Un tempo nuovo Quinto Rapporto sull’immigrazione e i processi di inclusione in provincia di Arezzo a cura di Lorenzo Luatti, Giovanna Tizzi, Marco La Mastra Con interventi di Graziella Favaro, Fabio Berti, Giovanna Dallari, Erika Cellini, Luca Raffini, Giuseppe Cirinei, Alessia Belli, Niccolò Sirleto. Postfazione di Maurizio Ambrosini 1 Provincia di Arezzo – Assessorato alle Politiche Sociali Osservatorio sulle Politiche Sociali – Sezione Immigrazione Piazza della Libertà, 3 – 52100 Arezzo tel. 0575.316239 – www.provincia.arezzo.it Responsabile Osservatorio: Marco La Mastra ([email protected]) Oxfam Italia Via Concino Concini, 19 – 52100 Arezzo tel. 0575.401780 – fax 0575.401772 – www.oxfamitalia.it Responsabile progetto “Sezione Immigrazione”: ([email protected]) Giovanna Tizzi Si ringraziano: Anagrafi comunali, Istat, Osservatorio scolastico della Provincia di Arezzo, Camera di Commercio, Prefettura di Arezzo, ASL 8 di Arezzo, INPS, Istituti scolastici. Un sentito ringraziamento a Demostenes Uscamayta Ayvar per averci accompagnato, con il suo segno grafico, nei quindici anni di pubblicazioni sul tema immigratorio. A lui si devono l’ideazione e la realizzazione grafica della copertina di questo volume, degli altri quattro che lo hanno preceduto e del logo della Sezione Immigrazione. Le pubblicazioni della Sezione Immigrazione sono pubblicati nei siti internet della Provincia di Arezzo, alla pagina dell’Osservatorio Provinciale sulle Politiche Sociali (www.provincia.arezzo.it) e di Oxfam Italia, alla pagina relativa alle attività dell’Ufficio Immigrazione (www.oxfamitalia.org). Finito di stampare nel mese di dicembre 2015 presso la Tipografia Litograf, Città di Castello (Pg) Distribuzione gratuita 2 INDICE Presentazioni Eleonora Ducci, Vice Presidente della Provincia Arezzo Alessandro Bechini, Direttore di Oxfam Italia Intercultura p. 7 p. 9 Introduzione L’integrazione “liquida”, di Fabio Berti p. 11 Prima parte La presenza: evoluzione, caratteristiche, specificità Cap. 1. Migranti e figli dell’immigrazione in provincia di Arezzo, di Marco La Mastra p. 19 1. Introduzione 2. Il bilancio demografico nazionale 3. La presenza in provincia di Arezzo 4. La distribuzione territoriale 5. Il genere e l’età 6. Le nazionalità 7. Le famiglie 8. I matrimoni misti in provincia di Arezzo (di G. Tizzi) Riferimenti bibliografici Cap. 2. Richiedenti asilo e titolari di protezione in provincia di Arezzo, di Giovanna Tizzi p. 37 1. Introduzione 2. Il contesto: sbarchi, richieste di asilo e accoglienza in Italia 3. Dimensioni e caratteristiche dell’accoglienza in provincia di Arezzo 4. Gli usciti dal programma e i “transitati” 5. Il profilo degli accolti 6. Conclusioni Riferimenti bibliografici 3 Seconda parte I percorsi scolastici degli allievi stranieri e la scuola dell’inclusione Cap. 1. Plurale fa rima con “normale”. Il punto di vista sulla scuola multiculturale e sui suoi protagonisti, di Graziella Favaro p. 59 1. Due priorità un “modello asistematico” 2. Bisogni educativi specifici o speciali? 3. Tra ostacoli e attese 4. L’italiano di scolarità: la tigre sul cammino 5. I fattori collegati al rischio della dispersione scolastica 6. I più piccoli, i più grandi Riferimenti bibliografici Cap. 2. Gli allievi di origine straniera in provincia di Arezzo: dati di presenza e nodi critici, di Lorenzo Luatti p. 76 1. Scuola multiculturale o scuola internazionale? 2. Distribuzione per livello d’istruzione, territorio e cittadinanza 3. Il peso del fattore immigrazione nelle scelte scolastiche. Il ritardo e gli esiti scolastici 4. La seconda generazione a scuola Bibliografia Cap. 3. La scuola e i “nuovi” italiani: accogliente, integrativa e inclusiva? Una ricerca esplorativa in provincia di Arezzo, di Lorenzo Luatti p. 93 1. L’indagine provinciale: metodologia, strumenti, attori 2. Inclusività e attenzione alle “diversità” a partire dall’organizzazione scolastica e degli spazi 3. I dispositivi per l’apprendimento e l’insegnamento dell’italiano L2 e la valorizzazione del plurilinguismo in una ottica interculturale 4. La partecipazione delle famiglie straniere alla vita scolastica 5. Osservazioni conclusive Riferimenti bibliografici Terza parte La salute e il lavoro dei migranti Cap. 1. Stranieri e servizi per la salute, di Giovanna Dallari 1. Il nostro Servizio Sanitario Nazionale 2. Alcuni elementi numerici 3. Conclusioni 4 p. 121 Cap. 2. Accesso degli stranieri ai servizi sanitari in provincia di Arezzo, di Giuseppe Cirinei p. 130 1. Popolazione straniera e salute 2. L’accesso ai servizi sanitari 3. Conclusioni Cap. 3. Cittadini stranieri e uso dei farmaci in provincia di Arezzo, di Giuseppe Cirinei e Giovanna Dallari p. 144 1. Introduzione 2. I dati nazionali sul consumo di farmaci 3. Le prescrizioni farmaceutiche per cittadini stranieri in provincia di Arezzo 4. Le prescrizioni per alcune categorie di farmaci 5. Conclusioni Bibliografia Cap. 4. Il lavoro autonomo e le rimesse dei migranti, di Lorenzo Luatti p. 162 1. Come leggere i dati 2. I “numeri” dell’imprenditoria straniera in provincia di Arezzo 3. Distribuzione dell’imprenditoria immigrata nel territorio aretino 4. Provenienza nazionale ed età dei titolari di imprese individuali 5. Settori di attività delle imprese individuali 6. Le rimesse dei migranti: uno sguardo ai dati mondiali e nazionali 7. L’andamento delle rimesse in Toscana e in provincia di Arezzo Riferimenti bibliografici Quarta parte Il contributo della ricerca qualitativa negli studi dell’Osservatorio Cap. 1. La ricerca qualitativa per studiare i fenomeni migratori nella città, di Erika Cellini p. 187 1. L’approccio quantitativo e quello qualitativo 2. La ricerca qualitativa per lo studio delle migrazioni in un osservatorio 3. Le ricerche qualitative della Sezione Immigrazione Riferimenti bibliografici Cap. 2. «O vai in Italia, o studi o ti sposi»: il caso studio di Monte San Savino, di Giovanna Tizzi p. 206 1. Introduzione 2. Il disegno della ricerca 5 3. Le donne intervistate 4. Alcune voci di donne 5. Donne della migrazione: tra bisogni, simboli e desideri Riferimenti bibliografici Cap. 3. Che genere di città? Parole femminili migranti svelano Arezzo, di Alessia Belli p. 230 1. Introduzione 2. Vivere ad Arezzo 3. Io che parlo, io che dico: narrative migranti 4. Le figlie dell’immigrazione 5. Che genere di integrazione? 6. Forze centripete e centrifughe: come orientarsi nel labirinto degli uffici? 7. Di sinergie e commistioni 8. Una donna in politica, la politica per una donna 9. Sanità e lavoro: i volti della cittadinanza 10. Lavoro 11. Il protagonismo delle donne: una questione di agency 12. Conclusioni Riferimenti bibliografici Cap. 4. L’osservazione nel quartiere Saione ad Arezzo, di Niccolò Sirleto p. 249 1. L’osservazione e gli strumenti utilizzati 2. Cosa è stato osservato Bibliografia Cap. 5. Verso un possibile modello di accoglienza? Tre buone pratiche a confronto, di Giovanna Tizzi e Luca Raffini p. 257 1. Rifugiati e richiedenti protezione internazionale: alcuni dati di uno scenario in movimento 2. Il sistema italiano di accoglienza 3. I tre casi studio: In Migrazione (Casa Benvenuto), CIAC e GUS Bibliografia Postfazione Le contraddizioni delle politiche migratorie: perché la chiusura delle frontiere è una promessa irrealizzabile, di Maurizio Ambrosini p. 283 6 Presentazioni Migrare significa dare una risposta coraggiosa alle questioni legate al proprio benessere e a quello della propria famiglia. Una scelta rischiosa che comporta sacrifici: sono migranti quelle donne e quegli uomini che decidono di separarsi dal proprio contesto socio-culturale, lasciare i luoghi di nascita, allontanarsi dagli affetti. Si intraprende questa strada per varie ragioni. Volendo astrarre, potremmo dire che si migra o per fuggire da qualcosa o per raggiungere qualcosa. Il motore della scelta può essere alle spalle (una guerra, una persecuzione, un evento catastrofico) oppure può essere davanti (il miraggio di un benessere maggiore, opportunità che non si trovano altrove, maggiori libertà, etc.). Storicamente le migrazioni hanno determinato un continuo mescolarsi di etnie, religioni, culture ed hanno contribuito ad annodare tra loro territori lontani, legati ora da reti invisibili, percorsi imprevedibili e possibili tra razze e culture. Gli orientamenti dei flussi migratori che hanno interessato il territorio aretino nel tempo hanno subito numerose trasformazioni. Negli ultimi vent’anni, le migrazioni sono divenute una componente essenziale nel determinare riequilibri economici e sociali e il mercato del lavoro è divenuto il terreno sul quale si regolano buona parte dei meccanismi che determinano le migrazioni: nel tempo, la domanda e l’offerta di lavoro hanno guidato dinamiche che hanno inciso profondamente sulle sorti individuali e collettive delle popolazioni interessate. I più importanti organismi internazionali (tra cui le Nazioni Unite per primo) concordano nel ribadire costantemente e riaffermare la valenza positiva del fenomeno migratorio. Esso facilita lo scambio di conoscenze e di competenze e contribuisce all’arricchimento culturale delle società coinvolte. Tuttavia, questioni legate al crescente timore di attacchi terroristici e, prima ancora, delle conseguenze negative dell’immigrazione sulla sostenibilità di regimi di welfare inclusivi, che sappiano provvedere tanto alle necessità degli autoctoni quanto a quelli stranieri senza diluire le risorse in un più ampio bacino di soggetti bisognosi, ha condotto verso un atteggiamento diffuso e radicato di diffidenza verso l’arrivo di questi nuovi cittadini. Tentare di comprendere in profondità l’immigrazione non è certo semplice, ma con il passare degli anni si è rilevata una necessità sempre più impellente. Le storie, i racconti, i percorsi che contraddistinguono le esperienze di ogni 7 migrante compongono un mosaico sfaccettato ed eterogeneo, troppo spesso annientato dallo sguardo superficiale che crea stereotipi ed alimenta false verità. Trattare la questione come se esistesse un unico prototipo di migrante sarebbe quindi del tutto inadatto all’analisi del problema. Va inoltre sottolineato che con il continuo e progressivo aumento dell'immigrazione femminile, la componente straniera della nostra società si diversifica sempre più e, anche da un punto di vista politico, questo dato deve essere tenuto debitamente in conto, in particolare in considerazione del fatto che le donne migranti costituiscono la categoria più vulnerabile in assoluto, poiché possono essere oggetto di una doppia discriminazione basata e sull'origine etnica e sul sesso. In un momento come questo, in cui il nostro territorio continua a vivere un periodo di incertezza economica e interi settori subiscono la precarietà della crisi, il rischio di regressione anche nell’accoglienza e nell’integrazione degli immigrati è un rischio reale. Un rischio che si deve e si può evitare se tutti insieme, Istituzioni e cittadini lavoriamo per la piena integrazione, rafforzando la rete delle relazioni e promuovendo politiche attive in tutti i settori. Ma per fare ciò occorre in primo luogo conoscere il fenomeno migratorio, occorre monitorarlo costantemente, con la consapevolezza che gli immigrati non sono una categoria astratta: basti pensare che nel territorio aretino sono ben 134 le nazionalità presenti (ed ogni nazionalità ha al suo interno molteplici differenze) e che comunque ogni immigrato/a è prima di tutto una persona con la sua storia e i suoi progetti. L’Osservatorio Provinciale sulle Politiche Sociale, funzionante dal 1997, ha strutturato al suo interno una Sezione specifica sull’immigrazione, proprio con l’intento di aiutare tutti i soggetti programmatori, in primo luogo a conoscere tutte le sfaccettature dell’immigrazione (dagli inserimenti scolastici, al lavoro, alla salute, etc.) al fine di orientare in modo efficace le proprie scelte di politiche e servizi per l’integrazione. Questa pubblicazione raccoglie gli ultimi approfondimenti tematici della Sezione Immigrazione, della cui cura ringrazio i redattori, che con grande professionalità ci offrono uno strumento indispensabile che, nel contempo sottolinea la forte volontà della Provincia di Arezzo di lavorare a vasto raggio e permanentemente per l’inclusione e la coesione sociale, per la promozione dei diritti di ognuno e di tutti. Eleonora Ducci Vice Presidente della Provincia di Arezzo 8 Il ruolo della ricerca, dell’acquisizione di dati e casi studio, dell’osservazione di trend e dinamiche, dovrebbero stare alla base della definizione delle politiche di integrazioni che, nei diversi territori, gestiscono il tema della convivenza tra vecchi e nuovi cittadini. L’Osservatorio delle politiche sociali, Sezione immigrazione, in Provincia di Arezzo ha fornito nel corso di oltre un decennio una quantità enorme di dati, offrendo ai cittadini, agli addetti ai lavori e ai decisori politici un quadro ampio e complesso del fenomeno migratorio in provincia di Arezzo. Anche questo volume, come i precedenti Rapporti provinciali offre una visione estremamente aggiornata e ampia del fenomeno migratorio e dei percorsi di integrazione; include, inoltre, alcuni approfondimenti sul tema dell’accoglienza dei richiedenti asilo presenti sul nostro territorio (e a livello nazionale), giacché trattasi ormai di un fenomeno stabile, che richiederebbe la predisposizione di efficaci politiche di integrazione per rendere la presenza di queste persone un valore per l’intera comunità ospitante. Un capitolo importante nel lavoro di quest’anno è stato perciò dedicato al crescente fenomeno dei richiedenti asilo nella nostra provincia. Lungi dall’essere catalogata come “invasione”, come ripetuto in maniera totalmente fuorviante da alcuni mezzi di informazione nazionale, il numero dei richiedenti asilo nella nostra provincia è diventato una realtà di un certo rilievo, che pone nuove sfide di integrazione in un contesto sia interno che esterno particolarmente fragile e con un orizzonte temporale limitato. La scuola, anche in questo Rapporto, ricopre un ruolo centrale, è cuore del processo di integrazione e passaggio chiave per molti dei nuovi arrivati nel nostro territorio e per i figli dei migranti da tempo residenti. Mi permetto di segnalare, in questa mia introduzione, il lavoro svolto da L. Luatti nell’analizzare il rapporto tra la scuola e i “nuovi italiani” che offrirà al lettore una serie di spunti per riuscire a comprendere il delicato ma fondamentale ruolo che la scuola ha, o dovrebbe avere, nei processi di inclusione sociale dei “nuovi cittadini”. 9 Il Quinto Rapporto, come i precedenti, ha il merito di non essere un semplice elenco di dati, ma di sviluppare intorno ad essi analisi qualitative, che permettono di decifrare il fenomeno migratorio in maniera davvero adeguata e completa. Merito, indubbiamente, dei ricercatori che in questi anni hanno lavorato con grande professionalità e passione (Marco La Mastra, Lorenzo Luatti, Giovanna Tizzi), dei tanti collaboratori che hanno arricchito i contenuti del rapporto. Merito anche di chi questo modello di Osservatorio e di lavoro ha promosso e sostenuto, come l’Amministrazione provinciale di Arezzo che nel corso di circa vent’anni ha dimostrato di credere in questo strumento, acquisendo dati fondamentali per la costruzione delle politiche. Nel futuro incerto del nuovo ruolo e delle nuove competenze delle province il ruolo dell’Osservatorio rischia di sparire e con esso quello straordinario portato di esperienze e analisi che ha arricchito il dibattito pubblico del nostro territorio, combattendo stereotipi e luoghi comuni, diffidenze e ipocrisie. Un patrimonio da difendere e da sviluppare anche per i prossimi anni. Alessandro Bechini Direttore di Oxfam Italia Intercultura 10 L’integrazione liquida di Fabio Berti 1. Immigrazione: un fatto sociale totale I processi migratori rappresentano sicuramente uno dei fenomeni sociali più rilevanti dell’ultimo mezzo secolo, non solo per la rilevanza quantitativa, ma soprattutto per le sue implicazioni qualitative nei più importanti settori della vita: in primo luogo le migrazioni hanno condizionato l’economia e la politica, per citare i due sistemi che forse più di altri colpiscono l’immaginario collettivo, ma hanno inciso anche sulla psicologia delle persone e sulle relazioni sociali. L’immigrazione è davvero “un fatto sociale totale”, come scrive Sayad (1999) in uno dei suoi passaggi più celebri. Per citare ancora Sayad, occorre ricordare che le conseguenze dell’immigrazioni sono vissute non solo nel paese di destinazione ma anche in quello di origine; per conoscere davvero le migrazioni è necessario tenere costantemente sotto controllo le due dimensioni che le caratterizzano: l’emigrazione, e quindi le caratteristiche del paese di origine dell’immigrato, la sua storia, il suo lavoro, la sua famiglia, le condizioni socio-economiche generali e le relazioni con il paese di immigrazione, quasi sempre relazioni asimmetriche, e l’immigrazione, cioè il paese di destinazione, la nuova vita, i nuovi habitat socio-culturali, i nuovi lavori e le nuove relazioni, i bisogni materiali e spirituali nel contesto di arrivo. Per questo le migrazioni acquistano una straordinaria “funzione specchio”, rivelando le caratteristiche della società di origine e di quella di arrivo, della loro organizzazione politica e delle loro relazioni. Come altri fatti sociali, le migrazioni contribuiscono ai mutamenti sociali e, in alcuni casi e per certi aspetti, sono anche state e sono ancora il fatto più importante da ogni punto di vista (Palidda, 2008). In realtà anche nel nostro Paese ci siamo concentrati quasi esclusivamente sull’immigrazione, ovvero su cosa accade al momento dell’arrivo in Italia rinunciando a capire cosa è accaduto e cosa continua ad accadere dall’altra parte, nel “loro” paese di provenienza. Ciò spiega perché da decenni siamo concentrati sull’integrazione, questa parolamantra divenuta la chiave di volta del rapporto tra autoctoni e immigrati. Sia chiaro, non c’è da stupirsi e per certi versi è anche naturale: da sempre l’arrivo di popolazione “straniera” su un territorio precedentemente abitato e vissuto come il “proprio” territorio ha generato grandi interrogativi e grandi conflitti, sia con i 11 nuovi arrivati, sia tra quanti si dimostravano rispettosi ed accoglienti e quelli che invece si facevano promotori della salvaguardia di interessi consolidati. I conflitti, quindi, non chiamano in causa solo il rapporto con gli stranieri ma si è sviluppato un intenso dibattito anche tra gli stessi autoctoni, divisi tra chi si rivelava rispettoso e accogliente e coloro che invece non ne vogliono sapere di immigrazione e immigrati. In mezzo a questi due poli opposti e apparentemente inconciliabili si collocano tutta una serie di posizioni: alcune si concentrano sulla convenienza della presenza immigrata per il nostro sistema economico, altre muovono da ragioni di opportunità politica, altre ancora sono il risultato dell’intreccio di diverse variabili, da quelle di natura religiosa a quelle legate a situazioni personali o familiari. 2. I limiti dell’integrazione Da quando l’immigrazione è divenuto uno dei fenomeni sociali più rilevanti del nostro paese, la questione dell’integrazione è non solo “il” tema principale a cui si guarda con grande attenzione ma anche un percorso irrinunciabile per rendere accettabile la presenza del migrante. In effetti è come se gli immigrati fossero portatori di una sorta di peccato originario dovuto al fatto di essere arrivati senza che nessuno li abbia invitati: l’integrazione diventa il percorso salvifico che permette l’espiazione del peccato, cancella la colpa e legittima la presenza. Tuttavia, nonostante all’integrazione venga riconosciuto un tributo così importante, non sempre è chiaro cosa si debba intendere con tale termine, quali siano i contenuti di questo processo né tanto meno come si possa riuscire a cogliere le sue performance. Molte sono le ambiguità e le contraddizioni che ruotano intorno al concetto di integrazione ed altre interessano la sua pratica. Nella maggior parte dei casi, almeno a livello di opinione pubblica, anche quando si pronuncia la parola “integrazione” in realtà si pensa o ci si augura che questa prenda la forma dell’assimilazione riproducendo il grande equivoco che da sempre accompagna l’integrazione: quello di riuscire a garantire il massimo di omogeneità culturale a partire dalle ragioni – e dalle tradizioni – del gruppo autoctono, nella convinzione che la diversità porta inevitabilmente scompiglio all’interno di società già sofferenti per ragioni del tutto interne. Ovviamente i teorici dell’integrazione non la pensano quasi mai così: esiste una vasta letteratura internazionale e nazionale che descrive quale forma far assumere all’integrazione, rinunciando alla ricerca di un modello come è stato fatto in passato e guardando con maggiore flessibilità alle opportunità offerte dall’immigrazione; a livello di senso comune, invece, la maggioranza dell’opinione pubblica – anche quella più illuminata – è scarsamente propensa a 12 fare concessioni agli immigrati. La politica, dal canto suo, nel tentativo di mediare tra queste diverse posizioni e nella consapevolezza che su questi temi sono a rischio i risultati elettorali, si dimostra incerta e avanza con grande cautela, producendo soluzioni maldestre e contribuendo ad alimentare i dubbi dei cittadini, come dimostra il testo di legge approvato alla Camera nell’ottobre del 2015 destinato a modificare i passaggi per acquisire la cittadinanza. Il Parlamento ha evidentemente riconosciuto la necessità di favorire la naturalizzazione dei figli degli immigrati ma non ha avuto la forza per prendere una decisione netta, introducendo quello che è stato ribattezzato uno jus sanguinis “temperato” (1) accompagnato dalla novità dello jus culturae (2). In ogni modo ciò che emerge con chiarezza è che l’integrazione è sempre a senso unico: sono gli immigrati che devono integrarsi anche se poi mancano percorsi e strategie definiti; l’integrazione, per quanto auspicata, rimane un obiettivo difficile da raggiungere. Il cammino per l’integrazione ha finito così per trasformarsi in una sorta di “gioco dell’oca”, fatto di una serie infinita di stop and go all’interno del quale anche gli immigrati si muovono con grandi difficoltà legate alle contingenze del momento. Questa situazione, che porta a scaricare sugli immigrati molte delle ansie vissute dalla società italiana, è il risultato di problemi ben più profondi dovuti al fatto che “non abbiamo nel nostro Paese un modello sociale e culturale unitario, condiviso e convissuto sia sul piano normativo e istituzionale sia di valori, siamo i primi a non avere una fiducia ‘forte’ nel nostro sistema e in troppe realtà a rispettare le regole e le autorità” (De Vita, 2008). 3. Un’immigrazione in rapida trasformazione La difficoltà di riuscire a declinare i contenuti teorici e pratici dell’integrazione dipende anche dall’immigrazione che, nonostante le modalità semplicistiche spesso utilizzate per rappresentarla, si presenta come fenomeno altrettanto complesso e articolato. Soprattutto negli ultimi anni le caratteristiche dell’immigrazione sono profondamente mutate: da un lato abbiamo un quadro internazionale sempre più instabile e violento, dall’altro una situazione economica nazionale con livelli di disoccupazione non più fisiologici ma sintomatici di una difficoltà dell’intero sistema sociale nazionale. Nel giro di pochi anni gli immigrati attratti dalle opportunità di lavoro sono stati sostituiti da quelli espulsi dai conflitti e dall’invivibilità di intere aree del pianeta. Molti autori continuano a ribadire la differenza tra profughi e rifugiati da un lato (3) e migranti dall’altro: i primi sono migranti forzati che abbandonano le loro case per sfuggire alla persecuzione e al conflitto e i secondi sono migranti 13 volontari che si muovono per ragioni economiche o per altri vantaggi (Castels, Miller, 2009). Si tratta di una tesi non priva di fondamento; tuttavia passate esperienze e situazioni per certi versi analoghe – su tutte le vicende dei Balcani e dell’Albania di metà anni ‘90 – ci mostrano che i profughi si trasformano rapidamente in migranti; Essed, Frerks e Schrijvers nell’introduzione al loro volume scrivono che la fuga “rappresenta una variante del più generale fenomeno della migrazione, contiene molte delle caratteristiche delle esperienze che anche gli altri migranti attraversano quando si separano fisicamente dalle loro regioni e dai loro Paesi” (Essed, Frerks, Schrijvers, 2004). Le garanzie riconosciute dal diritto internazionale ai rifugiati, fatte proprie dai singoli governi nazionali, non sono quindi sufficienti a distinguerli dal punto di vista sostanziale dai migranti economici; solo nel breve periodo, nell’attesa di comparire presso la Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale i rifugiati godono di tutele e assistenze specifiche ma dopo, magari dopo un diniego, cosa accade? In cosa si differenzieranno dai più comuni “immigrati irregolari”? Se da un lato abbiamo una sorta di dovere morale nell’accoglienza anche in relazione alle molte responsabilità dei nostri Paesi per lo stato di turbolenza dei luoghi di origini, dall’altro c’è anche una questione di opportunità e di convenienza: senza una accoglienza efficace c’è un rischio concreto di assistere alla formazione di sacche di marginalità, di ghetti, di zone franche che nel lungo periodo potrebbero causare problemi ben più seri, comprese dinamiche legate alla stessa sicurezza, come mostrano tante vicende delle banlieue francesi, belghe, ecc. Molti di questi immigrati – o rifugiati – è probabile che rientreranno nel loro Paesi ma molti resteranno e allora diventa necessario pensare a cosa fare: tra la semplice accoglienza, che in molti casi serve appena a garantire le funzioni vitali – un tetto, il cibo, gli abiti e poco più – e l’acquisizione della cittadinanza, epilogo di una piena e definitiva stabilizzazione, occorre pensare a quali dinamiche di integrazione costruire, magari proprio insieme a loro. 4. Poche riflessioni conclusive Nelle pagine precedenti è stato messo in evidenza come l’immigrazione risulti sempre più spesso caratterizzata da esperienze differenziate che riproducono e rispecchiano la complessità del sistema internazionale. Le vicende degli ultimi anni ci mostrano che non sarebbe del tutto fuori luogo parlare di una “immigrazione liquida”, rifacendosi alla nota teoria descritta da Bauman (2002). Ai migranti classici, stabilizzati, spesso naturalizzati, si aggiungono non solo le 14 esperienze di trasnazionalismo ormai ampiamente descritte da tante ricerche, ma anche una pluralità di situazioni che non sono né definite né definitive e che però non possono però essere lasciate a se stesse. In questo contesto la riflessione provocatoria è che se l’immigrazione diventa davvero liquida anche l’integrazione dovrà assumere dei connotati nuovi e probabilmente assumere a sua volta uno stato liquido. In effetti parlare di integrazione significa prendere in considerazione tre dimensioni: la prima è quella della processualità, che significa che l’integrazione non si dà mai una volta per tutte, né tanto meno si acquista con un decreto, ma è prima di tutto un processo che richiede tempo e che avviene nel tempo. Le politiche migratorie dovranno quindi imparare anche ad essere flessibili e a rispondere a progetti migratori ancora in divenire: per quanto possa apparire paradossale e anche contraddittorio, questo aspetto risulterà decisivo nei prossimi anni. Il secondo elemento caratterizzante è la multidimensionalità: l’integrazione riguarda una pluralità di aspetti della vita della persona migrante, da quelli economici a quelli sociali e culturali e non è detto che tutti corrano alla stessa velocità. L’integrazione può avvenire con modalità e con tempi diversi rispetto a ciascuno di questi aspetti; per esempio può verificarsi una rapida integrazione economica senza un altrettanto incisivo percorso sul piano culturale e sociale e viceversa e non è neppure detto che tutti, migranti e autoctoni, auspichino una piena assimilazione. Infine, ed è l’aspetto più importante, è indispensabile riflettere sulla cosiddetta bidirezionalità dell’integrazione nel senso che oltre a coinvolgere gli immigrati nel processo di inserimento nella società di arrivo coinvolge anche i cittadini della società di approdo che non solo si confrontano con i nuovi arrivati, ma modificano i loro atteggiamenti e i loro valori, seppur in modo più o meno consapevole. Per favorire percorsi di coesione sociale i cittadini delle società riceventi dovranno divenire protagonisti dell’integrazione invece di limitarsi a guardare con sospetto alla società multiculturale. Note (1) Secondo il testo di riforma della legge sulla cittadinanza approvata alla Camera a ottobre 2015 e (mentre scriviamo) in attesa di essere approvata al Senato, acquista la cittadinanza per nascita chi è nato nel territorio della Repubblica da genitori stranieri, di cui almeno uno sia in possesso del permesso di soggiorno Ue per soggiornanti di lungo periodo. Per ottenere la cittadinanza c’è bisogno di una dichiarazione di volontà espressa da un genitore o da chi esercita la responsabilità genitoriale all’ufficiale dello stato civile del comune di residenza del minore, entro il compimento della maggiore età. Se il genitore non ha reso tale dichiarazione, l’interessato può fare richiesta di acquisto della cittadinanza entro due anni dal raggiungimento della maggiore età. (2) In questo modo può ottenere la cittadinanza il minore straniero, che sia nato in Italia o sia entrato nel nostro paese entro il compimento del dodicesimo anno di età, che abbia frequentato regolarmente, per almeno cinque anni nel territorio nazionale uno o più cicli presso istituti 15 appartenenti al sistema nazionale di istruzione o percorsi di istruzione e formazione professionale triennali o quadriennali idonei al conseguimento di una qualifica professionale. (3) I termini rifugiato e profugo vengono spesso utilizzati come sinonimi, ma è lo status di rifugiato l’unico sancito e definito nel diritto internazionale fin dalla Convenzione di Ginevra del 1951 mentre il profugo è colui che per diverse ragioni non è nelle condizioni di chiedere la protezione internazionale. Riferimenti bibliografici Bauman Z. (2002), Modernità liquida, Laterza, Roma-Bari. Castels S., Miller M.J. (2009), The Age of Migration, Palgrave Macmillan, Basingstoke & New York. De Vita R. (2008), Convivere nel pluralismo, Cantagalli, Siena. Essed P., Frerks G. and Schrijvers J. (eds) (2004), Refugees and the Transformation of Societies: Agency, Policies, Ethics and Politics, Berghahn, Oxford. Palidda S. (2008), Mobilità umane. Introduzione alla sociologia delle migrazioni, Raffaello Cortina, Milano. Sayad A. (1999), La doppia assenza. Dalle illusioni dell’emigrato alle sofferenze dell’immigrato, Raffaello Cortina, Milano. 16 Prima parte La presenza: evoluzione, caratteristiche, specificità 17 18 Capitolo 1 Migranti e figli dell’immigrazione in provincia di Arezzo di Marco La Mastra 1. Introduzione A quasi 15 anni di distanza dal primo rapporto sull’immigrazione in provincia di Arezzo, la presenza straniera nel territorio aretino, così come nel resto del Paese, si è completamente trasformata, alimentando, in egual misura, il bisogno di conoscerne e comprenderne le varie caratteristiche, anche in relazione all’evoluzione del fenomeno migratorio e alle mutevoli esigenze che esso pone in termini quantitativi e qualitativi. Quella straniera rappresenta, infatti, una realtà imprescindibile nel tessuto locale, non solo dal punto di vista della consistenza numerica, ma anche per il peso che esercita nella realtà imprenditoriale e occupazionale del territorio e per la pluralità dei temi che essa pone sul piano sociale, culturale e del welfare. La distribuzione e le peculiarità della popolazione straniera residente continuano a rappresentare un determinante fattore nell’evoluzione del sistema socioeconomico aretino, oltre che per gli equilibri demografici complessivi. È quindi importante riuscire a delineare un quadro che metta in rilievo le caratteristiche dell’immigrazione in provincia di Arezzo dal punto di vista dell’insediamento territoriale, monitorando e analizzando i dati delle presenze, prendendone in esame anche l’evoluzione temporale. La Sezione Immigrazione, attiva da alcuni anni all’interno dell’Osservatorio per le Politiche Sociali della Provincia di Arezzo, registra periodicamente nei suoi rapporti i cambiamenti demografici prodottisi nel territorio aretino per effetto delle migrazioni internazionali: la percezione quotidiana di un territorio multiculturale di fatto, caratterizzato dalla compresenza di una pluralità di culture, religioni e lingue, è qui supportata da dati e analisi quantitative. L’analisi delle dinamiche migratorie avvenute nell’ultimo decennio inoltre appare alquanto significativa al fine di dimostrare quanto sia cambiata la composizione dei flussi dal punto di vista della provenienza geografica. L’obiettivo è quello di fotografare le traiettorie seguite dalle comunità straniere che nel corso del tempo sono divenute una presenza sempre più significativa e un segmento sempre più consistente della popolazione complessiva provinciale. In questo approfondimento vengono presi in considerazione alcuni aspetti relativi alla struttura della popolazione immigrata dal punto di vista demografico, 19 raffrontando, laddove possibile, i dati con quelli della popolazione totale, al fine di evidenziare le peculiarità dei due aggregati. L’analisi mira inoltre a verificare se l’immigrazione nella sua distribuzione geografica ricalchi quella della popolazione generale o, viceversa, se le modalità di insediamento dei due aggregati presentino significative differenze, cercando di indagare i possibili fattori che possono determinare la concentrazione della comunità immigrata in particolari territori della provincia o, al contrario la sua diffusione più o meno omogenea. 2. Il bilancio demografico nazionale Introdurremo le informazioni relative ad alcune peculiarità generali del fenomeno migratorio partendo dal dato nazionale, per poi declinare quello locale relativo al territorio aretino. Al 31 dicembre 2014 risiedono in Italia 60.795.612 persone, di cui più di 5 milioni di cittadinanza straniera. Nel corso del 2014 il numero dei residenti nel nostro Paese è rimasto praticamente stabile. Il (seppur piccolo) aumento è relativo alla sola componente maschile della popolazione (+17.026), mentre la popolazione femminile è in diminuzione (-4.082). Lo stesso calcolo, effettuato per la popolazione straniera, ha fatto registrare un incremento di 92.352 unità, portando i cittadini stranieri residenti a 5.014.437, pari all’8,2% dei residenti. La variazione reale, dovuta cioè alla dinamica naturale e migratoria, registra un aumento di appena 2.075 unità. Il movimento naturale della popolazione (nati meno morti) ha fatto registrare un saldo negativo di quasi 100 mila unità, che segna un picco mai raggiunto in Italia dal biennio 1917-1918 (primo conflitto mondiale) e ancora più elevato di quello del 2012, quando la mortalità fece registrare valori particolarmente elevati nei mesi invernali. La popolazione straniera risiede prevalentemente nel Nord e nel Centro. Il primato delle presenze, sia in termini assoluti che percentuali, va alle regioni del Nord-ovest dove abita il 34,4% dei residenti stranieri in totale (10,7 ogni 100 abitanti). Stessa percentuale di presenza sul totale della popolazione si ha nelle regioni del Nord-est, dove si contano 1.252.013 cittadini stranieri, pari al 25,0% del totale degli stranieri presenti in Italia, anche se il Nord-est è l’unica ripartizione italiana in cui si rileva un decremento della popolazione straniera residente (-0,1%). Nelle regioni del Centro si registrano quote analoghe di popolazione straniera sia in termini di incidenza (10,6%) sia di quota sulla popolazione straniera complessiva a livello nazionale (25,4%), mentre nel Sud e nelle Isole la presenza straniera, seppure in crescita, risulta ancora ridotta. Si può osservare che la popolazione residente nel nostro Paese è in realtà arrivata alla crescita zero e che i flussi migratori riescono a malapena a compensare il calo 20 demografico dovuto alla dinamica naturale. Se i residenti si scompongono in base alla loro cittadinanza (italiana e straniera), la componente italiana risulta in diminuzione (-83.616), seppur mitigata dall’acquisizione della cittadinanza italiana: la diminuzione dei residenti con cittadinanza italiana sarebbe ancora più marcata se non si tenesse conto delle acquisizioni di cittadinanza registrate dai Comuni nel corso del 2014, durante il quale circa 130 mila cittadini stranieri hanno acquisito la cittadinanza italiana a vario titolo (per matrimonio, naturalizzazione, riconoscimento iure sanguinis per aver avuto avi italiani, ecc.). Per la sola popolazione straniera l’aumento è di 85.691 unità (+1,7%). Analizzando il bilancio per le due componenti di popolazione residente, italiana e straniera, si osserva che i saldi del movimento naturale e migratorio sono sempre negativi per i residenti con cittadinanza italiana e positivi per quelli con cittadinanza straniera. Il saldo naturale negativo relativo ai soli italiani (-165.043) è quasi il doppio di quello totale, in parte bilanciato dal saldo naturale positivo della popolazione straniera residente (+69.275). Anche per quanto riguarda il saldo migratorio estero, quello relativo alla popolazione di cittadinanza italiana fa registrare una perdita di 59.580 abitanti, mentre il saldo riferito alla componente straniera mostra un guadagno di 200.891 abitanti. Gli stranieri residenti in Italia sono cittadini di un Paese europeo per oltre il 50% (oltre 2,6 milioni di individui), di cui di un Paese dell’Unione per poco meno del 30% (1,5 milioni), mentre gli Stati africani sono rappresentati per un ulteriore 20%, prevalentemente da cittadini di Paesi dell’Africa settentrionale (13,5%) e occidentale (5,7%). Più o meno la stessa quota sul totale (20%) spetta ai cittadini dei paesi asiatici: si tratta per entrambi i continenti di circa 1 milione di persone. Il continente americano conta meno di 400 mila residenti in Italia (7,7%), quasi tutti cittadini di Paesi dell’America centro meridionale (7,4%). Complessivamente, il numero delle diverse nazionalità residenti presenti è di poco inferiore a 200; le prime dieci cittadinanze in ordine di importanza numerica da sole raggruppano quasi il 65% del totale dei residenti stranieri. A livello nazionale la collettività più numerosa è quella rumena con 1.131.839 residenti, il 22,6% del totale. Seguono i cittadini dell’Albania (490.483, il 9,8%), del Marocco (449.058, il 9,0%), della Cina (265.820, il 5,3%) e dell’Ucraina (226.060, il 4,5%). A livello territoriale disaggregato, almeno nei comuni con una certa presenza straniera, il ventaglio delle cittadinanze rappresentate risulta normalmente piuttosto ampio. Le diverse collettività mostrano del resto modelli insediativi molto differenti tra loro, con riferimento alla distribuzione sul territorio, alla composizione per genere, alla dimensione dei nuclei familiari e spesso anche all’attività lavorativa svolta nel nostro Paese (tanto che per alcune collettività si parla di vere e proprie “specializzazioni produttive”). 21 3. La presenza in provincia di Arezzo Dopo aver registrato nel 2013, per la prima volta, dopo circa 30 anni di crescenti flussi immigratori dall’estero, un calo nella presenza di cittadini stranieri in provincia di Arezzo, nell’anno 2014 tale declino non ha avuto ulteriore conferma e il numero di stranieri residenti al 31.12.2014 si è attestato a 37.786 (contro i 37.598 dell’anno precedente). In pratica, si è tornati al dato assoluto di quattro anni fa (2010), quando il numero dei residenti stranieri era pressoché identico all’attuale. Corrispondentemente, anche il dato di incidenza è invariato: oggi i cittadini stranieri sono il 10,9% della popolazione complessivamente residente sul territorio provinciale. Per gli effetti della crisi economica e sociale globale, i flussi in entrata di cittadini stranieri si sono progressivamente ridimensionati ogni anno (vedi Tabella 1 e Grafico 1), fino ad arrestarsi nel 2012: si consideri, difatti, che negli ultimi anni gli incrementi di tale presenza sono stati sostanzialmente alimentati dalle nuove nascite da nuclei familiari stranieri (le cosiddette “seconde generazioni”). Nel 2014 le nascite da coniugi stranieri residenti, tornate a crescere dopo l’“annus horribilis” 2013, sono state sufficienti ad arginare il diffuso decremento, generato da nuovi flussi in uscita di individui e di interi nuclei familiari, sia verso i paesi di origine, sia verso altre regioni italiane, sia infine verso Paesi stranieri, soprattutto europei, visto che a fronte di mutate condizioni economiche la risposta da parte di alcuni migranti è stata una rinnovata mobilità interna e internazionale. Queste cifre evidenziano, per altro verso, che permane una certa attrazione (anche se in attenuazione) degli stranieri verso la nostra provincia: l’afflusso sempre costante di giovani immigrati che nel territorio aretino cercano un’opportunità di vita e di lavoro, che nel 2013 ha subito un forte rallentamento, sembra essersi comunque (temporaneamente) ridimensionato. Tabella 1 - Stranieri residenti in provincia di Arezzo. Serie storica ultimi 10 anni Anno 2003 2007 2009 2010 2011 2012 2013 2014 Stranieri residenti 17.322 29.278 35.516 37.691 39.480 40.326 37.598 37.786 Incrementi % annuali 26,9 21,8 7,4 6,1 4,7 2,1 -6,8 0,5 22 Incidenza % 5,2 8,6 10,2 10,8 11,5 10,8 10,9 Grafico 1- Serie storica dell’immigrazione in provincia di Arezzo 39'480 40'000 40'326 37'598 37'786 37'691 35'516 35'000 33'074 29'278 30'000 24'041 25'000 22'526 20'263 20'000 17'322 13'283 13'647 15'000 11'626 10'000 5'000 0 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 2012 2013 2014 4. La distribuzione territoriale La popolazione straniera si distribuisce tra i comuni della provincia di Arezzo in maniera sempre più simile alla popolazione complessiva: si registra maggiore incidenza percentuale nelle municipalità più grandi del territorio, anche se persistono in alcuni comuni montani come Pratovecchio Stia e Poppi presenze intorno al 12%. Tre sono i comuni con un’incidenza superiore al 15%: Foiano della Chiana, Montevarchi e Bibbiena (si segnala che quest’ultimo comune, che da vari anni registrava il primato percentuale delle presenze, nell’arco di due anni ha visto ridursi di circa 300 unità la popolazione straniera residente). La città di Arezzo, benché sia la più popolata da cittadini stranieri con una comunità di quasi 12.000 unità (la zona Aretina concentra il 38,4% di tutti gli stranieri), ha un’incidenza dell’11,8% sulla popolazione complessiva residente (Tabella 2). L’incidenza della popolazione immigrata sul totale della popolazione residente varia tra le cinque zone socio sanitarie: il Casentino da molti anni si conferma la vallata con la maggiore concentrazione di cittadini non italiani, pari al 12,1%, una percentuale molto alta se si considera la media nazionale (8,2%) e quella provinciale (10,9%). Seguono con un valore pari all’11,5% la Valdichiana, l’11,1% la zona Aretina, ed infine il Valdarno e la Valtiberina con il 10,0% circa (Tabella 3). Rispetto allo scorso anno, il dato della presenza risulta sostanzialmente confermato nelle varie zone: si va dal decremento più vistoso nel Casentino (2,7%), che negli ultimi anni ha visto contrarsi la popolazione straniera, 23 all’incremento del Valdarno che, invece, negli ultimi anni ha visto progressivamente aumentare le presenze (+2,0% nel 2014). Nel panorama comunale, abbiamo 17 territori che registrano un decremento (con un valore massimo di -11,0% di Caprese Michelangelo) e 20 comuni che invece hanno un incremento annuale positivo, con Laterina e Bucine che segnalano incrementi superiori all’8%. Tabella 2 - Comuni della provincia di Arezzo con la più alta incidenza di residenti stranieri all’1/1/2015 Comuni Foiano della Chiana Montevarchi Bibbiena Pratovecchio Stia San Giovanni Poppi Arezzo Cast. Fiorentino Sansepolcro Pieve S. Stefano Cortona Castiglion Fibocchi Sestino Chitignano Talla Laterina Cast. Focognano Stranieri residenti 1.550 3.829 1.869 715 2.061 743 11.773 1.528 1.788 349 2.405 230 140 92 110 358 Totale popolazione 9.644 24.454 12.403 5.891 17.118 6.251 99.434 13.317 16.012 3.200 22.566 2.201 1.371 903 1.083 3.544 % Stranieri su residenti 16,1 15,7 15,1 12,1 12,0 11,9 11,8 11,5 11,2 10,9 10,7 10,4 10,2 10,2 10,2 10,1 320 3.197 10,0 Incremento % 2013/2014 5,4 0,1 -6,1 -1,7 2,3 2,3 0,8 -1,0 -1,4 -1,0 0,9 -8,4 -3,4 -3,2 -0,9 9,1 0,9 Tabella 3 - Distribuzione zonale residenti stranieri. Percentuali di presenza, incidenza e decremento Zone Casentino Valdarno Valdichiana Valtiberina Aretina Stranieri residenti 2012 4.752 9.940 6.443 3.113 16.078 Stranieri residenti 2013 4.472 9.610 5.984 3.051 14.481 Stranieri residenti 2014 4.351 9.801 6.064 3.043 14.527 Totale popolaz. 2014 35.960 95.978 52.658 30.545 131.301 Stranieri residenti (% di col) (2014) 11,5 25,9 16,0 8,1 38,4 Provincia di Arezzo 40.326 37.598 37.786 346.442 100,0 24 Incidenza % 2014 Incremento % 2013-14 12,1 10,2 11,5 10,0 11,1 -2,7 2,0 1,3 -0,3 0,3 10,9 0,5 5. Il genere e l’età Prosegue in provincia di Arezzo la crescente femminilizzazione della popolazione straniera. Nel nostro territorio gli uomini e le donne rappresentano rispettivamente il 46,1% (17.419 uomini) e il 53,9% (20.367 donne). Questo dato non rappresenta una sorpresa: da quando nel 2006 si è prodotto un sostanziale allineamento tra la componente maschile dell’immigrazione, inizialmente maggioritaria, e quella femminile, quest’ultima è sempre stata avanti, aumentando progressivamente il primato ogni anno, seppure con piccole frazioni percentuali. Il quadro che emerge mette in evidenza quanto le differenze di genere rappresentino un fattore determinante nei flussi degli immigrati e nell’inserimento delle comunità straniere nella società di accoglienza, contribuendo all’evoluzione e alla caratterizzazione dei percorsi migratori in provincia di Arezzo. Grafico 2 - Componenti maschile e femminile della popolazione straniera residente M 20000 F 15000 10000 5000 0 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 2012 2013 2014 Dall’esame della struttura per età degli stranieri residenti, emerge una popolazione molto giovane: si registra uno scarto di più di 15 anni sull’età media tra autoctoni e stranieri, poiché per i migranti è di 33,1 anni (un dato che dopo vari anni di crescita, si sta stabilizzando), mentre per gli italiani arriva a 48,4 anni. 25 Tra gli italiani gli anziani ultrasettantenni sono il 19,7% contro il 2,2% degli stranieri; all’opposto i bambini sotto i 10 anni sono molto più numerosi in proporzione tra gli stranieri (13,0%) in confronto agli italiani (7,9%). Discorso analogo possiamo riscontrarlo per le fasce d’età, infatti tra gli stranieri la fascia d’età più rappresentata è quella dei 30-34enni, mentre per gli italiani si attesta tra i 45-49 anni. Tabella 4 - Distribuzione di genere della popolazione straniera relativa alle 15 nazionalità più numerose all’1/1/2015 Nazionalità Aretina Casentino Valdarno M M M F F F Valdichiana M F Valtiberina Provincia M M F F Romania 39,1 60,9 46,5 53,5 35,9 64,1 41,5 58,5 31,1 68,9 40,0 60,0 Albania India 51,9 48,1 42,7 57,3 51,4 48,6 50,9 49,1 55,8 59,0 41,0 50,0 50,0 58,2 41,8 54,0 46,0 61,3 44,2 51,7 48,3 38,7 57,4 42,6 Marocco Bangladesh 54,0 46,0 45,2 54,8 54,6 45,4 52,2 47,8 49,6 61,3 38,7 47,1 52,9 63,3 36,7 60,0 40,0 - 50,4 52,3 47,7 60,1 39,9 Cina Pakistan 53,4 46,6 45,5 54,5 49,1 50,9 55,2 44,8 48,0 68,4 31,6 68,4 31,6 70,6 29,4 45,5 54,5 72,0 52,0 52,0 48,0 28,0 68,4 31,6 Polonia Macedonia 20,7 79,3 32,0 68,0 22,8 77,2 39,0 61,0 33,0 51,8 48,2 56,9 43,1 54,2 45,8 56,4 43,6 61,2 67,0 27,5 72,5 38,8 55,8 44,2 Kosovo Filippine 56,5 43,5 56,6 43,4 53,3 46,7 54,4 46,0 54,0 75,0 25,0 55,9 44,1 45,2 54,8 44,7 45,6 54,9 45,1 55,3 46,8 53,2 Dominicana Rep. Ucraina 42,6 57,4 33,3 66,7 42,7 57,3 45,5 54,5 40,0 23,9 76,1 16,7 83,3 18,9 81,1 9,1 90,9 25,2 60,0 42,6 57,4 74,8 20,7 79,3 Germania 40,0 60,0 46,6 53,4 41,3 58,7 40,2 59,8 40,0 60,0 41,9 58,1 Regno Unito 37,7 62,3 48,6 51,4 31,9 68,1 41,6 58,4 50,4 49,6 42,5 57,5 Con il passare degli anni, la curva di anzianità dei cittadini stranieri si sta progressivamente abbassando a vantaggio delle fasce d’età più alte. Difatti, se confrontiamo la struttura della popolazione in 4 annualità (1997, 2003, 2008, 2014: Grafico 4) si nota come le basi delle piramidi per classe di età siano incrementate e, al contempo, continua lo spostamento della popolazione verso le età più adulte. La popolazione in età lavorativa non è in grado di compensare lo stabilizzarsi delle generazioni arrivate da più tempo, che tra l’altro contribuiscono all’evoluzione delle nascite. Nonostante ciò, tali modificazioni della struttura demografica della popolazione immigrata, continuano comunque a contribuire al ringiovanimento della struttura per età della popolazione: da una parte perché gli immigrati stessi sono per la maggior parte giovani, dall’altra per la loro più alta prolificità. 26 Grafico 3 - Distribuzione fasce di età: confronto italiani e stranieri (1/1/2015) 100 e + 95-99 90-94 stranieri 85-89 Italiani 80-84 75-79 70-74 65-69 60-64 55-59 50-54 45-49 40-44 35-39 30-34 25-29 20-24 15-19 10-14 5-9 0-4 -15.00% -10.00% -5.00% 0.00% 5.00% 10.00% 15.00% Grafico 4 - Evoluzione struttura popolazione straniera rispetto all’età 20 18 % sul totale della popolazione 16 1997 2003 2008 2014 14 12 10 8 6 4 2 0 0-4 5-9 1014 1519 2024 2529 3034 3539 4044 4549 5054 5559 6064 6569 7074 7579 8084 85- 90 e 89 + Fasce età Tabella 5 - Distribuzione fasce età cittadini stranieri. Valori percentuali (1/1/2015) Fascia età 2014 (%) 0-4 5-9 1014 1519 2024 2529 3034 3539 4044 4549 5054 5569 Oltre 60 7,1 5,9 4,8 4,9 6,8 10,8 12,1 11,7 10,1 8,3 6.0 4,7 6,7 27 6. Le nazionalità Nella provincia di Arezzo all’1/1/2015 risiedevano cittadini di 134 stati esteri, benché la metà provenivano da due stati europei, Romania e Albania. I rumeni residenti sono 13.345 e rappresentano il 35,3% del totale complessivo; gli albanesi, collettività con una storia migratoria consolidata nella nostra provincia ammontano a 5.387 unità (il 14,3%). A seguire, tutte le altre nazionalità estere come indicato nella Tabella 6, benché nessuna superi una presenza del 6%. Tabella 6 - Principali nazionalità stranieri residenti (1/1/2015) Cittadinanza Romania Albania India Marocco Bangladesh Cina Pakistan Polonia Macedonia Kossovo Filippine Ucraina Dominicana Rep. Germania Regno Unito Nigeria Tunisia Bulgaria Sri Lanka Moldova Altre nazionalità 2008 11880 5409 1348 1899 1694 606 786 1070 714 252 452 452 447 521 569 161 389 325 301 143 3654 2009 12621 5720 1595 2056 1805 688 897 1149 766 390 500 498 501 527 602 190 413 343 315 174 3766 2010 13366 5904 1781 2153 1922 843 1011 1251 722 395 538 537 524 536 558 233 428 370 351 204 4064 2011 2012 14150 14479 5995 5916 1947 2071 2277 2311 2022 2094 978 1112 1085 1198 1289 1293 750 737 606 650 574 621 558 558 534 531 524 520 560 535 270 352 432 425 375 383 354 350 213 219 3987 3971 2013 13219 5525 2080 2120 1801 1218 1258 1170 767 777 654 528 486 482 475 343 378 350 308 208 3451 2014 13345 5387 2152 2057 1716 1339 1259 1158 769 750 679 523 523 488 464 394 377 356 325 218 3507 2014 - % su totale 35,3 14,3 5,7 5,4 4,5 3,5 3,3 3,1 2,0 2,0 1,8 1,4 1,4 1,3 1,2 1,0 1,0 0,9 0,9 0,6 9,3 Incr. % 13/14 1,0 -2,5 3,5 -3,0 -4,7 9,9 0,1 -1,0 0,3 -3,5 3,8 -0,9 7,6 1,2 -2,3 14,9 -0,3 1,7 5,5 4,8 1,6 Totale 33072 35516 37691 39480 40326 37598 37786 100,0 0,5 La graduatoria dei primi cinque Paesi di cittadinanza degli stranieri residenti resta immutata rispetto all’anno precedente, tuttavia le diverse collettività nel corso del 2014 hanno subito incrementi di entità e a volte anche di segno differenti. Interessante notare l’andamento delle presenze per le nazionalità più presenti, infatti mentre rumeni e indiani registrano una crescita nell’ultimo anno, gli albanesi e le altre due che seguono nella graduatoria, storicamente presenti sul territorio provinciale, ovvero i marocchini e i bangladesi proseguono la discesa iniziata nel 2013. La collettività del Bangladesh, molto forte numericamente nella 28 città di Arezzo, ha fatto registrare nel breve giro di due anni, una riduzione di circa il 18%, doppia rispetto al decremento medio provinciale nello stesso biennio. In controtendenza, invece, i cinesi la cui presenza cresce nell’ultimo biennio del 20,0%. È interessante notare che la collettività straniera più giovane rimane la bangladese con un’età media intorno ai 25 anni. 7. Le famiglie Anche il contributo positivo alla natalità generato dalle donne straniere mostra i primi segnali di un’inversione di tendenza. Infatti, se l’incremento delle nascite registrato negli anni precedenti era dovuto principalmente alle donne straniere, negli ultimi due anni il numero di bambini stranieri nati ad Arezzo ha iniziato progressivamente a ridursi, pur restando stabile in termini di incidenza percentuale. La crescita dei nati stranieri era stata particolarmente rilevante a partire dall’inizio del nuovo millennio, portando l’incidenza dei nati stranieri sul totale dei nati al 20%. L’afflusso migratorio ha permesso (e permette tutt’oggi) al nostro territorio di “rinverdire” la popolazione residente, che altrimenti sarebbe (stata) destinata al declino demografico, poiché il calo della natalità e il progressivo invecchiamento della popolazione viene compensato da una fecondità superiore delle donne di origine straniera. Nel 2014 (così come per l’annualità precedente) due nati su dieci in provincia erano stranieri. Tabella 7 - Numero dei nati stranieri nel 2014 suddivisi per zona Zona Aretina Casentino Valdarno Valdichiana Valtiberina Totale Nati Stranieri 194 64 171 62 54 545 Totale nati 1.003 278 798 401 237 2.717 % nati stranieri sul totale nati 19,3 23,0 21,4 15,5 22,8 20,1 Complessivamente le G2 (seconde generazioni), ovvero gli stranieri nati in Italia e oggi residenti nella nostra provincia, ammontano a 5.431 unità e rappresentano il 14,7% di tutti gli stranieri residenti (lo scorso anno erano il 13,5% e quattro anni fa il 12,8%). Anche per le G2, dunque, si è registrata, dopo la riduzione del 2013, un nuovo aumento, il che evidenzia come la mobilità in uscita abbia coinvolto in maniera meno consistente nuclei familiari già stabilizzati e le madri con i figli in tenera età. Le fasce d’età ove si registra il più alto numero di nati in Italia sono quelle più giovani: siamo al 45,8% nella fascia 0-5 anni e al 31,9% 29 nella fascia 5-9 anni. Anche se tali percentuali si stanno abbassando a favore delle età superiori, questo significa che le G2 oggi sono in prevalenza a scuola e nei servizi educativi. Tabella 8 - Stranieri nati in Italia (G2) residenti in provincia di Arezzo al 1/1/2015 suddivisi per zona Zona Aretina Casentino (*) Valdarno Valdichiana Totale G2 2.123 546 1.482 852 Valtiberina (*) Totale G2 % di colonna 39,1 10,1 27,3 15,7 % G2 sul totale stranieri 14,6 15,0 15,1 14,1 428 7,9 14,7 5.431 100,0 14,7 * Il dato del Casentino e della Valtiberina sono parziali, in quanto non è stato possibile rilevare le informazioni dalle anagrafi dei Comuni di Pratovecchio Stia e Sestino Tabella 9 - Stranieri nati in Italia (G2) residenti in provincia di Arezzo suddivisi per fasce d'età (1/1/2015) Fasce d’età 0-4 5-9 10-14 15-19 20-24 25-29 30 e oltre Totale Valori assoluti 2.487 1.733 841 219 34 31 86 5.431 % 45,8 31,9 15,5 4,0 0,6 0,6 1,6 100,0 8. I matrimoni misti in provincia di Arezzo (di G. Tizzi) Un’importante dimensione dei fenomeni migratori che investe le relazioni di genere e il processo di integrazione è rappresentata dai matrimoni e dalle coppie miste. La letteratura ha evidenziato come il concetto di matrimonio misto abbia attraversato nel tempo accentuazioni e versioni differenti, caratterizzandosi a seconda del contesto sociale e storico. Come sottolinea Ambrosini (2005) perché si parli di mixité occorre che sia percepita una diversità tra i partner, la cui connotazione si è modificata nel tempo: qualche anno fa l’unione tra una donna italiana e un cittadino americano o viceversa aveva molte probabilità di essere considerata e analizzata come un matrimonio misto, mentre oggi questo non accade, o si verifica raramente. Il presente paragrafo prende in esame la così detta “mixitè sentimentale” in provincia di Arezzo attraverso l’utilizzo dei dati dell’Istat che censisce i matrimoni completi del dato nazionalità dei partner. Si tratta delle Schede dei 30 Matrimoni e la registrazione è effettuata tramite gli Uffici di Stato Civile dei Comuni. Leggere oggi le statistiche sui matrimoni misti anche in provincia di Arezzo ci permette di leggere il volume e la velocità di mescolamento sia a livello nazionale che locale. Nel nostro paese come in altri, la maggioranza delle unioni miste legano un uomo nativo con una donna straniera. Nel 2013 in Italia (Tabella 10) sono stati celebrati 194.057 matrimoni, 13.081 in meno rispetto al 2012. Tale tendenza alla diminuzione si è particolarmente accentuata negli ultimi cinque anni, registrando dal 2008 una contrazione di oltre 52mila matrimoni. La minore propensione a sancire con il vincolo matrimoniale la prima unione è da mettere in relazione anche con la progressiva diffusione delle unioni di fatto tra partner celibi e nubili. Tabella 10 - Principali caratteristiche dei matrimoni celebrati in Italia (2008-2013) 2008 2009 2010 2011 2012 2013 Matrimoni totali (valori assoluti) 246.613 230.613 217.700 204.830 207.138 194.057 Variazioni annuali -3.747 -16.000 -12.913 -12.870 2.308 -13.081 185.749 175.043 168.610 155.395 153.311 145.571 di cui: Con sposi entrambi italiani Primi matrimoni (valori assoluti) Variazione rispetto all'anno precedente (valori assoluti) Con almeno uno sposo straniero Primi matrimoni e successivi (valori assoluti) Variazione rispetto all'anno precedente (valori assoluti) Matrimoni con rito religioso (Valori assoluti) Matrimoni con rito civile (Valori assoluti) Matrimoni con rito civile (per 100 matrimoni totali) Regime di separazione dei beni (per 100 matrimoni totali) -6833 -10.706 -6.433 -13.215 -2.084 -7.740 36.918 32.059 25.082 26.617 30.724 26.080 2.359 -4.859 -6.977 1.535 4.107 -4.644 155.972 144.842 138.199 124.443 122.297 111.545 90.641 85.771 79.501 80.387 84.841 82.512 36,8 37,2 36,5 39,2 41 42,5 62,7 64,2 66,1 66,9 69,5 69,5 Fonte: Istat Consideriamo ora la situazione in provincia di Arezzo. Nel 2013 sono stati celebrati 1.065 matrimoni, 139 in meno rispetto al 2012 (Tabella 11). Tra questi 820 sono i matrimoni con entrambi i coniugi italiani e 244 quelli con almeno uno sposo/a straniero/a. Diminuiscono entrambi i gruppi, ma la contrazione maggiore la registriamo per i matrimoni con almeno un coniuge straniero con -73. 31 L’età del primo matrimonio è 35,5 anni per le donne e 34,9 anni per gli uomini, confermandosi così il trend di innalzamento dell’età al primo matrimonio. Tabella 11 - Principali caratteristiche dei matrimoni celebrati in provincia di Arezzo (2008-2013) Matrimoni totali (valori assoluti) 2008 2009 2010 2011 2012 2013 1.370 1.267 1.312 1.154 1.204 1.065 5 -103 45 -158 50 -139 1.009 882 922 818 977 855 836 730 860 748 821 706 280 -64 37 -125 18 -42 361 345 335 318 344 244 271 256 249 233 250 177 -15 -7 -16 17 -73 770 688 724 578 608 498 600 579 588 576 596 567 43,8 45,7 44,8 49,9 49,5 53,2 67,2 69,1 58,4 57,8 57,3 54,9 Variazioni annuali di cui: Con sposi entrambi italiani Primi matrimoni (valori assoluti) Variazione rispetto all'anno precedente (valori assoluti) Con almeno uno sposo straniero Primi matrimoni e successivi (valori assoluti) Variazione rispetto all'anno precedente (valori assoluti) Matrimoni con rito religioso (Valori assoluti) Matrimoni con rito civile (Valori assoluti) Matrimoni con rito civile (per 100 matrimoni totali) Regime di separazione dei beni (per 100 matrimoni totali) Fonte: Istat Tabella 12 - Principali caratteristiche dei primi matrimoni e degli sposi in provincia di Arezzo (anni 20122013) Matrimoni tra celibi e nubili 2012 2013 Matrimoni totali Quozienti di nuzialità (per mille) 1.204 1.065 3,5 3,1 Età media al primo matrimonio Valori assoluti Valori percentuali M F 998 883 82,9 82,9 34,6 34,9 34,9 35,5 Fonte: Istat Anche nel territorio aretino i matrimoni celebrati civilmente rappresentano una fetta significativa del totale: nel 2013 sono il 53,2% (567 su 1.065). Come possiamo evincere dalla Tabella 13 nell’anno preso in esame su 244 matrimoni misti l’89% è stato celebrato civilmente e nella stragrande maggioranza si tratta di prime unioni. Mentre nel caso di coniugi entrambi italiani scelgono il rito civile il 32 42,6% dei 821 matrimoni celebrati. Nel 2013 la percentuale di matrimoni civili in provincia di Arezzo sul totale è del 53,2%, superiore al dato nazionale di quasi 10 punti percentuali (42,5%). La scelta sempre più frequente del rito civile è da attribuire in parte alla crescente diffusione sia dei matrimoni successivi al primo sia dei matrimoni con almeno uno sposo straniero. Tabella 13 - Matrimoni per tipologia di coppia, rito e tipo di matrimonio in provincia di Arezzo, valori assoluti e percentuali (anni 2008-2013) Tipologia di coppia Entrambi italiani Almeno uno straniero Totale Tipo di matrimonio Relig. Civile Tot. Relig. Civile Tot. Relig. Civile Tot. Primi matrimoni Matrimoni success. Totale 25 2 27 152 65 217 177 67 244 467 4 471 2013 239 111 350 706 115 821 492 6 498 391 176 567 883 182 1.065 Primi matrimoni Matrimoni success. Totale 14,1 3,0 11,1 85,9 97,0 88,9 100 38 100 66,1 3,5 57,4 33,9 96,5 42,6 100 100 100 55,7 3,3 46,8 44,3 96,7 53,2 100 100 100 Primi matrimoni Matrimoni success. Totale 56 2 58 215 88 303 271 90 361 699 13 712 2008 183 114 297 882 127 1.009 755 15 770 398 202 600 1.153 217 1.370 Primi matrimoni Matrimoni success. Totale 20,7 2,2 16,1 79,3 97,8 83,9 100 100 100 79,3 10,2 70,6 20,7 89,8 29,4 100 100 100 65,5 6,9 56,2 34,5 93,1 43,8 100 100 100 Fonte: Istat Nel 2013 sono stati celebrati 244 matrimoni misti (Tabella 14), di cui 96 con sposo italiano e sposa straniera, 25 con sposo straniero e sposa italiana e 123 con entrambi i coniugi stranieri. Rispetto al dato complessivo dei matrimoni con almeno un coniuge straniero notiamo una diminuzione rispetto al 2012 di 100 matrimoni. Ciò non toglie tuttavia intensità al fenomeno sociale poiché rappresenta uno dei processi di mutamento provocati dall’immigrazione più delicati e temuti in quanto concerne proprio la famiglia, una delle strutture fondanti e più persistenti della società italiana. Di fatto in provincia di Arezzo circa il 23% dei matrimoni celebrati ha almeno uno sposo straniero a differenza del dato nazionale che si ferma al 13,0%. Ad incidere sul dato complessivo di Arezzo sono i matrimoni con entrambi i coniugi stranieri che rappresentano l’11,5% del totale matrimoni e il 50% di quelli con almeno un coniuge straniero. È opportuno considerare che, come vedremo in seguito, oltre l’80% dei matrimoni tra 33 stranieri riguarda cittadini inglesi, americani, canadesi, irlandesi, finlandesi etc. (Tabella 15). Quindi se dal totale della mixité aretina (244) sottraiamo questa quota, la percentuale di incidenza percentuale si riduce molto (13,8%). Tabella 14 - Matrimoni per tipologia di coppia Sposi entrambi italiani V.A. Tipologia di coppia Sposo Sposo italiano straniero sposa straniera sposa italiana V.A. V.A. V.A. % 3.206 1,6 8.612 Matrimoni con almeno uno sposo straniero V.A. Italia Centro 178.213 % 87,0 31.783 82,0 3.581 9,2 777 2,0 2.639 6,8 6.997 18,0 Toscana 9.597 77,0 1.174 9,4 276 2,2 1.416 11,4 2.866 23,0 836 860 821 72,4 71,4 77,1 105 119 96 9,1 9,9 9,0 23 35 25 2,0 2,9 2,3 318 344 244 27,6 28,6 22,9 Provincia AR 2011 Provincia AR 2012 Provincia AR 2013 14.799 % 7,2 Sposi entrambi stranieri 190 190 123 % 4,2 26.617 % 13,0 16,5 15,8 11,5 Tabella 15 - Matrimoni con almeno uno sposo stranieri per tipologia di coppia e principali cittadinanze in provincia di Arezzo. Valori assoluti e percentuali (anno 2013) Paesi di cittadinanza Sposo italiano Sposa straniera VA % Sposo straniero Sposa italiana VA % Romania 28 29,2 Albania 4 16,0 Regno Unito 35 28,5 Polonia 11 11,5 Tunisia 4 16,0 Romania 14 11,4 Albania 6 6,3 Dominicana 3 12,0 USA 11 8,9 Dominicana Rep. 4 4,2 Regno U. 2 8,0 Canada 9 7,3 Marocco 4 4,2 Paesi Bassi 2 8,0 Irlanda 8 6,5 Brasile 3 3,1 Pakistan 2 8,0 Norvegia 7 5,7 Cina 3 3,1 - - - Finlandia 6 4,9 Germania 3 3,1 - - - Paesi Bassi 6 4,9 Nigeria 3 3,1 - - - Germania 5 4,1 Russia 3 3,1 - - - Australia 4 3,3 USA 3 3,1 - - - Austria 3 2,4 Ucraina 3 3,1 - - - Francia 3 2,4 Altri paesi 22 22,9 Altri paesi 8 32,0 Altro 9 7,3 Totale 96 100 Totale 25 100 Totale 123 100 Paesi di cittadinanza 34 Paesi di cittadinanza Sposi entrambi stranieri (a) (b) VA % Ma quali sono le caratteristiche di queste unioni? - Innanzitutto osserviamo che la mixité le connota in maniera abbastanza decisa. Nel 2013 su 244 matrimoni misti celebrati 123 sono entrambi stranieri (in termini percentuali circa il 50%, 96 (39%) sono del tipo uomo italiano e donna straniera e solo 25 (il 10%) è formato da donna straniera e uomo italiano. A questo proposito è utile evidenziare che la tipologia familiare “miste-miste” in cui entrambi i coniugi sono stranieri, e che costituisce una grossa fetta della mixité aretina è per lo più costituita da cittadini del Regno Unito (28,5%), dalla Romania (11,4%) e dagli Stati Uniti (8,9%). Escludendo, come abbiamo detto all’inizio di questo paragrafo il Regno Unito e gli Stati Uniti che oggigiorno possono non esser considerati e analizzati come un matrimonio misto, risulta interessante il dato della Romania. La maggior consistenza rispetto agli anni precedenti segna una stabilizzazione delle famiglie rumene. - Escludendo questa parte di unioni rileviamo che la maggior parte dei matrimoni misti è formato da marito italiano e moglie straniera. Nel dettaglio delle nazionalità, le donne straniere che sposano uomini aretini risultano provenire sempre più spesso dall’est Europa: prima la Romania con il 29,2% a cui seguono con notevole distanza la Polonia (11,5%) e l’Albania (6,3%). - Quando ad essere straniero è il marito, e nel nostro territorio si esprime in numeri assoluti di gran lunga inferiori rispetto ai precedenti, non si evidenziano concentrazioni significative nella distribuzione tra le varie nazionalità. Concludiamo questo paragrafo con alcune considerazioni che gli studiosi del tema hanno sottolineato in modo da evitare letture semplicistiche e facili ottimismi sull’avanzamento della mixité. Peruzzi (2008; 2009) ha notato che se da un lato le unioni miste sono diventate accessibili a tutte le fasce della popolazione autoctona, e quindi non più solo fenomeno elitario tipico di classi sociali e professioni privilegiate (ad esempio diplomatici, artisti, insegnati, politici), è però anche vero che la mescolanza sentimentale è una strategia di integrazione molto selettiva: uomini e donne stranieri devono portarsi in dote un’età più giovane o un grado di istruzione più elevato per poter entrare nel gioco delle scelte matrimoniali. Occorre, inoltre, tenere in considerazione le asimmetrie di età tra i coniugi che spesso vengono identificate dall’opinione pubblica come matrimoni combinati, ovvero un retaggio antico basato sul calcolo delle opportunità piuttosto che sulla passione e sul sentimento, come la morale attuale imporrebbe, e dunque falso (Peruzzi, 2009, p. 73). Non stupisce quindi che gli sviluppi di questi matrimoni pongano in rilievo la loro fragilità e instabilità. Il tasso di divorzio dei matrimoni misti è circa il doppio di quelli tra italiani e la durata media della convivenza è di 10 anni, contro i 14 delle unioni fra autoctoni (Peruzzi, 2009, p. 72). Nella maggior parte dei casi è la coppia uomo italiano e donna straniera che arriva alla separazione (69% dei casi di 35 separazione tra coppie miste), dato ovviamente in linea con la maggior propensione degli uomini italiani a sposare donne di origine straniera (Centro Sudi e Ricerche Idos, 2013). Riferimenti bibliografici Luatti L., Tizzi G., La Mastra M. (a cura di) (2012), Vivere insieme. Quarto rapporto sull’immigrazione e i processi di inclusione in provincia di Arezzo, Provincia di Arezzo, Oxfam Italia, Arezzo. ISTAT (2015), Bilancio demografico nazionale – Anno 2014, http://www.istat.it. Peruzzi G. (2008), Amori possibili. Le coppie miste nella provincia italiana, FrancoAngeli, Milano. Peruzzi G. (2009), “Coppie miste di oggi. La mixité sentimentale nell’Italia del nuovo millennio”, in Mondi Migranti, n. 1, pp. 67-83. Centro Sudi e Ricerche Idos (a cura di) (2013), Dossier Statistico Immigrazione 2013, Unar, Roma. 36 Capitolo 2 Richiedenti asilo e titolari di protezione in provincia di Arezzo di Giovanna Tizzi 1. Introduzione Il lavoro che presentiamo intende fornire un primo panorama sul fenomeno dei richiedenti asilo e titolari di protezione internazionale ed umanitaria in provincia di Arezzo. Questo studio è stato realizzato grazie alla collaborazione fra Prefettura di Arezzo, Osservatorio delle Politiche Sociali della Provincia di Arezzo e Oxfam Italia Intercultura. Gli obiettivi che il lavoro si propone sono due: a) offrire un quadro conoscitivo sul profilo socio anagrafico dei richiedenti asilo e dei titolari di protezione attualmente in carico nei progetti territoriali; b) approfondire il profilo delle persone uscite dal programma o solamente “transitate”, vale a dire che non hanno mai formalizzato la domanda di asilo. Le domande di ricerca alle quali il lavoro ha cercato di rispondere sono: chi sono le persone in accoglienza nel territorio aretino? Qual è la dimensione reale del fenomeno? Trattandosi di uno studio, il lavoro ha innanzitutto una finalità informativa e non ha mai inteso assumere, né poteva assumerla, una finalità valutativa e di controllo. L’auspicio che ci prefiggiamo, in linea con le finalità delle attività dell’Osservatorio Sociale Provinciale, è sia quello di poter contribuire al dibattito pubblico attraverso una buona conoscenza del fenomeno sia di fornire spunti utili alla riprogrammazione degli interventi sul campo. Dal punto di vista metodologico l’indagine è stata organizzata attraverso due schede: una per le persone in carico ed una seconda per le persone uscite dal programma. Nel mese di giugno 2015 la Prefettura di Arezzo ha inviato a tutti i soggetti coinvolti nei sistema di accoglienza dei richiedenti asilo e titolari del territorio della provincia di Arezzo una comunicazione scritta contenente le informazioni sull’indagine e sul funzionamento del sistema di rilevazione. Come possiamo vedere dalla tabella sinottica qui sotto, solo due soggetti non hanno aderito ed il tasso di copertura relativo al profilo delle persone in accoglienza è stato molto alto, pari al 91,5% del totale. L’arco temporale dell’indagine va dal 1°gennaio 2014 al 15 giugno 2015. 37 Tavola sinottica Nominativo Soggetto gestore Associazione ANOLF Confraternita delle misericordia di Badia Tedalda Cooperativa Oxfam Italia Intercultura Associazione Sichem (CARITAS) Cooperativa L’albero del pane Fraternità dei laici Associazione Bangladesh Cooperativa Koinè Il canto del fuoco - ESOS C.R.I. Associazione Pronto Donna Consorzio COMARS Associazione Libera Mente ARCI Totale Tasso di copertura persone in accoglienza Tipologia Sistema accoglienza CAS CAS Numero accolti (15 giugno 2015) 27 43 Adesione all’indagine CAS 54 Sì CAS 28 Sì CAS 35 Sì CAS CAS CAS CAS CAS CAS CAS CAS SPRAR 29 25 22 53 34 2 12 14 50 428 91,5% Sì Sì No Sì Sì Sì Sì No Sì Sì Sì Fonte: nostra elaborazione Prima di passare alla lettura dei dati è utile soffermarci su chi sono gli immigrati di cui trattiamo nel seguente elaborato. Come sappiamo definire chi sono gli immigrati o meglio quali stranieri debbano essere classificati come tali è sempre una questione complessa che varia a seconda dei sistemi giuridici, delle vicende storiche e delle contingenze politiche. Come sottolinea Ambrosini (AmbrosiniBuccarelli, 2009, p. 14) la categoria sociale degli immigrati è definita e costruita dalla società ricevente che demarca i confini tra noi (la comunità nazionale), i nostri amici (ossia quelli che accogliamo con favore come residenti) e gli altri (gli estranei che siamo disposti ad ammettere provvisoriamente ma che difficilmente li vorremmo come cittadini a pieno titolo). I rifugiati e i richiedenti asilo sono una componente della popolazione migrante che è cresciuta negli ultimi anni, seguendo andamenti irregolari influenzati principalmente da guerre e conflitti. Alcuni parlano in senso più ampio di migrazioni forzate, includendovi anche le persone che sono obbligate a trasferirsi a causa di catastrofi naturali o altro che sconvolgono l’ambiente in cui vivono e le privano dei mezzi di sussistenza (Castels, 1993). Le due categorie di “rifugiato” e “richiedente asilo” si distinguono per effetto della Convenzione di Ginevra (1951), in cui il primo è definito come una persona che risiede al di fuori del suo paese di origine, che non può e non vuole ritornare a 38 causa di un ben fondato timore di persecuzione per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza a un particolare gruppo sociale, opinione politica. Il “richiedente asilo” è invece una persona che si sposta attraverso le frontiere in cerca di protezione, ma che non sempre rientra nei rigidi criteri della Convenzione di Ginevra. Le istituzioni internazionali e i governi hanno così dovuto prevedere nuove figure e nuove forme di protezione, poiché molte persone che chiedevano asilo presentavano motivazioni che non ricadevano sotto la Convenzione. È il caso della protezione sussidiaria e di quella umanitaria. Negli ultimi decenni ai piccoli gruppi di perseguitati politici si sono aggiunti ingenti flussi di profughi di guerra. L’instabilità internazionale e le accresciute possibilità di mobilità geografica sono tra le cause dell’aumento degli spostamenti di persone in cerca di asilo. Accanto a ciò va ricordato che le diminuite opportunità di immigrazione per lavoro hanno provocato indirettamente un maggior ricorso alla strada del rifugiato politico o umanitario come porta d’ingresso nei paesi a sviluppo avanzato (Ambrosini, 2005). I paesi più sviluppati hanno reagito a questo incremento della domanda di asilo inasprendo i criteri di accesso, varando norme restrittive come il noto regolamento di Dublino, che prevede che la domanda di asilo va presentata nel paese sicuro raggiunto dal richiedente e non in quello individuato come destinazione finale. Anche le recentissime disposizione in materia di procedure di ricollocazione (1) (relocation) volute dall’Unione Europea, che in Italia trovano applicazione operativa nella Roadmap (settembre 2015), di fatto “sanano” una situazione già in atto di gruppi di persone che approdano in Italia come primo paese sicuro e poi continuano il viaggio verso altre destinazioni, transitando per pochi giorni nei tanti comuni italiani. Sono questi i motivi che ci hanno portato a scegliere di analizzare questa eterogenea categoria distinguendo tra: i) le persone “in carico” ovvero che hanno formalizzato la domanda in Italia e che sono alla data della rilevazione inseriti nel sistema di accoglienza aretino; ii) le persone “uscite” dal programma di accoglienza al cui interno distingueremo un sotto gruppo di persone “transitate”, vale a dire che non hanno mai presentato la domanda di asilo, pur essendo state inserite per qualche giorno in una delle strutture temporanee dell’accoglienza. 2. Il contesto: sbarchi, richieste di asilo e accoglienza in Italia Nell’ultimo biennio il fenomeno degli sbarchi caratterizza e catalizza il dibattito pubblico italiano sull’immigrazione. Ci siamo abituati a vedere solo gli arrivi emergenziali, quelli sulle coste del Meridione, attraverso le acque internazionali che ci separano dal Nord Africa. Ma i recenti fatti hanno evidenziato e forse ricordato che ci sono persone che attraversano anche altri confini come quelli di terra (la rotta Balcanica) oppure che richiedono protezione essendo già da tempo 39 in Italia, constatando che la situazione nel loro paese è diventata un rischio per loro. Secondo i dati del Ministero dell’Interno (Ministero dell’Interno, 2015) il 2014 è stato l’anno degli sbarchi registrando 170 mila arrivi, più della somma dei tre anni precedenti. Gli ultimi dati del 2015 (al 10 ottobre 2015) mostrano che pur rimanendo molto elevata l’intensità del fenomeno, non si sono registrati ulteriori forti aumenti, attestandosi a 136.432 persone sbarcate. È interessante notare la mutata composizione per Paese di provenienza tra il 2014 e il 2015 frutto dei cambiamenti delle rotte migratorie e della geografia delle partenze. Nel primo erano soprattutto persone provenienti dalla Siria, dall’Eritrea e dal Mali mentre nell’anno in corso i dati evidenziano al primo posto l’Eritrea, seguita dalla Nigeria e dalla Somalia (Ministero dell’Interno, 2015, pp. 5-6). Passando all’analisi di coloro che richiedono asilo in Italia notiamo innanzitutto che nel 2014 sono 64.625, il 38% di tutte le persone sbarcate nello stesso anno. A livello europeo l’Italia è il terzo paese UE per numero di richiedenti asilo (dopo Germania e Svezia), ma anche quello che ha registrato il maggior incremento nell’ultimo anno. Osservando la composizione dei richiedenti asilo si evince una ridottissima presenza di donne (7,6% del totale) e di minori (6,8% del totale); le tre nazionalità maggiormente presenti sono la Nigeria, il Mali e il Gambia. Senza entrare nel merito della normativa che regola il diritto di asilo, evidenziamo che a tutti è assicurata la possibilità di entrare nell’iter dell’accoglienza, formalizzandone la domanda di asilo, che termina in seguito alla decisione della Commissione territoriale ovvero, in caso di ricorso giurisdizionale, fino all’esito dell’istanza di sospensiva e/o alla definizione del procedimento di primo grado. La valutazione della domanda di ammissione viene effettuata dalla Commissione territoriale per il riconoscimento dello status di rifugiato, competente per territorio. Tale Commissione ha il dovere di convocare per un’audizione il richiedente, dopo di che dovrà adottare una fra le quattro decisioni seguenti: riconoscere lo status di rifugiato (con validità di 5 anni, rinnovabile); riconoscere lo status di protezione sussidiaria (con validità 5 anni, rinnovabile); rigettare la domanda; rigettare la richiesta ma, allo stesso tempo, constatata la pericolosità di un eventuale ritorno, richiedere alla Questura competente territorialmente di rilasciare uno speciale permesso di soggiorno per motivi di protezione umanitaria, della durata di due anni (rinnovabile). Nel caso di ottenimento dello status di rifugiato o di protezione sussidiaria o umanitaria la persona può entrare nel sistema SPRAR (Servizio centrale del sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati) (2). L’ingresso nella procedura di accoglienza in Italia segna allo stesso tempo l’ingresso in un sistema caratterizzato dal proliferare di centri di accoglienza di 40 diverse tipologie, con differenti funzioni, modelli organizzativi e talvolta con approcci antitetici. Così il sistema di piccoli centri diffusi dello SPRAR, gestiti direttamente dagli enti locali, convive con i CARA (Centri di accoglienza per richiedenti asilo, istituiti dal decreto legislativo n. 25 del 28 gennaio 2008) e le tante strutture nate nelle varie emergenze sbarchi e poi “sanate” e stabilizzate come il caso di Mineo, oggi trasformato in CARA. Accanto a questi centri si aggiungono poi quelli che gestiscono la maggioranza delle richiedenti asilo, denominati strutture temporanee o CAS attivati delle Prefetture per conto del Ministero dell’Interno. Attualmente (Ministero degli Interni, 10 ottobre 2015) il totale delle presenze è di 99.096 persone di cui: - 21.814 nei 430 progetti dello SPRAR; - 7.290 nei 7 centri governativi – CARA; - 464 persone in 7 CIE; - 70.918 persone nelle 3.090 strutture temporanee – CAS È evidente come il sistema italiano dell’accoglienza si regga, nonostante l’ampliamento dei posti SPRAR, sull’accoglienza straordinaria che gestisce il 72% di tutte le presenze, distribuite in oltre 3 mila strutture organizzative (sia pubbliche che private). Se da un lato rileviamo una maggior distribuzione dei migranti su tutto il territorio nazionale (al primo posto in termini di presenza di strutture temporanee troviamo la Lombardia con 554, seguita dalla Toscana con 416 e dall’Emilia Romagna con 376) dall’altro appare lampante la frammentazione e disomogeneità territoriale in termini di servizi erogati che si traduce in standard di accoglienza piuttosto differenziati. Il 10 luglio 2014, a livello istituzionale è stato varato il Piano Operativo Nazionale che attraverso un sistema piuttosto articolato dovrebbe governare anche le emergenze. Si tratta di un Piano, redatto dalla conferenza unificata tra Governo, Regioni e rappresentati degli enti locali, che articola l’accoglienza in tre distinti livelli: 1) Soccorso e prima assistenza (Hot Spot), con identificazione e primo screening sanitario in centri governativi, che costituiranno il primo livello di assistenza e smistamento delle persone nei centri regionali/Hub. 2) Prima accoglienza in centri regionali denominati anche Hub che dovrebbero offrire l’accoglienza successiva al primo soccorso. In questi centri la persona dovrebbe presentare la domanda di asilo, attendere l’esame delle Commissioni e poi essere inviata allo SPRAR. Il documento insiste sul fatto che il periodo dovrebbe essere breve, ma le condizioni oggettive fanno pensare invece a periodi prolungati. In queste condizioni i centri dovrebbero ospitare parecchie centinaia di persone. 41 3) Ultimo livello è il sistema SPRAR che si configura come seconda accoglienza e passo decisivo per l’integrazione. La strategia del Piano Nazionale è confermata nella nuova disciplina dell’accoglienza dei richiedenti asilo (decreto legislativo 18 agosto 2015, n. 142) che recepisce le ultime direttive europee in materia di procedure di accoglienza (Direttive UE 2013/33 e 2013/32). Siamo all’inizio di questo “rinnovato” sistema di accoglienza il cui obiettivo principale è di strutturare in via ordinaria ma flessibile l’accoglienza in Italia, nonostante ciò diversi appaiono i nodi da sciogliere per una sua piena messa a regime. Basti pensare, come abbiamo scritto precedentemente, che oltre il 70% delle persone attualmente presenti nel sistema accoglienza sono in strutture temporanee o CAS e che, nonostante il raddoppio del numero delle Commissioni territoriali per l’esame delle istanze dei richiedenti asilo (3), i tempi degli esiti sono piuttosto lunghi e gli stessi esiti evidenziano come oltre il 50% delle richieste non vengano riconosciute. Molti a seguito del diniego presentano ricorso giurisdizionale e sarà pertanto molto interessante analizzare i risultati e le tempistiche di questa azione. 