EPISTEME Physis e Sophia nel III millennio An International Journal of Science, History and Philosophy N. 4 21 Settembre 2001 / 21st September 2001 2 Direttore Responsabile: Euro Roscini Supplemento semestrale ad: Arte in Foglio Pubblicazione registrata presso il Tribunale di Perugia, N. 36/1991 Morlacchi Editore, Piazza Morlacchi 7/9, 06123 Perugia - Italy [email protected] , http://www.morlacchilibri.com ISSN 1593-3482 http://www.robotics.it/episteme http://www.dipmat.unipg.it/~bartocci (per ottenere ~ tenere premuto Alt mentre si compone il numero 126 con i simboli numerici nella parte destra della tastiera) 3 EPISTEME Physis e Sophia nel III millennio/Physis and Sophia in the III millennium An International Journal of Science, History and Philosophy N. 4 - 21 Settembre 2001 / 21st September 2001 Informazioni editoriali/Editorial Policy Presentazione del volume Pubblicazioni ricevute/Received books and journals Errata Corrige - Annunci/Announcements 1 - Lino Conti: La topologia del tempo nell'Antichità - Confronto preliminare fra mondo greco e mondo ebraico 2 - Bruno d'Ausser Berrau: Sum ergo cogito - Intorno al rivolgimento dell'emblematica divisa del pensiero cartesiano ed alla conseguente messa in discussione del sistema " " " : De rationis occasu - Dal razionalismo all'assurdo, passando per l'arbitrario 3 - Euro Roscini: Avvicinandomi a Wittgenstein… 4 - Theo Theocharis: WHAT IS "EPISTEME"? The meaning of "science" and "truth" 5 - Giorgio Taboga: A case of damnatio personae - Andrea Luchesi, and his role in the birth of Haydn, Mozart and Beethoven myths 6 - Franco Baldini: ET IN ARCADIA EGO - Semantiche mito-ermetiche in alcuni quadri di Guercino e Poussin (Parte I) 7 - Emilio Spedicato: Immanuel Velikovsky and his Worlds in Collision, 50 years after… 8 - Alberto Lombardo: Da Rivolta contro il mondo moderno a Gli uomini e le rovine - Julius Evola 1934-1951 9 - Umberto Bartocci, Laila Rossi: La scienza come strumento ideologico Il caso Galilei e la falsificazione della cosmologia tolemaica 4 10 - Rocco Vittorio Macrì: La fisica unifenomenica cartesiana e il punto debole dell'Intelligenza Artificiale forte - " " " : The magnetic field as a particular current of ether - A proposal of experiments on its possible interaction with light 11 - Theo Theocharis: Space Dependence of Light Velocity May Explain Anomalous Effect Seen in Distant Spacecraft 12 - Umberto Lucia: Equivalenza tra definizione classica e statistica dell'entropia " " : Massima o minima entropia? Approccio globale e locale nella termodinamica dei processi irreversibili: Landau e Prigogine Reprints Roberto A. Monti: Low Energy Nuclear Reactions - The Revival of Alchemy (allegato, in 7 parti: proposta di una nuova tavola periodica degli elementi) Commenti ricevuti/Received comments Mario Agrifoglio: Dalla teoria tricromatica di Maxwell a una nuova concezione cromatica bipolare della luce Michael Falotico: Mileva Einstein-Maric Emilio Spedicato: Geography of Gilgamesh Travels, Part II - The Route to Mount Mashu Recensioni John A. Bossy: Giordano Bruno e il mistero dell'ambasciata David Donnini: Cristo, una vicenda storica da riscoprire (con contributi di Bruno d'Ausser Berrau e Sabato Scala; un breve saggio di Claudio Smargiassi: "La doppia anima del cristianesimo"; due articoli di David Donnini: "Dio non avrebbe mai scritto un libro come la Bibbia" / "Come nacque la Bibbia - Indagine critica sulle radici storiche del Vecchio Testamento") Carlo Giacchè: Sindone - Una trama templare Presentazione del prossimo numero 5 INFORMAZIONI EDITORIALI Episteme è soprattutto una rivista "non convenzionale" on-line, reperibile presso i seguenti siti: http://www.robotics.it/episteme , http://www.dipmat.unipg.it/~bartocci . Articoli, commenti e altro materiale sono benvenuti, e possono essere presentati per la pubblicazione da parte di ciascuna persona interessata. La spedizione può essere effettuata vuoi a mezzo Internet, a: [email protected] (inviare eventuali attachments soltanto in formato txt, o doc - si prega di non usare tex! - ed eventuali figure, tabelle, etc. in formato jpg), vuoi facendo pervenire un dischetto tramite posta ordinaria, all'indirizzo: "Episteme", Dipartimento di Matematica, Università, 06100 Perugia - Italy. Respingendo ogni forma di "monopolio linguistico", Episteme intende mantenersi plurilingue, pertanto i lavori potranno essere redatti in qualsiasi (quasi!) lingua, vale a dire Francese, Inglese, Italiano, Spagnolo, Tedesco (etc.?!). L'accettazione degli articoli è decisa dagli organizzatori - in base alla conformità con la linea della rivista - che ne informeranno in modo tempestivo i proponenti, riservandosi eventualmente di acquisire pareri di esperti (le opinioni ricevute saranno eventualmente rese note agli interessati), e/o di chiedere agli autori chiarimenti o modifiche. Il materiale ricevuto anche se non utilizzato non si restituisce. - La diffusione via Internet di parti della rivista avviene in qualche caso prima della data prevista per la pubblicazione ordinaria, dopo la quale però ogni correzione ai lavori messi a disposizione in rete viene segnalata in un apposito Errata Corrige. - Si fa notare che la versione on-line di Episteme è talora necessariamente "semplificata" rispetto a quella a stampa (per esempio in presenza di caratteri o simboli speciali). Il file originale in formato doc dei vari articoli (o dell'intero fascicolo) verrà inviato gratuitamente dalla redazione (come attachment) a chiunque ne farà richiesta. ----"Episteme" è più in generale un "progetto culturale", che non ha fini di lucro, e non è finanziato da alcun ente, pubblico o privato. Gli organizzatori se ne ripartiscono le spese secondo le personali momentanee disponibilità. Sovvenzioni per tenere in vita l'iniziativa sono ovviamente ben gradite, e possono essere inviate via vaglia postale o assegno (intestati ad Episteme) al sopra citato indirizzo. Oltre alla diffusione on-line, si produce anche un certo numero di copie cartacee della rivista, tra l'altro per distribuirle, a cura e spese degli organizzatori, presso Biblioteche, Istituzioni, etc.. Tali copie potranno essere ottenute da singoli rivolgendone specifica 6 richiesta agli indirizzi sopra menzionati, al prezzo di L. 20.000 o 25.000 cadauna (a seconda del numero delle pagine: per esempio, poiché i volumi successivi al primo constano di oltre 300 pagine, il prezzo di questi sarà di L. 25.000, mentre quello del N. 1, di cui restano ancora disponibili pochi fascicoli, rimane fissato in L. 20.000). Detta somma va intesa esclusivamente quale rimborso (assai parziale!) per le spese di stampa, rilegatura e spedizione postale, e come contributo generale per la gestione e il mantenimento in vita del progetto. Si ringraziano pertanto in anticipo coloro che vorranno richiedere la versione a stampa della rivista. EDITORIAL POLICY Episteme is mostly an on-line publication, but it does produce even printed copies. In order to obtain some of these (about 15$ each), a request should be sent to the editor, at one of the addresses indicated below. Episteme is interested in publishing papers which illustrate unconventional points of view - that is to say, which do not usually appear in other academic journals - in Science, History and Philosophy. Since Episteme is thought of as a multi-linguistic journal, papers are accepted and possibly published in Deutsch, French, English, Italian, Spanish (etc.?!). Episteme will communicate to contributors as soon as possible whether submitted papers are in agreement with the journal's criteria, or not. Files of the papers, in doc or txt format (please avoid tex!), together with possible illustrations in jpg format, should be sent either by attachment, to: [email protected] or by diskette, through ordinary mail, to: "Episteme", Dipartimento di Matematica, Università, 06100 Perugia - Italy. Episteme can be found at the following web sites: http://www.robotics.it/episteme http://www.dipmat.unipg.it/~bartocci . - Sections of this journal are available in Internet even before the publication of the printed version; afterwards, any modification of the material made available in the web is registered in a suitable Errata Corrige. - The Internet version of Episteme can sometimes be defective, in presence for instance of special characters or symbols. The original file in doc format of the various articles (or of the journal's whole issue) will be sent free (as an attachment) from the editorial office to every people asking for it. 7 PRESENTAZIONE DEL VOLUME The same fate once befell at Babel... Siamo ovviamente lieti che un fascicolo di Episteme - speriamo ricco e interessante come i precedenti - sia nuovamente puntuale all'appuntamento con i lettori, nonostante le molteplici difficoltà, non soltanto d'ordine materiale, che hanno costellato la nostra più recente attività. In relazione a queste ultime, ci è sembrato stavolta conveniente dedicare il presente spazio, piuttosto che alla consueta "presentazione" (del resto, il volume parla benissimo da sé...), a una sorta di "manifesto" della rivista, ispirato dal timore che possa essersi generato uno spiacevole equivoco. In effetti, se è vero che la linea della rivista è alquanto critica della condizione attuale della ricerca scientifica e storiografica - nella sopravvenuta consapevolezza (illustrata brillantemente da Theo Theocharis nell'ampio saggio contenuto in questo medesimo numero) che a un certo punto del suo (breve) itinerario storico science has gone wrong - è anche vero che dalla persuasione dell'esistenza di una siffatta "degenerazione"1 non siamo mai stati indotti al rifiuto totale del metodo scientifico, della "ragione", di per sé: persuasi, al contrario, che è stato soltanto con l'irruzione della razionalità sulla scena della storia che si è aperta una via di fuga e di libertà per l'essere umano, fino allora sempre succube del sistema delle "superstizioni organizzate", e dei gruppi di presunti "iniziati" che alcune innate credulità e paure hanno perennemente eletto a fondamento di controllo e dominio sui comuni "profani" (appena compensati dalla funzione consolatoria delle religioni "strutturate"). Tale duplice convinzione era del resto all'origine stessa del "progetto Episteme", con cui ci si prefiggeva di risvegliare delle "coscienze" apparentemente anestetizzate dall'imperante conformismo, di illustrare la possibilità (e la necessità) di un ritorno a una scienza e una storia razionali2, indipendentemente dai condizionamenti del "potere" - ai nostri giorni, dall'omologazione all'ideologia globalizzatrice della demo-cultura - ma il rischio che ci è parso ingigantirsi nel corso del cammino è che il descritto proposito sia stato frainteso, e la nostra fatica apprezzata per lo più (?!) da persone convinte della generale inaffidabilità, o incompletezza, del "metodo" anzidetto3, che porterebbe a trascurare (quanto allora in "cattiva fede", e/o al servizio di inconfessabili finalità?) amplissimi, e forse essenziali, settori della "realtà": angeli e demoni, fate e folletti, dischi volanti e contatti con alieni, messaggi da decifrare celati nella pietra da fantastiche superevolute civiltà del passato, etc.. Insomma, stiamo parlando di tutte le leggende sul "paranormale" e il "soprannaturale"; della pseudofisica con le sue strabilianti affermazioni4; della fantastoria che infesta best-sellers e trasmissioni televisive, nelle quali il successo è maggiormente garantito dalla (spesso strampalata) sensazionalità delle "teorie" proposte, che non dalla loro fondatezza, dai loro possibili riscontri5; e così via, ci si è di sicuro ben compresi. Poiché deludere spiace sempre, comunque, ecco che non si può allora non manifestare il rammarico per aver disatteso talune "aspettative", che pure avrebbero potuto essere evitate tenendo conto che Episteme non ha mai nascosto di avere come proprio saldo punto di riferimento il pensiero, e il metodo, cartesiani, il miglior elogio nei confronti dei quali è proprio quello espresso da uno dei principali "avversari" di Cartesio, vale a dire Voltaire. Infatti, nel mentre questi descriveva l'opera del filosofo a cui si deve l'introduzione del dubbio metodico (e non del dubbio sistematico degli "scettici" e dei "relativisti", come fraintendono alcuni) con parole del tipo: "Non nego che tutte le opere di Descartes brulichino di errori […] la sua filosofia divenne solo un romanzo ingegnoso, e tutt'al più 8 verosimile per gli ignoranti", non poté astenersi dall'ammettere che egli: "distrusse le assurde chimere con cui da duemila anni si riempivano le idee dei giovani; insegnò agli uomini del suo tempo a ragionare e a servirsi contro di lui delle sue stesse armi. Se non ha pagato in moneta buona, è molto che abbia screditato la cattiva" (dalle cosiddette Lettere inglesi, scritte tra il 1727 e il 1733; Ed. Boringhieri, Torino, 1958). Si replicherà naturalmente che anche certi articoli finora presentati su Episteme non sfuggono ai precedenti rilievi, e che piuttosto che fare critica si dovrebbe fare auto-critica: può darsi, ma è ovvio che su determinate "scelte" si è riflettuto, e a lungo, e tutto ciò che abbiamo proposto (o rifiutato!) è stato attentamente vagliato alla luce dell'interrogativo fondamentale: "A chi o a che cosa potrebbe essere utile questa pubblicazione?". Tra le sterili angustie dell'ortodossia contemporanea, e le ciance stile "New Age", il materiale apparso (o citato) su Episteme ci è sembrato in ogni caso portare elementi a favore di quella terza posizione su cui siamo costretti, da onestà intellettuale e dovere morale, ad attestarci. Del resto, bisogna riconoscere che ci si trova qui dinnanzi a una vera e propria antinomia della "ragione pratica", tra l'esigenza di favorire un dibattito assolutamente libero (in questo volume viene per esempio dato ampio spazio perfino a una critica del dualismo cartesiano secondo il punto di vista "tradizionale"), l'espressione di tutti i tipi di dubbio (si veda la riflessione di Pietro Abelardo prescelta come "motto" per il primo numero della rivista), e quella di non dimenticare che la nostra mèta resta costante: la ricerca di frammenti di verità. E la verità, per riecheggiare Aristotele, non può non "costringere", opporsi cioè alla libertà incondizionata, rimanendo nella sua essenza al di fuori delle possibilità di manipolazione di potenze terrene, di umani "interessi": non è forse inutile rammentare le parole, dal valore eterno, pronunciate da Galileo al riguardo: " [...] non è comunque in potere di alcuna creatura farle essere vere o false, diversamente da quello che sono per natura e di fatto. Perciò sembra che la decisione più saggia sia quella di assicurarsi prima della necessaria e immutabile verità del fatto, sulla quale nessuno ha la possibilità di intervenire [...]" (dalla lettera a Cristina di Lorena già citata nella Nota N. 3). Per esprimere altrimenti il nostro pensiero, le "difficoltà" d'ordine pratico e teoretico che abbiamo dovuto fronteggiare, non saremmo persuasi di rendere un servizio a chicchessia, se Episteme non diventasse altro che un ulteriore strumento con cui si accresce la Babele culturale che ci circonda (solo parziale, peraltro, dal momento che di certi "punti fermi", componenti uno Zeitgeist che viene difeso anche con la forza, non appare assolutamente lecito dubitare), si contribuisce ad aumentare quel rumore di fondo che alla fine non può che costituire un "bianco" quasi totale, in cui risaltano appunto solamente alcune "frequenze" privilegiate (e non da un criterio di "verità"). Il nostro (per continuare a usare un plurale, che rischia di trasformarsi assai presto in un triste singolare) proposito è ben chiaro, ma la sua attuazione pratica, ahimé, assai meno. Primo, perché non sembra essere di grande aiuto in questo particolare frangente l'altrimenti pregevolissimo criterio delle intenzioni dell'autore: se numerosi sono infatti i profittatori, i mestatori di professione (coloro i quali, più che alla coscienza, rispondono ai "committenti", e alle prospettive di vantaggi immediati), gli accademici che per finalità di "carriera" si limitano a seguire passivamente la moda imposta al/dall'ambiente, molti sono pure gli "ingenui", che cadono in assoluto candore in certe "trappole" intellettuali. Secondo, perché accade che diversi contributi provenienti da persone non-integrate, ancorché criticabili talora dal punto di vista del metodo, della "logica", o del "rigore", siano a volte maggiormente interessanti, e "vicini" al vero, dei corrispondenti "professionali", per i quali sovente, purtroppo, il citato rigore non è diventato ormai niente più che un involucro vuoto. Esprime bene tale contrasto Jacopo Fo (nel suo saggio sulle piramidi di cui ci occuperemo in Episteme N. 5 - vedi la pagina finale di presentazione del prossimo numero): " […] si capisce perché gli 9 accademici temono di essere confusi [con tali persone] […] Cercano di cogliere in fallo gli accademici [detti altrove dall'autore: "parrucconi"] e poi sfruttano lo sbilanciamento mentale (dovuto alla forza delle loro scoperte) per trascinare l'ascoltatore su per un sentiero che abbandona ogni prova logica". Speriamo di riuscire ad andare avanti sulla via che ci appare in questo momento come unica percorribile, senza tentennamenti e senza commettere troppo gravi "errori", anche se non bisogna dimenticare che l'esito quasi scontato di talune imprese sembra proprio la solitudine, condizione esistenziale che rimanda ancora una volta a Cartesio. Una "terza posizione" forse "disperata" quella che così proponiamo, ma "A che serve vivere, se non c'è il coraggio di lottare?" (parole del giornalista Giuseppe Fava, ucciso dalla mafia nel 1984, utilizzate come "motto" dell'interessante e-zine: Catena di SanLibero, prodotta da Riccardo Orioles, [email protected]). 1 Tra l'altro, una "deviazione" che serve precise finalità socio-politiche, un progetto mondialista di globalizzazione, tendente a ridurre il singolo individuo a elemento di un "gregge", o - come sembrerebbe più appropriato dire, con riferimento alla leadership mondiale statunitense - di una "mandria"? Ne riparleremo nel prossimo numero, in relazione all'inquietante opera di Maurizio Blondet, Gli "Adelphi" della Dissoluzione - Strategie culturali del potere iniziatico. L'ineludibile perplessità è che la "scienza" possa essere stata utilizzata a guisa di strumento d'eversione soltanto finché è "servita", mentre raggiunti determinati scopi il "nuovo potere" ha avuto tutto l'interesse a disinnescarne la carica eternamente "rivoluzionaria", instaurando una "nuova ortodossia", e una "nuova inquisizione", stavolta di tipo politico-ideologico e non più religioso, che guidano la caccia ai "nuovi eretici"... 2 E qui v'ha luogo per una precisazione che non può essere omessa nel presente contesto: quando si parla per esempio di una fisica "irrazionale", non si vuole alludere ovviamente a contraddizioni logiche interne nelle teorie correnti, la cui ricerca è tanto cara ai numerosi "fisici" che si dilettano di coltivare obiezioni del tutto controproducenti per la stessa causa che vorrebbero servire, quanto piuttosto a un'oggettiva designazione di "sistemi" che non riconoscono il ruolo fondante delle nozioni comuni di spazio, tempo e causalità, espressioni di quella forma di razionalità "naturale", la quale, se si dovesse distinguere da altre pretese forme di razionalità, potrebbe altrimenti dirsi ordinaria. 3 Non sarà sfuggita al lettore maggiormente esperto in questioni epistemologiche la somiglianza di alcune delle nostre asserzioni ad analoghe altre di Feyerabend, seppure non condividiamo la sua conclusione fondamentale che quella scientifica sia una cultura "come tutte le altre": il guaio oggi non è tanto che la "scienza" si sia troppo sviluppata fino a diventare oppressiva, come pensano molti (in parte, come dicevamo, poggiandosi su considerazioni fondate), quanto viceversa che non si sia sviluppata a sufficienza, insieme all'etica che, almeno nelle dichiarazioni pubbliche, avrebbe dovuto accompagnarsi ad essa - ad evitare le tentazioni dell'uso improprio della conoscenza a fini di "potere", e quindi di "tirannide" (anche se, a ben vedere, già Francesco Bacone, uno dei "padri fondatori" del movimento in questione, constatava, e forse non del tutto "innocentemente", che: "Neque enim agitur solum foelicitas contemplativa, sed vere res humanae et fortunae, atque omnis operum potentia [..] Itaque intentiones geminae illae, humanae scilicet Scientiae et Potentiae, vere in idem coincidunt" - nella sezione "Distributio Operis" del Novum Organum, 1620). Feyerabend è noto in particolare per un'opera in cui contesta l'esistenza di un "metodo" scientifico, ma quando ci riferiamo qui a questo concetto vogliamo semplicemente rifarci per esempio alle seguenti parole di Galileo, che si ispirano al puro e semplice "buon senso" (e coprono "intuitivamente" sia il campo dei giudizi sintetici a posteriori - esperienze - sia quello dei giudizi analitici a priori - logica consequenziale - né escludono il possibile ruolo di giudizi sintetici a priori nell'edificazione di ogni "sistema del mondo"): "pare che quello degli effetti naturali che o la sensata esperienza ci pone dinanzi a gli occhi o le necessarie dimostrazioni ci concludono, non debba in conto alcuno esser 10 revocato in dubbio" (da una famosa lettera a Cristina di Lorena, 1615). Per ciò che concerne le valutazioni di Feyerabend riguardanti piuttosto la "sociologia della scienza" (contemporanea), riportiamo alcune righe da un mail del già citato Theocharis: "<<I can say from observation of university research policies, extraordinary emphasis is placed on following the funding streams for research projects. Pragmatically it means that to get funded, the researcher must describe the project in terms of the funding opportunity. It is a deformity of the notion of politically neutral science>> [Stephen Miles Sacks]. Having discovered in the 1970s the enormous waste (of time and resources and public funds!) in the Closed Systems of academic research, I asked myself the very same questions. In the present Closed System, the researchers collectively are accountable only to themselves, and thus in effect have a licence to burn (not their own but public) money. Worse, this Closed System best suits the mediocrities whose real expertise, as indicated by Feyerabend, lies in spin, subterfuge, theatrics, mendacity, deceit, and power-grabbing; whereas the decent and honest researchers in this Closed System who dare to point out the improprieties (whistle-blowers, dissidents) are invariable marginalised, silenced, or penalised in other worse ways". 4 Di solito tanto più stupefacenti quanto meno verificabili nei fatti. Buffo a tale proposito osservare anche come certe "linee di ricerca" siano dall'establishment scarsamente osteggiate, se non addirittura favorite, rispetto ad altre, secondo quanto osserva acutamente il fisico Caroline H. Thompson (comunicazione privata, [email protected], http://www.aber.ac.uk/~cat/): "It is clear that the various establishments tolerate and even sponsor and promote the harmless and unthreatening groups of "dissidents". This is very true! A dissident group that publishes obvious nonsense is to be encouraged as it shows up the relative sanity of the establishment. This shows in the publication of papers on my own pet subject, the Bell test experiments. If you propose some explanation depending on absurd communication, maybe even backwards in time, between your two particles, you have much more chance of publication in PRL or PRA than I have. It has got to the point at which I found myself judging a new contact unlikely to be of interest to me on the basis of the fact that he HAD managed to get a paper published in PRA!" 5 Si potrebbe aggiungere che la "buona fede" di certo tipo di attività culturali è dimostrata dal ricorso costante alla strategia della fuga di fronte a specifiche obiezioni, a sollecitazioni di chiarimento. Esemplare è il caso di una recente trasmissione di Rai 3 ( Turisti per caso), nel corso della quale sono state fatte numerose affermazioni sensazionali sulla "questione colombiana", ma i cui responsabili non hanno mai risposto a richieste scritte di precisazioni (i particolari potranno essere portati a conoscenza degli interessati che vorranno contattarci). (UB) ***** Pubblicazioni ricevute/Received books and journals: 1 - Amitabha Ghosh, Origin of Inertia - Extended Mach's Principle and Cosmological Consequences Apeiron, Montreal, 2000 C. Roy Keys Inc., 4405 rue St-Dominique, Montreal, Quebec H2W 2B2, Canada - [email protected] , http://redshift.vif.com/ The riddle of inertia solved! Absolute motion defined by relational motion parameters with respect to an infinite, quasistatic universe. Problems associated wiht Newton's laws of 11 motion and universal gravitation. Evidence for a cosmic drag depending on velocity with respect to the mean rest frame of the universe. Solutions to long-standing mysteries of celestial nechanics. 2 - Jean-Pierre Vigier and the Stochastic Interpretation of Quantum Mechanics, A Volume in Honour of the 80th Birthday of J.P. Vigier Papers selected and edited by Stanley Jeffers, Bo Lehnert, Nils Abramson, Lev Chebotarev Apeiron, Montreal, 2000 From the Foreword: Professor Jean-Pierre Vigier is a living link to that glorious generation of physicists that included Einstein, De Broglie, Schrödinger, Pauli and others. In fact, Einstein wanted the young Vigier to be his personal assistant. Given Vigier's political positions and the onset of the Cold War, its was not possible for him to obtain a visa to go to Princeton to work with Einstein. Physics and politics have dominated Vigier's life. His philosophical approach has been consistently materialist and accordingly he has sided with Einstein against Bohr in the great disputes over the interpretation of quantum mechanics. 3 - William Day, A New Physics - A Revision of Space, Motion and the Structure of Matter Foundation For New Directions 93 Belmont St., Cambridge, MA 02138, USA [email protected] - http://www.fnd.org The Michelson-Morley paradox of 1887 can be explained by either of two suppositions. The author dismisses the current theory that the velocity of light is constant because of "relativistic effects" and takes the alternate view that light and matter have unrelated motions. He then deductively outlines a new physics that reshapes the definition of space and gives explicit meaning to inertia and motion. Space is defined as the induction fields generated in a nonphysical mediun by the reverberations of structural motion of particles... 4 - Common trends in Condensed Matter and High Energy Physics, Proceedings of the fourth Chia Meeting, Antonio Barone and Alberto Devoto Editors, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, Napoli, 2000 Palazzo Serra di Cassano, Via Monte di Dio 14, 80132 Napoli, ITALY From the Preface: ...the aim of the meeting was to bring together experts from the Condensed Matter and High Energy Physics communities in order to encourage and facilitate the exchange of ideas in these very active areas of research, as dialogue between practitioners of the "reductionist" and the "holistic" approaches will always be of help towards a better understanding of the physical world. 5 - Marco Celentano, Etologia della Conoscenza - Per una teoria critica del comportamento umano Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, "Il pensiero e la storia" 12 Ed. La Città del Sole, Napoli, 2000 Dall'Indice: Il comportamento come problema umano - La scuola di Altenberg e il tema della genesi dei comportamenti cognitivi - Sui comportamenti cognitivi preumani Contributi ad una teoria critica del comportamento cognitivo umano - Etologia della conoscenza: prospetto delle fonti e delle problematiche. Dalla Prefazione: ...un'attenta ricostruzione e un approfondimento problematico dei risultati raggiunti in uno dei più interessanti settori della ricerca scientifica contemporanea: l'epistemologia evoluzionistica o teoria evoluzionistica della conoscenza (EE). 6 - Johann Gottlieb Fichte, Logica Trascendentale I - L'essenza dell'empiria, a cura di Alessandro Bertinetto Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, "Fichtiana", Collana diretta da Reinhard Lauth e Marco Ivaldo Ed. Angelo Guerini e Ass., Milano, 2000 Dall'Introduzione: ...Reinhard Lauth ha mostrato l'articolazione sistematica dei corsi di lezione tenuti da Fichte all'Università di Berlino nel periodo compreso tra il dicembre 1809 e il gennaio 1814. Fra le discipline teoriche che compaiono nell'ultimo sistema fichtiano una novità rispetto a quelli elaborati a Jena e a Erlangen è costituta dai due corsi di logica trascendentale del 1812. Il testo che qui presentiamo è la traduzione integrale del primo di questi corsi, pervenutoci in forma completa nell'autografo del filosofo. 7 - Giovanni Stelli e David Lanari, Modelli di insegnamento della filosofia Modello teoretico, modello storico, filosofia al computer Istituto Italiano per gli Studi Filosofici Ed. Armando, Roma, 2001 Dalla Presentazione: Il rapporto tra dimensione teoretica e dimensione storica nell'insegnamento della filosofia, di grande attualità in relazione ai progetti di estendere tale insegnamento a tutti gli indirizzi della scuola secondaria superiore, costituisce il tema della prima parte del volume. Vengono discussi i due modelli fondamentali di insegnamento della filosofia, il modello teoretico, dalla versione sistematica a quella, recente, "problematico-critica", e il modello storico, spesso confuso col metodo storicistico che ne costituisce piuttosto una degenerazione. Utilizzando concezioni tipologiche e cicliche della storia del pensiero, viene poi proposto un modello di insegnamento della filosofia in cui il rilievo conferito alla dimensione teoretica non penalizza la dimensione storica. La seconda parte del lavoro è dedicata al problema della filosofia al computer. La dimensione teoreticoargomentativa della filosofia può essere valorizzata da software didattici adeguati, in cui sia centrale l'aspetto dell'interattività cosciente… 8 - Bruno Franchi, Siamo Dio Edito in proprio, 2001 [email protected] , http://space.tin.it/io/brufran 13 Un inconsueto e interessante saggio filosofico in forma di dialogo, ispirato alle concezioni di Wilhelm Reich, la cui finalità ultima è di persuadere che: "Siamo qui per ricordare di essere Dio". 9 - Jacopo Fo e Laura Malucelli, Schiave ribelli - 500 anni di vittorie africane censurate dai libri di storia Ed. Nuovi Mondi, 2001, 06020 Scritto (Perugia), Italy [email protected] , http://www.alcatraz.it Eva era nera e anche Adamo. Erano neri i primi agricoltori, i primi costruttori di canali, i primi faraoni e i primi imperatori cinesi. Sull'Africa ci hanno raccontato solo bugie. Prima dell'arrivo degli schiavisti c'erano civiltà matriarcali comunitarie evolutissime e non si conosceva la parola prostituta. Nessuno racconta che queste popolazioni, guidate da donne straordinarie, riuscirono a resistere ai colonialisti. Nessuno racconta come le schiave nere deportate in America capeggiarono migliaia di ribelli ... crearono territori liberi dove vissero per secoli senza contatti con i bianchi... 10 - Luciano D'Abramo, Fisica & Psiche - Rilettura analogica delle leggi della fisica e delle relazioni umane Ed. Il Minotauro, Milano, 1997 [l.d'[email protected], l.d'[email protected], [email protected]; Via A. Mori, 7 - 00176 Roma] Dalla Prefazione: Non c'è separazione tra aspetti fisici e aspetti mentali. Il concetto di "unità di mente e corpo", ormai così diffuso anche nel mondo occidentale, implica che le leggi alle quali è sottoposta questa unità chiamata "uomo" siano le stesse. Le leggi della fisica si applicano allo stesso modo sia agli oggetti che ai corpi degli individui, che ne rappresentano i sistemi più complessi, comprendendo una struttura che la scienza definisce più propriamente come "psichica". Questo è, in estrema sintesi, il motivo della ricerca condotta attraverso questo libro. Purtroppo i linguaggi utilizzati nel corso del tempo per studiare le leggi della fisica e quelli creati per investigare i meandri della psiche, sono stati sempre più influenzati dalla suddivisione che ha imperato per molti secoli tra queste discipline, e quindi, almeno in apparenza, sembrano trattare argomenti e scoperte completamente differenti tra loro. La mente umana, però, pur aderendo alla separazione tra le discipline scientifiche e quelle umanistiche, è rimasta prigioniera - in alcune sue espressioni - dell'unità che, in origine, sottendeva alla natura umana. Così, riscoprendo le espressioni più comuni che hanno superato le barriere del tempo e della cultura prevalente, ho cercato di ricomporre questi frammenti nell'unità originaria, aiutato proprio dalle analogie che queste stesse espressioni evocano. Parole come "espansione", "calore", "reazione", "centro", "gradi di libertà" e tante altre, fluttuando tra la fisica e l'espressione dei sentimenti dell'essere umano, costituiscono il veicolo su cui ho tentato di unire scienza e anima. 14 ***** Tra i nuovi titoli di riviste pervenute alla Redazione di Episteme, per le quali tutte ringraziano ancora una volta sentitamente i curatori, si segnala: - VIÁTOR, Rassegna di prospettive tradizionali, Anno IV, 2000, Annuario del G.E.R., Direttore Responsabile Alberto Fava Via Cavour, 20 - 38068 Rovereto (Trento) http://www.roverete.it/ger [email protected] , [email protected] . ***** Errata corrige 1) In the paper by Ken H. Seto, "The Resurrection of the Light Conducting Medium for Modern Physics", published in Episteme N. 3, Equations (2.17) and (2.18) must be modified as follows: Pd = Pm v 2 cos 2 θ 1− c2 v cosθ = c 1 − Pd2 Pm2 (2.17) (2.18) The author apologizes for the inconvenience. 2) In virtù di una segnalazione di Antonio Socci, che si ringrazia sentitamente, si è rilevata un'improprietà nel commento di Franco Baldini sulla Primavera di Botticelli, pubblicato nel numero precedente. In effetti, il riferimento fatto all'Immacolata Concezione - che non pretendeva peraltro di essere circostanziato - poteva alimentare, così come illustrato, il diffuso equivoco secondo cui tale "dogma" concerne la nascita verginale di Gesù, e non, quale è invece il caso, quella di Maria, riconosciuta immune dal peccato originale. Una nuova versione dello scritto in parola, convenientemente modificata in ordine a questo punto, è disponibile in rete. Il Dott. Socci osserva pure che è illegittimo definire Origene un "Padre della Chiesa", trattandosi di un semplice "scrittore ecclesiastico", responsabile di numerose deviazioni teoretiche dalla dottrina ortodossa della Chiesa che sono state ufficialmente denunciate. 15 ***** [Episteme receives, and publishes] Dear Madam/Sir Should you consider it appropriate, and if there is still time, we would appreciate it if you could mention the conference described below in your publication and/or circulate the announcement among your colleagues. Kind regards Helen Terre Blanche (Conference Alerts) [email protected] Conference Announcement Activism, Ideology, and Radical Philosophy Conference 7 November 2002, Providence, RI, USA The RPA Conference Program Committee invites submissions of talks, papers, workshops, roundtables discussions, posters and other kinds of conference contributions, for its fifth biennial conference. In the spirit of collaboration, and in the recognition that radical philosophy is often done outside traditional philosophical settings, we invite submissions not only from philosophers inside and outside the academy, but also from those who engage in theoretical work in other academic disciplines-such as ethnic studies, women's studies, social sciences and literary studies-and from those engaged in theoretical work unconnected to the academy. We especially welcome contributions from those often excluded from or marginalized in philosophy, including people of color, glbt persons, persons with disabilities, poor and working class persons. The Radical Philosophy Association is approaching its 20th year. It is appropriate that we reflect on radical philosophy-the endeavor that has brought members of the RPA together for a generation. Accordingly, the theme for its sixth national conference will be radical philosophy itself, its relation to social and political activism, and its potential to contribute to one or more counter-hegemonies. Despite (and often because of) differences in the kinds of activism in which we engage, in our philosophical styles and emphases, and even in our far-reaching goals, we in the RPA seem still to have an affinity that makes collaboration fruitful. We are all concerned about oppression-generating inequalities, about the limits of reform that is oblivious to the need for structural change, and about philosophies that leave no room for reflection on their own roots. But is this affinity strong enough to be the basis for cooperating both among ourselves and with other broad social groups to create an effective movement? Or is this affinity so 16 unsuited for that kind of cooperation that we can only wish each other luck in our separate struggles? Does the conception of "radical philosophy" travel intact across borders, or does it have a distinctive meaning in the US? What sort of meaning, for example, does radical philosophy now have as a practice in Eastern Europe? Or China? Or the former Soviet Union? Or Cuba? When Marxist philosophy has been the establishment philosophy of state socialism, what has that meant for the concept of radical philosophy in that context? Does radical philosophy have to be inclusive (i.e. address all forms of social domination, such as racism, class exploitation, male dominance, heterosexism, able-ism, etc.), or can someone be a radical philosopher if they critique only one kind of social domination? Must radical philosophy support identity politics or must it insist on a solidarity politics beyond identity? As radical philosophers, we face with particular urgency the barrier between the theoretical work of philosophers and the practice of activists. How are we doing so? How might we do so? We encourage submissions that employ formats and media that challenge the standard conference presentation. For instance, we urge presenters to use formats that allow for greater interaction between participants and audience. Please consult the web page for detailed information about submissions. E-mail enquiries: [email protected] Website: http://www.uvm.edu/~radphil/rpa2002call.htm Submission deadline: 31 January 2002 Organized by: Radical Philosophy Association ----------------------------------------------------------------This conference announcement distributed by ConferenceAlerts.com ***** Dear Madam/Sir I realise that the conference below is probably too soon to be mentioned in your publication, but thought that you or your colleagues might nevertheless be interested. Kind regards Helen Terre Blanche (Conference Alerts) [email protected] 17 Conference Announcement Beyond the Brain IV: Perspectives on Meditation 23 to 26 August 2001, Ripon, Yorkshire, United Kingdom Just occasionally I get the feeling that somebody has said something important* John Cleese This August a pioneering group of world-class experts will meet at a public conference to put forward groundbreaking frameworks for a fast-growing Western interest: meditation. No longer a fringe activity, meditation is now medically recommended for heart disease patients and even business executives. Since the 1970s scientists have taken an interest in brain wave patterns associated with regular meditators, and studies reveal the extraordinary benefits of meditation. All the speakers at this conference have extensive experience of meditation in addition to their scholarly expertise. This makes it an exciting occasion where there can be a true meeting of outer and inner in a spirit of open exploration. Confirmed speakers include: James Austin, Guy Claxton, Ram-Prasad Chakravarthi, Peter Fenwick, David Fontana, Bisong Guo, Sr. Jayanti, Jon Kabat-Zinn, Z'ev ben Shimon Halevi, David Lorimer, Andrew Powell, Jonathan Shear, Alan Wallace, Elizabeth West, and Arthur Zajonc. Beyond the Brain will also be experiential, with communal meditations and contemplative walks, especially to the nearby ruins of Fountains Abbey, perhaps one of the most beautiful and peaceful places in England. There also will be plenty of time for informal conversations and an exchange of ideas over meals and drinks with other participants. * John Cleese's remark about Guy Claxton, conference speaker. Beyond the Brain is organized by the Scientific and Medical Network, Infinity Foundation Spirituality (the specialist interest group of the Royal College Of Psychiatrists) and the British Psychological Society (Transpersonal Section). BOOKINGS: TEL ++44(0)1333 340 490, E-MAIL: [email protected] PRESS, MEDIA & SPEAKER ENQUIRIES: [email protected] E-MAIL ENQUIRIES: [email protected] WEBSITE: http://www.scimednet.org ----------------------------------------------------------------This conference announcement distributed via ConferenceAlerts.com 18 La topologia del tempo nell'Antichità Confronto preliminare fra mondo greco e mondo ebraico (Lino Conti) La prima e sconvolgente intuizione dello scorrere del tempo ha sicuramente contribuito ad innescare l'evoluzione culturale (o esosomatica) dell'homo sapiens sapiens. Ma ancor più dell'esperienza dell'inarrestabile flusso temporale, evidenziato dalle incessanti trasformazioni delle cose, è stata l'invenzione ( o la scoperta) del futuro a scatenare l'evoluzione culturale. Senza dubbio, la comparsa della sistematica capacità di far riferimento ad un futuro inosservabile con l'occhio dei sensi costituì il più chiaro attestato dell'effettiva apparizione del pensiero nello scenario dell'evoluzione biologica. Fu, infatti, proprio la piena conquista della dimensione dell'avvenire a sancire quel miracoloso salto nella noosfera, che rese la mente capace di elevarsi sopra il flusso dei dati percettivi immediati, immaginandosi dei mondi possibili, dei domani, ancora non visti, che anticipavano le oscure distese temporali posteriori alla morte. Mai nessun contraccolpo dell'invenzione sull'inventore fu più decisivo di quello inferto dalla comparsa dell'avvenire e dalla conseguente inquietante aspettativa del futuro. Alla conquista della dimensione del futuro sono legati la religiosità, evidente già nel culto dei morti, e l'atteggiamento tecnico-progettuale, operativo già nello scheggiare una pietra di selce alla luce di una progettazione che ne anticipava l'uso e ne pianificava la funzione strumentale nelle circostanze future. Dalla prima consapevole intuizione dell'avvenire l'uomo non ha mai cessato di sondare l'enigma del tempo e di interrogarsi sul destino futuro. Unico vivente a possedere l'angosciante consapevolezza della propria mortalità, ha intrapreso tutte le strade pur di arginare il senso di tragica precarietà generato dall'irruzione del futuro nel campo della sua esperienza immediata. Un incessante avvicendarsi e intrecciarsi di tecniche e forme divinatorie ( profezia, astrologia, oniromanzia, epatoscopia, libanomanzia, lecanomanzia, aleuromanzia… ) (1) hanno così segnato la sua ininterrotta interrogazione sul tempo, perennemente alimentata dal bisogno di svelarne il segreto ritmo e l'ancor più enigmatica struttura. I suoi modi di scandagliare gli abissi del futuro hanno finito così con l'incidere in maniera talmente profonda nella formazione delle sue strutture mentali che ancora oggi è possibile ricavare i tratti distintivi delle antiche civiltà dall'evoluzione storica dei modi di concepire e di esplorare l'avvenire. Quando, a partire dalle ancestrali concezioni animistiche del mondo, si iniziò a spiegare i fenomeni visibili mediante il ricorso a forze ed entità invisibili, si fece strada anche l'idea di un sotterraneo legame genealogico tra passato e futuro. Emerse così la convinzione che l'avvenire fosse generato dal passato-presente e che quindi dalle situazioni passate e da quelle presenti dipendessero le caratteristiche strutturali del tempo e dell'avvenire. Questa convinzione, innescando una risalita a ritroso verso il momento iniziale, verso il remoto capostipite di ogni processo di generazione, si sedimentò nell'idea che l'intera trama del tempo fosse determinata dagli eventi iniziali e, più in generale, dalla natura del principio da cui erano scaturite tutte le cose e tutti i processi naturali. Tale idea legò indissolubilmente la questione della struttura del tempo alla soluzione del problema dell'origine e del principio di tutte le cose. Non a caso l'inscindibile nesso della topologia del tempo con la questione dell'origine è chiaramente attestato tanto dalla 19 concezione greca della temporalità quanto da quella ebraica. E' infatti proprio intorno alla cruciale tematica del principio originario di tutte le cose che la cultura greca e quella ebraica, fra il VI e V secolo a.C., determinarono due poderose rotture con le tradizionali narrazioni mitologiche delle origini, da cui sgorgarono due diverse topologie della temporalità, tuttora in permanente tensione tra loro, le quali, in definitiva, sottintendono due concezioni diverse della salvezza, nonché due differenti atteggiamenti epistemologici nei confronti della conoscibilità del mondo. In questa breve nota, prendendo come termine di riferimento la cosmologia di Anassimandro, non tenterò di ricostruire, neanche per sommi capi, la complessa storia delle concezioni del tempo nell'Antichità; mi limiterò invece ad indicare, in via del tutto preliminare, come le due diverse topologie del tempo delineate dal mondo greco e da quello ebraico discendano dalla diversità d'impostazione e di soluzione del problema dell'origine e del principio di tutte le cose. 1. L'eterno e l'origine A livello generale, il problema dell'origine, dalla cui impostazione dipende la struttura del tempo, si colloca sempre sullo sfondo di quella che Leibniz riteneva la domanda metafisica fondamentale: <<Perché esiste qualcosa piuttosto che il nulla? Il nulla, infatti, è più semplice e più facile di qualcosa>> (2). Naturalmente, questa domanda, che contiene l'implicito assunto secondo cui il nulla non ha affatto bisogno di spiegazione, è dettata dal <<grande principio di ragion sufficiente>>. Essa, di per sé, non implica che la realtà, presa nella sua globalità, abbia necessariamente un'origine, ma richiede solo <<una ragion sufficiente a spiegare perché>> c'è qualcosa di reale piuttosto che il nulla e quindi perché questo qualcosa è così e non altrimenti. Questa ragione, ovviamente, dev'essere essa stessa reale, cioè dev'essere, come minimo, reale quanto il qualcosa che è chiamata a spiegare. D'altra parte, non è infatti illogico supporre che questa ragione sia interna alla realtà, presa in tutta la sua estensione, e che quindi la realtà stessa sia dotata di un'autonoma energia immanente capace di garantire la propria esistenza e la propria perenne autoconservazione ed autorealizzazione. Dopo tutto, non va dimenticato che risulta impossibile fondare l'esistenza di qualcosa di reale a partire da qualcosa di totalmente irreale. Questa impossibilità ha spesso indotto a guardare con sospetto e con razionale diffidenza tutte le narrazioni delle origini, tanto quelle dell'antica mitologia quanto quelle dell'attuale cosmologia. Recentemente, ad esempio, l'astrofisico Fred Hoyle ha di nuovo invitato a coltivare una sana diffidenza verso tutte le tematiche dell'origine. <<Ogniqualvolta viene pronunciata la parola origine - ammonisce Hoyle evitate accuratamente di credere a quello che vi raccontano, anche se sono io a raccontarlo>> (3). In effetti, <<la parola origine>>, in tutta la gamma delle sue applicazioni a quei problematici "eventi iniziali" che sembrano confinare col nulla o con l'amorfo ( gli amorfi inizi del mondo, del tempo, della vita , del pensiero…), ha sempre sollevato accese controversie in campo filosofico e scientifico. Non a caso, verso la fine dell'Ottocento, il fisiologo Emil du Bois-Reymond (1818 - 1896) poneva tra gli enigmi inspiegabili dalla scienza proprio le questioni concernenti l'origine. In due celebri conferenze, tenute a Berlino nel 1872 e nel 1880, proclamava l'esistenza di sette enigmi del mondo destinati a sfuggire per sempre a tutti gli assalti della conoscenza scientifica. Tutti i problemi concernenti le normali interazioni fra i sistemi fisici - affermava du Bois-Reymond - sono sicuramente risolvibili in base al modello di spiegazione scientifica incarnato dalla meccanica celeste di Laplace. Pertanto, di fronte a questioni ancora irrisolte concernenti 20 l'evoluzione dei sistemi materiali si dovrà pronunciare soltanto un provvisorio "ignoramus": non siamo ancora riusciti a risolverle, ma le risolveremo sicuramente col progredire della conoscenza. Ci sono, però, sottolineava du Bois-Reymond, sette problemi ineludibili, sette enigmi del mondo, che la scienza non potrà mai risolvere e di fronte ai quali allo scienziato non resterà altro che pronunciare l'inappellabile e definitivo verdetto "ignorabimus": ignoriamo e ignoreremo per sempre. Le questioni concernenti l'origine costituiscono la maggior parte di questi sette enigmi inspiegabili dalla scienza. L'origine del moto, l'origine della vita, l'origine della sensibilità e dei processi di coscienza, l'origine del pensiero e del linguaggio, secondo du Bois-Reymond, sollevano interrogativi fondamentali a cui la scienza non sarà mai in grado di dare una risposta soddisfacente (4). Ernst Haeckel (1834 - 1919), zoologo dell'università di Jena, noto per la legge biogenetica fondamentale secondo cui l'ontogenesi ricapitola la filogenesi, si contrappose alle conclusioni scetticheggianti di Emil du Bois-Reymond , negando l'esistenza di problemi insolubili per la scienza. Nell'opera Gli enigmi del mondo (1899) Haeckel sostenne spavaldamente che per la scienza non esistono misteri, perché energia, materia, vita e coscienza non hanno un'origine, giacché sono proprietà dell'unica sostanza eterna, la cui eternità è chiaramente attestata << dalla legge chimica di conservazione della materia e dalla legge fisica della conservazione dell'energia>>. L'eternità della materia-energia, secondo Haeckel, eliminerebbe tutti gli enigmi del mondo, dal momento che il finalismo sarebbe riconducibile all'ordinamento meccanico della natura, la libertà della volontà risulterebbe un'illusione e la formazione della vita e del linguaggio si spiegherebbe con l'evoluzione (5). Non è qui il caso di entrare nel merito di questa disputa che vivacizzò il clima positivistico degli inizi del Novecento. Quello che invece va sottolineato è che la contrapposizione fra du Bois-Reymond ed Haeckel esemplifica in maniera paradigmatica la persistente antitesi tra l'idea di un'origine (del mondo e del tempo) che porrebbe la scienza di fronte a problemi insolubili e l'idea di un'eternità senza inizio (della materia-energia) che invece spazzerebbe via dall'orizzonte scientifico tutti gli enigmi insolubili. Per quale motivo, almeno in linea di principio, l'eternità della materia e del tempo sarebbe così favorevole all'illimitata estensione della spiegazione scientifica, mentre la loro eventuale origine porrebbe insormontabili difficoltà o limiti invalicabili alla razionalità scientifica? Per accostarci al cuore di questo problema è opportuno vedere, ancor prima di prendere in considerazione la possibilità o meno di risolvere razionalmente la secolare antitesi tra finitezza e infinità del tempo, qual è stata la condizione fondamentale che ha reso possibile la nascita della scienza, della razionalità scientifica. Quale delle due opposte tesi, sostenute rispettivamente da du Bois-Reymond e da Haeckel, era più vicina allo spirito che ha generato nel VI secolo a.C. la mentalità scientifica? 2. La scienza nasce dal grembo di un'eternità senza inizio <<Tra tutti i miracoli dell'universo mitico - ha scritto Harrison - il più notevole, più anomalo e più gravido di conseguenze fu il sorgere della scienza>> (6). E se si tiene presente che in molte culture antiche si assiste ad una sconcertante serie di mancati concepimenti della scienza, non si può non provare stupore di fronte a questo "miracolo greco", che ha creato e sviluppato la mentalità scientifica. Perché la scienza è nata proprio in Grecia e non altrove? Quali sono state le condizioni che hanno reso possibile la sua nascita? Soffermarsi, sia pure schematicamente, su questi interrogativi è indispensabile per comprendere la topologia del tempo, perché ciò che determinò la nascita della mentalità 21 scientifica fu proprio una particolare connotazione temporale del principio primo, posto all'origine e alla base di tutte le cose di tutte le trasformazioni fisiche. Com'è noto, la nostra scienza, cioè il nostro modello di spiegazione causale dei fenomeni naturali, nacque da una nuova e rivoluzionaria impostazione del problema dell'origine di tutte le cose. La problematica dell'origine delle cose era stata ripetutamente affrontata già molto tempo prima di Talete. Essa veniva abitualmente risolta dal pensiero mitologico enunciando che a un certo momento, all'improvviso, emergeva una divinità ordinatrice o un qualcosa di ordinato. Esiodo, l'espressione matura del pensiero mitologico, senza preoccuparsi affatto di specificare da che cosa proveniva la divinità primigenia, affermava semplicemente che all'inizio nacque Chaos, poi la Terra ed Eros e così via (7). Più in generale, le soluzioni mitologiche del problema delle origini consistevano in narrazioni di teogonie-cosmogonie che prendevano l'avvio dall'improvvisa irruzione sullo scenario del mondo di una divinità primigenia, dalla cui sovranità assoluta discendeva la garanzia della regolare successione di giorni e stagioni. Nei miti cosmogonici narrati da tali teogonie non c'è né una nascita assoluta del mondo, né l'idea di una creazione ex nihilo. Nella visione mitologica, infatti, il processo cosmogonico viene inteso esclusivamente come un passaggio all'ordine, come una diakosmèsis. Nonostante questa sua totale estraneità all'idea di creazione ex nihilo, il pensiero mitologico non si curava affatto di portare il discorso sulla fonte di provenienza della divinità primigenia e del materiale informe. In particolare, non si preoccupava di indicare l'età o le caratteristiche temporali della fonte primigenia e del sostrato caotico che ex abrupto veniva messo in ordine. In questo modo, restando temporalmente indeterminati tanto la fonte di provenienza quanto l'amorfo elemento caotico primigenio, il pensiero mitologico lasciava sempre aperta la possibilità - osservava acutamente Kurt von Fritz <<di inserire prima di ciò che è stato posto come inizio ancora un qualcosa, fosse pure un nulla o uno stato ibrido tra l'essere e il nulla>> (8). Non a caso, nelle civiltà mitologiche inserimenti di questo genere rientravano nella normalità. Di solito le popolazioni vincitrici o predominanti ridisegnavano l'ordine genealogico delle teogonie delle nazioni sconfitte, inserendo i propri dèi prima di quelli delle popolazioni vinte. L'assoluta indeterminatezza temporale dell'amorfa condizione iniziale da cui partivano le narrazioni mitologiche permetteva, insomma, un regresso all'infinito, perché rendeva possibile una sequenza infinita di regressioni (9) a qualcosa di ancor più originario rispetto a ciò che era stato posto come primo o come capostipite delle teogonie. Proprio questa possibilità di regressione all'infinito verso qualcosa di ancor più anteriore di ciò che veniva di volta in volta assunto come anello iniziale venne definitivamente bloccata dall'assioma (stabilito da Talete, Anassimandro e Anassimene) dell'eternità del principio originario da cui scaturivano tutte le cose. La prima fondamentale conseguenza dell'eternità del principio fu, infatti, proprio quella di impedire di ipotizzare che il principio primordiale fosse stato preceduto da qualcos'altro: non poteva esserci nulla, nemmeno il nulla, di anteriore ad un principio di tutto che è sempre esistito ed esiste per sempre. Poiché è insensato chiedersi da che cosa sia stato preceduto ciò che esiste da sempre e per sempre, l'eternità del principio determinava il blocco definitivo di qualsiasi possibilità di regresso all'infinito nell'inserimento mitologico di altri stadi considerati via via come ancor più originari. Non a caso tale eternità decretava la fine delle improvvise e inspiegabili generazioni spontanee narrate dai miti. Lo stesso Ferecide di Siro, mitografo vissuto intorno alla seconda metà del VI secolo a.C., avvertiva la necessità di abbandonare la categoria della generazione spontanea, tipica della mitologie e presente ancora nella cosmoteogonia di Esiodo. Iniziava, infatti, la sua storia mitica del mondo sottolineando l'eternità delle divinità primigenie: <<Sempre erano Zas, Crono e Ctonia>> (10). Da questo abbandono del 22 mito della generazione spontanea e improvvisa emergeva l'assioma, anch'esso implicato dall'idea di eternità del principio, secondo cui nulla nasce dal nulla (ex nihilo nihil fit). In breve, bloccando il regresso all'infinito, l'assioma dell'eternità del principio originario produceva una cascata logica di conseguenze che portava alla scoperta della causalità naturale e quindi al modello scientifico di indagine causale della natura. I passaggi e le strutture logico-razionali coinvolti in questa scoperta decisiva per la genesi della mentalità scientifica occidentale possono essere sinteticamente raccolti in due momenti fondamentali. Nel primo si arriva all'idea che ogni evento fisico consegue da antecedenti naturali; nel secondo si giunge alla nozione di nesso causale come connessione uniforme tra antecedente causale ed effetto conseguente basata sull'assioma dell'uniformità del corso della natura. Entrambi i momenti si fondano sempre sull'assunto dell'eternità del principio originario. a) Ogni evento consegue da un antecedente Il primo momento, quello della genesi dell'idea di derivazione di ogni evento da un antecedente causale naturale, è interamente basato sull'eternità del principio. Affermare che l'ingenerata sostanza primordiale da cui scaturiscono tutte le cose esiste da sempre e per sempre equivale a privare il nulla di qualsiasi potenza e di qualsiasi capacità generativa e operativa. Dire infatti che tutto deriva da un ente primordiale eterno significa decretare l'impossibilità di porre il nulla all'inizio dei processi di generazione degli enti: non è possibile nessuna derivazione dal nulla; nessuna cosa può nascere dal nulla e in nulla si può ammettere l'azione o l'iniziativa del nulla. Se dunque non si può partire dal nulla, né attribuirgli l'avvio dei processi, allora deve sempre preesistere qualcosa da cui procedono gli eventi. L'eternità del principio di tutte le cose costringe, infatti, ogni evento ad avere un antecedente. Di conseguenza, tutto ciò che accade deve derivare necessariamente da un antecedente preesistente, le cui radici ultime, in definitiva, affondano nell'eterno principio primordiale. Gli eventi, pertanto, non si limitano semplicemente ad accadere, come nelle improvvise e inspiegabili generazioni spontanee narrate dai miti, ma accadono solo e soltanto al darsi di opportune condizioni. Insomma, tutto ciò che accade, tutto ciò che nasce e perisce o che ha un inizio e una fine segue sempre da peculiari situazioni antecedenti; è l'effetto o la conseguenza di specifiche condizioni iniziali e nulla può quindi accadere senza una causa ( un motivo o una ragione) che determini perché accade così e non altrimenti. Ecco come dall'assioma dell'eternità del principio è nata l'idea di una concatenazione causale degli eventi. Da questo momento in poi tutto ciò che avviene in natura è prodotto da catene causali naturali e non da misteriose forze sovrannaturali. In questo modo, scaturito dal grembo di un'eternità senza inizio, il fitto reticolo tessuto dalla concatenazione causale estese il suo dominio su ogni processo, avviando così alla scoperta della natura, cioè alla consapevole distinzione fra naturale e sovrannaturale e quindi alla sistematica sostituzione dell'intervento sovrannaturale con la causalità naturale. Da questo momento in poi al capriccioso intervento degli dèi non venne assegnato più alcun ruolo esplicativo nel campo dei processi naturali: nella spiegazione dei fenomeni fisici non si doveva far più ricorso ad agenti e fattori sovrannaturali. L'estromissione dell'<<azione del dio>> dal corso della natura venne posta dal Male sacro, la celebre opera ippocratica sull'epilessia, a fondamento ontologico e metodologico della nuova logica della ricerca scientifica. Gli dei - afferma perentoriamente Ippocrate, il padre della medicina scientifica - non sono responsabili dell'insorgere dell'epilessia, perché <<se il mangiare o il somministrare queste cose genera il male [l'epilessia] o lo accresce, e il non mangiarle lo cura, allora il dio non è più la causa (aitios), né gli atti di purificazione 23 sono la cura, ma sono i cibi che giovano o nuocciono, e svanisce così l'azione del dio>> (11). b) Il nesso causale come connessione uniforme La grandiosa scoperta greca della natura, che istituì le condizioni di possibilità della scienza e dell'intelligibilità causale del cosmo, consistette proprio in questa rivoluzionaria affermazione della naturalezza di tutti i fenomeni fisici: tutti i processi naturali (morte e malattie comprese) sono prodotti da sottostanti fattori naturali. Per quanto questa concezione greca della naturalezza dei fenomeni sembri a noi la più naturale, non va mai dimenticato che non c'è nulla di più culturale dell'idea di natura e non va mai sottovalutato il fatto che i Greci - come ha osservato Lloyd - non scoprirono la natura allo stesso <<modo in cui Colombo si imbatté nell'America>> (12), ma l'avvistarono solo alla luce dell'eternità del principio originario. E fu sempre e solo sotto questa luce che arrivarono a stabilire e a giustificare (dialetticamente o controfattualisticamente) il principio dell'uniformità del corso della natura, nonché lo stretto isomorfismo tra nesso causale e nesso di implicazione logica o, più concisamente, tra cosmos e logos. L'eternità del principio non portava semplicemente ad affermare che ogni accadimento discende da un antecedente naturale, ogni effetto da una causa, ma induceva a pensare che, a parità di condizioni al contorno e concomitanti, le stesse circostanze causali antecedenti si comportassero sempre allo stesso modo in ogni dove e in ogni tempo. In effetti, un conto è dire che ogni evento consegue da un antecedente o che ogni fenomeno dipende da una causa e un altro conto è affermare che dagli stessi antecedenti causali seguono sempre gli stessi effetti conseguenti. Per passare dalla prima alla seconda affermazione bisogna necessariamente fare appello al principio dell'uniformità della natura; bisogna, cioè, intuire o postulare che gli agenti naturali si comportino sempre e ovunque allo stesso modo e che quindi il corso della natura sia uniforme, cioè strutturalmente regolato da processi di causazione così impersonali, immutabili e costanti da rendere in qualche modo deducibile, dal passato, il futuro andamento del mondo, almeno su vasta scala. L'idea di uniformità del corso della natura vuol dire, ad esempio, che a parità di condizioni concomitanti, la fiamma sprigionata dalla legna ardente, analogamente a quanto fece in passato, eserciterà anche in futuro (anche nei casi ancora inosservati) sempre la stessa azione causale di riscaldamento dei corpi circostanti, così come le stesse cause che in passato hanno determinato la morte degli uomini (a meno che non vengano disattivate o rimosse) continueranno anche in futuro a rendere gli uomini mortali. In termini più generali, tale uniformità vuol dire che, a parità di altre condizioni al contorno, le stesse circostanze causali antecedenti agiranno sempre allo stesso modo in ogni dove e in ogni tempo e che quindi antecedenti causali simili daranno sempre origine a effetti conseguenti simili. Come ha ripetutamente sottolineato la storiografia filosofica, la nuova impostazione causale inaugurata dai filosofi ionici scaturì da un rivoluzionario processo di razionalizzazione delle precedenti concezioni mitiche del mondo (13). E' d'altra parte ben noto che in origine lo stesso concetto greco di causa era strettamente legato a quello di responsabilità (divina o umana) e di colpa, e solo in seguito venne semplicemente << trasferito dall'imputazione giuridica alla causalità fisica>> (14). Ma quello che è stato meno evidenziato dalla storiografia è che i Greci, senza una qualche implicita postulazione dell'uniformità del corso della natura, non avrebbero mai potuto passare dalla nozione di causa, intesa come derivazione di ogni evento da un antecedente causale, ad una nozione di causazione naturale intesa come impersonale e immutabile fattore operativo che, a parità di 24 altre condizioni, agisce sempre allo stesso modo senza fare mai preferenze o scelte. Ed è solo grazie a questa postulazione che i greci riuscirono a compiere questo rivoluzionario passaggio, che permise di conferire al nesso causale quella costitutiva dimensione dell'universalità, che estromise definitivamente dalla natura il "capriccio mitico" (15), cioè l'arbitrario intervento di dèi che agiscono nel mondo fisico quando vogliono, come vogliono e producono ogni volta quel che vogliono. Uniformità della natura vuol dire connessione uniforme tra causa ed effetto, e a sua volta questa connessione uniforme vuol dire universalità del nesso causale . L'universalità immanente alla relazione causale consiste, infatti, nel costitutivo carattere di connessione uniforme (cioè costante o invariante) tra l'antecedente causale e l'effetto conseguente, cioè nella definizione essenziale di nesso causale in termini di connessione uniforme tra antecedente causale ed effetto conseguente. Senza l'inquadramento della primitiva nozione di causa (ogni evento consegue da un antecedente) entro la cornice del principio dell'uniformità della natura, la causalità naturale non avrebbe mai potuto pervenire a quella dimensione d'universalità, che conferisce ad ogni autentico nesso causale la capacità esplicativo-predittiva di valere anche per casi analoghi non ancora osservati. Questa inscindibile saldatura fra causalità e uniformità della natura porta a concludere che solo in presenza di una connessione uniforme tra due particolari circostanze ha senso parlare di nesso causale e ha quindi senso asserire che la circostanza A è causa della circostanza B. In questo modo la connessione uniforme tra la circostanza A e la circostanza B diventa la conditio sine qua non, cioè la condizione necessaria (ma non sufficiente) senza della quale non si può introdurre un legame causale tra A e B. Tutto ciò vuol dire che A può essere legittimamente definita causa di B se e solo se, a parità di altre condizioni, per qualunque occorrenza di A si avrà sempre ( o con qualche determinata probabilità) l'occorrenza di B. Come emerge da questa definizione, in ogni autentica asserzione causale è costitutivamente presente un elemento di universalità: ogni spiegazione causale è tale solo se si colloca al livello dell'universalità. Infatti, non ha senso dire che la situazione A è causa della situazione B se non si ammette che per tutti i casi (x) in cui si ha l'occorrenza della situazione A ( cioè Ax) si ha invariabilmente ( cioè sempre, ovunque, necessariamente o con una determinata probabilità) l'occorrenza della situazione B (cioè Bx). Ogni espressione causale del tipo "A è causa di B" sottintende, infatti, un asserto strettamente universale (di tipo legiforme), che ha la forma logica del condizionale generalizzato (x) (Ax Bx). Insomma, l'asserto universale "per tutti i casi (x), se si ha l'occorrenza della situazione A, allora si ha invariabilmente l'occorrenza della situazione B" costituisce la condizione senza della quale non ha senso dire che "A è causa di B". Come è stato ampiamente sottolineato, la dimensione dell'universalità insita in ogni nesso causale è ben evidente già nella spiegazione dei terremoti avanzata da Talete. Ponendo come causa naturale dei terremoti i violenti ondeggiamenti delle masse d'acqua dell'Oceano primordiale su cui galleggia la Terra, Talete non spiegò soltanto, come faceva il pensiero mitico, questo o quel singolo terremoto, bensì universalmente tutti i terremoti in generale: per la prima volta un'unica causa fondamentale rese conto di tutti i possibili terremoti. L'universalità, data dalla costanza del nesso causale, permise, altresì, di instaurare il fondamentale isomorfismo tra cosmos e logos, nel senso che consentì di esprimere la relazione causale in termini di implicazione logica. Gli effetti - così il razionalismo greco codificava l'isomorfismo tra cosmos e logos - seguono sempre (costantemente) dalle loro cause, così come le conclusioni seguono sempre (necessariamente) dalle premesse che le implicano. Anche se la traduzione linguistico-simbolica del nesso di derivazione causale (processo di causazione) in termini di implicazione (derivazione) logica spinse talvolta l'assimilazione del nesso causale (necessità causale) al nesso di implicazione logica 25 (necessità logica) ad una identificazione tale da generare la cosiddetta fallacia naturalistica (16), non va mai dimenticato che è pur sempre il postulato dell'uniformità della natura il vero pilastro su cui si fonda la possibilità di esprimere il nesso causale in termini di inferenza logica. Se dunque il principio dell'uniformità della natura occupa un posto così rilevante nella fondazione del valore universale del nesso causale e nella legittimazione dell'isomorfismo cosmos-logos, risulta di estremo interesse tentare di comprendere lo schema logico delle argomentazioni che spinsero i primi filosofi greci ad avanzare e a difendere questo principio, la cui validità oltrepassa la portata dei sensi e dell'esperienza di ogni uomo. c) La difesa dialettico-controfattuale del principio dell'uniformità della natura e il plesso "causalità-conservazione-ciclicità" Ovviamente il principio dell'uniformità della natura non è una tautologia , né un assioma autoesplicativo , né una verità talmente evidente da essere conoscibile a priori. Esso, una volta acquisito, trova sicuramente conforto nell'esperienza quotidiana di reiterate e costanti correlazioni analoghe a quelle rilevabili, ad esempio, fra le nubi e la pioggia ( senza nubi non si dà pioggia). Ma non va mai dimenticato che, almeno dal punto di vista storico, la ripetuta osservazione di queste costanti correlazioni non è risultata sufficiente, prima dell'avvento della filosofia ionica, a imporre il principio dell'uniformità della natura. Quest'ultimo - come cercherò di evidenziare - trova nell'eternità dell'arché il vero terreno genetico e il fulcro della sua legittimazione razionale. Ovviamente si tratterà di una legittimazione che non approderà mai ad una diretta dimostrazione apodittica dell'assoluta necessità che il corso della natura debba essere sempre uniforme, o dell'assoluta necessità che, analogamente a quanto avvenuto nel passato, il corso futuro delle cose non cambi mai le proprie basilari regole di sviluppo, ma si svolga sempre secondo le stesse leggi ( le stesse strutture causali) che hanno governato l'andamento del mondo nel passato. Dei principi primi, infatti, non si può dare strutturalmente una dimostrazione, perché altrimenti si andrebbe incontro ad un regresso all'infinito nella dimostrazione. Del principio dell'uniformità della natura, al pari di tutti gli altri principi primi, si può dare solo una legittimazione razionale consistente in una difesa della sua validità mediante prove indirette basate su argomentazioni dialettiche. La caratteristica fondamentale di queste argomentazioni è quella di far leva su condizionali controfattuali, costruiti sullo sfondo di un passato di durata illimitata (di un passato privo di un inizio assoluto) e aventi ricadute empiricamente controllabili. Cerchiamo di ricostruire la struttura di questa difesa dialettica, che in generale ha il suo centro focale nel seguente schema controfattuale: << se l'uniformità del corso della natura potesse essere realmente violata, allora, poiché l'universo è sempre esistito e ha quindi alle spalle una storia di durata illimitata, violazioni del genere dovrebbero essere avvenute già da lungo tempo e almeno alcune conseguenze di queste violazioni dovrebbero essere osservabili ancora oggi>>. Per non ingenerare equivoci, questo schema richiede una precisazione preliminare: non si possono scambiare per violazioni dell'uniformità della natura eventuali cambiamenti olistici dell'intero assetto di leggi naturali, perché nessuno potrebbe mai rendersi conto di tali istantanei cambiamenti globali dell'intero sistema di leggi naturali, così come nessuna misurazione spaziale, ad esempio, potrebbe mai rilevare un improvviso e identico aumento di tutte le grandezze spaziali, per la semplice ragione che anche i regoli di misurazione avrebbero subito gli stessi incrementi di grandezza (17). Per di più, se vi fossero repentini cambiamenti olistici di tutto il complesso delle leggi naturali, si avrebbe tutt'al più una sequenza di sistemi di uniformità della natura, una serie di 26 "nature", ma non ancora una violazione del principio di uniformità della natura. Ciascun elemento di questa serie di sistemi di uniformità della natura potrebbe, infatti, risultare al proprio interno inviolato e inviolabile. Di conseguenza, le uniche eventuali violazioni del principio di uniformità della natura che ha senso prendere in considerazione sono quelle di tipo locale o non olistico; le uniche di cui ci si potrebbe rendere conto in qualche modo. Le argomentazioni dialettiche a difesa del principio dell'uniformità della natura prendono in considerazione i condizionali controfattuali che descrivono tali ipotetiche violazioni non olistiche. E' stato fin dall'antichità ribadito che non è logicamente sufficiente constatare la mortalità (senza eccezioni) degli uomini che ci stanno intorno per concludere universalmente che in ogni tempo e in ogni luogo, in ossequio al principio dell'uniformità della natura, tutti gli uomini continueranno regolarmente ad essere mortali. Ma questa insufficienza logica non implica che gli uomini nel corso futuro della loro storia naturale debbano diventare immortali. Al contrario: se si assume che il genere umano, al pari del mondo, sia esistito da sempre, allora la sua permanente mortalità acquista un altissimo grado di probabilità. Se infatti fosse realmente concreta la possibilità di generare in questo mondo un uomo immortale, allora, poiché la storia umana ha già percorso l'immensa estensione di una passato senza inizio, tale possibilità avrebbe dovuto essersi verificata già da lungo tempo e ora noi dovremmo parlare almeno con qualcuno di questi fortunati immortali. Ma poiché nessuno finora ha mai visto e parlato con fortunati del genere, la possibilità che nasca in questo mondo un uomo immortale risulta, purtroppo, altamente improbabile. Non c'è infatti nessuna ragione per cui la natura debba attendere un'eternità prima di generare un uomo immortale. Se la natura non l'ha generato nell'infinità del tempo passato, ciò vuol dire che essa non può generarlo affatto. Pertanto, noi diciamo che tutti gli uomini sono mortali, non solo perché finora non è stato visto un solo uomo immortale, ma perché in un universo senza inizio, se la possibilità di un uomo immortale fosse in natura realmente oggettiva, avremmo dovuto vederlo mentre ancora non l'abbiamo visto e non lo vediamo. Analogamente, assumendo l'infelice esempio tradizionale dei corvi neri come espressione di un nesso causale, noi diciamo che tutti i corvi sono neri, non solo perché non ne abbiamo mai visto uno bianco, ma perché, in un universo esistente da sempre, se l'eventualità "corvo-bianco" fosse stata una possibilità veramente oggettiva, avremmo dovuto vederlo, e invece ancora non l'abbiamo mai visto. A supporto e difesa dell'uniformità della natura si possono addurre innumerevoli argomentazioni analoghe, basate sul principio che se qualche stato di cose è risultato molto improbabile nell'arco di un'eternità o di un lunghissimo tempo t, sarà ancor meno probabile entro un intervallo di tempo inferiore a t. Per esempio, visto che nell'arco dei passati millenni il piombo non si è spontaneamente tramutato in oro, è ancor più improbabile che tale mutazione avvenga nei prossimi cento anni. Proiettato sullo sfondo di una processualità naturale che dura da sempre e per sempre, l'improbabilità di questa mutazione si approssima al valore di un'impossibilità fisica. Se la tendenza del piombo a trasformarsi in oro fosse, infatti, un'oggettiva tendenza naturale, allora, vista l'immensità del tempo trascorso, ora, contrariamente a quanto osserviamo, dovrebbe esserci soltanto oro e non più piombo. Come si vede, si tratta di argomentazioni dialettiche imbastite su condizionali controfattuali, che anziché dimostrare l'assoluta necessità dell'uniformità della natura, attestano l'alta improbabilità di sue sistematiche violazioni. In sintesi, il tenore di tutte queste attestazioni è il seguente: poiché la natura è sempre esistita, se fossero state realmente possibili ipotetiche violazioni locali dell'uniformità del corso della natura, allora tali violazioni dovrebbero essersi già verificate da tempo e almeno alcuni effetti di tali 27 violazioni dovrebbero essere osservabili, ma poiché finora nessuno ha mai visto tali effetti, bisogna concludere che secondo natura ( katà physin) tali violazioni risultano talmente improbabili da rasentare l'impossibilità fisica. Di conseguenza, l'uniformità del corso della natura appare un principio così ben consolidato dall'illimitato passato di una storia naturale senza inizio, che si può estendere legittimamente la sua validità anche al corso futuro della natura. E' vero che questa estensione non è garantita né imposta da nessuna necessità puramente logica. Come osserverà Hume (18), il fatto che il corso della natura sia stato finora sempre regolare, da solo non rappresenta una condizione sufficiente per provare la conclusione che il futuro continuerà a svolgersi sempre con la stessa regolarità. Ma la continua constatazione dell'inesistenza di un uomo immortale esemplifica paradigmaticamente il fatto che nessuno ha finora mai osservato un solo effetto concreto di tante immaginabili violazioni del principio dell'uniformità della natura che, in un universo esistente da sempre, avrebbero invece dovuto farsi vedere . Se questa constatata assenza di violazioni la si proietta sullo sfondo di una processualità naturale eterna, allora le argomentazioni dialettiche usate dai greci acquistano un notevole peso probativo nella difesa della ragionevole accettabilità del principio dell'uniformità della natura. In effetti, l'argomentazione dialettica greca, nella sua più vasta e pregnante accezione, è tutt'altro che riducibile al momento finale della confutazione o della reductio ad absurdum . Essa è piuttosto una raffinata e sottile discussione critica di condizionali controfattuali, volta a far emergere i nessi necessari e le impossibilità sottostanti. La dialettica greca, in sintesi, è la logica delle situazioni controfattuali, la logica più potente per tracciare, in tutti i settori dello scibile, i confini tra possibile e impossibile (19). La sua conoscenza è pertanto indispensabile per comprendere a fondo le strutture portanti della scientificità del pensiero greco, che sono state forgiate proprio dal confronto critico con i mondi possibili descritti dagli i asserti controfattuali. Uno dei segni distintivi di questa logica dialetticocontrofattuale è la tendenza a mostrare che il principio di uniformità della natura si basa proprio sull'impossibilità di ipotetiche violazioni della regolarità della natura, descrivibili in termini di situazioni controfattuali. Il fatto che, in un universo che è sempre esistito, avremmo dovuto vedere (se la cosa fosse stata oggettivamente possibile) e non abbiamo mai visto un uomo immortale non indica forse che l'evento "uomo immortale" è fisicamente impossibile? La validità del principio dell'uniformità della natura, cioè l'estensione della regolarità della natura dal corso degli eventi passati a quello degli eventi futuri, non potrebbe reggersi proprio sulla dimensione di un'impossibilità fisica sancita da una processualità naturale eterna? La strategia del pensiero dialettico greco non è affatto insensibile al tentativo di mostrare che la validità del principio dell'uniformità della natura si regge sulla dimensione dell'impossibilità fisica piuttosto che su apodittiche dimostrazioni o su incerte e fluttuanti abitudini psicologiche. A prima vista, tuttavia, sembra che questa strategia sia destinata a cadere nel circolo vizioso di una petitio principii, dal momento che la portata universale dell'impossibilità fisica di certi eventi logicamente concepibili ( di un uomo immortale, ad esempio) presuppone , a sua volta, la validità del principio dell'uniformità della natura. E' infatti facile rendersi conto che certe classi di eventi risulteranno permanentemente impossibili da realizzare soltanto se tutte le cause naturali continueranno ad agire sempre allo stesso modo, cioè soltanto se il corso della natura resterà uniforme. E' dunque sempre il postulato dell'uniformità della natura ad assicurare che saranno oggettivamente possibili o realizzabili nel corso del tempo solo quegli eventi permessi dal modo impersonale di operare delle cause naturali e che risulteranno invece fisicamente impossibili, cioè irrealizzabili in natura, tutti gli eventi vietati dal reticolo causale. Se l'uniformità della natura è dunque il postulato 28 che fonda la possibilità di una stabile demarcazione tra ciò che è fisicamente possibile (stati di cose possibili) e ciò che è invece fisicamente impossibile (stati di cose impossibili), non si potrà, a meno di altre assunzioni, collocare l'impossibilità fisica a fondamento dell'uniformità della natura. D'altra parte, il tentativo di ricavare l'impossibilità fisica dalla mancata constatazione di effetti osservabili implicati da eventuali violazioni "P" dell'uniformità della natura sembra cozzare contro le più elementari regole di logica modale. Dalla mancata osservazione dell'evento "uomo-immortale" non derivano informazioni sufficienti a decretare la falsità della possibilità di tale evento; potrebbe benissimo darsi una situazione in cui tale evento potrebbe essere vero. Lo stato di falsità fattuale della proposizione "R", descrivente un qualsiasi evento, non fornisce informazioni sufficienti a determinare il valore di verità dell'asserto modale "è possibile che R". Com'è noto, la verità fattuale di R rende vero l'asserto modale "è possibile che R" ( R), ma lo stato di falsità fattuale di R lascia del tutto indeterminato il valore di verità dell'asserto "è possibile che R" ( R). Ma se la continua constatazione dello stato di falsità fattuale di conseguenze osservabili "P" implicate da ipotetiche violazioni dell'uniformità della natura lascia indeterminato il valore di verità dell'asserto modalizzato "è possibile che P" ( P), allora lascia indeterminato anche il valore di verità dell'asserto (contraddittorio) " è impossibile che P" ( P). Questo vuol dire che dal punto di vista logico la mancata constatazione degli effetti di ipotetiche violazioni dell'uniformità della natura non ci permette di dedurre validamente l'impossibilità assoluta di tali violazioni. Come si vede, anche la difesa dialettica del postulato dell'uniformità della natura, basata sull'impossibilità fisica di violazioni dell'uniformità, sembra destinata ad oscillare tra le secche dei circoli viziosi privi di inoppugnabile forza probativa e l'inconcludenza dei "non sequitur". E' vero che ci si potrebbe sbarazzare facilmente di chi a parole rifiuta questo postulato, ricorrendo ad una confutazione ad hominem del seguente tipo: <<gettati tranquillamente nel pozzo, perché se non ritieni valido il principio dell'uniformità della natura devi ammettere che potresti benissimo volare in alto, anziché cadere in basso e rischiare di morire annegato>>. Ma anche questa facile eliminazione degli avversari, dopo tutto, lascia il tempo che trova. E' sicuramente difficile imbattersi in avversari, veramente coerenti, del principio dell'uniformità della natura, così come è altrettanto insoddisfacente pensare che tale principio sia nato e sia stato posto alla base di una poderosa e rivoluzionaria concezione del mondo senza altro supporto che la ripetuta osservazione di costanti correlazioni tra fenomeni fisici. La tesi che la sola e ripetuta osservazione di correlazioni costanti tra fenomeni sia sufficiente a generare l'idea di uniformità del corso della natura è un puro e semplice mito che crolla appena ci si chieda come mai tali correlazioni, già ben conosciute e apprezzate dal pensiero mitologico, dovettero attendere i filosofi ionici per suggerire l'idea di un'immutabile regolarità causale immanente al corso naturale degli eventi. In effetti, è bene ribadirlo, la pura e semplice osservazione di costanti correlazioni tra fenomeni non è affatto sufficiente a suggerire il principio dell'uniformità della natura. Lo prova il fatto che tali correlazioni, per quanto già note ed enfatizzate, non indussero mai la cultura mitologica (e non solo questa) a concepire il mondo in termini di ordinamento causale uniforme o invariante. Contrariamente a quanto affermerà Hume, il pensiero mitologico, proprio perché non arrivò alla scoperta della causalità naturale, costituisce la più evidente prova storico-fattuale che la relazione di causa-effetto non solo non ha un'origine a priori, ma non è ricavata nemmeno dalla sola ed esclusiva percezione sensoriale di successioni e di correlazioni 29 costanti tra eventi. Il pensiero mitologico, proprio perché ancora lontano dall'idea di un ordinamento causale uniforme della natura, mostra di fatto che l'abitudine psicologica a veder seguire da situazioni antecedenti simili situazioni conseguenti simili non è sufficiente da sola a far nascere l'idea dell'uniformità del corso della natura. In breve, per la scoperta del cosmos, inteso come impersonale e costante funzionamento causale della natura, non bastò né un affinamento della percezione sensibile, né una maggiore sollecitazione della memoria che forma l'abitudine, ma occorse piuttosto un rivoluzionario mutamento di pensiero, i cui sotterranei assunti ontologico-cosmologici si ritrovano alla base della difesa dialettico-controfattuale del principio dell'uniformità della natura. Ovviamente, questi assunti, al pari della genesi dell'idea di causalità naturale, sono sempre indissolubilmente legati all'idea fondamentale dell'eternità dell'archè , intesa come materia-forza la cui inesauribile azione dinamica dura indefinitamente nel tempo, cioè persiste nel tempo senza inizio e senza fine e senza dissipazione alcuna (20). Il primo di questi assunti riguarda proprio il carattere autoconservativo del principio originario: il dinamismo espresso dall'archè deve possedere innanzitutto una struttura conservativa sia per quanto concerne la propria forza-energia, sia per quanto riguarda le modalità della sua azione. Che la concezione dell'eternità del principio implicasse proprietà autoconservative era una cosa già ben nota all'antica storiografia filosofica. Queste proprietà conservative derivano dal fatto che il principio originario non ha solo la funzione di remoto punto di partenza che si trova esclusivamente all'inizio dei processi naturali. Al contrario, esso costituisce la matrice originaria che resta sempre presente alla base di tutti i fenomeni fisici: tutti i processi e le trasformazioni naturali sono espressioni della sottostante energia dell'archè originario, che è principio e termine di tutte le cose. Non a caso, sottolineava già Aristotele , i primi filosofi <<affermano che ciò di cui tutti gli esseri sono costituiti e ciò da cui derivano originariamente e in cui si risolvono da ultimo, è elemento e principio degli esseri, in quanto è una realtà che permane identica pur nel trasmutarsi delle sue affezioni. E, per questa ragione, essi credono che nulla si generi e nulla si distrugga, dal momento che una tale realtà si conserva sempre>> (21). E' del resto difficile non osservare che questa concezione ci pone di fronte a <<qualcosa di simile a una legge di conservazione della materia>> (22). In effetti, fu proprio la fede dei presocratici <<nel principio che qualcosa si conserva in natura>> a incanalare il pensiero scientifico occidentale verso la ricerca di principi di conservazione (23). Inoltre, se si scarta - come fecero i presocratici - l'ipotesi che l'archè possa manifestare arbitrarie preferenze o compiere libere scelte, allora si deve per forza concludere che la sua eternità rende impossibile l'esistenza di un istante in cui il suo dinamismo e il conseguente flusso del divenire cosmico si arrestino definitivamente. Se infatti l'approdo ad un ristagno definitivo fosse un evento realmente possibile per la struttura costitutiva dell' archè, allora, considerata l'illimitata estensione del passato, questo arresto definitivo si sarebbe realizzato già da lungo tempo e ora non esisterebbe più nessun processo fisico. Argomentazioni analoghe evidenziano, altresì, l'eterna invarianza delle sue modalità d'azione: se la caduta in una situazione di disordine permanente fosse oggettivamente possibile, allora tale possibilità si sarebbe realizzata già da lungo tempo e noi non staremmo qui a contemplare i meravigliosi moti dei cieli. Come si vede, queste considerazioni indicano che l'azione dinamica dell'archè si dipana secondo un'intrinseca struttura d'ordine eternamente immutabile. Da tutto ciò consegue che il dinamismo proprio dell'archè, in quanto vincolato alla propria intrinseca e invariante struttura d'ordine, non può realizzare tutte le possibilità logicamente concepibili ( tutti i sogni o tutti gli eventi immaginabili), ma solo quelle 30 possibilità consentite dalla suo ordinamento architettonico, cioè dal suo reticolo di leggi immutabili. In questo modo la struttura d'ordine che governa da sempre il dinamismo dell'archè determina necessariamente una demarcazione fondamentale tra l'insieme delle possibilità-oggettivamente-realizzabili (sfera del fisicamente possibile) e l'insieme delle possibilità -non-realizzabili in natura (sfera del fisicamente impossibile). L'eternità dell'archè, infatti, nel generare l'idea di causalità naturale, genera anche un sistema di vincoli restrittivi che vietano l'accadere di innumerevoli classi di eventi logicamente concepibili. Non si può negare l'esistenza di questi vincoli restrittivi, perché se tutto il logicamente possibile o immaginabile fosse realizzabile nel mondo naturale, allora, vista l'infinita estensione del tempo passato, molti sogni dovrebbero essersi realizzati già da tempo. L'esperienza, però, ci attesta proprio il contrario: la stragrande maggioranza dei nostri sogni più allettanti resta irrealizzata in questo mondo. Come si evince da questo tipo di argomentazioni, l'eternità dell'archè porta al netto rifiuto della credenza che "a questo mondo tutto è possibile": essa infatti istituisce un vero e proprio principio generale di demarcazione tra ciò che è fisicamente possibile e ciò che invece risulta fisicamente impossibile o irrealizzabile in natura: tra ciò che la natura può fare e ciò che non può fare. L'archè, insomma, genera tutto ma non è onnipotente in senso assoluto o simpliciter: può fare solo tutto ciò che è consentito dalle sue leggi causali. Le strutture causali immanenti al principio primo risultano, infatti, dei veri e propri principi di impossibilità, che, perimetrando la sfera del fisicamente realizzabile, assegnano alla scienza il compito di scoprire le leggi causali che consentono di separare l'isola del realizzabile dallo sterminato oceano dei sogni impossibili. Questa demarcazione non solo pone le condizioni di possibilità della scienza (24), ma porta anche a concludere che <<tutto il possibile-oggettivamente-realizzabile in natura è stato già realizzato in passato>>, in un passato senza inizio e quindi di durata illimitata. Un principio eterno, il cui dinamismo è restato perennemente in azione fin da un passato di durata illimitata, ha infatti già avuto tutto il tempo necessario per realizzare tutto il possibile oggettivamente realizzabile dalla sua struttura causale. Anzi, non è difficile mostrare che la totalità del possibile-realizzabile sia stata realizzata nel passato per più di una volta. Ora, proprio questa idea cardine, secondo cui <<tutto il possibile oggettivamente realizzabile in natura è stato già realizzato in passato>> costituisce quel secondo assunto fondamentale del pensiero scientifico-filosofico greco che, a mio avviso, gioca un ruolo determinante nella giustificazione del principio dell'uniformità della natura e nella fondazione della concezione ciclica del tempo. Per quanto l'arché sia un principio caratterizzato da una dinamica non dissipativa ed autoconservativa, il suo campo e le sue modalità di realizzazione, proprio perché circoscritti entro insuperabili vincoli causali, risultano finiti. Ma poiché l'azione dinamica dell'arché si svolge per un arco temporale che va da t = - a t = + , è chiaro che, in virtù della finitezza del campo e delle modalità di realizzazione dell'arché, tutto debba essere già accaduto nel passato e che il blocco di "tutto il possibile fisicamente realizzabile" debba essersi realizzato più e più volte, all'infinito, nel corso del tempo. Da ciò consegue che il sempiterno flusso del divenire cosmico deve necessariamente acquistare un andamento ciclico: il nostro universo, secondo questa ciclicità, non è nient'altro che l'esemplare attuale di una serie infinita di mondi. La saldatura di questa concezione ciclica con l'idea che il passato è inalterabile determina quel fatalismo ciclico, tipico della mentalità greca, che risulta il vero sedimento profondo su cui poggia la legittimazione forte del principio dell'uniformità della natura. Nella filosofia greca la forma più radicale di questa legittimazione è rintracciabile nel celebre "Argomento 31 Dominante" o "argomento vittorioso" (kyrieyon logos) di Diodoro Crono (IV sec. a.C.), filosofo della scuola megarica, celebre per le sue dottrine di logica modale. L'"Argomento Dominante" parte dalla tesi che il passato è inalterabile. Lo stesso Aristotele, del resto, nell'Etica nicomachea non mancherà di riconoscere l'inalterabilità del passato: <<Nessuno delibera intorno al passato, ma attorno a ciò che è futuro ed è possibile, mentre il passato non può non essere avvenuto; dunque ha ragione Agatone a dire: " D'una sola facoltà è privo Dio stesso: la facoltà di fare sì che non sia avvenuto ciò che è avvenuto">> (25). Dall'idea che il passato è necessariamente così come è stato, e non può più essere altrimenti, Diodoro ricavava la prima premessa del suo "argomento vittorioso": <<ogni cosa che è passata e vera è necessaria>> (26). Nonostante il suo elevato spessore di ambiguità, questa premessa, proprio perché conferisce il carattere della necessità ad <<ogni cosa che è passata e vera>>, conferisce al contempo anche il carattere dell'impossibilità a tutte le negazioni delle <<cose che sono passate e vere>>. Se, ad esempio, la morte di tutti gli uomini è uno stato di cose passato e vero, ed è quindi, secondo Diodoro, una stato di cose necessario, allora la negazione di questo stato di cose sarà impossibile, cioè sarà sempre falsa. Conferire la necessità ad una <<cosa che è passata e vera>>, indicata con "R", (R), equivale infatti a dire che è impossibile nonR (- -R). Ora, se tutto è già avvenuto, cioè se <<tutto il possibile realizzabile si è già realizzato nel passato>> più e più volte, la definizione di possibilità sostenuta da Diodoro (<<è possibile solo ciò che è vero o sarà vero>>) e il suo "argomento vittorioso" risultano non solo pienamente comprensibili, ma anche capaci di fornire la più solida e consistente legittimazione del principio di uniformità della natura. Quest'ultimo, in definitiva, si reggerebbe sull'impossibilità logico-ontologica di ipotetiche violazioni dell'uniformità della natura. Nella prospettiva ciclico-fatalistica di Diodoro Crono, infatti, gli stati di cose che i passati cicli della storia naturale non hanno potuto realizzare risulterebbe impossibili. Certo, il prezzo di questa legittimazione dell'uniformità della natura, non esente essa stessa da inevitabili circolarità, è, come è stato rimarcato a proposito delle tesi di Diodoro (27), quello di un eterno fatalismo ciclico. In ogni caso, ciò che non va dimenticato è che la mentalità scientifica nasce dal plesso "eternità-causalità-conservazione-ciclicità-fatalismo", che sottintende un'ontologia generale e una cosmologia ben precise. Questo inestricabile plesso - in cui giocano un ruolo primario nozioni complesse e altamente problematiche come quelle di infinito, causalità, possibilità e necessità - mostra che il principio dell'uniformità della natura, proprio perché tenuto a battesimo da precise dottrine ontologiche e da peculiari concezioni del tempo, non può essere analizzato soltanto sulla base di un sommario esame dell'inferenza induttiva. Ad ogni modo questo plesso lascia trasparire una topologia del tempo incentrata su tre elementi essenziali: 1) sul predominio del passato sull'orizzonte temporale; 2) sull'identità (su larga scala) tra futuro e passato; 3) sulla valenza soteriologica della ciclicità del tempo. Per quanto concerne il primo punto, va ricordato che il netto predominio del passato all'interno di questa topologia del tempo emerge già dalla difesa dialettica del principio dell'uniformità della natura. Quest'ultimo infatti veniva difeso sulla base di un passato senza inizio, la cui illimitata durata rendeva improbabili (o impossibili) ipotetiche violazione dell'uniformità della natura. In effetti, nella visione ciclica dei greci, il passato finisce con l'assumere il ruolo di vero e proprio criterio ontologico in grado di stabilire ciò che è realizzabile e ciò che non è realizzabile nel corso del tempo. Il Timeo di Platone fornisce uno degli esempi più significativi al riguardo. Per dimostrare che il modello di città ideale delineato nella Repubblica è un progetto concretamente realizzabile e non un'astrazione utopistica, Platone non ricorre affatto a previsioni ricavate da favorevoli tendenze sociali, 32 politiche o economiche, ma guarda esclusivamente a quanto è già avvenuto in passato. Egli pensa, infatti, che la migliore conferma della realizzabilità della sua città ideale può essere data solo da quanto attesta il passato. Perciò, a solida prova della sua piena realizzabilità, Platone non porta altro che la memoria tramandata dagli scritti degli antichi sacerdoti d'Egitto, la quale assicurava che il modello platonico di città ideale aveva già avuto una sua realizzazione nella storia dell'antica Atene del passato (28), e precisamente nel ciclo precedente chiuso dall'ultimo diluvio universale. Come emerge da questo esempio, la teoria della ciclicità universale, sintetizzabile nell'espressione "tutto è già stato", porta a far coincidere storicità e predittività, perché fonda sulla ricostruzione storica del passato la possibilità di prevedere quanto avverrà nel futuro corso degli eventi. La grandiosa cosmologia di Anassimandro non solo conferma questa coincidenza, ma costituisce anche lo snodo fondamentale per cogliere appieno gli altri due elementi essenziali di questa topologia del tempo e per misurare l'altezza delle dorsali di pensiero che hanno generato la mentalità scientifica. 3. Anassimandro: cosmologia, tempo ciclico e salvezza L'unico frammento che ci resta dell'opera Sulla natura di Anassimandro (610-545 a.C.) è la più antica parola scritta da un filosofo e il primo trattato di cosmologia scientifica, che delinei con lucida razionalità lo sviluppo dell'universo <<secondo l'ordine del tempo>>. Il frammento, in cui compare per la prima volta il termine principio (archè), staccato dal contesto dossografico, non è facilmente comprensibile. <<Principio (archè) degli esseri è l'infinito (apeiron)… - afferma Anassimandro - da dove infatti gli esseri hanno l'origine, ivi hanno anche la distruzione secondo necessità: poiché essi pagano l'uno all'altro la pena e l'espiazione dell'ingiustizia secondo l'ordine del tempo>> (29). Questo lapidario testo, a causa della sua antichità e della sua eccezionale rilevanza, è stato sempre al centro dell'attenzione della storiografia filosofica. Di recente, lo stesso Heidegger, nel commentare in chiave ontologica questo celebre frammento, si è sentito in dovere di precisare che a proposito delle concezioni di Anassimandro il giudizio della scienza successiva è stato <<sufficientemente indulgente per non biasimare questa indagine fisica ai suoi primi passi>> (30). In realtà, contrariamente a quanto pensa Heidegger, la scienza successiva ha ben poco da essere indulgente, perché dal punto di vista scientifico non c'è proprio nulla da biasimare nella grandiosa cosmologia di Anassimandro. In effetti, come ha recentemente ribadito André Pichot , <<i pochi elementi che ci restano della concezione fisiocosmologica di Anassimandro bastano a fare di lui uno tra i primissimi "scienziati" non della sola antichità, bensì di tutti i tempi>> (31). La sua concezione dell'universo, secondo Mugler, è infatti il risultato di <<riflessioni paragonabili alle speculazioni suggerite agli scienziati e ai filosofi moderni dalle grandi scoperte della termodinamica nel XIX secolo>> (32). Per apprezzare la grandiosa rilevanza scientifica della cosmologia di Anassimandro è sufficiente una sintetica esposizione (33) del suo modello di formazione e di evoluzione dell'universo. L'apeiron, cioè l'illimitato senza forma e senza fine nello spazio e nel tempo, è per Anassimandro l'archè, il principio dinamico, l'elemento primordiale indeterminato da cui hanno origine tutte le cose e le trasformazioni fisiche. In seno all'apeiron, all'indifferenziato infinito, forse a causa del suo eterno moto vorticoso (34), si produce una differenziazione primordiale che provoca una primigenia separazione del caldo dal freddo. L'elemento freddo si dispone al centro dell'universo e va a formare il cilindro schiacciato della Terra, attorno al quale, come la corteccia intorno al tronco dell'albero, si dispone l'elemento caldo, che assume la forma di un involucro sferico di fuoco. 33 Sotto la continua azione di riscaldamento generata dalla sfera di fuoco, una parte dell'umidità primordiale presente nella Terra evapora, separando così le terre asciutte dai mari e formando un cuscino d'aria-vapore che si frappone fra la primitiva sfera esterna di fuoco e la Terra centrale, distanziandole ulteriormente. Per effetto del continuo processo di evaporazione, la massa d'aria-vapore compressa tra la Terra e l'involucro sferico di fuoco aumenta al punto da generare una pressione talmente poderosa da squarciare l'involucro di fuoco, suddividendolo in diversi anelli concentrici. La maggior parte di questi anelli di fuoco, e precisamente quelli più vicini alla Terra, si dispongono su piani paralleli tra loro e costituiscono gli anelli degli astri fissi, cioè delle stelle. Ma nella lacerazione dell'involucro di fuoco si formano anche due anelli di fuoco più esterni: quello intermedio della Luna e quello ancora più esterno del Sole. Ogni anello di fuoco è circondato da un involucro opaco di aria condensata che non lascia filtrare la luce del fuoco interno se non da alcuni orifizi, la cui chiusura, più o meno completa, determina, nei due anelli superiori, le fasi di Luna e le eclissi di Luna e di Sole. Questi anelli ruotano intorno alla Terra, perché spinti dai venti, cioè dalle correnti di vapore che avevano squarciato la sfera di fuoco. La Terra, in quanto occupa il centro dell'universo, non ha bisogno di alcun supporto: non poggia su nulla, ma si mantiene in equilibrio, perché, trovandosi ad uguale distanza da tutte le parti, non è sottoposta a nessuna sollecitazione. 4. Il modello di universo di Anassimandro L'universo, cioè questo sistema ordinato di anelli di fuoco ruotanti intorno alla Terra, ha una durata limitata nel tempo, perché è destinato necessariamente a finire. Anche se non è possibile calcolare con precisione quando arriverà la fine del mondo, questo evento catastrofico, proprio perché imposto da immutabili e implacabili leggi fisiche, è prevedibile con estrema sicurezza. L'intera storia cosmica, infatti, si snoda attraverso due fasi: quella costruttiva in cui il freddo ha il sopravvento sul caldo (formazione dei cieli) e quella distruttiva in cui tutte le trasformazioni fisiche avvengono nella direzione di un progressivo riassorbimento del freddo nel caldo. Secondo Anassimandro, infatti, il fuoco, che nella prima fase era stato violentemente squarciato dall'elemento freddo-umido, si fa riparare l'"ingiustizia" subita, disseccando e riassorbendo le riserve di umidità della Terra. L'incessante evaporazione, attestata dall'esperienza quotidiana, farà sì che il caldo riassorbirà infine l'ultimo residuo di umidità terrestre. Ma una volta disseccata completamente la Terra, scompariranno tutti i processi di evaporazione. Di conseguenza, non vi saranno più venti o correnti di vapore ad alimentare il moto degli anelli di fuoco; sparirà la pressione dell'aria che li tiene separati e tutto l'edificio celeste precipiterà e crollerà sulla Terra: l'universo intero verrà distrutto e tutto ripiomberà infine nel seno dell'apeiron, nel grembo dell'indeterminato da cui era nato. La storia del mondo, generata da una rottura dell'equilibrio e segnata da una catena di squilibri (termo-dinamici), di violenze e di ingiustizie dell'elemento freddo su quello caldo e viceversa, risulta dunque un processo di restituzione e di ristabilimento dell'equilibrio <<secondo l'ordine del tempo>>. In questo quadro cosmologico, la previsione dell'esito finale della vicenda cosmica non appare affatto problematica: la fine del mondo è talmente certa da essere fuori discussione. Ciò che invece risulta altamente problematico è piuttosto la natura di questa fine: si tratta della fine assoluta di tutto o della fine relativa di un singolo mondo? In altri termini, l'inevitabile ricaduta dell'universo nell'apeiron indifferenziato rappresenta la fine definitiva del mondo e del tempo o no? C'è un motivo per cui, dopo la scomparsa finale del mondo, l'apeiron, l'amorfa sostanza primordiale infinita non debba restare per sempre in uno stato di indistinzione perpetua? Vi sono delle ragioni per dire che la scomparsa di questo mondo 34 nell'indifferenziato non rappresenta la fine definitiva del tempo e nemmeno l'arresto definitivo di ogni processo? Per quanto insoddisfacente sul piano della spiegazione razionale, la dossografia offre una prima risposta a questi interrogativi. Presentando l'archè come eterno movimento vorticoso (35) o come processualità infinita e inarrestabile, essa indica implicitamente che per Anassimandro la fine di un mondo non può rappresentare l'arresto definitivo del tempo e di ogni processo. Ma ancor più esplicito di questa indicazione dossografica è il tipo di ragionamento con cui Anassimandro, secondo la tradizione, scongiurava l'arresto definitivo di ogni processo, dimostrandone dialetticamente l'impossibilità. Se la natura della sostanza primordiale - così, secondo Mugler, ragionava Anassimandro fosse quella di restare in uno stato di perenne indifferenziazione dopo il riassorbimento del mondo nel suo grembo, allora il momento fatale della fine definitiva del mondo sarebbe arrivato già da tempo, data l'infinità del tempo trascorso. Non c'è infatti nessuna ragione per cui la sostanza primordiale, l'apeiron, dovrebbe attendere un'eternità prima di fermarsi del tutto. Se non si è arrestata definitivamente nell'infinità del tempo passato, ciò vuol dire che essa non ha potuto arrestarsi, che quindi non c'è nulla nella sostanza primordiale che le impedisca di differenziarsi più e più volte e di riprodurre così all'infinito altri mondi. Come si vede, questo ragionamento ha la tipica forma dei condizionali controfattuali. Di sicuro il ragionamento controfattuale non doveva essere estraneo ad Anassimandro, perché si ripresenta anche nella giustificazione dell'idea di una derivazione evolutiva dell'uomo da un'altra specie animale (36). Certamente, anche l'argomentazione controfattuale, con cui Anassimandro dimostra razionalmente l'impossibilità di un arresto definitivo e di una fine assoluta di tutto nell'indifferenziato primitivo, è circolarmente intrecciata tanto con il postulato dell'eternità del tempo, quanto con l'idea di una natura causalmente strutturata ed estranea a qualsiasi tipo di predilezione e di scelta. Anzi, il suo valore probativo si regge interamente sul postulato che la <<natura non conosce predilezioni, né nel flusso del tempo, né nella distribuzione degli oggetti nello spazio, né nelle trasformazioni materiali di cui essa è sede, che essa non ammette, a meno di una ragion sufficiente, né momenti privilegiati, né fatti o eventi di scelta>> (37). Questa idea di natura, secondo Mugler, è l'espressione di un vero e proprio <<principio di indifferenza>>, che, per la prima volta nella storia del pensiero occidentale (38), impone il sistematico ricorso ad una "ragione sufficiente". Anassimandro si serve proprio di questo principio di indifferenza per dimostrare che il mondo, una volta riassorbito nello stato primitivo di indifferenziazione, rinasce ancora eternamente, perché non c'è nessuna ragione per cui la sostanza primordiale debba attendere un'eternità prima di arrestarsi definitivamente. Il filosofo-scienziato di Mileto non è tuttavia il solo a ricorrere a questo principio. Parmenide, ad esempio, sempre sulla base di questo principio, affermerà perentoriamente che l'essere non può nascere, perché non c'è nessuna necessità o ragione per farlo nascere prima piuttosto che dopo (39). Evidentemente, se la natura (o l'archè primordiale) facesse spontaneamente libere scelte o arbitrarie preferenze, potrebbe benissimo arrestarsi definitivamente, a suo piacere ed arbitrio, in qualsiasi momento. In questo caso, ovviamente, l'argomentazione dialetticocontrofattuale di Anassimandro, privata di una delle sue premesse essenziali, perderebbe qualsiasi valore probativo. Se invece si assumono le premesse da cui parte Anassimandro, allora l'idea di eterno ritorno dell'identico e di ciclicità del tempo risultano l'espressione di una necessità fisico-razionale interna alla struttura del divenire cosmico. Quando un mondo scompare nell'apeiron, svanisce semplicemente il prodotto di una differenziazione fra caldo e freddo, ma non scompare affatto il potere della sostanza primordiale di produrre una nuova differenziazione da cui prenderà l'avvio la costruzione di un nuovo mondo. Ogni nuovo mondo, comunque, non potrà essere che una riedizione 35 rigorosamente identica a quello precedente. Non è infatti possibile che lo storia del nuovo mondo si differenzi da quella del mondo precedente, perché la più piccola deviazione del corso del nuovo mondo dal cammino di quello precedente implicherebbe una disuguaglianza nelle condizioni iniziali; implicherebbe, cioè, una differenza nell'indifferenziato, il che è assurdo (40). Di conseguenza, il mondo quale noi lo vediamo è la copia perfetta degli innumerevoli mondi che lo hanno preceduto e l'esemplare di tutta la serie infinita di mondi che lo seguiranno. Questo sistema cosmologico segna una delle tappe più decisive di tutta la storia del pensiero scientifico in generale, e delle concezioni del tempo in particolare. Per la prima volta nella storia l'intero meccanismo di formazione e di funzionamento della natura va avanti da solo senza bisogno di nessun intervento degli dèi. Per la prima volta la causalità naturale e la spiegazione razionale soppiantano completamente le rappresentazioni mitiche. Per la prima volta si ha una geometrizzazione dell'intero universo, che, oltre ad offrire una poderosa naturalizzazione dei cieli, ha il merito di fornire spiegazioni geometriche dell'immobilità centrale della Terra e dei moti circolari degli astri, le quali superano decisamente la semplice astronomia di posizione dei Caldei. Da questa rivoluzionaria geometrizzazione nascono due concezioni di grande successo: il modello di universo sferico, il paradigma di tutta l'astronomia antica, e la teoria secondo cui il movimento di rotazione uniforme costituisce la legge fondamentale dei moti celesti. Sfericismo, circolarità e moto di rotazione uniforme, oltre a rendere perfettamente conto della regolare periodicità dei fenomeni astronomici, risultano l'espressione matematica della ciclicità che domina e pervade la natura. Questa universale ciclicità, scandita dall'infinita sequenza di distruzioni e rinascite dello stesso mondo, determina, ovviamente, una topologia del tempo caratterizzata, su larga scala, dall'identità fra passato e futuro e dal rifiuto dell'irreversibilità del tempo. Per quanto impedisse il concepimento di qualsiasi idea di progresso, questa identità fra cicli passati e futuri svolgeva per la mentalità antica una funzione estremamente positiva e rassicurante. Secondo Mircea Eliade era proprio mediante questa ciclicità, negatrice di qualsiasi novità, che <<l'umanità arcaica si difendeva come poteva contro tutto ciò che la storia comportava di nuovo e di irreversibile>> (41), cioè, contro il terrificante carico d'incertezza legato all'idea di un futuro realmente diverso dal passato. A ben guardare, l'idea di eterno ritorno dell'identico finisce col far girare a vuoto il tempo. Essa ha infatti <<il senso di un supremo tentativo di statizzazione del divenire, d'annientamento dell'irreversibilità del tempo. Poiché tutti i momenti e tutte le situazioni del cosmo si ripetono all'infinito la loro evanescenza si rivela in ultima analisi come apparente; nella prospettiva dell'infinito, ogni momento e ogni situazione restano fermi e acquistano così il regime ontologico dell'archetipo>> (42). Vista da questa prospettiva, la concezione dell'eterno ritorno di Anassimandro mostra implicazioni etico-religiose di primaria grandezza. Essa ha indubbiamente una valenza religiosa, se per religione si intende la credenza in una garanzia di salvezza offerta all'uomo. La visione ciclica del tempo, infatti, è una vera e propria teoria della salvezza, perché offre la garanzia di scongiurare il rischio di un annientamento totale della realtà in generale e di ogni singola sostanza in particolare. Come ha recentemente ribadito Davies, l'attrattiva maggiore del mondo ciclico consiste proprio nello sfuggire risolutamente <<allo spettro dell'annientamento totale>> (43). Se le immutabili leggi della natura fanno sì che il mondo attuale non differisca in nessun minimo dettaglio dai mondi che l'hanno preceduto e da quelli che seguiranno, allora ogni evento, ogni cosa, ogni uomo si è già ripetuto un'infinità di volte nel passato e ritornerà puntualmente con le stesse caratteristiche e gli stessi destini infinite volte nel futuro. Poiché, grazie a questa infinita reiterabilità, la vita di ogni cosa si prolunga al di là dei limiti 36 dell'esistenza attuale, la teoria dell'eterno ritorno risulta in grado di soddisfare l'istinto di conservazione e la naturale sete d'immortalità di ogni uomo. L'idea di un'eterna rinascita, razionalmente codificata da Anassimandro, rende infatti ogni uomo eterno, nel senso che gli offre quantomeno un'eternità intermittente, in cui nessun più piccolo e insignificante dettaglio della sua vita andrà mai perduto, e in cui ciascun istante della sua esistenza acquistava la dignità dell'eterno. Presentata da Anassimandro come l'espressione di un implacabile ordine immanente alla natura, la concezione dell'eterno ritorno si rivela, in definitiva, come la vera religione dei Greci, come la loro autentica idea di salvezza. Questa grandiosa concezione, fra l'altro, aveva anche la forza di far accettare con maggiore serenità la sofferenza, la decadenza della vecchiaia e la morte, perché assicurava ad ogni uomo non un'incolore e umbratile immortalità nell'Ade, ma una perenne ritorno del vigore della giovinezza sotto la calda e amata luce del Sole. Una concezione di questa grandezza, una volta nata, era destinata a lasciare un'impronta profonda nel pensiero successivo. Gran parte della filosofia greca, comprese le dottrine di Platone e di Aristotele, non sarà altro che un commento e uno sviluppo del pensiero di Anassimandro. Il più grande filosofo-scienziato dell'Antichità delinea per la prima volta con estrema nitidezza quella strategia di nientificazione del nulla, o di messa al bando di qualsiasi rischio d'annientamento totale, che costituisce la profonda dorsale della mentalità scientifico-filosofica greca. I principali snodi di questa strategia li possiamo ora riassumere in questa sequenza logica: l'eternità dell'archè, privando il nulla di qualsiasi capacità d'azione e bloccando il regresso all'infinito, genera l'idea di causalità naturale (ogni evento ha un antecedente), stabilizza poi l'ordinamento causale (uniformità della natura) battezzandolo con la logica dialettico-controfattuale, pone quindi alla base delle trasformazioni fisiche principi di conservazione della materia-energia e genera infine una ciclicità del tempo che, vera e propria fonte di salvezza, garantisce ad ogni esistenza finita un'eternità intermittente vissuta nella piena luce del Sole. In conclusione, l'eternità dell'archè, del tempo e della materia-energia non solo genera la mentalità scientifica, non solo è disposta , come sosteneva Haeckel, ad eliminare dall'orizzonte scientifico tutti gli enigmi insolubili, ma arriva anche a garantire tante resurrezione dei corpi quante sono le infinite reiterazioni del ciclo cosmico. 5. Il mondo ebraico: un tempo finito, futurocentrico, separato dall'eternità Per quanto allettante sotto il profilo ontologico, epistemologico e soteriologico, la visione ciclica dei Greci presentava lo svantaggio di imprigionare per sempre l'intera processualità cosmica nelle gabbie di un'eterna ripetizione degli stessi schemi di sviluppo, dalle cui sbarre nulla sfuggiva. Già Epicuro aveva avvertito il soffocante peso dell'implacabile fatalismo insito in questa perenne ricorsività delle stesse fasi di sviluppo. <<Era meglio credere scriveva nella lettera a Meneceo - ai miti sugli dèi piuttosto che essere schiavi del destino dei fisici [cioè dell'inesorabile fatalismo ciclico]: quelli infatti suggerivano la speranza di placare gli dèi per mezzo degli onori, questo invece ha implacabile necessità>> (44). Per quanto potesse apparire amara, questa schiavitù del "destino dei fisici" dominò quasi incontrastata sulla cultura classica dell'Antichità. Solo una popolazione che avesse sperimentato sulla propria pelle la devastante disperazione della deportazione di massa e della schiavitù avrebbe potuto ribellarsi ad una ciclicità che non liberava mai definitivamente dalla prigionia, ma rinnovava all'infinito nel tempo la condizione di schiavi. Gli Ebrei furono il popolo che spezzò le sbarre della ciclicità, proponendo una nuova topologia del tempo. 37 Come per i primi filosofi, anche per la visione ebraica dell'Antico Testamento alla base di tutto c'è l'eternità: c'è Dio, l'Eterno per definizione. Analogamente alle dottrine dei filosofi ionici, anche la Bibbia afferma che tutto ha avuto origine dall'Eterno, che la causa prima di tutto l'esistente è necessariamente unica ed eterna. Il primo atto divino di cui ci parla la Genesi è infatti la creazione dell'intero mondo: <<In principio Dio creò il cielo e la terra>> (Gn 1,1). Al pari dei filosofi ionici, che non ci hanno lasciato nessuna dimostrazione dell'esistenza del principio eterno, cioè del "divino", la Bibbia non compie nessuno sforzo per dimostrare l'esistenza di Dio. Tanto nell'approccio dei primi filosofi quanto in quello biblico, l'esistenza, rispettivamente, dell'archè divina e di Dio è data per scontata alla stregua di una verità prima. In entrambi gli approcci, a mio avviso, è presente la seguente struttura logica di fondo: se esiste qualcosa, allora esiste Dio (o l'archè divina), perché questo qualcosa di esistente o è esso stesso Dio (ha cioè il potere di darsi l'esistenza da sé), oppure deriva da Dio (riceve cioè l'esistenza da Dio o dall'archè divina) (45). Sulla scorta dell'assioma dell'eternità del Principio primo, tanto il punto di vista filosofico quanto quello biblico, sia pure con accenti diversi, istituiscono le condizioni di possibilità di una leggibilità razionale-causale della realtà, perché partono da una causa ultima autosufficiente che, bloccando il regresso all'infinito, sostiene la catena della cause penultime o seconde (il reticolo delle cause naturali). Entrambe le prospettive, per quanto in forme diverse, condividono una strategia di nientificazione del nulla, cioè di eliminazione del pericolo di un annientamento totale. L'atto creatore di Dio, di cui ci parla il primo versetto della Bibbia, non ribadisce semplicemente l'impossibilità di qualsiasi iniziativa del nulla, ma fa dell'universo creato l'espressione della più tangibile nientificazione del nulla. Nella creazione, infatti, il nulla da cui è tratto il creato non è la materia di cui è composto il mondo, ma è semplicemente il non essere (ancora) del mondo a cui segue l'esistenza della realtà creata. Inoltre, tanto i filosofi ionici quanto l'Antico Testamento si contrappongono alle rispettive tradizioni culturali, sostenendo ciascuno un risoluto processo di demitizzazione che libera la natura dal capriccioso intervento degli dèi. Alla critica dei primi filosofi contro le divinità mitologiche corrisponde l'implacabile critica biblica contro ogni forma di idolatria e di politeismo. Entrambi gli atteggiamenti critici, in definitiva, approdano alla stessa conclusione: al divieto di ogni forma di deificazione delle forze naturali. Certamente, queste analogie strutturali non attenuano affatto le profonde diversità esistenti, persino nell'impostazione ontologica di fondo, tra il discorso filosofico greco e quello biblico. Senza alcun dubbio la Torah vede, sì, l'ordinamento naturale come il risultato delle leggi imposte da Dio al creato, ma non è interessata a fondare una concezione del mondo in termini di causalità naturale. Questa mancanza d'interesse, però, non vuol dire che la visione biblica della natura sia incompatibile con la concezione causale dei filosofi ionici. Quest'ultima, assunta in un quadro di radicale contingenza, può benissimo, come di fatto avverrà, essere innestata nell'idea biblica di natura. Ad ogni modo non è qui il caso di soffermarsi sull'ampio spettro delle differenze esistenti tra l'impostazione filosofica e quella ebraica, perché, dopo tutto, si tratta di diversità ben note e ripetutamente enfatizzate da tutte le ricorrenti contrapposizioni illuministiche tra theoria greca e Torah ebraica. Ciò che nell'economia del presente discorso merita invece di essere sottolineato è la profonda divergenza esistente tra filosofia greca e mondo ebraico nell'impostazione del rapporto tra eternità e tempo: mentre nel pensiero greco il flusso temporale del divenire cosmico resta sempre inscritto nell'eternità, nel mondo ebraico la temporalità, proprio nel suo fluire, risulta invece nettamente separata dall'eternità. 