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SPECIALE
SPECIALE LA
STAMPA
GIOVEDÌ 5 MARZO 2015
I
Le
vie del
cibo
1.
Un negozio alimentare di Caoulun, a Hong Kong. Il proprietario commercia in riso da 43 anni
ALEX MAJOLI / MAGNUM PHOTOS
A meno di due mesi dall’inaugurazione
solo il 23% degli italiani conosce a fondo
i temi che saranno al centro di Expo 2015.
Con questo inserto cominciamo
un viaggio insieme con i fotografi di Magnum
per farvi scoprire il pianeta cibo
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dell’import totale
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GIOVEDÌ 5 MARZO 2015
9°
II
Da Ovest verso Oriente, il
Un’intricata rete di scambi, ma il flusso principale è dall’America verso
FRANCESCO MANACORDA
L
2
a lista della spesa dell’ultimo anno è imponente,
anche se non eccezionale
rispetto a quelle del recente
passato: comprende tra l’altro
310 milioni di tonnellate di carne varia, che per dare un’idea
potrebbero trasformarsi in
3100 miliardi di hamburger da
100 grammi l’uno; poco meno
di 800 milioni di tonnellate di
latte, ossia circa 800 miliardi di
confezioni da un litro proprio
come quella che abbiamo tirato
fuori stamattina dal frigorifero;
e poi 500 milioni di tonnellate
di riso, poco meno di 500 milioni di tonnellate di grano, 165 milioni di tonnellate di pesce, quasi 300 milioni di tonnellate dell’esotica - almeno per noi - cassava...
Se tutti gli abitanti del mondo andassero a rifornirsi di cibo una sola volta l’anno, o se proviamo a correre con l’immaginazione - Madre Terra entrasse in un assai ipotetico supermercato per mettere in dispensa quanto le serve per nutrire i suoi figli nei successivi
dodici mesi, le quantità che
avrebbe segnato sul foglietto
attaccato a un immenso carrello sarebbero molto simili a
quelle appena elencate. Quantità enormi, per l’appunto - le
misura in dettaglio l’ultimo
«Food Outlook» della Fao - che
non significano evidentemente
la garanzia di un’alimentazione
sufficiente ed equilibrata per
l’intera popolazione mondiale.
I consumi nel mondo
La media del pollo di Trilussa,
quella tanto citata per la quale
se tu hai mangiato un pollo e io
nulla abbiamo mangiato mezzo
pollo a testa, diventa ancora
più realistica su scala globale.
Se ad esempio nel mondo il
consumo di carne varia è stato
lo scorso anno di circa 43 chili a
testa, basta dividere lo stesso
mondo in due aree per avere risultati completamente diversi:
75,5 chili pro-capite consumati
nei Paesi sviluppati, 33,8 chili in
quelli in via di sviluppo. Al contrario, mentre il consumo procapite della cassava o manioca
- il tubero che per molte popolazioni tropicali e subtropicali è
43
Kg di carne
a testa
è il consumo
mondiale
medio, ma
nei Paesi
sviluppati si
sale a 75,5
chili, mentre
in quelli in via
di sviluppo
mediamente
se ne mangia­
no 33,8 chili
pro capite
la principale fonte di carboidrati - è di 21,6 chili l’anno, a livello mondiale, nella sola Africa subsahariana la media sfiora i 139 chili l’anno. Non a caso
l’Expo 2015 parte anche dalla
constatazione che nel biennio
2010-2012 sono circa 870 milioni le persone denutrite, mentre
specie in Europa e in Nord
America l’obesità sta diventando uno dei maggiori problemi
di salute pubblica.
Disegnare le vie del cibo che
si intrecciano sul pianeta è un
compito arduo. Più che ad autostrade intercontinentali, le
rotte degli alimenti che approdano sulle tavole del mondo, somigliano a un fitto reticolo di
vie e stradine: spesso a senso
unico, ma talvolta anche con
doppia direzione di marcia. La
Germania, ad esempio, è il primo esportatore mondiale di latte e derivati, ma anche il secondo importatore nello stesso
settore. In Asia, la Cina è un importatore netto di riso, ma i tre
maggiori esportatori del mondo - India, Thailandia e Vietnam - stanno nelle vicinanze.
139
chili di
manioca
è il consumo
medio nel­
l’Africa sub­
sahariana,
dove questo
tubero è la
fonte princi­
pale di carbo­
idrati. La
media mon­
diale è di 21,6
chilogrammi
a testa l’anno
Da Ovest verso Est
Se una tendenza globale si può
identificare, però, è quella che
il vento delle esportazioni di alimenti nel mondo soffia prevalentemente da Ovest verso Est.
Da una parte le immense praterie e le coltivazioni del Nord
America e dell’America Latina,
con una demografia abbastanza stabile e una crescita economica - quando si guarda a Sud
del continente - debole o moderata, che non spinge quindi i
consumi interni. Dall’altra parte dell’emisfero, pronta ad accogliere prelibatezze fino a ieri
sconosciute o alimenti tradizionali che non si producono in
quantità sufficiente per un continente che cresce impetuoso,
ci sono l’Asia e il Medio Oriente.
Solo dieci anni fa la Cina era
un esportatore netto di cibo,
adesso - con una classe media
in rapidissima espansione e nonostante un rallentamento dell’economia - si è trasformata in
importatore netto. Così Stati
Uniti e Canada, ad esempio, sono rispettivamente il primo e il
terzo esportatore di grano al
mondo, mentre Egitto, Giappo-
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SPECIALE LA
STAMPA
SPECIALE
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III
FONTE:THE ATLAS OF ECONOMIC COMPLEXITY – HARVARD UNIVERSITY
HTTP://ATLAS.CID.HARVARD.EDU/
grande viaggio dei cibi nel mondo
l’Asia. Con prezzi in calo ormai da quattro anni e l’Africa che resta in grande difficoltà
ne e Indonesia rappresentano i
tre maggiori importatori. È
una tendenza, quella del viaggio del cibo da Ovest verso Est,
che vede le sue eccezioni. Il primo esportatore di carne bovina
al mondo è per l’appunto il Brasile, ma subito dopo ci sono l’India - con il suo bufalo - e l’Australia.
Fuori dal radar, in molti sensi l’Africa, che oggi importa
quasi il 90% del cibo che consuma e dove si concentrano i casi
di denutrizione o malnutrizione. Dei 55 Paesi che la Fao inserisce nella categoria «Lifdc»,
ossia quelli a basso reddito e
con un deficit alimentare, ben
37 - dal Benin allo Zimbabwe sono in Africa. In Europa non
ce n’è nessuno, nel continente
americano solo tre.
Prezzi in discesa
L’altra grande tendenza che si
può identificare nei flussi
commerciali del cibo è quella
di un ribasso dei prezzi che dura da quattro anni dopo una fase di forti rialzi. Nel 20072008, infatti si registrò una
grande cavalcata dei prezzi
alimentari, che si intrecciò
con i primi effetti della crisi finanziaria. A essere colpiti dai
rialzi di grano, farina, riso e semi di soia, all’epoca, non furono però le capitali della Borsa,
ma i Paesi più poveri del globo,
da Haiti al Senegal, dove scoppiarono le prime rivolte per il
cibo. Poi un’altra ondata di
rialzi nel 2010-2011, dovuta
principalmente al raccolto di
grano andato male tra Russia,
Ucraina e Kazakistan. La decisione della Russia di chiudere
le esportazioni di grano scatenò il panico sui mercati, mandò alle stelle le quotazioni e
contribuì all’esplosione delle
Primavere arabe con le proteste per il pane.
Quei rialzi di prezzi hanno
anche cambiato la geografia
della produzione: Paesi forti
economicamente, ma deficitari come produzione di cibo - in
primo luogo gli Emirati del
Golfo - scottati dall’esperienza,
hanno avviato grandi acquisti
di terre da coltivare in Africa.
Evidenti i problemi sia per i
contadini locali, sia per lo
sfruttamento delle risorse. Nel
90%
di cibo
importato
in Africa si
produce solo
il dieci per
cento del cibo
che viene
consumato
nel continen­
te, dove da
molti anni si
concentrano i
casi di denu­
trizione e
malnutrizione
2014 invece, ha segnalato la
Fao, il suo indice dei prezzi alimentari globali, è sceso per il
quarto anno di fila, con un calo
del 3,7% rispetto al 2013. Colpa,
o merito - dipende se lo si guarda con gli occhi del produttore
o con quelli del consumatore di una serie di fattori: c’è lo sviluppo tecnologico, certamente,
ma nell’ultimo anno l’influsso
forte è venuto anche da condizioni climatiche che hanno
consentito raccolti record. Nei
silos degli Stati Uniti, dopo il
maggior raccolto nella storia
dell’onnipresente mais - viene
usato per l’alimentazione umana ed animale, ma anche per
produrre l’etanolo - ci sono
adesso 258 milioni di tonnellate di riserve, il 7% in più di un
anno prima; difficile che a breve il prezzo possa salire più di
tanto. E poi, ovviamente, pesa
anche il ciclo economico generale: se la Cina rallenta la sua
crescita questo finisce immediatamente per ripercuotersi
sui prezzi agricoli. Tra offerta
sovrabbondante e domanda un
po’ più debole del previsto nell’ultimo anno il prezzo del caf-
3,7%
calo dei
prezzi
Per il quarto
anno conse­
cutivo, anche
nel 2014
l’indice dei
prezzi alimen­
tari è stato in
calo rispetto
all’anno
precedente e
aumentano le
riserve ferme
nei silos
fè, qualità Arabica, è sceso di
oltre il 30%, quello del mais di
più del 20%, così come quello
del grano. Anche lo zucchero
raffinato ha perso il 22% del
suo prezzo mentre tra i pochi
generi alimentari i cui prezzi
salgono c’è la carne bovina,
che costa circa il 7% in più di
un anno fa: le nuove classi medie globalizzate di tutto il mondo affermano il loro status appena conquistato anche mettendo nel piatto una bistecca.
