AEQVVM
TVTICVM
a cura dell’ASSOCIAZIONE AMICI DEL MUSEO
ARIANO IRPINO
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pag. 1
In copertina: Piatto del XIX secolo, fabbriche di Ariano - dono dell’Associazione, anno 2008 - Museo Civico.
Quarta di copertina: Testa della statua di Apollo, II sec. a.C. - Museo Civico - per gentile concessione.
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L’Associazione
AMICI DEL MUSEO di ARIANO IRPINO
rivolge un particolare ringraziamento
alla sig.na Sonia Sampietro
Agente
di Ariano Irpino
Via XXV Aprile - Ariano Irpino - Tel. 0825.871200
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AEQVVM TVTICVM
Redazione
RITA GAMBACORTA
MICHELE GIORGIO
LUCIA GAMBACORTA
ROSANNA LO CONTE
OTTAVIANO D’ANTUONO
LUIGI PIETROLA’
TONINO ALTERIO
CESARE DE PADUA
MARCELLA GIORGIO
GABRIELE SPERANZA
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L’8 aprile 2008 si è tenuta l’Assemblea dei soci, per il rinnovo delle
cariche. Si riporta appresso la nuova composizione:
CONSIGLIO
• Presidente
Michele GIORGIO
• Consiglieri Emilio CHIANCA
Antonio D’ANTUONO
Ivana GRASSO
Maria Beatrice LANDI
Gabriele SPERANZA
COLLEGIO DEI REVISORI
• Presidente
Domenico COCCA
• Componente
Francesco Paolo DE GRUTTOLA
• Componente
Luigi PRATOLA
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Aequum Tuticum
Sommario
EDITORIALE
di Rita Gambacorta (Presidente dell’Associazione Amici del Museo) . . pag. 9
ASSOCIAZIONISMO PAESANO
di Michele Giorgio. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ” 11
ENEA FRANZA NEL CENTENARIO DELLA NASCITA
di Lucia Gambacorta . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ” 14
MEMORIE DI S. OTTONE
di Rosanna Lo Conte . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ” 18
ARIANO, IERI ED OGGI
di Ottaviano D’Antuono . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ” 22
CUNTI D’INFANZIA, LA CANTINA A LI TRANISI
AGGIO FATTO NU SUONNO da “Lu iianco e lu nniro”
di Luigi Pietrolà. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ” 26
50° ANNIVERSARIO “CENTRO VALLELUOGO”
di Tonino Alterio. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ” 32
100° ANNIVERSARIO DELLA MORTE DI GABRIELE GRASSO
di Cesare De Padua. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ” 36
LA CESSIONE DEL DEMANIO
di Tonino Alterio. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ” 58
PRODUZIONI CERAMICHE CON RIVESTIMENTI VETRIFICATI VERDI:
UN PARALLELO TRA LE PRODUZIONI PISANE E QUELLE CAMPANE
di Marcella Giorgio. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ” 70
APPUNTI DEL PROF. FRANCESCO ZERELLA
di Gabriele Speranza . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ” 78
ELENCO DONATORI AL MUSEO CIVICO
ALLA DATA DEL 31/12/2007 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ” 90
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Aequum Tuticum
Editoriale
a rivista “Aequum Tuticum”, edita annualmente dall’Associazione
“Amici del Museo” di Ariano Irpino, si propone di far conoscere e
divulgare, tra i soci e tra tutti coloro che hanno a cuore la Storia e
la Cultura di Ariano, eventi che si sono verificati nel corso dell’anno in Ariano
o in Irpinia e i giovani arianesi che si dedicano allo studio ed alla conoscenza
del nostro territorio.
In questo numero, pertanto, si è ritenuto dare spazio:
alla commemorazione del Sen. Enea Franza in occasione del centenario della
nascita;
alla presentazione della ristampa del volume dell’Abate Ignazio Potenza
“Memorie di S. Ottone, eremita protettore principale della Città e Diocesi di
Ariano”, Roma 1780, poiché una copia originale delle Memorie è stata donata
alla Biblioteca Diocesana dall’Associazione “Amici del Museo”;
alla Manifestazione organizzata per la IV giornata FIDAM (tenutasi il 3 ottobre in tutta Italia) presso il Museo Civico, con una conferenza tenuta da
Ottaviano D’Antuono - Responsabile del Museo Civico -, corredata da diapositive
su Ariano nel passato presentate dal Dott. Antonio Alterio ed animata dalla
lettura di brevi racconti in vernacolo del Sig. Luigi Pietrolà;
al ricordo del 50° anniversario dell’Opera Silenziosi Operai della Croce del
Santuario di Valleluogo;
alla Commemorazione di Gabriele Grasso a cura di Cesare De Padua;
all’intervento effettuato dal Dott. Antonio Alterio ad Avellino in occasione del
Convegno ”L’Irpinia nel decennio francese e Avellino capoluogo di Provincia”;
segue, poi, lo studio della Dott.ssa Marcella Giorgio, giovane archeologa
arianese, che dedica il proprio impegno e studio a tali ricerche;
oltre che uno scritto di Gabriele Speranza su una ricerca del Prof. Francesco
Zerella.
L
Sperando di avere offerto anche questa volta un momento di piacevole lettura
a tutti coloro che amano e seguono le vicende di Ariano nel passato e nel presente, invito tutti, soci e non soci, ad una maggiore e fattiva collaborazione
alla vita dell’Associazione, che è aperta ad ogni suggerimento ed iniziativa.
Febbraio 2008
Rita Gambacorta
(Presidente dell’ “Associazione Amici del Museo”
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Associazionismo paesano
L’importanza
di una associazione
di Michele Giorgio
no sguardo alle Associazioni locali mi induce ad una riflessione: non
sempre le esperienze ad esse relative si rivelano positive, in quanto i
comportamenti di alcuni loro esponenti ne mettono in discussione la
stessa utilità. Se questo è vero da un lato, dall’altro ciò non deve indurci
a vanificare gli sforzi di quanti operano alacremente al loro interno. Molto
delicato è quindi il compito che le Associazioni hanno e tanta la responsabilità
dei loro rappresentanti.
Volutamente né esprimerò giudizi di merito né mi soffermerò su Associazioni
particolari o su mie esperienze personali, se non ricordando solo, che esse
in Ariano sono numerose e che a volte adempiono ai loro doveri statutari,
a volte meno.
Ma parliamo dell’Associazione, di cui mi pregio di far parte:
l’Associazione Amici del Museo e dei Monumenti ed Opere di
Antichità e d’Arte.
Non dovrò essere io a tesserne le lodi, io modesto ultimo arrivato, ma
testimoniare soltanto quanto l’Associazione ha fatto e si propone di fare per
la Città. Ciò che conta sono le sue concrete attività e
le donazioni, testimoni silenti del suo operato, che il
contributo dei soci ha reso possibile e che fanno mostra
di sé nel Museo Civico. Da più di un decennio l’Associazione svolge il suo lavoro per la Città con l’esclusivo
aiuto economico dei soci e, con il sacrificio di alcuni
volenterosi. Certamente non voglio essere il “cronista”
dell’Associazione: meglio di me potrebbero fare e dire i
fondatori, unitamente a chi per tanti anni si è impegnato
a tenerla in vita, con iniziative varie in favore della Città
e dello stesso Museo Civico e della Ceramica.
Quest’ultimo è una realtà consolidata: alla preziosa
opera prestata al suo interno, con meritoria competenza,
dall’insostituibile Ottaviano D’Antuono, va aggiunto, non
mi sembra di esagerare, il costante contributo dell’Associazione. Vero è, che non si può mai essere paghi dei
risultati e che tanto ancora c’è da realizzare, anche se
le numerose iniziative intraprese potrebbero trovare una
migliore attuazione se ci fosse una maggiore sensibilità
da parte di tutti i cittadini.
Sarebbe, inoltre, auspicabile all’interno della nostra
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Associazionismo paesano
realtà associativa, il coinvolgimento delle giovani generazioni all’insegna del
trinomio AMORE - CONOSCENZA - OPERATIVITA’: l’amore per la terra natia,
la conoscenza della nostra storia e l’operatività, sia propositiva sia attuativa,
che soltanto l’entusiasmo e il vigore degli anni della giovinezza può esprimere.
Tali obiettivi potrebbero essere conseguiti tramite incontri, dibattiti, e quanto
altro possibile, tesi a stimolare l’interesse dei giovani. D’altronde l’impegno
di tutti, prescindendo da ogni ideologia o appartenenza partitica, dovrebbe
essere rivolto alla crescita culturale della Città e vedere coinvolte in prima
linea le Istituzioni locali, spesso distratte da spiccioli impegni quotidiani.
Il passato è importante nella misura in cui ce ne serviamo per proiettarci
nel futuro, non è rappresentato da vestigia disseccate, ma è testata d’angolo
o fondamenta solide su cui costruire la casa del futuro. La poca accortezza
di ieri nel guardare in avanti, ci vede discutere, ad esempio, oggi del centro
(storico?) cittadino agonizzante; non vorrei che nel corso degli anni, sempre
più vecchi, ci ritrovassimo a discutere ancora dell’argomento, mentre man
mano i giovani fossero definitivamente costretti ad abbandonare la nostra Città.
Da tanto tempo ormai ossessivamente, mi chiedo perché tutti in Italia e
fuori, investono sulla storia passata, anche quando solo un sottile velo separa
la storia vera da quella inventata o quando solo la fervida fantasia di qualche
menestrello ha inventato una incerta, incontrollabile, bugiarda storia: - Se
si investe anche sul falso storico per generare ricchezza, perché non
investire sulla Storia vera? La valorizzazione dei siti archeologici del nostro territorio, dei vecchi mulini
ad acqua dimenticati, il recupero delle “Fornaci dei Tranesi”, l’utilizzo del
marchio DOC per la ceramica, ecc., solo per fare qualche esempio, rappresenterebbero il nostro investimento propulsivo anche in ambito economico e
forse l’ultima occasione di riscatto anche culturale della nostra generazione
“distratta”, che ha visto compiere “cancellazioni storiche” di un enorme patrimonio culturale con silenziosa connivenza. E’ necessario che essa dia vita a
una nuova giornata del Riscatto, svegliandosi dall’annoso torpore, decidendo
di salvare quanto c’è ancora da salvare.
Nell’intelligente memoria degli errori passati e con l’amarezza che quanto
è andato perduto non può ritornare, dovremmo per il bene dei nostri figli o
nipoti, rivolgere lo sguardo alla ricchezza che il nostro territorio deturpato
e offeso, ancora cela sotto i nostri piedi.
Scriveva il Prof. Nicola Flammia nella sua Storia della Città di Ariano:
“Se nella terra sono sepolti tesori quale stima faremo di chi trascura scavarli?”
L’impegno della nostra Associazione non prescinde certamente dal ruolo che
le Istituzioni hanno e dall’impegno che responsabilmente dovranno mettere a
disposizione della collettività. Nessuna Associazione potrebbe mai sostituirsi
alle Istituzioni o farne a meno.
Questa insostituibile responsabilità, la Pubblica Amministrazione dovrebbe
fare propria, dimenticando litigiosità, fazioni e non investendo su cose e persone
spesso sbagliate; insomma dovrebbe operare ed investire sul bene civico, che
non può essere il bene o l’interesse di pochi, ma quello dell’intera collettività.
Non parlo di utopia, ma di necessità che altre comunità hanno fatto proprie
da molto tempo. Infatti virtuosamente, hanno saputo costruire un percorso
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Associazionismo paesano
coerente, di maggiore speranza, per i giovani delle proprie comunità. Ben
vengano iniziative di nicchia, che recentemente si sono realizzate nel nostro
territorio, o corsi che inventano tradizioni inesistenti nella nostra cultura, se
attuati non come spreco di pubbliche risorse o peggio ancora, con vantaggio
o nell’interesse di qualcuno, ma come apertura al futuro.
Allo scopo, sarà quindi sicuramente utile avere una Associazione attenta,
propositiva, che alle parole faccia seguire i fatti. Una Associazione che sappia,
se necessario, anche alzare il tono di voce e che abbia la forza di tanti soci,
i quali con la loro passione, siano di maggiore stimolo al lavoro da svolgere.
Insomma un sodalizio culturale basato sulla forza partecipativa di quanti abbiano la possibilità e la volontà di voler offrire il proprio contributo di idee,
di tempo ed anche economico, che possa contare sul conforto di Istituzioni
attente e presenti.
L’appello che rivolgo con queste poche righe a quanti avranno la bontà di
leggerlo, non appaia presuntuoso; vuole essere soltanto un appassionato invito
alla collaborazione con la nostra meritoria Associazione, al fine di accendere
una fiammella, capace di alimentare il fuoco della speranza e dell’amore per
la nostra Città.
Non è un caso se per la nostra IV Festa Nazionale della Federazione Italiana Degli Amici del Museo è stato scelto il titolo: “ARIANO ieri ed oggi”:
purtroppo l’incontro non è stato confortato dalla presenza di.... molti ed
importanti nostri concittadini.
Il sogno di costruire insieme una “Ariano del futuro” non si è
ancora vanificato.
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Enea Franza
1907 - 2007
Nel centenario
della nascita del Senatore
Avv. Enea Franza
di Lucia Gambacorta
l sei agosto 2007 è stato presentato al
pubblico dal dott. Antonio Alterio presso
il Museo Civico di Ariano Irpino il suo più
recente lavoro:
“ENEA FRANZA da Sindaco a Senatore 19431953”, in cui si ricostruisce sempre con obiettività
di documenti, ricordi, e testimonianze la lunga e
fortunata carriera politica del nostro concittadino,
nell’arco dei dieci anni che lo videro prima alla
guida della città e poi Senatore della Repubblica.
Il volume gode della egregia presentazione del
Prof. Francesco Barra(1), di cui di seguito se ne
riporta integralmente il testo.
Dominatore della vita politico-amministrativa di Ariano nell’età giolittiana fu il
leader socialriformista Oreste Franza (1875-1941), a consacrare l’ascesa del quale
mancò soltanto la sospirata conquista del mandato parlamentare. La sua posizione
dominante in ambito locale non poteva non renderlo l’obiettivo principale del nascente movimento fascista arianese, che infatti, il 1° novembre 1922 all’indomani della
marcia su Roma, occupò con la forza il municipio, annunciando alla cittadinanza di
aver assunto i poteri dell’amministrazione onde ristabilire la legalità, che si asseriva
compromessa dalla gestione del sindaco Franza. Ma già il 3 gli occupanti si ritirarono
pacificamente. Tuttavia, Franza intuì con sicuro senso politico che la sua parabola si
era conclusa, e già a gennaio 1923, cogliendo a pretesto uno scontro verificatosi tra
fascisti e legionari fiumani, egli annunciò le sue dimissioni da sindaco.
Il 20 giugno successivo, infine, comunicò con un manifesto alla cittadinanza il suo
definitivo e completo ritiro dalla vita politica con le dimissioni da consigliere provinciale e comunale.
Ritiratosi dalla scena politica, Franza cedette il locale della sezione socialista da
lui tenuto in affitto per adibirlo a sede del fascio; si trattava di un esplicito segnale
di resa pacifica quanto contrattuale nei confronti del nuovo regime. Nel 1924, dopo la
soppressione del Tribunale di Ariano, si trasferì a Benevento, esercitandovi con successo
la professione forense e iscrivendosi al sindacato fascista di categoria. Ormai integrato
nel regime, il 28 ottobre 1932 gli fu concessa dalla federazione di Avellino la tessera
1) Del Dipartimento di Teoria e Storia delle Istituzioni Giuridiche e Politiche nella Società moderna e contemporanea, presso l’Università di Salerno.
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Enea Franza
d’iscrizione al P N F, che gli venne però revocata per disposizione della Segreteria
nazionale il 1° marzo 1933. Il 3 luglio 1935, su proposta del prefetto di Avellino, fu
definitivamente radiato dallo schedario dei sovversivi. Sempre nel ’35, però, l’anziano
esponente socialista ebbe l’ingenuità di ripubblicare il suo vecchio diario Due mesi in
Africa, ispirato a sensi pacifisti e anticolonialisti, per cui il volume fu sequestrato.
A raccogliere l’eredità politica dello zio fu l’avvocato Enea Franza (1907-1986),
formatosi nel clima di forte politicizzazione delle nuove generazioni ad opera delle
organizzazioni del regime, a cominciare dal Nucleo degli universitari fascisti (NUF) di
Ariano, alle dipendenze del GUF di Avellino, attivo sin dal 1929 sotto la guida dello
studente universitario in medicina Renato Greco, poi estromesso nell’ottobre 1934.
Il bel volume di Antonio Alterio ricostruisce con grande precisione documentaria e
serena obiettività la prima fase della lunga e fortunata carriera politica del Franza,
seguendola sino alle elezioni politiche del 1953. Sfuggito, anche grazie al deciso intervento del vescovo mons. Pedicini, ad un brusco e sbrigativo tentativo di epurazione,
effettuato dalle autorità militari di occupazione nell’ottobre ’43, Franza riuscì in effetti
a rapidamente affermarsi come leader emergente di un vasto e composito gruppo di
forze moderate, in varie forme legate al recente passato fascista, che, consapevoli
del proprio peso elettorale, tentavano di conservare una propria fisionomia indipendente a fronte del progressivo radicalizzarsi della lotta politica tra la DC e il PCI.
Pur dovendosi confrontare con leaders della statura del democristiano Intonti e del
socialista Vinciguerra, Franza riuscì in effetti a batterli elettoralmente e a conquistare
trionfalmente il municipio nelle elezioni amministrative del 1946, divenendo sindaco.
Sin da allora, in effetti, Franza venne a costituire un grave problema politico per
la DC, che anche in Irpinia andava affermandosi come forza largamente egemone. La
novità più significativa apportata da Fiorentino Sullo e dal giovane gruppo dirigente
che l’affiancava consitè nell’aver mutuato originalmente da Dorso la critica delle classi
dirigenti prefasciste e della riproposizione della Questione meridionale. Una lettura
della DC quale pura erede del blocco sociale e di potere fascista non regge dunque alla
verifica storica, come non regge la visione della DC come puro e semplice partito di
potere che “occupa” lo Stato e perpetua la vecchia politica notabilare e trasformistica.
Al contrario, la DC fu l’unica forza politica irpina che strutturò un “partito nuovo”
e che riuscì ad organizzare i gruppi sociali per il rinnovamento della lotta politica.
Da qui scaturì la dura battaglia condotta dalla DC contro liberali e demoliberali prima, qualunquisti e monarchici poi. Ciò non esclude che la DC cooptasse e utilizzasse
personale fascista e prefascista, notabilare e burocratico, ma non in mera funzione
trasformistica, ma bensì inquadrandolo nel progetto politico.
Tuttavia, il processo di rottura democratica perseguito con coerenza dalla DC
di Sullo, che conobbe un sostanziale e generale successo, fallì proprio ad Ariano, il
secondo centrodella provincia, appunto a causa di Franza. Questi, in effetti, deludendo le aspettative dei suoi patroni ecclesiastici, seppe ricavarsi una sua propria linea
autonoma, prima aderendo all’effimera Democrazia del lavoro e riuscendo ad essere
eletto con questa al Senato nel 1948, poi passando al MSI, da poco costituito e privo
di rappresentanza parlamentare al Senato, di cui quindi Franza fu sino al 1953 l’unico senatore, il che gli conferì un’indubbia visibilità e notorietà a livello nazionale. La
sua militanza politica si distinse per la netta presa di distanza dall’eredità fascista e,
soprattutto, dalle nostalgie repubblichine.
Uomo di destra moderata, il suo successo elettorale affondava le sue origini in una
profonda adesione alle esigenze e agli umori della sua gente, che egli seppe sempre
cogliere ed interpretare con sicuro senso politico. Di qui la straordinaria durata del
suo forte radicamento elettorale e della grande popolarità che godette tra le genti
dell’Arianese, assai al di là degli schieramenti politici e partitici.
Questa, in sintesi, per più versi la singolare parabola di un politico meridionale,
che, per ora nella sua prima fase, Antonio Alterio attentamente e acutamente ricostruisce, apportando un utile e significativo contributo alla conoscenza della storia politica
di Ariano e dell’Irpinia nell’età contemporanea.
Francesco Barra
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Enea Franza
Il nostro illustre concittadino nacque il 2 giugno 1907, da Attilio e Maria
Grazia Gambacorta, aveva una sorella e due fratelli, morì all’età di 79 anni
il 30 giugno 1986.
Dopo aver conseguito la licenza liceale presso il Liceo Comunale di Ariano
Irpino, si iscrisse alla Facoltà di Giurisprudenza presso l’Università di Napoli,
laureandosi il 12 dicembre 1928. Svolse la pratica di procuratore a Benevento
nello studio di suo zio Oreste; partecipò all’esame di stato per procuratore
presso la Corte di Appello di Napoli nel marzo 1933 e superatolo si iscrisse
nel 1934 al relativo Albo. Nel 1936 sposò Giuseppina Morgante, dalla quale
ebbe cinque figli.
Partecipò fin da giovane alla via politica, aderendo al PNF nel fascio di
Ariano nel 1922; fu presente attivamente in varie manifestazioni pubbliche
organizzate dal partito e tenne alcune conferenze sulla cultura fascista. Dopo
l’armistizio del 8 settembre 1943 partecipò contro i tedeschi agli avvenimenti
luttuosi in Ariano. Nel 1947 gli furono conferite dal Capo dello Stato, Enrico
De Nicola, la medaglia d’argento al valore civile e quella di bronzo al valore
militare.
Dopo il ventennio fascista in Ariano si formarono quattro partiti: la
“Democrazia Cristiana” rappresentato con il simbolo dello Scudo crociato, in
cui riuniva professionisti, impiegati, agricoltori, industriali e commercianti; il
“Partito Liberale” con il simbolo della Stella; il Partito Repubblicano” con
il simbolo della Spiga che comprendeva più partiti (Socialista, Comunista,
Indipendenti, Repubblicani); il “Partito di Democratici del Lavoro ed Indipendenti” che aveva come simbolo l’Orologio e riuniva molti professionisti,
impiegati agricoltori, artigiani, operai, industriali e commercianti, con capolista del partito Franza.
Dopo un’intensa campagna elettorale il 24 marzo 1946 si tennero le “elezioni amministrative” e il 7 aprile il Consiglio eletto nominò Sindaco l’avvocato Enea Franza. Nell’assumere la guida della Città aveva dichiarato che i
problemi più urgenti erano: la disoccupazione e la costruzione di edifici ed
infrastrutture; evidenziò l’urgenza della costruzione di 100 abitazioni. Nel
suo programma puntava a risolvere i problemi dell’agricoltura e migliorare
le condizioni di vita degli stessi agricoltori; ad aprire nella zona “Martiri”
uno stabilimento per lo sfruttamento delle sanze e delle vinacce e per la trasformazione della frutta. Inoltre puntava a creare un centro di studi, ed un
potenziamento delle strutture giudiziarie con l’ampliamento della circoscrizione del Tribunale di Ariano. Il suo impegno maggiore era quello di voler
far sorgere in Ariano una struttura alberghiera moderna, essendo un luogo
ameno e salubre per la sua posizione naturale. Lo stanziamento di parecchi
milioni, per l’interessamento dell’on.le Vinciguerra, fecero sì che gli obiettivi
fossero in parte raggiunti. Nel 1947 sostenne e finanziò due eventi sportivi:
l’incontro calcistico con la squadra della “Internazionale” ed il passaggio per
Ariano del “Giro ciclistico d’Italia”. Nelle elezioni politiche del 1948 Franza
si candidò al Senato nel Collegio Ariano-Benevento per il Partito Democratico
dell’Orologio. La sua vittoria fu eclatante e grandi furono i festeggiamenti in
città e nel collegio elettorale. All’età di 41 anni Franza iniziava il suo lavoro
di parlamentare facendosi apprezzare per la sua moderazione, la sua onestà e coerenza di pensiero. Nel marzo del 1949 aderì al Movimento Sociale.
Nel 1950, in seguito a dissidi avvenuti in seno al Consiglio comunale ed alla
Curia Vescovile, adducendo come pretesto l’incompatibilità fra le funzioni
di sindaco e il mandato parlamentare, diede le dimissioni da sindaco. Nel
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Enea Franza
1953 la discussione del nuovo sistema elettorale, che prevedeva un premio
alla coalizione politica che avesse raggiunta la maggioranza relativa (legge
truffa), vide nettamente contrario Franza, che riteneva le modifiche da apportare alla legge elettorale dovessero avere un percorso legislativo, del tipo
di revisione costituzionale. Contro il disegno di legge si era schierata anche
la sinistra, ma con ben altre motivazioni. La legge fu approvata, ma la parte
proponente non ottenne il risultato sperato nelle successive elezioni politiche.
Franza fu rieletto al Senato, assumendo nel periodo, nella nostra città e nel
partito una posizione di indubbio rilievo; la sua arma vincente era quella
di sapersi relazionare prima con i cittadini e poi con gli elettori; dotato di
ottima cultura e capacità oratoria, permeato di un sentimento spontaneo e
connaturato di altruismo, conosceva i bisogni e le esigenze del popolo.
L’opera dell’amico Alterio, ancora una volta mostra, se mai occorresse,
il suo attaccamento alla Città, alla sua storia, a quella della sua gente. Attendiamo con impazienza ulteriori frutti del suo lavoro, che siamo sicuri non
si faranno attendere, nel contempo lo ringraziamo per quanto ha fatto e gli
auguriamo ancora successi per le sue ricerche.
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Memorie
Memorie di S. Ottone
di Rosanna Lo Conte
A
ppare necessario, innanzi tutto, chiarire il significato del titolo
“Memorie di Sant’Ottone” il quale, a prima vista, potrebbe fare
intendere che trattasi delle memorie scritte dal Santo. Il libro
dell’abate Ignazio Potenza ha, invece, lo scopo di confutare una falsa autobiografia e di dimostrare che essa era sicuramente apocrifa. Le “Memorie”
sono, quindi, una relazione fatta a Mons. Lorenzo Potenza, Vescovo di Ariano
nel 1780, il quale desiderava un giudizio definitivo sullo scritto apocrifo ed
una chiara dimostrazione della sua falsità.
L’autore non si limita a contraddire l’ignoto falsario, ma fornisce notizie
certe sulla vita del Santo Patrono, ricavate da fonti e documentazioni attendibili, secondo i principi storiografici fissati dal Muratori all’inizio del ‘700.
L’opera, perciò, oltre a mettere in chiaro definitivamente la “questione”
dell’apocrifa autobiografia, fornisce curiose notizie sulla storia della città di
Ariano.
La puntigliosità delle confutazioni e la veemenza accusatoria contro l’ignoto autore del falso appaiono talvolta esagerate, ma comprensibili per quel
tempo. La Chiesa, infatti, doveva sovente difendersi dalle accuse in ambiente
illuministico di utilizzare falsi documenti per accreditare il culto dei Santi
e la devozione dei fedeli. Inoltre l’Abate Potenza precisa che, se c’è stata
impostura, essa è stata “diretta a stabilire una magnifica idea della Città di
Ariano, con adornarla d’un’efimera gloria che niun vero pregio le aggiunge”
ma deve anche ammettere che è “finzione d’un appassionato Cittadino ad
ingrandire l’estimazione della sua Patria intento”.
Superate le iniziali difficoltà della lingua, la lettura del testo si dipana
come la trama di un giallo. Al movente abbiamo già accennato, in quanto
all’inganno, viene ordito inserendo nella presunta vita del Santo il testo di
una lapide che fa risalire le origini della città di Ariano a ben 400 anni prima
di quelle di Equo Tutico e di Benevento fondate, secondo la tradizione, da
Diomede. Si cerca di arricchire il testo con particolari riferimenti ed avvenimenti storici di rilievo che ne accreditino l’autenticità, quindi si copia il tutto
su una “logora pergamena” e la si nasconde, come lasciata dal Santo, nella
Chiesa di San Pietro fuori la Città, dove viene “casualmente” riscoperta e
consegnata a Diomede Carafa, allora vescovo di Ariano, che aveva all’epoca
tutto l’interesse a far conoscere la diocesi, che gli era stata affidata, come
località di un certo rilievo sul piano paesaggistico ed archeologico.
Fin qui il giallo che l’abate Potenza con acute deduzioni risolve. Ma la cosa
ha un seguito esattamente 200 anni dopo dalla pubblicazione delle Memorie,
quando in occasione del restauro della Cattedrale, il cav. Enzo Pisapia mi
mostra una copia, ritrovata nella biblioteca di famiglia, del testo dell’abate
Potenza, sollecitando una rilettura della Vita del Santo.
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Memorie
Una conversazione casuale sulla scoperta dell’antico libro con il rev. Don
Donato Minelli svela risvolti davvero singolari. Egli ha trovato, tempo addietro, in una nicchia, nella diruta chiesa dell’Annunziata, piegati e conservati
in una cornice di legno e vetro alcuni fogli contenenti la vita del Santo; la
carta ingiallita e logorata dal tempo mostra ampie lacune e cancellature che a
fatica con l’aiuto di esperti si è cercato di colmare. Da un confronto emerge
che è la stessa vita apocrifa di cui parla l’abate Potenza.
E della pergamena con la vita del Santo, serbata nel Sacrario della Cattedrale Chiesa di Città da cui nel 1613 il Cardinale Ottavio Ridolfi, allora
Vescovo di Ariano, ha fatto “estrarre copia autentica”, che cosa ne è stato?
La storia potrebbe avere ancora un seguito.
Per quanto mi riguarda sono soddisfatto di aver dedicato tempo ed energie
per “lucidare” e “ripulire” queste antiche pagine fotomeccanicamente riprodotte. La loro pubblicazione contribuirà a:
- riproporre agli arianesi tutti un importante documento di due secoli addietro
(1780);
- fornire agli studiosi una preziosa fonte di notizie del passato nel testo originale;
- fare omaggio al nostro Patrono, che in tempi duri e difficili, si mise al
servizio del popolo e dei bisognosi esercitando in modo eroico le virtù cristiane;
- favorire, con modesto contributo divulgativo, la conoscenza della vita del
Patrono.
Luglio 1993
perta
Enzo Ali-
NOTA - da: Ignazio Potenza “Memorie di S. Ottone” ristampa a cura di Don Donato Minelli
- Diocesi di Ariano Irpino-Lacedonia
L’Associazione Amici del Museo ha fatto dono alla Biblioteca della Curia
Vescovile della Diocesi di Ariano-Lacedonia di una delle pochissime copie
esistenti delle Memorie di S. Ottone dell’Abate Ignazio Potenza. Il testo,
pubblicato nel 1778, negli anni novanta è stato fotomeccanicamente riprodotto
a cura dell’ing. Enzo Aliperta e reso fruibile ai lettori dall’introduzione e
dalle traduzioni dei testi latini della prof.ssa Rosanna Lo Conte, docente di
Materie letterarie e latino nel Liceo-Ginnasio P.P. Parzanese di Ariano Irpino.
L’edizione attuale delle Memorie di S. Ottone, pubblicata dalla Curia a cura
di Don Donato Minelli, è stata completata da belle riproduzioni della figura
del Santo, da preghiere e da una illuminante prefazione del Vescovo Mons.
Giovanni D’Alise. Alla cerimonia hanno partecipato la Presidente prof.ssa Rita
Gambacorta e il fondatore dell’Associazione Amici del Museo, dott. Antonio
Alterio. I lavori hanno fatto registrare, oltre agli interventi altamente significativi sul piano religioso del Vescovo e di don Donato Minelli, la presenza
qualificante di don Massimiliano Palinuro, docente di Filologia greca presso
la Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale in Napoli, il quale ha
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Memorie
ribadito la validità di un altro documento, l’Antico Officio, sempre riportato
nel testo dell’Abate Ignazio Potenza, accreditandone ulteriormente l’autenticità
con dotte argomentazioni. La cerimonia è terminata con l’intervento della
prof.ssa Rosanna Lo Conte, di seguito riportato.
RELAZIONE DI PRESENTAZIONE DELL’OPERA
Nella realizzazione della ristampa dell’opera, presentata oggi all’attenzione degli Arianesi, il mio compito è stato quello di tradurre dal latino sia le
MEMORIE che l’Antico Officio e i Vespri, tramandati per secoli e recitati
in occasione delle festività dedicate al Santo. Tuttavia l’aver insegnato per
tutto l’arco della mia vita professionale la storia mi ha indotto ad accettare
di esporre alcune riflessioni che la lettura del testo ha sollecitato.
Scrivere delle false memorie può sembrare opera poco meritevole e per
certi versi lo è, tuttavia anche se scritta in prima persona nello stile ampolloso
di una biografia accentuatamente celebrativa come opera del Santo, l’obiettivo più importante dell’ignoto autore è quello di accreditarne storicamente
l’esistenza.