3. Dimensioni e caratteristiche dell’accoglienza in provincia di Arezzo Il territorio della provincia di Arezzo, nonostante la presenza dal 2008 dello SPRAR a titolarità del Comune di Arezzo (4), è entrato in maniera più consistente a far parte del sistema di accoglienza italiano a seguito delle emergenze. Prima di tutto con la cosiddetta emergenza Nord Africa ed il conseguente modello toscano di accoglienza diffusa (Bracci, 2012), poi dal 2014 con l’attuale sistema di accoglienza CAS che pur con le diverse articolazioni nelle gestioni, provvede al primo supporto, all’identificazione, alla presentazione della domanda di asilo e alla contestuale attivazione di servizi dedicati. Secondo i dati forniteci, tramite la scheda inviata dalla Prefettura agli enti gestori, dal 1° gennaio 2014 al 15 giugno 2015 le presenze in provincia di Arezzo sono state 666 di cui quasi il 90% uomini (Tabella 1), ma come vedremo nel paragrafo successivo molte di queste persone si sono fermate sul territorio aretino per un brevissimo periodo. La percentuale di persone che hanno formalizzato la richiesta di asilo o titolari di protezione sul totale delle presenze alla data di rilevazione è del 58,9%, corrispondete in termini assoluti a 392 persone. Se incrociamo con le dovute cautele metodologiche questo dato con il numero degli stranieri residenti al 31/12/2014 in provincia di Arezzo (37.786) si evince che il catalizzante fenomeno dei richiedenti asilo rappresenta poco più dell’1% del totale degli stranieri presenti nel territorio. A questo punto viene da chiedersi da dove deriva tanta attenzione? Sono almeno tre i fattori che secondo chi scrive occorre tener 42 presente: i) innanzitutto le tragedie del mare, i viaggi estenuanti e, la prossimità geografica hanno sottoposto l’Italia ad una crescente attenzione mediatica; ii) un secondo aspetto riguarda l’intensità e la velocità con cui nel giro di pochissimo tempo il sud Italia prima, e tutta la penisola poi, si è trovata a dover gestire un fenomeno relativamente “nuovo”, con procedure e sistemi di accoglienza assai disomogenei; iii) infine, non in ordine di importanza, le caratteristiche stesse di questi flussi, la loro diversità e il senso di alterità che suscitano hanno accentuato nelle società riceventi il sospetto di un indebito accaparramento di risorse derivanti dal welfare pubblico. In virtù di ciò in questo approfondimento vengono presi in considerazione alcuni aspetti relativi alla struttura demografica e sociale di questa popolazione in modo da evitare facili scorciatoie interpretative. Tabella 1 - Presenze dal 1° gennaio 2014 al 15 giugno 2015 in provincia di Arezzo In carico Uscite F 20 48 M 372 226 Totale 392 274 Totale 68 598 666 % in carico sul totale 58,9% Fonte: nostra elaborazione Le donne (68 su 598) rappresentano 10,2% del totale delle persone attualmente in accoglienza e di quelle uscite. Se prendiamo in considerazione solo quelle in carico la percentuale si abbassa ulteriormente al 5,3%, dato più basso di circa due punti dal quello nazionale relativo al 2014 (7,6%). La composizione per genere dei richiedenti asilo conferma la tradizionale presenza della componente maschile nei flussi per richiesta di asilo, dato significativo se comparato con quello della popolazione straniera residente che invece si caratterizza per una crescente femminilizzazione (al 31/12/2015 in provincia di Arezzo le donne straniere sono il 53,9% del totale). L’andamento degli arrivi, come si osserva dal Grafico 2, riflette l’andamento degli sbarchi: si intensifica dalla primavera all’autunno del 2014 e lo stesso per il 2015. I mesi che registrano il maggior numero di arrivi sono maggio 2015 con 89 arrivi e ottobre 2014 con 80 arrivi. Il quadro delle persone accolte (Grafico 3) mostra una nettissima prevalenza di migranti appartenenti all’Africa, le prime cinque nazionalità di tutte le persone (in carico alla data di rilevazione e gli usciti) sono: Eritrea, Nigeria, Mali, Gambia e Senegal. Se passiamo al dettaglio delle nazionalità confrontando tra le persone in carico e quelle uscite rileviamo delle distribuzioni piuttosto diverse. Per le persone accolte i tre gruppi nazionali con il maggior numero appartengono all’Africa Occidentale: Nigeria (91 persone), Mali (60) e Gambia (36); 43 diversamente tra le persone uscite osserviamo al primo posto un paese del Corno d’Africa, l’Eritrea con 94 persone, seguono il Mali (60 persone), la Nigeria (37 persone) e la Somalia (27 persone). È importante evidenziare come questi dati riflettano lo scenario nazionale: Nigeria, Mali e Gambia sono le principali provenienze di coloro che richiedono asilo in Italia ed Eritrea, Nigeria e Somalia quelle di coloro che sono sbarcati, fatta eccezione per il nostro territorio dal Mali. Grafico 2 - Mese e anno dell’arrivo in Italia di tutte le presenze Fonte: nostra elaborazione - Totale complessivo: 666 Grafico 3 - Persone in carico alla data della rilevazione (15 giugno 2015) e uscite nel periodo 1° gennaio 2014 - 15 giugno 2015 per nazionalità Fonte: nostra elaborazione - Totale complessivo: 666 44 4. Gli usciti dal programma e i “transitati” Dal Grafico 4 si può osservare che la componente femminile assume una maggior consistenza nel gruppo composito delle persone uscite dal programma di accoglienza CAS o SPRAR o che non ci sono mai entrate, poiché non hanno formalizzato la domanda di asilo. Il 18% del totale sono donne mentre la componente femminile delle donne in accoglienza è poco più 5%. Grafico 4 - Persone uscite dal 1° gennaio 2014 al 15 giugno 2015 per genere Fonte: nostra elaborazione - Totale complessivo: 274 Il dato per fascia d’età mostra una forte concentrazione nella fascia 20-24 anni (23% del totale). Nonostante il dato di coloro che non hanno compilato questo campo (in termini assoluti 87), si evince come caratteristica generale la presenza di una popolazione giovane. Tabella 2 - Persone uscite dal 1° gennaio 2014 al 15 giugno 2015 per genere ed età Fascia età 10-14 15-19 20-24 25-29 30-34 35-39 40-44 45-49 F 2 5 8 3 - N.D. 30 57 87 Totale 48 226 274 Fonte: nostra elaborazione 45 M 4 36 58 35 24 3 4 5 Totale 4 38 63 43 27 3 4 5 Passando all’analisi del motivo dell’uscita per nazionalità (Tabella 3) si nota che pochissimi sono usciti dalle strutture temporanee per inserimenti nello SPRAR (13 su 274 corrispondente al 4,7%) o per ottenimento della protezione internazionale o umanitaria (10 su 274 corrispondenti al 3,6%); mentre la grande maggioranza dichiara “altro” (200 su 274 corrispondenti al 73%). Nell’interpretare questi dati è importante tener conto delle caratteristiche dei flussi in arrivo (il concentrarsi in determinati periodi dell’anno e l’intensità registrata nel 2014 e 2015), dei tempi piuttosto lunghi degli esiti delle domande di richiesta asilo ed anche dei 51 “non so”. Ciò nonostante è interessante notare che dall’incrocio tra chi ha dichiarato in “altro” “l’abbandono della struttura e del progetto” con “il mese di arrivo e partenza” si deduce una stima delle persone “transitate” che come abbiamo scritto all’inizio di questo elaborato, sono le persone che arrivano sul territorio, ma che non fanno la richiesta di asilo, in questo caso sono 113. Tabella 3 - Motivo dell’uscita per nazionalità Nazionalità Bangladesh Benin Camerun Costa d’Avorio Eritrea Gambia Ghana Guinea Guinea Bissau Iran Mali Nigeria Pakistan Rep. Centroafr. Senegal Siria Somalia Sudan Totale Inserito nello SPRAR 1 1 1 1 9 13 Protezione internazionale 1 1 2 Umanitario 7 1 8 Altro 1 2 1 74 5 3 1 1 39 20 2 1 6 8 27 9 200 Non so 1 20 3 13 1 1 1 11 51 Totale 2 1 2 2 94 8 4 1 1 1 60 32 3 1 7 19 27 9 274 Fonte: nostra elaborazione Quel che si osserva (Grafico 5) è che tra i 113 persone che hanno abbandonato volontariamente la struttura e che sono rimasti solo pochi giorni, l’Eritrea è la nazionalità con il maggior numero seguita dalla Somalia. Lo scenario che si presenta riflette la situazione nazionale con l’Eritrea in cima alle presenze negli 46 sbarchi, ma non tra i richiedenti asilo. Ad oggi l’Eritrea in proporzione al numero di abitanti, poco più di 5 milioni, è il paese che produce più profughi al mondo (Drudi-Omizzolo, 2015). Secondo i dati UNHCR del 2013 i profughi eritrei sono 338 mila: nel 2014 risulta eritreo circa un terzo delle quasi 170 mila persone sbarcate in Italia. Le stime dell’UNHCR calcolano una media che varia dalle 2 alle 3 mila fughe al mese, con punte di 5 mila. In tutto, si arriva, a fine 2014 con 400 mila persone scappate, pari all’8% della popolazione. In accordo con la letteratura scientifica sulla complessità del tema della diaspora eritrea e della sua connessione storica con il colonialismo italiano e la successiva guerra d’indipendenza con l’Etiopia, viene da chiedersi quali sono le direzioni verso cui quest’esodo si dirige. Sicuramente nella fase attuale non in Italia, nonostante una storica ed importante presenza (5) gli eritrei in fuga dal regime di Afewerki e sbarcati in Italia si dirigono per chiedere asilo in Germania, Regno Unito e Francia, accanto a questi si affiancano paesi come la Svizzera, l’Olanda, la Danimarca, la Svezia e la Norvegia (UNHCR, 2014). Grafico 5 - Persone che hanno abbandonato volontariamente le strutture per nazionalità Fonte: nostra elaborazione - Totale: 113 5. Il profilo degli accolti Le persone in carico nelle strutture temporanee e nello SPRAR in provincia di Arezzo alla data della rilevazione (15 giugno 2015) sono 392 di cui il 5% donne (Tabella 4). Il dato per fascia d’età mostra una forte concentrazione nella fascia 20-24 anni (147 su 392, il 37,5%) e più in generale in quella 20-29 anni che raccoglie circa il 60% del totale. L’età media complessiva è di 24 anni sia per gli uomini che per le donne. Se compariamo il dato con l’età media dei migranti residenti in provincia di Arezzo che è di 33,1 anni, si nota uno scarto di 9 anni. L’analisi dell’età per nazionalità evidenzia un’età media complessiva più bassa per i maliani, gambiani e senegalesi (23,1 anni), seguiti dai bengalesi (24 anni) e 47 nigeriani (24,3 anni), mentre l’età più alta registrata è quella dei pakistani (28,4 anni). Tabella 4 - Richiedenti asilo e titolari in provincia di Arezzo (al 14 giugno 2015) per genere ed età Fascia età 0-4 5-9 15-19 20-24 25-29 30-34 35-39 40-44 45-49 50-54 N.D. Totale F 2 1 1 5 5 1 1 4 20 M 3 1 79 142 87 37 15 3 2 1 2 372 Totale 5 2 80 147 87 42 15 4 3 1 6 392 Fonte: nostra elaborazione Grafico 6 - Richiedenti asilo e titolari in provincia di Arezzo (al 14 giugno 2015) per classi di età Fonte: nostra elaborazione - Totale complessivo: 392 Passando al dettaglio per nazionalità (Tabella 5 e Grafico 7) si può osservare la prevalenza della Nigeria e del Mali che da sole raccolgono il 45,9% di tutte le presenze. Le nazionalità presenti sono 23 appartenenti, e l’area di origine più rappresentata è l’Africa Occidentale con: Nigeria (91 persone), il Mali (89), Gambia (36), Senegal (35), Ghana (19), Costa d’Avorio (15), Guinea (12) etc. Per quanto riguarda le donne sottolineiamo la prevalenza delle nigeriane (il 50% del totale). 48 Tabella 5 - Richiedenti asilo e titolari in provincia di Arezzo (al 14 giugno 2015) per nazionalità e genere Nazionalità Nigeria Mali Gambia Senegal Pakistan Bangladesh Ghana Costa D’Avorio Guinea Siria Guinea Bissau Afghanistan Togo Somalia Sudan Benin Eritrea India Iran Rep. Dem. Congo Rep. Centrafricana Sierra Leone Ucraina Totale F 10 1 3 1 2 2 1 20 M 81 88 36 35 29 31 19 14 12 5 6 4 3 2 1 1 1 1 1 1 1 372 Totale 91 89 36 35 32 31 19 15 12 7 6 4 3 2 2 1 1 1 1 1 1 1 1 392 Fonte: nostra elaborazione Grafico 7 - Richiedenti asilo e titolari in provincia di Arezzo (al 14 giugno 2015) per nazionalità Fonte: nostra elaborazione – Totale complessivo: 392 49 Circa lo status giuridico dei beneficiari del programma accoglienza si evince che il 69% è in attesa di audizione in Commissione territoriale, seguono i diniegati in termini per presentare ricorso con il 17%, mentre i titolari di protezione sono solo il 6,3% del totale di cui 13 con permessi umanitari e 10 per asilo o protezione sussidiaria. Ci sono, inoltre 23 persone (6,3%) in attesa della notifica esito della Commissione. Questi dati, d’altra parte, rispecchiano una situazione di rallentamento nel sistema dovuto anche al forte incremento del periodo in esame. Nonostante la moltiplicazione delle Commissioni territoriali ad oggi si assiste ad un rallentamento nell’analisi delle domande di asilo, ma quello che appare ancor più interessante da monitorare in futuro saranno sia i tempi di analisi dei ricorsi giurisdizionali sia gli esiti degli stessi. Tabella 6 - Condizione giuridica (al 14 giugno 2015) Condizione giuridica Diniegati in termini per presentare ricorso e/o ricorrenti in attesa dell’audizione in Commissione Territoriale in attesa di esito in attesa di formalizzazione C3 Titolare di protezione internazionale Titolare di protezione umanitaria Totale Totale 62 250 23 5 10 13 363 Fonte: nostra elaborazione Concentrando l’analisi sui titolari di protezione, che per il ridotto numero va considerata con molta cautela evitando inopportune generalizzazioni, evidenziamo che tra i dieci che hanno ottenuto la protezione internazionale o sussidiaria la metà sono pakistani, mentre tra coloro che hanno ottenuto l’umanitaria è la Nigeria che detiene il numero maggiore. Grafico 8 - Titolari di protezione in provincia di Arezzo (al 14 giugno 2015) Fonte: nostra elaborazione - Totale: 23 50 Per quanto riguarda il titolo di studio rileviamo un profilo complessivo piuttosto basso, con circa un 21% di “nessun titolo” che sommati a coloro che hanno un titolo equiparabile alla licenza elementare si arriva quasi al 50% del totale. Ciò è particolarmente rilevante se teniamo conto di quante sono le persone analfabete o semianalfabete e delle ricadute in termini di complessità che possono avere nella messa a punto ad esempio di corsi di lingua seconda rispondenti a specifici bisogni linguistici. La lingua, in quanto mezzo di comunicazione per eccellenza, costituisce uno degli elementi essenziali del processo di integrazione dei migranti; essa d’altronde rappresenta la principale barriera per l’accesso e l’utilizzo consapevole dei servizi. L’insegnamento della lingua italiana è infatti uno dei servizi che vengono erogati dalla organizzazioni che si occupano di accoglienza. Grafico 9 - Richiedenti asilo e titolari in provincia di Arezzo (al 14 giugno 2015) per titolo di studio Fonte: nostra elaborazione – Totale complessivo: 392 Abbiamo chiesto se i beneficiari lavoravano prima dell’arrivo in Italia (Tabella 7), e nonostante una consistente parte di “non so”, che può esser considerato un indicatore della qualità della relazione tra ospiti ed operatori, assistiamo ad un 61,7% che ha alle spalle esperienze lavorative molto diversificate. Risultano ricorrenti nelle dichiarazioni i lavori di: “allevatore e/o agricoltore”, “muratore” (e simili), ed infine i “commercianti e venditori”. 51 Tabella 7 - Condizione lavorativa prima dell’arrivo in Italia La persona in carico lavorava prima dell’arrivo in Italia? Si No Non so Totale F 4 12 4 20 M 238 46 88 372 Totale 242 58 92 392 Fonte: nostra elaborazione Il rapporto tra titolo di studio e precedente condizione lavorativa non appare particolarmente collegato. Come osserviamo dal Grafico qui sotto coloro che sono “senza titolo” e dichiarano di aver lavorato prima dell’arrivo in Italia hanno la stessa incidenza di coloro che possiedono il diploma superiore. Grafico 10 - Condizione lavorativa prima dell’arrivo in Italia e titolo di studio 68 67 55 37 20 4 6 Non so Diploma Superiore Licenza Media 3 Laurea 11 8 7 Licenza Elementare 14 Nessun Titolo 80 70 60 50 40 30 20 10 0 Con prec occupazione Disoccupato Fonte: nostra elaborazione - Totale complessivo: 392 Dalla Tabella 8 emerge che c’è un collegamento diretto tra appartenenza religiosa e paese di provenienza. Nel nostro gruppo la maggioranza sono musulmani con il 68% del totale, seguiti con il 16% dai cattolici. È significativo che in questo caso il campo dei “non so” sia ridottissimo a differenza di altri campi come quello relativo al titolo di studio e alla condizione lavorativa, vale a dire non si conoscono queste informazioni poiché ritenute dagli operatori poco importanti, mentre l’appartenenza religiosa è imprescindibile non conoscerla. Nonostante la forte attenzione nei confronti degli immigrati musulmani i dati di una ricerca effettuata in Toscana qualche anno fa mostrano che i musulmani presentano valori di integrazione in linea con quelli medi (Berti, Valzania, 2010, pp. 150-153). 52 Tabella 8 - Religione Religione Cattolico Musulmano Ortodosso Protestante Altra religione Non so Totale % 16,1 68,1 0,2 8,9 5,6 1,0 100,0 Totale 63 267 1 35 22 4 392 Fonte: nostra elaborazione L’87,5% dei migranti accolti in provincia di Arezzo (343) sono soli in Italia. I nuclei familiari sono pressoché inesistenti nell’attuale sistema. Tabella 9 - Presenza altri familiari Le 392 persone sono accolte nel 70% in appartamenti dislocati sul territorio della provincia con una media di 4,7 persone per appartamento. Questo dato è in linea con il modello toscano dell’accoglienza diffusa che a partire dall’Emergenza Nord Africa ha caratterizzato e caratterizza l’attuale sistema straordinario. Le strutture ricettive (ex alberghi) accolgono circa il 18% del totale con una media di 24,5 persone per struttura, quindi sempre con un modello decentrato volto ad evitare concentrazioni in grandi strutture (Tabella 10 e Grafico 12). Tabella 10 - Tipologia di strutture Appartamento Centro accoglienza Struttura ricettiva (ex alberghi) Altro-Casa di accoglienza 274 30 73 15 Media persone per struttura 4,7 19,1 24,5 15,8 Totale 392 9,9 Totale Fonte: nostra elaborazione 53 Sempre in riferimento al decentramento territoriale dalla Tabella sottostante si evince che il capoluogo Arezzo ha il maggior numero di persone in carico: 173 corrispondenti al 44% del totale distribuite quasi esclusivamente in appartamenti. Segue il piccolo comune di Badia Tedalda che ospita 43 persone di cui oltre la metà in un centro accoglienza. È da notare che le tre strutture ricettive (ex alberghi) sono collocate in due casi in comuni di montagna. Grafico 12 - Tipologia di strutture Fonte: nostra elaborazione Tabella 11- Tipologia di strutture e ubicazioni Dove è ubicata tale struttura? Comune Arezzo Badia Tedalda Castiglion Fiorentino Montemignaio Chitignano Foiano della Chiana Castiglion Fibocchi Civitella Montevarchi Bibbiena Sansepolcro Poppi Bucine Capolona Cortona Totale Appartamento 158 18 20 14 13 6 11 10 7 5 4 4 4 Centro accoglienza 25 5 - Struttura ricettiva (ex alberghi) 20 28 25 - Altro 15 - Totale 173 43 40 28 25 14 13 11 11 10 7 5 4 4 4 274 30 73 15 392 54 6. Conclusioni I dati sottolineano che il fenomeno è prevalentemente a guida maschile, accogliamo giovani uomini soli provenienti dall’Africa occidentale. Assistiamo ad una ridottissima presenza di donne, ancor più bassa del livello nazionale. Il modello di accoglienza prevalente è quello dell’accoglienza in strutture temporanee (CAS), nel 70% all’interno di appartamenti. Guardando ai flussi migratori nella loro dinamicità occorre tener presente che ad oggi la popolazione di riferimento è cresciuta molto: siamo passati da 392 persone in carico alla data di rilevazione (14 giugno 2015) a 627 (8 novembre 2015). Una popolazione che, a causa delle lunghe procedure di esame delle domande, dei ricorsi e della temporaneità della condizione, è stata efficacemente definita da Ambrosini (2005) dallo status precario, incerto e reversibile, e talvolta direi confinata dal punto di vista delle relazioni, del territorio dove risiede e dei servizi offerti. Dunque come abbiamo visto in questo elaborato un fenomeno non emergenziale, ma complesso, intenso e che muta annualmente. Anche considerando il dato attuale l’incidenza sulla popolazione straniera residente è del’1,6%. Non c’è dubbio che tale presenza costituisca un fattore di mutamento sociale che pone sfide nuove alle forme della convivenza interculturale, e sollecita a ricercare delle modalità di accoglienza e di integrazione in grado di garantire pari opportunità, ridurre i rischi di discriminazione ed esclusione sociale. Quando si parla di rifugiati e richiedenti asilo il senso di alterità e di minaccia raggiunge punte particolarmente elevate. Il tema dei costi e dell’utilizzo delle risorse del welfare pubblico nei confronti di benefici per questa popolazione a discapito degli autoctoni monopolizzano un dibattito pubblico scarsamente accompagnato dalla reale conoscenza del fenomeno. Ciò risente di scelte politiche che si sono concentrate principalmente nel dare risposte a carattere quantitativo a situazioni emergenziali, attraverso l’aumento dei posti d’accoglienza disponibili senza immaginare i passi successivi. Verso quali politiche di integrazione per l’accoglienza ci stiamo muovendo? Quali risposte potranno dare i territori, data la loro centralità nei processi di integrazione? Note (1) La procedura di relocation consente il trasferimento dall’Italia, Grecia e Ungheria verso altri Stati membri, delle persone, in evidente necessità di protezione internazionale, appartenenti a quelle nazionalità che hanno ottenuto un tasso di riconoscimento di protezione internazionale pari o superiore al 75% secondo i dati Eurostat. Attualmente siriani, eritrei ed iracheni rientrano in tali parametri. (2) La rete del sistema SPRAR si compone di una rete strutturata di enti locali, che per la realizzazione su progetti territoriali e accoglienza accedono al fondo nazionale per le politiche e i servizi dell’asilo gestito dal Ministero degli Interni. Nel 2014 l’accoglienza nel sistema SPRAR è 55 articolata su 423 progetti di cui 394 per categorie ordinarie, 52 per minori non accompagnati, 31 per persone con disagio mentale o disabilità. (3) Le Commissioni sono passate da 20 a 40 (decreto-legge 22 agosto 2014, n.119 convertito con modificazioni della legge 17 ottobre 2014, n. 146. (4) Il Comune di Arezzo è attivo nello SPRAR dal gennaio 2008 inizialmente con 15 persone; ad oggi le persone accolte nel progetto sono 55. (5) Gli eritrei residenti sono oltre 9 mila concentrati in particolare in Lazio, in Lombardia e in Emilia-Romagna. Riferimenti bibliografici Ambrosini M. (2005), Sociologia delle migrazioni, il Mulino, Bologna. Ambrosini M., Buccarelli F. (2009) Ai confini della cittadinanza. Processi migratori e percorsi di integrazione in Toscana, FrancoAngeli, Milano. Berti F., Valzania A. (a cura di) (2010), Le nuove frontiere dell’integrazione. Gli immigrati stranieri in Toscana, FrancoAngeli, Milano. Bracci F. (2012) (a cura di), Emergenza Nord Africa. I percorsi di accoglienza diffusa, Pisa University Press, Pisa. Castels S., Miller M. (1993), The Age of Migration: International Population Movements in the Modern World, New York, Guilford Press. Drudi E., Omizzolo M., (2015), «Ciò che mi spezza il cuore» Eritrea: dalla grande speranza alla grande delusione, in Omizzolo M., Sodano P. (a cura di), Migranti e territori. Lavoro diritti accoglienza, Ediesse, Roma, pp. 399-446. Ministero dell’Interno (2015), Rapporto sull’accoglienza di migranti e rifugiato in Italia. Aspetti, procedure, problemi, Roma. 56 Seconda parte I percorsi scolastici degli allievi stranieri e la scuola dell’inclusione 57 58 Capitolo 1 Plurale fa rima con “normale”. Il punto di vista sulla scuola multiculturale e sui suoi protagonisti di Graziella Favaro N. Com’è la tua classe? E. Normale. N. Ci sono tanti stranieri? E. Ma nella mia classe ci sono solo bambini! Uno sguardo diacronico alla scuola multiculturale ci consente di cogliere le diverse fasi attraversate in questi anni, il “clima” che si respirava, e si respira, dentro le aule e di fotografare i percorsi scolastici distinguendo tra gli alunni di “prima e di seconda” generazione. Vecchi e nuovi temi, attenzioni consolidate e criticità emergenti si intrecciano e si impongono oggi come prioritari. Mentre il numero dei bambini e dei ragazzi dell’immigrazione si assesta – e, anzi, tende a diminuire e si diffonde una “normale eterogeneità” – molte domande restano ancora senza risposta. Nelle note che seguono, proviamo a raccontare la scuola multiculturale evidenziandone le luci e le ombre; cogliamo le rappresentazioni diverse che fanno da sfondo alla normativa e presentiamo i percorsi scolastici dei bambini e dei ragazzi “nuovi italiani” che spesso hanno ancora il segno di un’integrazione rallentata. 1. Due priorità un “modello asistematico” L’immigrazione ha profondamente cambiato la scuola. Uno sguardo alle classi dei più piccoli e dei più grandi ci restituisce l’immagine di una scuola fortemente segnata dall’eterogeneità e che continua a modificarsi, anno dopo anno, in maniera veloce, rispetto alle storie, ai viaggi, ai volti e alle biografie di coloro che la abitano. Ci conferma inoltre che la presenza dei figli dell’immigrazione negli spazi educativi e nei luoghi di aggregazione e di incontro è uno dei tratti più rilevanti che segnano la fisionomia e il paesaggio sociale delle nostre città e comunità locali. I luoghi della formazione e le scuole sono stati, e continuano a essere, i primi e principali contesti pubblici a vivere il confronto con le differenze di origine, lingua, bagagli autobiografici, riferimenti culturali. In questi anni, i servizi educativi e le istituzioni educative hanno accolto un numero crescente di bambini e ragazzi stranieri, venuti da lontano o nati in Italia. Hanno imparato, in molti 59 casi, ad ascoltare le aspettative e i messaggi, espliciti e impliciti, delle famiglie straniere e italiane, a tener conto dei loro timori e delle attese, degli impacci e delle assenze. Hanno sperimentato qua e là azioni innovative, volte a dare risposta a bisogni linguistici e didattici specifici, a conoscere almeno un po’ la storia che fa da sfondo ai viaggi e alla migrazione dei minori, a leggere nel loro silenzio il lavorio sorprendente dell’acquisizione della nuova lingua e, talora, anche il dolore della perdita e della nostalgia. A volte hanno fatto un po’ di resistenza di fronte ai cambiamenti inevitabili che le trasformazioni del paesaggio scolastico e sociale necessariamente comportano. In tutti i casi, le consapevolezze, le acquisizioni, le modalità didattiche e organizzative innovative e che si sono rivelate maggiormente efficaci non sono ancora diventate sistema e prassi condivisa. Due attenzioni pedagogiche e didattiche sono alla base di una scuola multiculturale e plurilingue efficace e di qualità. Da un lato, vi è l’attenzione mirata all’accoglienza degli alunni stranieri che si inseriscono per la prima volta nella scuola italiana; dall’altro lato, vi è la gestione educativa della classe normalmente eterogenea attraverso un approccio interculturale e plurilingue. Si tratta quindi di procedere contemporaneamente lungo due direzioni e di tenere insieme i due percorsi, attivando un doppio sguardo: quello “dedicato”, che ha carattere transitorio e specifico, e quello ordinario e per tutti. Chi sono gli alunni neoarrivati? Si tratta ad ogni anno scolastico di circa 30.000 alunni (4,9% sul totale degli stranieri), metà dei quali entra nella scuola primaria. Essi provengono direttamente dal Paese d’origine per ricongiungimento famigliare o a causa di esodo e fuga da guerre e condizioni di vita drammatiche. In altri casi, sono nati qui ma non hanno mai frequentato la scuola dell’infanzia e sono quindi “nuovi” alla scuola. A proposito di alunni neo-inseriti, uno studio comparato promosso dall’Unione Europea (2013) ha analizzato la situazione di 15 Paesi dell’Unione, fra i quali vi è l’Italia. Il modello italiano viene definito, insieme a quello greco, “non sistematico”: “Il modello non sistematico funziona in maniera random. I Paesi non hanno una politica chiaramente articolata a livello nazionale e il supporto previsto è molto frammentato. Il sistema scolastico italiano è fortemente centralizzato, ma le scuole sono lasciate a se stesse nella scelta dei metodi d’insegnamento e nel far fronte alla diversità della popolazione scolastica locale. Le linee guida nazionali non prevedono un supporto linguistico e scolastico strutturato e ben definito per gli alunni migranti…”. Il documento offre un quadro esaustivo e molto interessante degli approcci e delle misure realizzate nei diversi contesti e presenta anche alcune pratiche e progetti che hanno avuto esiti efficaci e positivi. In particolare, sono quattro i dispositivi che lo studio ritiene centrali per inaugurare un percorso di buona integrazione e sono: - il supporto linguistico mirato in L2 nella fase iniziale e per tutto il tempo che è necessario; 60 - l’aiuto allo studio realizzato in maniera duratura e continuativa; - il coinvolgimento delle famiglie degli alunni neo-inseriti e la collaborazione con il territorio per una buona integrazione anche nell’extra scuola; - l’approccio interculturale. 2. Bisogni educativi specifici o speciali? Più di vent’anni di parole e pratiche d’integrazione dovrebbero costituire ormai una robusta riserva di esperienze e di risposte educative utili a comporre un “modello” d’integrazione condiviso e riconoscibile, efficace nel ridurre le disparità che si registrano tuttora da una scuola all’altra, da una città all’altra. Ma questo processo non è ancora compiuto e si notano tuttora divari importanti, scelte differenti, risorse e dispositivi non uniformi da un contesto educativo all’altro, dando luogo appunto a un “modello non sistematico”. La normativa stessa, che descrive e regola il tema – e che di fatto contribuisce a costruire le cornici pedagogiche e di senso del percorso d’integrazione – propone rappresentazioni a volte tra loro discordanti. In essa si sottolinea infatti, ora la “normale eterogeneità” delle classi e dei gruppi di apprendimento, ora il carattere “speciale” delle domande educative provenienti dagli alunni con cittadinanza non italiana. Ripercorriamo i documenti più recenti – dal 2010 a oggi – per cogliere le parole chiave, gli scenari evocati, le risposte previste o sollecitate. Nel gennaio 2010, una circolare sulle iscrizioni suscitò vivaci prese di posizione e alcune polemiche poiché introduceva il “tetto” del 30% per gli alunni stranieri nelle classi prime. Seguirono deroghe, precisazioni, chiarimenti. Ma la rappresentazione che la circolare ha contribuito a veicolare e a diffondere nella scuola è stata quella degli alunni non (ancora) italiani, anche se nati in Italia, come un’emergenza da contenere, un flusso da arginare. Due altri importanti e successivi documenti propongono la situazione di multiculturalità di fatto in maniera ancora diversa. Il primo – le Indicazioni nazionali per il curricolo della scuola di base del 2012 – prende atto che “una molteplicità di lingue e culture è entrata nella scuola” e sollecita i docenti a “progettare e realizzare percorsi didattici specifici” per lo sviluppo dell’italiano per comunicare e per lo studio, con l’obiettivo della piena integrazione (senza tuttavia indicare modalità e risorse sul come fare). Il secondo documento – la circolare applicativa sui BES, i bisogni educativi speciali, del 6 marzo 2013 – tratta degli alunni più “fragili” e mette insieme coloro che hanno una disabilità, un DSA (disturbo specifico dell’apprendimento), o disturbi evolutivi specifici, con chi si colloca “nell’area dello svantaggio socioeconomico, linguistico e culturale”. Per rispondere a tali bisogni educativi speciali si 61 suggeriscono misure a carattere compensativo e dispensativo. Le Linee guida sull’accoglienza e l’integrazione degli alunni stranieri (MIUR 2014) ripropongono uno sguardo specifico, e non speciale, e sono più attente, rispetto al passato, ai temi emergenti dell’orientamento e della prosecuzione degli studi, dell’insegnamento dell’italiano L2 e della valorizzazione della diversità linguistica. Dalla lettura dei documenti ufficiali, quale rappresentazione si può dunque cogliere della scuola italiana e dei bambini e dei ragazzi stranieri che la abitano? E quali scenari, scelte pedagogiche, mosse didattiche essi propongono e sollecitano? Le categorie presenti nelle descrizioni dei contesti educativi e scolastici multiculturali e delle attenzioni da promuovere sono, come abbiamo visto, alquanto differenti. Da un lato, si presenta la situazione di mescolanza ed eterogeneità come normale (anche se certamente essa necessita di essere gestita e supportata da attenzioni didattiche e dispositivi mirati). Dall’altro lato, ci si richiama al carattere di “specialità” delle domande e dei bisogni educativi, riconducendoli alla categoria della mancanza e del disagio. Si oscilla dunque tra l’etnicizzazione e l’irrigidimento dei cammini di apprendimento degli alunni non italiani (il “tetto” del 30%; la contiguità tra l’area dello “svantaggio socioeconomico, linguistico e culturale” e le situazioni della disabilità) e la rappresentazione, invece, di una “normale” eterogeneità, pur tuttavia senza proporre misure e risorse specifiche e a carattere transitorio. Le esperienze condotte in questi anni, e il confronto con altri contesti educativi nazionali che sono da tempo multiculturali e plurilingui, suggeriscono che il tema dell’inserimento scolastico degli alunni che continuiamo a definire “stranieri” ha carattere specifico – e non speciale – e richiede attenzioni e piani didattici e linguistici “ordinari”, efficaci e mirati. Non invisibilità dunque, ma neppure forme di etichettamento che rischiano di irrigidire le condizioni che si presentano fluide e in movimento e di rendere permanenti i bisogni transitori con il rischio di creare distanze e forme di microsegregazioni. 62 Un Vademecum per l’integrazione Nel settembre 2015, un nuovo documento è stato diffuso alle scuole dal MIUR. Si tratta del Vademecum per l’integrazione “Diversi da chi?”, redatto da chi scrive per conto dell’Osservatorio nazionale per l’integrazione e l’intercultura. Dopo una breve premessa, il documento individua e propone dieci obiettivi e priorità per una scuola inclusiva, indicando per ciascuna azioni possibili e modalità operative per l’attuazione (il Vademecum è riportato, più avanti, v. all. 1). 1.Ribadire il diritto all’inserimento immediato degli alunni neoarrivati. 2.Rendere consapevoli dell’importanza della scuola dell’infanzia. 3.Contrastare il ritardo scolastico. 4.Accompagnare i passaggi; adattare il programma e la valutazione. 5.Organizzare un orientamento efficace alla prosecuzione degli studi. Investire sul protagonismo degli studenti. 6.Sostenere l’apprendimento dell’italiano L2, lingua di scolarità. 7.Valorizzare la diversità linguistica. 8.Prevenire la segregazione scolastica. 9.Coinvolgere le famiglie nel progetto educativo per i loro figli. 10.Promuovere l’educazione interculturale nelle scuole. 3. Tra ostacoli e attese Se diamo uno sguardo ai percorsi di inserimento scolastico dei minori che hanno una storia, personale o famigliare, di migrazione, così come essi vengono descritti e raccontati nei dati nazionali e nelle ricerche locali, vediamo che sono soprattutto cinque le criticità disseminate lungo un cammino segnato da fatiche, conquiste e rallentamenti. Proviamo a descriverli in maniera sintetica. Lo facciamo, proponendo anche i dati e le storie raccolti in un gruppo/campione significativo, costituito dalle ragazze e dai ragazzi coinvolti nel progetto di tutoraggio “Almeno una stella”, condotto in sei diversi territori (1). Adolescenti sulla soglia: le difficoltà di ingresso nella scuola Cesar, arrivato dal Peru per ricongiungersi alla madre nel gennaio di due anni fa, ha potuto entrare a scuola solo a settembre, dopo nove mesi di attesa e di vuoto, perché in tutte le scuole di zona alle quali ha bussato “non c’era posto”. Xia Feng, quattordicenne neoarrivato dalla Cina, è stato “rimbalzato” per mesi tra la scuola secondaria di primo grado vicino a casa e le scuole superiori della zona. Per la scuola media, era infatti considerato troppo grande; per le scuole secondarie di secondo grado, era considerato inadatto a causa della sua non conoscenza 63 dell’italiano. Come Cesar e Xia Feng, una parte dei ragazzi stranieri si “disperde” e non viene inserita nella scuola subito dopo l’arrivo, oppure trascorre un lasso di tempo considerevole fra il momento del ricongiungimento famigliare e quello dell’ingresso nella classe. Quali sono i soggetti più a rischio e i fattori che sono alla base di queste forme di “descolarizzazione” di fatto, durature o transitorie che esse siano? In alcuni casi, possono essere le famiglie, sprovviste delle corrette informazioni, ad avere comportamenti incerti nei confronti dell’inserimento scolastico e a non promuovere l’ingresso immediato del figlio (o della figlia) nella scuola italiana. In altri casi, sono invece le scuole a non accogliere la domanda di inserimento – o a non accoglierla subito – per varie ragioni: il momento dell’anno in cui i minori si presentano, la situazione sempre più diffusa di saturazione delle classi, la mancanza di risorse specifiche. Nonostante la normativa preveda “l’inserimento dell’alunno in qualunque momento dell’anno arrivi”, nella realtà vi sono dunque ragazze e ragazzi che cercano a lungo un posto a scuola prima di approdare a destinazione. Sono soprattutto gli adolescenti e coloro che arrivano in Italia in corso d’anno scolastico (e i maschi più delle femmine) a trovarsi per un po’ “fuori dalla porta”, con il rischio di perdere del tempo prezioso, allentare la motivazione ad apprendere, ridurre la possibilità di contatto e scambio con i coetanei italiani. Indietro di uno o più anni: il ritardo scolastico Fra i 458 adolescenti coinvolti nel progetto “Almeno una stella” per i quali il dato risulta disponibile, solo il 35% risulta essere nella condizione di “parità” tra età e classe frequentata, mentre il 65% si trova in situazione di ritardo: di un anno nel 38,8% dei casi; di due, tre e fino a sei (!) anni nel 26,2%. Una parte consistente degli alunni stranieri continua infatti a essere inserita al momento dell’arrivo in Italia in un classe non corrispondente all’età anagrafica. La situazione di ritardo penalizza in maniera particolare gli alunni inseriti nella scuola secondaria di primo e secondo grado e pregiudica spesso la possibilità di prosecuzione nella carriera scolastica. I dati raccolti dal Miur indicano una percentuale ancora preoccupante di alunni in situazione di ritardo scolastico, anche se essa tende a diminuire in seguito all’inserimento consistente delle seconde generazioni che registrano una maggiore corrispondenza tra età e classe. Sono oggi in questa condizione: - il 14,7 % degli alunni stranieri nella scuola primaria; - il 41,5 % nella scuola secondaria di primo grado; - il 65,1 % nella scuola secondaria di secondo grado. Le variabili che sono alla base della situazione di ritardo sono sostanzialmente due. La prima – e oggi più rilevante – ha a che fare con la scelta iniziale della classe in cui inserire l’alunno straniero. Anche in questo caso, nonostante la 64 normativa preveda che il criterio privilegiato per la determinazione della classe di inserimento sia quello dell’età anagrafica, si registra di fatto un comportamento di penalizzazione nei confronti degli alunni con cittadinanza non italiana, i quali vengono in gran parte retrocessi, come abbiamo visto, di uno, due e a volte anche tre anni. Bocciati in prima: l’insuccesso scolastico La seconda variabile che provoca il ritardo scolastico riguarda invece gli esiti scolastici a fine anno e il tasso di promozione/bocciatura che si registra fra gli stranieri. Il divario medio tra allievi italiani e stranieri è rilevante fin dal primo ciclo di scuola e si presenta inoltre particolarmente pesante nelle prime classi di ogni ordine di scuola. Nella primaria, ad esempio, la differenza tra i bambini italiani e stranieri che vengono bocciati alla fine del primo anno è di circa due punti; nella scuola secondaria di primo grado, alla fine della prima media si registra un esito negativo per il 3% degli italiani e ben il 10,2 degli alunni stranieri. Al termine della prima classe delle superiori, viene “fermato” l’8,6% degli studenti italiani e il 12,2% degli stranieri. Ma in questo anno di scolarità di registrano anche numerosi ritiri e abbandoni da parte degli allievi non italiani. Si può costruire dunque nel tempo una sorta di vulnerabilità persistente e di circolo vizioso che si origina dalla condizione di migrazione e dall’essere straniero: un inserimento penalizzante in ingresso, che non rispetta la coerenza tra età e classe frequentata; la probabilità maggiore di avere un esito negativo soprattutto alla fine del primo anno di ogni tipo di scuola; una marginalità sociale che diventa anche solitudine relazionale nel tempo extrascolastico; la prossimità quotidiana nei confronti di altri alunni con scarse performance che crea un effetto moltiplicatore della vulnerabilità e rischia di produrre demotivazione. Scelte al ribasso nella prosecuzione degli studi Una parte consistente degli alunni stranieri ha difficoltà a proseguire gli studi dopo la secondaria di primo grado: ricerche a livello locale mostrano tassi elevati di abbandono dopo il primo anno delle superiori, numerosi “scivolamenti” verso il basso e un addensamento delle presenze nei percorsi di formazione brevi e meno esigenti. I dati del Miur lo confermano: il 37,9% dei ragazzi stranieri nati all’estero si orienta verso gli istituti professionali, mentre si indirizza verso questo percorso di istruzione il 19% circa degli alunni italiani. Viceversa, frequentano una qualunque classe liceale il 28% circa degli allievi non italiani e quasi il 48% degli studenti autoctoni. Si osserva inoltre che si orientano verso le scuole a carattere professionalizzante anche gli alunni stranieri che ottengono buoni risultati all’esame di terza media. Vi è dunque il rischio che le ragazze e i ragazzi stranieri facciano (o siano orientati verso) scelte scolastiche al ribasso con la 65 conseguente dispersione di talenti e possibilità che andrebbero invece sostenuti e valorizzati. 4. L’italiano di scolarità: la tigre sul cammino Alla base delle criticità descritte sopra viene spesso indicata la non competenza o una padronanza ridotta nella lingua italiana, non tanto per gli usi comunicativi, quanto per le abilità di studio (Italstudio). Ed è questo il quinto fattore e ostacolo che gli alunni stranieri incontrano sul loro cammino: una vera e propria “tigre sul cammino”, come i cinesi definiscono le difficoltà più ardue. Se infatti l’acquisizione dell’italiano per comunicare avviene per gran parte degli alunni stranieri in tempi relativamente brevi – grazie anche ai contatti numerosi e densi con i pari a scuola e nel tempo libero – l’apprendimento della lingua veicolare implica tempi lunghi e può avvenire solo all’interno della scuola. Esso richiede modalità didattiche protratte di facilitazione e semplificazione, materiali didattici efficaci, attenzioni da parte di tutti gli insegnanti, ognuno dei quali, oltre ai contenuti disciplinari, trasmette anche la microlingua delle discipline. Dispositivi, consapevolezze e risorse di cui spesso le scuole non hanno la disponibilità. A proposito di competenza linguistica degli alunni stranieri, sono disponibili i risultati delle prove Invalsi, divisi per origine degli alunni e per regione (www.invalsi.it/snv). Nella Tab.1 possiamo leggere le differenze fra i punteggi in italiano degli alunni italiani e non italiani e, fra questi, distinguere tra le performance degli allievi di prima e di seconda generazione. Tabella 1 - Differenza % fra AS e alunni italiani nelle risposte al test di italiano, SNV Invalsi II primaria V primaria I sec. I grado III sec. I grado II sec. II grado 2012/13 I generazione -27,0 -14,0 -34,0 -22,0 -14,0 II generazione -15,0 -11,0 -16,0 -6,0 -13,0 2010/11 I generazione -18,8 -13,7 -21,1 -9,5 -15,3 II generazione -14,1 -7,3 -11,1 -5,7 -7,7 2009/10 I generazione -27,4 -21,7 -20,2 n.d. n.d. II generazione -21,5 -11,7 -9,7 n.d. n.d. Gruppo Fonte: elaborazioni su dati Invalsi (2009; 2010; 2013) Dall’osservazione dei dati, possiamo trarre alcune considerazioni. - Le differenze di punteggio ottenuto dagli alunni stranieri rimangono nel tempo significative, rispetto a quello degli autoctoni. 66 - I risultati ottenuti dagli alunni appartenenti alla cosiddetta “seconda generazione”, costituita dai nati in Italia, sono migliori rispetto a quelli degli alunni stranieri nati all’estero e inseriti nella scuola italiana ad un certo momento della loro vita. Le differenze di punteggio ottenuto dagli alunni nati in Italia, rispetto ai compagni italiani, sono, ad esempio, di 15 punti in seconda primaria (ma salgono a 27 punti per la “prima generazione”); di circa 11 punti in quinta (e di 14 punti per i bambini nati all’estero); di 16 punti in prima media (e ben 34 per i nati all’estero); 6 punti in terza media (a fronte di 22 punti per i ragazzi ricongiunti). - Si notano dei miglioramenti nel corso degli anni all’interno di uno stesso grado scolastico: vi è infatti una riduzione del divario fra la seconda e la quinta primaria e fra la prima media e la terza media. - I risultati migliorano inoltre con il progredire dell’istruzione all’interno di ogni tipo di scuola, come abbiamo visto, ma tendono a peggiorare nel passaggio da un ordine di scuola all’altro. Se osserviamo, ad esempio, i dati 2012/13 relativi alla cosiddetta seconda generazione, vediamo che vi è un aumento del gap fra la quinta primaria e la prima media e fra la terza media e la seconda superiore. Il dato evidenzia ancora una volta la difficoltà che esiste nella scuola italiana nei passaggi da un grado di scuola all'altro; fra un ciclo di studi e quello successivo. Le considerazioni che possiamo trarre dai dati INVALSI ci invitano a riflettere soprattutto su alcuni temi: la competenza in italiano dei più piccoli nati in Italia (che ottengono risultati inferiori agli italiani in seconda elementare); la necessità di potenziare l’insegnamento dell’italiano per lo studio; i passaggi da un tipo di scuola ad un altro, momento in cui si registrano criticità, esiti scolastici negativi e abbandoni. 5. I fattori collegati al rischio della dispersione scolastica Un recente studio condotto a Milano sulla dispersione, sulla base dei dati dell’anagrafe scolastica cittadina, ha evidenziato che il rischio di abbandono della scuola tra gli alunni stranieri nati all’estero è dieci volte superiore a quello degli italiani nativi e quattro volte superiore a quello degli studenti non italiani di seconda generazione (Bugli e altri, 2015). Quali sono gli eventi che sono alla base della dispersione o che ne acuiscono il rischio? Sono soprattutto tre fattori: - la ripetenza della classe in corso; - il ritardo scolastico e il conseguente divario tra età e classe frequentata; - il non superamento dell’anno. Il dato del ritardo scolastico pesa dunque in maniera determinante sulla dispersione ed è inoltre un predittore di altri eventi critici quali: ripetenze, 67 perdita di motivazione, scelte al ribasso nella prosecuzione degli studi, frequenza saltuaria o abbandono della scuola. Quali sono le nazionalità per le quali gli eventi connessi al rischio di dispersione pesano in misura maggiore? La situazione milanese colloca al primo posto gli alunni romeni. A fronte di una tasso medio di rischio di interruzione scolastica non formalizzata pari allo 0,38%, i ragazzi romeni registrano il 3,87%; seguono gli egiziani (1,75%); i singalesi (1,32%), i cinesi (1,29%). Naturalmente, le storie di migrazione, la situazione famigliare e il capitale culturale dei genitori pesano anch’essi in maniera determinante sul rischio di dispersione scolastica dei figli. La ricerca milanese mette tuttavia in luce che anche quando è disponibile un capitale culturale dei genitori relativamente alto, con un titolo equivalente al diploma universitario o alla laurea, le differenze di successo scolastico continuano a permanere, a scapito degli alunni con cittadinanza non italiana. In altre parole, il fatto di essere straniero, pur se figlio di laureati, sembra pesare di per sé come condizione di svantaggio alla partenza. 6. I più piccoli, i più grandi Come abbiamo visto, i percorsi scolastici dei bambini e dei ragazzi stranieri presentano registrano delle criticità che permangono nel tempo. Ma una scuola impoverita e priva di risorse rischia di non poter dare risposte efficaci, continuative e mirate, ai bisogni di accoglienza, di apprendimento linguistico – per gli usi comunicativi e per quelli scolastici – di orientamento dei “nuovi” alunni. Alla scarsità dei dispositivi e delle attenzioni per una buona integrazione che connota la scuola, si deve aggiungere inoltre l’impossibilità di gran parte delle famiglie immigrate a sostenere i loro figli nello studio, a controllarne il percorso, a supportare le scelte per il futuro. I bambini e i ragazzi stranieri sono dunque spesso soli davanti ai compiti di studio e nel tempo extrascolastico e devono contare soprattutto sulle loro risorse personali: sui saperi e le capacità consolidati nella scuola precedente, sull’autodisciplina e il senso del dovere, sulle attitudini personali e la voglia di riuscire. E i risultati positivi di una parte degli alunni non italiani, registrati anche alla recente sessione degli esami di terza media e di maturità, lo confermano. Ma quali priorità dovrebbero essere poste al centro di una scuola che sia davvero in grado di includere tutti? Ne indichiamo cinque. - un’attenzione ai più piccoli poiché una buona integrazione si inaugura nella prima infanzia. Ciò significa la promozione dell’inserimento massiccio e diffuso dei bimbi stranieri nella scuola dell’infanzia, cosa che oggi non avviene, dal momento che circa un quarto dei piccoli non italiani non la frequenta, contrariamente a 68 quanto avviene per i bambini autoctoni, i quali vi sono inseriti per la quasi totalità. Il tempo compreso fra i tre e i sei anni è infatti cruciale ai fini dell’acquisizione della seconda lingua, della socializzazione fra pari, del successivo ingresso nella lingua scritta; - un piano nazionale di accoglienza e di insegnamento dell’italiano come seconda lingua – per comunicare per studiare – rivolto, in particolare, agli adolescenti che arrivano per ricongiungimento famigliare, i quali attraversano le difficoltà scolastiche più evidenti e si trovano ad apprendere il nuovo codice in un’età definita “critica”; - un’attenzione particolare ai momenti di passaggio, dal momento che le criticità più rilevanti degli alunni stranieri si collocano, come abbiamo visto, al primo anno di ogni tipo di scuola; - una rete di aiuto allo studio, nel tempo scolastico ed extrascolastico, che possa accompagnare gli alunni stranieri fuori dalla scuola con forme mirate di tutoraggio, sostegno all’apprendimento, rimotivazione, gestite da volontari competenti, associazioni educative professionali. Una rete che può coinvolgere anche studenti universitari, italiani e stranieri, i quali potrebbero svolgere efficacemente la funzione di tutor o mentore e inoltre vivere concretamente un ruolo di cittadinanza attiva (vedi il progetto “Bussole” e “Almeno una stella”, sperimentato con buoni risultati in sei diversi territori); - un’attenzione mirata all’orientamento scolastico e alle modalità di prosecuzione degli studi, perché questo momento di scelta può segnare l’inizio di un processo di marginalizzazione sociale e lavorativa, oltre che scolastica o, viceversa, rappresentare un’opportunità di mobilità e di promozione e inaugurare un percorso di inclusione positiva e di riconoscimento di talenti e capacità. Note (1) Il progetto di tutoraggio “Almeno una stella. I giovani universitari accompagnano gli adolescenti stranieri a scuola e nella città” è stato realizzato negli anni scolastici 2013/14 e 2014/15. Finanziato dalla Fondazione “P. Vismara” di Milano e condotto dal Centro Come, ha interessato sei diversi territori: Milano, Torino, Bologna, Arezzo, provincia di Trento, Friuli Venezia Giulia (in bibliografia). Riferimenti bibliografici Bugli V., Conte M., Laffi S. (2015), La dispersione a Milano nei dati dell’Anagrafe scolastica. Anno scolastico 2013-14, in www.comune.milano.it Checchi D. (a cura di) (2014), Lost. Dispersione scolastica. Il costo per la collettività e il ruolo di scuole e Terzo settore, We World Intervista, Associazione Bruno Trentin, Fondazione Giovanni Agnelli, Ediesse, Roma, 2014. 69 Colombo E. (a cura di) (2010), Figli di migranti in Italia. Identificazioni, relazioni, pratiche, UTET, Torino. Dalla Zuanna G., Farina P., Strozza S. (2009), Nuovi italiani. I giovani immigrati cambieranno il nostro paese?, il Mulino, Bologna. Favaro G. (2014), A scuola nessuno è straniero. Insegnare e apprendere nella classe multiculturale, Giunti, Firenze, nuova ediz. Favaro G. 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Una di queste trasformazioni, forse la più rilevante, riguarda la presenza crescente nelle aule scolastiche dei bambini e dei ragazzi che hanno 70 una storia, diretta o famigliare, di migrazione. Gli alunni con cittadinanza non italiana sono più di 800.000 nell’anno scolastico 2013/2014(il 9% sul totale della popolazione scolastica, più della metà sono nati in Italia. I processi migratori in atto a livello globale hanno modificato anche la scuola e la sollecitano a nuovi compiti educativi. Dipendono infatti anche dalla scuola la velocità e la profondità dell’integrazione di una componente ormai strutturale della popolazione. Dipende dagli esiti dell’esperienza scolastica dei figli dei migranti la possibilità di un Paese di contare, per il suo sviluppo economico e civile, anche sulle intelligenze e sui talenti dei “nuovi italiani”. E’ nella scuola che gli studenti con background migratorio possono imparare una con-cittadinanza ancorata al contesto nazionale e insieme aperta a un mondo sempre più grande, interdipendente, interconnesso. Nella scuola infatti tutti questi bambini e i ragazzi si “allenano” a convivere in una pluralità diffusa. E’ infine anche nella scuola che famiglie e comunità con storie diverse possono imparare a conoscersi, superare le reciproche diffidenze, sentirsi responsabili di un futuro comune. II. Diffondere le buone pratiche Una “buona scuola” deve contare su insegnanti e dirigenti competenti e saper coinvolgere tutto il personale scolastico. Sono molte le istituzioni scolastiche – del primo e del secondo ciclo, così come del comparto delle scuole per adulti che, da sole o in rete, e spesso col sostegno fattivo di Enti Locali, Università, terzo settore - hanno negli ultimi anni saputo costruire risposte efficaci alle nuove esigenze. Queste esperienze, costruite sul campo, offrono un ricco repertorio di indicazioni e di suggerimenti. Ma non sempre esse sono conosciute e diffuse: occorre dunque passare dal “brusio” delle buone pratiche a una voce forte e condivisa, sviluppando una formazione capillare e non sporadica dei dirigenti scolastici e degli insegnanti, animata in primo luogo da coloro che si sono formati sul campo. III. Dieci attenzioni e proposte I percorsi scolastici degli alunni con background migratorio e i loro risultati di apprendimento presentano criticità diffuse e acute, e comunque una “disparità” rispetto agli alunni italiani che, sia pure in forme attenuate, riguarda anche i bambini e i ragazzi nati in Italia o che ci sono arrivati da piccoli. È uno svantaggio che deve essere contrastato. Citiamo alcune criticità e alcune possibili risposte. 1. Ribadire il diritto all’inserimento immediato degli alunni neoarrivati. Il diritto/dovere di tutti alla scuola non può più essere compromesso, come talora avviene, dalle inaccettabili difficoltà di inserimento immediato dei bambini e ragazzi stranieri che arrivano ad anno scolastico iniziato. E’ necessario che l’amministrazione scolastica acquisisca per tempo dalle Prefetture tutte le informazioni utili sugli arrivi dei minori “ricongiunti”; è necessario che in tutte le aree territoriali più interessate dai flussi migratori la formazione delle classi eviti i livelli di saturazione che impediscono l’accoglienza dei neoarrivati; è necessario che i dispositivi di ricerca delle scuole e delle classi in cui inserire i nuovi alunni non comportino “liste di attesa” e trasferimenti da una scuola all’altra che fanno perdere tempo, motivazione, fiducia nelle istituzioni 71 Nelle situazioni in cui si registra da tempo, e dunque si può prevedere per il futuro, un rilevante flusso di alunni stranieri, alleggerire il numero degli alunni per classe per consentire l’inserimento immediato dei nuovi arrivati. In queste zone e per queste scuole prevedere un organico funzionale aggiuntivo anche per lo sviluppo di laboratori di L2 per i neoarrivati. 2. Rendere consapevoli dell’importanza della scuola dell’infanzia. La mancata partecipazione di quasi un quarto dei bambini con origini migratorie, fra i 3 e i 5 anni, residenti in Italia, alla scuola per l’infanzia, un luogo educativo cruciale ai fini dell’apprendimento linguistico e di una buona integrazione, deve essere contrastata. Lo si può fare attraverso il coinvolgimento delle comunità straniere e del privato sociale, con misure che rendano sostenibili le tariffe di iscrizione alle scuole non gestite dal pubblico, con il coordinamento locale delle diverse tipologie di scuola per l’infanzia. Informare e coinvolgere i genitori migranti sull’importanza della scuola dell’infanzia. Facilitare in maniera concreta ed efficace l’accesso dei bambini e delle famiglie con origini migratorie all’intero sistema delle scuole dell’infanzia: statali, comunali e paritarie. 3. Contrastare il ritardo scolastico. La normativa sull’ inserimento scolastico degli alunni con background migratorio prevede la determinazione della classe sulla base del criterio dell’età. I dati ministeriali rilevano infatti un tasso preoccupante di “ritardo scolastico” in ingresso che, non solo non evita, ma in molti casi favorisce ulteriori ritardi dovuti alle bocciature/ripetenze, con effetti di demotivazione al proseguimento degli studi. Non costituisce motivo sufficiente di deroga alla normativa la non conoscenza dell’italiano dell’alunno neo-inserito per il quale occorre, anzi, prevedere piani didattici personalizzati finalizzati al riallineamento con i comuni obiettivi di apprendimento. Aggiornare e diffondere indicazioni normative chiare, coerenti e prescrittive sulle modalità di inserimento e di valutazione degli alunni stranieri neoarrivati. Attivare, per i neo-arrivati in periodo prescolastico, interventi di formazione linguistica prima dell’inserimento scolastico. Predisporre un sito dedicato sul tema dell’inserimento degli alunni neoarrivati contenente: normative, protocolli di accoglienza; progetti esemplari e buone pratiche efficaci; esempi positivi di modalità organizzative, materiali didattici e plurilingue 4. Accompagnare i passaggi; adattare il programma e la valutazione. Si osservano esiti scolastici negativi da parte dei bambini e dei ragazzi con origini migratorie, anche se nati in Italia, soprattutto alla fine del primo anno della scuola secondaria di primo grado e della secondaria di secondo grado. Ogni istituto scolastico deve essere “allenato”, in questi passaggi nevralgici, alla predisposizione di piani personalizzati che comportino, se necessario, anche modifiche transitorie e non permanenti dei curricoli. La valutazione 72 di fine anno deve essere coerente con i piani personalizzati e tener conto dei progressi effettivi registrati a partire dalle situazioni in ingresso. Definire in maniera chiara - e coerente con “l’adattamento del programma” previsto dalla normativa - le modalità di valutazione per gli allievi di recente immigrazione, prevedendo, ove necessarie, deroghe dalla normativa standard e apposite flessibilità agli esami di fine ciclo per gli allievi inseriti per la prima volta nel sistema scolastico... Accompagnare con cura i passaggi da un tipo di scuola all’altro. 5. Organizzare un orientamento efficace alla prosecuzione degli studi. Investire sul protagonismo degli studenti. Le ragazze e i ragazzi con background migratorio tendono a proseguire gli studi iscrivendosi (o sono orientati a farlo) in larga maggioranza, anche per chi ha ottenuto buoni risultati negli esami di terza media, ai percorsi o agli istituti professionali. È opportuno quindi che sia attivato un orientamento agli studi più efficace attraverso l’informazione plurilingue alle famiglie sulle caratteristiche dei percorsi di studio e, dove occorre, attraverso misure di diritto allo studio. Sono da tenere sotto controllo gli eventuali stereotipi di varia natura impliciti nei consigli di orientamento. A fronte, inoltre, del grande numero di abbandoni precoci (e quindi di giovani adulti privi di qualifiche e di diplomi) va valorizzato il ruolo delle nostre scuole di seconda opportunità (CPIA). È importante inoltre sviluppare e promuovere modalità di coinvolgimento diretto degli studenti, italiani e di background migratorio, attraverso esperienze di peer education, ricorrendo, per esempio, a studenti delle seconde generazioni come tutor di studenti neoarrivati, per sostenerli nei laboratori, nell’apprendimento dell’italiano, nell’orientamento. Informare in maniera accurata (anche con opuscoli plurilingue) le famiglie e gli alunni con origini migratorie sul sistema scolastico italiano e sulle opportunità di istruzione superiore. Organizzare la fase di orientamento e delle scelte scolastiche coinvolgendo anche i mediatori linguistico-culturali e giovani tutor di origine migratoria. 6. Sostenere l’apprendimento dell’italiano L2, lingua di scolarità. Alla base dei cammini scolastici rallentati vi è spesso una competenza ridotta in italiano, anche delle cosiddette “seconde generazioni”. Le difficoltà linguistiche hanno a che fare, soprattutto, con la competenza nella lingua per lo studio che è essenziale alla riuscita scolastica. Di qui l’esigenza di istituire negli istituti scolastici i “laboratori linguistici permanenti”, animati da insegnanti specializzati nell’insegnamento dell’italiano lingua 2, capaci anche di coordinare il lavoro di semplificazione linguistica dei contenuti delle diverse discipline e di facilitare l’apprendimento dei linguaggi specifici delle discipline di studio. Anche a questa priorità, molto evidente nelle aree maggiormente interessate alla scolarizzazione dei ragazzi con origini migratorie, deve essere destinata la predisposizione di un organico “funzionale”. Questa scelta è accompagnata da un nuovo e sistematico impegno nella formazione dei docenti; in primo luogo, ma non esclusivamente, degli insegnanti di italiano. Se la loro specializzazione è indispensabile, 73 è però da evitare che venga delegata solo a loro la responsabilità dell’apprendimento della lingua di scolarità. Organizzare nelle scuole laboratori linguistici di italiano L2 per le diverse fasi dell’apprendimento e per livelli e scopi differenti. Prevedere nel tempo extrascolastico, in collaborazione con le associazioni, il volontariato e il privato sociale, forme di aiuto allo studio, protratte e continuative. Formare i docenti sui temi dell’insegnamento/apprendimento dell’italiano come seconda lingua. 7. Valorizzare la diversità linguistica. L’ integrazione scolastica dei bambini e dei ragazzi con origini migratorie ha seguito in questi anni modalità prevalentemente di tipo “compensativo”, sottolineando soprattutto le carenze e i vuoti e riconoscendo molto poco i saperi acquisiti e le competenze di ciascuno, ad esempio, nella lingua materna. La diversità linguistica rappresenta infatti un’opportunità di arricchimento per tutti, sia per i parlanti plurilingue, che per gli autoctoni, i quali possono precocemente sperimentare la varietà dei codici e crescere più aperti al mondo e alle sue lingue. Attivare dentro le scuole corsi opzionali di insegnamento delle lingue d’origine, anche in collaborazione con i governi dei Paesi di provenienza. Sperimentare l’insegnamento a tutti gli alunni di lingue straniere non comunitarie (cinese, arabo, russo). Conoscere, riconoscere e valorizzare le forme di bilinguismo presenti fra gli alunni della classe. Formare i docenti sul tema della diversità linguistica e del plurilinguismo. 8. Prevenire la segregazione scolastica. Si riscontrano in alcune scuole fenomeni di concentrazione della presenza di alunni con origini migratorie. Oltre al dato demografico e residenziale, legato agli insediamenti abitativi delle famiglie migranti in un determinato territorio, possono avere un peso le preoccupazioni dei genitori italiani sulla qualità dell’apprendimento nelle classi (troppo) multiculturali. Si tratta di agire con tutti gli attori coinvolti per garantire in tutte le scuole una buona qualità dell’insegnamento/ apprendimento, in maniera esplicita e trasparente e investendo maggiori risorse nelle situazioni più difficili, affinché il diritto alla scuola di qualità valga dovunque e per tutti. Promuovere accordi a livello locale, al fine di rendere operativi i criteri di equoeterogeneità nella formazione delle classi, evitando o riducendo i casi di concentrazione delle presenze. Prevedere interventi specifici per le situazioni dove si registra un’alta presenza di alunni con background migratorio. 9. Coinvolgere le famiglie nel progetto educativo per i loro figli. Le scuole devono diventare presidi di socialità, luoghi di scambio e di confronto. Il dialogo costante fra la scuola e le 74 famiglie di origine straniera deve inoltre essere denso e ravvicinato nei momenti topici della scolarità dei figli: l’ingresso, i momenti della valutazione, l’orientamento e le scelte. Ma un’attenzione costante va data alle interazioni quotidiane e di routine, che devono essere quanto più inclusive e facilitate: attraverso i messaggi plurilingue, attraverso strumenti formali o informali di mediazione linguistico-culturale e soprattutto attraverso gli atteggiamenti di vicinanza. Le recenti normative sulla regolarizzazione degli immigrati chiedono inoltre alle istituzioni scolastiche – e non solo ai CPIA – di avere un’attenzione particolare alla formazione linguistica degli adulti con origini migratorie. Anche le scuole dei figli, aperte al territorio e ai bisogni della comunità plurale, possono offrire opportunità in questo senso. Una particolare attenzione va posta sulla partecipazione scolastica di bambini e ragazzi appartenenti ai gruppi rom e sinti e al coinvolgimento delle loro famiglie. Promuovere l’informazione e facilitare la partecipazione delle famiglie di origine straniera attraverso i messaggi plurilingue e le attività di mediazione linguistico-culturale. Incoraggiare la rappresentanza dei genitori stranieri. Attivare opportunità di apprendimento dell’italiano per i genitori di origine straniera, con particolare attenzione alle madri che non lavorano e hanno minori occasioni di socialità. 10. Promuovere l’educazione interculturale nelle scuole I giovani di oggi hanno bisogno di esperienze relazionali e di strumenti culturali per imparare ad interagire senza timori e con mentalità aperta con una cultura, un’informazione, un’economia sempre più contrassegnate dalla duplice dimensione del globale e del locale. Le classi multiculturali sono un contesto prezioso per abituare tutti, fin dai primi anni di vita, a riconoscersi ed apprezzarsi come uguali e diversi. La presenza degli studenti con background migratorio, se valorizzata da un approccio educativo interculturale, offre opportunità importanti alla modernizzazione e all’arricchimento del profilo culturale della scuola italiana. Sensibilizzare tutti gli insegnanti sul tema della pedagogia e della didattica interculturale. Sperimentare percorsi di educazione alla concittadinanza. Gli alunni di origine non italiana occasione di cambiamento per tutta la scuola. Le classi e le scuole “a colori” sono lo specchio di come sarà l’Italia di domani. Per questo possono diventare (e in parte già lo sono) laboratori di convivenza e di nuova cittadinanza. 75 Capitolo 2 Gli allievi di origine straniera in provincia di Arezzo: dati di presenza e nodi critici di Lorenzo Luatti 1. Scuola multiculturale o scuola internazionale? La domanda da cui prende avvio il documento ministeriale recante le “Linee guida per l’accoglienza e l’integrazione degli alunni stranieri” (Miur, 2014) – a cui fa eco il titolo di questo paragrafo – vorrebbe marcare un passaggio o forse indicare un traguardo che tuttavia resta lontano, incerto e pochissimo supportato. Scuola multiculturale o scuola internazionale? Con le scuole multiculturali ci facciamo i conti da oltre 20 anni e se le previsioni Istat sulla crescita della popolazione verranno confermate – nel 2050 gli stranieri in Italia rappresenteranno il 20% circa della popolazione residente e i figli degli stranieri potrebbero essere la maggioranza –, l’eterogeneità nelle classi assumerà percentuali sempre più alte e diffuse in ogni ordine di scolarità. Allora la “sfida” da assumere è come coniugare elevate percentuali di allievi stranieri o di origine straniera con alte aspettative, qualità degli apprendimenti, successo scolastico per tutti. Ma passare da scuole multiculturali a “scuole internazionali” (o scuole interculturali di “seconda generazione”, Santerini, 2010) non è uno scherzo: significa neutralizzare lo stigma sociale e culturale che pesa ancora sui migranti, agire sulle rappresentazioni più diffuse dello straniero presenti nell’opinione pubblica e tra le famiglie autoctone, che legittimamente chiedono una scuola di qualità per i figli, una scuola che offra migliori opportunità formative rispetto al futuro scolastico e lavorativo. Per fare questo occorre un progetto di scuola e di Paese, occorrono tempi per perseguirlo, occorrono esempi virtuosi che sappiano parlare e convincere attraverso fatti, azioni e numeri: dimostrando concretamente che una scuola con elevate percentuali di figli di migranti è una realtà dove “si vive bene”, dinamica e aperta, ha un ambiente di apprendimento ad alta flessibilità, dove le persone si incontrano, lavorano e studiano volentieri e in modo fruttuoso, dove si costruiscono soluzioni di mutuo gradimento. Una scuola interculturale e di qualità. Come trasformare la diversità culturale in risorsa, al di là dei buonismi e degli allarmismi che ancora sembrano caratterizzare buona parte del dibattito italiano? Come far sì che le diversità culturali e soprattutto sociali “non facciano più paura” e possano progressivamente tramutarsi in convenienze collettive, da cui tutti 76 traggono motivo di vantaggio in termini di migliori opportunità nell’investimento formativo dei figli? All’estero vi sono scuole che hanno fatto della forte eterogeneità nella composizione della popolazione studentesca, e dell’alta presenza di studenti “stranieri” un elemento di forza, ribaltando il teorema che se ci sono alunni stranieri non si impara, perché i docenti perdono tempo a insegnare la nuova lingua a chi non la sa piuttosto che concentrarsi sulla didattica. Vi sono paesi dove i buoni risultati sono stati raggiunti aumentando non solamente la qualità dell’istruzione in generale e adottando misure specifiche di sostegno ma anche attuando approcci decisamente interculturali e antirazzisti: in Canada, dove dagli anni Novanta si è investito su politiche multiculturaliste, i risultati della seconda generazione sono allo stesso livello dei nativi. Ma per ottenere tali risultati – come ci insegna proprio il modello canadese – occorre tenere caparbiamente la “barra a dritta”: una progettualità forte e condivisa a vari livelli (politico, culturale, istituzionale) e intenzionalmente perseguita nel tempo. In questa prospettiva le scuole ad alta presenza di studenti stranieri sono oggi – o potrebbero essere – dei laboratori avanzati, palestra di sperimentazione per l’Italia di domani. Bisognerebbe dotarle di strumenti e risorse adeguate, sostenere i docenti, gli alunni e le famiglie che le abitano per riqualificarle in molti casi, e renderle attrattive. Una pedagogia e didattica dell’inclusione costa, richiede una serie di condizioni economiche e organizzative senza le quali non si può attuare. Siamo lontani da questa prospettiva se, come rivela l’OCSE-PISA, le scuole italiane con una maggiore popolazione di studenti svantaggiati tendono ad avere meno risorse rispetto alle scuole con una popolazione più favorita di studenti (OECD, 2012). Più che internazionali, le scuole italiane con elevate percentuali di studenti stranieri spesso sperimentano la solitudine e l’affanno (ci si arrangia per andare avanti), ma anche forme di resilienza e talvolta evidenziano una non comune capacità di controllo e di risposta alle condizioni sfavorevoli: attivano e sviluppano nuove alleanze e solidarietà di gruppo. Quando non sono frutto di strategie segregative intenzionalmente perseguite, le scuole polarizzate hanno molto da insegnarci. Si tratta di imparare dalla loro esperienza quotidiana, prendendola innanzitutto sul serio proprio nella sua concretezza e ambiguità. 2. Distribuzione per livello d’istruzione, territorio e cittadinanza Il termine che meglio definisce i fenomeni migratori in corso a scuola è probabilmente “stabilizzazione”. Stabilizzazione rispetto al numero degli allievi stranieri presenti nelle aule scolastiche, ormai “fermo” al dato di alcuni anni fa. Stabilizzazione anche rispetto al dato di incidenza percentuale sulla popolazione scolastica complessiva. A livello nazionale, ad esempio, nel precedente anno 77 scolastico si è registrata una crescita, rispetto all’a.s. 2013/14, molto contenuta e pari allo 0,4%, che corrisponde a circa 3 mila unità. Gli alunni stranieri erano 805.800 lo scorso anno scolastico (2014/15) e sono pari al 9,2% dell’intera popolazione scolastica (Miur, 2015). Nello specifico della provincia di Arezzo, sono altresì frutto di un processo di stabilizzazione, da un lato, il “sorpasso” – questa sì che è una novità assoluta – della presenza degli allievi stranieri nati in Italia (le cosiddette G2, seconde generazioni) sui loro compagni con cittadinanza straniera nati all’estero; dall’altro, la costante crescita della presenza “straniera” nel livello di istruzione superiore esprime un processo di scolarizzazione che, seppur tra molte difficoltà e fragilità, va avanti e si consolida. Vediamo dunque alcuni dati. Gli allievi stranieri nelle scuole della provincia di Arezzo nell’a.s. 2014/15 erano 6.781 e rappresentavano il 14,7% dell’intera popolazione studentesca. Rispetto al precedente anno scolastico il dato risulta invariato (gli allievi stranieri erano 6.772): è ormai da un triennio che si assiste ad una stabilizzazione del numero assoluto delle presenze. La primaria si conferma l’ordine di scolarità a maggiore presenza: con 2.324 iscritti, essa raccoglie da sola il 34,3% degli studenti stranieri. Segue la secondaria di II grado, in costante incremento anno dopo anno, con 1.916 studenti, pari al 28,3%. Tabella 1 - Presenza Allievi Stranieri (AS). Serie storica Anno scolastico 1996/1997 1997/1998 1998/1999 1999/2000 2000/2001 2001/2002 2002/2003 2003/2004 2004/2005 2005/2006 2006/2007 2007/2008 2008/2009 2009/2010 2010/2011 2011/2012 2012/2013 2013/2014 2014/2015 Stranieri 438 675 870 1.162 1.450 1.938 2.597 3.039 3.524 4.199 4.765 5.318 5.622 5.715 6.212 6.204 6.664 6.772 6.781 Italiani 41.742 40.953 39.138 42.019 42.273 41.770 41.747 39.626 39.735 39.730 39.295 39.621 39.501 39.773 39.642 39.038 39.158 39.377 39.371 78 Totale alunni 42.180 41.628 40.008 43.181 43.723 43.708 44.344 42.665 43.259 43.929 44.060 44.939 45.123 45.488 45.854 45.242 45.822 46.149 46.152 Rapporto % stranieri su totale 1,0 1,6 2,2 2,7 3,3 4,4 5,9 7,1 8,1 9,6 10,8 11,8 12,5 12,6 13,5 13,7 14,5 14,7 14,7 Grafico 1 - Andamento della presenza degli 16.0 14.0 14.5 14.7 14.7 13.5 13.7 12.0 11.8 12.5 12.6 10.8 10.0 9.6 8.0 8.1 7.1 6.0 5.9 4.0 4.4 2.0 AS 1.0 2.2 2.7 19 96 /1 99 7 19 97 /1 99 8 19 98 /1 99 9 19 99 /2 00 0 20 00 /2 00 1 20 01 /2 00 2 20 02 /2 00 3 20 03 /2 00 4 20 04 /2 00 5 20 05 /2 00 6 20 06 /2 00 7 20 07 /2 00 8 20 08 /2 00 9 20 09 /2 01 0 20 10 /2 01 1 20 11 /2 01 2 20 12 /2 01 3 20 13 /2 01 4 20 14 /2 01 5 0.0 1.6 3.3 Tabella 2 - Distribuzione degli AS nei diversi ordini di istruzione (a.s. 2014/15) Livello di istruzione Scuola Infanzia* Primaria Sec. I grado Alunni stranieri 1.186 2.324 1.355 % di colonna 17,5 34,3 20,0 Alunni totali 6.748 14.662 9.021 % stranieri su tot. 17,6 15,9 15,0 Sec. II grado 1.916 28,3 15.721 12,2 Totale 6.781 100,0 46.152 14,7 * Il dato non include le scuole dell’infanzia parificate La zona di Arezzo, con il capoluogo, raccoglie il maggior numero di famiglie immigrate e di istituti superiori e quindi registra, anche per l’a.s. 2014/15, la percentuale maggiore di presenze: il 36,1%. Tuttavia, in termini relativi, l’incidenza maggiore si conferma nel distretto scolastico del Casentino con la percentuale più alta di studenti stranieri sul totale della popolazione studentesca: il 20,3% difatti non ha cittadinanza italiana. Continuano ad attirare la popolazione immigrata non solo le città di medie dimensioni, ma anche quelle più piccole. L’incidenza percentuale più alta di studenti stranieri della zona Aretina si registra a Castiglion Fibocchi (18,5%); in Casentino a Pratovecchio Stia (24,4%), Bibbiena (25,7%); in Valdarno a Montevarchi (18,8%); in Valdichiana a Foiano della Chiana (20,8%) ed infine in Valtiberina a Sestino (22,0%). 79 Tabella 3 - Distribuzione degli AS per distretto scolastico percentuale di riga (a.s. 2014/15) Distretto Aretina Casentino Valdarno Valdichiana Alunni stranieri 2.449 841 1.796 1.089 Alunni totali 18.134 4.142 12.504 7.010 % 13,5 20,3 14,4 15,5 Valtiberina Totale 606 6.781 4.362 46.152 13,9 14,7 Tabella 4 - Distribuzione e incidenza percentuale (colonna) degli AS per distretto scolastico (a.s. 2014/15) Distretto Aretina Casentino Valdarno Valdichiana Totale 2.449 841 1.796 1.089 Valtiberina Totale % di colonna 36,1 12,4 26,5 16,1 606 8,9 6.781 100,0 Tabella 5 - Distribuzione degli AS per distretto scolastico e livello d’istruzione (a.s. 2014/15) Distretto Aretina Casentino Valdarno Valdichiana Valtiberina Sc. Infanzia V.a. % riga 289 11,8 184 21,9 390 21,7 213 19,6 110 18,2 Primaria V.a. % riga 866 35,4 316 37,6 613 34,1 344 31,6 185 30,5 Sec. I grado V.a. % riga 493 20,1 159 18,9 358 19,9 229 21,0 116 19,1 Sec. II grado Totale V.a. % riga V.a. % riga 801 32,7 2.449 100,0 182 21,6 841 100,0 435 24,2 1.796 100,0 303 27,8 1.089 100,0 195 32,2 606 100,0 Totale 1.186 2.324 1.355 1.916 17,5 34,3 20,0 28,3 6.781 100,0 Tabella 6 - Distribuzione degli allievi stranieri per comune (a.s. 2014/15) Comune Arezzo Capolona Castiglion Fibocchi Civitella Val di Chiana Monte San Savino Subbiano Aretina Totale Bibbiena Castel Focognano Castel San Niccolò Chitignano Chiusi della Verna Alunni stranieri 2.056 99 34 104 80 76 2.449 427 50 33 4 36 80 % di colonna 30,3 1,5 0,5 1,5 1,2 1,1 36,1 6,3 0,7 0,5 0,1 0,5 Alunni totali 15.269 666 184 761 791 463 18.134 1.660 334 193 23 236 Incidenza % 13,5 14,9 18,5 13,7 10,1 16,4 13,5 25,7 15,0 17,1 17,4 15,3 Montemignaio Ortignano Raggiolo Poppi Pratovecchio Stia Talla Casentino Totale Bucine Castelfranco Pian di Scò Cavriglia Laterina Loro Ciuffenna Montevarchi Pergine V.no San Giovanni V.no Terranuova B.ni Valdarno Totale Castiglion F.no Cortona Foiano della Chiana Lucignano Marciano della Chiana Valdichiana Totale Anghiari Badia Tedalda Caprese Michelangelo Monterchi Pieve Santo Stefano Sansepolcro Sestino Valtiberina Totale Totale 2 7 166 111 5 841 52 56 58 55 49 706 36 658 126 1.796 326 448 228 33 54 1.089 33 8 56 17 81 387 24 606 6.781 0,0 0,1 2,4 1,6 0,1 12,4 0,8 0,8 0,9 0,8 0,7 10,4 0,5 9,7 1,9 26,5 4,8 6,6 3,4 0,5 0,8 16,1 0,5 0,1 0,8 0,3 1,2 5,7 0,4 8,9 100,0 27 113 1.040 455 61 4.142 532 814 834 369 559 3.759 350 4.204 1.083 12.504 2.052 3.109 1.094 337 418 7.010 474 93 383 191 527 2.585 109 4.362 46.152 7,4 6,2 16,0 24,4 8,2 20,3 9,8 6,9 7,0 14,9 8,8 18,8 10,3 15,7 11,6 14,4 15,9 14,4 20,8 9,8 12,9 15,5 7,0 8,6 14,6 8,9 15,4 15,0 22,0 13,9 14,7 C’è il mondo nelle scuole della provincia di Arezzo: 92 le nazionalità estere presenti sui banchi delle classi. Tabella 7 - Numero nazionalità presenti nelle scuole della provincia di Arezzo (a.s. 2014/15) UE 18 Europa Paesi non UE 15 Africa America Asia Oceania Totale 20 16 22 1 92 Analizzando le provenienze per macro-aree notiamo che gli studenti stranieri maggiormente rappresentati sono originari (o hanno famiglie provenienti) principalmente dai Paesi dell’Unione Europea (sono il 32,9% del totale), seguono 81 i Paesi Europei non appartenenti all’Unione Europea (con il 28,2%). Dal confronto dei dati nel tempo si evidenzia l’attenuarsi della crescita degli alunni provenienti dai paesi dell’Est Europeo, mentre continua il trend di incremento per gli alunni provenienti dall’Asia con il 21,9% (due anni fa incidevano per il 16,9%). Tabella 8 - Principali nazionalità presenti a scuola (a.s. 2014/15) Alunni stranieri 2014/2015 Incidenza % Nazionalità Alunni stranieri 2013/14 Variazione incidenza % rispetto al 2013/14 Romania Albania 1.927 1.324 28,4 19,5 1.956 1.317 -1,5 0,5 Marocco India 604 473 8,9 7,0 592 421 2,0 12,4 Bangladesh Cina 326 263 4,8 3,9 362 241 -9,9 9,1 Pakistan Kosovo 254 208 3,7 3,1 257 193 -1,2 7,8 Macedonia Polonia 182 121 2,7 1,8 174 120 4,6 0,8 Rep. Dominicana Filippine 101 94 1,5 1,4 98 90 3,1 4,4 Tunisia Senegal 72 68 1,1 1,0 71 68 1,4 0,0 Altre nazionalità 764 11,3 762 0,3 Totale 6.781 100,0 6.722 0,9 Le prime tre nazionalità maggiormente rappresentate tra i banchi delle nostre scuole sono la rumena (28,4%), l’albanese (19,5%) e la marocchina (con l’8,9%). Benché Romania, Albania e Marocco rappresentino da sole, quasi il 60% della popolazione studentesca complessiva, l’analisi pluriennale evidenzia per loro un trend di decrescita. Le altre nazionalità numericamente “forti” sono tutte asiatiche: India (7,0%), Bangladesh (4,8%), Pakistan (3,7%) e Cina (3,9%). 3. Il peso del fattore immigrazione nelle scelte scolastiche. Il ritardo e gli esiti scolastici La frequenza della scuola degli alunni stranieri, nonostante il cammino percorso e i molti passi in avanti compiuti, si connota per una situazione di particolare svantaggio dovuta alla concentrazione di un insieme di fattori di criticità: risultati scolastici negativi, ritardo scolastico, forte canalizzazione negli indirizzi di scuola 82 superiore orientati a garantire sbocchi professionali immediati (istituti tecnici e professionali), fenomeni di abbandono e assenteismo scolastico... Queste criticità sono tra loro strettamente collegate e disegnano, come è stato osservato (Favaro, Camarlinghi e D’Angella, 2010; Favaro, 2011), una sorta di “circolo vizioso”: inserimento penalizzante in ingresso (uno/due anni indietro rispetto all’età anagrafica) che colpisce soprattutto i neo-arrivati; maggiore probabilità di riportare esito negativo soprattutto alla fine del primo anno di ogni ciclo di scolarità; mancanza di adeguate figure di riferimento in grado di aiutare lo studente nello studio/compiti a casa; difficoltà della famiglia ad accompagnare i figli nel momento delle scelte scolastiche (spesso orientate “al ribasso”). Una ricerca curata alcuni anni fa da Paolo Canino (2010) per la Cariplo dal titolo assai emblematico “Stranieri si nasce… e si rimane?”, utilizzando dati delle rilevazioni trimestrali Istat sul lavoro 2005-2008 e dati Invalsi (relativamente a sole tre Regioni), aveva messo in evidenza che oltre alle variabili comuni agli italiani (occupazione del padre, livello di istruzione dei genitori, condizione lavorativa o casalinga della madre) resta un residuo di “disuguaglianza” riconducibile proprio all’essere stranieri, al background migratorio: “a parità delle altre condizioni, si riscontra una discriminazione specifica nei confronti dei cittadini stranieri che sono quindi portati a ‘rivedere al ribasso’ i propri percorsi formativi (maggiore probabilità di abbandonare, minore probabilità di avviare un percorso che possa proseguire fino all’università). Questa situazione, oltre a rappresentare un fattore di iniquità sociale, configura un utilizzo inefficiente delle risorse costituite dalle abilità degli studenti stranieri” (Canino, 2010, p. 10). Si delinea dunque una situazione scolastica che presenta tratti di iniquità sociale e che rischia lo spreco di risorse e di talenti, i quali spesso non sono sostenuti e valorizzati in maniera efficace. A tali conclusioni, ma con ulteriori spunti di riflessione, è giunta una recente ricerca da noi condotta, realizzata attraverso questionario e successiva intervista, nelle scuole secondarie della provincia di Arezzo finalizzata a far emergere le dinamiche, le motivazioni e gli attori che sottostanno alle scelte sul futuro scolastico degli studenti frequentanti le classi terza media, e poi retrospettivamente, la prima superiore (Luatti, 2012). Vediamo qual è la situazione nelle scuole della provincia di Arezzo. La distribuzione scolastica degli studenti stranieri e italiani nelle scuole superiori conferma la netta “preferenza” da parte degli studenti stranieri degli istituti tecnici e professionali. Ciò nonostante, probabilmente per effetto della progressiva presenza nell’ordine superiore degli studenti di seconda generazione (ossia nati in Italia), si assiste ad una graduale redistribuzione nelle varie tipologia di scuole superiori. Vistosa è la concentrazione di studenti di origine immigrata negli istituti professionali (39,1%, rispetto al 39,3% dell’a.s. precedente), mentre le 83 iscrizioni nei licei in particolare in quello scientifico sono significativamente aumentate al 9,4% (rispetto al 7,7% dello scorso anno scolastico). Diametralmente opposta si presenta la situazione per gli studenti autoctoni, i quali studiano per il 18,8% allo scientifico e solo il 15,9% è presente nell’istruzione professionale. Più equilibrate risultano le ripartizioni nell’istruzione tecnica (il 29% è l’incidenza per italiani e stranieri) e artistica (il 9%). Tabella 9 - Distribuzione AS per tipologia di istruzione superiore (a.s. 2014/15) Tipo Liceale-artistico Liceale-classico Liceale-linguistico Liceale-musicale coreutico Liceale-scientifico Liceale-Scienze umane Professionale Tecnica Totale Italiani Stranieri Totale 1.249 175 1.424 734 15 749 1.072 92 1.164 243 12 255 181 .2954 2.773 1.446 134 1.580 2.195 749 2.944 558 4.651 4.093 13.805 1.916 15.721 % italiani % stranieri % totale 9,0 9,1 9,1 5,3 0,8 4,8 7,8 4,8 7,4 1,8 0,6 1,6 20,1 9,4 18,8 10,5 7,0 10,1 15,9 39,1 18,7 29,6 29,1 29,6 100,0 100,0 100,0 Tutti abbiamo a mente il dato fortemente penalizzante degli esiti scolastici degli alunni con cittadinanza non italiana che il Miur e la Fondazione Ismu rammentano ogni anno, e che nel tempo non ha purtroppo conosciuto significativi ridimensionamenti. È evidente, per chi vuole vedere, che quel dato è specchio e riflesso delle criticità e delle contraddizioni del “modello” di inclusione adottato in questo paese, e, se posso aggiungere, dell’insuccesso o della scarsa penetrazione di buona parte delle azioni e attenzioni diffuse e sperimentate in tanti anni di lavoro sull’inclusione scolastica. Su quel dato pesano ovviamente anche le modalità e i criteri seguiti per la valutazione (certificativa) degli alunni stranieri. A pesare sono innanzitutto le contraddizioni e le approssimazioni della normativa primaria e delle indicazioni ministeriali in argomento. Norme che paiono incapaci di affrontare una realtà composita che esce dagli schemi e che peraltro non è sostenuta da adeguate risorse in termini professionali e organizzativi. A loro volta, l’assenza di soluzione certe e chiare della normativa, favoriscono e amplificano, soprattutto nella scuola secondaria, pratiche discrezionali, generando quel fenomeno peraltro assai noto della “localizzazione dei diritti”. Così, da una parte, i docenti sono invitati a tener conto della dimensione formativa della valutazione, a far prevalere considerazioni di carattere pedagogico (tra cui la necessità di dare tempo), mentre dall’altra le norme spingono in una direzione contraria se non opposta, finendo per penalizzare invece di aiutare gli allievi nei loro percorsi di apprendimento. Ma il tema della 84 valutazione degli studenti stranieri si pone in stretta connessione con una valutazione di ciò che la scuola mette in atto per accompagnarli in un percorso di apprendimento, in termini di dispositivi adeguati di supporto, sostegno e accompagnamento. Nello stesso tempo, emerge l’altro tema di forte criticità, quello della competenza genitoriale (tema affrontato nel successivo contributo) e della fragilità dei nuclei familiari stranieri (e non solo), soprattutto in ordine alla possibilità di sostenere e accompagnare i figli nelle incombenze scolastiche. Qui però dovremmo inserire una ulteriore riflessione – meritevole forse di un futuro approfondimento – che fa riferimento alla tendenza della scuola e dei docenti di spostare sempre più sulla famiglia responsabilità e compiti di insegnamento propri della scuola (si pensi, in primis, a tutto il tema dei compiti a casa che mi pare stia conoscendo un inedito sviluppo), e che è espressione delle difficoltà oggi accresciute del “fare scuola” e dell’insegnamento. Ma così facendo non si amplificano le differenze e le diseguaglianze? Nella nostra provincia, nell’a.s. 2013/2014, quasi quattro alunni stranieri su dieci frequentavano una classe inferiore, di uno o più anni, rispetto a quella corrispondente all’età anagrafica. Si trovano, cioè in una situazione di ritardo scolastico. Tra gli alunni italiani tale proporzione è di uno su dieci. Gli alunni stranieri in ritardo scolastico di un anno sono il 23,2%, mentre quelli con due o più anni di ritardo raggiungono il 14%. Se guardiamo ai dati degli anni passati, possiamo osservare una costante e graduale riduzione del tasso di ritardo annuale, mentre sembra mantenersi stabile il ritardo pluriennale. Sicuramente la maggiore presenza delle G2 è un fattore di riduzione del ritardo scolastico, ma i dati sembrerebbero disegnare un quadro non univoco. Il divario crescente negli anni tra età anagrafica degli studenti con cittadinanza non italiana e classe di inserimento è netto fin dalla primaria (14,2%) e si rafforza ai livelli di scuola successivi (scuola media: 40,8%) fino a coinvolgere quasi i 2/3 degli studenti iscritti alla secondaria di II grado (63,3%): si conferma il tendenziale minor ritardo scolastico delle ragazze straniere rispetto ai ragazzi. Si trovano in una situazione di ritardo il 32,4% delle studentesse contro il 41,5% degli studenti maschi. Per quest’ultimi sono i ritardi pluriennali ad incidere maggiormente rispetto alla componente femminile, mentre per i ritardi di un anno non si evidenziano differenze significative legate al genere (22,5% le ragazze, 23,8% i ragazzi). 