UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI MILANO – BICOCCA
Facoltà di Psicologia
Corso di Laurea in Scienze della Comunicazione
SOCRATE, PLATONE, ARISTOTELE:
tecniche formative a confronto
Relatore: Prof. Silvio MORGANTI
Tesi di Laurea di:
Marica CASTIGLIONI
Matricola 051453
Anno Accademico 2004 – 2005
Ringrazio per il suo prezioso supporto
il professor Silvio Morganti.
Valga una dedica del tutto personale
ai miei genitori e a Davide.
1
SOMMARIO
Presentazione …………………………………………………………………………………… 4
Parte Prima - Socrate, Platone, Aristotele: i tre maestri della formazione del passato 5
Introduzione……………………………………………………………………………………… 6
Capitolo 1 – Socrate…………………………………………………………………………… 9
1.1 La vita………………………………………………………………………………………… 9
1.2 Il dialogo socratico…………………………………………………………………………11
1.3 Il non-sapere…………………………………………………………………………………11
1.4 L’ironia, il dubbio………………………………………………………………………… 12
1.5 La maieutica…………………………………………………………………………………12
Capitolo 2 – Platone…………………………………………………………………………… 15
2.1 La vita……………………………………………………………………………………… 15
2.2 Il significato del mito……………………………………………………………………… 16
2.2.1 Il mito della caverna…………………………………………………………………… 16
2.3 La funzione del mito nell’educazione…………………………………………………… 18
2.4 Il metodo maieutico nell’interpretazione di Platone………………………………… 19
Capitolo 3 – Aristotele………………………………………………………………………… 20
3.1 La vita……………………………………………………………………………………… 20
3.2 Il Liceo……………………………………………………………………………………… 21
3.3 Insegnamento e conoscenza……………………………………………………………… 22
3.4 Gli scritti…………………………………………………………………………………… 22
3.4.1 La logica………………………………………………………………………………… 23
3.4.2 La dialettica……………………………………………………………………………… 23
3.4.3 Psicologia e gnoseologia……………………………………………………………… 23
3.4.4 L’etica………………………………………………………………………………………24
3.4.5 La politica………………………………………………………………………………… 25
Parte Seconda - La formazione ai giorni nostri: il gruppo……………………………… 26
Introduzione…………………………………………………………………………………… 27
Capitolo 1 - Il formatore……………………………………………………………………… 35
1.1 Chi è il formatore………………………………………………………………………… 35
1.2 Gli assiomi della comunicazione…………………………………………………………48
1.2.1 L’impossibilità di non-comunicare………………………………………………… 49
1.2.2 Livelli comunicativi di contenuto e di relazione……………………………………50
1.2.3 La punteggiatura della sequenza di eventi………………………………………… 51
1.2.4 Comunicazione numerica e analogica………………………………………………51
1.2.5 Interazione complementare e simmetrica………………………………………… 52
2
Capitolo 2 - Il gruppo ………………………………………………………………………… 54
2.1 Introduzione …………………………………………………………………………………54
2.2 Training group………………………………………………………………………………56
2.3 Strumento di formazione …………………………………………………………………58
2.4 Cos’è il gruppo…………………………………………………………………………… 59
2.4.1 Questione n°1…………………………………………………………………………… 60
2.4.2 Questione n°2…………………………………………………………………………… 63
2.4.3 Questione n°3…………………………………………………………………………… 67
2.5 Il gruppo di lavoro………………………………………………………………………… 70
2.5.1 Obiettivo……………………………………………………………………………………71
2.5.2 Metodo…………………………………………………………………………………… 76
2.5.3 Ruoli……………………………………………………………………………………… 79
2.5.4 Leadership…………………………………………………………………………………83
2.5.5 Comunicazione……………………………………………………………………………86
2.5.6 Clima……………………………………………………………………………………… 89
2.5.7 Sviluppo……………………………………………………………………………………93
2.6 Ricerche sperimentali sui gruppi di lavoro…………………………………………… 95
2.6.1 Ricerca n°1……………………………………………………………………………… 97
2.6.2 Ricerca n°2………………………………………………………………………………100
2.6.3 Ricerca n°3………………………………………………………………………………104
Parte terza - Due epoche a confronto……………………………………………………… 106
Capitolo 1 – Riassumendo……………………………………………………………………107
Conclusioni…………………………………………………………………………………… 110
Bibliografia…………………………………………………………………………………… 112
3
PRESENTAZIONE
L’uditore non deve apprendere pensieri
ma deve imparare a pensare;
bisogna non portarlo, ma guidarlo, se si vuole che
in futuro sia in grado di camminare da se stesso.
Kant1
L’intento di questa tesi è quello di sottolineare come le tecniche formative costruite e
utilizzate da tre grandi maestri quali Socrate, Platone e Aristotele siano ancora molto
attuali nonostante ci siano secoli e secoli di distanza tra la loro epoca e la nostra.
In particolare, si dimostrerà come queste tecniche vengono utilizzate nella formazione
di gruppo, descrivendo la figura del formatore da una parte, ossia le tecniche a sua
disposizione e ciò che egli deve conoscere per svolgere la sua attività, e dall’altra parte
il gruppo, ossia cos’è e cosa avviene al suo interno.
L’elaborato è stato diviso in tre parti.
Nella prima parte verranno analizzati i tre autori citati e le loro tecniche formative.
Nella seconda parte verrà illustrata brevemente l’evoluzione delle metodologie di
formazione, e si focalizzerà l’attenzione sui due “attori” principali del processo
formativo: il formatore e il gruppo.
Nella terza e ultima parte verrà presa in esame la connessione tra passato e presente
rispetto alle tecniche formative al servizio del formatore.
1
In “Prefazione” a Fare Filosofia (1998).
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PARTE PRIMA
Socrate, Platone, Aristotele
I tre maestri della
formazione del passato
5
INTRODUZIONE
Partendo dal presupposto che lo studio dei grandi pensatori del passato possa aiutare a
capire il presente, analizzeremo brevemente le tecniche di comunicazione innovative
proposte e utilizzate da tre grandi maestri: Socrate, Platone, Aristotele, e che, come
vedremo, vengono utilizzate ancora oggi.
Iniziamo il nostro percorso descrivendo brevemente gli eventi che caratterizzarono il
periodo nel quale i citati pionieri della formazione si sono trovati ad agire.
Ci troviamo nel V secolo a.C., e il movimento filosofico protagonista di questa epoca fu
la scuola sofistica. Mentre fino ad allora le scuole filosofiche indagavano i grandi
principi della natura, i sofisti accentrarono le loro discussioni sul problema dell’uomo
come cittadino, cioè dell’uomo che vive con altri uomini e tra essi deve far valere il
proprio acume critico, le proprie capacità, la propria convinzione morale. Gli allievi a
cui si rivolsero non costituirono, come nelle vecchie scuole filosofiche, ristrette cerchie
di studiosi che volevano essere “iniziati” alla scienza, ma gruppi di giovani che
sentivano il bisogno di istruirsi al fine di perfezionare le proprie capacità di cittadini. Il
nuovo tipo di cultura da essi affermato fu uno dei prodotti che meglio rappresentarono
le trasformazioni in atto nella società greca e, nel contempo, la causa di ulteriori sempre
più radicali trasformazioni; fu l’espressione di una profonda crisi, che si rifletté
nell’insegnamento sofistico e nei successivi.
Il nuovo tipo di insegnamento ebbe particolare successo in Atene perché seppe venire
incontro alle esigenze emerse dalla caduta dell’antico regime aristocratico. Vivere
attivamente in democrazia significava partecipare ad assemblee, prendervi la parola, far
valere la propria opinione in mezzo alle altre; e perciò saper pesare le varie accezioni e
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sfumature dei vocaboli, avere in mente le più belle espressioni dei poeti, riuscire a
comporre discorsi che accendevano l’attenzione; significava insomma, possedere quel
complesso di cognizioni grammaticali, lessicali, sintattiche, stilistiche, letterarie che
costituisce l’arte dell’eloquenza. I sofisti furono appunto maestri di eloquenza, maestri
di un’abilità indispensabile al ceto dirigente che apriva le vie al successo nella vita
politica.
Il successo dell’insegnamento sofista portò alla necessità di compiere un serio sforzo di
chiarificazione e semplificazione della loro scienza, di agganciamento di essa ad
applicazioni concrete, in modo da essere compresa dall’intera popolazione.
Per questo motivo l’attenzione dei sofisti si focalizzò principalmente sul discorso, con
l’intento di renderlo via via più efficiente e di impossessarsi sempre meglio della tecnica
che ne è alla base, della sua più interna struttura.
Sorse così la nuova disciplina che caratterizzerà più di ogni altra l’epoca sofistica: la
retorica.
Nonostante l’enorme successo, il termine “sofista” acquistò col tempo un significato
dispregiativo. Ciò fu dovuto soprattutto alla polemica condotta contro di essi da Platone
e Aristotele.
Nei suoi celebri dialoghi, Platone attribuì al personaggio di Socrate il delicato compito
di ribattere il sapere dei sofisti. Non c’è dubbio, però, sul fatto che il Socrate storico non
fu, nella polemica contro i sofisti, così aspro come ce lo dipinge Platone. Infatti i suoi
contemporanei lo dipinsero come maestro di arte sofistica.
Comunque non è questa la sede per affrontare un discorso così complesso.
7
Quello che preme sottolineare ora è l’enorme importanza che personaggi quali Socrate,
Platone e Aristotele assunsero nel campo formativo, ognuno con una tecnica
comunicativa e formativa propria e che assumono ancora oggi.
Le loro tecniche formative, come vedremo più dettagliatamente nella seconda parte e
nella terza parte di questo elaborato, sono ancora attuali.
Ad esempio il dialogo socratico è la tecnica utilizzata dal formatore nella conduzione
del gruppo in aula; i miti platonici oggi sono rappresentati dalle favole piuttosto che
dagli esempi utilizzati dal formatore per far comprendere agli allievi un concetto; il
peritato, può essere rappresentato dagli attuali metodi di insegnamento all’aperto.
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CAPITOLO 1 - SOCRATE
1.1 - LA VITA
La personalità di Socrate segna un momento fondamentale, non solo della filosofia
greca, ma dell’intera storia intellettuale dell’Occidente. Infatti la vita e la parola di
quest’uomo hanno avuto un’eco profonda, che è stata paragonata talora a quella di un
Cristo o di un Buddha.
Nacque ad Atene nel 470 o 469 a.C. (e morì nel 399 a.C.) il padre, Sofronisco, era
scultore, la madre, Fenarete, levatrice. Compì in Atene la sua educazione giovanile. Di
condizioni economiche appena mediocri, esercitò dapprima la professione del padre; in
seguito riuscì ad organizzarsi una vita modesta senza però urgenti preoccupazioni di
guadagno. Si allontanò da Atene solo tre volte per compiere il suo dovere di soldato e
partecipò alle battaglie di Potidea, Delio e Anfiboli. Non amava viaggiare, ma amava
invece circondarsi di giovani intelligenti con i quali dibattere i problemi più vivi del
momento. La sua passione per la discussione giunse a fargli avvicinare persone di ogni
età, ceto e professione.
Socrate si tenne lontano dalla vita politica attiva. La sua vocazione, il compito al quale
si dedicò e si mantenne fedele fino all’ultimo, dichiarando al tribunale stesso che si
apprestava a condannarlo che non lo avrebbe in nessun caso tralasciato, fu la filosofia.
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Ma egli intese la ricerca filosofica come un esame incessante di se stesso e degli altri; a
questo esame dedicò l’intero suo tempo, senza nessun insegnamento regolare.
Eppure quest’uomo, che ha dedicato alla filosofia l’intera esistenza ed è morto per essa,
non ha scritto nulla. È questo indubbiamente il più gran paradosso della filosofia greca.
Se Socrate non scrisse nulla, fu perché ritenne che la ricerca filosofica, quale egli la
intendeva e praticava, non poteva essere condotta innanzi, o continuata dopo di lui, da
uno scritto. Il motivo probabile della mancata attività di Socrate scrittore può vedersi
citato nel Fedro (275) platonico, nelle parole che il re egiziano Thamus rivolge a Theuth
inventore della scrittura: <<Tu offri ai discenti l’apparenze, non la verità della
sapienza; perché quand’essi, mercè tua, avranno letto tante cose senza nessun
insegnamento, si crederanno in possesso di molte cognizioni, pur essendo
fondamentalmente rimasti ignoranti e saranno insopportabili agli altri perché avranno
non la sapienza, ma la presunzione della sapienza>>. Per Socrate, che intende il
filosofare come l’esame incessante di sé e degli altri, nessuno scritto può suscitare e
dirigere il filosofare. Lo scritto può comunicare una dottrina, non stimolare la ricerca.
Se Socrate rinunziò a scrivere, ciò fu quindi dovuto al suo atteggiamento filosofico e fa
parte essenziale di tale atteggiamento.
Il fatto che Socrate non abbia scritto nulla costituisce, tuttavia, una grossa difficoltà per
la ricostruzione del suo pensiero. Infatti le testimonianze indirette che possediamo sono
parecchie e non sempre tra loro coerenti.
Platone, nei suoi Dialoghi, ci offre la più suggestiva e amorosa presentazione del
maestro, da cui è scaturita l’immagine “tradizionale” di Socrate. Egli può essere
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considerato la fonte più importante: infatti fu discepolo diretto di Socrate e con lui
condivise sempre l’idea della filosofia come ricerca continua.
1.2 - IL DIALOGO SOCRATICO
Il metodo di indagine praticato da Socrate si basa sull’argomentazione discorsiva,
rendendola snella, penetrante, sincera. Il suo metodo è il dialogo: dialogo tra persone
sinceramente intese a sviscerare il problema in esame, a precisarne i termini, a chiarirne
gli equivoci, sempre disposte a mutare le conclusioni raggiunte qualora si scoprano
nuovi argomenti contro di esse. Questa provvisorietà delle conclusioni è il sintomo di
una apertura nuova, di una nuova sensibilità per i problemi, di un profondo amore della
coerenza, che è tutto caratteristico di Socrate.
1.3 - IL NON-SAPERE
Per Socrate la prima condizione della ricerca e del dialogo filosofico è la coscienza della
propria ignoranza. Quando Socrate conobbe la risposta dell’oracolo di Delfi, che lo
proclamava il più sapiente fra gli uomini, interpretò il responso divino come se esso
avesse voluto dire che sapiente è soltanto chi sa di non sapere. Solo così riuscì a
convincersi che la sacerdotessa aveva ragione. La formula socratica incoraggia la
ricerca sull’uomo, costituendosi come sua condizione preliminare, poiché solo chi sa di
non sapere cerca di sapere, mentre chi si crede già in possesso della verità non sente
l’impellente bisogno interiore di cercarla. Di conseguenza, la tesi socratica del non
sapere funziona come un invito o uno stimolo ad indagare, entro i limiti dell’esperienza,
i problemi fondamentali dell’uomo.
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1.4 - L’IRONIA, IL DUBBIO
Nell’esame cui Socrate sottopone gli altri, coinvolgendo anche se stesso, la sua prima
preoccupazione è di renderli consapevoli della loro ignoranza. A tale scopo egli si
avvale dell’ironia. L’ironia socratica è il gioco di parole o il variopinto teatro di
“finzioni” attraverso cui il filosofo, denudando le coscienze soddisfatte delle loro
formule cristallizzate e delle loro pseudo-certezze, giunge a mostrare il sostanziale nonsapere in cui si trovano. L’ironia è dunque il metodo usato da Socrate per svelare
all’uomo la sua ignoranza e per gettarlo nel dubbio e nell’inquietudine, impegnandolo
nella ricerca. È una ironia che Socrate rivela anzitutto contro coloro che si credono
grandi maestri, non essendo consapevoli delle vere difficoltà delle questioni; ma non
risparmia nemmeno contro se stesso, per evitare il rischio di trasformare le proprie
concezioni in dogmi. Facendo ironicamente finta di non sapere, Socrate chiede al suo
interlocutore di renderlo edotto circa il settore di cui quest’ultimo è competente. Dopo
una teatrale adulazione del sapere del personaggio, Socrate comincia a martellarlo di
domande e ad avvolgerlo in una rete di quesiti. Utilizzando l’arma del dubbio e
manovrando l’abile tecnica della confutazione delle deboli e avventate risposte ottenute,
Socrate giunge a mostrare alla persona che gli sta di fronte l’inconsistenza delle sue
affermazioni, provocando in lui vergogna. Il filosofo può dunque raggiungere il suo
scopo principale: invogliare alla ricerca del vero.
1.5 - LA MAIEUTICA
Tutto ciò non significa che Socrate dopo aver fatto il vuoto nella mente del discepolo, si
proponga di riempirla immediatamente con una sua verità. Infatti egli non vuole
comunicare dall’esterno una propria dottrina, ma soltanto stimolare l’ascoltatore a
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ricercarne dall’interno una sua propria. Egli non ritiene di possedere alcuna verità da
riversare nei discepoli. La funzione della sua parola può soltanto essere quella di
risvegliare gli animi. Da ciò la celebre maieutica o arte di far partorire di cui parla
Platone, dicendo che Socrate aveva ereditato da sua madre la professione di ostetrico.
Come costei, essendo levatrice, aiutava le donne a partorire i bambini, così Socrate,
ostetrico di anime, aiuta gli intelletti a partorire il loro genuino punto di vista sulle cose.
La funzione della missione socratica, come le levatrici greche (che erano anziane e
quindi non più in grado di partorire), consisteva nell’aiutare i giovani, attraverso la
conversazione, a partorire conoscenze non viziate da inganni o pregiudizi. Scopo della
maieutica è esaminare e mettere alla prova i giovani, in modo da capire se le loro
intelligenze sono gravide di concetti validi e degni di essere sviluppati o, al contrario, di
falsità e illusioni da lasciar cadere. Il contesto educativo in cui deve avvenire tale ricerca
è il dialogo interpersonale, fatto di domande e risposte brevi, affidato alla amichevole
conversazione quotidiana. Socrate sosteneva che è proprio dal dialogo che viene a galla
la verità. Lo stile oratorio è scarno, secco e quasi familiare, ma modulato a seconda
dell’interlocutore. Socrate pone le domande e critica le risposte degli interlocutori. La
critica diventa stimolo per l’interlocutore a fornire una seconda risposta meglio
articolata: il gioco può andare avanti a lungo e spesso rimane aperto.
Pur essendo così aperto, l’insegnamento di Socrate non può dirsi privo di conclusione:
questa non sarà tuttavia una conclusione teorica (in quanto non consisterà nel possesso
di una verità assoluta), ma sarà una conclusione morale. Risvegliando ciò che vi è di più
intimo nelle coscienze, l’insegnamento avvia i giovani alla virtù: la virtù infatti è sapere,
cioè consapevolezza dei valori che l’uomo porta in sé, è superamento della propria
limitatezza con la comprensione di ciò che accomuna tutti gli individui.
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Egli rimane ancora oggi, per ciascuno di noi, maestro insuperato di chiarezza filosofica
e di profondo impegno culturale e morale. Infatti Socrate era convinto che il sapere deve
riuscire utile, interpretando questa utilità in senso concreto. Non si tratta di un sapere
utile alla vita pubblica, ma utile all’uomo in quanto essere ragionevole, e perciò utile a
tutte le attività umane, anche alle più modeste; qualsiasi attività umana infatti deve
trarre un immenso vantaggio dal diventare consapevole di se stesso.
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CAPITOLO 2 - PLATONE
2.1 - LA VITA
Platone nacque ad Atene nel 427 a.C. da nobile famiglia, che vantava una parentela con
Solone. Il contesto storico in cui visse e operò porta i tratti della decadenza e della crisi
politico-culturale.
Platone morì nel 347 a.C., all’età di 81 anni, senza vedere realizzato il suo sogno
dell’unione di tutta la Grecia nella forma di una federazione guidata da una polis
egemone ispirata ai principi dell’Accademia, la scuola che il filosofo aveva fondato nel
387 a.C. ad Atene, in un luogo sacro, ricco di monumenti e di tombe, nei pressi dei
giardini dedicati all’eroe Accademo. Essa fu uno dei massimi centri culturali
dell’antichità (venne chiusa da Giustiniano nel 529 d.C.).
Da giovanissimo compose poesie, che più tardi però volle distruggere. Iniziato alla
filosofia da Eraclito, passò poi nel circolo di Socrate e li rimase fino alla morte del
maestro. Egli ne fu, quindi, discepolo e visse in prima persona l’ingiusta condanna del
maestro (della quale si fa portavoce nell’Apologia): nasce proprio da questa esperienza
la filosofia platonica.
Perché Platone amasse tanto l’oralità e il dialogo è facile intuirlo: il dialogo presenta
parecchi vantaggi tra i quali la possibilità di interloquire e di modulare il discorso in
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base a chi ci si rivolge: un libro, invece, non consente un dibattito e può finire nelle
mani di persone che potrebbero fraintenderlo. Tuttavia egli stesso ha scritto molto. La
sua attività di scrittore inizia poco prima del 395 con l’Apologia di Socrate (una sorta di
manifesto con cui si volle riscattare la memoria del maestro ingiustamente condannato).
Scrisse poi diversi Dialoghi e alcune Lettere.
Platone è il primo filosofo di cui ci siano pervenuti tutti gli scritti. Ma che funzione
aveva la scrittura per Platone? Egli, pur prediligendo apertamente l’oralità, sente il
bisogno di scrivere, e lo fa mediante i miti. Può sembrare strano che un filosofo, che per
definizione è chi cerca di dare spiegazioni razionali e scientifiche, si serva del mito, che
non è nient’altro che una spiegazione fondata sulla tradizione e sulla religione: la verità
è che per Platone il mito è una cosa al di fuori del comune, che ha ben poco a che fare
con la tradizione. Egli sapeva bene che l’argomentazione razionale era migliore, ma
sapeva altrettanto bene che un mito, una favola o una metafora possono sortire ottimi
effetti: stimolano la fantasia, divertono e restano meglio impressi.
