenza astratta dell'istituto (fa per alcuni aspetti eccezione, come si dirà in seguito, Trib. mil. territoriale Bologna 31.10.1951 n. 483, Reder), escludendone la sussistenza in concreto, in ciascun caso giudicato. In questo ambito, sta a sé solo Trib. mil. territoriale Napoli 6.4.1950 n. 275, Schmidt, che qualifica alcuni eccidi commessi a Torino (gli eccidi di Pian di Lot, Giaveno e via Cibrario) come rappresaglie fuori dei casi consentiti (art. 176 c.p.m.g.); anche quest'ultima sentenza, tuttavia, non applica l'istituto con effetto scriminante, e giunge alla condanna dell'imputato. In sostanza, dell'istituto si è trattato per dire sempre che è altrove, quasi trasformandolo di fatto in un perpetuo obiter dictum. Già questo elemento basterebbe, ad insinuare qualche perplessità. C'è da chiedersi se possa esistere, un istituto giuridico che non si applica mai. È utile un esame più specifico della giurisprudenza. In Trib. mil. territoriale Roma 20.7.1948 n. 631, Kappler, si legge: «L'istituto della rappresaglia è stato oggetto di accurato esame da parte della dottrina internazionalista, la quale, sulla base delle pratiche invalse, ne ha formulato il fondamento, il contenuto ed i limiti. Il fondamento della rappresaglia è dato dalla necessità di attribuire allo Stato offeso un mezzo di autotutela in conseguenza ed in relazione ad un atto illecito di uno Stato straniero. L'esercizio di essa è strettamente collegato alla esistenza di una responsabilità a carico dello Stato cui si riporta quell'atto. È sulla base di questo presupposto che allo Stato offeso è dato colpire, per rappresaglia, un qualunque interesse dello Stato offensore. Quanto al contenuto è principio unanimemente accolto che la rappresaglia deve essere proporzionata all'atto illecito contro cui si dirige, ma non necessariamente della stessa natura. Il principio della proporzione caratterizza l'istituto della rappresaglia. Questa deve avere scopo repressivo e preventivo, non vendicativo. Con la rappresaglia si vuole fare cessare un'attività illecita ovvero si agisce perché non si ripeta un atto lesivo. Essa, quindi, deve agire come controspinta idonea a tale scopo, non in maniera superiore poiché altrimenti si trasforma a sua volta in atto ingiusto. Questo concetto è pacifico nella dottrina internazionalista. Un limite generale esiste per la rappresaglia ed è dato dal divieto di non violare [sic] con essa quei diritti che sanzionano fondamentali esigenze». Eppure, certamente fra le fondamentali esigenze c'è la vita. Seguono riferimenti agli «scrittori del secolo passato», alla «più autorevole dottrina», poi ancora alla «dottrina (Ferrara, Franceschelli, Bobbio)» alle «critiche del Trieppel, dell'Anzillotti, del Monaco», ancora alla «dottrina oggi comunemente accolta». Questo, secondo la sentenza Kappler del 1948, nell'argomentazione che quando l'attacco sia riferibile allo stato occupato, lo stato occupante può reagire con la rappresaglia. Perciò «Dall'accennato rapporto sussistente fra il movimento partigiano e lo Stato italiano deriva che in conseguenza dell'atto illegittimo di via Rasella, lo Stato occupante aveva il diritto di agire in via di rappresaglia. La questione, quindi, si risolve nell'accertare se la fucilazione [fu un massacro, n.d.e.] di 335 persone alle Fosse Ardeatine costituisca una rappresaglia ovvero un'azione diversa.» Dunque, Trib. mil. territoriale Roma 20.7.1948, Kappler, prende atto che la Resistenza è riconducibile allo stato italiano (lo dice il d.l.vo.lgt. 12.4.1945 n. 194), e che ciò vale per ogni sua iniziativa, compreso l'attacco a via Rasella. La Costituzione è entrata in vigore il 1° gennaio 1948. Il 20 luglio 1948, la sentenza deve scegliere. O dice che la rappresaglia su vite umane non è un istituto giuridicamente esistente, non si può mai fare. In questo caso non tratta la legittimità dell'attacco a via Rasella, né la proporzionalità, né altri aspetti della rappresaglia; sarebbero argomenti superflui. Oppure dice che la rappresaglia su vite umane esiste, ed in questo modo valuta il suo presupposto nel caso concreto, ossia l'esistenza di un illecito riferibile allo Stato italiano. Così, si delegittima l'attacco a via Rasella, un'azione importante della lotta partigiana in Italia, certamente la più famosa: diventa una macchia sulla Resistenza. La sentenza sceglie. Inoltre, la sentenza del 1948 non dà conto che al processo di Norimberga, svolto (per quanto qui interessa) dal 1945 al 1946, sono stati applicati principi fondamentali, principi per cui la vita umana è più importante delle considerazioni militari, delle ragioni o sragioni di stato, delle proporzionalità possibili o indefinibili. Va considerato però che la sentenza Kappler del 1948 precede la formulazione dei Principi di Norimberga; essi sono il risultato di un'elaborazione e interpretazione giuridica svolta a partire dal 1947, ma sono stati stabiliti nel 1950. Tuttavia non hanno carattere innovativo, ma costituiscono la presa d'atto di principi preesistenti. In Trib. mil. territoriale Napoli 6.4.1950 n. 275, Schmidt, si legge fra l'altro che l'imputato «impedì la distruzione dei macchinari della FIAT e lo stesso arcivescovo di Torino ebbe a dire "i torinesi dovrebbero ringraziare la Consolata di avere avuto lo Schmidt al Comando e non un altro"». Si legge anche: «la rappresaglia, che è un mezzo coercitivo con cui uno stato reagisce ad atti illeciti commessi nei suoi riguardi da un altro stato al fine di richiamarlo al rispetto del diritto, ha come suo presupposto lo stato di belligeranza di due contendenti: nel caso in esame ciò non sussiste perché i partigiani sono da considerarsi illegittimi belligeranti e la rappresaglia fra legittimo belligerante e illegittimo belligerante non è consentita». L'obiezione che argomentando così, si consente l'uccisione di prigionieri militari per rappresaglia, è recepita dalla sentenza come conseguenza accettata: «il legittimo belligerante, per costringere all'osservanza delle norme sulla condotta della guerra il nemico legittimamente belligerante, non ha che la sola arma della rappresaglia [...] Il legittimo belligerante che viene ucciso a seguito di un giusto atto di rappresaglia cade per un atto legittimo di guerra». In Trib. mil. territoriale Bologna 31.10.1951 n. 483, Reder, si leggono considerazioni di altro contenuto. Si ritiene che né per convenzione, «né in tutto il restante complesso delle norme di diritto internazionale esiste, sotto qualunque forma, un divieto per cui non sia lecito ad uno stato il permettere l'organizzazione e l'azione di forze "comunque" armate». Così, «comunque per il fatto della esistenza di formazioni partigiane uno stato non viola certo un obbligo internazionale (non si può infatti violare un divieto che non esiste), e quindi non sorge e non può sorgere nello stato nemico alcun titolo giuridicamente valido che comporti il ricorso alla legittima rappresaglia». La resistenza è di per sé un fatto lecito, non legittima rappresaglie. Ma Reder è giudicato per più eccidi, e fra di essi uno solo, quello di Bardine San Terenzo, segue ad un attacco partigiano. Se anche fosse ammessa la rappresaglia, Reder sarebbe condannato per gli altri eccidi; si evita un distinguo fra gli eccidi, fra i capi d'imputazione, fra le vittime. Ancora nel processo Kappler, la sentenza del Tribunale supremo militare non approfondisce sulla rappresaglia (Trib. supremo mil. 25.10.1952 n. 1714, Kappler). La Cassazione non si pronuncia, l'imputato rinuncia al ricorso. Comunque, esistevano limiti all'intervento della Cassazione, dovuti alla struttura della giustizia militare dell'epoca. Ma va ricordato che è di quegli anni la limpida sentenza Cass. SS.UU. civili 19.7.1957 n. 3053 sulla legittimità della lotta partigiana. Poi, si continua a ripetere che esiste il diritto di rappresaglia su esseri umani. Ma ogni ripetizione di questo istituto giuridico immaginario, realizza un concreto effetto lesivo contro la Resistenza, cioè contro la Costituzione. Il resto segue, con alternanza tra sforzi di rielaborazione e riepiloghi nell'ineluttabilità. Trib. mil. Verona 15.11.1988 n. 217, Schintlholzer, lascia impregiudicata la questione della rappresaglia su persone, dicendo che «la reiterata e disumana violenza [...] non può essere valutata all'interno dello schema riduttivo della rappresaglia [...] che, comunque, comporta il riferimento a condizioni e procedure». Così, l'istituto della rappresaglia su vite umane esce indenne dal ragionamento: si ammette che l'uccisione di persone per rappresaglia sia consentita, benché subordinata a procedure. Trib. mil. Roma 1.8.1996 n. 305, Priebke e Trib. mil. Torino 15.11.1999, Engel, affermano l'esistenza dell'istituto della rappresaglia su persone, ma negano in concreto la proporzionalità, e quindi escludono la legittimità della rappresaglia nei casi in concreto esaminati. Corte mil. appello Roma 7.3.1998 n. 24, Hass, argomenta: «La sentenza impugnata e la sentenza del 1948 [la sentenza Kappler, n.d.e.] hanno, poi, diffusamente dimostrato che comunque sarebbe difettato il requisito di proporzionalità della pretesa rappresaglia. Basta aggiungere a quelle esatte considerazioni il rilievo che, anche ammesso che all'epoca non sussistesse un divieto inderogabile di sottoporre la popolazione civile alla rappresaglia bellica, il requisito in parola, comunemente accettato, avrebbe comunque dovuto correlarsi all'illecito contro il quale si intendeva reagire piuttosto che ad una eventuale finalità dissuasiva». La sentenza non afferma univocamente che uccidere per rappresaglia non è mai consentito, ma conferma l'illiceità dell'uccisione nel caso giudicato. L'effetto, è che si salva l'istituto della rappresaglia su persone. L'argomentazione «anche ammesso che all'epoca non sussistesse un divieto inderogabile» lascia aperto un importante dubbio giuridico. Trib. mil. La Spezia 28.9.2006 n. 43, Stommel, cita dottrina, rilevando: «Tuttavia, gli stessi giuristi tedeschi richiedevano, all'uopo, che le popolazioni dovessero essere avvertite che si sarebbe proceduto alla cattura di ostaggi (che sarebbero stati uccisi in caso di ulteriori atti di ostilità) e che, inoltre: si prendessero in ostaggio solo maschi in età per svolgere il servizio militare o l'attività lavorativa; la decisione della rappresaglia venisse assunta da un tribunale militare, almeno a livello divisionale (all'esito, evidentemente, di un'istruttoria che consentisse di accertare la gravità dell'aggressione subita e di stabilire, conseguentemente, la necessità e la proporzione della reazione).» Eppure non si sta applicando diritto tedesco, e chi si trova in territorio italiano, non può invocare di aver agito secondo il suo diritto nazionale. Lo si evince anche da Cass. SS.UU. civili 19.7.1957 n. 3053, quando, seppur argomentando sotto un altro aspetto, afferma che la liceità delle azioni partigiane va esaminata secondo la legge italiana: «la questione se gli autori dell'attentato fossero legittimi belligeranti si sarebbe potuta porre alla stregua delle leggi germaniche, nell'ipotesi in cui essi fossero stati catturati dalle forze nemiche, al fine di stabilire a quale trattamento avrebbero potuto essere sottoposti dalle autorità tedesche». Ma la sentenza Stommel del 2006 contiene un'affermazione notevole per lucidità di orientamento: «L'ambigua formulazione dell'art. 43 del regolamento sulle leggi e gli usi della guerra terrestre, approvato all'Aja nel 1907, vigente all'epoca dei fatti, consentiva, secondo talune interpretazioni ancora proposte (ma non più accettabili) nel periodo della II Guerra mondiale, la "fucilazione" di ostaggi (e dunque il sacrificio di vite umane innocenti) al fine di "mantenere l'ordine" nei territori occupati. [...] In ogni caso, se correttamente interpretato, il predetto regolamento escludeva in radice la legittimità di "rappresaglie" in danno della vita dei cittadini dello Stato occupato (cfr. Corte mil. app. 24.11.2005, Langer).» Proprio perché il riferimento alla sentenza Langer non è strettamente risolutivo (si tratta della sentenza sull'eccidio di Farneta, che non fu successivo a specifici attacchi contro militari tedeschi), la sentenza Stommel del 2006 possiede un pregio che va in parte nella direzione segnata dalla sentenza Reder del 1951. Questo complessivo sviluppo giurisprudenziale, pur con importanti conquiste giuridiche, esprime un significativo percorso e insieme qualche difficoltà a giudicare il passato. Ci si riconosce portatori di una regola nuova, non si è sicuri di poterla applicare a fatti precedenti. Vi sono tratti di un antico imbarazzo a giudicare il nemico sconfitto: un modo