ISSN 2036-2773 design magazine PH. SETTIMIO BENEDUSI Poste Italiane S.p.A. – Sped. in abb. post. – 70% - DCB Trieste FINESSI vol. 2 / April - July 2009 NOVEMBRE € 15,00 Se Carlo Paggiarino, “Treno di caffettiere”, 1993, Courtesy Alessi – Crusinallo (VB) o ol , ng O ria UIT 972 lt 1 AT /10/ ) de R d o G 26 t. iv pr GIO .R. , let .P t. 2 G SA A ( D a r 3 V . I . 63 es n %&4*(/."(";*/& 24 Direttore editoriale / Editorial director Eleonora Garavello T +39 340 7353147 eleonora.garavello@ julietdesignmagazine.it Covers by Settimio Benedusi Donato Di Bello Special Guest Mario Moretti Polegato President GEOX Supervisor Roberto Vidali T +39 329 2229124 [email protected] Hanno collaborato a questo numero / Contributors to this issue Alessio Bozzer / Luca Carrà Stefano Casciani / Riccardo Coretti Beppe Finessi / Neva Gasparo Martino Ghermandi / Stefano Graziani Matthias Harder / Beatrice Mascellani Marco Minuz / Vasja Nagy Hiram Pittuello / Lisa Ponti Fabio Rinaldi / Massimo Roncelli Elisa Storace / Andrea Ulliana Massimo Verlicchi / Tilen Zbona All © 2009 copyright is retained by the contributors Logo Juliet by Oreste Zevola Pubblicità e abbonamenti / Advertising and subscriptions GARAVELLO EDITORE Piazza del Popolo, 36 28041 Arona (NO) Italy [email protected] www.julietdesignmagazine.it prezzo di copertina / cover price 15,00 euro 1 arretrato / 1 back issue 30,00 euro abbonamento annuale / Annual subscription (3 issues) Italy 45,00 euro (studenti 30,00 euro - è indispensabile allegare la dichiarazione d’iscrizione all’università o alla scuola) Europe 55,00 euro Others 65,00 euro L’importo può essere versato tramite assegno intestato a: Garavello Editore Please payments to our current account no. 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Tu che ne dici? critici che esprimi su un certo cinismo Personalmente mi ritrovo un po’ medi ritorno dei designer, per esempio sul no nel carattere di questa generazione lavoro di Fabio Novembre. Hai marchiache descrivi bene, un po’ perché sono to a fuoco una sua sedia, effettivamente leggermente più giovane, un po’ per la bruttissima, con poche parole: BRUTTO mia attività di scrittore. Per cui mi sono è un oggetto reso volgare da obiettivi tenuto più lontano dal problema di promalati (Redesign grottesco della Panton gettare ogni giorno, non vivo facendo Chair, Her, 2008) ma ricordo una conoggetti: ma ci sono tanti altri che, per ferenza in Triennale, già diversi anni un comprensibile, umano miraggio di fa, dove eravamo insieme per parlare arricchimento o per necessità, hanno di un suo libro. Io ho cercato proprio un po’ “girato la manovella”, tirando di demolirlo, ironicamente, dicendo che fuori degli oggetti meccanici, professioera un abile falsario. L’avevo avvisato nali, che però sicuramente non hanno che sarei venuto alla presentazione del il valore di altri disegnati dai Maestri. suo lavoro per parlarne male… ma mi Oppure, gli stessi più bravi che hanno pareva che tu all’epoca avessi sentimenti anche cercato di fare una certa spericontrastanti… mentazione si sono persi presto: se ne sono perse le tracce o sono diventati, In effetti per me esiste il piacere di Stefano Casciani e Alessandro Mendini in una foto di Donato Di Bello come Stefano Giovannoni, dei grandi avere una “conversazione” con persone geniali imprenditori del design - il suo, intelligenti, come lui: ma quando poi esce ovviamente. Qui nasce un’altra domanda, che provo a sintetizzare: i modelli comuna cosa sbagliata e mi si chiede un giudizio critico, dico quello che penso. È anche un portamentali – vecchi e nuovi – del design sono quasi tutti nati in Italia, più o meno po’ quello che sto facendo con i miei pezzettini su Abitare… adesso nel prossimo parlo di in cinquant’anni. Altre nazioni e culture li hanno ripresi e utilizzati a loro uso e conStudio Job. Lo sai, sono quei due olandesi, ragazzo e ragazza... sumo, con un successo e una costanza decisamente più continui che in Italia. Da cosa deriva questo fenomeno, secondo te? Li conosco, hanno lavorato anche per Bisazza. E su che piano li giudichi criticaSe i modelli, come dici tu, sono nati in Italia, i luoghi dove si vende il design storico o mente? dove si fanno le “tirature”, tra virgolette, sono Bruxelles, Parigi, Basilea, Miami e New Job Smeets è stato, forse, uno dei più bravi allievi della Design Academy di Eindhoven York. Magari a Parigi nascono anche perché ogni tanto salta fuori qualche pezzo di e di Li Edekoort, lo conosco da tanto tempo. Si è messo con questa ragazza, Nynke, e Prouvè, o che ne so, di LeCorbusier: è proprio antiquariato del moderno ma non c’è sotto hanno cominciato a fare oggetti insieme, ma progressivamente hanno creato un meccaniun metodo di meccanismo progettuale. Invece in Italia questi meccanismi ci sono e ci smo di autopromozione estremo. Ora per il Salone del Mobile si presentano nei chiostri sono stati, basta citare Alchimia, da una parte e Memphis, dall’altra: gruppi generatori di San Simpliciano qui a Milano (dove c’è la Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale) di idee/oggetti che per Alchimia avevano un esclusivo carattere di sperimentalità, per con un gruppo finanziario che li sostiene, con una cosa che si chiama “Servizio da tavola” Memphis poi si sono tradotti anche nell’ipotesi di lavorare sul mercato alto-borghese, del – oggetti comuni realizzati a scala gigante: un ciotolone, un vassoione, etc.. in fusione di collezionismo. ferro arrugginito (il mercante penso sia Moss, che poi venderà tutto a New York). Dopo di Anch’io oggi posso fare un mobile in una serie di 9 pezzi, un mobile come pezzo unico che, sponsorizzati da un’industria della porcellana olandese – mi pare si chiami Royal... ma li motivo come una estenuante e anche faticosa –sia dal punto di vista formalistico qualcosa del genere - producono insieme questo stesso servizio come produzione di serie. che etico– ricerca di forme dei mobili. Però rispetto a Job, per esempio, che gioca la sua In più hanno fatto tre vetrate da cattedrale, con un concetto un po’ simile a Gilbert & chance di marketing sull’omogeneità del suo stile il mio discorso è eclettico… George, dove fanno degli ammiccamenti tra religione, armi, guerra, Islam... insomma deInsomma mi va di fare la predica a tutti gli industriali italiani, che dovrebbero fare la vo dire che tutti questi oggetti alla fine mi sembrano piuttosto un freddo e cinico progetto fatica di trovare designer italiani giovani. Perché questi devono emergere, sono più sotterdi marketing: che fatto da Jeff Koons con Cicciolina sul fronte dell’arte pura ha un valore, ranei, meno riconoscibili: ma non si può andare sempre solo sul sicuro. ma trasferito nelle arti applicate, per una produzione che poi alla fine è una produzione di design - che nasce da una tradizione sociale, che dovrebbe essere produzione etica - non Devo dirti che all’osservatorio di Domus un po’ questo mondo lo si vede. È cumi piace. rioso, perché c’è una certa inventiva e una certa originalità, molta ironia, anche simpatica ma che a volte è autocompiacente : “Sono poco conosciuto, allora faccio Devo proprio farti una domanda che mi sono fatto io stesso, più di una volta. un oggettino ironico, magari sarcastico, ma senza ambizioni”. Però poi appena Ti viene mai il rimorso di avere in qualche modo contribuito a scatenare questo tipo questi giovani superano un certo livello di riconoscibilità, appena qualcuno gli dà di imprenditoria della firma - preferibilmente straniera - avendo fatto tanti esperispazio nella produzione, si mettono a fare subito i Giovannoni: e gli salta subito menti di design giocando tra piccola e grande serie (da Alchimia, ai cento vasi Alessi, la fase sperimentale, non serve più, adesso si fanno i soldi… Forse anche perché alla tua produzione come Atelier Mendini) con tantissimi designer di ogni dove? in questo momento non c’è più l’interesse per la ricerca vera, la sperimentazione Cioè, che questa grande tendenza verso il mercato del collezionismo non sia altro che anche un po’ folle. Pensa a quante mostre si facevano ancora negli anni ‘80 e ‘90, una razionalizzazione cinica di quegli esperimenti che tu hai fatto e a cui anch’io, in con poche lire. Oggi si fanno solo esposizioni super istituzionali, un po’ bolse come modo un po’ defilato, ho comunque partecipato? Ogni tanto, sul piano intellettuale, quelle della Triennale, o quelle sui maestri, vivi o morti… e se non c’è lo sponsor questo rimorso a me viene... non si fanno. Sai quante volte ho sentito dire seriamente, anche da ragazzi: “Non Sicuramente so che sono stato fra i primi a portare in Italia degli stranieri, anche per facciamo in tempo a mettere l’annuncio della mostra sulla guida di Interni per il “ossigenare” un dibattito critico, allargarlo a una internazionalizzazione della cultura del Salone, allora non la facciamo più”. Che coraggio! design “milanese”: ma in parallelo si è avuto anche una specie di declino di creatività Guarda, ho capito di chi parli: questi come Ragni o Iacchetti che hanno l’ideologia del italiana. Non capisco bene sulla base di quali fattori, però sono subentrati sia alcuni auvolare basso e allora fanno la forbicina di plastica, o che ne so, lo stuzzicadenti con tori bravissimi - Starck, Morrison, Newson - sia delle industrie che sulla base di questo sopra l’uccellino. Ma perché uno giovane, intelligente, deve porre a propria ideologia trend esterofilo hanno privilegiato gli stranieri piuttosto che gli italiani, oppure i soliti il volare basso? Vola più alto che puoi! E poi quelle cose le ha già fatte come un mago maestri milanesi, almeno fin quando sono vissuti. C’è un’altra cosa per me importante: Gino Colombini, il primo designer della Kartell, nel momento giusto… Sembra proprio anche una generazione come la tua, è stata presa in una morsa soffocante – tra l’esteil catalogo di Colombini che va avanti. E mi dispiace che succeda. Anche se poi dall’altra rofilia e l’establishment dei “maestri”: tanto che mi sarebbe sempre piaciuto fare uno parte c’è la megalomania alla Carmelo Bene di un Fabio Novembre, che non è Carmelo studio e una mostra su questa generazione (fra i 40 e i 50 – o tra i 45 e i 55), perché è Bene: sì, magari c’è un’intelligenza pazza, di cui pure bisogna tenere conto. Io ce l’ho una generazione che è stata sopraffatta, costretta a fare un certo lavoro di routine, maga- 2 con quella brutta sedia perché potrebbe essere venduta a Londra, a Piccadilly, in quei negozi dove trovi i vasi da notte senza il fondo: ecco, quello è il livello di quella sedia. È un oggetto volgare. Diciamo che fra megalomania e volare basso è difficile trovare una mediazione, oppure basterebbe una via di mezzo… Penso sempre che una buona mediazione è lavorare con gli artigiani, come i ceramisti o le ceramiste. Se vai a Nove magari c’è una ceramista che vive di una grande tradizione, oppure a Deruta… Forse è sul fronte dell’artigianato più che del design che sta troppo vicino all’industria, che si possono trovare nuovi spunti di DNA italiano. È una strada molto interessante, che anch’io ho toccato per fare i miei famosi vasi da fiori – con un ceramista svizzero, magari, o un laboratorio di metalli di Milano. È una strada che segue bene Hella Jongerius che lavora (non citando gli artigiani) tra artigianato e serie: è riuscita perfino a fare dei vasi con Ikea, realizzati artigianalmente, con decori diversi, ai prezzi strepitosi dell’Ikea. Mi viene poi in mente anche il problema dell’iconografia, della ricerca formale. Bene, i metodi dei nostri giorni sono chiari - come tu dici - c’è un metodo di marketing, per cui paradossalmente più è limitata la serie più forte deve suonare la grancassa mediatica. C’è però anche tutta una iconografia, un metodo di lavorare per revival di forme dell’avanguardia che secondo me è molto criticabile – mi ricorda le sculture che Paperino va a vedere al museo nei fumetti degli anni Cinquanta. Tu quel tipo di iconografia l’hai usata in modo ironico, ma non trovi che anche lì ci sia una certa compiacenza? Penso a Ron Arad… Ron Arad è un grandissimo formalizzatore, è uno scultore tradizionale come lo sarebbe Frank Gehry: se non facesse l’architetto, sarebbe un grande scultore degli anni Settanta. Sì, certo, ho citato Ron Arad che è l’eccellenza di questo formalismo, ma penso piuttosto ai suoi epigoni di seconda e terza mano… Il vero problema del design oggi credo sia la mancanza di un retropensiero ideologico, o almeno antropologico. Altrettanto succede nell’architettura perché l’architettura oggi è fantastica! Come si fa a non dire che l’architettura di oggi è fantastica? Ci sono architetti bravissimi formalmente, che fanno progetti fantastici però privi sostanzialmente di uno scenario umano. È caduto lo scenario del moderno, la Casabella di Dal Co ha le pagine sempre più bianche, perché non ci sono più le opere che riflettono quello Scenario Culturale. Gli ultimi anni di Bruno Zevi da questo punto di vista sono interessanti, nel senso che con Gehry lui vedeva realizzata tutta la sua idea di un’architettura come ritorno alla grande matrice espressionista dell’avanguardia. Peccato che non si puo’ essere tutta la vita all’avanguardia, come diceva Picasso: peccato che Zevi abbia scambiato l’inizio di una nuova fase estetica del post-modern per l’apoteosi della fase che lui aveva cercato, promosso e inseguito per tutta la vita. È proprio in questa fase suprema dell’espressionismo che la componente antropologica o ideologica di cui tu dici comincia a scarseggiare. Mentre invece ritorna ad esempio nel caso di New Orleans, dove gruppi vicini a quell’associazione che si chiama Architecture for Humanity provano un tentativo di ricostruzione dopo l’uragano Katrina. Lì si fa un genere di architettura molto ad hoc, che però non si dimentica del linguaggio globale. Oppure penso a quegli italiani giovani che hanno vinto la nomination a Barcellona durante il Festival dell’architettura per un Centro per giovani donne in Africa… si chiamano studio FARE. Certo questi sono fatti interessanti: sono magari un po’ un fatto di speranza, anche se è una parola un po’ grossa. Forse questi sono i Riccardo Dalisi dell’architettura di oggi, hanno dei contenuti anche sociali, politici e li esprimono. Detto questo, il forte lassismo del pensiero progettuale oggi fa venir voglia di ragionare sulla necessità della rinascita di un neo-radicalismo… Se guardo al tuo itinerario, il tuo ritorno alla “polemica costruttiva” mi sembra allora un’altra piroetta, acrobatica. Nessuno si aspetta che tu abbia accettato di rimettere in discussione il carattere di merce del design, dopo aver promosso l’idea del design banale, per tanti anni. Dalla fase del “progetto infelice” torni alla fase radicale? Cioè, pensi ci sia comunque continuità tra le idee delle tue opere radicali e il lavoro che fai negli ultimi anni, o certe nuove prese di posizione, molto decise? Certe istanze erano proprio di tipo storico. Tutta una parte del progetto radicale era fondata sulla guerriglia politica contro la reazione, sulla lotta all’industria e l’affermazione dell’immaginazione al potere. Forse questi temi li ho vissuti in maniera infantile, molte di queste cose per me non esistono più: ma all’interno di queste idee, se mi proponi la definizione di “oggetto ad uso spirituale”, allora sì, ogni giorno tento di fare oggetti che ocntengano un anima. Come se il mio lavoro fosse una specie di ruota, che gira da anni e perde un po’ le scorie, ma certi elementi rimangono sempre invariati. È un percorso lungo, evasivo, dispersivo, per una storia breve… forse è la storia di una problematicità, la testimonianza di una mia problematicità. L’opera autobiografica, la biografia dell’autore… ma anche il diritto di autore sta diventando un grandissimo problema, con gli eredi di massa, figli di matrimoni diversi, conviventi, millantatori… tutti che accampano diritti sull’opera di un autore, magari morto in bolletta. All’opposto c’è il problema delle copie: esiste una pirateria anche nel design, mica solo nella musica o nei video. Vitra è in causa con High-tech che vende le copie cinesi di tutti i pezzi dei Maestri, da Panton a Eames, con tanto di foto del santo e poetica agiografia: ma sono e rimangono delle copie, anche fatte male, degli originali per cui Vitra paga fior di royalties a eredi e fondazioni varie. Da una parte così c’è un tentativo del design di ottenere un riconoscimento ufficiale (legale) del suo valore: dall’altra questa massa anonima di produttori che, acquisito il valore economico del design, fregandosene del designer e dei suoi diritti trasformano il progetto in pura merce. Salta quindi l’idea dell’autore, del design d’autore, del design dei Maestri, perbenismi di un’epoca che ora pare quella cavalleresca, ma in cui è nato il design come lo conosciamo… probabilmente per il design c’è un futuro, accanto alla deriva collezionistica, di un casino totale dove tutti fanno tutto e nessuno sa più chi ha fatto cosa. Questo impianto tematico che hai dato va benissimo: certo, ci sono anche delle cose sbagliatissime, delle cose che non vanno copiate perché ledono dei diritti industriali. Però se ragiono in astratto, penso che sono sempre stato e sono tuttora favorevole alla copia. L’ho fatta e sono contento di farla. Prima dell’esistenza della fotografia per imparare una cosa la si copiava. Il Rinascimento è fatto di copie di copie di copie. Copiare significa anche imparare, poi la copia diventa un falso, un vero falso. Ripeto, bisogna distinguere quanto riguarda il diritto alla proprietà intellettuale: ma secondo me, in Utopia, nel Paradiso Terrestre, la proprietà intellettuale non dovrebbe esistere. Così come sono contrario alle corporazioni professionali, sono contrario alla difesa – sempre e comunque – dei progetti. Tu che nei hai viste tante… la tecnologia del web – a parte provocare il disfacimento e la disgregazione del concetto di “autore”, che è proprio l’opposto di Internet – questa “sottocultura” come direbbe Mari, nel bene e nel male, in qualche modo ti ha toccato? Voglio dire, questa specie di copia del mondo reale che è la Rete, dove l’autenticità svanisce e tutti copiano e riproducono e sono copiati, questa trasfigurazione del mondo causata da Internet in qualche modo ti preoccupa? L’affronti? Non te ne importa? Hai fatto delle valutazioni? Delle riflessioni? Ci ho riflettuto un po’: è un fenomeno importantissimo che sta cambiando il mondo, sta cambiando il concetto di democrazia – come dice Beppe Grillo – la democrazia oggi sta lì. Però io, come “handicappato” contemporaneo, come persona che non è in grado di seguire tecnicamente questi mezzi, sono un po’ fuori dal gioco. Rimango fermo nella mia mentalità e non ho fatto il salto verso questa nuova situazione… che però non mi spaventa, perché mi affascina. Però mi affascinerebbe anche andare sull’Everest: e non lo farò. Quindi i tuoi oggetti, la tua architettura, non cambiano perché esiste questo mondo? Da un po’ di tempo mi sono convinto che io progetto come si progettava nel Settecento, prima del moderno: al massimo progetto come ai tempi del Liberty… Fai ancora tanti modelli o ti basi solo sulle visualizzazioni al computer? Qui in studio si usano in maniera abbastanza sofisticata delle macchine. In tutta la progettazione. Io seguo questo tipo di lavoro elettronico, mi interessa moltissimo ma non lo so gestire in prima persona. D’altra parte, anche quando faccio un vaso di Venini non ho la conoscenza della tecnologia del vetro: per cui è un po’ la stessa cosa. Il mio interesse è per le tipologie che vanno dall’architettura all’oggettistica, oppure per i materiali: ma io non possiedo nessuna delle tecniche, vecchie o nuove. Possiedo semmai il sistema metaprogettuale di governarle, sulla base della presenza di un disegnino che faccio con le matite, i pennarelli… Ho rivisto uno dei tuoi disegnini anche nel primo numero di Juliet design magazine e devo dire che sono sempre molto evocativi, hanno un valore di progetto, in quanto sono in sé dei rendering alla minima potenza: cioè, alla Mendini, quindi spiegano un universo, un mondo culturale – il tuo – o una allucinazione – un’ossessione? – tutta tua… Certamente, al limite, il progetto si potrebbe fermare lì, con il disegnino. Potrebbe. Così come potrebbe fermarsi sulle parole. Allora fermiamoci con le parole, come abbiamo cominciato… Stefano Casciani (Roma, 1955) è un critico, artista e designer internazionalmente riconosciuto per i suoi scritti e le sue ricerche sugli intrecci tra la cultura del progetto e le diverse forme di espressione. Premio Compasso d’Oro 2001 per la ricerca, ha pubblicato numerosi volumi su architettura, arte e design. Dal 2007 è Vice Direttore della rivista “Domus”. Alessandro Mendini (Milano, 1931) è uno dei padri fondatori del rinnovamento critico nel design italiano. Ha diretto le riviste “Casabella”, “Modo” e “Domus”. Per il suo lavoro di architetto, artista e designer ha ottenuto molteplici riconoscimenti. Tra le sue opere più importanti, il Groninger Museum in Olanda, progettato e realizzato con il fratello Francesco e un gruppo internazionale di architetti e designer. 3 4 5 Denis Santachiara in una foto di Luca Carrà Molti di voi la mia storia già la conoscono. La mia famiglia è impegnata nella viticultura da tre generazioni e inizialmente lavoravo proprio nell’azienda famigliare. Poi un giorno ebbi un’idea. Mi trovavo a Reno, in Nevada, per una convegno sul vino, ed ero infastidito dal surriscaldamento dei piedi causato dalle scarpe con le suole in gomma che indossavo e così, istintivamente, ho forato entrambe le suole con un coltello. In questo modo avevo trovato una soluzione semplice ed efficace per far fuoriuscire il calore in eccesso. Successivamente, sviluppai la mia intuizione nei laboratori di una piccola azienda calzaturiera di proprietà della mia famiglia, mettendo a punto una nuova tecnologia per le suole in gomma. La brevettai immediatamente e creai la prima “scarpa che respira”. Dopo aver proposto, senza successo, la mia invenzione ad affermate aziende calzaturiere e dopo aver superato una fase di test di mercato con una linea di calzature per bambino, nel ‘95 iniziai a produrre calzature a marchio Geox in proprio e a livello industriale. Negli ultimi tredici anni Geox è cresciuta vertiginosamente divenendo la prima azienda in Italia e la seconda al mondo nella produzione di calzature per il settore lifestyle casual. Questa mia storia, però, può essere ripetuta da molti di voi. L’importante è saper gestire le proprie idee e ciò è possibile, innanzi tutto, attraverso i brevetti. Sono sicuro che anche molti di voi sono stati in qualche occasione degli inventori, magari senza rendersene conto. Basta davvero poco, certe volte, per apportare delle migliorie a dei prodotti già esistenti, ma molto spesso non ci si rende conto di aver realizzato qualcosa che potrebbe essere protetta attraverso la proprietà intellettuale. Un’altra cosa molto importante, quanto si ha una buona idea ma non tutte le competenze per realizzarla, è appoggiarsi ai centri di ricerca universitari. Dalla sua fondazione Geox ne ha fatta di strada tanto che è stata nominata fra le cinquecento migliori compagnie al mondo. Lo stile italiano, specie se parliamo di scarpe, è riconosciuto e apprezzato ovunque, ma in realtà, ciò che ha reso Geox azienda leader in Italia e terza a livello mondiale nel settore lifestyle casual, è principalmente la componente tecnologica. Spesso ci chiedono se Geox è un marchio made in Italy. Nel caso di Geox, è stata fatta una scelta a priori. Investire in ricerca, innovazione e persone, gestendo la produzione in outsourcing. Outsourcing significa far produrre, sotto attento controllo, i propri prodotti da una fabbrica terza, che sia in Italia o altrove. Per quanto concerne la manodopera, è comunque vero che non avremmo trovato fabbriche sufficientemente grandi in Italia per far produrre i ventuno milioni di paia di scarpe che abbiamo realizzato nel 2007. In generale, la manodopera in Italia è sicuramente più cara che in altre parti del mondo, e il prodotto italiano può competere in uno scenario globale, ma dovrebbe essere tutelato meglio. Le normative attualmente in vigore non fanno chiarezza sul questo punto e su quali prodotti si possano forgiarsi del brand “made in italy”. Geox è un “made in technology” e su questo siamo sempre stati chiari con i nostri consumatori. Oggi Geox produce calzature e abbigliamento in ventotto paesi e li vende in sessantotto. Ora il nostro obiettivo è replicare in altri paesi europei lo stesso modello che ci ha permesso di raggiungere la leadership in Italia, e i risultati saranno sorprendenti. Ciò che ci proponiamo per i prossimi due anni rappresenta la nuova sfida di Geox: diventare leader nei mercati in cui non siamo ancora praticamente presenti, come Usa, UK, Russia, Cina e Giappone. In questi mercati Geox è solamente approdata e c’è ancora molto da fare, ma la credibilità del marchio e la risposta positiva che finora abbiamo ottenuto dai nostri milioni di consumatori ci dà fiducia e ci incoraggia a investire in misura sempre maggiore. Il fattore comune del nostro sviluppo sarà come sempre la tecnologia, che per noi rappresenta un elemento imprescindibile. Noi produciamo una collezione internazionale ogni sei mesi, alla quale ne aggiungiamo una di locale per ogni singolo mercato Una idea vale 6 L’italianità è nelle idee, nello stile e nello sviluppo dei progetti. Posso però affermare con certezza che non basta offrire un prodotto eccellente per far crescere la propria azienda. Ciò che conta è adottare un modello di business appropriato. Nella piccola e media impresa italiana vige ancora la figura del padre-padrone. Una struttura che gli americani definiscono “Mama’s and Papa’s operation”. Il non superamento della prima generazione, indipendentemente dal settore, è il classico problema delle aziende in cui c’è un padre-padrone che detiene ogni controllo e potere decisionale. Non è detto che un figlio debba per forza entrare nell’azienda di famiglia. Bisogna lasciarlo libero di percorrere la propria strada ma essere pronti ad accoglierlo nel momento in cui si dimostrerà convinto del progetto del padre. Oggi per crescere è necessario avere le più diverse competenze ed è impensabile che la stessa persona sia esperta di finanza, di economia di comunicazione e di prodotto, e che nel contempo parli magari cinque o sei lingue. Poiché è questo ciò che richiede il mercato. L’unica strada percorribile è quella che Geox ha intrapreso fin dall’inizio ed è la “manage by manager”. La struttura e i poteri, in Geox, non sono per nulla centralizzati. Certo, quando ci sono delle decisioni importanti da prendere sono sempre presente, ma tali decisioni vengono prese assieme a una schiera di manager competenti ai quali, nel corso del tempo, sono state affidate le principali aree aziendali. La chiave del successo è dunque questa e sarebbe impossibile attuarla senza una formazione adeguata. Se non si affidano le diverse aree e responsabilità a più di una persona, ognuna esperta nel proprio ambito, ci sarà sempre un grosso limite alla crescita dell’intera organizzazione. esclusivamente il movimento del calore nel corpo umano e questo sta dando vita a prodotti di nuova concezione. Il terzo elemento fondamentale sono le risorse umane, che vanno valorizzate e poste al centro della crescita aziendale attraverso la formazione e il riconoscimento del loro operare. L’ultimo elemento indispensabile per lo sviluppo di una organizzazione, è la comunicazione: se sono certo di avere tra le mani un prodotto eccellente e non lo comunico, vale quanto rimanere davanti a uno specchio a ripetersi quanto si è bravi. La comunicazione deve essere essenziale ma efficace. Se analizziamo la pubblicità di Geox, prendendo ad esempio