Secondo l’Abate Potenza le Memorie furono scritte intorno alla metà del
XVI sec. prima della morte di Carlo V, essendo vescovo di Ariano il Cardinale Carafa (1512-1559). Sono questi gli anni della Riforma di Lutero e della
conseguente Controriforma. Il culto dei Santi, le reliquie, la vendita delle
indulgenze erano a quel tempo motivo di scontri violenti tra la Chiesa e i
Riformatori. La forza interiore dell’idea universale e cristiana, quella forza
che aveva dato forma all’ampio e connesso edificio del mondo medievale, era
da tempo indebolita. La critica – cito da Toffanin Macchiavelli e tacitismo –
apriva brecce nel sistema della Scolastica, l’atteggiamento moderno dello spirito
individuale e degli Stati nazionali determinava il tramonto dell’universalismo.
La decadenza della visione del mondo medievale andava di pari passo con la
decadenza della monarchia universale del Papato. Il Concilio di Trento, tra le
tante iniziative intese a dare credibilità all’istituzione gravemente compromessa,
cerca di mettere ordine nel culto dei Santi e, secondo quanto testimoniato da
Fabio Barberio, autore del trattato De vita et Patrocinio Sancti Othonis erga
Arianenses, due Vicari Apostolici, l’uno Vescovo di Lucera nel 1558, l’altro
Vesovo di Bisaccia nel 1573, nonostante la testimonianza delle Memorie sulle
quali forse già allora si nutriva qualche dubbio, ordinarono di rimuovere la
statua del Santo dall’altare a lui dedicato, perché non accertata con autentica
prova la sua canonizzazione. Singolare, però, sempre secondo il Barberio la
sorte dei due Vicari, l’uno si sentì percosso durante la notte da pesanti bastoni, l’altro era afflitto da un insolito languore. Entrambi i fenomeni erano
cessati nel momento in cui la statua era stata rimessa al suo posto. Al di là
della credibilità di questa testimonianza, rimane comunque nell’interno della
Chiesa la necessità, periodicamente emergente, di dimostrare in qualche modo
la validità di un culto che affonda le sue radici nei primi anni del XII sec.
E dunque nella seconda metà del ‘700 in un periodo in cui la ragione
celebra il suo trionfo, non si trova di meglio che ricercare proprio nella tradizione più antica, quella dell’Officio e dei Vespri, la testimonianza di una
protezione di cui la popolazione arianese non sa e non vuole fare a meno.
Acquisizione fondamentale del pensiero storico è l’affermazione del Croce
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Memorie
che “solo un interesse nella vita presente ci può muovere ad indagare un
fatto passato”. Ebbene quale interesse mosse il Vescovo Potenza a ribadire
con quest’opera la validità storica e religiosa del culto del Santo?
A metà del XVIII sec. erano andati al governo in quasi tutti gli stati
cattolici ministri riformatori e in particolare in Spagna Squillace e a Napoli
Tanucci, uomini che si erano proposti come fine della loro esistenza la soppressione del prepotere ecclesiastico. Il conflitto tra Impero e Papato che fa
da sfondo alla vita del Santo ed è causa della sua prigionia, è ancora drammaticamente presente. Il Cardinale Pietro Sforza Pallavicino, nella sua Istoria
del Concilio di Trento, aveva affermato che la Chiesa non può disinteressarsi
della politica perché deve provvedere al bene pubblico degli uomini e alla
loro felicità in questo mondo. In un incontro con Pio VI a Vienna proprio
nel 1780, l’Imperatore Giuseppe II pronuncia parole dure: “Vostra Santità
tenga per fermo che quanto mi è cara la religione che tende a rendere gli
uomini fedeli ai loro doveri altrettanto detesto la superstizione e il fanatismo,
che fomentano le più funeste passioni …. ordine, attività, ragione, industria
queste le mie disposizioni”.
Ma, come dimostrato dalla storia e opportunamente osservato da Franco
Catalano in Civiltà e Storia, sempre la Chiesa Cattolica è riuscita a superare
ogni difficoltà; così alla fine del ‘700, il rapido ripudio da parte dei sovrani
della politica illuminata di fronte alle conseguenze a cui essa aveva portato,
cioè di fronte alla Rivoluzione francese, la rese di nuovo indispensabile come
difesa e sostegno dell’ordine e garanzia di continuità.
E forse ancora oggi, in un momento di profonda crisi delle istituzioni,
un ritorno alle antiche tradizioni per troppo tempo dimenticate o meglio accantonate, può aiutare a ritrovare le ragioni di un culto che sono le ragioni
di una identità.
Nelle Memorie la vita e la grandezza di S. Ottone si identificano con l’esistenza e la grandezza stessa di Ariano. La lapide, trovata dagli Arianesi al
tempo del Conte Giordano, ha lo scopo di convalidare ed esaltare le antiche
origini della città: le famiglie possono vantare origini risalenti ai fuorusciti
di Sutri che abbandonano il territorio retto dal mitico re Italico per salvaguardare la propria libertà. Un’altra lapide, quella riferita a Sepea, ha il
compito di individuare l’origine delle contrade nella popolazione di Seppia,
Colonia di Benevento, sottomessa durante la dominazione gotica e deportata
in Ariano affinché, come servitù della gleba, si occupasse delle campagne.
Già da tempo sia l’opera dei Bollandisti sia il testo dell’Abate Potenza
hanno dimostrato l’infondatezza delle Memorie, ma se della lapide ancora
nel 1780 presente nella “maggior piazza di Ariano” (pag. 68), dedicata al
Genio di Benevento da una donna di nome Sepea e scambiata dall’autore
delle Memorie e da altri dopo di lui per una colonia distrutta dagli Arianesi
al tempo di Totila e distinta da Benevento, non rimane traccia, tuttavia ancora conserviamo lo stemma con il tricolle che viene nel testo così descritto:
“in aureo colore figura trimontium ad illudendum Civitatis situm, in monte
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Ariano, ieri ed oggi
Ariano, ieri ed oggi
di Ottaviano D’Antuono
Esposizione tenuta la sera di Domenica 7 ottobre 2007, ore 18, presso il
Museo Civico, per la IV giornata nazionale degli Amici dei Musei “Un territorio, un Museo”.
ingrazio il Presidente dell’Associazione “Amici del Museo” di Ariano,
prof. Rita Gambacorta, saluto le autorità presenti e tutti i convenuti.
L’argomento da trattare, “Ariano ieri ed oggi”, si presenta ampio e
complesso ed affrontarlo nella sua interezza, richiederebbe un tempo
enorme che, certamente, non è a nostra disposizione.
Mi limiterò, quindi, ad evidenziare, per quel che riguarda “l’Ariano di
ieri”, che la nostra è stata, nel tempo, una delle più importanti Città del
Mezzogiorno italiano, grande, per numero di abitanti, quanto la Città di Bari
o la Città di Salerno, ben più popolata di Brindisi e di Potenza.
Aveva, la nostra comunità, quasi il doppio di abitanti rispetto a Reggio
Calabria e Caserta. Era, Ariano, tre volte più ampia di Foggia, dieci volte
più grande di Avellino.
L’importanza della Città è stata, sempre, in stretto rapporto con la strada
che collegava la Campania alla Puglia, l’unica arteria che metteva in comunicazione il Tirreno con l’Adriatico, che nel Medioevo l’attraversava interamente,
entrando dalla porta della Strada ed uscendo dalla porta di Santa Maria di
Costantinopoli, al limite dei
Pasteni: la famosa Via Sacra
dei Longobardi, appellata
anche Via dell’Angelo, detta
ancora oggi, la “Strada”.
Dalla seconda metà del
1500, la Via le girò intorno, da quando Filippo II
realizzò, quale variante, la
STRADA NOVA REALE
DE TUTTA LA PUGLIA”,
la famosissima “Via Nova”,
divenuta successivamente la
S.S. 90 delle Puglie.
Ma anche gli insediamenti più antichi nel nostro
territorio hanno tratto ampi
vantaggi dalle grandi arterie
di comunicazione.
Parlo della Starza, insediamento preistorico, uno dei più importanti d’Europa, certamente il più antico della Campania, attraversato dalle vie naturali
di transito e dalle vetuste vie della transumanza.
R
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Valleluogo - Giugno 1959 - Fototeca T. Alterio
Ariano, ieri ed oggi
Mi riferisco ancora ad Aequum
Tuticum (S. Eleuterio), grande
crocevia del centro-meridione,
ove confluivano l’Appia Traiana,
la Via Herculea, l’Aurelia Aeclanensis e la Via Aemilia.
Ma la storia passata è, oramai,
o dovrebbe essere patrimonio di
tutti, visto che quotidianamente si
vanno pubblicando infinite “storie
locali”, tanto da poter asserire che
siamo divenuti tutti “traduttori
de’ traduttori d’Omero”.
Ci siamo, finalmente, trasformati tutti in storici ed eruditi,
così intenti nel rievocare avvenimenti del passato, tanto da
dimenticare, purtroppo, di scrivere la storia del presente, quella
che si compila ogni giorno, con
l’inchiostro dell’impegno, che si
dovrebbe profondere senza limiti
per rendere più onorevole la comune patria e, per non assistere, impotenti,
a storie che altri scrivono, nel bene e nel male: mi permetto di sottolineare,
più nel male che nel bene!
Mi limiterò, dunque, a dire “dell’Ariano di oggi”, della storia attuale,
che, ai nostri occhi si presenta in tutta la sua tristezza ed in tutta la sua
malinconia.
Nel dicembre del 1981, ben 26 anni fa, vedeva la luce “Ariano che se ne
va”, lavoro prodotto a cura di chi parla e dell’amico Sociologo Nicola Savino.
Quella produzione, si prefiggeva di “sensibilizzare le coscienze cittadine,
di accelerare i processi di democrazia partecipativa” per una crescita della
Città che si voleva realizzata, tutta, a misura d’uomo.
Nasceva, “Ariano che se ne va”, dinanzi alle macerie della Chiesa di S.
Francesco, dove, in quella convulsa mattina del 25 novembre del 1980, ci
stupì la facilità con cui si distruggeva un’opera d’Arte del sec. XIII.
Percepimmo, in quel lontano giorno, che qualche cosa, “con un processo
irreversibile, avrebbe sconvolto la nostra Storia, innescando un criterio di
degradazione culturale ed ambientale” e, ci attivammo affinché questo non
si verificasse.
Invitammo, quella mattina, “a guardare in alto, ed indicammo la luna;
ma, tutti, da sciocchi, si fermarono a guardare il dito, lo esaminarono, lo
sezionarono e… la luna cadde”, cancellando secoli di storia, confondendo
reliquie, memorie e polvere nelle discariche locali.
E la luna continuò a cadere per anni, nel quietismo di troppi, mentre
le ruspe aravano “secoli di cultura contadina”, fino a precipitare nell’oggi,
lasciando cieli bui, senza stelle e senza sogni, consegnando ai presenti una
comunità avvilita che si aggira brancolando nella notte degli eventi.
Qualcuno, ha scritto che, i popoli che non hanno più una Storia, sono
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Ariano, ieri ed oggi
destinati a morire dal freddo, e Noi, attualmente, purtroppo, che quell’annunciata tragedia la tocchiamo quotidianamente con mano, invitiamo tutti
a fornirsi di adeguati soprabiti.
Per decenni, irrispettosi, irresponsabili, indifferenti ed impotenti, abbiamo
assistito alla distruzione di interi quartieri, di monumenti, di Chiese, conventi, palazzi, casupole e miseri tuguri; al disfacimento di tutto un patrimonio,
unica ricchezza, che doveva e poteva contribuire, anche, alla crescita socioculturale dell’intera comunità.
E, dopo lo sfacelo del tessuto urbano, ancora, attualmente, si lasciano
annientare le “testimonianze residue” - parlo della
dimenticata Fontana di
Camporeale - della Torre
medievale, al Sambuco,
non più impacchettata,
sul sistema difensivo della
Città - mi riferisco alla
distruzione, nell’olimpicità
delle preposte istituzioni, di
decine di “fosse granarie”,
affiorate nei lavori, per
la realizzazione dei sottoservizi nel quartiere più antico di Ariano, la Guardia,
condotti senza la presenza
di un Archeologo - parlo
dei lavori che si faranno,
sempre nell’assenza dell’Archeologo, per l’identica realizzazione dei sotto-servizi, nella Via più antica di
Ariano, la già menzionata “Via della Strada” - parlo dei chimerici lavori di
restauro delle “Fornaci dei ceramisti”, che, se mai saranno condotti, anche
essi non vedranno la presenza di un Archeologo - mi riferisco, ancora, ai
discutibili lavori che si vanno realizzando al Castello normanno, dove, “caso
unico al mondo”, manca l’Archeologo.
E mentre si lasciano aprire, nella proprietà comunale, da privati che non
hanno alcun titolo, varchi e cantine, lungo le antiche mura di cinta, a sud
della Città, in via Russo-Anzani, strada realizzata con parere e controllo
della Soprintendenza e, non ancora ultimata, con la consueta sconsideratezza,
assistiamo alla devastazione dell’ambiente.
Un’infinità di costruzioni e palazzoni, che si ergono lungo i pendii delle
colline, negli anfratti, nei valloni, sotto i ponti, in una assenza, tutta indigena,
di regole e di programmi.
Ad Ariano è possibile fare ogni cosa, tutto è concesso.
Ariano, paese di frontiera, zona franca, luogo da conquistare e colonizzare!!
E poi, stiamo a piangere se qualcuno ci porta tutte le immondizie
del mondo!!
Una comunità di appena 23.000 abitanti che, ha realizzato costruzioni,
capaci di ospitare circa 80.000 cittadini; alloggi, ove, in un futuro più che
prossimo, mai nessuno soggiornerà, spuntati senza strade, senza piazze, senza
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Ariano, ieri ed oggi
verde attrezzato e senza fogne.
Sulle cantonate delle strade, leggiamo molteplici proclami, affissi da smarriti concittadini che vivono di commercio, in una comunità di fantasmi, che
chiedono con insistenza, pena la chiusura e la fame, di risuscitare un centro
che di “storico”, ormai, non mostra più niente.
E, non saranno, certamente, sporadiche ed esauste manifestazioni, con
assaggi a base di “pane, olio e fantasia” - o i vari mercatini dell’usato o del
nuovo - o, i pochi o, i molti, concerti di musica diversa, a ridare vita ad
una Città che non esiste più.
Il problema da affrontare, se si vuole fronteggiare ed iniziare a risolvere,
è tutto, di ordine morale e culturale.
Servono programmi e progetti, appositamente approntati, non dai soliti
venditori di fumo, di almanacchi o di polenta, per realizzare futuri dignitosi
da consegnare alle prossime generazioni, basati sulle risorse che il territorio,
ancora, esprime.
Non abbiamo il mare, non disponiamo della pesca, non possediamo le fabbriche, non siamo forniti di un’adeguata agricoltura, ma, abbiamo sei Musei,
trenta ristoranti - alberghi - la Starza - S. Eleuterio - la Villa Comunale e
la Ceramica di Ariano - ma, e quel che più conta e che dobbiamo difendere
a denti stretti - altro che pale eoliche - abbiamo un panorama che è uno
dei più poetici d’Italia.
Tutto questo, rappresenta, ancora, il nostro futuro.
Se lo vanifichiamo, non avremo più un domani!
Mi piace terminare questo breve e modesto intervento, leggendo pochi righi
scritti dal benemerito concittadino Nicola Flammia, da tutti tanto citato, ma,
da nessuno seriamente ricordato.
Nessuna strada è stata a lui dedicata, non un vicolo, qualche angolo o
una ringhiera.
I profetici versi, sono tratti dal componimento, Il Castello di Ariano del
1896:
“… Dormi, o castello millenario,
dormi il tuo sonno, mentre le unghie del tempo,
e la mano dell’uomo ti stracceranno i fianchi;
statti divoto e muto, perché gli Arianesi vi
seggano pensosi di sé e della patria loro
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Cunti d’infanzia
da “Lu iiancu e lu nniro”
Cunti d’infanzia,
la cantina a li Tranisi
di Luigi Pietrolà
o nato ‘ncoppa a li Tranisi e crisciuto rintu na Cantina, e tra quere
ca ci stevino Ariano a quiri tiempi, una a lu Calivario e una ‘ndà
la Valle, la nosta steva ‘ncoppa a li Tranisi; anzi a me pi mi ‘nsingà
miezzo
a tre Luigi ca abitavano là, evo Luigi di la cantina. Certo ca già a quiri tiempi, ci stevino puru li risturante: Lu scazzuso, Zuncone, Zi Paolina, Li rui
Nani e pò Giurgione, ch’eva lu chiù di lussu; ma li cantine èvino n’ata cosa
e la gente ca ci ieva, èvino l’utimi di nu munno ca già tanno steva finenno.
M’arricordo come fusse mò, verso la fine di l’anni sissanta, li facce di quiri
ca vinevino e li cose ca raccuntavano, specie quanno lu vinu li faceva vinì
la parlantina. Pi me eva chiù di na tilivisione, chiù di nu iuoco e chiù di na
scola. Cunti di uerra, di prigiunia, di femmine e di pulitica, ognuno riceva
la soia, e io arravugliato sotto a la cuperta attuorno a lu raciere, mi sintevo
quero ca cuntavano.
Mi piaceva sente li cunti ca facevano, quero ch’evino passato e ogni cosa
ca mi puteva ‘ntirissà, e vistu ch’evo uaglione ancora oggi mi la ricordo e
chiurenno l’uocchi, li veco n’ata vota tutti ‘nnand a me.
Lu chiù assiduo friquintatore di la cantina nosta, ca arrivava a primo
matino, prima di saglie a chiazza, saglienno da li ruagnare, eva Gino. Gino
puviriello, da uaglione eva perso nu razzo rintu lu mulinu di lu padre e accussì
tineva nu razzo sulu, ma sta cosa nu lu ‘mpidiva manco di si fà li sigarette
da sulu. Mi firmavo a guardà come faceva a mette lu tabaccu rintu la cartina
e po cu na mano sola arravuglià, facenno ascì na sigaretta perfetta. Ogni
tanto, mi raccuntava ca quann’eva di dicissette anni, si n’eva iuto a Milano
cu la bicicletta, e là accuglienno lu fierro viecchio attuorno a li fabbriche, eva
canusciuto e fatto amicizia cu Adriano Celentano e Gino Santercole. Mò naturalmente quiri ca lu sintevino nun ci crirevino, ma issu subitu cacciava da lu
portafoglio na futugrafia e la faceva virè a tutti quanti. Uagliò, là veramente
ci steva isso Celentano e Santercole. Anzi, mi riceva puru ca quanno Celentano fece successo cu lu disco 24mila baci, l’eva rato li soldi pi lu fà arritirà
a Ariano. Si fusse mò, putesse crere ca avesse fatto cocche fotomuntaggio, ma
comunque io ci crirevo e nu iuorno c’iavierna crere tutti quanti. Succirivu ca
venne a sunà ‘ncoppa andù Giurgione, Gino Santercole, accussì tutti quanti
nun ci putevunu crere, quanno issu lu ivu a salutà, e anzi roppo lu mmitavo
puru a mangià. Certo Gino , ogni tanto cumbinava cocchè fissaria e m’arricordo ca vineva la Pulizia pi lu vinì arristà. Quanno vineva lu brigadiere e si lu
vineva a prilivà, lu chiamava “Gino! vieniti a livà quiru debbito”, accussì issu
s’alizava cu calma, salutava a tutti quanti, riceva vicino a Papà ca eva signà
S
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AEQVVM TVTICVM
Cunti d’infanzia
pi lu vino ca s’eva vìppito, e pò riceva vicino a me ca si ni ieva in vacanza.
Nu iuorno, nun mi lu pòzzo mai scurdà, l’addummannai ”Gino..ma tu, cu che
squadra va? ”rispunnivu” cu l’appitito e tene la maglietta scura..!”
N’ato ca invece vineva sulu lu mircurì, picchè ci steva lu mircato, eva nu
certo zi Peppo di Palazzisi. Peppo saglieva a la pieri da là bascio e a la stagione, m’arricordo, si faceva nu sottocappiello di pàmpine di fiche, accussì pi
dinto a quere cupe, quanno saglieva cu la botta di lu callo, ieva chiù frisco.
Na vota arrivato a li Tranisi, s’assittava prima nnand a lu pisciariello di l’acqua, si sciacquava lu milone e pò si ni vineva a la cantina andò si trattineva
fino a notte. Tutti ricevino ca Peppo eva stato a l’America e ca sapeva parlà
americano, ma isso rinto a nun s’accio quant’anni in America s’eva ‘mbarato
sulu a dice “uan ciù trì” accussi quanno a sera, roppo ca tutti stevino fatti,
ogni tanto addummanavano “Ohi Pe’, tu ca si stato a l’America, come parlano l’americani? “e la risposta di zi Peppo eva sempe la stessa “uan ciù trì”.
Nun ci pozzo crere ancora oggi, rieci anni a l’America e s’eva ‘mbarato sulu
unu, roie e tre.
Insomma, ci ni stèvino tanti ca vinèvino, e da lu pumiriggio si trattinevino fino a la sera. Si iucava a li carte, si facevano rui cunti e si mangiavano
cocche cosa pi ci vève ‘ncoppa. Fave cotte, lupini, pruvulone, baccalà, tutti
cose salate pì ci vève ‘ncoppa. Vicinu a la porta ca rèva a la cantina, abbascio
andò tinemmo lu vinu, ci steva na stufa cu li registri e là ‘ncoppa, si mittevino a coce li fave quann’ eva vierno. Ci steva nu uaglione ca si chiamava
Palmirino e siccome abbitava là vicino, la sera si tratteneva miezzo li tavulini
p’angappà cocche cosa da mangià, visto ca evino tanta figli e lu padre steva
a la Girmania. Quanno coccher’uno vuleva nu piatto di fave, issu curreva a
li ghì a piglià, po’ mentre li purtava, si ni fricava trea quatto e si li ficcava
a la sacca. Roppo nu poco però, quere abbiavano a scorre, accusssì si vireva
da li sacche di lu calisone ca si ‘l’eva fricate e pi nun si fa acchiappà si ni
fuieva, cu li sacche chiene e li calisune strapanate. Certo a cuntarlo mò unu
nun ci crere, ma quanno a li Tranisi ci steva nu suvraffullamento di famiglie,
ci steva veramente chi si puzzava di fame. Ci steva nu uaglione, ca tanto
ch’eva picculu quannu vinèva a piglià lu vinu cu na buttiglia, nun arrivava
manco a lu bancone, issu s’alizàva ‘ncoppa a li pponte di li pieri, appuggiava
la buttiglia ca tinèva ‘mmano, e diceva” Vì.. acciò..iaià..e sé” ca significava
: vinu, cassosa, taralle e segna… M’arricordo po’ di n’ata famiglia, ca evino
cinco, sei figli, e abbitavano rintu la rùa e li chiamammo pì soprannome, “li
savoiarde”, come a la marca di li biscotte ca tanno si vinnèvino rintu a li
scatole d’allumio. Si ni ierno a la Girmania prima di lu sittanta e quanno a
la stagione turnavano, cu nu pulmandino russo, evino cangiato faccia, e parlavano sulu tidesco pì nun si fa capì. Ma lu fattu chiù incridibile, ca manco
loro si spiegavano, eva ca là, a la Girmania, come ricèvano loro, puru li creature piccole già parlavano tidesco, e nui, a stu fatto nun ci putèmmo crère.
Utino invece, ca faceva lu giardiniero a la villa, ogni sera raccuntava cocche
storia, e m’arricordo ca spissu parlava contro li prieviti e iastimava come a
nu rannato, anzi sapeva puru paricchi fattarielli e barzellette sempe di prieviti
e moniche, ca issu chiamava capu di pezze e una si ‘ntitulava: “l’arciprevite
di Muntauto tutte le femmine s’è tinuto”. Certo io evo uaglione e nun capevo
tuttu lu significato, ma a sente quere cose rumanevo ‘ncantato, quann’isso a
centro di la stanza l’accuntava a alta voce. Utino po’ si ni iivo a Turino, si lu
vinierno a piglià li figli, e la è muorto.
Turnanno a la cantina, n’ato suggetto particolare eva ‘Nduniucciu, ca abiAEQVVM TVTICVM
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Cunti d’infanzia
tava cu ‘na cana rintu a ‘na baracca a lu Saùco, e vineva a la cantina ‘nsieme
a lu frate Ruminicucciu, ca si lu steva accorto.
‘Nduniucciu, pace a l’anima soia, nun si lavava maie, e purtava nu capputtone niru vierno e state, e nu sicario mmocca. Eva nu poco a la bbunata
e parlava sciartaglio, accussì lu frate faceva da interprete picchè sul’issu lu
capeva. Siccome paricchi lu sfuttevano cu nu friscu quanno passava, lu frate
l’eva mantinè, si nò li minava cocche cosa appresso, e minacciusu li riceva”..
uallò..”. Quanno vineva andù nui a la cantina, mentre la cana l’aspittava
‘nnand la porta agguattata ‘nderra, si cumpurtava buono picchè lu frate lu
faceva vève poco, e l’unicu prublema eva quanno c’iemma rà lu riesto, ca lu
vuleva sempe a soldi spicci, si no si nguiatava, ieva vicinu lu telefono e senza
mette lu gittone, chiamava la Pulizia e riceva ”Puzzia ecchìne” ca significava
“Polizia vieni qui”. N’ato ca vineva sempe, eva ‘Ntonio, ca abitava ‘ndà la
rua di li figliole e là accunsava ‘mbrielle e biciclette. Quanno faceva friddo, pi
sparagnà lu raciere a la casa, si ni vineva a la cantina, e la si steva vicino a la
stufa na sirata sulu cu nu piattiello di fave, ma quero ca faceva nnirvusì a la
buonanima di papà eva lu fatto ca ogni tanto, mentre steva ‘mbalato, piglia e
sputava ‘ncoppa a li registri di la stufa, tanto ca li faceva sfrie. Allora papà
lu pigliava a male parole e li riceva ca nun ci’eva vinì chiù, ma quiru la sera
appriesso steva n’ata vota ‘mbustato vicinu lu tubbu di la stufa, cu lu pere
appoggiato a lu muro e lu bucchinu ‘mmocca di quarto.
Àti clienti evino Luicio cazzotto e Peppo da busso, ca puviriello murivu
cu la puzza di li crauni rintu a li ruagnare. Sti dui vinevino sempe ansieme e
purtavano lu mantiello a rota, ca quanno si lu mittevino , io m’annascunnevo
sotto e loro facevano sempe a virè di nun capì che steva succirenno. Zi Luicio
cincu misi invece, ca abitava poco da coppa a lu spidale, andò a quiri tiempi ci
iemmo a fa li neste, eva capace di si vève na bottiglia di vinu di nu litru senza
spizzà la vèppita, e pi si fa vinì l’arsura si mitteva lu sale ciuotto mocca e lu
rusicava. N’ato ca m’arricordo buono eva Lurenzo lu stagnaro ca eva fatto
la uerra di Spagna cu li franchisti e raccuntava certe storie ca ci vulesse nu
libbru a parte pi li cuntà, ma ogni tanto mentre parlava riceva sempe “arriba
noi..arriba espagna..morti noi morti tutti.”
Quanno po’ iucavano lu frusciu e primiera o la ronna, lu iuoco si faceva
serio e ogni tanto, si coccher’uno sbagliava a mmità a beve nu bicchiero,
avulàvano li seggie. Na vota, tante di li mazzate ca si rierno, m’arricordo di
unu ca steva stiso ‘nnanz a lu pisciro di li Tranisi, ca nu lu putevano ripiglià
, tanno po’, avoglia a mette acqua fresca, mica ci steva lu cientoriciotto. Io
veramente, quanno virevo ‘mbruoglio, mentre papà si minava a sparte, m’annascunnevo sotto li tavule e mi uardavo li palate, e tanno ascievo ‘nsieme a
fràtimo quanno tuttu s’eva accuiatato. Li palate, succirevìno sempe pì fissarie
e m’arricordo nu paro di quistiuni ca’ m’hanno rumaste impresse. Na vota,
mentre iucavano a tressette, nun m’arricordo chi evìno, ci fusìvo nà cciuppiliàta, picchè unu risse: “busso.. ! e dammi la meglio”, uagliò, nun s’accio
picchè, quiru l’allungavo nu chianittone a mano mancina ca roppo pi li sparte,
ci vulierno roie ore. N’ato fattu, fusìvo quasi come a lu cinima. Stèvino quatto
a nu tavulino, ca iucavano pi fatti loro, e unu di quisti, purtava lu milone e si
chiamava Irminio. Affianco, ‘mbalato, ca si uardava la partita, ci steva unu
ca eva nu poco malamente e nun ci’apparteneva niente cu lu iuoco. ’Nda na
botta, come quistu cu lu milone sbagliavo a iucà na carta, quiru ‘mbalato,
li stutavo la sigaretta ‘ngapo, e mentre l’azziccava cu tutti li niervi e quiru
alluccava pi lu dulore, issu riceva, alluccanno cu li rienti strinti ”àggia virè,
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Cunti d’infanzia
quanno cazzo ti ‘mbari a iucà….”Tanno ci fusierno palate di morte, e puviriello
la bun’anima di Papà, pi sparte, si pigliavo na siggiata ‘ncoppa a na mano,
ca l’avièrna mette sette punti.
La maggior parte di li sere però, lu fatto eva tranquillo e quanno s’evano
fatti tutti allegri , accuminciavano a cantà “la pompa và”, ch’eva na canzone
ca cantavano tutti ansieme , botta e risposta. Sta canzone la cumandava sempe
nu certo Truncone, ca abitava sotto a la caggia, e pi mistiero vinnèva li cupete
cu lu bancariello, ca purtava attaccato ‘nganna. Lu chiamavano accussì picchè
eva ruosso e mi l’arricordo ancora ca quanno scinneva da lu mircato cu lu
bancariello, li facevo la posta pi m’accattà na cupeta. Issu allora si firmava e
mi riceva “di che culore la vuò? ”Io mi li uardavo a una a una, nun sapenno
ca tanto cangiava sulu lu culore di la carta, rintu ci steva la stessa cupeta a
tutti parte.
L’unicu mumento ca m’arricordo, ca tutti quiri ca vinevino a la cantina,
la finevino di parlà e di iastimà, eva quanno vineva la nuvera. Nui uagliuni
l’aspittammo come abbiava a scurì, e stemmo arreto li lastre aspittà ca si
prisintavano.Verso li sei, ecco arrivava, Falucciu cu la fisarmonica, Michele
cu lu clarinetto e Biagino cu la chitarra. Tutti si ‘mbalavano, si livavano lu
cappiello, e cu li mmane accucchiate sintevano la canzone di Biagino “Dolcissimo Bambino tra paglia e fieno nasci…”.L’unicu prublema, eva ca t’iva stà
luntano da Biagino, ca mentre cantava, minava certe sorte di sputacchiate ca
ianchiàva lu presepio. Accussì finutu di cantà, si pigliavano nu bicchiero di
vinu e com’evino vinuti, squagliavano ‘ndà la scuria pi ghii a nata casa. N’ta
cosa ca si faceva sempe a Natale, eva jj accattà li bott’a muru e li pisciavunnelle andù Benitu lu spiazzino, ca steva a Santi Nicola. Na vota m’arricordo,
ca siccome parecchie s’èvino ‘nfosse, li mittivu asciugà ‘ncoppa a la stufa e pi
poco nun ci scappavo lu muorto, picchè scuppàrno e a nu uaglione ca steva là
vicinu, si n’ascivu lu razzo cu lu spustamento d’aria. Certo ca di pirsunaggi
n’aggio visti paricchi, e paricchi ci ni stevino rintu Ariano. M’arricordo a
Mammuciano, a Fuffètt, Lione, Pescepatane, lu spirdutu, e po’ tutti l’ate ca
abitavano ‘ncoppa a li Tranisi e ca po’ o si ni ierno in Girmania o a Turino.
Pì là ‘ncoppa a la stagione po’come abbiava a fa callo, la sera s’accuglievino
ricine e ricine di uagliuni, e pì coppa a li Tranisi nun ci steva urario pi pazzià;
ma li posti chiù belli evino li case carute di lu tirramoto. La dinto ci facivi
capanne, ti ‘nfilave ‘ndà li grotte, ci iucave a nasconne. Ancora mò, veco la
buonanima di Tonino Zorro, ca quanno scinneva n’da la rùa, si vatteva lu culu
fuienno, come a quanno si frusta nu cavallo. Eva nu divertimento continuo,
specie vicino a li case andò steva Ciriaco lu mupo cu la mamma, Maria Libera
lu puzzo, ca abbitava ‘ncoppa a Carmea sotto la prèvula. Carmea puvirella
eva assai ciotta, accussì steva assettata sempe sotto la prèula ‘ncoppa a doie
seggie. Ogni tanto, quann’emmo na morra di uagliuni ci ni iemmo pi dintu la
rua, ma là na vota ascieva Angilomaria, na vota Salisicchio, ci minavano appriesso certe bastunate ca pi li scansà avemma fa li scalini a quatto a quatto.
N’ato divertimento eva atturnià la baracca di Liliana, ca abitava ‘mbonta
Santi Nicola.