2.2 - IL SIGNIFICATO DEL MITO
2.2.1 - Il mito della caverna
Il racconto della caverna rappresenta uno dei miti più noti del settimo libro della
Repubblica, e del platonismo in generale.
Immaginiamo vi siano dei prigionieri incatenati in una caverna sotterranea e costretti a
guardare solo davanti a sé. Sul fondo della caverna si riflettono ombre, che sporgono al
di sopra di un muricciolo alle loro spalle e raffigurano tutti i generi di cose. Dietro il
muro si muovono, senza essere visti, i portatori degli oggetti, e più in là brilla un fuoco
che rende possibile il proiettarsi delle ombre sul fondo. I prigionieri scambiano quelle
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ombre per la sola realtà esistente. Ma se uno di essi riuscisse a liberarsi dalle catene,
voltandosi si accorgerebbe degli oggetti e capirebbe che essi, e non le ombre, sono la
realtà. Se egli riuscisse in seguito a risalire all’apertura della caverna scoprirebbe, con
ulteriore stupore, che la vera realtà non sono nemmeno gli oggetti, poiché questi ultimi
sono a loro volta imitazione di cose reali, nutrite e rese visibili dall’astro solare.
Dapprima, abbagliato da tanta luce, non riuscirà a distinguere bene gli oggetti e
cercherà di guardarli riflessi nelle acque. Solo in un secondo tempo li scruterà
direttamente. Ma, ancora incapace di volgere gli occhi verso il sole, guarderà le
costellazioni e il firmamento durante la notte. Dopo un po’ sarà finalmente in grado di
fissare il sole di giorno e di ammirare lo spettacolo scintillante delle cose reali.
Ovviamente, il prigioniero vorrebbe rimanersene sempre là, a godere, rapito, di quel
mondo di superiore bellezza, tanto che “preferirebbe soffrire tutto piuttosto che tornare
alla vita precedente”. Ma se egli, per far partecipi i suoi antichi compagni di ciò che ha
visto, tornasse nella caverna, i suoi occhi sarebbero offuscati dall’oscurità e non
saprebbero più discernere le ombre: perciò sarebbe deriso e spregiato dai compagni
che, accusandolo di avere gli occhi “guasti”, continuerebbero ad attribuire i massimi
onori a coloro che sanno più acutamente vedere le ombre della caverna. E alla fine,
infastiditi dal suo tentativo di scioglierli e dei portarli fuori della caverna, lo
ucciderebbero.
Secondo Platone fa parte dell’educazione del filosofo il ritorno alla caverna, che
consiste nella riconsiderazione e nella rivalutazione del mondo umano alla luce di ciò
che si è visto al di fuori di questo mondo. Ritornare alla caverna significa, per l’uomo,
porre ciò che ha visto a disposizione della comunità, rendersi conto egli stesso di quel
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mondo, che, per quanto inferiore, è il mondo umano, quindi il suo mondo, e obbedire al
vincolo di giustizia che lo lega all’umanità nella propria persona e in quella degli altri.
Dovrà dunque riabituarsi all’oscurità della caverna; e allora vedrà meglio dei compagni
che vi sono rimasti e riconoscerà la natura e i caratteri di ciascuna immagine per averne
visto il vero esemplare. Soltanto con il ritorno nella caverna, soltanto cimentandosi nel
mondo umano, l’uomo avrà compiuto la sua educazione e sarà veramente filosofo.
2.3 - LA FUNZIONE DEI MITI NELL’EDUCAZIONE DEI GIOVANI
Se da una parte, i miti vanno esclusi dal curricolo di studio dei futuri governanti,
dall’altra non si può fare a meno di divulgare quelle favole che presentano esempi
positivi e che incitano al bene e alla virtù. Infatti, il criterio che deve presiedere alla
selezione dei miti è quello della giustizia: i racconti devono contenere esempi positivi
che colpiscano l’immaginazione dei lettori al fine di predisporli a compiere azioni giuste
e a ripudiare l’ingiustizia.
Platone accoglie il mito come strumento per esprimere in modo piacevole alcune verità
che la ragione non sa cogliere con sufficiente chiarezza. La motivazione e il significato
dell’utilizzazione dei miti da parte di Platone costituiscono tuttora argomento di
dibattito tra gli studiosi; in linea generale, si può affermare che il mito, in Platone, ha
due significati fondamentali. Per una certa categoria di racconti, il mito è uno strumento
di cui il filosofo si serve per comunicare in maniera più accessibile e intuitiva le proprie
dottrine all’interlocutore. Da questo punto di vista, esso è un mezzo didattico concepito
proprio per facilitare la comunicazione intellettuale e la comprensione del pensiero: si
tratta di miti inventati appositamente dallo stesso filosofo. Per un altro gruppo di
racconti, invece, il mito assume un senso più profondo: è il mezzo utilizzato dal filosofo
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per poter parlare di realtà che vanno al di là dei limiti cui l’indagine rigorosamente
razionale può spingersi. In tal senso, il mito risulta essere qualcosa che si inserisce nelle
lacune della ricerca filosofica, permettendole, in alcuni casi, di formulare una teoria
“verosimile” che, come tale, non è né una semplice favola né un’argomentazione
pienamente dimostrativa, bensì qualcosa che, pur essendo indimostrabile, si può
ragionevolmente ritenere vero.
2.4 - IL METODO MAIEUTICO NELL’INTERPRETAZIONE DI PLATONE
Il compito di fondamentale importanza che Platone attribuisce al filosofo è quello di
infranger le catene della conoscenza sensibile e portarci al mondo delle idee.
Questa radicale liberazione si potrà compiere con il metodo ereditato da Socrate, il
metodo maieutico, ma in una rivisitazione del tutto nuova.
Con esso, come sappiamo, Socrate mirava a risvegliare negli interlocutori la voce della
coscienza. Platone invece lo interpreta come rivolto a condurre il discepolo a trovare in
sé le verità razionali, contrapposte alle apparenze dei sensi.
Tipico è il celebre esempio riferito nel Menone. Viene interrogato un giovane schiavo,
totalmente privo di conoscenze geometriche; gli si pone un quesito ed egli, dopo
qualche errore iniziale, trova da sé la soluzione richiesta.
Si tratta di un’applicazione del metodo maieutico ad un campo di problemi che non fu
mai affrontato da Socrate.
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CAPITOLO 3 - ARISTOTELE
3.1 - LA VITA
Aristotele nacque a Stagira, una cittadina della penisola Calcifica nel nord della Grecia,
nel 384 a.C. Il padre Nicomaco era medico presso la corte del re dei macedoni Aminta,
ma morì quando Aristotele era ancora giovane. Egli fu quindi allevato da un parente più
anziano, di nome Pirosseno. Nel 367, all’età di 17 anni, andò ad Atene ed entrò nella
scuola di Platone. Vi rimase sino alla morte del maestro (348-347), cioè per 20 anni,
svolgendo un’attività di insegnamento. È probabile che Aristotele pensasse di assumere
la direzione della Scuola, che venne invece assunta da Speusippo, nipote di Platone e
successivamente da Senocrate. La sua formazione spirituale si compì dunque
interamente sotto l’influenza dell’insegnamento e della personalità di Platone.
Alla morte di Platone, Aristotele lasciò l’Accademia, alla quale più nulla oramai lo
legava, e si recò ad Asso, in Asia minore. In realtà se ne sarebbe già andato prima in
quanto aveva idee divergenti da quelle del maestro, ma si trattenne fino alla sua morte
per il rispetto che aveva nei confronti di Platone. Ad Asso, con altri due scolari di
Platone, ricostituì una piccola comunità platonica, dove probabilmente egli tenne per la
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prima volta un insegnamento autonomo, grazie ad Ermia, tiranno di Atarneo, che
nutriva simpatie per la filosofia platonica.
Nel 355, dopo 13 anni, Aristotele ritornò ad Atene. L’amicizia del potente re metteva a
sua disposizione mezzi di studio eccezionali, che facilitarono le ricerche che egli
condusse in tutti i campi del sapere. La scuola che Aristotele fondò, il Liceo,
comprendeva, oltre all’edificio e al giardino, la passeggiata o peripato da cui prese il
nome.
3.2 - IL LICEO
Il Liceo è considerato la prima scuola superiore della storia dell'umanità. Venne fondato
nel ginnasio dedicato ad Apollo Licio, chiamato per questo motivo Liceo o Peripato. Si
tramanda che Aristotele usasse insegnare passeggiando per trasmettere ai sui discepoli
l'amore per tutto ciò che è il mondo e per far loro assorbire l'essenza della natura. Da ciò
nacque il nome "peripatetica" per la scuola. Il Liceo teneva corsi regolari, mattina e
pomeriggio. Nei primi il livello delle lezioni era normale, negli altri, riservati a
pochissime persone, teneva lezioni dottissime ed esemplarmente preparate. Inoltre,
organizzava anche il lavoro di approfondimento degli allievi, facendo eseguire ricerche
di biologia, mineralogia, astronomia, matematica ed anatomia, e raccogliere testi di
scrittori, soprattutto filosofi e pensatori saggi. Non sappiamo invece quali fossero le
differenze di metodo rispetto all'Accademia di Platone, che lo stesso Aristotele aveva
frequentato per molti anni.
Nel 323 però, morto Alessandro in Oriente, prese il sopravvento ad Atene la corrente
avversaria capeggiata da Iperide. La tradizione vuole che Aristotele, accusato di
empietà, abbia allora pronunciato la celebre frase: “Non voglio che gli Ateniesi
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commettano un secondo crimine contro la filosofia”, alludendo alle vicende di Socrate.
Di fatti egli si allontanò da Atene e si ritirò a Calcide, sull’isola di Eubea.
Qui nel 322 morì all’età di 62 anni. E così il suo Liceo, diretto prima da Teofrasto e poi
da Stratone pian piano perse di importanza e non ebbe più alcun peso nella cultura del
mondo antico.
In ogni caso, alla morte di Aristotele, il suo Liceo aveva circa duemila allievi e poteva
essere considerato il primo esempio di istituto scientifico nel senso moderno del
termine. La sua grandiosa biblioteca costituì il modello per tutte le grandi biblioteche
dell’antichità.
3.3 - INSEGNAMENTO E CONOSCENZA
Aristotele riteneva che conoscenza e insegnamento fossero inseparabili. Pensava infatti
che non si potesse asserire di conoscere qualcosa se non si è capaci di trasmettere ad
altri tale conoscenza e considerava l’insegnamento la manifestazione specifica della
conoscenza.
3.4 - GLI SCRITTI
Inoltre, oggi disponiamo di un’enorme quantità di scritti aristotelici, riguardanti quasi
tutti i campi del sapere. Ricordiamo: scritti di logica; scritti filosofici; scritti di fisica, di
storia naturale, di matematica e di psicologia; scritti di etica, di politica, di economia e
di poetica. Vediamo alcuni concetti trattati in questi scritti da Aristotele.
22
3.4.1 - La logica
Nella classificazione aristotelica delle scienze non trova posto la logica, poiché essa ha
per oggetto la forma comune di tutte le scienze, cioè il procedimento dimostrativo, o le
varie modalità di ragionamento, di cui esse si avvalgono. Infatti il termine logica allude
allo studio del pensiero espresso nei lògoi o discorsi. Tuttavia, il termine non è
aristotelico; egli per designare la sua dottrina del ragionamento, ovvero del
“sillogismo”, usava piuttosto il termine analitica, alludendo con tale espressione, al
metodo di “risoluzione” del ragionamento nei suoi elementi costitutivi.
La teoria del sillogismo è esposta da Aristotele negli Analitici primi e negli Analitici
secondi.
3.4.2 - La dialettica
I Topici, invece, sono dedicati allo studio della dialettica. La dialettica si distingue dalla
scienza per la natura dei suoi principi: i principi della scienza sono necessari, cioè
assolutamente veri, i principi della dialettica sono probabili cioè sembrano accettabili a
tutti o ai più. Fondati su principi di questo genere sono i ragionamenti adoperati
nell’oratoria forense e politica, che Aristotele studia nella Retorica, oppure quelli che
sono fatti allo scopo di esercitarsi nell’arte di ragionare. A questo proposito Aristotele
distingue, classifica e valuta nel loro valore dimostrativo i luoghi logici, cioè gli schemi
argomentativi che sono usati nella discussione.
3.4.3 - Psicologia e gnoseologia
Per quanto riguarda la teoria della conoscenza, Aristotele comincia la sua analisi dalla
sensibilità, affermando che, oltre ai cinque sensi specifici, ognuno dei quali fornisce
23
particolari sensazioni, c’è un senso comune cui egli attribuisce una duplice funzione:
quella di costituire la coscienza della sensazione; quella di percepire le determinazioni
sensibili comuni a più sensi come il movimento. Dal senso si distingue
l’immaginazione, che è la facoltà di produrre, evocare o combinare immagini
indipendentemente dagli oggetti cui esse si riferiscono. Pur derivando geneticamente
dalla sensibilità, in quanto l’immagine è una sorta di traccia o memoria lasciata
nell’anima dalla sensazione, l’immaginazione si distingue strutturalmente da essa per la
sua autonomia nei confronti dagli oggetti esterni. Più semplicemente l’immagine
generale rappresenta una sorta di antecedente all’universale.
Tuttavia, l’universale sarebbe destinato a non venire mai alla luce, se non intervenisse
l’intelletto. Infatti, quest’ultimo, agendo sui dati offerti dalla sensibilità e
dall’immaginazione, riesce a costruire i concetti universali su cui si basa tutta la nostra
conoscenza.
3.4.4 - L’etica
Ogni azione e ogni scelta sono fatte in vista di un fine che appare buono e desiderabile:
il fine e il bene coincidono. I fini delle attività umane sono molteplici e alcuni di essi
sono desiderati soltanto in vista di fini superiori; ad esempio, la ricchezza, la buona
salute si desiderano per la soddisfazione e i piaceri che possono dare. Ma ci deve essere
un fine supremo, un fine che è desiderato per se stesso, e non già in quanto condizione o
mezzo di un fine ulteriore. Non c’è dubbio, secondo Aristotele, che questo fine ultimo
sia la felicità. La ricerca e la determinazione di esso è l’oggetto primo e fondamentale
della scienza politica, perché solo rispetto ad esso si può prescrivere ciò che gli uomini
nella loro vita associata e come esseri singoli debbono fare o apprendere.
24
Ognuno è felice in quanto fa bene l’opera sua. Ma il compito proprio dell’uomo in
quanto tale è la vita della ragione. L’uomo dunque sarà felice solo se vive secondo
ragione; e questa vita è la virtù. Ci sono due virtù fondamentali: la prima consiste
nell’esercizio stesso della ragione, quindi virtù intellettiva; l’altra consiste nel dominio
della ragione sugli impulsi sensibili, quindi virtù morale (etica).
3.4.5 - La politica
Secondo Aristotele, l’origine della vita associata è da ricercarsi nel fatto che l’individuo
non basta a se stesso; non solo nel senso che non può da solo provvedere ai suoi
bisogni, ma anche nel senso che non può da solo, cioè al di fuori della disciplina
imposta dalle leggi e dall’educazione, giungere alla virtù. Per conseguenza, lo stato è
una comunità che non ha in vista soltanto l’esistenza umana, ma l’esistenza
materialmente e spiritualmente felice.
25
PARTE SECONDA
La formazione ai giorni
nostri: il gruppo
26
INTRODUZIONE
Sono dell’avviso che si stia assistendo in questi anni a un processo di profonda e
radicale trasformazione dei metodi formativi.
Ma in che cosa consiste esattamente questo cambiamento?
Chiunque abbia presente la situazione della formazione credo non fatichi molto a
ritrovare nel tema dei metodi un dibattito che può essere sintetizzato nelle tre
opposizioni seguenti:
a) accademismo vs. attivismo.
Accademismo: significa distanza (rilevante ed eccessiva) tra docente e allievo,
rigidità della relazione pedagogica, freddezza, impersonalità.
Attivismo: significa coinvolgimento diretto dell’allievo, riferimento al gruppo,
imparare facendo esercizi, sperimentando, risolvendo problemi, alternanza di
momenti
di
apprendimento,
costruzione
finalizzata
e
guidata
dell’apprendimento, discussione e confronto, vivacità, responsabilizzazione.
L’opposizione tra i due approcci si sintetizza così come differenza tra una
modalità di conseguimento del sapere vincolata all’ascolto e all’attenzione ed
una basata sul coinvolgimento in prima persona dell’allievo; tra un sapere per
trasmissione ed uno per elaborazione, per analisi, soluzione, discussione di
problemi.
b) contenuti vs. processi. Opposizione che contrappone chi punta su finalità di
apprendimento e traguardi educativi espressi dal conoscere contenuti propri del
cosiddetto know-how professionale (il “bagaglio” di sapere) e chi invece ritiene
di importanza prioritaria traguardi educativi connessi ad un sapere dei
comportamenti di lavoro e delle relazioni interpersonali, cioè quei processi
27
implicati nella relazione con gli altri (a fatti cioè di comunicazione, di comando
e guida dei collaboratori, di esercizio di autorità, di conflitto e collaborazione, di
decisione…).
Questa differenza diviene reale opposizione proprio rispetto al metodo, come
confronto tra una modalità di apprendimento basata prevalentemente sulla
trasmissione di sapere ed una centrata sull’elaborazione più personale.
c) strutturazione vs. destrutturazione. Viene a configurarsi una più precisa
opposizione di approcci didattici tra una formazione programmata nei dettagli ed
una come contenitore di eventi: tra una modalità educativa espressa nel far
compiere un certo percorso di apprendimento in modo logico e ordinato secondo
una sequenza prestabilita, rigorosamente strutturata, ed una che è pensata come
il percorso stesso, che si tratterà di costruire momento per momento e in quel
momento, dove ciò che è prestabilito non sono i temi (o i mezzi, i materiali, le
procedure nel dettaglio) ma solo ed esclusivamente i confini spazio-temporali
(l’aula fisicamente intesa o il gruppo e la durata degli incontri rispetto all’arco
temporale del seminario).
Queste tre opposizioni, pur se molto schematicamente ricostruite, esprimono in
definitiva caratteri e contenuti del dibattito e della riflessione sul metodo, oggetto di
questa tesi.
Guardando ai contributi in tema di metodologie didattiche, alcuni dei quali ormai
decisamente classici, le classificazioni tra metodi tendono a ricorrere pressoché
identiche. Si può anzi individuare una tipologia-standard nell’elenco che segue:
a) istruzione programmata: si concretizza in una sequenza di unità di
28
conoscenza in forma di altrettante domande per ciascuna delle quali è prevista
risposta e possibilità di controllo della stessa: la risposta esatta consente la
prosecuzione del percorso, la risposta errata esige riapprendimento.
b/c/d) lezione/lettura/discussione. Queste metodologie configurano di fatto la
tradizionale relazione di insegnamento: al soggetto è richiesta attenzione e ascolto.
La lezione istituisce massima dipendenza dell’allievo dal docente ma consente
altresì basso controllo da parte di quest’ultimo sull’apprendimento del primo: chi
potrebbe negare la possibilità sempre presente in questi casi per il soggetto di
evadere mentalmente, di interrompere l’ascolto indipendentemente dal fatto che il
docente continui secondo lo schema che si era prefissato?
A parziale integrazione della lezione, lettura e discussione consentono uno scambio
più attivo tra docenti e allievi: un confronto, un’interrogazione reciproca, una
verifica.
e/f) incident/caso. Un caso è una decisione da prendere, un intervento da proporre,
un cambiamento da adottare come soluzione della situazione-problema. Esso
costituisce il punto di passaggio dall’approccio accademico a quello cosiddetto
attivo: dove la relazione pedagogica tra docente e allievo privilegia la discussione ed
il confronto al semplice “ascolto”.
L’incident invece lo si potrebbe definire un “caso da completare”. Ai soggetti,
infatti, posti di fronte ad una situazione-problema delineata nei suoi tratti essenziali
è anzitutto richiesto di ricostruire il caso, di individuare il tipo di dati e informazioni
necessarie all’analisi e di proporre una soluzione “in ipotesi”.
g/h/i/l) simulazione/in-basket/role-play/esercitazione. Questi metodi segnalano il
definitivo passaggio da un approccio “accademico” ad un attivo. La logica condivisa
29
è quella dell’apprendimento per esercizio, sperimentazione, riproduzione (attiva) di
problemi e situazioni. Riferimento altrettanto condiviso è ad un modello di
apprendimento di tipo esperienziale che segue rigorosamente i passaggi di
sperimentazione Æ analisi Æ concettualizzazione.
In linea di principio si tratta dunque di metodi didattici che puntano su un più
elevato e diretto coinvolgimento dei soggetti nel processo di apprendimento, che
ridefiniscono il ruolo del docente in funzione di compiti e obiettivi di stimolazione,
guida, “conduzione” del processo stesso.
m) gruppo esperienziale. Il gruppo è momento e strumento, motivo e movente,
soggetto e oggetto di apprendimento. Il riferimento classico è al T-group come
scoperta originale e creativa delle possibilità e delle potenzialità formative del
gruppo (come vedremo oltre).