l’immagine della scarpa con lo sbuffo di vapore, ci accorgiamo che la sua forza sta proprio nel comunicare l’elemento distintivo. Qualcuno la critica in termini di eleganza, ma questi critici semplicemente non capiscono quale era il nostro obiettivo: comunicare la nostra diversità rispetto a tutti gli altri. to l’azienda stessa e nel caso di Geox forse anche di più. Il valore aggiunto del nostro management risiede nello spirito di squadra e nella volontà di perseguire un obiettivo comune, al pari della realizzazione personale. Oggi siamo come una grande squadra e le persone rappresentano l’asset più importante. Le persone sono la nostra principale risorsa e come tale va valorizzata in ogni ambito: da una parte ci sono i corsi di formazione e di aggiornamento, ma dall’altra abbiamo messo in piedi una vera e propria rete di servizi. Si va dalle convenzioni con palestre, negozi e ristoranti, alla più recente realizzazione del Centro Infanzia Geox “Mondo Piccino”, composto da un asilo nido e da una scuola materna che – gratuitamente – accolgono i figli dei nostri dipendenti. Il nostro fiore all’occhiello è la Geox School, una scuola interna in cui realizziamo quattro diversi tipi di master aziendali rivolti a manager, top manager, tecnici e neolaureati. La finalità è trasferire la mission e gli obiettivi aziendali in persone già capaci. I corsi hanno struttura e durata diverse a seconda del target a cui si rivolgono. Quelli per i neolaureati, ad esempio, durano dai quattro ai sei mesi e prevedono sia docenti interni che esterni per le lezioni della mattina, e un tutor personale per la formazione “on the job” del pomeriggio, in modo da creare un efficace continuum fra teoria e pratica. più di una Fabbrica Altro nodo importante, è investire in “Ricerca & Sviluppo”. Ogni anno investiamo circa il 3% del fatturato in ricerca e sviluppo di nuovi prodotti. Nel nostro quartier generale a Montebelluna lavorano 680 persone, il 75% delle quali è laureata. Non è dunque una tipica fabbrica di scarpe, ma una fabbrica culturale, dove tutti questi giovani di età compresa tra i 30 e i 35 anni lavorano nella ricerca, nello stile, nella finanza, nella comunicazione, con idee nuove continue ed esplosive. Quindici ingegneri sono concentrati a studiare Vorrei spendere qualche altra parola sulle risorse umane. Geox gioca le sue carte migliori sulle persone e nella loro formazione. La nostra divisione di Human Resources non si preoccupa tanto di trovare dei manager o, meglio, degli individui che già lo sono, quanto piuttosto di individuare persone che potenzialmente possano diventarlo. Siamo dei veri e propri talent scout che in ogni angolo del mondo scovano la persona più adatta per una determinata mansione e, una volta trovata questa importante risorsa, viene inserita in un processo formativo continuo che gli permette di maturare nell’azienda. Il capitale umano vale quan- C’è una massima che porto sempre con me e che lascio ovunque io mi ritrovi a parlare, ed è che “una idea vale più di una fabbrica”. Mario Moretti Polegato Presidente della GEOX English version on page 90 7 “Dici in giro di conoscermi bene, dai, raccontami, dimmi chi sono, fai finta che io non sia qui” intervista a Fabio Novembre a cura di Beppe Finessi Dici in giro di conoscermi bene, dai, raccontami, dimmi chi sono, fai finta che io non sia qui. Fabio Novembre nasce a Lecce il 21 ottobre del 1966, Bilancia, amore e giustizia. Papà Mario è commerciante di mobili, mamma Erminia casalinga. Secondo di quattro fratelli (Luca, il maggiore, e i più giovani Andrea e Serena), nella provincia solare e barocca come molti bambini fa il chierichetto, e tutte le mattine andando a scuola recita il rosario. Tradizione, liturgia, teatralità, oratoria insieme all’attenzione “scenografica” segnano i pensieri del piccolo Novembre. Alle scuole elementari la pagella vede tutti 10, e il preside lo soprannomina “Gigi Riva il cannoniere”. Ottimi risultati anche alla scuole medie, brilla in italiano, e la scrittura è già il vero amore. Al liceo scientifico “Cosimo De Giorgi” tutti gli anni viene rimandato in filosofia, così per sfida sceglie quella materia come facoltativa all’esame di Maturità: votazione finale 42/60, il “voto dei dritti”. Il primo motorino è un “Ciao”; la prima macchina la “500” beige della mamma, e si vanta ancora di aver avuto su quei sedili esperienze di tutti i generi. L’attività del padre influenza il giovane Novembre: il negozio “Novembre Arredamenti” di Copertino è il più aggiornato e sofisticato della Puglia; il modo di trattare il pubblico, con il leggendario “baciamano” di Mario Novembre alla clientela femminile è un fatto ancora ricordato, eleganza attenzione e vezzo. In quel luogo si respira aria di design, e tutte le migliori aziende sono rappresentate. Come emergo da quel mondo dorato? Così nel 1984 arriva la scelta di trasferirsi a Milano, dove raggiunge il fratello Luca che lì studia Economia e Commercio, e si iscrive alla Facoltà di Architettura del Politecnico. Energico e affamato di sapere, per approfondire i temi dell’architettura degli interni, frequenta contemporaneamente l’ISAD (Istituto Superiore Architettura e Design) dove incontra Giovanni De Lucchi, sua prima, appassionata guida. Al Politecnico emerge naturalmente per vitalità e passione. E’ rappresentante degli studenti nel Consiglio di Facoltà, è corteggiatissimo dalle ragazze, porta le Clarks su Loden e Borsalino, e sosta permanentemente nell’atrio e in “fumosa” aula IV (“occupata” dagli studenti), trascinando i compagni di studi in progetti di ogni tipo. Nel 1988 presenta la poltroncina “Honlywood” al Salone Internazionale del Mobile di Milano: lo si ricorda in un angolo dello stand B&B Italia, sorridente e instancabile, vestito di bianco, a mostrare il meccanismo di apertura e chiusura di quel suo pezzo d’esordio: premi e riconoscimenti e primo passo d’autore nel mondo del design. Incontra il professor Arturo Dell’Acqua Bellavitis e con lui inizia a collaborare all’attività didattica del corso di “Arredamento e Architettura degli Interni”: così ancora studente si ritrova, orgogliosamente, già in cattedra. Si ricordano episodi anomali: agli esami spiazzava gli allievi, interrogandoli sull’ultima scultura lignea di Oskar Kogoj, sul primo film di Pedro Almòdovar, sul disco del momento di Pino Daniele. La vita a Milano scorre frenetica e caotica nell’appartamento in piazza Emilia 9 dove vivono insieme i quattro Novembre (nel frattempo Serena e Andrea hanno raggiunto i fratelli maggiori, e seguono l’esempio di Fabio nel percorso di studi). Nel 1989 trascorre tre mesi in Danimarca, progetto Erasmus, con l’amico Francesco Scullica. Un primo momento di svolta significativo, tu che sai, qual è stato? Nel 1990 viene folgorato, come altre centinaia di studenti, dalle lezioni di Corrado Levi, un altro modo di vedere le cose, “Una diversa tradizione”: diventano fondamentali gli insegnamenti di Mollino, Albini, Santachiara, ma anche Satie ed Escher. Sono gli anni dei corsi sulle “diverse logiche progettuali”, sul libro “Caos” di Gleick registrato in tempo reale; ma soprattutto lì Novembre inizia a respirare il mondo dell’arte contemporanea, da Alighiero Boetti a JeanMichel Basquiat a Stefano Arienti. Proprio al corso di Levi assiste a una conferenza di Izhar Patkin, dopo due ore ne diventa amico e il week-end successivo lo accompagna alla Biennale di Venezia dove l’artista israeliano è invitato ad esporre. Nel giugno 1991 è a Villa Malaparte, sul Capo Massullo di Capri, per collaborare a un convegno organizzato da Enrico Baleri: nel grande soggiorno della casa di Libera siedono contemporaneamente al tavolo dei relatori Andrea Branzi, Achille Castiglioni, Enzo Mari, Alessandro Mendini, Philippe Starck e Oscar Tusquets. Durante quel mitico soggiorno beve whisky con Castiglioni e ascolta, per un pomeriggio intero all’ombra della “vela” del terrazzo, un implacabile Mari, che nel suo stile lo stimola a una maggiore riflessione critica. Una sera a cena discute animatamente di politica ed economia col padrone di casa; e così si risveglia ritrovandosi “ospite non gradito” nella casa più bella del mondo. Fonda con alcuni amici (Georg Fontana, Marc Dolger, Lars Andersen, Mikal Jorgensen) il gruppo “La Corrente del Golfo”, con cui presenta una serie di piccoli oggetti, come la lampada “Orbit” animata da uno strano mix zoomorfo/hi-tech. Nel 1992, durante la discussione della sua tesi di laurea (“A sud di Memphis”, relatore Arturo Dell’Acqua Bellavitis), il professor Giandomenico Salotti lo invita a ripensare a come potrebbe essere fatta una seggiola. “Un fazzoletto appoggiato per terra” è la risposta, certo una “metafora” alla Ettore Sottsass. A parte questo, il primo momento rivoluzionario? Nel dicembre di quell’anno, e nel febbraio successivo, “graffita” il muro della “sua” Facoltà di Architettura con una decorazione rosa con cuore rosso, reclutando gli amici con la telefonata “ti senti trasgressivo?”. Verranno tutti arrestati e trattenuti una notte al commissariato. Scrive per la rivista “Modo” diretta da Cristina Morozzi, e pubblica, tra i primi in Italia, riflessioni sul lavoro di anarchici pensatori come Lebbeus Woods, Krzysztof Wodiczko e Gordon Matta-Clarck. Nel 1993 si trasferisce a New York per studiare regia cinematografica (il cinema è la sua grande 9 passione, e prima vera competenza: per anni un film ogni sera, a volte anche più d’uno), ospitato nel loft dell’amico Patkin, e frequenta Holly Solomon e Caetano Veloso. E’ il Natale del 1993, quando tornato in Italia telefona a un compagno di studi chiedendogli “ma tu lo sai fare un impianto elettrico?”: aveva ricevuto l’incarico, la notte prima in discoteca, di progettare i nuovi negozi Blumarine nel mondo, sostituendo il maestro Toni Cordero. Inizia così l’attività professionale di architetto, continuando a rimandare il ritorno in America: per anni i suoi vestiti e gli oggetti personali rimarranno nelle scatole dell’appartamento newyorkese, dove non tornerà più se non per lavoro. E addio cinema: la sceneggiatura di “Emmenthal”, scritta durante i corsi alla “New York University”, non avrà mai seguito. Una sera al centro sociale Leoncavallo assiste a una performance dei Mutoids Waste Company, li conosce e nasce una collaborazione: si ricordano viaggi, tra piadine e autogrill, nella bassa padana, su una scassatissima Uno bianca, per raggiungere la cava dove quel gruppo di nomadi ormai stabili viveva e lavorava. Nel 1995 si trasferisce in un loft in via Mecenate, in una ex fabbrica di aeroplani, per anni suo total-living tra vita e lavoro, riempito di mobili da mercatino e da qualche pezzo anni Settanta; vive circondato da gatti, e il campo da tennis in terra rossa di fronte a casa ogni tanto lo vede protagonista di modeste prestazioni. Pubblica per Idea Books “A sud di Memphis”, la sua tesi di laurea. Ettore Sottsass si lascia “corrompere” e firma l’introduzione che si conclude con un emblematico “vai via, ora, ti odio” (per Sottsass, Novembre rimarrà sempre “l’americano”, il ragazzo fuggito da Milano per New York, come lui stesso aveva fatto negli anni Cinquanta). Firma il Cafè “l’Atlantique” di Milano, locale che immediatamente diventa di moda e lo mette al centro della scena cittadina. Sono gli anni in cui si va a dormire sempre alla mattina presto, notti insonni tra discoteche e mondanità. Nel 1996 attraverso l’amico Joe Corre di Agent Provocateur incontra Elio Fiorucci che diventa amico e maestro di vita, e lo accompagna alla scoperta di “un’altra” Milano, dai bassifondi ai salotti buoni. Fabio Novembre, “Lucca”, vassoio in ottone argentato cm. L. 25 P. 35 H. 10 della serie “100 Piazze”, 2007, prod. Driade Kosmo – Fossadello di Caorso (PC) La prima consacrazione vera e propria? Nel 1998 esce su “Domus” l’articolo “Pioggia di Novembre”: sarà il suo “passaporto” internazionale. Nel 1999 incontra Candela, e così a un certo punto “ho deciso, sono innamorato”, insieme scattano “Family Portrait” e si sposano a Las Vegas nel 2003. Nel 2000 inizia la collaborazione con Bisazza in qualità di direttore artistico: il difficile compito di sostituire l’amico Alessandro Mendini si risolve con alcuni progetti indelebili di show-room e stand in ogni parte del mondo. Nel 2001 immagina di realizzare una città virtuale su internet, nella quale ognuno può abitare come vorrà: una Second Life ante litteram progettata da architetti. Presenta con Giulio Cappellini il tappeto “Net” e il tavolo “Org”: quest’ultimo diventa un’icona di questi anni, e in una recente pubblicità di una casa automo- bilistica viene preso a modello comparativo per parlare di creatività. Pubblica “Be Your Own Messiah”, libretto di riflessioni sul mondo e sulla vita, che esalta la sua scrittura colta e poetica. Instaura rapporti personali con i direttori di tutte le testate più importanti, e con i migliori giornalisti di settore. Sono diverse decine le copertine dedicate al suo lavoro (molto fotogenico, quasi sempre visto da Alberto Ferrero, paziente e attento costruttore di immagini), e molte centinaia gli articoli. Esce su “Carnet” una sua lunga intervista: Augusto Romano di Meltin’Pot legge che un altro giovane leccese si sta facendo valere in giro per il mondo e lo chiama a curare il settore architettura e design del proprio marchio di jeans: nel 2003 nasce una collaborazione che continua ancora oggi. A l’Avana, durante il workshop internazionale “Architecture and Water” progetta il “Decalogo per l’arcobaleno”, personale e iridea visione del mondo tra ecologia, filosofia e design. Conclude l’Una Hotel di Firenze, lussuosa e colta dimostrazione di un linguaggio personale arrivato da tempo alla maturazione, e si misura, vincendola, con una tipologia diventata centrale nell’architettura di questi anni. Ancora per Cappellini presenta il sistema “S.O.S.”, che sottolinea un momento più solitario della sua vita. Nel 2004 si trasferisce nella nuova casa-studio di via Perugino, dove nel giardino pianta un “albero di Giuda” mentre in cucina un serpente di Sandro Chia allude a un Eden ritrovato; qui la casa degli ospiti è sempre occupata da amici che trovano sorrisi e accoglienza; intanto la Porsche gialla del ’76 (pagamento di una parcella) è perennemente davanti al portone, mentre la vecchia moto BMW del 1929 (acquistata dall’amico Tom Dixon) diventa una scultura in posa nello studio. Ormai preferisce muoversi in scooter o in taxi. Il momento più importante? Il 12 novembre 2004 nasce la figlia Verde. Nel 2005 conduce per “Ultrafragola” gli incontri con i maestri del design italiano, e così incontra Ettore Sottsass, Vico Magistretti, Angelo Mangiarotti, Mario Bellini, Massimo Morozzi, Alessandro Mendini, Andrea Branzi, Riccardo Dalisi, Ugo La Pietra: le domande sono dirette, il clima disinvolto, la sommatoria dei documenti un inedito modo di guardare a quel mondo, senza soggezione, senza sovrastrutture, visto da chi non si occupa di storia, ma cerca di farla. Nel 2006 inizia la collaborazione con Stuar t Weitzman, per cui realizza decine di show-room in tutto il mondo, disegnando un sistema globale di arredamento. Coordina la collezione “Some Good News” per Meritalia, invitando dodici giovani colleghi (Massimiliano Adami, Adriano Design, Carlo Contin, Giulio Iacchetti, JoeVelluto, Miriam Mirri, Luca Nichetto, Nucleo, Donata Paruccini, Matteo Ragni, Lisa Tavazzani) a disegnare pezzi di un ideale ambiente, e la festa nello showroom di via Durini 11 E il resto, tra le cose che contano? I suoi amici non sono architetti ma fotografi, manager, avvocati, stilisti, Dj, cantanti e musicisti: teorizza che per potersi ossigenare è meglio frequentare altri ambiti. Saturnino, miglior bassista italiano, elabora la musica per il suo sito. Non mancano dialoghi con Lorenzo Cherubini Jovanotti: quello su Tarantino finisce su YouTube ed è cliccatissimo. Il brunch domenicale è una regola da condividere con gli amici, meglio se con famiglia, trasformandosi in una specie di colonia con decine di bambini al seguito. Le vacanze estive sono regolarmente su spiagge assolate, ultimamente è tornato nelle masserie della sua Puglia, per anni erano i lidi deserti della Thailandia. Al lunedì e al mercoledì la segretaria non prende appuntamenti per il secondo pomeriggio: la preparazione della partita serale di calcetto, puntuale come una messa con i soliti sei amici, viene prima di ogni cosa. Non giocano bene, comunque si divertono, e ci credono come ragazzini. Il suo sito è organizzato con un blog a cui risponde personalmente e quotidianamente. Concede almeno due interviste alla settimana, e almeno una volta al mese è in giro per il mondo per conferenze, workshop o presentazioni del proprio lavoro. Tra i primi a Milano ad avere il telefono cellulare, dichiara da subito che il numero del portatile sarà la sua nuova carta d’identità. Oggi l’attività dello studio è felicemente strutturata: dai primi progetti fatti interamente da solo, ai secondi aiutato dalla sorella Serena, sono nel frattempo arrivati Lorenzo De Nicola, Carlo Formisano, Giuseppina Flor, e poi Marco Braga, Dino Cicchetti, Raffaele Correale, Alessio De Vecchi, Ramon Karges, Adel Kassem, Giuseppe Modeo, Patrizio Mozzicafreddo, Domenico Zenone Papetti, Juan Sebastian Plata Becerra, Alessio Scalabrini, Étienne Thetard, a formare una “squadra” fedele e compatta. Rifiuta sistematicamente molte occasioni di lavoro, discute animatamente con ogni possibile interlocutore, “rimbalza” tre quarti delle possibilità, ma ottiene sempre ciò che vuole. Quando parla, racconta, spiega, accendendosi ripetutamente tra entusiasmo ed enfasi, ricorda spesso i “15 minuti” warholiani di successo democratico (anche se lui punta a qualcosa di più…), dice “no” come partenza di ogni discorso (d’altra parte fa notare che “io no” sono il “cuore” di “Fabio Novembre”), e la parola che usa più spesso è “amore”. Triennale Design Museum presenta l’ultimo progetto sbocciato nel giardino di Fabio Novembre Il Fiore di Novembre Uno spettacolare allestimento concepito appositamente dall’autore permette di esplorare il suo lavoro in modo inedito, fornendo una pluralità di nuove chiavi di lettura. L’allestimento è strutturato in due momenti differenti. Entrando dall’ingresso principale il visitatore è posto nella condizione di spettatore: di fronte a lui si apre un fiore enorme, composto da più sezioni di mosaico ripetute nello spazio. L’effetto è fortemente teatrale, connotato dal contrasto fra la pavimentazione simile ad asfalto nero e la saturazione del colore del fiore. Due file di sedute, posizionate su di una piccola gradinata, permettono di vedere gli altri visitatori che si muovono come attori sulla scena. Esplorando il backstage, invece, ci si può immergere, per mezzo di un piccolo corridoio, nel cuore del Fiore di Novembre. Non si tratta della semplice presentazione dei progetti di Fabio Novembre: le diverse sezioni fanno entrare il visitatore direttamente e in maniera totalizzante nel suo mondo, nei suoi processi creativi, nelle sue ossessioni, nei riferimenti progettuali che lo guidano. In ogni sezione è presentato un pezzo di design, a cui fanno da corollario testi e immagini che rimandano alla nascita di quell’oggetto ed alle idee da cui è stato generato. Il percorso creativo dell’architetto è così messo in scena in maniera originale partendo da quelle che sono le sue fonti di ispirazione per arrivare al prodotto finito attraverso svariate sollecitazioni sensoriali. “Per fare tutto ci vuole un fiore”. Gianni Rodari Dal 1966 rispondo a chi mi chiama Fabio Novembre. Dal 1992 rispondo anche a chi mi chiama “architetto”. Ritaglio spazi nel vuoto gonfiando bolle d’aria e regalo spilli appuntiti per non darmi troppe arie. I miei polmoni sono impregnati del profumo dei luoghi che ho respirato e quando vado in iperventilazione è soltanto per poi starmene un po’ in apnea. Come polline mi lascio trasportare dal vento convinto di poter sedurre tutto ciò che mi circonda. Voglio respirare fino a soffocare. Voglio amare fino a morire. Fabio Novembre, 2009 Il Fiore di Novembre 21 aprile - 17 maggio 2009 Triennale di Milano Coordinamento generale: Silvana Annicchiarico Concept e Progetto di allestimento: Fabio Novembre Catalogo Electa Orario martedì-domenica 10.30-20.30 - giovedì 10.30-23.00 Orari dal 22 al 27 aprile 10.30-22.00 © Emiliano Ponzi va avanti fino a notte inoltrata, con il dj Claudio Coccoluto che fa ballare tutto il mondo del design. In quell’occasione presenta “Air Longue System”, che diventa la copertina di “Interni” di aprile. Nel 2007, invitato da Franco Laera a immaginare un evento anomalo durante il Salone Internazionale del Mobile, propone uno spettacolo teatrale dedicato al mondo dell’architettura, ispirandosi e trasformando il testo “Aspettando Godot” di Samuel Beckett. Coinvolge nel progetto Italo Rota, e poi Alessandro Mendini, Andrea Branzi, Alessandro Guerriero, Saturnino e chi scrive, costruendo una pièce paradossale, giocando tra polvere del palcoscenico e il mondo virtuale di Second Life. MEMPHIS BLUES A ventotto anni dalla mostra storica e a ventinove dalla nascita del gruppo, Carla Sozzani espone nella galleria mobili e documenti dell’“ultimo movimento di design del secolo”, come ha voluto definire Memphis parlando di come e perché le era venuta l’idea della mostra. “Non c’è nessuna ricerca di marketing dietro di me, nessuna strategia, le mie decisioni sono quasi sempre istintive… certo sono stufa di vedere ripetizioni di ripetizioni di ripetizioni e poi tutti sogniamo un movimento di gruppo, un ideale da condividere… perché che noia tutte queste star di uno star system del nulla”. “Memphis”, continua Sozzani, “è solida, ha un segno forte, fortissimo e insieme restituisce densità sensoriale, humour, senso del gioco… sono stufa anche del minimal…” 14 Galleria Carla Sozzani Corso Como 10 – 20154 Milano www.galleriacarlasozzani.org a cura di Barbara Radice allestimento Michele De Lucchi grafica Christoph Radl musica Micaela Sessa Per Carla Sozzani la galleria è una passione e questa di Memphis una storia “vera” che si può comunicare volentieri, nessun calcolo o avventura commerciale, ma una bella storia della commedia umana, come, forse, la avrebbe chiamata Sottsass. La mostra è stata possibile grazie al contributo di Abet Print, Martine Bedin, Alberto Bianchi Albrici, Memphis, Nathalie Du Pasquier, Carlotta e Ernesto Gismondi, The Gallery Mourmans, George Sowden, Matteo Thun. In occasione della mostra la casa editrice Electa ha ristampato in 1000 copie il libro “Memphis, ricerche, esperienza, risultati, fallimenti e successi del Nuovo Design” di Barbara Radice e “Memphis the New International Style”. 15 MEMPHIS BLUES MEMPHIS BLUES Il nome Memphis “Il nome Memphis deve essere uscito la sera dell’11 dicembre 1980 a casa di Sottsass. La musica del giradischi era Bob Dylan “Stuck inside of Mobile with the Memphis blues again” e dato che nessuno si occupava di cambiare disco Bob Dylan continuava a urlare ‘Memphis blues again’ fino che a un certo punto Sottsass ha detto ‘OK chiamiamola Memphis’ e a tutti è sembrato un bellisssimo nome: blues, Tennessee, rock and roll, periferia americana e poi l’Egitto, la capitale dei faraoni, la città sacra del dio Ptah. Secondo il quaderno di Michele De Lucchi quella sera c’erano: Ettore (Sottsass), Barbara (Radice), Marco (Zanini), Aldo (Cibic), Matteo (Thun), Michele (De Lucchi), Martine (Bedin). Tranne la sottoscritta erano tutti architetti (Bedin laureanda), con l’eccezione di Sottsass, minori di trent’anni… I primi disegni dei nuovi mobili del Nuovo Design si sono visti il lunedì 9 febbraio 1981 e quella sera c’erano anche George Sowden e Nathalie Du Pasquier: erano più di cento disegni e alla fine eravamo tutti ubriachi ma per la prima volta sicuri che ci sarebbe stata la Memphis”. Barbara Radice, Memphis, ricerche, esperienza, risultati, fallimenti e successi del Nuovo Design, Electa, 1984 I mobili Memphis “I mobili Memphis sono pensati come unità scoordinate a destinazione libera. Sono pezzi isolati che suppongono l’esistenza di case dove l’arredo non si monumentalizza, non crea blocchi inamovibili, angoli di coordinati, situazioni fisse, ma è traslocabile e polivalente. I mobili Memphis sono stati studiati per funzioni specifiche ma molti pezzi possono essere usati per funzioni diverse da quelle previste. Per questa loro qualità anche figurativamente trasformista e perché per loro natura tendono a corrompere qualsiasi unità stilistica, è previsto siano indifferentemente usati in qualsiasi ambiente di qualsiasi stile…” Da Memphis, the New International Style, Electa, 1981 Sottsass nel 1981 “A forza di camminare nelle zone dell’incerto (per una certa diffidenza) e a forza di colloquiare con la metafora e l’utopia (per capire qualche cosa di più) e a forza di toglierci di mezzo (certamente per calma innata), adesso ci ritroviamo con una certa esperienza, siamo diventati bravi esploratori. Forse sappiamo navigare vasti fiumi pericolosi, inoltrarci dentro giungle che nessuno ha mai percorso… Adesso possiamo finalmente procedere con passo leggero, il peggio è passato, Possiamo anche sederci senza troppo pericolo e possiamo lasciare scivolarci addosso serpenti e ragni oscuri, possiamo anche evitare zanzare e possiamo benissimo mangiare carne di coccodrillo; senza escludere del resto le cioccolate con la panna e le crêpessuzette al Grand Marnier. Possiamo fare – quasi – qualsiasi cosa, perché cari amici, come si diceva, siamo vecchi, esperti navigatori in mari molto aperti. Il fatto è che ci è passata la paura: voglio dire la paura di dovere rappresentare o di non dovere rappresentare qualche cosa o qualcuno, siano élites o derelitti, siano tradizioni o cafonaggine. Ci è passata la paura che ci manda il passato e anche quella ancora più aggressiva che ci manda il futuro.” Da Memphis, the New International Style, Electa,1981 English version on page 90 Nelle due pagine precedenti: cover della ristampa “Memphis the New International Style” uscita per i tipi della casa editrice Electa; entrata della Galleria Carla Sozzani sita in Corso Como 10; foto del gruppo Memphis accomodato sul ring “Tawaraya” di Masanori Umeda, 1981. In queste pagine, a sinistra: i loghi Memphis di Christoph Radl - 1982/83 e Valentin Grego - 1983 (il secondo dall’alto); sotto: nuovamente il gruppo Memphis fotografato nel 2001 17 SUPERSTUDIO TEMPORARY MUSEUM FOR NEW DESIGN Superstudio Group è stato fin dall’anno 2000 protagonista, a Milano, della rinascita di quell’area urbana posta alle spalle della stazione di Porta Genova, facendo partire dal suo centro culturale e espositivo ogni nuovo progetto in zona; in particolare la Design Week che movimenta via Tortona e dintorni. Per il 2009 Superstudio rivoluziona il concept adottato finora e crea un nuovo progetto autonomo, direttamente gestito, coordinato in tutti i suoi spazi, fedele all’immagine di qualità e avanguardia di tutti gli eventi creati o ospitati da Superstudio. Il progetto di Superstudio per il Fuori Salone 2009 si pone in modo diverso da quanto fatto finora; crea una ben definita isola di ricerca e innovazione nel quartiere, esaltando le caratteristiche che hanno fatto di Superstudio un centro espositivo e culturale unico in Milano. Superstudio, con i suoi 13.000 mq a disposizione nelle sue due sedi, di fatto è la presenza più grande e significativa della zona. Meno Fiera e più Museo, nel senso contemporaneo del termine, è il fil rouge della Design Week 2009 al Superstudio. Il nuovo concept nasce sotto il nome di Temporary Museum for New Design, tante “gallerie” separate dove le presenze delle aziende, dei prodotti e layout espositivi vengono selezionati in base alla qualità dei progetti, al valore dei brand, alla ricerca innovativa dei designer che, nell’insieme, possano assicurare una manifestazione di