L’Ateismo
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Biblioteca universale – 5
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Félix Le Dantec
L’Ateismo
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Félix Le Dantec
L’Ateismo
Con una prefazione di
Maria Turchetto
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Copyleft 2014 Edizioni Immanenza
Largo s. Erasmo 16
80142 – Napoli
[email protected]
www.immanenza.it
ISBN 978-88989263-7-4
Titolo originale L’Athéisme, 1907.
Traduzione e cura di Fabrizio Carlino.
Félix Le Dantec
L’Ateismo
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Indice
Grazie a Dio sono ateo di Maria Turchetto
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L’ATEISMO
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Al Professore Alfred Giard
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PARTE PRIMA. CONFESSIONI, DEFINIZIONI
I Confessioni
§ 1 Generalità dell’idea di Dio
§ 2 Rarità degli atei propriamente detti
§ 3 Ateismo innato e idee preconcette
§ 4 Piano dell’opera
II Definizioni. Discussioni delle prove dell’esistenza di Dio
§ 5 La definizione dell’ateismo sarà ricavata dalla discussione delle
prove dell’esistenza di Dio
§ 6 Le prove metafisiche
§ 7 Le prove morali
§ 8 Le prova storica
§ 9 Prove fisiche tratte dall’esistenza del mondo
§ 10 Prove fisiche tratte dal movimento
§ 11 Prove fisiche tratte dall’ordine del mondo
§ 12 Il caso e la probabilità
§ 13 Umiltà dell’Ateismo
§ 14 L’amore di Dio
§ 15 La preghiera
§ 16 Determinismo e fatalismo
PARTE SECONDA. CONSEGUENZE UMANE DELL’ATEISMO
III Conseguenze sociali
§ 17 Opinioni di Voltaire e di Diderot. Esposizione del problema
§ 18 Origine delle virtù umane
§ 19 Doveri religiosi separabili dai doveri sociali
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Félix Le Dantec
§ 20 Il crollo dei principî
IV Conseguenze personali
§ 21 Nessun fine, nessun desiderio, nessun interesse
§ 22 Atteggiamento dell’ateo di fronte alla morte
§ 23 L’ateo e la paura
§ 24 Riassunto
V Alcune considerazioni sulla religione del popolo
§ 25 Difficoltà dell’essere imparziali
VI Opinioni assolute espresse dal punto di vista scientifico nelle que­
stioni d’insegnamento
§ 26
§ 27 Risposta all’Inchiesta della Revue Blanche sulla libertà di insegna­
mento
§ 28 L’insegnamento delle scienze naturali come strumento di educa­
zione filosofica
PARTE TERZA. L’ATEISMO SCIENTIFICO O MONISMO
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VII Difesa del monismo
§ 29 Logica pura e logica di sentimento
§ 30 Ricerca di una formula del monismo
§ 31 Difficoltà delle misure
§ 32 Contraddizione dei dualisti
§ 33 Monismo e determinismo
§ 34 Il monismo nega la libertà assoluta
VIII Alcune obiezioni al monismo
§ 35 La coscienza epifenomeno
§ 36 Materia e pensiero
§ 37 Difficoltà del linguaggio monista
§ 38 Ancora il punto di vista sociale
§ 39 La fortuna della teoria monista non dipende dal maggiore o mi­
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nore valore delle opere di un dato monista
§ 40 Enumerazione succinta di alcune obiezioni
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§ 41 Obiezioni della Revue de Philosophie
175
L’Ateismo
IX Obiezioni del Prof. Jules Tannery
§ 42
§ 43 L’adattamento del pensiero
X Risposta al Prof. Jules Tannery
§ 44 Che servirà da riassunto alla terza parte
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Félix Le Dantec
L’Ateismo
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Grazie a Dio sono ateo
Grazie a Dio...
– Grazie a Dio sono ateo! Diranno subito i lettori di questo aureo libretto, completan­
do questo «inizio bizzarro per un libro sull’ateismo» (per ammissione dello stesso auto­
re) nell’ormai notissima frase paradossale in voga tra i miscredenti.
No, ragazzi, avete sbagliato. O meglio, non è del tutto esatto.