In generale, va precisato che il “Gruppo Esperienziale” si caratterizza come
modalità formativa anzitutto per il tipo di apprendimento sollecitato, in termini di
analisi e rielaborazione personale dell’esperienza del soggetto “nel gruppo” ed in
funzione di differenti livelli, da quello delle modalità di interazione o di
“rapportarsi” con gli altri a quello dei vissuti emotivi suscitati o emergenti. Si
caratterizza inoltre come progetto educativo in larga misura destrutturato, vincolato
a “ciò che succede qui e ora” ovvero alle verbalizzazioni dei soggetti, al materiale
da essi prodotto. Questo metodo si propone come soluzione formativa privilegiata a
fronte di obiettivi di crescita e sviluppo personale.
n/p/q) gruppo di studio/lavoro di progetto/autocaso. Proposito condiviso è quello di
favorire un apprendimento maggiormente centrato sul soggetto sia rispetto ai
processi attivati che ai contenuti del progetto educativo.
30
Il gruppo di studio si propone come lavoro di approfondimento di argomenti scelti
dai soggetti e per cui è richiesto di raccogliere materiali, di organizzarli, rielaborarli
e predisporre una “relazione” come sintesi del lavoro stesso.
Nel lavoro di progetto l’obiettivo del progetto educativo consiste essenzialmente
nella stesura di un caso, nella ricostruzione “dal vero” di tali situazioni-problema e
dove sono previsti momenti di lavoro “sul campo” per l’acquisizione di dati e
materiale informativo.
L’autocaso è un caso reale di uno dei partecipanti al progetto educativo ricostruito
interamente “in aula” secondo modalità di lavoro che richiedono l’acquisizione di
strumenti concettuali di analisi e classificazione dei dati e la loro applicazione ai
casi in oggetto.
Questo tipo di metodi si propone di sollecitare più elevati livelli di coinvolgimento
in funzione delle “vicinanza” e dell’interesse per i contenuti di lavoro e di attivare
percorsi di apprendimento complessi.
Metodi invece, recenti e/o impraticati sono:
a/b) outdoor development/outward bound. Si tratta di metodologie e progetti
educativi al tempo stesso, caratterizzati da:
-
condizioni
di
apprendimento
assolutamente
estranee
ai
soggetti
e
prevalentemente del tipo “territori naturali” più o meno difficili (rapide,
montagne, foreste, deserti e mari);
-
compiti di apprendimento legati per lo più ad esercizi di esplorazione o
avventura o sopravvivenza nel territorio naturale scelto.
31
Le finalità dei metodi sono evidentemente quelle di proporre un percorso di
apprendimento dalla realtà ma in situazioni-limite che richiedono un completo
coinvolgimento del soggetto (anche fisico) e in condizioni in abituali assolutamente
non familiari tali da richiedere al soggetto stesso l’utilizzazione di tutte le sue
risorse, la ricerca e la sperimentazione attiva in assenza di punti di riferimento stabili
e rassicuranti. Tendono a proporsi come metodologie per lo sviluppo di specifiche
capacità manageriali. La logica seguita è: un gruppo solo di fronte a problemi
concreti può scoprire effettivamente che cosa è un gruppo.
c/d) learning community/autonomy laboratory. L’apprendimento non può che essere
favorito dalla costituzione spontanea di un gruppo di soggetti che reciprocamente si
scelgono, condividono gli stessi obiettivi di apprendimento e l’intenzione di
realizzare un progetto finalizzato. I due metodi sono assai simili, ma:
-
learning community si propone come progetto educativo vincolato al principio
che ciascun soggetto è responsabile in prima persona dell’identificazione e
realizzazione dei propri obiettivi di apprendimento nonché della collaborazione
con altri per identificare e realizzare i loro obiettivi. Il concetto di “comunità di
apprendimento” fa riferimento piuttosto alla “rete” che collega i soggetti, non
già alla loro disposizione o collocazione fisica nella stessa stanza.
-
Autonomy laboratory. Si lavora prevalentemente con materiali tradizionali
anche se l’obiettivo primario di “apprende ad apprendere” può richiedere mezzi
e risorse le più diverse. Qui il docente ha ruolo di coordinatore e al tempo stesso
di risorsa e “tramite” per l’acquisizione di altre risorse. Il progetto educativo non
tende pertanto a proporsi obiettivi di unidirezionalità e sequenzialità del
processo di apprendimento in conformità con la linearità di rapporto
32
docente Æ allievo.
e/f) action learning/joint development activities. Per quanto riguarda il metodo AL
viene definito la vera innovazione nel campo dei metodi, la “svolta”. I tratti
essenziali sono:
-
il tentativo di saldare il momento dell’apprendimento con quello dell’azione
ovvero della quotidiana attività di lavoro del soggetto, il tentativo di ristabilire
quella circolarità sempre cruciale tra
apprendere Å Æ agire come identità inscindibile dei due momenti.
-
L’ancoraggio del progetto educativo a problemi concreti di lavoro
-
La sollecitazione di processi di apprendimento complessi finalizzati a
promuovere sapere non per semplice acquisizione dall’esterno bensì per
rielaborazione e scoperta originale. Quindi sviluppo e consapevolezza.
Per quanto riguarda il metodo denominato Joint Development Activities (JDA) esso
tende a coincidere in larga misura con AL.
Unica differenza, per quanto di rilievo, ha a che vedere con l’orientamento
eminentemente “propositivo” dei progetti JDA rispetto a quello tendenzialmente
“risolutivo” di AL: mentre questi ultimi vincolano il modello di apprendimento e la
struttura del progetto a problemi nel senso proprio delle “cose che non vanno o non
funzionano” e per le quali ricercare soluzione, i primi orientano piuttosto i soggetti
nel senso di ricercare nuove idee finalizzate anzitutto alla crescita allo sviluppo alla
realizzazione di nuove opportunità in riferimento al ruolo ricoperto dai soggetti
stessi.
g) metodi riflessivi. Si ritrovano in quest’area in particolare due tipi di metodologie:
33
-
MdA riflessivo: obiettivo educativo perseguito è quello di favorire una
riflessione sulle modalità soggettive del conoscere e del costruire e la
conoscenza
-
TM (Trascendental Meditation), Seminari anti-stress. Finalità di recupero
psico-fisico, di integrazione mente-corpo, di controllo dei processi mentali,
di espansione delle potenzialità di apprendimento. Più precisi riferimenti
hanno a che vedere, tra l’altro, con tecniche di rilassamento quali il
Training-Autogeno, tecniche di Bioenergetica, di Meditazione, di Sviluppo
della Creatività.
Con queste precisazioni si tratta di riprendere il percorso attinente la formazione di
gruppo, partendo dall’analisi del formatore e proseguendo con l’analisi del gruppo.
34
CAPITOLO 1 - IL FORMATORE
Analizziamo ora la figura del formatore che conduce un gruppo di formazione, quale
può essere l’aula, e tutto ciò che deve essere contenuto nel suo bagaglio di tecniche e
strategie comunicative, nonché di conoscenze relative al gruppo stesso. Ma andiamo
con ordine.
1.1 - CHI È IL FORMATORE
La professionalità richiesta al conduttore di gruppo non è più quella dello specialista in
gruppi che utilizza ripetutamente uno strumento in modo invariato rispetto ai
partecipanti, al contesto e agli obiettivi della formazione. Egli è piuttosto un
professionista che si colloca entro un contesto specifico e progetta situazioni di
formazione entro le quali utilizza anche situazioni di gruppo al fine di promuovere e
accompagnare processi di pensiero e di ricerca, sostenendo la fatica dei partecipanti di
pensarsi all’interno delle condizioni indagate. Questo almeno all’interno di un
orientamento formativo che enfatizzi l’importanza della capacità di pensare, di
apprendere più che l’acquisizione passiva di nozioni e abilità; lo sviluppo della
coscienza di sé e del mondo circostante più che la sottomissione a modelli del sapere e
dell’essere precodificati; la ricerca sui problemi più che la ripetizione.
35
Sul tema del formatore si riscontrano tre elementi di dibattito che sembra possibile
segnalare come:
a) l’identità difficile. Scontata la centralità riconosciuta alla figura di docente un
approfondimento delle caratteristiche professionali e di ruolo che vanno
riconosciute viene spesso risolto “per differenze”: ragionando cioè in funzione
del tentativo di chiarire ciò che non è il docente, anziché ciò che è. Di esse in
particolare, utilizzando la formula delle “opposizioni”, si segnalano le seguenti:
-
docente vs. tutor: nel docente è riconosciuto l’insegnante, il “gestore
dell’aula”, il responsabile del processo di apprendimento e nel tutor il
coordinatore del corso. Il criterio utilizzato fa riferimento alle differenti
responsabilità formative.
-
Docente vs. trainer: nel trainer si identifica un modo diverso di fare il
docente, conforme ad un approccio pedagogico orientato all’esperienza
anziché alla semplice trasmissione di conoscenze. La differenza di basa sul
ricorso ad un criterio di modello pedagogico.
-
Docente vs. “gestore”: prevale l’impiego di un criterio di specializzazione
funzionale: al gestore vengono riconosciuti e affidati compiti di controllo del
progetto educativo anziché di insegnamento, compiti di programmazione dei
corsi, di individuazione dei partecipanti…
-
Docente vs. consulente: prevale il rimando ad un più generale criterio di
tipologia di intervento: al consulente è riconosciuto un ambito di azione dai
più ampi confini e per cui formazione significa non più attività didattica ma
piuttosto strumento di intervento.
36
A questo punto sorge l’interrogativo: dove si colloca esattamente il formatore? A quale
delle figure indicate meglio corrisponde?
È proprio a questo specifico interrogativo che sembra non esservi risposta
soddisfacente. Per come ci è possibile rispondere, differenze di ruolo saranno semmai
riconducibili ad altrettante differenze di disegno e di modalità di realizzazione: ad
altrettanti tipi di progetto educativo.
Per cui, ci si può proporre di articolare figure differenti in conformità con differenti
modalità di presidiare e condurre attività formative.
b) i rischi del mestiere. Ossia problematiche del “fare formazione”: difficoltà,
ostacoli, ma anche regole e principi del mestiere.
Tre temi in particolare vanno evidenziati come altrettanti motivi di fondo per tali
riflessioni:
-
tema della manipolazione: ha a che vedere con la preoccupazione che fare
formazione significhi in ogni caso “esercitare influenza”: che dunque
l’azione formativa possa tradursi non tanto nella sollecitazione, attivazione,
guida e orientamento di processi di apprendimento, ma piuttosto che ciò
possa essere “praticato” ricorrendo alla persuasione, al convincimento, alla
suggestione. Problema superabile in quanto forse la preoccupazione
maggiore è quella di non incidere affatto, invece che incidere troppo.
-
Tema delle fantasie: i rischi del formatore sarebbero sostanzialmente
riconducibili all’incapacità di riconoscere la pluralità di figure che per il
tramite del formatore possono essere “evocate”. Quali ad esempio: terapeuta
37
(guarire), maieuta (dare alla luce, far emergere), analista (interpretare, far
prendere coscienza)…
-
Tema della triangolarità: va riferita al tipo di relazione tra le parti che
l’attività formativa chiama in causa: il formatore, come colui che gestisce il
processo o guida l’azione di formazione; il committente, cioè colui che
promuove la richiesta di “intervento formativo”; l’utente, cioè coloro che
direttamente saranno coinvolti dalla formazione in quanto “partecipanti al
corso”.
Il rischio sarà quello dell’incertezza, della non-chiarezza, dell’insicurezza dei
ruoli rispettivi: ciò che costituisce indubbio elemento di complicazione per
l’azione del formatore stesso di saperlo riconoscere esplicitare e risolvere
efficacemente.
c) le cosiddette “expertises”. Un terzo tipo di elementi di riflessione e dibattito ha
infine a che vedere con la professionalità del formatore in termini di:
-
competenze/esperienze richieste per un efficace adempimento del ruolo;
-
regole e principi-guida per l’azione formativa;
-
iter di preparazione e formazione personale.
In particolare si può parlare di:
-
competenze: in tema di psicologia dell’apprendimento e strumenti didattici,
analisi organizzativa e dei compiti, programmazione della formazione e
analisi dei risultati;
-
caratteristiche di fluidità, autentico interesse per la crescita degli altri,
capacità di affrontare emozioni anche intense, capacità di elaborare
atteggiamenti euforici che possono prodursi in situazioni di formazione;
38
-
capacità di avere un buon rapporto con la committenza diretta e l’autorità,
saper diagnosticare i bisogni reali dei partecipanti e dell’organizzazione,
progettare iniziative formative, programmare le risorse utilizzabili, i tempi e
la sequenza dell’attività, realizzare il programma, verificare i risultati.
Il livello del lavoro formativo e dell’analisi è definito dagli obiettivi da realizzare, e
quindi dal tipo di contratto stabilito tra formatori e partecipanti.
L’obiettivo è l’elemento centrale al fine di individuare il livello di lavoro appropriato: la
centratura dipende a priori da ciò, e dalla capacità del formatore di cogliere quando e
come il “gruppo di lavoro” si stia trasformando verso forme di degenerazione antitetiche
all’obiettivo stesso. Il suo intervento sarà, in termini generali, orientato dagli stessi
motivi per i quali è opportuno usare questo strumento. Infatti il gruppo di formazione
risulta utile quando occorra effettivamente che le persone scambino ed elaborino
informazioni.
Esso implica una situazione esperienziale meno passiva di quanto non possano una
lezione o strumenti quale l’assemblea. Esso consente spazi perché tutti i partecipanti
possano prendere la parola in modo non solo impersonale ed esterno, raccontandosi
attraverso le proprie esperienze, attraverso un linguaggio costituito anche dalla
corporeità e dall’emotività.
Da questa premessa possiamo illustrare i vari livelli in cui si può strutturare il ruolo del
formatore in relazione ai partecipanti della formazione e all’obiettivo formativo.
39
APPRENDIMENTO DEL PROCESSO
DI APPRENDIMENTO
PROCESSO DI APPRENDIMENTO
V: AGEVOLATORE
DELLO SVILUPPO
PERSONALE
IV: “GESTORE” DEL
PROCESSO DI
APPRENDIMENTO
CAMPO DELLE
RELAZIONI
INTERPERSONALI
PROCEDURA DI ANALISI/
SOLUZIONE DEL PROBLEMA
TERRITORIO DEL
“LAVORO”:
STRUTTURA
DELLE
RELAZIONI
PROBLEMA
II: DOCENTE
(I: CONSULENTE)
III: ANIMATORE
FIGURA 12.
Come da Figura 1:
LIVELLO-BASE: La figura-base che rappresenta il “grado zero” di articolazione del
modello identifica un situazione relazionale classica, cioè, il ruolo dell’espertoconsulente è sostanzialmente quello di assumersi “per conto” del cliente il problema e di
fornire adeguata soluzione. A partire dalla figura-base è possibile costruire
progressivamente differenti ipotesi di relazione conformi al campo operativo della
formazione.
2
Figura tratta da Fare formazione (1985).
40
LIVELLO I: Così, nel livello successivo si ritrova l’altrettanto classico schema
relazionale docente-allievo. L’obiettivo diviene l’occasione di apprendimento o meglio
il tramite per l’acquisizione da parte dell’allievo di quegli strumenti (conoscitivi e
tecnici) che gli consentiranno di far fronte al problema. Nella sfera d’azione dell’esperto
stesso come diretta responsabilità della sua risoluzione “al posto” del soggetto-utente, il
ruolo di docente rinvia piuttosto a responsabilità connesse con il processo di
trasmissione di sapere inerente al problema e la sua soluzione dal docente stesso al
soggetto-allievo. La trasformazione del ruolo di esperto in quello di docente corrisponde
pertanto al primo livello di articolazione del modello.
LIVELLO II: Il secondo livello di articolazione del modello prevede una nuova
trasformazione del ruolo di esperto: dove la sua azione si identifica nella trasmissione di
un tipo di sapere non specialistico né finalizzato direttamente all’oggetto-problema ma
piuttosto inerente la relazione tra soggetto e oggetto-problema. In questo caso è anzi la
relazione stessa ad essere oggetto-problema: quindi la promozione di un sapere “sul
soggetto”, anziché la trasmissione di un sapere di tipo tecnico-operativo. La figura
dell’animatore si sostituisce a quella del docente.
LIVELLO III: Diventa del tutto conseguente identificare nel processo di apprendimento
l’oggetto della relazione tra esperto ed utente ad un terzo livello di articolazione.
L’animatore si trasforma in “gestore” di un progetto educativo (coordinatore e guida al
tempo stesso): assume cioè ruolo di presidio delle modalità di svolgimento del progetto
nonché di risorsa a disposizione dell’utente. La sua azione non è focalizzata né in
termini trasmissione di un sapere specialistico né in termini di promozione di un “sapere
41
relazionale”. Si esprime nel controllo delle condizioni di svolgimento del progetto
educativo.
Più precisamente, il ruolo di “gestore” si risolve nel presidiare l’attivazione, nel
soggetto, di un processo di apprendimento per scoperta ovvero di ri-apprendimento
attraverso il recupero della concreta e personale esperienza di lavoro (un po’ come in
Platone la riscoperta della conoscenza del mondo delle idee).
LIVELLO IV: Qui si innesta l’ultimo livello di articolazione previsto dal modello: dove
alla figura del gestore si sostituisce quella dell’agevolatore dello sviluppo personale.
Con analoghe funzioni di guida e coordinatore da un lato e “risorsa a disposizione”
dall’altro il ruolo di agevolatore va pensato rispetto ad una relazione tra esperto ed
utente che ha per oggetto l’apprendimento delle modalità di apprendimento. Si può
parlare in quest’ultimo caso di focalizzazione dell’azione dell’esperto nella direzione di
un trasferimento all’utente del controllo del processo che governa l’apprendere
(consapevolezza e sviluppo): dunque di crescita globale del soggetto.
I. Consulente
II. Docente
III. Animatore
IV. ”Gestore”
V. Agevolatore
Area di controllo dell’esperto
Area di controllo dell’utente
FIGURA 23.
3
Figura tratta da Fare formazione (1985).
42
Concludendo possiamo dire che i singoli metodi educativi risultano di fatto compatibili
con differenti ruoli di formatore, nel senso che ciascun metodo si presta ad essere
“modulato” proprio in funzione della possibilità di adottare più di un ruolo di formatore.
Questo modello ha evidenziato come il livello-base viene fatto coincidere con l’idea del
docente/insegnante ovvero con l’immagine classica dei processi di istruzione. L’ultimo
livello invece viene riferito alla figura del docente/guida e coordinatore di un progetto
educativo orientato all’apprendimento come momento di reale crescita e sviluppo dei
soggetti.
Alla luce delle considerazioni fatte si può vedere meglio quale sia la funzione di
conduzione del gruppo di formazione. Che cosa il formatore con la sua presenza può
tutelare quando l’orientamento professionale sia indirizzato a valorizzare la pratica dei
partecipanti e a favorire un lavoro di elaborazione della pratica in esperienza, cioè in
conoscenza che i partecipanti possono quindi trasferire ed utilizzare in contesti e in
situazioni generali e diverse da quelle ove la pratica si è generata.
Per concludere di seguito segnalerò i punti che per certi versi sono anche le aree di una
ricerca della quale già esistono i dati grezzi nella pratica, ma che sono ancora in gran
parte da sviluppare.
1) Il gruppo è uno strumento progettato, è un artificio pensato e proposto dal
formatore al fine di accompagnare un processo formativo orientato nella
prospettiva di una “formazione a pensare”. Nella fase preliminare di ogni lavoro
il gruppo quindi è elemento di un “settino” costruito in funzione di informazioni,
dati, elementi presenti nel contesto.
43
In questa fase di esplorazione, il formatore usa il suo potere, la sua arbitrarietà
per delineare e proporre gli elementi costitutivi del contesto entro il quale i
partecipanti individuati possono sospendere la loro attività quotidiana, per
avviare un processo di analisi dei problemi, di ricerca di senso circa la loro
prassi quotidiana.
2) Il problema della qualità e del tipo di relazione tra formatore e partecipanti
richiama il tema della “prudente astensione”.
È possibile comprendere come in ogni gruppo sia attivo un processo mentale
(prodotto delle attività mentali individuali) di “contagio” emotivo che avviene
per via di identificazioni proiettive. Tale contagio, che non è immediatamente
visibile poiché non passa direttamente attraverso la parola e il linguaggio
verbale; che di conseguenza non risulta da pensieri pensati, ma da pensieri
presenti nei fatti, determina la forma delle relazioni sociali caratteristica di un
raggruppamento di persone, influenza il clima di condivisione che si instaura tra
loro, e, poiché è processo che muove in modo potenzialmente indipendente
rispetto al compito e all’organizzazione razionale del lavoro, può ingabbiare i
singoli rispetto alle loro possibilità di pensiero, di relazione e di azione.
Ciò rende necessario il fatto che il formatore, che si inserisce nel campo
relazionale, porti attenzione al processo che si sta avviando non buttandosi nel
gioco con il rischio di trovarsi a sua volta, magari inconsapevolmente,
intrappolato dal contagio emotivo che tende a rinforzare il “noi”, lo spirito
“comunitario”, a sostenere “identità compatte”.
Il suo ruolo infatti è quello di un professionista che ha il compito di aiutare alla
presa di parola e alla comprensione di fenomeni e problemi in parte mascherati.
44
La possibilità che una parte del “sé” si implichi ed identifichi nella situazione, e
che una parte del “sé” riesca a riflettere sul senso di questa implicazione e sulle
emozioni che la situazione gli induce, richiede al formatore da un lato di
lavorare anche in interiorità tollerando una relativa solitudine rispetto al gruppo,
dall’altra di ricercare ogni volta il senso concreto di espressioni generali che lo
invitano a lavorare con “una certa neutralità” ed “una certa astensione”.
