Anno XXXIV
n. 5 Maggio 2004
Ordine
Direzione e redazione
Via Appiani, 2 - 20121 Milano
Telefono: 02 63 61 171
Telefax: 02 65 54 307
dei
giornalisti
della
Lombardia
http://www.odg.mi.it
e-mail:[email protected]
Spedizione in a.p. (45%)
Comma 20 (lettera b)
dell’art. 2 della legge n. 662/96
Filiale di Milano
Associazione “Walter Tobagi” per la Formazione al Giornalismo
Istituto “Carlo De Martino” per la Formazione al Giornalismo
L’appuntamento è per eleggere i 9 consiglieri regionali e i 25 nazionali nonché i 3 revisori dei conti
Giornalisti al voto il 23/24 e il 30/31 maggio
Il Consiglio ha deciso di aprire soltanto il seggio di Milano. Ai giornalisti che abitano fuori provincia
e che raggiungeranno Milano per votare verrà rimborsato il biglietto utilizzato sui mezzi pubblici
Milano, 26 marzo 2004. Gli iscritti all’elenco professionisti e a
quello pubblicisti dell’Albo di Milano saranno convocati in
assemblea per l’elezione dei consiglieri regionali e di 25 consiglieri nazionali (14 professionisti e 11 pubblicisti) dell’Ordine.
Le operazioni elettorali si svolgeranno, in seconda convocazione valida qualunque sia il numero degli intervenuti, il 23 e 24
maggio. Il ballottaggio, invece, si terrà il 30 e 31 maggio. Il
Consiglio regionale è formato da sei professionisti e tre pubblicisti. Il Collegio dei revisori dei conti annovera due professionisti e un pubblicista.
Si voterà, come negli anni passati, nella Sala Orlando dell’Unione del Commercio di Corso Venezia 49. Qui saranno
collocate 30 cabine, capaci di smaltire 600 persone in un’ora. La sala di 600 mq è dotata di 600 poltrone. Le operazioni
elettorali di prima convocazione (16 maggio) si svolgeranno
nella sede dell’Ordine di via Appiani 2 anche se si sa in
partenza che saranno da considerare nulle, in quanto è
impossibile ipotizzare che votino il 50%+1 dei circa 17mila
giornalisti professionisti e pubblicisti iscritti negli elenchi
dell’Albo. Non è ammesso il voto per corrispondenza o per
delega. I professionisti votano soltanto per i professionisti e i
pubblicisti soltanto per i pubblicisti. Il Consiglio, nella seduta
del 23 febbraio, ha deciso di aprire soltanto il seggio di Milano: ai giornalisti che abitano fuori della provincia di Milano e
che raggiungeranno Milano per votare, verrà rimborsato il
biglietto utilizzato sui mezzi pubblici.
Ed ecco il testo della lettera di convocazione dell’Assemblea
elettorale:
OGGETTO: elezione dei componenti del Consiglio regionale
e del Collegio dei revisori dei conti dell’Ordine dei giornalisti
della Lombardia nonché di 25 consiglieri lombardi (14 professionisti e 11 pubblicisti) dell’Ordine nazionale dei Giornalisti.
Avviso per posta (ex art. 3 DlgsLgt n. 382/1944 ed ex delibera 23 febbraio/22 marzo 2004 approvata con voto unanime
dal Consiglio dell’OgL e ratificata all’unanimità dall’Assemblea degli iscritti all’Albo tenutasi il 25 marzo 2004 al Circolo
della Stampa di Milano).
In ottemperanza agli articoli 3, 4, 5, 6, 10 e 16 della legge 3
febbraio 1963 n. 69 e agli articoli 5, 6, 7 e 16 del Regolamento (Dpr n. 115/1965) per l’esecuzione della legge stessa,
gli iscritti all’elenco professionisti e a quello pubblicisti dell’Albo vengono convocati in assemblea per la elezione dei
componenti del Consiglio regionale e di 25 consiglieri nazionali (14 professionisti e 11 pubblicisti).
La prima convocazione dell’Assemblea degli iscritti è fissata
per domenica 16 maggio 2004 (dalle 10 alle 18 con un unico
seggio ubicato presso la sede dell’Ordine, via Appiani 2,
Milano). Ti ricordo che, ai sensi dell’art. 4 (3° comma) della
legge n. 69/1963, <l’assemblea è valida in prima convocazione, quando intervenga almeno la metà degli iscritti>.
Le operazioni elettorali si svolgeranno poi in seconda convocazione valida qualunque sia il numero degli intervenuti (articolo 4, terzo comma, della legge professionale). In base agli
articoli 9 (terzo comma) e 11 (terzo comma) del Regolamento,
NE
DI
OR
IER
SS
O
ID
ORDINE
Le urne saranno aperte
in Corso Venezia 49
L’ASSEMBLEA
IN SECONDA
CONVOCAZIONE
viene fissata a Milano in Corso Venezia 49 (presso la sala
Orlando dell’Unione del Commercio Turismo e ServiziCts) in due giorni consecutivi per
Ove non sia raggiunta la maggioranza assoluta dei voti da
tutti o da alcuno dei candidati si procederà, in un’assemblea
successiva, a votazione di ballottaggio tra i candidati che
hanno riportato il maggior numero di voti, in numero doppio
di quello dei consiglieri ancora da eleggere.
L’assemblea per la votazione di ballottaggio viene fissata a
Milano in Corso Venezia 49 (presso la sala Orlando
dell’Unione del Commercio) in due giorni consecutivi per
DOMENICA 23 MAGGIO 2004
dalle ore 9,45 alle ore 13,15 e
DOMENICA 30 MAGGIO 2004
dalle ore 9,45 alle 13,15
LUNEDI’ 24 MAGGIO 2004
dalle ore 9,30 alle ore 14
LUNEDI’ 31 MAGGIO 2004
dalle ore 9,30 alle 14
NON È AMMESSO IL VOTO PER CORRISPONDENZA
O PER DELEGA
Le operazioni di scrutinio sono pubbliche.
NORME
Dovranno essere eletti:
- per il Consiglio Regionale
6 professionisti
3 pubblicisti
- per il Collegio dei Revisori dei conti
2 professionisti
1 pubblicista
- per il Consiglio Nazionale
14 professionisti
11 pubblicisti
Il voto si esprime mediante apposite schede da ritirarsi presso il seggio all’atto della votazione, recanti l’indicazione delle
righe in bianco sulle quali l’elettore dovrà scrivere materialmente i nomi prescelti.
I professionisti votano solo per i professionisti e i pubblicisti solo per i pubblicisti.
TI
IS
Tutte le regole
L
NA
R
delle
elezioni coordinate
O
GI
I
e
spiegate
con l’aiuto
DE
Sono eleggibili (e possono essere votati anche se non
hanno espresso la volontà di candidarsi) tutti gli iscritti
all’Albo, professionisti e pubblicisti, che abbiano almeno
5 anni di anzianità di iscrizione (articolo 3 della legge
professionale) nel rispettivo elenco. I consiglieri uscenti
sono rieleggibili.
Sono elettori gli iscritti in regola con il pagamento delle
quote annuali. Coloro che non sono in regola potranno
provvedere al pagamento delle quote dovute presso il
seggio elettorale dove verrà istituito apposito ufficio con l’incarico di riscuotere le quote e rilasciare un certificato attestante l’avvenuto pagamento. Solo la presentazione al
seggio di questo certificato consente l’ammissione a
votare (articolo 10, secondo comma, del Regolamento).
prof. Francesco Abruzzo
presidente dell’Ordine dei Giornalisti della Lombardia
e dell’Assemblea degli iscritti
SOMMARIO
Mobbing
della giurisprudenza
Ricorso crescente dei giornalisti
alla psicoterapia
“vero e proprio
campanello d’allarme”
pag.
2
pag.
pag.
pag.
pag.
pag.
pag.
pag.
pag.
pag.
5
6
7
8
12
16
18
22
24
http://www.odg.mi.it/reg_voto.htm
E
IN
RD
O
“
DI
”
ID
LO
B
TA
Notizie.
Leggerle, scriverle
per la maturità
Inserto speciale all’interno
di Paola Pastacaldi
5
BALLOTTAGGIO
2004
Free-lance
Giornalismo e dintorni
Proposta di legge “rivoluzionaria”
Intervista al direttore di “Reset” Giancarlo Bosetti
Negli Usa esplode lo scandalo del “copia e incolla”
Tesi di laurea
La “ Voce” di Indro Montanelli
Giornalismo e giustizia Pm e giudici devono indagare sui loro collaboratori
Professione
Uffici stampa della PA e trattative Fnsi-Aran
Memoria
Gaetano Baldacci, l’uomo del Giorno
La libreria di Tabloid
Torna la “Storia di Milano” del Verri
Le recensioni del mese
1
Convegno a Roma sul tema “Se il giornale dà il mal di capo”, organiz
SALUTE, COSTITUZIONE, CODICE
CIVILE E CODICE PENALE
MOBBING
Ricorso crescente dei giornalisti alla psicote
Roma, 23 marzo 2004. Da novembre 2002,
data della sua apertura, ad oggi, lo Sportello
Mobbing della Stampa Romana, ha raccolto
oltre cinquanta denunce, di cui oltre la metà
ritenute ‘gravi’ dai medici e dai consulenti
legali che le hanno esaminate. Una realtà
che interessa testate grandi e piccole, tv e
radio sia pubbliche che private, agenzie di
stampa e che, probabilmente, è solo la punta
dell’iceberg. Se ne è discusso oggi a Roma
nel corso del convegno “Se il giornale dà il
mal di capo”, organizzato dall’Associazione
stampa romana e dall’Ucsi-Unione cattolica
della stampa italiana, non solo per fare il
punto sul lavoro svolto in poco più di un
anno, ma anche e soprattutto per svelare
quanto il mobbing sia di casa nelle redazioni, tanto da far pensare, come ha rilevato
stamane il segretario di stampa romana,
Silvia Garambois, che stia diventando “un
insano strumento di governo delle redazioni”. Violenze psicologiche, dispetti, umiliazioni professionali, emarginazione che portano
I preoccupanti
dati della Casagit
a stati d’ansia, stress psicofisico: il mobbing
riesce attraverso una serie di meccanismi
perversi a mettere in moto reazioni che
portano l’organismo ad ammalarsi anche
gravemente. I sintomi fisici più diffusi sono le
eruzioni cutanee, l’abbassamento delle difese immunitarie (tosse, raffreddore, influenza,
maggiore vulnerabilità alle malattie), ma
anche disturbi tiroidei, cardiaci, problemi
delle funzioni gastriche e digestivi. Nel giornalismo il mobbing sembra una specie di
malattia congenita: a ogni cambio di direttore
corrisponde la marginalizzazione di alcuni
redattori e l’ascesa di altri. “La cosa più difficile per il mobbizzato è prendere coscienza
del problema - è stato detto stamane - ma
bisogna sapere che altri hanno vinto contro
questo tipo di violenza. Non lasciarsi convincere di essere il malato o il colpevole della
situazione, perché il vero malato è il
mobber”. Che si tratti di un problema reale,
sempre più sentito nelle redazioni è testimoniato anche dal ricorso crescente da parte
dei giornalisti alla psicoterapia. Sono i dati
Casagit a parlare e a rappresentare “un vero
e proprio campanello d’allarme”, soprattutto
se abbinati a quelli di malattie collegabili con
lo stress. In Italia una legge per difendersi dal
mobbing non esiste. Il più delle volte, i lavoratori che ne sono bersaglio tacciono, subiscono, o si licenziano. Ma la consapevolezza
aumenta: lo dimostrano l’aumento delle strutture che sul territorio se ne occupano, Asl o
Centri universitari, e l’attenzione che sindacati e categorie di lavoratori sempre più vi
pongono. La Stampa romana ha elaborato
un Protocollo per i Cdr che delinea i contorni
del fenomeno, i metodi e i modi con cui può
essere messo in atto e impegna editore,
direttore e comitati di redazione a contrastarlo. Un documento che il Segretario della
Fnsi, Paolo Serventi Longhi, giudica positivamente e pur mettendo in guardia contro “le
eccessive declaratorie, perché le psicosomatizzazioni sono molte”, non esclude che
nei prossimi mesi lo si possa inserire nella
discussione per il rinnovo del contratto di
lavoro dei giornalisti.
(Asca)
Lo Sportello di Roma
finestra sulle violenze
morali nelle redazioni
intervento di Simonetta Ramogida*
Farò un intervento “tecnico” perché spetta a me
illustrare il “Protocollo” messo a punto per i Cdr
e per la Commissione Contratto. Il testo è stato
distribuito nella cartellina, quindi mi limiterò ad
esporre gli aspetti principali. Prima, però, vorrei
ricordare quello che abbiamo fatto in un anno
e mezzo circa di Sportello Mobbing.
Lo “Sportello” è nato a novembre 2002 e da
allora sono arrivati alla nostra osservazione
moltissimi casi di violenze morali nelle redazioni, molti di più di quanti noi stessi potevamo immaginare nel mettere a punto uno strumento in grado di monitorare il fenomeno.
Naturalmente lo Sportello, fornisce l’assistenza ai giornalisti, assieme all’ufficio sindacale
dell’Associazione Stampa Romana, e avvalendosi dei consulenti legali dell’Associazione.
Per gli aspetti che riguardano la salute, invece, indirizziamo i colleghi presso le strutture
pubbliche esistenti, dotate di un Centro Antimobbing, come la Asl RME di Viale Tor di
Quinto, o il Day Hospital del Policlinico Umberto 1° per citarne solo alcuni.
In questo periodo in cui abbiamo operato,
sono giunti alla nostra osservazione 26 casi
gravi di Mobbing, ma il fenomeno è molto più
diffuso, e presente in tutte le realtà, nel
senso che interessa i grandi quotidiani, come
le radio, le Tv, sia pubblche che private, i grandi network, le agenzie di stampa, gli uffici
stampa. È capitato che i Cdr ci chiedessero
aiuto anche per le testate straniere che operano a Roma. Al sito www.stamparomana.it
sono arrivate anche richieste di aiuto da parte
di giornalisti che operano in altre città d’Italia
e che sono iscritti ad altre Associazioni territoriali. Ma si sono accostati allo Sportello
Mobbing, addirittura un cuoco di Firenze, una
infermiera del Policlinico di Roma, un dipendente di una azienda elettrica di Rieti e tanti
altri. Noi, abbiamo cercato di fornire le risposte a tutti, anche se lo Sportello Mobbing è
nato per i giornalisti.
La stesura del “Protocollo” per i Cdr è nata
2
prorio dalla constatazione diretta di quanto sia
diffuso il problema. Allora, sulla falsariga di
quanto avevano già fatto altre categorie professionali, abbiamo stilato un documento che
in risalto che le risorse umane
rappresentano il bene più importante e
1 mette
significativo per l’azienda, e questo vale
anche per le aziende editoriali
che le molestie morali, le molestie sessuali, le prevaricazioni di vario
2 sottolinea
genere incidono pesantemente sul lavoro, ma anche sulla salute dei giornalisti
l’editore, il direttore, il cdr a
contrastare nelle redazioni il fenomeno
3 impegna
del mobbing
che tali comportamenti vengono
effettuati in maniera “strategica” per arre4 spiega
care offesa alla dignità professionale del
dipendente, a nuocere alla sua integrità
psicofisica, a far degradare il clima lavorativo fino a determinare la sua espulsione, o la sua autoesclusione addirittura
con le dimissioni.
5
dedica un paragrafo alle molestie sessuali: abbiamo osservato che a volte, il
mobbing inizia con le molestie sessuali
che è fatto divieto all’uso di ogni
forma di discriminazione. Lo dice anche
6 afferma
la Costituzione, noi elenchiamo i modi
attraverso cui può avvenire la discriminazione
spiega i disturbi che possono derivare dal Mobbing e in ultimo
7 infine
la necessità all’interno dell’azienda della creazione di una Commis8 stabilisce
sione composta da rappresentanti aziendali, e rappresentanti dei dipendenti.
Tutto questo può anche essere un terreno di
lavoro comune con i poligrafici. Infine il proble-
ma del danno psicofisico. Su questo aspetto
si sono cimentati grossi esperti di mobbing
come Harald Ege, Renato Gilioli, e molti altri.
I sintomi fisici più diffusi sono le eruzioni
cutanee, l’abbassamento delle difese immunitarie (tosse, raffreddore, influenza, maggiore vulnerabilità alle malattie), disturbi tiroidei,
disturbi cardiaci come la tachicardia, il senso
di oppressione, l’ipertensione, i problemi
delle funzioni gastriche e digestive: bulimia,
gastrite, ulcera, i disturbi intestinali, i disturbi
della sfera sessuale, i dolori osteoarticolari,
l’astenia.
I sintomi psichici più frequenti sono le manifestazioni psicosomatiche: perdita della concentrazione, di memoria, disturbi del sonno, cefalee, sudorazione, agitazione, irrequietezza,
sindromi ansiose, depressione con fissazione
del pensiero sul proprio problema, disturbi
comportamentali che impediscono la partecipazione alla vita lavorativa, alterazioni della
personalità fino al suicidio.
Perché abbiamo titolato il nostro comunicato
con UN CANNIBALE IN REDAZIONE ?
Perché alla luce anche di quanto si è analizzato, il mobber con il suo comportamento è
come se intaccasse gli organi vitali del
mobbizzato.
Garambois, nel suo intervento ha parlato di
“comportamenti animaleschi” da parte del
mobber, il Professor Piccione ha detto che il
mobbing non è una malattia, ma una serie di
sintomi. Di mobbing però ci si ammala. Quasi
sempre. Con una sintomatologia diversa da
persona a persona. Per il Devoto-Oli un
“cannibale” è “chi si ciba di carne umana”,
ovvero “un uomo crudele, feroce, disumano”.
Poiché secondo gli studi più accreditati sul
fenomeno del mobbing, il mobber è un
“narciso frustrato”, si può immaginare che si
nutra famelicamente della mente del mobbizzato (in preda ad attacchi di ansia, panico e
depressione), del cuore del mobbizzato (che
ha attacchi fino all’infarto. È di qualche tempo
fa una sentenza che riconosce il danno
biologico ad un soggetto che ha avuto un
infarto a seguito delle molestie morali), dello
stomaco del mobbizzato (gastriti, problemi
dell’alimentazione), della tiroide del mobbizzato (problemi ormonali), e così di seguito.
Infine, due parole sul mobbing come strumento in mano all’azienda per governare i
processi di riorganizzazione del lavoro e le
ristrutturazioni. Il metodo, ho letto da qualche
parte ma mi sembra calzante, “è quello di
tenere vivo il fuoco di una destabilizzazione
permanente per distruggere valore anziché
crearlo. Premiare nello stesso tempo tutti
coloro che in buona misura più o meno
consapevolmente aiutano questo disegno,
invertendo così la tanto decantata meritocrazia che gli stessi vertici aziendali sono i primi
ad umiliare. Infatti, che senso di fedeltà di
appartenenza ad una azienda si può diffondere se l’incoraggiamento a portare a risultati si associa continuamente alle minacce e
se le professionalità invece di venire valorizzate e incoraggiate secondo rigore ed equità
vengono asservite ad un progetto di destabilizzazione? In questo modo si rafforza, invece, solo lo spirito di cordata”.
* Simonetta Ramogida, nata a Roma, dopo la
laurea conseguita all’Università la Sapienza di
Roma in Scienze Politiche (indirizzo politico
economico) con una tesi su “Il dualismo economico:problemi del mercato del lavoro”, consegue il
Master in Giornalismo e Comunicazione di massa
presso la Libera Università Luiss, mentre si occupa di ricerca economica alla Sapienza (professor
Giovanni Caravale) su testi di Ricardo e Sraffa.
Inizia la carriera giornalistica a Prima comunicazione dove per diversi anni si occupa di sindacato
(vertenze editoriali) e comunicazione (marketing,
pubblicità, uffici stampa e relazioni esterne),
mentre collabora con l’Anica, di cui cura diverse
campagne di comunicazione. Successivamente
collabora con l’Agi (redazione economica), l’Ansa
(redazione economica), il Messaggero (I nostri
soldi, inserto economico sul risparmio) fino ad
approdare all’Asca, dove da 15 anni si occupa
prevalentemente di finanza (Bankitalia, Borsa,
Risparmio, Consob, Banche).
ORDINE
5
2004
zato il 23 marzo 2004 dall’Associazione stampa romana e dall’Ucsi Unione cattolica della stampa italiana
IN REDAZIONE
rapia “vero e proprio campanello d’allarme”
Tribunale di Roma versus Rai:
“Ha privato con volontà palese
un giornalista delle mansioni”
Circolare Inail spiega
il mobbing strategico
Anche nell’attività giornalistica il mobbing comincia ad essere riconosciuto e sanzionato in sede giudiziaria. Lo dimostra
l’ordinanza recentemente emessa dalla IV Sezione - Lavoro
del Tribunale di Roma in merito al ricorso presentato dal
collega Rai Massimo Minisini, inquadrato nella Direzione
Canali Innovativi e di Pubblica Utilità, retta da Riccardo Berti.
La dott.ssa Tiziana Orrù ha riconosciuto “la gravità e la irreparabilità del danno dipendenti dalla denunciata situazione
di mobbing conseguente alla privazione del diritto all’espletamento della prestazione lavorativa”.
Emerge dalla documentazione – prosegue l’ordinanza - “la
volontà palese di estromettere il ricorrente dalle funzioni
esercitate senza attribuzione di incarichi equivalenti”. Si tratta di una vicenda che il magistrato giudica “evidentemente
ricostruibile in termini di mobbing in quanto è il frutto di un
processo di comportamenti materiali, non autonomamente
sanzionabili in quanto formalmente legittimi, che assumono
un significato peculiare in quanto tappe di una strategia prefigurata e volta alla totale privazione delle mansioni”.
Una simile ordinanza indica che la legge fornisce ulteriori
strumenti a tutela dei giornalisti e delle giornaliste contro i
sempre più estesi processi di dequalificazione e marginalizzazione professionale in atto nelle redazioni. È un segnale
che le aziende editoriali – ed in particolare il servizio pubblico – faranno bene a non trascurare.
L’ Inail ha emanato la circolare n. 71 del 17 dicembre 2003,
con la quale ha tracciato le modalità di trattazione delle pratiche riguardanti i “Disturbi psichici da costrittività organizzativa
sul lavoro. Rischio tutelato e diagnosi di malattia professionale”. Questa circolare, infatti, riporta un esaustivo ed articolato
quadro di riferimento che consente, già da ora, di garantire
omogeneità e correttezza nella trattazione delle pratiche. Quindi i disturbi psichici possono essere considerati di origine
professionale solo se sono causati, o concausati in modo
prevalente, da specifiche e particolari condizioni dell’attività e
della organizzazione del lavoro. Si ritiene che tali condizioni
ricorrano esclusivamente in presenza di situazioni di incongruenza delle scelte in ambito organizzativo, situazioni definibili con l’espressione “costrittività organizzativa”.
Nel rischio tutelato può essere compreso anche il cosiddetto
“mobbing strategico” specificamente ricollegabile a finalità
lavorative. Si ribadisce tuttavia che le azioni finalizzate ad
allontanare o emarginare il lavoratore rivestono rilevanza
assicurativa solo se si concretizzano in una delle situazioni
di “costrittività organizzativa” o in altre ad esse assimilabili.
Fonte Università di Catanzaro
Link http://www.unicz.it/lavoro/
Consulta: privilegiato il credito
di un lavoratore mobbizzato
in caso di fallimento dell’azienda
Roma, 7 aprile 2004. Da oggi il giornalista demansionato o
mobbizzato é più tutelato anche in caso di fallimento dell’azienda. Lo ha stabilito la Corte Costituzionale con sentenza
n. 113 (depositata ieri in cancelleria) dichiarando illegittima la
norma (si tratta dell’articolo 2751 bis del codice civile) che
non consentiva di inserire tra i crediti “privilegiati” le somme
dovute al lavoratore subordinato per danni da demansionamento - mobbing compreso - subiti a causa dell’illegittimo
comportamento del datore di lavoro. I giudici della Consulta
hanno così accolto un’eccezione sollevata dal tribunale di
Ferrara, secondo cui era incostituzionale includere il credito
del lavoratore tra quelli “chirografari” - cioé senza adeguate
garanzie di recupero - anziché tra quelli “privilegiati”.
Pierluigi Franz
presidente Associazione stampa romana
Silvia Garambois, segretario Associazione
stampa romana
Roberto Natale, segretario Usigrai
l mal di redazione? Esiste. E negli ultimi
anni la febbre del disagio, negli ambienti
giornalistici, è sicuramente salita. La
denuncia, per la prima volta in un quadro
consapevole di dati e riferimenti, cinque anni
fa, accendendo un piccolo spot d’attenzione
su questo argomento proprio nell’occasione
del venticinquennale della Casagit. E oggi, a
trent’anni dalla nascita della Cassa, una data
che ci fa riflettere per quanto profondamente
coincide con il cambiamento di pelle della
professione giornalistica, non possiamo che
confermare almeno i sintomi della malattia.
Mal di capo o mal di ufficio, il morbo come in
tutte le epidemie si diffonde silenziosamente, spesso per contagio, e il vaccino ancora
non è stato individuato. Per Casagit che ha
comunque sotto gli occhi un osservatorio
empirico ma indicativo dello stato di salute
dei giornalisti il primo indicatore che conferma il fenomeno, neanche a dirlo, è l’aumento costante, negli ultimi anni, del ricorso alle
psicoterapie. È un aumento generalizzato, su
questo un chiarimento a priori va fatto, che
riguarda in alcune fasce d’età purtroppo
anche la parte più giovane anagraficamente
degli assistiti, ma il nocciolo duro degli interventi “coperti” dal rimborso integrativo Casagit denuncia un male di vivere che tocca
soprattutto chi vive, e non da ieri, la vita
professionale in redazione. Il lavoro logora
chi non ce l’ha, ma, soprattutto chi ce l’ha. E
i segnali, che questo sia o no mobbing nel
senso più correttamente declinabile del
termine, confermano che il malessere esiste
nella professione vissuta sul campo, perché
la professione ha ormai un campo che ha
sempre più ristretto la sua visuale diventando spesso un luogo virtuale.
I
“
Il potere
ad un
vigliacco
Intervento di Michele Piccione
della Clinica psichiatrica dell’Università
di Roma-La Sapienza
ORDINE
5
2004
Il lavoro (giornalistico)
logora chi ce l’ha?
intervento di Laura Delli Colli
vicepresidente vicario Casagit
La prova? I giornali vivono sempre più con la
logica del lavoro “in ufficio” e non in un
ambiente che, piuttosto, si è configurato negli
anni come un luogo atipico, perfino negli orari.
Internet e prima ancora la quantità dell’informazione e delle immagini disponibili, in entrata su quel server virtuale che è l’accesso
quotidiano alle fonti, hanno modificato il nostro
modo di lavorare: si esce meno dalla redazione e perfino il ruolo dell’inviato speciale, un
tempo il massimo della libertà professionale,
è diventato una declinazione d’onore della
professione, spesso non coincidente con l’immagine di una ricerca sul campo da cronisti di
razza che gli inviati di ieri avevano in sorte
come un punto massimo di arrivo nella carriera da battitori liberi.
Questo il quadro generale della professione.
Quanto agli episodi, c’è ancora una forte resistenza nel denunciare, e anche molta impreparazione nel saper individuare come vero e
proprio mobbing la vessazione strisciante che
si propaga dal capo in giù all’interno di una
redazione.Ormai già cinque anni fa avevamo
aperto un fronte di dialogo con i colleghi, chiedendo, sia come Associazioni di Stampa che
come Casagit di poter contare sulla trasparenza, almeno della casistica su cui poter
costruire la prima analisi per quel famoso
vaccino che non c’è. La voce più forte in un
convegno promosso dalla nostra Cpo, la
Commissione Pari Opportunità della Fnsi. Un
convegno agguerrito al punto di dover rinunciare, per la tutela di alcune colleghe che
avevano portato le loro testimonianze, a
pubblicarne gli atti finali.
Cosa è cambiato cinque anni dopo? E cosa
legge Casagit nel quadro dei suoi dati quotidianamente ingoiati nella voragine degli archivi telematici? La radiografia quella di una
realtà professionale diversa proprio sotto il
profilo della salute. Lo stress ha raggiunto
livelli di cronicità aggravate dal malessere
redazionale. E nel malessere redazionale è
difficile individuare la soglia tra una “normale”
abitudine alle complicazioni di una convivenza da ufficio e gli episodi che la nuova consapevolezza della materia consente di individuare come vero e proprio mobbing.
A noi comunque spetta soprattutto l’analisi
degli effetti. E se siano o no da mobbing,
possiamo confermare, come Casagit, che
l titolo “Il potere ad un vigliacco” non deve
ingannare in quanto questo intervento, tratto
da un capitolo del volume monografico in
corso di pubblicazione, non vuole avere valenza politica o sociologica ma esclusivamente
clinica psicologica e psichiatrica. “Potere” deriva da potestas, cioè la facoltà di richiedere la
gabella, e da possum – posso, il cui contrario
è non possum – non posso. Ad esso è quindi
riconosciuto un coefficiente di discrezionalità e
soggettività che lo differenzia moltissimo dal
“dovere” e lo espone all’abuso, cioè ab-usum.
Su questo territorio si combatte la battaglia del
Mobbing, inteso come violenza morale o
psichica in occasione di lavoro che, come tale,
non è una malattia ma un comportamento che
può produrre sintomi.
Come tale deve essere affrontato in modo
assolutamente serio e congruo, tenendo ben
presente che all’interno di esso cercano posto
e collocazione una pletora di realtà umane,
cliniche e professionali multiformi, diverse tra
loro e per nulla compatibili, come: deliranti di
persecuzione, frustrati, nullafacenti, nullavolenti, disamorati costituzionali, etc.
La Comunità europea, sensibile alle attuali
cosiddette patologie emergenti ed allarmata
dal dilagare di questo fenomeno, considerato
verosimilmente ragionevolmente fortemente
sovrastimato, ha sollecitato i Paesi membri di
occuparsene, legiferando in proposito.
a Presidenza del Consiglio dei Ministri
italiano, su incarico del Ministro per la
Funzione Pubblica, ha pertanto decretato l’istituzione di una Commissione pluridisciplinare, al fine di fornire la definizione del fenomeno, l’indicazione di modelli per la prevenzione e formulare una bozza, anche, di carattere
I
L
l’aumento di certe patologie legate a un
quadro fortemente potenziato di stress da
lavoro è un fatto riscontrabile. Ci sono effetti
squisitamente psicologici e la malattia in
questo caso si esprime con il ricorso alle
prestazioni specifiche.
Ma ci sono anche, e in costante aumento,
patologie apparentemente molto “normali” e
generalmente diffuse che sono indubbiamente segnali di uno stress palese e di un malessere conclamato: al di là dei normali disturbi
“da stress” il dismetabolismo o, nel quadro
delle disfunzioni ormonali, l’aumento delle
patologie tiroidee. Per non parlare del quadro
di disturbi cardiologici sul quale Casagit sta
indagando, anche statisticamente, nell’ultima
fase del quadriennio dedicato alla prevenzione, un’iniziativa che si concluderà alla fine del
prossimo anno, e che sta monitorando in tutt’Italia una fascia di popolazione giornalistica a
rischio, per larga parte contrattualizzata.
Quali disturbi? Ipertensione, danni cardiovascolari, infarto, ictus. Si tratta di patologie che
hanno un costo individuale ma ormai anche
professionale. Ma l’antidoto non è in una
medicina che può somministrare il servizio
sanitario né tantomeno l’integrazione, pur
generosa, della Casagit.
È probabilmente nella coscienza vigile di
ciascuno di noi. Nell’attenzione a non fraintendere la normalità dello stress quotidiano,
almeno nel lavoro, con quel morbo strisciante
e contagioso che ha il nome di mobbing. Una
persecuzione psicologica che a volte è vessatoria, dall’alto, a volte nasce dai colleghi ed è
più “orizzontale”. Ma la somma, o l’alternativa,
almeno negli effetti strategici di tipo emozionale o relazionale, non cambia, alla fine, il
prodotto...
normativo. La Commissione ha assolto il
proprio compito dopo aver preso in considerazione la letteratura mondiale sull’argomento, i
disegni ed i progetti di Legge giacenti alla
Camera ed al Senato, e condiviso come
presupposto ineludibile quello di considerare
lavoratori sia il datore di lavoro che il prestatore d’opera, al fine di garantire entrambi da
ingiuste accuse e da violenze vere.
olto sinteticamente, tra i punti salienti,
possono essere riconosciuti: la istituzione di Centri regionali di valutazione
interconnessi tra loro e con una uniformità di
criteri valutativi su scala nazionale; la necessità sul piano preventivo di rendere edotti i
lavoratori sulle attività mobbizzanti (sia nel
provocarle che nel riceverle), dichiarando
M
segue
3
SALUTE, COSTITUZIONE, CODICE
CIVILE E CODICE PENALE
Il potere
ad un
vigliacco
segue da pagina 3
Duecento
le pratiche
Inail per
“patologie
da stress”
Il mobbing dà i numeri. Sono 200 le pratiche aperte a tutt’oggi
all’Inail per “patologie da stress correlate”, di cui solo 21 riconosciute come malattie professionali, generate da vessazioni in
ambiente lavorativo. A diffondere tali dati è il presidente dell’Istituto italiano di medicina sociale, Pierantonio Ricci, annunciando
in anteprima i contenuti di una relazione elaborata dall’ente.
“Spesso – spiega Ricci – si tendono a far rientrare nel mobbing
i fenomeni più disparati e questo perché manca una definizione
universalmente accettata per questa patologia. Bisogna concentrare gli sforzi nella soluzione concreta dei problemi, piuttosto
che strumentalizzare la popolarità di un fenomeno in preoccupante crescita per non condivisibili attacchi al mondo delle
imprese”.
(da Il Sole 24 Ore del 7 febbraio 2004)
tempestivamente alle figure istituzionalmente
all’uopo deputate il loro caso, al fine di comporre la vicenda per evitare il conflitto legale.
Considerando che, l’interesse del mobbizzato
è quello di far cessare l’attività e di non perdere il posto di lavoro, e quello del mobber di non
agire come tale; con la consapevolezza di
entrambi che il Mobbing vero rappresenta,
oltre che una vergogna morale, anche e certamente una condotta svantaggiosa dal punto di
vista professionale ed economico, e da non
praticare.
uesto emerge da uno studio preliminare che attualmente è in corso presso
l’Università “La Sapienza” di Roma,
circa il vissuto psicologico ed in parallelo delle
due categorie, del mobber e del mobbizzato.
E più precisamente:
…sono riconosciuti tre momenti temporalmente non definiti in anticipo, e all’interno dei quali
trova la sua gestazione questo fenomeno
mostruoso.
La dequalificazione consiste nell’abbassamento del livello
La
globale delle prestazioni del lavoratore con sottoutilizzazione
delle capacità acquisite e impoverimento della professionalità.
venga dal lavoratore denunziata la violazione
dequalificazio- Allorquando
dell’art. 2103 cod. civ., allegando di aver sofferto una dequalificazione professionale, il giudice deve stabilire se le mansioni
ne consiste
dallo stesso svolte finiscano per impedire la piena utilizzazione
e l’ulteriore arricchimento della professionalità acquisita nella
pregressa del rapporto, tenendo conto che non ogni modinell’abbassa- fase
fica quantitativa delle mansioni, con riduzione delle stesse, si
traduce automaticamente in una dequalificazione professionamento
le. Questa invece implica una sottrazione di mansioni tale –
per la sua natura e portata, per la sua incidenza sui poteri del
e sulla sua collocazione nell’ambito aziendale – da
del livello delle lavoratore
comportare un abbassamento del globale livello delle prestazioni del lavoratore con sottoutilizzazione delle capacità dallo
prestazioni
stesso acquisite ed un conseguenziale impoverimento della
sua professionalità (Cassazione Sezione Lavoro n. 5651 del
Primo momento
Secondo momento
Terzo momento
Conclusioni
Il mobber costruisce una strategia identificando il soggetto, i tempi che fantastica brevi, ed i
modi. Soddisfa così l’esigenza dell’espulsione
dell’Altro in modo subdolo e mai esplicito. Non
dà luogo ad alcun conflitto formale né ad alcuna possibilità di contestazione. Lo status psicologico è di quiete totale e di ampia soddisfazione, è totalmente assente qualsiasi sentimento di colpa. Lui sa l’Altro no. Il mobbizzato
è sempre colto di sorpresa, ha bisogno di
tempo per realizzare che quel qualcosa di
negativo che gli sta accadendo sia veramente
voluto, lo attribuisce al caso, al momento
contingente, cerca e trova a tutti i costi riscontri analoghi nel passato ed anche in altri,
aspetta e spera tutte le sere che il giorno
successivo sia diverso e sorga con la fine
dell’incubo. I livelli dell’ansia cominciano a salire, comincia a diventare più irascibile, tende a
dormire meno, sicuramente male. È preoccupato,comincia a tornargli in mente quel qualcosa che lo disturba, si riduce la fantasia creativa e quella ludica, perde forza, non ha più la
voglia per le cose che lo appassionavano in
precedenza, tende ad essere remissivo ed
accomodante, mai reattivo.
Il mobber vive un’esperienza di trionfo, raccoglie la tempesta che il suo vento ha seminato.
L’Altro è in difficoltà, l’unica cosa da fare è quella di non fare.
Il mobbizzato a volte, non sempre, trova il
coraggio e la possibilità di chiedere spiegazioni
per paura di drammatizzare ancora di più la
situazione. Procede con cautela e per cerchi
concentrici. Inizialmente con la richiesta di
conferma o smentita con i pari grado, successivamente con il “più amico” tra quelli con grado
superiore, teme moltissimo il capo con cui
fantastica fra sé e sé di parlare con discorsi
preparati e predisposti, anche in collaborazione con la famiglia, con gli amici, se gli è accaduto di superare il grande disagio dovuto al
pudore della “riservatezza della vergogna”
scaturito dalla sua evidente debolezza,
pochezza e fragilità. Comincia a star male sia a
livello psichico che somatico, l’ansia è sempre
più presente, la depressione del tono dell’umore comincia con il non essere più negabile,
tanto quanto l’astenia, l’apatia, l’abulia. Non
sono infrequenti tachicardia, ipertensione arteriosa, asma, oltre ai disturbi digestivi, quasi
sempre denunziati. Aumenta la sospettosità
anche nei confronti di altri e di altro, e per nulla
in relazione con il mondo del lavoro.
Quando il mobbizzato arriva al cospetto del
mobber, costui quasi sempre gli dice quello che
il mobbizzato spera con tutto sé stesso che gli
venga detto, e cioè che non è vero niente.
È il momento dell’identificazione con il persecutore, il mobbizzato più di Giuda, rinnega se
stesso, si colpevolizza, loda il mobber trovandolo buono e comprensivo, è un modo disperato di cercare un po’ di pace.
Il mobber sente di avere vinto, deve soltanto
aspettare che il suo pesce fuori dall’acqua
lavorativa smetta di respirare.
Il mobbizzato è in caduta libera, è confuso, la
realtà non solo è peggiorata ma ancor di più
non coincide con i termini relazionali, perché è
stato rassicurato, gli è stata spiegata la non
sussistenza di alcuna attività persecutoria, di
cui ha dato comunicazione a casa, agli eventuali amici, i quali tutti assieme pensano che
stia veramente esagerando, che è completamente matto, e che non si capisce cos’altro
vada cercando. In questa fase è veramente
solo e totalmente incompreso, senza speranza si deprime, senza riferimenti si agita in
ansia, senza consenso struttura idee persecutorie. Ma la tempesta non è ancora cessata, il
timore per la perdita del lavoro è anche un
bisogno e un desiderio, per di più è veramente
malato e soffre psichicamente e fisicamente.
La malattia, a ben vedere, rappresenta la
giustificazione migliore, ultima, unica. Ribellarsi e reagire appare molto peggio che subire e
rinunziare.
A corredo e per concludere: in un altro lavoro
abbiamo riportato delle valutazioni catamnestiche di 77 casi di mobbizzati che avevano
concluso la loro vicenda in via extragiudiziale
e di 7 Mobber da cui emergeva netto che l’unico momento di sofferenza per il mobber era in
occasione della vicenda e del coinvolgimento
legale. Questo è il vento e la tempesta del
Mobber.
Infatti, se il lavoratore sa cosa deve fare già
nella prima fase non arriverà alla terza. Nella
bozza di legge lo diciamo chiaramente e nella
nostra esperienza lo abbiamo ampiamente
verificato.
È necessario capire e far capire che il Mobbing
non è più una strategia vincente e che contro
di esso il mondo del lavoro, e non solo del lavoro, deve sentire l’esigenza civile, il bisogno
morale, la coerenza sociale di respingerlo,
perché si può sopravvivere in povertà, non si
può vivere senza dignità.
Michele Piccione
Q
20 marzo 2004, Pres. Sciarelli, Rel. Filadoro).
(da: www.legge-e-giustizia.it
Da questi studi, seppure preliminari, si evincono in modo evidente i vissuti e soprattutto i
modelli psicologici ed operativi delle due categorie.
Bibliografia
Mobbing: riflessioni sulla pelle…, Antonio Ascenzi e Gian Luigi
Bergagio, G. Giappichelli Editore, Torino, 2002
Mobbing. Conoscerlo per vincerlo. Harald Ege, Franco Angeli Editore, Milano, 2001
Perché le Zebre non si ammalano di ulcera, R. Sapolsky, McGrawHill, 1999
Mobbing: la faccia impresentabile del mondo del lavoro, Alessandra
Menelao, Mariella Della Porta e Giacomo Rindonone, Franco Angeli
Editore, Milano, 2001
Mobbing: il marketing sociale come strumento per combatterlo, Antonio Ascenzi e Gian Luigi Bergagio, G. Giappichelli Editore, Torino,
2000
Molestie sessuali nei luoghi di lavoro: guida pratica di auto-aiuto per
dirigenti, quadri e dipendenti, Massimo Santinello, Franco Angeli/Self
Help, 1998
Mobbing: no grazie!, Birgit Rupprecht-Stroell, 2001, TEA
Molestie morali: la violenza perversa nella famiglia e nel lavoro, Marie
France Hirigoyen, Grandi Tascabili Einaudi, 2000
I numeri del Mobbing: la prima ricerca italiana, Harald Ege, Pitagora
Editrice, Bologna, 1998
Cattivi capi, cattivi colleghi: come difendersi dal mobbing e dal nuovo
“capitalismo selvaggio”, Alessandro e Renato Gilioli, Mondadori,
2000
Il benessere sul lavoro, ricerca Ispo, Sperling & Kupfer, 1998
Mobbing: conoscerlo, affrontarlo, prevenirlo, Carlo Lazzari, Edizioni
Scientifiche Internazionali, 2001
Il Mobbing in Italia: terrorismo psicologico nei rapporti di lavoro, Nino
Recupero e Sandra Carrettin, Edizioni Dedalo 2001
Mobbing: i costi umani dell’impresa, Paolo Saolini, Edizione lavoro,
Roma, 2001
Mobbing, Davide Gallotti e Emanuela Cusmani, Editrice Ianua,
Roma, 2001
Mobbing: vessazione sul luogo di lavoro, P.G. Monateri, M. Bona e
U. Oliva, Giuffrè Editore, 2000
Stop Mobbing: resistere alla violenza psicologica sul luogo di lavoro,
A. Casilli, Derive e Approdi/Map Roma, 2000
Il Mobbing in Italia: introduzione al Mobbing culturale, Harald Ege,
Pitagora Editrice, Bologna, 1997
Vincere le ingiustizie nel lavoro, Carlo Lazzari, Pitagora Editrice,
Bologna, 1997
Mobbing: che cos’è il terrorismo psicologico sul posto di lavoro,
Harald Ege, Pitagora Editrice, Bologna, 1996
Stress e Mobbing, Harald Ege – Maurizio Pancioni, Pitagora Editrice, Bologna, 1999
4
ORDINE
5
2004
DA “QP/SENZA BAVAGLIO” «[email protected]»
PROFESSIONE
Freelance/Proposta di legge rivoluzionaria:
difende l’etica e stabilisce anche un tariffario
Milano, 8 aprile 2004. Dopo anni di incertezze, il 7 aprile 2004 segna un momento
fondamentale.
