In copertina: illustrazione di Mark Topham GRAFICA STUDIO BARONI Alle porte del terzo millennio scoperte e rivelazioni sul futuro della nostra civiltà Affascina e cattura... il modo di procedere e trarre le conclusioni e chiaro e ben argomentato... un libro che «costringe» alla lettura ΤHE SUNDAY TIMES Una teoria ben elaborata che si legge come un racconto poliziesco... straordinario! ΤHE DAILY MAIL Il mondo finirà il 22 dicembre del 2012: è questa l'inquietante profezia che i maya fecero 5000 anni fa. Ma chi erano i maya? Da dove arrivava questo popolo misterioso che edificò straordinarie piramidi e meravigliosi templi in mezzo alle foreste tropicali dell'America Centrale? Cosa vogliono dirci le eccezionali iscrizioni che hanno lasciato? Perché scomparvero all'improvviso? Cosa accadrà nel 2012? Decodificando le complesse intuizioni e rappresentazioni astronomiche e astrologiche dei maya, Maurice Cotterell e Adrian Gilbert ne annunciano le profezie per l'anno 2012 e, se ci saranno, per quelli seguenti. In questo libro avvincente e per molti aspetti controverso gli autori rivelano: • che la nascita e il declino delle ere del mondo e delle civiltà coincidono con i cicli delle macchie solari • che una riduzione dell'attività delle macchie solari ha causato una diminuzione della fertilità nel popolo maya e con ciò l'improvvisa scomparsa di questa civiltà • che furono gli antichi egizi e i sopravvissuti alla scomparsa di Atlantide a fondare le antiche civiltà dell'America Centrale. Un libro straordinario di rivelazioni, scoperte e vaticini per leggere con occhi profetici la preistoria della nostra civiltà e per capire ciò che il futuro potrà riservarci. Adrian G. Gilbert ha acquistato fama internazionale grazie a un documentario della BBC sulle Piramidi; è coautore del libro The Orion Mystery di prossima pubblicazione in Italia presso Corbaccio. Maurice M. Cotterell, ingegnere e scienziato, ha pubblicato con successo numerosi libri in tutto il mondo. pag. 371 - LIRE 28.000 (i.i.) ADRIAN G. GILBERT MAURICE M. COTTERELL LE PROFEZIE DEI MAYA Traduzione di Lidia Perria e Stella Boschetti CORBACCIO Titolo originale: The Mayan Prophecies Traduzione dall'originale inglese di Lidia Perιria del testo di A. Gilbert e di Stella Boschetti delle appendici di M. Cotterell PROPRIETÀ LETTERARIA RISERVATA © Adrian Gilbert and Maurice Cotterell 1995 First published by Element Books Ltd., Shaftesbury, Dorset, UK. All rights reserved. This translation published by arrangement with Linda Michaels Limited, International Literary Agents. © 1996 Casa Editrice Corbaccio s.r.l., Milano ISBN 88-7972-212-3 L'Editore ringrazia la Arnoldo Mondadori Editore per l'autorizzazione a pubblicare i brani tratti da Timeo di Platone; le Edizioni Paoline per l'autorizzazione a pubblicare i brani tratti da Relazione sullo Yucatán di Diego de Landa. Alla popolazione del Messico passata presente e futura INDICE 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 Prologo I misteriosi maya La concezione del tempo presso i maya Una nuova astrologia solare Maurice Cotterell in Messico La terra del serpente a sonagli Il nuovo fuoco, i Chac-Mool e il « teschio maledetto » Tradizioni transatlantiche Gli olmechi e Atlantide Il sole, la sua energia, i suoi influssi La catastrofe di Atlantide 7 13 41 58 79 120 154 173 189 211 229 1 2a 2b 3 4 5 6 7 8 Appendici Astrogenetica L'astrogenetica e i dodici tipi zodiacali Una razionalizzazione scientifica dell'astrologia La radiazione solare e la produzione ormonale negli esseri umani Il ciclo delle macchie solari Il declino dei Maya Catastrofe e distruzione I numeri e il sistema di calcolo dei maya La straordinaria lastra di Palenque 251 253 254 261 270 280 293 298 301 333 Glossario Bibliografia Ringraziamenti Indice dei nomi Fonti fotografiche 353 357 361 363 369 PROLOGO La mattina del 12 settembre 1993 ero seduto nella cucina della casa del mio collega Robert Bauval, intento a discutere con lui gli ultimi ritocchi al nostro libro The Orion Mystery (Il mistero di Orione), che stava per essere pubblicato. Era quasi un anno che lavoravamo in simbiosi a quel progetto e avevamo appena partecipato a una riunione con i rappresentanti del settore vendite della nostra casa editrice. Euforici per l'accoglienza ricevuta, ma nello stesso tempo esausti per il sonno perduto, tentavamo di rilassarci leggendo l'edizione domenicale dei giornali. Mentre ne sfogliavo uno, l'occhio mi cadde quasi subito su un articolo scritto da un certo Michael Robotham. Sopra le immagini di un palazzo in rovina, di una piramide e di una scultura spaventosa che raffigurava un dio-pipistrello, campeggiava a caratteri cubitali il titolo SVELATO UN MISTERO SECOLARE. Sotto il palazzo e sopra un'altra foto, stavolta di un tipo alla Indiana Jones che sbucava dalla giungla tendendo verso l'obiettivo una lastra di pietra, il titolo a tutta pagina proclamava: L'UOMO CHE HA DECIFRATO IL CODICE DELLE INCISIONI MAYA. Ormai non poco incuriosito dall'argomento, accostai una sedia al tavolo e cominciai a leggere l'articolo. Appresi che il palazzo e la piramide illustrati nelle foto sorgevano in una zona isolata del Messico sudoccidentale, in una località chiamata Palenque. Questa faceva parte di un gruppo di città costruite dai maya, un popolo geniale la cui civiltà declinò improvvisamente nel corso del secolo IX dopo Cristo. Benché i loro discendenti continuassero a coltivare le colline a nord, Palenque e le altre città situate in pianura furono abbandonate alla giungla, scomparendo così sotto un baldacchino di alberi e rampicanti rigogliosi. L'uomo nella foto, colui che a quanto pareva aveva decifrato il « codice dei maya », era un certo Maurice Cotterell, e la lastra di pietra che mostrava all'obiettivo era la copia del coperchio di un sarcofago trovato nella piramide. Avevo già sentito parlare di quella pietra misteriosa, il cosiddetto «coperchio del sarcofago di Palenque», per lo più in rapporto a teorie su divinità giunte dallo spazio. Perciò restai piuttosto sorpreso nello scoprire che Cotterell non formulava simili ipotesi azzardate: la sua decifrazione della lastra sembrava basata su un approccio più scientifico, che analizzava il reperto alla luce della mitologia maya e di alcune teorie collegate ai cicli solari. Nell'articolo si avanzava un'ipotesi plausibile sul motivo del repentino crollo della civiltà maya, che a tutt'oggi resta in larga misura un mistero, e le idee di Cotterell sembravano schiudere nuovi orizzonti. Leggendo l'articolo, mi resi conto di quanto poco sapessi dei maya, anzi di tutte le civiltà americane anteriori alla conquista. Come tanti altri, naturalmente, avevo visto qualche