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Bollati Boringhieri
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Italia Oggi
28/02/2015
INVOCANDO IDEALI E VALORI, NON SI PARLA NE' DI VALORI NE' DI
IDEALI, MA DEL NULLA. PAROLE... (D.Gabutti)
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STORIE DI UN'AMERICA FAMILIARE MA NON TROPPO (G.Serino)
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Succedeoggi.it
02/03/2015
SCRIVERE, COMUNICARE
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01/03/2015
LA GUERRA CIVILE PARADIGMA DELLA POLITICA
7
33
Domenica (Il Sole 24 Ore)
01/03/2015
I POPOLI DEL MARE GUERRIERI (G.Dell'arti)
9
22
Corriere di Bologna (Corriere della
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28/02/2015
IL LIBRAIO - STORIA D'AMORE (PER CASO) IN MEZZO ALLA GUERRA
10
127
D la Repubblica delle Donne (la
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28/02/2015
LA VERA ESSENZA DI UN ROMANZO (E.Stancanelli)
11
14
Il Fatto Quotidiano
28/02/2015
MEDITAZIONE ALL'OCCIDENTALE (P.Porciello)
12
Unita.it
28/02/2015
I DIARI DI MUSSOLINI SONO FALSI E LIBERO LO SA...
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ARTI
LETTURE
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Pier Mario Fasanotti
Un libro di Bollati Boringhieri
Scrivere, comunicare
Ewan Clayton dedica un ponderoso saggio
alla storia della scrittura. Non intesa come
arte della diffusione del pensiero, ma come
sistema per esprimersi liberamente
Chi ha dimestichezza con i libri sa che la storia della
scrittura si divide, in modo approssimativo, in tre
stagioni: disegni e primi caratteri su terracotta e papiri;
l’invenzione della stampa con la stampatrice a caratteri
mobili del tedesco (di Magonza) Johannes Gutenberg; il
computer. Ovviamente la divisione non è così rigida e
dietro ogni fase ci sono episodi e antefatti di cui tener
conto. Ecco perché il saggio il docente inglese E w a n
Clayton, nell’esaustivo libro Il filo d’oro. Storia
della scrittura (Bollati Boringhieri, 363 pagine, 25
euro), si ha la panoramica più ampia di come gli uomini hanno comunicato e continuano a
comunicare senza ricorrere al suono.
Le origini dell’alfabeto, «una manciata di simboli», si devono ai funzionari amministrativi di
basso rango nell’Egitto, attorno al 1850 a.C. In quel paese del vicino Oriente, affacciato sul
Mediterraneo e quindi punto di incontro per scambi, commerci e contatti diplomatici,
dialogavano persone provenienti da zone limitrofe e non solo. Le testimonianze più antiche
sulla genesi dell’alfabeto sono state trovate vicino a Wadi el-Hol, zona che veniva chiamata «la
valle del terrore». La scoperta si deve agli egittologi americani John e Deborah Darnell. Se da un
lato c’erano gli scriba, di tradizione regale e sacerdotale, che utilizzavano centinaia e centinaia
di simboli, dall’altro c’erano i mercanti, bisognosi di una modalità veloce, quindi utilitaristica,
basata su circa trenta lettere. In questo processo non si può ignorare il fatto che il nuovo e più
disinvolto alfabeto (adattabile alle usanze di molti popoli) consentiva, tra le altre cose,
l’affrancamento dei commerciati dal potere ferreo degli scriba, dei funzionari reali e dei militari.
Almeno nella scrittura il cosiddetto “basso rango” favorì una sorta di democratizzazione
nell’arte del comunicare.
L’autore di questa minuziosa analisi non
tralascia comunque episodi antecedenti.
Afferma infatti che i primi segni alfabetici
furono presenti 250 anni prima nel territorio
cananaeo della Siro-Palestina. Qui comparve
la testa di toro dell’Aleph, disegno ondulato
usato nei geroglifici per indicare “acqua”. Non
è un caso che il termine casa è “beth” in
ebraico, “beit” in arabo e “beta” in greco.
