Gruppo di lettura del Sabato Incontro del 24 luglio Elizabeth Strout Olive Kitteridge (Fazi editore) Antonia S. Byatt Gradazioni di vitalità (Nottetempo) Nel “compito” che il Gruppo si era dato per l’incontro del 24 luglio, c’erano due indicazioni di lettura. Un saggio di Antonia S. Byatt Gradazioni di vitalità e un romanzo, Olive Kitteridge di Elizabeth Strout. Il sottotitolo del saggio di Antonia S. Byatt è “l’arazzo del romanzo”, indicazione preziosa del “nucleo” del libretto, centrato sulla figura del romanziere come “tessitore” che utilizza i fili di parole, di metafore e di immagini disponibili al suo tempo, e sulla complessità della costruzione di un personaggio “fatto di parole”. E, a partire da Cervantes, quelli della “nostra” letteratura sono stati tessuti con gomitoli che appartenevano a un comune fondo valoriale, tramato da parole e metafore della Sacra Scrittura, che offriva anche un “canone” di ciò che l’essere umano è e dovrebbe essere (nella dialettica tra anima infinita/corpo finito). L’attenzione dell’autrice – valente romanziera, peraltro – passa dal modo in cui vengono “creati” i personaggi, attraverso quali elementi, quali regole e in vista di quali effetti per il lettore, per poi ripercorrere la letteratura occidentale scegliendo come filo d’Arianna il “nucleo” costruttivo adottato da grandi scrittori nelle diverse epoche. Nucleo che può essere “visivo” - il “Cristo morto” di Holbein per Dostoevskij - correlativo oggettivo della morte ridotta a quella irreversibile della carne che aspetta l’uomo senza fede, o “chimico” - il “carbonio” come elemento irriducibile della ricerca artistica, che si tratteggi il diamante o il carbone della poetica di D.H.Lawrence. Fino ad arrivare ai “moderni senza metafora” alla Thirlwell. Percorrendo quello che Pavel ha definito il passaggio “dall’anima al cuore alla psiche” fino ad arrivare ai romanzi odierni, abitati da personaggi per cui il mondo non è più circondato da “finestre trasparenti”, ma da specchi e schermi. La riflessione della Byatt era “propedeutica” alla lettura di Olive Kitteridge della scrittrice statunitense Elizabeth Strout, vincitore del Pulitzer 2009, e quest’anno del premio Bancarella. Un romanzo “per racconti”, in cui il ritratto di Olive Kitteridge, insegnante in pensione di un paesino del Maine, e la storia della sua vita vengono man mano tracciati in 33 sequenze, in cui le voci e piani narrativi si alternano. E’ attraverso lo sguardo dei protagonisti dei racconti che ci accostiamo ad Olive, attraverso il filtro dei sentimenti che nutrono per lei, fino agli ultimi capitoli che la raccontano in prima persona – mai troppo da vicino - dove il senso sapienziale del romanzo stringe su una dolente, inesausta capacità di vita e d’amore, che “… non va respinto con noncuranza, come un pasticcino posato assieme ad altri su un piatto, passato in giro per l’ennesima volta. No, se l’amore era disponibile, o lo si sceglieva o non lo si sceglieva”. Un romanzo polifonico, dalla scrittura apparentemente limpida e piana, quotidiana, in realtà tramata da chiaroscuri che rendono percepibili le molte sfaccettature del personaggio-Olive. Madre tormentata e tormentosa di Christopher, che finirà per andarsene lontano da lei, moglie ingombrante di Henry, sognatore fedele sopraffatto dalla sua “olivosità”, insegnante irritante per Julie, che però ha fatto tesoro della sua frase "Non abbiate paura della vostra fame. Se ne avrete paura, sarete soltanto degli sciocchi qualsiasi”, matrona irreprensibile che si trova a trafugare una scarpa a casa della nuora per “concedersi una piccola esplosione”… tanti sono gli “indizi” che raccogliamo sul personaggio-Olive, fino ad arrivare a percepire una persona-Olive, che forse un po’ ci somiglia. Un altro protagonista del romanzo è l’ambiente, un paesino del Maine – Crosby – un microcosmo pullulante di presenze, che attraverso lo sguardo sottile dell’autrice finisce per essere lo specchio del mondo, e il paesaggio, con le sue scogliere, il mare selvatico come i boschi circostanti, sottotesto alle emozioni dei personaggi. Come nella storia di Kevin, che nell’abbraccio del mare ritrova il senso dell’attaccamento alla vita. Mentre