documentario che illustrava misteri come quello delle linee tracciate sul terreno nel territorio dei nazca, in Perù, ma non avevo un quadro d'insieme della successione delle civiltà dell'America centrale così come l'avevo, per esempio, per l'Europa, l'Egitto o la Mesopotamia. Inoltre non mi ero reso conto dell'alto livello di raffinatezza raggiunto dalle piramidi e dai templi del Messico. Dopo un viaggio compiuto in Egitto per visitare la grande piramide di Giza, tendevo a pensare che le piramidi fossero o costruzioni imponenti, di una semplicità geometrica, oppure mucchi di rovine. Le piramidi del Messico erano diverse, simili alle ziqqurat di Babilonia o addirittura alle pagode cinesi più che alle piramidi dell'Egitto. Eppure erano connesse con il culto dei morti proprio come le piramidi egiziane e ora sembrava che avessero anche un significato simbolico che le collegava a una religione astronomica. Quest'ultima connessione mi sembrava particolarmente suggestiva: Robert Bauval e io eravamo sul punto di pubblicare Il mistero di Orione, proponendo una nuova teoria astronomica per spiegare l'origine delle piramidi egiziane. Adesso ero ansioso di sapere se questo Cotterell era in grado di trovare connessioni simili per le piramidi del Messico. L'articolo non giungeva a tanto, ma prima di deporre il giornale mi ripromisi di indagare sulla faccenda non appena ne avessi avuto il tempo. Doveva passare qualche mese prima che mi ritrovassi in macchina, nel maggio 1994, in viaggio verso la Cornovaglia per conoscere di persona Maurice Cotterell. Il mistero di Orione era stato pubblicato nel febbraio precedente, accompagnato da un documentario della BBC intitolato La grande piramide - La porta delle stelle, interpretato da Robert Bauval e da me. Nel giro di una notte il libro era diventato un best-seller, nonostante la forte opposizione di alcuni autorevoli egittologi, costernati per il fatto che eravamo riusciti ad aggirare le lungaggini dell'accademia. Nell'eccitazione che aveva circondato il lancio del libro e la realizzazione del documentario, avevo quasi dimenticato la lastra del sarcofago di Palenque, quando un conoscente comune mi mostrò una sintesi dell'opera di Cotterell. Restai colpito dall'ampiezza e dall'originalità del suo lavoro; sembrava che avesse svolto ricerche non solo sul Messico e sui maya, ma anche su molti altri argomenti. A quel punto avevo il suo numero telefonico e decisi di chiamarlo; non era disposto a dilungarsi al telefono, ma ci accordammo perché andassi a trovarlo durante il weekend per dedicare tutto il tempo necessario a esaminare con calma quel vasto complesso di ricerche. Dopo avere percorso in macchina tortuose stradicciole di campagna fiancheggiate da alberi e oltrepassato uno stretto cancello posto ad angolo retto rispetto al ripido viale d'accesso, mi trovai di fronte a una bizzarra costruzione del Settecento, affacciata sul fiume Tamar. Non fu necessario bussare, perché Cotterell mi aveva sentito arrivare e aprì subito la porta. Non ci restava altro che presentarci ed entrare in casa a bere una tazza di tè. Maurice Cotterell ha una quarantina d'anni, anche se può sembrare più giovane; snello e rapido nei movimenti e nel modo di parlare, ha un temperamento vulcanico. Tenendo in mano le tazze di tè, salimmo subito nel suo studio, dove, con l’aiuto di una lavagnetta e di alcuni pennarelli, si accinse a spiegarmi le sue teorie. Parlò per quasi sei ore senza interruzioni, sfornando ogni tanto un tabulato dalla stampante o usando una trottola come modello tridimensionale per dimostrare un punto essenziale. Eppure le ore volarono via senza che ce ne accorgessimo, tanto erano interessanti e originali gli argomenti che mi esponeva. Come uno spettatore interessato alla trama avvincente di un film, volevo saperne di più e nello stesso tempo ero impaziente di arrivare alla fine. A volte la nostra conversazione assumeva un carattere profondamente tecnico e io mi spremevo le meningi nel tentativo di ricordare quello che avevo imparato venticinque anni prima riguardo alla differenziazione parziale e alla meccanica delle onde. In altri momenti ci trastullavamo con riproduzioni trasparenti della lastra di Palenque, sovrapponendole l'una all'altra per produrre bizzarre immagini di divinità e draghi. Il suo lavoro aveva due aspetti, uno razionale e « scientifico », l'altro intuitivo e « artistico », eppure i due aspetti si intrecciavano, rivelando puntuali rimandi incrociati. Gli schemi figurativi rivelati dal lavoro sui trasparenti non difettavano di logica e la scienza, dal canto suo, non era priva di una sua singolare bellezza. I due aspetti del suo lavoro somigliavano alle due facce di una medaglia, o ai due emisferi del cervello umano; erano due e nello stesso tempo uno solo. Anche se apparivano diversi, al centro di entrambe le linee di ricerca c'era lo stesso tema, schiacciante e quasi spaventoso: la totale dipendenza dell'umanità dai cicli del sole. È un tema schiacciante nel senso che, così come non si può guardare direttamente il sole senza diventare ciechi, più si studia l'argomento dei cicli solari, più si comprende fino a che punto noi abitanti del pianeta Terra siamo ciechi alle realtà che regolano la nostra esistenza. Ed è spaventoso semplicemente a causa della nostra ignoranza. Con la testa che mi girava come una trottola, uscimmo dallo studio di Cotterell per gustare l'ottima cena a base di salmone locale cucinato da sua moglie Ann. Bevendo il vino e mangiando il dessert, consolidammo la decisione che avevamo già preso e cioè che avremmo scritto un libro insieme, per rendere accessibili quelle teorie a un pubblico il più vasto possibile. Avendo collaborato con un altro autore alla stesura del Mistero di Orione, capivo benissimo come fosse difficile procurare un'adeguata diffusione a idee radicalmente nuove, che mettevano in discussione i dogmi scientifici dell'archeologia ortodossa. Per un professore è fin troppo facile avvalersi della propria autorità per mettere a tacere il dibattito accademico su teorie che non condivide. Perciò non mi sorprese apprendere che anche Cotterell come Bauval, col quale avevo già lavorato, si era duramente scontrato con l'opposizione del mondo accademico. Le sue idee sui cicli delle macchie solari avrebbero meritato di per sé una debita attenzione, eppure autorevoli riviste accademiche si rifiutavano di pubblicare i suoi articoli, in gran parte, ho il sospetto, perché non era un « esperto » ufficialmente riconosciuto, nel senso ristretto del termine. Eppure sotto un altro punto di vista, ossia come autore di queste teorie, e cioè l'unica persona che, per quanto si sa, abbia studiato