SOMMARIO
L'ORO ALLA PATRIA...........................................................................................................4
ABBREVIAZIONI.................................................................................................................7
PREMESSA...........................................................................................................................8
1914-1924: LE PREMESSE ALLA TRASFORMAZIONE DELL'ITALIA LIBERALE
1. L'Internazionale Socialista e la prima guerra mondiale...................................................14
2 Socialisti e fascisti. Gli scontri, le differenze politiche e gli obiettivi...............................18
3 Il nemico da abbattere: il Liberalismo...............................................................................24
4 Premesse all'assocazionismo fra i lavoratori. Il sindacalismo al centro dello Stato..........31
1926-1927: VERSO UN NUOVO SINDACALISMO
1 La Carta del Lavoro......................................................................................................40
2 L'organizzazione sindacale fascista..............................................................................46
2.1 Schema riepilogativo dell'ordinamento sindacale.................................................52
3 La legge sindacale........................................................................................................56
4 Ulteriori funzioni dei sindacati e nuovi istituti in campo sociale.................................61
4.1 Istruzione professionale dei contadini..................................................................66
4.2 Previdenza e assistenza sociale.............................................................................67
4.3 Assicurazioni contro gli infortuni e le malattie professionali...............................69
5 Principali disposizioni in materia di lavoro per i lavoratori e per gli imprenditori ....70
5.1 Orario di lavoro.....................................................................................................70
5.2 Retribuzione..........................................................................................................71
5.3 Assegni familiari...................................................................................................73
5.4 Ferie......................................................................................................................73
5.5 Regolamento tributario applicato ai cittadini........................................................74
5.6 Il lavoro delle donne e dei fanciulli......................................................................81
5.7 Disposizioni per gli imprenditori..........................................................................82
5.8 Istruzione tecnica e professionale.........................................................................83
6 Le opere nazionali........................................................................................................86
6.1 L'Opera Nazionale Dopolavoro............................................................................86
6.2 Opera Nazionale Balilla........................................................................................94
6.3 Opera Nazionale per la protezione della maternità e dell'infanzia.......................95
1930-1934: DAL SINDACALISMO AL CORPORATIVISMO
1 Principi di economia corporativa..................................................................................98
2 Gli organi Corporativi Centrali...................................................................................101
2.1 Le Corporazioni..................................................................................................101
2.2 Il Consiglio Nazionale delle Corporazioni..........................................................111
2.3 Il Ministero delle Corporazioni...........................................................................114
2.4 Consigli Provinciali delle Corporazioni..............................................................115
2.5 Ispettorato corporativo........................................................................................119
3 Come, in certi momenti, si formarono i prezzi...........................................................120
4 Capitalismo e Corporativismo....................................................................................123
5 La Camera dei Fasci e delle Corporazioni..................................................................130
6 Come si arrivava alla formazione di una legge..........................................................139
CONCLUSIONI.................................................................................................................143
APPENDICE I: OPERE PUBBLICHE.............................................................................
APPENDICE II: LEGGI.....................................................................................................
PREMESSA
A seguito dei grandi sconvolgimenti politici e sociali esplosi con veemenza nel
corso del XVII e del XVIII secolo, il più conosciuto dei quali è sicuramente la rivoluzione
francese, le dottrine liberali,6 forti delle proprie tesi individualistiche, si affermarono
rapidamente in gran parte degli stati occidentali opponendosi, con decisione, ai poteri delle
monarchie assolute. Queste, garantendo privilegi ed esenzioni fiscali a clero e nobiltà,
governavano disinteressandosi delle necessità della stragrande maggioranza della
popolazione la quale versava in condizioni di evidente miseria.
Le concezioni liberali, che avevano come fine quello di tutelare i diritti civili,
religiosi e le ambizioni di ricchezza della persona, propugnavano uno Stato che non si
intromettesse nei rapporti economici fra i cittadini: questi avrebbero dovuto essere regolati
esclusivamente dagli accordi intrattenuti dai privati secondo il mercato della domanda e
dell'offerta. L'offerta di lavoro era accentrata nelle mani dei proprietari delle terre, delle
miniere, delle prime fabbriche, così come in quelle di coloro che avevano capitali da
investire, cioè da quella piccola fetta di società rappresentata dalla ricca borghesia.7 La
domanda di lavoro era formata da una massa immensa di uomini, donne e addirittura,
bambini, in evidente stato di povertà, che potevano offrire solo la fatica delle proprie
braccia. La loro fragilità economica li esponeva alle rigide condizioni dei detentori
dell'offerta di lavoro, i quali ricavavano un esagerato profitto sfruttandoli senza alcuno
scrupolo.
Il raggiungimento di questo risultato venne favorito non solo dall'utilizzo di
6 Si devono ricordare, al riguardo, la rivoluzione inglese del 1688 (nota come 'Gloriosa rivoluzione'),
quella americana, protrattasi dal 1775 al 1783, che vide i coloni d'America lottare contro la Corona inglese e,
appunto, quella francese che durò dal 1789 al 1793.
7 In questo testo la borghesia è interpretata come «la classe globalmente detentrice dei mezzi di
produzione e quindi racchiudente in sé il potere economico e politico: si contrappone al proletariato che è
privo di detti mezzi e possiede unicamente la sua forza-lavoro» (NORBERTO BOBBIO – NICOLA MATTEUCCI GIANFRANCO PASQUINO, Il dizionario di politica, UTET, Torino 2004, p. 82).
strumenti fondamentali quali la proprietà privata, l'iniziativa individuale e la libera
concorrenza ma, sopratutto, dalla completa assenza di condizionamenti e di regole da parte
dello Stato.
Fra il 1760 e il 1780 la rivoluzione industriale, portando all'utilizzo di macchinari
sempre più efficienti, che richiedevano un minor bisogno di mano d'opera, finì per
aumentare i problemi dei lavoratori, i quali, ormai in soprannumero, dovettero accettare
condizioni di salario sempre più gravose, fra l'altro senza la tutela dei sindacati, non a caso
vietati dalle leggi di quei tempi. Come se non bastasse l'evoluzione liberale fece sì che
nella maggior parte dei parlamenti occidentali fossero presenti in prevalenza i partiti
politici impegnati ad applicare le tesi liberiste così che, anche giuridicamente, si potesse
realizzare una società nella quale la gran parte del capitale veniva accumulato nelle mani di
pochi.8 Questa situazione, che risultava oltremodo umiliante per i lavoratori e devastante
per la pace sociale, ebbe, anche in Italia, i suoi effetti, tanto che furono in molti a studiare
soluzioni per far progredire la condizione dei proletari anche se le difficoltà per superare
l'impianto dello Stato liberale, che considerava la mano d'opera come una qualsiasi merce
in vendita, sembravano insormontabili.9 Tutto questo si protrasse fino al 1924 quando, un
nuovo partito, denominato fascista, applicando le idee del proprio sindacalismo e della
'Carta del Lavoro', riuscì ad equilibrare le esigenze delle diverse parti della produzione
opponendosi allo sfruttamento sistematico della povera gente.