per legittimarlo come avversario di pari dignità, cioè un modo per non valorizzare le proprie conquiste istituzionali e giuridiche, cioè ancora un modo per sottintendere la continuità con il passato. Anche per questo, il processo di Norimberga non sembra essere stato sufficientemente apprezzato. La mancata Norimberga italiana non è allora una mancata punizione o una mancata epurazione, ma qualcosa di più profondo. Non si è mancato di giudicare il passato, si è mancato di stabilire meglio cos'è il presente. Se non si ha chiaro che le democrazie postbelliche hanno il diritto, il dovere di giudicare la guerra e il fascismo e il nazismo, se si ammette anche solo dubitativamente che guerra, fascismo, nazismo possano essere giudicati soltanto secondo le loro stesse regole, vuol dire che l'elaborazione giuridica non ha compiutamente dato voce al presente, cioè alla democrazia e al ripudio della guerra, di cui all'art. 11 della Costituzione. Ma ancora talvolta compaiono in giurisprudenza la proporzionalità, e l'illiceità dell'atto partigiano. Non si è negato il diritto di uccidere, ed ecco che si riaffacciano la colpa e la misura. E insieme, contrastante col principio di liceità della lotta partigiana, anche il requisito della ricerca dei colpevoli. Condannare un militare tedesco per rappresaglia senza i presupposti, cioè argomentando che prima di fare la rappresaglia si sarebbero dovuti cercare gli autori dell'azione partigiana, suona come condannarlo perché non ha represso la Resistenza. Così esaminata la più significativa giurisprudenza, va detto che certamente l'istituto della rappresaglia esiste, tanto che è previsto il reato di rappresaglia fuori dei casi consentiti (art. 176 c.p.m.g.). Ma occorre chiedersi se effettivamente esista l'istituto della rappresaglia su vite umane. La norma che si cita a proposito di rappresaglia è l'art. 8 della legge di guerra (Allegato A al r.d. 8.7.1938 n. 1415), secondo cui «l'osservanza di obblighi derivanti dal diritto internazionale può essere sospesa a titolo di rappresaglia, anche in deroga a questa o ad altra legge, nei confronti del belligerante nemico, che non adempie, in tutto o in parte, a detti obblighi. La rappresaglia ha il fine di indurre il belligerante nemico a osservare gli obblighi derivanti dal diritto internazionale, e può effettuarsi sia con atti analoghi a quelli da esso compiuti, sia con atti di natura diversa. Non può essere sospesa, a norma del primo comma, l'osservanza di disposizioni emanate per l'adempimento di convenzioni internazionali, che escludono espressamente la rappresaglia». La norma era già in vigore all'epoca dei fatti, ed un diverso contenuto giuridico della rappresaglia, conforme a norme precedenti, di qualsiasi fonte, sarebbe irrilevante: l'art. 2 del r.d. 8.7.1938 n. 1415 prevede che «È abrogata ogni disposizione contraria a quelle contenute in questo decreto e negli allegati A e B, o con esse incompatibile». Dunque la rappresaglia consiste nel non osservare obblighi internazionali. Posto ciò, non occorre neppure dimostrare come la non osservanza non possa consistere nell'uccidere persone. Per l'autorità giudiziaria dello Stato esiste comunque la tutela della vita umana, e semmai andrebbe dimostrata l'esistenza di una norma che a questa regola facesse eccezione. Perciò anche il fatto che (come rilevato da Trib. mil. La Spezia 22.6.2005 n. 45, Sommer), già durante la guerra esistessero vaste, durevoli controversie dottrinali riguardo alla rappresaglia su vite umane in diritto internazionale, non incrina affatto la regola, ma rende incerta, appena ipotetica l'esistenza dell'eccezione. Quindi impone di applicare la regola. Il dubbio dottrinario non può certo paralizzare la soluzione del problema, né far ritenere che in mancanza di una composizione accademica della disputa, l'autorità giudiziaria possa considerare lecita l'uccisione di esseri umani. E proprio il fatto che la sentenza Reder del 1951 sia così remota, decisa appena sei anni dopo la fine della guerra, conferma come neppure all'epoca fosse vigente un diritto internazionale non scritto, favorevole alle rappresaglie dopo un attacco partigiano. Né può invocarsi in senso contrario Trib. mil. territoriale Napoli 6.4.1950 n. 275, Schmidt. E non soltanto perché anche quest'ultima sentenza, in realtà, ammette sì la rappresaglia, ma con un'affermazione che di fatto è un obiter dictum, perché la rappresaglia viene ammessa esclusivamente su vite di militari, mentre si sta giudicando sull'uccisione di non militari. Ma anche perché per giungere a quell'affermazione, la sentenza ritiene illecita la lotta partigiana (un argomento su cui Cass. SS.UU. civili 19.7.1957 n. 3053 ha sgombrato il campo da ogni ambiguità). In via incidentale, l'inattendibilità dell'istituto della rappresaglia su vite umane è sostenuta anche da Trib. Roma 27.11.1975, Katz, peraltro con un'affermazione rilevante ai fini della decisione: il Tribunale (sulla base di una deposizione testimoniale resa il 27.10.1975 dal colonnello SS Eugen Dollmann, in servizio a Roma nel marzo 1944) prende atto che - successivamente all'attacco partigiano in via Rasella, e prima dell'eccidio alle Fosse Ardeatine - il colonnello Dollmann comunicò con il padre Pfeiffer, generale dei Salvatoriani e in assiduo contatto con il Vaticano, facendo riferimento a rappresaglie. Ma il Tribunale ritiene, anche sulla base del diritto all'epoca applicabile, che questa comunicazione comportasse «l'ovvia esclusione di ogni possibilità allusiva a rapporti di proporzione tra gli uccisi e le vittime». E in via principale, confortano la convinzione che non esista l'istituto della rappresaglia su vite umane, anche i già citati Principi di Norimberga (stabiliti nel 1950 dalla Commissione di diritto internazionale delle Nazioni Unite, su incarico dell'Assemblea generale conferito nel 1947, e di cui la stessa Assemblea generale ha preso atto nel 1950), secondo cui (principio VI, lett. B) costituiscono crimini di guerra l'uccisione di civili in territori occupati, e l'uccisione di ostaggi. Se non è consentita l'uccisione di ostaggi, cioè persone catturate in precedenza, non è consentita neppure l'uccisione di persone catturate non appena si è subìto un attacco. Ciò consente anche di ridimensionare la questione degli ostaggi. Chi cattura ostaggi, lo fa in vista della loro uccisione, perché prevede che ciò si potrà rendere opportuno. Quindi anticipa la violenza. Chi uccide persone inermi, tende poi a farle considerare come ostaggi, cioè persone che ricevono un castigo meritato da altri. Quindi svia la violenza. Così, la questione degli ostaggi si risolve in uno spostamento della violenza, nel tempo o nel bersaglio. Ma non deve essere consentito che quello spostamento distolga l'attenzione dalla questione centrale, ossia dall'inesistenza dell'istituto della rappresaglia; diversamente sarebbe il ragionamento giuridico, a rimanere ostaggio di un'argomentazione fuorviante. Per questo, Corte mil. appello Roma 7.3.1998 n. 24, Hass, ha l'accortezza di affrontare la «ricostruzione della dinamica di formazione e di veicolazione dell'ordine ricevuto dal Kappler relativo alla uccisione degli "ostaggi" italiani», guardandosi bene dal lasciarsi imprigionare nella distinzione fra quali vittime fossero da considerare ostaggi e quali no. Né può riconoscersi la rappresaglia mediante uccisione di soli partigiani catturati, se si considera che non è consentita l'uccisione di militari prigionieri, che provengono da formazioni armate con capacità offensiva assai maggiore di quella della più efficiente formazione resistenziale. In proposito è anche da escludere ogni dubbio derivante dalle incertezze in diritto internazionale in tema di partigiani. Il fatto che esista diritto internazionale a tutela dei militari non può essere un argomento per consentire che i non militari che prendono parte ad una resistenza diventino carne da rappresaglia, in attesa di una codificazione sul tema. Né può farsi differenza tra una resistenza svolta da organizzazioni ampie, a sfondo nazionale e dai tratti politici meno marcati, e una resistenza svolta da organizzazioni ristrette e politicamente più orientate, o addirittura da piccole formazioni, come non può farsi differenza tra i gruppi a seconda delle loro convinzioni politiche o comunque culturali: «Poiché nulla autorizza a considerare il fenomeno partigiano come illecito internazionale, nel silenzio delle norme internazionali è arbitrario ricercare motivi per una affermazione di illiceità» (Trib. mil. territoriale Bologna 31.10.1951 n. 483, Reder). Insomma, non esiste l'istituto della rappresaglia su vite umane. Quindi, il reato di rappresaglia fuori dei casi consentiti (art. 176 c.p.m.g.) riguarda le ipotesi in cui la rappresaglia, consistente in un nocumento diverso dalla privazione della vita, è disposta in assenza dei suoi presupposti. Quando sono offese vite umane, non si tratta affatto di rappresaglia e non può mai applicarsi l'art. 176 c.p.m.g. In realtà, la rappresaglia su vite umane è un abito immaginario dell'omicidio, di fronte al quale non è giuridicamente corretto disperdere l'attenzione esaminando la proporzionalità o altri elementi. È come se di fronte a un «re nudo», di cui alcuni dicono di vedere il vestito, anziché dire che è nudo, si preferisse la cautela di dire che il vestito è corto, e che lascia il re troppo scoperto. 18. La repressione collettiva È anche da escludere, proprio perché si tratta di uccisione di esseri umani, che agli eccidi si applichi l'istituto della repressione collettiva, di cui all'art. 50 della Convenzione dell'Aia del 18 ottobre 1907, contenuto nella sezione III intitolata De l'autorité militaire sur le territoire de l'Etat ennemi, secondo cui: «Aucune peine collective, pécuniaire ou autre, ne pourra être édictée contre les populations à raison de faits individuels dont elles ne pourraient être considerées comme solidairement responsables», norma recepita nell'art. 65 dell'allegato A (c.d. legge di guerra) al r.d. 8.7.1938 n. 1415: «nessuna sanzione collettiva, pecuniaria o di altra specie, può essere inflitta alle popolazioni a causa di fatti individuali, salvoché esse possano esserne ritenute solidamente responsabili». Come ritenuto da Trib. mil. territoriale di Roma, 20.7.1948 n. 631, Kappler, «Trattasi di una norma eccezionale, la quale opera nel territorio di occupazione quando non si sia giunti a risultati positivi con i normali procedimenti. In sostanza, la responsabilità collettiva può sorgere quando si sia dimostrata impossibile l'individuazione del colpevole o dei colpevoli. [...] L'art. 50 non opera di per se stesso, ma in quanto l'occupante lo abbia tradotto in una norma di diritto interno, valevole nel territorio di occupazione, con la quale sono posti i criteri per la determinazione della solidarietà collettiva. [...] L'emanazione di una norma di diritto interno, sulla base di quell'articolo, è il necessario presupposto per il sorgere di una responsabilità collettiva della popolazione nel senso specificato. [...] non sembra che le repressioni collettive in questione possano attuarsi su persone [...] Infine, va osservato che dal dibattimento non è risultato che lo stato occupante abbia emanato, sulla base dell'art. 50, una norma contenente i criteri circa la solidarietà collettiva». Anche secondo Trib. supremo mil. 13.3.1950, Wagener «l'art. 50 ha avuto essenzialmente di mira le pene pecuniarie, pur non escludendo la possibilità che possano essere applicate pene di altra natura, ma non certo quella estrema». Heinrich Nordhorn 19. Perché? Sulle tematiche della rappresaglia e della repressione collettiva, come su quella dell'assenza di necessità o giustificato motivo, è pesantemente condizionante l'immediato riferimento alle azioni contro i tedeschi compiute con le mine poco prima degli eccidi, al punto che ogni esame dell'argomento si trova a misurarsi con quelle azioni come con riferimenti obbligati. Anche questa sentenza, per coerenza processuale e giuridica, segue questo percorso. Tuttavia il condizionamento deve essere ridimensionato, proprio per motivi giuridici. Il collegamento fra gli eccidi e le azioni contro le truppe tedesche è dato per scontato con un automatismo eccessivo, nel senso che sembra costruire un nesso di causalità semplice, comodo, capace di spiegare tutta la vicenda e di ricondurla dentro uno schema ordinato. È come se gli eccidi fossero visti attraverso un teleobiettivo, che isola il fatto dal contesto, concentra l'attenzione su un segmento di realtà e soprattutto appiattisce la prospettiva, sì che cose lontane sembrano schiacciate le une sulle altre, e