Per la storia del giornalismo e, soprattutto,
dei giornalisti liberi professionisti italiani: il
partito dei Comunisti Italiani ha infatti depositato la proposta di legge sulla tutela e sulle
garanzie della categoria.Tutto nasce dalla
ostinazione e dalla perseveranza di Simona
Fossati (eletta il 6 aprile nella Commissione
Contratto della Fnsi in rappresentanza dei
freelance), Marilisa Verti e Luisa Espanet
che, dopo aver analizzato il vuoto legislativo
in materia e il pressapochismo che accompagna la situazione di migliaia di freelance
italiani lasciati allo sbando più completo,
hanno considerato che la soluzione avrebbe
potuto arrivare proprio da una legge in materia.
Si sono quindi incontrate con i dirigenti dei
Comunisti Italiani, sensibili alle questioni
lavorative e professionali, hanno discusso sui
temi più scottanti della categoria, hanno
evidenziato i gravi rischi per l’informazione
che il panorama attuale comporta e hanno
elaborato una proposta di legge simile a
quella che in Francia esiste dal 1974, grazie
a Cressard, giornalista eletto in Parlamento.
Nella premessa alla Proposta di legge,
presentata da Marco Rizzo, capogruppo del
PdCI alla Camera, sono state recepite le loro
osservazioni e le loro preoccupazioni.
Invitiamo tutti i colleghi, freelance e contrattualizzati, a fare propri i contenuti di questo
documento, a divulgarlo e a esercitare pressioni perché la proposta si trasformi in legge
nel minor tempo possibile. L’invito è rivolto a
tutti, poiché siamo convinti che solo una
categoria forte, unita e rispettata possa
diventare un argine contro vessazioni e
malcostume che sono all’ordine del giorno e
che la compattezza tra freelance e contrattualizzati possa produrre, come effetto,
anche una maggior etica nell’editoria italiana.
Ringraziamo le tre colleghe dell’esecutivo di
Qp/Senza Bavaglio e i Comunisti Italiani per
gli sforzi congiunti, e per questo passo in
avanti verso la dignità di tutti i giornalisti e
verso una informazione libera.
Qp/Senza Bavaglio
Ecco qui di seguito la premessa e il testo di legge
Camera dei Deputati Gruppo misto - Comunisti Italiani
Proposta di legge d’iniziativa del deputato
Marco Rizzo presentata il 7 aprile 2004:
“Norme per il riconoscimento della figura
professionale dei freelance nell’ambito della
categoria giornalistica”
On. Colleghi, il tema della libertà di informazione è stato oggetto di lunghe ed ampie
discussioni in Parlamento. Mi preme richiamare a tal proposito il messaggio alle Camere del
Presidente della Repubblica Ciampi sulla
questione del pluralismo e della libertà di informazione. In quel messaggio il Presidente
evidenziava due campi su cui occorre intervenire per rendere efficaci i principi di garanzia
del pluralismo nell’informazione: il primo
riguarda il cosiddetto “esterno” l’altro è quello
del pluralismo “interno”.
Per pluralismo esterno si intende la necessità
di avere una pluralità di soggetti che operano
nel campo dell’informazione, questo non è il
caso in oggetto della presente proposta di
legge ma riguarda il conflitto di interessi e l’assetto del sistema dell’informazione.
Il pluralismo “interno”, secondo la definizione
data dal Capo dello Stato, è invece quella
sfera di attività che attiene al lavoro redazionale, ossia alla qualità dell’informazione
prodotta dalle testate giornalistiche e quindi
alla qualità del lavoro svolto dalla categoria dei
giornalisti.
Secondo il Presidente della Repubblica è
importante e necessario che, ai fini di garantire l’applicazione dei principi costituzionali di
libertà di informazione e di rispetto del pluralismo, il prodotto informativo sia il più possibile equilibrato, rispettoso delle diverse
opinioni e quanto più possibile aderente ai
fatti in modo da inserirsi nell’alveo dei principi costituzionali.
Per avvicinarsi a questi criteri occorre che gli
operatori dell’informazione, la categoria dei
giornalisti, siano messi in grado di operare nel
rispetto delle norme costituzionali, delle vigenti leggi e dell’insieme delle regole deontologiche e professionali che stabiliscono le linee
guida cui dovrebbero attenersi i giornalisti. È
questa la materia che intendiamo affrontare
con questa nostra proposta.
Con la seguente proposta di legge si intende
intervenire In particolare Su un settore della
categoria giornalistica che, essendo fra quelli
meno garantiti, rischia di trovarsi più facilmente oggetto delle pressioni delle proprietà editoriali.
È ovvio che non stiamo parlando di mere relazioni industriali. Il tema dell’obiettività e del
pluralismo dell’informazione riguarda l’assetto
stesso di una moderna democrazia. Solo con
una libera stampa e con la libertà degli stessi
giornalisti possono trovare piena espressione
e applicazione i principi di obiettività e pluralismo.
Da qui nasce l’esigenza di proporre una
normativa che innanzitutto, riconosca l’esistenza dei giornalisti liberi professionisti, detti
freelance, una fascia della categoria giornalistica che tende a crescere sempre di più in
base ad una combinazione di elementi determinati dai processi di frammentazione che
investono tutti i settori del mercato del lavoro. I
freelance aumentano sia per scelta individuale che per costrizione, quest’ultima dovuta al
restringimento delle possibilità di accesso alla
contrattualizzazione piena.
Anche nel mondo giornalistico, così come nel
resto del mercato del lavoro, si tende ormai
ad utilizzare strumenti sempre più flessibili per
regolamentare i rapporti di lavoro. A fronte di
queste strozzature sono sempre di più coloro
che, per libera scelta o per impossibilità ad
ottenere un regolare contratto, decidono di
svolgere la loro attività da freelance Siccome
parliamo di operatori dell’informazione, ossia
di produttori di una merce che attiene non solo
al consumo individuale ma che tende a contribuire alla formazione della coscienza critica
collettiva (la cosiddetta pubblica opinione) in
politica così come in tutti gli altri settori della
sfera umana, riteniamo sia doveroso delineare un quadro di riferimento che consenta alla
categoria dei freelance di operare all’interno
di un insieme di diritti consolidati in modo da
mettere coloro che operano in questo ambito
nella possibilità di preservare quanto più
possibile la propria autonomia creativa ed
essere allo stesso tempo in grado di rispettare i principi deontologici della categoria professionale a cui essi appartengono.
La proposta di legge si sviluppa con due soli
articoli. Il primo articolo definisce il quadro di
riconoscimento dei giornalisti freelance individuandoli come un segmento particolare
nell’ambito di coloro che esercitano la professione giornalistica. Ciò serve non a creare un
sottogruppo, ma a meglio individuare i diritti e
le competenze di coloro che, dall’interno della
professione giornalistica, scelgono di svolgere
la loro attività senza vincoli contrattuali. Al fine
di evitare indebite sovrapposizioni con figure
che esercitano altre attività, si stabilisce, nel
secondo comma dell’art. 1, che l’esercizio
della professione giornalistica è prevalente e
determinante nell’attività del freelance.
Il secondo articolo entra nello specifico dei
diritti e dei doveri a carico dei freelance. Si
stabilisce la necessità del riconoscimento
della prestazione lavorativa a partire dalla
formulazione dell’incarico e dalla specificazione del tipo di lavoro che il giornalista deve
svolgere.
Troppo spesso accade che il freelance svolga
lavori che poi nonvengono pubblicati a causa
di mutate scelte redazionali, il che comporta
quasi sempre il mancato pagamento della
prestazione svolta.
Vi è poi il secondo comma che riguarda il riconoscimento dei diritti all’assistenza e alla
previdenza previsti per l’intera categoria. Il
giornalista freelance vive un’assimetria rispetto al suo datore di lavoro che lo distingue dagli
altri liberi professionisti. Il mercato, infatti, è
totalmente controllato dalla controparte, per
cui il freelance si trova ad essere in una posizione debole rispetto alla sua committenza.
Riteniamo che i diritti all’assistenza e alla
previdenza siano diritti fondamentali per tutti i
lavoratori e per tali motivi essi vadano riconosciuti anche ai freelance attraverso un meccanismo di voci aggiuntive che intervengono
nella determinazione del compenso.
Infine il terzo comma si sofferma sulla necessità che venga ufficializzato un tariffario della
categoria dei freelance. Ovviamente la sua
determinazione sta alla trattativa fra le parti
sociali ma esso deve essere comunque
agganciato al costo dei giornalisti contrattualizzati altrimenti si corre il rischio di incentivare, come già accade, un divario fra coloro che
sono garantiti da regolare contratto e i freelance.
Proposta di legge
Art. 1
1. Nell’ambito dell’esercizio della professione
giornalistica è riconosciuta la specificità dei
giornalisti liberi professionisti, detti “freelance”, che operano nel rispetto dei principi
costituzionali di libertà di espressione, di
pluralismo e delle norme giuridiche e deontologiche previste per la professione giornalistica.
2. Ai fini del rispetto dei valori etici e professionali dei freelance e a tutela della libertà
dell’informazione i giornalisti liberi professionisti esercitano continuativamente ed in
piena autonomia l’attività giornalistica che
costituisce la loro principale attività lavorativa.
Art. 2
1. Ai giornalisti liberi professionisti è riconosciuto l’incarico di lavoro con la specifica
della prestazione professionale richiesta,
della durata dell’incarico, della tipologia
(articolo, rubrica, dossier, reportage, o
altro) del compenso pattuito anche in caso
di non pubblicazione da parte del committente.
2. Ai giornalisti liberi professionisti è riconosciuto un trattamento economico che
tenga conto del diritto all’assistenza e alla
previdenza previsti per l’intera categoria dei
giornalisti attraverso voci aggiuntive a carico degli editori nella determinazione del
compenso.
3. Il tariffario minimo dovrà essere parametrato al costo per gli editori dei giornalisti
assunti.
La determinazione del compenso viene definito attraverso apposito tariffario dei compensi minimi concordato fra le parti sociali,
sindacati di categoria, associazioni imprenditoriali e l’Ordine professionale.
Ordine/Tabloid
ORDINE - TABLOID
periodico ufficiale del Consiglio
dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia
Mensile / Spedizione in a. p. (45%)
Comma 20 (lettera B) art. 2 legge n. 662/96 - Filiale di Milano
Anno XXXIV - Numero 5, maggio 2004
Direttore responsabile
Condirettore
FRANCO ABRUZZO
BRUNO AMBROSI
Direzione, redazione, amministrazione
Via Appiani, 2 - 20121 Milano
Tel. 02/ 63.61.171 - Telefax 02/ 65.54.307
Consiglio dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia
Franco Abruzzo
presidente;
Brunello Tanzi
vicepresidente;
Sergio D’Asnasch
consigliere segretario;
Davide Colombo
consigliere tesoriere.
ORDINE
5
2004
Consiglieri:
Bruno Ambrosi,
Letizia Gonzales,
Liviana Nemes Fezzi,
Cosma Damiano Nigro,
Paola Pastacaldi
Collegio dei revisori dei conti
Alberto Comuzzi (presidente),
Maurizio Michelini e Giacinto Sarubbi
Direttore dell’OgL
Elisabetta Graziani
Segretaria di redazione
Teresa Risé
Stampa Stem Editoriale S.p.A.
Via Brescia, 22 - 20063 Cernusco sul Naviglio (Mi)
Registrazione n. 213 del 26 maggio 1970
presso il Tribunale di Milano.
Testata iscritta al n. 6197 del Registro
degli Operatori di Comunicazione (ROC)
Comunicazione e Pubblicità
Comunicazioni giornalistiche Advercoop
Via G.C.Venini, 46 - 20127 Milano
Tel. 02/ 261.49.005 - Fax 02/ 289.34.08
La tiratura di questo numero è di 25.442 copie
Chiuso in redazione il 19 aprile 2004
Realizzazione grafica: Grafica Torri Srl
(coordinamento
Franco Malaguti, Marco Micci)
5
“L’obiettività era una minaccia
per i conservatori. Da destra
e da sinistra è stata massacrata come
una fanfaluca, una bugia. Questo
ha avuto conseguenze molto negative.
Ha compromesso un principio
fondamentale per il lavoro giornalistico”.
GIORNALISMO
E DINTORNI
“La pubblicità televisiva
rischia di strangolare
i giornali. Impedisce
anche la sperimentazione
di nuovi mezzi
di informazione”.
Giancarlo Bosetti: “L’obiettività
valore assoluto della professione”
di Paola Pastacaldi
«L’obiettività? Una parola che aveva un significato speciale, particolare. Si chiamava
obiettività, ma aveva allora un altro significato». Esordisce così Giancarlo Bosetti interrogato sul vecchio dibattito sull’obiettività che
si fece a fine anni Settanta sull’Espresso con
Umberto Eco, Piero Ottone e Mario Morcellini.
Giancarlo Bosetti ha fondato nel ‘93, con una
trentina di intellettuali, filosofi (tra i quali c’era
anche Bobbio), sociologi ed economisti (tra i
quali Michelangelo Bovero, Salvatore Veca)
il mensile Reset, di cui è direttore. La rivista
ha sviluppato con particolare attenzione i
temi della stampa quotidiana in Italia, il
rapporto con la televisione, sostenendo la
discussione con interessanti pubblicazioni di
autori di tutto il mondo sull’argomento, a
partire dal noto saggio di Karl R. Popper,
Cattiva maestra televisione (tra gli altri,
Bobbio, Ad uso di amici e nemici, Anna
Boschetti, La rivoluzione simbolica di Pierre). Bosetti, che si è laureato in filosofia con
Emilio Agazzi e Mario Dal Prà, è stato caposervizio del settore politico, caporedattore
centrale a Roma e vicedirettore dell’Unità,
conosce dunque i meccanismi di funzionamento dei giornali.
In questa intervista Giancarlo Bosetti
ripercorre il periodo storico, contestualizzando il dibattito sull’obiettività all’interno di un clima politico refrattario alla sinistra, che poi mutò.
«Era una formula, quella di essere obiettivi,
dietro la quale si trincerava il conservatorismo asfissiante del giornalismo italiano.
Prima del 1972 una parte del conservatorismo aveva escluso dal dibattito la sinistra,
che non aveva diritto di cittadinanza, se ne
parlava solo nei giornali indipendenti e solo
quando c’era l’accordo di metterla in cattiva
luce. Per esempio, si parlava del sindacato
solo come un problema di ordine pubblico,
non era come oggi che è normale parlarne.
Eravamo ancora condizionati dalla guerra
fredda, dal potere democristiano, dal conservatorismo sociale. Essere obiettivi voleva
allora dire essere ubbidienti. L’obiettività così
usata è stata screditata. Nel dibattito degli
anni Settanta chi voleva rovesciare questa
situazione non poteva farlo sotto l’insegna
dell’obiettività, ma della opposizione, della
controinformazione. Il conservatorismo allora era, ripeto, asfissiante. Titoli memorabili
erano quelli sugli scioperi generali: tutti sulla
viabilità, non c’era l’informazione. Il movi-
mento sindacale figurava solo in occasione
di incidenti di ordine pubblico. L’obiettività
come concetto pragmatico era, dunque,
indebolita da questo uso conservatore».
Questo per spiegare come allora si finì
per parlare di obiettività sull’Espresso in
termini fortemente accesi e contrapposti.
Umberto Eco che negava la possibilità di
una obiettività del giornalismo, dicendo
che era un mito.
«Si affacciava una ideologia postmodernista
di cui Umberto Eco era, allora più di oggi,
tributario. Per le filosofie dei postmodernisti
l’obiettività non esiste. Esiste solo una sua
interpretazione. Era questo l’attacco postmodernista al concetto di verità assoluta.
L’obiettività era una minaccia per i conservatori. Da destra e da sinistra è stata massacrata come una fanfaluca, una bugia. Questo
ha avuto conseguenze molto negative. Ha
compromesso un principio fondamentale per
il lavoro giornalistico. Mentre è un valore che
va messo al primo posto. Bisogna tendere
alla ricostruzione di una verità obiettiva,
Altri attacchi di artiglieria: i giornalisti con
tessera. Ricordiamo Comprati e venduti di
Giampaolo Pansa. Lo dico io che ero capocronista all’Unità a Milano e poi vicedirettore.
Lavoravo in un giornale di partito. Ma la
tessera nel portafoglio non l’avevano solo
quelli di partito. Né la questione riguardava
solo la Rai. Quel costume in Rai fu un precipitato catastrofico per la professione. Nel ‘7080 i direttori di giornali erano nominati dalle
segreterie dei partiti. I giornali erano l’arena
dove i partiti giocavano. Questa situazione ha
frantumato l’obiettività».
I giornalisti italiani sempre proni di fronte
al potere politico. Come si dice e si scrive in ogni riflessione critica sulla stampa
italiana.
«È un fatto genetico di cui soffre l’Italia? No.
L’asservimento alle cause politiche, agli interessi dell’economia dipende dalla debolezza
dei giornali. Non fanno profitti, non prendono
soldi. La causa ultima che comporta la
dipendenza da altri poteri non professionali
è questa. Tutte le proprietà, salvo poche
Conversazione con il direttore del mensile Reset
fondato nel ‘93 da una trentina di intellettuali,
filosofi, sociologi ed economisti.
perché è un valore assoluto in senso professionale».
Le cause di questo crollo dove risiedono
culturalmente?
«Sono quattro a mio avviso. Primo, il versante sociale del conservatorismo. Secondo, il
versante ideologico antiobiettività, cioé rovesciare la verità dei padroni. Il primo è cambiato quando al Corriere della Sera é arrivato
Piero Ottone. Con il suo stile anglosassone e
cosmopolita ha corretto la barra nella guida
del principale quotidiano italiano e ha aperto
le porte alla parte sociale esclusa. Ha fatto
parlare dirigenti, sindacalisti e la base della
sinistra. Ha introdotto una correzione verso il
movimento sindacale, da cui poi la rottura
con Indro Montanelli che era ed è un conservatore, anche se la percezione di lui negli ultimi anni era cambiata. La direzione di Ottone
é stata una svolta. Non lo farà a nome dell’obiettività, perché la parola era compromessa.
Nel suo Manuale del giornalista Alberto
Papuzzi racconta bene la compromissione
della parola in chiave sociale. Eco e gli altri
ne assecondano, invece, la liquidazione con
conseguenze negative. La svolta del ‘72 é
questa. Ma l’obiettività subisce anche un’altra
ferita. L’appartenenza politica dei giornalisti.
eccezioni, come è il caso di Caracciolo che
infatti nel 1976 darà corso ad un giornale
nuovo. Ma anche Caracciolo e Scalfari
avranno poi bisogno di una industria non
editoriale. De Benedetti, appunto. Non è un
caso. Il limite storico delle vendite inchiodato
al 10 per cento della popolazione. Il dibattito
inquinato sull’obiettività ha portato a questa
debolezza strutturale. Possiamo accettare
che l’obiettività venga trattata così oggi? No.
Io come giornalista ho il dovere di essere
obiettivo. Il giornalista dovrebbe perseguire
la verità. Deve cercare con tutte le sue forze
di sapere a Madrid quale è stato il numero
dei morti».
«Un ultimo fattore, il quarto, è che in Italia a
metà degli anni Settanta si afferma l’homo
videns ben contestualizzato da Sartori.
Nell’ultimo quarto di secolo, dal ‘75, aumentano i canali ed esplode la televisione
commerciale. In un Paese a basso indice di
lettura questo produce una informazione
basata solo su impressioni, emozioni. La
nostra lettura dei fatti è più persuasiva che
argomentativa, più legata alla magia della
faccia che alla forza dell’argomento. La
cavalcata della televisione negli anni Ottanta
spazzola tutta la pubblicità che è quella che
fa la diversità tra la forza dei nostri giornali e
quella di altri Paesi. L’Italia a fine secolo batte
un record mondiale, come pubblicità televisiva: più del 50 per cento. Siamo vicini al 56
del totale. Da dati della Fieg del 2002 risulta
che la Gran Bretagna aveva il 30 per cento,
gli Stati Uniti il 36, la Germania il 24, la Francia il 29».
Ma in Italia c’è il problema della commistione pubblicità e infomazione. Il Cdr del
Corriere denuncia una informazione di
confine e chiede di avere più pagine di
notizie, quando si fanno i numeri speciali
dedicati a fiere e manifestazioni.
«La mancanza di pubblicità è un’altra
aggressione a danno dei giornali. Chi dice
che c’è troppa pubblicità, dice una fesseria.
Dietro c’è un Paese che si informa solo con
la televisione. Questo produce una conseguenza grave sull’opinione pubblica nella
capacità di valutare. La tv accorcia drammaticamente le argomentazioni. In tv si possono fare solo lanci di persuasione. La tv è tutta
commerciale, la Rai è uguale. Fa un po’ più
informazione ma alla fine non sposta i fattori.
Dieci secondi di frase media per un argomento politico. In America si è calcolato che
siano nove. Basta cronometrare. Anche se
sono un politico molto bravo e riesco ad
impostare un argomento molto razionale,
posso fare solo una battuta verso un avversario, non un ragionamento. L’obiettività
anche per via della tv va a farsi benedire. La
politica non ha fatto niente per arginare. La
pubblicità televisiva rischia di strangolare i
giornali. Impedisce anche la sperimentazione di nuovi mezzi di informazione».
Il Consiglio dell’Ordine della Lombardia
ha quest’anno chiesto alla magistratura
di indagare sulla commistione pubblicitàinformazione all’interno del Corriere della
Sera, avendo valutato che ormai una
buona parte dei giornalisti è sottoposta
ad una tale pressione da parte del marketing da non essere più in grado di dire no,
cioè di rispettare le regole fissate dal
Codice della deontologia a proposito
della pubblicità. Che deve essere palese,
riconoscibile e ben distinta dall’informazione. La pubblicità è ormai ovunque,
mascherata e occulta. Il lettore non la
riconosce. In questa situazione i giornalisti da dove pescano le forze per rimettere
in moto il meccanismo dell’obiettività,
visto che in questi anni si sono allenati
ad una scarsissima deontologia?
«Rispettare le regole, la separazione. È chiaro che c’è un affanno, un inseguimento della
pubblicità. Ma il male è la poca pubblicità».
Rinasce L’Indipendente dopo sei anni
con direttore Giordano Bruno Guerri
Roma, 30 marzo 2004.
“Analisi, commenti, niente
articoli sterminati né foto di
politici, prese di posizione
molto nette, spesso a
destra, qualche volta a sinistra, al centro quasi mai”: è
l’identikit, nelle parole del
direttore Giordano Bruno
Guerri, del nuovo Indipendente, il quotidiano che
torna dal primo aprile in
edicola con l’ambizione di
proporsi come “il Riformista
di destra”. A quasi sei anni
dalla sospensione delle
pubblicazioni, L’Indipendente riparte da quattro pagine,
“che diventeranno 6 o 8 da
giugno, se tutto va bene,
anche per dare un contribu-
6
to nel periodo elettorale”,
spiega Guerri, che si definisce “euroscettico” e che
avrà un atteggiamento
“decisamente critico verso
l’Unione Europea, ma senza
estremismo”.
Con “qualche stravaganza”,
come l’assenza di steccati
nelle pagine interne fra
cultura, attualità, rubriche, il
giornale punterà ad aiutare
chiunque con intelligenza,
umiltà, attenzione voglia
comprendere l’Italia che sta
cambiando e magari anche
la destra a essere un po’
libertaria e libertina. Quella
destra dove ci sono molte
buone idee, tanta intelligenza e cultura, come talvolta
capita anche a sinistra, ma
non al centro, inteso come
luogo della moderazione,
del compromesso, del democristiano maneggione:
credo che sia il peggio” dice Guerri - “della storia d’Italia e dell’Italia del momento. Contro il centro dirò la
mia”. Come nella precedente esperienza ebbe la
funzione di “sdoganare la
Lega, arrivando a quota
300mila copie”, questa volta
“se L’Indipendente riuscirà a
creare una destra più moderata, più duttile e meno
preoccupata di chi mangia i
bambini, avrà svolto una
bella funzione”.
L’Indipendente, spiega an-
cora il direttore, ha “un
break-even di 3.200 copie” e
“un bacino studiato di utenza di 50mila elettori, da
ricercare fra l’elite di chi
spende un euro in più per
acquistare un secondo giornale”. Nessuna concorrenza, dice Guerri, per il Foglio
di Giuliano Ferrara: “Siamo
molto diversi, intanto per la
lunghezza degli articoli. E
poi il Foglio dà molto più
spazio alla politica estera ed
è molto autoreferenziale.
Ferrara ha lanciato l’idea di
questo tipo di quotidiani, ne
fa uno egregiamente, nulla
da togliergli.
Se saremo un Riformista di
destra? Questa definizione
mi piace molto”. “Per un’intrapresa sociale, culturale,
ideale bellissima, come è
sempre la nascita di un
nuovo giornale”, Guerri ha
sospeso le sue attività di
critico e scrittore. “La libertà
si paga, ma in questi casi
vale la pena perderla”.
Con lo stesso marchio (riacquistato per 40mila euro),
un progetto grafico “arioso”,
firmato da Piergiorgio Maoloni e un azzurro tenue che
vuole evocare “eleganza e
leggerezza”, il giornale sarà
in edicola sei volte alla settimana al prezzo di un euro.
La domenica sarà dedicata
a un appuntamento settimanale di informazione storica
e storiografica, L’Indipendente della Storia (realizzato da Giorgio Dell’Arti), venduto in abbinamento facoltativo al prezzo di 1,50 euro (il
4 aprile sarà in omaggio).
Sei i redattori, più un vicedirettore (Luciano Lanna) e
tante firme annunciate: tra
queste, Paolo Villaggio, Folco Quilici, Ida Magli, Roberto
D’Agostino, Pierluigi Diaco,
Sergio Luciano, Italo Cucci,
Giuseppe Conte, Gennaro
Malgieri, Antonio Pennacchik, Sergio Soave, Vittorio
Sgarbi, Diego Gabutti,Alberto Mingardi, Claudio Risé,
Alessandro Campi. Il nuovo
quotidiano è edito dalla società a responsabilità limitata
ORDINE
5
2004
International Herald Tribune del 23 marzo 2004
GIORNALISMO
E DINTORNI
Nella stampa Usa esplode
lo scandalo “del copia e incolla”
di Jacques Steinberg
NewYork. Dallo scoppio dello scandalo di
Jayson Blair del New York Times nella scorsa primavera, ci sono stati momenti in cui
Romenesko, un compendio online degli
sviluppi dei media di attualità, assomigliava
a un bollettino di guerra.
Nelle ultime due settimane, sul sito
www.poynter.org sono stati pubblicati link ad
articoli sulle punizioni o il licenziamento di
giornalisti del Vancouver Sun nella Columbia
Britannica (a proposito di un articolo su
sesso e appuntamenti che rispecchiava
fedelmente un testo pubblicato sul Times),
dello Iowa State Daily (una rassegna cinematografica simile a quella pubblicata sullo
Star Tribune di Minneapolis), del News Tribune di Tacoma, Washington (un giornalista
che non è riuscito a verificare l’esistenza di
cinque fonti citate in un articolo) e al Macon
Telegraph della Georgia (per citazioni tratte
dal San Diego Union Tribune senza menzionarne la fonte).
Tutti questi casi hanno preceduto il servizio
di USA Today di venerdì sull’indagine in
corso su Jack Kelley, ex-inviato agli affari
esteri. Un gruppo di giornalisti di USA Today
ha “rinvenuto prove inconfutabili del fatto che
Kelley ha inventato gran parte di almeno otto
storie importanti” e “ha copiato di sana pianta più di venti citazioni o altro materiale da
pubblicazioni concorrenti”.
Almeno 10 giornali, dai più importanti come
il Chicago Tribune ai più piccoli come il
Sedalia Democrat del Missouri, hanno
confermato casi di plagio o falsificazione da
quando il Times ha riferito lo scorso maggio
che Blair aveva inventato o copiato parti di
almeno trenta articoli.
È impossibile stabilire se questa epidemia di
malefatte editoriali sia un segno di frenesia
giornalistica in un mondo in cui i database
sono a un solo click di mouse di distanza o
se sia emersa semplicemente grazie a una
più attenta sorveglianza.
Stando alle indagini e alle interviste condotte
dagli editori in tutta l’America, negli ultimi 10
mesi molti quotidiani hanno adottato metodi
di salvaguardia dalla frode giornalistica. In
risposta a una domanda contenuta nell’indagine svolta l’estate scorsa, più di 350 editori
hanno dichiarato all’American Society of
Newspaper Editors di avere intrapreso alcune “azioni specifiche” nei confronti dello staff
o dei lettori “da quando lo scandalo di Jayson
Blair del New York Times è diventato di dominio pubblico”. Il 51 per cento di loro hanno
Edizioni de L’Indipendente,
partecipata al 51% dalla
Piccola Cooperativa Multimediale e al 49% da una cordata guidata da Italo Bocchino
(parlamentare di An ed ex
editore del Roma) che comprende lo stesso Guerri e, tra
gli altri, Edoardo Montefusco
(Rds), Lucio Garbo (Teleserenissima), Federica Lucisano (Iif), Gianni Biggio, (presidente degli industriali di
Cagliari), Gianni Pilo, Gianluca Di Nardo, Vincenzo Auricchio, Antonio Pezzella, Matteo Cortese.
L’investimento iniziale è di 3
milioni di euro. La pubblicità
sarà raccolta dalla Manzoni
Spa, La diffusione assicurata dalla Società Europea di
Edizioni (Il Giornale). La
stampa sarà effettuata a
Roma, Napoli, Bergamo e
Catania.
(ANSA)
ORDINE
5
2004
Jack Kelley è stato accusato di aver copiato di sana pianta “più di venti citazioni o altro materiale da pubblicazioni concorrenti”.
affermato di essersi rivolti direttamente ai
lettori, pubblicando articoli sulle politiche
previste per questioni etiche o di raccolta di
notizie; il 21 per cento hanno dichiarato che
alcune di queste politiche erano nuove; il 7
per cento hanno affermato di avere inviato
questionari ai lettori chiedendo un riscontro,
e alcuni altri hanno scritto di avere iniziato a
rivolgersi sistematicamente alle persone citate dal giornale per chiedere se pensavano di
essere state trattate equamente.
“Ho la sensazione che Jayson Blair abbia
risvegliato l’attenzione di molti” ha affermato
Vicki Gowler, direttrice del St. Paul Pioneer
Press e presidente del comitato per l’etica e
i valori dell’American Society of Newspaper
Editors.
Questa profusione di casi avviene in un
momento in cui Internet rende relativamente
Una nuova rivista:
“Odissea”
di Gian Luigi Falabrino
In pochi numeri Odissea, la
rivista culturale diretta da
Angelo Gaccione, ha saputo
raccogliere intorno a sé un
bel numero di collaboratori,
anche illustri, e soprattutto a
porsi come una voce capace d’incidere nel dibattito
culturale.
So per esperienza diretta
che non è facile per una
testata di questo genere,
per definizione di minoranza e senza risvolti commerciali, affermarsi e farsi sentire: e per questo la segnalo
con dichiarata simpatia,
tanto più che Gaccione ed i
suoi collaboratori (fra i quali
Maurizio Meschia direttore
responsabile) non limitano
la cultura al mero letteratismo ma pensano agli intellettuali come a persone
inserite nel proprio tempo e
che prendono posizione sui
problemi dell’attualità politica.
Così, già nel primo numero,
la poetessa Donatella Bisutti
pubblica un articolo molto
acuto sulle soldatesse, e in
particolare sul desiderio di
molte ragazze di arruolarsi
nelle forze armate. Molto
acuto perché collega quel
desiderio, da una parte, al
bisogno di sicurezza dal
“giovane branco dei maschi”
facile per i giornalisti appropriarsi dell’opera
di altri autori, e forse altrettanto facile per gli
editori (o i colleghi o i concorrenti) identificare plagi e falsificazioni. È anche un momento
in cui il pubblico ha una percezione alquanto
negativa della credibilità dei giornalisti,
anche se non visibilmente minore rispetto
agli ultimi anni. (Da un’indagine condotta
l’estate scorsa dal Pew Research Center for
the People and the Press è emerso che il 56
per cento degli intervistati ritenevano che gli
enti d’informazione “spesso riferiscono le
notizie con scarsa precisione”, la stessa
percentuale dell’anno precedente.)
Memore dei gravi sotterfugi di Blair e
seguendo l’esempio di altri 16 enti d’informazione che l’estate scorsa hanno firmato un
documento analogo, il Times ha inasprito le
norme per l’uso delle fonti anonime.
e al bisogno di libertà,
dall’altra al fatto che la cifra
del femminile non è soltanto
la vita, il partorire.
Ai bisogni delle giovani il
femminismo ha dato una
risposta sbagliata, un errore
che “costa caro prima di
tutto alle donne” perché
“incanala le energie del
femminile in una direzione
sbagliata”.
E anche la guerra, l’uccisione di altri esseri umani è,
per la Bisutti, una risposta
sbagliata al lato oscuro del
femminile, la Moira e Persefone: le donne dovrebbero combattere per il sacerdozio dell’Ombra, per il
sentimento del Sacro, e non
per l’atrocità del bagno di
sangue.
Altri temi politici sono affrontati nei numeri seguenti da
Angelo Gaccione (la guerra
in Iraq, piazza Fontana e nel
n. 3 gli scioperi dei tranvieri
a Milano), Giorgio Bonura e
Uno di questi enti era il Washington Post.
Leonard Downie Jr., direttore responsabile
del quotidiano, ha scritto questo mese in un
articolo che il Post aveva recentemente rivisto tutte le politiche di reporting, spiegando
come, ad esempio, nonostante il velo dell’anonimato fosse talvolta l’unico modo per
trasmettere informazioni importanti, il Post
avrebbe cercato di spiegare ai lettori perché
una data fonte non veniva citata.
“Penso che il motivo principale per cui se ne
sente parlare di più è che si viene più spesso
smascherati” ha dichiarato Downie. “Eppure”,
ha aggiunto, “alcuni giornalisti ed editori
hanno ceduto alla tentazione di prendere
decisioni negative in seguito alla “celebrazione del giornalismo”, in cui rientra la corsa al
Premio Pulitzer, all’esposizione in televisione
e a contratti editoriali molto remunerativi”.
Teodoro de Donis.
Ma è molto più ricca e variata, naturalmente, la parte
letteraria. Forse salto qualche collaboratore illustre,
ma bisogna citare almeno la
rubrica fissa di Morando
Morandini, gli articoli di Gina
Lagorio, Ugo Ronfani, Fulvio
Scaparro, Gilberto Finzi,
Arturo Schwarz, le interviste
sul teatro di Gianfranco
Bosio e Laura Romani, la
critica musicale di Sandro
Boccardi.
E poi ci sono i narratori e i
poeti. Fra i primi, Ferruccio
Parazzoli e Grazia Livi; fra i
secondi, Roberto Sanesi
con un poema su Pinelli, e
traduzioni di Don Burness
(Lina Angioletti), di poeti di
Corfù (tradotti da Diomidis
Vlachos e Gioia Roni
Maestro), Khaled Najar e
Ellen Hinsey (Donatella
Bisutti). Insomma, una rivista da leggere e che fa
discutere.
I NOSTRI ERRORI
Anche a Sassari
c’è un master
in giornalismo
Nel numero di aprile di
Tabloid abbiamo pubblicato l’elenco delle scuole e
dei corsi di giornalismo,
saltando il master di
Sassari. Ce ne scusiamo
con gli amici di Sassari e
con i lettori:
MASTER BIENNALE IN
GIORNALISMO (promosso dall’Università degli
studi di Sassari)
Università di Sassari
07100 SASSARI
Via dell’Università 11
tel. 079.239510
sito web
www.uniss.it/reporters
E-mail: [email protected]
7
www.corriere.it/severgnini del 23 marzo 2004
TESI DI LAUREA
Estratto della tesi di laurea
“La breve storia de la Voce
di Montanelli”
di Cristina Luini, relatrice
professoressa
Anna Lisa Carlotti,
Università cattolica
del Sacro Cuore
La Voce
Storia breve e ombra lunga
di Indro
Montanelli
1994
2004
Ciao Beppe e Italians tutti, ieri, 22 marzo, è caduto un anniversario che a me sta molto a cuore
come credo a molti di noi. Il 22 marzo 1994, dieci anni fa, usciva nelle edicole il primo numero del
quotidiano «La Voce» di Indro Montanelli. Quanti personalissimi ricordi mi legano a quel giorno e a
quel primo numero. Ancora oggi quando mi capita di rileggerlo qualche volta, trafugandolo da uno
scatolone di cartone dove giace insieme a tutte le altre copie acquistate che di quel giornale io ho
sempre conservato, credo mi sento come possa sentirsi zio Paperone quando osserva orgoglioso
il suo primo cent.
I ricordi (anche di un’età più giovane dato che allora io avevo 20 anni) sono tutti dentro di me e rivivono in questi giorni: frequentavo il quinto anno di un istituto superiore e quella mattina persi parecchi autobus dato che il quotidiano - a mia sorpresa - non si trovava in diverse edicole. Non sapevo
se esserne dispiaciuto o contento pensando al successo che quel primo giorno aveva già riscontrato. Ricordo quindi l’affannosa corsa da un’edicola all’altra della città; ricordo l’incontro casualissimo con una ragazza che capì subito che entrambi stavamo cercando la medesima cosa, e mi
apostrofò dicendomi: «Ancora niente per la Voce?». Ricordo quel giorno a scuola quando durante
l’intervallo i miei compagni mi chiesero il quotidiano in prestito per la consultazione (loro) della pagina dello sport. Ricordo un altro compagno di classe che, più sfortunato di me, non riuscendo a
trovare il primo numero, mi propose l’acquisto del mio che naturalmente non cedetti a nessun prezzo. Ricordo il mio insegnante di diritto economia che riuscì, dopo esserselo da me fatto prestare
Una breve storia figlia di un atto di co
di Cristina Luini
Nel decennale della sua nascita, approfondire
la storia de la Voce significa ammettere che la
fondazione del quotidiano è la conseguenza
dell’atto di coraggio di Montanelli che all’età di
85 anni si rimbocca le maniche alla ricerca,
ancora una volta nella sua carriera, di uno
spazio per scrivere da indipendente. Il distacco forzato dal suo Giornale gli imprime quella
vigorosa spinta che concorre a creare un
quotidiano molto giovane nella grafica, specchio della sua flessibilità e freschezza.
L’innovativo lay out de la Voce rivela fin dai
primi numeri un “giornale nuovo” a livello grafico, dotato di un carattere ben definito, coraggioso e con un progetto da raggiungere molto
ambizioso, ma non utopico: far diventare i
lettori proprietari del loro quotidiano.
Il terremoto politico
nell’era di Tangentopoli
Il contesto storico in cui Montanelli matura la
sofferta decisione di abbandonare la ‘sua
creatura’ per fondare la Voce è particolarmente delicato.
Nel 1992 un vero e proprio terremoto si abbatte sulla politica italiana travolgendo i vecchi
equilibri e rivelando una diffusa corruzione a
tutti i livelli della vita dei partiti: lo scandalo
delle tangenti. Democrazia cristiana e Partito
socialista subiscono le denunce più pesanti.
Per arginare il problema si cercano soluzioni
riformistiche. Il mondo cattolico è in fermento
e reclama svolte decisive. La Dc guidata da
Mino Martinazzoli dimostra due anime, una
progressista e l’altra moderata: la Rete di
Leoluca Orlando che si batte per la trasparenza della politica e per la lotta alla mafia, e il
Movimento popolare di Mario Segni che
concentra tutta la sua azione propagandistica
nella richiesta di una riforma elettorale. Secondo il fondatore del Movimento, il rinnovamento del sistema politico e la fine della partitocrazia dipendono dall’abbandono del sistema
proporzionale e dall’introduzione di quello
maggioritario uninominale.
La prima risposta degli italiani a Tangentopoli
uscirà dalle urne il 18 e 19 aprile dell’anno
successivo con l’adozione del sistema
maggioritario per l’elezione del Senato e
l’abrogazione del finanziamento pubblico ai
partiti.
Durante l’autunno le voci sull’ingresso in politica di Silvio Berlusconi si susseguono con
insistenza: il vuoto che con la crisi della Dc e
del Psi si è prodotto al centro, l’eventuale vittoria delle sinistre insieme alle sue personali
convinzioni politiche fondate sul liberismo
economico, lo spingono a riflettere sulla possibilità di scendere in campo.
È scontro aperto
tra Berlusconi e Montanelli
La nascita de la Voce si può considerare la
diretta conseguenza della rottura del rapporto
tra Berlusconi-editore e Montanelli, direttore e
fondatore de il Giornale, dovuta alla decisione
da parte dell’imprenditore di entrare in politica.
In questo periodo della storia politica italiana,
la persona che si proponeva come punto di
riferimento per i moderati era Segni che aveva
inferto un duro colpo alla legge proporzionale.
8
Il Giornale e Montanelli avevano sostenuto
l’iniziativa, vedendovi la possibilità di riunificare le culture laico-democratiche e cattolicoliberali. Berlusconi invece, pur considerandosi
un moderato, fu sempre contrario a quella
linea.
Il contrasto era già affiorato nel giugno del
1993 quando Berlusconi aveva esposto a
Montanelli la sua analisi: il referendum, aperta
la via al sistema elettorale maggioritario,
imponeva l’unione di centro e di destra per
battere la sinistra, potenzialmente avversa al
Gruppo Fininvest. Ed egli stesso era tentato
di costituire questa grande aggregazione.