l'argomento sotto questo aspetto, è il massimo esperto mondiale. Ci si potrebbe domandare chi sia lo scienziato, se il professore con una sfilza di titoli accademici che in realtà si limita a starsene seduto dietro la scrivania, oppure l'outsider che esce allo scoperto con idee originali. Le idee di Cotterell sono rivoluzionarie ed è naturale che siano controverse; eppure rivelano una loro coerenza. Il suo studio sulla lastra del sarcofago di Palenque e sui cicli delle macchie solari comporta una revisione radicale non solo della storia dell'America centrale, ma del nostro possibile destino. Al giorno d'oggi non si fa che paventare l'assottigliarsi dello strato di ozono, l’effetto serra, l’inquinamento, la sovrappopolazione e l'esaurimento delle risorse; ma questi timori sottintendono, nonostante tutto, una grande fiducia nelle capacità della civiltà moderna di cavalcare la tempesta e di superare qualunque battuta d'arresto. Anche chi ritiene infondata questa fiducia ed è convinto che dovremmo fare tutto il possibile per tornare a un tipo di vita più semplice, scevro dalle sovrastrutture superflue della vita moderna, in un certo senso considera l'umanità capace di determinare le proprie sorti. Tutte le nostre utopie danno per scontato che, almeno in teoria, sia possibile per l'umanità vivere in pace e in armonia con il pianeta, anche se questo in pratica non avviene. Eppure cos'è questa, se non una convinzione fallace? E se esistessero fattori cosmici sui quali non abbiamo la minima possibilità di controllo? E se l'ascesa e il declino della civiltà stessa fossero governati dal sole, come suggerisce Cotterell? Dovremmo per questo ostentare disprezzo, nascondendo la testa nella sabbia, oppure tentare di capire meglio queste influenze? I maya utilizzavano un calendario complesso ed estremamente preciso. Noi ora siamo in grado di decifrare almeno in parte i loro geroglifici, che corrispondono per lo più a date: al centro dell'interesse dei maya c'erano il sole e la convinzione che sul genere umano pendesse la spada di Damocle di un futuro apocalittico. È facile liquidare le loro ansie come semplici superstizioni, ma chi può dire se su questo punto non ne sapessero più di noi, come pare suggerire il lavoro di Cotterell? Dovremmo piuttosto fare del nostro meglio per riportare alla luce queste conoscenze: è un debito che abbiamo tanto con noi stessi quanto con i nostri figli. Allora, se non altro, potremo prepararci a cambiamenti globali, anche se non saremo in grado di controllarli. Questo almeno dovrebbe essere l'atteggiamento responsabile di tutti i veri scienziati: io, comunque, pur senza arrogarmi il merito delle scoperte di Maurice Cotterell, voglio sapere. Non possiamo fare altro che confidare che anche voi lettori la pensiate così. ADRIAN GILBERT 1 I MISTERIOSI MAYA Nella giungla dell'America centrale sono disseminate le rovine della civiltà di un popolo circondato da un alone di mistero: i maya. Chi erano? Da dove venivano? Quale messaggio hanno lasciato in eredità ai nostri tempi? Questi sono soltanto alcuni degli interrogativi che tormentano esploratori, studiosi e scrittori da oltre duecento anni, da quando cioè furono riscoperti, nel 1773, i resti della loro città più famosa, Palenque.1 Questa città straordinaria, che ancora non è stata del tutto riportata alla luce ed è minacciata perennemente dalla giungla che tenta di inghiottirla, costituisce una delle meraviglie del Nuovo Mondo. I suoi templi e i suoi palazzi, fatti di calcare di un bianco luminoso e costruiti con una maestria che avrebbe fatto onore agli artefici del Rinascimento, continuano a suscitare lo stupore di tutti i visitatori. Eppure solo da quando, nella seconda metà di questo secolo, abbiamo cominciato pian piano a decifrare le iscrizioni che ricoprono le mura degli edifici più importanti, siamo in grado di apprezzare questo gioiello in tutto il suo autentico valore. Il quadro che va emergendo lentamente è quello di un popolo molto diverso dal nostro. A differenza di noi i maya avevano ben poche proprietà personali, a parte ciò che serviva a soddisfare le esigenze fondamentali dell'esistenza. Coltivavano la terra usando attrezzi estremamente semplici per ricavarne il mais e alcuni altri alimenti che erano alla base della loro dieta, mentre i sovrani, abbigliati con sfarzo, compivano su se stessi riti strani e dolorosi per assicurare la fertilità della terra. La loro era una società stratificata, nella quale tanto i sovrani quanto i contadini si attenevano al proprio ruolo, ma esisteva una differenza fondamentale fra loro e le società oscurantiste che dominavano l'Europa in quello stesso periodo: i maya erano esperti astronomi. Erano convinti di vivere nella quinta era del sole: prima della creazione dell'umanità moderna erano esistite quattro razze e quattro ere precedenti, distrutte ogni volta da spaventosi cataclismi che avevano lasciato in vita solo pochi superstiti in grado di narrarne la storia. Secondo la cronologia maya, l'era attuale è cominciata il 12 agosto del 3114 avanti Cristo e dovrà finire il 22 dicembre dell'anno 2012 dell'era cristiana. In quel momento, la Terra così come la conosciamo verrà distrutta ancora una volta da terremoti catastrofici. Sui maya sono stati pubblicati molti libri, ma nessuno, finora, è riuscito a spiegare il loro singolare calendario o il motivo che li ha indotti a stabilire queste particolari date. Mentre si è scritto molto sul meccanismo del calendario stesso (come sarà esposto con ricchezza di dettagli negli ultimi capitoli di questo libro), i motivi per cui i maya avrebbero elaborato sistemi cronologici tanto complessi come il cosiddetto « Lungo Computo » sono rimasti finora avvolti nell'oscurità. Soltanto ora che la sveglia puntata dai maya sta per suonare, siamo finalmente in grado di capire quali fossero le loro motivazioni e cominciamo a comprendere che possedevano conoscenze di importanza vitale non solo per il loro tempo, ma per la sopravvivenza stessa dell'umanità nella nostra era. Forse la civiltà maya era primitiva in base al nostro metro di giudizio: non avevano acqua corrente, ma solo ruscelli gorgoglianti, non avevano né auto né strade, e tanto meno computer, eppure sotto altri aspetti erano ricchi. Recenti ricerche dimostrano che avevano sviluppato le 1 Il nome Palenque, che in spagnolo significa « steccato », deriva dal vicino villaggio di Santo Domingo del Palenque. Si ignora l'originario nome maya della città in rovina, ma può darsi che fosse Nachan. loro facoltà psichiche a livelli che non si ritenevano neanche lontanamente concepibili.2 Come gli aborigeni dell'Australia, facevano uso attivo dei sogni per predire