cose vicine ma fuori campo diventano inesistenti. Restando nella metafora, bisognerebbe invece usare anche il grandangolo, per avere una visione più d'insieme. Qui, si tratteggia qualche cenno. Gli eccidi si collocano tra l'avanzata del fronte e la liberazione di Forlì. Essi sono cronologicamente circa a metà strada fra il definitivo superamento alleato della linea Albert, quasi contemporaneo alla liberazione di Osimo, nei primi di luglio 1944, e la liberazione di Forlì, avvenuta il 9 novembre 1944. L'eccidio delle Fosse Ardeatine è del 24 marzo 1944, poco più di due mesi dopo lo sbarco di Anzio, e poco più di due mesi prima della liberazione di Roma. Anche questi nessi, non possono certo costruire a carico dell'imputato responsabilità giuridiche personali per vicende lontane e molto più vaste della sua singola posizione, eppure non possono essere accantonati come puramente casuali, e servono a comprendere come sia riduttiva la spiegazione degli eccidi come semplici rimbalzi dei singoli fatti che immediatamente li precedono. Avvedutamente, il capo d'imputazione colloca gli eccidi ad un estremo di un legame causale: «a scopo di rappresaglia antipartigiana e di intimidazione della popolazione del luogo». Eppure questa formula, pur doverosa all'interno di una logica oggettiva quale è quella del processo penale, si attiene all'ambito di un iter strettamente logico dei fatti, tagliandone fuori tutto il quadro d'insieme e tutti i risvolti sociali ed emotivi. L'ambito dell'iter logico è insufficiente proprio perché è solo logico. Certo, quello scopo esiste, ed in particolare esiste quel tratto di intimidazione della popolazione, che ha portato sia la giurisprudenza più remota (Trib. mil. territoriale Bologna 31.10.1951 n. 483, Reder), che quella più recente (Trib. mil. La Spezia 28.9.2006 n. 43, Stommel) a fare riferimento al terrorismo. Non è un caso, che queste due sentenze si distinguano, sulla strada verso la smentita dell'esistenza dell'istituto giuridico della rappresaglia su vite umane: il riconoscimento che il terrore è fabbricato, va di pari passo con la consapevolezza che la violenza subìta non è un castigo. Ma gli eccidi sono anche una forma di guerra preventiva contro la popolazione, ed i loro legami con i fatti che li precedono non sono automaticamente più stretti di quelli con i fatti che li seguono e li accompagnano. L'aspetto dell'intimidazione è connesso con quello dello sfruttamento delle risorse. Con l'occupazione dell'Italia, la Germania ebbe accesso alle disponibilità residue delle forze armate terrestri italiane, prese il controllo delle risorse industriali, si impadronì della forza lavoro di una enorme quantità di adulti abili - sia civili che militari - anche tramite deportazioni, e trasformò ampi territori, specialmente i rilievi appenninici, in una fortificazione a suo favore. Il seguito dell'occupazione fu un progressivo arretramento militare con contestuale depauperamento dell'Italia occupata, in cui gli eccidi si susseguirono come snodi di una lunga vicenda, e allo stesso tempo come moniti e castighi contro la defezione dall'economia di guerra tedesca. Anche le deportazioni successive all'eccidio di San Tomè, da cui alcuni non tornarono, sono un tassello dello sfruttamento delle risorse a beneficio di quell'economia. Significativa la deposizione in dibattimento di Marcello Cimatti: ««Arrivammo là in questo campo di notte, vidi erano tutti scarniti. Chi era ancora vivo, solo pelle e ossa. [...] Da lì ci mandarono poi a lavorare [...] in una fabbrica, Schwarzkopf si chiamava. [Produceva] i missili per i sottomarini. [...] Anche le domeniche, ci facevano lavorare. [...] Ci mandarono sul fronte russo, ci siamo stati fino non ricordo più, un mese, due mesi, finché un giorno ricordo che anche lì si lavorava, a mezzogiorno gli altri andavano a mangiare e noi stavamo lì ad aspettare che fosse l'orario che si doveva mangiare, eravamo pieni di pidocchi. [...] E dissero quando ci spostarono di lì: "andiamo a lavorare in un altro posto, state insieme che andiamo a lavorare da un'altra parte". E ricordo che io avevo una maglia, ero seduto perché era la bella stagione, abbiamo avuto quella fortuna lì, e allora io toglievo i pidocchi che avevo in questa maglia. Mi ero tolto la maglia, passò un tedesco e disse: "partigiano", così per scherzo; "no, partigiano no, sono pidocchi, questi".»» Nel ricordo insiste il lavoro, accompagnato dalle privazioni, con l'ombra della ribellione. Significativa anche la deposizione di Gino Fiorentini. Egli, che sentito dal S.I.B. ricordò la deportazione, con il transito in una caserma di Forlì, e poi il lavoro forzato in fabbrica in Austria, in dibattimento ha dichiarato: ««[gli investigatori del S.I.B.] hanno scritto tutto quello che io avevo passato, né di più né di meno. E poi io non ho saputo più niente, fino a che cinque, sei anni fa venne un maresciallo dei Carabinieri e mi invitò ad andare a Forlì in corso Mazzini alla caserma dei Carabinieri, e mi disse tutte queste cose che sono stato male per due, tre mesi, una forma nervosa che purtroppo ho da allora, e non mi ricordavo più niente, purtroppo non mi ricordo più»». Il ricordo della deportazione con la sosta in caserma a Forlì, dopo oltre cinquanta anni, ad una convocazione in caserma a Forlì per le indagini viene toccato, risuona come di un sofferto rimbombo, poi torna a nascondersi nel silenzio. Ma anche quello scopo intimidatorio non esaurisce le implicazioni profonde dei singoli eccidi, che scaricano su civili la violenza accumulata fra il conflitto locale e la sconfitta tedesca, e allo stesso tempo fra due movimenti del fronte, uno precedente, ed uno successivo, come se fosse possibile una sorta di momento apicale fra quando la tensione cresce mentre il fronte si avvicina, e quando effettivamente la liberazione la scioglie. Anche questo, conferma quanto sia impropria, e quindi giuridicamente fuorviante, l'accettazione meccanica del mito del multiplo esatto dieci italiani per ogni tedesco. Esso è il contrappeso degli eccidi stessi, la loro monumentale sistemazione mitologica. Il mito dieci italiani per ogni tedesco scarica sulla struttura - cioè su nessuno - le responsabilità di ciascuno. Gli eccidi scaricarono su qualcuno - le vittime - una violenza strutturale. Queste considerazioni, anche nell'ambito di un giudizio su responsabilità che restano strettamente personali, hanno una specifica rilevanza. Anzitutto, confermano che gli eccidi furono commessi per cause non estranee alla guerra, e questo è un elemento della fattispecie di cui all'art. 185 c.p.m.g. Inoltre, inquadrano proprio il comportamento ai fini della sussistenza dell'aggravante dei motivi abietti, che sarà esaminata in seguito. 20. I provvedimenti di clemenza Affermata la responsabilità, vanno presi in esame alcuni provvedimenti di clemenza che potrebbero sembrare applicabili. Non si applica il provvedimento di cui al r.d. 5.4.1944 n. 96, poiché il reato non rientra in nessuno dei casi previsti. Non si applica il provvedimento di cui al d.leg.luog. 29.3.1946 n. 132, sia poiché esclude i reati commessi con un fine in contrasto con quello indicato nell'art. 1 del r.d. 5.4.1944 n. 96 («liberare la patria dall'occupazione tedesca, ovvero ridare al popolo italiano le libertà soppresse e conculcate dal regime fascista»), sia poiché esclude i reati contro le leggi e gli usi di guerra. Per gli stessi motivi non si applica il provvedimento di clemenza di cui al d.c.p.s. 1.3.1947 n. 92. Non si applica il provvedimento di cui al decreto legislativo 29.1.1948 n. 28 e al d.p.r. 9.2.1948 n. 32, poiché ne sono esclusi i reati militari. Non si applica il provvedimento di cui al d.p.r. 19.12.1953 n. 922, poiché l'art. 1 esclude dall'amnistia i reati militari, e l'art. 2 prevede l'indulto per coloro che abbiano fatto parte di formazioni armate, e quindi non riguarda i militari, come confermato sin da Trib. supremo mil. 21.2.1956, Reder, e poi anche da Corte cost. 18.7.2000 n. 298, che ha appunto dichiarato infondata la questione di legittimità costituzionale dell'esclusione dei militari dal beneficio. Non si applica neppure l'amnistia di cui al d.p.r. 4.6.1966 n. 332, art. 2 lett. b), prevista solo per i cittadini (così anche Corte mil. appello Roma 21.11.2006 n. 65, Sommer). Come già ritenuto da Cass. 22.2.2002, dep. 22.4.2002 n. 15139, Priebke, e da Cass. 8.10.2002, dep. 5.12.2002 n. 40999, Seifert, l'art. 8 del Trattato di Maastricht, reso esecutivo con la legge 3.11.1992 n. 454, introduce fra i cittadini degli stati interessati una parità di trattamento solo ad alcuni effetti, e quindi l'imputato non può, quanto alla responsabilità penale, essere considerato come un cittadino italiano. 21. Le aggravanti Per quanto riguarda le circostanze aggravanti, va esclusa quella di cui all'art. 112 comma 1 n. 3 c.p., poiché non è dimostrato che, oltre alla presenza del vincolo gerarchico, l'imputato avesse in concreto determinato i subalterni, ossia che avesse dato corpo alla formazione della loro volontà con attività diverse dal solo impartire ordini. Tutte le altre aggravanti sussistono, accompagnate dal necessario elemento soggettivo. L'imputato era rivestito di un grado, e nell'eccidio di Branzolino da lui organizzato e diretto l'unico per cui sia stata contestata questa aggravante - si fece uso delle armi in dotazione per finire le vittime che non fossero subito morte per impiccagione; sul punto, non vale ad escludere l'aggravante il fatto che si tratti di eccidi posti in essere da un reparto militare, poiché così argomentando si ridurrebbe l'aggravante ai soli comportamenti individuali, senza che in tal senso operi alcuna attendibile limitazione della norma che prevede l'aggravante stessa. L'imputato agì in concorso con almeno altre quattro persone, e con inferiori in grado. Quest'ultima aggravante è confermata anche dalla deposizione di Irma Missiroli: il giorno dell'eccidio di San Tomè sentì proprio i militari, durante i preparativi, parlare fra di loro ripetendosi il cognome Nordhorn, evidentemente confermandosi e ricapitolando le sue istruzioni. Anche se la teste non sa il tedesco, era ben in grado di intendere nelle conversazioni la frequenza di quella parola. L'aggravante dell'aver concorso con inferiori in grado è compatibile con quella del grado rivestito, in quanto nella sussistenza di un grado non è necessariamente compreso il concorrere con inferiori, e quest'ultimo aspetto aggiunge al comportamento del reo un ulteriore tratto negativo. Il collegio non condivide l'orientamento di Trib. mil. La Spezia 22.6.2005 n. 45, Sommer, secondo cui l'aggravante dell'aver commesso il fatto con inferiori richiederebbe necessariamente la pronuncia di responsabilità nei confronti di almeno un inferiore. La sentenza del Tribunale militare della Spezia cita come precedente conforme Corte mil. appello Roma 20.7.1982 n. 371, Mauro, ma quest'ultima sentenza della corte ha escluso l'aggravante solo perché ha condannato il superiore ed ha assolto i concorrenti inferiori. Insomma, la corte ha considerato ostativo alla sussistenza dell'aggravante non che nessun inferiore sia condannato, ma che tutti gli inferiori siano assolti. Ebbene, di certo ogni fondamento dell'aggravante in questione viene meno se i concorrenti inferiori sono assolti, ma diverso è il caso in cui essi non siano affatto giudicati. Il collegio ritiene che, così come l'aggravante di aver concorso con almeno altre quattro persone (art. 112 comma 1 n. 1 c.p.) non richiede che anche altri concorrenti siano condannati (conformi Cass. 27.2.1984, dep. 15.6.1984 n. 5681, Chirico; Cass. 25.3.1983, dep. 23.9.1983 n. 7576, Torti; Cass. 19.4.1978, dep. 24.7.1978 n. 10062, Arienzo), anche il concorso con inferiori sia un dato oggettivo che - pur potendo essere escluso dalla loro assoluzione - non presuppone l'affermazione della responsabilità di almeno uno di essi. Del resto, Trib. mil. territoriale di Roma, 20.7.1948 n. 631, Kappler, applica l'aggravante del concorso con inferiori, assolvendo questi ultimi. E Trib. mil. territoriale Bologna 31.10.1951 n. 483, Reder, applica l'aggravante del concorso con inferiori, giudicando solo il superiore. Anche Corte mil. appello Roma 24.11.2005 n. 99, Langer, applica l'aggravante del concorso con inferiori, giudicando solo il superiore (ed anzi, con la consapevolezza che uno degli inferiori è già stato assolto da Trib. mil. territoriale La Spezia 16.12.1948 n. 419, Florin). L'imputato agì con premeditazione. Per la sussistenza di tale aggravante occorrono due elementi: uno cronologico, consistente in un apprezzabile intervallo di tempo fra decisione e azione (sufficiente a consentire al soggetto di desistere), e l'altro psicologico, consistente nel perdurare della risoluzione criminosa. Conformi: Cass. 18.6.2003, dep. 24.6.2003 n. 27307, Di Matteo; Cass. 29.10.1998, dep. 14.4.1999 n. 4678, Ventra; Cass. 13.6.1997, dep. 3.10.1997 n. 8974, Ogliari; Cass. 13.4.1995, dep. 27.6.1995 n. 7317, Abbà; Cass. 22.11.1993, dep. 4.2.1994 n. 1309, Albergamo; Cass. 15.3.1993, dep. 13.5.1993 n. 4956, Ardito; Cass. 1.6.1992, dep. 24.7.1992 n. 8375, Melazzani; Cass. 25.3.1992, dep. 9.5.1992 n. 5441, Rosato; Cass. 27.6.1991, dep. 25.7.1991 n. 8128, Vornetti; Cass. 1.2.1989, dep. 17.3.1989 n. 3930, Belsito; Cass. 7.10.1987, dep. 16.1.1988 n. 392, Mungo; Cass. 27.4.1987, dep. 23.11.1987 n. 11835, Puca. Gli eccidi non furono frutto di una decisione contestualmente attuata, o di una volizione di pronta esecuzione riconducibile alla cd. preordinazione. Anzi, trascorse un lasso di tempo più che apprezzabile, durante il quale il proposito di attuare gli eccidi si mantenne, e persino si estrinsecò con la predisposizione di una vera e propria macabra regia spettacolare, diffusa nei suoi più precisi dettagli (particolarmente significativi il trasporto delle funi, la costruzione dei patiboli e la forzata presenza degli spettatori). In proposito, è significativa anche Cass. 21.10.1988, dep. 26.1.1989 n. 1061, Colombo: «allorché il soggetto agente delibera di non uccidere personalmente, ma ne affida l'incarico ad altri, ricorre sempre la circostanza aggravante della premeditazione, salvi i casi eccezionali, da provarsi dall'imputato, in cui colui che ha dato l'incarico diventi oscillante quanto alle determinazioni o addirittura lo revochi». Per la realizzazione degli eccidi, l'imputato impartì ordini ai militari, tanto che essi durante i preparativi parlarono fra loro ripetendosi il suo cognome. Sussistono anche i motivi abietti di cui all'art. 61 n. 1 c.p. In proposito, ricordando che la giurisprudenza ravvisa il motivo abietto in quello turpe e ignobile, si evidenzia che l'abiezione non è espressa soltanto dalla particolare crudeltà degli eccidi, con la loro studiata platealità e con il successivo disprezzo ostentato persino nei confronti dei disperati familiari delle vittime, ma anche da altri elementi. Il motivo abietto è insito nella finalità sociale, economica e politica che il controllo della Germania nazista su una parte del territorio italiano perseguiva. Il controllo strategico, anche col mezzo degli eccidi, si inquadrava in un più vasto sistema di dominio internazionale, organizzato da una classe dirigente, sfruttato da imprenditori, sostenuto da militari e teorizzato da intellettuali. L'aggressione nazista possedeva fra i suoi tratti fondamentali il programma di instaurazione di una società organizzata secondo una diffusa prevaricazione, una struttura schiavistica, e perciò i crimini collegati al tentativo di far trionfare quel modello sociale posseggono la caratteristica dei motivi abietti. Non rileva in proposito che la stessa Italia abbia attivamente partecipato agli sforzi, politici e bellici, di quel modello, ed anzi che lo abbia largamente anticipato con un modello molto simile, quello fascista (condannato con la XII disposizione finale della Costituzione). Del resto, a identica conclusione potrebbe pervenirsi - e ciò esclude che il motivo abietto sia intrinseco all'appartenenza ad una identità nazionale - nei confronti di crimini analoghi commessi da fascisti italiani. A conferma della specifica sostanza dell'aggravante del motivo abietto, va sottolineato che secondo la giurisprudenza esso va riconosciuto nella finalità di affermazione del prestigio criminale e della capacità di sopraffazione (Cass. 9.1.2002, dep. 12.3.2002 n. 10414, Amendola), nel fine di garantire la compattezza di un gruppo criminale (Cass. 13.4.1994, dep. 27.5.1994 n. 6231, Balzano) e nel fine del conseguimento di un incontrastato controllo criminale su un determinato territorio (Cass. 8.7.2004, dep. 17.11.2004 n. 44624, Alcamo; Cass. 10.11.2000, dep. 2.4.2001 n. 13151, Gianfreda; Cass. 20.1.2000, dep. 9.3.2000 n. 2884, Ferrara). Insomma, per quanto nulla escluda che il motivo abietto possa essere strettamente individuale, può identificarsi una tendenza giurisprudenziale a riconoscere l'abiezione, anche senza considerare l'efferatezza attinente al fatto in sé, nel crimine che sia finalizzato ad affermare un potere di gruppo, e quindi non tanto a commettere una singola violenza, cioè a realizzare una eccezione, quanto a cambiare la società, a costruire una società violenta, cioè ad affermare una nuova regola. La somiglianza, a questo proposito, fra il ragionamento giuridico della Cassazione in tema di organizzazioni criminali e quello qui seguito in tema di dittature nazista e fascista, non è casuale, poiché queste e quelle tendono appunto a impadronirsi della società per imporle le loro regole come strutture d'ordine, e non come impunite trasgressioni. Il fatto poi che si applichi ad un cittadino straniero un ragionamento giuridico, articolato ed applicato con riferimento a modelli comportamentali che sono il brutto fardello di alcune realtà italiane, riconferma che tale argomentazione sull'art. 61 n. 1 c.p. non è costruita in malam partem contro l'imputato, ma anzi coerente con un ragionamento giuridico valido in termini generali. Un ulteriore motivo abietto emerge dalla scelta delle persone da assassinare. Ivo Gamberini, Secondo Cervetti, Ferdinando Dell'Amore e Giovanni Golfarelli erano stati arrestati in quanto appartenenti ad una cellula comunista di fabbrica. È significativo che la Guardia nazionale repubblicana (relazione 9.8.1944) abbia notato come Gamberini e Golfarelli fossero entrambi capi nella stessa cellula, e come tale particolarità fosse spiegabile tenuto conto dei turni di lavoro: la repressione politica era al corrente dei modelli organizzativi di partito e del loro adattarsi alla vita operaia. Michele Mosconi, Celso Foietta e Antonio Gori detto Natale erano stati arrestati per la loro attività partigiana. Non vi sono dati precisi su come Antonio Zaccarelli fosse stato incluso fra le vittime, ma egli era un partigiano. Anche se gli arresti non sono ascrivibili all'imputato, il fatto che queste persone fossero considerate quasi una scorta di esseri umani da uccidere all'occorrenza (e dopo le torture di cui Enio Gamberini ha descritto in dibattimento le conseguenze), inserisce il loro assassinio in una abietta persecuzione connessa alla loro attività politica e resistenziale. Abietta è stata anche la persecuzione nazista e fascista degli ebrei, e come ebrei Emilio e Massimo Zamorani furono assassinati. È appena il caso di ricordare che il d.l. 26.4.1993 n. 122, convertito con la legge 25.6.1993 n. 205, ha previsto come aggravante comune il motivo di discriminazione o di odio etnico, nazionale, razziale o religioso. È ovvio che tale modifica legislativa non può avere effetto retroattivamente, ma tale motivo, ancor più quando non è un malevolo atteggiamento individuale, bensì imprime alla violenza le caratteristiche di un meticoloso accanimento, organizzato su base internazionale, rientra comunque nell'abiezione. Il collegio - certo che non spetti all'autorità giudiziaria decidere chi siano gli ebrei - è consapevole dei dubbi che possono riguardare il fatto se Massimo Zamorani fosse un ebreo. Se ciò che disse ai fascisti («mio padre è ebreo e mia madre è cattolica») fosse vero (Maria Rossi Zamorani al S.I.B. disse invece «avevamo paura di essere maltrattati, dato che eravamo ebrei»), forse Massimo Zamorani potrebbe non essere considerato ebreo. La questione sembra avere una rilevanza, anche se solo in ordine alla misura della bassezza del reato commesso dall'imputato: l'aggravante dei motivi abietti sussiste in ogni caso rispetto all'uccisione di Emilio Zamorani, mentre quanto all'uccisione del figlio la circostanza aggravante potrebbe essere erroneamente supposta. Ma in realtà la rilevanza è soltanto apparente. L'identità ebraica non è un dato fisico, non è una caratteristica biologica della persona, e quindi uccidere un uomo in quanto considerato ebreo, con odio vero che finge un'identità biologica immaginaria, realizza comunque di fatto l'abietta persecuzione. Anche l'aggravante comune di cui al d.l. 26.4.1993 n. 122, convertito con la legge 25.6.1993 n. 205, non riconosce la fondatezza di un'identità biologica, per la stessa ragione per cui, pur riguardando anche l'odio religioso, non per questo riconosce la fondatezza delle religioni. Ed anzi, uccidendo un uomo in quanto considerato ebreo, il motivo è ancora più basso, perché alla violenza fisica aggiunge l'imposizione di un modello identitario definito da chi esercita la violenza. A Massimo Zamorani che disse «mio padre è ebreo e mia madre è cattolica», il fascista rispose «è lo stesso, dovete andare ad un campo di concentramento». Il persecutore crea una sagoma della sua vittima, e poi perseguita le persone che secondo lui le corrispondono. È certo che l'imputato Nordhorn fosse a conoscenza della identità comunista, partigiana ed ebraica di coloro che venivano uccisi. Anzitutto, quelle erano le persone, secondo la prassi, per la formazione appunto di una scorta di esseri umani da trattenere nella prigione tedesca. L'imputato ammonì i presenti, dicendo che se quei fatti si fossero ripetuti sarebbero state uccise altre persone, ma non prese fra i prigionieri, bensì fra gli abitanti del luogo. Quindi egli sapeva che le vittime provenivano dalla prigione. Anzi con la sua ammonizione, all'interno di una gerarchia fra esseri umani - gerarchia certo non ideata da lui, ma che espresse di condividere - mostrò di ritenere che coloro che stava uccidendo fossero esseri inferiori a coloro che assistevano, al punto da rivolgersi a questi ultimi dicendo in sostanza che ciò che stava facendo era meno grave, rispetto a ciò che avrebbe potuto fare in futuro. Anche questo disprezzo conferma la sua consapevolezza della loro identità. Inoltre, quanto alla consapevolezza che Emilio e Massimo Zamorani fossero uccisi come ebrei, va tenuto conto che l'età di Emilio Zamorani (quasi cinquantaquattrenne) di sicuro colpiva l'attenzione per la differenza rispetto a tutti gli altri: il più in là con gli anni all'infuori di lui, Michele Mosconi, aveva ben quindici anni di meno (e c'è da pensare che quest'ultimo, per la sua energica dichiarazione poco prima di morire - che tanto colpì l'attenzione dei presenti sembrasse tutt'altro che un anziano rassegnato alla morte). Inoltre già la fotografia apposta sul monumento a San Tomè (riprodotta in una copia agli atti) ritrae Emilio Zamorani attempato. E lo stesso Emilio Zamorani, in piena persecuzione contro gli ebrei, sicuramente non aveva un aspetto florido, semmai invece provato, che lo faceva apparire ancora più anziano («avevamo paura di essere maltrattati, dato che eravamo ebrei», dichiarazione di Maria Rossi Zamorani al S.I.B.). A San Tomè, gli altri impiccati erano tutti giovani o abbastanza giovani: a parte Emilio Zamorani, nessuno aveva compiuto quaranta anni. Già la sua età, indicava come meno probabile la sua appartenenza attiva alla Resistenza, che specie fuori dei grandi centri urbani mobilitava preferibilmente persone in età un po' più giovane. Massimo Zamorani, invece, aveva venticinque anni (ed era il più giovane dopo Zaccarelli), ma sembrava ancora più giovane (deposizione di Duilio Fulgori in dibattimento: «erano padre e figlio, il figlio aveva quindici anni, un bambino così»). Certamente gli Zamorani rimasero insieme finché fu loro possibile. La vista di due persone unite nell'affetto e nell'apprensione, con qualche somiglianza dovuta alla strettissima parentela, fra cui correvano circa trenta anni di differenza, e di cui la più grande pareva troppo avanti con gli anni per essere un partigiano, e la più piccola aveva l'aspetto di un adolescente, era già sufficiente per rendere chiaro ad un ufficiale della Wehrmacht, di certo pienamente consapevole della persecuzione degli ebrei, che quelle due persone non venivano uccise per altro motivo che in quanto ebrei. Va anche aggiunto (dichiarazione di Luigi Foschi al S.I.B., dichiarazione di Armando Guardigli al Pubblico ministero del 4.4.1945) che di fronte ai patiboli di San Tomè furono presenti dei sacerdoti; in particolare, fu presente don Mangelli, cappellano di San Mercuriale. Di certo un sacerdote così conosciuto, cappellano di una delle chiese più antiche della regione, impartì una benedizione cattolica, e chi era ebreo tentò di sottrarsi, forse recitò una preghiera ebraica, magari accompagnandola con il movimento del corpo, o cercando di coprirsi il capo (è possibile che il padre cercasse di coprire il capo del figlio), secondo una ritualità facilmente riconoscibile. Va considerata anche la presenza ebraica, prima della persecuzione, nel Ruhrgebiet, zona d'origine dell'imputato, e anche nelle terre sovietiche invase, in cui l'imputato aveva militato. Egli, persona di cultura superiore, certamente sapeva riconoscere - senza bisogno che fosse al corrente dei dettagli - la gestualità rituale propria di un ebreo. Anche questo conferma al collegio che l'imputato fu consapevolmente partecipe dell'uccisione di Emilio e Massimo Zamorani come ebrei. A ribadire ulteriormente i motivi abietti, vi è lo sforzo dell'imputato di trasformare le persone in numeri, mediante il riferimento al numero di venti, nel comunicato letto all'eccidio di San Tomè, riferimento fatto dall'imputato - una iniziativa odiosa sua, realizzata di fronte ai patiboli, mentre erano ancora vuoti, per avere tutta l'attenzione per sé - inasprendo il contenuto dello scritto già noto a Carmen Belli Marangoni e a Guglielmo Furgani (aspetto già esaminato, in tema di elemento soggettivo). Quindi i fatti sono politicamente motivati, recando eclatanti offese alle vittime proprio come persone; esse sono state trattate come oggetti spersonalizzati, bersagli di un'aggressività tutta riconducibile all'annientamento dei più elementari diritti umani. 