Supplemento n. 2 al n. 24 di Verso Sera,
notiziario quadrimestrale
dell’Associazione Cure Palliative
di Bergamo
In copertina
San Martino dà il suo mantello al bisognoso.
Trento Longaretti
Vicinia di San Martino - Bergamo
1
2
Quale sguardo si posa su di me?
Testimonianze dall’hospice di Borgo Palazzo
dell’Azienda Ospedaliera Ospedali Riuniti di Bergamo
3
4
Dedicato a Kika,
amatissima presidente
dell’Associazione Cure Palliative
Bergamo
5
6
Indice
pag.
9
Gli Autori
11
Premessa
13
Introduzione. L’incontro tra due libertà
Gianbattista Cossolini e Maria Stella Moro
15
Una rete di cure palliative
Arnaldo Minetti
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Laura
Marilena Papini e Alessandra Fadini
23
Luci e ombre di un diario di bordo.
Considerazioni e riflessioni di un gruppo di
studenti universitari
Giovanna, Francesca, Silvia, Maria Francesca,
Mariastella, Marco
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Vivi
Vilma Ruggeri
29
Sguardi emozionanti
Elisa Capoferri
33
Un cammino di ricerca tra emozione e razionalità
Aurora Minetti
37
Il frastuono del silenzio: metafora di un ascolto interiore
Maria Francesca Pasinelli
43
Percorsi condivisi
Giovanna, Franca, Cinzia, Gabriella
47
Insieme in silenzio
Chiara Soloni
7
pag.
8
49
Drammatizzazione, testi tratti da “Il libro dell’hospice”
Associazione Teatro d’Occasione di Bergamo
57
Sobrietà
Ivo Lizzola
63
Formazione, medicina e terminalità
Giacomo Delvecchio e Luisella Barberis
69
Che cos’è che supera la sofferenza e il dolore?
Ivana Fadini
79
Vorrei raccontarvi una storia
Maria Stella Moro
85
Incrociamo gli sguardi
Albino Fascendini
91
Ricerca di un senso al vivere …e al morire
Daniela Plebani
95
Appendice
120
Glossario
121
Bibliografia
125
Nota
Gli Autori
Associazione Teatro d’Occasione
Bergamo.
Barberis, Luisella
U.S.C. Formazione e Aggiornamento. Azienda Ospedaliera
Ospedali Riuniti, Bergamo
Capoferri, Elisa
Psicologa presso l’hospice di Borgo Palazzo, Bergamo
Cossolini, Gianbattista
Direttore U.S.C. Cure Palliative e hospice di Borgo Palazzo,
Azienda Ospedaliera Ospedali Riuniti di Bergamo
Delvecchio, Giacomo
U.S.C. Formazione e Aggiornamento. Azienda Ospedaliera
Ospedali Riuniti, Bergamo
Fadini, Alessandra
Infermiera Professionale presso l’hospice di Borgo Palazzo,
Bergamo
Fadini, Ivana
Corso di Laurea in Scienze dell’Educazione,
Università di Bergamo
Fascendini, Albino
Medico, bioetico
Gabriella
Gruppo auto mutuo aiuto
Bergamo
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Giovanna, Franca, Cinzia.
Volontarie A.C.P., Bergamo
Giovanna, Francesca, Silvia, Maria, Francesca, Mariastella, Marco.
Studenti, Corso di Laurea in Scienze dell’Educazione,
Università di Bergamo e Corso di Laurea Infermieristica,
Università Bicocca, Milano
Lizzola, Ivo
Cattedra di Pedagogia sociale, facoltà di Lettere e Filosofia,
Università degli Studi di Bergamo
Minetti, Arnaldo
Presidente Associazione Cure Palliative ONLUS, Bergamo
Minetti, Aurora
Dottoranda di ricerca in Scienze della Comunicazione,
Università della Svizzera italiana, Lugano
Moro, Maria Stella
Scienze dell’Educazione, Università di Bergamo
Papini, Marilena
Infermiera Professionale presso l’hospice di Borgo Palazzo,
Bergamo
Pasinelli, Maria Francesca
Scienze dell’Educazione, Università di Bergamo
Plebani, Daniela
Scienze dell’Educazione, Università di Bergamo
Ruggeri, Vilma
Infermiera Professionale presso l’hospice di Borgo Palazzo,
Bergamo
Soloni, Chiara
Medico presso l’hospice di Borgo Palazzo, Bergamo
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Premessa
Questo volume contiene soprattutto i materiali del Convegno “Quale sguardo si posa su di me? Testimonianze dall’hospice di Borgo Palazzo”, organizzato l’11 novembre 2005 dall’Associazione Cure Palliative ONLUS di Bergamo, in occasione della VI Giornata Nazionale contro la sofferenza inutile
della persona inguaribile, promossa dalla Federazione Cure Palliative.
In quella sede abbiamo scelto di non proporre l’usuale informazione e comunicazione sulla realtà dell’hospice e del movimento delle cure palliative, con
qualche rischio di autoreferenzialità: abbiamo deciso di dare voce prevalentemente ad altri sguardi e punti di vista, soprattutto da parte di chi ha attraversato i “nostri” spazi per tirocinii, dottorati di ricerca, master... coniugando
queste voci con quelle degli operatori dell’hospice e dei volontari.
Abbiamo anche consegnato “il libro dell’hospice” a un gruppo di artisti, perché ne elaborasse una drammatizzazione, e anche questo sguardo (che è
diventato azione) è presente in queste pagine.
Abbiamo, infine, ritenuto opportuno aggiungere una Appendice con materiali tratti dal nostro notiziario Verso Sera, per permettere al lettore di farsi un’idea
del contesto in cui collocare questa nostra proposta editoriale.
Il ricordo di Kika, a cui il libro è dedicato, è seguito dall’esplicitazione di
come intendiamo il ruolo del volontariato e il futuro del welfare; il nostro
percorso e le nostre proposte sono evidenziate nel “Modello Bergamo”, accompagnato da brevi cenni sulla Centrale Operativa e dall’appello per rafforzare la rete di cure palliative.
Il testo di un volantino di divulgazione e alcune fotografie dell’hospice e di
vita vissuta completano queste pagine.
Consegnandovi questo volume, vi auguriamo buona lettura e v i rimandiamo per altri approfondimenti al sito www.associazionecurepalliative.it e alla
collezione passata, presente e futura di Verso Sera.
Il “libro dell’hospice” è collocato su un leggio nella luminose veranda: sulle
sue pagine i degenti, i parenti, il personale, i volontari, i visitatori possono
scrivere pensieri, emozioni, riflessioni e tutto ciò che desiderano.
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Introduzione
Incontro tra due libertà
Gianbattista Cossolini, Maria Stella Moro
Nell’epoca dell’information technology si sa di che cosa muoiono le persone,
mentre non si ha, spesso, un’idea esatta di come si muore: è importante quindi fare emergere lo specifico “dialogo”, che si sviluppa nell’hospice attraverso l’intrecciarsi di destini, fatto di gesti, di silenzi e di ascolti più che di parole.
Questa la trama del Convegno “Quale sguardo di posa su di me?”, trama che
si snoda in una collana di ricostruzioni esperienziali, di ricerca e di emozioni
raccontata da operatori e da Altri: malati, familiari, amici e Altre culture “nell’incrocio delle loro prospettive, dei loro sguardi” (H. Arendt).
Dialogo che si “tesse” partendo dai singoli vissuti, storie, esperienze di vita che si
confondono, si sovrappongono per dare origine a sensi, significati condivisi.
Nuovi sensi e significati che permettano a tutti e tre i soggetti coinvolti (pazienti, famigliari, operatori sanitari) di fare fronte al mistero che più spaventa
l’uomo: il suo limite estremo, la morte, nei confronti del quale egli deve trovare una misura, una vicinanza-distanza corretta, accettabile.
Creare una sorta di viaggio comune, attraverso un progetto terapeutico e assistenziale adeguato e coordinato, in cui si cerca di farsi carico del malato
nella sua interezza e complessità.
Progetto che non può prescindere dalla prospettiva del paziente (dove questa
può essere colta), dalla valutazione soggettiva della vita e della sua qualità e
dalle ”aspettative”, emozioni della famiglia, degli amici e di chiunque operi
accanto al malato.
“Prendersi cura” di una persona implica anche “prendersi cura” del contesto
in cui vive, del suo mondo, è dare enpowerment a tutti i soggetti che vivono
accanto a lui per dare enpowerment a lui stesso.
Significa essere consapevoli che il proprio progetto è strettamente intrecciato
con la storia, cioè si comprende in che forma gli obiettivi individuati in sede
di progettazione sono stati raggiunti solo a posteriori, solo dopo un intreccio
di eventi, imprevisti, persone, solo dopo una storia che ha visto protagonisti il
paziente, la sua famiglia.
“Gli uomini, non l’uomo, abitano la terra, nell’incrocio delle loro prospettive,
dei loro sguardi” (H. Arendt, 1964).
L’équipe oltre che sistema, parte di un sistema più ampio rappresentato dall’hospice in quanto organizzazione, è quindi, come pluralità delle relazioni
fra i soggetti che la costituiscono, nodo in un campo relazionale
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“all’interno del quale ciascuna parte prende forma in relazione continua con
le altre parti, in modo tale che la forma delle parti inflette al suo interno l’intero sistema delle relazioni che l’hanno resa ciò che è” (T. Ingold, 2001).
Le aperture a confronti, ad “attesi imprevisti”, ad “Altre culture” di primo
acchito possono lasciare spiazzati, ma rappresentano risorsa e possibilità per
il proprio progetto.
Lasciarsi “sorprendere” dall’Altro impedisce di “cristallizzarsi” sui risultati
già raggiunti, consolidati e di acquisire “consapevolezza” che l’uomo agisce
per pre-giudizi e, quindi, fare in modo che essi non si trasformino in pregiudizi ideologici e omologanti.
Solo vivendo dentro le relazioni, immersi in esse e contemporaneamente “vedendosi” fuori si acquisisce un sguardo attento e realistico, che permette una
visione complessa della realtà per trovare nel qui e nell’ora i punti di forza
dell’altrove e del dopo.
Incrocio di sguardi. Sguardo sul presente che espone sul futuro.
Sguardo che impedisce che la propria volontà diventi esercizio di forza nella
convinzione di sapere qual è il bene dell’altro, riducendolo all’immagine che
si ha di lui, privandolo di “voce”, di “volto”, di nome.
Sguardo quindi che deve permettere di co-costruire relazioni asimmetriche
che siano esempi di buona gestione del potere nella differenza e nella pluralità dei pareri diversi perché
“la verità è essenzialmente relazionale, […] solo l’esperienza del “tu” ci apre
non solo verso quella dell’ego ma anche verso quella dell’oggetto, del mondo
esterno…” (R. Panikkar, 2003).
Sguardo che deve permettere un reciproca narrazione, l’incontro tra due libertà. Narrazione che diventa l’unico linguaggio che rende possibile comprendere l’agire umano. Narrare è vivere, è vivere con significato dando cioè
senso all’esperienza, è vivere da uomini. Permettere quindi a chi ci sta di
fronte di narrarsi significa riconoscerlo come uomo nell’incontro reciproco
tra due libertà.
“L’uomo è molto più di uno spettatore o di costruttore del mondo. Innanzi
tutto è un attore [che compie atto], fondamentalmente un autore, che si fa
[crea se stesso] attraverso la sua capacità – non esaurita dal suo facere – ma
che include anche il suo agere. La sua attività non è semplicemente poiesis,
ma soprattutto prassi … prassi è quella attività umana che modifica e modella
non solamente l’esistenza esteriore dell’uomo, ma anche la dimensione inte
riore della sua vita” (R. Panikkar, 2003).
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La Rete di Cure Palliative
Arnaldo Minetti
Come presidente dell’Associazione Cure Palliative di Bergamo ritengo doveroso ringraziare tutti coloro che portano il loro contributo a questo Convegno, arricchendo ulteriormente le nostre prospettive attraverso letture e punti
di vista non usuali.
Il movimento delle cure palliative e il movimento hospice traggono anche da
ciò la loro linfa vitale, accrescendo costantemente la capacità di porsi in
modo diverso nei confronti del malato, della famiglia, della persona in generale e stimolando tutti gli operatori sanitari e gli utenti a un approccio ricco,
completo, a tutto campo: teniamo molto a valorizzare questo nostro ruolo di
rinnovamento culturale e degli atteggiamenti professionali e di relazione.
Mi spetta anche di ribadire ancora una volta che l’hospice non può essere
una cattedrale nel deserto, ma una delle opzioni possibili nella continuità del
percorso terapeutico; non può essere l’unico luogo dove assistere il malato in
fase avanzata, ma va garantita la possibilità di restare a domicilio con una
assistenza sia medica sia infermieristica qualificata.
Per consentire ciò è importante che si costruisca un collegamento sinergico e
costante (rete di cure palliative) fra tutte le strutture sanitarie e le singole unità
operative che si occupano di tutte le malattie inguaribili, in rete con il territorio e con l’assistenza domiciliare.
Su questa completezza di rete, c’è ancora tanta strada da fare: noi come
associazione faremo la nostra parte, serve però un ampio sostegno da parte
dell’opinione pubblica sensibile a queste tematiche.
Ma qui, in questo contesto, permettetemi due parole sul piano personale,
come marito innamoratissimo di Kika e compagno del suo viaggio nella terminalità, conclusosi nel “suo” hospice il 14 luglio.
Non ripeto gli apprezzamenti già noti sulla struttura e sulla grande disponibilità, umanità e professionalità del personale, ma evidenzio solo un paio di
aspetti.
Il primo è una ulteriore accentuazione della necessità di rete: dopo aver strenuamente combattuto con terapie attive contro tre tumori, Kika è giunta alla
diagnosi di terminalità e a una prognosi di alcuni mesi a marzo 2005. Per il
suo ruolo e la sua storia e per le nostre conoscenze, ha inevitabilmente usufruito di tutte le più alte professionalità e del massimo di attenzione, ma i
nessi e i percorsi di relazione fra diverse figure specialistiche, fra diverse unità
operative mostrano di essere ancora abbastanza empirici e volontaristici e la
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presa in cura con vera continuità denuncia approssimazioni migliorabili e
superabili: ciò non vuole essere una critica, perché non smetterò mai di ringraziare coloro che l’hanno amorevolmente seguita, ma uno stimolo a un
salto culturale, organizzativo, metodologico.
Né come cittadini, né come operatori sanitari, né come volontari dobbiamo
dare per scontato che la situazione richieda tempi molto lunghi per cambiare: solo se non ci rassegniamo di fronte a queste problematiche e se sapremo
valorizzare le nostre motivazioni profonde e il grande sostegno dei malati,
dei parenti e dell’opinione pubblica, potremo fare molto di più e meglio,
senza paura di volare, senza perdere la spinta propulsiva che ci ha permesso
di fare iniziative esemplari.
Il pionierismo che ci ha animato nel combattere il tabù della morte e del
morire, nel costruire i primi embrioni di domiciliarità, nel sognare e realizzare l’hospice resta oggi fondante anche per la realizzazione della rete di cure
palliative, lo sviluppo e miglioramento dell’assistenza domiciliare, anche attraverso sperimentazioni come la Centrale Operativa Cure Palliative e Domiciliarità, con il coinvolgimento dei medici di medicina generale, delle équipe
di cura e assistenza, delle realtà di volontariato.
Il secondo punto di riflessione personale che desidero condividere torna sullo
specifico della struttura di degenza e riguarda uno degli aspetti forti e pesanti
degli ultimi giorni di vita: l’angoscia da impotenza in attesa della morte imminente, una sofferenza totale che, a volte, è assai più devastante del dolore
fisico.
È l’aspetto più caratterizzante della degenza in hospice, dove una recente
indagine sui bisogni principali dei pazienti conferma che, subito dopo il controllo dei sintomi, il bisogno prevalente è la necessità di occupare la mente
nel lungo percorso di attesa.
Ogni secondo è pieno come anni di una persona sana, ogni sguardo porta
con sé una vita intera e non solo.
Prendersi cura di questa sofferenza vuol dire tante cose: combattere il dolore,
trovare le giuste risposte ad ogni sintomo, garantire continuità al presidio
medico moltiplicando contestualmente l’intervento infermieristico, presidiare il supporto psicologico e il conforto spirituale, coniugare l’ascolto, la compagnia, la diversione e la distrazione, il rilassamento, la presenza partecipante di familiari e amici e tutto ciò che riempie di senso - contenuti - atti ciò che
definiamo la miglior qualità di vita possibile fino alla fine.
Sono cosciente che alcuni operatori sanitari, pur condividendo questi obiettivi delle cure palliative e dell’hospice, mantengono il dubbio che ciò possa
limitare le risorse destinate alla fase acuta, alla ricerca o ad altri aspetti: pensano quasi che sia un lusso delle società occidentali ampliare e articolare
cura e assistenza alla fase terminale, al fine vita.
Più volte abbiamo lottato per ribaltare l’approccio al tema della sostenibilità:
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le risorse non sono sicuramente sufficienti per tutto, ma lo devono essere per
le vere priorità e su di esse e sui livelli essenziali di assistenza le risorse devono comunque essere trovate, a scapito di obiettivi secondari, di sprechi e
inefficienze, di privilegi corporativi e di rendite.
È una questione di civiltà e sicuramente anche sull’attenzione alla qualità di
vita in fase terminale si misura la civiltà di un Paese e la qualità del suo
sistema sanitario.
Solo per le malattie inguaribili stiamo parlando di quasi trecentomila persone
ogni anno in Italia.
Trecentomila famiglie travolte da un tornado, di cui è doveroso farsi carico.
Migliaia e migliaia di faticosi percorsi, ognuno irripetibile e unico.
Vorrei passare ad un esempio per essere più concreto e per cercare di capirci
meglio: vorrei ricordare in particolare il sorriso sereno di Kika nel momento
del massaggio rilassante con sottofondo musicale, una percezione personale
di ciò che può essere la qualità di vita.
Kika riconquistava così la possibilità di prendere fiato e anche di distrarsi, per
recuperare energie residue verso sé e verso gli altri: l’hospice è anche questo
e lo sono le cure palliative nel loro percorso di continuo arricchimento e
attenzione ad aspetti come questi e, proprio per questo, non dobbiamo abbassare la guardia e appiattire la ricchezza del nostro esserci.
Su ciò può ancora crescere di molto la nostra presa di coscienza e capacità di
presa in carico; possono crescere tutti gli operatori sanitari e i volontari, può
crescere la integrazione fra operatori e volontari al servizio del malato e dei
parenti, perché questo può aiutare a non burocratizzarsi e a non perdere il
senso di ciò che facciamo.
Tutto ciò può crescere nel nostro hospice, sicuramente, e nell’attività complessiva dell’Unità di Cure Palliative, ma si dovrà irradiare inevitabilmente
sul territorio attraverso la Centrale Operativa e l’Assistenza Domiciliare Integrata e dovrà coinvolgere tutte le strutture e tutto il personale che hanno
rapporto con l’inguaribilità: se così non fosse, se non ci impegnassimo duramente su questo fronte, avremmo solo realizzato alcune strutture della cosiddetta “buona morte” e non certo la rete organica delle cure palliative.
Proprio la realizzazione della rete di cure palliative e l’affermazione di una
cultura conseguente costituiscono la nostra missione.
Quello che a Bergamo abbiamo chiamato “Progetto Hospice” è tutto questo:
non abbiamo la presunzione di aver creato il modello del miglior hospice in
assoluto e della sua integrazione in rete, ma siamo convinti di aver creato le
premesse per lavorare insieme, per dare la massima estensione possibile alla
potenzialità che deriva dalle nostre forze concrete, dal particolare connubio
fra personale sanitario e volontari, dall’eccellente rapporto con la popolazione e con i media, dal nostro percorso storico specifico.
Sicuramente abbiamo limiti e carenze, ma desideriamo colmarli e superarli.
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Stiamo cercando di costruire nuovi percorsi senza risparmiarci e chiediamo a
tutti coloro che interagiscono con noi di darci altri stimoli e sostegni per andare ancora più avanti.
Grazie per l’aiuto che ci avete dato, che ci state dando e che ci darete.
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Laura
Marilena Papini, Alessandra Fadini
Con questo racconto vogliamo narrare la complessità delle emozioni vissute
da noi, operatori dell’hospice di Borgo Palazzo, in un percorso di cinque anni
trascorso nell’incontro di molte persone: magari arrabbiate poi rasserenate,
depresse poi rassegnate, impaurite poi coraggiose, angosciate che, con sguardi interrogativi e indagatori, cercano di comunicare una grande necessità di
aiuto.
Questi sguardi noi abbiamo cercato di intercettare e accogliere con dolcezza e delicatezza e non reprimere, anche perché spesso ci hanno aiutato a
dissolvere le nostre paure o sofferenze.
Questi sguardi ci hanno insegnato a riflettere sulla morte e sul senso del limite
e del confine in cui viviamo, aiutandoci a guardare diversamente i continui
cambiamenti che caratterizzano le nostre vite: ecco che allora davanti a noi
si schiude una nuova prospettiva dove la sofferenza e la solitudine non costituiscono più l’unico orizzonte.
Volgendoci indietro abbiamo fissato nella memoria tanti sguardi, ma quello
di Laura ci comunica tenerezza e dignità.
Cos’è il ricordo? È conoscenza personale, è testimonianza, ma anche formazione. Il ricordo di Laura, di un padre, di una madre, di un figlio o di un
amico, di un percorso di cura?
Sappiamo che, quando il ricordo arriva, uno dei protagonisti della storia ha
già speso il suo tempo, mentre l’altro spesso sente che è stato comunque un
tempo troppo breve.
A volte, il ricordo inizia prima della morte, il paziente o uno della sua famiglia parla della loro storia, di come hanno costruito il loro rapporto, dei sogni
realizzati e quelli ancora incompiuti.
E mentre fanno conoscenza con il loro ricordo il tempo li incalza, li costringe
a ridimensionare gli spazi, i tempi e i gesti.
In quel tempo ristretto tutti i sentimenti vengono a galla e come dice F. Toscani (malato terminale, 1997):
“Morire non è mai un problema privato del morente. L’intera famiglia è proiettata in una crisi profonda nella quale si sovrappongono i ricordi, buoni o
cattivi della vita passata, i bisogni del presente, le incertezze e le angosce per
il futuro.
Questa condizione non cessa con la vita del malato, ma si protrae a volte per
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mesi, a volte per anni, oppure a volte per sempre in quel complesso di sofferenza conosciuto come cordoglio”.
Si comprende com’è importante che il paziente e la sua famiglia diventino
soggetti di cura e attenzioni.
Prendersi cura di tutti, anche della famiglia significa riconoscere dignità alla
persona e a chi gli sta accanto. Significa ascoltare i loro bisogni, le loro paure,
costruire un progetto su di loro con un’équipe multidisciplinare che si confronta quotidianamente e settimanalmente con la verifica del progetto.
Un’équipe che si modifica, si organizza, si pone degli obiettivi programmati
e progettati con e per la famiglia e il paziente.
Condividere qualche cosa, sentire che qualcuno si sta prendendo cura di te e
ti ascolta, è non sentirsi solo.
Il caso è la storia di una giovane donna che da subito ha condiviso con noi
questo progetto, lei ci ha guidato e suggerito il percorso dei suoi ultimi giorni.
Laura era un’ insegnante di 38 anni, sposata con un bambino di tre anni e
orfana di padre. Arrivò in hospice il 20 febbraio conoscendo esattamente le
finalità della nostra struttura e delle Cure Palliative.
All’ingresso la paziente era stanca, astenica e molto sofferente, ma si presentava come una persona gentile, cordiale e luminosa nonostante il fisico e il viso
mostrassero tutta la sofferenza e la crudeltà della malattia.
La situazione ci apparve subito complessa e critica sia per la sintomatologia
sia per come lei parlava apertamente della sua morte.
Iniziò a raccontarci la sua storia, la storia della sua malattia e della morte
imminente. L’équipe rimase molto sorpresa, incredula e commossa, infatti
era la prima volta che una persona parlava della propria morte così apertamente e con tanta forza. Da subito, nonostante il nostro imbarazzo e la nostra
commozione, il dialogo fu sempre molto leale.
Non le fu mai negata la realtà clinica in rapida evoluzione, ma Laura già
sapeva. Sapeva che non avrebbe avuto molto tempo e quel tempo lo voleva
spendere bene.
La sua prima richiesta fu: “Vorrei passare gli ultimi giorni della mia vita senza
dolore e vomito così da poter aiutare mio marito a preparare mio figlio alla
mia morte”.
Laura era molto preoccupata per il figlio e per il marito, il suo progetto finale
era aiutare loro ad accettare la sua morte.
L’équipe si propose da un lato di eliminare la sintomatologia che la disturbava e annientava togliendole la possibilità di coltivare i suoi affetti e dall’altro
si offrì a supporto per essere d’aiuto a lei e al marito con il bambino.
Nei giorni seguenti il dolore e il vomito furono controllati e Laura poté ricevere la visita della sua famiglia e di numerosi amici comunicando e relazionando con loro.
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Una sorella di Laura non la lasciava mai sola.
Il loro rapporto era profondo e si era intensificato e rafforzato con la malattia,
anche la personalità di Laura era forte, capace di coinvolgere, comunicare
emozioni, rabbia, dolore e affetto con discrezione, in modo sottile, in punta
di piedi lasciando però un segno.
Come diceva lei: “Era entrata nel cuore della gente”.
Tra noi e lei si creò un rapporto intenso, profondo, amava la nostra presenza,
le nostre cure erano ben accette, gradiva essere aiutata nell’espletamento
dell’igiene, discutere le terapie, parlare di suo figlio, dei suoi progetti e del
suo lavoro di insegnante ormai lontano.
Ci chiedeva il perché della nostra scelta professionale, conosceva i nostri
nomi e parte della nostra vita.
Ci ascoltavamo e raccontavamo.
Noi rispettavamo i suoi tempi, i suoi desideri e le sue volontà.
Quando piangeva non facevamo domande dirette, lasciavamo che la sua
paura, la sua disperazione, la sua rabbia e impotenza (in parte anche nostra),
si manifestassero. Ci parlava con delicatezza della sua fede, pura e autentica
che però un giorno durante un incontro con la psicologa non le impedì di
arrabbiarsi molto con Dio e di farle dire: “Mi hai fatto sposare, avere un figlio,
perché? Perché se devo morire così presto e lasciare tutto ciò? Perché? Perché?”
La rabbia era tanta, come chiedere ad una madre di lasciare tutto ciò? Come
chiedere a lei così vera, tanto vera da entrare nel cuore di tutti , di arrendersi?
Come e perché? Tra la psicologa e Laura quel giorno ci fu un lungo silenzio,
le parole non servivano, la rabbia era giusta e le risposte non c’erano.
Quel silenzio fu interminabile e fu il segno terrificante di un vuoto: lei chiedeva e voleva delle risposte da Dio amato cercato e voluto. Ora anche Lui
taceva, non aveva risposte.
La psicologa usciva spesso provata da questi incontri, ma per entrambe fu
una esperienza intensa e d’aiuto reciproco.
Grazie a questi colloqui Laura poté incontrare il marito e il figlio con più
serenità.
Un giorno, il 25 febbraio, fu per Laura molto importante.
La mattina iniziò con un pianto liberatorio e poi si rasserenò.
La sorella, sempre presente, ci riferì: “sta affrontando la morte con dignità e
serenità”.
Nel pomeriggio ricevette la visita del marito e del figlio; l’incontro fu sereno e
prima di tornare a casa il bimbo disse alla mamma: “È stato molto bello incontrarti”.
Dopo questa giornata seguì una notte di verbalizzazioni molto profonde con
l’elaborazione del lutto e la serenità per il futuro del figlio, trasmessa dalla
sicurezza del marito.
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L’équipe rimase ad ascoltare e lei stessa disse: “Se torno a casa è perché sto
bene e non perché devo soffrire e far soffrire”.
Ci chiedeva solo questo, passare gli ultimi giorni senza dolore, né vomito per
stare con la sua famiglia, i suoi amici e il suo bambino.
Tutto ciò fu possibile, ma presto il male tornò a farsi sentire e a minare fortemente il fisico e la sua resistenza, fu necessario adeguare la terapia con alte
dosi di antidolorifici.
Sempre più spesso faceva fatica a parlare e a comunicare, ma la sua forza
interiore non le impediva di affrontare quei giorni e di condividerli con noi.
Durante uno degli ultimi dialoghi con la psicologa, accadde un episodio significativo: ricevette una telefonata da casa che le comunicava che il bambino aveva la febbre e non sarebbe venuto a trovarla; lei stava per dire come
curarlo ma si interruppe, guardò la dottoressa che rimase in silenzio.
Laura in quel momento capì che in futuro non sarebbe più stata lei ad occuparsi del figlio e quindi, come in una staffetta, cedette il testimone al marito e
lo fece con grande dolore ma con dignità.
Il colloquio non proseguì. Laura volle rimanere da sola, il suo progetto di
lasciare il figlio al marito stava riuscendo e lei non era più in questo progetto.
La forza di Laura ci sorprendeva ogni volta. Uno degli ultimi giorni ci chiese
un crocefisso, non uno qualsiasi ma uno colorato.
Tutti: parenti, amici, e anche noi ci prodigammo per trovarlo, finché un’amica lo acquistò. Quando si entrava nella camera lei aveva spesso lo sguardo
rivolto a quel crocefisso che era così pieno di colori da illuminare tutto l’ambiente. Forse stava dialogando con Dio, sicuramente aveva accettato la sua
morte.
Laura ci lasciò una mattina del 4 marzo, esattamente due mesi dopo la diagnosi.
Per le ultime ore fu necessario concordare con lei una sedazione continua
perché i sintomi non erano più controllabili e lei accettò.
Stare accanto a Laura nella fase finale della sua vita è stata un’esperienza che
ha sfidato le nostre certezze più radicate e ci ha portato a riconsiderare la
relazione che abbiamo con la nostra morte.
È stato un viaggio fatto di continue scoperte che ha richiesto coraggio e flessibilità, capacità di affrontare il rischio e la sofferenza. Stando accanto a lei
abbiamo curato noi stessi.
Prendersi cura degli altri crea sempre un beneficio reciproco che conferisce
senso d’intimità, di condivisione, di autenticità al nostro operare.
Per questo non c’è più differenza tra chi riceve e chi dà, ma esiste una interconnessione capace di superare i muri divisori dove tanto spesso cerchiamo
invano riparo.