Nonostante la vastissima letteratura esistente sulle vicende del Ventennio, poco è
stato scritto in modo approfondito su questo documento, che si può definire il più importante e caratterizzante di quel periodo storico, attraverso il quale fu realizzato un nuovo
assetto politico e sociale nazionale.
Lo scopo di questo libro è proprio quello di provare come i legislatori di quegli anni
riuscirono a modificare lo Stato assegnandogli il nuovo ruolo di coordinatore di ogni
rapporto economico che si fosse realizzato entro i propri confini.
Nuove idee, una buonissima conoscenza del mondo del lavoro e l'emanazione di
tutta una serie di documenti e di leggi senza precedenti, permisero di intervenire proprio in
8 «Il Liberismo, nella sua accezione più semplice, è la dottrina favorevole alle libertà economiche»
(BOBBIO – MATTEUCCI - PASQUINO, Il dizionario di politica, p. 531).
9 «Proletariato: vasto raggruppamento sociale costituito dal sottoinsieme dei lavoratori manuali che,
occupati nei diversi rami di attività, nell’ambito del processo capitalistico di produzione, percepiscono in
cambio del lavoro prestato, un salario da parte di chi detiene la proprietà dei mezzi di produzione e il
controllo sulla sua prestazione lavorativa» (BOBBIO – MATTEUCCI - PASQUINO, Il dizionario di politica, p. 772).
quel settore in modo rivoluzionario, indirizzando per la prima volta la situazione politica
ed economica anche a favore dei lavoratori più umili.
La storiografia ufficiale sostiene invece, in linea col principio secondo il quale il
fascismo non deve avere il crisma rivoluzionario (di esclusiva socialista e comunista), che
il movimento di Mussolini operò spinto da interessi borghesi ma, se così fosse stato, la sua
azione si sarebbe limitata ad appoggiare i partiti al potere, già tutti in mano alle classi più
agiate, anziché combattere contro di essi fino a spazzarli via. Non a caso fra i suoi
iniziatori, assieme a non pochi autentici operai, si trovarono coinvolti nazionalisti,
repubblicani, socialisti e sindacalisti rivoluzionari, questi ultimi collocati addirittura a
sinistra del partito socialista, tutti quanti animati dal desiderio di risolvere le gravi
difficoltà che denunciavano da molti anni e che si chiamavano miseria, fame, arretratezza
culturale dei tanti lavoratori i quali, perdurando il disinteresse che lo Stato liberale nutriva
nei loro confronti, non avevano alcuna speranza di migliorare le proprie buie esistenze.
La soluzione di questi problemi passò attraverso l’ordinamento sindacalecorporativo fascista che intese porre fine alla questione sociale (ovverosia agli squilibri fra
il capitale ed il lavoro e al conseguente sfruttamento dell'uomo sull'uomo) e alla mancanza
di un progetto statale relativo all’ottimizzazione della produzione nazionale.
Parlate con un medico che non sia anima e corpo venduto al dio mammone ed egli
vi dirà che ci sono delle malattie prodotte dalla miseria, vi dirà che ci sono degli
ammalati che tali non sarebbero, se nei loro tuguri fosse entrato un po' più di sole, un
po' più di ossigeno, se sulle loro tavole ci fosse stato un po' più di pane.
Parlate con un medico che non sia un mestierante o un forcaiolo, e vi dirà, e lo
confermano del resto le statistiche, che la tubercolosi fa strage nei quartieri poveri,
nelle famiglie povere, che le malattie infettive si propagano con rapidità e con risultato
letale dove le case sono stridentissime negazioni dell'igiene e della civiltà.
Il colera risparmia i ricchi che vivono nei palazzi, i ricchi che fuggono fuori dalle zone
pericolose, ma decima la poveraglia che non può fuggire e non può difendersi. […]
La miseria costringe alla promiscuità più rivoltante e questa genera l'incesto, lo stupro,
l'abiezione. È la miseria che popola gli ospedali, le prigioni, gli asili. È la miseria
economica che produce la miseria psicologica.
I popoli più poveri sono anche i più sudici, i più intolleranti, i più superstiziosi, i più
reazionari. […]
Basta con la metafisica del 'dovere' che ha curvato l'uomo al prete, al padrone, alla
legge.
L'eguaglianza religiosa è illusoria, quella politica è menzogna: noi vogliamo
l'eguaglianza economica. [...]
La politica, l'arte, la letteratura, la scienza, la morale sono frasi prive di senso per un
cervello ottenebrato dalla denutrizione, per un cuore rigonfio d'odio pronto ad
esplodere nel delitto.
Prima dell'alfabeto, il pane, il buon pane, il pane bianco su tutte le tavole della povera
gente.
(BENITO MUSSOLINI, Cronaca cittadina, «Lotta di Classe», 21 gennaio 1911, in Opera Omnia,
III, p. 316)
1
L'Internazionale Socialista e la prima guerra mondiale
La prima guerra mondiale, iniziata in Europa il 28 luglio del 1914 fra gli Imperi
Centrali (Germania, Austria-Ungheria e Impero Ottomano) e le Potenze Alleate
(rappresentate principalmente da Francia, Regno Unito e Impero Russo), vide divampare
in Italia aspre polemiche fra chi voleva intervenire e i contrari. A quest’ultimi
appartenevano
sopratutto
i
socialisti,
fedeli
com’erano
all'insegnamento
dell'Internazionale Socialista «I proletari non hanno patria, proletari di tutto il mondo
unitevi».10
Questa organizzazione, dal 1864 univa tutti i lavoratori europei che, considerata la
situazione di miseria e di ignoranza nella quale erano condannati a vivere nelle rispettive
nazioni, non si sentivano di appartenere a nessuna comunità nazionale: l'unica fratellanza
nella quale credevano era quella stretta con tutti gli altri proletari del mondo coi quali
condividevano il medesimo destino. Sostenevano inoltre, non a torto, che le guerre
venivano subite dai proletari che le combattevano in prima persona mentre degli eventuali
vantaggi economici, derivati dalla vittoria, avrebbe beneficiato la sola borghesia. Per
questo motivo gli operai erano pronti a servirsi di qualunque mezzo, a cominciare dallo
sciopero generale a carattere insurrezionale, pur di scongiurare gli scontri armati.11
Anche Benito Mussolini, nel 1912 militante socialista e direttore de «L'Avanti»,
dalle pagine del suo giornale difendeva le tesi internazionaliste perché convinto di quanto
gli eventi bellici peggiorassero le condizioni dei lavoratori, da considerarli come gli
10 La Prima Internazionale o Associazione Internazionale Lavoratori, fu costituita a Londra nel 1864 ad
opera di lavoratori inglesi, tedeschi, francesi e italiani. Aveva come scopi quello di promuovere la liberazione
dei lavoratori dal giogo dei padroni per impadronirsi dei mezzi di produzione e quello di dare vita ad una
collaborazione internazionale contro la guerra.