Insomma, è un intreccio semantico quello che
si verificò nella zona del Vicino-Oriente. In
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ogni caso, con il nuovo alfabeto tutti i commercianti furono finalmente in grado di compilare i
propri registri contabili e sveltire così l’attività mercantile. Un sistema molto simile ideato nella
«valle dei morti» sorse tra i minatori di Serabit el Khadem, nella penisola del Sinai, a cominciare
dal 1600 a.C., mentre alla fine del Mille a.C furono scoperti caratteri analoghi, ma nella forma
fenicia, utilizzati per i graffiti della necropoli di Ahiram, re di Biblo, città molto nota, a quei tempi,
per il suo commercio di papiro. Di qui deriva il termine greco per libro, “biblios” appunto.
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Come si spostò in Italia, e quindi a poco a poco nell’Occidente intero, questo sistema alfabetico?
Con le colonie – e luoghi di vacanza per i più abbienti – di Ischia e Cuma. Nacque l’alfabeto
latino. Nella terribile estate 79 a.C (esattamente il 24 agosto) il Vesuvio eruttò spaventosamente,
seppellendo le città gli insediamenti romani. La zona, annota l’autore di questo studio, «è
diventata il più ricco bacino di testimonianze sulle pratiche di scrittura in uso presso i Romani».
Le prime iscrizioni su lapidi latine erano formate da lettere monolineari (come quelle greche) e
vanno datate 1600 a.C. circa. Abbiamo quattro iscrizioni. Il tipo di scrittura monolineare
esportata dai greci ed ereditata dai latini progressivamente lasciò spazio a un diverso stile, che
faceva uso di linee modulate, composte di parti spesse e sottili, né più né meno uguali ai
caratteri che abbiamo oggi sotto gli occhi aprendo un “nostro” libro. Solo nel 1614, all’interno di
una vigna dell’Appia antica, fu rinvenuto il sepolcro degli Scipioni, parentalmente collegati a
Scipione detto l’Africano, il generale che sconfisse Annibale a Zama, nel 202 a.C. a Zama, nelle
vicinanze di Cartagine.
cinema Danilo Maestosi
Questi sepolcri visibili sulle strade romane
erano oltretutto delle indicazioni, dei
segnali circa la vicinanza d’un borgo o di
una città. Ed erano sempre più imponenti
a mano a mano che ci si avvicinava alla
capitale prima della repubblica e poi
dell’impero. Erano eretti su appezzamenti
privati, ma curati dal governo cittadino.
Così annotò lo storico Ray Laurence
(autore del libro The Roads of Roman
Italy): «…gli antichi viandanti, dotati
rispetto a noi di una più acuta conoscenza
e percezione del proprio tempo e degli stili di vita a loro contemporanei, erano teoricamente in
grado di “leggere” un cimitero o un gruppo di tombe per stabilire chi viveva o aveva vissuto in
quella città, e chi era socialmente importante…contemplando i cimiteri incontrati durante il
cammino, i viaggiatori si facevano un’idea della storia del luogo che stavano raggiungendo».
C’erano poi indicazioni scritte sui muri. Tanto più utili dopo che l’imperatore Claudio (governò
dal 41 al 54 d.C.) decretò che i viaggiatori in arrivo nella Caput Mundi dovessero, in una sorta di
parcheggi ai confini urbani (brillantissima idea, soprattutto se vista da noi contemporanei con
città assaltate dal traffico), scendere dal cavallo o dal carro per decongestionare il traffico. O
andavano a piedi o noleggiavano una lettiga. Le scritte venivano vergate direttamente sui muri
con pennelli (successivamente furono scolpite sulla pietra). Ciò dimostra che non furono solo i
cinesi, come si credeva, a usare questa tecnica. I greci ricorrevano, a seconda dei casi, ai colori.