85 Tabella 10 - Percorso scolastico degli AS e italiani. Valori percentuali (a.s. 2013/14) Risultato In anticipo In pari 1 anno 2 anni 3 anni 4 anni e + Totale ritardi Totale Italiani 3,9 85,5 7,4 2,1 0,6 0,4 10,5 100,0 Stranieri 2,4 60,1 23,2 8,9 3,0 2,1 37,2 100,0 Totale 1.452 32.232 3.802 1.238 355 236 5.631 3.9357 Il Casentino è la zona dove si registra la minor incidenza di ritardo scolastico degli allievi stranieri (30,0%), mentre a detenere il primato delle situazioni di ritardo, in ragione della maggiore concentrazione di istituti di istruzione superiore è la zona Aretina (41,0%), a cui fa seguito la Valtiberina con il 40,4%. Anche in questi casi, i valori zonali sul ritardo evidenziano una diffusa flessione rispetto agli anni precedenti (eccetto il dato relativo alla Valtiberina che è identico a quello registrato lo scorso anno). I ritardi scolastici negli istituti professionali e tecnici sono molto consistenti. Del resto, è qui, come abbiamo visto, che si concentra la grande maggioranza degli allievi stranieri (quasi l’80%) che proseguono gli studi superiori. Nei professionali sono in pari 3 studenti stranieri su 10, nei tecnici 5 su 10. Tra le nazionalità numericamente più “forti”, sono i rumeni a registrare una grave e diffusa situazione di ritardo scolastico: soltanto il 57% è in pari (e in anticipo) con il curricolo scolastico. Seguono gli allievi pakistani con il 56% e i dominicani con il 52% di situazione di regolarità. Tra le nazionalità più “virtuose” rispetto alla situazione di regolarità del curricolo, troviamo gli albanesi e i marocchini (73%) e i bengalesi (66%). Tabella 11 - Percorso scolastico degli AS per livello d’istruzione. Valori percentuali (a.s. 2013/14) Ritardo Primaria Sec. I grado Sec. II grado Totale In anticipo 3,5 2,6 0,8 2,4 In pari 82,3 56,4 35,2 60,1 1 anno 12,7 27,9 32,7 23,2 2 anni 1,4 9,6 17,8 8,9 3 anni 2,4 7,2 3,0 4 anni e + 1,0 5,6 2,1 Totale ritardi 14,2 40,8 63,3 37,2 Totale 100,0 100,0 100,0 100,0 86 Tabella 12 - Percorso scolastico degli AS per genere. Valori percentuali (a.s. 2013/14) Ritardo In anticipo In pari 1 anno 2 anni 3 anni 4 anni e + Totale ritardi Totale F 2,6 64,8 22,5 6,9 1,8 1,2 32,4 100,0 M 2,2 56,0 23,8 10,7 4,1 2,9 41,5 100,0 Totale 2,4 60,1 23,2 8,9 3,0 2,1 37,2 100,0 Tabella 13 - Percorso scolastico degli AS per distretto scolastico. Valori percentuali (a.s. 2013/14) Ritardo In anticipo In pari 1 anno 2 anni 3 anni 4 anni e + Totale ritardi Totale Aretina 2,8 55,7 24,8 9,5 3,8 3,0 41,0 100,0 Casentino 2,1 68,0 20,9 6,7 1,8 0,6 30,0 100,0 Valdarno 1,9 63,6 22,8 7,1 2,4 2,1 34,3 100,0 Valdichiana 2,1 61,8 23,9 8,9 2,3 1,1 36,1 100,0 Valtiberina 2,9 56,1 19,6 14,5 3,7 2,6 40,4 100,0 Totale 2,4 60,1 23,2 8,9 3,0 2,1 37,2 100,0 Prendiamo adesso in considerazione i dati sugli esiti scolastici. Permane un significativo divario tra il dato dei respinti stranieri e quello dei respinti italiani: i dati relativi all’a.s. 2013/14 confermano una situazione di svantaggio per i ragazzi e le ragazze straniere. Il primo è quasi tre volte il secondo: il dato di media segna un 10,7% di respinti per gli stranieri e un 3,9% per gli italiani. Nell’a.s. 2013/14, rispetto al precedente, la percentuale di respinti stranieri è cresciuta di 1,3 punti percentuali, mentre i promossi costituiscono l’87,2%. Le percentuali più alte di successo scolastico si registrano, ovviamente, nella scuola primaria, mentre, salendo di grado, queste tendono progressivamente a scendere. Si passa dall’1,5% degli alunni stranieri fermati nelle primarie, all’8,2% nelle medie, fino al 23,7% nelle secondarie di secondo grado. Per quanto riguarda il genere si conferma il miglior andamento scolastico delle ragazze straniere rispetto ai ragazzi: lo scarto è pari a 6 punti percentuali (i respinti maschi sono il 13,6% mentre le femmine il 7,5%). I passaggi tra un ciclo scolastico e l’altro evidenziano per tutti gli alunni (anche per gli italiani) percentuali elevate di respinti che risultano essere particolarmente pesanti per gli allievi stranieri. Nella prima classe delle secondarie di I grado viene bocciato circa l’8,8% degli alunni “nati qui” (G2), circa l’11,0% degli allievi stranieri alloctoni (cioè non nati in Italia) e l’1,4% degli italiani. Il divario cresce ulteriormente nella 87 prima classe delle superiori dove il 36,3% degli alloctoni stranieri e il 24,5% delle G2 è respinto, mentre per gli italiani la percentuale è del 12,5% circa. Rispetto agli anni precedenti si registra un netto innalzamento degli insuccessi scolastici nelle scuole superiori. È evidente che questi fattori di dispersione scolastica predicono un alto tasso di abbandono scolastico, basta mettere in relazione il numero degli studenti iscritti al primo e all’ultimo anno delle superiori per comprendere la gravità del fenomeno: 381 ragazzi e ragazze italiane sono iscritte alla prima superiori ma solo 75 nella classe quinta; 165 studenti stranieri ricongiunti (o arrivati al seguito di uno o entrambi i genitori) frequentano la prima classe mentre solo 22 la classe V; 26 studenti stranieri nati in Italia (G2) nella prima e soltanto uno nella classe quinta. Le percentuali più elevate di respinti si registrano nell’Aretino (15,0%) e in Valtiberina (11,2%). Nei professionali è promosso soltanto il 65,1% degli studenti stranieri, un dato che segnala un peggioramento di circa 2 punti percentuali rispetto all’anno precedente. A ciò va sommato il numero di ritirati (4,5%). Per quanto riguarda la situazione negli istituti tecnici emerge che il 76,9% è promosso e il 20,6% è respinto, mentre i ritirati sono il 2,5%. Sono soprattutto gli studenti provenienti dalla Repubblica Dominicana a presentare i dati di insuccesso più negativi: sono promossi solo per il 76,5%, seguono – sempre tra le nazionalità numericamente più significative – gli studenti bengalesi (78,6%) e pakistani (79,0%). Per quanto riguarda la riuscita scolastica delle G2 osserviamo la sostanziale uguaglianza nei tassi di promozione tra questi alunni (94,5%) e gli studenti italiani (95,7%). Si ricordi che questi sono valori di media, relativa all’intera ciclo scolastico primario e secondario. Ben diversi sono i dati sugli esiti relativi alle scuole superiori. Resta ancora alto il divario tra gli esiti delle G2 e quello degli alunni stranieri nati all’estero: la forbice si attesta a 13 punti percentuali a vantaggio delle prime (il 94,5% delle G2 contro l’81,9% degli allievi stranieri nati all’estero). Tabella 14 - Esiti scolastici studenti italiani e stranieri. Serie storica, valori percentuali Anno scol. 2006/07 2007/08 2008/09 2009/10 2010/11 2011/12 2012/13 2013/14 Italiani 95,4 94,0 94,2 94,3 94,8 95,1 95,6 94,7 Totale Stranieri 89,3 87,8 86,5 85,8 86,3 87,3 86,9 82,6 Primaria Italiani Stranieri n.d. 97,4 n.d. 96,8 n.d. 96,0 n.d. 94,6 99,7 96,1 98,6 95,7 99,3 96,6 98,8 91,1 88 Sec. I° grado Italiani Stranieri n.d. 90,9 n.d. 91,9 n.d. 87,5 n.d. 88,3 97,9 88,2 96,5 88,9 96,6 88,1 97,4 84,2 Sec. II° grado Italiani Stranieri n.d. 74,4 n.d. 70,2 n.d. 71,7 n.d. 70,9 88,5 70,1 88,1 74,6 88,3 74,0 89,4 70,6 Tabella 15 - Esiti scolastici alunni/e italiani e stranieri. Valori assoluti e percentuali (a.s. 2013/14) Esito Promosso Respinto Ritirato Totale Italiani 31.989 1.264 196 33.449 Stranieri 4.596 563 113 5.272 Totale 36.585 1.827 309 38.721 Esito Promosso Respinto Ritirato Totale Italiani 95,6 3,8 0,6 100,0 Stranieri 87,2 10,7 2,1 100,0 Totale 94,5 4,7 0,8 100,0 Tabella 16 - Esiti scolastici alunni/e stranieri per livello istruzione. Valori assoluti e percentuali Esito Promosso Respinto Ritirato Totale Primaria 97,4 1,5 1,0 100,0 Sec. I grado 89,8 8,2 2,0 100,0 Sec. II grado 72,8 23,7 3,6 100,0 Totale 87,2 10,7 2,1 100,0 Tabella 17 - Esiti scolastici AS per genere. Valori percentuali (a.s. 2013/14) Esito Promosso Respinto Ritirato Totale F 90,5 7,5 2,0 100,0 M 84,2 13,6 2,2 100,0 Totale 87,2 10,7 2,1 100,0 Tabella 18 - Esiti scolastici AS per tipologia istruzione superiore. Valori assoluti e percentuali Tipo Artistica Classica Lic. Artistica Lic. Classica Lic. Linguistica Lic. Musicale Lic. Scientifica Lic. Scienze Umane Magistrale Professionale Scientifica Tecnica Totale Promosso 15 2 110 8 67 8 102 75 14 446 15 430 1.292 % riga 88,2 100,0 73,3 88,9 76,1 80,0 82,3 74,3 87,5 65,1 100,0 76,9 72,8 Respinto 2 40 17 1 16 20 1 208 115 420 89 % riga 11,8 26,7 19,3 10,0 12,9 19,8 6,5 30,4 20,6 23,7 Ritirato 1 4 1 6 6 1 31 14 64 % riga 11,1 4,6 10,0 4,8 5,9 6,3 4,5 2,5 3,6 Totale 17 2 150 9 88 10 124 101 16 685 15 559 1.776 4. La seconda generazione a scuola Gli alunni “stranieri” nati in Italia (spesso ad Arezzo), le cosiddette G2-seconde generazioni sono in costante crescita, anno dopo anno, in ogni livello di istruzione, dalla scuola dell’infanzia alle superiori. Nell’a.s. 2014/15 le G2, per la prima volta, hanno superato numericamente (e in percentuale di incidenza) la componente degli allievi stranieri nati all’estero. Esse rappresentano il 53,8% del totale alunni stranieri (in termini assoluti sono 3.647 su 6.781). Rispetto all’intera popolazione studentesca (italiani e stranieri), le G2 rappresentano il 7,9% mentre gli alloctoni stranieri (cioè gli stranieri nati all’estero) sono il 6,8%. Le G2 tuttavia rappresentano l’87% circa dei bambini e bambine straniere presenti nelle scuole dell’infanzia della provincia (il dato è tuttavia incompleto, mancando quello relativo alle presenze nelle scuole paritarie); il 72,0% del totale degli alunni stranieri frequentanti la scuola primaria, il 43,8% della scuola media e ancora solo il 18,3% delle scuole superiori (lo scorso anno scolastico “pesavano” per il 13%). Tabella 19 - Autoctoni/Alloctoni (a.s. 2014/15) Autoctono Alunni dato assoluto 38.821 Autoctono Alunni dato relativo Autoctoni/alloctoni Alloctono2° Italiano Generazioni 550 3.647 Autoctoni/alloctoni Alloctono2° Italiano Generazioni 84,1% 1,2% Cittadinanza italiana 85,3% AlloctonoStraniero Totale complessivo 3.134 46.152 AlloctonoStraniero Totale complessivo 7,9% 6,8% Cittadinanza straniera 14,7% 100,0% Totale 100,0% Tabella 20 - Autoctoni/Alloctoni nei livelli d’istruzione. Valori assoluti e percentuali (a.s. 2014/15) Ordine Infanzia Primaria Sec. di I° grado Sec. di II° grado Totale Autoctono 5.528 12.201 7.538 13.554 38.821 Alloctono italiano 34 137 128 251 550 2° Generazioni 1.027 1.676 594 350 3.647 Alloctono straniero 159 648 761 1.566 3.134 Totale 6.748 14.662 9.021 15.721 46.152 Ordine Infanzia Primaria Sec. I° grado Sec. II° grado Totale Autoctono 14,2 31,4 19,4 34,9 100,0 Alloctono italiano 6,2 24,9 23,3 45,6 100,0 2° Generazioni 28,2 46,0 16,3 9,6 100,0 Alloctono straniero 5,1 20,7 24,3 50,0 100,0 Totale 14,6 31,8 19,6 34,1 100,0 90 Bibliografia Allemann-Ghionda C. (2008), International Education in Schools, Studio richiesto dalla Commissione per la cultura e l’istruzione del Parlamento europeo. Azzolini D., Barone C. (2012), Tra vecchie e nuove disuguaglianze: la partecipazione scolastica degli studenti immigrati nelle scuole secondarie superiori in Italia, in “Rassegna italiana di sociologia”, n. 4/ 2010 (ottobre-dicembre), pp. 687-718. Canino P. (2010), Stranieri si nasce... e si rimane? Differenziali nelle scelte scolastiche tra giovani italiani e stranieri, Quaderni dell’Osservatorio n. 3, Fondazione Cariplo, Milano (www.fondazionecariplo.it/osservatorio). Colombo M., Santagati M. (2014), Nelle scuole plurali. Misure di integrazione degli alunni stranieri, FrancoAngeli, Milano. 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L’indagine provinciale: metodologia, strumenti, attori A distanza di oltre un decennio dalla prima indagine provinciale sulle trasformazioni multiculturali prodottesi nelle scuole per effetto delle migrazioni internazionali (vedi Luatti, 2003, pp. 239-252), la Sezione Immigrazione dell’Osservatorio Sociale Provinciale di Arezzo ha interpellato gli istituti scolastici di ogni ordine e grado per fare il punto sullo “stato di salute” della scuola multiculturale aretina, sui punti di forza e di criticità dei percorsi d’inclusione, sulle attenzioni da promuovere e da rinnovare per una buona integrazione. Negli ultimi dieci anni si sono prodotte significative modificazioni nel fenomeno migratorio e nelle caratteristiche dell’immigrazione in Italia, da una parte, e nel sistema scolastico, dall’altra, ma anche nelle consapevolezze e nelle acquisizioni, più o meno diffuse, nella scuola rispetto ai temi dell’inclusione. Il panorama migratorio negli istituti scolastici della provincia di Arezzo è profondamente mutato rispetto agli inizi del Duemila, come emerge dalla lettura dei Rapporti annuali elaborati da questa Sezione. Nel corso di un quindicennio (e forse più) si è passati dalla scuola dell’accoglienza alla scuola dell’integrazione, ed oggi alla scuola dell’inclusione: espressioni queste che possono apparire come delle vere e proprie etichette “vuote”, usate come slogans bonne à tout faire, eppure consentono, in una dimensione ricostruttivatemporale, di individuare grosso modo differenti fasi del cammino percorso dalla scuola rispetto all’ampio tema dell’inserimento degli allievi stranieri. Con l’espressione “scuola inclusiva” si vuole sottolineare una nuova fase in cui, senza rinunciare alle acquisizioni e alle consapevolezze (pratiche, strumenti e dispositivi…) maturate negli anni, si riconosce e si fa spazio, anche a scuola, al contributo attivo dei migranti (allievi e famiglie), intesi non più (e non soltanto) come beneficiari passivi di interventi, ma come attori protagonisti con proprie competenze e saperi che chiedono di essere riconosciute e valorizzate. Una prospettiva, dunque, improntata a creare cittadinanza. Nelle “Indicazioni nazionali per il curricolo” del 2012, la scuola “che include” viene rappresentata come lo spazio educativo per tutti e di tutti, nella quale si fa propria “la sfida universale di apertura verso il mondo, di pratica dell’uguaglianza nel 93 riconoscimento delle differenze”. Un concetto largo di inclusione che si struttura su piani diversi: richiede infatti una cultura dell’inclusione e una visione della società coesa; si richiama a politiche e a principi; si basa su pratiche e azioni; sollecita e promuove atteggiamenti, rappresentazioni e scelte inclusive. Nelle Indicazioni si legge infatti: “La scuola italiana sviluppa la propria azione educativa in coerenza con i principi dell’inclusione delle persone e dell’integrazione delle culture, considerando l’accoglienza della diversità un valore irrinunciabile. La scuola consolida le pratiche inclusive nei confronti di bambini e ragazzi di cittadinanza non italiana, promuovendone la piena integrazione”. Come scrive Graziella Favaro, “una scuola inclusiva è dunque uno spazio educativo che riconosce e tiene insieme storie e lingue differenti, appartenenze e riferimenti plurali, bisogni, tappe e cammini di apprendimento comuni e specifici”. La nuova indagine provinciale, di cui presentiamo una sintesi dei risultati, è stata realizzata nell’a.s. 2013/14 attraverso una metodologia quanti-qualitativa. In una prima fase, con la consulente scientifica della Sezione Immigrazione (dott.ssa Graziella Favaro) è stato messo a punto l’impianto generale della ricerca e il questionario semi-strutturato che ha costituito il principale, ma non unico, strumento d’indagine. Il questionario, articolato in 13 domande a risposta chiusa e aperta, è stato inviato a tutti gli Istituti Comprensivi e agli Istituti di Istruzione Superiore della provincia di Arezzo. Le domande del questionario cercavano di esplorare una pluralità diversificata di aspetti e situazioni relativi, tra l’altro, all’organizzazione scolastica e alla didattica interculturale e della L2, al rapporto con le famiglie straniere e al sistema di relazioni e collaborazione con il territorio, in modo da far emergere consapevolezze e attenzioni maturate e sviluppate nelle scuole in termini di dispositivi, strumenti, azioni e progettualità (per la batteria di domande, vedi Tabella 1). Ogni punto di domanda, in realtà, proponeva un preciso “descrittore” di inclusione; la scuola, nel rispondere ad esso, ha dovuto “posizionarsi”, cioè ha dovuto esprimere una (auto) valutazione rispetto a ciò che fa, a ciò che è stato fatto e a ciò che dovrebbe/potrebbe fare per migliorare le proprie performance in termini di inclusività (dispositivi, atteggiamenti, relazioni). Ogni domanda, difatti, chiedeva di rispondere con una modalità “chiusa”, posizionandosi in uno dei tre livelli previsti: si poteva rispondere “sì”, “in parte” oppure “no”. Non avendo definito a priori, attraverso criteri e parametri chiari e precisi, il significato di ciascuna di queste tre opzioni, ogni docente o gruppo di docenti nel rispondere ha svolto una operazione interpretativa a carattere valutativo e fortemente soggettiva. Questo aspetto è stato, forse, parzialmente attenuato ogni qual volta la risposta è stata frutto di una condivisione nel gruppo allargato dei docenti compilatori. Successivamente, per ogni descrittore, si chiedeva in forma di domanda aperta di illustrare approfonditamente, motivando 94 e sostanziando – ricorrendo ad alcuni esempi significativi –, il “posizionamento” appena espresso. Tabella 1 - “La mia scuola è inclusiva?”. Le domande del questionario La mia scuola…. 1)… organizza, promuove e accompagna con dispositivi efficaci l’accoglienza degli alunni non italiani di recente arrivo? (sì – in parte – no) Citare / descrivere esempio di buona pratica di accoglienza… 2)… prevede iniziative e moduli per l’apprendimento/ insegnamento dell’italiano L2 per gli alunni neo arrivati o ancora poco italofoni? (sì – in parte – no) Specificare quali… 3)… è consapevole della pluralità delle storie e delle differenze culturali presenti nelle classi? E del carattere strutturale dei cambiamenti in corso? (sì – in parte – no) Come si manifesta questa consapevolezza? Il tema è indicato nel POF? Citare…. 4)… cura i modi e i tempi della comunicazione – anche plurilingue – nei confronti delle famiglie immigrate? (sì – in parte – no) Descrivere e allegare degli esempi… 5)… conosce, riconosce e valorizza la diversità linguistica presente nelle classi? (sì – in parte – no) In quale modo? Descrivere… 6)... è attenta alle relazioni – e a prevenire /riparare le eventuali distanze ed esclusioni – tra i bambini/ragazzi e tra gli adulti, italiani e stranieri? (sì – in parte – no) In quale modo? Fare degli esempi… 7)… è attenta alle relazioni e agli scambi anche nel tempo e negli spazi extrascolastici e promuove l’uso dei luoghi comuni del territorio? (sì – in parte – no) Citare esempi e iniziative… 8)… conosce il contesto in cui agisce, le sue caratteristiche e registra i cambiamenti che avvengono nella comunità? (sì – in parte – no) Quali strumenti e fonti usa per conoscere il contesto… 9)… cerca di facilitare e di accompagnare i passaggi di scuola e di sostenere le scelte scolastiche degli alunni stranieri? (sì – in parte – no) Con quali strumenti?.... 10)… si basa sulla collegialità delle scelte e dei modi di agire educativo, o invece delega ad uno/ad alcuni il tema degli alunni stranieri? (sì – in parte – no) Citare esempi di collegialità… 11)… è in grado di documentare e scambiare metodi, materiali didattici e proposte sperimentati e realizzati all’interno della scuola? (sì – in parte – no) Quale documentazione è presente nella scuola ? È accessibile?... 12)… è riconoscibile come spazio educativo interculturale, di tutti e per tutti, anche a partire dagli oggetti, le immagini, i messaggi, i cartelli plurilingui…? (sì – in parte – no) Descrivere luoghi, spazi, esempi di visibilità interculturale… 13) …. collabora e lavora in rete con altre scuole, comunità, enti, associazioni... per realizzare azioni e progetti per attività comuni e dare risposta ai bisogni di inclusione, nel tempo scolastico ed extrascolastico? (sì – in parte – no) Quali collaborazioni sono attive?.... 95 Va detto subito che la risposta delle scuole all’invito a partecipare all’indagine è stata immediata e molto positiva: oltre il 90% degli istituti interpellati hanno compilato il questionario in ogni sua parte. In particolare hanno risposto 37 Istituti Comprensivi e 14 Istituti di Istruzione Superiore della provincia di Arezzo. Nel complesso, riteniamo che la fotografia – “sulla carta” – delle scuole aretine che emerge dall’ampia messe di dati raccolti con il questionario, offra molti spunti di riflessione e alcune indicazioni di prospettiva. Le risposte e i dati vanno letti anche per quello che non dicono e per le questione aperte che evidenziano o lasciano solo presagire. L’indagine ha permesso di ricavare dati relativi alle eventuali trasformazioni nel tempo, alla visione dell’integrazione/intercultura espresse dalle scuole, alle pratiche pedagogiche e didattiche innovative. Un lettura complessiva delle risposte alle domande “chiuse” (“sì”, “in parte”, “no”, per intenderci), sembra far emergere prima facie una diffusa (auto)percezione positiva da parte delle scuole rispetto al proprio operato nei differenti ambiti esplorati dal questionario. Questa impressione trova un fondato riscontro nella lettura – che faremo in queste pagine – delle motivazioni, delle azioni e dei progetti portati a sostegno del “posizionamento”. Non mancano tuttavia, esempi isolati di scuole che evidenziano grande cautela e modestia nel “misurare” la propria azione, posizionandosi con frequenza su un valore mediano (certamente molto soggettivo e generico, come abbiamo osservato), portando poi a suo sostegno esempi di azioni, attenzioni e dispositivi adottati che, in realtà, descrivono una situazione virtuosa, certamente più avanzata e soddisfacente o comunque non inferiore a quella dichiarata da altre scuole. Se guardiamo alla frequenza delle risposte affermative, che individuano gli ambiti su cui le azioni/attenzioni e le consapevolezze delle scuole sembrano più diffusi, possiamo anche evidenziare chiaramente le aree/ambiti su cui le scuole aretine mostrano qualche difficoltà o risultano più sprovviste di idee e strumenti. Possiamo così notare che tanto negli Istituti Comprensivi che negli Istituti Superiori, i temi della relazioni extrascolastiche e dello spazio educativo connotato in senso interculturale costituiscono (ancora) aree di forte criticità, poco esplorati e/o presidiati. Parimenti, è il rapporto con le famiglie straniere, in particolare, a evidenziare linee di criticità e scarsi risultati, nonché il lavoro (probabilmente solo agli inizi in alcune scuole) di valorizzazione del plurilinguismo e di una didattica plurilinguistica e interculturale; il lavoro di rete tra scuole e con il territorio e, strettamente connesso ad esso, la capacità di leggere le rapide trasformazioni che si producono nel contesto di riferimento. Sono questi gli altri ambiti (che sembrano) ancora poco sviluppati. Da questi primi dati parrebbe dunque emergere una linea di criticità piuttosto marcata che attraversa la scuola nel suo rapporto con e nel territorio: non solo si osservano difficoltà a stringere alleanze e collaborazioni, costruire progettazioni 96 comuni e reti, ma difficoltà anche ad acquisire una conoscenza approfondita, diffusa e costantemente aggiornata rispetto alle trasformazioni intervenute nel contesto/contesti entro cui si opera. Ovviamente questa è una considerazioni generalizzata, che emerge dal dato complessivo, ma che non può e non deve occultare situazioni virtuose che comunque vi sono di scuole che evidenziano una spiccata proiezione internazionale, per le quali il “territorio di riferimento”, di azione e condivisione, è ben più vasto di quello ove sono fisicamente ubicate. 2. Inclusività e attenzione alle “diversità” dall’organizzazione scolastica e degli spazi a partire Come abbiamo osservato, il dato quantitativo che emerge dai questionari delinea un quadro provinciale avanzato rispetto ad una organizzazione scolastica rispondente a principi e valori di inclusione e accoglienza. Gli istituti scolastici complessivamente considerati, nei vari territori/zone in cui si articola la provincia di Arezzo, ritengono difatti di aver strutturato, con competenza e qualità, le varie fasi comuni ad ogni inserimento di un nuovo alunno straniero. Dalle risposte, molto dettagliate e articolate, talvolta anche molto prolisse e tautologiche alla prima domanda aperta del questionario si evince una diffusa interiorizzazione e sedimentazione, almeno a livello di conoscenza di pratiche e dispositivi, di quelle che sono le attenzioni e le azioni da attivare per una gestione competente e non improvvisata degli aspetti riguardanti la presenza di allievi non italofoni nelle classi. Insomma, le scuole interpellate sembrano dirci con determinazione che questa presenza e soprattutto l’arrivo di un nuovo studente straniero non fa più “paura”, la stagione dell’emergenza è alle spalle, essendo ormai le risposte strutturate e ben collaudate e trasparenti. Del resto, nel territorio aretino le scuole sono state sollecitate costantemente nel corso degli ultimi 15 anni, grazie soprattutto all’azione congiunta degli Enti locali e del Centro di Documentazione Città di Arezzo, a dotarsi di efficaci e condivisi dispositivi di base sul versante organizzativo, gestionale e didattico per realizzare una buona accoglienza, anche attraverso un forte investimento formativo (tuttora presente). Nelle risposte alla domanda n. 1 possiamo ritrovare tutto l’ampio e variegato ventaglio di dispositivi e strumenti promossi in questi ultimi due decenni nelle scuole: dall’immancabile Protocollo di accoglienza, alla Commissione/gruppo di docenti sull’intercultura, dalla docente funzione strumentale fino – sebbene soltanto in alcune scuole – alla figura referente del personale ATA. Ciò è particolarmente vero negli Istituti Comprensivi, mentre la gamma di risorse presenti nelle scuole superiori risulta più circoscritta, come emerge visibilmente 97 dalla Tabella 2. In quest’ultimo ordine di scolarità sembrano presidiati gli aspetti organizzativi dell’accoglienza e dell’inserimento e quelli riguardanti il sostegno allo sviluppo delle competenze nella nuova lingua; ma, a differenza di quanto avviene negli Istituti Comprensivi, la realtà delle superiori sembra meno attrezzata di strumenti e azioni rispetto al rapporto con le famiglie straniere (ponendosi, in questo ordine di scolarità, in forme diverse rispetto al primo ciclo e all’infanzia), e di materiali informativi e didattici nelle lingue 1 (lingua madre). Tabella 2 – Organizzazione scolastica: strumenti e dispositivi più diffusi per l’accoglienza Istituto Comprensivi Istituti Superiori Protocollo accoglienza Protocollo accoglienza Commissione Intercultura Docente FS o docente referente del “Progetto Docente FS accoglienza ed inserimento allievi stranieri” Schede informative scolarità pregressa Lettera di benvenuto in varie lingue Libretti illustrativi del sistema scolastico italiano in lingua da consegnare alla famiglia al momento dell’iscrizione (anche in lingua origine) Scheda presentazione organizzazione scuola (anche in lingua di origine) Scaffale “amico” o multiculturale Schede informative scolarità pregressa Incontro con famiglie e attivazione tutor Incontro con alunni e genitori nell’ambito iniziativa “scuola aperta” nel mese di settembre (prima inizio a.s.) Sportello accoglienza e consulenza per famiglie Comunicazioni scuola-famiglia in lingua Cartellonistica plurilingue Incontro con le famiglie (coordinato da docente referente) Attivazione di interventi di peer tutoring Ricorso al mediatore interculturale (eventuale) Presentazione con “cerchio di benvenuto” Test di rilevamento delle competenze (A1-A2B1- B2) per assegnazione alunni alle classi Sillabi grammaticali e programmazioni di Italiano L2 PPT predisposto dal Cdc Adattamento o sospensione della valutazione nella scheda di valutazione Schede di rilevazione della competenza linguistica e competenze trasversali Progettazione Piano Personalizzato Temporaneo (PPT) condiviso e deliberato dal Cdc Laboratori linguistici Materiale didattico facilitato e/o semplificato Formalizzazione interventi ed eventuali adattamenti del curricolo (percorsi ponte, sospensione della valutazione in alcune discipline, ecc.) con scheda informativa predisposta per i genitori 98 Si ricordi che la Domanda 1 poneva l’accento sugli alunni stranieri neo-arrivati, benché oggi questi rappresentino solo una piccola minoranza (intorno al 3%), rispetto all’universo degli alunni stranieri, in maggioranza nati qui o con un percorso di scolarizzazione in Italia già avviato. Le scuole, nel rispondere, hanno tuttavia dimostrato che certi dispositivi, anche se nati in un momento di forti flussi in entrata e rivolti agli allievi neo-arrivati, mantengono una vitalità ed efficacia anche in altre situazioni diverse, eppure simili. Fa eccezione un Istituto Superiore che ha dichiarato di non avere “buone pratiche” di accoglienza in quanto “nel nostro Liceo non vengono alunni di recente arrivo”. La Tabella 2 offre una sintesi dei tanti dispositivi, peraltro assai noti, presenti nelle scuole e dunque non riteniamo di aggiungere molto di più rispetto a quanto elencato; sembra più interessante “coglierli in azione”, ovvero soffermarsi sul processo e sulle attenzioni che le scuole dicono attivarsi al loro interno al fine di promuovere una accoglienza e un inserimento competente degli allievi stranieri. Rispetto a questi strumenti e dispositivi il coinvolgimento dovrebbe essere ampio e diffuso tra tutte le componenti (docenti e non docenti) dell’Istituto, per evitare situazioni di delega e di isolamento, nonché il rischio reale che con il trasferimento ad altra scuola o il pensionamento della funzione strumentale (FS), la scuola si ritrovi all’“anno zero”, cioè debba ricominciare a costruire competenze, saperi e relazioni in argomento. Una domanda del questionario ha cercato di indagare questo aspetto (D10: La scuola si basa sulla collegialità delle scelte e dei modi di agire educativo, o invece delega ad uno/ad alcuni il tema degli alunni stranieri? Citare esempi di collegialità…). Anche in questo caso si registra una difformità tra IC e IS, osservabile anche nella compilazione dei questionari medesimi che è stata “plurale” per i primi e molto “individuale” per i secondi. Tale difformità emerge anche dalle lettura delle risposte, dove momenti e situazioni ove si sperimentano forme di collegialità appaiono più “formali” nelle scuole superiori rispetto al ventaglio proposto dagli IC. L’isolamento che tuttavia traspare, qua e là, nelle risposte dei docenti delle scuole superiori è reso esplicito dalle parole di questa docente secondo cui: “alcuni insegnanti cercano di capire il fenomeno e di affrontare le problematiche che comporta, altri, la maggioranza, delegano il tema al referente per l’intercultura, pertanto, le scelte di tipo educativo delineate nel Protocollo di Accoglienza e nel progetto Intercultura non sempre vengono accolte/applicate in tutti i consigli di classe”. Un maggiore allenamento alla collegialità e una pluralità di luoghi e momenti ove essa si vivifica, sembrano emergere dalle risposte offerte dagli IC. Anche qui si registrano risposte più circoscritte ad una collegialità consueta “formaleistituzionale”, e risposte più ricche di esemplificazioni e significati. E così la 99 collegialità delle decisioni e delle scelte sui temi dell’integrazione si esprime attraverso il team docente o il collegio dei docenti, il collegio degli educatori, le riunioni della commissione intercultura presiedute dal dirigente scolastico, ma anche nei consigli di interclasse e classe, nelle riunioni di staff e, nelle poche scuole dove è attiva, nell’operato della Consulta degli Stranieri (tre genitori stranieri). Vi sono poi quei momenti in cui devono essere prese decisioni o approvati documenti importanti (progetti per la L2, l’adozione di un piano di studio personalizzato, protocollo di accoglienza…), ma esiste anche una collegialità e una condivisione delle scelte che si espande allorché la referente FS richiede uno o più incontri allo scopo di seguire e monitorare il percorso degli alunni neo-arrivati. Accanto al tema dell’organizzazione scolastica possiamo collocare quello relativo agli spazi scolastici accoglienti che si vorrebbero sempre più connotati in senso interculturale e plurilinguistico. Il senso e le ragioni dovrebbero risultare noti: dando visibilità ai contesti di origine e familiari, si autorizzano i bambini e i ragazzi a non vergognarsi delle appartenenze, li si aiuta a integrare le diverse dimensioni in cui vivono. In questo scenario si collocano anche le “memorie” (disegni, foto, oggetti portati dai paesi di origine…) delle esperienze che man mano si vanno facendo nella scuola quali uscite nel quartiere, partecipazione a eventi culturali, celebrazioni e festività. Abbiamo già osservato che questo aspetto ha ottenuto il numero più basso di risposte affermative, quasi fosse un tema poco esplorato o trattato con sufficienza, rilegato ad una dimensione simbolica poco considerata. Peraltro, bisogna notare, che molte scuole pur rispondendo affermativamente (o “in parte”) alla prima domanda “chiusa” (D12: La scuola è riconoscibile come spazio educativo interculturale, di tutti e per tutti, anche a partire dagli oggetti, le immagini, i messaggi, i cartelli plurilingui…? Descrivere luoghi, spazi, esempi di visibilità interculturale…) non sanno poi dare spiegazioni o portare esempi, e ciò vale soprattutto per le superiori. Tra le risorse più diffuse vi è l’esposizione di cartelli/avvisi plurilingui che alcuni segnalano presenti “in ogni plesso scolastico dell’istituto”, per indicare i diversi ambienti e le loro funzioni, dai bagni, alla segreteria, alla presidenza, alle varie aule TV, LIM, o computer fino alla mensa e alle uscite d’emergenza. Altri invece scrivono al passato, come se l’uso di scritte plurilingui rispondesse a un determinato momento storico: “fino a qualche anno fa erano presenti cartelli, cartelloni, segnali plurilingui oltre a una precisa sistemazione della sede del laboratorio linguistico con planisfero e con l’indicazione dei luoghi d’origine degli alunni, alfabeti diversi da quello italiano”. Non è così per altri, che invece scrivono: “la cartellonistica è ancora in fase di completamento; alcune scritte già ci sono, altre vanno integrate”. Ma dobbiamo registrare anche una situazione paradossale, simile a quella che porta alcune scuole a non festeggiare il Natale per 100 paura che allievi e genitori di altre religioni possano fraintendere l’iniziativa e viverla come una discriminazione. Scrive questa docente di un IC: “in passato la scuola utilizzava cartelli plurilingui, con l’esperienza si è visto che gli stessi potevano determinare delle discriminazioni. Per questo motivo è stata interrotta questa pratica e per questo anno scolastico si è pensato di utilizzare cartelli in lingua inglese (veicolo linguistico funzionale per tutti)”. Evidentemente è stato frainteso il senso e le finalità della cartellonistica pluringue che non è (non è soltanto) di mera traduzione linguistica di messaggi, ma è quello di dare spazio e visibilità alle altre lingue e a spezzoni identitari. Nelle scuole superiori non vi è un uso, tranne in alcuni limitati casi, di cartellonistica plurilingue, come scrive questa docente referente: “solo occasionalmente vengono realizzati cartelloni ad uso didattico che hanno caratteristiche interculturali o plurilingui”. Pochi IC affermano di avere degli spazi interculturali ad hoc (come lo scaffale/biblioteca multiculturale o il laboratorio/spazio linguistico), ma quando vi sono diventano il fulcro delle iniziative. Una scuola che include bambini e ragazzi non italofoni, sa bene che occorrono momenti dedicati all’apprendimento dell’italiano in luoghi accoglienti e stimolanti. Il laboratorio/spazio linguistico non può essere perciò uno spazio residuale e casuale, un contenitore spoglio, come purtroppo succede frequentemente, ma si presenta come una sorta di teatro interattivo in cui le scenografie sostengono l’azione dei partecipanti e questi contribuiscono alla loro continua ricostruzione. La partecipazione dei bambini e ragazzi nel riprogettare, arredare e mantenere in ordine è un elemento fondamentale di attivazione linguistica. Si tratta dunque di organizzare gli spazi di un’aula dedicata in modo che vi trovino posto: a) segni delle provenienze e delle appartenenze culturali (immagini di luoghi ed eventi, scritture e libri nelle lingue di origini, carte geografiche e planisferi); b) tracce e segni delle storie personali (fotografie dei partecipanti, disegni, oggetti quali giochi, libri e quaderni portati dai paesi di origine); c) strumenti per apprendere l’italiano (alfabetieri murali, lavagne, cartelli/scritte/elenchi bilingue, dizionari e vocabolari tematici illustrati, testi ed eserciziari di italiano L2); d) oggetti e materiali che stimolano l’interazione comunicativa in situazione (quadri di registrazione del tempo atmosferico quotidiano; piante e piccoli animali da accudire e osservare registrando gli sviluppi; giochi che favoriscono l’interazione linguistica quali memory e gioco dell’oca; il teatro dei burattini ecc.). Piuttosto avvertita è l’esigenza di connotare e abbellire gli spazi comuni della scuola in senso interculturale: i disegni fatti dagli studenti nei corridoi e nelle classi, i posters che illustrano momenti di integrazione, che accolgono gli studenti negli spazi della ricreazione. In occasione di iniziative od eventi anche gli ingressi di alcune scuole vengono fornite di scritte e immagini per la visibilità all’esterno 101 della comunità. Anche il laboratorio multimediale può divenire uno spazio educativo interculturale, come ha osservato una docente: “basta un ‘click’ per vedere concretamente un Paese, le sue tradizioni, modi di vita, etnie diverse e sentire lingue e linguaggi differenti”. Ma in argomento si registrano opinioni differenti: una docente osserva che “sono soprattutto i nostri stessi alunni che rendono ‘colorata’, interculturale e ricca la nostra scuola”, mentre un’altra ritiene – similmente a quanto affermava una ormai lontana circolare ministeriale sull’intercultura – che “ogni classe deve essere uno spazio educativo interculturale permanente anche in caso di assenza di alunni stranieri”. 3. I dispositivi per l’apprendimento e l’insegnamento dell’italiano L2 e la valorizzazione del plurilinguismo in una ottica interculturale Il tema dell’insegnamento e dell’apprendimento delle nuova lingua agli alunni non italofoni è, da sempre, “il tema” più avvertito dalla scuola e dai genitori immigrati. In particolare, rispetto alle discipline, esso è tema centrale che richiede una rinnovata attenzione e un forte investimento, in collaborazione con il territorio, in termini di formazione insegnanti, previsione di dispositivi e interventi specifici, materiali didattici appropriati. Anche nelle recenti “Linee guida per l’accoglienza e l’integrazione degli alunni stranieri” si sottolinea che “è giunto il momento di qualificare l’intervento didattico specifico rivolto agli alunni non italofoni per meglio accompagnare e sostenere lo sviluppo linguistico degli alunni stranieri” (Miur, 2014). Abbiamo già toccato l’argomento nel precedente paragrafo soprattutto in relazione all’organizzazione di laboratori/spazi linguistici dedicati all’apprendimento della L2. Vediamo adesso con maggiori dettagli cosa hanno risposto le scuole alla domanda specifica sul tema (D2: La scuola prevede iniziative e moduli per l’apprendimento/ insegnamento dell’italiano L2 per gli alunni neo arrivati o ancora poco italofoni? Specificare quali…). Ricordiamo che questo è stato il quesito che ha ricevuto il più alto numero di risposte affermative, il che sembra dirci come le scuole, tutte le scuole di ogni ordine e grado, abbiano investito molto in questi anni – in collaborazione con il territorio – per garantire azioni e supporti in grado di rispondere agli specifici bisogni linguistici degli allievi non italofoni. Pare essersi diffusa una consapevolezza rispetto a quelli che sono, in primo luogo, i bisogni linguistici di tali alunni, nonché gli strumenti, i dispositivi, gli interventi che occorre attivare nelle diverse fasi che un alunno non italofono attraversa. Conoscenze e competenze che sul territorio aretino hanno formato oggetto di tanti corsi di formazioni durante gli anni e che vanno dall’importanza di disegnare il profilo scolastico e linguistico di un alunno straniero (storia scolastica, 102 alfabetizzazione in L1, conoscenze e competenze disciplinari; repertorio linguistico; competenza linguistico-comunicativa in italiano) alla articolazione delle diverse fasi del percorso di apprendimento della L2 per gli allievi neoarrivati (per cui si distinguono: una fase iniziale A1/A2, apprendimento dell’italiano L2 per comunicare; una fase ponte A2-B1, accesso all’italiano dello studio; una fase degli apprendimenti comuni B2, mediazione e facilitazione dei testi di studio delle discipline), alla messa a punto di dispositivi specifici (fase di avvio con laboratori e corsi di lingua continuativi a scalare, interventi individualizzati; una fase ponte con moduli laboratoriali, doposcuola, interventi individualizzati in classe; una terza fase con interventi individualizzati in classe, doposcuola, tutor di studio). Nella Tabella 3 riportiamo l‘ampia gamma di risorse censite con il questionario di ricerca, distinguendo tra dispositivi, risorse professionali e risorse economiche. Tabella 3 - Dispositivi, risorse professionali ed economiche per l’insegnamento della L2 Istituti Comprensivi Istituti Superiori Dispositivi Laboratori L2 a inizio anno scolastico Laboratorio di L2 in orario extrascolastico e progetti di potenziamento/recupero in L2 in orario scolastico Laboratori linguistici per gruppi di livello Facilitazione dei testi Utilizzo delle nuove tecnologie (Lim, Blog, Chat e videoconferenze...) Risorse professionali Ricorso a docenti di materie letterarie (ore aggiuntive di insegnamento di italiano L2) Insegnanti in pensione resisi disponibili a titolo volontario Ricorso a facilitatori linguistici esterni e MLC Attivazione dispositivo di tutoring compagno di classe a turno Dopo-scuola come supporto nello studio e nello svolgimento dei compiti pomeridiani con l’intervento di tutor Risorse economiche Finanziamento Miur per le scuole in zone a forte processo immigratorio Collaborazioni con ente pubblico e Privato sociale Altre progettualità 103 Dispositivi Corsi di facilitazione linguistica a livello base e corsi di facilitazione linguistica e di aiuto allo studio Corsi in orario curricolare ed extracurricolare di italiano L2 e italiano per le discipline Laboratori linguistici Risorse professionali Docenti della scuola Facilitatori esterni Risorse economiche Collaborazioni con privato sociale Tra gli IC vi sono anche coloro che fanno notare come oggi i bisogni linguistici degli allievi stranieri presentino minore complessità rispetto all’apprendimento dell’italiano e alla comunicazione, in quanto questi allievi sono in gran parte nati in Italia. Se il tema dell’insegnamento e dell’apprendimento dell’italiano come lingua seconda costituisce fin dagli albori della trasformazione in senso multiculturale delle scuole il “grande tema” e lo scoglio più urgente e immediato con cui i docenti e gli allievi non italofoni devono confrontarsi, il riconoscimento e la valorizzazione del plurilinguismo in chiave interculturale è, al contrario, una consapevolezza piuttosto recente e ancora poco diffusa nella didattica, benché presente nelle prime circolari ministeriali (degli anni ’90). La valorizzazione della pluralità dei repertori linguistici, quindi non solo attraverso azioni di mantenimento/insegnamento delle lingue materne degli studenti di origine straniera, è rimasta più frequentemente un tema “opaco”, di sfondo, non ancora realmente preso in carico da parte della scuola, nella sua generalità. Vediamo qual è la situazione nelle scuole della provincia di Arezzo. Una apposita domanda del questionario (D5: La scuola conosce, riconosce e valorizza la diversità linguistica presente nelle classi? In quale modo? Descrivere) ha inteso esplorare proprio questi temi. Dal dato quantitativo che discende dalle risposte si conferma il carattere di “novità” dell’argomento. Sono ancora pochissime le scuole che hanno assunto con consapevolezza e continuità di azioni il tema del plurilinguismo nella didattica, all’interno del curricolo scolastico. Alla domanda “aperta”, quasi tutte le scuole evidenziano ancora una stadio “iniziale” di valorizzazione del plurilinguismo: esse fanno costante riferimento ai dispositivi più in uso per facilitare la comunicazione plurilingue con le famiglie straniere, e dunque vengono menzionati esempi di modulistica plurilingue, materiale informativo di varia tipologia tradotto nelle lingue 1, la figura del mediatore linguistico, altri esperti non ben definiti nelle varie lingue (“che svolgono il compito di peer tutor nei confronti dei genitori degli alunni neo-arrivati”), e così via. Riprenderemo nel dettaglio l’esame dei dispositivi e delle azioni testé menzionate nel successivo paragrafo, quando affrontano il rapporto scuola-famiglia. Qui resta da segnalare le poche risposte “innovative” presenti nei questionari compilati. A parte chi dichiara una generica attenzione al tema della L1 ma poi riporta un esempio ancora centrato sulla relazione scuola famiglia (“La valorizzazione delle culture e delle lingue di origine inizia già nella nostra scuola dell’infanzia, dove peraltro, da qualche tempo si è formata anche una sorta di rete di genitori di bambini non italofoni, che si adoperano come mediatori e tutor delle famiglie degli alunni neo arrivati”), alcune scuole dichiarano di aver lavorato sul tema, nella scuola dell’infanzia e nella scuola primaria, attraverso un’attività propedeutica di 104 avvicinamento al plurilinguismo centrata sul disegno (come immaginano i bambini che funzioni la mente plurilingue?) da cui poi è stata allestita una mostra itinerante; altre scuole hanno menzionato un percorso didattico sulle L1 conclusasi con la preparazione della giornata internazionale della lingua madre (per la quale “si è cercato di coinvolgere le famiglie, con difficoltà, ma con risultati abbastanza buoni”). L’esperienza censita più strutturata e continuativa è quella di un IC del Valdarno che partecipa da un biennio al menzionato progetto nazionale di ricerca-azione promosso dal Miur, denominato LSCPI (Progetto Lingue di scolarizzazione e curricolo plurilingue e interculturale). Una domanda specifica del questionario che ha inteso esplorare questo tema (D3: La scuola è consapevole della pluralità delle storie e delle differenze culturali presenti nelle classi? E del carattere strutturale dei cambiamenti in corso? Come si manifesta questa consapevolezza? Il tema è indicato nel POF? Citare esempi), ha ricevuto tipologie diverse di risposte: alcune più attente ad una lettura del contesto migratorio a scuola in continua e rapida trasformazione, e sempre più complesso da gestire, altre che invece elencano iniziative e progetti di didattica intercultura spesso finalizzate al coinvolgimento delle famiglie alla vita della scuola (vedi il paragrafo successivo). Le feste, i cibi, i giochi sono ancora i motivi e le occasioni più ricorrenti per sviluppare percorsi di interculturalità. Bisogna tuttavia sottolineare come questa domanda “aperta” abbia fatto registrare una messe significativa di risposte formali, in cui sono riportati pezzi interi di POF che sottolineano l’attenzione e il dinamismo (solo sulla carta?) dell’Istituto rispetto alle differenze culturali e ai bisogni specifici degli allievi stranieri. Dal complesso delle risposte, pare osservare tuttavia una “stanchezza” e una certa ripetitività delle iniziative su temi classici, anche se diversamente affrontati, con cui, fin dagli inizi si è fatta l’accoglienza e l’educazione interculturale – con una infinità di iniziative caratterizzate da generosi slanci inclusivi, determinazione nel contrasto al razzismo e pure una certa inclinazione al folklore –, mentre altri, più innovativi e fecondi, come il plurilinguismo fanno ancora fatica a trovare spazi e metodi. Insomma, le nuove “Indicazioni nazionali sul curricolo” del 2012, almeno per il ciclo primario, attendono ancora di essere studiate, assimilate e vivificate nella pratica didattica quotidiana. 4. La partecipazione delle famiglie straniere alla vita scolastica Il rapporto con le famiglie straniere è stato esplorato a più riprese attraverso una specifica domanda nel questionario (la n. 4: La scuola cura i modi e i tempi della comunicazione – anche plurilingue – nei confronti delle famiglie immigrate? Descrivere e allegare degli esempi…), da altre domande meno dirette ma che comunque hanno 105 fornito molto materiale in argomento (le D3, riconoscimento delle diversità culturali e D5, diversità linguistiche), ed è stato oggetto di due focus group (FG) a cui hanno partecipato educatori dei nidi e docenti di ogni ordine delle scuole di Arezzo. La traccia seguita nei FG e una sintesi delle principali riflessioni emerse sono visibili nella Tabella 4. Tabella 4 - Le risposte fornite da educatrici e insegnanti: quadro di sintesi (aprile 2014) Punti di attenzione 1. Cause che rendono più difficile e complesso il rapporto con i genitori immigrati Cosa pensano educatrici e insegnanti di Arezzo (nidi, scuole dell’infanzia, primaria, secondaria di I e II grado) 1. riconducibili alla scuola - la non conoscenza da parte dell’insegnante delle tradizioni, cultura, stili di vita, organizzazione scolastica del Paese di provenienza (I, P) - atteggiamento “giudicante” degli insegnanti (pregiudizi) (N, I, P) - difficoltà a mettere in pratica le strategie dell’accoglienza (P) - difficoltà a far comprendere alcuni aspetti pedagogici-educativi (N, I) - le famiglie straniere non “fanno più novità” ed essendo molto presenti numericamente è difficile che la scuola le gestisca come situazioni “speciali” (I, P) 2. riconducibili alle famiglie - scarse o nulle competenze linguistiche in italiano - orari di lavoro differenti e prolungati - diversi modi di intendere il “prendersi cura di …” e diversa idea di bambino e di educazione (N) - resistenze all’integrazione per motivi di forte disagio cultuale (I) 2. Su quali di queste cause è 1. riconducibili alla scuola possibile intervenire e come? - predisporre materiale informativo comprensibile alle varie “provenienze” e rendere più leggibile la scuola (pannelli, foto, video...) (N, I) - informare i genitori sui bisogni che la scuola italiana si prefigge relativi alla formazione e chiedere il coinvolgimento della famiglia (I, P) - chiedere aiuto a parenti o amici in veste di “mediatori” (I, P, S) - rafforzare l’attività di orientamento non solo negli anni di passaggio ma predisporre iniziative anche negli altri anni scolastici (S) - approfondire diverse strategie comunicative (I, P, S) - rafforzare e aggiornare il bagaglio professionale dei docenti (N, I) - mettere in rete le varie esperienze dei docenti - organizzare corsi insieme ai genitori italiani che facilitino l’integrazione e l’apprendimento della lingua (I, P) - progettare attività di sostegno alla famiglia 106 2. riconducibile al territorio - organizzare corsi di L2 per genitori; - accoglienza dei minori nell’extrascuola; - arricchire offerta del territorio aperta a tutti - supporto di mediatore LC 3. Attenzioni da prendere tra i diversi gradi di scuola per promuovere partecipazione/ coinvolgimento dei genitori 1. riconducibili alla scuola - facilitare accesso concordando orari compatibili con il lavoro - facilitare accesso agli eventi organizzati dalla scuola (luoghi raggiungibili anche a piedi) - promuovere le varie iniziative rendendole prassi consolidate e condivise e rispettate da tutto il personale - presentazione del bambino e della famiglia alla scuola del livello successivo - laboratori e feste - coinvolgere i genitori stranieri in attività di mediazione connesse all’orientamento - Azioni per scambio di materiali ed esperienze 4. Azioni che possono essere prese o concordate con altri 1. riconducibili alla scuola soggetti - mettersi in rete tra soggetti diversi per obiettivi comuni territoriali/istituzionali - attivazione di uno sportello pomeridiano interno all’istituto 2. riconducibile al territorio - organizzazione di doposcuola - apertura delle associazioni sportive anche ai ragazzi che vivono disagio economico/sociale - assunzione di responsabilità e visione lungimirante delle istituzioni e della politica - corsi di lingua e in seguito ad altre attività (letture, racconti, giornate a tema, passeggiate, sport…) - gruppi di lavoro per raccontare le diverse esperienze - invitare l’Asl a scuola per spiegare/presentare alcuni temi e pratiche (scuole infanzia) 5. L’immagine che i genitori - “Efficiente, rigida, accogliente, che fa richieste difficili ai bambini stranieri hanno della scuola e alle famiglie” (secondo le insegnanti) - “Una immagine positiva, molti genitori immigrati di seconda gen. considerano la scuola un’opportunità per i figli” - “Cambia a seconda delle diverse culture, dalla totale delega alla scuola, all’ostilità fino a una palese sottomissione verso l’insegnante, al timore di non essere accettati” - “Talvolta estremamente positiva o viene vissuta con perplessità ma difficilmente viene messa in discussione” - “Sono intimoriti, ossequienti, sorpresi ma anche a volte diffidenti verso la scuola” - “Hanno spesso un’immagine legata alla singole figure di 107 insegnanti, ma non una percezione univoca della scuola e dei suoi operatori; di fiducia ma allo stesso tempo non di completa disponibilità a parteciparvi” - “Alcune famiglie vedono la scuola come un’opportunità di riscatto, altre ancora di diffidenza” - “Non è possibile dare una risposta univoca in quanto dipende dalla nazionalità e dal tempo di permanenza in Italia e dal background culturale della famiglia” Anche a leggere soltanto le risposte offerte alla specifica domanda aperta del questionario è possibile delineare il quadro multiforme delle criticità che caratterizzano il rapporto tra scuola e famiglie straniere. Intanto occorre osservare che non è facile essere genitore nella migrazione, ed esserlo secondo i modi comunicativi e relazionali che noi consideriamo positivi per un buon rapporto scuola-famiglia. Atteggiamenti genitoriali che sembrano distanti, disinteressati, conflittuali o marcati da sfiducia, possono discendere da una scarsa conoscenza o non comprensione di che cosa significhi, nel nostro contesto scolastico, la partecipazione dei genitori, soprattutto nei primi gradi scolastici. I genitori immigrati hanno idee sul rapporto scuola-famiglia, formatesi nei Paesi di origine, diverse da quelle che a noi sembrano giuste; hanno concezioni più o meno differenti da quelle della scuola rispetto all’infanzia, alle tecniche di cura e maternage, ai modelli educativi, alla figura e al ruolo dei docenti, alle differenze di genere, ai rapporti con il cibo, la disciplina, i divieti, la malattia, l’autonomia … Questi atteggiamenti e rappresentazioni non sono mai definitivi una volta per tutte e la relazione quotidiana con chi educa i propri figli contribuisce a modificarli, a superare barriere comunicative, a costruire spazi condivisi di ascolto e comprensione reciproca. Inoltre, le condizioni di vita e di lavoro dei genitori stranieri, spesso non facili, non consentono una presenza continuativa nella vita scolastica; la scarsa padronanza dell’italiano induce a evitare riunioni e incontri o ad “attraversarli” con apparente superficialità. La scuola può semplicemente rilevare tali comportamenti. Può interrogarsi sulle cause, individuare possibili risposte e decidere di mettere in pratica alcune azioni, assumendo un ruolo attivo e propositivo, anche in collaborazione con il territorio. Studi e ricerche ci dicono che tanto più i genitori sono informati, presenti ad iniziative organizzate dalla scuola quanto più hanno progetti chiari e ambiziosi sul futuro dei loro figli, e questo atteggiamento di apertura verso l’istruzione fa percepire e trasmette agli studenti l’importanza dello studio per la vita e per ottenere un “buon” lavoro. Il successo scolastico e formativo è dunque fortemente correlato con il grado di coinvolgimento delle famiglie nel progetto scuola. Le ricerche ci dicono, inoltre, che le famiglie straniere ripongono nella scuola italiana aspettative alte e vedono in essa il trampolino per il futuro 108 lavorativo e sociale dei loro figli migliore del proprio (Della Zuanna, Farina, Strozza, 2009; CNEL, 2008). Perché le famiglie migranti possano sostenere i figli nel loro processo di crescita e nel cammino scolastico, devono poter essere informate, competenti, riconosciute e valorizzate (Favaro, 2011). Coinvolgere i genitori immigrati nella vita della scuola, in un rapporto proficuo per accompagnare insieme i percorsi dei bambini e ragazzi, richiede dunque intenzionalità, attenzioni e strategie adeguate, superando stereotipi e casualità. Dagli incontri focus è emerso che alcune scuole promuovono un coinvolgimento “specifico”, rivolto unicamente alle famiglie immigrate, oppure “diffuso” cioè per tutte le famiglie, nell’ottica di una valorizzazione della rete dei genitori che permetta un’integrazione delle famiglie straniere con quelle italiane. Altre scuole invece adottano entrambe le modalità, a sottolineare il fatto che è possibile elaborare progetti condivisi per le famiglie e progetti rivolti più direttamente alle famiglie immigrate e alle loro problematiche specifiche. Quest’ultime possono essere semplicemente destinatarie oppure co-protagoniste di tali iniziative, in quanto coinvolte nella co-progettazione e nella realizzazione, portando le loro competenze, abilità, saperi. Vediamo come si declinano queste attenzioni nelle esperienze e nelle pratiche scolastiche quotidiane. Genitori informati. Una chiara informazione sull’organizzazione, le scadenze della scuola, il ruolo degli operatori e dei genitori costituisce il primo, fondamentale livello. A volte, l’informazione che viene data è ancora di tipo unidirezionale (dalla scuola ai genitori), e così passa l’immagine di una scuola cui semplicemente adattarsi. Più frequentemente, le scuole oggi adottano un ventaglio di strumenti e dispositivi che cercano di rendere l’informazione bidirezionale, mettendo le informazioni in relazione con bisogni, aspettative, rappresentazioni dei genitori stranieri rispetto al servizio/scuola. Non sempre ci riescono, e forse poca riflessività accompagna gli esiti poco soddisfacenti e gli insuccessi. La bidirezionalità dell’informazione opera anche su un altro piano: esprime il bisogno di informazione e conoscenza da parte della scuola/dei docenti rispetto alle storie, condizioni di vita, bisogni, aspettative e progetti migratori peculiari di ogni famiglia straniera, che evidentemente influiscono sulle relazioni scuolafamiglia e con il territorio. Strumenti, dispositivi, attenzioni emersi dalle risposte al questionario e nei FG fanno riferimento alle aree di intervento: a) materiali e comunicazioni bilingui/plurilingui; b) riunioni con i genitori e l’ausilio di figure di mediazione. 109 Tabella 5 – Dispositivi per l’informazione e la comunicazione scuola famiglia Materiali nella L1 o bilingui - Libretti/guide in più lingue sul sistema scolastico italiano e di supporto alla scelta scolastica (orientamento scuola superiore). - Scheda di “autopresentazione” dell’istituto in più lingue (redatta e tradotta con il coinvolgimento dei genitori stranieri). - Lettera di “Benvenuto” in più lingue da consegnare alle famiglie neo-arrivate al momento dell’iscrizione (redatta dalle insegnanti in collaborazione con alcuni genitori stranieri, che ne hanno curato la traduzione). - Breve scheda bilingue informativa su alcuni elementi essenziali dell’inserimento dell’alunno. - “Poffino” in lingua di origine: sono tradotte le linee portanti del POF, e prende le vesti di un depliant a 6-8 ante. La scuola – o meglio un apposito gruppo di lavoro “scuola-famiglia” – ha progettato un POF in L1 tradotto dai genitori stessi. - Materiali diversi in L1 per la gestione della comunicazione formale scuola-famiglia (avvisi e comunicazioni relativi agli eventi più frequenti nella scuola). Le scuole hanno messo a punto negli anni veri e propri dossier plurilingui (in genere ripresi da alcuni siti internet, tra cui quelli del MIUR, “Parlo la tua lingua”, Centro COME). - Menù della refezione scolastica in più lingue fornito a tutti gli studenti (su iniziativa del Comune). - Altri materiali plurilingui (immagini, cartellonistica, avvisi ...) connotano gli spazi e gli ambienti di molte scuole. Figure di mediazione - mediatori linguistico-culturali professionalmente formati, esterni alla scuola, contattati attraverso Oxfam Italia - mediatori linguistici “informali”, adulti, spesso trattasi di genitori stranieri che vivono da più tempo in Italia e vengono coinvolti dalla scuola per dare indicazioni utili ai genitori non italofono e/o di recente immigrazione - studenti-tutor di origine straniere e/o plurilingui, appositamente formati dalla scuola, che svolgono anche un ruolo a carattere prettamente informativo con le famiglie straniere Genitori competenti. La competenza genitoriale, nei modi che la nostra scuola richiede e con le necessarie mediazioni interculturali, è un obiettivo di lunga durata. Le recenti “Linee guida” del Miur (2014) sull’accoglienza e l’integrazione degli alunni stranieri insistono molto sul rapporto scuola famiglia e sull’empowerment dei genitori stranieri: evidenziano la necessità di ripartire dallo sviluppo delle loro competenze linguistiche, considerando che la conoscenza di 110 una seconda lingua di livello A2 – richiesta dall’attuale normativa e strettamente funzionale al rinnovo del permesso di soggiorno –, non è sufficiente ad assicurare una “buona integrazione”. “Il miglioramento delle competenze linguistiche degli immigrati stranieri che hanno figli in età scolare – osservano le “Linee guida” – può contribuire in modo assai incisivo al loro successo scolastico. Non è un caso che nei paesi europei che da più tempo operano sul terreno dell’integrazione dell’immigrazione si dia la massima importanza, nel caso degli adulti, non solo al superamento di determinati test linguistici finalizzati o meno ai processi di regolarizzazione o di acquisizione della cittadinanza, ma anche alla partecipazione di pacchetti formativi di diverse centinaia di ore appositamente predisposti ed erogati dal sistema educativo pubblico o da altri enti o soggetti collegati” (Miur, 2014, p. 23). Dunque un rafforzamento della competenza genitoriale, necessita un lavoro finalizzato allo sviluppo della competenza nella Lingua 2. Non è qui possibile riportare la gamma di esperienze e progetti realizzati nelle scuole aretine. Ciò che emerge, nel complesso, è la necessità di creare più occasioni per poter apprendere la lingua italiana da parte dei genitori non italofoni (meglio se “in situazione”, in corsi meno formalizzati), nonché promuovere occasioni di incontro significative tra tutti i genitori è molto avvertita, anche se i dubbi concernono le risorse disponibili e l’effettiva partecipazione/coinvolgimento. Le esperienze narrate pongono in rilievo l’utilità di servizi rivolti alla famiglia collocati nello stesso luogo. Mettono anche in evidenza l’importanza della presenza di reti di/tra scuole (e reti di scuola per l’integrazione, presenti in alcune regioni italiane), per sviluppare servizi e attività comuni, scambiare esperienze. In alcune realtà si è puntato sul coinvolgimento delle madri proponendo loro la partecipazione a corsi di lingua italiana che le mettano in grado di seguire i figli e di partecipare alla vita della scuola. Tuttavia, i corsi d’insegnamento dell’italiano L2, pubblici o realizzati dal volontariato/associazionismo, sono spesso preclusi alle donne straniere per vari motivi (corsi misti, aperti a uomini e donne, si svolgono in orario extralavorativo, sono collocati in sedi non sempre facilmente accessibili …) (Luatti, Tizzi, 2014a). Spesso i genitori stranieri non sono in grado di sostenere i loro figli nello studio soprattutto per ragioni linguistiche, oltre che per la debole scolarità di alcuni. Padroneggiare la lingua per lo studio, densa di termini settoriali e specifici, non è cosa agevole anche per coloro che sono diventati italofoni. Del resto, una difficoltà nella relazione tra scuola e famiglie, sottolineata dai genitori stranieri, è quella di poter seguire i loro figli negli studi durante il tempo extrascolastico. Da qui la richiesta frequente di poter avere “più scuola” per i figli. Gli interventi censiti, al riguardo, sono rivolti ai genitori per rafforzare le competenze di questi nell’aiuto allo studio dei figli; oppure sono rivolti direttamente agli alunni. Sono promossi e realizzati da scuole, volontariato, associazionismo, enti locali. 111 Nei FG sono state menzionate numerose esperienze dove genitori italiani e immigrati sono coinvolti insieme in attività e iniziative diverse promosse dalla scuola, mentre non sono state censite esperienze di alleanze tra famiglie italiane e straniere, famiglie che aiutano i figli di altre famiglie per i compiti a casa, corsi di italiano autogestiti, genitori che tengono aperta la scuola durante il fine settimana per lo svolgimento di attività culturali e altro ancora. Genitori attivi. Anche la partecipazione attiva dei genitori alla vita della scuola è un obiettivo di lunga durata. Dobbiamo innanzi tutto chiederci che cosa intendiamo per “partecipazione”, dettagliando le azioni e le competenze che sottintende per conoscere così ciò che possiamo realisticamente aspettarci dai genitori stranieri. La partecipazione e l’empowerment delle famiglie migranti si stimolano anche e soprattutto attraverso strategie di riconoscimento e valorizzazione delle loro competenze (talvolta nascoste o non riconosciute), a partire da quelle che sono espressione di “spezzoni” significativi del patrimonio culturale e identitario. In tal modo, dal ruolo di semplici fruitori di un servizio, i genitori assumono un ruolo nuovo, vivendo gli spazi scolastici non tanto nei panni di genitori ma di soggetti portatori di specifici saperi e competenze. Talvolta, la scuola, anche senza volerlo, mette a nudo (e sottolinea) le incapacità e gli impacci comunicativi dei genitori e disconosce le loro competenze e abilità acquisite altrove e qui poco spendibili. Il passo da compiere, per conquistare la fiducia e favorire un maggiore coinvolgimento, è duplice: non svalorizzare ma neppure mostrare indifferenza verso saperi e competenze; promuovere invece un atteggiamento attivo e propositivo, che faccia leva da tali saperi e abilità, individuando appropriate modalità comunicative, occasioni e spazi di senso per condividerle ed esplicitarle. Il tema dell’italiano e delle lingue di origine è, ad esempio, fonte di dubbi e domande per molti genitori che si sentono ancora dire, purtroppo, da alcuni insegnanti di non parlare le L1 in famiglia, benché ricerche e studi vadano in direzione opposta. Le iniziative censite fanno riferimento per lo più a momenti di incontro specifici e tradizionali. Seppure lentamente, gli organi collegiali delle scuole vedono la presenza anche dei genitori stranieri, come rappresentanti nel Consiglio d’Istituto e nei Consigli di classe, e nel comitato dei genitori costituito dai rappresentanti di classe e consiglio di istituto. Talvolta queste presenze (o candidature) sono viste con diffidenza dai genitori autoctoni, perché prevale ancora l’immagine dell’adulto straniero come soggetto debole, che non è in grado di assolvere con competenza ed efficacia a tale compito di rappresentanza. Rispetto a questo schema valoriale, ogni singola scuola potrebbe nuovamente interrogarsi e ridefinire la propria azione, anche sulla base dei suggerimenti e proposte presentate nella Tabella 6. 112 Tabella 6 - Rapporto scuola-famiglia straniera: pensando ad un possibile “modello” di intervento Livelli di intervento Azioni Livello di governance Inserimento nel POF Costituzione di un gruppo di lavoro/motore relazione scuola-famiglia (a composizione mista) Accordi di rete con altre scuole per lavoro comune Liv. Preliminare Domande e Azioni Domande di senso: sviluppare la dimensione di autodiagnosi In che modo stiamo collaborando con le famiglie e la comunità? Quali sono stati i nostri principali “successi” durante l’anno? Come si inserisce questa iniziativa nella mission, visione di sviluppo, valori culturali della scuola rispetto ai più ampi temi dell’integrazione degli stranieri e della partecipazione/cooperazione dei genitori? Cosa intendiamo per “partecipazione” dei genitori e come la definiamo operativamente (nei diversi gradi di scuola)? Cosa stiamo cercando di migliorare? Chi sono i soggetti interessati/coinvolti (stakeholder) dal tema “relazione scuola-famiglia”? Quali sono i contributi che gli stakeholder apportano alla scuola e in che modo la scuola crea valore per loro? ... … Azioni Bilancio dell’esistente e dell’impatto iniziative pregresse (ultimi 3 anni, rispetto a tutti i genitori e a quelli stranieri). Analisi swot: aspetti di forza, criticità, opportunità, rischi (coinvolgimento dirigente, docenti, genitori, ATA …) rispetto ad un obiettivo (es. “rafforzare la relazione scuola-famiglia straniera”). Elaborazione di una programmazione annuale e pluriennale strategico di intervento (“Piano di azione”), condividendo con gli attori chiave le priorità. Definizione di obiettivi “realistici” che ci prefiggiamo di raggiungere in un arco temporale determinato con relativi parametri di riferimento. Individuazione delle alleanze da sviluppare/sollecitare a scuola e nel territorio (costruzione di una mappa strategica del network) Individuazione delle modalità operative per analisi e intervento in situazioni specifiche e problematiche (totale e prolungata assenza dei genitori; forti incomprensioni/conflitto …) Individuazione dimensioni e strumenti che possano consentire la “misurazione” delle ricadute (impatto) sulla scuola e i ragazzi dall’accresciuta partecipazione dei genitori alla vita della scuola. Liv. 1: Genitori Informati Raccolta/elaborazione di un ventaglio diversificato di materiali informativi in L1 e bilingui. 113 Individuazione di figure di mediazione informali e delle situazioni in cui attivarle. Definizione di criteri e modalità di base per loro positivo e corretto coinvolgimento e intervento. Attivazione di un dispositivo di peer mentoring agito da studenti bilingui/plurilingui più grandi, con finalità informative e accoglienza, rivolto a genitori stranieri non italofoni. Definizione delle situazioni specifiche in cui fare ricorso a mediatori interculturali formati. Attivazione di uno sportello/spazio di ascolto per genitori, in coll. con territorio/scuole. Riunioni ad hoc (individuali e collettive) con genitori stranieri. Stesura e sottoscrizione di “patti educativi” con i genitori. Elaborazione/condivisione di strumenti per raccolta info su genitori (ad uso docenti). Liv. 2: Genitori Competenti Attivazione corsi L2 (e … informatica, conoscenza del territorio etc.) per genitori stranieri, in collaborazione con altre scuole, con l’associazionismo/ente locale. Organizzazione di incontri per scambio e conoscenza esperienze scolastiche e genitorialità tra famiglie autoctone e migranti, anche in collaborazione con altre scuole e servizi, con l’associazionismo/ente locale. Interventi strutturati rivolti ai genitori al fine di sostenere i loro figli nello studio/compiti a casa. Individuazione di forme appropriate di coinvolgimento dei figli nell’empowerment dei genitori. Liv. 3: Genitori Attivi. Partecipazione alla vita della scuola Presenza di forme di coinvolgimento dei genitori (e dei genitori stranieri) nella co-progettazione (progettazione e riprogettazione) di attività, materiali, eventi. Coinvolgimento dei genitori stranieri in momenti strutturati finalizzati al riconoscimento di competenze e saperi, anche riferiti al proprio bagaglio identitario e culturale. Coinvolgimento dei genitori stranieri nella gestione di determinati servizi/attività della scuola (biblioteca …). Rendere i familiari protagonisti nella progettazione del PPT (Piano Personale Transitorio) e nel monitoraggio degli apprendimenti Coinvolgimento dell’associazionismo locale (tra cui anche quello espressione delle collettività nazionali) alla vita della scuola. Partecipazione dei genitori stranieri ad organi collegiali. Individuazione di modalità per incentivare la partecipazione agli organi collegiali. Accordo tra scuola e genitori (associazione dei genitori, se esistente) per l’apertura della scuola nei fine settimana. Definizione criteri, compiti, responsabilità, attività. Esistenza di associazioni dei genitori (reti formali) e di modalità 114 “informali” di mutuo aiuto tra genitori promosse/rilevate dalla scuola Liv. Trasversale Applicazioni di modalità strutturate di monitoraggio e valutazione degli interventi (validate da esterni) Indicatori sugli outcome e sulla qualità del contesto organizzativo interno Valutazioni comparative con altre scuole dello stesso livello e indirizzo Disseminazione e scambio delle esperienze Comunicazione interna ed esterna nei confronti degli stakeholder Dimensione economica e finanziaria, sostenibilità 5. Osservazioni conclusive Dall’indagine dunque sembrano in gran parte superati gli approcci emergenziali, funzionalistici, episodici e settoriali che avevano caratterizzato per molto tempo l’azione delle scuole, anche di quelle aretine, sui temi dell’integrazione, benché il cammino per considerare le differenze come norma sia ancora lungo, richiedendo modelli educativi, didattici e organizzativi coerenti. Alcune sollecitazioni e accelerazioni, in argomento, sono recentemente pervenute alle scuole dall’iniziativa ministeriale sui Bisogni Educativi Speciali (BES) e dall’iniziativa regionale della Toscana finalizzata alla predisposizione di Piani di Gestione sulle Diversità (entrambe più volte richiamate nelle risposte al questionario). In generale le scuole aretine, con differenze marcate tra IC e IS (e anche al loro interno), si sono dotate di strumenti e procedure coerenti e sistematiche per l’accoglienza e l’integrazione degli allievi stranieri; hanno messo in campo collaudati dispositivi per l’insegnamento/apprendimento dell’italiano pur in presenza di una diminuzione complessiva delle risorse, e l’organizzazione scolastica include tali dimensioni in modo stabile ed esplicito. Tuttavia la valorizzazione del plurilinguismo e l’apertura interculturale dei curricoli risultano più episodiche e (talvolta) dichiarate che implementate realmente. Su questi temi ormai registriamo, a livello di indirizzi e politiche educative e (pluri)linguistiche delle istituzioni europee (Unione Europea e Consiglio d’Europa, in particolare) e nazionali (Miur), sollecitazioni e indicazioni forti e reiterate: si pensi ai numerosi documenti, già citati, sulla valorizzazione e sul riconoscimento, nella didattica interculturale, del plurilinguismo, nonché, a livello nazionale, le “Indicazioni nazionali per il curricolo” del 2012 e le nuove “Linee guida sugli allievi stranieri” del febbraio 2014. Solo in pochissime scuole (IC) della provincia di Arezzo, come emerge dalla nostra ricerca, è stato avviato un lavoro consapevole, attento e 115 continuativo sulla didattica interculturale e plurilingue, mentre si assiste ad un generalizzato arretramento della dimensione “simbolica” e pubblica del plurilinguismo nelle scuole, in quanto l’esposizione immediatamente visibile delle tante lingue che abitano gli spazi scolastici (nelle forme più o meno sperimentate negli anni passati: cartellonistica, avvisi…) risulta una “buona pratica” poco esplorata, trascurata, quasi facesse parte di un repertorio di strumenti e attenzioni desueto. Se quest’ultima evidenza può averci colto di sorpresa (in effetti non ce lo aspettavamo), non altrettanto inaspettato è parso lo scarso richiamo (nelle risposte al questionario e nei FG) alla figura del mediatore interculturale professionale che sicuramente in passato ha costituito una delle prime risposte alla presenza di alunni stranieri, ma che oggi – in una fase immigratoria assai differente e con la drastica riduzione delle risorse per l’integrazione – appare una presenza saltuaria e piuttosto residuale. Le scuole, come emerge dalle risposte, fanno spesso ricorso ad altre figure di mediazione, coinvolgendo, nel migliore dei casi in forma strutturata e non estemporanea, i genitori stranieri italofoni o studenti tutor plurilingui. Anche l’intero sistema delle relazioni, a parte quelle che si dispiegano nelle classi tra i pari, sembra conoscere uno stato di sofferenza. La dimensione sistemica esterna alla scuola non è stata ancora messa adeguatamente a fuoco dalla maggioranza degli istituti scolastici: più o meno sviluppata, appare spesso caotica, poco strutturata, frammentaria. Rispetto a dieci anni fa, sono stati compiuti alcuni passi in avanti nel rapporto tra scuola e genitori stranieri, ma molto resta ancora da fare: dall’indagine non sono emerse strategie articolate che si muovono lungo le linee dell’informazione e della competenza genitoriale, o azioni progettuali caratterizzate da continuità nel tempo e da un forte coinvolgimento di più attori del territorio. Tanto più si sale nei livelli di scolarità quanto meno si registra la consapevolezza che la fiducia reciproca tra scuola e genitori si costruisce non con interventi sporadici o agendo in solitudine, ma con un lavoro continuativo e a più mani. Una indicazione di lavoro emersa dai FG è stata quella di stimolare la costituzione di associazioni di genitori per potenziare la solidarietà tra le famiglie, e per “trasformare” la scuola in uno spazio aperto, agito dalle famiglie per incontrarsi, conoscersi, confrontarsi attraverso azioni concrete. Le scuole tuttavia evidenziano una buona capacità di distinguere la salienza di certe proposte innovative che provengono dal territorio: dalla ricerca, ad esempio, è emersa l’attenzione prestata da alcuni IC e IS ad una proposta operativa (sorta di documento di raccomandazioni) diffusa localmente un paio di anni fa, finalizzata alla “cura” dei passaggi scolastici, con una specifica declinazione sulle difficoltà e vulnerabilità degli allievi stranieri (Sarracino, Luatti, 2012). Qui si potrebbe richiamare anche la proposta (in fase di sperimentazione in alcune scuole aretine e connessa alla precedente) del tutoring interculturale (Favaro, 116 2013b) ma anche l’iniziativa congiunta tra più attori del territorio provinciale finalizzata a “giocare d’anticipo” sui cammini d’inclusione, cioè preparando in anticipo il ricongiungimento familiare, anche con la scuola, quando a ricongiungersi è il minore (sul punto v. Luatti, Tizzi, 2014b). Ebbene, rispetto a quest’ultima iniziativa, sviluppatasi tra il 2009 e il 2012 in alcune vallate (in particolare, Aretina e Valdarno), non vi è alcuna traccia nelle risposte o nelle testimonianze dei docenti. Insomma, ciò che sembra emergere complessivamente è che tali iniziative e proposte pur essendo ben accolte dalle scuole, se poi non sono istituzionalmente sostenute nel tempo, non riescono ad avere diffusione, visibilità e continuità, come invece meritano. Restano patrimonio di poche realtà virtuose e talvolta neppure in queste riescono a mettere radici e diventare prassi consolidate e di sistema. Emerge, ancora una volta, la mancanza di una regia, sia a livello nazionale sia a livello locale, in grado di guidare con autorevolezza, continuità, coerenza e lungimiranza il processo di trasformazione che le scuole e i territori stanno vivendo. Riferimenti bibliografici CNEL (2008), Vissuti ed esiti della scolarizzazione dei minori di origine immigrata in Italia, Roma, 12 febbraio 2008 (www.cnel.it). Consiglio d’Europa (2010), Guida per lo sviluppo e l’attuazione di curricoli per una educazione plurilingue e pluriculturale (online). Dalla Zuanna G., Farina P., Strozza S. (2009), Nuovi italiani. I giovani immigrati cambieranno il nostro Paese?, il Mulino, Bologna. Eurydice (2004 e 2009), Integrating Immigrant Children into Schools in Europe, European Commission, Bruxelles (www.indire.it/eurydice/index.ph). Favaro G. 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(2014a), Lingua e cittadinanza. La formazione linguistica per i migranti. Prima rapporto, Regione Toscana, Osservatorio Sociale Regionale, Firenze (anche online). Luatti L., Tizzi G. (a cura di) (2014b), Partire con il piede giusto. La qualità dell’attesa nei percorsi di ricongiungimento familiare degli immigrati. Pratiche innovative in Italia e in Europa, Oxfam Italia, Arezzo. MIUR (2014), Linee guida per l’accoglienza e l’integrazione degli alunni stranieri, Roma, febbraio 2014. MIUR (2012), Indicazioni nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo dell’istruzione, Roma, 16 novembre 2012. OECD (2012), Education at a Glance 2012. OECD Indicators (http://dx.doi.org/10.1787/eag-2012-en). Sarracino D., Luatti L. (2012), Alunni stranieri: le criticità nel passaggio dalla scuola secondaria di 1° grado alle scuole secondarie superiori e i miglioramenti possibili, USR-Ambito territoriale per la provincia di Arezzo, Arezzo, 9 maggio 2012. Tarozzi M. (2015), Dall’intercultura alla giustizia sociale. Per un progetto pedagogico e politico di cittadinanza globale, FrancoAngeli, Milano. 118 Terza parte La salute e il lavoro dei migranti 119 120 Capitolo 1 Stranieri e servizi per la salute di Giovanna Dallari L’8% della popolazione della regione europea dell’OMS è costituita da migranti, che sono stimati essere circa 73 milioni. La mobilità delle persone comporta un aumento delle diversità all’interno delle società che richiede ai sistemi sanitari una maggiore flessibilità e la capacità di adattarsi ai diversi bisogni e profili di salute. Il fenomeno migratorio pone dunque implicazioni di breve, medio e lungo termine, che coinvolgono tutti i 53 Paesi della Regione e che devono essere affrontate con un dialogo interregionale, intersettoriale e coordinato. I dati relativi al binomio migranti/salute a livello europeo mostrano che la concettualizzazione del diritto alla salute risente molto dei particolarismi locali. Gli Stati Membri non sembrano essere in grado di realizzare l’obiettivo di garantire il diritto alla salute per tutti i nuovi cittadini, e, soprattutto, di farlo in maniera paritaria rispetto agli autoctoni. Il principio di sussidiarietà applicato al diritto alla salute determina che gli Stati Membri sviluppino pratiche locali estremamente diverse tra loro, che sicuramente non favoriscono una più auspicabile e ordinata gestione comunitaria del tema salute. Servirebbero quindi regole europee comuni e condivise, che possano garantire ai nuovi arrivati una parità di trattamento rispetto ai loro concittadini. 1. Il nostro Servizio Sanitario Nazionale La legge italiana considera la salute un diritto inalienabile dell’individuo, in accordo con quanto stabilito dalla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 1948 (art. 25), fatta propria dalla Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) con la dichiarazione di Alma-Ata del 1978. In coerenza con questi principi, in Italia, l’accesso alle cure è garantito anche per gli immigrati privi di permesso di soggiorno. La riforma del Titolo V della Costituzione approvata nel 2001 ha dato vita a ventuno sistemi sanitari diversi, in territori con differente gettito fiscale, con differente capacità e appropriatezza di spesa, con differente organizzazione dei sistemi sanitari regionali e della loro appropriatezza nella risposta ai bisogni sanitari. Tutto questo ha determinato l’incapacità del sistema di assicurare in modo omogeneo i LEA (Livelli Essenziali di Assistenza), eludendo i principi di 121 equità e universalità sui quali si fonda il nostro servizio sanitario nazionale (SSN). La situazione attuale rischia seriamente di peggiorare l’inadeguatezza dei sistemi sanitari regionali più deboli, limitando soprattutto le tutele sanitarie delle fasce più fragili e bisognose della popolazione. Il nostro sistema sanitario, pur sempre tra i migliori del mondo, sta annegando in un clima di grande incertezza. Il 4 giugno 2015 è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale il “Regolamento recante la definizione degli standard qualitativi, strutturali, tecnologici e quantitativi relativi all’assistenza ospedaliera”, che avvia definitivamente il processo di riorganizzazione della rete ospedaliera, che definisce gli standard generali di qualità, secondo il modello di clinical governance, per attuare il cambiamento del sistema sanitario, grazie allo sviluppo delle capacità organizzative necessarie a erogare un’assistenza di qualità, sostenibile, responsabile (accountability), centrata sui bisogni della persona. La sostenibilità di un sistema sanitario è oggi strettamente legata alla capacità di migliorare tutte le dimensioni della qualità dell’assistenza: sicurezza, efficacia, appropriatezza, coinvolgimento di cittadini e pazienti, equità ed efficienza. Tuttavia, i progetti di miglioramento hanno generalmente una dimensione locale, sono spesso sostenuti solo dal volontarismo, definiti nel tempo e solo raramente vengono pubblicati. Le scelte politiche e le modalità di pianificazione, organizzazione ed erogazione dei servizi sanitari hanno messo progressivamente in discussione l’art. 32 della Costituzione e i principi fondamentali del SSN. Il protrarsi di questo status ha determinato inaccettabili diseguaglianze, sta in qualche modo danneggiando la salute dei cittadini e rischia di compromettere la dignità delle persone e la loro capacità di realizzare le proprie ambizioni. È ormai ampiamente confermata l’ipotesi che nelle realtà in cui il godimento (e non il semplice accesso, quand’anche normato) di servizi da parte dei migranti, sopratutto gli irregolari, è difficoltoso, se non negato o di qualità scadente, esistono più significativi differenziali di indicatori di salute per stratificazione sociale anche nella popolazione autoctona. La qualità della salute dei migranti, anche irregolari e, ancor meglio, il livello di accesso alle cure per i cittadini stranieri, è cartina di tornasole della qualità della salute nella comunità generale e termometro del grado di accoglienza e civiltà di un territorio. Dopo tanti anni di impegno diffuso e sperimentazioni concluse con effetti assai positivi, la situazione a livello nazionale è sconfortante: prassi disomogenee, parziale disapplicazione delle normative europee, nazionali e locali, sia nei confronti di stranieri regolarmente presenti, sia di stranieri temporaneamente presenti (STP), con la conseguente grave esclusione dal godimento del diritto alla salute per moltissimi cittadini stranieri. Tali studi hanno dimostrato infatti che possono vivere una vita più lunga e, allo stesso 122 tempo, più sana, le persone che provengono dai segmenti più avvantaggiati della società. Le persone che invece vivono in ambienti svantaggiati, con minori opportunità e minori risorse ancor più in età avanzata, sono suscettibili di avere la salute più a rischio e hanno maggiormente bisogno di supporto da parte dei sistemi di welfare. Questo fenomeno è ancor oggi dovuto ad una frequente mancanza d’informazione sia degli operatori sanitari che dei cittadini stranieri; la crisi economica inoltre ha distolto l’attenzione dalle problematiche organizzative e di comunicazione, per concentrarsi sul solo risparmio, determinando un tangibile impoverimento dei servizi e del loro orientamento al paziente. Nel caso dei cittadini stranieri immigrati, ancor più che per i cittadini italiani; gli sprechi sono perlopiù dovuti alle scarse conoscenze del sistema locale dei servizi, specie quelli territoriali, alle carenze “culturali” nel loro utilizzo (c’è maggiore conoscenze e fiducia nei servizi ospedalieri), ad una certa impreparazione dei professionisti e alla loro carente abilità comunicativa. 2. Alcuni elementi numerici I dati delle presenze di cittadini stranieri in Italia indicano chiaramente che il movimento naturale della popolazione straniera è ormai di gran lunga superiore a quello migratorio: le nascite hanno superato gli ingressi, il numero di acquisizioni di cittadinanza – per naturalizzazione e non solo per matrimonio – è di gran lunga superiore a quello registrato da qualsiasi forma di ingresso in violazione delle norme, l’allargamento della base della piramide demografica della componente straniera della popolazione non accenna ad arrestarsi e, di conseguenza, gli stranieri sono oggi oltre il 16% dei minori residenti nell’area metropolitana e sono oltre il 22% dei nati (una percentuale che in città sfiora ormai il 28%). I permessi di soggiorno rilasciati per ricongiungimenti familiari sono stabilmente al di sopra di quelli rilasciati per motivi di lavoro; quelli illimitati sono ormai la stragrande maggioranza e la loro crescita continua. La presenza straniera è sempre meno costituita di maschi giovani soli, o di donne adulte sole, e sempre più di famiglie. Nel 2014 un elevato numero di stranieri hanno acquisito la cittadinanza italiana: 130.000, parte dei quali diciottenni nati in Italia, hanno richiesto la cittadinanza e circa 4 casi su 10 riguardanti minori che hanno ricevuto la cittadinanza per trasmissione automatica dai genitori stranieri divenuti italiani. La popolazione complessivamente residente in Italia alla fine del 2014 (60.796.000) è caratterizzata da un’età media diventata più elevata (44,4 anni) e dall’aumentata incidenza degli ultrasessantacinquenni (21,7%). Gli immigrati costituiscono un parziale temperamento a questo processo di invecchiamento 123 perché sono mediamente più giovani degli italiani, incidono per circa un sesto sulle nuove nascite (75.000 nuovi nati da entrambi i genitori stranieri nel 2014). C’è poi l’impennata dovuta all’arrivo di profughi (170.000), giunti via mare dall’Africa e dall’Asia, seppure in buona parte interessati a raggiungere altri paesi esteri. La stragrande maggioranza dei richiedenti asilo è africana, primi paesi Nigeria, Gambia e Senegal. In pratica: questi arrivi stanno sostituendo la politica delle quote in ingresso per motivi di lavoro. Si è di fronte a un vero e proprio fenomeno epocale, da riferire agli sconvolgimenti in atto nei paesi di origine e alla loro transizione demografica. 