alto interesse e impatto museale. Ogni “mostra” sarà introdotta da un titolo che illustra il concept alla base delle nuove proposte. Art direction generale di Giulio Cappellini con la supervisione di Gisella Borioli. Due sedi vicinissime per la prima volta collegate: Superstudio 13, lo storico centro per l’immagine più famoso del mondo, con i suoi 13 studi fotografici, situato in via Forcella 13 con doppio ingresso su via Bugatti e Superstudio Più, il prestigioso centro polifunzionale di via Sotto: progetto di Michele De Lucchi, installazione di “Performance in Lighting/ Atelier Italiano”; Nella pagina accanto: Superstudio Più durante l’edizione di Design Week dell’anno scorso Tortona 27 composto da diversi edifici all’interno di una grande area, durante la Design Week sono parte dello stesso progetto Temporary Museum for New Design, anche visivamente collegati. Grandi “archi di trionfo” segnaleranno gli ingressi delle due location, distanti pochi minuti a piedi. Una navetta dedicata farà servizio continuo tra i due poli. Il “Temporary Museum” di Superstudio occuperà un’ampia area espositiva sviluppata nelle due sedi vicine, secondo tematiche precise: • Nuovi talenti, paesi emergenti, proposte sperimentali e innovative… Lo spazio per le scoperte si trova nel Basement di Superstudio Più, per la prima volta a disposizione di giovani designer e idee che vengono da lontano. “Discovering” presenta la sezione “Talents of the Year” realizzata in collaborazione con Elle Décor Italia e le sue edizioni internazionali. “Other worlds, other ideas” presenta una selezione di progetti e progettisti di altri paesi e con altre visioni selezionati da Superstudio. • Arte e design come si confrontano “a bordo” delle navi Costa Crociere, in una nuova declinazione dell’eccellenza italiana, al Superstudio 13. • Aldo Cibic presenta per HHD nel cortile del Superstudio 13 un nuovo modo di abitare, modulare, personalizzabile ed ecocompatibile, in un’installazione esterna che trasforma il parking in un giardino. • Interferenze con l’arte contemporanea attraverso installazioni e contaminazioni. Eleonora Garavello Saranno presenti al Superstudio: ADIDAS ORIGINALS • ALCANTARA • ALL+ • ARIK BEN SIMHON • BRAND VAN EGMOND • CORO • COSENTINO • DAVID TRUBRIDGE • DESIGM • DESIGN APPARAT • FLOOR TO HEAVEN • FLORA • FOSCARINI • L’ABBATE • LINTELOO/VERDEN BY LINTELOO • MAOS CONTEMPORARY ART • MODULAR LIGHTING INSTRUMENTS • MOOOI • NIKA ZUPANC • NOBODY&CO/ BOSA/TIMOROUS BEASTIES • PERFORMANCE IN LIGHTING/ATELIERITALIANO • PHILIPS LIGHTING • PLANIKA • PROOFF • SÖDRA • SVENSK FORM • TIVOLI AUDIO • TOM DIXON • VALCUCINE • VEUVE CLICQUOT PONSARDIN • WYSSEM NOCHI • ADREANI - BENCORE • COSTA CROCIERE • DEJAVU HOME • HHD – HOLIDAY HOMES DESIGN • P E T R A A N T I Q U A • S PA D E S I G N B Y MY EXHIBITION • ZEROZERO DESIGN 18 19 INTEMPIDICRIS SUPERSTUDIO TEMPORARY MUSEUM FOR NEW DESIGN “Sarà fondamentale curare al massimo la progettazione finalizzata all’ottimizzazione dei processi di industrializzazione. La carenza di risorse stimola nuove soluzioni. L’industria è alla ricerca di idee nuove e fresche, che possono arrivare soprattutto dai giovani creativi”. Vicente García Jiménez, spagnolo, 30 anni. FOSCARINI “Il design sta diventando sempre più consapevole delle reali esigenze di mercato. È proprio in questo momento di riflessione che possono nascere nuovi interessanti punti d’incontro”. Giulio Cappellini, coordinatore del progetto e scenografia, italiano, 55 anni. ALCANTARA ® “La crisi economica mondiale impone per fortuna un ripensamento di tutto il nostro sistema produttivo e quindi anche del ruolo del design, che credo debba tornare a occuparsi più seriamente dei contenuti sociali e ambientali inerenti al progetto. In questa situazione è vincente la politica di chi investe seriamente su innovazione e ricerca e di chi sta intraprendendo politiche a medio-lungo termine di sostenibilità ambientale e di uso intelligente delle risorse energetiche. La strategia di uscire dalla crisi rincorrendo nuovi mercati mi sembra invece in questo momento pericolosa, perché porta al rischio di una perdita della propria identità come azienda”. Ilaria Marelli, italiana, 37 anni. CORO “Non credo ci siano delle risposte giuste o sbagliate, solo obiettivi da fissare e seguire. Penso che oggi la grande sfida sia usare gli spazi pubblici, luoghi da condividere e nei quali si possiedono cose che altrimenti non si potrebbero avere mai. Abbiamo sviluppato l’IO e i desideri privati, ora è il momento del NOI, di buttare giù i muri e sviluppare un nuovo linguaggio delle cose e dell’interazione sociale”. Jurgen Bey, Paesi Bassi, 43 anni. PROOFF “Il design autentico sopravviverà in tutte le circostanze. Non abbiamo mai seguito i trend dell’ultima moda, ma abbiamo sempre voluto creare oggetti senza tempo, in grado di posizionarsi nella storia, nel rispetto del pianeta terra”. William Brand, olandese, 46 anni e Annet van Egmond, olandese, 45 anni. BRAND VAN EGMOND Interviste a cura di Chiara Ferella Falda, con la collaborazione di Simona Bara, Elena Pardini e Alessandra Sega IINCHED IREZIO “Spero che il trend possa essere invertito, e un design più onesto e meno frivolo possa emergere per raggiungere un più ampio numero di persone… we can dream!” Tom Dixon, inglese, 45 anni “Ritengo che il design sia irrilevante e irresponsabile se non affronta le serie problematiche ambientali attuali”. David Trubridge, neozelandese, 58 anni “Come diceva John Ruskin ‘quando costruiamo, pensiamo che quello che si costruisce sia per sempre’. Il nostro approccio è puro, nasce dall’entusiasmo per le idee. Lavoriamo per fare cose che resistano per sempre, sia come idea sia come piacere, per andare anche oltre il concetto di biodegradabile”. Alisée Matta, inglese, 38 anni e Giovanni Gennari, italiano, 48 anni. NOBODY & CO. PER GENTILE CONCESSIONE DI SUPERSTUDIO - TEMPORARY MUSEUM FOR NEW DESIGN “La mia direzione personale è neo-rinascimentale fatta di valori umanisti, di artigianalità e tecnologia, di creatività e originalità. Il design per me è all’italiana; da sempre siamo il paese che genera qualità, bellezza e intuizioni capaci di migliorare la vita e il suo gusto quotidiano”. Felice Limosani, italiano, 42 anni. ADIDAS ORIGINALS “C’è bisogno di tanta passione, curiosità e capacità di metabolizzare. Bisogna fare ricerca, per produrre riflessioni che portino all’incrocio trasversale di diverse sostenibilità… economica, ambientale, energetica, culturale ed estetica”. Enzo Calabrese, italiano, 48 anni. L’ABBATE “Costa Crociere, pur in un momento come quello attuale, continua a investire sul design in tutte le navi attualmente in ordine o costruzione. Ci auguriamo quindi che questa intuizione, unita alla capacità innovativa, alla forza comunicativa delle navi, e sostenuta dagli investimenti, possa contribuire a far progredire e sviluppare il design, in particolare quello italiano”. Sandra Casagrande, italiana, 41 anni e Roberto Recalcati, italiano 40 anni. COSTA CROCIERE N E S TA A N D A N “Bisogna trasformare l’economia distruttiva dell’era industriale in un sistema che ripristini la salute del nostro pianeta e migliori la qualità della nostra vita. Seguire l’ottica di una sostenibilità non solo del processo produttivo, ma anche del prodotto stesso è fondamentale”. Gabriele Centazzo, italiano, 59 anni. VALCUCINE “Il design non sarà più lo stesso, non più basato sul welfare, sull’iperfunzionalismo e sulla fiction, ma su un’idea di qualità della vita responsabile e sostenibile, dove l’opportunità incontra la necessità. Saremo chiamati a rivedere la parabola della relazione umana con gli oggetti”. Mirko Tattarini, italiano, 39 anni. DESIGN APPARAT “Penso che noi designer non dovremmo realizzare ogni nostra singola idea, ma creare nuovo valore e un distinguibile impatto culturale. Credo nel valore degli oggetti, che possono avere un ruolo fondamentale nel creare l’identità dell’individuo e per questo dovrebbero durare molto più di qualche stagione”. Nika Zupanc, slovena, 34 anni. “Pensiamo che il mercato non sia in discesa ma si stia solo modificando, la risposta che vogliamo dare ora al design è una proposta adeguata, equilibrata, attenta alle esigenze. Occorre uscire dagli schemi, sciogliere i nodi che limitano e sacrificano l’accoppiamento di diversi materiali nati da diverse culture, concetti e principi”. Francesca Stacca, italiana, 29 anni. ADREANI “Verso l’innalzamento della qualità progettuale e l’impiego di materiali e tecnologie ecosostenibili”. Alberto Apostoli, italiano, 40 anni. SPA DESIGN BY MY EXHIBITION “Credo che il design debba essere a lungo termine e che troppo design sia usa e getta. È nostra responsabilità creare pezzi unici, pezzi d’arte che diventino parte di una collezione, da trasmettere di generazione in generazione”. Arik Ben Simhon, israeliano, 43 anni “Ogni progetto non può prescindere da considerazioni connesse al consumo delle materie prime e a processi produttivi non inquinanti. Si deve inoltre concentrare la ricerca su oggetti emozionali con una propria vitalità, indipendente dall’oggetto che potrebbero rappresentare o dallo spazio che li accoglierà”. Giorgio Palù, italiano, 44 anni e Michele Bianchi, italiano, 44 anni. ZEROZERO DESIGN “Il design deve essere libero, innovativo, straordinario, puro e sofisticato”. Michaela Schleypen, tedesca, 40 anni. FLOOR TO HEAVEN DOILDE SIGN? 20 21 22 23 però non se la può permettere e quindi si aprono tutti gli interrogativi usuali sui rapporto tra costi, numeri e industria e in questo caso anche tra comuni e politica del territorio. Ancora più problematica l’immagine pubblicitaria che associa un modello di questo letto con un manager. In che circostanza potrebbe aver bisogno di dormire all’aria aperta? È ovvio che i luoghi comuni vanno abbandonati e l’apparente ironia e solo un’altra forma per riflettere sui problemi legati all’uomo in condizioni ambientali difficili. Rimane più percorribile l’utilizzo per quelle figure professionali come ricercatori, sportivi, escursionisti e viaggiatori, ma anche normali campeggiatori. In alcune circostanze critiche queste “macchine” possono davvero rappresentare una facilitazione. Un augurio che l’azienda produttrice le supporti e le pubblicizzi come meritano e che possano comunque aprire altre ricerche simili a sostegno dei bisogni primari dell’uomo negli ambienti urbani sempre più problematici. Massimo Roncelli zione più ampia risulta strumento importante e prioritario. Veduti i prodotti/progetti di Baumann ho pensato che solo dalla tradizione tedesca potevano uscire oggetti di questo tipo. Nonostante l’internazionalità della cultura e le contaminazioni del mondo globale esiste ancora un identità più forte che affonda le radici nella cultura nazionale. La Germania concepisce sempre qualcosa di estremamente tecnico e funzionale, ergonomico e attento ai particolari. È il loro modo di intendere l’esistenza prima ancora che i prodotti per l’uomo e l’ambiente. La seconda sensazione è un qualcosa di già visto negli anni ‘70 quando i cambiamenti socio-politici e di costume promossero progetti in sintonia con le mutazioni comportamentali. Si cercava di dare risposta a problemi di base cercando strumenti per ridurre e migliorare piccoli e grandi disagi quotidiani. Nei progetti degli anni ‘70 la dimensione utopica e a volte fantastica era prevalente, mentre nei prodotti di Baumann il dato pragmatico prevale. wohnsysteme für obdachlose und andere urbane nomaden Baumann propone oggetti trasformabili, mobili, robusti e di facile manutanzione con ingombri ridotti. Strumenti appunto in cui il superfluo non ha ragione di esistere. Il materiale è essenzialmente il metallo, piegato, saldato, estruso, reticolare e la stoffa telata che passa da una dimensione strutturale a quella piegata e racccolta per ridurre l’ingombro. I bisogni sono quelli primari: dormire, mangiare, lavarsi. Il progetto più interessante è un letto “da campo” che chiuso ha le dimensioni di metà del corpo umano. La cucina proposta come un abitacolo estensibile è meno originale solo perché molte proposte in questa tipologia sono già state sperimentate. Decisamente curiosa una piccola valigetta che diventa un contenitore per pediluvio. Mi sto chiedendo quando e dove può essere usata. Questi progetti lasciano aperte molte possibilità di utilizzo e se è chiara e precisa la funzione, il campo di utilizzo e la fisionomia dell’utilizzatore è meno certa. Ovvia l’immediata associazione del letto ambulante al barbone che Anche quest’anno la kermesse milanese del mobile vedrà ampliarsi i suoi appuntamenti con il “fuorisalone”, consueta esposizione esterna alla fiera che in spazi cittadini più o meno ufficiali, privati e non, ospiterà decine e decine di manifestazioni di protagonisti affermati e giovani sconosciuti. Il GoetheInstitut di Milano, l’istituto culturale tedesco attivo in tutto il mondo, che tra i suoi obiettivi ha quello di instaurare rapporti tra il mondo culturale tedesco e quello italiano presenterà per la prima volta in Italia il designer Winfried Baumann all’interno del programma Public Design Festival. Baumann presenterà cinque progetti di Istant Housing ossia delle soluzioni istantanee ai bisogni del vivere urbano tra cui l’Istant Cooking, una cucina mobile e compatta a disposizione del pubblico visitatore che troverà posto in Piazza XXIV Maggio, portando un momento di ristoro tra una visita e l’altra. Il Public Design Festival, attraverso questo progetto afferma la volontà di intervenire nello spazio pubblico con servizi utili, e il design nella sua accez- winfried bauman “Se le storie sono una diversa dall’altra, hanno sicuramente in comune una caratteristica: sono sempre difficili e complicate. Incontrando l’amore, come metalli lucidati ritorniamo luminosi a brillare. Ci sentiamo rinati e felici”. Massimiliano Forza, Antifurti psicologici Caffè Espresso Caffettiera? Fuochino. (1) Wiel Arets, “coffee.it”, caffettiera espresso, acciaio inossidabile 18/10, resina termoplastica, 2008 La caffettiera tra architettura e poesia 24 Siamo tutti figli di un qualche padre e di una qualche madre; su questo non ci scappa alcuna possibilità di controdeduzione. Bene, fatta la sventagliata assiomatica, ora è da capire quale è la patronimica dell’oggetto caffettiera, ossia quale è il suo albero genealogico. Vediamo, allora, in estrema sintesi, cronologia e caratteristiche di questo principale arnese che viene utilizzato da secoli per la preparazione della bevanda nera. Dall’Ibrik turco, piccolo recipiente di ottone dotato di una lunga e stretta maniglia si è passati al bollitore di Baghdad che ha avuto grande influenza sullo stile delle caffettiere europee. Successivamente prese piede il metodo a infusione della cuccuma in rame subito però soppiantato dalla progenitrice della ‘napoletana’ dove la sezione inferiore (il bollitore) e quella superiore (il bricco) erano uniti mediante baionetta: quando l’acqua bolliva, l’intera macchinetta doveva essere capovolta. Col passare del tempo vi furono altre invenzioni che sfruttavano il vapore e l’elettricità per poi arrivare infine alla ‘milanese’ che aveva un recipiente inferiore contenente l’acqua e uno superiore per il caffè, separati da un filtro. La svolta decisiva in questo campo fu data dalla Moka Express di uso semplice, estremamente sicura e venduta dall’Italia in tutto il mondo. Qui non ci sfuggono né i “se” e neppure i “ma”: con questi parametri progettuali potrebbe sembrare agli occhi dei più non esserci alcuna possibilità di evasione creativa o volo pindarico. Il percorso è tutto sommato ineluttabile e al designer non resterebbe altro che sottolinearlo nella sua sostanziale obbligatorietà di forme essenziali e necessarie. Le distrazioni non sono accettabili e il percorso dunque è già segnato (2). Eppure qualcuno, nonostante tutto, ha deciso di accettare la sfida e salire sul treno dell’industria Alessi (quella degli oggetti casalinghi prevalentemente in acciaio inossidabile; quella dell’interesse culturale rivolto all’editoria, alle mostre, alla sperimentazione che fa di questa azienda un modello di apertura e intelligente conduzione), perché disegnare una macchina da caffè è pur sempre un progetto eccitante. È un lungo viaggio tra sentimento e funzionalità. Alla riuscita di questo ambizioso intento hanno partecipato autori che all’avventura della storia del design hanno contribuito a viva voce. Quattro di questi sono stati selezionati per comporre il corpus della mostra realizzata dall’Archivio Alessi negli spazi espositivi del Museo Carà di Muggia - Trieste e intitolata per l’appunto “Caffè Espresso. La caffettiera tra architettura e poesia”: Wiel Arets, Riccardo Dalisi, Richard Sapper e Aldo Rossi corrono come ombre cinesi sul filo (oggi possiamo affermarlo) della profondità storica. Si confrontano con le altre officine della storia delle arti decorative (3). Sono professionisti abituati ad apparecchiare progetti più vasti e complessi: architetti chiamati a immaginare oggetti densi di quella carica sperimentale che il made in Italy ha, qualche volta, trascurato. Prima di rivendicare a sé stessi e alla propria esperienza artistica un diritto alla disobbedienza e all’eclettismo hanno bevuto tanti caffè, forse non hanno dormito e, probabilmente, si sono anche inervositi. Ma, dalle risultanze di questi studi, sono nati bozzetti preparatori, prototipi, piccole serie produttive oppure direttamente oggetti destinati ad entrare in produzioni di grande serie. In buona sostanza non si sono proposti di risolvere il problema di un buon caffè, perché a quello basta la napoletana, o la moka (se si vuole la schiuma), ma la loro ricerca è stata esplicata come vero e proprio monumento alla espressione di un rito che si rinnova con gli stili della tendenza. Proponendo il confronto tra macroscala e microscala il Paesaggio casalingo (4) si è così popolato di nuovi edifici che invitano a una metaforica passeggiata sul tavolo della colazione. Sulla scia di questi indizi, le loro caffettiere agiscono come centro di gravità nel vuoto del mondo contemporaneo superpopolato di oggetti e segni. Questo è stato, secondo noi, l’itinerario poetico –personale e imprevedibile– legato a un uso ripetitivo dell’analogia e della memoria di Arets (stile formale e minimale miscelato nella giusta dose), di Dalisi (con la sua carica di sottintesi simbolici e rituali), di Sapper (dalle geometrie dense di novità tecniche e funzionali) e di Rossi (per mezzo del suo tipo di architettura con la cupola tra l’Antonelli e quelle ottocentesche). Per concludere c’è sempre qualcosa che ci istruisce sulle origini degli eventi e che ci conduce tra i meandri del labirinto esistenziale, quello in effetti che per portarci da A a C non passa solo per B, ma arriva a toccare Z per tornare a P per attraversare D e infine approdare alla meta agognata C. Un po’ come il viaggio di Ulisse verso Itaca: quanto non ha dovuto soffrire per ritornare a toccare la soglia della sua desiderata casetta, e per fortuna che c’era una dea che lo ha sorretto nella lotta contro le avversità che via via altri gli facevano cadere addosso. La memoria è questa grande mappa/dea che ci aiuta, che ci sostiene, che ci tiene la mano, che ci guida in questo percorso articolato e tortuoso. La memoria, nella sua grande possanza, è questa ragnatela fragile che ci fa sovrapporre immagini, che ci fa spazio nei corridoi oscuri degli avvenimenti assunti nella loro dinamica. Così, la relatività istintiva ci istiga verso il futuro mantenendo intatta l’idea del presente, mentre inquadra la visione che sta dietro la nostra nuca. Eleonora Garavello e Alessio Curto NOTE (1) “Caffettiera? Fuochino. Risposta incompleta. Non è una normale caffettiera, è una caffettiera espresso Alessi, Il che, se permettete, non è la stessa cosa. Innanzitutto perché si chiama Alessi, e su questo non c’è molto da discutere. Poi perché è una vera e propria reinvenzione della caffettiera, in tutti i suoi particolari. State a sentire. Il disegno è di Richard Sapper, realizzato in acciaio inossidabile 18/10. Il sistema di chiusura, a leva, è rivoluzionario: basta un click per aprire e chiudere. Il beccuccio, che ha una particolare conformazione, è antigoccia. Il manico è in acciaio lavorato antisdrucciolo. La forma è troncoconica, con la base allargata che permette il massimo sfruttamento della fonte di calore. Il prezzo, dulcis in fundo, non vi stupirà: il giusto, per un oggetto che vale molto. E adesso alzi la mano chi ha detto caffettiera”. Bodycopy tratta da un’inserzione pubblicitaria Alessi Fratelli SPA del 1979. (2) Almeno che non si prenda per buono lo scarto che intercorre fra il funzionamento della mente umana e gran parte degli oggetti che ci circondano e che siamo condannati ad usare come afferma Donald A. Norman nel suo celebre testo La caffettiera del masochista, dove si mette in luce la psicopatologia degli oggetti quotidiani attraverso un processo al cattivo design condotto dal principale esponente del cognitivismo contemporaneo. (3) Dove “per Officina s’intende il luogo ideale per realizzare l’incontro tra diverse esperienze progettuali nella verifica e nella definizione di un complessivo e multiplo metaprogetto” come mette in evidenza l’autrice Laura Polinoro, curatrice del catalogo della mostra organizzata al Centre Georges Pompidou di Parigi L’officina Alessi. Alberto Alessi e Alessandro Mendini: dieci anni di progetto, 1980 - 1990, Ed. F.A.O., Crusinallo, 1989. Inoltre, sempre dalle pagine del medesimo volume, sulla centralità dell’officina Alberto Alessi non perde l’occasione per asserire che “se c’è una cosa che mi ha sempre incuriosito della Alessi è l’apparente contrasto tra il grigiore metallico e la serietà dell’officina meccanica, che ha rappresentato la nostra origine e che continua a essere il centro della nostra attività, e la intensità del risultato poetico che essa produce (…) come la semplice voglia di toccarli o di contemplarli, la ricerca di un’emozione, il desiderio di felicità”. (4) Paesaggio casalingo è un termine coniato da Alessandro Mendini sia per dare il titolo al suo volume uscito nel 1979 per la Editoriale Domus, quanto per intendere come tale quell’insieme di strumenti adatti a trasformare, organizzare e contenere il cibo e le bevande prima e durante il pranzo. 25 26 27 Richard Sapper Richard Sapper, “9090”, caffettiera espresso, acciaio inossidabile 18/10, 1979 Wiel Arets: leggerezza e consistenza “Architetto singolare, pensatore indipendente, Wiel Arets tende alla regolarità delle parti ma non è minimalista in senso riduttivo, i suoi progetti includono un grado elevato di complessità intellettuale, ma anche di concretezza e semplicità formale. La centralità della sua architettura non consiste in un’attività di elaborazione formale di tipo scultoreo o iconico, ma tende a una condensazione e intensità che sono la ragione dell’aura speciale di Leggerezza e di Consistenza presente nelle sue opere. La caffettiera espresso coffee.it mostra gli elementi tipici della sua pratica progettuale”. Alberto Alessi Aldo Rossi Riccardo Dalisi: la caffettiera e Pulcinella “La divagazione è funzionale a rendere ancora più evidente, più esplicito un risultato possibile, utilizzando l’ironia. Pure negli scienziati, dal momento in cui si vuole presentare uno studio e comunicarne lo spirito, nasce in qualche modo l’esigenza di animare il risultato […] La caffettiera che tira fuori braccia e mani in segno di vittoria è bisogno d’animazione (e non fatto naïf), per comunicare con forza, rendere emotivamente partecipi”. Riccardo Dalisi Aldo Rossi, “La conica”, caffettiera espresso, acciaio inossidabile 18/10 con fondo in rame, 1984 Richard Sapper: forma e funzione “Io sono un grande nemico della forma per la forma. Per me la forma è la conseguenza di una vita interiore che deve avere l’oggetto. La Bandung, la 9090 e la Cobán sono esempi di oggetti con una forma che in qualche modo traduce il suo senso in una cosa. Io non voglio dire cosa esprime quell’oggetto: può esprimere qualcosa, ma io non ho lo scopo di raccontare con la forma dei miei oggetti una storia che si può dire in parole. In qualche modo gli oggetti dovrebbero parlare da soli con chi li guarda, li ha, o li usa”. Richard Sapper 28 Aldo Rossi: architetture da tavola “Rossi era un po’ diffidente nei confronti dell’industria in generale, ma l’Alessi gli piacque e si lanciò in lunghi studi sugli oggetti per il caffè, diventati nel tempo una specie di ossessione: note, schizzi, fotografie, disegni, progetti di diverso tipo, per Rossi la caffettiera è per eccellenza il simbolo del rapporto dialettico tra l’architettura (o meglio l’urbanistica) e il ‘paesaggio domestico’ in cui questo monumento in miniatura si inserisce. Da questa ricerca sono nate La conica, La cupola, Ottagono e altri oggetti legati al rito del caffè”. Alberto Alessi Riccardo Dalisi, sopra: “90018”, caffettiera napoletana, acciaio inossidabile 18/10, legno di noce Canaletto, 1987; sotto: ricerche e divagazioni sul tema della caffettiera napoletana 29 Sessant’anni di grande design al Museo Kartell Prodotti, immagini, disegni e manifesti, costituiscono il percorso di visita allestito da Ferruccio Laviani che racconta, passo dopo passo, l’avventura dell’azienda artefice del curioso connubio tra materie plastiche e design di Elisa Storace curatrice Museo Kartell A destra disegno originale della lampada KD6 di Achille e Pier Giacomo Castiglioni, 1959; sotto l’ingresso del Museo. Nell’altra pagina uno scorcio degli spazi espositivi, il logo del Museo e alcune campagne pubblicitarie del 1982 Nel 1999, al cinquantesimo anniversario dell’azienda, Claudio Luti fonda il Museo Kartell dando vita a uno dei musei aziendali più grandi e ricchi d’Italia che nel 2000 si aggiudica il Premio Guggenheim Impresa & Cultura come miglior museo d’impresa e che nello stesso anno è protagonista al Pompidou con una mostra dedicata. Nelle Collezioni del museo confluiscono i materiali di documentazione, i prodotti e i prototipi raccolti e conservati in sessant’anni di storia che testimoniano un percorso di grande impegno e dedizione. Molti di questi prodotti, insieme a immagini, disegni e manifesti, costituiscono il percorso di visita del Museo allestito da Ferruccio Laviani che racconta, passo dopo passo, l’avventura dell’azienda che più di ogni altra è stata artefice del curioso connubio tra materie plastiche e design. Il percorso inizia con il primo straordinario portasci in gomma del 1949 e termina con la rivoluzionaria seduta Mr. Impossibile di Philippe Starck del 2008; tra loro è un susseguirsi di premi e oggetti-icona: gli apparecchi d’illuminazione dei fratelli Castiglioni, le prime pionieristiche sedute in plastica di Sapper, Zanuso e Colombo, quelle in policarbonato trasparente di Philippe Starck, la prima libreria a configurazione libera al mondo di Ron Arad e così via. “La forza del Museo Kartell è la forza dell’azienda” come afferma Dejan Sudjic, direttore del Design Museum di Londra, “Il museo mostra le scelte che ha adottato e gli investimenti che ha fatto. La mostra e l’allestimento stesso, riflettono un continuo e serio impegno di ricerca e sperimentazione”. Ricerca e sperimentazione sono infatti i temi comuni in tutti i pezzi in mostra al museo che, nati da un sempre rinnovato interesse per gli aspetti tecnologici e per quelli socio-culturali, sono ispirati da un comune ideale di design democratico. Giulio Castelli, ingegnere chimico e allievo del premio Nobel Giulio Natta, fonda la Kartell nell’immediato dopoguerra con la volontà, dice: “di produrre oggetti con caratteristiche innovative, intese come applicazione di nuove tecnologie produttive, rivolte all’economia del materiale e all’efficienza del processo” ed avvia la sua Museo Kartell Via delle Industrie, 3 20082 