22. Le attenuanti Non sussiste l'attenuante prevista dall'art. 59 n. 1 c.p.m.p. per l'inferiore che sia stato determinato dal superiore a commettere il reato. Come osservato da Cass. 16.11.1998, dep. 1.12.1998 n. 12595, Hass, non si può affermare che la manifesta criminosità dell'ordine escluda sempre l'attenuante; inoltre la nozione di ordine e quella di determinazione non sono identiche, poiché l'attenuante tiene conto del «diminuito grado di colpevolezza dimostrato dal concorrente che sia indotto a commettere il reato a causa dell'abuso o approfittamento della posizione di soggezione o d'inferiorità gerarchica, in cui egli versa, da parte del superiore o dell'esercente autorità, direzione o vigilanza». Secondo Cass. 16.11.1998, dep. 1.12.1998 n. 12595, Hass (che cita a sua volta Cass. 10.3.1989, dep. 27.7.1989 n. 10693, Verdiglione, e Cass. 25.1.1962, Montomoli) «Nell'area semanticolessicale del termine "determinare" appare evidente il significato di "spinta", "induzione", "suggestione", "persuasione" o "sollecitazione" attiva a fare una scelta. Non basta dunque avere provocato nel "determinato" la semplice idea, ma occorre che il "determinatore" abbia fatto sorgere, mediante una consapevole ed efficiente attività di pressione e condizionamento tipica dei rapporti che comunque comportino una supremazia, l'effettiva risoluzione di eseguire il reato, attenuando le facoltà di reazione e superando ogni dubbio o controspinta nell'animo dell'agente che versi in uno stato di "soggezione psicologica" e di minore resistenza». Ebbene, nel caso in esame non vi è alcuna prova che un superiore, ed in particolare il maggiore Guttmacher, abbia posto in essere tale attività di pressione o di condizionamento nei confronti dell'imputato. Anzi, il riferimento al numero di venti, nel comunicato letto all'eccidio di San Tomè, riferimento fatto dall'imputato inasprendo il contenuto dello scritto già noto a Carmen Belli Marangoni e a Guglielmo Furgani (aspetto già esaminato, in tema di elemento soggettivo), imprime al comportamento dell'imputato un tratto di iniziativa personale. Non sussiste neppure l'attenuante prevista dall'art. 59 n. 2 c.p.m.p. per il militare che nella preparazione o nella esecuzione del reato abbia prestato opera di minima importanza. È infatti da escludere che la condotta dell'imputato si sia limitata ad un contributo di minima efficacia. Anzi, specialmente con il doppio allestimento dei patiboli, da connettere alla specifica preparazione ingegneristica dell'imputato, e con l'assenza del maggiore Guttmacher ad entrambi gli eccidi, l'attività dell'imputato assunse un ruolo chiave sia nella preparazione che nell'esecuzione. Lo conferma il fatto che i militari subalterni, nel corso della preparazione degli eccidi, pronunciassero spesso il suo cognome, evidentemente ripetendosi gli uni con gli altri le sue istruzioni. 23. Le attenuanti generiche Le circostanze attenuanti generiche furono introdotte nel codice solo con il decreto legislativo luogotenenziale del 14.9.1944 n. 288, e quindi dopo gli eccidi. Malgrado questo, esse non sono astrattamente inapplicabili. La giurisprudenza, tenendo presente il principio di ultrattività di cui all'art. 23 c.p.m.g., lo ha circoscritto, intendendolo come funzionale alla sola efficacia delle norme incriminatrici. Ha invece escluso che esso impedisca ogni altro effetto in tema di successione delle leggi penali nel tempo (Cass. 16.11.1998, dep. 1.12.1998 n. 12595, Hass), ed ha quindi ritenuto le circostanze attenuanti generiche astrattamente applicabili al reato militare anteriormente commesso (così anche Corte mil. appello Roma 7.3.1998 n. 24, Hass). Nel caso in esame, tuttavia, il collegio ritiene che le circostanze attenuanti generiche debbano essere negate. Lo impongono l'efferatezza del crimine, e la particolare determinazione nella sua preparazione, con la complessa organizzazione dei patiboli e della presenza di persone costrette ad assistere. Rileva anche che la condotta dell'imputato si sia inserita, coronando con l'eliminazione fisica delle vittime una più vasta vicenda, in un quadro di brutali violenze. Particolarmente significativa la deposizione di Enio Gamberini, nipote di Ivo Gamberini, assassinato a Branzolino. Condotto allora, all'età di dieci anni, a vedere le quattro vittime impiccate, egli nel 2006 le ha descritte così: «Non erano più uomini, me l'ha indicato mio padre dove era mio zio. Gli avevano venute via tutte le venti unghie dei piedi e delle mani, lo avevano evirato, gli avevano infilato delle cose infuocate nel petto, negli occhi c'erano dei buchi, era una visione orrenda. [...] Mi sembra che ad alcuni di loro gli avevano addirittura sparato dopo averli impiccati, in testa. [...] Ad un certo punto arrivò una contadina, una persona grossa, mi mise la faccia di fronte alla sua pancia e mi portò nella casa del contadino lì vicino.» Ed ha aggiunto: «È stata una cosa tremenda che ha segnato un pò la mia vita, perché a quell'epoca, quando sei ancora piccolo per l'infanzia o per l'adolescenza, sono cose che ti segnano per sempre, purtroppo. [...] Infatti molte volte - io ho fatto un mestiere che non lo dovevo fare, perché non sono un tipo invasivo, ho fatto il rappresentante e ho avuto molti amici, oltre che clienti erano amici - e molte volte mi sono sentito dire: "lei è una brava persona, se non si offende le vogliamo dire che l'abbiamo visto poche volte sorridere". La ragione era questa. Grazie.» Il teste Gamberini, che oggi è in età più che matura, in udienza si è turbato sino alle lacrime al ricordo di un fatto così remoto; nell'urgere di un nodo emotivo così forte, ha voluto dichiararne in pubblico il peso persino sulla sua identità personale, giungendo a ringraziare (non l'autorità giudiziaria, ma il contesto processuale e la sua lungamente attesa ritualità collettiva), per la possibilità di affermarlo e quasi di condividerlo. Egli offre un riferimento non solo di come la memoria e la persona si organizzino intorno a elementi di fortissima intensità, ma anche di come violenze enormi lascino tracce indelebili. Come significativi sono i ricordi di Marcello Cimatti, che fu costretto ad assistere all'eccidio di San Tomè e subito dopo fu deportato in Germania; sentito a domicilio a causa delle sue condizioni fisiche, nella sua memoria sono riaffiorati oltre ai dolorosi dettagli dell'impiccagione (come la frase di scherno di un fascista: «Disse "non andate a vedere i burattini?", che erano quelli che avevano impiccato»), i frammenti della sua deportazione e poi delle sue peripezie nella Germania in disfatta, sino all'incontro con un reparto sovietico. Fra l'altro, Marcello Cimatti fu internato nel campo di concentramento di Fossoli, la cui atrocità è già stata portata all'attenzione anche dell'autorità giudiziaria (Corte d'assise Bolzano, sezione speciale, 13.12.1946 n. 33, Gutweniger), e poi avviato al lavoro forzato in Germania, la cui durezza è stata riassunta dal teste così: «dissi "porca miseria dove abbiamo portato le nostre ossa?" E ci misero in una sala a petto nudo con un numero, ci fecero la foto con il numero sul petto. Da lì in avanti, noi eravamo quel numero lì». Significativa è anche la sofferenza inflitta con lo strattonamento emotivo, accertato per almeno alcune delle vittime. Antonio Gori detto Natale, arrestato nel luglio 1944, in prigionia scrisse ai familiari una lettera, datata «5-9-44 Civitella», in cui diede per imminente la sua morte e inviò un ultimo saluto alle persone care (vi si legge anche «tanto la mia vita è perduta»). Ma al mattino del 9 settembre 1944, nella prigione tedesca di Forlì, Elvio Vital lo vide uscire e poi tornare in cella contento, perché gli era stato detto che stava per essere liberato. Verso le ore 16, Gori fu portato via con altri due (a Vital sembrò di ricordare anche il cognome di Mosconi), lasciando in cella la giacca e qualche oggetto personale. Un paio d'ore dopo, un tedesco portò via quelle cose, dicendo che non ve ne sarebbe stato bisogno (dichiarazione al S.I.B. di Elvio Vital). All'assassinio si aggiunse insomma una vera e propria tortura psichica. Di questi aspetti si deve tenere conto, anche mettendo di fronte alla memoria dolorosamente fondante delle vittime, quella elusiva del reo. Come si devono considerare le modalità degli eccidi, e specialmente: la costrizione ad assistere e persino a collaborare all'impiccagione («Mio fratello Aldo lo mandarono al patibolo a mettere il laccio al collo di un condannato, e lui gli disse "cosa ti ho fatto io, a te?"», deposizione di Marcello Cimatti); il lungo, interminabile dubbio, nelle persone costrette ad assistere, se fossero anch'esse destinate a morire («La paura era quella purtroppo, che si parlava che avessero preso, fatto delle decimazioni tra di noi», deposizione di Gino Fiorentini); la dichiarazione che la volta successiva le vittime sarebbero state prese fra di loro e non fra i prigionieri; la lunga esposizione dei cadaveri. Tutte modalità che concorrono a rappresentare - proprio nel senso spettacolare della parola - una vera e propria modalità terroristica degli eccidi. Essi infatti avevano lo scopo di spargere nel territorio occupato una paura diffusa («Stavamo nascosti come le talpe», deposizione di Duilio Fulgori), con cui si voleva ridurre tutta la popolazione all'ubbidienza. Estremo dettaglio crudele fu la settima corda comparsa nell'eccidio di San Tomè, ricordata da Decio Lombardi, da Guglielmo Furgani e da Gino Fiorentini nel 1945. La presenza di sette corde, raffrontata al numero delle sei vittime, diffuse fra le persone costrette ad assistere all'eccidio ancora più spavento. Sessantadue anni dopo i fatti, anche Marcello Cimatti ha ricordato la possibilità che fossero impiccate sette persone, ed ha riferito il dialogo fra un rastrellato e un rastrellante: «E uno gli chiese "tu lo sai cosa ci fanno?"; rispose "vi portano lì, che ne prendono sette", perché erano sette...». Sul punto, già Trib. mil. territoriale Bologna 31.10.1951 n. 483, Reder, con riferimento ad altri eccidi ha notato che l'operazione è stata sostanzialmente terroristica. Più di recente, Trib. mil. La Spezia 28.9.2006 n. 43, Stommel, descrivendo un altro eccidio, prende atto della «fedele attuazione di un disegno unitario, di un piano predeterminato e pianificato di "terroristica" aggressione alla popolazione locale» e di «violenza, adottata quale elemento simbolico e terroristico, destinato a determinare il panico nei sopravvissuti (allo scopo di fare "terra bruciata" attorno ai partigiani), ma ancor prima a fungere da strumento di "annientamento", salvo rare eccezioni, di ogni inerme civile individuato». Di questa scelta l'imputato non è certo l'unico responsabile, ma alcuni aspetti della sua diretta partecipazione indicano che egli nei due eccidi ebbe un ruolo importante. In particolare, lo zelo dimostrato nella realizzazione dei patiboli, la specifica direzione delle operazioni - al punto che nell'immediato i militari tedeschi, parlando fra di loro, si distribuirono i compiti ripetendo il suo nome, evidentemente come il superiore di più diretto riferimento per quelle incombenze - e poi l'acredine del rifiuto di consegnare una salma ai genitori, accompagnata da un insulto («va