25mila le richieste in Italia nei primi mesi del 2015 (erano state 65 mila in tutto il 2014). Le risposte negative aumentano dal 37 al 47%. La crescente caratterizzazione di stabilità del fenomeno migratorio si riflette nell’incremento del ricorso alle strutture del SSN; la progressiva acquisizione di cittadinanza tuttavia non consente un’esatta valutazione di questo fenomeno come in passato. La forte presenza di immigrati di recentissimo arrivo da paesi e appartenenze socio-culturali così diversi mette ulteriormente a dura prova il sistema e la possibilità di fare analisi precise mentre apre le porte al ritorno di paure per la salute pubblica del tutto infondate. Da ciò consegue che le valutazioni e i paragoni sia longitudinali che puntuali non sono più uno strumento sufficientemente preciso e quindi veramente utile per fornire indicazioni operative e di salute pubblica. Secondo le schede di dimissione ospedaliera (SDO) del Ministero della Salute nel 2014 sono stati erogati 9.526.832 ricoveri ospedalieri, di cui 477.510 per cittadini stranieri, pari al 5% del totale. Di questi 173.363 (36%) sono maschi: 27,0% africani, 25,7% UE, 20,7% altri paesi europei e 15,9% asiatici. Le femmine sono 304.147 (63,7%): 29,0% dell’UE, 22,7% di altri paesi europei, 21,7% africane, 14,5% asiatiche. Sono il 40,6% del totale (194.150) le SDO di cittadini stranieri fra i 25 e 44 anni; il 77,0% sono donne, di cui il 29,2% UE, il 23,5% africane, il 19,7% da paesi europei non UE e il 15,6% asiatiche. Nei maschi sono prevalenti i ricoveri ordinari nelle fasce 25-44 (25,6%) e 45-64 (22,1%) anni, per un totale di 82.754. Sono ben 41.675 (24,0%) i ricoveri per maschi entro l’anno di vita, che riguardano soprattutto gli africani (29,2%), seguiti da europei, europei non UE ed asiatici, tutti e tre con percentuali intorno al 21%. Nelle età seguenti c’è un trend modesto di crescita, fino ai 65 anni, dove si nota un brusco decremento. Escludendo il parto, le principali cause di ospedalizzazione sono riconducibili a patologie cardiovascolari e respiratorie e a interventi chirurgici per sostituzione di articolazioni maggiori o reimpianto degli arti inferiori. Per quanto riguarda l’attività in regime diurno, la principale causa 124 di ricovero è la somministrazione di chemioterapia con 1.529.370 giornate (2,3% rispetto al 2013). Come per gli italiani l’attività per acuti in regime ordinario è nettamente prevalente in ogni fascia d’età, seguita dall’attività per acuti in regime diurno, che sono stati 2.194.241; il 5,9% di questi nei confronti di cittadini stranieri. Dei 129.517 ricoveri in regime diurno (27,1% del totale dei ricoveri effettuati da cittadini stranieri). Le donne straniere in età fertile sono state 49.637, pari al 55,4%. Il picco, ragionevolmente imputabile al parto, ricalca quello delle donne italiane. I ricoveri effettuati in Toscana nel 2014 sono stati 36.422; di questi 11.572 sono stati eseguiti regime diurno (8,9% dei dimessi in regime diurno). Il 26,1% del totale (9.498) sono cittadini di altri paesi europei, dell’UE il 25,3% (9.228), dell’Asia il 19,6% (7.132), dell’Africa il 16,8 (6.121), il 7,3% dell’America (2.875), 0,2% dell’Oceania (69), il 0,1% apolidi (22) e il 4,2% (1.527) non sono attribuibili. Non sono ancora disponibili dati precisi sulla salute dei rifugiati e migranti di recente arrivo nella regione europea. I problemi di salute più frequenti sono simili a quelli della popolazione, anche se in qualche gruppo la prevalenza potrebbe essere superiore; sono prevalentemente costituiti da infortuni, ipotermia, scottature, eventi cardiovascolari, gravidanza e parto con relative complicazioni, diabete e ipertensione. Le donne soffrono di problematiche specifiche che, in particolare, riguardano la salute materna, riproduttiva, dei bambini e anche la violenza. L’esposizione dei migranti ai rischi connessi con i movimenti di popolazione – disordini psicosociali e nutrizionali, problematiche di salute riproduttiva, più alta mortalità neonatale, abuso di droghe, alcolismo ed esposizione alla violenza – aumentano in particolare la loro vulnerabilità nei confronti delle malattie non trasmissibili; lo spostamento infatti determina un’interruzione del trattamento che è cruciale nelle malattie croniche. I bambini, a causa delle inadeguate condizioni di vita, della scarsa igiene e dell’alimentazione insufficiente, vanno facilmente incontro a infezioni acute, in particolare delle vie respiratorie, diarrea e infezioni dermatologiche. I morti per annegamento sono stati già 1.867 nei primi sei mesi del 2015. Non esistono evidenze relative ad un’associazione sistematica fra migrazione e importazione di malattie infettive; piuttosto è dimostrata quella fra malattie infettive e povertà. I migranti provengono spesso da paesi in guerra o con profonde crisi economiche e intraprendono lunghissimi viaggi, che comportano maggiori rischi di contrarre anche malattie infettive, in particolare morbillo e infezioni causate da acque o cibo infetti. Lo sviluppo economico nei paesi europei ha determinato un miglioramento delle condizioni di vita: tubercolosi, 125 HIV/AIDS, epatite, morbillo e rosolia sono oggi scarsamente incidenti nelle regioni europee, seppure ancora presenti, indipendentemente dalle migrazioni. Questo succede anche per le malattie portate da vettori, come la Leishmaniosi – malattia curabile che non si trasmette da uomo a uomo – della quale si sono recentemente sviluppati focolai in Arabia e Siria. Il rischio di importare agenti infettivi rari ed esotici, come i virus Ebola, Marburg e Lassa o la MERS (Sindrome respiratoria del Medio Oriente) è estremamente basso; infatti i casi che si sono verificati in Europa non riguardavano rifugiati o migranti, ma turisti, viaggiatori o lavoratori della sanità. 3. Conclusioni Negli ultimi anni molti paesi si sono impegnati nella formulazione di politiche più inclusive e più sensibili nei confronti delle differenze culturali. Inoltre l’analisi degli attori coinvolti, delle forme organizzative assunte e dei criteri di aggregazione presenti consente di riflettere su quanto spazio i migranti hanno per poter esprimere la propria voce ed esercitare i loro diritti di cittadinanza nel sistema delle politiche sanitarie. I percorsi di inserimento dei migranti nelle strutture di welfare esistenti e il processo attraverso il quale i soggetti stranieri rientrano nelle welfare policies del nostro paese non rivelano una differenza formale rispetto alle opportunità previste, ma varia invece in maniera significativa e sostanziale l’effettiva possibilità di godimento di tali benefici. Si può infatti identificare una sorta di implementation deficit della legislazione e delle politiche che ne seguono, cioè una situazione in cui un diritto fondamentale esiste e viene riconosciuto, ma il suo effettivo godimento risulta difficile da realizzare concretamente. Gli stessi criteri che regolano le procedure amministrative e il margine di discrezionalità che conservano i diversi attori coinvolti rendono molto fragile la certezza dell’esistenza di un diritto creando una modalità di accesso al welfare di tipo differenziato. Il ruolo degli attori non istituzionali nel processo di decision making in particolare il ruolo degli immigrati, delle loro rappresentanze e delle associazioni di supporto è divenuto marginale e “invisibile”. È ormai divenuto abbastanza comune rilevare dati specifici sulle prestazioni fornite a cittadini stranieri a tutti i livelli, ma è ora indispensabile meglio comprendere l’effettivo accesso alle cure e, soprattutto ai servizi di base, perché più capillari, vicini alle persone e meno costosi per il SSN. I sistemi informativi dovrebbero ampliare il set di dati raccolti, approfondendone alcuni più rilevanti, per studiare, dimostrare e quantificare se le differenze già ipotizzate sull’utilizzo 126 dei servizi esistano veramente, per fornire poi indicazioni ai gestori che dovranno adottare poi soluzioni organizzative ad essi adeguate. È importante che ogni territorio faccia una riflessione sul rapporto tra i Servizi Sanitari e gli utenti immigrati, nel tentativo di evidenziare quali sono le maggiori difficoltà di accesso, identificare gli ostacoli di tipo strutturale, linguistico, psicologico e culturale e quali sono le misure formali e informali adottate, per rendere l’accesso al sistema dei servizi maggiormente sensibili al portato di diversità culturale dei migranti e di inserimento dei migranti nelle strutture diverse esistenti; questo processo porterà importanti miglioramenti anche per la popolazione autoctona. L’obiettivo generale dovrebbe essere quello di identificare i meccanismi che sono alla base dei processi di disuguaglianze nell’accesso ai servizi sanitari, considerando in particolare quel complesso intreccio di variabili non solo cliniche, epidemiologiche ed economiche, ma anche quelle socio-culturali e psicosociali, che generano condizioni di non equità. L’identificazione deve però essere finalizzata a predisporre azioni di governo a livello regionale e locale che promuovano anche processi partecipativi alle scelte di politica sanitaria, implementino una cultura orientata al principio della “cittadinanza delle differenze” e che portino a sistema scelte organizzative atte a contrastare forme di discriminazione, per garantire equità e ridurre i rischi per la salute. Al contempo bisognerebbe evitare la diffusione di informazioni imprecise, sommarie o distorte e comportamenti superficiali e non corretti, che possano suscitare allarmi ingiustificati. Da un lato infatti una parte dei giornalisti e dei media italiani sembrano animati da un’affannosa e maniacale vigilanza sui rischi di contagio rispetto ai nuovi arrivi di migranti e dall’altro si mostrano totalmente incuranti o incapaci di comprendere i rischi per la salute pubblica che il mancato accesso alle cure potrebbe comportare. Questi mezzi poi dovrebbero affiancare quelli messi in campo dalle istituzioni per incrementare gli interventi che mettano i professionisti della salute ed il cittadino in condizione di condividere le informazioni relative alla salute e, di conseguenza, di essere maggiormente consapevoli dei rischi legati ai propri comportamenti (vedi incidenti sul lavoro e domestici, abitudine al fumo, ecc.) anche per non dover duplicare prestazioni spesso costose: è noto infatti che gli stranieri vanno al PS più volte per la stessa patologia, meno dal MMG. Nel 2015 la spesa sanitaria è diminuita del 28,5%, ma è comunque necessario razionalizzarla; l’intervento, pur importante e imprescindibile, concerne un aspetto fondamentale del vivere sociale, il diritto alla salute e quindi anche la riduzione delle disuguaglianze. I cittadini stranieri che necessitano di cure soffrono una doppia malattia: quella organica e quella derivante dal mancato o difficoltoso accesso alle cure. In condizioni di crisi economica due strategie 127 permettono di sostenere le attività produttive: la prima consiste nell’investire meno risorse (tagli), la seconda nell’ottenere migliori risultati dalle risorse investite, previa identificazione ed eliminazione degli sprechi. La standardizzazione nell’approccio, derivata a volte da un’acefala applicazione dei Livelli Essenziali di Assistenza (LEA) rischia di rivolgere l’attenzione su aspetti epidemiologici e infettivologici generali, con ricadute non positive sia sui bisogni specifici del singolo sia sulla spesa sanitaria, senza peraltro un reale vantaggio in termini di salute pubblica. Ci sono iniziative invece che hanno già ottenuto buoni risultati e che possono essere diffuse e introdotte in altri contesti: occorre adottare il benchmarking delle buone pratiche. Poiché la quasi totalità della spesa ospedaliera è imputabile ai ricoveri per acuti in regime ordinario, si tratta di potenziare gli interventi atti ad aumentare la competenza culturale dell’intera organizzazione, a partire dai gestori e dirigenti, magari utilizzando risorse interne già formate o esperte, per dare un assetto organizzativo più consono alle esigenze di ciascun paziente, qualunque sia la sua cultura. Anche l’utilizzo razionale dei farmaci si identifica con il loro impiego corretto e appropriato: tutti i pazienti, pertanto, dovrebbero ricevere prescrizioni farmaceutiche appropriate secondo specifiche indicazioni terapeutiche, a dosaggi ottimali, per un adeguato periodo di tempo e al costo più basso per il sistema sanitario; questa competenza è davvero di pochi cittadini stranieri. Sono da monitorare attentamente l’uso e l’abuso di alcool e fumo nelle giovani generazioni, come pure l’incidenza e la prevalenza di malattie caratteristiche di determinate condizioni socio-ambientali o biologiche, specie se maggiormente prevalenti nei paesi di origine, come la TBC o il diabete, per favorire poi la compliance ai piani terapeutici a lunga scadenza. Le coperture vaccinali sono al limite soglia di sicurezza per quanto riguarda i minori italiani, mentre diversi studi mostrano come gli stranieri seguano in maniera corretta il calendario vaccinale definito dalle Regioni. Bisogna poi incrementare gli interventi che mettano i professionisti della salute e il cittadino in condizione di condividere le informazioni relative alla salute e, di conseguenza, di essere maggiormente consapevoli dei rischi legati ai propri comportamenti (vedi incidenti sul lavoro e domestici, abitudine al fumo, cura delle malattie croniche come diabete e ipertensione, ecc.) anche per non dover duplicare prestazioni spesso costose (gli stranieri vanno al PS più volte per la stessa patologia, meno dal MMG). L’ovvia ma importante necessità di mettere il cittadino al centro del sistema indica come priorità lo sviluppo di reti assistenziali che, ripensando ed integrando i modelli di assistenza territoriale, coinvolgano in maniera costante e organica operatori, medici, cittadini, istituzioni. Tra queste ultime, anche i Comuni devono giocare un ruolo chiave sul fronte della prevenzione e promozione della 128 salute, perché le politiche sociali sono complementari a quelle della salute e, se queste due politiche viaggiano insieme (come peraltro molte Regioni stanno finalmente realizzando attraverso assessorati unici), consentono risparmi considerevoli in termini di prevenzione ed anche di erogazione di servizi ai cittadini. In sintesi gli studi e le sperimentazioni effettuate in questi anni sono concordi nel segnalare la necessità e l’utilità di dare applicazione piena alle normative, organizzare campagne specifiche e mirate per migliorare l’autotutela della salute, organizzare percorsi assistenziali chiari e definiti, migliorare l’informatizzazione dei dati (elaborare una batteria di indicatori di tipo aggregato utilizzabili con il materiale statistico effettivamente disponibile, effettuare ricerche mirate per comunità o per malattia per programmare poi interventi mirati), ripresa della collaborazione con il volontariato e privato sociale (più duttile e disponibile all’incontro e alla educazione alla salute), incentivi specifici per i MMG, e, soprattutto, migliorare la competenza culturale dei professionisti. Da uno studio condotto a Milano su 348 persone – italiani ma soprattutto (93%) stranieri – che si sono rivolte agli ambulatori della Casa della Carità o del Centro San Fedele o al pronto soccorso dell’ospedale Sacco risulta che: “Potrebbero avere il medico di base, ma preferiscono la Casa della Carità. “Chiedono non solo una visita medica, ma anche ascolto” (Redattore Sociale 6/11/2015). 129 Capitolo 2 Accesso degli stranieri ai servizi sanitari in provincia di Arezzo di Giuseppe Cirinei 1. Popolazione straniera e salute La popolazione straniera residente, iscritta nelle anagrafi dei comuni della in provincia di Arezzo, è costituita da 37.786 persone (al 31/12/2014) e costituisce il 10,9% dell’intera popolazione provinciale. Dovendo tratteggiare aspetti che riguardano lo stato di salute di questa popolazione è utile tener presente alcune sue caratteristiche che nei precedenti rapporti dell’Osservatorio sono ampiamente trattate (1). Un effetto del processo di stabilizzazione della popolazione straniera, oltre a quello più volte descritto dell’aumento delle nascite, e quindi dei giovani di seconda generazione, è l’invecchiamento, ancora relativo se si raffronta alla popolazione italiana, ma chiaramente riscontrabile nei dati per classi di età, determinato sia dal naturale scorrere del tempo, sia dai ricongiungimenti familiari. Gli ultrasessantenni, che erano il 3,4% dei residenti stranieri in provincia di Arezzo nel 2001, sono il 6,7% nel 2014. Si tratta di un elemento da tenere in considerazione per la prevedibile relazione con la presenza di patologie più frequentemente correlate all’età. In realtà, come è anche abbastanza ovvio, siamo in presenza di più popolazioni, diverse, oltre che per lingua, cultura, tradizioni, anche per struttura. La variabilità risulta evidente confrontando, per ciascuna nazionalità, i parametri del sesso e dell’età e del lavoro, elementi che influiscono fortemente sulla tipologia del ricorso ai servizi sanitari, alle cure mediche e all’uso di farmaci. Citando solo le nazionalità più presenti, tra i provenienti da Polonia, Romania e Kossovo prevalgono largamente le donne, mentre tra coloro che vengono da India, Bangladesh e Pakistan sono in maggioranza gli uomini. E ancora, Polacchi e Rumeni con oltre 30 anni di età rappresentano rispettivamente il 73% e il 61% delle rispettive popolazioni, mentre tra gli indiani e i bengalesi gli over 30 non raggiungono il 50%. Anche se con un certo grado di approssimazione e sintesi, si può affermare che, nell’utilizzo dei servizi sanitari possono risultare differenti i consumi delle popolazioni polacca e rumena, costituite prevalentemente da donne non anziane ma certamente adulte, e popolazioni come quelle del Bangladesh, dell’India, della Macedonia, del Kosovo, costituite prevalentemente da uomini giovani. 130 Il lavoro costituisce un ulteriore fattore determinante dello stato di salute degli individui e delle comunità. I dati disponibili sulla distribuzione lavorativa degli stranieri e soprattutto delle nazionalità sono meno dettagliati di quelli su sesso ed età e prevalentemente riguardano il lavoro autonomo. Si possono tuttavia riscontrare presenze significative di alcune nazionalità in settori lavorativi che possono avere rilevanza rispetto alle condizioni di salute: i rumeni nelle costruzioni, gli albanesi nei trasporti, macedoni e pakistani in agricoltura (2). Vi è poi tutto il settore del lavoro domestico, che comprende anche il lavoro di cura delle persone (cosiddette badanti). I dati disponibili dell’Osservatorio quantificano la presenza straniera in questo ambito ed in particolare la elevata presenza delle donne straniere, che raggiungono il 76 % di tutti i lavoratori domestici. Le nazionalità a maggior presenza femminile (Polonia, Romania) sono quelle che contribuiscono di più a questa attività (3). Tutto ciò suggerisce la necessità per il prossimo futuro di cambiare l’organizzazione, la disaggregazione e l’analisi dei dati riguardanti la salute della popolazione straniera presente: probabilmente occorre superare definitivamente l’aggregazione per “stranieri” che può portare ad una sottovalutazione di problemi particolari presenti in gruppi a rischio e passare ad una analisi per ciascuno di questi gruppi definiti sulla base dell’attività lavorativa, dell’età, del sesso e anche della nazionalità, intesa come rischio aggiuntivo per differenze di cultura, di lingua e di condizione sociale. 2. L’accesso ai servizi sanitari L’utilizzo dei servizi sanitari da parte della popolazione straniera residente in provincia di Arezzo è cresciuto e, per alcuni aspetti, migliorato nel corso degli anni, in virtù di un processo di integrazione degli stranieri da un lato e dell’adeguamento dei servizi dall’altro, favoriti entrambi da iniziative specifiche messe in atto dalla struttura sanitaria anche attraverso le attività di mediazione culturale dedicate. Tutti i dati riportati di seguito, le tabelle e i grafici, sono forniti dall’ASL 8 di Arezzo, descrivono e quantificano l’utilizzo ed evidenziano anche alcuni problemi aperti. L’iscrizione all’anagrafe sanitaria e la scelta del medico L’iscrizione all’anagrafe sanitaria e la conseguente scelta del medico di medicina generale costituiscono di fatto il primo passaggio per l’accesso ai servizi sanitari dell’SSN. Un alto livello di adesione a questa procedura da parte dei cittadini stranieri è considerato un segnale di buona integrazione. 131 Nel 2014 i cittadini stranieri che all’anagrafe sanitaria risultano assistiti da un medico (medico di medicina generale o pediatra) erano 31.090, pari al l’82% dei residenti. La Tabella 1 riporta i dati dell’ultimo quinquennio; il confronto tra le classi d’età evidenzia l’aumento della classe “oltre 55” a conferma della tendenza all’invecchiamento della popolazione straniera residente. Tabella 1 - Cittadini stranieri assistiti da un medico di medicina generale o dal pediatra di libera scelta per classe di età, a confronto con i residenti (anni 2010-2014) Classe di età 2010 2011 2012 2013 2014 0-14 6.627 6.617 6.395 6.199 5.981 15-54 23.175 22.411 22.058 21.444 21.573 Oltre 55 2.385 2.584 2.959 3.263 3.536 Totale assisiti 32.187 31.612 31.412 30.906 31.090 Totale residenti 37.691 39.480 40.326 37.598 37.786 Differenza assistiti/residenti -5.504 (15%) -7.868 (20%) -8.914 (22%) -6.692 (18%) -6.696 (18%) È da notare che il numero degli assistiti è abbastanza stabile attorno alle 31.000 persone con uno scarto fra assistiti e residenti che oscilla tra il 15% e il 20%. Su questo scarto varrebbe la pena indagare ulteriormente perché potrebbe rivelare problemi di accesso o di informazione riguardanti specifici gruppi di cittadini nel caso che i non assistiti fossero concentrati in alcune nazionalità, o classi di età, o categorie lavorative, o altro. D’altra parte la riduzione di questo scarto è un obiettivo da perseguire. E’ vero che generalmente, nella popolazione, non tutti gli aventi diritto scelgono il medico di fiducia, ma mentre gli italiani non iscritti hanno spesso altre opportunità (strutture private), gli stranieri non iscritti o ricorrono impropriamente al pronto soccorso, o si rivolgono al volontariato o non si curano affatto. La tutela della gravidanza e il parto Nel corso dell’anno 2014 nelle strutture della ASL 8 di Arezzo sono nati 606 bambini da madre straniera, che corrispondono al 27,10% di tutti i nati. Il forte contributo alla natalità locale da parte della popolazione straniera è un dato conosciuto e consolidato nel tempo e, notoriamente, limita il calo demografico dovuto alla riduzione della natalità della popolazione autoctona. Osservando la serie storica dei nati dal 2001 al 2014 (Grafico 1) si vede chiaramente l’aumento dei nati da madre straniera, che è andato di pari passo con il crescere delle presenze. A partire dal 2008 più di uno su quattro nati nelle strutture della ASL è di madre straniera. 132 Questo dato ha un forte significato per la programmazione e l’organizzazione della struttura sanitaria, della struttura scolastica e, più in generale, di tutti i servizi per l’infanzia. Tuttavia negli ultimi anni sembra accennarsi un cambiamento: dopo il 2011 in cui i nati da madre straniera hanno sfiorato il 30%, nei tre anni successivi si è manifestato un leggero calo e il dato si è attestato intorno al 27%. È troppo presto per dire se questa tendenza sarà confermata, se è causata da una diminuzione dei tassi di natalità nella popolazione immigrata, quasi un inizio di adeguamento alle modalità della popolazione italiana o da una diminuzione delle presenze nel territorio, come sembrerebbe confrontando il dato dei nati e quello dei residenti. Grafico 1- Percentuale di nati nelle strutture ospedaliere dell’Azienda USL 8 da madri di cittadinanza straniera e presenza degli stranieri. Anni 2001-2014 Un secondo dato che nei prossimi anni andrà monitorato per capire se è in corso un cambiamento di comportamenti è quello relativo all’ età media della donna. Le straniere che partoriscono hanno un’età media di 29 anni, sono più giovani delle italiane (33 anni), ma l’età media al primo parto è andata aumentando negli anni: nel 2001 era 25 anni, mentre nel 2014 è salita a 27 anni. Ciò che invece appare con più certezza è il peggioramento della condizione sociale delle donne straniere: - il 73% delle madri straniere non ha un’occupazione, rispetto al 23% delle le italiane, con un peggioramento del dato, che nel 2011 era rispettivamente del 69% e 19%; - nel 10% dei casi risultano non occupati entrambi i genitori, nel 2011 ciò avveniva nell’ 8% dei casi; - infine il 37% delle donne straniere ha un titolo di studio più basso del diploma di scuola media superiore (il 16% tra le italiane). Un altro dato problematico riguarda gli indicatori relativi all’esito della gravidanza: in particolare la prematurità (nato prima della 37ma settimana) e il 133 basso peso alla nascita (nato di peso inferiore a 2,500 Kg) continuano ad essere, come negli anni precedenti, più frequenti per le donne straniere rispetto alle italiane, segnalando così un fattore di rischio sul quale l’informazione e le attività di prevenzione potrebbero agire in modo determinante. Del resto è noto che prematurità e basso peso alla nascita sono in relazione anche alle condizioni socio economiche della madre e all’andamento della gravidanza. La Tabella 2 riporta i dati cumulati del triennio 2012-2014 disaggregando, per il basso peso i nati con peso molto basso (meno di 1,500 Kg) e per la prematurità i gravemente prematuri (meno di 32 settimane). Tabella 2 - Esiti della gravidanza per cittadinanza della madre. Triennio 2012-2014 Da madre italiana Nati vivi Basso peso Peso molto basso Prematuri Gravemente prematuri Da madre straniera Numero 280 17 % su nati vivi 5,6 0,3 Numero 133 18 % su nati vivi 7,0 1,0 262 22 5,2 0,4 141 19 7,5 1,0 La struttura sanitaria cui si rivolgono in grande prevalenza le donne straniere durante la gravidanza è il Consultorio familiare, scelto dal 70% delle donne, dato che conferma una tendenza consolidata e riportata anche nei rapporti precedenti. Tabella 3 - Struttura che ha seguito la gravidanza (anno 2014) Struttura Donne straniere Numero % Ospedale 80 13,2 Consultorio 427 70,5 Studio privato 94 15,5 Nessuna 5 0,8 606 100,0 Totale In realtà tra italiane e straniere si riscontra un atteggiamento opposto riguardo all’utilizzo delle strutture pubbliche: oltre il 76% delle italiane si rivolge a studi privati, le straniere per quasi l’84% utilizzano la struttura pubblica (ospedale e consultorio). Un dato che l’Azienda USL rileva e segnala come positivo consiste nel fatto che l’accesso al Consultorio coincide con il ritiro del libretto di gravidanza e l’inserimento nel programma regionale di tutela con il piano di esami e controlli previsti e gratuiti: questa appare una condizione favorevole allo sviluppo di 134 iniziative di educazione sanitaria e di prevenzione mirate soprattutto ad incentivare i controlli durante la gravidanza. I dati relativi alle visite e alle ecografie effettuate costituiscono un buon indicatore per valutare l’adesione delle donne ai programmi di prevenzione e della buona organizzazione dei servizi di tutela della gravidanza. (Tabelle 4 e 5). Tabella 4 - Settimane di gravidanza compiute alla prima visita di controllo (anno 2014) Settimane compiute Italiane Alla prima visita di controllo Straniere Numero % Numero % 0 - 12 1.572 97,0 548 90,6 13 - 24 43 2,7 48 7,9 Oltre 24 5 0,3 9 1,5 1.620 100,0 605 100,0 6 - 1 - Totale Non rilevata La prima visita effettuata entro la 12ma settimana di gestazione è considerato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) un indicatore di buona assistenza in gravidanza; purtroppo il 9,4% delle donne straniere, (il 3% delle italiane) effettua ancora la prima visita oltre le 12 settimane, anche se il dato è in miglioramento essendo stato nel 2011 pari all’11%. Tabella 5 - Ecografie effettuate durante la gravidanza (anno 2014) Numero di ecografie Italiane Straniere Effettuate Numero % Numero % Da 1 a 2 9 0,5 26 4,3 130 8,0 217 35,8 Da 4 a 9 1.211 74,5 333 55,0 10 e oltre 276 17,0 30 4,9 1.626 100,0 606 100 3 Totale Un andamento simile risulta anche riguardo al numero di ecografie effettuate durante la gravidanza: si registra ancora un 4,3% di donne straniere che effettuano meno delle 3 ecografie previste nel protocollo regionale (nel 2011 il 5,9%), in un quadro però di miglioramento complessivo dei dati, in quanto il 60% delle straniere ha effettuato più di tre ecografie (nel 2011 il 57%) e nessuna donna dichiara di non aver fatto alcuna ecografia. I corsi di accompagnamento alla nascita vengono poco frequentati dalle donne straniere (Tabella 6) nonostante l’alto utilizzo del consultorio da parte di queste 135 gravide. In ogni caso il loro numero è in aumento negli ultimi 5 anni, così come avviene per le italiane. Tabella 6 - Numero utenti che ha frequentato il corso di accompagnamento alla nascita per 100 parti (anni 2010-2014) Straniere Italiane 2010 13% 55% 2011 15% 58% 2012 17% 69% 2013 17% 62% 2014 19% 65% È evidente l’importanza della partecipazione a questi corsi, che sono allo stesso tempo spazio di socializzazione e integrazione, occasione di educazione e informazione sanitaria e, in definitiva, strumento per migliorare l’accesso ai servizi; un miglioramento di tale partecipazione può essere conseguito con iniziative che aiutino a superare problemi linguistici e differenze culturali. La Tabella 7 mostra il più generale utilizzo dei consultori operanti nella ASL 8 da parte delle donne straniere per le diverse attività presenti nelle strutture. Tabella 7 - Attività dei consultori della USL 8 e frequenza delle donne straniere (anno 2014) Donne straniere Attività nei consultori della USL 8 Totale N % N % Numero utenti di sesso femminile 4.338 16 26.528 100 Numero di accessi 10.482 21 49.828 100 2,4 - 1,9 - Accessi medi per utente Numero di utenti per area di intervento Maternità 1.197 26 4.457 100 Contraccezione 479 28 1.739 100 Altre tematiche ginecologiche 565 19 2.996 100 IVG 253 51 494 100 Sterilità 34 30 114 100 1.576 10 15.652 100 Numero di libretti di gravidanza consegnati 769 27 2.859 100 Numero utenti al corso di accompagnamento alla nascita 118 10 1.215 100 Prevenzione oncologica I dati sono molto simili a quelli rilevati nel 2011 e confermano che il Consultorio è una struttura di riferimento per buona parte della popolazione femminile immigrata, che costituisce il 16% di tutta l’utenza consultoriale e che determina il 21% degli accessi. 136 Interruzioni volontarie di gravidanza (IVG) Nelle strutture della USL 8, nel 2014, sono state effettuate 478 interruzioni volontarie di gravidanza (IVG); il 45 % di queste riguarda donne con cittadinanza straniera. Il fenomeno delle IVG nel suo complesso risulta in costante diminuzione in tutta la Regione Toscana. La diminuzione è più marcata, negli ultimi cinque anni, per le residenti nella USL 8 di Arezzo per le quali il tasso di spedalizzazione è costantemente inferiore a quello regionale. La scomposizione del dato per nazionalità della donna conferma tuttavia il noto problema dell’eccesso di IVG delle donne straniere rispetto alle italiane. Nonostante il trend in diminuzione per le straniere, il tasso resta molto alto e soprattutto molto lontano da quello delle italiane (Grafico 2). Grafico 2 - Tassi di ospedalizzazione IVG per 1.000 donne residenti in età feconda (15-49 anni) per cittadinanza della donna (anni 2008-2013) 30 25,9 23,3 25 22,6 20,3 19,5 20,9 20 15 10 6,4 5,5 5,6 5,2 5,1 5,2 2008 2009 2010 2011 2012 2013 straniere italiane 5 0 Tra le nazionalità quelle che contribuiscono di più all’alto numero di IVG sono la Rumena (con il 46% di tutte le IVG di donne straniere), l’Albanese (con il 10%), la Cinese (con il 7%), e l’Indiana (con il 6%); questo aspetto è stato rilevato ed analizzato anche in precedenti rapporti dell’Osservatorio (4) ed è stato oggetto di azioni specifiche da parte dei Servizi sanitari per contenerlo. Nonostante ciò il problema rimane soprattutto per Rumene, Cinesi e Indiane, per le quali la percentuale di IVG è superiore alla percentuale di donne nella popolazione residente. Un aspetto particolarmente importante riguarda le cosiddette IVG ripetute che, per quanto in lieve diminuzione, resta grave: il 28% delle IVG effettuate sono ripetute, ma tra le cittadine straniere la percentuale sale al 41%. 137 Ricoveri ospedalieri I ricoveri di cittadini stranieri presso le strutture ospedaliere della USl 8 durante il 2014 sono stati 3.460 e costituiscono il 7% dei 50.620 ricoveri totali (Tabella 8). La maggior parte dei ricoveri si rilevano nelle prime classi di età, coerentemente con la composizione della popolazione immigrata, con una consistente percentuale (16%) nella classe da 14 a 44 anni per il contributo delle donne ricoverate per il parto. Tabella 8 - Dimessi dalle strutture ospedaliere della USL 8 per cittadinanza e classe di età (anno 2014) 0 - 14 Cittadinanza 14 - 44 45 - 54 55 - 64 65 + Tot. N % N. % N. % N. % N. % N. % 3.246 80 9.671 84 4.961 94 6.215 96 23.067 99 47.160 93 Straniera 814 20 Tot. dimessi da strutture USL8 4.060 100 1.827 16 344 6 271 4 204 1 3.460 7 11.498 100 5.305 100 6.486 100 23.271 100 50.620 100 Italiana Notoriamente i tassi di ospedalizzazione della popolazione straniera residente sono più bassi della popolazione italiana essendo il dato fortemente influenzato dalla composizione per età. Anche considerando separatamente le tre fasce di età 0-14, 14-44 e 45-54 anni (è esclusa dal confronto la fascia più anziana), il tasso grezzo di ospedalizzazione degli stranieri nella USL 8 resta più basso rispetto agli italiani; da notare che per i maschi nella fascia 0-14 i due valori si avvicinano molto (Grafico 3). Grafico 3 - Tassi grezzi di ospedalizzazione per 1000 abitanti, per cittadinanza e classe di età (anno 2014) 138 L’unica eccezione è costituita dalle donne nella fascia da 14 a 44 anni per le quali il tasso delle straniere supera abbondantemente quello delle italiane, effetto riconducibile ai ricoveri per gravidanza e parto. Riguardo alle cause del ricovero ospedaliero la tabella 9 mostra distintamente per uomini e donne le prime cause di ricovero dei cittadini stranieri secondo la classificazione ICD. Per una miglior comprensione del dato si sono esclusi dalla tabella i ricoveri per gravidanza e parto che ammontano, nei due anni considerati, a 2.044, pari al 45% di tutti i ricoveri delle donne e i ricoveri per fattori che influenzano lo stato di salute; in quest’ultima voce vengono classificati ricoveri per trattamenti vari di tipo diagnostico o terapeutico non riconducibili al resto della classificazione. Complessivamente le prime cause di ricovero sono le stesse sia per gli uomini che per le donne, ma con ordine di frequenza differente. Le differenze percentuali più importanti riguardano i traumatismi e avvelenamenti, 13% per gli uomini e 6 % per le donne, e al contrario i tumori con il 13 % per le donne, rispetto al 5% per gli uomini. Tabella 9 - Le prime cause di ricovero per i cittadini stranieri (escluso gravidanza e parto e fattori che influenzano lo stato di salute). Valori e percentuali (anni 2013-2014 cumulati) Donne Causa ricovero Uomini Num. % Causa ricovero Num. % Malattie dell’Apparato Digerente 312 16,3 Malattie dell’Apparato Digerente 278 15,3 Tumori 254 13,3 Malattie del Sistema Circolatorio 241 13,3 Malattie del Sistema Genitourinario 245 12,8 Traumatismi E Avvelenamenti 221 12,2 Malattie del Sistema Circolatorio 233 12,2 Malattie dell’Apparato Respiratorio 211 11,6 Malattie dell’Apparato Respiratorio 190 9,9 Malattie del Sistema Genitourinario 158 8,7 Malattie del Sistema Osteomuscolare e del Tessuto 175 9,2 Malattie del Sistema Osteomuscolare e del Tessuto 153 8,4 Traumatismi e Avvelenamenti 120 6,3 Tumori 95 5,2 383 Altre cause escluso fattori che influenzano lo stato di salute e il 20,0 ricovero ospedaliero 461 25,4 Altre cause escluso il parto e fattori che influenzano lo stato di salute e il ricovero ospedaliero Totale 1.912 100,0 Totale 1.818 100,0 Accessi al pronto soccorso Nel 2014 gli accessi al pronto soccorso nelle strutture ospedaliere della USL 8 sono stati 150.566, dei quali 18.196 effettuati da cittadini stranieri. È noto il fenomeno del ricorso improprio alle prestazioni di pronto soccorso, che riguarda sia cittadini italiani che stranieri. 139 Nel Grafico 4 sono messi a confronto gli accessi in codice bianco e blu di italiani e stranieri per fasce di età; i codici bianchi e blu (pazienti con problemi di salute non gravi che possono essere affrontati in modo differito o da strutture territoriali) sono generalmente considerati indice di accesso non appropriato. Si nota un maggior ricorso improprio al pronto soccorso degli stranieri ma, per le singole fasce di età, ad eccezione della pediatrica, le differenze non sono grandi se si tiene anche conto del deficit di informazioni sull’uso di servizi alternativi. In una indagine del 2011 risultava che il 42% degli stranieri intervistati ignorava l’esistenza del servizio di guardia medica notturna e festiva e di coloro che ne conoscevano l’esistenza il 34% non avrebbe saputo come attivarlo (5). Grafico 4 - Accessi al pronto soccorso Usl 8 in codice bianco e blu in percentuale (anno 2014) L’età pediatrica (0-14 anni) è quella che ricorre maggiormente in modo non appropriato al pronto soccorso sia tra gli italiani che tra gli stranieri, con una percentuale più alta da parte di questi ultimi che arriva al 45% degli accessi. In questo ambito probabilmente si accentua, oltre che la scarsa informazione, anche la mancanza di servizi alternativi nel territorio. Conclusioni analoghe si possono trarre anche considerando gli accessi al pronto soccorso che non hanno dato luogo a ricoveri in ospedale. Adesione ai programmi di prevenzione L’azienda USL 8 realizza alcune iniziative di prevenzione che interessano tutti i cittadini residenti, italiani e stranieri; in particolare vengono sviluppati programmi di screening antitumorale per il tumore della mammella, del collo dell’utero e del colon-retto. L’adesione a tali programmi è del tutto volontaria, ma il livello raggiunto ha un duplice significato: da un lato costituisce un elemento intrinseco di tutela della salute, dall’altro può indicare la fiducia dei cittadini nel servizio sanitario pubblico, la corretta informazione sui fattori di rischio, per i cittadini stranieri può indicare il livello di integrazione sociale 140 conseguito. Per i tre screening citati è possibile misurare il livello di adesione in quanto il programma prevede l’invito da parte della USL ai cittadini nelle fasce di età a rischio e la conseguente registrazione di coloro che si presentano. Tabella 10 - Screening antitumorali: invitati e rispondenti residenti in provincia di Arezzo per età e stato di nascita (2014) Classi di età Invitati Italia Rispondenti Estero Italia Estero Differenza % nati all'estero vs nati in Italia Adesione corretta % Estero Italia Screening mammografico 50-54 4.277 804 3.068 432 73,1 67,1 -8,3 55-59 4.864 880 3.634 389 76,0 61,7 -18,8 60-64 4.491 550 3.117 197 71,1 49,4 -30,5 65-69 4.908 383 3.529 113 73,3 47,3 -35,5 Totale 18.540 2.617 13.348 1.131 73,4 59,2 -19,5 Screening cervice uterina 25-29 2.507 567 30-34 2.135 476 35-39 2.543 535 40-44 3.517 605 45-49 3.958 50-54 55-59 1089 220 60,5 40,7 -32,7 879 200 61,3 47,1 -23,2 1.178 291 66 59,9 -9,2 1.672 296 63,4 52,5 -17,2 575 1.899 289 63,6 53,7 -15,6 3.929 440 1.978 211 64,5 50,2 -22,2 3.264 342 1.815 144 68,9 45,1 -34,5 60-64 3.121 190 1.665 79 65,9 43,6 -33,8 Totale 24.974 3.730 12.175 1.730 64,5 49,8 -22,8 Screening colon retto 50-54 10.054 1.415 4.741 548 49,5 50,7 2,5 55-59 9.942 804 5.385 360 56,8 56,6 -0,3 60-64 9.989 502 6.018 246 63,5 59,7 -5,9 65-69 1.0692 239 6.552 93 64,7 46,5 -28,1 70+ 1.709 27 970 16 60,1 69,6 15,8 Totale 42.386 2.987 23.666 1.263 58,7 53,7 -8,6 La Tabella 10, come tutte le altre di fonte ASL 8, mostra i dati relativi al 2014 derivanti dal flusso informativo SCR, secondo i criteri dell’Osservatorio Nazionale Screening (ONS) presso il Ministero della Salute e del Centro di Riferimento Regionale presso ISPO di Firenze. L’adesione allo screening calcolata in percentuali di rispondenti, viene corretta depurando il dato da coloro che all’invito hanno risposto di aver già effettuato l’esame per proprio conto per 141 varie ragioni. Come si nota, l’adesione più bassa si verifica per lo screening della cervice uterina, dove per le straniere non si raggiunge la copertura del 50%, mentre la più alta è per lo screening del tumore della mammella. Complessivamente l’adesione degli stranieri è più bassa rispetto agli italiani per tutti e tre gli esami; la differenza si attenua per la prevenzione del tumore del colon. 3. Conclusioni I dati descritti in precedenza suggeriscono le seguenti considerazioni: 1- L’accesso ai servizi sanitari della ASL8 da parte della popolazione straniera residente si è mantenuto allineato con la crescita delle presenze nel territorio provinciale. Alcuni dati come l’iscrizione all’anagrafe assistiti, l’alto utilizzo dei consultori da parte delle donne straniere, l’adesione ai programmi di prevenzione, fanno pensare ad un buon livello di fiducia verso il servizio pubblico e ad una crescente stabilizzazione e integrazione dei cittadini stranieri. 2- Per contro, gli stessi dati, segnalano problemi ancora aperti: l’insufficiente effettuazione dei controlli in gravidanza, gli accesi impropri al pronto soccorso, la stessa adesione ai programmi di prevenzione che, pur superando il 50%, è ancora inferiore rispetto alla popolazione italiana. Sono tutti comportamenti che richiamano la necessità di iniziative di informazione e educazione sanitaria mirata alle diverse nazionalità e ai diversi temi. Nelle strutture sanitarie dell’ASL opera stabilmente da anni un servizio di mediazione culturale gestito da Oxfam-intercultura che svolge un ruolo fondamentale nel facilitare l’accesso alle prestazioni da parte dei cittadini stranieri e che ha fornito in un anno 1.197 ore di mediazione. Probabilmente però è necessario affiancare a questo servizio, che intercetta gli utenti nel momento che si presentano alla struttura, ulteriori attività più generalizzate nel territorio, sia mediante adeguati strumenti di comunicazione, sia mediante azioni programmate dei servizi di base, come la rete delle Case della Salute. 3- Più difficile risulta valutare i problemi di salute della popolazione straniera. In realtà la difficoltà riguarda anche la popolazione italiana dal momento che i dati più comunemente disponibili sono soprattutto dati relativi alle prestazioni effettuate (accessi, ricoveri, visite, esami etc.) e non ai determinati di salute (rischi ambientali, rischi lavorativi, rischi alimentari, condizioni sociali etc.). Anche la condizione generica di straniero o immigrato, comunemente usata, non è molto significativa rispetto a problemi di salute, così come del resto non lo è quella di italiano. 142 Riprendendo considerazioni fatte all’inizio, la popolazione straniera è ormai fatta da tante popolazioni che per età, cultura e condizione presentano determinanti di salute profondamente diversi. E’ allora necessario affiancare ai dati relativi agli accesi e alle prestazioni i dati relativi alle varie tipologie di rischio, alla loro distribuzione nel territorio, alla loro distribuzione tra gruppi omogenei di popolazione. Per una valutazione di questo tipo oggi i flussi informativi sono ancora carenti. C’è anche un problema strutturale e organizzativo dei sistemi informativi che sono ancora costruiti in maniera separata e poco comunicante: sistema informativo sanitario, sistema informativo sociale, sistema informativo ambientale, previdenziale, ecc. Una nuova progettazione di tali strumenti, che avesse l’obiettivo di fornire elementi utili alla promozione della salute e in generale del benessere della popolazione, dovrebbe riunificare su base territoriale la disponibilità, l’elaborazione e l’analisi dei dati provenienti dai diversi ambiti settoriali; l’esperienza degli Osservatori provinciali, sottratta al processo di centralizzazione purtroppo in corso, potrebbe essere un valido punto di partenza. Note (1) Osservatorio sulle Politiche Sociali Provincia di Arezzo, Sezione Immigrazione. Rapporto n. 41, dicembre 2013; Rapporto n. 48, dicembre 2014. (2) Osservatorio sulle Politiche Sociali Provincia di Arezzo, Sezione Immigrazione. Rapporto n. 36, ottobre 2011. (3) Osservatorio sulle Politiche Sociali Provincia di Arezzo, Sezione Immigrazione. Rapporto n. 30, ottobre 2010. (4) Osservatorio sulle Politiche Sociali Provincia di Arezzo, Sezione Immigrazione. “Interruzioni volontarie di gravidanza tra le donne rumene: il caso studio di Arezzo”, in Vivere insieme. Quarto rapporto sull’immigrazione, Oxfam Italia, Arezzo, 2012. (5) Osservatorio sulle Politiche Sociali Provincia di Arezzo, Sezione Immigrazione. Rapporto n. 33, maggio 2011. 143 Capitolo 3 Cittadini stranieri e uso dei farmaci in provincia di Arezzo* di Giuseppe Cirinei e Giovanna Dallari 1. Introduzione Dal punto di vista gestionale la conoscenza dei dati sul consumo dei farmaci è fondamentale per mettere in atto iniziative adeguate a migliorarne l’appropriatezza dell’uso e, di conseguenza, razionalizzare la spesa per il Servizio Sanitario Nazionale (SSN) e per i pazienti stessi. Per quanto riguarda la conoscenza dello stato di salute, questa informazione, associata ad altre fonti di natura sanitaria e sociale, può contribuire a valutare meglio la distribuzione di patologie e disagi nel territorio e comunque a suggerire l’opportunità di particolari attenzioni o approfondimenti al fine di programmare interventi appropriati e mirati. Tutto ciò è vero in termini generali e lo è ancor più per sottogruppi specifici di popolazione quali la popolazione straniera nelle sue diverse componenti. Questa indagine descrive ed analizza la prescrizione farmaceutica nella popolazione straniera regolarmente residente in provincia di Arezzo, mediante l’elaborazione di tutte le prescrizioni farmaceutiche (ricette) rilasciate a cittadini stranieri, nel corso del 2013, da parte dei Medici di Medicina Generale (MMG), dei Pediatri di Libera Scelta (PLS) e dei servizi specialistici territoriali, registrate dalla U.O.C. (Unità Operativa Complessa) Farmaceutica territoriale dell’Azienda USL 8 di Arezzo, Toscana. Il quadro informativo risultante dai dati relativi alle prestazioni specialistiche, diagnostiche o di ricovero ospedaliero viene così ampliato, per la parte della popolazione straniera regolare, con i dati che descrivono la dimensione e le modalità di accesso all’uso dei farmaci, elemento importante nell’insieme dei servizi disponibili per la tutela della salute. L’indagine si propone di: - descrivere il consumo di farmaci degli stranieri residenti, per fascia di età, sesso e nazionalità; - quantificarne il costo a carico del SSN; - analizzarne il consumo di specifici gruppi di farmaci; - individuare eventuali differenze nel consumo fra specifici sottogruppi di popolazione; 144 - offrire ai gestori dei servizi socio-sanitari ed ai responsabili delle politiche locali spunti per un miglioramento dei servizi territoriali. Per una visione generale del problema, nella prima parte, è riportato un quadro di sintesi sul consumo di farmaci erogati a cittadini italiani e stranieri, a livello nazionale dal S.S.N. Alcuni limiti dell’indagine suggeriscono la necessità di ulteriori approfondimenti per una comprensione più completa dei fenomeni: - i dati riguardano solo gli stranieri residenti e quindi una parte preponderante numericamente, ma pur sempre incompleta riguardo alle problematiche che possono influenzare lo stato di salute e l’accesso ai servizi; i dati relativi alle prescrizioni per stranieri con codice STP sono risultati di dubbia interpretazione sia per una difficile lettura degli archivi, sia per il basso numero di queste registrazioni; - l’utilizzo dei farmaci preso in considerazione è solo quello derivante dalle ricette a carico del S.S.N. e quindi resta fuori tutto il consumo di prodotti farmaceutici acquistati senza ricetta; - per alcune delle nazionalità esaminate (le maggiormente presenti numericamente nella provincia), i dati di prescrizione per alcune categorie di farmaci sono particolarmente bassi: ciò suggerisce cautela nelle valutazioni dei risultati. 2. I dati nazionali sul consumo di farmaci Per quanto riguarda l’uso dei farmaci, secondo il Rapporto ISTAT-Ministero della Salute, gli stranieri scelgono soprattutto terapie convenzionali e farmaci prescritti da medici italiani; infatti uno straniero su cinque ha fatto uso di farmaci nelle due settimane precedenti l’intervista (20,6%), con incidenze superiori al crescere dell’età, in particolare dopo i 45 anni. Le donne straniere fanno un uso maggiore di medicinali (il 23,7% contro il 17,1% degli uomini). Indipendentemente dal genere, il consumo di farmaci è maggiore tra i cittadini comunitari (22,0%). Nella gran parte dei casi i farmaci sono stati assunti dietro prescrizione o consiglio di un medico italiano (78,9%), tendenza che riguarda tutte le collettività. Il 10,8%, invece, si affida all’iniziativa personale e il 9,5% segue le indicazioni del farmacista; appena il 3,1% assume farmaci dietro consiglio di medici connazionali. I farmaci sono acquistati quasi esclusivamente nelle farmacie italiane (82,8%). Tuttavia il 6,6% usa farmaci acquistati sia in farmacie italiane, sia all’estero. Più inclini all’uso di farmaci provenienti solo dall’estero o comunque non disponibili 145 nelle farmacie italiane sono i cinesi (6,7% rispetto all’1% del totale degli stranieri). Il ricorso a terapie di cura non convenzionali è poco diffuso. Negli ultimi tre anni appena il 3,1% degli stranieri si è rivolto alla medicina tradizionale cinese o indiana, all’agopuntura, all’omeopatia o ad altri rimedi di cura non convenzionale. Incidenze superiori si osservano per le sole comunità asiatiche e, in particolare, per quella cinese (17,7%). Lo studio “Farmaci e Immigrati. Rapporto sulla prescrizione farmaceutica in un Paese multietnico” (2013) descrive e analizza i consumi di farmaci erogati in favore di immigrati con cittadinanza di paesi a forte pressione migratoria, nati all’estero o in Italia, regolarmente residenti, in un campione di ASL italiane, derivati da prescrizioni territoriali effettuate a carico del SSN nel 2011 ed erogate attraverso le farmacie pubbliche e private, inclusi i farmaci appartenenti al prontuario PHT (Prontuario Ospedale Territorio, prontuario della continuità assistenziale ), erogati in distribuzione diretta e in distribuzione per conto. Sono state effettuate analisi per sostanza o categoria di farmaci, per caratteristiche degli utilizzatori e per ASL, analisi sui farmaci equivalenti, utilizzando per questi le “liste di trasparenza” pubblicate mensilmente dall’agenzia italiana del farmaco (AIFA). L’analisi si riferisce al 16% della popolazione immigrata residente in Italia (710.879 persone, 53% donne), con età mediana di 33 anni e riguarda i dati della prescrizione farmaceutica territoriale effettuata da parte di medici di medicina generale e pediatri di libera scelta del SSN, nonché quella nei confronti di STP. Nel corso del 2011 la popolazione immigrata rappresentava il 7,5% dei residenti e la spesa farmaceutica lorda complessiva è stata di 330 milioni di euro, pari al 2,6% della spesa farmaceutica lorda complessiva; in media, la spesa farmaceutica a carico del SSN è stata di 72 euro per un cittadino immigrato e di 97 euro per un cittadino italiano; il 52% della popolazione immigrata e il 59% di quella italiana hanno ricevuto almeno una prescrizione di farmaci (58% delle donne straniere e 65% delle italiane), con una durata di trattamento sostanzialmente sovrapponibile (232 e 237 dosi di farmaco per utilizzatrice). Sono stati presi in considerazione i consumi relativi a 134.000 bambini, il 76% dei quali nato in Italia. Il 54% ha ricevuto almeno una prescrizione di farmaci nell’anno, a fronte del 60% dei bambini italiani. In media ciascun bambino immigrato ha ricevuto 2,4 confezioni rispetto a 2,6 degli italiani. Tra le categorie di farmaci prese in considerazione, gli immigrati hanno una maggiore proporzione di utilizzatori, rispetto agli italiani, relativamente ai farmaci antidiabetici (1,6% rispetto a 1,1%), gastroprotettivi (10,3% vs. 8,7%) e antiinfiammatori (11,3% vs. 8,3%). La popolazione italiana ha una maggiore proporzione di utilizzatori dei farmaci per l’ipertensione (7,6% vs. 6,5%), 146 ipercolesterolemia (2,4% vs. 1,9%), antibiotici (36,6% vs. 31,9%), sintomi dell’asma e BPCO (Bronco Pneumopatie Croniche Ostruttive) (12,2% vs. 8,1%); infine, la prevalenza d’uso di antidepressivi è circa doppia nella popolazione italiana (3,9% vs. 2,0%). Tra i Paesi di provenienza i minori livelli di utilizzatori di farmaci si osservano nelle popolazioni di origine cinese o kosovara, nelle quali solo il 36% dei cittadini ha ricevuto almeno una prescrizione da parte del SSN nel corso del 2011. Sono invece sostanzialmente sovrapponibili alla popolazione italiana, intorno al 60% degli assistibili, le prevalenze di utilizzatori negli immigrati provenienti da Perù, Nigeria, Marocco, Bangladesh e Albania. 3. Le prescrizioni farmaceutiche per cittadini stranieri in provincia di Arezzo I dati delle prescrizioni farmaceutiche derivano dall’archivio della Unità Operativa Complessa (U.O.C.) Farmaceutica Territoriale della ASL 8 di Arezzo si riferiscono ai farmaci prescritti dai medici di medicina generale e dai pediatri di base, distribuiti dalle farmacie territoriali pubbliche e private, ai farmaci forniti “per conto” e a quelli distribuiti direttamente dall’ASL. Le estrazioni riguardano l’intero anno 2013 e la popolazione dei residenti stranieri nella provincia di Arezzo che all’1 gennaio dello stesso anno erano 40.326 (11,5% di tutti i residenti) distinti in 19.103 uomini (47,3%) e 21.223 donne (52,6%). Le differenze nella composizione per sesso ed età sono rilevanti nelle dieci nazionalità più presenti con un’età sensibilmente più alta per Polonia, Albania, Romania e Marocco rispetto a India, Pakistan, Cina, Macedonia, Kosovo e Bangladesh, e una presenza di donne più elevata per Polonia, Romania e Kosovo, rispetto a tutte le altre. Si sono effettuati raffronti con il citato “Rapporto sulla prescrizione farmaceutica in un paese multietnico”, anche se l’accostamento presenta alcuni limiti perché le due popolazioni di riferimento, dello studio nazionale e della provincia di Arezzo, sono diverse nella composizione per nazionalità (le prime dieci non corrispondono) e per età (la popolazione dello studio nazionale è un po’ più vecchia, con un’età media di 35 anni, contro i 32 di quella aretina). Inoltre le classi d’età dello studio nazionale sono più strette. Viene definito come “utilizzatore” la persona che ha avuto, nel corso dell’anno, almeno una prescrizione farmaceutica risultante nell’archivio dell’U.O.C. Questo permette di calcolare un tasso di prevalenza d’uso come percentuale di utilizzatori nella popolazione residente. 147 Il consumo generale di farmaci Gli utilizzatori stranieri residenti in provincia di Arezzo nel 2013, sono stati 22.394, che, rapportati alla popolazione residente straniera, danno un tasso di prevalenza d’uso del 55,5%. A livello nazionale risulta una prevalenza d’uso per gli stranieri di 52%; il dato aretino, un po’ più alto, è però omogeneo al livello descritto per la Toscana: ASL di Lucca 58%, ASL Firenze 56% e ASL Viareggio 55%. Gli italiani presentano una prevalenza d’uso più alta, pari al 59% nella dimensione nazionale. Le differenze tra uomini e donne e tra le classi d’età sono riportate nella Tabella 1. Le donne hanno una prevalenza d’uso maggiore degli uomini (61,3% contro 49,2%), confermata anche a livello nazionale (56% contro 47%). Questo vale in tutte le classi d’età, eccetto che per l’età pediatrica (0-14 anni). La maggior prevalenza d’uso delle donne è in parte dovuta alla loro più numerosa presenza tra la popolazione, ma anche ad altri motivi, probabilmente legati alle condizioni di salute o comunque al maggior uso di farmaci, soprattutto, ma non solo, in ambito ostetrico ginecologico. Infatti se confrontiamo la composizione per sesso della popolazione residente con quella della popolazione degli utilizzatori, a fronte di una presenza femminile del 52,6% tra i residenti stranieri (uomini 47,4%) abbiamo, tra tutti gli utilizzatori, il 58,1% di utilizzatrici (41,9% uomini). Come è del tutto prevedibile, la prevalenza d’uso scende dopo l’età pediatrica, per tornare a salire gradualmente al crescere dell’età, sia per gli uomini che per le donne. Tabella 1 - Tassi di prevalenza d’uso specifici per sesso e classi di età Classi d’età 0- 14 15 - 29 30 - 44 45 - 59 60 e + Totale Uomini 2.386 1.682 3.137 1.679 510 9.394 Utilizzatori stranieri Donne Totale 2.115 4.501 2.472 4.154 4.520 7.657 2.952 4.631 941 1.451 13.000 22.394 Prevalenza d’uso (% su popolazione) Uomini Donne Sul Totale 63,6 59,4 61,5 36,0 51,4 43,8 46,4 62,7 54,8 58,8 72,4 66,8 59,0 71,2 66,4 49,2 61,3 55,5 L’età media degli utilizzatori è di 33 anni, allineata a quella dei residenti (32), più alta tra le utilizzatrici (35) che non tra gli utilizzatori uomini (31). Il costo netto complessivo delle prescrizioni farmaceutiche per i residenti stranieri del 2013 risulta essere di 2.044.883 euro, suddiviso in 812.946 euro per gli uomini e 1.232.037 per le donne. Il costo netto è il costo effettivo sostenuto dal 148 SSN depurato del valore delle compartecipazioni a carico dell’utente, degli sconti alle ASL e di altri fattori. Il costo netto medio per utilizzatore è più alto per le donne (94,77 euro) che per gli uomini (86,54 euro). L’analisi per classi d’età mostra però che l’utilizzatore uomo costa di più in tutte le età, ad esclusione della classe 30-44 anni, nella quale costa di più l’utilizzatrice donna; questo andamento si ritrova anche nei dati nazionali ed evidenzia che si tratta di un’età particolarmente critica per la popolazione femminile. Il citato “Rapporto Farmaci e Immigrati”, prende in esame il costo lordo, quindi non confrontabile; il Rapporto tuttavia rileva che esiste una forte variabilità, fino a un 50% in più o in meno tra le ASL italiane riguardo al costo e suggerisce di approfondirne le cause, fra le quali è possibile ipotizzare anche il sottotrattamento. Le confezioni erogate sono state 257.986, di cui 100.449 per gli uomini e 157.537 per le donne. Il numero medio di confezioni per utilizzatore residente straniero è di 11,5, suddiviso in 10,7 per gli uomini e 12,1 per le donne. Questo parametro, ripreso successivamente anche nell’analisi delle singole categorie di farmaci, può indicare genericamente l’intensità e la costanza dei trattamenti, ma presenta il limite di sommare insieme confezioni dello stesso farmaco contenenti dosi diverse. A livello nazionale il numero medio di confezioni per utilizzatore straniero è di 10,2, a fronte di un valore superiore per gli italiani, pari a 11,2. Le Prescrizioni farmaceutiche nelle 10 nazionalità più presenti Analizzando il dato dei consumi farmaceutici per le dieci nazionalità più presenti tra la popolazione straniera residente in provincia di Arezzo, che costituisce il 78,5% di tutti residenti stranieri, si ottengono risultati che si differenziano, in qualche caso, in modo consistente. Gli utilizzatori di tali nazionalità sono in tutto 18.829 e vanno a costituire l’81% di tutti gli utilizzatori. La composizione per nazionalità del gruppo degli utilizzatori, rispecchia sostanzialmente quella nella popolazione residente, con differenze nella età media che vanno dai 40 anni dei polacchi (che per oltre il 77% sono donne), ai 23 anni dei kosovari (Tabella 2); anche la composizione per sesso è molto eterogenea per le diverse nazionalità, così come avviene tra i residenti, ma è da notare come per tutte le nazionalità, ad eccezione del Kosovo, tra gli utilizzatori di farmaci, la componente femminile sia sempre superiore, fino a 10 punti di percentuale, rispetto alla popolazione residente. Il tasso di prevalenza d’uso presenta una evidente variabilità in funzione della cittadinanza. Tenuto conto della diversa struttura per età di ciascuna nazionalità, nella Tabella 3 si confrontano tassi specifici per classe d’età, non considerando 149 l’ultima classe dei superiori a 60 anni, perché in alcuni casi le presenze sono troppo limitate per fornire dati affidabili. Marocco, India, Pakistan, Bangladesh, Albania e Macedonia sono in tutte le classi di età superiori al valore medio, Romania e Polonia sono intorno alla media, Cina e Kosovo sono costantemente inferiori. Lo stesso andamento si rileva nei dati nazionali. Tabella 2 - Utilizzatori residenti per sesso: prime 10 nazionalità Utilizzatori Nazionalità Romania Albania Marocco India Bangladesh Polonia Pakistan Cina Macedonia Kosovo Tutti gli utilizzatori Di cui uomini Numero 7.441 3.885 1.590 1.385 1.264 684 806 388 426 Età media 34 32 30 29 26 40 29 29 28 Numero 2.456 1.880 770 775 736 155 528 182 229 260 23 22394 33 Di cui donne Donne sulla popolazione in % % 33,0 48,4 48,4 56,0 58,2 22,7 65,5 46,9 53,8 Età media 29 32 30 28 28 33 30 28 29 Numero 4.985 2.005 820 610 528 529 278 206 197 % 67,0 51,6 51,6 44,0 41,8 77,3 34,5 53,1 46,2 Età media 36 33 30 30 23 42 26 30 29 150 57,7 24 110 42,3 24 55,9 9394 41,9 31 13000 58,1 35 52,6 56,7 46,7 44,5 40,5 36,8 70,1 31,7 48,0 41,4 L’interpretazione di queste differenze non è ovviamente riconducibile a un unico fattore: si possono ipotizzare difficoltà di accesso, abitudini o fattori socioculturali, diverse composizioni delle popolazioni; si tratta comunque di un indicatore relativo da tenere in considerazione. Infatti, se si considera la bassa prevalenza della popolazione cinese, si può affermare che si tratti di un dato atteso, ma anche che sia un ulteriore indicatore della scarsa integrazione di questa popolazione nei servizi. Al contrario, la bassa prevalenza della popolazione kosovara, potrebbe essere un effetto del basso numero dei residenti e della più alta presenza nelle classi d’età più giovani. 150 Tabella 3 - Tasso di prevalenza d’uso % per classi di età: prime 10 nazionalità Nazionalità Romania Albania Marocco India Bangladesh Polonia Pakistan Cina Macedonia Kosovo Valore medio 0 - 14 61,6 68,6 68,5 72,3 60,1 55,2 69,4 40,4 57,6 46,5 61,5 15 - 29 37,6 49,3 56,0 52,5 57,2 39,4 57,8 27,0 51,8 29,0 43,8 Classi di età 30 - 44 47,7 67,8 71,3 71,1 63,7 54,4 64,4 30,0 54,3 45,0 54,8 45 - 59 66,1 77,9 87,4 77,7 79,1 58,1 84,0 50,0 80,0 58,1 66,8 Totale 51,6 65,7 70,0 67,1 62,0 53,9 67,2 34,9 57,8 41,3 56,1 4. Le prescrizioni per alcune categorie di farmaci Oltre al dato generale per ciascuna categoria, si riportano i dati per le nazionalità più presenti; il confronto tra di esse è possibile valutando lo scarto tra la percentuale con cui ciascuna è presente tra gli utilizzatori della categoria di farmaci, e la percentuale con cui è presente tra gli utilizzatori generali, intendendo per utilizzatori generali il totale di tutte le categorie. Allo stesso modo viene fatto il confronto fra i sessi. Le categorie di farmaci prese in considerazione sono: antibiotici, antiipertensivi, antidiabetici, antidepressivi, antipsicotici, ipocolesterolemizzanti, dermatologici e antitubercolari. Antibiotici Gli stranieri residenti che hanno avuto almeno una prescrizione di antibiotici nel corso del 2013 sono 15.286 che, rapportati alla popolazione residente, danno una prevalenza d’uso di 37,9%. Il valore riportato dallo studio nazionale è un po’ più basso (31,9%), ma in Toscana ci sono valori simili a Lucca (40,3%), Viareggio (33,3%) e Firenze (35,6%). Gli utilizzatori sono ripartiti in 57,4% donne e 42,6% uomini, valori molto vicini a quelli degli utilizzatori generali (donne 58,1, uomini 41,9). Sono state fornite 45.795 confezioni, per un costo complessivo di 299.114 euro. Dal confronto delle percentuali tra utilizzatori di antibiotici e utilizzatori generali non risultano particolari eccessi per nessuna delle nazionalità prese in considerazione e, all’interno di ogni nazionalità non risultano differenze tra i sessi. La omogeneità nel numero di confezioni per utilizzatore (3 per tutte le 151 nazionalità) farebbe pensare, nei limiti di questo indicatore, ad una omogeneità nei livelli di trattamento e di compliance. Il dato nazionale è sovrapponibile (3,1 confezioni per utilizzatore) e superiore a quello degli italiani (2,6). Risulta invece evidente un maggior utilizzo da parte della popolazione in età pediatrica per tutte le nazionalità con una prevalenza d’uso pediatrica di 55,8%. Antiipertensivi La prescrizione di antiipertensivi nel corso del 2013 ha riguardato 2.948 stranieri, determinando una prevalenza d’uso del 7,3%. Il valore a livello nazionale è più basso (6,5%), mentre nelle ASL toscane troviamo Viareggio al 7,0%, Firenze al 6,9% e Lucca al 6,6%. Gli utilizzatori sono ripartiti in 64,2% donne e 35,8% uomini, con una presenza superiore delle donne rispetto agli utilizzatori generali (donne 58,1%, uomini 41,9%). Sono state fornite 43.200 confezioni, per un costo complessivo di 258.843 euro. Le nazionalità di Albania, Ucraina e Polonia risultano avere una presenza percentuale tra gli utilizzatori di antiipertensivi più alta rispetto alla presenza tra gli utilizzatori generali. Il maggior peso percentuale delle donne è a carico soprattutto del Marocco e delle nazionalità europee, ma anche, in misura minore, della Cina, mentre per India, Bangladesh e Pakistan il peso maggiore nell’utilizzo di antiipertensivi è determinato dagli uomini. È molto verosimile che un fattore importante che determina queste differenze sia l’età delle popolazioni presenti che come abbiamo visto in precedenza è più alta per le nazionalità europee. Riguardo alle donne, ad eccezione del Marocco e della Macedonia, per Ucraina, Polonia, e Romania, la popolazione residente femminile risulta più vecchia della popolazione maschile. L’età media delle utilizzatrici di farmaci antiipertensivi è di 56 anni per l’Ucraina, 55 per il Marocco, 53 per la Polonia, 51 per Macedonia e Romania. Si tratta di un fenomeno non emerso nell’ambito dei precedenti Report sulla salute degli stranieri, che si basavano sulle schede di dimissione ospedaliera (SDO). Benché la spesa complessiva sia davvero contenuta, le complicanze dell’ipertensione non adeguatamente trattata sono caratterizzate da quadri clinici che riguardano diversi distretti, che quindi possono compromettere seriamente la salute dell’individuo e sono di conseguenza assai più costose per il sistema sanitario. Un elemento da indagare rispetto a questo fenomeno potrebbe essere costituito dalle abitudini alimentari, incluso il consumo di bevande a basso o alto grado alcolico o di tenore zuccherino e la scarsa attività motoria, tutti fattori che concorrono a determinare un eccesso di peso corporeo. 152 Antidiabetici Gli utilizzatori di antidiabetici, nel corso del 2013, sono stati 891, con un tasso di prevalenza d’uso del 2,2%. Anche in questo caso si registra un valore superiore rispetto al livello nazionale, pari a 1,6%. Il dato Toscano è rappresentato dalle ASL di Viareggio con 1,9% e Firenze con 2,5%, dato che colloca Arezzo ad un livello coerente con il quadro regionale. Sono state prescritte 13.137 confezioni, per un costo totale di 153.201 euro. La composizione per sesso del gruppo degli utilizzatori vede il 53,8% di donne e il 46,2% di uomini, con un eccesso di uomini rispetto agli utilizzatori generali (41,9%). Il dato sulle prescrizioni di farmaci antidiabetici, analizzato per nazionalità, conferma un eccesso di utilizzatori di questi farmaci per i cittadini provenienti dal Sud Est Asiatico, dal Marocco e Tunisia e dalla Repubblica Dominicana rispetto alle altre nazionalità. Questi Paesi presentano prevalenze d’uso più che doppie rispetto a quella media e vanno dal 6,8% dello Sri Lanka, al 4,9% dell’India, il 4,8% del Bangladesh, fino al 4,3% della Repubblica Dominicana. Anche a livello nazionale i cittadini di queste nazionalità, ad eccezione della Repubblica Dominicana, hanno prevalenze d’uso specifiche oltre il doppio dalla media. Tabella 4 - Prevalenza d’uso dei farmaci antidiabetici e prevalenza del diabete in provincia di Arezzo Classe di età 15 - 29 30 - 44 45 - 59 60 - 74 Farmaci antidiabetici: prevalenza d’uso stranieri per 100 residenti 0,4 1,7 5,3 Prevalenza diabete stranieri per 100 residenti. Stima ASL 8 0,4 1,3 4,1 Prevalenza diabete italiani per 100 residenti. Stima ASL 8 0,4 0,8 3,7 10,5 9,1 10,6 Il problema della diffusione del diabete nella popolazione straniera è noto e già le aziende sanitarie, compresa ovviamente quella di Arezzo, hanno posto in essere specifici programmi di attenzione a questa patologia. Anche i precedenti rapporti dell’Osservatorio sulla salute degli stranieri (Report n. 15 - febbraio 2006 e Report 39 - novembre 2012) ponevano l’accento sulla rilevanza di questo tema, segnalando la maggior diffusione tra le nazionalità provenienti dal Sud-Est Asiatico. I dati di stima dell’ASL 8 di Arezzo, mostrano una maggior prevalenza del diabete nella popolazione straniera rispetto a quella italiana, nelle classi di età centrali e sono perfettamente coerenti con la prevalenza d’uso rilevata dalle prescrizioni farmaceutiche (Tabella 4). Tra i problemi che si manifestano viene segnalata una difficoltà di accesso alle cure, che si evidenzia con una minore aderenza alle linee guida terapeutiche degli stranieri rispetto agli italiani, situazione che comunque presenta qualche 153 miglioramento in virtù di specifici programmi di intervento messi in atto dalla ASL 8. Antidepressivi Gli stranieri residenti che hanno avuto almeno una prescrizione di antidepressivi nel corso del 2013 sono stati 1.080, con una prevalenza d’uso del 2,7%. A livello nazionale si registra un valore più basso (2,0%), mentre nelle ASL toscane si trovano valori superiori: Firenze 2,8%, Lucca 3,1% e Viareggio 3,9%. Gli utilizzatori sono ripartiti in 76,8% donne e 26,2% uomini, con una decisa presenza superiore delle donne rispetto agli utilizzatori generali (donne 58,1%, uomini 41,9%). Sono state fornite 7.436 confezioni, per un costo complessivo di 80.151 euro. Riguardo alle nazionalità, solo la Romania e, in misura molto minore la Polonia, risultano avere un peso percentuale superiore tra gli utilizzatori di antidepressivi rispetto agli utilizzatori generali; in effetti Romania e Polonia sono tra le comunità residenti con età più elevata e a componente femminile più alta. Le donne, appunto, risultano in eccesso tra gli utilizzatori di antidepressivi per tutte le nazionalità e particolarmente per India, Macedonia, Kosovo, Albania, Romania e Polonia. Il piccolo numero di utilizzatori di alcune nazionalità non autorizza valutazioni di merito per tali eccessi che, pur tuttavia, sono un dato di fatto che dovrà essere tenuto presente e possibilmente indagato ulteriormente. Il tasso di prevalenza d’uso degli antidepressivi, calcolato sulla popolazione residente femminile risulta del 3,9%; da questo si discostano maggiormente al di sopra Polonia (5,9%) e Romania (4,8%), al di sotto Kosovo (2,6%) e India (2,2%). Anche in questo caso è verosimile che molto influiscano le diverse composizioni per età delle singole popolazioni, così come una minore propensione o facilità di accesso ai servizi per donne giovani con figli e di più recente immigrazione (per esempio indiane). La ripartizione delle utilizzatrici di antidepressivi nelle classi d’età evidenzia che le età più interessate al problema sono quelle centrali (30-44) e quelle medio alte (45-59). Un ulteriore elemento da tenere presente è il lavoro, che per le donne straniere è prevalentemente concentrato nel lavoro di cura (badanti) e di assistenza familiare (domestiche); ciò vale in particolare proprio per le donne rumene, polacche, ucraine e macedoni. In ogni caso, con i limiti di valutazione prima accennati, i dati segnalano certamente uno stato di disagio presente nella popolazione femminile straniera sul quale è molto importante che i servizi socio-sanitari del territorio pongano una particolare attenzione. 154 Anche in questo caso, come per gli antiipertensivi, la spesa complessiva sostenuta dal SSN è molto limitata, ma le complicanze per la salute, se questi malesseri o patologie non venissero adeguatamente trattate, potrebbero essere più gravi e assai più costose per l’individuo e per il servizio sanitario. Ad esempio una patologia di riscontro assai frequente è la depressione post partum, che comporta problematiche complesse sia per la persona, sia per il neonato, sia per il funzionamento della famiglia. Antipsicotici Le prescrizioni di antipsicotici hanno interessato 328 utilizzatori stranieri, con un tasso di prevalenza d’uso dello 0,81%. La suddivisione nei due sessi degli utilizzatori presenta, come nel caso degli antidepressivi, una forte preponderanza femminile con le donne al 70,1% e gli uomini al 29,9% (rispettivamente 58,1 e 41,9 negli utilizzatori generali). Sono state prescritte 2.084 confezioni per un costo totale di € 37.225. Le diverse nazionalità pesano tra gli utilizzatori di antipsicotici con la stessa proporzione che tra gli utilizzatori generali, mentre, se consideriamo separatamente le donne, troviamo, come per gli antidepressivi, un eccesso di utilizzatrici soprattutto per Romania, India, Polonia, Macedonia e Kosovo. Questa classe di farmaci è prescritta prevalentemente da specialisti e le motivazioni per la prescrizione possono essere simili a quelle degli antidepressivi. Le classi di età delle donne con un peso percentuale più alto sono simili a quelle degli antidepressivi (30-44 e 45-59 anni). A differenza delle altre categorie di farmaci, nel caso degli antipsicotici abbiamo una maggior variabilità nel numero medio di confezioni per utilizzatore, che varia dalle 12 del Marocco alle 2 dell’India; il 33% degli utilizzatori ha usufruito di una sola confezione del farmaco, e il 50% di una o due confezioni. Le cause possono essere molteplici, tra le principali si possono citare le differenze culturali, l’uso dei farmaci per finalità diverse da quelle principali, ma anche la difficoltà di accesso ai servizi, che limita, in qualche modo, l’effettuazione di una terapia corretta. Questo ultimo dato, anche perché riferito ad un piccolo numero di utilizzatori, non autorizza considerazioni approfondite nel merito del consumo di antipsicotici: la “fotografia” presentata documenta comunque una situazione di fatto che necessita e merita di essere analizzata con altri strumenti. Ipocolesterolemizzanti La prescrizione di ipocolesterolemizzanti, nel 2013, ha riguardato 906 cittadini stranieri con un tasso di prevalenza d’uso di 2,2% sulla popolazione residente. Il dato nazionale è leggermente inferiore (1,9%); a livello regionale è molto vicina 155 Firenze con il 2,0%, mentre Lucca è al 1,6% e Viareggio al 1,8%. Le confezioni prescritte sono state 8.252, con una media di 9 per utilizzatore, inferiore al dato nazionale (10,5%). Il costo totale è di 77.813 euro. Il confronto tra le nazionalità, effettuato sia sulla composizione percentuale degli utilizzatori di ipocolesterolemizzanti sugli utilizzatori generali, sia sulle prevalenze d’uso, mostra un maggior utilizzo per Polonia, Ucraina, Albania e Filippine, che risultano essere anche nella dimensione nazionale le cittadinanze con prevalenze d’uso superiori alla media. La composizione per sesso degli utilizzatori di ipocolesterolemizzanti in termini percentuali è di 44,9% uomini e 55,1% donne, con un eccesso di uomini rispetto agli utilizzatori generali (41,9%). Per alcune nazionalità (Pakistan, Bangladesh, India, Albania, Cina) gli uomini ne fanno un maggior utilizzo, mentre per altre, ed in particolare Polonia e Ucraina, che sono tra quelle a più alta prevalenza d’uso, sono invece le donne ad avere un peso superiore. Dermatologici Questa classe di farmaci è stata presa in considerazione, in quanto le malattie cutanee costituiscono una componente rilevante delle patologie di cui possono soffrire gli immigrati. Si tratta di una importante materia di sanità pubblica, anche per la scarsità e frammentarietà dei dati epidemiologici. Sono preponderanti le patologie acquisite nel paese ospite, correlate spesso con problematiche di povertà, degrado ed emarginazione, da disagio, da “transculturazione”, espressione di una crisi d’identità, del timore di avere la “pelle sbagliata”. Il prurito sine materia è un disturbo soggettivo, a volte assai intenso e condizionante, che non si accompagna ad alcun tipo di obiettività clinica e laboratoristica, ha particolare rilevanza tra gli immigrati (soprattutto tra quelli di pelle scura) e compare poco dopo l’arrivo nel paese, ha la tendenza ad autolimitarsi e a scomparire con il tempo, tuttavia talora può essere necessario fornire un sostegno farmacologico o psicoterapeutico, in quanto può rappresentare un sintomo di stato d’ansia/depressione. La tipologia di farmaci dermatologici riscontrata nelle prescrizioni prese in esame riguarda principalmente farmaci utili per trattare queste patologie e la psoriasi che recenti evidenze suggeriscono si possa considerare malattia sistemica. Gli utilizzatori di farmaci dermatologici sono stati in totale 710, con una prevalenza d’uso del 1,8%. Le confezioni prescritte sono 2.426, per un costo complessivo di 29.415 euro. La sintesi dei dati per le principali nazionalità mostra una variabilità nel numero di confezioni e nel costo medio per utilizzatore. Il totale degli utilizzatori è 156 suddiviso nel 45,8% di uomini e 54,2% di donne, con un maggior peso degli uomini rispetto agli utilizzatori generali (41,9%). Riguardo alle nazionalità, per le prime 10 presenti, non si evidenziano forti differenze, se non per il Bangladesh, il Pakistan (valori più alti) e, in misura minore, Marocco e Macedonia. Per Cina, Macedonia, Polonia e Bangladesh il peso maggiore tra gli utilizzatori è costituito dalle donne. Antitubercolari È sembrato utile inserire il dato sull’uso di farmaci antitubercolari, vista l’attenzione che è stata posta ultimamente sulla TBC nel nostro Paese, nel quale si è assistito, negli ultimi dieci anni, a un significativo aumento del numero dei casi registrati in persone immigrate, parallelo all’aumento degli immigrati stessi. Nel 2008 l’Istituto Superiore di Sanità (ISS) ha rilevato un tasso grezzo di incidenza di 3,8 casi su 100.000 per i nati in Italia e 50-60 casi su 100.000 per i nati all’estero, con un rischio relativo 10-15 volte superiore a quello degli italiani. Le nazionalità particolarmente a rischio (tassi maggiori o intorno a 100 casi per 100.000 residenti) sono: Etiopia, Pakistan, Senegal, Perù, India, Costa d’Avorio, Eritrea, Nigeria e Bangladesh. È parere condiviso tra gli esperti che l’incidenza della TBC negli immigrati sia verosimilmente sovrastimata, poiché l’indeterminatezza della componente immigrata clandestina fa sì che al denominatore compaiano solo gli stranieri che le fonti ufficiali (ISTAT) riportano come regolarmente residenti. I dati di fonte ASL 8 mostrano che le notifiche di TBC ad Arezzo sono passate da 20 a 30 negli anni dal 2007 al 2010 e i ricoveri ospedalieri nel biennio 2009/2010 sono stati 58 per gli stranieri e 82 per gli italiani, con un tasso di ricovero per gli stranieri dello 0,8 per mille e dello 0,1 per gli italiani. I dati riportati di seguito si riferiscono alle prescrizioni di farmaci antitubercolari per gli stranieri residenti in provincia di Arezzo. È importante sottolineare che il basso numero di utilizzatori da un lato e la relativa specificità dei farmaci dall’altro, danno a questi dati un carattere di orientamento di massima e non consentono valutazioni o considerazioni puntuali. Gli utilizzatori totali risultano 86, per una prevalenza d’uso dello 0,2% sui residenti. Sono state prescritte 1.088 confezioni, per un costo complessivo di 6.820 euro. La composizione per sesso degli utilizzatori, confrontata con quella degli utilizzatori generali, mostra una presenza maggiore per gli uomini che sono il 46,5% rispetto al 53,5% di donne (41,9% e 58,1% negli utilizzatori generali). 157 5. Conclusioni 1- In termini generali l’attività prescrittiva nei confronti dei cittadini stranieri residenti in provincia di Arezzo ha un andamento che si colloca all’interno della variabilità rilevata a livello nazionale e regionale. Gli studi nazionali citati mostrano per tutti i parametri (numero di prescrizioni, costo pro capite, numero di confezioni pro capite) rilevanti differenziazioni sia tra regioni, sia tra ASL della stessa regione. Sono numerosi i fattori che possono determinare tale variabilità e tra questi, probabilmente, vi sono anche differenti approcci prescrittivi dei medici di medicina generale e degli specialisti; ma ancor di più vanno presi in considerazione i differenti orientamenti regionali nella organizzazione dei servizi e il loro differente livello di sviluppo e di presenza nel territorio. In questo caso non ci si riferisce solo ai servizi sanitari in senso stretto, ma anche a quei servizi finalizzati a favorire l’accoglienza, l’inserimento e l’integrazione dei cittadini stranieri (sportelli, mediazione, interpretariato, ecc.) la cui presenza o meno contribuisce a rendere più o meno facile e appropriato l’accesso alle cure. Di qui l’importanza e l’utilità di conoscere e analizzare i dati sull’uso dei farmaci, al di là della sua dimensione quantitativa assoluta che, peraltro, negli studi nazionali citati, risulta per gli stranieri sempre inferiore a quella osservata per la popolazione italiana. Porre attenzione sulle differenze (per zona, per sesso, per nazionalità, per età) può consentire infatti di mettere in relazione più elementi e database, per valutare con maggiore precisione e accuratezza gli aspetti problematici legati alla diffusione di patologie, alla accessibilità dei servizi, a rischi connessi alle condizioni sociali e lavorative, a differenti livelli di integrazione, ma anche a rischi specifici per diverse fasce di età, sesso o nazionalità. 2- Emerge chiaramente dall’indagine la problematica legata alle donne straniere: esse complessivamente utilizzano farmaci più degli uomini, segnalando così una condizione familiare, sociale, lavorativa di maggior svantaggio, che ha una ricaduta in termini di problemi di salute. Al tempo stesso però, presentano un costo pro capite più basso in tutte le classi di età, ad eccezione della classe 30-44 anni. Questo probabilmente suggerisce che le patologie a maggior diffusione tra le donne necessitano di farmaci meno costosi, ma potrebbe anche nascondere situazioni di sottotrattamento provocate dalle condizioni generali di vita delle donne straniere. Ancora le donne presentano un utilizzo maggiore rispetto agli uomini di farmaci antidepressivi, antipsicotici e antiipertensivi, confermando così un legame tra salute, intesa come benessere psico-fisico e sociale secondo i canoni dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (O.M.S.), e condizione lavorativa e sociale. 158 Appare comunque uno stato di disagio presente nella popolazione femminile straniera che, in qualche misura, è un segnale sul quale porre un’attenzione coordinata da parte dell’insieme dei servizi socio sanitari, dal momento che la problematica comprende elementi che fanno riferimento al sanitario, ma anche diversi elementi di natura sociale. Nella cosiddetta condizione femminile, infatti, si concentrano tanti e diversi fattori che generano problematicità, che riguardano gli ambiti della vita familiare e sociale, del lavoro, del parto e della cura dei figli: tutti questi elementi sono più o meno presenti, e sicuramente enfatizzati, nel caso delle donne di cittadinanza straniera. 3- Per alcune categorie di farmaci vi sono differenze evidenti di utilizzo tra le nazionalità; in qualche caso, come per il diabete, viene confermato quanto già noto (provenienze dal Sud Est Asiatico, dal Nord Africa) e già sotto l’attenzione dei servizi sanitari, in altri, si tratta di proseguire l’indagine; appaiono necessari una serie di approfondimenti, utilizzando e comparando diverse fonti di dati sanitari e sociali, per analizzare e interpretare meglio gli aspetti problematici che da questi primi dati si delineano. Questo intervento non comporterebbe costi importanti per il SSN, ma porterebbe a un’importante miglioramento delle informazioni e della comprensione dello “stato di salute” della popolazione straniera e, di conseguenza, ad accrescere l’attenzione dei servizi e l’efficacia delle cure fornite. 4- Emergono alcune nazionalità problematiche: tra le 10 più presenti nella popolazione della provincia di Arezzo la Cina e il Kosovo registrano livelli di utilizzo dei farmaci al di sotto dei valori medi. Anche in questo caso sono necessari approfondimenti, perché il dato può derivare da un minore livello di integrazione, ma può anche indicare situazioni di difficoltà di accesso ai servizi e inadeguata presa in carico e trattamento di situazioni patologiche. 5- Per alcune categorie di farmaci si riscontra, tra gli utilizzatori delle diverse nazionalità, una rilevante variabilità nei quantitativi “pro capite” di farmaco utilizzato (confezioni). È stato già segnalato che la significatività ed affidabilità di questo dato sono in parte ridotte dal diverso dosaggio delle confezioni; tuttavia tale variabilità segnala la presenza di possibili disparità di trattamento delle stesse patologie. Questo fatto non va sottovalutato: è probabile che in molti casi derivi da corrette differenziazioni di terapia, ma può segnalare bassi livelli di compliance, trattamenti inadeguati o addirittura errati, dovuti a scarsa comprensione da parte degli utenti delle indicazioni terapeutiche fornite dal medico. Testimonianze dirette di medici 159 e di utenti confermano questa possibilità. Il problema della lingua e della comunicazione resta quindi attuale. 6- Da tutti gli elementi descritti si possono trarre indicazioni di lavoro. La prima riguarda l’opportunità di realizzare ulteriori indagini per approfondire gli aspetti sopra segnalati. Tra l’altro, attraverso l’analisi di dati provenienti da più fonti e attività, si potrebbe redigere una mappa ragionata delle situazioni di problematicità rilevanti per la salute presenti tra la popolazione straniera ad Arezzo, da usare come riferimento da parte degli operatori e di coloro che, a vario titolo, possono orientarne le azioni. La seconda riguarda soprattutto i Servizi socio sanitari che operano nel territorio ed in particolare la rete dei Distretti e delle Case della salute, all’interno delle quali sono presenti operatori sociali e medici di medicina generale. È a quel livello infatti che, più che in altri, può essere posta attenzione ai disagi e ai rischi derivanti dalle condizioni di vita e di lavoro e agli aspetti della comprensione e della comunicazione con i pazienti, aumentando la competenza culturale dei professionisti, ma anche con strumenti adeguati di mediazione linguistica e culturale. Il miglioramento dei livelli di trattamento delle patologie, della compliance e dell’appropriatezza delle cure che ne può derivare, oltre che migliorare le condizioni di salute può essere fonte di miglior uso delle risorse. Nota * L’indagine è stata possibile grazie alla collaborazione di: dr.ssa Rosella D’Avella, U.O.C. Farmaceutica territoriale, Azienda USL 8, Arezzo; dr.ssa Stefania Arniani, Staff Direzione Aziendale, Azienda USL 8, Arezzo; dr.ssa Sandra Bartolucci, ICT Arezzo ESTAV Sud Est. Il testo completo di questo studio è consultabile nel sito dell’Osservatorio Sociale Provinciale/Sezione Immigrazione di Arezzo. Bibliografia Andretta M., Cinconze E., Costa E., Da Cas R., Geraci S., Rossi E., Tognoni G., Traversa G. (2013), Farmaci e immigrati. Rapporto sulla prescrizione farmaceutica in un paese multietnico, Società Italiana di Farmacia Ospedaliera e dei Servizi Farmaceutici delle Aziende Sanitarie, Il Pensiero scientifico Editore, Roma. Rapporto ISTAT (2013), Cittadini stranieri: condizioni di salute, fattori di rischio, ricorso alle cure e accessibilità dei servizi sanitari - anno 2011-2012 (www.istat.it). Centro Studi e Ricerche Idos (a cura di) (2013), Immigrazione Dossier statistico 2013, Unar e Idos, Roma. Rapporti della Sezione Immigrazione dell’Osservatorio Politiche Sociali della Provincia di Arezzo n. 30/2010 (Immigrazione e lavoro dipendente in provincia di 160 Arezzo); n. 36/2011 (L’imprenditoria immigrata in provincia di Arezzo); n. 39/2012 (Popolazione immigrata e servizi sanitari); n. 41/2013 (La presenza di immigrati e figli di immigrati in provincia di Arezzo). Osservatorio Nazionale sull’impiego dei Medicinali (2014), L’uso dei farmaci in Italia. Rapporto Nazionale Gennaio-Settembre 2013, Agenzia Italiana del Farmaco, Roma (www.agenziafarmaco.gov). Siti per accesso a dati sui servizi sanitari www.statoregioni.it/Documenti/DOC_038879_255%20csr%20-%205%20quater.pdf www.ars.marche.it/osservatorio_dis/doc/report_serviziSanitariImmigrati2008.pdf. www.caritasroma.it/wp-content/uploads/2010/09/DIRITTO_ALLA_SALUTE.pdf www.ars.marche.it/nuovo/html/download/diseguaglianze/Documento-on%20line.pdf www.simmweb.it 161 Capitolo 4 Il lavoro autonomo e le rimesse dei migranti di Lorenzo Luatti 1. Come leggere i dati Come emerge dai dati nazionali diffusi annualmente (da ultimo Centro studi e ricerche Idos, 2015) il lavoro autonomo e le imprese degli immigrati hanno conosciuto ritmi di crescita sostenuti, evidenziando un forte dinamismo e una spiccata vivacità di iniziative. Neppure la grande crisi economica globale, che pure ha battuto forte per tutti e per i migranti in particolare, ha determinato un arretramento del numero delle imprese “straniere”. In effetti, se guardiamo al solo dato quantitativo, possiamo notare, dopo un sostanziale assestamento registrato nel 2009, un nuovo balzo in avanti nel biennio successivo (2010-2011), un netto tracollo nell’anno 2012, e una significativa ripresa nel biennio 20132014, che ricolloca il valore complessivo su quello registrato tre anni fa. In questi anni gli immigrati sono diventati soci, amministratori e titolari d’impresa, si sono inseriti nei vari settori produttivi, nonostante la congiuntura economica poco favorevole e la scarsa attrattiva che il nostro Paese sembra esercitare sui capitali esteri. Seguire in Italia la scelta dell’imprenditorialità non è facile, e anche percorrerla si rivela spesso una strada in salita. Come abbiamo precisato già in passato, il fenomeno dell’autoimpiego deve essere interpretato anche alla luce di quelle trasformazioni del mercato del lavoro che hanno reso decisamente più porosi e indeterminati i confini tra lavoro autonomo, lavoro dipendente, disoccupazione. Buona parte delle imprese create dai migranti – peraltro in linea con il dato complessivo – sono ditte individuali, la cui genesi ha evidentemente a che vedere con processi generali, che rimandano in particolare alla flessibilizzazione dei rapporti di impiego. L’avvio di una ditta individuale infatti potrebbe costituire, semplificando molto i termini della questione, una sorta di equivalente funzionale del ricorso a contratti atipici. L’adattabilità dei migranti di prima generazione, ma anche la loro vulnerabilità giuridica, concorrerebbero a spiegare la particolare “propensione” da parte dei migranti a mettersi in proprio, laddove però i confini tra la ricerca di una maggiore autonomia e l’assoggettamento alle condizioni imposte dal datore di lavoro risultano difficili da tracciare. Il lavoro “eteronomo” non è peraltro una prerogativa dei migranti, come documentato dalle ricerche dedicate al “popolo delle partite IVA”, ma v’è ragione di sospettare che, nel caso dei primi – i 162 migranti, appunto – esso possa costituire un’ulteriore fonte di alimentazione di quello che è stato definito il “mercato del lavoro parallelo”. Si potrebbe parlare, pertanto, di una sorta di imprenditorializzazione del lavoro dipendente, che per i migranti è visibile soprattutto nel comparto edile: laddove emergono centinaia di migliaia di partite IVA, lavoratori formalmente autonomi che lavorano per un solo “cliente”. Occorre poi precisare che il dato presente nel Registro delle Imprese di Infocamere (sistema telematico nazionale che collega tra loro tutte le Camere di Commercio) è un dato spurio, che sovradimensiona il fenomeno dell’imprenditoria straniera (o meglio, più correttamente si dovrebbe parlare dei lavoratori autonomi nati all’estero): presenza di più cariche facenti capo alla stessa persona; mancata o errata registrazione del Paese di nascita; impossibilità di escludere una parte non stimabile di imprese che, pur risultando regolarmente iscritte, non sono più operative; conteggio di cittadini nati all’estero, come ad esempio molti figli di emigrati italiani che nel corso del tempo sono rimpatriati; presenza di soggetti stranieri divenuti in seguito cittadini italiani. Ma anche, al contrario, presenza di imprenditori nati in Italia da genitori immigrati/stranieri (seconde generazioni). La combinazione di questi fattori provoca di fatto una sovra-stima dei lavoratori autonomi e degli imprenditori immigrati. Il quadro emergente induce pertanto alla massima prudenza. Con queste necessarie premesse, che ci mettono in guardia dalle letture mediatiche troppo ottimistiche se non sensazionalistiche di un trend che appare in forte e costante crescita, passiamo ad analizzare i dati e le caratteristiche che definiscono il fenomeno dell’imprenditoria immigrata in provincia di Arezzo. 