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Anche dopo l’invenzione della stampa (Gutenberg), permase l’uso della scrittura a mano affissa
nelle piazze e nelle vie, veri e propri «avvisi». Questi comparvero a Roma e a Venezia verso la
metà del XVI secolo. Notizie riguardanti divieti e comportamenti dettati dalle autorità, ma anche
antesignani dei nostri rotocalchi, ossia una sorta di riviste piene di informazioni sui rioni (o
campielli) o sull’intera città, di pettegolezzi e minutaglie. Queste abbondavano nelle sedi
diplomatiche e là dove la gente si riuniva per discutere di politica. Infine la svolta giunta dal
nord della Germania, con Gutenberg. Uno dei primi a darne notizia fu il diplomatico papale
Enea Silvio Piccolomini (poi papa Pio XII) , il quale riferisce di non aver visto Bibbie complete (la
prima opera stampata fu proprio quella) ma «un certo numero di fascicoli di cinque fogli
(sezioni di venti pagine) di svariati libri, di scrittura molto chiara e corretta, senza errori da
nessuna parte, che Sua signoria avrebbe letto senza fatica e senza occhiali». La Bibbia di
Gutenberg, rilegata in due volumi secondo la tecnica dei caratteri mobili, strabiliava il mondo
intero perché ognuna era identica all’altra in ogni suo dettaglio. Era cosa strabiliante. Il «Libro
dei libri» conteneva caratteri più grandi rispetto agli standard medievali e quindi consentiva
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anche una lettura a distanza. Erano, appunto le “Bibbie da leggio”, lette ad alta voce nei refettori
e nelle sali capitolari dei ministeri. Si tenga conto che a quei tempi la sola Magonza contava
oltre trecento istituti religiosi. In ogni caso si ebbe nella città tedesca la grande Bibbia tra l’aprile
1452 e il luglio 1453. Lo studioso cui facciamo riferimento per questo articolo divulgativo quindi
necessariamente imperfetto quanto al numero sterminato di notizie sulla storia della stampa,
scrive a un certo punto: «Se da una parte non posso sottovalutare l’impatto della nuova
invenzione sulla forma che avrebbe assunto la parola scritta, dall’altra inviterei alla cautela: la
sua importanza non va enfatizzata eccessivamente. Ampliando lo sguardo, vediamo che si tratta
di uno dei tanti momenti che hanno rivoluzionato la storia documentaria e della scrittura».
A prima vista sembrerebbe una
svalutazione della macchina di
Gutenberg. Ewan Clayton sostiene infatti
che Gutenberg «ha influenzato il mondo
del libro, ma non l’universo totale della
scrittura». E spiega che «altri metodi di
stampa erano già stati inventati molti
secoli prima. Sulle antiche tavolette di
argilla le parole venivano infatti impresse
più che scritte. Il Disco di Festo, ritrovato
sull’isola di Creta e risalente al 1600 a.C.
circa, è ricoperto di simboli lasciati
sull’argilla ancora fresca per mezzo di stampini». Tutto vero, ma a parer nostro esempi come
questi non portarono automaticamente alla diffusione del libro: gli “stampini” erano una
meravigliosa prova, cui però non fece seguito la rivoluzione mondiale del libro. Clayton ci
informa – e noi lo ringraziamo – che in Cina, dal X secolo in avanti, «le opere dei più celebri
calligrafi venivano ricalcate, ripassate a colori con il pennello e poi trasferite sulla superficie di
una stele di pietra tramite il pigmento rilasciato, dopodiché venivano incise e riprodotte su carta
tramite sfregamento: le lettere apparivano chiare su sfondo scuro». Inoltre veniamo a sapere che
per quasi 1200 anni in Cina, Tibet, Corea e Giappone, il principale metodo di stampa era basato
su una matrice di legno.
Per la terza e ultima (forse) fase della storia della scrittura si deve volgere lo sguardo verso
l’America. Ecco il computer. Ed è l’ennesima rivoluzione che riguarda l’uso e la diffusione delle
lettere. Storia i oggi, insomma.
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Di Mimmo Franzinelli
15 aprile 2011
A
A - Se un imprenditore alimentare distribuisse
un prodotto adulterato, verrebbe
incriminato per procurato avvelenamento.