Il futuro del cibo
Basterà il sistema mondiale di
produzione del cibo a sfamare
il Pianeta quando tra pochi decenni - addirittura già a metà
secolo - si prevede che la popolazione mondiale possa arrivare dai 7 miliardi attuali fino a
10 miliardi? I numeri e le
proiezioni degli esperti dicono
di sì. Ma sono solo numeri, per
l’appunto. La tendenza del
mercato è a una concentrazione delle esportazioni nelle mani di quelli che sono già i principali esportatori. Il riscaldamento globale impedirà alcune coltivazioni in zone che di-
venteranno troppo aride, ma
potrebbe renderle possibili in
zone che prima erano troppo
fredde. Molto dipenderà anche da comportamenti difficilmente prevedibili: come si svilupperanno i movimenti verso
le aree urbane e che effetti
avranno sulle campagne?
Quanto correrà la globalizzazione economica che si porta
sempre dietro quella alimentare?
Certo è che mentre i flussi
commerciali si intensificano i
problemi di distribuzione si
moltiplicano. Distribuzione
del cibo, prima di tutto, per tirare fuori larghe parti del
mondo dalla sottoalimentazione; ma anche distribuzione del
reddito, con la necessità che i
piccoli agricoltori possano
vendere i loro prodotti senza
essere schiacciati dalle multinazionali. E distribuzione anche dell’offerta e della domanda: in quell’Africa che soffre la
fame per moltissimi piccoli
agricoltori l’accesso a un mercato più ampio di quello strettamente locale - se e quando
avviene - è solo un caso.
R
IV
SPECIALE LA STAMPA
SPECIALE
GIOVEDÌ 5 MARZO 2015
THAIBONNET
BALDO INTEGRALE
VIALONE NANO
Le vie del cibo/
Storia di un alimento­icona
Il riso, la pianta che sfama
metà del mondo
E mette a rischio la foresta
La Fao: nel 2015 il consumo supererà la produzione
ARTEMIDE
GIANLUCA PAOLUCCI
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ORIGINARIO
na distesa di risaie allagate dove c’era la foresta primaria. Volare
sopra al Madagascar, l’Isola
verde diventata in qualche lustro da sogno a incubo dei naturalisti del pianeta, fa sorgere nel viaggiatore tutta una
serie di quesiti. Il primo: perché uno dei Paesi più poveri e
affamati del mondo è anche
uno dei principali produttori
di riso?
Il riso tra le commodities
alimentari è un po’ particolare. È l’alimento principale per
circa la metà della popolazione mondiale, perlopiù in Paesi
poveri o in via di sviluppo. Ma i
principali produttori - Cina e
India in testa, che valgono insieme più del 50% della produzione mondiale - sono anche i
principali consumatori. Nel
2014 ne sono state prodotte
744,7 milioni di tonnellate (dati Fao), che danno poco meno
di 500 milioni di tonnellate di
prodotto raffinato. Ma di queste solo una piccola parte - nel
2014 poco più di 40 milioni di
tonnellate - entra nel commercio globale. Meno del 10% contro il 20% circa del grano. Il
prezzo internazionale viene
fissato alla Borsa di Chicago gli Usa sono un modesto consumatore ma il terzo esportatore globale, con una quota del
12% del volume scambiato -.
Ma in molti Paesi il commercio di riso è sotto il controllo
più o meno stretto dello Stato,
col risultato di falsare il prezzo. L’India, ad esempio, durante la corsa dei prezzi del 2008
chiuse le frontiere bloccando
l’export del proprio riso, per
riaprirle solo nel 2011.
Ciclicamente torna l’idea di
una «Opec del riso», un cartello dei Paesi produttori per stabilizzare i prezzi. Ma «questi
schemi hanno generato finora
più che altro corruzione e
scorte in eccesso», dice Carlo
Filippini, direttore dell’Istituto di studi economico-sociali
per l’Asia Orientale dell’Università Bocconi. Che cita il caso della Thailandia, dove l’ex
premier Thaksin, destituito
nel 2006 da un golpe militare,
cercò di realizzare un programma di sostegno dei prezzi del riso. «Purtroppo l’idea
era buona ma la realizzazione
aveva molti difetti», ricorda
Filippini. Con il risultato di favorire i grandi commercianti,
che compravano dai piccoli
produttori a prezzi irrisori e
rivendevano al prezzo fissato
dal governo, molto superiore
a quello di mercato. Proprio la
Thailandia, tra l’altro, è uno
dei principali esportatori
mondiali.
Intanto, segnala ancora la
Fao, nel 2014/2015 per la prima volta in un decennio il consumo è destinato a superare
la produzione. Nessun allarme, spiega l’agenzia delle Nazioni Unite nel suo «Rice
market monitor»: le scorte
mondiali sono sufficienti per
garantire il fabbisogno dei
ROSEMATTA
prossimi quattro mesi, un
tempo che mette al riparo da
eventuali shock della domanda.
Ma a questo punto possiamo tornare alle risaie del Madagascar che hanno preso il
posto delle foreste. Il consumo mondiale di riso è aumentato del 40% negli ultimi 30
anni. La popolazione del Madagascar cresce al ritmo del
3% all’anno, uno dei maggiori
tassi di crescita del continente africano. La risposta alla
domanda iniziale è allora il
«taglia e brucia»: taglia la foresta e metti una risaia. Piccolo inciso per parlare di quel fenomeno che va sotto il nome
di «land grabbing», sul quale
ci soffermeremo diffusamente nelle pagine successive. I
suoi effetti applicati alle materie prime alimentari come il
riso li spiega Giovanni Ferri,
docente di emerging markets
Luiss-Lumsa: per il Paese che
investe, significa garantire la
propria sicurezza alimentare.
Per il Madagascar però il land
grabbing significa che l’8%
della superficie del Paese è in
mano ad investitori stranieri.
Tra questi, la Cina è in prima
fila e parte degli investimenti
di Pechino sono destinati proprio alla coltura di riso.
«Taglia e brucia» la foresta,
metti la risaia. Poi magari, se
dovesse servire, il riso prenderà altre vie e garantirà la
«sicurezza alimentare» altrove. Ma come recita un detto
malgascio, «meglio morire domani che morire oggi».
L’ETERNA FATICA CONTADINA
Il racconto
del cibo­simbolo
nelle foto di Alex Majoli 4
Alex Majoli, 43 anni, è un
fotografo pluripremiato a
livello internazionale.
Membro effettivo dell’agenzia Magnum dal
2001, nelle immagini che
pubblichiamo nelle pagine di questo inserto
racconta la produzione
del riso (e i suoi attori) in
India del Sud e Cina: il
lavoro nelle risaie, il
raccolto, l’essicatura, la
pilatura, la produzione
industriale, la distribuzione, il commercio, il
consumo, il simbolismo.
Majoli, noto per i suoi
lavori in aree di guerra,
ha realizzato reportage
per Newsweek, New York
Time Magazine, Granta e
National Geographic,
oltre a seguire una serie
di progetti, l’ultimo dei
quali, completato di
recente, “Libera me”, è
una riflessione sulla
ALEX MAJOLI / MAGNUM PHOTOS
condizione umana.
Agricoltori indiani tornano al lavoro nei campi per il raccolto del riso dopo aver consumato un pasto frugale al bordo di una risaia
R
SPECIALE LA
STAMPA
SPECIALE
GIOVEDÌ 5 MARZO 2015
dello Iied (International Institute for Environment and Development). «Non solo: anche
se l’accordo non viene chiuso e
il terreno non è sfruttato, l’accesso continua ad essere negato a lungo alle genti locali». Infatti: a fianco dei numeri ci sono le storie. Che parlano di esodi forzati di popolazioni intere
dalle loro terre ancestrali. Come nella valle dell’Omo, in Etiopia, dove le tribù che restano
vivono in un clima di intimidazione continua da parte dell’esercito. Come in Laos e in
Cambogia, dove le compagnie
vietnamite della gomma continuano ad espandere le loro
piantagioni. In Kenya, i diritti
sui terreni sono tanto confusi
che villaggi, scuole, intere comunità si sono ritrovate all’interno di recinti alzati di sorpresa, in poche ore.
Sono le “anime morte” della
corsa alla terra. In molti paesi
dell’Africa e dell’Asia non compaiono neppure nei registri civili. «Il land grabbing rischia di
avere un impatto maggiore del
cambiamento climatico sull’ambiente e sulla vita dei più
poveri» denuncia Pearce. In
che modo? «E’ semplice. Essere privati della terra è un danno immediato. Poi ci sono quelli
a medio e lungo termine. Lo
sfruttamento intensivo di
grandi aree agricole porta a un
impoverimento delle risorse
idriche. Il paesaggio viene cancellato. E la deforestazione accompagna il land grabbing».