11 A questo proposito resta fondamentale il convegno di Berlino del 1911 dove gli operai di Francia e
Germania sigillarono un patto di fratellanza contro il militarismo, ritenuto nemico perché borghese.
strumenti massimi del loro sfruttamento. Eloquenti le sue parole al riguardo: «il
proletariato con la guerra, è cioè chiamato a versare il proprio sangue, dopo aver dato, nelle
officine, tutto il proprio sudore».12
Sull'argomento chiariva ancora Mussolini: «Nella violenza fra le nazioni, il
proletariato è uno strumento passivo nelle mani dei governi che rappresentano le classi
dominanti della nazione. […] È il proletariato che aliena la sua autonomia, cede la sua
individualità, offre il suo sangue alle classi borghesi che detengono il potere e ne fanno lo
strumento della loro politica».13
È quindi evidente che anche nei riguardi del primo conflitto mondiale l'orientamento
socialista, fermamente ancorato verso l'assoluta neutralità da parte dell'Italia, non poteva
che intimare agli operai di mantenere fede all'Internazionale proletaria. I socialisti
consideravano la violenza necessaria soltanto per intervenire nei rapporti interni della
nazione (allo scopo della liberazione del proletariato dallo sfruttamento della borghesia),
non certo in ambito internazionale ove tutte le dispute originavano dalle scelte politiche dei
governi, che rappresentavano le classi ricche.
Comunque, nonostante l’avversione dei marxisti che potevano solo protestare contro
le decisioni dei rispettivi Stati, alle quali dovevano poi piegarsi, in Europa era in atto una
forte conflagrazione che rappresentò il conflitto fra le più forti economie del continente:
quella francese e quella inglese, da una parte, e la tedesca dall’altra (è opportuno ricordare
che la Germania intendeva conquistare i Balcani per impossessarsi di tutte le vie
commerciali per l’Oriente).14 Risultato fu che milioni e milioni di uomini, nella stragrande
maggioranza operai e contadini, si trovarono gli uni di fronte agli altri sui campi
insanguinati di mezza Europa, evidenziando l’inconcludenza delle teorie pacifiste
dell'Internazionale Socialista rispetto alle decisioni dei governi nazionali, che riuscivano
sempre a costringere i rispettivi popoli alle armi.
I primi, in Italia, a denunciare l'errore di fondo dell’Internazionale proletaria, furono
proprio esponenti di sinistra, in particolare socialisti e sindacalisti rivoluzionari, come
Massimo Rocca, Michele Bianchi, Cesare Rossi, Alceste de Ambris, Filippo Corridoni, Ugo
12 BENITO MUSSOLINI, Contro la guerra, «L'Avanti», 18 novembre 1912, in ID., Opera Omnia, IV, p. 232.
13 BENITO MUSSOLINI, In tema di neutralità italiana, «L'Avanti», 13 agosto 1914, ID., Opera Omnia, VI, p.
316.
14 I Balcani ricomprendevano: la Grecia, la Romania, la Serbia, il Montenegro, la Slovenia, la Bosnia, la
Croazia, l'Albania, la Macedonia, la Bulgaria e la Turchia europea.
Clerici e l’avvocato Del Re, quest'ultimo repubblicano. Costoro si opponevano alla
mentalità neutralista del partito socialista che avrebbe impedito alla Nazione di difendere i
propri interessi di politica estera, lasciando carta bianca all’avanzata del militarismo
Prussiano sui Balcani e sull’Adriatico, che avrebbe chiuso all’Italia quegli sbocchi verso
oriente indispensabili per lo sviluppo dei propri progetti commerciali.
Le tesi di questi personaggi, che nell'agosto del 1914 avevano fondato il 'Fascio
d’azione interventista',15 convinsero Mussolini ad una netta presa di posizione a favore del
conflitto, ponendolo in evidente contrapposizione con il 'mondo' socialista tanto che, il 19
ottobre del 1914, si dimise dalla redazione de «L'Avanti» per andare a fondare un
quotidiano tutto suo: «Il Popolo d’Italia». Conseguentemente il 24 novembre dello stesso
anno, venne espulso dal partito socialista del quale era uno fra gli esponenti più importanti.
Dalle pagine del nuovo quotidiano, il 4 marzo 1915, Mussolini avvertiva gli italiani
che «solo la guerra contro gli imperi centrali, mentre può darci il dominio esclusivo
dell’Adriatico, ci rimette – a fianco della Triplice Intesa – nel bacino del Mediterraneo,
verso l’Oriente, dove l’espansione italiana può trovare vasto e fertile campo per le sue
energie. Non solo: ma l’apertura dei Dardanelli ci assicura il rifornimento di grano in forti
quantità e a buon mercato: è dalla Russia che può venire il pane per l’Italia bisognosa, ora
che i blocchi tedesco e franco-inglese rendono pericolosi i rifornimenti transoceanici».16
Mussolini aveva ben chiaro il pericolo teutonico che già con la guerra del 1870-71,
terminata con la completa disfatta della Francia ad opera della Prussia e dei suoi alleati,
aveva messo la prima pietra per la conquista di mezzo mondo.
La seconda fu posta quando, con l’alleanza del 7 ottobre 1879, gli stessi prussiani
strinsero con l’Austria un trattato che fece, in pratica, di due imperi un blocco unico. Da
allora l’Austria-Ungheria diventò, in tutto e per tutto, la longa manus della Germania nella
penisola balcanica verso Salonicco.
Circa i propositi della Prussia è interessante riportare alcuni passi di un opuscolo
anonimo dal titolo L’impero tedesco verso il 1950 che recita:
Verso la metà del sec. XX due gruppi saranno costituiti nell’Europa centrale. Uno
politico o Confederazione germanica abbraccerà l’Impero tedesco, il Lussemburgo,
l’Olanda, il Belgio, la Svizzera tedesca, l’Austria-Ungheria […]. La Germania avrà
15 MASSIMO ROCCA, Come il fascismo divenne una dittatura, Edizioni Librarie Italiane, Milano 1952, pp.
42-43.