Noviglio (MI) Tel: +39 02 90012269 Fax: + 39 02 9053316 e-mail: [email protected] website: www.kartell.it Aperto al pubblico dal martedì al venerdi, dalle 14 alle 18. Ingresso libero. Visite guidate gratuite individuali o di gruppo su appuntamento 31 32 Reclame dell’azienda realizzata negli anni Sessanta Foto di gruppo dei designer Kartell al Centro Pompidou, 2000 attività con la produzione di autoaccessori e casalinghi, apparecchi d’illuminazione, articoli da laboratorio, mobili e complementi d’arredo. Fin da subito l’ingegner Castelli si avvale di un approccio innovativo per la progettazione dei suoi articoli concentrandosi sugli aspetti di ricerca tecnologica e design, essenziali per affrontare il progetto delle materie plastiche che a differenza dei materiali naturali, si presentano prive di un’identità visibile prima della lavorazione. Con la produzione di secchi e bagnetti in polietilene infatti Giulio Castelli riesce nell’intento di portare la plastica nelle case degli italiani e realizza prodotti di notevole spessore culturale, come il secchio con coperchio, Compasso d’Oro 1955, o lo spremilimoni KS1481, la cui forma viene presa a modello per gli spremiagrumi realizzati negli anni successivi dai produttori di elettrodomestici. I pezzi più esemplificativi del design Kartell degli anni cinquanta sono infatti i casalinghi disegnati da Gino Colombini, che uniscono l’utile al bello e rappresentano la giusta forma per i nuovi materiali, contribuendo in modo determinante al cambiamento del paesaggio domestico in atto. I grandi nomi del design Italiano e internazionale si susseguono nel percorso aziendale come in quello del museo: tra gli altri: Achille e Piergiacomo Castiglioni, Giotto Stoppino, Gae Aulenti, Michele De Lucchi, Antonio Citterio, Vico Magistretti, Piero Lissoni, Philippe Starck, Patricia Urquiola, Marcel Wanders… e Anna Castelli Ferrieri. A lei, nel 2007, il museo ha dedicato una mostra ed a lei il museo e Kartell sono strettamente legati. Prima donna a laurearsi in architettura a Milano, moglie e compagna di Giulio Castelli fin da giovanissima, offre all’azienda il suo contributo di architetto e designer pragmatico e consapevole firmando alcuni tra i pezzi più venduti di sempre come i Mobili Componibili del 1967, i primi mobili al mondo stampati a iniezione in ABS. Con l’affermazione internazionale del design italiano e milanese degli anni sessanta e settanta, la Kartell consolida la propria identità esplorando la versatilità dei materiali e avvalendosi anche del contributo di designer esterni come Marco Zanuso e Joe Colombo. Nel 1964 esce la sedia per bambini 4999 disegnata da Marco Zanuso e Richard Sapper, la prima sedia al mondo completamente in plastica. Combinabile, smontabile e facilmente pulibile la seggiolina è seguita dalla seduta sovrapponibile 4867- Universale di Joe Colombo che trova una risposta formale all’uso di un materiale e di una tecnologia nuovissimi: è la prima seduta al mondo interamente in ABS prodotta da un unico stampo a iniezione ed è ancora oggi uno dei prodotti-icona del design italiano nel mondo. Ben presto Kartell si accorge del contributo culturale che i suoi prodotti sono in grado di dare e si rende parte attiva nel dibattito sui temi dell’industrial design e delle materie plastiche pubblicando gli house organ “Qualità” e “Kartellnews” e aprendo Centrokappa, una società del gruppo fondata da Valerio Castelli. Centrokappa contribuisce per oltre un decennio a promuovere il design italiano nel mondo attraverso di incontri ed eventi che organizza all’interno dello storico stabilimento di Noviglio nello spazio che poi diverrà il cuore del museo, e che ottengono un’audience internazionale. Nel 1972, invitata dal MoMA di New York, Kartell partecipa alla mostra Italy: The New Domestic Landscape con la produzione di tre prototipi di proposte abitative d’avanguardia disegnati da Gae Aulenti, Ettore Sottsass e Marco Zanuso e con più oggetti di produzione che vengono inseriti nella collezione permanente del museo newyorkese. Nel 1988, alla soglia dei settant’anni, Giulio Castelli passa il timone Claudio Luti che acquisisce Kartell e rivede il catalogo nel rispetto del Dna aziendale all’insegna di una ricerca basata sulla qualità del prodotto che privilegia gli aspetti tattili e sonori delle superfici. La sedia Dr Glob di Philippe Starck del 1988 è il primo prodotto in plastica al mondo ad avere spessori importanti, angoli vivi e colorazioni pastello e anticipa i temi che saranno dominanti negli anni novanta. Il materiale plastico viene accostato ad altri materiali come l’alluminio, il ferro e il legno, le superfici divengono opache, con touch particolari e gamme cromatiche molto estese. Per poi nuovamente mutare nel 2000 e divenire trasparenti come le sedute La Marie di Philippe Starck del 1999 e Louis Ghost del 2002, la sedia in plastica più venduta al mondo. Da qui Kartell continua la sua ricerca con un’energia senza precedenti che porta alla creazione di più arredi in policarbonato trasparente, rivoluzionari in ogni aspetto; Kartell diventa la prima azienda a realizzare superfici trasparenti verniciate e la prima a portare il concetto di trasparenza negli ambienti domestici e collettivi. A partire dal 2002 e grazie alla collaborazione di Ferruccio Laviani, anche negli apparecchi d’illuminazione dominano colore e trasparenza e vengono immesse sul mercato lampade di esemplare purezza formale che aprono la strada a una rinnovata divisione dedicata all’illuminazione. In pochi anni, grazie al contributo di diversi designer internazionali, il catalogo Kartell si arricchisce di una sempre più ampia gamma di prodotti e viene adottata una precisa e lungimirante strategia distributiva internazionale che porta alla creazione dei negozi monomarca che aprono al ritmo di trenta all’anno e che sono oggi presenti in oltre cento paesi del mondo. Nei suoi primi sessant’anni Kartell conquista oltre cento premi, fra cui nove Compassi d’Oro e vede i suoi prodotti nelle collezioni dei più importanti musei del mondo, dimostrandosi sempre capace di soddisfare le più ardite ambizioni estetiche grazie al patrimonio di conoscenze tecnologiche ottenuto in anni di esperienza. Attraverso le visite guidate, le ricerche, le pubblicazioni, l’organizzazione di mostre internazionali e attraverso le sue collezioni, il Museo Kartell racconta questi sessant’anni di grande design. 33 COMUNE DI MUGGIA Il prodotto di elettronica tra identità e innovazione 34 Museo d’Arte Moderna “Ugo Carà” Brionvega, storico marchio del design italiano, guarda alle generazioni future e in quest’ottica ha dato vita a un progetto di collaborazione con l’Istituto Europeo Design di Torino. L’iniziativa ha coinvolto i designer del corso triennale di Industrial Design -coordinato dai docenti Marco Valente e Paolo Trevisan- ai quali è stato richiesto, come tesi di fine anno, di progettare degli 35 36 ipotetici nuovi prodotti di elettronica di consumo in grado di veicolare i valori estetici e innovativi spiccano: MOD_X impianto stereo formato da una struttura modulare da appendere alla parete che caratterizzano il celebre marchio Brionvega. Il progetto prevedeva che gli studenti dovessero che sembra una scultura e che racchiude un lettore CD e alcune unità di memoria su cui salvare i presentare il concept del prodotto e una maquette in dimensioni reali o in scala che riproducesse brani musicali; PLUS lettore multimediale in grado di leggere ogni tipo di supporto, come compact l’estetica dell’oggetto progettato. L’iniziativa ha dato vita a una decina di proposte tra cui disc, musicassette, dischi in vinile e memory card e di salvare la musica su un hard disc esterno 37 38 che può essere portato con sé e collegato a PC o autoradio; SuOno sistema audio wireless supporto audio come CD, lettori MP3 e DVD. L’iniziativa espositiva sarà costituita da un percorso composto da un corpo centrale e da quattro casse indipendenti su cui è possibile ascoltare quattro in cui nelle “isole” personalizzate saranno presentati dei pannelli in forex (che illustrano la sintesi playlist diverse; Zero/1 sistema hi-fi che reinterpreta in chiave moderna il giradischi grazie a uno progettuale degli elaborati) e i relativi prototipi (accompagnati dallo studio grafico dello stampato speciale braccio che scorre in senso longitudinale sul disco e in grado di riprodurre ogni tipo di promozionale) il tutto sempre realizzato dagli studenti iscritti al corso di Industrial Design dello IED. 39 40 41 42 43 OGGETTI COERENTI PERCHÉ PROGETTUALMENTE PENSATI “BAMBU” di Enzo Mari, 1969. Fotografia di Elliott Erwitt “Se mi chiedete cos’è la Danese, io direi che la Danese sono due persone: Bruno Danese e Jacqueline Vodoz. E così è stato per tutto l’arco della durata in cui noi siamo rimasti nella Danese, fino agli anni ‘90-91”. Questa la secca dichiarazione rilasciata dalla fondatrice del prestigioso marchio nel corso di una recente (e rara) trasmissione televisiva dedicata alle tematiche del disegno industriale. Azienda di complementi di arredo, multipli d’arte e giochi didattici, sin dalla sua nascita (1957), si presenta come una struttura atipica, non produttiva autonomamente, poiché si appoggia, per la realizzazione dei propri prodotti, a industrie e laboratori esterni, con i quali instaura un rapporto di collaborazione molto stretto e continuativo (DEM per la ceramica, Robots per la produzione di ferri saldati e metalli, Plastic per i tecnopolimeri, Livellara per i vetri e il cristallo soffiato, Albaplast per l’ABS e il polimero a iniezione). Eravamo nell’Italia del dopoguerra dove esplodeva il desiderio di fare, di sentirsi liberi di sperimentare qualsiasi cosa. E’ un momento propizio e la Danese, cavalcando l’onda favorevole, edita i primi oggetti di design. Oggetti con una caratterizzazione molto precisa, dalla forma estetica esteriore mai gratuita, dove la funzione e la realizzazione sono strettamente legate. Questo spirito di avventura era molto forte perché non corrispondeva alle richieste del mercato, ma era qualcosa che nasceva dentro chi concepiva il progetto e chi si preoccupava di realizzarlo. Prendeva vita così una delle firme più autorevoli e originali del già ricco panorama del design italiano. L’incontro con due autori del calibro di Bruno Munari e Enzo Mari ha fatto il resto, caratterizzando gran parte del complesso delle opere: dalla collaborazione con Munari nascono il posacenere “Cubo” (1957), le lampade “Cubica” (1958), “Prismatica” (1961) e la famosa “Falkland” (1964). Grazie a Mari, Danese si trasforma in una specie di laboratorio sperimentale, con i contenitori “Prog. 491A” e “491B” (1958), realizzati con lamiera tagliata a macchina e saldata senza finiture e con profilati in ferro. Più tardi anche Achille Castiglioni, Kuno Prey, Angelo Mangiarotti e Marco Ferreri hanno contribuito a sviluppare un’arte industriale aperta a ogni materiale cui è riconosciuta una validità senza tempo. Nel 1992 la Danese fu comprata dal Gruppo Cassina, autorevole fabbricante italiano di mobili, che si è preoccupato di focalizzare il catalogo su oggetti per ufficio. 46 Infine, dal 2000, con l’arrivo di Carlotta de Bevilacqua al ponte di comando, è iniziata la seconda giovinezza per l’azienda milanese di via Canova che è partita proprio dalla cura nella continuità produttiva e sperimentale attraverso un puntiglioso rilancio dell’immagine. “Oggi la parola d’ordine Danese è personalizzare: interagire con i prodotti per metterli in scena nei propri ambienti quotidiani; adottare i prodotti esplorandone la componibilità, oppure ricercando ulteriori interpretazioni funzionali, o ancora sviluppando la flessibilità d’uso”. Nel pieno cambiamento dell’Europa non si va a operare solo nell’ambito estetico ma nell’offrire una nuova strategia puntando sul branding, innovazione, ricerca, nuovi format distributivi e produttivi. Così questi oggetti pieni di bellezza e di spirito, testimoni della linea filosofica dell’azienda che ha sempre visto nel design il portavoce di valori duraturi e, nel contempo, innovativi, ha trovato nuova linfa nei lavori del rinnovato team di designer internazionale. Sempre Enzo Mari, Marco Ferreri e ancora Paolo Rizzatto, Andrea Branzi, James Irvine, Matali Crasset, Naoto Fukasawa, Alberto Meda, Neil Poulton, Karim Rashid, Harri Koskinen, Franco Raggi, Huub Ubbens, Theo Williams e altri hanno prodotto un flusso continuo di nuove idee e scambi per lo sviluppo progettuale e produttivo dell’azienda. In questo ambito la qualità è sempre stata al centro dell’attenzione: qualità intesa sia come processo progettuale che logistico-distributivo. Lo stesso ambiente nel quale Danese opera risponde al concetto di qualità coerente con la scelta di fondo: qualificare l’ambiente nel quale si vive. Le sedi operative si concentrano attualmente in due sedi strategiche: una a Milano con il relativo showroom come centro nevralgico europeo, l’altra a Hong Kong come osservatorio e piattaforma logistica del sud-est asiatico. LE IMMAGINI DI ELLIOTT ERWITT PRESENTI IN CATALOGO Elliott Erwitt nasce a Parigi nel 1928, di origine ebraica, passa la sua infanzia fra Francia, Italia e America. Si avvicina alla fotografia alla “Hollywood Hight School”, e presto una Leica diventa la sua inseparabile compagna. Erwitt usa le immagini per comunicare, non solo come rappresentazione della realtà, e presto affina il suo linguaggio: ironico, semplice, essenziale. Con lo stesso linguaggio sorridente, nel pieno della sua inconfondibile visione del mondo, Elliott Erwitt ha interpretato gli oggetti della collezione Danese: un’interpretazione poetica e a volte ironica di forme e contesti d’uso. Tutte le altre fotografie riprodotte in questo catalogo sono dei seguenti autori: Ballo & Ballo, Giacomo Giannini, Gio Pini, Benvenuto Saba e Miro Zagnoli. Sotto il logotipo disegnato da Franco Meneguzzo, 1957 Danese Srl Via Canova, 34 - 20145 Milano tel +39.02.34939534 - 34537900 fax +39.02.34538211 showroom piazza San Nazaro in Brolo, 15 20122 Milano tel +39.0258304150 fax +39.02.58433350 Danese Ltd 1105, Regent Center 88 Queen’s Road Central Hong Kong tel ++81.3582.53053 fax +81.3582.53055 www.danesemilano.com Alessio Curto 47 “TANO” di Andrea Branzi, 2001. Fotografia di Elliott Erwitt “BiGSUPERHOOK” di James Irvine, 2001. Fotografia di Elliott Erwitt 48 49 50 51 “HANG UP” di Paolo Rizzato, 2001. Fotografia di Elliott Erwitt “HUMPHREY” di Paolo Rizzato, 2001. Fotografia di Elliott Erwitt ZWAHLEN & MAYR GRUPPO SITINDUSTRIE ZM ONDE SINUOSE PER PAUL KLEE A BERNA LA SPETTACOLARE STRUTTURA REALIZZATA DALL’ARCH. RENZO PIANO di Andrea Ulliana ed Eleonora Garavello ZWAHLEN & MAYR, fondata nel 1881 è oggi quotata alla borsa di Zurigo. Nel 1978 è stata acquistata da Sitindustrie che vi ha introdotto due linee specifiche per la produzione di tubi, per differenziarla dalla sua attività principale, rappresentata dal disegno, costruzione e assemblaggio di carpenteria metallica. Attualmente lo stabilimento situato ad Aigle è specializzato nella produzione di: -tubi saldati in acciaio inossidabile e di tubi di precisione in acciaio inossidabile saldati e trafilati, -costruzioni in acciaio inossidabile quali ponti e strutture di grande portata, coperture e rivestimenti. I tubi saldati sono destinati agli impianti principali di settori specifici quali centrali elettriche e nucleari, raffinerie, impianti chimici e petrolchimici, zuccherifici oltre che nel settore automobilistico e farmaceutico. I progetti di carpenteria metallica, invece, si contraddistinguono e per le gigantesche e spettacolari realizzazioni eseguite in Svizzera e in Paesi stranieri grazie al knowhow messo a punto dagli ingegneri e tecnici di Zwahlen & Mayr nell’ambito delle costruzioni in acciaio inossidabile. Il personale tecnico, sempre in stretto contatto con il reparto fabbricazione e costruzione, garantisce il necessario supporto e l’esperienza nelle nuove tecnologie. In ogni sua realizzazione - dal piccolo centro commerciale alle strutture di centri congressi, ai ponti- Zwahlen & Mayr procede nel rispetto dei tempi di consegna e delle severe norme vigenti per le costruzioni metalliche. La certificazione “Société Suisse des Ingenieurs et des Architexts S1” è garanzia di successo e serietà professionale. ZWAHLEN & MAYR ha un fatturato annuale di circa 80 milioni di euro e occupa 200 persone. A Berna il flusso di tre onde di vetro e acciaio ospita un tempio dedicato a Paul Klee. Renzo Piano ha disegnato un luogo di nuova concezione nel quale sono accolti i lasciti degli eredi e della fondazione omonima, oltre quattromila opere dell’artista, tra piccoli e grandi disegni, acquerelli e dipinti a olio. Realizzato nel giro di otto anni, costato 110 milioni di franchi svizzeri, il museo occupa sedicimila metri quadrati di superficie, coperti da 1100 tonnellate d´acciaio, e luce naturale: la struttura principale si compone di una successione di 29 archi paralleli, larghi 2,50 metri. Strutture secondarie disposte tra gli archi assicurano la stabilità generale del sistema tramite la distribuzione di spinte orizzontali sui muri in cemento alle spalle delle costruzioni. Le colline di acciaio e vetro non ospitano solo grandi spazi espositivi, ma anche una sala ben attrezzata, adatta per concerti e manifestazioni organizzate dal Centro o per gruppi ospiti. Spazio inoltre per un museo per bambini a partire dai 4 anni, pensato per stimolare la creatività dei piccoli e avvicinarli all’arte. Presenti inoltre un percorso animato ricco di diversi strumenti informativi e zone relax – la via dei musei –, nonché saloni e stanze equipaggiate con le più moderne infra-strutture per congressi nazionali e internazionali. La luce, la leggerezza e la crescita quasi organica dalle zolle di terra sono gli elementi della poetica di Klee alle quali si è ispirato il grande architetto italiano. In particolare Renzo Piano ha voluto rappresentare il senso di leggerezza, di appartenenza, la luce tipica delle opere di Klee. Da qui dunque l’idea che più che fare un edificio, “bisognava creare un luogo, – afferma Renzo Piano – sollevare la coltre della terra, fare un’opera di arte del territorio. Un lavoro quasi più da topografo che da architetto, o addirittura da contadino sapiente”. Le opere di carpenteria metallica sono state eseguite da un’azienda svizzera, Zwahlen & Mayr, quotata alla borsa di Ginevra e specializzata nella progettazione, fabbricazione e montaggio di grandi costruzioni in acciaio e controllata da un gruppo italiano: SITINDUSTRIE. 1.200 tonnellate di acciaio, 330 spezzoni d’arco, 2.900 elementi accessori, oltre a 35 km di saldature, 5.000 bulloni e 15.000 ore di lavoro in cantiere per la posa in opera. “Sono estremamente soddisfatto del lavoro svolto – afferma Fausto Bocciolone, presidente del Gruppo Sitindustrie – La stretta collaborazione che si è stabilita fra l’arch Renzo Piano, i suoi assistenti e lo staff di Zwahlen & Mayr, ha permesso di trovare soluzioni innovative per realizzare, nei brevi tempi richiesti, un’opera unica sotto tutti gli aspetti: estetica, razionalità della costruzione e durevolezza”. Superificie 16.000 mq Architettura Renzo Piano Carpenteria metallica Zwahlen & Mayr – Gruppo Sitindustrie Costo totale 110 milioni di Franchi svizzeri RENZO PIANO Nato a Genova-Pegli il 14 settembre 1937. Frequenta le Università di Architettura di Firenze e di Genova; laureatosi in architettura nel 1964 al Politecnico di Milano diventa allievo di Marco Zanuso. Grazie al padre, costruttore edile, da subito ha la possibilità di conoscere la vita di cantiere e di esercitare la professione, nonché di instaurare le prime relazioni con i clienti. Tra il 1965 ed il 1970 viaggia tra gli Stati Uniti e l’Inghilterra per completare la sua formazione. Nel 1966 partecipa alla XV Triennale di Milano, per cui realizza un padiglione. Nel 1969, a seguito della crescente fama nazionale, dovuta anche alla pubblicazione delle opere sulle riviste del settore (Domus e Casabella), Piano realizza il padiglione per l’industria italiana alla Esposizione Universale del 1970 a Osaka. All’epoca incontra Jean Prouvé (1901-1984), celebre architetto francese, con il quale instaura un’amicizia professionale solida e fruttifera. Nello stesso periodo incontra Richard Rogers (1933) con il quale fonda lo studio “Piano & Rogers”, con sede a Londra. Tra il 1971 ed il 1977 il duo costruisce il “Centre Georges Pompidou” (chiamato anche “Beaubourg”) a Parigi, sorta di manifesto per l’architettura high-tech dell’epoca. Nel 1977, separandosi da Rogers, Piano si unisce a Peter Rice (1935-1993), famoso ingegnere civile, per fondare l’”Atelier Piano & Rice”. Nel 1981 Piano fonda il “Renzo Piano Building Workshop”, con un ufficio a Genova e uno a Parigi. Circa 100 persone oggi vi lavorano. Nel 1988 il comune di Genova gli affida l’incarico di ristrutturare il Porto Antico, in vista delle Celebrazioni Colombiane (Expo ‘92 Genova), festeggiamento dei 500 anni della scoperta dell’America. Il progetto riqualifica l’area dei Magazzini del Cotone e del Millo, a cui si aggiungono nuove costruzioni, come l’Acquario di Genova e il Bigo, l’ascensore panoramico. L’area ha subito un nuovo intervento di riqualificazione nel 2001, sempre ad opera di Piano, in occasione del G8. Nel 1992 gli viene affidato l’incarico di ricostruire l’area di Potsdamer Platz a Berlino. I lavori si protrarranno fino al 2000 e coinvogeranno numerosi architetti tra cui Giorgio Grassi, Hans Kollhoff, Helmut Jahn, David Chipperfield, Diener + Diener e molti altri. Nel 1994 vince il concorso internazionale per il nuovo Auditorium di Roma, che porterà nel 2002 all’inaugurazione dell’Auditorium Parco della Musica. Numerosi sono anche i riconoscimenti universitari (visiting professor alla Columbia University di New York, alla Architectural Association di Londra, laurea honoris causa ricevuta dalle Università di Stoccarda e Delft) e quelli in concorsi nazionali ed internazionali, gli scritti, non incentrati sullo sviluppo di teorie o modelli, ma mirati alla conoscenza del “mestiere”, i libri (“Dialoghi di cantiere” e “Giornale di Bordo”), le interviste sui quotidiani di tutto il mondo, i progetti per allestimenti e mostre. 53 English version on page 91 54 progetto Corrado Pagliaro (www.fotipagliaro.it) strutture I. Smotiak impianti G. Bidoli, M. Vegliach imprese artigiane Leto costruzioni, InterDomus Sas, Falegnameria Pors località Trieste programma Nuova distribuzione degli spazi interni su due piani e disegno degli elementi di arredo fisso dati dimensionali Superficie mq 200 materiali Intonaci a tempera, pavimenti in legno di rovere slavonia e pietra, mobili in acero e acciaio inox servizio fotografico Stefano Graziani FOTI PAGLIARO Studio d’architettura fondato nel 1980 da Corrado Pagliaro e Gianfranco Foti ALCANTON © Fabio Rinaldi, 2009 VIA Uno sventramento del primo ventennio del novecento, finalizzato alla creazione di una nuova via di scorrimento, ha avuto il merito di riportare alla luce i resti del Teatro Romano. Su questa cesura si trova l’abitazione, sviluppata negli ultimi tre livelli di un edificio a doppio affaccio che faceva parte del pettine edilizio al margine del vecchio ghetto ebraico. Spazi anonimi ma potenzialmente interessanti, in cui i committenti volevano ricavare una residenza dove aria e luce divenissero lo sfondo naturale del vivere quotidiano. L’elemento verticale della scala diviene allora asse unificante della casa, vuoto dal carattere forte a cui le pareti/libreria restituiscono una dimensione domestica, legando in una continuità spaziale e cromatica i vari livelli: dall’ingresso del piano inferiore al soggiorno/studio, articolato sulla doppia altezza che conquista gli ambienti del sottotetto e si apre sulla terrazza in copertura. Il legno di rovere dei pavimenti e il castagno dei rivestimenti spezzano il candore delle pareti e dei soffitti, segnati dai tagli della luce naturale e artificiale. Il colore libero e dissonante è quello dei libri, dei quadri, di alcuni arredi, mentre negli ambienti di servizio i rivestimenti hanno i toni della materia. 