L’editore gli chiedeva di contribuire a formare
una squadra compatta. In risposta Montanelli
proponeva di cedere il Giornale, così da poterlo aiutare da indipendente. La fermezza del
Direttore, suscitata dal timore di una limitazione della sua libertà d’azione, ribadiva il “patto
tra gentiluomini” nato quando Berlusconi
aveva rilevato le azioni de il Giornale: si erano
circoscritte le rispettive competenze in quanto
l’editore si sarebbe occupato della parte
amministrativa, mentre la linea politica e la
conduzione tecnica del quotidiano rimanevano prerogativa del direttore. Una successiva
conferma si era avuta nell’agosto del ‘90
quando, secondo quanto prescritto dalla
legge Mammì, il pacchetto di controllo de il
Giornale dovette passare al fratello di Silvio,
Paolo.
Altri tempi. Ora il braccio di ferro si faceva più
serrato: da una parte il consiglio d’amministrazione della società editrice comunicava, bilancio alla mano, tagli drastici al budget con la
soppressione delle sedi di corrispondenza
all’estero; dall’altra Montanelli prendeva in
considerazione l’idea di acquistare la sua
“creatura prediletta”, rivolgendosi a Enrico
Cuccia, presidente onorario di Mediobanca,
per convincere Berlusconi a vendere il
pacchetto di maggioranza. Berlusconi non
prese neppure in considerazione quell’offerta.
L’affondo finale a Montanelli viene mosso dal
Tg4: Emilio Fede gli intima in diretta di lasciare il Giornale, sostenendo che “se una persona sceglie una linea editoriale diversa, […]
forse, per coerenza, dovrebbe rassegnare le
dimissioni. Nonostante Montanelli sia padre
del giornalismo e de il Giornale, non è probabilmente il suo padrone”.
La sorte di Montanelli si decide l’8 gennaio,
con “l’irruzione” di Berlusconi in redazione. Pur
privo di ogni titolo per intervenire e senza
preventivamente avvertire il Direttore, Berlusconi prende parte all’assemblea di redazione. Montanelli, assente dalla riunione, riceve il
testo stenografato di quello che fu definito “il
discorso della clava e del fioretto”. Il Cavaliere
riconosce la sua voglia di indipendenza e che
mai avrebbe potuto chiedergli di fiancheggiarlo, ma giunti al problema del depauperamento
di mezzi in atto che non permetteva a il Giornale di contrastare “l’agguerrita coalizione” dei
tre maggiori quotidiani del Paese, la sua risposta è eloquente: “Io credo che se il Giornale
darà segni di voler combattere questa battaglia […], non mancheranno assolutamente i
mezzi per un rafforzamento della [sua] linea.
Ci sono certe guerre che vanno condotte col
fioretto; è difficile affrontare col fioretto chi
viene in campo col mitra”. Dunque il Giornale
avrebbe potuto contare su nuovi investimenti
solo se fosse stato disposto a diventare “un
quotidiano da combattimento”.
Per Montanelli l’intervento di Berlusconi è una
“colossale gaffe” in quanto “l’editore per la
legge non è lui. È suo fratello. Ma siccome
Paolo Berlusconi non esiste, è venuto lui. […].
Lui vorrebbe che io usassi la clava, altro che
la sciabola. Ma io rispetto il galateo polemico.
Non ho mai mancato di salutare il mio avversario”.
La fine del sodalizio viene annunciata da
Montanelli alla sua redazione l’11 gennaio alle
11.30: accorrono tutti, giornalisti, impiegati,
tipografi poiché la notizia delle sue dimissioni
circola già da qualche ora. Quella riunione
viene ancora ricordata da Giancarlo Mazzuca
come “una cerimonia davvero toccante”.
Montanelli esordisce con la solita schiettezza
(“Dopo quello che [Berlusconi] ha fatto a mia
insaputa […], voi capite che me ne devo
andare”), senza promettere nulla ai suoi
redattori (“ho dovuto abbreviare i tempi e non
ho potuto preparare gli alloggiamenti per una
ritirata”), ma annunciando di voler predisporre
una scialuppa di salvataggio per coloro che
non avrebbero accettato il nuovo corso
(“Restate al Giornale! Se io riesco a fare
qualche altra cosa, vi chiamo!”). Conclude con
un’amara constatazione: “È un po’ tardi, ma
alla fine mi sono convinto che di padroni non
bisogna averne. Perché, anche quando iniziano bene, finiscono male”. Si ripeteva, così, ciò
che era successo vent’anni prima per quei
colleghi del Corriere che non avevano approvato la nuova linea politica impressa in via
Solferino dalla proprietaria Giulia Maria Crespi
e dal suo direttore Piero Ottone.
Con Montanelli si dimettono contestualmente
il condirettore Federico Orlando e il vice direttore Michele Sarcina.
Le ultime ore da direttore, Montanelli le
trascorre alla sua lettera 22 scrivendo il fondo
“Al lettore - Vent’anni dopo”, con cui si congeda dal suo giornale. Deve spiegare perché
non ha mantenuto fede alla promessa di
“restare [al suo posto] finchè morte non
sopravvenga. Nessuno mi ha scacciato. Sono
io che mi ritiro per una di quelle situazioni
d’incompatibilità fra me e l’editore”. Ma il
fondo d’addio è solo un arrivederci: “Me ne
vado. Ma non senza avvertire i lettori che
manterrò l’impegno preso con loro. Fra poche
settimane riavrete il nostro e vostro giornale,
fatto dagli stessi uomini e nutrito dalle stesse
idee, anche a costo di ridurlo per i primi
numeri a poche pagine. Si chiamerà la Voce.
In ricordo non di quella di Sinatra. Ma di quella del mio vecchio maestro di libertà e di indipendenza Prezzolini”.
L’offerta di Gianni Agnelli:
una rivincita mancata
Inizialmente Montanelli scarta il progetto di un
nuovo quotidiano perché lo considera eccessivo rispetto alle sue forze. Riflette invece più
concretamente sul lancio un nuovo settimanale per cui c’era già la disponibilità della famiglia Rizzoli a finanziare l’iniziativa. I modelli a
cui guardare erano due: Il Mondo di Pannunzio e Omnibus di Longanesi.
Sarebbe stato un settimanale “sobrio e austero” e non troppo costoso, con una redazione
di una decina di persone, e si sarebbe chiamato Il Caffè prendendo in prestito il nome da
quello di Pietro Verri (“un giornale di dibattiti,
una palestra del libero pensiero”).
Ma in quei giorni di grande fermento creativo,
giunge inaspettatamente a Montanelli la
proposta di Giovanni Agnelli di assumere la
direzione del Corriere. La mattina del 15
gennaio, Montanelli riceve una telefonata
dell’avvocato che lo convoca nella sede di
Mediobanca. Paolo Mieli gli cedeva la prestigiosa poltrona di direttore del Corriere: “La mia
stanza, che è la stanza di Albertini, ti aspetORDINE
5
2004
durante l’ora di lezione, a non restituirmi più il quarto numero. Ricordo i primi articoli di un certo
Severgnini, corrispondente da Washington. Un tipo, ho pensato, che farà strada. Ricordi insomma.
E naturalmente ricordo Indro e tutto quello che mi ha insegnato attraverso e non solo, la lettura di
quel giornale ma che ancora mi insegna attraverso Beppe e tutti coloro che scrivono qui su Italians.
Chiedo scusa se ho disturbato. Di fronte a tutto quello che sta succedendo in questi tempi so
bene che ci sono cose più serie e importanti di cui parlare. Per questo ora mi fermo qui.
Grazie.
Damiano Berti, [email protected]
sinistra (che ci lodava, ma continuava a comprare i suoi giornali). Abbiamo formato una squadra
piena di individualità, ma non sempre giocavamo insieme (come l’Inter): ognuno aveva progetti
suoi, e non tutti i progetti risultavano chiari. Abbiamo cercato strade stilistiche fin troppo ardite:
leggere Montanelli accanto a certi fotomontaggi era come vedere Lord Astor su uno skateboard.
Aggiungo un mea culpa personale. Dopo aver curato il lancio della Voce (incarico affidatomi dal
direttore), sono andato a Washington. L’ho fatto perché avevo capito che in redazione a Milano
avrei potuto far poco, e mi sarei arrabbiato molto; e in America ho trascorso un periodo magico da
molti punti di vista. Ma ogni tanto penso: forse il tenente non doveva abbandonare il generale,
anche se non andava d’accordo coi colonnelli. Detto questo, ricordo la voglia di novità e la
freschezza. I nervi, la grinta e il sudore di chi ci credeva, investendo speranze e soldi (mia madre
volle comprare qualche azione: la cosa mi commuove, pensandoci). Ricordo Il Caffè, l’inserto che
molti c’invidiavano. La cronaca che, senza averne i mezzi, dava filo da torcere a tutti i giornali di
Milano. La Fortezza Bastiani degli esteri dove ogni giorno cercavano di inventarsi qualcosa. E,
soprattutto, ricordo i lettori. Quei lettori che abbiamo illuso, confuso e - temo - deluso. È inutile,
ormai, cercare di stabilire di chi sia la colpa: se i lettori della Voce alla fine fossero stati numerosi
come le opinioni sulla fine della Voce, avremmo dato filo da torcere al Corriere. Invece abbiamo
lasciato solo un’ombra lunga ed elegante: com’era quella di Montanelli, in fondo.
Qui mi fermo. A chi volesse saperne di più, suggerisco non tanto i libri usciti sull’argomento (troppo appassionati), quanto due tesi di laurea che hanno raccolto testimonianze e studiato con affettuosa freddezza la questione: Cristina Luini ([email protected]) della Cattolica di Milano («La
breve storia de La Voce di Montanelli»); e Marilisa Palumbo
([email protected]) dello Iulm ( «La Voce, storia di un giornale italiano»).
Ciao Damiano, grazie di aver ricordato l’anniversario: speravo che qualcuno lo facesse. La Voce
l’ho scritto, lo ripeto - è stata per noi una medaglia al valore, non una sconfitta. Un tentativo di
trovare uno spazio nel momento del grande scontro destra/sinistra del 1994. Non ci siamo riusciti
per oggettive difficoltà editoriali (lo spazio moderato era occupato con intelligenza dal Corriere di
Mieli); per scelte azionarie (l’idea dell’azionariato popolare era nobile, ma prematura); per alcune
manie di grandezza (troppi costi, troppe pagine: avremmo dovuto fare il Foglio indipendente); per
vigliaccherie varie (fuga di azionisti e inserzionisti che temevano di inimicarsi il prossimo vincitore).
Ma, soprattutto, abbiamo sbagliato il tono. Questo è imperdonabile. E infatti il lettore - l’unico padrone, come diceva il nostro slogan - non ce l’ha perdonato.
La Voce, un giornale nato «senza amici e nemici a scatola chiusa», ha trasformato le proprie legittime convinzioni in un’ossessione. Questo è stato il vero errore: abbiamo spaventato i nostri lettori
moderati, invece di prenderli per mano e spiegar loro i rischi dell’avanzata berlusconiana (molti
adesso hanno capito; ma ci sono voluti dieci anni). Abbiamo accettato l’applauso interessato della
raggio, ma anche di “generosi” errori
ta!”. Montanelli in questo modo poteva trovare
una comoda sistemazione per sé e per qualche giornalista che aveva già abbandonato il
Giornale. Inoltre tornare al Corriere come
direttore, dopo vent’anni, sarebbe stata “una
rivincita colossale, un grande trionfo, una
specie di apoteosi che avrebbe suggellato la
mia carriera. Purtroppo dissi di no e non certo
per un peccato d’orgoglio”. Principalmente per
l’impressione che avrebbe dato al suo pubblico: “Se io accetto, chi toglierà di testa alla
gente che ho rotto con Berlusconi e col Giornale perché avevo questa opportunità? Io alla
mia faccia ci tengo!”. Ma soprattutto per la
consapevolezza di dover abbandonare molti
suoi redattori, disposti a seguirlo ovunque; la
stessa preoccupazione che aveva bloccato
l’iniziativa del settimanale.
È così che prende corpo l’ipotesi del quotidiano. Afferma Montanelli: “Ero come il capitano
di una nave che non poteva abbandonare i
propri marinai al momento del naufragio e che
doveva cercare una scialuppa per poterli
portare in salvo verso lidi più tranquilli e sicuri.
Perché […], non mi sono mai sentito come un
vero direttore di giornale, ma piuttosto come
un padre di famiglia con tanti figli da mantenere: un’intera redazione”.
DIRETTORE
I. Montanelli
ORDINE
5
2004
I. De Michele Frigerio
F. Orlando
VICE DIRETTORI
ART DIRECTOR
G. Mazzuca, M. Sarcina
V. Corona
LETTERE AL
DIRETTORE
L.Bacialli
CAPIREDATTORI CENTRALI
A. Macchetta
P. Fadda, L. Landò, G. Molossi
M. Dal Fior
V. Di Majo
CRONACA
S. Dell’Orso, P. Gomez, P. Longanesi,
A. Lostia, S. Magnoli, C. Marchionni,
E. Mastropiero, L. Moia, L. Moizzi, S.
Regolini, R. Rietmann, A. Rozzi
G. Garanzini
A. Vitali
CULTURA
SPETTACOLI
SPORT&MOTORI
M. Ajello, P. Cheli, G.
Piacentino
N.Delbecchi, B.
Masini, M.Papini
C.Canzano, N. Roggero,
N. Montanari
R. Bagnoli
M. De Marchi
L’anelito all’indipendenza
nel segno di Prezzolini
Montanelli battezza il suo nuovo giornale la
Voce perché sostiene che ciò che lega lui e
Prezzolini è l’anelito all’indipendenza. Su un
punto però si sente di differire: egli non si
rassegna ad abbandonare il campo come
“Prezzolini aveva fatto col fascismo fondando
la setta degli ‘Apoti’, cioè di coloro che ‘non ci
stanno’ e prendendono la via dell’esilio”. La
Voce di Montanelli vuole porsi soprattutto
come “eco di quella del Prezzolini prima
maniera, protestatario, interventista e volontaristico”.
Montanelli inoltre si ispira all’organizzazione
essenziale di questa rivista: il fondatore non
riceveva aiuti da nessuno, non aveva spese in
quanto la faceva quasi da solo, con qualche
collaboratore che lavorava gratuitamente.
Qualche mese prima anche Vittorio Corona,
per gli stessi motivi, aveva rinunciato alla
poltrona di vice direttore di Studio Aperto, telegiornale di Italia Uno. Da quel momento, il
giornalista inizia a sviluppare il progetto per
un “nuovo giornale” che troverà sbocco ne la
Voce. Elabora l’idea di un “quotidiano settimanalizzato”, con una rigida scelta delle notizie
che permette di elevarne solo alcune ad
“argomenti del giorno”, da trattare in maniera
più ragionata, più profonda, più documentata.
È in antitesi al “giornale-sacco” in cui si infilano tutte le notizie in maniera sciatta e fine a
se stessa, con un ambizioso obiettivo:
approfondire e riflettere.
Ininzialmente Corona si pone un target preciso di lettori. La sua attenzione si posa in particolare sulle donne e i giovani: non potendo
rubare lettori ad altri quotidiani, è convinto che
l’unica speranza di sopravvivenza sia quella
di catturare un pubblico di non lettori. Contemporaneamente punta a gente intellettualmente molto libera, capace di farsi stimolare dalle
provocazioni. Nelle previsioni questo tipo di
giornale si può realizzare con un ristretto
numero di giornalisti (una trentina) adatti ad
apportare quei contributi creativi di cui il giornale, per la sua formula, necessita.
L’incontro tra Corona e Montanelli viene favorito da amici comuni. Il progetto del quotidiano
SEGRETARIA DI REDAZIONE
CONDIRETTORE
ESTERI
R. Copello, P. Delle Fratte,
G. Donelli, L. Maisano
ECONOMIA
M.T. Cometto, M. Esposito,R.
Iotti, F. Sarcina, M. Zacchè
T. Resca
ITALIA
F. Battisini, A. Capece Minutolo, A.
Lavazza, M. Natta, D. Passeri, F. Protti,
S. Sarno, G. Sciacchitano, M. Travaglio
INVIATI
T. Abate, O. Eleni, A. Mazzuca, L.
Offeddu, D. Righetti, B. Severgnini
Struttura
redazionale
(come
risulta
dal
colophon
del primo
numero).
F. Gazzola
REDAZIONE GRAFICA
L. Cis, C. Negri, A. Possenti
trova immediatamente l’approvazione del suo
fondatore e l’obiettivo si sposta più in alto:
creare un giornale per un target giovane che
abbia come direttore il giornalista più vecchio
d’Italia significa avvicinare il giornalismo forte,
critico e lucido di Montanelli ad un mondo
meno abituato a questo tipo di analisi.
L’incarico di scegliere i componenti della redazione de la Voce (inizialmente 40) è affidato a
Sarcina che cerca di ricomporre la squadra
già affiatata de il Giornale. Ad eccezione di
Orlando, lo stesso Sarcina e Mazzuca, il resto
della redazione non abbandona via Negri in
parte seguendo l’intimazione di Montanelli, in
parte per l’approdo ancora troppo incerto.
Contattati dal vice direttore, i giornalisti che da
il Giornale passano a la Voce sono assunti
gradualmente, nello stesso modo in cui hanno
dato le dimissioni.
Sarcina riconosce che questa modalità di
ricerca del personale ha il vantaggio di creare
il giornale in un paio di mesi, con persone che
già hanno lavorato insieme: più che una redazione sembra una grande famiglia in cui
anche i nuovi colleghi riescono facilmente ad
amalgamarsi.
La scelta dell’organico cade sulle persone più
stimate da Montanelli. Sulla base di questo
criterio di selezione, inevitabili si presentano
malcontenti e tensioni tra gli esclusi. Infatti,
non tutti quelli che vorrebbero seguire il Direttore vengono contattati ma c’è anche chi, invitato a far parte dell’equipaggio de la Voce,
rifiuta (è il caso di Daniele Vimercati, firma
della pagina politica de il Giornale).
Outsider d’eccezione è Corona: non solo non
proviene da via Negri, ma neanche da un’esperienza di quotidiani.
La struttura economica che doveva reggere
questa organizzazione si fondava sulla Piemmei, ambiziosa public company ad azionariato diffuso (4mila o 5mila soci) e capitale distribuito. L’intento di far partecipare il più ampio
numero di soci all’impresa aveva anche il
benefico effetto di ripararsi dai possibili interventi di grandi gruppi, evitando scalate ostili
che avrebbero potuto portare all’ennesimo
editore-padrone.
L’incontro tra i fondatori (Luciano Consoli e
Victor Uckmar) e Montanelli avviene il 17
dicembre 1993 ma i convenuti si lasciano
senza alcuna promessa. Solo il 4 gennaio
Consoli inizia seriamente a pensare ad un
nuovo quotidiano da affidare a Montanelli
dopo aver definitivamente rinunciato all’acquisto de Il Giorno.
Montanelli accetta l’offerta solo dopo essere
stato rinfrancato dall’adesione di Luciano
Benetton: si era reso conto che “la Piemmei
non è in grado da sola di prendere il largo” ma
aveva bisogno di “altre mani” e capitali. Pur
detestando trattare di argomenti finanziari, il
vecchio giornalista organizza un incontro con
Benetton che si dichiara disposto a comprare
una quota del futuro giornale (2 miliardi e 400
milioni, il massimo consentito dalla public
company, versata in due tranche). L’imprenditore veneto, mettendo in campo il suo nome,
rianima finanziariamente la società e fa da
volano per la raccolta di nuovi capitali.
A dispetto della sua denominazione la nuova
compagine editoriale ha mutato pelle: partecipano al capitale sociale, grandi industriali
(Benetton, Vittorio Cecchi Gori e Leonardo
Del Vecchio, entrambi con cinquecento milioni), una cordata di medi imprenditori (tra cui
Giorgio Seragnoli, gli industriali tessili Miroglio
di Alba, i titolari della Same Trattori e delle
cucine Smeg) e piccoli azionisti in forma privata (pensionati, studenti, professionisti e il
CALIM, Club Amici Lettori Indro Montanelli).
Non si sottraggono nemmeno i redattori della
futura Voce e si fanno avanti associazioni di
categoria di ogni settore (Confapi, Confartigianato, Cna, Confedilizia, Clai) e associazioni di volontariato (Arci, Uip, Lega delle cooperative del Lazio).
Dal 19 gennaio, la Voce ha una sede operativa a Milano in via Turati 28. Il trasferimento
definitivo, invece, avviene il 21 febbraio in via
Dante al 12, elegante palazzo di 1800 metri
quadrati su cinque piani che prima del ciclone
“Mani pulite” ospitava gli uffici di Silvano Larini.
Il primo numero vende
oltre mezzo milione di copie
Annunciato inizialmente per l’8, spostato per
motivi tecnici al 15, il debutto de la Voce avviene finalmente il 22 marzo 1994. Ed è subito
un successo: 300mila copie sono stampate
solo a Roma e Milano, 100mila in più rispetto
all’obiettivo previsto. Tuttavia, poiché ogni tiratura viene subito assorbita, si continua a
stampare fino alle 11 di martedì. Alla fine della
giornata si calcola così che il primo numero
de la Voce ha venduto 535mila copie.
Per il secondo numero se ne stampano
506mila, di cui 475mila vendute. Un leggero
9
TESI DI
LAUREA
La Voce
1994
2004
calo delle vendite si verifica nei giorni successivi, ma a sorpresa la media si assesta sulle
300mila copie. Dopo il periodo delle elezioni
politiche, la Voce ha una progressiva flessione e a fine maggio la diffusione media è di
106mila copie. Corona definisce la Voce un
“giornale di gran battaglia”, un “vascello corsaro” che prende ferme posizioni fin dalla vigilia
delle consultazioni elettorali.
Per non incorrere in un possibile equivoco
determinato dalla grafica, il Direttore si affretta
a chiarire di essere fermamente contrario al
“giornalismo urlato”, indubbiamente più
propenso ad un “giornalismo perentorio”: “Non
confondiamo l’urlo con la fermezza, sono due
cose diverse. Io cercherò di fare un giornale
molto fermo sulle sue posizioni, senza urlare.
Perché l’urlo è di cattivo gusto, è sempre indizio di volgarità, e poi di urlare non c’è bisogno”.
Le dichiarazioni di Montanelli presentano subito
la Voce come un giornale d’opinione che ricerca una forte identificazione col lettore fornendogli già una considerazione sulla notizia.
Per avere una visibilità forte in edicola e per
sviluppare una propria identità, Corona ha
puntato sulla “copertina-quotidiano”: tutti i giorni viene scelto l’argomento principale sul
quale si costruisce la prima pagina con il
sistema del fotomontaggio.
Secondo la volontà del suo ideatore, esso è
un’interpretazione ironica, sarcastica della
notizia e contemporaneamente un commento
alla stessa; ma può anche risultare violento al
punto da far scaturire delle polemiche.
Già nel secondo numero a molti lettori non
piace la copertina, della Corsa al balcone
(Bossi, Berlusconi e Fini con il fez e l’orbace,
divisa dei generali fascisti). Così qualche giorno dopo, Montanelli sollecitato interviene per
spiegare che il fotomontaggio è sempre una
forzatura, per questo definito “clavata”.
Non passa inosservata neanche la prima
pagina del 31 marzo: sotto il celebre pulpito di
piazza Venezia una folla fremente aspetta
“l’uomo della provvidenza”, da identificarsi
univocamente con il candidato premier Berlusconi. L’immagine, accompagnata dal titolo
L’attesa, provoca Sgarbi che non perde occasione per insultare Montanelli, definendolo
“mediocre, folcloristico, vigliacco, pavido,
razzista, antisemita”.
La copertina, però, che crea maggiori problemi al Direttore è quella del 26 aprile: Cuccia,
l’orgia del potere. Accompagna l’immagine
un violento articolo di Alberto Mazzuca. La
Voce è il primo quotidiano che ha il coraggio
di attaccare frontalmente l’ultima operazione
del “grande vecchio dell’economia [...] un
colossale scippo” compiuto ai danni dei piccoli azionisti con le privatizzazioni della Banca
Commerciale e del Credito Italiano.
Un’altra immagine riconosciuta persino dallo
stesso Corona “eccessiva” è quella della parata della Rainvest goebbelsiana (20
gennaio): immediate sono le reazioni indignate dei direttori del Tg2 e Tg5, Clemente Mimun
e Enrico Mentana.
Quando le vendite del quotidiano cominciarono a calare e soprattutto quando si profilarono all’orizzonte nemici influenti, Montanelli
indisse un’assemblea generale per confrontarsi con il parere dei redattori riguardo al tono
dei fotomontaggi, ma a larga maggioranza si
decise di continuare in questa direzione.
In tutto l’anno di vita del quotidiano, il Direttore
non cessa mai di ripetere che “le copertine
devono essere intese come un’iperbole, un
paradosso allo stesso modo delle vignette di
Forattini su Repubblica”, una provocazione da
leggere con ironia, ma a distanza di sette anni
definisce alcuni fotomontaggi “digrignature di
denti” riconoscendo l’errato approccio: “si
deve essere cattivi, ma sembrando buoni”.
Intanto, accanto ad alcuni prestigiosi collaboratori de il Giornale che sono passati in via
Dante, la Voce si arricchisce di altre firme illustri come i giudici Davigo e Maddalena, il
cardinale Tonini, l’economista Baldassarri, l’ex
presidente del Consiglio Amato e l’ex presidente della Corte costituzionale Elia.
10
Nonostante le difficoltà societarie a luglio le
vendite tornano a salire in coincidenza di due
piccole novità editoriali: “Le interviste immaginarie” di Montanelli che danno voce a
personaggi politici italiani del secondo dopoguerra (da De Gasperi a Togliatti, da don
Vizzini a Nenni) e le strisce comiche di
“Paperino&C”.
“Lettori, alzate la voce”
Vince il popolo dei fax
Per evidenti ragioni di bilancio la promozione
de la Voce, si affida per lo più alle sue idee. A
movimentare il mercato le nette prese di posizione riguardo a due avvenimenti: l’approvazione del decreto Biondi da parte del governo
“in un giorno in cui l’attenzione degli italiani
era tutta concentrata sulla nazionale di calcio
che giocava ai mondiali negli Stati Uniti” e il
defenestramento della “Rai dei professori” a
favore di un Consiglio che chiama direttori più
vicini alla nuova maggioranza.
La cronaca riporta che il 13 luglio viene firmato il decreto del Guardasigilli che modifica
alcune norme del codice di procedura penale.
Gli articoli più discussi riguardano la revisione
della custodia cautelare e le disposizioni in
materia di avviso di garanzia. La Voce si fa
interprete del pensiero comune sostenendo
che queste disposizioni mettono un bavaglio
all’informazione e legano le mani al pool di
Mani pulite.
Il 15 luglio compare un appello in prima pagina che si ripresenta puntuale per tutta la settimana dal titolo “Lettori, alzate la voce”. Il quotidiano esprime la sua solidarietà ai magistrati e
offre ai lettori la possibilità di fare altrettanto,
con telefonate o fax. Dal giorno successivo in
redazione giungono le adesioni che alla fine
raggiungeranno quota 30mila. Le più significative sono pubblicate sotto il titolo: “Firmate,
fermateli”. Il 20 luglio il governo decide per il
disegno di legge in luogo del decreto e la Voce
canta vittoria: “Decreto addio.” Hanno vinto i
fax. È tale il successo di questa iniziativa che
martedì 26 si allega un altro quotidiano di 32
pagine, la Vostra Voce, con i nomi, i pensieri e
le illustrazioni di coloro che si sono battuti
insieme a la Voce. L’iniziativa “Firmate, fermateli” diventa “una bandiera attorno a cui ci si
può stringere nei momenti in cui è necessario
che il popolo faccia sentire la sua vera voce”.
Ancora maggior successo riscuote la campagna sull’informazione. Il 3 luglio l’articolo di
spalla prospetta l’opportunità di discutere
della libertà di parola in un incontro a Milano.
Le adesioni a “Seconda Repubblica e Quarto Potere” giungono nei giorni successivi e si
organizza un convegno al Teatro Nuovo;
secondo Montanelli solo con un’informazione
libera può esistere una società civile.
Ogni azione che la Voce promuove ha un’enorme risonanza sui mezzi di comunicazione,
amplificata dal sorgere di aspre polemiche:
l’obiettivo promozionale è raggiunto. Anche
per questo motivo la Voce, vissuta solo tredici
mesi, è ancora molto radicata nella memoria
di chi l’ha letta.
A metà settembre, Montanelli decide di accettare l’invito a partecipare al dibattito sull’informazione, organizzato alla Festa dell’Unità a
Modena. Nonostante l’invito aperto, la partecipazione dei direttori di giornali italiani è scarsa: suscita quindi fragore il suo intervento, tra
i festeggiamenti del pubblico di sinistra. Non
perde occasione di sottolineare di non sentirsi
“uno di loro”, ribadendo: “Mi sono sempre
professato e continuo a professarmi uomo di
destra. Ma con la vera destra, quella patacca
di destra che ci governa non ho nulla a che
fare”. La precisazione è inutile perché questa
visita, che i nemici di Montanelli sventoleranno come prova della sua deriva a sinistra, farà
perdere al giornale, nel giro di pochi giorni,
quasi 10mila copie. Anche Montanelli a posteriori confessò l’errore perché “diede adito a
numerose strumentalizzazioni”.
Ad agosto Montanelli, incitato da un lato dai
finanziatori e pressato dall’altro dagli inserzionisti pubblicitari, decide di chiamare Gianni
Locatelli, ex direttore Rai e del Sole-24 Ore,
per sopperire alla mancanza di un vero manager editoriale.
L’insediamento di Locatelli inizialmente si
accompagna all’investitura di amministratore
delegato, come testimoniato dalla lettera di
benvenuto di Montanelli pubblicata su la Voce:
“1) Avrai da me un incondizionato appoggio
nei piani di ristrutturazione e di rilancio de la
Voce.
2) Entro il 1995 sarai il mio condirettore
responsabile con tutti i poteri”.
Il suo piano triennale verte su tre punti: rimpinguare le casse delle Piemmei grazie all’allungamento dei tempi per la chiusura della sottoscrizione e alla ricerca di nuovi azionisti tra gli
imprenditori, tagliare le spese eccedenti e
varare nuove iniziative che abbiano un ritorno
pubblicitario.
Non riuscendo ad attirare nuovi soci e capitali
freschi (la Consob respingerà la proposta di
prolungare l’Ops), Locatelli imbocca la strada
della compressione dei costi. Evidenzia subito al CdR che il costo giornalistico de la Voce
è tra i più alti elevati in Italia e propone una
riduzione delle retribuzioni del 10% o nove
dimissioni incentivate: tagliando 500 milioni di
guadagno netto annuo della redazione,
l’azienda ne avrebbe beneficiato per un miliardo e quattrocento milioni.
Nonostante Locatelli prospetti come alternativa la dichiarazione dello stato di crisi e la
cassa integrazione, si trova di fronte il netto
rifiuto della redazione.
Fallisce il piano di risanamento
e non si trovano nuovi sponsor
Tra le altre proposte di ridimensionamento
Locatelli propone il trasferimento in via Alserio
(risparmio del 60% sull’affitto di un miliardo
della sede di via Dante), la rinegoziazione del
contratto settennale con l’editore Colasanto
per la riduzione dei costi di stampa del 50% e
la chiusura della lavorazione del giornale alle
22.30.
Intanto accelera sulla ricerca di nuovi sponsor, anche in maniera trasversale: dal primo
ottobre aumenta la foliazione da 32 a 36 pagine, in coincidenza delle sfilate milanesi del
prêt à porter femminile, con il chiaro intento di
attirare inserzionisti dal profittevole mondo
della moda. Con lo stesso obiettivo, si annuncia a metà mese l’uscita di “Superodeon”, un
inserto che sarebbe dovuto uscire quotidianamente con sette pagine, una sorta di “dorso
di giornale” orientato all’intrattenimento e al
tempo libero alla ricerca del pubblico più
giovane e delle donne. Questa sorta di magazine, però, non decolla rendendo inutile l’investimento pubblicitario di oltre 300 milioni.
Sempre a ottobre, si registrano buoni risultati
sul fronte pubblicitario: il fatturato ha superato
i nove miliardi, ben sopra i sei e mezzo previsti nel budget. Forti di questi dati, la società
parla di rinegoziare, a condizioni più vantaggiose, il contratto con la concessionaria
pubblicitaria.
Altri cambiamenti coinvolgono l’ufficio di corrispondenza di Napoli che si trasforma in una
vera redazione. L’obiettivo è quello di raggiungere le 10mila copie, cercando di catturare i
lettori insoddisfatti del Mattino e de la Repubblica. Questa operazione (che vede la sua
nascita l’8 novembre) avrà all’inizio un buon
successo, anche grazie al prezzo promozionale di mille lire: due mesi dopo, a costo pieno,
le copie vendute si dimezzeranno.
Dal 16 marzo 1995 esce il primo fascicolo
della riedizione dell’opera montanelliana di
“Uomini contro”, una serie di biografie di
personaggi storici allegate al quotidiano. Ottimi progetti, la maggior parte dei quali rimarrà
però solo sulla carta.
A dicembre due avvenimenti avevano rivitalizORDINE
5
2004
zato la diffusione de la Voce: le dimissioni del
governo Berlusconi, ma soprattutto l’abbandono della toga da parte di Antonio Di Pietro
che fa registrare una punta di 120mila copie!
La tiratura quasi raddoppia, grazie anche allo
speciale supplemento da staccare e conservare che il quotidiano dedica all’avvenimento.
Ma la caduta di Berlusconi, con il passare del
tempo penalizzerà la diffusione del giornale
poiché sembra togliergli il principale bersaglio.
Da questo momento la Voce non rialzerà più
la sua media di vendite.
A partire dal nuovo anno, si susseguono rapidamente forti terremoti che causeranno inevitabilmente la sospensione delle pubblicazioni.
L’epicentro si individua ancora una volta in
Locatelli. Secondo quanto concordato, l’amministratore delegato ai primi di febbraio assume la funzione di condirettore. Orlando, esautorato dalla sua carica, abbandona la Voce
insieme ad altri giornalisti, provocando la
reazione di molti lettori che scrivono al giornale per lamentarsi.
La riorganizzazione promossa da Locatelli,
provoca subito sospetti e malumori: si diffonde il timore che voglia relegare il Direttore ad
una carica puramente onorifica. Montanelli,
tuttavia, non rimane impassibile di fronte alle
perdite dei suoi collaboratori e il 22 marzo
scrive una lettera a Locatelli, ricordandogli che
quando si era lanciato nell’avventura de la
Voce, lo aveva fatto “per dare alloggio a quei
compagni di lavoro che non volevano più stare
a il Giornale”, non per lui che poteva sedersi
sulla “comoda poltrona del Corriere”. In qualità
di pater familias continua a dichiarsi loro
garante e chiede al neo-condirettore di riconoscergli lo stesso ruolo. Accusa poi il “modo
un po’ spicciativo” con cui è stato deciso il
taglio di alcune persone che, sostiene, “per
conto mio si potevano salvare” come Sarcina,
Orlando e Bucci, l’allontanamento di alcune
delle persone care, come Frigerio, Righetti e
Abate, l’emarginazione di Mazzuca.
La Voce perde un’altra importante firma:
Mario Cervi comunica al Direttore e amico
fraterno che non si sente più a suo agio in via
Dante.
La situazione si aggrava con l’iniziativa di
Colasanto, in credito da dicembre, di bloccare
le rotative il 28 marzo. La decisione fa scoppiare un caso politico, sollevato tra gli altri da
la Repubblica e da Il Manifesto: si viene a
conoscenza che Colasanto si presenterà alle
regionali nelle liste di Forza Italia.
Il quotidiano chiede ospitalità alla tipografia de
Il Giorno che stampa la Voce con un forte fotomontaggio di copertina: il Direttore imbavagliato.
La fine è solo rimandata al Consiglio di amministrazione del 5 aprile: si decide l’inderogabile sospensione delle pubblicazioni poiché il
capitale sociale della Piemmei è vicino al minimo legale. Ci si aspetta la contromossa degli
azionisti di mettere mano al portafoglio, ma
ciò non accade e con un comunicato datato
11 aprile 1995 le pubblicazioni sono ufficialmente sospese, anche se verrà esaudito il
desiderio di Montanelli di poter fare l’ultimo
numero. Alle 11.30 dello stesso giorno si svolge l’ultima assemblea di redazione. Montanelli visibilmente commosso apre lapidario il suo
discorso: “È andata male, chiedo scusa a
tutti”. Ancora una volta manifesta il suo cruccio di sempre, cioè la sorte della sua “famiglia”: “L’anno scorso detti l’addio al Giornale
con estrema disinvoltura perché ero convinto
di rischiare poco e certamente non la vostra
pelle. E sono uscito da quel giornale a testa
alta. Anche oggi me ne vado a testa alta. Ma
accompagnato dal tormento per il vostro futuro. Scusatemi ancora”.
La Voce si congeda così dai suoi lettori il giorno dopo con un fotomontaggio dal titolo Il
giorno degli sciacalli. Il Direttore, nel suo
fondo d’addio “Uno straniero in Italia”, spiega i
motivi della chiusura, puntando soprattutto il
dito sul “vizio d’origine” che ha fatto della Voce
“un giornale sbagliato, anzi un giornale straniero”: il rivolgersi ad una “destra fedele a se
ORDINE
5
2004
stessa” che costituisce una “élite troppo
esigua per nutrire un quotidiano”. Si dice
segnato “nel morale e anche nel fisico” da
questa battaglia di cui comunque va fiero, ma
che gli ha lasciato troppe cicatrici. Chiede ai
lettori di riconoscergli il “diritto al congedo”,
confidando: “Mi mancheranno i lettori, quei
lettori. Mi mancheranno terribilmente. Spero
di mancare anch’io un po’ a loro”.
Tramontate definitivamente le speranze di
ricapitalizzazione, il 29 aprile l’assemblea dei
soci decide la messa in liquidazione della
compagnia editoriale.
Quando finisce la benzina
...la macchina si ferma
I motivi che determinano la sospensione delle
pubblicazioni sono numerosi. Osservando
freddamente i bilanci della società, la causa
principale sembra di natura economica. Ma le
analisi e le interpretazioni si rivelano molto
sfaccettate.
Mazzuca considera decisivi alcuni errori. Il
primo che ha fatto nascere la Voce “con un
vizio congenito al cuore” è di tipo gestionale:
nonostante i 50 miliardi promessi da Consoli,
la Voce parte con mezzi nettamente inferiori
(al debutto sono solo 10), ma la redazione
viene strutturata come se si possedesse quella disponibilità, con un organico di 80 giornalisti e con stipendi molto più alti rispetto a quelli de il Giornale. Montanelli condivideva il fatto
che la Voce fosse fallita per la mancanza di
capitali sufficienti ad arrivare al fatidico breakeven point.
Quando decolla l’offerta pubblica di sottoscrizione si riaccendono le speranze di arrivare
finalmente alla soglia dei 40 miliardi, ma
anche in questo caso l’operazione parte con il
piede sbagliato. Il messaggio promozionale
diffuso da Consoli si rivela inefficace: trasformare la Piemmei in un gruppo multimediale.
Prima di tendere ad un progetto così ambizioso, si doveva dotare la Voce di una “spina
dorsale organizzativa”.
A questa precaria situazione economica si
aggiunge la mancanza di una strategia a
lungo termine. Contagiati dall’euforia iniziale,
non si cerca di consolidare il giornale. Appena
le vendite iniziano a calare si propone di varare gli inserti firmati dal Direttore, ma ancora
una volta manca uno sponsor che si accolli
l’investimento iniziale. Mazzuca punta anche il
dito su una decisione azzardata: aumentare il
prezzo del giornale di duecento lire rispetto
agli altri quotidiani in un momento in cui il
panorama editoriale italiano subiva una perdita progressiva di copie. Un’altra causa è
rintracciabile poi nella struttura della public
company che, nel settore dell’informazione, si
rivela una scelta sbagliata. Sono presenti tanti
piccoli azionisti che si sentono in diritto di
comandare: a lungo andare si avverte la
mancanza di un editore vero che, pur rimettendoci economicamente sia disposto a
garantire un orientamento sicuro.
Anche Locatelli, conti alla mano, non manca
di rimarcare che il fallimento dell’impresa è
“strettamente economico in conseguenza ad
un insuccesso editoriale [...]. Quando finisce
la benzina, la macchina si ferma. Forse il
motore consuma troppa benzina rispetto a
quella che puoi pagare e bisogna trovare
qualcuno che metta dentro il rifornimento”. Il
carburante fornito dalle vendite del quotidiano
si rivela insufficiente quando la linea editoriale
non convince più i lettori. Locatelli conclude
che alla Voce è mancata anche la forza di
reggere alle forti provocazioni che hanno attirato così importanti inimicizie. “Io posso anche
essere provocatorio, ma non posso pretendere che l’aggredito mi sia anche riconoscente”
(con riferimento alla copertina Cuccia, l’orgia
del potere [NdA]).
Un’altra causa sottolineata tanto da Cervi
quanto da Corona è la mancanza di un preciso target. Secondo l’editorialista molti lettori
che inizialmente hanno comprato la Voce se
ne sono rapidamente disaffezionati perché
“avevano in mano un quotidiano che non era
Montanelli!”. È diventata “una specie di organo radicale, di polemica violentissima” togliendo al quotidiano il terreno diffusionale nel
quale poter trovare una propria nicchia di
mercato. Anche Montanelli, pur non rinnegandole, considera alcune sue scelte la causa
della defezione di molti lettori. Una grafica così
innovativa bisognava “introdurla lentamente,
senza traumatizzare il lettore, anche se i fotomontaggi sono stati la vera invenzione de la
Voce”. La Voce è fallita perché “si rivolgeva ad
un pubblico inesistente”.
Anche Corona spiega che ci si può permettere di proporre un quotidiano “non mirato” solo
quando si hanno alle spalle grandi finanziatori
che assicurano la sopravvivenza al giornale.
Purtroppo questo concetto aveva trovato
notevoli resistenze, precludendogli la possibilità di lavorare al “prodotto” e di dargli il marketing giusto.
Dal lato della redazione un altro fattore ha
fatto parlare di “giornale schizzofrenico”: la
coesistenza di due anime quella moderata di
Montanelli, Cervi e altri e l’altra più radicale di
Orlando e Corona in due mondi completamente separati. Ad un certo punto ha prevalso l’anima radicale e questo alla fine è stato
uno scotto che si è pagato. Anche se lo stesso Montanelli alimenta questa opposizione
interna considerandola come un “plus” del
giornale: accostare un fondo di Cervi con un
fotomontaggio di Corona era un gioco che
amava molto.
Serpeggiano poi voci di possibili azioni di
disturbo da parte di avversari politici, come
dichiara laconico Corona. Mazzuca si sbottona un po’ di più e racconta che, al momento della ricapitalizzazione della società, gli
imprenditori che avrebbero dovuto mettere i
soldi non hanno onorato la loro promessa.
La Voce ha chiuso pur vendendo ancora
64mila copie e ipotizza che, salito al governo
Berlusconi, gli azionisti che potevano infondere liquidi per la sopravvivenza del giornale, hanno avuto timore e si sono ritirati.