La ci trattinemmo cu la speranza ca coccheruno ci’addummannava andò
abbitava, accussì ci reva cocche soldo spiccio pì lu ii a spenne andù la pustera. N’amicu mio Simonetto, ca tineva na capuzzella come a na pruvuletta
e abbitava vicino a Liliana, spissu ci raccontava ca la spiava cu la speranza
di li virè li menne, che evino chiù grosse di nu pallone supersantos. Embè na
vota, stu uaglione ci raccuntavo ca pi premio ca l’eva iuto a accattà li sigaretAEQVVM TVTICVM
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Cunti d’infanzia
te, Liliana ci ni fece virè una. Stu uaglione rice ca sbattivu ‘nderra svinutu.
Insomma, come pi ognuno di nui, l’infanzia ea lu periodo chiù bello di la
vita, e la nosta, puru si nun ci stevino cummudità, si si rurmeva chi a capo
e chi a piere, si nun putemmo virè la tilivisione e nun ci stevino pazziarelle è
stato nu periodo magico..luntano come a nu secolo..e magico, e ancora oggi
quanno face callo, e stongo ‘ncoppa a li Tranisi, ea come si sintesse ancora li
voce di tutti quiri ca ci’abbitavano, e ea come si stessero ancora tutti la ‘ncoppa.
Aggiu fatto nu suonno
Aggiu fattu nu suonno, eh si nu suonno, unu di quiri ca quanno lu fà, nun
ti vulussi mai riscità, anzi vulissi tinè a purtata di mano nu piezzo di carta e
na penna pi scrivi e signà tuttu quero ca viri. Eva nu suonno vero vero, nitido
e a culore.
Insomma, m’aggiu sunnàto ca stevo ‘ncoppa Ariano, iustu fra cient’anni,
eva lu ruimila ciento e sette. Allora, ‘ndà lu suonno stesso, quanno m’aggiu
accorto ca stevo ‘ndà lu futuru accussì luntano, m’aggiu ‘ncuriusito, e aggiu
pinsato”fammi jj a virè com’è cangiato Ariano, fammi girà, fammi parlà cu la
gente, pi virè come àdda esse fra cient’anni, accussì almeno, quanno mi rèscito
lu pozzo raccuntà”.
Innanzitutto, lu paese s’eva ‘ngrandutu veramente, e mò arrivava quasi a
lu biviu di Milito da stu quartu, e a quiru di Villanova da l’ato. Da Carditu,
sinu a lu ponte Lusbergo, èvino tutti centri cummirciali e discaunt e puru lu
strusciu eva turnato, sempe affullato di gente, sulu ca si faceva ‘nfaccia a la
sagliuta di Scarnecchia. Pì tutta la via ca purtava da là, sino a Carditu, invece
stevìno dipusitati, frigurifiri viecchi, lavatrici, matarazzi e bidoni di munnezza,
ma rice cà evìno divintati munumenti a l’iculugia e prutetti da la soprintendenza
di li beni culturali, in ricordo di lu prublema ca la Città eva tinùtu cient’anni
prima. Anzi, ci purtavano puru lu creature di li scole a pazzìa , e li virietti cu
l’uocchi mii, mentre saglievano allegri n’coppa a quere pile di sacchetti di la
munnezza, si ‘nfilavano rirènno rintu a li biduni di la “di Vizia”, mentre li
maestre li uardavano e si fumavano ‘na sigaretta. A stu puntu, miravigliato,
firmai a unu e addummannai, “siente nu poco, come è iuto a finì lu fattu di la
discarica di difesa grande? ”Issu allora, nu poco scucciato, quasi come a dà
na risposta scuntata, primu si meravigliavo di la dumanda, e pò mi risse ca lu
sapevano tutti quante come eva iutu a finì, picchè Difesa Grande eva divintata
famosa. Mi raccuntavo, ca là ‘ncoppa èvino fattu nu parco scientifico e di divertimento e ca ci vinevino puru nu sacco di gite cu li pulmann e coccher’unu
puru da l’estero. Mi risse puru, ca sulu là si putevano virè l’ainielli cu quatto
cape, li vacche cu dieci corne e ca facevano lu latte blù cubalto, e pò ci stevìno li zoccole chiù grosse del mondo, addirittura quanto a nu cavallo. Pi stu
fatto, li furistieri vinèvino a visità prima la discarica, ca manu male nu l’evino
bunificata, si no s’eva perso tuttu stu turismo, e doppo di là, ièvano puru a
Campuriale, a virè com’eva l’utimu scascio di li machine di cient’anni prima,
e la Biugemm, lu chiù gruosso allevamento di sùrici di tuttu lu sud Italia. Sulu
ca l’abbitante di Difesa Grande si n’evìno avuta jj, ma pi li fa sènte come a
casa loro, l’èvino trasferiti tutti a Cernobbil. ‘Ncapo a me pinsai, finalmente s’è
ripigliata l’economia di lu paese cu tuttu stu turismu, e nui ca la discarica nu la
vulemmo e facèmmo sciopero pi la fa chiure. Che fessi simu stati. Comunque,
continuanno a girà, affamato di sapè nuvità e di virè tutti li cangiamenti ca
c’èvino stati, dicidietti di mi ni saglie a chiazza, andò avesse pututu sapè tutta
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Cunti d’infanzia
la situazione, prima ca mi riscitava.
Pì saglie a chiazza, ci mittietti tre quarti d’ora; lu trafficu bluccato. Mi ricierno ca eva ora di punta, e si nun si fusse fatta n’ata via, ca tagliava Carditu,
e custruitu n’ato paro di rotonde, nun si riusceva a camminà. Arrivato la miezzu,
nun canuscietti a nisciunu naturalmante, ma lu fattu stranu eva ca ci steva nu
‘mbruoglio di razze e di culure: chi nievuru, chi giallo, chi rusciu. Allora, mi
firmai a parla cu unu ca mi pinsavo ch’eva straniero, picchè da la faccia mi
pareva nu cinese, ma quiru mi risse ca eva nato e crisciutu a la Curneta, e ca la
famiglia soia, eva arianese da da tre ginirazioni. Anzi, mi risse puru, ca Santu
Stefano e la Uardia èvano quartiere cinese e che loro èvano la comunità chiù
numerosa, picchè roppo, l’ate èvano di urigine marocchina, albanese e rumena.
Allora, l’addummannai si ci steva còcche arianese originale, ma issu mi risse ca
nun ni canuscieva, e che forse coccher’unu puteva abbità pi lu piano di zona. Mi
spiegavo, ca lu sìnnico mò eva cinese e accussì puru rui o tre assissore, picchè
ogni cuntrada si vutava li cunsiglieri sui, e quasi tutti èvino di fore. ’Ncapo a
me pinsai, almeno ‘ndà questo, nun è cangiato niente, so sempe quiri di fore ca
cumandano. Mentre stevo là miezzo, sintiette alluccà da coppa a na specie di
campanilo, mi girai e virietti ca la voce vinèva da S.Francisco. Allora addummanai a n’ato che r’eva, e quiro mi risse ca siccome là, apposto di lu centro
pasturale c’evino fatto la muschea, eva l’Imam ca chiamava li mussulmani pì
la prighiera. Mah... pinsai, a me stu fattu multiculturale mi piace, ma quanno
po’ sapietti, ca pi colpa di coccher’unu di quisti, èvino abbulito la festa di la
Santa Spina, ci rumanietti male. Anzi a dice la verità, ci rumanietti malissimo,
quanno sapietti ca mo èvano rumasto sulu la festa di la strage di la carnale….
Vabbuò...s’àdda rispittà la cultura e la riligione di ‘ate… pinsai.
Po’ ròppo ca mi ni stevo ienno, addummannai: ”scusa n’ata cosa,... e li
sagre ca si facevano a la stagione?”. ”e nò risse quiru” hanno rumasto pruvvisoriamente sulu quera di li spizzatinu di vitella, picchè qua indiani, di religione
indù nun ci ni stanno, ma quera di lu salisicchio, la tracchiulella di puorco e lu
prisuttu ea vietata da chiù di trent’anni… ehh stà friscu, puru si t’angàppano
ca ti crisci nu porco pi fatti tui,... pensa ca mò a li Tranisi, apposta di la festa
di la Birra fanno quera di la cassosa!..”
Mi ni scinnietti allora pi Via D’afflittu, senza pinsà chiù a stu fatto, e ghietti
a virè che ci steva andù Giurgione. Uagliù ..! incridibile, tuttu tale e quale, nun
eva cangiato niente: fineste rotte, canaluni appisi, pilastre sfravicate. Aggià rice
la verità, tirai nu suspiru di sullievo. Almeno qua, pareva di sta a Ariano di li
tiempi mii. Cuntinuai a camminà e pinsai: “prima ca finisce stu suonno, aggia
jj a virè che fine è fatto la villa e lu castiello”, spirànno ca ci stesse ancora,
vistu ca m’èvino puru ritto, ca durante l’utimi cient’anni c’èvano stati n’ati
dui tirramoti.
Embè, cari amici, arrivato là, a la vutatora di via Castello, schantài, e abbiài
a surà rìntu a lu suonno. Lu Castello nun ci steva chiù. Squagliato. Nun c’eva
rumasto manco na preta.Ci steva sulu nu tubbu, ca po’ sapietti eva l’ùtimu
piezzo di l’acquidotto. Munumento naziunale. Allora firmai a unu e li ricetti:
“ma che è successo, qua nun ci steva lu castiello?”
Rispunnivu quiru: “ma sta pazzianno?… so chù di sittan’anni ca è caruto.
Succirivo ca spustarno li vasche, e po’ a furia di circà la porta uriginale, lu
carulàrno tuttu quanto, allora, pì nu lu fa dipirì, l’hanno smuntato, e chi s’è
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Valleluogo
Valleluogo
di Tonino Alterio
Valleluogo acqua e fuoco”. Era questa, in modo sintetico, la identificazione di una valle sprofondata a circa sei chilometri a nord
di Ariano. Poche parole davano le caratteristiche del sito, ricco
di acqua e di una folta e variegata vegetazione che ben irrorata si
sviluppava ed ancora si sviluppa rigogliosa e spontanea.
E l’abbondanza d’acqua, nel passato, aveva dato forza ai numerosi mulini, che in detta località consentivano la macinazione del grano, procurando
lavoro e cibo.
Potremmo dire che il luogo era predestinato a dare sostentamento al
corpo, ma con la presenza della Madonna aveva anche una funzione salvifica
dell’anima.
Poi, con il passare
del tempo e con l’utilizzo dell’energia elettrica,
i mulini persero la loro
funzione e Valleluogo appartenne all’immaginario
collettivo come la ridente
località per fare la scampagnata in occasione della
festa dedicata alla Madre
Celeste che si celebrava e
si celebra a Pentecoste.
Basti leggere un articolo sul giornale “Il nuovo
Risveglio” del 14 gennaio
1891 per meglio intendere
la mia affermazione. Il
cronista scriveva: “fuori e dentro la chiesa una immensità di gente, che si
sprofonda nelle latebre di un sotterraneo pel quale vuolsi sia attraversata la
Vergine, tanto che i devoti lo percorrono salmodiando” e “Così concesso il
mio modesto obolo di divoto e curioso, sono fuori di chiesa, girovagando in
mezzo alle allegre brigate e comitive”.
Ma all’ora di pranzo “ecco subito una cesta con uova, carne, frutta ed
una brocca enorme ricolma di vino. Scendiamo dunque presso quella torre,
sotto quegli alberi con il mormorio del ruscelletto vicini si trincava con gusto
matto quel vino fresco, in mezzo a tanta gente che aveva scelto quel sito per
fare lo stesso. Domando permesso agli amici per poco tempo mostrando loro
il taccuino ancora bianco che aprii dopo pochi istanti per prendere l’appunto
di alcune giovanette montecalvesi che ballavano la tarantella. E che tarantella!..mi dava l’idea di un ballo sardo… Le baracche sono sempre zeppe
A
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Valleluogo
di gente; si vuotano boccali, bottiglie e bicchieri, intendiamoci non d’acqua.
Che baccano, che confusione”.
La famiglia Grassi, proprietaria della chiesa campestre e dell’edificio annesso,
per tre giorni durante la festa
consentiva ad alcuni sacerdoti
di celebrare le Sante Messe a
beneficio dei numerosi devoti
che a piedi raggiungevano il
santuario.
I Di Franza, antica famiglia
di mugnai, garantivano la somministrazione di un buon vino
ed assicuravano la custodia del
santuario, che per il restante
periodo dell’anno rimaneva
chiuso e non fruibile da tutti.
Talvolta era consentito a “lu
rimita” ovvero ad un eremita
trattenersi in un locale adiacente la chiesa per fare una
esperienza di vita solitaria o
al più in compagnia di qualche gatto utilizzando il poco
cibo procurato dalla carità dei
contadini del posto.
L’ultimo di questi santi
uomini fu Oto Tubita, il quale
era dotato di poteri “taumaturgici”, secondo il comune
intendere di chi si era rivolto a lui per un mal di pancia, per una forte emicrania o per una distorsione.
Nel marzo del 1957 ci fu una svolta per l’intera località ma soprattutto per
il santuario. La chiesa, l’edificio annesso e un po’ di terreno furono acquistati
per la somma di tre milioni da Don Luigi Novarese su proposta di Pasquale Venezia, vescovo della diocesi di Ariano. Novarese, fondatore dell’opera Silenziosi
Operai della Croce, venne da Roma con alcuni confratelli a prendere possesso
della nuova “casa”, posta proprio in fondo a quella valle vicino alla Madonna.
Per i nuovi inquilini non fu agevole raggiungere la dimora; dovettero percorrere a piedi l’antica mulattiera in terra battuta; l’unica bestia da soma fu
messa a disposizione di una sorella impedita. Le prime impressioni ci furono
tramandate con queste parole: “Non è una reggia. Oh no! Non sarebbe adatto
per noi! ma è tanto raccolto, sperduto in mezzo alla valle, così detta, del bel
luogo, ridente, solcata soltanto dal torrente che rompe l’incantevole silenzio:
‘E un luogo di preghiera e di raccoglimento. Al mattino sarà il cinguettio degli
uccelli a svegliarci per le preghiere mattutine”.
Da quel momento non era più la semplice chiesa campestre presso cui gli
umili fedeli, da tempo immemorabile, si erano recati, pregando e cantando con
parole semplici, ma efficaci:
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“Maria di Valleluogo
C’a li mulina sta
Ti vinimo a visità
Tu la rázia ci l’ara fa.
A lu pietto di la Maronna
C’e nata ‘na stella
Na stella ‘nnargetata
Madonna mia chi ti le data
Ti le data lu buon Gesù
Maronna preiulu Tu
Lu priei Tu, lu preio pur’io
Priamilo ‘nsieme Maronna mia.
Li surdati ca so partuti
Accumpagnili a ‘ndo so ghiuti
Muoviti a pietà
Come so ghiuti falli turnà.
Maria di Valliluogo
Ca sani mupi e ciechi,
Uarisci struppi e malati
E ci libbri da lu piccato.
Oh! Vergine Maria, nui currimo
Tu si la Mamma nosta
Preia pi nui Gesù.
Vinite ‘mpressa populu di Dio
A visità Maria tutta chiena di virtù
Pi mare e pi terra si mintuvata Tu
Maria di Valliluogo si la Mamma di Gesù.
Stazione di Ariano, partenza per Re.
Da sinistra: Angelo Barbati, Antonio Nappa, Antonio Iacobacci,
Antonio Alterio, Antonietta Ragucci. - Fototeca T. Alterio
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Con queste parole, che compendiavano il mistero della
venuta dell’Emmanuele e l’infinita misericordia di Maria,
i pellegrini giravano
intorno al Santuario
per tre volte, per
compiere i cosiddetti
“turni”.
Ma questa devozione, fatta di segni
esteriori tra il sacro
ed il profano, furono
nel tempo trasformati
in sentimenti religiosi
più profondi e consapevoli. L’insegnamento e la scelta di vita dei
Silenziosi Operai della
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Croce, guidati dal sacerdote don Gastone Rubin e da Sorella Angela Negri,
seppero rompere quel muro di superficialità e forse di incredulità in quanti
consideravano quel manipolo di consacrati degli avventurieri in un ambiente
ancora ostile (mancavano la corrente elettrica e le strade).
Il vescovo Venezia, era il 25 aprile 1957, compose la seguente preghiera,
disponendo il conseguimento di cento giorni d’indulgenza per coloro che
l’avessero recitata, “O Vergine di Valleluogo, che in tempi ormai lontani Ti
degnasti di apparire in questa valle bella e silenziosa, guarendo una pastorella,
accoglici nel numero dei tuoi devoti e fa che ricorrendo a Te, Salute degli
Infermi, possiamo conseguire la sanità dell’anima e del corpo per i meriti del
nostro Signore Gesù Cristo che vive e regna nei secoli dei secoli, così sia. Ut
adveniat regnum tuum, adveniat regnum Mariae”.
La forza della preghiera della piccola comunità seppe vincere tante difficoltà: era il vero miracolo della Madonna! Gli ammalati di Ariano ebbero in
Valleluogo il loro punto di riferimento sia per aiuti materiali che per sostegni
di ordine morale e religioso.
Noi di azione cattolica fummo piacevolmente affascinati dal messaggio
d’amore e rimanemmo coinvolti come fratelli o sorelle degli ammalati i quali,
nell’intento di Novarese, non erano i destinatari di una pietosa commiserazione
bensì i soggetti attivi nel piano salvifico dell’umanità, secondo la chiamata
della Madonna fatta a Lourdes ed a Fatima. Infatti la Madre Celeste aveva
più volte chiesto “Preghiera e Sacrifici” per la pace nel mondo e per la salvezza delle anime.
Nell’ultima domenica di Avvento del 1959, era il 20 dicembre, Venezia
conferì gli ordini minori dell’Ostiariato e del Lettorato ai chierici Remigio
Fusi e Gastone Rubin, successivamente ordinati sacerdoti. L’anno successivo, celebrò l’erezione a santuario della piccola chiesa con il titolo di “Salus
Infirmorum”.
Ormai l’attività in favore degli ammalati si svolgeva a pieno ritmo con
incontri di preghiera ed esercizi spirituali che si tenevano nella casa di Re
nella valle d’Ossola ai confini con la Svizzera. Noi giovani demmo il nostro
contributo fisico per consentire di raggiungere in treno questa località ai
numerosi disabili, i quali ebbero occasione di mettere a frutto la propria sofferenza penetrando il mistero della Eterna Carità. Ebbi modo di partecipare
per tre anni (1963, 1964 e 1965) a questi viaggi della rigenerazione interiore
e vi assicuro: tutti, sani ed ammalati, ne traemmo beneficio.
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Gabriele Grasso
Gabriele Grasso
Il centenario della morte dello studioso
di Cesare De Padua
1. Ricorrenza e Storia
R
limiti precedenti, sia nelle acquisizioni che nel metodo, e indicando la strada
da seguire. Egli infine seppe allargare i propri orizzonti di ricercatore ben
oltre i confini del Tricolle e, in tal senso, è davvero restrittivo considerarlo
semplicemente uno storico locale.
Nell’abbozzo proposto, si evidenzia la posizione importante del Grasso. Le
sue opere costituiscono una sorta di ponte che riallaccia la ricerca storica di
allora a quella dei nostri anni, che conta gli apporti di Nicola D’Antuono,
compianto studioso che può porsi con sicurezza nella linea della storiografia
inaugurata dal Grasso, e dei tanti altri che continuano a scavare nel tempo
storico della nostra città.
2. La vita (6)
Gabriele Grasso nacque ad Ariano, da Angela Carchia e da Antonio, il 5
dicembre 1867, sul finire d’un anno funestato dal colera, che imperversò in
Ariano per tutta l’estate mietendo forse un migliaio di vite (7). Nelle elezioni
di marzo, Mancini era stato rieletto in parlamento nel collegio di Ariano (8);
Domenico De Franza era sindaco da due anni (9). La città era al centro d’un
circondario nel quale era da poco passata l’onda alta del brigantaggio post-
3) Fabio Barberio, Catalogus Episcoporum Ariani [Catalogo dei
Vescovi di Ariano], Napoli 1635. L’opera è stata ristampata ad Ariano nel
2006, tradotta e curata da Stanislao Scapati.
4)Francesco Antonio Vitale, Memorie Istoriche degli Uomini Illustri della
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Gabriele Grasso
icorre quest’anno il centesimo anniversario della morte di Gabriele
Grasso. Lo studioso, prematuramente scomparso nel cataclisma che
distrusse Messina nel 1908, ebbe interessi molteplici, che abbracciarono campi diversi e si soffermarono su oggetti differenti e anche lontani.
Per amore di sintesi, è bene vedere in lui uno storico, sebbene la definizione
necessiti almeno della chiarificazione che Grasso fu storico nel senso preminente di saper connettere, nell’alveo della ricerca storica, capacità, strumenti,
conoscenze provenienti da scienze ed ambiti culturali diversificati: in sostanza,
fu storico e geografo, filologo e topografo. Su questa poliedricità si tornerà,
mentre appare preventivamente opportuno individuare nella ricorrenza, la
quale rappresenta un punto prospetticamente interessante, l’occasione non
solo per valutare come l’opera di Gabriele Grasso abbia superato il secolo
che la separa da noi e dal nostro tempo, ma anche per stabilire la portata
e il posto che essa occupa nel panorama della storiografia arianese. Prima
ancora di celebrare e ricordare, è quindi indispensabile collocare la figura
del Grasso nel lungo percorso della storiografia locale, premettendo che in
quest’ideale linea del tempo egli occupa sicuramente un posto non secondario.
I primi storici, o meglio sarebbe dire cronisti, della città, Capozzi (1) e Scipione Agostino (2), si collocano con le loro opere al tramonto del XVI secolo,
non a caso nel momento in cui la città era appena uscita dagl’infeudamenti
attraverso il Riscatto, evento storico la cui problematicità e la cui contraddizione già si avvertono nelle righe del manoscritto di Scipione Agostino,
balenando fra i tratti celebrativi e mitici che sono propri anche della storia
del Capozzi.
Nel suo seicentesco abbozzo storico, Barberio (3) presenta una ricostruzione
monumentale e agiografica delle origini e della storia della città, poco dedicando alla cura ed all’esame delle fonti e molto al magnificare.
La storia cittadina assume tutt’altro spessore e valore nel Settecento, grazie
alle opere dei fratelli Vitale (4). Ancora oggi, la Storia della Regia Città di
Ariano di Tommaso Vitale rappresenta un riferimento storiografico ineludibile, nonostante i limiti intrinseci, tra i quali il non completo superamento
di alcuni elementi ‘mitici’ sul passato della città. In ogni caso, la Storia del
Vitale, grazie al grande respiro e alla documentazione che la sorreggono, è lo
spartiacque che separa l’età dell’agiografia da quella della storia documentata.
Un secolo dopo, Tra l’Ottocento ed il Novecento, si collocano due figure di
rilievo. Nicola Flammia (5) fu autore di una storia che si poneva come ideale
continuazione ottocentesca di quella del Vitale. Gabriele Grasso con una serie
di studi reimpostò criticamente e con maestria di metodo alcune nodali questioni sulle origini di Ariano e su altri aspetti della storia cittadina. Nell’ideale successione appena abbozzata, egli occupa un ruolo importante per aver
posto in termini scientifici e rigorosi la questione della ricerca, superando i
1) Giovanni Battista Capozzi, Cronica ovvero istoria della Città
di Ariano, 1590; una copia del manoscritto è presso la biblioteca Mazza.
Un’edizione a stampa è stata curata da Ortensio Zecchino (G. B. Capozzi,
Cronica della città di Ariano, Montevergine, 1984).
2) Scipione Augustino Arianeo, Descrittione d’Ariano città della Provincia di Principato Ulteriore mediterranea
secondo la moderna divisione del Regno, opera tuttora inedita, ultimata nel 1596; il manoscritto è presso la
Società Napoletana di Storia Patria, E 15.
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Gabriele Grasso
primo dei tre volumi degli Studi, vero compendio dell’impianto metodologico
che il Grasso esibirà nelle sue ricerche.
La permanenza a Melfi dura ben poco, ché l’anno successivo Grasso è
a Palermo, dopo aver vinto il concorso per la cattedra di Geografia presso
l’Istituto Tecnico del capoluogo siciliano.
Trascorsi due anni nell’isola, si trasferisce a Milano: vi rimarrà, presso
l’Istituto Tecnico Cattaneo, fino al 1901. Dopo aver ottenuto la libera docenza in Geografia presso l’Università di Pavia, nel 1901, Grasso è di nuovo a
Milano l’anno successivo, quale libero docente presso la Reale Accademia
Scientifico-letteraria (era la denominazione della facoltà di Lettere), dove
rimarrà fino al 1906. Il lungo periodo trascorso nella città lombarda è molto prolifico, con la pubblicazione di numerosi lavori e la partecipazione ad
iniziative culturali e commemorative, com’era nell’indole dello studioso. (11)
Pur lavorando lontano, Grasso non rinuncia a partecipare alla vita culturale della sua città tenendo, quand’è possibile, conferenze e relazioni. Si
segnala quale promotore (1901) dell’iniziativa che porterà all’inaugurazione
dei monumenti a Mancini e De Sanctis (1903). Tuttavia non sarà realizzato il monumento al Parzanese, che inizialmente sembrava essere al centro
degl’intendimenti, ricorrendo il cinquantenario della morte del poeta. Dalla
vicenda, sulla quale si tornerà, scaturiranno polemiche e critiche all’indirizzo
del promotore.
Nel 1906, Grasso vince il concorso per professore straordinario di Geografia
presso l’Università di Messina. Nello stesso anno si sposa con Flora Errico,
ventiseienne “figlia dell’avvocato Nicola, sorella dell’avvocato Francesco e
del medico Raimondo” (12). Degli Errico, scrive Scapati che fu l’ “avv. Nicola
Errico (Ariano 1823-1903), sempre appellato ‘Don Nicolino Lo Monaco’ (il
padre, Francesco Errico, oriundo di Castelbaronia, laico non professo degli
Agostiniani di Ariano, quando il Convento fu soppresso, nel 1806, depose
l’abito e si sposò, ma gli rimase il soprannome ‘Lo Monaco’, trasmesso al
figlio). Sposò nel 1855 Maria Luisa Ruocco che, dal titolo del marito fu
detta la Cavalera… Gli Errico non vanno confusi con gli Henrico, l’antica
famiglia una volta dimorante alla Guardia di sotto”.(13)
Gli Errico contrastarono il matrimonio, adducendo la disparità di status
sociale con la famiglia di Gabriele Grasso (Nicola Errico, tra l’altro, era stato
nominato, il 17 marzo 1878, cavaliere della Corona d’Italia ed i titoli, si sa,
innalzano l’autostima) e rinnovando così, mutatis mutandis, quelle tradizioni
di esclusivismo non nuove nella storia cittadina. Tuttavia, il matrimonio ebbe
luogo il 14 ottobre e, subito dopo, gli sposi partirono alla volta di Messina.
Non sembra che i contrasti con gli Errico si placassero, permanendo e segnando le relazioni tra la coppia e la famiglia della sposa. Fra tante difficoltà, il
matrimonio ebbe una strenna speciale da parte di Francesco Lo Parco, che
pose la dedica “Per le nozze del Prof. Gabriele Grasso con Flora Errico” al
suo Due Orazioni nuziali inedite.(14)
Nei due anni trascorsi a Messina e soprattutto nell’ultimo, Gabriele Grasso
intensificò l’attività pubblicistica. Il 3 novembre 1908, tenne la prolusione
Fretum Nostrum, dedicata allo Stretto di Messina, che, pubblicata postuma
l’anno successivo, è il suo estremo lascito di studioso.
Ariano, 1999 [nel seguito Alcune note].
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Gabriele Grasso
unitario e non potevano essere del tutto spenti gli echi della ‘reazione’ che,
nel settembre 1860, aveva insanguinato la via della ritirata dei liberali, convenuti sul Tricolle per il fallito insediamento del governo antiborbonico del
Principato Ultra. Erano tempi, insomma, di assestamento, dopo il passaggio
ormai definitivo nell’ambito del nuovo Stato, a cui mancava ancora la capitale
‘storica’, ma che aveva superato la crisi dei primi anni Sessanta indotta dalla
rivolta delle province meridionali, soffocata nel sangue della guerra civile.
Tra le misure del nuovo stato che incisero in profondità nell’assetto
economico e sociale, va ricordata sicuramente la soppressione dell’asse ecclesiastico, che segnò la fine dell’esteso patrimonio che la Chiesa conservava
nell’agro arianese.
Il 1867 e dintorni rappresentano quindi un periodo di guado dal vecchio
al nuovo assetto, il quale ultimo, tuttavia, non si deve credere che rompesse
l’ordine gerarchico e di classe della società. L’insurrezione contadina nel
Meridione s’era tinta -ed in parte era stata tinta- di valenza filo borbonica,
ma fu sollecitata anche dall’assetto sociale fatto di sfruttamento ed oppressione, esercitati dai liberali della prima e dell’ultima ora, non meno che dalle
sclerotiche schiere dei filo-borbonici convinti. La sconfitta consegnò le classi
legate al lavoro della terra, e ad una scarsa o nulla proprietà della stessa,
nelle mani della ‘nuova’ vorace borghesia, che, in pratica, s’affiancò ai vecchi
possidenti - o li sostituì - in una gestione senza speranze di aperture, scosse,
innovazioni.
La famiglia Grasso, che abitava nel popolare rione Valle, poteva considerarsi benestante, potendo contare su un’azienda agricola e su un’attività
commerciale che la ponevano sicuramente sopra il livello della gran parte
della popolazione, ma non bastavano, tuttavia, ad elevarla all’altezza del
ceto che, pur percorso da lotte di fazione, da secoli si manteneva, pur nei
trapassi storici e col ricambio ‘naturale’ delle famiglie, al vertice della città,
sia economicamente, sia dal punto di vista della politica cittadina, conservando
ancora forti caratteri di chiusura che rendevano ardua la scalata ai vertici,
pur in un assetto sociale che non conosceva più gli esclusivismi ‘formali’ che
avevano tormentato la vita cittadina per tutto il secolo precedente.
Dopo aver frequentato il seminario di Ariano, Gabriele Grasso studiò
presso l’università di Napoli, dove si laureò in Belle Lettere nel 1890, quando
aveva 23 anni e aveva già scritto la serie di articoli -pesantemente critici- che
recensivano l’opera di Iannacchini sulla topografia irpina.
Nel 1891 conseguì, col massimo dei voti e la lode in Storia antica, il
diploma di perfezionamento presso l’Istituto di Studi Superiori di Firenze.
Dopo aver diretto, dal ’91, il ginnasio P. P. Parzanese di Ariano (10), ebbe,
nel ’93, l’incarico di Reggente di prima classe presso l’Istituto Tecnico di
Melfi. In tal modo, aveva inizio quel vagare del Grasso per l’Italia, da una
cattedra all’altra, che durerà fino alla morte. Il 1893 è anche l’anno del
Città di Ariano, Roma, 1788. Tommaso Vitale, Storia della Regia
Città di Ariano e sua Diocesi, Roma, 1794.
5) Nicola Flammia, Storia della città di Ariano, Ariano, 1893.
6) Per molti aspetti della vita del Grasso e della sua attività, si
rimanda al nostro Alcune note sulla vita e sulle opere di Gabriele Grasso,
regia
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Gabriele Grasso
Un secondo gruppo di testi ha il complesso carattere geo-storico e filologico
che il Grasso prediligeva. Appartengono a questo ‘comparto’ i lavori sui nomi
geografici “serra”, “contra”, “fiesso”, quelli sui nomi geografici di origine religiosa, sui nomi geografici legati alla “leggenda annibalica”, sul Cambiamento
di nome dei comuni d’Italia, sulla Toponomastica per battesimo ufficiale e
toponomastica per spontanea tradizione popolare; alcune incursioni in luoghi
geografici ‘controversi’ nelle pagine degli autori classici: Per la storia della
conoscenza dell’Appennino, commento geografico alla descrizione dell’Appennino in Lucano (Phars. II, 399-438), Questioni topografiche e topologiche
sull’estrema Calabria anche in difesa di La Catona (16), Aneddoti, la descrizione
bruzzio-calabra dell’Anonimo Ravennate (1907) (17), lo Σκνλακιον οροσ di
Appiano e l’itinerario di Ottaviano da Vibona a Tauromenio nel 718/3. Altri
temi hanno carattere più generale o metodologico: Note di toponomastica dal
punto di vista geografico, Sui limiti della geografia storica .
A partire dal 1904, l’attenzione e la curiosità del Grasso si volsero anche
molto lontano dai consueti teatri italiani, come dimostra un gruppo cospicuo
di opere, alcune anche di notevoli dimensioni: Il Giappone all’avanguardia
dell’Estremo Oriente, Leggenda australiana sulle origini delle Pleiadi, Le
vie fluviali della Siberia in rapporto alle attuali comunicazioni russe con
l’Estremo Oriente, Dipinture indigene delle caverne australiane, Concezioni
cosmogoniche e superstizioni religiose tra gli Australiani indigeni, Gli Australiani e i Papuo-Melanesiani.