38 Per vedere come da questa separazione nasca una topologia del tempo antitetica a quella ciclica è bene soffermarsi innanzitutto sul concetto di eternità. Nella filosofia ionica, e soprattutto nella cosmologia di Anassimandro, predomina l'idea di un'eternità come illimitata estensione nel tempo, cioè come durata senza inizio e senza fine del flusso temporale. Anche Eraclito si attiene a questa idea di eternità quando afferma che <<quest'ordine universale, che è lo stesso per tutti, non lo fece alcuno tra gli dèi o tra gli uomini, ma sempre era è e sarà fuoco sempre vivente, che si accende e si spegne secondo giusta misura>> (46). In generale, è proprio su questa nozione di eternità che si fondano tutti i tentativi di giustificare dialetticamente l'uniformità della natura, ossia l'invarianza dell'ordinamento causale immanente al cosmo. Quando, attraverso i primi rigorosi procedimenti logico-dimostrativi, si scopre che le verità matematiche sono necessarie, immutabili e valide per sempre, cioè sono eterne, si fa strada anche il concetto di eternità atemporale, secondo cui eterno è ciò che permane immutabile senza successione: ciò che non era né sarà ma è soltanto. L' "essere" di Parmenide, ad esempio, gode soltanto di questa eternità atemporale, intesa come contemporaneità o come presenza immutabile che resta sempre identica a se stessa, esiste sempre al presente, non ha né principio né fine, ed è esente da qualsiasi tipo di successione. La mentalità scientifica greca, nata sotto l'egida di un'eternità temporale, conobbe dunque anche un'eternità al di fuori del tempo e separata quindi dalla temporalità (47). Tuttavia, escluse le negazioni parmenidee del divenire, per il pensiero greco l'eternità atemporale ( delle verità matematiche, delle idee platoniche, delle essenze e dei motori immobili di Aristotele) coesiste sempre con l'eternità temporale del divenire cosmico. La durata illimitata è infatti l'orizzonte comune entro cui restano inscritti i due tipi di eternità. Nel mondo greco, pertanto, non si assiste mai ad una completa scissione fra eternità e tempo, perché anche il flusso temporale gode di una forma di eternità (di divinità), nel duplice senso che la successione temporale dura indefinitamente senza inizio e senza fine e riproduce sempre gli stessi immutabili schemi eterni di sviluppo. Poco importa se questi schemi eterni siano chiamate idee da Platone e essenze da Aristotele. A differenza della filosofia greca, che aveva preso l'avvio dall'eternità temporale, la Bibbia, invece, parte risolutamente dall'eternità atemporale di Dio. Nel Pentateuco, infatti, ci troviamo di fronte al paradosso di un Dio eterno, unico e totalmente trascendente il tempo, che tuttavia crea il mondo, si rivela all'uomo ed interviene misteriosamente nel corso della storia. L'assoluta trascendenza di Dio si manifesta, infatti, in una duplice separazione dalla successione temporale: l'Eterno trascende il tempo non solo perché è al di fuori del tempo, al di là di qualsiasi successione, ma anche perché dura per sempre, mentre il tempo del mondo creato ha giorni e secoli contati. Insomma, per la Bibbia solo Dio è l'unico Essere veramente eterno. Di conseguenza, a differenza di quella greca, la temporalità biblica non ha in sé nessuna qualità divina ( cioè nessun tipo di eternità), perché la sua durata finita non le consente di coesistere per sempre con l'eternità atemporale di Dio. Infatti, il principale elemento differenziale che contraddistingue nettamente la concezione biblica da quella greca consiste proprio nell'assegnare alla temporalità, cioè all'asse strutturale di questo mondo, lo statuto di una condizione transeunte di durata finita. Nonostante i ripetuti accostamenti tra la Genesi e il Timeo di Platone, sempre ricorrenti a partire da sant'Agostino, alla temporalità biblica non è affatto applicabile la definizione platonica di tempo come <<immagine mobile dell'eternità>> (48), perché il tempo biblico, a causa della sua durata finita, non può fungere nemmeno da immagine dell'eternità. Com'è noto, la concezione della creazione, oltre che dall'armonizzazione dei diversi racconti biblici alla creazione, dipende dal modo in cui viene interpretato il primo versetto della Genesi. Se lo si interpreta come una proposizione dichiarativa, allora il senso dei 39 primi due versetti risulta il seguente: <<In principio Dio creò>> dal nulla <<il cielo e la terra>> allo stadio di qualcosa di informe, vuoto e caotico. Se invece si attribuisce al primo versetto la funzione di sommario introduttivo o di titolo del primo capitolo della Genesi, allora il senso appare il seguente: dapprima, quando Dio si accinse a creare il cielo e la terra, la terra era (ancora) <<informe e vuota e la tenebra era sulla faccia dell'abisso>> e proprio da questo stadio caotico preesistente ebbe inizio il processo di creazione. Come attesta la storia dell'esegesi biblica, la possibilità di queste due antitetiche interpretazioni ha fatto versare fiumi d'inchiostro per dirimere la questione se Gn 1 parli di creazione dal nulla (creatio ex nihilo) oppure dal caos. Dal punto di vista strettamente filologico la questione risulta, se non indecidibile, sicuramente di difficile soluzione. Dal punto di vista logico, invece, la preesistenza all'atto creativo divino di un elemento caotico o di una terra <<informe e vuota>>, è del tutto incompatibile con l'onnipotenza e con l'unicità assoluta di Dio. Se infatti preesistesse all'atto creativo un qualcosa di caotico, allora vi sarebbe una realtà non causata da Dio, e Dio non sarebbe più l'unica e onnipotente causa di tutto. In definitiva, è il radicale monoteismo del Pentateuco, cioè il netto rifiuto ebraico di qualsiasi dualismo e politeismo, ad implicare l'idea di una creatio ex nihilo (49), in cui l'universo e il tempo, creato necessariamente con il mondo, presentano la singolarità di un inizio assoluto. Certamente, l'inizio assoluto di un mondo lanciato nel corso del tempo, cioè questo salto dal nulla all'universo in divenire, è destinato a restare un mistero inafferabile alla ragione umana: l'inizio assoluto, in quanto tale, cade infatti oltre l'orizzonte dell'esperienza possibile; può essere solo rivelato da Dio o dedotto dalla ragione umana (50). Di fronte a questa singolarità dell'inizio ( ed anche della fine del mondo) la ragione umana mostra limiti conoscitivi insuperabili. Non a caso la problematica dei limiti della conoscenza umana, cioè il pessimismo epistemologico, appartiene al mondo ebraico e non a quello greco. D'altro canto, la concezione di un tempo finito, delimitato cioè da una singolarità iniziale e da una finale, non consente più di legittimare il principio dell'uniformità della natura sulla base delle sottili argomentazioni controfattuali elaborate dai Greci alla luce dell'eternità del flusso temporale. Nella visione ebraica l'invarianza delle leggi naturali si basa solo sull'imperscrutabile volontà di Dio. E di fronte alla Sua assoluta trascendenza a ben poco servono le ragioni ricavate dalle nostre più raffinate argomentazioni controfattuali. Senza alcun dubbio, dalla Genesi emerge con estrema chiarezza che la creazione è un passaggio al temporale: non solo la formazione del mondo risulta un processo che si snoda lungo una successione temporale ( i sei giorni della creazione), ma la temporalità risulta una delle fondamentali proprietà oggettive del mondo. Non c'è nulla di più distante dalla Genesi dell'idea che il tempo sia qualcosa di puramente soggettivo. La creatio ex nihilo implica che il tempo sia creato col mondo, ma questo non vuol dire che il tempo biblico sia un contenitore inerte, utile soltanto a fornire agli eventi l'etichetta di una datazione. Nella Genesi il tempo appare piuttosto come una sorta di operatore che presiede alla formazione del mondo e in cui sono inscritte le potenzialità di sviluppo della storia cosmica. Si tratta, in ogni caso, di una storia che ha un inizio assoluto (la creazione) e una fine assoluta (l'avvento del <<regno di Dio>>). Secondo la visione ebraica, infatti, prima della fine dei tempi arriverà il Messia, che sarà di stirpe davidica ed annuncerà la fine dei tempi e l'inizio di un'era nuova, in cui <<Il Signore distruggerà la morte per sempre>> (Is 25,8) e in cui si prefigura la resurrezione dei morti ( Is 26,19; Ez 37, 1-14). L'avvento di questa era nuova di pace (shalom), cioè di pienezza e di appagamento completo, non implica la distruzione del mondo, bensì la sua trasfigurazione paradisiaca in una <<nuova Gerusalemme>> la quale, affrancata definitivamente dalla morte e da qualsiasi rischio di annientamento, durerà per sempre, acquisendo così una nuova 40 dimensione temporale la cui topologia resta inattingibile anche alla visione profetica. L'avvento del <<mondo a venire>> comporterà la fine di una temporalità fatta di privazioni, di sforzi di realizzazione, di precarietà e di morte. L'era messianica, che precorre e annuncia la fine dei tempi, si colloca in un momento del futuro indefinito e imprevedibile: potrebbe essere molto vicina come incommensurabilmente lontana. In ogni caso la continua attesa del Messia incentra l'intera temporalità biblica sul futuro. Ed è proprio il netto predominio del futuro nell'orizzonte temporale a conferire direzionalità al tempo biblico: l'intera storia ha un senso, perché ha per metà finale l'avvento del regno di Dio. Del futuro corso della storia, tuttavia, si conosce solo l'esito finale, il punto di approdo, ma non l'esatta sequenza delle tappe e nemmeno la traiettoria del suo decorso. Anche se la realizzazione dell'esito finale, la salvezza, è garantita dal Creatore, l'uomo è chiamato ad un'alleanza con Dio, che lo impegna a cooperare attivamente per il raggiungimento della salvezza finale. Questa richiesta di cooperazione vuol dire che, a parte l'esito finale, il futuro è relativamente aperto, nel senso che il corso futuro della storia è affidato in parte alla libera e operativa collaborazione dell'uomo alla realizzazione del progetto di salvezza, inscritto nel tempo fin dal primo istante della creazione. In questo modo, all'atteggiamento contemplativo, implicato dalla temporalità ciclica dei Greci, la Bibbia contrappone un atteggiamento pratico operativo tendente alla trasformazione del mondo, fondato sull'idea che il futuro è ancora un testo da scrivere e non un libro già tutto scritto. Com'è facilmente deducibile da queste schematiche osservazioni, la topologia del tempo biblico rappresenta l'antitesi di quella ciclica. Nella Bibbia, infatti, è il futuro e non il passato ad avere il predominio nell'orizzonte temporale. Alla concezione greca dell'eternità del tempo il mondo ebraico contrappone una temporalità di durata finita, in cui il futuro plasmabile dal lavoro e dall'azione dell'uomo e aperto ad accogliere novità, eventi unici ed irripetibili - contiene qualcosa di più del passato e può progredire verso la meta finale. Per l'Antico Testamento, in antitesi alla ciclicità greca, la salvezza non si trova nel tempo; non risiede in un'eternità intermittente fondata sul prolungamento all'infinito del tempo mediante la continua reiterazione dello stesso ciclo. Il tempo è solo il cammino progressivo verso la pace; la via che porta alla salvezza. Una via di lunghezza finita, perché Dio mantiene la Sua promessa. Note 1) Per rendersi conto di quanto la conoscenza del futuro sia stata al centro degli interessi delle civiltà antiche è sufficiente una rapida lettura del testo di G. PETTINATO, La scrittura celeste. La nascita dell'astrologia in Mesopotamia, Mondadori, Milano, 1998, pp. 29-56. 2) G. W. LEIBNIZ, Les principes de la nature et de la grace fondés en raison, par. 7 ( trad. it. G. W. LEIBNIZ, Monadologia, Rusconi, Milano, 1997, p. 47). 3) F. HOYLE, L'origine dell'universo e l'origine della religione, trad. it., Mondadori, Milano, 1998, p. 16. 4) E. du BOIS-REYMOND, I confini della conoscenza della natura, trad. it., Feltrinelli, Milano, 1973, pp. 51-80. 5) E. HAECKEL, Les énigmes de l'univers, trad. franc., Schleicher Frères, Paris, 1902, p. 243 e pp. 51-80. 41 6) E. HARRISON, Le maschere dell'universo, trad. it., Rizzoli, Milano, 1989, p. 96. 7) ESIODO, Teogonia, 123-130. 8) K. von FRITZ, Le origini della scienza greca, trad. it., Il Mulino, Bologna, 1988, p.22. 9) Questo blocco del regresso all'infinito verso qualcosa di ancor più originario viene definito da K. von FRITZ, op. cit., p. 22, una "forma di finitismo". Questa definizione tuttavia non è adeguata a rilevare che l'eternità del principio costituisce il blocco logico-ontologico di qualsiasi regresso all'infinito. 10) H. DIELS W: KRANZ, Die Fragmente der Vorsokratiker, Berlin, 1966, 7 B 1 ( trad. it. I presocratici. Testimonianze e frammenti, Laterza, Bari, 1969). D'ora in poi faremo riferimento a questa opera con l'abituale sigla "DK" seguita dalla relativa numerazione delle testimonianze e dei frammenti dei presocratici. 11) IPPOCRATE, Morb. sacr., II, 41-46. 12) G. E. R. LLOYD, Metodi e problemi della scienza greca, trad. it., Laterza, Bari, 1993, p.745. 13) Cfr. W. JAEGER, Paideia, trad. it., La nuova Italia, Firenze, vol. I, p. 287. 14) W. JAEGER, op. cit., p. 302. 15) BLUMENBERG, La legittimità dell'età moderna, Trad. it., Marietti, Torino, p. 175. 16) Come è noto D. HUME, nel libro I, parte III, sez. XIV del Trattato sulla natura umana, trad. it., Laterza, Bari, 1978, pp. 169-193, mostrando l'indeducibilità logico-apriori dell'effetto dalla causa, evidenzia la fallacia naturalistica contenuta nell'identificazione del legame causale con il nesso di derivazione logica. L'eliminazione di questa fallacia non impedisce, però, di esprimere il nesso causale in termini di derivazione logica. Come attesta il modello nomologico deduttivo di spiegazione scientifica, le spiegazioni e previsioni della scienza non sono altro che deduzioni logiche ricavate da premesse esprimenti relazioni causali. Hume, insomma, ci dice semplicemente che la buona fisica non si fa a priori. 17) H. REICHENBACH, La filosofia dello spazio e del tempo, trad. it., Feltrinelli, Milano, 1977, pp. 36-44, prendendo in considerazione esempi di variazioni olistiche di tutte le grandezze spaziali conclude che <<una espansione che concerna tutti i corpi allo stesso modo non è osservabile>>. 18) D. HUME, op. cit., lib. I, parte III , sez. VI. 19) La dialettica greca, da Hegel a Gadamer, è stata sempre considerata giustamente il cuore della razionalità filosofica. Tuttavia nessuno si è reso conto che essa poggia interamente su argomentazioni controfattuali. Anche senza affrontare i dialoghi di Platone, è sufficiente leggere i frammenti di Melisso (ad esempio, DK 30 B 7- 8) per scoprire che i condizionali controfattuali costituiscono lo spazio logico della dialettica. E' sicuramente giusto sottolineare il momento elenctico, tipico dell'argomentazione filosofica greca, ma senza un serio esame delle strutture controfattuali sottostanti sarà impossibile comprendere la vera natura della dialettica e della razionalità del mondo greco. 42 20) Per la mentalità greca i processi dissipativi hanno un valore meramente locale e non globale, riguardano cioè le singole sostanze, ma non la processulità cosmica nella sua interezza. 21) ARISTOTELE, Metaph., I 3, 983b 6-13. 22) K. von FRITZ, op. cit., p. 38. 23) Y. ELKANA, La scoperta della conservazione dell'energia, trad. it., Feltrinelli, Milano, 1977, p. 13, sottolinea giustamente che la lunga storia attraverso cui emerge il moderno concetto di energia mostra quanto la scienza <<sia radicata nella metafisica>>, nel senso che fu proprio la <<fede nel principio che qualcosa si conserva in natura a condurre a quell'attività di creazione concettuale che sfociò infine nello sviluppo del concetto di energia>>. Ad Elkana sfugge, tuttavia, il fatto che è stato proprio il pensiero greco a fare delle proprietà conservative il quadro strutturale della scienza. Causalità e principi di conservazione costituiscono infatti il plesso inscindibile da cui nasce la mentalità scientifica. Le attuali critiche al concetto di causalità, provenienti soprattutto dalle interpretazioni della meccanica quantistica, sembrano dimenticare questo legame strutturale tra causalità e principi di conservazione. Dubito che possano valere ancora i principi di conservazione in una fisica che elimini la causalità, proclamando "la causalità impossibile". 24) Una delle condizioni di possibilità della conoscenza scientifica è data dal postulato che in natura non tutto è possibile: paradossalmente, un mondo in cui tutto fosse possibile renderebbe impossibile la scienza (cfr. L. CONTI, Possibilità realizzabili e potenzialità tecnologiche, in M. BALDINI (ed), L'uomo la tecnica e Dio, Centro Editoriale Dehoniano, Bologna, 1994, pp. 6373). 25) ARISTOTELE, Eth. nic., VI 2, 1139b 7-11. 26) Epitteto (cfr. W. C. KNEALE - M. KNEALE, Storia della logica, trad. it., Einaudi, Torino, 1972, p. 144 ) ci ha lasciato la seguente versione completa dell'argomentazione di Diodoro Crono: <<L'Argomento Dominante sembra sia stato formulato movendo da premesse come quelle che seguono. V'è un'incompatibilità tra le tre seguenti proposizioni: "ogni cosa, che è passata e vera, è necessaria", "l'impossibile non segue dal possibile", "Ciò che né è, né sarà, è possibile". In considerazione di questa incompatibilità Diodoro usò l'attendibilità delle prime due proposizioni per stabilire la tesi che è possibile solo ciò che o è vero, o sarà vero>>. 27) Cfr. P.-M. SCUHL, Le Dominateur et les possibles, Paris, 1960. 28) PLATONE, Timeo, 19 C - 26 E. 29) DK 12 B 1. 30) M. HEIDEGGER, Sentieri interrotti, trad. it., La Nuova Italia, Firenze, 1968, p. 307. 31) A. PICHOT, La nascita della scienza. Mesopotamia, Egitto, Grecia antica, trad. it., Edizioni Dedalo, Bari, 1993, p. 326. 32) Ch. MUGLER, Deux thèmes de la cosmologie grecque: devenir cyclique et pluralité des mondes, Librairie C. Klincksieck, Paris, 1953, p. 20. Lo studio più ampio su Anassimandro resta quello di Ch. H. KAHN, Anaximander and the origins of greek cosmology, Columbia University Press, 1960, tuttavia nel presente lavoro seguiremo soprattutto il lavoro di Mugler, verso ci riconosciamo profondamente debitori. 43 33) Cfr. MUGLER, op. cit., pp. 13-15. 34) DK 12 A 11. 35) DK 12 A 10, 11, 12. 36) DK 12 A 10. Anassimandro, a quanto tramanda Plutarco, sostenne che l'uomo da principio fu generato da altre specie viventi, perché <<mentre gli altri viventi si nutrono subito da sé, solo l'uomo ha bisogno per molto tempodelle cure della nutrice: ora (ecco l'argomentazione controfattuale) se all'inizio fosse stato tale[com'è adesso] non avrebbe potuto sopravvivere>>. 37) MUGLER, op. cit., p. 20. 38) Ibidem. 39) DK 28 B 8. 40) MUGLER, op. cit., p. 16. 41) M. ELIADE, Il mito dell'eterno ritorno, trad. it., Borla, Torino, 1966, p. 70. 42) M. ELIADE, op. cit., p. 159. A proposito delle differenze fra tempo statico e tempo dinamico cfr. L. CONTI, Teilhard de Chardin e la prevedibilità del fenomeno evolutivo, in <<Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia>> Università degli Studi di Perugia, vol. XXXII, pp. 341402, L. CONTI, Il tempo e il problema del futuro, in G. BONOMI (ed.), Il tempo. Scienza, cultura ed educazione, Irrsae Umbria, Città di Castello, 1999, pp. 117-139. 43) P. DAVIES, Gli ultimi tre minuti, trad. it., Sansoni, Firenze, 1995, p. 146. 44) EPICURO, Ep. ad Men., 133-134. 45) In senso rigoroso dell'esistenza di Dio non si dà dimostrazione vera e propria, perché dimostrare significa dedurre una conclusione da premesse. Ma un Dio la cui esistenza dipendesse da premesse non sarebbe più il Dio incondizionato e assoluto. Se proprio si vuol parlare di prove dell'esistenza di Dio, allora bisogna dire che la semplice esistenza di qualcosa è l'autentica prova dell'esistenza di Dio. In realtà, il vero problema non è l'esistenza di Dio, ma Chi è Dio. L'autentico problema filosofico consiste infatti nell'alternativa fra immanentismo e trascendenza: Dio è un Essere trascendente il mondo o non è altro che l'universo stesso nella sua globalità? Molto spesso si scambia l'ateismo con l'immanentismo, cioè con le divinizzazioni del mondo o di qualche aspetto della realtà fisica. La stessa molteplicità di forme di religiosità, in generale, attesta che la questione cruciale non riguarda l'esistenza di Dio, ammessa da quasi tutte le religioni, ma Chi e Dio. Il compito proprio della filosofia consiste nel mostrare dialetticamente (controfattualisticamente) l'aporeticità delle sempre ricorrenti tentazioni idolatriche di divinizzazione del mondo. 46) DK 22 B 30. 47) L'eternità come perenne durata atemporale (aion) è chiaramente definita da Parmenide (DK 28 B 8) da Platone (Tim, 37 e) e da Aristotele (Phys. IV 12, 221b 3). 48) PLATONE, Tim., 37 D. 44 49) Cfr. 2Mac 7,28. 50) Sul fatto che <<non c'è posto nella coscienza umana per l'esperienza dell'inizio>> ha insistito giustamente P. GIBERT, Bibbia, miti e racconti dell'inizio, trad. it., Queriniana, Brescia, 1993, pp. 27-44. Per inquadrare in via preliminare i problemi sollevati dall'interpretazione dei primi capitoli della Genesi cfr. E. van WOLDE, Racconti dell'inizio. Genesi 1-11 e altri racconti di creazione, trad. it., Queriniana, Brescia, 1999; I. ASIMOV, In principio. Il libro della Genesi interpretato alla luce della scienza, trad. it., Milano, 1997. ----Lino Conti è nato a Città di Castello, nel 1947. Insegna "Storia del pensiero scientifico" presso l'Università di Perugia. Ha svolto attività didattica e di ricerca presso l'Università di Padova. Si occupa di tematiche concernenti la storia e la filosofia della scienza, con particolare riferimento alla nascita della scienza moderna (Galilei). Tra i saggi pubblicati: I no della scienza (1982); Giuseppe Neri un matematico aristotelico (1990); Il cuore dal circolo cosmico al trapianto (1997); Dio e le dinamiche della natura (1997). E-mail: [email protected] 45 Sum ergo cogito Intorno al rivolgimento dell'emblematica divisa del pensiero cartesiano ed alla conseguente messa in discussione del sistema (Bruno d'Ausser Berrau) In un nostro recente lavoro - JANUA INFERNI - pubblicato sul primo numero di questa rivista, abbiamo preso in considerazione il vulnus, provocato dal pensiero cartesiano, in seguito all'eliminazione dell'elemento intermediario dal disegno della struttura cosmologica tradizionale e della conseguente polarizzazione dell'immagine del reale in spirito e materia (res cogitans et res extensa); dicotomia intorno alla quale si è poi sviluppato il pensiero di questo filosofo, che tanta parte ha avuto nella creazione delle premesse ideologiche sulle quali è andato formandosi il mondo moderno. Sviluppo questo, alieno, forse, dalla sua volontà e dalle sue intenzioni. 1 Non avendolo particolarmente trattato nell'articolo citato, vorremo ora prendere in considerazione il concetto di coscienza di sé, quale ente, propria ad un individuo, che il Nostro esprime con la nota formula, 2 polemicamente invertita nel titolo del presente studio. Intorno al concetto di coscienza, con gli sviluppi della moderna filosofia, s'è venuta a formare un'aura di carattere morale, intrinseca ad un'indagine che investa soprattutto le relazioni dell'anima con se stessa e dove quindi le capacità d'esame e d'autogiudizio prevalgano su quelle conoscitive, considerate allora quali semplici supporti delle altre per l'immediatezza loro propria nell'ambito del foro interiore. Caratteristica di questa deriva, subita dal concetto di coscienza, sono l'uso di essa e del suo contrario in psicanalisi. Qui, invece, si vuole prendere in esame quello che già Platone ed Aristotele, intendevano e che fa espresso riferimento a ciò che potremmo definire la consapevolezza del nostro stato: la συνειδησις insomma. In questo senso, attraverso l'autoevidenza esistenziale, Cartesio pone nella chiarezza e nella distinzione (clarté et distinction) di ciò che si presenta all'attenzione del soggetto, le basi della sua idea d'evidenza; sottolineandone - in ANTR. I. 6 - l'aspetto analitico ed induttivo quando, ivi, afferma che è dalla somma delle rappresentazioni, nella quale sia pensato l'ordine di una molteplicità, che scaturisce la conoscenza. Ben altrimenti, nelle REGULÆ AD DIRECTIONEM INGENII, aveva escluso il giudizio soggettivo dalla stessa, avendola invece collegata all'immediatezza sintetica della facoltà intuitiva che, correttamente, svincolava dai limiti individuali della testimonia dei sensi (il mondo corporeo) e dell'immaginazione (il mondo intermediario) per farne una pura concezione dello spirito (il mondo intellettuale). Egli, rispettando anche la tripartizione cosmologica, era rimasto, pertanto, entro i termini della rappresentazione catalettica (φαντασια καταληπτικη), tale quale era stata espressa dagli antichi: vale a dire, l'evidenza come conseguenza di un atto dell'intelletto, il quale garantisce la piena congruenza dell'oggetto con la sua rappresentazione. Se le sue riflessioni avessero continuato a procedere in questo modo, non si sarebbero chiuse come, di fatto, poi avvenne, le vie in grado di condurre ad una reale possibilità di comprensione della vera e complessa natura dell'uomo. Natura, le cui potenzialità oltrepassano, con certezza universalmente condivisa ancorché molto diversamente motivata, la modalità corporea; esse, come ammette anche la moderna psicologia, si sviluppano in estensione indefinita dalla realtà concreta al piano psichico. Piano dove ha sede anche la facoltà di raziocinio ma, ciò nonostante, questo livello resta pur sempre un'espressione esteriore e transeunte dell'Essere dove si collocano 46 le possibilità dell'intelletto.3 Le potenzialità dunque della condizione umana corrispondono con quest'essenza ontologica, che attinge l'infinito e che, pertanto, è tutt'uno con la stessa ragion sufficiente di quel composto instabile e contingente che è la "sottostante", fragile individualità. Questo passo fatale per il pensiero occidentale, si verificò a ragione di circostanze che, forse, oggi sarebbero classificate sotto la banalizzante etichetta di <<momento di depressione>>: infatti, essendo Cartesio giunto ad una fase della sua esistenza nella quale gli parve come ogni suo sapere potesse essere messo in dubbio, sentì allora la necessità di rifondare ab imis fundamentis ogni approccio conoscitivo e fu quindi proprio nell'evidenza del proprio pensare che trovò stabilità e certezza. È per questo, che il cogito ergo sum assunse il ruolo di divisa del sistema, con tutte le limitazioni inerenti ad una personale teoria della conoscenza, messa a fronte della possibilità offerta da un diretto approccio alla conoscenza stessa. Il limite metafisico di tale assunto filosofico è presto detto e non è vuoto gioco verbale affermare come la corretta impostazione del problema stia nell'inversione dei termini: sum ergo cogito; formula con la quale la principialità ontologica appare giustamente evidenziata rispetto alla coscienza di sé. Non si vuole qui mettere in forse che, per la prospettiva individuale, questa coscienza, abbia un ruolo rilevante perché, nella finzione logica del dubbio totalizzante, escogitata da Cartesio nell'impostare sa méthode, anche il dubitare di pensare è già un pensare e questo costituisce, sicuramente, uno dei fondamenti di un certo modo di essere; soltanto che, per questa via, non resta altra strada dalla mera elaborazione di carattere razionale, le cui premesse sono di ordine esclusivamente individuale e non si basano su quell'immediata evidenza concettuale che è propria del dominio dell'intelletto. Nella percezione del proprio pensiero, si esprime una riflessione, la quale anche in ottica, non è una visione diretta e non è, pertanto, una conoscenza effettiva. A questo punto, è necessario fare presente come, la possibilità di esprimere discorsivamente, ovverosia con gli strumenti offerti dal dominio intermediario quanto attiene alla pura metafisica, trova, nella stessa natura di quest'ultima, un limite invalicabile ed è perciò attraverso l'analogia ed il simbolismo che queste realtà sono sempre state rappresentate. L'abbandono o meglio l'incomprensione ed il susseguente abbandono di queste forme espressive, date le premesse filosofiche della cultura europea, 4 non potevano risolversi in maniera diversa da quanto ha fatto Cartesio e questo ha aperto tutto un ventaglio di opportunità, le quali erano state, sino allora, in una condizione di latenza ma che, a quel punto, hanno trovato modo di manifestarsi. È per questo che, chi non riesca a farsi cognizione della vera natura della metafisica tradizionale, può magari ritenersi - per tutta una serie di negative reazioni sentimentali, generate in lui dalla società circostante sinceramente ed attivamente antimoderno ma ciò non gli impedirà di essere non meno coinvolto e soprattutto non meno intimamente partecipe delle conseguenze sociali ed in particolar modo culturali, proprie allo spirito contemporaneo. Ma torniamo alla conoscenza di sé come riflessione; quest'ultima implica la presenza di un oggetto riflesso e quella di un soggetto che ne contempli l'immagine: nella fattispecie, l'oggetto è l'Essere puro, che, nello specchio5 della psiche, "proietta" la propria "immagine" (il cogito), dalla quale, il soggetto individuale, trae la percezione della propria esistenza. L'exsistentia, il sum (l'ego sum), implica tutta la distanza (l'ex stare), che intercorre tra i due. È per questo motivo che, se il concetto generale di evidenza è così impostato, la dualità tra soggetto ed oggetto diviene insuperabile, trasferendo la scissione anche al dominio delle articolazioni del reale con una separazione senza intermediazioni tra materia e spirito. Spirito, sia ben inteso, che, in tal caso decade a flatus vocis, coincidendo, di fatto, con la promozione del riflesso al rango del riflettente. La percezione diretta dell'Essere richiede invece un annullamento della distanza ossia il passaggio dall'ex stare al suo principio immediato e questo, per prodursi effettivamente, comporta una disposizione attiva, che implica, nell'essere individuato, il 47 superamento dei limiti propri alla sua condizione e la realizzazione effettiva, in sé, della coincidentia oppositorum o di quelli che, solo una prospettiva contingente faceva apparire tali. Nessuno pretende che Cartesio, personalmente, si dedicasse ad una via unitiva 6 di quest'ordine ma è d'averne tagliato le radici dottrinarie nella cultura dell'Occidente che gli si fa carico. Nel mondo premoderno, le caratteristiche personali entravano in gioco soltanto sul piano delle capacità intellettive, dell'efficacia espositiva o della didattica, poiché i dati tradizionali di riferimento restavano per tutti immutati non essendo essi il frutto del pensiero di alcuno ma avendo invece un'origine essenzialmente sopraindividuale. È in questo specifico senso che si è potuto affermare esserne "non umana" la fonte e, in termini religiosi, se n'è asseverata la natura divina. Nel contempo, a contrario, allorché s'è perso il concetto di cosa significasse il limite dell'individualità, ogni "pensatore" ha teso a creare un proprio sistema filosofico, una propria Weltanschauung, ingegnandosi affinché ogni parte di essa, compresa un'elaborata e specifica terminologia, avesse l'impronta dell'ego. Sembra, a questo punto, d'aver chiarito come mai, quella che possiamo definire coscienza di sé, lungi dall'essere uno status privilegiato è, nell'ambito della possibilità universale, soltanto uno dei compossibili (einer von den Kompossibelen) e, per la precisione, peculiare al piano d'esistenza relativo a quest'umanità. Essa non corrisponde ad una posizione particolarmente favorita poiché implica, come abbiamo visto, una distanza tra soggetto ed oggetto, dove l'oggetto è, nientemeno, che la ragion sufficiente della controparte. L'eventuale annullamento dello iato è allora funzione di quell'azione del soggetto, definita realizzazione, la quale si caratterizza come un'attività eminentemente intellettuale ma così centrale da essere ritenuta, in certi ambiti tradizionali, 7 il primo dovere per chi partecipi dell'umana natura. In effetti, tutte le regole e le relazioni imposte dalle norme, che reggevano e parzialmente ancora reggono ciò che di premoderno sopravvive nella società, siano esse a carattere religioso, come avviene per il filum abraminico, siano altrimenti configurate, non hanno proposito diverso da quello di ordinare, il composto individuale e l'ambiente che lo circonda, in vista di permettere l'espletamento di quella "operatività" il cui fine ultimo, da parte di coloro che, qualificati, n'avvertono l'esigenza, sarà il raggiungimento di tale supremo obiettivo. Si deve inoltre far osservare come, il piano di riflessione (lo speculum animico), indipendentemente dalla sua eliminazione nel sistema cartesiano, cancellazione esclusivamente teorica e con conseguenze soltanto per coloro che a quella visione hanno aderito ma non certo con effetti a livello cosmologico, possa non avere ruolo di sorta per alcuni esseri. Tra questi, oltre a coloro che, partendo dalla condizione umana, realizzano stati sopraindividuali, dovremmo annoverare quelli che, in tali stati superiori dell'essere, si trovano di per sé 8 e quelli, viceversa, la cui esistenza si svolge al di sotto dello status di esseri "animati". Questi ultimi, per detta ragione, di per sé evidente, non hanno la facoltà riflessiva (nelle due accezioni dell'espressione) e, semplicemente, sono. Cercando di riassumere i punti principali, intorno ai quali s'articola il sistema cartesiano, diremmo come essi siano riconducibili a cinque fondamenti. In tale elenco, il primo posto spetta sicuramente al cogito, essendo il criterio stesso del concetto d'evidenza. Seguono le ideæ, che, indicate quali contenuto del cogito, sono i più immediati oggetti di conoscenza; il problema sta tutto nella sua già indagata natura: per essa, queste, pur sotto stesso nome, non sono affatto le idee di Platone ovvero non appartengono all'universale, quali specie uniche e originali, intuibili in una qualsivoglia molteplicità ma sono semplici oggetti del pensiero individuale ed appartengono pertanto alla gerarchicamente inferiore categoria del generale. Sono, in altre parole, il risultato di un lavoro teorico, di un'astrazione che, di per sé, appartiene all'ambito del pensiero razionale e non a quello dell'intuizione intellettuale. Quali massi erratici, staccatisi dalla rocca della perduta metafisica, emergono, in questo paesaggio soggettivista, le idee innate; intese come 48 <<capacità di pensare e di comprendere le essenze vere, immutabili ed eterne delle cose>> 9. Naturalmente, se il concetto di evidenza non è definito secondo i parametri della rappresentazione catalettica o comprensiva che dir si voglia, non si capisce come quest'ordine di idee possa darsi ed allora ci sembrano esse i relitti difformi di tutt'altra visione del mondo, lì presenti, in un ambiente alieno, costruito con tutt'altra logica e scopi, a testimonianza di non espresse o di non esprimibili ragioni. Al terzo posto di questo sistema potremmo collocare la ratio che, attraverso le idee, sarebbe, secondo il Nostro, lo strumento principe per giungere al vero; essa fa ricorso al responso della subordinata experientia soltanto nel caso della necessità di dover dirimere tra alternative equivalenti. La differenza con Bacone è che, in questi - nell'acquisizione della certezza piuttosto che nella rimozione del dubbio - è l'ultima che sembra prevalere sulla precedente; da lui chiamata, implementandone l'aspetto dialettico,10 argumentum. Ciò, a dimostrazione delle posizioni sicuramente più radicali, sempre caratteristiche del filosofo inglese. Quinto ed ultimo caposaldo del sistema, conseguenza di tutte le scelte gnoseologiche fin qui enumerate, è la divisione della realtà in sostanza pensante e sostanza estesa, dove le due res prive di un medium di collegamento, seguono leggi diverse ed incomunicabili con risultati veramente rivoluzionari sul modo di pensare il mondo. Tali contraccolpi culturali sono stati esaminati, con maggiore attenzione, nel nostro precedente e già citato lavoro ma qui vorremmo limitarci a sottolineare che, nella visione tradizionale, la vita e tutto ciò che esiste coincidono: in altri termini, per mettere in rilievo tutta la differenza tra l'antica e l'attuale concezione del tema è opportuno fare presente come, pur collocandosi secondo quella gerarchia della consapevolezza supra indagata, anche il mondo minerale appartenga pienamente alla vita.11 Per Cartesio invece mentre la res extensa è retta dalle leggi meccaniche, la res cogitans, essendo puro pensiero e perciò priva di qualsivoglia rapporto con la vita, è caratterizzata dalla libertà. Questo fa sì che, un evento liminare, quale la morte, non potrà avere altra origine se non corporea e perciò il distacco dell'anima sarà sempre un effetto e mai una causa. Quando, al contrario, nella cosmologia tradizionale, la radice d'ogni evento materiale è proprio nella materia subtilis, la quale, a sua volta, ha il suo principio nel mundus intellectualis, con le fondamentali implicazioni teologiche relative ai concetti di Provvidenza e Grazia nonché a quelle contenute in qualsivoglia visione escatologica della storia.12 È chiaro quindi come siano queste le premesse per poi giungere, in altri tempi e presso altri filosofi, alla teorizzazione della superfluità di qualsiasi idea di trascendenza nei confronti della realtà grossolana. C'è un'ultimissima considerazione da fare ed è che, paradossalmente, ma non senza una certa perversa logica, le premesse suddette furono elaborate dal Nostro nel pio intento di fornire nuove armi teoretiche per la difesa dell'ortodossia cattolica, proprio perché, apparentemente infranto l'antico silenzio della riservatezza esoterica, tutto l'affiorare rinascimentale, di tante scienze tradizionali, veicolato e, per di più, ampiamente diffuso dai nuovi mezzi di comunicazione, era percepito, da molti timorosi spiriti exoterici, quale travisamento ed insidiosa minaccia per la fede. Una dimostrazione in più, se ce ne fosse bisogno, di come, dietro il trepido letteralismo e l'ottusa chiusura delle posizioni tradizionaliste, troppo spesso, si celi e riesca a guadagnare ampi spazi di consenso l'azione dissolvente di potenti forze antitradizionali. Note 1 È stato lontano dal suo atteggiamento personale intraprendere la strada del libero esame in materia di fede (cfr. il presente studio in fine) ed in merito all'assetto dell'ordine sociale del suo tempo; anzi, si può dire che, avendo egli affermato espressamente di voler restar legato alla religione dei suoi padri ed alle leggi della sua epoca, abbia ben intravisto dove avrebbe potuto portare la strada che 49 stava aprendo ma, con una forzatura logica, con un atto di volontà chissà in qual modo intimamente motivato, si sia impedito di percorrerla sino in fondo. Intraprendenza o opportunità che ad altri, quando i tempi furono maturi, non mancò certo ed i risultati eversivi rispetto al vecchio mondo sono sotto i nostri occhi nonostante che il cammino non sia stato ancora percorso sino ai suoi limiti estremi. 2 DISCOURS, IV; MÉD. II.6. 3 In via analogica, prendendo ad esempio il discorso geometrico, il dominio intellettuale - spirito ed intelletto sono qui sinonimi ed appartengono all'universale - corrisponde gerarchicamente alla collocazione dei postulati, la cui evidenza è immediatamente intuibile mentre, su di essi, per logica deduzione, può essere impostata tutta la successiva costruzione: è questo specifico momento, di riflessione ed elaborazione, che, ontologicamente, viene appunto per secondo ed appartiene, insieme a tutte le facoltà della psiche, ragione compresa, al mondo intermediario, cui sono propri i limiti dello stato individuale. 4 Non bisogna dimenticare che, già con Bacone, c'era stato il rigetto dell'apparato sillogistico e, soprattutto, della scienza fisica ereditati da Aristotele perché proprio dalla totalmente nuova concezione delle scienze, rette da esigenze eminentemente utilitaristiche, è sorta la necessità di un rinnovamento del metodo conoscitivo. Si può dire che Bacone abbia messo in evidenza la necessità d'assolvere certe esigenze mentre è a Cartesio che spetta il primo tentativo di risposta, realizzato con la costruzione di un vero e proprio sistema di pensiero a ciò destinato. 5 Da questo ben preciso processo deriva anche il verbo speculare inteso nell'accezione di studiare ed in quella, costruita sulla stessa metafora, di riflettere. Nei limiti, impliciti a questa specifica condizione rientra anche il caso della Massoneria Speculativa a fronte dell'immediatezza concettuale di quella Operativa. Per le caratteristiche e la storia delle relazioni tra le due, vd. il ns. MYSTERIA LATOMORUM, pubblicato sul n. 2 di questa rivista. 6 Qui si è voluto semplificare per necessità espositive ma è chiaro come un processo di realizzazione comporti un'indefinita gradazione di stazioni intermedie e quindi la coincidentia interiore, sebbene possa avvenire con stati ontologici superiori alla condizione individuale, non necessariamente deve essa situarsi a livello del principio immediato dell'esistenza come, per altro verso, può ben superarlo per raggiungere, al di là d'ogni determinazione, il dominio di quella che la tradizione cristiana chiama teologia negativa. 7 Il fine effettivo della realizzazione è la liberazione da ogni stato condizionato e quest'obiettivo, chiamato in skr. moksha, è, appunto nell'Induismo, espressamente definito quale fine supremo dell'uomo. 8 Anche se certa stucchevole olografia degli ultimi secoli ha culturalmente eroso la definizione tradizionale, tali esseri sono in linguaggio religioso gli Angeli; in quello metafisico, gli stati superiori dell'Essere. 9 MÉD.; III; LETTRE A MERSENNE, 16.06.1641, ŒUVR. ; III. 383. Considerato il destinatario, le perplessità potrebbero trovare conferma in una possibile captatio benevolentiæ. 10 S. Tommaso - in DE VER.; Q. 14, A. 2, OB. 14 - infatti, afferma: <<….dicesi argumentum ciò che convince (arguit) la mente ad assentire qualcosa>>. 11 Sta lì il motivo di quelle raccolte medievali, che vanno sotto il titolo di lapidari e che s'accompagnavano alle altre dedicate ai due rimanenti regni della natura e note come florari e bestiari. 50 12 Esprimendosi nel linguaggio della teologia cattolica, si può, infatti, affermare come sia in questa precisa catena di dipendenze che si struttura il piano provvidenziale del mondo creato ed al quale nulla può sfuggire. Tale piano, gerarchicamente ordinato, abbraccia anche la libertà delle creature senza che essa debba perciò esserne totalmente annullata (<<come un cane alla catena>>, è detto nell'Induismo). Così Dio, nella sua eternità, dirige il corso del mondo dando un senso escatologico alla storia. A questo scopo Dio usa le forze immanenti al mondo e da lui stesso create manifestando per tali vie la sua grazia. ***** Decadenza del raziocinio Dal razionalismo all'assurdo, passando per l'arbitrario (Bruno d'Ausser Berrau) In due nostri precedenti lavori1 abbiamo affrontato il problema costituito, sia dal ruolo che Cartesio svolge nel mettere le basi del razionalismo e sia, quindi, di quello del nascere, nei paesi di cultura europea, dell'illusione, all'epoca fortemente innovativa, della supremazia della ragione. L'impostazione di un metodo gnoseologico siffatto ha comportato la negazione di tutto quanto è pertinente al dominio sopra-individuale, con la conseguenza che la pura intuizione intellettuale ha cessato di svolgere qualsivoglia funzione nell'approccio epistemologico al reale. È così cominciata un'irreversibile crisi della comprensione della metafisica, dalla quale, tutti i segnali che ci giungono, attraverso i più recenti sviluppi filosofici, contribuiscono a rafforzare la percezione di un progressivo allontanamento culturale la cui entità appare, in sostanza, ormai incolmabile. Nella tripartizione dell'antropologia tradizionale - corpo, anima/psiche, spirito/intelletto - è appunto quest'ultimo,2 che si pone in posizione sopra-individuale, appartenendo il composto3 individuale al dominio psichico intermediario custode anche delle capacità logicorazionali.4 È quindi evidente come la confusione cartesiana di ragione ed intelletto, con la reductio antropologica binaria, abbia innescato una progressione delle istanze sociali e filosofiche di carattere individualistico e di portata eversiva nei riguardi del vecchio ordine. Questo, nonostante che il Nostro non abbia mai manifestato velleità di sorta sul piano politico-sociale e neppure su quello propriamente confessionale nonostante che il Protestantesimo, con l'introduzione del libero esame, abbia, in qualche modo, messo le premesse per l'accettazione di analoghi atteggiamenti anche in altri contesti. Da qui, si comprende perché, nella successiva storia del pensiero, razionalismo ed individualismo abbiano dato origine a potenti sinergie e soltanto in epoche recenti sembra sia proprio il razionalismo a mostrarsi soccombente in quest'infausta ma forse logora alleanza. Il metodo cartesiano è, di per sé, un procedimento semplificatorio, 5 consistendo, nell'affrontare un problema, col ridurlo ai suoi elementi inferiori. La necessità di semplificare, da esso appunto introdotta, ha portato, quale logico sviluppo, ad una tendenza verso la quantità pura, proprio perché questa rappresenta il massimo della semplicità. Semplicità, il cui limite - che di per sé non può appartenere al concreto 6 - sarà dato da un insieme indefinito di unità uguali tra loro ovvero dalla molteplicità numerica: unico dominio essa dell'assoluta "esattezza",7 altrimenti illusorio attributo d'ogni altra scienza. Stupisce quindi come certi neo-cartesiani lamentino la metastasi della formalizzazione matematica nelle scienze 51 contemporanee, quando i germi di questa patologia erano tutti racchiusi nel semplicismo de la méthode. Soppresso, appunto, tutto il dominio sopra-individuale, la logica conseguenza, attinta dalle speculazioni dei successori, è stata quella di ricondurre la parte individuale (a livello d'antropologia e di concezioni filosofiche) alla sola modalità dell'ordine sensibile, intesa, disomogeneamente, come un semplice aggregato di componenti quantitativi. Ma, su tale pervasiva riduzione di tutto alla quantità ritorneremo tra poco nell'esaminare a cosa questa tendenza ha portato anche nell'ambito matematico propriamente detto. Passiamo adesso al caso particolare, che ha provocato queste riflessioni: esiste, dagli inizi della moderna cartografia, un problema topologico definito dei «quattro colori». Esso consiste nella constatazione empirica che, per attribuire alle differenti entità statali rappresentate su una mappa, i rispettivi colori in modo che nessuna abbia a condividerne qualcuno con le confinanti, sì da generare confusione, siano necessari ed appunto sufficienti quattro colori. Negli annali della matematica, questa dimostrazione sinora manca ma quello che ci ha stupito è stato apprendere, come, un professore dell'Università di Lione 1, Nikos Lygeros, 8 desse invece la cosa per acquisita in virtù dei risultati ottenuti dall'aver messo in atto una procedura fondata su un'idea della dimostrazione che è agli antipodi di quella intesa da chi abbia una formazione matematica evidentemente non aggiornatissima. L'intero processo logico è superato, non assegnandolo, almeno parzialmente, al computer, il che sarebbe ancora accettabile pur dubitando che le attuali macchine ne sarebbero capaci, ma abbandonando del tutto i passaggi del procedimento dimostrativo per far eseguire al programma un'indefinita iterazione delle verifiche dell'assunto. La cosa, in quella che per noi era una novità, all'inizio c'era sembrata una bizzarria anche perché, affidare al metodo sperimentale un'ipotesi di carattere matematico, sul piano tecnico, veniva platealmente a collidere col concetto stesso di esattezza (cfr. supra, n. 6) mentre su quello - diciamo così morale, appariva, francamente, una superflua abdicazione alle possibilità della logica. Superata questa fase di sconcerto e cercando di capire quali fossero i fondamenti di tale atteggiamento è venuto in luce come queste tesi siano, alla radice, assai più antiche di quello che non appaia. Il dibattito, perché è di dibattito che si tratta, nasce, in apparenza, col sorgere della scienza moderna e, in effetti, a quel momento, si verifica soltanto un riaffiorare, con nuove forze, di temi anti-aristotelici già ampiamente sviluppati dai sofisti empiristi e da Democrito. Tutti questi contestano che, il solo modo di giungere al vero sia il discorso deduttivo, impostato su una successione sillogistica, scaturita da una base d'assiomi la cui realtà è tale per intuizione immediata: essi invece ritengono che gli stessi principi siano spiegabili attraverso le loro conseguenze et vice versa. Un'altra figura chiave è proprio quel Carneade (di Cirene, -214/-129) di manzoniana memoria, che riteneva impossibile ogni corrispondenza tra la realtà esterna e la sua rappresentazione: 9 un nesso tra loro poteva, infatti, avvenire soltanto sotto forma di due rappresentazioni, riconducendo pertanto qualsiasi atto cognitivo all'interno della stessa funzione rappresentativa di per sé priva di qualsiasi capacità costrittiva all'"assenso". È evidente come una posizione del genere portasse al più totale scetticismo. L'impasse era superato attraverso l'affermazione che, qualsivoglia fenomeno, pur non potendo sfuggire al limite gnoseologico della rappresentatività, fosse nondimeno noto. Tutto ciò, oltre a ridurre la conoscenza alla fenomenologia, implicava che ogni fenomeno acquisisse realtà soltanto nella misura in cui fosse in grado di "convincerci" del suo essere tale. Questo concetto della "persuasività" (πιθανοτης) del fatto è stato tradotto da Cicerone con probabilitas (ab origo i.e: approvabilità) ed è secondo tale criterio probabilistico che Carneade ritiene debba essere osservato, sia il reale (per lui limitato al fenomeno, non dimentichiamolo), sia le sue interpretazioni. Ora il grado di possibilità di un fatto, cioè la rilevazione statistica della relativa uniformità della frequenza di un certo evento è quello prescelto dal Lygeros nella 52 sua nuova fattispecie "dimostrativa" del problema dei «quattro colori». Non solo, esso si basa su quella tendenza di tutto riportare all'uniformità, tipica delle scienze attuali ossia quella di ammettere che possano esistere fenomeni identici (già nella Στοα era invece ben noto quel principio metafisico che, da Cicerone, 10 trae nome di identitas indiscernibilium; esso fu ripreso da Cusano11 ed asseverato da Leibniz12) ma tale approccio, concettualmente errato, applicato ai fenomeni fisici, diventa una vera aberrazione introdotto nell'ambito dell'analysis situs ossia in un contesto strettamente geometrico-matematico però rilevante perché è attraverso questo tipo d'analisi che ben s'apprezza la connessione della matematica con la realtà sensibile ovvero con la fisica. Essendo, infatti, la matematica l'unica scienza alla quale si può, come già detto, correttamente applicare la qualifica di "esatta", la messa in atto, al suo interno, di un procedimento "empirico" si rivela, appunto, un'aperta contraddizione in termini. Ma ricordiamoci cos'è necessario per poter effettuare una dimostrazione (αποδειξις); innanzitutto, bisogna avere il pieno possesso della facoltà intuitiva (intelletto), poi è indispensabile la padronanza delle capacità razionali (psiche): con la prima si sceglieranno i pochi postulati (principi assiomatici, intuitivamente veri) dai quali far discendere, in logica concatenazione, la serie di proposizioni13 che ci condurranno al teorema preso in considerazione. L'economia, la funzionalità e l'esaustività dell'intero processo sillogistico ne costituiranno l'eleganza, da non intendersi secondo un criterio meramente estetico-stilistico ma piuttosto secondo un canone d'efficacia architettonica. Sia la necessità dell'evidenza intuitiva, sia quella della correttezza formale della deduzione sono - ai fini del valore probatorio sul piano gnoseologico della conclusione - importanti anche per Cartesio. La cosa è rilevante, perché, la necessità di quest'ordine d'evidenza convive, nel suo sistema, con il concetto delle «idee innate», labile permanenza di una traccia metafisica non soppiantata dal formalismo razionalista. Bisogna precisare che Cartesio, nella sua teoria della conoscenza, confonde i due piani e, mentre concede la verità a priori degli assiomi - esemplificandoli proprio col more geometrico - n'assegna l'appartenenza all'ambito delle idee «chiare e distinte», le quali, pei loro due attributi, cioè nella loro "esattezza", sono però di pertinenza della ratio e non del "soprastante" intellectus. Per questi antecedenti antichi, non è senz'altro un caso che la scienza moderna abbia potuto svilupparsi soltanto dopo la massiva reintroduzione in Occidente della cultura classica e, in particolare, di quella della civiltà ellenistica.14 La precisazione s'impone perché è proprio in quel periodo che, nell'approccio epistemologico greco, non solo a livello della Gestalt ma, letteralmente, nel suo intero paradigma, s'era verificato un fondamentale mutamento: piuttosto che a fini di purezza conoscitiva, com'era avvenuto nel periodo classico, quel pensiero s'era allora volto a tutta una serie di realizzazioni pratiche. E qui, è bene dare qualche maggiore dettaglio: con singolare parallelismo nei confronti delle fasi relative alla nascita del mondo moderno, questa trasformazione comportò l'individualizzazione delle concezioni e la sostituzione dell'intellettualità con un esplicito razionalismo filosofico mentre, di conserva, nascevano sia un grande interesse per le scienze, sia (ma questo pur essendo cosa della massima rilevanza non è mai stato sufficientemente messo in evidenza) 15 venivano messe a punto una serie di sorprendenti ricadute sul piano tecnologico. Per l'incontrovertibile, ininterrotta continuità storica16 del mondo ellenistico, proseguito nel contesto dell'Impero di Roma e di questo in quello costantinopolitano-bizantino, è nota la rilevanza, per lo sviluppo del Rinascimento, del transfert culturale avvenuto ad opera di quella costellazione d'ingegni, che si sviluppò alla scuola dei tardi epigoni di quest'ultimo avatar della civiltà antica: i più noti tra loro furono Giorgio Gemisto Pletone ed il Bessarione, cui fece seguito sulle nostre coste, dopo la conquista ottomana, tutta una successiva ondata d'eruditi in fuga. È interessante vedere quando, queste posizioni riescano 53 a transitare da un ambito gnoseologico ad uno propriamente geometrico-matematico: già Leibniz ha reso problematico il discorso riducendo a semplici definizioni i principi della geometria e gli empiristi inglesi, si sono spinti fino a dar loro solo un significato sperimentale, affermando il fondamento induttivo d'ogni possibile scienza. La rimessa in ordine di Kant, che, di nuovo, porta questi stessi principi al rango di giudizi sintetici a priori, inerenti al dominio dell'intuizione soggiacente ad ogni esperienza, dura sino alla costruzione delle geometrie non euclidee ed al trionfo del formalismo anti-intuitivo in matematica ed in fisica. Invero, ove si tolga valore a quella funzione intellettuale e metalogica che è l'intuizione diretta di un concetto - e non si parla qui nei termini dell'intuizionismo bergensoniano, epifenomeno della sfera sentimentale infrarazionale - s'assume che codesti concetti possano aggregarsi quali classi o costruzioni fatte d'elementi supposti. Tali elementi saranno, ovviamente, in quantità indefinita e pertanto qualsivoglia costruzione sarà sempre parziale e incompiuta: ne consegue l'incompatibilità dei concetti assiomatici col reale e viene a cadere il ruolo probante di quello sviluppo deduttivo che è la dimostrazione. L'indefinito (si preferisce questa parola a quella corrente d'infinito, che ha per noi un significato metafisico ben diverso) diventa pertanto una virtualità inerente alla costituzione della classe assiomatica, dando luogo ad una serie inesauribile di possibilità meramente formali, tutte egualmente "vere" e "reali" in virtù della semplice correttezza formale del processo logico, pervenuto a metterle in atto. Assai prima dell'avvento del computer, nei primi decenni del secolo, Brouwer (L.E.Jan, 1881/1966) e Weyl (Hermann, 1885/1955) - una scuola logico-matematica - negavano che, in via di principio, si potessero legittimamente fare affermazioni d'ordine teoretico (i.e. enunciare teoremi), fatta salva la possibilità di una verifica "costruttiva" che n'asseverasse gli enunciati. Quando invece difficoltà d'ordine anche pratico (mancanza del tempo necessario ad es.) fossero intervenute a rendere materialmente ineseguibile questa verifica, ogni altra dimostrazione sarebbe stata da considerarsi solo presuntiva. In quegli anni, queste posizioni erano considerate decisamente estremistiche; adesso, con l'avvento dell'informatica, sembra siano riuscite ad avere piena soddisfazione. Ma la problematica suscitata dal sorgere delle geometrie non euclidee, lo sviluppo dell'algebra ed il fondersi in essa della logica, pongono l'opera17 di un matematico prussiano, David Hilbert (1862/1943), decisamente a principio di tutto questo nuovo modo di rapportarsi con i fondamenti del raziocinio e di conseguenza delle scienze matematiche m'anche - e questo è un ulteriore ma non meno importante, aspetto della questione - dell'argomentare, 18 normalmente inteso. Le analogie, tra la sequenza sillogistica della dimostrazione matematica ed il processo che viene messo in atto per confermare o confutare una tesi, sono assolutamente evidenti. Sul piano della dialettica, tra i precursori classici di atteggiamenti anti-metafisici, nonostante ciò possa sorprendere, si deve includere lo stesso Aristotele: è come se, solo in questi ultimi tempi, certe potenzialità negative, delle sue teorizzazioni in questo specifico ambito, avessero potuto trovare piena attuazione. Infatti, per lui la dialettica è semplicemente un procedimento razionale non dimostrativo insomma. Prova ne sia che lo starting point del sillogismo non si colloca in premesse "vere" ma "probabili" (cfr. supra); cioè, "generalmente" ammesse. E l'attributo della loro ammissibilità ha l'anacronistico e mediocre sapore del "buon senso" cartesiano. Ben diverse le tesi degli stoici, fatte proprie anche dalla scolastica, dove la dialettica è intesa strettamente come logica e dove il ragionamento, fatto di premessa e conclusione, deve poggiare sull'evidenza. Tornando a Hilbert, egli, in sostanza, porta a completamento una riduzione della matematica e della geometria all'aritmetica e di quest'ultima, lato sensu, ad una mera sintassi logica. Per la geometria, subentra una distinzione tra il prenderla in considerazione come scienza 54 dell'estensione ed il "costruirla" come un sistema del tutto ipotetico e deduttivo, indipendentemente dal contenuto intuitivo o - afferma - anche empirico degli assiomi di partenza. Tale perdita di "contatto" sviluppa una serie di notevoli conseguenze: non soltanto si perde il rapporto d'analogia che regge la relazione tradizionale tra sistema assiomatico immediatamente intuibile e metafisica ma entra in crisi anche quello tra gli enti geometrici di un qualsivoglia sistema ipotetico - però formalmente corretto - e realtà sensibile; relazione che sembrerebbe l'imprescindibile cardine di ogni Weltanschauung moderna. A questo punto, si capisce anche perché il termine stesso di dimostrazione sia quasi caduto in disuso nella matematica e nella logica contemporanee: con esso, s'indicano, di norma, una serie di enunciati, considerando ognuno di essi quale enunciato primitivo o, comunque, immediatamente derivabile da altri che lo precedano. 19 L'inizio di questa fase scientifica, post-moderna è proprio contraddistinto dalla confusione tra enti teorici e mondo reale; essa ha dato luogo ad una matematica e ad una fisica del paradosso dove la distinzione tra modello ed oggetto sembra non più sussistere e, in ogni caso, la relazione tra i due ha assunto qualcosa di schizoide (cfr. n. 3). Alla fondata obiezione che anche la geometria e la meccanica classiche fossero fatte di modelli teorici quali, appunto, un cerchio rispetto ad una torta o un solido perfettamente elastico rispetto ad un pallone da calcio, può sempre essere risposto come la differenza fosse allora presente, o meglio, potesse essere presente alla coscienza dello scienziato o del tecnico mentre, attualmente, l'assenza di una formazione, la quale strettamente associ la matematica alla sua rappresentazione geometrica - avendo la geometria, a sua volta, perduto un sistema assiomatico intuibile - faccia sì che anche i modelli della nuova fisica possano essere confusi con il mondo sensibile, quand'invece la lontananza di essi da qualsivoglia verosimiglianza non è nemmeno paragonabile a quella degli enti teorici classici con il concreto. Ed è proprio la non rappresentabilità degli sviluppi formali della fisica contemporanea, che rappresenta uno dei segnali più inquietanti della deriva infra-razionale in atto. Questo sembrerebbe contrastare con la pretesa moderna di ridurre ogni cosa alla quantità mentre invece, se collochiamo la fase materialistica al suo giusto posto nello svolgersi di questo nostro ciclo di umanità, dobbiamo riconoscere che ogni fine non può presentarsi in modo diverso dalla dissoluzione. Pertanto, i segnali raccolti stanno proprio ad indicare il superamento della fase materialistica: la materia, presa in considerazione dalla meccanica quantistica, appare sciogliersi in un caos nel quale un qualche orientamento può trovarsi soltanto attraverso valutazioni probabilistiche. Cosicché, il cartesiano buon senso, fondato sugli aspetti più "solidi" della vita ordinaria, perde la sua forza di paradigma anche a ragione dello stravolgersi di quest'ultima, il cui concetto 20 è ormai superato da eventi sociali sempre nuovi e mutevoli secondo una frequenza temporale incalzante. Tutto questo avviene per ragioni inerenti alla natura stessa del processo di "solidificazione": la condizione di "solido" è identica a quella di "corpo" ed esso è epifenomeno dello spazio anche se la "corporeità" è solo una delle modalità dell'estensione, la quale, presa di per sé, sarebbe meglio definibile secondo parametri qualitativi piuttosto che quantitativi (cfr. n. 15 e Annesso). Resta il fatto che, anche considerandola quantitativamente, dovrebbe essere presa in esame la quantità continua, passando invece al numero, si va esattamente nel senso opposto (quantità discontinua), col risultato che i corpi non possono più sussistere come tali e l'immagine del mondo concreto si frantuma: trasformandosi prima in un reticolo atomico, volatizzandosi poi nell'indistinzione del predetto e ben noto caos subatomico. La tendenza è onnivora e così, oggi, costatiamo come ciò che non riesca ad essere enumerato (digitalizzato) ovvero espresso secondo modalità meramente quantitative, sia considerato privo di valore scientifico e pertanto immeritevole d'ogni serio interesse. Nel caso preso in esame, la più illustre vittima di questo modus operandi, teso ad elaborare un ordine della realtà solo 55 quantitativo ed ipotetico è - paradossalmente - lo stesso, preteso e proclamato, unico fondamento del pensiero moderno ossia la razionalità, qui rappresentata dalla fattispecie del procedimento dimostrativo, sostituito da un semplice accumulo di fatti. È per questo, che il materialismo ed ancor più la filosofia cartesiana, rappresentano una fase meno avanzata di tale processo distruttivo anche se lo hanno preparato e reso possibile, soltanto che avendo entrambe, in sé, le tossine portatrici del male, chi, soltanto ad esse si rifaccia, non ha chances di uscire dal "cerchio magico" nel quale si trova. Interessante è anche l'aver acquisito consapevolezza di come le potenzialità negative, connesse all'intima natura di certe conoscenze, fossero ben presenti alle coscienze e probabilmente ad una riservata memoria storica21 degli uomini di civiltà passate e come questi, pertanto, s'adoprassero nell'intento di limitarne l'apprendimento e d'impedirne un'applicazione massiva: soltanto con l'avvento della modernità e con il conseguente grande impulso ricevuto dalla tecnica, esse hanno infine potuto trovare pieno ed incontrastato compimento, determinando, col loro impatto, radicali mutamenti della mentalità e, di conseguenza, del costume. Forse è però proprio questo quello che si voleva ottenere. In altri termini, la modernità come mezzo ma non come fine: ed una riprova ne è, appunto, la crescita apparentemente bizzarra e paradossale dell'irrazionalità. Ritornando al Lygeros non si può negare ch'egli sia estremamente chiaro quando, a proposito delle grandi capacità di calcolo proprie allo strumento, fa riferimento, per giustificare «l'avènement d'un nouveau type de preuve mathématique», a «une étude combinatoire…que ….une vie d'homme ne suffirait pas à la rendre explicite». Ma il testo qui rprodotto permetterà ad ognuno di giudicare. Speriamo d'essere riusciti a rendere trasparenti, nei limiti di una breve analisi, i precedenti, la portata e gli estremi concettuali di un misfatto, che, per le caratteristiche anti-intellettuali ed infrarazionali sarebbe meritevole d'ulteriori approfondimenti. Annesso La natura del problema dei «quattro colori» è strettamente topologica, e viene affrontata con gli strumenti propri dell'analysis situs. Ci sembra pertanto opportuno significare come le determinazioni qualitative dello spazio siano fondamentalmente le dimensioni e le direzioni di esso. Partendo da questa considerazione di base, si può rilevare la stretta relazione esistente tra tali determinazioni ed il compito di separare porzioni di esso, colorandole in modo da definirle senza generare confusione nella contiguità. Ecco dunque le relazioni intuibili: in uno spazio ad una dimensione (una retta), ci sono due direzioni e, allo scopo, sono necessari e sufficienti due colori. In uno spazio a due dimensioni (un piano, la carta geografica), ci sono quattro direzioni e sono n. e s. quattro colori. In uno spazio a tre dimensioni, ci sono sei dimensioni (la croce solida) e sono n. e s. sei colori. In questa fattispecie, che corrisponde alla realtà sensibile, è singolare come proprio sei siano i colori più evidenti dello spettro visibile: rosso, arancio, giallo, verde, azzurro, violetto. Riassumendo schematicamente: 1dm → 2dr → 2cl , 2dm → 4dr → 4cl , 3dm → 6dr → 6cl . Passiamo ora all'articolo in argomento, tratto dal seguente indirizzo INTERNET: http://www.desargues.univ-lyon1.fr/home/lygeros/Mensa/couleur.html 56 DEMONSTRATION, ORDINATEURS ET COULEURS par Nikos Lygeros ([email protected]) Considérons le principe suivant. Si un théorème dépend de toute la structure de l'objet étudié, alors, pour rendre son utilisation effective il faudra sans doute l'ordinateur. Il est bien évident que la véracité de ce principe dans le cas général est contestable, pour le voir il suffit de considérer un problème qui ne concerne que peu d'objets. Par contre si l'on a affaire à un grand nombre d'objets et s'ils sont un tant soit peu compliqués, alors, la puissance du principe devient flagrante. De sorte qu'il est préférable de l'énoncer sous une forme plus précise - mais un peu plus formelle. Si une démonstration d'un théorème sur n objets (pour n suffisamment grand mais fini) nécessite l'utilisation d'un théorème qui dépend de toute la structure (suffisamment complexe) des objets auxquels il s'applique alors l'ordinateur sera nécessaire à sa réalisation. Il semble que l'on puisse aller encore plus loin dans cette idée en augmentant soit le nombre n d'objets soit leur complexité car alors on en arrive à l'énoncé qui est inaccessible même à l'aide de l'ordinateur, du moins dans sa totalité. Par exemple l'on pourrait se retrouver dans la situation suivante qui représente bien sûr un cas particulier du précédent principe. Si le problème général est indécidable alors le problème partiel rend l'ordinateur indispensable. Il est bien évident qu'en se restreignant à des préoccupations générales comme nous l'avons fait l'on ne saurait obtenir comme résultat autre chose que des principes. De toute façon le but que nous désirons atteindre ici n'est pas de construire une théorie complètement axiomatisée du rôle de l'ordinateur au sein de la théorie de la démonstration. Nous nous contentons seulement, du moins pour l'instant, d'écrire les prémices de cette théorie de la démonstration. En ce qui concerne le théorème des 4 couleurs Appel et Haken sont convaincus par des analyses probabilistes qu'un ensemble inévitable beaucoup plus petit et contenant des configurations de beaucoup plus petite taille n'existe pas. De récents développements dans la démonstration du théorème des 4 couleurs qui ont simplifié la partie traitée par l'humain et non par l'ordinateur vont dans ce sens. Appel et Haken ont employé 1000 heures de temps de calcul à prouver la réductibilité des 1880 configurations de leur ensemble. Ils croient qu'il est possible de produire un ensemble qui exige seulement 200 heures pour la vérification. Mais ils sont sûrs qu'il est impossible de produire une telle preuve vérifiable à la main. Jean Mayer, un des grands experts en matière de réductibilité, ne croit pas que la tâche de vérifier un tel ensemble à la main soit praticable. Ainsi, si personne ne trouve une preuve plus simple sans utiliser d'ordinateur, il faudra admettre que le théorème des 4 couleurs exige une preuve que personne ne peut vérifier à la main même en y passant toute sa vie. La solution exige une étude combinatoire d'autant plus complexe que les données logiques sont plus simples et peu susceptibles d'engendrer des théorémes généraux. Pour les mêmes raisons, l'ensemble inévitable de configurations réductibles ne peut se réduire à un petit nombre d'éléments. Enfin, la plupart des réductions auxquelles on aboutit sont impraticables à la main, vu le grand nombre de coloriages mis en jeu : on voit donc en quoi la démonstration du théorème, quoiqu'accessible à notre logique, dépasse par son ampleur les capacités de l'intelligence individuelle. Elle illustre l'avènement d'un nouveau type de preuve mathématique. En effet, c'est la première fois, à notre connaissance, qu'un théorème impliquant par sa nature un nombre infini de cas se trouve ramené à une étude combinatoire finie, mais d'une ampleur telle que la preuve a nécessité plusieurs centaines d'heures d'ordinateur et que, même a posteriori, une vie d'homme ne suffirait pas à la rendre explicite. Réflechissons un peu sur ce dernier point et analysons l'idée sur laquelle il est basé. Tout d'abord le problème initial 57 concerne deux infinités, le nombre de cartes et le nombre de couleurs, qui ont bien sûr un rôle dissymétrique. Le problème est de trouver le plus petit nombre possible de couleurs tel que la propriété soit vérifiée. Il est trivial de montrer que ce nombre est supérieur ou égal à 4 et il est facile de montrer que ce nombre est inférieur ou égal à 5. Il s'agit donc d'un problème où l'on peut aisément obtenir une borne supérieure et une borne inférieure de la valeur recherchée. Par contre il n'est absolument pas trivial de montrer que la valeur est précisément 4. Pourquoi une telle différence de complexité ? Du point de vue théorique il est naturel que la minoration soit plus facile à obtenir puisque somme toute il ne s'agit que de trouver une carte qui nécessite un nombre donné de couleurs pour la colorier. Par ailleurs dans le cas présent la facilité d'obtenir une majoration provient non pas d'un raisonnement symétrique mais des contraintes imposées sur le graphe associé à la carte considérée par la formule d'Euler. Ainsi pour la valeur recherchée, la difficulté consiste bien à prouver l'égalité avec l'une des deux bornes, seulement ce problème concerne une infinité de cartes même en les traitant à isomorphie près. La méthode utilisée, du point de vue de la mathématique pure, va consister à rendre fini le nombre de cartes à étudier. Ce passage de l'infini au fini représente une étape fondamentale ; c'est sans aucun doute l'une des situations où l'on peut le mieux prendre conscience de la puissance de l'outil mathématique. Une fois cette étape cruciale franchie un autre problème apparait : le nombre de cas à traiter. Bien sûr si ce nombre est très petit, la gêne causée devient dérisoire. Mais qu'en est-il lorsqu'il est grand ? S'il est vraiment très grand et qu'il appartient aux nombres métaphysiques comme dirait F. Le Lionnais, l'on ne peut guère en dire quoi que ce soit puisqu'il est par définition inaccessible à toute méthode raisonnable. Par contre si ce nombre est accessible, cela dépend bien sûr du problème, et alors plusieurs difficultés méthodologiques apparaissent : Tout d'abord comment faire pour réduire ce nombre ? Dans les cas les plus favorables il faut réitérer la méthode, cependant ils ne représentent pas la majorité. Dans les cas plus difficiles seul le changement de la méthode utilisée permet de réduire ce nombre. Mais dans les cas les plus difficiles on ne sait pas faire mieux, alors si cela est possible on fait appel à l'ordinateur. Ce qui a pour conséquence directe de donner un rôle important à ce dernier. Si celui-ci permet d'obtenir un contre-exemple, son rôle est effacé et l'on n'en parle plus que laconiquement. S'il permet de compléter la démonstration du théorème conjecturé alors dans un ultime effort l'on essaye a posteriori et en utilisant les résultats de ses calculs d'éliminer sa contribution. Pourtant dans le cas du théorème des 4 couleurs cette dernière tentative a échoué et l'on s'est retrouvé avec un résultat démontré grâce à l'ordinateur. Ensuite lorsque l'on se trouve dans une situation où l'ordinateur a été indispensable, l'on est en droit de se demander si en utilisant une autre méthode (dans le futur) il aurait encore été nécessaire. En ce qui concerne le problème des 4 couleurs on sait grâce aux analyses probabilistes d'Appel et Haken que des variantes de la méthode utilisée seraient obligées d'employer l'ordinateur. Seulement cela n'est pas convaincant car il s'agit de méthodes trop proches pour résoudre le cas général. C'est à ce niveau là que nous prenons le contre-pied de l'opinion majoritaire. Nous nous plaçons dans la problématique qu'aurait eue un épistémologue prégödelien fictif. Car si à l'époque de Gödel les mathématiciens n'ont point trouvé son théorème, cela ne provient pas tellement de la difficulté technique mais plutôt conceptuelle. En fait de façon plus concise l'on peut dire qu'ils ne réfléchissaient pas au bon problème. Ils s'étaient tous mis dans l'idée de chercher à unifier les mathématiques en les ramenant à une structure dont ils espéraient démontrer la cohérence sans se poser un seul instant la question de savoir si cela était seulement possible! À notre époque certains mathématiciens s'acharnent à trouver des démonstrations où l'intervention de l'ordinateur est éliminée. Mais après tout il ne peut s'agir là que d'un acte de foi car l'on ne sait pas si cette 58 procédure est possible dans le cas général. Car de la même façon que l'on ne peut lutter contre les lois physiques, l'on ne peut guère lutter contre un fait mathématique (comme c'est le cas lorsque l'on a affaire à des structures indépendantes). Par exemple une des grandes réussites du 20ème siècle sur le plan mathématique a été la classification des groupes finis simples et donc aussi l'explicitation des groupes sporadiques, l'oeuvre de nombreux mathématiciens, qui ont travaillé pendant plusieurs décennies, dont la démonstration comporte actuellement plus de 15000 pages ! Mais que se serait-il passé si au lieu de 26 groupes sporadiques, il y en avait eu 260 ou 2600 ? Car l'esprit humain, et par conséquent les mathématiques qui en sont un des honneurs, a toujours tendance à unifier, à synthétiser les objets qu'il étudie pour mieux les comprendre, mais comment faire s'il y a à faire face à des structures véritablement indépendantes? Ainsi si l'on arrivait à démontrer qu'un problème comporte un grand nombre de structures indépendantes on montrerait du même coup la nécessité d'utiliser un ordinateur, si le nombre est accessible évidemment. Pour cela il faudrait montrer quequelque que soit la méthode utilisée, la donnée des structures à considérer est incompressible. Peut-être d'ailleurs que le théorème, qui démontrera la nécessité de l'utilisation de l'ordinateur pour démontrer un théorème sera lui-même démontré à l'aide de l'ordinateur ? Après tout lorsque l'on parle de fondements l'autoréférence est souvent au rendez-vous. Pour finir essayons d'expliciter ce que nous avons voulu démontrer. Nous avons voulu mettre en évidence que du point de vue de la théorie de la démonstration, l'action de l'ordinateur intervenait de la même façon que l'utilisation d'un axiome. En effet l'alternative est simple : soit on utilise l'axiome de l'ordinateur c'est-à-dire que l'on se permet d'employer une procédure mécanique qui détermine si un ensemble fini, mais grand, de cas à considérer vérifie ou pas une certaine propriété, soit on exclut la possibilité et dans certains cas - comme celui du théorème des 4 couleurs - l'on n'arrive pas à prouver la vérité d'une conjecture. Note 1 JANUA INFERNI e SUM ERGO COGITO. 2 Spirito ed intelletto sono sinonimi. 3 Perché di tale amalgama si tratta come ben vedesi nel caso di alcune patologie della psiche: la schizofrenia (da σχιζω, scindo) è, infatti e letteralmente, una rottura di quel composto. 4 È bene precisare che la razionalità è ciò che gli scolastici collocavano tra le differentiæ animalis come carattere distintivo dell'uomo rispetto agli altri esseri viventi in questa nostra modalità d'esistenza essendo essa assente e non necessaria per la presenza di un altro porsi dell'evidenza negli stati superiori dell'essere. 5 Caratteristico è il suo riferirsi al «buon senso» nell'affrontare temi filosofici; assoluta novità in materia perché anche lo scettico Arcesilao (di Pitane, -315/-240) considera l'ευλογον quale valido fondamento soltanto per l'azione pratica e lo stesso Aristotele sembra accennare a qualcosa di simile nei fondamenti della sua DIALETTICA. 6 Qualsivoglia continuo, per la sua stessa natura, non può ammettere l'esistenza di un "ultimo elemento" perché dal punto di vista dei "componenti" esso è, in quanto tale, un insieme indefinito. È chiaro allora come qualsiasi variazione abbia la sua "fine", lo "stato ultimo", il suo "limite" non in se stessa - perché non c'è un valore ultimo dei valori successivi della variabile (n + 1 è sempre 59 possibile) - ma "al di fuori", con un saltus ovvero una discontinuità necessaria. Del resto, per "definire", "limitare" una qualsivoglia condizione, è implicito che ci si debba trovare "al di fuori". 7 Ciò che è "esatto" non è necessariamente "vero", essendo esso soltanto il risultato garantito dall'osservanza delle regole reggenti le procedure di un determinato ambito e, di effettivamente esatto, non può allora darsi che la matematica, quale sola referente della pura quantità: quindi, l'esattezza è una caratteristica strettamente connessa all'osservanza di un preciso formalismo, il cui campo di competenza sarà l'astrazione e non il concreto (unica parte del reale che realmente interessi queste scienze). Da qui la non "verità", la convenzionalità - spesso esplicita - delle teorie delle scienze fisiche matematizzate ancorché appaiano dotate di tutte le correttezze formali previste dalle corrispondenti procedure. 8 Ci sembra opportuno fornire il testo in argomento, disponibile in rete e qui riprodotto in calce: vd. ANNESSO. Quella che gli stoici definivano rappresentazione catalettica (φαντασια καταληπτικη): vale a dire, l'evidenza come conseguenza di un atto dell'intelletto, il quale garantisce la piena congruenza dell'oggetto con la sua rappresentazione. 9 10 Acad. III. 17. 18 11 DE DOCTA IGNOR. 2.1 : «nell'universo due cose non possono essere assolutamente eguali». 12 IV LETT. nomi». 13 A CLARKE, OP. : «porre due cose indiscernibili significa porre la stessa cosa sotto due Di esse potranno far parte anche tutti i teoremi la cui dimostrazione è data per acquisita. 14 Per meglio apprezzare la vastità culturale dell'ellenismo, basti ricordare come in esso confluissero la civiltà egizia (Tolomei), che investiva oltre all'Egitto propriamente detto anche gran parte dell'attuale Medio Oriente e Nord Africa, quella persiano-caldaica (Seleucidi) ed infine con la Battriana fosse tutta l'Asia Centrale ad entrare, con sé trascinando anche le sue relazioni con l'India e la Cina. 15 In un libro (LA RIVOLUZIONE DIMENTICATA, Feltrinelli, 1999) brillante e ben documentato Lucio Russo (Univ. di Roma Tor Vergata) dimostra che la nascita della scienza moderna deve essere retrodatata alla fine del IV sec. a. C. ossia all'inizio del periodo ellenistico, quando la coalescenza del pensiero greco con le culture degli antichi imperi, dalla Mesopotamia alla Valle del Nilo, determinò gli sviluppi sopra accennati. Sviluppi, nei quali i prodotti tecnologici raggiunsero un grado di raffinatezza e d'ingegnosità che, solo dopo duemila anni, esso cominciò a riproporsi sul proscenio della storia. I motivi dell'interruzione di questo processo sono, dall'autore, attribuiti alla mentalità romana; la qual cosa racchiude, sicuramente, molti elementi di verità, non disgiunti, a parer nostro, da altri fattori connessi a quelle che potremmo definire le determinazioni qualitative del tempo. Concetto questo, necessitante di un qualche approfondimento: come i corpi ineriscono e, di conseguenza, si rapportano allo spazio, gli eventi mantengono analoga relazione col tempo. La differenza consiste nella preponderanza di attributi qualitativi nel tempo piuttosto che nello spazio. A riprova, è che la misura del primo sia possibile soltanto in rapporto al secondo e solo pel tramite del movimento, che viene posto in corrispondenza analogica col suo "scorrere". Ne consegue che, come non tutti i corpi sono adatti a qualsivoglia spazio, così, non tutti gli eventi possono accadere in qualsiasi epoca: anzi, mentre i corpi non è escluso possano muoversi nello spazio, ciò è rigorosamente impossibile agli eventi, la cui "localizzazione" è "inamovibile". Sono dunque tali determinazioni (corrispondono a ciò che s'intende con l'esprit du temps), le quali fanno sì che, prima di una certa data (e quella sopra indicata può ben essere presa quale riferimento) certe cognizioni 60 ancorché note fossero destinate ad un ambito riservato (riguardo ai motivi, ci limitiamo ad alludere a una loro qual certa "pericolosità") mentre, a partire da tempi ad essa successivi, ebbe, di nuovo, a verificarsi un'immersione di tale, particolare, carsica corrente del sapere. Il loro più recente riaffiorare è l'oggetto del presente lavoro. Concordiamo, infatti, con la scuola di Tubinga, la quale, prendendo sul serio la condanna platonica della scrittura - ovvero quella che, con apparente paradosso, ricadrebbe sugli stessi dialoghi, perché, esplicita, è possibile leggerla nel Fedro (274B 278E) e nella Lettera VII (344C, D) - ha redatto una serie di studi (fondamentali quelli di H.J.Krämer e di K. Gaiser), con cui s'è cercato di ricostruire la dottrina orale e riservata, sottesa ai testi pervenutici. Se poi teniamo conto che tale atteggiamento esoterico era tratto comune della mentalità arcaica non solo dei greci (cfr. Iliade, 7.360 e 12.234) ma di tutte le culture degli antichi imperi, dove il sacerdozio era il custode della conoscenza, possiamo spiegarci come, pur in mancanza, presso di esse, del ritrovamento archeologico di elaborati sufficientemente giustificativi, siano state possibili opere stupefacenti, la cui realizzazione comportava, di per sé, precise conoscenze teoriche e tecniche. La disciplina del segreto di mestiere vincolava, infatti, allo stesso modo di quella attinente alla scienza sacra. Non si deve infine dimenticare - e qui dissentiamo da Russo - che, dopo le conquiste di Alessandro (-336/-323), sia per le dottrine, sia per tutte le scienze, i greci, ampiamente, attinsero dagli egizi (nonché dalle civiltà mesopotamiche e indù: cfr. n. 14) dei quali, già prima, riconoscevano la preminenza culturale. Così, del resto, essi stessi, più volte, hanno esplicitamente affermato e, soltanto per quello che, in argomento, ha detto Platone, ci si può meglio rendere conto del loro atteggiamento col rileggere: Leg. VII, 819b; Epinom. 987a; Gorg. 511d; Tim. 21c, 21e, 25b; Criti. 114c, Leg. IV, 707e. La differenza sta nel fatto che, di certe cose assai contingenti e specifiche, la civiltà ellenistica invece profusamente scrisse e ne implementò in via culturale e sociale l'impatto sul costume, rivelando in questo, com'anche pel penchant tecnologico ed inventivo, un tratto tutto "moderno" mentre gli altri avevano taciuto, limitandosi ad esprimere, su quest'ultimo piano, mute ed enigmatiche immensità architettoniche, nelle quali includere, tramite strutture, disposizioni, articolazioni e proporzioni, la summa stessa del loro sapere. 16 Le tracce di questa continuità stanno venendo, chiaramente, in luce dal lavoro di recupero effettuato sui palinsesti (da παλιµψηστος: raschiato di nuovo per scrivervi ancora), che la parsimonia medievale ci ha lasciato nelle legature di antiche pergamene o "tra le righe" delle successive riscritture. Labili tracce, rese evidenti soltanto dalle più recenti tecniche di elaborazione digitale dell'immagine, le quali ci consentono recuperi assai più soddisfacenti di quelli volenterosi ma approssimati e distruttivi messi in atto da quel benemerito precursore, tanto ammirato dal Leopardi, che fu Angelo Mai. Tra queste opere "perdute" (per tutti?): l'originale greco di SUI CORPI GALLEGGIANTI ed il totalmente inedito SUI TEOREMI MECCANICI, entrambi di Archimede. Tali ricerche sono condotte in Italia dall'Università di Bologna (Ravenna), tramite la "Fotoscientifica" di Parma e negli USA dalla John Hopkins University e dal Rochester Institute of Tecnology. Vd. articolo di Guglielmo Cavallo, p. 35, sul n. del 15.11.00 del CORRIERE DELLA SERA. 17 GRUNDLAGEN DER GEOMETRIE, 1900; raccolte in GESAMMELTE ABHANDLUNGEN, Berlin, 1932-35; trad. it. I GEOMETRIA, CON I SUPPLEMENTI DI P. BERNAYS, Milano, 1970. FONDAMENTI DELLA 18 Il precitato Prof. Russo (cfr. n. 15) ha toccato quest'aspetto, tutt'altro che peregrino, nella sua relazione tenuta in Firenze al Convegno "PERCHÉ L'ANTICO" (28 Genn. 2000) ed organizzato da quell'Università. 19 20 R. Carnap, LOGICAL SYNTAX OF LANGUAGE, § 10; trad it. SINTASSI LOGICA DEL LINGUAGGIO, Milano, 1966. Questo tipo di perdite è generalizzato; significative, le note difficoltà concettuali e di giudizio, nelle quali possono imbattersi i magistrati, quando, in certe circostanze, si vedono costretti ad appellarsi all'ancor prescritto «comune senso del pudore». 61 21 In quel demi-monde, situato nell'ombra degli argomenti viziati dall'imperversare di visionari e truffatori, con la debita controparte di preconcetti negatori d'ogni fenomeno difficilmente catalogabile, si collocano, a tal proposito, le cosiddette «pietre di Ica»; il cui valore e la cui testimonianza di un momento "tecnologico" arcaico, dovrebbe essere, infine, vagliata con un minimo d'attenzione e obiettività. ----[Una presentazione dell'autore si trova nel numero 1 di Episteme] E-mail: [email protected] 62 Avvicinandomi a Wittgenstein… (Euro Roscini) 1 Ho la sua Prefazione sotto gli occhi. Non mi trovo in accordo, da subito, con la frase/chiave che vuole riassuntiva dell'intero 'Trattato': "Tutto ciò che può essere detto si può dire chiaramente; e su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere." A parte la cacofonia delle ripetizioni può e si può/si può, detto e dire e con due ciò in così breve spazio (una ventina di parole); a parte l'ambiguità banale (probabilmente da illetterato che è) tra dire e parlare, e l'istanza deontologica (si deve) che sbilancia la frase, chiudendola brutalmente - a parte... (ché, se del caso, avrebbe dovuto esprimersi: 'tutto ciò di cui si può parlare, va detto chiaramente, e quanto non può esser detto va taciuto'). Ho l'impressione che tagli/che spezzi. E neppure tanto di netto. Da un lato l'espressione/linguaggio chiaro (possibilmente?) e dall'altro l'espressione/linguaggio taciuto (dignitosamente?): il primo legittimo nella sua concretezza (forse), il secondo abusivo nella sua astrattezza (forse). Come se avesse voluto sputare la sentenza: se sai di che parlare, fallo e il più possibile chiaramente; se no stai zitto, ché fai più bella figura. Ma non voglio pensare neppure un attimo che sottintenda a questo logoro suggerimento screanzato, no! Comunque non mi sembra, da questa sorta di auto/presentazione telegrafica, che sia quel pensatore a tutto sesto che molta cultura del mio tempo erige quasi a fondatore della nuova chiarezza (logica?). 2 La chiarezza dell'espressione dei pensieri (perché questa egli intende e dirà immediatamente dopo) è - secondo me - un miscuglio di fatalità, tendenza e specificità. È fatale perché non è idealizzabile, progettabile, programmabile. E tendente perché continua, progressiva, infinita (di questo, in particolare, dirò appresso). Soprattutto, essa/chiarezza, è specifica perché relativa a chi pensa/parla/scrive (non semplicemente che dice). In più al suo luogo e al suo tempo. Ogni uomo consapevole - cioè - esprime più/meno chiaramente i suoi pensieri, a seconda che pensi soltanto (per se stesso?), o pensi/parli (a chi?) o pensi/scriva (per chi?). E ovviamente in ragione del luogo geografico e del tempo storico in cui si colloca di volta in volta. Dal canto mio, ho voglia soltanto di godere - possedendola! - di altra più dilatata chiarezza espressiva appena ne raggiungo/ne conquisto una qualsiasi che m'illumini, illuminandomi dall'alto. E se qualcuno mi commenta dietro che le mie espressioni, avendole pur scelte, avrei potuto sceglierle più chiare oppure tacerle, ribatto che no: che ho soltanto 63 provato, giuocato, ingannato me stesso e l'aria che mi circonda - ovvero finto di sceglierle. Pur tuttavia arrampicandomici, sudando e logorandomici su di esse/con esse tanto da morirne. Voglio dire - un uomo come son io finisce col vivere la propria chiarezza mentale come pelle, istintivamente, con passione e libidine. Almeno il più delle volte. E l'omuncolo che mi venisse più/meno gratuitamente a fare la 'morale logica', trovandomi surriscaldato, potrei mandarlo di filato a quel paese. 3 Questa sacrosanta tendenza all'espressione migliore, di maggiore chiarezza e sempre più nitida del mio pensiero è simile/analoga a quella a cui - credo - è destinata la mia stessa coscienza. La coscienza di me si muove, cresce, va verso... (è tuttavia tendenza di ciascuno, vale per tutti, è tragitto che accomuna - questo lo penso con convincimento assoluto)... verso l'infinito. E il concetto d'infinito - non mi venite a dire - riesce ad intuirlo anche un uomo mediocremente intelligente, seppure per poco e nell'infinitesimo di cui è capace. Io sostengo con forza che ogni uomo tende a proiettarsi in esso. Che chiami poi vita o natura o dio, o l'Immenso, l'Immutabile, il Perfetto; che gli dia il nome immacolato d'un unto, di un santo, di un papa o gli assegni un simbolo geometrico, un numero o altro simbolo (o magari il suo stesso nome/guru di se stesso) - beh, veramente non fa differenza e conta niente. Anche colui che uccide il suo infinito non agendo/non volendo agire radicalmente la sua funzione trascendente, in realtà sancisce la propria caduta nel vortice del vuoto/del buio/del silenzio senza fine (che però vuole/esige - lo stronzo! - vuoto/buio/silenzio di tutti, universale, meta ineludibile anche dell'uomo diverso da lui; ma questo è altro discorso). Insomma, la nostra proiezione nell'infinito non ha limiti. Così che procedendo in questa direzione - verso l'infinito - anche la chiarezza attraverso la luce dell'espressione, anche la coscienza attraverso l'espressione della chiarezza si sposta, diviene, asseconda quel verso: da oscura si fa chiara, da meno chiara si fa più chiara; a volte con cadute e ricadute verso l'oscurità. Ma poi, riprendendo, torna in linea col suo percorso verso l'infinito. In coscienza, credo che Dio stesso non si salvi da questa condizione. 4 Che mi viene a dire nel suo tractatus/con la sua praefactio questo filosofo/logico molto tecnico e molto poco filosofo? Io non so se parlo lo stesso linguaggio logico di lui (che comunque rivendico insieme a quello ana/logico ed in/logico, a pari dignità). Ma con immediatezza spavalda sostengo... - perché sono tridimensionale/perché credo nella Tridimensione che ho scritto/perché il TRE m'illumina di chiarezza stimolandomi a donargli sempre maggiore espressione - ... sostengo le affermazioni seguenti. 1°) Tutto ciò che è chiaro (nel contenuto) non va/non andrebbe mai detto/tanto detto, meno che meno con chiarezza (della forma) perché ovvio e scontato, noioso, sfiancante da ripetere seppure più chiaramente e, se da sviscerare, demoniaco. 2°) Tutto ciò 64 che può essere detto, è lapalissiano che si può dire chiaramente (cioè - suppongo brevemente/semplicemente, grammaticalmente/sintatticamente, logicamente/lucidamente, concretamente/sensatamente, e sempre che si abbia voglia e attitudine in un preciso momento ad esser brevi, sintattici, sensati, ecc./ecc.). Ma - aggiungo - lo si può dire anche in modo oscuro, ambiguo, oracolistico, devastante, solleticoso, visionario o altro del genere, da farlo sembrare eccezionale, inquietante, seduttivo, bello/brutto ma pregnante o altro del genere. 3°) Tutto quanto è da dirsi di approfondente/di luminoso/di colmante, si deve dire con chiarezza estrema, ossessiva e sviscerata; non si può dire soltanto. 4°) Se l'umanità immagino - avesse veramente taciuto tutto quello di cui non avrebbe dovuto parlare mai, non ci sarebbe stata né umanità né storia/né evoluzione dell'umanità: ovvero non sarebbe mai accaduto quel divenire per gradi/per tappe, o per fasi, o per cicli e come in progress (io amo dire per brutte copie) di religione, di scienza e di coscienza, qui la politica, lì l'arte, più in là la letteratura, non al centro l'economia, in fondo il viaggio e sopra a tutto l'esperienza che è maestra di vita per l'uomo universale - cioè quel che fa il percorso complessivo/fatale dell'uomo verso quell'infinito di cui sopra. E poiché questo 'gran logico/filosofetto' introduce fin nella sua formula/divisa l'idea costringente e faticosa di dovere (si deve) legandola/sposandola a tacere, bene, io cavaliere smarrito e generoso - difendo chi è strutturalmente difficile, o puro, o squadernato, vergine e tagliente, o consunto... Per cui, in aggiunta ai precedenti quattro punti, ne pongo con enfasi altri tre. 5°) 'Si deve' parlare anche oscuramente e 'si può' tacere anche chiaramente! 6°) Tutto ciò che non può essere detto non si deve tacere - anzi! - né chiaramente né oscuramente, e tutto ciò che non deve essere detto si può dire - anzi! - oscuramente come chiaramente! 7°) E quello che non si deve affatto dire si può sempre/comunque logicizzare e quello che si può tacere doverosamente non si deve sempre/comunque poter logicizzare!... (vorrei seguitare). Questo ed altro, con altre cento inermi affermazioni combinate come le precedenti, lo sostengo perché nel mondo che vivo ha senso e significato la prova, lo sprone, la provocazione, il suggerimento, la difesa, l'esasperazione, il tentativo, la forzatura, il non/senso, lo scivolare nei propri crepacci, la contraddizione, il fracassarsi nei precipizi altrui, il delirio... - tutto ha senso! Tuttavia non è questo che mi preme. 5 La sua formula teoretica non è ternaria. Ma binaria. L'intera frase lo dimostra: morfologia, sintassi, semantica, stile, intendimento, propaganda di sé e quant'altro. Affermazione e negazione (e il dubbio? - affermo un postulato, lo concreto nel dubbio, per superarlo/negarlo). Dire e parlare (e il pensare e lo scrivere se sono sinonimi?, o soltanto lo scrivere se 'dico' nel senso che 'penso'?). Si può e si deve (e la volontà? - io voglio, dunque devo, perché io possa). Dire/parlare e tacere (e l'osare? - oso fondando, dico/parlo discorrendo/confrontandomi, concludo tacendo/ascoltando a mia volta). Chiaramente, poi, come avverbio/attributo di ciò che si può dire è contrapposto a ciò che si sottintende che sia l'avverbio/attributo di ciò di cui non si può parlare (qui, oltre tutto, l'ambiguità fondamentale della frase, per cui egli non sarà mai deputato ad introdurre nessun saggio di logica/chiarezza per me). 65 Si può supporre, ma solo a tentare, in contrapposizione binaria a chiaramente un termine che va dall'irrazionale all'insensato, dall'insensato all'osceno, dall'osceno all'indicibile (tanto è vero che non si dice proprio!). E in fondo a tutto lo stile. Chi non si accorge (in una paginetta striminzita che introduce un trattato che "merita per ampiezza, per portata, per profondità - come scrive l'invaghito Bertrand Russell introducendolo a sua volta - di essere considerato un evento importante nel mondo filosofico") di quella sua dicotomia formale, quasi bambinesca, o della scrittura da liceale sguarnito e al limite del patetico, quale "Tutto il senso del libro si potrebbe riassumere nelle parole: Tutto ciò che può essere detto si può dire ecc." - eh, chi non se n'accorge? 6 Ora, tutta la mia cultura d'appartenenza è ancorata (qui l'ennesima prova miserevole) sul 'due', sulla 'dualità', sul 'binario'. Essere e divenire (e l'esistere?), soggetto ed oggetto (e il concetto?), mezzo e fine (e il principio?), causa ed effetto (e il corso?), necessità e sufficienza (e il numero?), quantità e qualità (e la natura?), forma e sostanza (e il contenuto?) o contenuto e forma (e la sostanza?), spazio e tempo (e la vita?), mente e corpo (e lo spirito?) o anima e corpo (e la mente?), il femminile e il maschile (e il neutro?), il dio e il demone (e l'uomo?) o l'uomo e il dio (e il nume?), ecc./ecc. All'infinito. Il binario, rispetto al ternario mi sembra così limitativo, escludente e barbarico da poter stabilire con polso sicuro - io! - l'appartenenza di chi ne faccia uso al novero di quanti, per parafrasare un po' e un po' per plagiare questo Autore rigidino e ragioniere, 'non potendo parlare (di filosofia) dovrebbero tacere'. Eh sì, la specialità (peggio, specializzazione) del proprio intelletto e quand'anche la genialità non fanno assolutamente, per nessun motivo, il filosofo, mai! Giacché allora, per lo stesso motivo di eccezionalità/di merito/di bravura, di ambito circoscritto/di regole del giuoco/di maestria nel giuocare, di capacità propria/espressione perimetrale/superlatività indiscussa, se ciò bastasse, a buon titolo, potrebbe essere filosofo, considerarsi tale e magari con sussiego anche un condottiero, un sollevatore di pesi e uno scacchista, oppure un chimico, un giocoliere ed un pittore, oppure un parrucchiere, un centometrista e un matematico... Ebbene, egli è un semplice matematico! 7 Infine, questa formula non è originaria. E la cosa è filosoficamente grave dal mio punto di vista. Per questo motivo mi accingo a scivolare appena, guardandomi da ogni lato e pronto ad aggrapparmi, da questa prefazioncina allo snocciolamento di poche centinaia di frasi numerate/variopinte, variopinte/ermetiche che vengon dopo, costituenti il corpo del libro. Su cui ho già gettato lo sguardo, curiosando, ma con certa perplessità, timore alquanto e quasi diffidenza. 66 Non è originaria perché egli si richiama dichiaratamente ad altri: Frege e Russell. I quali sono matematici, di cui lui è allievo (questo la dice lunga). A cui deve gran parte dello stimolo di quanto scrive (questo preannuncia il quadrato e la fortificazione). Ecco difatti la frase/incipit, di apertura della Prefazione. "Questo libro, forse, lo comprenderà solo colui che già a sua volta abbia pensato i pensieri ivi espressi - o, almeno, pensieri simili -." Il che equivarrebbe a: oh saggio discepolo, se vuoi esser saggio, ascolta (forse) il saggio maestro! Fin da queste prime parole riesco a dedurre la dipendenza e l'élite, l'approfondimento filosofeggiato, la chiosa e l'addobbo, il clima accademico/il clima di Cambridge (dove insegna Russell e dove è voluto andare il promettene studente austriaco pure invaghito). Insomma, capisco il punto d'onore - come posso dire? - che l'allievo eletto deve esibire e sostenere di fronte ai suoi maestri: punto d'onore intorno a princìpi, a schemi, a teorie matematiche/cosi maledettamente matematiche (altro che logiche!). Da smaltire per compito - princìpi, schemi, teorie - professionalmente, quotidianamente. E poi magari ringozzarsene nei giorni dei giorni. 8 Bene, eccomi a leggere la prima pagina del "Tractatus logico/philosophicus" di... Mi rendo subito conto di tante cose... Tra queste, dell'onestà che io ho avuto scrivendo da me stesso l'introduzione (non la prefazione) alla mia Tridimensione: cioè l'essermi definito/collocato - anch'io élitario! - come 'uomo comune' tra la razza degli 'uomini di talento' e la razza degli 'imbecilli d'Iddio' (ché almeno in questo senso sì, sono razzista). Mi fermo a metà pagina - come al solito, come miliardi di altre volte: dal liceo, dall'università; anzi da quando ero adolescente e bambino. Non credo che procederò più oltre. E il motivo è semplice: non ho la chiave d'ingresso, non conosco il codice, mi sfugge il linguaggio segnico. Mi sento solo, col mio linguaggio, bello ed unico - sguarnitamente solo, ma vergine. Tuttavia... Tuttavia un'idea ruffianesca, medianica, devozionale; un'idea che mi intriga, mi rende assonantico, mi metamorfizza per qualche battito; un'idea scimmiesca, un'idea pagliaccia, no: un'idea simbiotica/sinergica/comunistica mi suggerisce... mi suggerisce di provare per qualche riga... di provare uno schema/un metodo, una soluzione giuocata: anch'io, a fargli da pappagallo e da pendant, o da imitatore infimo made/television (magari). 9 Meus tractatus in fieri 1 1.1 1.2 Il mondo è tridimensionale. Tridimensionale come alto/lungo/largo, o verticale/orizzontale/laterale... Ma anche pensiero/azione/senso... Soprattutto Logos/Ethos/Pathos! Il mondo sono io: sostanzialmente, contenutisticamente, formalmente. 67 2 Io sono il mio interno/la mia superficie/il mio esterno. 2.1 Il mio interno sono i miei organi anatomici. Ma di più è il mio pensiero, il mio giudizio, i miei stati d'animo. E di più ancora, la mente contenitrice di anima, e ancora massimamente, l'anima contenitrice del mio pezzo di 'dio' incondivisibile (forse il noumeno di me) frammento infinitesimo del Dio originario 'suicidatosi'/frantumatosi nella tridimensione dell'Universo, che Lui volle generare e a cui appartengo. 2.2 La mia superficie è la mia stessa fenomenologia: di me che appaio innanzi tutto a me stesso, e secondariamente agli altri che incrocio/mi guardano/mi considerano... Potrei aggiungere alla mia superficie, inoltre, i miei passi, le gocce di sudore che a volte mi colano (spesso l'estate, dalla fronte principalmente), le lacrime rare che ho versato poco e male nella vita (ma certamente non i corrispondenti stati emotivi, i quali appartengono al mio interno). 2.3 Il mio esterno è tutto ciò che realmente/concretamente/ materialmente (non immaterialmente, spiritualmente, ecc. che appartiene solo al mio interno) esiste/sussiste/ resiste o rovina in ogni direzione a un milionesimo di millimetro dal mio corpo/dalla mia pelle: la formica e la galassia, il bicchiere dal quale vedo bere l'amico e la luna, lo sputo (sputo di rado), il libro, l'orgasmo (innumerevoli); inoltre la voce di me di cui ascolto il suono (non la pregnanza) e soprattutto suoni/immagini/idee di altri che mi sono simili e non simili; poi ancora i paesaggi che vedo (non le mie visioni), le materialità che tocco (non quelle che tocco virtualmente), ecc. 3 Il mio interno, la mia superficie e il mio esterno hanno uguale valenza: cioè gli attribuisco uguale importanza. 3.1 Importanza come valore, bene, interesse, curiosità, riflessione, studio, giudizio, ecc. secondo i casi, le situazioni, le circostanze. 3.2 Ogni valenza d'importanza ha tre modalità: positività/neutralità/negatività. 4 Il mondo diviene/io sono il mondo/io divengo. 4.1 Divenente è un mio giudizio. 4.2 4.2.1 4.2.1.1 Divenente è il giudizio che do principalmente del mondo/a me stesso/a tutto. Principalmente implica/sottintende/include una scala di gradazioni di maggiore/uguale/minore importanza, tali da farmi scegliere in determinati casi/situazioni/circostanze quello a cui il termine (nel caso 'principalmente') si riferisce (nel caso 'divenente'). Scegliere, in particolare, lo uso/abuso nel senso/significato di preferire, focalizzare, cogliere... Oppure anche amare. Ma altrimenti temere o odiare (mi succede spesso di odiare nel senso di disprezzare). 68 4.2.1.2 Casi/situazioni/circostanze, le intendo specificamente di riflessione filosofica/filosofeggiante: anzi, prevalentemente. 4.3 Divenente perché io (il mondo) mi muovo/mi modifico/mi trasformo. Divenente perché non sono mai, mentre vivo (penso/agisco/sento) uguale/identico a quello che ero prima o - suppongo - sarò dopo. Divenente perché nell'attimo stesso in cui io dico che 'sono', il mondo/il mio mondo/io stesso 'non siamo più', in quanto divenuti/perché divenuti. 4.4 Divenente come accadente. O succedente. O avvenente (non nel senso di seduttivo, ma spesso anche nel senso di seduttivo). E altri sinonimi dello stesso calibro. 4.4.1 5 "Qualcosa può accadere (divenire, succedere, avvenire, verificarsi, sopraggiungere, capitare, ecc.) o non accadere e tutto il resto rimanere uguale" - (Tractatus alienus 1.2.1) - è frase sghemba, trasversale, metafisica, oscura, illuminante (alla maniera del lanternino di Diogene), la quale anziché lasciare il tempo che trova, trova il tempo che lascia. Comunque, per me, non seduttiva. Io/divenente sussisto o mi dissolvo?... - ecco un primo punto eventualmente da chiarire, riguardante la sussistenza di ciò che è (io/il mondo) o la sua dissoluzione. 5.1 Il mio interno e/o la mia superficie e/o il mio esterno, divenendo/non restando/scomparendo formalmente, sussiste/sussistono nella sostanza (e/o nel contenuto) di prima (quale?) o si dissolvono trasformandosi in altro (in che?) o in niente?... - secondo punto/corollario del primo eventualmente da chiarire. 5.2 E dove e quando e perché il mio interno e/o la mia superficie e/o il mio esterno, nell'attimo stesso che l'ascolto/lo guardo/lo tocco, o l'osservo/lo misuro/lo definisco, o lo valuto/lo giudico/l'assolvo (oppure lo boccio), essendo divenuto altro da sé, sussiste/come? Oppure si dissolve del tutto/come?... terzo punto/corollario del primo eventualmente da chiarire. 6 Il mio interno e/o ecc. nell'attimo ecc. che ascolto ecc. che osservo ecc. che valuto ecc. è "divisibile in fatti"? (1° punto alquanto irrilevante da chiarire), e questi sono fatti "in spazio logico"? (2° punto alquanto irrilevante da chiarire), e i fatti sono "sussistenze di stati di cose"? (3° punto alquanto irrilevante da chiarire). 6.1 Divisibile vuol dire che si può dividere senza pregiudizio. 6.1.1 Senza pregiudizio, in particolare, vuol dire che ciò che è eventualmente diviso mantiene le sue peculiarità: identità, personalità, coscienzialità... 6.1.2 Divisibile, dunque, più nel senso/significato di analizzare che nel senso/significato di frantumare. 6.1.3 Divisibile come 'che divido mentalmente' (atto inerente al mio interno) o 'che divido realmente' (frantumo). 69 6.2 6.2.1 6.3 6.3.1 Il (mio) spazio logico non comprende/esautora l'intero spazio. L'intero mio spazio consta di spazio ana/logico, spazio logico e spazio in/logico (in ordine susseguente). Nel 99,99 % (forse per mille o per milione) dei casi/situazioni/circostanze che vivo i fatti sono le cose e le cose i fatti - qui non ci piove come nel Tartaro. A meno che un bell'intelletto mi fa degli esempi convincenti di fatti che non son cose e di cose che non son fatti. E, forse, nello 0,01% (o per mille o per milione) i fatti sono 'facenti' come le cose - qui ci piove come nel Tartaro. Ma allora una delle due... 6.3.1.1 Non ho il tempo infinitesimale di dividere/analizzare (neppure di dividere frantumare), o ascoltare, osservare, valutare, ecc. il facente, perché ho soltanto da starci con esso passivamente/fatalmente il tempo istantaneo che mi usa - il porco! 6.3.1.2 Oppure ci faccio quel che ci ho da fare (a mia volta, sono io il porco); allora scopro - che non è più facente, ma è fatto/già fatto/irrimediabilmente fatto. 7 Io sono alto/lungo/largo... ecc. ecc. ecc. 10 Concludendo, dal mio punto di vista tridimensionale ci sono tre modalità di approccio del filosofo sedicente, vero o falso che sia (non parlo dei ragionatori tout court di filosofia o studiosi di filosofia altrui) alla verità/alla ricerca/all'infinito. Che sarebbe interessante focalizzare ed esplicare scientificamente, tecnicamente, dottrinariamente; ma che non faccio perché: 1°) non sono capace, 2°) sarebbe inutile, 3°) non vorrei neppure saperlo fare. Per cui mi limito secondo il mio stile intuitivo/analogico/organico (mi basta e avanza) ad esporle qui di seguito, aggiungerle a queste note come so fare e a mò di 'ite missa est' - la cosa viene da sé. Supponendo che le piccole verità innumerevoli di cui è cosparsa la mente dell'uomo storico - come siamo - siano i punti infiniti costituenti un'unica grande verità a linea, ipotizzo tre possibili figurazioni di linee. La prima un segmento: finito, netto, delimitato per definizione dai suoi due estremi. Su di esso uomini come il mio austriachetto trattatista si ficcano, scavano, si seppelliscono; vanno a cercarvi il limite del limite, suddividendo e ri/suddividendo, misurando fino allo spasimo il punto/verità che hanno lasciato un attimo prima (forse perché sanno di trovarsi in una linea chiusa). I quali sono/mi appaiono, nella loro ricerca maniacale, determinati e lucidi, stitici e risparmiatori, aridi e freddi; come d'altra parte affilati nel giudizio, che mirano, con spietatezza. Qui, dentro il loro segmento, questi filosofi di verità/di ricerca/d'infinito elaborano i loro trattati (anch'essi infiniti, eppure ripetitivi), che tendono a sacralizzare ed imporre con autorità a quanti riescono a raggiungere. 70 La seconda una linea retta: infinita, aperta ai due lati, lunga quanto il mondo. In essa soggetti/individui come sono stato io (soprattutto fanciullo, o quando transitavo più per i banchi stretti del liceo che per i banchi sgangherati dell'università) si muovono a destra e a sinistra, ritornando/procedendo, ora contando svariati punti in una direzione ora cancellandoli/fermandosi/andando in altra direzione. Uomini - questi - improvvisatori e disordinati, furiosi/perdenti, oscillanti/entusiastici, ma al primo vento capriccioso accorati e rinunciatari... (su cui - credo - il sistema di verità che di volta in volta si va edificando, su questo pianeta assegnatoci, fa bene a non dargli la responsabilità e il merito di nessuna pietra fondante). Io, se ancora fossi quello di allora, con questa mentalità finirei con lo scrivere volumi e collane del 'meus tractatus' (e sarebbe sempre 'in fieri' perché una retta) di cui sopra ho dato un minuscolo saggio. La terza una linea spezzata/chiusa: dal cerchio (che è un poligono infinito) al triangolo, infinitesimalmente angolare o tutt'al meno triangolare, un' 'ò' tonda quanto l'Essere o un triangolo equilatero (non isoscele, non scaleno) come il mio terzo occhio/ occhio interno. Qui, saggi come sono io adesso, dentro/ma non chiusi, variabili/ma disciplinati, illusi/ma non angosciati, soprattutto creativi, conficcano ogni volta ana/logicamente, logicamente e in/logicamente tutti i paletti delle loro verità. Verità infinite e combaciantesi, smesse eppure riprendibili, finite ed illimitate. Ah questi filosofi (tra cui esigo/voglio/desidero di essere tridimensionale) nella visione/concezione/emozione del loro UNIVERSO - di appartenenza - che va dal cerchio al triangolo!... ----Euro Roscini è nato a Perugia nel 1939. Laureato e giornalista, conduce nella sua città una tranquilla esistenza di funzionario nell'Amministrazione regionale. Sposato/separato/divorziato, ha due figli a cui è legato: Leda e Matia. Dalla pubblicazione di Tridimensione (I edizione, dicembre 1998, presso la Editrice Selecta di Quinto Vicentino, II edizione. novembre 2000, presso Morlacchi Editore) si considera un "filosofo nuovo del III Millennio", contenendo il suo libro la formula/cifra (o schema/teorema) unica/intera/onnicomprensiva di percezione/concezione/visione di sé e dell'uomo, della vita, del mondo e di dio. Scrive da sempre poesie metriche, che recentemente ha raccolto in un'unico volumetto - Alfabeto poetico - di prossima pubblicazione (ancora presso Morlacchi Editore). Come giornalista/pubblicista dirige responsabilmente questa stessa rivista Episteme. E-mail: [email protected] 71 What is "Episteme"? The meaning of "science" and "truth" (Theo Theocharis) "There are some matters which no mind, however gifted, can present in such a way as to be understood in a cursory reading. There is need of meditation and a close thinking through of what is said." (Johanness Kepler, New Astronomy, Chapter 59, translation by W. H. Donahue) "TO THINK FREE IS GREAT; TO THINK RIGHT IS GREATER" (Thomas Thorild,1759-1808) In our (post-)modern times, the neglect, subversion, or even the outright rejection of both terms 'science' and 'truth' has become an almost universal affliction. The attempt is here made to strip away the various layers of misconceptions, and thus develop sound (as well as useful) definitions. GRAVE FLAW The 2 April 1989 issue of the London Sunday newspaper The Observer published an article by Michael Ignatief under the heading "Defenders of [Salman] Rushdie [are] Tied Up in Knots". The explanation ran briefly as follows: The Islamic (and other religious) fundamentalists have a dogma, and they are absolutely certain about their dogma. On the other hand, the western intellectuals have a so-called "philosophy", but by their own uncoersed admission they can never be certain about their own "philosophy". Therefore, the western intellectuals cannot really believe in whatever they say or, worse, preach. For the same reason, Clifford Longley, the then religious affairs correspondent of the London daily The Times, could boldly claim that the post-Enlightenment "philosophy" of the modern secular western world is now dead, and he could thus carry out, with evident delight, the "Inquest on the Enlightenment" (The Times, 25 March 1989). Significantly, both The Observer and The Times are leading organs of the mainstream western culture in the UK. I expect that in 1989 similar articles appeared in the analogous press throughout Europe and America and indeed the whole world. I also guess that the same arguments feature all the time with much greater force in the religious fundamentalist media everywhere. It may have not seemed very obvious to everybody, but the plain truth is that this incident in 1989 exposed to the whole wide world a grave intellectual flaw at the heart of so-called 'Western' culture. The Islamic fatwa elicited by Salman Rushdie's The Satanic Verses and the subsequent intense international controversy dealt a deadly blow to western "philosophy", and the grave flaw at its core was forcibly brought to the fore of international affairs. This sorry international hot episode in 1989 supplied me with one more piece of powerful evidence with which to show that the voluntarily but thoughtlessly professed 72 (universal and permanent) "anti-certaintism" by the intellectual leaders of the West was the exact point "Where the [entire] West[ern Civilisation] Has Gone Wrong" (T. Theocharis, Journal of Applied Philosophy, Vol. 6, 1989, pp. 249-250). As strongly suggested by Clifford Longley in the above cited Times article ("Inquest on the Enlightenment", The Times, 25 March 1989), the ultimate origin of the western universal and permanent anti-certaintism is western science, which of course is the most fundamental and the most distinctive constituent of western culture. Again it was with much sorrow that M. Psimopoulos and I had to explain that this is the exact point "Where Science Has Gone Wrong" (Nature 1987; 329: 595-598; Nature, 1988; 333: 389). Worse, many science spokesmen, while all the time paying lip-service to the hallowed rhetoric of anti-certaintism and (consequently also) of humilitism, speak with a superior air of cock-sureness and supercilious arrogance that comprehensively defeats any avowed dogmatist. Naturally, this is seen as insincere and hypocritical, and as smacking of bad faith, and it thus, regrettably, fuels the already hotly and ferociously burning flames of anti-science. The dogmatic preaching of anti-certaintismism is yet another (post-)modernist oxymoron. (The term 'oxymoron' literally means 'acute folly'). Having as the only nonnegotiable principle the rejection of every certitude is a self-refuting and self-destructive proposition. OPEN-ENDED QUEST When it is stated (rather ambiguously) that science is an open-ended quest for knowledge, it must be clarified that it is the horizons that are constantly and ceaselessly expanded, not that one never attains any definite and final article of knowledge. The openendedness is in the quest, not in the specific findings resulting from the quest. The quest for knowledge is open-ended because the number of individual items of possible knowledge is infinite, but each item of course is in principle fully attainable and conclusively verifiable. Regrettably, the current (post-)modernist (mis-)conception of science implies that science goes on for ever not because the number of truths is infinite (for allegedly there aren't any truths at all) but because science never gets anywhere. Throwing everything into doubt was justifiable at the very beginning and also during the early days of science. But surely all the resourceful and productive work painstakingly done by so many industrious individuals and groups during the past 2500 years must have yielded at least a few results that are by now beyond dispute! Of course critical questioning is still a must at the frontiers of research. It is especially in the delicate field of new types of consumable and ingestable products (chiefly foods and drugs), where there naturally is no sufficient evidence at the beginning to declare a new product absolutely safe where one must be cautious and openminded. But this does not entail that one must reject all certainties, for if one has no centainties at all, one ultimately has nothing. I had hoped then that the extraordinary events of 1989 in international affairs over the Islamic fatwa elicited by Salman Rushdie's The Satanic Verses ought to have galvanised all western thinkers and their influential organisations to seriously reconsider the inconsistent, unsound, shaky, and ultimately untenable foundations of their "philosophy", and thus devise a new, coherent, unshakeable, and indestructible set of fundamental principles. Regrettably, the then burning issue of inconsistent and unsound fundamentals was glossed over and quickly forgotten, and no concrete steps were ever made so as to remove 73 this intellectually ruinous and crippling flaw, to the continuing further detriment of science, culture, and society - but especially scientific prestige. To this day, the authority of both western "science" and western "philosophy" remains both subverted and unconvincing. Intellectually, this has effectively amounted to a crushing, if unacknowledged, defeat. There is only one satisfactory way to answer this devastating criticism. This would entail tackling the very roots of the problem by starting afresh from the very beginning, reexamining the foundations, and then determining and adopting ab initio a new set of core principles that are soundly and conclusively proven and thus no longer questionable. These non-negotiable axioms will therefore serve as the solid epistemological foundation upon which to be able to erect a stable, secure, defensible, and indestructible scientific edifice. The definition of 'science' and 'truth' must necessarily be one (arguably the first) of the non-negotiable postulates. THE MOST FUNDAMENTAL SCIENCE It is more or less universally agreed that the whole subject of discussing the definition and meaning of 'science' is not part of science, but instead it belongs to some other discipline, perhaps the so-called 'metaphysics' or 'philosophy'. The philosopher C.E.M. Joad argued correctly that people who think they haven't got a philosophy simply have a badly-thought-out philosophy. This is another way of stating Aristotle's observation (more than two millennia earlier) that the claim to not have a metaphysics is itself a form a metaphysics. In fact the whole subject of investigating the definition and meaning of 'science' - ie the 'science of science' or 'epistemology' - is the most basic, fundamental, and indispensable part of science. The ordinary persons who think that they haven't got a 'metaphysics' or a 'philosophy' can be excused for being poor metaphysicists or philosophers. But can the scientists who do not know, or worse do not care, what science is be similarly excused? NAÏVE INSTRUMENTALISM There are millions of people who would call themselves a 'scientist', but how many ever asked the question "What Is Science?", let alone try to answer it? The relatively few individuals who have taken the trouble to reflect on the issue invariably say that science is the systematic study of observational data in order to gain an understanding of the world around us. The understanding is (almost universally) supposed to somehow come about by devising models or theories that work; all that is required from a scientific theory in this scheme is empirical 'adequacy' and practical 'reliability'. Models in this scheme are mere tools that serve as instruments for routine computations and standard predictions. The old saying "If it ain't broken, don't fix it" comes readily to mind here. When fresh data come along which do not accord with the existing model, the model is no longer "empirically adequate", or to use the parlance of folk philosophy, the model is now "broken" and it needs "fixing". If, however, it cannot be fixed, it is then discarded. Then a new model is constructed that 'works' with the fresh data, and the process may be repeated ad infinitum. (EPISTEMO-)LOGICAL INADEQUACY However, this is a seriously inadequate conception of science, for it involves a rather superficial understanding of 'understanding'. This is best demonstrated thus: For the 74 human infant, the Santa-Claus theory of Christmas gifts works unfailingly year after year. It follows that (according to the widespread viewpoint as to what science is) the Santa Claus theory of Christmas gifts is a proper scientific theory. Moreover, the laboratory rat all the time makes and re-makes models that work and are empirically 'adequate' or 'reliable' in order to find its way to the intermittently altered location of rat-food in the experimental maze. It follows that (according to the common viewpoint as to what science is) the laboratory rat is a proper scientist. All organisms living now have already been rigorously selected and programmed by the austere and harsh evolutionary process to be able to cope with everyday tasks and thus survive in the cut-throat world of nature. Science surely has to comprise in more than the ordinary chores required for mere survival, and the 'empirical adequacy' conception of science is thus shown to be epistemologically inadequate and unreliable. In the final analysis, in the long term the "but the theory works" theory of science does not work adequately; in other words, it is indeed "broken" and it needs "fixing". All the frequent colourful public displays of batteries of technical wizardry paint too rosy a picture of the current state of science, and omit the dark shadows concerning the non-obvious deficit in scientific understanding. Any amount of technical wizardry cannot really compensate for this deficiency which entails that science is being neglectfully and wastefully under-utilised, and so there is an unnecessary delay in growth and the resulting progress falls far short of the optimum. Thus the unpalatable truth is that all the technical wizardry conceals very effectively a serious flaw and unless this flaw is recognised and corrected, the public will continue to be both misled and, worse, deprived from even greater benefits. Imagine a public event in 1600 AD exhibiting terrestrial and celestial globes, orreries, clocks, sextants, and other such ornate instruments and impressive devices. Consider also the claim then that all these ingenious devises and the then (fairly successfully) practised calendar and ocean navigation PROVE the geocentric model of planetary astronomy. How could someone then conceivably challenge this (prima facie powerful) argument? It is the chief task of this essay to answer this question, not only for 1600 AD but for all times. SHORT-TERMISM What is the cause of this inadequate understanding of science, and why does it stop short of capturing the full meaning of science? The short answer is 'short-termism'. Of course the short-sighted, blinkered, and one-track vision of short-termism is not specifically confined to the scientific community. On the contrary, it is endemic in the wider world (of politics, industry, business, commerce, etc) and the scientific community evidently feels, and yields to, the socio-political pressure. However, the causal influence does not operate only in the one way direction from the outside world to the scientific community. Owing to the (not totally justified) prestige that the scientific community enjoys, the pathology of 'short-termism' flows also in the opposite direction. The "model-that-works-now" (mis-)conception of science is geared up to the prevalent short-term outlook of the current socio-political set-up that focuses on short-term goals, and thus neglects the long term at the expense of optimum progress. The 'profit-now' drive of most entrepreneurs and the 'must-win-the-next-election' motive of all political organisations combine to concentrate on short-term goals, and thus generally undermine progress in the long term. It is adequate in a NON-scientific society (both human or nonhuman). 75 The "If it ain't broken, don't fix it" folk "wisdom" was devised in an era when society was essentially static and where no change and no progress were ever expected to take place. It was designed to preserve things exactly as they had always been. But for guiding a society with a fully-fledged science, the "If it ain't broken, don't fix it" folk "philosophy" is a woefully inadequate principle; if fact it is a badly "broken" rule. Nor is the "quick fix" attitude quite satisfactory; only the 'correct fix' will suffice. "TRUTH"? Nowadays, those few science spokesmen who still use the term 'truth' invariably concede that science is only one of many ways of producing 'truth'; only very few insist that it is the most reliable way. It will be argued here that in fact only the scientific method (and only when correctly applied) can generate truth. Conversely, apart from the obvious, the only truth possible is by definition scientific. SCIENCE IN CHINA AND JAPAN The historically fully-documented answer to the following question has a immense cultural significance, and it will further illustrate the ongoing arguments: When did the Chinese and the Japanese first discover that the Earth is spherical? In the sixteenth century, when Jesuit missionaries from Europe first arrived in China and Japan, and simply informed them. In fact it is also documented that during the Yuan dynasty (1279-1368), visiting Muslim astronomers presented to the Chinese court the image of the spherical Earth in the (by then standard in western Eurasia) form of a globe. This incident, however, apparently had little, if any, impact. It is questionable whether the tremendous import of this information was appreciated; and if it was, it was kept at court and was not circulated outside. This valuable historical information regarding the shape of the Earth is almost completely unknown, and its great importance unrecognised; the only publications known to the present author that mention it are: (i) Pingui Chue, "Trust, Instruments, and Cross-Cultural Scientific Exchanges: Chinese Debate over the Shape of the Earth", Science In Context 12 (3), pp. 385-411, 1999; (ii) Akihito (Emperor of Japan), "Science in Japan: A Historical Viewpoint - Early Cultivators of Science in Japan", Science 258, 23 October 1992, pp. 78-79. Unquestionably, China and Japan had a recognisable civilisation for many centuries (arguably millennia) before the sixteenth century (with writing, legal code, state bureaucracy, literature, art, music, religious rituals, etc.), but it was a NON-scientific civilisation. During all those centuries, China and Japan (like other, less advanced, civilisations) also had arithmetic, logic, astronomy, medicine, technology, history, etc, but strictly speaking all these disciplines were not developed to the point where they could qualify as fully scientific. It is frequently implied that the early foundation and operation in China of an astronomical observatory and also the early invention in China of paper, printing, gunpowder, rocket, magnetic compass, porcelain, acupuncture, etc., somehow proves the presence of some well-developed state of science. However, like many early mostly serendipitous or fairly easy (but nevertheless important) inventions elsewhere (cooking, pottery, metallurgy, weaving, sewing, plough, wheel, mill, lever, oar, boat, thread, string, 76 rope, cloth, sail, pulley, gear; trade, writing, coinage; bread, wine, ice-cream, mirror, glass, lens, spectacles; bridge, arch, dome, cement; soap, sieve, button, needle, syringe, saddle, harness, stirrup, inoculation, grafting, etc.) the above early discoveries in China do not require any in-depth understanding of the workings of either nature or society. VITAL DIFFERENCE Perhaps the best way to demonstrate the stark difference between PRE-scientific and strictly scientific medicine and technology (and hence to really understand the meaning of 'science' itself) is to cite these two very illuminating and helpful examples. Consider and contrast both the comparative easiness and the very early date of the PRE-scientific achievements on the one hand, with on the other hand both the great difficulty and the quite recent date of their strictly science-based counterparts: (i) (ii) Grafting in, or cloning of, plants; and grafting in, or cloning of, animals. The former were both achieved in ancient times, whereas the latter were both achieved in the 20th century AD. The original (and by comparison crude) 'compression' wheel; and the later (sophisticated) 'suspension' wheel. The former was invented in the 4th millennium BC and its spokes are necessarily thick (and therefore heavy) so as to be able to withstand the large compressive forces, whereas the latter was invented in the 19th century AD and its spokes are very thin (and therefore very light) because they were ingeniously designed (scientifically) to be in tension. It is also true that, on some very early date, an emperor of China instituted an astronomical observatory which for many centuries meticulously recorded and preserved accurate observations. Routine observation and tabulation is of course an essential part of science. But by itself the mere compiling of observed data (however accurate), and even any (re-)arrangement of any type of sensory input, do not qualify as a fully-fledged science. To paraphrase Ernest Rutherford, science is more than mere 'stamp-collecting'. A substantial degree of understanding of (or at least a conscious effort to understand) the underlying reality that gives rise to the observations is required, but evidently this never happened independently in China or Japan before the arrival of the Jesuits. Moreover, the ordinary 'trial and error' type of experiment is also a legitimate part of the scientific process. But again routine 'trial and error' by itself (and even together with the correct result) is not quite fully-fledged science. Otherwise, the laboratory rat which always finds (by straightforward 'trial and error') its way to the intermittently altered location of rat-food in the experimental maze will have to be promoted to the status of a proper scientist. SCIENCE: A SPECIAL EXPERTISE Form all the above considerations it follows that a consummate and competent scientist (by definition) must cultivate what might be termed 'EPISTEMIC ACUMEN'. This must comprise of: I. The ability to attain a certain degree of cerebral exertion and cognitive abstraction; II. The studious mastery of at least one scientific discipline (and preferably more); 77 III. The achievement of a higher proficiency in logic, mathematics, planning, design, craftsmanship, programming, etc. The special expertise must embrace both breadth and depth of knowledge - both are necessary. A scientific investigation can be either highly-focused and penetrative or broadly spanned and integrative. Both approaches (either separately or, more effectively, jointly) can yield novel results. The strict adherence to experimental accuracy, logical discipline, mathematical rigour, etc, is an absolute must. Familiarity with the links between one's main discipline with others is also essential. Multi-disciplinarity (that gives rise to positive 'interplay', 'inter-action', 'feed-back', 'cross-information', and 'cross-fertilisation') is even better. The fostering of initiative, discernment, sagacity, originality, creativeness, inventiveness, etc. are recommended extras. THE BEGINNING OF SCIENCE Plainly then, the Chinese and Japanese never discovered science by themselves. In fact no other civilisation, except uniquely the Hellenic, discovered science. Science was discovered once, in the lands in and around the Aegean sea, in about the sixth century BC, and gradually spread from there. This is not to say that all the people inhabiting these lands of ancient Greece from the sixth century BC possessed the scientific frame of mind. On the contrary, as always, only a certain small (but for a few centuries influential) section of a privileged minority of the intellectual community possessed the scientific frame of mind. The vast majority of people (even most of the highly literate elites) have always lacked the scientific frame of mind. CENTRAL ELEMENT OF A CIVILISATION Certain very influential individuals today believe and state that the "central element of a civilisation" (ie a distinctive culture or society), that distinguishes it from other civilisations, is religion (eg Samuel P. Huntington, The Clash of Civilizations and the Remaking of World Order, Touchstone Books, 1998). This statement is inaccurate. The correct proposition is this: The central element of PRIMITIVE civilisations (of the past, present, and future) is RELIGION; whereas the central element of HIGHLY evolved civilisations (of the past, present, and future) is SCIENCE as defined here correctly. In fact science is the one and only DEFINING characteristic of MODERN society. If one wants to really understand modern society, one will first have to understand science. THE BEGINNING OF SCIENCE Science began with these prodigious realisations: I. No gods, divinities, or spirits act in the physical world; all phenomena have a natural cause; II. The direct sense-impressions may sometimes be illusory; the phenomenon (=appearance) is not necessarily the reality; and therefore a non-obvious (but still physical) truth may be hidden behind the appearances; III. Humans (uniquely) as a species, although part of nature themselves, (have evolved and) possess the cognitive tools with which to probe, explore, scrutinise, and understand the hidden realities of nature - and also possibly exploit them. 78 HUMANITY'S FINEST HOUR These original discoveries are the keys that unlocked the still continuing process of further discovery. In the long term, this is the most powerful wealth creator in history that opened the super-highway to riches for the many to travel to. This is not to suggest that these momentous realisations occurred in a single person in one instant. Moreover, it is very unlikely that we will ever know exactly how it happened. But we can be absolutely certain that it happened somehow, and we must all be grateful that it did. The above listed ground-breaking recognitions are undoubtedly the earliest and most seminal scientific discoveries. This truly momentous point in history must be recognised and celebrated as arguably humanity's highest achievement that set the Earth (humanity's home in the universe) in motion, so to speak. This colossal achievement out-classed and still over-shadows everything that has happened before or since. During the last two centuries, we have collectively harvested the ripe technological fruit grown on the now mature and highly productive scientific tree that germinated from the epistemic seed that was planted 2500 years ago by the first cultivators of natural philosophy. OUR DEBT TO THE FOUNDERS AND THEIR HEIRS All those who value the artificial comforts of our technological civilisation (and who also want to know whom to be grateful to for this material opulence) have got to really understand all these challenging points. Otherwise, they will neglect the greatest heroes the discoverers and inventors - as the vast majority of people ignorantly and unjustly do. Moreover, appreciating the force of these arguments is a must to those who want the best possible future for our descendants. The latter can be brought about only by the optimum advancement of science, technology, and medicine. Naturally, such an optimum advancement requires the CORRECT understanding of science, its method, and the resulting knowledge. From all conceivable candidates competing for the title 'humanity's finest hour', the case considered here is surely the best. Churchill's memorable (para-)phrase also applies: "Never in history have so few achieved so much for the benefit of so many." Such is the huge debt that everyone owes to them. EARLY SCIENCE The following are a few examples of excellent candidates for early fully-fledged science: I. The (inter-related) concepts: Inductive generalisation, deductive logic, mathematical theorem, rigorous proof. II. (What is commonly considered to be) The first mathematical law of nature: Uniform strings produce harmonious sounds when their lengths are in simple numerical ratios: 1 : 3/4 : 2/3 : 1/2. III. The fundamental 'constitutional' theory of the universe: All matter in the universe consists of 'atoms' (ie 'building blocks') moving and interacting in space; nothing is ever created or perishes, but only combines and separates. 