il futuro e interpretare il presente. Inoltre erano in grado di osservare i pianeti e le stelle con incredibile precisione, pur non possedendo né telescopi né strumenti moderni. Soprattutto erano profondamente religiosi, convinti, come molti cristiani del Medioevo, della necessità di mortificare la carne e praticare il sacrificio volontario per guadagnarsi l'ingresso in paradiso.3 Fin dagli albori della loro civiltà, durante una breve età dell'oro durata all'incirca dal 600 all'800 dopo Cristo, e fino al periodo post-classico, che durò ancora alcuni secoli, produssero alcune delle più grandi opere d'arte esistenti al mondo. Poi scomparvero dalle pagine della storia, misteriosamente come vi erano entrati. A causa di un evento del quale ci è ancora ignota la natura, la loro civiltà si estinse e i maya abbandonarono le città. Una gran parte dell'area nella quale un tempo vivevano, studiavano le stelle e costruivano favolose piramidi, è tornata alla giungla. Mentre i toltechi e in seguito gli aztechi salivano al potere nelle province settentrionali che circondano l'attuale Città del Messico, i maya superstiti si rifugiarono o fra le colline a sud o nelle pianure della penisola dello Yucatán, a nord. La zona centrale, che era stata la sede della loro massima fioritura, fu abbandonata per sempre. Nel 15114 sbarcò nello Yucatán la prima di numerose spedizioni spagnole che tentarono senza troppo successo di scoprire una sorgente d'oro; ma ormai anche quella penisola, ultimo avamposto di una cultura ibrida tolteco-maya, era sprofondata nella decadenza. Costretti per il momento a rinunciare alla conquista dello Yucatán, gli spagnoli appresero tuttavia dell'esistenza di una preda molto più grande e ricca a nord e a ovest: l'impero degli aztechi, allora in piena fioritura. Sarebbe passato molto tempo prima che qualcuno prestasse di nuovo attenzione alla cultura perduta dei maya. L'impero di Montezuma Gli aztechi erano un popolo guerriero che giunse nella valle del Messico durante il secolo XIII (vedi figura 1). Secondo la tradizione provenivano da un luogo chiamato Aztlán, che si ritiene situato nel Messico settentrionale e dal quale deriva il nome « azteco », anche se fra loro si definivano « mexica ». Stando alle leggende narrate in seguito ai cronisti spagnoli, i mexica furono condotti nella valle di Messico da un veggente di nome Tenoch. Questi aveva appreso in sogno che lui e il suo popolo dovevano proseguire la migrazione finché non fossero giunti in un luogo che avrebbe riconosciuto vedendo un'aquila lottare con un serpente. Una volta arrivati nella valle del Messico, che a quell'epoca era ancora occupata in gran parte da un vasto lago, scoprirono che le terre circostanti erano già occupate da altre cinque tribù. Queste popolazioni naturalmente si mostrarono diffidenti verso i nuovi arrivati e tutt'altro che disposte a cedere le loro terre. Dopo essersi consultate fra loro, però, raggiunsero un accordo: avrebbero offerto agli aztechi un'isola disabitata al centro del lago, Secondo un insigne studioso dei maya, Michael D. Coe, ogni nobile maya avrebbe avuto un alter ego chiamato uay. Questo assumeva la forma di un animale qualsiasi, dal giaguaro al topo, che poteva essere contattato mediante i sogni. Coe suggerisce inoltre l'ipotesi che alcuni edifici delle città maya fossero luoghi per dormire, nei quali i re maya potevano rivolgersi a questi spiriti invocando una visione: si veda MICHAEL D. COE The Maya, pp. 200-201. 3 Fra queste pratiche era inclusa la perforazione del pene con una lancia cerimoniale. Una di queste lance è impugnata dal re Chan Bahlum in un fregio all'interno del Tempio della Croce di Palenque. A quanto pare, far scorrere il proprio sangue in questo modo era una pratica diffusa anche nello Yucatán, e descritta da fra Diego de Landa nel suo libro Relazione sullo Yucatán. 4 Secondo de Landa, i primi spagnoli a sbarcare nello Yucatààn furono Geronimo de Aguilar e i suoi compagni, nel 1511. Tuttavia John Stephens nel suo Incidents of Travel in Yucatán asserisce che Juan Dias de Solis era arrivato prima di loro, nel 1506, insieme con uno dei compagni di Colombo, Vincent Yanez Pinzόn. Queste prime spedizioni non ebbero successo e solo nel 1542 Don Francisco Montejo riuscì finalmente a soggiogare gli indios e a scoprire Merida. 2 sulla quale avrebbero potuto stabilirsi, se lo desideravano. L'offerta dell'isola era un'esca avvelenata, nel senso letterale del termine, giacché gli indigeni sapevano che era infestata da serpenti velenosi, che nelle loro intenzioni avrebbero dovuto risolvere il problema degli aztechi al posto loro; ma erano destinati a restare delusi. Quando Tenoch e i suoi seguaci raggiunsero l'isola, videro il segno che andavano cercando: una grande aquila, intenta a lottare con un serpente che teneva nel becco, posata su un cactus. Entusiasta, Tenoch dichiarò che quello era il posto che il sogno gli aveva ordinato di cercare. Inoltre gli aztechi non furono respinti dai serpenti, giacché nel loro paese di origine questi erano considerati un boccone prelibato. Ringraziando gli indigeni per aver offerto loro non solo una casa, ma anche una dispensa ben fornita, accettarono su due piedi l'offerta dell'isola e cominciarono a costruire una nuova città, chiamata Tenochtitlán dal nome del suo fondatore. Figura 1 - Tabella cronologica degli imperi indigeni dell'America centrale In breve tempo gli aztechi divennero la tribù dominante della valle del Messico, unendosi ai vicini per formare una potente nazione che aveva come capitale Tenochtitlán (vedi fig. 2). Essi a loro volta furono assimilati dai popoli della valle del Messico, dai quali appresero molto in fatto di credenze religiose, usanze e attitudini. In sostanza queste idee risalivano agli antichi toltechi, un altro popolo guerriero che alcuni secoli prima aveva dominato gran parte del Messico e qualche lembo dello Yucatán. I toltechi, che avevano posto la loro capitale a Τula, venticinque chilometri a nordovest di Tenochtitlán, erano un popolo assetato di sangue e nell'ambito della loro religione solare praticavano regolarmente sacrifici umani. Usando coltelli di ossidiana5, squarciavano il torace delle vittime e ne strappavano il cuore ancora palpitante per offrirlo al dio sole. Erano convinti, 5 L'ossidiana è una forma di vetro vulcanico presente in natura, che si può tagliare per ricavarne strumenti affilati come coltelli e punte di freccia. Veniva estratta nella valle di Teotihuacán ed esportata in tutta la Mesoamerica. Oggi la si usa per ricavarne dei souvenir. così facendo, di offrirgli il suo cibo preferito, la forza vitale dell'uomo, assicurandosi così che il sole