Secondo un rapporto di Land
Coalition, le aree coperte da foresta (e progressivamente deforestate) costituiscono un terzo delle cessioni di terreni. Lo
stesso rapporto mostra che la
corsa all’accaparramento continua anche se ha subito un rallentamento apparente dopo il
picco del 2009. «La caduta dei
prezzi nel settore alimentare
ha allontanato gli speculatori.
Ma sono rimaste le multinazionali e gli stati, che continuano a
comprare per costituire riserve alimentari nel lungo termine» ribadisce Pearce. In Cina,
la Xinjang è un’agenzia semimilitare, con gerarchie di comando, corpi di ingegneri e
agronomi. In Asia centrale, i
terreni acquistati dalla Xpcc
sono stati sottoposti alla coltivazione intensiva di soia transgenica che li ha impoveriti.
Tra i grandi buyers ci sono anche gli Usa, i paesi arabi del
Golfo, l’Europa; e il Brasile e
l’Egitto che acquistano larghe
porzioni di terreno negli stati
confinanti.
C’è chi ha parlato di neo-colonialismo. «Assomiglia al primo colonialismo mercantile,
quello delle Compagnie delle
Indie inglesi e olandesi - sostiene Peirce. - Il primo passo è
rendere trasparenti le transazioni e mobilitare l’opinione
pubblica dei paesi ricchi su
questo nuovo modello di sfruttamento. Oggi perfino la Cina
ha un movimento ambientalista molto attivo».
IX
Africa nel mirino
Èilcontinente
piùcolpito
n Secondo gli ultimi
dati ufficiali pubblicati
da International Land
Coalition, l’Africa è il
continente più colpito
dal land grabbing: ben
754 contratti di cessio­
ne di terreni per un to­
tale di 56,2 milioni di
ettari
riguardano
l’Africa, a fronte di 17,7
milioni di ettari in Asia
e 7 milioni di ettari in
America Latina. Le ces­
sioni di terreni segnala­
te in Africa riguardano
una superficie equiva­
lente al 4,8 per cento
del totale della superfi­
cie agricola del conti­
nente. A livello globale.
84 sono interessati dal
fenomeno, ma in undi­
ci di essi è concentrato
il 70% della superficie
soggetta al land grab­
bing: sette sono africa­
ni (Sudan, Etiopia, Mo­
zambico, Tanzania,
Madagascar, Zambia e
Congo). Nel Sud­est
asiatico particolar­
mente colpiti Filippine,
Indonesia e Laos.
REUTERS
Il land grabbing lascia ai contadini delle zone più povere soltanto aree marginali per la coltivazione
ALEX MAJOLI / MAGNUM PHOTOS
Produttori di riso alla riseria di Tula, nel Sud dell’India: portano qui il loro raccolto di riso grezzo per farlo lavorare prima della vendita: dev’essere privato della crusca e sottoposto a brillatura
R
SPECIALE LA
STAMPA
SPECIALE
GIOVEDÌ 5 MARZO 2015
Mao Tse Tung
viene spesso
raffigurato
attorniato
da contadini:
figlio di un
mercante
che si oppose
a una rivolta
dei poveri
per il cibo
si ribellò
al genitore
BASMATI
Le miserie millenarie delle risaie cinesi
che accesero in Mao la scintilla della rivoluzione
SELVAGGIO
DOMENICO QUIRICO
P
GELSOMINO
CARGO
V
er amare il riso bisogna
attraversare i luoghi in
cui è nato, antico di diecimila anni, lungo il fiume Yangtze, interminabile nastro di seta
che divide la Cina in due metà:
in quella superiore il cuore,
l’anima e il cervello, il paese degli alti e pallidi mangiatori di
grano, gente discreta e conservatrice, erede di cinquemila anni della storia senza interruzioni del Paese di Mezzo. E nell’altra metà i muscoli della Cina,
genti forti, dagli abiti sgargianti
che mangiano riso e parlano
complicati dialetti costieri.
Ho amato il paesaggio del riso, una splendida campagna
verde di tanti verdi diversi, a riquadri, e in mezzo campetti di
patate dolci, giardini, cavolaie;
un tappeto e un mosaico di giade variamente pallide. Qua e là
contadine vestite di nero, panta-
loni e camicia lunga e il grande
cappello di paglia ornato come il
cappello di un vescovo di una
grande frangia di tessuto nero, il
“mo-hu’’. Non levano il capo al
passaggio del treno, continuano, chine, a piantare i germogli
del riso. Era la Cina da poco orfana del Grande Timoniere, “i
piccoli generali venuti da Pechino’’ con un libretto rosso per dare la caccia agli “elementi neri’’
non sapevano che li attendeva,
imprevedibile e paziente, il capitalismo confuciano.
Il lavoro non sembrava in
quelle risaie una schiavitù.
Sembrava che per il cinese il lavoro fosse una occupazione naturale, lavorava come respira.
Faceva sempre qualcosa.
Ricordavo che il giovane
Mao era diventato rivoluzionario a causa del riso. Un anno, il
riso non era stato ancora raccolto e la provvista di quello dell’inverno già finita, nel distretto
scoppiò una carestia. I poveri
chiedevano aiuto ai contadini
ricchi e iniziarono una protesta
denominata “vogliamo mangiare il riso senza dazio’’. Il padre
di Mao era un mercante e lo
esportava, insensibile alla fame
dei poveri, in città dalla provincia. Uno dei carichi fu assalito e
distribuito alla gente e l’ira del
mercante fu sconfinata. «Io non
simpatizzai con lui» scrisse
Mao, domesticamente ribelle.
Per millenni il contadino cinese ha detto, guardando i campi allagati dove spuntavano i
germogli, lavorando chino nell’acqua: «Io mangio la mia miseria». Attaccato per la vita a
quelle pianticelle, ma sempiterno debitore dell’usuraio, del
‘’tzi tzu’’ come si dice in cinese.
Per festeggiare una nascita,
una morte, un matrimonio dava
in garanzia la sua piccola risaia
o vendeva le sue braccia a tempo indeterminato. Dopo sei me-
si il proprietario gli chiedeva la
restituzione con gli interessi del
trecento per cento e alla fine il
contadino diventava servo della
sua gleba. Continuava a lavorare, a pagare interessi, continuava a fornire centinaia di “ketti’’
di riso: una vita immobile, una
interminabile usura.
Il paesaggio modellato dalle
risaie: una geometria paziente
specchiata nei riflessi dell’acqua, l’unico che si possa veramente amare, perché è la natura in cui l’uomo ha inciso il suo
segno. Mezza umanità si sfama
col riso e lo incontri ovunque, in
Indocina, in India, sugli altipiani dell’Africa.
Colmo di riso fu il mio primo
e unico ricco piatto da prigioniero nella Siria tra deserto e
montagna, riso cotto nel grasso
in un grande calderone da sabba dai guerrieri del jihad, riuniti attorno al fuoco nel silenzio
sospeso della sera, dopo la pre-
ghiera e la battaglia. E parve, a
me che lo amavo, un buon segno
di liberazione.
Ma dove la sua apparizione
più ti sconcerta è in Egitto, dove
fu introdotto dagli arabi: perché in nessun luogo il mistero
della vita e della fecondazione è
stato più assiduamente vivo
con quello straordinario spettacolo della terra ricoperta dall’immenso liquido fecondatore,
oggi come tremila anni fa. Così
tra due deserti di roccia e di
sabbia il Nilo stende le sue riviere verdissime, le geometriche risaie che, come le acque,
lambiscono e si arrestano di
colpo ai piedi della sabbia. Il
verde e l’acqua finiscono con un
taglio secco, come nella ammezzatura di uno stemma. Il riso dove il ciclo della fecondazione e della nascita vive senza le
ierogamie del cielo e della terra,
laddove la pioggia è quasi sconosciuta.
ALEX MAJOLI / MAGNUM PHOTOS
Una contadina impegnata nelle operazioni di mietitura in una risaia a Tula, un piccolo villaggio nell’India meridionale: il raccolto in queste zone viene fatto ancora manualmente
R
VI
SPECIALE
SPECIALELA STAMPA
GIOVEDÌ 5 MARZO 2015
Le vie del cibo/
Dalla risaia al piatto
GIORGIO CALABRESE
P
MARATELLI
VENERE
erché noi medici diciamo
sempre che il riso fa bene? Perché contiene un
amido facilmente digeribile e
assimilabile, ed è povero di cellulosa; infatti dietologi e pediatri consigliano alle mamme di
diluire il latte, già nel primo trimestre di vita, anziché con l’acqua, con la mucillagine di riso,
cioè con l’acqua utilizzata per
bollire il riso.
Al Nord, fino a qualche decina d’anni fa, il riso era ritenuto
il vero primo piatto, mentre al
Sud era considerato quasi alla
stregua di un farmaco e veniva
utilizzato soprattutto in coincidenza di fatti diarroici, vista la
sua capacità di bloccare questo
tipo di disturbi e di ricostituire
la flora batterica intestinale.
Oggi il riso è tornato ad essere un grande primo piatto per la
minore grandezza del contenuto d’amido le cui dimensioni variano fra 2 e 10 micron, mentre
gli amidi di tutti gli altri cereali
sono più grandi: 15-22 micron
per il mais e 20-40 micron per il
grano, fino ai 50-170 micron dell’amido di patata.