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Luci e ombre di un diario di bordo
Considerazioni e riflessioni di un gruppo di studenti universitari
Giovanna, Francesca, Silvia, Maria Francesca, Mariastella, Marco
“Considerando solo la nostra vita, il nostro mondo ritagliato nell’immensità dell’universo totale, vediamo, e più ancora sentiamo, che ha bisogno di rinnovarsi,
che è proprio della vita risorgere” (M. Zambrano).
L’accoglienza è il punto di partenza di un percorso, di un viaggio comune in
cui si riconoscerà la presenza dei vari fattori caratterizzanti il quadro clinico
dell’ammalato nei suoi aspetti organici, psichici, socio-culturali e spirituali
ma, soprattutto, centrato sulla relazione (sugli attesi imprevisti), sull’autodeterminazione dell’ammalato.
L’inizio di questo viaggio è la costruzione di un rapporto di fiducia reciproca
partendo dalla non disconferma della storia clinica antecedente dell’ammalato - anche se magari in contrasto con le proprie conoscenze teoriche e
competenze professionali - come, per esempio, assunzione di determinati
farmaci o abitudini consolidate. È un momento in cui tutto diviene relativo e
finalizzato alla costruzione della relazione, con l’intento di far rimanere l’ammalato attore - protagonista, responsabile della sua salute.
All’interno dell’hospice vi sono degli aspetti privilegiati nella relazione: rispetto ad altri contesti sanitari, qui si cerca di vivere il tempo nella preziosità
dell’istante pur essendo in una condizione di “finalità di tempo”. Un tempo
non solo più strutturato e ragionato, ma anche diversamente impiegato, che
sa “attendere” per accogliere e sostenere discontinuità, novità, eccezioni,
ombre, incertezze, non risposte. Si cerca di oltrepassare il senso di efficientismo programmato spesso tipico di altri luoghi.
Tutto questo necessita di momenti riflessivi in cui il tempo si riposi, dove
siano presenti confronti, condivisioni, anche contrasti all’interno dell’équipe,
pur nel rispetto dei ruoli e delle competenze. Ciò permette di ottenere una
sufficiente tutela al forte senso di responsabilità che si viene a creare, unitamente ad una libera emersione ed espressione della propria emotività.
Gli operatori non si muovono su un sentiero personale e collettivo già tracciato, ma su un percorso da farsi, che si crea in itinere, affidati e affidabili gli
uni agli atri.
Importante sembra essere non solo la biografia dell’ammalato, ma anche quella
di ciascun operatore che per la volontà propria è in questo luogo e non per
situazione circostanziale di vita: forse, è grazie alle proprie storie e alla scelta
effettuata che si riconosce la preziosità del tempo e la ricchezza del lavoro di
gruppo.
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Tutto questo sembra creare nell’hospice un’atmosfera “nuova” che lo fa sembrare luogo diverso, quasi sentito come “casa” da tutti, proprio attraverso una
proposta per gli operatori di destrutturare un loro ruolo predefinito.
La finalità dell’hospice sembra proprio emergere da dove invece la medicina
mostra i suoi limiti e la sua impotenza; dove c’è apparente insuccesso terapeutico e sentimento di perdita si cura e ci si prende cura nell’incontro tra
professionalità e umanità.
Si vorrebbe che i nostri gesti fossero perfetti: con i propri figli, con chi amiamo, con i morenti.
Ma nell’hospice, in questo luogo-casa scopriamo che le azioni, le parole
d’amore sono i gesti quotidiani attraverso cui intessiamo le nostre relazioni e
incontriamo il “volto” dell’altro. Il luogo esalta la significatività delle nostre
azioni, delle nostre parole. Attraverso i propri gesti, il personale dell’hospice
entra in storie significative già esistenti, in racconti già narrati, creando relazioni nuove.
Gesti che, cercando di non diventare esercizio, espressione di forza che sveli
il mistero “del volto dell’altro”, tracceranno un solco, creeranno storia, vale a
dire qualcosa che dura per sempre. Quindi, di fronte a ogni congedo, a ogni
morte, ogni infermiere, medico, volontario è lì, come se fosse la prima volta.
È lì a farne esperienza di nuovo perché ogni morte, ogni persona è unica,
irripetibile, come uniche e irripetibili sono le lacrime di chi resta. Questo fa sì
che nessuno si possa definire esperto di fronte ad essa. Ogni volta è un inizio
che porta a decostruirsi e ricostruirsi, a confrontarsi con la propria zona d’ombra, con i propri limiti, le proprie paure, ad intrecciare in un nuovo ricamo i
fili del proprio passato e prepararsi al futuro. Questa inesperienza, impreparazione che sembrerebbe un limite, in realtà è una ricchezza, un’opportunità
che impedisce l’istituzionalizzazione dell’hospice, dei gesti di cura, mantenendo vivo il concetto d’unicità di ciascuna persona. Lotta contro un’istituzionalizzazione, quindi, che passa attraverso la constatazione giornaliera che
il dolore, la malattia, la morte sono solo dell’ammalato, sono solo suoi, sono
dentro di lui più d’ogni altra cosa. È il malato, è il suo corpo che sta vivendo
la morte. È il suo corpo (sua possibilità di relazione e di conoscenza) che si sta
disgregando, che sta lasciando lentamente scivolare fuori la vita, che sta diventando estraneo perché muore mentre si vorrebbe vivere. La consapevolezza di ciò porta ad uno sguardo attento, rispettoso da parte dell’équipe a
cogliere i bisogni del malato e della sua famiglia, a prestare attenzione al
racconto unico narrato. Ascolto, attenzione, rispetto e pudore sono gli imperativi che la malattia e la morte impongono e che spezzano, o forse solo
accompagnano, la solitudine che si sposa con queste ultime. Lotta contro
l’istituzionalizzazione e ascolto rispettoso diventano la consegna, l’eredità
d’ogni paziente per l’équipe, insieme con la propria traccia, volto e nome.
Eredità d’amore che può essere colta nelle frasi, nei pensieri che, come pe24
gni, segni, testamenti, presenze delle assenze sono lasciati dai familiari sulle
pagine bianche di un libro. Segni, parole germogliate, tracciate e consegnate
come risposta al dono che si sente di aver ricevuto, ma che in realtà si è cocostruito attraverso il coraggio di affidarsi in questa storia senza tempo, senza
futuro, a chi all’inizio ci è estraneo.
Per alcune persone questo luogo rappresenta la possibilità di rinascere, di
dis-nascere, risignificando, ridisegnando il mondo. Talvolta si presenta una
nuova lettura, un nuovo punto di visto rispetto alla propria storia, è un “rescatar”, come ci insegna Maria Zambrano, tornare a prendere: si capisce che
non sono gli eventi che hanno costituito questa storia, ma il nostro modo di
assumerli e di attribuire loro senso e questo può cambiare; può permettere
una consegna, segni di una buona semina, un’eredità in un gioco di parole e
gesti dei quali non sai che cosa ne verrà fatto, ma gioco basato su alcune
regole: gratitudine, manifestazione e il “darsi” di dignità.
Ogni volta è un nuovo inizio perché morire diventa la metafora del pensare,
dell’agire, del vivere: tutto questo può avvenire, ma per limiti. Bisogna ripartire ogni volta da qui, da uno stare in presenza. È di nuovo un dirsi il patto fra
donne e uomini. È riesistere. È un rimotivarsi a scegliere la vita nonostante, o
grazie, lo specchiarsi nella vulnerabilità, nel limite, nella finitezza.
Pensieri nei giorni a venire
Malgrado ci siano dei tentativi di risposta, ci sembra importante che alcune
domande rimangano sospese sul futuro.
Ci siamo riconosciuti in questa cultura che pone poca attenzione alla sofferenza, al limite, alla precarietà, alla morte cercando di estrometterli e di nasconderli dietro falsi miti quali l’eterna giovinezza, il benessere. Gadamer
afferma: “Occorre ritrovare il senso del dolore e della sofferenza nell’educazione di oggi. Manca la resistenza”. Riconosciamo l’importanza del fatto che
vengano avviati processi culturali i quali riconoscano la morte come parte
del processo della vita, evento naturale, meta finale della vita umana; è davvero importante preservare uno spazio alla dimensione simbolica dell’esperienza umana della malattia, ma ci chiediamo: può un nuovo modello, un
nuovo concetto di morte sviluppare nell’individuo il coraggio di affrontarla
proteggendolo da superstizioni ma soprattutto da paura e disperazione? In
fondo, anche queste ultime non fanno parte della dignità di uomo?
Abbiamo colto quanto sia importante la creazione di una relazione empatica, intesa come l’entrare in risonanza, la non negazione di uno spazio per la
comunicazione e l’elaborazione della dimensione simbolica, ma come si può
trovare il modo per essere strumento, “azione non agente” per l’altro che gli
permetta di vivere il suo dolore? È il suo dolore e nessuno glielo può togliere
e forse è anche giusto non toglierglielo.
Ci chiediamo quale potrebbe essere il ruolo di un educatore e se potrebbe
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esserci un ruolo all’interno di questo luogo: potrebbe essere quello di fornire
un punto di vista esterno critico, che permetta la non anestetizzazione, l’istituzionalizzazione? Come tenere sotto controllo il potere inevitabilmente presente? Anche Maria Zambrano si chiede: “Ma può esistere il sapere separato
dell’amore e dal potere?”
Un educatore potrebbe provare a portare avanti un’etica della malattia?
Crediamo sia importante sottolineare come l’hospice non dovrà mai essere
“tenuto fuori” dal tessuto sociale perché significherebbe sminuire la dimensione umana. Come provarci? Come far conoscere questa realtà? Cosa perderebbe la società se non si fermasse attorno a queste storie?
Infine, ci fermiamo perché ci accorgiamo di quanto sia grande il mistero della
morte e proviamo a rispettarlo, non andando oltre, non cercando di svelarlo,
ma contemplandolo attraverso l’immagine del “Seminatore” di Van Gogh che,
secondo don Roberto Pennati, racconta la vita:
“Chi ha provato a seminare con le mani sa quanta potenza, energia e speranza c’è in questo gesto silenzioso. Quest’uomo è un propiziatore di vita, ma
anche un seppellitore. Se il chicco di grano non muore […] quest’uomo affida
alla vita attraverso la morte, alcuni semi, ma quanti rischi, quante fatiche,
dovranno superare per diventare piantina, stelo, spiga, farina, cibo e, infine,
ancora vita. Quest’uomo è così curvo e così scuro perché sente addosso la
grave responsabilità di questo gesto e ne è quasi schiacciato. La pianta stessa
che incrocia è simbolo della vita oltre che segno della fatica del creato. Anche
la creazione soffre le doglie del parto […]. Una pianta piegata dal vento, un
tronco scuro, contorto, pochi fiori che danno gioia, alcuni rami tagliati o potati come braccia monche, alcuni getti nuovi in avida ricerca di foglie e frutti
nuovi. E poi il sole, un grande sole: c’è bisogno di un grande sole per sollevare
e rendere accettabili il peso e le contraddizioni della vita”.
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Vivi
Vilma Ruggeri
Il tempo scorre veloce, certe emozioni non si cancellano e basta un niente
per farle rivivere. Ricordo Vivi lucidamente e mentre scrivo brividi salgono
lungo il mio corpo.
Non è facile esprimere emozioni sulla carta, difficile è condividerle, faticoso
trasmetterle ad altri, come se questi altri volessero “rubare” qualcosa di mio;
con la paura che nelle parole non ci sia il rispetto o la giusta considerazione
per le sensazioni provate.
Oggi il sole, ormai senza calore, entra dalla mia finestra; osservo le ultime
foglie cadere dagli alberi, sento qualche piccolo passerotto cinguettare e il
mio pensiero vola lontano, vola da Vivi.
Durante una riunione d’équipe i medici comunicano che c’è un problema. C’è
necessità di discuterlo e condividerlo tutti insieme. C’è Vivi.
In un vicino ospedale c’è una piccola bimba di pochi mesi con un’aspettativa
di vita minima, dimissibile, senza la possibilità di tornare a domicilio.
Sono un po’ sconvolta, spaventata. Una bimba all’hospice? Dubbi, domande,
timori. Perché una bimba all’hospice? Ma la riunione prosegue e si sottolineano diverse problematiche “Non ha famiglia, o per meglio dire, la famiglia
non può essere presente”. “Non si sa esattamente quanto potrà vivere, le
statistiche per il tipo di patologia non sono favorevoli”. Dal punto di vista
della coscienza il quadro clinico è incerto, “non capisce, non piange, forse
ha dolore”.
Nonostante le perplessità del caso non si può non decidere, ed ecco che Vivi
arriva all’hospice. È più bella del previsto.
L’abbiamo sistemata nella camera più vicina a noi infermiere predisponendo
lettino, carrozzina, fasciatoio e tutto quanto poteva rendere la sua permanenza più gradevole possibile.
La sua famiglia viene a visitarla una volta la settimana, la sua mamma è
triste ma, per motivi personali, è all’oscuro della patologia della figlia,
solo il padre sa.
Così, con l’aiuto e il supporto delle volontarie, abbiamo iniziato a prenderci
cura della piccola. Ci sono state difficoltà tecniche, dovute probabilmente
alla poca esperienza nell’accudire i bimbi, superate anche dal supporto di un
pediatra che confermava le scelte terapeutiche.
Ma i nostri, i miei dubbi vanno al di là della tecnica, del saper fare; le mie
domande spaziano e le risposte sono incerte. Quanto capisce? Ha dolore?
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Riesce ad esprimere il suo dolore? Cosa posso fare per aiutarla? Sto facendo
tutto ciò che è possibile per rendere la sua vita qualitativamente migliore?
Che cos’è meglio per lei?
Nel frattempo Vivi sta con noi.
Vivi nella sua carrozzina con quel sondino che spesso si toglie e bisogna
riposizionare
Vivi tra le nostre braccia la notte quando non dorme
Vivi sedata ad ogni minimo dubbio di dolore
Vivi che ti guarda con due occhi angelici,un po’ strabici
Vivi con i suoi versetti simili ad un pianto
Vivi che a volte abbozza (forse è solo un illusione) un sorriso
Vivi con gli altri pazienti adulti che chiedono di lei
Vivi con i suoi fratellini e con suo papà
Vivi con la sua mamma affranta dal dolore
Vivi riempita di regali da tutti
Vivi con le volontarie che la coccolano tutto il giorno
Vivi nella quotidianità giorno dopo giorno.
Come previsto, lentamente, le sue condizioni iniziano a peggiorare, pian piano, non è più possibile alimentarla, il respiro è sempre più irregolare, dorme
spesso; al minimo accenno di dolore vero o presunto che sia vengono somministrati antidolorifici.
E alla fine di una lunga notte in cui Daniela e io eravamo di turno, Vivi fra le
nostre braccia nell’impercettibile silenzio di un respiro se n’è andata.
Le lacrime mie e di Daniela solcano i nostri visi. È FINITA. Vivi ci ha lasciato.
Vivi non soffre più. Vivi non vive più.
L’abbiamo vestita di rosso con la tutina che le aveva regalato una nostra
collega, “la Gibi”.
Abbiamo telefonato ai genitori. Loro non sanno, ma ci hanno fatto un bellissimo
regalo: siamo state vicino alla “nostra” bimba in modo speciale.
Il sole se n’è andato non illumina più la mia stanza, le foglie cadute sono a
terra inermi, quello che vedo sembra rispecchiare il mio stato d’animo, quante riflessioni passano nella mia mente, la morte di un bimbo, inconcepibile,
ingiusta; l’impotenza dell’uomo, del medico, dell’infermiere; il dolore di una
mamma.
La speranza di aver contribuito, seppur in minima parte, ad alleviare la sua
sofferenza, ad averle donato amore, a essere comunque lì, anche solo ad
aspettare è il raggio di sole che scalda il mio cuore e mi permette di “lavorare” come infermiera all’hospice, nonostante i dubbi, le difficoltà, le incomprensioni e le domande a cui non esiste risposta.
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Sguardi emozionanti
Elisa Capoferri
Salgo le scale, sto per entrare, è il mio primo giorno di lavoro in hospice, mi
guardo intorno, sono emozionata, di quell’emozione che è insieme spavento
e curiosità, tipica per me di quando inizio un nuova “avventura”.
Saluto la nostra caposala, le infermiere e il personale che quella mattina è di
turno e mi avvio verso quel luogo, quella piccola stanzetta, che nei giorni
precedenti, quando accompagnata da una collega ho visitato l’hospice, mi è
stata indicata e che ora riconosco, come lo spazio dove sistemare le mie
cose.
Mentre percorro il corridoio noto una signora, guarda fuori della finestra verso il giardino; è vestita, indossa una gonna e una camicetta bianca con dei
fiorellini e un golfino sulle spalle. Non indossa dunque né un pigiama, né una
vestaglia, ma già al primo sguardo mi accorgo che non ha l’aria di essere una
volontaria e tanto meno una parente.
Si volta verso di me, ci guardiamo per un breve istante, sorrido, la signora
ricambia il mio sorriso, insieme diciamo “buongiorno”; lo stesso giorno, nella
tarda mattinata, la incontrerò per un primo colloquio.
La signora Carla rappresenta ancora dentro di me il migliore augurio di benvenuto in hospice che potessi sperare: il suo sguardo e il suo sorriso mi hanno
accolta e mi hanno fatto pienamente intuire il significato del mio essere lì.
Non ho ancora detto che io per professione, o meglio, di “mestiere” faccio lo
psicologo, uso la parola mestiere perché la preferisco, rimanda ad un sapere
che non è solo quello dei libri, ma che si costruisce giorno dopo giorno anche
sulla base dell’esperienza. In questo anno e mezzo di lavoro in hospice mi
sono sentita talvolta un po’ come un artigiano che per fronteggiare le difficoltà del suo lavoro è costretto a “sporcarsi le mani”, a lasciare le certezze per
ingegnarsi e improvvisare nel tentare di trovare soluzioni nuove di fronte a
richieste sempre diverse e mutevoli.
L’espressione “sporcarsi le mani” non ha chiaramente una valenza negativa o
dispregiativa, anzi trovo che sia un buon modo per esprimere, da un lato,
l’inevitabilità del coinvolgimento emotivo che nasce dall’essere persone, anche se operatori sanitari, che incontrano altre persone che soffrono; dall’altro, lo sforzo incessante di cercare nuovi strumenti di lavoro o di riconoscere
come centrali quegli strumenti che in altri contesti sono certamente noti ma
forse più marginali.
Mi riferisco in particolare alla necessità di comunicare spesso con i nostri
malati anche senza parole.
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Storicamente la parola è stata considerata da noi psicologi come il principale
strumento di cura, oggi è noto che la cura psicologica non è fatta solo di parole
e che la comunicazione passa anche attraverso il linguaggio del corpo.
Ciò si fa ancor più evidente in alcuni contesti e situazioni, ad esempio, quando siamo immersi nell’angoscia del dolore e questo lacera la nostra interiorità, oscura i nostri orizzonti. In tal senso
“quando siamo nel dolore il linguaggio delle parole si dirada e poi si spegne
[…] è il linguaggio del corpo - al di là di ogni nostra intenzione - a gridare in
silenzio per farsi intendere e se è possibile per farsi aiutare” (E. Borgna, 1999).
Recentemente in hospice ho incontrato una paziente gravemente malata, di
una malattia che la costringeva a rimanere isolata; con lei ho potuto per un
po’ condividere, in alcuni colloqui, quanto le succedeva. In seguito, con l’aggravarsi delle sue condizioni fisiche, ma ancor più per il precipitare d’accadimenti che hanno colpito i suoi familiari, la signora ha potuto dirmi “io non ho
più parole per esprimere il dolore che provo”; da quel momento, in accordo
con la signora, la mia vicinanza si è potuta esprimere solo attraverso una
presenza “silenziosa” e discreta, segnata dalla fatica a reggere il suo sguardo
così carico e denso di sofferenza.
Ho scelto il titolo di questo convegno “sguardi emozionanti” pensando alle
persone che ho incontrato e incontro quotidianamente in hospice: malati,
familiari, amici dei malati, operatori sanitari, volontari.
Quando penso a tutte queste persone ritrovo innanzitutto molti sguardi e in
questi sguardi molte emozioni.
L’incontro e la conoscenza dell’altro avviene prima ancora che dalle sue
parole dai suoi sguardi e dai suoi gesti.
È attraverso gli sguardi che illuminano o oscurano un volto che possiamo
cogliere e riconoscere l’altro nella sua vulnerabilità, nelle sue lacerazioni,
nelle sue attese e nelle sue speranze.
Pensiamo all’esperienza originaria dello sguardo tra una madre e il suo bambino, sguardo attraverso cui la madre riconosce e accoglie i bisogni del suo
piccolo e lui può rispecchiarsi, riconoscersi e trovare i suoi confini.
Rivedo lo sguardo interrogativo di chi, consapevole di quanto gli sta accadendo, chiede con forza di sapere come sarà il momento del trapasso e di
essere rassicurato che non sarà solo; quello duro di chi è arrabbiato e non
può accettare quanto accade; quello spaventato e angosciato di chi vive la
perdita di sé e non trova speranza. Poi, lo sguardo disperato di chi è troppo
giovane per lasciare la vita e non riesce a salutare le persone che ama; quello
rassegnato e più sereno di chi ha potuto dare un senso al suo dolore; lo sguardo straziante di una madre che sta perdendo un figlio o di un figlio che sta
perdendo un genitore; quello di un fratello o di un amico che non capisce
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perché sta succedendo tutto questo; e, ancora, lo sguardo dolce di chi vuole
proteggere i suoi cari dalla sofferenza, le lacrime trattenute a fatica e gli sforzi
per non far capire all’altro.
E poi, rivedo i nostri sguardi: quello talvolta sfinito di un medico o quello
timoroso di un infermiere che, dopo aver incontrato un paziente, si chiede se
ha fatto o detto bene, se avrebbe dovuto fare diversamente; quello commosso
del volontario; penso anche al mio sguardo, che posso solo immaginare o
incontrare nel rimando degli sguardi altrui come quando, dopo un colloquio
molto faticoso e coinvolgente, qualcuno legge nei miei occhi l’emozione e
mi chiede…
Penso a questi sguardi come ad un ponte fra mondo interiore e mondo esteriore, tra il sé e l’altro, tra noi e loro; lo sguardo appartiene alla nostra interiorità, guardiamo l’altro, il mondo sempre da un luogo interno, silenzioso, nei
volti si adombrano i linguaggi dell’anima, si sigillano inquietudini, lacerazioni, domande, nello sguardo si esprime l’attesa di qualcosa o qualcuno che sta
per arrivare o accadere, si esprime l’attesa di essere guardati, considerati,
accolti, nei volti e negli sguardi risuona quanto accade fuori o nel proprio
corpo.
Ascoltare e decifrare questi sguardi e questi volti è insieme facile e difficile:
facile perché, ribadisco, lo sguardo fa parte di un linguaggio primario, ci si
può intendere con uno sguardo; difficile perché le espressioni e le allusioni di
questi sguardi rievocano in noi le stesse emozioni, inquietudini, angosce che
chiedono di essere accolte, sopportate, tollerate ed è nel nostro sguardo, come
in un gioco di specchi, che l’altro legge le risposte o le mancate risposte alle
sue attese.
Perciò
“è negli sguardi degli altri che leggiamo le tracce dei nostri sguardi e gli altri a
loro volta leggono nei nostri sguardi le tracce dei loro sguardi… I nostri sguardi ci immergono in una cascata di relazioni con il mondo delle persone e
delle cose: dalle quali rinascono stimolazioni senza fine in una circolarità
tematica che ci unisce gli uni agli altri” (E. Borgna, 1999).
Infine, nel ripercorrere questo tempo in hospice, non posso non pensare all’accompagnamento nell’esperienza radicale della perdita.
Mi riferisco alla fatica dei famigliari, degli amici, o alla nostra fatica ad accettare che lo sguardo ad un certo punto non ci sia più, quando gli occhi si
chiudono perché sono stanchi di vedere o perché non possono riaprirsi più.
È il dolore disperato o sommesso che spesso si traduce verbalmente nell’espressione “non potrò più vederlo o vederla”, che è al contempo il dolore di non
essere più visti, da quello sguardo che, guardandoci, ci vedeva e riconosceva.
Vorrei chiudere ritornando allo sguardo della signora Carla che sorridendomi
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mi accoglieva. Un accoglimento che ha permesso di tollerare i miei timori, le
mie titubanze, i tremori. Il suo sguardo non c’è più, come molti altri, ma si è
tramutato in una traccia che posso ripercorrere per fare altri passi, altri pezzi
di strada con chi incontrerò.
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Un cammino di ricerca tra emozione e razionalità
Aurora Minetti
Spesso mi hanno chiesto le motivazioni che mi hanno spinta ad impegnarmi
per un periodo così lungo, tre anni, in un reparto ospedaliero che accoglie
malati terminali in fase avanzata e altrettanto spesso ho avuto difficoltà a dare
una risposta chiara. Dopo circa sei mesi di mia ricerca in hospice ho iniziato
a comprendere meglio cosa mi spinse ad indagare un terreno così apparentemente lontano da questa fase della mia vita, con i miei trentatre anni, un
matrimonio e la nascita delle mie due bambine. La risposta, nonostante possa
apparire paradossale, risiede anche nella mia vita presente e nella coscienza
e insieme paura, dell’inevitabilità della fine.
Sin da quando ero bimba, di fronte ad una situazione di morte, la prima
reazione di chi mi stava vicino (con l’evidente intento di proteggermi) era
allontanarmi da essa sia fisicamente che emotivamente; ciò comportava il
ritrovarmi, senza capirne il motivo, in un luogo diverso e a parlare di qualcosa d’altro.
Parlare di morte rappresenta senza dubbio una cosa non facile, sia per la sua
profondità, ma anche per la pluralità dei punti di vista che si possono adottare
(una ricerca storica, antropologica, sociologica, psicologica, ecc..).
Di conseguenza sono cresciuta, come molti, con la rimozione-paura di morire; la morte rappresentava un fenomeno “altro” del quale era meglio non
approfondirne il senso.
Utilizzando le parole di Epicuro:
“Quando siamo noi non c’è la morte; quando c’è la morte, non siamo più noi.
Nulla dunque essa è per i vivi e per i morti, perché in quelli non c’è, e questi
non ci sono più”.
Conseguita la laurea in Sociologia e iniziato un percorso presso l’Università
degli Studi di Bergamo, nel maggio 2005 ho intrapreso un Dottorato di ricerca in Scienze della Comunicazione presso l’Università della Svizzera italiana
di Lugano.
Inizialmente il focus della ricerca di dottorato era centrato sull’analisi da condurre sui pazienti, prevalentemente oncologici, giunti in hospice in fase terminale; l’obiettivo era lo studio delle loro narrazioni per poi giungere, in una
seconda fase, ad una comprensione e successiva rielaborazione dei loro
“bisogni”.
Tali risultati avrebbero potuto diventare uno strumento di lavoro principal-
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mente per gli operatori, che lavorano in hospice, per i parenti dei malati in
fase ultima e per tutte quelle persone che, attraverso il volontariato, ricoprono diversi ruoli all’interno di questa struttura.
La metodologia di ricerca da applicare allo studio era di tipo qualitativo,
ritenuta la più appropriata poiché volta a mettere in risalto i diversi aspetti ed
eventi della vita dell’hospice e ad analizzare forme come la sua cultura organizzativa, i suoi valori e le dinamiche di costruzione di procedure istituzionalizzate.
In questo modo si è tracciato un approccio di tipo etnografico, basato inizialmente sull’osservazione passiva del contesto hospice, per poi passare a un’osservazione partecipante nel momento in cui avrei iniziato ad instaurare relazioni sia
con gli operatori che con i pazienti e i loro parenti. L’intervista narrativa al malato
sarebbe stato uno strumento successivo.
Tutto iniziò il giorno in cui mi presentai per la prima volta in hospice e iniziai
a raccogliere informazioni e a trascriverle su un diario di cui desidero riportarne il mio primo giorno.
14 maggio 2005, ore 9.30
Oggi mi sono inoltrata in hospice. La giornata era soleggiata e accompagnata
da una piacevole temperatura primaverile. Parcheggiata la macchina nel piazzale adiacente il padiglione 14, ho iniziato ad incamminarmi lungo il viale
centrale. Mi ero recata in questo luogo altre volte, vicino c’è anche l’A.S.L. e
ricordo l’inaugurazione dell’hospice. Noto molti alberi secolari che fanno da
cornice a una infinità di cartelloni segnaletici: “consultorio familiare”, “infettivi”, “camera mortuaria” e così via. Il contrasto è evidente.
Mentre mi incammino cerco di fare ordine tra i miei pensieri e mi domando
chi incontrerò per primo, cosa gli dirò, ma soprattutto come mi presenterò,
con quale ruolo.
Per fortuna, superato il portellone d’entrata principale trovo il dottor Cossolini, il primario, il quale mi indica dove andare. L’impatto è forte: un lungo
corridoio luminoso è l’unica strada da percorrere e io vado. Sulla mia sinistra
ci sono sei camere, sono tutte occupate, lo capisco perché le porte sono o
socchiuse o aperte e noto delle persone. Sulla mia destra ci sono delle grandi
vetrate che danno verso il giardino che circonda l’hospice. La cosa che mi
stupisce maggiormente però è il silenzio e la quasi totale assenza di via-vai di
dottori o infermieri.
Finalmente trovo la sala riunioni e lì aspetto. Dopo qualche minuto mi raggiunge il primario e la nostra prima chiacchierata prende velocemente il via:
la prima questione che egli mi pone è l’ufficializzazione del mio ruolo tra gli
operatori all’interno del reparto e mi comunica la data della prossima riunione d’équipe, giorno in cui mi presenterò.
Dopo sei mesi di ricerca vissuta in hospice ho deciso, insieme con l’équipe
che segue il mio progetto di dottorato, di modificare il focus e le modalità
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d’indagine. Iniziare un progetto di ricerca in una determinata maniera non
significa che tale iter sia quello più giusto e, soprattutto, che sia il più adatto a
cogliere i significati ricercati.
Giorno dopo giorno, seguendo il primo approccio, sentivo sempre più la necessità di ascoltare anche altre persone coinvolte in questo momento della
malattia: il tempo che avevo a disposizione per stare con i malati spesso era
molto breve (a causa della loro condizione fisica) e riuscire ad instaurare un
rapporto d’empatia, tale da rendere le nostre conversazioni finalizzate allo
scopo della ricerca, risultava difficilissimo e comunque non sufficiente per
arrivare ad una comprensione profonda del bisogno espresso in quella particolare fase della vita.