In campo editoriale, a quanto pare, si può
impunemente diffondere merce
contraffatta, purché l’imprenditore abbia
Ultime di sezione
l’accortezza di precisare, sulla
confezione, che gli ingredienti sono «veri
o presunti». Bompiani stampa I diari di
Venezia, il Leone parla svedese
Alba la miglior attrice | I PREMI
Mussolini (veri o presunti) che in realtà come dimostro in Autopsia di un falso -
Venezia, ecco il nostro toto-Leone
furono scritti nel dopoguerra da due signore vercellesi condannate nel 1962 a due anni di
reclusione per falso e truffa; viene così inaugurato un singolare precedente: la pubblicazione di
una fonte storica presentata dallo stesso editore come di dubbia autenticità.
Un filone limitato al mercato italiano, poiché nessun editore straniero ha accettato di tradurli:
Zoro al Lido fa la cosa giusta | VD
di G.Ga.
all’estero è infatti ben risaputo il carattere fraudolento di questo materiale, che ha girato mezza
Europa nella vana ricerca di un acquirente, prima di venire «scoperto» dal senatore Dell’Utri.
Assai eloquente il raffronto con i diari della Petacci, stampati da Rizzoli (come Bompiani, del
Pasolini di Ferrara cerca lo
scandalo VD di G.Ga.
gruppo Rcs) e diffusi in una quantità di edizioni straniere. Claretta batte Benito? No: a fare la
differenza è l’autenticità del materiale. A una settimana dalla comparsa di Autopsia di un falso
l’editor di Bompiani, Elisabetta Sgarbi, non ha commentato, mentre autorevoli esponenti del
gruppo Rcs dichiarano in conversazioni private di essersi convinti dell’inautenticità delle agende
Al Lido una "Patria" fondata sui
licenziamenti
1935-39, che tuttavia verranno egualmente pubblicate, considerato che il mercato ne assorbe
comunque alcune migliaia di copie. L’editore è peraltro vincolato al contratto con Dell’Utri, che
per l’appunto prevede la stampa in 6 volumi dei suoi diari (di Dell’Utri, non del duce).
L’ispiratore dell’operazione diaristica (disinvolta o truffaldina), annuncia imminenti perizie
calligrafiche: quelle stesse che secondo logica avrebbe dovuto attuare prima di intraprendere la
pubblicazione. Se la Bompiani tace, Libero - che in queste settimane distribuisce a dispense
Trovaci su Facebook
l’agenda fasulla del 1939 - si difende a spada tratta, alternando interventi tonitruanti a sottili
distinguo: il giornale milanese nega di avere affermato l’originalità del materiale distribuito. Per
Francesco Borgonovo, «né Dell’Utri né Bompiani né Libero che allega i fascicoli hanno mai
l'Unità
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sostenuto che si trattasse sicuramente di originali».
l'Unità piace a 264.496 persone.
Affermazioni smentite dal comunicato pubblicitario di Libero riprodotto fotograficamente a p. 82
di Autopsia di un falso: sotto il ritratto di Feltri e Belpietro campeggia la scritta Libero regala i
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diari di Mussolini, con lo slogan La storia scritta di suo pugno. Più chiaro di così... Borgonovo ha
scritto con Nicholas Farrell I diari del Duce. La storia vista da un protagonista (non è chiaro se
il protagonista sia Farrell o Mussolini), distribuito a fine 2010 con Libero per preparare l’uscita in
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fascicoletti del fatidico diario. Pubblicazione fantasiosa, come traspare dalla presentazione di
retrocopertina: «Misteri, colpi di scena, protagonisti straordinari nella grande caccia al Santo
Graal del fascismo». Il centro del libriccino trascrive carteggi e documenti che lo storico
statunitense Brian Sullivan consegnò in copia a Farrell: le pagine 29-71 riguardano infatti
Sullivan o le sue carte.