16 BENITO MUSSOLINI, I fatti nuovi, «Il Popolo d’Italia», 4 marzo 1915, in Opera Omnia, VII, p. 234.
allora 86 milioni di abitanti e il territorio economico sottomesso alla sua azione
commerciale diretta conterà 131 milioni di consumatori… Senza dubbio i tedeschi
non saranno soli a popolare il nuovo impero; ma essi soli governeranno, essi soli
godranno dei diritti politici, solo essi serviranno nell’esercito e nella marina, solo essi
potranno comperare terreni. Essi avranno allora, come nel medio evo, il sentimento di
essere un popolo di padroni […]. Essi tollereranno tuttavia che i lavori inferiori siano
eseguiti dagli stranieri viventi sotto il dominio 'germanico'. 17
Dalla contrapposizione fra coloro che nel 1914-1915 erano stati i sostenitori del
neutralismo, da una parte, e dell’interventismo, dall’altra, si passò, nell’immediato dopoguerra, a scontri e violenze molto gravi che, comunque, dipesero anche da ragioni
politiche, come vedremo nel prossimo capitolo.
17 BENITO MUSSOLINI, Chi l'ha voluto, «Il Popolo d’Italia», 5 luglio 1915, in Opera Omnia, VIII, p. 58.
2
Socialisti e fascisti.
Gli scontri, le differenze politiche e gli obiettivi
Nel marzo del 1919, continuando il percorso ideologico del 'Fascio d'azione
interventista', Benito Mussolini fonda a Milano il primo 'Fascio di combattimento'. In
pochi mesi molti altri 'fasci' vengono costituiti nelle restanti province italiane. Il partito
socialista non vede di buon occhio questa nuova formazione che gli contende i lavoratori:
da ciò nascono tensioni che poi diventeranno veri e propri scontri in molte zone d'Italia.
Il 1919 è un anno importante per la politica italiana in quanto Mussolini, il 23
marzo, fonda a Milano in piazza San Sepolcro il primo 'Fascio di combattimento'. Questo
movimento, che nei giorni seguenti portò alla costituzione di altri fasci in tutte le provincie
d'Italia, aveva come scopo quello di rappresentare le richieste di lavoro dei reduci della
guerra che, in nome della patria, avevano sofferto al fronte, nonché, secondo i valori di
base del sindacalismo rivoluzionario, di difendere gli interessi economici dei lavoratori
salariati. Soprattutto per quest'ultimo motivo, l'organizzazione 'fascista' entrò in
concorrenza con le già esistenti formazioni di sinistra le quali, seguendo gli insegnamenti
di Lenin e della sua 'rivoluzione d'ottobre' conclusa nel 1917, 18 aspiravano alla presa
violenta del potere per instaurare la dittatura del proletariato al fine di eliminare la
borghesia e instaurare uno Stato come quello russo fondato sull’autogoverno dei consigli
degli operai.19
Queste differenti formazioni politiche, condizionate da un antagonismo insanabile,
scesero sul piano della violenza che da Milano in poco tempo dilagò in buona parte
dell'Italia del nord e del centro. Secondo quanto riferisce Renzo De Felice gli scontri fra i
socialisti e i reduci della prima guerra mondiale videro il loro inizio il giorno 13 aprile
18 Lenin (Simbirsk 1870 - Gorki, Mosca, 1924) è stato un rivoluzionario e statista russo. Crf. ETTORE LO
GATTO, «Lenin», in Enciclopedia Treccani. XX, p. 837.
19 «Leninismo», in Enciclopedia Treccani online, www.treccani.it/enciclopedia/leninismo.
1919 allorquando i primi organizzarono un comizio in piazza Garigliano dove avrebbe
dovuto parlare Filippo Turati che, però, non intervenne. Al suo posto prese la parola
l'anarchico Ezio Schiaroli che attaccò violentemente Mussolini istigando il proletariato a
passare alle vie di fatto contro lo Stato. Fu a quel punto che la polizia, allo scopo di
impedire possibili degenerazioni del comizio, intervenne ordinandone lo scioglimento.
Così riporta De Felice:
Ne erano seguiti gravi incidenti, con sassaiole, colpi di arma da fuoco ed atti
teppistici, nel corso dei quali si erano avuti tra i manifestanti un morto ed alcuni feriti.
La Camera del lavoro aveva allora proclamato per il giorno 15 lo sciopero generale e
indetto un grande comizio di protesta all'Arena. Questa notizia aveva messo in
agitazione gli ambienti interventisti e 'd'ordine' che avevano pensato di organizzare a
loro volta una contromanifestazione. Temendo incidenti, il Prefetto si era adoperato
per convincere le organizzazioni patriottiche a non tenere la loro manifestazione e
aveva strappato loro un impegno in questo senso. In realtà non tutte le organizzazioni
si attennero all'accordo. Il 15, mentre era in corso il comizio all'Arena, nazionalisti,
allievi ufficiali e arditi, affluirono a gruppi verso il centro. Conclusosi il comizio
all'Arena, scoppiarono i primi incidenti. Un gruppo di manifestanti socialisti affluì
verso la sede dell'Avanti! Forza pubblica ed esercito cercarono di impedire che i due
gruppi si scontrassero; però specie da parte dell'esercito ciò fu fatto con scarsa
fermezza […]. Rotti i cordoni, in via Mercati si ebbero i primi incidenti: gli arditi e gli
altri manifestanti di destra assalirono con violenza i socialisti e li misero in fuga
facendo uso di bastoni e di armi da fuoco; dopodiché si diressero verso la sede
dell'Avanti! Qui l'atteggiamento delle forze di polizia e dell'esercito fu anche più
debole e i dimostranti poterono prendere d'assalto lo stabile del giornale. Un colpo di
pistola sparato dall'interno uccise un soldato del cordone di protezione provocando lo
sbandamento degli altri.20
Fu a quel punto che molti dimostranti riuscirono a penetrare all'interno del giornale
devastando e distruggendo quanto possibile, appiccando il fuoco servendosi della benzina
delle macchine. La miccia ormai era accesa, tant'è che dopo questo doloroso episodio gli
scontri fra fascisti e socialisti continuarono a lungo e con essi aumentarono i morti, i feriti,
le aggressioni alle manifestazioni e ai cortei, gli agguati e le imboscate. Il periodo di
sangue e di caos generale, che portò la Nazione sull'orlo di una vera e propria guerra civile,
si protrasse ancora a lungo interessando ampie zone del nord Italia e del centro.
A capire meglio il clima di quel tempo ci aiuta Pietro Nenni quando afferma21 «Il
20 RENZO DE FELICE, Mussolini il rivoluzionario (1883-1920), Einaudi, Torino 19952, p. 520 (parte della
relazione dell'ispettore Gasti contenuta negli atti del Ministero dell'Interno).