3) Una volta costituito il “set” di lavoro attraverso un contratto che ne definisce
anche i tempi, la durata, gli orari, gli impegni di partecipazione per le persone
coinvolte, le questioni di denaro, il lavoro della formazione inizia attorno
all’oggetto costituito dalle situazioni lavorative che i partecipanti portano come
problematiche.
La formazione si costituisce quindi come un luogo di sospensione temporanea
della prassi, al fine di avviare un percorso di ricerca, di arricchimento di senso
relativo alla prassi stessa, agli accadimenti problematici e alle condizioni
dell’esistenza lavorativa entro le quali il soggetto inscrive il suo agire
trasformativo della realtà e quindi anche di possibile prefigurazione dell’azione.
Da questo punto di vista potremmo dire, in prima istanza, che la modalità del
formatore di condurre il gruppo sarà quella di cooperare, con i singoli e con il
gruppo. Il conduttore di gruppo non può, come più sopra segnalato, svolgere la
sua funzione, in modo invariante da gruppo a gruppo, ed anzi la conoscenza e
del contesto in cui intervenire è condizione per poter lavorare al meglio.
4) Poiché il lavoro avviene in “gruppo”, credo sia solo ormai il caso di ricordare
come i partecipanti si muovano all’interno di un microcosmo sociale ove,
soprattutto nei momenti di difficoltà, le persone mostrano stili di relazione con
45
gli altri, con il gruppo, con l’autorità, con la formazione, con gli obiettivi,
corrispondenti agli stili ai quali esse sono state esposte lungo l’arco della loro
storia personale e lavorativa, e che hanno interiorizzato all’interno del processo
di costruzione della loro identità adulta.
Compito del formatore è quindi quello di osservare e cogliere le costellazioni
relazionali come si mostrano nel rapporto di gruppo e in rapporto con lui, con la
formazione, con i problemi analizzati e con gli obiettivi, decidendo di restituirli
in forma di interpretazioni al gruppo quando ritenga che ciò aiuti il gruppo e
sostenga il processo formativo: un processo che, come già abbiamo visto, è un
processo di pensiero che muove e oscilla tra contenuti e fenomeni mentali
arcaici e meno arcaici.
5) Se è chiaro che la proposta di lavoro è quella di cooperare lungo un percorso
progressivo di ricerca, risulta altrettanto evidente che la funzione di
interpretazione non è appannaggio del solo formatore.
Le sue restituzioni non potranno avere il formato di una certezza fotografica, ma
potranno aprire delle piste, offrire prospettive evolutive che aiutino a illuminare
meglio il percorso. Si tratta in altri termini di riformulare i contenuti del lavoro
non solo per spiegare, ma anche per porgere modi e prospettive secondo le quali
guardare i problemi.
Questa attenzione partecipante allo sviluppo delle situazioni risulta evidente
anche nelle decisioni del formatore sull’utilizzo, accanto al gruppo, di altri
strumenti di accompagnamento del lavoro formativo.
Una lezione, ad esempio, una esercitazione o un colloquio richiesto o accordato
ad un partecipante, non sono messi a programma casualmente o ritualmente.
46
Sono piuttosto azioni pensate dal formatore che ipotizza la loro utilità per
definire situazioni relazionali particolari ove è possibile che emergano nuovi
elementi e nuove informazioni utili al percorso di ricerca che può essere
intravisto come da nuove finestre aperte.
6) Le annotazioni precedenti possono dare del formatore l’immagine di una
persona straordinaria che sa giostrarsi tra tanti aspetti e tanti livelli della realtà.
In effetti si tratta di un professionista che deve avere una consistente
preparazione professionale e personale. Anche personale in quanto deve riuscire
a non intervenire in gruppo portando le espressioni delle sue proiezioni, dei suoi
fantasmi e desideri. Questa doppia preparazione, personale e professionale, gli è
necessaria per cogliere lo spessore anche emotivo delle situazioni in cui opera, e
per proporre elementi teorici pertinenti per la conoscenza e per l’azione.
Al formatore spetta di riprendere contatto in prima persona con la complessità della
natura pedagogica della sua azione: è questo il passaggio obbligato per avvicinarsi alle
grandi possibilità che questa attività offre in termini di molteplici opportunità di
conduzione di un progetto educativo.
Solo così la formazione potrà meglio misurare la sua efficacia: e solo così il formatore
le sue soddisfazioni.
47
1.2 - GLI ASSIOMI DELLA COMUNICAZIONE
Non si può non sottolineare il fatto che il formatore, oltre a dover portare con sé tutte le
conoscenze relative alle tecniche e strategie comunicative per la conduzione di un’aula,
deve possedere anche le nozioni-base della comunicazione stessa, intesa non solo nella
direzione formatore Æ aula, ma anche aula Æ formatore.
Per questo motivo nasce la pragmatica della comunicazione umana, la quale si propone
di studiare gli eventi comunicativi partendo dal presupposto che la comunicazione sia
un processo di interazione; c’è, quindi, la convinzione che la comunicazione non può
essere considerata un fenomeno unidirezionale, quanto piuttosto un processo interattivo
tra i diversi soggetti che vi sono implicati.
Questo determina lo spostamento dell’attenzione e della focalizzazione dalla monade
alla diade o al gruppo interagente nel processo comunicativo, prendendo in esame in
particolar modo la relazione con la consapevolezza che ogni soggetto, a sua volta, fa
parte di un sistema più ampio (famiglia, gruppo di amici, lavoro…).
In altri termini, non è più possibile ignorare che, all’interno di un rapporto
interpersonale, sia esso di coppia, di gruppo o di un’organizzazione, comunque si attua
un agire comunicativo che segna e determina la relazione stessa, in un verso o in un
altro.
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Enunciamo, quindi, alcune proprietà semplici della comunicazione che hanno
fondamentali implicazioni interpersonali, i cosiddetti assiomi della comunicazione che,
dalla pubblicazione del testo che li ha fatti conoscere al pubblico (1967)4, hanno
modificato in modo radicale ed irreversibile il percorso della psicologia contemporanea,
ma soprattutto dovrebbero rappresentare le regole base che ogni buon formatore, quindi
prima di tutto un buon comunicatore, deve portare con sé. Watzlawick5 si dirige verso
un approccio alla comunicazione umana che egli stesso definisce pragmatico, quindi
pratico, comportamentale e relazionale. Quello che noi possiamo sapere di una persona
lo deduciamo dal comportamento. La pragmatica della comunicazione umana, quindi
assume come principio l’osservazione dell’uomo mentre comunica.
1.2.1 - L’impossibilità di non-comunicare
Anzitutto, c’è una proprietà del comportamento che difficilmente potrebbe essere più
fondamentale e proprio perché è troppo ovvia viene spesso trascurata: il comportamento
non ha un suo opposto. In altre parole, non esiste un qualcosa che sia un noncomportamento o, per dirla anche più semplicemente, non è possibile non avere un
comportamento. Ora, se si accetta che l’intero comportamento in una situazione di
interazione ha un valore di messaggio, vale a dire è comunicazione, ne consegue che
4
“Pragmatica della comunicazione umana. Studio dei modelli interattivi, delle patologie e dei paradossi.” Gli autori sono
professori del famoso Istituto per le Ricerche Mentali di Palo Alto. In questo libro la comunicazione è considerata come un rapporto
qualitativamente differente dalle proprietà degli individui che l’attuano. Dopo la definizione dei concetti generali gli autori
descrivono le caratteristiche fondamentali della comunicazione umana e ne illustrano le manifestazioni e le potenziali deformazioni
patologiche. Quindi attraverso un’analisi del “Chi ha paura di Virginia Wolf?” di Albee sono esemplificati gli aspetti sistematici
dell’interazione umana che nascono dal modellamento di specifiche caratteristiche della comunicazione.
5
Paul Watzlawick (Villach, Austria, 25 luglio 1921) è uno psicologo austriaco, primo esponente della statunitense Scuola di Palo
Alto, in California.
Conseguì la laurea in Lingue Moderne e Filosofia all’Università di Venezia per poi proseguire gli studi presso l’Istituto Carl Gustav
Jung di Psicologia analitica di Zurigo. Dopo un periodo di insegnamento di Psicoterapia all’Università di El Salvador, dal 1960 ha
il ruolo di ricercatore associato al Mental Research Istitute di Palo Alto. Nel 1976 diventa professore associato all’Università di
Stanford.
È il massimo studioso della pragmatica della comunicazione umana e delle teorie del cambiamento e del costruttivismo radicale.
Figura di spicco dell’approccio sistemico e della teoria breve, si deve alle sue opere la diffusione dell’approccio allo studio della
comunicazione e dei problemi umani della Scuola di Palo Alto.
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comunque ci si sforzi, non si può non comunicare. L’attività o l’inattività, le parole o il
silenzio hanno tutti valore di messaggio: influenzano gli altri e gli altri, a loro volta, non
possono non rispondere a queste comunicazioni e in tal modo comunicano anche loro. E
neppure possiamo dire che la comunicazione ha luogo soltanto quando è intenzionale,
conscia, o efficace, cioè quando si ha la comprensione reciproca. Che il messaggio
emesso eguagli o meno il messaggio ricevuto rientra in un ordine di analisi importante
anche se diverso.
1.2.2 - Livelli comunicativi di contenuto e di relazione
Un altro assioma riguarda il fatto che una comunicazione non soltanto trasmette
informazione, ma al tempo stesso impone un comportamento. Si è giunti a considerare
queste due operazioni come l’aspetto di “notizia” e di “comando” di ogni
comunicazione: l’aspetto di “notizia” di un messaggio trasmette informazione ed è
quindi sinonimo nella comunicazione umana del contenuto del messaggio. Questo può
riguardare qualunque cosa comunicabile senza tener conto se l’informazione particolare
sia vera o falsa, valida, non valida, in decidibile. L’aspetto di “comando”, d’altra parte,
si riferisce al tipo di messaggio che deve essere assunto e perciò, in definitiva, alla
relazione tra i comunicanti. Questa può essere definita in modo verbale, oppure non
verbale (ad esempio gridando, sorridendo, ecc.). Il contesto in cui ha luogo la
comunicazione servirà a chiarire ulteriormente la relazione.
È da sottolineare, comunque, che le relazioni soltanto di rado sono definite
deliberatamente o con piena consapevolezza. In realtà, sembra che quanto più una
relazione è spontanea e “sana”, tanto più l’aspetto relazionale della comunicazione
recede sullo sfondo. Viceversa, le relazioni “malate” sono caratterizzate da una lotta
50
costante per definire la natura della relazione, mentre l’aspetto di contenuto della
comunicazione diventa sempre meno importante.
1.2.3 - La punteggiatura della sequenza di eventi
C’è un’altra caratteristica fondamentale della comunicazione che vogliamo subito
esaminare: essa riguarda l’interazione – scambi di messaggi – tra comunicanti. Un
osservatore esterno può considerare una serie di comunicazioni come una sequenza
ininterrotta di scambi. Tuttavia, coloro che partecipano alla interazione introducono
sempre qualcosa di importante. Siano A e B due comunicanti: un dato elemento del
comportamento di A è uno stimolo in quanto è seguito da un elemento fornito da B e
questo da un altro elemento fornito da A. Ma in quanto l’elemento di A è inserito tra
due elementi forniti da B, questo costituisce una risposta. Analogamente, l’elemento di
A è un rinforzo in quanto segue un elemento fornito da B. Il succedersi degli scambi
costituisce una catena di anelli che si sovrappongono dove gli organismi coinvolti
punteggeranno la sequenza in modo che sembrerà che l’uno o l’altro abbia l’iniziativa o
si trovi in posizione di dipendenza.
La comunicazione viene considerata dunque in maniera circolare, dove non è possibile
stabilire cosa viene prima e cosa dopo. Ogni comportamento è, insieme, azione e
risposta ad un altro comportamento.
1.2.4 - Comunicazione numerica e analogica
Nella comunicazione umana si hanno due possibilità del tutto diverse di far riferimento
agli oggetti: o rappresentarli con una immagine (disegnandoli) oppure dar loro un nome.
È possibile sostituire con delle immagini i nomi di una frase scritta; se invece la frase
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fosse orale, basterebbe indicare con un gesto i protagonisti della frase. Questi due modi
di comunicare - quello mediante l’immagine e quello mediante la parola – sono
rispettivamente equivalenti ai concetti di analogico e digitale (o numerico). Ogni volta
che si usa una parola per nominare una cosa è evidente che il rapporto tra il nome e la
cosa nominata è un rapporto stabilito arbitrariamente. È soltanto una convenzione
semantica e fuori di tale convenzione non esiste nessun’altra correlazione tra una parola
e la cosa che la parola rappresenta.
D’altra parte, nella comunicazione analogica, c’è qualcosa che è specificatamente
“simile alla cosa”, vale a dire ciò che si usa per esprimerla. Nella comunicazione
analogica si può far riferimento con maggior facilità alla cosa che si rappresenta. Di
conseguenza possiamo dire che la comunicazione analogica è praticamente ogni
comunicazione non verbale, non intendendo solo il movimento del corpo, ma anche le
posizioni del corpo, i gesti, l’espressione del viso, le inflessioni della voce, e ogni altra
espressione non verbale di cui l’organismo sia capace.
Sembra lecito dedurre, dunque, che l’aspetto di contenuto ha più probabilità di essere
trasmesso con un modulo numerico, mentre il modulo analogico avrà una netta
predominanza nella trasmissione dell’aspetto di relazione.
1.2.5 - Interazione complementare e simmetrica
Si tratta di due modelli che posso essere descritti parlando di relazione basata sulla
uguaglianza o sulla differenza. Nel primo caso si tenderà a rispecchiare il
comportamento dell’interlocutore (e quindi l’interazione sarà simmetrica). Nel secondo
caso invece il comportamento dell’interlocutore completa il proprio (l’interazione sarà
complementare). In quest’ultima si hanno due diverse posizioni. Un partner assume la
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posizione che è stata descritta in vario modo come quella superiore, mentre l’altro tiene
la posizione corrispondente, cioè quella inferiore. In questo caso può essere il contesto
sociale e culturale a stabilire relazioni di questo tipo.
53
CAPITOLO 2 - IL GRUPPO
Avendo a che fare con il gruppo, il formatore deve mettere nel suo bagaglio anche tutte
le conoscenze che può apprendere su cos’è il gruppo, e su come lavorare con il gruppo
di formazione.
2.1 - INTRODUZIONE
Nella storia e nello studio dell’organizzazione sociale in senso lato, dello sforzo umano
a non lasciare il governo dei processi adattivi tra uomo e natura al solo codice genetico,
ci si è sempre occupati di gruppi di persone.
Considerazione analoga si può riferire anche al campo educativo ove gruppi di allievi o
di apprendisti, gruppi di reclute, discepoli o novizi, apprendevano per tradizionesottomissione a modelli del “sapere” e dell’”essere” precodificati.
Solo a partire però dalla fine della seconda guerra mondiale le scienze umane iniziano a
studiare in modo specifico le situazioni di gruppo.
L’avvio è segnato dall’attenzione portata ai piccoli gruppi di lavoro che si rivelano
come una realtà significativa capace di evidenziare i limiti di una concezione
meccanicistica dell’organizzazione, ove il comportamento lavorativo delle persone era
semplicemente concepito come variabile dipendente rispetto ai processi decisionali e
rispetto alle strutture organizzative razionalmente definite.
54
La scoperta delle dimensioni microsociali, quale luogo concreto dell’esperienza
quotidiana (di sé e del mondo); quale luogo concreto di mediazione tra la dimensione
individuale e quella macrosociale isola, entro le scienze umane, un oggetto tutto da
scoprire. Una realtà in cui tra gli individui si sviluppano rapporti di reciproco
influenzamento, comportamenti ripetitivi poco spiegabili razionalmente, meccanismi di
difesa e rappresentazioni collettive spesso inconsapevoli ai membri stessi di un gruppo:
un microcosmo socio-organizzativo, cioè, particolarmente capace di mostrare la
complessità che caratterizza i comportamenti interpersonali e socio-lavorativi nei loro
più diversi aspetti.
Il fatto che tali comportamenti vengano agiti, e quindi possano anche essere letti,
attraverso la “lente del gruppo”, con particolare evidenza, ha ampliato l’orizzonte del
ricercatore all’utilizzo delle situazioni di gruppo negli ambiti formativi.
Inizialmente il gruppo di formazione fu inteso quale luogo di dimostrazione,
sperimentazione, apprendimento dei fenomeni relazionali e sociali. Più recentemente
questo orientamento, fortemente marcato dall’idea di “far fare, fare provare in pratica”,
si è combinato con una concezione della formazione che valorizza la possibilità di
apprendimento dall’esperienza, che privilegia lo sviluppo di capacità mentali di
apprendere più che l’acquisizione di nozioni o l’identificazione mimetica e proiettiva in
modelli comportamentali e che porta attenzione allo sviluppo complessivo dell’identità
adulta nel suo divenire tra consapevolezza di sé e del mondo circostante.
Nelle pagine seguenti mi propongo di sviluppare le matrici teoriche, gli orientamenti
teorico-tecnici che hanno contribuito, a mio avviso, a meglio individuare il “gruppo”
quale strumento di lavoro.
55
Più in particolare, lo scopo che mi prefiggo è quello di mostrare come il gruppo, oggetto
di indagine che merita attenzione per la sua influente presenza nella realtà sociale, possa
diventare strumento professionale di lavoro; come cioè sia possibile, a livello teoricotecnico, progettare e istituire gruppi al fine di intervenire nella realtà sociale, in modo
particolare tramite la formazione in aula.
Parlando però del gruppo come “strumento” è utile aver presente da subito che esso non
è uno strumento “forte”, capace di costringere i comportamenti individuali, di trascinarli
nella direzione giusta o desiderata. Il gruppo non può neppure essere concepito come
uno strumento “oggetto”, ben distinto da chi lo utilizza, che è possibile possedere in
esteriorità ed una volta per tutte come un “ferro del mestiere da avere nella propria
cassetta degli attrezzi”.
Vedremo che esso è uno strumento da trattare, anche concettualmente, con sensibilità e
delicatezza a fronte della sua natura di “strumento relazione” che acquista senso
specifico e concreto quando appositamente istituito a fini formativi, di intervento.
2.2 - TRAINING-GROUP
Il punto di partenza è la constatazione che il gruppo è fondamentale per l’esistenza e lo
sviluppo dell’individuo, esso rappresenta il luogo nel quale la persona si forma e
costituisce la sua identità, l’ambiente in cui trova dei termini di riferimento e di
confronto, sviluppa dei valori, mette a punto i propri livelli di aspirazione, sperimenta
limitazioni e resistenze che lo aiutano a determinare il suo spazio di vita. È importante
la realtà che il soggetto riesce a cogliere o quella alla quale si sente legato
affettivamente, dunque è soprattutto il gruppo di non grande dimensione, nel quale
l’interdipendenza è più stretta, che è significativo a questo riguardo. Altro punto
56
importante è la pressione che le consuetudini, la cultura, gli usi sociali, gli standard del
gruppo di appartenenza o di riferimento esercitano nei confronti di particolari
atteggiamenti o comportamenti. Le conseguenze sono che le resistenze o le spinte al
cambiamento non sono mai esclusivamente individuali, ma hanno delle forti
componenti sociali, microsociali e di gruppo che dipendono dal contesto nel quale le
persone sono inserite e del quale sentono di fare parte. Questa attenzione alle norme di
comportamento del gruppo rende ancora più difficile modificare le opinioni ed i
comportamenti. A causa di questi motivi, al fine di influenzare un atteggiamento
individuale e di rendere più duraturo un apprendimento, è più efficace operare in una
situazione di confronto di gruppo, questo perché si avrà un maggior coinvolgimento ed
una migliore chiarificazione delle proprie posizioni e sarà più semplice contattare gli
standard collettivi che si oppongono al mutamento. Per ottenere questi risultati è
necessario operare in fasi successive: 1) disgelo, cioè messa in discussione
dell’atteggiamento in uso e sua revisione critica; 2) trasformazione, cioè introduzione
dei nuovi comportamenti che ci si attende che il gruppo faccia propri e adotti; 3)
consolidamento, la fase più importante, per stabilizzare il mutamento e trasformarlo in
un nuovo standard.
Punto nodale di questo approccio è che il gruppo diventa uno strumento con il quale
sperimentare tecniche di conduzione e di relazione, al fine di verificarne l’efficacia; in
particolare il gruppo diventa uno strumento per favorire l’apprendimento delle persone
coinvolte e per far sì che questo apprendimento provochi, oltre che una
sensibilizzazione su un tema ed un’acquisizione di conoscenze, un vero e proprio
mutamento del comportamento che, in virtù della concezione delle organizzazioni come
totalità dinamiche, dovrebbe interessare non solo il singolo, ma anche trasferirsi al
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contesto. La tecnica messa a punto per raggiungere il risultato nella maniera più efficace
è il T-group o Training-group, un seminario di durata consistente (anche da 9 a 15
giornate consecutive) e che con le sue caratteristiche mette bene in luce le premesse
teoriche cui questa tecnica si ispira e gli intenti ai quali si rivolge: nel T-group, infatti, la
regola fondamentale è che i partecipanti non si conoscano, che non provengano dalla
medesima organizzazione lavorativa e che la loro attenzione si concentri esclusivamente
su quanto avviene nel corso della loro interazione presente, sospendendo perciò ogni
attività rivolta ad un obiettivo ed ogni riferimento al proprio passato ed ai propri ruoli
sociali ed organizzativi. Queste premesse di strutturazione discendono da precisi
presupposti teorici: attraverso l’eliminazione di ogni riferimento istituzionale e di tutte
le stratificazioni gerarchiche si intende privare l’individuo di quelle che si ritengono le
difese che gli impedirebbero di cogliere il senso reale del proprio comportamento e di
quello altrui.