55 55 località Trieste programma Nuova distribuzione degli spazi interni su due piani e disegno degli elementi di arredo fisso dati dimensionali Superficie mq 200 materiali Intonaci a tempera, pavimenti in legno di rovere slavonia e pietra, mobili in acero e acciaio inox location Trieste programme New layout of interior space on two floors and design of built-in furniture dimensional data 200 m2 materials Distempered plaster, floors in oak and stone, furniture in maple wood and stainless steel Nelle precedenti due pagine un ritratto di Corrado Pagliaro e un dettaglio della scala/libreria; in queste pagine sopra: vista del soggiorno verso la scala sotto: piante dell’abitazione; accanto: la doppia altezza sul soggiorno 57 58 59 Tra scrittura e pittura trovi delle somiglianze? La letteratura contemporanea, quella seria, ha la stessa attenzione per la realtà attuale e la stessa idiosincrasia per l’accademismo che ha l’arte contemporanea. Portare l’arte fuori dai musei, Quando da fanciullo giocavi in via Biasoletto, a Trieste, avevi già in testa il progetto di diventare scrittore? Io ho cominciato a scrivere piuttosto tardi. È stato più o meno verso i ventidue anni, mentre mio padre si ammalava e moriva rapidamente. Non ho mai avuto aspirazioni letterarie. La malattia e poi la morte di mio padre sono state le sonde, le mine di profondità che hanno scandagliato e fatto esplodere dentro di me un mondo che io non sapevo nemmeno di avere. Questo per dire che da bambino, lassù, sul colle di San Luigi, ancora verde di alberi e orti, io avevo ben altre ambizioni, tutte pressoché stagionali ma prevalentemente sportive. In ricreatorio si giocavano tutti gli sport possibili immaginabili. I giorni più belli erano a settembre, quando venivano organizzate delle olimpiadi a dimensione rionale, nelle quali il divertimento maggiore erano i giochi di ruolo, con affermazioni del tipo “io sono Mennea, tu sei la Simeoni”, e così via. La tua scrittura è spesso basata su spunti di attualità legati alla cronaca o alla vita quotidiana; ciò deriva dalla tua formazione o da che altro? La mia scrittura è il mio sguardo, non è nient’altro che la mia curiosità per ciò che ci circonda. Io scrivo per capire qualcosa di me, di noi, del nostro mondo, e di tutto ciò che ancora non conosco. Cerco di captarlo e di trasmetterlo con il mio alfabeto. La mia formazione, in tutto questo, non c’entra. Mauro Covacich, 44 anni, scrittore che osiamo definire di “reality”, è un vero e proprio enfant prodige della letteratura contemporanea, caratterizzato dall’impostazione di una scrittura spezzettata, innovativa e briosa. Tra i suoi titoli ricordiamo: “L’amore contro”, “Anomalie”, “A perdifiato”, “Fiona”, fino al suo più recente successo editoriale: “Prima di sparire” (282 pp, € 16,00, Einaudi, 2008) dove si parla di un amore che uccide un altro amore. Vi consiglio di leggerli tutti perché sono libri uno più interessante dell’altro. Quali sono i tuoi esordi? Durante l’anno di obiettore di coscienza, a Pordenone, ho scritto un romanzo che poi ho spedito all’editore che mi sembrava più attento verso i giovani (un trucco che impara il lettore-aspirantescrittore è che ogni libro può avere uno, al massimo due editori). Quell’editore era Theoria, che nella persona di Paolo Repetti aveva pubblicato praticamente tutte le opere prime degli scrittori della generazione precedente alla mia (Lodoli, Veronesi, Onofri, eccetera). Repetti mi aveva telefonato dicendomi che non si sentiva di pubblicare il romanzo ma che gli interessava la mia scrittura. Voleva che lo tenessi aggiornato su quello che stavo facendo, così, quando ho cominciato a scrivere la cosa successiva, gliene ho mandati alcuni capitoli. Nel giro di un paio di settimane mi è arrivato il contratto. Il primo romanzo è invece ancora inedito. Sei già in cantiere con un nuovo progetto? L’ultimo libro si intitola Prima di sparire. Adesso sparirò. a cura di Roberto Vidali In questo libro, sullo sfondo, ho ritrovato non solo la presenza silenziosa di molti artisti contemporanei, autori come Hermann Nitsch, Damien Hirst, ma anche di Paolo Canevari che evochi indirettamente, senza indicare il nome per intero. Molti di questi nomi sono incontri letterari oppure con tutte queste persone ci hai parlato per davvero? Io seguo l’arte da semplice appassionato. Poi è capitato che a un paio di cene mi sono trovato accanto alla Abramovic e a Canevari, perché abbiamo amici comuni. In “Prima di sparire”, tua ultima fatica editoriale, tracci quasi un tuo percorso di vita... ma più che una storia da intendersi in senso tradizionale, con un inizio e una fine, il libro mi è sembrato un insieme di appunti disposti per storie parallele... Quando mi sono trasferito a Roma, a casa della mia nuova compagna, ho passato i primi sei mesi girando per fisioterapisti e ambulatori: non sapevo dov’era via Frattina, ma conoscevo Talenti, via della Pisana, Piazzale Clodio. Ero devastato da una specie di mal di schiena psicosomatico. Sono andato avanti sei mesi a suon di cortisone e antidepressivi. Poi ho abbandonato il romanzo che stavo scrivendo e ho cominciato questo libro. Ho capito subito che ero sulla strada giusta, ma Prima di sparire non è uno sfogo, non avrei mai pubblicato uno sfogo, Prima di sparire è vita plasmata in una forma, vita diventata letteratura. Il modello semmai è quello artistico: Sophie Calle, Marina Abramovic, Bill Viola, Joseph Beuys, performer che hanno trasformato la propria vita in arte. Quali gli aspetti positivi e negativi della città di Trieste? Gli aspetti positivi non si contano: altissima qualità della vita, bel clima (viva la Bora), giovani pochi ma boni, vecchi che escono di casa e si godono la vecchiaia, il mare più facilmente accessibile d’Italia, il vitalismo intrinseco dei triestini. Riguardo agli aspetti negativi ne ricordo uno solo: la paralisi di cui viene colpita qualsiasi iniziativa letteraria, a causa dei monumenti troppo alti del passato. Se tu fossi chiamato a rifondare la città di Trieste, da dove partiresti? Mi affretterei a concludere la riqualificazione del Porto Vecchio, fonderei un’agenzia europea della letteratura, incaricherei Claudio Magris come direttore artistico e gli chiederei di organizzare una biennale con i più grandi scrittori del mondo. Poi scoperchierei quell’orrenda piscina nuova e ci metterei l’architetto ad ammaestrare le orche, in pieno stile San Diego. portare la vita dentro le gallerie: questo sta facendo l’arte contemporanea, ed è ciò che tento di fare anch’io. MAURO COVACICH DALLA REALTÀ ALLA SCRITTURA? Giovanna Mazzocchi Domus rappresenta un caso unico nella storia dell’editoria periodica, per durata, “format” dei contenuti come mix di architettura, design e arte, qualità dell’immagine e dell’impaginazione grafica, autorevolezza dei giudizi critici... In quale ordine (e con quali motivazioni) queste caratteristiche si presentano più adeguate oggi al contesto culturale, al gusto dei lettori e in generale al mercato editoriale, nazionale e internazionale? Giò Ponti, architetto, designer e artista, è stato per cinquanta anni (eccezion fatta per un periodo durante la 2° Guerra Mondiale) direttore di Domus, trasferendo nella rivista tutta la sua naturale ecletticità e contribuendo quindi a renderla un raro successo editoriale. I Direttori che si sono in seguito succeduti, pur restando fedeli alle loro inclinazioni primarie, hanno mantenuto questo mix editoriale, consci del fatto che le diverse discipline sono profondamente legate fra loro e, anzi, si “nutrono” vicendevolmente. Questo vale più che mai oggi, in un momento nel quale si verificano imponenti cambiamenti che si possono comprendere unicamente attraverso una “lettura” trasversale, in quanto solo le grandi innovazioni hanno la capacità di espandersi oltre i propri confini e di influire sulle diverse discipline. In un mondo globalizzato, dove l’informazione è ormai universale, la difficoltà sta proprio nell’individuare i cambiamenti culturali significativi, ma credo sia proprio questo che i lettori chiedono non solo in Italia, ma anche all’estero. In pochi anni Lei è riuscita a realizzare quattro edizioni internazionali - cinese, russa, araba e israeliana della rivista, con altrettanti partner. Qual è stata la strategia imprenditoriale che l’ha guidata, quali gli obiettivi e i criteri di scelta dei paesi, e quali i risultati avuti - o che si aspetta nel breve/medio termine? L’edizione italiana con traduzione inglese di Domus è presente fin dagli anni ‘70 in oltre ottanta Paesi. Lo sviluppo e la crescita di grandi realtà, quali la Cina, la Russia e il mondo arabo, imponevano una presenza più significativa e penetrante e questo si rendeva possibile solo con una presenza “in loco” e un’edizione tradotta. 60 L’interscambio culturale è estremamente stimolante perché i problemi di fondo che riguardano l’uomo e il suo vivere di oggi e di domani sono sentiti a livello universale: quindi è fondamentale che la conoscenza travalichi i singoli confini e diventi patrimonio comune, anche se le ovvie differenze di approccio culturale e ambientale determinano un diverso sviluppo fra Paese e Paese. I risultati fin qui ottenuti sono molto soddisfacenti e variano da area ad area secondo i singoli partner: che sono stati scelti tenendo conto più della loro capacità di comprendere e assimilare la funzione di Domus. che per la loro dimensione di casa editrice. In ottanta anni di pubblicazione, Domus ha raccolto uno straordinario patrimonio di documenti e testimonianze sulla cultura visiva e progettuale di (ormai) due secoli. In che modo questo patrimonio “fisico” può essere valorizzato e utilizzato nell’attuale fase “virtuale” della comunicazione , considerata anche la crescita esponenziale nell’uso e nella frequentazione di Internet, anche da parte dei fedelissimi della carta stampata? Il patrimonio di Domus, oltre che trovare sbocco con nuove pubblicazioni “ad hoc”, soprattutto nel settore dei libri, in parte è già e sarà completamente digitalizzato per poter essere condiviso sul web: documenti e testimonianze così significativi non possono e non devono infatti rimanere patrimonio di pochi, ma essere consultati, studiati e divulgati il più possibile. Attualmente sono allo studio due differenti ipotesi - forse entrambe percorribili - per realizzare un progetto di condivisione che naturalmente garantisca anche un congruo risultato economico. È possibile secondo lei definire oggi una nuova identità del lettore di riviste di progetto? O meglio, quali sono i cambiamenti più rilevanti nel gusto e nelle passioni del loro pubblico? Se avessimo il perfetto identikit del lettore ideale di Domus sarebbe anche troppo facile tagliare “su misura” una rivista per lui: ma verrebbe meno lo spirito d’impresa e di ricerca che seguiamo nel continuare a investire su questo mezzo. Diciamo invece che oggi il profilo del lettore – come quello del consumatore in generale – è multiforme e variabile. Sicuramente, anche davanti all’immensa offerta d’informazione data da Internet, il comportamento di chi deve scegliere un prodotto, o un tipo d’informazione, sarà sempre più selettivo e potrà orientarsi su prodotti diversi in momenti diversi, e anche a costi diversi: magari accostando l’informazione di approfondimento della rivista, più riflessiva, con quella più veloce e immediata del web. Quale può essere la giusta reazione dell’editore, in questo senso? Già da tempo offriamo tutti e due i generi d’informazione, e assistiamo con soddisfazione alla crescita dell’audience sul web, con picchi di frequentazione molto alti in occasione di momenti importanti, come il Salone del Mobile di Milano o le Biennali. Crediamo che questo mix sia fondamentale per riaffermare con forza il ruolo leader di Domus. a cura di Stefano Casciani Moreno Gentili, “Omaggio a Domus”, installazione, 2008 L’editore Giovanna Mazzocchi nel 1979 succede a suo padre Gianni alla guida dell’Editoriale Domus: da allora, con generosità rara tra gli editori italiani, ha sempre lasciato alle diverse direzioni la massima libertà di espressione, riponendo totale fiducia nella capacità dei diversi direttori di saper esprimere attraverso la rivista tendenze, tensioni, aspirazioni - ma anche la concreta realtà - dei diversi momenti storici nelle arti contemporanee. Così, mentre altre testate pure storicamente importanti in questi anni si sono avviate a un lento declino con la loro monotona devozione a un’idea di architettura con l’A maiuscola, la miscela di design, arte, moda, architettura e altre forme espressive caratteristica di Domus, risulta ancora vincente e duratura per stabilire diversi orientamenti e intrecci culturali, scoprire e proporre nuovi talenti e autori, raccontare con spirito più giornalistico che storico/critico le trasformazioni irreversibili dell’universo progettuale. In questa breve intervista Giovanna Mazzocchi risponde ad alcune domande centrali per la definizione del ruolo e del futuro delle riviste di progetto. HELMUT NEWTON Nach dem großen Erfolg der Ausstellung „A gun for hire“ in der Helmut Newton Stiftung im Jahr 2005, als Newtons Modebilder der letzten beiden Dekaden im Zentrum standen, rückt die aktuelle Ausstellung „Helmut Newton: Fired“ dessen Modephotographie der 1960er und 1970er Jahre ins Zentrum. Fast 200 Aufnahmen, die im redaktionellen Kontext entstanden, sind hier zu sehen. „1964 wurde ich von dem Modemagazin Queen beauftragt, die revolutionäre Kollektion von Courrèges zu photographieren. Die Moderedakteurin Claire Rendlesham entschied sich für eine ungewöhnliche Erstveröffentlichung, indem sie allein meine Courrèges-Photos zeigte und alle anderen Modehäuser in ihrem Bericht über Paris unberücksichtigt ließ. Als die Queen-Ausgabe auf dem Tisch von Françoise de Langlade, damals stellvertretende Chefredakteurin der französischen Vogue, landete, explodierte diese. Ich wurde in ihr Büro zitiert, und wir hatten einen heftigen Streit. Sie warf mir Illoyalität und Verrat vor und wollte wissen, weswegen ich ihr nicht vorab von diesem scoop berichtet hatte. Ich stellte klar, dass ich schließlich keinen Exklusivvertrag mit der Vogue hätte, ich allerdings niemals Bildideen bei der Queen ausplaudern würde, die ich für die französische Vogue entwickelte, oder umgekehrt. So wurde ich aus den heiligen Hallen der Vogue rausgeworfen, um erst 1969 zurückzukehren, als Francine Crescent Chefredakteurin wurde.“ Helmut Newton, aus: Pages from the Glossies, Zürich: Scalo, 1998 Helmut Newton hat bekanntlich neben der Vogue für zahlreiche andere internationale Zeitschriften und auch direkt für Designer und Modehäuser gearbeitet. Die CourrègesAufnahmen, veröffentlicht 1964 im Modemagazin Queen, die Grund für Newtons Rauswurf bei der Vogue waren, übersetzten die ultramodernen Entwürfe des französischen Designers kongenial ins photographische Bild. Revolutionär waren die Hosen für Frauen, die kniefreien Kleider und vor allem der spektakuläre Weltraum-Look. Frauenbild und gesellschaftliche Position der Frauen befanden sich in einem radikalen Wandel. Newton photographierte die Modelle ohne jede Accessoires in klaustrophobisch engen Räumen, deren metallene Wände Kleider und Modelle reflektierten und verdoppelten. Nach Newtons Rauswurf bei der französischen Vogue bot Claude Brouet, damals Chefredakteurin der Elle, ihm an, für ihr Magazin zu arbeiten. Fünf Jahre später nahm Newton die Modelle für die Elle wiederum in einem verwirrenden Spiegelraum auf; diesmal allerdings tauchte der Photograph hinter den Frauen mit seiner Kleinbildkamera auf und bildete mit seiner schwarzen Kleidung nicht nur einen tonalen Kontrast zu den hellen Cardinund Lanvin-Kleidern der Modelle. Ungewöhnlich für die Zeit war auch, wie Newton hier den Arbeitsprozess selbstironisch und medienreflexiv ins Modebild hineinschummelte und gelegentlich den Modellen seine Kamera sogar selbst in die Hand drückte. Weitere zwei Jahre später, 1971, entwickelte er die so genannte „Newton Photo Machine“, eine selbst auslösende Konstruktion, bei der die weiblichen Modelle sich und die von ihnen getragene Mode vor einem Spiegel systematisch photographierten und dabei ihre Posen über das eigene Spiegelbild überprüften. Auch diese Bilder wurden in der Elle publiziert, und 2007 waren sie in der Helmut Newton Stiftung zu sehen. Helmut Newton inszenierte Mode häufig auf der Straße, im öffentlichen Raum oder „im Leben“, wie er selbst es einmal ausdrückte, seltener im Studio. Er hob die Frauen metaphorisch auf einen Sockel, der nicht mehr wie in der früheren Modephotographie aus Galanterie bestand, sondern aus weiblichem Selbstbewusstsein. Und so posierten sie vor Newtons Kamera verführerisch wie unnahbar auf den Kühlerhauben amerikanischer Straßenkreuzer stehend, vor riesigen Marlon Brando-Plakaten oder im Zwielicht der Dämmerung, geheimnisvoll illuminiert, vor einsamen Häusern. Wir fühlen uns bei den Schwarz-Weiß-Motiven an Filmszenen von Hitchcock erinnert, während die Farbaufnahmen Vorläufer späterer LynchFilme sein könnten. Newton zeigte Frauen als aktive und attraktive, selbstbewusste und erotische Wesen, die die jeweilige Szenerie und die gelegentlich auftauchenden Männer zu beherrschen scheinen. Die Studioatmosphäre, der wir in manchen dieser Bilder begegnen, besteht aus farbneutralen, flachen Hintergründen der klassischen Studiohohlkehle oder aufwendig produzierten, bühnenartigen 62 Raumarchitekturen. Diese bleiben jedoch als solche erkennbar, indem Newton uns an den Bildrändern hinter die Kulissen blicken lässt. Die monochromen Fonds, vor denen Mode und Modell exponiert sind, beschränken sich in der Bildkomposition auf das Wesentliche, während die opulenteren Raumentwürfe die Frauen in ihren Kleidern umspielen, manchmal verorten und interpretieren. Dabei verzichtete Newton auf die üppigen Dekors früherer Jahrzehnte, selbst für seine Chanel-Modeaufnahmen; alles Rahmende wirkt überaus zeitgemäß und visionär. So tauchen etwa Fernsehbildschirme in einigen Modebildern auf, wodurch eine interessante Interaktion entsteht zwischen dem dort aufscheinenden weiblichen Modell und dem bewundernden männlichen Betrachter davor. So wird Unnahbarkeit und Flüchtigkeit medial illustriert. Die Frauen in Newtons Bildern treten separiert oder als Gruppe, mal lasziv und elegant, mal anarchisch und verspielt auf. Anfang der Siebzigerjahre entstand für das Magazin Nova eine Serie mit aggressiven naughty girls, die mit Stühlen und Handgranaten herumwerfen oder mit lächelnder Maske diamantenverzierte Schlagringe in die Kamera halten. Diese Modebilder verstörten und provozierten, darüber hinaus kommentierten sie subtil die zeitgleichen Demonstrationen und Straßenkämpfe in Europas Metropolen beziehungsweise die Radikalisierung der bürgerlichen Jugend in terroristischen Zirkeln. Die Faszination Newtons für starke Frauen erreichte ihren Höhepunkt in den Achtzigerjahren mit der berühmten Bildserie der überlebensgroßen „Big Nudes“, die unter anderem durch die ganzfigurigen Fahndungsbilder der RAF-Terroristinnen in deutschen Polizeiamtsstuben inspiriert wurden, wie der Photograph in seiner Autobiographie schrieb. Das kreative Potential Helmut Newtons zeigte sich bereits in diesen Modeaufnahmen aus den 1960er Jahren, und es war, wie wir heute wissen, noch steigerbar. Dabei entstanden stets kongeniale Bilder, die die Modeentwürfe nicht allein illustrierten, sondern kommentierten und interpretierten - das gilt insbesondere auch für die späteren Auftragsarbeiten für Yves Saint Laurent oder Blumarine. Konkrete Anlässe und Hintergründe der ausgestellten Photographien waren gesellschaftliche Ereignisse wie die Weltausstellung 1967 in Montreal oder vermeintlich private Coctailparties. Selten ist es der Alltag, der in seinen Bildern einen Raum bekommt, meist sind es übersteigerte Situationen, besondere Momente, die von Newton für die Bilder erst erschaffen wurden. Für die neue Ausstellung sind redaktionelle Aufnahmen zusammengestellt worden, die allein in den jeweiligen Magazinen veröffentlicht wurden, ansonsten aber ungezeigt blieben, mit Mode von Courrèges, Dior, Lanvin, Cardin, Yves Saint Laurent, Ricci, Roger Vivier, Marc de Carita, Mary Quant und anderen. Sie erstrecken sich über die gesamte Wechselausstellungsfläche der Helmut Newton Stiftung; es beginnt 1964 mit den Modebildern der revolutionären Courrèges-Entwürfe und endet ein Jahrzehnt später mit ringenden Frauen, die Newton für das Magazin Nova photographierte. Die hier gezeigte Selbstverteidigung ist eine radikale wie konsequente Form weiblicher Selbstverwirklichung dieser Zeit. Doch Newton wäre nicht Newton, hätte er diese Kämpfe seiner Protagonistinnen in der Inszenierung nicht erotisch aufgeladen. Als er später zur französischen Vogue zurückkehrte, hatte Francine Crescent beim Magazin die Verantwortung für Mode und Bild übernommen; ironischerweise veröffentlichte sie dort 1970 als eine der ersten Bildstrecken Newtons Photos der seinerzeit aktuellen Entwürfe von Courrèges. So schloss sich der Kreis. In den letzten Jahren hat sich Modephotographie von den Zeitschriften emanzipiert und zu einer Art Leitmedium entwickelt. Zahlreiche Museumsausstellungen haben diesen Siegeszug begleitet, der Kunst- und Auktionsmarkt katapultiert Abzüge vieler Modephotographen der klassischen Periode und der zeitgenössischen Bildproduktion in ungeahnte Höhen. Das war in den 1960er und 1970er Jahren noch gänzlich anders, als Irving Penn, Richard Avedon, William Klein oder Helmut Newton für das ZeitschriftenEditorial gearbeitet haben. Einige ihrer Bilder sind heute geradezu ikonisch geworden, und einiger dieser Ikonen sind in der Ausstellung „Helmut Newton: Fired“ zu sehen. Matthias Harder English version on page 91 Nella pagina a sinistra: Helmut Newton, “Nova”, 1971: In questa pagina: “Marie Claire”, 1973. Per tutte le immagini © Helmut Newton Estate / Helmut Newton Foundation at the Museum of Photography - Berlin HELMUT NEWTON FOUNDATION PRESENTS Sbaiz Un ritratto di Tom Ford e, nella pagina accanto, sopra una panoramica del negozio e sotto da sinistra Walter Sbaiz, Simona e Antonio della “Maison Tom Ford” fashion, art, design Nel segno dell’innovazione e della qualità, Sbaiz Spazio Moda di Lignano Sabbiadoro, divenuto vero e proprio punto di riferimento per un pubblico internazionale, si conferma precorritore del gusto e delle mode. Proponendo un nuovo modo di ‘vedere’ oltre la semplice vetrina, e di vestire oltre ai dettami della moda, il negozio Sbaiz si è distinto come un insolito e raffinato laboratorio di idee e pensieri, dove moda, arte e design alimentano le proprie proposte giocando sul tasto della sensibilità e delle emozioni. Quelle dei creatori di moda e di tutti coloro che la moda la vestono. Puntando l’attenzione sull’incontro e sulla relazione fra la creatività dello stilista, la sapienza sartoriale e le caratterialità espressive del cliente, sabato 14 marzo 2009 Sbaiz ha dedicato una giornataevento alla linea Tom Ford (Tailor Made), l’ultimo marchio scelto da Sbaiz Spazio Moda che, a partire da questa primavera, verrà proposto in una delle sedici vetrine in cui si alternano le grandi firme del panorama della moda internazionale: Balenciaga, Gucci, Dior, Dolce & Gabbana, John Galliano, Lanvin, Martin Margela, Rick Owens, Yohji Yamamoto, Issey Miyake, Commes des Garçon, accanto alle nuove proposte dei migliori stilisti emergenti, come Undercover, Kiminori Morishita, Share Spirit e DNA 79. Nato ad Austin in Texas ,TOM FORD, dopo aver operato come stilista alla Maison Gucci a Milano, di cui poi è diventato responsabile di tutte le linee, e aver ricoperto la carica di direttore creativo della Yves Saint Laurent, nel 2005 Tom Ford ha creato l’omonimo marchio con l’apertura mirata di negozi a gestione diretta a New York, Londra, Los Angeles e Milano. A partire dalla primavera del 2009 l’intera linea Tom Ford - che abbraccia un’ampia gamma di abbigliamento prêt-à-porter e sartoriale, dallo smoking alle camice alle cravatte, dalla maglieria ai soprabiti, dagli accessori alle calzature alla valigeria - sarà distribuita presso Il negozio Sbaiz di Lignano Sabbiadoro si conferma precorritore delle mode, punto di riferimento internazionale e vetrina di tendenza: recentemente ha dedicato una giornata evento alla linea “TOM FORD”, in vendita da SBAIZ SPAZIO MODA da questa stagione un selezionato gruppo di rivenditori del lusso, tra i quali Sbaiz Spazio Moda. Caratterizzato da uno stile discreto ed elegante, che ha vestito anche l’ultimo James Bond nel film interpretato da Daniel Craig, Tom Ford Menswear ha saputo unire il fashion della ricerca stilistica alla preziosa artigianalità sartoriale della tradizione inglese e italiana, rilanciata impiegando la secolare maestria dei nostri artigiani. L’esclusività di questo evento - che offre la possibilità di entrare nel raffinato universo dello stile Tom Ford direttamente dalla progettualità personalizzata - apre un nuovo capitolo, dedicato al menswear di lusso, nella già lunga e preziosa storia di Sbaiz Spazio Moda. Nei suoi 700 mq d’esposizione, ristrutturati nel 1988 dall’architetto Claudio Nardi, che ne ha ridisegnato l’immagine improntandola a un concetto minimalista fatto di grandi spazi aperti, di giochi tra luci e ombre, ricercatezza dei materiali e preziosa naturalità, Sbaiz mette in scena la commistione fra l’identità di due luoghi, la boutique e la galleria, fra moda e arte. Risale al 1988 la fondazione dell’attività di Sbaiz Spazio Arte, di cui lo scorso anno si è celebrato il ventennale sottolineando quell’intreccio fra arte e moda che, animato dallo spirito di ricerca e sperimentazione, ha affiancato nel duplice Spazio di Sbaiz abiti, accessori, oggetti di design, fotografie, dipinti, sculture e video, sempre nella convinzione che tanto la moda quanto l’arte nascono da sensibilità ed emozioni che chiedono di essere trasmessi e accolti. È proprio questo rapporto diretto fra chi la moda la crea e chi la veste, che si eleva così a filo conduttore della giornata dedicata a Tom Ford o, meglio, dedicata al raffinato pubblico di Sbaiz dallo staff della Maison che, con i suoi cinquanta punti vendita al mondo e i dieci punti vendita in Italia, viene rappresentato da Sbaiz in esclusiva per il Triveneto. 65 design magazine Jean Marie Massaud, “Missed Tree”, 2007 prod. Serralunga Collection Biella S 68 E L E C T I O N S S Il video di Beniamino Catena per il brano “Radio Conga” (Universal Music Italia, 2008) fa vedere i Negrita suonare sul tetto di un palazzo. Intanto, di sotto, il popolo dei Negrita si presta ad entrare all’HELL DORADO dove si svolgerà il party. Il tam-tam dei fans anzichè effettuarsi con internet è messo in scena con la radio ts 522 Brionvega che passa di mano in mano Ronan e Erwan Bouroullec, “Clouds”, 2002, prod. Cappellini S.p.A. Opera selezionata dal corpus dei lavori presenti alla mostra “Interieur/Esterieur: Living Spaces in the Arts”. Courtesy Kunstmuseum Wolfsburg E E L L E E C C T T I I O O N N S S Cardi Black Box, pianta della nuova galleria aperta da Nicolò Cardi che si avvale della direzione artistica di Sarah Cosulich Canarutto. Dopo la prima inaugurazione con l’artista iraniana Shirana Shahbazi dal 15.04 al 20.05 va in scena la personale di Michal Helfman. Milano, Corso di Porta Nuova 38 (mar-sab 10-19) – tel. +39/02/4547189, e-mail: [email protected] - www.cardiblackbox.com Il nuovo Alessi Shop disegnato da Martí Guixé sulla rive gauche parigina si colloca su Boulevard Raspail, a due minuti dalla fermata Metrò Rue du Bac e dall’asse commerciale di Boulevard St-Germain. Per maggiori info: [email protected] E E L L E E C C T T I I O O N N S S La Lounge dei Cedri con il grande camino aperto è il cuore dell’Hotel Steigenberger Terme Merano, affascinante struttura progettata dal celebre architetto e designer Matteo Thun (ph di Marco Bolisc), Thermenplatz 1, Merano – tel. +39/0473/259000, fax +39/0473/259099, e-mail: [email protected] - www.meran.steigenberger.it Araki Nobuyoshi interpreta Bisazza nella nuova campagna 2009 (a.d. Marco Braga). Il coinvolgimento di una figura come quella del Maestro della fotografia d’autore non può che confermare il profondo interesse da parte dell’azienda verso quelle espressioni artistiche d’avanguardia che, oltre ad esprimere la filosofia dell’industria veneta, anticipano sempre nuove tendenze E E L L E E C C T T I I O O N N 76 77 Ernesto Gismondi, Presidente di Artemide Hiše è un periodico edito da Zavod Big ed esce sei volte all’anno più un numero speciale. La rivista, molto seguita in Slovenia, si occupa di architettura, arredamento e design. La redazione ha sede in Dunajska cesta 22, Lubiana. Per informazioni: www.revijahise.com S S E E L L E E C C T T I I O O N N 78 79 Allo stabilimento industriale e al museo della BMW è stata recentemente affiancata la grandiosa opera architettonica dello studio viennese Coop Himmelblau chiamata Mondo BMW (www.bmw-welt.com) Wallpaper Design Award 2009 per la categoria “Best new public building”. Courtesy BMW – München I grandi designer che lavorano per RIVA 1920 hanno saputo interpretare la filosofia che sta alla base del produrre dell’azienda di Cantù: funzionalità ed estetica delle forme senza mai dimenticare l’importanza di uno spazio domestico sano, sicuro e sostenibile. Da sin verso dx e dall’alto in basso: Terry Dwan, Paola Navone, Riccardo Arbizzoni, Mario Botta, Aldo Cibic, Michele De Lucchi, Tom Kelley, Jake Phipps, Renzo e matteo Piano, Pininfarina, Marc Sadler, Matteo Thun S S E E L L E E C C T T I I O O N N Il lavoro esposto prende spunto dall’idea di File come opera d’arte, elemento contenete tutti i parametri della proprietà intellettuale dell’artista Molteplicità dell’opera digitale nei lavori di Marco Valente Il File sequenza di numeri, come opera d’arte, elemento contenete tutti i parametri che definiscono, delimitano, determinano raccolgono la proprietà intellettuale dell’artista che ha generato l’opera tridimensionale. Dopo aver creato il file l’artista stabilisce i possibili multipli, che si manifestano attraverso i diversi vincoli tecnologici e funzionali che l’opera assume entrando nel mondo reale. Il flusso di dati che costituiscono il file intraprende percorsi realizzativi diversi, che attraverso l’aggiunta di informazioni specifiche di successivi software e sistemi di produzione, daranno vita a artefatti con funzionalità e scopi diversificati in relazione al percorso intrapreso. Tina Cotič ➊ ➌ Ricerca di nuovi design realizzati da Marco Valente, presentati attraverso una forma unica con differenti uscite: Ph. Daniel Novakovič 1 tela cm 100 X 300; 2 gioiello in sinterizzazione di polveri di titanio con differenti coloriture; 3 tavolino basso in poliuretano fresato a controllo numerico e resinato; 4 architettura; 5 registrazione del brevetto di Disegno/modello comunitario. Descrizione del brevetto di Disegno/Modello Elemento tondeggiante di forma allungata con nervature laterali e sezione variabile. L’elemento può essere prodotto sia pieno, con un materiale interno ed uno esterno, sia semplicemente come carrozzeria esterna per un interno vuoto che funge da contenitore. ➋ ➍ Modalità di utilizzo Seduta Contenitore Elemento decorativo per interni o esterni Edificio Involucro per tecnologia elettronica Apparecchio illuminante ➎ Stol Kraške strukture je ena od oblikovnih rešitev, ki jih je Tina Cotič zasnovala na osnovi razmišljanj o odnosih med njenim življenjskim prostorom, interpretacijami tega prostora v delih umetnikov, ki mu pripadajo in ne nazadnje tudi pomeni, ki jih nosi stol kot družbeni objekt. V teh odnosih