Infine un gruppo di studi ha carattere più eterogeneo, includendo recensioni critiche, testi commemorativi, osservazioni su avvenimenti, personaggi
e congressi. Basterà ricordare le Osservazioni geografiche ed etnografiche
alla conferenza del prof. Trombetti sulla monogenesi del linguaggio, L’opera
scientifica di Amato Amati, A proposito della biblioteca di geografia storica
pubblicata sotto la direzione di G. Beloch.
I cenni di cui sopra non esauriscono certamente il repertorio delle opere,
che attende ancora una catalogazione definitiva. Non è vano perciò chiudere
il discorso con una bibliografia che tenga conto dei dati dell’OPAC SBN.
BIBLIOGRAFIA DELLE OPERE DI GABRIELE GRASSO
La presente bibliografia integra quella che concludeva il nostro Alcune Note sulla Vita e sulle opere
di Gabriele Grasso (Ariano, 1999), con i dati desunti (marzo 2008) dall’Istituto centrale per il catalogo unico delle biblioteche italiane e per le informazioni bibliografiche, OPAC SBN (http://opac.
sbn.it/opacsbn). La bibliografia che emerge da tale integrazione non è ancora quella definitiva, ma
certamente rappresenta un passo avanti importante. Rispetto alla ricordata bibliografia del 1999,
è stato possibile completare alcune voci bibliografiche e aggiungerne di nuove. Permane qualche
incertezza su eventuali altre opere sfuggite alla ricerca (il catalogo OPAC SBN non comprende tutte
le biblioteche italiane) e restano alcuni vuoti nelle caselle degli anni o dei luoghi di pubblicazione,
carenze presenti anche in alcuni titoli dell’OPAC SBN.
Va messo in rilievo che le opere di G. Grasso si ritrovano anche presso biblioteche straniere. Per
esempio, i 3 volumi degli Studi e quello sul castello di Ariano sono negli elenchi della Staatsbibliothek di Berlino (18); il primo degli Studi è presso la Bibliothèque National de France di Parigi; alla
Osterreichische Nationalbibliothek di Vienna è il curioso Dai tempi antichi ai tempi moderni… (cfr.
infra, alla fine della sezione Volumi, opuscoli, articoli).
di Gabriele Grasso, si risollevarono decisamente (cfr. Storia della città di
Ariano, cit., p. 78).
11) La scorsa alle opere, nel capitoletto successivo, permette di
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Gabriele Grasso
La sera del 28 dicembre 1908, nella sua casa di Messina, Gabriele Grasso
mostrava a Lo Parco, anch’egli allora nella città dello Stretto dove insegnava, una cartolina speditagli da Francesco D’Ovidio, con i complimenti per
lo studio sulle Questioni topografiche e topologiche sull’estrema Calabria
anche in difesa di La Catona. Lo Parco, buon amico del Grasso, avrebbe
lasciato quella sera stessa lo Stretto, sfuggendo al cataclisma che incombeva. Gabriele Grasso sarebbe restato, rinunciando, quell’anno, a tornare ad
Ariano. Il permanere si sarebbe rivelato fatale a lui, alla moglie e alla loro
cameriera arianese.
Sebbene la scomparsa rivelasse, attraverso le attestazioni del diffuso cordoglio, quanta stima aveva conquistato negli ambienti accademici italiani;
sebbene la tragedia e l’arrivo delle salme in Ariano determinassero finanche
il ripensamento, peraltro ormai inutile, degli Errico, il tempo -proprio nella
sua città- avrebbe deposto sullo studioso una coltre sempre più spessa di oblio:
non ci sarebbe mai stata neppure la promessa cerimonia commemorativa da
parte del comune. Si trattò del primo atto ‘formale’ della rimozione.
Si sarebbe dovuto attendere il 1967, centenario della nascita, perché
un’opera di Gabriele Grasso fosse ristampata.
3. Le opere
Le opere di Gabriele Grasso s’indirizzano in prevalenza lungo alcuni filoni
caratteristici, che è opportuno individuare per dar conto degli svariati interessi.
Innanzitutto -non per importanza ma per ‘vicinanza’- il cospicuo corpus di
lavori che ha per oggetto la storia dell’Irpinia e quella della città di Ariano.
Al biennio 1889-1890 risalgono gli scritti raccolti nella serie, già ricordata,
Per la topografia storica dell’Irpinia. Seguono gli Studi di storia antica e di
topografia storica, pubblicati in tre tornate nel 1893, 1896 e infine 1901. I
tre fascicoli comprendono parecchi studi, dei quali alcuni dedicati alla storia
del territorio arianese e all’Irpinia. Rilevanti in proposito appaiono Sull’oppidulo oraziano, la ricerca sulle antiche vie irpine e, soprattutto, la Storia
di Aequum Tuticum e pretesa antichità di Ariano (di cui ci occuperemo nel
seguito). E’ del 1899 il lavoro sulla Valle d’Ansanto. E’ del 1904 il volume dei
Ricordi Monumentali a Pasquale Stanislao Mancini ed a Francesco De Sanctis,
che raccoglie tutti i materiali relativi alla realizzazione dei due monumenti,
dall’esordio dell’iniziativa all’inaugurazione. Infine, due studi su Ariano:
S. Ottone Frangipane nella storia e nella leggenda, che risale al 1901, e
quello che, almeno in Ariano, è certamente il lavoro di Grasso più conosciuto
e più volte pubblicato anche di recente, Il castello di Ariano, del 1900.(15)
7) I morti furono 760, ma molte vittime sfuggirono alla contabilità
‘ufficiale’.
8) Pasquale Stanislao Mancini fu eletto nei collegi di Massafra,
S. Maria Capua Vetere, Chiaromonte e Spilimbergo, oltre che in quello di
Ariano, per il quale, infine, il 3 aprile, optò. 9) Domenico De Franza fu sindaco dal 1865 al 1869.
10) Nicola Flammia scrive che le sorti dell’Istituto, sotto la guida
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Gabriele Grasso
o Sui limiti della geografia storica, Relazione al IV Congresso geografico italiano, Milano, 19011902. [Sui limiti della geografia storica e sulla necessità che i geografi d’Italia rendano ad essa
un omaggio più sentito e più sicuro nella scuola e nelle proprie ricerche scientifiche, relazione
di Gabriele Grasso, Milano, Bellini, 19??**].
o Sulla necessità dei gabinetti di geografia, Relazione al IV Congresso geografico italiano, Milano,
Bellini, 1901-1902.
o Echi del Congresso internazionale di Scienze storiche, Estratto dal Bollettino della Società di
Esplorazione, 1903.
o Toponomastica per battesimo ufficiale e toponomastica per spontanea tradizione popolare,
Roma, Società Geografica Italiana, 1903.
o Australiani indigeni e britannici di fronte alle svantaggiose condizioni geografiche del loro
continente, Soc. Geografica Italiana, Roma, 1903. **
o Il Giappone all’avanguardia dell’Estremo Oriente, Conferenza tenuta alla R. Accademia Scientifica Letteraria di Milano, Milano, Tamburini, 1904.
o L’opera scientifica di Amato Amati, in Bollettino della Società geografica italiana, Roma, 1904.
o Ricordi monumentali a Pasquale Stanislao Mancini ed a Francesco De Sanctis in Ariano di
Puglia- 8 novembre 1903, Ariano, Stab. Tip. Appulo-Irpino, 1904.
o Del significato geografico del nome ‘fiesso’ in Italia e di un antico nome ‘ad flexum’, incorporato
nel nome di San Pietro in Fine’, in Atti del Congresso internazionale di Scienza Storica, Roma,
1904.
o La leggenda annibalica nei nomi locali d’Italia (Estratto dalla ‘Rivista di Storia antica’, anno
IX, 1), Feltre, Tip. Castaldi, 1904.
o Leggenda australiana sull’origine delle Pleiadi, Ariano, 1904.
o San Pietro in Fine o San Pietro in Fiesso?, Roma, Tip. Salviucci, 1904.
o Sulla frequenza e sulla distribuzione geografica dei comuni della Francia denominati dal nome
dei santi, specialmente in rapporto alla Toponomastica sacra d’Italia, Napoli, Tip. Ed. ToccoSalvietti, 1905 [Estratto dagli Atti del V Congresso geografico Italiano, Napoli, 1904].
o Osservazioni geografiche ed etnografiche alla conferenza del prof. Trombetti sulla monogenesi
del linguaggio, Estratto dal Bollettino della Società di Esplorazione, 1905. [Considerazioni geografiche ed etnografiche a proposito della conferenza sulla monogenesi del linguaggio, Milano,
1905? **].
o Per la storia della conoscenza dell’Appennino, commento geografico alla descrizione dell’Appennino in Lucano (Phars. II, 399-438), in ‘Rivista geografica italiana’, Firenze, Tip. Ricci, 1905.
[1904 **]
o Le vie fluviali della Siberia in rapporto alle attuali comunicazioni russe con l’Estremo Oriente,
Milano, Bellini, 1905. (conferenza tenuta nell’aula magna della R. Accademia scientifico-letteraria
di Milano).
o Dipinture indigene delle caverne australiane, in ‘Mondo Sotterraneo’, Udine, 1905.
o Concezioni cosmogoniche e superstizioni religiose tra gli Australiani indigeni, in ‘Natura e arte’,
Milano, 1905.
o Le tribù australiane, Milano, Vallardi, 19??. **
o Appunti biografici e psicologici sul più grande esploratore dell’Oceano Pacifico: fu Giacomo
Cook un uomo di genio?, memoria di Gabriele Grasso, Napoli, Tip. Ed. Tocco-Salvietti, 1906.
**
o Il nome di Mare Mediterraneo, Roma, s. d. .**
o Gli Australiani e i Papuo-Melanesiani, Milano, Vallardi, 1907.
o Papua e Melanesiani, Milano, Vallardi, 19.. **
o Nostrum Mare, Roma, Società Geografica Italiana, 1907.
o Aneddoti : la descrizione bruzzio-calabra dell’Anonimo Ravennate, ?, 1907.
o Stretto o Faro di Messina?, s.l., 1907? **
o Nostra Maria. Per la storia del nome dei Mari Nostri nell’antichità e nel medioevo, Estratto
dagli “Atti della R. Accademia Peloritana”, vol XXIII, fasc. I, Messina, D’Amico, 1908.
o Note di toponomastica dal punto di vista geografico, Milano, 1908. [Note di toponomastica dal
cogliere la quantità di lavori del periodo milanese. Nel novero delle uscite
pubbliche, va ricordata la conferenza commemorativa - che fu poi pubblicata in forma d’opuscolo - La Repubblica partenopea ed i Napoletani del
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AEQVVM TVTICVM
Gabriele Grasso
Nell’elenco, i titoli sono sistemati cronologicamente. Il doppio asterisco rimanda a dati bibliografici
desunti dall’OPAC SBN ed assenti nella bibliografia del 1999. Lo stesso simbolo è utilizzato per
varianti (nel titolo o in altri elementi) della stessa provenienza, in questo caso inserite fra parentesi quadre; tali varianti non sempre sembrano identificare l’identica opera. I titoli sottolineati si
riferiscono a lavori che, dopo la loro comparsa, sono stati inseriti nei tre volumi degli Studi.
Volumi, opuscoli, articoli:
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Per la topografia storica dell’Irpinia -1-, Corriere regionale, Ariano, a. II, n. 34, p. 2-3, 1889.
Per la topografia…-2-, id., n. 39, p. 1-2, 1889.
Per la topografia…,-3-, id., n. 40, p. 1-2, 1889.
Per la topografia…,-4-, id., Ariano, a. III, n. 15, p. 1-2, 1890.
Per la topografia…, -5-, id., n. 16, p. 2-3, 1890.
Studi di Storia antica e di topografia storica, fasc. I, Ariano, 1893.
Un passaggio di Annibale attraverso l’Appennino, in ‘Geografia per tutti’, Milano, 1895.
Gli anni più oscuri della vita di Antipatro, Messina, Tip. D’Amico,1896.
Studi di Storia antica e di topografia storica, fasc. II, Ariano, 1896.
Il Pauper aquae Daunus oraziano , Torino, Loescher, 1896.
Gli Strapellini di Plinio, Firenze, Ricci, 1896.(19)
La gita transalpina degli studenti italiani (Milano, S. Gottardo. Zurigo, Heidelberg, Colonia,
Berlino, Lipsia, Monaco, Brennero), in ‘L’Universo’, Milano, 1897.
Ancora del passo ambiguo di Paolo Diacono circa la Scandinavia, in ‘Rivista geografica italiana’, Firenze, 1897.
Una questione di topografia storica ed un errore di Frontino tra le imprese di Filippo II di
Macedonia, in Rendiconti del R. Istituto Lombardo di Scienze e Lettere (nel seguito : R.I.L.S.L.),
Serie II, vol. XXXI, Milano , Tip. Bernardoni, 1898.
Sui limiti dell’insula allobrogica, Estratto dalla Rivista geografica Italiana, Firenze, Tip. Ricci,
1897.
Questioni concernenti la vita di Antipatro, Ariano, 1898.
A proposito di ‘Perché fu grande Venezia’ del prof. Lombroso, in ‘Esplorazione Commerciale’,
Milano, 1899.
Per le isole fluviali, in ‘Esplorazione commerciale’, Milano, 1899.
Spigolature folkloristiche sul calendario popolare dell’Italia meridionale, in ‘L’Universo’, Milano,
1899.
La Valle di Ansanto, in ‘Natura e Arte’, Milano, 1899.
La Repubblica Partenopea e i Napoletani del 1799, Milano,1899.
Ad un articolo glottologico del senatore prof. Ascoli illustrazione geografica, R.I.L.S.L., Rendiconti, serie II, vol. XXXII, Milano, Hoepli, 1900 [Ad un articolo glottologico del senatore
prof. Ascoli illustrazione geografica, Milano, Tip. Bernardoni, 1899 **].
Sul significato geografico del nome ‘Serra’ in Italia, R.I.L.S.L., serie II, vol. XXXIII, Milano,
1900.
Metodo e misura nelle ricerche di toponomastica, in Bollettino della società geografica italiana,
Fasc. 8°, Roma, Tip. Civelli, 1900.
Il castello di Ariano, Ariano, Stab. Tip. Appulo-Irpino, 1900.
Studi di geografia classica e di topografia storica, fascicolo III, Ariano, 1901.
Sul significato geografico del nome ‘Contra’ in Italia, R.I.L.S.L., Rendiconti, serie II, vol.
XXXIV, Milano, Bernardoni,1901.
Sulla frequenza e sulla distribuzione geografica dei comuni attuali d’Italia con nome derivato
dalla configurazione verticale del terreno (1° serie), in Bollettino della Società Geografica
Italiana, Fasc. 4°, Roma, 1901.
Sul cambiamento di nome dei comuni d’Italia, in ‘Rivista geografica italiana’, Firenze, 1901.
Alpi e valichi alpini nell’antichità, in ‘La Lettura’, Milano, 1901.
S. Ottone Frangipane nella storia e nella leggenda, Ariano, Stab. Tip. Appulo-Irpino, 1901.
Schizzo topografico della regione garganico-appula, in ‘La Capitanata’, Cerignola, 1902.
Saggio di toponomastica sacra sulla frequenza e sulla distribuzione geografica dei comuni attuali d’Italia con nomi derivati dalla religione e dal culto, in Atti del IV Congresso geografico
italiano, Milano, Bellini, 1902. [Sulla frequenza e sulla distribuzione geografica dei Comuni
attuali d’Italia con nome derivato dalla religione e dal culto (Saggio di Toponomastica sacra),
Milano, Bellini, 1901 **]
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Gabriele Grasso
3°
fascicolo [Studi di geografia classica e di topografia storica, 1901]:
• Uno dei passaggi di Annibale attraverso l’Appennino, a proposito di una variante liviana
• Il “Pauper aquae Daunus” oraziano
• Gli Strapellini di Plinio
• Sui limiti dell’insula allobrogica
• Per la sopravvivenza del nome sannitico specialmente in rapporto alla divisione compartimentale d’Italia
• Sul significato geografico del nome ‘Fratta o Fratte’ in Italia, anche a proposito della
battaglia di Metauro
4. Il metodo: a proposito di Aequum Tuticum e la pretesa antichità
di Ariano
Il metodo che sottende i lavori di Gabriele Grasso si ispira al massimo
rigore nel controllo delle fonti e all’uso di molteplici strumenti interpretativi
che convergono ad illuminare i quadri storici.
Il rigore della ricerca è visto come arma essenziale dello studioso per superare approssimazioni e colmare lacune passate. Collegata a tale visione del
lavoro dello storico, è la presenza nel Grasso della consapevolezza di alcuni
limiti della storiografia italiana, che egli vorrebbe veder giungere all’altezza
di quelle straniere, tedesca soprattutto:
“Recensendo egli il Dizionario di Geografia Antica dello Huges [sic] (21), dopo
averne lodata l’iniziativa e sollecitata meritata accoglienza, pur puntualizzando
molte lacune specie per quanto riguarda la regione sannito-irpina e rimproverandogli lo stesso errore in cui caddero il Niebuhr ed il Mommsen, auspicava:
‘Ce ne fossero molti in Italia di simili lavori… i quali ci facessero sentire più
da vicino i doveri ed i vincoli, che ci legano a questa parte nobilissima della
scienza geografica, preparandoci a non sentire il bisogno di ricorrere quasi
sempre agli studi d’oltralpi, e d’oltralpi ci risparmiassero il rimprovero, già
formulato diverse volte, di essere indotti dagli studi stranieri alla conoscenza
di casa nostra!’”. (22)
E’ interessante vedere all’opera il Grasso ed il suo metodo, in qualche
esemplificativo studio. Ci si soffermerà sulla Storia di Aequum Tuticum e
pretesa antichità di Ariano, che si situa all’inizio della pubblicistica del Grasso. Nella dedica iniziale a Enrico Cocchia e Achille Coen (23), l’autore scrive:
“Sarebbe stato più che necessario, è vero, aspettare che una maggiore maturità di pensiero ed una cultura meno ineguale mi avessero messo in grado di
13) Ivi, p. 129.
14) Cfr. Francesco Lo Parco, Due orazioni nuziali inedite di Aulo
Giano Parrasio. Nuovo contributo per la conoscenza dell’oratoria e
dell’ufficio degli oratori umanisti nel matrimonio dei secoli XV e XVI,
Messina, V. Muglia, 1906.
15) Entrambe le opere furono edite in Ariano, raccogliendo due
conferenze del Grasso nell’aula consiliare del municipio. Il volumetto sul
castello è stato ripubblicato, nel 1967 per l’editore Melito di Ariano e nel
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Gabriele Grasso
punto di vista geografico: da Nao <Tempio> a Nave, Milano, Tip. Rebeschini, 1909 **].
o Di un gruppo di nomi locali erroneamente riferiti a condizioni botaniche, ?, 1908.
o Crataeis Flumen, Torino, Loescher, 1908.
o A proposito della Biblioteca di geografia storica pubblicata sotto la direzione di G. Beloch,
Firenze, Tip. Ricci, 1908.
o Questioni topografiche e topologiche sull’estrema Calabria anche in difesa di “La Catona”,
Firenze, Tip. Ricci, 1908.
o Gli Skulakion oros di Appiano e l’itinerario di Ottaviano da Vibona a Tauromenio nel 718-36,
Rivista di Storia antica, Padova, 1908.
o Fretum Nostrum, (in Conferenze e Prolusioni n°6, anno II, vol. 2°, 1909); è la prolusione tenuta
il 3 novembre 1908 all’Università di Messina.
o Il Luburnon oros polibiano (3, 100, 2) e l’itinerario annibalico dal territorio dei Peligni al
territorio Larinate, Torino, Tip. Bona, ( 1908 ? ).
Aggiunte all’elenco
o Recensione al testo di Luigi Hugues, Dizionario di Geografia Antica, Torino, 1897 (cfr. infra,
p. 44).
o (AA. VV., tra cui Gabriele Grasso), Dai tempi antichi ai tempi moderni da Dante a Leopardi.
Raccolta di scritti critici, di ricerche storiche, filologiche e letterarie con facsimili e tavole. Per
le nozze di Michele Scherillo con Teresa Negri, Milano, Hoepli, 1904.(20) Relazioni sul Ginnasio di Ariano e curricula:
o Per il Ginnasio regio. Al Cav. Mariano De Furia, assessore per la pubblica istruzione, Ariano,
s.d. ,
o Relazione al Municipio di Ariano sull’andamento del Ginnasio comunale pareggiato Pietro
Paolo Parzanese nell’anno scolastico 1891-92, Ariano, Stab. Tip. Appulo-Irpino, 1892.**
o Concorso alle cattedre per straordinario di geografia 15 febbraio 1905: cenno analitico sulla
produzione scientifica, s. i., 1905. **
Dei seguenti volumi, i primi tre contengono una prefazione di Gabriele Grasso, l’ultimo è stato da
lui curato:
o Giovanni Ciccone, Scritti vari o ricordi di uno studente, con prefazione di Gabriele Grasso,
Ariano,Stab. Tip. Appulo-Irpino, 1893**
o Giovanni Ciccone, Scritti vari dell’avv. Giovanni Ciccone o I ricordi di uno studente, con prefazione del prof. Gabriele Grasso, Ariano,Stab. Tip. Appulo-Irpino, 1893 ** [Scritti vari di
Giovanni Ciccone, con prefazione di Gabriele Grasso, Ariano, Stab. Appulo-Irpino, 1892 **].
o Vincenzo Cuoco, I matrimoni dell’antico Sannio, A cura di Gabriele Grasso (per le nozze
D’Ovidio-Porena), Ariano, 1902.
Va ricordato, infine, che i tre fascicoli degli Studi (1893, 1896, 1901) contengono una serie di lavori, (alcuni dei quali precedentemente pubblicati a parte, prima di essere inseriti nei fascicoli). Per
completezza, riportiamo l’elenco di tali lavori:
1°
2°
fascicolo [Studi di storia antica e di topografia storica, 1893]:
• Sulle due Aquilonia, quella sannita e quella Irpina
• Sull’oppidulo oraziano
• Storia di Aequum Tuticum e pretesa antichità di Ariano
fascicolo [Studi di storia antica e di topografia storica, 1896]:
• Dal Danubio all’Eufrate ed all’Ofanto (nota su Traiano)
• Nuove osservazione alla parte sannitico-apulo della tavola Peutengeriana (contributo
alla storia dei movimenti di Annibale nel Sannio e nell’ Apulia)
1799, tenuta presso il Circolo degl’impiegati civili di Milano il 7 aprile
1799. Nel 1901 si segnala la sua partecipazione ai funerali di Giuseppe
Verdi.
12) Felice mazza, Nuovo Diario arianese, Avellino, 1995, p. 790.
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Gabriele Grasso
di contrasti che, insieme alla sciagurata amministrazione che si trascinava
dal Riscatto, segnarono profondamente la vita cittadina accompagnandone e
accentuandone la decadenza.
La pretesa antichità della città, insieme alla derivazione del nome dall’Ara
Jani, fu ereditata da Tommaso Vitale nella sua Storia, che, pure, vanta un
impianto metodologico decisamente superiore rispetto al seicentesco Catalogo
del Barberio (29).
Gabriele Grasso si muove nella direzione di superare criticamente e decisamente tali impostazioni e, col suo solito piglio deciso e poco incline ai compromessi, non manca di riferirsi alle opere degli storici che hanno accreditato
la versione ‘agiografica’ delle origini di Ariano.
Dopo una breve introduzione di carattere geostorico (30), Grasso entra ben
presto in tema passando in rassegna le fonti antiche che fanno riferimento ad
Aequum Tuticum, riconoscendo che si tratta di fonti limitatissime che rendono ardua una ricostruzione puntuale della realtà del sito e puntualizzando:
“Si aggiunga poi a questa scarsezza di testimonianze classiche l’impostura colla
quale, per un certo malinteso amor di campanile, si volle, tre o quattro secoli
fa, far di Ariano una città più antica dei popoli sannitici; e sarà molto se noi
riusciremo a fare un po’ di luce su questa pretesa antichità di Ariano e sulla
storia di Aequum Tuticum, cui si riconnette”. (31)
L’esame prende, quindi, la strada di un’attenta ricognizione intorno al
nome del sito, per giungere, poi agli aspetti più propriamente topografici e
storici. Qui, Grasso pone un distinguo: Aequum Tuticum non sarebbe stata
una città particolarmente importante,
“E’ ricordata anzi, perché, secondo l’espressione di Mommsen fu il cardine
delle vie dell’Italia meridionale; ma giusta l’iscrizione, che ancora si conserva
incisa in una grossa pietra, nella masseria di S. Eleuterio, ai Decurioni della
D’Ovidio “con la quale il venerato maestro lo definiva ‘valente torero’,
poiche ‘aveva tagliato recisamente la testa al toro’ nel risolvere l’annosa
questione relativa alla terza città del ‘corno d’Ausonia’, dimostrando che
la stessa era Catona e non Crotone” (Antonio D’Antuono, Introduzione
ad Alcune note, p. 5). Catona fu porto importante, presso Reggio; nel 1282
Carlo d’Angiò vi raccolse la sua flotta nel tentativo di riportare a sé la
Sicilia dopo il Vespro.
17) L’Anonimo Ravennate, quasi certamente un ecclesiastico, è l’autore di un’importante Cosmografia (inizio dell’VIII
secolo).
18) Una curiosa circostanza ripone tra gli scaffali della stessa biblioteca
berlinese anche il testo di Lo Parco che recava la dedica ‘matrimoniale’ a Gabriele
Grasso e Flora Errico.
19) Gli Strapellini sono menzionati unicamente da Plinio, in un luogo della
sua Storia Naturale (Naturalis Historia, III, 11,105) e restano sostanzialmente
un ‘oggetto’ sconosciuto, un popolo di cui poco o nulla si sa, se non –sulla scorta
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AEQVVM TVTICVM
Gabriele Grasso
offrirvi un lavoro meglio rispondente ai vostri chiari nomi; ma mi son fatto
vincere dalla lusinga, ve lo confesso, che questi lavoretti preparati sui banchi
universitari, sdoppiati ora, rifusi, ritoccati, fin che m’è stato consentito dalla
dimora in un modesto capoluogo di Circondario, vi possano far riandare con
piacere quei giorni, nei quali voi m’eravate guida amorosa e sicura negli studi,
che tentavo, con ardore giovanile, per la prima volta”.(24)
La nota di modestia non deve trarre in inganno più di tanto: il ventiseienne
Gabriele Grasso è ben sicuro di sé, tanto da cedere alla ‘lusinga’. E’ questa
sicurezza e la virulenza critica con cui assalta le posizioni che non condivide
a dar fastidio a molti e a determinare le accuse di superbia e di autocelebrazione, che troppo spesso, tuttavia, si fermano al dato epidermico e formale,
anziché penetrare nel merito delle questioni.
La Storia di Aequum Tuticum è importante per alcuni risultati che fanno
chiarezza intorno alla storia di Ariano: la distinzione tra Aequum Tuticum
ed Ariano (25), la sistemazione medievale dei natali della città e, infine, l’individuazione dell’origine del nome dal gentilizio eclanese Arrius. (26)
E’ bene chiarire lo stato delle cose. L’antichità della città di Ariano si
basava su uno scritto, la falsa autobiografia di S. Oto, che fu stilato nel
Cinquecento (al suo contenuto, tra l’altro, fanno riferimento sia Capozzi
che Scipione Agostino (27)) e successivamente ‘ritrovato’ agl’inizi del Seicento,
nel corso di lavori nella cattedrale. Il falso costituisce uno dei tasselli fondamentali per la ricostruzione storica della città che Fabio Barberio propone
nel suo Catalogo. Secondo il falso, le origini di Ariano sarebbero impresse
in una lapide scoperta dal conte normanno Giordano tra i resti d’un tempio
del dio Giano (28); fondata da 500 nobili (e relative consorti), la città risalirebbe a molti secoli prima della venuta di Cristo, e al III secolo a. C. la
ricostruzione del tempio operata da Quinto Babrio Cornelio. Le antichissime
origini della città erano così assicurate insieme all’etimologia del nome. Non
si tratta solo di una questione accademica. Il profluvio d’antichissima nobiltà
servì forse nel Cinquecento ad alzare i meriti della città, ma certamente fu
utilizzato, nel Seicento e dopo, non solo e non tanto a dar blasone alla città
in sé, quanto a fondare la nobiltà dei locali notabili, di quell’elite dirigente
che, priva di titoli ma aspirando ad esser nobile, volle trovare le basi dei
propri inesistenti vessilli nell’autorevolezza delle parole del Patrono. Non è
assolutamente un caso che, nei primi anni del secolo successivo, uno stuolo
di famiglie notabili pretenderà per sé soltanto le ascendenze nobili e - fondata su queste - l’esclusività del governo della città, inaugurando una stagione
2000 per l’editore Procaccini di Napoli, in entrambi i casi con presentazione di Nicola D’Antuono; infine nel 2003, in Ariano, con premessa di
Mario D’Antuono.
16) Dante (Paradiso, VIII, 62) fa riferimento alla località calabrese Catona, indicata come uno dei punti estremi del regno di Napoli
(insieme a Bari e Gaeta). Tuttavia non era unanime l’individuazione di
Catona, volendo alcuni che si trattasse di Crotone. Racconta Lo Parco
che il giorno che precedette il terribile evento sismico di Messina, come
si è già accennato, Gabriele Grasso ricevette una cartolina da Francesco
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Gabriele Grasso
tà rappresentano alcunché di solido su cui fondare le antiche origini: in un
lunghissimo excursus critico Grasso ripercorre il senso di tutte le iscrizioni
proposte, concludendo che i materiali lapidei non costituiscano prova dell’antichità della città sul Tricolle.
Infine, sulla questione dell’etimologia, dell’origine del nome Ariano, Grasso
ritiene destituita di fondamento l’ipotesi della derivazione da un’Ara Jani:
“Anzitutto noi non sapremmo immaginare come mai si potesse trovare un altare di Giano sui colli di Ariano, senza che esistesse la città. Chi ve l’avrebbe
rizzato? Quali sarebbero stati gli adoratori? Son note le ragioni che indussero i
conterranei a recarsi a sacrificare al nume bifronte lontano dalle loro borgate?
…
Inoltre è mai stato in vigore in quei luoghi il culto di Giano? … In tutta l’Italia
del Mezzogiorno, per quanto risulta dalle testimonianze epigrafiche, tale culto
non esiste… La colonna muta di granito, che, secondo Iannacchini, resta per
additare in quale parte dei colli arianesi fosse il tempio di Giano, non prova
nulla anch’essa. Sormontata da una croce, ci fa pensare a tempi cristiani”. (37)
Fa seguito un esame filologico teso a dimostrare l’inconsistenza dell’ipotesi. (38)
Infine, rifacendosi anche alle ricerche del Flechia, Grasso propone che Ariano
“non può esser derivato che da Arius, Arianum, Arrius, Arrianum, ed anche
da Herius, Herrianum; ma non mica ammettendo che un personaggio solo si
sia messo di proposito a fondarla o le abbia dato il suo nome. Un Fundus
Arrianus è nella tavola di Velleja e sette altri luoghi omonimi nell’Italia media e superiore, come non è niente improbabile che, per la presenza di molte
persone di nome Arius nella vicina Aeclanum, vi sia potuto essere un fundus
arianus sui colli arianesi, in modo che costruendovi delle case, si sia potuto
dar luogo ad un villaggio e ad una città Ariano”. (39)
Il lungo percorso va osservato non solo per gli approdi precedentemente evidenziati, ma per cogliere le modalità dell’approccio ad un tema che
Grasso riteneva tanto importante quanto controverso: dalla geografia, che
inizialmente introduce il quadro ambientale e poi si fonde con la topografia
storica, all’esame delle fonti scritte ed epigrafiche, con tutto l’armamentario
che deriva dalla padronanza delle lingue classiche; dall’inserimento di fatti,
vicende, reperti nella cornice storica, al confronto con le tesi di altri storici:
l’intero arsenale dello studioso si dispiega nel cercar risposte certe, o meno
incerte di quelle che rigetta.
Sono presenti, nel testo, alcune imprecisioni (40) e forzature (41), che, tuttavia, non ne pregiudicano il valore complessivo. In ogni caso, le pagine di
Grasso resteranno, negli anni successivi, un passaggio obbligato per quanti
affronteranno il problema di Aequum Tuticum; sarà il caso, per esempio, di
Domenico Petroccia (42) e di Nicola D’Antuono (43), che, pure, valuteranno in
maniera differente il lavoro del Grasso: con note critiche il primo, con un
giudizio positivo il secondo. Siamo, insomma, dinanzi ad un’opera che con-
2, 1977, Ariano, p. 24. Luigi Hugues (Casale Monferrato, 1836 – 1913)
dal 1897 insegnò Geografia presso la facoltà di Lettere dell’Università di
Torino. Il Dizionario di Geografia Antica fu edito da Loescher (Torino)
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AEQVVM TVTICVM
Gabriele Grasso
colonia beneventana spettava il diritto di disporre delle cose equotuticane”. (32)
Poca rilevanza urbana, dunque, e molta come nodo stradale. Grasso insiste
sulla povertà delle testimonianze intrecciandola con la ‘pochezza’ del sito:
“Se ne togli la grossa e bellissima pietra di C. Ennio… e un paio di pietre
sepolcrali, che fanno da sostegno in uno di quei fabbricati, se ne togli la loquacità di quei semplici contadini, che pretendono avvalorare le loro cognizioni
storiche e topografiche, mostrandovi qualche grosso mattone e qualche antica
moneta, non hai da ammirare se non la fertilità dei campi e la cortesia dei
buoni massari”. (33)
E ancora, sulla povertà dei reperti:
“La poca importanza di Aequum Tuticum come città, il passaggio persistente
dell’aratro, il desiderio degli Arianesi nei tempi passati di arricchire la loro
città di pietre del tempo romano spiegano questo fatto”.