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Per il rimanente si tratta di un centone irrilevante, con la ricopiatura di chilometrici articoli su
telenovele diaristiche che imperversano da mezzo secolo. Il teorema del libretto è strampalato:
«Questi diari sono stati copiati nel dopo guerra da falsari che avevano in mano una delle tre
copie in microfilm originali»; gli autori s’ispirano ad una boutade di Vittorio Sgarbi per concludere
in un modo indicativo più che altro della loro nullità storiografica: «La fiction è più interessante
della realtà. Sgarbi, come quasi sempre, uomo perverso ma geniale, ha ragione. Ma la differenza
fra la fiction e la realtà, nel caso dei diari, dove si trova?». Ebbene, oggi i due colleghi
dimostrano una curiosa forma di strabismo: secondo Borgonovo, «Ci sarebbe molto da discutere
sulla tesi di Franzinelli secondo cui i diari sarebbero stati scritti dalle signore Rosetta e Mimì
Panvini Rosati di Vercelli, madre e figlia.
Ma non è questo il luogo, torneremo nei prossimi giorni sull’argomento» (Libero, 7 aprile); Farrell
Plug-in sociale di Facebook
rivendica nientemeno la paternità delle tesi presentate da Autopsia di un falso e il suo articolo è
comicamente intitolato Franzinelli prima mi critica e poi mi copia senza dirlo (Libero, 10 aprile).
In realtà è lui che ha copiato, e malamente, da Sullivan: significativa, nel lungo articolo,
l’omissione del nome dello storico statunitense, da parte dello smemorato Farrell, cui non piace
ammettere i suoi debiti. Da notare che Sullivan, cui inviai in anteprima stralci dell’Autopsia di un
falso, riconosce oggi di essersi sbagliato e si dice convinto che quelle agende siano fasulle. I
quattro interventi di Libero dal 7 al 12 aprile non portano una sola argomentazione a sostegno
dell’autenticità dei diari.
Essi comprovano in compenso l’abilità nel rimuovere argomentazioni «scomode», l’anguillesco
spostamento della discussione su temi estranei, selezionati sulla base della rispondenza a finalità
polemiche: costituito il bersaglio ideale, si apre un fuoco di copertura che nasconde i veri
problemi. Per concludere, sarebbe eccesso di ottimismo sperare in una pubblica discussione sui
Diari 1939 (veri o presunti) con gli artefici dell’operazione disinformativa: hanno persino rifiutato
la pubblicazione di una mia puntualizzazione. Resto comunque in attesa che Bompiani, Dell’Utri e
i giornalisti di Libero vogliano replicare all’analisi sviluppata in modo circostanziato nelle 280
pagine di Autopsia di un falso, dove si dimostra - con una quantità di riscontri interni al testo e
Più letti di oggi
con la comparazione su fonti d’epoca - l’origine truffaldina delle agende pseudomussoliniane in
della settimana
via di pubblicazione in volume e nelle dispense allegate al quotidiano milanese.
«Sono Cristina e faccio la puttana...»: il
testo che fa infuriare il premier
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La contessa Rangoni Machiavelli: «Così
Berlusconi ha truffato mia cognata»
L'AUTORE
La storia «nascosta»
Poroshenko accusa Mosca: 9mila soldati
russi nell'est Ucraina
dall’Ovra al Piano Solo
Mimmo Franzinelli, studioso dell’Italia del '900, si è occupato dell’epurazione («L’amnistia
Parlamentati Pd contro Rai3: Ballarò oltre
segno su vaffa Salvini
Togliatti»), della crisi politica del 1946 («Il Piano Solo») e della strategia della tensione («La
sottile linea nera. Neofascismo e servizi segreti da piazza Fontana a piazza della Loggia»). Per
Bollati Boringhieri ha pubblicato «I tentacoli dell’Ovra», sui servizi segreti del regime fascista,
«Rock & servizi segreti» e ha curato scritti inediti di Salvemini, Rossi e Gasparotto.
Fnsi e Cdr al Pd: allarme per i tempi lunghi
l'Unità deve tornare presto in edicola
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«Ecco chi era davvero Tiziano Terzani» La
moglie Angela ricorda il giornalista
L'INDAGINE
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Come si falsifica la storia
e manipola l’opinione pubblica
«Autopsia di un falso. I Diari di Mussolini
e la manipolazione della storia» di Mimmo Franzinelli
(pp. 278, euro 16, Bollati Boringhieri): le prove della falsità dei diari.
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Dell​Utri, l​agenda rossa e i diari di Mussolini
Mussolini era razzista dal 1921
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