21 Pietro Nenni (Faenza 1891-1980). Dapprima repubblicano, diventò socialista e capo redattore de
partito socialista era uscito dal congresso di Bologna dell’ottobre del 1919 (il congresso
che approvò la nuova carta massimalista imperniata sulla duplice idea della conquista
violenta del potere e della instaurazione della dittatura del proletariato) con l’impegno di
darsi un’organizzazione di combattimento e di passare all’attacco dello stato borghese».22
Concetto, questo, ripreso anche dal socialista Ivanoe Bonomi23 nel suo libro Dal
socialismo al fascismo dove si legge: «La dittatura del proletariato aveva finalmente trovato
un uomo che l'aveva instaurata: Lenin».24 Poco più avanti così continuava:
Intanto, nel grembo stesso del partito socialista, ingigantiva il disagio, e col
disagio, il dissidio. L'ala sinistra proclamava la necessità della violenza, e l'ala destra
dimostrava l'assurdità del miracolismo rivoluzionario; le molte Camere del Lavoro si
affannavano a proclamare scioperi e a capeggiare piccole parodie locali di dittature
bolsceviche, e la Confederazione Generale del Lavoro faceva bravamente la sua
funzione di pompiere per spegnere gli incendi locali; gli elementi più risoluti
credevano, qua e là, fosse giunta l'ora di menar le mani ─ e le menavano infatti nella
maniera meno intelligente ─ e i dottori in rivoluzione, che pullulavano nel partito,
asserivano che l'ora non era ancora matura e organizzavano ─ suprema manifestazione
repubblicana ─ la innocua ostentazione del garofano rosso alla seduta reale.25
Quindi ancora Bonomi sugli scontri:
L'uccisione del consigliere Giordani nel palazzo d'Accursio di Bologna, alla fine
del novembre1920, dà il segnale dell'insurrezione nella valle padana, cioè nella zona
dove nascono tutti i maggiori movimenti politici. Ed è soltanto dopo di allora che i
fasci di combattimento appaiono nella cronaca italiana, non più come un episodio
sporadico, ma come l'avanguardia armata della riscossa contro il bolscevismo. La
riscossa è, dunque, non il preordinato attacco di un partito o di una fazione (il
fascismo allora era un libero movimento senza organizzazione di partito) ma è una
insurrezione spontanea di molte delle forze vive del paese contro una situazione
intollerabile che, senza sboccare mai in una vera rivoluzione, ha però tutte le
prepotenze e le durezze di una rivoluzione. Il paese si leva quando già il socialismo
comunista ha fatto la sua grande prova ─ l'occupazione delle fabbriche ─ e l'ha
«L'Avanti» nel 1923. Capo politico della resistenza, dopo la caduta del fascismo assunse insieme a Sandro
Pertini, Giuseppe Saragat e Lelio Basso la guida del partito socialista. È stato indubbiamente uno degli
uomini politici più in vista della Repubblica.
22 PIETRO NENNI, Vent’anni di fascismo, Edizioni Avanti, Milano 1964, p. 212.
23 Ivanoe Bonomi (Mantova 18 ottobre 1873 - Roma 20 aprile 1951). Avvocato, giornalista e politico
italiano fu per due volte Ministro e per due volte Presidente del Consiglio dei Ministri.
24 IVANOE BONOMI, Dal socialismo al fascismo, Formiggini, Roma 1924, p. 30.
25 BONOMI, Dal socialismo al fascismo, p. 35.
perduta. L'istinto del popolo italiano percepisce che è già cominciata la sconfitta del
sogno bolscevico e che il socialismo sta per entrare nella sua parabola discendente. E
si leva impetuoso ─ specialmente nelle regioni che hanno più sofferta la dominazione
comunista ─ senza capi, senza guide, senza segni di raccolta. I fasci di combattimento
che non esistevano prima, o erano piccoli gruppi pressoché ignoti, soltanto nella
primavera del 1921 si ingrossano, si diffondono, si moltiplicano, con una rapidità
vertiginosa. Il fascismo, movimento prevalentemente milanese, diventa solo allora
movimento nazionale. Corrono a lui reduci di guerra, intellettuali, studenti,
professionisti, piccoli borghesi, mossi da uno spirito di libertà e di patria, in
opposizione alla prepotenza bruta di folle incolte ed illuse; si aggregano a lui i resti del
'fiumanesimo' cioè una parte dell'arditismo e dei legionari dannunziani, che gli recano
la loro inquadratura militare, la loro nomenclatura romana, i loro suggestivi gridi di
guerra; finalmente lo ingrossano le folte schiere degli agrari e degli industriali, che
vedono in lui uno strumento efficacie per distruggere la minaccia rossa e ristabilire
l'ordine nella produzione e nel lavoro. Questo confluire di forze diverse, con stimoli
diversi e con obiettivi diversi, può avverarsi solo in virtù del carattere antibolscevico
del movimento fascista.26
L'ideologia socialista era, quindi, incentrata sulla lotta di classe che avrebbe portato
all'eliminazione di una intera categoria economico-sociale (quella borghese) attraverso una
rivolta violenta, allo scopo di instaurare la dittatura del proletariato. Ciò non era
minimamente condiviso dalla controparte politica che veniva sempre più sviluppandosi
attorno a Mussolini che, infatti, il 31 luglio 1918 così scriveva su «Il Popolo d’Italia»:
[…] le parole internazionale, lotta di classe e le altre della terminologia socialista,
appartengono al museo dei vecchi luoghi comuni. Nel periodo più rivoluzionario della
storia del mondo il socialismo non costruisce nulla, è di una passività, di una sterilità
spaventevole: dove, per un complesso di circostanze favorevoli è giunto al potere, non
è riuscito che a determinare un caos più confuso e incoerente di quello borghese.
Mussolini era convinto che l'applicazione di un sistema diretto da una oligarchia
politica come quella socialcomunista, propensa all'annullamento della proprietà privata,
avrebbe creato uno Stato che, assorbendo in sé tutta l'economia, sarebbe diventato l'unico
detentore e gestore dei mezzi di produzione. Un sistema simile avrebbe impedito
l'iniziativa individuale, il ricorso ai patrimoni privati, lo stimolo al risparmio e al
susseguente investimento: tutti elementi essenziali per lo sviluppo ottimale dell'economia
26 Bonomi fa riferimento alla strage di Palazzo d'Accursio del 21 novembre 1920 fra le quali vittime
rimase ucciso, all'interno della sala del consiglio, il consigliere liberale Giulio Giordani, del cui omicidio
vennero accusati i socialisti (BONOMI, Dal socialismo al fascismo, pp. 110-111).
di un popolo. A differenza dei socialisti, il Duce e i suoi partivano dall'assunto che non si
dovesse più parlare di classi contrapposte nel mondo del lavoro in quanto, l'impiego delle
braccia, delle menti e dei capitali, essendo tutti fattori necessari alla produzione, dovevano
considerarsi ugualmente indispensabili e quindi insopprimibili. Per questo motivo tutte le
persone impegnate in ogni settore, sia che fossero braccianti, impiegati, operai o
imprenditori, sarebbero state più opportunamente considerate 'produttori'.