se odkrivajo forme, preko katerih sublimirajo družbene vsebine in duh prostora – genius loci. Kraške strukture je tudi naslov grafike tržaškega modernističnega umetnika, Lojzeta Spacala. Njegovo delo se predvsem osredotoča na interpretacije značilnosti Krasa in obmorskih krajev v okolici Trsta. Umetnik je v njem razvil značilen in nezamenljiv slog do te mere, da so njegova dela postala sinonim za prostor, ki ga je upodabljal. Tudi Tina Cotič je navezana na ta prostor in čuti izjemno bližino do Spacalovih interpretacij. Dela starih mojstrov od vedno vplivajo na delovanje in mišljenje novih generacij. Pri tem gre včasih za neposredno ponavljanje zamisli zaradi razumevanja postopkov in pristopov, kakor pri treningu, a večinoma se umetniki delom svojih predhodnikov posvetijo, da bi interpretirali formalni ali konceptualni prijem. Tovrstna aktualizacija preteklosti ni zgolj obujanje spomina v posamičnih poetikah, temveč reartikulacija duhovnih sledi v spominu. Pri stolu Kraške strukture gre za zmes rustikalne estetike izvornega modela v grafiki, ki ga oblikovalka deloma dobesedno citira in racionalnih ostrih linij ter gladkih površin. Kras, predvsem Kras preteklosti, ki mu je pripadal in ga je upodabljal Lojze Spacal, je bil surova in groba pokrajina, ki je svojim prebivalcem ponujala komaj kaj več kot golo preživetje in tako kot to askezo začutimo v delih starega mojstra, jo vsebuje tudi minimalistični pristop Cotičeve pri oblikovanju sedalnega objekta. Urbani način življenja je sicer zgladil grobo obdelane teksture robov in površin iz preteklosti, toda strogost linij še vedno v občutju spominja na neizprosno pokrajino. In kakor je ta pokrajina omehčana z blagim mediteranskim podnebjem, tako strukture letnic in grč uporabljenega hrastovega lesa subtilno rahljajo togo napetost monokromnih površin. Posebej zanimiv detajl stola je hrbtni naslon, ki v nenavadni pripovednosti spominja na lesene plotove, kakršne je bilo še pred nekaj leti moč srečati v vrzelih kraških kamnitih zidov. Toda v tem občutju ne gre le za vizualno-estetko doživetje stola, ki hoče odločno kazati na svoj izvor v Spacalovi grafiki iz leta 1972. Skupaj z formami, ki jih srečamo na njej, je avtorica prevzela tudi mitološke in in etnološke vsebine, ki se kažejo v ornamentu in barvni simboliki. Ob tem srečanju z uporabo hrastovega lesa pa se enostavno moramo spomniti, da so v Benetkah pri gradnji svoj čas za temelje uporabljali ravno kraško hrastovino. Stole smo navajeni srečevati v povezavi z uporabo in le redko pristanemo, če sploh kdaj, na njihov zgolj estetski učinek. Če si ob fotografijah poskušamo zamisliti, kako bi bilo sedeti na tako oblikovanem stolu, takoj postane jasno, da avtorici ni bil namen ustvariti udoben pohištveni element. Takoj postane jasno, da njegova funkcionalnost ni namenjena »delu, počitku in užitku«, kakor se je izrazil o funkcijah stola Janez Suhadolc, temveč ima predvsem estetsko in simbolno funkcijo. V njegovih formah so zakodirane zgodbe duhovnih prostranstev, mitov in vsakdanjega življenja na Krasu in kdor si stol le od daleč ogleda, tega nagovarja s kiparsko govorico, tiste pa, ki bi si drznili na njem sedeti, bi postavil na vzvišen položaj, kakor to naredi vsak prestol. (English version on page 91) Vasja Nagy 81 MUSEUMS MUSEUMS A cura di / by Riccardo Coretti Munich la diversa Vivere la città La diversità di Monaco rispetto al resto delle metropoli tedesche è la chiave di lettura di questa città da poco più di 1 milione e 300mila abitanti, di cui quasi un quarto stranieri. La birra, il carnevale monacense e il tradizionale mercato delle vettovaglie non bastano più a descriverla nella sua bellezza particolare, fatta di grandi spazi verdi, qualità di vita e una dinamismo culturale multiforme. Oggi per capire Monaco, accanto ai musei, alle quasi 300 chiese e agli spazi espositivi, è necessario visitare altre icone della vita cittadina. Si può iniziare dal Bmw Museum (Olympiapark 2 www.bmw-museum.de) nell’affascinante e spettacolare involucro che ricorda una tazza argentea. Nell’ottobre del 2007 è stata inaugurata, di fronte al museo, la grandiosa opera architettonica Mondo Bmw (www.bmw-welt. com), su progetto dello studio viennese Coop Himmelblau. Si può proseguire con l’Allianz Arena (Werner Heisenberg Allee, 25; +49.0.89.2005-0; [email protected] con visite guidate tutti i giorni), costruita in meno di tre anni su disegni degli architetti Herzog & de Meuron e inaugurata nel maggio del 2005. Espressione più classica della cultura è invece la Galerie f5,6 in Ludwigstrasse, 7 (+49.0.89 28675167; [email protected]): imbarazzo della scelta tra vecchi maestri della fotografia e giovani artisti contemporanei. Vivere Monaco di Baviera al di là dei luoghi comuni è più semplice di quanto possa sembrare. Prima, naturalmente, bisogna arrivarci e l’Air Dolomiti (www.aridolomiti.it) è la compagnia che collega in maniera capillare tutto il centro nord dell’Italia con lo scalo bavarese. Tanto da aver dato vita a Spazio Italia, un’area di 120 metri quadrati situata tra i dodici gate riservati alle compagnie del gruppo Lufthansa Regional e dedicata all’italianità in tutte le sue declinazioni. Un progetto nato dalla collaborazione con Munich Airport International ed Eurotrade per reinterpretare i momenti di transito in aeroporto: un vero e proprio “salone d’attesa interattivo”. Per dormire si consiglia, in mezzo all’ampia offerta disponibile, Motel One MünchenCity-Ost in Orleansstrasse 87 (+49.0.89.59976490; [email protected]) con singole da 59 euro e doppie da 74: notevoli la One Lounge, una lobby, sala colazioni e bar con libero accesso W-Lan e i servizi che comprendono aria condizionata, W-Lan e tv a schermo piatto con lettore Dvd integrato. (www.motel-one. com). Irrinunciabile lo shopping perchè nel centro di Monaco si trovano innumerevoli negozi, boutique e grandi magazzini. Le vie che meritano attenzione sono la lussuosa Maximilianstrasse, l’elegante Theatinerstrasse, la Kaufingerstrasse nella lunga zona pedonale e la caratteristica Sendlingerstrasse con i suoi caffè. Una segnalazione merita il quartiere Glockenbach. Non è solo il quartiere di ritrovo di gay e lesbo, ma anche uno dei luoghi più particolari per lo shopping, mentre il quartiere di Schwabing ha ancora oggi il fascino di secoli fa, quando a ritrovarsi qui erano intellettuali, artisti e scrittori. Dietro le facciate dei palazzi in Kaiserstrasse, Ainmillerstrasse e Franz-Joseph-Strasse si trovano boutique, negozi di usato, innumerevoli librerie e gioellerie. Ancora una segnalazione: Oberpollinger con i suoi oltre 100 anni di storia. È difficile immaginare Monaco senza Oberpollinger. Dopo una completa ristrutturazione interna, il department store si estende per oltre 40mila su cinque piani in Neuhauser Strasse,18 (+49.0.89.290230). MONACO DI BAVIERA - Il regno di arte applicata e design Die Neue Sammlung Il più grande museo di design industriale oggi esistente, oltre 70mila pezzi suddivisi tra le varie collezioni: da più di ottant’anni la Neue Sammlung segna le tappe della storia del design internazionale attraverso i suoi acquisti e le sue illuminanti esposizioni. La filosofia e la politica del museo vogliono l’apertura alla sperimentazione e la dedizione verso la presenza del design di innovazione e della qualità creativa. Per questi motivi, fin dalla fondazione, la struttura museale ha conservato il meglio del secolo scorso e di parte di quello nuovo. I cosiddetti “articoli di uso quotidiano” in metallo, ceramica, vetro, ma anche mobili, tradizione artigianale, pezzi unici e piccole serie. Disegno industriale e arti applicate trovano qui a Monaco al 40 di Barer Strasse la loro massima espressione. Il termine “Neu” (nuovo) ben rappresenta l’obiettivo e il programma “avanguardista” del museo. Fin dall’inizio, la raccolta è stata concentrata sul moderno e la stessa idea che sottende alla creazione del centro espositivo è strettamente legata agli ideali e alla fondazione del Werkbund tedesco, a Monaco di Baviera nel 1907. Da quel momento in poi ha avuto inizio la creazione di una “moderna collezione di oggetti esemplari” definendo così il nucleo della Neue Sammlung, risalente al 1912. Il “democratic design” di Ikea A sin. dall’alto in basso: Monopteros (ph. Christl Reiter, courtesy Ente del Turismo della città di Monaco di Baviera); visione notturna di Allianz Arena (ph. B. Ducke); uno scorcio della Galerie f5,6; una sala del Museo Bmw. Al centro della pag. in alto, esterno della Pinakothek der Moderne (ph. Haydar Koyupinar); qui sopra l’annaffiatoio di Monika Mulder “Ikea PS Vallö”, prod. IKEA, 2001; a dx, il “Paternoster “della Neue Sammlung (ph.Tom Vack). Nella pagina accanto, a dx, dall’alto in basso: decollo di un vettore della compagnia Air Dolomiti – Partner Lufthansa; lounge del Motel One München City-Ost; lo ChampagnerBar del centro commerciale di lusso Oberpollinger (courtesy KaDeWe) 82 “La forma estetica è lì per tutti. E non solo per il museo!”. Questa citazione dal catalogo Ikea 1979 sintetizza la strategia di design dell’azienda svedese, che dal 1948 è passata da one-man-business a più grande negozio di mobili nel mondo, definendo il concetto di “design democratico” come nessun altro. Die Neue Sammlung - l’International Design Museum di Monaco è ora il primo museo a dedicare una grande mostra a questo tema. Fino al 12 luglio in collaborazione con Ikea alla Neue Sammlung -Pinakothek der Moderne. Orario di apertura: da martedì a domenica 10 – 18, martedì 10 – 20. Info-Tel +49.0.89.272725-0 Considerata la necessità di seguire i metodi della produzione industriale, l’accento è stato posto sull’acquisizione di oggetti “moderni” della vita di tutti i giorni con un design originale. Ciò ha segnato una consapevole rottura con la prassi seguita dalla maggior parte dei musei delle arti e dei mestieri. Ma già nel 1913 i problemi erano gli stessi di oggi: la mancanza di spazio a disposizione. Nel 1925 la Neue Sammlung viene ospitata in un’ala del Bayerisches Nationalmuseum e quattro anni più tardi le vengono dedicati 2800 metri quadrati in Prinzregentenstrasse. Il regime nazista riduce la collezione ai minimi termini e, dopo essere rimasta chiusa tra il 1940 e il 1946, nel 1947 la Neue Sammlung diventa indipendente come “Museum für angewandte Kunst di Monaco di Baviera” (Museo delle Arti Applicate di Monaco di Baviera), mentre diversi piani per la realizzazione di nuovi locali vengono elaborati e rapidamente accantonati negli anni ‘60. Tra il 1980 e il 2005 il numero di oggetti nella collezione permanente del museo si triplica: il design industriale continua a costituire il punto focale affiancato dai vari settori delle arti applicate, della grafica e della fotografia. Negli ultimi vent’anni appaiono nuovi campi di interesse spaziando tra informatica e computer, attrezzature sportive, sistemi di sviluppo e design automobilistico. Nel frattempo, la costante richiesta di spazi adeguati per le esposizioni porta alla decisione, nel 1990, di predisporre due nuovi edifici: il Neues Museum di Norimberga (aperto nell’aprile del 2000) - e la Pinakothek der Moderne di Monaco di Baviera (aperta nel settembre 2002). Alla Pinakothek der Moderne è stato possibile realizzare, per la prima volta, un’installazione permanente per illustrare al grande pubblico molti aspetti della storia e dello sviluppo del design nel XX e XXI secolo: “Umanizzazione della società attraverso il design” così uno dei direttori ha descritto l’obiettivo della Neue Sammlung, fondata per rincorrere una visione. 83 REPRINt Tratto da / taken from: Juliet n. 12, 1983, p. 31 Tratto da / taken from: Juliet n. 14, 1984, p. 15 INTERVISTA A MICHELE DE LUCCHI INTERVISTA A FRANCO RAGGI considerato come qualche cosa di applicato sulla forma, come una patina. Ora succede invece molto spesso che sia proprio il colore a prevalere sulla forma e a dettare delle soluzioni figurali. Credo che il concetto di colore sia stato totalmente trasformato dall’arrivo della televisione a colori e cioè con la nascita di nuove gamme cromatiche e col fatto che questi colori non vengono più trasmessi in maniera amorfa, Michele De Lucchi è uno dei più giovani e originali designer italiani. Ha 34 anni e vive a Milano. Il suo lavoro è noto per l’estrosità delle figurazioni e l’uso fantasioso del colore. Tempo fa tu fosti alla ribalta per avere progettato degli HI-FI e degli elettrodomestici molto curiosi e decorativi. Quale fu il significato di questo esperimento? Si trattò del tentativo di REPRINt Progettista ed ex direttore della rivista Modo. Franco Raggi è stato fra gli organizzatori della Triennale di Milano dell’ ‘83. È considerato uno dei maggiori esperti italiani di problemi del design. Parliamo innanzitutto di post-moderni e neo-moderni. Chi vincerà la battaglia? Io non considero i post-moderni esistenti nel campo del design, quindi non delle Case della Triennale è un’idea nostra. Sembra ben riuscita. Come è nata questa idea? Dal punto di vista ufficiale è nata molto casualmente, anche se dal punto di vista culturale ho sempre avuto voglia di elaborare delle mostre che non parlassero di oggetti singoli, ma che parlassero invece di ambienti, di arredamento, di arti decorative, cioè di quelle arti che mettono insieme gli oggetti Lampada Oceanic, Memphis, 1981 trovare un nuovo aspetto da dare alla tecnologia. Mi sembrava infatti che l’immagine degli oggetti tecnologici nascesse troppo direttamente dalla tecnologia stessa e che subisse poche influenze da quelli che sono invece gli sviluppi culturali e di immagine più generali. Furono mai prodotti questi oggetti? No, mai. Il mercato non chiede mai delle rivoluzioni; chiede casomai delle evoluzioni di sé stesso. Gli elettrodomestici furono realizzati con una specie di sovvenzione della Girmi, la quale era curiosa di vedere che cosa potesse saltare fuori da un esperimento del genere. Gli HI-FI furono invece soltanto disegnati e pubblicati. Hai abbandonato questo tipo di ricerca? 84 84 Ho abbandonato l’idea di lavorare su questa categoria di oggetti, ma continuo a lavorare alla ricerca di nuove immagini. In poche parole non c’è più di mezzo questa componente della tecnologia e della sofisticazione tecnologica. Non pensi che il tipo di decorazione dei tuoi oggetti possa occultarne il senso costruttivo e quindi straniarli dall’utente? Non lo so. Non lo so perché il mio problema è soltanto quello di inventare una decorazione che sia nuova. Del resto sono così convinto che la decorazione sia una grande invenzione e sono talmente ancora preoccupato di capire che cosa essa sia e di come deve essere fatta, che il problema di farla diventare un fenomeno di accettazione comune l’ho ancora da affrontare. Il colore è molto importante nel tuo lavoro... Direi che il fenomeno del colore è oggi una delle componenti che contribuiscono maggiormente all’evoluzione delle immagini. Una volta il colore era Ph. Giorgio Molinari Studi per apparecchi Hi-Fi, 1981 Modello di ferro da stiro, Girmi, 1979. Courtesy Centre Georges Pompidou, Parigi ma in maniera viva. Se tu dovessi progettare un aeroplano, come ti comporteresti? Intanto mi sentirei molto emozionato, sicuramente. Poi credo che non potrei prescindere da quelli che sono i problemi tecnologici e funzionali per cui alla fine quell’aereo deve volare e deve anche farlo bene. Farei comunque di tutto per trovare quegli spazi che la tecnologia mi lascia liberi e poi li sfrutterei al massimo per sbizzarrirmi. Cioè per dirti; se fosse soltanto possibile cambiare il disegno dei coprimozzo delle ruote... disegnerei dei coprimozzo bestiali. Ma indubbiamente farei anche in modo che quelle ruote funzionino. Martino Ghermandi c’è da vincere niente. Non esistono dal momento che il design post-moderno è una sorta di parodia in piccola scala dell’architettura post-moderna, una riduzione pura e semplice di alcuni stilemi oggettuali. Mentre il neo-moderno è più complesso. È un atteggiamento progettuale che utilizza come citazione, non solo linguistica ma anche concettuale, la contemporaneità. Nei neo-moderni faccio confluire qualsiasi movimento contemporaneo, esclusi naturalmente i metodologi duri dell’ex funzionalismo. Però i post-moderni non esistono E i designers che progettano per Memphis e Alchimia? Anche loro non ritengo che siano post-moderni. Post-moderno è Portoghesi quando fa la sedia di Hoffmann. La sua matrice culturale nel disegnare gli oggetti è totalmente citazionista. Cita dall’architettura, si auto cita, non fa un lavoro di penetrazione nella psicologia del campo industriale, o del mondo contemporaneo, dell’informatica, o dei nuovi materiali, delle nuove tecnologie. Il tipo di approccio di Portoghesi al design industriale non mi dice niente di più del suo approccio all’architettura. E io credo che ci sia una differenza. Dal cucchiaio alla città è una catenella ormai spezzata, non c’è più nessuna possibilità di riconnettere questo filo rosso del sogno tra le due guerre di una cultura materiale che riesca a dar forma al mondo in tutte le sue scale. A proposito del cucchiaio e della città, soddisfatto di questa Triennale? Secondo me la Triennale non esiste ancora. Posso essere soddisfatto di quello che ho fatto io con Francesco Trabucco, perché la mostra in infiniti modi possibili... usare le tre dimensioni di una stanza come una specie di tavolozza. A me piaceva fare queste cose qui: la Triennale, da quando è nata, ha sempre fatto delle proposte di tipo ambientale e quindi abbiamo ripreso questa tendenza, proprio in contrapposizione a queste mostre un po’ retoriche sulla qualità dell’oggetto, che secondo me lasciano il tempo che trovano perché tutti gli oggetti che vengono esposti cambiano solo per il fatto che sono messi lì. Sono come dei ready-made. Rifiuto questo rapporto museografico con le forme della cultura materiale. Martino Ghermandi 85 SPRAY Nella foto grande: Alessandro e Francesco Mendini, Groningen Museum - Olanda, 1994. Nelle foto piccole da sin verso dx: Alessandro Mendini, dinosauro, scultura in mosaico Bisazza, Dinosauur Museum, Katsuyama Fukui - Giappone, 2000; abaco delle Poltrone di Proust, 1994; “Anna G.”, cavatappi, prod. Alessi, 1994 SPRAY Un’importante riflessione “antologica” - che da molti anni mancava in Italia - sulla carriera del maestro italiano dell’architettura e del design, Alessandro Mendini (1931), che ha colto e sostenuto i valori della contemporaneità: trasversalità, versatilità, capacità di ascolto, dinamicità, e apertura alle temperature variabili del mondo. La mostra “Alessandro Mendini” - dal 9 aprile al 6 settembre 2009 - a Roma, al Museo dell’Ara Pacis intende proprio colmare questa lacuna. La mostra è promossa dal Comune di Roma, Assessorato alle Politiche Culturali e della Comunicazione, Sovraintendenza ai Beni Culturali e Zètema Progetto Cultura, a cura di Beppe Finessi, allestimento di Marco Ferreri, progetto grafico di Italo Lupi, catalogo edito da Corraini. Grazie alla presenza armoniosa di disegni, progetti, fotografie, modelli, schizzi febbrili e coinvolgenti, riflessioni puntuali e oggetti veri e propri, quella che si apre al Museo dell’Ara Pacis è una mostra colta e solare, letteraria e comprensibile, adatta a un pubblico ampio, sia di addetti ai lavori sia di semplici curiosi e appassionati. Saranno circa 200 le produzioni di Alessandro Mendini esposte e prestate alla mostra da 19 prestigiose aziende italiane (Alessi, Baleri Italia, Bisazza, Byblos Casa – Errestudio, Cassina, Cleto Munari, Corsi Design, De Padova, Glas Italia, Alchimia, Mamoli Rubinetterie, Olivari, Segno, Slamp, Superego, Swatch, Venini, Zanotta e Zerodisegno,) oltre all’Atelier Mendini, a 8 prestatori privati, alla Fondazione Boschi Di Stefano, al Museo Alessi e alla Collezione Permanente Triennale di Milano - Design Museum che mette a disposizione circa 300 disegni originali. Se Walter Gropius individuava con una celebre affermazione il campo di attività dell’architetto “dal cucchiaio alla città”, nel caso di Alessandro Mendini il motto diventa “Dall’infinito all’infinitesimo”, vista la capacità di operare con successo in tutte le diverse scale di progetto, da quella più piccola a quella più estesa. Seguendo questa traccia, le sezioni della mostra approfondiscono le tematiche che caratterizzano la carriera di Mendini: dal “progettare orizzonti” (le tante architetture pubbliche e gli interventi a scala territoriale) al “progettare stanze” (i mobili e gli ambienti interni), dal “progettare corpi” (gioielli e orologi, vestiti e borse, ma anche performance e azioni “teatrali”) al “progettare pensieri” (attraverso la sua fervida attività teorica e critica, anche come direttore di riviste - dalla “Casabella” radicale degli anni Settanta alla “Domus” postmoderna degli anni Ottanta, dalla nuova teoria espressa con “Modo” alla rimessa in discussione dello stesso strumento/rivista con “Ollo” - e poi di direttore artistico per alcune importanti aziende, come Swatch e Alessi). Uno spazio introduttivo ospita un racconto biografico con opere e fotografie d’epoca, per presentare la vita e l’opera del maestro attraverso i momenti più significativi e le opere maggiormente caratteristiche. Il nucleo centrale dello spazio espositivo, la “cripta” sotto l’Ara, conterrà la sezione teorica “progettare pensieri”, con alcuni scritti emblematici esposti e riprodotti, alcune “mappe mentali” e alcuni grafici/organigrammi ingranditi (articolatissimi e cristallini al contempo) che diventeranno texture parietali, mentre i tanti numeri delle riviste “storiche” del design da lui dirette verranno esposti per intero (tutte le copertine) e in parte saranno consultabili. Intorno a questo nucleo centrale si snoderanno, articolandosi e congiungendosi, le altre tre “sezioni” di progetto. 86 z In occasione dell’8 marzo, nell’anno europeo dedicato alla creatività e all’innovazione, la Provincia di Trieste e la Casa Internazionale delle Donne hanno promosso il programma di iniziative “Primavera di donne” volto a mettere in luce la cultura e le buone pratiche delle donne quali fattori di innovazione politica, sociale e culturale. Dal 6 all’8 marzo, nel Parco di San Giovanni (TS), allestito festosamente con innumerevoli sagome femminili disposte lungo tutti i percorsi per segnalare gli eventi, hanno avuto luogo le tavole rotonde sull’arte, l’imprenditoria, la scienza ed il design. Quest’ultima è stata arricchita dalla suggestiva mostra “Intrecci creativi: innovazione/tradizione” curata e allestita dagli architetti Beatrice Mascellani e Chiara Lamonarca, che per l’occasione hanno curato insieme anche l’allestimento del parco. Nella luminosa cornice delle Sale Villas sono state così esposte diverse opere di progettiste, artiste e artigiane di Trieste, della regione e slovene con l’intento di sviluppare un dialogo-confronto tra arredi appartenenti alla cultura del fare tradizionale ed oggetti di arte e design legati alla cultura concettuale. La figura simbolo dell’evento, Anita Pittoni -imprenditrice triestina la cui opera artistica, letteraria e di animatrice del dibattito politico e culturale è paradigmatica per la rappresentazione della creatività e dell’innovazione- era presente in mostra, oltre che con un prezioso arazzo, anche con la mostra a lei dedicata “L’officina editoriale e culturale di Anita Pittoni”. L’evento ha offerto, inoltre, diversi laboratori creativi per i bambini, in collaborazione con Mini-Mu, con sartoria Lister e con Sissa Medialab mentre le serate hanno riservato un reading di Elsa Fonda, il concerto di musica classica “Frauenlieder und...” e la rappresentazione teatrale “Amiche per la pelle” di Laila Wadia. z Sino alla fine di aprile lo Studio Bradaschia s.r.l. dell’arch. Maurizio Bradaschia espone i suoi progetti, realizzati e non, alla galleria di architettura Sanmichele11 in Via San Michele n. 11/b a Trieste. La mostra è stata presentata dal prof. Luigi Prestinenza Puglisi docente di Storia dell’Architettura Contemporanea all’Università La Sapienza di Roma. Puglisi ha definito Bradaschia un architetto ‘Porsche’; quindi raffinato, culturalmente sofisticato, attento all’innovazione tecnologica ma anche legato alla tradizione consolidata. Bradaschia mette in mostra quattro progetti di cui due realizzati: una piazzetta a Monte Asi in provincia di Taranto ed il progetto per la ristrutturazione dell’autosalone Audi-VW-Porsche in Via Flavia a Trieste e due in corso di realizzazione: due ville a Trebiciano nel carso triestino e la sistemazione complessiva dell’area Broletto 2A per Trieste Trasporti. Infine fa un escursus dell’attività dello studio degli ultimi otto anni. Una sezione speciale della mostra è dedicata alla rivista trimestrale di architettura arte contemporanea e design “Il Progetto” di cui Bradaschia è direttore dal 1997 e che sino a oggi annovera ben 30 numeri. La mostra evidenza la professionalità che Bradaschia ha rapidamente acquisito lavorando da solo o con piccoli gruppi su tutto il territorio nazionale. I progetti sono evidenti nella loro completezza formale, nella loro ricerca metodologica e nel dialogo a volte teso che si pongono rispetto al contesto. Si può parlare certamente di uno studio affermato per capacità ed esperienza che sicuramente rimane uno dei punti di riferimento del nostro territorio euroregionale e siccome non si avvertono segnali di discontinuità è presumibile che le cose continueranno anche nel prossimo futuro. Sanmichele11 con la mostra di Maurizio Bradaschia segna il suo 10° appuntamento con l’affezionato pubblico di architetti, studenti e amanti del settore, appuntamento che coincide pure con il 2° anno di attività. Ad oggi Sanmichele11 tiene salda la posizione di luogo d’incontro e confronto sui temi dell’architettura e din- torni dell’Euroregione-Triveneto-SloveniaCarinzia-Istria. z Dall’Egitto è in arrivo una nuova idea di design per raccontare il percorso evolutivo di una nazione, che pur convivendo con un importante passato, intende fare emergere una nuova identità del design egiziano. L’Egyptian Furniture Export Council presenta al Salone Internazionale del Mobile (Hall 9 / Stand H06-08 Milano) KIME Nascita di un’Identità del Design Egiziano: un’ampia ricognizione delle nuove tendenze di ricerca, allestita in uno spazio di 300 metri quadrati, per esporre 20 importanti aziende egiziane con i prototipi ideati da 7 designer sia egiziani sia di provenienza internazionale - Lita Albuquerque, Daniel Dendra, Harry & Camila, Karim Mekhtigian, Tarek Naga, Shinichiro Ogata, Frans Schrofer –. L’industria manifatturiera egiziana si è molto impegnata, negli ultimi anni, a creare diverse iniziative per contribuire alla costruzione di una sua identità specifica all’interno del mercato internazionale, soprattutto grazie alla tecnologia innovativa e alla volontà di lavorare con designer di fama mondiale. Quest’anno, con il primo Design + Industry Workshop, 20 aziende partecipano con il loro know-how a presentare i prodotti realizzati per l’evento. KYME, progettato da Karim Mekhtigian, espone sette diversi approcci al design egiziano, testimoniando i diversi aspetti del paese così come la ricchezza delle sue risorse e potenzialità manifatturiere. La stessa denominazione dell’evento KYME evidenzia la complessità e la ricchezza del patrimonio culturale nel quale operano i designer: ”Kyme” è l’antico nome dell’Egitto e significa “Terre nere” con riferimento alla valle e al delta del fiume Nilo, rese fertili dalle annuali inondazioni che arricchivano il suolo con il limo. “Kyme” è anche la radice della parola araba “Al-kymia” (chimica) ovvero la ricerca della trasformazione attraverso divisione ed unità degli elementi, contrazione ed espansione della materia, che corrisponde anche allo stato delle terre egiziane sottoposte periodicamente alle piene del fiume che le distruggevano per poi ricrearle sotto nuova