2. I “numeri” dell’imprenditoria straniera in provincia di Arezzo Se guardiamo ai numeri dell’imprenditoria straniera in provincia di Arezzo in una dimensione diacronica, possiamo affermare che dopo un lungo periodo di crescita sostenuta, dopo la stabilizzazione registrata nel 2009, e il nuovo trend positivo del biennio successivo, nel 2012 si era verificata – prima volta da quando monitoriamo il fenomeno – una debacle quantitativa delle imprese straniere sul territorio provinciale. I dati del 2013, nettamente in territorio positivo (+19,5%), sono stati confermati dal dato del 2014 che ha fatto segnare una ulteriore crescita pari al 5,0%. Questi nuovi balzi in avanti hanno fatto recuperare tutto il terreno perduto: si potrebbe dunque affermare, stando ai numeri, che la fase peggiore della congiuntura economica negativa sia ormai alle spalle. Nel complesso, al 31 dicembre 2014 risultavano iscritte alla Camera di Commercio di Arezzo un totale di 4.698 imprese con almeno una persona 163 straniera titolare, amministratore e/o socio d’impresa. Dieci anni fa, nel 2002, erano un migliaio. Anche in provincia di Arezzo, le attività imprenditoriali dei migranti sono prevalentemente organizzate in forma di ditta individuale e tendono a concentrarsi in pochi settori come il commercio, le costruzioni e le attività manifatturiere. Il dato delle ditte individuali (di seguito D.I.) risulta pertanto di particolare interesse, sia perché in questa forma di impresa è più facile l’attribuzione del ruolo di primo piano all’immigrato, sia perché tale forma giuridica è prevalente in quasi tutte le nazionalità. In questi casi, come avviene per la piccola impresa autoctona, il ruolo della famiglia nella fondazione e soprattutto nella gestione dell’azienda è molto importante. Nel territorio provinciale, a fine 2014, vi erano 2.648 D.I. a titolarità straniera, e costituivano il 56,4% di tutte le forme d’impresa con titolare nato all’estero. Rispetto allo scorso anno (erano scese a 2.536) sono cresciute del 4,4%. L’incidenza delle D.I. con titolare immigrato rispetto al totale (sono 20.058 le D.I. in provincia di Arezzo) si colloca al 13,2%, ovvero su 10 ditte individuali, 1,5 è tenuta da un imprenditore straniero. Anno dopo anno, il numero delle D.I. a titolarità italiana diminuisce e quello dei “nati all’estero” cresce: la “tenuta” nei numeri, sia detto ancora, è dovuta unicamente all’incremento delle D.I. straniere. Rispetto alle altre forme d’impresa l’incremento più vistoso che si era prodotto nel 2013 riguardava le società di persone e di capitale con titolare, socio, amministratore nato all’estero: si osservava, rispettivamente, un +44% e +40% sul dato dell’anno precedente. Tabella 1 - Forma giuridica impresa con titolare nato all’estero. Serie storica (2007/2014) Forma giuridica Impresa ind. Soc. persone Soc. capitale Altre forme Totale 2007 1856 465 248 23 2592 2008 2009 2010 2011 2012 2013 2014 2015 2088 2345 2506 2372 2536 2648 591 500 680 705 529 765 807 290 351 406 902 799 1118 1179 28 36 37 51 44 54 64 2924 2975 3468 4164 3744 4473 4698 Incid. % 2007 71,6 17,9 9,6 Incid. % 2014 56,4 17,2 25,1 Crescita % 13/14 4,4 5,5 5,5 0,9 1,4 18,5 100,0 100,0 5,0 Nel 2014 tale trend di crescita risulta confermato: entrambe le forme d’impresa sono aumentate per un 5,5% ciascuna. I settori produttivi in cui ritroviamo queste imprese sono quelli tradizionalmente a forte presenza di “stranieri” (costruzioni, ristorazione e commercio e, soprattutto nelle società di capitali, le attività manifatturiere). Rispetto alle nazionalità e alla distribuzione territoriale, si osserva, invece, una netta differenziazione tra le due tipologie di società: nelle società di persone troviamo significative presenze di romeni, albanesi, cinesi, 164 bengalesi, pakistani e indiani, soprattutto ubicate ad Arezzo, Valdarno e Valdichiana. Nelle società di capitali invece prevalgono nettamente i cittadini romeni (costituiscono la metà del totale) e, dopo di loro, possiamo dire che non vi sono nazionalità numericamente significative; rispetto alla loro ubicazione, anche qui si nota una concentrazione territoriale nel comune di Arezzo (per il 43%) e nel Casentino (il 43%). Le motivazioni di questa crescita, in particolare delle società di capitale, possono essere ricondotte ad una pluralità di fattori, alcuni delle quali possono aver influito maggiormente in tempi di crisi economica e finanziaria: fattori di tipo normativo, considerando che una s.r.l. ha più chance di partecipare agli appalti e di ricevere commesse in subappalto rispetto ad una ditta individuale; di tipo creditizio, poiché a questa tipologia di impresa viene riconosciuto un rating superiore per l’accesso al credito; e inoltre per le garanzie a tutela del patrimonio personale che offre la forma giuridica della società di capitali, o per un fattore naturale di “crescita” dell’impresa che può aver portato alla trasformazione da ditta individuale a s.r.l. Tabella 2 - Forma giuridica e tipologia dell’impresa (anno 2014) Forma giuridica N° imprese immigrate N° imprese immigrate (% colonna) 2.648 964 22 74 106 11 100,0 81,8 1,9 6,3 9,0 0,9 Società per azioni con socio unico 2 0,2 Società in accomandita semplice Società in nome collettivo 1.179 268 525 100,0 33,2 65,1 Descrizione Impresa individuale Totale Società di capitale Società resp. limitata Società resp. limitata a capitale ridotto Società resp. limitata con socio unico Società resp. limitata semplificata Società per azioni Società di capitale Totale Società di persone Società semplice 14 1,7 Società cooperativa Altre forme 807 45 19 100,0 70,3 29,7 Altre forme Totale 64 100,0 Totale complessivo 4.698 100,0 Società di persone Totale Altre forme La Tabella 3 riporta i dati scorporati per nazionalità. I dati delle D.I. mostrano una prevalenza di rumeni (30,9%), seguono gli albanesi (13,0%) e i marocchini (9,9%): nel complesso queste tre nazionalità rappresentano oltre la metà delle imprese individuali di immigrati in provincia di Arezzo. 165 Tabella 3 - Forma giuridica dell’impresa e Stato di nascita dell’imprenditore. Prime 20 nazionalità (2014) Stato di nascita Impresa individuale Romania Albania Marocco Bangladesh Cina Pakistan India Macedonia Polonia USA Nigeria Argentina Tunisia Brasile Jugoslavia Russia Uzbekistan Kossovo Egitto Domenicana Rep. V.A 817 344 261 171 206 194 74 45 44 14 70 28 54 20 23 20 6 15 9 15 % 30,9 13,0 9,9 6,5 7,8 7,3 2,8 1,7 1,7 0,5 2,6 1,1 2,0 0,8 0,9 0,8 0,2 0,6 0,3 0,6 Società di capitali V.A 586 64 10 11 24 25 28 40 24 51 2 28 6 17 18 31 15 12 11 2 Società di persone % V.A. 49,7 189 5,4 98 0,8 34 0,9 93 2,0 42 2,1 49 2,4 40 3,4 6 2,0 18 4,3 9 0,2 5 2,4 17 0,5 12 1,4 16 1,5 9 2,6 6 1,3 13 1,0 6 0,9 10 0,2 14 % 23,4 12,1 4,2 11,5 5,2 6,1 5,0 0,7 2,2 1,1 0,6 2,1 1,5 2,0 1,1 0,7 1,6 0,7 1,2 1,7 Altre forme V.A 31 9 1 2 1 1 1 3 3 1 1 2 - % 48,4 14,1 1,6 3,1 1,6 1,6 1,6 4,7 4,7 1,6 1,6 3,1 - Totale 1.623 515 306 275 274 269 143 91 87 77 77 76 73 53 50 38 35 33 32 31 Altro 218 8,2 174 14,8 121 15,0 8 12,5 521 Totale 2.648 100,0 1.179 100,0 807 100,0 64 100,0 4.698 3. Distribuzione dell’imprenditoria immigrata nel territorio aretino Veniamo adesso alla distribuzione nel territorio provinciale dell’imprenditorialità straniera. In primo luogo, occorre sottolineare come, dopo la battuta di arresto piuttosto generalizzata del 2012, la ripresa del 2013 (ad eccezione della Valtiberina -3,1%), tutte le zone socio-sanitarie nel 2014 sono tornate in territorio positivo, seppure con valori ad una cifra. In particolare, nell’ultimo anno, il trend di crescita ha interessato soprattutto il Casentino, il Valdarno e la Valtiberina (con oltre il +6% di crescita), la zona Aretina (+4,4%%) e in misura nettamente inferiore la Valdichiana (+1,4%). L’area distrettuale Aretina è il polo di attrazione più importante per le ditte individuali con imprenditore nato all’estero (53,2%), seguono Valdarno (22,3%), Valdichiana (13,7%), e nettamente distanziate Casentino (5,9%) e Valtiberina (4,9%). 166 Tabella 4 - Distribuzione zonale delle Ditte individuali a titolarità straniera. Serie storica (2011/2014) Incid. % Ditte individuali 2011-2014 Presenze DI su Incid. Incid. Crescita Crescita cittadini presenza tot. 2014 cittadini % % % % 2014 2013 2014 2013 2014 12/13 13/14 1.349 1.408 53,3 53,2 8,9 4,4 131.678 0,9 146 156 5,8 5,9 2,8 6,8 35.971 0,4 Zona Aretina Casentino 2011 1.277 180 2012 1.239 142 Valdarno 552 532 556 591 22,0 22,3 Valdichiana 354 332 357 362 14,1 Valtiberina 143 127 123 131 4,9 2.506 2.372 2.531 2.648 100,0 Totale 4,5 6,3 96.095 0,6 13,7 7,5 1,4 52.708 0,6 4,9 -3,1 6,5 30.550 0,4 100,0 6,7 4,6 347.002 0,7 Tabella 5 - Distribuzione delle imprese individuali per settore e zona di domicilio (anno 2014) Attività Costruzioni Commercio ingrosso e dettaglio Attività manifatturiere Aretina Casentino Valdarno Valdichiana Valtiberina Totale V.A. 502 % 35,7 V.A 77 % 49,4 V.A 255 % 43,1 V.A 132 % 36,5 V.A 45 % 34,4 V.A. 1.011 365 254 25,9 18,0 36 9 23,1 5,8 124 98 21,0 16,6 121 41 33,4 11,3 33 11 25,2 8,4 679 413 45 3,2 9 5,8 16 2,7 22 6,1 17 13,0 109 Agricoltura, silvicoltura e pesca Attività servizi di alloggio e ristorazione Noleggio, agen. viaggio, serv. supp. a imprese 58 4,1 4 2,6 30 5,1 13 3,6 7 5,3 112 36 2,6 4 2,6 12 2,0 6 1,7 4 3,1 62 Altre attività servizi 42 3,0 3 1,9 22 3,7 7 1,9 6 4,6 80 20 1,4 - - 9 1,5 3 0,8 - - 32 14 6 1,0 0,4 1 0,6 3 3 0,5 0,5 2 - 0,6 - 1 0,8 19 11 3 0,2 2 1,3 1 0,2 2 0,6 1 0,8 9 9 0,6 1 0,6 4 0,7 1 0,3 - - 15 Trasporto magazzinaggio Servizi di informazione e comunicazione Attività finanz. e Ass. Att.ività artist., spor., intratt. e divertimento Attività profess., scientifiche e tecnolog. Attività Immobiliari Fornitura di acqua, reti fogn., att. gest. rifiuti Istruzione Sanità assistenza sociale 1 0,1 - - 1 0,2 2 0,6 - - 4 2 1 1 0,1 0,1 0,1 - - - - - - - - 2 1 1 Non Disponibile 49 3,5 10 6,4 13 2,2 10 2,8 6 4,6 88 Totale 1.408 100,0 156 100,0 591 100,0 362 100,0 131 100,0 167 2.648 La Tabella 5 mette in relazione la distribuzione zonale delle ditte individuali con i settori di attività. In dati assoluti è, ovviamente, la zona Aretina con il capoluogo provinciale ad avere i numeri più alti; ma se guardiamo all’incidenza dei vari settori produttivi in ciascuna zona, possiamo evidenziare talune specificità territoriali. Ad esempio, nel settore delle “Costruzioni”, sebbene l’incidenza sia alta in tutte le zone, spicca il primato del Casentino al 49,4% (ma solo 3 anni fa era al 57,0%), seguito dal Valdarno (con il 43,1%); nel settore del “Commercio” sono le zone della Valdichiana (33,4%), della Valtiberina e Aretina (entrambe al 25,0%) a presentare l’incidenza territoriale più alta; infine, nel settore delle “Attività manifatturiere” sono Arezzo e il Valdarno ad avere i valori di incidenza più elevanti (16-18%). Spicca il dato del 13% della Valtiberina nel settore dell’agricoltura e silvicoltura. Tabella 6 - I primi 15 comuni con più imprese individuali (D.I.) con titolare nato all’estero (2010-2014) Comune Arezzo Montevarchi Cortona San Giovanni V.no Foiano Chiana Bucine Castiglion F.no Sansepolcro D.I. D.I. D.I. D.I. D.I. Inc. % Crescita Crescita Crescita 2010 2011 2012 2013 2014 2013/14 % 11/12 % 12/13 % 13/14 1.005 1.112 1.081 1.173 1.218 46,0 -2,8 8,5 3,8 177 198 195 206 225 8,5 -1,5 5,6 9,2 112 118 120 135 142 5,4 1,7 12,5 5,2 103 108 102 106 107 4,0 -5,6 3,9 0,9 97 101 94 100 101 3,8 -6,9 6,4 1,0 70 79 68 74 74 2,8 -13,9 8,8 94 97 78 74 71 2,7 -19,6 -5,1 -4,1 74 78 67 70 73 2,8 -14,1 4,5 4,3 Bibbiena Terranuova Br.ni Civitella Val di C. Monte S. Savino Subbiano Castelfranco-P. Scò Capolona Cavriglia Laterina Marciano Chiana Pieve S. Stefano Poppi Altri Totale 82 84 66 66 73 60 59 56 53 63 48 44 44 51 55 38 39 38 48 53 43 45 38 40 39 25 26 26 27 39 31 28 26 24 30 27 27 25 25 26 19 15 19 24 26 23 21 24 25 25 35 34 33 24 22 28 26 21 23 22 179 203 151 163 164 2.345 2.542 2.372 2.531 2.648 2,8 2,4 2,1 2,0 1,5 1,5 1,1 1,0 1,0 0,9 0,8 0,8 6,2 100,0 -21,4 -5,1 -2,6 -15,6 -7,1 -7,4 26,7 14,3 -2,9 -19,2 -25,6 -6,7 -5,4 15,9 26,3 5,3 3,8 -7,7 26,3 4,2 -27,3 9,5 7,9 6,7 10,6 18,9 7,8 10,4 -2,5 44,4 25,0 4,0 8,3 -8,3 -4,3 0,6 4,6 Un’ulteriore disaggregazione del dato in commento ci consente di conoscere i comuni in cui hanno sede le imprese individuali di migranti (Tabella 6). Il rapporto tra l’iniziativa economica degli immigrati, nelle sue varie forme, e il 168 paesaggio urbano aretino è confermato dall’alto grado di concentrazione nel capoluogo delle ditte con titolare nato all’estero: poco meno della metà ha sede nel comune di Arezzo (il 46,0%). Sono i piccoli comuni di Capolona e Terranuova Bracciolini a segnare gli incrementi più rilevanti del 2014 (rispett. +25 e +19%), seguiti da Montevarchi, Monte San Savino e Bibbiena (tutti con un +10%). 4. Provenienza nazionale ed età dei titolari di imprese individuali Nel complesso sono i cittadini, comunitari e non comunitari, provenienti dall’Europa dell’Est a prevalere nettamente tra gli imprenditori nati all’estero. Un quinto – e in costante aumento anno dopo anno – sono gli imprenditori nati in un Paese del continente asiatico. Disaggregando questo dato ed analizzando le provenienze, è possibile evidenziare i gruppi nazionali che hanno avviato, o gestiscono, il maggior numero di imprese nella provincia di Arezzo. Tabella 7 - Le prime nazionalità dei titolari di imprese individuali (anno 2014) Stato di nascita Totale % Stato di nascita Totale % Romania 817 Albania 344 30,9 Argentina 28 1,1 13,0 Jugoslavia 23 0,9 Marocco 261 9,9 Brasile 20 0,8 Cina 206 7,8 Russia 20 0,8 Pakistan 194 7,3 Algeria 16 0,6 Bangladesh 171 6,5 Dominicana R. 15 0,6 India 74 2,8 Kossovo 15 0,6 Nigeria 70 2,6 USA 14 0,5 Tunisia 54 2,0 Macedonia 45 1,7 Senegal Altro 13 214 0,5 8,2 Polonia 44 1,7 Totale 2.648 100,0 Dai dati messi a disposizione da Infocamere si evince che le nazionalità più rappresentate sono quelle numericamente più presenti sul territorio provinciale (Tabella 7): in primissimo luogo, si evidenzia la rumena (30,9%), seguono l’albanese (13,0%) e la marocchina (9,9%). Le fasce d’età che prevalgono tra i cittadini stranieri iscritti al Registro delle Imprese, come emerge dalla Tabella 8, sono quelle dei 35-39enni e 30-34enni (il 38,6% circa dei lavoratori stranieri che si sono messi in proprio), seguite dalla classe di età 40-44 anni (16,8%). L’effetto “sostituzione” (ovvero il ricambio 169 generazionale) è dunque confermato dalla sensibile differenza di età tra titolari italiani e immigrati, mediamente molto più giovani, anche se col passare degli anni si registra un costante innalzamento dell’età dei lavoratori autonomi nati all’estero. Si tratta, nella migliore delle ipotesi, di persone che si sono inserite pienamente nel tessuto economico e sociale del contesto aretino, riuscendo a prendere confidenza con il quadro normativo di riferimento e con le dinamiche del mercato del lavoro locale. In genere hanno prima fatto un’esperienza pluriennale come lavoratori dipendenti all’interno di una azienda, per poi mettersi in proprio. Tabella 8 - Fascia di età dei titolari di imprese individuali (anno 2014) Fascia età 15-19 20-24 25-29 30-34 35-39 40-44 45-49 50-54 55-59 60-64 > 64 Impresa individuale 6 101 298 442 579 446 350 203 132 62 29 % di colonna 0,2 3,8 11,3 16,7 21,9 16,8 13,2 7,7 5,0 2,3 1,1 Totale 2.648 100,0 5. Settori di attività delle imprese individuali Nella lettura del fenomeno della piccola imprenditoria straniera assume particolare interesse l’analisi dei settori di attività in cui operano le D.I. straniere. Le Tabelle 9-12 offrono a questo riguardo molti elementi di interesse. Come già evidenziato, in valori assoluti, sono tre i settori produttivi numericamente più rilevanti per le imprese straniere: le “Costruzioni” con il 38,2%, il “commercio” con il 25,6%, le “Attività manifatturiere” con il 15,6%. Seguono, a netta distanza, le D.I. attive nei settori dell’“agricoltura” e dei “servizi di ristorazione” poco più del 4%. Si tratti di comparti che negli ultimi hanno visto crescere o diminuire il numero delle imprese attive, pur in uno scenario globale di crisi economica e finanziaria. Di particolare interesse è poi l’analisi delle percentuali di incidenza considerando l’insieme delle ditte individuali (con titolare straniero e italiano) nei vari settori di attività. Come abbiamo già visto, l’incidenza media provinciale delle ditte 170 individuali straniere è pari al 13,2%. Nei singoli settori produttivi, come abbiamo più volte evidenziato negli studi della Sezione Immigrazione di Arezzo, si evidenziano questi rapporti: - un terzo circa di tutte le D.I. attive nel settore delle costruzioni ha un titolare straniero (il 29,2%); - ogni 5 D.I. che operano nel settore manifatturiero, 1 è immigrata (in valori percentuali: il 20,4%), con una forte concentrazione nel comparto della fabbricazione di articoli di abbigliamento (37,4% e 47,6% del totale, in numeri assoluti 71 D.I. straniere su 190 D.I.); - nei settori della ristorazione e del commercio l’incidenza delle D.I. straniere sul totale è pari al 13,5; - nel settore delle comunicazioni la proporzione è di 1 a 10 (10,1%). Le alte percentuali di incidenza, soprattutto per i settori menzionati, sono spesso da ricondurre ad una netta prevalenza di imprenditori di una o di poche nazionalità: nelle costruzioni i rumeni e gli albanesi (rispettivamente con il 56,8% e il 24,5%), nel commercio i marocchini (27,8%) e i bengalesi (12,1%); nell’agricoltura i polacchi (21,1%), i cinesi (16,5%) e i romeni (18,3%); nel trasporto gli albanesi (25,0%) e i rumeni (31,3%), nelle comunicazioni i cinesi (36,8%) e bengalesi (21,1%). Molto più frammentata la distribuzione delle attività manifatturiere: i pakistani (27,1%), i cinesi (20,6%) e i bengalesi (16,5%). Si tratta di dati e percentuali che esprimono, in alcuni casi, una trasformazione socio-culturale dei settori citati, molto probabilmente irreversibile. Settori (edilizia, manifattura, comunicazione, commercio…) con basse barriere all’ingresso, modesti investimenti iniziali richiesti, debole regolazione degli scambi e dei rapporti di lavoro ne fanno in molte realtà (non solo italiane) dei caratteristici ambiti di sviluppo delle attività autonome promosse dai migranti. Vediamo più da vicino i principali settori di attività delle imprese “straniere” aretine, riprendendo un discorso già sviluppato nei precedenti Rapporti di questo Osservatorio. Le imprese edili. L’ingresso della Romania nell’Ue, avvenuto a inizio 2007, ha determinato una forte crescita delle aziende nel settore delle costruzioni, per il significativo flusso di investimenti rumeni. Dalla metà del 2008, tuttavia, questo settore risente in modo vistoso della grande crisi economica globale. In questo ramo, come abbiano visto, gli imprenditori di nazionalità rumena e albanese rappresentano l’81,3% dei lavoratori autonomi stranieri del settore, e complessivamente, quasi una D.I. su 3 è a titolarità straniera. Negli ultimi si è registrato una progressiva diminuzione del numero di D.I. che operano nel settore delle costruzioni, sia a livello generale che nello specifico dei “titolari nati 171 all’estero”: da 1.547 D.I. “straniere” nel 2010 si è passati a 1.210 nel 2011, nel 2013 il dato era sceso a 1.069 e nel 2014 a 1.011 (vedi Tabella 9). Nel 2007 il numero di tali ditte pesavano per il 56% sul totale delle D.I. straniere, nel 2013 la loro incidenza era del 42,2% e un anno dopo, nel 2014 è calata ulteriormente al 38,2%. Una forte flessione che ha riguardato tutto il territorio provinciale. A tale forte diminuzione si deve principalmente il saldo negativo del comparto registrato negli ultimi anni: dalle 4.231 D.I. del 2009 si è passati a 4.162 nel 2011 (-1,63%), a 3.605 nel 2013 e a 3.464 nel 2014. La crisi del comparto edile ha dunque battuto più forte tra le D.I. straniere, per la loro intrinseca fragilità, lavorando in molti casi con commissioni in contratto di subappalto da ditte italiane. Merita ricordare che nell’ambito dell’edilizia si evidenzia l’assai diffuso fenomeno dell’outsorcing, o sub-contracting che prende forma a partire da strategie di subappalto delle imprese autoctone. La scelta di avviare un’impresa, in particolare nel settore edile, è molte volte dettata da una richiesta del mercato del lavoro, che in linea con la tendenza alla flessibilità “espelle” dipendenti per “assumere” autonomi, come avviene con il caso del ricorso alle già menzionate “partite Iva” e alle ditte individuali. Un sistema che permette ai datori di lavoro di far diventare “grigio” il lavoro nero, svincolandosi da ogni obbligo nei confronti di un lavoratore subordinato, e scaricando sui lavoratori i costi sociali e parte dei rischi dell’impresa. I titolari di queste para-imprese, obbligati a mettersi in proprio e restando strettamente vincolati all’azienda committente, si trovano in realtà in una posizione che, sotto molteplici aspetti, può essere considerata molto vicina alla subordinazione. Questa situazione non sempre costituisce un peggioramento della propria condizione: le para-imprese possono rappresentare per gli interessati un trampolino di lancio nel mondo imprenditoriale nonché uno dei possibili percorsi di inserimento intrapreso da molti piccoli imprenditori edili, italiani compresi. La crisi economica che si protrae dal 2008, e che duramente ha colpito il settore dell’edilizia, ha portato ad una contrazione del fenomeno del sub-contracting, determinando una drastica riduzione delle D.I. straniere – o meglio delle partite iva – cresciute enormemente negli anni passati. Pur con queste considerazioni, che ci spingono a leggere il fenomeno nei suoi contorni di luce e ombra, bisogna riconoscere che è difficile immaginare nel territorio aretino un’attività edile priva del contributo non solo di lavoratori subordinati, ma anche di imprese guidate da immigrati. Il commercio. È il secondo settore per numero di imprenditori stranieri con il 25,6%, in gran parte impiegati nel commercio al dettaglio. Da alcuni anni si osserva una certa stabilizzazione nel dato di incidenza: è dal 2012, difatti, che il dato è stazionario attestandosi sui dati odierni (solo nel 2009 era al 19,6%). È un 172 settore d’impiego piuttosto diffuso che si articola per tipologia e prodotti commercializzati. Come abbiamo visto, i marocchini costituiscono il 27,8% del totale e si trovano inseriti principalmente nell’area del tessile e dell’abbigliamento; seguono i bengalesi al 12,1%, inseriti nel commercio di bigiotteria, pelletteria e abbigliamento; subito dopo i rumeni, pakistani e tunisini dal 7 al 9%. Bisogna ricordare che c’è una significativa componente di ambulantato, dunque di attività svolte all’aperto, impegnative e non sempre redditizie. Solitamente queste attività commerciali si dividono in due rami, in base alla clientela alla quale sono rivolte. Da una parte ci sono gli esercizi che commercializzano prodotti tipici del paese di origine, ma si rivolgono principalmente alla clientela autoctona e sono le cosiddette “imprese esotiche”; oppure le “imprese aperte” che implicano una vendita di merce che non ha connotazioni etniche e che compete su un mercato concorrenziale. Può trattarsi, ad esempio, di bazar, di negozi di abbigliamento ed oggettistica, di alimentari, panifici/panetteria, kebabberie, tabacchi. Sono “imprese esotiche” anche e soprattutto – spostandoci in un altro settore – molte attività di ristorazione. In provincia di Arezzo sono soprattutto i cinesi (ma anche pakistani, bengalesi, maghrebini…) ad avviare questo tipo di attività commerciali. Da un’altra parte ci sono le imprese rivolte ad una clientela immigrata principalmente dello stesso paese o della stessa area geografica del gestore. Non sempre il confine è nettamente demarcato, poiché vi sono esercizi commerciali (ad esempio, le macellerie halal) rivolti prevalentemente ad una popolazione immigrata, ma che ricevono una attenzione da parte di molti “autoctoni”. Le imprese orafe. Dedichiamo infine un breve approfondimento alla presenza delle D.I. con titolare straniero nel settore orafo (Tabelle 11 e 12). La vocazione orafa del territorio aretino ha coinvolto l’imprenditoria straniera da molti anni, almeno dai primi anni Duemila. Numerosi sono infatti gli stranieri che sotto le diverse forme imprenditoriali sono collocati in questo settore e la città di Arezzo raccoglie la stragrande maggioranza del totale provinciale, essendo il polo di maggior sviluppo. Il 93,7% di tali D.I. si concentra infatti nel territorio di Arezzo. Le imprese straniere in ambito orafo sono a conduzione familiare e in alcuni casi si occupano anche della vendita degli oggetti da loro stessi prodotti. Sono per lo più, imprese contoterziste. Nel 2014 rappresentavano il 6,6% circa del totale delle ditte individuali straniere e in termini assoluti sono 164, facendo segnare un ulteriore incremento su base annuale pari a +10,8. Una presenza che quest’anno ha raggiunto il suo primato storico, superando quello del 2013, quando erano iscritte al Registro delle Imprese 157 D.I. straniere operanti nel 173 settore orafo. Rispetto al dato complessivo provinciale, le D.I. straniere in campo orafo rappresentano il 26,4% di tutte le D.I. del settore (174 su 659). Tabella 9 - Principali settori ed attività delle D.I. a titolarità straniera non comunitaria (anno 2014) Impresa individuale 1.011 679 413 109 112 62 80 32 19 11 % di colonna Attività Artistiche, Sportive, di Intratt. e Divertimento 9 0,3 Attività Professionali, Scientifiche e Tecniche Attività Immobiliari Fornitura di acqua, reti fognature, attività gestione dei rifiuti Istruzione Sanità e Assistenza sociale Non Disponibile Totale 15 4 0,6 0,2 2 1 1 88 2.648 0,1 3,3 100,0 Macro settore Costruzioni Commercio all’ingrosso e al dettaglio Attività Manifatturiere Agricoltura, Silvicoltura e Pesca Attività dei servizi di alloggio e di ristorazione Noleggio, Agenzie di Viaggio, Servizi di Supporto Imprese Altre Attività di Servizi Trasporto e Magazzinaggio Servizi di Informazione e Comunicazione Attività Finanziarie e Assicurative 38,2 25,6 15,6 4,1 4,2 2,3 3,0 1,2 0,7 0,4 Anche nel caso delle imprese orafe si conferma una marcata etnicizzazione del comparto: Pakistan e Bangladesh da soli rappresentano oltre i tre quarti di tutte le ditte individuali del settore orafo (46,6% la prima, 31,3% la seconda); seguono, assai distanziate, le D.I. indiane, con il 5,7%. Dai dati relativi alle nazionalità si evince che l’incremento è dovuto soprattutto ad un nuova crescita delle ditte pakistane (+17,4%). Il trend positivo riguarda anche il dato delle ditte bengalesi, mentre quelle indiane segnano una netta battuta d’arresto (-9,1%). L’ampia disponibilità e l’utilizzo ricorrente di lavoro di connazionali o parenti spesso reclutati informalmente, e dunque a costi concorrenziali, costituisce per queste imprese gestite da stranieri un punto di forza. Le reti comunitarie costituiscono, più in generale, risorse importanti per l’inserimento lavorativo e sociale dei nuovi arrivati, oltre che fonti di apprendimento vero e proprio di mestieri. Si ricrea così un ambiente familiare e nazionale, con un’unica lingua di comunicazione, con punti di riferimento e ritmi di lavoro condivisi. Più in generale, queste reti possono anche diventare delle “gabbie”, impedendo percorsi di emancipazione dall’economia di enclave, autoreferenziale e chiusa. Le criticità di questa situazione, accentuate in periodi di crisi del settore, fanno riferimento 174 alle condizioni di lavoro, alla mobilità nel mercato del lavoro locale e all’integrazione sociale di queste persone. Tabella 10 - Principali settori ed attività D.I. a titolarità straniera. Serie storica (valori percentuali) Settori Costruzioni Commercio Attività Manifatturiere Agricoltura Ristoranti e alberghi Noleggio, Agenzie di viaggio, servizi di supporto alle imprese Altri servizi Trasporti Servizi Di Informazione E Comunicazione Attività finanziarie Attività Artistiche, Sportive, Di Intrattenimento e Divertimento Attività Professionali, Scientifiche E Tecniche Attività Immobiliari Istruzione-Sanità Produzione e distribuzione di energia elettrica, gas e acqua Non disponibile 2005 51,3 22,8 12,3 4,4 1,5 2007 55,8 19,6 12,7 4,0 1,3 2009 54,5 19,6 12,4 3,4 2,1 2010 51,9 21,7 13,4 3,0 2,5 2011 48,3 24,0 13,6 3,2 2,8 2012 45,6 25,5 14,1 3,8 2,9 2013 42,2 26,0 14,5 3,8 3,5 2014 38,2 25,6 15,6 4,1 4,2 1,1 4,8 1,2 3,4 1,5 2,2 1,7 1,7 1,8 2,2 1,9 1,8 2,3 2,0 1,5 2,1 2,6 1,7 2,3 3,0 1,2 0,1 0,4 1,1 0,4 0,9 0,4 1,0 0,5 1,0 0,5 0,9 0,4 0,7 0,4 - - 0,2 0,2 0,3 0,2 0,4 0,3 1,5 0,1 1,5 0,1 0,4 0,2 0,0 0,5 0,1 0,1 0,3 0,2 - 0,4 0,2 - 0,6 0,2 - 0,6 0,2 0,1 - - 1,9 - - 0,1 0,1 0,1 1,1 0,1 3,3 Totale 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 Tabella 11 - Imprese individuali operanti in campo orafo (Codice ATECO 32): distribuzione territoriale. Anno 2005, 2007, 2009, 2011-2014. Valori assoluti e percentuali (di colonna) DI Zona 05 Aretina 75 Casentino 3 Valdarno 6 Valdichiana 5 % col 82,4 3,3 6,6 5,5 DI 07 132 3 5 2 % col 93,0 2,1 3,5 1,4 DI 09 106 3 4 3 % col 91,4 2,6 3,4 2,6 DI 11 142 3 3 4 % DI col 12 93,4 138 2,0 2 2,0 3 2,6 2 Valtiberina 2 2,2 - - - - - Totale 91 100,0 142 100,0 116 100,0 152 100,0 145 100,0 157 100,0 174 100,0 - - % col 95,2 1,4 2,1 1,4 DI 13 146 2 5 4 % col 93,0 1,3 3,2 2,5 DI 14 163 2 5 4 % col 93,7 1,1 2,9 2,3 - - - - - Tabella 12 - Imprese individuali operanti in campo orafo: Stato di nascita del titolare (anno 2014) Stato di nascita Pakistan Bangladesh India Altre Totale DI 2011 65 51 11 25 152 DI 2012 60 50 10 25 145 DI 2013 69 53 11 24 157 DI 2014 81 55 10 28 174 175 DI 2013 43,9 33,8 7,0 15,3 100,0 DI 2014 46,6 31,6 5,7 16,1 100,0 Crescita % 12/13 15,0 6,0 10,0 -4,0 8,3 Crescita % 12/14 17,4 3,8 -9,1 16,7 10,8 6. Le rimesse dei migranti: uno sguardo ai dati mondiali e nazionali Alcuni anni fa il Fondo Monetario Internazionale propose (nel Sixth Edition of the IMF Balance of Payments and International Investment Position Manual, 2009) una nuova definizione di “rimessa” oggi utilizzata da un numero crescente di Paesi e che pare utile riprendere in questa sede. Secondo l’autorevole organizzazione internazionale le rimesse individuali sono date dalla somma di due componenti principali, i “redditi da lavoro dipendente” e i “trasferimenti personali”. Quest’ultima espressione, più ampia di “rimesse dei lavoratori” usata in passato, è comprensiva di “tutti i trasferimenti correnti in denaro o in natura effettuati o ricevuti dalle famiglie residenti o da famiglie non residenti”. È tuttavia intuitivo quanto sia difficile acquisire (e quantificare) i dati sui trasferimenti “in natura”, sicché l’ammontare complessivo delle rimesse dei migranti è oggi riferibile prevalentemente alle transazioni monetarie. Si aggiunga, inoltre, come è peraltro assai noto, che le stime reali delle transazioni in rimesse non tengono conto dei canali informali di trasferimento. Certo è che le rimesse rappresentano una fonte rilevantissima di finanza globale e una risorsa “chiave” di crescita economica per molti Paesi. Secondo le stime diffuse periodicamente da Banca Mondiale, i flussi di rimessa che transitano per i canali di intermediazione regolare in uscita da un Paese, generati dai lavoratori migranti che vi risiedono, hanno quasi triplicato il valore totale degli aiuti pubblici allo sviluppo e sono superiori anche rispetto alla voce di investimenti di portafoglio (che, in questo caso, comprende anche il debito privato). Le rimesse superano le riserve di valuta estera in almeno 14 Paesi in Via di Sviluppo (PVS) e sono pari a meno della metà del livello di riserve in più di oltre 26 PVS (World Bank, Migration and Development Brief, n. 21, 2/10/2013). Si tratta, in altri termini, di risorse particolarmente importanti in un contesto difficile, in cui diversi PVS fronteggiano un peggioramento nei conti con l’estero. Una vasta letteratura, a partire dalla metà degli anni ‘90, ha evidenziato l’impatto positivo di questa fonte finanziaria a livello macro e microeconomico: sul saldo della bilancia dei pagamenti, sulle riserve valutarie e sul risparmio nazionale con effetti positivi anche in termini di capacità di attrarre capitali dall’estero e di costruire relazioni economiche. È stato spesso rimarcato il contributo delle rimesse alla riduzione della povertà, in quanto destinate soprattutto alle famiglie con reddito medio-basso, all’investimento in capitale fisico (assistenza sanitaria, cure, migliore alimentazione), umano (istruzione, formazione) e più in generale alle spese di welfare (fondi pensionistici, assicurazioni), facilitando l’accesso al credito e ai servizi finanziari di soggetti altrimenti esclusi. Soprattutto durante i periodi di crisi le rimesse rappresentano un’ancora di salvezza per molti Paesi e famiglie, e 176 hanno un impatto positivo sul piano della redistribuzione del reddito e della diminuzione delle disuguaglianze. Evidenze e acquisizioni che non sono state messe in discussione dalla prolungata crisi economica e sociale deflagrata nel 2008, dalle politiche restrittive all’immigrazione adottate da alcuni Paesi, e dal conseguente ridimensionamento dei ritmi di crescita delle rimesse (Bettin, Presbitero, Spatafora, 2014). Se da una parte non si arresta la crescita del numero dei migranti internazionali nel mondo, che nel 2013 ha raggiunto la soglia dei 247 milioni (e nel 2015 supererà i 250 milioni), dall’altra non conoscono significative battute d’arresto i flussi di rimesse verso i paesi in via di sviluppo, che nel 2014, secondo le stime di Banca Mondiale, hanno raggiunto i 436 miliardi di dollari, segnando una crescita del 4,4% rispetto al livello del 2013 (grazie soprattutto alla forte ripresa dell’economia statunitense). Incrementi che ci accompagneranno anche nei prossimi anni, e confermano il ruolo di primissimo piano dei migranti e delle rimesse nell’economia globale di oggi. Rispetto a questi flussi monetari, le recenti proiezioni dell’autorevole “Migration and Remittances Team” di Banca Mondiale indicano per il 2015 un rallentamento della crescita (+0,9%) a causa delle deboli prospettive economiche di alcuni paesi d’origine delle rimesse, in particolare l’area euro e la Russia, quest’ultima per una situazione economica in forte deterioramento (sanzioni economiche, calo del prezzo del petrolio, deprezzamento del rublo, ecc.). Già dal 2016, tuttavia, in linea con le prospettive economiche globali più positive, è prevedibile un’ulteriore accelerazione che dovrebbe portare a 479 miliardi di dollari il valore delle rimesse nel 2017. Se a queste poi sommiamo le transazioni monetarie verso i paesi ad alto reddito, il volume complessivo delle rimesse globali sale a 583 miliardi di dollari nel 2014, e potrebbe raggiungere i 586 miliardi di dollari nel 2015 e i 636 nel 2017 (World Bank, Migration and Development Brief, n. 24, 13/04/2015). India, Cina, Filippine, Messico e Nigeria sono i primi 5 paesi destinatari delle rimesse in termini di valori complessivi, mentre Stati Uniti, Arabia Saudita, Germania, Russia ed Emirati Arabi Uniti si confermano i primi 5 paesi di destinazione dei migranti. Nel nostro paese il flusso di denaro verso l’estero inviato tramite i canali formali rilevato dalla Banca d’Italia è risultato in forte crescita tra il 2005 e il 2011, passando da 3,9 a 7,4 miliardi di euro. Il “periodo d’oro” delle rimesse, contrassegnato da sostenuti e reiterati incrementi, si è tuttavia interrotto nel 2012, e poi, con maggiore asprezza, nel biennio successivo, quando i valori complessivi intermediati hanno aperto – ma solo in apparenza, come vedremo – una nuova fase di decrescita e rallentamento: dai 6,8 miliardi di euro del 2012 si è passati ai 5,5 del 2013 e infine ai 5,3 miliardi di euro intermediati nel 2014. A ben vedere, solo la contrazione delle rimesse del 2012, peraltro contenuta e “spalmata” tra i diversi paesi di origine dei lavoratori immigrati, poteva essere 177 attribuita agli effetti “lunghi” della crisi economica. Il drastico ridimensionamento registrato nel biennio 2013-2014 si spiega invece con altra motivazione (Centro studi e ricerche Idos, 2015), peraltro conosciuta dagli analisti del settore: la flessione è da imputare ad una specifica “anomalia” delle transazioni effettuate dai migranti cinesi cui solo recentemente gli enti competenti hanno messo mano. È stato osservato che le rimesse inviate verso la Cina attraverso i money transfer operators comprendono un’elevata componente di natura commerciale (gli Mtos sono utilizzati abitualmente come canale di pagamento) che esula dalla definizione di rimesse in quanto trasferimento internazionale di denaro di valore relativamente basso fra persone fisiche. Nell’ultimo biennio, l’inasprimento della normativa e i maggiori controlli introdotti, da una parte, e soprattutto lo sforzo degli operatori e della Banca d’Italia di separare le “rimesse” inviate come pagamento di scambi di natura commerciale da quelle inviate come rimesse personali, dall’altra, hanno riportato l’entità dei trasferimenti monetari cinesi a valori più congrui e “veritieri”. Se, dunque, dal dato complessivo scorporiamo le rimesse inviate verso la Cina, la fotografia del fenomeno appare assai diversa: il flusso di denaro verso l’estero fa registrare una crescita del 5,9% nel 2013 e del 2,5% nel 2014. Che poi la crisi economica abbia colpito la capacità reddituale dei migranti – attraverso fenomeni differenti quali disgregazioni familiari, aumento della disoccupazione, trasferimenti di residenza verso l’estero, ecc. – è fuori discussione. Come è altrettanto innegabile, per altro verso, il menzionato spostamento in atto nel mercato delle rimesse verso canali di trasferimento online e di telefonia mobile che i dati ufficiali ancora non rilevano. Non è poca cosa allora ritrovare un segno di crescita, seppure contenuto, anche per l’anno 2014. Passiamo ora ad un rapido commento degli aspetti più legati al dato statistico delle rimesse, relativi ai paesi di destinazione e ai territori di invio. La Cina, dopo anni di incontrastata “supremazia” rispetto al volume complessivo di rimesse inviate dai propri migranti (nel 2012 rappresentavano il 39,1% del totale), nel 2014 ha ceduto lo “scettro” alla Romania, con i suoi 876 milioni di euro ricevuti dall’Italia (+1,8%). Se la Cina diminuisce, e segnano il passo le rimesse verso l’India (-7,1%), aumentano le rimesse dei lavoratori migranti di altri paesi dell’Asia meridionale come Pakistan (+18,4%), Sri Lanka (+10,9%) e Bangladesh, che nell’ultimo biennio ha fatto registrare un incremento di oltre il 55,0%. Nell’Est Europa aumentano le rimesse verso la Moldavia (+12,0%) e l’Albania (+4,7%), mentre diminuiscono quelle verso l’Ucraina (-7,5%). Da segnalare, infine, il persistente declino delle rimesse verso le Filippine (nell’ultimo biennio si sono quasi dimezzate, erano oltre 600 milioni di euro nel 2012), il Brasile e l’Ecuador (rispettivamente, -23,0% e -7,0% negli ultimi due 178 anni); infine, merita una sottolineatura, malgrado il modesto valore assoluto, il forte incremento delle transazioni monetarie verso la Russia (+32,3%). Tabella 13 - Rimesse dei cittadini stranieri. Graduatoria dei primi 10 paesi (in migliaia di euro) (20132014) Paesi Romania Cina Bangladesh Filippine Marocco Senegal India Perù Sri Lanka Ucraina 2014 876.489 819.000 360.763 324.067 249.957 244.936 225.633 193.162 173.345 144.287 5.333.285 Totale % 16,4 15,4 6,8 6,1 4,7 4,6 4,2 3,6 3,3 2,7 100,0 2013 861.190 1.098.565 346.051 339.920 240.941 231.720 242.913 186.211 156.351 156.001 % 15,7 20,0 6,3 6,2 4,4 4,2 4,4 3,4 2,8 2,8 Var.% 13-14 1,8 -25,4 4,3 -4,7 3,7 5,7 -7,1 3,7 10,9 -7,5 5.545.759 100,0 -3,8 Tabella 14 - Rimesse dei cittadini stranieri nel periodo 2010-2014: prime 12 provv. di invio (migliaia di euro) Provincia Roma Milano Firenze Napoli Torino Prato Brescia Bologna Genova Bergamo Venezia Verona Totale 2010 1.786.274 941.826 207.345 225.751 180.538 191.699 132.094 130.700 119.319 98.410 92.118 77.441 6.572.224 2011 2.040.017 1.031.305 233.604 305.707 193.321 249.102 152.763 131.858 122.450 110.151 108.971 89.067 7.394.398 2012 1.938.168 965.969 197.194 295.600 164.577 208.458 134.645 108.989 110.734 95.226 97.598 76.291 6.833.116 2013 965.489 674.807 190.802 220.953 168.780 202.523 140.650 117.963 112.094 94.560 93.944 79.131 5.545.759 2014 891.185 606.795 207.488 195.435 172.308 162.134 139.060 117.182 108.361 97.892 96.393 87.245 5.333.285 % 16,7 11,4 3,9 3,7 3,2 3,0 2,6 2,2 2,0 1,8 1,8 1,6 100,0 Var.% 13-14 -7,7 -10,1 8,7 -11,5 2,1 -19,9 -1,1 -0,7 -3,3 3,5 2,6 10,3 -3,8 Un quinto delle rimesse proviene dalla Lombardia, regione che detiene il primato con oltre 1,1 miliardi di euro inviati all’estero. Tre soli territori regionali, Lombardia, Lazio e Toscana, raggruppano più della metà del volume totale di rimesse in uscita dal nostro paese, pur avendo fatto registrare nel 2014 una diminuzione che oscilla tra il 2,7% e il 7,0%. Assai marcato il ridimensionamento dei flussi di rimesse in partenza dalla provincia di Roma (dalla capitale, in particolare): se nel 2011 i migranti presenti sul territorio provinciale inviavano oltre 2 miliardi di euro di rimesse (il 27,1% dell’ammontare complessivo), tre anni dopo, nel 2014, il valore è sceso a 900 milioni di euro, riducendone notevolmente il suo peso percentuale (16,7%). Ancora in termini dinamici (2013-2014) si registra un segno negativo (-10,1%) nella provincia di Milano, seconda in graduatoria, da cui nel 2014 sono stati spediti all’estero oltre 600 179 milioni di euro, l’11,4% del totale. Significative cadute dei valori monetari intermediati fanno registrare anche diverse altre province in graduatoria, in particolare Catania (-32,1%), Prato (-19,9%) e Napoli (-11,5%), mentre un segno particolarmente positivo contraddistingue le province di Modena (+10,5%), Verona (+10,3%) e Firenze (+8,7%). 7. L’andamento delle rimesse in Toscana e in provincia di Arezzo Come emerge dalla Tabella 15 (elaborazione Osservatorio provinciale su dati di Banca d’Italia), nel 2014 i flussi di rimesse della popolazione immigrata in Toscana hanno raggiunto quasi i 600 milioni di euro (precisamente 587.146.000 euro), segnando un -2,7% rispetto all’ammontare del precedente anno. Siamo ancora lontani da quel miliardo circa di rimesse partite dalla nostra regione nel 2009. Oltre un terzo delle rimesse toscane partono dalla provincia di Firenze (il 35,3%); oltre un quarto dalla provincia di Prato (27,6%), provincia che negli ultimi anni ha conosciuto – per le ragioni sopra detto collegate all’andamento delle rimesse cinesi – la dèbacle più forte (solo nell’ultimo anno un -20,0%); seguono tutte le altre province toscane con valori di incidenza nettamente più bassi (dall’8,1% di Pisa, al 5,8% di Arezzo fino all’1,9% di Massa Carrara). Tra le “altre” province toscane, Arezzo si colloca nella fascia medio-alta: nel 2014 le rimesse hanno raggiunto i 34,3 milioni di euro: un dato che, a seguito della flessione registrata, riporta indietro ai valori delle rimesse del 2008, in linea con il dato del 2010, e in crescita rispetto ai dati registrati negli ultimi anni. Tabella 15 - Toscana. Cinque anni (2009-2014) di rimesse dei cittadini stranieri (in migliaia di euro) Province Arezzo Firenze Grosseto Livorno Lucca Massa C. Pisa Pistoia Prato Siena Toscana 2009 2010 2012 2013 2014 Inc. % 2014 Var. % 2013/14 31.110 207.345 16.941 29.643 29.591 14.294 38.660 21.723 191.699 20.635 601.641 34.493 233.604 17.604 30.881 30.645 10.991 42.338 23.630 249.102 21.471 694.759 29.411 197.194 16.289 30.042 28.605 10.124 38.341 21.492 208.458 19.284 599.240 32.534 190.802 17.912 32.067 29.496 10.441 45.033 20.954 202.523 21.972 603.734 34.326 207.488 17.855 31.691 30.253 10.944 47.554 22.316 162.134 22.585 587.146 5,8 35,3 3,0 5,4 5,2 1,9 8,1 3,8 27,6 3,8 100,0 5,6 8,7 -0,3 -1,2 2,6 4,8 5,6 6,5 -20,0 2,8 -2,7 Quali sono i principali corridoi paese delle rimesse? Ovvero, quali sono le aree e i paesi che beneficiano maggiormente delle rimesse dei migranti residenti nella nostra provincia? Evidentemente la risposta a questa domanda è collegata a diversi 180 fattori, tra cui la maggiore o minore presenza di una nazionalità, il progetto migratorio, il lavoro svolto… L’attitudine all’invio di denaro nel Paese d’origine è poi condizionato da alcuni fattori, non ultimo il legame con i familiari rimasti in patria, che sono i principali destinatari delle rimesse. Le Tabelle seguenti offrono diverse indicazioni al riguardo. I migranti residenti in provincia di Arezzo che inviano denaro con più frequenza e regolarità il denaro nel paese di origine provengono dall’Est Europa, segnatamente dai Paesi entrati nel 2007 nell’UE (30,9%), e dall’Asia (40,0%), tra cui quelli provenienti dall’Asia centro-meridionale (28,9%). Seguono, ben distanziati, l’America meridionale (10,8%) e l’Africa (8,7%). Tabella 16 - Provincia di Arezzo. Rimesse dei cittadini stranieri nel corso del 2014, suddivise per macroaree geografiche (in migliaia di euro) Paesi UE 15 UE nuovi 12 Europa centro-orientale Europa altri EUROPA Africa settentrionale Africa orientale Africa centro-occidentale Africa centro-meridionale AFRICA Asia occidentale Asia centro-meridionale Asia orientale ASIA America settentrionale America centro-meridionale AMERICA OCEANIA Non attribuite Totale Arezzo 830 10.619 2.249 22 13.720 1.604 161 1.094 134 2.993 130 9.904 3.709 13.743 142 3.719 3.861 7 2 34.326 Totale Toscana 10.297 84.324 35.105 326 130.052 27.934 1.708 39.394 1.964 71.000 17.821 58.426 253.701 329.948 1.921 53.942 55.863 136 147 587.146 Arezzo su Toscana 8,1 12,6 6,4 6,7 10,5 5,7 9,4 2,8 6,8 4,2 0,7 17,0 1,5 4,2 7,4 6,9 6,9 5,1 1,4 5,8 Su totale Arezzo 2,4 30,9 6,6 0,1 40,0 4,7 0,5 3,2 0,4 8,7 0,4 28,9 10,8 40,0 0,4 10,8 11,2 100,0 Rispetto alle nazionalità, rumeni e bengalesi si confermano come le comunità con l’ammontare più alto di rimesse, rispettivamente con circa 9,6 e 5,0 milioni di euro, pari al 28,1% e al 14,4% di tutte le rimesse inviate dalla provincia di Arezzo. In realtà, più dei romeni, prima comunità per presenza in provincia, spicca il secondo dato, considerando che la comunità del Bangladesh, concentrata in particolare nella città di Arezzo, è soltanto la quarta nazionalità per presenza assoluta (dopo Romania, Albania e Marocco) e ha conosciuto, nell’ultimo biennio (2013-14), un decremento del 18% (vedi, infra, cap. 1, Parte Prima). È pur vero che per romeni e albanesi, vista la vicinanza geografica del Paese di origine e i 181 frequenti ritorni, sono attivi altri canali informali di trasferimento di denaro non computati nel dato ufficiale della Banca d’Italia. Il dato delle rimesse verso il Bangladesh – passato da 3,5 milioni di euro nel 2013 a quasi 5,0 milioni nel 2014 – spicca anche a livello regionale: un quarto dei flussi di rimessa toscani verso questo paese partono da Arezzo (il 22,9%), anche se nettamente in calo rispetto allo scorso anno (quando pesavo per circa il 29,0%). Stesso discorso per le rimesse verso l’India (il 26,7% a livello regionale), mentre si attestano ad un sesto (oltre il 17%) rispetto al dato regionale le rimesse in partenza da Arezzo verso la Repubblica Dominicana e il Pakistan e un settimo per quelle verso la Romania (14,4%). Una fetta importante della ricchezza prodotta dagli immigrati residenti in provincia di Arezzo, dunque, viene destinata a sostenere i familiari e gli investimenti nel paese di origine. Tabella 17 - Provincia di Arezzo. Rimesse dei cittadini stranieri nel 2014 (dati in migliaia di euro) Paesi Romania Bangladesh India Pakistan Cina Filippine Dominicana Rep. Albania Marocco Brasile Sri Lanka Tunisia Senegal Colombia Totale Arezzo 9.634 4.951 2.217 2.019 1.944 1.655 1.647 1.087 1.010 1.001 595 538 401 388 34.326 Toscana 74.740 21.639 8.300 11.811 224.171 27.848 9.391 15.879 21.905 11.057 15.669 4.742 29.695 3.743 587.146 % rimesse Arezzo su Toscana 12,9 22,9 26,7 17,1 0,9 5,9 17,5 6,8 4,6 9,1 3,8 11,3 1,4 10,4 5,8 % rimesse su totale Arezzo 28,1 14,4 6,5 5,9 5,7 4,8 4,8 3,2 2,9 2,9 1,7 1,6 1,2 1,1 100,0 Riferimenti bibliografici Ambrosini M. (a cura di) (2009), Intraprendere tra due mondi. Il transnazionalismo economico degli immigrati, il Mulino, Bologna. Azzari M. (a cura di) (2010), Atlante dell’imprenditoria straniera in Toscana, Pacini, Firenze. Barberis E. (2008), Imprenditori immigrati. Tra inserimento sociale e partecipazione allo sviluppo, Ediesse, Roma. Beudò M. (a cura di) (2010), Il lavoro degli immigrati in Toscana: scenari oltre la crisi. Regione Toscana. Rapporto 2009, Irpet, Regione Toscana, Firenze. Bettin G., Presbitero A., Spatafora N. (2014), Remittances and vulnerability in developing countries, IMF Working Paper n. 14/13. 182 Centro Studi e ricerche Idos (a cura di) (2015), Immigrazione. Dossier statistico 2015, Unar/Idos, Roma. Centro Studi e ricerche Idos (a cura di) (2014), Immigrazione. Dossier statistico 2014, Unar/Idos, Roma. Fondazione Ismu (2013), Diciannovesimo Rapporto sulle migrazioni 2013, FrancoAngeli, Milano. Fondazione Ismu (2014), Ventesimo Rapporto sulle migrazioni: 1994-2014, FrancoAngeli, Milano. Fondazione Leone Moressa (2012), Ancora in aumento gli imprenditori stranieri, Rapporto agosto 2012 (www.fondazioneleonemoressa.org). Pacini F., Savinio T. (a cura di) (2010), L’imprenditoria straniera in Toscana, eBook, n. 2/10, Irpet, Firenze, febbraio 2010. 183 184 Quarta parte Il contributo della ricerca qualitativa negli studi dell’Osservatorio 185 186 Capitolo 1 La ricerca qualitativa per studiare i fenomeni migratori nella città di Erika Cellini 1. L’approccio quantitativo e quello qualitativo Nelle scienze sociali vengono generalmente distinti due approcci alla ricerca: quello quantitativo e quello qualitativo (si vedano a titolo di esempio due dei manuali di metodologia delle scienze sociali più usati in Italia: Corbetta, 1999; Amaturo, 2012). Nonostante le critiche di inadeguatezza mosse a questa distinzione e all’uso dei due termini (vedi ad esempio Bryman, 1984 e 1988; Cardano, 1991; Cipolla e De Lillo 1996; Marradi, 2007; Nigris, 2003), è possibile comunque provare a tracciare delle differenze fra i due approcci che portano effettivamente a guardare e quindi a conoscere il mondo sociale e la sua complessità da angolature diverse. In primo luogo la letteratura situa i due approcci in due diversi paradigmi delle scienze sociali: la ricerca quantitativa si orienta nell’eredità del paradigma positivista, quello che ha visto la nascita della sociologia come scienza e come disciplina empirica e che ha come riferimento l’approccio di Èmile Durkheim dei fatti sociali e della spiegazione; la ricerca qualitativa invece si situa nel paradigma cosiddetto interpretativista che si rifà al pensiero di Max Weber e alla sua sociologia comprendente che punta l’attenzione sulla comprensione dell’azione sociale dotata di senso. Siamo da un lato nell’ambito della sociologia macro che guarda ai fenomeni sociali dal punto di vista della struttura e del sistema e dall’altro nell’ambito della sociologia micro che guarda ai fenomeni sociali dal punto di vista dell’individuo. Molte delle differenze che in letteratura vengono riscontrate sono però soprattutto di tipo metodologico, riguardano cioè l’operato concreto delle ricerca e il tipo di informazione che permettono di rilevare o costruire. Corbetta (1999/2014, pp. 50-68) propone di confrontare i due approcci a partire dalle quattro fasi in cui distingue il processo della ricerca: l’impostazione, la rilevazione delle informazioni, l’analisi delle informazioni e i risultati. Riguardo all’impostazione della ricerca, l’approccio quantitativo prevede una forte strutturazione delle varie fasi che vanno dalla formulazione del problema di ricerca e degli obiettivi cognitivi, al disegno della ricerca, la costruzione della base empirica, l’organizzazione delle informazioni, l’analisi delle informazioni fino all’esposizione dei risultati. Le fasi vengono seguite secondo questo ordine, 187 senza la possibilità di sovrapposizione. Secondo l’approccio qualitativo invece queste non sono nemmeno propriamente delle fasi, ma delle famiglie di attività, non sono cioè ordinate rigidamente e spesso sono sovrapposte. Per fare un esempio, la fase della rilevazione dei dati in una ricerca con survey deve essere terminata prima di dare il via all’analisi dei dati e il questionario non può essere modificato in corso d’opera; in una ricerca con interviste in profondità invece l’analisi delle informazioni inizia durante la fase della raccolta delle interviste e la traccia può essere modificata anche intervista per intervista in base alla prima lettura di quelle fatte. Rispetto al rapporto teoria e ricerca, nelle ricerche di tipo quantitativo la teoria precede e guida il disegno della ricerca e la rilevazione empirica, mentre in quelle di tipo qualitativo la relazione è più aperta, interattiva: la teoria segue e nasce dalla rilevazione empirica; d’altra parte si è coscienti che la teoria ha un ruolo attivo nella costruzione dell’oggetto o del fenomeno che stiamo studiando. Queste diverse impostazioni portano anche a un diverso uso dei concetti, elementi costituivi della teoria. Nella ricerca quantitativa i concetti di proprietà vengono definiti operativamente dal gruppo di ricerca prima di iniziare la rilevazione, vengono cioè ingabbiati in definizioni non modificabili sul campo, si trasformano in variabili e prescrivono cosa rilevare. Questo non avviene mai nella ricerca qualitativa, nella quale i concetti di proprietà restano a livello di concetti sensibilizzanti – per dirla con Herbert Blumer (1969, pp. 149-150) – che non prescrivono cosa vedere, ma suggeriscono la direzione nella quale guardare, prendendo significato dall’interazione fra il significato teorico e quello degli attori sociali che si stanno studiando. Anche gli obiettivi hanno impostazioni diverse. Quando facciamo ricerca quantitativa miriamo a controllare la teoria di partenza e ci interroghiamo sul perché, quindi puntiamo a individuare relazioni fra variabili; quando facciamo ricerca qualitativa ci interroghiamo sul come e siamo orientati a interpretare e comprendere il punto di vista dell’attore sociale. Nel primo caso ci interessiamo a un numero esteso di casi, che consentono, in maniera maggiore o minore, di generalizzare i risultati alla popolazione della quale quei casi fanno parte, mentre nel secondo caso, indagando in maniera intensiva un numero limitato di casi, abbiamo come obiettivo approfondire e comprendere situazioni uniche, non generalizzabili (Pastore e Ponzo, 2012, pp. 28-29); si possono avere anche obiettivi di tipo generalizzante, si tratta però di una generalizzazione non estensiva o statistica, ma teorica o decontestualizzante. In un caso l’obiettivo è produrre asserti, affermazioni su relazioni fra variabili e generalizzarle, nel secondo l’obiettivo è la costruzione di strumenti concettuali come classificazioni e tipologie da applicare anche in altri contesti oltre quello della ricerca, che 188 costituiscono cioè dei modi di condurre i risultati fuori dal contesto in cui il fenomeno sociale è stato studiato (Prus, 1996, p. 141). Rispetto al rapporto fra ricercatore e soggetti studiati, nell’approccio quantitativo il ricercatore assume un punto di osservazione esterno al soggetto studiato, in una prospettiva di distanza e separazione, e studia ciò che a lui o alla comunità scientifica sembra rilevante; nell’approccio qualitativo invece cerca di avvicinarsi il più possibile all’attore sociale per cogliere il suo modo di guardare al mondo, in una prospettiva di immersione e non di distacco. Nel caso della ricerca quantitativa, in alcuni casi non c’è proprio l’incontro con i soggetti studiati, si pensi al caso di un sondaggio con questionario postale o via web o al caso dell’analisi di dati statistici. L’incontro invece è sempre presente, e parte fondamentale della rilevazione, nella ricerca di tipo qualitativo. All’incontro si affianca un’interazione profonda che implica un ruolo attivo del soggetto studiato nel processo di ricerca. Centrale in questo modo di fare ricerca è quindi l’esperienza che il ricercatore fa del fenomeno che intende studiare. Tutto ciò è considerato una condizione necessaria per la comprensione. Riguardo alla fase della rilevazione delle informazioni, le principali differenze fra i due approcci hanno a che fare con il livello di strutturazione del disegno della ricerca, con le caratteristiche dei sistemi e delle tecniche e strumenti di rilevazione e con la natura delle informazioni prodotte. Nell’approccio quantitativo il disegno della ricerca è deciso e costruito prima di iniziare la rilevazione, è molto strutturato e non viene mai cambiato nel corso della ricerca; nell’approccio qualitativo può essere modificato via via che la ricerca procede, in base alle decisioni che siamo chiamati a prendere, anche se non preventivate, ed è assolutamente aperto all’imprevisto, all’inatteso. Nella ricerca quantitativa si usano in particolare l’esperimento e la survey (inchiesta campionaria o sondaggio), con questionario con domande a risposta chiusa, quando l’unità di analisi è a livello individuale, la rilevazione e l’analisi di dati statistici forniti da fonti ufficiali quando l’unità di analisi è un aggregato territoriale, come ad esempio lo Stato, la regione, il comune, etc. Questi strumenti sono fortemente standardizzati e sono usati in maniera assolutamente uniforme per tutti i casi della ricerca, ad esempio il questionario è sempre lo stesso per tutti i casi del campione. Nella ricerca qualitativa le tecniche e gli strumenti più usati sono l’intervista in profondità e semi-strutturata, la storia di vita, l’osservazione con vari gradi di partecipazione, varie tecniche di gruppo come i focus group, i documenti e i materiali audiovisuali, che possono essere usati singolarmente o dentro particolari strategie di ricerca, come ad esempio lo studio di caso, la ricerca etnografica e l’approccio biografico. Questi hanno gradi più bassi di standardizzazione e la loro formulazione può cambiare nel corso della rilevazione; pensiamo all’osservazione e a come può essere usata nel corso di una 189 ricerca: con alcuni soggetti possiamo decidere di usare un’osservazione coperta e con altri un’osservazione scoperta, in alcuni momenti della ricerca o anche della stessa giornata possiamo osservare da lontano le azioni dei soggetti che stiamo studiando, in altri momenti partecipare alle loro attività. Nella stessa ricerca possono esserci anche più unità di analisi oppure può non esserci una vera e propria unità di analisi, pensiamo agli studi di gruppi sociali o di quartieri. Ciò dipende, oppure è il frutto, del tipo di informazione che rileviamo. Nel caso delle ricerche di orientamento quantitativo le informazioni sono rilevate su un unico tipo di unità di analisi e sono trasformate in dati mediante la definizione operative, cioè sono confrontabili con tutte le altre informazioni rilevate e hanno lo stesso formato, sono infatti inserite in una matrice casi per variabili (o dei dati). Nel caso delle ricerche di orientamento qualitativo, invece, la natura delle informazioni è varia e anche nell’ambito della stessa ricerca queste possono non avere lo stesso formato per tutti i soggetti studiati: testi di interviste in profondità, risposte a domande aperte, note etnografiche prese durante le osservazioni, etc. Riguardo alla fase dell’analisi delle informazioni, le principali differenze si riscontrano nell’idea dell’oggetto della ricerca e nell’obiettivo dell’analisi. Sinteticamente, possiamo dire che per l’approccio quantitativo l’oggetto dell’analisi sono le variabili (si parla di analisi orientata alle variabili). Le informazioni vengono raccolte caso per caso e inserite nella matrice dei dati; ogni caso (individuo o aggregato territoriale) viene analizzato in base ai suoi stati su singole proprietà/variabili: “la sua unitarietà di individuo [o di aggregato territoriale] viene frammentata in tanti elementi quante sono le variabili che lo descrivono. A partire da questo momento il soggetto non verrà più ricomposto dal ricercatore nella sua interezza di persona” (Corbetta, 2014, p. 59). Lo scopo dell’analisi dei dati è stabilire se vi sono delle relazioni tra variabili dipendenti e indipendenti (previste o non previste da un’ipotesi), trovare alcune variabili indipendenti la cui variabilità provoca almeno in parte la variabilità di quelle dipendenti. Per l’approccio qualitativo invece l’oggetto dell’analisi è il soggetto (individuo o soggetto sociale) nella sua interezza (si parla di analisi orientata al soggetto), secondo una prospettiva olistica nell’analisi del comportamento umano e secondo l’idea dell’irriducibilità del soggetto a una serie di stati su proprietà distinte e separabili. Si mira infatti alla comprensione del comportamento umano, interpretandone il punto di vista dell’attore sociale. Infine, nella ricerca quantitativa si usano le tecniche statistiche per analizzare i dati, nella ricerca qualitativa no, l’analisi è di tipo interpretativo ed ermeneutico. Tutte queste differenze fra i due approcci portano anche a una profonda diversità nel tipo di risultati che possono essere raggiunti. In generale è più probabile che 190 le tecniche di rilevazione delle informazioni che producono dati forniscano descrizioni di tipo etic del mondo dei soggetti studiati; mentre è più probabile che le tecniche di rilevazione che producono testi forniscano descrizioni di tipo emic del mondo dei soggetti studiati. Per “costrutti etic” si intendono infatti affermazioni, descrizioni e analisi espresse nei termini delle categorie analitiche e sugli schemi concettuali di riferimento propri dei ricercatori e della comunità scientifica. I “costrutti emic” sono invece affermazioni, descrizioni ed analisi che si fondano sulle categorie analitiche e discorsive e sugli schemi concettuali di riferimento degli attori studiati (Nigris, 2003). Infine, differenze appariscenti si riscontrano nelle forme classiche di presentazione dei risultati delle due tradizioni di ricerca, che nella ricerca di tipo quantitativo si esplicitano in tabelle e grafici e nella ricerca di tipo qualitativo in narrazioni, per esempio con brani di interviste in profondità o stralci di note etnografiche. Con le citazioni di brani di intervista ciò che viene trascritto è pur sempre frutto di scelte del ricercatore e quindi di una sua interpretazione generale (è sua la scelta di chi citare fra i soggetti studiati, suo l’accento su un brano piuttosto che su un altro, suo il filo logico che lega le varie citazioni riportate), ma il brano citato è la risposta del soggetto studiato nella forma scelta ed espressa da egli stesso. Le posizioni che troviamo lungo la storia della sociologia come disciplina empirica in merito a quale dei due approcci sia migliore dal punto di vista scientifico sono svariate. A lungo è prevalsa l’idea che i due approcci fossero incompatibili perché caratterizzati da impostazioni filosofiche di fondo assolutamente divergenti. In particolare, intorno alla metà del secolo scorso, soprattutto fra i fedeli dell’approccio quantitativo, l’approccio qualitativo veniva accusato di non essere scientifico, ma più vicino allo stile della letteratura o di certe forme di giornalismo, a causa in special modo del ruolo del ricercatore e della sua soggettività nel rilevare e nell’interpretare le informazioni (Corbetta, 2014, pp. 68-69). Oggi però prevale una posizione diversa che sostiene la piena legittimità di entrambi gli approcci. Alcuni autori ribadiscono la diversità fra i due approcci che implicano modi diversi di guardare al mondo e ai fenomeni sociali (Corbetta, 2014), altri invece minimizzano le differenze che sono puramente di tipo tecnico (Bryman, 1988). Cardano (1991, p. 182) addirittura scrive che qualità e quantità hanno confini incerti, nel senso che elementi che vengono considerati caratteristici di un approccio si ritrovano spesso anche nell’altro. Entrambe le posizioni vanno nella direzione di rifiutare l’ortodossia metodologica a favore della scelta in base all’obiettivo di ricerca, in base a come vogliamo guardare al fenomeno sociale. 191 Spesso nella pratica della ricerca i due approcci o alcune tecniche dell’uno o dell’altro vengono usati insieme, al fine di avere una visione più complessa dell’oggetto di studio, nella consapevolezza che non esiste un’unica prospettiva né teorica né empirica, che non si può arrivare a conoscere in maniera completa, né tantomeno vera, un qualunque fenomeno sociale, ma che l’oggetto di studio è costruito dal modo in cui viene studiato. A volte troviamo ricerche che sposano per lo più un approccio e usano alcune tecniche di rilevazione o di analisi delle informazioni proprie dell’altro approccio solo in maniera ancillare, per esempio vengono fatte interviste in profondità per avere materiale utile alla costruzione del questionario, oppure si analizzano dati statistici di contesto durante una ricerca etnografica. Altre volte invece i due approcci sono usati insieme in maniera complementare e paritaria, nel tentativo di valorizzare le potenzialità di entrambi e superarne al contempo i limiti. Soprattutto per fenomeni sociali complessi, multidimensionali, possiamo affermare che non esiste un approccio migliore degli altri, ma domande di ricerca che implicano strumenti metodologici diversi oppure il loro uso congiunto (Castagnone, Ferro e Mezzetti, 2008, p. 3). Mettere insieme elementi dei due approcci serve per avere più punti di vista sui fenomeni sociali, per leggere, interpretare, comprendere, spiegare i fenomeni sociali nella loro complessità. Dati statistici e dati di survey ci restituiscono una visione più macro, le informazioni rilevate con tecniche non standardizzate invece una visione più micro, che guarda all’azione sociale e ai suoi significati, all’interazione, alla relazione, al senso, al significato. I dati permettono di legare un fenomeno di un territorio a delle dinamiche più ampie, nazionali e internazionali, l’esperienza sul campo consente di comprendere le specificità di quel contesto. La migrazione o le migrazioni sono certamente un fenomeno ricco di sfaccettature, di aspetti diversi, ciascuno dei quali con le proprie specificità, sono un cosiddetto “fatto sociale totale”, riprendendo l’espressione di Sayad (1999), “che coinvolge e modifica relazioni sociali, strutture economiche, dinamiche politiche oltre ad avere importanti dimensioni simboliche, identitarie, religiose e linguistiche. Per quanto nella pratica della ricerca ogni studioso privilegerà solo alcune di queste dimensioni, la multidimensionalità sociale e culturale della mobilità contemporanea non può essere sottovalutata” (Capello, Cingolani e Vietti, 2014, p. 14). Per questo, ciascuna domanda di ricerca che si rivolga a un aspetto oppure ad un altro, che voglia guardare al fenomeno migratorio in maniera più macro oppure in maniera più micro, avrà un suo percorso metodologico che privilegerà l’approccio quantitativo oppure quello qualitativo. I percorsi di ricerca però possono e devono incrociarsi e trarre vantaggi reciproci se vogliamo avere un’immagine più articolata delle migrazioni. 192 2. La ricerca qualitativa per lo studio delle migrazioni in un osservatorio In Italia, negli ultimi decenni, lo studio in ambito sociologico dell’immigrazione straniera e dei temi ad essa collegati, come il multiculturalismo o la diversità culturale, si è avvalso principalmente dell’approccio di ricerca qualitativo (Boccagni e Riccio, 2014, p. 33). Il motivo principale può essere ricondotto alla necessità di conoscere un fenomeno nascente, e poi velocemente in crescita, disperso sul territorio. Ciò ha portato a focalizzazioni su gruppi nazionali inseriti in contesti territoriali, sociali ed economici particolari. Ma possiamo rintracciare anche un’altra ragione, legata all’approccio teorico spesso prevalente con cui si è guardato, non solo in Italia, alle migrazioni in ambito sociologico e anche antropologico, un approccio che ha messo spesso al centro dell’attenzione la “cultura”: la diffusa presupposizione di una radicale differenza fra la cultura del luogo di origine degli immigrati, considerata spesso come fondata sulla comunità e i legami familiari, e quella del luogo di arrivo, urbana e moderna, ha diretto l’interesse degli studiosi verso i problemi derivanti dall’incontro/scontro fra persone, immigrati e nativi, diversi dal punto di vista dell’identità nazionale, di genere, religiosa, etc. nonché verso le difficoltà e sofferenze dei migranti derivanti dal fatto di trovarsi “fra due culture” (Eve, 2001, pp. 234-235). Questo ha appunto fatto optare per uno studio in profondità, di caso, di comunità. Boccagni e Riccio (2014) hanno analizzato i numeri della rivista “Mondi Migranti” dal 2002 al 2014 e i sette volumi della collana “Stranieri in Italia” dell’Istituto Cattaneo, riscontrando che circa l’80% dei contributi di ricerca presenti si basano appunto sull’approccio qualitativo. Anche gli esempi di libri che riportano i risultati di ricerche qualitative sul fenomeno migratorio sono tanti. Eccone alcuni, chiaramente non esaustivi della larga produzione: sugli studi di comunità di immigrati come entità distinte (Colombo, 1998) e con lo sguardo sulle migrazioni di donne (Decimo, 2005; Lagomarsino, 2006; Vianello, 2009), sugli studi di immigrati inseriti nel mondo del lavoro (Perrotta, 2011), sugli studi sulle seconde generazioni (Acocella e Pepicelli, 2015). Nello studio delle migrazioni in Italia non è mancato però neanche l’approccio di ricerca quantitativa che è stato usato nella sua versione di survey, quindi a livello individuale, soprattutto per studiare le seconde generazioni o gli alunni stranieri (Casacchia, Natale e Guarnieri, 2009), gli atteggiamenti degli italiani nei confronti degli stranieri (Cipollini 2002, Colombo 2007) o, anche se più raramente, le immagini che gli stranieri hanno degli italiani (Pitrone, Martire e Fazzi, 2012), nonché nella versione di analisi ecologica su dati prodotti da fonti ufficiali, quindi a livello di aggregati territoriali (Conti e Strozza, 2006). 193 L’approccio quantitativo è stato spesso applicato anche per spostare sul piano empirico la riflessione teorica, talvolta persino prescrittiva, sul tanto usato, ma sempre ambiguo, concetto di integrazione (1) e quindi per provare a rilevare il grado di integrazione degli stranieri o, secondo gli approcci più recenti, il processo di integrazione fra stranieri e autoctoni. Sono stati compiuti, infatti, sia da istituzioni sia da singoli studiosi vari tentativi di ridurre la complessità del concetto di integrazione mediante sistemi di indicatori da definire operativamente a livello individuale e di aggregati territoriali (Natale e Strozza, 1997; Zincone, 2000; Cellini e Fideli, 2002; Cellini, 2002; Golini, 2006; Berti e Valzania, 2010), nonostante i problemi di affidabilità delle fonti ufficiali dei dati. Per un osservatorio, che ha come obiettivi monitorare il fenomeno migratorio su un territorio, per capirlo insieme ai mutamenti della società locale, e fornire strumenti di analisi ai policy makers del territorio per l’orientamento degli interventi politici e sociali, è importante riprendere la prospettiva, citata nel primo paragrafo, relativa alla necessità di studiare un fenomeno complesso come quello migratorio non da un punto di vista di fedeltà a un approccio di ricerca o teorico, ma mediante la ricchezza e la varietà degli strumenti metodologici. In questo paragrafo ci concentriamo sul contributo che la ricerca qualitativa può dare allo studio delle migrazioni su un territorio, sia come appoggio alla ricerca di tipo più quantitativo per arricchire le informazioni rilevate, sia come approccio autonomo con i propri particolari obiettivi cognitivi. Una rilevazione di tipo qualitativo può inserirsi con un ruolo ancillare sia in una ricerca a livello individuale con survey, sia in una rilevazione di dati statistici. Riguardo a una survey rivolta a cittadini stranieri su un qualsiasi argomento, impostare il questionario a partire da un’indagine esplorativa con interviste in profondità a soggetti simili ai casi dell’unità di analisi della survey può servire per costruire le domande e le alternative di risposta in una prospettiva più emic, cioè con le categorie concettuali non solo proprie della comunità scientifica, ma più vicine all’esperienza dei soggetti studiati. Questo può venire incontro alle critiche mosse a questo tipo di ricerca, troppo legata alla teoria e alle categorie di partenza, e permettere agli intervistati di non sentirsi estranei agli argomenti della rilevazione ed esprimere le loro posizioni in maniera più fedele. Nella fase dell’analisi dei dati fatta con tecniche statistiche, la narrazione prodotta dagli stralci di intervista in profondità può aiutare ad esemplificare i risultati, a far capire meglio cosa c’è dietro il dato numerico. Riguardo a una rilevazione che si basa su dati statistici su aggregati territoriali a vario livello (da quello sotto-comunale a quello statale), che sono fondamentali per un osservatorio per monitorare la presenza di cittadini stranieri sul territorio di riferimento nel tempo e insieme alle dinamiche migratorie nazionali e 194 internazionali, l’uso congiunto di tecniche di rilevazione qualitativa può aiutare a superare alcuni limiti che riguardano vari aspetti. In primo luogo, i dati statistici non sono neutri perché questi costruiscono una realtà che è quella della definizione operativa, cioè del modo in cui questi dati vengono rilevati, dei ricercatori, che vanno a cercare i temi che a loro sembrano rilevanti in base alla teoria di riferimento, e delle istituzioni, che decidono quali informazioni su quali argomenti mettere a disposizione: “La storia della statistica ci insegna che le tecniche usate, da una parte incorporano nozioni dello stato e della società, e dall’altra incidono su di esse trasmettendo una determinata idea della popolazione nazionale, privilegiandone alcuni aspetti e lasciandone altri nell’ombra” (Eve, 2001, pp. 239-240). La ricerca qualitativa può aiutare in questo senso a conoscere i soggetti che abbiamo contato con i dati, a cogliere il loro punto di vista, ad entrare dentro il fenomeno sociale e far emergere elementi per ampliare e cambiare la teoria che già abbiamo, ma soprattutto a far comparire aspetti che non vengono rilevati da alcun ente o amministrazione pubblica, o che sfuggono alla macro visione dei dati, o che comunque non sono noti (2). Se analizzando la distribuzione sul territorio dei cittadini stranieri complessivamente e per nazionalità possiamo vedere la concentrazione in alcune aree o la dispersione sull’intero territorio, la stabilità o la provvisorietà della permanenza, immergendoci sul campo, osservando, intervistando o riprendendo con strumenti visuali possiamo conoscere il progetto migratorio delle singole persone, capire perché certi immigrati si stabiliscono su un territorio invece che su un altro, perché insieme ad altri della stessa nazionalità oppure indipendentemente, come interagiscono con i luoghi e con le persone. Ma l’approccio qualitativo può essere utile per un osservatorio anche applicato autonomamente, perché permette di studiare in profondità il contesto locale – territoriale e amministrativo – dove l’osservatorio opera, così rilevante nel determinare i percorsi di inserimento sociale, lavorativo e scolastico, le interazioni sociali e culturali e tutte le altre dimensioni che si possono condensare nel concetto sintetico di integrazione (Pastore e Ponzo, 2102, p. 22); può fornire quindi gli strumenti per lo studio del fenomeno migratorio in relazione alle dinamiche di interazione con il contesto territoriale, la città e il quartiere, delle collettività di stranieri, delle singole persone nelle varie fasi del loro percorso migratorio, delle forme più o meno emergenti di multiculturalismo quotidiano sul territorio, ma anche delle istituzioni deputate a gestire i fenomeni migratori. La città e i suoi quartieri con le loro specificità sono stati a lungo la forma di organizzazione sociale, spaziale, politica ed economica decisiva per comprendere le dinamiche migratorie in tutti i continenti, ma soprattutto in America, e in particolare negli Stati Uniti, e in Europa. La stretta connessione tra migrazione e 195 città, tra migrazioni e urbanizzazione, ha reso e rende ancora oggi evidente la necessità di intrecciare gli studi sui processi migratori a quelli sulle trasformazioni urbane. Non possiamo a tal proposito scordare gli studi pionieristici della Scuola di Chicago e di Robert E. Park sugli immigrati in una delle più grandi e urbanizzate città degli Stati Uniti: “Che la città e l’immigrazione siano fenomeni strettamente intrecciati da indagare insieme è il grande insegnamento della prima Scuola di Chicago” (Capello, Cingolani e Vietti, 2014, pp. 18-19). Se possiamo considerare superata la prospettiva assimilazionista di questi autori con cui guardavano alle migrazioni internazionali, dobbiamo invece ancora tenere presente il loro insegnamento metodologico che volgeva all’indagine empirica sul campo, alla rilevazione di prima mano, che spingeva i ricercatori all’esperienza, al contatto con le persone da studiare, all’osservazione e all’intervista, con un approccio focalizzato sulla vita quotidiana delle persone e sulla comprensione del loro punto di vista. Vediamo quindi quali sono le caratteristiche delle tecniche e degli strumenti di rilevazione più usati nella ricerca di tipo qualitativo, nonché quelle di una delle strategie di ricerca che meglio si adattano allo studio sul territorio delle migrazioni, la ricerca etnografica. L’intervista può essere definita come un’interazione tra chi conduce l’intervista e chi la riceve, richiesta e provocata dall’intervistatore (si sviluppa quindi in una situazione relazionale), avente finalità di tipo conoscitivo, condotta sulla base di uno schema di rilevazione (Fideli e Marradi, 1996; Bichi, 2007). Secondo la tipologia proposta da Bichi (2007), nella ricerca sociale esistono varie forme di intervista in base al grado di standardizzazione e di direttività della conduzione. Nella ricerca qualitativa si usano forme di intervista come quelle semi-strutturate, composte da una serie di domande a risposta aperta, e come quelle in profondità (3) che sono caratterizzate dalla bassa standardizzazione e dalla bassa direttività, hanno cioè una traccia composta da temi e concetti da sottoporre, ma che può cambiare anche da intervistato a intervistato in base sia alle specificità della storia dell’intervistato sia alle novità emerse dalle interviste svolte precedentemente. Alle domande sono preferite delle forme di probing, cioè “commenti, sollecitazioni non previste nella traccia di intervista che l’intervistatore utilizza a sua discrezione al fine di approfondire, di specificare, di sviscerare le risposte dell’intervistato” (Tusini, 2006, p. 61). La bassa direttività rimanda agli alti gradi di libertà dell’intervistato e dell’intervistatore. Il primo può liberamente esprimersi, raccontare, narrare, scegliere cosa dire: “Chi riceve le domande viene scelto per il ‘sapere’ di cui è portatore circa l’oggetto di studio. All’intervistato si riconosce il potere di dire e di produrre conoscenza; il suo protagonismo, circoscritto nello spazio-tempo dell’interazione, costituisce una fonte di gratificazione emotiva che favorisce un 196 lavoro ‘autenticamente teorico’ sul proprio sé” (Lumino e Vatrella, 2012, p. 290). L’intervistatore non è ingabbiato nelle domande chiuse del questionario, può decidere quando interloquire con l’intervistato al fine di far approfondire un aspetto oppure un altro. Ciò porta anche a stabilire una parità relazionale fra chi intervista e chi riceve l’intervista, dentro un frame di ruoli diversi, che sta alla base della filosofia di questo modo di fare interviste. Nella grande famiglia delle interviste in profondità troviamo le storie di vita e i racconti di vita (Bertaux, 1998), strumenti tipici del cosiddetto approccio biografico, che mirano a ricostruire le traiettorie biografiche dei soggetti. Nelle storie di vita non c’è un pre-centramento su uno specifico segmento della vita, come invece nei racconti di vita, ma solo l’invito a parlare di sé, della propria vita. In genere la consegna iniziale è “vorrei che lei mi raccontasse la sua vita cominciando da dove vuole”. Le biografie servono quindi anche per immettere nella ricerca qualitativa la dimensione temporale, al fine di decifrare il fenomeno che stiamo studiando non solo nel presente, ma anche nel passato della persona, lungo la sua traiettoria biografica e lungo la traiettoria sociale e storica del contesto territoriale in cui la persona vive. Con questo tipo di intervista non si rilevano solo esperienze dirette o fatti di vita. Si ricorre all’intervista in profondità quando si vuole comprendere il mondo vitale dell’intervistato, le connessioni di senso dell’agire e dell’intenzionalità altrui, cogliere il progetto di senso degli intervistati, le loro rappresentazioni, la percezione che hanno della realtà e delle interazioni sociali – percezione che influenza anche i loro comportamenti – a partire dal racconto dell’intervistato stesso, ma mediante l’interpretazione e rielaborazione da parte del ricercatore. Come scrivono Capello, Cingolani e Vietti (2014, p. 106), “l’esperienza migratoria è uno degli elementi che permette di dare un orientamento al proprio percorso biografico” e quindi l’intervista in profondità e la storia di vita in particolare sono strumenti fondamentali per cogliere i meccanismi attinenti la condizione di migrante. Tre sono i livelli che dobbiamo considerare: il livello individuale, che riguarda il racconto di sé che il migrante può fare, fra aspetti di unicità del suo vissuto e aspetti di somiglianza, che restituiscono il senso di appartenenza sociale; i livelli collettivo e storico, che fanno riferimento all’influenza della narrazione familiare, politica, sociale, ai ricordi non solo dell’esperienza individuale, ma di quella comune, storica. Senza sottovalutare gli elementi di specificità che esistono nella condizione di immigrato straniero, la riflessione sociologica deve però anche fare attenzione a non considerare queste persone solo come migranti, perché quella di migrante è solo una dimensione, seppur centrale, della loro biografia. La storia di vita permette di superare questo rischio, inserendo l’esperienza della migrazione nella biografia dell’individuo. 197 Mediante la raccolta e l’analisi di storie di vita, è possibile mirare a un obiettivo generalizzante: si può infatti provare a passare da una o più storie individuali a un tipo più generale di storia di migrante, si possono “evidenziare i pattern narrativi ricorrenti, che permettono di individuare un ‘senso comune’ dei migranti rispetto al loro percorso migratorio e far emergere gli immaginari collettivi” (Capello, Cingolani e Vietti, 2014, p. 108). Come scrive Acocella (2008), il focus group è una tecnica che ricorre a procedure di rilevazione delle informazioni tendenzialmente non standardizzate, basata su una discussione tra un piccolo gruppo di persone, focalizzata su un argomento o su alcuni suoi aspetti particolari, stabiliti dal gruppo di ricerca. La discussione si svolge alla presenza di un moderatore che lancia un tema di discussione, attende che la risposta sia generata dalla discussione di gruppo, quindi dall’interazione e dalle dinamiche che si instaurano tra i partecipanti, ma in qualche modo, anche se con un basso grado di direttività, ne gestisce l’andamento. “Tra i punti di forza della tecnica dei focus group vi è la possibilità di arrivare alla rappresentazione della realtà sociale […] sfruttando le proprietà del procedimento intersoggettivo e discorsivo: nel corso della intervistadiscussione di gruppo, ciascun partecipante è sollecitato a rivedere ripetutamente il suo pensiero in modo da ‘capire e farsi capire’ dagli altri. Il focus group simula e riproduce il procedimento sociale attraverso cui si formano le nostre idee sulla società, ci sollecita a prendere coscienza del punto di vista degli altri, consente di mettere a fuoco meglio i punti di contatto e di differenza” (Fiorucci, 2007, p. 29). Rispetto allo studio delle migrazioni, il focus group può essere utile per raccogliere informazioni sul discorso collettivo nei confronti delle migrazioni da parte di varie categorie sociali, sulle rappresentazioni sociali che si hanno nei confronti di migranti o di particolari sottogruppi di migranti, ma anche sul discorso collettivo di chi ha vissuto un’esperienza di migrazione. L’osservazione è uno strumento di rilevazione con il quale il ricercatore percepisce tramite i propri sensi, osserva e registra eventi, comportamenti, azioni e interazioni, nonché il contesto spaziale in cui questi si verificano (Cellini, 2008, p. 16). L’osservatore rileva senza meccanismi di intermediazione, salvo il suo schema concettuale o talvolta delle tracce di osservazione più o meno strutturate. Per registrare può usare gli appunti etnografici oppure materiali fotografici e video. Ci sono varie forme di strumenti osservativi: l’osservazione diretta ha come oggetto di analisi comportamenti e fenomeni sociali studiati durante il loro svolgersi; l’osservazione indiretta, invece, li rileva attraverso le loro tracce e i loro prodotti materiali. I comportamenti sono cioè ricostruiti dal ricercatore a partire dai loro effetti osservati. 