gli oggetti nel libro - dagli abiti (uno per tutti, l’imbarazzante vestito di voile a fiori di Olive al matrimonio del figlio, che ne racconta desideri e slanci incompresi), alle descrizioni di interni, ai cibi - vivono di una loro vita, estensioni rivelatrici. Sunt lacrimae rerum? Quelle della Strout sono pagine che toccano nel profondo, in cui la solitudine, il dolore, gli shock e le incomprensioni che tessono la nostra vita quotidiana, e la nostra storia, sono raccontate con un gentile senso dell’umorismo e più di un tocco di speranza. “C'erano giorni, se lo ricordava, in cui Henry le teneva la mano mentre tornavano a casa, due persone di mezza età, nella pienezza degli anni. Si erano resi conto della gioia tranquilla di quei momenti? Molto probabilmente no. La maggior parte della gente non era abbastanza consapevole della propria vita mentre la viveva”. Un libro sul tempo che passa, spesso sprecato, e sulla possibilità di coglierne, fino in fondo, un altro sorso, un’altra briciola. Dal Gruppo Tracce di lettura Sul saggio di A. Byatt *_ Il saggio ci racconta della secolarizzazione della letteratura, è un concetto sociologico, che diventa uno strumento di interpretazione di una storia della letteratura occidentale. Avrei preferito un testo che si soffermasse sull’analisi della caratterizzazione dei personaggi, come il punto di vista, l’interpretazione. Come il comportamento dei personaggi cambi rispetto alla storia, forse più tecnico con più prospettive più punti di vista, un’analisi più esauriente. E’ chiaro che ciò che forma lo scrittore è la cultura generale del suo tempo, e che c’è un progressivo allontanarsi da concetti di derivazione magica, una mondanizzazione. I personaggi sono dapprima costruiti secondo un concetto di anima e corpo, poi secondo il cuore e la psiche. *_ Mi sembra un po’ un decalogo, fatto dal suo punto di vista sugli stili di scrittura e gli scrittori, che appaiono solo un attimo, attraverso i romanzi-punta dell’epoca in cui sono scritti e scrittori controtendenza, con l’occhio lungo, come Lawrence, un punto di vista abbastanza lontano dal mio, io ho un altro approccio, mi interessa l’aspetto psicologico. Olive Kitteridge *_L’ho dovuto leggere in fretta, il personaggio non mi piace molto e non ho capito cosa dice la Farkas sul testo. (Come non condividere? Nella quarta di copertina A. Farkas paragona Olive Kitteridge alla rinfusa con Margaret Mitchell, Faulkner, Hemingway e Toni Morrison… nda) *_In Olive Kitteridge tutto viene descritto ma ciò che è essenziale resta nascosto, non tutto viene spiegato. Fondamentale per spiegare il rapporto di Olive con il marito, nel racconto “Concerto d’inverno”, lo scambio di battute tra i coniugi Houlton: “Non so come faccia a sopportarla” “Perché lui è innamorato di lei”. Un romanzo tramato di quello che si vive, delle cose che succedono, con mille sfaccettature in cui ognuno può vedere quello che vuole. Racchiude la forza e le debolezze delle persone, e mostra come si arriva anche a 90 anni con gli stessi desideri e sentimenti, la stessa psiche. *_Mi è piaciuto il modo di gestire il personaggio attraverso gli occhi degli altri, ma trovo Olive troppo spontanea e quasi maleducata, alla fine il suo modo diretto di discutere la rende poco simpatica ma può essere un modo per sfidare l’ipocrisia, secondo me è stata sempre così, poco piacevole. Non è stata cattiva verso suo figlio, ma sarebbe stato meglio se gli avesse dato un pugno, non detto di quelle parole che sono come un pugno, che non lo vedono. *_Mi è piaciuto moltissimo, e mi sono divertita. E’ un racconto che potremmo riferire a ciascuno di noi, tante volte ho visto succedere le cose che succedono nel villaggio, dove “tutti sanno tutto di tutti”. E’ la nostra esistenza e sopravvivenza. Il marito che cade, all’improvviso, e va in coma, e ci si rende conto della solitudine che ha lei, della sua ragione per sopravvivere. Nella sua durezza, lei cerca di essere presente nella vita degli altri, di aiutare di dare qualcosa di sé, come a Kevin, il ragazzo la cui madre si è suicidata. A Kevin non importa tanto ricordare la famiglia, ma la casa. La casa si ricorda sempre. Nel rapporto col figlio, Olive