continuasse a sorgere. Gli aztechi (quale sarebbe stato l'orrore di Tenoch, se fosse vissuto per vederlo!) adottarono queste credenze e usanze superstiziose, portandole a limiti assurdi. Il sacrificio umano e in particolare l'asportazione del cuore, divenne il mistero centrale della loro religione. Si calcola che per la sola consacrazione del tempio principale di Tenochtitlán siano state sacrificate circa ventimila vittime. Ogni anno almeno cinquantamila sventurati trovavano la morte in quel modo. Per soddisfare il vorace appetito di cuori umani del sole, fu costituita un'intera casta di guerrieri, organizzati in reggimenti, con il compito di fornire nuove vittime ai sacerdoti. Gli aztechi incoraggiavano le rivolte fra i sudditi del vasto impero, giacché questo forniva loro il pretesto per inviare l'esercito a fare prigionieri. Fig. 2 - Il territorio dei maya e dei popoli confinanti Va da sé che erano molto temuti e odiati dai popoli confinanti del Messico, che ribollivano di risentimento e sognavano di spodestare gli aborriti aztechi. La loro unica speranza risiedeva nella leggenda, ormai semidimenticata, che un giorno un re-dio, un bianco con la barba di nome Quetzalcoatl, sarebbe tornato dalla sponda opposta del mare a liberare il popolo e reclamare il regno per sé. Brandendo la spada, avrebbe posto fine al dominio azteco inaugurando una nuova era di pace, prosperità e giustizia. Poiché era stato profetizzato molto tempo prima che Quetzalcoatl sarebbe tornato in un anno chiamato 1 Canna, fu con una certa trepidazione che, proprio quell'anno, Montezuma II, re degli aztechi, accolse l'annuncio dell'arrivo nel suo paese di uomini barbuti con la pelle bianca. La conquista del Messico Il 4 marzo 1519 Hernan Cortés sbarcò sulla costa del Messico con undici navi, seicento soldati, sedici cavalli e alcuni pezzi di artiglieria, occupando subito la città di Tabasco. Prima di spingersi nell'interno, fondò una nuova colonia spagnola chiamata Vera Cruz, si promosse al grado di capitano generale e poi, per distruggere ogni possibilità di ritirata, bruciò le navi. Avido di oro e affiancato da nuovi alleati raccolti nella repubblica indigena di Tlaxcala, si diresse verso la capitale degli aztechi, Tenochtitlán. Cominciava così una delle avventure più straordinarie di tutta la storia mondiale: infatti i conquistadores avrebbero distrutto un impero della cui potenza, al momento dello sbarco, potevano avere appena una vaga idea. Da principio gli aztechi e i loro nemici locali credettero che l'invasore spagnolo Cortés fosse davvero il dio Quetzalcoatl6, il cui ritorno dall'oriente era stato profetizzato da tempo. Dio o meno, Cortés giunse con la spada in mano e, con una campagna durata poco più di due anni, distrusse del tutto l'impero azteco. Il 13 agosto 1521 Tenochtitlán era nelle sue mani, Montezuma II era morto e il successore Cuahtemoc, l'ultimo imperatore degli aztechi, era suo ostaggio7. Fu così che uno dei paesi più ricchi del mondo, che fino a quel momento era del tutto sconosciuto agli europei, divenne una provincia della Spagna. Quando Cortés arrivò a Tenochtitlán rimase abbagliato e sbigottito dallo spettacolo che si offrì ai suoi occhi. Era una metropoli grande e piena di vita, con una cultura propria. La città era costruita sull'isola originaria, al centro del lago, e circondata da una rete di canali che davano accesso a una miriade di isolotti artificiali utilizzati per le colture; si coltivavano soprattutto mais, peperoncini piccanti e fagioli, che ancor oggi sono la base dell'alimentazione in Messico. La città era enorme in confronto a quelle che Cortés si era lasciato alle spalle in Europa: secondo alcune stime, contava una popolazione di duecentomila persone. Benché la maggior parte delle case fosse fatta di canne e intonaco, la nobiltà e i sacerdoti vivevano in magnifici palazzi di pietra. C'erano anche spiazzi aperti nei quali si tenevano mercati; come in ogni altro centro civile abitato, anche qui la popolazione barattava merci e servizi in cambio di cibo. Al centro della città sorgeva un complesso di templi che comprendeva edifici a forma di piramide a gradini 8; questi erano ricoperti di stucchi policromi e a prima vista dovevano apparire splendidi. Tuttavia intorno a quei monumenti imponenti aleggiava un fetore spaventoso, perché era là che i sacerdoti svolgevano i sanguinosi rituali che erano parte integrante della religione azteca. Dopo che il cuore ancora pulsante delle vittime era stato strappato dal torace e offerto al sole, i cadaveri venivano scaraventati giù dai gradini della piramide. Venne riferito dagli spagnoli (ma potrebbe trattarsi di una calunnia) che gli aztechi erano cannibali e che almeno alcune vittime di quei riti barbari finivano nella pentola. Qualunque fosse la verità su questo punto, non c'è dubbio che gli spagnoli rimasero profondamente scossi da quei riti, che indurirono i loro cuori nei confronti tanto della città quanto dei suoi abitanti. Per quanto risultava agli spagnoli, tutti gli indios erano demoni idolatri e dovevano essere convertiti al cristianesimo, se necessario con la forza. Dopo avere sconfitto gli aztechi e catturato Cuahtemoc, Cortés ordinò la distruzione totale della capitale, in modo che anche il ricordo del suo passato satanico fosse cancellato. Tenochtitlán fu rasa al suolo, i palazzi e i templi furono abbattuti con la dinamite per riutilizzarne le pietre nella costruzione di nuove chiese e residenze per i conquistatori. Intanto gli indigeni venivano ridotti in schiavitù e impegnati nell'arduo lavoro di ricostruzione, ma in breve tempo la popolazione fu decimata dall'eccesso di lavoro, dalle malattie e dai massacri. Sotto minaccia di morte, gli abitanti del Messico furono costretti a convertirsi al cattolicesimo, rinunciando alle loro antiche divinità. Si videro proibire l'uso della scrittura nella loro madrelingua e dovettero imparare lo spagnolo. Tutte le testimonianze scritte dei tempi antichi che si riuscivano a trovare vennero distrutte. Gli 6 Il nome Quetzalcoatl (in lingua maya Kukulcan) significa « serpente piumato» e viene applicato in modo piuttosto sconcertante a vari personaggi divini, diversi ma correlati. Il Quetzalcoatl di cui si attendeva il ritorno doveva essere un'incarnazione del dio immortale omonimo, un po' come Gautama era un'incarnazione di Buddha. 