A questo proposito desidero chiarire cosa intendo per “bisogni”, quelle esigenze, cioè, non solo fisiche, ma anche psicologiche, che i malati esprimono (più
o meno in maniera esplicita) quando si avvicinano alla fine della vita. Quando
si parla di bisogni, dipendentemente dal contesto, questi assumono accezioni
positive o negative, basti pensare al “bisogno” del neonato ( che in questo caso
ci rimanda a sensazioni affettive, amorevoli e naturali) e al “bisogno” del morente ( che invece viene identificato come un qualche cosa di innaturale e da
nascondere).
In questo senso, parlare di bisogni diventa doppiamente significativo, per l’utilizzo che se ne farà dopo averli ricercati, ma anche per il significato che gli si
vuole attribuire, ovvero non negativo come il senso comune ci suggerisce,
bensì semplicemente naturale.
Ritornando alle problematiche descritte precedentemente, ciò di cui avevo
bisogno era di maggior materiale empirico, su cui poi sviluppare delle riflessioni, e che racchiudesse più prospettive. A questo proposito ho trovato grande conforto negli studi sociolinguistici della performance narrativa, che sottolineano il carattere essenzialmente temporale della narrazione, il suo sviluppo e la sua risoluzione mediante le interazioni tra diversi personaggi, che non
fossero solo i malati, bensì, come nel mio caso, anche gli operatori e i parenti
dei malati.
Laddove molti autori della tradizione empirista avevano considerato la malattia come parte della natura, estranea alla cultura, gli studiosi interpretativi hanno posto al centro del loro interesse analitico la relazione tra cultura e malattia.
La narrazione, in questo senso, non è solo ciò che viene rappresentato in una
storia completa, bensì anche la storia fatta propria dal pubblico (i medici, gli
infermieri, i caregivers, i volontari, ecc.), il quale “riceve il messaggio ricomponendolo”. Ogni discorso, cioè, è pragmaticamente situato nelle relazioni sociali e tutte le asserzioni sull’esperienza della malattia sono situate in pratiche
linguistiche che fanno parte della narrazione della vita e della sofferenza. La
malattia è così il frutto di un modello esplicativo, non un’entità, e ogni “evento
di malattia” chiama in causa molteplici contesti e interpretazioni.
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Così, l’obiettivo della nostra ricerca è rimasto l’osservazione dei bisogni, ma
attraverso l’analisi del modello teorico (che nel nostro caso nasce dalla filosofia delle cure palliative) e della ricostruzione e realizzazione dei suoi modelli
operativi, il tutto finalizzato a proporre nuove linee guida per lo sviluppo
delle competenze professionali degli operatori sanitari impegnati in contesti
di medicina palliativa.
Parlare di iter standardizzati può certamente provocare perplessità o addirittura disapprovazione da parte di molti, ma ritengo che attraverso l’applicazione di procedure condivise e generalizzabili si possa approdare successivamente a percorsi ad personam, percorsi che mirano al raggiungimento di
un’elevata qualità di vita inseriti comunque in un contesto ospedaliero, così
diverso da quello domiciliare.
Ecco quanto mi propongo di fare, consapevole del fatto che in itinere posso
trovarmi nuovamente di fronte a cambiamenti anche radicali, ma ritengo che
tutto questo sia parte di un percorso di ricerca non fine a se stesso.
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Il frastuono del silenzio: metafora di un ascolto interiore
Maria Francesca Pasinelli
“Il silenzio ha ancora in sé una virtualità comunicativa e una dimensione di
senso? Cosa si nasconde in un silenzio, in uno sguardo che sostituisce la parola e si fa indicibile: si pietrifica in una condizione di silenzio? Cosa si anima,
cosa vive, nella persona che ho dinnanzi a me, sana o malata, triste o (almeno
apparentemente) gaia, disperata o felice? Non riesco ad avvicinarmi agli altri,
ad un’altra persona, se non conosco (se non cerco di conoscere) l’effimera,
ostinata, realtà del silenzio” (E. Borgna, 1999).
Nell’immaginario comune, il silenzio rappresenta un fenomeno umano che
può assumere differenti significati: esso è percepito in modo negativo quando
è intollerabile nel caso in cui rimanda al vuoto dell’esistenza, al fatto che può
nascondere sofferenza, oppure se rinvia all’angoscia di non sapere comunicare agli altri e con gli altri. Talvolta ricorda l’attesa impaziente di un incontro
grazie alla quale spezzare il gelo della nostra solitudine. È percepito in modo
buono, invece, quando diventa necessità di isolarsi dalle chiacchiere quotidiane, quando è auto-riflessione, conoscenza, raccoglimento, altrimenti un
mezzo per recuperare la calma e la comprensione per ciò che si sta vivendo.
Per altri, psicologi e psichiatri in particolare, il silenzio è soprattutto una chiusura al mondo, la negazione dell’incontro interpersonale, un sintomo depressivo, un tempo vuoto.
Il titolo di questo mio racconto autobiografico, Il frastuono del silenzio, vuole
racchiudere l’idea che esso contenga anche elementi creativi, che non sia
affatto muto e inesplorabile, privo di suoni e immagini. Mi sono persuasa, al
contrario, che racchiuda relazione, discorso, memoria e desiderio se lo si
lascia espandere e vivere dentro di noi. Ma da dove deriva questa mia convinzione?
Certo, non proviene da letture approfondite di filosofi ma da un discorso più
debole e modesto. Da una storia di vita più semplice. In altre parole, è stato
generato da una triste esperienza che ha segnato in modo profondo la mia
vita, quella di mio padre e dei miei familiari. A mio padre Giovanni, allora
cinquantottenne, era stata diagnosticata una malattia inguaribile e degenerativa chiamata Morbo di Alzheimer. È una forma di demenza che a mano a
mano ti allontana dal mondo e dalla tua stessa identità. Per chi di voi non
conoscesse gli effetti di questa patologia mi basta ricordare che è un precoce
e progressivo declino delle capacità cognitive; non come avviene, però, nell’invecchiamento naturale, ma piuttosto, come precoce e rapido decadimen37
to totale delle funzioni corticali superiori. In pratica sono colpite la memoria,
la capacità di risolvere i problemi quotidiani, la destrezza motoria. Vengono
meno il controllo delle reazioni emotive e la capacità di servirsi del linguaggio per esprimersi e comunicare. Tutto questo comporta una lenta e irreversibile modificazione della personalità e del comportamento. L’ammalato non è
più in grado di rivestire quei ruoli che prima gli erano propri. Per me, per noi,
è stata un’esperienza penosa guardare accadere tutto questo. Ho desiderato
sfuggire al dolore per quel morire evocato ogni giorno: mio padre stava perdendo tutto il suo mondo e noi perdevamo lui.
Noi, come affetti, eravamo divenuti un’idea perduta nella sua memoria.
Sempre più spesso ho sentito il bisogno di isolarmi da tutto. Volevo nascondermi anche da me stessa. Volevo tacere per non aprire nuove ferite. Così,
ricercavo tutte quelle situazioni di solitudine che mi alleviassero la tensione
emotiva. Mi allontanavo sperando di trovare il senso di ciò che si stava muovendo dentro di me. Il silenzio si era trasformato in un rifugio in cui rintracciare una percezione più chiara di me come figlia, come madre, come compagna, come sorella. Era diventato un meccanismo di difesa per soccorrere la
mia interiorità, confusa dalla cascata di emozioni che mi stavano turbando il
cuore e la mente. Il silenzio continuava a scavare nella mia memoria e spine
dolorose avevano preso ad affiorare.
Con il passare del tempo, però, il rimpianto e il rimorso avevano iniziato a
lasciare spazio ad orizzonti nuovi dentro di me, come se i conflitti si fossero
ridotti e il cuore avesse riordinato i suoi battiti. È stato là, in quegli angoli di
me stessa, che ho iniziato a comprendere quanto il silenzio sia fonte di segni
e di indicazioni, quanto sia luogo di trasformazioni e di creatività.
Le mie voci interiori avevano iniziato a dialogare e ad esprimere una melodia
vivace. Tutto questo anche quando la mia mente mi pareva distante dal mondo. È stato un piacere profondo accorgermi che non ero stata mai sola e che
nella natura di certi silenzi abitavano volti e sguardi provenienti dal passato,
fatte di una sostanza calda che me le rendevano indispensabili. Altre volte
esse mi giungevano sotto forma di fragorosi ricordi, di tracce che continuavano a vivere nella memoria. Parevano giungere da lontananze abissali, un po’
annacquati dal trascorrere del tempo, ma così luminosi e confortanti per me.
Dentro il silenzio, le voci sembravano disperdersi, però, non so in quale modo,
esse mi attendevano in un luogo in cui la paura di essere abbandonati non
c’era. Intanto la malattia di mio padre stava avanzando nel suo processo di
annientamento. I primi disturbi comportamentali li abbiamo registrati con
assoluta impotenza. La sua disattenzione era fraintesa per disinteresse, mentre la dimenticanza di nomi e di oggetti per un affaticamento psicofisico. Lo
spazio che ci circondava per noi restava familiare, ma per lui era divenuto
estraneo e minaccioso. Il suo linguaggio si era impoverito ed era diventato
faticoso interagire con lui. Anche i suoi gesti avevano perduto in precisione e
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in finalità. Le chiavi di casa, per esempio, erano divenute degli oggetti misteriosi e inutili perché per mio padre avevano perduto il loro scopo.
Il deterioramento causato dalla malattia si era aggravato fino alla comparsa di
una sindrome, detta “agnosia”. Un fenomeno mortifero perché esso si era manifestato con l’incapacità di riconoscere i propri cari, con l’impossibilità di riconoscere anche le parti del proprio corpo.
Il mio dolore si appoggiò ad altro dolore. La morte strappava via brandelli di
vita, di identità, di speranza. Fare i conti con la sua perdita è stata una sofferenza. Smettere di attendermi reciprocità è stato altrettanto amaro. Trasformarmi da figlia in madre nei suoi riguardi è stato prima innaturale e insolito.
Poi è stato inevitabile e necessario. Questo è stato un altro passaggio di cambiamento importante, infatti quando le parti “vecchie” di me hanno accettato
di morire, quando le mie attese si sono rimpicciolite, ho compreso che potevo provare a relazionarmi con lui in modo diverso. Tentare di ascoltare in
modo nuovo i suoi farfugliamenti, di leggere i movimenti espressivi delle sue
mani, di cogliere quale sguardo era ancora vivo nei suoi occhi e cosa comunicasse. Mi sono addestrata a decifrare emozioni di cui prima avevo paura, a
fare esperienza di nuovi gesti e di sguardi nuovi con i quali avvicinarmi in
modo migliore al suo bisogno.
Più di ieri, oggi mi è difficile non avvertire quanto mormorio faccia il silenzio
dentro di me.
“Ma nel silenzio si possono ascoltare voci segrete, voci che giungono da un
altrove misterioso, voci dell’anima che nascono dalla più profonda intimità e
che portano con sé nel nostro mondo, significati e risonanze talora indecifrabili che l’ermeneutica ci aiuta a decifrare” (E. Borgna, 1999).
In questo modo, durante la malattia di mio padre, il silenzio non mi è più
parso privo di significati, ma è divenuto un elemento prezioso che ha segnato
in me un profondo cambiamento, non solo perché ha ripulito la memoria
dalla pesantezza, ma perché mi ha anche consentito di rielaborare quegli
aspetti lasciati nell’ombra e mi ha permesso di narrare la nostra storia con gli
occhi addolciti dal ricordo.
Quanto vissuto personalmente, quanto conquistato con fatica nel corso degli
anni, quanto elaborato durante la malattia di mio padre, vale a dire la trasformazione del silenzio da sofferenza e distacco dal mondo ad occasione di
rinascita e sviluppo, ha ottenuto un’ulteriore conferma durante l’esperienza
vissuta all’hospice. L’anno scorso, in occasione del corso universitario di Pedagogia Sociale del prof. Lizzola ho scelto di partecipare, insieme con altre
compagne di corso, ad un seminario organizzato presso la struttura dell’hospice. Il motivo di quella mia scelta presumo avesse in sé più ragioni: alcune
della mente altre del cuore. Forse andavo semplicemente alla ricerca di un
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confronto con la morte e con il morire degli altri. E mi domandavo quanto
tempo occorresse per elaborare il lutto di una perdita e quanto coraggio per
accettare il nostro destino umano. Mi tornano alla mente i pensieri illuminanti di Gadamer a proposito delle malattie gravi:
“Oggi, le malattie terminali e croniche rivestono sempre più un ruolo di primo
piano nell’interesse medico perché non si è in grado di eliminarle. In realtà il
più cronico, fra tutti i malanni, è la via verso la morte. Imparare ad accettare
questa nostra lontana destinazione rappresenta il massimo compito dell’uomo” (H. G. Gadamer, 1994).
Così, durante quell’esperienza all’hospice, mentre attendevo che il tempo, le
circostanze e gli incontri mi aiutassero a comprendere la vita, ho ritrovato
alcuni aspetti che mi hanno rimandato alla natura di certi silenzi, di certe
attitudini e di certe elaborazioni che ho vissuto durante la malattia di mio
padre. Pure in quel luogo il silenzio era sorprendentemente carico di segni e
di significati nuovi. Oltre a ciò il personale era impegnato a percepire il paziente non come un caso clinico al quale somministrare semplicemente dei
farmaci per lenire la sua sofferenza, al quale fornire un’assistenza congelata
nelle procedure rassicuranti, bensì era vissuto come una persona cara a cui
prestare il giusto ascolto, la giusta sensibilità umana. In questa “casa istituzionale” ritrovavo una partecipazione e un affetto che sembravano intrecciare
storie di vita in cui la morte dell’altro diventava anche la propria morte (quella degli operatori, dei volontari, dei parenti…) proprio perché il paziente non
era sentito come una persona estranea di passaggio nella propria attività di
cura, ma era vissuta come un possibile fratello o una probabile sorella. Gli
operatori non erano impegnati a guardare solamente con gli occhi della ragione tecnica, ma anche con occhi del cuore per accogliere nel silenzio i
bisogni del malato che chiede di essere soprattutto accolto e compreso. All’hospice, attraversando i corridoi del reparto, raccolta nel pudore che il luogo mi suscitava, ho sperimentato frastuoni teneri di voci affettuose degli operatori e dei parenti rotolare nell’aria delle stanze, per poi guizzare fuori a
contaminare l’aria di slanci di umanità e di dedizione.
Ho percepito una moltitudine di suoni sgorgare da quelle mani e da quegli
sguardi: frastuoni amorevoli di premure e di ascolto, di sensibilità e di condivisione per colmare quello spazio abitato dalla tribolazione e dal dolore.
In quel frammento di tempo trascorso all’hospice, per cercare una risposta
alle mie domande, ho udito un frastuono tale d’umanità che per analogia mi
ha ricordato una delle tante corsie d’ospedale in cui i bimbi appena nati
gorgheggiano pianti e strillano gioia. Dopo tutto anche dove si muore il rumore dell’affaccendarsi della vita non cessa mai di esprimere il suo mistero.
Mi sto convincendo sempre più del fatto che nelle azioni di cura le parole
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sono talvolta inutili perché dicono troppo o troppo poco. Contano di più i
gesti e gli sguardi. Conta di più la leggerezza del cuore e l’incontro con l’umanità. Principalmente là, nei luoghi in cui la vita si affaccia e negli altri in cui la
vita si congeda.
Forse penserete che le mie considerazioni non sia altro che l’abbandono ad
un esercizio immaginativo, ma mi piace credere che se daremo ascolto a chi
ha bisogno di una mano amica, come ci suggeriscono le parole di una splendida poesia, ci sarà possibile udire il frastuono delle loro esistenze e della
loro unicità.
Il mondo ha un volto d’arsura
Per chi si ferma a morire:
imploriamo rugiada:
anche la gloria ha un arido sapore.
Le bandiere tormentano un morente,
ma un piccolo ventaglio,
se mano amica l’agiti
rinfresca come pioggia.
Ch’io sia al tuo fianco, quando la tua sete verrà,
per recarti la tessala rugiada
e i balsami iblei.
(E. Dickinson, 1995)
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Percorsi condivisi
Giovanna, Franca, Cinzia, Gabriella
Nella nostra società spesso succede che, chi perde una persona cara, può
contare unicamente su risorse e capacità psicologiche personali: il lutto è
vissuto in effetti come un fatto privato, un problema individuale.
Al contrario in passato, i riti e le forme del lutto avevano la funzione di permettere e facilitare l’espressione del dolore soggettivo attraverso un sostegno
psicosociale. Oggi viene a mancare l’appoggio della comunità, delle istituzioni e si ha quindi una maggior difficoltà nel superamento del lutto.
Gli operatori e i volontari all’interno di un’équipe di cure palliative, prendendosi cura non solo del malato, ma anche di tutta la sua famiglia, si fanno
carico di sostenere i familiari nell’affrontare la perdita del proprio caro attraverso la possibilità di condividere i sentimenti e creare una relazione di
sostegno, uno spazio di ascolto e di espressione che li accompagnerà anche
in seguito nella fase del lutto.
Il sostegno al lutto è quindi parte della continuità di cura, per cui l’aiuto
fornito alla famiglia durante il periodo di malattia terminale non sarà soltanto
di beneficio nell’avvicinarsi dell’evento finale, ma avrà anche un significato
nel lungo periodo.
La presenza di volontari nella fase immediatamente successiva al decesso
può essere di grande aiuto ai familiari anche solo nelle attività più semplici,
come far fronte ai problemi pratici o attraverso quel sostegno empatico che
permette loro di esprimere lo stato d’animo del momento, sia esso tristezza,
dolore, rabbia o pianto.
In hospice accade spesso che tra volontari e parenti si instauri una relazione
empatica tale da consentire un accompagnamento che continua anche dopo
il periodo del lutto attraverso relazioni di tipo amicale o semplici contatti
telefonici.
Da queste singole e spontanee esperienze è nata l’idea di costituire un gruppo in grado di fornire sostegno ai familiari, basandosi sull’esperienza dell’auto mutuo aiuto.
Ma perché un gruppo per elaborare la perdita? In primo luogo perché il gruppo ha un forte potenziale terapeutico che consente di rompere la solitudine,
con cui si vive in genere l’esperienza del lutto, e di recuperare una ritualità di
condivisione.
L’obiettivo è quindi quello di ridurre il vissuto di solitudine e di isolamento
sociale attraverso la condivisione con “compagni di viaggio” con cui poter
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imparare a riconoscere e a tollerare il dolore della perdita, mediante la creazione di uno spazio di ascolto attivo, paritario e quindi di sostegno reciproco.
L’aiuto che si dà e che si riceve permette di far emergere il bisogno umano di
comunicare, di manifestare il proprio pesante carico emotivo interiore, che
spesso non si può esprimere all’esterno perché familiari e amici non lo tollerano troppo a lungo.
Il gruppo raccoglie esperienze di vita di ogni partecipante, perciò la relazione di aiuto non è unilaterale ma reciproca ed è basata sul confronto e il
sostegno fra persone che stanno vivendo, od hanno vissuto, realtà simili.
Il gruppo è “aperto”: può accogliere in ogni momento nuovi partecipanti, i
quali possono trovarsi in fasi differenti del processo di elaborazione.
Ogni persona può esprimere liberamente le proprie emozioni, le proprie sensazioni sicura di essere accolta, ascoltata con attenzione e rispetto e, più di
tutto, in assenza di giudizio. Parlare del proprio dolore con chi ci può comprendere, perché sta vivendo lo stesso problema, aiuta ad imparare a convivere con la sofferenza e a ritrovare un nuovo equilibrio.
La presenza dei volontari, necessaria in fase di attivazione del gruppo, continua poi quale elemento garante, partecipe, mai giudicante e come riferimento della memoria e dell’ esperienza di crescita del gruppo.
Con il tempo la partecipazione al gruppo fa nascere amicizie, vere relazioni
d’aiuto, e, facendo tesoro delle esperienze comuni, si è portati ad affrontare
nuovi percorsi per essere d’aiuto ad altri, con sofferenze più recenti e acute,
non per dimenticare, ma riuscendo a trasformare il dolore in una risorsa utile
per sé e per gli altri.
Riportiamo la testimonianza diretta di uno dei due gruppi di auto mutuo
aiuto, costituitosi a Bergamo circa un anno fa, per l’elaborazione e il superamento del lutto:
“Siamo in nove (casualmente solo donne), qualche volta sette o otto se ne
manca qualcuna, intorno a una tavola rettangolare, ma sarebbe meglio chiamarla tavola rotonda perchè qui nessuno presiede, nessuno interpreta, nessuno insegna: siamo tutte eguali e diverse con il carico della nostra esperienza
personale.
Intanto ci guardiamo, dopo esserci salutate vociando affettuosamente, e di
nuovo incontriamo le nostre immagini a distanza di una settimana dall’ultima
riunione.
Ognuna custodisce un lutto proprio o l’esperienza del dolore altrui al quale si
è avvicinata per condividerlo. Infatti, tre del nostro gruppo, Cinzia Franca e
Giovanna, sono volontarie dell’Associazione Cure Palliative, e il loro compito implica anche l’assistenza e il supporto ai parenti degli ammalati in fase
terminale e dopo il decesso. Hanno contribuito all’avvio del gruppo e frequentano i nostri incontri per meglio comprendere le dinamiche psicologiche del lutto e del suo superamento. Inoltre c’è Miriam, assistente sociale, una
giovane, silenziosa presenza che fa gli onori di casa, poichè siamo ospiti nella
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sala riunioni dell’Associazione Paolo Belli.
Questo manipolo di donne che ha scelto d’incontrarsi una volta la settimana,
costituisce uno dei due Gruppi A.M.A. in Bergamo per l’elaborazione del
lutto, vale a dire un gruppo di auto- mutuo-aiuto nato per spontanea aggregazione al termine di due serate di convegno durante le quali avevamo appreso
che cosa sono i gruppi e le loro diversificazioni, i loro scopi e la loro caratteristica di base: essere un incontro libero, informale, paritario, fra persone che
desiderano parlare dei loro problemi o ascoltare le esperienze di altri.
Non ci sono psicologi fra noi; non ci sono neanche esperti che interpretano le
situazioni e le reazioni a modo loro: siamo libere di parlare, ascoltare o essere
semplicemente presenti. Questa parità, questa libertà di parola a poco a poco
aiuta anche quelle fra noi che hanno difficoltà ad aprirsi, a intervenire, a dire la
loro storia e il loro “magone”, genera una corrente di simpatia che non è invasiva ma si percepisce e genera una comunicazione spontanea e amichevole.
Il nostro gruppo è dedicato non solo alla elaborazione e superamento del
lutto, ma anche della perdita in senso più ampio, sia essa di familiari che di
amici, di un amore, di un lavoro, di qualcosa che ha rappresentato molto
nella vita. Sono infinite le perdite che si possono totalizzare nell’esistenza di
ognuno. Talora sono perdite antiche e misconosciute, come quelle che ci
hanno colpito nell’infanzia o nell’adolescenza, talora abbiamo sofferto per
sensi di colpa, tradimenti da parte di chi godeva della nostra fiducia.
Sono momenti che hanno segnato più o meno profondamente la nostra anima
e dei quali non c’è né tempo né costume di parlare. Ma resta tuttavia il bisogno, un bisogno profondo spesso ignorato nei rapporti con familiari e amici.
E qui noi parliamo. Rivisitiamo la nostra vita. A ruota libera, in italiano o in
dialetto, riandando a episodi dapprima vicini e penosi, poi, quasi superando
momentaneamente il dolore, ci raccontiamo a vicenda, camminiamo su e giù
nella nostra vita ricordando episodi dimenticati, anche buffi, mostriamo delle
fotografie, esterniamo la nostra fede o i nostri dubbi, con una libertà che, forse,
non abbiamo conosciuto prima. Perché di questo si parla: si parla della vita.
Possono sembrare chiacchiere di donne, che qualche volta sono un po’ garrule, ma tutte avevamo gli occhi lucidi quando Marinella con la sua parlata
bergamasca ci diceva come in poco più di un mese avesse perduto marito e
figlio: ‘ol me scet’, singhiozzava ‘il mio ragazzo’. Oppure mentre Carla, uscendo
da un silenzio di anni, riandava pacatamente alla perdita del figlio, dolore
che non aveva potuto nemmeno condividere col marito. Oppure ancora, quando Antonella e Marcella rievocavano le ultime ore vissute con i loro uomini,
l’una con la serenità della fede, l’altra con lo smarrimento umano di un dolore
recente e palpabile. Chiacchiere inutili, fine a se stesse? Qualcuno può anche
porsi queste domande, ma noi no.
Da che ci incontriamo abbiamo visto risultati promettenti: alcune di noi, che
all’inizio si limitavano a ascoltare, non tengono più il dolore murato nel loro
intimo, ma parlano, si raccontano, sono più sciolte e quasi rifiorite nel vestire,
nella cura di se stesse. Piccole cose, ma segni della vita che riprende. E, quando usciamo dalle nostre riunioni, siamo più serene, più leggere. Sembriamo
un gruppo di ragazze che camminano più spedite e a voce alta si danno
appuntamento per fare una passeggiata o bere un caffè insieme. ‘Ci telefonia-
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mo’, dice una. ‘Ci sentiamo’, risponde l’altra. E questo è un modo di dirci che
possiamo chiamarci durante la settimana, sentire una voce amica. Sappiamo
bene che ci sono lutti, perdite incolmabili come un pozzo profondo; ma giorno per giorno, quasi goccia a goccia, l’acqua della vita riaffiora”.
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Insieme in silenzio
Chiara Soloni
“Vado in un posto lontano
Dove non può venire
Nessuno di voi”. Marco, 8 anni
(M. Jankovic, 2004)
Una vacanza inattesa, in un periodo diverso dall’usuale: ottobre, con tuo
marito e tuo figlio che cresce a vista d’occhio.
In questo momento così strano, la partenza, ricevo un messaggio sul telefono:
“Da questa mattina Laura correrà nei giardini del Paradiso”. Mi crolla un
masso addosso. Silenzio. Riemerge la professione che amo.Sei sempre medico, mi dico, anche in vacanza.
Laura è una bambina di non ancora tre anni, non ha mai potuto imparare a
correre, da più di un anno lotta contro una malattia inguaribile, mamma e
papà lottano con lei. I genitori, giovani e belli, hanno fatto la coraggiosa
scelta di riportare Laura a casa: hanno rivoluzionato appartamento, ritmi quotidiani e lavorativi per vivere la loro vita familiare.
Sette intensi mesi sono trascorsi fino a quando, e non vorresti mai succedesse,
Laura senza disturbare nessuno è passata dal sonno al sonno perenne. Mamma e papà hanno trovato Laura che dormiva.
La morte fa star male tutti, non si è mai pronti, quando poi riguarda un bambino è ancora più triste, annientante.
Come medico mi arrabbio: bisogna combattere; come medico neo palliatore
mi dico: curare si può e si deve; come mamma ci sto male e penso al nostro
bambino.
Quando unisco tutte queste cose mi dico: impara e ascolta questi bambini
che lottano per la vita, impara da questi genitori così coraggiosi che soffrendo
supportano e incoraggiano questa loro piccola vita che li sta abbandonando.
Cosa dirà un bambino che si ammala? Cosa penserà della vita quando avrà
dolore? Cosa penserà dell’Uomo quando gli metterà addosso delle macchine
che lo aiutano a vivere ma che gli danno anche fastidio? Cosa penserà un
bimbo malato quando non avrà le forze per ridere, giocare, colorare, correre?
Come staranno mamma e papà quando vedono la loro creatura così? Cosa
augurare loro? Solo la silenziosa presenza può essere preziosa.
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“Io non voglio morire
Ma ho paura di vivere”. Edoardo, 7 anni
(M. Jankovic, 2004)
Claudia è una piccola bimba che è arrivata con una bella vestina bianca di
pizzo Sangallo, confezionata da una nonna, proprio per l’occasione del trasferimento dal reparto al nostro hospice.
Claudia è una florida bimba di due anni appena compiuti, resterà con noi
meno di due mesi.
Ha una mamma sorridente, ha promesso alla sua bimba di sorridere sempre e
di cercare di essere serena.
La fatica di cercare di essere serena con Claudia è immensa, la mamma è
forte e molto grande nei confronti della malattia di Claudia ma anche di tutte
le altre vicissitudini correlate.
La mamma di Claudia nonostante tutto riesce ad essere sorridente.
Ci si sente veramente impotenti di fronte a qualsiasi sofferenza soprattutto di
fronte a chi non può dirti ciò che sente. Di fronte a tutto ciò non resta che
condividere la sofferenza interiore.
Sollevare dai sintomi apparenti i bambini e far sentire loro l’amore, il calore
della nostra presenza.
Amore e calore per i piccoli e presenza per mamma e papà che non devono
sentirsi soli nell’affrontare questo travaglio della morte.
Presenza fatta di silenzi, di discorsi chiari e concisi, di verità dette “fuori dai
denti”, di impegno medico-sanitario a ridurre i sintomi del bambino, presenza anche di condivisione della fatica quotidiana e della sofferenza che è anche dei sanitari.
Non ci si può abituare alla sofferenza in generale e tanto meno a quella di un
bambino, come fare per aiutarlo?
L’ascolto deve essere alla base della nostra terapia: ascolto del bambino e
della famiglia, ascolto non solo delle parole ma di tutto ciò con cui noi comunichiamo: corpo, volto, occhi, mani, disegni, carezze, scatti d’ira, silenzi,
musiche, pianti.
Ascoltare in silenzioso rispetto tutto ciò che i bambini ci dicono.
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DRAMMATIZZAZIONE
Testi tratti da “Il libro dell’hospice”
Associazione Teatro d’Occasione di Bergamo
Attori: Ferruccio Giuliani,
Paola Guidotti,
Sara Medini,
Renata Pozzi
Diego Rovetta,
Giovanni Soldani
Alle percussioni: Oliviero Cossali
Alle tastiere: Oscar Cossali
Regia: Piero Marcellini
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La terra è intrisa di pianto.
Sono le lacrime nostre.
La rugiada della terra.
Per me invece tutte le stagioni
Stillano l’amara pece dei pioppi
Troppo colpiti dalla bufera.
A me il sole rovina le mani
Il viso, produce altra sete,
mi fa dentro il deserto.
Il melograno è già fiorito:
Il mattino riprende carne
Nelle dolci fragole.
Il sole è vino per la lucertola,
ubriaca se ne sta tutto il giorno
sulla pietra – sola paura
la presenza dell’uomo
Sono un stelo arso
Un albero bruciato
In mezzo a una brughiera:
almeno sul ramo più scarno
una cicala cantasse!