forma. “Ispirati dal caos che ci circonda – affermano i designer - comprendiamo che c’è una molteplicità nel background multistrato egiziano. La pressione creata da questa sovrapposizione di culture crea una energia dinamica, alimentata dalle sinergie che sussistono tra le sue componenti. Il primo Design+Industry Workshop dello scorso novembre al Cairo ci ha dato la possibilità di canalizzare le nostre energie per costruire i pilastri della nuova identità del nostro design, facendoci capire che in ogni caos manifesto c’è un’unità nascosta.” Sebbene, infatti, ciascuno dei designer abbia trattato il tema in modo personale, risultava evidente l’esistenza di chiari legami tra i prodotti: ancora un volta, questo è il segno di come esista una unità in questo apparente caos. I sette partecipanti al workshop sono stati divisi in categorie che potessero rappresentare gli aspetti dell’Egitto a loro più affini e che hanno prodotto una collezione ispirata alla morfologia, alla natura e alla cultura locale di questo paese, oltre che al suo passato, presente e futuro. Oltre al lavoro con le diverse aziende, i designer hanno lavorato anche con un gruppo di giovani creativi egiziani i quali sono stati il loro gruppo di lavoro per lo sviluppo dei progetti. KYME nasce dal primo “Design+Industry Workshop” nel 2008, promosso dall’ Egyptian Furniture Export Council e finanziato dall’Industrial Modernization Centre; l’organizzazione dell’evento è stato frutto di una collaborazione tra il Centro Ricerche dell’Istituto Europeo del Design di Milano con Rhimal Design del Cairo ed Expolink. z La Galleria Post Design (Via della Moscova, 2 - Milano) presenta in concomitanza con il Salone del Mobile un’ultima visione in nero, un’ultima rifulgente collezione disegnata da Raffaello Biagetti che oltrepassa l’abitare nascondendosi in un interno ulteriore – il Mostrillo ignaro non può fare altro che osservare. Lamiere crude è una collezione di mobili e oggetti in cuoio e ferro in grado di aprire uno scenario domestico del tutto particolare, sfiorando temi dell’arte per ricondurci ad una dimensione più funzionale dell’oggetto dove il fascino della materia ha un ruolo decisamente importante. Questi arredi suggeriscono una dimensione teatrale dell’abitare e ci conquistano attraverso dettagli e particolari che svelano un’abilità insolita, forse più vicina al fare dello scultore che a quello del designer, ma sicuramente in grado di rivelare una modalità espressiva inedita e ricca di piacevoli e delicati riferimenti. Raffaello Biagetti è un personaggio eclettico e visionario, nato a Firenze nel 1940 e scomparso a Ravenna nel 2008. Lavora come pittore a Santarcangelo di Romagna dove inizia la sua ricerca figurativa dedicandosi alla pittura fino al 1975. Nel 1968 la famiglia lo incarica di dirigere il negozio di mobili a Ravenna dove si trasferisce definitivamente e disegna la prima collezione di oggetti “Sine Loco”. A questa prima esperienza da seguito, nel 1973 con la produzione di “Terrae” lampade ed oggetti in terracotta apparentemente poveri, fino ad arrivare alle ideazioni più recenti con le collezioni “Ferro e Fuoco” (1989) e Mostrilli (1998). Biagetti negli anni ottanta fonda il Museo dell’Arredo Contemporaneo di Ravenna, progetto museale da lui ideato e realizzato con l’aiuto di Filippo Alison, Giovanni Klaus Koenig, Giuseppe Chigiotti ed Ettore Sottsass, che ha progettato la Galleria principale e l’ingresso, realizzando un mosaico di 45 mq. Dopo alcuni anni Biagetti definirà il progetto del Museo come “una installazione utopica, romantica, seducente, ironica, drammatica…”. Post Design è lo showroom di Memphis ed espone in maniera continuativa i mobili e gli oggetti della storica collezione Memphis Milano. Pensata da Alberto Bianchi Albrici insieme ad Ettore Sottsass , che oltre ad averne disegnato il marchio ha contribuito al lancio con importanti collezioni come “Lo Specchio di Saffo” e “Mobili Lunghi”. Affermatasi in breve tempo come la galleria di riferimento per il design internazionale, ha ospitato numerose mostre e coinvolto alcuni tra i più importanti autori del panorama internazionale come J.Grawunder, P.Charpin, Denis Santachiara, Nathalie Du Pasquier, George J.Sowden, Karim Rashid, Markus Benesch, Ron Arad e Nanda Vigo. z La “Guerra fredda”, la cortina di ferro, le tensioni tra la “alleanza atlantica” e i paesi del blocco sovietico, oggi sembrano episodi lontani, ma in realtà hanno accompagnato la storia del ‘900, dal dopoguerra agli anni Settanta, e soprattutto hanno ispirato e animato le manifestazioni della creazione artistica.“La Guerra Fredda - Cold War. Arte e design in un mondo diviso 1945 – 1970”, prodotta dal Mart e dal Victoria & Albert Museum di Londra, è la prima importante esposizione che ricostruisce il clima di un periodo cruciale per la società, la politica e la cultura mondiale, attraverso lo sguardo delle arti, dal design all’architettura, dal cinema alle arti visive. Esposti oltre 250 oggetti, tra cui un’importante selezione di opere provenienti dalla Collezione Permanente del Mart: dallo Sputnik alla tuta da austronauta delle missioni “Apollo”, dai film di Stanley Kubrick ai dipinti di Robert Rauschenberg, dalle ceramiche di Pablo Picasso ai vestiti di Paco Rabanne. La mostra presenta oggetti affascinanti come i mobili in fibra di vetro di Charles e Ray Eames, o il radioricevitore mondiale T1000 della Braun, disegnato da Dieter Rams. Si potranno inoltre ammirare i bozzetti architettonici di Le Corbusier, di Richard Buckminster Fuller e di Archigram, e le nuove forme di trasporto del dopoguerra, come la P70 Coupé (un precursore della Trabant di pla- stica), la micro-auto Kabinenroller della Messerschmitt e la Vespa. La mostra approfondirà gli aspetti del periodo della Guerra fredda che hanno influito sulle arti, mentre imperversavano le divisioni tra comunismo e capitalismo, tra due diverse concezioni di “modernità”, comprensive di mosse politiche e militari, spionaggi, conquista dello spazio. Concentrandosi sugli anni dal 1945 al 1970, la mostra raccoglierà oggetti e opere artistiche provenienti dai due blocchi del “mondo diviso”: Stati Uniti, Unione Sovietica, Regno Unito, Cuba, Germania Ovest e Germania Est, Italia, Polonia, Francia e Cecoslovacchia. “Cold War” prende avvio dai programmi di ricostruzione intrapresi dopo la seconda guerra mondiale dai paesi appartenenti ai due blocchi, guidati dagli Stati Uniti e dall’Unione Sovietica. La “Guerra fredda” inizia da qui: è una guerra di nervi per la supremazia mondiale, combattuta per oltre trent’anni anche a colpi di innovazioni scientifiche, dalla corsa agli armamenti ai programmi di edilizia sociale. I nuovi prodotti e le tecnologie industriali del mondo occidentale sono così messi a confronto con l’arte e l’architettura del realismo socialista. L’esposizione si soffermerà, ad esempio, sulle due visioni architettoniche rivali che si fronteggiavano a Berlino: nella parte est la monumentale ‘Stalinallee’ e, nel settore ovest, i programmi edilizi di ‘Interbau’ che coinvolsero grandi protagonisti dell’architettura moderna, come Le Corbusier e Walter Gropius. La mostra Guerra Fredda - Cold War vuole mettere in evidenza come il desiderio di modernità sia entrato anche nell’ambiente domestico, a partire dal celebre dibattito tra Nixon e Krusciov che si tenne nel 1959 alla Mostra Nazionale Statunitense a Mosca, incentrato sulla funzione dello spazio della cucina all’interno della casa. Ma in quegli anni, l’immaginario collettivo era ossessionato dal pensiero di un’incombente guerra reale. La minaccia nucleare, e il modo in cui era vissuta, sarà rappresentato nella mostra attraverso la grafica, l’arte, il cinema e i grandi progetti utopici come la cupola geodesica sopra Manhattan pensata nel 1962 da Buckminster Fuller. Una sezione è dedicata alla corsa per la conquista dello spazio e ai trionfi dell’alta tecnologia, come la prima missione spaziale di Yuri Gagarin a bordo della capsula Vostock. Saranno in mostra i progetti di Raymond Loewy per gli interni delle navette spaziali NASA, oltre agli esempi di tute sperimentali, ma anche mobili, architetture, arte e moda ispirati al mondo della fantascienza. Era anche una “guerra” in cui le grandi realizzazioni edilizie facevano la loro parte nell’affermare una supremazia tecnica: ed ecco allora scendere in campo l’architettura, soprattutto con la gara in altezza: da una parte la Post Office Tower di Londra e dall’altra la Torre Ostankino a Mosca. Sono questi anche gli anni in cui i giovani vogliono far sentire la loro voce. In mostra troveremo manifesti, poster propagandistici e i film che hanno contribuito a plasmare l’immaginario collettivo, come Goldfinger, Ipcress, Dottor Stranamore e 2001 Odissea nello spazio, oltre alle scenografie originali di Kenneth Adam. Le fotografie documentano il disagio delle nuove generazioni: le grandi manifestazioni di protesta contro la guerra del Vietnam, il ‘68 a Parigi e la primavera di Praga. Nell’ultima sezione la mostra presenta alcuni progetti sviluppati grazie alla ricerca tecnologica promossa per l’industria bellica. Studi di architetti quali Superstudio e Archigram crearono infatti prototipi come ambienti gonfiabili, mobili e oggetti di consumo rivolti provocatoriamente ad una nuova società tecnocratica. La mostra si conclude con le prime fotografie della terra scattate dallo spazio, fonte di ispirazione per gli artisti e i creatori di visioni utopiche, che documentano il nascere di una nuova sensibilità ambientale nei confronti della fragilità del nostro pianeta. Questa interessante proposta espositiva potrà essere visitata al MartRovereto sino al 26 luglio 2009. 87 I TRE PORCELLINI AUTORE: Steven Guarnaccia EDITORE: Maurizio Corraini PAGINE: 36 PREZZO: 16 euro C’erano una volta tre piccoli porcellini che vivevano in una grande casa nel bosco... La favola dei “3 porcellini” è ambientata da Steven Guarnaccia fra le case di grandi architetti del Novecento. Frank Gehry, Le Corbusier e Frank Lloyd Wright sono infatti tra i principali protagonisti di questa favola contemporanea, insieme ad altri famosi personaggi del mondo dell’architettura, nelle loro case di rottami, di vetro e di calce e mattoni. Nei propri rinomati edifici e circondati da oggetti disegnati da alcuni fra i più rappresentativi architetti e designer di tutto il mondo, ricevono un giorno la visita del lupo cattivo... Come per “Riccioli d’oro e i tre orsi”, Steven Guarnaccia reinterpreta un classico delle favole attraverso gli occhi dell’architetto e del designer, realizzando illustrazioni a a tecnica mista dal tratto preciso e dai colori nitidi e armonici. Nei risguardi del libro, inoltre, si trova un utile repertorio degli oggetti d’autore che compaiono nel corso della storia, da ritrovare e riconoscere fra le pagine. ...e vissero per sempre pasciuti e contenti. Illustratore e designer, Steven Guarnaccia vive e lavora a New York. Le sue tavole sono pubblicate su numerose riviste e quotidiani, fra cui il New York Times, di cui è stato per tre anni art director della pagina delle opinioni. Collaboratore del MoMA e di numerose aziende nel campo del design industriale, ha disegnato diversi modelli di gioielli, orologi (Swatch) e murales (Disney Cruise). Ha pubblicato numerose raccolte illustrate di palindromi, libri per ragazzi e libri pop-up. È stato a lungo collaboratore di Abitare e pubblica libri per le Edizioni Corraini. Ora è responsabile del Dipartimento di Illustrazione alla Parsons The New School for Design. UN SEDICESIMO 9 AUTORE: Giulio Iacchetti EDITORE: Corraini Edizioni ILLUSTRAZIONI: Maurizio Prina PREZZO: 5 euro “Un Sedicesimo” - numero 9, marzo-aprile 2009, direttore responsabile Federico Maggioni, www.unsedicesimo.com Un Sedicesimo prosegue con il numero 9, disegnato da Giulio Iacchetti. Guerra e pace: nelle pagine di questo Sedicesimo troverete delle immagini di soldatini (tutti uguali, ordinatissimi e monocolore) contrapposti ad una serie di sagome di un ipotetico corteo della pace: ragazzi con gli striscioni, famiglie, 88 A cura di / by Maurizio Corraini - www.corraini.com suore e monaci buddisti… tutti diversi, colorati, disordinati… Si ritagliano le figure lungo i bordi e poi si piega la linguetta posta in prossimità dei piedi. A bambini e adulti la libertà di scegliere se comporre un esercito o una festosa manifestazione a favore della pace, o magari entrambi, ciò che conta è insinuare la possibilità di una scelta, instillare un dubbio… provocare una riflessione. Nel pieno spirito della collezione di varietà e della personale molteplicità di Un Sedicesimo, un progetto che affronta la diversità in totale autonomia, dal punto di vista personale del designer, senza commenti, senza analisi e senza dibattiti. Gli autori del Sedicesimo sono artisti, grafici, illustratori, studenti, scrittori, sarti e cuochi di interesse internazionale. Dopo i numeri di Steven Guarnaccia, Daniel Eatock, Esther Lee, Italo Lupi, Paul Cox, Francesco Dondina, Federico Maggioni, Protey Temen, Steven Heller + Louise Fili, Martí Guixé, Rosa Linke e Frank Chimero, ecco il numero disegnato da Giulio Iacchetti. Inoltre, sono in arrivo in progetti di Studio Dumbar, Antonio Marras, Leonardo Sonnoli, Matteo Bologna, Gianluigi Colin, Massimo Pitis, Moreno Gentili... Ogni numero di Un Sedicesimo può essere acquistato singolarmente, ma c’è anche la possibilità di abbonarsi! Più informazioni su www.unsedicesimo.com Per chi si abbona oggi a Un Sedicesimo, tutti i numeri del primo anno sono disponibili al prezzo di 24,00 Euro. Un Sedicesimo è pubblicato in collaborazione con Grafiche SiZ, Campagnola (Vr) - www.siz.it Giulio Iacchetti si occupa di industrial design dal 1992. All’attività di progettista alterna l’insegnamento presso numerose università e scuole di design, in Italia e all’estero. Ha curato progetti per diverse aziende, tra le quali Bialetti, Coop, Ferrero, Martini, Guzzini, Mandarina Duck, Sambonet, Pandora Design, Thonet Vienna. Ha ricevuto numerosi premi internazionali, tra cui il Compasso d’Oro nel 2001 con Matteo Ragni per la posata multiuso biodegradabile Moscardino, oggi parte dell’esposizione permanente del design al MoMA di New York. Per Corraini ha curato il libro Italianità, una raccolta di interventi relativi agli oggetti, ai simboli, agli odori, ai sapori e ai suoni che esprimono un italico senso di appartenenza. Zètema Progetto Cultura, è in programma presso il Museo dell’Ara Pacis di Roma dal 9 aprile al 6 settembre 2009. La mostra è a cura di Beppe Finessi, con progetto di allestimento di Marco Ferreri e grafica di Italo Lupi. BREATH THE (VERTICAL WORKS) AUTORE: Anthony McCall EDITORE: Maurizio Corraini PAGINE: 96 PREZZO: 33 euro MENDINI AUTORI: Beppe Finessi e Alessandro Mendini EDITORE: Maurizio Corraini PAGINE: 384 PREZZO: 35 euro Alessandro Mendini (Milano, 1931) è uno dei pochi protagonisti della scena internazionale di architettura, arte e design capace di progettare in tutte le scale dimensionali possibili. Walter Gropius individuava con una celebre affermazione il campo di attività dell’architetto “dal cucchiaio alla città”: Mendini si è confrontato nel corso della propria attività con progetti “dall’infinitesimo all’infinito”. Il volume dedicato ad Alessandro Mendini pubblicato dalle Edizioni Corraini è un flusso ininterrotto di immagini e occasioni all’interno delle opere e della filosofia progettuale del celebre architetto milanese. Progettare orizzonti, stanze, corpi e pensieri sono i quattro momenti di un percorso personale e suggestivo attraverso l’opera di Mendini: dall’arredo urbano alla decorazione d’interni, dagli oggetti e accessori progettati per il corpo all’attività di teorico dell’architettura e del design, Mendini è protagonista di un approccio personale ed estetizzante alla progettazione, che si distingue per la dimensione organica, emozionale e individuale della propria ricerca, che privilegia suggestioni psicologiche, materiche e sensoriali rispetto a un design e un’architettura più “razionali”. Non a caso,“poesia visiva”,“progettazione fiabesca e barocca”,“dilatazione labirintica degli spazi e delle sensazioni”sono solo alcune delle definizioni associate nel tempo alla sua multiforme produzione. Nel volume, le immagini sono accompagnate da testi di Beppe Finessi (architetto, professore presso la Facoltà di Design e la Prima Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano) e di Alessandro Mendini stesso, in cui l’architetto si racconta a partire dalla propria esperienza di progetto. Conclude il libro una sintetica biografia e bibliografia su Mendini e la sua opera. Il bookdesign è curato da Italo Lupi (già art-director di Domus e direttore di Abitare, vincitore del Compasso d’Oro e Royal Designer di Londra): le piccole domensioni, la copertina rivestita in tela e la grafica nitida e brillante ne fanno una sorta di suggestivo e prezioso “breviario” e compendio dell’opera di Mendini. La mostra “Alessandro Mendini dall’infinitesimo all’infinito”, promossa dal Comune di Roma, Assessorato alle Politiche Culturali e della Comunicazione, Sovraintendenza ai Beni Culturali e In un ambiente oscurato e riempito di foschia, le proiezioni di Anthony McCall generano l’illusione delle tre dimensioni attraverso figure astratte che gradualmente si espandono, si contraggono e accarezzano lo spazio come pareti architettoniche effimere: membrane di solida luce provenienti dall’alto creano infatti spazi immateriali, visibili soltanto grazie ai movimenti della foschia. Le opere di Anthony McCall si muovono fra i linguaggi di scultura e cinema. Scultura perché le forme occupano uno spazio tridimensionale e come tali possono essere fruite solo aggirandole o attraversandole; cinema perché le forme e gli spazi sono costituiti da luce proiettata, che lentamente cambia la propria forma con lo scorrere del tempo. Il volume “Breath [the vertical works]” analizza le opere dell’artista inglese a partire dalle loro particolarità estetiche, seguendole all’interno del percorso creativo dell’autore. Il testo critico di Hal Foster, ricco di rimandi al pensiero filosofico e al contesto storicoartistico del Novecento, contribuisce a situare i lavori di Anthony McCall nel vasto panorama della ricerca artistica contemporanea. La mostra di Anthony McCall “Breath [the vertical works]”, a cura di Serena Cattaneo Adorno, è in programma presso Hangar Bicocca dal 20 marzo al 21 giugno 2009. Nato nel Regno Unito nel 1946, Anthony McCall vive e lavora a New York dal 1973. Fra i più rappresentativi artisti del cinema avantgarde londinese degli anni ‘70, è reso celebre per i suoi “Solid Light Films”, una serie di installazioni scultoree realizzate a partire dal 1973. Ha esposto in numerosi musei e gallerie di tutto il mondo, fra cui il Museum Moderner Kunst di Vienna (2003-04), la Tate Britain di Londra (2004), il Museu d’Art Contemporani di Barcellona (2005), il Kunsthaus di Zurigo (2006), l’Hamburger Bahnhof di Berlino (2006-07), il Museum of Modern Art di New York (2008). Settimio Benedusi, “Deserto”, 1987, cm 30x22.6, stampa su carta Kodak Ektalure BOOKS 89 ENGLISH tEXt AN IDEA IS WORTH MORE THAN A FACTORY by Mario Moretti Polegato, President GEOX Many of you already know my story. My family has been engaged in viticulture from three generations and at the beginning I just worked in the family business. Then one day I had an idea. I was in Reno, Nevada, for a meeting on wine, and I was feeling uneasy for the overheating of my feet caused by the shoes with rubber soles I was wearing. So, by instinct, I cut holes in both the soles with a knife. In this way I found a simple and efficient solution to let the excess heat come out. Later on I developed my intuition in the laboratories of a small shoe company owned by my family, setting up a new technology for the rubber soles. I immediately made a patent and thus created the first “breathing” shoe. After presenting, without any success, my invention to well-established shoes companies and after passing market tests with a line of children shoes, in 1995 I began producing shoes with the trademark Geox by my own, at industrial level. In the last 13 years Geox has grown dramatically becoming the first company in Italy and the second in the world in the production of footwear for the casual lifestyle sector. This story of mine can, though, be repeated for many of you. What is important is to manage our own ideas and this is possible, first of all, through patents. I am sure that many of you have been inventors too, may be without realizing this. Sometimes just a little is enough to improve already existing products, but very often we do not realize we have made something which could be protected as intellectual property. Another very important thing, when we have a good idea but not all the competences to realize it, is to get support from university research centres. Since its foundation Geox has developed so much that it is now mentioned between the 500 best companies in the world. The Italian style, especially when we deal with footwear, is recognized and appreciated everywhere, but in reality, what made Geox a leading company in Italy and third in the world in the casual lifestyle sector, is mainly the technological component. Often we are asked whether Geox is a “made in Italy” trademark. In the case of Geox, we made an initial choice of investing in research, innovation and people, managing the production in outsourcing. Outsourcing means get our own products manufactured, under strict control, by an external factory, which can be located either in Italy or abroad. For what the manpower is concerned, it is however true that we could not have found in Italy factories big enough to produce 21 million pair of shoes, as we did in 2007. In general, manpower in Italy is surely more expensive that in other parts of the world, and the Italian product “made in Italy” can compete in a global scenario, but should be better protected. The present laws do not make this point clear and do not allow designating which products can use the brand “made in Italy”. Geox is a “made in technology” and on this point we have always been clear with our consumers. Being Italian lies in ideas, in style and in the development of projects. Today Geox produces footwear and clothing in 28 countries and sells them in 68. Our objective is now replicating in other European countries the same model that allowed us reaching the leadership in Italy and the results will be remarkable. What we will look into in the next two 90 years represent the new challenge for Geox: to become leader in the markets where we are practically absent, like USA, UK, Russia, China and Japan. In these markets Geox has just arrived and there is still lot to do, but the credibility of the trademark and the positive response that so far we have obtained from our million of consumers give us confidence and encourage us to invest more and more. The common factor of our development will be as usual technology, which represents for us an essential element. We produce an international collection every six months, to which we add a local one for each single market. I can though declare that it is not enough to offer an excellent product to make your company grow. What is important is to adopt a proper business model. In the small and medium Italian companies the role of father-boss is still in force. A structure defined by Americans as “Mama’s and Papa’s operation”. Not overcoming the first generation, regardless from the sector, is the typical problem of companies where there is a father-boss who detains control and power of decision. It is not that a child has to join necessarily the family business. One should be left free to follow his own path but be ready to receive him when he is convinced of the father’s project. Today in order to grow it is necessary to have the most diverse competences and it is unthinkable that the same person be expert in finance, economy, communication and product and at the same time speak five or six languages, as this is what the market requires. The only path one can take is the one Geox has taken right from the beginning which is “manage by manager”. Structure and power, in Geox, are not at all centralized. Of course, when there are important decisions to be taken I am always present, but such decisions are taken with a group of competent managers to whom we have entrusted the main company areas. The key to success is therefore this and it would be impossible to implement it without proper training. If specific areas and responsibilities are not given to more than a person, each expert in a specific field, there will always be a big limit to the growth of the entire organization. Another important point is investing in “Research & Development”. Every year we invest about 3% of the turnover in research and development of new products. In our headquarters in Montebelluna 680 people work and 75% of them has a degree. It is not a typical shoe factory but a cultural factory, where all these young people between 30 and 35 years of age work in research, style, finance and communication with new continuous and explosive ideas. Fifteen engineers are concentrated in studying exclusively the movement of heat in human body and this is giving birth to new concept products. The third fundamental element is that of human resources, to be valued and placed at the centre of the company growth through training and acknowledgement of their work. The last element indispensable for the development of an organization is communication: if I am sure to have an excellent product in hands and I do not communicate, it is like standing in front of a mirror and repeating to myself how good I am. Communication must be essential but ENGLISH tEXt effective. If we analyse the publicity of Geox, taking as example the image of the shoe with the steam puff, we realize that its strength is exactly in communicating the distinctive element. Someone criticizes in terms of elegance, but these critics simply do not understand what our objective was: communicate our diversity compared to the rest of all. I would like to spend some other words on human resources. Geox plays its best cards on persons and on their training. Our Human Resources division does not worry much in finding managers, or better, individuals who are already managers, but rather in finding persons who can potentially become managers. We are real talent scouts who in every corner of the world find the most suitable person for a specific task. Once this important resource has been found, we place it in a continuous training process in order to mature within the company. Human capital is worth as much as the company itself and in the case of Geox maybe even more. The added value of our management is in the team spirit and in the will to follow a common objective, equal to personal fulfilment. Today we are like a big team and persons represent the most important asset. Persons are our principal resource that, as such, should be enhanced in each field: from one side there are training and refresher courses, on the other hand we have set up a proper service net. We go from agreements with gyms, shops and restaurants, to the most recent set up of a Children Centre “Mondo Piccino”, with a crèche and a kindergarten attended for free by our staff’s children. Our pride lies in the Geox School, an internal school with four different types of company masters for managers, top manager, technicians and new graduates. The aim is transfering the mission and the company objectives in capable persons. The courses have different duration and structure according to the target they aim to. Those for new graduates, for example, last from four to six months and are held by