7 Cuahtemoc fu portato come ostaggio da Cortés in Guatemala, dove, una volta esaurita la sua utilità, fu assassinato; e del resto neanche lui probabilmente si aspettava di più. 8 La più famosa di queste piramidi a gradini era il Templo Mayor che, secondo lo stile proprio degli aztechi, era sormontato da due templi gemelli dedicati agli dèi Tlaloc e Huitzilopochtli. A Tenochtitlán esistevano numerose altre piramidi, compresa una di forma ellittica, con una torre rotonda. idoli e gli altri oggetti di grandi dimensioni che non era facile distruggere, bruciare o fondere, furono sepolti per cancellarne l'influenza maligna. Degli indicibili atti di crudeltà compiuti dall'Inquisizione in nome del cristianesimo, probabilmente meno si parla e meglio è. Gli spagnoli in Messico si comportarono un po' come i cinesi che, sulle orme dell'invasione di Mao nel Tibet, si diedero a spogliare quel paese non solo dell'oro, dell'argento e di altri metalli preziosi, ma anche e soprattutto della sua cultura. Per fortuna vi furono uno o due esponenti della Chiesa più illuminati che fecero del loro meglio per registrare almeno alcune delle tradizioni indigene prima che scomparissero del tutto. Il personaggio più notevole fra loro fu il francescano Bernardino de Sahagún, che si recò in Messico nel 1529 per accompagnare numerosi indios che venivano rimpatriati dopo che erano stati condotti in giro per la Spagna per il diletto della corte. Da loro riuscì ad apprendere la lingua locale, il nahuatl.9 In seguito viaggiò in lungo e in largo per il Messico e durante la sua lunga vita accumulò un vasto repertorio di testimonianze sul folclore, racchiuse in dodici volumi. Cercando i più colti fra gli indios superstiti e pregandoli di narrare le leggende del loro popolo con la massima fedeltà possibile, Sahagún riuscì a ricostruire gran parte della storia recente prima della conquista. Durante l'occupazione spagnola, tanto la Chiesa quanto lo Stato dissuadevano energicamente gli studiosi dal pubblicare qualunque opera potesse rivelare che il Messico prima dell'invasione di Cortés aveva una civiltà o una storia degna di questo nome. Fu Sahagún ad apprendere dai suoi amici indigeni che, al contrario, prima degli aztechi era esistita una popolazione più antica che dominava la valle di Messico e che veniva indicata semplicemente col nome di «toltechi »,10 termine che significa « artista » o « costruttore » e che si riferiva alla loro straordinaria abilità in questo campo. La loro capitale era stata una città leggendaria chiamata Tollan, dove, sotto la guida di un capo ispirato dagli dei e chiamato Quetzalcoatl,11 avevano sviluppato le arti e i mestieri fino a raggiungere un livello molto elevato. Come avrei scoperto in seguito, Quetzalcoatl era qualcosa di più che un eroe popolare: personificava la meta e gli scopi di una religione estremamente spirituale e pacifica che un tempo, molto prima dell'avvento degli spagnoli, aveva dominato gran parte dell'America centrale. A quanto pareva, i toltechi erano anche provetti astronomi, che tenevano il computo dei giorni e un'accurata registrazione del moto dei pianeti. Questa età dell'oro era finita quando, intorno al 950 dopo Cristo, Quetzalcoatl era stato costretto a trasferirsi a est dopo un conflitto interno. In seguito la valle era stata invasa da una serie di tribù meno civili provenienti dal nord, l'ultima delle quali era quella degli aztechi.12 Gli aztechi avevano conservato alcune conoscenze degli antichi toltechi, ma molto era andato perduto, compresa, a quanto pareva, la città di Tollan. Sahagún era convinto che in effetti prima degli aztechi il Messico doveva aver conosciuto una grande civiltà, incentrata, precedentemente alla costruzione di Tollan, sulla città abbandonata di Teotihuacán. Questa località, circa sessantacinque chilometri a nord di Città del Messico, comprende le imponenti piramidi del Sole e della Luna, a quel tempo sepolte sotto cumuli di terra. Gli aztechi avevano ereditato dai toltechi la convinzione che un giorno Quetzalcoatl, che era venerato come un dio, sarebbe tornato a guidare il suo popolo. Inoltre credevano che a Teotihuacán Quetzalcoatl avesse sacrificato alcuni dèi per consentire al sole di continuare a muoversi nel cielo. I loro veggenti e profeti sostenevano che sarebbe tornato nella sua città di origine per rovesciare l'impero azteco. 9 Il nahuatl era la lingua franca dello stato azteco e all'epoca della conquista veniva usato largamente come linguaggio commerciale in gran parte del Messico meridionale. I maya, comunque, avevano un gran numero di altre lingue. 10 Si ritiene che i toltechi siano arrivati nella valle di Messico intorno all'anno 850 d.C. e siano stati la potenza dominante fin verso il 1250. 11 Il nome Quetzalcoatl era usato tanto come titolo di un capo quanto come designazione di una delle divinità principali. 12 Si pensa che gli aztechi siano giunti nella valle di Messico nel corso del secolo XIII Per ironia della sorte, fu proprio a Teotihuacán che Cortés e i suoi uomini combatterono una battaglia cruciale contro le schiere di Montezuma. Come nel resto dell'America, le armi indigene non potevano reggere il confronto con le armi da fuoco e le armature degli europei; ciò nonostante, gli spagnoli erano in netta inferiorità numerica e stavano per essere sopraffatti. Circondati da molte migliaia di indios armati di lance, sferrarono un disperato attacco e uccisero il comandante dell'esercito avversario, « Donna Serpente ». Di fronte a quel presagio funesto, molti indigeni furono assaliti dal panico e abbandonarono il campo di battaglia, consentendo così a Cortés e agli altri superstiti di fuggire per tornare a combattere in seguito. Infatti un anno dopo Cortés si ripresentò con un esercito molto più numeroso e conquistò la capitale degli aztechi, Tenochtitlán. Dalle ceneri della distruzione doveva sorgere Città del Messico, capitale della Nuova Spagna, la più ricca di tutte le colonie del re di Spagna. Ben presto la città cominciò ad attirare migliaia di immigrati, quasi tutti uomini e per lo più avventurieri, missionari e mercanti. Città del Messico fu costruita come una capitale scintillante di stile europeo, e si fondarono altre città, come Guadalajara, Veracruz e Acapulco, dando inizio a un nuovo mondo di prosperità per gli immigrati, anche se non per gli indios, che ricevevano un pessimo trattamento. Sahagún indagò a fondo su quel periodo storico e rimase scosso dalle storie che udì. Nei suoi scritti edulcorò gran parte degli episodi che gli indigeni gli avevano narrato sulle atrocità seguite all'invasione, ma anche così non ricevette l'autorizzazione a pubblicare apertamente la sua opera. I suoi libri furono condannati all'oblio dagli ambienti ufficiali che tentavano di accreditare un'immagine positiva della conquista. Comunque, anche se la sua opera fu relegata nell'ombra e infine andò perduta nella versione integrale, una copia incompleta del manoscritto venne alla luce nel 1808, durante l'invasione