«Grazie a Dio, al giorno d’oggi non si è più messi al rogo per le proprie opinioni fi ­
losofiche, non si ha più bisogno di eroismo per dire ciò che si pensa». E, grazie a Dio,
Félix Le Dantec ha incontrato un maestro – Alfred Giard, cui il libro è dedicato –
che l’ha «guarito dal dogmatismo»; gli ha insegnato, praticandola, la libertà di pensie ­
ro; gli ha fatto capire che pensare diversamente dalla maggioranza non dev’essere fonte
di sofferenza, ma di gioia – la gioia di aprire e percorrere fino in fondo nuove vie del
ragionamento.
Félix Le Dantec non sarà dunque un eroe, ma certamente è un pensatore di grande
coraggio, che non teme di sviluppare le proprie idee fino alle conseguenze più estreme,
più scomode e – diremmo oggi – politicamente scorrette. Proprio per questo è un ateo
radicale: non certo per atteggiamento polemico, tanto meno per accanimento anticleri­
cale. Perché è metodico, coerente e conseguente come pochi.
Pochi, del resto, sono per Le Dantec i «veri atei», vale a dire quelli «che vanno, con la
logica di atei, fino in fondo alle conclusioni inseparabili dall’ateismo». E in ogni caso
atei si nasce: «io sono ateo, come sono bretone, come si è bruni o biondi, senza averlo
voluto». «Per quanto lontano rimontino i miei ricordi, non trovo traccia in me dell’idea
di Dio». Eppure – qui l’argomentare di Le Dantec ricorda da vicino l’ incipit del car­
tesiano Discorso sul metodo – «sono stato educato come tutti gli altri piccoli bretoni
del mio tempo; ho imparato il catechismo come gli altri; ho anche avuto il premio di ca ­
techismo al collegio; [...] ero un allievo docile e sottomesso, non mi vanto se dico che ero
un ragazzo molto buono». Ma l’ateismo non è che una particolare organizzazione del
cervello, dunque una predisposizione naturale.
Il che ha subito una conseguenza spiacevole o quanto meno – come dicevo – politica­
mente scorretta. Non c’è possibile dialogo tra atei e credenti. «Dovrebbe essere
che i credenti, per discutere con gli atei, potessero dimenticare di essere credenti, e che gli
atei rinunciassero al loro ateismo per discutere il valore della fede. Ora questo è non
solo difficile, questo è impossibile, poiché negli uni e negli altri la credenza e l’increduli ­
tà fanno parte del meccanismo pensante». La distanza tra un cervello naturalmente
predisposto alla fede e uno naturalmente predisposto all’incredulità è tale che è addirit­
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Félix Le Dantec
tura difficile per un ateo ammettere l’esistenza di un vero credente e viceversa: «l’ateo è
per il credente tanto verosimile quanto il credente per l’ateo». Ciascuno pensa che l’al ­
tro menta, «reciti la commedia» per ipocrisia o per orgoglio. Nessun dialogo, dunque,
nessuna reale comprensione; diciamola tutta: nessun reciproco rispetto, con buona pace
dei buonisti di tutte le sponde. Soltanto, da parte degli atei, una profonda umana pietà
per chi non è riuscito a venire a patti con l’idea della morte e la teme in modo irrazio ­
nale, superstizioso, doloroso.
C’è da chiedersi come mai, dato questo assunto, Le Dantec dedichi tanto spazio alla
confutazione delle prove dell’esistenza di Dio – fisiche, metafisiche, morali, storiche.
L’argomentazione è anche in questo caso estremamente coerente: non si tratta affatto di
negare, per questa via, l’esistenza di Dio, ma di rendere evidente che tali prove «dimo ­
strano che i credenti credono in Dio, ecco tutto». Sono cioè discorsi autoreferenziali, lo ­
gicamente improponibili a chi parte da diverse premesse. «Le prove dell’esistenza di
Dio non valgono nulla. Sono valide per quelli che credono e che, di conseguenza, non
ne hanno bisogno, ma senza effetto per coloro che non credono». Provano, in ultima
analisi, l’impossibilità del dialogo tra atei e credenti.