internal and external teachers in the morning lessons and by a personal tutor for the “on the job” training in the afternoons, in order to create an efficient continuation between theory and practise. There is a saying I always keep with me and drop wherever I happen to speak which says “an idea is worth more than a factory”. MEMPHIS BLUES Galleria Carla Sozzani corso Como 10 – 20154 Milano www.galleriacarlasozzani.org curator Barbara Radice set design Michele De Lucchi graphic work Cristoph Radl music Micaela Sessa On the occasion of the exhibition, the publisher Electa reprints in 1000 copies the book “Memphis, research, experiences, results, failures and successes of new design” by Barbara Radice and “Memphis, the new international style”. The exhibition is possible thanks to the contribute of Abet Print, Martine Bedin, Alberto Bianchi Albrici, Memphis, Nathalie Du Pasquier, Carlotta ed Ernesto Gismondi, The Gallery Mourmans, George Sowden, Matteo Thun. After twenty-eight years from the historical exhibition and twenty-nine from the beginning of the group, Mrs. Carla Sozzani shows in her gallery pieces and documents of the “last design movement of this century”, defined in this way by Mrs. Sozzani speaking of the origin of this exhibition. “There are no marketing research, no strategy behind me, my decisions are almost always instinctive…of course I am bored by continuous repetitions and all of us dream a group movement, an ideal to pursue and share…how boring are these stars of a nothing star-system”. “Memphis” Mrs. Sozzani says “is reliable, it has a really strong mark and gives sensory density, humour, sense of game…I’m bored also by minimal…” For Mrs. Sozzani her gallery is a passion and the story of Memphis a real story that can be communicated with pleasure without any plans or commercial adventure. Memphis is a good story of the human comedy as perhaps Sottsass would have defined it. The name Memphis The name Memphis must have come up on the evening of December 11 at Sottsass’s house. There was a Bob Dylan record on “Stuck inside of mobile with the Memphis Blues Again” and since nobody bothered to change the record, Bob Dylan went on howling “the Memphis Blues again” until Sottsass said “ok, let’s call it Memphis” and everybody thought it was a great name: Blues, Tennessee, rock’n’roll, American suburbs, and then Egypt, the Pharaohs’ capital, the holy city of the god Ptah. According to Michele De Lucchi’s notebook, Ettore (Sottsass), Barbara (Radice), Marco (Zanini), Aldo (Cibic), Matteo (Thun), Michele (De Lucchi) and Martine (Bedin) were there that evening. Except for me they were all architects (Bedin about to get her degree) and all but Sottsass were under thirty. The first drawings of New Design furniture were gone over on Monday 9th February 1981 and that evening George Sowden and Nathalie Du Pasquier were also present. There were more than a hundred drawings and in the end everybody was drunk, but for the first time sure that Memphis would exist. Barbara Radice, Memphis, research, experiences, results, failures and successes of new design, Electa, 1984 Memphis pieces Memphis pieces are conceived as uncoordinated units for any destination. They are isolated objects that assume the existence of houses where décor is décor and never monumentalized into architecture; where it does not set up irremovable blocks, coordinated corners and fixed situations but is instead removable and polyvalent. Memphis furniture is designed for specific purposes but many of these pieces can be also used for other purposes. Due to this transformist quality, which is also figurative, and because they tend by their nature to corrupt any stylistic unit, they are expected to be used indifferently in any interior, whatever its style may be… From Memphis, the New International Style, Electa, 1981 Sottsass in 1981 “By dint of walking among the areas of the uncertain (due to a certain mistrust) by dint of conversing with metaphor and utopia (to understand something more) and by keeping out of the way (certainly due to an innate calmness), we now find we have gained some experience; we have become good explorers. Maybe we can navigate wide, dangerous rivers and advance into jungles where no one has ever set foot. Now at last we can go ahead with a light tread. The worst is over. We can sit down without too much danger and let even poisonous snakes or obscure spiders crawl over us; we can avoid mosquitos, too, and eat crocodile meat with the greatest of ease; which doesn’t mean excluding chocolate and cream and crepes-suzettes à la Grand Marnier. We can do - nearly anything because, dear friends, as we were saying, we are old and skilled navigators on wide open seas. The fact is that we aren’t afraid anymore, I mean, to represent or not represent things or persons, be they élite or derelict , traditions or boorish. Our fear of the past is gone, and so is our still more aggressive fear of the future.” From Memphis, the New International Style, Electa, 1981 VIA MALCANTON A demolition in the first 20 years of the 20th century, aimed at creating a new road, brought to light the remains of the Roman theatre. The house of our project stands right here, developed on the last three levels of a building with a double front and part of the diagonal block on the edges of the old Jewish ghetto. Anonymous but potentially interesting spaces, where the owners wanted to create a place with air and light as the natural background to every day living. The vertical component of the staircase becomes the unifying axis of the house, an empty space with a strong character, where the walls/ bookshelves give back a domestic feel, linking the different levels in a spatial and chromatic continuity: from the entrance on the lower floor to the sitting-room/study, on two levels, conquering the spaces of the loft and opening onto a terrace on the roof. The oak of the floors and the chestnut of the coverings break up the whiteness of walls and ceilings, marked by the slanting of natural and artificial light. The free colours of the books, of the pictures, and of some furnishings are clashing and contrasting, while the service area coverings have the shades of the material. HELMUT NEWTON: FIRED Following the great success of the exhibit “A Gun for Hire” at the Helmut Newton Foundation in 2005, which put Helmut Newton’s fashion images from the last two decades in the spotlight, the current exhibit “Helmut Newton: Fired” takes a look at his fashion photography from the 1960s and 1970s. Nearly 200 editorial images are on display. “In 1964 I was commissioned by Queen magazine to photograph the revolutionary collection by Courrèges. The fashion editor, Claire Rendlesham, decided on a journalistic scoop showing only my Courrèges photos and excluding all other fashion houses from her Paris report. When Queen landed on the desk of Françoise de Langlade (then associate editor-in-chief of French Vogue) she hit the roof. I was called into her office, we had a tremendous row, she accused me of treachery and disloyalty and wanted to know why I had not told her about this scoop. I pointed out to her that I had no exclusive contract with Vogue, and it was of course understood that I would never divulge any ideas developed by French Vogue to Queen or vice versa. So I was kicked out of the hallowed halls of Vogue only to return in 1969 when Francine Crescent was appointed editor-in-chief. During Francine’s regime, I did what I considered my best fashion work. I was to be a regular contributor until 1983.” Helmut Newton, from: Pages from the Glossies, Zurich: Scalo, 1998 Helmut Newton worked for numerous other international magazines in addition to Vogue and that he also worked directly with designers and fashion houses. The photographs for Courrèges that were published in 1964 in the fashion magazine Queen (and were the reason why Newton was fired from Vogue) brilliantly translated the ultra-modern designs of the French designer into the photographic image. The women’s trousers, the above-the-knee dresses and the spectacular space-age fashion in particular were revolutionary. The image of women and their position in society were in the midst of radical change. Newton shot the models without accessories in claustrophobic, narrow spaces, whose metal walls reflected and doubled both clothes and women. After Newton was fired from Vogue, Claude Brouet, who was Editor-in-Chief of Elle, offered him work at her magazine. Five years later, Newton also captured Elle’s models within the confines of a mirrored room; this time, however, the photographer himself appeared with his small-format camera behind the women. Dressed in black, his presence provided more than a mere tonal contrast to the light-colored Cardin and Lanvin clothing adorning the models. With a sense of self-irony and media reflexivity about his medium that was unusual for the times, Newton slipped himself behind the work process and into the fashion image, and on occasion even put his own camera into the hands of the models. Two years later in 1971, he developed the so-called “Newton Photo Machine,” a delayed-action release contraption, with which the female models systematically photographed themselves (and their clothes) in front of a mirror—thereby checking their own poses against their reflection. These photographs were also published in Elle, and in 2007 they could be seen at the Helmut Newton Foundation. Helmut Newton staged fashion in the streets, in public spaces or, as he said, “in life,” more often than in the studio. He placed women on a metaphorical pedestal, which in contrast to earlier fashion photography, no longer consisted of gallantry, but rather of female self-confidence. Newton’s women posed seductively and aloof, standing on the engine hoods of American sedans, in front of huge Marlon Brando posters or mysteriously illuminated at dusk before lonesome buildings. His black and white prints remind us of scenes from Hitchcock films, while his color photographs could pass for precursors to the later movies of David Lynch. Newton portrays women as active and attractive, assertive and erotic creatures, who seem to dominate the scenery—as well as the men who appear in the occasional motif. The studio atmospheres that we also encounter in many of the pictures have either the neutral, flat backgrounds of the classical studio cove or are complicated, theatrical architectures. Their character remains recognizable, as Newton always gives us a peek behind the scenes at the picture’s edge. Monochromatic backdrops keep to the bare minimum, while more pictorial settings playfully contextualize or interpret the fashion models. Newton rejected the excessive décor of earlier decades, even for his Chanel pictures; the settings always evoke a sense of visionary timeliness. Televisions are used in some of the fashion photos, creating an interesting interaction between the female model on the TV screen and the gawking male observer, thus conveying both the unattainability as well as the ephemerality of the mediated subject. The women in Newton’s pictures appear separately or in a group, at times with alluring elegance, or playful anarchy. In the early 1970s, Newton shot a series for the magazine Nova with aggressive “naughty girls” throwing chairs and hand grenades, or donned with smiling masks and holding diamond-studded knuckle busters into the camera. The images were disturbing and provocative—also a subtle comment on the demonstrations and street agitation in Europe’s cities at the time and the radicalization of bourgeois youth into terrorist rings. Newton’s fascination for strong women reached its zenith in the 1980s with the famous series of the largerthan-life “Big Nudes.” As the photographer explained once, the series was inspired by life-sized identity photos of RAF terrorists he had seen hanging in German police precincts. Helmut Newton’s creative potential was already present in his fashion work of the 1960s, and as we know today, there was room to grow. The ingenious images he produced time and again did more than just portray fashion; they offered commentary and interpretation as well. This applies especially to his later commissions for Yves Saint Laurent and Blumarine. Specific occasions and settings that Newton used as the backdrop for some of the photographs on display were social events like the World’s Fair in 1967 in Montreal, or allegedly private cocktail parties. It is seldom the everyday which has a place in his pictures; mostly it is heightened situations, particular moments, which Newton created especially for his images. The editorial work that has been compiled for this newest exhibit has heretofore been published exclusively in magazines, showing fashion from Courrèges, Dior, Lanvin, Cardin, Yves Saint Laurent, Ricci, Roger Vivier, Marc de Carita, Mary Quant and others. The photographs fill the entire exhibition space of the Helmut Newton Foundation; beginning with the fashion photos of the revolutionary Courrèges designs of 1964 and ending a decade later with the wrestling women Newton photographed for Nova. Self-defense was seen as a radical and consequent form of female self-realization at the time. But Newton would not be Newton if he hadn’t taken staged the fights of his protagonists with an erotic twist them. When he later returned to French Vogue with Francine Crescent at the reigns, one of the first editorials she printed by Newton in 1970 were his photos of the newest Courrèges line, coming full circle. In recent years, fashion photography has liberated itself from magazines and become considered a leading medium in its own right. Numerous museum exhibits have followed this coup; the art and auction market has catapulted prints of not a few classical and contemporary fashion photographers into unforeseeable heights. That was still very different in the 1960s and 1970s, as Irving Penn, Richard Avedon, William Klein or Helmut Newton worked in magazine editorials. Some of their photographs have become iconic—and some of these icons may be seen in the exhibit: “Helmut Newton: Fired.” Matthias Harder Tina Cotič KARST STRUCTURES The Karst structure chair is one of the designing solutions conceived by Tina Cotič on the basis of her contemplations on the relationships between the living space, the interpretations of that living space in the works of the artists belonging to it and the significance of a chair as a social object. Those relationships reveal to us the forms through which social contents and the spirit of space are sublimed – genius loci. “The Karst structures” is also the title of the graphics of the modernistic artist, Lojze Spacal, from Trieste. His work is primarily concentrated on the interpretation of the specificities of Karst and the surrounding littoral places in the neighbourhood of Trieste. The artist developed a typical and unmistakeable style up to such a level that his works have become a synonym for the space he was depicting. Tina Cotič is attached to this space, too and feels an exceptional closeness to the Spacal’s interpretations. The works of ancient craftsmen have always influenced the actions and thoughts of new generations. Here, sometimes a direct repetition of ideas is involved for the sake of understanding the procedures and approaches, just like in trainings, however, artists mostly dedicate themselves to the works of their predecessors in order to interpret the formal and conceptual grip. Such actualisation of the past is not only a revoking of memory in the individual poetics, but a rearticulation of spiritual traces in the memory. In case of the Karst structure chair we can speak of a mixture of rustical aesthetics of original model in graphics which the designer partly and literally quotes as well as rational sharp lines and smooth surfaces. The Karst, in particular the ancient Karst, to which Lojze Spacal belonged and which he depicted so much, was a raw and rough countryside, which offered to its inhabitants not more than a sheer survival and as we can feel it that asceticism in the works of our ancient master, we can notice it the minimalistic approach of Ms. Cotič’s designing the seating object. While the urban way of life smoothened the roughly worked out textures of edges and surfaces from the past, the rigour of lines still reminds our feelings of the inexorable countryside. And similarly to how the countryside has been softened by the Mediterranean climate, also the structure of annual rings and knots of the used oak wood subtly soften the stiff tension of monochrome surfaces. The back of the chair represents a particularly interesting detail, as in its unusual narration reminds us of wooden fences that one can still meet in the gaps of the karst stone walls. However, those feelings do not represent only a visual and aesthetic experience of the chair which is determined to show its origins in Spacal’s graphics from 1972. Together with the forms we meet in it the author, Ms. Cotič, adopted also the mythological and ethnological contents displayed in the ornament and symbolic of colours. While meeting with the use of oak wood we have to bear in mind that once the Venetians used exactly the same oak wood from karst for the construction of their grounds for housing. We are used to linking chairs with their practical usage and we only occasionally agree (if we do at all) that they have also an aesthetic impact. If we try to imagine, while looking at the photographs, what it would feel like to sit on a chair with such a design we are immediately fully aware that the author did not intend to create a piece of furniture. It soon becomes clear that its functionality was not intended for »work, rest and pleasure« as Mr. Janez Suhadolc claimed about the functions of chairs, but that it has above all an aesthetic and symbolic function. His forms encode the stories of spiritual vastness, myths and everyday life of Karst, and everyone who takes a look at the chair only from a distance can notice its aesthetic message. And those who dared to sit on it would be placed on an elevated position as it has been done by every throne. Vasja Nagy 91 SPECIALE ABBONAMENTO Accendi la tua curiosità Con la sottoscrizione a Juliet design magazine in regalo “click-switch” “L’interruttore Switch è tra gli oggetti che io amo di più” ACHILLE CASTIGLIONI Click-switch è il famoso interruttore rompifilo disegnato nel 1968 da Achille e Pier Giacomo Castiglioni per la VLM di Buccinasco (Milano). “L’oggetto di cui sono più orgoglioso? L’interruttore rompitratta, disegnato con mio fratello. Prodotto in grande numero, è acquistato per le sue qualità formali e nessuno, nei negozi di materiale elettrico, ne conosce l’autore. È piacevole da tenere in mano, ha un bel rumore… e spesso quando entro in una camera d’albergo in giro per il mondo, e allungo la mano per cercare l’interruttore dell’abat-jour, trovo il nostro rompitratta”. Dagli studiosi è considerato il progetto più ‘ideologico’ firmato dal grande maestro del design italiano. + 3 numeri Juliet design magazine + “click-switch” a soli 45,00 euro* SOLO VANTAGGI Consegna gratuita Le spese di spedizione sono a carico dell’editore Prezzo bloccato Se il prezzo di copertina dovesse aumentare l’abbonamento non subirà modifiche Una collezione completa L’abbonamento consente di non perdere alcun numero della rivista Detrazione fiscale Per i professionisti l’importo è detraibile dalla dichiarazione dei redditi Omaggio autorevole In regalo riceverete un piccolo-grande oggetto. Il vero industrial design CONTIENE I.P. Desidero abbonarmi a 3 numeri di Juliet design magazine al prezzo di 45,00 euro (30,00 euro per studenti allegando la dichiarazione d’iscrizione all’università o alla scuola). Modalità di pagamento Poste Italiane S.p.A. – Sped. in abb. post. – 70% - DCB Trieste design magazine Accludo assegno bancario intestato a Garavello Editore (da inviare accluso alla presente scheda in busta chiusa affrancata) Allego ricevuta del bonifico bancario intestato a Garavello Editore Banca Sella, c/c bancario IBAN IT40E 03268 44500 024485132710 Bollettino di c/c postale che mi invierete Desidero fattura Cognome e nome Paolo Ferrari, Achille Castiglioni, Electa, Milano 1984, pp. 132-133; Silvia Giacomoni e Attilio Marcolli, Designer italiani, Idealibri, Milano 1988, pp. 135, 141; Enrico Arosio (a cura di), Achille Castiglioni: gli interni? Impossibile, in “Abitare”, 1993, 323, novembre, p. 130; Beppe Finessi (a cura di), Interruttore rompitratta, in “Abitare”, 1998, 375, luglio, p. 98; Paola Antonelli, Steven Guarnaccia, Achille Castiglioni, Maurizio Corraini, Mantova 2000; Sergio Polano, Achille Castiglioni. Tutte le opere 1938 - 2000, Electa, Milano 2001, p. 252; Francesca Appiani (a cura di), Design interviews. Achille Castiglioni, Museo Alessi – Maurizio Corraini 2007, p. 17,-18. 92 Ragione sociale Indirizzo Città CAP Telefono E-mail P.IVA / Codice fiscale Firma Data Spedire a: Garavello Editore Piazza del Popolo 36 – 28041 Arona (NO) Per un servizio più celere (riportando la modalità di abb. prescelta e tutti i dati anagrafici) potrà abbonarsi via vol. 1 / December 2008 - March 2009 € 15,00 E-mail: [email protected] Web site: www.julietdesignmagazine.it *Prog. abb. 2009. Offerta valida solo per l’Italia BACINO DI UtENZA AIR DOLOMITI Via Paolo Bembo, 70 37062 Dossobuono di Villafranca (VR) T +39 045 8605211 www.airdolomiti.it [email protected] Spazio Italia Terminal 2 dell’aeroporto di Monaco di Bavier www.spazioitalia.com ALESSI Via Privata Alessi, 6 28882 Crusinallo (VB) T +39 0323 868611 www.alessi.com [email protected] Alessi FlagShip Paris 31, Boulevard Raspail 75007 Paris - France [email protected] ARTEMIDE Via Bergamo, 18 20010 Pregnana Milanese (MI) T +39 02 935181 [email protected] www.artemide.com BISAZZA V.le Milano, 56 36075 Alte di Montecchio Maggiore (VI) T +39 444 707511 [email protected] www.bisazza.com BMW WELT Am Olympiapark 1 D - 80809 München T +49 89 38257262 [email protected] www.bmw-welt.com BRIONVEGA BV Srl a SIM2 Company Viale Lino Zanussi, 11 33170 Pordenone T +39 0434 383195 www.brionvega.it [email protected] CARDI BLACK BOX Corso di Porta Nuova, 38 20121 Milano T +39 02 45478189 www.cardiblackbox.com [email protected] CERRUTI LIVING MADE S.S. per Gozzano, 101 Borgomanero (NO) T +39 0322 845565 www.ceruttispa.it [email protected] CONCILIO EUROPEO DELL’ARTE S. 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Mazzocchi, 1/3 20089 Rozzano (MI) T +39 02 824721 www.edidomus.it [email protected] EGYPTIAN FORNITURE EXPORT COUNCIL 90 Road 105 (Third Floor) Maadi, Cairo, Egypt T +002 25285036 www.efecfurniture.com [email protected] FONDAZIONE UMBERTO VERONESI Piazza Velasca, 5 20122 Milano T +39 02 76018187 www.fondazioneveronesi.it [email protected] GEOX Via Feltrina Centro, 16 31044 Biadene di Montebelluna (TV) T +39 0423 2822 www.geox.com [email protected] GALLERIA CARLA SOZZANI Corso Como, 10 20154 Milano T +49 02 653531 www.galleriacarlasozzani.org [email protected] GERVASONI V.le del Lavoro, 88 – Z.I.U. 33050 Pavia di Udine (UD) T +49 0432 656611 www.gervasoni1882.com [email protected] KARTELL Via delle Industrie, 1 20082 Noviglio (MI) T +39 02 90012.1 [email protected] www.kartell.it Museo Kartell [email protected] KUNSTMUSEUM WOLFSBURG Hollerplatz 1 D – 38440 Wolfsburg T +49 5361 2669 0 [email protected] www.kunstmuseum-wolfsburg.de MANAS Via Tangenziale, 14/16 62010 Montecosaro Scalo (MC) T +39 0733 86231 [email protected] www.manas.com REVIJA HIŠE Dunajska cesta 22 1000 Ljubljana - Slovenija T +386 1 431 2222 www.revijahise.com [email protected] RIVA Via Milano, 137 22063 Cantù (CO) T +39 031 733094 [email protected] www.riva1920.it MART ROVERETO Corso Bettini, 43 38068 Rovereto (TN) T +39 0464 438887 www.mart.trento.it [email protected] SANMICHELE11 Via san Michele, 11 34121 Trieste T +39 040 634430 [email protected] www.sanmichele11.org MEMPHIS Via Olivetti, 9 20010 Pregnana Milanese (MI) T +39 02 93591202 www.memphis-milano.it [email protected] SBAIZ SPAZIO MODA Viale Venezia, 20 33054 Lignano Sabbiadoro (UD) T +39 0431 71597 [email protected] www.sbaiz.it MONTH OF DESIGN Zavod Big - Dunajska cesta 22 1000 Ljubljana - Slovenija T +386 1 431 2222 www.zavodbig.com [email protected] SERRALUNGA Via Serralunga, 9 13900 Biella T +015 2435711 [email protected] www.serralunga.com MUSEIMPRESA Via Pantano, 9 20122 Milano T +39 02 58370502 www.museimpresa.com [email protected] GOETHE-INSTITUT ROM Via Savoia, 15 00198 Roma T +39 06 84400566 www.goethe.de/ufficiostampa ufficiosatmpa@rom,goethe.org MUSEO DELL’ARA PACIS Lungotevere in Augusta (angolo via Tomacelli) 00100 Roma T +39 06 0608 www.arapacis.it [email protected] GRAPHART Zona artigianale di Dolina, 507/10 34018 San Dorligo della Valle (TS) T +39 040 8325009 www.graphart.it [email protected] MUSEO “UGO CAR À” Via Roma, 9 34015 Muggia (TS) T +39 040 3360340 ufficio.cultura@comunedimuggia. ts.it GRUPPO BANCA SELLA Via Italia, 2 13900 Biella T +39 015 35011 www.gruppobancasella.it [email protected] AZIENDA VITIVINICOLA NERVI C.so Vercelli, 117 13045 Gattinara (VC) T +39 0163 833228 [email protected] HELMUT NEWTON FOUNDATION Jebensstrasse 2 D – 10623 Berlin T +49 30 31864825 www.helmutnewton.com [email protected] PARCO DI SAN GIOVANNI Spazio Villas - Via Pastrovich, 5 20128 Trieste T +39 328 2089557 www.provincia.trieste.it ISTITUTO EUROPEO DI DESIGN - IED Via San Quintino, 39 10121 Torino T +39 011 541111 www.ied.it [email protected] POST DESIGN Via della Moscova, 27 20121 Milano T +39 02 6554731 www.memphis-milano.com [email protected] PINAKOTHEK DER MODERNE Barer Strasse 40 D – 80333 München T +49 89 2 38 05-360 www.pinakothek.de [email protected] Die Neue Sammlung www.die-neue-sammlung.de [email protected] SITINDUSTRIE Via Orlonghetto, 4 13018 Valduggia (VC) T +39 0163 4361 www.sitindustrie.com [email protected] STEIGENBERGER HOTEL THERME MERAN Piazza Terme, 1 39012 Merano T +39 0473 259000 www.meran.steigenberger.it [email protected] SUPERSTUDIO GROUP Via Tortona, 27 20144 Milano T +39 02 422501 www.superstudiogroup.com [email protected] TRIENNALE DI MILANO Viale Alemagna, 6 20121 Milano T +39 02 724341 www.triennale.it [email protected] Immaginate la vostra nuova casa Pensatela a misura dei vostri gusti, del vostro stile. Qualunque sia la vostra idea, oggi c’è qualcuno capace di dare forme a quei desideri. Sono i progettisti dello showroom Living Made Cerutti a Borgomanero, un luogo suggestivo ed accogliente dove scoprire angoli di casa da immaginare e sognare. C’è tutto quanto serve per finire e rifinire il proprio spazio abitativo. Vi perderete nel fascino di soluzioni entrando nell’area dedicata alla gamma top delle ceramiche Iris: trame, toni, decori preziosi per quel pizzico di classe in più alla vostra casa. Ma non solo. Il vostro tour nel mondo di quei sogni da toccare (e fare vostri) prosegue tra ceramiche, gres porcellanati e mosaici Sichenia, Fmg, Like, River Stone, Trend. Interessanti le proposte per rivestire, come la pietra ricostruita di Geopietra, e per gli esterni, Antoniazzi e Magnetti Living. Non manca la magia del parquet in legno. E ancora finestre e pannelli solari Velux, porte Scrigno, oltre ad uno spazio dedicato all’arredobagno con Duebi ed Ellebi. Tante soluzioni di qualità per una casa generosa di belle sensazioni. Proprio come piace a voi. VLM Via dei Lavoratori, 14 20090 Buccinasco (MI) T +39 02 488551 www.vlm.it [email protected] ZWAHLEN & MAYR Zone Industrielle 2 CH - 1860 Aigle T +41 (0) 24 4684646 [email protected] Borgomanero (NO) - S.S. per Gozzano 101 Tel. 0322 845565 - www.ceruttispa.it 96 Disegno di Lisa Ponti, 2001 JULIET design magazine PH. DONATO DI BELLO vol. 2 MENDINI CASCIANI ] xHRTHRCy036777zv!:!