via traditori!»). Su quest'ultimo rifiuto, va osservato che Gamberini e Golfarelli erano entrambi capi nella stessa cellula comunista, e che fu autorizzata la sepoltura - ma soltanto sul luogo dell'impiccagione - degli altri due impiccati a Branzolino, cioè Dell'Amore e Cervetti. Fu insomma autorizzata la sepoltura da parte dei familiari solo per coloro che non erano capi comunisti; diversamente, a una richiesta di sepoltura, la risposta fu un insulto. Anche la giovane età dell'imputato (all'epoca quasi venticinquenne), elemento che di solito è tenuto in considerazione a questo proposito, assume un rilievo modesto, del tutto insufficiente per l'applicazione delle attenuanti generiche, se si tengono presenti le caratteristiche crudeli degli eccidi, insieme all'esperienza militare dell'imputato, all'epoca già significativa. Sempre in tema di giovane età, è opportuno ricordare i casi di imputati cui non sono state applicate le circostanze attenuanti generiche, per gravissimi reati. L'imputato Lehnigk Emden (giudicato da Corte d'assise Santa Maria Capua Vetere 25.10.1994), che all'epoca dell'eccidio di Caiazzo aveva venti anni di età. L'imputato Seifert (giudicato da Trib. mil. Verona 24.11.2000), che all'epoca degli omicidi nel campo di concentramento di Bolzano aveva anch'egli venti anni di età. Gli imputati Stommel e Scheungraber (giudicati da Trib. mil. La Spezia 28.9.2006 n. 43), che all'epoca degli eccidi di Falzano di Cortona e di San Pietro a Dame avevano entrambi venticinque anni di età. Ha un peso anche la condotta successiva dell'imputato, ed in particolare si deve prendere atto della mancanza di qualsiasi segno di pentimento. Pur ammesso che a distanza di tanti anni egli possa avere dei fatti un ricordo privo di dettagli, e pur considerato che la vicenda si sia inserita in un periodo di violenza diffusa, è impensabile che le uccisioni a freddo di dieci persone inermi, uccisioni distinte in due episodi, preparate meticolosamente, seguite da richieste di autorizzazione alla sepoltura da parte dei familiari, e con costrizione ad assistere e poi deportazione di molte persone, non abbiano lasciato ricordo almeno riguardo alla loro sostanza. Ebbene, non risulta che egli abbia espresso in qualsiasi modo un ravvedimento o una significativa presa di distanza dalla sua condotta, certo remota nel tempo, ma tale da non poter essere diluita nel flusso della vita di un essere umano come un fatto qualsiasi. Ancora quanto alla condotta successiva dell'imputato, ben poco rilievo assume il fatto che non constino sue condotte criminose successive, posto che proprio il contesto bellico, con il potere che il grado e l'uso delle armi gli conferivano, è stato l'ambiente in cui ha potuto commettere gli eccidi. Una considerazione a parte merita il lungo trascorrere del tempo tra il fatto e il giudizio, elemento che un'interpretazione non condivisibile (Trib. mil. Roma 22.7.1997 n. 322, Hass) considera di per sé significativo per applicare le attenuanti generiche, argomentando che il tempo trascorso va valutato ai fini delle misure cautelari, e che per i condannati oltre una certa età valgono norme più favorevoli, riguardo all'espiazione della pena. Ma invece, la considerazione dell'età del condannato in relazione all'espiazione della pena riguarda la disciplina dell'esecuzione, e non ha nulla a che vedere con il reato e con le circostanze, mentre la valutazione del tempo trascorso, in ordine alle misure cautelari, va inquadrata nel regime proprio di queste e nelle esigenze cui esse fanno fronte. Quanto al «tempo» di cui all'art. 133 n. 1 c.p., esso non è la distanza di tempo tra il fatto e il giudizio, piuttosto un elemento da valutare ai fini della gravità del reato, quando si debba determinare la pena fra un massimo e un minimo, elemento che attiene (come si ricava dallo stesso n. 1) alle modalità dell'azione. Diversamente opinando, non solo si duplicherebbe nelle circostanze attenuanti generiche l'elemento «tempo» già compreso nell'art. 133 c.p., ma si produrrebbe l'effetto assurdo di considerare variabili le modalità dell'azione in funzione del tempo trascorso dal fatto al giudizio. Sul punto, esattamente Corte mil. appello Roma 7.3.1998 n. 24, Hass, rileva che «Il passaggio del tempo dal commesso reato è un dato processualmente neutro». Nel fatto che sia passato molto tempo dagli eccidi, è logicamente compreso anche il fatto che l'imputato abbia oggi un'età avanzata, sicché neppure quest'ultima può valere ai fini dell'applicazione delle attenuanti generiche. Va anche aggiunto che lo stesso turbamento di alcuni testi nel riferire fatti remoti, e l'interessamento di una vasta collettività e dei suoi enti territoriali, dimostrano come il passare del tempo non solo non abbia fatto perdere importanza agli eccidi, ma anzi semmai li abbia quasi consolidati in punti di riferimento. Del resto, se lo scandaloso ritardo nella celebrazione di questo processo - come di molti altri per crimini dello stesso tipo - non è certo ascrivibile all'imputato, e neppure del tutto ad organi giudiziari, ma ben più a decisioni politiche, anzitutto il passaggio di tanto tempo non segna una perdita d'importanza del crimine, ma anzi un suo cauto congelamento: chi voleva nasconderlo ne temeva proprio la bruciante gravità (sta a dimostrarlo l'emozione di chi è ancora vivo). Inoltre proprio il passaggio del tempo, in quanto frutto non del caso, ma di una decisione voluta, imperante un clima non sufficientemente risoluto contro quello dell'epoca in cui il crimine è stato commesso, non è una pausa della giustizia, ma una continuità nell'ingiustizia, e perciò attribuirgli efficacia attenuante significherebbe concedergli, almeno in parte, proprio il fine d'impunità desiderato. Ancora quanto al passaggio del tempo, va ricordato che anche questo processo ha fatto parte dei molti fascicoli rimasti nascosti per decenni in un armadio, negli uffici giudiziari militari di Roma (palazzo Cesi), e rimessi in moto a partire dal 1994. Dell'argomento si sono occupati il Consiglio della magistratura militare e la Commissione parlamentare d'inchiesta sulle cause dell'occultamento di fascicoli relativi a crimini nazifascisti (istituita con legge 15.5.2003 n. 107, e prorogata con legge 25.8.2004 n. 232), che ha approvato la relazione finale l'8.2.2006. La relazione di minoranza è stata approvata il 24.1.2006. Le due relazioni sono in Senato, XIV legislatura, documenti XXIII n. 18 e n. 18 bis. Ma l'osservazione della difesa secondo cui il processo non ha avuto una durata ragionevole, mossa dalla fondata doglianza sull'enorme periodo trascorso dai fatti, non è esatta. Il processo in realtà è iniziato con la trasmissione degli atti alla Spezia, il periodo precedente è un non processo. Non è stata lunga la giustizia, è stata lunga l'ingiustizia, in un intreccio di interessi, fra i quali l'adesione alla NATO, il riarmo della Germania, l'impunità di italiani colpevoli di crimini in Jugoslavia, in Grecia e in Africa, e l'incompiutezza della defascistizzazione delle istituzioni italiane. Quanto a quest'ultima, il punto 4 della dichiarazione di Mosca del 30.10.1943, citata fra le premesse dell'Accordo di Londra dell'8.8.1945, istitutivo del Tribunale militare internazionale (cd. Tribunale di Norimberga), prevede che «All Fascist or pro-Fascist elements shall be removed from the administration and from institutions and organizations of a public character.» Invece, la ragion di stato si è fatta ingiustizia da sé. Nulla di tutto questo, oggi, può togliere giustizia. Una delle vittime, Michele Mosconi, prima di morire disse (testimonianza di Marcello Cimatti): «"Sono innocente, non ho fatto niente, sono un bravo italiano". E allora uno di questi fascisti disse: "Un bravo italiano, lo dovevi essere prima". Rispose: "Lo sono anche adesso, con il cappio al collo". E questo fu l'unico dialogo che fecero». 24. La pena e la prescrizione In assenza di attenuanti, non occorre procedere al giudizio di bilanciamento, e la pena è l'ergastolo. Quanto alla prescrizione, ed al recente cambiamento delle norme che la regolano, l'art. 157 c.p., come novellato dalla legge 5.12.2005 n. 251, prevede al comma 8 che non si estinguano per prescrizione i reati puniti con l'ergastolo, anche come effetto dell'applicazione di circostanze aggravanti. Poiché la precedente formula dell'art. 157 c.p. consentiva la prescrizione solo dei reati puniti con pena detentiva temporanea, e ciò senza fare esplicito riferimento all'effetto delle aggravanti, va rilevato che apparentemente si tratta di una innovazione in peius, come tale non retroattiva. La questione ha rilevanza nel caso in esame, poiché l'ergastolo non è previsto come pena edittale ma come pena per effetto di aggravanti. Ma appunto l'innovazione è solo apparente, poiché già nel vigore del testo precedente, la giurisprudenza era giunta alla conclusione dell'imprescrittibilità anche del reato punito con l'ergastolo come effetto delle circostanze aggravanti. Fra l'altro, ove si fosse ritenuta applicabile la prescrizione in caso di ergastolo per effetto di aggravanti, si sarebbe giunti ad effetti contraddittori proprio riguardo all'omicidio. Infatti l'art. 577 c.p. prevede al comma 1 aggravanti che comportano l'ergastolo, ed al comma 2 altre aggravanti che comportano la reclusione da ventiquattro a trenta anni. Così, se in entrambe le ipotesi sussistesse un'attenuante uguale, i casi più gravi di cui al comma 1 si potrebbero prescrivere in quindici anni, ai sensi dell'art. 157 comma 1 n. 2 c.p., e quindi in un termine più breve di quelli meno gravi di cui al comma 2, che si potrebbero prescrivere in venti anni, ai sensi dell'art. 157 comma 1 n. 1 c.p. Benché il reato sia escluso dalla prescrizione già per norma di diritto interno, merita qualche cenno anche la questione della sua imprescrittibilità quale crimine contro l'umanità. Sul punto sono decisivi non tanto i principi che si ricavano dai lavori preparatori del c.p.m.g., o da alcuni elementi della sua struttura (ed in particolare dal fatto che solo alcuni dei «reati contro le leggi e gli usi della guerra» siano soggetti al principio di reciprocità di cui all'art. 165 c.p.m.g.), quanto piuttosto il fatto che il diritto italiano deve adeguarsi a quelle norme del diritto internazionale che costituiscono principi generali riconosciuti dalle nazioni civili, come è scritto nell'art. 38 lett. c) dello statuto della Corte internazionale di giustizia («the general principles of law recognized by civilized nations»). Ed è noto come l'art. 10 Cost. determini l'adeguamento automatico alle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute (lo ribadiscono Corte cost. 6.5.1987 n. 153, Corte cost. 7.5.1982 n. 96, Corte cost. 16.12.1980 n. 188, Corte cost. 12.6.1979 n. 48, Corte cost. 25.3.1976 n. 69, Corte cost. 19.6.1969 n. 104, Corte cost. 12.4.1967 n. 48, Corte cost. 4.7.1963 n. 135, Corte cost. 12.5.1960 n. 32). Da segnalare è anche la Convenzione adottata dall'Assemblea delle Nazioni Unite con risoluzione 2391 (XXIII) del 26 novembre 1968 (Convention on the non-applicability of statutory limitations to war crimes and crimes against humanity), che nel preambolo ricorda come «the application to war crimes and crimes against humanity of the rules of municipal law relating to the period of limitation for ordinary crimes is a matter of serious concern to world public opinion, since it prevents the prosecution and punishment of persons responsible for those crimes». Ed è stato affermato (Trib. supremo mil., 16 marzo 1954 Reder) che questi reati (che costituiscono anche infrazioni gravi ai sensi dell'art. 147 - fra l'altro, "omicidio intenzionale, tortura o trattamenti inumani" - della IV Convenzione per la protezione delle persone civili in tempo di guerra, adottata a Ginevra il 12 agosto 1949) «sono soggetti a repressione ispirata al criterio dell'universalità, in virtù del quale gli Stati s'impegnano alla persecuzione diretta o alla consegna delle persone che hanno commesso le violazioni, indipendentemente dalla loro nazionalità... ed anche se si tratti dei propri sudditi, senza possibilità di esimersi da tale obbligo né unilateralmente né mediante accordi». Del resto, le considerazioni sulla natura degli eccidi come crimini di guerra e contro l'umanità, svolte in precedenza con riferimento all'irrilevanza dell'esecuzione di un ordine, valgono anche ad escludere la prescrittibilità. 