198 Le tracce sono uno strumento usato negli studi sulle migrazioni ad esempio come segnali della presenza di stranieri in un contesto locale, dei mutamenti avvenuti nella città in seguito alla permanenza di grandi numeri di cittadini stranieri: sono esempi di indicatori di cambiamento la presenza per le strade di cartelli in lingua straniera, la presenza di negozi con insegne in lingua, la presenza nei supermercati di prodotti tipici di altri paesi, etc. (Webb et al., 1981, p. 208). L’osservazione diretta può avere vari gradi di partecipazione, in base al livello di inserimento del ricercatore nel gruppo o nel contesto sociale e quindi al grado di partecipazione alle attività e più in generale alla vita di quel contesto; può infine essere coperta o scoperta in base al fatto se il ricercatore si dichiara come ricercatore, racconta agli attori sociali che intende studiare le finalità della sua presenza, oppure mantiene nascosta la sua identità. L’osservazione con bassi gradi di partecipazione può essere uno strumento utile per lo studio delle migrazioni nella città, per raccogliere informazioni sul rapporto cittadini stranieri e spazi cittadini. Con questo strumento si può guardare allo spazio secondo una concezione relazionale, combinando l’attenzione al piano fisico strutturale con l’attenzione alle modalità attraverso cui gli abitanti si appropriano dei luoghi, allo spazio cioè come prodotto dell’azione sociale, nel quale emergono precise geografie del potere, in una continua dialettica tra le forze materiali che producono lo spazio e i progetti individuali che lo trasformano (La Cecla, 1988; Cingolani, 2012, p. 54). L’osservazione partecipante è lo strumento di rilevazione principale della cosiddetta ricerca etnografica, cioè di quel sistema di ricerca in cui il ricercatore si immerge in una comunità, o più semplicemente in un gruppo di individui che condividono uno stesso spazio fisico, e l’osserva “dal di dentro”, prendendo parte alla sua vita e cercando di mettere in atto il principio della non separatezza tra chi studia e chi è studiato. Con le immersioni si intende cioè entrare in stretto contatto con la vita di un gruppo per comprenderla dal di dentro, secondo il punto di vista degli attori sociali. Fare etnografia significa cogliere il punto di vista del “nativo” e la sua visione del mondo. L’interesse è nei confronti delle influenze sociali e culturali che muovono i soggetti, dei simboli, dei significati, che sono soggettivi ma anche sociali. Con la ricerca etnografica miriamo cioè, per riprendere le parole dell’antropologo Clifford Geertz (1973/1987), a fare descrizioni dense (thick description) che sono nostre interpretazioni di significati locali, “indigeni”, dei fatti culturali. Queste interpretazioni dense non possono essere prodotte se non dopo un lungo periodo di esperienza sul campo, di dialogo e di riflessione teorica, necessario anche all’inserimento dell’osservatore nella comunità e alla socializzazione alla nuova cultura. Possiamo arrivare alle categorie e ai significati degli attori sociali mediante la cosiddetta performance etnografica (Sacchetti, 2012), quel processo di 199 decostruzione (non di eliminazione) delle categorie concettuali e teoriche e del senso comune del ricercatore. Gli strumenti di rilevazione che gli etnografi hanno a disposizione, oltre all’osservazione partecipante, sono tanti: l’analisi dei documenti già esistenti trovati sul campo; le interviste e i colloqui informali; il materiale fotografico, audio e video, già presente nel contesto (ad esempio gli album di famiglia), prodotto dai ricercatori (ad esempio il video etnografico o le foto scattate durante la ricerca), prodotto dagli attori sociali nel corso della ricerca, immagini usate come stimoli nelle interviste. Le immagini possono però essere anche un vero e proprio strumento etnografico che aiuta i ricercatori ad accedere al campo, a entrare in contatto con le persone che si vogliono studiare, che favorisce la partecipazione delle persone alla ricerca stessa nonché la restituzione dei risultati della ricerca. Questi strumenti “permettono oggi di ampliare i linguaggi, accorciando ulteriormente le distanze tra chi è soggetto e chi è oggetto della narrazioni, e mettendo in luce, ancora una volta, come l’incontro etnografico si configuri, innanzitutto, come un dialogo tra attori sociali che condividono un’esperienza” (Capello, Cingolani e Vietti, 2014, pp. 13-14). Negli studi migratori la ricerca etnografica è fondamentale perché riporta al centro il soggetto, il suo mondo di significati e la sua dimensione biografica, spesso messa in ombra dalle ricerche di approccio più quantitativo. Molte sono le etnografie, anche italiane, che hanno come oggetto l’esperienza della vita lavorativa, dell’inserimento a scuola, del viaggio di rientro, etc. considerate dal punto di vista dei soggetti studiati. Le immersioni sono legate al presupposto che esista un insieme di individui che condividono uno stesso spazio fisico e possono essere osservati e interrogati nel loro ambiente naturale. Questa caratteristica ha portato gli studi etnografici a dedicarsi, anche se non esclusivamente, ai gruppi nazionali concentrati in alcune aree urbane, in quartieri, al fine di studiarne l’inserimento lavorativo, sociale, le relazioni con gli autoctoni. La ricerca etnografica quindi è una strategia che permette di fare studi che si inseriscono nella tradizione dei cosiddetti studi di comunità, che sono, secondo Torri e Vitale (2009, p. 9), uno strumento per trasferire alla società nel suo insieme i risultati dell’analisi della comunità locale o del quartiere, considerati un microcosmo che rispecchia in piccolo dinamiche sociali di carattere più ampio. Ma permette anche di fare studi che mettono l’enfasi sulla dimensione locale e comunitaria entro cui si articola la vita quotidiana degli abitanti di un dato contesto, sul processo di costruzione dell’identità che si genera entro specifiche comunità, intese come spazi di vita e di relazione dei loro abitanti, luoghi specifici caratterizzati da reti di sostegno e di vicinato che acquistano un forte significato affettivo. “Quartieri e contesti locali sono osservati per l’utilità che hanno in sé, 200 nel dimostrare o confutare la consistenza e la resistenza di forme ‘comunitarie’ in una società sempre più caratterizzata da forme di convivenza di tipo ‘associativo’” (Torri e Vitale, 2009, p. 10). La ricerca etnografica può però avere un rischio negli studi sui processi migratori: la riduzione dello studio delle migrazioni a studio di comunità culturali. I motivi possono essere di due ordini. Il primo di carattere metodologico: studiare i quartieri a forte presenza di stranieri della stessa nazionalità porta a studiare persone che si conoscono fra di loro, che sono legate da legami di tipo parentale, amicale, di origine, etc., cioè, come sostiene Eve (2001, p. 245), la “parte più ‘densa’, più comunitaria della ‘comunità studiata”. Spesso infatti il metodo di reclutamento è a palla di neve, che prevede che gli intervistati suggeriscano ai ricercatori altre persone da intervistare. Ciò chiaramente incide sui risultati della ricerca. Ad esempio emergeranno le persone occupate nei cosiddetti lavori “tipici”. Il motivo di tipo teorico è legato al rischio di dare eccessivamente rilevanza alle dinamiche comunitarie. Gli studi fortemente incentrati sulle comunità non tengono cioè conto, o lo fanno troppo poco, della separatezza della vita dei migranti che non vivono la comunità, del loro inserimento lavorativo non nei lavori tipici, le loro relazioni con il resto della società. Si rischia cioè di usare la variabile etno-nazionale per spiegare comportamenti, di dare un peso eccessivo al ruolo della cultura nella determinazione dei modelli individuali, e un peso minore ad altre determinanti come quella economica, di classe sociale, di genere, etc. – come denunciano vari autori fra i quali Eve (2001), Pastore e Ponzo (2012), Boccagni e Riccio (2014), Capello, Cingolani e Vietti (2014). È importante quindi studiare i gruppi nazionali con approccio etnografico, ma senza volontà essenzialista, senza voler naturalizzare le comunità nazionali, senza arrivare a un’eccessiva culturalizzazione degli studi sulle migrazioni (Pastore e Ponzo, 2012). 3. Le ricerche qualitative della Sezione Immigrazione L’approccio qualitativo è stato seguito dalle ricerche riportate in questa quarta sezione del libro per indagare alcuni aspetti del fenomeno migratorio nella provincia di Arezzo. Tutte le ricerche pertanto sono caratterizzate dallo stesso obiettivo, seppur declinato in maniere parzialmente diverse, cioè, la comprensione del punto di vista dell’altro, attraverso la vicinanza con gli attori sociali. Non c’è mai la pretesa né l’obiettivo di quantificare e generalizzare a contesti diversi da quello studiato. Gli strumenti di rilevazione sono stati molteplici, inseriti in approcci teorici anche diversi. 201 Nella ricerca riportata nel capitolo due, a cura di Giovanna Tizzi, sulle complessità del processo di integrazione di alcune donne migranti residenti nel Comune di Monte San Savino e “in carico” ai servizi sociali lo strumento usato è l’intervista semi-strutturata. Nella lettura e interpretazione delle dinamiche di integrazione, l’autrice sottolinea l’importanza della variabile territoriale e la necessità di non oggettivare quella etnico/culturale. Il terzo capitolo è dedicato a una ricerca, a cura di Niccolò Sirleto, sul rapporto tra cittadini stranieri e spazio urbano e sulle interazioni tra cittadini stranieri e italiani in questo spazio in un particolare quartiere di Arezzo, Saione, ad alta incidenza di immigrati sul totale dei residenti. L’osservazione non partecipante è stato lo strumento di rilevazione principale, usato insieme alle fotografie, nell’ambito delle cosiddette passeggiate etnografiche. La quarta ricerca, a cura di Giovanna Tizzi e Luca Raffini, è dedicata all’analisi tramite studi di caso di pratiche esemplificative di accoglienza di richiedenti asilo. L’approfondimento comprende tre casi studio, che sono stati indagati in profondità, tramite analisi dei documenti, interviste in profondità e visite nei centri. I tre casi sono selezionati in quanto rappresentativi di buone pratiche di accoglienza, ma anche perché diversi tra loro, in merito alla collocazione territoriale, alla grandezza delle strutture, al tipo di approccio e di coinvolgimento nell’accoglienza da parte delle tre organizzazioni. La ricerca del quinto capitolo, realizzata da Alessia Belli, sulla percezione del vivere ad Arezzo da parte di alcune donne immigrate e alcune figlie di donne immigrate, segue l’impostazione della metodologia femminista, basata sull’ascolto come strumento non solo di ricerca, ma anche e soprattutto di emancipazione. Gli strumenti usati: l’intervista semi-strutturata e un laboratorio fotografico. Centrale il concetto di intersectionality nell’analisi delle traiettorie biografiche di queste donne. Note (1) Il concetto di integrazione è stato usato con tante accezioni, ma “esiste ormai, nondimeno, un certo consenso nell’intenderlo, almeno in prima istanza, come la sommatoria dei processi di interazione reciproca tra persone e gruppi sociali autoctoni e stranieri” (Boccagni e Pollini, 2012, p. 61), anche se questa bilateralità è rimasta spesso a livello teorico dal punto di vista della riflessione scientifica sia delle politiche pubbliche (Pastore, Ponzo, 2012, p. 20). (2) Per una critica allo studio del disagio scolastico dei figli dell’immigrazione solo mediante dati da fonti statistiche e amministrative, che lasciano scoperte molte aree del fenomeno, vedi Acocella (2011). (3) In letteratura possiamo trovare vari modi di denominare le interviste che fanno parte della ricerca qualitativa, a volta usati come sinonimi, altre volte per indicare tipi di intervista parzialmente diversi nella modalità di rilevazione o in quella dell’analisi. Seppur criticata, in questo lavoro usiamo l’espressione “intervista in profondità”. 202 Riferimenti bibliografici Acocella I. (2008), Il focus group: teoria e tecnica, FrancoAngeli, Milano. Ib. (2011), I figli dell’immigrazione. Ovunque “fuori luogo”, Bonanno, Acireale. Acocella I., Pepicelli R. (a cura di) (2015) Giovani musulmane in Italia. Percorsi biografici e pratiche quotidiane, il Mulino, Bologna. Amaturo E. (2012), Metodologia della ricerca sociale, Utet, Novara. Bertaux D. (1998), Racconti di vita. La prospettiva etnosociologica, FrancoAngeli, Milano. Berti F., Valzania A. (a cura di) (2010), Le nuove frontiere dell’integrazione. Gli immigrati stranieri in Toscana, FrancoAngeli, Milano. Bichi R. (2007), La conduzione delle interviste nella ricerca sociale, Carocci, Roma. Boccagni P., Pollini G. (2012), L’integrazione nello studio delle migrazioni. Teorie, indicatori, ricerche, FrancoAngeli, Milano. Boccagni P., Riccio B. 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(2000), Primo rapporto sull’integrazione degli immigrati in Italia, il Mulino, Bologna. 205 Capitolo 2 «O vai in Italia, o studi o ti sposi»: il caso studio di Monte San Savino di Giovanna Tizzi 1. Introduzione La ricerca, commissionata dal Comune di Monte San Savino, area Servizi Sociali, è stata condotta da un team di ricercatori di Oxfam Italia, che si è avvalso di una metodologia di tipo qualitativo. Questa impostazione è stata determinata sia dalla specificità dell’analisi, sia dagli obiettivi conoscitivi della ricerca: indagare e comprendere le complessità del processo di integrazione di alcune donne migranti residenti nel suddetto territorio e “in carico” ai servizi sociali. Sono state realizzate dieci interviste in profondità che ci consentono di delineare alcune caratteristiche e traiettorie biografiche delle donne intervistate. Occorre sempre esser consapevoli che nelle ricerche sociologiche sull’immigrazione e nelle dinamiche di integrazione il territorio, la sfera locale, costituisce una variabile fondamentale. Da un lato, come è noto, non ci si integra in un luogo astratto ma in un luogo reale dove si vive, si abita e si interagisce e, dall’altro lato, ciò impone di considerare con prudenza e cautela ogni tentativo di generalizzare i risultati ottenuti in ambiti delimitati. In questo senso quanto prodotto in questo studio non può prescindere di parlare che per il campo da cui provengono. Come si evince la realtà migratoria al femminile in Italia ed anche nel nostro caso studio è una realtà ormai storica (Centro studi e ricerche Idos, 2014), consolidata che presenta peculiarità specifiche dalle molte dimensioni. Lo spaccato che presentiamo sulle nostre dieci donne risulta essere una delle facce della migrazione femminile. Nel nostro caso le testimonianze raccolte, seppur con le dovute cautele interpretative e metodologiche, poiché quando si parla di donne immigrate in realtà si sta parlando di donne in condizioni e con esigenze anche molto diverse tra di loro, tendono a riproporre una sorta di dicotomia etnico/culturale: (i) da un lato le donne dell’area del Maghreb arrivate tutte per ricongiungimento familiare e che in un certo senso ripropongono rappresentazioni della “tradizione” e dall’altro (ii) le donne provenienti dall’Africa subsahariana che con le dovute differenze, presentano maggiore autonomia e iniziativa personale. Ciò nonostante, leggere i comportamenti e le vite delle nostre donne esclusivamente con i soli occhi della matrice etnico/culturale può risultare fuorviante e riduttivo poiché semplifica l’origine di determinati comportamenti 206 alla loro presunta matrice “culturalista” che viene così oggettivizzata (Tognetti Bordogna, 2004). In quest’ottica le donne musulmane resterebbero passive, isolate e dipendenti nei confronti dell’uomo poiché incarnano un modello femminile distante da quello occidentale. In linea con quanto prodotto dal dibattito scientifico riteniamo utile adottare un approccio multidimensionale che tiene conto dell’area geo-culturale di provenienza, ma anche del progetto migratorio, della generazione di migrazione, delle caratteristiche della singola persona e del contesto famigliare (capitale umano e sociale), degli anni di permanenza in Italia ed infine delle caratteristiche del contesto di partenza e quello di arrivo. Come è stato più volte sottolineato in letteratura i processi di femminilizzazione delle migrazioni internazionali hanno un carattere poliedrico e spesso l’emancipazione femminile coesiste assieme al mantenimento della tradizione (Favaro, Tognetti Bordogna, 1991). Risulta pertanto centrale il legame tra processi individuali e contesto in cui questi avvengono ed in virtù di ciò la traccia dell’intervista (vedi appendice) è stata costruita attorno alle seguenti dimensioni: i) approfondimento del contesto di partenza e di arrivo delle nostre donne; ii) relazioni sociali, storia familiare e progetto migratorio; iii) analisi dei bisogni; iv) elementi positivi e negativi nei loro percorsi di utilizzo (e accesso prima) ai servizi del Comune (eventuali barriere informative, conoscitive, relazionali, organizzative ecc..); v) attivazioni di reti tra donne e empowerment. 2. Il disegno della ricerca Le cittadine e i cittadini stranieri residenti nella zona Aretina nel 2014 sono 14.527 corrispondenti ad un’incidenza percentuale dell’11,1% sul totale della popolazione residente (131.301) (Osservatorio sulle Politiche Sociali, 2015). Nel comune di Monte San Savino i residenti stranieri nel 2014 sono 720 corrispondenti all’8,2% della popolazione totale. Anche in questo caso si conferma una crescente stabilizzazione dei migranti avvenuta in tempi rapidi, basti pensare che nel 2000 i migranti residenti erano solo 185. Emerge, inoltre, la crescente femminilizzazione della popolazione migrante. A Monte San Savino le donne straniere rappresentano il 55,6%. Fermo restando un certo policentrismo di fondo, le principali nazionalità sono la Romania con il 48%, l’Albania con l’11,2% e il Marocco con il 4,7% (Osservatorio sulle Politiche Sociali, 2012). Il seguente elaborato intende approfondire la conoscenza sulle donne provenienti dall’area del Maghreb e Africa Subsahariana residenti a Monte San Savino. A fronte di problematiche riscontrate dagli operatori sociali, sanitari e comunali, 207 che sottolineano una scarsa partecipazione delle medesime, è nata l’esigenza di saperne di più e di indagare i complessi “perché” sottostanti ad alcune dinamiche di “isolamento”. La ricerca è stata condotta attraverso un lavoro coordinato con le assistenti sociali del Comune di Monte San Savino e il supporto della mediatrice linguisticoculturale. Il progetto si è sviluppato in tre fasi principali: 1) una fase iniziale di mappatura delle donne da intervistare e di definizione delle modalità organizzative di coinvolgimento (chi le contatta, come, dove, eventuale utilizzo del registratore digitale etc.) e dello strumento metodologico più idoneo (dal questionario a risposte chiuse all’intervista). 2) La seconda fase ha preso avvio con la realizzazione delle interviste (dicembre 2013 e gennaio 2014). Sono state effettuate dieci interviste a donne migranti di cui cinque provenienti dall’area del Maghreb (tre del Marocco, una dalla Tunisia e una dall’Algeria) e cinque dall’Africa subsahariana (due dall’Etiopia, due dal Senegal e una dal Burkina Faso). I soggetti sui quali è stato svolto il lavoro di raccolta delle interviste, sono stati scelti in stretta collaborazione con le assistenti sociali. Questo ha permesso di avere un “filtro” fiduciario importante al fine dell’approccio iniziale e del successivo incontro per l’intervista. La questione più significativa su cui si è lavorato nella fase iniziale è la costruzione di un clima di reciproca fiducia durante l’intervista, per favorire la raccolta delle opinioni e ridurre al minimo gli effetti di eventuali malintesi. Inoltre, grazie a ciò è stato possibile effettuare tutte le interviste a casa delle nostre donne e quindi poter osservare dove vivono quotidianamente e come le abitazioni riflettono la migrazione, in termini di oggetti, arredamenti, simboli religiosi, odori, suoni, etc. 3) La terza fase concerne il lavoro di trascrizione delle lunghe interviste e la rielaborazione delle stesse sotto forma di racconto. Dalla trascrizione dei testi delle interviste, possiamo affermare che il tipo di relazione instauratosi tra intervistatore e intervistata è apparso buono e le informazioni fornite dai soggetti sono sufficientemente chiare e complete, pur in presenza di qualche difficoltà nella comprensione delle domande, spesso superate grazie al supporto della mediatrice linguistico-culturale o di figli presenti. 3. Le donne intervistate Il ricongiungimento familiare è nel nostro caso studio il principale canale di ingresso e motivo del soggiorno utilizzato da molte intervistate. Il quadro che ne emerge è quello di una situazione estremamente variegata al suo interno e 208 fortemente dinamica. Tutto ciò non impedisce ovviamente di cogliere esigenze e tratti comuni, ma allo stesso tempo si impone l’esigenza di evitare operazioni riduzionistiche. Nell’intero gruppo delle donne provenienti dal Maghreb l’istituto del ricongiungimento familiare al marito è stato il motivo del loro ingresso. In quattro casi su cinque delle realtà familiari indagate, il ricongiungimento è stato fatto in un arco temporale piuttosto breve. È il marito, che già viveva in Italia, a decidere di sposarsi. Rientra così nel paese di origine. A seguito del matrimonio arriva anche la neo moglie e dopo circa un anno nasce il primo figlio/a. Il quinto nucleo famigliare, invece, si è ricongiunto dopo diversi anni dal matrimonio e dopo la nascita di tre figli/e, e ciò non tanto per difficoltà o imprevisti ma per una libera e consapevole scelta del capofamiglia maschio. In tutti gli esempi ove il ricongiungimento è stato effettuato prima possibile, si tratta di nuclei in cui la donna, più giovane del partner, è consapevole che grazie al matrimonio potrà venire in Italia e dai racconti si evince una rappresentazione positiva: […] pensavo di essere molto fortunata e ho anche immaginato che fosse stato Dio a mandarmi mio marito che poi mi avrebbe portata in Italia (A.) […] pensavo di venire in paradiso (F.) Quando è stato deciso di fare il matrimonio non avevo la certezza di venire in Italia. Lui non sapeva se portarmi o no. Io ero contenta quando ha deciso di portarmi in Italia (EB.). In un caso il marito fa parte della stessa cerchia parentale, negli altri fa parte del gruppo dei conoscenti. Le testimonianze raccolte mostrano che le donne tendono a giungere in Italia senza essere adeguatamente preparate alla realtà che le aspetta. Le informazioni che esse hanno a disposizione sono lacunose e “mediate” da conoscenti o parenti che ritornano. Si può quindi dire che, quasi sempre, quando la donna arriva tutto è una “sorpresa” che si trasforma in una realtà piuttosto complessa con la nascita dei figli. In quattro casi su cinque si tratta di famiglie numerose composte da un minimo di tre figli fino a sei. I primi tempi dopo il ricongiungimento risultano essere molto difficili: Il primo anno è stato difficile, parlavo solo con mio marito e un po’ con mio cognato quando è arrivato in Italia. Mio marito passava tanto tempo a guardare la tv per la guerra in Iraq e io stavo sola (F.). In assenza di reti parentali, la donna si trova spesso sola in casa, e con la nascita dei figli prende avvio il lavoro di cura, considerato positivamente da parte della 209 coppia e che restituisce un ruolo e una funzione alla figura femminile. Si rileva dalle interviste che di fatto non sempre viene interpretato come un antidoto all’isolamento e all’uscita di casa, cioè alla conoscenza di autoctoni: I miei figli hanno sempre bisogno di me. Io non vivo mai un giorno qui in Italia come donna. Alla donna basta poco, un vestitino bello una volta ogni tanto… Mai [piange], tante volte mi viene la tristezza (A.) Stavo bene perché c’erano altri familiari, mentre ora sono sola. Sì, la mia vita in Marocco era migliore, qui ho più difficoltà nel gestire i figli [...]. Al Monte io mi trovo bene, anche se spesso resto a casa, non vedo nessuno (R.). Per quanto riguarda il variegato gruppo proveniente dall’Africa Subsahariana – di cui due donne del Senegal, una del Burkina Faso (Africa Occidentale) e due dell’Etiopia (Africa orientale) – sono solo le due intervistate senegalesi ad essere arrivate per ricongiungimento familiare. In questo caso si tratta di madre e figlia. La madre è arrivata venti anni fa e si è ricongiunta lasciando le due figlie maggiori in Senegal, arrivate dopo pochi anni. In questo caso il progetto migratorio è stato del capofamiglia maschio e per entrambe le notevoli difficoltà iniziali si protraggono a quella che appare una decisione “subìta” […] quando sono arrivata… volevo andarmene via subito. Mi sono detta sto qui per due mesi e poi torno in Senegal. Qua non mi piace (A.T.) Ho vissuto molto male questo trasferimento. Non volevo venire via. Anche mia sorella non voleva. Io volevo rimanere lì a studiare perché imparavo il francese e pensavo che mi potesse portare da qualche parte […]. Non volevo venire qua, ma non potevo decidere io (M.F.) Queste testimonianze mostrano un esempio del significato che la donna può dare alla migrazione e al ricongiungimento. Nel caso della figlia ci sembra incarnare, in parte, la figura che in letteratura viene definita il “trasmigrante” (Tognetti Bordogna, 1998; Zanfrini, 2004), ovvero un soggetto che “sta a cavallo” fra due mondi che travalica i confini geografici, appartiene a due ambiti economici e relazionali e che si pone in antitesi al tradizionale paradigma del migrante come “trapiantato” in un altro contesto. La figlia intervistata arriva ad esempio a valutare l’ipotesi di trasferirsi in Senegal o mandare solo le figlie per farle studiare là: Speravo di riuscire a portare mia figlia in Senegal per studiare. Poteva studiare il francese, andare a una scuola privata che lì costano poco. Invece qui è un problema. Però ora non la posso mandare in Senegal da sola, deve stare con me. Se in futuro… (M.F.) 210 Diversamente le due donne etiopi sono arrivate in un caso per accompagnare la sorella che aveva problemi di salute, e nell’altro per decisione dei genitori: O vai in Italia, o studi o ti sposi, mi hanno detto. E io sono venuta. In Italia c’era già una sorella (Y.) Anche per loro il primo periodo è stato molto impegnativo: “all’inizio è stato difficile, ero molto attaccata alla famiglia e ho sofferto la solitudine ed il distacco. Mio fratello andava al lavoro, mia sorella a scuola e io, senza lavoro, stavo a casa a piangere” (B.); ma dimostrano con il passare del tempo una notevole capacità di costruire relazioni al di fuori della cerchia dei connazionali, ricreandosi un network familiare: La madrina e il padrino di una delle mie figlie posso chiamarli mamma e papà praticamente. Sono più grandi di me e mi considerano come una figlia (Y.) Tutta la sua famiglia per me è come la mia famiglia. Mi ha aiutato molto con l’italiano, appena sono arrivata mi diceva i nomi delle cose. Quando lei ha partorito stavamo tutti insieme, e lo stesso è stato quando è nata mia figlia (B.). Prendiamo ora in considerazione l’anzianità di permanenza in Italia e il titolo di studio delle nostre intervistate. In generale si evidenzia una permanenza in Italia, ed in molti casi proprio a Monte San Savino, di lungo periodo: otto donne su dieci sono in Italia da oltre 11 anni. Tra coloro che hanno una maggiore anzianità migratoria alle spalle ci sono le due donne Senegalesi con circa 20 anni, la donna del Burkina Faso con circa 30 anni e le due donne etiopi con 12 e 17 anni. Tra coloro che invece sono arrivate da meno tempo ci sono due donne del Marocco con rispettivamente 5 e 7 anni di permanenza. Per quanto riguarda il livello di istruzione appare in generale basso. Molte delle intervistate provengono da contesti socio-economici e culturali piuttosto svantaggiati, ad esempio nel caso di due intervistate che a seguito alla morte del padre sono costrette a smettere di andare a scuola per aiutare la famiglia. 211 Tavola sinottica* Nome A. F. Paese di origine Tunisia Età 36 Vive a Monte S.S. o in Italia dal È arrivata per... Ricongiungimento familiare Ricongiungimento familiare 2001 Marito e 4 figli maschi nati qua che frequentano: I media, V, III e I primaria Marito e 3 figli (due maschi ed 1 femmina) nati qua di 10, 6 e 1 anno Algeria 39 2003 Marocco 40 2002 Ricongiungimento familiare Marito, quattro figli maschi nati qua di cui: due gemelli di 9 anni, uno di 6 anni e uno di quasi 2 anni + la suocera 31 2012 a Monte S.S. mentre in Italia dal 2009 Ricongiungimento familiare Marito e 1 figlio nato qua di un anno + sorella maggiore con 3 figli che frequentano la III e II elementare e l’ultima bambina che ha solo 8 mesi. AN. EB. Marocco R. Marocco 37 2007 Ricongiungimento familiare Marito e 6 figli (5 maschi e una femmina). Tre sono nati in Marocco e tre in Italia. Il più grande ha 20 anni, mentre la ragazza ne ha 19; uno va alle medie e tre all’asilo. Etiopia 30 2002 Accompagnare la sorella per cure mediche Compagno e figlia di 2 anni nata qui Y. Etiopia 39 Per lavoro Due figli nati qui AT. Senegal Marito e tre figlie nate in Senegal MF. Senegal Ricongiungimento familiare Ricongiungimento familiare (figlia) B. K. Le Composizione famiglia 1995 in Italia e Monte S.S. dal 1999 1994 27 1999 Burkina Faso informazioni 1982 sono Coppia mista relative al Marito e due figlie nate qui Marito e tre figli maschi nati il 1° nato in Italia, il 2° in Burkina Faso, il 3° in Marocco. momento dell’intervista 212 Condizione lavorativa Casalinga Lavori saltuari (pulizie) Abitazione (edilizia residenziale pubblica/casa di proprietà/affitto) Affitto Alloggio messo a disposizione dal Comune Casalinga Affitto Casalinga (ha fatto in passato la badante) Affitto Casalinga Lavora in un ristornate Lavora in una cooperativa dove fa le pulizie Casalinga Lavora in un albergo Affitto Affitto ERP ERP Affitto Affitto, stanno per tornare Ora casalinga, prima in Burkina vari lavori (dicembre 2013-gennaio 2014) 4. Alcune voci di donne A. Sei per uno non è come uno per sei Ho 36 anni e sono tunisina. Sono arrivata in Italia il 22 febbraio del 2001 a seguito del ricongiungimento familiare con mio marito. Lui viveva già in Italia, era arrivato da giovane a 18 anni. Ci siamo conosciuti in Tunisia prima della sua partenza per l’Italia. Per noi l’Italia era una cosa bellissima. Pensavo di essere molto fortunata e ho anche immaginato che fosse stato Dio a mandarmi mio marito che poi mi avrebbe portata in Italia. Nella mia vita ho sofferto tanto. Quando sono venuta qui pensavo di trovare il paradiso... insomma quello che ora tutti pensano dell’America. Invece no, con la nascita dei miei figli è diventato tutto pesante. Abbiamo quattro figli maschi: il più grande è in prima media, il secondo in quinta elementare, il terzo frequenta la terza e il piccolo ha sette anni e ha un serio problema di salute, il diabete. Mio marito fa il muratore e lavora per sei persone, non è la stessa cosa di sei che lavorano per uno. Gli italiani hanno la nonna, lo zio, etc. che li possono aiutare: sei per uno non è come uno per sei. In Tunisia vivevo in campagna, siamo una famiglia di sette fratelli e in seguito alla malattia di mio padre a 13 anni ho smesso di studiare. Sono andata a lavorare come sarta in fabbrica dove ho conosciuto mio marito. In Italia siamo soli, i nostri fratelli sono tutti rimasti in Tunisia. Quest’estate sono stata due mesi in Tunisia con i miei figli. Cerchiamo di andarci ogni anno, ma dipende, non sempre è facile. I miei figli ci vanno molto volentieri. In Italia non ho mai lavorato, sono sempre impegnata con i ragazzi. Non vado da nessuna parte, non vado nemmeno dal dottore. I miei figli hanno sempre bisogno di me. Io non vivo mai un giorno qui in Italia come donna. Alla donna basta poco, un vestitino bello una volta ogni tanto… Mai [piange], tante volte mi viene la tristezza. Le nostre maggiori difficoltà sono collegate alle esigenze dei miei figli. I ragazzi crescono, e crescono anche i bisogni. Loro vogliono le cose come gli italiani, vogliono andare al cinema, vestirsi bene, vogliono il computer, uno ha iniziato la quinta e vuole un’altra cosa… più crescono, più vogliono. Hanno diversi amici ma il problema è che quando ho provato a mandarli a casa dei loro amici, tornano contenti e mi dicono che i loro amici hanno una camera bella, hanno tanti giochi, il computer, etc. E io mi sento male perché vedo che loro ci soffrono. Qualche volta succede che mi chiedono di andare al cinema e io non li mando e diventano tristi. Ieri mio figlio mi ha detto “i miei amici vanno al 213 cinema, e io dove vado per strada?” Io mi sento male, mi sento bruciare dentro. L’altro figlio stamani mi ha detto “mamma quando vedo qualcuno col telefono mi fa male”. Ad esempio oggi devono stare fino alle 17 a scuola, quando poi escono gli altri vanno in pizzeria e io invece non ce li mando. Si arrabbiano, vorrebbero andare anche loro. Vi giuro che siamo sotto zero di soldi. Non abbiamo soldi neppure per i quaderni. Però vanno tutti e quattro al calcio, due volte alla settimana. La società sportiva ci aiuta molto sia sul lato economico che pratico, ad esempio quando non posso portarli viene il mister a prenderli a casa. Anche la casa per noi è una vergogna, vorrei avere una casa giusta per la mia famiglia, invece i miei figli dormono tutti nella stessa camera e quando entra qualcuno da noi, ti dico la verità mi vergono [piange]. Le nostre difficoltà economiche sono molte, nonostante che mio marito lavori. Mio figlio più piccolo ha il diabete ed avrebbe bisogno di mangiare cibo come pesce e formaggio che però sono troppo costosi. Lasciamo perdere i vestiti. Abbiamo sempre quelli che io lavo e stiro di continuo. Mio figlio mi dice “mamma vedessi come si vestono alle medie”. Io gli dico che dobbiamo accontentarci. Noi genitori però ci sentiamo in colpa. Io sono chiusa in casa, chi mi vede? Chi vede di cosa ho bisogno? Nessuno vede cosa mangiamo. Non ti vede nessuno. Sempre pasta col pomodoro. Siamo pieni di problemi, mi fanno male i denti e non vado dal dentista perché non me lo posso permettere. Lo so che nessuno può aiutarti però… I miei figli avrebbero bisogno di essere seguiti per i compiti a scuola, io non riesco. Desidero che studino bene, che vadano verso una strada giusta. Vorrei che vivessero meglio di me. L’unica cosa che propongo è che il Comune metta a disposizione una persona per aiutarli a studiare. Io non li aiuto, li spingo un po’, ma niente di più. In casa parliamo arabo, la televisione la guardiamo sia in italiano che in arabo. Ho fatto un corso breve di italiano. Sono una persona che parla con tutti, mi fermo a parlare con tutti così imparo. Con i vicini di casa ho imparato a parlare. Poi vado all’ospedale e devo parlare, ai colloqui con i maestri devo parlare… e alla fine ho imparato. Però mi piacerebbe fare un corso che inizia da zero, dalle basi della grammatica soprattutto per concentrarmi sullo scritto. Ai corsi puntano sempre sull’orale e io già so qualcosa. Mi piacerebbe imparare a scrivere e leggere anche per aiutare i miei figli con i compiti. Se penso al mio futuro, mi piacerebbe continuare ad abitare a Monte San Savino. Sono abituata a stare qui e desidero che i miei figli studino bene. F. Basta che l’uomo entra dalla porta… Sempre lontana 214 Tra una settimana compio 39 anni e da quasi 11 vivo a Monte San Savino. Sono dell’Algeria e sono arrivata per ricongiungimento familiare. Mio marito viveva in Italia dal 1992. Dopo un anno dal mio arrivo è nato mio figlio maggiore, dopo un po’ mia figlia, che tra poco compie 7 anni e poi il piccolo che ieri ha compiuto un anno. Mio marito non lo conoscevo. È andata che il fratello della moglie di mio zio era amico del fratello di mio marito e, quando il mio attuale marito è tornato dall’Italia si voleva sposare, così hanno parlato con i miei genitori. In questo caso basta che l’uomo entra dalla porta [ride]. Ci hanno fatto conoscere nel 2001 e dopo un anno di fidanzamento ci siamo sposati. In Algeria una donna non può conoscere un uomo, poi un altro… per la religione. La religione dice che, per esempio, la donna non può non sposare un uomo perché non le piace. L’uomo chiede la donna e può sposare chi vuole. Sapevo che sposando lui sarei venuta in Italia e pensavo di venire in paradiso. All’inizio tutto bene, mio marito aveva un lavoro come falegname, avevamo la macchina, potevamo andare ad Arezzo a fare le nostre cose, pagavamo il nostro affitto etc. Ora non è più così, mio marito non lavora dal 2006, viviamo in questa casa che ci ha dato il Comune, e sono stata molto male. Ho avuto un mal di testa terribile per il nervoso e mi hanno portata anche dalla psicologa. In Algeria vivevo a Oran da mia zia, a 300 chilometri di distanza dai miei genitori. La scelta di mandarmi da mia zia è stata fatta per garantirmi un’istruzione, ma a seguito dell’improvvisa morte di lei sono dovuta tornare dai miei e ho interrotto gli studi. Sono arrivata fino alla terza elementare. In Italia non c’è nessuno della mia famiglia, mia mamma mi dice che sono sempre lontana. Questa parola non mi piace, mi piacerebbe starle vicino. Mi manca molto perché lei è malata, e da quando si è operata al cuore non l’ho rivista. In Algeria ho anche due sorelle e cinque fratelli, tutti sposati con famiglia. Anche mio marito ha tanti fratelli, una sorella che vive in America, un altro che ha studiato in America e che ora è tornato in Algeria, poi uno in Francia. Non conoscevo nessuno che abitava in Italia, avevo solo i racconti della cugina di mio padre che abitava Francia e per questo credevo di venire in paradiso! Faccio le pulizie, quando mi chiamano vado. La mattina penso a dove andare per trovare il pane da dare ai miei figli. In passato ho fatto la badante da una signora, ma poi ho dovuto lasciare poiché mi chiedevano di stare lì giorno e notte e con la famiglia non lo posso fare. Ci sono due donne italiane che mi aiutano moltissimo, ad esempio se ho un appuntamento in ospedale una delle due donne mi porta, perché ha la macchina. Anche io contraccambio aiutandola. Con il resto delle persone ci salutiamo e basta. 215 I miei figli a scuola si trovano bene anche se il maggiore ha bisogno di un aiuto nel fare i compiti. Hanno tanti amici ma a casa vengono solo alcune amiche di mia figlia. Per il resto si ritrovano ai giardini pubblici. Tutti i giorni facciamo le cinque preghiere e quest’anno anche mio figlio grande ha fatto tutto il ramadan. Andiamo quando possiamo alla moschea ad Arezzo, quest’anno per il giorno della festa ho portato anche mio figlio, ma siamo tornati a casa tutti nervosi [ride], senza macchina è un problema. Sempre ad Arezzo c’è un punto di ritrovo che è la macelleria islamica dove tutti raccolgono i soldi per i poveri, i malati… insomma una mano aiuta l’altra, no? Ora non ho possibilità di andare. Non si può andare e preghiamo a casa. Io il velo l’ho messo quando sono venuta in Italia [ride]. L’ho indossato in Italia perché ho trovato delle amiche che lo portavano e mi sono chiesta perché non lo mettevo. Quando ho mandato la mia foto col velo ai miei genitori non ci credeva nessuno! Mia mamma lo porta ma nel mio caso non c’entrano niente le regole o mio marito. Spesso mi chiedono se è mio marito che vuole che lo indossi, io dico di no, ma non mi credono. Poi d’estate mi dicono ma come fai a stare col velo senti che caldo? ma porto anche la gonna e non il vestito lungo. Ormai il velo non posso toglierlo, è da otto anni che lo porto e ci sono abituata. Mi piacerebbe che mia figlia lo portasse, però deve scegliere lei, deve essere libera. Il destino è dei miei figli, io non posso decidere la loro vita. Non voglio fare come i miei genitori, dove anche mio fratello decideva quello che dovevo fare, figurati i miei genitori [ride]. Ogni tanto penso a come si sono comportati i miei fratelli, uno ad esempio non mi voleva far uscire e forse per colpa sua non ho studiato. Anche mia sorella ha smesso alle medie perché l’hanno fatta sposare. Non voglio che mio figlio decida per la vita della sorella. Lui ha la sua vita e lei la sua. Mi sento bene qua, però senza il lavoro siamo come dentro un cerchio dove non trovi l’uscita. Cerchiamo di tornare in Algeria ogni due anni. L’anno scorso siamo dovuti andare per forza, è successo un fatto che non voglio nemmeno ricordare. I miei figli però non vogliono andare in Algeria e non vogliono provare quello che ho sofferto io quando ho cambiato scuola. Pensando al loro futuro mi piacerebbe che studiassero come lo zio in America. Vorrei trovare un lavoro perché mi mancano tante cose, tantissime. Mio figlio sognava di giocare a calcio ma io non posso mandarlo. Quasi tutti i suoi amici giocano a calcio, ma lui no. È un po’ dura. Quali sono i miei bisogni, oltre il lavoro? Mi manca qualcuno che mi abbraccio [ride con le lacrime agli occhi], soltanto questo. La principale difficoltà che ho incontrato è stata la lingua. Quando sono arrivata non parlavo nemmeno una parola. Mi ricordo che all’ospedale, dopo il parto 216 cesareo del primo figlio, gli infermieri mi portavano da mangiare e il dottore mi chiedeva se mangiavo il maiale. Io dicevo di sì, ma non capivo nulla, così quando mi hanno portato il pasto ho riconosciuto che era maiale e non l’ho mangiato. Quando è arrivato mio marito il dottore gli ha riferito che non mangiavo e lui mi ha detto che la prossima volta dovevo dire che non mangiavo solo carne di maiale. Il giorno dopo di fronte alla richiesta su cosa volevo da mangiare, gli ho detto solo carne di maiale! Il primo anno è stato difficile, parlavo solo con mio marito e un po’ con mio cognato quando è arrivato in Italia. Mio marito passava tanto tempo a guardare la tv per la guerra in Iraq e io stavo sola. Ora è diverso, parlo molto in italiano con la mia amica italiana. E poi ho imparato anche grazie alla mia amica polacca poiché lei non parla arabo. In famiglia parliamo più italiano che arabo, mentre con mio marito parlo arabo. Ho fatto un corso di italiano per un mese ma non mi è servito a niente. Avevo il bambino piccolo, stavo dietro a lui e non seguivo. Però mi piacerebbe fare dei corsi per migliorare l’italiano. Se un’amica mi chiedesse un suggerimento sul progetto di venire in Italia? direi che forse sbaglia. Ora è un momento duro, non è come prima. Non si trova lavoro e quindi consiglierei di rimanere nel suo paese. Almeno nel tuo paese stai con la tua famiglia, almeno quando stai male vai a sfogarti da tua mamma, da tua sorella. Qui quando ti arrabbi non sai che fare, con chi sfogarti. Almeno nel tuo paese ricevi qualche abbraccio. AN. Sono venuta in Italia per seguire mio marito, perché per la cultura marocchina la moglie deve stare dov’è il marito. La mattina mi sveglio presto, alle 6. Faccio lavare i bambini e li faccio pregare così imparano la preghiera mattutina. Preparo la colazione per loro e li porto a scuola se non c’è mio marito, altrimenti li porta lui. Dopo faccio colazione, metto la lavatrice, preparo il pranzo ed ecco che già arriva l’ora di andare a prendere i bambini a scuola. Loro mangiano, io sparecchio e lavo i piatti. Al pomeriggio se ho da stirare, stiro; qualche volta faccio il pane e poi preparo la cena. Questa è la mia giornata. Mi chiamo Anou, ho 40 anni e vengo da un piccolo paesino vicino a Casablanca, dove le persone vivono di agricoltura. Siamo quattro sorelle e due fratelli. Ho studiato in Marocco fino alla quinta elementare, poi a seguito della morte di mio padre, non aveva nemmeno 50 anni, ho dovuto smettere di studiare. Ho imparato a ricamare e così ho potuto aiutare sia me stessa che la famiglia. 217 Mi sono sposata a 27 anni e mio marito ne aveva 39. Sono venuta in Italia nel 2002 per seguirlo perché per la cultura marocchina la moglie deve stare dov’è il marito. Mio marito è arrivato in Italia molto tempo prima: nel 1985. All’inizio è entrato come turista e poi è rimasto. In Marocco faceva l’infermiere, ma dopo 12 anni ha perso il lavoro. È arrivato in Calabria dove per cinque anni ha fatto il venditore nelle bancarelle, ma poi hanno iniziato a chiedere la licenza etc. ed è venuto via. Ha trovato lavoro per una ditta che faceva cartelli stradali qui al Monte ed ecco perché abitiamo qui. In seguito ha lavorato per 20 anni come muratore e quando il datore di lavoro è andato in pensione ha aperto una macelleria ad Arezzo, per 6/7 mesi. Dopo la chiusura del negozio, non è più riuscito a ritrovare il lavoro di muratore. Ha fatto per un po’ il badante ma non l’aveva mai fatto prima… [ride]. Ha cercato ancora…, è andato fino in Francia ma trasferirci tutti è complicato e ora siamo in difficoltà, abbiamo 8 mesi di affitto non pagato. Io per ora non posso lavorare, abbiamo 4 figli maschi, tutti nati in Italia: due gemelli, un bambino di 7 anni e l’ultimo di 4. Quando i bambini saranno più grandi potrò cercare lavoro e mi piacerebbe un lavoro in casa, magari come sarta poiché so ricamare. Con in nostri bambini, soprattutto con quelli più grandi a volte parliamo di quando siamo partiti dal Marocco, ma loro dicono sempre che in Marocco non ci vogliono andare. Quest’anno, io e miei figli ci siamo andati, ma non gli è piaciuto starci, non gli è piaciuto come giocano i bambini. Sono cresciuti qui, sono abituati alle cose come si fanno qui e lì è un po’ diverso, è un altro modo di giocare, un po’ esagerato. Allora mi dicono che non vogliono più tornarci. Dicono che vogliono stare qui e basta. Io ormai il futuro dei miei figli lo vedo qui: in Italia. La maggior parte delle mie amicizie sono italiane, con i marocchini ho poco contatto. Ogni tanto mi vengono a trovare delle amiche italiane che mi danno una mano anche economicamente, mi portano un po’ di spesa, i vestiti per i bambini… Sono tutti bravi, anche le maestre. Lo sanno che quest’anno mio marito è senza lavoro e hanno comprato per i nostri figli le penne, i quaderni e tutto quello che poteva servire per la scuola. Qualche volta mi vergogno però, speriamo di riprendere con il lavoro. I miei figli frequentano i compagni di classe quando ci sono i compleanni oppure se organizzano un incontro tutti insieme, anche alla gita li mandiamo senza problemi. C’è un compagno di classe dei gemelli con cui si trovano anche per fare i compiti e la mamma di questo bambino, dopo il lavoro, li viene a prendere e li porta con sé a giocare o a fare i compiti a casa sua e poi li riporta la sera. Da quattro anni abita in casa con noi mia suocera, ha 76 anni e per motivi di salute è venuta in Italia. Prima abitava a Perugia dal fratello di mio marito, ma poi lui è tornato via e si è trasferita da noi. 218 La nostra casa è piccola, c’è solo la camera matrimoniale e una seconda stanza dove dorme mia suocera con tre bambini e il quarto dorme nel salotto. Siamo in sette con un bagno. La mia mamma vive in Marocco, la sento spesso e quando mi chiede come va? io le dico che va sempre tutto bene per non farla preoccupare. In casa guardiamo la televisione in italiano. Io guardo spesso Italia 1, per imparare a parlare piano, piano... Qualche volta sbaglio le parole e mi correggono i bambini! Anche con loro per la maggior parte del tempo parliamo in italiano. Quando gli parlo in arabo mi rispondono in italiano. Loro parlano sempre italiano. Avevo iniziato a frequentare un corso di italiano ma poi sono rimasta incinta e non ho più ripreso. Per le gravidanze mi sono fatta seguire al Consultorio di Arezzo, so che c’è anche una volta a settimana qui, ma non ci vado perché mi sono trovata bene ad Arezzo. Vado da sola dal medico di famiglia e dal pediatra, riesco a capire abbastanza bene… ora ho anche chi mi traduce: mio figlio [ride]. I bisogni della nostra famiglia sono una casa più grande e il lavoro per mio marito, ma non un lavoro a nero, un lavoro fisso! Penso che sarebbe importante fare un corso, una o due volte alla settimana, di lingua e cultura italiana. Perché in tutti i paesi le cose funzionano diversamente. Per esempio puoi trovare marocchini che vanno a fare la spesa in un supermercato qui in Italia e non mettono i guanti per prendere la frutta e la verdura, perché non lo sanno che li devono mettere. Vedo il mio futuro qui anche se mio marito ora non sta lavorando. Voglio star qui per far studiare i miei figli, per dargli un futuro qui, in Marocco non ho più niente, non ho casa, niente! Se dovessi dare un consiglio ad una mia connazionale le direi di rimanere in Marocco perché qui ormai non c’è più lavoro. Se io avessi avuto un marito che mi mandava dei soldi, magari potevo metterli da parte per costruire un futuro in Marocco, senza venire qui. Io non ho avuto questa possibilità e quindi: eccomi qui. Y. O vai in Italia, o studi o ti sposi, mi hanno detto. Quelli dell’Etiopia qui mi dicono te sei troppo italiana, gli italiani mi dicono te parli troppo del tuo paese. Mi trovo proprio a metà. Mi chiamo Yemane, ho 39 anni, un figlio e una figlia. Sono nata in Etiopia, a Bahar Dar, vicino al lago Tana, da genitori di origine eritrea. Fino al 1991 l’Eritrea era sotto l’Etiopia, in seguito è diventata un paese indipendente. Prima eravamo considerati tutti etiopi. Poi hanno detto che eravamo eritrei perché i nostri genitori venivano da là. Ma io non sono cresciuta 219 in Eritrea. L’ultima volta che ci sono andata era il ’97, da allora non sono più tornata. Non posso andarci finché non dicono che si può entrare liberamente. All’epoca, il babbo guidava il camion. Vendeva mattoni, quelli piccolini e marroni. Qui non ci sono molte case con quei mattoni, ma una volta ce n’erano… Ho studiato in Etiopia, fino alla quinta superiore. Poi mi sono fermata. I miei familiari sono dispersi per il mondo, soprattutto in America. Mia mamma vive là da 16-17 anni. E così gran parte degli altri 12 fratelli e sorelle. Una è rimasta in Eritrea, ma non c’è più. Anche il mio babbo non c’è più. Un’altra sorella vive in Etiopia e un’altra a Londra. Mia mamma sta un po’ di tempo da una parte e un po’ da un’altra. Anche il mio ex compagno vive in America, dal 2007. È tornato due volte. Poche volte. Spesso telefona. Sono in Italia dal 1995. Praticamente quasi metà della mia vita l’ho trascorsa qui. Sono venuta qua perché… mi ci hanno mandata. Semplice. È andata così. O vai in Italia, o studi o ti sposi, mi hanno detto. E io sono venuta. In Italia c’era già una sorella. I primi tempi vivevamo tutti a Roma. Ci siamo stati quattro anni. Facevo la badante e all’inizio dormivo a casa di una famiglia. L’italiano l’ho imparato da questa famiglia. Non mi facevano mai parlare nella mia lingua con mia sorella per farmi imparare l’italiano. La signora rimaneva a casa perché lavorava lì, e il marito mi portava fuori e così ero costretta a parlare in italiano. Così ho imparato la lingua velocemente. Poi abbiamo preso un appartamento con mia sorella e ci siamo messe a fare le pulizie in varie case. Dopo quattro anni sono venuta al Monte. Mia sorella ha aspettato ancora un po’ e poi se n’è andata a Londra. A Roma non si trovava bene. Mentre a Londra sì che stanno bene! Ha due figlie e il marito fa il taxista. Cosa faccia lei di lavoro non lo so di preciso, ma ha un part-time. Comunque ci vediamo spesso, anche questo agosto, sono venuti a trovarmi. Perché proprio al Monte? Semplice. Qui è venuto il mio ex compagno con una squadra di calciatori. Dovevano venire con l’aereo in Italia e continuare a giocare. In undici sono arrivati e sono rimasti. Però solo due hanno avuto il permesso di rifugiati e tutti gli altri hanno avuto il permesso di soggiorno. Uno di loro era il mio vecchio compagno. Una famiglia italiana li aveva accolti e lui mi ha detto di venire qui. Abbiamo trovato lavoro in una fabbrica, sempre per la cooperativa dove lavoro ancora. Faccio le pulizie part-time. In realtà, ho fatto una scuola per diventare addetta all’assistenza di base, ma mi serviva un part-time per portare i bambini a scuola. La cooperativa è come una grande famiglia. La madrina e il padrino di una delle mie figlie posso chiamarli mamma e papà praticamente. Sono più grandi di me e mi considerano come una figlia, se c’è qualcosa che non va chiamo subito loro. Lei è una delle fondatrici della cooperativa. Andando lì per le riunioni, per le 220 feste e per lavoro ci siamo conosciute. In pratica, ho due famiglie. Basta che dica loro che ho bisogno di qualcosa e loro ci sono. Mi fa tanto piacere perché non ho parenti qui, a parte la zia dei miei figli. Quando ho partorito ci sono stati loro dalla mattina fino alla sera. Dovevo andare in ospedale e loro mi accompagnavano. Hanno due figli, e io sono la loro terza. Non sono mai andata in America e non ho voglia di andarci. Sai perché? Se vado lì temo di rimanerci, sicuramente vorranno che resti. Perché per la mia famiglia sono sempre la più piccola. Dico loro sempre sì, l’anno prossimo vengo, ma poi non ci vado mica. Così dopo 17 anni è venuta qua mia mamma. Mi ha detto sono vecchia e voglio vederti. In realtà, voleva vedere i nipoti. Poi non è che si intendevano perché lei parla tigrino, parla anche in amarico. Meno male che c’era mia sorella a fare da traduttore! In casa parliamo solo italiano, purtroppo. Mi informo su quello che succede in Etiopia e in Eritrea, tramite internet. La televisione non dice niente. Guardo dei blog. Il mio futuro è qui, al Monte. Sono una montigiana, ormai. Non so perché non mi va di andar via, ma penso che non mi ritroverei così bene. Nessuno ci dice nulla sul fatto che siamo stranieri, anche la scuola per i miei figli va bene. E se io cambio non so che succede. Qui siamo pochi, fuori mi conoscono tutti. Con i genitori dei compagni di classe ci vediamo per i compleanni e le feste. Anche con le maestre mi trovo bene, ho un buon rapporto. Per i miei figli vorrei che studiassero. Se volessero fare l’università sarei felice perché mi ripagherebbero di tutto. Io… se tornassi indietro continuerei, è sempre così che va… Se poi il maschio vorrà andare in America va bene. Per ora non ha voglia di staccarsi. Ora andrà alle superiori, all’ITIS e vediamo che succede. Non ho la cittadinanza italiana e neppure ho fatto la domanda. Ho la carta di soggiorno a tempo indeterminato. Ma noi ci sentiamo già italiani, non c’è fretta... Quelli dell’Etiopia qui mi dicono te sei troppo italiana, gli italiani mi dicono te parli troppo del tuo paese. Mi trovo proprio a metà. Quando parlo al telefono nella mia lingua gli italiani mi dicono non si capisce niente, se parlo in italiano con qualcuno del mio paese mi dicono te parli troppo in italiano. Per me questo è un problema. I miei figli praticamente sono montigiani, sono nati qui. Non a tutti va bene, ma a me va bene. Alle mie paesane e a quelli dell’Etiopia non va bene perché i miei bambini praticamente sono diventati italiani ma non sono italiani. Dell’Eritrea qua non conosco nessuno, dell’Etiopia sì. Ci si incontra e ci si vede spesso perché ormai siamo una famiglia. Poi basta, il resto sono tutti italiani. Però conosco una famiglia originaria del Senegal. Loro mi hanno fatto da baby sitter per tutti e due i miei figli. Quando andavo al lavoro li lasciavo a loro, poi tornavo a prenderli. Ora faccio il part-time e lavoro solo la mattina. Quando il maschio era piccolo facevo i turni, la mattina alle 6 lo portavo lì poi alle 2 lo riprendevo. Facevo le notti, mattine e pomeriggi. Lei mi ha salvata. E così anche 221 l’altra famiglia, quella italiana. Portavo mio figlio da lei tutto imbacuccato alle 6 di mattina, lei lo vestiva e me lo portava all’asilo. Al ritorno lo prendevo io. Quando sono andata a Roma a fare il passaporto me l’ha tenuto lei. Questo nessuno lo fa se non ci tiene a te. Non so bene cosa sia scattato con queste famiglie. Non so cosa loro hanno trovato in me. Sono sempre stata scorbutica e lo sono anche ora. Anche mio figlio. Loro se mi devono dire qualcosa me lo dicono. Forse avevo bisogno di una mamma, di un punto di riferimento perché essere da sola non è facile per niente. Se mi si ammala il bambino chiamo lei. Una volta mi ha portata a Firenze al Meyer perché l’ho stressata tanto. Per fortuna la mia bambina non aveva nulla. Siamo andate lì tutto il giorno e poi non aveva niente. Però per farmi stare tranquilla mi ha portata fino là. Dico, non è da tutti! Con la pediatra invece non mi sono trovata bene. L’ho cambiata appena ho potuto. Non mi ha saputo aiutare. Dopo che l’ho lasciata ho scoperto che i miei figli hanno un sacco di cose che non vanno, e lei non ci aveva detto nulla. Il bimbo è allergico a tantissime cose e la bimba ha problemi alla tiroide. Quando lui aveva il mal di schiena lei diceva che era solo vagabondo e non gli andava di camminare. Poi quando l’ho portato dall’ortopedico mi hanno detto che ha i piedi piatti. Ha tenuto per due anni i plantari. Ho scoperto che la bimba aveva problemi alla tiroide quando aveva sei anni e forse la pediatra avrebbe potuto fare qualcosa. Forse prima non si vede, non lo so… Ogni tanto vado al consultorio. Quando vado c’è sempre un dottore diverso e così devi spiegare tutto da capo, tutte le volte. Questo non è bello. Qualche volta le persone ci portano anche i ragazzi che studiano. E anche questo non è bello. Quando ero incinta del maschio sono andata da un dottore privato perché prima non sapevo dell’esistenza del consultorio. Dopo che è nato l’ho scoperto e quando è nata la bambina ci sono andata. Vado ad Arezzo. Ogni volta c’è un medico diverso. Per le cose che avevo io dovevo spiegare sempre. Leggono il foglio ma glielo devi dire tu. Il fine settimana andiamo in giro. All’outlet, al cinema quando esce un film che piace al maschio. Lui va matto per i film. Si va lì o all’Ipercoop. Dove posso guidare. Di andare lontano con la macchina ho paura, guido solo sulle strade piccole. Questi sono i nostri divertimenti. 5. Donne della migrazione: tra bisogni, simboli e desideri Dalle interviste appare evidente la diversificazione dei progetti e delle strategie migratorie messe in atto dalle nostre intervistate. Tale diversificazione inizia dallo stesso momento dell’arrivo sul territorio italiano e prosegue con l’evolversi della 222 vita familiare, lavorativa e sociale. Ciò nonostante è possibile leggere quanto emerso attraverso alcune dimensioni trasversali, tra loro connesse e collegate. Queste stesse dimensioni, possono anche fungere da “punti di attenzione” per la costruzione di percorsi di iniziative e strategie in grado di rispondere positivamente ai bisogni specifici del nostro campione. La prima dimensione riguarda i consumi e le rappresentazioni di “casa”. L’osservazione diretta delle abitazioni delle intervistate e le narrazioni emerse, ci mostrano un quadro piuttosto ambivalente, fatto di sentimenti spesso contraddittori che rappresentano vite sospese tra due paesi. Come sottolineano gli antropologi non è tanto il fluire in sé di oggetti e beni ad essere significativo, ma piuttosto le modalità attraverso cui beni ed oggetti vengono rivestiti di significati culturali e simbolici. Un ambito di analisi significativo è proprio il modo in cui questi beni ed oggetti contribuiscono a rappresentare la “casa”. “Casa” è qui concepita sia come spazio fisico della famiglia sia come elaborazione simbolica del luogo o dei luoghi a cui si appartiene. E sono proprio le donne che decorano ed arredano le loro case con oggetti che portano con sé o che parlano del proprio paese di origine. Quel che si evince dalla interviste è il “vivere la casa” come uno spazio costruito dall’interazione e dalla combinazione di beni e pratiche che simbolizzano la loro doppia appartenenza, come ad esempio: piatti con stemmi di enti locali italiani accanto a stampe con scritte in arabo; oggetti senegalesi in legno; disegni appesi dei bambini raffiguranti la moschea; e così via. L’arredamento, soprattutto nelle case delle donne marocchine richiama il mondo arabo o l’appartenenza religiosa con divanetti bassi, quadretti con scritte coraniche e calendari stampati di una macelleria islamica di Arezzo. Anche il cibo conservato in casa riflette questa doppia appartenenza. Insieme al cibo italiano, anzi spesso cibo e bevande delle multinazionali, si trovano spezie e pietanze tipiche come l’enjera etiope. Il cibo rappresenta e crea un senso di appartenenza e di identità, ad esempio il consumo di pasti marocchini con gli ospiti è un modo per oggettivare il proprio background dato che il consumo di cibo rappresenta un’incorporazione simbolica del luogo che i sapori richiamano (Sailh, 2008). Durante una delle interviste un signora marocchina ci offrì cibo tradizionale appositamente preparato per noi. Anche in questo caso, molti sono i parallelismi che possiamo trovare nella storia migratoria interna italiana. L’importanza del cibo e delle tradizioni che accompagnano le nostre trasferte e vacanze da parenti che vivono in un’altra regione, per non parlare poi di chi si reca nelle regioni del Mezzogiorno. Accanto a ciò le narrazioni tramettono anche una certa tensione intorno all’idea di casa: “Anche la casa per noi è una vergogna, vorrei avere una casa giusta per la 223 mia famiglia, invece i miei figli dormono tutti nella stessa camera e quando entra qualcuno da noi, ti dico la verità mi vergono [piange]” (A.) Per molte intervistate, la casa dove vivono non rappresenta un ambiente confortevole e adatto alla esigenze di famiglie spesso numerose. In diversi casi si tratta di case di edilizia popolare, in altre di affitti messi a disposizione dall’ente comunale, ma quel che emerge soprattutto con la presenza di figli è la ricerca di riconoscimento sociale attraverso il conformarsi ad uno stile di vita rappresentato dall’uso e possesso di certi beni. Ad esempio, per più di una donna del Marocco è importante che i loro figli abbiano camere separate e vestiti e scarpe uguali ai compagni di classe. Quando però le condizioni economiche non permettono l’acquisto di questi beni di consumo alcune madri negoziano con i propri figli la propria “differenza culturale” all’interno di una società dei consumi che pone fondamentale l’omologazione a certe mode, mentre altre vivono con frustrazione il non riuscire a conformarsi. L’interpretazione del consumo come pratica sociale attraverso cui le donne migranti affrontano le tensioni derivanti dalla propria condizione sociale di migranti e lavoratrici a basso costo è emersa anche tra le altre donne intervistate. Sicuramente decidere su dove “investire” dal punto di vista materiale e simbolico, rappresenta un ambito di negoziazione e discussione importante tra madri e figli, soprattutto in una realtà caratterizzata da scarse possibilità economiche. Diviene, dunque, prioritario per il proprio futuro e per quello dei propri figli andare oltre il capitale economico, rappresentato dagli oggetti materiali, per valorizzare il capitale simbolico a lungo termine. Un secondo aspetto concerne la conoscenza della lingua italiana. Molte e differenti le criticità che incontrano le nostre intervistate, in particolare la difficoltà ad apprendere la lingua italiana: La principale difficoltà che ho incontrato è stata la lingua. Quando sono arrivata non parlavo nemmeno una parola (F.) I miei rapporti con le persone del posto sono molto scarsi. Il problema è sempre la lingua italiana, non riesco a comunicare. Magari mi parlano ma non riesco proprio a capire. Avevo iniziato a frequentare un corso di italiano ma avevo i bambini piccoli e non ce la facevo. Però potrebbero fare dei corsi di italiano la mattina, perché le donne che non lavorano sono più libere avendo i figli a scuola. In casa parliamo arabo e guardiamo i programmi in arabo. A parlare con le insegnanti va mio marito (R.) La competenza linguistica e l’apprendimento linguistico risulta essere questione cruciale e strategica per relazionarsi nel nuovo contesto e sono proprio le donne che presentano maggiori difficoltà nell’apprendimento dell’italiano, rispetto agli uomini: 224 In casa parliamo arabo, la televisione la guardiamo sia in italiano che in arabo. Ho fatto un corso breve di italiano. Sono una persona che parla con tutti, mi fermo a parlare con tutti così imparo. Con i vicini di casa ho imparato a parlare. Poi vado all’ospedale e devo parlare, ai colloqui con i maestri devo parlare… e alla fine ho imparato. Però mi piacerebbe fare un corso che inizia da zero, dalle basi della grammatica soprattutto per concentrarmi sullo scritto. Ai corsi puntano sempre sull’orale e io già so qualcosa. Mi piacerebbe imparare a scrivere e leggere anche per aiutare i miei figli con i compiti (A.) Le donne del Marocco tendono ad occuparsi prevalentemente della famiglia, anche se sempre più frequentemente entrano nel mercato del lavoro produttivo. Certamente l’assenza di una rete familiare che si sostituisca alla donna nel lavoro domestico e nell’accudimento dei figli, pesa sulla scelta lavorativa, così come pesa la mancanza di mezzi di trasporto privati. Ora è diverso, parlo molto in italiano con la mia amica italiana. E poi ho imparato anche grazie alla mia amica polacca poiché lei non parla arabo. In famiglia parliamo più italiano che arabo, mentre con mio marito parlo arabo. Ho fatto un corso di italiano per un mese ma non mi è servito a niente. Avevo il bambino piccolo, stavo dietro a lui e non seguivo. Però mi piacerebbe fare dei corsi per migliorare l’italiano (F.) Ciò nonostante l’apprendimento della lingua è ampiamente riconosciuto come un fattore essenziale ai fini dell’integrazione. Sviluppare le competenze linguistiche significa avere migliori opportunità di lavoro, maggiore indipendenza e maggiore partecipazione al mercato del lavoro, specie delle immigrate. Quel che si nota dal nostro studio è che l’apprendimento della lingua passa essenzialmente attraverso le relazioni con amici, vicini di casa e “guardando la televisione”. La condizione lavorativa. Solo poche intervistate lavorano e di queste per lo più sono impegnate nel settore domestico. Sono lavori spesso molto saltuari come ci testimonia una delle donne: “faccio le pulizie part-time. In realtà, ho fatto una scuola per diventare addetta all’assistenza di base, ma mi serviva un part-time per portare i bambini a scuola” (Y). Tra i principali motivi del non inserimento nel mercato del lavoro c’è l’assenza di una rete familiare di accudimento dei minori “in passato ho fatto la badante da una signora, ma poi ho dovuto lasciare poiché mi chiedevano di stare lì giorno e notte e con la famiglia non lo posso fare” (F). L’attività di cura è considerata primaria per la moglie/madre nella divisione dei ruoli all’interno delle famiglie intervistate, ma allo stesso tempo la condizione economica della famiglia, caratterizzata in molti casi dalla perdita di lavoro del marito, spinge la donna ad entrare nel mercato del lavoro: “faccio le pulizie, 225 quando mi chiamano vado. La mattina penso a dove andare per trovare il pane da dare ai miei figli” (F). Accanto alla scarsa presenza nel mercato del lavoro, sicuramente aggravata dalla congiuntura economica attuale, emerge anche una segregazione lavorativa che confina le nostre intervistate esclusivamente al settore domestico. Gli studi sull’inserimento lavorativo dei migranti (Ambrosini, 2005; Berti-Valzania, 2010; Zanfrini, 2004) sottolineano con forza da anni come l’inserimento di tali cittadini e cittadine sia avvenuto all’insegna di un’integrazione subalterna. Segnalano anche come l’emigrazione possa rappresentare per le donne migranti inserite in società patriarcali un’occasione di emancipazione, ma allo stesso tempo denunciano come la nuova divisione internazionale del lavoro assegni alle donne un ruolo nettamente subordinato rendendole la componente più vulnerabile dell’offerta di lavoro (Zanfrini, 2004). Il quadro descrive, in estrema sintesi, disuguaglianze fra generi e tra italiane e straniere frutto di una commistione di elementi riconducibili al contesto di origine, elementi specifici della migrazione (ad esempio l’assenza di reti familiari) ed altri riconducibili alle caratteristiche del contesto locale dove vivono. Ciò rende difficile l’accesso al mercato del lavoro e la fuoriuscita da quello che è il settore praticamente appannaggio di questa categoria di lavoratrici, ma al contempo non lo precludono. Ad esempio con la crisi economica e la perdita del lavoro del marito alcune intervistate mostrano come la donna sappia far proprio il progetto migratorio del marito (che è un progetto principalmente finalizzato al successo economico) e giocare un ruolo propulsivo e attivo alla famiglia. Le relazioni. Dalle testimonianze si evincono due principali modalità di relazionarsi con il contesto sociale in cui risiedono. Un gruppo mostra scarse relazioni, vivono in una situazione di isolamento e solitudine: Al Monte io mi trovo bene, anche se spesso resto a casa, non vedo nessuno. [...] I miei rapporti con le persone del posto sono molto scarsi. Il problema è sempre la lingua italiana, non riesco a comunicare. Magari mi parlano ma non riesco proprio a capire. Con i vicini di casa ci incontriamo, ma non ci frequentiamo [...]. A parlare con le insegnanti va mio marito. Dal medico di famiglia qualche volta ci vado da sola e qualche volta con mia figlia. Quando c’è la moglie del dottore mi ascolta lei che riesce un po’ a capirmi. Per le gravidanze sono andata al consultorio accompagnata da mio marito e qualche volta da mia figlia (R.) In questi casi la condizione di solitudine sembra essere presente in quei gruppi di donne che per diversi motivi hanno maggiori difficoltà nell’accedere al mercato del lavoro e a occasioni di apprendimento della lingua italiana. Il luogo di lavoro e 226 i luoghi dedicati alla formazione si confermano, almeno potenzialmente, come spazi di interazione e relazioni. In questi nuclei familiari il marito e/o figli grandi ricoprono spesso il ruolo di accompagnatori tra la donna e il contesto sociale soprattutto per quanto riguarda l’accesso ai servizi. Non esco tanto. Per lo più sto con mia mamma e le mie sorelle. Anche quando non ero sposata non uscivo molto. Giusto dopo la scuola con le amiche, ma la sera no. Io sono fatta così, non esco molto. Con i vecchi compagni di classe ci salutiamo ma non ci frequentiamo (MF.) Anche in questo caso si rileva una commistione di elementi socio-culturali e di elementi riconducibili al contesto locale. La divisione del lavoro all’interno della famiglia, il ruolo della donna e gli obblighi che questa deve assolvere si sovrappongono alle poche opportunità che queste hanno di imparare la lingua italiana e di entrare nel mercato del lavoro. Non conosco italiani, non li frequento. Non conosco le famiglie dei compagni di classe delle mie figlie. Io sto sempre qui, ma loro (le figlie) li frequentano. Con gli insegnanti poi non ci sono rapporti (AT.) In uno scenario ricorrente, talvolta troppo stereotipato, di donne migranti come oppresse e sfruttate, dalle nostre interviste emerge un secondo gruppo di donne che dimostrano nella quotidianità della vita di essere capaci di un’autonomia e di instaurare relazioni sociali che non sono quelle del loro passato, ma neanche quella tipiche delle donne occidentali. La maggior parte delle mie amicizie sono italiane, con i marocchini ho poco contatto. Ogni tanto mi vengono a trovare delle amiche italiane che mi danno una mano anche economicamente, mi portano un po’ di spesa, i vestiti per i bambini… Sono tutti bravi, anche le maestre (AN.) La cooperativa è come una grande famiglia. La madrina e il padrino di una delle mie figlie posso chiamarli mamma e papà praticamente. Sono più grandi di me e mi considerano come una figlia, se c’è qualcosa che non va chiamo subito loro. [...]. Però conosco una famiglia originaria del Senegal. Loro mi hanno fatto da baby sitter per tutti e due i miei figli. Quando andavo al lavoro li lasciavo a loro, poi tornavo a prenderli. Ora faccio il part-time e lavoro solo la mattina. Quando il maschio era piccolo facevo i turni, la mattina alle 6 lo portavo lì poi alle 2 lo riprendevo. Facevo le notti, mattine e pomeriggi. Lei mi ha salvata. E così anche l’altra famiglia, quella italiana (Y.) Queste donne, capaci di superare le differenze di nazionalità e di religione, incontrandosi regolarmente si scambiano sostegno psicologico ed aiuto concreto come nel caso dell’accudimento dei figli. Nonostante i vincoli che abbiamo visto 227 durante, appare evidente lo spirito d’iniziativa e la capacità relazionale di queste donne che va oltre la dimensione etnica. Sulla base del lavoro di ricerca abbiamo più volte sottolineato come i percorsi e delle strategie femminili siano articolate e plurali. Ciò nonostante le condizioni di isolamento (parziale o totale), una scarsa conoscenza della lingua e il difficile inserimento nel mercato del lavoro hanno un effetto cumulativo che stratificano e rinforzano l’accesso e l’uso dei servizi. Dalle interviste da una parte rileviamo una buona conoscenza dei servizi sanitari come il consultorio, il pediatra e il medico di famiglia, ma dall’altra parte permangono notevoli difficoltà di comprensione ed autonomia: Vado da sola dal medico di famiglia e dal pediatra, riesco a capire abbastanza bene… e ora ho anche chi mi traduce: mio figlio (AN.) Risulta chiaro che misure di sostegno ed azioni continue, finalizzate e calibrate su bisogni specifici siano da implementare per migliorare il processo di integrazione e diminuire le disuguaglianze. Accanto ciò è importante intervenire con azioni che vadano nella direzione di prevenire e rimuovere le condizioni che limitano in primis le possibilità di apprendimento linguistico ed inserimento lavorativo. Riferimenti bibliografici Ambrosini M. (2005), Sociologia delle migrazioni, il Mulino, Bologna. Berti F., Valzania A. (a cura di) (2010), Le nuove frontiere dell’integrazione, FrancoAngeli, Milano. Centro studi e ricerche Idos (2014), Dossier statistico immigrazione 2014, Unar/Idos, Roma. Favaro G., Tognetti Bordogna M. (1991), Donne dal mondo. Strategie migratorie al femminile, Guerini e Associati, Milano. Osservatorio sulle Politiche Sociali della Provincia di Arezzo (2015), La presenza straniera in provincia di Arezzo, Report n. 51, Sezione Immigrazione, Arezzo. Osservatorio sulle Politiche Sociali della Provincia di Arezzo (2012), L’immigrazione nelle zone della Provincia. Rapporti Zonali, Report n. 38, Sezione Immigrazione, Arezzo. Sailh R. (2008), Identità, modelli di consumo e costruzione di sé tra il Marocco e l’Italia, in Riccio B. (a cura di), Migrazioni transnazionali dall’Africa, Utet università, Novara. 228 Tognetti Bordogna M. (a cura di) (2004), Ricongiungere la famiglia altrove, FrancoAngeli, Milano. Tognetti Bordogna M. (2012), Donne e percorsi migratori, FrancoAngeli, Milano. Zanfrini L. (2004), Sociologia delle migrazioni, Laterza, Roma-Bari. 229 Capitolo 3 Che genere di città? Parole femminili migranti svelano Arezzo di Alessia Belli 1. Introduzione Nato dall’esigenza di leggere nelle pieghe del tessuto migratorio aretino, questo saggio si pone come una narrazione, un racconto qualitativo su e di una parte di popolazione generalmente più invisibile e vulnerabile, le donne straniere (1). Poiché i dati sulla crescente femminilizzazione del fenomeno migratorio poco dicono di chi siano, di cosa abbiano bisogno e a cosa aspirino tali soggetti, si è utilizzata una metodologia femminista basata sull’esigenza di ascoltare le voci, come strumento non solo descrittivo ma anche di emancipazione. La parola e lo sguardo diventano cioè un modo per rompere il muro della solitudine e dell’emarginazione, per poter dire “io sono”, condizione imprescindibile per consolidare una nozione e una prassi di cittadinanza attiva e partecipata. Lo scopo di una ricerca-azione femminista è infatti quello di promuovere e attuare una trasformazione sociale tale da garantire equità e giustizia per tutti e per tutte a partire dalle asimmetrie di potere esistenti e operanti che penalizzano in primis le donne (Maguire, 2006). 35 quelle che hanno partecipato alla ricerca diverse per età, etnia, classe sociale, stato civile, religione, lingua, in modo da riflettere i caratteri della presenza femminile straniera sul territorio aretino (Luatti, Tizzi, La Mastra, 2012) (2). Attraverso interviste semi-strutturate e un laboratorio fotografico sono state esplorate le loro percezioni vis a vis i processi di inclusione sociale e lavorativa: al centro, in altre parole, non solo potenzialità e criticità del vivere ad Arezzo, ma anche le specifiche domande di città, la progettualità per un abitare che le riconosca, le includa e le valorizzi come soggetti attivi. Ed è appunto l’agency il concetto fondamentale che anima le seguenti pagine: le voci e gli sguardi delle cosiddette minorities within minorities (Eisemberg, Spinner-Halev, 2005), diventano una bussola importante per ripensare la cittadinanza in termini di multiculturalismo progressista (Phillis, 2007; Narayan, 2002, Deveaux, 2006). 2. Vivere ad Arezzo Arezzo si colloca da una parte entro un framework nazionale di generale ritardo sulle questioni dell’immigrazione, il cosiddetto “modello assente” italiano (Allievi 2010), e dall’altra entro il modello virtuoso toscano con il suo sistema diffuso e 230 “decente” di accoglienza (Margalit, 1996) (3). Questo, in particolare, si caratterizza per un’attenzione legislativa ad hoc (L.r. 29/2009) nei confronti delle persone di origine straniera e per un approccio basato sull’implementazione di percorsi di integrazione partecipati che riconoscono e valorizzano le diversità (Luatti, 2012) (4). Rispetto a tale quadro Arezzo presenta un carattere intraprendente, avendo ormai da tempo maturato esperienze significative quali la Casa delle Culture, o che riguardano l’associazionismo di e per stranieri nonché l’organizzazione di importanti eventi multiculturali (Colloca, Milani, Pirni, 2012). Non potendo soffermarmi sulla molteplicità dei fermenti locali aretini, cercherò nei seguenti paragrafi di analizzarli dall’interno attraverso la vivida esperienza delle mie interlocutrici. Riesce Arezzo a rispondere alle domande di città delle donne straniere, offrendo loro quell’ascolto e quel protagonismo che sono i presupposti di una città realmente multiculturale? 3. Io che parlo, io che dico: narrative migranti Il primo punto che la ricerca ha voluto esplorare è stato quello delle motivazioni che hanno spinto le donne a lasciare tutto ciò che avevano nel paese di origine e a intraprendere un’avventura così radicale come la migrazione. La ricostruzione dell’esperienza migratoria, infatti, è il primo passo nel processo di ri-acquisizione del sé e presupposto per diventare soggetti attivi e partecipi del proprio contesto di vita. La crisi economica, la volontà di garantire ai figli un futuro migliore, le continue vessazioni per l’assenza di uno stato di diritto, ma anche l’amore per un uomo, alimentano quella “folle razionalità” che le fa scegliere di partire e ricominciare da zero. Ma ciò che mi ha maggiormente colpita in queste narrazioni sono i racconti della guerra: in un periodo di crescente razzismo, ripercorrere con loro la fuga dai conflitti può ravvivare l’empatia, unico sentimento che è in grado di spezzare l’odio che relega l’altro in una posizione di invisibilità. La forza, l’umanità e la dignità che trapelano dalle loro voci possano cioè costituire un punto di unione e di collaborazione. Abitare in un paese in guerra significa vivere quotidianamente i bombardamenti, le uccisioni arbitrarie, l’incertezza, la paura costante di morire, la rabbia. Significa rischiare di essere stuprate di fronte alla propria famiglia, mentre si attraversa il deserto, durante le detenzioni nelle prigioni dei vari paesi che si attraversano, serbando tutta la violenza nel silenzio di sé, per orgoglio, per vergogna, per paura. Fame e sete nei lunghi tragitti, le botte dei conducenti, dei guardiani, dei ribelli. Con questo peso nel cuore arrivano ad Arezzo conservando però la forza e la speranza di andare avanti, comunque. Una città resa piacevole per la sua sostenibilità: ritmi tranquilli, bellezza paesaggistica, ricchezza storica e artistica la rendono una meta apprezzata. Varia, invece, la 231 geografia delle relazioni che riflette i valori portanti dei milieux culturali di origine: chi apprezza la solidarietà degli autoctoni e chi invece ne denuncia la chiusura e finanche il razzismo, non generalizzato ma pur presente e operante soprattutto verso chi è visibilmente diverso, e che si manifesta nelle strade, nei parchi, nelle scuole, nei mezzi di trasporto. Molto diffuso il giudizio di immoralità che spesso tocca le donne straniere, accusate di volersi accaparrare gli uomini italiani e vivere da parassiti. Una delle intervistate, una somala, nera e velata ad esempio, ha riferito gravissimi atti di razzismo da parte di un gruppo di giovani italiani alla fermata dell’autobus: questi ragazzi non solo la offendono verbalmente, ma le impediscono di salire sul mezzo nell’indifferenza del conducente. Il colore della pelle e l’uso del velo nel suo caso risultano due fattori determinanti di stigmatizzazione e di esclusione sociale. 4. Le figlie dell’immigrazione Uno sguardo interessante e rivelatore dei vari aspetti dell’integrazione è quello delle cosiddette figlie degli immigrati (5), un serbatoio ancora ampiamente inesplorato e inutilizzato. La prospettiva delle giovani è interessante in virtù del loro posizionamento strategico al crocevia di due culture, quella di origine e quella di accoglienza, che permette di cogliere caratteristiche, limiti e potenzialità di ciascuna. La ricerca ha beneficiato principalmente della testimonianza di giovani di origine bengalese, una comunità che per ragioni culturali, linguistiche e religiose rappresenta un’affascinante laboratorio di osservazione e di riflessione. Dura è la lotta che esse devono combattere contro le forme di controllo operanti in modo diverso sia nella cultura di origine che nella società aretina: adeguarsi al rigido codice di condotta avallato dalla comunità o seguire le leggi dell’estetica per apparire come gli altri ed essere accettate, finiscono per sacrificare la capacità di sviluppare la propria prospettiva al giudizio e quindi all’approvazione o alla mancata approvazione da parte degli altri. Rispetto a ciò vivere ad Arezzo rappresenta comunque una chance di realizzare i propri sogni e aspirazioni. Mediazione è la strategia elaborata per ricavarsi uno spazio di libertà, una prospettiva di sviluppo personale e di carriera contro le pressioni a sposarsi: ben consapevoli dei limiti culturali delle prime generazioni, che non sono in grado di comprendere le esigenze delle figlie relativamente al vivere e all’inserirsi nel contesto italiano, ma avendo altresì ben chiari i propri bisogni, agiscono un’arte del compromesso, una saggezza pratica che permette loro di trovare l’equilibrio tra istanze diverse. Sono ben consapevoli del ruolo che possono giocare in termini di integrazione, proprio in virtù della conoscenza che hanno maturato di entrambi i milieux. Di fronte alle resistenze e alle paure indotte da un contesto che si pensa 232 possa minacciare antiche e sedimentate tradizioni e ruoli di genere, le figlie potrebbero essere non solo “il ponte”, ma anche quei soggetti in grado di individuare percorsi e modalità di attrazione e coinvolgimento sostenibili dei membri più anziani. Il fatto di essere interne a quel mondo, infatti, vale loro la legittimità e la fiducia maschile e femminile, elementi cruciali per l’accettazione e il successo di qualsiasi iniziativa. Le figlie, in questo senso, possono aiutare le madri a capire non solo dove si trovino e come orientarsi nella nuova cultura, ma soprattutto a comprendere ciò che vogliono, dimostrandosi così efficaci agenti di empowerment. Considerando il contesto aretino numerosi sono ancora gli ostacoli presenti nonostante le belle esperienze di solidarietà e supporto, soprattutto da parte di insegnanti e compagni, raccontate dalle mie interlocutrici: anche la scuola non è però esente da derive legate a ignoranza e grettezza o a forme più o meno palesi di razzismo, “perché quando l’insegnante afferma: ‘ecco, vedete, lei che viene dal Bangladesh sa l’italiano meglio di voi’, significa che tu parti da uno scalino più basso, e questo a me mi fa soffrire”. Non va inoltre dimenticato che le figlie degli immigrati scontano anche il ritardo italiano in termini di legge di cittadinanza. Non solo infatti risulta difficile e lento ottenerla, ma rispetto al valore simbolico attribuitogli dalle mie interlocutrici, la stessa cerimonia di conferimento è spesso vissuta come deludente, Mi hanno detto ‘benvenuta’: ma io che partecipo attivamente alla vita della città è un bel po’; insomma anche la scelta delle parole è importante, perché così era chiaro che loro non mi riconoscevano nella mia specificità... ero una dei tanti, anonima. Si dovrebbero evitare le frasi retoriche. Io mi sentivo già italiana. Al di là di questi impedimenti, ciò che emerge è comunque un grande desiderio di partecipare. Tutte le intervistate sono attive nella società civile, all’interno di associazioni di stranieri (Associazione Culturale del Bangladesh, Donne Insieme etc.) o iniziative interculturali come l’OMA, la Festa dei Popoli e Popoli News. L’entusiasmo però non basta e anche in questo caso le giovani chiedono attenzioni maggiori affinché le loro capacità possano davvero fare la differenza. Chiedono, in altre parole, orientamento e formazione oltre alla volontà di rendere accessibili spazi e tempi di confronto per fare inter-cultura. Siamo di fronte a identità fluide piuttosto che scisse (Afshar, 2012), in cui il radicamento nel tessuto locale si coniuga ad una vocazione transnazionale: agenti di contatto, dunque, non solo all’interno della società italiana ma anche tra questa e la dimensione internazionale. Le giovani donne, in altre parole, sembrano offrire al concetto di cittadinanza un più ampio respiro, dove il locale è in costante dialogo con il globale. Renderle soggetti pienamente attivi potrebbe aprire interessanti orizzonti 233 di integrazione capaci di stringere le maglie della coesistenza tra comunità straniere e società aretina. 5. Che genere di integrazione? Il tema delle seconde generazioni e del loro modo di vivere la città offre l’occasione per affrontare in modo più approfondito i diversi volti del sistema di accoglienza aretino. Numerosi sono i livelli di analisi, profondamente interconnessi, che si sono aperti i quali gettano una luce interessante su criticità e punti di forza dell’integrazione ad Arezzo. Chi meglio delle donne straniere, infatti, proprio per viverlo sulla propria pelle, può guidarci in un viaggio tra le pieghe di tale universo? Occorre innanzitutto precisare che la città risente dei ritardi nazionali in tema di politiche dell’immigrazione: il cosiddetto “modello assente” si traduce infatti in rallentamenti e carenze organizzative nella gestione della presenza straniera. Tali condizioni sono all’origine di situazioni di disagio che impattano pesantemente la vita di molte donne. Nonostante ciò Arezzo, forse anche in ragione delle piccole dimensioni, ha saputo elaborare un modello più efficiente e funzionante rispetto ad altri contesti regionali e nazionali; un modello, come una delle intervistate puntualizza, che non ha mai prodotto, ad esempio, le lunghe file di persone incolonnate al freddo, in attesa fuori dalla Questura: in città, in altre parole, gli immigrati hanno la possibilità di godere di uno spazio di privacy e di umanità all’interno di strutture preposte. Anche in questo senso, però, il continuo cambio di normative e la parcellizzazione delle funzioni tra Questura, Poste e Patronati ha sicuramente avuto una ricaduta anche sull’“oasi felice” aretina. I seguenti paragrafi sono dunque pensati per indagare luci e ombre dei luoghi e delle modalità dell’integrazione ad Arezzo. 