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IL POSTMODERNO TRA LETTERATURA E ALTRI LINGUAGGI
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CHRISTINA RICCI BELLA E DANNATA: PER AMAZON SAR? ZELDA
FITZGERALD
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QUELLO CHE NON TI HO MAI DETTO
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DONARE ? UN RISCHIO. DIALOGO CON MARK ANSPACH
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Giornale del Popolo
26/09/2015
LA FORTUNA POSTUMA DELL'ALTRO SINGER
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Paroletestuali.com
25/09/2015
LA PORTA STRETTA VERSO LA MATURITA': UN SAGGIO DI UMBERTO
CURI
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Christina Ricci bella e dannata:
per Amazon sarà Zelda Fitzgerald
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28 settembre 2015, In Attualità | Autore Oriana Mascali
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mg.liorni su Epimeteo, Mouawad e
Amazon ha recentemente annunciato i progetti in cantiere per la prossima stagione, che
l’animale intrappolato
spaziano come sempre tra i generi più disparati: dalla commedia familiare, al western, al
thriller politico. Tra questi un posto d’onore spetta indubbiamente al ritorno sulla scena di
Acquisti online: ecco cosa ci dice
Christina Ricci, questa volta nei panni – udite udite – di Zelda Sayre Fitzgerald.
l’ulti... su Acquisti online: ecco cosa ci
Proprio lei, moglie e musa del profeta dell’età del jazz, nonché grande protagonista della
dice l’ultima ricerca Nielsen
medesima.
La serie si intitolerà Z e, stando a quanto riportato da TVLine, Amazon ne avrebbe già
Roma sta conPasolini - Finzioni su
Ricordare Pasolini a 40 anni dalla
morte
ordinato la puntata pilota, che verrà trasmessa gratuitamente sul sito; i visitatori
potranno esprimere un giudizio e contribuire così a decretarne la prosecuzione o meno delle
Vanda editrice trasforma l'ebook in
riprese.
carta con le Espresso Book Machine -
Ben poco si conosce dei dettagli, se non quanto facilmente intuibile: partendo dal
Finzioni su Auguri libro digitale! Oggi
corteggiamento iniziale per arrivare al matrimonio con Scott, seguirà la coppia da Montgomery
è l’International Read an Ebook Day
alla Costa Azzurra, focalizzandosi, per una volta, sulla prospettiva della capostipite delle
maschiette d’America.
Scritta da Dawn Prestwich e Nicole Yorkin (autori di The killing, serie poliziesca di quattro
stagioni trasmessa dal 2011 al 2014 negli States) e diretta da Tim Blake Nelson, Z è stata
presentata come «un tuffo nella vita affascinante di una pioniera del suo tempo,
un’artista determinata ad affermare la propria identità sulla scia tempestosa della fama
mondiale del marito» – interpretato, peraltro, da Gavin Stenhouse, un belloccio biondo già
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a un personaggio che sembra proprio calzarle a pennello. Vantando in curriculum ruoli quali
quello di Mercoledì Addams, Kat in Casper e Katrina Van Tassel in Il mistero di Sleepy Hollow,
Christina incarna perfettamente l’ideale di attrice talentuosa ma defilata dal mainstream; non a
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caso la notizia del suo ritorno è stata accolta calorosamente dai numerosi ammiratori che si
chiedevano che fine avesse fatto. Guest star in Grey’s Anatomy, la Ricci ha recentemente
vestito i panni della pluriomicida Lizzie Borden nella serie marchio Lifetime The Lizzie Borden
Chronicles, confermando una propensione ai ruoli non convenzionali che ben si sposa al
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Diverso invece è il caso della Ricci, che non fatichiamo a immaginare nell’atto di rendere onore
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apparso in American Horror Story su cui nutriamo qualche riserva.
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mondo delle flapper e dei Roaring Twenties.