Spiegato il declino di Aequum Tuticum attraverso la decadenza dell’impero
e il disfacimento della viabilità romana, che dovettero lentamente ma inesorabilmente trascinare con sé anche i centri che ad essa affidavano le proprie
fortune, Grasso sottolinea la continuità storica fra il centro sannitico-romano
e il casale di S. Eleuterio. Egli coglie le ragioni del cambio toponomastico
nell’esistenza di un S. Eleuterio vescovo di Aequum Tuticum (34); propone inoltre
una linea ricostruttiva delle vicende del casale autonoma e ben distinta dalla
storia di Ariano, confluendo quella in questa solo nel XIV secolo, allorquando
“cittadini del villaggio ex-equotuticano vanno ad aumentare la popolazione
arianese”, trovando sul Tricolle “rifugio e sicurezza”. (35)
Tenute distinte le due entità di Aequum Tuticum-S. Eleuterio ed Ariano,
Grasso ritiene che vengano così “a mancare i maggiori e più forti puntelli
a tutte le pretensioni più o meno strane, che vorrebbero fare di Ariano una
città del tempo romano”. (36)
Né le iscrizioni romane riferite dal Vitale e addotte a prova della romanidella menzione pliniana- che abitasse una qualche zona dell’entroterra dauno,
nella regione augustea Apulia; con l’enigma si cimentò, senza però scioglierlo,
il Grasso.
20) Il testo di circa 800 pagine è costituito da 71 ‘contributi’ di autori diversi, tra i quali Schipa, Ricchieri, Porena,
oltre al Grasso. Michele Scherillo (Soccavo, 1860 – Milano, 1930) era, all’epoca, professore ordinario di Letteratura italiana, presso l’Accademia scientifico letteraria di Milano, di cui diventerà preside; sarà senatore dal 1923.
Teresa era figlia di Gaetano Negri, sindaco di Milano dal 1884 al 1889, senatore, studioso dagli svariati interessi.
Gaetano Negri era stato nel Mezzogiorno, militare, al tempo del brigantaggio. Tra il 1861 e il 1862 lo ritroviamo in
Ariano, che, nelle lettere, non tratta certo in modo lusinghiero; a titolo d’esempio, scrive il primo febbraio 1862:
“Fra tutti i divertimenti che abbiamo in questo paese bisogna annoverare le incessanti questioni col Municipio,
il quale, avendo il debito di fornire l’alloggio agli ufficiali, onde non gravare gli abitanti, pretenderebbe che di
tre giorni in tre giorni si dovesse mutare di casa. Si può essere più imbecilli? Io mi sono collocato in una locanda
ed altamente protestato che non mi sarei mosso. Di qui liti e questioni interminabili. Il mio povero locandiere
si dispera perché nessuno lo paga, e il sindaco non ne vuol sapere; fra i due litiganti il terzo gode, e finirò col
pagar io. Ma domani mi recherò dal sindaco, e voglio sfogarmi, e gli dirò una quantità di insolenze, che ho già
sulla punta della lingua”( Gaetano Negri, Alla caccia dei briganti, Salerno, 2000, p. 69).
21) Huges.
22) Si tratta di Hugues, per l’evidente errore di stampa mutato in
Giovanni Pratola, Il Prof. Gabriele Grasso,
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in
Ara Jani, n.
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Gabriele Grasso
sarebbe dire la relega, in un universo ‘celeste’ dove i contrasti e le fratture
della società spariscono e si sublimano in dotte disquisizioni, talora accanite
e finanche aspre, sui ‘massimi sistemi’, o su dispute, comunque interne a
quel recinto, che spesso sono il riflesso di contrasti di carattere ‘politico’ che
percorrono gli ambiti dei gruppi dirigenti. Non sono lontani i tempi in cui
Parzanese cantava dell’universo dei poveri, ma evidentemente egli è davvero
un personaggio del tutto particolare e atipico, se riuscì a strappare la propria
poetica ai ‘canoni bizantini’ per farne lo specchio d’un mondo che in genere
era fuori della cultura e doveva essere rimosso e ignorato.
L’avvio del Novecento vide in città una discontinuità rilevante, che si
concretizzò nell’elezione a sindaco di Antonio Maresca, operaio, che resterà
alla guida dell’amministrazione dal novembre 1901 al maggio 1902 (44). Nello
stesso tempo si affermava Oreste Franza nelle file socialiste e proliferavano
numerosissimi fogli, che attestavano quantomeno un fermento culturale e
sociale. Che poi questi segni rappresentino processi profondi e rimettano in
discussione i vecchi schemi, è cosa che va compiutamente verificata.
Le tracce di tali fermenti - che, ripetiamo, meritano un esame attento
che qui non è possibile neanche abbozzare - sembrano assenti nell’attività
di Gabriele Grasso, che comunque passò gran parte del suo tempo lontano
dal Tricolle. L’uomo e l’opera si segnalano, invece, per alcuni tratti non
canonici. L’estrazione sociale esterna alla cerchia elitaria inciderà non poco
sulle vicende dell’uomo e dello studioso; il peccato originale impone, infatti,
un tributo da scontare sia nella vita privata che in quella culturale. Della
prima s’è detto. In quanto alla seconda, l’approdare del Grasso a posizioni di
rilievo nel panorama culturale della città - e non solo - nonostante le origini,
richiede sicuramente la forza d’animo di chi, in fondo, è determinato e ben
consapevole delle proprie convinzioni e capacità. E’ forse qui il nocciolo di
quell’‘indisponenza’ che lo conduce talora ad un fermo rigetto dei diplomatici
confronti, ma che non può essere né isolata, né valutata con chiavi di lettura
a senso unico; in realtà molte ‘avversioni’ al Grasso, soprattutto locali, nascevano dalle stesse modalità con cui spesso si sviluppava il dibattito culturale
dell’epoca, percorso fors’anche da invidie ed intolleranze; la presenza di
posizioni forti e decisamente difese non poteva che sollecitare accuse.
Di certo questo abbozzo si limita a raccogliere quanto emerge dalle opere
e quanto è dato riscontrare in qualche vicenda pubblica; riferimenti meno
legati agli eventi e molto più alla vivida memoria ne danno tratti più vivi e
diversi, come quello offerto da Giovanni Pratola:
“Garbato e distinto, gentile e di nobile portamento, sapeva accostarsi agli
umili come ai grandi coi quali intesseva legami ed amicizie solo nell’interesse
della scienza; nel portamento una punta di orgoglio e di schietta vigoria”. (45)
Se è vano cercare nell’opera di Gabriele Grasso la presenza di oggetti
popolari, si ritrovano, in alcune delle sue pagine, gli esempi di quelle critiche impietose che, una volta assolutizzate, diventeranno le basi sulle quali si
23) Grasso li aveva avuti suoi professori a Napoli e a Firenze: Enrico Cocchia (1859-1930) era docente di Letteratura latina all’Università
di Napoli, Achille Coen (1844-1921) professore di Storia antica presso
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AEQVVM TVTICVM
Gabriele Grasso
serva nel tempo un valore che oltrepassa di gran lunga quello di ‘reperto’
storiografico.
5. Contesti e polemiche
Il contesto culturale arianese del secondo Ottocento discende da condizioni
sociali da cui è impossibile prescindere.
Il diffuso analfabetismo, ben poco scalfito dalle misure poste in essere
dalle autorità del tempo, crea, per le classi subalterne, il permanere di condizioni non troppo lontane da quelle d’un secolo prima. La gran parte della
popolazione è in uno stato di completa estraneità, di impossibilità di accesso
e di fruizione rispetto all’universo culturale. Tale stato è il corrispettivo
della situazione sociale, che, oltretutto, conosce ancora ben poche occasioni
di ‘promozione’, di mobilità verticale, immobilizzando le classi subalterne,
specialmente della campagna, nella sottomissione.
La cultura locale si presenta dunque innanzitutto un territorio appannaggio delle classi alte della città, senza escludere che talora possa aspirare ad
entrarvi qualche esponente delle classi intermedie, di famiglie che, magari con
sacrificio, indirizzano e mantengono un figlio agli studi. Quest’appartenenza di
classe distacca con un taglio deciso la cultura dalla società, la innalza, meglio
Una cartolina di Gabriele Grasso,
con la carta della regione ‘sannitica’,
a Francesco Lo Parco
(Archivio di Emilio Chianca)
nel 1897.
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Gabriele Grasso
definitivi. Si può, in conclusione, ritenere che il dibattito culturale mieloso, i
falsi riconoscimenti diplomatici e il dire a metà, non rientrassero nello stile
del Grasso. Di qui la durezza di alcuni giudizi, ma anche, crediamo, una
nota non piccola di autenticità.
Fuori del contesto ‘critico’, Grasso si ritrovò nelle polemiche in occasione
della realizzazione dei monumenti a De Sanctis e Mancini (51). Qui fu la sua
iniziativa a suscitare contrasti che ebbero non poche ripercussioni in città
e determinarono giudizi non lusinghieri da parte di molti. S’intrecciarono
differenti livelli e motivazioni a formare contese d’ogni sorta.
Gabriele Grasso avviò una sottoscrizione per erigere dei monumenti a
Parzanese (nel cinquantenario della morte), a Mancini e a De Sanctis. Successivamente, operò per gli ultimi due monumenti, di fatto rimandando quello
a Parzanese: fu questa la circostanza che suscitò non poche recriminazioni e
accuse. Divenne motivo di contesa finanche il luogo in cui riporre i busti dei
due personaggi, propendendo Oreste Franza a sistemare nel tribunale quello
di Mancini e al palazzo Bevere o sotto il campanile quello di De Sanctis,
mentre al contrario Gabriele Grasso concordava con la proposta del professor Schiavo di collocarli sulla facciata del municipio, come infine avvenne (52).
Ulteriori malumori suscitò la circostanza che le scritte sulle lapidi sottostanti
i busti fossero di Errico Cocchia, ritenuto dagli avversari un difensore della
camorra. Il sindaco De Miranda, nel turbinare delle contrapposizioni, si defilò
da ogni atto ufficiale. In sostanza, alla fine, le lamentele si concentrarono tutte
sul Grasso, fondendosi nell’aspra accusa di aver trascurato il monumento al
Parzanese, peraltro unico, fra i tre personaggi iniziali, ad essere arianese.
Non fu insensibile Gabriele Grasso alle dure critiche che gli piovvero addosso,
e più d’un atto mostra come tentasse di sottrarvisi. In sede di bilancio, nel
volume che raccolse i materiali relativi all’inaugurazione, Grasso motivò la
sua iniziativa legando il valore dei due personaggi ai ricordi che ne aveva (la
chiusa d’un comizio nel 1882 da parte di Mancini in Ariano e la visita che
fece alla salma di De Sanctis nel 1888):
“L’un ricordo e l’altro rimasero talmente impressi nell’animo mio che da
quelle impressioni ho saputo attingere forza ed ardire, per farmi promotore
in Ariano - io semplice cittadino, che dalla mia città vivo lontano dieci mesi
dello scritto del Grasso), distingueva parimenti le linee storiche delle due
località (cfr. Storia della città di Ariano, cit., soprattutto alle pp. 114 e
seguenti e 200). Lo studio del Grasso s’impone tuttavia per l’ampiezza e
per il ricorso circostanziato a fonti scritte ed epigrafiche.
26) Quest’ultima ipotesi è ancora oggi tra le più accreditate, insieme
a quella d’una derivazione dal tardo latino ayrale, ayriale (e simili) col
significato di luogo incolto, proposta da Stanislao Scapati (cfr. Ariano, in
I Dauni-Irpini, Napoli, 1990, p. 85).
27)
Si tratta dei primi storici arianesi, già ricordati, abate il primo,
notaio il secondo. Entrambi conoscevano il testo attribuito a S. Oto. La
falsa autobiografia contiene alcune ‘profezie’ che si arrestano alla metà
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AEQVVM TVTICVM
Gabriele Grasso
costruirà il ritratto del Grasso insofferente d’ogni pacato confronto.
Vanno esaminati, questi attacchi del Grasso, se non altro per coglierne
la sostanza effettiva. E’ bene cominciare con la valutazione che egli fece
della ponderosa opera di Iannacchini sull’Irpinia antica. Gabriele Grasso, in
pratica, la stronca fin dall’apparire del primo volume, che, semplicemente
lo delude; in crescendo, il secondo gli appare dominato da “confusione… ed
errori grossolani”. (46) La negatività della critica non s’affievolisce col tempo:
nel Cenno sulla questione delle Aquilonie - e siamo al 1893 - Grasso ritorna
sulla Topografia di Iannacchini:
“Di quest’opera io ho dato giudizi severissimi nei giornali settimanali della
provincia di Avellino, quando ero studente all’Università napoletana; ed ora
non ho mutato parere. Avrei solamente maggiore riguardo per un laborioso
prete di villaggio, che ha speso molto ed ha molto lavorato, quantunque non
abbia preparazione sufficiente a tali studi”. (47)
Le critiche di Grasso non sono in realtà diverse da quelle che, in generale,
suscitò l’opera di Iannacchini, andando al nocciolo dell’impianto metodologico, e rilevandone i limiti nell’esame insufficiente delle fonti e nell’utilizzo
acritico di materiali di seconda mano. Ciò che caratterizza il Grasso - allora
giovanissimo - è la mancanza di ‘diplomazia’: bruciano i suoi ‘affondo’ senza
mezze misure. Caratteristica che ricompare in altri luoghi delle sue opere,
ma che è sempre accompagnata da evidenti e circostanziati esami critici, che
rappresentano la sostanza della critica.
A proposito della figura di S. Ottone, della storia e della leggenda intorno alla presunta autobiografia, non se la cava bene, agli occhi del Grasso,
Andrea d’Agostino, autore di un fascicoletto sul patrono (48):
“L’opuscoletto di Monsignor D’Agostino non ha pretenzione storica, e non
vuole essere che una popolare biografia di divulgazione e di devozione”. (49)
Ancor peggio finisce il vescovo Potenza:
“…neanche molta fede e rigore di metodo riconosceremo nella biografia di
S. Ottone dell’Abate Potenza, stampata a Roma nel 1780. Nessuna ricerca
originale, nessuna conclusione alla quale non fossero già venuti i Bollandisti,
nessuna notizia concernente l’uomo più che il Santo”. (50)
Appare evidente che per Grasso non si possa accordare riconoscimento di
lavoro storico ad opere che nulla aggiungono a quanto si sa (ricadendo tutt’al
più esse nell’ambito della ripetizione o della divulgazione) e meno che mai a
quelle che non sono rette da un metodo sicuro. Occorre, tuttavia, chiedersi
se la cruda chiarezza del Grasso è poi davvero quel difetto profondo che si
vorrebbe, e quanto possa essere prevenuto chi solo su di essa costruisce giudizi
l’Istituto di Studi Superiori di Firenze. 24) Gabriele Grasso, Studi di Storia antica e di topografia storica, Ariano, 1893, p. 1-2.
25) Nicola Flammia, nella sua storia del 1893 (lo stesso anno
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Gabriele Grasso
quelli su cui ci si possa fare un’opinione su due piedi”. (56)
E, a proposito della disposizione ‘onnivora’ del Grasso nei confronti della
ricerca, è utile un giudizio di Ruggiero Bonghi, che risale al 1893:
“Merita già lode per non essersi addormentato, come molti sogliono, nell’insegnamento, ma ha teso ad arricchire la propria cultura”. (57)
L’energia e la vitalità, quindi, sembrano essere parte costitutiva dell’animo
dello studioso ed è in questa luce che si ridimensionano anche le critiche a
cui si è fatto cenno.
6. Bilanci e prospettive
Le opere di Gabriele Grasso sono disperse in biblioteche pubbliche e private e la circostanza rende difficile, al momento e in mancanza di iniziative
specificamente finalizzate, ricostruire con compiutezza critica il lascito dello
studioso.
La carenza, a cent’anni dalla morte del Grasso, potrebbe assumere il
significato di un bilancio critico ormai concluso. In genere, la mancanza di
ripubblicazioni, l’assenza di una ricerca bio-bibliografica che possa far da
riferimento allo studio del personaggio e dell’opera, la mancanza fisica di un
luogo in cui siano classificate, reperibili, e consultabili le opere, sono elementi
che inducono alla conclusione che l’autore di cui si parla non abbia importanza
eccessiva. Tuttavia, il caso di Gabriele Grasso assume una luce diversa, se si
considera la sorte critica di altri personaggi della cultura novecentesca locale.
Senza troppo dilungarci in esempi, ricordiamo il nome di Aurelio Covotti; lo
studioso arianese di maggior prestigio dello scorso secolo è stato richiamato
alla visibilità grazie ad alcuni lavori di Antonio D’Antuono che, nel deserto
di iniziative e, anche in questo caso, di ristampe e di reperibilità delle opere,
rappresentano un’eccezione ed hanno posto le basi per auspicabili seguiti.
Se, dunque, l’oblio di Gabriele Grasso s’accompagna a quello di Covotti e
dei tanti altri che è inutile qui ricordare, può ben darsi che le ragioni della
dimenticanza non risiedano nella levatura dei personaggi, ma in una specie
di propensione a cancellare la memoria storica, e quindi anche culturale,
invalsa in chi, invece, dovrebbe tener saldo il filo della storia locale. E’ in
questo senso che, nel 1967, Nicola D’Antuono, a proposito dell’oblio in cui
era caduta la figura di Gabriele Grasso, parlava dell’ “incuria di chi avrebbe
dovuto curare, per il passato, il patrimonio culturale della nostra città”. (58) Il passato a cui si riferiva Nicola D’Antuono nel 1967 è terribilmente simile
al tempo che lo ha seguito. Quel patrimonio culturale è andato ormai in gran
Cesare Rossi (Capitolari ovvero statuti del Reverendissimo Capitolo della
cattedrale d’Ariano dell’anno 1736, Benevento, 1737, p. 149 e segg.) Ottaviano Passero occupa il 12° posto nella serie degli arcidiaconi (p. 150).
28) E’ scritto nella falsa autobiografia: “Dopo qualche tempo vidi
il conte [Giordano] occupato, insieme agli anziani del popolo, a scavare
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AEQVVM TVTICVM
Gabriele Grasso
l’anno - di feste commemorative, che avessero eco vivissime in tutta la nazione.
Ed ora, con la grata soddisfazione di un dovere compiuto, che è stato anche
un opportuno richiamo della modesta vita cittadina nostra alle più alte idealità
del vivere civile, io rinnovo l’augurio fervido e sentito ai busti di Mancini e di
De Sanctis, dall’alto dei nostri colli arianesi, abbiano a riuscire come due genii
tutelari nella vita amministrativa e politica delle memori cittadinanze irpine”. (53)
Non c’è riferimento al monumento a Parzanese, ma le motivazioni addotte per i due monumenti realizzati sembrano assumere quasi il valore di
giustificazione.
E’ probabile che il suo concentrarsi su due personaggi come Mancini e De
Sanctis celasse l’intento di catalizzare le attenzioni su Ariano, come suggerisce
Gaetano Grasso (54) non senza fondamento. Infatti, non è possibile dubitare
dell’affetto del Grasso per la sua terra, che traspare evidente qua e là nelle
sue pagine e che si rafforzò anche a causa del suo lunghissimo permanere
lontano da essa. E’ dato anche ipotizzare che il legame con Ariano e l’Irpinia
andasse oltre la sfera dei sentimenti e si collegasse ad una valutazione più
generale della condizione del Mezzogiorno nell’ambito nazionale. Sebbene non
esista, allo stato, una ricerca in tal senso, è possibile far riferimento almeno
a qualche indizio. Scrive Gaetano Grasso:
“In occasione del Congresso dei Comuni che si svolse a Salerno, nonostante i
contrasti profondissimi che aveva avuto con Oreste Franza, [Gabriele Grasso]
non aveva difficoltà a scrivergli da Messina: “caro Oreste, che l’ordine del
giorno approvato dai rappresentanti di 1800 comuni sia stato proposto dal
Sindaco della mia città natale è per me motivo di sentito compiacimento. E’
la prima volta che il Mezzogiorno fa sentire la sua voce, ed io che ho girato
l’Italia in lungo e in largo, so e sento che nessuna voce è più giusta. Saluti.
L’amico Gabriele Grasso”. (55)
La missiva con l’interessante riferimento al Mezzogiorno, si segnala anche
per il tono amichevole, nonostante le pregresse monumentali polemiche.
In conclusione, i contrasti che si verificano esternamente all’attività culturale, comunque di natura profondamente diversa (matrimonio, monumenti)
vanno separati da quelli che si alzano dalle pagine. I secondi, che comunque
è impossibile generalizzare ritrovandosi in alcuni luoghi specifici delle opere,
non possono in alcun modo esser presi a pretesto per sminuire la portata
del ricercatore.
Non è un caso che chi si sofferma sul carattere, sulla virulenza della
penna, dimentica di affrontare la questione decisiva, che è quella del valore
dell’opera dello studioso. D’altronde, proprio parlando della forza con cui
Grasso difende le sue tesi, Reinach scrive:
“Grasso difende la sua tesi con molta energia ed erudizione… gli argomenti
che egli dibatte nei confronti di Kiepert, Mommsen, Desiardins, non sono di
del Cinquecento, consentendo così di risalire alla data di effettiva compilazione. Essa fu quasi certamente opera del canonico arcidiacono della
cattedrale e vicario del vescovo Diomede Carafa, Ottaviano Passero (Cfr.
nota 21 di Stanislao Scapati in Fabio Barberio, Catalogus Episcoporum
Ariani, cit., p. 8). Nel repertorio dei canonici della cattedrale proposto da
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Gabriele Grasso
studioso una dimensione che, in Ariano, fu colpevolmente sottovalutata nei
decenni successivi al 1908.
Da quegli anni lontani, la memoria del Grasso andò impallidendo e fino
agli anni ’60 non si ebbero ristampe dei suoi lavori.
Oggi, è forse possibile riprendere la questione della ‘riproposizione’ del
Grasso. La ricorrenza del centenario della morte è un’occasione per promuovere
delle iniziative che riconsegnino definitivamente lo storico alla piena visibilità.
Una catalogazione del corpus delle opere, la loro concentrazione nella biblioteca del Museo Civico della città (recuperando i testi posseduti dai privati,
ricorrendo eventualmente a fotocopie, e quelli che si trovano dispersi nelle
biblioteche di mezza Italia), un’edizione critica delle opere più importanti,
sarebbero dei segni non solo concreti ma in grado di durare nel tempo e
porsi come riferimento per ogni eventuale successiva ricerca. Altre iniziative
(convegni, mostre…) potrebbero ulteriormente illuminare la ricorrenza. Il
problema, tuttavia, non è tanto quello delle proposte e della precedenza da
accordare all’una o all’altra, ma di far sì che il centenario della morte non
passi lasciando meno ancora di quello della nascita. Che non si trasformi la
ricorrenza in un’occasione perduta. Sarebbe una defezione che impedirebbe la
predisposizione di quei pochi strumenti, oggi inesistenti, atti a riannodare la
storia e a predisporre la fruizione del lascito dello studioso. Un lascito ricco,
differenziato, con una parte importante ancora viva e parlante.
Una riproposizione dei testi avrebbe le sue ragioni non soltanto nel loro
intrinseco valore, bensì nello spessore storico degli scritti del Grasso, in quella
profondità - presente nelle pagine sui trascorsi della fortezza che domina la città
o in quelle su Aequum Tuticum- fatta di grandi stratificazioni di conoscenze e
di strumenti, di documentazione e di critica delle fonti; una profondità che
è lezione per l’oggi, appiattito nella cronaca d’un presente preteso sempre
epocale e nel disconoscimento del passato, divenendo sempre più tenue la
consapevolezza dei fili che ad esso ci legano.
L’anno della morte del Grasso fu quello delle contrastate elezioni del 1908,
che videro la vittoria - o conferma - del ‘blocco popolare’ socialisteggiante,
guidato da Oreste Franza, su quello moderato (62). Le autorità rinviarono per
motivi di ‘ordine pubblico’ l’appuntamento elettorale, ma, nella tornata che
infine si svolse, Oreste Franza riprese il posto di sindaco, dopo una parentesi commissariale che aveva fatto seguito alla caduta della sua precedente
amministrazione. La città appariva percorsa dai contrasti che nascevano
dall’opposizione dei due schieramenti. A cent’anni da allora, è alle prese con
annosi e ben differenti problemi: a noi piacerebbe sapere - con una curiosità
purtroppo inappagabile - quanto lo studioso, che, a proposito del castello, non
esitò a denunciarne il degrado, scriverebbe oggi non solo e non tanto sullo
stato del maniero assediato da imponenti quanto deleteri lavori di restauro,
ma sull’allungarsi, nel territorio che tanto amò e che fu al centro delle sue
ricerche, delle violente e monnezzifere (o purgamentifere?) ombre dei celerini
sui tracciati dell’antica via Herculia (63).
Appagare quella curiosità è impossibile, ma la storia, di cui Grasso fu maestro, può aiutare a capire: di certo questo presente, tanto difficile e talora
inestricabile, può almeno diventare più comprensibile se non si rinunzia a
collegarlo al passato di Gabriele Grasso e a quel passato che Gabriele Grasso
pio di quel dio pagano o demone… In otto giorni di lavoro trovarono una
statua bifronte di Giano rotta in dieci o dodici pezzi, un’ara, le colonne e
i resti d’un tempio non spregevole; tra le altre cose, anche una lapide di
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AEQVVM TVTICVM
Gabriele Grasso
parte distrutto per quel che concerne l’assetto urbano e le emergenze monumentali, spazzate vie dalla corrosiva foga distruttiva che ha ridotto il centro
storico ad una congerie, senz’aggettivi, di vecchio e nuovo, di sventramenti
e slarghi, di vetro acciaio e cemento, con i fossi riempiti di lapidi, ossa e
pietre tombali, portali e laterizi delle antiche fabbriche; è stato oltraggiato
per quel che riguarda i quadri ambientali e territoriali (che sono anche storia e cultura) con quartieri debordanti per chilometri senza respiro e senza
criterio alcuno, traffico e distanze impossibili, dissesti franosi, territori dalla
storia millenaria degradati a immondezzai, con la cancellazione di riferimenti, impianti secolari, antiche percorrenze e, infine, con il deterioramento, di
quelle condizioni ambientali che una volta si celebravano ed oggi inducono
alla ricerca di maggiori tutele per la salute. Il tutto in cambio d’un po’ di
denaro (per chi?) e grazie ad una dose molto alta di meschinità.
Per quale motivo si sarebbe dovuto salvare dallo scempio il patrimonio
culturale costituito dagli uomini del passato e dalle loro opere? Anzi, è qui
che si è inaugurato l’andazzo, con l’esercizio dell’elisione, della dispersione,
delle bancarelle elevate a luogo d’archivio di carteggi, testi, documenti!
Nella delineazione della sorte critica di Gabriele Grasso a cent’anni dalla
morte, bisogna dunque tener conto del contesto appena descritto, contesto
preoccupante, se si pensa che il prossimo anno è quello del bicentenario della
morte di Tommaso Vitale.
Ai gravi elementi ‘generali’ altri se ne aggiungono di specifici. Quella di
Gabriele Grasso non fu una figura ‘comoda’. L’abbiamo vista percorrere il
poco tempo che trascorse in Ariano tra contrasti e polemiche non tenui, e
non ci riferiamo qui allo studioso. Le code dei rancori ebbero certamente un
ruolo nella dimenticanza che seguì immediatamente la tragica fine; gli attestati post mortem si ebbero, numerosissimi, lontano da Ariano piuttosto che
in città. Francesco Lo Parco dedicò allo scomparso un articolo, pubblicato
sul Giornale d’Italia del 20 febbraio 1909, ma non si ha notizia di alcuna
ufficiale commemorazione, né di interventi che recuperassero e tenessero
viva in una prospettiva critica lo studioso e le sue opere. Perfino le proposte
perché gli fosse intitolato un vicolo restarono senza esito: il sindaco Oreste
Franza rimandò ogni decisione alla programmata commemorazione ufficiale,
che mai si tenne; nella sua assenza affogò ogni altra possibile iniziativa. In
tal modo, lo scivolare del tempo ebbe facile gioco a porre una densa nebbia
sulla memoria storica e critica del personaggio. (59) Eppure, Gabriele Grasso aveva conseguito, in vita, riconoscimenti e stima
negli ambienti culturali italiani e stranieri.
Gli attestati sono numerosi e danno certezza che nei primi anni del Novecento lo studioso arianese avesse consolidato una ‘posizione culturale’ di
prestigio (60), riconosciuta dalle massime personalità del tempo, tanto che
Bruzzo poté scrivere a titolo di memoria che “in Italia e fuori già si era
acquistata fama di uomo colto e valoroso”. (61) I riconoscimenti danno allo
con l’aiuto degli operai sull’altura che si trova nella parte in cui d’estate
sorge il sole, all’estremità della città verso settentrione, nel luogo dagli
abitanti deputato al culto di Giano. Volevano dissotterrare il resto del temAEQVVM TVTICVM
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La cessione del demanio
La cessione del demanio
di Tonino Alterio
“Lungi i Decurioni ed Amministratori di corrispondere alle benefiche paterne
intenzioni di S.M., e di fornire questa Intendenza con pari sollecitudine e
zelo di tutte le notizie relative a quest’oggetto, essi non ne hanno che al solito trascurato l’adempimento, e con pertinace silenzio han palesato la poca
voglia che avevano di secondare il pubblico bene”. (8)
Fu costretto ad intervenire con decisione “non ammettendo più dubbio
sulla svogliatezza de’ funzionari Comunali” ed invitò gli “Amministratori e
Decurioni de’ due Distretti di Montefusco, e Ariano, ponendo da banda ogni
altra benché minima dilazione”, a comunicare entro sei giorni il certificato
relativo alla consistenza dei terreni demaniali.
Si trattava di rispettare una legge, ma, come ebbe a scrivere sempre Mazas, occorreva assecondare un desiderio del Re che “ha inculcato con ordini
pressanti la ripartizione de’ Demani, affinché i Popoli veggano quanto l’è a
cuore di sollevarli, e di renderli sempre più felici”. (9)
Che si rendesse necessario un intervento “onde sbandire la miseria dal
Regno” si desume chiaramente da una relazione inviata alla Real Società Economica da un socio (10) il quale evidenziò “Li poveri colla mercede giornaliera,
tenue e non continua, non possono tirar avanti”. E ciò perché “il Bracciale
non sempre trova da travagliare; e tolti 60 giorni festivi; e circa altri 40, di
tempo cattivo; non può lucrare più di 15, in 16 docati in ogni anno; senza
computare le malattie”.
Il relatore suggeriva, come rimedio, di distribuire i terreni disponibili o
quelli da sottrarre agli ecclesiastici affinchè il Re potesse “ripetere con Arrigo
IV, Monarca della Spagna: voglio che li miei Cittadini possano mettere nel
pignatto un gallina in ogni Domenica”.
Per quanto poi riguardava la mancanza di capitali proponeva che si intervenisse con i Monti frumentari ed in mancanza “a carico dei principali
Proprietarii o piuttosto a carico dei Vescovi”.
G
Ad Ariano, composta da una popolazione complessiva di 12000 abitanti, i
demani comunali disponibili erano Castello, Pastino, Pignatale, Stolfo, Macchia
de’ Corvi, Serra, Difesella, Bosco, Spuntapede e Salsa, Saliceto, Canneto,
Montarozzi e Cerreto per una superficie complessiva di 2321 tomoli. (11) Il
valore complessivo dei terreni era stabilito a ducati 25546.42; le singole quote
1) AA.VV. “Il nuovo regime e le grandi riforme” in “Il Mezzogiorno agli inizi dell’800”, pp. 188 e segg. Bari 1992. Il rapporto portava
la data del 20 aprile 1812.
2) Ivi pp. 203-204
3)Ivi p. 200
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La cessione del demanio
iuseppe Zurlo nel suo “Rapporto sullo stato del Regno di Napoli
per gli anni 1810, 1811 al Re nel Suo Consiglio di Stato dal Ministro
dell’Interno” (1), dopo avere analizzato i vari problemi affrontati per
la effettiva applicazione delle leggi sulla soppressione della feudalità, espose
alcune sue considerazioni finali soprattutto in merito alla divisione dei demani.