Inaspettatamente, il colpo che atterra definitivamente il quotidiano è sferrato, secondo
Aldo Vitali, dal suo stesso fondatore: deleterio è stato il ‘disengagement’ di Montanelli
che, quando le cose si sono messe male, si
è defilato velocemente togliendo la fiducia a
Locatelli. In questo modo nessuno poteva
prendere decisioni: quasi a dire “muoiano
tutti con me!”.
Questo atteggiamento del Direttore ha segnato nell’animo i redattori che si sono visti
mancare di colpo il suo appoggio. Vitali è
convinto che poteva trovare una soluzione
intermedia, collaborando per il Corriere senza
abbandonare la Voce. In realtà, Montanelli per
lungo tempo ha nascosto alla redazione e ai
suoi lettori le sue intenzioni. Se il 26 marzo
rispondendo ad una lettera smentisce velatamente le voci che lo davano già al Corriere
(“Non mi chieda smentite perché a furia di
farne mi si è indolenzita la mano. Sono quasi
vent’anni che si annunzia il mio ritorno al
Corriere”), qualche anno dopo in occasione
del suo novantesimo compleanno si scopre,
da una lettera di auguri di Mieli, che già il 9
marzo aveva firmato per passare in via Solferino. Lavorando al suo fianco, Mazzuca nota
che negli ultimi mesi Montanelli “non ha avuto
la forza di fare il direttore: è andato in crisi, ha
cercato un’altra collocazione al Corriere”.
Rimasto molto deluso dall’andamento delle
vendite, non è riuscito a riprendere in mano la
situazione. Riconosce però che è disposto a
tutto “pur di aiutare coloro che gli stanno più a
cuore”, addirittura chiedendo a Berlusconi e
al proprio successore Feltri di riprendere alcuni transfughi a il Giornale. Nonostante l’apparente fallimento, egli non rinnegherà mai
questa esperienza, questo suo “generoso
errore”, destinata come fuoco senza vento, a
spegnersi tristemente.
Cristina Luini
11
Segreto professionale dei giornalisti e
perquisizioni nelle sedi dei giornali.
Dopo le sentenze Goodwin e Roemen
della Corte di Strasburgo
GIORNALISMO
E GIUSTIZIA
EUROPEA
Pm e giudici italiani devono
indagare solo sui loro collaboratori
(che “spifferano” le notizie)
e non su chi riceve l’informazione
di Franco Abruzzo*
1
Il giornalista come
mediatore intellettuale
tra il fatto e il lettore.
Il segreto professionale
gli consente di ricevere
notizie, mentre le fonti
sono “garantite”
Non esiste il concetto giuridico di giornalismo. Il concetto, abitualmente estrapolato
dall’articolo 2 della legge professionale n.
69/1963 (quello dedicato alla deontologia
della categoria), si riassume nella frase
“giornalismo=informazione critica”.
Il primo comma dell’articolo 2, infatti, dice:
“È diritto insopprimibile dei giornalisti la
libertà d’informazione e di critica.....”.
Questo vuoto è stato, però, riempito dalla
giurisprudenza: “Per attività giornalistica
deve intendersi la prestazione di lavoro
intellettuale volta alla raccolta, al commento e alla elaborazione di notizie destinate a
formare oggetto di comunicazione interpersonale attraverso gli organi di informazione.
Il giornalista si pone pertanto come mediatore intellettuale tra il fatto e la diffusione
della conoscenza di esso...... differenziandosi la professione giornalistica da altre
professioni intellettuali proprio in ragione di
una tempestività di informazione diretta a
sollecitare i cittadini a prendere conoscenza e coscienza di tematiche meritevoli, per
la loro novità, della dovuta attenzione e
considerazione” (Cass. Civ., sez. lav., 20
febbraio 1995, n. 1827).
Dall’insieme delle norme si ricava che il
giornalista raccoglie, commenta e elabora notizie legate all’attualità e che è tenuto ad assicurare (ai cittadini) un’informazione “qualificata e caratterizzata (secondo la sentenza n. 112/1993 della Corte
costituzionale, ndr) da obiettività, imparzialità, completezza e correttezza; dal
rispetto della dignità umana, dell’ordine
pubblico, del buon costume e del libero
sviluppo psichico e morale dei minori
nonché dal pluralismo delle fonti cui (i
giornalisti, ndr) attingono conoscenze e
notizie in modo tale che il cittadino possa
essere messo in condizione di compiere
le sue valutazioni, avendo presenti punti
di vista differenti e orientamenti culturali
contrastanti”.
Il pluralismo delle fonti a sua volta ha un’interfaccia che si chiama segreto professionale. Nel nostro ordinamento la tutela del
segreto professionale viene tradizionalmente fatto risalire all’articolo 622 del Codice penale del 1930 (in vigore), che punisce
la rivelazione del segreto professionale. Il
divieto di divulgare la fonte della notizia è,
invece, un principio giuridico, che ha
festeggiato i 40 anni nel 2003. Giornalisti
ed editori, in base all’articolo 2 (comma 3)
12
2
della legge professionale n. 69/1963, “sono
tenuti a rispettare il segreto professionale
sulla fonte delle notizie, quando ciò sia
richiesto dal carattere fiduciario di esse”.
Tale norma consente al giornalista di ricevere notizie, mentre le fonti sono “garantite”. Anche l’articolo 13 (V comma) della
legge sulla privacy (n. 675/1996) tutela il
segreto dei giornalisti sulla fonte delle notizie, quando afferma che “restano ferme le
norme sul segreto professionale degli
esercenti la professione di giornalista, limitatamente alla fonte della notizia”. La violazione della regola deontologica del segreto
sulla fonte fiduciaria comporta responsabilità disciplinare (articolo 48 della legge n.
69/1963).
Il rispetto della segretezza della fonte fiduciaria della notizia, però, non appare assoluto. L’articolo 200 del Codice di procedura
penale del 1988 stabilisce, per quanto
concerne il rapporto tra obbligo a deporre
avanti al giudice e segreto professionale,
che il giornalista può opporre il segreto
professionale sui nomi delle persone dalle
quali egli ha avuto notizie di carattere fiduciario nell’esercizio della professione.
Tuttavia se le notizie sono indispensabili ai
fini della prova del reato per cui si procede
e la loro veridicità può essere accertata
soltanto attraverso l’identificazione della
fonte della notizia, il giudice ordina al giornalista di indicare la fonte delle sue informazioni. Il segreto professionale può, quindi, essere rimosso con “comando” del
giudice a condizione che: a) la notizia che
proviene dalla fonte fiduciaria sia indispensabile ai fini della prova del reato per cui si
procede;
b) l’accertamento della veridicità della notizia possa avvenire soltanto tramite l’identificazione della fonte fiduciaria (Tribunale di
Alba, sentenza 25 gennaio 2001, n.
601/2000 Reg. gen.).
In particolare il terzo comma dell’articolo
200 del Cpp enuncia: “Le disposizioni... si
applicano ai giornalisti professionisti iscritti
nell’Albo professionale, relativamente ai
nomi delle persone dalle quali i medesimi
hanno avuto notizie di carattere fiduciario
nell’esercizio della loro professione. Tuttavia se le notizie sono indispensabili ai fini
della prova del reato per cui si procede e
la loro veridicità può essere accertata solo
attraverso l’identificazione della fonte della
notizia, il giudice ordina al giornalista di
indicare le fonti delle sue informazioni”.
I pubblicisti e i praticanti, esclusi dai vincoli
dell’articolo 200 del Codice di procedura
penale, non possono, quindi, davanti al
giudice, come i giornalisti professionisti,
avvalersi delle norme citate per “coprire” la
fonte fiduciaria delle loro notizie. Ma è pur
vero che gli stessi sono tenuti a rispettare
l’articolo 2 (comma 3) della legge n.
69/1963 sull’ordinamento della professione
di giornalista: conseguentemente possono
invocare il segreto sulle fonti.
Segreto sulle fonti:
“La norma assicura una piena
tutela, consentendo una
deroga soltanto in via
di eccezione”
(Tribunale penale di Treviso).
Anche la Convenzione
europea dei diritti dell’Uomo
protegge le fonti dei giornalisti
Un giudice (mai un Pm) può ordinare, come
riferito, a un giornalista professionista, in base
all’articolo 200 del Cpp, di “indicare la fonte
delle sue informazioni se le notizie sono indispensabili ai fini della prova del reato e la loro
veridicità può essere accertata solo attraverso l’identificazione della fonte della notizia”.
Bisogna sottolineare che in sede giurisprudenziale è affiorato un orientamento più favorevole alle ragioni dei giornalisti: “La norma di
cui al comma 3 dell’art. 200 Cpp deve intendersi riferita all’accertamento della fondatezza della notizia pubblicata, in quanto funzionale all’esame della sua veridicità che può
trovare l’unico strumento nella identificazione
della fonte fiduciaria. Solo in tale circostanza
quindi il giudice, al fine di verificare la rispondenza della notizia indispensabile per la prova
di un reato per cui si procede, potrebbe ordinare al giornalista di indicare la sua fonte,
purché sia l’unico strumento investigativo a
disposizione” (Pret. Roma, 21/02/1994).
I giornalisti continuano, però, nonostante le
timide aperture interpretative, ad opporre il
segreto professionale, che è salvaguardato
anche dall’articolo 10 della Convenzione
europea dei diritti dell’Uomo. L’articolo 10
(Libertà di espressione), - ripetendo le parole
della Dichiarazione universale dei diritti
dell’Uomo del 1948 e del Patto sui diritti politici di New York del 1966 -, recita: “ Ogni persona ha diritto alla libertà d’espressione. Tale
diritto include la libertà d’opinione e la libertà
di ricevere o di comunicare informazioni o
idee senza che vi possa essere ingerenza da
parte delle autorità pubbliche e senza considerazione di frontiere”. La libertà di ricevere le
informazioni comporta, come ha scritto la
Corte dei diritti dell’Uomo di Strasburgo, la
protezione assoluta delle fonti dei giornalisti.
Una difesa forte del segreto dei giornalisti
emerge dalla sentenza 14 gennaio 2000 del
Tribunale penale di Treviso (n. 252/1999 Reg.
gen.): “Nulla è risultato circa l’identità
dell’informatore perché tutti i giornalisti indicati come testi si sono avvalsi del segreto
professionale. Il Pm ha chiesto che gli stessi
venissero obbligati, così come previsto dall’articolo 200 (terzo comma) Cpp, a deporre sul
punto, ma il collegio ha respinto l’istanza. La
norma appena menzionata assicura, invece,
una piena tutela al segreto professionale dei
giornalisti, consentendo una deroga soltanto
in via di eccezione, e quindi di stretta interpretazione. Prevede l’imposizione dell’obbligo a
deporre in presenza – congiunta – di due
precisi requisiti: quello dell’impossibilità di
accertare la veridicità della notizia se non
attraverso l’identificazione della fonte della
stessa e quello dell’indispensabilità della notizia ai fini della prova del reato per il quale si
procede. Se questi sono gli stretti limiti di
operatività della deroga, sembra evidente che
l’obbligo a deporre sarebbe stato imposto non
già ad accertare la veridicità della notizia (che
pacificamente in questo caso erano vere e
non richiedevano alcuna verifica in tal senso),
bensì ad individuare l’autore del reato di rivelazione di segreti (del quale, oltretutto, il giornalista avrebbe potuto eventualmente essere
anche partecipe), violando così la tutela del
segreto sulle fonti giornalistiche accordata dal
legislatore”.
3
C’è differenza tra il segreto
professionale dei giornalisti e
quello degli altri professionisti
Medici, chirurghi, avvocati, sacerdoti, notai,
consulenti tecnici, farmacisti e ostetriche,
dottori e ragionieri commercialisti, consulenti
del lavoro, dipendenti del servizio pubblico per
le tossicodipendenze sono tenuti a non divulgare notizie ricevute sotto l’impegno del
segreto professionale. I giornalisti, invece,
sono eticamente obbligati a rendere pubbliche (sulla stampa, per agenzia, per tv o per
radio, per web) le notizie ricevute, ma, con gli
editori, in base all’articolo 2 della legge professionale e all’articolo 13 della legge sulla
privacy, sono tenuti a rispettare il segreto
professionale sulla fonte delle notizie quando
ciò sia richiesto dal carattere fiduciario di
esse. Gli uni non divulgano le notizie, gli altri (i
giornalisti) devono pubblicare e tutelare
soltanto la fonte delle notizie pubblicate.
Sentenza Goodwin:
la Corte di Strasburgo difende
il segreto professionale
dei giornalisti (su questa linea
anche il Parlamento europeo)
4
La Convenzione europea dei diritti dell’Uomo
(legge 4 agosto 1955 n. 848) con l’articolo 10,
come riferito, tutela espressamente le fonti
dei giornalisti, stabilendo il diritto a “ricevere”
notizie. Lo ha spiegato la Corte dei diritti
dell’Uomo di Strasburgo con la sentenza che
ha al centro il caso del giornalista inglese
William Goodwin (Corte europea diritti
dell’Uomo 27 marzo 1996, Goodwin c.
Regno Unito, v. Tabloid n. 1/2000 n. Peron).
William Goodwin, giornalista inglese, aveva
ricevuto da una fonte fidata ed attendibile
alcune informazioni su una società di
programmi elettronici (la Tetra Ltd). In particolare il giornalista rivelò che tale società aveva
contratto numerosi debiti e vertiginose perdite. La società Tetra per evitare i danni che
sarebbero potuti derivarle dalla divulgazione
di tali notizie presentò all’alta Corte di Giustizia inglese un ricorso con il quale non solo
chiedeva che fosse vietata la pubblicazione
ORDINE
5
2004
COMUNICATO DEL PRESIDENTE DELL’ORDINE DEI GIORNALISTI DELLA LOMBARDIA
Milano, 15 aprile 2004. Con riferimento ai
drammatici odierni eventi dell’Irak, Franco
Abruzzo ha dichiarato: “La pubblicazione di
fotografie del cadavere della vittima di un
omicidio può costituire reato se le immagini sono caratterizzate da particolari
impressionanti e raccapriccianti, lesivi
della dignità umana. La pubblicazione non
rientra nel diritto di cronaca”. Franco
Abruzzo richiama in particolare l’articolo
15 della legge 8 febbraio 1948 n. 47 (sulla
stampa) che punisce, con la pena della
reclusione da tre mesi a tre anni e con la
multa non inferiore a lire duecentomila, la
pubblicazione di “stampati i quali descrivano o illustrino, con particolari impressionanti o raccapriccianti, avvenimenti realmente verificatisi o anche soltanto immaginari in modo da poter turbare il comune
sentimento della morale o l’ordine familiare
o da poter provocare il diffondersi di suicidi
o delitti”. Questo principio vale per tutti i
media.
L’articolo 15 della legge sulla stampa è
stato ritenuto legittimo dalla Corte costituzionale con la sentenza 11-17 luglio 2000
n. 293 con la quale ha dichiarato non
fondata la questione di legittimità costituzionale dello stesso articolo, sollevata in
riferimento agli articoli. 3, 21 (sesto
comma) e 25 della Costituzione. In sostanza il divieto di pubblicazioni a contenuto
impressionante o raccapricciante non
contrasta con la Costituzione perché è
diretto a tutelare la dignità umana. “La
persona umana – ha precisato la Corte
Costituzionale – è tutelata dall’articolo 2
dell’articolo in questione, ma chiedeva altresì
che il giornalista fosse condannato a rivelare
la fonte delle informazioni ricevute al fine di
evitare nuove “fughe di notizie”. Le richieste
della Tetra furono accolte sia dall’alta Corte
che dalla Corte d’Appello, secondo le quali il
diritto alla protezione delle fonti giornalistiche
ben può essere limitato “nell’interesse della
giustizia, della sicurezza nazionale nonché a
fini di prevenzione di disordini o di delitti”. Il
giornalista, tuttavia, non eseguì l’ordine di
divulgazione della fonte – posto che in tale
modo la stessa si sarebbe “bruciata” – e
presentò ricorso alla Commissione Europea
dei Diritti dell’Uomo, denunciando la violazione dell’articolo 10 della Convenzione.
La Corte di Strasburgo, con sentenza 27
marzo 1996, muovendo dal principio che ad
ogni giornalista deve essere riconosciuto il
diritto di ricercare le notizie, ha ritenuto che
“di tale diritto fosse logico e conseguente
corollario anche il diritto alla protezione delle
fonti giornalistiche, fondando tale assunto sul
presupposto che l’assenza di tale protezione
potrebbe dissuadere le fonti non ufficiali dal
fornire notizie importanti al giornalista, con la
conseguenza che questi correrebbe il rischio
di rimanere del tutto ignaro di informazioni
che potrebbero rivestire un interesse generale per la collettività”. Questa sentenza della
Corte di Strasburgo è l’altra faccia di una
sentenza (la n. 11/1968) della nostra Corte
costituzionale: “Se la libertà di informazione
e di critica è insopprimibile, bisogna convenire che quel precetto, più che il contenuto di
un semplice diritto, descrive la funzione stessa del libero giornalista: è il venir meno ad
essa, giammai l’esercitarla che può compromettere quel decoro e quella dignità sui quali
l’Ordine è chiamato a vigilare”.
La decisione del caso “Goodwin” è particolarmente interessante anche perché ha
concorso a dissipare i dubbi nascenti da una
interpretazione letterale dell’articolo 10 della
Convenzione, che si limita a specificare che
la libertà di espressione comprende sia il
diritto passivo a ricevere delle informazioni
sia il diritto attivo di fornirle, senza, però, che
sia menzionato il diritto del giornalista di
cercare e procurarsi notizie tramite proprie
fonti di informazioni. Tale lacuna aveva, difatti, sollevato il quesito - attualmente sciolto
dalla Corte – che quest’ultimo diritto non
rientrasse nell’ambito del diritto alla libertà e
pertanto non fosse ricompreso nell’ambito
della sua tutela. Ma del resto la tendenza
espressa dalla Corte con tale decisione trova
ulteriore conferma e riscontro con le tendenze espresse al riguardo dallo stesso Parlamento Europeo, il quale – in una risoluzione
del 18 gennaio 1994 sulla segretezza delle
fonti d’informazione dei giornalisti - ha dichiarato che “il diritto alla segretezza delle fonti
di informazioni dei giornalisti contribuisce in
modo significativo a una migliore e più
completa informazione dei cittadini e che
tale diritto influisce di fatto anche sulla
trasparenza del processo decisionale”. In
sintesi il segreto professionale è indispensabile sia nello svolgimento della professione
giornalistica che nell’esercizio del diritto di
ogni cittadino a ricevere informazioni, mentre
ORDINE
5
2004
Abruzzo:
“Pubblicare foto raccapriccianti
non è diritto di cronaca
e costituisce reato.
Questo principio vale
per tutti i media”
della Costituzione, in base al quale deve
essere interpretato l’articolo 15 della legge
sulla stampa; la descrizione dell’elemento
materiale del fatto-reato, indubbiamente
caratterizzato dal riferimento a concetti
elastici, trova nella tutela della dignità
umana il suo limite, sì che appare escluso
il pericolo di arbitrarie dilatazioni della fattispecie, risultando quindi infondate le
censure di genericità e indeterminatezza”.
“Quello della dignità della persona umana
– ha affermato la Corte - è, infatti, valore
costituzionale che permea di sé il diritto
positivo e deve dunque incidere sull’interpretazione di quella parte della disposizione in esame che evoca il comune sentimento della morale”.
La Cassazione (Sezione Terza Penale n.
23356 dell’8 giugno 2001, Pres. Malinconico,
per contro le uniche eccezioni ammissibili
devono essere ragionevoli e in ogni caso
limitate, poiché “il mancato rispetto del
segreto professionale limita in modo indiretto lo stesso diritto all’informazione”.
5
La Corte di Strasburgo,
con la sentenza Roemen,
impone l’alt alle perquisizioni
negli uffici dei giornalisti
e dei loro avvocati a tutela
delle fonti dei giornalisti
L’ordinamento europeo impedisce ai giudici
nazionali di ordinare perquisizioni negli uffici
e nelle abitazioni dei giornalisti nonché nelle
“dimore” dei loro avvocati a caccia di prove
sulle fonti confidenziali dei cronisti: “La libertà
d’espressione costituisce uno dei fondamenti essenziali di una società democratica, e le
garanzie da concedere alla stampa rivestono un’importanza particolare. La protezione
delle fonti giornalistiche è uno dei pilastri
della libertà di stampa. L’assenza di una tale
protezione potrebbe dissuadere le fonti giornalistiche dall’aiutare la stampa a informare
il pubblico su questioni d’interesse generale.
Di conseguenza, la stampa potrebbe essere
meno in grado di svolgere il suo ruolo indispensabile di “cane da guardia” e il suo
atteggiamento nel fornire informazioni precise e affidabili potrebbe risultare ridotto”.
Questi sono i principi sanciti nella sentenza
“Roemen” 25 febbraio 2003 (Procedimento
n. 51772/99) della quarta sezione della Corte
europea dei diritti dell’uomo. Il segreto
professionale dei giornalisti è tutelato solennemente dall’articolo 10 della Convenzione
europea dei diritti dell’uomo, mentre l’articolo
8 della stessa Convenzione protegge il domicilio dei legali.
I protagonisti di questa vicenda (causa
Roemen e Schmit contro Lussemburgo)
sono due cittadini lussemburghesi, il giornalista Robert Roemen e l’avvocato AnneMarie Schmit. La Corte di Strasburgo ha
dichiarato che c’è stata la violazione degli
articoli 8 e 10 della Convenzione e conseguentemente ha condannato il Granducato
del Lussemburgo a pagare al giornalista e
all’avvocato 4mila euro a testa per i danni
morali nonché le spese (11.629 euro) al
cronista.
Il 21 luglio 1998, Robert Roemen ha pubblicato un articolo intitolato “Minister W. der
Steuerhinterziehung überführt” (Il ministro W.
accusato di frode fiscale) sul quotidiano
“Lëtzëbuerger Journal”. Vi sosteneva che “il
ministro aveva infranto il settimo, l’ottavo e il
nono comandamento con frodi riguardanti
l’IVA e osservava che ci si sarebbe potuti
aspettare che un uomo politico di destra
prendesse più sul serio i principi elaborati
con tanta cura da Mosè. Precisava che il
ministro era stato oggetto di una sanzione
fiscale di 100.000 franchi lussemburghesi.
Concludeva che un tale atteggiamento era
ancor più vergognoso poiché proveniente da
una personalità che doveva servire da
Rel. Postiglione), richiamando l’indirizzo della
Consulta, ha affermato - nella vicenda che
vedeva coinvolti il direttore e due redattori del
settimanale “Visto” (condannati dalla Corte
d’Appello di Milano alla pena di tre mesi di
reclusione e di lire trecentomila di multa ) che “l’esercizio del diritto di cronaca pur
pienamente legittimo in una società democratica ed aperta, deve salvaguardare
come valori fondamentali il comune sentimento della morale e la dignità umana tutelate dall’articolo 2 della Costituzione. I
giudici di appello - ha osservato la Suprema Corte - hanno correttamente motivato
la loro decisione rilevando che le immagini
della vittima dell’omicidio sono tali da
destare impressione e raccapriccio nell’osservatore di normale emotività, improntata
ad impulsi di solidarietà umana, pietà per
esempio”. La reazione del ministro era scattata sul fronte amministrativo e penale. Così
i giudici avevano ordinato di perquisire gli
studi e gli uffici del giornalista e dell’avvocato
alla ricerca di indizi tali da portare gli inquirenti alla identificazione delle “gole profonde”
annidate nell’amministrazione finanziaria del
Granducato.
Si legge nella sentenza: “Secondo l’opinione
della Corte il presente caso si distingue dal
caso Goodwin in un punto fondamentale. In
quest’ultimo caso l’ingiunzione (di un tribunale inglese, ndr) aveva intimato al giornalista
di rivelare l’identità del suo informatore,
mentre nel caso in oggetto sono state effettuate perquisizioni presso il domicilio e il
luogo di lavoro del giornalista. La Corte giudica che delle perquisizioni aventi per oggetto
di scoprire la fonte di un giornalista costituiscono - anche se restano senza risultato un’azione più grave dell’intimazione di divulgare l’identità della fonte. Infatti, gli inquirenti
che, muniti di un mandato di perquisizione,
sorprendono un giornalista nel suo luogo di
lavoro, detengono poteri d’indagine estremamente ampi poiché, per definizione, possono
accedere a tutta la documentazione in
possesso del giornalista. La Corte, che non
può fare altro se non rammentare che “i limiti
definiti per la riservatezza delle fonti giornalistiche esigono da parte [sua] (...) l’esame più
scrupoloso possibile” (vedi sopra il provvedimento Goodwin citato, § 40), è quindi del
parere che le perquisizioni effettuate presso
il giornalista erano ancora più lesive nei
confronti della protezione delle fonti di quelle
adottate nel caso Goodwin.In considerazione di quanto precede la Corte giunge alla
conclusione che il Governo non ha dimostrato che l’equilibrio degli interessi in oggetto,
vale a dire, da un lato, la protezione delle
fonti e, dall’altro, la prevenzione e repressione dei reati, sia stato salvaguardato. A tale
scopo rammenta che “le considerazioni di cui
devono tenere conto le istituzioni della
Convenzione per esercitare il loro controllo
nell’ambito del par. 2 dell’art.10 fanno pendere la bilancia degli interessi in oggetto in favore di quello della difesa della libertà di stampa in una società democratica” (vedi supra il
provvedimento Goodwin citato, § 45)”.
L’avvocato, invece, lamenta un’aggressione
ingiustificata al suo diritto al rispetto del suo
domicilio a causa della perquisizione effettuata presso il suo studio. Sostiene inoltre
che il sequestro avvenuto in tale occasione
ha violato il diritto al rispetto della “corrispondenza fra l’avvocato e il suo cliente”. La
Corte riconosce che “il mandato di perquisizione concedeva quindi agli inquirenti dei
poteri piuttosto estesi”. Inoltre, e soprattutto,
la Corte è del parere che lo scopo della
perquisizione era infine quello di svelare la
fonte del giornalista: “Di conseguenza, la
perquisizione della scrivania dell’avvocato
ha avuto una ripercussione sui diritti garantiti al giornalista dall’articolo 10 della Convenzione. La Corte giudica peraltro che la
perquisizione della scrivania è stata sproporzionata rispetto allo scopo previsto, sostanzialmente tenendo conto della rapidità con
cui è stata effettuata”.
la defunta, rispetto per la sua spoglia,
repulsione istintiva verso le ferite efferatamente impresse, salvaguardia della dignità
della persona già uccisa in quel modo ed
ulteriormente oltraggiata dalla pubblica
ostensione del suo corpo, naturale esigenza di riservatezza verso l’intimità fisica
personale rinforzata dalla condizione
mortale del soggetto”.
Il direttore e due redattori del settimanale
“Visto” avevano, in concorso con un pubblico
ufficiale non identificato, realizzato e pubblicato un servizio dedicato alla morte per
omicidio della contessa Alberica Filo della
Torre, avvenuta nel luglio 1991, corredandolo con tre fotografie a colori raffiguranti il
cadavere della vittima così come era stato
rinvenuto nell’immediatezza del delitto, con
particolari impressionanti e raccapriccianti
delle tracce lasciate sul corpo nudo e sugli
indumenti e delle modalità di esecuzione del
crimine.
Il Consiglio dell’Ordine dei Giornalisti
della Lombardia e il Consiglio nazionale
dell’Ordine hanno fatto proprio l’indirizzo della Corte costituzionale sul piano
deontologico nella vicenda di “Libero”,
conclusasi con la sanzione della censura per il direttore del quotidiano (radiato
dall’Albo in primo grado). “Libero” aveva
pubblicato il 28 settembre 2000 otto
immagini raccapriccianti di bambini
violentati. Il direttore ha patteggiato due
mesi di reclusione per questi fatti e ha
poi dichiarato al “Foglio” che non avrebbe mai in futuro ripetuto l’errore.
La tutela delle fonti
dei giornalisti
a livello continentale
6
Con la raccomandazione n° R (2000) 7, adottata l’8 marzo 2000, anche il Consiglio d’Europa ha voluto tutelare solennemente le fonti dei
giornalisti, affermando: “Il diritto dei giornalisti
di non rivelare le loro fonti fa parte integrante
del loro diritto alla libertà di espressione garantito dall’articolo 10 della Convenzione. L’articolo 10 della Convenzione, così come interpretato dalla Corte europea dei Diritti dell’Uomo,
s’impone a tutti gli Stati contraenti. Vista l’importanza, per i media all’interno di una società
democratica, della confidenzialità delle fonti
dei giornalisti, è bene tuttavia che la legislazione nazionale assicuri una protezione accessibile, precisa e prevedibile. È nell’interesse dei
giornalisti e delle loro fonti come in quello dei
pubblici poteri disporre di norme legislative
chiare e precise in materia. Queste norme
dovrebbero ispirarsi all’articolo 10, così come
interpretato dalla Corte europea dei Diritti
dell’Uomo, oltre che alla presente Raccomandazione. Una protezione più estesa della
confidenzialità delle fonti d’informazione dei
giornalisti non è esclusa dalla Raccomandazione. Se un diritto alla non-divulgazione
esiste, i giornalisti possono legittimamente
rifiutare di divulgare delle informazioni identificanti una fonte senza esporsi alla denuncia
della loro responsabilità sul piano civile o
penale o a una qualunque pena cagionata da
questo rifiuto”. Questa raccomandazione
concorre, con la risoluzione del Parlamento
europeo e con le sentenze della Corte dei
Strasburgo, a formare uno “spazio giuridico
europeo”, che fa del segreto professionale dei
giornalisti un caposaldo della libertà di stampa
e del diritto dei cittadini all’informazione.
7
Le norme della Convenzione
europea dei diritti dell’Uomo
sono di immediata operatività
nel nostro Paese
La Convenzione europea per la salvaguardia
dei diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali rappresenta un meccanismo di protezione
internazionale dei diritti dell’uomo particolarmente efficace. Le norme della Convenzione
sono di immediata operatività nel nostro
Paese: «Le norme della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’Uomo e
delle libertà fondamentali, salvo quelle il cui
contenuto sia da considerarsi così generico
da non delineare specie sufficientemente
puntualizzate, sono di immediata applicazione nel nostro Paese e vanno concretamente
valutate nella loro incidenza sul più ampio
complesso normativo che si è venuto a determinare in conseguenza del loro inserimento
nell’ordinamento italiano; la ‘precettività’ in
Italia delle norme della Convenzione consegue dal principio di adattamento del diritto
italiano al diritto internazionale convenzionale
per cui ove l’atto o il fatto normativo internazionale contenga il modello di un atto interno
13
Segreto professionale
dei giornalisti
e perquisizioni
nei giornali
Pm e giudici italiani devono indagare
solo sui loro collaboratori
(che “spifferano” le notizie)
e non su chi riceve l’informazione
completo nei suoi elementi essenziali, tale
cioè da poter senz’altro creare obblighi e diritti, l’adozione interna del modello di origine
internazionale è automatica (adattamento
automatico), ove invece l’atto internazionale
non contenga detto modello le situazioni giuridiche interne da esso imposte abbisognano,
per realizzarsi, di una specifica attività normativa dello Stato» (Cass., sez. un. pen., 23
novembre 1988; Parti in causa Polo Castro;
Riviste: Cass. Pen., 1989, 1418, n. Bazzucchi;
Riv. Giur. Polizia Locale, 1990, 59; Riv. internaz. diritti dell’uomo, 1990, 419). Anche la
Corte costituzionale (sentenza n. 10 del 19
gennaio 1993) si è pronunciata autorevolmente in tale senso, specificando che la legislazione con cui la Convenzione è entrata in
vigore in Italia consiste in una normativa che,
pur avendo forza di legge, deriva «da una
fonte riconducibile a una competenza atipica»
e pertanto risulta «insuscettibile di abrogazione o di modificazione da parte di disposizioni
di legge ordinaria».
Ribadiscono ancora i supremi giudici della
prima sezione penale, che si pongono su di
una linea di continuità con gli enunciati delle
Sezioni unite del 1988: «Le norme della
Convenzione europea, in quanto principi
generali dell’ordinamento, godono di una
particolare forma di resistenza nei confronti
della legislazione nazionale posteriore»
(Cass. pen., sez. I, 12 maggio 1993; Parti in
causa Medrano; Riviste Cass. Pen., 1994,
440, n. Raimondi; Rif. legislativi L 4 agosto
1955 n. 848; Dpr 9 ottobre 1990 n. 309, art.
86). La suprema magistratura civile è dello
stesso avviso: «Le norme della Convenzione
europea sui diritti dell’Uomo, nonché quelle
del primo protocollo addizionale, introdotte
nell’ordinamento italiano con l. 4 agosto 1955
n. 848, non sono dotate di efficacia meramente programmatica. Esse, infatti, impongono
agli Stati contraenti, veri e propri obblighi
giuridici immediatamente vincolanti, e, una
volta introdotte nell’ordinamento statale interno, sono fonte di diritti ed obblighi per tutti i
soggetti. E non può dubitarsi del fatto che le
norme in questione - introdotte nello ordinamento italiano con la forza di legge propria
degli atti contenenti i relativi ordini di esecuzione, non possono ritenersi abrogate da
successive disposizioni di legge interna,
poiché esse derivano da una fonte riconducibile ad una competenza atipica e, come tali,
sono insuscettibili di abrogazione o modificazione da parte di disposizioni di legge ordinaria» (Cass. civ., sez. I, 8 luglio 1998, n. 6672;
Riviste: Riv. It. Dir. Pubbl. Comunitario, 1998,
1380, n. Marzanati; Giust. Civ., 1999, I, 498;
Rif. legislativi L 4 agosto 1955 n. 848).
Anche la giustizia amministrativa ritiene che
«la Convenzione europea dei diritti dell’Uomo,
resa esecutiva con la l. 4 agosto 1955 n. 848,
sia direttamente applicabile nel processo
amministrativo» (Tar Lombardia, sez. III, Milano 12 maggio 1997 n. 586; Parti in causa Soc.
Florenzia c. Iacp Milano e altro; Riviste Foro
Amm., 1997, 1275,, 2804, n. Perfetti; Colzi;
Rif. legislativi L 4 agosto 1955 n. 848, artt. 6 e
13 L 4 agosto 1955 n. 848).
La Convenzione deve il suo successo al fatto
di fondarsi su un sistema di ricorsi – sia da
parte degli Stati contraenti sia da parte degli
individui - in grado di assicurare un valido
controllo in ordine al rispetto dei principi fissati dalla Convenzione stessa. La Corte europea dei diritti dell’Uomo è in sostanza un tribunale internazionale istituito dalla Convenzione
europea per la salvaguardia dei diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali al quale può
essere proposto ricorso per la violazione di
diritti e libertà garantiti dalla Convenzione sia
dagli Stati contraenti e sia dai cittadini dei
singoli Stati.
Non solo gli articoli della Convenzione
quant’anche le sentenze definitive della Corte
europea dei diritti dell’Uomo, che della prima
è diretta emanazione, sono vincolanti per gli
Stati contraenti. «Le Alte Parti contraenti –
dice l’articolo 46 della Convenzione – si impegnano a conformarsi alle sentenze definitive
della Corte nelle controversie nelle quali sono
parti». Va detto anche che gli articoli della
Convenzione operano e incidono unitamente
alle interpretazioni che la Corte di Strasburgo
ne dà attraverso le sentenze. Le sentenze
formano quel diritto vivente al quale i giudici
dei vari Stati contraenti sono chiamati ad
adeguarsi sul modello della giustizia inglese.
«La portata e il significato effettivo delle disposizioni della Convenzione e dei suoi protocolli
non possono essere compresi adeguatamente senza far riferimento alla giurisprudenza.
La giurisprudenza diviene dunque, come la
Corte stessa ha precisato nel caso Irlanda
contro Regno Unito (sentenza 18 gennaio
1978, serie A n. 25, § 154) fonte di parametri
interpretativi che oltrepassano spesso i limiti
del caso concreto e assurgono a criteri di
valutazione del rispetto, in seno ai vari sistemi giuridici, degli obblighi derivanti dalla
Convenzione… i criteri che hanno guidato la
Corte in un dato caso possono trovare e
hanno trovato applicazione, mutatis mutandis,
anche in casi analoghi riguardanti altri Stati»
(Antonio Bultrini, La Convenzione europea
dei diritti dell’Uomo: considerazioni introduttive, in Il Corriere giuridico, Ipsoa, n. 5/1999,
pagina 650).
D’altra parte, dice l’articolo 53 della Convenzione, «nessuna delle disposizioni della
presente Convenzione può essere interpretata in modo da limitare o pregiudicare i diritti
dell’uomo e le libertà fondamentali che possano essere riconosciuti in base alle leggi di
ogni Paese contraente o in base ad ogni altro
accordo al quale tale Parte contraente partecipi». Vale conseguentemente, con valore
vincolante, l’interpretazione che della Convenzione dà esclusivamente la Corte europea di
Strasburgo. Non a caso il Consiglio d’Europa,
nella raccomandazione R(2000)7 sulla tutela
delle fonti dei giornalisti, ha scritto testualmente: «L’articolo 10 della Convenzione, così
come interpretato dalla Corte europea dei
Diritti dell’Uomo, s’impone a tutti gli Stati
contraenti». Su questa linea si muove il principio affermato il 27 febbraio 2001 dalla Corte
europea dei diritti dell’Uomo: “I giudici nazionali devono applicare le norme della Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo secondo i
principi ermeneutici espressi nella giurisprudenza della Corte europea dei Diritti dell’Uomo” (in Fisco, 2001, 4684).
Conclusioni.
I giornalisti italiani devono
rifiutarsi di rispondere
ai giudici sul segreto
professionale, invocando,
con le leggi nazionali,
la protezione dell’articolo 10
della Convenzione europea
dei diritti dell’Uomo e le
sentenze Goodwin e Roemen
della Corte di Strasburgo.
Il Codice di procedura penale
(articolo 200) deve recepire
Strasburgo. Pm e Gip devono
indagare soltanto su chi
(pubblico ufficiale) “spiffera”
la notizia e non su chi
(giornalista) la riceve
Belgio:
sì alla
nuova legge
sulla tutela
delle fonti
(ma perplessità
sulle eccezioni)
Bruxelles, 31 marzo 2004. L’International
Federation of Journalists ed il suo organo
regionale, l’European Federation of Journalists, hanno accolto con favore i passi in
avanti fatti dal Belgio per adottare una
legge che protegga le fonti giornalistiche,
temendo tuttavia che le eccezioni previste
operino a discapito dei giornalisti.
“Questo è un importante passo avanti”, ha
dichiarato Aidan White, segretario generale dell’IFJ e dell’EFJ. “Certamente, il raid
della polizia all’interno dell’abitazione e
dell’ufficio di Bruxelles di un reporter della
scorsa settimana ha dato una forte spinta
all’adozione di tale legge”.
L’atteggiamento della polizia contro HansMartin Tillack, reporter della rivista tedesca
Stern, ha suscitato risentimento tra gli
addetti stampa locali, sollevando il timore
di nuove pressioni politiche sui giornalisti. Il
giornalista, che si è occupato a lungo della
corruzione all’interno dei circoli dell’Unione
Europea, è stato oggetto di ritorsioni in
seguito alla richiesta fatta alle autorità locali dall’OLAF- l’unità europea che si occupa
di sanzionare gli imbrogli.
I giornalisti hanno generalmente accolto
con favore l’adozione unanime del disegno
di legge sulla protezione delle fonti del 24
marzo, pur temendo per le eccezioni previste in caso di temi concernenti la sicurezza
di stato, la famiglia reale e lo spionaggio.
“Dobbiamo assicurare che il principio di
protezione delle fonti venga difeso quanto
più possibile” ha dichiarato White. “E
mentre capiamo la necessità di eccezioni
per quanto riguarda la sicurezza nazionale
ed il benessere pubblico, riteniamo che le
eccezioni politiche siano un’altra cosa.
Tuttavia, le autorità non potranno ignorare
ancora a lungo il principio di protezione
delle fonti”.
L’unione dei giornalisti, la Belgian Association
for
Professional
Journalists
(AGJPB/AVBB), ha invitato il Parlamento
ed il Senato ad eliminare le eccezioni di
tipo politico in occasione delle prossime
deliberazioni.
Negli ultimi anni gli attacchi alla riservatezza delle fonti hanno avuto luogo in Belgio
più che in ogni altro paese dell’ovest Europeo.
Non essendoci ancora disposizioni legali
per la protezione delle fonti, alcuni casi
sono stati portati davanti alla Corte europea per i Diritti umani di Strasburgo.
14
8
È diritto insopprimibile dei giornalisti quello
di raccontare quel che accade, fatti e notizie
su questioni di interesse generale. Questo
principio, che è l’incipit dell’articolo 2 della
legge professionale dei giornalisti italiani, è
consacrato in una sentenza della Corte di
Strasburgo.
La libertà di scrivere è sacra e cammina di
pari passo con l’osservanza della deontologia. Il rispetto del segreto professionale è
una regola fondamentale perché sul rovescio garantisce il diritto dei cittadini all’informazione: “È diritto dei giornalisti quello di
comunicare informazioni su questioni di
interesse generale, purché ciò avvenga nel
rispetto dell’etica giornalistica, che richiede
che le informazioni siano espresse correttamente e sulla base di fatti precisi e fonti affidabili; costituisce, pertanto, un limite irragionevole alla libertà di stampa la condanna
per ricettazione di giornalisti che, attenendosi alle norme deontologiche, abbiano
pubblicato documenti di interesse generale
pervenuti loro in conseguenza del reato di
violazione di segreto professionale da altri
commesso (nella specie, copia delle denunzie dei redditi di un importante manager
francese)” (Corte europea diritti dell’Uomo,
21 gennaio 1999; Parti in causa Comm.
europea dir. uomo c. Governo francese e
altro; Riviste: Foro It., 2000, IV, 153).
La Convenzione europea dei diritti dell’Uomo e le sentenze di Strasburgo rendono
forte il lavoro del cronista. Le vicende
Goodwin e Roemen sono episodi che assumono valore strategico. Quelle sentenze
possono essere “usate”, quando i giudici
nazionali mettono sotto inchiesta, sbagliando, i giornalisti, che si avvalgono del segreto
professionale. I giornalisti devono rifiutarsi di
rispondere ai giudici in tema di segreto
professionale, invocando, con le norme
nazionali (legge n. 69/1963 e dlgs n.
196/2003), la protezione dell’articolo 10
della Convenzione europea dei diritti
dell’Uomo nonché le sentenze Goodwin e
Roemen della Corte di Strasburgo. Questa
linea è l’unica possibile anche per evitare,
come scrive il Tribunale penale di Treviso, di
finire sulla graticola dell’incriminazione per
violazione del segreto d’ufficio in concorso
con pubblici ufficiali (per lo più ignoti), cioè
con coloro che, - magistrati, cancellieri o ufficiali di polizia giudiziaria -, hanno “spifferato”
le notizie ai cronisti.