79 IV. The next in significance universal scientific theory: (The (related) propositions that) the Earth is spherical and that the Sun and Moon and all the stars are (not mere lights in the sky but instead) large massive material spherical bodies like the Earth. It is remarkable that the one important point that was understandably missed in the fundamental 'constitutional' theory of the universe was the hierarchical structure of all matter in the universe, and that the unfortunately named "atom" (= indivisible) is not the ultimate in the division of matter. Rather it is just another spatial step in this universal (and possibly endless to both the infinite and the infinitesimal directions) hierarchy. Perhaps now it is too late to replace the unfortunately named "atom" (whose literal meaning is 'indivisible') with an etymologically correct term. (Or maybe it is not!) We must always explain its post-19th century use as a chemical 'building block'. The lesson we must draw from this unfortunate incident in the history of science is that we must always be careful in how we move forward. Apart from this single blemish, every subsequent painstaking elaboration of, or improvement on, the above early scientific propositions has been a minor adjustment or refinement of some marginal detail. It is true that much early (and, remarkably, also recent) work in science turned out to be wrong and consequently forgotten. (But those were the early days of no precedence and little experience.) The fashionable view in recent decades has been that ALL scientific knowledge is impermanent and transitory. One must wonder how long one still has to wait for the just cited 2500-year or so old (and still obviously robust) articles of scientific knowledge to be refuted and replaced by still other ephemeral work. Could it possibly be the case that these most ancient items of scientific knowledge have never been refuted because they are indestructible eternal truths? Another early theory (circa 400BC) that may yet be spectacularly verified is that attributed to Metrodorus of Chios: "It goes against nature in a large field to grow only one shaft of wheat, and in an infinite universe to have only one living world." Yet another remarkable early theory that was repeatedly confirmed in the twentieth century was enunciated in the fourteenth century by Ibn Khaldun (1332-1406) in Muqaddimah: "Famines are not the result of the land's incapacity to cope with increasing demand, but of the political chaos and physical oppression that invade the state in its decline." Thucydides of Athens (5th century BC) was a pioneer of scientific history. In his History of the Peloponnesian War, Thucydides claimed: "My work is not a piece of writing designed to meet the taste of an immediate public, but was done to last forever." As this was written in the 5th century BC, the claim has already gone a very long way to being fulfilled. Is "doing work to last forever" too much of a challenge for the 21st century AD research scientist? SCIENTIFIC TECHNOLOGY AND MEDICINE The utilisation of scientific knowledge for harnessing the resources of nature (for either good or regrettably bad) is an optional extra that has motivated many but by no means all scientists. In fact it is unlikely that the exploitation of scientific knowledge was high in the list of possible motives of the founding fathers of science. It is also doubtful that they ever recognised the great potency either of their specific discoveries or of the scientific method in general. Democritus of Abdera (5th century BC), of "atom" fame, was one of the early scientists. Not untypically, Democritus is reputed to have preferred to have discovered 80 one more true cause than be King of Persia. In a similar spirit, in Academia Cicero talks of the inner drive of the scholar: "curiosity drives him on much more strongly than the carrot of promised rewards". Following this virtuous tradition (inaugurated in the 6th century BC), for very many scientists the one and only objective is knowing for the sake of knowing, and the resulting knowledge is its own reward. It must be emphasised that there existed little scientific medicine and technology anywhere (not even in Europe) before the nineteenth century. Before the era of Leonardo da Vinci (circa 1500 AD), only a handful of individuals (notably Archimedes in the third century BC) seem to have appreciated the utility and potency of scientific technology. As for the first unambiguous articulation of the tremendous emancipatory capacity of scientific medicine and technology, that seems to have been made by Francis Bacon in the early seventeenth century. However, as indicated above, Bacon's ambitious great project really took off as recently as the nineteenth century. The philosopher Martin Heidegger correctly observed that there is no etymological link between the terms 'technology' and 'science'. The 'techn' in 'technology' and 'technique' is the Greek for 'art' (as in 'artful'), and 'art' is the Latin for 'skill'. The early Greek pioneers of science insisted on the careful distinction between 'techne' (= traditional practical knowhow) and 'episteme' (= scientific knowledge), which the speakers of Latin later called 'scientia', and which the speakers of English today call 'science'. ART, LITERATURE, AND SCIENCE This is yet another point that is almost universally mis-understood, so it needs to be stated explicitly and correctly: The highest form of art is the technological invention, and the highest form of literature is the scientific text. The following interesting pronouncement is attributed to the eminent professor of semiotics and novelist Umberto Eco: "I write novels because I don't understand what happens in the world. If I had a clear idea I would write a scholarly work." ("They said it", Daily Telegraph, 14 October 1995) (Evidently, writing novels - even good ones - is comparatively easy.) The reader is invited to consider this statement with the utmost seriousness that it deserves. POETRY The standard English rendition of the first line of the creed of Nicaea (325 AD) is: "We believe in one God the Father Almighty, MAKER of all things visible and invisible;" The word 'MAKER' here is a gross mistranslation of the corresponding word in the original Greek text, which is 'ΠΟΙΗΤΗΣ' (POIETES). Of course the correct English translation is 'POET'. Naturally, no human person can be a 'poet' "of all things visible and invisible". However, if the term 'poet' is to be used meaningfully to designate with any justice any specific group of humans, it will have to be the inventors and the discoverers. Small-time 'word-smiths' like Homer and Shakespeare may be skilful at telling a good fictional(-ised) story, but as literal 'poets' they are of little consequence. Obviously, a certain class of arrogant impostors appropriated the term 'poet' in order to inflate their importance. But if the definition of genuine 'poetry' is as given above, what is then the correct definition of conventional "poetry"? Conventional "poetry" is nursery rhymes for grown up infants. Similarly a "novel" is a bed-time story again for grown up infants. 81 SCHOLARSHIP It may be useful to also point out here that the 'gn' in 'dia-gnosis' and in 'gnome' is, in evolutionary linguistics, the same as the 'gn' in 'co-gnise', and also the same as the 'kn' in 'know'; also the 'math' in 'mathematics' is the same as the 'math' in 'polymath' (= very learned); finally, the original meaning of 'school' (whence 'scholarship') is 'leisure'. The significance of the original meaning of 'school' (= 'leisure') to the present (scientific) investigation may not be obvious, so it is necessary to state it explicitly: The social institution 'school' was founded by 'scholars', ie those members of the leisured class who entertained themselves by conducting 'scholarship' in various fields, including of course scholarship in science, and by all accounts they had a really good time. They enjoyed doing it, and they were further pleased by their discoveries. There seems to be no evidence that they did their scientific research specifically in order to exploit the resulting knowledge. Nevertheless, and this is a delightful irony, the (unintended) useful application of the accumulated scientific knowledge over the centuries is the most basic (if unknown) cause for the abolition of slavery throughout the world in the 19th century, and also for the general increase of leisure time for all social classes in much of the world in the 20th century. For most school pupils in later times, gradual changes in social conditions slowly but surely brought about the surprising change in the meaning of 'school' from the original 'leisure' to the almost exact opposite 'hard toil'. Those school officials who now decry the recent movement to inject some enjoyment into schooling and make it less of a boring chore obviously would benefit from some schooling in the history of 'schooling'. LAWS GOVERNING THE ECONOMIC GROWTH OF SOCIETIES The economic advancement of societies with no technology is infinitesimal, if any. The optimum economic advancement of societies with PRE-scientific technology is linear. The optimum economic advancement of societies with science-based technology is exponential. These are tentative conjectures derived from the comparative study of civilisations, and submitted for further scrutiny by the appropriate specialists. Moore's Law seems to be an elementary corollary of the stated general laws. Enunciated in 1965 by Gordon Moore, Moore's Law states that computing power rises exponentially over time. (http://www.intel.com/intel/museum/25anniv/hof/moore.htm) POLITICS There exist widespread and justifiable concerns about the possible influence of certain paymasters on the direction and conduct of research, on the researchers themselves, on their findings, and also on how these findings are applied. These concerns must be acknowledged and subjected to the one and only objective scrutiny in existence: ie that of science. There is also the problem of the unequal distribution of the fruits of applied science. The problem of the unequal distribution of wealth of course predates science. What the critics either neglect or forget or never notice is that without science there would have been no fruits at all of applied science to distribute to anyone. Naturally, this problem and that of who supplies the funds for scientific research and how scientific knowledge is 82 applied are essentially political issues, and in a democratic polity they must engage the due attention of all citizens. This point demonstrates the need, in a democracy, for a scientifically literate public to make informed decisions. The best solutions to all such essentially political problems (with scientific input), as in all the others, will be arrived at by the judicious application of the scientific method, not by rejecting or decrying it. Moreover, many critics have lost sight of the enormous benefits and complain incessantly about the (comparatively minor) side effects. Sadly, this has been happening for decades. Again, the solution of this problem is the better application of science, not its rejection. DEFINITION It follows from all the above arguments that the best possible one-sentence definition of science is this: Science is the conscious, disciplined, systematic, and sustained, endeavour to methodically discover the non-obvious truths - of both nature and society. The non-obviousness of scientific truths may range from the frequently uncommonsensical, to the often counter-intuitive, to the sometimes surprising, and occasionally to the truly astonishing. NO ROYAL ROAD TO SCIENCE In about 300BC the first Greek King of Egypt following Alexander's conquest, Ptolemy I Soter, asked Euclid if there were not an easier way to learn geometry. Euclid is said to have replied: "In the realm that you are King there are roads for the common people and there are roads reserved just for royalty. In geometry there is no such royal road." George Bernard Shaw is reported to have said: "The reasonable man adapts himself to the world: the unreasonable one persists in trying to adapt the world to himself. Therefore all progress depends on the unreasonable man." Adapting the world to oneself requires a scientific understanding of the world. Shaw's perceptible remarks capture the spirit of scientific endeavour perfectly. CAUTION: Another instructive lesson that one must learn from the long history of science is that theorising must be securely grounded on the solid foundation of careful observation and sound logic. Otherwise, wild speculation compounded by indifferent logic will invariably become completely divorced from reality, and then the careless speculator will go over the top and fall over the edge of the precipice into the abyss of pure phantasy. EPISTEMOLOGICAL CORRECTNESS Needless to say, the truth is the most important thing that anyone can know. It is the simplest of truisms to say this, but in our benighted (post-)modern era, this truism needs to be said and explained until it is no longer questioned. In the thick smoke of the suffocating (mis-)information overload that has plagued our (post-)modern world, free expression can help to ensure that unpopular truths may be communicated, debated, and better evaluated. 83 However, without the correct understanding of the fundamental concept 'truth', everything loses meaning. In this context, it must be noted that some very senior spokesmen of the science community sometimes say words to the effect that the hallmark of science is independence of thought and freedom of expression. The most notable example is Sir Michael Atiyah who expressed this precise viewpoint in his 1995 Presidential Address to the Royal Society (published in both the Financial Times of 19 Dec 1995 and the THES of 5 January 1996). Atiyah asserted that "independence of thought really is the hallmark of a scientist". Regrettably, this viewpoint is grossly inaccurate, and so it has to be corrected. The simplest way to expose the grave flaw in the above common misconception is by considering the proverbial chimpanzee who is given both a typewriter and the freedom to type indefinitely. How long will it take to generate a single line from (never mind the entirety of) Shakespeare's writings? The most basic hallmark of science must be CORRECTNESS of thought, expression, and execution. Apart from accidental discoveries that can be made by anybody, it is 'EPISTEMOLOGICAL CORRECTNESS' that CAUSES discovery, invention, and advancement. Freedom merely FACILITATES the communication and dissemination of discovery and invention (and, naturally, of everything else). RIGHT THINKING The Swedish poet Thomas Thorild (1759-1808) is credited with what everyone must understand to be a very great aphorism which, since 1887, graces the building of the University of Uppsala, Sweden, as a splendid epigram: ATT TANKA FRITT AR STORT; ATT TANKA RATT AR STORRE TO THINK FREE IS GREAT; TO THINK RIGHT IS GREATER This superb epigram ought to be displayed prominently at all places that entertain any serious pretensions to being 'intellectual'. The early Greek culture was not unique in tolerating a certain degree of individual initiative, free argument, and vigorous competition. (For example, the contemporary civilisations of Phoenicians, Hebrews, etc. also permitted a certain degree of initiative, argument, and competition.) However, although the argumentative and competitive elements in early Greek culture naturally facilitated the advancement of science, they did NOT cause them - either the beginning as such of science or the subsequent advancement of science. The cause, of course, was and remains 'epistemo-logical correctness'. This is essentially the traditional scientific world-view and method (plus the resulting truths) as articulated and gradually refined by the likes of Thales, Pythagoras, Thucydides, Aristotle, Archimedes, al-Kwarismi, al-Kindi, Ibn-Khaldun, Viete, Bacon, Galileo, Descartes, Newton, etc. HOMO-SCIENTIFICUS In, the final analysis, if there is one thing that completely and unambiguously separates the human species - HOMO-SCIENTIFICUS - from all other biological species (and culturally raises humans above animals), it must surely be 'science' as correctly 84 defined here. All other proposed criteria (tools, language, thought, aesthetics, ethics, etc.) do not quite succeed in doing this conclusively. VOODOO MATHEMATICS There is a very popular creed commonly known as "holism" whose fundamental postulates, too, are very well known: "Less Is More" "The whole is greater than the sum of its parts." "Holism" is supposed to be about the 'whole', but it is so full of (epistemo-)logical holes that a more appropriate appellation would be "Hole-ism". EPISTEMIC (W)HOLISM 'Epistemo-logical correctness' entails 'EPISTEMIC (W)HOLISM'. 'Epistemic (w)holism' is concerned about 'overall correctness' and the 'integrity of the whole'. The latter of course are its defining basic tenets. Of course the correct scientific mathematics consistent with 'Epistemic (w)holism' are these: "Less Is Less" "More Is More" "Equal Is Equal" "The whole is exactly equal to the total sum of all its parts." Although 'Hole-ism' is a formidable adversary of 'Epistemic (w)holism', the rational person has only one rational choice: 'Epistemic (w)holism'. TRUTH 'Truth' must be unique, objective (= inter-subjective), permanent, constant, unchangeable, invariable, immutable, imperishable, indestructible, theory-free, ideologytranscendent, universal, eternal, ultimate, absolute; and also in principle (but perhaps difficult in practice) discoverable, accessible, inspectable, attainable, amenable, tractable, knowable, comprehensible, verifiable, effable, and communicable. Any use of the term 'truth' which does not satisfy one or more of the above defining features is fatally flawed, and is bound to lead, sooner or later, to "anything goes" - as indeed it has. Contrary to the popular misconception, there is only one correct 'world-view'; all the others are '(un-)world(-ly) phantasies'. SCIENTIFIC RATIONAL DOGMA Proven scientific truths entail scientific certainty. In its turn, scientific certainty entails scientific rational dogma. Thus the valid proposition "healthy degree of scepticism" must be complemented by the equally valid - and equally indispensable - proposition "healthy degree of dogmatism". 85 To be sure, the rejection and demonisation of rational scientific certitude generated a pandemic of pathological public dogma-phobia, in addition to the enormous intellectual vacuum. Predictably, the various dogmatic so-called "fundamentalist" religions gratefully stepped in to fill this gigantic intellectual gap with their transcendental metaphysical "certainties", to the huge detriment of society at large. In the (post-)modern era, the term 'dogma' has come to mean irrational, usually religious, belief. This is evidently the result of the Christian Church hijacking the word 'dogma' for its own beliefs some two millennia ago. The term 'dogmatism' acquired further unpleasant connotations in the 20th century as a result of the actions of people like Stalin and Hitler. (Post-)modernist logic therefore induced that all kinds of certaintism and dogmatism must be as wrong and as evil as Stalinism and Hitlerism - the ultimate sin. But the non-religious, philosophical use of the term 'dogma', as a proven tenet or justified opinion, and of the term 'dogmatism, as a positive assertion of reasoned belief, preceded the Christian Church by several centuries, and that use is still recorded in some of today's dictionaries. SCIENTIFIC FUNDAMENTALISM It turns out that if one is not a fundamentalist, ie if one has no fundamental principles or dogmas, one cannot really have anything else, ie one is a nihilist. Between rational fundamentalism and irrational nihilism there are no intermediates. And between logical positivism and illogical negativism there is only irrational nihilism. To the standard postmodernist objection that "truth is elusive and never attainable", I devised the standard reply: "How can one be certain that one knows the truth? This is often difficult to answer. But we suggest that this is the very question that every professional (not only scientists and philosophers but also historians, physicians, journalists, police officers and so on) ought to be trying to answer, instead of denying the very existence of truth. If one does not do so, this conduct must be seen for what it really is: a breach of professional duty. The question is whether on the available evidence a hypothesis has been refuted, or verified, or is still open to investigation. In the latter case one has to be sceptical, in the former dogmatic." ("Where Science Has Gone Wrong", Nature, 1988; 333: 389) "WHERE SCIENCE HAS GONE WRONG" Like in all complex human affairs, there are always many causes and contributory factors. But if (post-)modernism has a unique origin, it is the rejection of scientific 'truth'. In other words, (post-)modernism originated IN science. The (post-)modernist revolution first took place in science decades ago and, as a result, the old-fashioned ideas about 'science' and 'truth' advocated here were characterised as "scientism", denounced as wrong, and demonised as evil and dangerous. Naturally, the cognate terms "scientist", "scientific", and "science" have by association suffered dearly as a result. In fact this is the most dangerous (because unrecognised) cause of anti-science. M. Psimopoulos and I explained that this is the exact point "Where Science Has Gone Wrong" (Nature 1987; 329: 595-598; Nature, 1988; 333: 389). 86 NEW DARK AGE? The (post-)modernist revolution succeeded in replacing: the concept of permanent truth with the transient paradigm of (transient) paradigm; "healthy dogmatism" with "unhealthy (and invariably bogus) humilitism". This ushered the twentieth century culture into a veritable new Dark Age of intellectual decline. The medieval Dark Age was essentially decreed by brute force by the then allpowerful Roman Emperors. Mysteriously, the (post-)modern Dark Age came about in the ostensibly free and tolerant culture of our Europe and America - the so-called 'West'. Arguably, this is the greatest intellectual tragedy in history. The ultimate cause of the oxymoron 'skill-less art' is the earlier and greater oxymoron 'truth-less science'. (Oxymoron = acute folly) THE DESCENT OF MAN Charles Darwin's book The Descent of Man (1871) was about the genetic extraction of Homo-sapiens. Jacob Bronowski's book The Ascent of Man (1973) was about the intellectual rise of Homo-sapiens. Tragically, we may now be witnessing "The Descent of Man" - in the sense of not Darwin but Bronowski. 'CRITERION OF VERIFIABILITY' VERIFIED Watts T L P ("After postmodernism", Lancet 2000; 355: 149) stated: "[Logical] Positivism foundered on the criterion of verifiability because it was not verifiable." This is clearly the philosophically most basic cause of the supposed discrediting of both 'logical positivism' and 'scientism' and the alleged triumph of '(post-)modernism'. Obviously it is also for this (ultimately unsound) reason why the original champions of 'Logical Positivism' later turned against it. For example, A. J. Ayer's view on 'Positivism' in his later years was: "Nearly all false". (Bryan Magee, Men of Ideas, BBC, 1978, p. 131). Regrettably, not only the Lancet but practically all supposed "scientific" forums are only too happy to demonstrate their openness to "dissent" by publishing such negativist "critiques" of science. What these bastions of "openness" curiously do not tolerate is the rebuttals and refutations of 'IL-logical negativism'. In my 1988 "On the Method and Scope of Research" (In: Belardinelli, E. (editor), Imola Conference on University and Research, Edizioni Martello, Bologna, 1988, pp. 157192), I went a long way towards verifying the 'criterion of verifiability'. I now want to put it on public record that I have positively completed the verification of the 'criterion of verifiability'. Only this breakthrough and probably no other can obviously rescue for good both 'logical positivism' and 'scientism' from the ruinous threat posed by both 'IL-logical negativism' and 'anti-science'. 87 SEEING FURTHER "If I have seen further, it is by standing on the shoulders of giants." Isaac Newton, 1675. "If I, too, have seen further, it is also by standing on the shoulders of giants like Newton. But before I could climb on the shoulders of giants, I had to struggle to free my neck from under the boot of the dwarves." Theo Theocharis, 1978. (EPISTEMO-)LOGICAL INDUCTION The second most important unsolved problem of science is the so-called "problem of induction", which was stated by David Hume in the 18th century and gave rise to the socalled "Humean scepticism". I discovered the key that has unlocked the process of solving this problem too. HEURISTICS PLUS APODEICTICS 'Heuristics' is already a fully recognised scientific discipline that covers the early stages in the process of scientific discovery. It is argued here that a new scientific discipline, to be christened 'apodeictics', also needs to be founded in order to complement heuristics. 'Apodeictics' will cover the regrettably still largely empty ground concerning the last steps that in principle bring the long and tortuous scientific process to its final conclusion - imperishable truth. These final steps of course should constitute the rigorous 'verification' - and not just in pure mathematics. DUMBING DOWN During the last three or four years (since about 1996), a very curious paradox concerning our highly cultured society has been noted and vigorously debated. This is the quandary of declining standards in education, in the media, and in popular culture generally. This has been termed 'dumbing down'. In fact there seems to exist a general downward trend in every domain of culture, both vernacular and elite, both low-brow and high-brow. Of course it must be stressed at this point that one must always be careful never to infringe another's inalienable right to be dumb. Many years before, I pointed out this more basic paradox, in fact the ultimate puzzle of our (post-)modern era: the destructive influence of the endemic anti-science movement in the most successful scientific civilisation in history. I identified the most basic and most dangerous (because unrecognised) cause of anti-science to have been the either negativist or nihilist attitude to science (and its method and knowledge) by the scientific community itself, who thus have mysteriously been the authors of their own misfortune. The whole of culture went wrong because the most basic foundation of culture, namely scientific understanding, went wrong first. A 'domino effect' of a causal chain of spread has been at work since then. This is how the debasement of the entire culture has come about. The ultimate cause of the oxymoron 'skill-less art' is the earlier and greater oxymoron 'truth-less science'. (Oxymoron = acute folly) WHY? 88 (i) (ii) (iii) (iv) Why has the (post-)modernist "Mickey Mouse" grotesque (and worse) art been elevated in this century above classical art? Why are (post-)modernist "noisicians" widely regarded in this century more highly than classical musicians? Why has the (post-)modernist "theatre of the absurd" gained so much ground in this century over the traditional theatre of the serious? Why has factual knowledge and theoretical rigour in all disciplines in traditional education been replaced by "airy-fairyness" in (post-)modernist education? Many years before, I pointed out this more basic paradox, in fact the ultimate puzzle of our (post-)modern era: the destructive influence of the endemic anti-science movement in the most successful scientific civilisation in history. I identified the most basic and most dangerous (because unrecognised) cause of anti-science to have been the either negativist or nihilist attitude to science (and its method and knowledge) by the scientific community itself, who thus have mysteriously been the authors of their own misfortune. The whole of culture went wrong because the most basic foundation of culture, namely scientific understanding, went wrong first. A 'domino effect' of a causal chain of spread has been at work since then. This is how the debasement of the entire culture has come about. The ultimate cause of the oxymoron 'skill-less art' is the earlier and greater oxymoron 'truth-less science'. (Oxymoron = acute folly) SCIENTIFIC UNDERSTANDING? If naturally one next makes the consequent enquiry as to where exactly scientific understanding first went wrong, the following brief (but not perfectly accurate) answer can be given: In his regular column "Hard drive" in the London Daily Telegraph weekly supplement Connected, Peter Cochrane is described thus: "Peter Cochrane holds the Collier Chair for the Public Understanding of Science and Technology at the University of Bristol." In the opening paragraph of his "Bricks in an unreal city" (Hard drive, 10 February 2000), Peter Cochrane wrote with evident admiration: "Richard Feynman was ... a founding father of our most fundamental atomic understanding. One of my favourite [Feynman key pronouncements] is the shrewd: 'I think we can safely assume that no one understands quantum mechanics'." (emphasis added) The curious "no one understands quantum mechanics" viewpoint articulated in the very last year of the 20th century by a Professor for the Public Understanding of Science and Technology at a leading University has been the standard viewpoint of establishment science throughout the 20th century. I recognised the stark and gross inconsistency pointed out here from the very beginning of my scientific studies in the 1970s when I also devised my standard rebuttal (published in a Letter in The Listener): "A theory that no one understands is not scientific but hopelessly mystic." ("Men of Ideas", The Listener, 4 May 1978) As indicated, the above is a brief but not a perfectly accurate answer to enquiry as to where exactly scientific understanding first went wrong. A both full and accurate answer is too long to be included in this essay; it will be published separately soon. ACCENTUATE THE NEGATIVE? 89 Regrettably, my warnings since the 1970s were not heeded, and the situation is not improving. The following is a recent and by no means untypical example, but noteworthy in that spans the Atlantic: The one Lecture (out of hundreds) from the AAAS millennium conference in Washington DC in February 2000 that the UK daily newspaper The Independent selected to publish was given the very suggestive but disappointing (and utterly typical of our (post-)modern era) title: "Cherish mistakes, since to err is science" (Douglas Allchin, Podium, Friday Review, 25 February 2000, p. 4). Sadly, this has been the (sub-)standard official line for many decades. Future generations will surely regard with puzzled and amazed incomprehension the anti-science sentiment that dominated the benighted last decades of the 20 th century, and its most basic cause - the prevailing negativism in the scientific community itself that unthinkingly rejected scientific truth and certainty, and dogmatically (but frivolously and inconsistently) preached anti-certaintism. (POST-)MODERN "TRUTH" The (post-)modernist and "politically correct" idea of "truth" - subjective, relative, parochial, impermanent, ephemeral, transient, perishable, destructible, theory-laden, ideology-dependent, falsifiable, unprovable, changeable, variable, surreal; as well as the traditional religious idea of "truth" - untestable, unknowable, incomprehensible, ineffable, transcendental, other-worldly; (or a any confused mixture of the two) are of course meaningless, incoherent, untenable, and, needless to say, untrue. Probably beginning with Bertrand Russell, all Professors of philosophy everywhere throughout the 20th century have taught universal anti-certaintism. However, I have yet to find a refutation of Descartes's brilliant argument (from the 1630s) that the proposition 'I think' is indubitable: Any and every attempt to disprove it, only succeeds in proving it! ROMANTIC "TRUTH" Romantic "truth" is alleged to be found either through attaining harmony with nature or through spiritual exploration of the inner self. All this is too airy-fairy and mystical to be debated meaningfully. THEOLOGICAL "TRUTH" On the meaning and content of religious "truth", countless millions of individuals have speculated ceaselessly (and often fancifully) all the way to the grave and, apart from the grave, arrived at no other final destination. However, there exist some important questions about religion that are amenable to objective and definite answers, notably these: - Which particular discoveries were made by means of either divine or spiritual contemplation? - Which specific inventions were caused by godly inspiration? Both the theological and romantic versions of "truth" fail the crucial test of objectivity (= inter-subjectivity). THE INDISPENSABILITY OF TRUTH 90 Any "paradigm" that appears merely to work and does not claim to be (at least an approximation to) a truth of nature is a SantaClaus-type infantile theory and cannot legitimately claim to be scientific. For sound scientific practice in general, the terms 'truth' and 'reality' are indispensable. Moreover, any non-accidental advancement (both theoretical and practical) in every scientific field is heavily predicated on knowing and using correctly a theory that is close to the truth. In fact the closer the practised theory is to the truth, the greater is the theory's effectiveness (both theoretical and practical), and also the greater the probability of advancement. In genuine science, the "but-the-theory-works" theory of knowledge does not really work. In the final analysis, at best it is an infantile theory; and as explained above there is also a less charitable evaluation. BIRD-BRAIN 'EPISTEMOLOGY' The less charitable evaluation in question can be best demonstrated by recounting the following fascinating story (involving the 'epistemology' of a popular species of bird the turkey) that was beautifully narrated by Richard Dawkins in his River Out of Eden (1995): It has been established by zoologists that a mother turkey protects her hatchlings quite competently by means of a model that (in most cases) works quite effectively: anything that moves and does not make the characteristic hatchling sound 'glu, glu, glu' (eg cats, snakes, etc), the mother turkey attacks and repulses. Someone, however, carried out the following ingenious experiment: this bright, if cruel, experimenter somehow caused the mother turkey to lose completely her sense of hearing. The first thing that the mother turkey then did was astonishing but easily explainable by the "but-the-theory-works" theory of knowledge - she attacked and killed, one after another, all her own hatchlings. There must surely be a lesson buried somewhere deep in this extraordinary but true story for the fans of the "but-the-theory-works" theory of knowledge. TRUTH AND PROGRESS The example that best illustrates the indispensability of 'truth' and 'reality' is the millennia-long history of astronomy's endeavour to model accurately the movement of the planets. Ptolemy's geocentric model of planetary motion worked adequately for the purposes that it was designed for (keep a calendar and predict the positions of planets and the eclipses of Sun and Moon). Imagine a public event in 1600 AD exhibiting terrestrial and celestial globes, orreries, clocks, sextants, and other such ornate instruments and impressive devices. Consider also the claim then that all these ingenious devises and the then (fairly successfully) practised calendar and ocean navigation PROVE the geocentric model. How could someone then conceivably challenge this powerful argument? From the (for many centuries) apparently empirically "adequate" and practically "reliable" (but essentially untrue) Ptolemaic model, it is impossible to derive either Kepler's or Newton's laws. As Kepler himself fully realised, one has to discard (the essentially untrue) Ptolemaic model and instead use the (approximately true) Copernican model in order to get to the (closer to the truth) Keplerian model, and subsequently to the (still closer to the truth) Newtonian model. It is clear that Newton also understood this point. This is exactly the reason why Newton quoted the famous phrase: "If I have seen further, it is because I stood on the shoulders of giants." 91 Owing to the periodic character of planetary movement, the geocentric model could (and indeed still can) make successfully ROUTINE predictions concerning the observed positions of the planets in the sky from the terrestrial observatory, but it never made any NOVEL theoretical predictions or practical applications such as stellar parallax, Foucault pendulum, black box of inertial navigation, Global Positioning System, etc. The latter, of course, can only be made (as indeed have been made) by using the one TRUE model and no other. DELIVERING THE GOODS On the very important and pertinent matter of practical accomplishments, without the Newtonian model it is impossible to achieve guided rockets, space travel, satellite communication, the Global Positioning System, etc. Accurate measurement alone, or sophisticated experimentation alone, or meticulous data-compilation alone, or complicated mathematical computation alone, or any type of trial-and-error alone, or even any combination of all these will never lead to the above tremendous accomplishments. (For, putting it rather crudely, it is like letting the proverbial chimpanzee type away on a typewriter and expect him to re-produce by pure chance a poem by Shakespeare.) The CORRECT theoretical modelling (ie the appropriate 'TRUTH') is absolutely indispensable. Mysteriously, the paramount significance of Kepler's and Newton's true knowledge as explained here seems to have been buried under the gigantic mountain of the (post-)modernist confusion - and thus forgotten. All the well-meaning people who nowadays disregard (and, worse, slight) the possibly true model by rehashing the old chestnut that the present model "ain't broken" and thus needs no "fixing", could be doing as much harm (by obstructing progress) as those who in earlier millennia opposed the (approximately) true heliocentric model on the (here shown to be) untenable grounds that the (now known to be) untrue geocentric model worked. This 'naïve instrumentalist' view of science may not actually be actively killing people, but it is quite possible that it is failing to save lives by neglecting to develop new live-saving drugs and cures. Thus the concept of the mere "empirical adequacy" of scientific knowledge (that allegedly dispenses with 'truth' because allegedly it is not needed) is empirically proven to be woefully inadequate. The similar concept of the mere "reliability" of scientific knowledge is similarly shown to be notoriously unreliable. Without the solid foundation of verified truths on which to erect sound and enduring scientific edifices, any flimsy fabrications on the shifting sands of any transient paradigm will (as everyone seems to agree) naturally collapse sooner or later. For optimum scientific advancement, there is no substitute for good old-fashioned TRUTH. In the final analysis, in the long term it is (closeness to) imperishable 'truth' that invariably delivers the goods, and brings home the bacon. CULTURAL "CRIME" Thus the much vaunted "epistemological pluralism" (another basic tenet of (post-)modernism) is thus been shown to be epistemologically untenable, although of course "political pluralism" is politically still tenable - and desirable. The rejection of 'truth' is tantamount to the proverbial killing the scientific 'goose' that lays the 'golden eggs' of medicine and technology. We still have the already laid 'golden eggs', but how many more have been missed as a result of this thoughtless, reckless, and ruinous cultural "crime"? 92 NEVER MIND THE TRUTH? As I already explained, the rejection or subversion of 'truth' is the exact point "Where Science Has Gone Wrong" (Nature 1987; 329: 595-598; Nature, 1988; 333: 389). The one and only response in the English language anywhere to the serious warnings contained in "Where Science Has Gone Wrong" was a Comment article published on 7 December 1987 in the UK daily The Independent by the then President of the British Society for the Philosophy of Science Dr Peter Gibbins (p. 15). The heading of this article was again very telling and disappointing (and again typical of our (post-)modern era): "Never mind the truth: research must pay off"; and so also was its profoundly erroneous conclusion: "Profit does not depend on truth". In fact any serious scientific study of the true history of scientific research proves that in the LONG run: Profit (from the fruits of the scientific endeavour) does indeed depend PROFOUNDLY (though not obviously nor straightforwardly) on truth. I hope that I have shown that if scientific research is to really pay off, it must be research for imperishable truths and eternal verities, not for current consensus or an ephemeral paradigm that appears to work today, but fails tomorrow. TRUTH AND JUSTICE Another noteworthy concept that was rendered meaningless by (post-)modernity is 'justice'. Injustice (either to an individual or a group) is perpetrated generally by the powerful to the powerless. The correction of injustices is heavily predicated on discovering and making known the (usually suppressed) underlying truths. POLITICAL CORRECTNESS The total confusion resulting from the (post-)modernist subversion of the meaning of 'truth' perfectly suits the unscrupulous - both individuals and groups. Curiously, the most enthusiastic embracers and promoters of (post-)modernist nonsense have been the self-proclaimed political "progressives" who declare the correction of social injustices to be their prime concern. These same people also expelled forcibly the term 'correctness' from its natural home in the sciences and relocated it in politics. Thus emerged the ugly term "POLITICAL CORRECTNESS" (PC). Worse, some of these phoney "progressives" sank even deeper in the (post-)modern mire: they asserted that the concept "objective truth" is a pernicious device invented by the powerful (white European heterosexual male) specifically to despoil the environment and exploit and oppress the weak (women, minorities, third world). The elected political leaders customarily let down their supporters some years after the former have made their promises to the latter. In stark contrast, the intellectual leaders of the (post-)modernist movement harm the welfare of the persons whom they purport to care about at the very moment they utter their basic principle. Their lofty rhetoric concerning the exploited and oppressed is all about enabling the differently-abled and empowering the differently-powered (or some other similarly colourful PC phrases to the same effect). However, the simple statement of their basic principle nullifies instantly the emancipatory prospects that the correct definition of the basic concepts 'truth' and 'justice' entails. 93 The rejection or subversion of 'truth' (as defined here) is the "Philosophical Mother" of all PCs, from which all lesser PCs are (epistemo-)logically derived. Most people believe that PC is merely about a language code designed so as to not offend the feelings of vulnerable groups. No, as shown here it is a fundamental issue of substance. It is about the meaning and application of such basic concepts as 'truth' and 'justice'; and also about the many harmful effects, as explained here, of the prevailing (post-)modernist MIS-conceptions of 'truth' and 'justice' on science, culture, society, and progress. SCIENCE AND THE LAW The "Disconnects between science and the law" Perspective article by David T. Case and Jeffrey B. Ritter (Chemical & Engineering News Vol. 78, No. 7, pp. 49-60, 14 February 2000) stated: "The clash between scientific and legal truth is thought to be fundamental. … Scientific conclusions are subject to perpetual revision, both in detail and sometimes in the fundamentals. … This paradigm of a dichotomy between law and science has been recognised and embraced by the U.S. Supreme Court (in 1993 as part of Daubert v Merrell Dow Pharmaceuticals)." Lawyers (and the entire public) cannot complain that they were not amply forewarned about the grave dangers stemming from the (post-)modernist alleged "fundamental clash between scientific and legal truth". On 17 and 22 February 1986 BBC2 broadcast Hilary Lawson's Horizon film "Science ... Fiction?" and on 20 February 1986 The Listener published Hilary Lawson's article "The fallacy of scientific objectivity" (pp. 12-13). In a Letter published in the 27 February 1986 issue of The Listener (and entitled "Science versus fiction"), M. Psimopoulos, T. Theocharis, and N. Bedding rebutted Hilary Lawson's (post-)modernist preaching, and demonstrated that by literally accepting and faithfully implementing "the fallacy of scientific objectivity", then "one can literally get away with murder". SCIENCE OATH: "UPHOLD THE TRUTH" There has been much talk about the need for a 'Hippocratic Oath' for scientists. Invariably, all such talk boils down to the injunction: "Do Good." But as the old saying goes: "The road to ruin is paved with good intentions." More often than not, busybody meddlesome do-gooders end up effectively becoming busybody meddlesome do-badders. This indeed is always the case with those who have demonstrated their complete lack of understanding of such basic concepts as 'truth' and 'justice'. Aside from the inherent and insurmountable subjectivity of the concept 'good', the command "Do Good" applies to every profession and to every single citizen. Neither moral piety nor ideological preaching should be the primary concern of the scientist. As already explained, the first duty of the scientist must be 'EPISTEMOLOGICAL CORRECTNESS'. Hence, if there is to be an oath specifically for scientists, this will have to be along the idea: "Uphold the Truth." The oath must also explain that, if the oath is to be of lasting value, 'truth' must be of the imperishable type as defined here, not of the perishable (post-)modernist variety of the "current consensus" or "present paradigm" type. "TRUTH WILL OUT"? 94 In the cultural chaos that is (post-)modernity, an infinite variety of daft ideas get publicised. In the wide and deep ocean of this (mis-)information overload, what I argue are the correct ideas about the most fundamental principles of our culture have all but disappeared from the public domain. (In the old times it was said that humanity cannot bear much reality. Sadly, in our benighted (post-)modern world humanity obviously cannot bear ANY reality.) It is high time that all the earnest supporters of science began to re-assert the positive virtues of science (as correctly expounded here at some length), as well as the tremendous positive achievements of science-based medicine and engineering. On the germane point about making the 'truth' public, the playwright Bertold Brecht can teach us all a rather instructive lesson. In Brecht's The Life of Galileo, there is this dramatic scene: LITTLE MONK: Will not the truth, if it is the truth, prevail either with or without us? GALILEO: No, no, no! So much of the truth will prevail that WE make prevail! PLANNING THE FUTURE Without a clear and sound understanding of the current state of affairs of our world, humanity's future prospects are uncertain and nebulous. There can be no such understanding if the crucial events of the past (that have shaped the present) are MISunderstood, as indeed they are, and especially those that have the closest bearing on: THE MEANING OF 'SCIENCE' AND 'TRUTH'. For the best possible future of humanity, a comprehensive plan is needed that is informed by the important lessons (a few outlined here) drawn from the correct understanding of both past and present. ----Theo Theocharis was born in Cyprus in 1952, and took a degree in Physics at London's Imperial College in 1976. In 1977 he became a dissident in both science and philosophy (as well as conventional politics). In this respect, Theo Theocharis is probably unique in that he became a dissident from the outset while he was still a PG student and thus before he could get any academic job. After his university degree, his entire CV consists of only his dissident publications. The most notable of these (co-authored with M. Psimopoulos) is a 1987 Nature Commentary article entitled "Where Science Has Gone WRONG" (Vol. 329, pp. 595-598, 15 October 1987). Following this highly critical, dissenting, and whistle-blowing publication, Theocharis has been unable to obtain any employment since then, although he has continued to generate research material of both sound (if controversial) scholarship and uncompromised integrity ever since. Theocharis's most recent (easily accessible) publication is: "What's WRONG with science", Issues in Science and Technology, Vol. XVII, No. 1, Fall 2000, pp. 24-25; online: http://bob.nap.edu/issues/17.1/forum.htm (last forum item). 200A Merton Road 95 London SW18 5SW England 020-88706191 E-mail: [email protected], [email protected] 96 A case of damnatio personae Andrea Luchesi, and his role in the birth of Haydn, Mozart and Beethoven myths (Giorgio Taboga) I would like to thank the Department of Mathematics of the University of Bergamo, and especially professor Emilio Spedicato, who asked me to give a lecture on Andrea Luchesi. This allows me to reveal some falsities and reticences which hinder this musician's right appraisal and the understanding of his role in the birth of Haydn, Mozart and Beethoven's myths. Already in 1806, abbot Giannantonio Moschini described him as the well-known L.uchesi della Motta, then music master at the Cologne Elector's court (in Bonn), where he richly married and where he enjoyed every privilege. 1 Although his name can be found on the head of the chapel in twenty Cologne court calendars, and his contacts with the three mythical figures are supported by documentary evidence, his name was expunged from their biographies. It is therefore only right to talk of erased genius, and not misunderstood, as the German musicologists have always been aware that his reappearance would cancel the myths built around the great self-taught people of the "Wiener Klassik". About Riccati, I must point out that among the 18th century mathematicians we can find four members of the count family Riccati from Castelfranco Veneto: count Jacopo and three sons of his: Vincenzo, Giordano and Francesco. Jacopo owes his celebrity to the differential equation of second degree carrying his name. In his research on the Riccati brothers, my friend professor Giorgio Tomaso Bagni recollects an application made by the group of via Panisperna (Panisperna Street), witnessed by the physicist Edoardo Amaldi: "Ettore Majorana drew a small piece of paper out of his pocket It was a schedule that he had calculated in the last 24 hours turning the Thomas-Fermi's non linear equation of second degree, following Segre's recollection, into a Riccati's equation, that he had then numerically integrated". Jacopo initiated his son Giordano (1709-1790) into mathematics. Giordano had a didactic and artistic relationship with Andrea Luchesi. Vincenzo, a Jesuit, was compared for his importance to Euler, Leibnitz and Daniel Bernouilli. He was considered as the best Italian mathematician of his time; Francesco stood out in the field of architecture. Once achieved his studies in Padua with the mathematician Ramiro Rampinelli, Giordano graduates in law in 1733. Meanwhile he attends marchese Giovanni Poleni's lessons on hydraulics; he is interested in literature, philosophy, theology, physics (he'll become the best acoustic physicist of his time), architecture and musical theory. With Vincenzo, he studies the logarithms of the negative numbers, the isoperimeters and the resolution of the Cardano's equation of third degree. Now his success in the physical-mathematical field has overshadowed other aspects of his activity as a man of science and culture. In December 1992 I wrote "Giordano Riccati un teorico musicale trevigiano dimenticato" ("Giordano Riccati, a forgotten music theorist from Treviso")2 to remind his contributions to the science of music in the sphere of the "physical-mathematical harmonists" school, which was so fluorishing during the 18th century in Padua. The innovative "Paduan school" involved 97 musicians and mathematicians, among whom there were some Friar Minors, such as the Venetian Francesco Antonio Calegari (he was the founder of the school, and anticipated Rameau) and the Piedmontese Francesco Antonio Vallotti (the encoder of the theory of the dissonance); then there were the Bohemian Bohuslav Cernohorsky and his pupil Giuseppe Tartini, the count Giordano Riccati and several musicians. Among them we can find St. Mark's master Giuseppe Saratelli, Andrea Luchesi (Beethoven's and Antonin Reicha's teacher) and abbot Joseph Georg Vogler (Weber's and Meyerbeer's teacher). Giordano Riccati, with his "Saggio sulle leggi del contrappunto" (1762) ("Essay on the counterpoint laws") published Vallotti's system aiming to "demonstrate, against the opinion of the modern mathematicians, that music is not just a sentimental art or an art of pure practice, but that it is a real mathematical science". Only in 1779 Vallotti published the first of four planned volumes; two more tomes were published in 1950, but they didn't reflect his thought. Riccati attended to Vallotti's theory application through the teaching activity and the careful correction of the works done by several musicians addressing to him for suggestions and judgements. Riccati entrusted Luchesi to Vallotti. Until he left for Bonn, in 1771, Luchesi kept in touch with both; seven letters sent to the count between 1764 and 1770 witness this relationship. On 9 January 1764 Luchesi gives back to Vallotti his basses and he writes to him: (…) poi vi è una fuga a quattro che io feci la quale avrei piacere che fosse corretta da Lei e mi dicesse il suo sentimento. Mi presi l'ardire di scriverle confidato dalla sua innata bontà.* After a short time he writes another letter, with no indication of date: Dalla sua pregiatissima lettera intesi una favorevole decisione intorno alla mia fuga; non mancherò per l'avvenire di approfittarmi sempre più e di mettere in pratica le cognizioni che Vostra Signoria si è degnato di comunicarmi a Castel Franco. Mi sono preso il coraggio di rassegnarle i bassi del Saratelli avendoli per mio divertimento copiati egualmente con la fuga. Attendo con piacere i soggetti del Padre Minore Vallotti che lei si esibisce di spedirmi.** In a letter dated 17 February, Luchesi shows to be enthusiast about three ot Vallotti's works, that the count had sent to him for a judgement; 3 Luchesi is ready to adopt the new method of composition: Ricevei con sommo piacere la sua gentilissima lettera con tre soggetti del P. M. Vallotti. Io non mi sazio di sempre guardarli e riguardarli per sempre più intendere l'artifizio e i1 lavoro, qui con una unità costante scorgo modulare nei suoi suoni accessori senza aggiungere inutili riempiture, qui scorgo un maneggio di rivolti e di dissonanze disposto con tanta arte che pare ch'ognuno potrebbe fare lo stesso, ma qui è anzi dove consiste l'arte maggiore. Insomma da questi io spero d'imparare molto; mi dispiacerebbe che Lei avendomi lusingato il palato col spedirmeli mi lasciasse senza spedirmi altre cose preciose per saziar i1 mio appetito. Questa Fiera di Padova, ho d'andare a suonare i1 cembalo nel Teatro Nuovo, con questa occasione, (benché sia poco tempo), farò in tal maniera da prendere lezione dal P. M. Vallotti e forse anche per mezzo di V. S.Illustrissima.*** The news concerned the origin of the diatonic scale and the turnings of the ninth, twelfth and thirteenth chords. For the details, I refer the reader to Patrizio Barbieri's study on "Padre Martini e gli armonisti fisico-matematici" ("Father Martini and the physical- 98 mathematical harmonists")4. I only briefly mention Vallotti's disappointment because Riccati had spread his system without his agreement, and the theoretical differences of opinion between Riccati and Tartini, that the count treated with respect despite his obvious lack of mathematical knowledge. This is what G. T. Bagni 5 writes about the value of Riccati as an example of ability and seriousness for Luchesi: La concezione che Giordano Riccati ha dell'architettura è facilmente confrontabile con quella che lo studioso chiaramente manifesta nei confronti della musica: la matematica, e più in generale l'approccio razionale, non possono essere esclusi dall'impegno culturale umano, in ogni disciplina, in ogni fase di elaborazione di un'opera. Anzi la ragione umana, coltivata ed educata attraverso lo studio e la pratica delle scienze esatte, viene ad essere la traccia, la guida sicura, il sostegno nella corretta concezione e realizzazione dell'opera d'arte. Da questo punto di vista lo studio delle leggi del contrappunto o l'uso della media armonica nel tentativo di immaginare e progettare una costruzione dalle proporzioni ideali sono espressioni della medesima volontà di raggiungere e codificare il controllo, da parte della ragione dell'emozione che da sempre giunge all'uomo attraverso il messaggio artistico".**** Thanks to his strict coherence, characterizing every moment of his artistic or scientific activity, Luchesi learns from the theorist Riccati (more than from the more skilled Vallotti) the correct way to get music problems underway and to solve them. Beethoven, Antonin Reicha (teacher of Liszt, Gounod and Berlioz) and the other pupils who had him as a teacher in Bonn, through him could discover the theoretical studies begun by Calegari, carried on by Vallotti and spread by Riccati. A long musical path, which went far, and that therefore deserves to be reconstructed in a more exact way than we can do here. °°°°° Andrea Luchesi was born in Motta di Livenza on the 23 May 1741; his father Pietro was a rich corn wholesaler. His elder brother Matteo, a priest, an organ player and a public tutor gives him a culture allowing him to attend Venice noble salons. He associates an inborn fondness for music and deep studies with the best teachers of the town and he improves thanks to his relationships with the Paduan school's representatives. At the age of 22, on suggestion of the count Giacomo Durazzo, he gives prince Nikolaus Esterhazy the first of several symphonies nowadays thought to be Haydn's 6. In 1764 he sets to music the important service for S. Lorenzo convent; the following year he starts out in the Hoftheater of Vienna with "L'isola della fortuna" ("The island of fortune"), an opera buffa which will be performed once again in 1767 at the Royal Theatre of Lisbon. Perhaps Luchesi is the first one to compose concerts for cembalo in the form of a sonata; in February 1771 he lends one of them to Mozart, who uses it still in 1777-78 during his travel to Mannheim and Paris. When he arrives in Bonn, the "famous Luchesi" has operas, cantatas, symphonies, quartets, sonatas and a lot of sacred music for public and private holidays to his credit. Thanks to the Notatori of the N.H. (Nobil Homo) Pietro Gradenigo I could ascertain that the Elector of CoIogne called for Luchesi to remedy the damages caused to the chapel of Bonn by the direction of Ludwig van Beethoven, the Titan's grandfather. Luchesi's assignement in Bonn can be compared only to Galuppi's three-year long stay in St. Petersburg to give a new life to the chapel of Catherine II of Russia. Beethoven was a lifelong Kapellmeister, but when he suddenly died, the prince offered the position to Luchesi, rather than to Johann van Beethoven, the Titan's father. As his new position would compell 99 him to put his works anonymously and free in the music archives, Luchesi reaches an agreement and begins to create instrumental and theatre works under the names of Joseph Haydn and his brother-in-law Ferdinand d'Anthoin; these works will be payed to him as purchases from outside until 1784. Since May 1774 Luchesi officially produces sacred works that today are still considered as anonymous; today you can find these works in the Estense Library of Modena, where the music file of Bonn arrived during the 19th century. But the contractor and musicologist Benjamin de La Borde points out that in Germany his symphonies were hunted for the new ideas, the terse plot and the special gracefulness of the style7. During April 1783 Luchesi is in Italy to settle some family matters. The organ player Christian Gottlob Neefe, taking temporarily his place, will also train Luchesi's pupils during his absence. As Neefe is busy with conducting, Luchesi assigns the organ service to the 12 years old Beethoven, also playing the cembalo during the singing rehearsal of the Grossmann's theatrical company and at the theatre. Beethoven has been Luchesi's pupil for quite a long time; violoncellist Bernhard Joseph Maeurer witnesses that Beethoven's first work, the cantata on the death of the English minister George Cressner in 1781, was corrected by Luchesi and, following his will, it was sung by the choir 8. In Venice Luchesi composes the serious opera "Ademira" for the Ascension Day of 1784; with this piece of work Venice pays honour to a special guest: Gustavus III of Sweden. During the preparation the news of prince Max Friedrich's death in Bonn arrives. When Luchesi comes back, he will find the new elector Max Franz of Austria, who has promised to his friend Mozart (they are of the same age) the position of Kapellmeister in Bonn. As Max Franz wants Luchesi to resign, he reduces his wages, but he finally gives up his aim to avoid possible consequences on Haydn's fame and on Austrian music. Max Franz forbids to put Haydn's handwritten symphonies, as they create paternity problems, and he obtains Luchesi to stop using his brother-in-law's name and to adopt that of Mozart. Max Franz hopes that through Mozart's celebrity the glory of the Austrian music could spread. Ferdinand d'Anthoin wiIl reappear only after Mozart's death. In 1784 Mozart's symphonies, quartets, sonatas and concerts for piano, completely unknown till then, begin to circulate.9 As Max Franz is always looking for reasons to get rid of Luchesi, as soon as he arrives in Bonn he orders Neefe to draw up the musical inventory, under notary Fries's control. Following Luchesi's outline, drafted before his departure, Neefe finishes his task on 8th of May 1784. The comparison between Neefe's inventory and the current evidence of the "Fondo Lucchesi" (Luchesi's File) in Modena witnesses that the 28 Modenese symphonies D-131/158, registered in the name of Haydn and all written before 1784, are the 28 symphonies that Neefe describes at page 258 as "de differents auteurs" ("by different authors"), and the nine symphonies in the name of Mozart E-154/162, to which we have to add the anonymous D-640 (K.551 Jupiter), are the ten symphonies entered as "de differents auteurs" ("by different authors") at page 260. Already in 1984 Luchesi's biographer Claudia Valder-Knechtges supposed that among Modena's anonyms there were Luchesi's symphonies10. Surprisingly doctor Alessandra Chiarelli of the Estense Library, after having examined some Modenese manuscripts and some others transferred from Modena to the National Library in Vienna, writes: "The name NIC HEISLER, that can easily be found as watermark in the Este manuscripts containing Andrea Luchesi's music produced for the musical chapel of Bonn, and therefore of sure Electoral origin, (…) this name relates them to D-136-141 (…) the presence (of the letters A. R. and A. F.) on D-137 excludes the mere confluence of these sources in the Modenese file; however it allows us to think that they are parts of two linked paths or two 100 stages of a shared path". The initials A. F. and A. R. don't allow us to think anything different. They are the initials of those who helped in the inventory drafting, included the one finished on 8 May 1784, the last one drafted in Bonn. If the number stays the same, only the initials can witness the actual filing. The presence of the initials only tells us that D-137 was registered three times under the number 12. D-146, bearing the numbers 9 and 31 and an initial, was also inventoried three times, and once the number was changed. (See documents 5, 6 and 7). However the watermark NIC HEISLER singled out Swiss paper factory belonging to the Heusler family of S. Albantal, near Basel, and it is almost impossible to find it in places far from the Rhine Valley after 178411. This bereaves Robbins Landon's theory of any value; he says that the Modenese copies deserve no attention because they are late, as the watermark NIC HEISLER would indicate a 1820 Modenese paper factory12. Moreover, the Lockenhaus-Esterhazy paper on which Haydn writes D-138 and other autographs dated 1762/75, is surely later than 179513. Therefore Haydn's copies were born twenty years after the composition. The 28 symphonies D-131/158 were therefore inventoried in Bonn as "de differents auteurs" ("by various authors") and the current registration under the name of Haydn proves that the group has been tampered with after the inventory. The expression "by various authors", approved by notary Fries, assures that the authors of the symphonies were at least two. Haydn became therefore the author of those works which, in the inventory of 8 May, hadn't been assigned to him. The title pages removed in four symphonies prove this theory. We are equally sure that also the ten Mozart's symphonies have been tampered with; here there is an aggravating circumstance: the name of Mozart doesn't appear in Neefe's inventory. Independently from the Modenese file we have two (unrelated) pieces of evidence proving that the paternity of K.297 Pariser is wrongly assigned to Mozart. In June 1778 at the Concert Spirituel Mozart tried to pass off it as his, and as a result he was ignobly thrown out of Paris; baron Melchior von Grimm put him on the first stage coach to Strasbourg14. In a copy kept in Regensburg, Mozart's name is written on another one, erased but still visible (see documents 1 and 2). We are sure that the Modenese copies of K.504 Prague (document 3) and K.551 Jupiter (document 4) in May 1784 were in Bonn and this excludes Mozart's paternity. Mozart recordes them in his private catalogue on 6 December 1786 and on 10 August 1788. The Koechel catalogue says nothing about them because their presence in Modena is the obvious consequence of their presence in Bonn during the month of May 1784. The Hapsburg establishment hid the dangerous musical file of Bonn, not to leave it to the enemy Prussia, heir of the Principality of Cologne. The archives weren't Max Franz's, but they belonged to the principality, therefore the Hapsburg family is guilty of embezzlement and the duke of Modena of receiving stolen goods, two crimes which can be easily justified if we take into account the importance of the stakes. This file has always been managed by Vienna and the AustroGerman musicology has always been aware of how dangerous the Fondo Lucchesi (the Luchesi File) was for the Wiener Klassik myths. However Beethoven was among the German composers listed in Forkel's almanac far 1789, three years before arriving in Vienna15. Luchesi's biographer T. A. HenseIer excludes any reliable recreation of Beethoven's education if we don't consider Luchesi 16. Beethoven learned nothing from Haydn. On 23 December 1793 Max Franz told Haydn that the works sent to witness Beethoven's improvements under his guidance had been achieved in Bonn before November 1792. The artistic dimension reached by Beethoven proves the rule that art "geniuses" educate themselves along precise and exclusive paths17: 101 "Appare certo che la carriera di ogni artista creatore (...) si divida in tre periodi diversificati tra loro dal carattere delle opere: imitazione, transizione e riflessione. Nel primo periodo, dopo aver studiato più o meno lungamente le regole ed i procedimenti tradizionali del mestiere, l'artista imiterà... A questa regola non è sfuggito nessuno dei grandi pionieri della poesia, della pittura o della musica, non un Alighieri nè un Molière, non un Gozzoli nè un Rembrandt, non un Bach nè un Wagner Davanti a questa regola cade la troppo comoda teoria dei geni autodidatti, teoria della quale, si deve convenire, la storia dell'arte non offre alcun esempio."***** I now dare to enunciate a very plain theorem, which could be denied only through exact (but absolutely improbable) scientific evidence: There are no self-taught geniuses. A master's tuition allows a quick acquisition of the previous achievements, and the older is the science taken into account, the more useful this tutor is. From this theorem takes origin the following corollary: Every time that an artist produces works whose level is not justified by a demostrable curriculum of his studies, there are only two possibilities: a) the master has been hidden; b) the works are not made by him. In both cases we can talk of mystification. Ludwig van Beethoven belongs to the case a). The hidden master is Andrea Luchesi, Kapellmeister in Bonn from 1771 to 1794. His teaching concerns the whole Beethoven's education in Bonn18. During the Beethovenian meeting held in Berlin in July 1999, Dr. Luigi della Croce pointed out that Luchesi is the only master able to give an explanation for Beethoven's greatness, and on 25 January 2000, at the Associazione Mozart Italia (ltalian Mozart Association) in Brescia, he indicated him as Mozart's master as well. At the same time Dr. Della Croce singled out two exact reasons why Luchesi had been wiped out by the Austro-German musicology which, in the past two centuries, has been lavishing care and arrogance. This is why Luchesi was stolen his three quartets with piano WoO36 19 - from which Beethoven took inspiration far a sonata included in the op. 2 and for the Patetica and his cantatas dedicated to Giuseppe II (WoO 87) and to Leopoldo II (WoO 88). The first one is especially dangerous for Beethoven's myth because the "cantabili", the expressive and tied melodies which appear in this work will be found once again in the Fidelio, in the Missa Solemnis and even in the Ode to the Joy of the Ninth Symphony20. To the case b) belong the two other "Wiener klassik" mythical figures, who give us other reasons which can explain why Luchesi had been wiped out. Haydn owes his fame and fortune to the great advertising operation made by Giacomo Durazzo, who tried to increase family Esterhazy's glory. The prince exclusively bought the works he then registered in the name of Haydn, but the only one who was authorized to grant Haydn's griffe was Bernhard von Kees from Vienna, who also kept a catalogue. "Haydn's symphonies" are Giovan Battista Sammartini's from Milan21 and, since 1763, Andrea Luchesi's as well22. In 1776 Haydn forgot to list in his curriculum the 60 symphonies which at the time were thought to be his; this shows that he ignored the existence of many of them. Once 256 symphonies were registered in his name, but today they are only 104; all these remaining should be returned to Sammartini and Luchesi, except Hob.25, probably written by Dittersdorf. 102 Maynard Solomon tells us that before 1771 Mozart would have composed 25 symphonies, but we know for certain that only ten are his, and just the autograph of one has been preserved23. Leopold Mozart's letter dated 24 September 1778 bears witness to their quality. Mozart had informed his father that in Paris they didn't like his symphonies; Leopold answered writing that: "What doesn't you credit, we'd better not spread it. This is why I kept all of your symphonies, since I can foresee that, in later times, when your critics awareness will be higher, you'll be truly happy that nobody would possess them. We become more and more demanding"24. Mozart embezzled Abel's and MichaeI Haydn's symphonies and, after 1784, Luchesi's works which can explain the qualitative leap. It was an appropriation arranged with Max Franz, it was granted and protected by law, as the Walsegg/Mozart's Requiem case assures, and it was not always limited to the registration of the works in Mozart's name. The private purchase of Luchesi's works is the reason for the dreadful conditions of Mozart's finance and the decrease in the number of his symphonies. Only a Esterhazy prince could afford what turned out to be an unbearable cost. Anyway, it is clear that Mozart's and Haydn's symphonic masterpieces have to be registered in the name of Andrea Luchesi, Kapellmeister in Bonn. To hide such a truth, Jacob even appeals te supernatural entities:25 "On Monday Mozart composes like Haydn and on Tuesday Haydn composes like Mozart. This was a favourite Viennese joke in the middle of the nineteenth century (p. 202). (…) Haydn's share in the tragedy of Mozart death was spiritual; with the death of Mozart the sense of an invisible communion increased. Haydn felt as though strengthened and befriended by some supernatural agency. Traces of this effect can be discovered in his works of 1791. In the following year, which began for Haydn with the news of Mozart's death, it is far more evident. It is not necessary te interpret this influence in any mystical sense, what happened was no more mysterious than spiritual changes always are. After the old master had for so long been the giver, the relationship between the two composers changed with a suddeness that, indeed, was Mozartian in character. As we know, nine years earlier Mozart had suddenly become a disciple of Haydn; now Haydn became a disciple of Mozart. Now the latter was paying posthumously his debt of gratitude by adding his genius to the genius of the older master" (p.201). For the last two centuries the correctness of the attributions and the greatness of the two "music geniuses" are thought to be confirmed by such nonsense and by Robbins Landon's forgeries, that can be found, in more or less imaginative versions, in Haydn's and Mozart's biographies. Logic excludes any odd hypothesis and ectoplasm. Luchesi diversified his production; he wrote ordinary symphonies for Haydn, and more sophisticated works for Mozart. Christmas 1790: during his trip to London, where he was involved in an undertaking with Johann Peter Salomon, Luchesi's brotherly friend, Haydn stops in Bonn where, of course, the italian Kapellmeister gives him works similar to those he gives to Mozart. The resemblance among the works dated 1791 comes before Mozart's death on 5 December 1791. But "Mozart's" symphonies dated 1792 bear witness that their author wasn't dead on 5 December 1791 but, however, he keeps working for Haydn. On the other hand, the official end of Haydn's production testifies that Luchesi's death on 21 March 1801 stops the necessity to pretend any productive skill in Haydn, who for the last years had been living in a larval condition because of the encephalosclerosis 26. This is the mystery. The self-evident Beethoven's dependence on Mozart's and Haydn's models is simply the natural consequence of Luchesi's long lasting teaching, as we knew that the school style spreads like in a family, from master to pupils"27. 103 Therefore we should consider the Wiener Klassik as a whole italian phenomenon. The famous idiot Haydn28 didn't compose any symphony, and those which are still registered in his name are Sammartini's and Luchesi's; the high masses and the oratori aren't his as well. We have discovered seventy works which aren't his and this witnesses that Mozart is still a common name29. His best symphonies have to be ascribed to Luchesi; Beethoven could become a genius of music thanks to the long and accurate teaching he received in Bonn from the Kapellmeister Andrea Luchesi. Since 216 years ago, since 8 May 1784, one has attempted to hide the truth. Note 1 G.Moschini, Della letteratura veneziana ecc., Venezia 1806 p.221. 2 Restauri di Marca n.2 (December 1992), Ed.Coop. DiEmmeCi, Villorba (Tv) 1992, p.88-90. * (…) then I created a four fugue and I would like you to correct it and tell me your impression. I dared write you as I know your innate kindness. ** Reading your letter, it seemed to me that you approciated my fugue; I'll surely continue to take advantage of your opinions and I'll try to put into practice the knowledge you conveyed me in Castel Franco. I dared send you Saratelli's basses as I enjoyed copying them together with the fugue. It is with pleasure that I wait for Friar Minor Vallotti's themes, that you'll kindly send to me. 3 P. Revoltella, Musiche di Vallotti nell'epistolario di Giordano Riccati, in AA. VV. Contributi per la storia della musica sacra in Padova, Padova 1993, p.269 and following. *** I was extremely glad to receive your letter with the three Friar Minor Vallotti's themes . I read them over and over to understand the stratagems and the work: here, in a constant unity, I can see how he modulated the subsidiary sounds, he didn't fill up with useless sounds; there I can see how he worked with turnings and dissonances, which are organized with so much skill that it seems that everybody could do the same, but there is the greatest art. I hope to learn a lot from them; I would be disappointed if you, after having excited my curiosity, left me without sending me other precious things to satisfy my longing to Knowledge. During Padua Fair I'll be at the Teatro Nuovo (New Theater) to play the harpsichord. I'll see that Friar Minor Vallotti gives me a lesson, perhaps also thank to you. 4 AA. VV, Padre Martini. Musica e cultura del '700.(A.Pomilio) Firenze 1987, p.173-209. 5 G.T. Bagni, Vincenzo, Giordano e Francesco Riccati, Treviso 1993, p.123. **** Giordano Riccati's conceiving of architecture can easily compared to that of music: mathematics and, more in general, the rational approach, cannot be left out from the human, culturale engagement, in every discipline, in every phase of the creating process of a work. Human reason, built and educated through the study and the practice of exact sience, become the path to follow, the sure guide, the support in the right conceiving and carrying out of a work of art. From this point of view the study of the counterpoint laws or the use of the harmonic mean when trying to imagine and planning an ideal proportioned construction, are expressions of the will to reach and code the reason's control of the emotions, that have always reached men through the artistic message. 6 G. Taboga, A.Luchesi.L'ora della verità, Ponzano Veneto (Tv) 1994, p.84 and 86. 104 7 J.B. de La Borde, Essai sur la musique, Paris 1780, Vol.III, Luchesi Andrè. 8 Grove 5° 1964, Lucchesi Andrea. 9 J.N. Forkel, Musikalische Almanach für das Jahr 1789, Leipzig 1788, p.84 - Reprinted Olms 1974. 10 C. Valder-Knechtges, Die weltliche Werke A.Luchesis, Merseburger, 1984, p.100 and following. 11 Johson-Tyson-Winter, Beethoven's Sketches, Oxford U.P., p.516. 12 H.C.Robbins Landon, The symphonies of J.Haydn,London 1955, p.611 and 613. 13 Ibidem p. 61.The author tries to make J.P.Larsen responsible for the forgery. 14 Leopold Mozart's letter to his son dated 10 October 1778, in J. et B. Massin, Mozart, Paris 1988, p.280. 15 Musikalische Almanach für das Jahr 1789, ref. p. 69. 16 T.A. Henseler, Andrea Luchesi, der letzte Bonner Kapellmeister zur Zeit des jungen Beethoven, Bonn 1937, Introduction. 17 Vincent d'Indy, Beethoven, Paris 1952, p. 6. ***** "It seems clear that each artist-creator's career should be divided into three periods, which are different because of the kind of their works: the three periods could be identified as imitation, transition and meditation. During the first one, after having studied the rules and the traditional procedures of the profession, the artist will imitate… All the great pioneers of poetry, painting or music, Alighieri, Molière, Gozzoli, Rembrandt, Bach and Wagner included, all of them were subjected to this rule. It disproves the too easy theory of the self-taught geniuses, a theory which, you should agree with me, is not represented by any example in the whole history of art". 18 G. Taboga, A. Luchesi e la cappella di Bonn, Restauri di Marca n.3 (special issue), ref. p.11-41. 19 G. Taboga, L'assassinio di Mozart, Lucca 1997, p.190. 20 Poggi-Vallora, Beethoven, Torino 1995, p.578. 21 G. Carpani, Le Haydine, Padova 1823, p.62. 22 See note 6. 23 M. Solomon, Mozart, Milano 1999, p.74 and 79. 24 H. Abert, Mozart, Milano 1956, Volume I, p.461. 25 H.E. Jacob, Joseph Haydn, New York and Toronto, 1950, p.201 and following. 26 Graphologic study made by professor Sante Bidoli on Haydn's mental condition in 1802, never published. 27 P. Lichtenthal, Dizionario e bibliografia della musica, Milano 1836, Volume II, ref. Stile. 105 28 Carpani, Le Haydine , p.252. 29 B. e J. Massin, Mozart, Introduction II. Conference given in Bergamo, April 6, 2000. Testo pubblicato in: Quaderni del Dipartimento di Matematica Statistica, Informatica ed Applicazioni, Serie Miscellanea, Anno 2000 N. 4 - Università degli Studi di Bergamo, via Salvecchio, 19 - 24129 Bergamo - Italy . Si ringraziano per la traduzione Emanuela Zonca ed Emilio Spedicato. ----Giorgio Taboga è nato a Venezia nel 1933, e si è laureato in Scienze Economiche all'Università "L. Bocconi" di Milano. Dopo diverse esperienze di lavoro in Lombardia, Toscana ed Emilia-Romagna, è rientrato nel natio Veneto e si è dedicato all'insegnamento. A Motta di Livenza, dove è vissuto per oltre quindici anni, ha preso origine il suo interesse per il musicista Andrea Luchesi, artista che lo affascina come persona al di là del valore della sua musica. A seguito di quasi vent'anni di studi è giunto alla convinzione che il caso di Andrea Luchesi sia forse il più eclatante di una lunga serie di artisti e scienziati italiani ingiustamente ignorati o cancellati. Da questa convinzione nascono i suoi lavori Andrea Luchesi e la cappella di Bonn (1993), Andrea Luchesi. L'ora della verità (1994) e L'assassinio di Mozart (1997), oltre a numerosi articoli su riviste italiane e straniere. Ha anche dedicato la sua attenzione a Faustino Perisauli (1450?-1523), poeta romagnolo precursore ignorato di Erasmo da Rotterdam. Attualmente sta completando la seconda parte della biografia di Luchesi, gli anni di Bonn (1771-1801), quando il Maestro fu l'insegnante di Beethoven e fornì sua musica a J. Haydn e W.A. Mozart. Dai suoi studi emerge la certezza che la storia della musica della fine del '700 vada riscritta in base a documenti, rifiutando il miracolismo interessato e fideistico che impera oggi negli scritti sui tre grandi della "Wiener Klassik", Haydn, Mozart e Beethoven, tutti e tre seppur in diversa misura debitori della loro grandezza all'oscuro e cancellato maestro italiano. E-mail: [email protected] 106 (Document 1) (Document 3) (Document 2) (Document 4) 107 (Document 5) (Document 6) (Document 7) 108 ET IN ARCADIA EGO Semantiche mito-ermetiche in alcuni quadri di Guercino e Poussin Parte Prima - Guercino (Franco Baldini) Non proverò nemmeno a spacciare quanto segue per oro colato: è soltanto il lavoro di un dilettante sollecitato da un enigma che le indagini professionali non sono riuscite a chiarire in modo soddisfacente. Sulla base della mia cultura, ovviamente abborracciata e lacunosa, ho costruito un'interpretazione diversa da quella comunemente accettata combinando in una costruzione un certo numero di indizi e anche quella che ai miei occhi somiglia molto a una prova. Tuttavia devo riconoscere onestamente che anche questa mia rimane soltanto un'ipotesi interpretativa di dignità non superiore alle altre: come tale non vale la minima polemica. La cosa migliore da fare è secondo me di leggerla come una fiction, un racconto di come le cose avrebbero potuto andare, che consente di scorrazzare liberamente in alcuni angoli poco noti del periodo storico a cavallo tra cinquecento e seicento. Insomma, non chiedo affatto al lettore di condividere le mie tesi, sarei però assai contento se la storia che sto per raccontare lo dilettasse almeno un poco. Infine, poiché questo non è che un divertissement, mi sono preso la libertà di risparmiarmi la fatica di dotarlo di un sistematico apparato di note che l'avrebbe inutilmente appesantito. 1. ET IN ARCADIA EGO Il quadro che ci accingiamo a studiare è un olio su tela di cm. 82 x 91, eseguito pare intorno al 1618 dopo una breve visita dell'autore a Venezia, ed è oggi alla Galleria Nazionale D'Arte Antica di Palazzo Corsini in Roma. Dopo quasi quattrocento anni dalla composizione del dipinto, gli storici dell'arte ammettono ancora che né le origini né il significato del tema Et in Arcadia Ego sono chiari. È nostra intenzione cercare di risolvere l'enigma. 109 In un paesaggio agreste e montuoso, sotto un cielo ancora notturno ma in cui si comincia a scorgere il chiarore che precede l'alba, due enigmatici personaggi si affacciano tra gli alberi da dietro una massa rocciosa di colore nerastro, di fronte alla quale sta un angolo di muratura che sorregge un grande teschio sulla cui calotta cranica è posato un moscone, mentre un topo sembra roderne il lato destro della mascella. Su un alberello sovrastante e biforcuto - il cui ramo superiore è verde mentre l'inferiore secco - sta un uccellino appollaiato, con il capo ritratto e le penne arruffate: dunque ancora visibilmente addormentato. D'altra parte anche la stasi del moscone - insetto che entra in attività solo di giorno - e la presenza di quell'animale notturno per eccellenza che è il topo, confermano inequivocabilmente l'ora - antelucana sia pur di poco - in cui abbiamo situato la scena. Nella parte frontale del pezzo di muratura - invisibile ai due personaggi dipinti, dunque offerta esclusivamente alla sagacia dello spettatore - campeggia in maiuscole latine la famosa scritta "ET IN ARCADIA EGO", sulla quale tanto inchiostro è stato inutilmente versato. I due personaggi, di cui sono visibili solo i torsi, dimodoché sembrano quasi emergere direttamente dalla massa rocciosa che sta loro davanti, appoggiandosi a bastoni di diversa lunghezza scrutano meditabondi il simbolo per eccellenza della morte corporale: l'uno è più giovane, imberbe, a capo scoperto e vestito di una tunica bianca mentre l'altro è più anziano, barbuto, ed ha il capo coperto da un voluminoso berretto, rosso come la tunica che lo riveste e della quale si scorge in alcuni punti il risvolto bianco. Dobbiamo dire - a scanso di equivoci - che siamo ben lungi dal contestare il significato tradizionalmente attribuito dalla critica accademica alla composizione: certamente, e nel migliore spirito rinascimentale, i due personaggi stanno meditando sul mistero della morte, ma voler pretendere che con ciò si esaurisca il senso del dipinto, e che ciò sia addirittura confermato dalla misteriosa frase epigrafica, significa votarne i dettagli - in definitiva, tutta la materia formale che lo costituisce fisicamente - all'insignificanza più totale. Questo è secondo noi - il maggior difetto di un'ermeneutica che, per il continuo timore di cadere nel discredito, finisce spesso per contentarsi di restituire soltanto l'evidenza. Infatti, perché mai Guercino avrebbe esplicitamente conferito alla sua tela un carattere di enigmaticità così elevato se avesse voluto esprimervi solamente un'allegoria generica e per ciò stesso triviale? Nessuno ignora che una tale operazione lo avrebbe certo esposto, ai suoi tempi - tempi di erudizione preziosa e aristocratica e di ingegnosità geroglifica impareggiabile - al ludibrio generale. Quel che in questo modo si rende al pittore non è davvero un bel servizio: vuol dire ignorare lo sforzo che deve essergli costata l'inventio che la Galleria di Palazzo Corsini offre, ormai inutilmente, allo sguardo superficiale dei visitatori. Per parte nostra non dubitiamo che anche il Guercino, come ogni altro uomo di cultura del tempo, all'atto di accingersi a costruire nella propria mente lo schema di un'opera, doveva avere ben chiaro quel passo del De vulgari eloquentia in cui l'Alighieri dichiara le regole semantiche della scrittura, naturalmente estese anche al dominio delle arti figurative, e che vale la pena di trascrivere: "Dico che, sì come nel primo capitolo è narrato, questa sposizione conviene essere litterale e allegorica. E a ciò dare a intendere, si vuol sapere che le scritture si possono intendere e deonsi esponere massimamente per quattro sensi. L'uno si chiama litterale, [e questo è quello che non si stende più oltre che la lettera de le parole fittizie, sì come sono le favole de li poeti. L'altro si chiama allegorico,] e questo è quello che si nasconde sotto 'l manto di quelle favole, ed è una veritade ascosa sotto bella menzogna: sì come quando dice Ovidio che Orfeo facea con la cetera mansuete le fiere, e li arbori e le pietre a sé muovere; che vuol dire che lo savio uomo con lo strumento della sua voce fa[r]ia mansuescere e umiliare li crudeli cuori, e fa[r]ia muovere a la sua volontade coloro che non hanno vita di scienza e d'arte: e coloro che non hanno vita ragionevole alcuna sono quasi come 110 pietre. E perché questo nascondimento fosse trovato per li savi, nel penultimo trattato si mostrerrà. Veramente li teologi questo senso prendono altrimenti che li poeti; ma però che mia intenzione è qui lo modo de li poeti seguitare, prendo lo senso allegorico secondo che per li poeti è usato. Lo terzo senso si chiama morale, e questo è quello che li lettori deono intentamente andare appostando per le scritture, ad utilitade di loro e di loro discenti: sì come appostare si può ne lo Evangelio, quando Cristo salio lo monte per transfigurarsi, che de li dodici Apostoli menò seco li tre; in che moralmente si può intendere che a le secretissime cose noi dovemo avere poca compagnia. Lo quarto senso si chiama anagogico, cioè sovrasenso; e questo è quando spiritualmente si spone una scrittura, la quale ancora [sia vera] eziandio nel senso litterale, per le cose significate significa de le superne cose de l'etternal gloria, sì come vedere si può in quello canto del Profeta che dice che, ne l'uscita del popolo d'Israel d'Egitto, Giudea è fatta santa e libera. Ché avvegna essere vero secondo la lettera sia manifesto, non meno è vero quello che spiritualmente s'intende, cioè che ne l'uscita de l'anima dal peccato, essa sia fatta santa e libera in sua potestate. E in dimostrar questo, sempre lo litterale dee andare innanzi, sì come quello ne la cui sentenza li altri sono inchiusi, e senza lo quale sarebbe impossibile ed inrazionale intendere a li altri, e massimamente a lo allegorico." Non possiamo fare a meno di sottolineare a nostra volta il punto su cui Dante insiste alla fine e nel seguito della citazione che abbiamo riportato ossia che, laddove non s'intenda correttamente il "senso litterale", l'accesso agli altri è precluso, e "massimamente" l'allegorico. Vale ancora la pena di notare che questa tradizione ermeneutica - di cui l'attuale critica d'arte sembra far poco conto - durò imperterrita fino a tutto il Rinascimento. Qual è dunque la "favola poetica" che può schiuderci l'intera semantica del dipinto? È noto che la tradizione della critica accademica la indica concordemente nelle Bucoliche di Virgilio, non curandosi affatto di rispondere alle ovvie obiezioni che una tal referenza suscita. Se infatti essa non può essere generica ma deve chiarire con precisione la relazione tra gli elementi assiali del dipinto - ossia due personaggi maschili, delle ossa umane e la regione centrale del Peloponneso denominata Arcadia - allora non si vede proprio come possa consistere in qualche brano delle Bucoliche. Anche considerando - come si conviene l'Arcadia quale simbolo generico di un mondo pastorale idealizzato, constatiamo che in nessuna ecloga che in qualche modo vi si riferisce è mai questione di un cadavere o di ossa umane. L'ecloga VII, per esempio - che possiamo considerare di ambientazione arcadica anche se la scena si svolge sul Mincio perché comunque i suoi due protagonisti principali, Coridone e Tirsi, sono Arcadi - ha come oggetto una semplice tenzone poetica. L'ecloga VIII - in cui lo scenario del monologo cantato da Damone sembra collocarsi vicino al Menalo, montagna d'Arcadia - vede uno dei protagonisti - Damone, appunto - in procinto di suicidarsi per una delusione d'amore: anche se qui si tratta di morte, essa non è ancora avvenuta ma solo possibile. Infine l'ecloga X - unica ad esser chiaramente situata in Arcadia - contiene soltanto il lamento amoroso del poeta Gallo. La sola ecloga in cui si tratta di un morto, cioè Dafni, è la V, ma non è ambientata in Arcadia bensì in Sicilia, teatro notorio della vicenda dello sfortunato poeta-pastore figlio di Ermes e di una ninfa. Non v'è dunque un solo passo in tutte e dieci le ecloghe che possa essere rispecchiato con buona fedeltà dal dipinto sicché la referenza, non essendo relativa alla lettera delle Bucoliche, potrebbe semmai rilevare soltanto dallo spirito che si coglie nel loro insieme. Per far cio' tuttavia, Guercino avrebbe dovuto incorrere in una violazione delle regole dell'esposizione vigenti al suo tempo: in una citazione, la lettera deve corrispondere alla lettera, non allo spirito di quel che si cita. In più, a noi pare che non vi sia nemmeno questa pretesa corrispondenza con lo spirito delle Bucoliche, che è notoriamente quello del turbamento indotto dal contrasto tra le varie condizioni - interiori ed esteriori - 111 dell'esistenza umana: infatti, se guardiamo l'opera, non vi troviamo alcuna traccia di ciò, al contrario vi regna una specie di pace incantata culminante nella tranquilla, meditabonda e quasi reverente curiosità con cui i due personaggi osservano il teschio. Ma, anche ammettendo per un momento che l'interpretazione tradizionale possa tenere, noi vediamo che questa ci schiude semmai soltanto un senso morale, mentre non ci permette minimamente di accedere né al senso anagogico né, soprattutto, a quello allegorico. E se si fosse trattato solo di un'allegoria generica, perché Guercino avrebbe dovuto usare l'artificio dell'iscrizione - sgrammaticata e apparentemente monca - per comunicarci quel senso di enigmaticità che non è mai sfuggito a nessuno degli osservatori del dipinto? Come recita il vecchio adagio: il diavolo si nasconde nei dettagli. Naturalmente si può sempre sostenere che, proprio attraverso la lettura di Virgilio, il tema dell'Arcadia diviene, nel Rinascimento, un vero e proprio tópos artistico. Tuttavia non si può fare a meno di aggiungere che già in Petrarca la poesia pastorale è un contenitore buono a tutte le allegorie - estetiche, morali, gnoseologiche, politiche, ecc. - e con l'Arcadia di Sannazzaro diviene esplicitamente veicolo di iniziatismo: in questo romanzo si tratta sostanzialmente - come nella famosissima, ed ancor oggi altamente enigmatica, Hypnerotomachia Poliphili - di un'allegoria iniziatica imperniata sul tema ermetico della morte e della resurrezione. E così sarà per lungo tempo, attraverso il Marino e fino all'Accademia dell'Arcadia, di fatto nata - con il nome di Accademia di Camera - nel salotto di Cristina di Svezia, delle cui occupazioni ci da un'idea eloquente l'abate Francesco Cancellieri: "La celebre Cristina Alessandra, Regina di Svezia, dopo di aver rinunciato il Regno, ed abbracciato la Religione Cattolica Romana, nel 1655, scelse per suo soggiorno questa Città, ove si applicò interamente a proteggere le Scienze, le Lettere, e le Belle Arti, fino al 1689, in cui terminò di vivere. Fra le sue occupazioni volle ancora tentare di rinvenire l'Arte cotanto decantata, e non mai trovata di far l'Oro. Onde fatti costruire nella propria abitazione vari Laboratori, invitò i Dilettanti di una tal'Arte, ad andare a fare in essi le loro operazioni, somministrando loro, quanto occorreva per eseguirle." Tenuto conto di ciò appare chiaro che il tema pastorale - quando è affrontato da un artista del primo '600 - non può assolutamente essere evocato come spiegazione perché è esattamente quello che si tratta di spiegare. In definitiva - per le ragioni che abbiamo detto e che riteniamo pertinenti e cogenti - noi pensiamo che non si tratti affatto di un'allegoria generica bensì di una precisa citazione, il maggior indizio della quale si trova nella scritta che menziona l'Arcadia ma che, tuttavia, non ha alcun legame con le Bucoliche. No, non crediamo affatto che in questo caso Guercino si spieghi con Virgilio, il che ci restituisce intatto l'enigma della tela, che può essere così riassunto: "Che rapporto c'è tra due uomini, delle ossa umane e l'Arcadia?" Naturalmente, la menzione dell'Arcadia fa sì che - pur scartando Virgilio - ci rivolgiamo a nostra volta ai classici, ben sapendo come gli usi dell'epoca portassero gli artisti a una ricerca esasperata dell'originalità, all'impiego della citazione inusuale o rara che, quanto più era tale, tanto più veniva presentata ellitticamente, mai in modo del tutto esplicito, come un'autentica sfida rivolta non tanto al pubblico, quanto agli altri artisti loro pari. La cosa è talmente risaputa che menzioneremo soltanto l' "intendami chi può, ch'i' m'intend'io!" di Petrarca; l'imbarazzato sconforto che fa dire a Pietro Aretino: "Poi che Michelangelo non vuole che le sue invenzioni vengano intese, se non da pochi e dotti, io, che di questi e pochi dotti non sono, ne lascio il pensiero a lui"; e la sarcastica difesa del cavalier Marino davanti 112 all'accusa di "rubare" in zone della tradizione scarsamente frequentate: "assicurinsi [...] codesti ladroncelli che nel mare dove io pesco e dove io trafico essi non vengono a navigare, né mi sapranno ritrovar addosso la preda, s'io stesso non la rivelo". Tanto basti a dar conto della temperie culturale dell'epoca. Dobbiamo dire che - nelle nostre esplorazioni della letteratura classica accessibile al Guercino - non abbiamo trovato nulla che possa costituire un referente letterale adeguato al suo quadro, salvo un solo brano che si dimostra però altamente significativo. Non ci sembra quindi per nulla inverosimile che Guercino abbia potuto leggere le Storie di Erodoto - nella versione latina di Lorenzo Valla, data alle stampe in Venezia nel 1474, oppure nel volgarizzamento di Matteo Maria Boiardo, pubblicato sempre in Venezia nel 1539 - e imbattersi con la più viva curiosità nel passo seguente che narra un episodio - peraltro altamente inverosimile - occorso durante il lungo conflitto che oppose Spartani e Arcadi: "67. Così durante la prima guerra sempre con esito costantemente sfavorevole lottarono contro i Tegeati; invece al tempo di Creso e del regno a Sparta di Anassandrida e Aristone gli Spartani erano ormai riusciti vincitori nella guerra, e lo erano riusciti nel modo seguente: [2] poiché venivano sempre battuti in guerra dai Tegeati, mandarono messi a Delfi per chiedere quale degli dei propiziandosi sarebbero riusciti superiori ai tegeati nella guerra. E la Pizia profetò loro che lo sarebbero riusciti quando avessero ricondotto in patria le ossa di Oreste figlio di Agamennone. [3] Ma, poiché non furono capaci di rintracciare la tomba di Oreste, mandavano di nuovo al dio per chiedere il luogo in cui Oreste giaceva. Ai messi che le rivolgevano questa domanda così la Pizia risponde: [4] «C'è una Tegea d'Arcadia in luogo piano, ove due venti spirano sotto una forza possente e c'è colpo e contraccolpo, e danno su danno. Lì la terra datrice di vita tiene l'Agammennonide; tu portandolo via sarai vincitor di Tegea» [5] Quando gli Spartani ebbero udito ciò, benché da per tutto cercassero, pure non erano meno lontani dal trovarlo, finché Lica, uno degli Spartani detti «benemeriti», lo trovò. I «benemeriti» sono cinque cittadini, scelti ogni anno, sempre i più anziani, fra i cavalieri; questi nell'anno in cui sono tratti a sorte fra i cavalieri hanno il dovere di non stare mai in ozio, e vengono mandati chi qua chi là dallo stato spartano. 68. Lica dunque, uno di questi uomini, aiutato e dal caso e dalla sua avvedutezza la trovò a Tegea. Essendoci in quel tempo libertà di scambio con i Tegeati, capitato in una officina egli osservava la lavorazione del ferro, e stava tutto meravigliato a contemplare il lavoro. [2] Il fabbro, accortosi della sua meraviglia, gli disse interrompendo il lavoro: «Certo, o ospite spartano, se tu avessi visto ciò che io vidi molto ti saresti meravigliato, dal momento che tanto ammiri la lavorazione del ferro. [3] Ché io, volendo farmi in questo cortile un pozzo, scavando trovai un'urna di sette cubiti. Non credendo che fossero mai esistiti uomini più grandi di quelli di oggi la aprii e vidi il cadavere, che era della stessa lunghezza dell'urna. Dopo averlo misurato tornai a seppellirla». Questi dunque gli diceva ciò che aveva visto, e l'altro, avendo riflettuto su tali parole, congetturava che secondo l'Oracolo quello doveva essere Oreste, da questo arguendolo: [4] vedendo i due mantici del fabbro trovò che erano i venti, e l'incudine e il martello erano il colpo e il contraccolpo, e il ferro lavorato il danno aggiunto a danno, da questo a un dipresso desumendolo, che il ferro è stato inventato per la rovina degli uomini. [5] Fatte questo congetture se ne tornava a Sparta e riferiva ai lacedemoni ogni cosa. Ma essi lo bandirono, accusandolo di falso. Allora, tornato a Tegea e esposta al fabbro la sua disgrazia, tentava di prendere in affitto il cortile, mentre quello non voleva darlo. [6] Come poi col tempo l'ebbe persuaso, andò ad abitarvi e allora, scavata la tomba e raccolte le ossa, tornava con esse a Sparta e da quel momento, ogni volta che combatterono fra loro, gli Spartani riuscirono di gran lunga superiori in guerra." Riteniamo che il Guercino - la cui sensibilità era assai più vicina della nostra a questo genere di virtuosismi - o, comunque, qualcuno per lui, abbia inteso immediatamente quel che d'altra parte notano anche i curatori delle attuali edizioni di Erodoto: che cioè il brano in questione non ha nulla a che vedere con la storia effettiva del conflitto tra Lacedemoni ed 113 Arcadi, essendo null'altro che una "favola poetica", scientemente inseritavi dall'autore oppure - cosa secondo noi meno probabile - ereditata come già inserita da una fonte precedente. Infatti, a proposito della pretesa libetà di scambio con i Tegeati, Gianfranco Maddoli, curatore del volume Erodoto e Tucidide, scrive: "Il dato, in contrasto palese con la situazione di guerra, appare un'invenzione di Erodoto per giustificare il racconto aneddotico." A nostro modo di vedere questa leggenda erodotea non è null'altro che la narrazione - simbolica e, per la verità, assai trasparente - di un'iniziazione ad antichi misteri metallurgici, sul tipo di quelli dei Cabiri - ed è noto che Erodoto era iniziato ai misteri di Samotracia - come li presenta Mircea Eliade nel suo ormai classico Arti del metallo e alchimia: "Si è sottolineato che, nella Grecia arcaica, alcuni gruppi di personaggi mitici - Telchini, Cabiri, Cureti, Dattili - costituiscono confraternite segrete, in relazione con i misteri oppure gilde di lavoratori di metalli. Secondo le diverse tradizioni i Telchini furono i primi a lavorare il ferro e il bronzo, i Dattili Idei scoprirono la fusione del ferro e i Cureti la lavorazione del bronzo; questi ultimi erano, inoltre, famosi per una loro danza particolare, che eseguivano facendo cozzare le armi. I Cabiri e i Cureti sono chiamati «signori delle fornaci», «potenti per mezzo del fuoco», e il loro culto si è diffuso in tutto il bacino del Mediterraneo orientale. I Dattili erano preti di Cibele, divinità delle montagne ma anche delle miniere e delle caverne, che avevano la propria sede all'interno delle montagne. [...] Disponiamo, quindi, di tracce mitologiche di una situazione arcaica in cui le confraternite dei fabbri assolvevano un ruolo preciso nei misteri e nelle iniziazioni." E ancora: "Pare dunque che esista, a livelli culturali differenti, ed è indice di grandissima antichità, un legame intimo tra l'arte del fabbro, le scienze occulte (sciamanismo, magia, guarigione, ecc.) e l'arte della canzone, della danza e della poesia. Queste tecniche solidali sembra, inoltre, che si siano trasmesse in un'atmosfera pregna di sacralità e di mistero, che comportava iniziazioni, rituali specifici, «segreti del mestiere»." Infatti, tenuto conto di ciò, se rileggiamo il brano con un po' più di attenzione ci accorgiamo che - durante un'improbabile tregua commerciale stipulata nel pieno della guerra del Peloponneso - uno spartano di nome Lica si reca nella città arcade di Tegea, sulle tracce delle ossa di Oreste. Non si può fare a meno di notare che Líches (Lica) viene da léicho (lecco, lambisco), esattamente come líchnos (ghiotto; goloso; avido; bramoso; curioso). Lica - colui che è curioso, bramoso (di conoscenza) - è dunque il prototipo dell'iniziando. Allo stesso modo Teghéa (Tegea) viene da stégo (copro; proteggo; custodisco; difendo; nascondo; tengo occulto, segreto; tengo lontano; respingo; resisto a) prestandosi così assai bene a costituire il luogo più logico in cui deve recarsi chi vuole essere iniziato. Che Guercino non sapesse di greco è assai poco rilevante, dato che i significati dei nomi greci costituiscono solo elementi accessori della nostra interpretazione. Aggiungiamo che comunque questi sono talmente trasparenti da risultare accessibili anche a chi non conosca tale lingua: "Lica" evoca giustamente - attraverso il latino "lingo" - l'italiano "leccare", mentre "Tegea" evoca "proteggere", attraverso il latino "tego". E, in ogni caso, abbiamo già detto che il brano erodoteo e la sua interpretazione avrebbero benissimo potuto essergli suggeriti. Così Lica si ferma davanti alla bottega di un fabbro intento a lavorare il ferro, già ammirando l'aspetto essoterico, esposto agli occhi di tutti, della sua attività. Notando ciò, il fabbro accenna a un'implicazione meno triviale della propria esperienza, che potrebbe meravigliarlo ancor più (il ritrovamento favoloso dell'urna funeraria nel cortile). Di ritorno a Tegea dopo lo sfortunato interludio spartano, Lica cerca di affittare il cortile (di essere 114 iniziato) ma senza successo ("colei che respinge" è appunto uno dei significati del nome "Tegea"): conseguirà la propria meta solo dopo un certo numero di sforzi. Resta da vedere cosa ha a che fare un "segreto di mestiere" con le ossa di un eroe mitologico, e a questo proposito Eliade ci fa notare non solo che i complessi mitico-rituali legati all'attività metallurgica implicano "il sacrificio o l'autosacrificio di un dio" ma anche che: "Secondo altre tradizioni, anche un semidio o un Eroe civilizzatore, messaggero di Dio, può essere all'origine dei lavori minerari e metallurgici." Questa "favola poetica", così trasparente persino ai nostri occhi, doveva esserlo molto di più a quelli di un uomo del seicento, epoca in cui magia, astrologia e alchimia erano una componente fissa e abbondante della dieta culturale. Lo stesso Newton, ancora nel 1728, scriveva: "Le antichità Greche sono piene di finzioni Poetiche, perché i Greci non scrissero nulla in Prosa, prima della Conquista dell'Asia da parte di Ciro, re di Persia." Come è noto il '400, il '500 e la prima metà del '600 sono i secoli in cui in particolare la passione per l'alchimia si generalizza al punto da somigliare a un delirio di massa. Le pubblicazioni su questo argomento divengono incredibilmente numerose: Borelli stimava che esse ammontassero a più di quattromila titoli e tutti, scienziati, principi, monaci, preti e porporati, curiosi di cose naturali, ciarlatani e illusi si davano a questo genere di ricerche. Alla corte dell'imperatore d'Austria e dei re di Francia, alla corte dei re di Spagna e d'Inghilterra, nei palazzi cardinalizi, si distillavano erbe, si preparavano oli e si trattavano metalli secondo metodi alchimistici, sia per fabbricare farmaci, sia per fare l'oro. E lo stesso accadeva in Italia alla corte dei Medici e dei duchi di Savoia, dove Francesco I, o lo stesso Emanuele Filiberto, attendevano con le proprie mani, tra fornelli e alambicchi, alle operazioni alchimistiche. È verosimile pensare che gli artisti, di solito chiamati dai loro committenti a rappresentare lo spirito dell'epoca, potessero essere estranei a tale movimento? Vi è da notare poi che il fatto della preparazione dei colori poneva allora la pittura in adiacenza con l'arte spagirica. Così, se non ci siamo sbagliati, possiamo ora tornare a guardare il quadro con occhi nuovi per comprenderne il senso letterale, obbligatoria porta d'ingresso alla decifrazione di tutti gli altri: non vi vediamo più due "pastori" davanti a un teschio, bensì l'iniziando Lica come si conviene vestito di bianco - che, in compagnia del fabbro suo iniziatore - a sua volta vestito del colore del fuoco - sosta pensoso in contemplazione del mistero metallurgico cifrato dalle ossa di Oreste. Il tutto, naturalmente, nell'Arcadia menzionata dall'iscrizione misteriosa, il cui senso cominciamo finalmente a comprendere. Abbiamo già messo in luce il dettaglio che questa - essendo loro invisibile - non è per i due personaggi bensì per lo spettatore cui, evidentemente, vuole comunicare qualcosa. Sul "che cosa" le illazioni si sono sprecate: gli accademici - da Panofsky a Lévi-Strauss suppongono che essa manchi del verbo e la completano con un "sum", assumendo che sia la morte stessa a pronunciarla. Ma, anche così, la frase continua ad essere sgrammaticata: il che deve pur venire spiegato, a meno di non assumere che Giovanni Francesco Barbieri - o chi per esso - non fosse nemmeno in grado di compitare un latino tanto elementare. Per dar ragione della forzatura grammaticale, la prima idea che viene in mente è che risulti dal trattamento anagrammatico di un'altra frase che vi sarebbe nascosta: purtroppo, su questa via si sono gettati solo dilettanti appassionati di occultismo i quali - sulla base di un'ipotesi formulata per la prima volta nel best-seller Il santo Graal di Baigent, Leigh e Lincoln - credono che essa contenga un riferimento al fatto che Gesù Cristo sia sopravvissuto alla crocefissione per morire poi di morte naturale e venir sepolto da qualche parte nel Sud della Francia. Come ci si poteva attendere, tale ipotesi è stata accolta dal 115 pubblico profano con un entusiasmo direttamente proporzionale alla sua assurdità, dando luogo a una nutrita serie di volumi se possibile ancora più improbabili e scatenando nelle pacifiche campagne circostanti Rennes-le-Château una caccia al tesoro che - pur non avendo dato ovviamente alcun risultato - è ancor'oggi ben lontana dal cessare. Così la si è anagrammata come "I, TEGO ARCANA DEI" ("Vattene, custodisco i segreti di Dio"): naturalmente, che tale vaga allusione imprecatoria non riveli assolutamente nulla ma sia addirittura più enigmatica della frase da cui è ricavata - tanto da spingere a chiedersi quale sia l'utilità di nasconderla in un anagramma - non pone il minimo problema ai cercatori di tesori immaginari. Tuttavia, vi è un'altra possibilità di decodifica - segnalataci dall'amico Vincenzo Franchini, ottimo latinista - che si rivela adeguata alla nostra ipotesi in modo davvero stupefacente: ET IN ARCADIA EGO è anche l'anagramma perfetto di ARA IN TEGEA DICO in cui l'ablativo "ara" è certamente da intendere come complemento di argomento, nel senso di "de ara", in cui il "de" - come avveniva quasi sempre in latino - è sottinteso. Il verbo "dico" non significa dunque "dedico" - se così fosse richiederebbe l'accusativo "aram" - bensì è da intendere nel senso di "narro, racconto". La frase "DICO (DE) ARA IN TEGEA" - tenuto conto del fatto che il termine "ara" designava comunemente anche il sepolcro - significa dunque esattamente: "NARRO DEL SEPOLCRO IN TEGEA", concordando alla perfezione con il brano di Erodoto che abbiamo supposto costituire il referente letterale del dipinto. Anche i più scettici concorderanno sul fatto che le probabilità che un anagramma così letteralmente e semanticamente preciso sia casuale - e che dipenda esclusivamente dalla possibilità meccanica di permutazione delle lettere nella frase - sono praticamente nulle: perciò noi consideriamo questo come qualcosa di molto prossimo a una prova oggettiva del fatto che la nostra ipotesi corrisponda effettivamente all'intenzione del Guercino. Naturalmente, ciò dovrebbe condurci a comprendere, con precisione e aderenza ai dettagli, anche gli altri tre sensi impliciti nella composizione. Cercheremo dunque ora di spingerci verso il secondo, quello allegorico, ossia verso la "veritade ascosa sotto bella menzogna" di cui parla Dante. Già sappiamo che essa riguarda le arti del fuoco il che vuol dire, all'epoca, l'alchimia, e questo ci porta su un terreno particolarmente scivoloso. Dobbiamo dunque premettere che se tentiamo un'esegesi alchemica del quadro lo facciamo esclusivamente perché persuasi che essa fosse davvero nell'intenzione del suo autore e perché, come sottolinea Edgar Wind, nel suo Misteri pagani nel rinascimento: "non ci può essere dubbio che la presenza di residui non chiariti di significato è un ostacolo al godimento dell'arte. Per quanto grande sia la soddisfazione visiva suscitata da un dipinto, essa non può essere perfetta fin tanto che lo spettatore è assillato dal sospetto che nel dipinto ci sia di più di quello che il suo occhio vede. In letteratura lo stesso tipo di imbarazzo può essere prodotto dalla poesia di Spenser, di Chapman o perfino di Shakespeare, in un lettore al quale si sia consigliato di abbandonarsi alla musica dei versi senza preoccuparsi di capire o no ogni singolo verso. È dubbio che questo atteggiamento possa durare a lungo senza ottundere il godimento estetico, per quanto giustificato esso sia come approccio preliminare. Spero quindi che non mi si fraintenda, pensando che io consideri con particolare favore la dottrina dei misteri che mi accingo a esporre. L'assioma proposto da Pico della Mirandola, che per essere 116 profondi i misteri debbono essere oscuri, mi sembra altrettanto falso del pernicioso assioma di Burke che «un'idea chiara è un modo diverso di significare un'idea piccola». Ma non v'è modo di eludere il fatto, per quanto spiacevole, che da quel terreno impuro si sviluppò e fiorì una grande arte. Studiando questo argomento io cercherò la chiarezza - un fine già di per sé riprovevole dal punto di vista dei mistagoghi del Rinascimento. Eppure, la comprensione di questi inquietanti fenomeni non è certo favorita dall'arrendersi di fronte ad essi, non più che dall'ignorarne l'esistenza. Come osservava Donne, la maschera è una delle grandi forze della rivelazione. «Perché la Colonna di Nube, non meno della Colonna di Fuoco, svolse il compito di guidare»." Tuttavia c'è, per quanto riguarda l'alchimia, una complicazione ulteriore: la sua esegesi non è univoca. Tra i suoi interpreti ce n'è che vogliono la terminologia chimica degli alchimisti pura allegoria di un processo spirituale o mentale interno all'uomo; ce n'è che la vogliono invece un processo puramente chimico-metallurgico, senza altra implicazione; infine ce n'è che vi ritengono presenti entrambi gli aspetti. Pur non avendo particolari titoli per dirimere la questione, oltre trent'anni di frequentazione dell'enigmistica alchemica ci hanno persuasi che la terza ipotesi sia la più vicina al pensiero degli alchimisti del periodo classico. Facciamo cioè nostro il giudizio di Mircea Eliade nell'affermare che: "Certamente le operazioni alchemiche non erano di natura simbolica: erano operazioni materiali, effettuate all'interno di laboratori, ma perseguivano fini diversi da quelli della chimica. Il chimico pratica l'osservazione esatta dei fenomeni fisico-chimici e di esperienze sistematiche, allo scopo di cogliere la struttura della materia; l'alchimista si sofferma piuttosto sulla «passione », la «morte» e l'«unione» delle sostanze, in quanto agenti di trasmutazione della Materia (la Pietra Filosofale) e della vita umana (l'Elixir Vitae)." Questo perché: "nessun mestiere, perfino nella tarda antichità, era soltanto una tecnica." Ciò naturalmente non significa che aderiamo alla Weltanschaaung degli alchimisti: il nostro atteggiamento, se somiglia a qualche altro, somiglia a quello dell'etnologo, volto a ricostruire pratiche e credenze loro relative, senza porsi minimamente il problema dell'oggettività delle prime come della verità delle seconde. Ci importa soltanto restituire un mondo intellettuale e semantico quasi sempre trascurato e che riteniamo essenziale alla comprensione di molte opere appartenenti a uno dei periodi artistici più felici della storia dell'umanità. Perciò - dato che la situazione da allora non è gran che cambiata - ci associamo senz'altro a quanto scrisse, nel 1975, uno dei migliori ricercatori del campo, ossia René Alleau: "Se ora si vorrà prendere in considerazione l'estensione di una letteratura ancora sconosciuta che conta decine di migliaia di opere le quali, tra il XIII e il XVIII secolo, hanno esercitato un'influenza incontestabile sulle menti e sulle opere della civiltà occidentale, come non essere sorpresi constatando che tali documenti non sono ancora stati esaminati e nemmeno recensiti e classificati in modo sistematico e serio? Dopo vent'anni di ricerche in tale giungla, credo di essere in diritto di affermare che essa rimane appena esplorata, con tutte le conseguenze che lacune così gravi implicano in quel che concerne la nostra attuale concezione della cultura e dell'evoluzione delle idee. In questa prospettiva, non si tratta affatto di «disoccultare l'occulto», ma di restituire alla cultura ciò che le è sempre profondamente appartenuto, salvo nella nostra epoca, vale a dire il senso del mistero universale. Questo mistero non è situato fuori dalla cultura ma è nella cultura autentica, come l'arte è nascosta nella natura, secondo l'ammirevole formula di Albrecht Dürer: «Guarda attentamente la natura senza mai discostartene nella vana speranza di trovare qualcosa di meglio per te stesso. In verità, l'arte è nascosta nella natura: chi può estrarla da essa la possiede»." 117 L'adesione al punto di vista di Eliade ci ha in ogni caso obbligati a uno sforzo che di solito gli esegeti delle opere alchemiche non fanno: con qualche rarissima eccezione, essi si contentano di collegare tra loro i differenti simboli come se da questi semplici accostamenti potesse scaturire una chiarezza maggiore di quella esibita dai testi che commentano. Al contrario noi, persuasi come siamo che, se c'è un segreto, esso non concerne i simboli ma l'operatività che essi ricoprono, e che la spiegazione di simboli con altri simboli sia soltanto una pseudo-ermeneutica, priva di valore perché regolarmente più oscura di ciò cui si applica, abbiamo cercato - nei limiti delle nostre capacità - di ricostruire il tessuto empirico che costituiva il referente della rete simbolica manifestata dai dipinti. Naturalmente, non essendo né iniziati né praticanti dell'arte, abbiamo dovuto cercare - lungo laboriose letture sinottiche dei classici più e, soprattutto, meno noti dell'alchimia occidentale - di ricostruire l'effettiva pratica operativa a partire dai testi: cosa secondo noi non impossibile, se si ha la pazienza e la tenacia di svolgere il lavoro necessario a realizzarla. Quando dunque in alchimia è questione di sepolcri, ossa, crani o cadaveri il riferimento è notoriamente alla fase operativa detta della "putrefazione". Infatti, come attesta Nicolas Flamel nel Libro delle figure geroglifiche: "Dunque questa nerezza e colori insegnano chiaramente che all'inizio la materia e il composto comincia a putrefarsi […]. E questa dissoluzione è chiamata dai Filosofi invidiosi Morte, Distruzione e Perdizione, perché le nature cambiano di forma; di qui sono uscite tante allegorie su morti, tombe e sepolcri." Non diversamente si esprime Teodoro Nadasti, nel suo Trattati teorici-pratici: "Dicono per anche intercedere nel nostro Magistero morte, e resurrezione. Per la qual frase vogliono significare lo stato dell'Oro, o Argento, il quale quando è internato per minima nel Mercurio, e non si vede più, apparisce non solo come morto, ma come sepolto ancora…" Lo stesso concetto si può ritrovare espresso, invero assai laconicamente, nella seguente illustrazione tratta dalla Margarita pretiosa di Janus Lacinius: Per comprendere di che si tratta bisogna aver chiaro che - secondo gli autori reputati migliori - questa segue le due precedenti della "congiunzione" e della "separazione". Nella "coniunctio" si trattava di compiere un'operazione al crogiolo facendo reagire due sostanze - denominate "solfo" e "mercurio" - attraverso una terza - il cosiddetto "fuoco segreto" o "doppio", o ancora "sale" -, dopodiché il risultato, a raffreddamento avvenuto, veniva separato tra la sua componente depurata e le scorie. Per mostrare il grande accordo che gli alchimisti intrattenevano su questo punto faremo alcune citazioni provenienti da trattati di 118 autori ed epoche diverse, le quali mostrano chiaramente come vi si tratti sempre del medesimo procedimento. La prima viene dal Breviario attribuito a Nicolas Flamel: "Baderai innanzitutto di prendere il primogenito o primo figlio di Saturno, che non è il comune, nove parti; della sciabola calibe del Dio guerriero, quattro parti; falli arrossare in un crogiolo e quando sarà rosso fondente getta dentro le nove parti di Saturnia che t'ho detto. Quando questo improvvisamente mangerà l'altro, pulisci bene dalle sporcizie fecali che vengono a monte della Saturnia con salnitro e tartaro...". La seconda viene da Le dodici chiavi della filosofia di Basilio Valentino: "Perciò, se vuoi lavorare con i nostri corpi, prendi il Lupo grigio avidissimo che, dall'esame del suo nome, è assoggettato al bellicoso Marte, ma, per la sua stirpe di nascita, è figlio del vecchio Saturno e che, nelle valli e nelle montagne del mondo, è in preda alla fame più violenta. A questo stesso Lupo getta il corpo del Re, affinché riceva il proprio nutrimento, e quando avrà divorato il Re fai un gran fuoco e gettavi il Lupo per consumarlo interamente: allora il Re sarà liberato." Traiamo la terza da L'entrata aperta al palazzo chiuso del re di Ireneo Filalete: "...prendi quattro parti del nostro Drago igneo che nasconde nel suo ventre l'Acciaio magico, e nove parti della nostra Calamita; mescolali insieme con l'aiuto del torrido Vulcano, in modo che formino un'acqua minerale su cui galleggerà una schiuma...". Poiché questo è uno studio iconografico, concludiamo la rassegna riproducendo un'immagine dall'Atalanta fugiens du Michael Maier che è una ripresa letterale del passo di Basilio Valentino appena citato: Inoltre, ai fini della nostra argomentazione, è molto importante sapere che la sostanza che Flamel chiama "sciabola calibe del Dio guerriero", Basilio Valentino "Re" e Filalete "Calamita" - ossia ciò che nell'operazione svolge il ruolo di "solfo" - è il ferro. Questo infatti ci è formalmente dichiarato da Giovanni Braccesco nel suo La espositione di Geber filosofo. 