Ciò è testimoniato da un fatto evidentissimo accaduto il 1 Agosto1918: quel giorno
uscì il primo numero de «Il Popolo d’Italia» con il sottotitolo «Quotidiano dei combattenti
e dei produttori» che sostituì quello ormai superato di «Quotidiano socialista». Non fu un
semplice mutamento di sottotitolo, bensì un ulteriore chiarimento, da parte di Mussolini,
sullo scopo finale da raggiungere:
Produttori! Ecco la parola che ha ferito molte orecchie pubbliche. Chi sono i
produttori? I produttori non sono tutti necessariamente borghesi, non sono tutti
necessariamente proletari. L’ingegnere che disegna la macchina è un produttore. Il
meccanico che lavora i pezzi secondo i disegni dell’ingegnere è un produttore. Ci sono
delle gerarchie tra i produttori. Queste gerarchie devono essere rispettate, quando
siano, come devono essere, il frutto dell’esperienza e dello studio e si accompagnino,
come devono accompagnarsi, a un senso più alto di responsabilità. Fra i produttori non
esiste un dissidio. Fra l’ingegnere e il manovale non c’è ragione di dissidio né
economico, né morale. C’è tra loro una necessaria e logica divisione del lavoro. Si
completano a vicenda […]. Escludo dai produttori i borghesi che, in un senso o
nell’altro, non producono, escludo i proletari che non producono. [...] L’interesse dei
produttori è di portare al massimo le loro capacità produttive. È interesse comune di
produttori borghesi e di produttori proletari. Può nascere un conflitto fra queste due
categorie: i produttori proletari possono esigere di più, per migliorare la loro
condizione. Questo conflitto non può prendere il nome di lotta di classe. A un dato
momento può accadere che i produttori proletari si ritengano sufficientemente maturi
per realizzare un loro tipo di economia e allora nell’antagonismo delle forze, degli
interessi, degli ideali vinceranno i più forti. […] Produrre, produrre con metodo, con
diligenza, con pazienza, con passione, con esasperazione è soprattutto nell’interesse
dei cosiddetti proletari. Solo quando la quantità di beni in circolazione sia ingente, può
toccare alla sterminata massa dei proletari una quota-parte discreta.27
In definitiva sia i socialisti che i fascisti individuavano l’origine dei problemi della
società nell’evidente squilibrio della ripartizione delle ricchezze, aspetto, questo, che
27 BENITO MUSSOLINI, Orientamenti e problemi, «Il Popolo d'Italia», 18 agosto 1918, in Opera Omnia, XI,
p. 282.
doveva essere affrontato e risolto dallo Stato. Le strade che indicavano, però, erano troppo
diverse: mentre per i primi era indispensabile 'la lotta di classe', finalizzata ad espropriare
tutti i beni della borghesia, per i secondi era da propugnare la collaborazione delle due
classi economiche, affinché da questa potesse scaturire il migliore sviluppo della
produzione nazionale.
3
Il nemico da abbattere: il Liberalismo
Se il partito fascista si contrappose con fermezza a quello socialista, ancor più
nettamente operò per abbattere lo Stato liberale, colpevole delle disuguaglianze e delle
insanabili fratture fra i datori di lavoro e i lavoratori. Al liberalismo, che permetteva lo
sviluppo delle individualità in ogni settore, pericolosamente anche in quello economico, si
intese sostituire un sistema più equo, disciplinato dalle leggi dello Stato che limitassero gli
egoismi umani. In tal modo sarebbe stato possibile diminuire le disparità sociali ed
economiche all'interno della società e porre fine alla miseria della maggioranza della
popolazione.
Il liberalismo, la cui dottrina si è formata nel corso di ben quattro secoli (dal XVII
al XX), nasce abbracciando le tesi del giusnaturalismo per riconoscere i diritti naturali
della persona quali quello alla vita,28 alla libertà di opinione, a quella religiosa, ad
un'esistenza dignitosa, ad un giusto processo, sostenendo la completa esclusione delle leggi
dello Stato dai rapporti economici fra i cittadini. A partire dalla fine del XVIII secolo questi
ideali furono cavalcati dalla borghesia per combattere le monarchie assolute e i privilegi
che queste riservavano all'aristocrazia e al clero, i quali, con i loro rigidi dogmi,
restringevano i confini del pensiero e della scienza privando i cittadini di molte libertà. Il
primo grande teorico del liberalismo fu John Locke,29 che individuò nei rapporti fra il
28 «Il giusnaturalismo è la dottrina secondo la quale esiste e può essere conosciuto un 'diritto naturale'
ossia un sistema di norme di condotta intersoggettiva diverso da quello costituito dalle norme dello Stato
(diritto positivo) e questo diritto naturale ha validità di per sé, è anteriore e superiore al diritto positivo, e, in
caso di contrasto con quest’ultimo, deve prevalere su di esso. Il giusnaturalismo è perciò la dottrina antitetica
a quella detta 'positivismo giuridico', secondo la quale è diritto soltanto quello posto dallo Stato, e la validità
di esso è indipendente da ogni suo riferimento a valori etici» (BOBBIO – MATTEUCCI - PASQUINO , Il dizionario
di politica, p. 390).
29 John Locke (Wrington 29 agosto 1632 - Oates 28 ottobre 1704).
cittadino e lo Stato i tratti fondamentali di questa ideologia. Secondo Locke il diritto alla
vita, quello alla libertà e alla proprietà sono insiti in ogni uomo sin dalla nascita e il potere
politico per non essere tirannico non li deve violare. Su questa stessa linea, anch'essi
preoccupati delle ingerenze dello Stato, spiccano Montesquieu,30 Kant,31 Constant32 e Von
Humboldt,33 i quali sostenevano che, essendo l'individuo il protagonista della società civile
(a differenza dello Stato che è coercizione), le istituzioni dovevano essere predisposte in
modo tale che la loro autorità certamente si realizzasse ma entro precisi limiti.
Sulle caratteristiche individualistiche e antistatalistiche delle teorie liberali, ci offre
una importante approfondimento Norberto Bobbio:34
la dottrina liberale è l'espressione, in sede politica, del più maturo giusnaturalismo:
essa, infatti, si appoggia sull'affermazione che esiste una legge naturale precedente e
superiore allo Stato e che questa legge attribuisce diritti soggettivi, inalienabili e
imprescrittibili, agli individui singoli prima del sorgere di ogni società, e quindi anche
dello Stato. Di conseguenza lo Stato, che sorge per volontà degli stessi individui, non
può violare questi diritti fondamentali (e se li viola diventa dispotico), e in ciò trova i
suoi limiti; anzi, deve garantirne la libera esplicazione, e in ciò trova la sua funzione,
che è stata detta 'negativa' o di semplice 'custode'. 35
Inoltre, lo stesso Bobbio continua affermando che:
il liberalismo è espressione dell'individualismo razionalistico, proprio della filosofia
illuministica, per il quale l'uomo in quanto essere razionale è persona, e ha un valore
assoluto, prima e indipendentemente dai rapporti di interazione coi suoi simili. Come
persona, il singolo è superiore a qualsiasi società di cui entra a far parte, e lo Stato, a
sua volta, è soltanto un prodotto dell'uomo (in quanto sorge da un accordo o da un
contratto fra gli uomini stessi), e non è mai una persona reale, bensì solo una somma
di individui aventi ciascuno la propria sfera di libertà. I diritti fondamentali che lo
30 Charles-Louis de Secondat, barone de La Brède e di Montesquieu, meglio noto unicamente come
Montesquieu (La Brède 18 gennaio 1869 - Parigi 10 febbraio 1755).