(David Maria Turoldo)
Sara – Cara Kika, sono grata al Signore per averti conosciuto: con il tuo impegno tenace hai realizzato un grande sogno: l’hospice, struttura pubblica che
rende più civile e serena la morte di pazienti afflitti da molte sofferenze, ma
soprattutto hai rappresentato per i volontari un punto fermo e un esempio di
coerenza, anche quando la tua malattia progrediva.
“Per questo non mi lamenterò di averti perso: ringrazierò di averti avuta.
Perché il perdere è una vicenda contingente, ma l’avere è assoluto”.
Adesso credo che tu sia in un posto tranquillo; ma sono certa che continuerai
a vivere dentro il cuore di chi ti ha voluto bene.
Erika.
Giovanni – Si dice che alla fine della vita bisognerebbe scrivere un libro.
Per raccontare la tua (sacrifici, sofferenze, tribolazioni, fatiche) ce ne vorrebbero almeno due.
Davide
Renata – Carissima Kika. Senza di te, la mia presidente, io mi sento smarrita e
orfana: non ho più il mio punto di riferimento, che eri tu, Kika.
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Ho un rammarico: quello di non averti potuto abbracciare per l’ultima volta.
Però tu lo sai: nella camera ardente ho potuto rivederti per poco, il tempo
utile per darti un bacione sulle tue “guanciotte”. Riposa in pace, piccola,
lassù nei Campi Elisi! Arrivederci.
Giulia
Paola – Cara Kika, troppo presto ci hai lasciato; ma il tuo esempio rimarrà in
noi. Spero che tu da lassù continuerai a illuminare le nostre menti e i nostri
cuori per proseguire il cammino che tu con tanto amore ci hai insegnato. Da
un’amica, che sperava proprio che tu ce la facessi a sconfiggere quel brutto
male, un grande abbraccio.
Marta
Sara – Kika, hai affrontato la tua malattia con un coraggio e uno spirito davvero ammirevoli. L’amore, la tenacia, la grande realizzazione dell’hospice e
quanto hai fatto per la tua e nostra associazione resteranno per sempre nei
nostri cuori. Grazie.
Patrizia
Renata – Con te, nocchiero di questa barca, viaggiavamo sereni.
Ora, da dove ci proteggi, illumina la rotta da te intrapresa per farci continuare
il tuo e il nostro viaggio in mari tranquilli.
Silvia.
Amaro poeta, sul tuo stelo riarso si è posato un fiore, sul ramo scarnificato
dalla sofferenza
si è posata una cicala a cantare l’estate.
Paola e Sara – Il est arrivé ce moment où les anges vont venir te chercher.
Tu les as tant priés durant toutes les années de ta vie.
Ils t’enméneront,
et maintenant avec eux tu pourras briller dans le ciel, pour l’éternitè.
Una nouvelle étoile va naitre dans l’infini ciel:
grace à leur venu, ce sera toi qui me regardera au travers des nuages!
È arrivato il momento in cui gli angeli vengano a cercarti.
Tu li hai tanto pregati per tutti gli anni delle tua vita:
essi ti accompagneranno,
e ora con loro tu potrai brillare nel cielo per l’eternità.
Una nuova stella sta nascendo nel cielo infinito:
grazie alla loro venuta sarai tu che mi proteggerai attraverso le nuvole!
Claire
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Per nuotare ci si spoglia;
per aspirare alla verità bisogna sbarazzarsi degli abiti
in un senso assai più intimo:
ci si deve spogliare di un abito molto più interiore,
fatto di pensieri, di idee, di egoismo e di cose simili,
prima di poterci dire svestiti abbastanza.
(S. Kierkegaard)
Ferruccio - Chi scrive questa lettera è la mamma di Giorgio.
Renata – Ve lo presento: Giorgio ha 33 anni. È un angelo. Ringrazio Dio di
avermelo dato. Il percorso della sua vita è stato molto tortuoso: Dio gli ha
dato prove molto pesanti da affrontare. La cosa più bella è che il mio angelo
le ha sempre affrontate con serenità, pur tra molte sofferenze. È meraviglioso:
sapete perché?
Nonostante lui fosse al corrente della sua malattia, aveva pure la forza di
sostenere i suoi genitori. Si trovava in questa clinica (io avevo un rifiuto per
questa struttura, ma mi sbagliavo).
Ora devo ringraziare tutte le persone che ci lavorano e che hanno aiutato a
passare sull’altra sponda con dignità il mio Giorgio.
Oggi 13 gennaio 2005 termino questa lettera con un nodo alla gola e il cuore
a pezzi: il mio adorato Giorgio è giunto sull’altra sponda.
La mamma Francesca.
Diego – Oggi il mio babbo ha avuto la brillante idea di lasciarci se n’è andato
all’Eden, lui l’ha meritato. Sono fortunato ad avere un papà come lui.
Simone
Giovanni – Ciao, Mamma! Ti stai spegnendo lentamente e io ti sto accanto.
Con me sei stata una madre perfetta, ma mi stai salutando troppo presto:
molte cose avevo ancora da dirti e da fare insieme a te.
Sei sempre stata una donna forte, anche per tutte le sofferenze che hai patito:
mai un lamento, sempre un sorriso sul tuo viso dolce; soprattutto eri sempre
pronta a fare sorridere gli altri. Ora guarderò il cielo, e vedrò una nuova stella
brillare: quella stella sarai tu, la mia mamma!
Viviana
Sara – Ciao, nonno Angelo. In questo momento di grande dolore per la nostra
famiglia, le emozioni parlano più delle parole.
È difficile accettare certe cose che qualcuno definisce “normale processo
fisiologico dell’esistenza umana”. Eh, sì: è proprio difficile; soprattutto se queste
cose arrivano all’improvviso e troppo presto.
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Forse, però non esiste un “troppo presto” o “un troppo tardi”: forse esiste solo il
fatto che Dio ha bisogno di una persona forte e di carattere accanto a sé per
affiancarlo nelle sue decisioni, e credo che quella persona sia tu.
Ci hai dimostrato, in questo periodo, cosa vuol dire vivere la vita, avere il coraggio di affrontare gli spazi bui che questa ci riserva. Il coraggio può assumere
varie forme, ma il coraggio più nobile è quello di saper affrontare il dolore, di
vivere ogni istante con grande tenacia e carattere, sempre a testa alta.
È proprio questo coraggio che mi hai insegnato, e spero di saperlo avere
anch’io. Ma sono certa che il ricordo della persona che sei stato e che sarai
sempre per me e per tutta la famiglia, prevarrà sulle paure e sui dubbi che la
vita ci pone davanti.
Ti mando, nonno, i più bei fiori del mondo.
Ornella
Diego – Ricordo di aver letto che i fiori sono fragili e muoiono in un soffio
quasi come i giorni in una vita, ma se ne hai cura dai tu un senso alla loro
breve vita.
Salutaci la mamma e continua a divertirti con noi.
Con tutto l’amore.
Anna, Serena, Paolo
Giovanni – Ciao, mamma. Nel giorno del tuo compleanno ti sei addormentata, per affrontare un lungo viaggio verso un mondo diverso da quello terreno,
dove potrai di nuovo essere vicino a tuo marito.
In questi giorni di sofferenza ti ricorderò per la tua continua voglia di voler andare.
Andare dove? Solo tu lo sapevi: probabilmente volevi ribellarti a ciò che ti
costringeva a restare in un luogo dove tu non accettavi di stare.
Piero
Bisogna dir sempre ciò che si vede.
Soprattutto bisogna sempre, e qui è difficile, vedere ciò che si vede.
(C. Péguy)
Paola – Due mani ti accarezzavano e il tuo viso piano, piano da sofferente
diventava disteso e sereno. Hai sofferto il male in silenzio, e ora non soffri più.
Ti voglio bene, mamma.
Anna
Paola – Non è stata la tua una “morte dolcissima”, perché non può essere in
alcun senso dolce morire a 44 anni. Ma te ne sei andata con dignità e rispetto,
lasciandoci nel cuore un po’ della tua forza.
Daniela
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L’eternità non è una specie di aggiunta futura alla vita,
di prolungamento della nostra esistenza all’infinito;
essa si trova già nell’intimo dell’uomo, frutto del suo agire spirituale.
(K. Rahner)
Sara – Ciao, Matilde. Questo non è un addio, ma certamente un arrivederci.
Hai tanto sofferto e Dio ti ricompenserà. Da lassù prega per tutti i tuoi cari
che hanno molto sofferto per la tua lunga e dolorosa malattia.
Incontrerai coloro che ti hanno preceduto e sarai tanto felice. Sarai avvolta
dalla luce e consolata tra le braccia del Padre di tutti noi che non abbandona
i suoi figli.
Antonietta
Renata – Caro Enrico, sono le tre del mattino, e tu stai finalmente riposando
sereno.
È bello essere qui con te e Sara, ancora come quando eravamo bambine.
Spero che la tua sofferenza non duri a lungo. Sono sicura che mamma e
papà, che tanto ti hanno amato, ma poco goduto, ti prenderanno con loro
dove avrai per sempre pace e serenità. Un forte abbraccio.
Laura
Sara – Un pensiero che non posso più tenere dentro per un amico.
Povera è questa vita terrena se non la riempi con i sorrisi, anche se ci è stato
concesso poco tempo. Grazie per tutti quelli che mi hai regalato sfumati nel
tempo, prima con tutti i muscoli del viso poi con la bocca, con gli occhi, con
la tua mano stanca che stringe la mia.
Sto pregando con tutto il cuore, anche se è difficile quando sanguina così
forte, ma continuerò, continuerò a farlo.
Se il tuo destino è di non risvegliarti più, non ti preoccupare: non finirà qui: ci
sarà sempre un sorriso per te. Ti porterò con me nei miei pensieri e nei miei
sogni, ti parlerò con la voce del cuore, sicura che tu mi ascolterai quando ti
dirò: ti voglio bene.
Annarita
Diego – L’unico dono che posso farti in questo momento di intensa sofferenza sono i miei pensieri, i nostri pensieri d’amore e di gratitudine.
A te che con il tuo sacrificio e la tua dolcezza hai cambiato per sempre le
nostre vite; a te che sei riuscita ad aprirci gli occhi e il cuore; a te che, senza
saperlo, ci hai salvato dall’indifferenza e dall’egoismo. A te piccolissimo angelo doniamo i nostri pensieri più sinceri e puri perché il tuo ricordo ci accompagni per sempre e il tuo esempio ci aiuti ad affrontare con coraggio ogni
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giorno. Nel tuo esempio vivremo e sperimenteremo la gratitudine verso l’esistenza che spesso ruba le cose più preziose, ma altrettanto spesso ci dona
incommensurabili gioie.
Sono gli ultimi momenti in cui possiamo vederti e sentirti e proprio ora, proprio, adesso che ancora ti sentiamo vicina, lasciamo traccia del tuo amore
per te su queste pagine perché rimangano a testimonianza di quello che hai
rappresentato per noi.
Con infinito amore.
Giulio
Ho visto il corpo di una madre morta piangendo:
sul suo volto le lacrime avevamo scavato due lunghi solchi.
Quei solchi mi hanno condotto alla soglie dell’estate,
in attesa che una cicala prendesse a cantare.
Ho visto il corpo di un bambino simile a quello di un angelo
al quale fosse stato permesso di morire:
sembrava attendere di essere chiamato.
Quel corpo di angelo mi sembrò per un attimo
la farfalla pronta a prendere il volo nel cielo dell’estate.
Paola – Ricordo, Maria, una favola.
Un angioletto volava basso, sempre più in basso. Sfiorò la terra, si ruppe le ali
e per lui non ci fu più domani. Gesù, che da lassù vide ogni cosa, fece preparare in cielo una culla nuova, dove l’angioletto potesse dormire vicino a Lui,
felice e benedetto.
Una nonna che ti pensa in paradiso.
Sara – Ora il pensiero torna a te, zio Luigi.
Non riesco a comprendere nemmeno ciò che sta accadendo. Da quel giorno
tutto è cambiato: ieri eri felice e sorridevi, mentre fumavi riscaldato dal sole
dell’estate.
Oggi sei qui in un letto da dove la malattia ti porta via lentamente.
Non riesco nemmeno a credere che per te ora non c’è più nulla da fare: ieri
mi aiutavi nei compiti, al fresco dell’ombra estiva; oggi, al freddo dell’inverno, tu sei lì.
Oggi mi rendo conto che sono stata fortunata a conoscerti.
Matilde
Paola – Ciao, nonna. Oggi che te ne sei andata, so che mi volevi tanto bene.
Mi mancherai tanto.
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Ricordo quando mi facevi ridere con le tue battute scherzose, quando mi
insegnavi a ballare. Nonna, ti ho sempre voluto bene come i tuoi figli. Nonna, tu eri come la mamma per me. Ti voglio tanto, tanto bene.
Patrizia
Diego – Cara vita, dopo trentatré anni di gioie soddisfazioni e liete sorprese,
ieri, per la prima volta mi hai tolto qualcosa di veramente importante: mio
padre.
È vero: tra me e lui c’è sempre stato un rapporto freddo e distaccato, ma
sempre pieno di rispetto reciproco.
Ora già mi manca, così come mi mancheranno le tante occasioni avute e mai
colte per incontrarci.
Sapevo che sarebbe arrivato questo momento e me ne assumo la responsabilità che mi spetta. Però voglio dirti vita che, nonostante tutto, ogni giorno che
passa tu sei sempre più bella da godere in ogni secondo che trascorre E auguro a tutti coloro che leggeranno questa pagina di saper accettare sempre con
un sorriso tutto ciò che tu vita riservi nella buona e nella cattiva sorte.
Carlo
Uomo: il tempo era sempre infinito prima che tu venissi al mondo
e sarà infinito quando tu l’avrai lasciato.
Che cosa è tra due infiniti la tua vita?
Un punto.
Renata – Nella notte delle stelle cadenti, il nostro sguardo non è rivolto al
cielo, ma sul tuo viso luminoso; la luce che ne emana scende direttamente in
fondo al mio cuore, mi fa dimenticare tutte le sofferenze e le amarezze che ci
circondano.
È strano: quando ti guardo non riesco a essere triste; è talmente tanta l’energia
che trasmetti, che cancella tutti i miei tristi pensieri. L’unica cosa che mi
viene spontanea è quella di sorriderti e di accarezzarti dolcemente il viso. È
strano che un piccolo esserino come te sia riuscito a smuovere tanto amore
intorno a sé.
Vai stellina… vai lontano e con la tua luce veglia su di noi.
Alice
Tutto quello che ho veduto m’insegna
a confidare nel creatore per tutto quello che ho veduto.
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Sobrietà
Ivo Lizzola
L’incontro è sempre una ferita e lo ricorda uno psichiatra umanista come
Eugenio Borgna: riprendendo lezioni profonde e delicate di filosofe come
Simone Weil e Maria Zambrano. Perché ogni incontro è rischio e realtà di
separazione e distanza, è parziale incomprensione. Specie quando le condizioni tra noi sono radicalmente diverse, e l’asimmetria è marcata. Sempre è
così nella relazione di cura, quando il corpo malato un poco ti rinchiude ed
isola mentre ti riconsegna in mani d’altri. Mani che applicano terapie, intervengono, operano. Su un corpo d’altri, con un sapere esperto, tecnico. Necessariamente distante. E, insieme, mani che toccano e riconoscono, che si
scusano, ascoltano, restano sospese chiedendo permesso. Approssimandosi
all’altro nel suo momento, nel suo spazio. È importante arrivare in ritardo, un
poco dopo: per poter ascoltare, rispondere, non invadere. Con un troppo di
iniziativa, di buone intenzioni, di desiderio di alleviare o consolare, spesso
non si riconosce, non si rispetta, si ferisce. Un poco lasciando spazio, e tempo, in sola prossimità, leggera e attenta, l’incontro con chi è malato, o muore, può mantenere la promessa sentita nascendo: non sarai lasciato solo, abbandonato. Né preso. Non ha senso, davanti o accanto al morire, reagire
facendo. Quasi dovessimo nasconderci quello strano senso di colpa che sottilmente resta dentro: per essere i salvati, i sopravvissuti; per non riuscire a
salvare.
Il nostro agire è costretto a uscire dalla ricerca di una razionalità e di una
efficacia emancipativa; e deve lasciare la presa: non può provare la disponibilità dell’altro (come quando lavoriamo o educhiamo, o operiamo su di lui).
Il nostro agire è solo presenza, testimonianza, nel varco dell’esistenza, in un
movimento non “costitutivo” (come quando applichiamo terapie) ma riconoscente, recettivo. Sobrio.
In questa sobrietà si può riguadagnare il senso del limite e l’attenzione all’ambivalenza delle nostre presenze e dei nostri gesti, alle nostre ombre e al
mistero. Compimento e in compiutezza di noi e dell’incontro tra noi: promessa, annuncio, sola bellezza e solo dono, sull’a-venire. Come l’aurora: lo “scricchiolio della luce”, di padre David Maria Turoldo nelle poesie “ultime”, del
suo finire.
L’essere dell’altro appare quando trova nel nostro sguardo quella “luce aurorale” che consente il suo disvelarsi, perché lo sguardo, attento, si curva sul
suo apparire (M. Zambrano, 2000). La sobrietà fa toccare, così, qualità pro57
prie di quella che la Weil chiama «azione non agente»: quell’azione che non
pretende di fare o di portare il Bene, ritenendo di possederlo o realizzarlo,
quell’azione – fosse anche uno sguardo – che non tende a un fine ma si vive
sospesa e in ascolto della realtà “nella sua datità offerente” (S. Weil, 1985).
La sobrietà, modo di vivere l’obbligazione è, allora, lasciarsi interrogare e
chiamare in responsabilità. È una forma controcorrente di cogliere le opportunità: perché il perdere non è visto nel lasciare, il perdere è visto nel prendere. Farsi poveri di conoscenza, di presa sul mondo e sull’altro (anche se giustificata “per il suo bene”) fa stare nell’essenziale, aperti all’altro, in estrema
vulnerabilità. Come in esilio, “perché appaia l’immensità”, esposti al racconto dell’altro basta “qualche scintilla di vulnerabilità” per stare in presenza, e
nella cura (M. Zambrano), come sanno bene molti operatori sociali e della
sanità. Voler essere pienamente, senza vuoti, nelle cose e presso altri è invece
cedere alla “tentazione dell’esistenza”, così bene messa in luce da Zambrano.
Vale la pena cercare un pensare capace di sentire, non depurato dalle emozioni;
“senza arrendere la scienza al sentimento assegna valore epistemico a quel
pensare che si nutre [anche] del sentire; perché solo quando si nutre di sentimenti la ragione è capace di stare alla ricerca della verità” (L. Mortari).
E la decisione è capace d’essere rispettosa del vissuto altrui riconoscendo un
altro a cui è consentita una “resistenza etica”, una trascendenza.
In un tempo in cui donne e uomini sono frequentemente chiamati a fronteggiare situazioni nuove e incerte, a volte drammatiche, altre volte (o per altri)
stimolanti la creatività, in una tensione forte e in una continua decisione,
acquisire la sobrietà di mente e di cuore pare quasi impossibile. Come appare
quasi impossibile lasciar maturare profondamente in sé il senso di obbligazione per altri. Eppure, superando una considerazione di superficie, si può
cogliere come questo tempo non richiami solo più azione e intensità, più
reazione o duttilità, o adattamento: conduce molti a cercare un impegno “in
coscienza”, ad affinare capacità d’esperienza, a sentire godimento della bellezza e della bontà. Conduce, anche, a un sapere del (nel) soffrire, ad accettare di entrare nel messaggio, nel senso di situazioni di prova e di dolore
come pure di vicinanza e di affidamento (E. Fizzotti, 2004; V.E. Frankl, 2001).
Ci vuole sobrietà per saper trattare con l’altro, e con il mistero del morire e
del nascere. Dice Maria Zambrano che ci vuole un “sapere dei sentimenti”,
che “è andato via via immiserendosi. [...] La liberazione è allora nella pietà,
la matrice originaria della vita del sentire [...] Ma la pietà non è filantropia, né
compassione”.
La filosofa spagnola che così a lungo vive l’esilio, lo sradicamento, suggerisce
che la pietà “è qualcosa di più: è ciò che ci consente di comunicare [...] Pietà
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è saper trattare con il diverso, con quello che è radicalmente altro da noi” (M.
Zambrano, 1997). Ci vuole un sapere segnato da sobrietà, che non riduce la
realtà e ogni altro a moto chiarificatore della ragione e della coscienza individuale. È accettazione che l’altro, che altro sia, che sorga. Fuori da un gioco
di rispecchiamenti e di conferme, con il cuore trasparente, cuore che si lascia
attraversare dalla luce, che vive nella luce. Quel cuore che è proprio di quella “classe di amanti” che non aspirano alla liberazione e alla pace definitiva
cui appartiene, secondo Maria Zambrano, sant’Agostino. Un cuore trasparente, un sapere che sente, ospita la pietà,
“il sentimento dell’eterogeneità dell’essere, della qualità dell’essere [...] aspirazione a trovare i tratti e il modo di intendersi con ognuna di queste molteplici maniere della realtà [...]. Pietà è saper trattare con il mistero. Per questo il
suo linguaggio e i suoi modi ripugnano così fortemente l’uomo moderno, che
freneticamente si è buttato a trattare solo con ciò che è chiaro e distinto” (M.
Zambrano, 1997).
La sobrietà che conduce alla pietà, al «saper trattare con il mistero», accetta
l’ombra, l’ambivalenza dell’indistinto. Guarda nel buio rinunciando alla violenta lama chiarificatrice del giudizio una volta per tutte. L’esperienza del
mondo e dell’altro è risposta all’apparire e al risplendere della luce, come lo
possono essere lo sguardo e il pensiero. Nel guardare ogni volta si risponde,
e si accetta di “esporsi”: è come “vedere per la prima volta” non un già visto,
un già conosciuto e posseduto, ma il continuo emergere dell’altro e del mondo, come non era ancora apparso (S. Petosino, 2004). In questo la sobrietà si
rivela atto di responsabilità, e lontanissima dalla passività.
Uno sguardo sobrio del cuore e della mente lascia essere ciò che è, senza
cadere nell’indifferenza. Uno sguardo sobrio nei gesti e nei pensieri è riserbo,
salvaguardia, riguardo, preoccupazione e cura, rispetto e ascolto rinnovato,
ancora riproposto. È un lasciare che non è un perdere, né un abbandonare,
con gesti che non reagiscono, con pensieri che non riflettono ma rispondono,
e “vanno attendendo”. Attenzione e attesa s’incontrano in questo sguardo, in
questa capacità delle donne e degli uomini di cogliere accogliendo, in questo
“diventare guardare del vedere” (S. Petosino, 2004).
Quando donne e uomini sono capaci di questo – e non tanto per un moto di
intenzionalità, di volontà, ma per una sorta di recettività e sospensione, quasi
per una sorta di grazia – fanno esperienza di ciò che è proprio e di ciò che
non è proprio. Un rimando all’immemorabile, all’origine, di cui non riusciamo ad avere un sapere chiaro. Una comune filialità. Come se il tempo s’aprisse:
vicino all’estrema vulnerabilità, come al morire, o nel riverbero dell’amore e
ai fremiti del nascere, si è sorpresi, affidati. È anche sempre (un poco, o con
forza) un dramma. Prova d’unicità, e di solitudine, d’abbandono e d’affidamento.
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La malattia è una delle tante esperienze di sofferenza delle donne e degli
uomini ma, a differenza e più di altre, diventa simbolo e figura del soffrire.
Forse perché la malattia, come esperienza umana, chiede sempre di tenere
insieme la spiegazione di qualcosa con la comprensione di qualcuno, la ricerca di senso e lo sviluppo di un sapere. Ombra di un corpo che è, in origine, fragile e meraviglioso dono, luogo di cure, di gesti, di sussurri destinati.
Da sempre i modi di vivere la malattia, e di curarla e sostenerla, svelano i paesaggi interiori profondi degli uomini e delle donne; e li costruiscono, li ospitano.
Questo è lo spazio dell’alleanza, della prossimità, dell’amicizia: contro la radicale estraneità reciproca delle coscienze. Movimento instauratore di senso, tra persone mortali, il cui tempo s’apre a altre dimensioni, di evento.
Quando la parola prova a rappresentare la realtà, quando il gesto si fa tecnica
risolutiva, quando le relazioni si iscrivono nello scambio funzionale e nel
contratto, allora le coscienze si accostano in estraneità reciproca.
È faticosa, la malattia, sempre angosciante, estranea. Abitato nel corpo dall’estraneo, dal nulla. Da qualcosa che ha a che fare col mistero della vita.
Resta lo scarto. È corrosiva la malattia, riduce gli spazi (del lavoro, dei consumi, degli affetti) e ridisegna libertà e responsabilità. Ad esempio ponendo in
questione la fiducia in te stesso, e ponendo il problema del fidarti di altri,
dell’affidarti.
La sensazione di vivere una sempre incerta salute, o la convivenza per anni
con cronicità di cui si è consapevoli dal momento della diagnosi, non solo
aumentano il peso psicologico dell’esperienza della malattia e della cura, ma
conferiscono ad essa “un rilievo più incisivo sulla vita” di ognuno: chiamando in gioco dimensioni simboliche che agiscono nella mente, nell’immaginario, nei sentimenti, nelle paure. Le donne e gli uomini scoprono d’essere “una
grande questione”. E lo scoprono anche quanti accompagnano i pazienti o
assistono i malati. “Questione“ aperta, e non solo di fronte alla cronicità o
alla terminalità, che chiede in qualche modo di “provvedere” anche alla
speranza, alla significazione, alla ri-elaborazione di spazi di libertà e di volontà possibili. La malattia propone un compito alla libertà, apre a una “rinnovata disposizione di sé”.
Nella condizione dolente, che si lega quasi sempre alla malattia, come annota Lévinas, “c’è questo rovesciamento dell’attività del soggetto in passività
[…] nel pianto e nel singhiozzo […] là dove non c’è più nulla tra noi ed essa,
la suprema responsabilità di questa assunzione estrema si rovescia in suprema irresponsabilità, in infanzia” (E. Lévinas, 1987). L’esperienza “intera”
della sofferenza non può essere “scomposta” e “guarita”. Si è notato che la
considerazione della malattia come evenienza soprattutto sanitaria è moderna, legata all’affermarsi della pratica medica. Ma prima e oltre che evenienza
sanitaria, per il suo intimo legame con la sofferenza e con la rappresentazione della mortalità, è consistente figura simbolica, nel senso che presenta la
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condizione umana nei suoi aspetti complessi e radicali. Ci ricorda che il corpo è luogo della coscienza, prima che suo oggetto.
Ma qui e da qui può nascere anche una radicale “significazione conoscitiva”
della sofferenza: urtando contro il dolore fisico e il malheur “come la mosca
contro il vetro”, il pensiero non si sviluppa in discorso, ma non può evitare il
vetro (S. Weil, 1982). Resistere al male apre a complesse strategie, a diversi
percorsi dentro di sé e dentro la storia tra le donne e gli uomini.
Il pensiero non spiega, non risolve, non accetta consolazioni: assume una
realtà. Scuote una esistenza quotidiana, una trama biografica e di relazioni
intime e sociali: facendone emergere strutture, significati, aree non indagate
o rifuggite dalla riflessione; parti di sé silenziose o sommerse. Affinando sentire e attendere. Paul Ricoeur annota come la souffrance ci riporti sul bordo.
Dove l’esperienza del nulla si tende con quella della nostalgia del grembo (P.
Ricoeur, 1993). Dove il corpo, forse, sente l’origine, senza riparo. In piena e
non mediata angoscia e fede.
Souffrance è più che dolore, è partecipazione alla finitezza, apre alla comprensione della nostra vulnerabilità. Salvare questa finitezza è serbarla, custodirla
con gesti di cura: custodia che è una forma della riconoscenza, un ringraziamento in cui si tendono e ri-dicono le sorgenti dei legami tra generi e generazioni. Tenerezza infinita di corpi mortali.
La relazione con l’altro corpo, nella malattia e nella cura, come nell’amore,
nella paternità-maternità, nella filialità, ha la primordialità, l’originarietà, l’assenza di modello dei vissuti pre-filosofici. “Epifania”: l’altro mi “visita” e mi
“parla” dalla sua esteriorità in una forma che è, insieme, spoglia e carica di
significato, fragile e resistente. La fragilità fisica coincide con la “resistenza
etica”. Resistenza non di una forza, ma di una fragilità, “resistenza di quel
che non ha resistenza”, che apre la dimensione stessa dell’infinito, dell’assolutamente Altro come suggerisce sempre Lévinas.
Abbandono e comunione. Striscia esile e incerta: il tempo va dissolvendosi
(in quante patologie!), diviene niente. Il corpo è luogo di evento e di comunciaizone, rompe il tempo.
Questo rinvia oggi la malattia e il corpo malato a uno spazio sociale “definito
in termini di integrazione o non integrazione, di dipendenza o di indipendenza” trascinando con sé le famiglie e le prossimità in queste marginalizzazioni
e dipendenze (M. Mannoni, 1995). Non si accettano volentieri presso i reparti di lungo degenza i “troppo malati”, i “troppo poveri”, i “troppo handicappati”, i “troppo vecchi”. Ci sono le “decadenze scomode”. La separazione tra sociale e sanitario, tra familiare e sanitario, le restrizioni di spesa (programmate in Europa dal ’92 in poi) riguardano particolarmente queste persone. Si pensano nuovi spazi, e si richiama con forza in gioco la famiglia e la
dedizione volontaria assistenziale. È uno scivolamento silenzioso dal diritto
alla assistenza benevola.
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Negli spazi di parola e di compagnia, aperti dall’animo fragile e sofferente
sono l’amorosa coltivazione del respiro di una convivenza, del suo risignificarsi, del suo confermare fedeltà e cura.
Stanchezze, logoramenti “liminali”, energie fluttuanti: in questo nuovo senso
la convivenza tra donne e uomini (più che su accumulo di patrimoni, di risorse e di saperi) si rinnova su “matrimoni”, su abbracci di generi, di generazioni
e di differenze col senso della vulnerabilità e della possibilità. Malati “donatori”, allora, come i bambini? Sì, se coinvolti nella danza e nel ritmo della
relazione e del pieno rispetto che disegna il circuito dare-ricevere. Ciò è possibile, già si racconta.
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Formazione, medicina e terminalità
Giacomo Delvecchio e Luisella Barberis
È fin troppo facile parlare di crisi della medicina, istituto che promette sempre
di più e da cui si pretende ancora di più. Purtroppo vi sono per la medicina
un limite che non può superare e una promessa che non può mantenere:
sanare il tempo del dolore e il tempo della fine e della terminalità.