25. Il concorso formale e l'isolamento diurno Nell'assassinio delle dieci persone, compiuto con due eccidi distinti, il collegio non ravvisa la continuazione di cui all'art. 81 comma 2 c.p., ma invece il concorso formale di cui al comma 1 dello stesso articolo, avendo l'imputato prima violato la norma penale (l'art. 185 comma 2 c.p.m.g.) più volte con il primo eccidio, e poi di nuovo violato la stessa norma penale più volte con il secondo eccidio. Si è talora posto il dubbio (Trib. mil. Roma 22.7.1997 n. 322, Hass) se la disamina degli effetti dell'art. 81 c.p. sia un formalismo giuridico. Tuttavia, se è vero che applicando norme di diritto sempre incombe il rischio del formalismo, d'altra parte, proprio in casi in cui la violenza fa molte vittime, dal punto di vista di ciascuna di esse l'applicazione della norma non è formalismo, piuttosto sostanzialismo, poiché ciascuna di esse non è una porzione di un unico corpo offeso, bensì un essere umano a sé stante. Ciascun omicidio reclama giustizia, e quindi non è possibile prescindere dal loro numero. Si pone qui il problema dell'aumento di pena rispetto all'ergastolo. Il diritto penale italiano non consente la condanna a più di un ergastolo. Ma l'art. 72 c.p. (su cui hanno inciso prima il d.l. 22.1.1948 n. 21 e poi la legge 25.11.1962 n. 1634) prevede che, dovendosi aumentare la pena dell'ergastolo, essa sia inasprita con l'isolamento diurno. Per i reati militari, invece, l'art. 54 c.p.m.p. prevedeva che dovendosi condannare per più reati che comportassero l'ergastolo, si dovesse applicare la pena di morte con degradazione. Modificato il sistema sanzionatorio anche con riferimento ai reati previsti dal codice penale militare di guerra, con la legge 13.10.1994 n. 589, ne è risultato che laddove occorrerebbe disporre la pena di morte si dispone la «pena massima prevista dal codice penale». Per effetto di questa normativa, alcune pronunce giurisprudenziali sono giunte alla conclusione che l'ergastolo comminato per reati militari non possa essere aumentato con l'isolamento diurno (Cass. 16.11.1998, dep. 1.12.1998 n. 12595, Hass; Corte mil. appello Roma 7.3.1998 n. 24, Hass), argomentando che per effetto dell'abrogazione della pena di morte non vi sarebbe più l'inasprimento, ma non si applicherebbe l'isolamento diurno, restando operante una deroga alla norma comune. In realtà, la contraddizione è superabile - senza ricorrere ad alcuna analogia considerando che la pena massima prevista dal codice penale, cui fa riferimento la legge 13.10.1994 n. 589, non è l'ergastolo ma l'ergastolo con isolamento diurno. L'isolamento diurno, del resto, era previsto dal codice penale già prima della legge 13.10.1994 n. 589, e quindi l'entrata in vigore di quest'ultima non può che aver fatto riferimento al regime sanzionatorio nel suo complesso. Non occorrerebbe, a questo proposito, affrontare la questione apparentemente rilevante se l'ergastolo con isolamento diurno sia una pena a sé stante oppure una modalità di esecuzione; ciò per lo stesso motivo per cui, aumentando una pena detentiva temporanea, non occorre domandarsi se per effetto dell'aumento essa si inasprisca o muti specie. Di tale questione si dà comunque conto per completezza, ricordando preliminarmente come la giurisprudenza abbia escluso che l'isolamento diurno sia una misura contraria al senso di umanità (Cass. 16.1.1985, dep. 11.3.1985 n. 2297, Magni; e Cass. 8.4.1991, dep. 8.7.1991 n. 7301, Lavazza, che dichiara anche la manifesta infondatezza della questione di incostituzionalità dell'isolamento diurno). Ebbene, è frequente in giurisprudenza l'affermazione secondo cui l'isolamento diurno è una vera e propria sanzione penale, affermazione che può anche essere contestualizzata nelle diverse tematiche giuridiche in cui è stata pronunciata. Anzitutto, è servita ad argomentare l'esclusione dell'abrogazione dell'art. 72 c.p. per effetto della legge 26.7.1975 n. 354 (Cass. 24.2.1993, dep. 14.4.1993 n. 780, Asero; Cass. 4.11.1986, dep. 12.6.1987 n. 7370, Adamoli; Cass. 28.2.1980, dep. 10.4.1980 n. 718, D'Angelo). Poi, è servita a precisare che l'esecuzione dell'isolamento diurno deve iniziare appena la relativa condanna diviene irrevocabile (Cass. 21.3.2000, dep. 10.5.2000 n. 2116, Natoli), e che «la mancata previsione legislativa di un termine per l'esecuzione dell'isolamento diurno non contrasta con l'art. 27 terzo comma Cost., poiché il carattere afflittivo della misura è compatibile con la funzione rieducativa della pena, dal momento che, in costanza di isolamento, si ha solo attenuazione, ma non soppressione del trattamento penitenziario». Ancora, è servita a ribadire che l'isolamento diurno deve essere disposto dall'autorità giudiziaria giudicante, non bastando un provvedimento del Pubblico ministero (Cass. 30.9.1993, dep. 2.11.1993 n. 3748, Cappai; Cass. 24.6.1993, dep. 21.7.1993 n. 3004, Mosella). Anche il fatto che l'isolamento diurno sia una pena a sé stante, conferma che l'ergastolo comminato per reati militari può essere aumentato con l'isolamento diurno. Quindi, tenuto conto del numero di vittime, il collegio aggiunge all'ergastolo due anni di isolamento diurno, ritenendo congruo un periodo pari al quadruplo del minimo, che l'art. 72 comma 1 c.p. fissa in sei mesi. 26. Le pene accessorie Alla pena principale così stabilita devono aggiungersi, ai sensi dell'art. 28 c.p.m.p., la pena accessoria della degradazione e, ai sensi dell'art. 32 comma 1 c.p.m.p., la pena accessoria della pubblicazione della sentenza mediante affissione nel comune dove è stata pronunciata (La Spezia) ed in quello dove il reato è stato commesso (Forlì). Tenuto conto della gravissima offesa recata ad un'intera comunità territoriale, offesa ancora percepita dalla popolazione e dimostrata dalla tenace memoria dei crimini e dal vivo interessamento al processo, ai sensi dell'art. 32 comma 2 c.p.m.p. il collegio dispone anche la pena accessoria della pubblicazione della sentenza, a spese del condannato, per estratto e per una sola volta, nei giornali Corriere della sera, La voce di Romagna e Resto del Carlino. Alla condanna consegue l'obbligo del pagamento delle spese processuali. 27. I risarcimenti La costituzione di parte civile di fronte all'autorità giudiziaria militare, a lungo preclusa, è stata invece resa possibile da Corte cost. 22.2.1996 n. 60, sentenza emessa nella vicenda giudiziaria relativa proprio ad un eccidio nazifascista, quello delle Fosse Ardeatine. Quanto al caso in esame, il diritto al risarcimento dei danni non è escluso dal Trattato di pace fra l'Italia e le potenze Alleate ed Associate del 10.2.1947, eseguito con d.leg.C.p.s. 28.11.1947 n. 1430, ratificato con la legge 25.11.1952 n. 3054, poiché secondo il Trattato, Annesso C, art. 77 comma 4, «l'Italia rinuncia, a suo nome e a nome dei cittadini italiani, a qualsiasi domanda contro la Germania e i cittadini germanici pendente alla data dell'8 maggio 1945», mentre a tale data non erano pendenti domande nei confronti dell'imputato. Inoltre il diritto al risarcimento non è escluso dall'Accordo di Bonn del 2 giugno 1961, per gli indennizzi a cittadini italiani colpiti da misure di persecuzione nazionalsocialistiche, ratificato con la legge 6.2.1963 n. 404, poiché l'Accordo riguarda solo le deportazioni. Infatti, l'art. 1 dell'Allegato A si riferisce a cittadini italiani che «siano stati oggetto di misure di persecuzione nazionalsocialiste e che a causa di tali misure abbiano sofferto privazioni di libertà o danni alla salute, nonché a favore dei superstiti di coloro che sono deceduti a causa di queste persecuzioni». Ancora, il diritto al risarcimento non è escluso dall'Accordo di Bonn del 2 giugno 1961 per il regolamento di alcune questioni di carattere patrimoniale, economico e finanziario, eseguito con il d.p.r. 14.4.1962 n. 1263. Secondo l'art. 2 dell'Allegato A, infatti, «Il Governo Italiano dichiara che sono definite tutte le rivendicazioni e richieste della Repubblica Italiana o di persone fisiche o giuridiche italiane, ancora pendenti nei confronti della Repubblica Federale di Germania o nei confronti di persone fisiche o giuridiche tedesche, purché derivanti da diritti o ragioni sorti nel periodo tra il 1° settembre 1939 e l'8 maggio 1945». Infatti, all'epoca non erano pendenti rivendicazioni o richieste delle parti civili nei confronti dell'imputato (conforme, Trib. mil. Roma 22.7.1997 n. 322, Hass). Inoltre, per l'Accordo di Bonn del 2 giugno 1961 per il regolamento di alcune questioni di carattere patrimoniale, economico e finanziario, non vi è mai stata una legge di ratifica; in particolare, non prevede la ratifica di quell'Accordo la legge 5.7.1964 n. 607 (modificata dalla legge 27.12.1975 n. 791), che pure contiene alcune norme relative all'Accordo stesso. Il risarcimento dei danni spetta anzitutto alle persone fisiche costituite, ossia ad Albano Mosconi, figlio di Michele Mosconi; a Vera Dell'Amore, figlia di Ferdinando Dell'Amore; a Maria Grazia Golfarelli, figlia di Giovanni Golfarelli; a Eustella Zaccarelli, sorella di Antonio Zaccarelli; a Fernanda e Maria Gori, sorelle di Antonio Gori; a Gianpaolo e Zenia Balestri, nipoti (figli della sorella) di Secondo Cervetti; a Iva Gamberini, nipote (figlia del fratello) di Ivo Gamberini. Tutte hanno sofferto la mancanza dei rispettivi congiunti uccisi, o perché sono state private del padre in tenera età (con le privazioni affettive e pratiche che questo ha comportato, specie nelle dure condizioni sociali ed economiche dell'immediato dopoguerra), o perché sono state private del fratello, o perché sono state private dello zio in tenera età. Quanto a Iva Gamberini, è nata poco dopo l'assassinio dello zio, in un contesto familiare che ne ha sofferto la mancanza al punto da dare proprio a lei, figlia femmina, il nome dell'ucciso. Al danno esistenziale, l'articolato percorso della giurisprudenza è giunto a dare pieno riconoscimento. In particolare, secondo Cass. 31.5.2003 n. 8827, «Il danno non patrimoniale conseguente alla ingiusta lesione di un interesse inerente alla persona, costituzionalmente garantito, non è soggetto, ai fini della risarcibilità, al limite derivante dalla riserva di legge correlata all'art. 185 cod. pen., giacché il rinvio ai casi in cui la legge consente la riparazione del danno non patrimoniale ben può essere riferito, dopo l'entrata in vigore della Costituzione, anche alle previsioni della Legge fondamentale, ove si consideri che il riconoscimento, nella Costituzione, dei diritti inviolabili inerenti alla persona non aventi natura economica implicitamente, ma necessariamente, ne esige la tutela, ed in tal modo configura un caso determinato dalla legge, al massimo livello, di riparazione del danno non patrimoniale.» Un ulteriore approfondimento è stato compiuto da Cass. 7.5.2003 n. 8828: «L'interesse fatto valere nel caso di danno da uccisione di congiunto è quello alla intangibilità della sfera degli affetti e della reciproca solidarietà nell'ambito della famiglia, alla inviolabilità della libera e piena esplicazione delle attività realizzatrici della persona umana nell'ambito di quella peculiare formazione sociale costituita dalla famiglia». Ancora, secondo Cass. 7.11.2003 n. 16716, «La lesione di valori della persona umana protetti dalla Costituzione, o da leggi speciali, o da norme imperative sui diritti umani, conseguente a fatto illecito, costituisce danno diretto non patrimoniale, risarcibile a norma dell'art. 2059 cod. civ. con valutazione equitativa (artt. 1226 e 2056 cod. civ.), perché il rinvio recettizio di detta norma "ai casi determinati dalla legge" non concerne soltanto l'ipotesi del danno morale soggettivo derivato dal reato». Il risarcimento dei danni spetta inoltre alla Presidenza del Consiglio dei Ministri ed agli enti locali costituiti come parti civili (Regione Emilia Romagna, Provincia di Forlì-Cesena e Comune di Forlì). Si tratta di un diritto loro proprio, che trae origine dal loro rapporto per la prima con la comunità nazionale, e per gli altri con le comunità locali. In proposito, occorre evidenziare alcuni principi. È consolidato in giurisprudenza l'orientamento secondo cui spetta al comune il risarcimento per gli illeciti urbanistici (Cass. 14.6.2002, dep. 9.8.2002 n. 29667, Arrostuto; Cass. 3.4.1984, dep. 7.6.1984 n. 5331, Palladino; Cass. 20.10.1982, dep. 26.1.1983 n. 628, Zagari; Cass. 4.6.1980, dep. 7.10.1980 Cass. 20.5.1980, dep. 1.10.1980 n. 9992, Brunetti; n. 10215, Pinelli; Cass. 20.5.1980, dep. 21.1.1981 n. 299, Apolloni). Particolarmente significativa Cass. 20.4.1982, dep. 25.9.1982 n. 8202, De Felice, secondo cui la tutela riguarda «un bene specifico della collettività locale generalmente designato dalle leggi in senso nuovo con il nome di "territorio comunale" o in via più generale "territorio", bene complesso, le cui componenti, secondo una esemplificazione