Infatti scrisse: “la divisione dei demani, Sire, io conchiudo, era una misura
di necessità per lo stato del Regno. Privare la popolazione degli usi e dei
diritti dei quali godono sarebbe stato empio ed assurdo. Conservare gli usi e
le servitù nello stato attuale, sarebbe stato cosa distruttiva dell’agricoltura;
avrebbe impedito l’aumento della proprietà, la cui mancanza ha creato ed ha
fomentato nel regno i delitti ed il brigantaggio; avrebbe resistito al sistema
delle imposte fondiarie, avrebbe tolto all’amministrazione interna i mezzi onde
riparare allo stato depauperato dei comuni, infine avrebbe sacrificato l’interesse generale dello Stato, il dovere del governo, e tutti i principi dell’amministrazione pubblica, non all’interesse ma ai pregiudizi di pochi individui”. (2)
Il Ministro non nascose le difficoltà che erano sorte per l’applicazione
delle norme introdotte con la legge 1 settembre 1806 e con il decreto 8 giugno 1807 tanto che, per sua stessa ammissione, solo dopo “un terzo decreto
fatto da Vostra Maestà in data 3 dicembre 1808 risolvette diversi dubbi, che
il paragone della prima e della seconda legge avea fatto nascere”. (3) In ogni
caso si compiaceva del risultato, che era stato positivo, ed esternava la soddisfazione dell’operazione, scrivendo: “i demani….sono stati nella massima
parte ripartiti tra bracciali laboriosi, di cui si è in tal modo costituita la
fortuna. Essi sono attaccati alla proprietà, che fecondata dalla loro industria,
ha migliorato la loro condizione”. (4)
Un altro aspetto positivo della cessione veniva evidenziato da Federico
Cassitto (5) secondo il quale essa aveva agevolato l’occasione di promuovere
l’impianto degli alberi. Infatti era stato introdotto “il patto speciale, con
cui i novelli coloni sonosi obbligati a piantare dieci alberi almeno per ogni
moggio di terra prescegliendone ad arbitrio del quotista i generi e le specie
più adatte alla natura del suolo e del clima.” (6)
La mancata osservanza dell’obbligo comportava l’irrogazione di una penale
pari ad “un carlino per ogni pianta che a capo di un anno non si trovasse esistente, eccettuandone il solo caso della morte della pianta stessa.” I
sindaci avevano l’obbligo di “vegliare per un decennio all’esecuzione di così
vantaggioso provvedimento”.
L’operazione della cessione non fu accolta con entusiasmo dai nobili e
dai proprietari; incontrò ostacoli e difficoltà negli amministratori locali i
quali si mostrarono lenti se non riluttanti nel mettere in moto la macchina
amministrativa per realizzare quanto previsto dalla normativa in proposito. (7)
Nel Principato Ultra l’Intendente Mazas, con amarezza, doveva osservare:
7) P. Villani sostiene “che non vi era alla base del progetto una potente richiesta politica e sociale. Anzi , la borghesia agraria, grossi proprietari,
allevatori, amministratori dei comuni, erano nettamente ostili; aspiravano
al possesso diretto dei demani e mal sopportavano che questi fossero assegnati ai contadini poveri, ai quali comunque riuscivano prima o poi a
sottrarli.” Da “Il Decennio francese”, p. 609, in Storia del Mezzogiorno,
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La cessione del demanio
Per ogni giorno degli undici previsti, era fatto obbligo agli amministratori
locali di effettuare un “Notamento degli individui”, che avevano presentato
le offerte per la ripartizione. (19)
Il 14 agosto 1810 i decurioni di Ariano, presieduti dal sindaco Felice
Caccabo, esaminarono le offerte presentate, che ammontavano a numero 422
nettamente superiori alle 311 quote da assegnare. Furono costretti ad effettuare una valutazione attenta delle richieste ed a procedere alla esclusione
degli offerenti che fossero maggiori possidenti. Di poi effettuarono il sorteggio
estraendo da un’urna i nomi degli assegnatari e da un’altra il numero della
quota, il tavolato e la denominazione del demanio diviso.
Il verbale dell’assegnazione fu trasmesso al Consigliere di Stato Commissario Regio per la divisione dei demani nei due Principati, il quale, dopo
avere accertato la regolarità delle operazioni eseguite dai decurioni, approvò
il sorteggio e l’intera procedura.
Costui, con nota del 19 agosto del 1810, ingiunse al sindaco di procedere
alla stipulazione dei contratti di censuazione entro il termine di otto giorni
e di inserire negli atti di cessione la clausola che prevedesse l’obbligo per i
beneficiari di migliorare i terreni con la piantagione di alberi “almeno dieci
per ogni tomolo”. (20)
Sembrava che tutto andasse per il verso giusto, ma gli esclusi dal sorteggio fecero pervenire le loro rimostranze alle autorità competenti tanto che
Federico Cassitto, nella sua qualità di Agente generale presso il Consigliere
di Stato Giampaolo e vice Commissario Regio per la divisione dei demani,
sospese la presa di possesso dei terreni da parte degli assegnatari.
Il Cassitto pensò bene di risolvere il problema senza aspettare l’esito dei
ricorsi presentati ricorrendo ad un espediente che avesse potuto contentare
tutti. Suggerì al sindaco di Ariano di suddividere le quote già formate, ovvero
quelle eccedenti il “moggiatico di tomoli cinque”, in modo da costituire “una
seconda mappa divisibile dalle altre mettà che ne risultano” e scrisse: “in
seguito faretti un pieno di agricoltori che desiderano profittar della divisione,
inclusi quelli che furono esuberanti nell’ultimo sorteggio”. (21)
Era convinto che dal punto di vista giuridico l’operazione non avesse alcun impedimento e che, riducendo l’estensione del terreno e di pari importo
il canone, sarebbero stati favoriti i primi assegnatari i quali, in tal modo,
9) Ivi, p.14.
10) ASA, “Real Società Economica”, B. 2, f.102. Il socio era Sabino Mannella.
11) ASA, “Bullettino delle Ordinanze dei Commissari Ripartitori
De’ Demani ex Feudali e Comuni nelle Province dei RR.DD. di qua dal
Faro”, p.92. Da questo Bollettino sono state ricavate tutte le informazioni
esposte in questa relazione.
12) ASA, lettera inviata all’agente ripartitore Domenico Sanchez il 21
maggio 1810, in “Atti de Commissari Ripartitori”, B.32, f. 173, n° 7.
13) Anche alcuni periti non furono solleciti a portare a termine l’incarico
ricevuto tanto che l’agente per la ripartizione dei demani di Ariano D.
pag. 60
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La cessione del demanio
di quattro tomoli valevano ducati 83.20, mentre il canone annuo di queste
ultime fu fissato in ducati 4.16 dal Commissario Ripartitore Giampaolo.
I migliori terreni di seconda classe seminatori erano censiti per “l’annua
rendita di ducati uno e grana quattro per ogni tomolo”, secondo quanto aveva rilevato dal ruolo della fondiaria il sindaco di Ariano Felice Caccabo. (12)
Dai predetti terreni furono sottratti alla ripartizione quelli riguardanti il
Castello ed il Pastino, dell’estensione di tomoli 35 e misure 13, che il Comune
volle destinare allo svolgimento delle fiere cittadine. Le singole quote furono
individuate da due periti “ripartitori” Agelantonio Lepore e Francesco Saverio
Melchionna, entrambi provenienti da Zungoli. (13)
Costoro ebbero l’ordine di dividere l’intero patrimonio in quote che non
potevano “essere minori del valore di quattro tomoli delle migliori terre di
seconda classe, dove cadono in divisione terre di maggiore o di minor valore”. (14) Venivano, altresì, invitati a “prima delineare le vie, le aje ed i passaggi
in ciascuna porzione di fondo da assegnarsi” e dovevano anche “stabilire i
sentieri per gli animali” per avere l’uso dell’acqua in luogo comune.
Infine erano tenuti a fare le piante che dovevano “essere regolate colla
scala di proporzione” perché fossero sottoposte “sotto gli occhi di S.E. il Sig.
Consigliere di Stato regolarmente dettagliate; ed anzi venga a notizia di ogni
offerente di avergli spettato tanto quanto ne ha avuto un altro”. (15)
Per completezza espositiva, va detto che i beni appena indicati rappresentavano ben poca cosa rispetto ai fondi di provenienza feudale acquisiti
nel 1585 dalla Universitas di Ariano con l’acquisto della demanialità “o sia
libertà di ricomprarsi”. (16) I terreni, che a quell’epoca entrarono a far parte
del demanio, complessivamente ammontavano a 13954 tomoli (17); solo un’esigua
parte di essi, all’inizio dell’800, apparteneva al Comune che, per di più, era
ancora fortemente indebitato verso alcuni presunti creditori, eredi di coloro
i quali avevano concesso i mutui alla civica amministrazione per l’acquisto
della demanialità. (18) La ripartizione delle quote non potette essere effettuata “per teste”, dato
l’elevato numero di abitanti della nostra città, per cui si rese necessario
procedere “per offerte” ai sensi dell’art. 25 del Decreto 3 dicembre 1808.
A tal fine il 24 maggio 1810 fu pubblicato il bando con cui tutti i cittadini
venivano invitati a produrre le offerte nelle mani del cancelliere comunale
entro il termine di giorni undici. Invero va osservato che tale lasso di tempo
contrastava con quello stabilito dal predetto articolo il quale testualmente
precisava: “Il termine a produrre le offerte non potrà essere minore di un
mese”. Per di più la norma imponeva che i bandi rimanessero affissi nei
luoghi pubblici per lo stesso periodo di tempo.
Non era una pura formalità se si pensa che i destinatari del bando, essendo
cittadini poco abbienti e soprattutto analfabeti, avevano scarsa dimestichezza
con tali eventi giuridici e perciò avevano bisogno di più tempo per venirne a
conoscenza e per condividerne il contenuto.
Altro elemento di particolare rilievo voluto dalla legge era la preferenza
prevista “ai non possidenti ed ai piccioli proprietari”.
vol. IV, Foggia 1994.
8) Archivio di Stato di Avellino (d’ora in avanti ASA), “Giornale dell’Intendenza”, 1807-1808 p.11.
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La cessione del demanio
31 Marzo dello scorso anno milleottocentoundici 1811, che fu registrato a 10
Aprile di detto anno al Libro 1° Ve. 2 fol. 5 r° Ca:1° Soscritto dal Ricevitore
Cameli”. (24)
Dall’atto notarile si desume che quasi tutti gli assegnatari erano analfabeti e sottoscrissero col segno di croce; nel documento furono compresi
tutti i quotisti sia quelli del primo sorteggio che quelli del secondo. Costoro
si impegnarono “a riconoscere la medesima Università (ndr. di Ariano) per
vera Padrona di detti fondi conceduti loro ad enfiteusi perpetua, ma benanche corrisponderle, e pagarle per ogni metà di quota, attesa la suddivisione
seguita, carlini venti, e grana otto in numerario effettivo, fuori qualunque
carta nel mese di Agosto del corrente anno milleottocento undici 1811, e così
continuare in avvenire ed in perpetuo, senza poter produrre eccezione alcuna,
né domanda di scomputo”. (25)
Il canone annuo non era l’unica obbligazione perché i beneficiari si assoggettarono al “peso della Fondiaria, che trovasi caricata su detti corpi,
per quella tangente che ad ognuno si appartiene”; veniva concesso, in virtù
della vigente normativa, ai medesimi “il beneficio di ritenersi il quinto sulla
sudetta prestazione di canone”.
In effetti il canone pari a carlini 41 e grana sei, ridotto di un quinto,
ammontava a carlini 32 e grana 13 circa; se si considera che il carlino era la
decima parte del ducato il canone ascendeva a ducati 3 carlini 3 e grana 3. (26)
Inoltre gli assegnatari si impegnarono “di stare all’esecuzione di tutt’i
patti, che riguardano l’aumento e migliorazione della partita toccata loro in
sorte, e nello stesso modo, specialmente si obbligano di far la piantaggione
di alberi fruttiferi al numero di dieci per ogni tomolo di terreno: cioè olivi,
o altri adatti alla natura del medesimo; con doversi ritrovare la stessa perfezionata trallo spazio di anni tre 3 che decorrendi dal mese di ottobre detto
scorso anno mille ottocento dieci=1810.”
Quest’ultima obbligazione veniva resa ulteriormente più onerosa dato che
“non potranno essi (ndr.quotisti) addurre causa che le piante sudette siano
andate a perire mentre in questo caso dovranno immediatamente essere sostituite con altra piantaggione colla cura di conservarle ed aumentarle”. Il
mancato adempimento legittimava l’intervento dell’Università che avrebbe
potuto costringere a dare corso alla detta clausola contrattuale.
Era prevista un’obbligazione speciale, che oggi possiamo definire vessatoria, secondo cui “in fuori della partita e migliorazioni in essa faccende,
ed indi esistenti, i detti costituiti obbligano in beneficio di detta Università i
loro beni particolari ovunque siti, colla facoltà di variare, e rivariare e colla
prelazione a qualunque altro creditore, perché così per patto speciale si è
venuto alla stipula del presente strumento”.
L’impossibilità di vendere prima dei dieci anni rappresentava un divieto
assoluto che era riportato in un’apposita clausola; mentre veniva concessa
la possibilità di dare i terreni in fitto “a triennio, sessennio o novennio”.
In fine nel contratto veniva esplicitato che, trascorso il decimo anno, gli
atti di vendita dovevano essere subordinati al “consenso, ed intelligenza di
questa sudetta Università”; in ogni caso gli enfiteuti erano tenuti a “rinnovare
il titolo di siffatta concessione nel tempo prescritto dal Codice Napoleone ad
Ripartitori”, Busta 32 f. 173, presso ASA.
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AEQVVM TVTICVM
La cessione del demanio
venivano alleggeriti anche dalle spese di anticipazione e di dissodazione.
Quest’ultimo aspetto del problema non era di poco conto tanto che fu uno
dei motivi per i quali molti assegnatari vennero costretti ad abbandonare i
terreni ricevuti o furono indotti a darli in fitto.
E questo non fu l’unico elemento di dissuasione degli assegnatari che
erano sottoposti ad una sorta di bombardamento di notizie false da parte di
chi aveva interesse a boicottare. Si pensi alla diceria che il canone imposto
sulle quote doveva “esser pagato alla Comune terziatamente” tanto che Cassitto
scrisse al sindaco di Ariano: “Distruggete questa voce, che può disanimare i
concorrenti, e fate sapere a tutti che la censuazione de demani comunali di
Ariano subito che si considera come un contratto, deve essere modellata sul
solito delle altre censuazioni di Ariano, dove i canoni si pagano in Agosto.” (22)
Ciò che più rileva è la considerazione fatta dallo stesso Cassitto che invitava il sindaco a rendere noto “a tutti ch’è mente del Re di crear proprietarj
per quanti se ne possono, acciò amin la patria almen per l’interesse fisico,
se non per principi virtuosi”.
Partendo da questo presupposto, Cassitto trovò gli elementi logico-giuridici
per ordinare “a suddividere le quote ancor quelle inferiori alle cinque moggia”,
precisando, nel relativo bando, che le singole quote già sorteggiate venissero
divise in due parti uguali. (23)
Ciò in evidente contrasto con la normativa vigente la quale, sulle dimensioni
delle quote, stabiliva, all’art. 27 del citato decreto, che esse non potevano
“essere minori del valore di quattro tomola delle migliori terre di seconda
classe di ciascun Comune, dove cadono in divisione terre di maggiore o di
minore valore”.
Cassitto, nel nuovo bando da lui stesso predisposto, stabilì, altresì, che
“non possidenti” e “piccoli possidenti” presentassero le offerte entro il termine “improrogabile” di cinque giorni nelle mani del “cancelliere Archiviario
del Comune”. Il giorno successivo a quello di scadenza i decurioni dovevano
effettuare il sorteggio per procedere subito dopo alla stipula dei contratti.
Anche in questo caso i termini erano notevolmente abbreviati ed il procedimento doveva concludersi in sette giorni. Così avvenne come risulta dal
verbale dell’11 novembre 1810; furono valutate le ulteriori richieste che
ammontavano a 311 corrispondenti alle nuove quote ricavate. Queste furono
sorteggiate ed assegnate con buona pace di tutti.
L’atto di cessione fu stipulato dopo alcuni mesi così come attestò il notaio
rogante Angiolo Cardinale: “…in sequela degli ordini di Sua Eccellenza il
Signor Cavaliere Giampaolo Cosigliere di Stato, e Regio Commissario per la
divisione de’ Demani, tanto nella Provincia di Principato Citra, che in questa
di Principato Ulteriore, e successivamente per le facoltà accordate dal Signor
Cassitto Consigliere dell’Intendenza di detta Provincia di P.C. ed Agente
Demaniale presso il narrato Signor Ministro di Stato, con appuntamento, e
comun consenso Decurionale si stipulò da me sudetto Notajo Solenne Istromento di concessione in enfiteusi perpetua tra il passato ex Sindaco di questo
Comune Signor Nicola de Miranda con gli Individui Quotisti Legittimamente
Sorteggiati, e che intervennero nel sudetto Istromento Segnato a’ trentuno
Sanchez fu costretto a sollecitarli, minacciando l’irrogazione di sanzioni.
In proposito si veda il carteggio compreso negli “Atti dei Commissari
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La cessione del demanio
vantaggi”. (33) Altra questione sollevata riguardava l’iniziativa assunta dal Cassitto in
merito al dimezzamento delle quote già in precedenza assegnate per ricavarne
altrettante così come sopra è stato esposto. Apprendiamo dal Mazas che di
persona si era recato ad Ariano con l’assistenza del Consigliere Barattta ed
aveva verificato che buona parte dei quotisti “erano possidenti” a fronte di
un numero di capi famiglia non possidenti di gran lunga superiore alle quote
assegnate. L’Intendente, quasi a volere dare conferma alle sue affermazioni,
scrisse: “e me ne assicurai collo spoglio che feci eseguire dello stato delle
anime e del ruolo fondiario”. (34) Peraltro aveva rilevato anche la inosservanza da parte di Giampaolo dei
termini previsti dalla legge, cosa che unita allo “scoraggiamento sparso dai
proprietari, furono le cause che arrestarono il concorso di tanti poveri”. Fatta
questa verifica, dispose che tutto il terreno doveva rientrare nel patrimonio
comunale dando disposizione perchè si procedesse ad una nuova suddivisione
con l’ammissione di “tutt’i non possidenti ed ottenere la preferenza della legge”.
Era assertore convinto che la legge avesse come obiettivo primario il
sovvenire alle necessità di una sola categoria di cittadini: i meno abbienti.
Sicchè non poteva ammettere che “il sacro patrimonio de’ poveri” potesse
essere dilaniato. (35)
Concorde a tale avviso fu il Ministro dell’Interno che, con nota del 7
luglio del 1813, dispose “di non permettere veruna novità”, nel rispetto
degli “ordini generali”.
Mazas, consapevole di dovere rispettare la legge ma soprattutto di doverla
conciliare sia agli ordini ricevuti dall’alto sia alle operazioni approvate dal
Commissario Giampaolo, fece al Ministro una sua proposta di accomodamento
dell’attività amministrativa svolta.
Suggerì di annullare il sorteggio delle quote fatto l’11 novembre del 1810,
riassegnando le parti di terreno sottratte a coloro che, assegnatari del primo
sorteggio, già stessero, direttamente, coltivando i campi. Mentre per le restanti quote prospettava l’ipotesi di farle rientrare nel patrimonio comunale
per poi destinarle ad una nuova suddivisione “secondo lo spirito della legge
de’ 3 dicembre 1808, e colla preferenza in essa stabilita”. (36) Ovviamente i proprietari, che avevano preso in fitto i terreni, erano
fortemente preoccupati non solo per la eventuale sottrazione dei terreni ma,
soprattutto, per la possibile perdita delle “significanti somme” anticipate e
versate ai cessionari. Queste due ipotesi negative e contrarie ai loro interessi
Irpino” in Archivio Storico per le Province Napoletane. Napoli 2002, p.
38.
17) ASA, “Difesa del Comune di Ariano contro i pretesi suoi creditori”,
Intendenza di Finanza di Principato Ultra, Napoli 1841. Busta 207. I feudi
acquisiti nel 1585 erano i seguenti: Montagna dei Pizzi di circa tom. 800;
Montagna di circa tom. 400; La Torre delle Ciavole di circa tom. 600;
i territori di Cerasuolo di circa tom. 100, Guadagni di circa tom. 200,
Mangone di circa tom. 400, La Torretta di circa tom. 300, Vado Canale
di circa tom. 1000, San Donato di circa tom. 600, La Morga di Pulcino
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La cessione del demanio
ogni richiesta del Sindaco pro tempore di questa sudetta Università”.
Appena fatta l’assegnazione la maggior parte dei beneficiari diede in fitto
i terreni assegnati.
Questo escamotage non ottenne alcuna approvazione dal commissario Regio
anzi divenne uno dei tanti altri problemi che furono ampiamente esposti in
una relazione al Ministro dell’Interno da parte dell’Intendente Mazas. Nella
nota trasmessa l’11 luglio 1813, erano passati tre anni dalla ripartizione,
l’alto funzionario evidenziò che cinque “maspoderosi proprietari Oto Albanese, Giuseppe Vitullo, Notar Angelo Cardinale, Nicola D’Andrea Iodice e
Baldassarre Albanese, per via di affitto”, erano diventati “i possessori dei
demani comunali”. (27) In pratica fatta la legge, trovato l’inganno.
Era stato Cipriani, Sotto Intendente del Distretto di Ariano, a comunicare a Mazas ciò che si era verificato in questa città scrivendo: “ma se
debbo informarla per ciò che apparentemente veggo, le posso assicurare che
la legge è stata tradita, giacchè qui vi sono stati de quotisti, ma questi son
terminati, giacchè e per via di cessioni, per via di vendite e di doni sei in
settecento quote son piombate nelle mani di solo quattro possidenti come le
feci conoscere in data de 12 marzo 1812”. (28)
Tali affermazioni furono in parte smentite da quanto venne sostenuto,
qualche mese prima, dai decurioni (29) i quali ammisero l’avvenuta cessione
in fitto di molte quote ma attestarono che “altre parecchie quote si coltivano
dalli medesimi quotisti. E così e non altrimenti”.
I grandi proprietari terrieri esclusi dal sorteggio utilizzarono un cavillo
giuridico che permetteva loro di venire in possesso di buona parte dei terreni
assegnati. Infatti ottennero in fitto dai concessionari i terreni con contratti
della durata da un triennio ad un novennio. Avvenne che “in Ariano la prima volta, che invertito l’ordine delle cose, i proprietari sono divenuti coloni
dei cittadini”, come ebbe a scrivere lo stesso Mazas, a parere del quale il
sotterfugio era illegittimo.
Era un modo per eludere la ratio legis che puntava al maggior impiego di
braccia, al miglioramento dell’agricoltura e soprattutto ad “elevare al rango
di proprietari la classe indigente de Cittadini” (30).
Peraltro l’Intendente riteneva che lo sfruttamento intenso da parte dei
proprietari conduttori avrebbe favorito l’impoverimento dei terreni a discapito dei proprietari legittimi, i quali, a loro volta, non avrebbero trovato
più conveniente la coltivazione degli appezzamenti fino all’abbandono o alla
definitiva loro cessione. (31) Inoltre, a suo parere, i terreni dovevano avere
come unici destinatari “coloro che nulla posseggono, ed ai quali lo stato
offre de’ mezzi da divenire proprietari, e Cittadini attaccati al loro paese
per la porzione del suolo, che vi posseggono”. (32)
Era convinto, altresì, che, anche in caso di abbandono da parte degli
assegnatari, i terreni dovevano rientrare nel demanio per essere nuovamente
assegnati agli aventi diritto ovvero “ai Cittadini non proprietari, ed industriosi, che sappiano apprezzare il valore della proprietà, e tirarne i maggiori
14) era
15) 16) ASA, “Atti de Commissari ..”, cit. n°37. La lettera, datata 27 maggio,
firmata da Sanchez.
Ivi.
G. Stanco, “Ordinamenti Municipali e dialettica sociale in Ariano
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La cessione del demanio
normali le quote assegnate pari a tre tomoli e mezzo richiedevano almeno
sette giorni di lavoro per una spesa di carlini settanta, pari a ducati 7. (40) Certamente per dissodare un terreno ricco di radici, spine e pietre, occorreva una quantità di lavoro notevolmente elevata che poteva superare le
trenta giornate per una spesa di trenta ducati. Se poi si sommavano altre
giornate di lavoro per la concimazione e le spese per le sementi e per la loro
semina nonché l’impianto di dieci alberi da frutta per ogni tomolo probabilmente i conti tornano.
Intanto il Ministro Zurlo pensò bene di rivolgersi al Consiglio di Stato,
che venne investito della questione sulla legittimità dei fitti, per ottenerne un
parere. L’organo consultivo, rifacendosi alla citata legge del 3 dicembre 1948,
fu del seguente avviso: “l’oggetto principale della suddivisione de’ demani è
stato quello di creare nel Regno un numero di proprietari che prima non
esisteva”. (41)
Secondo l’alta magistratura gli unici divieti, che la norma imponeva, riguardavano la possibilità di alienare o ipotecare i terreni assegnati prima che
decorresse un periodo di dieci anni dall’avvenuta assegnazione e non già la
possibilità di darli in fitto da parte dei beneficiari. Di qui la legittimità dei fitti
che, se facevano perdere il possesso, non sopprimevano il diritto di proprietà. (42) E per questo che Villani, analizzando il decennio francese nel Regno di
Napoli, afferma: “Il concetto di proprietà era alla base della costituzione
politico-sociale del nuovo regime”; (43) mentre Barra ritiene che si andava
affermando “il concetto borghese di proprietà”. (44) Questi, sulla buona riuscita dell’intera operazione, era dell’avviso che
mancò “una contemporanea ed efficace divisione delle terre tra i contadini,
soprattutto per le sfavorevoli condizioni ambientali e il prepotere dei possidenti
e delle autorità locali - che in sostanza s’identificavano - i quali snaturarono
il senso della riforma, monopolizzando le quote o tirando in lungo la divisione
dei demani, da essi presi in affitto a prezzi in genere irrisori”.
Quest’ultimo aspetto è suffragato da quanto scrisse Mazas rivolgendosi al
Re con una sua lettera del 17 maggio 1813: “Io vado a rivolgere le mie cure
ad un altro oggetto egualmente importante (aveva in precedenza comunicato
l’avvenuto arruolamento di 414 coscritti) quall’è il patrimonio che il sensibile
cuore della Maestà Vostra ha assegnato ai poveri colla divisione de Demani.
La poca avvedutezza usata in questo rincontro o piuttosto l’intrigo ha defraudato non pochi infelici del beneficio di una legge così giusta e liberale. Fra
giorni dunque eseguirò il giro che mi son proposto; conoscerò personalmente
tutto ciò che rimane a regolarizzarsi, e quindi restituito in questa residenza
sarà per me dolce, e soddisfacente di assicurare il Paterno Cuore di Vostra
Maestà, che la classe degli indigenti è al possesso de’ vantaggi promossi dalla
vostra Real clemenza e che benedice la mano motrice della felicità delle loro
famiglie”.
Al di là del rammarico di Mazas rileva il fatto che venne introdotto il
principio della partecipazione delle classi meno abbienti alla distribuzione
del patrimonio collettivo non in funzione di un semplice atto di liberalità o
di gratificazione “una tantum”, bensì come acquisizione di un diritto sogget-
200, Marigliano di circa tom. 200, Scannaturo di tom. 600, Costabaccaro
di circa tom. 356, Ischia d’Amandi di tom. 362.
18) Il debito di 75000 ducati fu contratto nel 1585 con Maria Caracciolo
pag. 66
AEQVVM TVTICVM
La cessione del demanio
li portò a chiedere alle autorità governative una soluzione meno gravosa e se
vogliamo di compromesso.
Si fecero promotori, anzitutto, di una iniziativa che vedeva scendere in
campo direttamente gli assegnatari i quali inviarono all’Intendente una lettera.
In essa i quotisti tentarono di dimostrare che dall’avere ceduto i terreni avuti
in sorte scaturivano vantaggi per se stessi e per le loro famiglie.
Essi, infatti, scrivevano: “Gli sponenti l’han dovuto affittare, ed han
fatto un doppio vantaggio: mentre oltrecchè ricavano dall’affitto annuale il
sostentamento delle loro famiglie, pagano con più facilità l’imposta Comunale,
el peso della fondiaria ed in ordine dell’affitto trovano le quote dissodate,
nello stato di bona coltura, e le piante già adatte e fruttifere”. (37) Fugavano ogni sorta di malinteso sostenendo: “Ma questa innocente e
comoda speculazione è stata presa in sinistro senso, perché han preinteso
che si voglia dare ad intendere che le quote sian state vendute”. A sostegno
di tale loro affermazione allegarono le copie delle scritture private dell’affitto invitando l’Intendente a non dare valore alle notizie inesatte convinti
com’erano che “voce d’averle vendute è un prodotto di quei sfacendati, di
cui ogni paese ne abbonda, e molto più Ariano. Né è la prima volta che siasi
sparsa detta voce: simile ne sorse l’anno scorso”.
I ricorrenti esternarono tutta il loro stupore sulla consumazione di una
presunta irregolarità ritenendosi “fedeli esecutori della Legge”. Essi, infatti
precisarono che “nell’istrumento di concessione” stipulato con il sindaco erano
state riportate le clausole che vietavano l’alienazione delle quote prima di
dieci anni. Così come “coll’istesso istromento li fu concessa la libertà, quella
cioè, che l’accordava l’art. 32 di detta legge (3 dicembre 1808) d’affittarle a
triennio, seennio, novennio.”
Per questo non sapevano spiegarsi: “come adesso s’ha il coraggio di dire
che sono state vendute”.
In fondo il ricorso al fitto era scaturito da specifiche necessità così
spiegate dagli interessati: “Se gli esponenti l’hanno affittate, è dipeso pure
dalla miseria, perché per dissodare una quota sradicarle le spine e le piante
inutili, piantarle d’alberi fruttiferi e metterle nello stato di buona coltura,
non bastavano sessanta docati per ciascuna quota, ed era impossibile che gli
esponenti avessero potuto soffrire tali spese”. (38) Probabilmente la stima peccava di eccesso ma credo che non fosse distante
dal vero. Una valutazione più aderente alla realtà può scaturire leggendo
un documento del 1833, che conteneva alcune risposte ad altrettanti quesiti
posti dal Presidente della Reale Società di Economia del principato Ultra ai
soci dei vari distretti in materia di agricoltura e di spese di produzione. (39) Il socio di Ariano, Melchiorre Imbimbo, a proposito dei costi di aratura,
comunicava che nel territorio di Ariano il lavoro fatto con i buoi costava
giornalmente tra dieci e dodici carlini. Tenuto conto che in un giorno veniva
lavorato una quantità di terreno pari a “mezzo moggio al dì”, in condizioni
di circa tom. 300, Consini di circa tom. 400, Fontana Verta di circa tom.
500, Profico e l’Avella di circa tom. 600, Marigliano di tom. 1000, La
Difesa della Croce di tom. 1000, Moscaritolo di circa tom. 600, La Falceta
di tom. 400, Corneta di circa tom 1000, S.Eleuterio di tom. 800, Cardito
di circa tom. 600, Palazzisi di circa tom. 300, Tre Luppoli di circa tom.
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La cessione del demanio
a corrispondere una certa quantità di grano che in media era compresa da
uno a due tomoli annue per l’intero appezzamento di terreno. L’adempimento
prevedeva, quasi sempre, che il grano fosse “netto, asciutto e di buona qualità e proprio dell’istesso grano che si raccoglierà in detto terreno”, quello
dato in fitto. Era previsto, nel maggioranza dei contratti, che la consegna del
grano doveva avvenire nel mese di Agosto “da condursi fin dentro la casa
del detto locatore”.
Una clausola finale stabiliva “e nella fine di detto affitto, lasciare detta
quota ben dissodata e pianta a pro del locatore, senza pretendere mai minimo compenso di dette fatiche, essendo così convenuto e non altremente”. (45) Le scritture private rinvenute presso l’Archivio di Stato di Avellino vedono come affittuari Giuseppe Vitullo di Vivanzio, definito proprietario; Oto
Albanese, figlio del ”Signor Baldassarre”, proprietario benestante, domiciliato
nella Parrocchia di San Pietro in Ariano; lo stesso Baldassarre Albanese,
dottore e proprietario; il notaio Angiolo Cardinale di Ferdinando, proprietario
domiciliato nella parrocchia della Cattedrale.
Oto Albanese era uno dei decurioni e non è difficile immaginare che avesse avuto buoni elementi di convincimento per acquisire in fitto molte quote
(sessantacinque) per un totale di circa 227 tomoli che si riferivano a terreni
del demanio di Difesa.