L’incontro con questi temi è ineludibile per tutti ed è di fronte a questi momenti che la medicina mostra tutto il suo limite.
Ricercando le cause che hanno portato a questa condizione, molti hanno
prescritto terapie per la cura della medicina malata: vi è chi propone di accentuare la prospettiva tecnologica e all’opposto vi è chi propone di recuperare quel surplus di umanità che la tecnologia avrebbe inaridito e come se la
cura della persona fosse un epifenomeno su cui la biologia non ha niente da
dire (H. Atlan, 1995).
Pensiamo che queste soluzioni da sole siano insufficienti perché in realtà al
primo posto vi è una crisi di fondo riguardante addirittura l’ontologia medica
(I. Cavicchi, 2004). Per questo si è convinti che difficilmente tale crisi possa
essere risolta in modo volontaristico dall’esterno della medicina con strumenti organizzativi e sociali, che implicano costose e sofferte trasformazioni.
Queste sono vanificante se non si accompagnano ad un ripensamento profondo dello scopo e del senso dell’agire medico.
È possibile invece pensare che la soluzione, o un tentativo di soluzione, possa provenire dall’interno della professione. In questo caso è pensabile allora
che siano i professionisti a dover riformulare non tanto i contenuti quanto i
fondamenti della loro arte. Nel fare questo non si deve tanto smuovere uno
sforzo retorico o moralistico quanto piuttosto andrebbe ripensata una certa
modalità di intendere la competenza professionale, costituendo la piena realizzazione di questa il plusvalore etico da offrire al malato-cliente. In altre
parole il primo requisito, che è molto di più che deontologico perché non si
dà pratica medica senza una prospettiva morale, per un buon medico non è
tanto quello di essere “buono”, quanto piuttosto quello di essere “bravo”.
Costruire e mantenere una tale competenza professionale, cosa che è sempre
difficile da realizzare, richiede un particolare approccio educativo, specie
quando ci si confronta con la terminalità e il dolore.
Ecco allora che la formazione del medico e di ogni altro professionista sanitario diventa cruciale.
Per preparare all’incontro con la sofferenza e la terminalità bisogna fornire e
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saper fornire un sapere diverso a coloro che vogliono-devono saper essere
medici in modo diverso. Di fronte a questo compito la pedagogia medica
usuale va anch’essa ripensata.
Da un assunto bisogna partire: vi sono cose che la medicina e la scienza non
possono sapere. Si possono indagare ma non comprendere. Così è per la
morte.
Per formare bravi operatori sanitari, specie quelli che del morire si devono
occupare, bisogna anche in medicina ripensare la morte adottando uno sguardo
antropologico che non sia disgiunto però, per non essere strabico, da una
conoscenza della storia della medicina.
Ci ricorda il Semmelweis di Céline, prima di diventare uno scrittore a sua
volta un medico che parla di un medico, che nel passato della classicità mai
si sarebbe mischiata la morte con la vita, l’impurità del cadavere col vivente
(G. Ceronetti, 1979): la morte era un evento sacrale e violare l’integrità del
soma nella morte corporale era un tabù che anche i medici rispettavano. Non
vi era però per i medici alcuna necessità epistemologica di violare questo
interdetto. Solo con la nascita della medicina moderna e il venir meno del
vitalismo la morte e lo studio della morte sono diventati i capisaldi per la
conoscenza della vita: secondo un programma grandioso da cui ancor oggi la
nostra scienza dipende, la vita è diventata infatti tutto quello che si oppone
alla morte (X. Bichat, 1805).
A seguire, nei testi di medicina però la morte stessa, pur centrale per la comprensione del vivente, è stata anestetizzata nel suo valore metafisico per trasformarla in valore biologico con termini “altri” e asettici, quali necrosi, necrobiosi, apoptosi (U. Dianzani, 2000).
Il mistero della morte però, come del resto il mistero della vita, permane.
Accanto alla morte scientifica, alla morte spiegata e ricca di parole, vi è il
mistero della morte umana, la morte inspiegata perché incomprensibile, priva di parole per dire il silenzio.
Ecco, la parola esatta da usare è “mistero”. Il mistero si scontra con le necessità della scienza. La morte ha oggettivato diversamente anche il corpo che
da salma è diventato un cadavere perdendo la sua umanità e guadagnando la
sua biologia. Se il corpo del morto non è più sacro ma è strumento per la
medicina, con facilità e analogia si può pensare che anche il corpo del vivo
sia strumento per la medicina, naturalmente per una medicina che in corpore
viri si occupa paternalisticamente di fini buoni.
In realtà di fronte al mistero non c’è scienza che tenga. Non ci sono azioni
sanitarie risolutive (ma risolutive di cosa? E per cosa, se non per tacitare l’ansia entro un fare inoperoso?) da insegnare e da mettere in campo al letto del
morente da parte di nessuno. C’è solo il rispetto, che non può essere insegnato perché appartiene ad un intuito morale innato in tutti. Il rispetto da parte
degli operatori va però declinato con rispetto: nessuno sa infatti se il senso del
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mistero è uguale in tutti o è diverso per ognuno degli astanti, siano essi il
malato terminale, i famigliari, gli operatori sanitari.
Dopo questo vi è un altro problema per la pedagogia medica che non può
essere né sottaciuto né banalizzato.
Per i professionisti, che sono uomini e donne uniti tra loro e ai loro malati in
una comune umanità, il tempo del mistero della morte non è solo quello del
farsi o del compimento. Non vi è solo il “durante” la morte, ma vi è anche il
“dopo” la morte. È questo un tempo dilatato per tutte le morti cui i professionisti
hanno presenziato e prestato quell’assistenza rispettosa e operosa di cui si diceva. Ma tutto questo tempo di tutte queste morti sommato insieme diventa un
cumulo gigantesco e insopportabile. Forse è per questo che ogni sanitario si
ricorda bene il primo decesso di malato incontrato all’inizio della carriera professionale ma perde poi la memoria specifica di tutti o dei molti tra quelli che si
sono succeduti nel prosieguo degli anni. È questo un banale meccanismo difensivo, una sorta di immunità emotiva, che sembra cinismo a chi di medicina
non sa nulla ma che anche i sociologi ben sperimentano quando hanno la
ventura di cimentarsi in prima persona con la vita e con la morte nel lavoro di
corsia (M. Marzano, 2004).
Da parte di molti in medicina si insegna, o si pretende di insegnare, l’empatia, come viatico all’incontro con l’altro. Certo, sfruttando l’intelligenza emotiva l’educazione all’empatia funziona per sentire dentro di sé le pene dell’altro e per decidere meglio con lui dove andare e cosa fare. Educare all’empatia pone un problema al formatore che ha di fronte il personale che andrà a
lavorare nei luoghi della cronicità morbosa che sfocia nella terminalità. È un
problema di salubrità mentale, ossia come guidare i professionisti eccessivamente sollecitati da un punto di vista emotivo ad un giusto equilibrio tra
un’identificazione continua con gli altri morenti e un distacco anaffettivo da
questa condizione. La concentrazione delle forze per un equilibrio delicato
tra abnegazione e rifiuto, tra oblazione e fuga, tra ansia e disincanto non è
tanto e solo un problema psicologico quanto, nella sua radice, pedagogico.
Qui davvero la pedagogia medica deve essere vera pedagogia individuale e
sociale, anzi prima sociale e poi individuale ribaltandone la sequenza consolidata.
La pedagogia sociale è un’arte difficile da praticare perché si fa con tutti
coloro che lavorano presi insieme e con l’organizzazione e l’istituzione.
Coloro che lavorano in un luogo di terminalità, come può essere un hospice
ma non solo un hospice, costituiscono un’équipe che deve essere costruita
prima, mantenuta e salvaguardata poi. Ciò richiede intenzioni, attenzioni e
prudenza educative. L’intervento del formatore qui è massimamente delicato
perché quello che ne va di mezzo è l’identità del professionista e dell’intero
collettivo di lavoro con tutte le possibili immaginabili ripercussioni future.
Il formatore impegnato a questo livello deve avere una chiara direzione e
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deve essere consapevole di agire tra due forche caudine: da una parte sa che
il suo errore avrà pesanti conseguenze in termini di insuccesso sui fronti dei
professionisti e dei malati ma dall’altra parte sa che il suo intervento modificherà irreversibilmente il futuro professionale dei professionisti che, una volta tolti dai reparti di degenza ordinaria, non saranno più eleggibili per ritornarvi, perché la loro disposizione professionale sarà cambiata completamente e incompatibilmente con questi.
Di fronte ai futuri operatori dell’hospice il compito non facile del formatore
ha un duplice obiettivo: prima deve decostruire, poi costruire.
Lavorare a contatto con la terminalità richiede un modo nuovo di lavorare in
sanità, non per funzioni ma per processi. Per arrivare a questo bisogna prima
decostruire. Per decostruire si deve eliminare nel personale l’immagine usuale del lavoro della corsia in cui funzioni e gerarchie sono mansionaristicamente chiare e definite. Di fronte alla terminalità e al processo del morire la
linea gerarchica e le funzioni prestabilite non sono sempre un impiccio ma
sono il più delle volte un freno perché sono una salvaguardia di fronte alla
paura e all’ansia delle decisione che coglie ogni vivente qui giunto. Per costruire salvaguardando il professionista dall’ansia della decisione bisogna che
il singolo sia fin dall’inizio partecipe del gruppo. Il gruppo non è solo il contenitore del burn out perché luogo deputato a sciogliere le tensioni individuali nella catarsi collettiva; il gruppo è invece lo strumento collaborativo in cui
si condividono le scelte e soprattutto le ragioni delle scelte rimotivando continuamente la professione.
La formazione è quindi il momento essenziale e la sua programmazione non
deve essere lasciata né al caso né allo spontaneismo né all’improvvisazione
ma deve essere, come un intervento chirurgico, precisa e pianificata fin dall’inizio nei modi e nei tempi. Con questi presupposti pedagogici e con questi
obiettivi la formazione d’aula tradizionale non ha senso alcuno e diventa
obbligatoriamente qualcosa d’altro: diventa un grande laboratorio- azione in
cui tutti gli operatori insieme di fronte ai temi della sofferenza e della terminalità si confrontano e costruiscono una comune aderenza ad un’unica immagine professionale. L’obiettivo finale per il formatore è quello di insegnare
ad avere non più gerarchie, non più mansioni, non più compiti prestabiliti ma
apprendere la condivisione responsabile di scelte, di decisioni, di percorsi
per arrivare a costruire e a mantenere nel tempo comuni modalità di sentire e
di agire.
La pedagogia individuale richiede invece un’altra riflessione che si accompagna però e si affianca nei tempi alla formazione collettiva e che nel collettivo
alla fine va anch’essa riportata e condivisa in modo che possa diventare parte
del patrimonio di tutti.
Si parlava di morte come mistero che richiede rispetto nel suo farsi e nel suo
permanere quando il dopo è arrivato. Nel silenzio del dopo c’è una memoria
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che in qualche modo, o chiaro od oscuro non importa, rimane nel medico e
in ogni altro operatore. Ora, se è vero che come dice Ricoeur il medico è il
sopravvissuto di tutti i suoi moribondi (2000) un senso questa memoria lo
deve pur avere. E quale altro senso può avere questa esperienza per un medico e per un operatore sanitario se non quello, con le parole di Jasper, prima
vero medico e poi vero filosofo, di far sì che si possa diventare diversi da
come di solito sono gli uomini (K. Jasper, 1991)? Così si costruisce quel luogo,
quello indicato da Gadamer, della più segreta esperienza di vita (H-G. Gadamer, 1994) da cui per ogni medico scaturisce la cura. Ma per maturare diversamente se stessi nel luogo da cui scaturisce la cura, la memoria della finitudine deve essere meditazione per sé e testimonianza per altri.
E quale altro compimento si può dare diverso da questo all’insegnamento di
quei clinici convinti, ancora e sempre più oggi, che la migliore opportunità
per un uomo è di diventare un medico (1998)?
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Che cos’è che supera la sofferenza e il dolore?
Ivana Fadini
“Cosa è che supera la sofferenza e il dolore?
È l’amore, sono i sorrisi, il capire con gli occhi ,
senza nemmeno dire una parola.
È la gioia di poter dare e trasmettere
ai nostri cari tutto l’amore di cui hanno bisogno.
Qui c’è gente che sa trasformare
attimi di sconforto in forza
per poter proseguire il nostro cammino di luce...”
Testimonianza da “Il libro dell’hospice”
Ci sono in ognuno di noi gomitoli di timori reali e giustificati, ma anche aggrovigliate matasse di paure irrazionali, o inspiegabili, fantasmi ostinati dei
nostri ricordi e delle nostra infanzia, o paure ancestrali, che si sono radicate
in noi nella notte dei tempi e ci sono pervenute attraverso l’inconscio collettivo, forse attraverso il corredo cromosomico, come tante altre caratteristiche
della nostra specie. Difatti la specie umana, oltre al sorriso e alla posizione
eretta, è la sola specie animale che abbia paura anche in “prospettiva”, non
solo di fronte a un pericolo reale o immediato, come tutti gli altri animali.
Così, c’è chi teme il fuoco, chi l’acqua, chi il buio o il dolore in generale; chi
la “caduta della luna”, chi più banalmente, i viaggi in aereo. Chi ha paura,
purtroppo realisticamente, di svegliarsi una mattina in pieno “day-after” da
catastrofe nucleare (per cause belliche o nucleari); chi teme la povertà, chi il
dolore perché lo considera senza via di scampo, chi la folla, chi la morte, chi
gli spazi aperti.
Prima della mia esperienza in hospice anche io ero tra quelli che avevano
paura del dolore perché credevo non avesse via d’uscita. Ma mi stavo sbagliando, e mi sono posta e ho posto una domanda: Che cos’è il dolore? Ho
trovato molte risposte nelle varie esperienze.
Il dolore è un filo di gomitolo che pian piano si srotola e lentamente si lega
stretto alle nostre dita, ascoltando in silenzio le nostre sofferenze. Il dolore è
un pianto dirotto che si asciuga col pianto di una nostra amica imprigionandosi in un fazzoletto bagnato stretto forte nella mano. Infine, il dolore è prendersi per mano, chiudere gli occhi respirando lentamente per poi risvegliarsi
in un sorriso pieno di speranza.
Durante un’intervista ad Antonio Tabucchi gli fu chiesto che cosa gli comunicava il dolore altrui: “...Credo che in tutti susciti compassione, ‘compassio’
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significa ‘soffrire con’. È una forma di partecipazione.” E alla domanda se il
suo dolore l’aiutava a comunicare o al contrario, frenava, interrompeva, recideva qualcosa rispose: “Credo che sia un nostro diritto comunicare il nostro
dolore alle persone che ci amano. Così come è un dovere ascoltare il dolore
che esse eventualmente vogliono comunicare”.
Il dolore spezza i discorsi, si impone alle consuetudini, quando anche gli
affetti di chi è vicino vengono messi alla prova; la trama delle parole che
cercano di avvicinare, consolare, si rompe davanti allo stupore per il “di più”
della presenza di un corpo che è diventato inquietante, diverso da come ci
conosciamo.
L’educatore rapportandosi con il dolore deve relazionarsi cioè incontrare il
dolore degli altri, la malattia che distrugge il dolore degli altri, la malattia che
distrugge il loro corpo, la loro morte in cui inevitabilmente ci si specchia. Questa identificazione, la possibilità pur remota di essere vulnerabile, spinge l’uomo a rifuggire la vicinanza con chi soffre.
Come reagisce chi non può separarsi dal proprio corpo malato? Con sgomento, rifiuto, rabbia, disperazione. La malattia è con speranza associata all’idea
di guarigione, in un epoca nella quale la medicina ha “escogitato scampo da
mali incurabili”.
Ma ci sono malattie contro cui la medicina ha ingaggiato da anni una durissima guerra, non ancora vinta.
Chi riceve la condanna a morte da un medico, deve rielaborare la propria
vita, i progetti che vanno distrutti e deve difendersi. Nel viaggio verso la fine
i compagni sono molto spesso il dolore, i ricordi, la vita passata, perché il
tratto in cui si aspetta la morte sembra essere già non più vita.
Un moribondo viene visto come un essere già morto. Non ha voce in capitolo
per quanto riguarda le cure, a volte non è pienamente consapevole delle sue
reali condizioni, ma, se sa, è difficile comunicare con lui e la sua condizione
è quasi imbarazzante. La morte del malato terminale offre l’opportunità di
pensare la vita e affrontare anche l’esperienza che sembra non abbia niente a
che fare con la vita ed è invece il suo naturale epilogo.
Allora quale sguardo si posa su di me? È lo sguardo della speranza.
Non si può vivere senza speranza. In un certo senso, la speranza è tanto più
forte quanto più grande è la minaccia alla propria vita e progettualità.
A ogni ostacolo va rapportato il relativo rimedio. Per risolvere un problema
della scienza è sufficiente la ragione, per compiere una scelta eticamente
impegnativa si deve far ricorso alla volontà, per affrontare il dolore cronico è
inevitabile il sostegno della speranza.
Padre J. Kaller scriveva a proposito della speranza: “È la speranza che fa
accendere una candela nell’oscurità invece di imprecare contro le tenebre”.
E deve essere così, infatti la speranza non è fatta di certezze, ma di attese e
mistero. È un fidarsi e affidarsi a qualcuno più che a qualcosa. La speranza
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non si improvvisa, si costruisce. Si cresce nella speranza per poterla offrire a
chi prova dolore.
È evidente che è faticoso stare a contatto con persone che soffrono, dove il
dolore è un dolore totale. Il dolore del corpo provoca una sofferenza emotiva, e il dolore emotivo intenso diventa anche sofferenza fisica.
Dalla mia esperienza ho appreso che a volte stando vicino a persone che
soffrono si corre il rischio di sentirsi “contaminati” dalla loro sofferenza e si
sperimenta il proprio essere umani con paure, angosce e limiti. Bisogna uscire dalla propria “casa” andare verso la “casa” dell’altro, di chi soffre mettendosi a disposizione, donando un “semplice sguardo”che ha un effetto più
efficace di mille parole, regalando un sorriso. Bisogna mettersi nella condizione di chi ascolta, tendere una mano, così si riuscirà almeno in parte a
sanare un cuore ferito, solo, sconsolato.
Tecniche non invasive per curare il dolore
Partendo dal punto di vista di un educatore mi sembra importante elencare
alcune tecniche non invasive per il sollievo del dolore.
Per il controllo del dolore, in generale si distinguono due categorie: tecniche
farmacologiche e non farmacologiche. Dei due gruppi, il metodo più diffuso
e utilizzato è certamente il primo, mediante la somministrazione di analgesici. La distinzione in queste due categorie riduce però ad un approccio troppo
stretto la relazione che intercorre tra farmaco e dolore. Appare quindi più
corretto e completo, definire le tecniche non farmacologiche come “tecniche
non invasive per il sollievo del dolore”. Sicuramente tali metodiche meriterebbero uno spazio, nell’assistenza, ben maggiore di quel che ricoprono attualmente. In questo ambito infatti, l’educatore avrebbe la possibilità, collaborando a stretto contatto con l’infermiere, di applicare interventi specifici ed
efficaci. Questo certamente non significa che la terapia farmacologica non
debba essere utilizzata, bensì che l’integrazione di queste due tecniche può
portare sia ad una riduzione dei farmaci analgesici somministrati per il controllo del dolore che ad un’assistenza più completa ed efficace, soprattutto
dal punto di vista relazionale.
Di seguito è presentata una breve dissertazione su alcune principali tecniche
non invasive attuate in hospice per il sollievo dal dolore, rappresentate da
distrazione, rilassamento, musicoterapia per occupare la mente nel lungo
percorso di attesa.
Distrazione
La tecnica della distrazione consiste nel concentrare deliberatamente la propria attenzione su stimoli diversi dalla sensazione dolorosa. La capacità di
distrarsi dal dolore non significa che questo non esiste o che è minimo: anche
le persone con dolore grave possono scegliere di farsi aiutare da esso. La
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distrazione può essere insegnata ai bambini (i genitori vanno avvertiti di non
confondere questa tecnica, che il bambino sceglie di adottare, con il distrarlo
a sorpresa prima di eventi dolorosi: questa non fa che produrre sentimenti di
sfiducia e paura nei bambini). In generale, la distrazione non può essere attuata per periodi molto lunghi. Quando essa ha termine, è possibile che la
persona provi un maggior senso di dolore e affaticamento.
Alcuni esempi di distrazione sono rappresentati da: distrazione visiva, che
consiste nel contare oggetti (fiori sulla carta da parati, macchie sul muro,
animali in un quadro, lo sbattere le palpebre di qualcuno, ecc.) o descrivere
oggetti; distrazione uditiva (canzoni, registrazioni, ecc.); distrazione tattile
cinestetica (tenere, accarezzare, dondolare, respirare aritmicamente) e immagine guidata.
L’immagine guidata consiste nell’utilizzare la propria immaginazione, in modo
significativo e specifico, per raggiungere il rilassamento e il controllo. La persona si concentra sull’immagine e vede se stessa coinvolta nella scena. Per
eseguire questa tecnica è necessario parlare con la persona di un’immagine
che ha trovato piacevole e rilassante (es. stare distesa su una spiaggia, sentire
un’onda di acqua fresca, galleggiare su una zattera, guardare il tramonto,ecc.);
scegliere la scena che coinvolga almeno due sensi; far entrare mentalmente
la persona nella scena; fare in modo che vi si immedesimi lentamente (chiedendo: “Come le appare?”, “Quali rumori, odori, sensazioni o gusti prova?”);
mettere in atto la tecnica dell’immagine guidata e terminare la tecnica contando fino a tre e dicendo “sono rilassato” (se non viene stabilita un conclusione precisa la persona si può appisolare e dormire, cosa che non corrisponde allo scopo della tecnica).
Ci sono poi tecniche di respirazione particolari: respiro lento e ritmico, che si
realizza dicendo alla persona di inspirare in modo lento e profondo attraverso il naso e di espirare attraverso la bocca (se possibile provare a rallentare la
frequenza a nove atti respiratori al minuto) e insegnare ad eseguire respiri
extra se necessario. Respirazione secondo il battito cardiaco: fare un respiro
lento e profondo, contare le pulsazioni sentendo il polso radiale, inspirare
contando due battiti ed espirare contando i successivi tre battiti. Respirazione
“he–who”: fare un respiro lento e profondo, inspirare dicendo “iih”, espirare
dicendo “huu”; la frequenza può essere aumentata (non oltre i 40 atti al minuto) se il dolore aumenta.
Rilassamento
Un’altra tecnica utile nel controllo del dolore è rappresentata dal rilassamento, il quale porta ad uno stato di sollievo dalla tensione muscolare che la
persona raggiunge con la pratica volontaria di tecniche prestabilite.
Nel linguaggio comune rilassarsi significa distendersi con un buon libro, guardare un film comico o tenere una piacevole discussione con gli amici. In
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realtà non è sufficiente volersi rilassare per esserlo, per giungere a quello
stato globale di distensione muscolare, di relax fisico e mentale detto “stato di
rilassamento”. Gli stati di rilassamento terapeutico si ottengono con l’apprendimento attivo e regolare di un metodi di rilassamento.
Gli effetti terapeutici del rilassamento riducono l’ansia, danno alla persona
un certo controllo del dolore, diminuiscono la tensione della muscolatura
scheletrica e distraggono dal dolore.
Le principali tecniche di rilassamento sono biofeedback, yoga, meditazione,
esercizi di rilassamento progressivo, il rilassamento progressivo di Jocobson,
il training autogeno di Schultz.
Il Biofeedback è una tecnica per ottenere il controllo volontario delle attività
dell’organismo (muscolari o termiche) che sono abitualmente riflesse o automatiche.
Con l’aiuto di un apparecchio per biofeedback, in genere elettromiografico,
il paziente constata la sua contrazione muscolare attraverso la visualizzazione luminosa o sonora, e applicando le tecniche di rilassamento(controllo respiratorio, rilasciamento muscolare) apprezza il grado di rilasciamento prodotto. In seguito si può arrivare ad ottenere gli stessi effetti raggiunti in tali
sedute anche nella vita quotidiana.
Una tecnica utilizzabile in hospice è rappresentata dal rilassamento progressivo, che consiste in un esercizio, da insegnare o da affidare all’autoapprendimento, che implica la comprensione di un modo sistematico di contrarre e
rilasciare i gruppi muscolari, iniziando dal viso e arrivando fino ai piedi. Lo si
può abbinare ad esercizi di respirazione, che fanno concentrare l’attenzione
su processi interni all’organismo.
Richiede di solito 15-30 minuti e può essere accompagnato da istruzioni registrate che dirigono la persona indicando la sequenza dei muscoli da rilasciare.
Il rilassamento progressivo di Jacobson utilizza il contrasto tra stato di contrazione e di rilassamento di un muscolo: contratto un muscolo, il paziente riconosce il suo stato di tensione, apprezza tutte le sensazioni che accompagnano questa contrazione volontaria, quindi rilascia il muscolo e apprezza le
sensazioni che derivano dal rilassamento cercando, nel contempo, di ottenere un sempre maggior rilassamento.
Nel rilassamento autogeno di Schultz il soggetto si impegna a raggiungere il
rilassamento, ripetendo mentalmente una formula che lo aiuta a raggiungere
la concentrazione necessaria come ad esempio, “sono calmo, ...profondamente calmo, ...perfettamente calmo”.
Per meglio assimilare la tecnica è indispensabile apprendere i sei esercizi di
base che compongono questo metodo e che permettono di ottenere il controllo respiratorio, muscolare, cardiaco, vascolare, vascolare addominale (plesso solare), vascolare encefalico (fronte).
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Musicoterapia
È una tecnica medica che utilizza la musica come strumento di cura e di
mantenimento del benessere, e rientra nella più ampia categoria della suonoterapia, in cui i suoni sono utilizzati per migliorare le condizioni fisiche e
mentali delle persone. La musicoterapica ha cominciato ad affermarsi negli
Stati Uniti al termine della Seconda Guerra mondiale, quando fu utilizzata
come pratica di cura complementare nei veterani di guerra. Alla fine degli
anni Quaranta fu istituito il primo diploma in musicoterapia e nel 1950 venne
fondata la prima associazione di musicoterapeuti, la National Association of
Music Therapy. Attualmente l’associazione statunitense di riferimento per
questa disciplina è l’American Music Association, nata nel 1998. Esistono
diversi orientamenti di musicoterapica, ognuno con una propria struttura teorica di riferimento, una tecnica di riferimento, una tecnica e un metodo. Sono
numerosi gli studi che dimostrano i benefici ottenibili a livello fisico e psicologico dalla musicoterapia, che trova applicazione sia nei soggetti “sani”, per
rilassarsi, ridurre lo stress, migliorare l’umore e accompagnare l’attività fisica,
sia in chi soffre di patologie acute o croniche, come i deficit fisici, emotivi,
sociali o cognitivi.
In generale, la musica influisce sul battito cardiaco, la pressione sanguinea, la
respirazione, il livello di alcuni ormoni, in particolare quelli dello stress e le
endorfine.
È importante che la musica sia scelta da un terapeuta adeguatamente preparato, in grado di rispondere alle necessità specifiche dei singoli pazienti. Uno
studio dell’università di Tokio, infatti, attesta che esiste una precisa differenza
di azione della musica classica, rispetto a quella rock su alcune funzioni
fisiologiche e sul battito cardiaco, in particolare. La prima deprime l’attività
del sistema nervoso simpatico e induce una diminuzione della frequenza del
battito cardiaco, mentre la seconda lo innalza, generando un senso di disagio, come il rumore.
La musica, è intuitivo, influisce anche sullo stato d’animo. Le caratteristiche
ritmiche possono indurre calma o eccitamento e favorire l’espressione non
verbale delle emozioni.
È dimostrato che la musica trova la sua applicazione in varie branche della
medicina a cominciare dalla riabilitazione, sia in caso di danni cerebrali sia
nella fase di recupero dopo interventi chirurgici e traumi. Per esempio, uno
studio condotto presso il dipartimento di Medicina e Cura di Linkoping, in
Svezia, ha rilevato che le pazienti isterectomizzate che sono state sottoposte
a musicoterapia di gruppo hanno riferito una maggiore efficacia dell’analgesia e hanno ripreso in pieno le loro normali attività più rapidamente rispetto
alle donne che non avevano tale trattamento.
La musica viene utilizzata con pazienti terminali anche presso l’hospice di
Bergamo.
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Uno studio condotto presso l’hospice of Palm Beach county in Florida, che
prevedeva il ricorso a sessioni di musica attiva e passiva, ha dimostrato che
esse hanno favorito l’interazione tra il malato e i famigliari, hanno costituito il
contesto per una riflessione spirituale interiore e la verbalizzazione delle ansie e delle paure. Le sessioni di musicoterapia sono state efficaci, inoltre, per
il controllo del dolore e per favorire il benessere fisico e il rilassamento, probabilmente grazie al superiore rilascio di endorfine indotto dall’attività musicale.
Altrove la musica è stata anche utilizzata nelle sale parto. Le madri che ne
hanno beneficato hanno richiesto una somministrazione ridotta di farmaci
antidolorifici durante il travaglio, perché la musica ha indotto la visualizzazione di immagini positive, il rilassamento, favorendo altresì la dilatazione
della cervice e il posizionamento corretto del bambino.
La Pet Therapy
Questa terapia nasce nel 1953 in America, ad opera dello psichiatra Boris
Levinson. Mentre lavorava con un bambino autistico, si rese conto che il suo
cane gli offriva la possibilità di proiettare le proprie sensazioni interiori, costituiva un’occasione di scambio affettivo, di gioco e rendeva più piacevole le
sedute. Nel 1961 coniò il termine Pet Therapy, oggi sostituito in italiano, più
propriamente, da Terapie Assistite dall’Animale (TAA). L’espressione Pet Therapy, infatti, viene utilizzata per indicare i programmi di addestramento del
comportamento animale. La Terapia Assistita dall’Animale (TAA) è “un intervento che ha obiettivi specifici predefiniti, in cui un animale, che risponde a
determinati requisiti, è parte integrante del trattamento. La TAA è diretta da
un professionista con esperienza specifica nel campo, nell’ambito dell’esercizio della propria professione”.
Ad essa si affiancano le Attività Assistite dall’Animale (AAA), “interventi di
tipo educativo, ricreativo e/o terapeutico, che hanno l’obiettivo di migliorare
la qualità della vita. Gli interventi di AAA possono essere erogati in ambienti
di vario tipo, da professionisti opportunamente formati, para-professionisti e/
o volontari, con animali che rispondono a determinati requisiti”.