119 "Geb. Quantunque il ferro comune in se sia il piu vile delli altri metalli, nientedimanco separata la immonditia, è piu precioso delli altri, perche ha potentia piu propinqua da convertirsi in Elixir. [...] Pensa che io non ho parlato senza ragione. Nel testamento io ho detto, il Marte perche ha la sustantia fissa, egli è il megliore infra gli corpi. Et benche per il Marte si possi intendere del solfo, rispetto alli altri metalli intrinsechi, nientedimanco si puo anchora intendere, che il ferro comune sia migliore delli altri, perche ha la sustantia fissa, cioè piu di solfo fisso, che tutti gli altri metalli. Dem. Piu fisso è il solfo dell'oro. Geb. Si, ma el costa caro: et non è utilità a lavorare sopra quello et non si puo migliorare, perche egli è pervenuto all'ultima sua perfettione: ma il solfo del ferro è in via alla ultima perfettione et tintura, et con nostro magisterio si puo aiutare a pervenire alla rubedine permanente, et di quello facilmente ne possiamo avere in buona quantità, et con poca spesa." D'altra parte Johannes de Monte-Snyder, nel suo Commentario sul farmaco universale non fa che confermarne l'opinione: "Possiede Marte un caldo Solfo solare e sembra bianco al di fuori, ma è ben rosso al di dentro. Il suo sale è talmente maturato e avviato dal proprio suo solfo, che persino a un sì agile rapinatore come Mercurio, dà molto filo da torcere. Il sale di Marte può, infatti, costantemente coagulare e fissare il Mercurio, specialmente quando lo soccorra il vecchio Saturno con le sue armi e la doppia sua daga." Cosa che Sabine Stuart de Chevalier, nel suo Discorso filosofico sui tre principi, animale, vegetale e minerale o La chiave del santuario filosofico, sottoscrive apertamente: "Il ferro contiene anche un solfo prezioso e che è assolutamente necessario alla composizione del magistero...". E, in modo ancora più esplicito: "abbiamo già dimostrato più sopra, che Marte o il sale di ferro è una calamita ausiliaria che attira le influenze celesti." Da tutte le citazioni che abbiamo fatto si evince che il risultato della "prima opera", a quanto pare, constava di un lingotto di "sostanza mercuriale" depurata che si depositava sul fondo della lingottiera, mentre le scorie - dette anche "feci" o "caput mortuum", e costituite da tutte le altre sostanze intervenute della reazione - galleggiavano in superficie come una specie di schiuma solida, nerastra e vagamente fetida, costituita in gran parte dai fluidificanti salini (il "sale") e dal ferro. D'altra parte, se gli alchimisti facevano in genere tanto mistero della loro "prima opera" è semplicemente perché essa era ben conosciuta nell'usuale chimica del tempo, come si può desumere dai trattati più famosi, come quello scritto dal dottor Nicolas Lemery, membro dell'Académie Royale des Sciences, e riedito nel 1757, con numerosissime annotazioni, dal suo allievo Baron, dal quale - a conferma di ciò che abbiamo appena scritto - traiamo il giudizio relativo al "caput mortuum": "Le scorie sono dunque composte di ferro, di zolfo e di salnitro fisso." Affermazione ulteriormente chiarita nella lunghissima "nota (c)" aggiunta dal dottor Baron a commento del testo del proprio maestro: "Tutto ciò che galleggia sul regolo precipitato, e che forma le scorie, non è dunque più che un composto di zafferano di Marte, di colcothar, e di fegato di zolfo, nel quale sono dissolte una porzione di ferro e una porzione di regolo." Quanto precede costituisce secondo noi l'oggetto di un altro dipinto del Guercino, noto sotto il titolo di "Vanitas", oggi appartenente alla collezione Feigen di New York: 120 Senza approfondirne particolarmente la lettura - dato che non costituisce l'oggetto del presente studio - ci limiteremo a segnalare che il libro chiuso costituisce, in alchimia, un simbolo tradizionale della "materia mercuriale" allo stato grezzo, ossia all'uscita dalla miniera: tale accostamento è stato probabilmente suggerito dal fatto che si tratta di un minerale che ha spesso una struttura grossolanamente lamellare, tanto da esser denominato pure "terra foliata". Questo libro è chiuso da sigilli che vengono spezzati o sciolti nel corso della lavorazione, finché esso, al termine, diviene aperto. Così noi vediamo, nel quadro, il libro ancora chiuso, ma di cui l'"assazione" preliminare e la "prima opera" hanno già sciolto i due lacci che lo chiudevano: a questo punto esso è giustamente sovrastato dal teschio che simboleggia le scorie o "caput mortuum". Questa sovrapposizione verticale dei due protagonisti principali dell'opera alchemica è peraltro restituita molto fedelmente da uno dei simboli (il secondo nell'immagine seguente) che l'antica chimica riservava al "caput", in cui la linea orizzontale sottostante il teschio equivale al libro del quadro di Guercino: L'orologio a sabbia che si vede sul lato destro è un'allusione al fatto che la massa delle scorie è friabile e si disgrega facilmente assumendo un aspetto sabbioso, inoltre, poiché la clessidra è un classico simbolo di Saturno, riguarda il fatto che le scorie della "prima opera" sono chiamate anche "Saturno o piombo dei filosofi". Ciò è certificato anche dall'anonimo autore del Dizionario ermetico contenente la spiegazione dei termini, favole, enigmi, emblemi e modi di dire dei veri Filosofi, accompagnato da due trattati singolari e utili ai Curiosi dell'Arte il quale, alla voce "Saturno dei filosofi", si esprime nel modo seguente: "è quando la materia Ermetica è diventata come della pece fusa, e poi diventa nerissima, in cui si fa l'eclissi del Sole e della Luna, che i saggi chiamano fango e limo, in cui l'anima dell'oro (che è 121 chiamata il fiore dell'oro nella Turba) si unisce al Mercurio; in modo che chiamano Saturno o piombo, la tomba in cui il Re è sepolto: O anche Nigredo, ossia la nerezza, che è la testa del Corvo." Le due roselline in vaso, sulla sinistra, simboleggiano invece il prodotto finale dell'opera alchemica, cioè le due pietre filosofali "al bianco" e "al rosso": questa differenza è sottilmente suggerita dal Guercino con il fatto che una delle due roselline è ancora parzialmente in boccio (pietra al bianco) mentre l'altra (pietra al rosso) si mostra nel pieno della fioritura. Il medesimo simbolismo delle due rose - che qui sono, più canonicamente, rose selvatiche a cinque petali - si può ritrovare nell'illustrazione premessa alla dodicesima e ultima chiave de Le dodici chiavi della filosofia di Basilio Valentino: Il secondo vaso, che vediamo sullo sfondo a destra, riempito di fiori di vari colori, simboleggia appunto i colori che si susseguono nel corso dell'opera, allo stesso modo che ne Les sept nuances de l'oeuvre chymique di Etteilla in cui il laconico commento al punto quattro del frontespizio recita enigmaticamente: "Non riferitevi troppo al colore": 122 Tuttavia, e più pertinentemente di Etteilla, Guercino non ci mostra i fiori ancora radicati al terreno, bensì recisi e immersi in due vasetti di vetro trasparente. Malgrado l'apparente naturalezza della cosa, anche qui è cifrata un'indicazione assolutamente pertinente: a eccezione del nero, i colori si producono e passano nel vetro, ossia nel fluido salino incaricato di captare - durante la "terza opera" - la parte più pura delle materie messe in opera. Secondo i migliori autori, sarà proprio questo fluido a costituire il corpo cristallino del "rubino celeste" finale. Infine, pensiamo che l'indecifrabile cartiglio attaccato al medesimo vaso, in cui si può leggere soltanto la parola "nascitur", sia - proprio come ne Et in Arcadia Ego - l'indice che il quadro contiene un messaggio incomprensibile ai più. Pe rendere ancor meglio conto della fondatezza della nostra tesi, accosteremo il precedente quadro del Guercino a un altro molto simile di Lorenzo Lotto - comunemento noto come Amore che incorona un teschio - che Edgar Wind presenta sorprendentemente così: "Un dipinto particolarmente morboso di Lorenzo Lotto mostra Amor che incorona un teschio posato su un cuscino (emblema di «dolcezza» o voluptas)": Dobbiamo ammettere di non riuscire proprio a comprendere che cosa abbia questo magnifico quadro di "particolarmente morboso"; pensiamo inoltre che l'illustre studioso sia ben lontano dall'aver colto la genialità dell'inventio di Lotto. A differenza del quadro di Guercino, questa volta il teschio non è in posizione verticale su un libro ma orizzontale, mollemente adagiato su un cuscino sul quale lascia - esattamente come farebbe il capo di un qualunque dormiente - un'ampia impronta stellata: sopra di esso un putto dall'espressione tra il pensoso e l'ammiccante sostiene una corona d'alloro. Il contrasto è particolarmente forte e tale da far riflettere: perché l'alloro - albero sacro ad Apollo e simbolo notorio di immortalità, come d'altra parte tutte le piante che rimangono verdi in inverno - è imposto al teschio, che è invece il rappresentante per eccellenza del suo contrario, ossia la morte? E perché questa strana postura da vivente del teschio sul cuscino? Aggiungiamo che 123 quest'ultimo, a causa dell'assenza della mascella e della strana posizione, sembra sorriderci beffardamente. Ancora una volta pensiamo che il ricorso all'alchimia sia l'unico a poterne render conto in modo soddisfacente e, per dimostrarlo, ricorrereremo di nuovo ai suoi classici. Ne L'entrata aperta al palazzo chiuso del re Ireneo Filalete, nel suo solito stile criptico e roboante, aveva scritto: "Al polo, si trova il cuore del Mercurio, che è un vero fuoco ove si trova il riposo del suo Signore. Navigando su questo vasto mare, per approdare all'una e all'altra delle Indie, governa la sua corsa con la vista della stella del nord che la nostra Calamita ti farà apparire. Il Saggio se ne rallegrerà, ma il folle vi farà poco caso e non s'istruirà nella saggezza, quand'anche avesse visto il Polo centrale volto all'esterno e marcato dal segno riconoscibile dell'Onnipotente." Sembra dunque che all'uscita della prima opera le materie siano marcate da un segno che non può evitare di imporsi agli occhi dell'operatore. Di quale segno si tratti ce lo dice, come sempre, Sabine Stuart de Chevalier: "Aggiungetevi poi due once di salnitro e altrettante di sale di tartaro, raffinati e incorporati assieme; agitate bene con una spatola di ferro; vedrete apparire una stella splendente nel crogiolo…". La conoscenza di questo segno stellato non era peraltro appannaggio esclusivo degli alchimisti, dato che era condivisa comunemente anche dai chimici spagirici dell'epoca, come testimonia il famoso Christofle Glaser nel suo Traité de Chymie, alla voce "Regolo d'Antimonio con il Marte": "…e, oltre a ciò, il regolo avrà sulla superficie la figura di una stella, che è il vero segno della perfezione." Infine, si tratta della medesima stella disegnata sul frontespizio dell'Aureum saeculum redivivum di Hinricus Madathanus: Ora, anche chi non ha alcuna esperienza di operazioni metallurgiche potrà comprendere che questa impronta stellata si presenterà a maggior ragione durante il raffreddamento nella lingottiera, e sarà visibile nella frattura di separazione tra il cosiddetto "regolo d'antimonio" 124 e le scorie marziali sovrastanti, come una forma di interfaccia comune alle due parti. A nostro avviso, è proprio per suggerire questo che Lotto, con tutta la genialità del grande artista, adagia il cranio orizzontalmente sul cuscino, suggerendo l'impronta che vi lascerebbe la testa di un qualunque dormiente: che essa abbia una forma visibilmente stellata conferma - secondo noi in modo inequivocabile - quanto abbiamo detto. Ma la composizione ci dice ancora qualcos'altro, ossia che la materia simboleggiata dal cranio non è morta come sembra bensì dorme, e ciò è rafforzato dall'alloro dell'immortalità con cui il putto - in questa accezione simbolo dello spiritus mundi - si prepara a incoronarlo. Infatti questo bambinetto - che a livello del senso morale rappresenta senz'altro Amore, come osserva giustamente il Wind - a livello dell'allegoria alchemica è il medesimo che vediamo, in piedi su un banco di nuvole, intento a espletare le sue funzioni naturali, in modo invero non troppo pudico, nella seguente figura tratta dal manoscritto della Biblioteca Vaticana denominato Speculum veritatis, e accompagnata da questa breve leggenda: "La purgazione della Materia e la riduzione del Generato crudo in Generatore cotto, affinché la loro urina lavi il Mercurio": Benché l'immagine che mostriamo non si riferisca alla stessa fase operativa di cui si tratta nel quadro di Lotto, l'elemento incarnato dal bambino è lo stesso per entrambe: è comunque lui - a detta dei testi alchemici - la causa anche della "resurrezione del Re" che ora giace nel suo sepolcro, ossia l'agente operativo capace di restituirgli una funzionalità nell'opera. Come scrive Limojon de Saint-Didier ne Il trionfo ermetico: "Il balsamo della vita è nascosto in queste feci immonde, voi dovete lavarle con l'acqua celeste, finché non ne avrete tolta tutta la nerezza, e allora la vostra acqua sarà animata da questa essenza ignea, che opera tutte le meraviglie della nostra arte." Sulla natura di quest'acqua celeste - la stessa che il bambino dell'illustrazione orina impudicamente - Sabine Stuart de Chevalier è particolarmente esplicita: "La vita e la salute sono contenute nello spirito universale. L'unica fomentazione è contenuta nel mare universale; per la sola ragione che è salata, essa racchiude dei tesori, essa contiene i principi e i germi dell'oro e dell'argento in quantità inesauribile. L'aria libera contribuisce molto a mercurificare i minerali e i semi-minerali. Cornelio Agrippa ha nominato un soggetto nei sui scritti; è una materia volgare che ha la virtù di attirare questo spirito così salutare. Se ne attira in abbondanza in un momento. Questo spirito universale è tanto potente che guarisce quasi tutti i mali 125 con il suo solo vapore e odore; è nascosto sotto una forma aerea, acquosa, terrosa e salina. Lo si attira dall'aria con una calamita; è anche contenuto nella rugiada e nell'acqua di pioggia." Non è fuori luogo attirare anche l'attenzione su un'immagine dell'Hypnerotomachia Poliphili , essa pure di certo relativa a questo argomento: La sua pertinenza alchemica può esser giudicata leggendo il testo che l'accompagna, in cui l'invenzione dell'autore anonimo tocca veramente il vertice del grottesco immaginando che il putto orini addirittura in faccia a un sorpreso Polifilo il quale, per l'occasione, si dice stranamente "melancochro" - parola derivata dal greco melànkrokos, "con tessuto nero, con vele nere" - che per metonimia vale "negro": effettivamente, perché l'allegoria si attagli al processo alchemico, la testa su cui il fanciullo orina dev'esser nera. 126 Sinceramente - sia detto senza intento polemico - non comprendiamo perché i due peraltro bravissimi curatori dell'edizione Adelphi dell'Hypnerotomachia - e in particolare Stefano Andreani, che addirittura dirige la collana di riedizione di testi alchemici presso la casa editrice Mediterranee -, abbiano perso l'occasione di tener conto, nel pur monumentale commento da loro dedicato all'opera, degli indubitabili significati alchemici presenti in numerosi suoi passi: secondo noi non è un buon servizio reso all'intelligibilità del testo. Tanto più che la tradizione ermeneutica in questo senso è storicamente attestata, per esempio dalla stessa Sabine Stuart de Chevalier: "L'ingegnoso Polifilo ha fatto un grosso volume in cui designa tutte le operazioni con tutti i dettagli; egli indica il sale dei Filosofi sotto il nome di Polia con la quale vuole sposarsi." Il dottor Nicolas Lemery, che da semplice chimico non aveva le preoccupazioni di riservatezza degli alchimisti, è ancora più chiaro in merito alle convinzioni della scienza dell'epoca: "La pioggia e la rugiada sono impregnate dallo spirito dell'aria che le rende penetranti; e perciò noi vediamo che esse apportano maggior profitto alle piante che annaffiano di quanto non faccia l'acqua comune: la rugiada, soprattutto, contiene molto di questo spirito universale che è acido, perché durante la frescura della notte è stato condensato e precipitato con l'umidità che era sparsa nell'aria." Per chiudere questa lunga digressione e riprendere l'esame del nostro quadro, diremo che a questo punto dell'opera pare che si ponesse, per i neofiti e comunque per i profani denominati, dagli alchimisti, con il termine spregiativo di "soffiatori" - un problema piuttosto grave: affascinati dalla bellezza e dallo splendore metallico della "sostanza mercuriale depurata", costoro proseguivano l'opera esclusivamente con essa, gettando via le scorie - "foeces" ("feci") o "caput mortuum" ("testa di morto") - come qualcosa che era ormai del tutto privo di valore. Stando agli alchimisti, sembra invece che le scorie diseredate e sgradevoli avessero ancora una grande parte da giocare nel seguito delle operazioni: occorreva che fossero lavorate in modo da estrarne non solo il "sale" ma anche il "solfo marziale", in vista di un ulteriore impiego. Relativamente a questo, che veniva considerato un punto molto segreto della pratica, ci furono autori assai "invidiosi": alcuni di essi, forse eccedendo nell'obliquità dei loro discorsi, finirono per provocare nei creduli profani un danno addirittura maggiore di quello cui volevano rimediare. A quanto pare ci fu chi - prendendo l'espressione "caput mortuum" alla lettera - lavorò effettivamente su ossa di cranii umani, e da qui sembra provenire la scoperta del fosforo, ma ci fu anche chi finì per rendersi ridicolo pasticciando con un materiale assai meno nobile del precedente, forse soggiogato dall'autorità emanante dal supposto autore de L'arte trasmutatoria, ossia nientemeno che papa Giovanni XXII: "La polvere di escremento umano disseccata al sole, poi lavata nell'acqua, rimasta sul fondo del vaso perché non dissolta, è un buon elisir che tinge il piombo in oro." Per chiarire fino a che punto inimmaginabile frasi come la precedente potessero risultare fuorvianti per i profani, vale la pena aprire un inciso onde narrare brevemente l'esperienza letale e del tutto volontaria che coinvolse, verso la fine del '700, il supposto autore de Il Gran Libro della Natura, così come ce la riferisce Eugène Canseliet nel suo L'alchimia spiegata sui suoi testi classici: "L'illuminismo venuto dalla Germania e che regnava a quell'epoca nelle assemblee massoniche, può fornire molto bene la ragione dell'impresa pericolosa e filosoficamente irragionevole. In ogni caso è 127 così che Touzay, alias Duchanteau, dell'importante loggia Les amis Réunis, cercò di concentrare, in seno al proprio liquido escremenziale, quel sale che pensava fosse l'armoniaco dei vecchi alchimisti, e che potesse diventare, per mezzo di questo riprovevole procedimento, la Medicina universale. Questo assorbendo, senza discontinuità e con l'esclusione di qualunque altro nutrimento, la sola urina delle sue successive emissioni. Cosa poteva avvenire, se non che, durante lo sviluppo della sua tecnica pericolosa, la morte sorprendesse l'imprudente filosofo […] ?" Tuttavia, altri si incaricarono di dichiarare in modo esplicito la corretta interpretazione di questo genere di metafore perniciose. Così Braccesco: "La loppa, cioè la calce del ferro, la quale si genera nel fuoco, et dalli fabri, è gettata per le vie, et ne sterquilini: ella è la vilissima pietra de filosofi, et ha similitudine di pietra, et non è pietra, et sola ha tutte le cose, et tutte le proprietà, lequali dicano li filosofi della sua pietra." Così anche Sabine Stuart de Chevalier, nell'opera che abbiamo citato più sopra, la quale insistette moltissimo su questo punto: "Abbiamo già parlato molte volte delle scorie che galleggiano durante la confezione del regolo, e raccomandiamo ancora di averne grande cura; fatele bollire nell'acqua piovana, che filtrerete e farete evaporare per ritirarne un sale prezioso; dopo aver così liscivato queste scorie, le farete calcinare in un crogiolo, aggiungendovi qualche pezzetto di zolfo comune; esse diverranno rosse come del cinabro...". Riteniamo ormai di avere materiale a sufficienza per decifrare l'allegoria contenuta nel quadro di Guercino: il grande cranio posato in primo piano sul frammento di muratura è il "caput mortuum" che l'artista, al pari degli alchimisti del suo tempo, ci invita a non disprezzare. Che si tratti delle ossa di Oreste costituisce allora un'indicazione in più in quanto il nome Oréstes (Oreste), derivando da òros (monte), significa ovviamente "montanaro", "colui che abita in un luogo alto", e ciò identifica la posizione che dopo la prima opera le scorie assumono rispetto al lingotto sottostante. L'albero metà verde e metà secco che si vede nella parte superiore del dipinto allude proprio al fatto che la morte del caput è soltanto apparente, mentre una vita ora solo latente aspetta di esservi risvegliata: di questo tema, vediamo una versione molto ben concepita in un altro quadro di Lotto, conosciuto sotto il nome eccessivamente anodino di Allegoria: 128 Un'altra immagine che merita di venire accostata alle precedenti in quanto fa spuntare, molto eloquentemente, l'albero verde direttamente dai genitali del Re morente, si può trovare nei Miscellanea d'alchimia: Caritatevolmente, Guercino ci mostra persino quale sia la reale apparenza fisica del "caput" durante le operazioni alchemiche, nonché cosa si possa trarre da un suo accorto utilizzo: la massa rocciosa e nerastra fronteggia il teschio perché lo rispecchia: infatti ha lo stesso medesimo aspetto delle scorie di fusione e da essa, quasi per un'illusione ottica, sembrano emergere i due strani personaggi. Ciò vuol dire, secondo noi, che ne provengono, e nell'ordine preciso in cui li elenca il brano di Stuart de Chevalier: prima il "sale prezioso" bianco come la neve (il personaggio più vicino a noi) poi, dopo la calcinazione al forno da riverbero, la sabbia "rossa come cinabro". Inoltre, il fatto che l'abito rosso del secondo personaggio mostri dei risvolti bianchi, significa secondo noi - se non sbagliamo - che il "sale prezioso" non deve essere completamente estratto dal "caput mortuum", dimodoché un poco ne resti corporificato con la "sabbia rossa". Di questi due stessi personaggi, emergenti dal cadavere del Re, abbiamo una rappresentazione pressoché identica nel Chymisch Kleinod di Oswald Crollius: 129 Per quanto riguarda l'ora antelucana in cui avviene la scena del quadro - espressa, come abbiamo detto all'inizio, dalla stasi degli animali diurni e dall'attività di quelli notturni -, essa ha il preciso significato di suggerire quella precauzione climatico-astronomica che doveva necessariamente accompagnare le manipolazioni alchemiche e che differenzia radicalmente l'alchimia dalla chimica che le era contemporanea: Guercino, evocando il momento del giorno in cui la lavorazione del "caput" deve compiersi, si mostra così non meno caritatevole di Pierre Jean Fabre, Dottore alla Facoltà di Medicina dell'Università di Montpellier, nel suo Compendio dei segreti chimici: "io non intendo il vetriolo comune e ordinario, ma quello dei Filosofi, che si trova al levar del Sole, sparso molto copiosamente e più che abbondantemente su tutta la terra." Il lungo periplo del senso allegorico ci mette ora in grado di affrontare in modo pertinente quello morale. Secondo noi questo si dispiega lungo due assi, a seconda che si prenda come guida uno dei due primi sensi. Rispetto al senso letterale - quello di Lica, del fabbro e delle ossa di Oreste - esso si sostanzia nell'idea di carità: venire iniziati al mistero del "caput mortuum", delle scorie, significava che, nel mentre si era oggetto di aiuto, occorreva comprendere che al mondo non v'è nulla di così miserabile che, ricevendo un aiuto, non possa esse nobilitato aldilà di ogni aspettativa: proprio come dei miseri resti umani rivelano esser le spoglie preziose di un eroe mitico. Rispetto al senso allegorico invece - cioè a quello alchemico - esso indica un'altra virtù: la modestia. In questo contesto, infatti, sono i due materiali nobili che osservano la materia vile da cui, essendone estratti, provengono. E non possiamo fare a meno di suggerire che questo deve aver avuto per il Guercino - uomo di grande dirittura morale - anche una portata più personale: secondo noi egli, a causa delle proprie umili origini, potrebbe aver visto se stesso nel "caput mortuum", materia vile da cui però si originavano opere sublimi. Così, se noi leghiamo insieme i due aspetti del senso morale, ne ricaviamo la corretta lettura, quella di modesta caritas: infatti, la vera carità non si proclama ai quattro venti, non fa mostra di sé ma frutta una vera soddisfazione esercitandosi nell'ombra, in modo non apparente: secondo noi, è proprio quella che lo stesso Guercino pensava di offrire, nell'enigma della sua tela, all'interprete abbastanza ingegnoso da meritarla. Ci resta dunque solo da chiarire il senso anagogico, ossia quello che "per le cose significate significa de le superne cose de l'etternal gloria". Dobbiamo ora considerare che, all'epoca del Guercino, l'alchimia medievale era stata già da tempo incorporata nell'ermetismo neoplatonico di matrice ficiniana come uno dei suoi aspetti, per così dire, sperimentali, rinnovando così quell'altro incontro di cui parla Eliade e che aveva avuto luogo molto tempo prima: "Sebbene il problema dell'origine storica dell'alchimia alessandrina non sia ancora risolto, possiamo spiegare la repentina apparizione dei testi alchemici dell'era cristiana come il risultato dell'incontro di una corrente esoterica viva soprattutto tra le classi colte e rappresentata dai Misteri, dal neopitagorismo e dal neoorfismo, dall'astrologia, dalle «verità orientali rivelate», dallo gnosticismo ecc., con le tradizioni «popolari», custodi dei segreti di mestiere, delle magie e delle tecniche più arcaiche." Allo stesso modo che agli antichi iniziati ai Misteri, anche a quelli rinascimentali non doveva essere sfuggito - come nota ancora Eliade - l'intrinseco rapporto tra questi e l'alchimia: 130 "Sappiamo che l'iniziazione ai Misteri consisteva, nella sua essenza, nel partecipare alla passione, alla morte e alla resurrezione di un dio. Noi ignoriamo le modalità di questa partecipazione, ma si può congetturare che le sofferenze, la morte e la resurrezione del dio, conosciute dal neofita nella forma del mito, della storia esemplare, gli venissero comunicate, durante l'iniziazione, in maniera «sperimentale». Il senso e la finalità dei Misteri erano la trasmutazione dell'uomo: attraverso l'esperienza della morte e della resurrezione iniziatiche, il mito mutava di regime ontologico (diveniva «immortale»). Ora, lo scenario drammatico delle «sofferenze», della «morte» e della «resurrezione» della Materia è attestato fin dall'inizio nella letteratura alchemica greco-egizia." Si trattava insomma di far "sperimentare" al neofita la "realtà" della palingenesi: e proprio questo riteniamo sia il senso anagogico presente nel quadro di Guercino. Il che ci è già significato dall'albero in parte verde e in parte secco del quale Wind conferma il significato palingenetico: "Un germoglio nuovo che nasce da un albero secco […] era una formula comune per significare «rinascita», adottata anche nella medaglia del Laurana per Renato d'Angiò […], con allusione al nome, Renatus. Su un cammeo rinascimentale che si trova alla Bibliothèque Nationale […] ci si è serviti dello stesso motivo per simboleggiare la rinascita religiosa." Che l'esoterismo rinascimentale sia completamente dominato dall'idea di una ciclicità del tempo e di un ritorno incessante delle anime ai corpi, salvo nel caso di una liberazione eroica e iniziatica dalla tirannia di Crono, è abbondantemente attestato. Se non è del tutto certo che il cardinale Bessarione accettasse la dottrina pagana della metempsicosi, sappiamo che il suo amico e maestro Gemisto Pletone la condivideva, così come Marsilio Ficino, Beroalde de Verville, Lorenzo de' Medici, Renato d'Angiò e tanti altri. E se è vero che ai tempi del Guercino le accademie erano da tempo estinte, è altrettanto vero che Venezia era diventata il centro di resistenza dell'ermetismo rinascimentale: segnatamente e soprattutto con Francesco Giorgio Veneto, il patrizio veneziano Zorzi, frate minore dell'Osservanza, teologo, filosofo neoplatonico, ermetizzante e cabbalista, uomo assai noto ed autorevole - significativamente sospettato dalle gerarchie ecclesiastiche fino a ricevere una scomunica, poi revocata - la cui influenza si estese lontano nello spazio e nel tempo, come spiega dettagliatamente il massimo esperto attuale del suo pensiero, Cesare Vasoli: "Più tardi le sue dottrine, affidate al De harmonia mundi ed ai Problemata e sostenute da fedeli discepoli, come Arcangelo Pozzi da Borgonuovo e Serafino Cumirano, ebbero un'indiscutibile fortuna testimoniata non solo dalle citazioni di Giulio Camillo Delminio e del Giambullari, ma anche della singolare affinità di certi loro temi con gli atteggiamenti di alcuni tipici esponenti dell'«eresia» cinquecentesca, come Camillo Renato e il Curione, dalle esplicite dichiarazioni di Francesco Pucci, dai frequenti, esaltanti riferimenti di Guillaume Postel che molto contribuì a diffondere la fama di Francesco Giorgio negli ambienti e nei gruppi tendenzialmente settari nei quali si muoveva. Né è certo un caso che uno dei suoi più noti seguaci, Guy Le Fèvre de La Boderie, ne traducesse l'opera maggiore, apparsa a Parigi nel 1579, insieme alla versione francese dello Heptaplus pichiano. D'altro canto l'influenza del De harmonia mundi e dei Problemata doveva essere alquanto estesa e profonda nella cultura filosofico-religiosa del tardo Cinquecento, se il domenicano (ed ebreo convertito) Sisto da Siena svolse, nella sua Bibliotheca Sancta, una minuta confutazione del I libro dei Problemata, e se lo stesso Bellarmino attaccò esplicitamente, e in tono molto drastico, il loro autore. E tale supposizione mi sembra anche confermata dal ricorrere del nome e dei testi di Francesco Giorgio anche in ambienti culturali non italiani, come, per esempio, il circolo di John Dee e, poi, di Robert Fludd (di cui basterà qui ricordare le celebri idee sull'armonia musicale dell'universo), o, per passare in Francia, i gruppi religiosi in cui operarono il predicatore 131 francescano «leghista» François Fueuardent, il celestino Pierre Crespet, Blaise de Vigenère (lo scolaro di Nicolas Le Fèvre de La Boderie, influenzato dallo Zorzi nell'elaborazione del Traité des prières et oraisons), Johannes Benedicti, Jean Pierre Camus, il collaboratore di Francesco di Sales, o, ancora, Jean Baptiste Morin, il corrispondente di Cartesio e di P. Mersenne, autore dell'Astrologicorum domorum cabbala detecta. Nondimeno, la prova più convincente della lunga fortuna dello Zorzi, a quasi un secolo dalla sua morte, credo sia costituita dalla nuova edizione dei Problemata, apparsa a Parigi nel 1622, ai tempi, insomma, della famigerata «invasione» dei Rosacroce. Com'è noto, proprio questa ristampa provocò, l'anno seguente, la recisa confutazione di un frate dei Minimi, ancora ignoto, ma destinato a diventare ben presto il grande «segretario» della nuova cultura scientifica, colui che, tra Galileo, Cartesio, Gassendi e Hobbes, tenne le fila dell'impetuoso rinnovamento del «grand siècle»: P. Marin Mersenne. Con grande intuito e acuta comprensione egli vide, infatti, nelle dottrine del frate veneziano l'espressione più compiuta e più tipica di tutte quelle concezioni esoteriche, iniziatiche, magiche ed ermetizzanti che, secondo la sua rigorosa mentalità di scienziato e di uomo di Chiesa, minacciavano insieme la sana e chiara ortodossia e lo sviluppo lucido e preciso del sapere metodico e dei suoi fondamenti matematici. Ma neppure la battagliera polemica di Padre Marin riuscì a cancellare il singolare fascino di queste dottrine e di queste opere destinate a continuare a sopravvivere per tutto il secolo. Poi le pagine dedicate al francescano veneziano da storici ed eruditi, tra i quali basterà ricordare il Morophius, il Warton ed il Brucker testimoniano che il ricordo di Francesco Giorgio non era affatto spento nel tardo Seicento e nel Settecento, come mostra, ancora, il medaglione scritto da Giovanni degli Agostini nelle Notizie istorico-critiche intorno alla vita degli scrittori veneziani, dal quale dipende anche la breve notizia fornita dal Tiraboschi." Il lungo brano sopra riportato era necessario per render conto dell'incredibile influenza di un autore in seguito pressoché dimenticato. Le citazioni seguenti ci faranno invece comprendere fino a che punto lo Zorzi aderisse alla dottrina della palingenesi: "Per Francesco Giorgio simili considerazioni possono persino spiegare le antiche credenze nella metempsicosi sostenute da Pitagora e Platone; e, almeno in parte, giustificano chi ha creduto nella possibile reincarnazione dell'anima in corpi vegetali o animali. Ricorda che alcuni platonici (Carneade, Senocrate, Arcesilao) hanno interpretato la metempsicosi «poetico more», mentre altri (Plotino, Giamblico e Porfirio, Proclo e Siriano) l'hanno addirittura sottaciuta, forse perché ne avevano compreso la più intima e riposta verità. E, invero, si tratta piuttosto di un'immagine poetica, usata dai filosofi per indicare la decadenza dell'anima peccatrice, divenuta «animale» e, per così dire, «imbestialita». Ma come può discendere al più basso livello della vita cosmica, l'uomo può ascendere con la sua anima sino alla divinità, contenere in sé ed apprendere tutto; i cieli e i loro segni, le intelligenze angeliche, le idee eterne, Dio sommo di cui il suo animo riesce a cogliere i vestigi e l'immagine riflessa nell'universo." Tuttavia, vi è un'accezione più specifica in cui la palingenesi interviene nell'opera dello Zorzi: "La «resurrectio», argomento essenziale del settimo «tonus», è dunque, il punto focale, l'ultima conclusione escatologica verso la quale tende la spiritualità di Francesco Giorgio, nutrito delle tante, diverse e contrastanti ispirazioni mistiche del suo tempo e della sua cultura. Anch'egli - come il suo maestro Ficino - sa che condizione per la vita eterna è la giusta tendenza dell'anima verso il suo vero bene, Dio, e, dunque, il desiderio di quella beatitudine ultraterrena che consiste nella contemplazione e nel godimento illimitato di Dio. La vita futura è, anzi, in un certo senso, la continuazione e perfezione della vita attuale, perché essa sviluppa e completa la scelta che l'anima ha già compiuto quando ha saputo vincere il peso della materia e della carne e mirare soltanto al suo principio e alla sua superiore natura. Deposta finalmente la «perstrepens et dissonans materia» che di per sé tende alla dissoluzione, «opera consummatissima» di Dio, raggiunge la sua ultima 132 armonia, perché il suo stesso corpo - lo insegnano il mitico Enoch e lo Pseudo-Taddeo - si trasforma in sostanza spirituale e immortale. Ora, questa trasmutazione è concessa in vita solo a pochissimi." Ora, quest'ultimo punto - della palingenesi in vitam - è indubbiamente di derivazione alchemica in quanto sembra essere l'obiettivo autentico che muoveva gli sforzi degli alchimisti. Vale la pena di illustrare quanto generalmente ciò fosse considerato possibile in particolare nella Venezia dei tempi appena successivi a quelli del Guercino - riportando alcuni stralci da un libello anonimo stampato proprio nella città, nel 1697, e intitolato La critica della morte, overo l'apologia della vita e le ricette dell'arte ch'accrescono i languori della natura, in cui si narrano le vicende veneziane di un tal Federico Gualdi, da voce pubblica considerato in possesso della Crisopea, vicende che sembrano anticipare il cliché di quelle, ben più clamorose, del cosiddetto Conte di St. Germain nel secolo seguente. Questo Gualdi sembra sia stato in contatto epistolare con il Marchese Francesco Maria Santinelli autore - sotto lo pseudonimo di Fra Marcantonio Crassellame Chinese, del famoso trattato alchemico Lux obnubilata suapte natura refulgens, pubblicato anch'esso a Venezia nel 1666: "Io ero ancor giovinetto, quando l'Anno 1653 cominciai a conoscere il Signor FEDERICO GUALDI, ma la debolezza della mia età non mi permetteva di poter per anche conoscere la chiarezza del suo ingegno, e la profondità della sua scienza, e della sua dottrina. Non so né meno dire se all'ora fosse poco, o molto tempo ch'egli soggiornasse nella nostra Città, ma solo mi ricordo, ch'egli aveva l'effigie, e le apparenze tutte d'un Uomo d'età di 40 Anni in circa; perche sempre anche tale, senza fare alcuna imaginabile mutazione, si è conservato fino all'Anno 1680 ch'io fui chiamato in Napoli da alcuni miei affari. […] Qualità così rare dunque non poterono restare occulte, e perciò passarono alla cognizione di molti Uomini dotti d'Italia, di molti Signori, de' quali alcuni che capitavano in Venezia, pieni della di lui Fama, nell'inchiesta delle cose più cospicue della Città, procuravano precisamente di vedere il Gualdi, e di ottenere la sua amicizia coltivandola poi per via di lettere; e ci sono stati alcuni venuti a posta a trattenersi qui, per aver la di lui continua conversazione, pregiandosi del titolo di suoi Discepoli, particolarmente doppo che si era sparso il concetto di tener egli il Tesoro Ermetico, per esser stato veduto un suo Ritratto da molti Intendenti della Pittura asserito costantemente per opera del Gran Tiziano. Era molto tempo ch'egli aveva piantato Casa notabilmente addobbata, & in specie di buone pitture unite nella stanza migliore di essa, dietro la porta della quale teneva appeso il detto Ritratto. Andati un giorno alcuni a vedere le belle pitture, e fra di essi un Dipingitore ben pratico, chiusasi a caso quella parte di porta, dov'era appoggiato il ritratto, l'osservò il Dipingitore, ad alta voce in atto di maraviglia gridò, questa è mano di Tiziano! Mostrò di ridersene il Gualdi e disse, che se ciò fosse stato egli avrebbe avuto più di 200 Anni, soggiungendo, che veramente ne aveva 86, e ciò fu l'Anno 1677. Non si acquetò per questo il Dipingitore, mà sempre asseverantemente affermava, che l'opera era di Tiziano. Intanto il Gualdi confessò 86 Anni, quando non ne mostrava più di 40 e faceva delle operazioni da un Uomo, che si ritrovi in quel fiore della sua età. […] Lo deve bensì essere il nostro Gualdi (meglio diressimo il nostro Eroe) e ne diede li più evidenti contrasegni quando finalmente il giorno 22 Maggio dell'Anno 1682 si assentò da questa Città, senza averne avuto altri motivi, che quelli gli vennero forse suggeriti dalla pubblicata notizia della sua Virtù. Aveva egli fatto anticipatamente Procura generale ad un suo ben fortunato Servitore, con la quale averebbe potuto disponere d'ogni suo effetto; all'improvviso poi verso la sera del sudetto giorno, fattosi poner in un picciolo Baullo alcune poche Biancarie, e Vestiti, come se avesse dovuto portarsi a diporto in un luogo di Villa, ch'egli godeva verso Trevigi, promise il suo ritorno frà pochi giorni, e rifiutata la compagnia del Servitore istesso, gli raccomandò solamente la casa, nella quale lasciava mobili, & effetti preziosi, e considerabili; e Nonagenario, come si era confessato; ma forse coetaneo di qualche secolo; solo, e senza alcun'altra assistenza, partì, ò per dir meglio sparì. Aspettarono molti giorni il Servitore, e le Serve di sua Casa il promesso ritorno, mà non vedendolo, né ricevendo sue lettere, finalmente compresero, che il suo viaggio non era terminato nel diporto della Villa, dove seppero che né anche 133 era comparso, onde complito con parte de' di lui effetti agli ordini, che aveva lasciati, il rimanente è bastato, e basta per mantener essi lontani dalle angustie della servitù." Singolarmente, laddove un qualunque uomo d'oggi troverebbe mille logiche spiegazioni alternative per una tale vicenda - tutte ruotanti comunque intorno al concetto d'impostura sembra che quella che appariva invece come la più plausibile a un uomo del '600 implicava la possibilità di un indefinito prolungamento della vita umana. Di come fossero esteriormente intese vicende come la precedente si conservano comunque molte testimonianze, mentre non ve ne sono quasi relativamente alla dimensione interiore che una tale credenza poteva assumere. Una delle rarissime su questo punto ci viene da un documento autografo - messo in luce da Clara Miccinelli - del noto scienziato e alchimista del settecento napoletano, Raimondo di Sangro Principe di Sansevero, che - pur essendo posteriore all'epoca che stiamo studiando - attesta senz'altro il perdurare di una tradizione più antica. Il suo contenuto - stettamente consonante alle credenze dello Zorzi - si può leggere direttamente dal manoscritto riprodotto nella figura seguente: "La polvere violacea - recita il documento - emana energia sconosciuta e potente. Quante volte la tocco, tremito m'assale interiore. Sono in un altro stato di coscienza. Un solo granello di senape di Saturno contiene Energia di Mutazione Totale." Non dovrebbe esserci bisogno di ripetere che ciò non prova nulla né riguardo alla natura né riguardo all'obiettività di tale trasmutazione, che potrebbe essere benissimo il risultato di una qualche forma di autosuggestione o persino una beffa giocata dal Principe ai posteri. Tuttavia, nel cercare di comprendere questo mondo intellettuale così lontano dal nostro bisognerebbe essere più che prudenti, cercando di evitare tanto il facile scetticismo quanto la creduloneria "occultistica", certamente favoriti dalla deprecabile scarsità di studi attendibili sulle teorie psicologiche in auge all'epoca: non sappiamo proprio che cosa gli ermetisti intendessero realmente quando parlavano di palingenesi, ma certo si trattava di un fatto eminentemente spirituale. Che questo potesse venir indotto da una serie di operazioni manuali eseguite su un supporto materiale diverso dallo stesso corpo umano lascia come 134 minimo intendere, alla base delle loro concezioni teoriche, un sorprendente - e quanto mai moderno - monismo fisicalista. Come è noto, Sansevero morì di saturnismo, ossia avvelenamento da piombo, contratto nel corso dei suoi esperimenti di laboratorio, che peraltro si diagnosticò da se stesso, come si può leggere in un'altra lettera autografa: "Non tale si può dire di me, ch'ormai mi preparo al trapassamento del corpo; vomito, fecce nerastre, respiro d'affanno in ispecie la notte, Grambi allo Stomaco, contrattura della Mano sinistra. Le Gingive sono di color turchino. Inescusabilmente mi sento obbligato a non intralciare lo Svolgimento del mio Spirito. Saturno è intieramente a carico di parte del mio Corpo; ma il mio Spirito è Aureo." Si vede bene che neppure l'imminenza di una morte dolorosa e prematura riuscì a scuotere nel Principe la convinzione di aver riuscito l'Opera Ermetica, e si tratta dello stesso uomo che, esaminando un preteso "lume eterno" ritrovato a Monaco nel 1753, dimostrò brillantemente - con una dissertazione che è ancor oggi un modello di ragionamento scientifico - trattarsi di un semplice bastoncino di fosforo immerso in acqua che, per evaporazione del liquido, si era acceso. Tuttavia, come abbiamo detto, quanto precede non prova nulla se non la più grande consonanza tra l'ermetismo dello Zorzi e lo scopo della cosiddetta arte regia. E infatti: "Francesco Giorgio, che usa con la massima disinvoltura linguaggio e analogie alchimistiche, crede che proprio per mezzo di questa unione l'uomo possa trasformarsi in una natura superiore, liberarsi dalla propria animalità, vincere definitivamente le potenze demoniache, diventare, insomma, «oro purissimo» invece che metallo ancora informe ed impuro. Come insegnano le «verità» ermetiche e cabbalistiche, questa «trasmutazione» è il vero destino dell'uomo al quale cospirano anche le forme di «regeneratio» penitenziale e sacramentale che Dio ha istituito proprio per un tale fine." Il senso anagogico non evoca dunque semplicemente la morte, come vorrebbe Panofsky, bensì la morte e rinascita dell'ideale palingenetico alchemico-ermetico. Se, come abbiamo visto, lo Zorzi vantava una notorietà addirittura internazionale, quale non deve esserne stata quella che possedeva nella sua Venezia, è dunque perfettamente ammissibile l'esistenza, in quella città e all'epoca del Guercino, di una o più cerchie iniziatiche in cui la tradizione alchemica di Giovanni Augusto Pantheus, autore dell'Ars transmutationis metallicae e di altre opere sul medesimo soggetto, di Giovanni Aurelio Augurello e del suo poema Crisopeia, e del volgarizzamento di Geber da parte del Braccesco che abbiamo noi stessi citato - tutte opere stampate proprio in Venezia tra il 1515 e il 1544 - confluiva e si fondeva con la letteratura "arcadica" e con l'eredità dell'ermetismo fiorentino, romano e napoletano ivi veicolato e mantenuto in vita da fra' Zorzi e dai suoi seguaci. Tendiamo cioè ad esser persuasi che l'anno che il Guercino trascorse a Venezia non deve essergli servito solo a studiare la pittura di Tiziano e Bassano, ma anche a prendere un contatto non superficiale con la locale cultura. E pensiamo che non sia un caso che il quadro che stiamo studiando sia stato dipinto - a detta degli storici dell'arte - immediatamente dopo questo viaggio. Così il cerchio ermeneutico dantesco si chiude: partiti da una letteralità insospettata ma strettamente coerente con gli elementi principali dell'opera, ne abbiamo seguito gli sviluppi attraverso un'allegoria operativa propria dell'alchimia - tale da consentirci di render conto di numerosi dettagli pittorici mai spiegati prima - poi attraverso un senso morale rigorosamente dedotto dai due primi, fino all'anagogia ermetica con cui il serpente Ourobóros dell'interpretazione torna a mordere la coda della propria letteralità. Non abbiamo trovato, nel misterioso quadro di Giovanni Francesco Barbieri, né segreti sconvolgenti né rivelazioni apocalittiche, bensì - seguendo il metodo ermeneutico canonico 135 della cultura del suo tempo - nulla più di quel che essa consentiva che egli vi mettesse, ma in ogni caso molto di più di quel che la moderna critica d'arte ha mai saputo vedervi. 2. Apollo che scortica Marsia Non possiamo chiudere l'esame di Et in Arcadia Ego senza prendere in considerazione un altro dipinto, eseguito dal Guercino nello stesso anno del primo e ad esso evidentemente legato dal fatto che vi si ritrovano - ora respinti sullo sfondo e ancor più apparentemente emergenti dalla roccia - gli stessi due personaggi: si tratta dell'Apollo che scortica Marsia, commissionato all'artista dall'allora Granduca di Toscana Cosimo II de' Medici. Il quadro, che misura cm. 185,5 x 200, è oggi alla Galleria Palatina di Palazzo Pitti in Firenze. Questa parziale sovrapposizione è stata spiegata in vari modi. L'ipotesi fatta da alcuni storici dell'arte è che Et in Arcadia Ego in origine non fosse altro che un bozzetto per le figure dei due "pastori", poi riciclato in un dipinto compiuto per essere a sua volta vendibile. Secondo Mahon (1968) si tratterebbe invece di un dipinto autonomo, eseguito successivamente, ma comunque collegato a quello che stiamo studiando ora. La nostra tesi interpretativa suggerisce invece che Et in Arcadia Ego sia stato eseguito come un lavoro a sé stante, dotato di una propria referenza letterale, quindi di unità concettuale e formale, e che una sua cellula, concepita in modo particolarmente felice, sia stata ripetuta nell'Apollo che scortica Marsia - dipinto dunque subito dopo - in ragione del fatto che anch'esso doveva presentare un significato alchemico. Infatti, se si riflette un momento, ci si accorge che il passaggio delle due figure emergenti dalla roccia dal primo al secondo dipinto implica uno svincolamento dal senso letterale: il fatto che il riferimento all'Arcadia sia lasciato cadere vuol dire che non si tratta più della storia di Lica, e che esse conservano solo il loro senso alchemico, ormai sottomesso alla nuova letteralità della favola di Marsia. Questo ci mette di fronte a un problema supplementare: se la nostra tesi interpretativa è vera, dovrà esserlo a maggior ragione per questo secondo dipinto, in particolare riguardo al 136 contenuto alchemico dell'allegoria, che dovrà emergere in modo assolutamente non ambiguo. Certamente - e lo premettiamo a scanso di equivoci - non è il caso di vedere l'alchimia dappertutto, nemmeno nella produzione artistica del periodo rinascimentale, e questo è particolarmente vero per il soggetto di questo quadro. Come è noto, il tema dello scorticamento di Marsia è uno dei più frequentati del Rinascimento, e molto più di quel che appare, se si considera che i numerosissimi "martirii di S. Bartolomeo" non ne costituiscono altro che la versione ecclesiastica, come risulta chiaro da una lettera di Michelangelo a Vittoria Colonna del 1538, menzionata dal Wind: "I principi, dichiarava, preferirebbero vedere Ercole che brucia sulla pira funebre invece di S. Lorenzo che arrostisce sulla graticola, e alla vista dell'«Apostolo scorticato» preferirebbero quella di «Marsia senza pelle»." Si può escludere con certezza che ogni tela che rappresenta tale soggetto possieda ipso facto un significato alchemico. Per esempio, concordiamo assolutamente con Edgar Wind quando esamina un Apollo e Marsia, affrescato da Raffaello nella Stanza della Segnatura, non trovandovi un solo atomo di alchimia. Secondo lui: "La gara musicale fra Marsia e Apollo riguardava quindi le forze rispettive dell'oscurità dionisiaca e della chiarezza apollinea, e finì con lo Scorticamento di Marsia perché lo scorticamento era esso stesso un rito dionisiaco, una tragica ordalia di purificazione mediante la quale la bruttezza dell'uomo esterno veniva lacerata per rivelare la bellezza del suo io interno." Ripetiamo che, pur pensando che le implicazioni alchemiche in molti quadri del Rinascimento siano radicalmente sottovalutate dalla storiografia e dalla critica dell'arte, secondo noi proprio in ragione dell' intrinseca, estrema difficoltà di questo tipo di letteratura e di iconografia, allo stesso modo mettiamo in guardia dall'abuso che implicherebbe una generalizzazione indiscriminata di tale lettura. Anche nel Rinascimento, per quanto diffusa e coltivata, l'alchimia era ben lontana dall'essere accessibile a tutti. Secondo noi, la prima cosa da fare perché sia consentito ipotizzare un significato di questo tipo in un quadro è vedere se per caso esso contenga particolari incongrui o strani, inspiegabili di primo acchito o addirittura apparentemente contraddittori con il soggetto raffigurato e, comunque, tali da domandare un ricorso alla cosiddetta Arte Regia. Vale ora la pena di spendere qualche parola sul committente del quadro dato che, per i Medici, l'alchimia, se non il mestiere, fu senz'altro l'hobby di famiglia. Ecco cosa dice Mino Gabriele nella sua dotta prefazione al poema di Antonio Allegretti De la trasmutatione de' metalli: "Un posto d'onore, tra coloro che nella Firenze del '500 si impegnarono operosamente nell'arte ermetica, spetta ad alcuni membri della famiglia Medici. Già Cosimo il Vecchio si era rivolto con profondo interesse alla filosofia del Corpus Hermeticum, e sembra che scrivesse anche un libro di crisopea, ma furono Cosimo I ed in particolar modo Francesco I che si dedicarono ad una sollecita sperimentazione spagirica. Del lavoro del primo ci rimane un manoscritto, compilato dal suo segretario Bartolomeo Concino tra il 1561 e il 1565, dove si parla della tempra per «corsalotti», di infusioni, di congelazione del mercurio, di fabbricazione dell'olio di vetriolo ed altre simili e varie ricette concernenti la maiolica, i metalli, le pietre dure. Nei laboratori di Francesco I, diretti principalmente dal Buontalenti, vennero conseguiti «notevolissimi risultati ». Si riuscì a fondere il cristallo di montagna, si scoprì il segreto di una porcellana artificiale, si sviluppò la specialità del commesso delle pietre dure. Assai operò Don Antonio, il figlio di Bianca Capello che ci ha lasciato dei poderosi volumi intitolati Segreti sperimentati dall'Ill.mo D. Antonio de Medici nella sua fonderia del Casino, e Apparato della Fonderia dell'Ill.mo et Ecc.mo Don Antonio Medici. Nel quale si contiene tutta la arte Spagirica di Teofrasto Paracelso, e sue medicine. Et altri segreti 137 bellissimi, nei quali si trovano ricette di medicamenti per ferite, sciatiche, catarri, come per la preparazione degli inchiostri o la lavorazione di pietre preziose e minerali, fino alla cura per scacciare i pidocchi dal capo: scritti che in sostanza non oltrepassano il limite della spagiria e della ricerca chimico-metallurgica. Don Antonio, che Inghirami considera «amantissimo degli studi d'Alchimia», cercò invano di venire a conoscenza del «segreto del lapis philosophorum» da Antonio Neri, «religiosissimo sacerdote e dottissimo alchimista» che visse in povertà e morì a Firenze nel 1614, il quale asseriva di aver trovato il modo di ottenere la «pietra dei filosofi». […] Enigmatico emblema architettonico-figurativo del pensiero di Francesco I rimane lo Studiolo in Palazzo Vecchio, nel quale l'apparente veste manierista dell'allegoria mitologica meriterebbe una rilettura più attenta ed approfondita, delle possibili implicazioni ermetiche, di quanto non sia stato finora fatto. La composita iconografia del neopaganesimo rinascimentale costituirà infatti, presso gli alchimisti del '500 e dei secoli successivi una precisa forma lessicografica." La Bianca Capello menzionata nel brano precedente è la bellissima e ribelle gentildonna veneziana che fu per lungo tempo amante e poi ultima moglie di Francesco I: il figlio di lei Antonio fu dunque contemporaneo del nostro Cosimo II, figlio invece del fratello di Francesco I, Ferdinando, che fu a sua volta Granduca dopo la morte di costui. Cosimo II uomo pacifico, amante delle scienze e universalmente ricordato per la ferma protezione che accordò a Galileo Galilei dalle sgradevoli attenzioni di Santa Romana Chiesa - era dunque cugino di Don Antonio de' Medici e, secondo noi, come lui coltivava - seppur più discretamente - l'arte che aveva trattenuto tanto a lungo lo zio nel suo famoso "studiolo", il cui interno ci è mostrato dal quadro del pittore Jan Van der Straet, detto Stradanus, conservato a Palazzo Vecchio, in Firenze: Che un uomo come Cosimo II - fervente difensore delle scienze positive come suo padre possa essersi interessato alla cosiddetta "scienza di Ermete" non deve stupire: all'interno della conoscenza dell'epoca i confini accettati tra razionalità e irrazionalità non erano gli stessi di ora. Nel suo De Revolutionibus Orbium Coelestium, Copernico confessava di esser giunto alla concezione eliocentrica studiando gli scritti segreti degli antichi Egizi e, in particolare, le opere nascoste di Toth; Keplero, nelle Harmonices Mundi, sottolineava di 138 aver formulato le leggi sulle orbite planetarie rubando nei vasi aurei degli Egizi; William Gilbert, nel suo De magnete magneticisque corporibus et de magno magnete Tellure physiologia nova, si richiamava a Ermete e Zoroastro; Newton infine dedicò all'alchimia un trentennio della propria vita di studioso, lasciando scritte sull'argomento qualcosa come mezzo milione di parole. Aggiungiamo che, dell'interesse di Cosimo II per l'alchimia, ci ha persuaso proprio l'Apollo che scortica Marsia, per l'eminente singolarità che presenta. C'è infatti, nel dipinto che stiamo studiando, un dettaglio evidentissimo, del tutto contraddittorio e - a quanto ci consta - assolutamente unico. Come si può vedere, la scena è collocata sotto il brillante chiarore di una luna piena, che non è visibile solo in quanto la testa di Apollo le si sovrappone esattamente, in modo da risultare incoronata dal debole alone luminoso che circonda usualmente l'astro notturno. Escludendo che possa trattarsi di un fatto casuale, naturalmente ci si domanda quale imperiosa necessità - così visibilmente ostentata - abbia costretto Guercino a mettere Apollo, dio diurno e solare per eccellenza, sotto il segno della luna. Certo, risulterebbe assai problematico estendere a questo quadro l'interpretazione - prima ricordata - che Wind ha fatto dell'affresco di Raffaello sul medesimo tema, relativa allo scontro tra "le forze rispettive dell'oscurità dionisiaca e della chiarezza apollinea", perché qui Apollo stesso risulta un dio oscuro. Non ci pare sia possibile risolvere questo problema in modo soddisfacente se non rivolgendoci, ancora una volta, all'alchimia. Prima, è comunque bene richiamare brevemente la favola di Marsia. Si trattava di un satiro frigio, che forse inventò, o forse ritrovò casualmente, il flauto a due canne inventato invece da Atena. Egli imparò a suonarlo così bene da sfidare Apollo. Secondo gli accordi presi prima della gara, il vincitore avrebbe potuto fare ciò che voleva del vinto. A un certo punto Apollo suonò la cetra capovolta e chiese a Marsia di fare altrettanto con il suo strumento: questi non vi riuscì e il dio, appesolo a un pino - secondo Plinio a un platano - lo scorticò. Stante la ben nota equivalenza simbolica tra sole, oro, solfo e fuoco, cominciamo dicendo che, in alchimia, di oro si distinguevano tre tipi, come è dichiarato apertamente ne Il trionfo ermetico di Limojon de Saint-Didier: "EUDOSSO. - Per non lasciarvi nulla a desiderare riguardo la teoria e la pratica della nostra filosofia, voglio insegnarvi che, secondo i Filosofi, ci sono tre tipi d'oro. Il primo è un oro astrale, il cui centro è nel Sole, che attraverso i suoi raggi lo comunica, insieme alla sua luce, a tutti gli astri che gli sono inferiori. È una sostanza ignea, e una continua emanazione di corpuscoli solari che, attraverso il movimento del sole e degli astri, essendo in un perpetuo flusso e riflusso, riempiono tutto l'universo; tutto ne è penetrato nella distesa dei cieli, sulla superficie della terra e nelle sue interiora, noi respiriamo continuamente questo oro astrale, queste particelle solari penetrano i nostri corpi e se ne esalano senza posa. Il secondo è un oro elementare, vale a dire che è la più pura e più fissa porzione degli Elementi, e di tutte le sostanze che ne sono composte; dimodoché tutti gli esseri sublunari dei tre generi contengono nel loro centro un granello prezioso di questo oro elementare. Il terzo è il bel metallo […] Dopo di che non troverete più difficoltà a concludere che l'oro metallico non è quello dei Filosofi, e che non è senza fondamento che, nella discussione di cui si tratta qui, la Pietra gli rimproveri di non esser quale pensa di essere: ma che è lei stessa a nascondere dentro di sé l'autentico Oro dei Saggi, cioè i due primi tipi d'oro di cui ho appena parlato: perché dovete sapere che la Pietra, essendo la più pura porzione degli elementi metallici, dopo la separazione e la purificazione che il Saggio ne ha fatto, ne consegue che essa è propriamente l'oro del secondo tipo; ma quando questo oro, perfettamente calcinato ed esaltato fino alla purezza e alla bianchezza della neve, ha acquisito attraverso il magistero una simpatia naturale con l'oro astrale, di cui è visibilmente divenuto la vera calamita, attira e concentra in sé una così grande quantità d'oro astrale e di particelle solari, che riceve dall'emanazione continua che ne è fatta dal centro del Sole e della 139 Luna, da trovarsi nella disposizione prossima d'esser l'Oro vivente dei Filosofi, infinitamente più nobile e più prezioso dell'oro metallico…". Da quanto precede risulta già molto chiaramente che gli ori, o solfi, propriamente alchemici, sono solo due: l'uno di origine celeste, l'altro terrestre. Del secondo, già sappiamo che gli alchimisti lo ricavavano dal ferro; riguardo al modo di procurarsi il primo, invece, è particolarmente esplicito un manoscritto anonimo intitolato Ricreazioni ermetiche: "La luna è di conseguenza il ricettacolo o focolare comune di cui tutti i filosofi hanno sentito parlare; essa è la fonte della loro acqua viva. Se dunque volete ridurre in acqua i raggi del sole, scegliete il momento in cui la luna ce li trasmette in abbondanza, cioè quando è piena o quando si approssima alla pienezza; avrete così l'acqua ignea dei raggi del sole e della luna nella sua massima forza. Ma vi sono ancora certe disposizioni indispensabili da osservare, senza le quali farete soltanto un'acqua chiara e inutile. C'è solo un tempo adatto a fare questa raccolta di spiriti astrali. È quello in cui la Natura si rigenera, perché a quest'epoca l'atmosfera è tutta piena di spirito universale. Gli alberi, le piante che rinverdiscono, e gli animali che si abbandonano al pressante bisogno della generazione ci fanno conoscere in particolare la sua benigna influenza. La primavera e l'autunno sono di conseguenza le stagioni che dovete scegliere per questo lavoro, ma soprattutto è preferibile la primavera. […] Si può cominciare il lavoro appena il sole è tramontato e continuarlo tutta la notte; ma bisogna interromperlo quando sorge, perché la sua luce disperde lo spirito e non si raccoglie più che un flemma inutile." Opinione confermata in due parole da Sabine Stuart de Chevalier: "Il regolo dev'esser composto durante la luna piena e nella stagione adatta." Siamo stati così informati dell'esistenza di due ori, nonché del fatto che, dalla necessità di acquisire anche il primo dei due - quello celeste -, nasceva l'esigenza che le operazioni alchemiche venissero compiute in primavera, di notte e con la luna piena. Cominciamo così a farci un'idea della ragione per cui, nel quadro che stiamo esaminando, Apollo porta tanto le insegne solari - la tunica purpurea drappeggiata sulla spalla - quanto quelle lunari: con un ammirevole artificio stilistico, Guercino ha insomma saputo condensare in una sola figura il solfo - o oro - marziale e terrestre, e quello celeste, il quale si mostra particolarmente sottomesso alla luna. Vediamo ora per quale ragione tale condensazione deve essergli sembrata del tutto legittima. Veniamo in questo modo ad occuparci del significato alchemico di Marsia. Come molte figure animali, anche quelle teriomorfe come i Satiri o i Sileni - in particolare quando sono collegate alla musica - rappresentano la "materia mercuriale" grezza, nello stato in cui esce dalla miniera. In queste condizioni il minerale non ha la compiuta bellezza del metallo lavorato e depurato: l'esser spesso mescolato a una ganga formata da varie altre sostanze e l'esser quasi regolarmente privo di una ben definita struttura cristallina gli dà un'apparenza sgradevole, assai poco invitante. Così l'antica teoria metallurgica, testimoniata dal De re metallica di Giulio Agricola o dall'Ultimo testamento attribuito a Basilio Valentino - che considerava i filoni minerari come creature viventi, lentamente evolventi verso la perfezione metallica, simboleggiata dall'identificazione dei metalli con i pianeti e con gli dei dell'Olimpo - vedeva i minerali come qualcosa che, essendo estratto anzitempo dalla matrice, rimaneva a mezza via tra il caos elementare e l'ordine metallico dunque, simbolicamente, tra la natura animale e quella umana. Ne fa fede Basilio Valentino al capitolo XIII dell'opera appena citata, intitolato De metallo imperfecto: "Il metallo imperfetto è tra tutti i metalli il più selvaggio, perché 140 l'impurità vi è ancora tutta attaccata, come vi sono anche svariate mescolanze, una nell'altra in modo strano." Quest'idea di bizzarra sauvagerie, di primitività o di bestialità è molto ben rappresentata nell'immagine seguente, contenuta in Della tramutatione metallica sogni tre di Giovanni Battista Nazari, bresciano: Si vede che, come Marsia, anche l'asino dell'illlustrazione s'ingegna a suonare il flauto, non riuscendo però a rallegrare con la sua musica niente più di un gruppetto di scimmie che gli danzano intorno. Il povero animale - se nell'espressione intenta e concentrata del viso mostra un'evidente predisposizione a un destino più elevato di quello che la natura sarebbe propensa a riservargli - è dunque ancora ben lontano dal saper raggiungere quella cristallina purezza di suono che contraddistingue l'artista compiuto: per ottenere ciò deve sottoporsi a un lungo lavoro, nonché trovare degli insegnanti che eccellano nell'arte della musica, come veniva talora anche chiamata l'alchimia. Crediamo non sia difficile ammettere che, come in qualunque altro lavoro di tipo metallurgico, anche in quello alchemico i materiali non potevano esser messi in opera così come la natura li consegna agli uomini: in particolare il solfuro minerale che vi svolgeva il ruolo di "sostanza mercuriale" aveva bisogno di un'operazione preliminare volta a sbarazzarlo dalla ganga, ad arricchirlo e a ridurlo nello stato polverulento adatto alla fusione. A questa - che veniva detta "assazione", "retrogradazione", talora "rianimazione", e di cui gli alchimisti non parlano quasi mai - si riferisce Basilio Valentino nel brano seguente: "Senonché la risoluzione è di due tipi. […] L'altra è quando l'alchimista prende questo corpo duttile e lo conduce per retrogradazione in cenere, terra, vetro, colore o fuliggine quale era sotto o nella sua dimora terrestre; e allora là dentro, cioè in questo corpo ridotto in cenere, la semenza dei metalli e il Ferch si smuovono e si lasciano allora trovare in uno stato più fruttuoso, più abbondante e più fertile […]; e questo corpo può essere agevolmente ridotto in acqua spirituale e in materia prima 141 secondo la specie e proprietà del corpo metallico, ossia si lascia separare e dividere del tutto artisticamente nei suoi principi naturali, secondo l'uso e la scienza degli alchimisti." E ancora: "Ma, quanto al corpo, predisponilo con il soccorso che gli devi dare, impedendogli che scorra via, si insinui o si mescoli con un altro, ugualmente scacciando la spoglia o la superfluità." La parte della frase che abbiamo messo in corsivo manifesta chiaramente l'idea che accompagnava questo genere di operazione: proprio quella di perdita della pelle, di scorticamento che è cardinale nella favola di Apollo e Marsia. La stesso concetto, mitigato in quello meno doloroso di semplice denudamento, troviamo rappresentato nella seguente immagine del Filosofo Solidonius, che ispirò a Duchamp il sottotitolo del suo Grande Vetro: "La mariée mise à nu par ses célibataire, même": Ma, come abbiamo visto poco sopra, v'era qualcosa di più, in quanto l'assazione doveva accompagnarsi e modularsi su ben precise condizioni climatico-astrologiche, verosimilmente nel modo evocato da Eugène Canseliet nel suo Due dimore alchemiche: "Bisogna, in effetti, mantenere l'armonia con il crescere della luna nel cielo astrologico della Grande Opera fisica. Principalmente, regolare bene la temperatura, aumentarla o abbassarla seguendo l'attività dell'astro, a seconda che cresca, sia pieno o diminuisca; che sia apparente o nascosto nel firmamento notturno. Di quest'ultimo si osserverà, con la stessa attenzione, se è coperto o sgombro; come, rispetto all'atmosfera, se è calma o perturbata da acquazzoni o da vento." Infatti, se l'"assazione" fosse consistita soltanto nella depurazione e nella concentrazione del solfuro, non sarebbe stata altro che un'operazione chimica senza vero rapporto con l'alchimia. Abbiamo infatti visto che, in quest'ultima, agli scopi chimici doveva accompagnarsi l'accumulo - non importa qui se vero o presunto - delle "particelle solari", menzionate da Limojon de Saint Didier, in seno alla "sostanza mercuriale". 142 È ora bene chiarire che le due fasi consecutive dell'"assazione" e della "prima opera" attuavano insieme la "retrogradazione" della sostanza mercuriale: per conseguirla, il Marsia minerale veniva prima rianimato dall'Apollo celeste per poi essere unito a quello terrestre. Solo al termine di quest'ultima fase, eliminata la sua spoglia ferina e ridottolo a lingotto metallico lucente e segnato, lo si considerava riportato alla condizione di nudità adamitica evocata dall'immagine di Solidonius. Si comprende bene, allora, perché Marsia non è legato né a un pino né a un platano, bensì all'albero secco che già conosciamo e che, in questa fase, non può ancora mostrare alcun nuovo germoglio. L'azione consecutiva dei due Apollo sulla medesima sostanza viene rappresentata da Guercino, con una bellissima invenzione stilistica, come esercitata da un solo attore che è però di natura duplice. Ed è logico aspettarsi che, in qualunque delle due accezioni lo si consideri, Apollo sovrasti Marsia. Queste due azioni consecutive e del medesimo tipo sono evocate in modo assai simile nella seguente immagine tratta dall'Atalanta fugiens di Michael Maier, in cui l'Apollo celeste è sostituito dalla luna, mentre quello terrestre porta - assai significativamente - la corazza di Marte: Ma, come sappiamo, l'operazione aveva un costo: al suo termine l'Apollo terrestre si rivestiva delle spoglie ributtanti di Marsia divenendo uguale alla massa rocciosa e nerastra qui relegata sullo sfondo - da cui spuntano i due personaggi. Il dio "moriva" nello sforzo, era sepolto nella tomba del "caput", e doveva essere "resuscitato" con un lavoro apposito. Dal punto di vista allegorico il quadro ci appare dunque come una sinopsi dell'intero lavoro alchemico, in cui tuttavia le tre fasi della "prima opera" sono esposte in dettaglio, mentre le altre due "opere" sono ricapitolate in un unico simbolo: la viola appesa in alto a sinistra, che riunisce in sé tanto il risultato della "seconda" quanto la caratteristica maggiore della "terza". Pur essendo, all'epoca, regolarmente assegnata ad Apollo o ad Orfeo in luogo della classica lira, tale strumento musicale possedeva anche un ben preciso significato alchemico. Se lo strumento musicale evoca, come abbiamo detto, il prodotto finale della "seconda opera", è senz'altro per l'omonimia con il fiorellino primaverile. Infatti, come nota Jean d'Espagnet nel suo L'opera segreta della filosofia di Ermete: "Non lontano dalla fontana dell'ingresso, ti si presenteranno innanzitutto le violette primaverili, ed essendo annaffiate dai canali di un largo fiume dorato, prenderanno nettamente il colore di uno zaffiro appena scuro: il Sole te ne darà dei presagi. Tu non coglierai questi fiori così preziosi finché non avrai composto la Pietra perché, colti di fresco, essi hanno più succo e tintura: in quel momento 143 strappali con cura e con una mano destra e ingegnosa: in effetti, se i destini non vi faranno ostacolo, esse verranno via facilmente e, un fiore essendo strappato, ne nascerà subito un altro al suo posto." Lo stesso fiore campeggia sul frontespizio del Giardino delle ricchezze di George Aurach, di cui possiamo mostrare solo una copia in bianco e nero eseguita da un copista contemporaneo: Sembra insomma che fosse a causa del suo tipico colore che il modesto fiore di campo era considerato un simbolo eminente del "Mercurio dei filosofi" o "Rebis": si ricordi la menzione di Sansevero della "polvere violacea" emanante, secondo lui "energia sconosciuta e veemente". Come riferisce anche Fulcanelli nel suo Le dimore filosofali: "Si tratta d'un corpo minuscolo, - in confronto al volume della massa da cui deriva, - che ha l'apparenza esteriore d'una lente biconvessa, spesso circolare, talvolta ellittica. D'aspetto terroso piuttosto che metallico, questo leggero bottone, infusibile ma facilmente solubile, duro, fragile, friabile, con una faccia nera e l'altra biancastra, violetto nella zona di frattura, ha avuto diversi nomi che si riferiscono alla sua forma, al suo colore o ad alcune particolarità chimiche. […] Nel linguaggio orale degli Adepti, però, questo corpo non è indicato altrimenti che col termine di violetta, primo fiore che il saggio vede nascere e fiorire, nella primavera dell'Opera, e trasformare con un nuovo colore il verde del suo giardino…". In effetti, il riferimento è alla fase che gli antichi alchimisti greci chiamavano iosis, come attesta Lindsay nel suo Le origini dell'alchimia nell'Egitto greco-romano: "Il terzo passaggio era la produzione di una tinta violetta o purpurea, iosis. Il fermento violetto trasformava a poco a poco l'oro in un ios di oro, che era la tintura permanente, la quale, se gettata sull'oro, ne produceva dell'altro. Questa interpretazione della iosis (raffinazione) è stata posta in dubbio. Uno studioso ha suggerito che la iosis fosse una formazione di bronzo purpureo come il giapponese shaku-do; ma una tale formazione non si adatta allo schema di cambiamenti e non vi è alcuna prova di essa. Un altro suggerimento ipotizza che la iosis costituisse la rimozione finale di ogni ios: ruggine o alterazione sulla superficie del metallo. Però sembra sicuro che la iosis fosse un terzo cambiamento di colore esprimente il culmine del processo alchemico, così che ios qui significa violetto e non ruggine." 144 Ma la viola, questa volta proprio in quanto strumento musicale, suggerisce anche la maggiore caratteristica della "terza opera". Come attesta Canseliet, questa consisteva in una cottura lineare della durata di sette giorni, scandita a intervalli regolari da stridori o fischi emessi dalla materia sulla via del suo perfezionamento definitivo: curiosamente sembra che essi in qualche modo riproducessero la scala delle sette note; per tale ragione, come abbiamo già ricordato, l'alchimia era detta anche "arte della musica". È, d'altra parte, quel che sembra potersi desumere dalla fascia inferiore della seguente immagine, in cui ritroviamo il nostro strumento, sicuramente preso - come nel quadro di Guercino - in entrambi i suoi due sensi alchemici: Ci asterremo dal proseguire con l'esposizione dei sensi morale e anagogico in quanto, per sostenere la nostra tesi relativa a Et in Arcadia Ego, ci bastava - come crediamo di aver fatto - evidenziare il contenuto alchemico dell'allegoria presente nell' Apollo che scortica Marsia, senza supporre la quale non si spiegherebbe la strana condizione "lunare" in cui ci viene presentato il dio solare per eccellenza. Per concludere, noi pensiamo che - progettando per Cosimo II de' Medici una sinopsi del lavoro alchemico in cui sviluppava particolarmente le tre fasi della "prima opera" Guercino riuscì a condensare le prime due nella scena di Apollo che scortica Marsia, e che per la terza abbia pensato di avvalersi ancora, seppure come elemento di sfondo, della straordinaria inventio prodotta per il quadro precedente, anche considerato il fatto che essa era facilmente piegabile a una nuova letteralità. ----[Una presentazione dell'autore si trova nel numero 3 di Episteme] E-mail: [email protected] 145 Immanuel Velikovsky and his Worlds in Collision, 50 years after… (Emilio Spedicato) Introduction Half a century ago (more precisely in 1950 published by McMillan, in 1951 by Doubleday, the house to which the publications rights were transferred after boycott threats to McMillan by the astronomical academia) a book was published of substantial size and very rich in references, titled Worlds in Collision. It was a bestseller in US in 1952 and appeared in condensed form in Readers Digest, including the Italian version Selezione. At that time the present writer was a schoolboy of seven, an avid reader of everything printed. I read the article in Selezione with utmost fascination, being particularly impressed by the explanation provided of the "miracle" of the Sun stopping in the sky during the siege of Jericho. Then I forgot both the name of the author and the book. These I recalled suddenly over 30 years later, when I was discussing with an Irish colleague some ideas I had developed about a possible catastrophic origin of ice ages and explanation within this context of the origin of the Atlantis myth. Velikovsky had been forgotten at the conscious level, but had left a seed in the deep that was going to germinate. When his book was published, Velikovsky (later on referred to as V.) was unknown for most people, albeit he was well known to a limited number of scientists. Indeed, in addition to several papers in psychiatry, in the Thirties V. had edited in collaboration with Albert Einstein the journal Scripta Universitatis atque Bibliothecae Hierosolymitarum, that was instrumental in leading to the establishment of the Hebrew University in Jerusalem. The great success of his book with the public was due to several factors, partly related to a postwar reawakening of interests in religious traditions and widespread critical sentiments against a science that had led to the atomic weapon and to the risk of a nuclear obliteration of humankind. Also a factor was the publicity provided by the opposition to the book by the astronomical academia led by Shapley and Payne Gaposhkin, who forced McMillan to discontinue the publication of the book. There are not many authors who incur the attacks of the academia, who tends to simply ignore those who propose alternative points of view from the outside. Worlds in Collision was mainly devoted to a nonstandard presentation of events in the recent life of the solar system. In the following years V. published several other books with no less revolutionary content in the field of geology, chronology and ancient history. He gave moreover talks in several countries and inspired a number of journals and study groups, who further developed his ideas, some of these being still quite active. Many of the ideas of V. have by now been accepted by academia, albeit quite often his precursor role is simply ignored. 146 Debate and influence of V. have been quite significant in the anglosaxon world (US, Canada, England, Australia and New Zealand). Much less the attention in the Latin world, perhaps due to the less interest in these countries for biblical topics. Concerning Italy, we should recall that V. got positive attention by the great mathematician Bruno de Finetti and that the science historian Federico Di Trocchio has devoted to him a substantial chapter of his book Il Genio Incompreso. In next sections we will give some biographical information on V. and on the content of his main monographs Worlds in Collision and Ages in Chaos. Then we end with information on a forthcoming symposium on V. organized by the University of Bergamo. Immanuel Velikovsky: a biographical sketch Velikovsky was born in 1895 in Vitebsk, city of western Russia, then counting about 70.000 inhabitants, many of them Jews, native city also of Chagall. Third son, his name was chosen by father during a solitary promenade in the nearby woods. We read in his autobiography Days and Years available in the internet site due to Jan Sammer (www.varchive.org) "my name was chosen from a verse of the seventh chapter of Isaiah; there was no Immanuel among the ancestors known to him… he expected from me a great role concerning the tragic story of our nation…we should see the personality of my father, a Jew with a vision of national reawakening…. When I was seven my father showed m the chapter of Isaiah with the name Immanuel...". 1895 was the year when Freud began writing The interpretation of dreams, when Roentgen discovered X rays and when, exactly on 10th June, the day V. was born, Herzl wrote in his diary I take in my hands the broken thread of the tradition of my people: I will bring them to the Promised Land… From Vitebsk the family moved to Moscow, where his father became a successful businessman and one of the most active persons in the Sionist movement. He was among the first organizers of the policy of buying land in Palestine for kibbutz. Immanuel did classical studies, learnt several languages and excelled in mathematics. As teenager he traveled widely to Europe and to Palestine (Tel Aviv had been founded only three years before). He graduated in medicine in Moscow in 1921, after doing part of the studies in Montpellier. He left Russia after the revolution with an adventurous escape via the Caucasus. He settled first in Berlin, marrying Elisheva Kramer, a brilliant performing violinist and pianist. He started in this period the editorial work of the above quoted journal Scripta Universitatis..., whose mathematics and physics section was under the care of Albert Einstein. From 1924 to 1939 he lived in Palestine; in 1930 he published a paper where, apparently for the first time in literature, he proposed that epilexy was characterized by pathological encephalograms. The interest of V. for a reinterpretation of ancient history was kindled by reading Freud's work Moses and Monotheism. In contrast with the interpretation of Freud, V. got the idea that pharaoh Akhnaton was the real figure behind the mythical Oedipus. Such idea was further developed in the year 1930 that V. spent researching in the libraries of New York 147 producing the extraordinary book Oedipus and Akhnaton, published only in 1960, that this writer read nonstop between 9pm and 3am. In this book V. analyzes the impressive parallelisms between what is historically known on Akhnaton and the data of the Greek tradition on Oedipus, in the context of his revised chronology of Egyptian history. Thus Akhnaton is dated not only well after Moses (therefore killing any hypothesis of Moses getting from him the idea of monotheism) but even after Solomon, i.e. in the ninth century, not many years before the Assyrians would invade Egypt and put it under their control, a thesis later developed in the book The Assyrian conquest (still unpublished, albeit available in the quoted internet site). In April 1940 V. got the idea that a great natural catastrophe characterized the time of Exodus, interpreting the phenomena described in the Bible as the Ten Plagues of Egypt as natural phenomena due to an extraterrestrial cometary origin. The idea was reinforced when he found a description of similar events in an Egyptian source, i.e. the Ipuwer papyrus of the Leiden collection. He therefore abandoned his profitable profession of psychiatrist for a full time study lasting many years of ancient and modern documents useful for his thesis. Worlds in Collision was the outcome of ten years of research in the great libraries of New York and Princeton (he had moved to Princeton at the beginning of second world war). Several other books followed in a short time dealing with geological issues (Earth in Upheaval) and especially with chronological issues and corresponding revision of ancient history of the eastern Mediterranean countries. In Princeton V. reestablished frequent and friendly contacts with Einstein, with long discussions on astronomical and historical topics. Einstein frequently visited him at his home where his violin playing was accompanied by the piano playing of V. wife Elisheva. The story of his contacts with Einstein in these years is available in another of the still unpublished books, Before the Day Breaks, available in the quoted internet site. During the Fifties and Sixties V. was persona non grata in universities and research centers in US. However when first space missions confirmed in a spectacular way some of his forecasts he was invited to give talks in several universities (Brown, Yale, Pennsylvania, Columbia, Dartmouth, Duke, Rice...); of great success were his conferences at Harvard and McMaster at the beginning of the Seventies. V. died aged 84 in Princeton, in 1979. The archive of his works - including several still unpublished monographs - is under care of his surviving two daughters, Ruth, a psychanalist in Princeton, and Shulamit, who lives in a kibbutz near Haifa, married with the well known mathematician Abraham Kogan. Worlds in Collision Worlds in Collision was published in US by McMillan in 1950 and from 1951 by Doubleday, that got the publications rights from McMillan, after Shapley let McMillan know that its role of important publisher of academic works in astronomy was threatened by the presence of V. book in its catalogue. The story of this censorship episode and of other events about the difficult relation of V. with American academia is available in the book Stargazers and Gravediggers, published in 1983 after V. death, copyright of Elisheva V. 148 Worlds in Collision had immediate great success with the readers, albeit it had been rejected by several publishers previously contacted (a similar story happened around that time with Thor Heyerdahl Kon Tiki) and was defined by New York Times "A literary earthquake". In the preface to the paperback edition V. wrote: First published in 1950, this book was left unchanged in all subsequent printings…in 1950 it was generally assumed that the fundamentals of science were all known and that only details and decimals were let to fill in. In the same year, a cosmologist, certainly not of a conservative bent of mind, Fred Hoyle, wrote in the conclusion of his book "The Nature of the Universe": "Is it likely that any astonishing new developments are lying in wait for us? Is it possible that the cosmology of 500 years hence will extend as far beyond our present beliefs as our cosmology goes beyond that of Newton? … I doubt whether this will be so. I am prepared to believe that there will be many advances in the detailed understanding of matters that still baffle us…But by and large I think that our present picture will turn out to bear an approximate resemblance to the cosmologies of the future…". That Hoyle's opinion was then the dominant one was recently confirmed to me by a statement made at a meeting dealing with the planned (in 2012) GAIA ESA mission by the famous Italian physicist Salvini (quoted not verbatim): Forty years ago we believed to know all essentials, now we are in deep uncertainties… About Hoyle one has anyway to observe that he later became an advocate of radical new theories and has been in particular a strong opponent of the big bang theory, albeit this name was invented by him. Hoyle has quoted V. in his autobiography (they met at a seminar given by Hoyle) without any of the usual heavy criticism by most people in the academia. The book Worlds in Collision is based upon the hypothesis that the events of clearly catastrophic nature described in ancient literature, particularly in the Bible, are phenomena that really happened, whose explanation cannot be given in a purely terrestrial context and must therefore be found in interactions between Earth and extraterrestrial bodies. The book deals in particular with two catastrophes: the first one associated with Exodus, the second one with the siege of Jerusalem by Sennacherib (that is dated some 20 years after Sargon II had conquered and deported the Ten Tribes of Israel, to a place that has been subject of much discussion and that this writer have identified with eastern Afghanistan…). V. claimed that the agents of the catastrophe were not ordinary comets or asteroids but two planets, namely Venus in the first case, Mars in the second case. According to him these planets had at that time orbits with different shape, more elliptical than now, as consequence of previous interactions with other planets in the solar system (the story of the previous events in the solar system is partly given in the book At the Beginning, another of the unpublished works available in the cited internet site). The orbits of the two planets would have been circularized after the last catastrophe, thereby terminating for our planet the catastrophic era, where planets were a real threat and where astrology was a real science based upon the study of planetary interactions in a differently organized solar system. The book is based mainly on the analysis of a huge number of classical and mythological references (about a thousand quotations, of texts in many languages or of difficult access). While the analysis is never quantitative - and a quantitative analysis of the scenarios proposed by V. would even with present computer power be beyond modeling and computation possibilities - V. is well aware of where modern science stood and has a number of pointed criticism to the traditional scenarios, in particular where they only consider gravitational effects in the astronomical relations, neglecting the electromagnetic effects, both on large scale and in the study of close flybys of large bodies. 149 Worlds in Collision is written with a very clear albeit synthetic language. We cannot here give a detailed presentation of the extremely rich content of this book, thus we only review some of the main theses. • V. stresses the information value of ancient texts, based according to him on real experiences lived in a different astronomical context than now. The idea that the events described in ancient texts pertained to real experiences used to be accepted without difficulty in western world until Illuminism: this included in particular the idea of catastrophes within human memory, including the Universal Deluge described in the Bible and in other traditions (Deucalion,…). These ideas were accepted by Newton and Cuvier. Illuminism started criticism of Bible opening the way to the so called uniformitarism approach that became dominant in the 19th century thanks in particular to the works of Lyell in geology and of Darwin in biology: the present is the key of the past, there are no celestial catastrophes today, there were none in Moses time. No stones fall from the sky today, no stones could have fallen in the past (this extreme statement dominated astronomy well into the second half of 19th century, when a heavy fall of meteorites in France convinced the astronomers to accept ancient records of falling stones). Now, fifty years after Worlds in Collision we can certainly say that scholars in the natural sciences pay more attention to ancient records of catastrophes. Such attention is partly due also to the existence of technological means, not available at V. time, to verify the effects of such unusual events in the geological and biological record: sophisticated analysis of pollen and other organic material in lacustral and oceanic sediments, analysis of organic and inorganic materials in long ice carrots extracted in Greenland or Antarctica, dendrochronological series extending now to about 10.000 years in some cases. From such analysis evidence has emerged of strong climatic variations in the last 12.000 years, some setting so quickly that they can probably not be explained in terms of the usual terrestrial processes. Finally the direct observation in the case of the Shoemaker-Levy comet of the processes of disintegration proposed by V. and other neocatastrophists (especially Clube and Napier) and of planetary impact, an event that astronomers considered extremely unlikely to be able to observe in their lifetime, has made the astronomical community conscious that our solar system surrounding is more fraught with dangers than it was believed just fifty years ago. • V. has claimed the instability of solar system and the emergence of the present orbital configuration, with regard at least to Mars and Venus, in very recent times, in fact in historical times (the last catastrophe, associated with Sennacherib siege of Jerusalem, being dated at about 27 centuries ago). Such claim was made at a time when the solar system was considered to be an extremely stable configuration, on the basis of approximate analytical analysis of the stability of dynamical n-body systems and of the properties of the standard model (condensation from a gas cloud) for the formation of the solar system. This scenario after fifty years has dramatically changed, albeit the theses of V. about Venus and Mars are still considered unacceptable, except from a small minority of scholars. The analysis made using the modern very sophisticated analytical instruments has indeed shown that nonlinear complex dynamical system, including planetary systems, have generally a behavior of the type defined chaotic, whose long term behavior cannot be predicted and whose dynamical structure is extremely rich. Now it is estimated that, even disregarding the very possible interactions with other bodies and structures in the galaxy, the solar system cannot be back integrated in time for more than a few million years, a factor one thousand less than 150 estimated fifty years ago. Moreover components of the solar system have been discovered, both at large distances or at planetary distances, that either were then unknown or their importance was not properly evaluated, e.g. the so called Apollo/Amor objects and the Kuiper belt (where objects of a considerable 600 km diameter are now known to exist). The observation, albeit incomplete, of about sixty non solar planetary systems has shown dynamical and structural features completely unexpected and actually in several cases considered previously as dynamical impossibilities (e.g. the presence of Jovian or super Jovian planets very close to the mother star, when the current model had in that region only terrestrial type planets; or the presence of Jovian type planets in highly elliptical orbits). With a hundred arguments the astronomer Van Flandern has proposed again the hypothesis of Olbers about the explosion of one or more planets in the region of the asteroid belt, as the event that originated not only the asteroids but as well the majority of comets and probably even Mars, considered as a surviving satellite of the exploded planet. Van Flandern dates the last explosion to 3.2 million years ago. Observing, independently of Van Flandern, that the sequence of ice ages on our planet starts also 3.2 million years ago, the physicists Woelfli and Baltensperger have recently proposed a new theory for the origin of such ice ages, in terms of effects on Earth axis, called true polar wandering (where the north and south points move over the Earth surface), due to the close flyby of a planet, whose size was taken as default as that of.… Mars! These authors have solved on the computer the equations defining the dynamics of the flyby (considering only gravitational forces, but with heavy use of the tidal forces). Their computations have shown that a sufficiently close passage can lead to a polar displacement of even 18 degrees, a conclusion with Velikovskian flavor. They have moreover found that the body interacting with Earth at its perihelium would be heated so much by the Sun that it would move away from the Sun as a giant comet, surrounded by bluish hot gas over one million km diameter… again a wholly Velikovskian scenario. Outstanding is however still the problem of proving that the proposed rounding of orbits of Venus and Mars can be achieved in a few centuries, i. e a few hundred revolutions, albeit we are also not aware of a rigorous proof that it cannot. In conclusion, fifty years after Worlds in Collision we are facing very open scenarios about the structural and dynamical configuration of planetary systems. This confirms the importance of the idea of V. to use the testimonial information from ancient people about the evolution of our own planetary system. • V. has also stressed the importance of electromagnetic interactions in astronomy, with particular regard to close flybys of large bodies. Gravity still remains the only force considered by the majority of cosmologists for the evolution of the Universe and smaller structures as planetary systems, despite the authoritative alternative ideas of Nobel Prize Alfven (quoted in several papers by V.) on the role of large scale plasma structures in the Universe. Several problems have however arisen by using the classical Newtonian law of inverse square dependence on distance when used on structures (globular clusters, galaxies, clusters of galaxies…) having much greater size than the solar system size where Kepler derived his laws. Thus the need of introducing dark matter or even more exotic structures and particles or to hypothesize a different functional relation to distance or to introduce new forces. V. had lengthy discussion with Einstein on the role of electromagnetism in the Universe, see his book in internet on his meetings with Einstein. Developments of V. ideas on electromagnetism role are 151 due to scholars inspired by V., among them Juergens, Thornhill, Ginenthal, De Grazia, Milton, Zysman. • V. predicted emission of radio waves from Jupiter, a high temperature of Venus surface (when it was believed it should be a little above Earth temperatures) and that Earth was surrounded by a magnetic field. These forecasts were confirmed within a few years and V. had his forecast recognized in a letter sent to Science (21 December 1962) by the Princeton physicist Bargmann and the Columbia University astronomer Motz. V. had moreover often insisted with Einstein to the purpose that during one of the first space missions his predicted radio emissions from Jupiter should be looked for. Einstein failed to obtain this experiment and later sent a letter to V. excusing himself for not having supported his proposal. • The detailed pictures obtained in the last years of the surfaces of Mars and Venus have shown quite surprising geological features. Venus surface seems to have been recently melted or covered by magma emissions; erosion structures are essentially lacking. Mars surface shows evidence of very recent catastrophic sculpturing events, including unexpected evidence of subterranean water. Again there is a remarkable lack of the erosion phenomena that should have smoothed the planet surface in the course of the billion years of life in the standard model. A detailed analysis of Mars morphology at the light of V. hypotheses has been presented in a paper by Ginenthal at the New York 1995 conference for the centennial of V. Ages in Chaos The book Ages in Chaos was published in 1952, the first of a number of historical monographs, followed by Oedipus and Akhnaton (1960), Peoples of the Sea (1977) and Ramses II and his Time (1977). Not yet published by available in the quoted internet site are the works The Assyrian Conquest and The Dark Ages of Greece. The basic idea of V. is that the official chronology of the first and second millennium BC of Egyptian and other civilizations dated by anchoring them to the Egyptian one (Micenean, Cananean, Ugaritic, Cretese, Anatolian…) is affected by a substantial error. This is for V. the main reason why scholars have essentially been unable to fit the events described in the Bible with the events described in Egyptian or other histories. V. claims that the fundamental error lies in the absolute anchoring of the Egyptian chronology that was made about two hundred years ago, at the beginning of Egyptology (the times of Lepsius and Champollion). A consequence of this error has also been the introduction of so called dark centuries for the Micenean and Anatolian civilizations. For these centuries there is practically no archeologically documented activity, with the curious fact that at the end of this sterile period archeological documentation reappears with the same styles that were active before the dark period, as if centuries had passed without any stylistic evolution. The problem of a correct determination of the chronology of ancient civilizations is very complex, albeit it is often supposed to have been fully solved, except for a few years possible variations, on the basis of chronologies established mainly in the 19 th century. This problem was of great interest to Isaac Newton, who wrote a monograph, by him considered the landmark of his life, The Chronology of Ancient Kingdoms Amended, product of his 152 enormous classic culture (he had read essentially all works of the Latin and Greek fathers, to make a better personal opinion of the trinity problem). The work of Newton, originally published in 1728 one year after his death, has been recently reprinted but very few people have read it; his biographer Westfall has defined reading that book the worst penitence one can think of for a person. Following the seminal work of V. the chronology problem has since be at the center of the attention of several historians, especially in the anglosaxon world (Rohl, James, Bimson, Murphie…). The German scholars Heinsohn and Illig and the Russian mathematician Fomenko, who has analyzed chronological data with statistical techniques, have reached even much more radical revision in shortening the time span than V. did. Ages in Chaos can be seen as a parallel book to Worlds in Collision, devoted to chronology and historical correlations, while the first book was concerned with physical phenomena and their possible explanation. V. determines the Exodus period, hence Moses time, as the end of the Egyptian Middle Kingdom, when Egypt was invaded by a population coming from the east, called Hyksos in Manetho, Amu in contemporary Egyptian sources, Amalek in the Bible. The Hyksos devastated Egypt, destroying town, temples and exterminating large amount of the population. The date given by V. for Exodus, based on internal chronology of the Bible and some 200 years lower that the traditional date for the Hyksos invasion, is 1447 BC. The Pharaoh is the Tutimaios of Manetho, i.e. the Dudimose in the list of kings of the well known papyrus in the Turin Egyptian Museum. Under this chronological setting it is clear that with the Exodus Moses not only terminated the slavery of Hebrews but most probably saved them from a likely annihilation by the Hyksos. This writer has recently proposed for the term Hyksos the meaning people of the horses and has identified their origin in the Turanian region of the Amu Darya river, wherefrom the Amu would have moved in the time of worldwide migrations due to a global catastrophe of which the events described in the Bible for Egypt are just a local case. I have also hinted that the wife of Moses from Kush, land usually identified with Ethiopia, was actually a women form the Hindukush/Badakshan region, land of the precious lapis lazuli exported also to Egypt. Then Moses may have been informed of the arrival of the Hyksos by the wife's family and this would explain why he took the unusual way through the desert, wishing not so much to escape from a pursuing Pharaoh but from the oncoming Amu. The dating of Exodus at 1447 BC at the end of the Middle Kingdom - now accepted with further arguments by scholars as Rohl, James, Bimson… - was at great variance with the traditional dating, which put the Exodus, of which someone even doubted the historicity, about 350 years after the Hyksos, at the time of the New Kingdom, often during the reign of Ramses II. The lack of references to Exodus in Egyptian sources was considered a sign of unreliability of the Bible as a historical document or at least of a tendency of the Bible to amplify the importance of events relating the Hebrews. The dating proposed by V. redefines completely the historical setting with important consequences on the following history, till the time of Alexander, when use can be made of the work of the Greek and Latin historians. Now we select some statements from Ages in Chaos: 153 • • • • • The Amu/Hyksos controlled their territory from the city of Avaris, that according to V. was located near El Arish, in present Gaza strip. In this area recent archeological findings have discovered Hellenistic and Egyptian ruins under over ten meters of sand, which means that a search for the ruins of Avaris would imply a huge and very expensive excavation work The Amu/Hyksos were expelled by a coalition of Egyptians that had taken refuge in the south of Egypt, and of Hebrews led by Saul The queen of Sheba was the woman pharaoh Hatshepsut The pharaoh who invaded the land that had been the great kingdom of Solomon was Tuthmosis III Amenophis III and Amenophis IV (Akhnaton) lived in the ninth century BC, hence after Solomon (this eliminates any possibility of interpreting Akhnaton as the inspirer of Moses monotheism). The El Amarna archive of their letters, to be dated to the period 870-840 BC, includes letters sent to the Hebrew kings of the kingdom of Samaria (capital city of the territory of the Ten Tribes of Israel) and of Jerusalem (capital of the territory of the tribes of Judah and Benjamin). In three recent monographs the Lebanese historian Kamal Salibi, professor at the American University of Beirut and director of the Interfaith Study Center in Amman, has claimed that the land of milk and honey where Abraham settled (at a time that within the V. chronology may be set at about 1850 BC, probably the time also of pharaoh Sesostris I the Great) was not Palestine but the region of south-western Arabia that is now called Asir, rich of water, pastures and forests. The present writer is of the opinion that the approach of Salibi can be blended with that of V. contributing to a further resolution of many puzzles of antiquity. ----[Some information about the author can be found in the first number of Episteme] E-mail: [email protected] 154 Announcement of Workshop on: Fifty years after Velikovsky's Worlds in Collision: classical and new scenarios on evolution of solar system. Bergamo, October 20th and 21st, 2001 SCIENTIFIC PROGRAM In the occasion of the fifty years since publication of Worlds in Collision the University of Bergamo organizes a symposium, coordinated by this writer, to revisit the work of Velikovsky with discussion of associated topics at the light of present knowledge. The symposium is organized within the framework of research done in Bergamo on n-body dynamical systems. The program is the following. Saturday 20, from 9.30 a.m.: Prof. Emilio Spedicato, Un. di Bergamo: Introduction to the symposium Prof. Federico Di Trocchio, Un. di Lecce: Velikovsky as rejected genius Jan Sammer, Prague: The Velikovsky website Prof. Alfred De Grazia (Princeton) and dr. Immanuel Velikovsky (presented by Amy De Grazia) A final communication, November 14th, 1979 Prof. Alfred De Grazia (Princeton): Before Worlds in Collision: the Solaria Binaria scenario Saturday 20, afternoon: Prof. Laurence Dixon, Un. Hertfordshire, UK : Velikovsky orbital planetary changes do not violate conservation laws Admiral Dr. Flavio Barbiero, Accademia Navale, Livorno: On fast changes of Earth axis after comet or asteroid impacts Dr. Walter Baltensperger, Physics Research Center, Rio de Janeiro: Polar wandering after close passages of objects of planetary size Prof. Emilio Spedicato, Un. di Bergamo: A super Tunguska impact on Pacific Ocean in year 1178 AD 155 Prof. Chandra Wickramasinghe, Un. di Cardiff, UK New light on origin of life Dr. Antonino Del Popolo, Un. di Bergamo: Extrasolar planetary systems: observational results and theoretical problems Sunday 21, morning: Prof. Erasmo Recami, Un. di Bergamo: Catastrofism and uniformitarism in history of astronomy Dwardu Cardona, editor of journal Aeon, Vancouver: Saturn before Sun Charles Ginenthal, editor of journal The Velikovskyan, New York: Velikovsky's ideas on role of electromagnetism on evolution of Universe Dr. Adalberto Notarpietro, Centro di Dinamica Alpina, CNR, Milano: Earth in Upheaval of Velikovsky and extraterrestrial catastrophes in history of Earth Shulamit Velikovsky Kogan, Haifa, Israel On the validation of Velikovsky hypotheses Notes on the lecturers: • • • • • Prof. Di Trocchio teaches history of sciences at University of Lecce. He has given a presentation of the role of V. as a controversial non academic innovator in the book Il Genio Incompreso: uomini e idee che la scienza non ha capito, Collana Scienza, Oscar Saggi Mondadori. Jan Sammer collaborated with V. in Princeton in the last years of his life and took care of his electronic archive. He has opened the web site where unpublished works of V. can be accessed, albeit not in their final expected form. Prof. Alfred De Grazia taught in several US universities, including Stanford, Chicago and New York, and was friend of V. He is the author of a number of books developing what he calls Quantevolution, containing alternative ideas on the formation of the solar system and the evolution of mankind. In the monograph Solaria Binaria written with astronomer Earl Milton the formation of the solar system is considered within the framework of an original binary stellar system (notice that some 80% of stars are now considered to be part of multiple systems). He will review this hypothesis. Moreover his joint communication with Velikovsky will be delivered, that had been written for a 79 meeting to which death prevented V. participation. Prof. Laurence Dixon taught at Hatfield Polytechnic and has been a leading scholar in the field of optimization and dynamical systems, producing also software that ESA used for several space missions. He will discuss the compatibility of the orbital changes proposed by V. with the mechanical conservation laws. Dr. Flavio Barbiero, a specialist of technological advanced mechanical systems at Accademia Navale of Livorno, has recently proved that impacts with external bodies of a few hundred diameter size can lead, via complex phenomena related to the oceanic 156 • • • • • • • equatorial bulge, to a changing of the rotation axis of Earth and to catastrophic events, including ice ages and their termination. Prof. Chandra Wickramasinghe of University of Cardiff, well known astrophysicist and collaborator of Fred Hoyle, will discuss the theory proposed by him and Hoyle on origin of life from space, with a special role attributed to comets. We notice that V. in Worlds in Collision hypothesized the arrival on Earth at time of Exodus of living material (by him called vermin). Hoyle and Wickramasinghe have shown how living material (viruses, bacteria and even insects) can survive under some conditions fast impacts with the stratosphere. Dr. Antonino del Popolo, an astrophysicist specialized in large scale n-body dynamical systems, has studied structures at both galactic and planetary level. He was able to show how certain gravitational migration effects can lead to vast changes in the orbit of planetary bodies, also with reference to the strange extra solar planetary systems recently discovered. Prof. Erasmo Recami is well known for his studies on fundamentals of physics. He has developed the theory of tachions, particles with superluminal velocity; a recent experiment confirming superluminality was proposed by him many years ago. His interests include also archeology and history of science. Dwardu Cardona collaborated with Velikovsky and is editor of the journal Aeon devoted to mythological studies. He has used archaic mythological elements for a very alternative reconstruction of the formation of the solar system. Charles Ginenthal is editor of the journal The Velikovskyan that analyzes and develops V. ideas. He has authored several monographs on catastrophic topics, including one on the demise of the mammoth, one on electromagnetic forces in cosmology and one criticising Carl Sagan criticism of V. Dr. Adalberto Notarpietro, a geologist of CNR Centro Studi per la Dinamica Alpina di Milano, has developed interest in recent catastrophic changes of Earth from his experience as a field geologist. Shulamit Velikovsky Kogan, daughter of Immanuel V., has a degree in Physics. She attended most meetings of her father with Einstein. She lives in Israel and has recently translated in Hebraic some of the works of V. The Symposium will take place at the Conference Room of University of Bergamo in via dei Caniana n. 2 (not far from rail station and motorway access). Participation is free within space availability (180 seats) on first come first served basis (but see the web site for possibility of reserving a place). For further information contact Emilio Spedicato ([email protected]) or Laura Capelli ([email protected]) or consult the site www.unibg.it/dmsia/seminari/Velikovsky_uk.html . 157 Da Rivolta contro il mondo moderno a Gli uomini e le rovine Julius Evola 1934-1951 (Alberto Lombardo) 1. La pubblicistica degli Anni '30 e la Rivolta contro il mondo moderno. Le esperienze pubblicistiche degli Anni '20 e della prima metà dei '30 fecero notare Evola da più parti. Iniziò così la sua collaborazione a numerose testate dell'epoca, prime fra tutte «La vita italiana» 1 di Giovanni Preziosi e «Il regime fascista» di Roberto Farinacci. Sul quotidiano del ras di Cremona, esponente del fascismo intransigente e squadristico, Evola dispose dal 1934 di una speciale pagina culturale quindicinale, che prese il nome di «Diorama filosofico»2. Su quelle pagine, per dieci anni, si alternarono alcune delle firme più prestigiose del conservatorismo aristocratico europeo dell'epoca (sir Ch. Petrie, il principe Rohan, O. Spann, E. Dodsworth, F. Everling, W. Stapel, W. Heinrich); inoltre contribuirono esponenti di spicco del pensiero tradizionalista (R. Guénon, G. De Giorgio), studiosi dell'antichità (tra cui lo storico della romanità Fr. Altheim), scrittori di grande fama (G. Benn, P. Valéry) e buona parte degli ex-collaboratori de «La Torre» 3. Evola ricorda l'esperienza del «Diorama filosofico» in questi termini: «Fu, questo, un tentativo unico nel suo genere nell'ambiente del tempo. Fu anche un appello la cui risposta, nell'insieme, doveva però essere negativa»4. La causa di ciò, sempre secondo Evola, fu che «nel campo della cultura in senso proprio la "rivoluzione" fu uno scherzo. Per poter rappresentare la "cultura fascista" l'essenziale era essere iscritti al partito e tributare un omaggio formale e conformistico al Duce. Il resto, era più o meno indifferente» 5. In un simile squallido panorama le pretese aristocratiche e tradizionali di Evola e del suo gruppo di collaboratori dovevano andare per necessità frustrate. Dopo aver collaborato all'Enciclopedia Italiana sul finire degli Anni '206, nei tredici anni successivi l'attività pubblicistica di Evola si fece ancora più intensa. Vanno ricordati anche, tra gli altri, i numerosi scritti per «Il corriere padano» (quotidiano di Ferrara), «Bibliografia fascista»7, «Augustea», «Lo Stato»8, «La rivista del C.A.I.»9 e, dal 1939, «La difesa della razza». Il suo pensiero andava in quegli anni facendosi sempre più radicalmente tradizionalista. Nel 1934 usciva quello che da molti è considerato il suo libro più importante e significativo, Rivolta contro il mondo moderno10, in cui esponeva una vera e propria visione metafisica della storia e della civiltà; si interessava inoltre di varî altri temi, come in Maschera e volto dello spiritualismo contemporaneo, del 1932, ne Il mistero del Graal e la tradizione ghibellina dell'impero11, del 1937, e ne Il mito del sangue12, dello stesso anno. Prima che l'argomento iniziasse a divenire una moda culturale a seguito dell'emanazione delle famose "leggi razziali" del 1938 (tema in quegli anni spesso affrontato senza la debita preparazione), Evola si occupò dello studio delle razze umane, formulando una singolare dottrina razziale incentrata sull'elemento spirituale. Partendo dalla tripartizione tradizionale dell'uomo in corpo, anima e spirito, egli evidenziava l'esistenza di altrettante razze, corrispondenti ai tre diversi livelli. In tale visione si possono di conseguenza delineare, gerarchicamente ordinati, un razzismo del corpo, uno dell'anima e uno dello spirito. Va in ogni caso precisato, con Adriano Romualdi, che «avrebbe poco senso definire il razzismo di Evola un "razzismo dello spirito", perché la razza è 158 innanzitutto un dato psico-fisico. Esso è piuttosto un'analisi del fatto razziale integrata in una dimensione più profonda»13. Alcuni dei libri che il filosofo tradizionalista scrisse sull'argomento (oltre al già citato Il mito del sangue, Tre aspetti del problema ebraico, del 193614; Sintesi di dottrina della razza, del 194115; Indirizzi per una educazione razziale, dello stesso anno16) e anche alcuni articoli17 furono notati da Mussolini, che convocato Evola a Palazzo Venezia gli espresse il suo plauso per la concezione spiritualista della razza che vi vedeva espressa. Fu a seguito di quell'incontro che Evola ebbe rapporti di collaborazione con il Ministero della cultura popolare (e probabilmente da lì presero spunto, più o meno direttamente, anche alcune collaborazioni giornalistiche)18 e che nacquero almeno un paio di iniziative di carattere ufficiale, tra le quali la pubblicazione in lingua tedesca di Sintesi di dottrina della razza con il titolo di Grundrisse des faschistischen Rassenlehre19, il progetto di rivista bilingue «Sangue e spirito»20 e una sorta di "mappatura razziale d'Italia" condotta a livello scientifico sui tre livelli dell'uomo prima elencati. Questi due ultimi progetti però non giunsero a buon esito21. In un'intervista del dopoguerra Evola espone in tre punti quelle che a suo avviso furono le ragioni dell'interesse suscitato in Mussolini dalla sua opera: «All'epoca in cui parlavo in Germania, Mussolini si interessava al razzismo. Per tre ragioni: 1) avevamo conquistato l'Etiopia; si trattava di suscitare una specie di orgoglio nazionale nell'elemento italiano per impedire le mescolanze di sangue. Questo razzismo assomigliava meno al razzismo fanatico tedesco di quello che i bravi inglesi hanno sempre praticato nelle colonie. 2) D'altronde Mussolini aveva riconosciuto il fatto che una rivoluzione sarebbe diventata una burla se non si fosse creato un tipo umano nuovo […]. 3) In terzo luogo, dal momento in cui l'Italia fosse divenuta alleata della Germania, l'ebreo sarebbe diventato suo nemico. All'inizio del regime fascista, in Italia, al contrario della Germania e della Francia di Gobineau e di Achille de la Ponge (errore per Georges Vacher De Lapouge, N.d.A.), vi erano solo antropologi limitati»22. Se nel 1934, in concomitanza con l'uscita della prima edizione della Rivolta Evola ancora riteneva del fascismo «che si poteva sempre tentare di rafforzare le potenzialità positive presenti nei movimenti politici in discorso, separandole da quelle negative e problematiche»23, e se probabilmente sulla base di una simile veduta svolse anche, in modo più o meno ufficioso, alcuni ruoli paradiplomatici in stati dell'Europa orientale 24, questa tenue speranza di una restaurazione dell'ordine tradizionale parve dissolversi al crollo di tali regimi. Evola continuerà nel dopoguerra a dare indicazioni politiche agli uomini dell'Ordine, che avrebbero dovuto opporsi alla decadenza contemporanea. Ma tali indicazioni appaiono ormai quasi esclusivamente l'additare la "giusta battaglia", senza che più un realismo politico o una minima prospettiva di successo a esse minimamente arrida. Si tratta di una visione "guerriera", ignara e priva di «compromessi, illusioni e finzioni di sorta» 25, che nel suo ascetismo legionario si richiama idealmente alla Repubblica Sociale Italiana. 2. La Repubblica Sociale Italiana. Dopo l'otto settembre 1943 Evola non si accodò ai tanti intellettuali cresciuti nel fascismo e pronti a vendere la propria intelligenza al nuovo padrone, americano o sovietico che fosse. Pur se critico nei confronti del fascismo durante il potere di questo, non può che schierarsi dalla parte del fascismo quando, nel grande conflitto, lo vede opporsi alle forze dell'antitradizione capitalista e comunista. Come aveva già scritto sin nel maggio 1929, «ad Oriente, è la Russia. Ad Occidente, è l'America. Due forme, due poli di un pericolo che, 159 come due branche di una unica tenaglia, cominciano a serrarsi lentamente intorno al nucleo della nostra Europa»26. Due forme di civiltà accomunate da uno stesso materialismo, da uno stesso primato dell'economia, da uno stesso ideale "da bestiame bovino" di produzione e consumo. Risultano ancora oggi profetiche le parole che Evola scrisse oltre settanta anni orsono a tale proposito27: «Se il bolscevismo ha destato, ed ancora continuerà a destare, delle reazioni precise come per una cosa mortale per tutta la tradizione della nostra cultura, l'Europa tuttavia in mille forme va ogni giorno più subendo l'influenza dell'americanismo, epperò del pervertimento di valori e di ideali che sta dietro all'americanismo e che il bolscevismo conduce al vertice […]. L'americanizzazione di alcuni aspetti della vita europea rappresenta una specie di cavallo di Troia con cui l'America - forse senza pensarci e senza volerlo, ma volendolo invece la nostra debolezza - dissolverà la civiltà del vecchio continente, fra cui d'altra parte sotto specie di ideologie comunistico-pacifiste, internazionalistiche, bolsceviche e democratiche, serpeggia il fermento di decomposizione»28. Date simili premesse ideologiche e culturali lo schierarsi evoliano dalla parte della R.S.I. è un'adesione necessitata, di estrema e coraggiosa coerenza. Anche per lui può valere la classificazione di quella scelta come quella di "onore", presa in un momento in cui i destini del conflitto pendevano già con tragica evidenza dalla parte del nemico. Gianfranco De Turris ha ricostruito dettagliatamente, sulla base dei documenti esistenti, il poco che si sa sul periodo 1943-1945 nella vita di Evola 29, e ha tratto dal suo studio queste conclusioni: «Julius Evola ha avuto una posizione quantomeno singolare all'interno dell'esperienza della Repubblica Sociale. Operò nella R.S.I., ma non fece parte propriamente della R.S.I.: infatti, almeno allo stato attuale delle ricerche, non risulta che ebbe incarichi ufficiali nella Repubblica, a parte i rapporti di collaborazione esterna con il Ministero della Cultura Popolare sino all'ottobre 1943; né continuò la sua intensissima attività pubblicistica, come era stato in precedenza sino al luglio 1943: infatti, da quanto è stato possibile fino ad ora controllare, sui giornali della R.S.I. risultano appena due suoi soli articoli». Si tratta delle collaborazioni giornalistiche con il quotidiano torinese «La Stampa»30. A esse va aggiunta la pubblicazione, nello stesso anno, de La dottrina del risveglio31. Va menzionata altresì l'attività svolta a Vienna - dove Evola visse in quegli anni sotto falsa identità32, e dove, nel marzo 194533 riportò la lesione al midollo spinale che lo costrinse alla immobilità degli arti inferiori per il resto dei suoi giorni - di ricerca sulla massoneria e simili movimenti, che avrebbe dovuto portare alla stesura di una Storia segreta delle società segrete, mai andata in porto, e l'attività di collaborazione a organi politici, sulla quale però ben poco si sa34. Un dato di fatto acclarato è però che Evola fu uno dei pochissimi italiani a incontrare Mussolini al Quartier Generale di Hitler dopo la liberazione del Duce dal Gran Sasso a opera di Otto Skorzeny, nel novembre 194335. 3. Il dopoguerra: un mondo di rovine. Come accennato, nel 1945 Evola riportò una lesione al midollo osseo che lo costrinse all'immobilità degli arti inferiori per il resto della sua vita 36. Trascorse così circa tre anni girando tra diversi ospedali, prima in Austria e poi in Italia. Questi problemi fisici non menomarono però in alcuna misura le sue facoltà intellettive: anzi, egli interpretò quella forzata immobilità quasi come il segno di una volontà superiore che la sua attitudine "guerriera" si sviluppasse sul piano esclusivamente culturale. Dopo la fine del conflitto e «dopo aver trascorso circa un anno e mezzo in cliniche austriache, nel 1948 rientrai in Italia. Qui mi aspettavo di trovare solo un mondo di rovine, 160 spirituali ancor più che materiali. Restai sorpreso nel constatare che esistevano invece dei gruppi, soprattutto di giovani, che non si erano lasciati trascinare nel crollo generale. Specie nei loro ambienti il mio nome era noto e i miei libri erano molto letti» 37. Si avviò così un fecondo rapporto intellettuale tra Evola e quella gioventù "non spezzata": tra i ragazzi che primi entrarono in contatto con Evola vi sono Clemente Graziani38, Fausto Gianfranceschi39, Roberto Melchionda40, G.A. Spadaro41, Enzo Erra42, Paolo Andriani43, Rutilio Sermonti e Pino Rauti. Quest'ultimo rammenta con queste parole la "scoperta" di Evola: «non lo conoscevamo. Durante il regime fascista aveva avuto scarso rilievo ufficiale, anche se gli articoli che scrisse su «Diorama» furono, a mio parere, una cosa enorme. Ma noi ignoravamo tutto della vita culturale del fascismo […]. Evola lo scoprimmo durante uno dei nostri tanti soggiorni in carcere. Leggemmo Rivolta contro il mondo moderno, che per noi ebbe un'importanza decisiva»44. Con quei giovani - nucleo dal cui ambiente sarebbero sorte varie iniziative politiche e culturali45 - si instaura un importante rapporto; ed è essenzialmente per quella gioventù che Evola scrive, nei primi anni del dopoguerra, i suoi principali saggî di argomento politico. Si tratta del settore della Destra giovanile e culturale di quegli anni, vicina al (o all'interno del) Movimento Sociale Italiano e soprattutto si tratta della corrente di Ordine Nuovo: «Si era […] formato un "Movimento Sociale Italiano", composto di vecchi fascisti, ma anche di giovani; sono loro che combattono il comunismo per le strade e all'università. Conta circa due milioni di membri. […]. Ma un altro gruppo, "Ordine Nuovo", ha adottato totalmente le mie idee»46. Il giudizio sui membri di "Ordine Nuovo" non fu sempre dei migliori: «anche dal lato dottrinale la situazione è critica, appunto per la mancanza di studiosi qualificati di tale indirizzo: lo si vede dallo stesso caso del gruppo di "Ordine Nuovo" che volentieri vorrebbe seguire una linea tradizionale non cattolica o cristiana, ma che manca quasi completamente degli accennati elementi qualificati, per cui ogni volta che vogliono far uscire un numero della rivista si trovano di fronte al problema dei collaboratori»47. La gioventù di Destra manterrà con Evola un rapporto privilegiato sino alla morte di questi. Negli anni successivi gravitarono intono alla sua casa di Via Vittorio Emanuele, tra gli altri, Mario Merlino48, Gianfranco De Turris49, Gaspare Cannizzo50, Renato Del Ponte51 e soprattutto Adriano Romualdi, che fu senza dubbio il suo migliore interprete, oltre che l'autore della prima biografia evoliana52. Adriano Romualdi (1941-1973), figlio di Pino, (che fu vicesegretario del P.F.R., tra i fondatori del M.S.I. e presidente dello stesso, oltre che direttore della rivista mensile «L'Italiano») fu una delle più coscienti e acute menti critiche della Destra italiana. Tra i suoi testi più propriamente politici figurano un saggio sulla Konservative Revolution tedesca53, la già citata biografia interpretativa di Evola, il saggio postumo Il fascismo come fenomeno europeo54, il lirico saggio Le ultime ore dell'Europa, che rappresenta una drammatica narrazione della conclusione della seconda guerra mondiale, la lettura critica di pensatori di spicco della storia della filosofia e della letteratura (Nietzsche 55, Platone56, Spengler57, Drieu La Rochelle58) e due saggî, oggi raccolti in un volume unico 59, dal titolo, rispettivamente, Idee per una cultura di Destra e La Destra e la crisi del nazionalismo. Occorre chiarire che Evola rimase del tutto estraneo alla politica in senso stretto. Come non era mai stato iscritto al P.N.F., allo stesso modo non aderì ad alcun partito nel dopoguerra. Nei confronti del M.S.I. in una lettera del 1948 a un vecchio amico (Girolamo Comi) così si espresse: «La prima impressione circa la vita della nuova Italia, quale l'ho potuta avere da qualche giornale e dallo stile di chi si trova qui, è quella di una particolare turbolenza […]. Quanto a "posizioni", le più decenti mi sembrano quelle del MSI, ma unicamente perché negano senza eccezioni gli altri partiti e sono balie asciutte per i 161 "liberatori" sia del blocco occidentale che di quello orientale. Ma, quanto al lato positivo, nemmeno essi vanno un passo avanti oltre il pantano»60. Nell'aprile del 1951 Evola venne arrestato con l'accusa di essere stato "maestro" e "ispiratore" dei F.A.R. (Fasci di Azione Rivoluzionaria), un movimento politico costituitosi su basi spontaneistiche, membri del quale avevano fatto esplodere alcune bombe-carta nella capitale. Il collegamento a Evola fu presunto sulla base della sua pubblicazione di Orientamenti per conto di «Imperium» e delle sue collaborazioni giornalistiche con alcune delle riviste sopra citate61. Dopo sei mesi circa di custodia cautelare in carcere, Evola, patrocinato gratuitamente dal famoso professore Francesco Carnelutti, pronunciò la famosa Autodifesa, poi ripubblicata anche nella rivista «L'eloquenza» 62. Fu assolto il 20 novembre del 1951 con formula piena - sebbene il Pubblico Ministero avesse chiesto otto mesi di reclusione. Nella sua autobiografia definì poi tale episodio come una «comica vicenda» 63. Oltretutto, rilevava, «nella mia autodifesa ebbi occasione di mettere in chiaro un punto fondamentale. Dissi che attribuirmi idee "fasciste" era un assurdo. Non in quanto erano "fasciste", ma solo in quanto rappresentavano, nel fascismo, la riapparizione di principî della grande tradizione politica europea di Destra in genere, io potevo aver difeso e potevo continuare a difendere certe concezioni in fatto di dottrina dello Stato»64. Su questa stessa linea sono i saggi evoliani Il Fascismo visto dalla Destra 65 e Gli uomini e le rovine66. Affini nella stessa struttura, questi saggi affrontano il problema politico in chiave storiografica il primo e di teoria generale il secondo (con commistioni in entrambi i casi): già in Orientamenti erano presenti le idee-base e la struttura generale dei due saggi teorici successivi. Sulla nascita de Gli uomini e le rovine, in particolare, ricorda Evola: «mi parve non inutile esporre in un libro quei presupposti d'ordine generale che, nel campo della dottrina dello Stato e della visione generale della vita, si prestassero per l'orientamento di detto schieramento»67. Un dato è in particolare interessante: «Gli uomini e le rovine uscì con una presentazione del principe Valerio J. Borghese, assai noto come esponente dei combattenti dell'ultima guerra, essendo egli stato a capo di forze della marina italiana, che, fra l'altro, con una impresa audacissima colarono a picco nel porto di Alessandria due corazzate e altre navi inglesi e avendo egli poi combattuto fino all'ultimo come comandante del corpo chiamato Decima Mas. Questa associazione del suo nome col mio doveva avere un carattere simbolico: entrambi eravamo uomini che avevano seguito liberamente una linea ideale, rifuggendo dal piano più basso della politica, l'uno potendo rappresentare il combattentismo, l'altro il teorico di una precisa idea di Destra. Pensai che un tale binomio avrebbe forse potuto cristallizzare in Italia forze per quel nuovo fronte. […]. Ciò, in termini diversi da un partito politico, piuttosto in quelli di quadri potenziali di un ordine nuovo. […]. Dunque: da un lato lo schieramento di un'élite di Destra, dall'altro, come controparte, questi quadri potenziali per l'azione; un partito, unicamente per una funzione tattica contingente. Tutto questo progetto non ebbe seguito alcuno»68. Adriano Romualdi descrive Gli uomini e le rovine con queste parole: «un libro "reazionario", nel senso positivo e legittimo del termine, il libro di chi reagisce, e duramente, contro il sudiciume del mondo democratico-marxista»69. Evola avrebbe dovuto cioè constatare e sempre più negli anni convincersi di come i tempi non fossero più maturi per una restaurazione, in alcuna forma, dell'ordine tradizionale che teorizzava. Il capitolo della sua autobiografia dedicato alla Ricerca di uomini fra le rovine si conclude dunque con questa amara constatazione: «In genere, sembrano non esistere, in Italia, i presupposti necessari per una seria azione di risollevamento ideale e politico. Purtroppo come sostanza umana s'incontra dappertutto quella del politicante che 162 rimane tale anche quando combatte il comunismo e professa idee "nazionali". Gli intrighi parlamentari hanno assorbito a poco a poco anche i migliori»70. Note 1 I contributi al quindicinale di Preziosi sono stati poi raccolti: J. Evola, Gli articoli de «La vita italiana» durante il periodo bellico, Centro Studi Tradizionali di Treviso, Treviso 1988. Molti scritti sono riportati anche in J. Evola, Il "genio d'Israele". L'azione distruttrice dell'ebraismo, Il Cinabro, Catania 1992. 