Le persone coinvolte in queste esperienze, non soltanto dovrebbero apprendere il modo
in cui i gruppi funzionano, ma dovrebbero anche trasferire le loro acquisizioni al
contesto lavorativo o di gruppo del quale fanno parte quotidianamente.
2.3 - STRUMENTO DI FORMAZIONE
L’ampio utilizzo del gruppo quale strumento di formazione degli adulti oggi (un gruppo
da 8 a 15 persone condotto da un animatore che in modo continuativo partecipa al
lavoro del gruppo stesso) rende necessarie alcune riflessioni critiche emerse proprio
dall’analisi delle esperienze citate e dei loro risultati.
La tecnica del T-group si rivela nella sua artificiosità, le esperienze cui conduce sono
gratificanti e liberatorie, quasi catartiche, ma, pure nella loro positività, rimangono
58
staccate dalla realtà lavorativa e di interazione quotidiana, nella quale i rapporti
gerarchici e le variabili storiche rimangono di fondamentale importanza e, non potendo
essere elusi, ostacolano il trasferimento di ciò che si è imparato nel corso del seminario.
In definitiva, la regola della riflessione ristretta all’interazione presente mostra i suoi
limiti, soprattutto persistendo l’identificazione tra gruppo reale di lavoro e gruppo di
formazione, cioè presumendo che essi restino due realtà assimilabili ed intercambiabili.
Questa crisi conduce a mantenere valide le premesse teoriche poste dalla teoria e
ritenere che sia la tecnica a dover essere mutata adeguandola. Di conseguenza, i
problemi stessi intorno ai quali si ricerca si possono analizzare ed affrontare in tutta la
loro densità quanto più il gruppo di formazione è collocato in un definito contesto.
Il gruppo di formazione può allora costituirsi quale luogo dove, sospendendo il fluire
dell’azione quotidiana, è possibile interrogarsi su queste azioni e ricercarne il senso.
Nella teoria del T-group il seminario risultava un contenitore, sempre uguale a se stesso,
dove i partecipanti potevano vivere l’esperienza di un gruppo dalla sua costituzione,
parteciparvi e da essa apprendere. Di qui, dall’idea che sperimentare il lavoro di gruppo
nelle situazioni formative fosse sempre utile, dall’idea quindi che lo strumento si
dovesse adattare agli obiettivi dei processi formativi, nasce l’equivoco per cui oggi i
formatori spesso pensano di parlare sempre dello stesso strumento anche se all’interno
di orientamenti formativi molto diversi tra loro.
2.4 - COS’È IL GRUPPO
Un gruppo può essere identificato riferendosi a tre questioni nodali sul gruppo: la
natura, i confini e gli eventi del gruppo.
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2.4.1 - Questione n°1
Per la prima questione è stata proposta una definizione che distinguesse due soggetti
sociali gruppo e gruppo di lavoro, apparentemente simili ma molto differenziati sul
piano sia della struttura che della dinamica.
Definendo come nucleo fondamentale del dibattito l’ “oggetto” gruppo, l’oggetto del
ragionamento non si identifica nell’individuo in sé e neppure nel sociale indefinito, ma
si riferisce a là dove è il luogo dell’interazione.
Si identificano dunque due poli: la mente, come luogo organizzato di processi cognitivi
e affettivi, in relazione con il sociale, che si esprime in organizzazioni, istituzioni,
valori, ideologie, culture.
Per gli obiettivi del nostro lavoro è così necessario postulare subito le tre accezioni:
-
gruppo
-
gruppo di lavoro
-
lavoro di gruppo
IL GRUPPO. Si identifica il gruppo come una pluralità, in interazione, con un valore di
legame.
Il gruppo è un insieme numericamente ridotto di persone. Ciò permette l’identificazione
del soggetto sociale e garantisce i livelli di interazione e legame. Un numero maggiore o
minore di individui definisce così soggetti diversi.
Per quanto riguarda l’aspetto “interazione”, si identificano tre livelli: il primo è quello
dell’influenzamento reciproco degli individui; il secondo è il fare insieme; il terzo è
quello dell’agire contingente.
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Si crea un legame in quanto il vincolo che si instaura tra gli individui che compongono
un gruppo definisce i sentimenti di appartenenza che si sviluppano tra chi si trova a
condividere un campo di interazioni. Questo legame è contrassegnato, da una parte,
dalla percezione di appartenere a un insieme, dal provare sentimenti di tipo affiliativi
verso gli altri membri ma, soprattutto, verso un soggetto globale che non è identificabile
con uno o più membri. D’altra parte è caratterizzato dall’attrazione e contrapposizione
tra gli individui, che gli forniscono una particolare coloritura e una resistenza nel tempo.
Il legame conduce il gruppo ad assumere quella configurazione relazionale e affettiva
che ne segna l’interazione.
IL GRUPPO DI LAVORO. Mentre un gruppo è una pluralità in interazione, un gruppo
di lavoro è sì una pluralità, ma in integrazione; una pluralità che, tendendo
progressivamente all’integrazione dei suoi legami psicologici, all’armonizzazione delle
uguaglianze e differenze che si manifestano nel collettivo, attraverso la sua dinamica si
può identificare come un gruppo di lavoro. L’interazione produce un essere dentro alla
situazione del gruppo, un percepire gli altri come amici o come rivali, un avere
coscienza dell’esistenza di un insieme. L’interazione, tuttavia, non è sufficiente a
definire un gruppo di lavoro: nella costruzione di un gruppo di lavoro il passaggio
successivo all’interazione è l’interdipendenza, cioè l’acquisizione della consapevolezza
dei membri di dipendere gli uni dagli altri, con il relativo sviluppo della
rappresentazione della rete di relazione con gli altri, e di un’unità basata sulla
differenza. Nell’interdipendenza comincia così a configurarsi il gruppo di lavoro, con
tutte le sue caratteristiche distintive.
61
In questa fase si sviluppano le molteplici facce della dipendenza: dipendenza dell’uno
dall’altro, dipendenza di tutti dal gruppo e dipendenza del gruppo dall’ambiente.
L’interazione,
dunque,
si
fonda
sulla
percezione
della
presenza,
mentre
l’interdipendenza si fonda sulla percezione della necessità reciproca.
L’interdipendenza come necessità di legame e opportunità di scambio è il tramite
vincolante per la maturazione del gruppo di lavoro verso lo stato dell’integrazione,
come equilibrio tra la soddisfazione dei bisogni individuali e dei bisogni del gruppo, la
formazione di un soggetto sociale autonomo che si attribuisce significato e che
restituisce energia e risultati all’ambiente nel quale si è costituito: il gruppo di lavoro è,
a questo punto, un soggetto che ha la possibilità reale di emergere e di esprimere nei
risultati la propria esistenza.
L’integrazione sviluppa la collaborazione, che definisce un’area di lavoro comune, di
partecipazione attiva di tutti i membri. La collaborazione si fonda su relazioni di fiducia
tra i membri, sulla negoziazione continua di obiettivi, metodi, ruoli, leadership, e sulla
condivisione della decisioni e degli esiti del lavoro.
Fiducia è la convinzione che nel gruppo di lavoro non sono in conflitto né le idee né
tantomeno gli individui, ma sono in competizione diverse ipotesi in rapporto con un
obiettivo definito congiuntamente, che può essere raggiunto solo attraverso il concorso
di tutti.
La negoziazione è il processo centrale per la collaborazione: si traduce nell’identificare
il proprio punto di vista, nel confrontarlo con gli altri, considerando che quello del
gruppo di lavoro deve essere costruito, e nel coniugare il proprio punto di vista con
quello degli altri.
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La condivisione è l’esito della negoziazione ed è la condizione che vede l’intero gruppo
impegnato per rendere operative le decisioni prese e per raggiungere gli obiettivi.
IL LAVORO DI GRUPPO. È la scena dell’organizzazione a rappresentare il campo di
azione del gruppo di lavoro, nel senso che la persistenza della dimensione di gruppo pur
all’interno di un contesto organizzativo dichiarato non è di per sé sufficiente a
soddisfare quella potenziale reciprocità dello scambio che è avvicinabile solo dove sia
stata compiutamente realizzata la sua maturazione in gruppo di lavoro. Il lavoro di
gruppo è allora espressione dell’azione complessa propria del gruppo di lavoro.
Il lavoro di gruppo comprende la pianificazione del compito, lo svolgimento del
compito, la gestione delle relazioni: non è la semplice esecuzione del mandato
organizzativo.
Il significato di un lavoro svolto in gruppo anziché individualmente è racchiuso
nell’aspettativa di ottenere un prodotto sostanzialmente diverso da quello che ciascuno
può produrre: ma questa aspettativa, che potrà anche andare delusa dove è presente un
gruppo, rappresenta in realtà per un gruppo di lavoro la sua giustificazione
organizzativa, la garanzia della sua permanenza.
2.4.2 - Questione n°2
I termini identificati per configurare la seconda questione sono relativi agli aspetti di
legame, che richiamano il tema dei bisogni: delle individualità che si incontrano e si
confrontano nel gruppo su un piano, prima di tutto, di relazione emotiva e affettiva.
Quindi la questione è inerente al rapporto tra l’individuo e il gruppo, riassunto nel tema
dei bisogni, appunto, nodo cruciale che necessita di un’articolazione ed una lettura a tre
63
differenti livelli: individuo, gruppo e leadership. Il punto di partenza del ragionamento è
il bisogno dei singoli membri e la loro possibilità di soddisfazione attraverso
l’interazione, e nella relazione con altre persone, dentro i gruppi.
Non c’è dubbio infatti che la partecipazione a un gruppo può permettere all’individuo di
soddisfare certi bisogni che esigono la presenza di altre persone. In questa prospettiva, il
gruppo appare allora mezzo piuttosto che fine. Tra questi bisogni si possono ricercare il
bisogno di esercitare potere o di subirlo; le pulsioni aggressive; il desiderio di prestigio
o più semplicemente il desiderio di essere considerato; infine quelli che si possono
chiamare bisogni “catartici”, che vanno dal semplice desiderio di esprimere i propri
sentimenti davanti agli altri, a quello di “raccontarsi”, o a certe forme accentuate di
esibizionismo.
Gli individui si identificano differenziando le loro regioni interne e differenziandosi
dall’ambiente esterno ma, nello stesso tempo, si adattano a esso, conformandosi alla
cultura e al sociale. Il gruppo permette di identificarsi per differenza e per uguaglianza
definendo lo spazio del sé e lo spazio altro da sé.
L’alternarsi del bisogno di esprimersi (essere autonomi, differenziarsi, creare) e di
reprimersi (adattarsi, dipendere, essere parte) tratteggiano la dimensione stessa della
pluralità e dell’appartenenza.
È dunque cruciale la capacità di soddisfare bisogni che il singolo attribuisce al gruppo.
Il legame che gli individui tenderanno a instaurare con gli altri dipenderà dalla
configurazione dei loro bisogni e dall’aspettativa di soddisfazione.
Quando si affronta un gruppo si incontra una nuova realtà, sconosciuta tanto al singolo
quanto agli altri membri: ciò genera ansia circa il mantenimento della propria identità e
la soddisfazione dei bisogni che la colorano.
64
Ciascun membro usa il gruppo come oggetto per la soddisfazione dei propri bisogni e
per l’equilibrio delle proprie esigenze, ma i bisogni individuali sono spesso
incompatibili. Di qui il paradosso perché la possibilità di ciascuno di soddisfare i suoi
bisogni deriva dalla capacità di mediare, negoziare con gli altri la soddisfazione dei loro
bisogni.
Se, invece, il gruppo vuole porsi come gruppo di lavoro, anziché come spazio vincolato
a null’altro che al libero gioco dell’interazione, occorre ricercare la realizzazione del
risultato collettivo di tale interazione: muovere dal livello dello scambio a quello
dell’integrazione. Integrazione significa consapevolezza dei bisogni di tutti,
armonizzazione dei bisogni individuali nei bisogni del soggetto gruppo, valorizzazione
delle funzioni e delle capacità di soddisfazione su un piano diverso da quello
individuale.
L’interdipendenza è il legame basato sulla conoscenza e l’accettazione della
configurazione creata dalla relazione con altre persone, che portano bisogni e ne
chiedono la soddisfazione.
Il gruppo, visto come totalità dinamica interdipendente, è quindi influenzato dai bisogni
di ogni membro che, a sua volta, è influenzato dai bisogni del gruppo.
In ultima istanza la differenza tra gruppo e gruppo di lavoro inizia con la differenza tra
gruppo che soddisfa bisogni e gruppo di lavoro che integra i bisogni individuali.
L’analisi di questi bisogni prevede un’articolazione a più livelli.
1- membership: rapporto tra bisogno individuale e ricerca di soddisfazione in
gruppo. Significa “essere membro”, avere, cioè, una rappresentazione mentale
che permetta di identificare il gruppo come opportunità per la soddisfazione di
bisogni. I bisogni individuali che il gruppo ragionevolmente può soddisfare sono
65
quelli connessi alla stima e all’autostima, all’identità, alla sicurezza degli
individui, oltre al loro bisogno di contribuzione. Il bisogno di stima e autostima
è fortemente correlato al bisogno di identità e all’esigenza di vederla
riconosciuta dagli altri. Il bisogno di sicurezza è, certo, il più primitivo dei
bisogni individuali che il gruppo può soddisfare, ma sicuramente è anche quello
che fonda la maggior parte dei gruppi. La soddisfazione del bisogno di
contribuzione richiama e necessita la definizione del proprio confine, il senso di
quello che è interno (“io”) e di quello che è esterno (“gruppo”) e del rapporto
che si instaura (“prodotto”).
2- groupship: i bisogni del gruppo. “L’essere gruppo” è la rappresentazione
mentale dei membri che identificano il gruppo come nuovo soggetto, con
bisogni originali, diversi da quelli dei singoli, con manifestazioni diverse da
quelle di ciascuno: è il noi al quale essi si riferiscono e, soprattutto, del quale
contribuiscono a soddisfare i bisogni. Il bisogno fondamentale che i gruppi
esprimono come unità sovraindividuale, e che i membri soddisfano, è anzitutto
quello di esistere. Questo bisogno primario del gruppo viene soddisfatto dai
membri attraverso la loro appartenenza, attraverso la loro capacità di contenere
la rappresentazione operativa e simbolica del gruppo stesso, mettendosi in
qualche modo al suo “servizio”. Il senso di appartenenza è il sentimento comune
dei membri di un gruppo, che si riconoscono come unità, in norme, valori,
cultura che essi stessi hanno generato, con i processi di comunicazione e le
funzioni di leadership. Il bisogno di esistere di un gruppo, che viene soddisfatto
dagli individui che sentono di appartenervi alimenta la vita interna.
L’appartenenza mette i membri nella condizione di reperire le informazioni
66
necessarie per la sopravvivenza e di soddisfare questo bisogno. La groupship è,
in definitiva, la funzione di soddisfazione dei bisogni del gruppo che i membri
svolgono attraverso la loro appartenenza.
3- leadership: bisogno di equilibrio. È, questa, la funzione che bilancia membership
e groupship. La leadership è la funzione che garantisce e presidia sia la
soddisfazione dei bisogni individuali sia di quelli del gruppo. La leadership è la
funzione che fornisce la risposta capace di integrare il bisogno individuale con il
bisogno del gruppo, presidiando e soddisfacendo i bisogni dell’unità e delle sue
parti. Permette alle forze che spingono alla differenziazione e all’omologazione
di formare un insieme armonico. La leadership costituisce un essere con, che ha
il significato di integrazione tra individuo/gruppo/ambiente. Nell’integrazione la
leadership ha il significato di presidio di tutti i bisogni in gioco.
2.4.3 - Questione n°3
La terza questione è quella relativa al processo dinamico, che si avvia nel momento in
cui più persone insieme svolgono un’attività, condividono scopi, spazi, tempo, valori.
Il processo dinamico colloca i fatti in un contesto concreto, spazio/temporale, consente
di rilevare l’evoluzione, l’involuzione, il cambiamento del gruppo, oltre all’attività in
corso “qui e ora”.
Questo processo viene identificato attraverso un modello di dinamica determinata da
quattro dimensioni: Reale, Rappresentata, Sociale, Interna. Ciascuna dimensione
concorre a investire la dinamica del gruppo con le sue variabili caratteristiche. Ciascuna
dimensione dà conto degli eventi che vi accadono e tutte connotano il complesso
evolvere della vita dei gruppi: il modello quindi tiene conto delle differenti afferenze
67
che contribuiscono a determinarne gli eventi. Queste dimensioni sono a loro volta
l’esito di un processo di sintesi che, a partire dalle immissioni individuali, si distilla e si
compone in contenuti sovraindividuali, descrivendo il tema specifico della dinamica di
ogni gruppo.
Un modello permette di raccogliere e fissare le variabili e le invarianti che si stanno
analizzando, ma anche di proporre una rilettura della realtà tenendo conto tanto della
molteplicità quanto della contemporaneità dei fatti: il modello proposto descrive il
percorso di sviluppo verso il gruppo di lavoro.
La Dimensione Reale, la Dimensione Sociale, la Dimensione Rappresentata e la
Dimensione Interna concorrono insieme a determinare le attività e le vicende della vita
del gruppo secondo modalità differenti in un gruppo e in un gruppo di lavoro.
Ciascuna testimonia e focalizza sistemi diversi, relazioni e fatti psicologici interagenti in
modo continuo all’interno del gruppo.
Un gruppo si caratterizza per avere una configurazione dinamica dominata da una, o da
qualcuna, di queste dimensioni, che prevale sulle altre in relazione ai bisogni degli
individui o del gruppo. Questa prevalenza orienta il comportamento del gruppo.
Miti
Fantasmi
Emozioni
DIMENSIONE INTERNA
DIMENSIONE RAPPRESENTATA
Rappresentazioni cognitive
Stereotipi
Ideali
GRUPPO
DIMENSIONE
REALE
Membri
Compiti
Risorse
DIMENSIONE SOCIALE
Altri gruppi
Ruoli
Regole
Figura 36.
6
Tratta da Gruppo di lavoro lavoro di gruppo (1992).
68
Come in Figura 3. :
-
Dimensione Reale: può essere vista e raccontata attraverso l’analisi dei
documenti che il gruppo produce, attraverso le azioni che compie e i risultati che
consegue. Queste peculiarità la rendono accessibile e ne fanno la chiave per
l’ingresso e l’utilizzo delle altre dimensioni che, non avendo attività manifeste
proprie, non hanno mezzi di espressione al di fuori della Dimensione Reale.
Questa ha una collocazione precisa in un luogo e in un tempo dato, è costituita
da un certo numero di membri con alcune caratteristiche e che svolgono
un’attività.
-
Dimensione Sociale: rappresenta quel complesso sistema di relazioni attraverso
le quali il gruppo è ancorato al sociale generalmente inteso. Ogni gruppo
configura un’appartenenza, che influenza la modalità di relazione e le aspettative
che i membri esprimono verso gli altri gruppi. L’integrazione in un gruppo di
lavoro richiede l’assunzione di ruoli coerenti con le proprie competenze,
l’utilizzo e l’adesione alle regole del gruppo stesso.
-
Dimensione Rappresentata: è un insieme di immagini che il gruppo costruisce
attraverso la sua attività e che può essere condiviso nelle caratteristiche
essenziali da tutti i membri del gruppo, più o meno consapevolmente. Le
immagini contengono i significati attribuiti e riconosciuti dal gruppo, e in tal
senso lo rappresentano: esprimono l’identità e le caratteristiche del gruppo
stesso, dei membri e del contesto nel quale agisce.
-
Dimensione Interna: alla Dimensione Interna è legato un livello di elaborazione
di affetti e sentimenti che concorrono alla formazione di rappresentazioni.
L’attività del gruppo di lavoro può essere ostacolata, o favorita, dalle fantasie
69
che si fondano sulle emozioni intense e sui sentimenti positivi e negativi che
vengono manifestati.
2.5 - IL GRUPPO DI LAVORO
Il discorso appena concluso introduce e fornisce un quadro di riferimento per le
considerazioni che riguardano più propriamente il gruppo di lavoro.
Un gruppo di lavoro è costituito da un insieme di individui che interagiscono tra loro
con una certa regolarità, nella consapevolezza di dipendere l’uno dall’altro e di
condividere gli stessi obiettivi e gli stessi compiti. Ognuno svolge un ruolo specifico e
riconosciuto, sotto la guida di un leader, basandosi sulla circolarità della
comunicazione, preservando il benessere dei singoli (clima) e mirando parallelamente
allo sviluppo dei singoli componenti e del gruppo stesso, rispettando le regole (metodo).
In questa sede si cercherà di illustrare cosa avviene nel gruppo quando viene praticata
un’attività di formazione. Ci si muove dal presupposto che sia possibile far evolvere un
gruppo in gruppo di lavoro, e che questo sia tanto più necessario se il gruppo è inserito
in un sistema sociale organizzato che gli assegna un compito e si attende dei risultati, in
questo caso l’apprendimento. La relazione tra individui, in presenza di un compito
assegnato in un’organizzazione di lavoro, richiede un soggetto più armonico e meglio
organizzato di quanto sia un gruppo, in grado di contenere e rispondere a esigenze che
provengono da soggetti diversi: gli individui, il gruppo, il formatore. I confini e gli
eventi dinamici che abbiamo evidenziato sono talmente complessi e fortemente correlati
da non lasciare spazio a ipotesi di crescita ed evoluzione spontanea dei gruppi. Abbiamo
70
identificato, quindi, sette variabili, che ne garantiscono lo sviluppo in gruppo di lavoro
se adeguatamente integrate e possono fungere da presupposti per una buona attività di
formazione. Ciascuna variabile viene definita, e ne vengono presentati gli aspetti di
funzionamento nel gruppo oltre il suo grado di influenza sul processo di evoluzione del
gruppo stesso.