Ma ancora altre sono le “conseguenze umane dell’ateismo”, cui è dedicata la seconda
parte del libro. Posto che la religione non è logica, vista l’inconsistenza delle prove del­
l’esistenza di Dio, è forse utile? Utile – come sosteneva Voltaire – per tenere a bada
il popolo ignorante? O si dovrebbe invece esecrare l’obbedienza e – come sosteneva Di ­
derot – perseguire il bene per il piacere di compiere il bene? Le Dantec simpatizza per
Diderot, ma ritiene «che la questione non sia ben posta né dall’uno né dall’altro» per ­
ché «nel XVIII secolo non si pensava affatto al trasformismo, sebbene Maupertius e lo
stesso Diderot possano essere, a giusto titolo, considerati come precursori di Lamarck e
di Darwin», mentre la questione morale «non può essere separata da quella della for ­
mazione evolutiva della specie». Il ragionamento in chiave evoluzionista dovrebbe dun ­
que riuscire a superare alcune aporie del pensiero illumunista.
«L’uomo è un animale sociale; quel che si chiama virtù in un animale sociale sono i
caratteri che lo rendono atto a vivere in società. Le idee di bene, di male, di giustizia,
di dovere, di responsabilità, ecc. sono idee sociali». Le religioni hanno svolto la funzio­
ne di imporre la “virtù” come comportamento socializzante. Ma i princip î morali si
sono a un certo punto svincolati dalle idee religiose, diventando caratteri acquisiti au­
tonomamente trasmissibili.
Provo a suggerire una riformulazione “aggiornata” del ragionamento di Le Dantec
attraverso un’analogia. In homo sapiens, come sappiamo, l’andatura eretta ha avuto
un significato adattativo primario legato principalmente al cambiamento climatico che
ha sostituito la savana alla foresta – minore esposizione corporea al calore, più efficien ­
L’Ateismo
11
te uso della vista per individuare prede e predatori, ecc. Questo adattamento primario
ha molti effetti secondari, tra i quali il rilevante “sottoprodotto”, inizialmente privo di
funzionalità adattative dirette, della liberazione della mano dalla funzione di deambu ­
lazione, rendendola disponibile a una exaptation – come dicono gli evoluzionisti con­
temporanei – foriera di inedite possibilità. Analogamente, le religioni hanno inizial ­
mente favorito la coesione di gruppi umani prescrivendo – comminando premi e castighi
– comportamenti socializzanti. Questi ultimi sono diventati poi largamente autonomi,
principî morali indipendenti dalle originarie credenze, in quanto tali capaci di dare
vita – con una sorta di exaptation – a un’etica inedita, quella che persegue il bene
per il bene o, kantianamente, segue imperativi categorici e non ipotetici.
Ho certamente forzato il testo di Le Dantec interpretandolo alla luce dell’evoluzio­
nismo contemporaneo, ma ciò mi dà l’occasione di proporre un ripensamento dell’ap ­
proccio all’evoluzione di questo autore, generalmente tacciato di essere lamarckiano an ­
ziché darwiniano e perciò datato, superato sul piano scientifico. La mia impressione è
che in realtà Le Dantec perseguisse – come del resto il suo maestro Alfred Giard – una
sintesi di darwinismo e neo-lamarckismo, posizione oggi piuttosto in auge tra i biologi.