2 Gli articoli dei primi due anni (1934 e 1935) furono raccolti in un volume: J. Evola, Diorama filosofico. Problemi dello spirito nell'etica fascista, Europa, Roma 1974. Il libro recava la dicitura "volume I"; ma non è mai seguita l'edizione di volumi successivi. Rimando necessariamente all'ampio studio del prof. R. Del Ponte, Gli orizzonti europei del tradizionalismo nel «Diorama filosofico» (1934-1943), in M. Bernardi Guardi e M. Rossi (cur.), Delle rovine e oltre. Saggi su Julius Evola, Pellicani, Roma 1995, pp. 167-197. Del Ponte (n. 23 p. 177) vi preannunciava (si era nel 1995) la futura edizione critica, in almeno sei volumi, dell'intero «Diorama», per conto delle edizioni Sear. Anche questo secondo progetto non è però mai andato in porto, per via delle difficoltà incontrate nella prima metà degli Anni '90 dalla casa editrice. 3 Cfr. J. Evola, La Torre, Il Falco, Milano 1977. Su D. Rudatis in particolare cfr. L. Pignatelli, Sport, cultura, tradizione. Domenico Rudatis collaboratore del «Diorama filosofico» evoliano, in «Futuro presente» 6 (1995), pp. 175-180. 4 J. Evola, Il cammino del cinabro, Scheiwiller, Milano 1972 (II), p. 104. 5 J. Evola, Il cammino del cinabro, cit., p. 105. 6 Cfr. St. Arcella, La collaborazione di Evola con l'Enciclopedia Italiana, in «Studi evoliani» 1 (1998), pp. 82-92, che conclude: «la collaborazione di Evola con la Treccani si inserisce […] in una strategia della presenza volta a garantire all'orientamento spirituale e culturale che rappresentava uno spazio istituzionale di espressione all'interno delle strutture culturali ufficiali» (pp. 91-92). La sola voce Atanr, di sicura attribuzione a J. Evola, è stata ripubblicata in «Algiza» 13 (1999), p. 21. 7 Gli scritti sono stati raccolti nel libro in due volumi J. Evola, Esplorazioni e disamine. Gli scritti di «Bibliografia fascista», Edizioni all'insegna del Veltro, Parma 1994 e 1995. 8 I contributi a «Lo Stato» sono stati organicamente raccolti in un'edizione curata da G.F. Lami: J. Evola, Lo Stato (1934-1943), Fondazione Julius Evola, Roma 1995. 9 Pubblicati, con altri e a cura di R. Del Ponte, nel volume J. Evola, Meditazioni delle vette, Il Tridente, La Spezia 1974 (l'ultima edizione, la quarta, è Sear, Borzano 1997). Sull'Evola alpinista cfr. anche E. Longo (cur.), Il regno perduto. Note sul simbolismo tradizionale della montagna, Ar, Padova 1989; id., Montagne di ghiaccio e di luce: la metafisica delle vette in Julius Evola, in «Convivium» 18 (1994), pp. 13-19; id., Il fuoco e le vette, Il Ventaglio, Roma 1996, passim; id., Swastika. Il mistero dell'alpinismo esoterico, in «Algiza» 13 (1999), pp. 13-17. 10 J. Evola, Rivolta contro il mondo moderno, Hoepli, Milano 1934. L'ultima versione, la quarta, è Mediterranee, Roma 1998. 163 11 J. Evola, Il mistero del Graal e la tradizione ghibellina dell'impero, Laterza, Bari 1937. L'ultima edizione, la quarta, è Il mistero del Graal, Mediterranee, Roma 1994. Sulla genesi editoriale del libro, in cui giocò una parte di rilevo anche l'intermediazione di Benedetto Croce presso l'editore Laterza di Bari, cfr. J. Evola, La biblioteca esoterica. Evola Croce Laterza carteggi editoriali 19251959 (a cura di A. Barbera), Fondazione Julius Evola, Roma 1997. 12 J. Evola, Il mito del sangue, Hoepli, Milano 1937. Ne seguì una seconda edizione nel 1942 presso lo stesso editore. Di entrambe le versioni sono oggi disponibili edizioni anastatiche, rispettivamente Ar, Padova 1978 e Sear, Borzano 1995. Si noti che le riproduzioni sono entrambe uscite dopo la morte dell'autore, poiché questi si era opposto alla riproposizione di tali libri dopo il secondo conflitto mondiale. 13 A. Romualdi, Julius Evola: l'uomo e l'opera, Volpe, Roma 1968, ora in id., Su Evola, Fondazione Julius Evola, Roma 1998, p. 86. 14 J. Evola, Tre aspetti del problema ebraico, nel mondo spirituale, nel mondo culturale, nel mondo economico sociale, Mediterranee, Roma 1936. Ne esiste oggi un'edizione anastatica (Ar, Padova 1978). 15 J. Evola, Sintesi di dottrina della razza, Hoepli, Milano 1941. Edizione anastatica Ar, Padova 1978. 16 J. Evola, Indirizzi per una educazione razziale, Conte, Napoli 1941. Ne esiste una seconda edizione ricomposta (Ar, Padova 1994). 17 Il riferimento è in particolare a J. Evola, Razza e cultura, in «Rassegna italiana» 188/XVII (1934), pp. 11-16, e di imminente riedizione nel volume da me curato J. Evola, Il "mistero iperboreo". Scritti sugli Indoeuropei 1934-1956, Fondazione Evola, Roma 2001. Ne Il Cammino del cinabro (cit., p. 148) Evola ricorda erroneamente il 1935, anziché il 1934, come anno di edizione dell'articolo. 18 Tra queste cfr. U. Indrio, Da «Roma fascista» al «Corriere della Sera». Cinquant'anni di storia italiana nelle memorie di un giornalista, Edizioni Lavoro, Roma 1987, 116-117. Il riferimento è alla collaborazione evoliana a «Roma fascista», resa possibile tramite l'intermediazione di Massimo Scaligero. Cfr. infra anche il caso della collaborazione evoliana al quotidiano torinese «La stampa». 19 J. Evola, Grundrisse des faschistischen Rassenlehre, Runge Verlag, Berlin o.D. (1943). 20 «"Le propongo di creare una rivista italo-tedesca che si chiamerebbe «Sangue e spirito»" Mussolini approvava; io m'incaricavo quindi della parte italiana, Rosenberg e Gross di quella tedesca; purtroppo la cosa non è continuata», ricorda Evola in E. Antebi, Un'intervista a Julius Evola, in «Heliodromos» 6 (1995), p. 19. Cfr. sul tema l'ampia documentazione dell'auswärtiges Amt in N. Cospito - H. W. Neulen, J. Evola nei documenti segreti del Terzo Reich, Europa, Roma 1986, pp. 85-109. Da essa si apprende che dopo l'incontro con Mussolini dell'agosto 1941 Evola ebbe modo di sentirsi confermare il proposito del Duce nuovamente nel dicembre 1941. 21 J. Evola, Il cammino del cinabro, cit., pp. 147-160. Rileviamo di passata come una "mappatura razziale", di tipo nettamente materialistico, sia stata invece stilata nel dopoguerra tramite gli studi genetici e sulla tipologia del sangue dall'antropologo L. Cavalli-Sforza. 22 E. Antebi, Un'intervista a Julius Evola, cit., p. 18. 23 J. Evola, Il cammino del cinabro, cit., p. 131. 164 24 Cfr. il documentato lavoro di C. Mutti, Julius Evola sul fronte dell'Est, Edizioni all'insegna del Veltro, Parma 1998. Gli Stati cui si fa riferimento sono la Cecoslovacchia, la Romania e l'Ungheria. 25 Espressioni evoliane riferite, nel dopoguerra, alle prospettive aperte da Rivolta contro il mondo moderno (J. Evola, Il cammino del cinabro, cit., p. 132). 26 J. Evola, Americanismo e bolscevismo, in «La nuova antologia» 10 (maggio 1929), ora in J. Evola, I saggi della Nuova Antologia, Ar, Padova 1982 (II), p. 35. 27 Scriveva F. Freda (sub nomine Edizioni di Ar) nella Nota introduttiva a J. Evola, I saggi della Nuova Antologia, cit., pp. 10-11: «nella lucida diagnosi sul modo d'essere e di manifestarsi dell'americanismo e del bolscevismo, accanto ad affermazioni che assumono il valore di vere e proprie predizioni di ciò che gli eventi hanno in seguito confermato, l'Autore è incline a ritenere esistenti tra i due sistemi delle differenze che gli avvenimenti successivi hanno provveduto a negare e superare [...]. Egualmente pare - quanto meno a noi - che oggi non siano più americanismo e bolscevismo a comporre le membra della Bestia e a suscitarne i movimenti. Forze più sottili, non ancora precisatesi e "incarnatesi", stanno concentrandosi per dirigerla sino al fondo». 28 J. Evola, Americanismo e bolscevismo, cit., p. 52. 29 G. De Turris, Un tradizionalista nella R.S.I. Julius Evola 1943-1945, in AA.VV., Uomini e scelte della R.S.I., Bastogi, Milano 2000. 30 In una ricerca d'archivio, ho portato alla luce l'intera collaborazione evoliana a «La Stampa». Essa ammonta a un totale di sedici articoli, tutti usciti in tempo di guerra, e due dei quali editi durante il periodo della R.S.I. Ne ho dato un primo resoconto (A. Lombardo, Quando Evola collaborava a La Stampa, in «Area» 45 (2000), pp. 79-80), e ne è in preparazione l'edizione critica completa per conto della Fondazione Evola nella "Biblioteca evoliana". È verosimile che la collaborazione evoliana con «La stampa» abbia preso avvio a seguito del rapporto di collaborazione di Evola con il Ministero della cultura popolare favorito dall'incontro con Mussolini cui sopra accennavo. 31 J. Evola, La dottrina del risveglio, saggio sull'ascesi buddhista, Laterza, Bari 1943. L'ultima edizione, la quarta, è Mediterranee, Roma 1995. 32 33 J. Evola, Il cammino del cinabro, cit., p. 163. La data di marzo, e del giorno dodici in particolare, anziché quella correntemente ritenuta di aprile, risulta più verosimile, secondo il calcolo che ha fatto lo studioso viennese M. Schwarz, cui sono debitore dell'informazione. La sua tesi si fonda soprattutto sul fatto che il bombardamento del dodici marzo fu il più disastroso per Vienna, e in tale data fu forse anche distrutto, almeno in parte, il palazzo di Neuer Markt 3 in Wien 1 dove Evola aveva certamente vissuto negli anni precedenti. Si trattava del settimo anniversario dell'Anschluss. Il bombardamento alleato (non russo come si ritiene correntemente, dunque) contro i civili, rammentiamo di passata, non aveva di per sé alcun interesse militare. Oggi nel pieno centro di Vienna, a pochi isolati da dove Evola visse, e dove vi furono la maggior parte dei morti, una statua e una lapide ricordano i molti caduti di quel 12 marzo, che vengono definiti (con una logica piuttosto tortuosa) "vittime del nazifascismo". Secondo un'altra fonte, rileva però lo stesso Schwarz, è possibile che il ferimento di Evola avvenne nella o presso la Schwarzenbergplatz, dove si trovavano diversi centri ufficiali e delle SS. De Turris (nota del curatore ad A. Romualdi, Julius Evola: l'uomo e l'opera, cit., n. 4 p. 90), scrive: «secondo quanto riferisce il medico personale, Evola venne sbalzato dallo spostamento d'aria provocato da una esplosione e sbattuto contro una struttura di legno - delle impalcature - che erano in una piazza: il che provocò la compressione della colonna vertebrale». 165 34 Cfr. J. Evola, Il cammino del cinabro, cit., pp. 135, 140-146, 161-163; G. De Turris, Un tradizionalista nella R.S.I., cit., passim; H. Th. Hansen, Julius Evolas politisches Wirken, che costituisce l'ampia Einführung a J. Evola, Menschen inmitten von Ruinen, Hohenrain, Tübingen 1991, pp. 60-65. 35 J. Evola, Diario 1943-1944, Sear, Scandiano 1989, pp. 32-37 (come correttamente rileva G. De Turris nel suo Un tradizionalista nella R.S.I., cit., n. 3, sotto questo titolo sono stati riuniti i cinque articoli che Evola pubblicò sul quotidiano di Roma «Il popolo italiano» dal 14 al 24 marzo 1957 sotto l'intestazione complessiva Con Mussolini al Quartier Generale di Hitler). Cfr. anche J. Evola, Il cammino del cinabro, cit., p. 135. 36 Circa tale periodo, cfr. G. De Turris, Ventimila lire per andare a Lourdes, in «Letture» 549 (1998), pp. 29-32; id. (cur.), Lettere di Julius Evola a Girolamo Comi (1934-1962), Fondazione Evola, Roma 1987. 37 J. Evola, Il cammino del cinabro, cit., p. 164. Sul rapporto ideale e politico tra Evola e la gioventù italiana (e i suoi riflessi sino ai giorni nostri) mi permetto di rimandare ad A. Lombardo, Evolas Rezeption in Italien, in «Kshatriya» R. 9 (2000), pp. 1-3. 38 Cfr. E. Massagrande, Per ventidue anni compagno di latitanza, in S. Forte, Clemente Graziani. La vita, le idee, Settimo sigillo, Roma 1997, p. 40: «fu lui che mi fece conoscere certi autori (Evola anche di persona)». 39 F. Gianfranceschi, L'influenza di Evola sulla generazione che non ha fatto in tempo a perdere la guerra, in G. De Turris (cur.), Testimonianze su Evola, Mediterranee, Roma 1985 (II), pp. 130-134. 40 Cfr. R. Del Ponte, L'attività pubblicistica di Evola negli anni del secondo dopoguerra sino a «Ordine Nuovo», in «Convivium» 17 (1994), p. 44. 41 Dopo la morte del filosofo tradizionalista, Spadaro fu il primo presidente della Fondazione Evola. Di lui si cfr. il ricordo di Evola La forza interiore, in «Raido» 11/12 (1998), pp. I-II. 42 Cfr. E. Erra, Il mistero di Evola, in G. De Turris, Testimonianze su Evola, cit., pp. 248-259; R. Del Ponte, L'attività pubblicistica di Evola…, cit., p. 45. Enzo Erra fu il direttore di «Imperium» sin dal maggio 1950, in cui la rivista fu fondata. Per conto di tale testata, la cui linea editoriale era nettamente spiritualista e antisocialista, Evola scrisse l'opuscolo Orientamenti (Imperium, Roma 1950). Su posizioni analoghe a quelle di «Imperium» si attestò il Centro Studi Ordine Nuovo, fondato nel 1954 da Pino Rauti, che dall'anno successivo diresse «Ordine Nuovo» (che si definiva Mensile di politica rivoluzionaria), cui lo stesso Evola collaborò con almeno undici articoli. Sulla storia di "Ordine Nuovo" cfr. Il movimento politico "Ordine Nuovo". Precisazioni, in «Noi» 1 (1971), pp. 2-4 e 27-29; C. Graziani, Processo a "Ordine Nuovo": processo alle idee, Roma 1972, passim; F. Ferraresi, La destra eversiva, in id. (cur.), La destra radicale, Milano 1984, pp. 62-66 (per queste indicazioni bibliografiche sono debitore al prof. R. Del Ponte). Come precisa Del Ponte (L'attività pubblicistica di Evola…, cit., p. 49 n. 28), «Non bisogna confondere il "Movimento Politico Ordine Nuovo", gruppo extraparlamentare creato il 21 dicembre 1969, col "Centro Politico Ordine Nuovo" [probabilmente si tratta di un lapsus per "Centro Studi Ordine Nuovo", N.d.A.], diretto da Rauti e confluito nel Novembre dello stesso anno nel MSI, anche se è dalle ceneri del secondo che il primo deriva». 43 Cfr. p. es. P. Andriani, Cambiare rotta, in «Imperium» II/1 (1951). L'avv. Andriani fu il secondo presidente della Fondazione Evola, dopo il prof. G.A. Spadaro. 166 44 Sono parole di P. Rauti nell'intervista rilasciata a M. Brambilla e pubblicata nel volume da questi curato Interrogatorio alle destre, Rizzoli, Milano 1995, p. 25. 45 A parte la citata «Imperium», tra le varie testate nazionaliste, nostalgiche, combattentistiche e fasciste di quegli anni ricordiamo «Asso di bastoni», «Rosso e nero», «Rataplan», «Il Nazionale», «Il meridiano d'Italia», «Rivolta ideale». 46 Sono parole di J. Evola in E. Antebi, Un'intervista a Julius Evola, cit., p. 20. 47 J. Evola, Lettere 1955-1974. L'epistolario evoliano raccolto, catalogato e annotato da Renato del Ponte, La Terra degli Avi, Finale Emilia s.d. (1995), p. 15. Si tratta della lettera del 18.II.1963 a Salvatore Ruta. 48 M.M. Merlino, Ed il vento racconta…, in «Raido» 11-12 (1998), pp. II-V, in part. p. IV. 49 M. Brambilla (cur.), Interrogatorio alle destre, cit., p. 152. 50 J. Evola, Lettere 1955-1974 (cur. R. Del Ponte), La Terra degli Avi, Finale Emilia 1995, pp. 95113 e soprattutto G. Cannizzo, Premessa a J. Evola, Scritti per Vie della Tradizione 1971-1974, Vie della Tradizione, Palermo 1996, p. 7 e G. Cannizzo, Il consigliere silenzioso, in G. De Turris (cur.), Testimonianze su Evola, cit., p. 69-71. 51 J. Evola, Lettere 1955-1974 (cur. R. Del Ponte), cit., p. 155 n. 2. 52 A. Romualdi, J. Evola: l'uomo e l'opera, cit. Circa l'influenza di Evola sulle generazioni di giovani successive cfr. M. Veneziani, Evola e la generazione che non ha fatto in tempo a perdere il Sessantotto, in G. De Turris (cur.), Testimonianze su Evola, cit., pp. 324-331; E. Nistri, Evola e la generazione che non ha fatto in tempo a perdere il Sessantotto, in «Studi evoliani» 1 (1998), pp. 120-131 (in cui Nistri scrive a p. 125, riferendosi a Gli uomini e le rovine: «Nelle sezioni missine dei primi Anni Settanta la lettura di questo vademecum politico era considerata una sorta di prova di iniziazione, una cartina di tornasole per valutare l'equazione personale di un militante, il primo passo per la cooptazione degli iscritti più promettenti sotto il profilo culturale»); A. Piscitelli, Evola e la generazione che non ha fatto in tempo a perdere un bel nulla perché ha già perso tutto , in «Studi evoliani» 1 (1998), pp. 132-138. Cfr. anche G. De Turris, Evola e le rovine elettroniche degli Anni Novanta, introduzione a J. Evola, Gli uomini e le rovine4, cit., pp. I-XXXVIII. 53 A. Romualdi, Le correnti politiche e culturali della destra tedesca dal 1918 al 1932, L'italiano, s.i.l. ed.. 54 A. Romualdi, Il fascismo come fenomeno europeo, Settimo sigillo, Roma 1984. 55 A. Romualdi, Nietzsche e la mitologia egualitaria, Ar, Padova 1981. 56 A. Romualdi, Platone, Settimo sigillo, Roma 1992. 57 A. Romualdi, Oswald Spengler. Ombre sull'Occidente, Volpe, Roma 1973. 58 A. Romualdi - G. Giannettini - M. Prisco, Drieu La Rochelle, il mito dell'Europa, La Salamandra, Roma 1965. 59 A. Romualdi, Una cultura per l'Europa, Settimo sigillo, Roma 1996 (II). 167 60 G. De Turris (cur.), Lettere di Julius Evola a Girolamo Comi (1934-1962), cit., p. 23. Si tratta di una lettera manoscritta autografa di due facciate inviata da Evola da Cuasso al Monte il 31 agosto 1948. 61 Cfr. F. Gianfranceschi, In carcere con Evola, in «Studi evoliani» 1 (1998), pp. 117-119. 62 J. Evola, Autodifesa, in «L'eloquenza» 11-12 (1951); ora Fondazione Evola, Roma s.d. (1976). 63 J. Evola, Il cammino del cinabro, cit., p. 165. 64 J. Evola, Il cammino del cinabro, cit., p. 166. 65 J. Evola, Il Fascismo. Saggio di una analisi critica dal punto di vista della Destra, Volpe, Roma 1963. Nella seconda edizione (Volpe, Roma 1970) il saggio uscì con in appendice un saggio parallelo intitolato Note sul terzo Reich. 66 J. Evola, Gli uomini e le rovine, Edizioni dell'Ascia, Roma 1953. L'ultima edizione, la quarta, è Settimo Sigillo, Roma 1990; ma ne è imminente l'uscita di una quinta, da parte delle Edizioni Mediterranee. 67 J. Evola, Il cammino del cinabro, cit., p. 167. 68 J. Evola, Il cammino del cinabro, cit., pp.175-176. 69 A. Romualdi, Julius Evola: l'uomo e l'opera, cit., p. 91. 70 J. Evola, Il cammino del cinabro, cit., p. 177. ----Alberto Lombardo è nato a Chiavari (GE) nel 1976. Dopo aver frequentato il locale liceo scientifico, si è laureato in giurisprudenza con una tesi sul pensiero politico evoliano. E' da vari anni presidente del Centro Studi La Runa, per le cui edizioni ha curato la pubblicazione di diversi volumi di argomento storico e tradizionale e della rivista Algiza. Collabora alla pagina culturale di alcuni quotidiani e riviste, sui quali si occupa di simbolismo, storia antica e studi indoeuropei. E-mail: "Centro Studi La Runa" <[email protected]> Sito Internet: http://utenti.tripod.it/centrostudilaruna 168 La scienza come strumento ideologico Il caso Galilei e la falsificazione della cosmologia tolemaica (Umberto Bartocci - Laila Rossi) 1 - Esiste un capitolo assolutamente centrale per la comprensione dell'essenza della "modernità", ed è quello relativo alla storia della scienza, e della tecnica, che della prima va considerata, al tempo stesso, figlia e madre1. All'interno di esso, troviamo un argomento che deve essere a sua volta riguardato come uno dei fili conduttori fondamentali dello sviluppo del pensiero scientifico degli ultimi secoli 2, al quale si fa generico riferimento con l'espressione: "rivoluzione copernicana". Non c'è dubbio infatti che sia proprio a partire dall'affermazione dell'ormai familiare (fin dalla prima educazione scolare) sistema eliocentrico che "viene infranta l'antica alleanza" (per usare l'espressione con cui Jacques Monod chiude quel manifesto della Weltanschauung positivista del XX secolo che è Il Caso e la Necessità); da essa che datano l'irruzione del profano, del pratico, del quantitativo, nel mondo della conoscenza, riducendo sempre di più lo spazio del sacro, del trascendente, del qualitativo. La dimostrazione che la Terra, e quindi l'essere umano, non occupano affatto un posto privilegiato - in un universo che viene concepito anche come smisuratamente (e di conseguenza pure "inutilmente"?!) ampio, "vuoto" più che "pieno" sferra ovviamente un duro colpo ai "tradizionali" credi filosofico-religiosi, aprendo la strada a quello "smarrimento" concettuale e morale che domina ancora oggi la storia della civiltà occidentale, sotto l'incubo del "silenzio" e dell'estraneità della Natura. Non a caso il creatore della psicanalisi, Sigmund Freud, sostiene trattarsi, nel presente contesto, di una grande mortificazione che la scienza ha recato all'ingenuo amore dell'umanità per se stessa 3, e gli fa eco il nostro Luigi Pirandello con il "Maledetto sia Copernico!", gridato a gran voce nelle prime pagine de Il fu Mattia Pascal: "Io dico che quando la Terra non girava, e l'uomo, vestito da greco o da romano, vi faceva così bella figura e così altamente sentiva di sé e tanto si compiaceva della propria dignità, credo bene che potesse riuscire accetta una narrazione minuta e piena d'oziosi particolari [...] Siamo o non siamo su un'invisibile trottolina, cui fa da ferza un fil di sole, su un granellino di sabbia impazzito che gira e gira e gira, senza saper perché, senza pervenir mai a destino, come se ci provasse gusto a girar così, per farci sentire ora un po' più di caldo, ora un po' più di freddo, e per farci morire - spesso con la coscienza d'aver commesso una sequela di piccole sciocchezze - dopo cinquanta o sessanta giri? Copernico, Copernico, don Eligio mio, ha rovinato l'umanità, irrimediabilmente. Ormai noi tutti ci siamo poco a poco adattati alla nuova concezione dell'infinita nostra piccolezza, a considerarci anzi men che niente nell'Universo, con tutte le nostre belle scoperte e invenzioni; e che valore dunque volete che abbiano le notizie, non dico delle nostre miserie particolari, ma anche delle generali calamità? Storie di vermucci ormai, le nostre". A tale particolare vicenda, soprattutto alle origini di questa rivoluzione concettuale, il primo dei due autori4 ha dedicato un recente studio5, in cui la questione viene ricollegata all'epopea delle grandi navigazioni portoghesi del XV secolo, sullo sfondo ideologico della "crisi templare", e delle manifeste tendenze non soltanto anti-cattoliche, bensì più in 169 generale anti-cristiane, o addirittura scettico/atee, di quel periodo. E' nella stessa linea di pensiero che va collocato il presente articolo, che si propone di analizzare un momento paradigmatico degli eventi inerenti detta particolare storia, e dimostrare - forse un po' inaspettatamente - quanto poco contenuto oggettivo-sperimentale avessero alcune polemiche, passate nell'immaginario collettivo dei secoli successivi come un esempio della perenne titanica lotta tra le forze delle tenebre e della luce. Resterà poi compito del lettore valutare quanto certe "incongruenze" siano da ricondursi al normale ambito delle umane strutturali imperfezioni, o non debbano piuttosto classificarsi quali indizi a favore di un contesto interpretativo più ampio, e complesso - assai diverso, ovviamente, sia da quello proprio dello scientismo, avente come motivo conduttore una forma ingenua del "falsificazionismo" popperiano, sia da quello, assolutamente agli antipodi, proposto da tesi storiografiche alquanto "fantasiose", nelle quali si suppongono coinvolte, nel corso degli avvenimenti in oggetto, forze di natura trascendente il "semplice" livello del razionalmente comprensibile e del percepibile (seppure non "immediatamente")6. 2 - Non è possibile naturalmente sintetizzare in poche parole la storia dell'affermazione della concezione eliocentrica, che va almeno dal 1543, data della pubblicazione del De Revolutionibus Orbium Caelestium di Niccolò Copernico, al 1687, anno in cui uscì la prima edizione dei Philosophiae Naturalis Principia Mathematica, di Isaac Newton - passando attraverso l'opera di personaggi quali Tycho Brahe, Johannes Kepler, Galileo Galilei, René Descartes, etc.. Del resto, ciascuno conosce le linee generali di tale avventura del pensiero: l'immagine di una Terra immobile, collocata al centro dell'universo, intorno alla quale orbitano tutti i corpi celesti (famiglia di cui, a rigore, la Terra non veniva considerata far parte), viene definitivamente sostituita da quella attuale, a causa, si afferma, e si sarebbe quindi indotti a credere, di una serie di osservazioni manifeste e indiscutibili. Così si esprime in effetti Galileo 7 a proposito della questione particolare che qui prenderemo in esame, vale a dire la variabilità della distanza dei pianeti dalla Terra prevista nei due sistemi: il primo, che denomineremo con lui tolemaico (o geocentrico) - seppure il termine, come vedremo, sia alquanto improprio; il secondo, ovviamente, copernicano (o eliocentrico)8. A una domanda di Simplicio, "Ma da che argumentate voi che non la Terra, ma il Sole, sia nel centro delle conversioni de' pianeti?", Salviati risponde: "Concludesi da evidentissime, e perciò necessariamente concludenti, osservazioni: delle quali le più palpabili, per escluder la Terra da cotal centro e collocarvi il Sole, sono il ritrovarsi tutti i pianeti ora più vicini ed ora più lontani dalla Terra, con differenze tanto grandi, che, verbigrazia, Venere lontanissima si trova sei volte più remota da noi che quando ell'è vicinissima, e Marte si inalza quasi otto volte più in uno che nell'altro stato". Poco più avanti, Salviati conferma tale opinione, sostenendo dapprima che: "questo avvicinamento ed allontanamento importa tanto, che Marte vicino si vede ben 60 volte maggiore che quando è lontanissimo", mentre di seguito, per ciò che riguarda Venere, afferma che: "ella si mostri in un tempo quasi 40 volte maggiore che in altro tempo, cioè grandissima quando, sendo retrograda, va alla congiunzion vespertina del Sole, e piccolissima quando con movimento diretto va alla congiunzion mattutina". 170 Sarebbero questi secondo Galileo, dunque, dei dati sperimentali inattaccabili, da lui acquisiti con l'uso del cannocchiale, quello strumento che Copernico non poté utilizzare per vedere così brillantemente convalidate le sue teorie: "Oh Niccolò Copernico, qual gusto sarebbe stato il tuo nel veder con sì chiare esperienze confermata questa parte del tuo sistema!"9. La verifica della circostanza che tale opinione fa ancora oggi parte di quanto viene assicurato per certo dalla "comunità scientifica", è fornita per esempio da uno studio abbastanza recente dedicato a "Galileo e la falsificazione della cosmologia tolemaica"10: "Un'ulteriore conferma del sistema copernicano viene dalle osservazioni del disco di Marte che risulta al cannocchiale variare effettivamente la propria superficie apparente di circa 60 volte, come previsto da Copernico, e non di poche volte come previsto da Tolomeo. Anche in questo caso siamo di fronte ad una precisa falsificazione del sistema tolemaico! [...] si può ben dire che le dimensioni osservate al telescopio di Venere e di Marte costituivano un altro colpo mortale al sistema tolemaico". Del resto, non è difficile, anche per i meno esperti in tale genere di cose, farsi un'idea della questione almeno nelle sue grandi linee: in un sistema copernicano "approssimato" 11, in cui i pianeti ruotano intorno al Sole in orbite circolari, e ammettiamo pure con moto uniforme, può accadere che, diciamo la Terra e Marte, si trovino allineati dalla stessa parte rispetto al Sole (in congiunzione12), oppure da parti opposte, con il Sole nel mezzo (in opposizione), dal che deriva che a volte Marte sarà "vicino" alla Terra, e a volte "lontano". Al contrario, in uno geocentrico, nel quale le orbite siano concepite ancora pressoché circolari, la distanza di un pianeta dalla Terra sarebbe da considerarsi sostanzialmente costante, d'onde la fondata possibilità di una confutazione sperimentale di una teoria in favore dell'altra. Per renderci conto della situazione, facciamo due calcoli davvero elementari. Assunta quale unità di misura la distanza (media) della Terra dal Sole (quella che si definisce oggi un'unità astronomica, UA, vale a dire circa 149.600.000 Km), risulterà che la misura del raggio dell'orbita terrestre è uguale a 1; dell'orbita marziana a 1.52 ; dell'orbita venusiana a 0.72 . Ne consegue che, in prima approssimazione, la distanza minima del pianeta rosso dalla Terra è 0.52 UA, mentre la massima è 2.52 ; gli analoghi valori per la "vagabonda stella d'Oriente" saranno invece rispettivamente 0.28 e 1.72 . Questi numeri, desunti dalle stime oggi accettate per le distanze medie dei pianeti in questione dal Sole - e, come vedremo, le stesse che erano conosciute, con notevole approssimazione, sin dal tempo di Copernico - ci informano che il rapporto tra distanza massima e minima dalla Terra nel caso di Venere è uguale a 6.14 , laddove nel caso di Marte si ottiene solo un 4.84 . In realtà, le cose sono un po' più complicate di così, perché le orbite dei pianeti non sono esattamente circolari, e il Sole non si trova al centro di esse, fatto questo che ha le sue conseguenze osservative, di cui sia Tolomeo che Copernico erano bene al corrente, e tenevano nel giusto conto, modificando con opportuni accorgimenti lo schema ideale semplificato sopra descritto. Se l'eccentricità di Venere (vale a dire il rapporto tra lo scostamento del Sole dal centro dell'orbita e la distanza media del pianeta dal Sole) è soltanto di 7 millesimi, e quella della Terra di 16 centesimi, per quanto riguarda Marte si trova invece un valore di quasi 1 decimo, circostanza la quale fa sì che la distanza minima tra questo pianeta e la Terra non sia di 0.52 UA, bensì di 0.4 UA, e quella massima di 2.64 UA, anziché 2.52 13. Il rapporto 2.64:0.4 produce adesso il numero 6.6 , al posto di 4.84 , e ad esso ci riferiremo nel seguito come al valore più adeguato. 171 Perché sono importanti per noi i numeri citati? Beh, perché permettono di comprendere come variano davvero le dimensioni dei due astri, osservati dalla Terra. Basta notare che il diametro apparente14 di Marte sarà circa 6 volte e mezzo più grande quando il pianeta è vicino a noi rispetto a quando ci è lontano, sicché la superficie ancora apparente del suo disco, che come sappiamo è proporzionale al quadrato del diametro, varierà di circa 44 volte (6.62×6.62 = 43.82); mentre, per quanto riguarda Venere, questo rapporto sarà di circa 38 volte (6.14×6.14 = 37.73). Ne consegue che il riferimento galileiano al numero 6, e quindi al numero 40, risulta corretto per Venere, laddove appare invece alquanto esagerato quello al numero 8, e quindi al numero 60, per Marte. Se Galileo con il suo cannocchiale avesse veramente osservato una variazione della superficie apparente di Marte pari a 60 volte, avrebbe falsificato, e non già confermato, il sistema copernicano, almeno in ordine alle stime dell'astronomo polacco per la variazione della distanza del pianeta in parola dal Sole, e quindi dalla Terra. Si tratta in questo frangente di un'enfasi di troppo, dovuta al fatto che si ha a che fare con stime quantitative, sulle quali non era facile al tempo essere precisi. In effetti, il disco di Marte, senza la strumentazione opportuna, appare sempre comunque molto "piccolo", vale a dire quasi puntiforme, sia quando ci è vicino che quando ci è lontano, e per averne un'idea basta eseguire il seguente calcolo. Il diametro reale di Marte è di 6800 Km, pari a 0.54 volte quello della Terra. Se lo immaginiamo posto a una distanza di 59 milioni di Km (e cioè intorno alla situazione più favorevole), lo vedremmo sotto un angolo di soli 24 secondi d'arco, un valore assolutamente inapprezzabile a occhio nudo (il cui limite strutturale è di almeno un primo - ricordiamo che un primo è un sessantesimo di grado, mentre un secondo è, a sua volta, un sessantesimo di un primo). Con un cannocchiale capace per esempio di venti ingrandimenti (sembra che gli ultimi cannocchiali di Galileo potessero arrivare fino a trenta), questi diventerebbero circa 8 primi, e per far comprendere cosa ciò significhi in realtà forniamo qualche paragone comprensibile a tutti (sempre approssimando, ovviamente, ma a un livello che non dovrebbe alterare l'essenza delle cose). Un grado è l'angolo che viene compreso da 1 cm posto a 50 cm di distanza (si dice, lo spessore di un dito alla distanza di un braccio teso), mentre un millimetro, a cui possiamo fare riferimento con la classica espressione "una capocchia di spillo", si vede alla stessa distanza sotto un angolo di circa 7 primi. Nel caso in esame, quindi, Galileo avrebbe potuto vedere il disco di Marte più o meno come la detta capocchia di spillo. Se lo aveva visto in questo modo nel caso migliore, come può averlo osservato in quello peggiore? Per esagerare il rapporto che voleva valutare, sottostimando di conseguenza il denominatore, diciamo pure 4 secondi d'arco15, e quindi 80 visti al telescopio, poco più di un primo. Ciò in effetti riporterebbe all'incirca al valore 8 indicato nel Dialogo, ma ci sarebbe da chiedersi come si fa ad apprezzare veramente 1/8 (un ottavo) di capocchia di spillo a 50 cm di distanza - o se per questo anche 1/5, o 1/6, o 1/7 (tralasciando poi altri problemi tecnici, quali la capacità di risoluzione dell'immagine dovuta al diametro dell'obiettivo, etc.). Ma, soprattutto, con quali strumenti di misura a disposizione, e utilizzati in che modo? Galileo aveva forse oculari graduati al millimetro o al decimillimetro 16? Numeratore e denominatore della frazione sono tanto piccoli che sembra difficile abbia potuto ottenere una stima quantitativa apprezzabile del loro rapporto senza apparecchiatura adeguata. Altra questione sono ovviamente le variazioni effettive di luminosità (ovvero delle magnitudini apparenti) di questi due pianeti, le quali non sono però direttamente proporzionali ai numeri sopra riportati, e i cui rapporti risultano per di più assai minori di quelli precedentemente discussi - per motivi piuttosto complessi da spiegare, e comunque certamente ignoti al tempo di Galileo17. E' quindi presumibile che lo scienziato pisano, dall'osservazione di tali variazioni di magnitudine, non potesse risalire alle variazioni delle corrispondenti superficie apparenti di dianzi esaminate. Del resto, di siffatti cambiamenti 172 erano, ovviamente!, del tutto al corrente anche gli antichi astronomi greci, come presto accerteremo, sicché la loro evidenziazione non avrebbe dovuto costituire in ogni caso una grande novità (ancorché la visione con il cannocchiale avrebbe certamente potuto metterli meglio in rilievo). Si può pensare che Galileo abbia fatto ricorso a diversi espedienti, per esempio che abbia estrapolato i valori desiderati utilizzando soltanto alcune osservazioni (si vede in quanto tempo si ha una diminuzione del 50%, e poi si presume che sia di 1/4 in un tempo doppio, etc.), o che abbia asserito di aver visto qualcosa che era in realtà un risultato combinato di aspettative teoriche e di osservazioni reali (avendo in effetti a disposizione, come sarà subito chiaro, una teoria che comunque gli indicava a priori gli ordini di grandezza che erano in gioco), ma quello che ci interessa non è tanto approfondire la possibile esiguità sperimentale delle sue argomentazioni. Ciò che vogliamo nella presente occasione portare all'attenzione dei lettori di Episteme è ben altro, e riguarda precisamente l'espressione "poche volte" contenuta nel commento sopra riportato, a proposito delle analoghe previsioni effettuate all'interno del sistema tolemaico. Quando un cultore della scienza "moderna" resta nel vago su qualcosa su cui ci si aspetterebbe possa essere più preciso come peraltro nel commento in esame accade invero in diversi altri punti - c'è da stare specialmente attenti: questa è una di quelle volte in cui tale norma di comportamento verrà felicemente ricompensata. 3 - Formuliamo esplicitamente il problema che ci proponiamo di discutere: qual è il numero di volte con il quale, secondo Tolomeo, variano le distanze rispettive di Venere e di Marte dalla Terra? E' vero che le relative osservazioni di Galileo, qualunque fosse il loro grado di accuratezza e di attendibilità, falsificavano il sistema tolemaico in favore del sistema copernicano? La risposta a tali domande richiede una conoscenza dell'opera dell'antico astronomo alessandrino superiore a quella che è oggi abituale, dal momento che è ormai invalsa l'abitudine di considerarla poco più che un pezzo di antiquariato, da conservare sì con qualche rispetto nel museo della scienza, ma in fondo di scarsa attualità, proprio perché demolita dai "colpi mortali" precedentemente illustrati18. Occorre innanzitutto sgombrare il terreno da un equivoco, tuttora diffuso presso i meno informati, vale a dire che nel sistema di Tolomeo le distanze dei pianeti dalla Terra fossero pressoché costanti19. In effetti, una concezione astronomica di questo tipo, geocentrica, con i pianeti fissati su sfere aventi per comune centro la Terra, era stata elaborata nel IV secolo A.C. da Eudosso, e poi ritoccata dal suo discepolo Callippo (ad essa si fa riferimento come alla teoria delle sfere omocentriche). Si tratta di un sistema evidentemente errato, dal punto di vista che stiamo qui esaminando, capace comunque, pare, di rendere conto anch'esso con buona approssimazione20 dello "strano" moto dei pianeti (termine che in greco significa appunto errabondo), secondo il punto di vista di un osservatore terrestre: questi corpi infatti a volte procedono in un senso, altre in quello contrario, talora infine sembrano addirittura restare fermi nella loro posizione per qualche tempo. Tale sistema fu adottato da Aristotele come fondamento della propria cosmologia, che prevedeva una serie di elementi del tipo: sfere di cristallo, incorruttibilità dei cieli, etc.21, i quali, ancora ben "vivi" al tempo di Galileo, costituiscono l'autentico oggetto della critica dello scienziato, ed escono, questi sì, demoliti da irreversibili colpi mortali nel corso della disputa scientifica di cui ci stiamo occupando. Non esiste nessuna "impalcatura" materiale che sostiene l'universo, nessuna musica di sfere di cristallo che ruotano, collocate secondo proporzioni armoniche; non c'è nessuna differenza tra il Sole e le altre stelle, allo stesso modo che non ce n'è tra la Terra, o la Luna, e gli altri pianeti, per lo più gelidi o torridi sassi inospitali; e se uno di tali oggetti 173 dovesse modificare la sua traiettoria usuale portandosi in rotta di collisione con la Terra, allora non sarebbe per obbedienza agli imperscrutabili voleri di un Dio, bensì per cieca sottomissione a inesorabili "leggi" fisico-matematiche. Ma, per ciò che riguarda invece il punto di vista strettamente astronomico, proprio perché incapace di rendere conto delle evidenti variazioni delle distanze dei pianeti dalla Terra, messe in evidenza dai richiamati palesi aumenti e diminuzioni di luminosità, il sistema di Eudosso-Callippo era stato in verità presto abbandonato22, e l'astronomia greca (che la polemica di Galileo rischia di far sottovalutare ingiustamente - va oggi di moda enfatizzare i contributi di altre civiltà anche in questo campo, ma chi mai ha concepito sistemi rendenti conto di movimenti e distanze quali quelli che stiamo qui descrivendo? Altrove, ci si è limitati a questioni di misurazione del tempo, di calendario...) aveva cominciato a cercare delle alternative, pur mantenendo generalmente ferma l'ipotesi della staticità della Terra23. Tra queste, la teoria che contemplava l'introduzione di deferenti ed epicicli (la tradizione ne attribuisce il merito ad Apollonio di Perga, il grande matematico attivo ad Alessandria nella seconda metà del III secolo A.C.), che si può sinteticamente illustrare nel seguente modo. Un corpo celeste non si muove su un'orbita circolare, o quasi, intorno alla Terra, bensì su una circonferenza (epiciclo) il cui centro si muove a sua volta su un'altra (deferente), avente (quasi) come centro la Terra (e quel "quasi" fa sì che i deferenti vengano chiamati a volte eccentrici). Fa eccezione il Sole, per il quale non sono previsti epicicli. Un tale sistema era in grado di rendere conto non solo dello strano comportamento altalenante dei pianeti, ma anche del loro avvicinamento o allontanamento dalla Terra, e fu sempre più utilizzato per dare una descrizione matematica precisa, almeno quanto era a quei tempi possibile, della posizione dei corpi che popolavano il cielo. Il metodo in parola venne prescelto a fondamento della Sintassi Matematica (detta pure Grande Sintassi, o Almagesto in epoca medievale, seguendo una consuetudine di origine araba) da parte appunto di Tolomeo, nel II secolo D.C.: un'opera che, come gli Elementi di Euclide per la geometria, divenne, assai comprensibilmente, sinonimo di astronomia per oltre un millennio. Ciò premesso, ci si può chiedere quale fosse la stima dei raggi dei deferenti (rd) e degli epicicli (re) contenuta nel libro di Tolomeo per i due pianeti in questione, visto che risulta, e ancora una volta in prima approssimazione24: distanza minima dalla Terra (dmn) = raggio del deferente (rd) meno raggio dell'epiciclo (re) = rd - re ; distanza massima (dmx) =rd più re = rd + re . I raggi degli epicicli sono invero sempre supposti da Tolomeo minori di quelli dei relativi deferenti (la scelta non è però obbligata!, vedi la Nota N. 32), ma vengono anche immaginati in generale, secondo la divulgazione scientifica corrente - che segue una moda come vedremo presto del tutto arbitraria - quali assai "piccoli" rispetto ai primi, quasi si trattasse di percentualmente modesti "correttivi", dello stesso ordine di grandezza degli "aggiustamenti" che pure continuava a introdurre, per i medesimi scopi, Copernico. E' tale circostanza che porta a ritenere che nel sistema dell'astronomo alessandrino l'entità prevista delle variazioni che stiamo indagando sia comunque insufficiente a rendere conto di quelle realmente verificantisi. Invece, in verità, e si resterà forse sorpresi nell'apprenderlo, nell'Almagesto non c'è alcuna stima dei parametri in oggetto! Tolomeo non è onestamente in grado di fornirne dei valori, e non si lancia pertanto in speculazioni azzardate. Calcola però con estrema accuratezza ciò che era alla sua portata, vale a dire i rapporti rd:re tra raggio del deferente e raggio dell'epiciclo per tutti i pianeti del sistema solare (oltre che per la Luna, che veniva allora ad essi apparentata). In altre parole, il sistema tolemaico è, dal punto di vista in discorso, un sistema indeterminato, a meno di un fattore di proporzionalità 174 addirittura possibilmente diverso astro per astro (visto che essi non vengono mai tra loro correlati). Pertanto, siamo di fronte a una descrizione del cosmo non suscettibile di banali falsificazioni, o di ricevere "colpi mortali", e che comprende addirittura, come caso particolare, il sistema copernicano: sicché, se la più antica venisse falsificata, lo sarebbe anche la più moderna, ma ovviamente non viceversa25! Diamo i rapporti in parola, a titolo di informazione, per tutti i pianeti, allo scopo di far notare la loro estrema precisione, confrontandoli con i dati attualmente accettati per le distanze (medie) dei pianeti dal Sole26: Mercurio Venere Marte Giove Saturno 0.38 0.72 1.52 5.18 9.52 60 60 60 60 60 ; ; ; ; ; 22.5 43.16 39.5 11.5 6.5 . Nella prima colonna della precedente tabella sono riportate le distanze dei pianeti dal Sole attualmente accettate (espresse in UA), nella seconda e nella terza i rispettivi dati tolemaici per raggio del deferente e raggio dell'epiciclo. Il tutto va interpretato nel seguente modo: se il raggio del deferente viene posto convenzionalmente uguale a 60, allora quello dell'epiciclo varrà, ad esempio nel caso di Mercurio, 22.5 parti di esso, e così via. Bene, notiamo allora che la prima colonna si ottiene con ottima approssimazione dalle ultime due semplicemente eseguendo i rapporti dei due numeri che si trovano alla fine di ciascuna riga, in un ordine o nell'altro a seconda che si tratti di pianeti interni o esterni: 22.5:60 = 0.37 (da confrontare con 0.38); 43.16:60 = 0.72 (versus 0.72); 60:39.5 = 1.52 (versus 1.52); 60:11.5 = 5.2 (versus 5.18); 60:6.5 = 9.2 (versus 9.52). Il perché di tale coincidenza è facilmente spiegato alla luce di quanto abbiamo prima accennato: il sistema copernicano ammette una "lettura" in chiave tolemaica, quando si pongano uguali a 1 i raggi degli epicicli dei pianeti esterni, e uguali a 1 i raggi dei deferenti dei pianeti interni. Viceversa, sotto la sola ipotesi che i pianeti mantengano (mediamente) costante la loro distanza dal Sole - il che non è incompatibile con nessuna delle assunzioni del sistema tolemaico, anzi il contrario 27 - si può tradurre il sistema tolemaico in uno copernicano28, ciò che appunto è legittimo a questo punto supporre fece, poggiandosi in modo fondamentale sull'antico testo, l'astronomo polacco29. Torniamo adesso alla nostra primitiva domanda: se Tolomeo nella sua grande opera non dà alcuna informazione sui valori assoluti delle distanze, è comunque possibile dire se prevedeva "poco", o "molto", per la variazione di quelle che ci interessano? Certo che è possibile, se si riguardano però soltanto quei rapporti tra distanza massima e minima precedentemente calcolati rispettivamente per Venere e per Marte. E ciò perché, se è vero che nel sistema tolemaico non si conoscono né raggio del deferente né raggio dell'epiciclo (per nessun pianeta: fanno eccezione, come avremo modo di vedere in seguito, la Luna e il Sole), pure dalle identità precedenti si ottiene evidentemente che: dmx:dmn = (rd+re):(rd-re) = [(1+(re:rd)]:[(1-(re:rd)], ovvero, che il rapporto cercato è perfettamente determinabile noto che sia il rapporto re:rd e quest'ultimo, come abbiamo visto, è individuato da Tolomeo in modo incredibilmente (in relazione all'apprezzamento corrente che si ha della sua opera) corrispondente al reale. C'è adesso bisogno di fare davvero i calcoli fino in fondo, dopo quelli che abbiamo già precedentemente effettuato, per persuaderci che il rapporto dmx:dmn nel caso del pianeta 175 Venere è, secondo Tolomeo, precisamente uguale al precedente 6.14 , e che il numero in parola vale, nel caso di Marte, esattamente 4.84 30? Cioè, che tanto nel sistema tolemaico quanto in quello copernicano le previsioni per i valori in discorso risultano, in prima approssimazione, esattamente le stesse, e quindi sostanzialmente identiche le aspettative di variazione delle superficie apparenti di tali pianeti nei due sistemi a confronto?! 4 - La presente discussione non ci sembrerebbe completa se non informassimo il lettore di un'altra poco nota circostanza. Infatti, anche se, come abbiamo detto, non c'è alcuna possibilità di determinare, sia pure in misura approssimativa, i valori dei raggi dei deferenti e degli epicicli (per ogni singolo pianeta) all'interno dell'Almagesto, nondimeno una stima di tali valori era in realtà ben corrente nel Medioevo. E questo per via di una curiosa tradizione evidentemente affermatasi nella cultura greca a un certo punto della sua storia, e poi dalla prima filtrata nell'astronomia araba, da cui si riversò successivamente di nuovo in Occidente31 - sicché ad essa potrebbe avere verosimilmente fatto riferimento Galileo, il quale comunque, tutto infervorato nella sua opera di "propaganda" ideologica, non la esamina così accuratamente come avrebbe viceversa onestamente dovuto/potuto 32. Di tale concezione ci informa Proclo di Costantinopoli (VI secolo D.C.), nelle sue Hypotyposes, e consiste sostanzialmente nel presupposto che nel cosmo non esistano spazi vuoti. La detta assunzione si concretizza, nel caso che ci sta a cuore, con l'ipotesi che la sfera che costituisce l'epiciclo di Mercurio sia tangente a quella della Luna (ovvero, la distanza minima di Mercurio dalla Terra viene ipotizzata uguale a quella massima della Luna dalla Terra), e così via di seguito: la sfera di Venere è immaginata tangente a quella di Mercurio33, etc.. Si tratta ovviamente di una speculazione del tutto arbitraria 34, che non ha alcun fondamento osservativo, ed è solo da pochi decenni che Bernard Goldstein35 ha potuto rintracciare l'origine di quest'opinione, diffusa come dicevamo nel mondo arabo e in quello medievale cristiano. Saremmo in effetti di fronte a una teoria che proviene ancora da un'opera di Tolomeo, le cosiddette Ipotesi dei pianeti, nella cui seconda parte del Libro I, a noi non pervenuta, si sarebbe trovato esposto il modello in questione. Questo, sopravvissuto in codici ebrei e arabi, avrebbe dato origine a uno schema quantitativo abbastanza irreale, ma comunque capace di soddisfare la sete di certe conoscenze. Ciò premesso, l'unico riferimento che si possa fare in quanto a previsioni numeriche assolute è all'interno di tale sistema, o delle modificazioni che ne fecero astronomi arabi come il già citato (Nota N. 31) al-Farghani, o il suo contemporaneo al-Battani (latinizzato in Albatenio). Vediamo dunque in dettaglio, ancorché del tutto elementare, cosa esso è capace di dirci in ordine alla nostra questione. Senza attardarci troppo in notazioni storico-filologiche 36, informiamo subito che secondo Tolomeo la distanza massima della Luna dalla Terra vale 64 r.t. (valore arrotondato, come faremo d'ora in poi) 37, dove la sigla r.t. significa "raggi terrestri", un'unità di misura molto utilizzata in siffatti problemi nel mondo antico, e per il resto anche da Copernico (per esempio Libro IV, Capp. XVII e XIX), sicché 64 = dmn di Mercurio dalla Terra = raggio del deferente meno il raggio dell'epiciclo di Mercurio. Poiché conosciamo il rapporto di queste due quantità, ecco che possiamo determinare in modo univoco tali parametri altrimenti sconosciuti, e un calcolo immediato fornisce (tutti i valori sono d'ora in poi da intendersi espressi in r.t.): raggio del deferente di Mercurio = 102, raggio dell'epiciclo di Mercurio = 38, dmn di Mercurio = 64 = 102-38, dmx di Mercurio = 102+38 = 64+2×38 = 140 (in realtà, tenuto conto dell'eccentricità, 166 38). 176 Partendo da qui, e procedendo in maniera analoga per Venere, si trova: raggio del deferente di Venere = 593, raggio dell'epiciclo di Venere = 427, dmn di Venere = 166, dmx di Venere = 1020 (tenuto conto dell'eccentricità, 1079); e così via proseguendo: raggio del deferente del Sole = 1160 (anziché i precedenti 1079, sempre a causa dell'eccentricità), (raggio dell'epiciclo del Sole = 0) dmn del Sole = 1160, dmx del Sole = 1160 (ancora per l'eccentricità, 1260 39); raggio del deferente di Marte = 3683, raggio dell'epiciclo di Marte = 2423, dmn di Marte = 1260, dmx di Marte = 6106 (a ragione della sensibile eccentricità di questo pianeta, 8820). Dalla precedente "arida" tabella di numeri, sulla quale abbiamo dovuto di necessità dilungarci, si trae (abbastanza naturalmente nel caso di Venere, poiché i rapporti rd:re non sono mutati, mentre nel caso di Marte risultano decisive le correzioni dovute all'eccentricità) che i due valori oggetto della nostra particolare attenzione sono rispettivamente quasi uguali a quelli dianzi stimati quali veri: 1079:166 = 6.5 (nel caso di Venere); 8820:1260 = 7 (nel caso di Marte). Ciò riconferma che all'interno del sistema tolemaico - seppure del Tolomeo delle Ipotesi sui pianeti, e non del Tolomeo dell'Almagesto - la variazione prevista per le distanze in parola, non solo non è "piccola" rispetto a quella teorizzata dal sistema copernicano, ma è addirittura ad essa quasi identica (questa volta eccentricità comprese anche nel sistema copernicano)! Concludiamo il paragrafo fornendo, per completezza, stime degli analoghi valori assoluti secondo Copernico (per il quale resteranno fermi ovviamente i rapporti "veri" precedentemente riportati), dal momento che il lettore potrebbe pensare che, nel caso di distanze significativamente diverse come ordine assoluto di grandezza, le cose potrebbero poi nella pratica osservativa mutare di molto (nel medesimo modo che è stato detto per le misure angolari di Marte, sempre troppo piccole per poter essere facilmente apprezzate). In effetti, il valore determinato da Tolomeo per l'unità astronomica - vale a dire una distanza Terra-Sole uguale a 1210 r.t. (in media), corrispondenti quindi a 1210×6305 Km, ovvero a circa 7.630.000 Km - costituisce una grossolana sottovalutazione del dato reale, addirittura di circa 20 volte. Si potrebbe credere allora che da questa "pècca" il sistema copernicano, e lo stesso Galileo, fossero immuni, ma, senza voler ripetere tutta la procedura di prima, complicata anche adesso dalla presenza delle eccentricità, limitiamoci ad informare di quella che è la valutazione copernicana dell'unità astronomica (Libro IV, Cap. XIX): soli 1142 r.t. (minima 1105, massima 1179), un valore che è appena leggermente diverso dalla stima accettata da Tolomeo, e pertanto ancora errato di circa 20 volte. Nella sottovalutazione in oggetto Copernico e Tolomeo sono dunque compagni d'errore nello stesso identico modo40, e se andiamo a calcolare le distanze assolute dei pianeti nel sistema copernicano, espresse come prima in r.t., e tenuto conto delle eccentricità, si trovano, nei due casi che ci interessano, circa i seguenti valori41: 177 dmn di Venere dalla Terra = 304 ; dmx = 1946 ; dmn di Marte dalla Terra = 464 ; dmx = 3007 ; dai quali si trae ovviamente, ancora una volta, 1946:304 = 6.40 (al quadrato, 41), 3007:464 = 6.48 (al quadrato, 42), che sono da confrontarsi, ricordiamolo, rispettivamente con i valori tolemaici 1079:166 = 6.5 ; 8820:1260 = 7 42. Per quanto riguarda le parallassi, tali forti sottovalutazioni darebbero conseguenze non indifferenti in ordine alle misure angolari che ci stanno a cuore. Ad esempio nel caso di Marte, quando si trova vicino alla Terra, si dovrebbe osservare, secondo le tavole tolemaiche riportate nel paragrafo precedente - e fermo restando il vero dato del diametro, ovviamente al tempo però sconosciuto - un angolo di 2 primi e 55 secondi d'arco, e, quando il pianeta è lontano, di 25 secondi d'arco, valori entrambi molto distanti da quelli effettivi si noti che risulta sempre, come deve, 175:25 = 7 . Con le stime copernicane, invece, per Marte si dovrebbe evidenziare nella prima circostanza un angolo addirittura di 7 primi e 55.6 secondi d'arco; nella seconda di 73 secondi, valori questi non soltanto incommensurabilmente lontani dai reali, ma perfino meno vicini alla verità dei corrispondenti tolemaici - ripetiamo che, in ogni caso, risulta 475.6:73 = 6.5 . Se ne trae che, forse paradossalmente, proprio il cosmo di Copernico è un po' più ristretto di questo particolare schema tolemaico. Si comprende bene che, comunque, in entrambi i "modelli" rimaniamo pressappoco sullo stesso piano: molto lontani in entrambi dai veri valori assoluti, e molto vicini a quelli relativi, e quindi di fronte a sistemi capaci di spiegare tutti e due in maniera adeguata alcuni43 fenomeni osservabili. 5 - In conclusione, è forse opportuno accennare esplicitamente a quale possa essere una morale del precedente discorso. Un "onesto", scientifico raffronto tra la teoria esposta nell'Almagesto e quella nel trattato di Copernico, mostra che non c'è grande differenza tra le due44, sicché bisogna ammettere che ci si trova in presenza di un conflitto che deve dirsi prevalentemente di natura ideologica, coinvolgente non solo la posizione epistemologica propria di Galileo (vedi Nota N. 6), ma anche la lotta contro il potere temporale della Chiesa di Roma. In effetti, a differenza del più "politicizzato" Galileo (che sa bene come le sue argomentazioni servano soprattutto la "causa protestante", ed è molto lontano dall'essere quel "buon cattolico" che taluni autori vogliono descrivere45), l'astronomo polacco/tedesco non spinge mai le sue argomentazioni fino al punto da rompere esplicitamente e definitivamente con la tradizione classica e medievale - tanto da essere considerato per questo da molti commentatori ancora un uomo del Medioevo in quanto a struttura mentale, e pertanto, secondo un punto di vista "moderno", inaccettabile. Fu per esempio già rimproverato da Giordano Bruno per "non aver sfruttato fino in fondo la carica rivoluzionaria" della concezione generale espressa dal cardinale di Santa Romana Chiesa Nicola Cusano46. Invero, il cosmo di Copernico può assomigliare ancora, nell'ottica di chi non è capace di accorgersi di certi "dettagli", di certi valori simbolici, a quello di Tolomeo, e della scienza antica, poiché, se si prescinde da ciò che può essere considerato soltanto un trascurabile cambiamento di centro, il tutto resta sempre, almeno formalmente, incastonato all'interno della "confortante" sfera delle "stelle fisse". Bisogna riconoscere, d'altro canto, che non appare agevole immaginare un sistema di tipo tolemaico che soddisfi tante diverse esigenze, quali, tanto per dire, essere coerente con i fenomeni osservabili e contemplare la possibilità di un'impalcatura solida e mobile che sostenga l'universo e garantisca la trasmissione del moto. In tal senso, il progresso della scienza ha certamente costretto a 178 doverose rinunce, o, meglio, a soluzioni troppo semplici di questioni aventi una matrice anche di tipo metafisico/spirituale, un aspetto questo via via sempre più ignorato. Due parole da ultimo sul nominato Nicholas Krebs, nativo della tedesca Cues, e perciò detto il Cusano (il "divino Cusano", ancora secondo Bruno). Eccoci di fronte a un personaggio molto interessante, il cui ruolo nelle origini della scienza moderna è ben noto, ma forse non adeguatamente apprezzato, precursore quale egli fu della necessità di matematizzazione della scienza ("Nihil certi habemus in nostra scientia nisi nostram mathematicam", opina il Cusano, e gli fa eco Copernico con il suo famoso: "Mathemata mathematicis scribuntur"47), e anticipatore, nella sua opera De docta ignorantia (1440, ma stampata per la prima volta soltanto nel 1488), di tutte le caratteristiche peculiari della cosmologia moderna. E' ovvio che, procedendo per la via delineata, si comincerebbe a entrare nel vivo di una questione che appare ancora oggi per tanti versi non troppo ben chiarita, e che i presenti autori propendono piuttosto per un'azione di Copernico politicamente meditata, commisurata ai tempi, anziché per un suo reale attaccamento al "mondo antico". Ma è venuto ormai il momento di congedarsi, esprimendo l'auspicio che la tesi di fondo che questo articolo voleva sostenere sia stata esaurientemente illustrata, anche se, il lettore lo comprenderà appieno, assai più avrebbe potuto essere detto; non solo, ma quello che è stato detto avrebbe potuto essere espresso con maggiore rigore, che ci sembra in nulla avrebbe però modificato il senso generale del discorso a cui il tipo di analisi adottato voleva contribuire. Non è certo la differenza di pochi decimali un elemento capace di alterare il quadro complessivo che si è venuto fin qui delineando... Appendice Sulla possibile determinazione dei periodi di rivoluzione dei pianeti del sistema solare a partire dall'opera di Tolomeo Val forse la pena di integrare quanto dianzi esposto fornendo un altro importante elemento a sostegno della tesi che il sistema tolemaico non fosse così "errato" come pretendeva Galileo (almeno dal punto di vista della pura descrizione cinematica, l'unica peraltro che fosse al tempo oggetto di discussione), e che non era troppo difficile passare da questo a quello copernicano, e viceversa, oppure correggere adeguatamente il primo a seguito di nuove sopravvenute scoperte (vedi per esempio le Note NN. 28, 43). Si tratta della questione dei periodi di rivoluzione dei pianeti intorno al Sole, che risultano tutti perfettamente desumibili dai dati tolemaici. Nel trattato di Copernico, più precisamente nella figura rappresentante il nuovo sistema che compare nel Libro I (alla pag. 213 dell'edizione citata), troviamo i seguenti valori, naturalmente approssimati: Mercurio 80 giorni (0.22 anni) Venere 9 mesi (0.75 anni) Marte 2 anni Giove 12 anni Saturno 30 anni I valori attualmente riconosciuti corretti (contenuti in ogni enciclopedia), ai quali faremo riferimento nel seguito, sono: 179 Mercurio 88 giorni (0.24 anni) Venere 224 giorni (0.613 anni) Marte 687 giorni (1.88 anni) Giove 11.315 anni Saturno 29.167 anni In Tolomeo troviamo i seguenti valori: Mercurio Venere Marte Giove Saturno 145 5 37 65 57 46 8 42 6 2 46 8 79 71 59 I numeri elencati nella precedente tabella vanno interpretati nel seguente modo. In 46 anni solari, valore riportato in III colonna, Mercurio compie per esempio 145 rivoluzioni sull'epiciclo (o "in anomalia"), laddove il centro dell'epiciclo ne compie 46 sul deferente (rivoluzioni "in longitudine"), e così via. Si noti che per i tre pianeti esterni il dato nella terza colonna si ottiene dalla somma dei primi due, mentre per i due pianeti interni esso coincide con quello della seconda colonna. Ciò dimostra viepiù che nell'Almagesto i moti di tutti i pianeti sono collegati chiaramente a quello del Sole. Si eseguano adesso le seguenti operazioni, e si confrontino poi i risultati con i dati della tabella dei periodi di rivoluzione dei pianeti. Mercurio 46:(145+46) [dato in III colonna diviso somma dei dati nelle prime due] = 0.24 (da confrontarsi con 0.24) Venere 8:(8+5) = 8:13 = 0.615 (da confrontarsi con 0.613) Marte (37+42):42 [per i pianeti esterni, bisogna prendere la somma dei dati delle prime due colonne, che è poi il dato riportato nella III, e dividerla per il valore riportato nella II] = 79:42 = 1.88 (da confrontarsi con 1.88) Giove (65+6):6 = 71:6 = 11.83 (da confrontarsi con 11.315) Saturno (57+2):2 = 29.5 (da confrontarsi con 29.167). Ancora una volta, ogni commento è superfluo... Nota: Come ben risaputo, dal punto di vista geocentrico, è conveniente introdurre, per ogni 180 pianeta, un periodo sinodico, diciamolo N, contrapposto all'ordinario periodo orbitale P, del quale ci siamo fino a qui occupati. La relazione tra i due periodi è data, per i pianeti esterni, dall'identità: (1) 1/P = 1 - 1/N mentre, per quelli interni, sussiste la: (2) 1/P = 1 + 1/N . L'accordo tra periodi sinodici e dati forniti da Tolomeo è ovviamente ancora ottimo. Se diciamo, per ogni pianeta, v1, v2, v3 i parametri che gli corrispondono rispettivamente nelle tre colonne della precedente tabella, risulta per esempio, per un pianeta esterno: (3) N = v3/v1 , mentre, come abbiamo visto P = v3/v2 . Per i pianeti interni, si ha invece: (4) N = v2/v1 , P = v3/(v1 + v2) . Nel primo caso, dalla (3) si deduce esattamente la (1), dal momento che risulta v3 = v1 + v2 : 1/P + 1/N = v2/v3 + v1/v3 = (v1 + v2)/v3 = 1 ; mentre nel secondo, dalla (4) si deduce la (2) in virtù della v3 = v2 : 1/P - 1/N = (v1 + v2)/v3 - v1/v2 = (v1 + v2)/v2 - v1/v2 = v2/v2 = 1 ! Note 1 Vedi per esempio M. Heidegger, "La questione della tecnica" (in Saggi e discorsi, a cura di G. Vattimo, Ed. Mursia, Milano, 1976), e il commento che se ne fa nel II capitolo di U. Bartocci, America: una rotta templare - Un'ipotesi sul ruolo delle società segrete nelle origini della scienza moderna, dalla scoperta dell'America alla Rivoluzione copernicana (Ed. Della Lisca, Milano, 1995). 2 Anche perché è in relazione ad essa che si sviluppano la "nuova" fisica e la "nuova" matematica. Per quanto riguarda la prima, il sistema del mondo che si afferma dal Rinascimento in poi, eliminando il "primo mobile" e l'"impalcatura" costituita dalle aristoteliche "sfere di cristallo", si trova di fronte alla ineludibili domande: qual è l'origine del movimento? perché i corpi celesti si tengono su senza "cadere"? (vedi anche la Nota N. 21). Per non dire di quella ancora più fondamentale: come mai l'asserito movimento della Terra non si avverte da parte degli uomini che ci stanno sopra? (le "risposte" sono costituite rispettivamente dal "principio d'inerzia", dalla teoria della gravitazione universale, e dal "principio di relatività", che guideranno tutti i successivi sviluppi della meccanica). Per ciò che concerne invece la matematica, è ben noto che la nascita del calcolo infinitesimale può ascriversi ai tentativi di trovare risposta alle suddette domande, mentre le radici della geometria analitica possono essere rintracciate negli studi di geografia terrestre naturalmente collaterali al progetto portoghese di esplorazione del globo (latitudine e longitudine). 181 3 Introduzione alla psicanalisi, Prima e seconda serie di lezioni, 1915-17; Ed. Boringhieri, Torino, 1978, p. 258. 4 Che è professore ordinario di Geometria presso la Facoltà di Scienze Matematiche Fisiche e Naturali dell'Università degli Studi di Perugia, e docente di Storia delle Matematiche. Il secondo autore ha elaborato con il primo la propria tesi di laurea, dal titolo "La matematica come astronomia: dal sistema tolemaico al sistema copernicano", presso il detto Ateneo, nel 1996. Il più vecchio desidera ringraziare vivamente: il Dott. Giuliano Bruni, per avergli permesso di vagare, nel corso di amichevoli stimolanti conversazioni, in spazi del pensiero a lui in precedenza sconosciuti; il Prof. Giancarlo Cavalleri, dell'Università Cattolica di Brescia, che gli ha spiegato come emendarsi di diversi errori concettuali che, in assoluta buona fede, continuava a diffondere attraverso il suo insegnamento. 5 Loc. cit. nella Nota N. 1. Un ampio sunto di questa ricerca, riveduta e aggiornata con alcune informazioni successivamente acquisite, costituisce il primo capitolo ("Alle origini della costruzione dell'immagine scientifica del mondo: un problema storiografico") del volume: La costruzione dell'immagine scientifica del mondo - Mutamenti nella concezione dell'uomo e del cosmo dalla scoperta dell'America alla Meccanica quantistica (a cura di M. Mamone Capria, Ed. Città del Sole, Napoli, 1998), mentre una sua versione sintetica ("Une utopie scientifique à la découverte d'un Nouveau Monde") è comparsa in Politica Hermetica (L'Age d'Homme, Paris, N. 12, 1998), numero speciale dedicato a: Les contrées secrètes. 6 Come dire che, per esempio, ci si vuol mantenere ugualmente distanti sia dalle interpretazioni apocalittico-messianiche di certo pensiero cattolico/cristiano integralista, sia da quelle che si rifanno a una pretesa ultima fase di "dissoluzione" della storia dell'umanità, conformememente agli insegnamenti "trasmessi" da una fantomatica "tradizione primordiale". Entrambe queste posizioni hanno a comune un rifiuto del "metodo scientifico" in quanto tale, del "razionalismo cartesiano" che ha felicemente portato, almeno in taluni ambienti, alla distruzione delle "assurde chimere con cui da duemila anni si riempivano le menti dei giovani" (per usare un'espressione di Voltaire riferita proprio alla filosofia di Cartesio: Lettere inglesi, scritte tra il 1727 e il 1733; Boringhieri, Torino, 1958). Trattandosi nel presente articolo in modo particolare di Galileo, val forse la pena di aggiungere che si può stabilire un naturale "parallelismo" tra il detto razionalismo e l'epistemologia galileiana, quale espressa nella famosa lettera a Cristina di Lorena (1615): "Ma che quell'istesso Dio che ci ha dotati di sensi, di discorso e d'intelletto, abbia voluto, posponendo l'uso di questi, darci con altro mezo le notizie che per quelli possiamo conseguire, si' che anco in quelle conclusioni naturali, che o dalle sensate esperienze o dalle necessarie dimostrazioni ci vengono esposte innanzi a gli occhi e all'intelletto, doviamo negare il senso e la ragione, non credo che sia necessario il crederlo". 7 Nel suo celebre Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo tolemaico e copernicano (1632), Dialogo III, 349-351. 8 Anche se, per la verità, il sistema tolemaico non è del tutto geocentrico, come presto vedremo, allo stesso modo che quello copernicano non è del tutto eliocentrico (e sarebbero allora preferibili, nei due casi rispettivamente, gli appellativi geostatico ed eliostatico). 9 Loc. cit. nella Nota N. 7, 367. 10 F. Selleri, in Scritti di Storia della Scienza, a cura di A. Ballio e L. Paoloni, Accademia Nazionale delle Scienze detta dei XL, Roma, 1990, pp. 37-52. 11 "Approssimati" sia il sistema copernicano che quello tolemaico, quando si prescinda da accorgimenti particolari come eccentrici, equanti, etc., con cui si teneva conto di quanto oggi viene espresso dalle leggi di Keplero, secondo le quali le traiettorie dei pianeti intorno al Sole non sono circonferenze ma ellissi, con il Sole situato in uno dei relativi fuochi, e i moti dei pianeti non hanno velocità (in modulo) costante, ma hanno costante la sola velocità areolare (come dire che, in tempi uguali, il segmento che va dal pianeta al Sole descrive aree uguali). 182 12 Come preferiremo allora dire, anche se bisognerebbe specificare che si tratta di una congiunzione eliocentrica, dal momento che è invalso invece l'uso di parlare in questo caso di opposizione, con riferimento al fatto che nella configurazione in parola il Sole e il pianeta risultano in opposizione rispetto alla Terra. 13 L'elevata eccentricità dell'orbita di Marte, e una sfasatura tra gli assi maggiori delle relative orbite, fa sì che in realtà, a volte, in media una ogni sette, la congiunzione dei due pianeti al perielio porti la distanza relativa a soli 56 milioni di Km, ovvero a 0.37 UA. Noi converremo sempre qui, però, per le stime che ci interessano, di calcolare la distanza minima (media) come differenza tra le distanze minime dei pianeti dal Sole (congiunzione perielica), e la distanza massima (media) come somma di una distanza massima più una distanza minima (assumendo che la configurazione in parola si verifichi appunto quando la Terra si trova al perielio e Marte dalla parte opposta all'afelio). 14 Ci si riferisce per queste grandezze a misure angolari, vale a dire a misure dell'angolo (parallasse) sotto il quale un osservatore terrestre "vede" il diametro del pianeta. Il rapporto tra il raggio del pianeta e la sua distanza dà evidentemente la tangente trigonometrica della metà dell'angolo in questione, che si può ottenere quindi come doppio della funzione arcotangente di quel rapporto. Ne consegue che, per valori abbastanza prossimi allo zero (ovvero, "grandi" distanze rispetto a "piccoli" diametri), i rapporti tra gli angoli coincidono con buona approssimazione con i rapporti tra le distanze, come avremo modo nel seguito di constatare in qualche caso particolare. 15 In un'attuale enciclopedia potremmo trovare per esempio 25 secondi d'arco contro 5 (Dizionario Enciclopedico Treccani), che danno un rapporto pari a 5, in altre 25 secondi contro 3,5 (E.S.T., Ed. Mondadori), che darebbero un netto 7, un valore invero abbastanza vicino all'8 di Galileo, anche se 7 al quadrato dà comunque al massimo una stima di 50 volte di variazione per la superficie apparente di Marte, e non 60. 16 Secondo Stillman Drake e Charles T. Kowal ("L'osservazione di Nettuno fatta da Galileo", Le Scienze, N. 150, febbraio 1981; vedi anche Galileo messaggero delle stelle, Electa/Gallimard, 1992, pp. 138 e segg.): "In che modo Galileo riuscì a compiere misurazioni di piccoli angoli le quali sono utili ancor oggi? Il suo metodo di usare il telescopio come strumento di misurazione è rimasto in gran parte sconosciuto ... di solito si suppone che misurazioni astronomiche esatte siano cominciate solo col micrometro a filo, che fu perfezionato dopo la morte di Galileo. Nessun micrometro del genere avrebbe potuto essere utilizzato col telescopio di Galileo ... Galileo fu nondimeno in grado di sviluppare una sorta di strumento micrometrico che funzionava abbastanza bene col suo telescopio ... 'uno strumento per prendere gli intervalli e distanze esquisiti, non che lo strumento sia fatto ancora con molta precisione'". Possiamo aggiungere a queste parole che viene ascritto al bolognese Cornelio Malvasia (1603-1664) - un nobile appassionato che si adoperò per far nominare il Cassini (vedi la Nota N. 40) professore di astronomia presso l'Ateneo petroniano nel 1650 - il merito di aver ideato il reticolo (1622), uno "strumento che, posto nell'oculare del telescopio, permette[va] di ottenere misure astronomiche più precise che in passato" ("In viaggio tra le stelle Da Galileo a Galileo", La Stampa, Tuttoscienze, 1998). Restano quindi numerosi fondati dubbi sulla "precisione" delle osservazioni di Galileo, e la reale origine di certi "dati" da lui divulgati. 17 Per i quali vedi ad esempio F. Selleri, loc. cit. nella Nota N. 10. Si tratta in sostanza del fatto che l'occhio umano interpreta i flussi luminosi con una scala logaritmica, sicché una variazione di 6 volte nelle dimensioni geometriche produce in effetti solo un rapporto 2 quanto a corrispondente variazione di luminosità. E' curioso a questo proposito osservare che Andrea Osiander, nella sua premessa alla prima edizione dell'opera di Copernico, segnala che la scarsezza di tali variazioni rispetto alle previsioni della teoria appare come uno dei punti deboli dell'ipotesi eliocentrica (senza rendersi conto, apparentemente, del fatto che lo sarebbe anche per il sistema tolemaico, secondo quanto qui in seguito argomenteremo). 18 Un giudizio questo che una lunga serie di motivi fanno ritenere ai presenti autori condiviso anche da Galileo, tanto che si sarebbe quasi indotti a pensare che il pisano non conoscesse l'opera di Tolomeo se non superficialmente, oppure soltanto attraverso fonti di seconda mano (come il 183 compendio piuttosto elementare di Giovanni di Sacrobosco, De Sphaera, del XIII secolo, a sua volta debitore di analoghe opere arabe), se non avesse scritto nel 1597, a fini didattici (quando era già da diverso tempo un "copernicano"), un Trattato della sfera, ovvero cosmografia, in cui esponeva il sistema geocentrico. A proposito di "colpi mortali", c'è da dire che Galileo non si limitava (almeno nel Dialogo...) all'argomento delle distanze: parla pure delle fasi di Venere (vedi le Note NN. 27, 43), delle macchie solari, e delle maree, elementi a favore del sistema copernicano tutti discutibili. 19 E, in effetti, nel luogo citato Salviati afferma: "Vedete intanto se Aristotele s'ingannò di qualche poco in creder che e' fussero sempre egualmente remoti da noi", come a dire che quella che viene falsificata è semmai la cosmologia aristotelica, e non già la tolemaica che dà il titolo al libro di Galileo (e al saggio del Prof. Selleri) - sulla questione vedi anche la Nota N. 22. 20 Vedi il commento che ne fa l'ottima Storia dell'astronomia da Talete a Keplero, di J.L. Dreyer (1906; prima edizione italiana: Ed. Feltrinelli, Milano, 1970). 21 Tutti elementi che avevano comunque una loro ben precisa motivazione logica, dovendosi pur tentare una spiegazione di cosa mantenesse i vari corpi su nel cielo senza che cadessero sulla Terra, e quale fosse la causa del loro movimento (vedi anche la Nota N. 2). Nella concezione aristotelica, il cosmo è una sorta di grande impalcatura solida, in cui il movimento si propaga dall' ultimo cielo (in esso sono incastonate le stelle, cosiddette fisse perché non mutano le loro relative distanze, e quindi configurazioni relative, ma ruotano come tutto il resto del cielo in quanto insieme collettivo - che è detto infatti uni-versum) via via a tutti gli altri. Si noti, comunque, che di sfere di cristallo non c'è proprio traccia, né nell'Almagesto, né tanto meno nel De Revolutionibus…. 22 E probabilmente già dalla generazione successiva a quella di Aristotele. Per quanto riguarda il grande filosofo, e l'argomento qui oggetto di discussione, Simplicio (VI secolo D.C.), nel suo commento al De caelo, sostiene che lo stesso Aristotele "non era del tutto soddisfatto delle ipotesi con cui gli astronomi cercavano di render conto delle variazioni di luminosità", tanto da avere inserito tale questione in uno dei suoi Problemi fisici andati purtroppo perduti (cfr. J.L. Dreyer, loc. cit. nella Nota N. 20, p. 129). 23 E' un fatto abbastanza sorprendente che, nonostante ciò che viene oggi comunemente ritenuto, l'ipotesi eliocentrica sembra piuttosto estranea alla cultura greca. Sostanzialmente Aristarco di Samo (III secolo D.C.) è l'unico autore ricordato per averla proposta, ma vedi il commento estremamente riduttivo che di questa opinione fa il Dreyer (loc. cit. nella Nota N. 20, pp. 123-128 l'autore sottolinea anche, p. 37, il fraintendimento della teoria pitagorica del "fuoco centrale", una teoria che era comunque geodinamica, seppure non eliostatica). E bisognerebbe aggiungere, per evitare equivoci, che si sta qui discutendo del cosiddetto moto progressivo della Terra, ovvero della sua rivoluzione intorno al Sole, e non già del suo eventuale moto di rotazione diurna (per cui si ricorda ad esempio, insieme a quello di altri "pitagorici", il nome di Eraclide Pontico, IV secolo A.C.). Il lettore che vorrà invece approfondire la questione sotto un diverso punto di vista potrà utilmente giovarsi di: L. Russo, La rivoluzione dimenticata - Il pensiero scientifico greco e la scienza moderna, Ed. Feltrinelli, Milano, 1996. A proposito infine di Aristarco come precursore di Copernico, viene appropriato segnalare (nella misura in cui questo lavoro si occupa anche della vulgata scientifica corrente), un'informazione fornita dall'Enciclopedia Hoepli, alla voce Copernico, che contiene ben tre errori in una sola riga: "L'idea eliocentrica [...] aveva ripreso vigore quando si conobbero gli scritti originali di Aristarco di Samo nella traduzione che ne aveva fatto (1488) Lorenzo Valla, e che era commentata animatamente a Bologna quando Copernico ne frequentava l'Università". Orbene, di Aristarco ci è rimasto un solo scritto, Sulle dimensioni e la distanza del Sole e della Luna, e in esso non si fa il minimo cenno all'ipotesi eliocentrica; per di più, non fu tradotto dal famoso Lorenzo Valla, ma dal molto meno noto Giorgio Valla, che non sappiamo neppure se fosse un parente del primo. 184 24 Dovuta al fatto che, in modo analogo a quanto precedentemente discusso nel caso di Marte, anche nel sistema di Tolomeo sono previste delle eccentricità, in qualche circostanza non del tutto trascurabili. 25 In effetti, e proprio nell'ottica particolare del presente lavoro, è la teoria copernicana a essere maggiormente suscettibile di una falsificazione sperimentale, se appunto le distanze dei pianeti dal Sole non fossero di fatto pressoché costanti. Poiché questo appare come un dato sperimentale che possiamo considerare realmente acquisito, dobbiamo concludere di essere di fronte a descrizioni della realtà che sono, dal punto di vista dell'oggetto, praticamente equivalenti (almeno finché non intervengono, con Newton, considerazioni di tipo dinamico, e non soltanto cinematico). 26 Si potrebbe fare altrettanto per le tavole dei periodi, ovvero, sarebbe possibile ottenere con notevole approssimazione le attuali tavole dei periodi di rivoluzione dei pianeti intorno al Sole a partire dai dati tolemaici relativi ai periodi del moto di un pianeta sul deferente (moto in longitudine) e sull'epiciclo (moto in anomalia), vedi Appendice. 27 Il moto dei pianeti ha una "strana" connessione con quello del Sole, peraltro inspiegata, e inspiegabile, all'interno dell'ottica tolemaica. Il segmento che congiunge un pianeta esterno con il centro dell'epiciclo è sempre parallelo a quello che congiunge il Sole e la Terra, mentre nel caso dei pianeti interni, ovvero Mercurio e Venere, viene postulato che Terra, Sole e centro del relativo epiciclo siano sempre tra loro allineati (il che spiega tra l'altro il fatto che essi si discostano sempre di "poco" dall'astro splendente). E' tanto difficile immaginare i due detti segmenti uguali, o il centro dell'epiciclo coincidente direttamente con il Sole (in modo da avere a che fare con soli due punti, che sono quindi sempre allineati, e non con tre)? Come dire che questi legami di origine ignota avrebbero potuto già al tempo di Tolomeo richiamare la possibilità di un sistema eliocentrico, la distanza Terra-Sole costituendo l'elemento comune capace, in conformità a quanto abbiamo visto, di correlare tra loro tutti gli altri parametri indeterminati della teoria tolemaica, e di esprimerli nei suoi termini. E del resto, sia pure soltanto per i due pianeti interni, la congettura che abbiamo prima avanzato era corrente in almeno una concezione del cosmo, di cui ci informa Marziano Capella (V secolo D.C.): "Venus vero ac Mercurius non ambiunt terram" (De Nuptiis Philologiae et Mercurii, L. VIII, 854). Con riferimento a ciò che è stato osservato nella Nota N. 23, c'è da informare che quest'opera conobbe la sua prima edizione a stampa a Vicenza nel 1499, e che potrebbe avere quindi ispirato Copernico assai più che non il libro di Aristarco. 28 Del resto, Copernico non nasconde i suoi debiti culturali con l'opera di Tolomeo, citandola molte volte, e riprendendone numerose argomentazioni, anzi in un'occasione addirittura "dimenticandosi" materialmente di sostituire Terra con Sole (Libro V, Cap. VI - l'errore viene automaticamente "corretto" in alcune traduzioni). Secondo il punto di vista illustrato da L. Russo nell'opera citata nella Nota N. 23, si potrebbe anzi avanzare la congettura che come Copernico avrebbe soltanto di fatto "trasformato" l'Almagesto in un sistema eliocentrico, l'astronomo alessandrino avrebbe a sua volta adattato un a noi ignoto trattato eliocentrico in uno geocentrico: si sarebbe così nel XVI secolo ritornati alle origini! Agli espliciti riconoscimenti copernicani fa invece da contraltare il già ricordato "silenzio" galileiano (vedi anche le Note NN. 18, 32). E' per esempio significativo osservare che Galileo cita soltanto tre volte nel suo Dialogo, e peraltro sempre di sfuggita, il termine epiciclo, senza mai operare rinvii precisi al trattato di Tolomeo, di cui discute solo in un paio di punti, e piuttosto superficialmente, le "stime" matematiche. 29 E bisognerebbe aggiungere, per amore di esattezza, che Copernico va considerato assai più tedesco che non polacco, al punto che Giordano Bruno, fervente fautore della teoria eliocentrica, il quale dedicò a Copernico parole appassionate ("Venerabile ingegno che il secolo oscuro non toccò, che il clamore degli sciocchi non fece tacere"), lo chiama "alemano", o altrove, "borusso" (vedi per esempio l'ottimo: "La rivoluzione copernicana e il mito solare", di E. Garin, in Rinascite e rivoluzioni - Movimenti culturali dal XIV al XVIII secolo, Ed. Laterza, Bari, 1975, in cui si tratteggia il più verosimile sfondo ideologico capace di correttamente inquadrare la "rivoluzione" oggetto del nostro interesse). 185 30 E si potrebbe tenere conto delle stime delle eccentricità fornite da Tolomeo per passare da questo valore, circa 5, ai più adeguati 6.5 o 7, come abbiamo dianzi visto, ma di siffatti approfondimenti ci occuperemo meglio nel prossimo paragrafo. 31 Per esempio tramite al-Farghani (IX secolo), latinizzato in Alfragano, e i suoi Elementi di Astronomia, che furono tradotti in latino nel XII secolo (prima versione a stampa: Ferrara, 1493). 32 Bisognerebbe a questo punto anche sottolineare che Galileo non discute mai, come possibile ulteriore alternativa, il sistema proposto da Tycho Brahe, di cui pure era perfettamente al corrente, una sorta di "compromesso" tra sistema tolemaico e sistema copernicano: la Terra è immobile al centro dell'universo, il Sole gira intorno ad essa, e tutto il resto gira intorno al Sole (si tratta semplicemente di un'altra versione della medesima teoria generale per deferenti ed epicicli, nella quale si lasci cadere l'ipotesi che i raggi dei deferenti siano sempre maggiori di quelli degli epicicli). Tale concezione avrebbe "salvato", almeno in certa misura, il quadro metafisico che la Chiesa romana stava cercando di difendere. Andrebbe ancora aggiunto, a prevenire equivoci, che sembra Tycho non avesse di siffatte preoccupazioni religiose (tra l'altro, era un protestante), ma intendesse solo individuare la teoria che descriveva più adeguatamente la "realtà". Il moto progressivo della Terra gli appariva infatti fisicamente impossibile a causa per esempio della mancata osservazione della cosiddetta ellisse parallattica stellare. Al moto di rivoluzione della Terra intorno al Sole avrebbe dovuto invero corrispondere, dal punto di vista di un osservatore terrestre, un analogo movimento annuale di ogni stella, che in effetti esiste, ma è così piccolo che non poteva essere assolutamente apprezzato ai tempi di Tycho (la parallasse stellare annua fu osservata per la prima volta da Friedrich Wilhelm Bessel soltanto nel 1838). Si ripensi del resto a quanto già detto prima per la parallasse di Marte, in connessione con quella che oggi sappiamo essere la relativamente incommensurabile distanza sia pure della stella a noi più vicina (Sole ovviamente escluso) rispetto al diametro dell'orbita terrestre. Di tale sproporzione quantitativa, che bene risponde all'obiezione sulla mancata rilevazione della parallasse in parola all'epoca di cui si parla, erano ovviamente del tutto consapevoli sia Copernico ("Dell'immensità del cielo in rapporto alla grandezza della Terra" è infatti il titolo del Cap. VI del Libro I del De Revolutionibs...), sia Galileo: "Si conclude con dimostrazion verace che la distanza di esse stelle fisse da noi viene ad esser tanta, che basta per far che in esse non apparisca notabile il movimento annuo della Terra, che ne i pianeti cagiona sì grandi ed osservabili variazioni" (Dialogo..., 386). 33 Si noti che stiamo qui procedendo secondo l'ordine esatto dei "cieli" previsto dal sistema tolemaico: Luna, Mercurio, Venere, Sole, Marte, Giove, Saturno, il tutto incastonato all'interno dell'ultima sfera in cui sono infisse le stelle. Si tratta di una "gerarchia" assolutamente corretta, fatta eccezione per Mercurio e Venere, nel cui caso si registra un'inversione rispetto alla situazione reale (e che potrebbe essere individuata sia in base ai rapporti precedentemente calcolati, sia in base alla tavola dei periodi, secondo la quale Mercurio risulta avere il periodo più piccolo - si tratterebbe però naturalmente di un'ottica diversa da quella geocentrica). La ragione di questo scambio è abbastanza curiosa, dal momento che Tolomeo utilizza un bizzarro criterio di "complessità": più vicina alla Terra è la Luna, il cui moto è decisamente irregolare, e per lo stesso motivo dopo deve venire Mercurio, che presenta un comportamento assai più anomalo di quello di tutti gli altri pianeti (e Copernico del resto ribadisce questa constatazione, quando, nel suo Libro V. Cap. XXX, osserva che: "Con molti sotterfugi e molta fatica ci ha dunque martoriato questo astro, per poter scrutare i suoi movimenti"). 34 Ma che ha per esempio il vantaggio di poter concepire l'intero sistema dei deferenti e degli epicicli nella stessa ottica della cosmologia aristotelica, e della relativa teoria della trasmissione del moto dall'alto verso il basso. Questo sistema evita anche un'obiezione di Galileo (loc. cit. nella Nota N. 7, 370), secondo la quale le sfere degli epicicli, intersecandosi le une con le altre, come invero accadrebbe in un sistema tolemaico che sia una versione geocentrica di quello copernicano, si dovrebbero rompere. 35 B.R. Goldstein, The Arabic Version of Ptolemy's "Planetary Hypotheses", American Philosophical Society Transactions, N. 57, 1967; cfr. A. Van Helden, Measuring the Universe - 186 Cosmic Dimensions from Aristarchus to Halley, The University of Chicago Press, 1985. Si noti che Galileo non era con ogni verosimiglianza al corrente dell'origine tolemaica di queste speculazioni, che si accompagnavano comunque usualmente alle esposizioni divulgative dell'Almagesto. 36 Che richiederebbero la citazione almeno delle opere del già nominato Aristarco (Nota N. 23) e di Ipparco di Nicea (II secolo D.C.). 37 Diamo il valore reale per confronto, che è stimato oggi in 406.590 Km (laddove 64, in realtà 64 e 1 sesto, moltiplicato per 6305 fa 404.571 Km!), dicendo però anche che, proprio con riguardo alla Luna, Tolomeo commette gli errori più rilevanti, prevedendo variazioni della sua distanza dalla Terra del tutto inverosimili (cfr. J.L. Dreyer, loc. cit. nella Nota N. 20, pp. 176-178). 38 Vedi la tavola inserita in A. Van Helden, loc. cit. nella Nota N. 35, p. 27. 39 A proposito di tale valore, ci sarebbe da notare che la stima della distanza (media) Terra-Sole viene dedotta nell'Almagesto con un metodo che alcuni commentatori non hanno esitato a definire addirittura fraudolento, allo scopo di far tornare un rapporto pari a 19 volte tra questa distanza e la distanza (massima) Terra-Luna, una stima che, introdotta da Aristarco nell'opera citata nella Nota N. 23, godette di autorità indiscussa fino ai tempi di Copernico, il quale pure non se ne discosta, come presto noteremo (cfr. A. Van Helden, loc. cit. nella Nota N. 35, p. 19). Vale a dire, certe tentazioni di "addomesticare" dati e argomenti (fondendo a volte valori di origine sperimentale con "aspettative" teoriche) appaiono una costante fisiologica della pratica scientifica. A. Kohn (in False Prophets - Fraud and Error in Science and Medicine, Basil Blackwell, Oxford, 1986, p. 3), elenca, riprendendole dal matematico inglese ottocentesco Charles Babbage, tre categorie tipiche di "manipolazioni": forging ("when one records observations that have never been made"), trimming ("in modern usage also 'massaging data' or 'fudging'"), cooking (manipulating data so as to make them look better, in order to "fit the researcher's hypothesis best"). 40 Il primo a fornire una stima ragionevole dell'UA fu Gian Domenico Cassini, che riuscì a determinare nel 1672 un valore finalmente appropriato per la parallasse solare, attraverso osservazioni coordinate effettuate a Parigi e alla Cajenna. Di Cassini, Dreyer dice che (loc. cit. nella Nota 20, p. 388): "Essendo nato in Italia, era timoroso di pronunciarsi pubblicamente a favore del moto della Terra, anche dopo essersi trasferito a Parigi", a riprova che le preoccupazioni ideologiche, e politiche, sovrastano spesso quelle scientifiche (e bisognerebbe chiedersi se la scienza di oggi sia proprio del tutto immune da siffatti condizionamenti, sebbene di altro segno...). 41 Cfr. ancora A. Van Helden, loc. cit. nella Nota N. 35, p. 46. 42 Notiamo anche che questo valore è più vicino all'8, e quindi al 60, di Galileo, che non l'analogo valore copernicano! 43 Ma, in verità, non tutti. Per esempio, il sistema esposto da Tolomeo nelle Ipotesi dei pianeti contempla di fatto per Venere un epiciclo che resta interamente al di sotto del Sole, mentre osservazioni dirette (le famose fasi di Venere), effettuate da Galileo con il cannocchiale, e riportate nel suo Dialogo, mostrano chiaramente che non è questo il caso (vedi anche la Nota N. 27). Si tratta comunque di un'obiezione non decisiva, perché il sistema tolemaico (e intendiamo quello dell'Almagesto, in cui peraltro non ci sembra venga formulata l'ipotesi in parola, a ulteriore conferma di quanto osservato nella Nota N. 18) potrebbe essere in ogni caso facilmente "corretto" in relazione a tale particolare dettaglio. 44 Si prescinde dall'ovvio aggiornamento "specialistico" dei dati contenuti nell'Almagesto, che viene in realtà effettuato sin dai primi secoli successivi a Tolomeo, grazie per esempio agli studi astronomici arabi. Queste "correzioni" riguardano soprattutto le posizioni delle stelle, sensibilmente mutate nel corso degli anni per effetto della precessione degli equinozi (il terzo movimento della Terra, dopo rotazione diurna e rivoluzione annuale). Da un punto di vista pratico, è verosimilmente la necessità di produrre delle tavole stellari adeguate alle nuove esigenze della navigazione in mare aperto il primo autentico motivo di una ripresa dell'interesse nei confronti dell'astronomia nel XV secolo, il che rimanda a quanto già detto alla fine della prima sezione del presente lavoro. Si osservi 187 però che anche questo terzo moto potrebbe essere teoreticamente inquadrato in una concezione geostatica, come ben riconosce lo stesso Copernico: "Ora, dopo che è passato molto tempo, ci si è accorti che una tale inclinazione della terra nei confronti delle figure del firmamento, muta; ed è proprio per questo che a molti parve che il firmamento stesso fosse mosso da alcuni movimenti, non essendo ancora stata compresa a sufficienza la loro legge. In realtà è meno sorprendente che tutte queste cose possano avvenire per il movimento della terra" (Commentariolus; ed. it.: Opere di Nicola Copernico, UTET, Torino, 1979, p. 113 - si tratta di "abbozzo sommario" delle tesi contenute nell'opera maggiore, composto da Copernico in un periodo a noi sconosciuto, e mai dato alle stampe nel corso della sua vita; il problema della sua datazione non è mai stato definitivamente risolto, ma l'ipotesi più plausibile è che esso sia stato elaborato tra il 1509 e il 1512; vedi F. Barone, ibidem, p. 100); "essendo tale differenza molto modesta, non appare se non con il passare di molto tempo: da Tolomeo a noi i punti solstiziali ed equinoziali hanno avuto una precessione di circa ventun gradi. Per la qual cosa alcuni hanno creduto che anche la sfera delle stelle fisse si muovesse e posero quindi sopra a questa una nona sfera; ma anche questa non bastando, ora i moderni ne hanno aggiunto una decima"; "Già aveva cominciato a venire alla luce anche un'undicesima sfera, e facilmente confuteremo tale numero di cerchi come superfluo nel caso del moto terrestre [...] Sarebbe infatti più appropriato dire (con un confronto del minore al maggiore) che l'equatore è obliquo rispetto all'eclittica, anziché che l'eclittica è obliqua rispetto all'equatore" (De Revolutionibus..., L. I. Cap. XI; L. III, Cap.I; loc. cit., pp. 218-219; pp. 368-369 - enfasi degli autori). Con queste parole Copernico conferma l'opinione già espressa all'inizio del Commentariolus, "Io vedo che i nostri avi hanno ammesso un gran numero di sfere celesti [...] andavo spesso meditando se per caso non si potesse trovare un più razionale sistema di circoli con i quali fosse possibile spiegare ogni diversità apparente" (loc. cit., pp. 107-109), secondo la quale il suo sistema è appunto semplicemente "più razionale" di quello geostatico, ma non più vero, almeno in assenza di ulteriori elementi (vedi la Nota N. 32). 45 Tra questi, particolarmente notevole è Domenico Galati (Galileo - Primario matematico e filosofo, Ed. Pagoda, Roma, 1991), ma siffatte interpretazioni filo-cattoliche del personaggio sembrano poter essere confutate dalla fortunata circostanza che sono stati trovati recentemente presso l'Archivio di Stato di Venezia documenti concernenti "le denunce e il tentato processo per eresia nei confronti di Cesare Cremonini e Galileo Galilei presso il tribunale del Sant'Ufficio di Padova nell'aprile 1604" (Antonino Poppi, Cremonini e Galilei inquisiti a Padova nel 1604 - Nuovi documenti d'archivio, Antenore Ed., Padova, 1992). In essi si attesta uno "scontro" tra Galileo e la Chiesa già nel 1599, ben prima dunque della "questione copernicana", ovvero precedente ai fondati "sospetti" che si appuntarono sullo scienziato nel 1611 (a seguito della pubblicazione del Sidereus Nuncius, nel quale si annunciavano i risultati delle prime osservazioni astronomiche strumentali). In quell'occasione, viene tra l'altro rimproverato dai denuncianti a Galileo di non praticare né "la messa né i sacramenti" (loc. cit., p. 20), e questa accusa - a cui è assai facile credere - la dice lunga sulla pretesa di essere stato quegli un devoto "figlio della Chiesa". Secondo l'interrogatus messer Silvestro Pagnoni, che Galileo "aveva assunto nella sua casa" in qualità di amanuense "per ricopiare le sue opere e dispense da vendere agli studenti" (loc. cit., p. 55): "Io so anco questo, che io sono stato 18 mesi in casa sua et non l'ho mai visto andare alla messa altro che una volta, con occasione che lui andò per accidente, per parlare a monsignore Querengo, che io fui con lui; et non so che lui si sia confessato et communicato mentre son stato in casa sua" (loc. cit., p. 58). Di fronte a tale esplicita dichiarazione appare un po' pretestuoso - allo scopo di difendere comunque l'immagine del Galileo cattolico - richiamarsi alla distinzione tra semplici credenti e devoti praticanti, come cerca di fare anche l'autore (un sacerdote) del "fortunato rinvenimento" (loc. cit., p. 28) in parola: "E' uno scarto comune da sempre tra i cristiani fra ortodossia nel pensare e ortoprassi nell'agire" (loc. cit., p. 60). In detto frangente Galileo se la cavò grazie all'intervento diretto del governo della Serenissima, che non si scomodava certo a rischiare crisi politiche con Roma per chicchessia. E' forse curioso aggiungere che in uno dei verbali concernenti un'analoga delibera del Senato veneziano - relativa a un altro inquisito nello stesso frangente - sia riportato che la mozione di difesa fu infine approvata, dopo una prima votazione negativa, "cacciati li papalisti" (loc. cit., p. 84). L'altro compagno di guai di Galileo era Cesare Cremonini, suo amico e collega presso lo Studio di Padova, accusato di "non 188 tener l'immortalità dell'anima nello spiegare Aristotele" (loc. cit., p. 13). A differenza del pisano, però, Cremonini rimase sempre, a quel che pare, fedele all'aristotelismo. Naturalmente, ancora numerosi sono gli indizi che confermano il quadro interpretativo che proponiamo, e fanno dubitare al contrario della validità di quello fatto proprio dal Galati, citato in inizio di Nota (secondo la presentazione di Pietro Prini all'opera in parola: "La ricostruzione del Galati si muove costantemente su due piani, quello teologico e quello scientifico, per enucleare dal testo galileiano […] l'aurora del pensiero moderno non al di fuori, ma nel seno stesso di un cristianesimo che com'era stato testimoniato anche nell'avventura tragica del grande amico di Galileo, Paolo Sarpi - è 'il cristianesimo essenziale ed ecumenico verso il quale marcia la storia'"). Concepire Galileo nei panni di un integerrimo cattolico (e quindi cristiano!), preoccupato di evitare alla Chiesa degli errori fatali, teso a "salvare simultaneamente la ragione e la fede" (loc. cit., p. 437), appare infatti difficile anche per il motivo che segue. Se si prendono i grossi 19 volumi dell'Edizione Nazionale delle Opere di Galileo curata da Antonio Favaro (il ventesimo è il volume degli Indici), quante volte vi si trova un riferimento a Gesù Cristo, al Messia, al Redentore, etc.? Nel Dialogo… una soltanto, dove il cenno al Cristo è peraltro messo in bocca a Simplicio, e per il resto potremmo dire mai, se si escludono le locuzioni prima di Cristo o dopo di Cristo, oppure citazioni ("obbligate") di vari autori (Tasso e Virgilio), con un'unica eccezione: la Consideratione astronomica circa la stella nova dell'anno 1604, in cui abbastanza singolarmente (e in modo secondo noi "sospetto") Galileo indulge a far credere che il fenomeno celeste possa essere "prenunti[o] di qualche gran mutatione, si nelle cose della fede, come de Regni, & Imperi […] di qualche felice stato nella fede Christiana e chatolica" etc.. Per contro, si trovano naturali riferimenti al Cristo in lettere rivolte a Galileo, ma non provenienti da Galileo, a riprova che erano d'uso comune. Si potrebbe inoltre proficuamente discutere, e a lungo!, sul "buffo" fatto che, nelle due antitesi tra la Chiesa di Roma e il copernicanesimo (la prima non fu leggera con il secondo, dichiarandolo esplicitamente nel 1616 "stolt[o] e assurd[o] in filosofia e formalmente eretic[o]"), e ancora la stessa Chiesa e quella protestante, sia avvenuto - come spesso accade: "i nemici dei miei nemici sono miei amici" - che i protestanti si siano schierati dalla parte dei "copernicani" (in genere, è ben noto che questo non fu il caso degli stessi Lutero e Melantone, secondo i quali, rispettivamente: "Il pazzo vuole rovesciare l'intera arte dell'astronomia..."; "un governo saggio non dovrebbe permettere la diffusione di tali idee" - cfr. F. Barone, loc. cit. nella Nota N. 44, p. 159), senza tenere appunto conto della circostanza che la distruzione della "concezione del mondo" di una Chiesa avrebbe fatalmente trascinato nella disfatta anche l'altra. Il caso più recente ed eclatante di "strane" convergenze, ovvero motivate da una comune inimicizia, è costituito, stando almeno a ciò che viene lasciato "apparire" sul palcoscenico della storia, dall'alleanza tra USA e URSS contro il III Reich hitleriano, mentre, per restare in tema di controversie scientifiche, è molto interessante, soprattutto nello spirito del presente saggio, la seguente considerazione di Aldo Mola: "La vulgata dell'evoluzionismo divenne presto uno dei punti d'incontro di certi massoni che, anche senz'avere una precisa cognizione dei contenuti scientifici del darwinismo e delle sue implicanze socio-politiche, dalle strenua lotta sostenuta dalla Chiesa di Roma contro la sua diffusione e per la sua stessa provenienza dalla terra di Desaguliers ed Anderson deducevano ch'esso fosse comunque un buon compagno di strada, se non verso la Vera luce almeno per dissipare le tenebre più fitte; e che dalla sua diffusione sarebbe scaturita la definitiva liberazione dai lacci dell'ignoranza e dall'occhiuta 'clerocrazia cattolica' ... Non diversa da quella di ogni altra dottrina o scoperta o invenzione scientifica era la sorte del darwinismo: ognuno vi cercava le conferme più gradite e vi riponeva le verità più confacenti alle proprie aspettazioni, anche se, come dirompente novità, la sua valenza propendeva a innescare processi di colore rivoluzionario o comunque disgregatori del sapere e dei poteri costituiti" (Storia della Massoneria italiana dalle origini ai nostri giorni, Bompiani, Milano, 1992, pp. 104105 - enfasi degli autori). 46 47 Cfr. ancora E. Garin, loc. cit. nella Nota N. 29. De Possest (1460). La seconda espressione citata si trova invece nella Prefazione al De Revolutionibus…, in cui Copernico si rivolge direttamente al Papa Paolo III, illustrando le ragioni alla base della sua opera. 189 190 Ringraziamenti - Gli autori desiderano esprimere la loro più viva gratitudine a Maurizio Caselli, Paolo Maffei, Giuseppe Nicolosi, Paolo Zappa, per preziose osservazioni che hanno consentito una revisione adeguata del presente lavoro (la prima stesura risale al dicembre 1998). ----[Una presentazione del primo autore si trova nel N. 1 di Episteme, oltre che nella precedente Nota N. 4, nella quale sono fornite anche notizie sul secondo autore.] E-mail: [email protected] , [email protected] Il sistema copernicano come illustrato nel De Revolutionibus... 191 La copertina della I edizione del Dialogo... Gli epicicli tolemaici, T Terra, P pianeta Se l'epiciclo di Venere restasse tutto compreso tra la Terra e il Sole, Venere non potrebbe vedersi in effetti mai piena (da F. Selleri, loc. cit.). 192 La fisica unifenomenica cartesiana e il punto debole dell'IA forte (Rocco Vittorio Macrì) "I confini dell'anima non li potrai mai trovare, per quanto tu percorra le sue vie; così profondo è il suo logos". (Eraclito, fr. 45) "Se uno dicesse che, se non avessi queste cose, cioè ossa nervi e tutte le altre parti del corpo che ho, non sarei in grado di fare quello che voglio, direbbe bene; ma se dicesse che io faccio le cose che faccio proprio a causa di queste. e che, facendo le cose che faccio, io agisco, sì, con la mia intelligenza, ma non in virtù della scelta del meglio, costui ragionerebbe con assai grande leggerezza. Questo vuol dire non essere capace di distinguere che altra è la vera causa e altro è il mezzo senza il quale la causa non potrebbe essere causa. E mi sembra che i più, andando a tastoni come nelle tenebre, usando un nome che non gli conviene, chiamano in questo modo il mezzo, come se fosse la causa stessa". (Platone, Fedone, 99 a-b) 1 - La dissoluzione del dualismo cartesiano Il dualismo cartesiano tra spirito e materia, dopo la morte del filosofo francese 1, divenne distorto e "monizzato"2, smembrato in due tronconi isolati al posto dell'unico albero originario3: il primo avrebbe portato all'idealismo assoluto, il secondo al materialismo più spregiudicato, attraverso l'empirismo inglese prima (per quello che riguarda la frantumazione del "puzzle" cartesiano), l'illuminismo francese poi, con La Mettrie che, eliminando di netto la parte spirituale, presenterà l'uomo "solo" macchina. Così come Leucippo e Democrito pensavano l'anima formata da atomi rotondi piccoli e veloci con particolari caratteristiche che li rendevano capaci di produrre stati coscienti, così nel nostro tempo, dopo la "facoltà sensitiva della materia" di La Mettrie 4, le "molecole sensibili" di Diderot5, i tentativi holbachiani di una "animalisation"6 della materia e i "picnatomi" di Haeckel7, siamo arrivati alla più elaborata "coscientizzazione particellare" della meccanica quantistica8. La "cintura protettiva lakatosiana" avrebbe aggiunto in seguito un radicale «appello alla chiarezza e alla scienza libera dalla metafisica».9 «Dal Cogito non segue il sum; dall'"io sperimento" non segue che io sono, ma che una esperienza è».10 E con Russell si passerà dall'«io penso» di Cartesio al «si pensa in me», fino al wittgensteiniano «Io posso sapere quello che pensa l'altro, non quello che penso io»11, o ancora «un "processo interno" abbisogna di criteri esterni».12 Password: "oggettività"! Ecco da quale humus speculativo attingono la filosofia e la scienza contemporanee che - dalla messa in guardia di Ryle nei confronti di ogni «dogma dello spettro nella macchina» 13, sino alla più recente denuncia di Rorty che per salvarci dalla «frattura ontologica» dichiara che «la nozione di sostanza mentale come ciò di cui sono fatti i dolori e giudizi ha esattamente tanto poco senso quanto quella di "ciò di cui sono fatti gli universali"» 14 - porta spontaneamente al ribaltamento del 193 Cogito ergo sum: «Noi siamo, e quindi pensiamo; e pensiamo solo nella misura in cui siamo, dal momento che il pensare è causato dalle strutture e dalle attività dell'essere» 15... Ecco la filosofia dell'ibernazione, la morte dell'anima!16 Da qui all'estremo antropomorfismo enunciato da Paul Davies in Dio e la nuova fisica la distanza è breve: «Tuttora non è ancora immaginabile una mente senza cervello. Se Dio è una mente, avrà dunque un cervello? Un cervello corporeo?».17 Parlare dunque oggi di anima spirituale equivale a evocare fantasmi del passato che la nostra scienza moderna ha dissipato definitivamente, come i concetti di calorico, flogisto e spiriti vitali.18 Così, mentre il vecchio dualismo si è tripartito in "dualismo delle sostanze", "dualismo delle proprietà" e "dualismo concettuale"19, i materialisti di ieri si sono trasformati oggi in moderni "materialisti monisti eliminativisti", "funzionalisti computazionali", "modularisti", "connessionisti", "emergentisti monisti, pseudo-dualisti e pseudo-pluralisti", ecc... La manovra «dagli-un-nome»20 sembra regnare sovrana in vetta al nostro paradigma attuale! La tendenza fantascientifica di questo, dettata dalla seconda rivoluzione scientifica avvenuta nel nostro secolo ad opera di Einstein e della scuola di Copenaghen, ha spazzato via il vecchio "buon senso" 21 e, scavalcando (o meglio, utilizzando) il senso di disagio prodotto22, ha "magicizzato"23 l'universo fisico usando "la matematica come forza razionalizzatrice diretta" 24 fino a "creare" spazi a 950 dimensioni 25, universi paralleli26, fotoni "coscienti"27, buchi neri virtuali, bosoni fantasma28, "closed timelike curves" e viaggi nel tempo!29 Di fronte a tale spinta propulsiva verso il "fantastico", verso l'irreale, provocata dall'immaginario collettivo scientifico del nostro secolo, non c'è da stupirsi se nel campo della filosofia della mente, del mind-body problem, dell'intelligenza artificiale... "il fantastico" si materializza con ancor maggiore densità: le "qualità mentali" di Hal, il calcolatore super-evoluto di 2001: odissea nello spazio, vengono viste per niente chimeriche e, a sentire i cervelli di questo campo di ricerca, Hal sarà realizzato quanto prima; la coscienza e le sensazioni superiori all'uomo - nel momento che afferma: "Io ne ho viste di cose che voi umani non potreste immaginare" - possedute dal super-replicante, modello Nexus 6, Batty, nel film Blade Runner del 1982, sembrano non scandalizzare più di tanto neanche gli "esperti". Fantascienza? Si provi a leggere uno scritto di Marvin Minsky, il fondatore dell'intelligenza artificiale, e quella risulterà piccola cosa in confronto! 30 D'altra parte se «ogni sensazione è, in ultima analisi, chimica, perché ogni attività neuronale del nostro cervello dipende dal trasporto di molecole e ioni da una localizzazione a un'altra e dalle reazioni a cui partecipano quelle molecole» 31, e ancor più, se «"Io" sono non tanto i miei atomi quanto la configurazione secondo la quale i miei atomi sono disposti»32, il tutto appare scientificamente coerente! 2 - Il concetto di "fisica U" «Se vi pare strano che, per spiegare questi elementi, io non mi serva, come i filosofi, delle qualità chiamate caldo, freddo, umidità, secchezza, vi rispondo che, secondo me, queste qualità stesse hanno bisogno di spiegazione, e, se non m'inganno, non solo queste quattro qualità, ma anche tutte le altre, e persino tutte le forme dei corpi inanimati si possono spiegare senza bisogno di supporre nella materia dei corpi stessi nient'altro che il movimento, la grandezza, la forma, la disposizione delle parti». Così Cartesio nel suo Le Monde ou Traité de la Lumière 33 manifestava il principio unifenomenico del mondo fisico, il quale è alla base - o a fondamento - della sua grande sintesi cosmica. A un decennio di distanza, nei suoi Principia, preciserà: «Non c'è dunque che una stessa materia in tutto 194 l'universo, e noi la conosciamo per questo solo, che essa è estesa; poiché tutte le proprietà che percepiamo distintamente in essa, si riportano a questa: che essa può essere divisa e mossa secondo le sue parti, e può ricevere tutte le diverse disposizioni, che noi osserviamo potersi verificare per mezzo del movimento delle sue parti. Poiché... è certo... che tutta la diversità delle forme che vi si trovano dipende dal movimento locale».34 Il carattere unifenomenico della fisica cartesiana, una fisica cioè che consenta di spiegare i fenomeni e le apparenze a partire da un unico fenomeno (e sostanza) primordiale, ha una tale valenza semantica e intuitiva per la struttura mentale umana che già Platone, prima dell'hyle aristotelico35, era arrivato a contemplare il concetto di chora, di quella matrice cosmica e universale alla base di tutti i fenomeni, che permane al di là del divenire degli elementi e delle cose sensibili: «Se alcuno plasmando in oro figure d'ogni specie, non ristesse mai di trasformare ciascuna di esse in tutte le figure, e un altro, mostrando una di quelle, domandasse che cos'è, sarebbe molto più sicuro, rispetto alla verità, rispondere che è oro: quanto al triangolo e alle altre figure, che ivi si formarono, non converrebbe mai nominarle come esistenti, perché mutano mentre si pongono, ma contentarsi, se volessero accettare sicuramente anche il tale. Ora lo stesso ragionamento vale per quella natura che riceve tutti i corpi: si deve dire che è sempre la stessa, perché non perde affatto la sua potenza, ma riceve sempre tutte le cose, e in nessun modo prende mai una forma simile ad alcuna di quelle cose che entrano in essa: perché essa di sua natura è la materia formativa di tutto, che è mossa e figurata dalle cose che vi entrano, e appare, per causa di esse, ora in una forma e ora in un'altra».36 La stessa fisica democritea è unifenomenica.37 Un esempio perfetto di fisica unifenomenica nel nostro secolo è la Spaziofluidodinamica dello scienziato bergamasco Marco Todeschini (1899 - 1988) che con la sua monumentale Teoria delle apparenze del '49 avrebbe tentato di aprire un varco alla speranza di arrivare ad un sintesi cosmica unitaria di tipo cartesiano: «"L'Universo è costituito solamente di spazio fluido inerziale i cui moti rotanti costituiscono i sistemi atomici ed astronomici che formano la materia ed i cui moti ondosi, quando e solamente quando colpiscono i nostri organi di senso, suscitano in noi le sensazioni di forza, elettricità, suono, calore, luce, odore, sapore, ecc.". Queste sensazioni quindi, sorgendo esclusivamente in noi, sono irreperibili nel mondo fisico oggettivo a noi circostante, nel quale esistono invece solamente i movimenti di spazio fluido corrispondenti. L'unico fenomeno possibile nel mondo fisico oggettivo è quindi il movimento dello spazio, poiché tutti gli altri fenomeni (forza, elettricità, suono, luce, calore, sapore, ecc.) sono sensazioni che sorgono esclusivamente in noi quando quei movimenti di spazio incidono sui nostri organi di senso. In ciò consiste il principio unifenomenico del mondo fisico».38 Noi qui accoglieremo della teoria todeschiniana soltanto il concetto di fondo, cioè il carattere unifenomenico della sua fisica, senza preoccuparci di quale valore o plausibilità abbiano le sue ipotesi. Tale concetto di fisica unifenomenica ci servirà in seguito come strumento ultra-trasparente per dissipare le epistemologiche nebbie dell'IA (Intelligenza Artificiale). Il "carattere U" (cioè unifenomenico) di questo tipo di fisica indica che fuori dall'essere percipiente le qualità primarie rimangono sempre tali e mai generanti qualità secondarie se non all'interno di questo. In altri termini, la "liquidità searleana" 39 qui viene vista e facilmente accorpata all'interno delle qualità primarie: essa appare uno stato di fase della materia con caratteristiche di non-linearità ben precise e di tipo quantitativo. Ben diverso invece risulta accettare entità come i qualia al di fuori dell'essere animato che li percepisce (al di fuori cioè della percezione): il tipico sapore del cloruro di sodio non risulterebbe quindi come emergente dall'insieme Na + Cl, ma semplicemente come percezione di un'entità fisica capace di innescare un processo a catena nell'essere percipiente (a causa di 195 una pre-regolazione, o volendo dare un termine tecnico "triggeraggio", dei recettori di questo...). Il sapore "salato" non esiste fuori dalla percezione.40 Saremmo considerati matti se sostenessimo che è una proprietà (di tipo emergente) di un certo tipo di onda elettromagnetica quella di far scoccare una scintilla in un circuito accordato, come esperimentò Hertz, completamente assente in altre frequenze... Sappiamo invece che questo fenomeno non è dato da virtus o facultas peripatetiche, e neanche da proprietà emergenti, ma semplicemente da un meccanismo nascosto, da un retroscena (anche se in questo caso l'essere percipiente prende parte attiva per quello che riguarda le qualità secondarie come suono, luce, colore, odore, calore...). Il monossido di carbonio non è velenoso perchè possiede una certa facultas deleteria, ma semplicemente perchè prende il posto dell'ossigeno nella macromolecola dell'emoglobina: un meccanismo elementare di causa ed effetto, un'idea chiara e distinta, per dirla alla Cartesio, movimenti di una res extensa che possono apparire complessi solo per numero, quantitativamente.41 E' bene rendere esplicito anche il "carattere D" (cioè deterministico) di questa fisica, che come definizione, per non usare ancora una volta in più quella sfruttatissima di Laplace, ci serviremo di una delle ultime (cronologicamente) equivalente: «Una teoria è deterministica quando raffigura un sistema fisico come un sistema del quale, conoscendo uno stato iniziale, sia possibile prevedere uno stato futuro con un grado analogo di precisione. Le teorie della fisica classica sono deterministiche. Al contrario, una teoria è indeterministica quando raffigura un sistema fisico come un sistema che non permette tali previsioni, nemmeno in linea di principio».42 E' opportuno a questo punto spendere qualche parola per dissipare moderne ragnatele di un certo "sofisma concettuale" riguardanti i concetti di caos e complessità.43 Quale peso semantico acquista la frase appena riportata «prevedere uno stato futuro con un grado analogo di precisione» nel contesto del "carattere D" del tipo di fisica da noi circoscritta? O in altri termini, a quale livello epistemologico si colloca la non-linearità e la retroazione nei processi fisici? Crea questo un confine di demarcazione tra fisica deterministica e non?44 Davanti alla "scatola nera" del caos lasciata dai teorici che misero in moto questa disciplina45 è bene non cadere in uno stato di smarrimento e usare come bussola l'esortazione di Misone46: «Indaga le parole a partire dalle cose, e non le cose a partire dalle parole». Complessità e caos rimangono "buie" non per una linea assiomatica o di principio, come nel caso del principio d'indeterminazione di Heisenberg, ma per il rapporto gigantesco fra l'enormità del numero di parametri in gioco e i limiti nostri (attuali!) conoscitivi. In effetti il caos, a differenza della meccanica quantistica, è un sistema potenzialmente "algoritmico" e "computazionale".47 Desta preoccupazione inoltre la "ipo-filosofica" e grossolana confusione che molti scienziati fanno tra impredicibilità e inderminatezza. Come abbiamo sottolineato precedentemente in altri contesti, l'errore più comune e tristemente grave che lo scienziato di oggi fa è quello che abbiamo definito con una speciale sigla: "TGO" (trasferimento dal piano gnoseologico al piano ontologico). Innescato (un simile processo) probabilmente da Einstein con la sua simultaneità indeterminata, operazioni di questo tipo (TGO) appaiono ormai in ogni angolo della scienza, infirmando e violentando la logica filosofica sottostante il ragionamento e la congetturazione scientifica. Un esempio di TGO è appunto confondere impredicibilità con indeterminatezza, "quello che so" con "quello che è" o, ancorpiù, "quello che non so" con "quello che non è". Si noti l'infinita distanza concettuale ed epistemica tra "sistemi impredicibili" e "sistemi indeterminati": i primi possono anche essere indeterminati, mentre i secondi non possono non essere impredicibili. Così la precedente definizione di teoria deterministica di McAllister, «prevedere uno stato futuro con un grado analogo di precisione», è inquinata da un processo di TGO: qui il termine 196 «[non] prevedere» viene confuso con "mancanza di causa ed effetto", e «un grado analogo di precisione» viene suggerito più da una giustificazione che da una norma scientificofilosofica.48 Affinché una teoria non sia deterministica non è sufficiente vestirla di impredicibilità, infatti potrebbe essere impredicibile (piano gnoseologico) e nello stesso tempo deterministica (piano ontologico). Nessun grado di complessità Ω può essere preso come parametro per indicare un punto di rottura irreversibile tra determinatezza e indeterminatezza (del tipo "se complessità > Ω allora fine del carattere D"). Una teoria è deterministica se c'è proporzionalità tra causa (C) ed effetto (E) anche solo di tipo debole: non necessariamente deve esistere una corrispondenza biunivoca tra C ed E, ma è sufficiente che esista una suriezione. Cioè non è necessario che lo stesso effetto sia dato dalla stessa causa, ma è sufficiente che ogni effetto abbia una causa. Quindi può esistere una teoria deterministica anche se impredicibile: pur non potendo fare previsioni nondimeno è determinata "top-downamente", cioè dalla causa verso l'effetto, anche se non "bottom-upamente", dall'effetto alla causa. Si vede qui chiaramente come nessuna nonlinearità e retroattività può eliminare il "carattere D" del tipo di fisica che stiamo esaminando. Definiamo, a tale scopo, fisica U forte49 un tipo di fisica come quella todeschiniana appena accennata, dove l'unico fenomeno reperibile nel mondo fisico è il movimento del fluido spaziale (o, per i nostri scopi, qualunque entità unifenomenica); fisica U debole una fisica simile a quella newtoniana e pre-quantistica dove pur non essendo basata su un unico fenomeno (come il moto), le altre entità sono in numero limitato (ad esempio le 4 interazioni conosciute) e totalmente indipendenti.50 Definiamo infine fisica U ultra-debole una ipotetica fisica costruita su un numero di interazioni e princìpi grande a piacere, ma, ancora una volta, totalmente indipendenti. 3 - Il punto debole dell'IA forte L'intelligenza artificiale (IA) sta diventando una delle creazioni umane più suggestive e significative del nostro secolo. Grazie all'universo tecnologico a cui possiamo attingere, le "macchine pensanti" incominciano ad emergere dalle congetturazioni della nostra epoca, almeno virtualmente, lasciando intravedere la possibilità di una sorta di vita "oltre la biologia". Il computer, che già ingaggia severe partite con i grandi campioni di scacchi, sembra meritare il termine "intelligente": forse per le suggestioni che provoca, la scienza dell'IA sta acquistando connotati di grande popolarità. È passato poco più di mezzo secolo dalla costruzione del primo grande calcolatore digitale elettromeccanico51 e in questo lasso di tempo abbiamo superato la sua velocità per un fattore 10, 100, 1000, 10000, 100000, 1000000, ... 52 Un chip oggi contiene milioni di transistors, quando meno di 30 anni fa il più avanzato ne conteneva poche decine di migliaia53. Si parla già da qualche anno di una nuova e superiore tecnologia a funzionamento fotonico invece che elettronico54; questo permetterà di "bypassare" i limiti imposti dai circuiti binari: infatti si potrà fare uso delle tecniche olografiche capaci di creare dei "transitori ottici" multi-stato invece del classico on-off. Per non parlare delle nuove reti parallele che si dimostrano «capaci, dopo addestramento, di esibire prestazioni cognitive di un livello di sofisticazione assolutamente sbalorditivo»55. In mezzo secolo, dunque, grazie a progressi tecnici quasi miracolosi, l'informatica ha bruciato le tappe sul versante dei dispositivi, delle architetture, dei materiali e della miniaturizzazione56. Prende forma quindi anche in questo campo, così come è avvenuto per 197 la teoria dei quanti, l'idea che la realtà superi la fantasia. Premi Nobel come Crick o Edelman sembrano ormai sicuri di poter spiegare proprietà mentali quali la coscienza a partire direttamente dalla materia.57 Anzi, secondo loro, è pura follia dare credito a qualcosa di diverso. Ormai, per la scienza, c'è un'unica via per spiegare il rapporto mente-corpo: la materia (tutt'al più organica). Ma... «a rigor di termini l'aggettivo "organica" non definisce più con esattezza i confini della materia» 58, e tantomeno quelli della coscienza per i fautori dell'IA forte come Minsky. Tutte le facoltà mentali sarebbero disposizioni spaziali pure, geometrie particolari, software in un hardware come il cervello ma non necessariamente fatto di materia grigia. Un computer sufficientemente sofisticato potrebbe fare da "substrato hardwaristico". Bisogna notare, oltretutto, che dietro a queste concezioni «vi è l'assunzione comune che l'attività cogitativa abbia direttamente a che fare con rappresentazioni, e soltanto indirettamente con le realtà che tali rappresentazioni simboleggiano. È questa assunzione a far sì che l'idea moderna che i calcolatori possano essere portati a pensare suoni comprensibile almeno in parte. Se pensare è manipolare rappresentazioni, perché non dovremmo essere in grado di fare in modo che gli stati della macchina "rappresentino" le cose, e che gli elaboratori possano ordinare, classificare e trasformare questi stati?».59 Se la "versione forte" dell'intelligenza artificiale sostiene che l'intelligenza dipende solo dall'organizzazione di un sistema e dal suo operato come manipolatore di simboli e non dalla natura fisica degli elementi che costituiscono il sistema intelligente, allora - seguendo il funzionalismo passo passo - anche «la vita dipende solo dall'organizzazione degli elementi nel tempo e nello spazio e dall'interazione di relazioni e processi di cui quegli elementi fanno parte»60 e non invece dalla natura fisica degli elementi che costituiscono il "sistema vivente". Ecco la vita artificiale!61 Per quest'ultima anche i virus, «i programmi virulenti [che] si riproducono e si diffondono in tutti i calcolatori [...] sono, in questo senso, forme di vita»62. Si domanda Rucker: «Sarebbe giustificato asserire che questi robot altamente evoluti sono dotati di coscienza nello stesso senso in cui ne sono dotati gli esseri umani?».63 In fondo si tratterebbe di esseri pensanti evolutisi «da un substrato di metallo e di chips al silicio, come noi siamo esseri pensanti evoluti da un substrato di aminoacidi e altre sostanze a base di carbonio».64 Tutto diventa forma, geometria, virtualmente riproducibile. Persino il sé diventa emergente e virtuale.65 Degna di nota è la riproducibilità teorica che tale visione implicherebbe; si potrebbe dire, parafrasando la famosa frase di Laplace, che un'intelligenza che in un dato momento avesse posto ogni particella nella giusta geometria, avrebbe realizzato non solo un particolare cervello, ma addirittura una persona umana completa di ricordi, esperienze, "io", "sé" e relativo inconscio. Nulla sarebbe fuori dalla tetraktys pitagorica, dal mondo della geometria: «Se un individuo ha una gamba, o un fegato o un cuore artificiale, è sempre la stessa persona. Io sostengo che è anche possibile immaginare un tempo in cui si potrà avere un cervello artificiale. Ciò si potrebbe ottenere, per esempio, registrando olograficamente la struttura fisica, elettrica e biochimica del cervello, e quindi trasferendola isomorficamente su un grande chip al silicio o su qualche tipo di tessuto ottenuto in coltura. Presumibilmente si sperimenterebbe questo tipo di trasferimento come un breve periodo di incoscienza, dopo il quale si ricomincerebbe a pensare più o meno come prima. L'intero processo sarebbe paragonabile all'introduzione di un programma in un calcolatore nuovo».66 C'è da dire però che una materia sostenuta da una fisica U, cosa questa implicita per i sostenitori delle tesi appena esposte, non regge per la spiegazione dei fenomeni mentali, neppure se viene usata la versione "U ultra-debole".67 Infatti in una materia retta da questo tipo di fisica rimarrebbero del tutto inspiegabili le proprietà ordinarie di una res cogitans: libero arbitrio68, volontà, sensazioni (qualia), coscienza e autocoscienza. 