In effetti l’eventuale responsabilità, collegata
alla fuga di notizie, grava solo sul pubblico
ufficiale che diffonde la notizia coperta da
vincoli di segretezza e non sul giornalista
che la riceve e che, nell’ambito dell’esercizio del diritto-dovere di cronaca, la divulga.
Va affermato il principio secondo il quale il
giornalista, che riceva una notizia coperta
da segreto, può pubblicarla senza incorrere
nel reato previsto dall’articolo 326 del Cp. È
palese la differenza con il reato di corruzione, che colpisce sia il corrotto sia il corruttore.
L’articolo 326, invece, punisce solo chi
(pubblico ufficiale) viola il segreto e non chi
(giornalista) riceve l’informazione e la fa
circolare. Ferma restando, ad ogni modo, la
prerogativa del giornalista di non rivelare
l’identità delle proprie fonti. Il giornalista, che
svela le sue fonti, rischia il procedimento
disciplinare al quale non può, comunque,
sfuggire per l’evidente violazione deontologica. Una lettura ragionevole dell’articolo
326 del Cp evita l’incriminazione (assurda)
del giornalista per concorso nel reato (con il
pubblico ufficiale..loquace) e le perquisizioni, arma ormai spuntata dopo la sentenza
“Roemen” della Corte di Strasburgo..
Il Codice di procedura penale, in base alla
relativa legge-delega, “deve adeguarsi alle
norme delle convenzioni internazionali ratificate dall’Italia e relative ai diritti della
persona e al processo penale”. Il Parlamento in sostanza deve calare nel Codice le
sentenze Goodwin e Roemen nonché l’articolo 10 della Convenzione, abolendo il
potere del Gip di interrogare il giornalista.
Finirà la storia dei giornalisti arrestati e
condannati perché difendono il segreto
professionale anche come cittadini europei? L’articolo 200 del Cpp afferma il diritto
del giornalista professionista al segreto
sulle sue fonti fiduciarie, ma nel contempo
autorizza il giudice a interrogarlo sulle sue
fonti fiduciarie. Potere, questo, che fa a
pugni con la giurisprudenza della Corte di
Strasburgo. Il Parlamento deve sancire una
volta per tutte la regola in base alla quale il
giornalista ha diritto al segreto professionale come gli altri professionisti. Punto e
basta. Non una parola in più. Strasburgo ha
spiegato perché è necessaria ed urgente
questa svolta.
*presidente dell’Ordine dei Giornalisti
della Lombardia e docente di Diritto
del giornalismo e dell’editoria
all’Università Iulm di Milano
Milano, 28 febbraio 2004
Francesco
Chiavarini neopresidente Gag
Legnano, 21 marzo 2004. Francesco Chiavarini, 32 anni, redattore del settimanale
cattolico „Luce‰, è il nuovo presidente del
Gruppo Altomilanese Giornalisti „Mauro
Gavinelli‰, associazione fondata nel 1993,
che riunisce diversi operatori dell‚informazione che lavorano o risiedono nella zona che
va da Pero a Gallarate.
Chiavarini è stato nominato presidente dal
Direttivo del sodalizio rinnovato per il prossimo triennio lo scorso 21 marzo. La vicepresidenza è andata al presidente uscente Mauro
Tosi. Mentre Gianni Borsa è il nuovo tesoriere.
Il prossimo appuntamento del Gag è l‚assegnazione della terza edizione del Premio
nazionale giornalistico „Mauro Gavinelli‰,
riservato ai giovani giornalisti (fino a 35 anni
d‚età). La scadenza per la consegna degli
articoli concorrenti è fissata al 30 aprile.
ORDINE
5
2004
Inpgi: il Cda ha nominato
le Commissioni consultive
Inpgi - Carlo Gariboldi
è il fiduciario lombardo
Carlo Gariboldi è il nuovo fiduciario
lombardo dell’Inpgi. Il vice è Guido Besana. La sede dell’Inpgi è in via Sandro
Sandri,2 - 20121 Milano
(tel. 02/29004708; fax. 02/6598903).
Le nomine sono state fatte dal Consiglio
d’amministrazione dell’Istituto.
Presidente
Vice Presidente
Componenti
Sindaco
Assegnazione alloggi
ed affitto immobili
Acquisti e dismissioni
immobili
Appalti
Marcella Ciarnelli
Daniele Carlon
Virgilio Povia
Giovanni Negri
Roberto Seghetti
Paolo Saletti
Marcello Ugolini
Occupazione
Roberto Reale
Stefania Conti
Previdenza
Contributi e Vigilanza
Prestazioni Integrative
Enrico Castelli
Guido Besana
Silvia Garambois
Luciano Azzolini
Giovanni Negri
Silvana Mazzocchi
Mutui e Prestiti
Savino Cutro
Marcello Ugolini
Finanza, Bilancio,
Programmazione
e Investimenti mobiliari
Personale e Contratto
Riccardo Venchiarutti
Francesco Gerace
Giacomo Lombardi d’Aquino, Elio Felice,
Andrea Lazzeri, Giuseppe Nicotri
Stefania Conti, Maurizio Bernasconi,
Achille Scalabrin, Giuseppe Nicotri
Giacomo Lombardi D’Aquino, Marco Volpati (esperto),
Antonio De Vito, Roberto Sabatini
Umberto Nardacchione, Claudio Scarinzi,
Francesco Tropea, Roberto Cilenti
Franco Siddi, ......(Fieg)**, ......(Fieg)**, Maurizio Bernasconi
.......(Fieg)**, ......(Fieg)**, Roberto Seghetti, Mauro Masi
Romano Bartoloni (esperto), Giorgio Di Nuovo,
Lodovico Petrarca, Giacomo Lombardi D’Aquino
Umberto Nardacchione, Lodovico Petrarca,
Antonio Visentini, Domenico Marcozzi
Daniela Stigliano (esperto) Marina Macelloni,
Massimo Marciano, Michele Peragine
Vittorio Fiorito
Paolo Chiarelli
Informatica
Paolo De Anna
Carlo Gariboldi
Rapporti con il Parlamento Maurizio Andriolo
e le Istituzioni
Provveditorato
Edmondo Rho
Ezio Berard
Statuto e Regolamento
Edmondo Rho
Gabriele Cescutti
Roberto Carella
Edmondo Rho, Giovanni Rossi,
Roberto Carella, Domenico Marcozzi
Claudio Scarinzi, Vincenzo Varagona,
Alfio Di Marco, Antonio De Vito
Giancarlo Zingoni, Mimmo Liguoro, Marcella Ciarnelli,
Maria Grazia Molinari (esperto)
Marcello Ugolini, Vincenzo Galiano,
Letizia Gonzales, Vittorio Fiorito
Massimo Signoretti, Mauro Masi,
Claudio Schirinzi, Giancarlo Zingoni
Michele Romano
Guido Bossa
Guido Bossa
Stefania Cresti
Adriano Velli
Virgilio Povia
Riccardo Sabbatini,
Attilio Raimondi
Michele Romano,
Riccardo Sabbatini,
Adriano Velli
Attilio Raimondi
Riccardo Sabbatini
Stefania Cresti
Michele Romano
Stefania Cresti
** Lo Statuto Inpgi prevede che la composizione delle Commissioni “Previdenza” e “Contributi e Vigilanza” sia integrata dalla presenza di due rappresentanti della Fieg, ad oggi non ancora designati.
Inpgi/2 e redditi autonomi
1996: come rispondere alle
pretese sbagliate dell’ente
Soltanto l’Inps può pretendere il 12% per i redditi autonomi del 1996, ma l’Inps ancora oggi non chiede alcunché (ai cittadini senza Albo) per le prestazioni occasionali e per le collaborazioni giornalistiche regolate
dalla cessione dei diritti d’autore.
L’Inpgi in sostanza dice: “Ho acquisito i dati reddituali
1996 nel 2003 e , quindi, la prescrizione decorre dal
2003”. Bisogna dire NO a questa pretesa!!!!
A distanza di 9 mesi dal luglio 2003, un’altra pioggia
terrificante di lettere raccomandate si abbatte sulla
testa dei giornalisti. Questa volta le lettere sono firmate dalla dirigente del Servizio contributi dell’Inpgi/2.
La gestione Inpgi/2 provoca stress e lo stress va risarcito: è un danno alla salute!
di Franco Abruzzo
presidente dell’Ordine dei Giornalisti della Lombardia
1. Premessa. Il luglio 2003 rimarrà indelebile nella memoria dei giornalisti italiani, sui quali si è abbattuta una pioggia terrificante di lettere. Le lettere sono firmate dal direttore generale dell’Inpgi. In breve viene comunicato che
l’Agenzia delle entrate (Ministero dell’Economia e delle
Finanze) ha trasmesso all’Istituto i “dati reddituali” denunciati relativamente al 1996 da ogni singolo giornalista al
Fisco “per attività di lavoro autonomo”. Il direttore generale
scrive che “qualora la somma in questione fosse in tutto o
in parte derivante da attività autonoma di natura giornalistica, su di essa sarebbero dovuti alla gestione separata
dell’Inpgi i contributi del 12 per cento……Nel suo interesse,
La preghiamo di indicarci l’ammontare del reddito riferito
ad attività giornalistica. Ciò al fine di poter verificare l’esistenza dell’obbligo assicurativo e conseguentemente determinare l’esatto ammontare dei contributi da versare. La
presente vale anche ai fini interruttivi della prescrizione”.
Attimi di panico e smarrimento tra i 18mila giornalisti professionisti e i 50mila giornalisti pubblicisti, perché l’ente non
spiega chi è tenuto (e chi non è tenuto) a iscriversi alla
gestione separata dell’Inpgi (o Inpgi-2) e perché l’ente
dimentica stranamente che “la prescrizione dei contributi dovuti all’Istituto interviene con il decorso di 5
anni” (art. 7 del Regolamento Gestione separata Inpgi).
L’Inpgi avrebbe dovuto acquisire i dati reddituali nel
1997 e non nel 2003. Avendo acquisito i dati reddituali
con incredibile ritardo, oggi l’Inpgi non può invocare l’articoORDINE
5
2004
lo 2935 del Codice civile, che, in tema di decorrenza della
prescrizione, così testualmente dispone: "La prescrizione
comincia a decorrere dal giorno in cui il diritto può essere
fatto valere". L’Inpgi in sostanza dice: “Ho acquisito i
dati reddituali 1996 nel 2003 e , quindi, la prescrizione
decorre dal 2003”. Bisogna dire NO a questa pretesa
ingiusta e sbagliata!!!!
A distanza di 9 mesi dal luglio 2003, un’altra pioggia
terrificante di lettere raccomandate si abbatte sulla
testa dei giornalisti. Questa volta le lettere sono firmate dalla dirigente del Servizio contributi dell’Inpgi/2.
BASTA!!!! È vero che l’Inpgi ha cambiato amministratori, ma i metodi, però, sono gli stessi.
L’Inpgi ha approvato un condono previdenziale per gli anni
1997-2001. “In quell'occasione – ha scritto Giuseppe Rodà
su “Il Sole 24 Ore” del 9 agosto 2003 - il 1996 è stato considerato "chiuso". Inoltre, nella lettera inviata ai giornalisti,
pubblicisti e professionisti, si parla del contributo integrativo
per il 1996 del 2% e del contributo di maternità, entrambi
stabiliti successivamente”.
Il punto è un altro: l’Inpgi-2 è nato l’11 giugno 1997, quando la Gazzetta Ufficiale ne ha pubblicato il Regolamento.
Nella circolare 10 luglio 1997 (http://www.inpgi.it/inpgi/inpgi.nsf) il presidente dell’Inpgi, Gabriele Cescutti, ha
scritto: “Come vi è noto, il decreto ministeriale di ratifica
dello Statuto e del Regolamento, è stato pubblicato sulla
Gazzetta Ufficiale n. 134 dell'11 giugno scorso. Da questa
data decorrono i tre mesi di tempo (scadenza 11 settembre
'97) che ogni giornalista interessato alla Gestione separata
ha a disposizione per provvedere all'iscrizione, utilizzando
il modulo a suo tempo trasmesso a tutti gli iscritti al nostro
Ordine professionale”. L’obbligo d’iscrizione all’Inpgi-2 (per i
cococo) risale, quindi, all’11 giugno 1997. Il Regolamento
non ha forza retroattiva. L’ente, quindi, non può bussare a
quattrini per il 1996, perché il 12% del 1996 va versato
soltanto all’Inps. L’Inps, però, ancora oggi continua a escludere dalla gestione separata sia chi svolge lavori occasionali sia chi cede i diritti d’autore (impostazione condivisa da
Gabriele Cescutti con la circolare 16 maggio 1996).
2. Prospettive. Bisogna avviare una grande battaglia politico-giudiziaria e costringere l’Inpgi, impiegando soltanto la
forza civile della legge, a rispettare la normativa generale
dell’Inps come l’ordinamento impone e come hanno sancito sentenze della Corte costituzionale, della sezione lavoro
della Cassazione e del Tar Lazio. Bisogna travolgere l’Inpgi
con decine e decine di cause. Non possiamo subire nuove
offese alla nostra dignità! Utilizziamo subito il diritto costi-
tuzionale di difesa in maniera attiva e penetrante!!! L’Inpgi
privatizzato non significa diritti tagliati e negati per i giornalisti! La Costituzione non consente discriminazioni e trattamenti economici diseguali. Bisogna alzare la testa e dire
no. Non è soltanto disubbidienza civile. E, qualcosa di più.
Giuseppe Rodà su Il Sole 24Ore del 9 agosto 2003 ha
prospettato l’ipotesi che i free lance (soprattutto pubblicisti) si dimettano dall’Ordine per sfuggire alle ingiuste e illegittime tassazioni dell’Istituto. Questa è una soluzione facile, come è facile costituire, con l’aiuto di commercialisti, una
società alla quale conferire le proprie attività giornalistiche.
Tanti pensionati, ai quali l’Inpgi nega illecitamente la libertà
di cumulo, sono costretti a nascondersi in maniera legittima
dietro il paravento di una società per continuare a esercitare la professione. Questa “tecnica elusiva” farà proseliti tra i
liberi professionisti, anche se tale risposta è meramente
difensiva sul piano individuale.
3. Una possibile risposta alla dirigente Servizio contributi Inpgi2. Suggerisco, con gli opportuni adattamenti
personali, questa risposta: “Gentile Signora, La informo
che ho cestinato la mia documentazione tributaria del
1996, perché il Fisco mi obbliga a conservarla per 5
anni e che ho letto a suo tempo le circolari firmate da
Gabriele Cescutti (datate 16 maggio 1996 e 10 luglio
1997) secondo le quali i giornalisti autori e occasionali
non avevano l’obbligo di iscriversi all’Inpgi-2. L’obbligo
di aderire all’Inpgi-2 è peraltro scattato soltanto l’11
giugno 1997. Soltanto l’Inps, quindi, può pretendere il
12% per i redditi autonomi del 1996, ma l’Inps ancora
oggi non chiede alcunché (ai cittadini senza Albo) per
le prestazioni occasionali e per le collaborazioni giornalistiche regolate dalla cessione dei diritti d’autore.
Lei dovrebbe fare autocritica pubblica per l’errore
commesso, avendo “corretto” il suo presidente con 8
anni di ritardo!!! Come può sollecitare autodenunce a
chi ha seguito fedelmente e con fiducia le istruzioni del
presidente dell’ente?
L’Inpgi è tenuto a rispettare le regole che sono dell’Inps (punto 4 dell’articolo 76 della legge n. 388/2000).
L’Inpgi non è una “repubblica indipendente”.
Le segnalo anche, qualora non fosse informata, che, in
base al comma 2 dell’articolo 61 del Dlgs n. 276/2003
(“legge Biagi”) e al comma 2 dell’articolo 44 della legge
n. 326/2003, sono occasionali le prestazioni di durata
complessiva non superiore a trenta giorni nel corso
dell’anno solare con lo stesso committente oppure
retribuite con un compenso annuo complessivamente
non superiore a 5mila euro. L’avverto che la sua richiesta – essendo lei persona incaricata di un pubblico
servizio -potrebbe configurare ipotesi di reato (610 Cp?
323 Cp?). Mi riservo, comunque, di agire in sede civile
per ottenere il risarcimento dei danni collegati allo
stress, che mi provocano le sue lettere raccomandate
ingiuste ed errate. Lo stress è un danno alla salute”.
------------------------------------Nel sito dell’OgL (www.odg.mi.it) due studi di Franco
Abruzzo sulle prestazioni occasionali (http://www.odg.mi.it/inpgi2_imbroglio.htm) e sulle prestazioni regolate
dalla cessione del diritto d’autore (/www.odg.mi.it/inpgi2_circolari.htm).
15 (23)
PROFESSIONE
C’è una ragionevole soluzione: “Alla contrattazione collettiva nazionale per il
relativo comparto o area partecipano altresì – dice l’articolo 47-bis del dlgs
29/1993 (oggi dlgs 165/2001), - le confederazioni alle quali le organizzazioni
sindacali ammesse alla contrattazione collettiva siano affiliate”.
La Fnsi ha un “patto di alleanza” con Cgil, Cisl, Uil e Ugl. L’Aran potrebbe
considerare i rappresentanti della Fnsi “incorporati” nella delegazione confederale.
Uffici Stampa della Pa e trattative
Fantoni ha ragione formalmente, ma Serventi Longhi ha dalla sua
due articoli della Costituzione, che prevalgono sulle leggi, e il “patto
di alleanza” con Cgil, Cisl, Uil e Ugl. La “vendetta” di Franco Bassanini
ha reso problematica l’applicazione della legge n. 150/2000
Analisi di Franco Abruzzo
La notizia. Fantoni (Aran) sugli Uffici stampa
della Pa: “La Fnsi è esclusa dalle trattative”. Al
tavolo per l’accordo quadro dei giornalisti che lavorano nelle pubbliche amministrazioni, previsto dalla
legge 150 del 2000, «la Fnsi non compare tra i sindacati
rappresentativi da convocare». Lo ha dichiarato Guido
Fantoni, presidente dell’Aran (l’Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni) durante
un’intervista a TelePa, la web tv del ministero della Funzione Pubblica. «La trattativa è ferma - ha spiegato Fantoni per un’imperfezione della legge, che prevede che siano i
contratti collettivi, stipulati previo consenso della Federazione nazionale della stampa, a regolamentare alcuni
aspetti della professione». Ma questo «non è tecnicamente
possibile - aggiunge il presidente dell’Aran - perché il sistema del pubblico impiego prevede che al tavolo delle trattative si siedano solo le rappresentanze sindacali del
comparto e, fra queste, non figura la Fnsi».
Oltretutto «i sindacati rappresentativi hanno espresso un
parere formale negativo alla nostra richiesta di coinvolgere
il sindacato dei giornalisti, perché questo potrebbe creare
un pericoloso precedente per altre categorie, ad esempio
gli avvocati e gli ingegneri». Per Fantoni vista «la difficoltà
di stipulare un accordo quadro, credo che dovremo riproporre la questione con accordi di comparto».
(Adnkronos)
1
La reazione di Paolo Serventi Longhi (segretario generale della Fnsi): “I giornalisti degli uffici
stampa aspettano da oltre cinquant’anni l’applicazione del contratto di categoria. Le speranze suscitate dalla Legge 150, dopo quattro anni, vengono ora
frustrate dalle dichiarazioni del Presidente dell’ARAN che
rappresentano un attacco a tutti i giornalisti. Le motivazioni
addotte appaiono speciose: Fantoni afferma che la Fnsi
non è ammessa alla contrattazione nel pubblico impiego;
ma non tiene conto della esclusiva rappresentatività del
Sindacato dei giornalisti anche nel settore della pubblica
amministrazione.
È difficile comprendere perché la Legge 150 non debba
essere applicata in quanto considerata in contrasto con
altre norme. Non ci risulta, peraltro, che i sindacati rappresentativi abbiano espresso un parere formale negativo,
anzi, almeno fino a questo momento, hanno istaurato con
la Fnsi un dialogo costruttivo. Per questo chiediamo l’intervento del Ministro Mazzella, il cui Dicastero è intervenuto a
favore dell’applicazione della legge in tutte le sue parti, e
del Parlamento che ha approvato la 150. In assenza di
immediate e positive risposte ai giornalisti italiani non
resterà che ricorrere ai Tribunali amministrativi regionali ed
eventualmente al Consiglio di Stato per ottenere giustizia.
Nel frattempo la Fnsi mobiliterà tutte le strutture del sindacato ed i colleghi degli uffici stampa a sostegno del contratto di lavoro”.
(da www.fnsi.it)
2
Fantoni (Aran) ha ragione formalmente, ma
Serventi Longhi (Fnsi) ha dalla sua due articoli
della Costituzione, che prevalgono sulle leggi, e
il “patto di alleanza” con Cgil, Cisl, Uil e Ugl.
Sulle mansioni che negli uffici stampa saranno assegnate
al “personale iscritto all’Albo nazionale dei giornalisti” si
dovrebbe svolgere la contrattazione, con la presenza della
Fnsi, in sede Aran. La contrattazione collettiva punta alla
“individuazione e alla regolamentazione dei profili professionali”. Assisteremo, però, a una strana contrattazione sul
ruolo di “non dipendenti”, ma di collaboratori collocati in
strutture (gli uffici stampa) della pubblica amministrazione.
Il compenso - che dovrà essere adeguato all’“importanza
dell’opera e al decoro professionale” (articolo 2233 Cc)
nonché alla “provata competenza” - è per ora un capitolo
aperto, che sarà riempito con il ricorso alle tariffe stabilite
dall’Ordine dei Giornalisti (articoli 2225 e 2233 Cc). Va detto
che, comunque, del Cnlg 2001-2005 fa parte la figura del
collaboratore coordinato e continuativo. Questa novità fa da
3
16 (24)
interfaccia all’articolo 7 (comma 6) del Dlgs n. 165/2001
(già Dlgs29/1993), il quale prevede incarichi individuali ad
“esperti di provata competenza” (con contratto coordinato e
continuativo di cui agli articoli 2222 e seguenti del Cc). Ma
l’ordinamento giuridico offre, in alternativa, la possibilità di
inquadrare i giornalisti con contratti a tempo indeterminato
o determinato. Tale possibilità dovrà essere oggetto di
contrattazione e non può essere lasciata in mano al
“mercato”. Un mercato, quello delle pubbliche amministrazioni, che conosce superficialmente le peculiarità del lavoro
giornalistico.
L’articolo 51 (secondo comma) della legge n. 388/2000
(legge finanziaria 2001) afferma: “Ferme restando le disposizioni di cui all’articolo 39, comma 3-ter, della legge 27
dicembre 1997, n. 449, e successive modificazioni, sono
abrogate le norme che disciplinano il procedimento di
contrattazione collettiva in modo difforme da quanto previsto dalle disposizioni di cui al decreto legislativo 3 febbraio
1993, n. 29, e successive modificazioni”. In sostanza,
secondo l’articolo 47-bis del dlgs 29/1993 (oggi Dlgs
165/2001), “l’Aran ammette alla contrattazione collettiva
nazionale le organizzazioni sindacali che abbiano nel
comparto o nell’area una rappresentatività non inferiore al
5%, considerando a tal fine la media tra il dato associativo
e il dato elettorale. Il dato associativo è espresso dalla
percentuale delle deleghe per il versamento dei contributi
sindacali rispetto al totale delle deleghe rilasciate nell’ambito considerato. Il dato elettorale è espresso dalla percentuale dei voti ottenuti nelle elezioni delle rappresentanze
unitarie del personale, rispetto al totale dei voti espressi
nell’ambito considerato. Alla contrattazione collettiva nazionale per il relativo comparto o area partecipano altresì le
confederazioni alle quali le organizzazioni sindacali
ammesse alla contrattazione collettiva ai sensi del comma
1 siano affiliate”. Per ora nelle pubbliche amministrazioni
non esiste il comparto degli Uffici stampa e degli Urp e che,
ove esistesse, la Fnsi difficilmente potrebbe raggiungere la
percentuale del 5 per cento, considerando che in questo
nuovo comparto non opererebbero soltanto giornalisti.
L’Aran, che rappresenta il Governo come datore di lavoro,
ha deciso di non convocare la Fnsi per discutere l’applicazione del contratto ai giornalisti impiegati negli Uffici stampa, ignorando che la Fnsi stessa è unita da un “patto di
alleanza” con Cgil, Cisl, Uil e Ugl (articolo 16/l dello Statuto
della Fnsi). Rappresentanti delle quattro Confederazioni
sono presenti di diritto nel Consiglio nazionale della Fnsi.
Va detto anche che l’articolo 51 fa salve “le disposizioni di
cui all’articolo 39, comma 3-ter, della legge 27 dicembre
1997, n. 449”. L’articolo 39 detta “disposizioni in materia di
assunzioni di personale delle amministrazioni pubbliche e
misure di potenziamento e di incentivazione del part-time”.
Il Consiglio dei ministri, - anche se la legge 449/1997 impegna il Governo alla riduzione progressiva del numero dei
dipendenti pubblici -, può sempre deliberare nuove assunzioni (tramite concorsi pubblici) negli apparati pubblici
“dopo una istruttoria diretta a riscontrare le effettive esigenze di reperimento di nuovo personale e l’impraticabilità di
soluzioni alternative collegate a procedure di mobilità o
all’adozione di misure di razionalizzazione interna” e quando vengono creati “nuove funzioni e qualificati servizi da
fornire all’utenza”.
Dal punto di vista formale, Guido Fantoni (presidente dell’Aran) ha ragione, ma anche Serventi Longhi ha ragione,
invece, sotto il profilo dell’esame sistematico dell’ordinamento giuridico della professione giornalistica. Procediamo
con un esempio illuminante. Le aziende editoriali (che fanno
riferimento ai sub-contratti Frt, Uspi e grafico editoriale) dal
primo gennaio 1996 sono, comunque, tenute a versare i
contributi sui minimi previsti dal contratto Fnsi-Fieg in base
al comma 25 dell’articolo 2 della legge n. 549/1995 (che è
la legge finanziaria per il 1996). Dice il comma 25: “In caso
di pluralità di contratti di contratti collettivi intervenuti per la
medesima categoria, la retribuzione da assumere come
base per il calcolo dei contributi previdenziali e assistenziali è quella stabilita dai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori comparativamente più
rappresentativi nella categoria”. Per quanto riguarda la
categoria dei giornalisti, il contratto più rappresentativo è
quello Fnsi-Fieg. C’è da precisare che le aziende, comunque, sono tenute per legge ad assicurare esclusivamente
con l’Inpgi i giornalisti professionisti, pubblicisti e praticanti,
che lavorano a tempo pieno. La morale alla Fedro di questo
esempio si può riassumere così: niente da dire sulla libertà
costituzionale delle imprese di non iscriversi alla Fieg (e di
non applicarne il contratto stipulato con la Fnsi), ma la casa
previdenziale dei giornalisti è, comunque, l’Inpgi.
Lo stesso ragionamento deve guidare chi è chiamato a
sbrogliare la matassa Aran-Fnsi. I lavoratori hanno pari
dignità sociale (art. 3 Cost.) e hanno libertà di associazione
(art. 18 Cost.). È evidente che l’articolo 51 della legge
388/2000, limitando la capacità contrattuale ai sindacati
presenti nelle pubbliche amministrazioni che toccano la
soglia del 5 per cento, viola i principi della pari dignità sociale e della libertà di associazione. In sostanza Paolo Serventi Longhi deve prepararsi ad impugnare davanti ai giudici
del lavoro il veto dell’Aran, che nega la capacità contrattuale della Fnsi. Ai giudici i legali della Fnsi dovranno chiedere
di sollevare questione di legittimità costituzionale dell’articolo 51. L’altra via è una norma interpretativa approvata dal
Parlamento, ma questa seconda via appare difficile (il
Parlamento è ingolfato). Anche su tale punto c’è una morale alla Fedro che si può riassumere così: niente da dire sulla
libertà costituzionale dei giornalisti di aderire alla Fnsi e di
farsi rappresentare soltanto dalla Fnsi. L’Aran, però, non
può non prenderne atto e chiamare la Fnsi alle trattative.
Altrimenti l’Aran si porrebbe in conflitto con gli articoli 3 e
18 della Costituzione.
C’è infine un’altra ragionevole soluzione: “Alla contrattazione collettiva nazionale per il relativo comparto o area partecipano altresì – dice l’articolo 47-bis del dlgs 29/1993 (oggi
dlgs 165/2001), - le confederazioni alle quali le organizzazioni sindacali ammesse alla contrattazione collettiva ai
sensi del comma 1 siano affiliate”. La Fnsi ha un “patto di
alleanza, come riferito, con Cgil, Cisl, Uil e Ugl. L’Aran
potrebbe considerare i rappresentanti della Fnsi “incorporati” nella delegazione confederale.
La “vendetta” di Franco Bassanini ha reso
problematica l’applicazione della legge n.
150/2000. Le difficoltà per la Fnsi sono state costruite tutte dall’ex ministro alla Funzione pubblica Franco Bassanini (e dall’ex sottosegretario al Tesoro Piero Giarda). Bassanini e Giarda hanno subito il varo della legge
150/2000 e di quell’articolo 9, che prevede la presenza di
giornalisti negli uffici stampa delle pubbliche amministrazioni. La loro vendetta è il comma 2 dell’articolo 51 della legge
n. 388/2000, che esclude formalmente la Fnsi dalle trattative, perché priva di rappresentanza nel comparto. Quel
comma è stato infilato di soppiatto nella legge e nessuno
ne ha compreso le ripercussioni. Bassanini non era solo:
era in compagnia di Giuseppe Tesauro (Antitrust), Mario
Pirani (Repubblica) e Ferpi (Federazione relazioni pubbliche italiane).
La storia successiva al varo della legge 388/2000 va ricostruita così. L’emanazione del regolamento (7 febbraio
2001) è stata preceduta da una vivace polemica all’interno
del Governo Amato tra il ministro Franco Bassanini e il
sottosegretario Raffaele Cananzi (mentre Mario Pirani
“sparava” bordate di piombo dalle colonne di “Repubblica”
contro la legge 150). Nel regolamento, si prevede che le
attività di informazione (uffici stampa) saranno riservate ai
giornalisti professionisti e pubblicisti, mentre quelle di
comunicazione (Urp) ai laureati in Relazioni pubbliche e
Scienze della comunicazione. Cananzi ha difeso lo spirito
della legge 150 e soprattutto l’articolo 9, che disciplina l’accesso esclusivo dei giornalisti negli uffici stampa. Cananzi
nel dicembre 2000 aveva contestato in particolare la decisione, ispirata da Bassanini, di far presentare, tramite il
sottosegretario al Tesoro Giarda, un emendamento all’articolo 51 della Finanziaria, che, una volta approvato, avrebbe snaturato completamente la legge 150. Quell’emendamento avrebbe sostituito i giornalisti con i laureati in relazioni pubbliche. Quell’emendamento, però, è stato dichiarato “inammissibile per materia” dall’allora presidente del
Senato, Nicola Mancino. Poche ore dopo Giarda ha presentato il testo dell’emendamento n. 2 dell’articolo 51, che,
invece, è passato.
Il 26 luglio 2001, MF e Ansa riferiscono che Giuseppe
Tesauro, presidente dell’Antitrust, con una segnalazione ai
4
ORDINE
5
2004
Roma, 26 marzo 2004. Se un giornalista già
condannato per diffamazione torna a commettere lo stesso reato nei successivi cinque anni
dovrà essere interdetto dall’esercizio della
professione per un periodo che va da uno a sei
mesi. È quanto prevede un emendamento
presentato dalla relatrice Isabella Bertolini (FI)
al provvedimento sulla diffamazione ora all’e-
Fnsi/Aran
presidenti del Senato e della Camera nonché al presidente
del Consiglio e al ministro della Funzione pubblica, si è
scagliato contro la presenza obbligatoria di giornalisti negli
uffici stampa delle amministrazioni pubbliche prevista dalla
legge n. 150/2000. Si sa che il Consiglio dei Ministri il 2
agosto successivo (il ministro della partita frattanto è Frattini, padre della legge 150 con Di Bisceglie) dovrà recepire
in un Dpr il regolamento della legge 150, dopo il disco verde
dato il 21 maggio dal Consiglio di Stato (“Lo schema di
regolamento, in linea con le previsioni e le finalità fissate
dalla richiamata norma primaria, prevede in dettaglio i
requisiti di professionalità specifica che devono possedere
i dipendenti addetti ai servizi di informazione e comunicazione. Il provvedimento e suddiviso in due previsioni, quella futura, e quella temporale-transitoria relativa alla situazione attuale. Sul contenuto del provvedimento, che appare
conforme agli scopi previsti dalla normativa, la Sezione
esprime parere favorevole”). Il siluro è tempestivo. Tesauro
- che è sulla linea della Ferpi, di Bassanini e Giarda - vuole
allargare l’offerta, come scrive, ai laureati in relazioni pubbliche e in scienze della comunicazione. In particolare l’Antitrust ritiene che alcune disposizioni della legge 150 “producano ingiustificate restrizioni della concorrenza e del libero
mercato subordinando il reclutamento del personale degli
uffici stampa all’iscrizione nell’Albo dei giornalisti”. L’Ordine
dei Giornalisti della Lombardia ribatte subito, osservando
preliminarmente che “i laureati in relazioni pubbliche e in
scienze della comunicazione non sono vincolati per legge
al rispetto di una deontologia professionale” e ricordando
che “questa manovra, portata avanti dall’ex ministro Franco
Bassanini, è già fallita in Parlamento in sede di approvazione della Finanziaria 2001”.
Nel comunicato dell’Ordine di Milano si legge ancora: “Strano destino quello del professor Tesauro, che nel giro di 4
anni ha perso tutte le battaglie ingaggiate contro gli Ordini
professionali italiani e contro i professionisti italiani. È stato
abbandonato al suo destino dal Governo Amato, che nel
settembre-novembre 2000 ha presentato un progetto di
riforma degli Ordini, che prevede l’esistenza di tutti gli Ordini in essere, mentre con la direttiva sul commercio elettronico (approvata il 4 maggio 2000 dal Consiglio europeo), la
Ue ha dato una serie di regole che riguardano le libere
professioni e ha chiamato gli Ordini italiani a vigilare su
Internet. Il nuovo Governo, per bocca del ministro Maurizio
Gasparri, ha già comunicato che non ha alcuna intenzione
di sopprimere gli Ordini e in particolare quello dei giornalisti”.
“Colpisce - afferma ancora l’Ordine - che a un giurista del
valore di Giuseppe Tesauro sfuggano le ragioni in base alle
quali il Parlamento ha deciso di affidare, con una legge, gli
uffici stampa delle pubbliche amministrazioni ai giornalisti
iscritti nell’Albo. I giornalisti hanno una deontologia fissata
per legge e hanno il dovere di comunicare con correttezza.
Le pubbliche amministrazioni, contrariamente a quello che
pensa Tesauro, hanno l’obbligo di comunicare ai cittadini,
principio costituzionale trasfuso nella legge 241/1990, nel
dlgs n. 29/1993 (oggi n. 165/2001) e nella legge 150/2000.
Soltanto i giornalisti, secondo il Parlamento, possono
garantire una informazione tempestiva, corretta e di qualità
sui “fatti” che riguardano le pubbliche amministrazioni”.
Il 2 agosto successivo il Consiglio dei ministri trasforma il
Regolamento in Dpr (che poi sarà identificato con il n.
422/2001).
La proposta è illustrata dal ministro della Funzione pubblica, Frattini. Il Governo boccia le argomentazioni dell’Antitrust e per Tesauro la sconfitta, come gli era stato vaticinato, è molto amara. Il professore napoletano si rende conto
che le sue prediche sono davvero inutili e che nessuno lo
ascolta, perché la legge 150 non viola il principio della
concorrenza. E alla fine anche la Ferpi lo abbandona,
dicendosi “molto soddisfatta dell’approvazione del regolamento di attuazione della legge 150 e soprattutto della
possibilità di partecipare con le sue strutture ai percorsi
formativi previsti dalla stessa legge” (fonte: puntocom, 8
agosto 2001), In sostanza la Ferpi rinuncia al ricorso in
sede comunitaria. I giornalisti hanno vinto anche questa
battaglia. Ora, però, bisogna vincere la guerra, conquistando il contratto per gli addetti agli Uffici stampa della Pubblica amministrazione.
Franco Abruzzo
ORDINE
5
2004
same della commissione Giustizia della Camera. Il giornalista non è punibile, si legge in un
altro emendamento della relatrice Isabella
Bertolini (FI), se entro due giorni, da quando
l’ha ricevuta, pubblica la rettifica o la dichiarazione dell’offeso. Il termine per la presentazione degli emendamenti al testo sulla diffamazione scade lunedì prossimo alle 18.
(Ansa)
Diffamazione: FI, interdizione
per giornalisti se recidivi
Serventi
Longhi:
“Meglio
evitare
sanzione
sospensione”
Il segretario della Fnsi Paolo Serventi Longhi
interviene sugli emendamenti alla proposta
di legge sulla diffamazione affermando che
“sarebbe meglio che fosse evitata la sanzione della sospensione dall’esercizio della
professione giornalistica, e che comunque,
questa fosse comminata dall’Ordine dei giornalisti e non dal magistrato”.
Gli emendamenti, presentati oggi in commissione dalla relatrice Isabella Bertolini, “mi
sembra - sostiene Serventi Longhi - che non
stravolgano negativamente il precedente
testo, frutto del lavoro di deputati di maggioranza e dell’opposizione sul quale il sindacato dei giornalisti aveva manifestato una valutazione favorevole”.
Ma sulla sospensione dalla professione in
caso di reiterazione del reato, il segretario
Fnsi invita i parlamentari a valutare questo
ALLEGATO 1
Diffamazione a mezzo stampa o altro mezzo di diffusione (C. 26 Stefani, C. 385 Volontè, C. 1177 Anedda, C. 1243
Pisapia, C. 2084 Pecorella, C. 588 Cola, C. 539 Siniscalchi, C. 3021 Giulietti e C. 2764 Pisapia).
aspetto “con attenzione nel rispetto del principio dell’autogoverno deontologico della
professione”.
Al di là del contenuto degli emendamenti, “in
ogni caso - sostiene Serventi Longhi - il
problema principale mi sembra sia quello dei
reiterati tentativi di alcuni settori del Parlamento di far saltare il disegno di legge o di
ritardarne l’approvazione”. Questa situazione, aggiunge il segretario Fnsi, “nell’attuale
gravissima situazione di decine di giornalisti
incriminati per il reato di diffamazione e sotto
la spada di Damocle di pesanti sanzioni
risarcitorie sia in sede penale sia in quella
civile”. Insomma, conclude il segretario Fnsi,
“é indispensabile che sia subito approvato un
testo compatibile con l’autonomia dei giornalisti e la libertà dell’informazione”.
(ANSA)
a verità, il giudice tiene conto della pubblicazione della rettifica, se richiesta dalla persona offesa. Quando il giudice
procede alla liquidazione del danno in via equitativa, l’entità
del danno non patrimoniale non può eccedere la somma di
euro 25.000.
6-ter. Nei casi previsti dalla presente legge, l’azione civile per
il risarcimento del danno alla reputazione si prescrive in un
anno dalla pubblicazione».
TESTO UNIFICATO ELABORATO DAL RELATORE
AGGIORNATO AL 28 MARZO 2004
ART. 1. (Modifiche alla legge
8 febbraio 1948, n. 47).
1. Dopo il primo comma dell’articolo 1 della legge 8
febbraio 1948, n. 47, è aggiunto il seguente:
«2. Le disposizioni della presente legge si applicano, altresì,
ai siti internet aventi natura editoriale».
2. Dopo l’articolo 8 della legge 8 febbraio 1948, n. 47, è
inserito il seguente:
«Art. 8-bis - (Risposte e rettifiche nel caso di stampa non
periodica o altro mezzo di diffusione) - 1. Nei casi previsti dal
terzo comma dell’articolo 595 del codice penale, l’autore
della pubblicazione ovvero i soggetti di cui all’articolo 57 bis
del codice penale, sono tenuti a richiedere la pubblicazione,
a proprie spese, su almeno due quotidiani a tiratura nazionale, delle dichiarazioni o delle rettifiche dei soggetti di cui siano
state pubblicate immagini o ai quali siano stati attribuiti atti o
pensieri o affermazioni da essi ritenuti lesivi della loro reputazione o contrari a verità.
La richiesta di pubblicazione di cui al comma precedente è
inviata entro tre giorni dal ricevimento della dichiarazione o
della rettifica.
Si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni di cui al
commi 1, 4 e 5 dell’articolo 8.
Nei casi previsti dall’articolo 595, comma terzo, del codice
penale, si applica la pena della multa non superiore a euro
375 se è adempiuta la richiesta di pubblicazione di cui al
primo comma».
3. L’articolo 13 della legge 8 febbraio 1948, n. 47, è sostituito dal seguente:
«Art. 13 - (Pene per la diffamazione) - 1. Nel caso di diffamazione commessa col mezzo della stampa, consistente nell’attribuzione di un fatto determinato, si applica la pena della
multa da euro 2.000 a euro 7.500.
2. Alla condanna consegue la pena accessoria dell’interdizione dalla professione di giornalista per un periodo da un
mese a sei mesi, nell’ipotesi di cui all’articolo 99, comma
2, del codice penale.
3. L’autore dell’offesa non è punibile se adempie, ai sensi
dell’articolo 8, alla pubblicazione di dichiarazioni o rettifiche, entro due giorni dal ricevimento della richiesta da
parte dell’interessato.
4. Alla condanna consegue la pena accessoria della pubblicazione della sentenza nei modi stabiliti dall’articolo 36 del
codice penale.
5. Il giudice dispone la trasmissione degli atti al competente
ordine professionale per le determinazioni relative alle
sanzioni disciplinari».
4. Dopo il comma 6 dell’articolo 8 della legge 8 febbraio
1948, n. 47, sono inseriti i seguenti:
«6-bis. Nella determinazione del danno derivante dalla
pubblica azione ritenuta lesiva della reputazione o contraria
5. L’articolo 12 della legge 8 febbraio 1948, n. 47, è abrogato.
ART. 2. (Modifiche agli articoli 57,
594, 595, 596 e 597
del codice penale).
1. L’articolo 57 del codice penale è sostituito dal seguente:
«Art. 57 - (Reati commessi con il mezzo della stampa, della
diffusione radiotelevisiva e altri mezzi di diffusione) - 1. Salva
la responsabilità dell’autore della pubblicazione, e fuori dei
casi di concorso, il direttore o il vicedirettore responsabile del
quotidiano, del periodico o della testata giornalistica, radiofonica o televisiva, rispondono dei delitti commessi con il
mezzo della stampa, della diffusione radiotelevisiva o con
altri mezzi di diffusione se il delitto è conseguenza della violazione dei doveri di vigilanza sul contenuto della pubblicazione. La pena è in ogni caso ridotta di un terzo».
2. L’articolo 594 del codice penale è sostituito dal
seguente:
«Art. 594 - (Ingiuria). Chiunque offende l’onore o il decoro di
una persona presente è punito con la multa fino a euro 650.