La TAA e la AAA sono utilizzate da noi in hospice.
Meccanismi d’azione
Le TAA sono finalizzate ad un miglioramento delle condizioni fisiche, sociali
ed emotive delle persone a cui sono dirette. Non si propongono come metodo unico, infallibile, né in sostituzione ad altre forme di terapia, bensì in
affiancamento ad esse. La prescrizione, la progettazione e l’attuazione di un
simile intervento richiede la presenza di una équipe multidisciplinare, a seconda del paziente e della patologia da trattare.
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I meccanismi d’azione fondamentali di questo tipo di intervento sono:
•
il rapporto uomo-animale, affettivo ed emozionale, in grado di arrecare
non solo benefici emotivi e psicologici, ma anche fisici, quali l’abbassamento della pressione sanguigna, il rallentamento del battito cardiaco;
•
la comunicazione uomo-animale, che si basa su una forma di linguaggio molto semplice, cadenzata, con ripetizioni frequenti, tono crescente
e interrogativo, che produce un effetto rassicurante, sia in chi parla, sia
in chi ascolta;
•
il tatto: il contatto corporeo, il piacere tattile permettono la formazione
di un confine psicologico, della propria identità, del proprio Sé e della
propria esistenza;
•
l’elemento ludico, cioè il gioco e il divertimento, che portano benefici
psicosomatici. Le persone, tramite esso, possono liberare le loro energie
e ricavare sensazioni di benessere e di calma;
•
l’attaccamento: il legame che si viene a creare tra uomo e animale può,
almeno in parte, compensare la mancanza eventuale di quello interumano, e, comunque, favorire lo sviluppo di legami di attaccamento basati sulla fiducia, che potranno, in seguito, essere anche trasferiti ad altri
individui;
•
l’empatia: la capacità di identificarsi con l’animale, nel tempo, viene
trasferita anche alle relazioni con gli altri esseri umani;
•
l’antropomorfismo: l’attribuzione di alcune caratteristiche umane all’animale, può rappresentare un valido meccanismo per superare un eventuale egocentrismo e focalizzare attenzione sul mondo esterno;
•
il senso di comunione con la natura.
La Terapia Artistica
Comprende la terapia del colore e si rivolge “al corpo umano nella sua dimensione fisiologica e patologica, esercitando tecniche diverse per conoscere l’espressione artistica a valutandone gli effetti sulla persona”.
Servendosi dei colori per dipingere senza scopi precisi, la persona assistita ha
la possibilità di far scorrere la propria fantasia; il risultato dell’aiuto che la
terapia artistica può concedere sarà diverso a seconda dei materiali, delle
tecniche e degli strumenti impiegati. Il colore suscita sensazioni nell’essere
umano: “ il giallo porta luce, il verde equilibrio, il rosso e l’arancio suscitano
entusiasmo, il blu dà quiete”. L’uso terapeutico del colore sfrutta queste capacità per cercare di armonizzare la sfera psichica e nel tempo anche quella fisica
del soggetto.
Questo genere di attività, proprio perchè privo di schemi, è accessibile anche
per coloro che sostengono di non avere uno spiccato senso artistico, ogni
persona può esprimere stati d’animo ed emozioni: infatti “in ogni attività, non
è importante il risultato finale, quanto il processo e l’esperienza creativa,
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mantenendosi in una condizione di ‘ascolto’ dei sensi”. Per un intervento di
questo tipo, è necessario preparare il personale, le persone assistite e l’ambiente. Si può partire da una frase, un oggetto, una poesia, un racconto e
trarre spunto da qui per proporre un tema da dipingere. La persona assistita,
potrà anche scegliere il colore che più si addice toccando un oggetto di quella tinta e analizzando le sensazioni che trasmette. Se necessario, l’operatore
dovrà fornire indicazione concernenti la creazione di nuovi colori.
Potrebbe poi essere interessante per l’assistito analizzare con l’operatore il
proprio dipinto, descriverne il significato e le sensazioni che questo gli trasmette. Non è necessario che il disegno abbia una precisa forma: potrebbe
anche limitarsi ad una sovrapposizione di colori, significante per l’autore.
L’arte terapia non usa gli elementi artistici a fini diagnostici o psicologici:
l’individuo impara ad osservare, ascoltare, muoversi, sentire e pensare in modo
più cosciente.
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Vorrei raccontare una storia
Mariastella Moro
Vorrei raccontare una storia, la storia di un bambino selvaggio che venne
ritrovato nei boschi vicino a Parigi alla fine del 1700. Numerosi furono i
medici e gli studiosi che si interessarono a questo bambino veramente strano.
Un bambino che dopo molti mesi non aveva ancora altro nome che “il sauvage”. Fra i vari medici che si fecero portare “il sauvage” per esprimere il loro
giudizio sulla possibilità di una sua educabilità il più autorevole fu Pinel, lo
psichiatra che passò alla storia come colui che tolse le “catene” ai “pazzi”.
Pinel concluse il suo rapporto con un giudizio implacabile: “ il sauvage” non
è educabile. Nella diagnosi psichiatrica di Pinel una semplice similitudine
diviene un’identità: “il sauvage” presenta un insieme di segni che si possono
ritrovare anche nei bambini diagnosticati idioti; il bambino assomiglia a loro:
quindi è un idiota! Una diagnosi che racchiude il bambino all’interno di un
ritratto generale, di una categoria standard: quello dell’idiozia, negando di
fatto la sua specificità, unicità come individuo. Nello stesso anno “il sauvage”
incontra un altro giovane medico idealista: Itard. Incontro decisivo per l’identità di entrambi perché Itard, più tardi, darà un nome al “sauvage”: Victor. Gli
conferirà un inizio di identità civile e sociale e Victor , a sua volta, permetterà
a Itard la realizzazione di un inedito progetto pedagogico che lo toglierà dal
ruolo di “oggetto” di curiosità scientifica per fargli assumere il ruolo di “soggetto” del suo destino. Itard nonostante la stima intellettuale che aveva di
Pinel non poté accettare il suo inappellabile verdetto espresso su Victor e
propose la seguente spiegazione: i segni che Victor presentava erano più gli
effetti di un isolamento prolungato che uno stato di imbecillità congenità, in
quanto l’uomo non progredisce da solo. Elaborò, quindi, un percorso riabilitativo-educativo che rispettasse il più possibile l’individualità, la storia così
particolare di Victor. Un percorso nel quale Victor non era “oggetto” di un
intervento pensato dall’esperto e da lui imposto, ma “soggetto-interlocutore”,
dotato di propri desideri, emozioni, ritmi, abitudini, e quindi con il “potere”
di determinare e controllare il proprio processo riabilitativo attraverso una
continua interazione con l’esperto all’interno di una relazione di reciprocità
(A. Canevaro, J. Gaudreau, 2002).
Itard attuò inconsapevolmente un cambiamento di paradigma perché recuperò l’identità, la soggettività al di là delle classificazioni. far emergere il
nome significa, infatti, andare al di là delle apparenze, dei ritratti comuni
all’interno dei quali si costringono gli individui con le classificazioni, per
riconoscerli nella loro unicità irripetibile. Chiamare una persona per nome da
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parte del medico o dell’infermiera significa dirgli: la scienza dice che tu hai…,
ma tu sei; vuol dire avere un “chi” oltre a un “che cosa”, avere una persona
reale con la sua particolare esperienza della malattia determinata da un fitto
intreccio di elementi fisiologici, soggettivi e culturali.
“C’è in ogni essere umano qualcosa di sacro. Ma non è la persona. Neppure
la persona umana. È lui proprio qui nella sua singolarità, semplicemente” (S.
Weil, 1983).
Pinel e Itard possono rappresentare due momenti complementari nella relazione medico-paziente in quanto la diagnosi è la descrizione generale, comprensione oggettiva, del problema ed è fondamentale per riuscire ad inquadrarlo,
ma essa richiede di essere completata e approfondita da una descrizione della
specificità del soggetto fatta in prima persona attraverso la narrazione per permettere la comunicazione, per far emergere i bisogni individuali di cura del
paziente. Ciò richiede al medico di uscire dal mondo dell’universo unico della
diagnosi che pone al centro il problema che deve essere inquadrato, compreso
da chi detiene il sapere razionale, per aprirsi alla differenza degli universi multipli, così come sono definiti da Tobia Nathàn in Medici e Stregoni, che mettono l’accento sulla comunicazione. Essi propongono di uscire dal linguaggio
tecnico che delinea lo stesso ritratto dei differenti malati sulla base delle categorie diagnostiche standard e costruire con il paziente un linguaggio diverso
che permetta di interagire con lui, di far emergere il suo ritratto unico e irripetibile da quello generale della diagnosi, evitando così che le classificazioni e le
tipologie da strumenti di comprensione diventino mezzi di deformazione e
coercizione. Si può così passare dall’incomunicabilità tra il linguaggio medico
e quello quotidiano, all’incontro tra espressioni e mondi diversi. Incontro che
permette di interpretare il messaggio della malattia sia attraverso il linguaggio
del corpo che le parole del paziente.
“Ci sono realtà che posso conoscere soltanto non restando presso di me, solo
rompendo la continuità dell’esperienza cognitiva nella quale sono presente a
me stesso. […] Questa continuità dell’esperienza cognitiva mi fa cercare spiegazioni, ragioni, mi fa verificare cause trovare misure, mi fa riconoscere l’altro a
partire dalle mie reazioni, come simile a me, o radicalmente diverso nel confronto con me. Interrompendo questa continuità ci sarà spazio per porsi accanto al vivere unico e irripetibile di un altro. […] Perché se il dolore e l’ansia, o il
pudore e la gioia, o la malinconia sono ben note anche a me come stato d’animo, quando sono il dolore e l’ansia suoi, quando la gioia e pudore traspaiono
dai suoi gesti, o la malinconia dalla sua espressione, allora entro nell’ignoto,
nell’irripetibile e unico modo in cui gli stati d’animo si vivono in ognuno. Il
gesto, l’espressione, il corpo dell’altro sono qui ma la totalità cui rinviano è
invisibile e irraggiungibile, celata mentre si espone” ( I. Lizzola, 2002).
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Porre al centro la comunicazione permette di superare la cesura fra mente e
corpo che la biomedicina ha sancito trasformando il corpo in una macchina
composta da più parti aggregate, in un organismo. questo corpo-organismo
che deve essere indagato, osservato, per cogliere i segni che consentano di
individuare la patologia che può essere sconfitta attraverso la terapia. prospettiva, questa della biomedicina, che viene messa in discussione dal dolore cronico nel suo essere totale.
“Il dolore, percepito sia come contrazione dell’universo nella presenza immediata del corpo o viceversa come una dilatazione dell’organismo che giunge a saturare ogni possibile spazio, finisce col dissolvere il sé insieme al corpo. E nel far ciò dimostra come il corpo stesso non sia riducibile a un oggetto,
a una qualche entità fisica o a un semplice stato fisiologico. Il corpo non è il
sostrato della soggettività ma il suo fondamento, e ciò spiega perché la classica distinzione della cultura occidentale tra organismo fisico e vita della mente
sia contrassegnata da implicite contraddizioni” (F. Dovigo, 2004).
Il corpo movendosi nella realtà è il tramite e l’interprete attraverso cui conosciamo il mondo, con cui la mente si incarna nel mondo.
“Mente, corpo e mondo sono elementi interdipendenti dell’unico processo di
conoscenza della realtà. Quindi il tentativo di separare il dolore fisico dall’esperienza soggettiva si rivela un compito impossibile, in quanto il dolore è
la sua descrizione da parte del paziente. Ciò apre una nuova prospettiva fondata non più sulla vista , ma sull’ascolto: dove la storia di un caso si approfondisce fino a diventare una vera storia, un racconto, aprendo all’esperienza
che il malato e la sua famiglia fanno della malattia, trasformandoli da spettatori di un’avventura che li vede coinvolti in prima persona , ma rispetto alla
quale hanno pochissime possibilità d’intervento, in protagonisti direttamente
coinvolti nel processo di costruzione della propria salute” (F. Dovigo, 2004).
In questo modo le parole con cui il paziente cerca dentro di sé e con gli altri
una spiegazione alla malattia lasciano una traccia nelle cartelle cliniche
dove trovano solitamente posto solo storie narrate da “altri”, cioè dagli operatori. Una comunicazione sanitaria che si va delineando come forma di narrazione collettiva a cui i diversi protagonisti (medici, pazienti, infermieri, terapisti, volontari, famigliari) contribuiscono seppur con pesi differenti. Un
racconto comune che, attraverso una negoziazione continua fra prospettive
differenti e potenzialmente conflittuali, permette una continua lettura e interpretazione del decorso della malattia in modo da costruire un senso condiviso che aiuti sia i sanitari che i pazienti a confrontarsi con l’incertezza che
questa esperienza inevitabilmente comporta.
Un racconto collettivo dove il medico si congeda dalla volontà e la sostitu81
isce con l’attenzione, con un ascolto vero che passa attraverso l’attivazione
di tutte le proprie sensibilità, un “mettersi in gioco”, perché il dialogo si
avvale sia del linguaggio esplicito che implicito. Ascolto “a-centrato” o sguardo profondo che porta il corpo a vedere oltre il corpo per ri-conoscere chi
gli sta di fronte in modo da accogliere la sua storia, la sua originalità. Un
ascolto che origina un’azione che si pone in circolarità con l’osservazione
e la riflessione per permettere all’operatore di ri-orientare l’azione in caso
di necessità, rimanendo costantemente “aperto” ai rimandi offerti dal paziente per evitare di calpestarlo con le proprie certezze, in quanto la propria descrizione-interpretazione deriva da un punto di vista particolare che
non può essere né esaustivo né definitivo. Una circolarità che permette di
problematizzare l’azione, di non ricercare conferme ma nuove possibilità,
di evidenziare le varie rappresentazioni e i punti di vista che guidano i
propri gesti (osservare l’osservazione).
Si va delineando così un diverso concetto di aiuto. Infatti nella prospettiva
basata sulla “osservazione” vi è la netta distinzione tra salute e malattia, tra
chi cura e chi è curato. Essa tratteggia una rappresentazione passiva del paziente, in quanto il bisogno è sinonimo di mancanza (non ha…, non sa) e di
dipendenza, e attiva azioni “esterne” di assistenza e compensazione unidirezionali: (A cura B). Essa origina due distinti percorsi che potremmo definire di
“delega”: quello “paternalistico” (“so io qual è il suo bene” o “dottore faccia
lei”) e, più recentemente, quello “contrattualistico” dove l’autonomia del
malato-cliente si gioca sulla scelta del medico-specialista presente sul mercato. Mentre nel racconto collettivo il paziente viene visto con risorse, capacità
che gli permettono di far fronte ai propri bisogni e desideri, come “naturalmente predisposto all’attività”, a fare da filtro verso le azioni esterne.
“L’accento si sposta dal controllo (dal punto di vista dell’ambiente esterno) al
problema dell’organizzazione interna dei sistemi (dal punto di vista della loro
autonomia), da un idea di sistema determinato dagli input ambientali a un
idea di sistema autonomo che grazie alla chiusura organizzativa definisce il
dominio delle perturbazioni ambientali pertinenti” (M. Ceruti, 1989).
L’azione di cura, in questa prospettiva, non si svolge in una direzione unica
(medico-paziente, medico- famiglia, ecc. e viceversa), ma in una pluralità di
direzioni in quanto il paziente e il medico sono immersi in una complessa
rete di interazioni. Un azione che si “tesse”, in maniera continua e flessibile,
attraverso uno scambio continuo di informazioni, significati e gesti fra coloro
che vi partecipano(si istaura una circolarità tra A e B).
“Sappiamo che anche chi cura entra, inevitabilmente, nel rapporto di cura,
entra cioè in quel circolo ermeneutica in cui, come afferma Dilthey, lo spiega82
re (Erklären) che è proprio delle scienze esatte lascia il posto al comprendere
(Verstehen), a quell’atteggiamento di conoscenza in cui l’esperienza vissuta
non è una “variabile di disturbo”, ma ha dignità e valore di cittadinanza” (F.
Dovigo, 2004).
Quindi la relazione si va delineando come “luogo di incontro e di scambio”
fra gli attori coinvolti. Ma la condivisione e lo scambio implicano reciprocità,
assunzione reciproca della responsabilità di costruire il percorso di cura, un
farsi compagni di viaggio seppur con zaini differenti. Ciò porta, da una parte,
a vedere nell’“altro” un interlocutore a cui rispondere tutelandosi dagli eccessi dell’azione (oggettivazione della persona, invadenza, manipolazione),
mentre dall’altra il paziente può di nuovo “prendersi cura di sé”, esprimere
responsabilità e creatività, vedersi curato e curante, potersi di nuovo narrare
e interpretare.
“Posso vedermi curato e curante, agente e paziente, in una rete di comunicazioni ed elaborazioni, di decisioni e di affidamenti che mi coinvolgono con
quanti mi sono prossimi” (I. Lizzola, 2002).
Si può così notare nelle organizzazioni sanitarie le tracce di una graduale
trasformazione che coinvolge gli atteggiamenti, le pratiche, i linguaggi degli operatori. Si fanno largo nuove metafore di concepire ed esprimere l’idea
stessa di cura centrate sulle dimensioni di attenzione, costruzione della salute. Un invito a pensare la cura non come “curare” o “prendersi cura”
dove non ci si cura tanto degli altri, ma delle cose da procurare a loro (si
mette al centro le prestazioni e non il paziente), ma come “aver cura” che
offre agli altri la possibilità di potersi prendere cura di sé. Forma di cura
possibile solo se colui che cura è disposto a “mettersi in gioco”, a condividere lo spaesamento di chi è curato attraverso un incontro privilegiato come
quello di Itard e Victor nonostante le sue imperfezioni, le sue crisi.
Un incontro e condivisione che, come abbiamo detto precedentemente,
deve essere segnato da gesti che riacquistino il loro significato etico parlando di vicinanza, di attenzione per permettere all’altro di sentirsi a “casa”, di
sentirsi rispettato. Ciò diventa primario soprattutto quando, per necessità,
nelle organizzazioni sanitarie ci si trova ad “invadere” il corpo- luogo d’intimità dell’altro annullando il confine fra l’Io e il Tu (nelle visite, nell’igiene
personale di pazienti non autosufficienti, durante i vari esami, ecc.) e questo può causare un “rigetto” nell’altro.
Per tale motivo, il contatto fisico richiede abilità relazionali, di entrare “in
punta di piedi” instaurando un dialogo, cercando di spiegare ciò che si sta
facendo, non agendo in maniera meccanica per preservare la dignità della
persona.
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Vorrei concludere questi “pensieri”, che nascono dalla mia esperienza diretta all’interno dell’hospice attraverso il tirocinio unita alla mia storia personale di educatrice e studente, con una citazione:
“in un certo senso stiamo imparando un intero nuovo mondo. In parte è soltanto imparare dei nomi, ma imparare dei nomi è approfondire il significato
linguistico o semantico di qualcosa, perché imparare nuovi nomi sulle cose
vuol dire imparare anche qualcosa sul loro conto. Se conosci i nomi di ogni
albero guardi gli alberi in modo diverso. Altrimenti sono solo alberi. Se invece
cominci ad imparare i nomi di ciascuno allora diventano qualcosa di diverso”
(F. Dovigo, 2004).
A questa, vorrei aggiungere che servizi di cura che pongono al centro le
persone e non le prestazioni devono scendere nei particolari, oltre le etichette fuorvianti se vogliono incontrare l’umanità faccia a faccia, perché gli uomini come gli alberi si nutrono di differenze.
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Incrociamo gli sguardi
Albino Fascendini
In ospedale vedo molti morti
Li accogliamo in condizioni gravissime, privi di conoscenza, in stato di coma
profondo: con prontezza e competenza diamo inizio a indagini, assistenza e
cura. Di questi morti, non incrociamo mai lo sguardo. Non so dire “quale
sguardo si posa su di me?” Incrociamo lo sguardo di padri e di madri, di figli,
parenti e amici. Vi leggiamo sorpresa, incredulità, rabbia, angoscia. Impariamo a capire e informare con parole scarne; ad accompagnare in silenzio
senza improvvisare risposte non vere.
Di queste esperienze ricordo la premurosa attenzione e l’impegno senza riserva di tante persone pronte a farsi carico di assistenza e cura per corpi
devastati, sapendo di curare senza poter guarire.
Perché è presto evidente che stiamo prendendoci cura di un corpo, di una
macchina indispensabile per riattivare vite umane, per rimettere in moto
emozioni, pensieri, relazioni. Tutti abbiamo bisogno di relazioni.
Di più ne hanno bisogno, subito, i sopravvissuti, che hanno conosciuto, toccato e amato quei corpi.
Così l’incredulità, lo stupore, lo smarrimento ci travolge. Sfiorati dalla morte da
vivi, attraversano i confini della vita e, per interminabili istanti, restano come
sospesi “in una nebbia d’argento”, che somiglia al caos
“gelido, immenso, senza una speranza o un rottame a cui aggrapparsi… senza un solo segnale della terra per orientare la disperazione. L’incertezza è più
ostile della morte” (E. Dickinson, 1995).
I morti non hanno occhi, né sguardo. Così su di noi si posa lo sguardo dei
sopravvissuti, che dobbiamo aiutare a ritrovarsi e riconoscersi, per approdare
ad un dolore sereno, capaci di farsi carico della pena e accettare l’impotenza
ad alleviarla. Ecco: non i morti, ma i morenti e i sopravvissuti sfiorati dalla
morte ci guardano e possono incrociare il nostro sguardo. Non possiamo
evitare questo estremo incontro. Dobbiamo catturare l’ultimo sguardo dei
morenti e aprire il nostro, come finestra nelle nostre case, per vedere e capire
e dare risposte adeguate a chi muore e sopportare, nella luce, l’attesa quotidiana del nostro morire.
Jacopo è un bambino di cinque anni. Tenuto per mano dalla nonna passeggia
su un marciapiede, in città, vicino all’ospedale. Una vettura sbanda lo travol85
ge e lo trascina sull’asfalto per alcuni metri. La nonna quasi non si accorge. I
soccorsi del 118 sono rapidissimi. Viene portato in ospedale. È in coma profondo. Il respiro è insufficiente. Il polso è bradicardico, ritmico, valido. Le
pupille sono isocoriche, midriatiche, scarsamente reagenti alla luce. Il piccolo traumatizzato viene intubato e mantenuto in ventilazione meccanica assistita. Il quadro clinico peggiora rapidamente: fibrillazione ventricolare e midriasi rigida. Le manovre rianimatorie sono inefficaci. Il tracciato elettroencefalografico è piatto. Dopo circa un’ora dal ricovero nessun parente è stato
rintracciato. Concordiamo tra noi di mantenere il piccolo malato in ventilazione meccanica in attesa dei genitori.
Quando arriva la madre riferisco i fatti, illustro le condizioni cliniche del
bambino all’ingresso, il rapido gravissimo peggioramento, l’irreversibilità in
atto. La madre spalanca gli occhi, mi guarda, atteggia il volto ad un “sorriso”
immobile, incomprensibile, stupito. Poi esplode: “Dottore, lei sta scherzando, vero?” “No, signora”. Risposta povera, impotente, colpevole.
Ho visto poche persone morire in ospedale
Non ho mai visto nessuno morire nell’angoscia, nella disperazione, con dolori
incoercibili. Ho visto “uscire di scena” in pochi istanti. Ho raccolto domande
senza avere il tempo di dare risposte e di essere utile.
Andrea è un uomo dall’apparente età di cinquanta anni, robusto. Viene condotto in Pronto Soccorso dopo un incidente non ben precisato. È sveglio,
orientato, pallido, sofferente. Respira con qualche difficoltà. Il polso è frequente, ritmico, apprezzabile. Sdraiato sulla barella, Andrea indossa scarpe e
abiti da lavoro. Tiene le sue mani premute sul petto. Prima che possa controllare la pressione, raccogliere qualche informazione e visitarlo, Andrea mi
guarda con occhi spalancati e mi dice: “Dottore, sto morendo?!” Andrea chiede
e afferma, sa già la risposta, vuole solo conferma. Ho appena fatto in tempo
ad appoggiare la mia mano sotto le sue mani e avverto il disastro. È evidentissimo uno sfondamento toracico. Sto formulando una risposta, un commento
alle parole di Andrea e lo vedo impallidire ulteriormente, non sento più il
polso. Andrea continua a guardarmi, le sue pupille sono midriatiche. Distolgo il mio sguardo, ruoto il capo di lato e rispondo: “Lo so, Andrea!”.
Rispondo solo a me stesso. Andrea è morto: trauma toracico, rottura dei grossi vasi, tamponamento cardiaco. La risposta pronta e chiara non è utile a
nessuno.
Io sono solo con la mia impotenza.
Insieme con altri, ho accompagnato molti malati terminali, nei loro ultimi
giorni
Raccogliamo desideri bisogni domande. Concordiamo informazioni da dare.
Predisponiamo cure adeguandole ai sintomi e ai desideri dei malati. Siamo
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vicini ai sopravvissuti. Certamente commettiamo errori. Non sempre otteniamo soddisfazione per tutti.
Non ho mai visto nessuno morire nell’angoscia e nella disperazione. Parlo
per me, beninteso. Forse siamo particolarmente attenti e premurosi, disponibili e professionalmente preparati. Quanto ho osservato prova che è possibile, talvolta, costruire “percorsi umani” anche per situazioni di dolore e sofferenza estremi. È possibile se, soprattutto quando le parole vengono dette con
fatica e parsimonia, prestiamo molta attenzione al volto, agli sguardi, ad occhi che guardano ascoltano e dicono. Gli occhi del malato che sta morendo,
gli occhi dei familiari, degli amici e…i nostri occhi. Allora
“il volto ci appare come quel luogo unico in cui si trasgredisce incessantemente la distinzione tra materia e spirito, tra anima e corpo, tra forma e contenuto. Il volto è l’espressione di una identità umana all’incrocio tra il visibile
e l’invisibile” (B. Chenu, 1996).
“Il volto, ci dice Levinas, è l’identità stessa dell’essere. Il volto parla, si espone; esso è molto di più di una Gestalt che l’atto della percezione rende unitaria. Esso è la manifestazione più totale dell’essenza della nostra umanità. Con
il suo chiedere e dare parola, con il suo guardare e farsi guardare, il volto
conferma che l’uomo è quell’essere che trae senso dal confronto con l’altro,
che la sua sussistenza dipende dalla relazione, che l’essenza stessa dell’umanità è il suo ‘essere in relazione’. Il volto è dunque l’esperienza dell’altro che
dalla sua estraneità mi chiama alla partecipazione, chiede che l’alterità sia
insieme riconosciuta e oltrepassata attraverso la comunicazione dello sguardo e della voce” (A. Carotenuto, 1997).
Ecco: volto, occhi, sguardo sono tappe e strumenti essenziali per stare insieme e comunicare volontà desideri emozioni. Tanto più essenziali quanto più
il corpo si fa avaro di gesti e di parole.
Nel “percorso di accompagnamento” abbiamo cercato sempre di adeguare
le nostre risposte alle domande del malato, che possono cambiare radicalmente, in relazione al mutare delle sue condizioni fisiche e psicologiche.
Antonia è una giovane donna coniugata e innamorata di suo marito e della
vita. Ha un bambino di pochi anni. È amica mia. Un giorno si presenta in
studio preoccupatissima. L’ascolto raccontare i suoi disturbi. Sospetto un tumore mammario. Le indagini strumentali confermano il sospetto. Comincia il
percorso terapeutico: intervento chirurgico, chemioterapia, controlli ripetuti.
Antonia è forte. Vuole essere informata di tutto: terapie, risultati, evoluzioni
possibili, prognosi. Non è curiosità: esercita il suo diritto di gestire il proprio
male. È, apparentemente, molto serena, cosciente della serietà della malattia. La vedo sconvolta quando intensi dolori diffusi spingono i medici curanti
a modificare le terapie. Ricorrono alla morfina e non ne parlano con lei. I
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dolori si attenuano. Diffuse metastasi ossee ed epatiche vengono documentate. Le informazioni non arrivano. Antonia affronta i medici a viso aperto e
ribadisce la sua volontà di essere informata sempre e di tutto quanto la riguarda. Quando la rivedo, Antonia si sfoga con me. Critica apertamente il comportamento dei colleghi e mi vuole garante del rispetto delle sue volontà.
Glielo prometto.
Antonia mi guarda intensamente e dice “sarò una delle prime malate ospiti
da te. Ricordati la promessa”. Avevamo da poche settimane inaugurato un
hospice presso un ospedale cittadino.
Il quadro clinico evolve in netto peggioramento. Antonia viene ricoverata in
hospice. La sintomatologia è ben controllata. Antonia è di nuovo serena.
“Adesso puoi fare quello che ritieni giusto. Non è necessario che mi dica
tutto. Mi fido di te. Sono quasi pronta.” E due giorni dopo: “Scusami, ci ho
ripensato. Non darmi troppa morfina. Sto bene, mi toglie il dolore, mi aiuta
ad essere serena nell’attesa, ma…”.
“Ma…, Antonia?” “Temo di rilassarmi troppo, in questa attesa. Temo di essere
meno vigile. Temo di dire cose che non vorrei. Tu sai quante amiche e amici
mi sono cari. Tu sai quante cose mi hanno confidato. Non vorrei…”. Sublime
delicatezza! Generosa attenzione ai diritti degli altri.
Non è sempre così. Non per colpa. Talvolta siamo sopraffatti dalla complessità dei problemi e non riusciamo a misurarne peso, priorità, urgenza. Non
riusciamo a capire. Prendiamo in considerazione solo il nostro punto di vista.
Non vediamo lo sguardo che si posa su di noi. Non incrociamo gli sguardi.
Anche parenti e malati possono rimuovere problemi, sottovalutare bisogni e
“pretendere” risposte per sé soli. Così, tutti quanti dimentichiamo gli altri,
lasciamo cadere uno sguardo, perdiamo l’occasione e la possibilità di incontrarci, in un lungo istante rivelatore, prima che la relazione umana abbia fine.