Ma perché l’amido del riso
(ma anche degli altri cereali) è
digeribile? Grazie al rapporto
amilosio-amilopectina. Gli amidi che sono più ricchi di amilo-
L’amido “magico” lo trasforma
in alimento ideale per tutte le diete
Digeribile e nutriente, è consigliato a celiaci e bambini, ma anche agli atleti
sio, come avviene appunto nel
riso, sono facilmente digeribili.
Ecco anche perché, ad esempio,
l’amido di mais, che ne è povero,
risulta invece difficile da digerire. Le proteine del riso (7%) sono meno di quelle della pasta
(10%), sebbene si tratti di proteine più complete da un punto di
vista biologico.
Per contro, uno dei grandi limiti del riso è che non può essere utilizzato per la panificazione, al pari della farina di grano,
nonostante sia un cereale, perché gli mancano le prolamine,
quelle proteine che consentono
la formazione di glutine.
Proprio per questo però il riso è uno dei pochi cereali che
può essere usato dai celiaci, ma
anche da coloro che soffrono di
sensibilità al glutine, un numero spaventosamente crescente.
Il basso contenuto di sodio e
l’alto contenuto di potassio sono una caratteristica positiva e
7%
le proteine
Nel chicco di
riso sono in
percentuale
inferiore
rispetto a
quelle presen­
ti nella pasta,
ma sono più
complete dal
punto di vista
biologico
tipica del riso, specie oggi, che
nella nostra società, si abusa di
sodio, sotto forma di sale da cucina. Un etto di riso fornisce
360 calorie e se mangiato in
giusta quantità, ogni giorno,
può essere una manna soprattutto per gli obesi. Perché il riso
quando viene cotto, triplica il
proprio peso (50 grammi da
crudo arrivano a 150 grammi
da cotto) inducendo un maggior senso di sazietà. In altre
parole, la capacità del riso di assorbire liquidi si manifesta sia
in cottura che nell’intestino.
Il chicco di riso è una cariosside vestita, costituita per il
79% da amido e per il 7% da proteine. L’esterno è rivestito da
glumette che vengono poi eliminate. Dopo la sbramatura si ha
il riso integrale, un po’ più scuro
ma che conserva integra la parte nutritiva, cioè le vitamine AD-E e gli oligominerali più importanti. Lo strato argenteo è
79%
amido
È il compo­
nente princi­
pale, percen­
tualmente,
del chicco di
riso: è molto
ricco di amilo­
sio e facil­
mente digeri­
bile anche per
i più piccoli
ricco di proteine, di grassi, di
minerali (calcio, fosforo e ferro), di vitamine B1 e B2 e di fibra
alimentare. A livello intestinale
i nutrienti contenuti nel riso sono facilmente assorbiti ed è per
questo che viene considerato
un alimento energizzante, utilizzato anche dagli sportivi per
fare il pieno di energia. Il riso
apporta una buona percentuale
di calorie (350 ogni 100 grammi), superiore a quella del pane
e paragonabile a quella della pasta. Inoltre, sebbene possegga
una frazione proteica ridotta
(7-9%), vanta una composizione
di amminoacidi più completa rispetto agli altri cereali, grazie
alla lisina, un aminoacido essenziale che l’organismo non è
in grado di sintetizzare da solo
e che deve essere introdotto
con gli alimenti. Un piatto di riso e legumi compensa gli aminoacidi limitanti facendone un
piatto unico completo.
DOPO IL RACCOLTO
6
ALEX MAJOLI / MAGNUM PHOTOS
Tula, villaggio indiano a 500 chilometri da Bombay, nel distretto di Sindhudurgh: una donna mette ad asciugare al sole la paglia di riso
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SPECIALE LA
STAMPA
SPECIALE
GIOVEDÌ 5 MARZO 2015
VII
Italia, dove il chicco ha mille facce
dopo Arborio e Carnaroli ecco l’Artiglio
Custodite in un caveau le oltre mille varietà storiche, a partire dal Lencino
GIANFRANCO QUAGLIA
ARTIGLIO
CARNAROLI
ERMES
«C
ameriere, vada per
un piatto di Carnaroli, ma se c’è un
Vialone Nano o un Baldo va bene ugualmente». Ordinazione
improbabile e surreale. Al massimo al ristorante ci si può spingere sino a un «al dente mi raccomando», non oltre. Nessuno
chiede una varietà o un’etichetta, al contrario di quanto avviene per i vini, di cui ormai esiste
la lista anche in pizzeria. Eppure l’Italia è leader europeo di
«Sua Maestà il riso», con produttori anche coraggiosi come
Piero Rondolino di Livorno Ferraris (Vercelli) che produce il riso invecchiato sino a sette anni
e lo custodisce in lattina con il
marchio «Acquerello». Da qualche anno, con la cultura televisiva della gastronomia, si è fatta strada una conoscenza più
diretta del riso che mangiamo:
le scelte sono mirate, anche i
neofiti sanno che per ottenere
un bel risotto mantecato, ma
non colloso, occorre puntare almeno sulle varietà appartenen-
ti alla griglia dei fini o superfini.
Il riso italiano rappresenta
solo lo 0,25 per cento dell’intera
produzione mondiale, i suoi 14
milioni di quintali sono quasi
una manciata di chicchi. Ma
tutti di eccellenza, risultato di
intuizioni, ricerca, ibridazioni
in campo, che nell’arco di quasi
due secoli hanno consegnato al
mondo valori indiscussi, senza
mai ricorrere a manipolazioni
genetiche.
Nel mondo si coltivano circa
140 mila varietà di riso. Una
gamma destinata a crescere,
perché gli studiosi stanno cercando il riso del futuro, resistente e più produttivo, in grado di garantire la sicurezza alimentare. Ci lavorano nel più
grande centro di ricerca sul riso, l’Istituto di Los Banos, nelle
Filippine. E in Italia? Sono esattamente 209 le varietà iscritte
nel registro. E 1273 quelle in purezza custodite al Centro Ricerche dell’Ente nazionale risi di
Castello d’Agogna (Pavia), la
banca dei semi ibernati, ogni
tanto risvegliati dal letargo perché la scienza attinge al loro
dna per realizzare esemplari
più resistenti. Romano Gironi,
responsabile della ricerca, sa
che le sfide globali impongono
cambiamenti senza sosta.
In questi caveau trascorre il
lungo sonno il Lencino, nato
prima dell’Unità d’Italia, nel
1857, quando la risaia italiana
era seminata a Nostrale. Insieme con il Vialone, il Lencino fu
progenitore di quel Carnaroli
(dal nome del suo “inventore”)
che nel 1945 vide la luce dopo un
attento incrocio, diventando il
principe della risicoltura made
in Italy, perché il chicco ha una
forte resistenza alla cottura, è
ricco di amilosio e cede poco
amido. Prima che a lui, i palati
fini ricorrevano al mitico Arborio (selezionato da Domenico
Marchetti, padre anche del Rosa Marchetti). Nomi gloriosi,
che hanno determinato la fortuna dei nostri risotti, come il Vialone Nano, l’Igp veronese coltivato in Veneto e nel Mantovano
o l’altro Igp Delta del Po. E fra i
più recenti il Riso di Baraggia
vercellese e biellese, l’unico ad
aver ottenuto la Dop in Europa.
La terra di «Riso amaro» si
conferma humus fertile di inventori. Accanto alle varietà
più conosciute (Roma, Razza
77, Ringo, Baldo, Ribe, Loto,
Originario, Balilla) tradizione e
ricerca esplorano nuove frontiere, con i risi colorati che fanno tendenza: il Venere, o riso
dell’Imperatore (nato in Cina
ma rigenerato in Italia), dal
chicco nero, o l’Ermes (rosso).
Rinascono pure i centenari dormienti: il Maratelli, un «giurassico» abbandonato dai coltivatori, è stato rilanciato dalla famiglia del suo costitutore (Mario Maratelli) che lo scoprì nel
1914. Al Cra (Consiglio ricerche
agricoltura) di Vercelli, riecco il
Gigante, altro “grande vecchio”. Forza di una natura che
non s’arrende. Come i risicoltori, attenti a risaia e mercato. Se
l’export impone di diversificare,
ecco l’alternativa: dai risi «japonica» coltivati per i risotti a
quelli «indica», per contorni e
insalate. Già inventato anche
quello made in Italy: è l’Artiglio,
nome che evoca determinazione e aggressività sul mercato.
ALEX MAJOLI / MAGNUM PHOTOS
Il museo del cibo di Hong Kong ha spazi espositivi dedicati alla storia e alla cultura del cibo e della cucina: ovviamente il riso è uno dei protagonisti del singolare percorso di visita
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VIII
SPECIALE
SPECIALELA STAMPA
GIOVEDÌ 5 MARZO 2015
Le vie del cibo/
Il nuovo colonialismo
Land grabbing, così emiri e cinesi
si comprano il futuro della Terra
La speculazione cambia radicalmente gli equilibri ambientali e alimentari del pianeta
FABIO SINDICI
L’
ultima cosa che ci si potrebbe aspettare, mentre si è alla guida di un
fuoristrada su una pista nella
savana dell’Africa occidentale,
è un messaggio sul cellulare
che dia il benvenuto nel territorio degli Emirati Arabi Uniti.
Accade in Tanzania, dove un
generale degli Emirati ha acquistato diritti di caccia esclusivi su un parco di 400 mila ettari. E lo ha trasformato in una
sorta di enclave territoriale.