198 Dando per scontato che una fisica U forte fornirebbe (con la stessa evidenza) le stesse possibilità (pari a zero) di spiegare le proprietà mentali69 di quante ne siano implementate nel "calcolatore costruito con lattine di birra" immaginato da Searle 70, ci baseremo su quella "U debole" perché ben conosciuta (essendo praticamente quella classica newtoniana), ma lo stesso ragionamento si può applicare inalteratamente anche a quella "U ultra-debole".71 Sia le leggi della dinamica che quelle della termodinamica vengono sistematicamente violate se diamo consistenza alle realtà della volontà e del libero arbitrio. Infatti la terza legge di Newton ci dice che esiste inviolabilmente la conservazione della quantità di moto in un sistema isolato. Dalla seconda sappiamo inoltre che per agire su una particella dobbiamo usare l'urto di un'altra o una forza equivalente (che nasca dall'interazione sempre di una o più particelle). Le conclusioni a cui queste due leggi della dinamica, unite insieme, portano, impongono inequivocabilmente che la volontà e il libero arbitrio non possono esistere. Infatti da cosa sarebbe mossa la prima particella - elettrone, atomo o molecola che sia - dalla quale inizierebbe una specie di reazione a catena fino a far muovere un arto in un atto volitivo? Qualunque sia la causa72, per poter azionare il movimento di un arto (ad esempio alzare un braccio) essa deve necessariamente muovere una o più particelle (diciamo un sistema di particelle) fino a causare il rilascio del neurotrasmettitore alle terminazioni assonali dei neuroni motori. Ora ciò può avvenire soltanto a causa di urti o di forze: ma sia gli uni che le altre vengono ottenuti da movimenti particellari... chi innescherebbe a sua volta questi? Ne viene un ricorso all'infinito. Alla stessa conclusione si arriva se utilizziamo le leggi della termodinamica. Una scelta mentale presuppone necessariamente una riduzione di entropia a livello di stati sinaptici. Ora, se c'è una riduzione di entropia questa va contro le leggi della termodinamica rendendole non più sufficienti a spiegare la volontà; se, d'altra parte, queste ultime rimangono inviolate, risulta evidente allora che la volontà è solo chimerica, e altrettanto risulta la libertà. Non solo un atomismo democriteo, quindi, sarebbe lontano dalle aspettative di Feyerabend73, ma anche ogni possibile fisica U: le proprietà di una ipotetica res cogitans, infatti, sono incompatibili e ingenerabili da quelle di una res extensa, a meno che i fautori della versione forte dell'IA non considerino quest'ultima una nuova teoria flogistica della mente. Note 1 Già Spinoza nel 1677, nella prefazione alla quinta parte della sua Ethica Ordine Geometrico demonstrata rifiutava il dualismo cartesiano perchè «le forze del Corpo non possono essere mai determinate dalle forze della Mente», adeguandosi però al principio unifenomenico del mondo fisico di Cartesio: «I corpi si distinguono fra loro in ragione di moto e di quiete, di velocità e di lentezza, e non in ragione di sostanza» (Ethica, lemma 1). 2 «Il mondo doveva essere spiegato in base a un principio unitario» (H. Kung, Dio esiste?, Milano 1979, p. 111). 3 «Quello che il genio di Descartes riusciva ancora a tenere unito, dopo di lui si separa» (Ivi, p. 29). La "non-ologrammaticità" (se rompiamo un ologramma ogni suo frammento conserva ancora l'intera immagine dell'ologramma completo) del pensiero cartesiano non permette una sua frammentazione, pena la perdita di una delle più grandi Weltanschauungen concepite dall'umanità. Tutto è collegato come un puzzle nella sintesi cosmica cartesiana, come un insieme di connessioni 199 sinaptiche di una rete neurale. Si pensi al «paradosso» dello «smembramento del Discorso sul metodo per ben condurre la propria ragione e cercare la verità nelle scienze più la Diottrica, le Meteore e la Geometria che son saggi di questo metodo, opera concepita come affatto unitaria e che non può essere intesa se non nel suo insieme», così si pronuncia E. Lojacono nella sua introduzione al II vol. delle Opere scientifiche di Descartes, Torino 1983, p. 10. 4 J.O. de La Mettrie, Storia naturale dell'anima, in S. Moravia [ed.] Opere filosofiche di La Mettrie, Roma-Bari 1974, (in particolare il capitolo VI: Sulla facoltà sensitiva della materia, pp. 62 sgg.). 5 D. Diderot, Il sogno di d'Alembert, in P. Rossi [ed.] Opere filosofiche di Denis Diderot, Milano 1963. 6 Un caratteristico neologismo di Paul-Henry Thiry d'Holbach: cfr. il suo Sistema della natura. 7 E. Haeckel, Les énigmes de l'univers, Paris 1902. 8 Si veda, a titolo di esempio, J. Guitton, G. e I. Bogdanov, Dio e la scienza, Milano 1992. 9 R. Carnap, La costruzione logica del mondo, Milano 1966, p. 80. Contrariamente Popper: «Da Talete ad Einstein, dall'atomismo antico alle speculazioni di Descartes sulla materia, dalle speculazioni di Gilbert, Newton, Leibniz e Boscovic sulle forze, a quelle di Faraday e Einstein sui campi di forze, sono state le idee metafisiche a indicare la strada» (K.R. Popper, Logica della scoperta scientifica, Torino 1970, p. XXVII). 10 R. Carnap, cit., p. 326. 11 L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, Torino 1967, p. 290. 12 Ibidem. L'hardware filosofico per il Test di Turing è così avviato! Risponde Searle: «A mio modo di vedere, un processo interno, come un senso di dolore, non "abbisogna" di alcunché. Perché poi dovrebbe?» (J.R. Searle, La riscoperta della mente, Torino 1994, p. 267). 13 G. Ryle, Lo spirito come comportamento, Torino 1955. 14 R. Rorty, La filosofia e lo specchio della natura, Milano 1986, pp. 21, 31. 15 A.R. Damasio, L'errore di Cartesio, Milano 1995, p. 337. 16 Si consideri la non trascurabile distorsione etica che ne consegue e il relativo dissolvimento di una certa classe di valori (i quali sembrano ancorati maggiormente al concetto di anima spirituale che a quello di Dio). 17 P. Emanuele, Nel meraviglioso mondo della filosofia, Torino 1996, pp. 109-110. Aggiungono J.P. Changeux e A. Connes in Pensiero e materia: «Nessuno dirà, salvo certi credenti, che il Verbo esiste prima della Materia!» (Torino 1991, p. 26). Forse non è del tutto errato posizionare ciò a cartina di tornasole sull'immagine del mondo plasmata dalla seconda rivoluzione scientifica, innescata dalle Teorie della Relatività e dei Quanti. 18 Oggi dichiararsi apertamente dualisti significa essere schiacciati e presi per folli o incompetenti dal largo fronte dei polemisti del pensiero filosofico-scientifico contemporaneo, i quali hanno, senza eccezione alcuna, il pollice verso per gli "spiritualisti fuori moda". Scrive Gilberto Corbellini in una recente recensione del libro La scienza e l'anima del premio Nobel F. Crick sulla prestigiosa rivista 200 Le Scienze: «... il problema più drammatico, oggi, è che sempre più persone, anche scienziati, sono credenti o dualisti e, spesso, lo sono in modo decisamente più irrazionale del necessario»! 19 J.R. Searle, cit., p. 42. 20 Ivi, p. 21. 21 «L'aspetto esplicativo manca del tutto nel lavoro di Einstein.» (P. W. Bridgman, La logica della fisica moderna, Torino 1965, p. 163). Famosa la risposta di Niels Bohr a quanti gli esponevano nuove idee sulla risoluzione dei tanti enigmi della teoria dei quanti: «La sua teoria, caro signore, è folle, ma non lo è abbastanza per essere vera». E altri: «Sotto questo profilo, il vero successo della teoria dei quanti consiste nell'essere stata costruita fuori, anzi, per lo più contro la ragione ordinaria. E' per questo che c'è qualcosa di "folle" in tale teoria, qualcosa che va oltre la scienza stessa.» (Guitton-Bogdanov-Bogdanov, cit., p. 88). «Il cammino percorso finora dalla teoria quantistica indica che la comprensione di quei tratti ancora non chiariti della fisica atomica si può raggiungere solo con una rinuncia all'intuitività» (W. Heisenberg, Lo sviluppo della meccanica quantistica, in S. Boffi [ed.] Onde e particelle in armonia, Milano 1991, p. 200). «La teoria ha due argomenti molto efficaci a suo favore e solo uno, di scarso rilievo, a sfavore. Innanzitutto, la teoria è sorprendentemente esatta rispetto a tutti i risultati sperimentali fino ad oggi ottenuti. In secondo luogo [...] si tratta di una teoria di straordinaria e profonda bellezza dal punto di vista matematico. L'unica cosa, che può essere detta contro di essa, è che, presa in assoluto, non ha alcun senso!» (Penrose, cit. da A. Zeilinger, Problemi di interpretazione e ricerca di paradigmi in meccanica quantistica, in F. Selleri [ed.] Che cos'è la realtà, Milano 1990, p. 123). 22 «Ogni studente di fisica si sente profondamente insoddisfatto quando gli vengono esposte queste idee della fisica moderna» (F. Selleri, Fondamenti della fisica moderna, Milano 1992, p. 13). E non soltanto lo studente visto che anche fisici del calibro di J.R. Pierce ammettono «un senso di disagio e di confusione che molti altri al pari di me hanno avuto quando si parlava di meccanica quantistica» (Elettronica quantica, Bologna 1967, p. 27). 23 «Non è un caso che tutti quelli che guardano con simpatia al mondo magico dei fenomeni "paranormali" accettano senza difficoltà le violazioni della diseguaglianza di Bell!» (Selleri, cit., pp. 33-34). 24 Ivi, p. 62. 25 Ivi, pp. 66-67. Per non parlare che già «negli anni Venti i fisici Werner Heisenberg e Erwin Schrödinger scoprirono che il modo migliore di interpretare la meccanica quantistica consiste nell'affermare che le particelle sono configurazioni in uno spazio di Hilbert ∞D [infinite dimensioni!]. Da quel momento i matematici e i fisici hanno costruito una elaborata teoria quantistica in cui il mondo è concepito come una configurazione in uno spazio di Hilbert ∞D. Uno dei problemi più seri presentati da questa teoria è quello di trovare un significato reale per lo spazio ∞D così introdotto. [...] Ma nessuno sembra capire bene che significato abbia veramente lo spazio di Hilbert.» (R. Rucker, La quarta dimensione. Un viaggio guidato negli universi di ordine superiore, Milano 1995, pag. 246). 26 «Nella fantascienza è cosa comune ritenere che esistano infiniti universi paralleli e che ogni possibile universo esista davvero in qualche luogo. Una variante di quest'ultima idea è stata in effetti inserita nella moderna meccanica quantistica» (Ivi, pag. 159). 27 Cfr. J. Guitton e G. e I. Bogdanov, cit. 201 28 L. Fraioli, Buchi neri virtuali e bosoni fantasma, in "Le Scienze", n. 326, 1995, p. 18; S.W. Hawking, La meccanica quantistica dei buchi neri, in "Le Scienze", n. 105, 1977, pp. 38-44. 29 Si veda, a titolo di esempio, La fisica quantistica del viaggio nel tempo, di D. Deutsch e M. Lockwood, in "Le Scienze", n. 309, 1994; o il libro di John Gribbin Costruire la macchina del tempo. Viaggio attraverso i buchi neri e i cunicoli spazio-temporali, Roma 1995. E non sembrino tali concetti pure invenzioni senza credenza alcuna, la scienza moderna fa perno sullo stato febbrile di un istintivo bisogno dell'immaginazione umana: «Perché dev'essere così difficile viaggiare nel tempo? E' facile immaginare il veicolo perfetto: una specie di automobile con alcuni tasti speciali sul cruscotto. Si entra, si digita il codice numerico corrispondente al luogo e al tempo in cui si desidera trovarsi, si gira la chiave di accensione e - oplà - ecco che siamo nella Parigi degli anni Venti, nelle Grandi Pianure prima dei pionieri, sulla Luna o addirittura in un'altra galassia. E' da epoche remote che gli uomini sognano una siffatta libertà dalle pastoie dello spazio e del tempo. [...] Potranno mai diventare realtà i viaggi nel tempo e i viaggi FTL [faster than light]? Riusciremo mai a conquistare definitivamente il tempo e lo spazio? [...] Non se ne sa molto davvero, ma c'è qualche possibilità che maneggiando sistemi dotati di enorme massa - come i buchi neri - si riesca forse a distorcere lo spazio e il tempo in modo tale da consentire quei balzi nello spazio-tempo che sono richiesti dai viaggi nel tempo e dai viaggi FTL. Un'altra via per compiere viaggi di questo genere passa forse attraverso la meccanica quantistica, secondo la quale, al livello di realtà più profondo, il tempo e lo spazio non esistono affatto.» (R. Rucker, cit., pag. 203). 30 Cfr. ad esempio Saranno i robot a ereditare la Terra?, in "Le Scienze", n. 316, 1994, pp. 96-102; Macchine intelligenti, in J. Brockman [ed.] La terza cultura, Milano 1995; La società della mente, Milano 1990. «Potremmo perfino modificare il nostro DNA per facilitare l'integrazione uomomacchina» dichiara candidamente (in realtà il livello di fattibilità in questo caso è nettamente diverso dalle ipotesi di Minsky) il creatore della realtà artificiale (M.W. Krueger, Realtà artificiale, Milano 1992, p. 257). 31 P.W. Atkins, Molecole, Bologna 1992, p. 105. 32 R. Rucker, cit., p. 182. 33 Trad. in Cartesio. Opere filosofiche, vol. primo, Roma-Bari 1991, p. 140. 34 II, 23, in Opere filosofiche, cit., vol. terzo, p. 81. Due decenni più tardi Spinoza cercherà di giungere a una dimostrazione di ciò nella Proposizione II della seconda parte dei suoi Principi della filosofia di Cartesio dimostrati secondo il metodo geometrico: «La natura del corpo non viene tolta per la sottrazione delle qualità sensibili (per la proposizione I, Parte II); perciò esse non costituiscono la sua essenza (per l'assioma II). Non rimane dunque niente altro eccetto l'estensione e le sue affezioni (per l'assioma VII) le quali (per l'assioma VI) non possono essere concepite senza l'estensione. Perciò, se l'estensione è tolta, non rimarrà niente che appartenga alla natura del corpo, ma questa sarà interamente tolta; dunque (per l'assioma II) la natura del corpo consiste nella sola estensione. C.d.d.» (Roma-Bari 1990, p. 59). 35 Il sostrato o "materia prima", quel «qualcosa di primitivo, che non venga più denominato da altro come fatto di esso» (Aristotele, Metaph. IX 7, 1049a). 36 Platone, Timeo, XVIII, 50 a-c. La "ragnatela epistemica" che collega Cartesio con Platone è molto più fitta di quanto si possa immaginare in un primo momento. Un esempio, preso dal Timeo di quest'ultimo, può servire a dissipare ulteriori dubbi: «E così è da spiegare [...] la meravigliosa forza attrattiva dell'ambra e del magnete: perché in nessuno di questi corpi esiste forza d'attrazione, ma il vuoto non c'è...» (XXXVII, 79 c). 202 37 «Si differenziano [gli atomi] infatti bensì per le figure, ma la loro natura è, dicono, una e la medesima, come se ognuna d'esse fosse ad esempio una particella separata d'oro.» (Aristotele, De Cael., I 7, 275 b 32 - 276 a 1). «Del fatto che le sostanze rimangono in contatto tra di loro per un certo tempo, egli [Democrito] dà la causa ai collegamenti e alle capacità di adesione degli atomi: alcuni di questi, infatti, sono irregolari, altri uncinati, altri concavi, altri convessi, altri differenti in innumerevoli altri modi; ed egli reputa dunque che gli atomi si tengano attaccati gli uni agli altri e rimangano in contatto solo fino a quando, col sopraggiungere di qualche azione esterna, una necessità più forte non li scuota violentemente e li disperda in varie direzioni.» (Diels-Kranz, 68 A 37). «Per convenzione il dolce, per convenzione l'amaro, per convenzione il caldo, per convenzione il freddo, per convenzione il colore, in realtà solo atomi e il vuoto» (Diels-Kranz, 68 B 9; v. anche 68 B 125). «All'inizio troviamo le sostanze-qualità-forze di Anassimandro e dei suoi immediati successori, cui fa seguito in Senofane - passando per Empedocle e fino ad Anassagora - la separazione del principio o dei principi agenti da quelli materiali che mantengono fino a un certo punto il loro carattere di qualità, e contemporaneamente la crescente riduzione delle forze agenti a forze meccaniche. Infine con Democrito la riduzione a principi materiali con qualità puramente spaziali e la sostituzione delle forze agenti col movimento puro, al quale viene attribuita un'azione che consiste nella pressione e nell'urto che si verificano all'impatto tra due particelle materiali.» (Kurt von Fritz, Le origini della scienza in Grecia, Bologna 1988). 38 M. Todeschini, Psicobiofisica, Torino 1978, p. 111. «Sin da quando ero studente delle scuole medie e specialmente durante gli studi universitari al Politecnico di Torino, sentivo come tutti i mie compagni, il disagio di dover assimilare un sapere diviso in tanti scompartimenti stagni senza alcuna affinità tra di loro, insegnatoci con astrusi concetti nozionistici da ritenere a memoria. Ricordo che una notte mi era sorta spontanea la domanda: - Come mai invece di raggiungere l'ambito traguardo dell'unificazione del sapere siamo giunti al contrario a spezzettarlo in un numero sempre crescente di scienze e specializzazioni diverse senza alcuna relazione, né continuità di concetti tra di loro, né di cause ed effetti materiali tra i particolari fenomeni da esse contemplate? Ponderando su tale domanda pensai che se fosse stata vera l'ipotesi di Galileo che le sensazioni di luce, calore, suono, odore, sapore, ecc. sono irreperibili nel mondo fisico oggettivo, ma sorgono in noi solamente quando contro il nostro corpo vengono ad infrangersi urti di materia, solida, liquida, gassosa, o sciolta allo stato di spazio fluido (etere), allora questo restava l'unica realtà del mondo fisico. In tal caso era chiaro che la meccanica unitaria dell'Universo era la fluidodinamica. Mi apparve allora evidente che la materia nei 4 stati citati, sotto forma di particelle atomiche, oppure di onde di etere, colpendo i nostri organi di senso, poteva far oscillare i loro atomi costituenti e farne espellere gli elettroni periferici, i quali andando a colpire gli atomi successivi, avrebbero fatto a loro volta espellere l'elettrone periferico, e così via, propagando in tal modo, lungo il nervo che collega l'organo di senso periferico all'organo cerebrale, sede della psiche, una successione più o meno rapida di urti corpuscolari, che il nostro spirito trasforma in una delle sensazioni sopra citate, a secondo della frequenza e dell'intensità degli urti corpuscolari trasmessigli. Mi balenò allora nella mente quanto fosse stata significativa la frase di Leonardo da Vinci, che: «Li nervi sono li cavallari dell'anima», e come fosse andato vicino al vero il grande Cartesio nel ritenere che essi subiscono sollecitazioni meccaniche per risvegliare nell'anima le sensazioni. Scoprii allora che abbiamo ideate tante scienze differenti quanti sono i nostri organi di senso. Così è sorta l'acustica, perché abbiamo l'udito, con la membrana del timpano che vibra allorché su di essa vengono ad infrangersi onde atmosferiche silenti, a bassa frequenza, [...]. E' sorta l'ottica perché abbiamo l'organo della vista [...]. E' sorta la termodinamica, perché abbiamo dei corpuscoli di Krauser [...]. E' sorta l'elettrotecnica, perché abbiamo i corpuscoli di Dogiel nell'epidermide, [...]. E' sorta la dinamica, perché abbiamo organi di tatto (corpuscoli di Pacini) [...]. Il non aver tenuto conto nella fisica teoretica che le sensazioni sono irreperibili nel mondo oggettivo, ha smembrato quindi la scienza in tante branche diverse quante sono i nostri organi di senso...» (Ivi, pp. 306-309). 39 «Così come la liquidità dell'acqua è causata dal comportamento di elementi al microlivello, ed è tuttavia allo stesso tempo una caratteristica realizzata nel sistema dei microelementi, allo stesso 203 modo, esattamente nello stesso senso di causato da e realizzato in, i fenomeni mentali sono causati da processi che hanno corso nel cervello al livello neuronale o modulare, e allo stesso tempo sono realizzati proprio nel sistema costituito dai neuroni. [...] Non mi sarebbe possibile, per esempio, entrare in questo bicchiere d'acqua, estrarne una molecola e dire: "Questa è liquida".» (J.R. Searle, Mente Cervello Intelligenza, Milano 1988, p. 15). 40 Possiamo immaginare la dinamica di "cattura" dello stimolo raffigurandoci la medesima delle radio-onde da parte di un circuito accordato: esistono innumerevoli tipi di onde che "incontrano" l'antenna di un ricevitore, ma soltanto quelle la cui frequenza è compatibile col circuito vengono "captate" (l'esempio diventa ancora più calzante se associamo il recettore ad un circuito PLL [Phase Locked Loop]. In questo caso l'"aggancio" avverrebbe solo se il "segnale/stimolo" non è al di fuori del campo di cattura dell'"anello/recettore"). Siamo vicini, anche se soltanto in parte, all'approccio enattivo di Varela per quello che riguarda l'interattività del percipiente: «Nell'approccio enattivo la realtà non è un dato: essa dipende dal percipiente, non perché si costruisce per capriccio, ma perché ciò che conta come un mondo rilevante è inseparabile da ciò che è la struttura del percipiente.» (F.J. Varela, Un know-how per l'etica, Roma-Bari 1992, p. 16). 41 Si rischia diversamente di vanificare tutto il cammino della scienza ritornando alle qualitas peripatetiche: «A questo proposito egli [Boyle] si scaglia contro un certo tipo di spiegazioni (derivate non tanto da Aristotele quanto dall'aver ripreso in maniera superficiale e quasi sempre del tutto erronea alcune tesi aristoteliche e altre teorie della medicina tardoantica) nelle quali si tentava di motivare gli effetti delle sostanze semplicemente in base alla loro qualità (qualitas) o facoltà (facultas) di produrre questi stessi effetti. Per contro, Boyle sottolineò a ragione che così facendo non si chiariva nulla e che gli effetti specifici delle sostanze dovevano dedursi da caratteristiche più generali se si voleva davvero spiegare qualcosa. Egli addusse come esempio che perfino l'effetto dannoso delle schegge di vetro sull'intestino umano era stato spiegato con una particolare facultas deleteria anziché ammettere che le schegge feriscono l'intestino in modo puramente meccanico» (Kurt von Fritz, cit., p. 106). 42 James W. McAllister, Bellezza e rivoluzione nella scienza, Milano 1998, Pag. 195. 43 «La parola "caos" è diventata un'espressione concisa per designare un movimento in rapida crescita che sta plasmando ex novo il tessuto dell'ortodossia scientifica. Oggi congressi e riviste sul caos si moltiplicano. [...] La nuova scienza ha generato un proprio vocabolario, un elegante linguaggio tecnico di frattali e biforcazioni, intermittenze e periodicità, attrattori strani e diffeomorfismi piegati. Questi sono i nuovi elementi del moto, esattamente come, nella fisica tradizionale, quark e gluoni sono i nuovi elementi della materia. Per alcuni fisici il caos è una scienza di processo anziché di stato, di divenire anziché di essere. [...] Il caos valica le linee di demarcazione fra le varie discipline scientifiche.» (J. Gleick, Caos. La nascita di una nuova scienza, Milano 1996, pp. 10-11). 44 «I fautori più appassionati della nuova scienza si spingono addirittura ad affermare che la scienza del XX secolo sarà ricordata per tre sole cose: la relatività, la meccanica quantistica e il caos. Il caos, essi sostengono, è diventato la terza grande rivoluzione di questo secolo nelle scienze fisiche. Come le prime due rivoluzioni, il caos abolisce i dogmi della fisica newtoniana. Come si espresse un fisico: "La relatività eliminò l'illusione newtoniana dello spazio e tempo assoluti; la teoria quantistica eliminò il sogno newtoniano di un processo di misurazione controllabile e il caos elimina la fantasia laplaciana della prevedibilità deterministica".» (Ivi, p. 12). 45 I quali, secondo James Gleick, «avevano un debole per la casualità e per la complessità, per margini frastagliati e per salti bruschi.» (Ivi, p. 11). 46 Uno dei Sette Sapienti che Platone ricorda insieme a Talete oltre due millenni e mezzo fa. 204 47 «Malgrado tali profonde difficoltà di realizzare una predizione deterministica, tutti i normali sistemi, a cui ci si riferisce come "caotici", devono essere inclusi tra quelli che io chiamo "computazionali". [...] Deve essere chiaro che i sistemi caotici sono inclusi in quello che io intendo come "computazionale" o "algoritmico". La questione, se qualcosa possa essere simulata in pratica oppure no, è distinta dai problemi di principio» (R. Penrose, Ombre della mente, Milano 1996, pp. 42-43). Ed ecco altri "misoniani" della stessa opinione (su che cos'è il caos): «H. Bruce Stewart, specialista di matematica applicata al Brookhaven National Laboratory di Long Island: Un comportamento ricorrente apparentemente casuale in un sistema deterministico (meccanicistico) semplice. [...] James Crutchfield [...]: Dinamica con entropia metrica positiva ma finita. La traduzione dal matematichese è: un comportamento che produce informazione (amplifica piccole indeterminazioni), ma non è del tutto impredicibile. [...] John Hubbard [...], per lui il messaggio fondamentale era che i processi semplici in natura potevano produrre splendidi edifici di complessità senza casualità.» (J. Gleick, cit., pp. 297-298). 48 Giustificazione creata in particolare per la meccanica quantistica a mo' di cintura protettiva contro gli attacchi dei neorealisti: «La questione fondamentale della fisica moderna riguarda la possibilità di dare una descrizione razionale della realtà, dove "razionale" significa: basata sulle idee di causalità, di spazio tridimensionale e di tempo. Una descrizione che tanti grandi scienziati, da Galilei, Faraday e Maxwell, fino a Lorenz, Bolzmann e Einstein, considerarono come la vera essenza della fisica. Durante il Novecento è invece stato di moda adottare un atteggiamento negativo circa la comprensibilità della realtà oggettiva, seguendo un modo di pensare sviluppato nella seconda metà degli anni venti da Bohr, Heisenberg e altri. Ostacoli formidabili furono eretti contro il desiderio di alcuni di riallacciare la fisica alla descrizione causale nello spazio e nel tempo, le cosiddette "dimostrazioni di impossibilità", cioè il teorema di von Neumann, il principio di complementarità di Bohr e l'interpretazione di Heisenberg delle sue diseguaglianze come "relazioni di indeterminazione". Si pretendeva nientemeno che fosse logicamente impossibile cercare di riformulare la teoria dei quanti in modo causale. La nuova situazione, pienamente emersa solo di recente, è che tutti questi ostacoli sono stati superati, in linea di principio. Lo si è fatto dimostrando la mancanza di generalità, e dunque l'infondatezza, delle ipotesi che stavano alla base delle dimostrazioni di impossibilità.» (Franco Selleri, in P. Nutricati Oltre i paradossi della fisica moderna, Bari 1988, p. 7). 49 "U" sta naturalmente per "unifenomenica" (ma anche per "unitaria", "universale", "unificata", ecc.). 50 Per "totalmente indipendenti" indichiamo quelle proprietà della materia, come le interazioni, dalla cui combinazione non ne scaturiscano altre se non (come nel caso dell'interazione elettromagnetica) sullo stesso piano semantico di quelle di partenza. 51 L'ASCC, funzionante a relè. 52 E' prudente non fissare... Infatti l'evoluzione di questo settore ha una curva esponenziale strabiliante: è considerato difatti il settore applicativo umano con la crescita evolutiva più rapida in assoluto. 53 Per esempio, il 68000 della Motorola ne conteneva appunto 68000 (da qui il suo nome, come un vanto). 54 Sono già state realizzate delle prime unità di elaborazione digitale fotonica a partire dall'inizio del 1990. 205 55 R. Luccio, in P.M. Churchland La natura della mente e la struttura della scienza, Bologna 1992, p. 24. 56 Anche se meno spettacolare, è da evidenziare un notevole progresso nel campo della programmazione di queste macchine. 57 Edelman propone una teoria della selezione dei gruppi neuronali, del darwinismo neurale e dei cosiddetti "anelli rientranti" (cfr. G.M. Edelman, Il presente ricordato. Una teoria biologica della coscienza, Milano 1989), Crick (scopritore, insieme a Watson, della struttura del DNA), per spiegare la coscienza, punta sull'accensione sincronizzata di particolari neuroni che assumerebbe la forma di oscillazioni semisincrone entro uno spettro di 40-70 hertz (oscillazioni gamma, cfr. F.H.C. Crick, La scienza e l'anima, Milano 1994). 58 R.T. Morrison - R.N. Boyd, Chimica organica, Milano 1976, p. 1. 59 V. Pratt, Macchine pensanti. L'evoluzione dell'intelligenza artificiale, Bologna 1990, p. 9. 60 C. Emmeche, Il giardino nella macchina. La nuova scienza della vita artificiale, Torino 1996, p. 10. 61 «Non vi è soltanto la possibilità di costruire modelli matematici dei sistemi biologici: oggi esiste una corrente di pensiero, che affonda le proprie radici nella biologia, nella fisica, nella scienza dei calcolatori e nella matematica, che ha aggregato molti ricercatori nel tentativo comune di arrivare alla sintesi della vita, realizzando la creazione dei processi vitali grazie al calcolatore. Nella concezione di questo movimento, la vita non è questione dei diversi materiali dei quali siamo composti [...]. Gli specifici elementi materiali si potrebbero sostituire con altri, che potrebbero essere, per esempio, i piccoli chip di silicio dei calcolatori (in silico). [...] Se la vita è una macchina, la stessa macchina può diventare viva.» (Ibidem). 62 Ivi, p. 16. 63 R. Rucker, La mente e l'infinito, Padova 1991, p. 218. 64 Ibidem. 65 Cfr. Varela, Il Sé emergente, in J. Brockman La terza cultura, Milano 1995. 66 R. Rucker, cit. 67 Penrose sviluppa una linea argomentativa in qualche modo simile alla nostra: se il tipo di fisica utilizzata è "computazionabile" (noi diremmo di tipo "U") allora non è esaustiva già in linea di principio a dare spiegazioni delle facoltà mentali (cfr. R. Penrose, Ombre della mente, cit.). Se esistono facoltà mentali necessariamente non computazionali allora un tipo di fisica come quello appena accennato non riesce a spiegarle: «Io uso l'argomento di Gödel per dimostrare che la comprensione umana non può essere una attività algoritmica; e, se possiamo dimostrare questa cosa in qualche contesto specifico, ciò sarà sufficiente.» (Ivi, p. 76). Si veda pure, dello stesso autore, La Mente Nuova dell'Imperatore, Milano 1998. 68 «Si potrebbe pensare che, dopo oltre duemila anni di preoccupazioni al suo proposito, il problema della libertà del volere dovrebbe ormai essere stato finalmente risolto. Be', in realtà la maggior parte dei filosofi pensa che sia stato risolto. Essi pensano che sia stato risolto da Thomas Hobbes e David Hume e da vari altri filosofi empiristi, le cui soluzioni sono state ripetute e migliorate fino al XX secolo. Io penso che non sia stato risolto.» (J.R. Searle, Mente Cervello Intelligenza, cit., p. 75). 206 69 In particolare, quelle passive (come i qualia) sono rese chimeriche dal "carattere U" di questo tipo di fisica, mentre quelle attive (come volontà e libero arbitrio) vengono dimostrate assurde tramite il "carattere D". 70 «Secondo questo punto di vista [quello cioè del funzionalismo], qualsiasi sistema fisico in possesso del giusto programma con i giusti input e i giusti output avrebbe una mente esattamente nello stesso senso in cui voi e io abbiamo una mente. Supponiamo per esempio di costruire un calcolatore con lattine di birra usate e mosso da mulini a vento: se questo calcolatore avesse il programma giusto, allora dovrebbe avere una mente. E ciò che conta non è che per quello che ne sappiamo esso potrebbe avere pensieri e sensazioni, ma piuttosto che esso deve avere pensieri e sensazioni, perché tutto il necessario per avere pensieri e sensazioni è questo: implementare il programma giusto.» [Ivi, pp. 21-22]. Si noti che la linea argomentativa searleana, così come quella penroseana, "bypassa" qualunque stato/stadio di complessità o specificità circuitale (come i computer paralleli). L'argomentazione di pensatori come Paul M. Churchland, già affetta da troppe assunzioni gratuite, si scioglie come neve al sole dinanzi a tale "generalità-universalità": «Assumiamo che l'intelligenza cosciente che gli esseri umani esibiscono risulti dal contesto di quelle reti di codificazione e di calcolo vettoriale che abbiamo esplorato nei precedenti capitoli. Il che comprende le reti ricorrenti e i sistemi formati da tali reti. Si assuma anche che le nostre diverse forme di competenza cognitiva vengano acquisite tramite un processo di aggiustamento dei pesi sinaptici che suddivide i nostri spazi di attivazione neuronale in categorie e successioni prototipiche; vale a dire in un quadro concettuale che risponde agli input percettivi, permette esplorazioni deliberate, e dirige la produzione di un output comportamentale. Se questo è il modo in cui gli umani ottengono la loro intelligenza, è possibile per una macchina elettronica fare altrettanto? A giudicare dalle apparenze, la risposta è sì, almeno in linea di principio.» (P.M. Churchland, Il motore della ragione. La sede dell'anima, Milano 1998, p. 254). E' veramente strano e nello stesso tempo interessante come cervelli di questo calibro possano perdersi in un bicchiere d'acqua: «Il suo argomento fondamentale [quello di Searle] contro la presenza di un significato intrinseco nei computer è diretto contro le macchine classiche, programmabili. Questo argomento non ha alcuna presa sulla posizione che sto difendendo io, perché è dei computer paralleli che stiamo discutendo.» (Ivi, p. 263). 71 E' sufficiente usare il "carattere D debole" definito precedentemente. La conservazione della quantità di moto (per la fisica cartesiano-todeschiniana) o quella dell'energia (per quella "U debole" e "U ultra-debole") sarebbero più che sufficienti per manifestare il "carattere D" ("prequantisticamente"... E forse un giorno anche "quantisticamente" se saranno risolti gli enigmatici "Zmisteri", per usare un neologismo di Penrose: «Dopo una vita spesa a sviluppare l'approccio di Copenaghen, Dirac giunse a questa sorprendente conclusione: "Vi sono grandi difficoltà [...] in connessione con l'esistente meccanica quantistica. Ma non si deve supporre che sopravviverà indefinitamente nel futuro. Anzi, io credo molto probabile che in qualche tempo futuro avremo una meccanica quantistica migliorata in cui vi sarà un ritorno al determinismo e che, pertanto, giustificherà il punto di vista di Einstein."» [Selleri, in Nutricati, cit., p. 17]). 72 73 Per quanto complesso si possa immaginare "l'universo" da cui è formata. Avrebbe infatti cercato di difenderne la coerenza. Cfr. P.K. Feyerabend, Materialism and the mind/body problem, "Review of Metaphysics", 17, 1963, pp. 49-66. 207 The magnetic field as a particular current of ether: a proposal of experiments on its possible interaction with light (Rocco Vittorio Macrì) «Powerful philosophical intellects, as that of Anaxagoras and Descartes, capable physicists, such as Lord Kelvin, Huygens, Fresnel, not to mention other major ones, have tried to explain by means of a fluid's motions respectively astronomical, atomical, electrical and optical phenomena, without however arriving at discovering their inner laws», thus Marco Todeschini (Bergamo, 1899 - 1988) referred to the dense net of attempts made by great thinkers of the past to unify physical phenomena as manifestations of etheric states, in his monumental Theory of appearances - Space-dynamics and Psychobiophysics of 1949, consacrating his entire life to the research of this purpose. Already in ancient times, Plato with his chora, and Aristotle with his hyle, moved in this same direction. Also in the physics of Descartes, the fine substance that composed the skies held such decisive functions. Even Newton, famous for his objections to Descartes' approach, will manifest later in his Opticks a lack of certainty in regard to the ether's theories, which is more surprising if one compares these last considerations with the apodeictic procedure of the Principia, so as to let us feel the sensation of kind of an indirect conversion to the ether's theory, in the new Quaestiones, added to the last editions of his work. An attempt to establish a link between electrical, magnetic and optical phenomena starting from an etheric point of view, in antithesis with the concept of an action at a distance, was made by Faraday. Elaborating about the Oersted's discovery of the deviation experienced by a magnetic needle in proximity of a current, and the famous Arago's experience, in which a current passing in a plane covered with iron filings causes a displacement of these in concentric circles, Faraday came to the conclusion that the ether was the medium through which electromagnetic forces propagated, thus reviving the old scholastic law affirming that «Matter cannot act in places where it does not exist». The discovery of electromagnetic induction and of the simmetry between electrical and magnetic effects was fundamental for the theoretical developments of Maxwell first and then of Lord Kelvin. They (as well as many others, such as J. J. Thomson) built mechanical models for the ether, and applied them with a certain success; in particular, Lord Kelvin theorized an atom vortex. His theory was merely a part of a wider whole, having the characteristics of considering in some cases the ether as a fluid, and its vortices as the magnetic field. We thus arrive to our days, to the todeschinian Space-dynamics, the tip of an iceberg of a surprisingly thick spider's web under the shadow of the official physics, connecting many brains which try, autonomously, to find a "visionary" alternative - to use a todeschinian word - to the preponderance of the "illusionist" today's science. In synthesis, these alternative theories represent magnetism as an ether's current, which moves in the space from one point to another. Using the electron as a micro-vortex of the ether, we can explain the magnetic field produced by an electrical current: the electron flux within the conductor would move with the spin's axis parallel to the direction of the motion, creating in such a way a "mega-vortex" of ether around the conductor. In the case of a 208 solenoid the combination of the vortices around each coil creates on its interior a continual ether flux parallel to the solenoid's axis. Our suggestion simply consists in verifying, with a laser-beam passing through the solenoid, the possible speed's variation of the beam (or of the transit time), which would be dragged or slackened according to the verse of the electrical current (and thus of the ether flux or of any of its complex states). Being hypothetically possible to continuously vary as desired the intensity of the magnetic field, and then to possibly vary in a continuous way the speed of the luminous beam - and even to surpass the value c - here it is that this experiment could be able to give a new confirm, or to put new doubts, about the validity of the theory of relativity. The following examples are meant as simple guidelines for further experimental elaborations. It is opportune to use, for some of these, in place of a continuous current, an alternate one, in order to give major evidence to possible variations of the effects. It is not to be totally excluded also the possibility of positive results of experimentations using electrical field in place of the magnetic ones. SOME BASIC GUIDELINES Used abbreviations: SOL: solenoid; L: laser; M: mirror; ST: semi-trasparent mirror; O: observer; MG: magnet; MON: monitor or analyzer or computer; CCD: CCD sensor or analogous; K: Kerr's cell; F: photomoltiplicator or photosensor; TOR: toroidal coil; OF: winding of n spire of an optical fibre. Experiment A: interpherometric metod 209 Experiment B: transversal deviation Experiment C: variations of the velocity of the luminous beam 210 If one does not make use of a device different from a Kerr's cell, the luminous beam should be polarized since the beginning, making it for instance reflect on the surface of a semi-silvered glass plate. Furthermore, because of a possible new polarization assumed by the luminous beam at the interior of the solenoid, it would be better to find in any case an alternative to the Kerr's cell. The required effects could be increased by making the luminous beam pass more than once inside the solenoids. We could even think (with some caution) to make use of a wave-like guideline, for instance an optical fibre, in place of the mirrors, with the aim of increase the path of the luminous beam. ----[Una presentazione dell'autore si trova nel numero 1 di Episteme] E-mail: [email protected] 211 Space Dependence of Light Velocity May Explain Anomalous Effect Seen in Distant Spacecraft (Theo Theocharis) ABSTRACT: The Maxwellian electromagnetic wave nature of light is assumed. This theory requires a medium of propagation. There is evidence that this medium is generated by (and therefore attached to and carried along by) large celestial bodies. It is explained how this theory may account for the anomalous effect seen in distant spacecraft. This leads to the practical idea of an "optical translational velocimeter". KEYWORDS: Matter-generated velocimeter. light-wave-medium, hierarchical schesis, optical translational PACS Numbers: 03.50.D Maxwell theory 41.20.Jb Electromagnetic wave propagation 42.25.Bs Light propagation 07.07.Df Optical sensors 42.81.Pa Sensors, gyros 04.80.Cc Experimental tests of gravitational theories 95.55.Pe Lunar, planetary, and deep-space probes 95.10.Eg Orbit determination and improvement Anderson et al [1,2] reported an anomalous effect seen in distant spacecraft and investigated various possible causes, but failed to find a satisfactory explanation. A new candidate for a potential explanation is put forward here. Anderson et al remarked that "it is interesting to speculate on the possibility that the origin of the anomalous signal is new physics".[1] It is not so much new physics that is proposed here; rather it is a new version of quite old physics which regrettably was unjustifiably neglected. What follows is an outline of a theory that may explain the anomalous effect. Anderson et al also commented that "one can speculate that there is some unknown interaction of the radio signals with the solar wind".[1] The speculation here is that there is a well-defined connection of the electromagnetic-wave radio signals with the (admittedly imperfectly known) electromagnetic-wave medium - "Maxwell's Ether".[3] In order to understand better the properties of radio signals over large (interplanetary) distances, one has to consider the nature and large-scale structure of the medium of radio signals. There is considerable evidence that this medium is generated by 212 (and therefore attached to and carried along by) large celestial bodies.[3] Thus for the Earth observer, the speed of radio signals is the universal constant c only in the neighbourhood of the Earth. Elsewhere, it is c with respect to the nearest dominant body (which invariably moves with respect to the Earth), and it is probably this that gives rise to the anomalous effect. This theory is corroborated by the Anderson et al remark that "our [anomalous] effect could only be seen … further than 10-15 Astronomical Units".[2] The best way to visualise the situation is to consider a "fluid" and "turbulent", so to speak, medium (of waves propagated through it) with "currents" or "streams" or "winds" or "fluxes" flowing in this fluid medium. Examples : (i) ocean-currents in the ocean-wavemedium (i.e. ocean); (ii) winds in the sound-wave-medium (i.e. air); (iii) "ether-fluxes" in the light-wave-medium (i.e. ether); etc.[3] Elementary observation discloses a well-defined hierarchical (non-static but nonchaotic and dynamically stable) organisation of matter in the universe: planet, star, galaxy, cluster, etc. More careful study than is commonly done, shows that it is one of these material frames, and no others, which provide the scientists (and specifically the NASA investigators) with the concrete natural standard with respect to which all velocities (including c) and all accelerations which enter into the true laws of nature must be referred in order to obtain consistent results. Alfred O'Rahilly's 1938 term "schesis" has been adopted [4] to denote these all-important concrete natural standards. Assuming that each celestial body generates in its vicinity its own light-medium, it follows that the speed of a radio signal near a celestial body B is the universal constant c with respect to the schesis B only, and c with respect to nothing else. The inexorable fact is that the various scheses move with respect to each other, and from this follows that there are "ether-fluxes" (and not the nineteenth century misconceived "ether-wind") and it may be this that the NASA deep space missions have unknowingly been detecting for decades. It also follows that (although in reality the numerical value c is in a certain general sense still a universal constant) for an observer on schesis E the speed of a radio signal near a schesis B is not c, even when the radio signal is sent from E. In a certain sense, this unknowingly detected (by NASA) positive result is the outcome of a Michelson-Morley type of experiment on a grand (interplanetary) scale. Significantly, Michelson's own and substantially correct explanation of the null result of the original (laboratory scale) Michelson-Morley experiment was that it contradicted Fresnel's "ether-wind" model of the light-medium and instead supported Stokes's "ether-drag" model of the light-medium. Moreover, Michelson never endorsed the popular tendency of neglecting (or, worse, denying) the existence of the light-medium of the light(-electromagnetic)-waves.[3] The above ideas lead one to suspect that a source of the anomalous effect (and possibly the only one) lies in the analysis of the ranging data (when dealing with large distances, spanning more than one planet), and specifically in the (in this problem) inappropriate use of the formula: (probe distance) = (speed of light)(radio signal transit time) 213 The probably inaccurate value of the probe distance incorrectly derived from this inappropriate formula predictably fails to agree with the probably accurate value of the probe distance correctly derived from the initial conditions plus the integration of Newton's law of dynamical motion: F = dp/dt In order to correctly account for the anomalous effect, it is suggested that in the analysis of the ranging data the following formula must be used: dt = dx/c(x) This formula is evidently simple, and it evidently applies to small distances dx and small durations dt. The great difficulty has always lain in the in effect space-dependence (over large distances, spanning more than one planet) of c(x), which is non-trivial and not so obvious. In order to obtain correct results over large distances, one has got to do some non-trivial integration. The exact function c(x) is not known, and it must be the business of space agencies to determine it experimentally. In the same way that oceanographers have meticulously mapped (for example) the Gulf stream in the Atlantic ocean, the various space agencies ought to have started mapping the "ether fluxes" in space from the dawn of the space age. The most efficient mapping these "ether fluxes" in space can be done by equipping all space probes with what has been termed the "optical translational velocimeter".[5,6] In the same way that the apparatus of the Sagnac experiment has been painstakingly developed into the now very useful "optical rotational velocimeter", the present theory predicts the development of the apparatus of the Michelson-Morley experiment into the "optical translational velocimeter", which may turn out to be equally (if not more) useful. [5,6] [1] J. D. Anderson, P. A. Laing, E L. Lau, A. S. Liu, M. M. Nieto, and S. G. Turyshev, Phys. Rev. Lett. 81 (1998) 2858. [2] J. D. Anderson, P. A. Laing, E. L. Lau, A. S. Liu, M. M. Nieto, and S. G. Turyshev, Phys. Rev. Lett. 83 (1999) 1891. [3] T. Theocharis, Lettere al Nuovo Cimento 36 (1983) 325. [4] T. Theocharis, Physics Education 17 (1982) 148. [5] M. Psimopoulos, and T. Theocharis, Nature, 319 (1986) 269. [6] M. Psimopoulos, and T. Theocharis, Electronics & Power, 32 (1986) 789. ----[A presentation of the author is given at the end of his previous paper published in this same issue of Episteme] 214 Equivalenza tra definizione classica e statistica dell'entropia (Umberto Lucia)* La Meccanica Statistica Classica (una descrizione rigorosa dovrebbe fare riferimento alle leggi della Meccanica Statistica Quantistica. La Meccanica Statistica Classica è un caso particolare della prima, valido quando la descrizione quantistica tende a quella classica: h→0 , con h costante di Planck, 6.67 10-34 Js . Nell'approccio termodinamico la teoria cinetica classica permette di descrivere con notevoli risultati i fenomeni sperimentalmente osservati o osservabili, quindi per quanto riguarda la descrizione termodinamica è sufficiente ricorrere alla teoria classica della Meccanica Statistica) è un settore della Fisica sviluppato col fine di analizzare le proprietà della materia quando essa si trova in equilibrio termodinamico. Il fine di questa disciplina è di derivare tutte le proprietà macroscopiche del sistema in esame dalle leggi della dinamica microscopica del sistema stesso: si opera in questo modo una descrizione macroscopica del sistema ponendone le basi fisiche su un'analisi microscopica. La Meccanica Statistica non fornisce una descrizione di come un sistema raggiunge l'equilibrio, né determina le condizioni fisiche per cui un sistema permanga in equilibrio, ma descrive lo stato di equilibrio quando esso sia già stato raggiunto. In questo contesto risulta interessante definire per mezzo della dinamica microscopica le grandezze macroscopiche che forniscono informazioni riguardo allo stato di equilibrio e le sue condizioni di realizzabilità, come per esempio l'entropia. Infatti, dopo aver definito una grandezza macroscopica dalla quale si possano derivare le condizioni di equilibrio e di stabilità del sistema, si possono applicare a questa funzione le leggi della termodinamica connesse con lo stato di equilibrio e le condizioni di stabilità stesse. Ogni stato del sistema, costituito da N particelle, è univocamente e completamente definito da un insieme di 3N coordinate canoniche {q1, ..., qN} e di 3N impulsi canonici {p1, ..., pN}: queste 6N coordinate costituiscono la base dello spazio delle fasi (q,p) 6N-dimensionale, o spazio Γ, del sistema. La dinamica del sistema è determinata dalla hamiltoniana H(q,p) dalla quale si possono ottenere le equazioni canoniche del moto ⋅ dpi ∂ H ( q, p ) = − = − p ∂q dt i ⋅ ∂ H( q, p ) = − dqi = q ∂ pi dt i=1,…,3N Ogni punto nello spazio delle fasi rappresenta uno stato fisico e questa relazione è biunivoca. Inoltre il luogo geometrico dei punti che soddisfa l'equazione H(q,p) = E è un'ipersuperficie nello spazio delle fasi di definita energia E. In termini di operatori matematici l'energia E è un autovalore dell'operatore di evoluzione e iH, nel caso classico, oppure dell'operatore hamiltoniano, in quello quantistico, e lo stato che essa caratterizza è 215 un autostato. Lo stato del sistema evolve secondo le equazioni canoniche del moto e descrive una curva nello spazio delle fasi che si trova sempre sulla stessa ipersuperficie di energia in quanto il sistema è conservativo. Per un sistema macroscopico l'interesse termodinamico è focalizzato solo su alcune specifiche proprietà macroscopiche del sistema stesso come per esempio il volume definito V e l'energia E compresa in un determinato intervallo [E,E+∆E]. Queste proprietà macroscopiche sono soddisfatte da un notevole numero di possibili stati microscopici del sistema, i microstati, pertanto si introduce una funzione che esprime per il volume elementare d3Nq d3Np dello spazio delle fasi la probabilità di realizzazione dello specifico stato macroscopico, la densità di probabilità ρ(q,p;t). Essendo interessati alla situazione di equilibrio occorre limitare la propria attenzione alla descrizione la cui funzione di densità non dipende esplicitamente dal tempo t, ma solo dalle variabili canoniche (q,p) per mezzo dell’hamiltoniana H(q,p) cioè: ρ(q,p;t) = ρ(q,p) = ρ(H(q,p)) (1) da cui segue, dal teorema di Liouville, che la densità di probabilità ρ(q,p;t) è una grandezza conservata, quindi costante nel tempo. Infatti secondo il teorema di Liouville si ha che: ∂ρ + { ρ , H} = 0 ∂t (2) ma le parentesi di Poisson per ρ(H(q,p)) sono nulle, pertanto anche ∂ρ/∂t = 0 . Inoltre nella teoria statistica si introduce il postulato di uguaglianza della probabilità a priori secondo il quale "quando un sistema macroscopico è in equilibrio termodinamico, il suo stato microscopico deve essere con uguale probabilità uno qualsiasi degli stati che soddisfano le condizioni macroscopiche del sistema stesso". Conseguenza di questo postulato è che il sistema considerato sia un elemento di un insieme detto insieme microcanonico con la funzione densità di probabilità definita come: costante se l' autovalore di H(q, p) appartiene ρ ( q, p ) = all' intervallo d' energia [ E , E + ∆ E ] 0 negli altri casi In questo contesto se si considera un'osservabile, definendo come tale una qualsiasi grandezza termodinamica misurabile direttamente o indirettamente, O(q,p) , il suo valore misurato deve corrispondere al suo valore medio calcolato nell'insieme microcanonico. Il suo valore più probabile è quello realizzato dal maggior numero di microstati corrispondenti al determinato macrostato considerato, mentre il valore medio risulta: [ O(q, p)] ∫ O(q, p) ρ (q, p)d qd ∫ ρ (q, p)d qd p 3N 2 = 3N 3N 3N p (3) Inoltre il valore medio e quello più probabile coincidono se la fluttuazione quadratica media è molto piccola, cioé se: 216 [ O(q, p)] 2 − O(q, p) O(q, p) 2 << 1 2 (4) Se quest'ultima condizione non è verificata, allora non è possibile determinare univocamente il valore osservato della grandezza fisica considerata e, quando ci si trova in questa condizione la Meccanica Statistica non è più applicabile perchè non sono più verificate le ipotesi su cui è fondata. In tutti i casi fisici di interesse per la termodinamica la fluttuazione quadratica media è dell'ordine dell'inverso del numero di particelle N che costituiscono il sistema termodinamico, ma essendo molto grande tale numero, allora la fluttuazione quadratica media è molto prossima allo 0, quindi la condizione di equivalenza tra valore più probabile e valore medio nell'insieme microcanonico è verificata. Come conseguenza questo permette di sviluppare una teoria statistica della Termodinamica e di definire attraverso una funzione di probabilità la funzione di stato entropia. Per fare ciò occorre innanzitutto definire a livello microscopico l'entropia e verificare che essa corrisponde alla funzione di stato termodinamico entropia. Si consideri il volume Γ(E) occupato nello spazio delle fasi dall'insieme microcanonico: ∫ ρ ( q, p ) d Γ (E) = 3N qd 3 N p ( E ,E + ∆ E ) (5) e quello, Σ(E) , racchiuso dalla superficie di energia E: Σ (E) = ∫ ( 0, E ) d 3 N qd 3 N p (6) allora, come conseguenza del postulato di uguaglianza della probabilità a priori, si ottiene la relazione: Γ(E) = Σ(E + ∆E) - Σ(E) (7) e se ∆E << E si può sviluppare Σ(E + ∆E) in serie di McLaurin al primo ordine, ottenendo: Γ (E) = ∂ Σ (E) ∆ E = ω ( E )∆ E ∂E (8) dove si è indicato con ω il coefficiente dello sviluppo del primo ordine. Con queste relazioni si introduce, in Meccanica Statistica Classica, la definizione di entropia come: S(E,V) = kB ln(Γ(E)) (9) dove kB è la costante di Boltzmann. Questa definizione statistica di entropia deve essere equivalente a quella classica questo significa che deve godere delle stesse proprietà analitiche, deve contenere le stesse informazioni globali e locali sul sistema e deve permettere di giungere agli stessi risultati fisici, cioè ai principi della termodinamica. Innanzi tutto l'entropia (3) è una grandezza estensiva, cioè se un sistema è composto di due sottosistemi, le cui entropie sono S1 e S2 , la sua entropia totale S risulta la somma di quelle 217 dei sottosistemi stessi, S = S1 + S2 (altrimenti detto, si definisce estensiva ogni grandezza il cui valore è funzione delle massa del sistema). Per dimostrare che anche la (9) soddisfa questa proprietà si considera un sistema composto da due sottosistemi che hanno rispettivamente N1 e N2 particelle ed i volumi V1 e V2 . L'energia di interazione molecolare tra i due sottosistemi è trascurabile se confrontata con l'energia totale di ogni sottosistema. L'hamiltoniana totale del sistema composto è la somma delle hamiltoniane dei due sottosistemi, cioè: H(q,p) = H1((q,p)1) + H2((q,p)2) (10) Si considera, quindi, per prima cosa il caso in cui i due sottosistemi siano tra loro isolati: essi hanno energia rispettivamente compresa il primo nell'intervallo [E1,E1+∆E1] ed il secondo in [E2,E2+∆E2]. Le entropie dei sottosistemi, in base alla (9), sono: S(E1,V1) = kB ln(Γ1(E1)) (11)1 S(E2,V2) = kB ln(Γ2(E2)) (11)2 Ora si prende in esame l'insieme microcanonico del sistema composto e si pone l'energia nell'intervallo [E1,E1+2∆E1] e si sceglie ∆E << E in modo che valga l'approssimazione effettuata precedentemente per ottenere l'espressione di Γ(E) in funzione di ∆E . Questo insieme microcanonico contiene tutte le coppie del sistema composto per cui: 1. le N1 particelle le cui posizioni nello spazio delle fasi sono (q,p)1 sono contenute nel volume V1 ; 2. le N2 particelle le cui posizioni nello spazio delle fasi sono (q,p)2 sono contenute nel volume V2 ; 3. le energie E1 ed E2 dei sottosistemi presentano valori che soddisfano la condizione: E1 + E2 ∈ [E1+E2,E1+E2+2∆E] (12) Il volume dello spazio delle fasi che corrisponde alle condizioni di equilibrio termico con l'energia totale che si trova nell'intervallo [E1+E2,E1+E2+2∆E] è: Γ(E1)Γ(E2) (13) Se i due sistemi sono energeticamente isolati rispetto all'esterno, posti a contatto essi raggiungono l'equilibrio oltre che con l'esterno anche tra loro: con l'accoppiamento non si verifica alcuno scambio di energia, cioè: dΓ(E1) = dΓ(E2) = 0 (14) e quindi in particolare: dlnΓ(E1) = dlnΓ(E2) = 0 (15) 218 pertanto si ha che: d(lnΓ(E1)Γ(E2)) = 0 (16) Se vi fosse uno scambio di calore, però, si avrebbe una variazione in Γ(E) e quindi anche in lnΓ(E) e questa variazione sarebbe proporzionale al calore scambiato. Se una quantità di calore (-∆Q1), come definito nella Termodinamica dell'equilibrio, si trasferisce dal sistema 1 al sistema 2 si avrebbe che: ∆Q1 = ∆Q2 = 0 (17) e, quindi: ∆ [ ln Γ 1 ( E1 )] = − β 1Q ∆ [ ln Γ 2 ( E 2 )] = β 2 Q (18) da cui si ottiene: ∆ln[Γ1(E1)Γ2(E2)] = (β2 - β1)∆Q (19) In questo caso la condizione di equilibrio risulta: β2 ≤ β1 (20) Se si ipotizza che il trasferimento di calore avvenga dal sistema 2 al sistema 1, allora con considerazioni equivalenti si giunge alla condizione di equilibrio: β2 ≥ β1 (21) Affinché queste due condizioni di equilibrio siano contemporaneamente verificate nella situazione fisica considerata deve essere soddisfatta la relazione: β2 = β1 (22) Poiché la condizione di equilibrio termodinamico è legata alla uguaglianza del valore delle temperature - equilibrio termico - allora si rileva un legame tra i coefficienti β e la temperatura stessa. Questo prova la proprietà estensiva dell’entropia, perché: ∆ [ ln Γ 1 ( E1 )] = ± β 1Q ∆ [ ln Γ 2 ( E 2 )] = β 2 Q (23) da cui: ∆ln[Γ1(E1)Γ2(E2)] = (β2-β1)∆Q = ∆[lnΓ1(E1)-lnΓ2(E2)] (24) Inoltre questa dimostrazione prova anche il fatto che i sottosistemi si trovano rispettivamente negli stati di energia +E1 , e +E2 . Questi sono i valori di energia che 219 rendono massima la funzione Γ1(E1)Γ2(E2) con la condizione E = E1 + E2, cioè analiticamente: δ [ Γ 1 ( E1 )Γ 2 ( E 2 )] = 0 δ E1 + δ E 2 = 0 ∧ (25) da cui si ricava la condizione: ∂ [ ln Γ 1 ( E1 )] ∂ E1 E1 = E1 ∂ = [ ln Γ 2 ( E 2 )] ∂ E2 E2 = (26) E2 cioè: ∂ S1 ∂ E1 E1 = E1 ∂S = 2 ∂ E 2 E2 = (27) E2 Da questi risultati con l’aggiunta di temperatura assoluta, si deduce che la temperatura di un sistema isolato è il parametro che governa l’equilibrio tra i sottosistemi, cioè si trova la condizione di equilibrio termico. Inoltre l’entropia, definita dalla relazione statistica (9): S(E,V) = kB lnΓ(E) = kB lnω(E) = kB lnΣ(E) (28) è una funzione sempre crescente in quanto Σ(E) è una funzione non decrescente, pertanto tale risulta anche la funzione entropia. Si è così verificato che l’entropia nella definizione statistica coincide con l’entropia così come espressa nella sua definizione classica. Bibliografia 1. M. Alonso, E. Finn, "Quantum and Statistical Physics", Fundamental University Physics, Vol.III, Addison-Wesley Pubblishing Company, Reading (Massachusetts), 1968 2. H. Callen, "Termodinamica", Tamburini Editore, Milano, 1972 3. D. L. Goodstein, "States of matter", Dover Pubblication Inc., New York, 1985 4. K. Huang, "Statistical Mechanics", John Wiley & Sons, New York, 1987 5. L. D. Landau, E. M. Lifshitz, "Fisica Statistica", Editori Riuniti, Edizioni Mir, Roma, 1986 6. B. H. Lavenda, "Termodinamica dei Processi Irreversibili", Liguori Editore, Napoli, 1980 7. U. Lucia, "Analisi Termodinamica della cavitazione con transizione di fase", Tesi di Dottorato, Università degli Studi di Firenze, 1995 8. F. Reif, "Fisica Statistica", La Fisica di Berkeley, Zanichelli, Bologna, 1984 9. L. Sertorio, "Thermodynamics of complex systems", World Scientific Publishing Company, London, 1991 10. C. Truesdell, "Rational Thermodynamics", Spinger-Verlag, Berlino, 1984 220 * ITIS "Alessandro Volta" Spalto Marengo, 42 15100 Alessandria Società Italiana di Storia delle Matematiche Dipartimento di Matematica - Università Via Carlo Alberto 10, 10100 Torino, Italy ----Umberto Lucia è nato ad Alessandria nel 1966. Laureato in Fisica a Torino nel 1991, si è successivamente perfezionato in Fisica della Materia, ed ha acquisito il dottorato di ricerca in Energetica (VIII ciclo, Firenze e Roma, 1996). E' docente di ruolo di Fisica presso l'ITIS "Volta" di Alessandria e svolge ricerche sia in Storia della Matematica presso il Dipartimento di Matematica di Torino sia in Metodi matematici della Fisica-matematica e della Chimica Teorica. E' stato Tecnologo a tempo determinato presso il Nucleo Applicativo (afferente alla Direzione Generale) dell'Istituto Nazionale per la Fisica della Materia, dove si è occupato di Ricerca Applicata. Ha insegnato "Metodologie fisiche per i beni culturali" per il corso di Storia del restauro presso l'Università degli Studi di Bologna, sede di Ravenna (Corso di laurea: Conservazione dei Beni Culturali). E' socio fondatore della SISM Società Italiana di Storia delle Matematiche. Organizza e gestisce alcune attività della formazione post-secondaria nella Provincia di Alessandria: corsi post-diploma e IFTS; progetti di trasferimento tecnologico dalla ricerca all'industria; ha contribuito allo studio della rete di trasferimento tecnologico dell'INFM ed ha proposto le attività di ricerca sulle Metodologie fisiche per i beni culturali, "da Parnaso a Giano"; ha collaborato con l'ENEA alla realizzazione del Simposio "Meccanica statistica e termodinamica computazionale: dai fondamenti alle applicazioni in campo ingegneristico, ambientale e diagnostico" nell'ambito del IV Congresso Nazionale della SIMAI - Società Italiana di Matematica Applicata ed Industriale - realizzato a Giardini Naxos (Messina), 1-5 giugno 1998. Oltre a quelli relativi ai suoi specifici campi di competenza, ha interessi in: Fondamenti della Fisica e della Matematica; Didattica della Fisica e della Matematica; Cibernetica e Teoria dei Sistemi. Collabora con i settimanali locali Il Piccolo alessandrino e La Voce alessandrina, per la diffusione della cultura scientifica. E' membro del direttivo del Centro Studi "Francesco Faà di Bruno" di Alessandria, ente morale legalmente riconosciuto, dove si occupa di problemi sociali e culturali. E-mail: [email protected] 221 Massima o minima entropia? Approccio globale e locale nella termodinamica dei processi irreversibili: Landau e Prigogine (Umberto Lucia) Nell'analisi della stabilità dei sistemi termodinamici riveste un ruolo importante il teorema di "minima produzione di entropia", valido solo per piccole deviazioni dallo stato di equilibrio. Fu sviluppato da Prigogine. Per poter ricavare tale principio si considera l'analisi, esposta da Lavenda, sviluppata per la variazione dell'entropia nelle sue componenti di scambio con l'esterno deS e di origine interna diS dS = deS + diS (1) Questa equazione rappresenta il bilancio di entropia; infatti confrontando la (1) con l'equazione di Gibbs generalizzata: dS = 1 1 dE + PdV − Χ ⋅ dα T T (2) dove α indica la generica grandezza estensiva e Χ la forza termodinamica generalizzata, e dove secondo la prima legge della termodinamica sussiste dE = δQ - PdV si possono ottenere le espressioni: 1 deS = δ Q T d i S = − Χ ⋅ dα (3) (4) Se si divide la seconda delle (4) per il tempo dt e per la massa totale mtot, che si considera costante, si ottiene l'espressione della produzione di entropia specifica per un processo isotermo: ⋅ 1 dα s= − Χ ⋅ = − Χ ⋅ι (5) mtot dt Se si utilizza il fatto che i vettori velocità per unità di massa ι sono legati alle variabili di stato per mezzo di una relazione quale: ι = ζ (α ) (6) 222 e si considerano piccole variazioni intorno ad uno stato stazionario, in un intorno del quale sono linearizzate, allora introducendo la variazione della forza termodinamica χ per mezzo di una equazione di stato si ottiene l'insieme di relazioni fenomenologiche lineari (si sono scelti i valori delle velocità in modo tale che quelli stazionari ι (0 ) risultino nulli) χ = − Λ ⋅ι (7) Se la linearizzazione è stata effettuata in un intorno dello stato di equilibrio la relazione di Onsager (Λjk = Λkj) impone che la matrice dei coefficienti differenziali sia simmetrica, cioè: Λ = Λ T (8) In questo contesto Glansdorff e Prigogine introdussero un "criterio universale di evoluzione". Per fare ciò, considerarono il differenziale della produzione di entropia (5), cioè: ⋅ (9) d s = − Χ ⋅ dι − dΧ ⋅ ι Occorre prendere in considerazione due situazioni differenti: 1) quella lineare nella quale valgono le relazioni di Onsager per cui le variazioni delle velocità e delle forze sono legate dalle relazioni fenomenologiche (7) (poiché il valore stazionario della forza si annulla all'equilibrio, nel caso lineare si usa la relazione Χ = χ ) che introdotte nella (9) conducono alla condizione: ⋅ d s = 2∑ Λ ijι i dι j = 2 − Χ ⋅ ι ≤ 0 (10) ( ij ) 2) quella non lineare in cui le relazioni di Onsager non sono più valide; in questo caso non si riesce a definire in modo generale il segno della componente differenziale Χ ⋅ dι , mentre esiste una dimostrazione che fornisce il segno dell'altra componente differenziale. La derivata temporale della forza generalizzata, essendo in uno stato stazionario (tutte le grandezze estensive sono conservate, quindi presentano derivata prima nulla), risulta: dΧ d ∂ S ∂ ∂ S = − = − ⋅ι (11) dt dt ∂ α i ∂ α ∂ α i e se non esiste un legame tra la velocità e le variabili di stato, cioè se: ι ≠ ζ (α ) allora si può scrivere: dΧ = −∑ dt i ∂ ∂α (12) i ∂S ∂α i ι (13) 223 che permette di ottenere (in conseguenza dell'assunzione dell'equilibrio locale, la superficie della componente interna dell'entropia risulta sempre con curvatura convessa e, pertanto la sua derivata seconda è sempre non positiva) dΧ − ⋅ι ≤ 0 dt (14) La (10) e la (14) forniscono il criterio generale di evoluzione, secondo cui la produzione di entropia è minima. In questo modo Glansdorff, Prigogine e Nicolis introdussero i seguenti criteri di stabilità: δ 2 δ 2 dS > 0 dt stabilità asintotica dS = 0 dt stabilità marginale (15) dove l'operatore δ2 è definito come: δ 2 = ∑ ij ∂ 2 ∂ xi ∂ x j (16) I risultati ottenuti da Prigogine rappresentano un metodo di indagine locale, al quale si contrappone il metodo di analisi globale che Landau sviluppò, analizzando il trasferimento di calore tra due sorgenti con interposto un fluido, con particolare attenzione alla variazione di entropia. Egli iniziò l'analisi considerando l'equazione generale del trasferimento di calore in un fluido in moto con velocità v ρT ∂s + ρ Tv ⋅ ∇ s = ∂t ∑ ij σ ik ∂ vi + ∇ ⋅ (κ ∇ T ) ∂ xk (17) dove σik è il tensore degli sforzi, x la posizione e κ la conduttività termica. Se non si considera la viscosità, il termine a secondo membro è nullo e si ottiene l'equazione di conservazione per l'entropia. L'espressione a primo membro è la derivata temporale ds/dt dell'entropia specifica moltiplicata per ρ T, quindi T ds/dt è la potenza per unità di massa ed infine ρ T ds/dt è quella scambiata per unità di volume. Allora da questa equazione si può dedurre che il calore scambiato per unità di volume e di tempo è dato dalla relazione: ⋅ Q= ∑ ik σ ik ∂ vi + ∇ ⋅ (κ ∇ T ) ∂ xk (18) dove il primo termine è l'energia dissipata in calore per la presenza della viscosità ed il secondo è il calore scambiato per conduzione nel volume considerato. Se nella (17) si sostituisce al tensore degli sforzi la sua espressione 224 σ ik ∂v ∂v 2 = η i + k − δ ∂x k ∂ xi 3 ik ∂ vj + ςδ ∂ x j ∂ vj ik (19) ∂ xj dove η è la viscosità cinematica e ζ la seconda viscosità, si ottiene la relazione ∑ σ ik ik ∂v ∂v ∂ vi 2 =∑ η i + k − δ ∂ x k ik ∂ x k ∂ xi 3 ik ∂ v j ∂ vi +ς ∂ x j ∂ x k ∑ δ ik ik ∂ v j ∂ vi ∂ x j ∂ xk (20) il cui primo termine a secondo membro puo essere espresso per mezzo della seguente relazione ∂ vi ∂ v k 2 + − δ ∂x k ∂ xi 3 ik ∂ v j ∂ vi 1 ∂ vi ∂ v k 2 = + − δ ∂ x j ∂ x k 2 ∂ x k ∂ xi 3 ik ∂ vj ∂ x j 2 (21) mentre il secondo termine del secondo membro risulta ∑ ik δ ik ∂ v j ∂ vi = (∇ ⋅ v ) ∂ x j ∂ xk 2 (22) Sostituendo queste espressioni nella (17) si ottiene ∂s 1 ρ T + ρ Tv ⋅ ∇ s = η ∂t 2 ∑ ik ∂ vi ∂ v k 2 + − δ ∂x k ∂ xi 3 2 ik ∂ vj + ζ (∇ ⋅ v ) 2 + ∇ ⋅ (κ ∇ T ) ∂ x j (23) La variazione di entropia per unità di tempo del sistema si ottiene per mezzo della relazione: d ρ sdV = dt ∫ ∫ ∂ ( ρ s) dV ∂t (24) In base all'equazione di continuità unitamente alla (17) ed alla (23) l'integrando del termine a secondo membro della (24) diviene ∂ ( ρ s) ∂s ∂ρ = ρ + s = ∂t ∂t ∂t 1 η = − s∇ ⋅ ( ρ v ) − ρ v ⋅ ∇ s + ∇ ⋅ (κ ∇ T ) + T 2T ∑ ik ∂ vi ∂ v k 2 + − δ ∂x k ∂ xi 3 2 ik ∂ vj + ζ (∇ ⋅ v ) 2 ∂ x j T (25) I primi due termini nell'ultimo membro danno ∇ ⋅ ( ρ sv ) . L'integrale di volume di questo termine può essere trasformato nell'integrale di superficie del flusso di entropia ρ sv . 225 Se si considera un volume di fluido non limitato questo integrale si annulla. L'integrale del terzo termine può essere riscritto come ∫ 1 ∇ ⋅ (κ ∇ T )dV = T (∇ T ) 2 κ∇ T ∇ ⋅ dV + κ ∫ T ∫ T 2 dV (26) Assumendo che la temperatura del fluido tenda rapidamente ad un valore costante su tutto il volume infinito si può trasformare il primo integrale in uno sulla superficie all'infinito su cui ∇T=0 , pertanto l'integrale risulta nullo. Allora la (24) risulta: d (∇ T ) 2 ρ sdV = ∫ κ dV + dt ∫ T2 + ∫ 1 η 2T ∑ ik ∂ vi ∂ v k 2 + − δ ∂x ∂ x 3 k i 2 ik ∂ vj dV + ∂ x j ∫ ζ (∇ ⋅ v ) 2 dV T (27) Con questa relazione Landau dimostrò che l'entropia di un fluido, che occupa un volume infinito, aumenta continuamente come conseguenza dei fenomeni di irreversibilità e della conduzione interna. Questo risultato rappresenta una conferma della osservazione sperimentale riguardo alla massima variazione di entropia per unità di tempo, ma non ne è una dimostrazione rigorosa per i sistemi aperti perché è stato sviluppato con una procedura di limite all'infinito con la conseguenza di non considerare più un sistema finito e limitato, come sono quelli reali: il sistema considerato al limite infinito risulta un sistema isolato, pertanto la sua entropia cresce sempre. Bibliografia 1. H. Callen, "Termodinamica", Tamburini Editore, Milano, 1972 2. S. R. de Groot, P. Mazur, "Non equilibrium thermodynamics", North-Holland Pubblishing Company, Amsterdam, 1962 3. P. Glansdorff, "Thermodynamics in Contemporary Dynamics", Courses and Lectures No.74, Lectures Held at the Department of Mechanics of Solids, July 1971, Udine 1971, Springer-Verlag, Berlino, 1972 4. P. Glansdorff, I. Prigogine, "On a General Evolution Criterion in Macroscopic Physics", Physica 30, 1964, 351-374 5. P. Glansdorff, "Thermodynamics Theory of Structure, Stability and Fluctuations", John Wiley & Sons, New York, 1971 6. I. Gyarmati, "Non-equilibrium thermodynamics", Springer-Verlag, Berlin, 1970 7. L. D. Landau, E. M. Lifshitz, "Fluid Mechanics", Pergamon Press, Oxford, 1993 226 8. B. H. Lavenda, "Termodinamica dei Processi Irreversibili", Liguori Editore, Napoli, 1980 9. U. Lucia, "Analisi Termodinamica della cavitazione con transizione di fase", Tesi di Dottorato, Università di Firenze, 1995 10. U. Lucia, "Irreversibility and entropy in Rational Thermodynamics", Ricerche di Matematica, in stampa 11. U. Lucia, "Mathematical consequences of the Gyarmati's principle in Rational Thermodynamics", Il Nuovo Cimento, B20, 10 (1995) 1227-1235 12. U. Lucia, "Maximum principle and open systems including two phase-flows", Revue Générale de Thermique, 37 (1998) 813-817 13. I. Prigogine, "Steady States and Entropy Production", Physica 31, 1965, 719-724 14. L. Sertorio, "Thermodynamics of complex systems", World Scientific Publishing Company, London, 1991 15. M. J. Sewell, "Maximum and Minimum Principles", Cambridge University Press, Cambridge, 1987 ----[Una presentazione dell'autore si trova alla fine dell'articolo precedente] 227 REPRINTS 228 Low Energy Nuclear Reactions The revival of alchemy (Roberto A. Monti) Abstract. In 1959 C.L. Kervran shows experimental evidence of Low Energy Transmutations, but contemporary physicists refuse to believe in the experimental evidence in front of them because it would question the interests, widely well established, of High Energy Physics. In 1989 Fleishmann and Pons made another Low Energy Transmutation, erroneously called "Cold Fusion", which drew great attention. High Energy Physicists started a huge campaign to invalidate "Cold Fusion" in front of the public. In 1996 "The Developing Technology of Transmutations" becomes the fundamental issue of the Second Conference on Low Energy Nuclear Reactions (College Station, TX). In 1998, ICCF-7 (Vancouver) and in 2000, ICCF-8 (Lerici, Italy) show conclusive evidence of Low Energy Transmutation Phenomena. The Alchemic hints result to be always correct, proving that Alchemy is an experimental science. XXI century physics will be characterized by Low Energy Nuclear Reactions: The revival of Alchemy. INTRODUCTION 1794. French Revolution. May 8. Lavoisier is beheaded. Lavoisier introduced the "Galilean method" in chemistry, contributing to its "scientific foundation". On the basis of his experiments he could observe that "in all chemical reactions the same quantity of matter is present before and after the reaction". Lavoisier consequently makes the hypothesis that in a chemical reaction transmutations from one element to another do not occur (1). 1799. Vauquelin observes what Lavoisier had no occasion to observe: the transmutation from one element to another. The experimental method of Vauquelin is as stringent as Lavoisier's method. But Lavoisier cannot take note of it (2). 1815. Prout noted that the weights of the several atoms appeared to be multiples of the weight of hydrogen, and advanced the hypothesis that all other atoms are composed of hydrogen atoms (3). 1815-1847. The Restoration "excessively" rehabilitates Lavoisier: the "intrasmutability" of the chemical elements becomes a dogma instead of an experimental hypothesis. Alchemy (which, on the other hand, admits transmutations of the chemical elements) is "discredited". However the experimental results of Vauquelin are too stringent to be denied. Therefore they are neglected. The last official trace of his experiments can be found in Regnault's Course De Chimie (1847) then they disappear (4). 1848. Berzelius reports Vogel's experimental evidence for biological transmutations (5). 1860. Marignac supposed the deviations of atomic weights from integral numbers to be a consequence of the fusion process of hydrogen atoms (3). 1863. De Chancourtois arranged the elements in a spiral in the order of their atomic weights, and made the remark: "the properties of substances are the properties of numbers" (3). 1869. Mendeleef built his Periodic Table of the Elements. The properties of the elements are periodic functions of the atomic number (3). 229 1897. J.J. Thomson discovers that the cathode rays are material particles, charged with "negative" Electricity: the electrons (6). 1898. W. Wien identifies a particle which is "positively" charged, with a mass equal to that of the hydrogen atom, in a beam of ionized gas: the proton (7). 1902-1904. Lord Kelvin formulates the first atom model, which was so strongly supported and developed by J.J. Thomson that it became known as the "Thomson (first) atom". According to this model, the atom consists of a sphere of uniformly distributed charge, about one Angstrom in diameter, in which the electrons are embedded lake raisins in a pudding (8), (9). 1904. Hantaro Nagaoka hypothesizes that the positive charge is concentrated in the center of the atom and that electrons form a ring, around such a nucleus, which is similar to that around Saturn (10). 1905. Albert Einstein formulates the Theory of Relativity. With the gradual "disappearance" of the ether the physical space where to place the atom and rebuild its structure disappears as well. The establishment of the Theory of Relativity compromises the development of a model of the atom consistent with the experimental evidence, and deviates the "natural course" of Atomic Mechanics" (11). 1910. J.J. Thomson definitely confirms the discovery of the proton, made by Wien (12). 1911. Ernest Rutherford gathers and develops the observations of Geiger and Marsden, two of his young assistants. He concludes that the atom has a "nucleus" where the positive charge is concentrated. In some way, around it, the electrons are placed. Being excessively enthusiastic for the results obtained with the "bombardment method", Rutherford directs Nuclear Physics towards High Energies. Rutherford's model has a fundamental flaw: the dimensions of the nucleus result to be "very small" (of the order of 10-12 cm) on the basis of the hypothesis that "the central charge … may be supposed to be concentrated at a point", which allows the erroneous exchange of the word "surface" of the nucleus with the word "centre" of the nucleus (13). His model, moreover, does not answer three major questions: 1) Negative electrons are attracted by the positive nucleus: yet they appear as "distant" from the nucleus. Why don't they fall on it? 2) Electrons are supposed to be distributed and "moving" around the nucleus. Why don't they radiate electromagnetic energy? 3) Nuclear charge is an integer multiple of Wien's "elementary positive charge". How come doesn't the nucleus "explode" because of electrostatic repulsion? (14). 1913. Niels Bohr attempts an answer to the unsolved questions. These are his answers: 1) the atom is a "planetary" system; centrifugal force prevents an electron from falling on the nucleus. 2) he simply postulates that electromagnetic laws are not valid for nuclear orbits. He then states that as a consequence of "its small dimensions" the nucleus does not influence "the atom's ordinary physical and chemical properties which, on the other hand, depend on external electrons". 3) As far as the third issue is concerned, he ignores it (15). 1913. J.J. Thomson observes that no one has ever demonstrated that the electrons are spherical and that the Coulomb field - at a micro level - has a spherical symmetry. He builds Thomson's "second atom": a "rigid" atom and consequently a "theory of valence" (16). 1915. Bohr's atom is absolutely incapable of eliminating the fundamental contradictions with the laws of electromagnetism. Above all, it is incapable of accounting for chemical phenomena (17). 230 1915. A.L. Parson introduces the magnetic field: the electron is not just an electric charge, but it is also a small magnet. Positions of electromagnetic stable equilibrium of electrons in atoms are possible. In 1911 Kamerlingh Onnes even provided a model of this "magnetic electron": a superconductive ring where electric flux going into the ring generates a magnetic field. Both are exceptionally stable. Moreover Parson observes that the planetary atom is irremediably inconsistent with chemical and stereochemical evidence. But his model has two flaws: 1) He does not extend the same hypothesis he made about the electron to the proton. 2) He maintains the "uniformly charged sphere of the Kelvin or Thomson atom" as a model of the nucleus (18). 1915. William D. Harkins reconstructs the Periodic Table of the Elements, and provides two models (a spiral one and a helicoidal one). He moves from the hypothesis that every element's chemical properties essentially depend on the nucleus structure, which is composed of the sum of hydrogen and helium nuclei. He resolves the problem of the nucleus stability by advancing the hypothesis that the hydrogen atom "captures" its electron and, thus, gives raise to a neutral particle: the Neutron. Electrons which have been captured "cement" (bind) the protons (19). 1916. G.N. Lewis works on Thomson's and Parson's ideas and "stops" the atom: "Bohr, with his electron moving in a fixed orbit, (has) invented systems containing electrons of which the motion produces no effects upon external charge. Now this is not only inconsistent with the accepted laws of electromagnetics but, I may add, is logically objectionable, for that state of motion which produces no physical effects whatsoever may better be called a state of rest". Lewis builds the theory of valence (20). 1918. H.S. Allen sees how the "rigid" atom stands. He lists the remarkable amount of experimental data in favour of a rigid structure, and he concludes by observing that: "it will be necessary to revise the prevailing view as to the small size and pure electrostatic field of the nucleus", and that: "Bohr's theory as to origin of series line in spectra may be restated so as to apply it to the ring electron. The essential points of the quantum theory and of Bohr's equations may be maintained, even if his atomic model be rejected" (21). 1919. J.J. Thomson introduces magnetism and builds everything anew: series line in spectra, etc. from the point of view of the rigid atom. But he does not take into account the contributions of Parson, Lewis, Allen and Harkins (Rutherford can be considered as the cause of the "separation" between Harkins, in particular, and the other authors. As a result the different contributions given by the above mentioned scientists, could not merge into a single coherent model) (22). 1919. E. Rutherford believes he has disintegrated nitrogen. As a matter of fact he has fused a helium nucleus with a nitrogen one, expelling thus a proton: Transmutations are possible but - in his opinion - only "High Energy Transmutations". What is worse, he is convinced once and for all of the quality of the "bombardment method". He hopes for the future that growing energetic projectiles be available. It is the prelude to the birth of High Energy Physics (23). 1920. W.D. Harkins publishes the first version "Alpha Extended Model" of the nucleus but his theory has a fundamental flaw : he places the "right" neutron and nucleus in the "wrong" atom of Rutherford and Bohr (24). 1921. J.J. Thomson confirms that Bohr's planetary model - as far as atoms with many electrons are concerned - would become "hopelessly intricate" (25). 1921. A.H. Compton provides experimental evidence in favour of the magnetic electron (26). 231 1921. W.D. Harkins further develops the "Alpha Extended Model" of the nucleus. He introduces in current terminology the neutron as "sum" of a proton and an electron. Moreover he introduces in his model of the nucleus three "polyneutrons": D0 (2n), T0 (3n), α0 (4n) (27). 1921. A.C. Crehore points out that the rigid atom is by now currently used in chemistry, where it daily proves itself useful. He suggests that the entire field of chemistry is not a silly thing to be lightheartedly neglected in order to support Bohr's atom. He observes that those "useful" results from Bohr's theory can be obtained from other atomic models - i.e. rigid atom. And he adds that despite what Bohr did it is not essential to assume things against ordinary laws of electromagnetism. The rigid atom is based on the laws of electromagnetism: "So long as there is strict adherence to the Bohr model, an understanding of phenomena on the basis of electromagnetic theory will remain difficult, if not impossible…the abandonment of ring of electrons from an atomic model does not seem to be so revolutionary when viewed in the light of these facts" (28). COUP DE THEATRE 1921. Albert Einstein receives the Nobel Prize for Physics. He is given the Prize for the "discovery of the laws of photoelectric effect". But it inevitably assumes the "political value" of an "endorsement" of the Theory of Relativity. 1922. Niels Bohr receives the Nobel Prize for Physics. He is given the Prize for his studies on "the atoms structure and radiation". RELATIVITY AND PLANETARY ATOM BECOME "OFFICIAL SCIENCE" On a theoretical level, physicists impose the planetary atom on chemists. Chemists "suffer" but, as a matter of fact, do not give a damn. The theory of valence is, and continues to be, that by Lewis and Thomson. FINAL HOAX 1925. Bohr's atom has some problems with the anomalous Zeeman effect. Uhlenbeck and Goudsmit "discover" the magnetic electron. Before introducing such a "revolutionary concept" they ask for advice to the least apt person: Niels Bohr. Bohr takes the opportunity of staging a clever "coup de main", that of introducing the main argument adopted by Parson and Allen against planetary atom: the magnetic electron. With a warm letter encouraging the "birth" of Spin, Bohr gives them his approval (29). 1926. E. Schroedinger presents his: "An Undulatory Theory of the Mechanics of Atoms and Molecules": "The point of view taken here…is rather that material points consist of, or are nothing but, wave systems" (30). Schroedinger does not ask himself what his "wave systems" are made of. By paraphrasing Einstein, one could say that "the ether took its revenge and ate matter" (31). 1928. W.D. Harkins attempts to produce gold by introducing an electron into a mercury nucleus, but fails (32). 1932. J. Chadwick "discovers" the neutron (33). 1932. W.D. Harkins timidly lays claim to the neutron (34). Heisenberg states that "Harkins's neutron" (the sum of a proton and an electron) is "different" from " Chadwick's neutron", that is, a "new" particle which "does not contain" electrons, but "creates" them at the moment of its decay (35). As a matter of fact, as we have seen before, Harkins placed 232 the right neutron and nucleus in the wrong atom: "his" neutron cannot be accepted because it is "incompatible with Bohr's atom and Heisenberg's Quantum Mechanics. 1935. Thus, it is J. Chadwick who receives the Nobel Prize for Physics "for the discovery of the neutron". 1937. While looking for "an artificial generator of neutrons", Enrico Fermi accomplishes a "cold fusion" between "heavy ice" and deuterium (heavy hydrogen). But he does not give it enough attention, as he should (36). 1940. Seemingly unaware of Harkins's work, Don Carlo Borghi makes the assumption again that the neutron is a peculiar "bound state" of the hydrogen atom. His hypothesis is obviously refused because it "contradicts Bohr's atom and Heisenberg's Quantum Mechanics". Borghi does not realize the "danger" of his hypothesis. He insists and is estranged (37). 1950-1955. C. Borghi planned an experiment to synthesize neutrons starting from a cold hydrogen plasma. Expelled from the University of Milan, he moves to the Vatican. With the money he is given -under the counter- by De Gasperi, he starts his experiments in a Roman laboratory. Borghi succeeds where Harkins failed: "cold" synthesis of the neutron shows that the neutron really is "the sum of a proton and an electron". De Gasperi's death marks the end of Borghi's financial support. He emigrates to Brazil in order to continue his experiments. In Recife he founds the Center for Nuclear Energy (38). 1958. C. Borghi tries to present his experimental results at the Vienna convention. But Amaldi's action prevents him from having his paper accepted. Estranged once again, Borghi leaves the scene for good (39). KERVRAN'S LOW ENERGY TRANSMUTATIONS Since 1959 C.L. Kervran takes note of a new series of phenomena which "Classical Physics" cannot explain: Fusion and Fission of elements at energies much lower than the ones occurring in "ordinary" nuclear reactions: "During these Low Energy Transmutations we do not observe any radioactivity" (40), (41). The Low Energy Transmutations observed by Kevran are all reversible. See for example the following: 27 13 ± 11H Al ← → ( 6α 31 15 Si + T1 ) ← ± P → ( 7α ± 11H P ← → ( 7α 39 19 28 14 32 16 ±P K ← → ( 9α 40 20 ±P ) S + T1 ) ← → ( 8α ± 11H ⇔ ⇔ ) Ca + T1 ) ← → (10α ⇔ ) 233 55 25 ± 11H Mn ← → (12α 24 12 56 26 28 14 4 ± 24H e Cr ← → (12α +α 56 26 ±α 12 ±6 C Si ← → 23 11 ± 8O Na ← → 24 12 ± 8O Mg ← → 15 7 ± 8O N← → 40 20 16 ) ⇔ Fe ⇔ +α Ca 39 19 K 0 ±α ( 6α ) ← → ( 7α ) ) ⇔ ( 7α ) ← ±3α → (10α ) ⇔ + T1 ) ← ±4α → ( 9α + T1 ) 16 16 ( 3α 0 Si ) ← → (13α 0 28 14 ( 5α ⇔ + α 0 + T1 ) ← ± P → ( 13α + α ± 2H e Mg ← → 52 24 Fe 40 20 Ca 31 15 P ⇔ ( 6α ) ← ±4α → (10α ) ⇔ + T1 ) ← ±4α → ( 7α + T1 ) If on the one hand, these transmutations can be regarded as "cold fusions", on the other, they can be considered as examples of "cold fissions". Another significant example of cold fission, described by Kervran, is the following electromagnetically induced "cold fission": 206 82 103 Pb → 2( 103 41 Nb ) → 2( 45 Rh ) "The most important thing" - Kervran maintains - "is to note that the nucleus has divided into two parts, like a walnut that breaks along the median plane. Therefore, in Lead 206 there must be a plane characterized by a lower resistance, for fission takes place along this plane …it appears obvious then that the notion of mean energy per nucleon does not make any sense since it has been ascertained that nuclei are made of thick parts that always divide in the area of lower resistance (40), (41). 234 Spontaneous fission of lead. On the left the nucleus of Lead -206 divides into two equal parts. This can only be explained with a median fissure. On the right the shell structure seems impossible because it would be necessary a heart made of 41 protons, which should open like a shell and then assemble into a nucleus" (40), (41). THE ALPHA -EXTENDED MODEL OF THE ATOM The Alpha particle model was suggested by stereochemistry … it can be applied to light nuclei which have an equal number of neutrons and protons, as long as that number is a multiple of 4. Obviously one can think that these nuclei are made of nuclei of 4He (42). These Alpha particles are arranged in space so as to give the closest possible packing … In table 1 we have tabulated the configuration that probably gives closest packing and the corresponding number of bonds … the last column gives the binding energy per bond, which is remarkably constant except in the case of 8Be (43). Table 1 Nuclide Configuration N° 0f bonds Mass M (Mu) He4 Be8 C12 O16 Ne20 Mg24 Si28 S32 A36 Ca40 ------------Dumbbell Triangle Tetrahedrom Square pyramid Octahedron Pentagonal bipyramid Hexagonal bipyramid Heptagonal bipyramid Octagonal bipyramid 0 1 3 6 8 12 16 19 22 25 4.00387 8.00785 12.00380 16.00000 19.9988 23.9926 27.9858 31.9822 35.9789 39.9752 1 AMα 4 (mMu) 0 -0.11 7.81 15.48 20.6 30.6 41.3 48.8 55.9 63.5 M- Bond energy (mMu) 0 -0.11 2.60 2.58 2.58 2.47 2.59 2.57 2.54 2.54 "The most disturbing feature of this table is the lack of alpha stability of 8Be (44); as well as, obviously, the fact that "the alpha particle model can only be applied to light 40 nuclei" (43) up to 20 Ca . 11α ( 44 22Ti ) and the following "do not exist". The most valuable feature of the alpha particle model is, on the other hand, the fact that it is a static model of the nucleus, as it is more suitable to a "rigid" atom. 235 Let us see, now, how it can be conveniently extended (45). In order to explain the experimental results of L. Kervran, in 1988 I devised a new model of the atom characterized by the following features: 1) Substantial asymmetry of Coulomb electric and magnetic fields of electrons and protons. 2) Existence of positions of stable electromagnetic equilibrium of electrons in the vicinity of nuclei. 3) The Neutron is a particular "bound state" of a proton and an electron. 4) The Nuclei are composite structures of hydrogen atoms of period 4. 5) Physical and chemical properties of each atom depend on the various isomeric configurations. As we have just seen, the Alpha particle model of the nucleus is interrupted … because of 40 lack of Alpha particles. After 20 Ca (10 α), in fact, "there is not" 44 22Ti (11α). 44 But let us examine now the two isobars 44 : 44 22Ti and 20 Ca . The first is unstable ( t1/ 2 = 47y) and, after two electron captures, changes into the second: 44 22 Ti (11α) 2EC → 44 20 Ca (10 α + 4 n) Let us observe, now, the three isobars 48: After two electron captures changes into 48 22 48 20 48 24 48 22 Cr (12α), unstable ( t1/ 2 = 21.56h). Ti . Ti (11α + 4 n).Stable (maximum abundance: 73.7%) Ca (10α +2⋅ 4n). Stable (0.187%). Let us imagine now that in agreement with the above hypotheses on atomic and nuclear structure, the electrons of an Alpha group (Helium atom) are bound in a position of stable equilibrium in the vicinity of the corresponding protons. Let us assume, then, that because of the tridimensional packing of the Alpha groups, one of them is completely inside the nucleus and that, because of the various forces exercised by the surrounding Alpha groups, the two hydrogen atoms (Protium) which make it up, each captures its own electron. The result is a new "group", which is even more "neutral" than the (Helium 4) atom (the Alpha), made up by 4 neutrons which are more strongly bounded - inside the nucleus - of the two Protium atoms and two neutrons which make up the "Alpha group". I will call the new "even more neutral" group: Alpha-Zero Group (α0). Consequently 48 can be read as: (11α + α0). Stable. 22Ti Similarly, we can suppose that two Alpha Groups "capture" their corresponding electrons. 48 20 Ca therefore can be read as: (10 α + 2α0). Stable. By reconstructing in this way the structure of the various atoms ordered according to mass number (A) it is easy to realize that electron and proton are the "primary" elementary constituents of every atom, while the "secondary" elementary constituents are: Protium (Proton + Electron): P = (p + e) ; Neutron: (pe) = n ; Deuterium: D = (p + n) ; D-zero: D0 = (2n) ; Tritium: T1 = (D + n) ; Helium 3: T2 = (D + P) ; T-zero: T0 = (3n) ; Alpha: α = (D + D) ; Alpha-zero : α0 = (4n). We have consequently introduced 3 groups of "polyneutrons": D0 ,T0 ,α0 . 236 Moreover it results that atoms and nuclei are composite structures of Protium, of period 4. Finally it follows that the different physical and chemical properties of each atom depend on the various, possible isomeric configurations of the Protium atoms which make it up. In light of what has been said above, the Periodic Table of the Elements has been reconstructed as follows: PERIODIC TABLE OF THE ELEMENTS ACCORDING TO THE ALPHA EXTENDED MODEL OF THE ATOM The reconstruction of the Periodic Table of the Elements according to the Alpha Extended Model of the Atom is shown in Fig. 1, while Fig. 2a, 2b, 3a, 3b, 4a, 4b, give the details of this Table up to the element 26, Fe [In the printed version of the journal these seven tables are given apart; unfortunately, it was not possible to offer them in their beautiful full colour form, which is available on-line: interested people could ask for a colour copy to Episteme]. The horizontal view of Fig.1 shows clearly that the nuclei are periodic structures of period 4. The vertical view (Mendeleef order, in which only the two most abundant isotopes are listed) suggests immediately the "composite structure" of the nuclei. Example: n ⋅ 4α Reactions. GROUP IA 7 3 Li 23 11 Na 39 19 K 87 37 Rb 135 55 Cs (α + T1) ⇓+4α (5α + T1) ⇓+4α (9α + T1) ⇓ + 3 ⋅ 4α (18α + 3α0 + T1) ⇓ + 3 ⋅ 4α (27α + 6α0 + T1) (4.8 1010 y) (3 106 y) GROUP 0 (Noble Gases) 4 (α) 2 He ⇓+4α 20 (5α) 10 Ne ⇓+4α 36 18 Ar (9α) ⇓ + 3 ⋅ 4α Kr (18α + 3α0) ⇓ + 3 ⋅ 4α 132 (27α + 6α0) 54 Xe As it can easily be seen, the difference between the very active Elements of Group IA and the "inert" Noble Gases consists in a "T1 terminal". 84 36 237 Neutron synthesis and α0 group Neutron synthesis - which is the first step in atom building - was achieved by Borghi, starting from a cold plasma of protons and electrons (39). The following steps: synthesis of Deuterium (D), Tritium (T1), He 3 (T2), He 4 (α) and experimental evidence for the 4- neutron (α0) group were already well documented in the scientific literature . As well as the production and the decay of the nuclei from 11α to 18 α and the "New Radioactivity" (reversible transition) (45). Experimental evidence for Low Energy Nuclear Reactions: Nucleus + n ⋅ 3α ; Nucleus + n ⋅ 4α At the end of 1989 I could get information about the reaction: Nucleus + n ⋅ 3α ; Nucleus + n ⋅ 4α , which confirmed the reality of the "composite structure" of the nuclei (45). The nuclear reactions indicated were the following: C + O → Si ; 2 (C + O) → Fe ; Na + O → K . The first could be very easily reproduced. Consequently I tested it following methods 2 and 3 (45). The report handed to me claimed the production, with the same methods, of 35 different Elements. I noticed that all the stable isotopes of Si and Fe could be considered "composite structures of C and O (45). Further experimental evidence for the reactions: Nucleus + n ⋅ 3α ; Nucleus + n ⋅ 4α a) Experiments at B. A. R. C. In 1991 I gave a lecture at B. A. R. C. , on Low Energy Nuclear Reactions. One year later M. Srinivasan gave me a preprint showing experimental evidence for the reactions: C + N → Al ; C + O → Si ; 2(C + N) → Cr ; 2(C + O) → Fe ; 2(C + O) → Ni (46). b) Experiments at Texas A&M Immediately after this positive result Sundaresan and Bockris repeated test 2 (45) showing once more experimental evidence for the reaction: 2 (C + O) → Fe (47). Experiments by Champion and co-workers In 1992 I informed J. Champion about the experimental tests of Oshawa and I showed him how to use my Periodic Table of the Elements. Champion and co- workers repeated later (1994) method 3 (45), with the following results (48): 238 a) Carbon - Iron - Carbon arc New Elements produced : Zr , Mo , Ru , Ba , Sm , Yb , Hf , Os . b) Carbon - Nickel - Carbon arc New Elements produced : Mo , Ru , Pd , Ce , Ba , Nd , Sm , Hf , W , Os , Pt . c) Carbon - Copper - Carbon arc New Elements produced : Rh , Pd , Ag , Nd , Eu , W , Re , Ir , Pt , Au . Low Energy Nuclear Fission of Stable Isotopes a) Experiments at Texas A&M and Engelhard Laboratories In 1992 I was invited by J. O'M. Bockris to witness experimental tests suggested by J. Champion . The first of these tests told me immediately what was going on: I had already seen it in a drawing made 500 years before. The same experiment, repeated at Engelhard Laboratories, showed conclusively the reactions: 201 80 Hg − α → 197 78 Ag − α → 105 45 109 47 − β Pt → − Rh β → 197 79 105 46 Au Pd That is: the possibility to cause an α decay of stable isotopes by means of "ordinary" chemical reactions (49). b) Experiments by Champion and co-workers In 1995 J. Champion noticed that one of his "Hg cells", designed to make Platinum by electromagnetic excitation, was producing Ru at a rate 10 times bigger than that of Pt, giving further confirmation of the reality of the half-fission nuclear reactions indicated by Kervran (40), (41). It is easy in fact to notice that the half-fission of: 196 80 98 44 198 80 Hg , Ru , 99 44 Ru , Hg , 100 44 Ru , 200 80 101 44 202 80 Hg , Ru , 102 44 Hg , 204 80 Hg , results in : Ru. The two remaining isotopes of Hg : 199 and 201, by the induction of an α decay, produce Pt and Au. 239 Low Energy Nuclear Reactions (Transmutation) of unstable isotopes The possibility to cause nuclear fission of stable isotopes by "ordinary" chemical reactions suggests immediately the possibility to cause the fission of unstable isotopes, which Kervran did not consider (40), (41). A series of experimental tests made in '93, '94, '95, '96, '97, '98, proved the possibility to get rid of the nuclear waste (Thorium, Uranium) (50). The EUCAN Thechnologies GmbH signed a contract with the "Laboratorio Nazionale per la caratterizzazione dei rifiuti radioattivi" of ENEA, Saluggia in order to carry out same experiments an for the product characterisation. The activities started in October 1996. The results of the first series (1996-97) and of the second series (1997-98) of experiments have been reported in the Proceedings of ICCF-7 (51). Thorium was reduced by about 2g (an 88% reduction) (51). It was possible to show the reality of seasonal effects in Low Energy Nuclear Reactions (51). To make a further demonstration of the reality of these experimental results a third series of tests was carried out on May 21 an May 25 1998 (52). The first experiment (May 21) showed the transmutation of 1.32g (30% of the total) of Uranium (52). The uncertainty declared by the laboratory was between 5 and 10% (52). To avoid any possibility of error we decided to show the possibility to increase this result through a slight change in the proprietary formula used, suggested by the Alpha-extended model of the atom (53). Consequently a second test was carried out on May 25,1998 with the only addition of 50g of SiO2 (powder) in the same composition used for the test of May 21 (52). The result was the transmutation of 2.07g of Uranium (45% of the total) (52). An increase of 15% (+50% compared to the test of May 21). Reactions: Hg - Na In 1995 J. Champion showed, in Colorado Springs (54), the possibility to obtain the results which Harkins was unable to obtain in 1928: 198 80 Hg + 23 11 Na p → 198 80 Hg + 23 11 Na α → 197 79 Au + 1224 Mg 194 78 Pt + 27 13 Al simply making an amalgam of Mercury and Sodium. I repeated the same test after a few months in a condition of "sodium excess". The result was the production of the following Elements : Si, K, Ca, Fe, Ti, Cr, Cu. The Periodic Table suggests immediately further tests of this kind (reactions: Hg - Li , Hg - K , Hg - Rb , Hg - Cs), which can be easily performed. The reaction: Hg - Sb seems to be dangerous (production of "Red Mercury"). "Cold fusion" in metal lattices When Fleischmann and Pons published their experimental results about the "cold fusion" D + D in Palladium lattices (55) I had already published (in Italian) my new model of the atom and the Periodic Table (56). Consequently it was easy, for me, to understand what had really happened and where Fleischmann and Pons were wrong . I explained these facts for 240 the first time in the Erice Conference (Italy, Spring 1989). In 1991 I gave the following written explanation at the Second ICCF (Como, Italy) (45): a) Pd does not only act as a catalyst of the D + D reactions . b) As a consequence of the nuclear reactions among Pd and LiOD the Palladium was "burning" like a match forming, at least within a thin layer, a plethora of new nuclei. I suggested to analyze the atomic and isotopic composition of the electrodes before and after the reactions. In 1996 Mizuno et al. made this test, with the following results: within a thin layer of 1micron they found: Cr , Fe , Cu , Pt , Ca , Ti , Mn , Co , Zn , Cd , Sn , Pb, Ga , As , Br , Sb , Te , I , Xe , Hf , Re and Ir (57). A similar test was made by Bockris and Minevskii, with the following results: within a layer of one micron they found : Mg (6.7%), Si (10.2%), Cl (3.0%), K (1.1%), Ca (19.9%), Ti (1.6%), Fe (10.5%), Cu (1.9%), Zn (4.2%), Pd (31.9%), Ag (1.9%), Pt (7.1%) (57). The starting concentration of Palladium was: 99.8%. The various different reactions can be singled out using the Periodic Table and finding the exact isotopic composition of each new Element. Isomeric configurations of the atoms The Alpha-extended model allows each atom to "keep in storage" within its "rigid" tridimensional structure the information which determines its physical and chemical behavior. In 1991 I suggested that the two allotropic forms of the Carbon atom (diamond and graphite) were a good example of this kind and that this example should be: "only the first of a long series. This opinion has recently been confirmed by the experimental results of S.K. Dixit . In the Rasasastra Department (Department of Alchemy) of the Banaras Indu University it is normal practice to obtain different isomeric configurations of atoms and molecules, characterized by different physical and chemical properties, from the most common configurations . The same atom or molecule is given a specific name according to the various isomeric configurations which prove useful in the medical field" (45). A few months later (October 1991) I could get information about the discovery of a third isomeric configuration of the Carbon atom: Fullerenes, obtained by arcing Carbon in a Helium atmosphere (58). Finally, in 1995, I was informed by D. Hudson about the discovery of new, peculiar, isomeric configurations of monoatomic Transition Elements, which he called O.R.M.E.S. (Orbitally Rearranged Monoatomic ElementS) (59). These isomeric configurations are well known in Alchemic Literature (60). But, according to the Alpha Extended Model of the Atom (no "orbits"), the "right" name for these isomeric configurations should be : E.R.M.E.S. (Electronically Rearranged Monoatomic ElementS). Conclusions The experimental evidence listed above constitutes, in my opinion, a good validation for the Alpha Extended Model of the Atom. In 1996 "The Developing Technology of Transmutations" becomes the fundamental issue of the Second Conference on Low Energy Nuclear Reactions (College Station, TX) (61). 241 In 1998, ICCF-7 (Vancouver) (51) and in 2000, ICCF-8 (Lerici, Italy) (62) showed conclusive evidence of Low Energy Transmutation Phenomena. The Alchemic hints result to be always correct, proving that Alchemy is an experimental science (50). XXI century Physics will be characterized by Low Energy Nuclear Reactions: The revival of Alchemy. References (1) A.L. Lavoisier. Traitè Elementaire de Chimie. 1789. (2) L.N. Vauquelin. Annale de Chimie. Vol. 29-30, Nivose, Year VII, pp. 3-26, January, 19, 1799. (3) G.N. Lewis. Valence (1923). Dover edition, N.Y. 1966. (4) H.V. Regnault. Course de Chimie. 1847. (5) J.J. Berzelius. Traite de Chimie. 2° Edition, 1848. (6) J.J. Thomson. Phil. Mag. S5, Vol.44, N° 269, October 1897, p. 293. (7) Encyclopedia Britannica. Micropaedia. Vol. VIII, p. 254. (8) Lord Kelvin. Phil. Mag. S6. Vol.3, N°15, March 1902, p. 257. (9) J.J. Thomson. Phil. Mag. S6. Vol.7, N° 39, March 1904, p. 237. (10) H. Nagaoka. Phil. Mag. S6. Vol. 7, N° 39, March 1904, p. 445. (11) R.A. Monti. Theory of Relativity: a critical analysis. Phys. Essays. 9, 2, 1996, p. 238. (12) J.J. Thomson. Phil. Mag. S6. 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Genova, Italy 1987. (61) Journal of New Energy. Vol. 1, N° 3, 1996. Editorial, by H. Fox. (62) ICCF-8. Lerici, Italy. Proceedings (to be published). This paper has been published for the first time in the Proceedings of the VI International Scientific Conference "Modern Problems of Natural Sciences", August 21-25, 2000, StPetersburg. Episteme thanks most heartily Svetlana Tolchel'nikova-Murri and Markiyan Chubey for their kind co-operation. ----[A presentation of the author can be found in Episteme N. 3] E-mail: [email protected] 244 COMMENTI RICEVUTI 245 [Nella versione a stampa non è purtroppo possibile inserire le immagini a colori, che nel presente caso sono viceversa essenziali: gli interessati a visionarle nella loro interezza possono trovarle nelle pagine Internet di Episteme] Dalla teoria tricromatica di Maxwell a una nuova concezione cromatica bipolare (Mario Agrifoglio) Per risolvere, una volta per tutte, il problema del "dualismo onda-corpuscolo", bisogna rettificare alcuni punti nei campi della "termodinamica", della "quantistica", del mondo "eterico" ed inoltre chiarire il vero punto di equivalenza fra energia e massa. Come già espressi nelle mie relazioni presentate al Congresso Internazionale a Ischia (1991), in quello a Fivizzano (1994) e quello di Perugia (1996), lo stato eterico non solo esiste, ma ve ne sono di "due tipi": uno individuato nel calore puro ( = energia positiva E+); che come tale, puro, sul nostro pianeta può esistere solo a circa 9000 ° C; e l'altro individuato nel freddo puro ( = energia negativa E-), che come tale, puro, sul nostro pianeta si può trovare solo oltre lo 0° K. Per cui lo 0° K resta solo il punto minimo di "moto entropico", ma non limite di freddo. Questi due stati eterici, o bosonici che dir si voglia (che io ritengo più giusto chiamare Energie Primarie: E+ ed E-), "fondendosi" - oltre alla luce - hanno consentito il generarsi della massa. In verità si tratta di due "energie" già da tempo conosciute e dette anche di "segno opposto", in quanto nel procedere nello spazio quella positiva (calda) oscilla in senso longitudinale alla direzione del flusso (elettromagnetico), mentre quella negativa (fredda), oscilla in senso ortogonale. Queste due energie primarie, allo stato eterico, interagenti, sono state individuate nel 1992 dal satellite COBE (a grandissime bolle calde e fredde) nello spazio cosmico primordiale, in tali condizioni potevano anche esistere in forma più diradata o più concentrata. Energie che, appunto, essendo di stato eterico, possono concentrarsi o diradarsi quasi all'infinito e, per se stesse, non posseggono moto di rilievo: miscelate invece, possono procedere anche a grandissime velocità, e inoltre - a velocità medio basse a vari gradi di concentrazione e percentuali divergenti l'una dall'altra, danno adito alle varie temperature, e come tali sono percepibili anche dai nostri sensi. Ora qui sintetizzando al massimo l'argomento, dirò che dalla miscelazione e concentrazione, in vari punti del cosmo primordiale, di queste grandissime bolle calde e fredde - una volta raggiunta la concentrazione X specifica - le due componenti si sono "fuse" dando vita ai quasar: dai quali è sorta la prima luce nel cosmo. Poi, da quella luce, di ogni singolo quasar - nel corso di miliardi d'anni - si è generata una galassia. E questo significa anche che di Big Bang ve ne sono stati tanti miliardi: per quante sono le galassie esistenti! Big Bang per modo di dire, in quanto - questi quasar - sono nati sì in modo "repentino", ma sono poi rimasti accesi per miliardi d'anni: le cui componenti e conseguente reazione sono giustificati dalla miscelazione e concentrazione di queste immani bolle di energie preesistenti nell'immenso cosmo primordiale. Dunque, dalla "fusione" di queste due Energie Primarie E + ed E-, è sorta la luce, e dalla luce si è generata tutta la materia esistente nel cosmo: vita compresa. Energie che si possono anche inscatolare: vedi pila e batteria, e nel contempo possono convivere con i vari 246 elementi sia allo stato gassoso. liquido e solido, pur essendone le basi fondamentali; e proprio dai loro gradi di concentrazione e rapporto in percentuale di miscelazione dipendono i vari cambiamenti di stato dei vari elementi. Prima di entrare nell'argomento specifico della quantistica, ho ritenuto giusto anteporre (sinteticamente) alcuni dati sui punti fondamentali che hanno anche affinità con le molte scoperte che ci giungono dalla cosmologia, dall'astrofisica, dal mondo subnucleare oltre che dalla spettrometria. Si tratta di dati ormai molto attendibili, dai quali è possibile trarre alcune conclusioni basate su queste nuove scoperte, che possono confermare o smentire molte "supposizioni" fatte nel corso dei secoli: sulla quantistica, sulla termodinamica, sull'equivalenza energia e massa e altro ancora; per cui molte valutazioni del passato sulla scienza in generale - con particolare riferimento a tutta la "fisica teorica a livello di principio costitutivo" - devono essere rivedute in modo radicale. Venendo al problema specifico della quantistica, il "dualismo onda-corpuscolo" può trovare ora una spiegazione molto attendibile, in quanto l'equivalenza "energia/e e massa" può essere spiegata in modo che il duplice aspetto si giustifichi in termini "deterministici ". Infatti, energia e massa sono "circa" equivalenti, però non nei termini stabiliti da Einstein; e il "circa" viene incluso per il fatto che il cambiamento di stato di un elemento dipende dai valori differenziati di base eterica. Per cui tutta la fisica viene ad assumere un aspetto molto più chiaro; per cui le varie teorie fisiche possono "uniformarsi" e dar corso ad una nuova scienza basata su dati verificabili. - Dalla miscelazione e concentrazione e "fusione" di due energie primarie preesistenti nel cosmo primordiale è sorta la luce. - Dalla luce - a doppia componente - è sorta la massa. - Dalla prima "massa" (relativa) del fotone y, si sono poi evolute tutte le particelle subatomiche, per dar vita agli atomi, molecole, cellule ecc. ecc.. La luce dalle fonti emittenti viene espulsa a "quanti" hn, ovvero a quanti di energia radiante, "neutri" in modo giustificato, che vengono emessi in successione, e che, a onde, possono apparirci solo se osservati attraverso certe apparecchiature di rilevamento: mentre con altre ci appaiono a quanti indipendenti l'uno dall'altro (vedere in Appendice foto di quanti luce - da me eseguita nel 1974 - e relative spiegazioni sulla meccanica esplicativa). Quanti che nell'arco di miliardesimi di secondo si commutano in particelle - a massa relativa, ossia instabile - ragion per cui, nell'impatto su sostanze materiche possono ricommutarsi in quanti d'energia radiante hn, e come tali scindersi pure nelle due componenti di base: le due cariche elementari monopolari di segno opposto A+ ed A-, delle quali sono composte le due energie primarie E + ed E-. Dato, questo, comprensibile e compatibile con lo spettro scaturito dal prisma, e, giustificato a sua volta nei seguenti termini: quando un fotone y s'imbatte su di una sostanza diafana, non l'attraversa da "particella" ma, ricommutandosi in quanto di energia hn l'attraversa in veste di impulso elettromagnetico, per poi riacquistare massa uscendo dall'altro lato. E lo stesso discorso vale anche per i neutrini e altre particelle neutre nei confronti della materia. Il quanto hn e il conseguente fotone y equivalgono alla luce "bianca", mentre i fotoni colorati (la definizione di "fotone" fu data da Einstein) sono derivati da azioni secondarie: un fotone y che assorba una carica elementare monopolare positiva A + dà origine ad un quanto giallo (hp); mentre se si associa a due cariche elementari monopolari positive dà origine ad un quanto rosso (hp'); se si associa a tre, entra nella gamma dell'infrarosso (non più percepibile dal nostro apparato ottico); se invece un fotone y si associa ad una carica elementare monopolare negativa A- dà origine ad un quanto azzurro (hd); mentre se ne assorbe due dà origine ad un quanto blu-violetto (hd'); se ne assorbe tre, entra nella gamma dell'ultravioletto (non più percepibile dal nostro sistema ottico). I colori arancione, 247 verde e indaco che appaiono nello spettro, sono derivati da miscelazione: l'arancione dalla miscelazione di quanti gialli e rossi; il verde da quanti gialli e azzurri; l'indaco da quanti azzurri e blu-violetto. Da questi dati appare evidente anche che la Teoria Tricromatica di Maxwell non sia attendibile, e vada sostituita dalla nuova Concezione Cromatica Bipolare, in quanto le componenti della luce sono solamente due a cariche contrapposte, e singolarmente non sono percepibili dal nostro sistema ottico, mentre se miscelate a valori paritari danno origine alla luce bianca, e se miscelate a percentuali varie, danno vita a tutti i colori percepibili dal nostro sistema ottico (vedere in Appendice lo schema interpretativo). La causa principale di tanti equivoci (non solo in quantistica), è nata con la Fisica Classica, e promulgata - per ironia della sorte - proprio da colui che viene indicato come il Padre della Scienza Moderna: Galilei. E questo grave equivoco consiste nell'aver valutato "il caldo e il freddo effetti secondari derivanti dalla materia"; ma se così fosse, sarebbe stata la materia a generare l'energia. e non viceversa. E questo equivoco, come già espressi più volte a vari Congressi, è di gran lunga più grave di quello "geocentristico" di tolemaica memoria; il quale fu sostenuto - a spada tratta - dagli scienziati di tutto il mondo per oltre tredici secoli: e quei pochi che tentarono di correggerlo rischiarono il rogo! (Galilei compreso). Ora però, a seguito di questo nuovo equivoco (galileiano), nacquero "tante fisiche", ognuna delle quali cercò di giustificare comunque il problema "energia e massa" nei modi più inverosimili. Inoltre, nel 1910, alcuni "cervelloni" credettero di aver scoperto che il "calore" sia generato dal moto delle particelle: ma che cos'è che genera questo "moto"? - Il moto, invece, è generato dalla "coreazione" tra le due Energie Primarie, e non dalle fantasiose teorie promulgate dai fisici scientisti! Planck nel 1900, infatti, scoperse che la luce dalle fonti emittenti viene espulsa a quanti emessi in successione (e non a onde), quanti che si commuterebbero in particelle: i fotoni. Quanti e fotoni risultati a carica "neutra", per cui ciò presupponeva fossero composti da cariche o particelle ancora più piccole di segno opposto, ma non trovandole, e non concependo che gli stati eterici potessero essere "due", a Energie Primarie specifiche, la "quantistica" finì nel limbo delle astrazioni. Infatti, queste due energie di stato eterico non sono solo dei supporti passivi per consentire la propagazione di ipotetiche onde luminose; ma sono le essenze stesse della luce e di tutto ciò che esiste nel cosmo. A causa di queste basi equivoche della fisica ortodossa, i fisici teorici hanno dovuto formulare una valanga di teorie inverosimili, che con le Vere Leggi della Natura nulla hanno a che fare. E per "demerito" di Bohr e Heisenberg nel 1927: che pur avendo ragione nell'affermare che le particelle subatomiche vengono modificate dai vari tipi di apparecchiature usate, tuttavia sbagliarono nel valutare il quanto/corpuscolo (energia/massa) due effetti solo apparenti di un unico fenomeno, e peggio ancora, aver valutato il tutto neutro per natura. Ora il secolare problema "ondulatorio-corpuscolare" può ritenersi risolto, rettificando sia l'aspetto "apparente" da onda ad impulso (di lunghezza terminata per ogni cromia), sia avendone individuata la doppia componente; il cui impulso o quanto di energia radiante hn (luce bianca), è composto da due cariche elementari monopolari di segno opposto (per cui "neutro" in modo giustificato, il che consente la commutazione in massa del fotone y). Mentre per ciò che concerne sia i fotoni colorati, sia tutta la gamma delle onde elettromagnetiche, sarebbe più corretto chiamarle "elettrodiamagnetiche": in quanto il magnetismo - vero e proprio - necessita di corpi rigidi per potersi realizzare; ed inoltre esso è generato da una doppia circolazione (prevalentemente) di cariche elementari monopolari di segno opposto, e le pochissime masse di elettroni e positroni (circolanti in senso 248 contrapposto), non si annichiliscono comunque perché s'incontrano a spin divergenti. Poi è risaputo che le masse elettroniche in un corpo conduttore viaggiano lentissime, mentre la circolazione delle cariche elementari monopolari avviene alla velocità della luce. Ma qui il discorso si amplierebbe enormemente, entrando anche nel mondo dei vari elementi chimici, e nelle loro rispettive trasmutazioni, che in Natura avvengono in modo assai differente da come sono state interpretate dalla scienza ortodossa. La Legge di Compensazione, studiando la quale sono riuscito a mettere a punto la nuova concezione Compensazionistica/Evoluzionistica (che riesce a spiegare tutti i fenomeni della Natura in modo coerente): non me la sono inventata, ma è la Legge della Natura sulla quale si basano i vari rapporti attrattivi, repulsivi, rotativi e di "fusione" delle due componenti eteriche, o energie primarie, dalle quali dipendono tutti i fenomeni che si sono verificati e tuttora si verificano nel cosmo. I mattoni fondamentali dell'Universo, o la particella di Dio (o particella di Higgs), cercata mediante i grandi acceleratori di particelle, è già stata scoperta da Planck un secolo fa: ed è il fotone, che però non è stato capito come tale perché non capirono come era "composto"; e la cui "massa relativa" (instabile) da me introdotta riesce a chiarire l'aspetto "dualistico" in maniera inequivocabile. Per cui, come già sosteneva Senofane, le Essenze Divine, dalle quali tutto deriva, sarebbero due. E con la luce, da queste derivata, ebbe inizio la Creazione. Ed io, in tutto questo contesto, non avrei fatto altro che riscoprire cose già "supposte": dimostrando però, sperimentalmente, la "veridicità" di alcuni dati già previsti nel corso dei secoli sia dalla scienza che dalla filosofia. Appendice Schema Interpretativo Un quanto luce hn (luce bianca) (1) si forma dalla fusione di due cariche elementari monopolari di segno opposto (chiamate Antepiù A + la carica elementare positiva, calda, e Antemeno A- la carica elementare negativa, fredda). Dall'atto "coreattivo" (che le porta alla fusione) partono a velocità c (roteando in senso contrapposto), e nell'arco di miliardesimi di secondo (per cause termiche) si commutano in particella: il "fotone y" (2) (a massa relativa, ovvero a massa instabile). Quando il fotone y s'imbatte su di una superficie pigmentosa a carica "neutra" (equivalente a energie di eccedenza del 50%+ e del 50%-), si ricommuta integralmente - in quanto luce hn, per tornare ulteriormente fotone y, e poi, nuovamente, nel 249 nostro cristallino, in quanto hn: per cui quella superficie la percepiremo "bianca". Infatti, a parità di percentuale tra le due cariche elementari monopolari di segno contrario si ha, appunto, la luce bianca. Se invece la superficie pigmentosa ha carica (in eccedenza alla sua massa) nella percentuale dell'80% in positivo e del 20% in negativo, quella superficie la percepiremo "rossa". In tal caso, il quanto luce riflesso - rispetto a quello incidente - si estenderà notevolmente (come appare nel grafico soprastante). Se invece la superficie pigmentosa avrà un'eccedenza dell'80% in negativo e del 20% in positivo, quella superficie la percepiremo "blu". Conseguentemente ad ogni minima variazione in percentuale tra queste due energie primarie di base - in eccedenza ai vari pigmenti - si avranno variazioni del flusso riflesso rispetto a quello incidente, per cui percepiremo - di volta in volta - sensazioni policromatiche differenti. Va tenuto presente che, a polarizzazione oltre 85%/15% sia in positivo che in negativo, il nostro apparato ottico non percepisce più sensazioni policromatiche, ma soltanto nero a causa di eccesso di polarizzazione. Tutto questo, ovviamente, è stato semplificato al massimo per rendere il fenomeno percettivo dei colori entro termini "quantitativi e qualitativi" realistici e nel contempo comprensibili a tutti. Con queste nuove scoperte è possibile fornire dati molto precisi (e verificabili sperimentalmente) su tutti i colori percepibili dal nostro occhio, mentre con le varie teorie precedenti si riusciva a dare delle spiegazioni alquanto approssimative: quasi sempre basate su formule matematiche che assai poco avevano a che fare con dati sperimentali interpretati in modo attendibile. Il motivo di tutti questi dati poco attendibili, è dovuto al fatto che troppi dati sperimentali - molto recenti - non sono stati presi in dovuta considerazione, per cui, nel mondo accademico, si preferisce usare "vecchi schemi", anche se, tuttavia, questi sono serviti a dare solo spiegazioni approssimative. (1) Il "quanto luce hn" di Agrifoglio equivale - in estensione - al "quanto luce h" di Planck, salvo che Agrifoglio ha saputo "giustificarne la neutralità" attraverso la doppia componente energetica e, (2) con il fotone y - a massa relativa - giustificarne la commutazione da energia/e in massa relativa, appunto, per cui instabile. Attraverso tale scoperta è possibile giustificare, in modo molto attendibile, numerosi altri fenomeni fisici: in modo particolare, la commutazione energia/e in massa. ***** Questa foto di "quanti luce" ha consentito di chiarire un equivoco di fisica quantistica rimasto avvolto nel mistero per quasi un secolo 250 Fotografando una sorgente luminosa con tecniche specifiche, è possibile visualizzare i "quanti luce", come potete osservare nella foto sopra. Ma per interpretare correttamente questo fenomeno bisogna fare alcune considerazioni di ordine tecnico sul come e sul perché si manifesta in questo modo. E prima di ogni altra cosa bisogna sapere che la luce, contrariamente a come era stata valutata dalla fisica quantistica, è composta da due "energie primarie" di segno opposto - tra loro interagenti - siglate E + (quella positiva, calda) ed E(quella negativa, fredda), a loro volta suddivisibili in "cariche elementari" monopolari, siglate rispettivamente A+ ed A-. Cariche elementari monopolari dalla cui coreazione e poi "fusione" nascono i quanti luce hn, ossia quanti composti, emessi comunque a impulsi susseguenti, mentre i quanti luce h di Planck furono valutati erroneamente a energia "monogenica", ossia unica. La foto sopra ci mostra come questo fenomeno può essere rilevato su pellicola a colori, dove i tre strati di pigmento fotosensibile ai colori di sintesi additiva vengono impressionati in tre fasi susseguenti. Però - non a caso - in campo fotografico molta importanza viene data alla temperatura colore. Questo cosa significa? Ogni colore ha una sua temperatura specifica, per cui le pellicole a colori - dette in diapositiva - vengono composte a strati fotosensibili ai tre colori di sintesi additiva rosso, verde e blu, che vengono impressionati dal medesimo quanto luce hn a causa del suo procedere in maniera vorticale. Quanti luce che, essendo costituiti da due componenti opposte sia in senso rotatorio/vibratorio che in temperatura, partendo a velocità c (con all'interno di ogni singolo quanto la componente negativa), vanno ad impressionare la pellicola in tre fasi susseguenti, dovute appunto all'azione rotatoria-vibratoria "sfasata" che gli consente di creare attimi "termici" differenti. Va tenuto presente che le due energie primarie fondendosi danno vita alla luce bianca, ma se prese singolarmente non sono percepibili dal nostro sistema ottico; se poi con tecniche specifiche si fanno variare le percentuali delle due componenti, ad ogni variante corrisponde una radiazione colorata differente. Quindi i colori visualizzati in questa foto sono causati dalle differenti percentuali di miscelazione: quelle del rosso equivalgono a 75+ e 25-; quelle del verde a 45+ e 55-; quelle del blu a 30+ e 70-. La somma complessiva delle quali è di 50% di energia positiva e di 50% di energia negativa, equivalenti a luce bianca. Dove il rosso si somma con il verde e si ha il giallo a 60+ e 40-. Questi dati dimostrano che a far variare le lunghezze d'onda e le frequenze, sono le percentuali divergenti delle due energie primarie che costituiscono i singoli quanti di energia radiante polarizzata: sia in flusso diretto che riflesso. Però, non di lunghezze d'onda si dovrebbe parlare, ma di cariche elementari monopolari espulse congiuntamente a quanti luce hn dalle fonti irradianti. Quanti luce, poi, variabili in rapporto quantità alle diverse potenze d'emissione, e ulteriormente variabili in frequenze in rapporto qualità tra le due componenti, il che può avvenire per cause varie. ***** 251 Nelle precedenti tre immagini si possono osservare spettri ad un solo colore: rosso; a tre colori: verde - giallo - rosso; e a quattro colori: blu - azzurro/giallo - rosso. Lo spettro a quattro colori è quello che rappresenta la realtà fotonica (forse sarebbe più giusto parlare di "quanti"). Infatti, i fotoni colorati (o quanti polarizzati) dello spettro visibile sono solamente "quattro", mentre gli altri tre conosciuti sono dovuti a miscelazione. L’arancione è dovuto alla miscelazione di fotoni (o quanti) gialli e rossi; il verde di fotoni (o quanti) gialli e azzurri; l’indaco di fotoni (o quanti) azzurri e blu-violetti. Questa scoperta (che conferma una teoria dei colori simile a quella di Goethe, ma questi al posto del blu aveva indicato il verde) si spiega bene in termini scientifici in base all’individuazione delle due energie primarie (E+, positiva, ed E-, negativa), dalla "fusione" delle quali (a pari valore in percentuali) si ha la luce bianca. Quando invece (con tecniche specifiche) le due componenti si fanno variare in percentuali: con la prevalenza dell’energia positiva - nelle varie proporzioni - si ottiene la gamma dei colori (caldi): giallo arancione e rosso; se invece a prevalere è l’energia negativa - nelle varie proporzioni - si ottiene la gamma dei colori (freddi): azzurro indaco e blu-violetto. 