Il percorso che vede l’evoluzione di un gruppo in un gruppo di lavoro è un processo di
team building: un’attività concreta e una modalità di intervento, che il gruppo stesso
adotta per costruirsi e per porsi come soggetto sociale tra gli altri soggetti organizzativi.
Ciò che qui interessa è, per l’appunto, affrontare le questioni che vertono attorno
all’intervento possibile per favorire il processo di sviluppo di un gruppo in gruppo di
lavoro e da qui avviare l’attività di formazione.
2.5.1 - Obiettivo
Sapendo a priori che l’obiettivo generale di un’attività di formazione è la creazione di
nuove opportunità di sviluppo individuale, chiarezza e condivisione dell’obiettivo
diventano la condizione necessaria per il conseguimento di risultati. In questa linea si
può definire l’obiettivo come l’espressione del risultato atteso dal gruppo di lavoro,
coerente con i risultati attesi dal formatore. L’obiettivo, e il risultato che descrive,
contengono in forma sintetica lo scopo che si vuole perseguire e, in definitiva, le ragioni
che hanno condotto alla formazione del gruppo.
Saranno indispensabili, nella fase di costituzione del gruppo, due condizioni
fondamentali che permetteranno al gruppo di essere efficace nel lavoro: la prima è che
ciascun componente del gruppo conosca con precisione quali obiettivi esso deve
raggiungere; la seconda è che sia possibile una forma di identificazione dei membri con
71
l’obiettivo comune, che permetta a ciascuno di appropriarsene e di inserirlo nel contesto
delle mete individuali da perseguire e dei bisogni da soddisfare.
Per raggiungere queste condizioni è necessario che il gruppo dedichi, nella sua fase di
costituzione, una parte del tempo alla chiarificazione e condivisione dell’obiettivo e che
svolga delle attività specifiche finalizzate alla loro conoscenza e alla discussione, fino a
ottenere la loro condivisione da parte di tutti i componenti.
L’obiettivo, come si è detto, è la definizione del risultato atteso, quindi, per essere
chiaro e condiviso dai membri deve descrivere il punto di arrivo concreto e misurabile
al quale il gruppo tende e per il quale si impegna a lavorare.
Se si riflette sul fatto che ciascun membro è anche un “osservatore”, si deve considerare
che, come tale, ciascuno ha una particolare visione dell’obiettivo del gruppo, che deriva
da valide e documentate ragioni di carattere professionale, come l’esperienza e le
conoscenze, e da ragioni personali, quali le aspettative e i bisogni. Il problema della
chiarezza si pone nei termini della determinazione di un solo significato, di
un’interpretazione della fattibilità e delle azioni correlate al suo raggiungimento, che sia
uguale per tutti. Occorre, quindi, articolare i diversi punti di vista per costruire una
prospettiva più ampia di quella proposta da ciascuno, riconosciuta da tutti.
Condividere l’obiettivo significa impegnare il proprio sistema di competenze per
raggiungerlo e per far funzionare al meglio il gruppo, accettando i vincoli imposti dalla
presenza e dai bisogni degli altri membri.
In definitiva l’obiettivo di un gruppo di lavoro efficace deve rispondere alle seguenti
caratteristiche:
definito in termini di risultato: descrivere accuratamente il prodotto finale che il gruppo
vuole ottenere;
72
costruito sui fatti, sui dati osservabili e le risorse disponibili: la condizione di partenza
per costruire un obiettivo è determinare cosa si vuol fare, con quali risorse e con quali
vincoli;
finalizzato in modo esplicito: al gruppo di lavoro deve essere chiara la finalità
organizzativa cui tende l’obiettivo;
chiarito e articolato in compiti: è necessario che si proceda alla determinazione dei
compiti e delle fasi di lavoro che il gruppo deve affrontare per raggiungerlo;
perseguibile: utilizzando tutte le risorse umane e tecniche disponibili;
valutato: se è stato definito in termini di risultato, l’obiettivo del gruppo ha le
caratteristiche che lo rendono misurabile e sottoponibile a valutazione sia da parte del
gruppo che da parte dell’organizzazione.
L’obiettivo deve essere presentato al gruppo in forma concreta, evidenziando il più
possibile ciò che si vuole ottenere, le priorità, i tempi, le condizioni di qualità. Ad
esempio, tempo: si svolge un corso di tre lezioni divise però come un giorno alla
settimana per tre settimane, di cinque ore per giorno; condizione: ciò che viene spiegato
in una lezione verrà valutato la lezione dopo; priorità: i concetti che si vogliono far
apprendere di volta in volta, per comprendere quelli della lezione successiva.
Il risultato che il formatore si prefigge dal compito assegnato deve essere descrivibile,
alla fine del lavori, da tutti i componenti del gruppo di lavoro negli stessi termini, così
da poter essere confrontato punto per punto con gli obiettivi individuali e diventare
effettivamente un elemento comune e condiviso al suo interno.
La chiarezza sulle finalità dell’obiettivo assegnato conquista pertanto una duplice serie
di conseguenze: da un lato, infatti, l’avere una comune finalità facilita l’unità tra gli
73
individui del gruppo, contemporaneamente, fa in modo che l’obiettivo dell’attività di
formazione venga raggiunto. Per esempio se l’obiettivo organizzativo è quello di
migliorare il clima sul lavoro, l’obiettivo del formatore sarà quello di far interagire i
partecipanti alla formazione spiegando perché si vuole far migliorare il clima tra i
lavoratori: quali sono i vantaggi per l’organizzazione, ma soprattutto i vantaggi per i
singoli partecipanti.
Cosa fare, dunque, per avere obiettivi chiari e condivisi?
Per la definizione dell’obiettivo occorre che il gruppo di lavoro acquisisca conoscenza
riguardo agli individui (motivazioni, competenze, ruoli, valori) e alla situazione
(problema, compito, risorse, vincoli). In tal senso è il passato degli individui che deve
essere contenuto nel presente e traguardato al futuro del gruppo.
Il confronto è il momento nel quale tutti gli elementi di conoscenza vengono riletti e
valutati per costruire il quadro di lavoro del gruppo in relazione al problema da
affrontare e all’obiettivo da perseguire. Attraverso il confronto dovrà emergere quella
“comunità di pensieri” che permetterà di delineare la posizione di partenza del gruppo.
La negoziazione è il momento conclusivo di questo processo, che deve consentire di
rappresentare il futuro del gruppo ovvero di esprimere la sua capacità progettuale.
È operazione di selezione, integrazione e finalizzazione. Il gruppo dovrà: selezionare le
capacità e le risorse che gli servono, integrare i punti di vista dei membri e
dell’organizzazione, finalizzarli nell’obiettivo del gruppo di lavoro.
La definizione dell’obiettivo è direttamente e strettamente correlata con almeno due
aspetti chiave dello sviluppo del gruppo in gruppo di lavoro: la dinamica bisogno-
74
aspettative-motivazione dei membri, il formarsi del sentimento di appartenenza nel
gruppo.
Come abbiamo già ricordato in precedenza, nel gruppo di lavoro si intersecano e spesso
si scontrano diversi livelli di bisogno: i bisogni dell’individuo (stima, autostima,
identità, sicurezza, contribuzione), i bisogni del gruppo (mantenere e raggiungere
obiettivi, mantenere e aumentare il senso di appartenenza).
L’obiettivo si inserisce, quindi, in questo quadro come il fattore che è in grado di
spingere la motivazione dei singoli al lavoro di gruppo e contemporaneamente soddisfa
il bisogno del gruppo di lavoro di possedere e perseguire una meta, di esistere.
L’obiettivo di un gruppo di lavoro deve tendere alla massima integrazione possibile dei
due livelli di bisogno, ma lavorerà nel verso dell’integrazione, se riuscirà a distillare
nell’obiettivo del gruppo anche parte dei bisogni e delle aspettative individuali, oltre
alle attese del formatore, ugualmente importanti.
Accanto al bisogno il senso di appartenenza è elemento intimamente legato alla
dinamica dell’obiettivo del gruppo. Appartenere a un gruppo significa contrarre
obblighi, assumersi responsabilità e avanzare diritti, definire la propria posizione,
scegliere di farne parte piuttosto che starne fuori; le implicazioni sono evidenti: un
individuo perderà parte della sua unicità e l’originalità dei suoi obiettivi per acquisire
nuove conoscenze su di sé, nuovi metodi di lavoro, nuova professionalità, nuovi
obiettivi.
Definire un obiettivo di gruppo significa inserire in esso parte degli obiettivi individuali
e percepire come proprio quello del gruppo; quanto più i membri condivideranno
l’obiettivo del gruppo tanto più sentiranno di appartenervi.
75
Il senso di appartenenza sviluppa il sentimento dell’essere con altri, che significa poter
contare sulle capacità e risorse messe a disposizione dagli altri, sulla condivisione dei
rischi, sullo sforzo comune per superare gli ostacoli.
2.5.2 - Metodo
Si può rintracciare nel metodo una duplicità di accezioni fondamentali: da un lato, i
principi e i criteri che orientano, informano, guidano l’attività del gruppo; dall’altro, i
modi ovvero le modalità che strutturano, organizzano, articolano l’attività stessa.
Da un lato il metodo è, così, una specificazione delle norme che governano la vita di un
gruppo. Più in particolare, il metodo ha come riferimento le norme operative; è la regola
del lavoro e dell’interazione professionale nei gruppi: istituisce e ordina il lavoro del
gruppo, prevede il rispetto di procedure e una sequenza di comportamenti
predeterminati, di azioni definite. È possibile definire il sistema di norme che regola il
gruppo come un insieme di caratteristiche ricorrenti: il modo di pensare assunto dagli
individui coinvolti, l’insieme delle regolarità riscontrabili nel comportamento dei
membri, oltre alle aspettative condivise di funzionamento.
Se si guarda al risultato di un gruppo, non si può non riconoscere la sua elevata
dipendenza dall’efficacia e dall’efficienza del suo metodo di lavoro.
Ed è su questo aspetto che si innesta il secondo versante di lettura del metodo, che lo
identifica come una serie di azioni, operazioni, modalità che permettono di procedere
con efficacia, mantenendo in evidenza, da un lato, il percorso di lavoro che il gruppo sta
sviluppando, dall’altro ottimizzando le risorse dei singoli componenti.
Si prevedono cinque attività:
76
analisi delle risorse e dei vincoli: per risorse intendiamo tutto ciò di cui il gruppo
realisticamente dispone per svolgere il suo lavoro: i membri, ossia conoscenze già in
loro possesso o meno, il tempo, materiali messi a disposizione dal formatore. Questo
comporta il saper osservare le differenze di capacità, di professionalità che emergono,
come contributi che arricchiscono il gruppo e non come vincoli che impediscono la
realizzazione degli obiettivi.
Discussione: dialogo e confronto presiedono il procedere del gruppo di lavoro: la
discussione è la regola. La discussione può richiedere metodo, affinché sia finalizzata a
ottenere la più ampia partecipazione attiva dei membri del gruppo in modo che le
informazioni, le opinioni, le conoscenze e i dubbi possano essere espressi e confrontati
con tutti. Il formatore assume un ruolo essenziale: quello di coordinatore dei turni di
parola, piuttosto che di colui che pone determinate domande/affermazioni per stimolare
i partecipanti alla riflessione (metodo maieutico).
Decisione: diversi metodi: decisione a maggioranza, decisione a imbuto, matrice a
scelte pesate…
Pianificazione dell’uso del tempo: l’uso del tempo mette in luce anzitutto le difese, le
resistenze al compito che si frappongono al raggiungimento dell’obiettivo.
Il tempo è, in realtà, l’unica risorsa che, una volta utilizzata, non è reintegrabile. È
necessario, quindi, che il gruppo stabilisca una scaletta per ciascun argomento di
discussione che scandisca l’uso del tempo a disposizione.
In linea più generale la pianificazione dell’uso del tempo si traduce nella costruzione
dell’agenda di lavoro.
Si tratterà di collocare nel tempo gli obiettivi con le loro priorità e stabilire le scadenze
per le diverse unità di lavoro coinvolte.
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Uso degli strumenti di problem solving: la logica di problem solving, come già detto,
implica il superamento dell’atteggiamento che porta a cercare il colpevole, a superare il
“chi è stato?”, per orientarsi alla ricerca del problema, quindi del “perché succede?”.
Questi strumenti e la logica che li regge consentono ai gruppi di lavoro di produrre
risultati, riducendo contemporaneamente l’ansia indotta dal compito che è stato
assegnato.
Se per affrontare e risolvere un problema occorre definire il metodo con il quale
pervenire a un risultato, di necessità emergeranno tanti modi quanti sono i membri,
ciascuno con la sua logica, ciascuno con le sue ragioni, nella maggior parte dei casi con
evidenti divergenze e contraddizioni. Il problema del metodo, quindi, è prima di tutto un
problema di approccio logico e, successivamente, di negoziazione di una logica
comune. Trovare il metodo di lavoro significa produrre pensiero di gruppo.
Occorre quindi dedicare, nella fase iniziale di “consegna del compito”, tempo e
attenzione alla definizione di un metodo e degli strumenti che permettano di procedere
con efficacia, mantenendo in evidenza il percorso di lavoro che si dovrà sviluppare per
orientare l’impegno e il contributo individuale, ottimizzando le risorse dei singoli
componenti.
In linea generale occorre semplicemente aggiungere che, per dotare un gruppo di lavoro
di un metodo efficace, la prima condizione è che nella stessa fase di “consegna del
compito”, e poi durante ogni fase significativa di lavoro, venga dedicato alla definizione
del metodo un momento di discussione e di negoziazione che porti alla condivisione
delle modalità prescelte. È necessario accordarsi prima di entrare nel merito del
problema sul tipo di approccio e di strumenti da utilizzare per affrontarlo.
78
2.5.3 - Ruoli
È certo che una delle caratteristiche di un gruppo efficace coincide con la capacità di
utilizzare e valorizzare al meglio le differenze rappresentate dai suoi membri: differenze
di esperienze, di competenze, di approcci.
Un dato di fatto è, tuttavia, che ogni gruppo ha necessità di tradurre in qualche modo
queste differenze anche in un dato di struttura e di articolazione nonché in regole di
funzionamento. A ciò corrisponde l’idea del ruolo o del sistema di ruoli.
I ruoli rappresentano pertanto all’interno di un gruppo di lavoro le parti assegnate a
ciascuno in funzione del riconoscimento più o meno esplicito delle specificità e in vista
dell’ottimizzazione più o meno decisiva delle differenze.
Un primo approccio alle questioni legate al fattore “ruolo” nel gruppo di lavoro ci
conduce così a definirlo come l’insieme dei comportamenti che ci si aspetta da chi
occupa una posizione all’interno del gruppo stesso.
In questa prospettiva le aspettative degli altri membri e del gruppo stesso costituiscono
l’insieme delle prescrizioni per il ruolo.
Dunque, essi dipendono contemporaneamente dalle attività perseguite e dai
comportamenti dei diversi membri, con riferimento, secondo i casi, a individui o a
sottogruppi destinati ad una stessa funzione. Questa differenziazione funzionale
presenta un aspetto orizzontale (lavoro a catena in una equipe, giro di tavolo in una
discussione) e un aspetto verticale, ovunque vi sia gerarchia di fatto o di diritto.
Nei gruppi in attività di formazione, appaiono dei processi di differenziazione e di
adattamento, che corrispondono all’emergere progressivo di un sistema di ruoli, più o
meno nettamente definiti e articolati in base al compito assegnato e alle competenze già
in possesso di ognuno.
79
È specialmente in occasione di discussioni libere, prive di strutture e di programmi
preliminari, che è possibile sia un’osservazione obbiettiva e sistematica di tali processi,
sia ancora una diretta sperimentazione di questi, vivendoli dall’interno, nel quadro di
certe situazioni di formazione.
Lo studio dei gruppi ha rivelato che ciascun membro esercita un’influenza differente sia
in intensità che in qualità, sul comportamento del gruppo, qualunque cosa questo faccia
o non faccia. Sembra anche che nessuna operazione di produzione possa effettuarsi
senza che emerga una figura di capo o di conduttore del gruppo. La sua relazione con
gli altri membri deve essere però considerata in una prospettiva di complementarietà,
poiché essa non dipende dal comportamento del capo soltanto, ma anche dalle esigenze
variabili della situazione totale (scopo collettivo, aspettative e bisogni dei membri ecc.).
Secondo lo stile che ha adottato il leader può sia riversarsi il potere di decisione, sia
porsi solamente in un ruolo di “catalizzatore”, mirante a facilitare delle prese di
decisione collettive. Così la leadership si concentra interamente nella persona di un
capo, o si diffonde in qualche modo all’interno del gruppo.
I membri imparano durante il lavoro, e attraverso la relazione con gli altri, quali siano i
comportamenti richiesti per il ruolo che ricoprono. È un apprendimento che avviene, il
più delle volte, per approssimazioni successive.
La complicazione deriva dal fatto che non esistono comportamenti richiesti e
comportamenti proibiti standard, codificati e validi per tutti i gruppi: alcuni
comportamenti desiderati in alcuni gruppi sono rifiutati in altri. Non è possibile quindi
prevedere, in linea generale e in astratto, quali saranno i comportamenti richiesti, e
quindi efficaci, per far funzionare meglio il gruppo.
80
Il modo di ricoprire il ruolo è influenzato da molti fattori: dalla conoscenza che
l’individuo ha del ruolo, dalla motivazione a ricoprirlo, dalla consapevolezza che
possiede in merito al suo sistema di competenze, dalle modalità di relazione con le altre
persone.
Il gruppo prescrive i comportamenti richiesti in relazione alle sue aspettative su quel
ruolo, i singoli accettano il ruolo in relazione alle loro motivazioni e competenze ed
esprimono la loro discrezionalità nella gestione del ruolo.
La qualità dei ruoli in gruppo di lavoro è correlata ad alcuni importanti fattori:
identificato in relazione con le aree chiave. Alcune aree di un gruppo di lavoro devono
essere presidiate da ruoli precisi, con i relativi compiti e responsabilità. Le aree chiave
da presidiare sono sostanzialmente quattro e sono relative: al lavoro, alle relazioni, al
risultato, alla qualità.
-
Il presidio del risultato è necessario per garantire il raggiungimento degli
obiettivi per i quali il gruppo è stato costituito.
-
Il presidio del lavoro permette al gruppo di aumentare i livelli di coesione
perché fornisce la base necessaria per la condivisione della responsabilità e per
l’assunzione dei rischi.
-
Il presidio delle relazioni. Si tratta di garantire al gruppo un livello di scambio e
un clima che offrano ai membri ampie possibilità di esprimere le loro
competenze e di aumentare i livelli di soddisfazione.
-
Il presidio della qualità è fondamentale perché il gruppo possa fornire quei
risultati che rendano effettivamente conto di uno sforzo collettivo, che siano
orientati al miglioramento e all’innovazione.
81
Assegnato in relazione al sistema di competenze dei membri. I ruoli devono essere
assegnati in modo esplicito e trasparente, e altrettanto chiaramente vanno definiti i
compiti e le responsabilità correlate; va sempre verificata la percezione del ruolo di chi
lo ricopre e degli altri membri del gruppo.
Finalizzato alla valorizzazione del sistema di competenze dei membri. Ciascun membro
del gruppo di lavoro possiede un proprio sistema di competenze. È necessario far
riferimento a un sistema di competenze maggiormente complesso, che comprenda ad
esempio differenti aree di capacità professionali, ovvero di abilità connesse con lo
svolgimento dell’attività di lavoro, e di qualità personali, di caratteristiche individuali.
L’attesa è piuttosto quella che a livello di gruppo si realizzi la completezza del sistema
di competenze e che esso sappia esprimere efficacemente e valorizzare le competenze
dei singoli membri, traducendole in modo adeguato nel sistema dei ruoli.
In un gruppo è importante che i membri posseggano sistemi di competenze caratterizzati
da capacità diverse, ma che riconoscano nella differenze una risorsa e non
esclusivamente un vincolo.
È auspicabile, infine, che si arrivi a una rotazione, a una intercambiabilità dei ruoli, che
testimoni della maggiore flessibilità dei sistemi personali, dell’apprendimento
individuale e di gruppo e delle possibilità di comunicazione e di scambio.
In conclusione i vantaggi che derivano da una chiara definizione dei ruoli sono
riassumibili in: maggiore valorizzazione del sistema di competenze degli individui,
sviluppo del sistema di competenze, migliore gestione dei conflitti, soddisfazione che
deriva dal riconoscimento sociale, migliore qualità dei risultati.
82
Tutti obiettivi essenziali in un’attività di formazione, in quanto questa mira proprio alla
crescita personale e professionale.
2.5.4 - Leadership
Per quanto già detto nella prima parte di questa sezione, la leadership di un gruppo di
lavoro va intesa come funzione di equilibrio tra membership e groupship, in tal senso il
leader è anzitutto un professionista di relazioni.
Va sottolineata la convinzione che l’esigenza di leadership nei gruppi si origina prima di
tutto da esigenze di sviluppo del gruppo stesso e non da una qualunque necessità degli
individui di essere guidati.
I ruoli di leadership sono molteplici, e differenti individui possono trovarsi a provvedere
a una o più funzioni richieste per lo sviluppo del gruppo.