6. Forze centripete e centrifughe: come orientarsi nel labirinto degli uffici? Una questione centrale per la maggior parte delle intervistate è la generale difficoltà nel reperire informazioni su cosa di debba fare e dove si debba andare per espletare le varie pratiche burocratiche: in mancanza di un sistema ben organizzato molte si affidano alla rete di conoscenze italiane e straniere che si fonda sul passaparola. La creazione della Casa delle Culture come punto unico di orientamento iniziale, di supporto e di incontro è comunque percepita come un miglioramento in questa direzione. Nonostante ciò, alcune operatrici hanno comunque ammesso la difficoltà a lavorare in modo continuativo e consistente 234 con i vari soggetti che gravitano attorno alla Casa: si tratta di dinamiche centrifughe che chiamano in causa il cambiamento continuo delle normative nazionali in materia di immigrazione. Elemento, questo, che richiederebbe una formazione adeguata, il coordinamento, la condivisione e l’esistenza di una solida rete tra soggetti territoriali preposti, elementi però tutt’altro che presenti. A questo si aggiunga la lentezza e talvolta l’incoerenza della burocrazia in materia di immigrazione che si unisce alle specificità caratteriali degli operatori: ancora poco diffusa, cioè, quell’attitudine empatica che farebbe percepire gli uffici maggiormente accoglienti per gli stranieri. Questo elemento lega il tema dell’organizzazione e della necessaria formazione a quello che potremmo definire “il fattore umano”. Sebbene siano molte ad apprezzare la disponibilità e la gentilezza del personale, riconosciute come qualità importanti che infondono fiducia in sé, altre ravvisano come una forte carenza la scarsa propensione all’ascolto e un’altrettanto scarsa disponibilità a fornire spiegazioni da parte degli operatori. Una questione che chiama sì in causa prima ancora delle (a volte insufficienti) competenze linguistiche del personale, le capacità relazionali degli stessi: “il problema non è tanto linguistico”, suggerisce una delle intervistate, “perché ormai le informazioni si trovano in tutte le lingue; in realtà è la relazione umana il vero problema”. È interessante notare come alcune interlocutrici tentino di elaborare strategie di risposta capaci di superare l’ostilità: è il caso di una donna brasiliana per la quale menzionare il paese di provenienza costituisce una sorta di pass partout: “Io poi sono fortunata perché quando dico che vengo dal Brasile ci scappa sempre qualche chiacchiera e apprezzamento verso il mio paese che in generale piace agli italiani. Quindi il mio paese mi offre l’occasione di avvicinare le persone anche negli uffici”. Ma non tutte sono in grado di giocare la carta dell’intraprendenza e a fronte di alcuni casi fortunati, resta comunque un consistente numero di soggetti che di fatto rimangono isolati (6), ai margini o addirittura fuori dal sistema di integrazione. 7. Di sinergie e commistioni Quando si parla di immigrazione, oltre agli uffici e agli enti pubblici si deve far riferimento al complesso e eterogeneo universo del privato sociale che gioca un ruolo cruciale nella gestione del fenomeno: esistono infatti varie realtà che coordinano progetti, offrono corsi e servizi autonomamente o in partnership con le istituzioni sia nella fase di prima accoglienza che in quella della vera e propria integrazione. Al di là dei ruoli e delle competenze specifiche che lo differenziano dalle istituzioni pubbliche, in generale nelle parole delle mie interlocutrici è possibile ravvisare l’impressione di una maggiore disponibilità, empatia e 235 accoglienza, un supporto sia materiale che emotivo, da parte degli operatori del privato sociale. Se da una parte le forme di interazione tra soggetti pubblici e privati sono generatrici di buone opportunità a sostegno e a promozione delle donne straniere, dall’altra esiste il rischio reale di overlapping. L’overlapping può tradursi in problemi di ripetitività, spreco di risorse, mancanza di organicità e consistenza, soprattutto a fronte di una contrazione dei fondi e di un incremento della competitività tra gli attori che operano nel territorio. Uno degli ostacoli principali, in questo senso, è rappresentato dallo scollamento tra il continuo ampliamento della sfera della formazione agli/alle immigrati/e e l’effettiva capacità di assorbimento professionale degli e delle stessi/e. Ciò che viene da più parti sottolineato è la percezione della mancanza di una visione d’assieme, di una finalità condivisa: in genere alcuni corsi vengono replicati da più associazioni, oppure i primi livelli finiscono per non avere un seguito; si tende a pensare troppo in grande, adottando approcci e modalità di azione astratti, poco funzionali a far conseguire una reale indipendenza economica e sociale alle donne straniere. Il fatto che non venga rilevata una ratio ha un effetto frustrante: la mancanza di coerenza, infatti, fa sì che le domande finiscano per venire disattese. Questo rimanda al problema della continuità delle iniziative, del debole coordinamento tra attori del territorio (del mondo del lavoro e del mondo dell’integrazione). La crisi economica aggrava quello che sembra essere diventato un vero e proprio business dell’integrazione dove ciascun attore, in assenza di un piano organico e regolamentato, tende ad accaparrarsi le scarse risorse disponibili, insidiando così gli eventuali vantaggi di un’azione concertata. Tale business, in altre parole, acuisce competizione e rivalità, parcellizzando e dunque affievolendo gli sforzi messi in campo. Un esempio in tal senso è rappresentato dai corsi di italiano per stranieri la cui proliferazione rende difficoltoso orientarsi e fare una scelta veramente funzionale al percorso di integrazione. Se a questo limite si aggiunge il fatto che l’ottenimento della cittadinanza non è vincolato ad una adeguata competenza linguistica, e che nella maggior parte dei casi i corsi privilegiano la parte grammaticale a discapito di quella laboratoriale basata sui riferimenti al contesto cittadino, ai servizi presenti e a come usufruirne, si comprende quanto ancora rimanga da fare per fornire uno strumento effettivo di empowerment per le donne straniere, uno strumento cioè per muoversi in maggiore libertà rispetto all’autorità maschile. 8. Una donna in politica, la politica per una donna Quale miglior modo per comprendere più da vicino il funzionamento della politica vis a vis il fenomeno migratorio se non ascoltando le parole della prima 236 donna straniera, Aurelia Ceoromila, entrata a far parte nell’aprile 2014 del Consiglio Comunale di Arezzo con il Partito Democratico? Per prima cosa, il fatto che una straniera sia stata eletta e abbia poi avuto accesso al Consiglio Comunale rappresenta senza dubbio un traguardo e una conquista importante, sia perché contribuisce a erodere le tradizionali resistenze del mondo politico italiano all’ingresso femminile, sia perché sfida lo scetticismo e finanche l’ostilità verso la presenza e la partecipazione attiva della popolazione straniera, andandone ad implementare il segmento generalmente più penalizzato, ovvero le donne. L’elezione di Aurelia, in altre parole, costituisce la rottura di molteplici tabù, e racchiude un potenziale emancipativo per l’intera comunità locale. Una voce e una presenza che proprio in virtù della posizione strategica a cavallo di più mondi può offrire visioni e analisi preziose in termini di più efficaci politiche e pratiche di integrazione. La carica di consigliera è per lei il compimento di lunghi anni di attivismo che l’hanno confermata come una figura di riferimento sia per la comunità rumena sia per le istituzioni locali (7). Che cosa l’ha spinta, dunque, ad intraprendere questa avventura? Io sono sempre stata in mezzo ai governanti; mi impegnavo per la mia comunità, per risolvere le cose. E ho visto che tutte le comunità hanno bisogno di una voce. Da qui l’idea di partecipare per dare una voce; da dentro puoi fare di più. Così mi sono informata sui diritti di partecipazione attiva e passiva alle elezioni amministrative. Diventare consigliera, come ammette lei stessa, ha significato acquisire una nuova consapevolezza e senso di responsabilità: quella che inizialmente era un’attenzione particolare verso la comunità rumena, si è trasformata in un impegno nei confronti dell’intera cittadinanza. La sua appartenenza diventa così una risorsa che va ad arricchire una visione più ampia, un universalismo che nutrendosi del riconoscimento delle differenze riesce a superare il rischio di omologazioni e/o ghettizzazioni escludenti. Qual è il vantaggio di avere una donna come Aurelia nel ruolo di consigliera? Come membro di una minoranza all’interno di una minoranza, questa donna porta una sensibilità particolare che facendo leva e rendendo prioritari proprio l’essere minoritari e lo svantaggio, offre una visione di società potenzialmente più inclusiva. Nelle sue parole ricorre spesso il concetto di dignità umana, di soglia minima da garantire anche ai più indigenti, senza distinzione tra stranieri e autoctoni. Un atteggiamento teso a riconoscere il fatto che gli stranieri sono portatori di certi bisogni specifici che rendono necessari interventi ad hoc, senza con questo dimenticare la trasversalità di alcune tematiche che toccano numerose fasce di popolazione. Cosa significa per lei aver intrapreso questo percorso? Significa crescita personale, senso di 237 partecipazione diretta e di potere decisionale, di responsabilità delle proprie azioni: in questo senso le parole e la presenza di Aurelia costituiscono un importante modello prima di tutto per le altre donne straniere, affinché possa crescere in loro quel senso di fiducia e speranza necessario per accedere alla sfera pubblica; ma anche per tutte le donne e gli uomini aretini nella direzione di una cittadinanza attiva e partecipe. La lentezza della burocrazia instilla talvolta un senso di impotenza e di frustrazione facendo percepire il sistema come fatalisticamente immobile e improduttivo, un mondo autoreferenziale che si riproduce ad una distanza sempre maggiore dalla realtà quotidiana e dalle persone che la abitano. Inoltre, la scarsa conoscenza delle comunità straniere rischia di rendere l’operato politico nel settore dell’integrazione “un andare al buio, a caso. Si guardano i servizi sociali, i racconti delle forze dell’ordine, ma senza cercare in prima persona: la politica ha bisogno di informazioni precise per poter agire con cognizione e efficacia, perché le comunità straniere hanno delle specificità”. La prossimità e l’interazione sono infatti fondamentali per disinnescare la miccia di quella conflittualità distruttiva che si annida in ogni forma di coesistenza plurale; prossimità e interazione che sole, inoltre, potrebbero traghettare i nostri contesti da un atteggiamento di mera tolleranza a uno di tipo multiculturalista. Allo stesso modo, anche i molteplici progetti annunciati dovrebbero superare la frammentazione che ancora li caratterizza, il livello delle parole e degli intenti, delle conferenze stampa e degli eventi, che pur animati dalle migliori intenzioni, dimostrano a volte di non avere la forza necessaria per insinuarsi nelle maglie e negli ingranaggi delle complesse realtà aretine. Difficoltà, quelle delineate sopra, che stanno alla base di atteggiamenti di scetticismo e disillusione da parte di alcune intervistate: a parte il riconoscimento dell’impegno sincero profuso da certe figure femminili della politica locale (8), si è da più parti sottolineato il perdurare di un atteggiamento opportunistico da parte dei politici che utilizzano talvolta la carta della difesa e della promozione delle donne straniere per coprire interessi di immagine e per mantenere, di fatto, lo status quo in termini di relazioni di potere vigenti (favorendo all’occorrenza specifiche realtà a discapito di altre), scaricando poi quelle stesse donne quando non risultino più utili al perseguimento degli obiettivi particolaristici. Sarebbero, cioè, un certo opportunismo e una scarsa volontà ad agire che renderebbero difficile il passaggio dalla promozione pur importante di eventi ludici e culinari in chiave interculturale alla realizzazione di politiche di cittadinanza attiva. Ed è appunto in questa direzione che la politica aretina è chiamata a produrre risultati davvero incisivi che portino a frutto le già interessanti e meritevoli sperimentazioni avviate. L’ingresso della prima donna straniera in Consiglio comunale è in questo senso la conferma di una porosità e apertura a partire dalle quali si profilano promettenti scenari futuri. 238 9. Sanità e lavoro: i volti della cittadinanza Quando si parla di sanità, il sistema aretino sconta e riflette certi nodi nazionali, declinati poi secondo limiti e potenzialità peculiari al contesto locale (Nuti, Maciocco, Barsanti, 2013) (9). Se si guarda agli immigrati, il dato sopra menzionato diventa più pesante: a fronte di un’ampia offerta, l’accesso reale da parte di questo segmento di popolazione risulta ancora relativamente basso, anche se i/le figli/e dell’immigrazione sono riusciti/e a integrarsi piuttosto bene nel sistema usufruendo di conseguenza dei servizi in misura maggiore rispetto alle prime generazioni e agli anziani, che tendono a curarsi di meno. Rilevato questo dato di massima, va comunque riconosciuto l’impegno del Servizio Sanitario locale verso l’individuazione e la gestione delle problematiche legate al rapporto tra salute e cittadini stranieri, impegno testimoniato dalle numerose ricerche (presenti anche in questo volume), pubblicazioni e progetti specifici. Se i problemi di accesso, di una adeguata strutturazione del servizio e della necessità di un punto unico dove reperire le informazioni sono importanti fattori ostativi, vanno anche considerate le questioni relative a culture sanitarie diverse, l’irregolarità, abitare lontano dal centro, non ricevere le informazioni o non riceverle in lingua; pochi medici in grado di parlare correttamente con gli stranieri in termini di competenze specifiche di comunicazione interculturale. Nonostante numerose siano ancora le criticità aperte, il caso aretino presenta tuttavia delle note promettenti. Una di queste, che ricorre spesso nelle narrazioni, è il progetto sull’interruzione volontaria di gravidanza, fenomeno che ha ancora una fortissima incidenza soprattutto all’interno della comunità rumena. Si tratterebbe di una iniziativa interessante perché ha coinvolto direttamente le donne, accompagnandole in un percorso di informazione e rendendole al tempo stesso agenti consapevoli all’interno delle rispettive comunità (10). Questo approccio, a detta di molte, dovrebbe essere replicato proprio in virtù dell’attitudine alla valorizzazione dell’agency dei soggetti. In generale, porre al centro l’esperienza femminile, curando oltre agli aspetti della maternità e dell’allattamento più specificamente quello psicologico legato ai vissuti specifici (“c’è tanto mal di vivere, hanno un peso dentro che non possono condividere”), è una questione centrale che, seguendo le indicazione delle mie interlocutrici, potrebbe assumere la forma del supporto da parte di specialisti (in caso di violenze subite, e di altri tipi di traumi legati all’esperienza migratoria) (11), di corsi di scrittura terapeutica etc. Quello della violenza, infatti, è un tema ricorrente, ancora avvolto dal tabù, ma che molte sentono come urgente: che assuma le sembianze della violenza domestica o della prostituzione, essa rappresenta comunque un fenomeno trasversale che rischia di schiacciare le 239 donne straniere in una posizione di vulnerabilità permanente. La frammentazione degli attori (mondo della politica e dell’associazionismo) e delle iniziative, il fatto che le politiche sanitarie non siano ancora del tutto parte di quelle per l’integrazione, e soprattutto la generale marginalità delle donne stesse nell’elaborazione e realizzazione di quelle policies che proprio e/o anche a loro dovrebbero essere rivolte, impedisce il passaggio dal livello, pur fondamentale, della conoscenza dei fenomeni, alla progettazione e realizzazione di iniziative sostenibili ed efficaci. Le buone prassi già avviate nel territorio, proprio in virtù dell’approccio adottato, costituiscono un buon punto di partenza per elaborare nuove ed efficaci strategie di azione. 10. Lavoro Anche in questo caso le donne straniere si trovano a scontare, ancor più degli autoctoni, gli effetti della crisi che già da vari anni ha colpito il paese. La crescente disoccupazione acuisce a sua volta l’isolamento e la marginalità di soggetti già particolarmente vulnerabili. Tra i principali fattori che le penalizzano quello etnico-razziale, il mancato riconoscimento dei titoli e l’assenza di servizi di orientamento, supporto e di bilancio delle competenze vanno ad unirsi alla discontinuità delle azioni di formazione, generando un senso di frustrazione e di scetticismo che ne disincentiva la partecipazione. Dalle testimonianze si evince che sia operante, cioè, una sorta di scetticismo e finanche di razzismo verso le straniere, percepite come inferiori. Il pregiudizio e lo stereotipo finiscono per bloccarle entro una posizione sociale e lavorativa ritenuta dagli autoctoni consona al loro status di straniere e che in genere corrisponde a occupazioni poco gratificanti e retribuite e più precarie (segregazione orizzontale e verticale). Rispetto alla tematica donne straniere/lavoro, un mondo a se stante è quello delle badanti, un universo ancora ampiamente inesplorato fatto di reti informali (spesso gestite da donne più anziane), dinamiche discriminatorie ma anche di storie di solidarietà (da parte dei datori) che necessitano di un’analisi specifica e più approfondita non ancora tentata. Un universo quindi, quello delle badanti, tanto più difficile da raggiungere in quanto sembra retto dalla massima “io sono qui per lavorare e basta” che lo rende impermeabile anche al tessuto associativo, generalmente ritenuto un luogo di inutili e inconcludenti chiacchiere. I dati disponibili mostrano una già significativa incidenza di problematiche legate sia all’(ab)uso di alcolici sia a vari disagi psicologi di fronte ai quali si rende necessaria un’iniziativa volta ad andare oltre la dimensione “tecnica” dell’incontro domandaofferta (la promozione cioè dell’emersione dall’irregolarità) ma sia capace di individuare e rispondere ai bisogni di queste persone al fine di promuoverne la 240 salute psico-fisica. I vari nodi tematici che sono emersi nel corso del paragrafo sono all’origine della scelta, da parte di molte, di dedicarsi al volontariato all’interno di varie realtà aretine. Un ambito che, nonostante l’assenza di una retribuzione, permette comunque loro di vedere riconosciute e incentivate le proprie capacità, passioni, esperienze. Si tratta, cioè, come emergerà di seguito, di un livello nel quale si rende visibile il grande potenziale inespresso delle donne straniere. 11. Il protagonismo delle donne: una questione di agency L’aspetto che più ha colpito la mia attenzione e che risulta rilevante per questa riflessione è il tema dell’agency delle donne straniere. Sebbene in alcuni casi il loro atteggiamento ricalchi i toni della richiesta di diritti e di servizi o sia teso a criticare la mancanza di supporto, più spesso mi sono confrontata con donne intraprendenti, ben consapevoli dei limiti del sistema di accoglienza e integrazione aretino, ma altresì partecipi e impegnate in varie attività attraverso le quali riescono a far breccia in quello stesso sistema e ad esprimere la propria personalità (12). Al di là del disagio, che richiede un sostegno specifico al fine di tutelare e garantire ai soggetti le condizioni minime per rendersi autonome e per intraprendere un proprio percorso, ciò che emerge è una volontà diffusa ad agire, prendere parte, sentirsi coinvolte e poter incidere sulla vita cittadina: il bisogno di riconoscimento è per queste donne un elemento cruciale. È a tale fascia di popolazione che vorrei prestare qui attenzione per cogliere quegli aspetti importanti da valorizzare per modellare nuove forme di cittadinanza attiva e partecipata, che sappiano creare un tessuto sociale coeso. Questa scelta permette di coinvolgere sempre più soggetti, riducendo progressivamente situazioni diffuse di marginalità (13). Parlare di agency delle donne straniere in questo senso significa riferirsi principalmente al mondo dell’associazionismo. Più che il lavoro infatti, grande convitato di pietra all’interno della ricerca, è il volontariato ad aprire importanti spazi di azione: è qui che da fruitrici-utenti, le donne straniere diventano operatrici-agenti. Le troviamo infatti coinvolte prima di tutto nella Casa delle Culture: molte di loro hanno seguito l’iter complesso della sua creazione, investendo tempo e progettualità per la realizzazione di un ideale. Oltre a questo, le opportunità di essere volontarie nelle molteplici attività che si sono dischiuse all’interno della Casa rappresenta “un’occasione di nutrimento per l’anima”, tanto più gratificante in quanto avviene in un contesto di perdita di reti amicali e di solidarietà che generalmente caratterizza l’esperienza migratoria. Il fermento che accompagna la vita della Casa delle Culture rispecchia, secondo molte delle voci ascoltate, una sorta di slancio nella voglia di fare associazionismo 241 le cui origini precedono però la nascita di questa realtà-contenitore: le donne raccontano infatti di una pluralità di soggetti significativi che nel territorio di Arezzo sono stati in grado di aprire finestre di opportunità per la popolazione femminile straniera, mantenendo tuttora un ruolo significativo: l’Associazione Donne Insieme e Ucodep (adesso Oxfam Italia) ad esempio. Un limite, quando si parla di associazionismo per donne straniere è la recidività di un atteggiamento assistenzialista che assume a volte le vesti di un certo “maternalismo” da parte delle autoctone, che a detta di alcune tenderebbero a esercitare una forma di controllo, quello sguardo da lontano e dall’alto, che finirebbe per perpetuare forme di asimmetria e di inferiorizzazione nei confronti di chi viene da altri paesi. Azioni di sostegno e di aiuto, dunque, che non riescono a rompere del tutto antiche gerarchie di potere, impedendo di fatto una vera e profonda emancipazione delle straniere, bloccate in un ruolo di dipendenza e deferenza. È in alcuni importanti eventi e nel crescente attivismo di stranieri che le donne riescono sempre di più a portare i loro talenti ed entusiasmo: nella Festa dei Popoli o in Popoli News, la voce degli stranieri; un bimensile realizzato da una redazione multiculturale quale strumento per esprimere l’energia e il desiderio di partecipazione e di riconoscimento; l’OMA, Orchestra Multietnica di Arezzo, un’occasione di conoscenza e contaminazione con persone provenienti da ogni angolo della terra. E infine l’altro volto dell’associazionismo, quello di stranieri, col suo grandissimo potenziale in termini di riconoscimento e valorizzazione delle donne. Partendo dall’associazione rumena-italiana Dacii, una delle più antiche ad Arezzo (quella rumena è la comunità più numerosa nel territorio) troviamo come Presidentessa una donna particolarmente intraprendente che ha creato una forma di auto-aiuto all’interno della comunità, mettendo in piedi una sorta di welfare dal basso: autofinanziamento per aiutare i connazionali in difficoltà, servizio di orientamento e di supporto in materia legislativa e burocratica, promozione e conservazione della cultura rumena, cercando di coniugare radici e integrazione. Dacii collabora inoltre con altri soggetti del territorio prendendo parte a progetti, anche in ottica di genere, come quello sull’interruzione volontaria di gravidanza (14). Ci sono comunque altre realtà che hanno come presidentesse delle donne: è il caso dell’associazione latinoamericana Milagros e quella filippina Pinoy (15). Un soggetto particolarmente dinamico è anche l’Associazione culturale del Bangladesh con numerose iniziative che vedono coinvolte le donne (corsi di italiano, di cucito, doposcuola etc.) nella veste di insegnanti e formatrici. Degno di nota, in particolare, è il ruolo giocato da alcune figlie dell’immigrazione che sono sempre più attive e propositive riuscendo a coinvolgere, attraverso un sapiente lavoro di mediazione, soggetti finora isolati, scettici e/o riluttanti ad ogni forma di contatto con la “cultura occidentale”, soprattutto le donne di prima generazione. Ci sono giovani con grandi capacità progettuali, la cui propositività 242 potrebbe essere colta e messa nella condizione di esprimersi adeguatamente. Il tema della formazione delle donne-risorsa diventa così fondamentale. In questo senso, il fatto che l’associazionismo si basi quasi esclusivamente sul volontariato costituisce un forte ostacolo rispetto a tale tema, precludendo di maturare quelle competenze e professionalità essenziali per poter agire con continuità e in modo significativo. A tale dato va aggiunto il fatto che l’associazionismo femminile è ancora esiguo, c’è poca rete, è caratterizzato da un alto turnover interno (il che rende molto difficile programmare percorsi incentrati sulle loro necessità e volti a promuoverne le capacità), e che senza appoggiarsi a grossi poteri, quali le istituzioni o a realtà come ARCI, le iniziative rischiano di rimanere troppo sbilanciate sull’aspetto ludico-culinario rispetto a temi quali la salute, l’istruzione e i diritti, questioni fondamentali quando si parla di cittadinanza attiva. Se si affronta il tema dell’agency delle donne straniere, la questione che emerge con più forza è quella legata agli incentivi necessari per nutrire creatività e attivismo, soprattutto delle giovani generazioni, che sono una risorsa preziosa nella loro fondamentale funzione di ponte tra mondi diversi. Supporto che le potrebbe mettere in condizione di agire sia contro gli stereotipi diffusi nella società, sia contro le pressioni conformiste e conservatrici ancora diffuse nelle comunità di appartenenza. Atteggiamento, questo, che risulterebbe cruciale per superare anche certi atteggiamenti assistenzialistici ancora molto radicati tra le comunità straniere, principale ostacolo nei confronti di quel cambio di mentalità che formi cittadini partecipi. Nell’attesa, non certo fatalistica e passiva, che tali fermenti locali possano trovare il loro giusto corso, la sfera dell’associazionismo aretino rimane per le donne straniere “quel nutrimento dell’anima e della mente” che è fondamentale per il benessere della persona e per generare il senso di appartenenza, ingrediente chiave per una nuova idea di cittadinanza agita. 12. Conclusioni Al di là di tutti i limiti e delle problematiche che ho tentato succintamente di mettere in evidenza in questo breve contributo, la caratteristica che rende peculiare questo contributo e la ricerca in generale, è l’approccio che essa deliberatamente adotta: a fronte di una crisi che minaccia la fruizione dei diritti fondamentali e restringe le opportunità reali di cittadinanza partecipata, si è preferito porre l’accento soprattutto sui fermenti locali, sulle buone prassi avviate, sulle progettualità che vedono le donne straniere come soggetti attivi e propositivi. Ben consapevole delle criticità esistenti, in altre parole, è però a partire dalla consapevolezza delle potenzialità che teorie e prassi dell’integrazione dovrebbero essere ridefinite, così da riflettere bisogni e aspirazioni non solo delle 243 persone cui sono rivolte, ma della comunità cittadina nella sua totalità. Affinché questo slittamento prospettico, che si discosta dall’atteggiamento mainstream securitario, conservatore e/o apertamente ostile verso le diversità, si realizzasse sarebbe necessario percorrere alcune traiettorie indicate dalle donne stesse. Più in particolare, si dovrebbero raccogliere i loro feedback sui servizi esistenti come strumento di verifica e eventuale correzione rispetto al modus operandi di associazioni e istituzioni. Occorre inoltre organizzare servizi di supporto che seguano tutte le fasi e i livelli dell’inclusione, in conformità con le esigenze delle donne anche per quanto riguarda il tempo libero. Sono loro che dovrebbero essere chiamate a co-progettare spazi e tempi dell’integrazione e di una cittadinanza che le riconosca e le valorizzi, attraverso, ad esempio, l’uso di metodologie urbane partecipative. Non dovrebbe essere trascurato però il supporto psicologico che risulta imprescindibile quando si ha a che fare con l’esperienza migratoria e di inserimento in un nuovo contesto. Se si parla dei disagi e delle criticità che le donne straniere devono affrontare, la violenza domestica e la prostituzione, emergono come temi dominanti, che necessitano azioni di contrasto, di protezione materiale, psicologica e di supporto anche lavorativo: sarebbe allora opportuno entrare nella rete EDV Italy, esperienza avviata nel 2013 dall’Università Milano Bicocca. Si tratta di un’iniziativa che tenta di introdurre in Italia la missione di EDV GF (Global Foundation for the Elimination of Domestic Violence) (16). Occorre, in generale, dare strumenti alle donne, anche attraverso laboratori linguistici che permettano loro di muoversi in libertà e autonomia. In questo quadro, due fasce di popolazione femminile straniera hanno bisogno di un’attenzione particolare: si devono cioè conoscere e studiare i mondi delle badanti e delle figlie dell’immigrazione individuandone le caratteristiche e le necessità specifiche, disegnando servizi ad hoc e pensando percorsi di formazione alla formazione, di leadership e di empowerment soprattutto per chi tra le giovani ha già assunto un ruolo di spicco all’interno dell’associazionismo o comunque della vita pubblica cittadina. Si tratta di indicazioni generali che possono tuttavia fornire direttrici importanti agli attori preposti per ripensare le policies in modo più efficace e più sostenibile, profilando così una cittadinanza attiva, garantendo equità e giustizia a tutti e a tutte. Di fronte ad Arezzo e ai suoi attori, numerose sono le sfide importanti che si profilano, sfide che dalle buone prassi avviate finora possono però trarre linfa e risorse per confermare la città come un contesto multiculturale particolarmente intraprendente. 244 Note (1) Il presente saggio è parte di una ricerca più generale dal titolo Che genere di diversity? Parole e sguardi femminili migranti su cittadinanza organizzativa e sociale, in corso di pubblicazione presso FrancoAngeli. (2) Intersectionality è lo studio delle intersezioni tra forme o sistemi di oppressione, dominazione o discriminazione. Un esempio è dato dal black feminism, il quale sostiene che l’esperienza di essere una donna di colore non può essere semplicemente compresa in termini di colore della pelle e di essere donna, considerati indipendentemente, ma deve includerne le interazioni che spesso si rinforzano vicendevolmente. La prima studiosa a introdurre il concetto di intersectionality fu Kimberlé Crenshaw nel saggio ‘“Demarginalizing the Intersection of Race and Sex (1989). (3) Di contro alla creazione di grandi centri di accoglienza (tendopoli, Cie, Cara, Cda), la Regione Toscana ha optato per la dispersione omogenea sul territorio dei migranti con minori costi e un minore impatto sui cittadini residenti, sui paesaggi e sulle economie locali, stemperando così un diffuso clima di allarme sociale. Il rispetto della dignità dei luoghi e delle persone è alla base di queste azioni concertate che vedono la collaborazione e il coordinamento di sindaci, volontariato e Terzo settore. Il riferimento è ad Avishai Margalit, The Decent Society, Harvard University Press 1996. (4) Il dibattito attorno al termine integrazione rimane estremamente attuale: c’è in particolare chi preferisce usare ‘interazione’ (sono molto grata ad una delle donne intervistate per aver sottolineato la necessità di insistere sull’inevitabile trasformazione della cultura locale nelle sue varie declinazioni come conseguenza dei processi migratori, una trasformazione alla quale concorrono tutti e tutte, autocton* e stranier*). (5) Si è deliberatamente scelto di usare questa espressione preferendola a ‘seconde generazioni’ per indicare sia il carattere non volontario della migrazione (a differenza delle prime generazioni) che un’identità profondamente influenzata dalla cultura italiana nella quale sono state socializzate e della quale padroneggiano i codici culturali e linguistici. (6) Si tratta di donne provenienti da paesi arabi e musulmani, soprattutto del sud-est asiatico. (7) Una donna che è anche la fondatrice e presidentessa della prima associazione rumena della città e ideatrice-realizzatrice del Forum Romanesc, rubrica informativa in rumeno. Per maggiori informazioni sulla rubrica si ascolti l’intervista realizzata da Radio Wave alla ideatrice e realizzatrice, Aurelia Ceoromila: http://www.radiowave.it/finestra-locale/le-voci-diarezzo/2336-forum-romanesc-la-rubrica-informativa-di-piazza-grande-a-cura-di-aureliaceoromila (8) Il riferimento è a due assessore generalmente riconosciute come punti di riferimento importanti, capaci di trasmettere la loro passione verso l’integrazione delle differenze, mostrando anche una spiccata sensibilità in chiave di genere. Si tratta dell’ex-assessora Aurora Rossi e Stefania Magi, entrambe profondamente coinvolte nel progetto di costituzione e apertura della Casa delle Culture. (9) Ringrazio la dottoressa Marzia Sandroni, Responsabile Comunicazione Marketing della Ausl 8 di Arezzo, per la disponibilità e le preziose informazioni fornite, utili a chiarire il framework generale del rapporto tra sanità e popolazione immigrata ad Arezzo. Per una descrizione più dettagliata del rapporto tra immigrazione e salute in Toscana e ad Arezzo, si veda Nuti, Maciocco, Barsanti (2013) (10) Si tratta di un progetto avviato da Oxfam Italia nel 2012 e ancora in corso. E’ il progetto E.S.C. (Educazione sanitaria di comunità), finanziato da Ausl 8 e rivolto alla popolazione straniera residente sul territorio della ASL 8 di Arezzo nel quadro della prevenzione delle IVG e della promozione della contraccezione, come nuovo modello di intervento, da affiancare al dispositivo della mediazione culturale già attivo, in grado di svilupparlo e potenziarne gli effetti. Per maggiori 245 informazioni si veda: http://www.oxfamitalia.org/scopri/intercultura/areasanita#sthash.y5iXs2su.dpuf (11) Si pensi, come è emerso nei paragrafi precedenti, all’esperienza delle donne somale che per arrivare in Italia intraprendono un lunghissimo viaggio, esponendosi al rischio di morte e di violenze, sia nella traversata del deserto sia nelle carceri dei vari paesi toccati. (12) Anche in questo caso sono doverose alcune precisazioni: il campione di donne intervistate sconta la scarsa presenza di badanti arrivate negli ultimi anni, donne che raramente riescono a partecipare o ad essere incluse. Oltre a questa categoria, relativamente basso è anche il numero di donne provenienti dal sub continente indiano, dal Nord Africa o subsahariane che riescono ad essere attive o coinvolte in varie attività. Capita spesso che chi partecipa o lavora in associazioni abbia un partner italiano o sia nata e cresciuta qua. (13) Una marginalità che alcune non esitano ad attribuire a fattori endogeni, quali la presunta apatia e indifferenza di certe donne a prendere parte ad attività funzionali all’inserimento nel tessuto sociale; lo shock culturale provocato dalla mancanza di conoscenza del contesto di arrivo; o la volontà di rimanere entro la sfera privata, aspetto questo legato a comunità fortemente connotate in senso patriarcale. (14) Nel 2013 è nata una nuova associazione italo-rumena, dove la presidentessa e le due vicepresidentesse sono donne. Nelle parole di una intervistata, co-fondatrice dell’associazione: “L’Associazione Italo - Romena Arezzo Insieme è nata per le necessità della Comunità Romena di avere un punto di riferimento, un posto dove possiamo rivolgerci sempre per i problemi sociali e non solo. Il nostro scopo è di farci conoscere maggiormente, promuovere la nostra cultura, valorizzare i nostri talenti nel territorio e favorire insieme a voi una integrazione libera dai rispettivi pregiudizi”. (15) Quest’ultima, in particolare, è molto attiva all’interno della Casa delle Culture. La comunità filippina è un interessante laboratorio dove studiare le dinamiche e le trasformazioni legate ai ruoli di genere in un contesto di migrazione. Aspetti che per motivi di tempo e ampiezza della ricerca non sono stati analizzati approfonditamente, ma che richiederebbero un focus specifico. (16) Lo scopo è scambiare informazioni e buone prassi fra Italia e Regno Unito, sviluppare ricerche, diffondere la conoscenza del metodo coordinato e integrato di contrasto alla violenza domestica attuato nel Regno Unito mediante il sistema delle MARAC e dell’IDVA, analizzare le condizioni della sua applicabilità in Italia, effettuare azioni di promozione verso le istituzioni, sviluppare un rapporto costruttivo con associazioni, il mondo dell’educazione, il sistema informativo. Per maggiori informazioni si consultino i seguenti siti: http://www.edvitalyproject.unimib.it/it/chi-siamo/che-cose-edv-italy-project/ (focus sull’Italia); http://www.edvitaly-project.unimib.it/it/chi-siamo/che-cose-edv-italy-project/ (focus sull’Inghilterra). Riferimenti bibliografici Afshar Haleh (Ed.) (2012), Women and Fluid Identities. Strategic and Practical Pathways Selected by Women, Palgrave Macmillan, Basingstoke. Allievi Stefano (2010), “Multiculturalism in Italy: the Missing Model”, in A. 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La Mastra, Vivere Insieme, cit., pp. 225-248 Deveaux M. (2006), Gender and Justice in Multicultural Liberal States, Oxford University Press, Oxford. Maguire P. (2006), “Uneven Ground: Feminism and Action Research”, in Reason P. and Bradbury H. (Eds.), Handbook of Action Research, Sage Publications Ltd. Narayan U. (2202), ‘Minds of their Own: Choices, Autonomy, Cultural Practices, and Other Women’, in Antony L. and Witt Ch. (Eds.), A Mind of One’s Own: Feminist Essays on Reason and Objectivity, Westview Press, Boulder CO [2001]. Nuti S., Maciocco G., Barsanti S. (a cura di) (2013), Immigrazione e salute. Percorsi di integrazione sociale, il Mulino, Bologna. Phillips A. (2007), Multiculturalism without Culture, Princeton University Press, Princeton and Oxford. Riferimenti legislativi Legge Regionale n. 29/2009, Norme per l’accoglienza, l’integrazione partecipe e la tutela dei cittadini stranieri nella Regione Toscana. http://servizi2.regione.toscana.it/osservatoriosociale/img/getfile_img1.php?id=19174 Materiali web http://www.casadelleculture.arezzo.it/documenti-linkati-dalle-pagine/casa-delleculture/scheda-presentazione-casa-delle-culture http://www.bangladesharezzo.com/popoli-news/ http://www.radiowave.it/finestra-locale/le-voci-di-arezzo/2336-forum-romanesc-larubrica-informativa-di-piazza-grande-a-cura-di-aurelia-ceoromila http://www.google.it/url?sa=t&rct=j&q=&esrc=s&source=web&cd=1&ved=0CCE QFjAA&url=http%3A%2F%2Fwww.usl8.toscana.it%2Fnew%2Fimages%2Fstories%2F modulistica%2FI_bisogni_sanitari_degli_stranieri.pdf&ei=UPUPVOPrBuWR7AaO2YD gAg&usg=AFQjCNFK8dj0Zn_zSZpp6ZS4RFBXlSR4sA&sig2=QuEFRmPJ5Sa6ikUEUp DPaw&bvm=bv.74649129,d.ZGU 247 Siti web http://www.bangladesharezzo.com/ http://www.women.it/impresadonna/associazioni/assdonneins.htm http://www.orchestramultietnica.net/ http://www.usl8.toscana.it/cittadini http://www.oxfamitalia.org/scopri/intercultura/area-sanita#sthash.y5iXs2su.dpuf http://www.edvitaly-project.unimib.it/it/chi-siamo/che-cose-edv-italy-project/ http://www.edvitaly-project.unimib.it/it/chi-siamo/che-cose-edv-italy-project/ 248 Capitolo 4 L’osservazione nel quartiere Saione ad Arezzo di Niccolò Sirleto 1. L’osservazione e gli strumenti utilizzati Il bisogno conoscitivo da cui prende avvio questa ricerca è dettato dall’esigenza di approfondire alcuni aspetti relativi ai luoghi di aggregazione e alle connesse dinamiche del processo di integrazione. Ci siamo riproposti di osservare l’integrazione sociale, culturale ed economica degli immigrati presenti sul territorio della città focalizzandoci, in particolare, su un quartiere, Saione, ad alta incidenza di stranieri, e su alcuni luoghi di aggregazione all’interno del suo territorio. La città, come scrivono Pastore e Ponzo (2012), è un aggregato eterogeneo, complesso e instabile e spesso al suo interno coesistono contemporaneamente situazioni diverse di interazione e integrazione tra gruppi. Il quartiere è un microcosmo più compatto e coeso che rende più facile l’osservazione e la comparazione dei fenomeni oggetto di studio; esso può assumere confini, significati e importanza differenti a seconda degli individui e dei gruppi sociali osservati. Non abbiamo quindi considerato i confini amministrativi del quartiere Saione, ma altri più fluidi a seconda dei contesti. In questa ricerca, condotta nel periodo compreso tra settembre e ottobre 2013, sono stati usati come sistema di rilevazione la lettura e come strumenti l’osservazione passiva (o in taluni casi a bassissima partecipazione) e le passeggiate etnografiche supportate da fotografie. Il quartiere è stato delimitato geograficamente e sono stati individuati gli spazi in cui effettuare l’osservazione. I percorsi dell’osservazione, le “passeggiate etnografiche”, però, sono state compiute senza avere dei percorsi precisi, ma seguendo le modalità della flânerie, un’attività che viene ripresa dalle scienze sociali dal contesto letterario e che prevede il vagare senza meta all’interno della città per poter scoprire luoghi, interstizi e situazioni al di fuori dei percorsi abituali o noti. L’osservatore/flâneur cerca di muoversi all’interno dei luoghi di ricerca con un atteggiamento disincantato che si unisce, però, a uno spirito di curiosità e di esplorazione che possa permettergli di cogliere gli aspetti meno espliciti delle vicende umane che sfuggono dal “palcoscenico” dei luoghi che le ospitano, ma che risiedono nei vari “dietro le quinte” della vita sociale. La flânerie è pervasa di osservazioni soggettive e di interpretazioni parziali ma, usata in concomitanza con metodi quantitativi utilizzati all’interno dei rapporti 249 dell’Osservatorio, può essere utile per individuare la dimensione sfuggente del genius loci, cioè tutto ciò che un luogo è o vuole essere. Le città contemporanee sono trasformate continuamente da flussi compositi di popolazione residente e non residente e dalla mescolanza di attori e stili di vita. Pertanto, una visione della città come un corpus unico dotato di coerenza interna o suddivisa in zone nette e definite risulta essere superata e così anche le prospettive di indagine quantitative necessitano dell’ausilio di altre tecniche più flessibili e meno strutturate in relazione ai cambiamenti (Nuvolati, 2006). Con il termine osservazione si intende sia lo strumento di rilevazione, cioè il mezzo con cui si rilevano le informazioni, sia il sistema di rilevazione, cioè l’organizzazione degli strumenti utilizzati nella ricerca. Lo strumento osservativo si dice anche non reattivo in quanto il ricercatore non esercita volontariamente delle specifiche sollecitazioni verbali o comportamentali al fine di provocare una reazione negli attori oggetto di studio (Cellini, 2008). L’osservazione etnografica ha una duplice funzione: da un lato rende familiare l’ignoto e dall’altro defamiliarizza il già noto (Marzano, 2006); il ricercatore ha accesso ad aspetti dei backstage della vita sociale che difficilmente verrebbero colti con altri metodi di ricerca e allo stesso tempo l’osservazione persistente in alcuni ambienti riesce a scomporre e ad analizzare segmenti di interazioni sociali che sono dati per scontati. Inoltre la tecnica osservativa ha il vantaggio di essere l’unico strumento che permette al ricercatore di rilevare i fenomeni nel momento esatto in cui accadono e non di analizzare delle razionalizzazioni a posteriori degli stessi (Cellini, 2008). Un particolare uso può esserne fatto quando si intendono trovare delle nuove vie interpretative, quando non si dispone di una griglia teorica precisa o semplicemente quado si vuole raccogliere informazioni dall’universo senza porsi particolari interrogativi per poter formulare ipotesi successivamente, ci si muove cioè in modo euristico alla ricerca di nuove teorizzazioni (Bruschi,1999). L’approccio qualitativo parte dall’assunto che se il ricercatore non ha la conoscenza adeguata per spiegare una certa porzione della realtà deve compiere lo sforzo cognitivo di comprendere le categorie mentali di altri soggetti e come essi vedono il loro mondo e attraverso quali di queste categorie danno senso alla realtà. L’osservatore adotterà quindi una prospettiva emic, cercando, cioè, di arrivare alla comprensione utilizzando le categorie delle cultura esaminata e posando l’attenzione su cosa le persone ritengono rilevanti per la loro stessa vita (Sacchetti, 2009). Il ricercatore che vuole effettuare l’osservazione può scegliere tra due sistemi di rilevazione: l’immersione e la lettura. Il primo prevede che il ricercatore si inserisca all’interno di una comunità interagendo con i suoi membri e partecipando alla vita quotidiana di essi. Spesso in questo tipo di sistema di 250 rilevazione, oltre all’osservazione non reattiva si utilizzano altri strumenti, come le interviste in profondità. L’altro sistema, la lettura, consiste nel considerare gli osservati come “altri” interagendo con essi il meno possibile e osservando i fenomeni dall’esterno. Solitamente la lettura si effettua per periodi più brevi rispetto all’immersione e in ambienti, quali ad esempio spazi pubblici come strade, piazze e giardini dove i gruppi osservati non sono organizzati in comunità (Cellini, 2008). Tramite l’osservazione si diventa familiari con il contesto etnografico, i codici linguistici diffusi, le espressioni gergali e le pratiche sociali specifiche; per fare questo il ricercatore può compiere delle tecniche euristiche, degli esperimenti mentali, per scomporre e intrepretare i fenomeni che gli si parano davanti (Cardano, 2011). Se ad esempio abbiamo la percezione che le donne della comunità del Bangladesh non frequentano i luoghi pubblici, ma tramite l’utilizzo dei dati sappiamo che la componente femminile di tale gruppo etnico è numerosa, si effettuerà osservazione a orari differenti per cercare di capire se le donne escono esclusivamente nell’orario dell’uscita delle scuole o la mattina presto per fare acquisti. Il dato si limita a rilevare ubicazioni di domicili, esercizi commerciali, affluenze a luoghi di culto ma ben difficilmente riuscirà a descrivere che in un certo parco i giovani nord africani si riuniscono ai tavolini del lato nord mentre donne dell’est Europa alle panchine nello spiazzo al centro. Solamente tramite l’osservazione è possibile ben capire la distribuzione di varie comunità/gruppi negli spazi pubblici e il loro utilizzo nella vita quotidiana. L’osservazione cambia a seconda del grado di coinvolgimento del ricercatore all’interno delle attività del gruppo studiato. Esistono diversi tipi di partecipazione che variano in un continuum che, progredendo con il coinvolgimento, include: la non-partecipazione, la partecipazione passiva, quella moderata, quella attiva e infine la completa partecipazione. Vista l’eterogeneità dei luoghi e dei gruppi oggetto di studio di questa ricerca è stato deciso di adottare la partecipazione passiva. Questo tipo di partecipazione prevede che l’osservatore, nel caso si trovi in strade o luoghi pubblici, si comporti come uno spettatore o un passante che si sposta da un punto di osservazione all’altro riducendo il numero di interazioni e mantenendo possibilmente una forma di distacco che permetta di osservare i fenomeni nella loro interezza (Spradley, 1980). A supporto dell’attività di osservazione, durante le letture sono state scattate alcune fotografie. Questo strumento di raccolta di informazioni consente di considerare le immagini ritratte come specifici fenomeni osservabili che fungono da indicatori per le idee astratte che compongono la conoscenza pregressa e le teorie che muovono l’attenzione del ricercatore (Faccioli, Harper, 2007). Oltre a questa funzione la raccolta delle immagini risulta utile per poter riosservare 251 fenomeni al fine di cogliere aspetti che possono essere sfuggiti in un primo momento ma, soprattutto, per poter analizzare il fenomeno ritratto alla luce della conoscenza (e delle nuove categorie) formatesi nella mente del ricercatore durante il corso dell’esperienza osservativa sul campo. L’utilizzo di questo strumento è stato regolato tenendo presente la sua intrusività e le sue conseguenze. Durante l’esperienza sul campo il ricercatore deve tenere sempre conto della riflessività, cioè la valutazione delle risposte che la sua presenza e (soprattutto nel caso dello scattare fotografie) le sue azioni hanno sul contesto. La restituzione delle immagini è carica quindi di segni differenti a seconda del frame in cui è stata scattata (Banks, 2007). Una fotografia presa davanti a un negozio di alimentari che ritrae degli uomini che parlano sarà diversa se presa dall’altra parte della strada non facendosi notare o a distanza ravvicinata catturando lo sguardo dei soggetti. Nel corso dell’osservazione sono state prese foto con approcci differenti tenuto conto di quanto detto sopra e del fatto che in taluni momenti, ad esempio nei negozi o nei bar per scommesse, è stato preferito ritrarre la scena con la macchina tenuta al fianco o passando velocemente mentre magari si osservava in un'altra direzione, in linea con la decisione di condurre una osservazione a basso grado di partecipazione e di intrusività. Questo può sottolineare l’utilità del supporto fotografico che permette di rianalizzare in un secondo momento certe scene. Funzione analoga alle fotografie ha la serie di note di campo che poi formano il diario etnografico. Quando il ricercatore si trova sul campo rileva su un taccuino tutte le informazioni che osserva, anche quelle che apparentemente sembrano inutili o che comunque non costituiscono indicatori delle caratteristiche che si sta cercando di osservare. Tale strumento serve al ricercatore sia come supporto mnemonico che come fonte per reperire potenziali nuovi aspetti e dimensioni dei fenomeni osservati (Lofland, 2006). In questa ricerca è stata usata la lettura come sistema di rilevazione e come strumenti: l’osservazione passiva (o in taluni casi a bassissima partecipazione) e le passeggiate etnografiche supportate da fotografie. 2. Cosa è stato osservato Questi percorsi si sono concentrati sul cercare di notare elementi di interazione ed eventuale integrazione tra i membri delle comunità straniere e italiani, l’osservazione ha insistito sulle vie del quartiere con maggior numero di negozi etnici e nei parchi, i quali sono un tipo di luogo di aggregazione particolarmente interessante per osservare le interazioni tra differenti gruppi sociali. Gli spazi verdi pubblici ben rappresentano il clima del quartiere e ne creano l’identità in 252 quanto sono potenzialmente accessibili a tutte le categorie tra cui spesso chi per scarsità di risorse, tempo e mobilità non ne può uscire con facilità (Cingolani, 2012). Il parco che si estende dietro l’ospedale non è molto frequentato: nel pomeriggio vi si possono trovare studenti sdraiati sul prato, qualche anziano e delle donne di mezz’età, molto probabilmente di provenienza est-europea. Inoltre in più occasioni è stato osservato un gruppetto di giovani bengalesi allenarsi con attrezzi “naturali” come tronchi e sassi (probabilmente si trattava del solito gruppo a distanza di due settimane). Nel parco sono stati, inoltre, notati un paio di senzatetto accampati vicino ad una zona protetta da cespugli (la presenza in altre zone del parco di vestiti e di sacchetti appesi ai paletti dei cestini della spazzatura fa pensare che si tratta di persone che abbiano scelto il parco come luogo in cui passare la notte). Nel parco tra via Adda e via Arno più volte sono stati notati alcuni giovani bengalesi mangiare, bere e giocare a carte intorno ai tavoli e alle panchine (ritornando in loro assenza sono stati trovati dei cartoni sui tavoli che presumibilmente vengono usati a mo’ di segnapunti per qualche gioco da tavola). Nelle vicinanze si trova spesso parcheggiato un camper dove vive una famiglia di nomadi (non abbiamo, però, delle informazioni certe che ci confermano che siano di origine Rom). Il giardino tra via Masaccio e la stazione è usato come luogo di ritrovo da un gruppo di uomini di età dai venti ai quaranta, probabilmente di provenienza est europea. In altri momenti, però, ci sono anche dei giovani bengalesi che si ritrovano sulle panchine dalla parte opposta della piazzetta. In questo giardino una mattina è stato possibile osservare una scena molto particolare: una donna africana sulla trentina con i capelli ossigenati si avvicina parlando al telefono a una panchina dove sta dormendo sdraiato un quarantenne italiano, si siede addosso all’uomo continuando a parlare al telefono, e, chiedendogli in malo modo di alzarsi, gli mette in mano delle monete e gli dice qualcos’altro come se lo conoscesse, l’uomo obbedisce alzandosi e barcollando se ne va via. Dato l’episodio, si è immaginato che l’uomo fosse un personaggio noto nel quartiere, magari un ex tossicodipendente conosciuto da tutti. Questo episodio lascia intendere che all’interno del quartiere sono presenti forme di rapporti di conoscenza faccia a faccia legati all’utilizzo di alcuni luoghi pubblici che trascendono i vari gruppi etnici. Il parco lungo viale Giotto è molto più frequentato rispetto al parco che si estende dietro l’ospedale. È frequentato sia da italiani che da stranieri, ci sono famiglie, ragazzi, donne probabilmente provenienti dall’est Europa che accompagnano anziani, ma anche alcuni senzatetto che dormono sulle panchine. Altri senzatetto si trovano nel giardino antistante la chiesa del Sacro Cuore, poco 253 distante dal parco (probabilmente si tratta di una parrocchia attiva nell’offrire loro aiuti). Piazza Guido Monaco è un luogo di incontro per vari tipi di gruppi. Ci sono giovani africani vestiti hip hop con tanto di skateboard, studenti, famiglie di nord africani, giovani rumeni che stanno ai tavoli del Mondopizza e di un altro bar adiacente mentre alcuni pakistani si riuniscono al self service all’angolo con via Petrarca. I parchi espletano funzioni sociali più disparate per i vari gruppi, i quali però rimangono confinati in spazi ben precisi e scarse sono le interazioni. Al mattino il quartiere Saione è molto frequentato sia da italiani che da stranieri che fanno compere nei vari negozi etnici. Il pomeriggio, invece, si spopola nettamente; se si escludono i negozi di via Vittorio Veneto, che rimane comunque trafficata, tutti gli altri minimarket etnici e gli alimentari diventano dei luoghi di aggregazione per i membri della comunità bengalese anche perché spesso al negozio vi è annesso un internet point. Questo è stato riscontrato, ad esempio, davanti ad un minimarket di via Montegrappa, che a prima vista poteva sembrare un classico negozio di prodotti tipici toscani, ma dove invece si vendono più che altro prodotti etnici, diventato un punto di ritrovo di alcuni ragazzi bengalesi. All’esterno i ragazzi parlano tra di loro in dialetto aretino, mentre dentro il gestore e un altro cliente di mezz’età parlano nella loro lingua. Prendiamo una bottiglia di acqua e poiché la cassa è nascosta da uno scaffale, l’altro uomo (il cliente) ci chiede di porgere i soldi a lui come se fosse di famiglia con il gestore (una cosa che è successa anche altre volte). Si può dire che l’imprenditoria immigrata ed etnica degli esercizi commerciali è di tipo enclave nel senso che i negozi sono concentrati e a prevalenza della stessa etnia (Ambrosini, 2011). Allo stesso tempo i confini degli spazi sono fluidi, cioè per la maggior parte sono del Bangladesh, ma nella stessa zona si possono trovare anche alcuni esercizi gestiti da cinesi e nonostante alla funzione di luogo di ritrovo che menzionavo sopra gli avventori sono di gruppi etnici eterogenei. È qui da notare che spesso quando si cercava di fotografare i gruppi di persone davanti ai negozi o il negozio stesso i piccoli gruppi parevano non gradire la cosa anche se non protestavano e spesso entravano all’interno del locale. Questo è un esempio di perturbazione involontaria, cioè del cambiamento della situazione indagata a causa della presenza dello strumento, in questo caso la macchina fotografica (Cellini, 2008). Tali raggruppamenti non sono presenti la domenica quando i negozi sono chiusi e se non si considera qualche famiglia che passeggia la domenica il quartiere è quasi deserto. I bar costituiscono un altro tipo di luogo di aggregazione, ma in questo caso è di grande interesse per un particolare aspetto: il fenomeno del gioco è diffuso all’interno del quartiere e coinvolge sia gli italiani che gli stranieri, i bar con le slot machine e le sale da gioco sono, infatti, un luogo di incontro per gli abitanti 254 del quartiere. I bar e le sale da gioco sono frequentate esclusivamente da uomini, sia giovani sia anziani. Entrando nel Sisal Matchpoint di via Vittorio Veneto si potevano osservare dei ragazzi bengalesi che guardavano la partita, alcuni italiani anziani più distaccati che prendevano appunti sui risultati delle gare di cavalli e in un saletta a parte in penombra un gruppo misto di italiani rumeni e bengalesi che giocavano alle slot machine ed altri che stavano osservando in silenzio gli altri giocare. Questo momento quasi ritualistico dell’osservare gli altri che giocano senza commentare o interagire è stato notato anche negli altri bar del quartiere. Le interazioni avvengono come se in quel preciso momento i giocatori (o chi osserva solamente il gioco) facessero parte di una stessa comunità di senso che travalica le appartenenze etniche. È stato notato che molte automobili hanno attaccato allo specchietto retrovisore crocifissi di varie fogge, Tau di san Francesco, rosari ecc. Questa moda esprime una ostentazione di religiosità che è anche diffusa nel quartiere tra via Arno e Via Vittorio Veneto dove su alcune macchine dei bengalesi è attaccato un ciondolo induista (nei pressi del mercato di via Giotto ne sono stati trovati alcuni con simboli islamici). I testimoni di Geova sono molto attivi: al mercato di Via Giotto hanno uno stand e si trovano spesso in piazza Guido Monaco a distribuire volantini. L’approccio usato dai testimoni di Geova non sembra molto invasivo, ma è come se selezionassero i passanti a cui rivolgersi a priori ignorando gli altri. Nel quartiere sono stati trovati degli adesivi con scritto “Fascino di Qunran” e l’invito a visitare un sito internet di letteratura cristiana apocrifa. Anche un prete anziano stava prendendo appunti su chi fossero. Al mercato di via Giotto avevano anche un banchino dove distribuivano libri gratuitamente. Le osservazioni sono iniziate pochi giorni dopo alcuni fatti di cronaca relativi a un regolamento di conti tra due gruppi etnici. Nonostante i media locali esaltassero le tensioni sociali all’interno della città, la percezione della devianza dello straniero da parte degli italiani non è sembrata particolarmente accentuata; infatti ascoltando le conversazioni nei bar non risaltavano molto spesso discorsi razzisti o intolleranti, le poche lamentele erano riferite ai Rom (e al sindaco che è troppo tollerante nei loro confronti). In un paio di casi sono state notate le forze dell’ordine interagire con degli africani e con dei senzatetto ma non sono stati notati atteggiamenti repressivi o intolleranti. Al mercato di via Giotto alcuni uomini chiedevano l’elemosina vendendo dei piccoli oggetti autoprodotti e dei palloncini per risultare più visibili e suscitare maggiore simpatia nei passanti. Tale “creatività” è stata riscontrata anche in alcuni giovani africani venditori ambulanti lungo la via del corso; nell’osservarli è stato notato un approccio di vendita non troppo invasivo che permette loro, nel proporre meno oggetti ai passanti, di vendere molto di più rispetto ad altri loro colleghi. 255 La presenza degli stranieri all’interno del quartiere Saione è sicuramente visibile nelle strade dove sono collocati i vari negozi etnici e nei vari bar che sorgono nei pressi, fatta l’eccezione dei parchi dove si trova una maggiore eterogeneità (in termini di etnia, sesso, età). La presenza femminile straniera è abbastanza limitata alle ore del mattino fino all’orario di uscita delle scuole. Durante le ore del mattino pare un quartiere abbastanza trafficato sia da italiani che da stranieri, in altri orari sembra mancare della presenza sia degli uni che degli altri. I gruppi di giovani stranieri si ritrovano in alcune zone dei giardini che fanno proprie costruendo la loro identità di appartenenza al loro gruppo, mentre si possono trovare piccoli gruppi di studenti sparsi in maniera più casuale e non vi sono molte interazioni. I luoghi dove è stata riscontrata una maggiore interazione tra italiani e stranieri sono gli spazi comuni dei bar con slot machines e sale scommesse. Bibliografia Ambrosini M. (2011), Sociologia delle migrazioni, il Mulino, Bologna. Banks M. (2007), Using Visual Data in Qualitative Research, SAGE publications, Thousand Oaks CA. Bruschi A. (1999), Metodologia della scienze sociali, B. Mondadori, Milano. Cardano M. (2011) La ricerca qualitativa, il Mulino, Bologna. Cellini E. (2008), L’osservazione nelle scienze umane, FrancoAngeli, Milano. Cingolani P. (2012), Dentro la barriera. Vivere e raccontare la diversità nel quartiere, in F. Pastore, I. Ponzo (a cura di), Concordia Discors, Carocci, Roma. Faccioli P., Harper D. (2007), Mondi da vedere, FrancoAngeli, Milano. Lofland J. (a cura di) (2006), Analyzing Social Settings, Wadsworth Thomson, Belmont CA. Marzano M. (2006), Etnografia e ricerca sociale, Laterza, Roma-Bari. Nuvolati G. (2006), Lo sguardo vagabondo, il Mulino, Bologna. Pastore F., Ponzo I. (a cura di), Concordia Discors. Convivenza e conflitto nei quartieri di immigrazione, Carocci, Roma. Sacchetti F. (2009), Quantity, Quality and Creativity in S. Sacchetti, R. Rudgen (Ed.), Knowledge in the Development of Economies: Insitutional Choiches Under Globalisation, Edgar Ellan Publishing. Semi G. (2010), L’Osservazione partecipante, il Mulino, Bologna. Spradley J. (1980), Partecipant Observation, Holt, Rinehart and Winston, Riverside CA. 256 Capitolo 5 Verso un possibile modello di accoglienza? Tre buone pratiche a confronto di Giovanna Tizzi e Luca Raffini 1. Rifugiati e richiedenti protezione internazionale: alcuni dati di uno scenario in movimento L’inasprirsi dei conflitti armati e il netto deterioramento nel rispetto dei diritti umani e nelle condizioni di vita in molti paesi, ed in particolare nei paesi nordafricani e del vicino oriente, come la Siria, si riflette in un netto aumento del numero dei richiedenti asilo, in Europa (+44%) e a livello globale (+45%). In totale, il numero di richieste di asilo ricevute dai 44 paesi dell’OCSE è di poco inferiore a 900.000. Solo in Europa, il numero di richieste è pari a 714.300. L’incremento nel numero di richieste coinvolge, in particolare, i paesi confinanti con gli scenari di conflitto. La Turchia è, tra i paesi industrializzati, quello maggiormente coinvolto, ricevendo 87.800 richieste. L’Italia, nello stesso anno, riceve 63.700 richieste. Si tratta di due dei quattro paesi europei che assorbono il maggior numero di richieste, insieme alla Germania (la prima, con 173.000) e alla Svezia (75.100): due paesi con una grande tradizione di accoglienza, e per questo meta privilegiata. Si tratta, non di meno, di numeri relativamente ridotti se paragonati ai flussi in ingresso nei paesi vicini a quelli di provenienza. Contando tutti i rifugiati presenti dei diversi paesi nel 2014, la nazione che ospita il numero maggiore di rifugiati è la Turchia (1,59 milioni di persone accolte), seguita da Pakistan (1,51 milioni), Libano (1,15 milioni), Repubblica Islamica dell’Iran (982.000), Etiopia (659.500) e Giordania (654.100). Ben il 45,4% dei rifugiati nel mondo viene accolto da questi sei Stati, provocando una pressione considerevole nell’area del Mediterraneo orientale. Si consideri che il 97% delle persone in fuga dalla Siria si trova oggi in Iraq e in Egitto. Per quanto riguarda i paesi di provenienza, più del 53% dei rifugiati proviene da solo tre Stati: la Repubblica Araba di Siria (3,88 milioni), l’Afghanistan (2,59 milioni) e la Somalia (1,11 milioni), mentre, limitando l’attenzione alle richieste di asilo presentate nel 2014, troviamo al primo posto la Siria, quindi Iraq, Afghanistan, Serbia e Kosovo ed Eritrea. Il Mediterraneo, sempre più, è teatro privilegiato dei flussi: il numero di rifugiati che ha solcato il Mediterraneo nel 2014 è stimato in 218.000: una cifra tra volte superiore a quella che ha caratterizzato il periodo successivo alla Primavera Araba, nel 2011, ovvero 257 all’Emergenza Nord Africa. Tentare di raggiungere l’Europa è molto rischioso. Solo nel 2014, l’Osservatorio sulle vittime dell’immigrazione, Fortress Europe, stima che le persone morte mentre cercavano di approdare sulle coste europee sono state 3.419, portando a 21.439 il numero totale, negli ultimi venticinque anni. Significa che una persona su 64 perde la vita nel suo tentativo di raggiungere migliori condizioni di vita, per sé e per la propria famiglia. D’altra parte, nel solo 2014, Mare Nostrum ha salvato un numero di profughi stimato in oltre 150.000, prima di essere sostituito con Triton, che, di fatto, non prevede azioni di salvataggio in mare, traducendosi in un aumento delle vittime. Per quanto riguarda l’Italia, pur se in maniera non lineare, gli sbarchi sono radicalmente aumentati, dal 1997 al 2014, passando da 22.343 a un numero stimato tra i 133.000 e i 170.000. Gli ultimi dati del 2015 (al 10 ottobre 2015) mostrano che pur rimanendo molto elevata l’intensità del fenomeno, non si sono registrati ulteriori forti aumenti, attestandosi a 136.432 persone sbarcate. È interessante notare la mutata composizione per Paese di provenienza tra il 2014 e il 2015 frutto dei cambiamenti delle rotte migratorie e della geografia delle partenze. Nel primo erano soprattutto persone provenienti dalla Siria, dall’Eritrea e dal Mali mentre nell’anno in corso i dati evidenziano al primo posto l’Eritrea, seguita dalla Nigeria e dalla Somalia (Ministero dell’Interno, 2015, pp. 5-6). Passando all’analisi di coloro che richiedono asilo in Italia notiamo innanzitutto che nel 2014 sono 64.625, il 38% di tutte le persone sbarcate nello stesso anno. Pur con la difficoltà di reperire dati ufficiali in materia, osserva Marchetti “si ha la netta impressione che la vera novità del 2014 sia la massiccia ‘scomparsa’ dei migranti in seguito al loro salvataggio e allo sbarco in Italia. Se nella seconda fase del 2011, si era realizzato una sorta di ‘travaso’ automatico di tutti i migranti arrivati via mare nelle accoglienze Emergenza Nord Africa (ENA) della Protezione Civile e nella procedura individuale di asilo, nel 2014 sembra essersi consolidata una prassi molto più fluida” (Marchetti, 2014).Va anche sottolineato che il numero di richieste di protezione internazionale è effettuata da una quota ridotta dei profughi che arrivano nelle nostre coste, poiché in molti preferiscono tentare di raggiungere altri paesi europei (la Germania, in primis), per avviare lì le pratiche, dal momento che il Trattato di Dublino afferma che il processo di accoglimento della domanda debba essere gestito dallo Stato di primo arrivo. Solo un decimo dei profughi giunti in Italia nella prima metà del 2014 ha, per esempio, fatto richiesta di protezione internazionale in Italia (Andreotti, 2015). Una conseguenza del regolamento è che al momento dell’ingresso di un potenziale richiedente asilo, lo Stato in questione possa richiedere il suo ritorno e presa in carico nel paese europeo da cui è eventualmente transitato in precedenza, generando i cosiddetti “dublinati”. Il regolamento di Dublino ha non di meno un 258 effetto: genera una pressione sulle frontiere interne all’UE. Si pensi alle situazioni che si sono create alla frontiera tra Ventimiglia e Mentone, tra Calais e Dover, o, soprattutto, alla frontiera tra Ungheria e Austria. Il Regolamento di Dublino influenza le strategie degli stessi profughi. Per molti di loro Stati come l’Italia rappresentano solo un passaggio rispetto alla meta finale, individuata in paesi ritenuti capaci di offrire migliori opportunità, come la Svezia o la Germania. Per questo motivo cercano di varcare le frontiere del paese senza farsi registrare, in modo da farlo direttamente nel paese di destinazione, generando atteggiamenti di chiusura e conflitti tra Stati. Sempre più spesso nell’Europa “senza frontiere” si costruiscono nuovi muri, tangibili o virtuali, che dividono il Mediterraneo e i confini orientali, o si innalzano nuovi muri all’interno della stessa Europa. Il nostro paese, tuttavia, non rientra tra i paesi con il più alto numero di richieste, a livello europeo l’Italia è il terzo paese UE per numero di richiedenti asilo (dopo Germania e Svezia), ma anche quello che ha registrato il maggior incremento nell’ultimo anno. Osservando la composizione dei richiedenti asilo si evince una ridottissima presenza di donne (7,6% del totale) e di minori (6,8% del totale); le tre nazionalità maggiormente presenti sono la Nigeria, il Mali e il Gambia. Per quanto riguarda le domande accolte, a partire dal 1990, anno in cui si registrano 992 richieste di asilo, il numero di persone che ottengono il riconoscimento in Italia aumenta, fino a raggiungere i 3.078 nel 2013. In parallelo, tuttavia, aumenta in maniera assai più significativa il numero di persone che ottengono il riconoscimento di protezione umanitaria e sussidiaria. Si tratta di un tipo di protezione che risulta marginale fino al 1997, ma che nel 2013 è riconosciuto a 11.314 persone. I dati sopra sinteticamente riportati ci dicono: a) che quella che in Italia si continua a definire un’emergenza è ormai un elemento strutturale; b) che il numero di persone che approda in Italia e, in generale, in Europa, è relativamente ridotto, rispetto al numero potenziale di rifugiati, che si concentrano oggi nei paesi limitrofi, in condizioni di disagio e di deprivazione; c) che la risposta data dagli Stati europei è insufficiente e disomogenea, dal momento che quasi ben oltre la metà delle richieste di asilo è gestita da Germania, Svezia, Francia, Italia. 2. Il sistema italiano di accoglienza Il sistema italiano di accoglienza, non è mai pienamente uscito dall’ottica dell’emergenza. Ciò, a fronte di dati che mostrano in maniera chiara che il fenomeno dei rifugiati è ormai un elemento strutturale e, alla luce delle attuali dinamiche economiche, culturali e geopolitiche, destinato a rimanere stabile, se non ad aumentare, nei prossimi anni. In quanto tarato sulla dimensione 259 dell’emergenza, il sistema italiano di accoglienza è per lo più concentrato sulla dimensione del primo soccorso e della prima accoglienza nonché improntato ad una impostazione di tipo prevalentemente securitaria. Come scrive Marchetti (2014), “anche se negli anni le lacune giuridiche sono state in parte colmate, soprattutto attraverso il recepimento delle Direttive europee in materia, l’impianto rimane frammentato e di stampo emergenziale, come se il diritto d’asilo non fosse qualcosa che meriti una trattazione complessiva, ordinaria e organica. Certamente, il fatto che la stessa materia dell’immigrazione in generale sia per lo più affrontata con un approccio emergenziale, come se si trattasse di un fenomeno transitorio o comunque circoscritto, non aiuta a porre al centro del dibattito una visione complessiva e il più possibile coerente del tema dell’asilo e della protezione internazionale”. Il diritto di ricevere accoglienza per chi fugge da situazioni di guerra e di violazione dei diritti è sancito dal diritto internazionale, è affermato dal diritto comunitario e recepito dalla Costituzione italiana. Senza entrare nel merito della normativa che regola il diritto di asilo, evidenziamo che a tutti è assicurata la possibilità di entrare nell’iter dell’accoglienza, formalizzandone la domanda di asilo, che termina in seguito alla decisione della Commissione territoriale ovvero, in caso di ricorso giurisdizionale, fino all’esito dell’istanza di sospensiva e/o alla definizione del procedimento di primo grado. La valutazione della domanda di ammissione viene effettuata dalla Commissione territoriale per il riconoscimento dello status di rifugiato, competente per territorio. Tale Commissione ha il dovere di convocare per un’audizione il richiedente, dopo di che dovrà adottare una fra le quattro decisioni seguenti: riconoscere lo status di rifugiato (con validità di 5 anni, rinnovabile); riconoscere lo status di protezione sussidiaria (con validità 5 anni, rinnovabile); rigettare la domanda; rigettare la richiesta ma, allo stesso tempo, constatata la pericolosità di un eventuale ritorno, richiedere alla Questura competente territorialmente di rilasciare uno speciale permesso di soggiorno per motivi di protezione umanitaria, della durata di due anni (rinnovabile). Nel caso di ottenimento dello status di rifugiato o di protezione sussidiaria o umanitaria la persona può entrare nel sistema SPRAR (Servizio centrale del sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati). La definizione dell’intero sistema di accoglienza di richiedenti e titolari di protezione in Italia è alquanto complessa. Tale sistema di accoglienza, infatti, è costituito da strutture assolutamente diversificate tra loro in quanto a posti disponibili, condizioni e standard dei servizi resi Così il sistema di piccoli centri diffusi dello SPRAR, gestiti direttamente dagli enti locali, convive con i CARA (Centri di accoglienza per richiedenti asilo, istituiti dal decreto legislativo n. 25 del 28 gennaio 2008) e le tante strutture nate nelle varie emergenze sbarchi e poi “sanate” e stabilizzate come il caso di Mineo, 260 oggi trasformato in CARA. Accanto a questi centri si aggiungono poi quelli che gestiscono la maggioranza delle richiedenti asilo, denominati strutture temporanee o CAS attivati delle Prefetture per conto del Ministero dell’Interno. Attualmente (Ministero degli Interni, 10 ottobre 2015) il totale delle presenze è di 99.096 persone di cui: 21.814 nei 430 progetti dello SPRAR; 7.290 nei 7 centri governativi – CARA; 464 persone in 7 CIE; 70.918 persone nelle 3.090 strutture temporanee – CAS. È evidente come il sistema italiano dell’accoglienza si regga, nonostante l’ampliamento dei posti SPRAR, sull’accoglienza straordinaria che gestisce il 72% di tutte le presenze, distribuite in oltre 3 mila strutture organizzative (sia pubbliche che private). Se da un lato rileviamo una maggior distribuzione dei migranti su tutto il territorio nazionale (al primo posto in termini di presenza di strutture temporanee troviamo la Lombardia con 554, seguita dalla Toscana con 416 e dall’Emilia Romagna con 376) dall’altro appare lampante la frammentazione e disomogeneità territoriale in termini di servizi erogati che si traduce in standard di accoglienza piuttosto differenziati. Inoltre, per via dell’ingolfamento del sistema e per la carenza di spazi, la permanenza nei CARA può protrarsi per mesi, coinvolgendo anche soggetti con status diversificati, e lo SPRAR accoglie sia titolari di protezione che richiedenti. I CAS, da parte loro, fungono da valvola di sfogo, accogliendo una platea molto eterogenea di beneficiari, alcuni dei quali appena sbarcati. Ciò significa che rappresentano percorsi paralleli, che rispondono alle stesse problematiche in maniera assai disomogenea. Il 10 luglio 2014, a livello istituzionale è stato varato il Piano Operativo Nazionale che attraverso un sistema piuttosto articolato dovrebbe governare anche le emergenze. Si tratta di un Piano, redatto dalla conferenza unificata tra Governo, Regioni e rappresentati degli enti locali, che articola l’accoglienza in tre distinti livelli: 1) Soccorso e prima assistenza (Hot Spot), con identificazione e primo screening sanitario in centri governativi, che costituiranno il primo livello di assistenza e smistamento delle persone nei centri regionali/hub. 2) Prima accoglienza in centri regionali denominati anche hub che dovrebbero offrire l’accoglienza successiva al primo soccorso. In questi centri la persona dovrebbe presentare la domanda di asilo, attendere l’esame delle Commissioni e poi essere inviata allo SPRAR. Il documento insiste sul fatto che il periodo dovrebbe essere breve, ma le condizioni oggettive fanno pensare invece a periodi prolungati. In queste condizioni i centri dovrebbero ospitare parecchie centinaia di persone. 3) Ultimo livello è il sistema SPRAR che si configura come seconda accoglienza e passo decisivo per l’integrazione. La strategia del Piano Nazionale è confermata nella nuova disciplina dell’accoglienza dei richiedenti asilo (decreto legislativo 18 agosto 2015, n. 142) 261 che recepisce le ultime direttive europee in materia di procedure di accoglienza (Direttive UE 2013/33 e 2013/32). Siamo all’inizio di questo “rinnovato” sistema di accoglienza il cui obiettivo principale è di strutturare in via ordinaria ma flessibile l’accoglienza in Italia, nonostante ciò diversi appaiono i nodi da scogliere per una sua piena messa a regime. Il diritto all’accoglienza dei richiedenti asilo e il dovere giuridico per gli Stati membri dell’Unione europea a “garantire loro un livello di vita dignitoso e condizioni di vita analoghe in tutti gli Stati membri” (par. 7 preambolo) sono stati ripetutamente disattesi negli ultimi anni sia da un punto di vista quantitativo (numero di posti a disposizione spesso abbondantemente inferiore alle reali necessità), sia da un punto di vista qualitativo (scarso rispetto anche solo degli standard minimi previsti dalla legge). 