Alla stessa pena soggiace chi commette il fatto mediante
comunicazione telegrafica, telefonica o telematica, o con
scritti o disegni, diretti alla persona offesa.
La pena è della multa fino a euro 950 se l’offesa consiste
nell’attribuzione di un fatto determinato.
Le pene sono aumentate qualora l’offesa sia commessa in
presenza di più persone».
3. L’articolo 595 del codice penale è sostituito dal
seguente:
«Art. 595 - (Diffamazione). Chiunque, fuori dei casi indicati
nell’articolo precedente, comunicando con più persone,
offende l’altrui reputazione, è punito con la multa fino a euro
1.500.
Se l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato
si applica la pena della multa fino a euro 2.500.
Se l’offesa è arrecata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico, si applica
la pena della multa da euro 500 a euro 2.500.
L’autore dell’offesa non è punibile se, entro due giorni dalla
richiesta dell’interessato, pubblica con identica evidenza tipografica e con la stessa diffusione una completa rettifica del
giudizio o del contenuto offensivo.
Alla condanna consegue la pena accessoria dell’interdizione
dalla professione di giornalista per un periodo da un mese a
sei mesi, nell’ipotesi di cui all’articolo 99, comma 2, del codice penale.
Se l’offesa è arrecata ad un corpo politico, amministrativo o
giudiziario, o ad una sua rappresentanza, o ad una autorità
costituita in collegio, le pene sono aumentate sino al triplo».
17 (25)
NEL DOPOGUERRA INTRODUSSE IN ITALIA IL GIORNALISMO MODERNO
M E M O R I A
Nel 1945 abbandonò la professione di medico per diventare giornalista. Missiroli ne apprezzava l’intelligenza ma
ne temeva gli articoli impegnati e caustici. Nel 1956
fondò il Giorno, un foglio rinnovatore nei testi e nella
grafica che minacciò il primato di via Solferino. Temerario e risoluto, attaccò il presidente della Fiat Vittorio
Valletta e il capo del Governo Antonio Segni che chiese
e ottenne da Enrico Mattei il suo licenziamento. Arrestato per lo scandalo del Banco di Sicilia, fu assolto dopo
un processo durato tre anni quando la sua salute era
ormai compromessa da un male crudele. Morì nel 1971,
a sessant’anni.
Gaetano
Baldacci
di Enzo Magrì
Il 3 marzo 1944, giorno in cui i sindacati clandestini stavano realizzando il primo sciopero
generale a Milano, due Gaetani si incontrarono ai Giardini Pubblici di via Palestro. Uno
era Gaetano Afeltra, ventinovenne, amalfitano, redattorecapo del “Corriere della Sera”;
l’altro Gaetano Baldacci, un trentatreenne
medico di origine messinese. Il regime di
Salò stava per entrare in agonia. Afeltra e
Mario Borsa (un autorevole giornalista antifascista, uscito dal “Corriere” nel ‘25 insieme
con Luigi Albertini, poi corrispondente dall’Italia del “Times” di Londra), si stavano
adoperando clandestinamente per preparare il giornale che sarebbe uscito subito dopo
la Liberazione. Come aveva fatto nei precedenti incontri, anche in quell’appuntamento il
Gaetano più vecchio non aveva mancato di
caldeggiare la sua candidatura a redattore
del nuovo Corriere della Sera. Diversamente
dalle altre volte, quando la sollecitazione di
Baldacci aveva riscosso in Afeltra solo vaghi
e indecifrabili sorrisi, questa volta il giovane
amalfitano raccolse la provocazione. Chiese:
“ma tu, cosa verresti a fare di preciso al
Corriere: il collaboratore oppure il redattore
vero e proprio?” Risoluto, l’altro replicò:
“vorrei fare qualcosa che sta a cavallo tra
don Luigi Sturzo e Giuseppe A. Borghese”.
“Hai detto niente” pensò tra sé e sé il campano. Tuttavia questi, apprezzando le qualità
giornalistiche del medico, qualche giorno più
tardi riferì a Mario Borsa i desiderata dell’amico. “Sai che Baldacci aspira a venire al
Corriere?. “Oh Dio, ma se l’è un duttur!”
rispose l’altro, incredulo.
Un giovane medico
appassionato di editoria
Assistente del professor Cesa Bianchi, all’istituto di Fisiologia e d’Igiene della regia
università di Milano, il giovane medico nutriva un’indomabile passione per la carta stampata. Il suo interesse per l’editoria era cosi
forte che in quell’anno 1944 aveva addirittura fondato una casa editrice, la Gentile (dal
cognome della madre) che insieme a diverse pubblicazioni stampava la rivista politica
clandestina “Lo Stato Moderno”. Sull’opuscolo, vicino alle posizioni del partito d’Azione,
scrivevano e dibattevano sul futuro dell’Italia
il suo direttore Mario Paggi, Mario Borsa,
Vittorio Arbasini Scrosati, Enrico Bonomi,
Giuliano Pischel, Sergio Solmi, Cesare Spellanzon ed altri intellettuali appartenenti a
diverse formazioni politiche. Il sanitario, che
più volte aveva rischiato di essere arrestato
dai nazifascisti, si firmava, senza troppa
fantasia, con lo pseudonimo di Sicanus.
Anche se era un’apprezzata pubblicazione
politico-letteraria, “Lo Stato Moderno” non
soddisfaceva sicuramente le ambizioni del
siciliano il cui desiderio era quello di buttare
il camice bianco e di entrare stabilmente in
una redazione. Con il giornalismo attivo
aveva convissuto sin dalla nascita. Era figlio
di Giulio Baldacci, un bolognese, redattore
del “Giornale d’Italia”, che, inviato a Messina
nel 1908 per stendere una serie di articoli sul
terremoto, in mezzo ai lutti e alla storica
devastazione aveva trovato l’anima gemella
18 (26)
L’uomo
del Giorno
nella signorina Franca Gentile che nel 1911
gli aveva dato un figlio: proprio lui, Gaetano.
Sottraendosi all’idolatria che i suoi familiari,
come molte famiglie borghesi siciliane
professavano per la carriera d’avvocato, il
giovanotto, appena diciassettenne, fonda “I
Siciliani”, una rivista letteraria uscita alla fine
degli anni Venti. Il giornale incappa più volte
nella censura fascista tanto che è soppresso
dalla prefettura messinese. Gaetano s’iscrive alla facoltà di Scienze Politiche, alla
Sapienza. Ma anche a Roma i suoi rapporti
con il fascio sono conflittuali. Dapprima
fischia un discorso del segretario del PNF
Augusto Turati. Quindi è fermato quale
responsabile dell’organizzazione d’una
manifestazione studentesca antifascista
all’interno dell’ateneo. Un po’ per la repulsa
verso il metodo con cui venivano insegnate
le dottrine politiche e un po’ per via del fermo
che lo aveva bollato quale eversore, il giovanotto abbandona Scienze Politiche e s’iscrive a Medicina, a Messina. Confida a un
amico: “Mi piacerebbe fare il giornalista, ma
se il regime diventa ancora più stupido,
voglio avere la possibilità di campare con un
altro mestiere”. A dimostrazione della serietà
che contraddistinque il suo impegno scolastico, il giovanotto si laurea nel 1935 con 110
e la lode.
Sul tram numero 33
nasce il grande amore
Per eccellere durante il fascismo, i giovani,
anche molti di coloro che contestavano il
regime, avevano poche opportunità: una di
queste era l’utilizzo delle occasioni che la
dittatura metteva a loro disposizione organizzando competizioni culturali, artistiche e
sportive a livello universitario e nazionale.
Queste destre congiunture erano rappresentate dai Littoriali, certami aperti ai giovani
iscritti ai Guf, gruppi universitari fascisti, che
avevano lo scopo di formare all’ideologia i
frequentatori degli atenei italiani. Nell’anno
della laurea, il giovane Gaetano risulta vincitore dei Prelittoriali con Giuliano Vassalli,
Luigi Preti, Paolo Emilio Taviani, Alberto
Lattuada e Michelangelo Antonioni. L’anno
successivo, forse per spirito d’avventura
(almeno così credo), non certo per sentimenti guerreschi o colonialisti (che mal si
concilierebbero con le posizioni politiche del
nostro prima e dopo quell’evento), presenta
domanda d’arruolamento volontario per
partecipare alla campagna d’Abissinia.
Probabilmente a causa dei trascorsi antifascisti, la sua richiesta non è accolta.
A quel punto non gli resta che impegnarsi
nella professione medica se vuole fare
carriera. Nel 1940 si trasferisce a Milano
dove trova sia un posto di medico, come
assistente all’università, sotto la direzione del
professor Cesa Bianchi, sia l’amore. Incontrata sul tram numero 33 una giovane e bella
ragazza, Luisa Angeloni, figlia d’un piccolo
industriale meneghino, la “tampina” con tale
amabile e originale insistenza che la ragazza è costretta a cedere. Alla giovane sposa,
durante la luna di miele che la coppia
trascorre a Taormina nell’ottobre del 1941,
non può fare a meno di confidare davanti al
verde Ionio che egli non ha alcuna intenzione di occuparsi di Medicina per tutta la vita.
“Voglio fare il giornalista” confida. Dettaglia:
“Voglio fare un giornale tutto mio”.
La liberazione di Milano, gli consente di
realizzare la prima delle due aspirazioni.
Memore del desiderio dell’amico medico, il
25 aprile del 1945, Afeltra, appena mette
piede in redazione telefona, al duttur.” “Gaetano, vieni subito. Questa notte si fa il primo
Corriere della Liberazione”. Dieci minuti più
tardi, Baldacci giunge in via Solferino inforcando una bicicletta. La prima cosa che
esterna ad Afeltra è il suo radicato proposito:
“Da questo momento sono solo un giornalista”. A dimostrazione che fa sul serio, s’iscrive subito nell’albo dei direttori redigendo un
pezzo che ha il taglio di un articolo di fondo. Il
titolo è: Il calvario; e cioè, la Resistenza.
Alto, fisico snello, baffi neri, inflessione sicula
e trascinante irruenza, l’ex medico è il propugnatore d’un giornalismo militante in contrapposizione a quello burocratico e passivo che
la società italiana del dopoguerra ha ereditato dalla censura fascista. La sua scrittura è
asciutta. L’ essenzialità del suo stile non è
condivisa dall’amico e contraddittore Leo
Longanesi secondo il quale da un pezzo di
Baldacci, zeppo di notizie e di informazione,
se ne possono ricavare almeno tre.
“Sei troppo sintetico” gli rimprovera il direttore
del “Borghese”.
L’irruenza dialettica del siculo è sostenuta da
impegnate letture ma è resa vulnerabile da
indeterminatezze esistenziali e politiche. Non
per niente, sempre Longanesi, che lo
frequenta al Covino, una piccola birreria di via
Verdi, ritrovo di letterati e giornalisti negli anni
Cinquanta (dove a volte irrompe anche il
ventiseienne Giovanni Spadolini in missione
a Milano da Firenze con cappello e bastone,
“vestito da vecchio”), gli dedica un epitaffio:
“Qui non giace Gaetano Baldacci, uscito da
questa marmorea dimora alla ricerca di se
stesso”. Il giovane messinese attraversa la
direzione di Mario Borsa e quella di Enrico
Emanuel cavalcando una pervicace vocazione alla polemica che non risparmia
neanche gli stessi collaboratori del giornale. Il 4 aprile 1948, se la prende con lo scrittore Corrado Alvaro il quale, aderendo al
Fronte Popolare e all’Alleanza della Cultura, ha rilasciato dichiarazioni che secondo il
siculo “suonavano offesa ai quotidiani indipendenti italiani come il Corriere”. Per
protesta, l’autore di Gente in Aspromonte si
dimette e lascia la testata. Ma le pene
peggiori, l’ex medico le fa patire a Mario
Missiroli. Inviato speciale in un’Italia e in
un’Europa che soffrono ancora per le ferite
della guerra, Baldacci non manca di esprimere giudizi critici verso governi e governanti. Le sue continue provocazioni scuotono la voglia di placidità dell’autore de La
monarchia socialista, la cui maggiore aspirazione è quella di dare ragione a tutti nello
stesso articolo: governanti e oppositori;
datori di lavoro e lavoratori, politici di destra
e uomini di sinistra. Impresa che pare gli sia
riuscita una volta, tanto che se n’era vantato lasciando lo studio del giornale.
Baldacci gli piaceva ma i suoi articoli coraggiosi e irriguardosi verso gli establishment lo
allarmavano tanto che spesso li temperava
cassando giudizi perentori e affermazioni
categoriche.
Una sera, afflitto per l’ennesima presa di
posizione di quel baffuto Rodomonte, ne
invitò a cena la giovane sposa. Sperando di
ORDINE
5
2004
1. Giuseppe Valieri
2. Gianni Cossu
3. Francesco Francavilla
4. Franco Nasi
5. Tommaso Besozzi
6. Luigi Arduino Gobbato
7. Bruno Giordano Bazzocchi
8. Fausto Carulli
9. Achille Campanile
10. Giorgio Zampa
11. Roberto de Monticelli
12. Angelo Rozzoni
13. tipografo Giancarlo Figini
14. tipografo Piero Gennizzi
15. tipografo Carlo Pozzi
16. Romeo Giovannini
17. proto Augusto Ghisalberti
18. proto Umberto Raimondi
19. Giorgio Susini
20. Gaetano Baldacci
21. tipografo Mauro Caselli
trovare in Luisa Angeloni una complice nella
difficile opera di mitigazione dell’impetuosità
che il suo inviato manifestava nei pezzi, si
dolse: “Ma perché quando Gaetano è via mi
fa soltanto articoli di politica polemici?”
Baldacci, quella volta, si trovava in Germania. Il direttore del “Corriere”, sperando in un
intervento in suo favore della indulgente
ospite presso il marito, le chiese ancora.
“Adesso per esempio Gaetano si trova a
Weimar. Perché, mi chiedo, non mi scrive un
articolo dalla casa di Goethe?”
“Caro amico, il Corriere
non fa più per te”
Il siciliano si mostrava sordo ai consigli di
ponderatezza che gli rivolgeva costantemente il suo direttore. Sostenuto da uno spirito
competitivo, odiava il giornalismo didascalico
da Baedeker anche se vi ricorse una sola
volta durante un soggiorno in Grecia. Tuttavia
per non tradire se stesso, scrisse un pezzo
critico contro il Partenone. Per un’estremista
dell’equilibro qual era Missiroli, quella dovette
rappresentare un’impertinenza che colmava
la misura della sua pazienza. Un giorno
convocò il suo inviato e gli parlò senza infingimenti: “Caro amico, il Corriere non fa per te.
Hai bisogno d’un giornale tuo”. Per spingerlo
a seguire la vocazione che riteneva di avere
individuato nel suo incoercibile inviato e per
sollecitarne il congedo, gli vaticinò: “Sono
sicuro che come direttore d’un giornale tuo
faresti grandi cose”.
L’esortazione di Mario Missiroli corrispondeva alla vecchia aspirazione dell’ex medico
d’inventare un foglio suo. A Milano, dal 1930,
anno in cui aveva chiuso i battenti Il Secolo
(dapprima leader della carta stampata in
Lombardia, poi damigella d’onore del Corriere di Luigi Albertini), parecchi editori pubblici
e privati avevano tentato di misurarsi con la
testata di via Solferino senza successo.
Anche alla fine della guerra, a dispetto
dall’apparente incompatibilità che si sarebbe
potuta scorgere tra il “Corsera”, che aveva
sostenuto il regime, e l’impegno politico
progressista dell’elettorato milanese, il
vecchio logo (con e senza l’aggettivo nuovo)
aveva riacquistato i suoi antichi lettori e pure
parte dei loro discendenti attestandosi ancora al primo posto nelle vendite. L’ultimo tentativo di contrastarne il primato in edicola era
stato realizzato dal Corriere di Milano dell’editore Aldo Palazzi, direttore Filippo Sacchi,
due trasfughi del “Corriere”. Nonostante gli
adeguati finanziamenti, l’iniziativa s’era rivelata deludente.
Nel 1953, mentre è ancora inviato del
“Corriere”, Baldacci in cerca di un editore
incontra Enrico Mattei. Anche il neopresidente dell’Eni ambisce ad avere un giornale suo.
I due si piacciono; l’ex partigiano s’entusiasma al progetto del messinese ma a questi
non garba di fare “il giornale di Mattei”. L’incontro si conclude senza esito. La situazione
si sblocca dopo una serie di contatti del giornalista con l’editore francese di origine italiana, Cino Del Duca. Dagli incontri che seguono viene fuori una combinazione a tre:
Baldacci mette la testata (e la testa), metà
delle spese sono assunte da Del Duca, l’altra da Enrico Mattei, sotto forma di elargizioni pubblicitarie.
ORDINE
5
2004
22. proto Mario Stucchi
23. un tipografo
24. Gianni Brera
25. Rino Felappi
26. Mario Fossati
27. Beniamino dal Fabbro
28. Pietro Bianchi
29. Paolo Murialdi
30. Roberto Tabozzi
31. Giovanni Filippini
32. Ubaldo Bertoli
33. Gian Mario Maletto
34. Gianni Roghi
35. Giuseppe Grazzini
36. Giorgio Pecorini
37. Enrico Rizzini
38. Umberto Segre
39. Antonio De Falco
40. Alfredo Bogardo
41. Marco Montaldi
42. Pilade del Buono
43. Enrico Forni
44. Giancarlo Galli
45. Gaetano Gadda
46. Gigi Melega
47. Enzo Peru
48. Gian Carlo Fusco
49. Ulisse Corno
50. Antonio Pitta
51. Pietro Tarantino
52. un tipografo
53. Paolo Calzini
54. Erika Kaufmann
55. Pier Paolo De Monticelli
56. Mario Bandini
57. Michele Ranchetti
58. Vittorio Orilia
59. Patrizio Fusar Imperatore
60. Gabriele Benzan
61. Un tipografo
62..Tipografo Rodolfo Strada
63. Tipografo Bonvini
Un’idea temeraria al limite dell’utopia
Concordi nel voler fare un giornale nuovo, i tre sono divisi
dalle motivazioni che spingono ciascuno di loro verso la
realizzazione del progetto. Il presidente dell’Eni intende utilizzare il foglio come uno strumento per rompere un certo ordine economico che si è instaurato in Italia dopo la Liberazione. L’editore italo-francese, aspira a promuovere una testata
a carattere popolare che attraverso le vendite raggiunga al
più presto l’autonomia finanziaria. L’idea di Baldacci è temeraria, al limite dell’utopia: pensa di fare un giornale “che non
s’inchini davanti al potere politico ma che con le sue inchieste e le sue denunce sia un continuo stimolo per il miglioramento della società italiana”. Del foglio che vuole stampare
ha registrato da qualche anno il logo, Il Giorno. È la stessa
testata usata da Matilde Serao nel 1904 a Napoli dopo che,
separatasi dal marito Edoardo Scarfoglio, aveva lasciato Il
Mattino. Chiuso dal fascismo nel 1927, il quotidiano era rinato nel 1944, sempre nel capoluogo campano, con una linea
politica monarchico qualunquista ma era sparito dal panorama giornalistico italiano nel 1946.
Trovato l’accordo agli inizi del 1956, Il Giorno è preparato in
tre mesi. Se la ricerca dei finanziatori s’era rivelata abbastanza faticosa la individuazione della formula giornalistica era
apparsa agevole perché questa era chiara nella mente del
siculo che pensava a quel giornale da anni. Anche l’impaginazione del nuovo foglio era ben distinta nella sua testa tanto
che ad un certo punto licenzia il grafico Giuseppe Trevisani il
quale non applica alla lettera i suoi suggerimenti. Per la reda-
zione, il messinese raccoglie transfughi dei giornali cittadini
gran parte dei quali sono giovani. Con evidente sufficienza e
mal dissimulata derisione, un giornale scrive: “Vi sono riuniti
un certo numero di disoccupati; altri redattori sono stati presi
dai quotidiani del pomeriggio e altri ancora dai rotocalchi.
Non vi sono firme di spicco”. Non per necessità ma per disegno, quella era la redazione ideale di Baldacci che evidentemente non voleva maestri del vecchio giornalismo.
Quando il 21 aprile 1956 escono le edizioni del Giorno del
mattino e quella della sera sono in parecchi coloro che nel
mondo della carta stampata profetizzano: “Gli dò tre mesi di
tempo. Poi chiuderà.” Ma a dispetto delle molte, biliose,
Cassandre, la testata di via Settala ottiene un successo
formidabile anche se non riuscirà mai a superare per vendite
il “Corriere della Sera”. Al lettore italiano della seconda metà
degli anni Cinquanta il nuovo quotidiano si presenta con
connotazini giornalistiche nuove, moderne, originali per il
mercato della Penisola.
Per la prima volta un giornale è settimanalizzato attraverso
inserti che investono il mondo della cultura e quelli dei motori e dei ragazzi. Le notizie economiche sono raggruppate in
un’unica pagina, soluzione che s’era però vista nell’“Ambrosiano”, un giornale fascista degli anni Venti, diretto da Umberto Notari. Scompare la terza pagina che Alberto Bergamini
aveva inventato sul Giornale d’Italia nel 1901 all’indomani
della presentazione della Francesca da Rimini di D’Annunzio, a Roma.
Umorale e imprevedibile, Baldacci è scrupoloso nel realizzare il giornale che ha in testa.
Ama la scrittura asciutta e odia il dannunzianesimo negli articoli. In redazione recita il
ruolo del giornalista padrone. Se un pezzo
scritto da un collaboratore oppure da un
redattore non gli piace si mette alla macchina per scrivere e lo rifà. Gli ripugnano (sul
giornale) la parola mamma e le similitudini
che hanno un vago sapore letterario. Una
sera il critico Roberto De Monticelli, che
peraltro era suo amico, scrisse che le parole
d’una commedia sembravano pesci vivi. Le
urla del siculo arrabbiato si sentirono fino in
tipografia. Incline alla collera per un pezzo
che non funzionava, era pronto ad entusiasmarsi quando scopriva dei talenti fra i suoi
giovani redattori. Amante delle macchine di
grossa cilindrata, spesso, “chiuso” il giornale
alle 4 del mattino, ingaggiava per le strade
deserte di Milano una competizione con
qualcuno dei suoi redattori che, per non
dargli un dispiacere (le cui conseguenze
avrebbero potuto interferire con la carriera),
prudentemente si rassegnava a perdere.
Altre volte (insieme con Giancarlo Fusco,
Carletto Colombo, direttore dell’Avanti e con
Roberto De Monticelli), tirava mattina tra la
fumosa atmosfera di uno dei numerosi nitght
club cittadini.
tazione critica su una sua interpretazione.
Baldacci, presente alla scena, non potendosi rivalere sull’artista, si vendicò con il suo
accompagnatore. “Lei è con la signorina?”
chiese all’uomo che stava accanto alla diva.
Alla risposta affermativa, gli mollò uno
schiaffo.
Uno schiaffo vendicatore
alla Mostra di Venezia
All’avanguardia nel campo delle formule e
del modo di fare un giornale, si rivelava però
un passatista come uomo di mondo. Durante la Mostra cinematografica di Venezia, una
sua redattrice era stata schiaffeggiata da
un’attrice che non aveva accettato un’anno-
Battaglie politiche
coraggiose e temerarie
Sì, il direttore del “Giorno” apparteneva alla
schiera dei giornalisti protagonisti. Uomini
dotati di talento professionale e di particolare
forza polemica nella quale mescolano inclinazione manageriale e forti dosi di spregiudicatezza. Un tipo di professionista ben radicato nel nostro giornalismo (ve ne sono
parecchi anche oggi) che ha avuto quale
modello nazionale Edoardo Scarfoglio.
Come ricordava un giorno Arturo Tofanelli,
apprezzato direttore ed editore, Baldacci era
afflitto da un grave neo: “la difettosa padronanza del pedale del freno, insignificante per
uno che è abituato ad andare piano, qualità
essenziale per chi invece corre”. Questa
mancanza di senso dell’opportunità (e della
misura) segna il suo destino. Alcune battaglie politiche e di costume che egli promuove sul suo giornale sono coraggiose; altre
alquanto temerarie per un foglio che appartiene ad un’industria di Stato. Attorno al terzo
anno di vita, Il Giorno attacca Vittorio Valletta, il presidente della Fiat. L’articolo provoca
notevole sconcerto nel mondo politico e in
quello imprenditoriale, ma non ha conseguenze. Fatale per la carriera del direttore
messinese risultano invece alcune note che
appaiono sul giornale contro il presidente del
consiglio, il democristiano Antonio Segni.
19 (27)
Gaetano Baldacci
L’uomo del Giorno
M E M O R I A
Nell’agosto del 1944, durante la Resistenza,
affrontando su “Lo Stato Moderno” il tema
del ruolo dei giornali nell’Italia liberata,
Baldacci aveva sostenuto la necessità che il
Comitato di Liberazione Nazionale espropriasse le testate giornalistiche e le assegnasse ai partiti. Cosi, a suo parere, si sarebbe evitato il pericolo che queste ricadessero
“nelle mani di gruppi apparentemente indifferenti, ma in realtà loscamente interessati al
gioco politico”. Affidando, almeno nei primi
tempi, i quotidiani alle organizzazioni politiche si sarebbe evitato che “quei gruppi
potessero monopolizzare le varie correnti
della democrazia popolare in una fase
schiettamente rivoluzionaria, a fini prettamente conservatori o reazionari”. Al giovane
medico aveva risposto Mario Borsa il quale
aveva bollato di illiberalismo la formula “a
ogni partito il suo giornale”. Il giornalista
auspicava una sana epurazione dei redattori
compromessi, ma considerava opportuno
che il grande foglio d’informazione “dovesse
essere lasciato in vita con la sua testata e
nell’integrità della sua organizzazione”.
La quota di Del Duca
passa a Mattei
Paradossalmente, Baldacci sperimenterà
personalmente cosa sarebbe accaduto ai
liberi giornalisti direttori se le testate fossero
finite in mano alle fazioni. Il suo Giorno non
apparteneva ad una formazione politica
bensì al ministero delle Partecipazioni statali
che era, come dire, a tutti i partiti che formavano il governo. Chiusa dopo tre mesi dalla
nascita del quotidiano l’edizione del pomeriggio per motivi economici (anche se vendeva oltre centoventimila copie), Del Duca, non
si sa bene se per via d’un disegno prestabilito oppure se a causa d’intervenute complicazioni economiche, si disfa della sua quota
proprietaria che finisce nelle mani di Mattei.
Questi ambiva da sempre a possedere tutto
il quotidiano e da tempo faceva pressioni su
Baldacci perché gli vendesse il logo considerando un paradosso che uno come lui
“investisse tanti soldi in un giornale senza
essere il proprietario della testata”. Il messinese resisteva illudendosi che il foglio, pur
appartenendo ad un’azienda a Partecipazione statale, potesse assecondare l’indirizzo
politico che egli gli voleva imprimere.
Le operazioni per estrometterlo cominciano
1957. Andandosene in vacanza, il messinese aveva sospeso la Situazione, l’editoriale
non firmato nel quale sinteticamente, in una
sessantina di righe, dava conto ai suoi lettori
delle coordinate politiche, sociali e di costume del momento. Il presidente della Segisa,
allo scopo evidente di “spersonalizzare” la
testata, ripristina la rubrica con il pezzo d’un
prestigioso redattore. Baldacci, trascinandosi
dietro Fusco, è costretto a lasciare la Versilia
e a fare un’incursione notturna nel giornale
per evitare il colpo di mano. I contrasti che
affliggono i vertici della testata sono anche
d’ordine politico: mentre il direttore condivide
la posizione di Amintore Fanfani, Mattei,
temendo lo strapotere del “cavallo di razza”,
se n’è allontanato da tempo. I conflitti della
dirigenza si riverberano sulla redazione. Una
Il grafico
è giornalista
quando concorre
ad elaborare
il messaggio
20 (28)
tensione interna spacca il foglio dove si
formano due partiti.
L’attacco di Baldacci a Segni, offre a Mattei
l’occasione che aspettava. Il presidente del
Consiglio (che proprio quell’anno 1959 ha
vinto il congresso democristiano sconfiggendo la linea di Fanfani, sostenuta dal “Giorno”)
è un uomo mite. Ma la critica rivoltagli dal
giornale milanese gli sveglia dentro alcune
asprezze del carattere sardo. Egli esige il
licenziamento del giornalista. Il presidente
dell’Eni temporeggia. L’ultimatum del capo
del Governo subìsce brevi rinvii. Alla fine
Mattei è costretto a sbarazzarsi del geniale
direttore.
L’esonero è preceduto da un incontro tra l’uomo politico e il siculo. Convocato a palazzo
Chigi, Baldacci, ammesso alla presidenza di
Segni, intravede “nei suoi occhi grigiastri e
spenti una sorta di cupo rancore”. Il premier
gli rimprovera l’attegiamento critico del foglio
verso il Governo. Il direttore non nega. Replica: “Sì è vero. Ma il giornale appartiene allo
Stato non al governo”. Il Segni ribatte: “Il
Governo rappresenta lo Stato. Criticando il
Governo si critica lo Stato”. Ancora il giornalista “Ma ammetterà che vi sono oggi due
governi nello stesso governo: un governo e
l’antigoverno”. Antonio Segni offre al direttore del “Giorno” un trattamento di liquidazione
eccezionalmente largo in cambio delle dimissioni volontarie. In caso affermativo, l’ordine
della liquidazione sarebbe stato passato alla
direzione della Segisa per l’immediata attuazione. Ma Baldacci rifiuta la buonuscita:
almeno questo è quanto racconterà negli
anni Ottanta la vedova, signora Luisa, al giornalista Luciano Simonelli. Sempre per ottenere un disimpegno non traumatico del direttore dal giornale, Mattei offre al siciliano
(qualora presenti le dimissioni) addirittura
una cattedra alla facoltà di Medicina. Caparbio, Baldacci ci tiene ad accreditarsi come
vittima sacrificale d’un mondo politico che
professa democrazia e pluralismo solo nelle
carte dei congressi. Esige il licenziamento
che gli arriva il 31 dicembre 1959 insieme
con una liquidazione di centocinque milioni
di lire.
Nell’articolo di commiato che il 1° gennaio
compare sul “Giorno” egli scrive: “I motivi per
i quali sono costretto a lasciare la direzione
del “Giorno” non li dirò. Non li dirò ora. Tra
Il lavoro del grafico ha natura giornalistica quando contribuisce al contenuto del messaggio mediante la scelta delle
modalità di presentazione dell’informazione. Il lavoro del
giornalista è costituito da una “prestazione di lavoro intellettuale, diretta alla raccolta, alla personale ed originale elaborazione od al commento di un fatto destinato a formare
oggetto di comunicazione interpersonale attraverso gli
organi d’informazione” (Cass. 1.6.98 n. 5370, e precedenti,
nei quali trova man mano risonanza: Cass. n. 899/96, n.
1827/95, n. 536/93, n. 2166/92, n. 4547/90).
Il carattere fondamentale di questa attività è definibile in tal
modo come il personale contributo che il giornalista conferisce al nudo fatto, prima di offrirlo al destinatario: questo
contributo è costituito dal pensiero, quale patrimonio di
idee, cultura e sensibilità con cui egli percepisce ed interpreta il fatto stesso. Con questo contributo, la sua attività,
quale mediazione tra il fatto e la relativa diffusione, diventa
un’interpretazione del fatto. Questo pensiero può essere
manifestato con i comuni mezzi di informazione: lo scritto,
la parola, il suono, l’immagine, il disegno, la grafica (e con
la moderna tecnologia la potenzialità espressiva di questi
mezzi va man mano aumentando).
In questo quadro è da valutare anche l’attività del grafico.
Questa può esaurirsi nel mero conferimento della necessa-
qualche mese i miei lettori li sapranno e li
sapranno da me. Qualcuno a un certo
momento doveva pagare. E io pago. La storia
d’Italia si sta trasformando. Bisogna che
qualcuno tenga duro (per poi riprendere in
altro modo) nella lotta che riguarda più che
noi stessi i nostri figli, il loro avvenire”.
Inseguendo un’immediata, rabbiosa rivalsa,
il siculo impiega subito la grossa somma
nella creazione d’un nuovo giornale al quale
nel 1961 associa l’editore Enzo Sabato.
Fonda “ABC”, un settimanale che, come il
quotidiano, mette in mostra una grafica
nuova per l’Italia, sul modello dei giornali
popolari inglesi. Vendicativo qual è, Baldacci
non manca di raccontare nei primi numeri
del sua rivista la vicenda (Parliamo del Giorno di Mattei) che ha patito infoltendo la schiera dei suoi nemici.
“La storia del nostro Paese si sta trasformando” aveva scritto nell’addio ai lettori del Giorno. La frase era stata però censurata. Il
periodo completo suonava cosi: “La storia
del nostro paese si sta trasformando da politica in giudiziaria”. L’annotazione si rivelerà
profetica. Tanto più che sarà proprio lui, uno
dei primi interpreti della sconcertante svolta
che effettivamente si registra da quel
momento negli annali italici. Il 26 marzo
1967, domenica di Pasqua, l’ex direttore del
Giorno è arrestato all’Hotel Saint George di
Beirut e rinchiuso nell’inferno dei Sablons, le
terribili carceri libanesi. Dalle cronache dei
giornali, gli italiani apprendono che il giornalista è coinvolto nello scandalo del Banco di
Sicilia, accusato di peculato.
Uno scandalo che viene
da molto lontano
“Questa disgrazia viene da molto lontano”
dice a se stesso il giornalista mentre è ancora in manette davanti all’inconsapevole
commissario di polizia libanese che lo interroga. Secondo l’accusa, tra il 1960 e il 1963
Baldacci ha costretto il presidente del banco
palermitano Carlo Balzan a concedergli
cinquantadue milioni di lire per interrompere
una campagna di stampa di “Abc” contro
l’istituto di credito.
Formalmente la banca gli avrebbe assegnato ventotto milioni quale finanziamento della
pubblicità d’una rivista mai realizzata e altri
ventiquattro milioni come compenso pattuito
con la fondazione Mormino di Palermo,
sovvenzionata dall’istituto, perché egli preparasse e organizzasse “una pubblicazione a
carattere culturale” che avrebbe dovuto
anche dirigere ma che non aveva mai visto
la luce.
Tradotto l’anno successivo in Italia, il direttore di “Abc” è condannato a tre anni e sei mesi
di reclusione. Il 28 dicembre del 1970 è però
assolto con formula piena da tutte le accuse.
L’inventore del moderno Giorno non assapora per molto tempo l’esultazione per la sua
riabilitazione.
La terribile esperienza vissuta nelle carceri
libanesi e tre anni di processi hanno compromesso irreversibilmente la sua salute.
Colpito da un male insorabile, si spegne a
Milano il 5 aprile del 1971, a sessant’anni.
Enzo Magrì
ria forma al messaggio (da comunicare), ovvero estendersi
ad una scelta. In questa seconda ipotesi, nella misura in
cui la “forma” (pur meramente grafica) del messaggio diventa “contenuto”, l’attività assume natura giornalistica. Adoperare un certo carattere tipografico e non altro ovvero riportare il fatto in una determinata colonna od in una determinata pagina (e non in altre), essendo il prodotto della valutazione delle potenzialità racchiuse nel fatto stesso (nei
confronti dell’interesse del destinatario del messaggio),
costituisce di per sé, quale mediazione fra fatto e comunicazione, un contributo al contenuto del messaggio: un’interpretazione. In questa seconda ipotesi, assume ovviamente rilievo (ai fini del riconoscimento della predetta natura) la misura (quantitativa e qualitativa) di questo contributo, nel quadro complessivo dell’attività svolta.
Ed assume rilievo la sottoposizione al potere gerarchico
d’un art director: questa presenza non esclude la natura
giornalistica dell’attività grafica solo nella misura in cui non
limiti gravemente la creatività del lavoratore subordinato e
non gli precluda la possibilità di partecipare attivamente
all’elaborazione del messaggio: non escluda il suo contributo di pensiero (Cassazione Sezione Lavoro n. 5162 del
12 marzo 2004, Pres. Ciciretti, Rel. Cuoco).
(da: www.legge-e-giustizia.it)
ORDINE
5
2004
Dal Corriere della Sera del 7 aprile 2004
I NOSTRI LUTTI
È morto l’inviato del Corriere della Sera
Ettore Botti. Aveva 53 anni. Lascia la moglie, Isabella Bossi Fedrigotti, e due figli,
Vittorio ed Eduardo
Il coraggio della notizia
La lezione di Ettore Botti
di Giangiacomo Schiavi
Anche se faceva di tutto per non darlo a vedere, per molti di noi era sempre il Capocronista, il numero uno, il capitano coraggioso di
una squadra di giornalisti che ne riconoscevano il carisma e il rigore. In ogni gesto, in ogni
parola, in ogni articolo, Ettore Botti lasciava
intendere un’innata propensione al comando,
quasi che dirigere gli venisse naturale.
Freddo, preciso, determinato, era entrato
giovanissimo nella parte, quando la cronaca
d’assalto la facevano i giornali del pomeriggio
e i reporter dovevano arrivare in redazione
con la notizia tra i denti. Maturò in quegli anni,
nella Milano grigia del ‘69, la sua vocazione di
giornalista, tra le sirene della celere e i cortei
degli operai, quando Turatello gestiva le
bische clandestine e i clan malavitosi seminavano di cadaveri le periferie cittadine. Un
precoce battesimo alla Notte, con la arma in
prima pagina sulla bomba di piazza Fontana,
concessa dal mitico direttore Nino Nutrizio per
essere stato tra i primi a entrare nella Banca
nazionale dell’Agricoltura, 16 morti, una strage. Poi il passaggio al Corriere d’Informazione, straordinaria palestra di talenti e anticamera per quello che era l’obiettivo finale: il
Corriere della Sera.
Ci arrivò da inviato speciale sul finire degli
anni Settanta, con i galloni conquistati sul
campo per capacità di scrittura e cura dei
pezzi, un pedigree da cronista di razza con
incursioni nella letteratura e con un romanzo
che sintetizzava le sue passioni: «Portiere uno
rosso dispari», calcio, azzardo e fantasia.
Passò alla redazione degli «Interni», seduto
al tavolone della sala Albertina a dividere
agenzie e passare pezzi dei colleghi. Fu un
esercizio di rigore e umiltà che anticipò una
futura vocazione, ma consumò anche un
imprevisto divorzio: nel 1983 Indro Montanelli
lo chiamò alla cronaca del Giornale, per
mettere carica ed energia alle sue pagine
milanesi.
Gli piacevano le caratteristiche di quel giorna-
che usava la politica come scorciatoia per
fulminanti carriere o ricchezze esagerate.
Toccò proprio ad Ettore, dalle pagine del
Corriere, lanciare il primo segnale d’allarme a
Palazzo Marino, sede di un’amministrazione
che in passato era stata “laboratorio” e adesso sforava nell’illecito: «Bisogna sbarrare il
passo ai faccendieri, e sicuramente non ne
mancano nella folla di imprenditori e mediatori d’affari, burocrati e politici di seconda fila,
rappresentanti della cultura e delle professioni
che premono alle porte del Comune...” scriveva, anticipando i magistrati della Procura.
Moralità, indipendenza e integrità diventarono
Addio al giornalista che guidò la Cronaca del Corriere
lista napoletano trapiantato a Milano che
aveva lasciato la carriera da avvocato ai primi
esami di giurisprudenza e si segnalava per il
suo carattere deciso e severo, da ufficiale di
un esercito che non indietreggia mai. Fu un
passaggio importante, e diventò la scorciatoia
per quella che era una destinazione quasi
naturale: la cronaca di via Solferino.
Nel 1987 Milano era quella da bere, frizzantina e leggera come un aperitivo alla moda,
spavaldamente rampante e ingenuamente
incosciente, corrosa da una politica litigiosa e
arrogante che navigava a vista tra i problemi.
Era la città degli appalti agli amici degli amici,
il distintivo della sua cronaca, una cronaca
scomoda per il palazzo ma attenta ai diritti dei
cittadini. Avvertì i sinistri scricchiolii di Tangentopoli quando le prime mazzette sfiorarono gli
assessorati all’Edilizia e all’Urbanistica,
cavalcò la protesta antiRoma del prefetto
Caruso con un’intervista a tutta pagina:
“Roma frena la Milano europea» e ottenne
l’impegno del governo a snellire la burocrazia
soffocante che paralizzava il modello ambrosiano. Ma fu con via Bianchi che trovò la sintesi del miglior giornalismo d’inchiesta: una
battaglia ingaggiata dalla cronaca del Corriere per salvare una strada divenuta ostaggio
dei banditi, per dare una speranza ai cittadini
onesti delle case popolari che da anni vivevano nella paura e nel terrore. Fu una scossa
per tutti, politici, forze dell’ordine, sindacati e
imprenditori, rivelò l’esistenza a Milano di un
Bronx da abbattere e portò alla rivincita della
legalità.
Chissà come prenderebbe oggi questa cronaca, il nostro Ettore. Lui che era severo con gli
altri ma più ancora con se stesso, si schermirebbe assai, direbbe che al Corriere ha fatto
soltanto il suo dovere.
Come faceva a Madrid, quando era corrispondente nella Spagna del nuovo corso, o in India
e in Argentina quando era inviato speciale. 0
come faceva negli ultimi tempi, quando scriveva editoriali per la Cultura e si appassionava alla storia e ai suoi personaggi.
Forse taglierebbe il pezzo e aggiungerebbe
che la sua vita era anche altrove. Vicino a
Isabella, e ai suoi adorati figli, Vittorio ed
Eduardo. Magari al San Paolo di Napoli, ad
applaudire ancora Careca e Maradona. Gli
chiedo scusa se stando al posto che era suo
non sono stato all’altezza. L’uomo era speciale, il suo carattere anche.
Nella malattia che ha affrontato a viso aperto,
da duro, da combattente nato, non ha mai
perso la lucidità: le sue analisi sono rimaste
taglienti fino all’ultimo, la geometria dei suoi
discorsi era come quella delle sue pagine.
Doveva scrivere altri articoli.
Non arriveranno più.
Romano Biolchini scriveva
di auto e motori, “di box e dintorni”
Era un ragazzo del ‘29, Romano. Alto, longilineo, sempre sorridente e con una lieve
inflessione modenese, che ne svelava le
origini emiliane, nonostante fosse arrivato a
Milano nel ‘58, era iscritto dal 1974 all’Ordine dei Giornalisti (pubblicisti) fino allo scorso
9 marzo, quando un tremendo tumore se lo
è portato via in meno di un anno. È sempre
difficile parlare o scrivere di un amico che
non c’è più, se poi questo è stato un Maestro
di professione e vita, e spiritualmente una
sorta di papà adottivo, l’impresa emotiva
diventa titanica.