Il signor B.L. di 73 anni è accolto in hospice per una cachessia da neoplasia
polmonare con diffuse metastasi. È in fase terminale. Più volte ha detto di
voler “dormire”, perché “ molto stanco”. Alcuni giorni prima di morire parla
a lungo con il medico: potrebbe avere paura, potrebbe essere angosciato,
non vuole “vedersi morire”. Il medico gli prospetta le possibilità di ricorrere
alla sedazione terminale. Il malato accetta la proposta e si rasserena. Vedono
entrambi chiaramente l’evoluzione della malattia: terminalità prossima. Alla
esplicita richiesta il medico propone una soluzione idonea. Ma né il medico,
né il malato, né altri valutano l’opportunità di informare i famigliari sulla
irreversibilità del quadro clinico, sui timori e i desideri del malato, sulla proposta del medico. La situazione precipita. L’équipe curante decide di iniziare
la sedazione terminale. I famigliari si oppongono.
“Non è ancora giunto il momento!” dicono. Sei ore dopo si dà inizio alla
sedazione terminale.
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Sarebbe stato preferibile una maggior attenzione di tutti agli sguardi degli
altri, per concordare soluzioni accettate da tutti, che tenendo come priorità
l’autonomia del malato, mantenessero viva, il più a lungo possibile, una relazione tollerabile, profonda, umana.
Mi chiedo che cosa ho imparato da queste esperienze. Che cosa conservo da
tante emozioni, che hanno occupato alcuni dei miei giorni. Che cosa ho letto
nello sguardo che si è posato su di me. Quali risposte hanno letto gli altri nel
mio sguardo.
Non ho certo imparato a morire. Neppure ho abbandonato l’inconscia convinzione di essere immortale.
Quando mi sono lasciato catturare dallo sguardo, che si posava su di me e mi
suggeriva: “lasciatemi andare, lasciatemi morire. Non vi limitate a trattare i
miei sintomi con le vostre sofisticate novità, ma aiutatemi a trovare la mia
strada!”
Allora ho imparato il potere dell’impotenza. Diceva Cicely Saunders, in una
testimonianza resa a David Clark, in una intervista televisiva:
“Io penso che il potere dell’essere impotenti sia qualcosa che si impara quando si è con le persone che muoiono e che sono fondamentalmente indifese[…], il potere dell’impotenza è qualcosa che si può coltivare senza fine, in
modo da passare dalla comprensione clinica a quella filosofica e teologica e
lì non c’è fine alla scoperta” (C. Saunders).
Sono sempre più convinto della mia finitudine reale e comincio ad accettarla
in una prospettiva quotidiana. Un mio carissimo amico e collega aggredito in
giovane età da un cancro al colon, mi diceva “quando il male ti morde la
carne, desideri aspettative sogni perdono senso e interesse. Cambia la prospettiva. Tutto diventa quotidiano, istantaneo banale vuoto. Ha senso anche
l’attesa. E cominci a prepararti, ogni giorno”.
Morire sì,
non essere aggrediti dalla morte.
Morire persuasi
che un siffatto viaggio sia il migliore.
Al pensier della morte repentina
il sangue mi si gela.
Morte non mi ghermire,
ma da lontano annunciati
e da amica mi prendi
come l’estrema delle mie abitudini.
(V. Cardarelli, 1989)
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Ho conosciuto Olga in una residenza sanitaria per anziani, luogo squallido e
affollato. Olga è una signora esile, minuta; veste inappuntabile sempre, linda,
decorosa; gioca a carte; lavora all’uncinetto; parla pochissimo; sta bene; è
serena. Unico limite la sua profonda sordità, ben compensata dall’attenzione
vivace e silenziosa alle parole degli altri, ai rumori delle cose.
Olga ha 102 anni. Negli ultimi mesi, quando la vado a trovare, spesso la sorprendo
a letto, vigile, immobile, in silenzio. Mi saluta con un sorriso.
Le chiedo: “Come va Olga?” La risposta immediata chiara concisa non lascia
dubbi: “Aspetto!”. Non sono pronto ad una risposta tanto sicura, piena di
senso, realistica, “quotidiana”. Ancora non ho imparato a portare con “leggerezza” il peso dei giorni. Non ho risposte verbali. Atteggio il volto e gli occhi
a sorpresa stupore incredulità.
Olga legge nel mio sguardo la retorica, un povero tentativo di consolare e
ferma subito le mie parole fuori luogo, inutili,false, dannose. “Scusi dottore
lei ha qualcosa di meglio da suggerirmi…?”
Olga ha raggiunto la “salute globale”, ha attinto la saggezza. Io no. Non ho
risposte alla sua domanda e cambio discorso, parlo d’altro.
“I suoi parenti la vengono ancora a trovare?”
Olga pronta insiste: “Certamente, anche se meno spesso, soprattutto mia figlia: ha i suoi acciacchi, poverina!” La figlia ha 80 anni.
Rivivo le intense emozioni provate incrociando lo sguardo di uomini e donne
che vedo morire.
“Non dire niente. Non hai risposte da dare al mio sguardo che si annebbia.
Non hai spiegazioni per la morte. Accettala, è un momento della vita.”
La morte, anche se vasta,
è soltanto la morte e non può crescere.
La morte è una e viene solo una volta,
e solo inchioda gli occhi.
(E. Dickinson, 1995)
Ad Olga ho dato risposte banali, parole vuote, senza senso, parlando d’altro,
volgendo lo sguardo altrove. Ma ho raccolto il messaggio.
Che cos’è morire, se non stare nudi nel vento e disciogliersi nel sole?
E che cos’è emettere l’estremo respiro se non liberarlo dal suo incessante
fluire, così che possa risorgere e spaziare alla ricerca di Dio?
Solo se berrete al fiume del silenzio, potrete davvero cantare.
E quando avrete raggiunto la vetta del monte, allora incomincerete a salire.
E quando la terra esigerà il vostro corpo, allora danzerete realmente”.
(K. Gibran, 1992)
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Ricerca di un senso al vivere …e al morire
Daniela Plebani
“Puoi indicarmi qualcuno che dia giusto
valore al suo tempo ed alla giornata e che
si renda conto come egli muoia giorno per
giorno?
L’uomo forte e saggio non deve fuggire dalla
vita ma uscirne.
Il nostro errore sta nel pensare che la morte
venga dopo, mentre essa come ci ha
preceduto così ci seguirà.
Il saggio non è mai scacciato dalla vita”
(Seneca)
Romano Guardini scrive che “il venire al mondo è la nostra fortuna e la nostra zavorra”. Questo perché è nel momento in cui nasciamo che la morte
entra in noi, quando la vita ha il sopravvento, che paradosso!: da quel giorno
non vi è più modo di evitarla, siamo diventati tutti più vulnerabili.
Morte. La sola parola evoca paura e rifiuto, per l’uomo essa rappresenta buio ,
mistero e angoscia, la rifiuta per istinto; tra la vita e la morte la scelta è sempre
a favore della prima. Ma perché tanto timore? Forse perché essa ci preclude
anche l’ignoto, l’inconoscibile; certo è che tutti siamo angosciati dinnanzi al
mistero, ad un dopo inimmaginabile.
“A cosa ci condurrà la morte?”, “Quale il suo senso più profondo?”. L’uomo è
sempre stato assillato da questi interrogativi: dall’inquietudine del primitivo,
alla riflessione filosofica, sino alla storia delle religioni, a dimostrazione del
carattere immutabile e permanente della stessa. Essa è una costante, indefinibile, non esperibile e inimmaginabile.
È dunque auspicabile non pensarla? Non cercare di “intuirne” il senso?
Spinoza sosteneva questo ritenendo insano e quasi perverso considerare la
morte un problema degno di attenzione e che “l’uomo libero a nessuna cosa
pensa meno che alla morte; e la sua esperienza è una meditazione non della
morte ma della vita”.
Contrariamente, Jankèlèvitch (allievo di Bergson) riteneva che il modo migliore per interrogare il senso della vita fosse quello di riflettere sulla morte.
Egli vedeva in essa un mistero insondabile che ci rende consapevoli della
nostra invalicabile finitudine; che nega la vita ma che al contempo la rende
possibile conferendole un senso.
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In accordo con Jankèlèvitch, ritengo non sia possibile pensare alla vita senza,
al contempo, riflettere sulla morte: le due sono inestricabilmente unite e il
senso dell’una non può che generare quello dell’altra. Perché nascere, vivere
e morire? Cosa lega i tre eventi? Forse l’eterno fluttuare di quel “soffio vitale”
che tutto crea, modifica e distrugge ma che incessantemente continua, senza
mai posa. Forse aveva ragione Eraclito quando affermava che “il principio e
la fine sono la stessa cosa”. In effetti la vita di ogni individuo ha inizio senza
che la volontà dello stesso abbia avuto modo di esplicarsi, così come accade
nella morte. Succede e basta! Vita e morte sono i due grandi eventi nei quali
è la volontà di “altri” o “altro” a farla “da padrone”.
Nasciamo abbandonando l’ignoto per ritornarci in morte: mistero prima e
mistero poi.
La non-esistenza è la dimensione dalla quale e nella quale siamo stati e saremo. Inizio e fine sembrano essere proprio la stessa cosa.
“Non afferriamo che ne era di noi, ‘prima’ che fossimo. Non ci è possibile
immaginare che ‘dietro’ di noi sta un momento nel quale confiniamo con il
nulla. Ma è così. È un mistero, il fatto che ad un certo punto abbiamo cominciato ad essere; come questi uomini: proprio noi. Lì ricevemmo in noi la nostra stessa esistenza; possibilità e limiti. E ciò che lì venne alla luce, incominciò a destarsi e a crearsi” (R. Guardini, 1987).
E, più di chiunque altro, è il malato terminale che è animato dal desiderio di
andare in fondo a se stesso, di accostarsi il più possibile alla verità più profonda, di tentar di “carpire” il segreto che unisce vita e morte, gioia e dolore.
Spetta dunque a tutti quanti ruotano attorno ad esso, il compito di aiutarlo in
un compito tanto difficile quanto intimo, affinché si possano dare risposte al
suo animo tormentato per trovare finalmente un poco di pace. L’uomo, di
fronte all’imminenza della propria morte, ha bisogno di una vicinanza umana che lo aiuti ad aprirsi a ciò che lo trascende, al mistero della propria
esistenza. Questo atteggiamento è detto “accompagnamento spirituale” in
quanto fa riferimento ad una dimensione dell’essere umano (noetica,) in cui
si è affrancati dalle emozioni, dalle pulsioni e dalle emozioni. L’accompagnamento spirituale “è un atteggiamento che si radica nel convincimento di
un èthos comune, quello dell’unica appartenenza alla razza umana” (L. Pinkus,
2003). Questa competenza presuppone l’adesione a due valori:
- la convinzione della singolarità e quindi del valore di ogni persona umana,
della sua interiorità e delle sue risorse, al di là delle possibili divergenze di
tipo filosofico, religioso o ideologico;
- la riflessione che la nostra crescita avviene in una cultura che esige il sostegno delle cosiddette “reti di appartenenza”. Prendere coscienza di ciò porta
all’esigenza di vivere la solidarietà con gli altri.
Non a caso è nelle unità di cure palliative che si attribuisce grande importan92
za alla qualità della presenza e della compagnia: cosa, in effetti, si può
umanamente offrire se non la profondità della nostra presenza e la finezza
della nostra attenzione?.
“Non vuole cedere e abbandonare il campo, semplicemente perché, pur
assediato da nemici imprevisti, si sente ancora vivo e circondato da solidi
apprezzamenti, come pure dagli ancor più validi baluardi degli affetti di persone incontestabilmente cordiali” (P. Roveda, 2003).
Aiutare dunque il morente ad accostarsi al mistero, a conferire un senso agli
ultimi giorni di vita come completamento all’intera esistenza, un senso che
gli permetta di “aprire la propria porta” sull’ignoto verso il quale si sta dirigendo. Questo significa anche permettergli di mostrare più volti, di avere
diverse possibilità d’essere pur mantenendo la fedeltà a se stessi; sì perché
cambiare non significa tradire il nostro Io più profondo, il nostro Essere originario, ma avere la possibilità di essere altro da ciò che siamo hic et nunc. Chi
più del malato terminale ha diritto ad esprimere tutti i possibili “volti” del
proprio Io? Di mostrarsi angosciato e poi rasserenato, addolorato e poi rassegnato, terrorizzato e poi coraggioso, impotente e poi determinato? Tutto ciò
significa realmente permettergli d’essere pienamente se stesso.
Credo sia molto difficile accettare questo nostro destino nel momento in cui
esso si sarà definitivamente compiuto, difficile “partire” quando Qualcuno o
Qualcosa lo ha deciso senza avere possibilità di riscatto. Un aiuto ci può
essere offerto “dall’educazione”, da quel e-ducere in cui è necessario “tirar
fuori” un significato, un senso possibile anche da ciò che di problematico e
fortemente difficoltoso incontriamo nella vita.
È importante credere che l’uomo è parte di ciò che porta in Sé: il Mistero (dal
quale tutto è scaturito), che è parte di un “essere-altro” del quale siamo elementi fondamentali. Noi apparteniamo ad una Storia comune a tutti gli esseri
viventi che ci porta a dimenticare la nostra personale, individuale, proprio
per volgere lo sguardo ad Altro, ad un percorso che risulta essere infinito,
eterno. L’individuo è parte di tutto ciò anche se rappresenta una “presenza
fuggevole”, un bagliore se visto nella totalità in cui giacciamo. Ma, nonostante la nostra permanenza sia un attimo nel tempo infinito, risulta necessaria,
indispensabile all’esplicarsi di una Storia importante e senza fine.
L’uomo porta dunque in sé una parte di eternità, quel qualcosa che continuerà sempre, anche dopo la morte del corpo.
destra
93
94
Appendice
Tutti i materiali sono tratti da “Verso Sera”, notiziario quadrimestrale dell’Associazione Cure Palliative di Bergamo; nn. 23, 21, 20, 24.
95
96
CIAO, KIKA, grande donna, grande presidente
Maria Grazia Mamoli Minetti (Kika): 14 aprile 1947 – 14 luglio 2005
Giovedì 14 luglio 2005, alle 16,22,
Kika è morta nel “suo” hospice.
Da fine 2001 ha combattuto la sua personale battaglia contro tre successive
manifestazioni tumorali e, con grande
determinazione, ha affrontato tre interventi e le necessarie terapie di supporto, raggiungendo significativi traguardi di miglioramento e di qualità di vita.
Nel marzo 2005 si è manifestato un ulteriore tumore, con ampie metastasi e
diagnosi di inguaribilità: ma anche allora ha affrontato le terapie palliative,
con forza e con concreti obiettivi di
qualità di vita, fra cui il sogno di una
ultima vacanza al mare.
Un ulteriore aggravamento ha reso impossibile questo obiettivo e, dopo pochi giorni, c’è stato il ricovero nell’hospice di Borgo Palazzo.
Anche attraverso questo percorso di malattia, Kika è stata per tutti noi un
esempio di determinazione, di fiducia, di serenità, come lo è sempre stata
prima, grazie alla sua naturale capacità di essere disponibile, aperta, semplice e profonda.
I suoi occhi e il suo sorriso parlavano per lei e gettavano immediatamente un
ponte di comunicazione e di empatia: per questo è stata una grande donna e
una grande presidente e ha cementato il “sentire” di volontari, di sostenitori, di
operatori sanitari, di malati e di parenti.
Riassumiamo le tappe principali della sua esperienza nel volontariato bergamasco: alla fine degli anni Ottanta il Comune di Bergamo e la sezione locale
della Lega per la lotta contro i tumori organizzano il primo corso di formazione
per l’assistenza domiciliare ai malati terminali.
Kika si attiva con il primo gruppo di volontari, come coordinatrice, e partecipa alle prime esperienze di ADI con l’allora Ussl.
97
Kika presiede uno dei
numerosi corsi di
formazione per
volontari
Kika firma il contratto
di comodato d’uso del
Padiglione Verga per
creare l’Hospice
Kika durante le
iniziative di piazza di
Trenta Ore per la vita
nel 1998
Kika con le autorità
all’inaugurazione di
Borgo Palazzo il 22
dicembre 2000
Kika riceve dall’allora
Sindaco di Bergamo
l’attestato di cittadina
benemerita
Kika a una cena con
l’equipe dell’Hospice
98
Kika durante la visita
del Vescovo
all’Hospice
Kika allo stand
dell’Associazione
durante la “Festa del
Volontario”.
Kika a una cena in
sostegno dell’Hospice
Kika riceve una
donazione dal Credito
Bergamasco
Kika al Gran Galà
Bergamo al Donizetti,
un appuntamento
consolidato
dell’Associazione
Kika con un gruppo di
volontari al Congresso
nazionale della Società
di Cure Palliative.
99
Nel 1989 viene costituita a Bergamo l’Associazione Cure Palliative: Kika è il
riferimento costante dei volontari, sia nella concreta assistenza a domicilio
che nei numerosi corsi di formazione.
Dopo la presidenza Cossolini e Minetti, è eletta presidente e confermata
nell’incarico per tre mandati.
Sono gli anni del sogno dell’hospice e della sua concreta realizzazione, soprattutto dal 1997 al 2000, con centinaia di incontri, manifestazioni, spettacoli, cene, iniziative.
Nel gennaio 2001 l’hospice inizia la sua operatività con gestione degli Ospedali Riuniti e il resto è storia recente.
L’hospice e il continuo miglioramento della qualità di cura e assistenza, l’integrazione dei volontari con l’équipe e con un loro ruolo sempre più articolato e “professionalizzato”, la centrale operativa provinciale per gestire il coordinamento e la consulenza dell’assistenza domiciliare su tutto il territorio, la
campagna di sensibilizzazione sulla terapia del dolore e la diffusione delle
cure palliative sono i progetti centrali su cui Kika ha lavorato e su cui l’Associazione Cure Palliative si impegna a continuare i suoi percorsi.
Per il suo impegno nel mondo del volontariato, Kika ha ottenuto molti premi
e benemerenze (Comune di Bergamo, Cavalieri d’Italia, Rotary, Lions...), ma
il riconoscimento più significativo è sempre venuto dalla stima e dall’affetto
di tutti coloro che hanno potuto starle vicino.
Ringraziamo le migliaia di persone che hanno voluto manifestare la loro partecipazione: le autorità politiche, amministrative, religiose e sanitarie, gli operatori socio-sanitari, i volontari, i rappresentanti degli enti e delle aziende
sostenitrici, gli associati, i rappresentanti delle numerose associazioni locali,
regionali e nazionali di volontariato, del mondo del lavoro, della comunità
ecclesiale e della cooperazione sociale, i parenti dei malati assistiti, i cittadini di ogni ceto e cultura.
Ringraziamo i media per l’attenta e completa informazione.
Ciao, Kika.
100
Sussidiarietà e sostenibilità
Ci pare giusto e opportuno ribadire quali sono i fondamenti teorici della nostra
concezione del ruolo di “sussidiarietà” del volontariato e, insieme, ribadire
anche la nostra lettura della “sostenibilità” del welfare.
Non a caso abbiamo voluto che l’hospice fosse pubblico e, una volta realizzato, lo abbiamo donato agli Ospedali Riuniti perché lo gestissero e si creasse
il primo vero esempio di struttura pubblica per malati terminali.
Sussidiarietà
Vale la pena di ricordare che la nostra concezione di sussidiarietà prevede il
ruolo di stimolo al miglioramento qualitativo e alla capillarizzazione quantitativa del servizio pubblico, con eventuali interventi d’integrazione di fondi e
di personale per accrescere la qualità e con eventuali periodi di supplenza
quando si tratta di anticipare un incremento di servizio.
Non concepiamo la sussidiarietà come sostituzione, come alternativa, come
supplenza permanente, come tappa-buchi, come pezza sulle carenze, sulle
manchevolezze, sui ritardi, sulle assenze del servizio pubblico, il quale deve
assolutamente garantire stabilità, continuità, capillarità, equità, qualità al servizio, obiettivi non garantibili dal privato nonprofit e profit, perché potrebbero non esserne all’altezza in modo permanente o non averne le motivazioni
economiche..
In particolare questi paletti sono fondamentali per tutte le associazioni di
volontariato: le altre realtà del Terzo Settore e del nonprofit, fino alle organizzazioni della cooperazione sociale, possono, diversamente dal volontariato
vero e proprio proporsi prioritariamente come gestori di segmenti del servizio, accreditandosi e acquisendo contratti - convenzioni - fondi e denaro dal
servizio sanitario nazionale e regionale.
Da quel momento stesso, essi cureranno la gestione e entreranno in dialettica
con il volontariato in modo analogo alle strutture pubbliche, ricevendo stimoli, arricchimenti qualitativi e quantitativi, ma anche verifica e controllo
affinché garantiscano all’utente il miglior servizio possibile: anzi da queste
organizzazioni nonprofit ci dovremmo aspettare il massimo di trasparenza,
efficienza, efficacia.
Non è mai accettabile che l’organizzazione nonprofit gestisca il servizio remunerando il personale sotto i minimi sindacali o con orari eccessivi, oppure
accettando tariffe esigue che non permetterebbero la riproducibilità del servi101
zio stesso in altre realtà territoriali, cosa che può succedere, per esempio, se
l’organizzazione nonprofit esercita la sua funzione in un determinato ambito
(anche dando discreti risultati) ma solo perché utilizza un gran numero di
operatori professionali pensionati o non pagati e ciò, ovviamente, non può
garantire che un analogo livello di operatività possa essere erogato altrove.
Anzi, crea l’illusione o la falsa promessa che sia riproducibile una soluzione
che invece non è tale.
Analoghe considerazioni vanno fatte per situazioni all’opposto e cioè (casi
rari ma presenti !) dove il servizio reso dall’organizzazione nonprofit dovesse
essere remunerato dalle istituzioni di riferimento in eccesso, creando così
una situazione di spreco e di uso distorto di fondi pubblici, in ultima analisi
carpiti impropriamente ad altri soggetti deboli e fragili.
Ben diversamente devono operare, invece, le organizzazioni di volontariato
vere e proprie, che esigono e devono esigere e controllare che il servizio
pubblico garantisca sempre e comunque i requisiti minimi e da qui poi partono per stimolare incrementi in quantità e qualità, accettando anche, in questi
casi, di farsene carico in prima persona per spostare più avanti i livelli da
garantire all’utenza, in una concezione di progressivo ripensamento della
sostenibilità verso l’alto e non verso i tagli e verso le riduzioni.
Invitiamo tutti, qualunque sia il loro ruolo, a fare sempre chiarezza su questa
concezione della sussidiarietà e sui necessari distinguo fra mondo del volontariato vero e proprio e generico nonprofit.
Sostenibilità
In anni di battaglie e di sensibilizzazione dell’opinione pubblica e delle istituzioni, abbiamo conquistato che l’assistenza e la cura dei malati terminali, in
degenza e a domicilio, siano Livelli Essenziali di Assistenza (LEA) e quindi
siano riconosciuti come diritti per tutti i cittadini, ovunque residenti nel nostro paese, e gratuiti.
Parlare di sostenibilità, vuol dire partire da qui, comunque: pur assistendo
con preoccupazione allo smantellamento progressivo dello stato sociale, con
abbassamento dei servizi garantiti, e alla babele di differenze regionalistiche
per una demagogica applicazione del federalismo, ribadiamo che questi sono
LEA, non si toccano ed anzi va articolata e garantita la loro applicazione,
pronti a ricorrere non solo a mobilitazioni politiche, ma anche ad azioni legali contro gli amministratori che non ne garantiscono l’attuazione.
Sui LEA è necessario essere concreti e determinati: una volta conquistatone il
riconoscimento, la battaglia si sposta nell’applicazione e sulla capillarità.
Non è nostra intenzione uscire dal seminato, ma ci tocca ribadire che la
salute non è un business, ma un diritto equo e universale da garantire ai
cittadini e su cui si misura il livello di civiltà di una società.
Nella riforma del welfare, è legittimo porsi l’obiettivo della sostenibilità, ma
102
declinandone le priorità: cura e assistenza ai malati terminali, così come alla
cronicità e agli anziani, non possono venire dopo le grandi opere e i ponti di
Messina e, comunque meritano di assorbire le enormi risorse finanziarie che
invece sono idrovorate dagli sprechi, dagli accavallamenti di diverse istituzioni che si incartano sugli stessi problemi, dall’onere insostenibile dell’eccesso di burocrazia e dell’eccesso di figure apicali e di costosissime consulenze.
I diritti che sosteniamo sono sacrosanti, i fondi sono reperibili e i costi sostenibili, se si opera con il rispetto delle priorità.
103
Il modello Bergamo
È giunto il momento per il movimento delle cure palliative (che vede la sinergia fra il mondo dei volontari e quello degli operatori sanitari) di fare un
grande sforzo di confronto e di sintesi (pari a quello prodotto quando abbiamo elaborato i “requisiti minimi”) per definire quale è il modello di riferimento che vogliamo privilegiare e portare avanti in tutte le diverse realtà italiane,
superando l’eccesso di differenziazioni che ha caratterizzato fino ad ora il
complesso e articolato sviluppo delle cure palliative nelle diverse province.
Ciò non vuol dire assolutamente appiattire la ricchezza dell’esistente e burocratizzare, in tempi brevi, situazioni che sono per ora connotate in modo sì
contraddittorio, ma anche ricco di spunti e sfaccettature.
Vuol dire, però, fare il punto della situazione e prendere posizione sulle linee
di sviluppo e sugli obiettivi che vogliamo raggiungere: non è accettabile,
infatti, che alla caotica babele di differenze causate da un malinteso federalismo, si aggiungano altre grandi differenze dovute ai ritardi della nostra capacità di fare la sintesi del nostro movimento e di indicare scelte di sviluppo
unitarie e condivise.
Diamo il nostro contributo, sintetizzando in pochi punti essenziali le caratteristiche di ciò che abbiamo fatto e che potremmo definire “il modello Bergamo”.
104
1.
Inizialmente a Bergamo un piccolo gruppo di medici anestesisti, occupandosi di terapia del dolore e cure palliative, fondò l’Associazione e
allargò la comunicazione ad altri medici, infermieri, psicologi, nei diversi ospedali e sul territorio e coagulò il primo gruppo di volontari.
Nacque all’interno di Anestesia II degli Ospedali Riuniti il “Centro di
terapia del dolore e cure palliative”, con ambulatorio e consulenza verso gli altri reparti. Si ottenne la prima convenzione con l’allora Ussl e
con i primi casi di assistenza domiciliare.
2.
L’Associazione Cure Palliative, attraverso numerosi corsi di formazione
e moltissime iniziative pubbliche, articolò comunicazione, informazione, formazione, con notevole risalto sui media e sull’opinione pubblica.
Si moltiplicarono riunioni con medici attivi verso altre patologie e in
altre aziende ospedaliere e sul territorio e con altre figure professionali.
Venne data diffusione capillare al notiziario “Verso Sera”. Si diede successivamente e progressivamente stabilità e continuità ai rapporti con le
istituzioni sanitarie (Asl e AO in primis), ai rapporti con l’Ordine dei
Medici e con l’Osservatorio della Sanità Bergamasca, ai rapporti con
altre associazioni (con adesione al Forum delle Associazioni di Volontariato Socio Sanitario Bergamasche), con altre componenti del Terzo Settore (mondo del lavoro, cooperazione sociale, comunità ecclesiale) e
con le amministrazioni (Tavolo Politico Provinciale con Conferenza dei
Sindaci, Provincia, Asl, sindacati, cooperative, Caritas, Forum).
3.
Nel frattempo, attraverso una potente e articolata mobilitazione, venne
lanciato il “Progetto – Hospice”, con lo slogan “Bergamo ha un cuore
grande” e con la raccolta di oltre 4 miliardi delle vecchie lire, per ristrutturare il padiglione Verga dell’area ex ONP, dato in comodato d’uso
dall’Asl. L’associazione dichiarò subito di non voler assumere la gestione diretta dell’hospice, ma di volerlo “donare” agli Ospedali Riuniti di
Bergamo per realizzare il primo organico esempio di gestione pubblica,
con creazione della UOCP e quattro livelli di servizio (degenza in hospice, day-hospital, ambulatori, consulenza sul territorio).
4.
Da allora il “modello Bergamo” si articola attraverso un’eccellente gestione pubblica della UOCP degli Ospedali Riuniti, grazie anche al supporto di alcuni contratti aggiuntivi finanziati dall’Associazione e grazie
alla massiccia presenza di volontari soprattutto all’interno dell’hospice.
Evidenziamo l’eccellente conduzione dell’hospice e l’abbinamento del
day-hospital e degli ambulatori, attivi questi ultimi anche sul dolore benigno.
È notevole l’attività di formazione e comunicazione verso le diverse
figure professionali e verso l’opinione pubblica; l’UOCP è determinante
nella conduzione del Comitato Ospedale Senza Dolore degli Ospedali
Riuniti e, presto, verso altre aziende e verso il territorio.
C’è un ruolo diretto di supervisione dell’ADI in alcuni distretti, attraverso la presenza di due medici dell’UOCP, e il futuro ruolo di consulenza
e coordinamento attraverso la Centrale Operativa Provinciale, verso i
medici palliativisti “a gettone” convenzionati con l’Asl, verso gli Infermieri Senior Professional dell’Asl e verso i “pattanti” accreditati per l’ADI
di cure palliative, a seguito della esternalizzazione del servizio precedentemente gestito direttamente dalla équipe dell’Asl stessa.
È positivo il continuo coordino con l’altro hospice ospedaliero attivo in
provincia (quello del privato cattolico, Istituto Palazzolo, accreditato) e
con quello residenziale (sempre del privato cattolico, a Gorlago). Si sta
operando per una ampia apertura e accelerazione verso altre patologie,
soprattutto neurologiche e cardiovascolari, pur permanendo una consistente prevalenza della terminalità oncologica.
105
5.
106
Non riteniamo per noi sostenibile una gestione diretta di tutta l’assistenza domiciliare provinciale in ottica di ospedalizzazione domiciliare, data
anche la conformazione del territorio con enclavi difficilmente raggiungibili, con conseguente spreco eccessivo di risorse e scarso utilizzo qualitativo e quantitativo delle stesse.
Ribadiamo la priorità della gestione pubblica del servizio di cura e assistenza ai malati terminali e sottolineiamo il relativo LEA, con centralità
della UOCP e dell’hospice ospedaliero, con funzione d’appoggio del
day-hospital e degli ambulatori, con ruolo di coordino e consulenza
sull’intera rete sia nelle aziende ospedaliere sia nelle altre strutture di
degenza e su tutto il territorio con l’ADI. La nostra sussidiarietà, come
associazione di volontariato, consiste nello stimolo al miglioramento
qualitativo e quantitativo del servizio.
Perché viene privilegiato il ricovero in hospice?
Occorre risolvere i limiti della rete sanitaria e assistenziale: dimissioni protette, assistenza domiciliare, ruolo dei medici di medicina generale. Procediamo verso la Centrale Operativa Provinciale.