Vale dunque per la leadership il ragionamento seguito per l’analisi del ruolo: essa si
esprime a un primo livello come insieme di comportamenti attesi rispetto ad alcune
specifiche funzioni.
La leadership efficace in un gruppo è dunque l’esito dell’incontro tra le aspettative del
gruppo stesso per ciò che concerne i comportamenti di leadership, i ruoli che vengono
assegnati, le capacità di leadership degli individui che contribuiscono a esprimere uno
stile adeguato alle aspettative.
Se la funzione è coperta con ruoli definiti e chiari, da persone capaci, il gruppo sarà
nella situazione ideale per svolgere il suo lavoro: viceversa incontrerà numerosi
ostacoli.
L’ottica che si propone è che il gruppo produce il suo stile di leadership e il suo leader,
o meglio i suoi leader, attraverso una negoziazione continua di ruoli e funzioni.
83
Una leadership negozia un ruolo chiaro, orientato a stimolare le capacità di tutti,
l’esposizione di tutti e il massimo della condivisione possibile dei rischi e del successo:
di conseguenza vuole eliminare le ambiguità sull’attribuzione dei risultati. Il leader in
questo caso lavora con il gruppo, non per o sul gruppo: non si sostituisce a esso né nelle
decisioni né nel superamento delle difficoltà. La sua finalità è l’ottimizzazione delle
risorse disponibili all’interno del gruppo sia in termini operativi che relazionali. Ha
funzione più di fluidificazione del lavoro che di produttore di risposte, attiva più che
essere attivo, tende al successo del gruppo più che all’espressione delle sue potenzialità.
La leadership fa emergere gli altri leader e favorisce l’apprendimento di un nuovo
modello di utilizzo delle capacità individuali, perché lavora per la crescita dell’unità
sovraindividuale più che per la disarmonica e conflittuale espressione di capacità
personali. La leadership deve essere:
-
situazionale: deve essere coerente con gli obiettivi del gruppo, con le
caratteristiche professionali e personali dei membri, con la storia e la cultura del
gruppo e dell’organizzazione.
-
trasparente. I ruoli devono essere chiariti e definiti nella fase di costituzione del
gruppo.
-
flessibile. Una leadership efficace sarà orientata a coordinare le capacità e i
contributi dei membri del gruppo più che a ribadire quelle del leader. Nelle
decisioni, nel metodo di lavoro, porterà ad adottare le soluzioni costruite dal
gruppo e con il gruppo, piuttosto che quelle preconfezionate dal leader.
-
pragmatica. Una leadership efficace è ancorata ai fatti e ai dati provenienti dalla
realtà e dall’ambiente.
84
-
orientata al compito. Indirizzata al presidio dell’obiettivo: definizione,
chiarimento, implementazione.
-
orientata alle relazioni. Garantisce il riconoscimento dei bisogni individuali e
delle capacità per sviluppare cultura e valori condivisi all’interno del gruppo,
assicura un’elevata qualità dei rapporti interpersonali, che consenta una forte
identificazione con il gruppo e un’alta motivazione al lavoro e alla
responsabilità.
Le funzioni indispensabili per la sopravvivenza, la crescita e l’autoaccudimento del
gruppo di lavoro si individuano nei tre vertici:
-
della competenza: funzione che presidia la capacità del gruppo di fornire
soluzioni innovative, globali e realizzabili.
-
dell’appartenenza: funzione che presidia la possibilità e il mantenimento delle
relazioni tra i membri, e il clima affettivo del gruppo.
-
della comunicazione: funzione che garantisce la crescita del gruppo; crea canali,
reti e sinergie. Permette al gruppo di articolarsi e di costruire un codice
condiviso, di articolare il linguaggio del lavoro con quello delle emozioni.
Garantisce, inoltre, il canale di comunicazione con l’esterno.
È dall’incontro tra le aspettative del gruppo e la disponibilità degli individui che
scaturiranno queste tre figure di leader.
Possiamo affermare che il ruolo del leader può essere assunto dal formatore stesso
oppure al formatore può essere lasciato l’unico compito di osservare il lavoro svolto dal
gruppo di formazione e intervenire solo se questo si porta al di fuori dell’area di lavoro.
85
2.5.5 - Comunicazione
La comunicazione è variabile di processo per eccellenza: è attiva sin dal primo incontro
del gruppo, all’atto della sua costituzione, rende operante il suo percorso evolutivo, ne
istruisce le relazioni con i gruppi esterni. Di più: ne decide il destino, “fa” il gruppo.
La comunicazione è dunque la variabile che sorregge e governa l’intero processo
evolutivo da gruppo a gruppo di lavoro, e guida il percorso dall’interazione
all’integrazione.
La comunicazione nei gruppi di lavoro si presenta come un processo interattivo,
informativo e trasformativo, che è inserito in uno specifico contesto interno ed esterno,
governato da regole, e si rivolge con particolari caratteristiche temporali.
Il carattere interattivo del processo di comunicazione è legato alle reciproche posizioni
dei membri del gruppo ed è vincolato ai rispettivi ruoli. La comunicazione come
scambio di contenuti operativi è al tempo stesso veicolo di significati molteplici che
hanno per oggetto primario la relazione ovvero la struttura relazionale del gruppo.
A livello informativo il processo di comunicazione rinvia al vertice dei materiali di
conoscenza riferiti sia al lavoro sia alle relazioni.
Il carattere trasformativo del processo di comunicazione lega lo scambio al sapere nella
direzione del cambiamento. In questa prospettiva la comunicazione, oltre a essere il
terreno dello scambio e il luogo dell’elaborazione di conoscenze, sarà anche il momento
di verifica continua del linguaggio che il gruppo si dà e utilizza. Il carattere
trasformativo della comunicazione va dunque ricercato nella sua dimensione
“linguistica”. Ma non solo: per cambiamento possiamo anche intendere crescita,
apprendimento.
86
La questione che ci si pone attiene così a un ragionamento sull’efficacia del processo di
comunicazione, processo certamente stressato dal compito che il gruppo svolge e
condizionato dalla fitta rete di rapporti con l’organizzazione.
Di conseguenza, la comunicazione efficace dovrà rispondere ad alcune specifiche
caratteristiche, per le quali spetterà primariamente al leader fornire un valido contributo,
caratteristiche individuabili nelle seguenti:
finalizzata: comunicazione come attività riferita alla presa di decisioni, allo sviluppo di
ipotesi di soluzione dei problemi, alla gestione delle relazioni. Occorre dunque
mantenere costantemente il contenuto della comunicazione coerente con l’obiettivo da
raggiungere e funzionale al compito.
pragmatica: privilegia la raccolta e l’analisi di dati e fatti, e vengono utilizzate tutte le
differenti interpretazioni per capire il problema.
trasparente: è completa, ciascuno fornisce al gruppo tutte le informazioni delle quali
dispone e non vengono utilizzate difese come strumento di potere.
situazionale: è coerente con il momento e con la fase di lavoro del gruppo, il linguaggio
e il modo sono adeguati ai membri, ogni membro fa uno sforzo di adattamento alle
esigenze e alla cultura professionale degli altri.
Nel momento della costituzione del gruppo di formazione è assai probabile che il
processo di comunicazione risulti ampiamente disfunzionale: i membri del gruppo non
si sono reciprocamente scelti né hanno scelto gli obiettivi che sono all’origine delle
richieste e delle attese del formatore.
87
È dunque indispensabile che il processo di team building sia avviato proprio a partire
dai fatti di comunicazione e possa come tale circoscrivere il gruppo di lavoro nella sua
completa totalità.
Componenti principali del processo:
-
confronto e scambio. Una comunicazione efficace richiede che tra i membri del
gruppo avvenga un reale incontro delle diverse informazioni possedute, dei dati,
e un’integrazione delle differenze esistenti. Il confronto nel gruppo avviene,
come più volte si è detto, sia a livello di contenuto sia a livello di relazione.
-
ascolto. L’ascolto diventa un’opportunità per conoscere e conoscersi e per far
evolvere e arricchire la propria soggettività, nonché capire il punto di vista degli
altri e integrarli con il proprio. L’ascolto non è funzione passiva nei processi di
comunicazione. Occorre, nell’ascoltare gli altri, una reale volontà di capire
quello che dicono, di mettersi dal loro punto di osservazione della realtà. Il
problema per cui molto spesso non si ascolta è perché si ha il timore di perdere il
proprio punto di vista, assumendo quello di un altro; il lavoro di gruppo è utile
per apprendere a tenere conto di più punti di vista diversi, differenziati, e crearne
uno nuovo originale che esprima il meglio, che abbia caratteristiche di
complessità e completezza, che contengano le diversità, le articolino e le
superino.
-
esposizione. L’esporre, inteso come attività del “parlante”, implica, come per
l’ascolto, processi complessi. Nell’esporre è necessario che si sappia misurare il
valore delle proprie conoscenze e informazioni e delle proprie capacità di
comunicazione, il proprio stile. Il valore e la significatività dei contenuti da
88
comunicare determinano in modo decisivo l’esposizione. Un’esposizione
efficace presuppone che chi parla sviluppi interesse, curiosità, coinvolgimento.
-
feedback. Saper rispondere è ciò che identifica un’efficace azione di feedback.
La forza del gruppo sta proprio nella possibilità di vedere molti punti di vista
contemporaneamente. Una ricca comunicazione permette a tutti di esprimersi e
attribuire dignità e valore a tutte le opinioni espresse. Cruciale, per realizzarla, è
la capacità di dare e accettare feedback.
Ovviamente sarà compito del formatore grazie agli assiomi della comunicazione, se ben
appresi, capire lo stato interiore dei partecipanti, nonché di aiutarli a esprimere i loro
pensieri e opinioni, a contribuire al raggiungimento degli obiettivi favorendo proprio la
comunicazione.
2.5.6 - Clima
Per clima intendiamo un insieme di elementi, opinioni, sentimenti, percezioni dei
membri, che colgono la qualità dell’ambiente del gruppo, la sua “atmosfera”.
Il clima del gruppo è l’insieme delle percezioni, dei vissuti, dei sentimenti dei membri,
quindi di attribuzioni soggettive che possono certamente essere rivolte alla dimensione
collettiva del gruppo, ma che non cessano di possedere valenze sostanzialmente
individuali. Questa atmosfera opera a livello individuale, nel senso dell’influenzamento
dei comportamenti e della connotazione emotiva delle relazioni.
Il clima è anche l’insieme delle qualità dell’ambiente relazionale percepite dai membri.
Questo suo aspetto di “qualità” del gruppo ne giustifica la variabilità in relazione a tutti
i cambiamenti cui il gruppo stesso è sottoposto e alle variazioni del clima dell’ambiente
89
esterno. Su questa percezione delle qualità influiscono in modo evidente il tempo, lo
spazio e la scala di valutazione individuale.
Inoltre, il clima è certamente correlato alla cultura che il gruppo sviluppa durante la sua
attività nel senso degli orientamenti dei membri condivisi dalla maggioranza e
consolidati in principi aggreganti. La cultura di un gruppo permette di sviluppare norme
e valori, stili di pensiero e comportamenti propri, ma l’adesione dei membri a queste
caratteristiche e il loro cambiamento sono fortemente influenzati dal clima del gruppo
stesso.
Elenchiamo alcuni indicatori che sono capaci di esprimere questa variabile:
sostegno: raccoglie le percezioni circa la fiducia di ricevere aiuto concreto in caso di
bisogno e la rappresentazione di una cultura che condivide e partecipa agli sforzi che si
stanno facendo. Ma anche percezione dell’attenzione del leader verso i bisogni
individuali e verso il contributo individuale alla risoluzione dei problemi.
calore: descrive la qualità della relazione e la distanza interpersonale tra i membri del
gruppo. Esprime la percezione di un’atmosfera amichevole nella quale è possibile per il
gruppo mantenere contemporaneamente l’attenzione sul compito e sulle relazioni.
Testimonia della sintonia tra il leader i membri, e si traduce nella percezione di essere
insieme sul problema e di lavorare insieme per risolvere senza il timore di veder
scaricare gli uni sugli altri la responsabilità e le colpe.
riconoscimento dei ruoli: segnala il livello di percezione e accettazione delle differenze
individuali. Il loro riconoscimento è, per ciascun membro, la conferma della sua identità
nel gruppo e impegna ciascuno a rendersi disponibile per gli altri.
90
apertura e feedback: l’apertura è la percezione e il vissuto relativo alla possibilità di
esprimere nel gruppo le proprie idee, i dubbi, e i sentimenti senza censura e senza il
timore di essere fraintesi. Il feedback è la percezione dei membri circa le informazioni
di ritorno e il livello di ascolto per le opinioni espresse dagli altri.
Ovviamente, tutte le altre variabili considerate nel modello di team building qui
proposto andranno considerate come altrettanti fattori principali di orientamento e
influenzamento del clima.
Certamente, la leadership e l’obiettivo sono, tra questi fattori, quelli che più possono
interferire con le condizioni climatiche.
Quanto alla leadership, bisogna riconoscere che lo stile partecipativo assunto dal leader,
ma anche da parte dei partecipanti a mio avviso, è il miglior presidio della qualità del
clima in quanto favorisce scambio e comunicazione. Inoltre bisogna aggiungere che è
soprattutto sul leader che grava, nel momento di avvio e costituzione del gruppo, la
responsabilità tanto di monitoraggio degli indicatori quanto di attenzione alla loro
configurazione.
Quanto al fattore dell’obiettivo, anch’esso contribuisce al clima in modo determinante.
Se il gruppo valuta che il compito è impossibile o, parimenti, troppo facile, il clima che
si instaura è connotato dal disinteresse e dal basso investimento. Il compito innalza la
motivazione e migliora il clima se il gruppo valuta di potercela fare a portarlo a termine,
se ritiene di avere le risorse necessarie e l’appoggio dell’organizzazione. Si è detto “se
ritiene” perché spesso la valutazione del compito non viene fatta sulla base di criteri di
realtà, ma attraverso interpretazioni del tutto soggettive. Questo è il punto che fissa il
legame tra obiettivo e clima.
91
Se leadership e obiettivi sono fattori decisivi di orientamento di clima, occorre pur
sempre considerare che tutte le variabili comprese nel modello sono in gioco, e dunque
anche per esse è utile svolgere qualche ulteriore considerazione.
Così, il metodo influenza il clima anzitutto perché impone livelli di formalizzazione che
innalzano la dipendenza reciproca tra i membri. Ovviamente se tutti i partecipanti sono
d’accordo sul metodo di lavoro da assumere, il clima sarà sicuramente molto più
rilassato rispetto alla situazione contraria.
La variabile ruoli interviene per riportare verso un clima più vivace di coinvolgimento,
perché richiede a ciascuno d attivare, esprimere le proprie capacità e sottintende
sentimenti di attesa relativi al loro riconoscimento da parte del gruppo.
La comunicazione è in stretta relazione causa/effetto con il clima. In un clima caldo,
coerente con i sentimenti e gli avvenimenti, la comunicazione è aperta e franca, i
processi di integrazione vengono attivati attraverso il confronto e la negoziazione delle
differenze. In un clima freddo, formale e difensivo la comunicazione è povera di
contenuti, c’è conflittualità, le relazioni e gli scambi sono ridotti allo stretto necessario.
Al di là dell’intreccio tra le variabili del modello il “fattore in più” che decide
ovviamente del clima non può che essere rappresentato dal collettivo. In un gruppo ogni
membro influenza il clima in senso sia positivo che negativo: ciascuno immette nel
gruppo tensioni, ostilità, soddisfazione, fiducia che derivano dai bisogni individuali e,
spesso, sono l’esito dello stesso bisogno che motiva all’appartenenza al gruppo.
Sarà compito del formatore, e del leader se persona diversa, fare in modo che il clima
soddisfi pienamente gli indicatori sopraccitati e mettere i partecipanti in condizione di
favorire anche loro questi requisiti.
92
2.5.7 - Sviluppo
Focalizzato sul gruppo di lavoro, lo sviluppo identifica la costruzione del sistema di
competenze del gruppo di lavoro e la parallela crescita del sistema di competenze
individuali.
Il processo di sviluppo del sistema di competenze del gruppo è autonomo e
complementare, è la testimonianza della formazione e della trasformazione in qualcosa
di diverso dalla somma degli individui che vi fanno parte.
L’analisi di questa variabile richiede dunque un’articolazione a due livelli:
-
il sistema di competenze dell’individuo che opera e che partecipa al gruppo e
all’attività di team building. Dal risultato dei processi di differenziazione e
integrazione dipende, in buona sostanza, la possibilità per l’individuo di
sviluppare il proprio sistema di competenze in un gruppo di lavoro. Il percorso
che si può ricostruire inizia, così, con l’ingresso dell’individuo, “dotato” del suo
sistema di competenze, all’interno del gruppo. Il primo problema che si presenta
è allora quello relativo alla consapevolezza circa il profilo di competenze
professionali posseduto. Normalmente gli attori percepiscono infatti il loro
sistema di competenze come limitato alle conoscenze strettamente correlate al
proprio lavoro, al ruolo ricoperto, ai compiti svolti. Il passo successivo nel
percorso di sviluppo dipende, dunque, dal riconoscimento della necessità del
possesso di un sistema di competenze più ampio di quanto i membri non
avessero previsto inizialmente. In un momento ancora successivo, lo sviluppo
riguarderà la possibile acquisizione da parte degli individui di capacità e qualità
possedute prima da altri nonché del tutto nuove e dalla flessibilità
nell’assunzione di ruoli, compreso quello di leader, all’interno del gruppo. Il
93
risultato finale dello sviluppo dovrebbe veder arricchito quindi il sistema di
competenze individuale sia sul versante delle capacità relazionali sia sul versante
delle capacità gestionali.
-
Il sistema di competenze del gruppo di lavoro, inteso come unità dinamica
sovraindividuale. Le conoscenze di un gruppo di lavoro rappresentano il sapere
che un gruppo possiede, o che deve acquisire, per poter lavorare in modo
efficace. Si configura come aspetto proprio di quella che più autorevolmente si
definisce come cultura del gruppo. Le capacità di un gruppo di lavoro fanno
riferimento all’identificazione del gruppo come soggetto organizzativo,
all’implementazione delle funzioni e delle caratteristiche indispensabili a un
sistema aperto, alle abilità connesse allo svolgimento di un compito assegnato e
al presidio dei processi relazionali e dinamici.
È importante sottolineare che è il ricorso alla variabile sviluppo a differenziare
nettamente tra gruppo e gruppo di lavoro: il gruppo utilizza più o meno efficacemente il
sistema di competenze dei singoli, il gruppo di lavoro si fonda su un sistema di
competenze autonomo, è un soggetto che agisce come se fosse un “uno”, rispondendo in
modo sinergico alle richieste dei membri.
Un gruppo che non evolve in gruppo di lavoro non può che registrare una perdita. Per
gli individui è la perdita di un’opportunità di successo e di apprendimento: diventa una
nuova occasione per alimentare la propria insoddisfazione.
94
2.6 - RICERCHE SPERIMENTALI SUI GRUPPI DI LAVORO7
Non essendo possibile analizzare in queste pagine i contributi di tanti esperimenti, può
essere utile avere presente su quali fenomenologie di gruppo insiste prevalentemente
l’attenzione del ricercatore, sintetizzando in un breve elenco gli indici più
frequentemente utilizzati per indagare le dinamiche di gruppo.
1) Partecipazione. La partecipazione verbale è un indicatore della implicazione
personale. È importante identificare le differenze di livello di partecipazione dei
membri di un gruppo.
2) Influenza. Influenza e partecipazione non sono la stessa cosa. Alcuni possono
parlare molto poco e tuttavia catturare l’attenzione di tutti. Altri possono parlare
molto e non trovar ascolto.
3) Leadership. La leadership può assumere diverse forme. Può risultare produttiva
o meno rispetto al gruppo e al suo lavoro. Un membro influente può aumentare
l’appoggio o la collaborazione degli altri come può alienarseli. Il modo secondo
il quale una persona cercherà di influenzare gli altri determinerà sostanzialmente
il livello di accettazione della leadership.
4) Metodi di presa di decisione. Numerosi gruppi prendono ogni sorta di decisioni
senza soffermarsi sugli effetti di queste stesse decisioni sui membri. Alcune
persone cercano di imporre le loro decisioni agli altri, mentre altre cercano di
sviluppare processi decisionali più collettivi.
5) Funzioni di produzione. Queste funzioni mettono in luce i comportamenti delle
persone che vogliono che il lavoro sia fatto, che vogliono realizzare lo scopo che
il gruppo ha in quel momento.
7
Ricerche tratte da La dinamica di gruppo (2004).
95
6) Funzioni di sostegno o di manutenzione. Queste funzioni giocano un ruolo
importante al livello del morale del gruppo in quanto influenzano le condizioni
(favorevoli o sfavorevoli) per la produzione. Esse mantengono relazioni di
lavoro compatibili e creano un clima di gruppo che aiuta ogni membro a
partecipare al meglio.
7) Il clima di gruppo. Il metodo di lavoro di un gruppo e le “valenze” personali
creano un clima nel gruppo. È possibile comprendere il clima che regna in un
gruppo utilizzando le impressioni generali dei membri del gruppo.
8) Appartenenza. Una delle principali preoccupazioni dei membri del gruppo è
spesso il loro grado di appartenenza al gruppo stesso. Diversi tipi di interazione
possono manifestarsi nel gruppo e offrire indicazioni di gradimento e del tipo di
appartenenza: ad esempio, il formarsi di sottogruppi, l’esclusione di un membro,
movimenti di ritiro…
9) Sentimenti. Durante tutte le discussioni o le attività di un gruppo sono le
interazioni tra i membri a mobilitare i sentimenti. Di questi sentimenti si parla
però raramente. Chi osserva li desume facendosi aiutare dal tono della voce,
dalle espressioni del volto, dai gesti e da altri messaggi non verbali.