Nonostante il valore iconico dei Fitzgerald e l’impronta lasciata sull’immaginario delle
generazioni successive, la leggendaria coppia ha storicamente trovato poco spazio su grandi e
piccoli schermi: la scelta del cast e la sceneggiatura firmata da menti famose per generi
tutt’altro che “scintillanti” lasciano supporre un prodotto molto diverso dallo sfolgorante e
idealizzato scenario alleniano di Midnight in Paris – ultima trasposizione cinematografica dei
due belli e dannati.
Aspettiamo con curiosità – e un pizzico di impazienza – il risultato. Nel frattempo, i lettori che
vorranno documentarsi o semplicemente rispolverare la vita di Zelda potranno farlo attingendo
ai libri di F. Scott Fitzgerald, che com’è noto molto trascrisse della loro storia coniugale nelle
vicende dei suoi personaggi, ma anche al suo unico romanzo Lasciami l’ultimo valzer (Bollati
Boringhieri) e al graphic novel firmato Tiziana Lo Porto e Daniele Marotta Superzelda
(minimumfax), che ne ripercorre le tappe sentimentali e artistiche – dalla danza alla scrittura –
fino alla malattia e alla tragica fine.
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Autore di questo articolo
Oriana Mascali
Abusa come se non ci fosse un domani dell'espressione "come se non ci
fosse un domani". Specializzata in letteratura francese per aver scoperto
troppo tardi gli americani, ha una sola certezza nella vita: avrebbe voluto
essere Francis Scott Fitzgerald, ma non lo è. Peccato. Comunque le sarebbe
andata più che bene anche Sylvia Plath.
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un treno »
Francis De Croisset
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“QUELLO CHE NON TI HO MAI DETTO”
DI CELESTE NG
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EFFE
Un esordio sorprendente
di Cristiana Saporito / 28 settembre 2015
Facile. Potrebbe sembrarlo in
modo lampante. Lydia non
c’è. Al suo posto, nel ronzio
mattutino, un piatto bianco,
una sedia leggera, tutta una
piccola geogra a disabitata.
Altrettanto facile, quasi
impulsivo per me, ripensare a
Elsie, la bimba svanita (e poi
trucidata) nel lm M – Il
mostro di Düsseldorf,
capolavoro d’inquietudine
“e e – Periodico di
Altre Narratività”:
numero tre
ARCHIVIO
del maestro tedesco Fritz
Lang.
Anche lì, a imperversare, è
un’assenza parlante, la
tromba delle scale che come
un gorgo ha risucchiato quel
nome e i suoi passi entusiasti. Campo e contro campo che si rimpallano, a
rammentare l’orrore e a scolpirlo nel suo quotidiano. Senza sangue,
senza ossa, con la sola scia di ciò che manca.
Anche questa vicenda esordisce così, anzi precipita alla ne, scegliendo di
non essere tortuoso per poterla toccare. «Lydia è morta. Ma questo
ancora non lo sa nessuno. 3 maggio 1977, sei e mezza del mattino.
Nessuno sa nulla se non una semplice cosa: Lydia è in ritardo per la
colazione. »
Si spalanca in questo modo Quello che non ti ho mai detto (Bollati
Boringhieri, 2015), primo romanzo di Celeste Ng. Una sparizione,
2015
2014
2013
2012
2011
piantata nel petto di una famiglia “come tante”.
2010
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Una madre Marilyn, un padre James, un fratello maggiore Nath e una
sorella minore Hannah.
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Una geometria più che di usa e consolidata a cui all’improvviso viene a
sottrarsi un lato. E logicamente, il perimetro traballa. E allora, a questo
punto, per chi consuma e vende libri con una certa intensità, non
possono che balenare in mente almeno altri due esempi, ancora freschi di
sca ale: L’amore bugiardo di Gillian Flynn e Una famiglia quasi perfetta di Jane
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Shemilt. Nel primo caso una coppia, scoperchiata bruscamente dalla
scomparsa della moglie. Un doppio diario che smatassa la follia di starsi
accanto e slabbra ogni vano tentativo di ngersi normali. Se davvero è
possibile. Nel secondo titolo, la somiglianza si fa quasi bruciante. Anche
qui, in un quadro di apparente benessere, un’altra adolescente si dissolve.