Giuseppe Vitullo sottoscrisse 33 contratti per complessivi 115 tomoli circa di terreni siti a Difesa. Angiolo Cardinale fu il notaio che rogò l’atto di
cessione dell’intero demanio; acquisì 8 quote per complessivi 24 tomoli che
fu costretto a dare in subaffitto per la probabile impossibilità di coltivare
in modo diretto. Ovviamente in questo caso era inserita nell’atto la seguente
clausola: “E nel caso subentri col titolo di subaffitto qualche altra persona a
detta quota colui che entrerà sia tenuto di stare a quello mi trovo obbligato
io sudetto”. (46) Assume particolare rilievo l’atto sottoscritto dal Dottor Baldassarre Albanese
con l’assegnatario Giuseppe Fasulo che accettò anche la seguente clausola:
“Con patto espresso, siccome prometto e mi obbligo, che dovendo cedere,
fittare o fare qualunque contratto con altri per detta quota di territorio in
ogni futuro tempo, debba essere preferito il sudetto signor Albanese di lui
eredi che percio tanto io sudetto Albanese che io predetto Fasulo abbligamo
noi stessi, nostri eredi e beni tutti”. (47) Altro atto di particolare interesse fu quello sottoscritto da Giuseppe Vitullo,
Andrea Leggiero e Felice Sansosso. Costui aveva preso in fitto il terreno in
località Difesa Grande appartenente a Nicola Orlannella, unico assegnatario,
per subaffittarlo ai predetti Vitullo e Leggiero. Le condizioni del subaffitto
prevedevano il pagamento annuale al Sansosso di “tomole sei e misure nove
di grano” da parte dei due nuovi conduttori i quali erano in società “secondo
il costume di questa Città”. (48) La presente è una parte della relazione letta dall’autore in occasione del
convegno tenutosi ad Avellino, presso la sede della Camera di Commercio,
nei giorni 13 e 14 dicembre 2007 sul tema “L’Irpinia nel Decennio francese
e Avellino capoluogo di Provincia”.
19) pag. 68
ASA, “Atti dei Commissari” cit. foglio 21. Si può rilevare che il primo
AEQVVM TVTICVM
La cessione del demanio
tivo di proprietà dietro pagamento di un corrispettivo. E questa operazione
avrebbe creato un nuovo “status” sociale, quello di possidente, per coloro
che ne beneficiavano, unitamente alla potenzialità di essere eleggibili alle
cariche decurionali, secondo la vigente normativa. Per l’epoca non era poco.
Ciò che contribuì negativamente alla buona e completa riuscita dell’intera operazione ed al raggiungimento dello scopo effettivo della legge fu la
mancanza di alcuni accorgimenti che, se adottati, potevano meglio motivare
i destinatari del beneficio.
Certamente il valore del canone enfiteutico era eccessivo ed oneroso da
pagare da chi non possedeva alcunché; se poi si considera che l’assegnatario
doveva impegnare anche dei capitali iniziali di produzione il risultato rimaneva ovvio e scontato. Sarebbe stato sufficiente che la legge avesse previsto
una iniziale esenzione dal canone e lo Stato avesse messo a disposizione le
sementi per creare i presupposti di una maggiore resistenza alle lusinghe dei
ricchi proprietari.
Ma veniamo a considerare alcuni contratti di fitto, stipulati dai quotisti,
che avevano la durata di anni nove e prevedevano il pagamento di un prezzo
di “staglio” o fitto, riferito all’intero periodo di tempo, da 10 a 13 ducati per
un terreno dell’estensione di tre tomoli e mezzo. Il conduttore era tenuto a
pagare il canone annuo di enfiteusi all’Università nonché “tutti li pesi fiscali”
e doveva provvedere alla “piantagione di ogni albero secondo gli ordini”.
Qualora la prestazione fosse convenuta in natura, il conduttore si obbligava
di Marcello per duc. 50000; con Gio: Battista di Capua per duc. 17500 e
con Livia di Silva per duc. 8000. Cfr. “Difesa del Comune…” cit. p. 6.
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pag. 69
Ceramica
Produzioni ceramiche
con rivestimenti vetrificati verdi:
un parallelo tra le produzioni pisane e quelle campane
di Marcella Giorgio
C
o delle “protomaioliche” savonesi. In questo caso la diffusione delle ceramiche risultava circoscritta all’ambito locale. Ma quando i saperi tecnologici
venivano trasmessi ad artigiani locali che impiantavano numerose botteghe
dalla secolare attività, la diffusione degli articoli che ne derivavano, spesso
aveva una diffusione a largo raggio capace di toccare luoghi molto lontani
tra di loro, come è avvenuto per le maioliche arcaiche di Pisa, con le graffite
arcaiche di Savona e con le protomaioliche del Sud Italia.
E’ bene ricordare, inoltre, quali furono le nuove tecniche introdotte in
Italia a partire dalla fine del XII secolo. Queste sono fondamentalmente due:
quella dell’ingobbio (3) sotto vetrina piombifera, spesso usata per fabbricare
oggetti ornati con disegni graffiti, e quella dello smalto stannifero (4), col quale
sono state prodotte le prime maioliche. Ad accompagnare entrambe queste
tecniche gli artigiani utilizzano la vetrina piombifera, un sottile strato vetropiombico-siliceo, trasparente e lucido, che poteva essere incolore o colorato
grazie a composti metallici (5).
Questo tipo di rivestimento era già conosciuto in Italia grazie alle categorie
ceramiche della “vetrina pesante” e della “vetrina sparsa” (6) ed era conosciuto
ed utilizzato per produrre ceramica fine da mensa sia in ambito islamico che
bizantino. E’ proprio da queste sfere di influenza che la tecnica, raffinata ed
abbinata alle altre, arriva in Italia. In Sicilia, nel corso del XII secolo, vengono prodotti manufatti con rivestimento vetroso, con procedure acquisite in
seguito alla dominazione araba. Questi metodi verranno poi trasmessi ad altre
regioni del Sud Italia fino ad arrivare in Campania, dove daranno vita a classi
ceramiche differenti. A Pisa, sono gli stessi ceramisti provenienti dalla Spagna,
dove la tecnica si era diffusa sempre grazie agli arabi, a trasmetterla agli artigiani locali. Ed essa verrà utilizzata sia per rifinire oggetti smaltati nelle parti
secondarie, sia per dare vita ad una classe sua propria: le invetriate depurate.
Le invetriate pisane
Di questa classe ceramica in realtà si sa ben poco. Un rapido esame della
bibliografia più recente ci fa capire che, soprattutto negli ultimi anni e a
1) Vedi Berti-Gelichi-Mannoni 1995, p. 383.
2) Vedi Berti-Gelichi 1995b.
pag. 70
AEQVVM TVTICVM
Ceramica
iò che è ben noto ormai è il fenomeno culturale, sociale ed economico che portò, tra la fine del XII e gli inizi del XIII secolo, diversi
centri italiani ad avviare produzioni proprie di ceramica con doppio
rivestimento vetrificato. Spesso,
però, si dà per scontata l’importanza di tale fenomeno, che in
una certa misura rivoluzionò un
ambito fino ad allora dominato
da importazioni provenienti da
vari paesi del Mediterraneo (Spagna, Maghreb, Tunisia, Egitto
ecc..). L’introduzione di nuove
tecniche produttive dai suddetti
paesi portò, in un momento fondamentale di cambiamento ed acculturazione
sociale ed economica della società
medievale, a dare inizio a produzioni ceramiche che si svilupperanno
successivamente, ponendo le basi
per quelle moderne (1). Il risultato
che si ottenne non fu immediato,
ma è bene distinguere tre fasi di
sviluppo. La prima riguarda, appunto, le importazioni da luoghi con
manufatti e tecniche più avanzate;
la seconda corrisponde all’acquisizione, da parte di alcuni centri
italiani, delle tecnologie produttive
ed all’inizio di produzioni più o
meno diversificate; infine, la terza
coincide con la trasmissione di quelle
nuove tecnologie a sempre nuovi
altri centri ed allo sviluppo sempre
maggiore di manufatti locali (2).
Come già detto, le importazioni ceramiche di ambito mediterraneo erano
ben presenti in diversi centri italiani almeno già dal X secolo. L’acquisizione
delle tecniche poteva avvenire tramite passaggio di maestranze straniere in
Italia o come trasmissione del bagaglio di conoscenze da un ceramista straniero
ad uno locale. Poter produrre in loco manufatti di uguale pregio, abbattendone i costi d’importazione, fu un processo lungo e non sempre diede luogo
a produzioni durature. Infatti, a volte, il passaggio delle maestranze poteva
essere temporaneo e finalizzato a specifiche committenze, come successe per
Pavia, e quindi non portava alla diffusione di quei prodotti. Altre volte, invece, ci poteva essere un’attestazione circoscritta nel tempo, con un inizio ed
una fine ben precisi e raccolti in pochi decenni, come nel caso di Marsiglia
3) Da Berti-Gelichi-Mannoni 1995, p. 387: “Sottile rivestimento terroso di colore bianco, costituito da buon caolino,
che rimane cioè bianco anche dopo la cottura, per assenza di composti di ferro. Veniva applicato in sospensione
acquosa...”.
4) Da Berti-Gelichi-Mannoni 1995, p. 385: “Sottile rivestimento costituito da vetro alcalino-piombico-siliceo, opacizzato, reso cioè bianco e non trasparente con il biossido di stagno; può venire colorato con i soliti composti
metallici, ma resta sempre opaco.”
5) Vedi Berti-Gelichi-Mannoni 1995, p. 384.
6) Vedi Berti 2000.
AEQVVM TVTICVM
pag. 71
Ceramica
i boccali (figg.1-2), mentre appare minoritaria la realizzazione di altri manufatti. Sembra interessante notare diversi particolari. Innanzitutto, le forme
prodotte si rifanno in gran parte al repertorio delle maioliche arcaiche, con
una varietà, già in un momento iniziale, che deve farci ragionare sull’importanza e sul volume di prodotti immessi sul mercato. Alle maioliche ci riporta
anche l’impasto ceramico, quasi sempre rosso, duro e ben depurato, più
raramente aranciato e mediamente duro (11). Una forte differenza, però, col
prodotto a base stannifera sta nella mancanza del doppio rivestimento, almeno
nelle forme aperte. Queste ultime, infatti, presentano la vetrina solo sul lato
a vista, mentre l’esterno è sempre privo di rivestimento, con schiarimento
superficiale della parete, ed a volte con lisciatura della stessa. Per le forme
chiuse il discorso cambia: è sempre presente il doppio rivestimento, anche se
il lato non a vista, in questo caso l’interno, presenta una vetrina più povera,
stesa in maniera più leggera, e di colore differente da quello dell’esterno, che
può variare dall’incolore al verde molto diluito.
Le invetriate campane
Diversi studi negli ultimi anni hanno affrontato i problemi posti dalla
necessità di una migliore comprensione di quest’ultima classe ceramica (12). In
Italia meridionale, l’invetriata verde è già presente nell’XI secolo in Sicilia,
anche se il secolo di massima diffusione sarà il XII. Ceramiche invetriate
monocrome verdi erano prodotte in Campania con tutta probabilità già dal
2°-3° decennio del XII secolo, come attestato dal bacino n. 244 del campanile
della chiesa di S. Andrea a Pisa, con esterno privo di coperture (13). Sempre
da altre chiese di Pisa, e dal sito archeologico di Rocca S. Silvestro in Toscana, provengono alcuni bacini con invetriatura verde o marrone che sono
attribuibili ad un centro produttivo localizzato sulla costa tirrenica tra Gaeta
e Salerno (14). Tutti questi reperti si collocano agli inizi del XII secolo, così
come altri ritrovamenti avvenuti a Napoli, i quali, inoltre, ampliano l’arco
produttivo fino a tutta la seconda metà dello stesso secolo.
Ma l’introduzione di una produzione invetriata su larga scala ed un miglioramento qualitativo delle tecnologie utilizzate dalle botteghe locali si avrà
solo tra la fine del XII e gli inizi del secolo successivo. Questo viene testimoniato non solo da diversi ritrovamenti negli scavi di Capaccio, ma anche
dall’abbondanza di invetriata campana ritrovata negli scavi della Crypta
Balbi a Roma in stratigrafie di prima metà XIII secolo. In quest’ultimo scavo, inoltre, si nota una forte diminuzione delle importazioni dalla Campania
nella seconda metà del XIII secolo, forse in coincidenza con l’inizio di una
7) In Berti-Cappelli 1994, infatti, l’articolo dedicato alle ceramiche con rivestimenti monocromi verdi non appare
esplicitamente dedicato alla classe pisana, anche se le conclusioni finali ne lasciano supporre l’appartenenza
della quasi totalità dei reperti trattati. Poco altro si può trovare in Berti 1993, ma non riesce ad essere esaustivo
data anche la scarsità di reperti esaminati.
8) Per un approfondimento sulla maiolica arcaica pisana vedi Alberti 1993, Berti 1977, 1990, 1997, Berti-Cappelli
1994, Berti-Cappelli-Francovich 1986.
9) Alcuni dati preliminari sullo studio che si sta conducendo si possono trovare in Giorgio 2007 e Giorgio 2008.
10) Quest’ultima forma, finora sconosciuta per questa classe, è testimoniata da un unico esemplare rinvenuto nello
scavo di Vicolo dei Facchini a Pisa, pubblicato nella relazione sulla classe (Giorgio 2008) allegata alla pubblicazione finale dell’indagine, attualmente in corso di stampa.
11) Analisi della composizione petrografica e mineralogica dell’impasto eseguite in passato ed anche recentemente
hanno confermato la loro attribuzione a fabbriche pisane.
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Catino troncoconico di produzione pisana
Ceramica
fronte delle ultime scoperte archeologiche, nulla si è detto di nuovo e nessun
articolo di approfondimento è stato scritto al fine di comprenderla al meglio (7). Il poco che si sa si apprende, spesso, al seguito di analisi riguardanti
la ben più famosa maiolica arcaica, ceramica di pregio (almeno nella prima
fase produttiva) realizzata a Pisa a partire dai primi decenni del XIII secolo
per oltre due secoli (8). Di quest’ultima classe ceramica le invetriate appaiono
Invetriate pisane, disegni di Giorgio M.
come un prodotto collaterale, forse di minor pregio, fabbricato negli stessi
ateliers a partire dagli inizi del XIII fino alla fine del XIV secolo. Recenti
scavi archeologici effettuati nel centro storico di Pisa dal 2000 ad oggi hanno, però, messo a disposizione dati nuovi su questa classe ceramica, che chi
scrive sta analizzando ed elaborando al fine di una tesi di dottorato presso
l’Università degli Studi di Torino (9).
L’invetriata pisana poteva presentare una vetrina verde (variabile dal verde
intenso al verde oliva) oppure incolore ma tendente al giallo-beige. Di solito
la diversità di colorazione del rivestimento si associa ad una diversità delle
forme da ricoprire. Infatti, in verde erano rivestiti sia catini troncoconici con
breve tesa su piede ad anello (tav.1, nn.6-7), che boccali trilobati (su piede
più o meno rilevato) con restringimento più o meno pronunciato all’attacco
tra collo e pancia (tav.1, nn.10-11), che, ma più raramente, altre forme di
vario utilizzo (ad esempio lucerne apode trilobate prive di anse (10) (tav.1, n.1),
grossi orcioli biansati (tav.1, n.12) e piccole ciotole apode con breve parete
dritta). In giallo-beige erano rivestite quasi esclusivamente forme aperte come
ciotole emisferiche dall’orlo appiattito e piccole scodelle dal corpo emisferico
e breve tesa piana (entrambe le forme poggiano sempre su piede ad anello)
(tav.1, n.2-3). Più raramente si trovano, invece, boccali e microvasetti dal
corpo globulare e strozzatura del collo che presentano un’invetriatura incolore
(soprattutto in realizzazioni più tarde) (tav.1, n.8), oppure scodelle carenate
con una copertura il cui colore tende al marrone (soprattutto nelle prime
fasi di fabbricazione) (tav. 1, n.4).
Fin dall’inizio la produzione sembra preferire il verde e quindi i catini ed
12) 13) Vedi ad esempio Fontana 1980.
Vedi Berti-Tongiorgi 1980, tav. CCCLVII.
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Ceramica
le lucerne apode trilobate hanno una forma che appare totalmente identica.
Ugualmente similari risultano alcune caratteristiche morfologiche riscontrabili
nei boccali e nei microvasetti.
Ma nonostante tutte queste analogie, molte sono anche le differenze. Una
sicura divergenza è evidenziabile nella finitura delle superfici ceramiche in
quanto i prodotti pisani (almeno le forme aperte) presentano quasi sempre
una buona lisciatura, mentre quest’ultima
sembra assente nei prodotti campani. Inoltre,
differiscono nettamente le forme degli orcioli,
che nelle due classi assumono andamenti quasi
contrastanti. Ed infine, diversa appare l’evoluzione del panorama morfologico: mentre in
Campania si trovano anche bottiglie, calamai e
truffette, a Pisa queste forme sono assenti, ma
si introduce la ciotola apoda dalle basse pareti
dritte e si tende a diversificare le forme esistenti.
A questo punto quale spiegazione dare alle
somiglianze ed alle diversità tra queste due classi
ceramiche? Per ciò che riguarda le affinità che
accomunano i prodotti pisani e campani, una
motivazione può, con tutta probabilità, trovarsi nella comune base d’origine
di entrambi. Infatti, non bisogna dimenticare che, nonostante la tecnica del
rivestimento piombifero sia stata introdotta a Pisa dalla Spagna ed in Campania dalla Sicilia, il minimo comune denominatore sono, in realtà, gli Arabi.
Infatti è grazie all’influenza della cultura araba su Spagna e Sicilia se questi
paesi sono riusciti ad acquisire le tecniche necessarie per avviare in loco produzioni ceramiche a base piombifera e stannifera. Ed è quindi sempre grazie
agli Arabi se poi da quei luoghi le tecnologie si sono diffuse, per vie differenti,
nel Sud e nel Nord Italia.
Infine, sembrano a questo punto ancora più semplici da spiegare le differenze che assumono le classi ceramiche indagate. Infatti, è normale che le
Invetriate campane, disegni tratti da Romei 1992
14) 519.
pag. 74
Vedi Romei 1992, pag. 17, e Berti-Tongiorgi 1980, pp. 518AEQVVM TVTICVM
Ceramica
produzione locale di forme aperte invetriate. Un consistente ritrovamento di
ceramiche campane con rivestimento vetrificato verde si ha nel castello di
Salerno. Per queste ultime, collocate quasi tutte in cronologie di XII/XIII
secolo, si è ipotizzato un centro di produzione collocato se non proprio a
Salerno, in località molto vicine (15).
I prodotti ceramici campani, generalmente, presentano una vetrina verde
olivastra (fig.3) o gialla-verdastra che ricopre solo la superficie interna delle
forme aperte, mentre riveste entrambe le superfici nelle forme chiuse. Più
raramente può capitare di incontrare manufatti aperti, molto spesso catini,
con una invetriatura completa anche della parete esterna (16). Gli impasti ceramici, generalmente duri e poco depurati, variano dal bianco al giallo chiaro
al marrone chiaro, fino al rosa ed al rossastro. Alcuni esemplari con corpo
ceramico tendente al rosa verso le superfici presentano uno schiarimento
superficiale.
Il panorama morfologico risulta piuttosto variegato: tra le forme aperte si
trovano catini emisferici con breve tesa (tav.2, nn.1-3), ciotole emisferiche con
orlo piano o arrotondato (tav.2, n.8), scodelle sempre con corpo emisferico e
breve tesa inclinata verso l’interno (tav.2, n.9) e rare coppe biansate (tav.2,
n.7). Quasi tutti questi tipi poggiano su piedi ad anello. Sono ben attestate,
inoltre, le lucerne apode trilobate prive di anse (tav.2, n.5-6), mentre più
rare appaiono quelle su piedistallo. Tra le forme chiuse si possono incontrare boccali con collo dritto e restringimento dello stesso all’attacco del collo
(tav.2, n.12), bottiglie monoansate con stretti colli verticali, orcioli (tav.2,
n.4), truffette e microvasetti con corpo globulare ed orlo estroflesso su alto
piede a disco (tav.2, nn.10-11). Più raramente sono attestate forme di altro
tipo come ad esempio calamai (17).
Conclusioni
Per quanto questa breve esposizione non basti ad esaurire le informazioni
relative ad entrambe le classi ceramiche, possiamo già notare alcune particolarità che sembrano accomunarle, nonostante tra l’inizio produttivo dell’una
e dell’altra trascorra quasi un secolo.
Naturalmente, il primo punto in comune è sicuramente la natura ed il colore
del rivestimento in quanto in ambedue i casi si tratta di vetrina piombifera
di colore principalmente verde. Dico principalmente in quanto si nota una
certa variabilità nell’utilizzo del colore, soprattutto nelle invetriate pisane, le
quali tendono al giallino, al marrone o restano addirittura incolori. Invece,
nelle invetriate campane il verde è pressoché preponderante in quanto solo
raramente si incontrano prodotti con una invetriatura giallo-verdastra.
Un secondo parallelo lo possiamo effettuare evidenziando il modo di rivestire
le forme. Infatti, in entrambe le classi la copertura piombifera ricopre solo la
parte a vista delle forme aperte ed ambedue le superfici delle forme chiuse.
In terza battuta, possiamo osservare che entrambe le classi presentano lo
schiarimento superficiale delle pareti ceramiche, anche se per i prodotti campani
esso si nota solo nei casi in cui il corpo ceramico tende al rosa o al rossastro.
Infine, è sicuramente da notare l’affinità nella fattura di alcune forme
ceramiche. Infatti, sia alcuni catini, che alcune tipologie di scodelle e ciotole
presentano caratteristiche fortemente simili in entrambi i casi. Addirittura,
AEQVVM TVTICVM
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Ceramica
tecniche, introdotte in territori tanto lontani e tanto diversi tra loro, si siano
poi evolute in maniere differenti, in modo da accordarsi meglio al gusto ed
alle esigenze locali.
Bibliografia
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Dalle ceramiche islamiche alle “Maioliche Arcaiche”. Secc. XI-XV, Firenze.
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pag. 76
AEQVVM TVTICVM
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quadro della produzione dell’Italia centro-meridionale e i suoi rapporti con la
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Brigantaggio
Appunti
del Prof. Francesco Zerella(1)
La reazione di Ariano del 4 e 5 settembre 1860, secondo
i processi e le sentenze della Gran Corte del P. U. e della
Corte di Assise di Avellino.
raccolti da Gabriele Speranza
Le annotazioni che seguono, dattiloscritte, provengono dall’Archivio della nipote
del Prof. Zerella, la signora Elettra Zerella Speranza di Ariano.
sottogovernatore quand’è un II eletto, è inutile perché si avrà lo stesso
risultato della prima istruzione; dappoiché costui col suo germano don Gaetano capitano della Guardia Nazionale furono i primi a destare il malumore
contro gli installatori del governo provvisorio, nel detto giorno 4 fingendo
liberalismo che si unirono ai signori Anzani la sera del detto memorando
4 settembre in casa di quel sottogovernatore De Gennaro, completando la
reazione con l’aizzare i villici nel dì seguente. ....prosegue citando altri
personaggi o testi che potevano convalidare quanto scritto nello anonimo.
Accuse:
S
1) Il 6 ottobre 1968 moriva in Benevento, ancora nel pieno vigore intellettuale, all’età di 62 anni, il prof. Francesco
Zerella, profondo e attento studioso dei problemi filosofici e letterali. Nato ad Ariano Irpino il 21-maggio-1906,
dopo essersi laureato presso la facoltà di Lettere e Filosofia di Napoli ed aver insegnato nei licei classici di
Salerno e Maglie (Lecce), veniva nominato ordinario di letteratura italiana e storia negli Istituti Tecnici, dove
insegnerà (Istituto Tecnico Industriale di Benevento) fino agli ultimi giorni della sua vita. Premiato dalla Accademia d’Italia nel 1939 per una raccolta di vari saggi critici, corrispondente delle Società di Storia patria
per la Puglia, socio dell’Accademia Letteraria e Scientifica Internazionale, collaboratore della Enciclopedia
De Carlo nel 1942.
Alcuni suoi lavori sono stati citati dal Croce, dallo Sciacca, dal Vacca, dal Garin, nonché nella Enciclopedia
filosofica e nella Rassegna storica del Risorgimento.
Fra le suo opere cito: F. Fiorentino e la unità spirituale; Il pensiero pedagocico di C. Malpighi, Luca De Samuele Cagnazzi e la sua posizione storico-pedagogica; La riforma scolastica di G. Galdi; Il pensiero filosofico
di F. P. Bozzelli; Il metodo storico di Cataldo Iannelli; Lo storicismo spirituale di Panfilio Serafini; Lineamenti
filosofici del pensiero di F. Longano; Un episodio della reazione borbonica (La congiura di Frisio); La dittatura
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Brigantaggio
ulla feroce reazione di Ariano del 4 e 5 settembre 1860, feroce da far
salire il numero delle vittime a 132, come scrisse Domenico Giella,
da Aiello, incidentalmente in un suo programma politico; a 160 come
pubblicarono i basilicatesi Rocco Brienza e Pietro Lacava, a oltre 200 secondo
De Cesare e il Nisco, a 300 come arriva ad affermare Vincenzo da Napoli
nelle Storia della Idea Irpina; è bene dire una definitiva parola.
E’ questa la parola dei Giudici dinanzi a cui si svolsero i dibattimenti con gli
imputati, i testimoni, le accuse e le difese: essi togati in un I e II processo
motivarono le loro sentenze; popolari con la istituzione della Corte di Assise
in un III processo complementare, pronunciarono il loro verdetto.
Prima del mio fortunato rinvenimento pei fatti di Ariano del 1860 avevan
valore gli scritti degli autori su nominati o la loro orale tradizione, quanto
all’incartamento giudiziario si ripeteva e si accertava non esistere né nel
nostro archivio provinciale né nel deposito sotterraneo del nostro Tribunale.
(L’autore Cannaviello prof. Vincenzo, rivolgerà le indagini in Avellino, Napoli,
Ariano e Foggia, fino al rinvenimento della ignorata e dispersa costituita da
38 fascicoli in Avellino. A pag. 113 la Gran Corte Criminale del P. U. parla
di 30 morti e 5 feriti).
Prosegue Cannaviello.
Quando un manipolo di garibaldini e squadre di militi nazionali entrarono
il 10 settembre in Ariano (il 7 Garibaldi entrava trionfalmente in Napoli),
per restituirvi l’ordine e schiantare la mala pianta dei reazionari, fecero una
grossa retata di sospetti, oltre 90 contadini “senza indagamento e girando
solo la mazza in tondo, come sul dettare una profonda collera nei momenti
di vendetta anche giusta” (spesso furono imprigionati innocenti).
Tutta la famiglia Anzani con a capo D. Girolamo un tempo commissario di
polizia di Borbone; D. Raffaele Bilotta dottor fisico e ufficiale della Guardia
Nazionale; D. Francesco Ciani ufficiale stessa guardia Rendesi; Gelormini;
Parzanese; Raffaele De Paola, tutti capocci del paese, o avevano già preso
il volo o si accingevano.
All’inizio dell’istruttoria i responsabili raggiunsero i 269. Ma di questi la Gran
Corte Criminale tenendo in cattura i 34 che poi subirono il processo, ordinò il
mandato di arresto di altri 54; riservò le provvidenze su 74, disponendo infine
la conservazione di atti in archivio nei confronti di 99 persone. Si estinse il
processo invece verso 7 imputati o presunti morti nelle carceri di Avellino:
Giovanni Caso di Lorenzo, Camillo Esposito, Matteo Gagliardo fu Nicola,
Michele Intonti fu Salvatore, Nicola Mastandrea di Giuseppe (contadini);
Luigi Pannese di Michele, Nicola Pannese fu Oto. Vi furono molti latitanti.
Basti dire che la sera del 7 gennaio 1861 nel luogo detto Cappuccini, si
udirono un centinaio di colpi di archibugio che durarono più di una ora,
accompagnati da un frastuono di voci, le quali: “evviva Francesco II, abbasso
e a morte Vittorio Emanuele e Garibaldi!. Seguivano minacce alle guardie
mobili”. Si trattava di ricercati ladroni che facevano pensare di impedire il
trasferimento dei detenuti correi in Avellino.
Istruttoria laboriosissima:
• Ciò venne confermato da un anonimo presentato da un monaco che asserì
di averlo ricevuto da uno sconosciuto.
Anonimo:
• Sig. Giudice, procedere alla istruzione del processo sugli avvenimenti del
4 settembre coll’essere in carica D. Raimondo Albanese come Sindaco e
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Brigantaggio
di insurrezione, e molta forza sarebbe concorsa nel giorno 4 da diverse
province, il che vale, da Foggia, Molise, Benevento, Terra di Lavoro di
Avellino.
Nel giorno 4 una piccola parte di essa giunse, e la massima era già per
via. Intanto poiché a quel reggimento politico giovava il concorso della
volontà dei notabili del paese, di questi si fece numerosa adunanza nel
Palazzo Vescovile. Io non vi assistetti, né lo potea, imperciocché avendo
assunto a mio carico la parte amministrativa militare, dovea badarvi, e
tutto disporre di ciò che l’era attinente.
Ad un tratto, e sciolta la adunata sudetta, imbattutomi con de Conciliis,
preso costui da certo tal quale sgomento mi rifletteva con dolore che gli
Arianesi da quanto avea potuto arguire nella discussione della opportunità
di inaugurare il Governo Provvisorio, era convinto (sic) che i paesani non
avevano buona voglia.
La di lui parola, tra le altre erano queste “sono carogne, hanno paura”.
Accennava alla diffidenza degli Arianesi delle forze dell’insurrezione.
Ciò era vero, imperciocchè a me pure i galantuomini aveano per lo innanzi
palesata la vil paura di Flores, o della di lui soldatesca, prossima a far
passaggio per Ariano, e minacciosa di danni alle proprietà ed alle persone.
Nell’atto di questa conferenza col de Conciliis brontola una voce di attruppamenti di contadini venuti dalle campagne armati ed in broncio contro
gli agenti del Governo Provvisorio e delle Guardie Nazionali forestiere.
Non mi ristetti di disporre da una parte tutte le cautele necessarie perché
la forza fosse apparecchiata ad ogni evento; dall’altra di andare incontro
agli ammutinati per infrenarli.
Mi si diceva essere eglino persuasi che i forestieri disegnavano di saccheggiare, involare S. Ottone ed i sacri arredi e cose simili, e poi ogni opera
per dissuaderli. Nol feci invano.
Tutto parea calmato, se la memoria non mi inganna, e fu allora, che fu
spezzata la corda elettrica, non saprei dire se per ordine di de Conciliis o
di altri. Qui si addice il dichiararle che con rammarico aveva inteso io la
risoluzione de’ paesani di far senza del Governo Provvisorio, dappoicchè
importava all’onor mio ed all’interesse del Partito di Azione, non solo di
rompere la lancia, ma di non far atto di viltà coll’indietreggiare nel disegno
e mandare indietro i numerosi drappelli delle milizie cittadine convocate
da ogni dove, e che erano già in marcia.
Nondimeno mi si disse che sarebbesi aggiornato il Governo Provvisorio
per dì 5 o 6, ed io a questo patto mi piegai.
Tornarono le voci di allarme più numerose e pronunciate. Altri più numerosi attruppamenti si radunavano e minacciavano. Corsi sopra luogo,
e mi si esplose un colpo di fucile che schivai fortunatamente.
Feci le maggiori premure alle Guardie Nazionali, di star ferme ai loro posti
ed unite, altrimenti inevitabile era il massacro di loro. Ma un tal Miele,
tramortito dalla paura, risoluto di arretrarsi con le milizie da lui condotte
diè causa allo sbandamento.
Ciò avvenne nella mia assenza da quel punto del paese ove si trovava, e
quando io mi ero tratto in un altro per ordinare la resistenza.
Deggio anche dirle di proposito che il signor de Conciliis ed altri rampognarono i signori Arianesi in generale, i quali erano da me sconosciuti,
di aver dato origine ad un disordine gravissimo, ed essi rispondevano
rinnegando la propria colpa.
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Brigantaggio
• Cospirazione, eccitamento alla guerra, attentati, stragi e saccheggio, omicidi
premeditati (in danno di Sabato Urcioli e Pietro Galluccio ed altri), furti,
violenza pubblica.