E provo a forzare ancora un po’ cercando una spiegazione evoluzionista (strano che Le
Dantec non lo faccia esplicitamente) a una delle prime questioni proposte: il fatto che
gli atei sono pochi, pochissimi, una minoranza sparuta a fronte della maggioranza
credente. «Per l’ateo logico non vi sono principî nel senso ordinario della parola». L’a­
teo non crede a principî assoluti, emananti da un Dio infallibile. Le regole sociali sono
costruzioni umane caduche, che provengono da contingenze sociali passate e che non
hanno motivo di prevalere su necessità che derivano da contingenze sociali attuali. L’a ­
teo dotato di senso morale, tuttavia, seguirà per correttezza le regole senza per altro
pretenderlo dagli altri. «L’ateo vero riconosce i diritti degli altri e non si accorda alcun
diritto», e questo «è un lusso pericoloso che disarma nella lotta». «L’ateo ha una co ­
scienza morale che non gli serve che contro se stesso» e che in questo senso «prende il ca ­
rattere di un’affezione malaticcia che può renderlo compassionevole nei confronti degli
esseri cattivi e degli animali pericolosi». L’ateo, insomma, è «un essere disarmato nella
lotta universale». Non crede in fini superiori, non si sente portatore di missioni, non è
ambizioso, non sopravvaluta la vita e non teme la morte. In altre parole, non è adat­
to alla sopravvivenza in una società competitiva. Ecco perché gli atei sono così pochi:
sono inoffensivi e privi di difese, non possono prevalere, sono in qualche modo votati al ­
l’estinzione. «In una società veramente atea il suicidio anestetico sarebbe evidentemente
favorito; la società scomparirebbe probabilmente in questo modo».
Pessimismo? Spleen? Eppure, anche a non riconoscere alcun senso alla vita e alle
umane passioni, qualcosa resta. Resta il piacere, o almeno il divertimento che, per
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Félix Le Dantec
un tipo come Le Dantec, è soprattutto divertimento intellettuale. Se infatti la seconda
parte del libro ci mostra un Le Dantec amaro, rassegnato, demotivato – vorrei dire
“sfavato”, usando se me lo permettete un termine toscano piuttosto volgare ma che
esprime assai bene una demotivazione esistenziale – nella terza e ultima lo troviamo
vivace, brillante, appassionato. Il tema è lo scontro tra il dualismo – vecchio quanto
il mondo «per ragioni che dipendono dalla pigrizia intellettuale» – e il monismo che,
nella sua versione scientifica, è recente e non va confuso con il «materialismo degli anti ­
chi». La difesa del monismo è svolta accuratamente, considerando numerose obiezioni
provenienti dalla parte avversa ma anche – in un paragrafo molto interessante – le dif­
ficoltà di un linguaggio ancora imbrigliato in espressioni finalistiche, metafisiche, “sen ­
timentali” (vedremo meglio che cosa Le Dantec designa con questo termine). Il linguag ­
gio scientifico acquista progressivamente precisione, ma il linguaggio corrente rimane
schiavo delle ambiguità, preso in trappola da influenze ancestrali dualistiche. Il
dualismo rappresenta in certo senso un atavismo, il retaggio di un pensiero antecedente
e primitivo che viene trasmesso «con il linguaggio che apprendiamo da bambini, e che
contiene, fin nella sua stessa sintassi, il deposito intangibile degli errori ancestrali». Ma
rappresenta anche una parte insopprimibile dell’uomo: il sentimento che si oppone alla
ragione.
Il dualismo è in ultima analisi, per Le Dantec, una contraddizione o meglio un con ­
flitto tra logica pura e logica di sentimento, che egli trova magistralmente espresso
(confessato!) in Pasteur: «‘in ognuno di noi – dice Pasteur – vi sono due uomini: lo
scienziato, colui che, avendo fatto tabula rasa, vuole elevarsi alla conoscenza della na­
tura con l’osservazione, l’esperimento e il ragionamento; e poi vi è l’uomo sensibile,
l’uomo di tradizione, di fede o di dubbio, l’uomo di sentimento, l’uomo che piange i
suoi bambini che non sono più e che non può, ahimè, provare che li rivedrà, ma che lo
crede e lo spera, l’uomo che non vuole morire come un batterio [...]’. Queste
righe sono di Pasteur, vale a dire dell’uomo che ha forse meglio applicato il metodo
scientifico, che ha lasciato i più bei modelli di ricerca sperimentale precisa, e che però,
quando si trattava di lui o dei suoi cari, voleva teorie consolanti e non si preoccupava
della loro verisimiglianza [...]. Logica di sentimento! Non c’è niente di più umano, e i
più grandi scienziati sono uomini».