3. I tre casi studio: In Migrazione (Casa Benvenuto), CIAC e GUS L’approfondimento comprende tre casi studio, che sono stati indagati in profondità, tramite analisi dei documenti, interviste in profondità e visite nei centri. I tre casi sono selezionati in quanto rappresentativi di pratiche esemplificative di accoglienza (1), ma anche perché diversi tra loro, in merito alla collocazione territoriale, alla dimensione, al tipo di approccio e di coinvolgimento nell’accoglienza da parte delle tre organizzazioni. Il primo caso è In Migrazione, una Onlus, poi costituitasi come Società Cooperativa Sociale, attiva nella sperimentazione di progetti e metodologie innovative nel settore dell’accoglienza e della formazione. Alla base delle attività di In Migrazione vi è una concezione dell’accoglienza fondata sul principio della relazionalità, “che mette al centro la persona, con i suoi peculiari bisogni, aspettative e sogni” (int. IM). Le visioni e gli approcci elaborati dai membri della cooperativa in precedenti esperienze di accoglienza, trovano applicazione nel Centro di Accoglienza SPRAR di Roma Capitale “Casa Benvenuto”, situato nel quartiere romano di Centocelle. Si tratta di uno SPRAR di dimensioni ridotte (25 ospiti), per cui si è scelto il modello della piccola comunità. Il secondo caso è quello di GUS (Gruppo Umana Solidarietà), una ONG marchigiana attiva dal 1993 nella cooperazione internazionale e nell’accoglienza. GUS gestisce oggi un gran numero di SPRAR, anche al di fuori dei confini regionali, e, soprattutto, ha accettato la sfida di estendere il proprio raggio di azione all’accoglienza straordinaria tramite le Prefetture, con l’obiettivo di colmare il più possibile le distanze tra i due modelli. Le competenze acquisite dalla ONG negli anni Novanta, durante la crisi della Ex-Yugoslavia, la rendono un punto di riferimento a livello territoriale, ma anche a livello nazionale, tanto da essere invitata, nel 1999, a partecipare, insieme ad altre realtà del terzo 262 settore, al tavolo ministeriale convocato per definire un sistema di accoglienza integrata. GUS in questa sede sostiene l’opportunità di costruire un modello di accoglienza diffusa, che attribuisca centralità alle istituzioni locali. GUS opera come ente gestore sin dal primo bando, con tre progetti. Nel 2015 i progetti diventeranno dodici, dislocati in Sardegna e in Puglia, oltre che nelle Marche. Nel complesso, alla data di maggio 2015, GUS accoglie, nell’ambito dei progetti SPRAR, 320 persone, compreso l’ampliamento, cui se ne aggiungono 900, nell’ambito dell’emergenza prefettura. Questi si trovano nelle province di Macerata, Ancona e Ascoli Piceno, nella provincia di Teramo e nella provincia di Latina, cui si aggiunge la gestione di due uffici di frontiera, quello del porto di Ancona e, dal 2015, quello dell’aeroporto di Fiumicino. Il terzo caso è quello di CIAC, Centro Immigrazione Asilo e Cittadinanza, che gestisce progetti SPRAR nella provincia di Parma. In questo caso, l’interesse dell’esperienza deriva dalla capacità di creare un modello territoriale di accoglienza – che può rappresentare un riferimento a livello nazionale – nonché dalla capacità di trasporre teoricamente la propria esperienza nell’elaborazione di un sistema di tutele per le fasce di popolazione poste in condizioni di particolare vulnerabilità. Dal 2000 CIAC è un attore centrale nell’ambito del coordinamento provinciale dell’accoglienza, e nella costruzione di un ecosistema territoriale di accoglienza, fondato sul principio dell’accoglienza diffusa, con piccoli numeri e sulla promozione di effettivi percorsi di autonomia e di integrazione lavorativa e abitativa. Dal 2004 gestisce lo SPRAR Terra d’asilo, che vede come capofila il Comune di Fidenza e coinvolge 26 comuni. A questo, dal 2014, si affianca il progetto Una città per l’asilo, il cui ente capofila è il Comune di Parma, che ha ottenuto il primo posto nella graduatoria dei progetti per il triennio 2014-2016. CIAC ha, inoltre, recentemente sperimentato quello che loro definiscono “l’ultimo livello della filiera” ossia Rifugiati in famiglia. Di seguito, si illustrerà, per ognuno dei tre casi, 1) il modello organizzativo adottato, 2) il profilo dei beneficiari e le dinamiche attivate, 3) il sistema territoriale e i rapporti con le istituzioni. Infine, si trarrà dalle esperienze analizzate possibili modelli di riferimento e si proporrà una valutazione dell’attuale sistema italiano di accoglienza, anche grazie alle valutazioni espresse dagli stessi protagonisti. Il modello organizzativo Per quanto concerne il funzionamento e i modelli organizzativi, va sottolineato che sono state volutamente selezionate tre diverse tipologie di organizzazioni che lavorano in ambito accoglienza: i) un centro di ridotte dimensioni (In Migrazione con lo SPRAR di Casa Benvenuto a Roma) che ha sviluppato un modello centrato sul counseling multiculturale; ii) un soggetto gestore di differenti sistemi 263 accoglienza (GUS di Macerata con progetti SPRAR, CAS e uffici ai valichi di frontiera) ma omogeneo nei servizi e nell’approccio; iii) un soggetto con un forte radicamento nel sistema territoriale (CIAC di Parma con i progetti SPRAR) che fonda il suo modello su una concezione dell’accoglienza come dimensione ordinaria, costitutiva ed integrata del welfare territoriale. Passando ad illustrare il modello di Casa Benvenuto osserviamo come elemento cardine “la relazione” tra operatori e beneficiari dell’accoglienza: “Spesso poi ci si arrabbia pure, si diventa giudicanti. ‘Ah, ma è lui’. Ma è lui che cosa? Forse hai sbagliato tu, se non hai la chiave relazionale prima, siccome parliamo di entrare nella vita delle persone, è impensabile. Cioè, l’erogazione neutra del servizio forse va bene per le rendicontazioni. L’assistenza psicologica non è che la fai dicendo ‘ecco, lì c’è la porta dello psicologo se vuoi vacci’. Le persone vengono da Paesi in cui l’assistenza psicologica non è una categoria conosciuta. O si crea un rapporto empatico con lo psicologo oppure sì, hai chiesto un servizio, il capitolato l’hai seguito ma che effetto ha?” (int. IM). Il progetto nasce nel 2013 accogliendo 12 ospiti arrivati direttamente da Pozzallo, nasce dall’emergenza per poi diventare SPRAR a tutti gli effetti accogliendo 25 persone. Il punto di riferimento del sistema organizzativo è il Presidente di In Migrazione e direttore di Casa Benevento che ha alle spalle più di quindici anni di esperienza nel settore. Le persone che lavorano al Centro accoglienza in tutto sono dieci, con un’esplicita volontà di non ricorrere a volontari, poiché secondo gli intervistati non ci sono ruoli tecnici, ma sono tutti relazionali e quindi da costruire: “al volontario dovresti quindi chiedere tempo, tutti i giorni, ma se vieni una volta a settimana sono più le difficoltà nel mantenere la relazione con gli ospiti che i benefici” (int. IM). Sotto il direttore, ci sono due personal tutor: figure professionali innovative nei contesti di accoglienza. Il personal tutor è la persona che accompagna le persone ospitate nei Centri (circa 10 ogni tutor) nelle diverse fasi dell’accoglienza con una presa in carico a 360 gradi. Nelle diverse fasi di vita nella comunità che in un Centro d’accoglienza si crea, il personal tutor segue la persona accolta in ogni momento, ridefinendo con lui costantemente il progetto personale d’inclusione sociale. Un’attività strategica che parte dall’arrivo al Centro fino all’uscita, e talvolta anche dopo con interventi mirati di follow up. Il personal tutor vuole essere una figura di riferimento per i beneficiari, in grado di dare risposte concrete e sostegno, informazioni e orientamento, e in grado di facilitare un tipo di residenza attiva e motivata e – nelle fasi successive – di promuovere un graduale e realistico inserimento lavorativo, sociale ed abitativo. Nello specifico il lavoro quotidiano verte intorno ai colloqui individuali finalizzati a incrementare la motivazione, la proattività e l’alleanza operativa, ingredienti base per immaginare 264 qualsiasi relazione d’aiuto basata sul rispetto reciproco, sul coinvolgimento emotivo e sull’assunzione di responsabilità: l’obiettivo principale di tale lavoro è facilitare il percorso verso una reale autonomia delle persone a partire da un percorso progettuale co-costruito e sulla base di un contratto operativorelazionale che impegna entrambi, operatore e richiedente asilo o titolare di protezione. Oltre alle competenze relazionali i tutor hanno competenze di tipo multiculturale. La metodologia e l’approccio sopra descritto trovano applicazione nei colloqui individuali settimanali, in quelli di gruppo, chiamati “gruppi stanza” a cadenza mensile e nei laboratori. Nel Centro lavora anche un operatore legale che segue la preparazione per la Commissione territoriale, i rinnovi dei documenti, permessi di soggiorno e così via. Ci sono poi due mediatori culturali, una mediatrice sociale che accompagna gli ospiti per la residenza, gli aspetti sanitari etc. e due operatori che si occupano principalmente del tempo libero, delle relazioni informali e di socializzazione, come ad esempio l’attività del campeggio. Dal punto di vista organizzativo la catena di comando vede al centro il direttore e poi i tutor, che si coordinano con il resto degli operatori. “Se l’ospite vede due persone che dicono cose diverse ne esce disorientato, per questo deve avere un riferimento forte, tutti hanno un rapporto informale ma non tutti hanno un ruolo progettuale” (int. IM). Particolarmente significativa è anche la scuola di L2, strutturata secondo un percorso laboratoriale di ricerca con gli studenti che partendo dall’esplorazione del territorio correlato al vissuto quotidiano allarghi progressivamente il proprio spettro di osservazione fino a estendersi alla cultura italiana e alla sua storia. L’approccio è teso a costruire una relazione educativa incentrata sull’apertura all’altro, orientata alla condivisione delle criticità e al superamento dei conflitti. Per questo i due insegnanti della scuola si avvalgono delle diverse professionalità coinvolte nel progetto, attraverso un confronto quotidiano e una rete di scambio, l’esperienza formativa si fa così interdisciplinare, interculturale e orientata al conseguimento dell’autonomia. Non è sottovalutata l’acquisizione di tutti i contenuti grammaticali. Ma un percorso di questo tipo, per essere realmente efficace non può prescindere dal creare e stimolare quotidianamente la motivazione degli studenti: “qui non esistono attività obbligatorie, perché è una logica che non produce, se vai a scuola perché costretto non serve a nulla, serve allora la capacità di agganciarti e stimolarti perché tu frequenti la scuola perché è una attività piacevole, e per esempio si usa l’italiano per raccontare la propria storia, non per andare alle poste” (int. IM). Il GUS gestisce sette CAS, dodici progetti SPRAR (di cui due per minori non accompagnati) e due valichi di frontiera uno nel porto di Ancona e l’altro nell’aeroporto di Fiumicino. Elemento caratterizzante del modello GUS è 265 trasmettere un approccio omogeneo all’accoglienza sia che siano SPRAR sia CAS, evitando la frammentazione e la disomogeneità dei servizi erogati: “saremmo presuntuosi se dicessi che ci riusciamo, ma c’è una attenzione continua da parte nostra, verso tutti gli operatori, attraverso la formazione continua facciamo in modo che prenda forma un modello GUS che non faccia pagare agli ospiti la fortuna di essere capitati nel sistema SPRAR o la sfortuna di essere inseriti in un percorso emergenziale” (int. GUS). Il modello nasce nell’ambito del progetti SPRAR, per rispondere all’esigenza di creare un network di lavoro a livello territoriale. L’ampliamento delle strutture è sempre avvenuto grazie alla costruzione di reti e non è collegato a singole progettualità di finanziamento. Ad oggi, lavorano nell’accoglienza del GUS 180 persone coordinate a livello centrale da un gruppo composto da quattro persone che garantiscono un approccio a 360 gradi sia sul piano organizzativo che amministrativo. Lo staff si è dotato di un modello operativo che garantisce standard qualitativi di interventi in perfetta sintonia con gli standard SPRAR, ma che tiene conto delle specificità dei territori e di quelle che sono le peculiarità del modello GUS. Innanzitutto, il modello è sviluppato attraverso attività trasversali che vanno dall’amministrazione alla supervisione dei gruppi staff di progetto, dal monitoraggio tecnico-qualitativo (strutturato nel corso del tempo con un staff specifico) alla consulenza psicosociale e alla formazione degli operatori. GUS non segue un approccio gerarchico, fondato su protocolli calati verticalmente sul progetto, ma alla base di tutto c’è sempre una concertazione, che mette al centro la persona, il beneficiario. Ciò significa avere un modello di riferimento, ma flessibile ed elastico. Un secondo aspetto concerne, come per le altre due pratiche esaminate, l’investimento in termini di professionalizzazione degli operatori coinvolti e la chiara decisone di non ricorrere a volontari: “io il volontariato lo faccio nei miei tempi e nei miei spazi ma per occuparsi degli altri in maniera seria ci vuole professionalizzazione” (int. GUS). Agli operatori viene costantemente offerta una formazione che ha tra i sui temi principali gli aspetti legali e giuridici dell’accoglienza, i cambiamenti procedurali ma anche l’etnopsichiatria e il team building. L’attività di sensibilizzazione e diffusione di conoscenza rappresenta il terzo aspetto qualificante. Nei territori il GUS ha attivato laboratori nelle scuole primarie e secondarie di primo e secondo grado. Con i più piccoli si lavora con le arti grafiche sul tema del viaggio, mentre con gli studenti delle secondarie si lavora sul concetto di accoglienza e sul diritto alla mobilità. Passando alla descrizione operativa delle strutture rileviamo per i progetti SPRAR un modello di accoglienza diffusa in appartamenti da un minimo di 4 ad un massimo di 6 persone. Le abitazioni vengono scelte tramite agenzie specializzate 266 con il criterio base di evitare luoghi periferici e marginali. Gli staff prevedono la presenza di un coordinatore di progetto, di un assistente sociale e di operatori che variano in base ai numeri del progetto e quindi alle risorse, che seguono la gestione dei beni di prima necessità, l’accompagnamento sanitario, le attività di integrazione (bilanci di competenze, corsi di formazione, inserimento lavorativo etc.), gli aspetti legali e delle questioni legate alla concessione del codice fiscale, all’iscrizione anagrafica, alla residenza. Questi gruppi di lavoro vengono coordinati dallo staff di coordinamento e supportati dallo psicoterapeuta che effettua una supervisione una volta al mese. I due psicoterapeuti seguono sia lo staff sia gli ospiti che ne necessitano. L’accoglienza in emergenza si è strutturata diversamente nei diversi territori, da una parte si è iniziato subito con l’accoglienza in appartamenti, con un modello simile a quello SPRAR, soprattutto dal punto di vista della collocazione in appartamento e del supporto psicologico che era disponibile sui territori coinvolti. Ad oggi, “a causa della frenetica velocità nei passaggi tra lo sbarco e l’arrivo a destinazione abbiamo organizzato il nostro modello in due fasi: un hub di arrivo dove viene fornita una prima accoglienza e che funge da ‘cuscinetto’ tra lo sbarco e un tempo per ambientarsi; segue poi il passaggio in appartamento” (int. GUS). Per quanto riguarda l’ufficio di frontiera al porto di Ancona, gli operatori sono esperti di materie legali e utilizzano – quando necessario – i mediatori linguisticoculturali. Il problema principale che gli operatori devono affrontare è che le navi che operano ad Ancona ripartono nel giro di qualche ora, non c’è un hub, una struttura in cui le persone possono scendere ed essere sentite. L’interazione avviene all’interno della nave stessa in condizioni precarie e con poco tempo a disposizione. Il ministero, d’altra parte, nel corso degli anni ha investito sempre meno in questo tipo di servizio: rispetto al 2014 la base di partenza della base di appalto si è dimezzata. GUS ha garantito comunque una presenza degli operatori nella fasce d’orario in cui arrivano le navi, diversamente da quanto previsto nell’orario ufficiale da convenzione poiché la presenza degli operatori risulterebbe completamente sfalsata rispetto agli orari di arrivo delle navi. L’ufficio di frontiera è posto al di fuori del porto, in un’area pubblica, e di fatto è fruito da persone che vengono da fuori, da persone che sono arrivate per altre vie sul territorio e in qualche caso hanno fatto richiesta di asilo. A Fiumicino, invece, è il primo anno di lavoro per GUS. Nei locali situati all’interno dell’aeroporto, tre operatori offrono consulenza legale, informazioni oltre che generi di conforto (pasti, ma anche biglietti del treno, o quando possibile accompagnamento nelle strutture) alle persone che vi accedono. L’attività è in progress, la situazione logistica è difficile, anche sul piano della prima accoglienza: “c’erano solo due panchine. Le pratiche sono estremamente lunghe e lente, quindi le persone vi 267 stazionano anche per giorni, proprio accampati, per cui c’è bisogno di coperte, ecc. Abbiamo cercato di contenere un disagio che c’è. Ci sono 35-40 persone al giorno, per cui è un lavoro molto complesso e impegnativo” (int. GUS). Il modello di accoglienza sviluppato nella provincia di Parma, costruito in anni di confronto e di collaborazione tra soggetti pubblici e del terzo settore, pone al centro il territorio. Elemento chiave che trova sintesi nel nome del progetto SPRAR Terra d’asilo, in seguito ripreso anche dalla Regione Emilia-Romagna. La centralità della dimensione territoriale si accompagna all’enfasi posta sulla creazione di una rete tra gli attori che vi operano. CIAC Onlus ha sin dall’inizio svolto – e continua a svolgere – un ruolo preminente nella gestione dell’accoglienza, nonché nell’implementazione di una serie di servizi sul territorio, che compongono il più ampio sistema territoriale di accoglienza. La visioni che vi sottostà è efficacemente sintetizzata da un responsabile di CIAC: “la capacità di tutela e di far valere i diritti emerge dalla rete che li esprime” (int. CIAC). Il modello di accoglienza sperimentato a Parma trova, infatti, i propri cardini in una serie di servizi territoriali, a partire dal “punto provinciale asilo”, che realizza attività di informazione, orientamento, consulenza e supporto in favore di richiedenti asilo, titolari di protezione umanitaria e sussidiaria e rifugiati, con particolare attenzione alle persone che vivono sul territorio, in una condizione di marginalità e di vulnerabilità, ed hanno difficoltà ad avvedere ai servizi e non sono prese in carico da progetti di accoglienza. Il Punto provinciale asilo si affianca e si integra alla rete degli sportelli comunali, gestiti, come il precedente, da CIAC Onlus, che cura anche le attività di consulenza e si supporto rivolte agli amministratori locali. Gli sportelli rivolti agli stranieri, in collaborazione, inizialmente, con sette comuni, vengono aperti nel 2001, contestualmente all’avvio delle attività di formazione e di consulenza giuridica tra i dipendenti comunali, nell’ambito del progetto Immigrazione, asilo e cittadinanza. Gli sportelli, forti del loro radicamento e della loro capillarità, svolgono la funzione di “antenne storiche”, trovando completamento con il più specifico sportello Asilo. A questi due servizi, si aggiungono la figura del promotore della salute, e dell’innovativo servizio di segretariato sociale “culture-oriented”. I promotori della salute sono operatori che implementano attività informative di promozione dell’accesso ai servizi nei luoghi informali, in materie che spaziano dalla sicurezza sul lavoro al percorso nascita. Il segretariato sociale agisce attivando, al momento dell’accesso, dei percorsi integrati, tra i rifugiati e più in generale tra la popolazione straniera posti “all’intersezione tra una dimensione giuridica, sanitaria e sociale e relazionale” (int. CIAC), rispetto a soggetti che, di norma, non dispongono di un pieno accesso ai diritti. Sul piano del contributo ai percorsi 268 di accoglienza e di integrazione, il segretariato sociale si rivela uno strumento prezioso, in quanto svolge, sul territorio, una vera e propria funzione di “emersione”, ossia, permette l’individuazione delle vulnerabilità invisibili, o latenti, che non avrebbero trovato, in altra forma, modo di esprimersi. Il segretariato, infatti, consente agli operatori di entrare in contatto con persone che, altrimenti, risultano sconosciute ai servizi sociali territoriali o alle organizzazioni del terzo settore. Nella visione degli operatori di CIAC, lo “SPRAR è la parte centrale di un percorso di filiera”, di cui servizi sopramenzionati rappresentano “il primo raggio dei punti di presidio” (int. CIAC) sul territorio, posto a monte dell’accoglienza SPRAR. Specularmente, seconda accoglienza e social housing si pongono a valle del percorso SPRAR. Un effetto evidente di questo tipo di integrazione è che, se di norma gli SPRAR ospitano persone, perlopiù provenienti dagli sbarchi, e smistate nei diversi territori, nella provincia di Parma una quota molto rilevanti delle persone inserite negli SPRAR proviene dal territorio, e viene intercettato attraverso gli sportelli e i servizi territoriali. Sempre nell’ottica del perseguimento di una effettiva e piena integrazione nel territorio, è recentemente iniziata la sperimentazione dell’accoglienza famigliare, denominata Rifugiati in famiglia, che rappresenta l’ultimo livello della “filiera”. Le persone in uscita da un percorsi SPRAR, e che hanno ottenuto lo status di rifugiato (o di protezione sussidiaria o umanitaria), sono accolte da nuclei familiari (anche single), che ricevono 300 euro al mese, ma la cui candidatura, più che su fattori economici, si fonda su motivi solidaristici, sull’adesione a un modello culturale che trova ampia condivisione nel territorio: “oggi l’associazione, la famiglia e il beneficiario firmano il contratto, non nell’ottica di ‘ti adotto’, ma ‘ti favorisco l’uscita’. Noi chiediamo un percorso verso l’integrazione: lingua, reti sociali e informali, ricerca casa e lavoro; non ci interessa la ‘vecchietta’ che gli fa guardare tutto il giorno la tv” (int. CIAC). Dal punto di vista operativo vengono raccolte le disponibilità da parte delle famiglie attraverso le associazioni, poi una psicologa effettua colloqui con le potenziali famiglie e successivamente se le motivazioni e i presupposti sono idonei si procede con l’affido che ha una durata massima di 9 mesi. In generale, il modello elaborato a Parma rifiuta un atteggiamento assistenziale e caritatevole, e si basa sui presupposti che percorsi effettivi ed efficaci di integrazioni si possono sviluppare solo se si considerano i rifugiati e i richiedenti asilo persone titolari di diritti. Il pieno rispetto dei diritti si pone a fondamento di un’integrazione nel territorio al cui compimento la persona stessa ha acquisito le competenze e le risorse per contribuire alla società, in un’ottica di reciprocità. Per questo motivo alla base del modello seguito a Parma non vi è l’idea che i rifugiati/richiedenti asilo debbano lavorare per restituire ciò che viene dato loro 269 dalla comunità, dal momento che ciò che ricevono è frutto del rispetto dei loro diritti. “Ci si salva insieme o si affonda insieme con la crisi. I lavori socialmente utili non servono a nulla, se non a far vedere che ‘fanno qualcosa’, ma a queste persone non arrivano né i servizi, né i beni primari” (int. CIAC). Il profilo dei beneficiari Nell’analisi del profilo delle persone accolte nei tre casi studio dobbiamo considerare la natura mista dei flussi. Spesso scontiamo di una confusione terminologica dettata da una parte dal non allineamento tra politiche di ingresso e normative (procedure) e dall’altro dalle caratteristiche stesse di questi flussi. Quando si parla di rifugiati e richiedenti asilo si mettono insieme due categorie di persone che nella letteratura scientifica e nella pratica giuridico-amministrativa nazionale e internazionale sono ben distinte. I primi essendo persone che fuggono da guerre e persecuzioni di ogni tipo, che una volta riconosciuta la loro condizione, hanno diritto a protezione; mentre i secondi sono persone che si spostano attraverso le frontiere in cerca di protezione, ma che non sempre rientrano nei criteri della Convenzione di Ginevra. L’instabilità internazionale e le accresciute possibilità di mobilità geografica sono tra le cause dell’aumento degli spostamenti di persone in cerca di asilo. Accanto a ciò va ricordato che le diminuite opportunità di immigrazione per lavoro hanno provocato indirettamente un maggior ricorso alla strada del rifugiato politico o umanitario come porta d’ingresso nei paesi a sviluppo avanzato (Ambrosini, 2005). I tre casi studio analizzati ci mostrano che i richiedenti asilo arrivano non solo via mare con le imbarcazioni fatiscenti, ma anche dalle grandi navi, dagli aerei e dal territorio italiano. Senza entrare nello specifico delle caratteristiche socioanagrafiche dei beneficiari accolti nei nostri tre casi, che ripropongono su scala locale quanto emerso a livello nazionale, delineiamo in questo paragrafo alcuni tratti caratteristici dell’utenza coinvolta. Una popolazione “sospesa” che, a causa delle lunghe procedure di esame delle domande, dei ricorsi e della temporaneità della condizione, è stata efficacemente definita da Ambrosini (2005) dallo status precario, incerto e reversibile. Iniziamo dall’ufficio di frontiera di Fiumicino che GUS gestisce da inizio anno. In questo caso si tratta per lo più di richiedenti e titolari di protezione rinviati in Italia in applicazione del Regolamento Dublino, corrispondenti a quasi 2/3 degli arrivi complessivi presso l’aeroporto (Leo, 2014). I richiedenti asilo rimangono in attesa dell’espletamento delle pratiche per un periodo che varia a seconda della situazione legale di ognuno. È necessario distinguere tra due categorie di richiedenti asilo riportate nel rapporto ASGI (Leo, 2014) i “non attivanti” e gli “attivanti”. Le due situazioni al momento dell’arrivo in aeroporto sono, infatti, 270 profondamente diverse. I richiedenti asilo che devono riattivare la procedura in altre parti del territorio nazionale (c.d. “non attivanti”) rimangono presso l’aeroporto di Fiumicino per il tempo strettamente necessario alla notifica agli stessi degli eventuali provvedimenti loro spettanti. Da quanto emerso, la permanenza di queste persone presso l’aeroporto è di circa 6-7 ore. Viceversa, i richiedenti asilo che devono formalizzare la propria domanda di protezione (c.d. “attivanti) vengono trattenuti presso l’aeroporto di Roma Fiumicino fino all’effettiva formalizzazione della richiesta e all’eventuale reperimento di un Centro di accoglienza disponibile. Dalle interviste raccolte nella ricerca ASGI tali richiedenti rimarrebbero presso l’aeroporto in media per 2-3 giorni, ma sono stati registrati, casi di persone rimaste presso l’aeroporto per più giorni. Ci sono poi in arrivo presso l’aeroporto di Fiumicino i titolari di protezione internazionale o umanitaria che vi permangono al massimo per 1-2 giorni. Sulla base delle valutazioni di tipo quantitativo effettuate a partire dalla ricerca ASGI si rileva che nell’arco di tempo di un anno (settembre 2013-settembre2014) sono transitate per l’aeroporto di Roma Fiumicino tra le 3200 e le 3800 persone. Tra queste persone è possibile stimare che almeno 2000 siano richiedenti e titolari di protezione rinviati in Italia in applicazione del Regolamento Dublino (Leo, 2014). Fiumicino è un ambito di osservazione privilegiato su Dublino, mentre l’ufficio di frontiera al porto di Ancona presenta una situazione molto diversa. In questo caso il 99% delle persone che arrivano provengono dalla Grecia e attualmente gli operatori del GUS rilevano un’altissima percentuale di potenziali richiedenti protezione, che preferiscono tornare in Grecia che dare le proprie generalità in Italia. Arrivano dalla Grecia o con documenti falsi o nascosti nei Tir e qualora vengono intercettate l’operatore di turno offre delucidazioni e risposte alla domanda sulla protezione internazionale, ma nell’ultimo anno si assiste alla decisione di non formalizzare la richiesta e tornare indietro. Di fatti le richieste di asilo di persone che provengono dal porto di Ancona sono molto basse. Per quanto riguarda le presenze negli SPRAR e nei CAS rileviamo, così come a livello nazionale, la presenza sia di titolari di protezione che di richiedenti asilo. Si passa da strutture quasi mono nazionali come nel caso de Centro di accoglienza Casa Benvenuto – che ospita per lo più pakistani – a soggetti (GUS) con tanti beneficiari di nazionalità diverse fino a progetti dedicati a soggetti vulnerabili (ad esempio il disagio mentale nello SPRAR di CIAC). Quel che emerge da tutti gli intervistati è un approccio comune alla “mixitè” in quanto implica un minor livello di complessità: “non favoriamo le stesse nazionalità, anzi, favoriamo il rimescolamento, anche se in alcuni casi le scelte sono obbligate. [...] Sono comunque più abituati alla differenza di noi, è più un nostro retaggio quello della diversità, per loro il rispetto è può scontato di questo possiamo pensare, poi è chiaro che ci posso essere persone con comportamenti critici per esempio l’uso di 271 droghe, ma l’appartenenza a diverse etnie non ha mai creato problemi nella gestione degli appartamenti” (int. GUS) Se, di norma, gli SPRAR e i CAS ospitano persone, perlopiù provenienti dagli sbarchi e distribuite nei diversi territori, nella provincia di Parma una quota molto rilevante delle persone inserite negli SPRAR proviene dal territorio e vengono intercettate attraverso gli sportelli e i servizi territoriali. Ad oggi circa la metà degli ingressi SPRAR in provincia di Parma riguardano richiedenti asilo provenienti dal territorio e non persone giunte via mare. In questo modo, si riduce l’iniquità del modello nazionale, che tende, seguendo un’impostazione emergenziale, a essere scarsamente selettiva rispetto ai potenziali richiedenti asilo provenienti dagli sbarchi e direttamente indirizzati in percorsi di accoglienza, e coloro che invece sono già presenti sul territorio: “gli arrivi sono numerati. I numeri degli sbarchi erano uno successivo all’altro. Uno è arrivato in pullman, l’altro dopo qualche giorno con le sue gambe, uno era dentro il CAS e uno fuori. Fino al numero mille del pullman sono stati accolti, il numero 1001 no, ed erano dello stesso sbarco perché lo sappiamo tramite gli sportelli. Noi abbiamo vicino Malpensa e Trieste, la frontiera nord; molti afgani, molti che seguono la rotta balcanica o che passano dall’Ungheria, arrivano poi sul territorio” (Int. CIAC). Concludiamo questa panoramica con l’esperienza pilota dei primi rifugiati in famiglia. Il primo ragazzo inserito in provincia di Parma – proprio al momento della visita sul campo dei ricercatori – è un rifugiato politico curdo, il secondo è un ragazzo somalo insegnante di matematica, seguiranno due ragazze fino ad arrivare nel giro di due anni all’ingresso in famiglia di 20 persone. Non c’è dubbio che tale presenza costituisca un fattore di mutamento sociale che pone sfide nuove alle forme della convivenza interculturale, e sollecita a ricercare modalità di accoglienza e di integrazione in grado di garantire pari opportunità, ridurre i rischi di discriminazione ed esclusione sociale. In questo senso la pratica di rifugiati in famiglia può rappresentare una sfida da cogliere purché accompagnata, sostenuta, preparata sia nella fase pre ingresso in famiglia sia in quella post inserimento. Il sistema territoriale di accoglienza Sul piano del radicamento in un sistema territoriale di accoglienza, i tre casi oggetto della ricerca sono assai diversi tra loro. Il primo, Casa Benvenuto, è una piccola esperienza, collocata in una città, Roma, in cui sono presenti numerose strutture, alcune delle quali molto grandi. Ma soprattutto, Roma è la città in cui sono emerse le pratiche illegali che hanno visto protagoniste alcune grandi cooperative attive nel settore dell’accoglienza, al punto di alimentare la diffidenza nei confronti del cosiddetto “business dell’accoglienza”. In questo contesto, Casa Benvenuto spicca più per il carattere di alterità che per la sua rappresentatività. 272 GUS e CIAC sono, al contrario, organizzazioni che si pongono al centro di un sistema territoriale (o più sistemi come nel caso del GUS) in cui, per la loro esperienze e per la loro autorevolezza, assumono il ruolo di punti di riferimento. L’esperienza di Casa Benvenuto offre, non di meno, indicazioni in vista della costruzione di un modello integrato di accoglienza, che promuova “un percorso armonico che sappia coniugare le specifiche esigenze implicite nelle varie fasi d’inclusione della persona accolta con un filo conduttore metodologico, progettuale e relazionale unitario. Un progetto che intende perseguire l’obiettivo di una qualità reale che non si limita alla quantità dei servizi erogati e ai profili professionali impiegati nello staff, ma soprattutto alla trasversalità dei servizi offerti (accompagnando alla reale e corretta, al considerare le attività non come singoli frammenti di un percorso, ma come armoniosa parte di un tutto, che si pone specifici obiettivi progressivi, da rimettere in discussione ed aggiornare costantemente partendo dalla specificità di ogni persona accolta, che diventa fulcro e anima del progetto e non semplice” destinatario finale” degli interventi” (Andreotti, 2015). La filosofia adottata dai responsabili di Casa Benvenuto si riflette nel rapporto della struttura e dei suoi beneficiari con il territorio. Se l’esperienza nel Centro deve rappresentare una tappa, all’interno di un percorso individuale più ampio, il Centro stesso viene concepito come un laboratorio di inclusione, da cui partire per (ri)costruire reti di socialità e relazioni, in una ottica sempre più ampia, fino al punto di offrire le necessarie risorse per affrontare un percorso di inserimento nuovo nella società di accoglienza. “Il Centro è un laboratorio di inclusione, lavoriamo dentro il centro, poi nel quartiere, poi a livello di città perché il sistema sociale è troppo complesso, e allora il centro può diventare un laboratorio” (int. IM). Il Centro è un luogo protetto, una piccola comunità, in cui sviluppare risorse e relazioni che possano “poi accompagnare gli ospiti nella relazione e nell’inclusione con la comunità ben più complessa (nei suoi lati positivi e negativi) con cui progressivamente si entra a contatto all’esterno (quartiere, città, nazione)” (Andreotti, 2015). Casa Benvenuto ha la porta sempre aperta, e gli ospiti possono entrare ed uscire a qualsiasi ora. Come sottolinea il responsabile, “un Centro sempre aperto è rassicurante un Centro chiuso meno” e “se è aperto e vedi un clima sereno favorisci la conoscenza” (int. IM). A favorire la percezione della struttura non come un elemento estraneo al territorio, ma come un elemento costitutivo dello stesso, vi è un continuo interscambio con l’esterno, favorito dall’accesso di persone che non sono ospiti dello SPRAR ma che accedono ad altri servizi, come lo sportello per gli immigrati, o frequentano i corsi di italiano insieme agli ospiti della struttura. Il quartiere diventa così, dopo il Centro, una tappa della progressiva scoperta del territorio, per arrivare a vivere positivamente la complessità di una metropoli come Roma. 273 GUS, al contrario di In Migrazione, è una organizzazione molto grande, che ha le radici in una regione i cui numeri, in materia di accoglienza, sono ridotti, rispetto a quelli del Lazio. L’ONG rappresenta un solido punto di riferimento per le istituzioni, che ne riconoscono l’esperienza, la competenza e la solida capacità organizzativa. La conoscenza e il radicamento nel territorio, per GUS, rappresentano un necessario presupposto per attivare percorsi virtuosi, tanto che l’espansione in territori diversi dalle Marche è avvenuta a seguito della costruzione di reti, e non come mera risposta a un bando. Sia nell’organizzazione interna, sia al momento di relazionarsi con le Prefetture e gli altri attori del territorio, l’obiettivo che si pone GUS è “di trasmettere un approccio omogeneo comune all’accoglienza, al di là del singolo tipo di percorso in cui sono inseriti” (int. GUS). Trattandosi di un’organizzazione che gestisce una parte rilevante dei progetti attivi nel territorio, e che è impegnata in rapporti constanti di interlocuzione con le istituzioni territoriali, questo tipo di strategia finisce per condizionare e connotare positivamente l’interno territorio in cui trova attuazione, che viene così a definirsi come un vero e proprio modello, a livello nazionale. Alla base di questo modello vi sono alcuni elementi chiave: l’affermazione della logica dell’accoglienza diffusa in piccole strutture (appartamenti), al fine di favorire i percorsi di autonomizzazione dei beneficiari e di favorire al massimo i percorsi di integrazione nel territorio; il principio dell’integrazione tra prima e seconda, e quindi terza accoglienza; il perseguimento della massima riduzione della disparità tra accoglienza SPRAR e CAS. Interfacciarsi con una pluralità di attori istituzionali, in territori diversi, permette a GUS di acquisire consapevolezza in merito alla disomogeneità di approcci ancora oggi esistente. Il rapporto di collaborazione istituzionalizzata dallo SPRAR, tuttavia, a differenza dei CAS, permette di avviare processo trasformativi di lungo periodo, in cui GUS svolge un ruolo non solo di supporto, ma di formazione e talvolta di supplenza, rispetto alle istituzioni stesse, attivando dinamiche virtuose. Come sintetizza un responsabile, “possiamo dire che lo SPRAR è rivolto ai beneficiari, alla cittadinanza, ma anche agli amministratori, all’ente locale, perché se lavori in tema di accesso ai servizi, per esempio, la normativa è estremamente complessa, e diciamo che tutto sommato ci sono delle buone collaborazioni”. “Il modello SPRAR pur nei suoi limiti è strutturato secondo una logica ad obiettivo, prevede forme di valutazione dei risultati e ha un’interfaccia: sai che ti puoi rivolgerti a Servizio centrale per qualsiasi problema, mentre quando i referenti sono le prefetture sai che alcuni sono formati e hanno alcune sensibilità, altri no” (int. GUS). In sintesi, l’azione svolta da GUS presenta più di un elemento di interesse. Da una parte, data la duplice attivazione nel sistema SPRAR e nell’emergenza prefetture, 274 permette di vivere nella propria esperienza quotidiana i limiti di questo secondo modello. Dall’altra, indica un possibile modello di gestione integrata dell’emergenza e dell’accoglienza, ponendosi al centro di un modello territoriale in cui l’organizzazione del terzo settore agisce da surroga alle lacune, alle inefficienze e alle inadeguatezze delle istituzioni, diventando, di fatto, l’attore centrale e un chiaro punto di riferimento per tutti i soggetti, istituzionali e non istituzionali, coinvolti. All’attività di stimolo, di sensibilizzazione e di supporto svolta nei confronti delle istituzioni, si affianca un’opera di sensibilizzazione rivolta ai cittadini, rispetto ai quali si cerca di decostruire i principali luoghi comuni in materia di rifugiati, a partire dalle attività realizzate in collaborazione con le scuole. Giovannetti e Olivieri scrivono, in un Quaderno dello SPRAR, che “l’esperienza SPRAR, a distanza di alcuni anni dalla sua nascita, evidenzia la non sostenibilità di pratiche progettate e gestite a livello nazionale, se queste non trovano una loro declinazione sui territori, ovvero se le progettualità e gli interventi implementati, pur rispondendo a input e a standard condivisi, non si adattano alle specificità del contesto. La valutazione dei progetti realizzati evidenzia, in particolare, che i percorsi di integrazione hanno successo se non avvengono in forma isolata rispetto ai servizi territoriali di welfare, ma se trovano una piena integrazione con questi. Il necessario cambio di prospettiva, capace di fare compiere un passo avanti ai percorsi di accoglienza, si ha dal momento che questa viene concepita e praticata come una parte integrante delle politiche di welfare e non come un elemento altro e parallelo” (Giovannetti e Olivieri, 2012). Il punto di approdo ideale, di un approccio ai rifugiati e ai richiedenti asilo che li consideri una componente della popolazione con problematiche e bisogni specifici, e non una presenza contingente e più o meno indesiderata, è l’affermazione di una nuova concezione, in cui l’accoglienza costituisca un elemento costitutivo e integrato del sistema territoriale di welfare, e non una parentesi emergenziale. Assumendo questa prospettiva, il caso della Provincia di Parma assume sicuramente il ruolo di un’esperienza di riferimento, di una pratica di eccellenza da prendere come modello e da esportare in altri territori. Il modello si fonda su una concezione dell’accoglienza come dimensione ordinaria, costitutiva ed integrata del welfare territoriale. Alla base della costruzione di tale percorso condiviso vi è l’incontro tra un attore pubblico, caratterizzato da una spiccata sensibilità nei confronti del tema – la Provincia di Parma – e un attore del terzo settore che vanta competenze, di ordine “pratico” e teorico in tema di accoglienza: CIAC Onlus. In sintesi, tra gli elementi di forza del modello del modello parmigiano, che ha trovato una positiva applicazione anche a livello regionale, vi è l’incontro virtuoso tra l’azione di un ente territoriale, la provincia, e un soggetto del terzo settore, 275 CIAC Onlus, che sono riuscite a “fare sistema”, coinvolgendo anche gli altri attori del territorio, a partire dai Comuni e dalle ASL. CIAC, nelle parole dei suoi responsabili, “intende attrezzare il territorio, senza però vedersi come soggetto autosufficiente, ma avere un’ottica in chiave evolutiva, non ‘fare il favore al comune’, ma coinvolgere, si propone una logica non di sostituzione ma di sussidiarietà” (int. CIAC). I soggetti coinvolti nell’elaborazione e nel consolidamento del modello di accoglienza integrata sviluppato a Parma, concordano che questo possa rappresentare un punto di riferimento a livello nazionale. “Abbiamo voluto immaginare questo sistema di asilo non come quello di Parma, ma di tutta Italia, dove a fronte di bisogni specifici, se te vai al pronto soccorso e ti rompi una gamba non ti mandano via perché hanno solo dieci gessi e tu sei l’undicesimo; magari aspetti il giorno dopo ma il gesso te lo danno. In senso ampio tutti i territori, a livello provinciale, dovrebbero avere questa filiera. È rivoluzionario in quanto va a scardinare la logica degli sbarchi e dello stesso SPRAR. Per noi la logica è: emersione precoce, continuità dei percorsi, territorialità. Quelle persone che sono accolte in pronta accoglienza non si accorgono nemmeno del giorno in cui “diventano” SPRAR, continuano a essere accolte nelle stesse condizioni” (int. CIAC). Anche CIAC, come GUS, si prefigge l’obiettivo di ridurre al massimo le differenze di trattamento tra i beneficiari SPRAR e gli ospiti di CAS. Si lamenta, però, che i recenti sviluppi nazionali delle pratiche di accoglienza non solo non vanno in direzione di un recepimento del modello sperimentato nella provincia di Parma. Al contrario, privilegiando un approccio emergenziale e, in alcuni casi incentivando attivamente l’utilizzo delle grandi strutture (approccio securitario e preferenza per le grandi strutture, in nome del controllo, vanno di pari passo), si avverte il rischio di compromettere anche i risultati a cui si è approdati attraverso un percorso di anni di confronto, di dialogo, di sensibilizzazione, di creazione di prassi condivise, creando un ambiente culturale e organizzativo sfavorevole all’accoglienza e che, al contrario, favorisce lo sviluppo di atteggiamento di chiusura. “Relazione, welfare territoriale e omogeneità nei sistemi di accoglienza”: le parole chiave per una valutazione del sistema italiano I tre casi analizzati si discostano, in positivo, dalle prassi diffuse in Italia, offrendo elementi per formulare possibili strategie di riforma e fornendo, al tempo stesso, preziosi punti di vista, rispetto alle lacune, alle criticità, ma anche alle potenzialità presenti nel modello attuale. La complessità del fenomeno e l’attenzione mediatica hanno generato uno “schiacciamento” delle politiche e delle pratiche che ne conseguono, sulla gestione emergenziale di un fenomeno intenso che vuol 276 esser e deve esser gestito in modo ordinario e coordinato con il sistema territoriale. Come sottolinea il responsabile di Casa Benvenuto, “noi le cose le facciamo e le comunichiamo per dare un contributo al sistema. Il sistema italiano di accoglienza ha un problema perché esistono tre sistemi diversi che sono diversi non solo per servizi erogati. Il CARA è figlio di un approccio vecchio e superato dai tempi e che convive con lo SPRAR. Il secondo pone al centro la dimensione dell’integrazione e dell’inclusione, mentre nell’altro prevale ancora una visione emergenziale e securitaria, e lo vedi da come, nel capitolato, prevale l’enfasi su aspetti organizzativi mentre la dimensione formativa, per esempio, è affronta in poche righe. Ci fosse un regia che crea una differenziazione dei centri, e che promuove una velocizzazione dei tempi della commissioni, in modo da favorire il passaggio rapido dei beneficiari dal CARA allo SPRAR, potrebbe anche andare bene, il problema è che i due modelli procedono in parallelo, ovvero si rivolgono alle stesse persone. Vorrei che i nuovi capitolati fossero costruiti alla base di una analisi delle esigenze, dei bisogni e degli obiettivi, e non con un copia e incolla rispetto a quelli precedenti. Oggi hai l’ampliamento SPRAR, i CAS e i CARA che svolgono la stessa funzione di prima accoglienza, così non crei una messa a sistema e ingolfi il sistema piuttosto che liberare posti, e il risultato è che sprechi soldi” (int. IM). Capitolati inadeguati e anacronistici e lacune nel sistema di controllo costituiscono i problemi principali da affrontare. “Ci sono CARA molto mal gestiti che sono affidati con bando, ma non è quello il problema, il problema, la vera partita si gioca sul come prepari e organizzi l’accoglienza” (int. IM). La critica verte sull’impostazione emergenziale ancora prevalente, più che sulla tendenza a privilegiare le grandi strutture, che continua a caratterizzare le soluzioni elaborate. A differenza di altre realtà che rappresentano delle best practice in materia di accoglienza, infatti, i responsabili di Casa Benvenuto non ritengono che le piccole strutture siano necessariamente più efficaci ed efficienti delle grandi strutture. Sia per quanto riguarda l’inserimento dei singoli (“nel piccolo gruppo posso avere una persona che non riesce ad integrarsi e finisce per essere schiacciato, nel grande gruppo è più facile che trovi qualcuno”), sia per quanto riguarda la dimensione organizzativa. “Io che lavoro con gruppi e sottogruppi, lavoro meglio con più ospiti, entro certi limiti, perché posso avere un maggiore complessità di coordinamento, il centro grande potenzialmente lo puoi anche gestire bene, mentre nel piccolo possono avere difficoltà a coprire le necessarie economie di scale. L’ideale è 40, 25 già è piccolo […] Lavorare in un gruppo grande significa più risorse ma promette anche dinamiche di gruppo più positive” (int. IM). Ciò, pur riconoscendo che l’esistenza di grandi strutture crea un terreno più fertile per lo sviluppo di cattive pratiche, mentre le strutture più ridotte sono relativamente più facili di controllare. I fatti evidenziati da “Mafia 277 Capitale” dimostrano come la mala gestione dei Centri d’accoglienza pregiudichi i diritti dei migranti come dei territori in cui tali Centri vengono aperti. La concezione dell’accoglienza come l’inserimento del beneficiario in una comunità che gli consenta di acquisire autonomia e di costruire relazione di socialità in un ambiente positivo, che funga da “laboratorio” propedeutico all’integrazione della società esterna, con una logica concentrica (centro di accoglienza, quartiere, contesto esterno più ampio), si pone come fondamenta di una modo di concepire l’accoglienza non più come risposta emergenziale, ma come una opportunità per gli ospiti e per il Paese. Ripensare il sistema italiano di accoglienza, a partire dal suo strumento più efficace e innovativo, lo SPRAR, significa anche enfatizzarne e rilanciarne alcune caratteristiche che si sono affermate solo in parte. In primo luogo un coinvolgimento maggiore dei Comuni, sia sul piano quantitativo, sia sul piano qualitativo, da perseguire attraverso un maggiore impegno da parte di ANCI “nel saper comunicare ai Sindaci l’opportunità che aderire al Sistema SPRAR rappresenta. Una sensibilizzazione che sappia avere una particolare attenzione ai tanti piccoli comuni che pur custodendo porzioni prestigiose del nostro territorio, sono a rischio di uno spopolamento che ne mina l’esistenza stessa” (Andreotti, 2015). Anche i responsabili di GUS convergono, con le altre organizzazioni coinvolte nella ricerca, che il sistema italiano di accoglienza sia da riformare, superando la logica dell’emergenza ed assumendo lo SPRAR come modello di partenza. “Ben venga che ci siano modelli di accoglienza diversa, ben venga però che ci sia una logica di coordinamento rispetto a servizi che non possono essere paralleli, e che si sostituiscono a vicenda, talvolta, ma che nascono con approcci e funzioni che li rendono tutt’altro che paralleli e interscambiabili, lo SPRAR e il CAS che dovrebbero essere quanto meno consequenziali” (int. GUS). Ciò che rende lo SPRAR un modello più efficace e più equo, rispetto ai CAS, sono l’enfasi sulla seconda accoglienza, la logica per obiettivi, la previsione di strumenti di monitoraggio, il coinvolgimento attivo e la responsabilizzazione delle istituzioni territoriali. Quest’ultimo elemento, a ben vedere, solo in alcuni casi è stato effettivo, mentre in altri casi è rimasto un elemento formale, al punto che gli enti locali, invece che fornire supporto, diventano enti da assistere e stimolare, se non sostituire. Si ritiene che sia opportuno introdurre un livello intermedio di coordinamento, che può essere svolto dalle regioni. Queste possono promuovere una “lettura univoca rispetto all’eccesso ad alcuni servizi che sono di competenze delle regioni in maniera omogenea, che non sia lasciato al potere interlocutoria dell’ente gestore, che può essere un grande cooperativa esperta o una piccola associazione senza potere contrattuale” (int. GUS). Poiché la disparità, talvolta l’arbitrarietà nell’interpretazione della normativa (si pensi alla concessione della residenza) rappresenta un ostacolo alla costruzione di un sistema integrato di 278 accoglienza e complica il lavoro dei soggetti gestori, si invita anche Anci a svolgere una funzione di indirizzo, rispetto ai 600 enti locali coinvolti. Del resto, il modello SPRAR è caratterizzato da evidenti lacune e criticità anche sul piano dei meccanismi di controllo e monitoraggio, che privilegiano elementi di forma, ma lasciando ampia discrezionalità al momento di verificare l’erogazione di servizi fondamentali. “Lo SPRAR deve fondarsi sull’affermazione di diritti certi, ed è paradossale che nelle visite di monitoraggio e di valutazione degli SPRAR quasi tutto il tempo vada nella visita alle strutture, a controllare anche la singola lampadina fulminata, e la visita al comune serve per rendicontare sul risultato della visita, invece che a indagare diritti, doveri e responsabilità degli enti locali” (int. GUS). D’altra parte, sebbene il modello SPRAR non abbia impedito lo sviluppo di pratiche di malaffare (si pensi agli episodi di cronaca avvenuti a Roma, che in molti casi riguardavano progetti SPRAR), la sua strutturazione e la sua natura corale permette maggiormente di prevenire il “business dell’accoglienza”, ovvero l’attivazione di soggetti che non hanno la sensibilità e le competenze necessarie, che invece si attivano in risposta ai bandi CAS, mossi esclusivamente dal profitto, che non sono in grado (e interessati) a garantire uno standard minimo neanche sul piano del vitto e dell’alloggio, e che assolvono le altre funzioni richieste su un piano meramente formale. Come ricorda un responsabile GUS: “una volta un soggetto che aveva appena vinto il bando per accogliere sessanta persone mi ha chiesto cosa sia il diritto di asilo” (int. GUS). Le linee guida per l’accoglienza elaborate dal coordinamento provinciale di Parma si pongono l’obiettivo di garantire a tutti i soggetti posti in condizione di vulnerabilità un’accoglienza integrata, di tipo multidimensionale, che affronti e di risposte efficaci alla complessità dei bisogni di cui sono portatori, e, soprattutto, garantendo una piena attribuzione dei diritti che spettano a ogni individuo. Alla base del modello implementato nel territorio di Parma vi è la convinzione che “le politiche sull’asilo vanno infatti considerate parte integrante delle politiche territoriali e del sistema dei servizi socio-sanitari generali, con proprie specificità (competenze tecniche specifiche, formazione degli operatori), e non un sistema parallelo né astratto dalla rete dei servizi alla persona. In tal modo il lavoro quotidiano di accoglienza, presa in carico, cura, riabilitazione e valorizzazione delle risorse individuali potrà svilupparsi in termini di capacità ed efficacia, consolidarsi e partecipare anche alla crescita dell’intero sistema dei servizi nonché dei territori nel loro complesso” (Provincia di Parma – CIAC, 2011, p. 7). Coordinamento, messa in rete dei soggetti che, a vario titolo e in relazione ad aspetti specifici, partecipano al sistema territoriale dell’accoglienza, progettazione e condivisione di strategie di azione unitarie, nella loro multidimensionalità, rappresentano elementi essenziali per gestire le problematiche legate alla vulnerabilità sociale che definiscono rifugiati e richiedenti asilo, che sono per loro 279 natura complesse e definite dall’interdipendenza tra aspetti sociali, sanitari, giuridici, amministrativi. Alla condizione di sradicamento, di deprivazione economica e di marginalità sociale che di norma definiscono l’esperienza dei rifugiati, si associano una pluralità di condizioni e di variabili soggettive, di disagio psichico, di malattia o di disabilità, cui non di rado si sommano gli effetti di violenze e torture. Perciò è richiesto un approccio multidisciplinare e integrato. La prospettiva generale è quindi quella di “una integrazione delle politiche sull’asilo nelle più generali politiche sociali e sanitarie a costituire il cardine di questo lavoro nonché costituisce la premessa essenziale per leggere le linee guida e poterne valutare plausibilità e sostenibilità. Solo tale integrazione di funzioni tra la dimensione dell’accoglienza e della protezione dei rifugiati e quella delle politiche sociosanitarie può costituire la premessa per costruire un sistema capillare, accessibile, omogeneo e capace di uno sviluppo reticolare. Per realizzare tale integrazione è necessario superare le singole sperimentazioni locali per giungere alla predisposizione di un programma nazionale innovativo che coinvolga Regioni e autorità centrali. Si tratta di mobilitare un’intera comunità, un intero territorio, che solo nel suo complesso potrà essere capace di con-tenere e prendere in carico un così complesso trauma. Significa riconoscere un valore “terapeutico” alla stessa strutturazione della rete, consentendo, all’atto pratico una pluralità di riferimenti e possibilità di accesso, e, su un piano più astratto, un progressivo radicamento e sensibilizzazione di competenze specifiche e specifiche modalità di relazione” (Rossi, 27). Il modello che si è seguito, soprattutto a seguito dell’emergenza Mare Nostrum, è andato nella direzione opposta a quanto auspicato dagli attori, istituzionali e non, che si occupano di accoglienza nella Provincia di Parma, e che si trovano, al contrario, a gestire, anche nel proprio territorio, un modalità di organizzazione, quella gestita dalle Prefetture, che non discrimina sufficientemente tra i soggetti che si candidano a gestire le strutture e che prevede la realizzazione di grandi strutture di accoglienza, in cui è particolarmente difficile realizzare un progetto integrato, soprattutto se i soggetti gestori sono improvvisati. La preoccupazione diffusa è che quella, non solo di non diffondere, ma di scardinare completamente, anche a livello regionale e provinciale, un sistema costruito con in anni di, lavoro e che ha visto molte risorse impegnate. In altre parole, che l’emergenza, piuttosto che come l’occasione per compiere un rafforzamento del sistema, giungendo a una situazione di responsabilità condivisa tra i vari livelli amministrativi, e fondata sull’individuazione di quote da distribuire in tutti i Comuni del territorio, all’interno di una modalità condivisa e strutturata di intervento, conduca, anche nei territori in cui si era sviluppata una maggiore sensibilità, a uno sfaldamento del sistema, le cui conseguenze rischiano di riflettersi non solo sulle persone 280 direttamente coinvolte, ovvero sui rifugiati, ma su tutti i cittadini, poiché, come ricorda Berti nel suo contributo in questo volume, “senza una accoglienza efficace c’è un rischio concreto di assistere alla formazione di sacche di marginalità, di ghetti, di zone franche che nel lungo periodo potrebbero causare problemi ben più seri, comprese dinamiche legate alla stessa sicurezza, come mostrano tante vicende delle banlieue francesi, belghe”. D’altra parte, gli episodi di conflitto, di violenza, di terrorismo, alimentano una spirale di chiusura e di odio, le cui prime vittime sono le stesse donne e gli stessi uomini che sono costretti a fuggire dal loro paese perché vittime di regimi dispotici che li opprimono e non consentono loro di vivere una vita sicura per sé e per i propri figli. Le rappresentazioni pubbliche e le dichiarazione di alcuni “imprenditori dell’odio” che indicano nei flussi si rifugiati la provenienza dei terroristi, rende queste persone doppiamente vittime della violenza e della privazione dei loro diritti. Scrive, infatti, Ambrosini: “gli attentati di Parigi 2015 hanno trascinato l’Europa in un vortice ancora più ansiogeno. Modesti lavoratori manuali provenienti dal Sud hanno pagato il conto, sotto forma di più rigidi controlli, divieti e deportazioni, degli attentati perpetrati da terroristi che, quando hanno varcato i confini, lo hanno fatto il più delle volte come uomini d’affari, professionisti, studenti o turisti”. Nota (1) Si ringraziano Nadan Petrovic per la disponibilità e il supporto nell’individuare le pratiche prese in considerazione in questo elaborato e i rappresentanti delle organizzazioni che hanno dato la loro disponibilità a partecipare alla ricerca. Bibliografia Ambrosini M. (2005), Sociologia delle migrazioni, il Mulino, Bologna. Anci – Ministero dell’Interno (2015), Atlante SPRAR 2014. Andreotti A. (2015), “Dai centri d’accoglienza ad un sistema d’accoglienza per richiedenti asilo e rifugiati”, in Omizzolo M., Sodano P. (a cura di), Migranti e territori. Lavoro diritti accoglienza, Ediesse, Roma. Giovannetti M., Olivieri M.S. (2012), “Tessere l’inclusione: territori, operatori e rifugiati”, “I Quaderni del servizio centrale”. Leo L. (2014), Il sistema Dublino e l’Italia: un rapporto in bilico, ASGI. Marchetti C. (2014), “Rifugiati e migranti forzati in Italia. Il pendolo tra ‘emergenza’ e ‘sistema’”, in “Rev. Interdip. Mobil. Hum, Brasilia”, 43, pp. 5370. 281 Provincia di Parma – CIAC (2011), Per un’accoglienza e una relazione d’aiuto transculturale. Linee guida per un’accoglienza integrata e attenta alle situazioni vulnerabili dei richiedenti e titolari di protezione internazionale. Rossi M. (2011), “L’assistenza sanitaria”, in Spada I. (a cura di), Le buone prassi, “I Quaderni del servizio centrale”, p. 22-36. Spada I. (a cura di) (2011), Le buone prassi, “I Quaderni del servizio centrale”. UNHCR (2015), Asylum Trends 2014. 282 Postfazione Le contraddizioni delle politiche migratorie: perché la chiusura delle frontiere è una promessa irrealizzabile di Maurizio Ambrosini Le politiche migratorie sono diventate un tema chiave dell’agenda politica dei governi e delle discussioni parlamentari, per non parlare delle campagne elettorali. Sono oggi “l’ultima importante ridotta di una sovranità nazionale incontrastata” (Opeskin, 2012, p. 551). In questo saggio intendo ricostruire le motivazioni delle restrizioni e gli ostacoli che incontrano sul terreno delle realizzazioni concrete, richiamando attori e interessi che producono aperture delle maglie e ridefinizioni delle regole della mobilità (cfr. Ambrosini, 2014a). 1. L’enfasi sulla chiusura delle frontiere esterne In Europa varie formazioni e leader politici hanno costruito le loro fortune sul contrasto nei confronti dell’immigrazione, riuscendo anche a condizionare l’approccio di forze politiche più consolidate e tradizionalmente moderate (Albertazzi e McDonnell, 2008; per il caso italiano: Ruzza e Fella, 2011). Si pensi al Front National in Francia, al clamoroso successo di Nigel Farrage alle elezioni europee del 2014 nel Regno Unito, al partito di Pim Fortuyin nei Paesi Bassi, all’analoga formazione populista delle Fiandre belghe, ai casi austriaco, danese, svedese e svizzero, con il clamoroso risultato del referendum anti-immigrati del febbraio 2014. La direttrice prevalente del discorso pubblico e della produzione normativa in materia è stata quella della restrizione delle possibilità di movimento verso il Nord globale, della chiusura delle frontiere e della definizione della mobilità non autorizzata come minaccia per la sicurezza nazionale (Balibar, 2012), sebbene con significative eccezioni che richiamerò strada facendo. Possiamo dire che i paesi sviluppati hanno varato politiche di mobilità selettiva. Glick Schiller e Salazar parlano di “regimi di mobilità” (2013): gli Stati-nazione favoriscono la mobilità di alcuni, mentre vietano o restringono la mobilità di altri. Con il concetto di regimi di mobilità si pongono in rilievo i due aspetti della regolazione politica e della disuguaglianza nell’attribuzione del diritto a muoversi attraverso i confini. La 283 mobilità politicamente regolata diventa però anche un terreno conteso, in cui l’ordine imposto dall’alto viene continuamente sfidato ed eroso dalle pratiche di coloro che dovrebbero esserne esclusi. Parlerei più precisamente di una stratificazione del diritto alla mobilità: per uomini d’affari, manager, professionisti, scienziati, artisti, la mobilità è ben vista e incoraggiata, fino a tradursi in politiche di brain drain che depauperano il capitale umano del Sud Globale; per i turisti, specialmente se danarosi, ed entro certi limiti, per gli studenti, la mobilità è apprezzata e favorita, a patto che non si traduca in soggiorno irregolare e lavoro nero; per gli sposi e i figli di cittadini o di residenti regolari, è cautamente tollerata e autorizzata, anche se con crescenti limitazioni; per i lavoratori debolmente qualificati è talvolta ammessa in forma stagionale, ma di solito è del tutto esclusa, soprattutto se dà luogo un insediamento permanente. Quest’ultima importante tendenza contrasta con il fatto che molti sistemi economici, tra cui il nostro, attingano largamente al lavoro non registrato degli immigrati privi di validi titoli di soggiorno (Ambrosini 2013; Calavita, 2005). Se quindi si può parlare di una “svolta della mobilità” (mobility turn) nelle scienze sociali odierne (Urry, 2000), questa visione va comunque sempre temperata con la consapevolezza delle disuguaglianze sociali (Faist, 2013): quando si tratta di lavoratori altamente qualificati, si parla appunto di “mobilità” e la si sollecita; nel caso invece di lavoratori a bassa qualificazione, si adotta il termine “immigrazione” e si cerca di bloccarla. Così l’idea che il sedentarismo sia sorpassato, che il localismo sia sinonimo di arretratezza e declino, che il nomadismo sia il futuro, si applica in realtà soltanto al primo tipo di lavoratori in movimento; per i secondi non vale. La mobilità comporta aspettative ottimistiche di vantaggi per gli individui e per gli Stati, mentre l’immigrazione fa sorgere domande di integrazione sociale, controllo, difesa dell’identità nazionale. In tal modo, le opportunità di attraversamento delle frontiere sono diventate il fattore più importante nella determinazione della posizione degli individui nella gerarchia delle disuguaglianze dell’età globale (Faist, 2013). Diverse ragioni possono spiegare questa enfasi sul controllo delle forme di mobilità umana che vanno sotto il nome di immigrazione, e più precisamente di migrazioni internazionali. Anzitutto, le ricorrenti crisi economiche. Già a metà degli anni ‘70 del Novecento il blocco delle frontiere dei tradizionali paesi riceventi del Centro e Nord Europa nei confronti dell’immigrazione per lavoro era giustificato con la sfavorevole congiuntura determinata dal primo shock petrolifero del 1973. La recessione iniziata nel 2008 ha rinverdito questo argomento, sebbene si possa notare che nei quarant’anni trascorsi i periodi di espansione economica non siano mancati, senza che le restrizioni verso l’immigrazione venissero attenuate. Sembra vero piuttosto che i governi, incapaci 284 di controllare la globalizzazione economica, e segnatamente la delocalizzazione delle attività produttive, abbiano cercato di riaffermare la propria sovranità, nonché la loro legittimazione agli occhi dei cittadini-elettori, rafforzando i controlli non sulla mobilità in generale (come si è notato poc’anzi, non sul turismo o sulla circolazione degli uomini d’affari), ma sull’immigrazione dall’estero di individui etichettati come poveri, e quindi minacciosi o bisognosi. Si profila così una seconda spiegazione: gli accresciuti timori per la sicurezza nazionale (Jaworski, 2011), sprigionati dalla fine della guerra fredda, dall’avvento di scenari geo-politici più fluidi e instabili, dalla crescente insofferenza di varie popolazioni del Sud del mondo nei confronti della supremazia del Nord globale, e sempre più dalle minacce terroristiche. Su questo piano, la comparsa sulla scena politica dell’islamismo radicale e la data emblematica dell’11 settembre 2001 hanno segnato se non uno spartiacque, di certo l’innesco di un’escalation nelle restrizioni. Gli attentati di Parigi 2015 hanno trascinato l’Europa in un vortice ancora più ansiogeno. Modesti lavoratori manuali provenienti dal Sud hanno pagato il conto, sotto forma di più rigidi controlli, divieti e deportazioni, degli attentati perpetrati da terroristi che, quando hanno varcato i confini, lo hanno fatto il più delle volte come uomini d’affari, professionisti, studenti o turisti. In realtà gli attentati terroristici hanno rilanciato l’antica paura del legame tra flussi migratori e minaccia alla sicurezza nazionale che ha diversi precedenti nella storia contemporanea. Basti pensare ai sospetti nei confronti degli anarchici italiani negli Stati Uniti all’epoca della grande emigrazione transoceanica. Più profondamente, hanno dato vigore ai sentimenti di ansia che non riguardano soltanto elementi di fatto, ma minacce ontologiche, concernenti i valori morali, le identità collettive e l’omogeneità culturale della società. In questo senso l’inquadramento dell’immigrazione come un fattore di pericolo, con il rafforzamento dei controlli e quindi della visibilità degli immigrati, con l’implicita separazione tra “noi” e “loro” (Colombo, 2008), ha di fatto reso manifesto e incrementato lo scontro di civiltà teorizzato da Huntington (2000): la securitizzazione delle politiche migratorie rinforza stereotipi e contrapposizioni che il discorso politico ufficiale nega (Faist, 2002). Un terzo argomento a sostegno delle politiche di chiusura fonde in un certo senso i due precedenti: è il timore del welfare shopping. Gli alieni, siano essi richiedenti asilo, cittadini neo-comunitari o semplicemente stranieri a basso reddito, rappresenterebbero una minaccia per gli affaticati sistemi di protezione sociale dei paesi avanzati, soprattutto in Europa. La protezione del Welfare State ha fornito storicamente uno dei più potenti fattori di legittimazione delle chiusure nei confronti dell’immigrazione straniera (Freeman 1986). Mentre i regimi di welfare sono costruzioni tipicamente nazionali e collegate alla cittadinanza, volte a garantire la lealtà politica e il consenso dei cittadini, l’insediamento di estranei o 285 la loro domanda di protezione sotto la bandiera dei diritti umani, rappresentano elementi di contraddizione (Aleinikoff e Klusmeyer, 2001): degli estranei chiedono di accedere ai benefici propri dei cittadini, incorporati nell’idea stessa di cittadinanza nazionale moderna. I diritti sociali cessano di essere i “diritti umani nella vita quotidiana”, come afferma una pubblicità dell’Unione europea, per diventare un privilegio da difendere contro chi non gode dello statuto di membro a pieno titolo della comunità dei cittadini. Le solenni dichiarazioni dei diritti dell’uomo, del bambino, della famiglia, nonché le convenzioni internazionali che vincolano i governi all’attuazione operativa di questi diritti, si trasformano in documenti imbarazzanti, da cercare di eludere o da applicare con circospezione, dopo estenuanti procedure di verifica e selezione dei candidati all’accesso. Poco importa che gli immigrati, in quanto prevalentemente soggetti in età attiva, siano contribuenti attivi del sistema di protezione sociale, soprattutto sulle voci più impegnative, pensioni e sanità. In tempi di crisi, se non lavorano, in quanto rifugiati accolti temporaneamente, madri casalinghe, minori o disoccupati, sono visti come un fardello insopportabile per le casse pubbliche; se lavorano, sono accusati di sottrarre preziosi posti di lavoro ai cittadini nazionali. La battaglia sul welfare si sta profilando come il terreno più contrastato del conflitto politico sull’immigrazione nel prossimo futuro: in relazione alla caduta delle residue barriere sulla mobilità interna dei cittadini rumeni e bulgari, il governo Cameron ha annunciato misure per limitare l’accesso al welfare de cittadini neo-comunitari, e altri hanno mostrato di volerne seguire gli intenti. Uno dei diritti fondamentali della costruzione europea, quello della mobilità interna dei cittadini, rischia di essere intaccato dalle paure di movimenti migratori di persone in cerca di tutele. Paure che fin qui, merita sottolinearlo, si sono rivelate infondate. Le crescenti chiusure nei confronti dei rifugiati rimandano a giustificazioni analoghe. L’idea di una comunità nazionale omogenea e sostanzialmente coesa di fronte a minacce esterne si estende poi alla sfera etica e culturale: la chiusura può essere motivata con un quarto ordine di ragioni, quelle della difesa dell’identità culturale della nazione. Gli alieni vengono visti come invasori culturali, portatori di costumi retrogradi e usanze incivili, responsabili di cedimenti relativisti sul piano dei diritti fondamentali. Quest’ultimo approccio è particolarmente interessante per due motivi. In primo luogo, porta ad estendere la sfera dei controlli dalle frontiere esterne al territorio interno, dai nuovi arrivati alle minoranze già insediate, da comportamenti manifesti a convinzioni intime e modi di pensare. In secondo luogo, si presta bene al ricorso ad argomenti “progressisti” per instillare diffidenza e separatezza, analogamente a quanto ha osservato Taguieff (1999) per il razzismo differenzialista. Basti pensare all’evocazione dei diritti delle donne per etichettare 286 le minoranze immigrate come patriarcali e irrevocabilmente arretrate, riecheggiando temi come quelli del noto saggio “Il multiculturalismo fa male alle donne?” (Moller Okin, 2007). Oppure alle limitazioni di legge sull’età minima per il matrimonio, o sul ricongiungimento degli sposi, introdotte in paesi come il Regno Unito, la Danimarca, i Paesi Bassi, la Francia, con l’obiettivo dichiarato di contrastare i matrimoni definiti “forzati” e più in generale l’importazione di spose destinate, secondo i proponenti, a rimanere confinate tra le mura domestiche per mancanza di conoscenze linguistiche e competenze professionali. Tra l’altro con queste misure si è giunti a limitare i diritti degli stessi cittadini in campo matrimoniale e familiare (Joppke, 2007). Gli scarsi successi ottenuti in materia di integrazione degli immigrati dai paesi che si erano sbilanciati di più, almeno nel discorso pubblico, verso approcci multiculturalisti, hanno contribuito a questo riorientamento delle politiche in materia: il multiculturalismo è diventato un bersaglio di comodo, i fallimenti nell’integrazione sociale degli immigrati sono stati catalogati come fallimenti dell’approccio multiculturalista. I governi hanno così potuto riformulare le proprie politiche in direzione del problematico perseguimento di una maggiore omologazione politico-culturale dell’immigrazione nell’ambito delle società riceventi (Prins e Slijper, 2002). Questa direttrice di marcia, tra l’altro, contribuisce a indebolire sempre più l’idea della sussistenza di “modelli nazionali” delle politiche di gestione dell’immigrazione (temporaneo, assimilativo, pluralistico…), spesso ancora ripresa da una pigra pubblicistica. Se già nel passato, al di là delle retoriche del discorso pubblico ufficiale, era difficile individuare in concreto serie differenze tra le misure adottate nel quadro dell’assimilazionismo francese rispetto a quelle varate sotto l’egida del multiculturalismo inglese (Bertossi, 2011), ora le distinzioni sono diventate ancora più opinabili. Di fatto il binomio chiusura selettiva-integrazione civica neo-assimilazionista ha configurato una nuova ortodossia politica ampiamente condivisa (Joppke, 2007). 2. Le frontiere interne: le nuove pressioni assimilazionistiche Il terreno dei valori da difendere, dell’identità nazionale da preservare, di uno zoccolo di premesse culturali da trasmettere, e se necessario da imporre ai nuovi residenti, ha fornito argomenti allo sviluppo di istanze politiche che, almeno negli intenti dichiarati, hanno preso decisamente le distanze dalle tendenze multiculturaliste del tardo Novecento. In successione, leader come Blair, Merkel, Sarkozy, Cameron, hanno attaccato il multiculturalismo, dipingendolo come responsabile della separatezza delle minoranze immigrate rispetto alle 287 maggioranze autoctone. Come osserva Joppke, in Europa “il pendolo ha oscillato dal mantenimento dell’identità culturale [delle minoranze immigrate] all’imposizione dei valori liberali essenziali” (2007, p. 4). L’attacco al multiculturalismo in nome dei valori democratici occidentali è un esempio eminente di quella che seguendo Faist (2002) è possibile definire “politica simbolica” o anche “meta-politica”. La politica ha sempre una dimensione simbolica, che serve a mobilitare il consenso e a ricondurre a sintesi diverse istanze e interessi. In questo caso però, la meta-politica tende a scavare un fossato tra immigrati e nativi, contrapponendo di fatto “noi” e “loro” e facendo della dimensione culturale un marcatore di identità conflittuali. Un’espressione di questa politica simbolica può essere colta nell’accordo sui principi base comuni in materia di integrazione degli immigrati siglato dal Consiglio dell’Unione Europea nel novembre 2004. Pur affermando, come primo principio, l’improbabile quanto retoricamente ribadita visione dell’integrazione come processo bidirezionale, in cui sarebbero coinvolti tanto gli immigrati quanto le società riceventi, già il secondo principio sottolinea che “l’integrazione richiede il rispetto dei valori base dell’Unione europea”, formulati peraltro in termini politici molto generali: i principi di libertà, democrazia, rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali, legalità (Council of the European Union, 2004, p. 19). Il documento poi proclama il rispetto della libertà di praticare la propria religione e cultura, ma pone anche l’enfasi sull’eguaglianza delle donne, sui diritti e gli interessi dei minori, sulla libertà di praticare o non praticare una determinata religione: specificazioni, che in un documento sull’integrazione degli immigrati, lasciano trasparire diffidenza se non pregiudizio circa la mentalità dei nuovi residenti. Il terzo principio stabilisce poi che “l’occupazione è un elemento chiave del processo di integrazione”: un’altra affermazione abbastanza ovvia, ma che sottintende il timore della dipendenza dal welfare, della volontà di attingere alla protezione sociale dei paesi riceventi, nonché il richiamo dell’obbligo di rendersi autosufficienti sotto il profilo economico. Le istituzioni europee fanno capire che l’onere dell’inserimento nel nuovo contesto deve essere assunto dagli immigrati stessi, non è una responsabilità pubblica (Joppke, 2007). Il quarto principio è però quello che meglio illustra i nuovi orientamenti in materia: “Una conoscenza di base della lingua, della storia e delle istituzioni è indispensabile per l’integrazione”. Qui il Consiglio innalza a livello europeo istanze che nei paesi membri avevano già cominciato a circolare e a tradursi in nuovi obblighi per i candidati all’ingresso. Sul piano delle politiche pubbliche, soprattutto dopo gli attentati del settembre 2001, si assiste quindi a un ritorno alla richiesta di adesione e conformità alla società ricevente e alle sue istituzioni, da verificare al momento dell’ingresso o in altri passaggi salienti, come la naturalizzazione, eventualmente formalizzando 288 maggiormente test e procedure già in vigore. Come ha documentato la ricerca di Goodman (2010), nell’arco di pochi anni si è diffusa in Europa la richiesta di soddisfare una serie di requisiti di integrazione. Questi si sono ampliati dal momento della naturalizzazione a quello dell’insediamento e anche dell’ingresso, estendendosi a fasce più ampie di popolazione immigrata. La conoscenza del paese di insediamento si è aggiunta a quella della lingua, i cui livelli sono stati alzati. Criteri di valutazione imprecisi sono stati sostituiti da corsi e test standardizzati. Sono stati poi istituiti o enfatizzati contratti e cerimonie di conferimento della cittadinanza, sull’esempio statunitense, con l’obiettivo di solennizzare l’impegno su determinati valori da parte dei nuovi membri della comunità nazionale. Meritano una sottolineatura la nuova importanza attribuita alla conoscenza della lingua, misurata mediante apposite prove, e i tentativi più controversi, e per forza di cose limitati, di valutare la lealtà politica dei nuovi arrivati, anche ricorrendo a corsi e appositi “contratti di integrazione”, particolarmente sottolineati nel caso francese: un contratto che diventa obbligatorio, per i nuovi arrivati, perdendo così la sua natura volontaria e dunque contrattuale (Joppke, 2007). Va osservato al riguardo che gli impedimenti che gli Stati democratici incontrano nel sondare atteggiamenti e convinzioni degli stranieri residenti si traducono in un’accentuazione degli sforzi di monitoraggio della sfera cognitiva: la conoscenza della lingua anzitutto, poi della storia, delle costituzioni, delle istituzioni dei paesi riceventi. Si vorrebbe comprendere se i nuovi arrivati siano disposti ad abbracciare le norme e gli stili di vita della società ricevente e, in mancanza di meglio, si chiede loro di conoscerle, collocando in primo piano l’apprendimento della lingua nazionale come veicolo d’integrazione. Dal multiculturalismo si passa quindi alle politiche di “integrazione civica”, a carattere obbligatorio, in cui la nozione di integrazione tende a trasformarsi in uno strumento di controllo: l’integrazione culturale deve essere dimostrata già al momento dell’ingresso, diventa una precondizione per poter accedere al territorio. Più precisamente, questo filtro viene in realtà utilizzato dai governi dell’Europa centro-settentrionale soprattutto per restringere le possibilità di ingresso di familiari non qualificati ed economicamente dipendenti degli immigrati già insediati (Joppke, 2007, p. 5). Non si applica ai coniugi dei manager, dei professionisti o di altri lavoratori qualificati. Rispetto alla posizione liberale, che vede la cittadinanza come un veicolo di integrazione, si osserva la tendenza a tornare almeno parzialmente verso una concezione più conservatrice e restrittiva, della cittadinanza come premio all’integrazione. 3. Chi preme per l’apertura e perché: un campo di battaglia 289 Restrizioni, espulsioni, assimilazioni non sono però le uniche tendenze in atto. Di fatto il numero degli immigrati tende ovunque ad aumentare, e non solo per gli incrementi naturali dovuti alle nascite. Le politiche dell’immigrazione sono in realtà un campo di battaglia, in cui si confrontano attori che sostengono valori e interessi diversi. Per meglio dire: malgrado la prevalente ortodossia restrittiva, in modo a volte aperto, altre volte silenzioso e poco visibile, il cantiere delle decisioni politiche e della loro attuazione è influenzato anche da forze che premono per aperture almeno parziali. Un tipico dilemma è quello che contrappone repressione e compassione (Fassin, 2005): la volontà di chiusura entra in crisi di fronte a tragedie umanitarie portate alla ribalta dai media, ai superstiti di guerre e repressioni, a storie personali meritevoli di considerazione, a casi speciali come quelli dei minori, delle donne incinte, dei malati. Il risultato paradossale è che la mobilità non autorizzata viene normalmente trattata come una violazione delle leggi, e sempre più come un reato penale, ma chi riesce a presentarsi come “vittima” può ottenere il diritto a essere accolto (Anderson, 2008). Qui i diritti umani, sotto regimi democratici, pur tra molti contrasti riescono a piegare il principio di sovranità, obbligando i governi non solo a tollerare ingressi non voluti, ma anche a farsi carico dei soggetti riconosciuti come meritevoli di protezione, accordando loro a seconda dei casi accoglienza, istruzione, cure mediche. Nel caso dell’accoglienza umanitaria di persone malate, Fassin (2005) ha parlato di “biolegittimazion”: l’accesso ai diritti in nome del corpo sofferente. Secondo questo autore, in Francia oggi è più facile essere accolti come malati che come rifugiati, l’asilo politico cede il passo alla compassione: la biologia è diventata più importante della biografia. Il corpo malato, inabile al lavoro, che nel passato era oggetto di respingimento, oggi è diventato una risorsa. Nel caso dei richiedenti asilo, “il corpo è diventato il luogo di produzione della verità” (Fassin e D’Halluin, 2005, p. 599), nel senso che devono provare con il loro corpo i segni delle violenze e della tortura: “la validazione dei loro racconti mediante l’inscrizione corporale della loro persecuzione costituisce una nuova forma di amministrazione transnazionale delle persone” (ibid., p. 600). Malgrado il pessimismo di fondo, questi ragionamenti confermano che seri problemi di salute o prove di violenza subita innescano la protezione dei diritti umani, e questi dischiudono le porte di una pur stentata e reticente accoglienza. Tra le altre conseguenze, ne discende un affastellamento di norme e regolamenti non sempre univoci e coerenti, nonché uno scollamento a volte notevole tra politiche dichiarate e politiche praticate. Sotto questo aspetto, mentre di solito in campo sociale le politiche effettivamente praticate restano indietro rispetto alle promesse altisonanti delle politiche dichiarate, nel campo delle politiche migratorie oggi avviene spesso il contrario: misure annunciate di esibita asprezza, 290 sul piano anzitutto della repressione dell’immigrazione irregolare, hanno sortito magri risultati o sono state addirittura contraddette dai comportamenti effettivi. A volte, come in Italia nel caso di varie nome del pacchetto-sicurezza e della precedente legge Bossi-Fini, le istituzioni di garanzia nazionali e internazionali hanno cassato disposizioni giudicate contrarie ai principi democratici e costituzionali: si pensi alla norma che vietava all’immigrato in condizione irregolare di compiere atti di stato civile, a partire dal matrimonio; all’obbligo di allontanarsi dal territorio nazionale a seguito di un decreto di espulsione, sotto pena di arresto, anche se privi di risorse per farlo; all’aggravamento delle sanzioni per altri reati, in caso di irregolarità del soggiorno. In altri casi, misure drastiche e di grande impatto sull’opinione pubblica, come gli allontanamenti in mare verso la Libia, sono costate al nostro paese un inedito conflitto con l’ONU e l’onta della condanna presso l’Alta Corte di Strasburgo. Nella lontana Australia e in altri paesi avviene qualcosa di simile: i governi vogliono introdurre misure più severe contro immigrati non autorizzati e richiedenti asilo, ma si scontrano con i paletti posti dal sistema giudiziario in nome dei diritti umani e dei principi liberali. Cercano in vario modo di aggirarli, ma ci riescono solo in parte (Opeskin, 2012). Altre volte, nella gestione quotidiana l’attuazione pratica delle norme si scontra con vari problemi. Il primo è la mancanza di fondi, strutture e personale per dare esecuzione alle disposizioni di trattenimento ed espulsione degli immigrati privi di validi documenti di soggiorno. Basti pensare che l’Italia dispone di meno di 2000 posti nei Centri di Identificazione ed Espulsione, strutture-chiave per procedere all’individuazione e al rimpatrio degli immigrati indesiderati: per l’esattezza, i dati relativi al 2013 parlano di 13 strutture con una capienza complessiva di circa 1901 posti, di cui alcuni però inagibili o in via di ristrutturazione a causa di incendi, danneggiamenti, problemi riscontrati nella gestione. Va poi ricordato che i CIE costano come minimo 55 milioni di euro all’anno. Oggi, in seguito ai tagli della spending review 2011, il costo giornaliero pro-capite è stato abbassato a 30 euro più IVA, il che ha contribuito a peggiorare le condizioni di vita delle persone lì trattenute, ma nello stesso tempo conferma che un vincolo serio ad una repressione più capillare è rappresentato dai costi (Koser, 2005). Soprattutto, i CIE sono ben lungi dall’aver raggiunto gli obiettivi per cui erano stati istituiti: su 169.071 persone transitate nei centri tra il 1998 e il 2012, quelle effettivamente rimpatriate sono state soltanto 78.045, il 46,2% del totale (www.lunaria.org), una frazione molto modesta dell’insieme degli immigrati in condizione irregolare, giacché nello stesso periodo ne sono state regolarizzati più di un milione (Ambrosini, 2013). A livello di Unione europea, soltanto il 39,2% delle espulsioni decretate nel 2013 sono state effettivamente attuate, e non è comunque garantito che gli espulsi non cerchino di rientrare sul suolo dell’Unione (EC, 2015). 291 In secondo luogo per ottenere effetti le disposizioni richiedono la collaborazione di vari attori e istituzioni, non soltanto pubblici, e soprattutto non aventi come compito istituzionale funzioni di controllo e repressione (Vogel, 2000). Per esempio, i servizi sanitari e sociali. Dal canto loro, le cosiddette “burocrazie di strada” (Lipsky, 1980), ossia gli operatori dei vari servizi pubblici a diretto contatto con la popolazione immigrata, sono molte volte compartecipi della ricerca di soluzioni alle varie e complesse difficoltà che incontrano gli immigrati, specialmente quelli titolari di status fragili e incerti. Il loro ruolo interpretativo e applicativo delle norme riguardo ai casi concreti evolve nell’esercizio di un potere discrezionale, favorito a sua volta dall’affastellamento e dall’opacità delle disposizioni legislative e dei regolamenti attuativi (Campomori, 2007). Spesso le interpretazioni cercano di andare incontro alle necessità degli immigrati, anche forzando o aggirando la lettera delle norme. Occorre poi rivolgere l’attenzione ai diversi attori che per ragioni ideali o per interessi economici contrastano le politiche di chiusura. Anzitutto le istituzioni internazionali, come l’ACNUR, Agenzia dell’ONU per la protezione dei rifugiati, e l’Alta Corte di Strasburgo, che intervengono in difesa di una categoria minoritaria ma altamente visibile e spesso sotto tiro, come quella dei richiedenti asilo. La volontà dei governi di restringere le maglie dell’ammissione, di scoraggiare i candidati a dirigersi verso i paesi a sviluppo avanzato (solo il 14% vi hanno trovato rifugio nel 2014, oltre quindici punti percentuali in meno rispetto a una dozzina di anni prima: UNHCR, 2015), di ridurre i benefici loro accordati, deve fare i conti con le istituzioni poste a presidio dei diritti umani: istituzioni non così forti e autorevoli come gli esponenti del fronte umanitario vorrebbero, ma neppure irrilevanti nella geografia politica internazionale. L’onta della condanna subita dal governo italiano alla corte di Strasburgo brucia ancora, e rappresenta un monito per chi intenda inseguire un consenso populista solo apparentemente a basso costo. Non sempre altrettanto animata da afflati umanitari, ma indubbiamente influente nei confronti delle politiche nazionali è l’Unione europea. Le sue politiche di allargamento verso Est hanno trasformato milioni di persone in movimento da temibili immigrati clandestini a concittadini europei dotati di pieni diritti di mobilità (Sciortino, 2012), di ricerca del lavoro e, seppure con maggiori resistenze, di fruizione di servizi sanitari e sociali in altri paesi dell’Unione. Gli stessi paesi candidati all’ingresso, come attualmente quelli balcanici, dalla Serbia all’Albania, e altri ancora, come il Brasile, con cui l’Unione intende intrattenere buoni rapporti per ragioni politiche ed economiche, hanno ottenuto alleggerimenti delle condizioni di accesso per i loro cittadini: oggi i cittadini di 292 una cinquantina di paesi del mondo non hanno bisogno del visto per soggiorni di durata inferiore ai tre mesi nel territorio dell’Unione Europea. Anche i paesi di origine influiscono sulle politiche migratorie e la ricerca della loro collaborazione è spesso vista come necessaria per impostare misure di controllo efficaci: sia nella sorveglianza delle partenze, sia nell’eventualità del rimpatrio coatto di immigrati espulsi, la loro cooperazione è un tassello delle politiche migratorie. La scarsa collaborazione dei paesi di origine è considerata in diversi casi come il principale ostacolo alle deportazioni (per il caso olandese: Engbersen e Broeders, 2009). Ma la cooperazione quando si attiva ha comunque dei costi, in termini di aiuti tecnico-economici ed eventualmente di quote di immigrati regolari ammessi. Ne deriva fra le altre una paradossale conseguenza: se si vuole sperare di contenere l’immigrazione irregolare, di norma bisogna aumentare quella regolare. Un quarto corposo ma a volte impalpabile gruppo di attori è formato dai portatori di interessi imprenditoriali, economici e culturali, in vario modo colpiti dalla chiusura degli accessi al territorio nazionale. Un primo grande aggregato è formato da tutti coloro che hanno interesse a una maggiore mobilità delle persone attraverso le frontiere, a un alleggerimento dei vincoli e delle condizioni di accesso. Spazia dagli operatori del settore turistico, agli organizzatori di fiere e viaggi per affari, dalle università a cui viene spesso rimproverato di non attrarre un numero abbastanza nutrito di studenti stranieri, agli impresari del settore musicale, teatrale, dell’intrattenimento, per arrivare alle istituzioni religiose che promuovono e accolgono pellegrinaggi internazionali. Per esempio, eventi come l’EXPO 2015 o il prossimo anno santo comportano un dilemma per le istituzioni italiane: si vuole facilitare l’arrivo di visitatori e pellegrini, anche da paesi a reddito medio-basso, oppure ostacolarlo e sottoporlo a severe condizioni? Nel primo caso, si attrarrà anche un certo numero di persone che rimarranno sul territorio oltre i limiti del loro permesso di soggiorno, trasformandosi in immigrati irregolari; nel secondo, si comprometterà l’internazionalizzazione e si limiterà il potenziale successo dei grandi eventi in programma. Un secondo aggregato di interessi favorevoli all’apertura è formato dagli imprenditori, famiglie comprese, orientati a reperire il personale di cui necessitano in bacini di impiego più ampi di quello nazionale (Calavita, 2005; Triandafyllidou e Ambrosini, 2011). Malgrado le retoriche sull’economia della conoscenza, gli immigrati sono ricercati per coprire i fabbisogni di lavoro manuale, a bassa qualificazione, tutt’altro che aboliti dai sistemi economici contemporanei ma culturalmente mal accetti all’offerta di lavoro interna (Castles, 2002), compresi i figli degli immigrati dei flussi precedenti. Il lavoro domestico e di assistenza nel caso italiano rappresenta l’esempio più emblematico. 293 L’elenco è lungo, ma probabilmente incompleto, le capacità di lobbying incisive, le brecce nella fortezza più numerose del previsto. Non stupisce quindi che le chiusure incontrino eccezioni, e le situazioni dei soggiornanti irregolari vengano sanate mediante svariate misure di regolarizzazione a posteriori, non solo in Italia. Il nostro paese capeggia la classifica continentale dei provvedimenti di emersione, con sette sanatorie in 25 anni, più altri interventi minori o non dichiarati come i decreti-flussi utilizzati per regolarizzare persone già soggiornanti e inserite nel sistema economico. Ma siamo in buona compagnia: secondo una ricerca, 22 paesi su 27 facenti parte dell’Unione europea hanno attuato manovre di regolarizzazione tra il 1996 e il 2008, consentendo l’emersione di una cifra stimata prudenzialmente tra i cinque e i sei milioni di persone (ICMPD, 2009). Bisognerebbe poi aggiungere gli effetti del già richiamato allargamento dell’Unione, che può essere interpretato sotto questo profilo come una manovra di regolarizzazione di massa tanto silenziosa quanto gigantesca. Oltre alle lobby economiche, entrano poi in scena le lobby umanitarie. Le restrizioni attuate dai governi hanno ampliato gli spazi degli attori non governativi (Van der Leun e Ilies, 2012). Questi sono cresciuti d’importanza, sia come soggetti politici che alzano la voce in difesa degli immigrati, sia come fornitori alternativi di servizi per coloro che pur soggiornando sul territorio, non possono accedere a molti servizi pubblici (Ambrosini, 2014b). Infine vanno ricordati gli immigrati stessi, nonché le loro reti di contatti e legami interpersonali. Sotto il profilo politico, è cresciuto l’attivismo degli stessi immigrati in condizione irregolare, che in diversi paesi hanno dato vita a forme clamorose di protesta (Chimienti, 2011), come occupazione di chiese, scioperi della fame, sit-in in luoghi pubblici, salita su gru o altri gesti simbolici. Più comunemente l’erosione dei vincoli alla mobilità e la ricerca di soluzioni alternative all’esclusione dai servizi istituzionali rimanda al bricolage da parte delle reti migratorie, alla loro ricerca di smagliature e interstizi nella trama della regolazione degli ingressi, all’azione di intermediari che mettono in contatto domanda e offerta di lavoro anche al di fuori dei canali ufficiali (Engbersen e Broeders, 2009). Restrizioni e chiusure non sono dunque l’ultima parola: un’analisi che non si fermi al dettato normativo e alle polemiche sulla “fortezza Europa” può scoprire un mondo molto più magmatico, sofferto e insieme sorprendente. 294 Bibliografia Albertazzi D., McDonnell D. (2008), Twenty-first century populism, Basingstoke, Palgrave. Aleinikoff T.A., Klusmeyer D. (a cura di) (2001), Citizenship today. Global perspectives and practices, Washington, Carnegie endowment for international peace. Ambrosini M. (2013), Immigrazione irregolare e welfare invisibile. 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Il punto di vista degli utenti stranieri (2011) - Rapporto n. 34 - Alunni stranieri in provincia di Arezzo. Presenza e seconde generazioni (a.s. 2010/11) (2011) - Rapporto n. 35 – La presenza di immigrati e figli di immigrati in provincia di Arezzo (al 31/12/2011) (ottobre 2011). - Rapporto n. 36 - L’imprenditoria immigrata in provincia di Arezzo (al 1 gennaio 2011) (2011) - Rapporto n. 37 - Alunni con cittadinanza non italiana: regolarità e riuscita scolastica (a.s. 2010-2011) (2012) - Rapporto n. 38 – L’immigrazione nelle zone della Provincia. Rapporti Zonali (2012) - Rapporto n. 39 - Popolazione immigrata e servizi sanitari (2012) - Rapporto n. 40 – Il Mondo a scuola. Gli studenti di origine straniera nelle scuole della provincia di Arezzo (a.s. 2012/13). Presenza, seconde generazioni, esiti scolastici (2013) - Rapporto n. 41 – La presenza di immigrati e figli di immigrati in provincia di Arezzo al 1/1/2013 - Rapporto n. 42 – Alunni con cittadinanza non italiana: regolarità e riuscita scolastica (a.s. 2012/2013) -Rapporto n. 43 – Il lavoro autonomo e le rimesse degli immigrati in provincia di Arezzo (al 1° gennaio 2014) - Rapporto n. 44 – Cittadini stranieri e uso dei farmaci in provincia di Arezzo (giugno 2014) - Rapporto n. 45 – I ricongiungimenti familiari in provincia di Arezzo (giugno 2014) - Rapporto n. 46 – La scuola e i “nuovi” italiani: accogliente, integrativa e inclusiva? Una ricerca esplorativa in provincia di Arezzo (06/2014) - Rapporto n. 47 – I centri per l’integrazione in provincia di Arezzo - Rapporto n. 48 - Gli immigrati e le G2 in provincia di Arezzo (all’1/1/2014) 298 - Rapporto 49 – Studenti con cittadinanza non italiana. Presenza, ritardi e esiti scolastici (a.s. 2013-2014) - Rapporto n. 50 – Studenti con cittadinanza non italiana in provincia di Arezzo (a.s. 20142015) - Rapporto n. 51 – La presenza straniera in provincia di Arezzo (all’1/1/2015) Rapporti sull’immigrazione in provincia di Arezzo – Luatti L., La Mastra M. (a cura di), L’immigrazione straniera in provincia di Arezzo. Presenza, inserimento scolastico e lavorativo, Provincia di Arezzo-Ucodep (Studi e ricerche n. 3), Arezzo, 2001 – Luatti L., Ortolano I., La Mastra M. (a cura di), L’immigrazione straniera in provincia di Arezzo. Rapporto 2003, Provincia di Arezzo-Ucodep (Studi e ricerche n. 5), Arezzo, 2003 - Luatti L., La Mastra M. (a cura di), Terzo Rapporto sull’immigrazione in provincia di Arezzo, Ucodep-Provincia di Arezzo, Arezzo, 2007. - Luatti L., Tizzi G., La Mastra M. (a cura di), Vivere insieme. Quarto rapporto sull’immigrazione e i processi di inclusione in provincia di Arezzo, Provincia di Arezzo, Oxfam Italia, Arezzo, 2012. - Luatti L., Tizzi G., La Mastra M. (a cura di), Un tempo nuovo. Quarto rapporto sull’immigrazione e i processi di inclusione in provincia di Arezzo, Provincia di Arezzo, Oxfam Italia, Arezzo, 2015. Rapporti sull’immigrazione nel comune di Arezzo - Luatti L., Rocchi S., La Mastra M., Arezzo plurale. Immigrazione e mutamento sociale, Comune di Arezzo, Provincia di Arezzo, Ucodep, 2009. - Luatti L., Tizzi G., La Mastra M., Arezzo plurale oggi e domani. Secondo rapporto sull’immigrazione nella città di Arezzo, Comune di Arezzo, Provincia di Arezzo, Oxfam Italia, 2011. 299 300 301 302