francese in Spagna, e fu pubblicata finalmente nel 1840.13 Racconti di viaggiatori Gli stranieri, ossia i non spagnoli, ammessi in Messico prima dell'indipendenza furono ben pochi, e coloro che riuscivano a entrarvi erano controllati con attenzione. Fra coloro che vi riuscirono c'era un napoletano, Giovanni Careri, che arrivò ad Acapulco, sulla costa occidentale, nel 1697, dopo un viaggio allucinante durato cinque mesi da Manila, nelle Filippine, che allora facevano parte anch'esse della Nuova Spagna. Viaggiando in lungo e in largo per il paese, rimase scosso nello scoprire quante delle sue ricchezze fossero nelle mani della Chiesa. Tuttavia fece amicizia con un sacerdote che si chiamava Don Carlos de Sigüenza y Gongora ed era stato espulso dalla Compagnia di Gesù. Questi, avendo coltivato l'amicizia degli indios, era in possesso di una collezione di valore inestimabile, composta di manoscritti e dipinti sfuggiti ai falò di centocinquanta anni prima. Fra i suoi amici c'era Don Juan de Alva figlio di un certo Fernando de Alva Cortés Ixtlilxochitl e diretto discendente dei re di Texcoco. Questo Ixtlilxochitl era un uomo colto e aveva scritto in lingua spagnola la prima storia del Messico. Sigüenza mostrò l'opera a Careri, il quale scoprì con stupore che parlava di un antico calendario messicano scomparso al tempo della conquista. Si diceva che con l'aiuto di quel calendario i sacerdoti aztechi fossero in grado di tenere una cronologia accurata per lunghi periodi di tempo. Apparentemente era basato su cicli di 52 e 104 anni, ma registrava anche i solstizi e gli equinozi, oltre al moto del pianeta Venere. Sigüenza stesso aveva svolto molte ricerche sulla cronologia dell'antico Messico. Come professore di matematica all'università del Messico e appassionato di astronomia, era ben qualificato per condurre ricerche del genere. Utilizzando i rari documenti in suo possesso e Una copia incompleta dell'opera principale di Sahagún, Historia generai de las cosas de Νueva España, fu pubblicata nel 1840 da Carlos M. Bustamente e tradotta in inglese un secolo dopo. Di solito viene definita « Codice fiorentino ». 13 compiendo accurati calcoli sulle eclissi solari e lunari, oltre che sui movimenti delle comete e degli altri corpi celesti, era riuscito a ricostruire una cronologia degli indios, tanto precisa da poter indicare date esatte, fra cui l'inizio dell'impero azteco e la fondazione di Tenochtitlán, nel 1325. Inoltre aveva concluso che prima del regno dei leggendari toltechi era vissuto un altro popolo, quello degli olmechi,14 ovvero il « popolo della gomma », così chiamato perché viveva nella regione del Messico in cui crescono spontaneamente gli alberi della gomma. Sigüenza era convinto che gli olmechi provenissero dalla mitica isola di Atlantide e fossero gli artefici delle piramidi di Teotihuacán. Iniziò Careri a quello studio esoterico e l'italiano inserì doverosamente la teoria di Atlantide e il materiale relativo al calendario nel suo libro, Giro del mondo, che scrisse durante il viaggio di ritorno in Europa. E fu un bene che Careri mettesse nero su bianco, perché subito dopo la morte di Sigüenza, lo stesso anno, il suo preziosissimo archivio fu disperso o distrutto dall'Inquisizione. I manoscritti furono acquistati dai gesuiti, ma andarono perduti anch'essi (a meno che non siano ancora sepolti in qualche biblioteca), quando l'ordine fu espulso dal Messico nel 1767. Poiché la maggioranza degli europei era dell'opinione che prima della conquista gli indios del Messico fossero semplici selvaggi, capaci a stento di contare sulle dita fino a dieci, il rapporto di Careri sul calendario azteco nel Giro del mondo fu accolto con derisione. Non contribuì a migliorare la sua posizione il fatto che fosse piuttosto scarso come matematico e non avesse saputo esporre nel modo migliore gli argomenti di Sigüenza. Comunque, se non altro, aveva tramandato ai posteri l'idea di un calendario azteco. Ben presto sarebbe arrivato dall'Europa un altro esploratore che aveva letto Careri, con l'intento di portare alla luce altri aspetti del passato del Messico. Il barone Friedrich Heinrich Alexander von Humboldt era una figura ben nota nella letteratura europea e nei circoli politici, amico di Goethe, Schiller e Metternich. Per puro caso non aveva partecipato alla spedizione in Egitto con Napoleone e i suoi savants, solo perché la nave sulla quale doveva compiere la traversata era affondata in una tempesta. Si recò invece in America, per vedere quali avventure la sorte aveva in serbo per lui laggiù. Nel 1803 arrivò ad Acapulco dall'Equador insieme ad alcuni amici, munito di molti degli strumenti scientifici più recenti, fra cui attrezzature per rilievi topografici e telescopi. Dopo aver compiuto varie misurazioni topografiche della zona, il gruppo si diresse verso Città del Messico, attraversando la regione di Taxco, ricca di miniere d'argento. Pur essendo protestante, Humboldt ricevette una buona accoglienza dal viceré, che gli concesse inaspettatamente l'accesso agli archivi riservati del paese. Dopo averli esaminati, Humboldt rivolse la sua attenzione alle antichità che la città poteva ancora offrire. Una di queste era un enorme disco solare di pietra, dissotterrato appena dodici anni prima. Lo aveva già esaminato uno storico, Leon y Gama, che aveva dedicato la propria vita allo studio di antichi documenti messicani e che, come Sigüenza, parlava correntemente il nahuatl, la lingua indigena. Egli aveva riconosciuto nella pietra il leggendario calendario azteco citato da Ixtlilxochitl e Sigüenza. Tuttavia quando aveva pubblicato un opuscolo sulle sue scoperte in questo campo era stato ridicolizzato dal clero spagnolo, deciso a sostenere che il disco di pietra era un altare sacrificale e il suo intricato disegno aveva uno scopo puramente decorativo (vedi fig. 3). Humboldt, vedendo la pietra ancora appoggiata contro il muro occidentale della cattedrale vicino al quale era stata scoperta, si trovò d'accordo con Leon y Gama. Da astronomo, riteneva evidente che la pietra avesse il significato di un calendario. Per il suo occhio allenato era la prova che gli aztechi possedevano davvero una conoscenza avanzata dell'astronomia e dovevano disporre di un sistema matematico estremamente sofisticato. Non solo Humboldt confermò l'opinione di Leon y Gama che gli otto triangoli che s'irradiavano dal centro rappresentavano le varie parti del giorno, 14 Il termine « olmechi », sebbene ancora di uso corrente, non viene più utilizzato negli ambienti accademici; si preferisce il termine più preciso di « protomaya ». ma notò inoltre che molti dei simboli usati dagli aztechi per indicare i mesi