Imputati sullo scanno dei rei:
• D’Antuono Nicola di Francesco, anni 26 falegname; D’Apice Ciriaco fu
Michele, di anni 30 contadino; Borriello Domenico, alias Santa Maria
fu Pasquale anni 60, contadino già reo; Castellano Camillo anni 30 contadino, alias Bovinese; Cirillo Gabriele fu Domenico anni 17 contadino;
Gambarota Gennaro; Gambarota Domenico; Grasso Nicolantonio alias
Todisco (arrestato assieme a Pietro Puopolo per altri gravi reati), Grasso
Francesco, alias Todisco (padre del precedente); Ianniciello Michele da
Grotta; Lo Conte Michelangelo fu Giuseppe, detto Scarnecchia, cugino
di Meo; Lo Conte Bartolomeo fu Giuseppe (fratello del precedente); Lo
Conte Bartolomeo fu Oto alias Meo Scarnecchia; Mainiero Luigi fu Antonio
Maria; Manganello Oto alias Mussillo; Manganello Pasquale alias JentileGuardia Nazionale; Mastandrea Lorenzo, alias Fiacco- Guardia Nazionale;
Monaco Vincenzo; Montanarella Luigi; Pagliara Lorenzo; Palmieri Raffaele e Giuseppe; Petrosino Ciriaco; Petrosino Basilio; Puopolo Pietro;
Riccio Domenico, alias Petrullo; Santosuosso don Giuseppe, Cappellano
della Chiesa Rurale la Madonna della Manna, con gravi precedenti penali;
Savino Raffaele; Simone Antonio; Somma Raffaele; Lo Surdo Giuseppe,
alias Mastromarino; Vitillo Liberatore; Zerella Michele, alias Pomidoro;
tranne pochi, tutti analfabeti.
Tra i numerosissimi testi:
• Generale Vincenzo Carbonelli da Taranto, dei Mille di Marsala, inviato da
Garibaldi; Mons. Fra Michele Maria Caputo da Nardò, Vescovo di Ariano
(il più immorale fra gli immorali di quell’epoca, che portò oscurantismo
alla Diocesi per azioni irripetibili).
Testimonianze del Generale Carbonelli e del Vescovo Caputo, Avv Leo
ed altri fatti:
• 8.1.1861 in Grottaminarda, davanti al G.I. Carbonelli deponeva:
“di Sicilia (io) partiva in luglio ultimo, ed arrivava nel continente per organizzare e dirigere il moto rivoluzionario già pronto ad irrompere contro
la vecchia Dinastia Borbonica e di ciò io riceveva speciale missione dal
Dittatore Garibaldi. Venni pure in questa provincia nel seguente agosto.
Trascelsi come punto strategico più favorevole al disegno Ariano. Fui secondato nell’idea dal Comitato di Avellino.
Ebbi la precauzione di prendere conto delle morali disposizioni degli abitanti di quel Municipio da D. Vito Purcaro e D. Giuseppe Vitoli, e costoro
mi assicurarono la operosa simpatia per novello regime de’ sopradetti.
Ma volendo io medesimo esplorare lo spirito pubblico vi posi l’animo, e mi
avvidi fin dal giorno 2 settembre che i primati, e la generale mal soffriva
la novità politica. Men dolsi con Purcaro e Vitoli, e questi mi riflettevano
che erano pochi i retrogradi della patria loro, ai quali non dovea darsi
retta.
Prestai fede ai medesimi in quella parte della faccenda pubblica, nella
quale essendo conterranei dovevano essere di me più scaltriti.
Diedi dunque gli ordini allo adunamento, in molta forza in quel centro
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Brigantaggio
recato alla universale senza offendere né punto né poco i Dogmi della nostra Sacrosanta Religione; ai secondi perché predicassero al popolo nello
stesso senso in favore del reggimento novello.
Or sia per la particolare inimicizia, sia per i sentimenti politici da me
professati, promulgato lo statuto, si insinuò alla plebe che quanto prima
avrei piantato ad Ariano la bandiera della Repubblica; e la plebe ciecamente commossa e sospinta irruppe in atti che offendevano la mia dignità
e minacciavano la sicurezza della mia persona. Mi si disse che mestatori
di siffatto sommovimento popolare siano stati gli Anzani ed io vi prestai
fede, dacchè nel caffè di Buccino il don Girolamo spargeva a mio danno
la voce di repubblicanismo, come a me dissero i fratelli Albanese e D.
Domenico e fratelli Figlioli.
Dopo quell’atto incomposto vennero alla mia presenza il sunnominato D.
Girolamo, mi parlò dell’insurrezione siciliana e di Garibaldi in mala parte
e con parole di disapprovazione. Finsi di non saper nulla, ed egli soggiunse
che sarebbe stato uomo di sciogliere il gran problema europeo e di lasciare
finire la rivoluzione con un sol colpo tirato al fronte di Napoleone III,
eccitatore di tutti i disordini che allora avvenivano.
Non passò molto e si ripetette la scena.
Aggredito il mio palazzo da insorti, dovetti transigere(3) andando via da
Ariano. Venne don Nicolino Forte a portarmi l’ambasciata che il Capitolo
desiderava il mio allontanamento (in tale circostanza si distinse coraggiosamente l’Arciprete del Conte, Adinolfi ed altri) e la nomina di un Vicario
Capitolare; e, poiché non era il caso di tale nomina previsto dalle Leggi
Canoniche, risposi che avrei invece lasciato un Provicario. Fu allora che
dal nominato Forte mi venne proposta la scelta in persona del Canonico
D. Nicola Anzani. Sotto la pressione della violenza mi piegai alla legge che
veniami imposta e partii.
Da Foggia ove presi stanza revocai la detta nomina con analoga circolare
in cui esponeva il motivo della revoca.
Andai poi a Monteleone (in una delle tante fughe in Monteleone il Caputo
nottetempo, sembra per avere violentato delle novizie, dovette andarvi
in mutande e camicia da notte; altra volta fu salvato dal capitano della
gendarmeria, il quale gli passò la sua divisa per confonderlo tra la folla,
facendolo allontanare poi sulla propria carrozza: il Caputo fece ritorno in
Ariano con un esercito di malandrini assoldati e prendendo novellamente
atteggiamenti da don Rodrigo) terra compresa nella mia giurisdizione ecclesiastica.
Quivi proseguirono a turbare la tranquillità del mio vivere, imperciocchè
il ricevitore dei sali don Giuseppe Anzani giunse allo estremo di negare la
sfondacazione ai venditori privilegiati di Monteleone fino a che gli abitanti
di questo Comune non mi avessero espulso. Colà essendo, dai liberali mi
venne chiesta per mezzo del Sindaco D. Luciano Trombetta una sovvenzione in danaro come mezzo finanziario della inaugurazione del Governo
Provvisorio ed io con piacere gli offrii una fede di credito di mille ducati.
Questa cambiata in danaro, mi venne restituita volontariamente la metà
di tal somma, tranne ducati 24 pagati per il cambio.
2) (Ribadiamo che Mons. Caputo fu un vescovo nero: la sua deposizione o testimonianza non è attendibile, ma
aveva scopi vendicativi, e la sua scaltrezza ebbe ragione anche su Garibaldi il quale gli concedeva, in buona
fede, massima carica).
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AEQVVM TVTICVM
Brigantaggio
In tale stato erano le cose, allorché tenendo io sempre intorno a me serrata una forza di 90 e più individui, impavido e sicuro in mezzo ad essa,
non fui certo in grado di resistere alla immensa reazione contadinesca,
ma rimasi padrone della città fino alla sera quasi, e libero uscii dal paese
fino alla volta di Greci, insieme al de Conciliis scortati ed onorati dalla
famiglia Anzani e qualche altro.
In Greci seppi la voce che costoro eransi nel seguente dì dei 5 messi alla
testa di una dimostrazione politica in favore di (Re) Francesco. Ma tal
voce rimase poscia rettificata da una contraria osservazione, val quanto
dire che quel contegno si fosse loro indettato dalla prudenza e dalla idea
di rifrenare gli insorti da qualunque siasi disegno contrario alla proprietà
degli Arianesi.
Anche là seppi che un prete avesse insussurato nei contadini in una Chiesa
il falso allarme che i forestieri s’adunassero in Ariano, pel fine da me testé
accennato, cioè a dire della più turpe santa fede.
Dopo pochi giorni alla testa di buona mano militare, ritornai in Ariano
per ricomporvi l’ordine e sottometterlo alla dittatura. Quivi ricevetti tante
cortesie da prenderne fastidio da tutti o quasi tutti i signori del Paese,
come gli Anzani, i Figlioli, Albanese ed altri.
Non certamente scortese fu l’accoglienza che mi ebbi nel primo andarvi,
ma non certamente uguale a quella del ritorno.
In questo riscontro presi i più premurosi indagamenti per iscoprire gli
istigatori della matta plebe, e non mi venne fatto di raccogliere, anche a
prezzo di “migliaia di promesse”, alcun elemento a carico di chicchessia e
specialmente degli Anzani.
Ad altra domanda ha risposto: “non mi rammento se mi si fosse parlato
nel giorno 4 di minacce di reazione da parte di Albanese, o di altri.
Quella giornata di confusione sbaragliava le associazioni delle idee. Mi
sovviene d’altra parte avere inteso dire di essermi riferito da persone che
non rammento, di aver letto una lettera diretta a Raimondo Albanese dal
marchese D. Adolfo d’Afflitto, con la quale gli si ingiungeva di respingere
ogni tentativo dè Garibaldini diretto a proclamare la prodittatura di Garibaldi”.
• Il 14 dicembre 1860 in Napoli nel proprio palazzo monsignor Caputo così
testimoniava al G.I. di Avellino(2):
la famiglia di D. Girolamo, D. Luigi e D. Nicola (canonico) Anzani, era
meco in broncio perché, con la fermezza apostolica che si addiceva ad un
Vescovo, io avea cercato di emendare taluni atti della vita dell’ultimo dei
sucennati, sebbene con cautela e con carità cristiana.
Sapevano essi la mia fede politica; come nell’esercizio del mio ministero
avevo cercato di proteggere i liberali che erano fatti segno alla persecuzione
dei Borbonici, come ne avevo salvato non pochi. Ma dalla mia maniera di
sentire in quanto a politica più si convinsero quando, avendo conosciuto
innanzi tempo che tra non guari sarebbero si pubblicato l’Atto del Sovrano di giugno ultimo, convocai alla mia presenza galantuomini notabili
e parrochi del paese, raccomandando ai primi di insinuare ai contadini
l’ordine sotto il novello regime, di istruirli del bene che lo stesso avrebbe
3) Il Caputo dovè fuggire da Ariano due volte, in circostanze drammatiche, non già per motivi politici ma per
la sua pagana condotta morale.
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“che gli istigatori della reazione potessero essere i fratelli Anzani, come
coloro che ligi al governo borbonico dominavano la massa di quel giorno”.
Aggiungeva due fatti:
“che nel giorno della reazione fu vista lungo la consolare di Ariano-Avellino
la carrozza della famiglia Gelormini, dalla quale carrozza si incitava il
basso popolo ivi concorso per massacro dei liberali”;
“che vi era stato accordo tra Vito Purcaro e Mons. Caputo” che mediante
il pagamento di ducati duemila doveva procurarsi il ritorno (questo è attendibile) del Caputo stesso in Ariano, donde era fuggito per cause dichiarate
in una deliberazione decurionale, il quale accordo eccitò la suscettibilità
del partito contrario a Mons. capitanato dagli Anzani, che oltre l’interesse
borbonico eran così mossi da quest’altro interesse di deviare quelle mire.
La reazione arianese secondo il testimone provenne anche dal rimestimento
del Partito dell’Ordine che voleva impedire la insurrezione operantesi dal
Comitato di Avellino creduto dipendente dal partito Libertino e Mazziniano
o di Azione.
E il Leo ciò provava esibendo alla Giustizia le lettere spedite dal marchese
Rodolfo d’Afflitto segretario del dicastero dell’Interno, e Raimondo Albanese a Nicola Maria Giovannelli, a Cesare Oliva.
Il teste prosegue adducendo motivi rispettivamente di interesse privato e
non resteranno mai chiariti definitivamente, per la vicendevole difesa che
ognuno fa; prosegue asserendo che molti personaggi che occupavano posti
di elevata importanza dispersero ogni traccia che poteva indicare il motivo
dell’insurrezione.
Cita ad esempio un Giuseppe de Marco Maggiore Insurrezionale di Vitulano,
un comandante Vincenzo Carbonelli, a cui gli Anzani avevano promesso
voti... favorevoli per la Deputazione al Parlamento Nazionale.
Gli Anzani poi godono il favore del passato procuratore generale signor
Giacchi, che si è anche recato in Ariano da loro per concertarne la difesa.
Non è minore l’interesse dello stesso marchese d’Afflitto pel noto Meo Scarnecchia suo colono… il capitano della guardia nazionale di Ariano Signor
Vitoli aspirando a matrimonio con un parente degli Anzani, non solo favorì
il disegno di costoro con sciogliere il Governo Provvisorio e disanimare il
Comitato ma lasciò che la Guardia Nazionale da lui comandata partecipasse
a manifestazioni minacciose accomunandosi alla plebe reazionaria… Il teste
udì dire che don Raimondo Albanese due giorni prima della reazione avesse
scritto all’Avv. D. Francesco del Franco di Avellino che il Comitato sarebbe
stato ricevuto in Ariano a colpi di schioppi se fosse andato a stabilirvi il
Governo Provvisorio…Che la famiglia Forte e più propriamente il canonico,
quel canonico “famosissimo borbonico” avesse avuta mano nella reazione…
opinione del Leo era che il “paese fosse borbonico”.
• Dal 10.9.1861 il Gran Giurì tenne tre mesi di istruttoria con venti udienze,
spese negli interrogatori degli imputati e di cinquecento testi. Ciò dipese
dall’ondata di tifo che colpì alcuni degli stessi indiziati.
• Il 17 l’Avv. Mercuro parlò per la parte civile.
• Il 18 il Procuratore Generale del Re pronunziò la requisitoria che fu severa
ed eloquente:
per 10 chiese la condanna a morte; per 9 i lavori forzati a vita; per 7 i
lavori forzati per la durata di 20 anni; per gli altri sette l’assoluzione.
Seguirono le difese. Subito dopo il 21 dicembre a tarda sera fu pronunciata
la seguente sentenza:
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Brigantaggio
Colà seppi ancora quanto segue:
“alla presenza di D. Giovanni Rampini mi venne narrato da persone che
non rammento che certi coloni andati in Ariano ebbero il suggerimento dal
marchese Figlioli o da qualche individuo della sua famiglia di non recare il
grano nel lunedì o martedì successivo, senza spiegarne la causa, la quale
poi ben si fece manifesta, perché appunto nel secondo dè suddetti giorni
si avverò il terribile scempio di quegl’infelici forestieri andati colà per il
Governo Dittatoriale.
Mi si disse ancora che nel giorno 4 settembre ultimo si trovavano nella
bottega del monaco Giappone, una volta delle monache, D. Luigi Anzani,
un tal De Furia e D. Girolamo Anzani. Costui all’udire l’ingresso delle
Guardie Nazionali forestiere, festeggiato dalla banda musicale di Taurasi,
disse le parole “ora che più si aspetta?”
Questo almeno ricordo.Ricordo con precisione peraltro che quelle misteriose
parole non vennero profferite alla notizia dello spezzamento della corda
elettrica, come Ella dice Don Mario Rampino di Monteleone può darle
chiarimenti sul proposito Rocco Capobianco anche di Monteleone che udì
le parole medesime.
• Ad altra domanda ha risposto:
“tra gli individui del Clero a cui raccomandi la istruzione del popolo non
era il canonico Anzani. Tutti peraltro si mostrarono condiscendenti alle
mie insinuazioni. Ignoro la relazione tra D. Giuseppe Santosuosso ed i
galantuomini di Ariano. Il medesimo nel 1848 mostrò sensi di liberalismo,
attalché per essi soffrì la prigione; ma deggio dichiararle franco che fin
da quando io ero a Monteleone sentii parlare della di lui complicità nei
deplorevoli avvenimenti di Ariano.
Quando io ero a Foggia in agosto ultimo vidi il conte Gaetani e quivi mi
si disse che eravisi recato per fini reazionari, onde ne fu espulso.
Per via si fermò in Ariano, si trattenne in casa di don Lorenzo Parzanese,
ed ebbe contatti anche notturni con gli Anzani, Albanese e Figlioli.
Potrà chiedere delucidazioni all’arciprete del Conte, il quale probabilmente
potrebbe fornirle.
Ho inteso da molti Arianesi che i reazionari del 1848 furono gli stessi
Anzani, Parzanese e D. Francesco Gelormini zio di D. Girolamo Anzani.
Il Gelormini tolto pretesto dallo innalzamento di una lunga trave da servire
a sostegno al meccanismo della parata per una festa, per mezzo di un sotto
capo della Guardia Nazionale fece intendere al Governo che i liberali aveano già issato l’albero della repubblica, attalché una forte mano di Regi,
ita in Ariano, vi mosse lo spavento.
In seguito all’avvenimento posteriore di quell’anno il maggiore Anzani,
fratello degli altri che dimorano in Ariano, si recò nel capoluogo nascostamente e fatto un processo amministrativo dié luogo a persecuzioni d’ogni
natura manifestate dal Governo Borbonico contro parecchi, tra cui D. Vito
Purcaro.
Finalmente aggiungo che a detta persona che non rammento, D. Girolamo
Anzani pria della reazione nutriva e manifestava grandi speranze della
vittoria di Francesco II su Garibaldi dicendo “se vincerà Francesco II io
sarò il Re di Ariano”.
Altra testimonianza da non tralasciare è quella dell’Avv. Oronzo Leo, di
Francavilla Fontana, confinato in Avellino.
Assumeva egli.
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Brigantaggio
loro azione, ma i meno coraggiosi determinarono invece gli avvenimenti delittuosi, perché, non per uno scopo politico, ma per sola imprudenza, osarono
spezzare sulla via consolare che mena alle Puglie il filo elettrico. Di qui urla,
suonarono a stormo tutte le campane ed i villici, gridando che i forestieri
erano venuti ad involare S. Oto, a porre il sacco alle case, smettere l’onore
delle donne e dalle grida si passò ai primi fatti (il teste Leopoldo De Paola,
benestante, parla di 4-5 mila rivoltosi).
Al che i meno coraggiosi patrioti presero la fuga. Arrivati all’ultimo rione
della città (San Rocco nei pressi delle attuali carceri), fu giocoforza marciare
tra due file minacciose di contadini armati. Fu così che i “nazionali” impauriti posero le armi e da “codardi” chiesero scusa, chiedendo amichevole
commiato. Ma la malvagità della natura villana scaricò invece sui miseri colpi
d’archibugi. Furono scene impressionanti: chi riuscì a fuggire tra le siepi,
altri addirittura verso la consolare. Gli scampati, secondo i testi furono dai
“cannibali” derubati e letteralmente spogliati, non senza subire batoste.
Immensa, si disse, la quantità dei morti “ma la generica suppletoria liquidava a trenta il numero degli uccisi, cinque i feriti”. Altri parlavano di
centinaia di uccisi(6). Per quanto riguarda S. Oto, Parzanese Agostino dichiarava che nel 1799
era stata involata ed il popolo temeva che si potesse ripetere il sacrilegio che
andava a danno di Ariano.
Il capo del dramma sanguinoso fu Bartolomeo Lo Conte fu Oto, alias Scarnecchia. La maggior parte degli uccisi “provvisti di numerario, di ciondoli
ed orologi furono derubati e si videro del tutto denudati”. Il furto sembra
sia stato, per taluni, lo scopo dell’aggressione.
Il giudice locale non potè accertare i fatti del furto perché i rivoltosi con
vie di fatti impedirono accertamenti all’ufficiale di polizia, ed atterrarono
anche alcuni morti. I forestieri furono spenti con armi da fuoco, da taglio e
punta e ferri contundenti.
Due degli scampati, don Cesare Urciuoli e don Giuseppe de Angelis, da
Ajello e di Conza, testimoniarono di essere stati derubati. Il primo era capo
plotone delle Guardie Nazionali.
I sediziosi gridarono per le contrade tutte Viva Francesco II a morte Garibaldi.
…ma nonostante di essere stati delusi nella aspettativa progredirono nelle
violenze contro le persone e la proprietà; due volte aggredirono il corpo delle
Guardie Nazionali e si impadronirono delle armi, cancellando ogni senso del
tricolore che vi era in quel locale.
Rifrustrarono le case di Franza e del Giacomo ed altri luoghi per cacciarne
i forestieri e fare a pezzi i quadri del Dittatore e del Re Vittorio Emanuale.
Disposero pattuglie e l’eseguirono, assunsero la custodia delle prigioni e
credettero di mantenere l’ordine pubblico, nominando il Sindaco, il capourbano, ed il primo Eletto, e dopo tutto questo pretesero dal sottointendente
che avessero annunziato telegraficamente al Re Francesco le di loro gesta
sanguinose, come ancora imposero alla prefata autorità di domandare se
il Re avea tuttavia l’intenzione di mantenere le franchigie concedute. I se-
4) Un Regio Decreto del 23/09/1871 commutava a costui la pena dei lavori forzati per anni 20; e un R.D. del
22/03/1874 gli concedeva ancora un anno di diminuzione.
5) Il verdetto è del 21/12/1861.
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Brigantaggio
LA GRAN CORTE CRIMINALE DEL PRINCIPATO ULTRA
ALL’UNANIMITA’
Condanna
Lorenzo Mastandrea, Vincenzo Monaco, Francescantonio Grasso alias
Todisco(4), alla pena dei lavori forzati a vita;
Nicolantonio Grasso, anni 22 lavori forzati;
Bartolomeo Lo Conte fu Oto alias Scarnecchia, Raffaele Savino, Camillo
Castellano, Domenico Borriello, Pasquale Manganiello, Giuseppe Palmieri,
Raffaele Palmieri, Basilio Petrosino, alla pena di anni 20 lavori forzati
ciascuno;
Michele Ianniciello, Lorenzo Pagliara, alla pena di anni 15 lavori forzati
ciascuno;
Liberatore Vitillo, Domenico Riccio, ad anni 12 ciascuno stessa pena
(lavori forzati)
• Condanna tutti e sedici gli accusati al rinfranco dei danni ed interessi a
pro della parte civile e solidalmente alle spese del giudizio.
• Ordina mettersi in libertà provvisoria:
Don Giuseppe sac. Santosuosso, Vincenzo Fierro, Domenico Gambarota,
Gennaro Gambarota, Ciriaco Petrosino, Bartolomeo Lo Conte, Michelangelo Lo Conte fu Giuseppe, Giuseppe Lo Surdo, Ciriaco D’Apice, Gabriele
Cirillo, Nicola D’Antuono, Luigi Mainiero, Luigi Montanarella, Antonio
Simone, Raffaele Somma, Michele Zerella, Oto Manganiello.
Ma la lunga e ragionata sentenza non fu stesa e presentata in cancelleria che
il 18 febbraio 1862(5). La Gran Corte sulle prove del doppio processo scritto ed orale ricostruì e
ritenne il seguente
FATTO
Si legge che
Molti notabili di questa provincia presi da entusiasmo delle vittorie dell’Eroe
Nizzardo pensarono di partecipare al gran disegno dell’Unità d’Italia cooperando alla insurrezione Lucana. Dai circostanti paesi convenivano numerosi
volontari (molte centinaia di guardie nazionali) per stabilirvi un governo
provvisorio: ciò avveniva tra il 3 ed il 4 settembre 1860.
Entrati in città senza resistenza alcuna fu loro dopo negato financo l’acqua
e mostrate invece armi con parole minacciose. I forestieri, all’inizio, non calcolarono i pericoli e si diedero quindi a formare il governo provvisorio. Ma
la prima opposizione fu dei notabili della città radunati al palazzo vescovile.
Le guardie nazionali divennero man mano prudenti aggiornando il movimento.
Giungevano nel frattempo i primi villici armati d’ogni sorta d’arme.
Nella circostanza alcuni dei patrioti non seppero tollerare il rinvio della
6) Un barbiere di Grotta venuto ad Ariano, corriere tale Giocondino Guiducci, ne aveva contato sulla consolare
38: cifra modificata all’udienza in 28 e che al ritorno ne vide molti di più per le campagne.
Un certo Minichiello Giuseppe, proprietario, da Grotta, che dopo la strage apprese da Meo Scarnecchia che ne
erano stati uccisi 160. Il Meo nell’elevare la cifra, voleva scusare le cifre elevate dalle prime voci. Essi appartenevano ai comuni di: Ajello, Prata, Cairano, Conza, S.Andrea, Vallata, Andretta e Mirabella.
AEQVVM TVTICVM
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Brigantaggio
proveri rispondevano che erano stati comandati dai galantuomini di Ariano;
dai notabili che avevano soffiato nei loro animi. Nella triste circostanza va
considerato che detti galantuomini e Guardia Nazionale paesana non patirono
alcun danno.
Invano i condannati ricorsero in Cassazione: fu rigettato il ricorso e condannati alle spese del doppio giudizio. Alla prima seguiva un’altra sentenza
della Gran Corte Criminale di Principato Ultra del 31.1.1862 ridimensionò
i fatti, caldeggiando che la reazione era dovuta ai timori di saccheggi o rappresaglie della stessa soldatesca borbonica.
Riguardo ai Galantuomini arianesi accusati di aver soffiato la reazione
furono essi assolti con formula piena, perché “cooperarono a tranquillizzare
gli animi ed a promuovere i principali liberali fra i naturali di Ariano”.
• Tra i nomi dei galantuomini:
Girolamo Anzani, Raffaele Bilotta, Francesco Ciani, Raffaele de Paola,
Leopoldo Parzanese (arrestati e scarcerati).
Francesco Gelormini, Raffaele Rendesi, Michelangelo Carluccio, Ottavio
Carluccio, Emilio Figlioli, Erminio Rosica (giudice), Luigi de Gennaro
(sottintendente), Luigi Anzani, don Raimondo Albanese (sindaco ff.).
Dopo l’uno e l’altro giudizio essendo stati catturati i seguenti altri ricercati,
abolite la Gran Corte Corte Criminale, essi furono giudicati in Avellino Corte
di Assise.
Cappelluzo Ciriaco alias Pandolio, Covotta Michele alias Spallone, Covotta Oto Maria alias Spallone, Cusano Leonardo ex soldato, D’Attoli
Michele alias Montecalvese, Di Gruttola Liberatore, Ferrara Michele, Giorgione Michele bracciale, Grasso Gioacchino alias Pischeca,
Guardabascio Liberatore, Guardabascio Nicola alias Ramigno, Lepore
Tommaso, Lo Conte Antonio, Lo Conte Giuseppe detto Ceppone,
Manganiello Ciriaco alias Mussillo, Mastandrea Giuseppe, Mastandrea
Michele, Pannese Michele alias Cicatiello, Pannese Raimondo, Perrino
Giuseppe, Puopolo Domenico, Regio Gennaro, Riccio Antonio - fratello
di Domenico imputato e condannato -, Riccio Luigi, Salza Liberatore,
Tolino Luigi, Triggianese Pasquale, già carcerato per furto.
Ne mancavano ancora 11 di cui uno veniva assicurato alla Giustizia: Giuseppe
De Maina, bracciale.
• Il dibattimento iniziato il 10 ottobre 1864 durò 16 giorni.
P.M. Carlo Bussola, che escluse dall’accusa la scritta cospirazione, l’attentato e la premeditazione.
Sulla difesa Achille Rubilli, T. Guerriero, Agostino de Biase, Francesco
De Dominicis, Giuseppe Marotta.
• Il 26 ottobre la Corte di Assise di Avellino, Presidente Antonio Pesce,
Giudici Cappuccio e Napoletano:
condannò
• Michele Giorgione, Ciriaco Manganiello, Liberatore Salza, Gioacchino
Grasso, Giuseppe Mastandrea alla pena dei lavori forzati per 20 anni.
• Michele Covotta e Oto Maria Covotta a 10 anni ai lavori forzati.
• Michele D’Attoli, Liberatore De Gruttola, Michele Mastandrea, Raimondo Pannese, Ciriaco Cappelluzzo, Nicola Guardabascio, Tommaso
Lepore alla pena di anni 5 ciascuno.
• Giuseppe Perrino un anno,
• Assolveva gli altri 12 imputati.
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AEQVVM TVTICVM
Brigantaggio
diziosi non si arrestarono a queste sole cose, temendo la riscossa dei paesi
circonvicini si mantennero per più giorni in uno stato di allarme; e tutti sui
diversi punti delle strade erano all’erta; cercarono nelle carrozze Guardie
Nazionali e plichi di corrispondenza, davano e negavano il passaggio a loro
volere; impedirono come si è detto, all’agente della Giustizia investigatrice la
facoltà di procedere alle autopsie, minacciarono chi spinto da pietà cristiana
si accostava a dare agli estinti gli ultimi onori della tomba; respinsero con la
moschetteria chiunque si accostava ai loro posti, ed obbligarono i viandanti
a salutare il Re Francesco.
Quattro giorni durava questo stato terribile, in cui era un delitto vivere;
al sopraggiungere in quella città le numerose schiere dell’Eroe di Calatafimi,
come ombra tutto disparve la ignava razza plebea riprese i suoi covi e le sue
campagne, ed ognuno fu intento alle proprie consuete occupazioni.
Gli eccidi consumati vi ha chi sostiene che fossero stati conseguenze di un
precedente concerto: vi ha chi (non) ammette (essere) un fatto di premeditazione….
I contadini, autori degli eccidi o partecipanti comunque ai fatti, ai rim-
7) (Nota dell’Autore) per alcuni di essi, il brigantaggio, la cattiveria, la violenza ed il furto si protrae
ancora nei discendenti attuali.
AEQVVM TVTICVM
pag. 89
Aequum Tuticum
ELENCO DONATORI AL MUSEO CIVICO
alla data del 31/12/2007
- D’Antuono Mario
- D’Antuono Nicola fu Mario
- D’Antuono Nicola fu Silvio
- D’Antuono Ottaviano
- D’Agostino Maurizio
- De Donato Antonio
- De Furia Aldo
- De Majo Ettore
- Del Conte Claudio
- Dekor Maioliche
- Di Chiara Giuseppe
- Di Furia Franco
- Di Furia Mazza Rosa Maria
- Dotoli Emilia
- Esposito Andrea
- Ferragamo Nicola
- Flammia Gennaro
- Formato Augusto
- Formato Gabriele
- Forte Graziella e Carla
- Franza Luigi
- Gambacorta Raffaele
- Gianuario Antonio
- Giorgione Natale
- Gonzi Bruno
- Grasso Antonio fu Luigi
- Grasso Gaetano
- Grasso Lorenzo
- Guardabascio Raffaele
- Guardabascio Vincenzo
- Iacobacci Candido
- Iorio Celeste
- Iuorio Carmine, Marinunzia, Myriam e Simona
- Lanzafame Concetta
- Liscio Nicola
- Maiolicart
- Manganiello Antonio
- Mariano Mario
pag. 90
- Mascia Carlo
- Mastrangelo Vito Ciriaco
- Mazza Emerico Maria
- Mazza Renato
- Melito Nicola
- Moscatelli Antonietta
- Moscatelli Pasquale
- Orsogna Giovanni
- Ortu Mario (eredi)
- Paradiso Mario
- Pignatelli Della Leonessa Melina
- Pirelli Serra Teresa
- Pisapia Enzo
- Piscitelli Antonio
- Pollastrone Luigi
- Pratola Nicolantonio
- Pro Ariano
- Provincia di Avellino
- Purcaro Giuseppe
- Riccio Loreta e Rosa
- Rogazzo Vincenzo
- Salvatore Salvatore (direttore Vicum)
- Sampietro Pino
- SanPaolo Banco di Napoli
- Santosuosso Domenico
- Scapati Guglielmo
- Schiavo Luigi
- Scrima Stefano
- Serluca Pia
- Sorgarello Novario Anita Lucia
- Spagnuolo Lorenzo
- Speranza Francesco Paolo e Gerardo
- Speranza Gabriele
- Titomanlio Guido
- T L T Engineering
- Tiso Tullio
- Vara Liberato
- Villamarino Carmela
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Aequum Tuticum
- Adriatica Costruzioni
- Alterio Antonio
- Associazione Amici del Museo di Ariano Irpino
- Associazione Amici del Museo di Foggia
- Associazione Circoli Culturali di Ariano Irpino
- Associazione F.I.D.A.P.A. di Ariano Irpino
- Associazione LIONS Club di Ariano Irpino
- Associazione Panathlon Intenational di Ariano Irpino
- Aucelletti eredi
- Autocardito di Gino Giorgione
- Avella Egidio
- Banca Popolare Ariano Valle Ufita
- Bilotta Federico
- Blasi Antonio
- Capozzi Ada
- Cardinale Antonio
- Cardinale Giuseppe
- Caro Donato
- Chianca Emilio
- Ciccarelli Erminio
- Ciccone Adriana
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- Ciccone Aldo
- Ciccone Antonio
- Ciccone Maria
- Ciccone Teresa
- Circolo Culturale Nuova Dimensione di Ariano Irpino
- Cocca Domenico
- Corsano Angelo
- Cozzo Francesco
- Cozzo Giovanni
- Credito Italiano
- Cuoco Franco
- D’Alessandro Annamaria
- D’Alessandro Emma
- D’Alessandro Domenico
- D’Alessandro Vincenzo
- D’Alessandro Vittorio
- D’Angelo Ugo Costruzioni
- D’Antuono Antonio
- D’Antuono D’Alessandro Luigia
pag. 91
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Tel. 0825 828680 - Fax 0825 828018
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pag. 92
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pag. 94
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Litografia “IMPARA”
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Ariano Irpino (Av)
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