10) Norme. Le norme o le regole fondamentali di controllo del comportamento dei
membri di un gruppo e di pressione al conformismo possono essere più o meno
manifeste. Le norme esprimono solitamente le convinzioni o i desideri della
maggioranza dei membri del gruppo riguardanti i comportamenti accettabili o
non accettabili in gruppo. Queste norme possono essere esplicite e chiare per
tutti i membri del gruppo, conosciute o sentite da qualcuno solamente (implicite)
96
o del tutto inconsapevoli. Alcune norme facilitano, altre ostacolano il lavoro di
gruppo.
2.6.1 - Ricerca n°1
Benché, in un certo senso, tutti gli studi riguardanti i processi di gruppo apportino un
parziale contributo al problema della coesione, un certo numero tra questi lo affronta più
direttamente e si segnala per il rigore del piano sperimentale seguito.
Si tratta soprattutto di esperienze di laboratorio compiute da alcuni lewiniani8. Questi
ricercatori hanno convertito il concetto di coesione in “indici operativi”, suscettibili di
misurazione. Si tratta sia di modalità di comportamento registrabili (gradi di
partecipazione ed un compito, di performance, di interazione con i compagni), sia di
indici psicologici più indiretti (livelli di soddisfazione espressi in risposta ad un
questionario, numero e ripartizione di scelte preferenziali, ecc.).
In
questa
prima
sperimentazione
viene
esaminata
la
dinamica
di
gruppo
contemporaneamente nei suoi aspetti interni e sotto la forma di conflitti collettivi, con i
significati culturali che questi hanno.
Allo scopo di eliminare il più possibile l’influenza di fattori estrinseci, anteriori alla
costituzione dei gruppi, viene costituita una piccola colonia di 24 ragazzi di status
sociali molto omogenei, completamente sconosciuti gli uni agli altri, e che non
presentano turbe caratteriali.
8
Lewin è uno dei più importanti ricercatori, se non il più importante, sulle dinamiche di gruppo.
97
In una prima fase di tre giorni, in cui tutti i ragazzi sono riuniti in uno stesso campo, gli
sperimentatori lasciano che si sviluppi una prima rete di affinità, che viene rilevata con
l’aiuto di strumenti socio-metrici.
In una seconda fase i ragazzi vengono divisi in due gruppi, rompendo sistematicamente
tutte le coppie, al fine di eliminare le iniziali attrazioni dai processi che si osserveranno
in seguito. Ogni gruppo vive ormai nel proprio campo, sviluppando delle attività
collettive autonome. I soggetti hanno così l’occasione di conoscersi meglio, di adattarsi
gli uni agli altri, di ripartirsi i ruoli e di attribuirsi gli status: tutti fenomeni che fanno
capo alla costituzione di gruppi veri e propri, con le loro strutture socio-operative e
socio-affettive, e il loro sentimento vissuto di un “noi” collettivo.
In questo periodo, di fatto, in ciascun gruppo appaiono molti segni di coesione: grido di
adunata, canto tribale, attribuzione spontanea di un nome comune. Ma il sintomo più
significativo è il rovesciamento delle scelte preferenziali, in un nuovo sociodramma in
cui esse sono quasi esclusivamente dirette verso i membri del proprio gruppo, a spese
delle preferenze espresse la prima volta. A questa endofilia dell’ingroup si aggiunge
una tendenza al confronto di stile competitivo: i ragazzi oppongono “noi” a “loro” e
sollecitano delle sfide sportive tra i due gruppi.
Una terza fase (cinque giorni più tardi) si ha quando già questo desiderio di
competizione ha trovato soddisfazione. Si assiste allora all’apparizione di un clima di
tensione, e al verificarsi di comportamenti aggressivi di ogni sorta tra i due gruppi:
lazzi, ingiurie, provocazioni, angherie collettive.
Si producono delle distorsioni percettive molto rilevanti, specialmente nel gruppo che è
stato vinto nella competizione: esso percepisce l’altro gruppo come continuamente e
ingiustamente avvantaggiato, e se stesso come oggetto di imbrogli e truffe; razionalizza
98
la sua sconfitta e manifesta la sua frustrazione attraverso disegni e soprannomi ostili.
Si generano così taluni stereotipi, attraverso i quali ogni membro dell’altro gruppo
sarà ormai catalogato.
Questi atteggiamenti diventano ben presto così profondamente radicati, che risulta
molto difficile estirparli o anche attenuarli.
È appunto alla risoluzione di queste difficoltà che gli sperimentatori si dedicano nel
corso di nuove esperienze. Sono stati successivamente sperimentati tre metodi, atti a
ridurre le tensioni fra i gruppi e ad eliminare gli stereotipi aggressivi. Il primo metodo
consiste nel provocare l’unione degli sforzi di tutti contro un terzo gruppo preso come
avversario comune: espediente che può avere una provvisoria efficacia, ma non fa,
comunque, che allargare il problema delle tensioni fra i gruppi. Un secondo metodo
consiste nel provocare dei contatti tra i due gruppi in situazioni per se stesse piacevoli
(sedute ricreative, merende comuni, ecc): i risultati sono però nulli perché i membri dei
due gruppi prendono posto separatamente nei locali comuni, e cercano solamente di
scambiarsi invettive o azzuffarsi. La sola situazione che può giocare un ruolo decisivo,
consiste nel suscitare un’interazione tra i gruppi con l’occasione di un compito urgente,
che vada al di là delle risorse dei gruppi presi isolatamente. Si assiste allora ad
un’evoluzione dei comportamenti e al ristabilirsi progressivo della comunicazione e
della cooperazione tra i gruppi.
Questa evoluzione è confermata dai risultati di un nuovo test, che si basa sull’insieme
della colonia e che rivela una proporzione apprezzabile di scelta verso i membri
dell’outgroup, mentre gli atti aggressivi e gli stereotipi tendono ad attenuarsi molto
notevolmente.
99
Queste esperienze presentano un triplice interesse:
-
rilevano anzitutto l’influenza considerevole della situazione gruppale sulle
selezioni interpersonali e l’importanza del fenomeno collettivo di endofilia.
-
Permettono di rilevare che quando due gruppi coesi sono mantenuti in uno stato
di segregazione e contemporaneamente di vicinanza, tendono a sviluppare delle
relazioni di ostilità crescente, apparentemente sotto l’influenza di modelli
culturali di stile concorrenziale e competitivo. Questo rilievo è molto
importante, perché mette in luce, da una parte, la persistenza dei modelli propri
della macrosocietà, anche al livello di piccoli gruppi di formazione recente;
dall’altra, permette di osservare che tutto avviene come se il rafforzarsi della
coesione interna al gruppo si accompagnasse ad un rischio crescente di tensione
fra gruppi.
-
L’ultima parte di questa esperienza suggerisce tuttavia una linea d’intervento che
permette di sfuggire a questa sorta di fatalità psicosociale: solo l’emergere di
scopi e di preoccupazioni comuni agli avversari che si vuole conciliare può
riuscire efficace. Ma oltre al fatto che non è sempre possibile creare tali
situazioni, non si elimina con questo il pericolo di un risorgere di modelli
competitivi. Si può pensare che questi non sono che rinviati ad un’altra
occasione e su più vasta scala, allorché la comunità rincontrerà qualche nuovo
gruppo estraneo.
2.6.2 - Ricerca n°2
Certe abitudini circa il consumo della carne si erano rivelate negative dl punto di vista
economico, dopo l’entrata in guerra degli Stati Uniti nel 1943: si trattava quindi di
100
indurre gli americani a consumare maggiormente le frattaglie – cibo assai spregiato e
di difficile conservazione – per evitare il razionamento degli altri “tagli”.
Sollecitato dai servizi ufficiali, Lewin ebbe l’idea di mettere a confronto due modalità di
intervento in favore del consumo delle frattaglie, nell’ambito dei club femminili, dove si
riunivano regolarmente le massaie di piccole città: da una parte, si avevano delle
conferenze, che vertevano sui meriti nutritizi delle frattaglie e sui mezzi culinari che
permettevano di migliorarne la preparazione e la presentazione: dall’altra delle
esposizioni – discussioni in cui, dopo un’informazione più breve, le donne erano
invitate a porre delle domande e a discutere tra loro, sotto la guida di un animatore.
Si constatò che gli effetti sull’aumento del consumo erano dieci volte superiori con il
secondo metodo (3% contro 30%).
Questi risultati sono stati confermati da altri studi, riguardanti, questa volta, il
confronto tra l’efficacia di istruzioni dietetiche date dai medici individualmente e
l’efficacia di prese di decisione effettuate da piccoli gruppi, sotto la guida dei medici
stessi: si trattava di indurre le giovani partorienti di un ospedale rurale a
somministrare precocemente al loro bimbo dell’olio di fegato di merluzzo e dei succhi
di frutta, invece di mantenerlo a lungo ad un regime esclusivamente latteo. I controlli
ulteriori rivelarono che le madri che si erano decise ad adottare questo nuovo regime
dopo una discussione, lo praticavano effettivamente in un proporzione dall’85% al
100%, mentre quelle che avevano ricevuto delle istruzioni individuali, lo praticavano
solo in una proporzione dal 40 al 50%.
Come spiegare questo vantaggio incontestabile della discussione di gruppo e delle
decisioni collettive?
101
Anzitutto, il grado di implicazione, di impegno delle persone invitate ad una
discussione, è più intenso di quando esse si limitano a leggere un opuscolo o ad
ascoltare una conferenza; i membri di un gruppo di discussione sono più attivi, si
sentono più direttamente coinvolti e soprattutto più profondamente impegnati quando
prendono una decisione collettiva. Inoltre, dal momento che essi possono esprimersi più
liberamente, più spontaneamente, l’animatore coglie meglio le riserve, gli ostacoli, le
diverse difficoltà che sorgono di fronte alle sue proposte o alle sue informazioni, e gli è
possibile tenerne conto. Mentre il colloquio individuale o la propaganda di massa
lasciano l’individuo solo di fronte alle sue esitazioni e alle sue velleità, la discussione è
in grado di suscitare un movimento collettivo di evoluzione degli atteggiamenti. Le
donne, massaie o giovani mamme, hanno posto le domande nella loro propria
prospettiva, in funzione delle loro preoccupazioni e nel loro linguaggio; in seguito,
almeno una minoranza delle massaie si è dichiarata favorevole a fare una prova in
favore delle frattaglie, e a decidervisi insieme; quanto alle giovani madri, è
generalmente all’unanimità che esse si mostravano preoccupate di migliorare la
crescita del loro bimbo con un regime più eclettico.
Interpretazione teorica. – È a questo livello di analisi che Lewin coglie il nocciolo del
problema: una delle principali sorgenti della resistenza al cambiamento, è la paura di
allontanarsi dalle norme del gruppo. Ecco perché, conclude Lewin, è più facile
modificare le abitudini di un gruppo che quelle di un individuo preso isolatamente,
anche quando non si tratta di una decisione circa un fine comune, ma di una decisione a
riguardo di comportamenti individuali in un contesto sociale (per quello che ci
102
riguarda, possiamo parlare di apprendimento di nuovi atteggiamenti, comportamenti,
conoscenze).
Lewin trae, da questo insieme di ricerche, un’interessante teoria sugli equilibri sociali e
le loro trasformazioni. Che si tratti di abitudini alimentari o professionali, di modalità di
comando, di clima sociale o di livello di produttività, ci si trova – tranne che nei periodi
di brusche crisi – in presenza di equilibri quasi stazionari. Se si vuole introdurre un
cambiamento, bisogna riuscire a modificare questo equilibrio in un senso deliberato.
Se si hanno a disposizione allora due metodi: aumentare le pressioni nel senso del
cambiamento, oppure diminuire le resistenze che si oppongono a questo cambiamento
stesso. Praticare esclusivamente il primo metodo, porta quasi sempre a tensioni e
conflitti più o meno rilevanti.
Bisogna dunque associarvi il secondo metodo.
Dal momento che sappiamo che una delle principali fonti della resistenza al
cambiamento è la paura di scostarsi dalle norme tradizionali, se i membri dei gruppi
sono indotti ad accettare “insieme” la messa in discussione di queste norme, il processo
di evoluzione è avviato.
Lewin completa la sua teoria sottolineando che questi fenomeni di resistenza o di
evoluzione, devono essere considerati nel contesto sociale in cui si manifestano. Ciò
richiede un’analisi accurata delle situazioni concrete nelle quali si desidera praticare un
intervento. È importante, specialmente, determinare i diversi gruppi che sono implicati,
in modo diretto o indiretto, nel caso di questo o quel cambiamento, e lo status e il ruolo
delle differenti persone all’interno di questi gruppi. Ogni processo sociale suppone una
rete di comunicazioni e una serie di operazioni; certe regioni di questa rete giocano un
ruolo particolarmente importante: Lewin propone di chiamarle “porte”. È al livello di
103
queste porte e dei loro “portieri” che si operano le scelte decisive, dopo momenti di
esitazione – o talvolta di conflitto – e di esperienze concrete (ad esempio il leader può
essere considerato una “porta”).
2.6.3 - Ricerca n°3
Ricerche sul cambiamento dei metodi di lavoro. - Prenderemo come esempio uno studio
realizzato nell’ambito di un’industria, da due ricercatori della corrente lewiniana, poiché
esso presenta un duplice interesse, positivo e critico: mitologicamente esso costituisce,
grazie al suo schema rigoroso, una specie di esperienza sul campo, in cui si manipolano
delle variabili ben definite, invece di limitarsi, come in molte inchieste, a isolare delle
correlazioni fra taluni fattori; quanto alla sua portata però, esso può dare adito a qualche
critica di ordine sociologico, e induce a porre in modo più esauriente il problema della
partecipazione al cambiamento.
L’obiettivo dello studio è di rilevare l’importanza dei fattori psicosociali durante
l’introduzione progressiva di nuove macchine in una officina tessile.
Lo schema sperimentale comporta tre gruppi di lavoro, produttivi in eguale misura
prima del cambiamento di macchine.
-
nel gruppo G0, detto di controllo, si procede come al solito: cioè, arrivato il
giorno, ci si limita a spiegare agli operai l’uso delle macchine, esortandoli a
fare del loro meglio, e annunciando loro soltanto che le nuove norme di lavoro
saranno stabilite dai servizi competenti.
104
-
Nel gruppo sperimentale G1, dopo aver esposto le ragioni del cambiamento
tecnico, si invitano i lavoratori a designare dei delegati che collaboreranno con
il Servizio Metodi nello stabilire le norme dopo una fase di collaudo.
-
Nel gruppo G2, è l’intero gruppo che è invitato a collaborare nello stabilire le
norme.
Ne conseguono dunque tre livelli di partecipazione al cambiamento: nullo, indiretto,
diretto. Si osserva ciò che avviene nei giorni successivi all’introduzione delle nuove
macchine, e specialmente il grado di diminuzione temporanea della produzione e i
processi di recupero.
-
quanto al rendimento, si constata dapprima un brusco abbassamento in tutti i
gruppi durante i primi giorni: ma solo il gruppo G0, dove non c’è nessuna
partecipazione, non recupera neppure in seguito il livello di produzione
precedente, mentre gli altri due gruppi (soprattutto G2) recuperano e superano
presto questo livello.
-
Quanto al morale, si constata nel gruppo di controllo un vivo malcontento, che
si traduce nell’abbandono del lavoro da parte di due operai e in numerosi
reclami. Nel gruppo sperimentale G1 il morale è abbastanza soddisfacente,
malgrado certe inquietudini e discussioni.
Nel gruppo G2 il morale è eccellente e non si presenta alcun problema.
Si può dunque concludere che sono proprio i metodi di introduzione del cambiamento
(informazione e partecipazione offerte o assenti) che provocano una differenza
significativa negli atteggiamenti e nelle condotte professionali.
105
PARTE TERZA
Due epoche a confronto
106
CAPITOLO 1 - RIASSUMENDO
SOCRATE
TECNICHE
-
il dialogo interpersonale
-
martellare di domande
-
la maieutica
OGGI
-
il formatore ha il compito di guidare
la discussione
-
stimolazione degli scambi tra i
partecipanti
-
proporre questioni relative al
problema analizzato
-
facilitare la partecipazione di
ciascuno
-
riformulare, riassumere certi
interventi
-
mettere a confronto, ricollegare gli
apporti tra loro
-
fornire suggerimenti e orientamenti
107
TECNICHE
OGGI
Provvisorietà delle conclusioni
-
mettersi in discussione
Æ apertura mentale
-
partecipare a più sessioni di
formazione
Sapere di non-sapere
Per apprendere bisogna essere consapevoli
Æ il dubbio
di non sapere tutto
Stile modulato sull’interlocutore
Una metodologia pertinente non si esaurisce
nell’uso di qualche tecnica-chiave, ma
consiste nell’adeguamento delle formule di
formazione agli obiettivi perseguiti ed alle
situazioni specifiche
Sapere utile a tutte le attività umane
Presupposto dei gruppi di formazione
psicosociale
PLATONE
TECNICHE
Scrittura: i miti
-
-
diffondere la giustizia comunicando
in maniera accessibile
-
OGGI
morale
-
parlare di cose altrimenti
inspiegabili
l’uso delle favole per apprendere la
il metodo dei casi nelle dinamiche
di gruppo
-
l’uso di esempi durante la
spiegazione di un argomento
Porre il sapere a disposizione della
Ruolo del formatore
comunità
108
TECNICHE
OGGI
Metodo maieutico: condurre il discepolo a
Tecnica attuale nella risoluzione dei casi
trovare da solo la soluzione
Soltanto cimentandosi nel mondo umano,
Soltanto con la pratica si può dire di saper
l’uomo avrà compiuto la sua educazione e
fare veramente qualcosa
sarà veramente filosofo
ARISTOTELE
TECNICHE
OGGI
Insegnare passeggiando per trasmettere
-
Outdoor development
l’amore per tutto ciò che è il mondo e per
-
Outward bound
far assorbire l’essenza della natura
-
TM
Il Liceo come primo esempio di istituto
Attuale
scientifico nel senso moderno del termine
Chi non è capace di insegnare non può
Chi non è preparato professionalmente e
asserire di conoscere
personalmente non può improvvisarsi
formatore
L’individuo non può da solo provvedere ai
È il principio che sta alla base della
suoi bisogni
formazione di gruppo
109
CONCLUSIONI
Come abbiamo visto, il campo della formazione è in continua evoluzione, ma le
tecniche introdotte da tre grandi maestri quali Socrate, Platone e Aristotele rimangono
ancora attuali.
Tecniche come il dialogo socratico, il mito platonico e i concetti innovativi di Aristotele
vengono soprattutto applicati nella formazione in aula.
Possiamo notare come queste tecniche risultino vincenti nel dibattito sui metodi
descritto in precedenza. Riprendiamo i concetti più importanti:
ATTIVISMO
¾ Coinvolgimento diretto dell’allievo Æ tramite il dialogo, la discussione, esempi,
casi pratici
¾ Imparare facendo esercizi Æ la pratica prima di tutto
¾ Discussione e confronto Æ la maieutica
PROCESSI
¾ Modalità di apprendimento centrata sull’elaborazione più personale Æ l’allievo
al centro del processo formativo, presupposto anche di Socrate, Platone e
Aristotele
DESTRUTTURAZIONE
¾ Costruzione momento per momento del percorso formativo Æ adeguamento del
percorso all’allievo.
Alla luce di queste considerazioni la mia opinione è che questi grandi maestri hanno
creato le basi che hanno permesso a una materia come quella della formazione di
crescere e diventare così importante come lo è oggi.
110
Ma soprattutto sostengo che essi rappresentano i “pilastri” a cui far riferimento quando
si vuole studiare, approfondire e anche esercitare la professione del formatore. Infatti,
ritengo si tratti di tre figure fondamentali non solo per la filosofia ma anche per la
formazione.
In conclusione, il fatto che le loro tecniche siano ancora oggi così presenti è l’ulteriore
dimostrazione che ciò che è stato da loro introdotto in materia di formazione non può
che costituire la base delle conoscenze che ogni buon formatore dovrebbe possedere.
FINE
111
Bibliografia
GEYMONAT, L., L’Antichità il Medioevo, Storia del pensiero filosofico e scientifico,
Vol.1, Aldo Garzanti Editore, Milano 1997.
KANEKLIN, C., Il gruppo in teoria e in pratica, Edizioni Libreria Cortina, Milano
1993.
MAISONNEUVE, J., La dinamica di gruppo, Celuc Libri, Milano 2004 (Presses
Universitaires de France, Paris 1973).
MASSARO, D., FORNERO, G., Fare filosofia, Paravia, Torino 1998.
QUAGLINO, G. P., Fare formazione, Il Mulino, Bologna 1985.
QUAGLINO, G. P., CASAGRANDE, S., CASTELLANO, A., Gruppo di lavoro
Lavoro di gruppo, Raffaello Cortina Editore, Milano 1992.
WATZLAWICK, P., BEAVIN, J. H., JACKSON, D. D., Pragmatica della
comunicazione umana, Casa Editrice Astrolabio, Roma 1997 (W. W. Horton&Co,
New York 1967).
Immagini
Pag. 5. Platone e Aristotele.
Pag. 9. Socrate.
Pag. 15. Platone
Pag. 20. Aristotele.
Tratte da
http://www.filosofico.net
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università degli studi di milano – bicocca