Come si vede da questo passo, che ho voluto citare per esteso, il Le Dantec che com ­
batte la “logica di sentimento” e che espone e difende le ragioni del monismo, è tutt’al­
tro che algido e – permettetemelo di nuovo – “sfavato”. È simpatetico, simpatico, acu­
to, brillante, appassionato, ironico e autoironico. E tuttavia sempre e comunque ineso ­
rabilmente disincantato. Ha senso questa discussione filosofica? È utile? No, non illu ­
diamoci: «la sua inutilità è evidente», ma «è molto piacevole; bisogna pur far funziona ­
re il nostro meccanismo, e c’è della metafisica nel nostro meccanismo, come vi sono le
zampe per un cavallo; noi ci divertiamo con essa, come un giovane puledro si diverte
L’Ateismo
13
con le sue zampe scorrazzando in un campo». Con questo Le Dantec allegro come un
puledro, polemico solo perché «sarebbe noioso fare filosofia senza contraddittorio, non si
può giocare da soli agli scacchi!», divertente e divertito non si può che concludere: grazie
a Dio sono ateo!
Maria Turchetto
Novembre 2014
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Félix Le Dantec
L’Ateismo
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L’Ateismo
Ciò che c’è di terribile
quando si cerca la verità,
è trovarla!
R. De Gourmont
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Félix Le Dantec
L’Ateismo
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Al Professore Alfred Giard
Grazie a Dio, mio caro maestro (è questo, lo riconosco, un inizio bizzarro
per un libro sull’“ateismo”; ma bisogna pur parlar bene la nostra lingua), gra­
zie a Dio, al giorno d’oggi non si è più messi al rogo per le proprie opinioni
filosofiche; non si ha più bisogno di eroismo per dire ciò che si pensa. Se
così non fosse, dovreste muovervi dei durissimi rimproveri il giorno del
mio autodafé, poiché non potete dissimulare la parte considerevole che ave­
te avuto nella mia formazione intellettuale.
Non che io voglia, malgrado la vostra tendenza ben nota al monismo, co­
stringervi a sottoscrivere anticipatamente le opinioni esposte in questo li­
bro; ma senza di voi non le avrei mai espresse.
I matematici mi avevano insegnato la precisione del linguaggio, e questo
era già molto; ma non era sufficiente, e sarei forse rimasto per tutta la vita
un eccellente allievo, se non avessi avuto la fortuna di seguire le vostre le­
zioni.
Non credevo che vi fosse altro da fare, oltre che penetrare bene il pensie­
ro del proprio professore ed assimilarlo senza cambiarvi nulla. Questo d’al­
tronde deve succedere necessariamente a coloro i quali seguono un insegna­
mento matematico, poiché le matematiche sono scienze finite; la biologia,
invece, comincia o sta per cominciare.
Non dimenticherò mai la prima conferenza che faceste alla Scuola Nor­
male arrivando da Lille; se le vostre concezioni mi sedussero, mi affascina­
rono profondamente, rimasi ancora più meravigliato della lezione d’indi­
pendenza che ci impartiste terminando: ci proponevate, diceste, quelle ma­
niere di vedere come le sole che vi sembravano migliori, ma non pretende­
vate che fossero definitive: ci esortavate a riflettere da noi stessi e a farci
delle idee personali su ogni tema.
L’avere incontrato, a diciotto anni, un maestro che, praticando la libertà di
pensiero, l’insegnava agli altri, sarà uno dei grandi avvenimenti della mia
vita; il germe che avete seminato in me quel giorno ha sconvolto la mia na ­
tura di discepolo sottomesso. Prima di avere ricevuto la vostra impronta,
ero completamente disposto a farmi un rimprovero di ciò che, in molti
punti, non pensavo come tutti; avevo vergogna di non trovare chiare le pro­
posizioni che la maggioranza compatta dichiarava di ammirevole limpidezza;
facevo sforzi per capire, e, quando non vi riuscivo, rinchiudevo in un silen­
zio attristato la mia umiltà di allievo insufficiente.