31 Immanuel Kant (Konisberg 22 aprile 1724 -12 febbraio 1804).
32 Benjamin Constant (Losanna 25 ottobre 1767 - Parigi 8 dicembre 1830).
33 Alexander Von Humbolt (Berlino 14 settembre 1769 - 6 maggio 1859).
34 Norberto Bobbio (Torino 18 ottobre 1909 - 9 gennaio 2004), è stato un filosofo, giurista, storico,
politologo e senatore a vita italiano.
35 «Norberto Bobbio», in Dizionario di Filosofia, a cura di Andrea Biraghi, Comunità, Milano 1957, pp.
617-618.
Stato deve garantire, pur variando da autore ad autore, e da costituzione a costituzione,
si possono raggruppare in due grandi categorie: diritti che riguardano la libertà dallo
Stato nella sfera spirituale (libertà di pensiero, di religione, etc.); diritti relativi alla
libertà dallo Stato nella sfera economica (diritto di proprietà, libertà di intrapresa
economica, di commercio, ecc.).36
Proprio riguardo al liberalismo economico (cioè al 'liberismo'), che è poi quello che
più ci interessa ai fini di questo lavoro, il massimo esponente fu il filosofo ed economista
scozzese Adam Smith il quale, teorizzando la necessità della libera iniziativa e del libero
mercato,37 riteneva che l'intervento statale doveva essere portato al minimo indispensabile.
Ciò che lo Stato doveva garantire era la realizzazione delle adeguate infrastrutture ─ come
strade, ferrovie, canali ─ al fine di favorire una veloce circolazione delle merci e la
conseguente espansione dei mercati, in assenza di impedimenti quali dazi doganali o
frontiere (ricordiamo a questo proposito il noto motto coniato in Francia nel 1700 dal
ministro De Gournay: «Laissez faire, laissez passer»). In linea con il motto francese
appena indicato, che diventò un vero e proprio slogan economico, Smith sosteneva che
ognuno doveva fare gli opportuni interessi, senza limitazioni di sorta, per poter accrescere
la propria ricchezza. Così facendo, sarebbe aumentato anche il benessere di tutta la
popolazione, poveri compresi (ai quali lo Stato avrebbe potuto garantire migliori servizi,
aiutato in questo dal maggior prelievo di tasse, dovuto alla crescita dei ricavi degli
imprenditori). Per Smith, accusato da molti quantomeno di eccessivo ottimismo, esistevano
infatti leggi naturali che riuscivano a far coincidere l'interesse individuale (egoistico) con
quello generale e collettivo in grado di provvedere allo sviluppo economico e alla felicità
sociale.38 Il filosofo scozzese immaginava che potesse verificarsi quasi spontaneamente un
equilibrio fra domanda ed offerta attraverso il meccanismo della libera contrattazione che,
invece, fu tra le cause dei disagi dei proletari i quali, potendo disporre soltanto delle
proprie braccia, non erano certo dotati della stessa forza contrattuale di chi deteneva la
ricchezza.
36 «Norberto Bobbio», p. 618.
37 Adam Smith, Kirkcaldy (5 giugno 1723 - Edimburgo, 17 luglio 1790).
38 Questi concetti, che non si tramutarono in realtà, trovarono come fieri oppositori i pensatori socialisti
ed in particolare Karl Marx che lamentò apertamente l'inganno dei liberali nei confronti dei lavoratori che
continuavano a rimanere asserviti alle classi dominanti, permanendo evidenti disuguaglianze economiche
nella società.
Da un esame delle tesi sopra riportate si evince che l'errore in esse contenuto consiste
nel considerare alla stessa stregua diritti fondamentali dell'individuo, quali quello alla vita,
alla libertà religiosa, al giusto processo e così via, con quelli economici che necessitano di
una valutazione molto diversa perché, al contrario dei primi, non riguardano soltanto la
sfera privata della persona. Tutto quello che si verifica in un contesto di lavoro non ricade,
infatti, solo sull’imprenditore ma anche su coloro che con lui condividono quell'attività.
Non si può non tener conto che in economia esiste una interazione che non è scindibile fra
gli elementi che compongono il lavoro stesso (cioè fra la terra, intesa come l'insieme di
risorse naturali: quali le materie prime, l'acqua, il carbone, il petrolio etc; il capitale e il
lavoro ─ sia manuale che intellettuale ─) che, tutti insieme, porteranno a nuova produzione
e maggior ricchezza. È indubitabile che quest'ultima si realizzerà quindi grazie all'impegno
sia dei datori di lavoro che dei lavoratori e, proprio per questo, tutti avrebbero diritto di
goderne gli utili per le proprie necessità di vita. Invece, secondo i principi liberali, dovrà
essere soprattutto l'imprenditore (per aver rischiato il capitale all'inizio del processo), a
poter beneficiare dei guadagni della produzione anche a costo di forti rinunce economiche
da parte di tutti gli altri.
Chi conferma questo è ancora Bobbio quando spiega:
Libertà ed uguaglianza, sono valori antitetici, nel senso che non si può attua re
pienamente l'uno senza limitare fortemente l'altro: una società liberal-liberista è
inevitabilmente inegualitaria così come una società egualitaria è inevitabilmente
illiberale. E mentre per il liberale il fine principale della società è l'espansione della
personalità individuale ─ anche lo sviluppo della personalità più ricca e dotata può
andare a detrimento dello sviluppo della personalità più povera e meno dotata ─ per
l'egualitario il fine principale è lo sviluppo della comunità nel suo insieme, anche a
costo di diminuire la sfera di libertà dei singoli.39
Eppure questi principi così antisociali, erano tutt'altro che presenti nelle
dichiarazioni promulgate in due delle maggiori civiltà liberali, come gli Stati Uniti
d'America e la Francia quando stesero la 'Carta dei diritti d'America' nel 1776 e la
'Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino' nel 1789. Quest'ultima all'articolo 1
39 NORBERTO BOBBIO, Liberalismo e democrazia, Simonelli, Milano 1985, p. 27.
riportava che «le distinzioni sociali non possono essere fondate che sull'utilità comune»,
all'articolo 2 che «la libertà è un diritto» e all'articolo 4 che «la libertà consiste nel poter far
ciò che non nuoce ad altri», quindi, all'articolo 5 che «la legge ha il diritto di proibire
azioni nocive alla società», poi, all'articolo 6, che «la legge è l'espressione della volontà
generale» e che «tutti i cittadini hanno diritto di concorrere personalmente o per mezzo dei
loro rappresentanti alla sua formazione». Questi sono dunque i principi che avrebbero
dovuto animare gli Stati liberali, ma andò veramente così?