tratta dalla legislazione più recente, possono riconoscersi in molteplici funzioni e servizi di interesse locale». È stato riconosciuto anche il diritto del comune al risarcimento in relazione all'attività di un'associazione a delinquere (Cass. 8.7.1995, dep. 18.10.1995 n. 10371, Costioli). E più in generale, è stato affermato (Cass. 1.10.1996, dep. 19.11.1996 n. 9837, Locatelli) che «Il danno ambientale non consiste solo in una "compromissione dell'ambiente" in violazione delle leggi ambientali, ma anche contestualmente in una "offesa della persona umana nella sua dimensione individuale e sociale"». La giurisprudenza ha anche riconosciuto che spetta alla provincia il risarcimento per gli illeciti in materia di caccia: Cass. 1.10.2002, dep. 25.10.2002 n. 35868, Falconi. Da questo quadro giurisprudenziale si ricava necessariamente una conferma del diritto al risarcimento dei danni in favore degli enti, i cui territori - intesi appunto in senso comunitario serbano ancora le ferite degli eccidi subiti. Del resto, se agli enti locali i risarcimenti spettano per le offese alle forme urbane, al paesaggio e agli animali, non potrebbero non spettare per offese agli esseri umani, intendendosi non solo coloro che sono stati assassinati, ma proprio coloro che oggi vivono le vite comunitarie nelle circoscrizioni amministrative di questi enti. Il fatto che la Regione Emilia Romagna non esistesse all'epoca degli eccidi non esclude il suo diritto; infatti, inteso il diritto degli enti locali al risarcimento secondo i principi suddetti, anche la Regione, sin dalla sua nascita, è stata danneggiata. Il risarcimento è un diritto dei vivi. La legittimità della costituzione di parte civile della Presidenza del Consiglio dei Ministri, ed anche della regione, della provincia e del comune ove è avvenuto un eccidio è stata anche riconosciuta da Corte mil. appello Roma 21.11.2006 n. 65, Sommer. È già stato riconosciuto in giurisprudenza come anche una comunità ebraica in quanto tale possa essere danneggiata da un reato (Cass. 16.1.1986, dep. 11.4.1986 n. 2817, D'Amato), e in questo caso il risarcimento spetta alla Comunità ebraica di Ferrara (competente anche per Forlì), tenuto conto anche che Emilio e Massimo Zamorani erano padre e figlio, senza altri discendenti. Nella dichiarazione di Maria Rossi Zamorani al S.I.B. («avevamo paura di essere maltrattati, dato che eravamo ebrei»), sia la paura che l'esistenza sono ormai schiacciate sul passato, e la donna usa il verbo essere al plurale, accomunandosi ai morti. Ancora sul risarcimento in favore delle persone giuridiche, Cass. 7.5.2003 n. 8828: «Nel senso del riconoscimento della non coincidenza tra il danno non patrimoniale previsto dall'art. 2059 e il danno morale soggettivo va altresì ricordato che questa S.C. ha ritenuto risarcibile il danno non patrimoniale, evidentemente inteso in senso diverso dal danno morale soggettivo, anche in favore delle persone giuridiche; soggetti per i quali non è ontologicamente configurabile un coinvolgimento psicologico in termini di patemi d'animo». Perciò l'imputato è condannato al risarcimento dei danni in favore di tutte le parti civili costituite, danni da liquidare in separata sede. Per quanto riguarda le provvisionali, è opportuno ricapitolare le decisioni prese dall'autorità giudiziaria nei processi analoghi più conosciuti. Corte d'assise Santa Maria Capua Vetere 25.10.1994, Lehnigk Emden (eccidio di Caiazzo): nessuna provvisionale. Trib. mil. Roma 22.7.1997 n. 322, Hass (eccidio delle Fosse Ardeatine): nessuna provvisionale. Trib. mil. Torino 9.6.1999, Saevecke (eccidio di piazzale Loreto): nessuna provvisionale. Trib. mil. Torino 15.11.1999, Engel (eccidi della Benedicta, del Turchino, di Portofino, di Cravasco): provvisionali di lire 5.000.000 in favore di ciascuna delle parti civili (enti locali e persone fisiche). Trib. mil. Verona 24.11.2000, Seifert (omicidi nel campo di concentramento di Bolzano): provvisionale di lire 100.000.000 in favore dell'A.N.P.I. - A.N.E.D. Trib. mil. La Spezia 22.6.2005 n. 45, Sommer (eccidio di Sant'Anna di Stazzema): provvisionali di euro 10.000 in favore di ciascuna persona fisica. Corte mil. appello Roma 24.11.2005 n. 99, Langer (eccidio di Farneta): provvisionali di euro 50.000 in favore di ciascuna persona fisica. Trib. mil. La Spezia 28.9.2006 n. 43, Stommel (eccidi di Falzano di Cortona e di San Pietro a Dame): provvisionali di euro 30.000 in favore di ciascun ente locale, e di euro 50.000 in favore di ciascuna persona fisica. Da queste sentenze è agevole prendere atto del maturare di una tendenza al maggior riconoscimento della funzione della provvisionale, in linea con la struttura dell'istituto (art. 539 comma 2 c.p.p.). Infatti, ove la prova sia già raggiunta, come appunto nel caso del danno morale subiettivo e del danno esistenziale, la sola condanna generica con rimessione al giudice civile, con esitazione a disporre la provvisionale, oltre ad essere di solito una privazione di tutela per le vittime e tendenzialmente un aggravio successivo di incombenze per l'autorità giudiziaria, nei casi di gravissimi reati molto lontani nel tempo prolunga ancor più il ritardo della giustizia. Tenuto conto dunque del danno morale subiettivo e del danno esistenziale, del dolore e del vuoto patiti sùbito, oltretutto in un clima già irto di privazioni come quello della guerra e dell'immediato dopoguerra, e ancora di quelli negli anni successivi, in cui il lutto irrisolto si è come approfondito scavando dentro se stesso (lo dimostra l'attenzione sofferta con cui è stato vissuto il processo), ed avuto riguardo ai gradi di parentela (e all'assenza di parenti costituiti in giudizio per Emilio e Massimo Zamorani), le provvisionali sono così determinate: Regione Emilia Romagna euro 30.000, Provincia di Forlì-Cesena euro 15.000, Comune di Forlì euro 15.000, Comunità ebraica di Ferrara euro 40.000, Albano Mosconi euro 200.000, Vera Dell'Amore euro 200.000, Maria Grazia Golfarelli euro 200.000, Eustella Zaccarelli euro 120.000, Fernanda Gori euro 120.000, Maria Gori euro 120.000, Gianpaolo Balestri euro 80.000, Zenia Balestri euro 80.000, Iva Gamberini euro 80.000. La provvisionale in favore della Regione Emilia Romagna comprende le spese risultanti dai verbali della Giunta regionale, che recano liquidazioni di contributi per la memoria della Resistenza. I risarcimenti dei danni, in cui sono comprese le provvisionali disposte, costituiscono crediti di valore, e trattandosi di crediti da fatto illecito, per i quali non è necessaria la costituzione in mora, ai sensi degli artt. 1219 e 1224 c.c. producono interessi legali in conformità all'art. 1284 c.c., come modificato prima dalla legge 26.11.1990 n. 353, e poi dalla legge 23.12.1996 n. 662, ed anche in conformità al d.m. 10.12.1998, al d.m. 11.12.2000, al d.m. 11.12.2001, e al d.m. 1.12.2003. Va ricordato che il codice civile è entrato in vigore prima degli eccidi; in particolare il libro IV è entrato in vigore il 21.4.1942. Gli interessi sono dovuti, in favore di ciascuna parte civile, sin dalle date degli eccidi (per Branzolino dal 28 agosto 1944, per San Tomè dal 9 settembre 1944). Fa eccezione il diritto al risarcimento di Iva Gamberini: essendo un diritto proprio e non un cespite ereditario, esso non può essere sorto prima della sua nascita, avvenuta il 10 aprile 1945, e perciò gli interessi le spettano solo da tale data. Fa eccezione anche il diritto al risarcimento della Regione Emilia Romagna, per cui è necessario un approfondimento. Quanto alle regioni a statuto ordinario, l'VIII disposizione transitoria della Costituzione prevedeva che le elezioni dei consigli fossero indette entro un anno dall'entrata in vigore della Costituzione, termine poi prorogato sino al 31.12.1950 con la legge 25.10.1949 n. 762, ma inutilmente decorso. Più tardi, con la legge 10.2.1953 n. 62 sono state dettate norme sulla costituzione e sul funzionamento degli organi regionali. Poi, con la legge 17.2.1968 n. 108 sono state fissate le norme per le elezioni dei consigli regionali. Successivamente, la legge 16.5.1970 n. 281 ha disposto provvedimenti finanziari per l'attuazione delle regioni a statuto ordinario. Il 7.6.1970 si sono svolte le elezioni. Ancora dopo, la legge 23.12.1970 n. 1084 ha modificato la legge 10.2.1953 n. 62 e la legge 16.5.1970 n. 281. Infine, con l'art. 1 del d.l. 28.12.1971 n. 1121, convertito con la legge 25.2.1972 n. 15, è stato stabilito che all'1.4.1972 avesse «inizio l'esercizio da parte delle regioni delle funzioni trasferite». Escluso che si possa assumere come data di nascita della regione l'entrata in vigore della Costituzione o la prima elezione del consiglio, deve farsi riferimento alla data iniziale dell'esercizio delle funzioni. Perciò gli interessi spettano alla Regione Emilia Romagna solo dal 1° aprile 1972. Riassumendo, gli interessi sono dovuti dalle date degli eccidi (ma per Iva Gamberini dal 10 aprile 1945, e per la Regione Emilia Romagna dal 1° aprile 1972) sino al 15 dicembre 1990 nella misura del 5% annuale; dal 16 dicembre 1990 al 31 dicembre 1996 nella misura del 10% annuale; dal 1° gennaio 1997 al 31 dicembre 1998 nella misura del 5% annuale; dal 1° gennaio 1999 al 31 dicembre 2000 nella misura del 2,5% annuale; dal 1° gennaio 2001 al 31 dicembre 2001 nella misura del 3,5% annuale; dal 1° gennaio 2002 al 31 dicembre 2003 nella misura del 3% annuale; dal 1° gennaio 2004 al giorno del pagamento nella misura (salvo successive modifiche per decreto ministeriale) del 2,5% annuale. 28. Le spese, il termine per la motivazione e il dispositivo Le spese processuali delle parti civili sono a carico dell'imputato, ai sensi dell'art. 541 c.p.p., e sono liquidate come in dispositivo. Il termine per il deposito della motivazione della sentenza è fissato in novanta giorni, ai sensi dell'art. 544 comma 3 c.p.p. p.q.m. visti gli artt. 533 e ss. c.p.p., 261 c.p.m.p. dichiara Heinrich NORDHORN, contumace, colpevole dei reati ascrittigli e, ritenute sussistenti le circostanze aggravanti contestate, con la sola esclusione di quella di cui all'art. 112 comma 1° n. 3 c.p., tenuto conto del concorso formale di cui all'art. 81 comma 1° c.p., lo condanna alla pena dell'ergastolo con isolamento diurno per due anni, alla pena accessoria della degradazione, al pagamento delle spese processuali e ad ogni altra conseguenza prevista dalla legge; visto l'art. 32 commi 1° e 2° c.p.m.p. ordina la pubblicazione della sentenza, mediante affissione negli albi dei Comuni della Spezia e di Forlì nonché, a spese del condannato, per estratto e per una sola volta, nei giornali Corriere della Sera, La voce di Romagna e Resto del Carlino; visti gli artt. 538 e ss., 261 c.p.m.p. condanna l'imputato al risarcimento dei danni, da liquidarsi in separata sede, in favore delle seguenti parti civili: Presidenza del Consiglio dei Ministri; Regione Emilia Romagna; Provincia di Forlì-Cesena; Comune di Forlì; Comunità ebraica di Ferrara; Albano Mosconi; Vera Dell'Amore; Maria Grazia Golfarelli; Eustella Zaccarelli; Fernanda Gori; Maria Gori; Gianpaolo Balestri; Zenia Balestri; Iva Gamberini; nonché al pagamento in favore delle richiedenti parti civili, di provvisionali immediatamente esecutive come di seguito determinate: Regione Emilia Romagna euro 30.000 (trentamila/00), Provincia di Forlì-Cesena euro 15.000 (quindicimila/00), Comune di Forlì euro 15.000 (quindicimila/00), Comunità ebraica di Ferrara euro 40.000 (quarantamila/00), Albano Mosconi euro 200.000 (duecentomila/00), Vera Dell'Amore euro 200.000 (duecentomila/00), Maria Grazia Golfarelli euro 200.000 (duecentomila/00), Eustella Zaccarelli euro 120.000 (centoventimila/00), Fernanda Gori euro 120.000 (centoventimila/00), Maria Gori euro 120.000 (centoventimila/00), Gianpaolo Balestri euro 80.000 (ottantamila/00), Zenia Balestri euro 80.000 (ottantamila/00), Iva Gamberini euro 80.000 (ottantamila/00); condanna l'imputato alla rifusione delle spese processuali, oltre I.V.A. e C.P.A. di legge, in favore delle parti civili e nelle misure di seguito indicate: Presidenza del Consiglio dei Ministri: euro 2.250,00; Regione Emilia Romagna: euro 9.565,75; Provincia di Forlì-Cesena: euro 13.575,00; Comune di Forlì, Comunità ebraica di Ferrara e Iva Gamberini: euro 10.615,50 ciascuno; Albano Mosconi, Vera Dell'Amore, Maria Grazia Golfarelli, Eustella Zaccarelli, Fernanda Gori, Maria Gori, Gianpaolo Balestri e Zenia Balestri: euro 14.173,87 ciascuno. Deposito della sentenza entro novanta giorni. La Spezia, 3 novembre 2006 Il giudice estensore dott. Piergiorgio Ponticelli Il presidente estensore dott. Luca Massimo Baiada.