Strettamente
sorvegliata.
«Non filtrano molte notizie, ma
ho sentito di unità paramilitari
spedite dal governo di Dodoma
per impedire che i Masai in cerca di pascoli si avvicinino alla
riserva privata» racconta Fred
Pearce, scrittore e giornalista
britannico, pluripremiato per
le sue inchieste sull’ambiente.
Pearce è l’autore di “The Land
Grabbers” (Beacon Press), libro in cui documenta l’estensivo accaparramento di terre
coltivabili ai quattro angoli del
globo da parte di fondi sovrani,
multinazionali del cibo, agenzie
governative e speculatori rapaci. Un fenomeno imponente ed
elusivo, difficile da tracciare.
Che sta cambiando gli equilibri
- alimentari e ambientali - del
pianeta. E che non riguarda solo i paesi più poveri.
Di recente, un gruppo di deputati tedeschi ha denunciato
le trattative per la cessione di
vaste aree del territorio ucraino, condotte all’ombra della
guerra. Che coinvolgono multinazionali del cibo transgenico,
come la Monsanto. Investimenti a rischio, certo, ma a prezzi
ribassati. Secondo Farmlandgrab, un osservatorio web sulla
corsa ai terreni agricoli, 17 milioni di ettari in Ucraina sono
già controllati da imprese stra-
17
milioni
di ettari
È la superficie
dei terreni
passati sotto
il controllo di
imprese
straniere in
Ucraina: più
della metà
della superfi­
cie coltivabile
del paese
niere, più della metà del territorio coltivabile. Proprio in
Ucraina, nel 2013, l’agenzia governativa cinese Xpcc
(Xinjiang Production and Construction Corp nell’acronimo
inglese) ha ottenuto un leasing
di 50 anni su tre milioni di ettari. Probabilmente il più grande
caso di “land grab” registrato.
Perché la maggior parte delle
grandi transazioni sono opache. Soprattutto nei contratti
tra le agenzie dei governi, che
decidono sul destino di regioni
grandi come stati e di intere
popolazioni, a loro insaputa. E i
conflitti spesso accompagnano
le vendite. Come è successo in
Liberia, il primo stato libero
dell’Africa - e uno dei più tormentati, nella storia recente.
Le cessioni di terreni cominciano sul finire della guerra civile.
«All’inizio, c’è stata una discreta cooperazione tra le società
che gestiscono le piantagioni e
2
milioni di
km quadrati
Secondo le
stime diffuse
da Oxfam è
questo il
totale delle
terre sottrat­
te, la maggior
parte delle
quali si trova
nel continen­
te africano
gli impianti per la produzione
di olio di palma e le comunità
locali. Ma i rapporti ora si sono
deteriorati» spiega Pearce.
Avere le cifre esatte del
“land grabbing” è impossibile. I
contratti trasparenti sono solo
la parte emersa dell’iceberg.
L’Oxfam, che ha denunciato il
fenomeno in diverse campagne
di sensibilizzazione, ha stimato
in più di due milioni di chilometri quadrati le terre sottratte,
di cui i due terzi in Africa. Land
Matrix, piattaforma indipendente nata per monitorare questi immensi passaggi di proprietà, ha contato 1037 contratti conclusi per oltre 38 milioni
di ettari. Ma sono elencate solo
le trattative “in chiaro”. «I contratti vengono stipulati, cancellati, ristrutturati, trasferiti. A
volte, la quantità di terra è di
gran lunga maggiore di quella
descritta nei contratti» ragiona Lorenzo Cotula, ricercatore
I CHICCHI DIETRO LE QUINTE
ALEX MAJOLI / MAGNUM PHOTOS
Il proprietario della riseria di Tula, in India, in piedi su un mucchio di risone in attesa di essere lavorato: il suo è l’unico impianto del villaggio
8
ALEX MAJOLI / MAGNUM PHOTOS
Tula, India del Sud. Nel tempio di Laxmi si preparano le offerte da presentare agli dei: il riso ha un ruolo di rilievo anche in questo caso
1037
contratti
«in chiaro»
Sono le cessioni
monitorate da
Land Matrix,
una piattafor­
ma indipenden­
te. Ma molte
cessioni avven­
gono in modali­
tà «opache»
R
X
SPECIALE
SPECIALELA STAMPA
GIOVEDÌ 5 MARZO 2015
São Tomé
La filiera del cioccolato
piccolo grande tesoro
di un arcipelago africano
LORENZO SIMONCELLI
SÃO TOMÉ
A
64 anni, Claudio Corallo risponde ancora trafelato al telefono perché, di
corsa, sta andando nelle sue piantagioni
dove coltiva e produce cacao, caffè e pepe.
Da 25 anni vive e lavora a São Tomé e
Príncipe, il secondo più piccolo Stato africano, situato nel Golfo di Guinea a circa
200 km dalle coste del Gabon. Nell’arcipelago, agli inizi del ’900, si produceva la
maggior quantità di cacao al mondo. Un
primato perso negli anni a favore della Costa d’Avorio. Ma grazie all’esperienza maturata con le coltivazioni del caffè nell’ex
Zaire negli Anni 80 e alle scimmie del posto, che sputando a terra i semi delle migliori fave di cacao hanno garantito la riproduzione delle piante, Corallo ha trasformato l’arcipelago africano in un laboratorio per la lavorazione del cacao.
«Quando ho iniziato ad assaggiare le fave, le trovavo amare - racconta - ed ho iniziato a pensare che fosse un difetto, così
ho iniziato a correggerlo direttamente
nelle piantagioni». Un esperimento che lo
ha portato a creare una realtà a filiera
completa, «un unicum nel settore» ci tiene a sottolineare, che dà lavoro a circa 300
persone, producendo 1-2 tonnellate di
cioccolato al mese. Una realtà artigianale
che gli ha permesso di arrivare nelle principali fiere dolciarie mondiali e sugli scaffali dei ristoranti stellati di città come Tokyo, Parigi e New York. Non poteva mancare ad Expo 2015, dove Corallo si cimenterà in una serie di conferenze tecniche
sulla produzione e lavorazione del cioccolato. Anche São Tomé e Príncipe sarà presente, modello del Paese che ha mirato a
conciliare biodiversità e sfruttamento
delle materie prime.
Un mix di innovazio
laricettapernutrire
Dalla coltivazione alla raccolta, dalla lavorazio
N
utrono il pianeta, con la loro fatica ma anche con la loro inventiva. Produttori grandi e piccoli inseguono l’innovazione sia nelle modalità di coltivazione
sia in quelle di raccolta e di lavorazione del prodotto. E - perchè no - anche in
campo commerciale, per farlo arrivare al consumatore finale nel modo secondo
loro più corretto. La Stampa ha raccolto alcune storie significative di produttori
in giro per il mondo, raccontando la loro esperienza: esempi di persone che han-
Colombia
Un caffè d’altura
strappato alla guerra
e ai narcotrafficanti
FILIPPO FIORINI
BOGOTÀ
U
na volta maggiorenne, Ivan Pareja
ebbe un’opportunità unica: lasciare il
villaggio colombiano di Alban, in cui era
nato, e andare all’estero a studiare. Una
volta laureato, però, decise di tornare a
casa. I suoi genitori avevano bisogno di
una mano: stavano invecchiando in quella
valle delle Ande, contesa tra narcotrafficanti e soldati per le sue coltivazioni di coca e papaveri da oppio. «Quelli sono stati
tempi duri - dice dell’epoca precedente al
programma statale che ha spinto la gente
a sostituire le piantagioni illegali con quelle di caffè -. Il paese è stato occupato dai
paramilitari otto volte. Il centro storico è
stato distrutto dai combattimenti. Morivano i poliziotti, ma anche le donne al
mercato. I giovani, poi, finivano tutti a lavorare come braccianti dei narcos».
I primi soldi del sussidio inviato da Bogotà, dall’Onu e dagli Stati Uniti, Ivan, che
oggi ha 57 anni, li ha usati per fondare un
consorzio di «cafetaleros» insieme ai suoi
compaesani dal cappello Panama, il poncho sgargiante e i chicchi di caffè sempre
tra le dita. Con 512 iscritti, un decennio
d’attività, una macina nuova e un appuntamento per il mese prossimo con un
gruppo di ingegneri giapponesi, incuriosito dall’esperimento, l’associazione AAA è
oggi il fiero produttore del Caffè Albanita,
un infuso «premium» che viene anche
esportato. «Il suo sapore cambia a seconda dell’altitudine a cui lo raccogliamo racconta Ivan - ma in genere ha un aroma
pronunciato, un’acidità media e un gusto
gradevole. Eppure il suo più grande merito non è questo, ma quello di averci dato
un lavoro dignitoso e aver riportato la pace ad Alban».