Centinaia di malati hanno usufruito fino ad oggi del ricovero nelle 12 stanze
dell’hospice di Borgo Palazzo, realizzato dall’Associazione Cure Palliative e
gestito dalla struttura “pubblica” degli Ospedali Riuniti: ne hanno apprezzato
la grande professionalità, l’alto livello di assistenza e comfort, l’attenzione e
umanità di tutto il personale e dei nostri volontari, la totale gratuità.
Purtroppo, a volte soprattutto in alcuni periodi, le liste di attesa sono consistenti, e nei colloqui, che precedono l’eventuale ricovero, si apprende che è necessario aspettare o cercare una soluzione alternativa, in una situazione in cui il
tempo per “aspettare” sicuramente non c’è, lo stato d’animo per “cercare” è
minato dalla gravità della emergenza e le “alternative” sono quasi impossibili.
Infatti anche l’altro hospice “ospedaliero” esistente a Bergamo, quello dell’Istituto Palazzolo (gestito dal “privato” cattolico accreditato e, come tale,
anch’esso gratuito), ha liste d’attesa.
A Gorlago ci sono alcuni letti in un hospice “residenziale”, cioè con caratteristiche socio - sanitarie e con minor presidio medico-infermieristico: anche
questi letti non risolvono il problema delle liste d’attesa, e comunque va chiarito che molti medici e molti parenti dei malati hanno già più volte espresso il
loro disorientamento rispetto a questa categoria di hospice, prevista e realizzata nella Regione Lombardia, in base a una delibera che prevede due diversi
livelli di accreditamento, quello “ospedaliero” e quello “residenziale” che diventa quasi di serie b.
Non ci stancheremo mai di ripetere che cura e assistenza dei malati terminali
fanno parte dei LEA (livelli essenziali di assistenza); devono prevedere la totale gratuità sia in degenza che a domicilio; devono essere finanziati con i
fondi sanitari e richiedono una gestione sanitaria, con una supervisione specializzata dei palliativisti e dei terapisti del dolore: va da sé che cura e assistenza totale, come previsto nelle cure palliative, richiedono interventi a tutto
campo (compresi gli aspetti sociali, psicologici, spirituali...), ma questa è una
questione di completezza e non certo un pretesto per spostare il problema
verso una gestione prevalentemente “sociale”, con abbassamento dei livelli
di cura e assistenza.
107
Ma torniamo al dunque: ci sono in ogni caso liste d’attesa, anche se ci troviamo nella provincia che ha il maggior tasso di copertura con i posti lettohospice presenti (la Regione prevede una unità operativa di cure palliative
con hospice ogni 500.000 abitanti).
I posti potrebbero essere quasi sufficienti, se funzionasse l’intera rete di riferimento, ma il problema è proprio questo.
108
a.
La degenza in hospice è una soluzione opportuna nel 20-25% dei casi:
quando la complessità o articolazione dei sintomi richiede molteplici
interventi medico - infermieristici non gestibili a casa; quando l’abitazione è inadatta e disagevole o non ci sono parenti e amici disponibili
per l’assistenza; quando le strutture di assistenza domiciliare non esistono o non sono in grado di coprire correttamente il sevizio ...
La situazione è aggravata da alcune carenze della rete ospedaliera,
così come è oggi: al di fuori dei reparti specialistici (in cui la degenza è
possibile per i giorni strettamente necessari e con costi elevati per la
comunità), non è stata creata una rete più leggera per post-acuzie, per
riabilitazione, per lungodegenza, per sollievo.
Nell’iter estremamente complesso e variegato, che va dalla diagnosi di
inguaribilità alla cura e assistenza per la miglior qualità di vita possibile
fino alla fine, fra il reparto - ormai inadatto per le esigenze del malato
terminale - e l’hospice rischia di esserci il nulla, cosa che comporta
talvolta una impropria permanenza del malato in ospedale, con interventi invasivi, inappropriati, inutili, e comporta talvolta l’accelerazione
dell’opzione dell’hospice, per evitare il vuoto terapeutico e assistenziale.
Ma tutto ciò evidenzia che è il caso di riprendere in mano il problema
con organicità, coinvolgendo tutte le professionalità impegnate, evitando approcci unilaterali e superficiali.
b.
La rete distrettuale dell’ADI (assistenza domiciliare integrata) dell’Asl è
in totale dismissione in applicazione delle direttive regionali e della
scelta di spostare l’assistenza su strutture prevalentemente private di
“pattanti” (quasi sempre cooperative), che si fanno carico dell’assistenza, spesso mescolando i livelli più bassi (che sanno gestire abbastanza
bene) con i livelli più complessi (di cui spesso ignorano le implicazioni
e complicazioni): il tutto è remunerato attraverso l’Asl, con il voucher,
tariffa onnicomprensiva a pacchetto che, nel caso dei malati terminali
(a cui corrisponde la tariffa più alta), arriva regionalmente a 619 euro al
mese, cifra assolutamente inadeguata a svolgere il carico di cura e assistenza, al di là delle considerazioni già fatte sulla necessità di una gestione sanitaria e specialistica.
In questa situazione le cooperative riescono a coprire il servizio, in quantità e qualità, per i livelli più bassi dell’assistenza domiciliare, ma resta
sempre più sguarnito il livello dei pazienti critici e delle cure palliative;
sono sempre meno i casi di malati inseriti nell’ADI - Cure Palliative;
sono sempre di più i casi di malati e famiglie in crisi totale, perché privi
di riferimento ed ecco perché aumentano enormemente le richieste di
ricovero in hospice e crescono le liste di attesa, in assenza di quella
alternativa dell’ADI, che dovrebbe essere l’opzione prevalente da utilizzare.
c.
Nei colloqui pre-ricovero e nelle liste di attesa hanno diritto di priorità i
casi più gravi e complessi (sia dal punto di vista medico che sociale).
Essere all’interno di un programma ADI e quindi di una procedura avviata dal proprio medico di medicina generale e da lui seguita insieme
all’équipe domiciliare, oppure provenire da un reparto ospedaliero attraverso una procedura di trasferimento da reparto a hospice o attraverso le cosiddette dimissioni protette o programmate sono premesse importanti nella valutazione delle liste di attesa. Ma qui nascono altri
problemi.
Il medico di medicina generale:
1.
2.
3.
4.
5.
6.
7.
ha attivato la procedura ADI e la sta seguendo con l’équipe domiciliare?
sa che basta un fax o una telefonata per chiedere il colloquio in hospice?
non ha attivato la procedura perché nella sua area l’ADI non funziona?
in tal caso, come e per quanto egli è in grado di seguire il malato con il
numero necessario di interventi, 7 giorni su 7, e con l’adeguata conoscenza della terapia del dolore e delle cure palliative ?
sa che può avere il supporto e la consulenza dell’Unità di Cure Palliative in hospice?
sa che un’eventuale emergenza notturna o nel fine settimana coperta in
modo generico dalla guardia medica (continuità assistenziale) porta nella
maggioranza dei casi a interventi inopportuni e spesso a un errato ricorso al Pronto Soccorso?
si sta attivando nella sua zona per associarsi ad altri colleghi (con recapito di riferimento, personale infermieristico, reperibilità 7 giorni x 24
ore) e diventare così costante ed elevato punto di riferimento per ogni
esigenza dei malati?
Il medico ospedaliero
1.
accertata l’inguaribilità e valutata la prognosi, sa che è fondamentale o
il raccordo con l’hospice o la corretta e minuziosa procedura di dimis-
109
2.
sioni protette per il ritorno al medico di medicina generale e l’avvio
dell’ADI?
sa che il raffronto consulenziale con l’Unità Operativa di Cure Palliative
e con i terapisti del dolore è una opportunità sempre aperta, che può
agevolare nel miglior modo l’iter del paziente in reparto e poi le sue
dimissioni, senza accanimenti e senza abbandoni ?
Sappiamo veramente tutti (e ne abbiamo tratto le conseguenze) che solo in
ottica di rete, con tutte le necessarie interconnessioni, si può garantire l’adeguato e doveroso livello di cura e assistenza al malato terminale?
110
d.
L’opzione della degenza in hospice, gestita nell’ambito delle altre opzioni possibili dal reparto al sollievo al domicilio, riguarda tutte le patologie
in fase terminale, anche se numericamente prevale quella oncologica.
L’hospice non deve essere vissuto come l’ultima spiaggia, riservato quasi alla fase pre-agonica e anticamera della morte: è un drammatico equivoco che priva i malati della preziosa opportunità di usufruire di una
struttura e di un modello di cura e assistenza veramente adeguato alla
complessità di questo passaggio.
Inoltre si fa carico contestualmente della famiglia, coinvolgendola come
soggetto e oggetto della cura stessa: non a caso le camere singole dell’hospice hanno il letto aggiunto per il parente e la struttura è aperta alle
visite 24 ore per 365 giorni.
Se fossero ben utilizzate strutture post acuzie, riabilitazione, lungodegenza, sollievo, oltre che l’assistenza domiciliare integrata e la corretta
gestione del percorso terapeutico da parte del medico curante, sicuramente le liste di attesa, nell’hospice di Borgo Palazzo così come negli
altri hospices, andrebbero diminuendo e si potrebbe operare ancor meglio con i malati ricoverati e con le loro famiglie, ottenendo un ulteriore
ampliamento del periodo di degenza medio (oggi attestato sui 17-18
giorni, per il permanere di numerosi casi di ricovero più che tardivo,
quasi pre-agonico) e una crescita percentuale di ricoveri di sollievo, con
dimissioni successive, anche per esorcizzare la visione unilaterale (demotivante per i medici del territorio e dei reparti, per i parenti, per i
malati) che indica l’hospice come luogo ove si entra ma non si esce, tesi
e visione estremistiche che privano le cure palliative dei loro contenuti
essenziali, cioè prendersi cura in modo totale del malato, renderlo partecipe con il grado di consapevolezza che desidera senza chiudere mai
alla speranza della miglior qualità di vita fino alla fine.
e.
Per anni abbiamo fatto assistenza domiciliare in sinergia con l’Asl (allora Ussl) e con il Centro di terapia del dolore e cure palliative di Aneste-
sia II degli OO. RR. Poi, grazie alla generosità dei bergamaschi, abbiamo creato l’hospice di Borgo Palazzo e l’abbiamo passato per la gestione pubblica agli Ospedali Riuniti. Poi abbiamo garantito il potenziamento del personale medico - infermieristico con altri fondi e la massiccia presenza di volontari in hospice e day-hospital. Poi abbiamo dato
all’Asl la nostra disponibilità a creare e sostenere la Centrale Operativa
di Cure Palliative e Domiciliarità, per garantire un numero verde e un
riferimento unico di consulenza a livello provinciale.
C’è molto da fare, anche a livello di formazione e informazione dei medici e
del personale socio- sanitario in generale; c’è ancora molto da fare a livello di
comunicazione e sensibilizzazione dell’opinione pubblica e affermazione del
diritto al LEA per la terminalità; c’è molto da fare per dare stabilità all’alto
livello dell’hospice e alla sua capacità di risposta ai bisogni degli utenti; c’è
moltissimo da fare per l’assistenza domiciliare capillare ed efficiente e il buon
funzionamento di una rete ben coordinata e ben diretta.
Diamo la nostra piena disponibilità e chiamiamo tutti al massimo di collaborazione.
111
Centrale operativa di cure palliative e domiciliarità
Da quando, a marzo 2005, Asl, Ospedali Riuniti, Associazione Cure Palliative e Lega per la lotta contro i tumori
hanno firmato il protocollo d’intesa si è
fatta molta strada:
a. sono terminati i lavori murari e di
arredo della sede, collocata proprio
sotto l’hospice, nello stesso Padiglione
Verga e da settembre sono operativi,
con le necessarie linee telefoniche;
b. il coordinamento tecnico si è riunito
più volte, ha analizzato i dati pregressi
dell’ADI, ha steso l’opuscolo operativo
della centrale e le linee guida per l’erogazione delle cure palliative domiciliari: sono stati creati tre Voucher Super
per i Piani di Assistenza Individuali (PAI)
del valore di 769, 879 e 1020 euro;
c. sono stati riuniti i medici palliativisti
“a gettone”, già operanti con precedenti contratti Asl; i medici di medicina
generale; gli infermieri senior professional che coordinano i distretti; i “pattanti”, cioè le realtà accreditate per l’assistenza domiciliare sul territorio provinciale;
d. sono stati fatti due corsi di formazione di quattro incontri ciascuno (16 ore)
con oltre 100 partecipanti, soprattutto infermieri professionali e operatori socio sanitari. Ora si entra nell’operatività vera e propria: nella prima fase il
centralino e gli operatori della centrale sono contattabili, solo per i casi già
arruolati in ADI, dai pattanti, dai medici di medicina generale, dalla “guardia
medica”; successivamente anche gli utenti potranno rivolgersi alla centrale.
Il numero telefonico è 035.385.394.
Da lunedì a venerdì dalle 8 alle 18 e sabato dalle 8 alle 12
risponde un operatore della centrale.
Da lunedì a venerdì dalle 18 alle 8 e da sabato alle 12 fino a lunedì alle 8
risponde un operatore dell’hospice di Borgo Palazzo.
112
Aiutateci a rafforzare la rete di cure palliative
nella nostra provincia
Nell’ultima riunione del direttivo, la nostra associazione ha approvato le priorità programmatiche e ha stanziato altri 300.000 Euro per migliorare e consolidare la cura e l’assistenza ai malati in fase avanzata, sia in degenza che a
domicilio.
Al primo posto resta il potenziamento dell’équipe medico-infermieristica dell’Unità di Cure Palliative degli Ospedali Riuniti: con i fondi da noi versati
sono garantiti fino al 2008 i contratti aggiuntivi presso l’hospice di Borgo
Palazzo per un medico palliativista, per una psicologa, per una ausiliaria e
per alcune ore settimanali di altre figure di supporto (riflessologa, musicoterapista, fisioterapista). Anche sul piano qualitativo, l’ACP continua a finanziare
molteplici iniziative di formazione, favorendo la partecipazione degli operatori sanitari a corsi, convegni, congressi e master.
Centralità del malato, qualità di vita, qualità di cura e assistenza sono le nostre priorità assolute.
Di grande rilevanza è l’obiettivo di crescita dei nostri volontari per garantire
una vera e propria integrazione con gli operatori sanitari: l’articolazione delle iniziative di formazione permanente, con la supervisione della psicologa,
si coniuga ormai con stimolanti gruppi di approfondimento e di dibattito (accoglienza, attività diversionali, auto-mutuo-aiuto) e con percorsi informativi formativi strutturati.
Al di là di facili semplificazioni, il progetto di integrare organicamente i volontari nell’équipe (e nei progetti personalizzati di cura e assistenza) non è
cosa da poco e passa attraverso una crescita “teorica e pratica” dei volontari,
nel pieno rispetto delle reciproche competenze, ma in una visione sinergica,
comune, condivisa. Oltre ai nostri molteplici momenti formativi e informativi
interni, sosterremo la partecipazione di nostri volontari a corsi, convegni e
congressi a livello nazionale.
Cospicue risorse umane e finanziarie saranno rivolte alla Centrale Operativa
Cure Palliative e Domiciliarità (nata dal Protocollo d’Intesa fra Asl, Ospedali
Riuniti, Associazione Cure Palliative e Lega contro i tumori), per coordinare
l’assistenza domiciliare integrata ai malati in fase avanzata dell’intera provincia, garantendo la consulenza della Centrale e dell’hospice 24 ore al giorno
per 365 giorni all’anno.
Dopo che la Conferenza Stato-Regioni ha approvato gli standard quantitativi
e qualitativi per le Cure Palliative (da raggiungere entro il 2008), diventa fon113
damentale creare e consolidare la rete di assistenza e cura, senza ritardi e
senza troppo autocompiacersi dei risultati raggiunti fino ad ora.
Mentre l’Unità di Cure Palliative e l’hospice articoleranno meglio il ruolo di
coordinamento e consulenza verso il territorio (operando anche in alcuni
distretti con propri medici palliativisti, che hanno concordato questi interventi a domicilio in aggiunta al loro ruolo prioritario in degenza, in day-hospital,
in ambulatorio), l’Asl, sempre attraverso la Centrale Operativa, sta completando l’arruolamento di medici palliativisti per le consulenze in tutti i distretti
e si sta occupando di supervisionare il lavoro delle équipe accreditate per
l’ADI (e i tre super vouchers) sul territorio e di promuovere momenti di approfondimento e di formazione del personale coinvolto.
L’Associazione Cure Palliative, dopo aver sostenuto finanziariamente la partenza della Centrale, conferma la disponibilità per eventuali integrazioni dei
fondi da destinare al ruolo dei medici palliativisti (che però, in proiezione,
risultano già coperti dalle specifiche voci di spesa previste nel bilancio Asl):
l’aspetto principale di cui si dovrà occupare, in accordo con gli altri soggetti
firmatari del Protocollo, sarà quello della comunicazione e del coinvolgimento
pieno e responsabile dei medici di medicina generale, nonchè dei reparti ospedalieri pubblici e privati che interagiscono con malattie inguaribili e delle altre
strutture di degenza (lungodegenza, riabilitazione, RSD, RSA,...).
Un aspetto molto significativo, correlato al punto precedente, è l’impegno
per la campagna “Bergamo insieme contro il dolore”, con partecipazione
dell’Ordine dei Medici, dell’Ordine dei Farmacisti, del Tribunale dei diritti
del malato, del Forum delle Associazioni di Volontariato Socio Sanitario Bergamasche, della Diocesi e della Conferenza dei Sindaci.
Si tratta di estendere nelle altre aziende ospedaliere la interessante e concreta
esperienza del Comitato Ospedale Senza Dolore (COSD) degli Ospedali Riuniti, che ha portato a organici percorsi formativi per oltre 800 operatori sanitari e ha già raggiunto l’obiettivo in una decina di reparti dell’Ospedale di
rilevare quotidianamente il dolore in cartella clinica per tutti i degenti.
Ma la cosa deve estendersi anche alle altre strutture di ricovero e al territorio
intero, con attivazione dei medici di medicina generale e con ampia sensibilizzazione della popolazione alle tematiche del dolore e della sofferenza.
Non a caso anche l’Università di Bergamo parteciperà al progetto attraverso
alcune ricerche e focus groups con allargamento ad altre professionalità.
Ciò significa che l’Associazione Cure Palliative, alla luce degli obiettivi programmatici sopra esplicitati, dedicherà il 2006 a un possente lavoro di comunicazione in primo luogo rafforzando contenuti e circolazione del notiziario Verso Sera, utilizzando anche numeri a 12-16-20 pagine e superando sempre le
6000 copie diffuse per ogni numero.
Saranno prodotti materiali specifici di comunicazione mirata.
Le numerose iniziative di comunicazione locale (incontri, conferenze, con114
vegni, interventi in sale consiliari, scuole, circoli, oratori, teatri...) saranno ulteriormente potenziate, mentre confermiamo le iniziative di alto profilo che oramai caratterizzano la nostra attività, come il Gran Galà Bergamo al Teatro Donizetti e l’utilizzo mirato dei media (quotidiani, periodici, radio e TV).
Abbiamo deciso di rilanciare momenti capillari di sensibilizzazione sui temi
che ci hanno consentito, in questi 17 anni, di creare nella nostra provincia un
retroterra culturale favorevole alle esperienze d’avanguardia dell’hospice e della
rete di cure palliative: terapia del dolore e lotta alla sofferenza inutile; qualità di
cura e assistenza con attenzione agli aspetti fisici, psicologici, sociali, spirituali;
degenza e domicilio in un’unica rete coordinata al servizio dei bisogni del
malato in fase avanzata e dei suoi parenti; qualità di vita fino alla fine.
Ringraziamo gli operatori sanitari che hanno partecipato con disponibilità e
convinzione a questi percorsi, che ora, però, si preparano ad un salto di qualità e quantità.
Alcuni ritardi e sottovalutazioni (sia a livello di reparti ospedalieri che a livello di
territorio) non sono più accettabili e gli obiettivi si spostano più avanti.
Il progetto comune che sta alla base del Protocollo d’Intesa della Centrale Operativa è un esempio di come ci si può muovere e i soggetti firmatari devono ora
dimostrare nella quotidianità di essere in grado di far funzionare la rete o di
elevare progressivamente il livello qualitativo e quantitativo di cura e assistenza.
Non è più il caso di lamentarsi per il mancato funzionamento delle dimissioni
protette dei reparti ospedalieri (con problemi per la continuità terapeutica);
non è più il caso di lamentarsi per lo scarso utilizzo degli antidolorifici e degli
oppiacei (con assurda persistenza del dolore); non è più il caso di lamentarsi
per le scarse attivazioni dell’assistenza domiciliare integrata da parte dei medici
di medicina generale... Ora che la rete è in concreta costruzione, questi errori del passato non sono più ammissibili né giustificabili.
Si tratta di informare e formare gli operatori sanitari perché operino in rete
con la Centrale Operativa e con l’hospice; si tratta di comunicare alla popolazione che questo servizio c’è, è utilissimo, è gratuito, è un diritto garantito
dai livelli essenziali di assistenza (LEA).
Si tratta poi di individuare e correggere ritardi, omissioni, inefficienze.
Ringraziamo i cittadini bergamaschi, gli enti, le aziende, i gruppi associativi
che hanno dato costante appoggio e sostegno a questi percorsi e che ci hanno
già dichiarato piena disponibilità per gli ulteriori sviluppi.
Ai nostri oltre 700 iscritti e alle decine e decine di nostri volontari diciamo
ancora una volta che contiamo su di loro per trasformare in realtà questi bei
progetti, che sono sicuramente molto impegnativi e che comportano un ulteriore sforzo: ma ne vale la pena e, come sempre, non dobbiamo dimenticare
che nella nostra multiforme attività di volontariato diamo molto, ma riceviamo ancor di più di quanto diamo, grazie a relazioni umane ricchissime e con
la soddisfazione di affermare significativi livelli di civiltà.
115
ASSOCIAZIONE CURE PALLIATIVE
aderente a
ONLUS
Sede operativa: Bergamo, via Borgo Palazzo 130, tel. e fax 035/390687
Sede legale: Bergamo, via Betty Ambiveri 5, tel. e fax 035/321388
Sito internet: www.associazionecurepalliative.it
E-mail: [email protected]
* La lotta contro i tumori
Migliaia di bergamaschi ogni anno si ammalano di tumore. Più della metà guarisce.
Tremila di loro ogni anno muoiono di cancro.
La lotta contro i tumori esige : 1) prevenzione, ricerca, formazione; 2) cura e percorsi
terapeutici mirati per la guarigione; 3) cura e assistenza per la miglior qualità di vita,
comunque; 4) assistenza domiciliare ogni qualvolta è possibile e utile; 5) hospice e
assistenza totale al malato e alla famiglia.
* Le altre malattie inguaribili
Anche altre malattie croniche invalidanti (neurologiche, cardiologiche, infettive ...)
non consentono la guarigione, ma necessitano di una articolata capacità di cura e
assistenza. Questi malati e le loro famiglie ne hanno bisogno e ne hanno diritto.
116
* Dimissioni Protette
Anche quando la guarigione non è possibile, il malato può e deve essere curato. Il
reparto ospedaliero tradizionale non è più adatto e, attraverso le dimissioni protette,
è importante allertare il medico di medicina generale, la famiglia, il territorio, per
predisporre il successivo percorso terapeutico. I ricoveri impropri nei reparti, l’abbandono e l’accanimento terapeutico non giovano al malato.
* Assistenza Domiciliare Integrata
Se il domicilio lo consente, se ci sono parenti presenti, se gli interventi medico infermieristici non sono troppi ... l’assistenza a domicilio costituisce una soluzione
preferibile per il malato, a patto che sia seguito da una equipe multidisciplinare (medico, infermiera, specialista palliativista; se necessario psicologo, assistente sociale,
volontari). Deve essere attivata dal medico di medicina generale.
* Terapia del Dolore
E’ inaccettabile che non venga somministrata la corretta terapia del dolore, quando
questo è controllabile nel 90 % dei casi. E’ anche possibile richiedere visite specialistiche utilizzando come riferimento gli ambulatori e gli specialisti di terapia del dolore (anche benigno) presso l’Hospice di via Borgo Palazzo: tel 035/390620, fax 035/
390623. In questa area ci sono anche 4 letti di day - hospital per i malati che possono
restare a domicilio ma necessitano di particolari procedure in degenza diurna.
* Cure Palliative e Centrale Operativa
Palliative deriva da “pallium”, il mantello dei Romani che proteggeva tutto: le cure
palliative sono cure totali che si occupano di tutti gli aspetti della sofferenza, fisica,
psicologica, spirituale, sociale. Al centro c’è il malato e la sua qualità di vita. Anche
i parenti vengono coinvolti nel percorso. L’equipe, con medico palliativista, infermiera professionale, psicologo ..., lavora con questi obiettivi e si avvale anche dell’aiuto dei volontari, soprattutto per attività diversionali, compagnia, ascolto, accompagnamento. L’equipe garantisce la continuità del percorso terapeutico, fra i reparti,
il territorio e l’hospice, in sinergia con il ruolo del medico di medicina generale.
L’Associazione Cure Palliative, la Lega per la Lotta contro i Tumori, gli Ospedali
Riuniti e l’ASL hanno costruito insieme, a livello provinciale, la Centrale Operativa di
Cure Palliative e Domiciliarità, per il coordinamento, la consulenza e la supervisione
della Assistenza Domiciliare Integrata ai malati in fase avanzata.
* Hospice
Se l’opzione del domicilio non è adatta, c’è l’Hospice, una struttura di degenza “a
dimensione umana”, mirata al massimo confort del malato. L’Hospice di via Borgo
Palazzo 130 è stato realizzato dall’Associazione Cure Palliative, grazie alla generosità dei bergamaschi, ed è gestito dagli Ospedali Riuniti. E’ garantito dal servizio sanitario nazionale e gratuito. Ha 12 camere singole, tutte con letto aggiunto per un
parente. L’accesso avviene direttamente dal reparto ospedaliero o attraverso la domanda inoltrata dal medico di medicina generale e successivo colloquio. I numeri
dell’area di degenza sono: tel 035/390640, fax 035/390624.
* Volontari
Assistenza in Hospice, in day-hospital, a domicilio; comunicazione e informazione
per sensibilizzare la popolazione; organizzazione di iniziative e raccolta fondi; formazione: ci sono tante cose da fare e abbiamo bisogno del vostro aiuto.
Ciascuno di voi può aderire all’Associazione Cure Palliative e darci una mano oppure sostenerci.
* I volontari si occupano di assistere gratuitamente in Hospice e a domicilio i
malati in fase avanzata
* I medici e gli infermieri si occupano di terapia del dolore e cure palliative
* Gli associati lavorano per sensibilizzare la popolazione sui problemi della
terminalità
* Tutti insieme siamo impegnati a raccogliere i fondi e a sostenere l’Hospice
117
Una grigliata nel parco, una festa di laurea, un matrimonio, i giochi e i disegni dei nipotini, la visita del cagnolino, i regali di Natale... Anche questa
è la vita vissuta nella quotidianità dell’hospice.
118
119
Glossario
ACP
ADI
AO
ASL
CO
COSD
CP
DG
DH
DS
FCP
MMG
ONLUS
ONP
OO RR
PLS
SICP
UCP
UOCP
USC
USCCP
USSL
TD
120
Associazione Cure Palliative
Assistenza Domiciliare Integrata
Azienda Ospedaliera
Azienda Sanitaria Locale
Centrale Operativa
Comitato Ospedale Senza Dolore
Cure Palliative
Direttore Generale
Day Hospital
Direttore Sanitario
Federazione Cure Palliative
Medico di Medicina Generale
Organizzazione Non Lucrativa d’Utilità Sociale
Organizzazione Non Profit
Ospedali Riuniti
Pediatra di Libera Scelta
Società Italiana di Cure Palliative
Unità di Cure Palliative
Unità Operativa di Cure Palliative
Unità Struttura Complessa
Unità Struttura Complessa Cure Palliative
Unità Socio-Sanitaria Locale
Terapia del Dolore
Bibliografia
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123
Per la Federazione Cure Palliative visitate il sito:
www.fedcp.org
Per la Sociatà Italiana di Cure Palliative visitate il sito:
www.socp.it
Per l’Associazione Cure Palliative visitate il sito:
www.associazionecurepalliative.it
124
NOTA
Questo volume arriva gratuitamente a tutti gli associati e ai lettori stabili di “Verso Sera” (è un supplemento al n. 24).
E’ una scelta di ampia circolazione e profonda comunicazione,
che facciamo volentieri: ci pare corretto, però, chiedere a tutti
coloro che lo ricevono di sostenere ulteriormente, attraverso una
sottoscrizione, le nostre iniziative per l’hospice, per la centrale
operativa, per la qualità di cura e assistenza ai malati in fase
avanzata, per la sensibilizzazione su terapia del dolore e cure
palliative.
BERGAMO HA UN
GRANDE
ACP - Associazione Cure Palliative ONLUS
Per l’assistenza domiciliare e per l’Hospice
ABBIAMO BISOGNO
DEL VOSTRO AIUTO
Presso tutti gli sportelli bancari, potete fare versamenti su:
C/C 18350 Credito Bergamasco
ABI 03336 CAB 11102 CIN W
C/C 14010 Banca Popolare di Bergamo - Credito Varesino
ABI 05428 CAB 11108 CIN J
Presso gli uffici postali: C/C postale 15826241
tutti intestati: Associazione Cure Palliative
125
Nella pagina accanto, la mappa e un’immagine dell’hospice di Borgo palazzo.
ACP - Associazione Cure Palliative - ONLUS
Sede legale:
Bergamo via Betty Ambiveri , 5 - telefono e fax 035/321388
Codice Fiscale: 95017580168
Sede operativa: 24125 Bergamo
via Borgo Palazzo, 130 - telefono e fax 035/390687
VERSO SERA:
Notiziario quadrimestrale dell’Associazione Cure Palliative di Bergamo
Autorizzazione N. 31 del 25.07.1996 del Tribunale di Bergamo
Tariffa Associazioni senza scopo di lucro: “Poste Italiane S.p.A.”
Spedizione in Abbonamento Postale D.L. 353/2003
(conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 2, DCB Filiale di Bergamo
Direttore responsabile: Arnaldo Minetti
Stampa: Artigrafiche Mariani e Monti, Ponteranica (BG)
Supplemento n. 2 al n. 24 - febbraio - maggio 2006
126
aderente a
127
128
Finito di stampare nel mese di Marzo 2006
da Artigrafiche Mariani & Monti srl
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