252 ***** Mario Agrifoglio - Raffronti - opera 60x70 del 1987 Queste due immagini sono il risultato di una sola opera fotografata con luce comune (sopra) e con luce ultravioletta (sotto). Nella prima immagine si possono osservare le 5 tessere rosse su sfondo bianco e nero, le quali nella seconda immagine, irradiata con luce ultravioletta, hanno cambiato totalmente colore. L'opera poteva essere dipinta anche con lo sfondo totalmente rosso, uguale alle 5 tessere, tanto da far apparire tutta la superficie del quadro a colore rosso uniforme, e ancora apparire come sotto alla luce ultravioletta, in quanto è possibile creare un numero infinito di colori da altrettanti rossi o checchessia altro colore: usando ovviamente pigmenti e accorgimenti speciali. 253 ----Mario Agrifoglio è nato a S. Margherita Ligure (GE) nel 1935. Cominciò a dipingere all'età di 11 anni, e già a 12 ad occuparsi anche di scienza (congiuntamente agli studi scolastici). Dal 1965 intraprese in modo sistematico studi di Storia delle Religioni, Storia della Ricerca Scientifica e infine Storia della Filosofia. Nel 1974 pubblicò un primo saggio di filosofia basato sulla Legge di Compensazione e sempre nello stesso anno elaborò un Enunciato di Fisica in Chiave Compensazionistica (nel quale vengono indicate le premesse per una revisione radicale di tutta la fisica teorica) e che, successivamente, nel corso degli anni ampliò per rendere i concetti espressi in modo più chiaro e dettagliato. Nel 1992 pubblicò il suo primo libro I Falsi Paradossi della Fisica (Ed. Eccellenti, Rozzano, Milano), uscito poi in seconda edizione assieme ad altri due testi: Compensazionismo: Aldilà del Tempo e oltre la Materia e La Ragione dell'Essere, Ed. Andromeda, Bologna. Ha scritto inoltre vari saggi di Cromatica Ottica, di Termodinamica, di Cosmologia. ecc. E' membro di diverse Accademie Internazionali per l'Arte e la Ricerca Scientifica. Via Canto di Mezzo, 13 54013 Fivizzano (Massa Carrara) - Italy E.mail: [email protected] 254 Mileva Einstein-Maric (Michael Falotico) It is a truism to state that Albert Einstein was undoubtedly a genius and a breathtakingly original thinker. Nothing in this article can or should take away from the accomplishments of the most celebrated scientist of all time. But a basic sense of justice and fair play requires that credit must be given where credit is due. It is in that spirit that the world should know the name (and credit should be given) to an equally brilliant scientist, Mileva Maric, the first wife of Albert Einstein. Albert Einstein met Mileva Maric when he entered the elite Swiss Polytechnic school ("ETH") in Zurich. [An aside: Albert did not initially gain admittance to this elite school and much has been made by Einstein's critics that Einstein was only admitted on his second attempt. While it is true that Einstein did not initially pass the admittance test, this had nothing to do with his mathematical or scientific understanding. In fact, Einstein scored very well in math and science on the admission test (See the Collected Papers of Albert Einstein, Princeton University Press). Where he failed was in his French test; the Swiss were very picky about French, and although it seems Einstein's French essay was very good, it was not good enough to satisfy the high standards of the picky French professors. Further, Einstein was trying to gain admission to the Swiss Polytechnic at the tender age of 16, without even having first completed high school. The Swiss Polytechnic advised the young Einstein that they were impressed by his math and science scores but he should really finish high school first and then try to gain admission the next year. Encouraged by kind words of the Swiss Polytechnic, Einstein went back to high school in Germany, got his high school diploma, and was easily admitted on his second attempt to enter the Swiss Polytechnic. See Abram Pais, Subtle is the Lord…- The Science and the Life of Albert Einstein, Oxford University Press, 1982]. On entering the Swiss Polytechnic school in Zurich, the young 17 year old noticed the only woman in the class, Mileva Maric, a brilliant Serbian student. Maric remained the only woman studying physics at the Swiss Polytechnic the entire time Einstein was there. Maric was four years Einstein's senior. She was a Serb, an Eastern Orthodox Christian, short of stature, had a limp and was extremely bookish. In addition to taking the exact same course-work in college that Einstein took, Maric studied on her own for one semester in Germany under Phillipe Lenard, the Nobel Prize winning physicist who discovered the photo-electric effect (which was explained in one of the 1905 papers attributed to Einstein). Soon the two physics students fell in love and began living together, sharing love and textbooks. The work they would do together would change the world of science and rearrange the universe. Maric is finally beginning to be noticed among scholars. Her achievements were first chronicled by Desanka Trbuhovic-Gjuric in her book In the Shadow of Albert Einstein, which, unfortunately, has been published only in German. Because Trbuhovic-Gjuric relied on oral reports of friends of the Einsteins her documentation is not considered rigorous enough. Trbuhovic-Gjuric writes that Maric always considered herself as partner of Einstein, and when asked why she did not insist on more of the credit for their joint work, she replied, "We are one stone; Ein stein." 255 The Serbian scholar Dord Krstic has written about Maric's close working relationship in an Appendix to the book, Hans Albert Einstein: Reminiscences of his LIfe and our LIfe Together, written by Elizabeth Einstein, the wife of Einstein's son, Hans Albert Einstein. Senta Toremel-Ploetz has written a noteworthy article on Maric, "Mileva Einstein Maric, the woman who did Einstein's mathematics" in Women's Studies International Forum, vol. 13, no. 5 (1990). By far the most interesting and insightful writer on Maric is Dr. Evan Harris Walker, who literally has turned the Einstein image around, crediting Maric with having formulated the Special Theory of Relativity as well as other ideas now commonly attributed to Einstein. Many other popular writers have adopted the insights of Dr. Walker; it is his manuscript Ms. Einstein (1990) that remains the leading work so far on the collaboration between Einstein and Maric. Dr. Walker is hereby credited for the information and ideas contained in this article. It was he who first seriously pushed the idea of an Einstein/Maric collaboration. And what a collaboration it was! The Collected Papers of Albert Einstein prove to any open-minded person, that Maric did indeed collaborate on the authorship of Einstein's famous papers in 1905. Einstein even uses the word "collaboration". Just a sample quote from Albert to Mileva from their love letters: "How happy and proud I will be when the two of us together will have brought our work on the relative motion to a victorious conclusion!" Our work??? This is just one isolated quotation. One should read the entire Love Letters, published in the Collected Papers of Albert Einstein by the Princeton University Press and separately as The Love Letters; Albert Einstein and Mileva Maric edited by Jurgen Renn and Robert Schulmann and translated by Shawn Smith. There you will find that Albert shares all his physics ideas with her and is extremely interested in her opinion. There are literally dozens of examples. See also the copyrighted manuscript by Evan Harris Walker Ms. Einstein. No two physicists ever had a closer relationship: Mileva and Albert ate together, went to school together, shared ideas together, shared textbooks together, slept together, raised children together and discussed physics together. The Love Letters prove incontrovertibly that they discussed in great detail the work of physicists and mathematicians like Lenard, Helmholtz, Hertz, Drude, Boltzmann, Kirchhoff, and Planck. In their leisure hours, Mileva often would play the piano accompanying Einstein's violin while they entertained friends, including Einstein's inner circle: Michele Besso, Paul Ehrenfest, Conrad Habicht, Marcel Grossmann, Maurice Slovine. This group eventually became known as "The Olympia Academy." Senta Troemmel Ploetz, in her excellent paper, quotes Einstein as telling his friends that his wife did his math for him. When one realizes the highly mathematical aspect of the 1905 Special Relativity paper, which relies heavily on derivations of the Lorentz transformations, then one can see the importance of having a first-rate mathematician's help. The Collected Papers of Albert Einstein even have a photo-static copy of one of Albert's college notebooks, in which Mileva has gone through and corrected Albert's math! Yet the myth of the isolated Einstein working alone, who all by himself, without help from anyone, wrote four brilliant papers on physics in 1905, endures. These papers included the work on Special Relativity; the photo-electric effect; an explanation of Brownian motion; and the famed formula, E=mc2. All this is detailed in the Love Letters and in Dr. Walker's paper, Ms. Einstein. 256 Yet "Einstein Establishment" has been reluctant to recognize the important role Maric played. John Stachel, the first editor of the Collected Papers of Albert Einstein, has recently moved away from previous statements that Maric was a mere "sounding board" for Einstein, and has grudgingly stated that she has played a "small but significant role" in Einstein's work. See http://www.ucl.ac.uk/sts/cain/pubs/rev-pyc.htm. But was her role really so small? In addition to the many references to joint work and swapping of textbooks, Dr. Walker has found fascinating evidence that Mileva Maric may have actually put her name on the original manuscript of the Special Relativity. Naturally, the original manuscript for the Special Relativity paper is missing. It was lost during Einstein's lifetime. Yet, Abram Joffe, a summa cum laude Russian physics graduate of the ETH is quoted as having seen the original 1905 manuscript and said it was signed, "Einstein-Marity" (Marity being the Hungarianized version of Maric'; at that time Serbia was under the dominion of AustroHungarian empire). Joffe died in 1961. (see Ms. Einstein by Evan Harris Walker.) It is interesting that Joffe would remember the name as "Einstein-Marity" since "Marity" was the Hungarianized version of Maric. Mileva Maric rarely wrote her name as "Marity" except on important formal documents, such as her wedding certificate. That Joffe would remember the name specifically as "Marity" lends credence to his having seen the original Special Relativity manuscript. It is extremely unlikely that Joffe could have made a mistake. Moreover, when Albert admitted adultery and divorced Mileva in 1919, he promised that in the event he should win the Nobel Prize all the money-not part of the money but all the money-would go to Mileva. According to the Einstein biography, Subtle is the Lord, Einstein kept his promise. When he received the Nobel Prize money in 1922 (he was awarded the prize for the year 1921; the award was announced and he received the money in 1922) Albert did indeed give Mileva all the money from the Nobel Prize. Why all the money? There are other strange aspects to Einstein's life. Einstein was extremely secretive about his first marriage. It was only in 1987, with the publication of the Love Letters between Albert and Mileva that we find out Einstein fathered a daughter, named Lieserl, the first child of Albert Einstein and Mileva Maric. Nobody really knows what happened to this child; there is a mention in one of the letters to her having scarlet fever and it is believed that the child was put up for adoption in Serbia. Albert never breathed a word about her publicly during his lifetime, which is quite strange. The Love Letters also make clear that Mileva Maric was absolutely hated by Einstein's mother, Pauline, who protested to her son that Mileva was, "a book like you." Still, despite his mother's fierce objections, Einstein stubbornly went ahead and married her. It was during this marriage that Einstein is credited with producing the 1905 papers which made him famous. After they married, Mileva bore Albert two more children, sons Hans Albert and Eduard. Eduard suffered psychological troubles throughout his life, and according to Dord Krstic was even seen by Sigmund Freud. Maric seems never quite willing to take complete credit for the work she did. Much has been made of Maric never having graduated from the Swiss Polytechnic, implying that she could not have been the intellectual equal of Albert Einstein. This is simply not accurate. Mileva faced the obvious invidious prejudice of being a woman. Remember, in 1900 women couldn't even vote! Even to be allowed admittance as a woman to the elite Swiss Polytechnic, she had to have been brilliant. Although her grades were comparable to 257 Einstein's grades, Mileva ultimately did not pass her final examinations. It must be noted, however, that at the time she was taking these exams she was late in her pregnancy with Albert's second child (his son, Hans Albert) and also faced the prejudice of her teachers for being both a Slav and a woman. She was, indeed, the only student in Albert's class not to graduate, although she did receive a research position with Professor Weber, which later fell through. Of the students who did actually graduate, Einstein had the lowest grade point average (see The Collected Papers of Albert Einstein, Volume 1, which lists the grades of all those who graduated; also see Dr. Evan Harris Walker, Ms. Einstein.) Einstein rarely mentioned those who assisted him. Indeed, in all the famous 1905 papers that he published, only Michele Besso, his friend and sounding board, is mentioned. There is simply no other source material cited in any other of his 1905 papers. We know from the Love Letters that he had a very close collaboration with Maric. Unfortunately, these letters are heavily edited, the omissions being mainly from Maric's letters. Why are Maric's letters so heavily edited? Why are there so many omissions? Will the editors of the Collected Papers of Albert Einstein publish or make available Maric's letters in their entirety? Some have felt that Maric's senior thesis at the Swiss Polytechnic might actually have dealt with Relativity theory but, according to correspondence I have had with Professor Bartocci of the University of Perugia, her thesis cannot be located in the Polytechnic's archives. Einstein's marriage to Maric ended in acrimony. He began treating Maric, for whom he had originally professed such great love, cruelly toward the end of the marriage, even calling her "uncommonly ugly" (see Collected Papers). He admitted in a deposition during divorce proceedings (28 December 1918) that he had carried on an adulterous relationship with one of his cousins, whom he later married. During this second marriage, Einstein had numerous affairs, even including -apparently - an affair with a Russian spy! And again, Einstein never breathed a word about having fathered a daughter with Maric. The full truth of Mileva Maric's role in the work now commonly attributed exclusively to Einstein will only become known when the complete, unedited letters of Mileva Maric are made available to scholars. It is also a fervent hope that the senior thesis of Maric might be found - or at least its subject might become known - because that thesis might actually have been about Relativity theory. Clearly, further research on her life and her physics work needs to be done. E-mail: "Michael and Lydia Creighton" <[email protected]> 258 Geography of Gilgamesh Travels, Part II The Route to Mount Mashu (Emilio Spedicato) Abstract In this part of the paper, we consider Gilgamesh trip to Mount Mashu. We identify this mountain with the Anye Maquen range, close to the sources of the Yellow River, sacred to the local Ngolok population. We propose that Gilgamesh reached this mountain via the Zungarian Gates. Sintesi In questa parte del lavoro consideriamo il viaggio di Gilgamesh verso il Monte Mashu, da noi identificato nella catena montuosa detta Anye Maquen, localizzata presso le sorgenti del Fiume Giallo e sacra alla tribu' degli Ngolok. Proponiamo che Gilgamesh abbia raggiunto tale meta passando dalle Porte di Zungaria. 1. The second trip. Numerics and geographical information The second trip aims to reach mount Mashu, the dwelling place of Utanapishtim (in Assyrian; Ziusudra in Sumerian), a man who survived the Flood and who was granted granted immortality by the gods. Gilgamesh hoped to get from Utanapishtim the secret for immortality. He did not get it (we may hint that the secret is the one that locally survived till the time of Marpa, the teacher of Milarepa). In the following we give the surviving information from the Gilgamesh texts in Pettinato (1992). Tablets from Assurbanipal library. - IX, 5-9: I wander by the steppes. I am going to the place of Utanapishtim, the son of Ubartutu. I am moving fast towards this place. In the night I have reached a mountain pass. I have seen lions, I was scared. - IX, 36: The name of the mountain is Mashu. - IX, 55-59: Who are you who came by far away roads, who wandered till you got to my presence, crossing with difficulty ever fast flowing watercourses? - IX, 132-134 : You, Gilgamesh, do not be afraid! I open for you Mount Mashu, cross without fear the mountains and the hills! - X, 1 : Siduri, the hostess who lives far away at the shore of the sea. 259 - X, 43-47: Why do you look as someone who has travelled over long distances? Why does your face show signs of hot and of cold wheather? Why do you wander only covered with a lion skin? X, 76-91: Gilgamesh insisted: Please, hostess, which is the direction to Utanapishtim? Give me accurate directions. If necessary, I will cross the sea, otherwise I will take the way by the steppe. Gilgamesh, there has never been a boat for the crossing, no one in memory has ever crossed this sea. Only Shamash can cross it... The crossing is difficult, fraught of dangers, in the middle there are lethal waters that make navigation impossible. How, Gilgamesh, can you cross this sea? Once you get to the mortal waters, what will you do? There is however, Gilgamesh, the boatman of Utanapishtim, his name is Urshanabi. You can find him cutting trees in the woods, near the stone "stela". - - X, 156-160: Gilgamesh, take an axe, go to the wood, cut planks of 30 meters length, work them smooth, bring them to me. - X, 166-170: Gilgamesh and Urshanabi entered the boat and began the voyage. A route of one month and a half towards the land of..... they made in three days. Then Urshanabi arrived at the waters of death. - X, 259-261: I have killed bears, hyenas, lions, leopards, tigers, deer... - XI, 194-195: Now let Utanapishtim and his wife be like gods. Let Utanapishtim dwell far away, at the mouth of the rivers. - XI, 257-258: Gilgamesh and Urshanabi enter the boat. They free the boat and begin the [return] voyage. - Berlin/London tablet, 100-104 : So Gilgamesh spoke to Surshanabu: Gilgamesh is my name. I have come from Uruk, from the Eanni, I have wandered by the mountains. I have made a long way towards the rising Sun. - Berlin/London tablet,115-119: The stones "stela", Gilgamesh, are my guide, so that I avoid the waters of death. In your fury you have broken them. I keep them with me, so that they can guide me. Hittite version: The god of the Moon (Sin) said: bring the two lions you killed to the city, bring them to the temple of Sin. Hittite version by J. Friedrich (1930), quoted by Sitchin (1980): After crossing the death waters with Urshanabi, they were in Tilmun, aiming to the Mashu mountain in a straight way, in the direction of the far away great sea. On the way there was the town Itla, sacred to the god Ullu-Yah. - 260 2. Identifying the route of the second trip According to the scenario proposed by us, Gilgamesh trip took him to the heart of Asia, to Mount Mashu, that we will identify, close to the sources of the Yellow River, with a huge mountain range still sacred to the local population, the Ngolok tribe. Then he returned to Uruk by water, first following the Yellow River (for about 4000 km), then coasting the eastern-southern side of Asia, for at least 15.000 km. Thus Gilgamesh succeeded in performing a voyage of truly epic dimensions. Gilgamesh reached mount Mashu by a route about which some information had to be available. The distance travelled in the second trip was about 3000 km longer than by the route he had attempted the first time. Now however he did not have to go through the almost impassable high ranges of the Karakorum. The route took him through wild and almost unpopulated steppes, fraught of difficulties in term of quick sands, salt flats and lack of sweet water. We think that without the guiding help of Urshanabi he would have been lost after the about 5000 kilometers that had taken him to the "sea" where he met Siduri, the custodian of the tple of Sin. It is perhaps interesting at this point, before unveiling the final destination, to introduce a digression on how the routes proposed here came to my mind. I first read Gilgamesh epic in the Penguin edition, in 1971, when I was visiting the University of Essex in UK for research in numerical optimization. Already at that time I had doubts about the real destination of Gilgamesh trips. Several years ago, having reread the epic in the 1992 book of Pettinato, I looked in the great italian Enciclopedia Treccani (almost twice the size of the Britannica), about cedars of Lebanon. To my delight I found out that they grow in the variety Cedrus Deodara in Kashmir. Since the Indus basin and Mesopotamia at Gilgamesh time were in well documented contacts via water, it made sense to hypothesize that not only Kashmir had to be a well known source of cedar timber, but that reaching and exploring that region might have been an interesting goal -- personal and even political, in view of incipient trends towards forms of "imperialism" -- to a strong willed, intelligent and physically powerful person as king Gilgamesh. The identification of Mount Mashu came suddenly to my mind on a day of May 1999, while I was reading Sitchin's "The Stairway to Heaven". At the point where Sitchin, whose source is mainly the Hittite text in Friedrich's translation, describes how Gilgamesh, after crossing a mountain pass, saw a water extent, near which there was a city with a temple dedicated to Sin, I closed the eyes and visualized the map of central Asia. It dawned to me that the water expanse, certainly not a sea but a large lake, had to be the Balkash lake, which, as will be discussed soon, fully satisfies the features in the text. Then I thought what Mount Mashu might be in this geographical context, and the answer flashed back immediately, the product of a geographical and anthropological information I had memorized a couple of years before from a book by Leonard Clark. Of Leonard Clark, possibly with Heyerdahl the greatest explorer of the 20th century, I had read and reread in my teens the fascinating book Thr rivers ran to east, describing his explorations in Amazonia. Reading his less known book The Marching Wind, led me to the proposed identification of Mount Mashu. 261 Let us now discuss the route that we propose to Mount Mashu. Our guess is very natural once the "sea" with the temple of Sin and Mount Mashu are identified. Let us first discuss the "sea" with the temple of Sin. The text calls it a "sea", and the local Kirghiz actually call it "sea" (their word for sea being just "Balkash"), but it is actually a large lake. Notice that what we call "Caspian sea" is also a large lake, the remnant of a previous very large lake, hence in a sense a "sea", that included at least also the Aral lake, as the Atlas of Ptolemy shows, see the critical edition by Pagani (1990). We claim that Gilgamesh reached this "sea" after a very long way, in a mainly easterly direction, along which he was attacked by wild beasts and had to cross large rivers always full of water. The "sea" appearead just after crossing a mountain pass. Going beyond the sea appeared to be difficult, the steppes around were also appearing difficult, making Gilgamesh feel depressed. Near the "sea" there was a city with a temple dedicated to Sin, the god, inter alia, associated with the Moon. We identify the above "sea" with the Balkash lake on the following grounds: - It is certainly far away from Sumer, about 4000 km as the crow flies, probably well over 5000 km by the route taken by Gilgamesh, where many detours and false starts had to occur. - It lies in a rather flat basin, elevation around 350-400 meters, which is surrounded on the north and west side by a chain of hills (the Khaisaghin Daban hills in the north reach 1559 meters, the Chu-Ili hills on the west reach 1053 meters). On the south-east, beyond the mainly flat gently sloping delta of the Ili, there are the quite high Tien Shan mountains, reaching almost 5000 meters. - The lake is fed mainly by a river coming from the fertile green Fergana valley among high mountains, where the city of Alma-Ata is located. The river has the intriguing name Ili, easily associated with the semitic EL, one of the main gods. - The waters are salty, undrinkable by man, so salty that only small fish live in the lake. It has a tormented coastline, it is surrounded by marshes, quick sands and salty deposits, over which it is extremely difficult to move by foot, either for man and for camel, see Hedin (1943) for the claim that these areas, called scior in central Asia, are avoided by everyone. Around the shores there are woods. The lake has sources of sweet water on his bottom, that apparently have contributed in reducing the high salinity noted in the 19th century to a more moderate salinity, especially in the southern part (industrial pollution is now poisoning the lake). From a description of the lake at the end of the 19th century by Grégoire (1876) we have the following information (to be probably updated in the sense of a decreasing size of the lake, the phenomenon of drying up of inner lakes being common worldwide and being probably related to the fact that such lakes were filled over their normal capacity during some catastrophical flooding event, the Noah-Utanapishtim flood being one of such likely events): - the lake is 530 km long, at most 85 km large, area 22.000 square kilometers; 262 - the lake around 1950 was very shallow, max depth only about 11 meters - present elevation (Times Atlas, Comprehensive Edition, 1974) is 339 meters over sea level. Just east of Balkash two smaller lakes are found aligned in an easterly direction: lake Sasykul, elevation 334m, and Alakul, 340m. In case the water level in the Balkash would increase by about ten meters, these two lakes would join with the Balkash, as appears it was the case from maps in atlases of the 18th century, then giving rise to a lake over 800 km long but no more than 100 km wide. - the form of the lake is arcuate, rather half-Moon like. - if the level of the lake would reach the isoipse 500 meters, quite a possibility in the event of a great flood, it would give rise to a water expanse with no outlet to the ocean and a size of about 150.000 square kilometers. We do not know how was the elevation of the Balkash at Gilgamesh time (but see below). We guess, in view of the drying up tendency of inner lakes, that it was significantly higher than now; - the lake could have had the characteristic half Moon shape before the Flood, making it sacred to the god Sin; an increase of the water level to the isoipse 500m, for instance, about 160 meters higher than now, would completely change its shape. - the name of the lake is indicative, in the linguistic analysis that we will propose, of a relation with the god Sin, to whom perhaps the lake was sacred in view of its peculiar half-Moon shape (if not at Gilgamesh time, before the Flood). Let us now discuss our proposal about the meaning of the name BALKASH. We have been unable of getting literature information on the etymology of that name, that for the Kirghiz is now synonimous of "sea". Our proposal is that the name BALKASH is the contracted form of a more ancient BALKASHIN. To my delight I have found that atlases and geographic dictionaries up to the mid 19th century call the lake BALKASHI, one step closer to the proposed BALKASHIN. Now there are no linguistical problems in the equivalence BALKASHIN = BALKASIN, that we see as a word composed by three meaningful monosyllabic words, namely BAL - KA - SIN, for which we claim the validity of the following translation: Sin, Lord of the people. The references to Sin and the term Lord are obvious. The main point is the validity of the identification KA = PEOPLE, that is addressed in the Appendix. Having thus identified the "sea" with the temple of Sin with the Balkash lake, we can now make an educated guess on the first stage of Gilgamesh trip, from Uruk to the Balkash lake. From the Hittite text in Friedrich translation, but not from the corpus in Pettinato, the trip appears to have started when Enkidu was still alive, and by sea, on board of a boat named MA-GAN. The boat sank near the coast of MA-GAN, with Enkidu dying in the accident. Then Gilgamesh continued the trip alone overland. Sitchin identifies Magan with Egypt, while most scholars identify Magan with the easternmost coast of the Arabian peninsula, i.e. Oman and part of the Emirates, in view of the fact that copper was among the exports of Magan and that bronze age mines of copper have been found in the mountains of Oman. If 263 the Hittite version used by Sitchin is correct, then we may think that Gilgamesh again intended to reach the heart of Asia by the Karakorum passes tried before, reaching the Kashmir mountains not by the overland route explored in the first trip but by the more usual way via the Indian Ocean and the Indus river. Moreover we claim that MAGAN, also read as MAKAN, is neither Egypt nor Oman, but a land including the southern coast of the Iranian plateau, the ancient Gedrosia, a vast extremely dry expanse of valleys, plateaus and low mountains, that Alexander insisted to cross on the return from India, for reasons that are not clear in the surviving reports of his adventures (Arrianus, Curtius Rufus, Plutarch, perhaps not unrelated to a memory of the feat that we are now proposing Gilgamesh accomplished). This region, while difficult and even now sparsely populated, is not a complete desert. Now mainly inhabited by Baluchi people, divided between Iran and Pakistan, in classical times, as reported in that superb navigational reference book that is the Periplus of the Erythraean Sea, had a number of ports and a coastal population, the Icthyophagies, that survived on sea life (some of them even had cows, that were fed with dried fish: the flesh of these cows tasted of fish, according to the report of Nearchos, quoted in Arrianus book on India; thus we see that feeding proteins to cows predates our times!!). The present local name, attested as I have checked at least in atlases of the 18th century, is MAKRAN (sometimes also spelled as MEKRAN, MUKRAN). The name MAKRAN has obvious similarity with MAGAN/MAKAN, a fact reinforced by the observation that the sound KR does not belong to the Sumerian phonama. Moreover the name MAKAN appears in the 18th century great D'Anville Atlas as a region in the present Kara Kum desert, which comprises much of Turkmenistan, north of Khorasan. In view of references to a people called Maka in several inscriptions found in the excavations of Persepolis after second world war, located in the east, and of other considerations that will be developed in a forthcoming paper, we claim that MAGAN/MAKAN should be indentified with the eastern part of the "great Iran" to which Shanameh refers, comprising much of present Turkmenistan, Khorasan, Sistan, Baluchistan and Makran. Whether or not the second trip of Gilgamesh began by boat, the "sea" with the temple of Sin was reached overland. The likely route is the following. - First from Uruk to Sistan. This could have been done via sea and then crossing the Makran region, along one of the valleys that certainly allowed the precious hard stones and the copper mined or worked in Sistan to reach the Indian Ocean for trade to the east and to the west. Notice also that there are important copper mines in Birjand, just about 150 km north-west of central Sistan, that possibly were already exploited in bronze age time, therefore voiding the claim that Oman was Magan because of the presence of copper in Oman, and that recently translated Accadian documents refer to metal specialists sent to eastern Iran to get hold of copper. Or the trip could have been made overland, possibly even by same route taken in the first trip. - From Sistan the natural way to the Balkash, not less than 3000 km, skirts the western side of the mountains of Afghanistan and Pamir, in a basic direction north-east. On this way Gilgamesh had to cross a few really large rivers, certainly not fordable and rich of water the whole year around, including the Amu Darya (literally The sea of Amu, Adamu?; classical Oxus, meaning The great water), the Syr Darya (classical Jaxartes/Araxes, meaning The sea of lions) and, finally, the Chu river. The epic states 264 that Gilgamesh was attacked by dangerous animals along the way. Leopards and hyenas are still found in the area; the famous Aral tiger became extinct around 1950 and was common along the Amu Darya even in the Termez region still before Second World War, see McLean (1949); lions were common in classical times. Let us now discuss the second stage of the trip, from lake Balkash to Mount Mashu. As observed before and as additionally discussed below, at Gilgamesh time lake Balkash was almost certainly much larger, with a length close to 1000 km and a width possibly over 100 km on average. We do not know where the temple of Sin was, certainly close to the ancient higher shore, so at some distance of the present shore. A look at the map of the Times Atlas of the World, Comprehensive Edition, 1974, suggests that Gilgamesh, who presumibly had coasted the western side of the Tien Shan (Mountain of the Sky), may have crossed the Chu-Ili hills in the pass where both a road and a railway exist now, near the towns of Khantau and Burubaytal, hence approaching the lake at its southern shore. At his time the lake probably filled much of the Zhusandala steppe, that extends east of the present southern side of the lake. As is the case for many flat bottomed lakes in central Asia, navigation is often extremely dangerous due to the low level of the waters. Once a boat gets stuck in the muddy bottom, putting it again in motion may be an almost impossible task, because the soft bottom, essentially consisting of quick sands, is extremely dangerous for anyone who would jump in the waters trying to push the boat. The above navigational problem first suggested to me that the "stone stelae" that looked so important to Urshanabi and that Gilgamesh had broken, might have been magnetite, and could have been used as a compass (recall that compass comes from China, and that many elements of Chinese culture and science have their original source in the heart of Asia). This would also explain why Urshanabi was still able to navigate using apparently fragments of the broken stelae, since they of course would still maintain their dipole characteristics. There is however an even more interesting possibility. If the water level of lake Balkash at Gilgamesh time was about 150 meters higher than now, the lake would extend into Zungaria flooding the Zungarian depression and the pass called Zungarian Gates, a corridor about 80 km long, 10 km wide, with very steep mountains walls, appearing from Shuttle photographs just as a clear vertical cut in the mountains (let us recall the biblical statement that at the time of Peleg the earth was divided….) and would almost reach the present city of Urumchi. Thus there would have been a connected water basin, most certainly of salt water possibly originated from the Arctic Ocean via a huge tsunami associated with the Flood. It would have had an extension of several hundred thousand kilometers, given by a much larger Balkash connected with the flooded Zungarian basin. Under these conditions one had to navigate the flooded Zungarian gates to enter present Xinjang. Now the Zungarian gates are a very special geographical structure, characterized not only by steep walls where trails were probably not existing and (presently at least) by lack of sweet water, but they are extremely windy, so much so that caravans in the past tended to avoid them when they had to reach Kirghizistan and Khazakistan from Xinjang, preferring to pass by the longer and more northernly way of Chuguchak, through the Tarbagatai hills, see Lattimore (1929, 1995). In view of the difficulty of navigating the flooded Zungarian Gates, with their strong winds and presumibly also strong and turbolent currents, it is possible that the big stones used by Urshanabi were the so called "drag stones", i.e. flat 265 large stones that tied with a rope to the boat were used to increase the drag of the boat, hence to stabilize it against winds and currents. Such stabilizing technique is known from Herodotus to have been used by people navigating the Nile when strong northernly winds from the Mediterranean made navigation impossible even by following the natural Nile current; the boatmen in such a case dropped large stones and so were able to navigate as under normal conditions. The technique is essentially even now used by fishermen in the Bosphorus, who have no problem in navigating tp an easternly direction by following the upper current from the Marmara Sea towards the Black Sea, and are able to navigate to the westernly direction against such a current by dropping a chest full of stones that catches the lower cold current from the Black Sea towards the Marmara Sea. It should finally be noted that several huge specially shaped anchor stones have been found in the Kazan/Uzengili region near Mount Judi of last century Armenian maps in eastern Turkey, where a structure has emerged in 1948 that might be the remnant of Noah's Ark, see Fasold (1988); in this context Fasold, a marine expert dealing in recovery of foundered spanish vessels in the Caribbeans, has proposed that the stones were drag stones stabilizing the ark against the strong winds and rough seas of the Flood. Finally notice that evidence that the inner basins of central Asia were in fact huge lakes, as we have above proposed in connection with the Balkash-Zungarian system, has recently been given by the Turkish geomorphologist Erol on the basis of satellite pictures, see Ryan and Pitman (1998). Now near Urumchi, precisely on the northern side of the Bokhda-Ula (or Bogdo Ola, sacred mountain) range, there is a huge solfatara, with a perimeter of some 25 km at the beginning of the 19th century, see Marmocchi (1856), where large amounts of poisonous gases are emitted, killing every being, birds included, that would attempt to cross the area. The gases would escape from the waters and might kill anyone on a boat. We are presently unable to ascertain the actual coastline of the Balkash at Gilgamesh time, but the phenomenon here described would provide a perfect explanation of the "waters of death" described in the epic. Another phenomenon that may have characterized such an extended Balkash would also have been the low visibility associated with the dust carried by the winds, very strong in Zungaria, making the availability of a compass very important. 3. Mount Mashu and the return to Uruk According to a recent proposal by Temple (see Hera Magazine, n.1, 2000), Mashu means the place where the sun rises in the orient. This interpretation fits perfectly with our scenario and the considerations that will be put forward in a forthcoming paper about the original land of the Sumerians. Now, to introduce our identification of Mount Mashu, let us recall some war events of the 20th century. At the beginning of 1949 the armies of Mao Tsedong were already in control of the whole eastern part of continental China. On the western part Tibetans in the south still hoped they could keep their ancient autonomy, while in the north, along the corridor Xining-Lanzhou, a muslim army led by general Ma Pufang tried to stop the advance of a Chinese army led by Lin Biao. The muslim army was quickly routed, and Xinjang returned under the firm control of Beijing. The way was then opened for the Chinese army to enter Tibet, via the eastern, warriors inhabited, Kham and Amdo regions. During the few months when Ma Pufang army still hoped to stop Lin Biao, Leonard Clark, an American military envoy by 266 Ma Pufang, tried to ascertain whether it would have been possible to continue resistence against the communists from the northern Tibetan territory. Clark made a recognition of northern Quinghai, particularly of the Tsaidam Basin, rich of rivers and lakes, including two lakes, Gyaring Hu and Ngorin Hu, formedby the Yellow River at about 100 km from its multiple sources. This region was inhabited by a Tibetan tribe called the Ngolok (also spelled as Gu-Lok, Go-Log, Mgo-Log), who still practiced the ancient Tibetan pre Buddhist religion named Bon-Po, and who were excellent horsemen and fighters. The territory of the Ngolok included a great mountain range sacred to them and closed to foreigners. The range is over 300 km long and, except for the northern part, is surrounded by the Yellow River that defines its border for over 800 km. The name of the mountain is so given in the following atlases: - ANYE MAQEN SHAN, in the Atlas of People's Republic of China (APRC) and in the 1992 National Geographic Atlas (Maquen is pronounced as Machen) AMNE MACHIN Range and ANI MACHING Shan, in the quoted 1974 Times Atlas - AMNIE MACHIN, in the Grande Atlante Geografico, M. Beretta and L. Visintin editors, Istituto Geografico De Agostini, 1927 - AMNIA MACHER, in the book Dach der Erde, Berlin, 1938, quoted by Messner (1999). In Richardson (1998) the mountain is spelled as A-MYES RMA-CHEN and the local name of the Yellow River is spelled as RMACHU. The Yellow rivers, which braces most of the range, has also a special local name, written as follows: - MACHU, in The Times Atlas, 1895 (no local name is given in the 1974 edition) - MAQU (read as above), in the APRC Atlas. Now we can linguistically accept the equivalence between MAQU=MACHU with the Gilgamesh epic word MASHU, especially since these wordings do not completely characterize the exact local prononciations, which moreover certainly has local variations and changes in time. The term ANI, ANYE (ANY-E ?, E turkish-like dative suffix?) is intriguingly suggestive of the Sumerian name of the god ANU, the head of the Sumerian pantheon. Changes from I to U are linguistically well documented, e.g. in the well known iotization undergone by modern versus classical Greek and in some transitions from Arabic to Farsi in personal names (e.g. ADHUB becomes ADHIB, HAMUD becomes HAMID..). Hence on linguistical grounds the sacred mountain of the Ngolok can be equated with the sacred Sumerian Mashu, a relation reinforced by the additional reference to ANI=ANU. Thus we may conclude that the sacred mountain of the Ngolok fits the basic requirents for an identification of Mashu (a sacred place; a place in the east; a place named Mashu) and we propose, using also Temple's claim, the following translation of the name/names of the sacred mountain: ANYE MAQUEN = ANU MASHU 267 = the place of god Anu, where the Sun rises . We might even infer the identification ANU MASHU = NIMUSH, Nimush being the name of the mountain where Ziusudra (alter ego of Utanapishtim in the older versions of the epic) landed his boat, thus confirming the assertion that we made elsewhere (Spedicato, 1991) that Noah and Ziusudra are distinct survivors of the Flood, by them experienced in quite far away lands, Noah in eastern Anatolia, Ziusudra in the heart of Asia. That many boats were built to survive the Flood and that more than one of them survived the event is stated in Talmud and in Midrashim, and additionally in the Koran. Having thus identified the final destination of Gilgamesh second trip, let us make an educated guess on his route from the Zungarian Gates. - In a general east-east-south direction, for about 3000 km, pointing to the "great sea" in the Hittite text translation by Friedrich, that we can now identify with a real great sea, namely the Pacific Ocean. - Skirting the northern side of the Tien Shan for about 500 km. This part of Zungaria has several oasis and rivers and at Gilgamesh time was probably even more rich in water than now. Notice that the name Zungaria comes from the Mongolian JA'UN-GHAR and corresponds to the Chinese PE-LU, which is Northern Road. - Crossing into the Turfan depression by way of an easy pass where the city of Urumchi is now located. The Chinese name of Urumchi is TIWA or TI-HOUAS (see Atlas Classique de Géeographie, Monin, Paris, 1839-1840). Allowing by metathesis the change TI in IT and noting that W = HOUA is a liquid vowel, essentially a consonant, we can claim the virtual identity of TIWA with ITLA, thereby retrieving the information in the Hittite text according to Friedrich. Notice moreover that the present name Urumchi may be considered equivalent via the allowed transition fron R to L to ULUMCHI, ULUM being intriguingly similar to the name of the god ULLU to which the place was sacred, according to the Hittite text, CHI meaning in mongolian "place" (place of good grazing is presently considered to be the meaning of the word Urumchi). - Reaching Dunhuang, about 1000 km to the south-east, by way of the great oasis of Hami and Anxi. Notice that Dunhuang is an historically very important town, famed for the One Thousand Buddhas, but more importantly for the invaluable cache of some 60.000 scrolls by chance found hidden behind a wall in a monastery around 1920, many of them about 1500 years old, among them the first documents found written in Tocarian, a previously unknown new indoeuropean language. - From Dunhuang there are several routes into the Tsaidam Basin and then to Anye Maqen, a distance of about 1000 km. It is a region of elevation between 2000 and 3000 meters, rich of marshes, lakes, rivers, game and minerals. Lakes should be noted (or so were at the time Clark saw them) for the incredible transparency of their waters, allowing to see their bottom at great depths, and for the beauty of big richly coloured fish, never disturbed or eaten by the local population. This region, as is true for most of Tibet, is also full of aromatic medicinal plants The area is also rich in rare minerals, 268 including uranium ore. Perhaps these special features may explain certain "esoteric" details characterizing the region where Gilgamesh met Utanapishtim. From Anye Maqen the return to Uruk can be accomplished over water. First by following the Yellow River, which is a rather peaceful river, without the dangerous gorges and currents found for instance in the Yang Tze-Kiang. Then by coasting China, Indochina, India and Makran to Uruk via a short stretch of the Euphrates. Certainly a rather long trip, some 15.000 km, but without any real great difficulties, the main danger after Gilgamesh time for this trip coming from piratery, a profession certainly not yet developed at his times. Acknowledgements This paper (parts I and II) would never have been written without the following contributions: - the corpus of all Gilgamesh texts provided by Pettinato - the Hittite text version of Friedrich in Sitchin (our itineraries differ from those proposed by Sitchin) - the relation of LBN with "milk, dairy products" and the rendering of PRT as PAROT is due to dr. Lia Mangolini, as PERATH is due to Antonio Agriesti - the information on the Hunza valley has come by Agriesti, who, having studied many languages, helped much in the analysis of etymology of some words - the information on Anye Maqen came via my aunt Amelia Risso and my late uncle Umberto Risso's unquenchable thirst for books, among which I found the book by Clark - the information on the solfatara near Urumchi comes from Mariuccia Risso's inspection of the Marmocchi's four volumes, bought years ago by my uncle Umberto Risso. References D. Fasold, The ark of Noah, Wynwood Press, New York, 1988 J. Friedrich, "Die hethitischen Bruchstueckes des Gilgamesh-Epos", Zeitschrift fuer Assyriologie, 49, 1930 L. Grégoire, Géographie Générale, Garnier, 1876 S. Hedin, Il lago errante, Einaudi, 1943-XXI O. Lattimore, The desert road to Turkestan, Little, Brown and Company, 1929 (also by Kodansha International, 1995) F. McLean, Eastern approaches, Jonathan Cape, London, 1949 269 F.C. Marmocchi, Geografia Universale, SEI, Torino, 1856 G. Pettinato, La saga di Gilgamesh, Rusconi, 1992 L. Pagani (editor), Cosmographie, Tables de la Géographie de Ptolémé, Bookking International, 1990 W. Ryan and W. Pitman, Noah's Flood. The new scientific discoveries on the event that changed history, Simon and Schuster, New York, 1998 Z. Sitchin, The stairway to heaven, Bear and Company, Santa Fe, 1980 E. Spedicato, Apollo objects and Atlantis, a catastrophical scenario for the end of the last glaciation, NEARA Journal 26, 1-14, 1991 E. Spedicato, "Who were the Hyksos?", C\&C Review 1, 55, 1997 G. Tucci, La via dello Swat, Newton Compton. 1978 Appendix: on the meaning of KA It is now believed by many language specialists, in the aftermath of the seminal work done by professor Joseph Greenberg of Stanford University, that all human languages descend from a single original language, paralleling the recent discovery, by sophisticated genetic analysis (of mithocondrial DNA and of the Y gene), that all present humans descend from a single woman and a single father, who lived an estimated circa 200.000 years ago. The work of Greenberg has led to group the existing and the known extinct languages in different levels of families and superfamilies, one of which,called the Afroasiatic family, includes hamitic, sitic, indoeuropeans, turkish and other previously defined families. Here we claim that the syllable KA should be related to an afroasiatic word vowel - K vowel with the general meaning of people, clan on the basis of the following arguments: - the great anthropologist Luca Cavalli Sforza, of Stanford University, spent many years researching a tribe of Pygmies living in Cameron; as many other "primitive" people, these Pygmies called themselves AKA, a word meaning simply "people" - there are four main tribes in Ghana who speak a common language, whose name, AKAN, means "of the people" - a very interesting "primitive" tribe of hunters lived on a sacred mountain at the border of Uganda, Sudan and Kenya. It was led to extinction when the British prohibited their ancestral way of life based on hunting. They called themselves IK, presumibly meaning "people", albeit the meaning of this name is not given in Turnbull (1972), the anthropologist who studied them. This tribe had anthropometric features unrelated to those of the surrounding Bantu tribes and a language apparently close to that of ancient Egyptians 270 - the work IK means "clan" in several dialects of the Berbers and in Guanche - the Khazars had two leaders, one, the Bek, involved in administrative matters, another, the Kagan, involved in religious matters. Now the acceptable equivalences KA-GAN = KA-HAN (a Hebrew name) = CO-HEN (a high priest in Levi's tribe)= KA-HN (the king of Mongols) = CAC- ANUS (the latin name used by Paulus Diaconus with reference to the chiefs of the Avars, by him related to the Huns) seem all to have the same original meaning, that we interpret as AN = divine light, KA = of the people, in perfect correspondence with the actual role associated with these names - perhaps the original meaning of the term Inca is IN-CA=AN-CA,= divine light of people - the Afghani are divided into differently named tribes, but share, or at least shared till about half of 19th century, the common name Aklai = AK-LAI, where the exact meaning of LAI is not clear to me (perhaps by metathesis it is related to AK-EL, i.e. "divine people", "people of the gods"); in a future paper we will argue that the land where Sargon II relocated most of the 10 tribes deported from Samaria was Afghanistan/Kashmir, hence explaining the proposed origin of the word Aklai and the presence of many clearly hebraic words in local topography and in the Pashtun language - one of the tribes living in Swat (a mountain province of Pakistan, whose name derives from sanscrit Suvasto, country of the beautiful buildings) is called locally Assaka, the Assakenoi of the Greeks, see Tucci (1978). Now ASSA (prascrit) = ASVA (sanscrit) = ASPA (old Persian), means "horse", implying, with our interpretation of the word KA, the expressive meaning people of the horses. It is known that the Chinese called the invading Mongols of Gengis Khan the People of the Horses. In Spedicato (1997) it has been argued that the real meaning of the word Hyksos, the fierce warriors that invaded Egypt at the end of the 13th dynasty, is also People of the horses, from HYK = AK and SOS = SUS (hebrew) = HORSE. In the framework of this interpretation we can also propose that the Saka people who invaded Sistan were the same as the Assaka, and even that such a meaning is behind the name Kazakh (an eastern Kazakh tribe is still named Sachs). ----[The first part of this paper has been published in Episteme, N. 1, June, 2000] 271 RECENSIONI 272 Giordano Bruno e il mistero dell'ambasciata Filosofi e spie, eretici e principi, intrighi e congiure nella Londra di Elisabetta I (John Bossy) (Garzanti, 1992) "La difficoltà è quella, ch'è ordinata a far star a dietro gli poltroni. Le cose ordinarie e facili son per il volgo ed ordinaria gente; gli uomini rari, eroichi e divini passano per questo camino de la difficoltà, a fine che sii costretta la necessità a concedergli la palma de la immortalità. Giungesi a questo che, quantunque non sia possibile arrivar al termine di guadagnar il palio, correte pure e fate il vostro sforzo in una cosa de sì fatta importanza, e resistete sin a l'ultimo spirto. Non sol chi vence vien lodato, ma anco chi non muore da codardo e poltrone: questo rigetta la colpa de la sua perdita e morte in dosso de la sorte, e mostra al mondo che non per suo difetto, ma per torto di fortuna è gionto a termine tale. Non solo è degno d'onore quell'uno c'ha meritato il palio, ma ancor quello e quell'altro c'ha sì ben corso, ch'è giudicato anco degno e sufficiente de l'aver meritato, benché non l'abbia vinto. E son vituperosi quelli, ch'al mezzo de la carriera, desperati si fermano, e non vanno, ancor che ultimi, a toccar il termine con quella lena e vigor che gli è possibile. Venca dunque la perseveranza, perché, se la fatica è tanta, il premio non sarà mediocre. Tutte le cose preziose son poste nel difficile. Stretta e spinosa è la via de la beatitudine" (Giordano Bruno, La cena delle ceneri, Dialogo II). Soltanto un anno fa ricorreva il IV centenario del rogo di Giordano Bruno a Campo dei Fiori, e nell'occasione fiumi di inchiostro sono stati versati sulla figura del Nolano, per lo più1 trasfigurata in quella di eroe e martire della "modernità" e del "progresso", il cui avvento fu fino all'ultimo momento combattuto dalle forze della superstizione e dell'ignoranza. Conformemente a una diffusa versione ingenua dell'accaduto, Bruno sarebbe stato processato e condannato per aver appunto sostenuto, del tutto "innocentemente", talune opinioni banalmente vere, che sono oggi proprie di ogni bambino delle elementari: il fatto che la Terra gira intorno al Sole, l'infinità dell'universo, la molteplicità dei " soli" e dei mondi, etc.. Un buon cattolico, o meglio un "buon cristiano", insomma - Bruno fu anche sacerdote - che ebbe l'unico torto di voler anticipare il riconoscimento di qualche "verità" inconfutabile secondo il metro della "ragione", diventando così, come più tardi Galileo, un eretico per l'ottusa ortodossia del momento, la quale reagì con la consueta inesorabile ferocia. Fedele al suo assunto costante di presentare ai lettori informazioni controcorrente, ma attendibili, capaci quindi di innescare un processo di revisione dell'opinione comune, Episteme propone adesso un'altra opera singolare, che mette in una luce completamente diversa la personalità, e le intenzioni, del celebre domenicano (palesemente "apostata"), dando senso, e coerenza, all'opposizione della Chiesa nei suoi confronti, e al fatale esito che ne fu conseguenza. 273 L'autore del libro in oggetto, prezioso in ogni caso per chi voglia avere una concezione realistica dei tempi, e dei conflitti ideologico-politici che li travagliarono, non è però stavolta uno di quei ricercatori indipendenti, non integrati, ai quali siamo tanto affezionati. Bossy (1933) ha studiato a Cambridge e a Belfast, è stato professore di storia all'Università di York, uno specialista dell'età della Controriforma. Che cos'ha da dirci di originale, questo accademico, sulla vicenda terrena di Giordano Bruno? Introduciamo qualche "punto fisso" come riferimento. Tutto comincia quando gli Inglesi si liberano dalla "tutela" della Chiesa di Roma con l'Atto di Supremazia (1534), prendendo a pretesto2 la famosa questione del divorzio di Enrico VIII dalla spagnola Caterina d'Aragona in favore di Anna Bolena. Soltanto pochi anni prima (1517), il monaco agostiniano Martin Lutero aveva affisso le sue famose 85 Tesi al portale della chiesa di Wittemberg. La Chiesa di Roma si trova a dover fronteggiare la più violenta crisi, teologica e politica insieme, contro la sua supremazia da Costantino in poi. E' in questo clima che nasce a Nola (1548), nei pressi di Napoli, Filippo Bruno, che giovanissimo (1565) veste nella città partenopea il saio domenicano assumendo il nome di fra' Giordano. La smania di emancipazione dai successori di Pietro dilaga per l'intera Europa, e Paolo III cerca di arginare l'emergenza aprendo i lavori del Concilio di Trento (1545, lo stesso anno della morte di Lutero). Intanto in Inghilterra la situazione precipita: nel 1558 sale al trono Elisabetta I, figlia di Enrico VIII e di Anna Bolena, la quale emana immediatamente (1559) l'Atto di Uniformità, con cui si proibisce ogni forma di culto che non sia quello anglicano 3. Comincia un grave periodo di tensione tra cattolici perseguitati ("papisti") e potere centrale (l'articolo di Stevan Dedijer pubblicato sul secondo numero di Episteme - "The Rainbow Scheme - British Secret Service and Pax Britannica" - ne offre una vivace drammatica descrizione). Pio IV scomunica Elisabetta I (1570), definita "eretica e nemica della Chiesa di Dio", ma gli atti di violenza, da una parte e dall'altra, non accennano a cessare. Si susseguono le congiure per assassinare la regina, e le terribili conseguenti repressioni. Sullo sfondo, l'aspra lotta per il trono (Elisabetta I fa decapitare Maria Stuart, 1587), e l'inizio della sfida militare tra l'Inghilterra protestante e la Spagna cattolica (gli inglesi appoggiano l'insurrezione antispagnola nei Paesi Bassi capeggiata da Guglielmo d'Orange-Nassau 4; il 1588 vede la distruzione della cosiddetta Invincibile Armata ad opera delle forze navali britanniche). Fra tutto questo clamore di guerre, quali eventi segnano invece la modesta vita del nostro povero ma turbolento monaco campano5? Nel 1572 prende gli ordini sacerdotali, però è manifesto che i suoi talenti sono piuttosto quelli dell'intelletto, e della polemica. Nel 1575 si laurea in teologia, e subito, accusato d'eresia, è costretto a fuggire (1576). Trova riparo a Roma, ma anche nella città eterna continua ad essere in mezzo ai guai: viene infatti implicato nell'omicidio di un religioso, e deve scappare ancora una volta, dopo aver abbandonato l'abito talare. Soggiorna a Genova, Venezia, Padova, Bergamo, dove torna a indossare la veste, salvo dismetterla di nuovo quando si reca a Ginevra e si accosta al calvinismo (1578). Nel 1579 è a Tolosa, nel ruolo di pubblico lettore di filosofia, e nel 1581 a Parigi. Dalla capitale francese si sposterà in Inghilterra, al seguito dell'ambasciatore di Francia Michel de Castelnau, ed è proprio in questo momento che l'attenzione di John Bossy si porta su di lui. Siamo in pieno conflitto tra i "papisti" e i seguaci della regina, paranoicamente ossessionati dal sospetto (peraltro fondato) che si cercasse in tutti i modi di ucciderla. Le contromisure sono estese e spietate, e non meno atroci del rogo usato dai "romani" a scopo di purificazione. Si veda per esempio, nel citato articolo di Dedijer, la sentenza con la quale furono mandati a morte (1583), dopo essere stati torturati, Edmund Campion e altri gesuiti suoi compagni. Dallo stesso articolo (nella sezione: "England's Ragione di Stato versus Vatican's Ragione di Chiesa") citiamo: " According to the Encyclopedia Cattolica of 1953, 274 "by 1600 over 1000 young English priests were trained and sent to England" by Allen and Persons to support the Catholic, and hence the Spanish cause against Elisabeth and her government. The English government saw to it that the English colleges in Rome, Rheims, and Douai were as Bacon would say "full of spies and false brethren." In England itself, with the support of a considerable section of the population, these priests and their "recusant" Catholic supporters were tracked, hunted, imprisoned by government "searchers" in the ports, professional informers, agents and officials. According to the Encyclopedia "During her [Elisabeth's] reign the number of Catholics who suffered [death] was 189, of whom 128 were priests, 58 laymen, 3 women." The brutality and severity with which Elisabeth's government dealt with these priests was extreme". Bruno appare sulla scena di simili gesta tra il 1583 e il 1585, ed è esattamente in quegli anni che il servizio di sicurezza di sua maestà, diretto da Francis Walsingham, trova un valido occulto collaboratore in un certo Henry Fagot, nom de plume di una persona che denuncia attraverso sue relazioni scritte6 i "congiurati" cattolici, e consente alle guardie governative di arrestarli e metterli fuori gioco. L'azione di tale misterioso agente segreto, emulo della migliore tradizione7 dei britannici 007, cessa improvvisamente proprio quando Bruno lascia l'Inghilterra per rientrare a Parigi8, non senza aver prima permesso agli inglesi di sgominare un'altra cospirazione - quella capeggiata da William Parry (morto sul patibolo nel marzo 1585). Saranno certamente bastate queste poche righe per far comprendere a chi ci ha seguito fin qui il proposito del bel libro di cui stiamo parlando, alla ricerca della vera identità del fantomatico Fagot, e delle sue motivazioni, che appaiono più ideali che non materiali. Un lavoro che si legge d'un fiato, alla stregua di un giallo, tutto teso com'è alla risoluzione di un reale enigma storico, che sarebbe forse rimasto per sempre avvolto nelle nebbie dell'oblio, se non fosse stato per l'intelligente indagine postuma dello storico di York, che conduce alla sorprendente conclusione della quale l'autore si dice infine totalmente persuaso, e con lui sicuramente molti dei suoi lettori: Febbraio del 1600, Fagot al rogo. Sicuro, si tratta di una ricostruzione indiziaria - né può essere altrimenti - ovvero di una "congettura", che Bossy descrive con le seguenti ammirevoli parole: "Fino a questo momento abbiamo ripercorso i destini di due uomini, sia a Londra che a Parigi, per circa tre anni. I due avevano molto in comune. Entrambi erano italiani, ed entrambi erano sacerdoti cattolici. Entrambi vennero ad abitare da Castelnau a Londra verso l'aprile 1583, e in seguito prestarono servizio nella casa. Entrambi erano molto ostili al papato, alla Spagna e alle congiure cattoliche in Inghilterra. Entrambi incontrarono personalmente la regina Elisabetta ed entrambi scrissero di lei, dichiarandole, in termini esagerati, la loro devozione9. Entrambi lasciarono l'Inghilterra per Parigi insieme a Castelnau nel settembre del 1585, ed entrambi smisero di stare al suo servizio poco dopo essere arrivati a Parigi. Nel 1586 uno dei due partì da Parigi per l'ultima volta, e l'altro scomparve. Sembrano possibili due spiegazioni di queste vite parallele. O si trattava di due uomini molto vicini l'uno all'altro per origini, sentimenti, esperienze e movimenti, i quali vissero nella stessa casa per due anni e mezzo; e in questo caso dovevano diventare molto amici o darsi reciprocamente sui nervi. Oppure i due uomini erano in realtà lo stesso uomo" (JB, p. 97 - enfasi del recensore). 275 Chi vorrà potrà sempre naturalmente dichiararsi non convinto della verità di questa tesi, e richiedere prove maggiormente circostanziate, ma la messe di dati che Bossy mette a disposizione degli studiosi disposti a recepirli è davvero ingente, in un lavoro che è scrupoloso, appassionato, e corredato di tutta la documentazione opportuna (comprese numerose riproduzioni fotografiche). Non diciamo di più per non togliere il piacere di ammirare la rigorosa catena di deduzioni a chi deciderà di scorrere un saggio storico che è al tempo stesso un romanzo, ma vogliamo concludere offrendo qualche ampia citazione dal testo sui possibili moventi concettuali del Bruno, allo scopo di far comprendere meglio, su "dati di fatto", quanto forte fosse l'avversione che egli nutriva nei confronti dell'intero cristianesimo (ed errata quindi l'interpretazione che lo rappresenta - al pari di Galileo, ma si tratta di un'altra faccenda, di cui si dà un cenno altrove in questo medesimo numero di Episteme - come la solita "brava persona" assolutamente ignara di intrighi, colpevole solamente di aver creduto e divulgato delle banali verità naturali), e sulla sua multiforme e decisa personalità, anche spietata nella misura che era forse necessaria per sopravvivere in tempi altrettanto spietati. "L'unico movente di tutte le iniziative nelle quali abbiamo trovato coinvolto Bruno, era la distruzione del papato e di tutte le sue opere. E' il filo conduttore di tutte le lettere e di tutte le informazioni di Fagot [...] Il papato è il nemico universale, tiranno che opprime gli uomini, le coscienze e i beni, mandante di assassini e di traditori, sedicente "signore del mondo". I papisti e i "romani" sono i nemici, i libri filopapali sono propaganda nemica, "l'église papalle" qualcosa di abominevole. Alla luce della sua spietata ossessione, possiamo sospettare che quei contemporanei che pensavano che il papa fosse la "bestia trionfante" di cui veniva profetizzata la rovina nello Spaccio della bestia trionfante, fossero più vicini alla verità degli studiosi moderni che hanno pensato che il simbolo della bestia indicasse qualcosa di diverso. Bruno scriveva nella sua ultima lettera a Stafford che il loro compito era "di arrecare danni al nemico e di fiaccarlo con ogni mezzo possibile", e che, a suo avviso, qualsiasi mezzo era giustificato" (JB, p. 177). "Castelnau non fu l'unica persona che Bruno tradì. Il Nolano tradì tutti quelli ai danni dei quali trasmise informazioni; in qualità di prete, tradì almeno una persona, che gli si presentò; o tradì, o si offrì di tradire, almeno un altro sacerdote e il suo ospite, che, se trovati colpevoli, sarebbero stati condannati entrambi per tradimento. Queste delazioni erano le conseguenze del suo tradimento di Castelnau: una cosa portava all'altra. Il suo tradimento di Enrico III non fu disonorevole quanto quello di Castelnau, perché non aveva vissuto sotto lo stesso tetto con il re per due anni e mezzo e più. Ma, salvo che non facciamo l'ipotesi, che sembra del tutto ingiustificata, che Enrico III lo avesse mandato a Londra a fare proprio quello che fece, si trattò effettivamente di tradimento. Non si trattò neanche di un semplice tradimento in ambito pubblico, perché il re, come Castelnau, era suo amico ed era molto gentile con lui. Mi soffermerò tra poco sui loro rapporti: furono onorevoli per Enrico III e disonorevoli per Bruno. Bruno non era un bugiardo nato, come potrebbero supporre i lettori del suo processo: disse a Walsingham e a Stafford la verità, come aveva promesso loro di fare, sebbene qualche volta dicesse un po' più della verità. Sappiamo che mentiva sotto interrogatorio, e ora possiamo aggiungere una grossa bugia nel suo interrogatorio più importante (quella del suo esercizio delle mansioni di sacerdote e dei sacramenti), e un interrogatorio minore (quello di Chateauneuf), nel quale mentì sistematicamente. Questo non è disonorevole per lui; può, tuttavia, rendere le cose più difficili per gli storici. Penso che mentisse abbastanza spesso e con una certa naturalezza 276 [...] Nei casi nei quali ci siamo imbattuti, mentiva con uno scopo, e non ci possono essere dubbi su quale fosse questo scopo" (JB, p. 176). "Se vogliamo tentare di scoprire che concezione Bruno avesse della sua condizione di sacerdote, ci troviamo ad affrontare un grosso problema, che non avevamo prima. A Venezia egli disse ai suoi compagni di prigionia di essere un nemico della messa e di considerare ridicola la transustanziazione e bestiali e blasfemi i riti cattolici. Paragonava l'elevazione dell'ostia all'impiccagione di un uomo, o forse alla pratica di sollevarlo con un forcone. Disse a qualcuno che aveva sognato di andare a messa che questo era un pessimo auspicio; rappresentò una farsa di una messa usando l'Ars Amandi di Ovidio come messale. Si prese gioco di preti affamati che uscivano dalla messa per andare a consumare una lauta colazione. Disse tutto il male possibile della messa intesa come sacrificio, e affermò che Abele, il modello del prete che sacrifica, era un macellaio criminale che venne giustamente ucciso dal vegetariano Caino. Una frase, che usò altrove, apparentemente sulla passione di Cristo e non esattamente sulla messa, sembra ugualmente esprimere con una certa precisione il suo giudizio sul rito: lo definì "non so che tragedia caballistica". Disse anche che il breviario era pieno di spazzatura, di favole e di pornografia, e che nessun uomo dignitoso poteva recitarne le preghiere: chi le aveva scelte, chiunque fosse, era un "becco fottuto", e Bruno certamente non le avrebbe recitate. Nell'insieme, le caratteristiche della condizione sacerdotale cattolica sembrano bestiali e perverse, non diversamente da come ce le si può aspettare da un clero governato dal papa. Ora, però, noi sappiamo che Bruno trascorse diciotto mesi della sua maturità, e per essere precisi i momenti in cui stava componendo le sue opere più famose, esercitando professionalmente questo ministero farsesco e disonesto a Londra. Sappiamo che diceva messa per Castelnau, per i suoi domestici, e per chiunque altro si presentava, ascoltava le loro confessioni e somministrava loro la comunione pasquale; presumibilmente fu proprio lui a sfregare le ceneri sulle loro fronti il mercoledì delle Ceneri e a battezzare la figlia di Castelnau [...] Faceva visita alle prigioni e - suppongo - distribuiva l'elemosina di Castelnau ai cattolici indigenti. Sembrava che leggesse il breviario, per lo meno prima di addormentarsi. Quando affermava di non avere nessun compito a Salisbury Court, salvo fare da "gentiluomo" di Castelnau, non diceva la verità; o piuttosto faceva sua la formula che Castelnau aveva inventato per presentarlo sistematicamente in pubblico [...] Si possono fare ipotesi su come Bruno può aver vissuto la sua condizione: che la ritenesse una routine nauseante, o uno scherzo, o un eccellente vantaggio per esercitare la sua professione di spia" (JB, p. 206-207 - enfasi del recensore). "Quello che Bruno aveva quasi sempre detto era che agli uomini si deve far subire quello che loro stessi hanno fatto agli altri; e lo credeva. Questa sua convinzione rende conto della sua avversione alla dottrina della remissione dei peccati per fede e della sua ossessione per quella della trasmigrazione delle anime [...] Bruno riscrisse il discorso sulla montagna per poter affermare che se qualcuno ti ha dato uno schiaffo su una guancia, tu glielo devi restituire. Non poteva però credere che la regola dovesse essere applicata a lui stesso [...] Ma la regola si è vendicata di lui; possiamo dunque affermare, dopo aver ribadito tutta la nostra comprensione, che ben gli è stata la sua sorte" (JB, pp. 218-219 - enfasi del recensore). 1 - A parte quelle provenienti dalle associazioni laiche, ispirate al "libero pensiero", etc., non sono mancate naturalmente neppure interpretazioni alternative, dall'altra sponda. Ricordiamo per 277 esempio l'intervista, a cura di Cosimo Baldaro e Cosimo Galasso, al Prof. Stanley L. Jaki O.S.B. (cosmologo e storico della scienza, insignito nel 1970 del premio Lecomte du Nouy e nel 1987 del premio Templeton per la Religione), sul tema: Giordano Bruno "martire della scienza"? (in http://www.alleanzacattolica.org/indici/dichiarazioni/jakis299.htm). 2 - Come non considerare questa una ben misera motivazione per un evento così importante? Citiamo soltanto il suggestivo eloquente titolo di un articolo pubblicato su Il Sabato (Antonio Socci, 5 Dicembre 1992): "Il terzo incomodo - Il sacerdozio femminile riapre il contenzioso tra Chiesa cattolica e anglicana. Che ha avuto un intruso interessato per quattro secoli: la massoneria. Ecco un po' di storia" (si noti l'intenzionale "anacronismo": nel 1534 la massoneria "ufficialmente" non esisteva ancora!). 3 - E' invece del 1563 il rinnovo da parte di Elisabetta dell'Atto di Supremazia, che rafforza la subordinazione della Chiesa d'Inghilterra alla Corona. 4 - Un Guglielmo d'Orange diventerà addirittura re d'Inghilterra (e d'Olanda) un secolo più tardi, nel 1689. 5 - In quanto segue ci gioviamo della snella opera di Gabriele La Porta dedicata a Giordano Bruno vita e avventure di un pericoloso maestro del pensiero (Newton Compton 1988; Bompiani, 1991). 6 - Ecco come esempio due delle comunicazioni di Fagot (JB, pp. 254-255 - con questa sigla si rimanderà alla prima edizione italiana del libro in esame): "Monseigneur, con questa lettera intendo trasmetterVi l'informazione sicura che il Signor, l'Economo [della Casa Reale] ha un servitore di nome Monsieur Morris, che risponde agli ordini dell'ambasciatore. Morris riferisce a Castelnau le notizie di corte, di cui viene a conoscenza dal suo padrone. L'ambasciatore lo paga per le sue soffiate e per tutte le novità di corte, che Morris gli riferisce. L'ambasciatore è molto contento di Morris e lo definisce suo compagno e suo buon amico. Questo Morris è un papista convinto ed è amico di Monsieur Tindalle, e Vi assicuro che, se verrà interrogato, rivelerà molte cose. Tenetelo molto sotto controllo. Vi consiglio di fare attenzione a Monsieur Douglas perché viene pagato dall'ambasciatore. Henry Fagot"; "C'è un uomo rinchiuso nella prigione Fleet, che è un papista convinto. Questi mi ha detto che ringraziava Dio, perché Monsieur Throckmorton [giustiziato nel novembre 1583] non aveva detto la verità di quello che sapeva. Se lo avesse fatto, tutti i papisti si sarebbero trovati nei guai. Il suo nome è M. Huton; è un gentiluomo irlandese. Laurent Feron ha ricevuto denaro dall'ambasciatore. L'ambasciatore intende recarsi in Scozia; ma tenetelo d'occhio e tentate d'impedirglielo. Ho in serbo notizie segrete che vi svelerò più tardi. E' tutto vero, in fede". 7 - Sulle qualità di Bruno come spia, Bossy si esprime nel seguente modo (JB, p. 171): "Per essere schietti, Bruno fu un agente molto brillante. Come spia, era molto professionale e di grande successo. Era attento, paziente e prudente. Si valeva dei suoi talenti sociali, che erano effettivamente notevoli, per ottenere risultati eccellenti. Non permetteva, in generale, che i suoi sentimenti interferissero con il lavoro. Anche se ha, o forse si coltivò una reputazione di gran parlatore e di vanaglorioso, non parlò mai delle sue imprese nello spionaggio, né se ne vantò, né allora né più tardi. Nessuno lo scoprì. [...] Dopo essere tornato a Parigi, Bruno corse dei rischi, forse a causa delle pressioni di Chateauneuf, forse perché gli mancava la guida di Walsingham; ebbe, però, la capacità di capire dove fermarsi, di defilarsi e di andarsene in Germania. Siccome era una spia di eccellente valore, nessuno fino ad ora ha avuto gli elementi per poter commentare la sua prestazione; solamente in retrospettiva, si capisce che proprio Bruno in persona espresse la sua opinione in merito, in due brani delle sue opere pubblicate, e lo fece con legittimo compiacimento. Il primo è il brano sulla dissimulazione dello Spaccio: è la chiave di lettura della nostra storia [...] Il secondo è all'inizio del terzo dialogo della Cena, è quindi precedente, e fu composto quando i successi in clandestinità erano ancora molto recenti. [...] si discute se Bruno conosca l'inglese. Teofilo dice che non lo conosce, perché non è degno di un uomo di scuola. In risposta Frulla, il servitore che ha la 278 funzione di intervenire facendo affermazioni inopportune e improntate da saggezza popolaresca dice di essere certo che Bruno in realtà capisce l'inglese, ma che asserisce di non intenderlo alfine di ascoltare che cosa stanno dicendo gli altri, quando pensano che non li capisca. Non sarei molto sorpreso se questa fosse la semplice verità". 8 - L'ultima delle lettere di Fagot proviene da Parigi, nel 1586, dove il fantomatico personaggio svolse certamente attività spionistica (JB, p. 121), ancora una volta proprio mentre nello stesso luogo si trovava il Bruno. "Se Fagot scrisse altre lettere in seguito, non ne è rimasta traccia" (JB, p. 87). 9 - Nota del recensore. Di questa devozione resta un ben preciso documento, una lettera indirizzata da Bruno alla regina, intestata: "En la serenissime Royne d'Angleterre, France et Yrlande salut, bonne, longue et heureuse vie. Amen". Leggiamo il commento che ne fa Bossy: "La lettera termina solennemente in latino: "Deus adjuvat te et maneat tecum omnibus diebus vite tue. Amen". [...] Ne deduco che, a parte la forte impressione personale che Elisabetta fece su di lui, Bruno si era fatto un'idea abbastanza chiara della regina e della propria relazione con lei. Era, per così dire, giustificato a dire agli inquisitori che non pensava che Elisabetta fosse divina; ma era convinto che fosse sacra. Non era sacra semplicemente perché era una regina [...] Era sacra in parte per il fatto di essere regina e per la sua personificazione delle virtù e delle caratteristiche che lui ammirava: ma lo era specialmente per la posizione che occupava, dove l'inviolabilità della sua persona e del suo governo simboleggiavano la presente sopravvivenza e la futura vittoria delle forze della luce e della verità su quelle dell'oscurità e dell'errore rappresentate dal papa, dal papato e dai papisti. La sua persona e il suo governo erano perciò oggetti della vera religione, e parlarne o agire contro era sia sacrilego, sia blasfemo. Il dovere di un vero religioso era proteggerla, difenderla e ostacolare i suoi nemici; il dovere di un vero sacerdote era di pregare e di sacrificare per lei, e di portare tutti i giorni della sua vita l'aiuto e la benedizione di tutti gli dèi. Sappiamo che Bruno pregava per lei e la benediceva; non sappiamo se sacrificasse per lei, ma non mi sorprenderei molto che lo facesse" (JB, pp. 205-206). (UB) 279 Cristo, una vicenda storica da riscoprire David Donnini (Roberto Massari Ed., Bolsena, 1994) (http://diaframma64.supereva.it/files/donnini.htm?p http://www.nostraterra.it) " [...] gli storici devono essere esatti, veritieri e spassionati; né l'interesse o il timore, il rancore o la simpatia devon farli deviare dal cammino della verità, di cui è madre la storia, che ben può essere detta emula del tempo, archivio dei fatti, testimonianza del passato, esempio e ammonizione del presente, insegnamento dell'avvenire" (Miguel de Cervantes, L'ingegnoso gentiluomo Don Chisciotte della Mancia, Parte I, Cap. IX) La recensione dell'opera di Flavio Barbiero La Bibbia senza segreti, apparsa sul secondo numero di Episteme, è stata accolta, com'era prevedibile, in modi assai contrastanti, talvolta addirittura "scandalizzati". E' parso allora opportuno, allo scopo di favorire ulteriormente il dibattito generale concernente l'origine storica delle "religioni rivelate", ebraismo, cristianesimo, islamismo (ovvero, le tre varianti di maggiore successo della religione monoteistica "di Abramo", o meglio sarebbe dire "di Mosè"), presentare ai lettori le ricerche di un altro studioso "indipendente", David Donnini, il cui sito è ben noto agli appassionati di tali argomenti. Un'estesa "recensione" 1 che comprenderà diversi commenti al lavoro di questo autore, e anche due suoi brevi saggi sullo stesso tipo di questioni (dopo aver inizialmente rivolto la propria attenzione alla nascita e sviluppo del cristianesimo, Donnini è passato in modo naturale a investigare l'Antico Testamento, cioè l'ebraismo, che è la radice al principio di tutto), sicché si sarebbe potuto decidere che non c'era bisogno di aggiungere parole. Ci siamo sentiti però in dovere di far precedere il detto materiale da una sorta di "introduzione", dal momento che la discussione rimanda idealmente a taluni temi affrontati in sede di "presentazione". Non si può fingere infatti che quella qui trattata sia materia qualsiasi, dati i quasi 2000 anni di presenza - pure morale e politica - del cristianesimo nella storia dell'Occidente, e che esso tuttora assolve dottrinalmente una rilevante funzione di κατεχων (katéchon, "colui che trattiene", II Tess. 2,7) di fronte alle spinte dissolutrici della civiltà tradizionale 2 europea che provengono dai progetti mondial-liberisti, dall'ideologia riduzionista della globalizzazione totale (che appiattisce l'esperienza umana sul piano esclusivo dell'economia). Più importante di ogni altro aspetto ci è sembrato però, come sempre, stabilire, o ricercare, fin dove è possibile, la pura e semplice verità, nonostante il grave "prezzo sociale" che un'eventuale "verità scomoda" potrebbe esigere in pagamento 3. Lo stesso Donnini non è inconsapevole delle prevedibili "ricadute" indirette di studi quali i suoi, e a tale argomento dedica in effetti ampio spazio in sede di "Premessa" e di "Conclusioni" del suo lavoro, sicché ci è parso opportuno riproporre entrambe qui di seguito integralmente. L'autore sembra dare libero corso, senza impedimenti di alcun genere, alla sua brama di verità (e non di gratuita distruttività), ma oscilla anche tra i due corni di una delle inevitabili "antinomie" in cui ci si imbatte in siffatti frangenti, allorché si 280 rende ben conto che in mancanza di "pietose bugie" appare impossibile edificare una qualsivoglia struttura sociale4, o almeno che tale sforzo è stato vano fino al presente stadio di evoluzione dell'umanità. In ogni caso, certe storiche influenti "bugie" del passato non possono non essere ritenute ormai giunte al grado estremo della loro "funzionalità", e Donnini chiude (come si vedrà) il suo appassionato intervento con le parole: "Abbiamo bisogno di bugie più nuove. Speriamo che qualcuno le inventi presto". Un compito invero gigantesco, e parzialmente antinomico: da una parte, l'esigenza di ridimensionare un "mito", introdurre ragionevolezza, credibilità, nella storia; dall'altra, di escogitare qualche "favola" inedita. Chi scrive queste righe non saprebbe neppure da dove cominciare ad affrontare una simile impresa, ma ripete che spera si verifichi l'affermazione di una forma nuova (razionale) di spiritualità, sganciata da ogni tipo di menzogna (benevola o no che pretenda di essere, alla resa dei conti è la stessa cosa 5), che alcuni dei fondatori di Episteme hanno creduto per esempio di poter individuare in un pensiero ancora attuale (si potrebbe dire addirittura inesplorato) come quello di Cartesio… Torneremo, dobbiamo tornare, a discutere siffatti problemi, sia perché sono ben lungi dall'essere definitivamente risolti6, sia perché rivestono senza dubbio un'importanza capitale per la comprensione del percorso da cui la nostra civiltà proviene, e quindi delle strategie da mettere in atto per rispondere alle sfide che il futuro ci prospetta con evidenza e insistenza crescenti, costringendo a una sgradevole scissione mentale tra il legittimo desiderio di difendere e mantenere un'identità - e ammettiamo pure il "benessere" proprio di una civiltà avanzata - e la necessità di eliminare, o attenuare, il potenziale latente di conflittualità che a tale proposito si associa ineludibilmente (a quanto pare). Nel prossimo numero ospiteremo un nuovo straordinario articolo di Flavio Barbiero collegato alle tematiche in oggetto, sperando di non fare, di non aver fatto, il "gioco" di nessuno, contribuendo involontariamente a favorire posizioni e intenzioni difficilmente condivisibili, una volta che le si sia comprese a fondo7. Ciò purtroppo non è sempre facile: troppo spesso si rischia di essere "diminuiti non solo a strumento, ma a strumento inconscio di formazione di una realtà completamente diversa da quella per la quale si è combattuto" (ancora dal libro di Maria Caredio citato nella Nota N. 3) - e il "brutto" è che la descritta trasposizione potrebbe non avere un'origine casuale, involontaria, bensì essere conseguenza di una manipolazione, di una pre-visione, da parte di gruppi di accorti "registi" (prossimamente pure una discussione sulle ipotesi storiografiche di Maurizio Blondet, e i suoi strateghi della "dissoluzione"). 1 - In effetti, una recensione piuttosto anomala, e dalla struttura complessa, come il lettore si renderà subito conto, ma che paradossalmente, tra le diverse "mani" a cui è stata affidata, rischia di omettere anche solo un cenno ai punti più rilevanti delle originali argomentazioni di Donnini, quelli riguardanti per esempio la possibile esistenza di due Messia, ovvero due distinte persone, e non una soltanto, che la storia avrebbe successivamente fuso in una; l'inesistenza di una città di nome Nazareth; la vera famiglia di Gesù; etc.! 2 - Si fa notare, a chi è attento a certi "dettagli", che l'iniziale della parola è decisamente minuscola, come dire che non si vuol fare alcun riferimento a "leggende" su un presunto "sapere" sacro primordiale, che risale alla notte dei tempi, e sarebbe (ancora oggi) trasmesso per via iniziatica, secolo dopo secolo, attraverso diverse "fasi" della storia dell'umanità. 3 - Un "pagamento" c'è comunque stato, c'è sempre, non lo si può evitare, dal momento che: "La fede ... distolse la mente dalla realtà, modificò e cancellò la Storia, sconfessò le testimonianze che non collimavano, abituò i seguaci ad appagarsi di formule e di immagini, a non indagare, a non 281 dubitare e a non fidarsi delle proprie esperienze e riflessione ... Il criterio di verità diviene, allora, non il dato o l'esperienza, ma la retta trasmissione da parte del vescovo. La verità non è più un valore ultimo, sussistente di per sé, coincidente con il dato, il reale, l'accaduto, da non traviare perché è Dio che bisogna ritrovare dietro la storia e l'evento, è Dio che ha imposto di non testimoniare il falso. Essa diviene una manifestazione, un'emanazione dell'autorità che, per ciò stesso, usurpa un attributo divino ... la nuova storiografia cristiana minimizzava e annullava la gravità dei delitti, come se, cambiando ideologia fosse cancellato il male fatto precedentemente e le distruzioni di interi popoli [da parte dei Romani] non fossero mai avvenute" (dal bel libro di Maria Caredio Il Messia e il potere, Ed. Kineret, 1995, che pure si può trovare nel sito di Donnini). Per rimanere in tema, secondo lo stesso Donnini: "Purtroppo sono molti coloro che credono di far bene ad anteporre il credere al capire, orgogliosi come se fosse un merito l'aver subordinato l'intelligenza ad alcuni presupposti ideologico-dottrinari. Sono coinvolte in questo fatto molte delicate questioni relative al senso della propria identità, per rinforzare il quale siamo disposti, troppo spesso, a sacrificare una parte di ragione" (in "Il cristianesimo (anno 2001) - Indagine critica dal mito alla storia - Fede, storia, ragione, scienza e futuro", ancora nel sito citato - enfasi del recensore). 4 - Del resto già in Platone si trova chiaramente enunciata la necessità di "nobili menzogne" (quali quella dell'essere i cittadini "tutti fratelli") al fine della costituzione di uno stato: La Repubblica, Libro III, XXI. E' forse curioso ricordare che Federico di Prussia (dietro suggerimento dell'illuminista D'Alembert) invitò nel 1777 il meglio dell'intelligenza europea a discutere la stessa questione ("E' utile ingannare il popolo?"). Il premio che era stato messo in palio per la migliore soluzione del dilemma fu aggiudicato a pari merito a due matematici (Frédéric de Castillon e il più noto Condorcet), i quali dettero però risposte del tutto antitetiche alla domanda (Bisogna ingannare il popolo?, Ed. De Donato, Bari, 1968). 5 - Non esiste in effetti un grosso rischio ad ancorare certi valori morali, in larga misura presumibilmente naturali, a concezioni metafisico-soprannaturali, suscettibili di essere quindi frantumate, quando poggiano su una base storica confutabile? Si accenna qui evidentemente al problema della resurrezione, intesa quale evento storico su cui si basa la fede cristiana, e non viceversa, come oggi invece da più parti si pretenderebbe, con un salto teologico invero "mortale" (in ordine a ricercatori indipendenti interessanti, e a un testo che al contrario, secondo il punto di vista di un "credente", prende alla lettera il racconto evangelico - con coerenza comunque ammirevole, a nostro parere - citiamo: Don Antonio Persili, parroco di S. Giorgio, Tivoli, Roma, Sulle tracce del Cristo risorto - Con Pietro e Giovanni testimoni oculari, pubblicato in proprio, C.P.R., 1988). Per quanto riguarda la "morale" della Chiesa, e la sua possibile identificazione con il fondamento stesso della civiltà europea, si afferma da settori cattolici che gli odierni attacchi di ispirazione mondialista e globalizzatrice contro la seconda (o entrambe) "intend[ono] abbattere esplicitamente il fondamento della tradizione giudaico-cristiana, cioè il primato dell'essere umano e la bontà della sua presenza sul pianeta" (da un "manifesto" divulgato in rete da: it.politica.cattolici Lista di informazione su cattolici e politica sotto la protezione di Giuseppe Tovini, [email protected], con il titolo "G8 e Anti G8. Da cristiani a cristiani", 7.7.2001). Ma ci sarebbe da chiedersi: la teoria della dignità della persona è davvero un'esclusiva della concezione giudaico-cristiana del mondo? (si potrebbe poi molto discutere su quanto tale "teoria" sia coerente con alcuni, non marginali, passi dell'Antico Testamento). Integrità morale, solidarietà interpersonale, senso della famiglia e del dovere, non possono essere giustificati senza passare attraverso "leggende" sempre meno credibili? 6 - In realtà, come diceva S. Agostino (De civitate Dei, L. XXII, V), non si può negare che siamo di fronte a "tre fatti incredibili e tuttavia realizzati: E' incredibile che Gesù Cristo sia risuscitato nella sua carne e che con essa sia salito al cielo; è incredibile che il mondo abbia creduto una cosa così incredibile; è incredibile che pochi uomini sconosciuti, di umile condizione e senza cultura, abbiano potuto far credere al mondo e ai sapienti del mondo un avvenimento tanto incredibile e con tanto 282 successo". Fornire una spiegazione credibile di questi tre fatti "incredibili" è sicuramente questione di non poco conto... 7 - Non è fuor di luogo fare un cenno alle accuse di antisemitismo che provengono da chi vede nella messa in discussione di certa eredità un attacco alla cultura da cui essa storicamente proviene. Tra "persone di scienza" non si dovrebbe aver paura di termini, di "definizioni" (tra l'altro alquanto sballate: a parte la circostanza che chissà perché il riferimento è soltanto agli ebrei e non per esempio anche agli arabi, si veda pure la Nota N. 7 alla recensione del libro di Flavio Barbiero La Bibbia senza segreti, apparsa sul N. 2 di Episteme), ma il loro utilizzo è sicuramente "sleale", laddove l'intenzione è di procurarsi un facile "vantaggio" facendo rimando, piuttosto che a civili discussioni su dati di fatto, o opinioni, a suggestioni psicologico-emotive, che evocano gli orrori della guerra, campi di concentramento, morti, persecuzioni, etc.. Non si vede poi (o meglio lo si vede anche troppo bene!) perché quella in parola sia diventata una sorta di cartina di tornasole alla quale ciascun "sistema" concettuale è chiamato a rispondere - pena l'esecrazione di massa, se non peggio - quando "anti-x" lo si è sempre in numerosi modi diversi, tutte le volte che non si accetta legittimamente "qualcosa", scorgendone dei lati negativi... (UB) ***** Premessa Mentre scrivo queste parole, a conclusione di un lavoro protrattosi per circa quattro anni, sulla scena mondiale numerose tragedie si stanno consumando...nel nome del Padre. Nella ex Yugoslavia e nella stessa terra in cui si ambienta l'argomento di questo libro, per citare solo i casi che i mass-media hanno reso più famosi, inaudite violenze si commettono fra uomini che appartengono a religioni diverse. Spesso con la ferma convinzione che tali azioni siano giustificate, se non addirittura santificate, dal fatto di essere compiute in nome della fede. Purtroppo, possiamo citare numerosi altri focolai di violenza fra popoli appartenenti a religioni diverse; nell'Irlanda del nord cattolici e protestanti si fronteggiano da decenni; indù, musulmani e buddhisti danno luogo a crisi ricorrenti che insanguinano l'India da sempre. Qualche secolo fa un ingenuo profeta credette di trovare la soluzione alla ricorrente violenza religiosa indiana e creò la setta dei sikh, la cui dottrina era stata ricavata dall'assemblaggio sincretistico di elementi islamici e induisti. Un quarto polo di potenzialità conflittuale si aggiunse agli altri, e il tempio d'oro di Amritsar, nel Punjab, è stato teatro di massacri anche in tempi recenti. Di fronte a queste dolorose osservazioni alcuni rispondono che la colpa non è della religione, ma degli uomini, senza tener conto del fatto che essa, come dottrina e come istituzione, è l'espressione che riguarda gli aspetti più importanti della cultura e del comportamento collettivo: l'etica, la morale, il diritto. Vogliamo forse chiudere gli occhi davanti al fatto che le principali linee di conflitto all'interno del genere umano sono proprio i confini fra le religioni? C'è un solo motivo per misconoscere questa triste realtà, o per voler negare a tutti i costi la responsabilità delle religioni nel dramma della guerra e della violenza: l'interesse a difendere, non tanto quella verità di cui ogni religione si dichiara depositaria e 283 rappresentante, quanto i presupposti della egemonia sociale, culturale, e magari anche politica ed economica, di una istituzione religiosa. Questo libro, che agli occhi di molti può apparire come un attacco perpetrato direttamente e specificamente alla fede cattolica, vuole essere una analisi della divergenza che, in senso del tutto generale, può esistere fra la verità come espressione di una realtà (storica nel nostro caso) e la verità come espressione di una dottrina. Il cattolicesimo e la sua interpretazione della figura di Cristo sono solo un pretesto, scelti per la semplice ragione che l'autore è nato in un paese cattolico, ed è in esso che vive e lavora. Il lettore che non vorrà arroccarsi in una posizione rigidamente difensiva, mosso esclusivamente dal bisogno di confutare tutto ciò che turba i presupposti della sua fede, riuscirà, forse, ad intravedere, in ogni passo di questo lavoro, la ragione di fondo che lo ha determinato: il desiderio di mettere in discussione, non l'insegnamento di una religione in particolare, ma il procedimento culturale che ha operato, sempre e dovunque, nella genesi delle dottrine di tutte le grandi religioni storiche. All'interno di ogni società omogenea la religione ha sempre svolto una funzione determinante ed irrinunciabile: una funzione coesiva, didattica, senza la quale il tessuto socio-culturale andrebbe inevitabilmente incontro al disfacimento. In molti paesi cristiani il testimone di un processo, prima di deporre, giura sulla Bibbia, poiché essa costituisce una autorità che sovrasta anche le strutture della legge e dello stato. Perché dunque una analisi impietosa che sembra finalizzata a demolire le strutture elementari su cui si regge la fede cristiana e sulla quale è costruita la civiltà occidentale? Ci sono due risposte da offrire a questa domanda. La prima è che questa analisi non vuole avere come vittima una particolare dottrina, ma il principio generale di tutti quegli insegnamenti che sviluppano nella mente l'attitudine a credere in modo cieco e supino. La seconda è che il genere umano ha un bisogno drammatico ed urgente di risolvere gli aspetti conflittuali delle sue disomogeneità culturali, ovverosia di comprendere in quale misura gli insegnamenti e le tradizioni nazionali che gli provengono dal passato (le religioni in primo luogo), sui quali i popoli hanno costruito la propria identità culturale, sono utili e necessari nella attuale situazione. Nei prossimi anni, avremo tristemente modo di osservare nello scenario mondiale in quale dolorosa misura le religioni storiche saranno sempre meno causa di ciò che promettono, ovverosia di amore, di tolleranza e di comprensione, e sempre più duramente protagoniste della conflittualità; fino al punto da mettere a repentaglio la sicurezza e la vita di centinaia di milioni di persone innocenti. Ma anche fino al punto da mettere in discussione, davanti agli occhi del mondo intero, se stesse. So che queste parole hanno i toni cupi del presagio apocalittico, ma lo spirito che le anima è molto lontano da quello dei profeti biblici, sebbene somigliante; è solo la ragione lungimirante che porta, se non ad un totale pessimismo, al cauto riconoscimento dei pericoli oggettivi che incombono sul prossimo destino storico del genere umano. Chi si ostina a misconoscere tutto ciò, non potrà sottrarsi alle proprie responsabilità. E così, anche se per il lettore questo potrebbe sembrare troppo lontano e troppo in secondo piano rispetto agli obiettivi primari del libro, l'analisi critica della dottrina storica del cristianesimo è stata condotta allo scopo di favorire l'emancipazione culturale di cui ha bisogno l'uomo del duemila: lo sviluppo di una cultura planetaria che, se non deve significare il livellamento e la distruzione delle tradizioni, deve comunque abbattere quelle disomogeneità che già si manifestano come grave ostacolo ai rapporti di convivenza, di confronto e di dialogo fra popoli che la tecnologia e l'economia hanno imposto. Di fatto un livellamento è già in corso, quello che i modelli del consumismo occidentale hanno provocato in tutti i paesi, mettendo veramente in pericolo le culture e le 284 tradizioni nazionali, lasciando di esse solo il potenziale distruttivo e conflittuale (che, tra l'altro, fa comodo al sistema economico perchè offre al mercato la colossale chance del traffico di materiale bellico). Non farà male ai cristiani comprendere le dinamiche storiche reali del processo che portò alla nascita e allo sviluppo del cristianesimo, al di là delle immagini manipolate che l'istituzione ecclesiastica ha dovuto trasmettere per sostenere le tesi e i dogmi che erano necessari alla sua egemonia. Nessuno deve temere o sottovalutare la conoscenza delle proprie origini più di quanto non debba temere l'ignoranza e le sue conseguenze sul piano del senso di identità; è quest'ultimo, infatti, l'elemento fondamentale dell'equilibrio psicologico e culturale tanto del singolo quanto della collettività, ed è un senso della propria identità errato o carente che produce la totalità dei disturbi del comportamento individuale e collettivo. Ed ecco il nocciolo della questione: la frammentazione del senso di identità del genere umano che, nel contesto economico e tecnologico del mondo di oggi, ha urgente bisogno di imparare a sentirsi omogeneo ed unito, piuttosto che eterogeneo e diviso in centomila culture conflittuali. Gli esponenti delle religioni potrebbero domandare, a questo punto: siamo forse noi che impediamo lo svolgimento del processo di integrazione e di armonizzazione delle diverse culture planetarie? La risposta onesta ad un tal genere di domanda non può essere che una: le istituzioni ecclesiastiche, di fronte a questa impellente necessità di emancipazione culturale, possono facilmente assumere un atteggiamento negativo; nella misura in cui esse non vogliono che sia messo in discussione il loro privilegio di avere, ciascuna, la verità in mano e l'autorità esclusiva per trasmetterla e per insegnarla; nonché nella misura in cui esse antepongono gli interessi della propria egemonia, in parte senza nemmeno rendersene conto, agli interessi della salvezza del genere umano,. Già qualche anno fa fu realizzato un incontro ad Assisi, nel quale i capi delle più diverse religioni sedettero insieme alla ricerca di dialogo e di unità. Sebbene l'intento di un simile meeting debba comunque essere apprezzato, non possiamo fare a meno di ammettere che i rappresentanti si guardarono in faccia con elargizione di grandi sorrisi, belle promesse e benedizioni reciproche, ma senza cambiare una briciola della sostanza del loro rapporto. Un fatto si è evidenziato in tutta la sua nuda chiarezza: le religioni, per la loro stessa natura, sono sistemi chiusi, costruiti in funzione della conservazione di se stessi, non del dialogo aperto, e non prevedono alcuna flessibilità nei confronti delle proprie strutture teologiche e dottrinarie. Gesù è l'unico ed irripetibile Figlio di Dio che abbia trasmesso l'unica rivelazione che oggi, per i cristiani, può essere accettata e creduta; Jahvè è l'unico Padre di tutto il genere umano e Israele è il suo popolo prediletto; Allah è l'unico Dio e Maometto è il suo profeta; Krishna è l'unica incarnazione terrena di Vishnu, ecc... Stando così le cose, dove le condizioni sono favorevoli, ovverosia dove la gente è in crisi di trasformazione sociale e ricorre al più vecchio e collaudato fra i mezzi di riconoscimento o di mantenimento della propria identità culturale, ogni religione non può far altro che partorire lo spettro dell'integralismo, il più duro scoglio contro il progresso culturale dell'umanità e contro l'avvicinamento, il dialogo e la comprensione fra i popoli. E' significativo che un uomo come Gandhi, che si dichiarava contemporaneamente indù, cristiano e musulmano, sia sopravvissuto alla lotta contro il dominio britannico per l'indipendenza dell'India e sia morto per mano di un indù che non sopportava le sue elasticità teologiche. Non è un caso, come non è un caso che gli alleati della Serbia, il paese che oggi l'occidente sembra unanime nel condannare per la sua politica, siano i Russi e i Greci, gli unici paesi al mondo che, come i serbi, sono cristiani-ortodossi. 285 Purtroppo non c'è altro da fare se non da attendere e magari agevolare quello che forse sarà il salto culturale più grande nella storia del genere umano: l'emancipazione della spiritualità dal dogmatismo e la sua liberazione dalla fissità delle dottrine teologiche. Dio, il grande artefice del mondo, non ha mai incaricato nessuno in particolare di rappresentarlo; né alcuno può arrogarsi il diritto di essere suo testimone esclusivo (se non per guadagnare un potere sugli uomini); né le sue verità furono scritte in alcun volume se non in quell'immenso libro, dalle pagine sempre aperte, che è l'universo intorno a noi. ----Conclusioni Quando ero ragazzo, anzi bambino, i miei genitori mi hanno mandato, come di norma, al catechismo. Infatti sono stato battezzato ed educato secondo la più consueta tradizione cattolica; ad otto anni presi la prima comunione, più grandicello fui cresimato. Ma il rapporto fra me e la religione è sempre stato difficile; ero ancora uno sbarbatello quando già discutevo accesamente col professore di religione, contestando il dovere di credere per fede, ciecamente, a quanto mi veniva insegnato. Un adolescente, naturalmente, non ha tutti gli strumenti intellettuali per mettere perfettamente a fuoco ciò che sente e per dare una forma matura e consapevole ai propri pensieri. Ciò non ostante, verso gli undici-dodici anni, un sentimento molto chiaro albergava nella mia mente: la più assoluta intolleranza per lo stridente contrasto che l'insegnamento religioso, almeno nel modo in cui era trasmesso dai miei interlocutori (sacerdoti e professori), finiva per creare tra spiritualità e ragione. Molto spesso sembrava che fosse proibito chiedere perché, e al mio desiderio di comprendere, di spiegare, e persino di dare una dimostrazione alle cose, si rispondeva non solo con l'invito a rinunciare a tale atteggiamento, ma anche con la sua condanna, come se esso fosse, per sua stessa natura, irriverente nei confronti della religione, offensivo, blasfemo. Mi furono citati esempi dalle scritture in cui qualcuno era stato premiato da Dio per avere semplicemente creduto, senza essersi domandato niente, senza avere chiesto alcuna prova, per un atto di pura fede; come la famosa emorroissa, o il centurione romano. Mi furono citati in contrapposizione altri esempi di persone che erano state punite per avere subordinato la fede alla ragione, per non essere stati capaci di credere senza avere le prove. Il caso più eclatante, sebbene non appartenga alle scritture sacre, era quello di Ulisse, che il sommo poeta aveva condannato per avere dato la priorità assoluta al desiderio di conoscenza; quasi come se il "...fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza..." potesse essere in qualche modo una colpa, piuttosto che la più alta e nobile delle attitudini umane; l'unica, forse, che possa realmente distinguere l'uomo dalle altre creature. La cosa mi irritava e mi riempiva del sospetto che dietro a questa inclinazione della cultura ci fosse qualcosa, un inganno, un trucco, uno strano mistero che un adolescente non può avere le capacità di spiegare. Non si trascuri, nel leggere queste note autobiografiche, che questi furono i vissuti di un ragazzo nel periodo immediatamente precedente il '68, quando autoritarismo e vecchie mentalità non erano ancora stati messi in discussione da un fenomeno culturale e psicologico di così vaste proporzioni come la contestazione giovanile. Così, pur conservando nel profondo la sensazione che il mistero dell'esistenza non potesse trovare la sua esauriente spiegazione nel materialismo e nelle teorie scientifiche, mi allontanai dalla religione cattolica e mi rifugiai per lungo tempo in una sorta di 286 agnosticismo: potrei chiamarlo un parcheggio, in attesa di qualcosa di più di ciò che preti e catechisti erano riusciti a dirmi. Nel frattempo osservavo e notavo quelle che, a mio modo di vedere, erano le gravi ipocrisie congenite del mondo cattolico: ci voleva poco, ad una persona che non aveva accettato la supinità mentale, per rendersi conto che la prassi degli appuntamenti fra il cattolico e la sua religione contrastava nella maniera più stridente col messaggio etico e spirituale del Vangelo. Il cattolicesimo degli anni cinquanta e sessanta camminava fianco a fianco col perbenismo, col benpensantismo, con la mentalità borghese (uso una terminologia che è volutamente quella del periodo dello scontro frontale fra il polo laico marxista e quello cattolico conservatore), insomma con tutto ciò che si opponeva allo spirito espresso dalla figura di Gesù; il quale infrangeva le regole del sabato e quelle della purità, sedendo a tavola con i pagani e coi peccatori, che era dolce con gli umili e aggressivo coi potenti e coi sacerdoti del tempio. Gesù, con queste sue attitudini, non si presentava come un contestatore a tutti i costi, ma come un intransigente cercatore di verità, come colui che non esitava a trapanare tutti gli strati della ipocrisia e della convenienza per giungere alla sorgente della verità e della giustizia: là dove le cose, spogliate da ogni maschera, non possono più essere giustificate dalla consuetudine e si rivelano per quello che sono. Da questo punto di vista il Vangelo mi affascinava, mentre il cattolicesimo mi respingeva. Molti anni dopo, già trentenne, laureato, insegnante, sposato, padre, mi rivolgevo alle culture orientali, con la segreta speranza di trovare, nella suggestiva civiltà del sole nascente, quella coerenza e quella verità che in occidente non avevo trovato. E' bello rifugiarsi nell'idea che qualcosa che viene da lontano contenga la risposta a tante domande e la soluzione a tanti problemi. E così mi sono dedicato allo studio e alla pratica della disciplina Yoga, dell'Induismo, del Buddhismo, del Taoismo, scoprendo cose interessantissime; non esclusa l'importanza che tali culture attribuiscono a valori ed aspetti che in occidente sono trascurati; la cui mancanza, spesso, è proprio la causa di qualcuna delle afflizioni croniche dell'occidente. Eppure, anche nel molteplice e ricchissimo universo delle spiritualità e delle filosofie orientali, uno spettro maligno si aggira esattamente come nelle culture religiose dell'occidente, uno spettro che non tardai a riconoscere non appena ebbi modo di frequentare qualche seminario e di incontrare bonzi, lama, swami e yoghi famosi ed apprezzati a livello internazionale per la validità del loro insegnamento. Quello spettro era l'ortodossia, la dottrinalizzazione della conoscenza, la subordinazione della verità alle esigenze delle persone e delle istituzioni che di essa si sono fatte rappresentanti. Sempre e comunque, là dove una qualsiasi consapevolezza ha superato il momento felice della sua nascita nella mente umana, ed è già passata allo stadio in cui viene gestita da qualche organismo istituzionale come mezzo per educare, e per attuare il controllo psicologico e culturale della gente, la verità slitta in una posizione subordinata nella quale le è consentito di essere sé stessa fintantochè non turba lo status quo. Non appena essa reca turbamento e cessa di essere funzionale agli equilibri istituzionali e agli interessi dominanti, qualsiasi elemento della verità non è più riconosciuto come tale e viene totalmente cancellato, non solo dall'ufficialità del sapere, ma dai processi di pensiero della persona, attraverso un sottilissimo meccanismo di ricatti in cui si gioca l'appartenenza dell'individuo al sistema o la sua emarginazione. In questo modo la sostituzione del pensiero libero, incline alla verità totale, col pensiero condizionato, incline alla verità di convenienza, avviene inconsciamente, come se un file di controllo (per usare la terminologia informatica 287 al posto di quella psicologica) lavorasse nel sistema operativo cerebrale per escludere tutte quelle opzioni che generano conflittualità con la cultura e con la morale sociale. Questo avviene soprattutto nella mente di coloro che nel sistema vogliono porsi in una situazione di vantaggio, così come in quella di coloro che sono troppo semplici e troppo poco coraggiosi per pensare in maniera autonoma, senza lasciarsi indottrinare e senza resistere alla facile suggestione della cultura dominante. E così, anche nell'affascinante mondo delle culture orientali osserviamo l'esistenza di un complicatissimo mosaico di parrocchie piccole e grandi, ciascuna con le sue verità di regime, con i suoi moralismi, con le sue invenzioni ad uso e consumo di qualche sistema. Se non avessi una profonda convinzione che il cammino verso la verità è l'unica ragione valida della nostra esistenza, pur essendo destinato a rimanere un anelito incompiuto, le precedenti considerazioni sarebbero più che sufficienti a giustificare uno stato di depressione e di cinismo. Beati coloro che si sono sistemati in una qualunque delle centomila parrocchie di questo mondo e, rinunciando alle colonne d'Ercole, non si sono macchiati della colpa di Ulisse! Il quadro ha cominciato a farsi meno oscuro quando, una decina di anni fa, ho sentito il desiderio di scavare alle radici della cultura cristiana, nella quale sono stato generato e cresciuto, per trovare quanto in essa ci fosse di comune con le altre religioni del mondo, e magari di autentico, di precedente al processo che tutte le culture storiche hanno subito, cioè la canonizzazione e la riduzione a qualche forma di ortodossia. E' stato un viaggio affascinante che mi ha portato alla scoperta dei manoscritti del Mar Morto, dei Vangeli gnostici, della molteplice letteratura apocrifa, dei risvolti più dimenticati della storia antica e, soprattutto, che mi gratificava ogniqualvolta scoprivo l'esistenza reale di collegamenti fra le radici dell'ebraismo e del cristianesimo con quelle delle religioni orientali. Ma, ahimé, il Cristo non era quello che avrei avuto piacere di scoprire, cioè una sorta di asceta alla maniera indo-buddista, che magari fosse addirittura stato in India, come alcune fonti sostengono; uno spirito libero privo di quel genere di collocazioni ortodosse che ho sempre detestato. Al contrario, il Cristo che i romani hanno voluto arrestare e crocifiggere non era allineato alla ortodossia del giudaismo fariseo e sadduceo, ma era il più autentico rappresentate dell'integralismo jahvista dei suoi tempi, il Messia di Israele, il re dei giudei. Encomiabile per la sua coerenza, per l'abnegazione e il coraggio dedicati alla causa, per il prezzo che è stato disposto a pagare; criticabile per la mancanza di senso della realtà, dei rapporti di forza e del grado di consenso, al punto da marciare dritto verso il fallimento, nonché per quello che, visto con occhi moderni, non può essere chiamato in altro modo che fanatismo, il tipico scellerato fanatismo degli integralisti. Resta aperta la possibilità lasciata dall'ipotesi non del tutto inverosimile che il Gesù Cristo del Vangelo, frutto della sintesi paolina, sia il prodotto di una sovrapposizione di caratteristiche appartenute a personaggi diversi: un messia politico, giustiziato dai romani, e un messia religioso, rilasciato perchè non riconosciuto colpevole di atti contro la sovranità imperiale. In tal caso l'attenzione si sposta sul personaggio di Jeshu bar Abbà, probabile maestro di tecniche iniziatiche, che avrebbe impartito i suoi principali insegnamenti ai membri della famiglia zelotica, ai fratelli partigiani, all'aspirante messia, alla moglie di costui, Myriam, al cognato, Eleazar. Ma gli elementi sono pochi, veramente troppo pochi per tentare una seria ricostruzione di questo enigmatico personaggio. In fin dei conti, non è ai termini tecnici della ricostruzione storica che è diretto il nucleo essenziale del mio interesse, sebbene tanta energia abbia dedicato a questo lavoro, bensì ai significati più generali che da essa si possono estrarre. Infatti posso aver compiuto numerosi errori, o avere tratto conclusioni sbagliate, e molti difensori della ortodossia si 288 affretteranno, possibilmente anche con ragione, a confutare questa o quella fra le tesi che ho sostenuto in questo studio. Ciò che mi interessa è il fatto di avere mostrato, al di là delle singole questioni storiche (con un lavoro divulgativo che, forse per la prima volta in assoluto, porta il lettore medio a conoscenza delle mille problematiche relative alla lettura critica del Nuovo Testamento), che è esistito un preciso intervento, consapevole ed intenzionale, protratto nel tempo di secoli, da parte di una limitata comunità prima (i seguaci di Paolo di Tarso) e di una colossale istituzione ecclesiastica poi (la chiesa del dopo Costantino), per costruire su misura una teologia e una dottrina che fossero funzionali al sistema che si intendeva stabilire o difendere. Gesù Cristo, a dispetto del suo essere ebreo, aveva fondato una nuova religione; Gesù Cristo, a dispetto del suo titolo messianico, non aveva assolutamente niente a che fare con la lotta jahvista; Gesù Cristo era una incarnazione divina; gli ebrei erano i principali responsabili della sua morte; i romani erano incolpevoli e Pilato era stato praticamente raggirato. Questi presupposti onnipresenti nei vari aspetti della dottrina cristiana di oggi, così come nei diversi stadi del suo sviluppo, a partire dai più primitivi, che sono senza ombra di dubbio il prodotto degli interventi di manipolazione, possono essere spiegati col fatto che la nuova fede cristiana aveva rinnegato la concezione messianica tradizionale, aveva realizzato uno scisma dal giudaismo, aveva sostituito al messia della nazione ebraica un salvatore universale mutuato dalle filosofie del vicino e lontano oriente: il Soter dei greci, il Saoshyant dei persiani, il Buddha degli indiani. A conti fatti non credo che l'opera di Paolo debba essere considerata semplicemente disonesta in quanto lavoro di falsificazione di una realtà storica; direi piuttosto che c'è, nella colossale formulazione sincretistica del Gesù Cristo di Paolo, una genialità senza precedenti. L'impero romano non aveva mai avuto altra unità se non quella del potere politico e militare emanato dalla sua capitale: i popoli sottomessi sono sempre stati stranieri fra loro, ciascuno con la sua religione e i suoi culti; che Roma, acuta nell'arte del dominio, sapeva rispettare. Forse l'elemento comune ai numerosi popoli e alle numerose culture abbracciate dal potere dell'urbe può essere individuato nel sentimento escatologico, non improbabile nella psicologia di coloro che si sentono intrappolati in una condizione irrisolvibile, almeno a breve termine, di inferiorità e di subordinazione, quando non di miserabile schiavitù, privati della padronanza del proprio destino e del diritto a costruire in modo autonomo la propria felicità. Questo era il clima psicologico comune, conscio o inconscio, che Roma aveva determinato nell'area del suo potere. Paolo aveva sicuramente intuito, non solo la scarsa probabilità di successo materiale del progetto messianico, ma soprattutto la limitatezza di quell'anelito alla salvezza e alla libertà che, in seno alla fede giudaica, aveva preso la forma del rigoroso integralismo nazional-religioso jahvista. Magari esistessero oggi, nel mondo in cui la presa di coscienza collettiva dei problemi reali e drammatici del genere umano è ostacolata e resa penosamente lontana dal persistere di antichi integralismi e fanatismi, un uomo della larghezza mentale e della lungimiranza di Paolo (ma è mai esistito il Paolo di cui parla la tradizione? O è solo il punto leggendario su cui è fatto convergere il lavoro di numerosi uomini nell'arco di molto tempo?). Insomma, esistito come persona o come processo storico, quello che chiamiamo Paolo ha intuito che se il salvatore nazional-religioso degli ebrei aveva un improbabile destino, in quanto solo contro tutti, il salvatore universale del genere umano aveva un probabile destino, in quanto si collocava, nel clima psicologico e culturale del ventaglio di popoli sottomessi a Roma, come colui che rappresentava le istanze più insoddisfatte dell'animo umano: un Dio degli umili, e non dei potenti, un Dio 289 senza razza, un Dio buono, un Dio venuto fra gli uomini a promettere a tutti la salvezza ma, soprattutto, a restituire la dignità umana a coloro ai quali, nella società schiavistica e totalitaria, era stato fatto dimenticare di possederne una. E così, ricucendo insieme l'escatologia messianica degli ebrei con spezzoni di religioni misteriche ed orientali, Paolo costruì il più potente strumento di trasformazione culturale del bacino mediterraneo: Gesù Cristo. Qualcosa che a quel tempo, ne sono profondamente convinto, era veramente suggestivo e meraviglioso. Che cosa importa se Gesù Cristo, il Gesù Cristo di Paolo, non è mai esistito? Vale forse meno del Cristo realmente esistito, quello condotto al patibolo da una fede fanatica e dura come un macigno? Quella fede che ha portato Gerusalemme ad essere rasa al suolo e gli ebrei ad essere sparsi e odiati fra genti straniere. O vale di più un Gesù Cristo che, per quanto fantastico, ha prodotto una omologazione culturale nell'area circum-mediterranea determinando quell'unità fra i popoli cristiani che, se non fosse esistita, non avrebbe mai visto lo sviluppo planetario della civiltà occidentale moderna ma, piuttosto, al suo posto, una civiltà islamica, una civiltà cinese, o chi sa cosa. L'analisi storica delle origini cristiane, purché non sia quella sponsorizzata da coloro che hanno interesse a difendere i sistemi ortodossi, vista in funzione dei problemi dell'umanità di oggi è certamente una grande lezione: perchè anche oggi, come ai tempi in cui i vessilli imperiali di Roma sventolavano col loro aspetto blasfemo nella città santa degli ebrei, l'umanità, vittima del dominio di uno strapotente impero, si dibatte nella frustrazione di non saper trovare una soluzione alle sue attese di salvezza. Oggi, come allora, il sentimento che accomuna tutti i popoli della terra, stranieri fra loro, è un sentimento escatologico. E, come allora, numerose forme di messianismo sono intervenute nel tentativo di colmare le aspettative. Forse il più largamente diffuso dei messianismi moderni che, come lo jahvismo degli esseni e degli zeloti, ha avuto la carica suggestiva di una promessa rivoluzionaria, che si attribuisce la capacità di abbattere l'impero dominante e di costruire la giustizia, è stato sicuramente il comunismo. Ma, come il messianismo jahvista, il comunismo è crollato alla prova dei fatti, mostrandosi scellerato dove avrebbe voluto essere buono, meschino dove avrebbe voluto essere grande; creando la catastrofe dei popoli dove avrebbe voluto creare la prosperità. Nella crisi di identità e di ideali dei tempi attuali, alcuni si scoprono messaggeri di verità, che può essere considerata tale soltanto nel deserto delle verità in cui si sta incamminando questa esule umanità in cerca di terra promessa, e speculano sulla loro posizione riproponendo i vecchi modelli culturali: il cattolicesimo, l'islam, l'ebraismo; circondati da una costellazione di sottoverità che, in più rispetto a quelle superortodosse, hanno solo la facile ma illusoria suggestione del diverso, dell'alternativo, del rivoluzionario: i testimoni di Geova, gli Hare Krishna, i buddhisti occidentali. In effetti ogni religione storica, come quella creata dalla sintesi paolina, ha avuto un grande valore evolutivo nel suo momento nascente, e ha portato a battesimo una qualche civiltà. Chi avrebbe potuto trasformare le bande beduine in un popolo di conquistatori, mercanti e scienziati, come furono gli arabi, se non l'islam? Chi avrebbe potuto fare dei figli della sabbia (i semiti analfabeti e nomadi che gli egizi usavano come schiavi) un popolo orgoglioso ed indistruttibile sotto tutti i gioghi, se non la sintesi mosaica? Chi avrebbe creato le civiltà dell'oriente, l'India, la Cina, il Tibet, se non l'Induismo e il Buddhismo? Ma, naturalmente, ciascuno di questi grandi motori dell'evoluzione morale e culturale dell'umanità attraversa le sue stagioni e, dalla fase creativa, passa a quella matura, in cui si consolida come ortodossia, nella quale si effettua lo slittamento della verità verso posizioni subordinate, e il valore evolutivo è sostituito da quello coesivo; per giungere 290 quindi alla fase di invecchiamento, in cui il valore coesivo finisce per diventare una attitudine sclerotica quando non, addirittura, un potenziale conflittuale. I moderni araldi delle vecchie religioni storiche, papi, patriarchi, lama ed ayatollah, non si rendono conto che di esse, raggiunta la loro ultima fase e divenute senili, una volta esauriti i principali valori evolutivi, non resta che un mucchio di patetiche bugie, delle quali ho voluto dare un saggio nella mia analisi storica del racconto evangelico. Se non capita invece, come nella ex Yugoslavia fra cattolici, ortodossi e musulmani, o come in medio oriente, fra ebrei e musulmani, o come in tante altre circostanze analoghe nel mondo, che le religioni storiche esprimono tutta la negatività della loro degenerazione senile e producono quel tipico genere di bestialità che si giustificano con santi scopi. Molti dei miei lettori, forse, a metà del libro chiuderanno le pagine pensando che l'autore sia un rappresente tardivo del razionalismo anticlericale, appartenente ad una sinistra ormai abbondantemente superata. Non si saranno resi conto che ho voluto invece augurare la nascita di una nuova sintesi paolina, che superi le insufficienze dei moderni messianismi parziali. Questa volta non è l'impero di Roma il nemico, né il mediterraneo il teatro ma, rispettivamente, l'economia della autodistruzione e il pianeta. Abbiamo bisogno di bugie più nuove. Speriamo che qualcuno le inventi presto. Gennaio 1994, David Donnini. ***** David Donnini, nato a Firenze nel 1950, ha ivi conseguito la laurea nel 1975, mentre nel 1990 ha frequentato un seminario di specializzazione presso la Michigan Technological University (USA). Attualmente è insegnante di Tecnica Fotografica presso un Istituto Professionale di Stato. Da circa vent'anni si occupa di religioni orientali ed anche dello studio delle origini cristiane. Ha svolto un servizio fotografico in Palestina, nei siti che riguardano il cristianesimo primitivo. In Israele ha approfondito i contatti col Prof. Daniel Gershenson (Università di Tel Aviv), che lo ha aiutato nel suo lavoro di ricerca e che condivide le sue conclusioni. Ha pubblicato sull'argomento alcuni libri: Nuove Ipotesi su Gesù Macro-Edizioni, Cesena (FO) Tel. 0547/346290 Seconda edizione (1998) riveduta e corretta, corredata con 14 fotografie a colori 291 Cristo, una vicenda storica da riscoprire (1994) Roberto Massari Editore, CP 144, 01023 Bolsena (VT) Tel. 0761/799831 Terra di Giuda (1997) Appunti di viaggio fra i drammi e i misteri storici di Israele (pubblicato on-line) Alcune questioni discusse nei siti di Donnini: Premesse per l'analisi storica del racconto evangelico I Manoscritti del Mar Morto - la storia I Manoscritti del Mar Morto - estratti dai testi La letteratura giudeo-cristiana La redazione dei 4 vangeli canonici Analisi critica dei racconti sulla nascita di Gesù Cristo Il mistero di Barabba Il problema del titolo "Nazareno" Perché San Paolo ha inventato il cristianesimo? CRISTO E QUMRAN, QUALI CONCLUSIONI? Il martirio zelotico e quello cristiano Fratelli e sorelle di Gesù Cristo Il problema del discepolo senza nome "7Q5", una prova schiacciante delle relazioni fra esseni e cristiani? Estratti da Filone Alessandrino e Giuseppe Flavio sugli "Esseni" Sulle origini storiche del Vecchio Testamento ESTRATTI DA VANGELI APOCRIFI: Dal codice Arundel 404 Dal vangelo di Pietro Dal vangelo di Maria Dal vangelo copto di Tomaso Dal vangelo di Filippo Note ai vangeli gnostici di Tomaso, Maria e Filippo 292 Breve commento sui lavori cristologici del Dr. Daniele Donnini L'amico Prof. Bartocci mi ha chiesto un commento all'opera del Dr. Daniele Donnini 1 e, a tale sollecito, volentieri consento, seppur assai brevemente. Nell'ormai lontano Ottobre del 1999, dietro segnalazione di un amico stampai da INTERNET, due studi di questo ricercatore; il primo, dal titolo di GAMLA, individuava in questo omonimo e ben poco conosciuto sito archeologico delle alture del Golan, quello che avrebbe dovuto essere il vero villaggio dove, in alternativa alla notissima Nazareth, Gesù sarebbe invece vissuto. Debbo dire che la disanima delle ragioni storiche e geografiche, che rendono impossibile come quest'ultima località possa corrispondere alle caratteristiche riscontrabili nella narrazione evangelica, è del tutto convincente. Efficace anche la messe di contestazioni, in ordine all'evidente forzatura, insita nel voler far coincidere l'appellativo di <<nazareno>> con quello di abitante di Nazareth, che, da varie fonti, attentamente raccoglie: sono, queste ultime, cose note ma, collazionate con le altre osservazioni, vieppiù contribuiscono ad accreditare la tesi favorevole all'individuazione di Gamla quale right place. Il secondo lavoro, è uno studio assai più ambizioso e s'intitola CRISTO, UNA VICENDA STORICA DA RISCOPRIRE.2 Di esso è forse bene riprodurne il sommario per avere una qualche idea della vastità degli argomenti affrontati: Premessa Sommario Introduzione 1. La cena misteriosa. 