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Félix Le Dantec
Ho preso la mia rivincita da quando mi avete guarito dal dogmatismo; for­
se ho anche oltrepassato la sana misura (ma le oscillazioni sono nella natura
dell’uomo come in quella del pendolo). Forse, dopo avere davvero sofferto
per non pensare come gli altri, ho preso cura, all’opposto, di coltivare i lati
singolari del mio cervello. Sono troppo un buon determinista per credere
che avrebbe potuto essere stato altrimenti; sono troppo un buon determini­
sta anche per farmi merito di avere pensato “secondo la mia natura”. Alme­
no vi ho trovato delle grandi gioie, e vi sarò eternamente riconoscente di
avere allontanato da me lo spettro sterilizzante dell’“Autorità”.
Ty-Plad, 20 settembre 1906
L’Ateismo
19
PARTE PRIMA
1
CONFESSIONI, DEFINIZIONI
Gli atei sono per lo più
degli studiosi audaci e smarriti
che ragionano male
Voltaire, Dizionario filosofico, voce: Ateismo
1
Le epigrafi delle parti o capitoli si riferiscono al problema che vi è trattato e non
all’opinione dell’autore riguardo alla soluzione di tale problema.
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Félix Le Dantec
L’Ateismo
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I
Confessioni
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L’Ateismo
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§1
Generalità dell’idea di Dio
L’idea di Dio ha giocato un ruolo tale nei destini umani, è penetrata così
profondamente nei costumi, nel linguaggio, fino all’ereditarietà dei popoli,
che colui che è oggi ne è privo, colui che non ha ricevuto quest’idea in ere­
dità e non ha potuto acquisirla tramite l’educazione, deve, mi sembra, essere
considerato come un mostro dalla maggioranza degli uomini. E se succede
che il mostro sia dotato di senso morale (l’eredità è tanto capricciosa in que­
sta nostra generazione sessuale!); se succede che l’ateo sia virtuoso, il suo
caso sarà allo stesso tempo teratologico e paradossale. Tanti nostri congeneri
affermano in effetti che sono onesti poiché temono Dio; di conseguenza
non possono concepire che un ateo non sia vizioso e criminale, come lo sa­
rebbero stati loro stessi senza la loro fede. Forse sono troppo modesti; for­
se hanno in loro delle ragioni per essere buoni ed amabili indipendentemente
da qualsiasi credenza religiosa; infine vi sono uomini malvagi, è certo. Am­
metto anche, volentieri, che ve ne sarebbero di più se qualcuno tra loro non
venisse trattenuto dalla paura di un castigo. Ma dal fatto che tutti gli uomini,
credenti o meno, non sono, a dispetto dell’educazione, né egualmente buo­
ni né egualmente onesti, posso ben concludere, senza esagerata arditezza,
che nel patrimonio ereditario di ciascuno di noi vi sia una dose variabile di
bontà e di onestà. Tali qualità innate ci provengono dai nostri antenati, e fu­
rono da loro acquisite come il naso, la bocca e la logica; questo, per un evo­
luzionista è innegabile; a seconda dei casi degli accoppiamenti, ogni uomo
viene al mondo con più o meno naso, più o meno logica, più o meno virtù.
L’educazione ricama in seguito su questa tela; ci si può rompere il naso, per­
dere la ragione e diventare pure cattivi, la quale cosa è più difficile a molti
che non rompersi il naso.