Israele
I profumi della natura
per difendere dagli insetti
le riserve di grano
MAURIZIO MOLINARI
CORRISPONDENTE DA GERUSALEMME
I
sraele vanta la percentuale più bassa di
grano perduto a causa degli insetti ed il
merito è di un agronomo ucraino di 62 anni con la passione per le spezie. Moshe Kostyukovsky viene da Kiev, si è formato come ingegnere alimentare nell’ex Urss e
nel 1991 immigrò in Israele, trovando nel
“Volcani Center” di Beit Dagan un laboratorio dove «era possibile esplorare ogni
opzione, uscendo dagli schemi». Quanto
avvenuto da allora lo ha trasformato nell’artefice della protezione del grano nazionale: Israele ogni anno ne produce solo
250 mila tonnellate, ovvero il 10 per cento
del fabbisogno, e dunque deve importarne
4,5 milioni di tonnellate. Ciò significa
un’imponente opera di conservazione e
protezione che si accompagna ad un tasso
di “perdita da insetti” di appena lo 0,5 per
cento rispetto al 5 per cento degli Stati
10
Uniti ed ad oltre il 40 per cento della Russia. Kostyukovsky descrive così la strada
che ha portato a scoprire la propria ricetta: «Siamo partiti dalla constatazione che
le sostanze chimiche facevano più danni
che altro, poi abbiamo studiato il comportamento degli insetti individuando la sensibilità ad alcuni odori particolari e dal
quel momento abbiamo iniziato a fare ricerca su ogni tipo di spezie».
Passando dalle vesti di ricercatore a
ispettore del “Volcani Center”, Kostyukovsky è così arrivato ad identificare alcune
“sostanze naturali molto efficaci” per limitare al massimo i danni «a cominciare
dall’olio di menta». I risultati sono notevoli ma l’agronomo punta a «migliorarli ancora, perché in Israele siamo abituati a
non accontentarci mai quando si tratta di
sicurezza alimentare». «E’ questo il messaggio che il nostro padiglione all’Expo di
Milano porta al mondo» conclude.
ALEX MAJOLI / MAGNUM PHOTOS
R
SPECIALE LA
STAMPA
SPECIALE
GIOVEDÌ 5 MARZO 2015
Sei storie simboliche di produttori
ne e coraggio
il pianeta
Stati Uniti
ne ai sistemi di vendita: la ricerca di nuove strade
no voluto e saputo cambiare qualcosa, inseguendo un sogno o cercando (riuscendovi) a superare situazioni locali o ambientali difficili. La popolazione del pianeta
aumenta, la produzione alimentare deve tenere il passo di questa crescita, ma non
è soltanto un problema di quantità. La fantasia, l’impegno, la ricerca, l’intelligenza
applicata al lavoro di tutti i giorni possono far vincere questa difficile sfida, che è il
tema centrale di Expo Milano 2015.
La venditrice di angurie
è diventata la regina
delle zucche di Halloween
FRANCESCO SEMPRINI
NEW YORK
«H
o iniziato a 16 anni, vendendo angurie con un vecchio furgoncino».
Ci tiene Sarah Frey-Talley a raccontare la
sua storia di «self-made woman», di imprenditrice agricola che si è fatta da sola.
Sarah è la titolare di Frey Farms, principale produttore di zucche degli Stati Uniti, decine di migliaia ogni anno provenienti da moderne fattorie in sette Stati americani. Anche se il tipo di terreno e la topografia rendono il Sud dell’Illinois luogo
privilegiato per la cultura del simbolo di
Halloween. Il quartier generale di FreyFarms è infatti a Keenes, Wayne County,
nei pressi del Mount Vernon, da qui Sarah
dirige gran parte delle sue attività. Una vita legata alla terra la sua, e un’esperienza
assai lunga, nonostante gli appena 36 anni
di età. «A sedici anni, mentre i miei quat-
tro fratelli maggiori andavano al college,
io ho comprato un furgoncino - racconta e ho iniziato a fare quello che faceva mia
madre, raccogliere angurie dal piccolo
terreno di famiglia per venderle ad alcuni
negozi della contea». Le sue angurie vanno a ruba, i clienti crescono velocemente,
e la giovanissima Sarah, che oltre ad amare la terra ha l’impresa nel Dna, gioca
d’astuzia: «Man mano che i vecchi agricoltori si ritiravano io acquistavo i loro terreni». E’ l’inizio della svolta, la sua è una crescita a ciclo continuo, venti anni senza sosta, man mano che i fratelli finiscono il college tornano ad aiutare Sarah.
Oggi Frey Farms rifornisce i 25 migliori
rivenditori degli Usa, le zucche vengono
sempre raccolte a mano, lavate e spedite.
Il momento più intenso è quello a ridosso
di Halloween, che coincide con il momento della raccolta delle zucche.
Taiwan
Riso, bibite e zuppe
e il miliardario conquista
i cinesi delle due sponde
ILARIA MARIA SALA
HONG KONG
W
ant Want, in cinese, suona come
“diecimila diecimila” - numero portafortuna – e i caratteri significano “roboante”. Fondata da Jonathan Shuai Qiang
Ng nel 1962 nelle terre incontaminate di
Ilan, Taiwan dell’Est, è una delle aziende
alimentari di maggior successo dell’Asia,
dopo aver scalfito il monopolio delle
aziende di Stato cinesi. Oggi è gestita dal
figlio di Shuai, Tsai Eng Meng, 59 anni,
l’uomo più ricco di Taiwan, con una fortuna di 10 miliardi di dollari, e l’azienda è fra
le “Favolose 50 dell’Asia” secondo Forbes.
All’inizio, Want Want produceva riso e
gallette di riso. Poi, sotto Tsai, l’espansione: bibite, latte e yogurt, e quell’alimento
immancabile per chi ha davvero fretta:
zuppe di spaghettini istantanee, a cui aggiungere solo acqua bollente.
La conquista del mercato cinese deve
tutto alla personalità di Tsai: esuberante,
aggressivo (lo chiamano “il Toro Combattente”), creativo nella strategia pubblicitaria e con un dichiarato sostegno per
l’operato del Partito Comunista. «Prima o
poi, Taiwan si riunirà alla Cina», ha dichiarato varie volte, attirandosi critiche
feroci a casa. Per contribuire a migliorare
le relazioni nello stretto Tsai dal 2008 acquisisce vasti interessi nei media taiwanesi (quattro quotidiani, un canale tv, riviste e siti web), dando loro un tono decisamente più “pro-Pechino”. «Want Want ha
bisogno di bocche! - scherza - E Taiwan ne
ha solo 23 milioni. La Cina, 1.3 miliardi!». I
consumatori cinesi apprezzano il patriottismo e il timbro di garanzia dato dall’essere un’azienda semi-straniera, ovvero
taiwanese, anche se ora produce per lo
più in Cina, dove ha 50 mila dipendenti.
Belgio
Una birra gratis al mese
per tutta la vita ai “soci”
dei giovani mastri birrai
MARCO ZATTERIN
CORRISPONDENTE DA BRUXELLES
I
ALEX MAJOLI / MAGNUM PHOTOS
Consegna del riso ad un ristorante tradizionale di Hong Kong, il Wing
Hop Sing, attivo da oltre vent’anni nel quartiere di Sheung Wan
Cucina di strada a
Bombay in
Mohammed Ali road :
il riso è alla base di
numerose ricette
tradizionali indiane
trappisti del Terzo Millennio sono tre,
Sebastian, Olivier e un collaboratore,
ma presto «faremo una quarta assunzione». Hanno cominciato investendo i risparmi nel giugno di due anni fa, poi hanno deciso di dare un colpo di acceleratore
con un operazione di crowdfunding da 50
mila euro. Et voilà, ecco il Beer Project,
l’iniziativa che - a sentire Sebastian - vuole rompere la barriera fra il pubblico e la
birra, proponendo un interessante matrimonio fra tradizione e modernità. Ragazzi
animati da idee, i due belgi. Tanto che la
prima birra è stata scelta dalla «nostra comunità» fra tre prototipi, Alpha, Beta,
Gamma e Delta. Ha vinto l’ultimo, una Ipa
organica, leggermente amara, 100 per
cento malto d’orzo, «croccante e secca»,
con una «fruttata nota d’esotico».
Le etichette sono nel frattempo aumentate, è arriva la Black Sister (una Ipa nera
che rivela un tocco di cioccolata e caffè)
insieme con la Grosse Bertha, una blanche studiata con gli esperti di Monaco.
Racconta Sebastien che il Beer Project vive di co-creazione, elaborare i prodotti facendo corto circuito con altri birrai. «Magari anche in Italia - sospira -, so che da voi
ci sono molte microbreweries di qualità».
Delta e le sue sorelle sono attualmente
in vendita in 120 fra ristoranti, bar e negozi della capitale belga, ma la distribuzione
ha già varcato i confini del paese. Il 14 febbraio si è chiusa la seconda sottoscrizione,
intitolata Beer for Life: ai «soci» è stato
chiesto di investire 160 euro in cambio di
un contratto che assicura di poter avere
una birra gratis al mese per tutta la vita.
Vi hanno aderito in 1100. L’obiettivo è mettere insieme una birreria da 600 mila bottiglie entro luglio. «Senza chiedere nulla
alle banche», sottolinea Sebastien, il cui
sogno - «creare birre atipiche» - ora assomiglia parecchio alla realtà.