Romano Biolchini, con il quale ho condiviso
diciotto anni d’amicizia, con pazienza e dedizione, mi ha seguito e incoraggiata nei miei
primi passi quando mi affacciavo alla professione, dandomi consigli, suggerimenti e
soprattutto correggendomi i pezzi, proprio
come facevano un tempo i “vecchi” giornalisti verso le nuove leve. Insegnamenti preziosi, che hanno conseguito a far sì che diventassi una quindicina d’anni fa giornalista freelance, specializzata in turismo. Per onore di
cronaca, devo riconoscere che i risultati ottenuti nel corso del tempo, li devo proprio a
Romano, se non ci fosse stato lui all’inizio,
francamente non so se avrei raggiunto certi
traguardi.
E di successi professionali la vita di Biolchini, Biolca per gli amici, era ricolma. La
passione per le auto e i motori, lo avevano
portato da giovane a lavorare nella sua città
natale come tecnico meccanico nel reparto
corse della Maserati. Erano gli anni Cinquan-
ta, quando la vera tecnologia risiedeva nella
testa, nel cuore e nelle braccia dei meccanici della Maserati, che si fregiava di avere
piloti come Fangio, Moss e De Tommaso.
Conclusa dopo sei anni l’avventura alla
Maserati, Biolchini, trasferitosi a Milano,
lavorò come capo officina e collaudatore per
diverse case automobilistiche, finché nei
primi anni Settanta la passione di scrivere di
auto e motori, da hobby si trasformò in
professione giornalistica a tempo pieno. La
sua grande esperienza nel settore, lo portò
a collaborare con riviste prestigiose, fra
queste ricordo Quattroruote, Gente Motori e
Ruoteclassiche, ma anche a scrivere oltre 15
libri, di cui l’ultimo “Quelli dei box e dintorni”
(1999), che raccoglie le testimonianze dei
meccanici della Formula 1 e offre uno spaccato di vita delle corse da dietro le quinte,
www.ecostampa.it
RASSEGNA STAM PA
AncheHTML
atostra
in foprm
er la vo
net
Intra
ORDINE
5
2004
L’ECO della STAMPA è tra i più importanti operatori
europei nell’industria del MEDIA MONITORING.
Essere un partner affidabile per chi - in qualsiasi
struttura pubblica o privata - operi nell’area della
comunicazione o del marketing è, ormai da 100
anni, la nostra mission.
Anche grazie ai servizi di ECOSTAMPA Media Monitor SpA
(media monitoring, software, web press release,
media analysis, directories…) ogni giorno migliaia
di nostri Clienti accrescono l’efficacia delle loro
Direzioni Marketing e Comunicazione, disponendo
di maggiori risorse interne da dedicare alle attività
con più alto valore aggiunto.
rimane il testamento letterario di Biolchini più
prezioso e completo. Ma non solo. Pensando
ai giovani meccanici, Romano, fondò insieme a un gruppo di tecnici l’Aca (Associazione collaudatori automobili), volta a promuovere un corso teorico di base per la formazione di collaudatori diagnostici di automobili. Alle capacità professionali, inoltre, si univano quelle umane, merce rara di questi tempi,
che si riassumono in poche parole: Romano
era una persona perbene.
Il mio abbraccio, ora, va alla moglie Bianca,
con la quale formava una fantastica coppia,
molto unita nonostante quasi 50 anni di
matrimonio, ai figli Barbara e Stefano, dei
quali ho “invidiato” benevolmente di avere un
papà come Romano e ai nipoti, perché
hanno avuto un nonno, anzi un amico, veramente straordinario.
Se desiderate saperne di più …o fare una prova,
contattateci!
Tel 02.748113.1 - Fax 02.748113.444
E-mail [email protected]
®
L’informazione ritagliata su misura.
Nominativo
..............................................................................
Azienda
..............................................................................
Indirizzo
..............................................................................
Cap/Città
..............................................................................
Telefono/Fax
..............................................................................
E-mail
..............................................................................
OG
di Gianna Testa
ECOSTAMPA MEDIA MONITOR SpA
21 (29)
Pietro Verri, Storia di Milano.
A cura di Francesco Ogliari,
prefazione di Giuliano Urbani,
Edizioni De Ferrari, pagine 590, euro 45.
LIBRERIA DI TABLOID
Ristampata
l’opera di
Pietro Verri
Storia
di Milano
di Francesca Romanelli
“Nomina sunt consequentia rerum”, recita un
antichissimo adagio latino. E se nel nome è
racchiusa la natura profonda, l’essenza di
ogni cosa, un erudito illuminista quale Pietro
Verri non sfugge a ricercare nell’etimologia
origini ed escatologia di una città. La sua.
Quella Milano austera e severa che si alterna, nei secoli, a capitale d’Italia e della
modernità. Ne scandaglia l’anima storica, i
registri dei tempi, il comune sentire, il
progresso materiale insieme a quello civile.
E lo fa con la sua monumentale “Storia di
Milano”, testo illuminista di indagine diacronica e critica edito nel 1779 ma soprattutto
ripubblicato oggi, a due secoli di distanza, in
un momento di prepotente rinascita d’interesse verso la dimensione “locale”.
Ora che sui piatti della bilancia del mondo
pesano da una parte il globalismo e dall’altra, come avrebbe detto Machiavelli, “il particulare”. Ne nasce una testimonianza di italiano quasi contemporaneo, pulito e vibrante,
seppure agli sgoccioli del Settecento. Ne
scaturisce la testimonianza di un giornalista
ante litteram (padre de “Il Caffè” insieme al
fratello Alessandro e a Cesare Beccaria) che
trasforma l’accaduto, il passato, in un documento da affidare al presente. Capace di
ricostruire l’albero genealogico della città che
sarà, in un futuro anteriore, patria dell’editoria; che ha sempre voluto essere, per vocazione, prima inter pares; che ha costruito il
suo primato sociale sull’operosità. Il tutto
raccontato con uno spirito di accorata e
pensosa milanesità.
serie di circostanze senza un fondatore, e mi
pare che dalla condizione d’un povero villaggio gradatamente ampliatasi divenne insensibilmente una città, senza che uomo alcuno
avesse concepita l’idea dapprincipio di farla
tale”, aggiunge Verri.
Finché questo scorcio pianeggiante di Gallia
cisalpina diventa romana, con la conquista
dell’Insubria operata dai consoli Cneo
Cornelio Scipione e Marco Marcello.
Cogliendo Verri l’occasione di un excursus
storico sulla dominazione latina, contrapposta alla vile crudeltà soggiogante dei barbari:
“Il dominio adunque di Roma non distrusse
le città dei vinti, ma ve ne edificò di nuove:
rese il clima più adatto a essere abitato, liberandolo dalle paludi; dallo stato di barbarie
c’incalzò a quello di una società civile; e
perfine da sudditi che ci aveva resi la forza,
la beneficenza romana ci fece liberi: e
membri di un’illustre repubblica, fummo
capaci delle magistrature di Roma”.
Quelle genti in fuga
dalla pianura saccheggiata
I capitani Medio e Olano
e il Paese di maggio
“Della etimologia di Milano vi sono pure varie
opinioni: oltre quella dei due capitani Medio
e Olano (cui risalirebbero rispettivamente la
prima e la seconda pianta della città ndr), v’è
chi la deriva dal tedesco Mailand (così chiamasi Milano in Germania); e questa voce
significa paese di maggio, paese di primavera: denominazione che comunque conviene
poco a una provincia in cui gli aranci non
reggono scoperti, e in cui “ne’ sei mesi
dell’anno che cominciano in novembre e
terminano al fine d’aprile l’altezza media del
termometro è al di sotto del temperato, e
dove in quella metà dell’anno la terra è
soggetta al gelo ed alle nevi”, scrive Verri
nelle prime pagine della sua opera. Scandaglia l’humus territoriale della futura metropoli
per trovarne le radici che lo conducano al
germe natale, insabbiato nelle nebbie della
storia.
E passa in rassegna tutte le pagine del
tempo, anche le più scolorite, andando a
trovarvi una scheggia di verità. “La più comune sentenza fa nascere la voce Mediolanum
da un mostro che si vide nel luogo in cui è
fabbricata, e questo era un porco mezzo
coperto di lana”. Questa una delle ventitré
versioni sull’origine del nome della città: la
“scrofa semilanuta”, con una fascia più chiara sul dorso, la cui pelle i Galli erano soliti
mostrare alle porte degli agglomerati urbani
di loro fondazione. Una leggenda rimasta
negli antichi simboli cittadini e visibile in un
bassorilievo di marmo al Palazzo della
Ragione.
Tracce queste, che Verri calca con citazioni
originali di Claudiano e Sidonio Apollinare,
senza tuttavia dimenticare l’apporto di Tito
Livio che ascrisse la genesi milanese al
condottiero gallico Belloveso. Anche se l’ipotesi più probabile, a posteriori, rimane il
connubio latino-celtico di medio e lan (corrispondente al planus latino) da cui Mediolanum, città di mezzo. Protagonista di se stessa, senza fondatori o generali a darle un
nome. “Milano mi sembra formata per una
22 (30)
allo stile corinzio rivelato dai capitelli. Una
Milano imperiale, in cui “nel quarto secolo
molto dimorarono i Cesari”. E in cui, durante
quella stessa epoca, Verri fissa quasi profeticamente la nascita di Milano capitale morale. Comincia infatti a divenirlo con il vescovo
Ambrogio (il termine arcivescovo sarà introdotto molto più tardi, puntualizza l’autore),
“uomo per la dottrina, per la pietà, per la
fermezza e per ogni sorta di virtù celebratissimo”, sin da quando cacciò l’imperatore
Teodosio dalla chiesa perché resosi colpevole di un omicidio. Il rito ambrosiano dell’autorevolezza, della Milano che si fa grillo
parlante contro gli abusi, inizia qui: “dirò
bensì che, ogni volta che i ministri della religione hanno alzata la loro voce coraggiosa
contro i pubblici delitti, l’umanità intera ha
tributato a essi l’ammirazione”, afferma
inconsapevolmente Verri.
Il “volto” della città
con le sue nove porte
Attento all’urbanitas latinamente intesa come
“civiltà”, e all’urbanistica, Verri parla inoltre
del volto di Milano: “...probabilmente allora
non v’erano che nove porte della città. La
Romana era poco lontana da San Vittorello;
la Erculea era fra il monastero della Maddalena e quello di Sant’Agostino; la Ticinese
era al Carrobbio; la Vercellina era vicina a
San Giacomo de’ Pellegrini, e perciò la chiesa poco lontana ha il nome di Santa Maria
alla Porta; la Giovia era vicina al monastero
di San Vincenzino; la Comasina era poco
discosta da San Marcellino; la Porta Nuova
stava collocata più interna, prima della chiesa de’ Minimi; la Porta Argentea, ora Renza,
era prima di giungere alla colonna così detta
del Leone; la Porta Tosa era al fine della via
di San Zenone”. Tanto che già Ausonio,
poeta romano del quarto secolo, poteva dire
“Et Mediolani mira omnia, copia rerum...”,
Milano abbonda tutta di cose meravigliose.
“Copia rerum”: una condizione, quella de
“l’abbondanza di cose”, che rimarrà il suo
tratto caratteristico fino alla contemporaneità
di capitale del commercio e dell’economia.
Si inginocchia, Verri, alle bellezze della città.
Come le colonne di San Lorenzo, “pezzo di
così nobile e grandiosa architettura”, ispirate
L’età di mezzo rappresenta, per la “città di
mezzo”, la caduta degli dèi. Arriva l’epoca
delle invasioni barbariche, degli Attila, Vitige
e Uraia che Verri considera come i più deleteri per la città. “Gl’italiani erano una nazione
che da conquistatrice passò a essere colta,
e dalla cultura erasi degradata alla mollezza;
e una schiera di arditi selvaggi non può
temere resistenza da una nazione corrotta”.
Gli imperatori dunque abbandonano Milano
e anche le genti fuggono da una pianura
saccheggiata quanto pericolosa, andando a
rifugiarsi sulle isolette dell’Adriatico e a
fondare Venezia.
L’imperatore Zenone, da Costantinopoli, affida la cura della penisola al re Teodorico,
figlio del re dei Goti, ariano, che “tuttavia
protesse i cattolici contro ogni violenza”. E
questa stirpe governa la pianura dal 493 al
553. Vengono poi i longobardi e “furono trenta questi piccoli tiranni, che col titolo di duca
si appropriarono una parte del regno, e Milano diventò suddita di Alboino, al quale si attribuisce d’avere fabbricato il suo alloggio in
una parte di Milano vicina al centro, che
oggidì chiamasi Cordùs, nome derivato, a
quanto pretendesi, dal latino Curia Ducis”. E
con un altro tocco, spiega la denominazione
di molti siti ambrosiani: “v’era l’orto dell’arcivescovo in quello spazio che ora occupa la
regia ducal corte, che perciò si nominò il
Broletto vecchio dalla voce brolo, che ne’
secoli bassi significava appunto orto”.
Denominazione che ancora oggi distingue la
chiesa di San Nazaro in brolo e che caratterizzava Santo Stefano, entrambi altari inglobati nel bosco che l’arcivescovo possedeva
appena fuori le mura dell’allora metropoli.
Per cinque secoli, dice Verri, Milano rimase
in ombra. Intanto, però, la dominazione
longobarda finisce nel 774 quando si insediano i Franchi, con re Carlo Magno chiamato in soccorso da Adriano papa. Desiderio
finisce monaco in Francia, terra dei conquistatori.
Ansperto costruisce
l’atrio di Sant’Ambrogio
E Milano riprende lentamente vita: è il vescovo Ansperto da Biassono a costruire l’atrio
della chiesa di Sant’Ambrogio, “il più antico
pezzo di architettura che abbiamo dopo i
romani”, commenta Verri. Poi furono gli unni,
e l’età carolingia. Ma la lingua? Come si
parlava a Milano e dintorni? Chiaro, secondo
Verri, che “ne’ bassi tempi scrivessero quella
lingua che chiamavano latina, mentre parlavano il dialetto proprio”, non molto dissimile
da quello in uso al tempo dell’autore “e ciò
perché le vocali u ed eu pronunziate con l’accento francese, non mi sembrano inserti fatti
ORDINE
5
2004
Pietro Verri, un giornalista ante litteram
Non è solo un legame di nascita quello che lega il pensatore illuminista Pietro Verri a Milano. E
non è, nemmeno, soltanto un fil rouge elettivo che si dipana nelle 582 pagine della sua opera.
È qualcosa di ancora più stretto, una consonanza morale e ideale con una metropoli senza
fondatori, costruita dall’ingegno degli uomini per la vita degli uomini, secondo la lezione antropocentrica dell’età dei Lumi. Ma è anche una contiguità casuale e imprevedibile. Come quella
che legge nel cognome di questo letterato, poiché “verro” significava porco, il simbolo stesso
della città rappresentata dalla “scrofa semilanuta” di matrice gallica. L’albero genealogico dello
scrittore parla della sua origine dal patriziato ambrosiano, con il padre Don Gabriele vicario di
provvisione e la madre Barbara Dati Somaglia. Nacque nel 1728, studiò dai Barnabiti a Milano,
dagli Scolopi a Roma, dai Gesuiti di nuovo a Milano fino a diventare osservatore e politico della
sua realtà cittadina. Il ritratto che in una pagina della “Storia di Milano” dedica al fratello Alessandro sembra cucita sulla sua stessa vita: “...un uomo che, nel fiore della gioventù, ha posposti i piaceri, che le grazie della persona e dello spirito potevano cagionargli, ai men volgari
piaceri d’illuminare i suoi simili, e di lasciare una durevole memoria alla posterità”.
La sua giovinezza, infatti, è contraddistinta dall’opposizione al conformismo culturale e familiare: di un padre che lo vuole avvocato; di una società che vuole la sua classe dirigente cauta e
conservatrice. Diviene così militare e si dedica alla “Società dei Pugni” che già solo nel nome
ne identificava l’anticonformismo sociale nel periodo di dominazione asburgica. Del 1764 è l’avventura giornalistico-letteraria de “Il Caffè” insieme al fratello Alessandro e al Cesare Beccaria
autore di “Dei delitti e delle pene”. Una pubblicazione coraggiosa perché, in un panorama pret-
con la dominazione dei franchi, ma una
emanazione dell’antica lingua gallica originale”. La girandola di re e usurpatori ruota
senza sosta, in un’antologia di nomi, fatti e
date che Verri annota minuziosamente. Con
loro, sulle sue pagine, trovano posto anche
simboli del nord che diverranno inoltre vessilli politici.
È il caso del Carroccio, inventato secondo
Verri dall’arcivescovo Ariberto. Uno strumento militare, che stava sui campi di battaglia,
poiché i vescovi stessi allora erano più “militari” che “religiosi” in senso stretto. “Io credo
che piuttosto debba riguardarsi come una
invenzione militare assai giudiziosa, posta la
maniera di combattere di que’ tempi. Nel
tempo in cui dura un’azione, è sommamente
importante il sapere dove si trovi il comandante, acciocché colla maggior prestezza a
lui si possa riferire ogni avvenimento parziale (...). Terminata la guerra, si riponeva il
Carroccio nella chiesa maggiore, come cosa
“sacra e veneranda”. Non solo ...anche le
altre città della Lombardia, quando coll’esempio de’ milanesi acquistarono l’indipendenza, e si ressero col loro municipale
governo, adottarono ciascheduna il proprio
gran vessillo, ossia Carroccio. Si mangiava
lardo, scrive Verri, in questo periodo. Solo più
tardi, intorno all’anno Mille, si preferivano
polli e carni arrosto.
L’origine dei Navigli
nell’età del Barbarossa
Di quell’epoca l’usanza di regalare alla futura sposa, verso la quale si era fatta la
promessa di matrimonio, “un anello, ovvero
una corona, un cinto, ovvero una veste o un
drappo”. Consuetudine rimasta poi nell’iconografia mondiale del fidanzamento. “I
cognomi cominciarono a formarsi nel secolo
XI, e nel XII erano generalmente praticati”.
Nell’età del Barbarossa, che distrusse la
chiesa di Sant’Eustorgio e trafugò nel duomo
di Colonia gran parte delle reliquie dei Re
Magi, Verri pone l’origine dei Navigli: “Frattanto però, che stavamo rendendoci più
odioso ai vicini, e dal lontano nemico, la sola
cosa ragionevole che femmo si fu di munire
d’un valido fossato, ossia di una linea di
circonvallazione, tutta la città (...).
Questo fossato è precisamente quello per
cui ora scorre il canale del naviglio”. In seguito, Verri prende ad analizzare la formazione
della lega lombarda, il giuramento di Pontida
e la rinascita di Milano. Anche se la riscossa
dura poco: “Verso la metà del XIII secolo l’impero era immerso nell’anarchia e nella
confusione”, tanto che le monete coniate su
suolo ambrosiano riportavano unicamente
l’effigie di Sant’Ambrogio e il nome Mediola-
tamente letterario, incentrava il dibattito su temi d’attualità come la scienza, l’agricoltura e
quant’altro fosse di “varia utilità”. Ma, come diceva San Francesco d’Assisi, spesso “l’amore non
è amato”. E la sua instancabile passione civile si scontrò con la prevalente indifferenza del
pubblico e gli scarsi riconoscimenti politici. Ripiegò così nel matrimonio, durante il 1776, quando
sposò una nipote di appena ventuno anni che lo rese padre di due figli, anche se il secondo
morì. Poco dopo perse anche la moglie e il padre. Di quegli anni è il progetto della “Storia di
Milano”. Quasi uno scatto d’orgoglio e di impegno nei confronti di una vita che spegne gli entusiasmi. Ancora scarso il riscontro presso l’opinione pubblica. Nelle sue pagine c’è lo spirito
dell’Illuminismo, dell’uomo che esce “dallo stato di minorità che deve imputare a se stesso”,
come disse il filosofo di Koenisberg, Immanuel Kant.
C’è la fiducia nei confronti delle persone e della ragione, visibile quando afferma che “È finalmente vero che la umana natura non è spinta, nemmeno fra i barbari, a superflua crudeltà”. C’è
la presa di distanza dalle gerarchie ecclesiastiche e dalla dimensione religiosa, non contestata;
semplicemente insondabile: “...né mi propongo di trattare di cose sacre”. C’è l’elogio del presente, quando davanti all’“età caliginosa” del medioevo ricorda ai lettori la fortuna di vivere nella
modernità. Il secondo volume uscirà dopo la sua scomparsa, avvenuta durante una seduta
della Municipalità milanese che rappresentava una sorta di comune ante litteram. La sua fama
però, grazie ai posteri, gli sopravviverà. Perché “il linguaggio della storia è quello della verità”.
Che è “nemica di quella cinica invidiosa maldicenza, che cerca di trovare la malignità nella
debolezza”.
Francesca Romanelli
num, senza profili e nomi regali. “La pulizia e
l’ordine cominciarono a comparire nella
città”, afferma. Verri parla intanto della dinastia Torriani con tutti i suoi possedimenti e
fissa l’origine della casata Visconti nell’anno
1261.
Di questi, lo stemma con la vipera in atto di
inghiottire un saraceno, detta poi più spesso
biscione. All’origine di questa immagine,
racconta una nota al testo, forse un’effigie
longobarda sovrappostasi nelle forme al
serpente di bronzo custodito nella basilica di
Sant’Ambrogio.
Di questa dinastia, più tardi, Azzone Visconti
si distinse per l’amore verso pittura e scultura, tanto che “allora appena spuntava l’aurora delle belle arti”. Fra le sue realizzazioni, la
torre della chiesa di San Gottardo, poco
dietro il Duomo. “Anche un altro motivo rende
quella torre degna di osservazione; ed è che
ivi Azzone fece collocare un orologio che
batteva le ore, macchina allora affatto nuova
e sorprendente, dalla quale prese nome la
via delle ore, come anche in oggi viene chiamata”. Una macchina inventata “da un
monaco benedettino inglese” e “posta a uso
pubblico in Londra l’anno 1325”. Probabilmente, dice Verri, “ancora non ve n’era alcuna nell’Italia”.
Vicino a piazza Mercanti, in quell’epoca,
“alloggiava il podestà”. Poco distante, alle
scuole palatine, il giudice si affacciava per
pronunciare le sentenze di morte che venivano eseguite fuori città, passando oltre
Porta Vigentina. Azzone, in quegli anni, riuscì
a portare a Milano perfino un letterato del
talento di Francesco Petrarca: “egli alloggiava dicontro a Sant’Ambrogio (...) Si dice che
Giovanni Boccaccio, per amore del suo
Petrarca, vivesse qualche tempo con lui in
Milano”. Di questa città, l’illustre poeta fiorentino celebrò soprattutto la “salubrità dell’aria”.
Non c’erano, al tempo, le moderne coltivazioni di riso. “Quest’irrigazione adunque
serviva ai soli prati, e forse allora il clima di
Milano era più salubre di quello che ora non
lo è, da che si è ogni anno sempre più dilatata l’irrigazione, e introdotta singolarmente
la coltura de’ risi”.
Ecco il Duomo, il più grande
e ardito del mondo
Ma poi Petrarca partì, a causa della pestilenza. A metà trecento, poi, una drammatica
carestia. Sotto la dominazione Visconti
nasce il ducato di Milano. Con il progetto del
Duomo a firma di Gian Galeazzo. “Allora non
v’era in Roma la superba chiesa di San
Pietro, né in Londra quella di San Paolo; e il
tempio che disegnò Gian Galeazzo, ed
innalzò in Milano, per que’ tempi era il più
grande, il più ardito e il più magnifico del
mondo, senza eccettuare Santa Sofia di
Costantinopoli (...) Il duca volle fare questo
tempio abbandonando la simetria degli ordini eleganti di architettura, e seguendo il
gusto di fabbricare della Germania”, lo stile
gotico.
Una curiosità recita che la costruzione del
Duomo venne cominciata dall’abside, praticamente dal retro, come era consuetudine
allora. Dopo la morte dell’ultimo Visconti si
instaura la repubblica, rappresentata da
una bandiera crociata su cui campeggia un
cerchio più scuro con la figura del patrono
cittadino. È proprio qui che Francesco Sforza si mette al servizio di Milano, viene nominato comandante delle armi milanesi e
“capitano generale della repubblica”. È lui
che assedia la città e vi entra il 26 febbraio
1450. È lui “propose quindi alla deliberazione della città medesima il determinare, se
dovesse per tutela di lei riedificarsi il castello. (...)
L’Ospedal Maggiore
“casa” di chi soffre
Si fecero adunanze del popolo in ciascuna
parrocchia per deliberare su tale inchiesta”.
Di questi anni la costruzione di quella che
oggi é l’università Statale: “Intraprese e
condusse a fine la fabbrica dell’Ospedal
Maggiore, aperto indistintamente a sollievo
dell’egra umanità, senza riguardo a patria né
religione. Il turco, l’ebreo, il cattolico, l’acattolico, purché siano ammalati e poveri, ivi
trovano ricetto e assistenza”. A Milano, Francesco Sforza lasciò “un canale navigabile, un
grandioso e ricco ospedale, due magnifiche
fabbriche, il casello e la corte ducale, e le vie
della città riattate”.
Verri passa poi ad analizzare le gesta di
Lodovico il Moro, che “fabbricò il vastissimo
claustro del Lazzaretto secondo l’uso di que’
tempi” ed “eresse la facciata del palazzo arcivescovile”. In questo periodo, la presenza a
Milano di Bramante e Leonardo Da Vinci.
Verri narra poi delle alterne vicende del Moro
e una nota al testo racconta della costruzione della torre del Castello, avvenuta nel 1904
ad opera di Achille Beltrame su progetto
originale del Filarete.
Il resto, è storia degli intrighi e dei repentini
cambi ai vertici dell’amministrazione meneghina. Un racconto che si ferma al dicembre
1524, con l’assedio di Pavia. E si fermano,
nella seconda parte del testo, anche le notazioni di vita quotidiana con cui Verri aveva
punteggiato all’inizio il suo volume. Più la
storia si avvicina al suo tempo, più Verri
affronta il dettaglio politico e abbandona la
società.
I quartieri della città da Porta Romana a Porta Vercellina
Continua ancora oggi il filone letterario “storico-urbanistico”, potremmo dire, inaugurato da
Pietro Verri e incentrato su Milano. Prosegue con una serie preziosa quanto sconosciuta di
piccoli testi che la fortuna può concedere di scovare in piccole librerie del centro. Sono curati da Bruno Pellegrino e, pubblicati dalla casa editrice “Libreria Milanese”, sono divisi per
zone della città: da Porta Romana a Porta Vercellina, passando per tutti i quartieri della città.
Quello che sembra affascinare maggiormente l’autore è senza dubbio il primo, Porta
Romana, che a pochi passi dal Duomo accoglie la parte più luminosa della città. Questa
fetta di Milano che comprende anche Porta Vigentina e Ludovica, racconta l’autore attento
storico e osservatore delle testimonianze che il passato ha lasciato incastonate nella metropoli, trasse il suo nome dal varco che interrompeva la cerchia di mura all’altezza di piazza
Missori.
Da lì, fino alla Crocetta, l’imperatore Massimiano “distese” nel III secolo “un duplice filare di
portici” denominato via Porticata: maestoso accesso a Milano ormai capitale d’Occidente.
Ancora pochi milanesi sanno poi, ad esempio, che la via Laghetto vicina alla chiesa di Santo
Stefano (appena riaperta al pubblico) si chiama così perché nel 1388 i cittadini vollero
costruire un piccolo porto, “con tanto di banchina e magazzini”. Un laghetto artificiale detto
di Santo Stefano e rimasto intatto fino a Ottocento avanzato, quando lo si volle eliminare
perché considerato poco salubre vicino a un ospedale come il Maggiore.
Ed è proprio qui, nell’intensa serenità che si ritrova fra i chiostri di via Festa del Perdono
ORDINE
5
2004
(oggi sede dell’università Statale), che si esplora un altro tassello di milanesità. Con la “festa
del perdono” che si teneva, tutti gli anni dispari, il 15 di marzo giorno dell’Annunciazione.
Obiettivo della celebrazione la raccolta di denaro che interessava al fondatore Francesco
Sforza per completare l’ospedale, soldi che venivano raccolti con le offerte per l’assistenza
ai malati e le visite alla cappella del nosocomio in cambio di una “speciale indulgenza” introdotta da papa Pio II”.
E se San Nazaro è la più antica basilica paleocristiana della metropoli, inizialmente distrutta dal condottiero barbaro Uraia tanto disprezzato dal Verri, la bella e raccolta basilica di San
Calimero veniva frequentata nell’antichità per chiedere al santo il dono della pioggia. In
Porta Vigentina, invece, Pellegrini ricorda come fino al 1971 sorgesse la chiesa di San
Bernardo che “all’ennesimo sferragliare d’un tram, brontolando s’accasciò”. Soltanto, “all’indomani due righe di circostanza sulla cronaca del Corriere”. E nessuno che ricostruì quest’altro gioiello della città.
A poca distanza, nella chiesa di Santa Maria al Paradiso, venne conservato fino 1872 la
croce votiva che ornava il Carroccio. Quell’anno, per duemila lire, venne passata al Duomo
per essere collocata sul sepolcro del vescovo Ariberto. La festa più antica di Milano, infine?
Quel “tredesin de marz” che ricorda con un tripudio di fiori il 13 marzo del 52 d.C., quando
si tramanda che San Barnaba “avrebbe piantato la sua rozza croce a simboleggiare l’evangelizzazione della città”.
Fra.Ro.
23 (31)
L A
L I B R E R I A
Vittorio Giovanelli
Le tribù
della tivù
di Emilio Pozzi
Quanti sassolini si è tolto (per
uno, lo ammette lui stesso a
pagina 222)? Con questo libro-confessione su una vita
spesa per la tv (prima in Rai
come organizzatore di produzione e poi, dopo piccole tappe a Mondadori e a Alto
Milanese, con Berlusconi nelle sue reti, raggiungendo i
vertici della carriera dirigenziale) Vittorio Giovanelli dà
uno spaccato del sistema televisivo italiano che non si ritrova in tanti altri libri. Di questo non si può, così la penso,
dare un giudizio globale, seguendo la consueta metodologia del recensore, pur scrupoloso e pignolo. E tanto meno separare il grano dal loglio.
Non potrà diventare un testo
universitario perché manca di
sistematicità scientifica e va
visto come un reality book
ma, indubbiamente, a saperlo
leggere, si trovano tante ri-
sposte alle domande curiose
che la gente si fa sul dietro le
quinte della televisione. E
quindi è più interessante di un
ponderoso testo sociologico.
È un libro sincero che traspira
umanità. Anche nelle pagine
che apparentemente non
sembrano interessanti perché
sono infarcite di decine e decine di nomi, quelli di colleghi
con i quali ha condiviso le prime esperienze e che sono rimasti al palo, anche se sono
apparsi innumerevoli volte nei
titoli di coda, che nessuno
legge.
In tv soddisfano le ambizioni
dei più bassi livelli professionali ma che calcolati nella durata del programma servono
biecamente a diminuire il costo-minuto della produzione.
Una autentica furbata degli
amministratori. Devo, a questo punto, dire per chiarezza
che Vittorio Giovanelli, l’ho conosciuto, molti anni fa, in Rai,
proprio quando svolgeva le
mansioni di organizzatore di
Giovanni
Giovannini
Dalla selce al silicio
di Emilio Pozzi
Da vent’anni, Giovanni Giovannini, che ha saputo unire
una prestigiosa professionalità a una felicissima e originale capacità manageriale alla guida della Fieg, accompagna la veloce mutazione dei
mass media con un testo,
scritto a più mani da specialisti, aggiornato di novità in novità, ad ogni edizione: una
piccola Bibbia che unisce i
precetti di base sulla comunicazione a quello che c’è da
sapere di nuovo. Siamo ora
alla quinta edizione e il libro
tradotto in undici lingue è sta-
to aggiornato e completamente riscritto negli ultimi capitoli.
Vi hanno messo mano Enrico
Carità, Carlo Lombardi, Nicoletta Castagni, Barbara Giovannini e Carlo Sartori.
“Ad ogni nascita di un novum
ordo, niente è chiaro, tutto
appare confuso” ricorda Giovannini nella sua introduzione. “Tanto più il lettore vorrà
apprezzare questo nostro
sforzo per identificare al termine di una storia della comunicazione alcune grandi,
probabili linee di sviluppo”.
Quale sarà il futuro? Ce lo
chiediamo, dopo aver mentalmente ripassato sulla
D I
TA B L O I D
percepite e arricchiscono l’aneddotica ma non sono, mi
pare, smentibili. E le frecciatine a Bruno Vespa, troveranno
sodali. Leggere per confutare.
Quello che piacerà, in questo
lungo monologo, è la freschezza della memoria, per
mille particolari, e l’implicita
offerta al lettore di essere giudice tra i protagonisti.
Giovanelli sa però mettersi in
discussione, quando azzarda
opinioni estetiche e giudizi
morali. Su una persona sola
non ha dubbi, in questo molto
in linea con Emilio Fede:
Berlusconi gli ha aperto la
strada del successo e al
Berlusconi-pensiero, con il
quale comincia il libro, dedica
le ultime pagine.
Però come ogni self made
man che guardandosi allo
specchio si compiace per la
strada fatta - in salita, molto
spesso - il narratore non bada
a mezze misure e la sua prosa appare, per usare un termine gergale poco “sorvegliata”. Come avesse improvvisato davanti a un registratore, riducendo al minimo le correzioni di stile. E l’incaricato dell’editing fosse andato a sgranchirsi le gambe. Ma si fa ancora l’editing?
Vittorio Giovanelli,
Le tribù della Tv,
Mursia, Milano 2003,
pagine 402, euro 16,00
scorta dell’indice cinque millenni di storia: l’alba della conoscenza, la mirabile invenzione di Gutenberg fino al
giornale on line, radio e televisione, da Marconi all’era digitale e le altre più recenti
conquiste, dal computer al
cellulare, fino alle nanoteconologie. Le aggiornatissime
statistiche ci possono sbalordire ma anche indurre a
qualche riflessione.
Nella postfazione, dedicata
all’esplosione della conoscenza, si cita il parere di
Edoardo Boncinelli, biologofisico di fama mondiale. “I nostri progenitori sono stati per
un milione di anni a scheggiare le pietre, e sempre nello
stesso modo; noi abbiamo
imparato ad addomesticare i
primi animali, 14-12 mila anni
fa, a seconda delle zone, e la
scrittura non è più vecchia di
5-6 mila anni. Sotto gli occhi
ci scorre ogni giorno un’esplosione di conoscenza, e
non riesco ad immaginare
come sarà il mondo tra quat-
tro o cinque generazioni. Non
lo vedremo, io che parlo e voi
che leggete. Per me ho una
grande nostalgia al futuro”.
Nelle righe finali della postfazione si citano alcune cifre
che vale la pena di memorizzare: nel 2007 si prevede la
presenza di un miliardo e
150 mila computer, il doppio
di quanti ce ne fossero nel
2001, con il primo posto conquistato dall’area AsiaPacifico (367 milioni di pc)
mentre l’Europa è passata al
secondo posto (285 milioni).
Gli Stati Uniti sono al terzo
posto (251 milioni).
L’Africa è quasi assente.
“Centinaia di milioni di persone vivono e vivranno fuori dal
tempo in un’epoca che altrove è finita”.
Giovanni Giovannini
Dalla selce al silicio
(Storia della
comunicazione
e dei mass media)
Libri Scheiwiller,
Milano 2003
pagine 248, euro 19,00
Non ha torto chi afferma che
per raggiungere la condizione spirituale di apertura alla
poesia è indispensabile
un’alleanza tra autore e lettore. Il testo naturalmente è l’elemento trainante e decisivo
perché l’alleanza si realizzi.
Ma è anche vero che il processo è facilitato dall’educazione letteraria del fruitore.
Se si considera che in questo ultimo ventennio in poesia (o, meglio, nei tentativi di
poesia) c’è posto per tutto e
per il contrario di tutto, bisogna riconoscere che l’alleanza poeta/fruitore non avviene
frequentemente e, quando si
verifica, non è sempre senza
fatica. È questione di sapienza compartecipativa.
Queste premesse per entrare nella poesia di Giovanni
Bianchi che ha pubblicato la
sua ottava raccolta di versi.
Si tratta di una poesia che
non è facile e pertanto non è
coinvolgente in prima lettura.
Ma dove sta scritto che la
poesia deve essere facile? E
“facile” che cosa vuole dire?
La scrittura poetica di
Bianchi richiede ripetute letture e raggiunge pienamente
quell’alleanza, di cui si diceva, se si accetta la sua tendenza ad una forma di provocazione che è di natura etica ed estetica. Senza prepotenza Bianchi dapprima insinua, poi di fatto impone,
profondi
convincimenti.
L’autore introduce e porta
avanti le sue tematiche con
circospezione, mediante sapienti sospensioni di discorso o con interrogazioni su
problematiche esistenziali a
volte più sussurrate che
esplicitate. La poesia verte
su modi possibili dell’esistenza e riesce a determinare un
clima, contemplativo oppure
esortativo, di consonanza tra
umanità
e
natura.
Comunque è sempre lui,
l’autore, a condurre il gioco,
un gioco estremamente serio nel quale mondo esterno
certa Isabella, che lei chiama
Isabrutta, non la vuole questa nuova madre, anche perché ha già trovato altre braccia tra le quali scaldarsi: la
passione per le scarpette a
punta. Il sogno di fare la bellerina è il suo rifugio per poter tornare a vivere e crescere, nonostante la perdita subita. La poetica di questo libro, anche se ben dichiarata
solo alla fine, è che “vale
sempre la pena di coltivare
un sogno”.
La vita, in fondo, non è altro
che un sogno, no? Anche a
prezzo di sacrifici, insicurezze e opposizioni dure al
mondo degli adulti, che cercano sempre di andare contro corrente e di creare una
bambagia di sicurezza e di
normalità di aspirazioni attorno ai figli, attorno al mondo
incompreso
dell’infanzia.
Non pensando, invece, che il
bambino per diventare adulto deve compiere il suo cammino di iniziazione dentro la
vita. E nessun cammino è
uguale all’altro.
È così che Aurora Marsotto,
giornalista de Il Sole 24 Ore
e di altre testate, critico di
danza, crea Ivy. Ma questo libro è bello anche perché è
pieno di musicalità, con citazioni di “Heine Kleine Nacht
Musich” di Mozart, de “La
campanella” di Listzt, della
“Polonaise” di Chopin, de “La
Sérénade mélancolique” di
Ciaikovski. La musica classica entra in punta di piedi nell’immaginario infantile di Ivy
e vi sosta per “educarla”, rassicurarla.
La musica come il ballo è in
fondo il ritmo della vita. Il battito cardiaco del nostro andare, a volte, correre.
Come insegna bene Calvino,
le favole sono la somma dei
destini dati ad un uomo nel
corso della vita, cioé anche
delle soluzioni offerte quando si naviga dentro i problemi, il dolore.
“Da grande farò la ballerina”
insegna che al sogno di che
farò da grande non si rinuncia mai. Pena la perdita del
ritmo della vita. Anche se il
sogno non riesce, come in
effetti potrebbe essere stato
per l’autrice (ci piacerebbe
Aurora Marsotto
Da grande farò
la ballerina
di Paola Pastacaldi
Semplicità narrativa, con lo
stile del diario intimo, a tratti
dolente, ma anche frizzante,
vero, intenso. È il testo di una
ragazzina di nove anni, che
ha perso la mamma e il cui
papà si rifidanza dopo un
viaggio a Parigi. Ciò che spira da questo piccolo volume
della collana “il Battello a vapore”, la casa editrice apprezzata per le sue scoperte
24 (32)
narrative per l’infanzia, è
un’aria di musicalità così intensa da far pensare che
questo volumetto potrebbe
anche piacere agli adulti,
tanto è metafora di un modo
di essere eternamente fanciulli che, come insegnano le
medicine dello spirito, non bisognerebbe abbandonare
mai, nemmeno da vecchi.
La storia è presto detta. Ivy
che ha perso la mamma e
che si trova un padre improvvisamente innamorato di una
Giovanni Bianchi
La lingua
arrugginita
produzione. Poi non ci siamo
più incontrati. Non sono rimasto nella sua memoria, per
mia fortuna. Meglio ignorati e
dimenticati che messi, magari
ingiustamente, nel gruppo come è capitato per qualche
persona che avrebbe meritato, accanto al nome, almeno
un aggettivo (penso a Gianfranco Bettetini, per fare un
nome). Il libro sembrerebbe
prendere l’avvio dall’insistente domanda (‘Dai, racconta!’)
di qualche amico. Meglio di
una nipotina che vuol sapere
dal nonno come sono veramente i personaggi che appaiono sul video.
E allora, il bravo nonno snocciola tutto quello che sa, lasciandosi andare a confidenze e a giudizi che per anni ha
tenuto per sé. Gli amici restano amici e quelli ai quali hai
dovuto sorridere o che ti hanno fatto inghiottire bocconi
amari, beh è arrivato il momento di togliersi il peso dallo
stomaco.
I ritratti di alcuni personaggi
inquadrati nella realtà di episodi vissuti, non sono compiacenti o complici. Quello
che Giovanelli racconta di
Mike Bongiorno o di Maurizio
Costanzo, o anche di Enzo
Biagi, messi a fuoco (qualcuno anche sulla graticola) in
precise circostanze di lavoro,
confermano impressioni già
di Pierantonino Berté
e problematiche dell’io si alternano e si fondono.
Alcune righe di Bianchi. Ecco
una provocazione: “Il corpo
inconsistente dell’infanzia…/
Tutto sembri mettere in quieta naftalina…/ e anche il
niente ha un’ombra/ e una
tattica forse.// Dalla camera
alla tavola/ è il mesto pellegrinaggio.” Un’interrogazione
decisiva: “Piace a Dio davvero/ essere vinto dai suoi figli?”I tre versi che compongono “Domenica delle palme”: “Io sento l’invecchiare di
lontano/ della mia carne/ e
non so la risurrezione che festa sia” “Il vuoto” è una poesia molto utile per capire: “Il
nostro è vuoto d’ispirazione//
Dai campi sofferenti/ s’alzano gonfie e piovorne nubi di
sera/ Soffia da un’ora
Orlando/ l’olifante sotto le alberature di periferia/ alla barba fiorita di Carlo./ Magia dei
grattacieli in bilico/ delle utilitarie spente…// Quanto mi
costa intenerirmi!”. Una confessione: “Io non evado mai,
galeotto della vita.” Ancora
nella stessa atmosfera “…In
un paesaggio sull’attenti/guardi tutti,/ e non so se sia
breve riso/ o una smorfia di
dolore.” E qui un Bianchi di
facile alleanza: “Gli alberi/
non avendo nulla da dire/ si
lasciano nevicare. //Vorrei
sognare il risvolto/ di tutti i
punti che hanno/ una dimensione (lo so di scienza infusa)/ e le orme / che non ci
siamo accorti/ d’aver lasciato…// Eppure già Lui /il
Cacciatore/ vi cammina senza affanno/ senza ansia. // E
ci avrà.” Gli ultimi due versi
della raccolta sono rivelatori:
“…Sapessi come la ruggine/
sa essere intensa.”