1.1. 1.2. Una sera, a Betania. Il Vangelo al Computer. 2. Il Giallo di Gerusalemme. 2.1. 2.2. 2.2.1. 2.2.2. 2.2.3. 2.3. 2.3.1. 2.3.2. 2.3.3. 2.3.4. 2.4. 2.4.1. 2.4.2. 2.4.3. 2.4.4 Sinossi della passione e morte di Cristo. L'arresto. Il bacio di Giuda. Lo scontro armato. L'arresto. Il Processo Giudaico. Il trasferimento presso il sommo sacerdote. Il rinnegamento di Pietro. Il processo davanti alle autorità ebraiche. Gli oltraggi. Il Processo Romano. Il trasferimento presso Pilato. La morte di Giuda. L'interrogatorio davanti a Pilato e le accuse dei Giudei. Gesù al cospetto di Erode 293 2.4.5. 2.4.6. 2.5. 2.5.1. 2.5.2. 2.5.3. 2.5.4. 2.6. 2.6.1. 2.6.2. 2.6.3. Il ballottaggio: o Cristo o Barabba. Il verdetto. La Via Crucis. Lo scherno dei soldati. Il trasporto della croce. La crocifissione. Gli insulti e l'agonia. Morte e Sepoltura. Morte ed eventi soprannaturali. L'intervento di Giuseppe di Arimatea. Deposizione e sepoltura. 3. Il Giallo di Betlemme. 3.1. 3.2. 3.2.1. 3.2.2. 3.2.3. 3.3. 3.3.1. 3.3.2. 3.4. 3.4.1. 3.4.2. 3.5. 3.5.1. 3.5.2. E' nato Gesù. I luoghi. Il luogo di nascita di Gesù secondo gli evangelisti Matteo e Luca. Il luogo di residenza della famiglia di Gesù secondo gli evangelisti Matteo e Luca. I contrasti sui luoghi. I tempi. Il tempo della nascita secondo gli evangelisti Matteo e Luca. I contrasti sui tempi. Le Genealogie. L'albero genealogico secondo gli evangelisti Matteo e Luca. I contrasti sulle origini. La Dinamica della Natività. La dinamica della natività secondo gli evangelisti Luca e Matteo. I contrasti sulla dinamica della natività. 4. Il Giallo di Nazaret. 4.1. La Profezia del Nazareno. 4.2. La Città di Cristo. 4.3. La Famiglia Storica. 4.3.1. Il numero dei figli. 4.3.2. I fratelli di Cristo. 4.3.3. Fratelli, apostoli e zeloti. 4.3.4. I Genitori di Cristo. 5. Il Giallo di Betania. 5.1. 5.1.1. 5.1.2. 5.2. 5.2.1. 5.2.2. 5.2.3. Sempre sulla cena del mistero. Maria Maddalena = Maria di Betania? Chi era Maria di Magdala-Betania? "Colui che ami è ammalato". Il miracolo di Betania o che cos'altro? I miracoli di resurrezione nei Vangeli. Eleazar ben Jair. 294 6. Conclusioni. Indice analitico Note bibliografiche Testi classici di riferimento Bibliografia Non volendo questa nota essere una vera recensione, mi limito a segnalare l'interesse del lavoro del Donnini, il quale affronta il problema delle origini del Cristianesimo col sottolinearne la diversità tra quanto di storico possa essere ricostruito e quello che invece c'è pervenuto attraverso l'interpretazione canonica. Personalmente, io condivido molte delle sue conclusioni, che vedono nella narrazione canonica una complessa opera mitopoietica anche se non mi sembra di poter consentire su una qualche ingenuità positivistica nel taglio di certi giudizi: truffe e raggiri di personaggi furbeschi, intenti soltanto a creare storie, volte queste - si presume - a meglio dominare le masse. È chiaro come, per quest'autore, il mito sia, in linea di massima, una sovrastruttura priva d'ogni potere anagogico. Il Donnini non deve però essere totalmente posseduto da questo spirito cartesiano, perché, in una sua riflessione sul tema, riconosce l'enorme semplicismo culturale che tale attitudine comporta e che, soprattutto, impedisce a chi ne sia afflitto di leggere, con la coscienza del tempo che le è proprio, la narrazione di eventi lontani, sicché questi ne risultano distorti ed irrimediabilmente impoveriti. Nel contempo, egli prende anche le distanze dal teologico letteralismo exoterico che sempre vuol far credere all'assoluta storicità dei fatti straordinari della narrazione sacra quasi che questi non possano essere latori di messaggi più profondi e, dal punto di vista della <<dottrina che s'asconde>>, assai più consistenti del mero episodio miracolistico. Donde, in lui, sorga questo felice spessore ermeneutico, così caratteristico della prospettiva esoterica, non è dato di sapere; in ogni caso, il Donnini dà, secondo questo filtro, una sommaria interpretazione di alcuni miracoli, che mi sembra oltremodo soddisfacente. In particolare, ho apprezzato il commento a GV. 5.9-11: il famoso episodio della moltiplicazione dei pani e dei pesci; dove, il pesce - ιχθυς; ricordiamo che fu preso a simbolo del Cristo3 - è presente con una coppia mentre cinque sono i pani. E, giustamente, il Donnini ricorda come due siano i Messia 4 attesi nell'ambiente esseno-zelota - al quale egli fa risalire il primitivo messaggio cristiano - e cinque (il PENTATEUCO) i libri della THORAH. Colpito dalle tesi di questo ricercatore indipendente, gli trasmisi al tempo per e.mail alcune osservazioni che ripropongo qui di seguito ai lettori di Episteme, dal momento che gli interrogativi e gli appunti allora formulati sono per me ancor validi, e costituiscono l'espressione del mio pensiero su un lavoro che reputo di una certa importanza e coerenza. <<…da un collega, mi è stato segnalato il "sito" da Lei curato e così ho potuto conoscere la sua interpretazione del Nuovo Testamento: Le dico subito che m'è apparsa molto innovativa e feconda di risultati anche rispetto a quanto prodotto dalla letteratura scientifica d'autori non cristiani ovvero di autori non sospettabili del pregiudizio conservativo. La verifica logica, interna all'insieme dei testi, quale quella da Lei felicemente sperimentata, si è, nella maggioranza dei casi precedenti, limitata ad argomenti specifici evitando d'affrontare l'intero corpus, canonico e non. Mi sembra ch'Ella ritenga quest'atteggiamento dovuto ad una qualche forma - spesso inconscia - di rispetto mentr'io sarei più propenso a privilegiare l'inerzia, frequente in ambiente accademico e derivante dall'autorità di studi da sempre condotti secondo criteri ben accreditati e sperimentati. 295 Questo detto, ovvero avendoLe fatta presente la mia distanza riguardo a certi conformismi universitari, non posso evitare d'esprimerLe alcune perplessità. Lei dà per scontato che, il Santo Graal, in effetti, dissimuli un Sang Raal ossia ‹‹sangue reale›› (in occitanico?). Ebbene, senza entrare nel merito di ciò che questo dovrebbe significare ma limitandomi ad un'analisi linguistica, io trovo che le indicazioni, da essa ricavabili, conducano altrove: il ‹‹graal›› è una coppa ‹‹grasale›› m'anche un libro, gradale, graduale, il liturgico liber gradalis››; tant'è che i due significati, si ritrovano a coincidere in quelle versioni, nelle quali è fatto cenno ad un'iscrizione αχειροποιητος5 leggibile in un'incisione tracciata sul calice stesso. Il passaggio ‹‹Sanctus Graal > san[ctus]g-raal›› pare, francamente, forzato ed inoltre la fonte - da lei indicata nel noto lavoro dei tre anglosassoni Baigent, Leigh, Lincoln 6 - non è delle più serie, soprattutto perché, l'intera storia del Priorato di Sion, strettamente legata agli altri temi portanti dell'opera, è una mera fantasia elaborata dal Plantard 7 sin dal 1956 con intuibili scopi auto-affabulatori.8 Visto infine come, sull'argomento, tutte le leggende comunemente note non prendano in considerazione quest'accezione dinastica, 9 sarebbe interessante avere - per la genealogia merovingia e per la sua precitata, supposta liaison con le leggende del Graal - un riferimento "scritturale" più affidabile; sul genere, per intenderci, delle inequivocabili affermazioni del Vangelo di Filippo. Di questo possibile riferimento, io non sono a conoscenza ma reputo probabile una mia lacuna e sarei quindi ben lieto di avere da Lei qualche attendibile indicazione in proposito. Sempre in tema di fantasie, Le segnalo come Mircea Eliade, 10 in giovanissima età, avendo accettato di fare una conferenza su Rama, avesse fiduciosamente tratto tutta la sua documentazione da Les Grands Initiés dello Schuré per poi apprendere, con stupore e rabbia, che quanto aveva esposto con tanta passione e convinzione, altro non fosse che una specie di "racconto mistico" dell'inaffidabile autore. Questo per dirLe che, non solo i riferimenti all'Induismo sia miglior cosa reperirli altrove m'anche le notizie sulle antiche iniziazioni (alludo alle modalità di quella da Lei supposta per Lazzaro e quale effettivo retroscena del miracoloso episodio) se - come mi sembra - hanno la stessa origine, non trovano riscontri nella realtà in ogni tempo documentata e, per ragioni assai complesse, meno che mai in un così remoto passato. Tali riti si sono svolti, sempre e soltanto, in forme allusive e la morte alla vita profana, non portava certamente alle condizioni liminari dello stato catalettico di morte apparente.11 La Chiesa, nella sua rigidezza exoterica,12 sta puntando tutto sulla totale storicità delle Scritture; un riflesso di quest'atteggiamento lo si può riscontrare nell'ossessione antignostica dei gruppi più fondamentalisti. Ossessione, che può sembrare immotivata 13 se non si conoscono i risvolti dei quali, appunto, Ella s'occupa nei suoi studi. L'errore di questo arroccarsi è grande, perché è proprio nel punto di vista gnostico che sta la chiave per comprendere il senso di quella "costruzione" di mitologhemi che è il Cristianesimo quale oggi conosciamo14 ma non solo esso, essendo parimenti strutturate - anche se in modi e misure diverse - tutte le forme tradizionali. Non fu per imbastire menzogne che ebbe quindi ad operare quell'ignoto consesso, formato da esponenti qualificati del mondo giudaicocristiano e di quello classico ma per creare, secondo i procedimenti della teurgia, una sintesi (non un complesso sincretico), un organismo, che fosse ‹‹un ponte fra l'uomo e il potere misterioso che pone in essere il mondo››.15 Le ‹‹bugie››16- e non solo quelle - sono venute dopo, specie quando si è persa, sia la cognizione dei fatti, sia la scienza, che permetteva ad una élite di apprezzare il superiore grado di realtà del mito a fronte dello storicismo: è da allora che la storia può creare sgomento.17 296 Credo che, appunto sul piano storico, Ella abbia ottenuto riscontri significativi ed invero suscettibili di importanti sviluppi; Le faccio i miei complimenti ed i migliori auguri.>> Mi rendo conto che, una vera e propria recensione avrebbe comportato un più ampio spazio riassuntivo dei contenuti di quanto invece non sia loro dedicato in una serie di considerazioni rivolte, al momento della loro formulazione, soprattutto allo stesso autore. M'auguro però che tale manchevolezza vieppiù induca il lettore a rivolgersi, direttamente, ai testi in questione. Note 1 Il mio testo di riferimento è quello tratto da un vecchio indirizzo internet non più attivo; adesso, al nuovo recapito (http://vangelo.supereva.it/vangelo.html?p) sono state apportate notevoli modifiche ed arricchimenti. Presumo, comunque, che i testi possano essere ancora discussi nei termini nei quali li affronto ma, chi voglia, può verificare. 2 In rete si può leggere quest'avvertimento: questo libro è stato pubblicato in Italia, nel 1994, da Roberto Massari Editore, CP 144, 01023 Bolsena (VT) Tel. 0761/799831. Il testo è coperto da copyright e la riproduzione in tutto il mondo è soggetta ad autorizzazione da parte della casa editrice. 3 Inteso quale acrostico di Ιησους Χριστος Θεου Υιος Σοτηρ . 4 Uno il Messia regale, davidico, l'Unto del Signore (Re d'Israele) e l'altro il Messia sacerdotale (Sommo Sacerdote). Questa duplicità gemellare presenta alcuni singolari rimandi: intanto è con l'inizio dell'era cristiana che il punto vernale entra nell'asterismo dei Pisces. Costellazione il cui segno astrologico è, appunto, doppio: mentre il suo nome - al pl. - è in ebr. Dogim () . Altro duplice simbolo astrologico è quello dei Gemini (), immagine dell'omofona, spartana ∆οκανα, che, come emblema dei divini gemelli Castore e Polluce, era uno delle insegne della nazione. Inoltre, rimanendo nell'area medio-orientale, il Dio dei Filistei era Dogon () , forse unico ma ittiforme. Però, presso quel popolo, un richiamo alla gemellarità, l'abbiamo e con la stessa struttura della ∆οκανα nelle due colonne sulle quali s'incentra la drammatica fine della storia di Sansone (Gdc. 16.22-30). Su tutte queste coincidenze sarebbe utile intraprendere qualche studio specifico. Cfr. anche il ns. "La Scandinavia e l'Africa" nel n. 2 di Episteme (p.33). 5 Le immagini e le scritte acheropite sono quelle - in specie nel Cristianesimo orientale - reputate essere non opera dell'uomo ma miracolosamente prodottesi per volontà celeste. 6 1a ed. it. Il Santo Graal, Mondadori, 1982. 7 Pierre Plantard de Saint-Clair (il predicato è una fantasia del Sig. Plantard) sarebbe il sedicente, ultimo Gran Maestro del fantomatico Priorato di Sion. 8 Cfr. Jean Robin, Rennes-le-Château, la colline envoûtée, éd Trédaniel, 1982. 9 È la leggenda della sopravvivenza di Gesù, del suo matrimonio con la Maddalena e della loro avventurosa migrazione in Provenza. Da quest'unione sarebbero poi discesi i re Merovingi e da qui scaturirebbe l'indiscutibile sacralità della Prima Razza (dal V sec. alla metà dell'VIII), la cui insostituibile legittimità avrebbe reso usurpatori i sopravvenuti Pipinidi, Carolingi e Capetingi. 10 Le Promesse dell'Equinozio, memorie 1°, 1907 - 1937, Jaca Book, 1995; p. 76. 297 11 Tali "favolose" visioni del tema - che credo il Donnini utilizzi, al fondo, senza malizia - sono purtroppo caratteristiche della non innocente deformazione d'ogni prospettiva iniziatica operata da personaggi quali il noto giornalista Maurizio Blondet, sempre alla ricerca di qualcosa che possa mostrare un supposto lato satanico di questa dimensione del sacro. Tuttora, infatti, l'iniziazione massonica comporta un rito, che sottintende morte (alla vita profana) e resurrezione (alla vita nova). 12 È la ‹‹pietra›› dei Fedeli d'Amore: cfr. Luigi Valli, Il Liguaggio Segreto di Dante e dei Fedeli d'Amore, Il Basilisco, Genova, 1988. 13 Dov'è, infatti, adesso, il rischio di un'eresia gnostica di massa? Eppure questi signori ne parlano con singolare, insistita frequenza. 14 È l'opera di Paolo della quale, ampiamente, scrive il Nostro. 15 La citazione è relativa ad una suggestiva espressione dello stesso Donnini. 16 Ibidem. 17 Su quest'argomento cfr. il ns. "Efficere Deos" nel terzo numero di Episteme. (BdAB) 298 Sintesi delle tesi di Donnini su Marco e Matteo La tesi fondamentale del Donnini sulle origini storiche del cristianesimo, che ci permetteremo di riassumere rimandando al suo sito per un eventuale approfondimento, è che Gesù fu arrestato come pericoloso terrorista dai romani, e che fu da questi processato con l'accusa di essersi dichiarato re dei giudei, stimolando attraverso questa pretesa regalità una resistenza armata all'impero romano, finalizzata a liberare Israele dallo stato di occupazione. Gli elementi che l'autore porta a sostegno della sua tesi sono ricavati da una comparazione tra la versione dei fatti fornita da Giovanni, Marco e Matteo, che porta a rilevare alcune interessanti anomalie e differenze relative alle modalità dell'arresto e del processo di Gesù. E' proprio da Giovanni che Donnini ricava due informazioni essenziali sull'arresto: - il numero (600) di soldati romani utilizzati nella circostanza; - il tentativo di resistenza armata, che vede nell'azione di Pietro (recise con la spada l'orecchio di una delle guardie) la prova dell'opportunità di adottare una precauzione (ben 600 soldati) in apparenza eccessiva. Un'ulteriore deduzione viene avanzata comparando Marco e Matteo. Donnini sottolinea la curiosa simmetria tra il processo a Gesù di fronte a Caifa descritto in Matteo e quello di fronte a Pilato descritto in Marco. Quest'osservazione si associa, a suo parere, all'inesistenza del processo di fronte a Caifa, motivata dalla rilevazione di vari anacronismi, e dal fatto che sarebbe stata ben possibile, contrariamente a quanto si sostiene nei Vangeli, una condanna per lapidazione decisa autonomamente dal gran sacerdote; all'inattendibilità dell'atteggiamento conciliante di Pilato e della liberazione di Barabba, il quale, come fa notare Donnini, veniva denominato nelle antiche versioni dei Vangeli Iesous Barabbas, cioè Gesù Figlio di Dio (Abba = Padre), generando così un'evidente anomala coincidenza. In pratica Matteo sembra, sia rispetto a Marco che a Giovanni, preoccupato di mostrare che i romani non sono responsabili della morte di Cristo, e che gli unici responsabili sono invece gli ebrei. Con questa finalità, inventa un processo di fronte a Caifa, reinterpetrando quella che era solo una consultazione che in Giovanni si svolge di fronte al suocero di Caifa e non di fronte al sommo sacerdote. Un'ultima interessante osservazione, che mostra la scarsa affidabilità di alcuni dei riferimenti in Marco e Matteo, è l'attribuzione del termine Nazareno alla città di Nazaret. Donnini mostra come i riferimenti topologici alla città di Nazaret, sulla base dei recenti ritrovamenti archeologici, siano del tutto errati, arrivando a suppore che Nazaret non esistesse neppure quando i due Vangeli vennero scritti, e che, invece, la città natia di Gesù fosse Gamla, non a caso sede di disordini fomentati dagli zeloti in anni immediatamente a ridosso di quelli che videro il nascere della prima comunità cristiana. Tali osservazioni porterebbero alla conclusione che il Vangelo di Matteo (vedi processo a Caifa) e quello di Marco (vedi problema inerente la città di Nazaret) sono di certo ed entrambi stati rimaneggiati, probabilmente sia a ridosso del periodo che precede il 70 d.c. che successivamente ad esso. In pratica, le affermazioni della patristica, che parlano di una versione del Vangelo degli Ebrei (o dei Nazorei), e che segnalano come questo fosse una versione ridotta del Vangelo di Matteo, priva di alcune parti essenziali quali la genealogia, diverrebbe ora più chiara. 299 Sulla base delle ipotesi ora avanzate e di quelle esposte in precedenza, è possibile allora proporre la seguente ricostruzione complessiva. Il primo vero Vangelo fu scritto in ebraico e da questo furono tratti la versione greca del Vangelo di Matteo e di quello di Marco. Inizialmente i giudeo-cristiani integrarono il loro Vangelo inserendo la genealogia, e lo tradussero in greco per utilizzarlo come controvangelo rispetto a quello predicato da Paolo. Ci sembra poco probabile che siano stati essi ad aggiungere (inventandolo) il processo di fronte a Caifa per evitare il sospetto di attività sovversiva ed antiromana. Sulla stessa base fu, inizialmente, stilato il Vangelo di Marco, ispirato dai suggerimenti di Paolo, ma approvato anche dalla Chiesa di Gerusalemme e da Sila. In tale Vangelo si omisero le parti inerenti la Legge su consiglio di Paolo, e il testo fu approvato da Gerusalemme che non intendeva appesantire l'evangelizzazione dei pagani in linea con le decisioni del Concilio. Con la scomparsa dei giudeo-cristiani seguita alla distruzione del Tempio, l'originale Vangelo degli ebrei redatto in ebraico scomparve, anche grazie anche alla successiva persecuzione contro l'eresia Ebionita. Alla sua traduzione in greco, fatta dai giudeo cristiani con l'aggiunta di parti come la genealogia, vennero aggiunte ancora, in ambito paolino, le sezioni inerenti il processo di fronte a Caifa, con lo scopo di eliminare eventuali messaggi che potessero risultare antiromani. Le modifiche furono sicuramente introdotte dopo il 70 d.c., e quindi dopo la stesura del Vangelo di Luca. La spiegazione della denominazione Gesù Nazareno con una presunta origine del Cristo nella città di Nazaret può essere fatta risalire anch'essa al timore di possibili repressioni da parte dei romani. L'appellativo Nazareno poteva infatti essere associato (e, secondo Donnini, lo era) alla sua appartenenza alle sètte con tendenze indipendentiste, messianiche e sostanzialmente zelote. La modifica fu dettata dalla constatazione che quel Vangelo era ormai troppo diffuso e noto per poterlo dichiarare non valido (del resto era stato probabilmente quello utilizzato dai dodici). Il Vangelo di Marco, non potè essere eliminato, per analoghi motivi e del resto, anche se non abracciava le tesi di Paolo non le negava neppure. Probabilmente alla versione originale greca furono successivamente aggiunte le sezioni inerenti la resurrezione. Il Vangelo di Luca, la cui stesura dovette essere successiva a Matteo e Marco, ma comunque precedente al 70 d.c., fu il primo ad introdurre inventandolo, il processo di fronte a Caifa, ed insieme anche quello di fronte a Pilato. Sulla base del Vangelo di Luca furono, probabilmente non molto dopo il 70 d.c., prodotte le modifiche che abbiamo menzionato alla versione greca di Matteo. Tra queste c'è anche stata, probabilmente, l'introduzione della funzione primaria di Pietro, che ha sostituito quella di Giacomo, per gli ovvi motivi dovuti ai contrasti tra questi e Paolo. Il ruolo guida di Giacomo è viceversa chiaramente indicato nel Vangelo apocrifo di Tommaso, ma è completamente assente nei canonici. L'ipotizzata sequenza delle stesure dei Vangeli può quindi essere schematizzata come segue: Vangelo degli Ebrei in ebraico (autore probabilmente Matteo) Vangelo degli Ebrei tradotto in greco (autori i giudeo-cristiani vicini alla chiesa di Gerusalemme, con l'aggiunta della genealogia) Vangelo attribuito a Marco (non scritto da Marco, ma da un discepolo di Paolo, e non in greco; estratto dal Vangelo degli Ebrei, a meno di parti scomode alla predicazione di Paolo) 300 Vangelo attribuito a Luca (scritto da Dema, lo stesso autore degli Atti; in linea con la Teologia di Paolo, con l'aggiunta del processo a Caifa insieme a quello di fronte a Pilato) Vangelo di Giovanni Versione definitiva del Vangelo di Matteo (ottenuta dalla versione in greco del Vangelo degli Ebrei, rimaneggiato sulla base del Vangelo di Luca; in linea con la teologia paolina) Versione definitiva del Vangelo di Marco (ottenuta aggiungendo le sezioni conclusive sulla resurrezione; in linea con la teologia paolina). Come si evince dalla detta teoria, pur nella numerosità delle versioni, la fonte primaria ed unica dei Vangeli è il Vangelo di Matteo (o Vangelo degli Ebrei), originariamente scritto in ebraico. I rimaneggiamenti (nelle sole versioni greche) e la moltiplicazione dei Vangeli, almeno di quelli cui si è fatto da un certo punto comune riferimento, sono essenzialmente dovuti alla necessità di giustificare (nel caso di cristianesimo che si rifà a Paolo) o di screditare (nel caso contrario di cristianesimo di origine giudea) la teologia ideata da Paolo di Tarso. 301 Anomalie e anacronismi nei Vangeli: alcune obiezioni alle tesi di Donnini Aggiungiamo alla precedente sintesi alcune considerazioni personali, mirate a verificare la rispondenza delle ipotesi avanzate relativamente ai Vangeli di Marco e Matteo nel sito sotto specificato con quelle di Donnini. Questi, sulla base della precisione con la quale nei Vangeli viene descritta la distruzione del Tempio, resta fermamente convinto che la datazione dei Vangeli vada collocata di certo dopo il 70 d.c., anno della distruzione di Gerusalemme da parte delle legioni di Tito. Ad avvalorare questa tesi egli adduce le anomalie già menzionate, che dimostrerebbero una totale non conoscenza dei fatti e dell'ambiente ebraico da parte degli autori dei testi evangelici. Sebbene siamo convinti della presenza di manipolazioni dei testi, non riteniamo però, come fa l'autore in questione, che dette manipolazioni siano avvenute dopo il 70, ma che siano, per lo più, databili tra il 52 ed il 62 d.c., e cercheremo di dimostrarlo nei successivi paragrafi. A Qumran si conosceva la sorte del Messia e di Gerusalemme prima del 70 d.c. Cominciamo con il soffermare la nostra attenzione sull'elemento chiave che Donnini adduce per la posdatazione dei Vangeli: l'impossibilità che gli evangelisti conoscessero ciò che sarebbe avvenuto nel 70. In realtà la cultura essena ed i Manoscritti qumramici ci dimostrano in maniera chiarissima che gli esseni conoscevano benissimo, non solo la sorte della città santa e del Tempio, ma anche la sorte del loro Messia. In tal senso è emblematico il papiro 4Q541, che contiene la intera storia del Messia e le sue caratteristiche: - Colonna I (Frammento 2) - Il Messia parla in parabole (1)... parole ... e secondo la volontà di (2) ... a me. Di nuovo egli scrisse (3) ... Parlerai su di ciò in parabole (4) ... era vinino a me. Quindi fu lontano da me (5) ... la visione sarà profonda ... il furto ... - Colonna II - Consolatore degli afflitti elargitore di sapienza (2) da Dio ... (3) Accoglierai gli afflitti (4) Benedirai i loro olocausti e tu stabilirai per essi un fondamento di pace ... (5) tuo Spirito e ti rallegrerai nel tuo Dio. Ora io vi parlo in parabole ... rallegrati. (6) Ecco un uomo saggio comprenderà che io osservo e comprendo profondi Misteri, così pure io parlo ... parabole (7) Il greco non comprenderà. Ma la Conoscenza della Sapienza verrà su di te poichè hai ricevuto ... acquisirai ... (8) Seguila [la sapienza] e cercala e ne verrai in possesso per inghiottirla. Ecco tu allieterai molti ... molti avranno un luogo. - Colonna IV - L'espiazione, il Verbo eterno, ingiusta condanna del Messia, il dramma degli ultimi tempi e l'esilio del popolo 302 (1) ... la sua Sapienza sarà grande. Farà espiazione per tutti i figli della sua generazione. Sarà inviato a tutti i figli della sua generazione. La sua parola sarà come parola del Cielo ed il suo insegnamento in accordo con la volontà di Dio. Il suo eterno sole brillerà ardente. (3) E il fuoco avvamperà su tutte le estremità della terra. E sulle Tenebre rifulgerà. Allora le Tenebre si allontaneranno (4) dalla terra e l'oscurità dalla terraferma. Pronunceranno storie contro di lui, e diranno ogni genere di infamie su di lui. Egli rovescerà la sua malvagia generazione (6) ci sarà una grande collera. Al suo risorgere vi sarà menzogna e violenza e il popolo errerà nei giorni e saranno confusi. Questo brano, come si vede, appare in perfetta linea con le previsioni apocalittiche che ritroviamo nella profezia degli ultimi tempi che Matteo mette in bocca a Gesù. E se ancora non bastasse ecco la prova finale che i papiri di Qumran, ben prima della distruzione del Tempio, contenevano una perfetta sceneggiatura di ciò che sarebbe avvenuto: - Colonna V - fustigazione del Messia ingiustamente accusato (1) ... e coloro che sono colpiti in relazione a ... (2) ... tuo giudizio ma tu non sarai colpevole ... (3) le sferzate di coloro che ti affliggono ... (4) ... la tua protesta (?) non mancherà e tutto ... (5) il tuo cuore innanzi. - Colonna VI - i tre giorni di Giona, la Crocefissione del Messia e la resurrezione (1) Dio porrà riparo agli errori ... egli giudicherà le colpe svelate ... quindi ... (2) Indaga e ricerca e saprai come Jona pianse. E non sopprimere il debole annientandolo e con la crocifissione ... (3) con un chiodo non lo devi toccare. Allora farai sorgere un nome di Gioia per tuo padre e tutti i tuoi fratelli un saldo fondamento (4) ... Tu vedrai e gioirai nella Eterna Luce e non sarai [odiato da Dio]. Si noti il riferimento a Giona, usato da Gesù per profetizzare i tre giorni che sarebbero passati fino alla resurrezione, e soprattutto l'impressionante riferimento al chiodo e quindi alla crocifissione. Anomalie dell'arresto e dell'ultima cena spiegabili attraverso il substrato esseno Un altro dei temi cari al Donnini, segnalato come indizio chiaro di una manomissione postuma del testo evangelico, è rappresentato dalla cena pasquale e dall'anomalo arresto di Gesù. Riteniamo che entrambi gli aspetti trovino giustificazione piena inquadrando i vangeli (in particolare Matteo) nell'ambito della cultura essena qumraniana. In primo luogo va osservato che la struttura organizzativa del gruppo che Gesù aveva formato rispecchia chiaramente la struttura organizzativa della comunità qumraniana. In essa era prevista un'assemblea di 12 membri laici presieduta da tre sacerdoti: Nel consiglio della comunità (ci saranno) dodici uomini e tre sacerdoti, perfetti in tutto ciò che è stato rivelato dell'intera legge, per praticare la verità, la giustizia, il giudizio, l'amore misericordioso e la condotta umile di ciascuno con il suo prossimo… (1QS Col 8,1). Nel caso della comunità che si riuniva intorno a Gesù i 12 membri sono chiaramente i 12 apostoli e i tre sacerdoti sono Giacomo, Gesù e Pietro (Giacomo, Giovanni e Pietro dopo la 303 morte di Gesù). In particolare a Qumran l'attesa messianica prevedeva non un Messia ma due, uno della stirpe di Aronne (Giovanni il Battista si diceva figlio di Zaccaria, della stirpe di Aronne) che avrebbe dovuto nominare il nuovo principe di Israele, il secondo messia della stirpe di Davide (chiaramente Gesù figlio di Giuseppe della stirpe di Davide). E' emblematico osservare che nelle scritture qumraniche è profetizzata la cena degli ultimi tempi nella quale il Messia di Aronne avrebbe spezzato il pane dandolo per primo al Messia di Davide, e successivamente si sarebbe distribuito del vino giovane (non fermentato). La morte di Giovanni probabilmente fece sì che Gesù assumesse su di sé entrambe le funzioni messianiche. Ma ci potrebbe essere una risposta ancor più interessante che prende spunto da un pezzo originariamente presente nel Vangelo degli Ebrei, probabilmente eliminato successivamente per la centralità che dava alla controversa figura di Giacomo il Giusto, capo della Chiesa di Gerusalemme e della corrente giudaico-cristiana antipaolina: - [10] Dopo la risurrezione del Salvatore, anche il vangelo detto secondo gli Ebrei, recentemente tradotto da me in lingua greca e latina e del quale fa spesso uso Origene, afferma: "Dopo aver dato il sudario al servo del sacerdote, il Signore andò da Giacomo e gli apparve". Giacomo infatti aveva assicurato che, dal momento in cui aveva bevuto al calice del Signore, non avrebbe più preso cibo fino a quando non l'avesse visto risorto dai dormienti. E poco dopo (prosegue): "Portate la tavola e il cibo" dice il Signore. E subito: "Prese il pane, lo benedisse, lo spezzò e diede a Giacomo il Giusto, dicendo: Fratello mio, mangia il tuo pane, poiché il figlio dell'uomo è risorto dai dormienti" (GEROLAMO, De viris ill., 2). Gesù spezza il pane e lo offre a Giacomo che, a questo punto, prende il posto del Messia di Davide: ciò giustificherebbe perché lui, e non Pietro, divenne capo della comunità cristiana di Gerusalemme. In sostanza, i dubbi che Donnini solleva circa l'esistenza stessa della cena o la funzione sacrilega nella cultura ebraica del cibarsi del corpo e del sangue (del pane e del vino) ci paiono infondate. Donnini usa, a nostro avviso, il metro della cultura farisaica, dimenticando che il nocciolo del cristianesimo non è il fariseismo ma l'essenismo qumranico che, sappiamo bene, si discostava alquanto da quella cultura, accettando usanze che erano vietate presso Gerusalemme come la magia, l'astronomia e l'astrologia. A nostro avviso è proprio grazie alla segnatura con il sangue dell'Agnello che ai dodici fu permesso di uscire durante la notte della vigilia di Pasqua per recarsi sul monte degli Ulivi. La notte della vigilia di Pasqua segnava il ricordo, nella cultura ebraica, della strage dei primogeniti avvenuta nella notte che precedette la fuga dall'Egitto. Le case segnate con il sangue dell'agnello immolato non sarebbero state toccate dall'angelo vendicatore. Questa maledizione sarebbe ricaduta su coloro che avessero abbandonato le case in quella notte, e chiaramente impediva ad un ebreo di uscire di casa, salvo che, come nel caso dei 12, l'aver bevuto il sangue dell'Agnello non simboleggiasse il segno posto sulla "casa del cuore". E che Gesù non intendesse mangiare carne ma probabilmente far mangiare il simbolo di essa è richiamato sempre negli scritti della patristica a proposito del Vangelo degli Ebrei: [6] Abbandonando il vero ordine delle parole, alterano la frase, sebbene sia chiara da tutto il contesto delle parole, e fanno dire ai discepoli: "Dove vuoi che ti prepariamo da mangiare la pasqua?". Al che egli rispose: "Forse che io ho desiderato mangiare carne con voi in questa pasqua?" (EPIFANIO, op. cit., 30, 22, 4). 304 Diversa è invece la motivazione che adduciamo a sostegno della veridicità dell'arresto praticato durante la notte di Pasqua, segnalato invece da Donnini come ulteriore anomalia. Gli esseni qumraniani utilizzavano un calendario solare di 364 giorni che differiva sostanzialmente da quello ebraico in uso a Gerusalemme che invece era lunare. Il papiro 4Q321 ci consente oggi di conoscere il ciclo calendariale di 6 anni previsto per questo calendario, e di conoscere l'equivalente giorno nel calendario ebraico. Oggi sappiamo, ad esempio, che la vigilia della Pasqua essena veniva festeggiata in giorni diversi da quella ebraica e cadeva sempre di Martedì. Ora caso vuole che, nel primo e terzo anno del ciclo, la vigilia di Pasqua ebraica cada esattamente un giorno dopo quella essena, e quindi di Mercoledì. Grazie a questa costatazione possiamo dare soluzione al problema sollevato da Donnini, e pure ad un'altra anomalia che Donnini non ha notato: quella dei 3 giorni di Giona. Se supponiamo che Gesù seguisse l'usanza essena, egli festeggiò la Pasqua di Martedì, il giorno prima della vigilia della Pasqua ebraica, quindi fu sicuramente possibile l'arresto condotto dai farisei in un giorno che, per loro, non era tabù. Inoltre la versione ufficiale della Passione prevede la morte il Giovedì, e di conseguenza resterebbero soltanto 2 giorni (Venerdì e Sabato) "nel ventre della terra", e non 3, come previsto dalla profezia in Matteo (12,40): "Come infatti Giona rimase tre giorni e tre notti nel ventre del pesce, così il Figlio dell'uomo resterà tre giorni e tre notti nel cuore della terra". Per spiegare questa anomalia bisogna, prima di tutto, ricordare che gli ebrei misuravano il tempo da tramonto a tramonto, successivamente possiamo avanzare la seguente ricostruzione: 1 - Martedì sera, arresto e processo con Caifa; 2 - Mercoledì mattina, crocifissione; 3 - Mercoledì, alle 3 del pomeriggio, la morte di Gesù. Essendo il Mercoledì la vigilia della Pasqua ebraica, è chiaro che il significato che assume Gesù è proprio quello dell'Agnello che viene sacrificato nella vigilia di Pasqua prima del tramonto. In questo modo vi è l'automatica maledizione non di tutti gli ebrei ma dei soli Farisei, colpevoli di aver interpetrato, come afferma Matteo, la legge con metro di uomini. Si comprende, così, perché quello di Gesù era il sacrificio di un giusto che malediceva gli ingiusti: i farisei e la loro falsa Pasqua. Quel sacrificio doveva segnare la fine dei successivi sacrifici che sarebbe avvenuta di lì a poco con la distruzione del Tempio. Ancora una volta ci viene in aiuto la patristica che sempre con riferimento al Vangelo degli ebrei scrive: - riferito in quel cosiddetto vangelo secondo gli Ebrei: "Io sono venuto ad abolire i sacrifici. E se non cesserete dall'offrire sacrifici, non desisterà da voi l'ira" (EPIFANIO, op. cit., 30, 16, 4-5). Si noti che i 3 giorni e le tre notti tornano, a questo punto, perfettamente: - Mercoledì, Giovedì e Venerdì sera; - Giovedì, Venerdì e Sabato mattina. 305 Ma c'è di più, questa ricostruzione elimina un'altra anomalia non sottolineata da Donnini: la sigillatura operata dai farisei della tomba di Gesù il Sabato sacro, impossibile secondo la tradizione ebraica. Infine essa ci pare perfettamente conciliabile con il solo Vangelo di Matteo che afferma che la sigillatura avvenne "il giorno dopo che era Parasceve". Marco interpretò questo termine, dall'ebraico probabilmente, con l'equivalente termine greco avente il significato di Preparazione al sabato: cioè Venerdì. Nel Matteo ebraico, probabilmente, questo termine era la distorsione del termine Erev Pesah cioè Vigilia di Pasqua, distorsione introdotta dagli esseni per distinguere, probabilmente, la loro "vera" vigilia di Pasqua da quella falsa farisaica. In buona sostanza Marco ha generato, traducendo male il termine Parasceve (Erev Pesah farisaica e quindi Giovedì) con "Preparazione" (al sabato) e quindi Venerdì determinando gli errori nei successivi Vangeli Luca e Giovanni. Vicinanza di Matteo alla cultura qumranica Donnini ritiene possibile, se non reale, l'esistenza di un Vangelo degli Ebioniti, o un protoMatteo, segnalata dalla patristica, ma, a suo giudizio, gli elementi che abbiamo menzionato ed altri che vedremo nei successivi paragrafi dimostrebbero che la nostra versione di questo Vangelo sia molto distante da quello che, a suo giudizio, è l'unico testo scritto prima del 70. A nostro avviso ci sono viceversa fondati motivi per ritenere il testo di Matteo estremamente vicino alla versione originaria del proto-Matteo ebraico, e questi indizi sono da ricercarsi, in linea anche con quanto ritenuto da Donnini, nell'essenismo dell'autore. Vogliamo, in tal senso, mostrare il seguente brano tratto dal papiro 4Q521. Frammento 1 Colonna II (1) ... i Cieli e la terra obbediranno al suo Messia (2) ... e tutto quanto è in essi. Egli non si allontanerà dai comandamenti santi. (3) Mantenendoli saldi al suo servizio, (voi) che cercate il Signore. (4) Non troverete forse in questo il Signore, tutti voi che aspettate pazientemente nei vostri cuori? (5) Perché il Signore visiterà i Pii (Hassadim) e i Giusti (Zadddikim) li chiamerà per nome. (6) Sull'umile poserà il Suo Spirito e ristorerà il Fedele con il suo Potere. (7) Egli glorificherà i Pii (Hassidim) sul Trono del Regno Eterno. (8) Libererà i prigionieri, ridarà la vista ai ciechi, risolleverà gli oppressi ... (9) Per sempre aderirò a Lui ... e avrò fiducia nella sua Pietà [Hased è anche Grazia] (10) e la Sua bontà ... della Santità non sarà differita (11) E in quanto alle azioni gloriose che sono opera del signore quando lui ... (12) allora risanerà i malati, farà risorgere i morti e annuncerà agli umili felici notizie (13) ... Egli guiderà i santi.Egli li condurrà, Egli farà ... e tutto il suo ... Frammento 1 Colonna III (1) e la Legge sarà perseguita. Li libererà ... (2) Tra gli uomini, i padri sono onorati dinnanzi ai figli ... (3) Canterò (?) la benedizione del Signore con il suo favore ... (4) La terra andrà in esilio in ogni luogo ... (5) E tutto Israele in esilio ... Gesù (in Matteo, 11,4-6) sembra richiamare proprio questa brano quando vuole mostrare a Giovanni che in lui si avverano le profezie: "Gesù rispose: Andate e riferite a Giovanni ciò che voi udite e vedete: i ciechi ricuperano la vista, gli storpi camminano, i lebbrosi sono guariti, i sordi riacquistano l'udito, i morti risuscitano, ai poveri è predicata la buona novella, e beato colui che non si scandalizza di me". 306 In pratica Gesù segue il canovaccio delle scritture qumraniane. Il fatto che questo brano appartenga a Matteo e non a Marco, ed il fatto che Matteo preceda di certo Luca, ci testimoniano come questo testo contenga elementi che non possono che provenire dalla cultura esseno-qumranica che costituì, a nostro avviso, e ad avviso dello stesso Donnini, il substrato per il nascente Cristianesimo. L'automaledizione degli ebrei non è inattendibile Un altro degli elementi che Donnini adduce per ritenere postuma la stesura dei testi evangelici è la frase con la quale gli ebrei maledicono se stessi nel Vangelo di Matteo (27, 24-25): "Pilato, visto che non otteneva nulla, anzi che il tumulto cresceva sempre più, presa dell'acqua, si lavò le mani davanti alla folla: "Non sono responsabile", disse, "di questo sangue; vedetevela voi!". E tutto il popolo rispose: "Il suo sangue ricada sopra di noi e sopra i nostri figli"." Alcuni elementi presenti nelle lettere paoline ci inducono a ritenere che Paolo avesse conosciuto la versione ebraica del Vangelo di Matteo utilizzata dai suoi oppositori a Corinto. In particolare la versione dell'ultima cena che ritroviamo nella prima lettera ai Corinzi (Cor. 1,23-27), con l'enfasi posta sulla funzione di remissione dei peccati, e soprattutto le parole utilizzate da Paolo a Corinto quando, in seguito all'abbandono di Sila, egli decide di concludere la predicazione ai giudei: "Il vostro sangue ricada sul vostro capo: io sono innocente" (Atti 18,6); frase, questa, che ha due soli paralleli apprezzabili nel Nuovo Testamento: - Mt 23,34-35: "Perciò ecco, io vi mando profeti, sapienti e scribi; di questi alcuni ne ucciderete e crocifiggerete, altri ne flagellerete nelle vostre sinagoghe e li perseguiterete di città in città; perché ricada su di voi tutto il sangue innocente versato sopra la terra", e coincide soprattutto con l'invettiva pronunciata dagli ebrei contro Gesù al momento della sua condanna morte nel Vangelo - appunto secondo Matteo - quella che Donnini ritiene anacronistica, ma che invece sembra ispirare Paolo ben prima del 70 d.c. (52 d.c.). In pratica, la maledizione lungi dall'essere inattendibile è stata realmente inserita nel proto-Matteo, e non riguarda tutti gli ebrei ma i soli Farisei e Scribi, rientrando perfettamente nella polemica antifarisaca caratteristica di Matteo e comune ai testi qumraniani. In questo contesto ci pare plausibile anche il dito puntato contro Caifa e contro il sinedrio e di conseguenza lo stesso processo alla presenza di Caifa. Il ritrovamento recente della tomba di Caifa, in cui è stato rinvenuto il teschio con una moneta tra i denti, chiara usanza pagana, testimonia l'ambiguità di questo personaggio. Tale ambiguità nel contesto dei documenti qumraniani quali le "Lettere sulle opere di Giustizia", che criticano aspramente le cerimonie al Tempio, e le violazioni delle norme di purezza compiute dagli stessi sacerdoti, ci sembrano giustificare l'atteggiamento ostile alla classe sacerdotale, e prima di tutto a Caifa, nel testo di Matteo. A partire da questa constatazione, dalla situazione personale di Paolo a Corinto fortemente avversato dai giudeo-cristiani, e da alcuni elementi riscontrabili nel Vangelo di Marco (Mc 15,21), quali la presenza di Alessandro il ramaio Efesino, (Atti 19,31) scomunicato da Paolo nel 62 a Roma, (I Tim. 1,20 e II Tim. 4,14), e di Rufo, personaggio anch'esso presente ad Efeso nel 52d.c. (Rom. 307 16,3), riteniamo di poter collocare la stesura del Vangelo di Marco ad Efeso nel 52d.c. Il testo doveva servire per contrastare le parti pericolose per la nascente teologia paolina. Partendo quindi dalla versione ebraica di Matteo, Paolo fece redigere il testo, con l'omissione di elementi quali: - il discorso della Montagna, con il richiamo alla validità della Legge; - la polemica antifarisaica (Paolo era Fariseo); - la supremazia di Pietro (che Paolo avversava, vedi le lettere ai Corinti e ai Galati); - la funzione centrale del battesimo di Giovanni come premessa necessaria alla missione di Gesù (Paolo, proprio ad Efeso, incontra un gruppo di giudei convertiti al battesimo di Giovanni e vuole sminuirne la portata) Con la scomparsa dei giudeo-cristiani seguita alla distruzione del Tempio, il Vangelo degli ebrei originale in ebraico scomparve, anche grazie alla successiva persecuzione contro l'eresia Ebionita. Diversa sorte toccò al Vangelo di Marco, che Paolo inviò nella capitale - a nostro avviso, per mano del gruppo di giudeo-cristiani di rientro da Efeso - insieme alla Lettera ai Romani. Il fatto che quel testo fu scritto in un greco approssimativo, ben diverso dal greco del testo di Matteo, è a nostro avviso una prova che l'autore non era un asiatico ma, probabilmente, un giudeo-romano, buon conoscitore dell'ebraico, che tradusse il testo ebraico di Matteo ponendo enfasi sulla sua conoscenza della cultura ebraica e dei luoghi della Giudea per sopperire ad una evidente totale mancanza di informazione sui fatti narrati (la sua unica fonte è il testo ebraico di Matteo). La presenza a Roma del testo e la leggenda della discesa a Roma del primo degli apostoli e del suo legame stretto con Paolo favorirono, a nostro avviso, l'attribuzione di questo testo ad un personaggio che sicuramente non può essere il vero autore, e cioè Marco (che non era ad Efeso nel 52 d.c.), figlio del primo degli apostoli (1 Pt. 5,12 , Mt 8,14). Luca, venuto in possesso dei due Vangeli, Marco e Matteo, utilizzò Marco come canovaccio confermandone alcune scelte, e Matteo per integrare le narrazioni. Alcune modifiche, probabilmente, furono introdotte dopo il 70, e dopo la stesura del Vangelo di Luca. Anche la presenza della giustificazione dell'appellativo Nazareno con la pretesa origine di Gesù nella città di Nazaret giustifica, per le motivazioni già addotte, l'attendibilità di questa ipotesi. Il Vangelo di Luca, la cui stesura dovette essere successiva a Matteo e Marco, ma comunque precedente al 70 d.c., calcò la mano sull'innocenza di Pilato, ed introdusse le sezioni del Capitolo 23,6-16 con le quali si discolpava lo stesso Erode, facendo ricadere, però , la colpa non più sui soli Farisei e Scribi - come avveniva in Matteo - ma su tutti gli Ebrei, scelta che verrà confermata anche nel successivo volume attribuito al medesimo autore: gli Atti. Questa scelta antisemita aveva avuto origine dallo scisma tra Paolo ed il giudeo-cristianesimo gerosolomitano, di cui troviamo una chiarissima traccia nella prima lettera di Paolo ai Tessalonicesi (1,14-16): " … come loro da parte dei Giudei, i quali hanno perfino messo a morte il Signore Gesù e i profeti e hanno perseguitato anche noi; essi non piacciono a Dio e sono nemici di tutti gli uomini, impedendo a noi di predicare ai pagani perché possano essere salvati". I motivi che ci spingono a credere che la stesura di questo testo sia collocabile a Gerusalemme nel 58 d.c. sono molteplici: - l'autore degli Atti si riaggancia al suo precedente testo, il Vangelo di Luca; - gli Atti terminano ispiegabilmente nel 62 d.c. con gli arresti domiciliari a Roma di Paolo; 308 - l'autore è testimone oculare di alcuni dei fatti narrati negli Atti: in particolare è presente in tutti i viaggi via mare dopo il Concilio di Gerusalemme (Atti 15); - l'autore non può aver conosciuto ed approfondito i fatti che narra se non durante l'ultimo drammatico viaggio a Gerusalemme di Paolo nel 58 d.c., con il suo soggiorno di 2 anni (solo in quella data potè avere qualche contatto con la chiesa gerosolimitana); - non esiste alcun motivo valido che giustifichi la sospensione della narrazione delle vicende paoline al 62 d.c., se non che quello è l'anno in cui fu terminata la stesura del libro. Dubbi seri nascono in relazione all'attribuzione di questo testo al medico Luca (Col. 4,14). L'autore sembra un ottimo conoscitore di tecniche di navigazione ed è presente sempre nei viaggi che coinvolgono percorsi via mare (in particolare sulla rotta Triade Tessalonica); viceversa non si può dire lo stesso per le sue conoscenze mediche, che paiono scadenti. Riteniamo di poter identificare l'autore non in Luca, ma in Dema sulla base delle seguenti constatazioni: - la detta altrimenti inspiegabile interruzione degli Atti nel 62; - l'abbandono di Paolo da parte di tutti gli asiatici a Roma, ultimo dei quali fu Dema (abbandona Paolo e parte per Tessalonica (II Tim. 4,10); - la permanenza del solo Luca con lui (II Tim. 4,11); - il fatto che nelle lettere Luca e Dema sono sempre menzionati insieme. Ricapitolando, la sequenza delle stesure dei Vangeli da noi ipotizzata può essere schematizzata come segue: Vangelo degli Ebrei in ebraico (autore probabilmente Matteo - scritto intorno al 42-48) Vangelo attribuito a Marco (non scritto da Marco ma da un discepolo di Paolo, un giudeo-romano rifugiatosi ad Efeso dopo la persecuzione di Claudio, e ritornato a Roma tra il 52 ed il 54, recando la lettera ai Romani che annunciava l'imminente arrivo di Paolo nella capitale. Questo testo rappresenta un estratto dal Vangelo degli Ebrei, a meno di parti scomode alla predicazione di Paolo) Vangelo degli Ebrei tradotto in greco (Matteo in greco) (autori i giudeo-cristiani vicini alla chiesa di Gerusalemme, con l'aggiunta della genealogia e della natività - scritto intorno al 52-58) Vangelo attribuito a Luca (scritto da Dema, lo stesso autore degli Atti, intorno al 58-60) Atti degli apostoli (scritti dallo stesso Dema, intorno al 62) Vangelo di Giovanni Versione definitiva del Vangelo di Matteo (ottenuta dalla versione in greco del Vangelo degli Ebrei, rimaneggiato sulla base del Vangelo di Luca, e in linea con la teologia paolina) 309 Versione definitiva del Vangelo di Marco (ottenuta aggiungendo le sezioni conclusive sulla resurrezione, ancora in linea con la teologia paolina). Conclusioni Molte delle discrepanze e delle anomalie riscontrate da Donnini nei Vangeli sembrano sollevare seri dubbi sull'affidabilità storica del contenuto di questi, e, all'apparenza, sembrano giustificabili solo supponendo che la data della loro stesura sia molto lontana dagli eventi narrati. In realtà questa conclusione, peraltro sostenuta pressoché unanimemente dalla moderna esegesi, prescinde da un'irrinunciabile chiave di lettura: la lotta tra il giudeo-cristianesimo di origine esseno-qumranica ed il cristianesimo paolino. Testi come Marco e Luca, pur elaborati in date prossime a quelle degli eventi narrati, rivelano una totale mancanza di informazione o comunque una informazione estremamente approssimativa, ma questa caratteristica è spiegabile osservando la distanza fisica e culturale abissale che separa Paolo (nel cui ambito nascono i due testi) dalla comunità gerosolimitana e giudeo-cristiana. A differenza di Donnini, non riteniamo che tali opere abbiano subito rimaneggiamenti pesanti in anni successivi al 70, se non per le parti che li ricollegano saldamente alla cultura giudeo-cristiana (in particolare per l'omissione totale dei rapporti tra Gesù e il fratellastro Giacomo, e la designazione di questi quale capo della nascente comunità cristiana alla morte di Gesù). La loro diffusione doveva essere già notevole, e la stessa constatazione che ci sono pervenute diverse versioni dei Vangeli, che pur mantenendo contenuti simili vengono distinte per il nome dell'autore, ci dimostra che più che rimaneggiare testi manipolandone il contenuto, si era soliti stenderne di nuovi. Del resto è difficile pensare che testi di così larga diffusione, (abbiamo segnalato l'uso del Matteo ebraico nelle regioni greche evangelizzate da Paolo) potessero subire rilevanti modifiche, se, come abbiamo ipotizzato, se ne colloca la stesura in anni in cui erano ancora vivi i testimoni oculari. Insomma, ferma restando l'inattendibilità di Marco e Luca, riteniamo che Matteo, per la vicinanza estrema ai testi qumranici che erano ignoti a qualunque altra letteratura a noi pervenuta, rappresenti, nel complesso, il più attendibile del Vangeli. (Sabato Scala) E-mail: [email protected] [email protected], http://www.il13moapostolo.cjb.net/ Il portale della ricerca storica innovativa sulle Origini del Cristianesimo 310 La doppia anima del Cristianesimo (Mario Smargiassi) L'ipotesi di una doppia anima del cristianesimo primitivo, ovvero di una polarizzazione del primo dibattito cristologico attorno a due opposte interpretazioni della missione storica di Gesù, mi pare la più plausibile per spiegare le numerose oscillazioni e contraddizioni che emergono da una lettura, anche superficiale, dei testi evangelici. Queste contraddizioni, ad una prima analisi davvero sconcertanti, appaiono in diversa luce se dislocate in un ambito evolutivo e diacronico, se cioè nel loro insorgere si ravvisano le dinamiche conflittuali di una comunità religiosa che tentava faticosamente di ridisegnarsi e riorganizzarsi dopo i tragici avvenimenti del 70 d.C. Il cristianesimo come dottrina della salvezza di tutti gli uomini non sarebbe allora l'autentico nucleo della predicazione del Gesù storico, che non aveva alcuna intenzione di fondare una religione extragiudaica e che, in modo del tutto coerente, affermava di essere venuto soltanto per le "pecore perdute della casa di Israele". L'impressione tratta dai miei primi studi sulle origini del cristianesimo è che più ci avviciniamo al Gesù della storia, più risulta sfocata ed improbabile l'immagine del predicatore pacifico, apolitico, filo-romano, anti-ebreo che la tradizione ecclesiastica ha consolidato lungo i secoli e che tuttora splende incontrastata nella mente di moltissimi credenti e non-credenti. Paradossalmente, i risultati dell'indagine storica sulla figura di Cristo conducono ad una erosione delle differenze che tradizionalmente hanno diviso la fede di ebrei e cristiani: non nel senso, puramente apologetico, di un superamentoinveramento, di una Aufhebung, per cui il cristianesimo sarebbe la verità più profonda dell'ebraismo, il compimento delle promesse dell'ebraismo; ma nel senso, assai meno rassicurante per i cristiani, di una totale e consapevole appartenenza di Gesù Cristo alle proprie radici giudaiche. Gesù era ebreo e tale voleva restare; il "regno di Dio" che egli intendeva stabilire tra gli uomini era, con ogni probabilità, un regno di questo mondo. Fin dai primi decenni di vita del cristianesimo, l'appello di Gesù alla preparazione del "regno" è stato rimodellato nelle sue linee essenziali, cioè privato della pungente ed inequivocabile accezione politica che originariamente possedeva, e interpretato in termini puramente spirituali e trascendenti. Del resto, è estremamente significativo il fatto che gli stessi Vangeli canonici, per molti aspetti frutto del revisionismo paolino, manifestino le tracce indelebili della dimensione messianico-politica della predicazione di Gesù (l'interesse per la questione del tributo, la presenza di combattenti zeloti nella cerchia degli apostoli, l'episodio della "purificazione del tempio", la condanna a morte per sedizione, la crocifissione, ecc.). Questi elementi attraversano come un filo rosso la narrazione evangelica e sconfessano patentemente la diffusa convinzione secondo la quale Gesù avrebbe compiuto la propria missione storica in una sovrana indifferenza rispetto ai fermenti politici del suo tempo, chiudendo gli occhi sulla situazione reale del suo popolo, o addirittura santificando il giogo dell'oppressione romana con la dottrina dell' "amore per il nemico". E' assai più probabile, come molti studiosi hanno fatto notare, che i capisaldi di questa celebre dottrina siano stati elaborati da Paolo, che non era affatto interessato alla concreta figura storica di Gesù, ma al Cristo eterno e trascendente, paradigma della parola divina, redentore dell'umanità intera, estraneo alle vicende particolari che punteggiano la storia dei popoli e decidono del loro destino terreno. 311 Questo Cristo paolino, divinizzato e degiudaizzato, quindi lontanissimo dal Gesù condannato a morte da Pilato e crocifisso come "re dei Giudei", era l'incarnazione di tensioni ed esigenze profonde che la catastrofe del 70 d.C. avrebbe ulteriormente radicalizzato e condotto ad una soglia critica. Il lento tramonto delle prospettive di liberazione dal dominio romano giocò in favore della riforma paolina e, con la scomparsa della Chiesa di Gerusalemme, che rappresentava per così dire l'anima giudaica del cristianesimo primitivo, cioè quella più vicina al Gesù storico, la nuova immagine di Gesù divenne sempre più vincolante ed "autentica". La storia, com'è noto, è scritta dai vincitori. Il cristianesimo riformato di Paolo è il cristianesimo che ha vinto la lotta per l'esistenza, è la forma di cristianesimo che la storia ha selezionato e trasmesso fino ai nostri giorni, nonostante tutte gli scismi, le divisioni, le eresie che ne hanno segnato il cammino. Senza potermi ora addentrare nella ricerca delle cause di questo successo, vorrei proporre un'ipotesi: il cristianesimo paolino è sopravvissuto alle tempeste della storia non tanto per la sublimità dei valori che incarnava, quanto per l'estrema indeterminatezza dei contorni della sua dottrina, una indeterminatezza che ha significato flessibilità ed adattabilità del messaggio al mutare delle situazioni economiche, politiche e sociali. Solo al prezzo di questo "principio di indeterminazione" il cristianesimo avrebbe potuto sopravvivere nelle difficili congiunture storiche che, di volta in volta, ha dovuto affrontare; configurandosi, di volta in volta, come religione dei martiri o degli imperatori, dei re taumaturghi o dei giacobini, del socialismo popolare o del capitalismo selvaggio, della teocrazia politica o della secolarizzazione tecnologica. Non bisogna passare sotto silenzio, poi, la frequente riscoperta degli aspetti "militaristici" della missione di Gesù in situazioni contingenti di pericolo per la Chiesa: in tali circostanze, non è stato certo l'amore per il nemico a proteggere i vecchi equilibri dalla minaccia di dissoluzione; semmai, è stata la pura e semplice volontà di potenza, talvolta esercitata in modo brutale. Una volontà di potenza che, attualmente, appare sopita o che, quantomeno, percorre strade meno violente ed autoritarie; ma ciò avviene proprio perché minori sono i pericoli per la stabilità complessiva della Chiesa. Oggi, l'Occidente sembra un cimitero di ideologie e il cristianesimo è di fatto l'ultima grande "ideologia" capace di infiltrarsi con successo nelle maglie della società capitalistica matura e di costituire anche (ma fino a che punto?) un'alternativa, adombrando una prospettiva di trascendenza e di salvezza nel macrocosmo di una civiltà tecnologica alle prese con problemi ed inquietudini che nascono dal suo stesso cuore. E-mail: [email protected] 312 Dio non avrebbe mai scritto un libro come la Bibbia (David Donnini) La Bibbia: il Libro dei libri, la scrittura più tradotta, stampata e diffusa in tutto il mondo... Per molti (centinaia di milioni di esseri umani, o forse miliardi) essa è la "parola di Dio", ovverosia ciò che il Creatore in persona avrebbe voluto comunicare agli uomini, nel corso della storia, attraverso la penna di scrittori ispirati. Anche se esistono vaste aree del pianeta in cui non prevale la civiltà cristiana (Cina, India, paesi arabi...) la parte tecnologicamente ed economicamente più evoluta dell'umanità è caratterizzata da questo elemento comune: la Bibbia come riferimento culturale e spirituale. Negli Stati Uniti si trova una Bibbia nel comodino di ogni camera d'albergo e il presidente eletto giura il suo impegno di fedeltà sulla Bibbia. In conseguenza di ciò la Bibbia fornisce alcuni criteri fondamentali nella struttura del nostro pensiero, della nostra etica, delle nostre scelte, del nostro comportamento. E questo, naturalmente, sia in coloro che la riconoscono come autorità spirituale, sia in coloro che non la accettano. Ovviamente la Bibbia è un testo di importanza enorme, non fosse altro per il fatto che essa è il pilastro culturale dell'occidente, ma anche perché essa costituisce, come scrittura che ci giunge dai lontani secoli trascorsi, una delle più importanti fonti storiche per la conoscenza del passato, della storia, delle tradizioni, della cultura antica, delle credenze. In questo senso essa non ha comunque un particolare primato, dal momento che si affianca ad altre opere altrettanto importanti che, come la Bibbia, ci mettono in contatto con le civiltà di un tempo e con le loro tradizioni: l'epopea di Gilgamesh, la mitologia greca, i testi vedici e il Mahabaratha, ecc... Se oppongo alcune critiche alla Bibbia, non é ad essa in quanto tale, ma all'approccio culturale che il mondo occidentale ha nei confronti di quel testo. Il problema, infatti, non è il fatto di leggere o di studiare la Bibbia, ma il fatto di credere ciecamente che essa sia la "parola di Dio" e che i valori e l'etica da essa rappresentati siano valori universali, sicuri in quanto firmati da Dio in persona, indiscutibili nella loro positività data per scontata. Sebbene la Bibbia debba comunque essere considerata un punto importante di riferimento culturale, il genere di approccio che abbiamo appena descritto può essere letteralmente calamitoso e, di fatto, lo è moltissimo. Ai tempi di Galileo Galilei e, poi, di Charles Darwin l'attaccamento dogmatico alla Bibbia costituì in modo particolarmente evidente un infelice ostacolo al progresso della conoscenza e alla libertà della ragione. Vogliamo forse credere che l'epoca dell'oscurantismo biblico sia ormai conclusa? È facile distinguere i fattori inibitori del pensiero, quando questi appartengono ad un passato ampiamente superato, ma non è altrettanto facile vederli mentre essi sono operativi, mentre siamo noi stessi circondati dal presente e dai suoi condizionamenti psicologici e culturali. Talmente radicata è la consuetudine di considerare la Bibbia come una fonte di verità assoluta, consuetudine prodotta e difesa dall'istituzione ecclesiastica, spesso coi metodi di una atroce tirannia, che oggi è impresa quasi sovrumana il tentativo di sostenere e diffondere un atteggiamento critico nei confronti della Bibbia, dei suoi contenuti e della sua autorità. Il primo effetto è, innanzitutto, quello che l'operazione sia fraintesa come una crociata sterminatrice, con tanto di cataste di libri le cui pagine vanno a fuoco nel mezzo di una piazza in cui si è data appuntamento una folla di esaltati miscredenti. In realtà queste barbarie, a suo tempo, furono compiute proprio da coloro che volevano imporre e difendere 313 l'autorità indiscussa della Bibbia, con la differenza che l'odore, oltre a quello della carta bruciata, era assai spesso quello della carne umana. Senz'altro, nella lunga e varia raccolta delle possibili attitudini ci sarà anche una ostilità violenta e inculturale verso la Bibbia, ma non è questo il mio caso, e non è il caso della grande maggioranza di coloro che sono favorevoli ad un approccio critico nei suoi confronti. Se potessimo leggere la Bibbia con atteggiamento libero dalla suggestione culturale che secoli di consuetudine e di autorità hanno determinato, sarebbe molto semplice convincersi innanzitutto di un fatto: che essa è un grandissimo testo di epica, di storia, di geografia, di poesia, di teologia e di filosofia, di cui l'autore più improponibile è esattamente il Creatore dell'universo. Già fin dalle prime pagine della Genesi troviamo una serie di concetti (che ispirano le religiosità ebraica e cristiana, ma indirettamente anche quella islamica) che difficilmente un Dio creatore di tutto l'universo avrebbe mai potuto indicare all'umanità come principi spirituali: 1 - innanzitutto perché la Bibbia nega, con la sua rappresentazione dell'evento creativo, una visione evoluzionistica, "...Dio fece le bestie selvatiche secondo la loro specie e il bestiame secondo la propria specie e tutti i rettili del suolo secondo la loro specie. E Dio vide che era cosa buona..." [Gen I, 25], 2 - poi perché stabilisce una visione totalmente antropocentrica: "...Dio disse: - Facciamo l'uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza..." [Gen I, 26], 3 - e ancora perché stabilisce una superiorità di principio dell'uomo sulla donna, configurando un maschilismo assoluto: "Poi il Signore Dio disse: - Non è bene che l'uomo sia solo: gli voglio fare un aiuto che gli sia simile -. Allora il Signore Dio plasmò dal suolo ogni sorta di bestie selvatiche e tutti gli uccelli del cielo e li condusse all'uomo, per vedere come li avrebbe chiamati: in qualunque modo l'uomo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi, quello doveva essere il suo nome. Così l'uomo impose nomi a tutto il bestiame, a tutti gli uccelli del cielo e a tutte le bestie selvatiche, ma l'uomo non trovò un aiuto che gli fosse simile. Allora il Signore Dio fece scendere un torpore sull'uomo, che si addormentò; gli tolse una delle costole e rinchiuse la carne al suo posto. Il Signore Dio plasmò con la costola, che aveva tolta all'uomo, una donna e la condusse all'uomo..." [Gen II, 18-22], "Alla donna disse: ... verso tuo marito sarà il tuo istinto, ma egli ti dominerà" [Gen III, 16] 4 - e ancora perché, invece di insegnare il rispetto per la natura, dichiara che l'umanità può soggiogare a suo libero piacimento la terra e tutti gli esseri che vivono in essa: "Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra; soggiogatela e dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente, che striscia sulla terra..." [Gen I, 28] 5 - e ancora perché il Dio biblico stabilisce il concetto supremo della colpa e del castigo, stabilendo persino che le colpe dei padri ricadono sui figli: "...All'uomo disse: -Poichè hai ascoltato la voce di tua moglie e hai mangiato dell'albero, di cui ti avevo comandato: Non ne devi mangiare, maledetto sia il suolo per causa tua! Con dolore ne trarrai il cibo per tutti i giorni della tua vita. Spine e cardi produrrà per te e mangerai l'erba campestre. Con il sudore del tuo volto mangerai il pane; finchè tornerai alla terra, perchè da essa sei stato tratto: polvere tu sei e in polvere tornerai!-..." [Gen I, 17-19]. 6 - e infine perché insegna una visione razzista dei rapporti fra gli uomini, con popoli che sono benedetti ed altri che sono maledetti: 314 "...I figli di Noè che uscirono dall'arca furono Sem, Cam e Iafet; Cam è il padre di Canaan. Questi tre sono i figli di Noè e da questi fu popolata tutta la terra..." [Gen IX, 18-19], "...allora disse: - Sia maledetto Canaan! Schiavo degli schiavi sarà per i suoi fratelli!" [Gen IX, 25], "...Disse poi: - Benedetto il Signore, Dio di Sem, Canaan sia suo schiavo! Dio dilati Iafet e questi dimori nelle tende di Sem, Canaan sia suo schiavo!..." [Gen IX, 26-27], "...I figli di Iafet: Gomer, Magog, Madai, Iavan, Tubal, Mesech e Tiras... I figli di Cam: Etiopia, Egitto, Put e Canaan... I figli di Sem: Elam, Assur, Arpacsad, Lud e Aram..." [Gen X, 1,6,22]. In fine di conti, in quest'epoca di esplosione demografica e di emergenze ecologiche, come possiamo veramente convincerci di avere commesso errori gravissimi, e dell'urgenza di correre a drastici ripari, se Dio stesso ci avrebbe invitati, nell'apertura del suo presunto libro, a "...moltiplicarci, riempire la terra, soggiogarla e dominare su ogni sua creatura"? Non è forse proprio ciò che abbiamo fatto finora? E, infatti, mi pare che il clero cristiano abbia sempre visto con grande ostilità qualunque politica di controllo demografico, qualunque campagna di educazione demografica o di educazione all'uso consapevole dei sistemi di contraccezione. Da un lato questo è dovuto senz'altro ad un irriducibile atteggiamento sessuofobo, ma dall'altro è dovuto anche alla convinzione che la Bibbia non possa sbagliarsi così clamorosamente e che il Signore non possa averci dato indicazioni cattive. Come possiamo veramente liberarci da una mentalità maschilista e convincerci della parità di principio fra i sessi, al di là di ipocrite apparenze, se Dio stesso avrebbe creato la donna in un secondo momento, come compagnia gregaria dell'uomo, solo dopo aver prima provato con ogni sorta di animale (...!), e se Egli stesso avrebbe solennemente dichiarato ad Eva: "...verso tuo marito sarà il tuo istinto, ma egli ti dominerà". E, infatti, mi pare che il clero cattolico, al di là delle sue aperture di secondaria importanza, abbia sempre difeso certi ruoli tradizionali dei sessi e sia irriducibilmente legato al presupposto che la donna non sarà mai degna del sacerdozio. Come possiamo veramente liberarci dai residui inconsci di una attitudine razzista, i cui affioramenti in epoca moderna si fanno piuttosto evidenti allorché i popoli della miseria bussano alle porte dei popoli della ricchezza, se Dio stesso avrebbe deciso di maledire alcune discendenze, come popoli interi (i camiti, per esempio, ovverosia gli africani), e di eleggere alcuni altri a suoi favoriti? E, infatti, mi pare che il mondo cristiano in generale non sia mai riuscito ad eliminare dal proprio retaggio l'attitudine razzista e che abbia saputo far tesoro delle indicazioni bibliche con la tratta degli schiavi negri, o con l'antisemitismo, visto che lo stesso Vangelo di Matteo sancisce la condanna degli ebrei in quanto razza, con la frase "E tutto il popolo rispose: - Il suo sangue ricada sopra di noi e sopra i nostri figli -" (Mt XXVII, 25). E come potremmo emanciparci da uno spirito vendicativo se è Dio stesso che compie vendetta? Come potremmo convincerci che le guerre e gli eserciti sono realtà di cui dobbiamo imparare a fare a meno, se è Dio stesso il Signore degli eserciti che conduce i suoi favoriti alla vittoria militare e allo sterminio dei loro nemici? Come potremmo imparare ad odiare il potere e la ricchezza, se è Dio stesso che innalza i potenti? Come potremmo credere nella vera misericordia se Dio stesso è il castigatore che infligge l'eterna pena? Dove possiamo trovare la spinta per liberarci dalle nostre peggiori passioni, quando il Signore esige sacrifici di sangue per espiare le offese ricevute attraverso il peccato, e manda a morte tutti i neonati di Betlemme salvando solo il suo figlio? La verità è che lo YHWH del Vecchio Testamento, frutto della umana fantasia letteraria e teologica, è geloso e vendicativo, possessivo e violento, spietato e orgoglioso. Egli può 315 avere creato, tutt'al più, l'inferno, non l'Universo. Egli è soltanto la proiezione sovrannaturale di un particolare modello umano, quello della società semitica maschilista, autoritaria, bellicosa dell'epoca in cui le scritture bibliche furono redatte. Egli rende onnipotenti tutte le peggiori attitudini dell'uomo, le quali, grazie al vero Dio, sono tutt'altro che onnipotenti. Noi dobbiamo studiare profondamente la Bibbia, per conoscere le nostre origini storiche e culturali, e per imparare a gettare alle nostre spalle la spiritualità rozza e primitiva che essa rappresenta, rendendo così finalmente possibile l'emancipazione verso una spiritualità più adulta, universale, adeguata a quello che siamo e ai problemi che abbiamo. (Michelangelo Merisi, detto il Caravaggio - L'incredulità di S. Tommaso) 316 Come nacque la Bibbia Indagine critica sulle radici storiche del Vecchio Testamento (David Donnini) 1 - UN FARAONE PARTICOLARE. Una ventina d'anni fa, mentre rovistavo nella vecchia libreria di mio padre, fra scaffali nei quali facevano bella mostra di sé le eleganti costole rilegate in tela di volumi degli anni trenta e quaranta, mi capitò fra le mani un testo di Sigmund Freud: "Mosè e il monoteismo". Rimasi stupito del fatto che Freud si fosse occupato di quell'argomento; ero abituato a titoli come "Psicopatologia della vita quotidiana", o "L'interpretazione dei sogni", e pensavo che il padre della psicanalisi non si fosse mai interessato di questioni storiche o religiose. Iniziai a leggerlo e, devo confessare, fu un impatto travolgente; rimasi talmente affascinato da ciò che scoprii che mi domandai com'era possibile che certi significativi incontri dipendessero da circostanze così casuali. E se non ci fosse stato questo libro nella casa dei miei genitori? L'avrei mai letto? Sigmund Freud era ebreo di nascita. Egli apparteneva ad una stirpe che, in seguito alla plurisecolare persecuzione subita da parte dei cristiani, ha sviluppato per reazione un fortissimo senso della propria identità e trasmette ai propri figli un orgoglio fiero, composto ma deciso, capace di lunga rassegnazione, ma anche di uno spirito di autodifesa e di combattimento com'è difficile trovarne in altre realtà etnico-religiose. La prima parte del libro faceva spesso riferimento ad un faraone egiziano della XVIII dinastia, Amenofi IV. Costui fu il protagonista di una eccezionale riforma politico-religiosa del sistema egiziano. L'occidente cristiano non ha la benché minima idea di quanto sia debitore, nelle caratteristiche della propria identità culturale, al faraone Akhenaton e ai contenuti della sua riforma. Sarà bene procedere con calma e ordine, cominciando da una brevissima premessa sulla situazione dell'Egitto nel periodo che precedette l'ascesa al potere di questo singolare faraone. Sotto il regno di Amenofi III (negli anni dal 1405 al 1377 a.C.), quando Tebe era la città reale, una fortissima casta sacerdotale, custode e amministratrice del culto del dio Ammon, aveva sviluppato, in connubio con l'aristocrazia del paese, un grande potere, ed era entrata in una posizione conflittuale con l'egemonia della corte faraonica. Per questo motivo, ma anche per una propensione caratteriale e ideologica, allorché succedette ad Amenofi III il figlio che costui aveva avuto dalla regina Tiye, Amenofi IV (intorno all'anno 1377 a.C.), l'Egitto fu protagonista del suo più grande sconvolgimento, quale nemmeno le precedenti invasioni degli Hyksos avevano potuto produrre. In breve tempo, a partire dalla sua nomina al trono, il nuovo faraone rivoluzionò la religione di stato, spodestò la classe sacerdotale, sostituì il molteplice panteon egizio con una curiosa fede monoteistica. Si trattava forse del primissimo esempio nella storia di monoteismo di stato, incentrato sul culto del disco solare, che era chiamato Aton. Anche la capitale fu spostata ad Akhet-aton, più a nord rispetto a Tebe, e il sovrano mutò il proprio nome da Amenofi ad Akhenaton, o Ekhnaton (amato da Aton). Nell'insegnamento di Akhenaton possiamo notare la insistente ricorrenza del termine "maet" (verità), ed egli stesso si definiva "vivente nella verità", al punto da sovvertire la 317 tradizione che, nelle opere d'arte, era solita presentare il sovrano in una forma stereotipata, coerente col formalismo celebrativo, e si faceva ritrarre in scene di vita familiare, mentre insieme alla moglie Nefertiti e alle figlie passeggiava e faceva offerte al dio sole. Fu, probabilmente, un faraone dal volto umano; sappiamo che perseguì una politica pacifista, riducendo le spese militari e rinunciando alla difesa ad oltranza dei territori fuori dall'Egitto. Possiamo ragionevolmente ipotizzare che ciò comportasse una diminuzione del prelievo fiscale; possiamo anche avanzare l'idea che il popolo percepisse, nella figura del suo bizzarro faraone, qualcosa di meno lontano da sé di quanto non fossero stati i precedenti sovrani e sacerdoti. Ma queste, ci tengo a chiarirlo, sono speculazioni arbitrarie, senza un fondamento nelle prove storiche. E' abbastanza immediato pensare che un sistema del genere difficilmente avrebbe potuto funzionare a lungo. Infatti gli hittiti premevano ai confini orientali del regno e sfruttarono la circostanza per espandere il loro dominio a spese dell'Egitto. Molti fra i sacerdoti spodestati e gli aristocratici intuirono i pericoli della circostanza e tramarono per preparare una restaurazione del precedente regime e riconquistare i privilegi perduti. Allorché Akhenaton morì (intorno al 1362 a.C.), la moglie Nefertiti si adoperò per far salire al trono il giovanissimo genero Tut-ankh-aton, ma, alla morte della stessa Nefertiti, sacerdoti ed aristocratici approfittarono della situazione instabile e dell'inesperienza del nuovo faraone, per iniziare una rapida controriforma e per rimettere in piedi gli antichi poteri e la religione tradizionale dell'Egitto. La città di Akhet-aton fu abbandonata e la capitale fu ristabilita a Tebe. Anche il nome del faraone fu opportunamente corretto in Tut-ankh-amon, coerentemente col culto restaurato del dio Ammon. Tutti conosciamo il famoso faraone, è l'unico di cui è stata scoperta la tomba intera, inclusa la mummia, e questo ritrovamento è stato l'evento più spettacolare dell'archeologia egiziana. E' ovvio che, con l'avvento della restaurazione, una parte della società egiziana, che si era sviluppata alla corte di Akhenaton, visse un pesante tracollo. Possiamo facilmente immaginare in quale difficile situazione si siano trovati i suoi ex funzionari e sacerdoti, improvvisamente esautorati e, probabilmente, perseguitati. Ora, come spesso succede in questi casi, se sono i grandi poteri a stabilire certe tappe importanti del cammino storico, sono alcuni poteri meno appariscenti (oserei dire occulti) a dirigere il cammino definitivo della storia, anche se a lunga scadenza. Infatti è assolutamente certo che l'esperienza del regno di Akhenaton aveva lasciato una traccia profonda, non solo negli interessi politici e nei rancori di quanti erano stati colpiti dalla controriforma, ma anche, e forse soprattutto, nell'inconscio collettivo, grazie all'idea di una teologia monoteistica, che sostituiva le figure fantasiose delle numerose divinità col concetto affascinante di un principio creatore unico ed universale, irrimediabilmente superiore a quello delle immagini dall'aspetto antropomorfico o animale, simboleggiato dal disco solare; in cui chiunque riconosce istintivamente la paternità di ogni manifestazione della vita terrestre. Sebbene non ci siano elementi per riportare alla luce, dall'oblio in cui sono stati definitivamente sepolti, i movimenti e le trame di coloro che, per interesse o per adesione ideologica, simpatizzavano con le concezioni dell'ormai sconfitto sistema politico-religioso di Akhenaton, possiamo essere certi che questo desiderio di ritorno alle novità di cui l'Egitto aveva avuto un assaggio, non ha mai più abbandonato almeno una parte della società di questo paese, e ha giocato un ruolo non indifferente nella dinamica delle conflittualità interne. 318 2 - GLI EBREI IN EGITTO. A questo punto, nel nostro discorso, possiamo innestare la realtà dei popoli semitici che erano penetrati in Egitto, pur non essendo egiziani, in una condizione che troppo spesso è semplicisticamente rappresentata dal termine "schiavitù". Già in precedenza i rozzi nomadi semiti avevano preso di mira, con le loro migrazioni di massa, altre grandi civiltà sedentarie, attratte dallo straordinario sviluppo tecnologico di cui queste erano depositarie, e della loro imponente organizzazione urbanistica e sociale. Mi riferisco ai sumeri, che furono letteralmente schiacciati da questa corrente migratoria. I semiti in questione erano gli accadi. Un grande condottiero di questi uomini (siamo intorno all'anno 2450 a.C.), protagonista di una clamorosa vittoria sui sumeri, fu Sargon. Di lui la leggenda accadica narra che era stato abbandonato dalla madre nelle acque del fiume, in un canestro di giunchi, per poi essere raccolto da un acquaiolo, su indicazione della dea Ishtar, che lo aiutò a diventare un re potente. E' una storia che già conosciamo, anche se con altri protagonisti. Adesso, nell'Egitto degli ultimi faraoni della XVIII dinastia, e dei primi della XIX, succedeva qualcosa di somigliante a ciò che era successo nel paese dei sumeri mille anni prima; e che succede ancora oggi nei paesi opulenti dell'occidente cristiano. Le popolazioni circostanti, etnicamente diverse, socialmente e culturalmente meno evolute, economicamente più povere (potremmo considerarli gli extracomunitari dell'epoca), entravano in Egitto e qui si stabilivano in cerca di fortuna. Gli stessi Egiziani tolleravano la loro presenza perché, non ostante gli evidenti svantaggi del fenomeno immigratorio, questa gente offriva forza lavoro a basso costo, e poteva svolgere gli innumerevoli compiti che i contadini egizi non avrebbero potuto né voluto svolgere. La Bibbia li rappresenta come un popolo che aveva già maturato una sua identità nazionale, chiamandoli ebrei. Ma questa è pura leggenda. Infatti le popolazioni che si erano introdotte in Egitto per lavorare erano molte e diverse, così come oggi, da noi, sono diversi i marocchini dai senegalesi, gli albanesi dagli slavi... E' probabile che, ad un certo punto, questa parte della varia umanità che componeva il tessuto sociale egiziano, abbia acquistato un certo peso e una certa coscienza di sé, maturando il bisogno di acquistare anche un senso della propria identità che, ovviamente, fino a quel momento non esisteva perché si trattava di un gruppo eterogeneo per lingua, razza e culti religiosi, in cui, probabilmente, prevaleva una componente semitica. L'opinione di Freud, che egli illustra con grande chiarezza nel libro che abbiamo citato in precedenza, è quella che le conflittualità interne alla società egiziana e, in particolare, le opposizioni nei confronti della classe dominante, costituita dai faraoni della XIX dinastia e dalla classe sacerdotale fedele al culto restaurato del dio Ammon, abbiano potuto concentrarsi intorno alla nostalgia per la perduta riforma voluta da Akhenaton. E' probabile che il monoteismo incentrato sulla figura divina del sole offrisse l'idea di un concetto universalistico che si prestava alle istanze di quanti, in seno alla società egiziana, erano collocati in una posizione fortemente emarginata e subordinata. Ed è anche probabile che gli ex funzionari e sacerdoti di Akhenaton, o i loro discendenti, abbiano trovato nelle popolazioni semitiche, che vivevano in Egitto in una condizione di pesante asservimento, una comunità disposta ad ascoltarli, interessata a seguirli, a dare loro peso e importanza. Si sarebbe così determinata una simbiosi fra la parte dissidente della società egiziana, costituita da quanti avevano subito il tracollo del sistema di Akhenaton, e le popolazioni immigrate, le quali, fino a quel momento, non erano state capaci di darsi né una identità né una forza come gruppo. 319 Freud si è spinto fino ad avanzare l'idea che l'uomo che noi conosciamo come Mosè fosse stato un ex funzionario di Akhenaton, anche se ciò dà adito a qualche obiezione. Una di queste, per esempio, riguarda i tempi; infatti una delle probabili datazioni dell'uscita delle popolazioni semitiche dall'Egitto è intorno al 1250 a.C., durante il regno del faraone Ramsete II. Sono passati cento anni dalla restaurazione del culto di Ammon e Mosè non potrebbe essere stato un protagonista in prima persona dell'esperienza del sistema di Akhenaton. Anche se, in realtà, la datazione dell'esodo è quanto di più incerto ci sia e non è possibile porre questa obiezione come decisiva. Personalmente non credo affatto che determinare una datazione certa per il cosiddetto esodo sia molto importante, ai fini del nostro discorso; infatti non è così fondamentale che Mosè sia stato, oppure no, un funzionario del faraone Akhenaton. A noi importa soprattutto introdurre un'idea: quella che gli egiziani accomunati da un interesse nostalgico per il sistema di Akhenaton e per la sua concezione monoteistica, da un lato, e la componente emarginata della società egiziana che aveva avuto origine nei trascorsi flussi immigratori, dall'altro lato, avessero trovato un'intesa che li poneva in serio conflitto con le classi dominanti e che li aiutava a maturare una identità di gruppo. Ora, gli interpreti di questo più che verosimile processo possono essere stati sia gli ex protagonisti del sistema di Akhenaton, in un'epoca immediatamente successiva alla restaurazione (fra il 1350 e il 1300 a.C.), sia i loro discendenti (fra il 1300 e il 1200 a.C.), ovverosia all'epoca in cui siamo soliti ambientare l'esodo biblico. 3 - MOSE' EGIZIANO? C'è un aspetto estremamente importante che Freud sottolinea con argomentazioni puntuali e, direi, piuttosto ineccepibili. Si tratta del fatto che Mosé sarebbe stato un egiziano e non, come si crede comunemente, un ebreo. Una delle basi di questa opinione risiede nel nome stesso: "...E' importante notare che il suo nome (il nome di questo capo), Mosè, è egiziano. Esso è semplicemente la parola egiziana "mose" che significa "fanciullo", ed è la contrazione di forme nominali più complesse, quali ad esempio "Amon-mose", che significa "Amon un fanciullo", o "Ptah-mose", che significa "Ptah un fanciullo", i quali nomi sono a loro volta abbreviazioni della forma piena "Amon ha donato un fanciullo", o "Ptah ha donato un fanciullo". L'abbreviazione "fanciullo" presto divenne una forma rapida più conveniente dell'ingombrante nome completo, ed il nome Mose, "fanciullo", non è infrequente sui monumenti egizi. Il padre di Mosé senza dubbio prefisse al nome del figlio quello di un dio egizio, quale Amon o Ptah, e questo nome divino si perdette gradualmente nell'uso corrente, finché il fanciullo venne chiamato "Mose"" [Citazione da History of Egypt, di J.H.Breasted, in Freud, Mosè e il monoteismo, Pepe Diaz, Milano, 1952]. "...nella lingua [egiziana] "Mosè" equivaleva a "bambino", "figlio", "discendente", sia in senso letterale che metaforico..." [J.Lehmann, Mosè l'egiziano, Garzanti, Milano, 1987]. E ancora: "...non ci resta perciò che il nome, il quale, malgrado la spiegazione giudaica "tratto dalle acque", riallaccia Mosè ai nomi egiziani Tutmosi o Ramesse (Rah-mose)" [F.Castel, Storia d'Israele e di Giuda, Ed. Paoline, Cinisello Balsamo (Mi), 1987]. C'è poi un'altra importante considerazione da fare. Il Mosè biblico ha un abito del tutto leggendario, a sostegno dell'idea che la sua identità sia il frutto di una operazione artificiale finalizzata a rappresentarlo come il padre nazionale degli ebrei. Infatti il racconto della sua nascita, coerentemente con le leggende semitiche, è la copia esatta del racconto che riguarda la nascita del grande Sargon di Accad, che fu abbandonato nelle acque e poi salvato per diventare, infine, un grande re. Evidentemente, allorché fu redatta la storia del popolo che era sfuggito dall'Egitto, si voleva che il suo condottiero possedesse i requisiti 320 che lo rendevano meritevole, a pieno titolo, di quella dignità. Il racconto non fu scritto da storici, animati da uno spirito scientifico di cronaca, ma da apologeti, che dovevano contribuire alla creazione di una coscienza nazional-religiosa. Ora, esistono altri elementi di sostegno alla tesi del Mosé egiziano, seguace della teologia di Akhenaton: uno è il nome che gli ebrei utilizzano spesso per riferirsi al loro dio, al posto del termine tabù (indicato comunemente dal tetragramma YHWH) che nessuno poteva pronunciare ad alta voce. Si tratta della parola Adonai, che ha la stessa radice (Adon) del dio solare di Amenofi IV (Aton). I glottologi sanno bene che le lettere t e d sono del tutto intercambiabili nelle radici etimologiche, pertanto Adon e Aton sono esattamente lo stesso nome. Si osservi quanto afferma ancora Sigmund Freud: "Il credo ebraico, come è noto, recita: "Schema Jisroel Adonai Elohenu Adonai Echod". Se la somiglianza del nome dell'egizio Aton alla parola ebraica Adonai e al nome divino siriaco Adonis non è casuale, ma proviene da una vetusta unità di linguaggio e significato, così si potrebbe tradurre la formula ebraica: "Odi Israele il nostro Dio Aton (Adonai) è l'unico Dio"" [Sigmund Freud, Mosè e il Monoteismo, Milano, 1952]. L'altro elemento è l'aspetto della famosa "arca dell'alleanza", che, nel racconto biblico (Es 25, 10-22), Dio aveva ordinato a Mosè di edificare e che, in seguito, sarebbe stata conservata nel tempio di Salomone fino all'invasione assira. Essa riproduce la "barca degli dei" dei templi egizi, anch'essa coi cherubini ad ali spiegate. Ma c'è un altro elemento, senza dubbio quello di maggior peso: Mosè è comunemente considerato il padre del monoteismo, ma dobbiamo ammettere che la sua idea ha un precedente molto vicino nello spazio e nel tempo, e molto analogo, nella teologia di Akhenaton, pertanto ci rimane difficile credere che la sintesi monoteistica di Mosè non abbia alcun debito nei confronti della rivoluzione religiosa del faraone Amenofi IV. Riassumendo: 1 - Mosè predica in Egitto, come Akhenaton 50 o 100 anni prima, una teologia monoteistica; 2 - Mosè ha un nome egiziano; 3 - Mosè ha, nel racconto biblico, una nascita assolutamente leggendaria; 4 - Un nome del dio ebraico (Adonai), ha la stessa radice del dio solare (Aton) di Amenofi IV; 5 - L'arca dell'alleanza degli ebrei è quasi identica alla "barca degli dei" dei templi egizi. 4 - UN POPOLO ETEROGENEO. Ci troviamo davanti ad importanti constatazioni: le genti che uscirono dall'Egitto, attraverso quel processo che la Bibbia rappresenta nel libro dell'Esodo, erano costituite, per una componente, da una parte della società egiziana, quella dissidente, erede della riforma politico-religiosa di Akhenaton, fedele alla teologia monoteistica, e, per l'altra componente, da un insieme variegato di tribù, in prevalenza semitiche, che avevano trascorso in Egitto molti decenni, trovando interessi da condividere. Si trattava comunque di genti che parlavano lingue o dialetti diversi, con tradizioni religiose diverse, legate agli dei tribali. Non si trattava affatto di un popolo omogeneo, che potesse riconoscersi sotto il nome di ebrei. Ed è per questo che il racconto biblico ci testimonia la grande difficoltà di tenere unito questo insieme di persone ma, soprattutto, la difficoltà di Mosè a mantenere una egemonia su queste genti. Si ricordi a questo proposito il ritorno di Mosè dal monte Sinai, col popolo che, in sua assenza, aveva iniziato ad adorare il vitello d'oro, restaurando, chi lo sa, qualche culto tribale. 321 E' molto verosimile che la componente egizia di questo insieme di genti, ovverosia gli eredi del sacerdozio di Aton, fossero quelli che la tradizione ebraica chiama "Leviti" e che Mosè ne fosse il capo. Volendo mantenere un atteggiamento storicamente onesto, noi dobbiamo dissociarci dall'immagine biblica e riconoscere che, all'epoca dell'esodo, non esistevano affatto, o ancora, gli ebrei, intesi come un popolo che potesse essere considerata tale a tutti gli effetti, ovverosia con una sua omogeneità etnica, linguistica, culturale e religiosa, e con una storia comune oltre al fatto di avere condiviso uno stato di emarginazione e di subordinazione in Egitto. Quello che la Bibbia ci rappresenta come il momento in cui gli ebrei realizzarono il loro riscatto dalla schiavitù egiziana è, in realtà, il primo momento in cui gli ebrei iniziano ad inventarsi come popolo. Mosè fu il loro punto di riferimento, come Maometto, 1800 anni più tardi, fu il punto di riferimento per la nascita di una nazione araba. Allora possiamo quasi affermare che la Bibbia non fu un prodotto degli ebrei ma, al contrario, furono gli ebrei un prodotto della Bibbia, nel senso che i principi teologici della Bibbia furono concepiti col fine primario di offrire una base adatta a creare e consolidare l'identità etnico-religiosa di quell'insieme di tribù che si era voluto far diventare popolo. 5 - DAVID, L'UNTO DI YHWH. I fuoriusciti dall'Egitto, governati da una casta egiziana e da un capo che aveva riciclato il monoteismo di Akhenaton, ebbero vita difficile e peregrinarono in cerca di una casa finché non giunsero nei pressi di quella striscia di territorio che sta tra il fiume Giordano e il mar mediterraneo. In quel contesto di deserti infuocati (Sinai, Negev, penisola arabica...), dove in estate il sole, picchiando sulle rocce e sulle sabbie nude, produce comunemente temperature di 50 e persino 60 gradi che arrostiscono ogni creatura vivente, le colline della palestina, che sfiorano i mille metri d'altitudine, arrestano il vento che viene dal mare e facilitano le piogge, creano un ambiente assolutamente idilliaco. Clima temperato, boschi verdeggianti, erba adatta al pascolo, stambecchi che scorrazzano, sorgenti di acqua fresca e terra fertile. Chi non avrebbe pensato che quella sorta di oasi incredibile era un giardino preparato apposta dal creatore come dote per un popolo che godeva di una sua particolare simpatia? Ma, ahimé, altre genti occupavano questo suolo. Tribù che non erano molto intenzionate ad accettare l'intromissione di questa nuova banda di nomadi. Certamente i fuoriusciti dall'Egitto ebbero da affrontare prove molto dure, come del resto è chiaramente testimoniato dal racconto biblico relativo al tutto il lungo periodo che separa Mosè da David (due o tre secoli). Un periodo di lotte interne e di conflitti esterni in cui queste genti, oltre a combattere con gli indigeni che trovavano sul loro cammino, dovevano anche combattere contro quella crisi di identità che non poteva non affliggere coloro che tentavano di comportarsi come popolo, pur essendo un miscuglio molto bastardo. Ed è per questo che la società di Israele ha sempre conservato nella sua struttura una molteplicità che, nei fatti, si è espressa nella suddivisione in dodici tribù. Ovviamente, le vicende e i disagi che questo insieme di genti ha dovuto vivere nei due o tre secoli successivi all'uscita dall'Egitto, ha influito profondamente sulla maturazione della loro concezione religiosa. Infatti, sebbene l'eredità teologica della concezione monoteistica di Akhenaton fosse il concetto di un creatore unico per tutto l'universo e per tutti gli esseri, fu impossibile evitare che queste tribù, impegnate in una dura lotta per la sopravvivenza, non sviluppassero un'immagine del dio come "proprio" dio, un dio che amava intervenire a favore del suo popolo prediletto, un dio che determinava gli esiti delle battaglie e veniva definito per questo "dio degli eserciti". 322 Questa, filosoficamente parlando, è senz'altro una involuzione del monoteismo pacifista di Akhenaton, che sembrava accarezzare l'idea incredibilmente moderna di una religione universale, legata all'immagine di dio non come signore tribale, ma come signore della natura, depositario di quella potenza che elargisce e governa la vita di tutte le creature. Ma è anche vero che Akhenaton, in giovane età, come principe ereditario, si è trovato senza fatica sul trono di una antica e splendida civiltà. Per lui è stato facile immaginare una religione universale e pacifica, e non possiamo dimenticare che la sua politica idealista, in fin dei conti, è stata abbastanza rovinosa per l'Egitto. Il dio unico di Israele non è più quel sole equanime che splende per tutti, i cui raggi scendono sulla terra come mani amorose che accarezzano tutte le creature. Il dio di Israele diventa molto partigiano, intende sterminare coloro che non vogliono essere suoi fedeli, incarica un popolo prediletto di farsi esecutore impietoso di questo piano finalizzato al risanamento spirituale dell'umanità. Questa è ovviamente la proiezione narcisistica eseguita da un gruppo umano che, a differenza di Akhenaton, non ha ereditato lo splendore di un antico e ricco paese, bensì non ha ancora una terra, non ha una storia comune, non ha altro che povertà, nemici ostili e crisi di identità collettiva. Che altro può fare, un gruppo umano come questo, se non inventarsi un orgoglio nazionalreligioso, anzi, una missione spirituale, un patto privilegiato col creatore, colmare il proprio immaginario collettivo con l'idea di essere, fra tutti i popoli, il favorito del creatore e di legittimare il proprio interesse promuovendolo al rango di una causa di giustizia universale? Non solo è una idea necessaria, ma si tratta di una idea geniale, assolutamente vincente e, sebbene il presunto favore di dio sia solo una invenzione narcisistica, chi, in Israele, avrebbe osato metterlo in dubbio? Ed è così che l'idea di un monoteismo di stato, presa in prestito da Akhenaton, che non si era rivelata utile per il vecchio Egitto, si rivelò utile per il giovane Israele; adattando però una parte della sua filosofia alle necessità di questo popolo nascente e assumendo tinte di spiccato nazionalismo. 6 - IL REGNO DI DIO. Uno dei momenti più gloriosi della sua storia Israele l'ha vissuto quando, a seguito di brillanti vittorie contro i popoli indigeni della palestina, si è trasformato in un regno, prima sotto Shaul, capo della tribù di Beniamino, e subito dopo sotto David, un umile pastorello della tribù di Giuda, che era andato in sposa alla figlia di Shaul. Shaul era riuscito a riunire sotto lo stesso regno solo tre tribù e non aveva stabilito una capitale, mentre David, un individuo affascinante, abile, spregiudicato, anzi, decisamente cinico, seppe riunire tutte e dodici le tribù sotto un grande regno. E poiché si trattava del regno di un popolo che aveva ormai maturato la convinzione di essere depositario di una missione affidatagli direttamente da dio, o meglio, che era cresciuto e aveva vinto proprio perché aveva trovato la sua identità e la sua forza inventandosi tale convinzione, quel regno non poteva essere altro che il "regno di dio". E il suo compito era quello di splendere davanti a tutti i popoli della terra come luce di verità. David fu l'unto del signore, messia (mashiah in ebraico, che si traduce christos in greco e cristo in italiano). Le sue umili origini devono in qualche modo essere promosse e la Bibbia ci racconta del profeta Samuele che va a Betlemme (città natale di Davide) e, ispirato da dio, lo riconosce come colui che regnerà su Israele e lo cosparge con l'olio dell'unzione. David esprime un disegno ambizioso: dare una capitale grandiosa al regno di dio e erigervi un tempio monumentale, che potesse competere con la memoria degli splendori egiziani, sumeri, babilonesi... E' sua la scelta felice di Gerusalemme come capitale, sopra uno dei colli più fortunati della palestina, fra i boschi, a ottocento metri di altitidine, dove i nemici 323 non possono sorprendere con attacchi imprevedibili, dove zampillano sorgenti rigogliose e dove il clima estivo è quello, delizioso, di una località di vacanze di mezza montagna. Ma David dovette anche affrontare un problema che non era per niente risolto e che dimostra, in modo inequivocabile, quanto eterogeneo fosse questo popolo e come fosse difficile tenerlo unito. David dovette superare gravi difficoltà interne, fra cui una ribellione voluta da uno dei suoi figli, Assalonne, che egli non esitò a far uccidere. E così David non riuscì a edificare il tempio, sarà uno dei suoi figli, Salomone, che egli ebbe da Betsabea, a realizzare questa ambizione, ma i costi di tale impresa furono talmente elevati, in termini umani e fiscali, da far precipitare il problema della coesione interna, che non poteva non essere sempre minaccioso in un popolo che si era inventato tale, appiccicando insieme tribù diverse e dalle origini più varie. E così il sedicente "regno di dio" si sfasciò troppo presto sotto il proprio peso e si trasformò in due regni: quello di Israele, nelle regioni della attuale Samaria (palestina centro settentrionale), e quello di Giuda, nelle regioni a ovest del Mar morto (palestina centro meridionale). Il regno di dio durò meno di un secolo, né mai più trovò il suo antico splendore. Furono uomini come quello che Pilato fece crocifiggere alla vigilia di una festività pasquale che, mille anni dopo David, tentarono di replicarne l'impresa, ma fallirono e finirono puntualmente i loro giorni con le mani e coi piedi inchiodati. 7 - UN LIBRO SACRO CHE RACCONTI LA NOSTRA GLORIOSA STORIA. L'ideale monoteista, in associazione con la convinzione di essere toccati da una scelta di dio, e quindi di essere gli affidatari di una missione spirituale e i destinatari di una terra promessa, è l'ideologia che ha consentito agli ebrei di inventarsi come popolo, di svilupparsi, di risolvere i suoi problemi di sopravvivenza, di mantenere una difficile coesione, per quanto traballante essa sia stata. Ed è per questo che gli ebrei, ad un certo punto della loro storia, fra le tante altre cose geniali che hanno fatto, hanno deciso di darsi come punto di riferimento delle scritture. Naturalmente una buona parte dei contenuti che tali scritture avrebbero dovuto esprimere era già preesistente alla loro stesura in forma grafica e, come è normale nei popoli antichi, la loro conservazione e trasmissione era stata affidata ad una tradizione orale di cui i saggi erano i depositari. Ma una scrittura da leggere in pubblico, le cui frasi fossero da imparare a memoria e da ripetere innumerevoli volte, intorno alla quale la gente si sarebbe potuta incontrare, avrebbe offerto al popolo qualcosa di assai più concreto e tangibile che non la sapienza custodita da una ristretta elite di iniziati. Quand'è che questa necessità si presentò con una urgenza irrinunciabile? La risposta è senz'altro all'epoca della formazione del regno, quando David tolse alla tribù di Beniamino l'egemonia per darla alla tribù di Giuda e scelse, o impose, Gerusalemme come capitale. E' questo il momento in cui gli scribi si sono rimboccati le maniche e hanno redatto i primi libri. Come minimo è questo il momento in cui diventano bianco su nero le storie di Abramo e di Isacco e, forse, molte altre cose. Ovviamente gli scribi del "regno di dio" appena nato, sono spinti da una serie di esigenze molto precise. La coesione fra le genti del regno è precaria, la scrittura deve eliminare questo vizio congenito di Israele, essa non solo deve raccontar loro che essi sono figli dello stesso dio, ma figli di uno stesso padre umano, e Abramo, figura di cui non sapremo mai se è prodotta dalla fantasia o dalla storia, vince questo ruolo. A lui dio chiede delle prove molto dure, infine lo sceglie per dare origine al popolo a cui sarà affidata la missione. Nel redigere queste scritture gli scribi compiono una sintesi colossale e fanno man bassa di tutto il materiale che possono raccogliere per rendere la loro opera nobile, grandiosa, 324 venerabile, prestigiosa, autorevole. Oggi la Bibbia ci si presenta come parola di dio perché i suoi redattori furono spinti dalla necessità ideologica di farla apparire tale al giovane popolo di Israele. Una parte abbondante della mitologia del vicino oriente confluisce in questa sintesi, non solo quella accadica, ovverosia quella dei popoli che condividevano con Israele la radice semitica, ma anche quella sumera, una etnia completamente diversa, con cui gli accadi avevano avuto a che fare a lungo. E così il quadro della genesi si apre con una scena assolutamente sumera, ovverosia con il racconto della trasgressione primordiale compiuta da Adamo e Eva nel giardino dell'Eden. E poi continua con il racconto del diluvio, che è letteralmente sottratto all'epopea sumera di Gilgamesh, poi ripresa dai babilonesi, in cui Noè si chiamava Ziusudra, Uta-napishtim, Atrahasis. Ed anche il racconto della torre di Babele ha come punto di riferimento gli ziggurat mesopotamici, mentre la confusione delle lingue sta senz'altro a rappresentare il disagio dovuto all'imbastardimento della società sumerica in seguito alla consistente infiltrazione accadica. Un presupposto di grande importanza è la creazione fittizia di una continuità, o meglio, di una linearità. Una delle principali mistificazioni prodotte da questa esigenza è, per esempio, il fatto che gli ebrei avessero questa radice etnica unitaria e fossero un popolo prima ancora delle vicende dell'esodo. Sarebbero stati un popolo già in Egitto, un popolo schiavo e prigioniero da raffigurare con una buona dose di vittimismo ma, a parte il fatto che gli immigrati e gli emarginati della società egiziana non avranno certamente avuto vita facile né molto privilegi da condividere, si tratta di una rappresentazione del tutto falsata. Infatti non si trattava di un popolo omogeneo; né il loro stato poteva definirsi schiavitù secondo quella accezione del termine a cui siamo stati abituati dall'immagine latina, ovverosia dello schiavo inteso come oggetto subumano, che è proprietà privata del suo padrone, su cui quest'ultimo ha pieno diritto di vita e di morte. Abbiamo una subordinazione del tutto diversa, che non rispecchia questo cliché romano. Al fine di ottenere l'effetto della continuità storica, le scritture abbondano di lunghi elenchi di patriarchi i quali, posti in fila in lunghe paginate, offrono una efficace suggestione didattica. E molti imparano a memoria, e ripetono all'infinito questi elenchi, finché essi realizzano un condizionamento psicologico che infonde nell'immaginario collettivo l'idea di appartenere ad un popolo che ha radici antiche, che ha una messaggio da trasmettere, che ha una eredità da salvaguardare. Dopo avere costruito la figura chiave del padre della razza, Abramo, è necessario costruire quella del padre della nazione, Mosè. Ed è così che l'egiziano diventa ebreo, gli si innesta artificialmente la mitologia accadica del "salvato dalle acque", lo si fa salire sul monte Sinai per incontrare personalmente il dio dell'universo e prendere da lui le tavole della legge. E, sebbene una componente considerevole della teologia di Mosè abbia una derivazione dal monoteismo di Akhenaton, questa radice è completamente recisa e abbandonata nell'oblio. Esattamente come mille anni dopo, quando dal monoteismo ebraico, attraverso la sintesi sincretistica di San Paolo, si stacca la fede cristiana, che recide il suo cordone ombelicale e rinnega l'ebraismo, pur avendo derivato da quello una mole fondamentale del suo bagaglio teologico e scritturale. Il leit motiv di questa base dell'identità etnico religiosa di Israele deve essere, senza mezzi termini, la continua regia di dio dietro le quinte del teatro storico. E così è, attraverso i suoi frequenti interventi. Quando manda le piaghe in Egitto, quando apre le acque del mar rosso, quando fa scendere la manna, quando ferma il sole in pieno cielo durante una battaglia, o guida la mano del pastorello David a colpire il gigante Golia. I protagonisti umani che svolgono un ruolo fondamentale in questa storia sono quasi sempre ammantati da una cornice miracolosa, le loro nascite sono annunciate, le loro madri 325 partoriscono pur essendo sterili, le loro gesta non sono completamente umane. Il prodigio è la chiave di autentificazione della scrittura, il sigillo di riconoscimento dell'autorità. Le figure di Abramo e di Mosé si completano con quella di David, il padre politico, il messia, il costruttore del "regno di dio". Anche in seguito, dopo lo scisma dei due regni che avvenne alla morte di Salomone, e quando il paese iniziò a subire un plurisecolare destino di dominazioni straniere, sotto gli assiri, i babilonesi, i persiani, i greci e i romani, le scritture sono caratterizzate da un fine primario: salvaguardare l'eredità nazionale, continuare a dimostrare che Israele è sempre, malgrado tutto, il popolo di dio, che il suo futuro gli riserva un riscatto. Il profetismo messianico, ovverosia l'attesa di un liberatore che ripeta la figura di David e ricostruisca il "regno di dio", diventa un motivo ricorrente, finché si trasforma in autentica ossessione e porterà, sotto la dominazione romana, ad una crisi fatale. L'imperatore Tito, interprete della esasperazione romana nei confronti di questo popolo, visto come affetto da una patologia teocratica maniacale, farà strage e rovina degli ebrei e della loro capitale, ed essi ricadranno improvvisamente nella condizione in cui si trovavano in Egitto, come emarginati vittime di una diaspora penosa. E' il momento in cui l'eredità monoteistica di Akhenaton, che aveva subito una prima grande trasformazione con la sintesi biblica, subisce una seconda grande trasformazione con la sintesi cristiana. Occorreranno ancora cinquecento anni perché maturino in medio oriente le condizioni per la terza sintesi: quella coranica. Adesso non vorrei essere accusato di ambizioni profetiche, perché è solo la ragione, e non la visione mistica, che mi suggerisce quando sarà la prossima tappa del monoteismo: quando il sistema commerciale globalistico avrà mostrato in modo drammatico la stridente contraddizione che esiste fra la promessa del benessere tecnologico e la crescita inarrestabile dei problemi planetari (demografici, economici, politici ed ecologici), facendoci vivere tragedie di dimensioni bibliche che oggi non abbiamo nemmeno il coraggio di immaginare. Allora nascerà una nuova sintesi religiosa e potrebbe addirittura darsi che l'essere supremo sia di nuovo rappresentato come un disco solare, circondato da una corona di raggi che scendono sulla terra e terminano con mani affettuose che carezzano le creature. E' una visione non lontanissima da ciò che accadrà realmente, nel millennio che sta nascendo. Io, personalmente, sono già pronto. Ma il momento è ancora prematuro. Firenze, 15/11/1999 326 Sindone una trama templare (Carlo Giacchè) (Arte Stampa, Perugia, 1992; Atanòr, Roma, 1992) "la Storia non si può tutta dimostrare; spesso essa è intuizione, ragionamento, intreccio logico" (CG, p. 87) Nonostante i risultati della datazione con il sistema del carbonio 14 abbiano fatto il giro del mondo (stabiliti indipendentemente dai Laboratori delle Università dell'Arizona, di Oxford, e del Politecnico di Zurigo, furono resi pubblici il 13 ottobre 1988 dall'allora cardinale di Torino Anastasio Ballestrero, Custode Pontificio della Sindone), le discussioni sulla celebre "reliquia" conservata nel capoluogo piemontese non accennano a cessare, alimentate da una foga che continua a dividere i fautori della "razionalità scientifica" da coloro che nutrono invece, talora non apertamente, un certa nostalgia per la maggiore "libertà d'opinione" di cui si gode sul versante dell'"irrazionale", e del "fantastico". E' sembrato allora opportuno presentare ai lettori di Episteme uno studio poco noto ma interessante sull'argomento, anche perché in qualche modo collegato alla questione fondamentale che si è ampiamente trattata nel corso della recensione precedente. Infatti, malgrado le prudenti dichiarazioni in proposito della gerarchia ecclesiastica, che si è sempre "ben guardat[a] dall'asserire l'autenticità del telo, forse sospettandone una diversa origine"1, c'è ancora chi, con comunque ammirevole coerenza "integralista", sostiene tesi del genere: "Su nostro invito, il gesuita Vittorio Marcozzi, antropologo di chiara fama e professore emerito alla Pontificia Università Gregoriana, ha analizzato alcune di queste "teorie" [contrarie all'autenticità] confutandole su base scientifica riconoscendo nella Sindone la prova della Morte e Resurrezione di Cristo" (dall'Editoriale di Alberto Di Giglio, Il Telo - Rivista di sindonologia, Novembre/Dicembre 1997, http://www.sindonologia.it). L'articolo del Padre Marcozzi contiene affermazioni del seguente tenore: "La S. Sindone è il lenzuolo che ha avvolto Gesù quando fu deposto dalla croce e sepolto. I Vangeli e innumerevoli testimoni attestano che Gesù è risorto e ha lasciato la Sindone nel sepolcro [...] Vi sono inoltre segni innegabili che Gesù lasciò il lenzuolo funerario in modo umanamente inspiegabile [...] Al contrario la Sindone mostra in modo evidente non solo l'immagine di un uomo crocifisso, ma l'immagine di un uomo morto, di un cadavere; vi sono inoltre indizi che un fatto straordinario, unico, misterioso e miracoloso, è accaduto: la risurrezione [...] Inoltre la Sindone presenta innumerevoli macchie di sangue e i coaguli sono intatti, dai contorni netti e precisi: non ci sono slabbrature o spappolamenti. Ora questo fatto è inspiegabile se il distacco della tela dal corpo piagato è avvenuto con modalità meccaniche naturali. Il fatto ci richiama ai racconti evangelici che attestano che il corpo risorto di Gesù entrava nel Cenacolo a porte chiuse. Gli studiosi Stevenson e Habermas hanno osservato: "Il segno della risurrezione nella Sindone riguarda il modo con cui il corpo e la tela si separarono. I fatti indicano che il corpo non fu rimosso ad opera di mezzi umani [...] Similmente si è espresso il padre Paul De Gail:"Per le sue impronte sanguigne rimaste intatte, la reliquia del Salvatore attesta una separazione misteriosa del corpo dal telo senza nessuna manipolazione del drappo funerario, senza nessun intervento di mani umane [...] Tale scomparsa 327 meravigliosa noi dalla Fede sappiamo che avvenne mediante Risurrezione"". Ciò prova palesemente che esistono ancora persone convinte che le predette analisi scientifiche (pur riferenti il telo al periodo 1260/1390 con una probabilità del 95%, la quale sale al 99.9% se "rapportata al più esteso periodo 1000/1500 d.c." - CG, p. 23) siano o errate, o inaffidabili, o addirittura volutamente artefatte a seguito di un "complotto" 2, un atteggiamento che ignora le sagge parole del nominato cardinale Ballestrero: "Penso non sia il caso di mettere in dubbio i risultati. E nemmeno è il caso di rivedere le bucce agli scienziati se il loro responso non quadra con le ragioni del cuore" (CG, p. 16). Ci sembra perciò qui di poter considerare la questione definitivamente chiusa, sia pure soltanto sotto questo punto di vista, aggiungendo a quanto precede l'opinione esplicita dell'autore oggetto della nostra attuale attenzione: "La tesi [dei sindonologi integralisti] è ancorata non solo alla presunta inattendibilità della prova al carbonio, ma anche al fatto che la stessa ha riguardato un reperto sottoposto ai disagi del tempo, vittima delle conseguenze termiche e meccaniche di un incendio che la coinvolse, sia pure indirettamente. Tali eventi essi sostengono - potrebbero aver alterato, anche sensibilmente, la struttura intima del telo, falsandone le analisi! Si potrebbe rispondere che migliaia di reperti archeologici, sottoposti allo stesso procedimento di analisi, anch'essi offesi dal tempo e da avverse vicende, non sono stati mai contestati nella datazione assegnata! Perché tanta, sia pure illustre, eccezione?"3. Ammesso ciò - e di fatto Giacchè (un altro di quei ricercatori "non integrati" a cui va spesso l'apprezzamento di questa rivista) ne fa il fondamento del proprio percorso di ricerca - restano ancora tutte da indagare le reali vicissitudini dell'oggetto, e principalmente quale possa essere stata la vera origine di tale "colossale equivoco", o "millenaria beffa" (CG, p. 44). Non vogliamo privare il lettore del piacere di dipanare da sé i fili della "trama" tessuta dall'autore, che si sviluppa a partire da una constatazione sicura: e cioè che la storia certa dell'illustre telo inizia dal 1353, quando lo troviamo nelle mani dei conti de Charney. Da esse passerà poi, nel 1453, in quelle dei Savoia, e più precisamente di Ludovico di Savoia e di sua moglie Anna di Lusignano (che comprarono la reliquia, o la ricevettero in dono, non si sa precisamente). Dal 1578 la "sacra" Sindone viene custodita nel Duomo di Torino, e infine Umberto di Savoia la dona (1983) a Giovanni Paolo II. Orbene, il nome de Charney non è ignoto a chi è al corrente di taluni particolari di un'altra vicenda "misteriosa" dell'Europa medievale, visto che Geoffroy de Charney fu il grande dignitario dell'Ordine del Tempio arso vivo sul rogo nel 1314 insieme all'ultimo Gran Maestro dei Templari, Jacques de Molay. Lusignano ci riconduce invece alla dinastia dei re di Cipro, l'isola che era stata addirittura un possedimento templare ai tempi della III crociata (i Templari l'acquistarono nel 1191 da Riccardo Cuor di Leone), e aveva offerto rifugio, nel 1291, ai pochi cavalieri superstiti della tragica caduta di S. Giovanni d'Acri, uno dei residui possedimenti cristiani in Terra Santa, prima del suo definitivo abbandono. In quell'occasione era deceduto, dopo aver combattuto al solito da valoroso, il terz'ultimo Gran Maestro dell'Ordine (il XXI della serie, nominato alla carica nel 1273), Guillaume de Beaujeu (cugino del re di Sicilia Carlo d'Angiò, e fratello di Luigi, conestabile di Francia, morto nel 1285 nel corso della cosiddetta crociata d'Aragona). Ancora da Cipro il nuovo Gran Maestro Thibaud Gaudin cercherà di predisporre i piani per il successivo ripiegamento, e infine una volta di più proprio a Cipro (1294) verrà eletto lo sventurato supremo rappresentante finale dell'Ordine, il già nominato de Molay. Giacchè fonde insieme mirabilmente siffatti diversi ingredienti 4, corredando le sue argomentazioni di numerosi elementi "congetturali", per arrivare a sostenere l'ipotesi che la Sindone è sì in qualche modo una reliquia, ma una reliquia laica, testimone di un evento luttuoso che non fu la morte del Cristo sulla croce, bensì quella del vinto de Beaujeu a S. 328 Giovanni d'Acri5, abbandonato al suo destino da chi avrebbe dovuto viceversa aiutarlo (Chiesa e regni cristiani, che si trovavano però al tempo in tutt'altre beghe affaccendati), e considerato quindi dai suoi fedelissimi partecipe degli stessi tradimento, martirio e passione del Messia! Per codesto motivo, essi vollero fare un simbolo venerabile6 di un oggetto che conservava memoria di quel triste evento, e che le bizzarre vicende della storia portarono posteriormente, per ironia della sorte, proprio nelle mani della Chiesa di Roma, nei cui confronti l'Ordine doveva avere più di una doglianza. Fu così alimentato, o almeno non impedito, l'equivoco che dette origine alla devozione verso la Sindone, come se essa fosse davvero la sacra testimone della resurrezione, un equivoco che avrebbe anche potuto essere interpretato dagli occulti eredi dei cavalieri a guisa di parziale risarcimento, e sul quale coloro che sapevano (che sanno) hanno sempre mantenuto il più stretto riserbo. Il libro che stiamo presentando è scritto in modo semplice, piacevole, soprattutto equilibrato (non pare utile soffermarsi nella presente sede su alcuni errori "minori" in esso contenuti, per esempio alle pagine 81 e 84), costruito secondo i canoni di una logica consequenziale non priva di attrattive di per sé, al punto che si potrebbe essere indotti a scommettere che, se quella intravista da Giacchè non è esattamente l'intera verità sull'intrigante enigma plurisecolare, pure la verità non deve essere troppo lontana dalla tanto intelligente ricostruzione offerta nel testo. Questo si conclude con la citazione di una bella riflessione di Paolo VI (che assume un particolare significato alla luce dell'ipotesi laica di Giacchè), e la vogliamo allora riproporre integralmente: "Qualunque sia la nostra fede, quali che siano le nostre convinzioni, la Sindone ha qualcosa da dirci. L'appello che questo lenzuolo insanguinato ci rivolge non è soltanto verticale, di richiamo religioso alla realtà divina. E' un appello anche orizzontale, accettabile da tutti: è l'immagine dell'uomo perseguitato dalla ingiustizia, il volto di ogni vinto, emarginato, oppresso, innocente che come Gesù è stato perseguitato e ucciso!". Potremmo terminare qui la recensione, ma a proposito di verità "contigue", ovvero di "variazioni" sul medesimo tema7, non possiamo non richiamare da ultimo l'attenzione dei lettori, seppur brevemente, sull'opera citata nella Nota N. 3. Ciò perché si tratta di un lavoro sorprendentemente simile a quello che abbiamo appena esaminato (e chissà che non ci sia stato qualche rapporto di "ispirazione"!), con la differenza che de Beaujeu viene sostituito con de Molay. La "beffa" sarebbe stata allora perpetrata in seguito ai supplizi fatti patire all'ultimo Gran Maestro dagli aguzzini dell'Inquisizione. Quindi, una parodia alquanto blasfema della crocifissione, che ci appare invero assai poco convincente 8, mentre più persuasiva risulta invece l'ipotesi che gli autori del testo indicato riportano come elemento scatenante per le loro conclusioni. Avrebbero infatti ascoltato (nel 1995) un'intervista alla radio, nel corso della quale Alan Mills, "impiegato al Dipartimento di Fisica e Astronomia dell'Università di Leicester" esponeva le sue personali tesi sull'origine della Sindone con le seguenti parole: "E' possibile che i saraceni abbiano crocifisso un prigioniero crociato seguendo passo passo le testimonianze degli evangelisti, in segno di crudele dileggio della sua fede" (op. cit., p. 188). 1 - CG, p. 108, corsivo nel testo (con questa sigla si rimanderà alla prima edizione perugina del libro in esame). Fa eccezione un isolato "atto formale di Giulio II" (CG, p. 92 - Giuliano della Rovere, che fu sul trono di Pietro tra il 1503 e il 1513, il cosiddetto "papa guerriero"), ma per 329 esempio nel 1991 l'Arcivescovo di Torino Giovanni Saltarini, successore del nominato Ballestrero, ha dichiarato che: "Nessuno ha mai sognato di portare la Sindone come una prova della verità del Cristianesimo" (CG, p. 108), con le quali ultime parole si intende naturalmente ribadire che fides christianorum resurrectio Christi est (S. Agostino). 2 - Citazione dalla pagina web http://www.newsitaliapress.it/speciali/sindone/sindone08.htm . In effetti, dopo un primo periodo di smarrimento, di fronte a risultanze oggettive che sembravano aver risolto la questione una volta per sempre, il "partito dei credenti" è tornato con ardore alla carica, rimettendo tutto in discussione, in qualche caso attraverso una serie di puntigliose contestazioni "numerico-metrologiche" (per la verità alquanto dubbie), alle quali in un'occasione si è infatti risposto nel seguente modo: "You refer an error in the calculation of the mean of the variances on the results from Tucson. I am not a statistician and can only therefore make the comment that if any such error occurred it is regrettable, but much larger error would be needed to change the dates significantly" (dal Prof. Michael Tite del British Museum, coordinatore del "progetto datazione", all'Ing. Ernesto Brunati, autore di un articolo critico sul numero de Il Telo dianzi citato - Piero Iacazio, comunicazione privata). Addirittura, secondo l'opinione del noto "sindonologo" Pier Luigi Baima Bollone, almeno talvolta sarebbero stati fatti passare per autentici reperti che invece non provenivano dalla Sindone: "L'ho confrontato con le foto del Lino sindonico: ebbene quel brandello non appartiene alla Sindone" (ancora dalla pagina web sopra menzionata). Possiamo aggiungere infine che vari sostenitori della "sacralità" del reperto utilizzano l'identico metodo scientifico dei "contestatori", sviluppando elucubrazioni (che preferiamo non qualificare) del tipo descritto nel pezzo che riportiamo (ibidem): "Il tedesco Eberhard Lindner, docente di chimica in Karlsruhe, [offre] una tesi che da parte dei molti studiosi che si occupano dello studio della formazione dell'impronta sindonica è stata considerata meritevole di approfondimenti. Secondo Lindner "il più elevato contenuto di C14" che ha ringiovanito la Sindone "deriva da un flusso di neutroni termici durante l'evento della resurrezione" che avrebbe determinato la formazione di C14. "La materia di cui era costituito il cadavere di Gesù Cristo scomparve nel nulla, al contrario di quando Dio creò la materia." Quasi sulla stessa linea di Lindner altri studiosi della Sindone e dell'esame al radiocarbonio. Virginio Gagliardi, docente all'Università Cattolica del Sacro Cuore, Policlinico Gemelli di Roma, ha sostenuto che "La formazione dell'immagine dell'Uomo sindonico ci induce ad ammettere l'intervento di una scarica energetica fotolitica di elevatissima intensità, come una esplosione termonucleare"". 3 - A tali considerazioni si potrebbe aggiungere l'interrogativo di Christopher Knight e Robert Lomas: "perché mai tre laboratori accademici di fama mondiale avrebbero dovuto mettere a repentaglio la loro reputazione comportandosi in modo così poco professionale"? (in Il Secondo Messia - I Templari, la Sindone e il Grande Segreto della Massoneria, Mondadori, 1998, uno di quei best-sellers oggi alquanto comuni, metà affidabili e metà no, del quale avremo modo di riparlare, p. 175). Chi scrive questa recensione non esita a dubitare talvolta della totale onestà (e capacità) degli scienziati (e della scienza), ma per arrivare a certe conclusioni ci vogliono sempre dei più che fondati elementi, e vanno soprattutto decentemente ipotizzati dei possibili verosimili moventi. Piuttosto che indagare sull'esistenza e l'estensione di un "nuovo" complotto anti-cattolico (anti-cristiano), ormai del tutto anacronistico, ci sembrerebbe invece interessante investigare sulle motivazioni che hanno indotto taluni "ambienti" ecclesiastici a dare il via a verifiche scientifiche il cui esito si poteva prevedere a priori scontato... 4 - E' forse interessante far notare che pure Savoia e Beaujeu si ritrovano in qualche modo "intrecciati" nel corso della storia, dal momento che un Antonio di Beaujeu fu amico e protetto di Amedeo VI, il famoso "conte verde" (1334-1383), il quale sostenne anche le rivendicazioni sul Piemonte di Margherita di Beaujeu, sorella di Antonio, contro il figliastro Filippo d'Acaia (probabilmente messo a morte nel 1368 - Francesco Cognasso, Il conte verde - Il conte rosso, Ed. dall'Oglio, Milano, 1989). 330 5 - E del resto le impronte rimaste effigiate sul "sacro lenzuolo" si riferiscono a un individuo che fu certamente di "tipo mediterraneo", con barba e capelli fluenti (che non risultano del tutto conformi all'uso ebraico ai tempi della dominazione romana), avente un'altezza compresa tra 1.79 e 1.83 metri, un peso che si può presumere tra 70 e 80 chili (dunque in piena forma!), insomma un personaggio di indubbia possanza atletica, più un "cavaliere" abituato a portare le armi, dunque, che un "mistico"... (CG, p. 41). 6 - Fors'anche all'origine del cosiddetto culto da parte dei Templari dell'idolo barbuto, il famoso enigmatico Bafometto?! 7 - Non sembra al contrario per nulla tale l'ipotesi recentemente presentata nelle pagine della rivista Hera (N. 17, maggio 2001), che ospita un articolo di Adriano Forgione dall'eloquente titolo "Sindone: reliquia templare". In esso si opta infatti per l'autenticità della Sindone (contestando le conclusioni dell'esame al carbonio 14), la quale sarebbe quindi una vera testimonianza della crocifissione di Cristo, recante per di più le tracce della miracolosa resurrezione (trasmutazione della materia in pura energia, ovvero immagine impressa sul telo funerario da una radiazione di natura ancora non pienamente compresa - vedi anche la Nota N. 2), e i Templari entrerebbero nella vicenda solamente perché il sacro reperto fu da essi (ri)trovato a Gerusalemme, e in seguito conservato come cosa evidentemente preziosissima. 8 - Riteniamo sia invece tra le parti interessanti della ricerca di Knight e Lomas un'esposizione dettagliata dell'eventuale processo fisico che avrebbe potuto portare alla formazione dell'immagine sindonica, secondo il già citato A. Mills (ipotesi della cosiddetta "fotografia vegetale"). * Un ringraziamento particolare a Piero Iacazio, il quale non condivide le idee dianzi esposte, e ha dato quindi origine a un vivace scambio di e-mails con l'autore del presente scritto, con la conseguenza che la recensione è divenuta mano mano più "completa"... (UB) 331 (Insediamenti templari in Terra Santa) (da Alain Demurger, Vita e Morte dell'Ordine dei Templari, Garzanti, 1987) 332 Il prossimo numero di Episteme - Episteme's next number: N. 5 - 21 Marzo 2002 / 21st March 2002 Informazioni editoriali/Editorial Policy Presentazione del volume 1 - Flavio Barbiero: La famiglia di Mosè - Un potere occulto nella storia dell'Occidente? 2 - Franco Baldini: ET IN ARCADIA EGO - Semantiche mito-ermetiche in alcuni quadri di Guercino e Poussin (Parte II - Poussin) 3 - Francesco Vitale: La fine del mondo secondo la Bibbia e secondo la scienza 4 - Giorgio Taboga: Faustino Perisauli, poeta romagnolo, precursore di Erasmo da Rotterdam 5 - Umberto Bartocci: Leonardo Sciascia e il caso Majorana - Siciliani scompaiono nel nulla, ma un'ipotesi tarda ad apparire... 6 - Alberto Lombardo: La fauna dell'Urheimat 7 - Bruno d'Ausser Berrau: De Verbo Mirifico - Il nome e la storia 8 - Sabina Kruszyñska: DE LA RELIGION... de Benjamin Constant - Le fondement épistémologique et métaphysique 9 - Umberto Bartocci, Rocco Vittorio Macrì: Il linguaggio della matematica 10 - Carlo Cirotto: La comunicazione cellulare 11 - Francesco Sacchetti: La comunicazione nel mondo fisico 12 - Umberto Lucia: Irreversible entropy in biological systems - " " : An algorithm for the cybernetic model of tumour evolution - " " : A cybernetic model for the thorax potential in ECG maps - A recent history of mathematical applications Reprints Emilio Spedicato: Galactic encounters, Apollo objects and Atlantis - A catastrophical scenario for discontinuities in human history Commenti ricevuti Giuseppe Antoni: La questione del tempo nelle Confessioni di S. Agostino Paolo Bocchio: Quattro ipotesi sulla natura del tempo 333 Bruno d'Ausser Berrau: ATOΠON - Relazioni spazio-temporali e metafisica tradizionale / Solvet saeclum in favilla - In attesa del Dies Irae Alessandro Moretti (a cura di): Quattro lettere di Sir Isaac Newton al Dottor Bentley, contenenti alcuni argomenti sulla dimostrazione dell'esistenza di una Divinità Sabato Scala: Il mosaico pavimentale della cattedrale di Otranto - L'ultimo oltraggio di un monaco gnostico? Recensioni Presentazione del prossimo numero