Prendiamo in esame gli ultimi due punti elencati ed analizziamo cosa successe
nell'ordinamento italiano a partire dall'unità giuridico-politica della nostra penisola,
proclamata nel 1861. A norma dell'art. 3 della Costituzione allora vigente, lo Statuto
Albertino del 1848, il Parlamento italiano era formato dalla Camera del Senato e dalla
Camera dei deputati, ma soltanto per i componenti di quest'ultima furono predisposte le
elezioni in quanto i senatori erano nominati dal Re e restavano in carica per tutta la loro
vita. Il sovrano, a norma dell’art. 33 dello Statuto, doveva sceglierli fra coloro che
appartenevano alle alte gerarchie del clero, alla Magistratura, alle alte sfere militari, ai
vertici della cultura, della politica o dell'economia: di fatto risultavano essere i più
significativi rappresentanti della borghesia. Anche per la Camera dei deputati si attinse da
questa privilegiata classe sociale, in quanto l'art. 50 dello Statuto stabilì che tutti i
parlamentari non avrebbero dovuto percepire alcuna remunerazione per quella loro attività.
Pertanto essi non avrebbero potuto provenire che dalla parte più abbiente della società,
quella che non aveva bisogno di stipendi per vivere e che di conseguenza era così distante
dal mondo operaio e contadino da non riuscire a capire quanto fosse duro il lavoro nelle
fabbriche, nei campi e nelle miniere, né aveva conoscenza delle condizioni disumane in cui
viveva la stragrande maggioranza della popolazione, da troppo tempo costretta a vivere in
case vecchie e malsane.
Prendiamo ora in considerazione quello che fu deciso per il corpo elettorale. Nella
nostra penisola nel 1861 si tennero le prime elezioni per la Camera dei deputati, i cui
elettori furono individuati dalla legge n. 3778 del 1859, negli appartenenti al sesso
maschile che avessero 25 anni, che sapessero leggere e scrivere, che versassero 40 lire
all'anno di imposte dirette, che fossero professori o magistrati, notai, geometri, farmacisti o
veterinari e, comunque, tutti i laureati e anche alcuni decorati. In pratica poteva votare solo
il 2% della popolazione. Nel 1882 una nuova legge, la n. 999, abbassò l'età degli aventi
diritto al voto da 25 a 21 anni, la soglia delle imposte a 19,60 lire e stabilì che avrebbero
potuto andare alle urne tutti coloro che avevano frequentato i primi due anni di scuola
elementare con il risultato che non si arrivò a superare il 6,9% dei cittadini italiani. Nel
1912, con la legge n. 666, furono chiamati ai seggi elettorali i cittadini maschi di almeno
trenta anni di età, o di 19 che avessero però prestato il servizio militare, che versassero
un'imposta di almeno 19,20 lire e che avessero conseguito la licenza elementare. Questi
erano il 9,4% della popolazione. È importante notare che secondo l'art. 112 di questa
norma i parlamentari cominciarono a percepire uno stipendio di quattromila lire,
equivalenti a 30.288 euro del 2012 (vedi tabella degli indici dei prezzi al consumo FOI in
appendice). Ma, nonostante questa innovazione, non fu possibile ai proletari entrare in
Parlamento, per qui opporsi alla borghesia, in quanto in Italia l'analfabetismo interessava il
50% della popolazione e i poveri e gli ignoranti, invece che alla politica dei partiti,
avevano ben altro a cui pensare. Nel 1919 vi fu un'ulteriore riforma, la legge n. 1495, che
dichiarò elettori i cittadini maschi di almeno 21 anni di età che su 37.850.000 di italiani
risultavano essere 10.235.874, cioè meno del 34%. Erano trascorsi 128 anni dalle
dichiarazioni dei principi sacri ai liberali, ma l'elettorato (per una sola Camera!) era passato
dal 2% al 34% della popolazione e, di fatto, era possibile eleggere solo chi apparteneva ai
più alti ceti sociali. In linea con i principi giusnaturalistici nessuna legge fu approntata
affinché lo Stato dirigesse, in nome della 'umana' giustizia, i rapporti economici fra i suoi
cittadini, come se non fosse affare di un Parlamento quello di occuparsi della qualità della
vita di tutto il suo popolo e come se questa non fosse strettamente legata alla quantità di
denaro posseduto da ognuno; come se lo Stato potesse considerare giusta e libera una
società divisa com'era fra ricchi e poveri, agiati e sfruttati, benestanti e miserabili e come
se non fosse un danno quello che un uomo reca ad un altro quando, dopo averlo fatto
lavorare, non lo paga a sufficienza, negandogli, di fatto, la possibilità di vivere
decorosamente, studiare e curarsi. Per cambiare la situazione bisognava chiudere con il
sistema liberale e con tutti i suoi partiti composti da politicanti di professione sensibili solo
a chi meglio li manteneva. Non a caso Mussolini intervenne con queste parole di fronte ad
una platea di sindacalisti:
sopratutto accettiamo la trasformazione del Parlamento; chi mi ha letto durante questi
quattro anni sa che questa trasformazione del Parlamento è stata una delle mie idee
fisse dato che io ne abbia. Ho indicato tra le necessità urgenti per il rinnovamento
della nostra vita nazionale, l'abolizione del Parlamento unico degli incompetenti e dei
politicanti di professione, per sostituirlo col Parlamento degli interessati e dei
competenti.40
L'intenzione era quella di selezionare le figure più esperte del mondo del lavoro ed
inserirle nello Stato, affinché fosse tramite la loro esperienza che si potessero risolvere i
tanti problemi della società italiana.
40 BENITO MUSSOLINI, Orientamenti e programmi, «Il Popolo d'Italia», 2 febbraio 1919, in Opera Omnia,
XII, p 193.
Durante il Ventennio furono effettuate numerose opere pubbliche, che per non
gravare troppo sul bilancio dello Stato, dovettero essere finite a tempo record. Ne sono
esempi a Roma l'ospedale San Camillo Forlanini, 2100 posti letto, terminato in 5 anni e la
Città Universitaria, che si sviluppò su di un'estensione di 240 mila mq, per la quale furono
impiegati solo 4 anni. Considerato il loro alto numero ne riportiamo solo alcune. Il lettore
potrà comunque farsi un'idea dell'operosità di quel periodo di storia italiana.
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