pensa di fare del suo meglio, magari non è così: un figlio è una persona separata. Certe sensazioni le ho vissute sulla mia pelle, altre le ho viste succedere come il “mal comune mezzo gaudio” del racconto della vicina di casa. *_Questo libro mi è piaciuto e mi ha emozionato, sia per la costruzione del romanzo che per i personaggi, ho letto il primo capitolo e sembrava un racconto singolo, poi ho capito come l’autrice aveva strutturato la narrazione, tanti pezzi con la loro autonomia e la figura della protagonista che è stata costruita in maniera abile ed efficace, nel primo capitolo viene vista con gli occhi del marito, lei vuole essere sgradevole non fa nulla per farsi benvolere, capiamo poco a poco cosa c’è dietro il personaggio, è molto toccante, l’accettazione della nuora così difficoltosa forse racconta la fatica di mondi diversi che si incontrano. *_Il rapporto padre/figlio non è semplice, c’è di mezzo una madre esigente che vuole sempre dire la sua, che vuole che il figlio faccia quello che lei ritiene giusto, cosa che rende difficile anche il rapporto con le due nuore. *_Il modo in cui l’autrice racconta il quotidiano, nel rappresentare Olive può sembrare una banalizzazione, ma in realtà il quotidiano è quello che ci aiuta a vivere le cose che succedono. *_Ho letto solo metà del libro, ma ho notato il fatto che il personaggio si costruisce poco alla volta e che dalle storie emerge tutto il paese, ci sono rimandi a vari abitanti, il quadro è molto vero e ce ne facciamo un’idea a tutto tondo. Lo stile è semplice rispetto a quello di “La strada” (il libro di McCarthy letto due incontri fa, nda) scorre ma è ugualmente pieno di sfumature, le storie sono ambientate nel quotidiano. *_Già tocca comporre il mosaico delle sfaccettature, se fosse stato in una prosa difficile da leggere sarebbe stato un problema. Non è facile collegare le due cose, ma ti rendi conto di come tante tecniche insieme compongano questo personaggio. *_Mi è piaciuto, molto, e in alcune parti l’ho trovato molto lirico, spesso io mi immergo nei libri che leggo e mi sembra di essere uno dei personaggi protagonisti. L’ho sentito molto, la profonda ferita di quando Olive perde il marito ad esempio. Dopo la pausa estiva, il Gruppo di lettura del sabato si ritroverà alla biblioteca Gambalunga sabato 25 settembre, come di consueto alle h.10.30 Il libro scelto dal gruppo è Trilogia della città di K , di Agotha Kristof (Einaudi) Agotha Kristof (Csikvánd, 30 ottobre 1935) è una scrittrice ungherese, fuggita in Svizzera dopo l’invasione dell’Armata Rossa, conosciuta in Italia a metà degli anni ’80 per “Il grande quaderno”, prima parte della “Trilogia della città di K.”, poi completata da “La prova” e “La menzogna”. Ambientato a K., una città senza nome di una zona di guerra imprecisata, ai confini di una zona libera, è immerso in un tempo che potrebbe essere quello di tutte le guerre dell’ultimo secolo. Due gemelli, Klaus e Lucas, perfetta figura del “doppio”, specchio l’uno dell’altro sin nel nome, nell’incipit vengono affidati a una nonna noncurante, avida e creaturalmente crudele, e si trovano, per sopravvivere, a doversi inventare un “quaderno” di esercizi, di prove, attraverso le quali indurirsi e temprarsi per la sopravvivenza, con intelligenza e cinismo. In “La prova” si separano – Klaus varca la fontiera, Lucas rimane – e ascoltiamo la voce solo di “colui che resta”. Che dalla scissione col suo gemello ricava lo spazio, la distanza che gli permette di amare. Il terzo volume “La menzogna”, col ritorno di Klaus, ribalta completamente il piano della narrazione. Un libro scabro, dal linguaggio scarno ed essenziale, “quietamente disperato”, un “romanzo di formazione” che ha della fiaba classica l’antipsicologismo e la ricerca di modalità espressive originarie, archetipiche, come la struttura che sembra organizzata per funzioni narrative (le prove da superare, gli antagonisti crudeli, gli aiutanti, la partenza, il ritorno dell’eroe…). Per narrare l’asfissia operata dalle dittature umane e primordiali, morte fame povertà con la disumanizzazione che ne deriva, linguaggi e strutture moderni del romanzo forse non erano strumenti abbastanza duri.