È il timore di Dio che ha introdotto nell’eredità dei nostri ascendenti le
qualità morali che la generazione sessuale oggi distribuisce a ciascuno di noi
così poco equamente? Le necessità di una vita sociale prolungata per centi­
naia di secoli non c’entra per molto, forse quasi per tutto? Non è questo il
luogo per discutere tale questione. Ma come la coscienza morale che deriva
da certi regolamenti sociali sopravvive, nella discendenza dell’uomo, ai re­
golamenti che l’hanno prodotta, così le qualità che hanno per origine la
paura di Dio possono sussistere in un uomo privo di ogni credenza religio­
24
Félix Le Dantec
sa. Ciò è proprio dei caratteri acquisiti: essi si conservano negli esseri e nei
loro discendenti, al di là delle condizioni che li hanno fatti apparire. Non c’è
dubbio, nondimeno, che questi caratteri, trasmessi ereditariamente, possano
successivamente essere rinforzati dall’educazione, se le circostanze conti­
nuano a trovarsi favorevoli; una particolarità risultante dal timore di Dio o
della vita di società si svilupperà più completamente in un individuo che
continuerà a temere Dio o a vivere in società; essa si svilupperà inoltre, an­
che se forse in grado minimo, e questo per numerose generazioni, anche in
esseri isolati e privi di credenza religiosa; un uomo, vivendo solo, avrebbe
nondimeno una coscienza morale priva di senso, come ha un intestino cieco
e i denti del giudizio. Questi organi rudimentali o superstizioni (nel senso eti­
mologico della parola) non scompaiono facilmente; scompaiono tuttavia
alla lunga, e, se si vuole discutere in modo imparziale l’utilità sociale dell’i­
dea di Dio, non bisogna dimenticare di tenere conto dei caratteri introdotti
nella natura dell’uomo attuale dalle credenze ancestrali. Se un ateo figlio di
credenti è onesto, non si ha il diritto di concludere che un popolo di atei re­
sterebbe eternamente onesto, sebbene, beninteso, si sia dimostrata la parte
che le credenze religiose hanno nella genesi dei sentimenti d’onestà, che
traggono forse la loro origine da necessità sociali.
Ma dimentico che non tutti ammettono l’ereditarietà dei caratteri acquisiti
e il suo ruolo nella formazione delle specie; è ben difficile per un uomo ve ­
ramente penetrato da certe nozioni, astrarsene per discutere le idee degli al­
tri. Dovrebbe essere che i credenti, per discutere gli atei, potessero dimenti­
care di essere credenti, e che gli atei rinunciassero al loro ateismo per discu­
tere il valore della fede. Ora questo non è solo difficile, questo è impossibi­
le, poiché negli uni e negli altri la credenza e l’incredulità fanno parte del
meccanismo pensante.
Ecco ancora un’opinione da ateo, che il pensiero risulta da un meccanismo
determinato; io non credo alla libertà, e ciò è fondamentale in me; come po­
trei pertanto farmi comprendere da un credente dotato di libertà assoluta per
il fatto stesso che egli è credente? Tale libertà assoluta sarebbe la base di tutti i
ragionamenti del mio interlocutore, mentre deve essere esclusa da tutti i miei.
Certi spiritualisti conciliano nella maniera più facile del mondo la libertà e il
determinismo; così i credenti ammettono un Dio onnipotente e interamente
libero in una natura interamente regolata! Se ciò è ebraico per me, non è col­
pa mia. È vero che i credenti divengono logici ammettendo la possibilità del
miracolo, e questo è, effettivamente, l’unico punto positivo del dibattito; un
individuo che non ha l’idea di Dio non può acquistarla se non quando Dio gli
si manifesti, e questo potrebbe accadere solo per un miracolo.
L’Ateismo
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Un ateo logico dovrebbe diventare credente se constatasse un miracolo;
ma come constatare un miracolo, cioè uno strappo alle leggi della natura?
Occorrerebbe per questo essere sicuri di conoscere tutte le leggi della natu­
ra e anche tutte le condizioni del fenomeno osservato. Chi oserebbe avere
una tale pretesa? Una volta ho scritto che, se vedessi un miracolo, diventerei
credente; temo proprio di essermi vantato! Se assistessi a un fenomeno che
mi sembrasse in contraddizione con le leggi naturali che meglio conosco,
farei probabilmente come al teatro di Robert Houdin: cercherei la funicella
nascosta, il fenomeno sopraggiunto e sconosciuto che ha creato l’apparenza
del miracolo; e se non lo trovassi, accuserei probabilmente l’imperfezione
dei miei mezzi di ricerca. Sarebbe infinitamente più semplice, mi si dirà, cre­
dere in Dio come gli altri! Picchiate su una campana tanto forte quanto vo­
lete e non riuscirete a farle produrre un suono diverso da quello che essa
può dare; la spacchereste solo insistendo; io sono come la campana, e il mio
meccanismo è adulto; non posso diventare credente, ma posso soltanto di­
venire pazzo; qualcuno forse crede che lo sia già!
Non sarei davvero ateo, se intravedessi la possibilità di non esserlo più.
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Estratto - Edizioni Immanenza