E la vernice si sgretola.
Poi però, inoltrandosi più giù, ingollando il corridoio di similitudini e
richiami, si scopre che questa è un’altra storia. Certo, il meccanismo è il
medesimo. La falla aperta da un vuoto repentino disordina il tavolo,
sparecchia malamente le dinamiche in gioco e col baricentro così
spettinato, ogni nucleo si mostra per quello che (spesso) è: fragile, nudo. E
scontento. E la squadra familiare non è più così compatta, ma solo un
ammasso di individui che vi si nascondono, col coro sommesso delle
proprie frustrazioni.
Ma qui c’è anche di più. Sì, perché Marilyn e James non sono due soliti
coniugi, soprattutto nell’ingessata provincia americana anni Settanta.
Lei è una donna che scalcia, che non scorge in un grembiule infarinato il
punto apicale della sua esistenza. È quindi una donna che vorrebbe
sottrarsi al suo status. E lo fa studiando, in un ambito-enclave
dell’orgoglio maschile. Si appassiona alla sica, vorrebbe essere un
medico, perché al grembiule preferisce il camice. In lei tutto vuole
di erenziarsi, utare la corrente per nuotare in senso inverso. James, al
di là del suo nome, è cinese. Tremendamente, ineluttabilmente cinese.
In ltrato di soppiatto in un Paese nuovo, che sembrava promettergli ben
poco. Anche James ha sgobbato, anche lui ha respinto il suo destino. È
diventato un professore, ma per ragioni opposte.
Marylin vuole distinguersi, non si amalgama come un ingrediente delle
ricette di sua madre; si ri uta di credere che la sua salvezza sia un buon
matrimonio.
James pagherebbe coi suoi denti per essere inserito, perché i suoi occhi
non stridessero con gli altri, perché non risultassero così strizzati,
segregati in una mandorla d’ombra e di distacco. L’uno riscatta i sogni
dell’altra. È il terreno tanto ambito e non ancora conquistato.
Soprattutto per James che incontra Marilyn come una rivelazione. «Poi la
sua risata disinvolta sfavillava in quella stanza bianca e spoglia; mentre
chiacchierava trafelata, le mani si agitavano nché lui non le stringeva
nelle sue, e restavano sdraiati, caldi immobili come uccellini a riposo,
nché lei non lo attirava di nuovo a sé. Era come se l’America intera lo
stesse accogliendo». Tutta la sostanza della loro unione si addensa
nell’a ollata dialettica tra apocalittici e integrati. E tutti le colpe di James
e Marylin risiedono proprio nei loro desideri, in quella astrusa
forsennata proiezione di ciò che volevano in ciò che dovrebbero volere i
propri gli. E tra i tre Lydia diventa in fretta il nido prediletto, il canale di
scolo dei propri sogni castigati o deposti in tutta fretta.
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Bersagliata da un padre che la (si) vuole popolare e da una madre che la
(si) pensa emancipata e assorbita da passioni scienti che. Ma lei è solo se
stessa,sballottata nei suoi sedici anni, incorniciata da tratti orientali e da
un paio di occhi azzurri. Disorientata anche dal suo viso. Costretta solo a
incorporare il suo ruolo, preferendo non dire, scegliendo di lasciarsi
vivere dalle battute altrui.
Ed è qui che Quello che non ti ho mai detto dimostra quanto basti “poco” a
generare il danno, quanto il carico di aspettative di una famiglia
schiacciata dal peso sociale divenga de agrante. E allora? Chi è davvero il
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responsabile di quella scomparsa?
E allora la macchia si dilata e mostra radici allargate, a quella smodata
fetta d’America così periferica e perbenista, in cui alla ne degli anni
Settanta una coppia ibrida è ancora un fastidio, un «atto ingiusto» come
lo de nisce la madre di Marilyn.