XI
R
XII
SPECIALE
SPECIALELA STAMPA
GIOVEDÌ 5 MARZO 2015
Il Mercantile Exchange di Chicago
I computer spengono le grida
nella più grande Borsa del cibo
Niente più segni e urla per i broker che trattano miliardi di dollari in alimenti
ASSOCIATED PRESS
La caratteristica calca di operatori alla Borsa merci di Chicago sarà sostituita dai computer: è la fine delle grida e dei gesti dell’«Arb», il linguaggio simbolico per gli scambi commerciali
PAOLO MASTROLILLI
INVIATO A CHICAGO
C’
12
era una volta una stanza ottagonale chiamata “pit”, dove si riunivano parecchi adulti molto
chiassosi, che urlando e facendo strani segni con le mani si
scambiavano tonnellate di
merci varie. Questa storia lunga quasi due secoli è finita all’inizio di febbraio, quando il
CME Group di Chicago ha annunciato che chiuderà i suoi
“open outcry”, cioé i mercati
dove dalla metà dell’Ottcento
si facevano i prezzi di tutti i beni prodotti dall’agricoltura e
dall’allevamento. Li sostituirà
la precisione silenziosa dei
computer, che però sempre là,
nella borsa della “città ventosa”, continuerà a far girare cotolette di maiale, burro o mais
in tutto il mondo.
Chicago è al centro del Midwest, praticamente il granaio
degli Stati Uniti. Era stato naturale, quindi, creare là i mercati dove si scambiavano questi prodotti. Così nel 1848,
mentre in Italia stavamo ancora combattendo la Prima guerra d’indipendenza, nella città
dell’Illinois aprì le porte il Chicago Board of Trade, il più antico scambio di future del mon-
do. Pochi anni dopo, nel 1898,
era stato creato il Chicago Butter and Egg Board, per fare
esattamente ciò che indicava il
suo nome: scambiare burro e
uova, su scala nazionale. In
breve le attività si erano allargate, e quindi il nome era stato
aggiornato in Chicago Mercantile Exchange.
Per oltre un secolo queste
due istituzioni hanno continuato a funzionare come si vedeva
nei film, contendendosi senza
esclusione di colpi gli affari più
convenienti, anche quando la
città era assediata dalle attività criminali di boss mafiosi come Al Capone. Ogni mattina gli
operatori indossavano le casacche colorate che distinguevano le loro mansioni, e scendevano dentro agli “open outcry”, ossia quella specie di anfiteratri in miniatura dove avvenivano gli scambi. Cominciavano a urlare e gesticolare, secondo un preciso linguaggio di
segnali chiamato “arb”, tanto
incomprensibile per i profani,
quanto dettagliato e chiaro per
gli addetti ai lavori. Se un broker teneva le palme aperte e le
spingeva lontano dal suo corpo, voleva vendere; se invece le
rivolgeva verso il suo corpo, segnalava l’intenzione di acqui-
1848
l’anno
di nascita
Il Chicago
Board of
Trade inizia
l’attività con
il più antico
scambio di
future del
mondo.
Seguirà
il mercato per
burro e uova
stare. E poi c’erano i gesti che
indicavano i numeri, le quantità, e le urla che accompagnavano gli ordini.
Sembrava il caos assoluto, e
invece era un meccanismo infallibile con cui venivano mosse enorme quantità di merci
agricole e prodotti di allevamento, prima negli Stati Uniti
e poi in tutto il mondo. Era praticamente impossibile, almeno
in America, mangiare un pop
corn che non fosse passato almeno per un secondo in questi
“pit”.
Globalizzazione e tecnologia, però, hanno finito per conquistare anche la tradizione
secolare. Nel luglio del 2007 il
Chicago Mercantile Exchange
si è fuso con il Chicago Board of
Trade, creando il CME Group,
un colosso da 3 miliardi di ricavi all’anno, che in sostanza
muove tutto il cibo consumato
negli Stati Uniti, e oltre. Era
solo questione di tempo, quindi, prima che la rivoluzione digitale completasse la trasformazione, per raggiungere più
facilmente i mercati globali
emergenti come quello cinese.
All’inizio di febbraio, infatti, i
direttori del CME hanno annunciato la chiusura di tutti gli
“open outcry” della compa-
3
miliardi
di dollari
È il ricavo
annuo del
CME Group,
un colosso
commerciale
dal quale
transita tutto
il cibo consu­
mato negli
Stati Uniti
e oltre
gnia, a Chicago e anche a New
York. Niente più casacche, urla
e segnali: solo clic di computer,
efficienti e silenziosi, per 24
ore al giorno.
Nella vecchia guardia degli
operatori è scoppiata quasi la
rivolta, al punto che fuori dalla
stanza dove si prendevano le
decisioni è stata chiamata la
polizia, per riportare la calma.
Non era solo nostalgia per il
passato glorioso, ma puro interesse personale. Le licenze che
autorizzano a commerciare
nella borsa di Chicago, cioé i
“seat”, erano arrivate a costare
775 mila dollari l’una nel 1997.
Un prezzo record, su cui tuttavia valeva la pena di investire,
perché significava mettersi a
posto per il resto della vita. Diciotto anni dopo, però, il valore
delle licenze è crollato: l’ultima
è stata venduta all’inizio di febbraio per 290 mila dollari, e dopo l’annuncio della chiusura
dei “pit” varrà ancora meno.
Come era già capitato alle carrozze tirate dai cavalli, non resta altro da fare che abituarsi.
Chicago rimarrà la borsa mondiale dei prodotti agricoli,
muovendo il cibo in tutto il
mondo, ma lo farà col soffio dei
computer invece delle urla dei
broker.
R
SPECIALE LA
STAMPA
SPECIALE
I NUMERI NEL PIATTO
A cura di
Gianluca Reggiani
GIOVEDÌ 5 MARZO 2015
26
milioni di ettari è la
superficie totale di terreno
coltivata a canna da
zucchero nel 2013: è il primo
prodotto agricolo del
mondo, con un raccolto di
1877 milioni di tonnellate
40mila
310
le varietà di
fagioli, che sono
il legume più
coltivato: oltre
23 milioni
di tonnellate
milioni di tonnellate: è
la produzione
mondiale di carne nel
2014, al primo posto
quella di maiale
368
745
45
76
5800
milioni di tonnellate: è la
produzione di patate, il
consumo medio pro capite
annuale è di 33 chili
milioni di tonnellate: è
stato il raccolto di riso
nel 2013, uno dei cibi
più consumati al mondo
milioni di vacche da
latte sono allevate
solo in India, che
detiene il primato
mondiale: secondo
la Fao il totale
assoluto è di 270
milioni di animali
3
milioni
di tonnellate
è la produzione
mondiale di olio
d’oliva: la
Spagna ne
milioni di tonnellate produce il 42%
il raccolto mondiale
di mele: 50% in Cina
milioni di dollari: è
il valore della
produzione di
pomodori: ne
esistono 7500 tipi
1172
XIII
165
milioni di
tonnellate:
produzione
ittica
mondiale
milioni: è la quantità di pecore
allevate sulla Terra, le capre sono
invece un miliardo e 5 milioni
ALEX MAJOLI / MAGNUM PHOTOS
A Hong Kong il villaggio di palafitte interconnesse di Tai O è la patria dei Tanka, una comunità di pescatori. Qui una famiglia pranza nel proprio negozio: vendono soprattutto riso
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XIV
SPECIALE LA STAMPA
SPECIALE
GIOVEDÌ 5 MARZO 2015
I Cluster di Expo, padiglioni per
Una delle novità all’Esposizione universale 2015: le filiere che accomunano
TESTI A CURA DI FABIO POLETTI
D
Riso
Terre d’acqua senza frontiere
raccontano un cereale simbolo
di abbondanza e sicurezza
I
l colore bianco e le trasparenze
ad evocare le piante e l’acqua dove vengono coltivate sono le caratteristiche del cluster «Riso - Abbondanza e sicurezza».
L’intero padiglione è
rappresentato da una serie di risaie in miniatura dove i singoli Paesi partecipanti - Bangladesh, Cambogia, Sierra Leone, Myanmar e Laos - espongono le diverse
varietà di questo cibo conosciuto
da oltre diecimila anni e che rappresenta il nutrimento principale
per una fetta importante della po-
polazione mondiale: almeno tre miliardi di persone. I chioschi per la
distribuzione del riso sono integrati negli spazi comuni dove, oltre alla visione delle coltivazioni in acqua in diverse vasche comunicanti
tra loro con l’acqua mantenuta costantemente limpida, viene raccontato questo alimento che per la
sua adattabilità è prodotto senza
problemi in molte parti del mondo
e che per la sua tipologia è stato nei
secoli merce di scambio e sinonimo di ricchezza tra Paesi e culture differenti.
Cacao e cioccolato
Dalla fatica del contadino
all’arte del maître chocolatier
la lunga strada del cibo degli dei
A
ll’origine del cibo degli dei c’è
un contadino. Venga dal Camerun, dalla Costa d’Avorio, da Cuba e dal Ghana o da São Tomé e
Príncipe sarà l’immagine di uno di
loro ad arricchire i padiglioni del
cluster del Cacao. Perchè il cioccolato e tutte le sue derivazioni prima
che un piacere è fatica per chi lo
coltiva e riempie i sacchi di fave
che hanno creato la fortuna di civiltà antiche come quella Maya e degli Atzechi.
E di sacchi ce ne saranno a migliaia in questo padiglione dove si
potrà conoscere e ovviamente assaggiare ogni declinazione dolce
ma pure salata del cacao qui lavorato in cucine a vista da maître
chocolatier che offriranno le loro
creazioni. Ogni padiglione sarà del
tutto simile all’altro, distinto solamente dalla bandiera della nazione
impegnata perchè il cacao non ha
più confini. Studiata apposta e particolarmente ampia è l’area dedicata agli eventi e ovviamente alla
degustazione di questo popolarissimo prodotto simbolo di energia,
fertilità e vita.