Guido Oldani, a sua volta significativo poeta, in una intelligente prefazione dà conto
della poetica dell’autore, ne
accetta e condivide il modo
di fare poesia.
Giovanni Bianchi,
La lingua arrugginita,
Scriptorium editrice,
pagine 90, euro 12,00.
saperlo!) che fa oggi la giornalista e la critica di danza.
Ma riesce con una semplicità
assoluta a scrivere una favola quasi “musicale” sulla vita.
E lo fa incantando i bambini
di nove, dieci anni (anche
con delle schede dove insegna le scuole ragionate di
ballo, i passi e persino l’abbigliamento). E creando quelli
che potremmo chiamare i
luoghi dell’anima, i paesaggi
entro cui collocarsi da bambini e da adulti bambini, che
sono più importanti persino
delle scelte materiali. Le illustrazioni argute e piene di
humour sono di una delle più
conosciute illustratrici italiane
di libri per ragazzi, Desideria
Guicciardini.
Aurora Marsotto,
Da grande farò la ballerina,
Il Battello a vapore
Piemme Junior, euro 7,50
ORDINE
5
2004
L A
L I B R E R I A
Roberto Zaccaria
Televisione:
dal monopolio al monopolio
di Emilio Pozzi
Una voce autorevole scesa
in campo contro la legge
Gasparri, e non poteva essere diversamente, è stata
quella di Roberto Zaccaria.
Esperto in Diritto pubblico,
Diritto costituzionale generale e in Diritto dell’informazione (materie che insegna nelle Università di Firenze e
Perugia-Terni) e profondo
conoscitore della Rai (consigliere d’amministrazione dal
1977 al 1993 e presidente
dal 1998 al 2002).
Nell’arco degli anni ha scritto
molto sull’argomento. Tra gli
altri, oltre a quelli strettamente scientifici o ai più lontani, precedenti alla Riforma
del ‘75 vanno citati tre testi:
Rai la televisione che cambia (1984, Sei Torino) e i
contributi a raccolta di saggi
pubblicati da Laterza, curati,
il primo nel ‘92 da Jader
Jacobelli Per una nuova
riforma della Rai, il secondo
curato da Paolo Barile nel
‘95 Idee per il governo- sistema radiotelevisivo.
A prescindere dal tormentato iter che ha dominato le
cronache e i dibattiti, non
soltanto parlamentari, ma
dell’opinione pubblica per
mesi e mesi, il libro di
Zaccaria è un utile riferimento per la memoria storica
della tv in quanto ripercorre
cronologicamente le vicende
del sistema radiotelevisivo a
partire dalla riforma del
1975, con la quale, nonostante il marchio di “lottizzazione” coniato da Alberto
Ronchey, si era tentato lo
sganciamento dal Governo
del servizio pubblico, con il
passaggio al controllo del
Parlamento e l’avvio di un
decentramento ideativo e
produttivo.
Tutte le tappe successive,
giuridiche e politiche, alle
quali sono sempre stati associati i nomi di qualche personaggio (Mammì, Maccanico, Craxi, Berlusconi e, da
qualche tempo, Gasparri)
sono puntualmente ripercorse con spirito critico con riferimenti precisi alla lettera
delle norme giuridiche.
Si rievoca il Far West televisivo che, per le anomalie del
sistema richiamò l’attenzione di tutte le altre emittenti,
europee, americane e giapponesi, con la calata di “troupes” che venivano a documentarsi, si giunge ai discorsi sulla par condicio, sul conflitto d’interessi, si illustrano
gli interventi della Corte
Costituzionale, con polemica
chiarezza. Fra i problemi, e
gli errori commessi, Roberto
Zaccaria rispolvera il mancato accordo su RaiWay che
definisce “un sogno non realizzato” e che ha impedito alla Rai di avere oggi in cassa
724 miliardi di lire in più.
Riporto, per memoria: nell’aprile 2001, dopo una gara
durata un anno e mezzo,con
il controllo di ben cinque
consulenti di altissimo livello,
la Rai cede alla società texana Crown Castle, uno dei
colossi mondiali degli impianti di trasmissione e delle
“torri” il 49 per cento della
società Rai Way, appositamente costituita un anno prima, con la prospettiva di
creare alleanze. La cifra pattuita per la Rai è di ben 724
miliardi di lire, al netto delle
imposte.
Descritta la trafila delle procedure e il raggiungimento
di tutti i pareri favorevoli, arriva un alt: il governo di centro
sinistra (Amato presidente)
arrivato al termine del suo
mandato non se la sente di
pronunciarsi e rinvia tutto al
nuovo Governo. Non c’erano
problemi sia da quello giuridico che da quello operativo.
La nuova società era già
operativa e il suo vertice tecnico aveva già disegnato un
primo business plan molto
positivo. I 724 miliardi di lire
erano già stati versati preso
la Chase Manhattan Bank…
Il nuovo Governo si presenta
subito con un atteggiamento
molto polemico verso il vertice della televisione pubblica.
Giorgio D’Ilario
Dizionario
legnanese
di Vito Soavi
Nell’immediato dopoguerra,
Piazza del Duomo aveva ripreso il suo ruolo di ritrovo
per i milanesi che volevano
fare quattro passi in Galleria,
dopo l’aperitivo al Camparino
o allo Zucca, o che si raccoglievano sotto il monumento
a Vittorio Emanuele II per
commentare i fatti della politica, ancora inebriati dalla riconquistata libertà.
ORDINE
5
2004
Tra la folla si aggirava un certo Pollini, singolare e ieratico
personaggio, che apostrofava i presenti lanciando provocazioni contro il mondo della
politica; diceva: “i deputati, lo
dice la parola stessa, sono i
figli delle putte... il presidente,
prende il dente per mangiare...”.
Raggiunto un certo gruppo di
ascolto iniziava una sconclusionata ma divertente arringa
traendo ispirazione dall’etimologia, intesa come scien-
D I
TA B L O I D
Domenico De Maio
Percorrenze
Roberto Zaccaria,
Televisione.
Dal monopolio
al monopolio,
Baldini, Castoldi e Dalai,
Milano 2003,
pagine 204, euro 11,80
Più che un libro è una boccata
d’aria pura, scritto com’è in
uno stile estremamente scorrevole, quasi giornalistico, che
tuttavia conserva una certa
eleganza letteraria e spesso
indulge al vezzo della citazione di qualche adagio latino o al
preziosismo di qualche vocabolo ormai desueto.
Domenico De Maio, medico
psichiatra, racconta le sue
“percorrenze”, il suo viaggio di
uomo e di medico. Nato, nel
1929, a Polistena, un grosso
centro nella piana di Gioia
Tauro, in provincia di Reggio
Calabria (ma per restituirgli un
preziosismo verrebbe voglia di
scrivere Reggio di Calabria,
quasi contrapposto a Reggio
nell’Emilia). Donna Nata, una
signorotta del paese, a quello
che abbiamo capito, prevedeva per lui un avvenire di “bravu
mastriceddu”, di bravo operaio. Ma l’intelligenza del ragazzo, i risultati scolastici e, soprattutto, i sacrifici del padre
sfatarono la profezia. Dopo le
elementari e le medie, troviamo il De Maio al ginnasio-liceo
di Palmi e, nel 1946, finalmente, matricola all’università di
Messina, facoltà di medicina.
Disagi economici consueti per
una famiglia che ha un figlio all’università, soprattutto negli
anni dell’immediato dopoguerra in cui tutta una nazione aveva problemi pecuniari, ai quali i
De Maio cercavano di porre un
minimo di riparo con il contrabbando del sale tra la Sicilia
(dove il sale era fuori monopolio) e la Calabria. Poi una gita a
Milano (1947), l’innamoramento per questa città, la convinzione che l’ambiente milanese gli avrebbe aperto orizzonti diversi, il desiderio di trasferirvisi e di proseguire gli studi nel capoluogo lombardo.
Ancora la lungimiranza del padre, che assecondò il figlio, il
trasferimento a Milano, l’ingresso in un appartamento di
Via Montegani giusto l’antivigilia di Natale del ‘48.
De Maio rievoca con passione
(forse con un pizzico di nostalgia) i primi tempi milanesi:Città
degli Studi, la facoltà di medicina, così come oggi, sparsa un
po’ per la città (tra Via della
Passione, ex Collegio delle
Fanciulle, e via Mangiagalli), il
provvidenziale ricorso al commercio dei libri usati, (un’attività in decollo in quegli anni, intrapresa da Aldo Cortina, che
poi divenne un vero e proprio
imprenditore del ramo), le passeggiate serali in Galleria, il
cappotto e i vestiti fatti con le
stoffe dono dell’UNRRA
(United Nations Relief and
Rehabilitation Administration).
La laurea e l’internato in ospedale, al Fatebenefratelli, i difficili rapporti con i “baroni”, un
posto sfumato, assegnato ad
un “paracadutato” quando stava per essere suo (a chi non è
accaduto?), l’uscita dal
“Fatebene” sbattendo la porta
nel 1956 e lo sbarco al manicomio di Mombello, visto il suo
crescente interesse per la psichiatria. Comincia allora la sua
carriera come “Dutur di matt”,
come dicono a Milano, in quell’ospedale psichiatrico nella ex
Villa Pusterla-Crivelli di
Mombello dove, nel 1797, subito dopo la pace di
Campoformio, vi si era trasferito Napoleone che la trasformò
in una sorta di Trianon italiano.
A questo punto, il libro è un po’
da addetti ai lavori. È un po’ il
passaggio di Domenico De
Maio da studente “terun” a professor Domenico De Maio,
specializzato in psichiatria.
Ricerche, pratiche mediche
(fra cui l’elettroshock), pratiche
farmacologiche, congressi
medici, pubblicazioni. In sintesi
il passaggio dalla psichiatria
umanistico-filosofica a quella
scientifica.
Ma il diario di De Maio ripercorre anche le tappe della sua
evasione dalla routine giornaliera. Relazioni femminili, soprattutto, la sua passione per
la campagna, la viticoltura e la
vinificazione a Moasca, nel
Monferrato. Pagine di taglio
bucolico cosparse di riflessioni
scientifico-filosofiche, soprattutto sul suicidio, sul mistero di
za aleatoria della nostra lingua. Mi è tornato in mente
questo episodio leggendo
l’introduzione del rinnovato
Dizionario Legnanese di
Giorgio D’Ilario, che è stata
redatta dall’illustre prof. Augusto Marinoni che dalla ricerca delle origini e dei significati delle parole è sempre
riuscito a ricostruire delle certezze assolute.
Marinoni usa questa sua
straordinaria intuizione per
dimostrare che ogni dialetto
lombardo è giusto proprio lì
dove lo si parla; le differenze
di pronuncia o di grafia fra
due glosse risente dell’influenza culturale delle popolazioni che vi hanno transitato
e soggiornato nei secoli passati.
Di più, rivalutando il bistrattato dialetto locale, mette in risalto la ricchezza del suo vo-
cabolario. In bustocco, ad
esempio, la nebbia si può
chiamare nèbia, caligu, brògia, scighea, luèsa, e possiamo trovare ben diciotto vocaboli per tradurre la parola “feci”...
I nuovi insediamenti multietnici che hanno contribuito alla
formazione delle odierne
grandi aree metropolitane e
lo straordinario sviluppo dei
mezzi di informazione e comunicazione, hanno sottoposto il nostro stile di vita ad un
ritmo di frenesia che è andato
a scapito del riconoscimento
del ruolo che hanno avuto gli
eventi del passato, in termini
di contributo al progresso ed
al cammino culturale.
Ecco perché abbiamo finalmente riscoperto il valore della memoria, ed il dialetto diviene allora uno strumento
fra i più validi per farla riaffio-
rare, in quanto custode delle
nostre tradizioni, dei nostri
costumi, e quindi della nostra
storia.
Per questo le pagine del
Dizionario legnanese aprono
spazi generosi ai proverbi, ai
modi di dire, alle cantilene, a
mestieri e professioni, ai soprannomi, ai luoghi e rioni, e
quant’altro contribuisca a fissare nel tempo le belle realtà
del passato.
Parlare in dialetto è dunque
più che una moda, un obbligo
e una necessità, non solo per
apprezzare, per esempio
quanto ci propone il teatro
dialettale, del quale I
Legnanesi di Felice Musazzi
rappresentano una perla di
raro godimento, ma perché
consente, come è avvenuto
al nostro autore, insediato
dall’Abruzzo a Legnano per
sposare felicemente una au-
Il ministro Gasparri forse non
riesce a distinguere tra il piano contingente e quello prospettico, forse ci riesce e deliberatamente decide di
affossare l’accordo nella
convinzione che una televisione pubblica resa più debole economicamente sia
anche più malleabile sui
contenuti. Il ministro non incontra neppure i vertici della
Rai, mentre dialoga e scrive
ai vertici di Crown Castle,
che, nel frattempo, per la crisi economica scoppiata negli Usa dopo l’11 settembre,
mostrano una netta preferenza verso l’abbandono.
La vicenda si conclude negativamente e la Rai deve
restituire i 724 miliardi. Il resoconto di Zaccaria è molto
particolareggiato, cronistico.
Metterebbe conto di rileggere questo episodio ammonitore anche per comprendere
il perché della pregiudiziale
opposizione al ddl Gasparri.
Comunque vada (o sia andata a finire la revisione in
Parlamento) Zaccaria sostiene e lo scrive nel sottotitolo del libro “la legge
Gasparri azzera il pluralismo
ed è pericolosa per la democrazia”. Ecco quindi spiegato
il senso del titolo dato al libro
“Televisione.
Dal monopolio al monopolio”. E un progetto di riforma
alternativa, dovrà basarsi su
due leggi che riguardano il
nodo dell’informazione e potrebbe, anzi dovrebbe far
parte del programma di un
nuovo governo. “ La domanda chiave, la domanda pregiudiziale verterà sempre
sulla disponibilità a ridurre la
concentrazione nei poteri e
nello Stato”.
di Giuseppe Prunai
questa molla sconosciuta che
spinge un uomo a tuffarsi nel
nulla, citando Adorno e
Pavese, nato a pochi chilometri dalla cascina di Moasca.
Il libro si conclude con la narrazione della sua esperienza di
medico paziente nell’ospedale
romano di San Giovanni per
un intervento chirurgico resosi
necessario per “un quadro radiologico da occlusione intestinale”. Non si dice altro della
sua malattia, ma si intuisce la
sua gravità. Il racconto fa rivivere le sofferenze dopo l’intervento, le ansie, i timori dell’uomo alle prese con il male. Il
suo stile da vero scrittore trasmette la tristezza e l’angoscia
esistenziale di fronte al male,
all’ignoto, all’incertezza della
sua sorte decisa altrove già
prima della sua comparsa sulla terra.Ma la descrizione della
convalescenza e del faticoso
recupero riescono a indurre un
consolatorio sentimento di
speranza e di fede nell’uomo e
nella scienza.
Bello questo capitolo nella
semplicità della narrazione
della routine ospedaliera: la visita mattutina del primario con
il codazzo di aiuti e assistenti,
le medicazioni, le terapie, gli
accertamenti diagnostici, i rapporti con gli altri degenti, con il
personale ma soprattutto la
solitudine del malato in ospedale, assimilabile a quella dell’abitante dei quartieri dormitorio, degli “spettrali condomini”,
la solitudine – dice testualmente – “di chi vede nella morte il
pericolo della propria esistenza e di chi identifica nella morte la fine delle proprie sofferenze”. Finalmente, il sollievo della
dimissione, il ritorno a casa a
Milano, la vita che rifluisce come se la circolazione del sangue si fosse interrotta all’improvviso e all’improvviso fosse
ripresa. E poi, il ritorno a
Mosca.
Inevitabilmente, De Maio si paragona a Ulisse che navigò fra
le insidie dei due mari della
Calabria, il Tirreno e lo Jonio. A
me ha ricordato i versi finali di
un sonetto di Foscolo dedicato
all’isola dove nacque, Zacinto
(l’attuale Zante): “…bello di fama e di sventura, baciò la sua
petrosa Itaca, Ulisse”.
Domenico De Maio (con la
collaborazione di Doriana
Guazzi), Percorrenze –
Tabella autobiografica
“di un viaggio”
nella molteplicità di vicende
e significati di una vita,
Laruffa Editore, pagine 184
tentica legnanese, di comunicare con lei in vernacolo per
sentirsi veramente a casa
sua.
Il trasporto di D’Ilario verso
questa parlata, così lontana
da quella delle sue origini, gli
ha consentito di curare in modo vincente anche la seconda edizione di quest’opera;lo
testimonia l’accoglienza ed il
successo di vendita già al limite dell’esaurito.
Per recensire questo Dizionario possiamo solo dire che
si compone di 3063 vocaboli,
tutto quì.
Per apprezzarlo bisogna solo
usarlo, e tutti i legnanesi assicurano che ne vale la pena.
Giorgio D’Ilario,
Dizionario legnanese,
Edizioni Artigianservice
Legnano, novembre 2003,
pagine 309, euro 27,00.
25 (33)
L A
L I B R E R I A
D I
TA B L O I D
Camillo Albanese Roberta Cordani
A proposito
(a cura di)
degli spropositi
Milano nei palazzi privati
di Giacomo de Antonellis
“Le style est l’homme meme”, precisava a fine ‘700 il
conte George-Louis Leclerc
che aldilà di questo adagio,
ci ha lasciato - firmando con
il titolo di Buffon - la più
grandiosa opera in età moderna sulla Storia naturale.
Lo stile distingue l’uomo,
dunque, a cominciare dalla
scrittura. E il mondo della
stampa dovrebbe tenere
conto di tale monito. Non
sempre accade, come amabilmente rileva l’amico e
collega Camillo Albanese
con il recente “A proposito
degli spropositi” (Edizioni
Scientifiche Italiane, Napoli
2003, pagine 96, euro 8) un
volumetto che dovrebbe trovarsi accanto alla tastiera di
ogni computer onde evitare
dubbi lessicali e strafalcioni
grammaticali a tanti giornalisti.
La lingua italiana, più o meno come le altre, presenta
trabocchetti ad ogni riga.
“Nessuno nasce imparato”
sembra suggerire l’autore
ricorrendo ad un altro suo
fortunato titolo di qualche
anno fa, ma basta avere un
po’ di accortezza per evitare
figuracce. Per quanto mi riguarda ho deciso di farlo inserendo questo opuscolo
tra il Devoto-Oli e il
Dizionario dei sinonimi e dei
contrari. Mi servirà almeno
come memorandum sull’uso corretto (per esempio, e
non “ad esempio”, di accenti, acronimi, abbreviazioni,
apostrofi e così via) oltre in
chiave di fustigatore sia per
sciatterie idiomatiche (tipo
“attimino, nella misura in
cui, vero e proprio”) sia per
tautologie assurde (breve
sintesi, ironia sarcastica,
pretesto artificioso, attuazione pratica” e infiniti altri
modi di ribadire lo stesso
concetto con due parole
collegate).
Con semplicità e chiarezza,
Albanese ci spiega cose dimenticate che pur dovrebbero appartenere al bagaglio corrente di chi scrive,
come quelle sfuggenti e terribili “figure retoriche” di liceale memoria che sfido
chiunque a definire su due
piedi in poche battute: alliterazione,
amplificazione,
anacoluto,
anadiplosi,
anafora, anastrofe, anfibologia, antitesi, antonomasia,
brachilogia, calembour, catacresi, endiadi, epitesi, eufemismo, iperbole, litote,
metafora, metonimia, ossimoro, perifrasi, sineddoche,
zeugma. I curiosi sono invitati a rinfrescare le proprie
cognizioni con l’ausilio di
uno strumento adatto. Il lavoro svolto da Albanese
non intende porsi come un
“bignamino” e neppure come una grammatica, una
sintassi, un dizionario, un
manuale di stile: è piuttosto
un manuale da tenere a
portata di mano per gli inevitabili assalti di dubbio e
26 (34)
per quei momenti di stanchezza che normalmente riflettono la vita di chi scrive
per diletto o per dovere.
A questo… proposito, mi
piace segnalare una rivista
prodotta da italiani all’estero. Si chiama “Forum democratico” e viene stampata a
Rio de Janeiro con servizi
sia in portoghese-brasiliano
sia nel nostro idioma. Tra le
altre rubriche mia figlia
Raffaella - chiedo venia per
la paterna citazione - vi cura
una encarte especial dedicata a chi vuole approfondire la lingua di Dante.
Prendendo spunto da un
buon racconto o da un articolo rileva e, vengono messe in chiaro talune difficoltà
linguistiche o anomalie
grammaticali attraverso una
serie di simboli grafici che
indicano locuzioni regionali,
richiami storici, analogie
espressive, contesti grammaticali (l’ultimo numero, in
particolare, illustrava la funzione della particella “ci” e
alla mia età ho scoperto
che ne esistono ben sette
diversi utilizzi).
In fondo lo scrivere è un’arte: certo, si può affrontare
con la meticolosità di un autodidatta che rispetta le regole del colore e della prospettiva, con la spigliatezza
del fantasista che ignora
congiuntivi e punteggiature,
oppure con la pedanteria
del burocrate (tipico esempio le sentenze dei tribunali)
che introduce parole altisonanti e inventa locuzioni
oscure per mascherare la
vacuità del costrutto e gonfiare inutilmente il testo.
L’esatto contrario della ricetta che un purista della nostra
lingua,
Demetrio
Ferrari, dettava ai primi del
Novecento: “Ama un periodare non artificioso come i
latini, né spezzato come i
francesi moderni, ma largo,
con esposizione corretta,
ordinata , evidente, di pensieri ben concepiti e logicamente raccolti in uno stesso
periodo armonioso che permette, senza dissonanze, di
passare dalla semplicità alla grandiosità, ma rifugge
dalla costruzioni inverse e
dall’abbondanza delle figure che lo fa presto degenerare in ampolloso”.
In poche parole, scrivere
restando con i piedi per terra, come sottolinea l’autore
di questo ottimo vademecum di cui condivido tutto
l’orrore per la ripetizione dei
genitivi che - ahimè - troviamo disseminati a profusione
sulla nostra stampa, e persino nell’intestazione del
nostro “Consiglio regionale
dell’Ordine dei giornalisti di
Lombardia” (benché riconosca che non si può cambiare, essendo un’intestazione
ufficiale).
Camillo Albanese,
A proposito
degli spropositi,
Edizioni Scientifiche
Italiane,
pagine 96, euro 8,00
di Mario Pancera
Milano va guardata dal basso in alto e da un marciapiede all’altro. In questo modo
la si vede meglio e, molto
spesso, la si scopre. Parlo
soprattutto del centro della
città, interna alla prima cerchia dei Navigli, che ha strade strette e strettissime, ancora d’impronta medioevale, e ti costringono, purtroppo, a guardare avanti e non
attorno. Gli sventramenti, le
ricostruzioni, le restaurazioni, dovute a particolari concetti urbanistici, alle guerre,
a idee a volte giuste a volte
bizzarre, mostrano una città
che non è antica né moderna. Non è bella, nel senso
che si dà di norma a questo
aggettivo (Firenze, Venezia), non è grande né signorile (Londra, Parigi), tanto
meno ha la grandiosità della
metropoli (New York, Tokio)
e la sua definizione urbanistica, nonostante la dinamicità e le buone intenzioni di
sempre, è più dovuta al disordine che a norme precise e moderne. È una sfortuna, ma è così. Tuttavia presenta angoli suggestivi e
notevoli testimonianze per
l’arte e l’architettura dal
Quattrocento ai nostri giorni. Ne parla uno che l’ama e
la conosce dagli anni Trenta
del Novecento avendola vista e percorsa fin da bambino, prima e dopo la seconda guerra mondiale.
Un ponderoso ed elegante
volume sui palazzi privati
milanesi, curato da Roberta
Cordani, con l’aiuto di uno
stuolo di esperti e ottime
stampe e fotografie ci racconta di cortili, giardini e salotti che sono veri tesori. Si
vive l’aria di Stendhal e di
Napoleone, e quella di
Verdi, di Manzoni, del
Beccaria, Carlo Porta,
Gadda, Bacchelli, Montale
e Marinetti, Steinberg e perfino Albert Einstein… Si
passa nelle strade della storia o, almeno, di una gran
parte della storia del nostro
Paese. Per averne conferma occorre un po’ di pazienza e avere la faccia tosta di entrare dentro i portoni, per la verità talvolta chiusi o protetti da custodi severi, ma non inflessibili.
Spesso, infatti, costoro
comprendono la curiosità
dell’ interrogante e ne assecondano il desiderio di sapere.
Queste case si incontrano
andando dal corso Magenta
al Carrobbio o, viceversa, a
via Meravigli (con l’intrico
che sta intorno e dietro
Sant’Ambrogio) oppure tra
San Babila e Porta Venezia,
tra il Castello, Foro Buonaparte, il Cordusio, piazza
Duomo e via Larga, tanto
per dare qualche indicazione. Sono edifici che reggono i secoli.
Perfino Leonardo si era cimentato con disegni di palazzi per la città. Gli stili,
com’è ovvio, sono diversi.
Edifici costruiti dal Piermarini piuttosto che dai Coppedè, da Portaluppi piuttosto che da Giò Ponti; sono
cinquecenteschi, barocchi,
barocchetti, neoclassici, liberty o razionalisti e via dicendo; portano nomi di famiglie importanti, a volte più
cognomi l’uno dopo l’altro a
indicare i casati che, per
eredità o con acquisti, ne
sono divenuti proprietari:
dai Visconti ai Borromeo,
dai Belgioioso ai Bagatti
Valsecchi, dai Trivulzio ai
Castelbarco, ai Litta, ai
Poldi Pezzoli, ai Cicogna
Mozzoni…
Nomi potenti per nobiltà o
per denaro (o per entrambi,
naturalmente). Sono di principi, duchi, conti, marchesi
oppure mercanti, talvolta
colti mecenati, lombardi ma
anche stranieri come quello
del nobile magiaro Batthyany, che abitava tra Porta
Venezia e i Giardini. Non
parliamo naturalmente del
Castello sforzesco o della
Villa reale, oggi pubblici, ma
nati come residenze private:
anzi la seconda, che oggi ci
sembra immensa, era a suo
tempo, appunto, una villa. E
all’interno ci sono biblioteche, pinacoteche, Wunderkammer, cortili fioriti e discreti, giardini e colonnati (le
colonne, spesso, si trovano
anche sulle facciate, non solo a terra, ma ai piani superiori: vedi, ad esempio, Palazzo Serbelloni, oggi sede
del Circolo della Stampa)
cioè meraviglie per gli occhi
e per la mente, con nomi di
artisti che vanno da Giambattista Tiepolo a Fra’ Galgario, a Mosè Bianchi, da
Tibaldi ad Arnaldo Pomodoro.
Si possono, praticamente,
scegliere tutti i nomi che si
vogliono. Se per caso si vuol
vedere un’opera di Wildt,
senza entrare in un museo,
è sufficiente superare la soglia di casa Berri Meregalli,
una specie di imponente
monumento liberty in via
Cappuccini: nell’atrio c’è una
sua assai drammatica “Vittoria alata”.
Il “milanese” Stendhal ci
spiega che rendeva di più,
anche in termini monetari,
avere una bella casa che
darsi alla politica. Passeggiava volentieri per Milano,
frequentava Palazzo Marino, ammirava la casa “degli
Omenoni”, poteva guardarsi
attorno con calma, e scriveva: “Ciò che più mi piace a
Milano sono i cortili interni
degli edifici. Vi trovo un
affollarsi di colonne e per
me le colonne sono in architettura quello che il canto è
per la musica”. Lo scrittore
affermava che i milanesi
erano nati per il bello.
Erano. Sono passati duecento anni.
Roberta Cordani
(a cura di),
Milano nei palazzi privati.
Cortili giardini salotti,
Edizioni Celip,Milano,
s.i.p. pagine 430
Claudio Stroppa
La cultura urbana tra passato e futuro.
Una ricerca sociologica a Milano,
Budapest e Praga
di Margherita Santagostino
Tutte le città esprimono cultura e questa è una realtà
antica come l’esistenza
stessa delle città: si pensi
solo a Roma o Atene o
Gerusalemme, ma anche alle città inca, maya, azteche,
cinesi, assiro-babilonesi, e
così via. Lo testimoniano i
manufatti creati dall’uomo:
Parigi è Notre Dame ma anche la Sorbona e la Tour
Eiffel; Londra il Parlamento
ma anche i ponti sul Tamigi;
Granata l’Alhambra; Vienna
la Cattedrale di santo
Stefano ma anche il Prater, e
a questo punto si potrebbero
citare città a partire da
Berlino sino ad arrivare a
Palermo, da Salisburgo a
Cracovia, col timore di dimenticarne altre innumerevoli e altrettanto belle.
Claudio Stroppa è un sociologo urbano che insegna
nell’Università di Pavia, e già
nel passato si era cimentato
in libri sulla cultura urbana,
da “Città amore mio” del
1982 con la prefazione dell’allora sindaco di Milano,
Carlo Tognoli a “Le città del
sogno”, con la prefazione
dell’attuale sindaco di Pavia,
Andrea Albergati. Ha pubblicato con l’editore Franco
Angeli nell’autunno 2003 un
volume dal titolo “La cultura
urbana tra passato e futuro.
Una ricerca sociologica a
Milano, Budapest e Praga”,
in cui accosta queste tre città
mitteleuropee. Il tema di fondo che si pone nella ricerca
è la conoscenza culturale
che non tanto la gente comune, il turista ad esempio,
ma esperti del settore hanno
della realtà culturale di queste tre città. E in tale prospettiva egli ha intervistato sia
architetti professionisti che
docenti universitari, che studenti delle Facoltà di
Architettura, in un campione
a carattere motivazionale
(cioè interviste aperte eseguite
da
collaboratori
dell’Università di Pavia e
Milano, e degli Istituti di
Sociologia delle Accademie
delle Scienze ungherese e
ceca, su una traccia loro fornita). Il risultato è un po’ relativo in quanto prevale il “nazionalismo” nelle risposte,
con una maggiore conoscenza in Ungheria e nella
Repubblica ceca rispetto al
nostro Paese: gli italiani hanno una ridotta conoscenza
degli altri due Paesi.
Ma il libro analizza anche altri argomenti: la città come
spazio simbolico e il ruolo
della pianificazione sociale.
A tale proposito si sono presi, solo per quel che riguarda
l’aspetto esteriore, palazzi e
case appartenenti a tre differenti periodi: il primo definito
borghese, che va dal 1910
sino al 1920-30; il secondo,
in cui si considerano le case
ORDINE
5
2004
L A
L I B R E R I A
Francesco Anfossi
e Aldo Maria Valli
I giorni della colomba.
Viaggio nella pace possibile
Dalla fine della seconda
guerra mondiale a oggi i vari
conflitti scoppiati in diverse
parti del pianeta hanno provocato non meno di 27 milioni di morti e 35 milioni di profughi. La particolarità sulla
quale riflettere è che il 90 per
cento delle vittime è composto da civili. L’esatto contrario della prima guerra mondiale, quando solo il 5 per
cento dei 15 milioni di morti
era rappresentato da civili. Il
coinvolgimento sempre più
massiccio di civili nei conflitti
tendenzialmente planetari è
testimoniato dall’impressionante numero di rifugiati. E il
panorama “bellico” è tuttora
desolante, se è vero che in
questo momento esistono
nel mondo da 36 a 50 focolai
di guerra.
Queste e altre riflessioni,
sempre ben argomentate e
corredate da autorevoli punti
di vista, sono contenute in
un pregevole e snello volume scritto a quattro mani da
Aldo Maria Valli, vaticanista
del Tg3, e Francesco
Anfossi, giornalista e membro dell’ufficio centrale di
“Famiglia Cristiana”.
Il libro, appena sfornato dalle
edizioni San Paolo, intende
stimolare una riflessione sulle atrocità che si consumano
ogni giorno nel mondo, a tutte le latitudini, e, soprattutto,
sulla consistenza e la genuità di certo fenomeno pacifista, emerso in maniera nitida, spontanea e travolgente con le grandi manifesta-
zioni del 15 febbraio 2003.
Quel movimento è stato paragonato all’unica sola superpotenza in grado di resistere a quella americana e,
forse, un giorno, perfino di
sconfiggerla.
L’inchiesta dei due scrupolosi giornalisti scandaglia a
fondo il movimento pacifista,
soprattutto quello italiano,
uno dei più robusti del mondo, ne ricostruisce la storia,
ne ripercorre le radici millenarie, raccoglie le testimonianze dei suoi protagonisti,
soffermandosi sul magistero
di Giovanni Paolo II, sul ruolo dei cattolici e sull’azione
svolta dalla diplomazia italiana.
Quel 15 febbraio 2003 è sicuramente uno spartiacque
anche nella concezione della pace, vissuta, non come
utopia irraggiungibile, come
miraggio fuorviante, ma come stile, modo d’essere,
comportamento e consapevolezza matura nelle persone.
La pace emerge dal volume
come orizzonte in costruzione, progetto in via di costante e laboriosa gestazione rispetto al quale tutti gli esseri
umani sono chiamati a dare
un fattivo e sentito contributo.
Attraverso le parole di uno
degli
intervistati,
don
Antonio Sciortino, direttore
di Famiglia Cristiana, che
biasima la scelta della Rai di
ignorare la più grande manifestazione della storia, quella del 15 febbraio 2003, gli
autori lasciano intravedere
anche l’idea-guida del movi-
mento pacifista, fatto di operatori e promotori di pace,
motivati a gettare un seme
per un futuro di pace vera,
nonostante i pregiudizi ideologici che spesso hanno travisato il significato del movimento stesso, sminuendone
la portata, soprattutto nelle
ricostruzioni dei mass-media.
Una sfumatura del problema
la coglie certamente Andrea
Riccardi, della comunità di
Sant’Egidio, che agli autori
del volume segnala quella
che secondo lui è la questione cruciale: come far continuare il movimento pacifista
oltre gli entusiasmi del 15
febbraio 2003 e oltre il sopito
conflitto in Irak.
Ma Francesco Anfossi e
Aldo Maria Valli, nelle conclusioni del volume, danno
già una risposta a quest’obiezione: “Nei mesi successivi alla fine del conflitto iracheno ci si è chiesti da più
parti se il compito del movimento per la pace fosse finito. Se quella gigantesca candela della storia fosse destinata a spegnersi, per poi
magari riaccendersi in un
tempo futuro, ignoto all’umanità. In realtà la scintilla ha
acceso in chi ha preso parte,
nelle diverse forme, al movimento, una nuova consapevolezza difficilmente estinguibile”.
Francesco Anfossi
e Aldo Maria Valli,
I giorni della colomba.
Viaggio nella pace
possibile,
edizioni San Paolo, 2003,
pagine 184, euro 11,00
o i palazzi iniziati anche negli
anni precedenti al 1930 e sino al 1945-50, in due differenti regimi, il fascismo e il
socialismo-comunismo (per
quest’ultimo periodo si considerano anche negli anni
successivi per quanto riguarda l’Ungheria e la
Repubblica ceca), e infine il
terzo periodo, definito come
il “capitalismo” o “società tecnologica”, dove sia Milano
che le altre due città, accelerando gli ultimi tempi, hanno
assunto aspetti quasi similari. Tutto ciò è riscontrabile
nelle trentasei fotografie inserite nel volume.
A contraddistinguere il XX
secolo, sono stati inseriti
(anche costoro con fotogra-
fie e disegni) tre modelli
“classici” di cultura urbana:
Leon Battista Alberti, Andrea
Palladio e Le Corbusier, e
nel capitolo concernente
l’architettura “fascista”, si è
riscoperto un sociologo di
quel
periodo,
Sincero
Rugarli, che ha il merito di
aver fatto conoscere in Italia
i contributi di Wirth, Park e
McKenzie, i sociologi della
famosa “Scuola Ecologica”
di Chicago, come parimenti,
avendo trattenuto rapporti
con Oppenheimer e Von
Wiese, ha evidenziato i temi
affrontati dalle scuole di
Francoforte e di Colonia (il
Reugarli ha diretto, tra il
1927 e il 1940, la “Rivista di
Sociologia”). Un capitolo è
dedicato al famoso architetto
italiano Renzo Piano, definito un “mito” in Italia e nel resto del mondo. Stroppa sottolinea che non esiste più la
città “chiusa” ma non è ancora chiara la fisionomia della
città “aperta”. Già altre epoche hanno assistito alla
scomparsa di un tipo di città
e la nascita di un altro tipo
che meglio corrispondesse
ai valori espressi da una
nuova società civile e dai bi-
sogni che essa aveva, sia da
un punto di vista di obiettivi,
di indirizzi operativi e di strutture per abitare. Sul finire del
secondo millennio, come si
accennava, un’inedita trasformazione culturale ha
percorso tutte le strutture
della società civile (amministrative, politiche, religiose,
sociali, di ricerca, formative
ecc.): la città ne è lo scenario
più efficace. Ma in questa
città sono preposti dai mezzi
di comunicazione di massa
tre potenti elementi disgregatori della società civile: la
frammentazione culturale e
gestionale, la tendenza alla
separatezza e ad un’etica di
tipo individualistico, la crescita economica che punta
solo sui fattori quantitativi, un
sistema di valori negativi che
sfocia nell’isolamento e nel
nichilismo, il crollo delle istituzioni “conchiglia” (la famiglia, la parrocchia), al punto
che i giovani hanno la percezione di vivere in un deserto
di valori senza certezze, di
sentirsi cioè come esuli nella
società.
Sul tema della cultura urbana, attivando una specie di
dibattito, nella seconda parte
di Ruben Razzante
ORDINE
5
2004
D I
TA B L O I D
Antonio Lucarelli
Il Sergente Romano.
Brigantaggio politico
in Puglia dopo il 1860
di Massimiliano Ancona
“Uccidetemi da soldato! No,
muori da brigante!”: ottanta
anni fa lo storico Antonio
Lucarelli,
originario
di
Acquaviva delle Fonti (in
provincia di Bari), pubblicava
una monografia su “una delle più formidabili masnade,
quella del sergente Romano
di Gioia del Colle che capeggiava circa duecento ribelli e
la cui memoria è ancora tanto viva nelle popolazioni della Puglia”. Lo studio di
Lucarelli, valutato in modo
positivo – tra gli altri da
Benedetto Croce e da
Gaetano Salvemini, si è impostato nel tempo come uno
dei classici della letteratura
meridionalista.
“Il sergente Romano”, già ripubblicato da Laterza (1946)
e da Longanesi (1980), è
stato opportunamente ristampato dalla casa editrice
Palomar (pagine 203, euro
11) in occasione del 130°
anniversario della nascita di
Lucarelli (20 marzo 1874).
Nella prefazione al volume,
Giuseppe Giacovazzo, giornalista e direttore della collana “Classici del Meridionalismo” della giovane casa
editrice barese, nel considerare gli aspetti più rilevanti
del dibattito sul fenomeno
del brigantaggio meridionale, sostiene che la vicenda
dell’ex militare borbonico,
“sceso in armi contro i sequestratori piemontesi”, riassume emblematicamente il
grande malessere politico e
sociale nel mezzogiorno pre
del volume sono inseriti i
saggi di Alessandro Bosi,
sociologo dei processi culturali dell’Università di Parma,
di Maria Antonietta Crippa,
storica dell’architettura del
Politecnico di Milano, di Petr
Kratochvil, storico dell’arte
dell’Accademia ceca delle
scienze, di Vittoria Szirmai e
Gabriella Barath, sociologhe
dell’Accademia ungherese
delle scienze, e dell’architetto Domenico Scarcella, il cui
saggio “Idee per Milano”
compie un excursus storico
dai progetti illuministici per
l’Arena (1807), alla carta di
Milano di Brenna e Ronchi
(1850), esaminando il piano
regolatore di Berruto (18841889), sino alla costruzione
di quartieri nuovi (ad esempio il Gallaratese) e la sistemazione dell’area metropolitana.
Claudio Stroppa,
La cultura urbana
tra passato e futuro.
Una ricerca sociologica
a Milano, Budapest
e Praga,
Franco Angeli,
Milano 2003,
pagine 237
e post-unitario.
Giacovazzo indica anche alcuni aspetti antropologici e
culturali della vicenda del
sergente Romano, che non
implicano ovviamente alcuna rivalutazione o messa in
discussione della vicenda
storica che fu alla base della
costruzione dello Stato unitario: “Il sergente Romano –
scrive – combatte per la restaurazione del Borbone,
ma sogna di tornare a una
vita normale. Insomma non
è il volgare brigante. Spera
in una vita non molto diversa
da quella del padre, pastore
di greggi nei boschi della
Murgia”.
L’interpretazione
del
Brigantaggio come forma di
ribellione sociale degli strati
più poveri e disgregati del
mondo rurale è in linea con
una serie di studi non solo in
Italia. Lo storico inglese Eric
Hobswam, per esempio, nelle sue opere I ribelli e I banditi, tradotte da Einaudi nel
1959 e nel 1969, considera il
fenomeno del “ribelle”,
espressione tipica non solo
del Meridione d’Italia, ma di
altri Paesi europei, dove a
partire dal XVII secolo si innnescò un processo di ridistribuzione della proprietà della
terra, provocando in diverse
situazioni un peggioramento
delle condizioni di vita dei
contadini.
“Nelle province meridionali,
a partire dalle riforme del periodo murattiano – scrive ancora Giacovazzo – le terre
demaniali non furono distribuite ai contadini ma date in
fitto ai galantuomini. E dal
possesso all’usurpazione il
passo fu breve”.
Altro apetto peculiare della
vicenda del Mezzogiorno
d’Italia fu la violenta repressione esercitata dall’azione
militare (“i briganti andavano
uccisi tutti e subito”) che ebbe l’effetto di rendere ancor
più estraneo alle masse rurali la struttura del nuovo
Stato. Contadini e massari
venivano fucilati per il semplice sospetto di favoritismo.
“Si assassinavano i miseri
contadini solo perché portavano in campagna un pezzo
di pane più grosso di quanto
si era creduto fosse necessario al proprio bisogno di
una giornata”. Con la legge
Pica s’introdusse nell’ordinamento giudiziario l’istituto del
domicilio coatto che divenne
in seguito uno strumento di
controllo di ogni forma di dissidenza nelle mani dell’esecutivo.
“Antonio Lucarelli – si legge
nella prefazione di Giacovazzo – condivise il giudizio che Pasquale Villari aveva dato di questi eventi nelle
sue “Lettere meridionali”, secondo cui dalla miseria e
dall’oppressione nacquero
le forme della disgregazione
sociale nel Mezzogiorno: la
camorra a Napoli, la mafia in
Sicilia, il brigantaggio nelle
altre province meridionali.”
Antonio Lucarelli,
Il Sergente Romano.
Brigantaggio politico
in Puglia dopo il 1860,
Edizioni Palomar,
pagina 203, euro 11,00
L’ECO
DELLA STAMPA
ECO STAMPA MEDIA
MONITOR S.R.L.
Via Compagnoni 28, 20129 Milano
Tel. 02 74 81 131
Fax. 02 76 11 03 46
27 (35)
Scarica

Maggio 2004 - Ordine dei Giornalisti