Celeste Ng ci ha impiegato sei anni a scrivere questo romanzo. Ci ha
versato anche la sua storia, quella di glia di un matrimonio misto, che
ormai conosce una realtà diversa, ma che con grazia e sensibilità
restituisce nel testo il senso vitreo di un equilibrio di cile: quello di una
famiglia respirata dall’interno.
Con i suoi sottotesti e i suoi non detti. Come il termine “razzismo”, che
scorre sotto pelle senza bisogno di venire pronunciato. Come il timore
mai scon tto di un viso che in fondo non ci somiglia abbastanza.
(Celeste Ng, Quello che non ti ho mai detto, trad. di Manuela Faimali, Bollati
Boringhieri, 2015, pp. 272, euro 17,50)
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LA CRITICA
VOTO
Al suo debutto letterario, l’autrice realizza
un’opera forte e delicata al tempo stesso.
Tenace nel suo linguaggio sottile, a ronta il
dramma di una famiglia insolita per gli schemi
sociali dell’epoca. E forse non solo.
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Donare è un rischio. Dialogo con Mark Anspach
di Marco Dotti
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Donare qualcosa a qualcuno, scriveva agli inizi del secolo scorso l'antropologo Marcel Mauss,
significa donargli una parte di sé. Nulla di più semplice e, al contempo, nulla di più rischioso. Il
rischio è una dimensione costitutiva del dono, soprattutto oggi. Ne parliamo con un altro
antropologo, Mark Anspach
Francesco: «I muri per fermare i
migranti crollano, non sono la
soluzione»
Usa
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Così Francesco ha chiuso due
guerre
Religioni
Doninelli: «Anno Santo, la
dismisura contro le paure»
Migranti
L’ospitalità fondamento della
nostra civiltà
«Quale forza contenuta nella cosa donata fa sì che il donatario la ricambi?» si chiedeva all'inizio
del secolo scorso Marcel Mauss. Possiamo oggi riproporre la domanda, ricordando però che la
reciprocità che fonda l'economia del dono non si riduce a uno scambio tra due individui
perché la relazione stessa si impone come terzo che li trascende. Se questa relazione sarà
generativa, avremo un'economia del dono. Se si limiterà a un generico e momentaneo sfogo di
buone intenzioni, non avremo generatività, ma stagnazione. Ne parliamo con l'antropologo
Mark Anspach.
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Dalle pagine suo A buon rendere (traduzione di Chiara Fontanile, Bollati-Boringhieri, Torino
2007) si apprende che il dono “non basta”, serve una reciprocità del dare. Ci può spiegare
questo passaggio?
La reciprocità è una costante nelle relazioni umane. Può essere quella negativa della vendetta –
in cui viene ricambiato un colpo ricevuto – o quella positiva del dono. L’idea che il dono più
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autentico escluda la reciprocità mi sembra sbagliata e anche paradossale. Dopotutto, se c’è più
gioia nel dare che nel ricevere, non sarebbe ingeneroso privare di questa gioia il destinatario del
dono? Il bello del dono è che fa nascere il desiderio di dare a propria volta. Ma la reciprocità non
prende sempre la forma di uno scambio diretto. Chi riceve un dono può farne uno a un terzo,
alimentando così una catena di reciprocità positiva che coinvolge sempre nuove persone.
Può la logica della reciprocità del dono attivare un circuito mimetico positivo, anche in
rapporto alla crisi che l’Occidente sta affrontando o siamo consegnati alla “vendetta”, nella
forma di un’indignazione senza sfogo?
La crisi attuale si caratterizza per un circuito mimetico in cui tutti hanno paura di investire
perché vedono che tutti gli altri hanno paura di farlo. È una reazione a catena negativa che si
propaga su scala sociale e lascia l’individuo disarmato. Tocca allo Stato intervenire con gesti
generosi capaci di rimettere in moto gli scambi economici. Le politiche di austerità provocano
un’indignazione giustificata perché possono solo esacerbare la crisi.