Caffè
Con le immagini di Salgado
un grande affresco per il chicco
più ricco di aromi e profumi
S
e non bastasse il profumo per capire in quale cluster ci troviamo, le grandi immagini di Sebastião Salgado che lo contornano sono più di un valido aiuto. Il grande fotografo ha girato mezzo
mondo - Burundi, Costa Rica, Salvador, Etiopia, Guatemala, Kenya, Ruanda, Yemen e Uganda - per raccontare la ricchezza del
cluster dedicato al caffè. I punti di degustazione si trovano
nel cuore del padiglione. Ma è l’insieme architettonico
complessivo che vuole raccontare la ricchezza di questa bevanda aromatica conosciuta in tutto il mondo e declinata in mille offerte e prodotti differenti. La copertura del cluster ricorda le grandi foreste dove si coltiva il caffè. I padiglioni dei
singoli Paesi membri richiamano i tronchi degli alberi e sono ugualmente accessibili.
La biodiversità delle varie tipologie di caffè è rappresentata dalle
piante visibili nel percorso. Piante così diverse ma ugualmente
ricche per raccontare il viaggio di
u
n
chicco dalla terra alla tazzina attraverso la
fatica il lavoro dell’uomo.
14
ividere i Paesi per aree geo­
grafiche era stata la costante
di ogni esposizione. Expo 2015 ha
risolto il problema di raccontare
che Palestina e Laos non sono lo
stesso Oriente, dividendo i Paesi
che non hanno un padiglione
proprio in nove aree tematiche. I
cluster, dall’inglese «grappolo»,
R
SPECIALE LA
STAMPA
SPECIALE
GIOVEDÌ 5 MARZO 2015
XV
Paesi con gli stessi sapori
continenti diversi riunite in spazi espositivi condivisi
raccolgono affinità culturali lega­
te al cibo e al nutrimento al di là
della collocazione geografica. La
Palestina può così esprimere la
sua peculiarità nazionale nel clu­
ster dedicato ai deserti e alle zo­
ne aride perché meno ricche di
acqua e il Laos al cluster del riso,
dove l’acqua è uno degli elementi
principali.
Frutta e legumi
Colori, miti e leggende
nelle grandi cassette di legno
colme di biodiversità
P
adiglioni come grandi
cassette di legno, disposte in modo perfettamente
simmetrico a circondare due
frutteti. Il cluster dedicato
alla frutta e ai legumi è forse
il più ampio e variegato proprio perchè deve raccontare le
molte biodiversità del pianeta.
Ad ogni singolo Paese partecipante a questo padiglione
collettivo - Benin, Congo,
Gambia, Guinea, Kirghizistan,
Uzbekistan e Zambia - è stato
lasciato un proprio appezzamento di terreno come una lunga striscia, coltivato con i pro-
dotti tipici di quella terra. Anche la piazza centrale, che rappresenta l’agorà del cluster, respira di legno che contorna le
vasche degli orti geometrici dove crescono gli ortaggi.
Questa, che è pure l’area del
mercato di frutta e legumi, coltivati soprattutto tra il Mediterraneo e la Mesopotamia, è
sovrastata da cinque grandi cilindri di metallo che raccontano su pannelli multimediali la
modalità di produzione ma pure i miti e le leggende dedicate
in ogni angolo del pianeta a
questi beni della Terra.
Spezie
Nel paradiso dei cinque sensi
dove ciò che si mangia è anche
medicamento e cosmesi
I
cinque padiglioni squadrati
come scatole sono solamente
uno degli elementi costitutivi
del cluster dedicato alle Spezie.
Altri elementi immateriali odori, colori, sapori, gusti,
esperienze tattili e visive, luce
e buio, caldo e freddo vengono miscelati per
raccontare un’esperienza
delicatamente multisensoriale.
Afghanistan, Brunei, Tanzania e Vanuatu sono i Paesi presenti in questo cluster. Espongono quanto di meglio dei loro
prodotti che non sono solo cibo
e nutrimento ma pure medicamento e cosmesi. Il viaggio tra i
singoli padiglioni - non c’è cosa
come le spezie capace di evocare
viaggi avventurosi dai luoghi più
esotici - stimolerà come ovvio
tutti e cinque i sensi. Ad ogni singolo Paese è stato lasciato il compito di raccontare la coltivazione
e il trasporto di un prodotto che
non conosce crisi e che nell’ultimo decennio è cresciuto come
produzione di oltre il quattro per
cento nel mondo e di quasi il sei
per cento nei consumi globali,
evocando una forza economica
trainante con pochi precedenti.
Cereali e tuberi
Un gusto antico e pieno
che da millenni sfama e nutre
le aree più povere del mondo
U
n grande campo di grano e
altri cereali. Perchè il cibo
è coltura ma pure cultura che
rimanda ad antiche tradizioni
contadine. Siano esse della Bolivia, del Congo, di Haiti, del
Mozambico, del Togo oppure
dello Zimbawbe trovano cittadinanza nel cluster «Cereali e
Tuberi - Vecchie e nuove colture».
Sotto il padiglione, che rappresenta un grande camino,
nelle cucine a vista, i visitatori
di Expo 2015 potranno fare conoscenza con buona parte delle
diecimila varietà di cereali note
da millenni. La storia della civiltà è fatta di viaggi e di mescolanze di colture e di culture. La
collina della biodiversità vuole
essere l’istantanea caotica di
cereali e tuberi che lottano
fianco a fianco per la sopravvivenza e per sfamare e nutrire
milioni di persone nei Paesi in
via di sviluppo che conoscono
solamente questo cibo, in una
dieta di sopravvivenza. Un
giardino rotante permetterà di
toccare con mano le biodiversità dei tuberi spesso il piatto
principale di realtà che si sforzano di emergere.
Bio­Mediterraneo
Tre continenti, infinite culture
e una cucina con le stesse radici
sinonimo di salute e armonia
I
l Mare nostrum lo si vede qui. E
fa niente se ad evocarlo sarà una
colata di calcestruzzo in quattro
gradazioni di colore dall’azzurro
più limpido al blu più intenso.
Il cluster Bio-Mediterraneo raggruppa tre continenti: Europa,
Asia e Africa e infinite culture. Ci
sarà uno spazio dedicato alla Regione Sicilia, che rappresenta l’ombelico di questo mondo. Ma a farla
da padrone saranno le quattro cucine, dove il cibo in svariati workcooking sarà declinato nelle mille
sfumature delle gastronomie tipi-
che di Albania, Algeria, Croazia,
Egitto, Grecia, Libano, Libia, Malta, Montenegro, San Marino, Serbia e Tunisia, che tutte insieme
rappresentano un mondo intero.
Se la cucina mediterranea è conosciuta in tutto il mondo ed è considerata per i suoi ingredienti tra le
più salutari, ogni Paese che si affaccia nell’area la interpreta a modo suo, tra odori e sapori, in una dimensione assai domestica dove la
luce naturale entra da anfratti nel
soffitto a pannelli studiati appositamente.
Isole e mare
Vivere in mezzo al grande blu
nei piccoli mondi legati
all’eterna magia della pesca
I
l cluster «Isole, mare e cibo» è tra
i meno estesi ma più ricchi tanto
sono varie le biodiversità da raccontare. L’impatto visivo è fortemente evocativo: una struttura di
dodicimila canne di bambù piove
dal soffitto a raccontare la terra,
attorno a specchi d’acqua e fontane
per acquacultura.
La lontananza geografica dei numerosi Paesi che partecipano a
questo cluster - Barbados, Belize,
Capo Verde, Comore, Caraibi, Repubblica Dominicana, Grenada,
Guinea Bissau, Guaiana, Madaga-
scar, Maldive, Santa Lucia, Saint
Vincent e Grenadine, Suriname trova un minimo comun denominatore nelle tecniche utilizzate per la
pesca o per la produzione, che vengono raccontate nel percorso multimediale del padiglione collettivo.
La varietà dei prodotti ittici e agricoli è presente fisicamente, rappresentata dalle diverse tipologie
di raccolta ma pure con un mosaico
di suoni e di luci che vogliono evocare e far rivivere agli occhi dei visitatori gli animali del mare e il
suono delle maree.
Zone aride
Dove l’acqua è come oro liquido
tra deserti e venti bollenti
il miracolo dei frutti della terra
I
l venti per cento della popolazione mondiale vive dove più scarseggia l’acqua. A
loro è dedicato il cluster «Zone aride» dove
gli stand sembrano rocce nel deserto, la
sabbia è evocata ovunque e l’aria bollente
viene resa da strutture cilindriche semitrasparenti di Pmma (polimetilmetacrilato)
satinato che pendono ovunque dal soffitto a
immaginare una tempesta nel deserto.
Ma i paesi del cluster, Eritrea, Gibuti,
Mauritania, Mali, Palestina, Senegal e Somalia, non sono solo i luoghi dell’aridità ma
pure della ricchezza di cibo e di cultura. Il
mercato dei datteri e del cibo locale chiude
il confine dell’area totale che tra dentro e
fuori si estende per quattromila metri quadrati. Dalla parte opposta il «water bar»
fatto di vetro e di acqua, il bene più prezioso
che verrà messo a disposizione di tutti come se fosse oro liquido. Dominano i colori
tenui della sabbia in uno dei padiglioni di
più grande effetto dove si potranno conoscere i metodi per sopravvivere là dove più
batte il sole.
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