“
Per invertire la tendenza attivando un circuito positivo, bisogna
dare lavoro ai disoccupati come ha fatto negli anni trenta il presidente
americano Franklin Roosevelt. Il suo “Civilian Conservation Corps” ha
mobilitato nei primi quattro mesi 275.000 giovani per sviluppare riserve
naturali e piantare alberi – un modello possibile per il servizio civile
proposto dal Manifesto di Vita!
Quale rapporto intercorre fra tra dono e legame sociale?
Nelle prime società umane, in cui non c’è né stato né mercato, il legame sociale si fonda sul
dono. Anche quando le cose donate sono prive di valore utilitaristico, lo scambio di doni crea
una relazione fra le persone. Come dice Marcel Mauss nel Saggio sul dono (1923), donare
qualcosa a qualcuno significa «regalare qualcosa di se stessi». Al contrario, la moneta utilizzata
negli scambi economici moderni è strettamente impersonale e serve a mettere fine al rapporto.
Una volta pagata una merce, non siamo legati da alcun obbligo verso il venditore. Transazioni
di questo tipo sono convenienti in molte circostanze, ma non potranno mai sostituire tutto
quello che facciamo senza chiedere di essere pagati. Le relazioni di dono rimangono
fondamentali per il legame sociale.
Oggi si discute molto di economia “social”, purtroppo sottintendendo un simulacro: “social
media”. Il dono, nella sua materialità (scambio di oggetti) deve confrontarsi anche contro
logiche di simulazione alquanto sottili. Come uscirne?
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I social media commerciali sono l’omaggio reso dal capitalismo all’importanza delle relazioni
non commerciali. Trasformano i rapporti personali, non utilitaristici, in fonte di “utili”. Siccome
la gente non vuole spendere soldi per scambiare con gli “amici”, i profitti dipendano dalla
pubblicità. Per fortuna, esistono ormai social media che non vendono i dati degli utilizzatori ai
pubblicitari e che hanno funzionalità equivalenti o migliori rispetto ai concorrenti commerciali.
Bisogna sperare che queste piattaformi nuove trionfino a lungo termine. Ci vorrebbe un
movimento di rivolta contro tutti i siti commerciali che strumentalizzano i donidegli utilizzatori
– come fa Amazon con le recensioni regalate dai lettori – perché questo costituisce una
perversione dello spirito del dono.
È davvero possibile quindi un’uscita dall’utilitarismo? In sostanza: c’è un futuro per il dono?
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L’utilitarismo presume che gli individui siano dominati dai loro interessi egoistici. Ma, a livello
più profondo, l’opposizione fra egoismo e altruismo si rivela artificiosa. Anche se, troppo
spesso, l’egoismo paga, sappiamo che l’altruismo appaga di più. Pertanto, non è nel nostro
interesse rinunciare alla gioia di dare. Ecco perché ci sarà sempre un futuro per il dono!
_________________________________________
L’AUTORE
Mark Anspach
antropologo, originario della California, vive tra Italia e Francia. Ricercatore al Centre de
recherche en épistémologie appliquée (Parigi), ha studiato Economia e Scienze sociali alla
Harvard University prima di conseguire un dottorato in Antropologia a Parigi e in Letteratura a
Stanford con René Girard, di cui ha curato raccolte di saggi. La sua ricerca è focalizzata sugli
aspetti rituali della violenza e dello scambio, sui meccanismi sociali e cognitivi. Collabora con
la rivista del MAUSS (Movimento Anti – Utilitarista nelle Scienze Sociali) e tiene un blog di
analisi culturale sul sito americano www.imitatio.org. È autore di A buon rendere. La reciprocità
nella vendetta, nel dono e nel mercato (2007) e coautore di Che cos’e il religioso? Religione e
politica (2006) per Bollati Boringhieri; Cosa significa donare? (Guida, 2011).
welfare

Economia

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