della durata di diciotto giorni, erano uguali a quelli usati nell'Asia orientale. Concluse quindi che lo zodiaco in uso nelle due regioni doveva avere una origine comune. Figura 3 - Il disco di pietra del calendario azteco Proseguendo per New York, dove fece visita a un confratello massone, Thomas Jefferson, Humboldt si dedicò a produrre parecchi volumi in-folio sui viaggi compiuti in America. Queste opere, una volta pubblicate, avrebbero sbalordito i contemporanei europei. A quanto pareva, finalmente una figura rispettabile, un uomo di scienza e di prestigio, sfidava l'opinione corrente che, prima della conquista, gli abitanti del Messico fossero in tutto e per tutto dei selvaggi. Oltre a sfruttare le risorse minerarie del paese, gli europei erano ansiosi di potenziarne l'agricoltura. Poiché la maggior parte del terreno era inadatta all'aratura e alla coltivazione, il modo più redditizio per utilizzarlo era l'allevamento del bestiame. Questo però significava espropriare le piccole tenute tradizionali degli indios e la conseguente formazione di grandi ranch contribuì al disagio delle popolazioni rurali già impoverite. I motivi di scontento non mancavano e la rivoluzione francese del 1789, con il suo slogan libertà, eguaglianza e fraternità, dovette agire indirettamente da catalizzatore dei rinnovamenti, tanto in Messico quanto in Francia. Quando Napoleone depose il re di Spagna per mettere sul trono suo fratello, sorsero parecchi dubbi sulla legalità del possesso spagnolo del Messico. L'esempio degli Stati Uniti, a nord, stava a dimostrare che una colonia poteva scuotersi di dosso il giogo dei padroni europei, quindi non passò molto tempo prima che i messicani entrassero in aperta rivolta. Gli spagnoli furono scacciati e cominciò un lungo periodo di lotte, che doveva fornire materia ad almeno un migliaio di western all'italiana per oltre un secolo. Uno degli effetti collaterali dell'indipendenza messicana fu che rese molto più facile l'ingresso nel paese agli stranieri che non fossero di nazionalità spagnola. Il risultato fu un afflusso di numerosi intrepidi esploratori, fra i quali l'inglese William Bullock, salpato nel 1822 da Liverpool alla volta di Veracruz per ripercorrere le orme di Humboldt fino a Città del Messico. Come Humboldt, anch'egli rimase seriamente impressionato dal calendario di pietra azteco, che a suo parere doveva aver fatto parte del tetto del grande tempio di Tenochtitlán, un po' come il celebre zodiaco egiziano di Denderah, allora trasferito da poco alla Biblioteca Nazionale di Parigi.15 Dopo avere preso dei calchi in gesso del disco di pietra, Bullock dedicò la sua attenzione 15 Lo zodiaco di Denderah è una mappa astrologica tratta dal soffitto di un tempio nell'Egitto superiore. Risale al tardo periodo tolemaico (I secolo a.C.) e ritrae le costellazioni in modo figurativo. È stato trasportato nel 1820 alla Bibliothèque Nationale di Parigi e ora si trova al Louvre. a un altro reperto che era stato portato alla luce da Humboldt e poi frettolosamente riseppellito dalle autorità perché troppo orribile a vedersi. Figura 4 - Coatlicue, la dea della terra Era una statua imponente, alta due metri e settanta e pesante dodici tonnellate, di Coatlicue, la dea madre del pantheon nahuatl (vedi fig. 4). Bullock avrebbe annotato: « Ho avuto il piacere di assistere alla resurrezione di questa orribile divinità, dinanzi alla quale erano state sacrificate decine di migliaia di vittime umane nel sanguinario fervore religioso dei fedeli infatuati ». Ricavato da un unico blocco di basalto, l'idolo, di forma vagamente umana, era davvero spaventoso. La testa era composta da due teste di serpente affrontate; anche le braccia erano fatte di serpenti, così come il panneggio fremente della veste, intrecciata con le ali di un avvoltoio. I piedi erano di giaguaro, con gli artigli sguainati come se fossero pronti a ghermire la preda. Sugli enormi seni sformati pendeva una collana scolpita fatta di teschi, cuori e mani recise, tutti uniti da viscere. Per quanto strana e terrificante, questa immagine della dea della vita e della morte, con strani echi della divinità indù Κali, era scolpita con grande perizia. Chiunque avesse eseguito quello straordinario capolavoro era chiaramente un grande scultore, all'altezza dei migliori artisti dell'antico Egitto, dell'Europa o dell'Estremo Oriente. Bullock si rese conto che esisteva una strana dicotomia: com'era possibile che una società tanto sofisticata producesse una scultura superba ma così incredibilmente selvaggia? Per quale motivo al mondo un popolo civilizzato poteva desiderare di sacrificare esseri umani a migliaia per soddisfare la sete di sangue di un pezzo di pietra inerte, per quanto meravigliosamente scolpito? Le autorità messicane degli inizi dell'Ottocento non avevano risposte a queste domande e così, pur di non sentirsi costantemente ricordare certe sgradevoli contraddizioni, fecero seppellire di nuovo la statua in fretta e furia. Bullock proseguì per visitare Teotihuacán prima di tornare a Londra con una collezione di flora e fauna esotica da aggiungere ai calchi in gesso di Coatlicue e del disco di pietra del calendario, ai modellini delle piramidi del Sole e della Luna e ad altri trofei. Questi furono esposti nella « Sala egiziana » da lui ridisegnata a Piccadilly, e il disco di pietra del calendario fu ribattezzato «l’orologio di Montezuma» dalla sempre fertile fantasia dei giornalisti inglesi. A parte alcuni manoscritti rari e i costosi in-folio illustrati di Humboldt, era la prima volta che i reperti messicani venivano portati in Europa e giudicati per il loro valore intrinseco e non solo per il contenuto in oro o in argento. Bullock, che era gioielliere e mercante, aveva tuttavia anche altri motivi, non del tutto filantropici. Infatti utilizzò i proventi della mostra londinese per acquistare una miniera d'argento in Messico. La scoperta dei maya È sorprendente che per oltre due secoli dopo l'invasione di Cortés né gli intellettuali né gli avventurieri prestassero molta attenzione alle regioni meridionali del paese. Forse a causa del clima caldo, anzi addirittura torrido, ma più probabilmente a causa della mancanza di risorse minerarie evidenti, preferirono dirigersi a nord, spingendosi fino alla Florida, al Texas, al Nuovo Messico e alla California, tutti paesi che erano stati colonizzati dagli spagnoli prima di essere ceduti agli Stati Uniti, allora in ascesa. Il risultato è che il Messico meridionale resta ancor oggi più autenticamente indigeno di qualunque altra regione del paese, conserva molte delle sue tradizioni e manifesta tendenze separatiste. Di recente, nel 1994, nello stato del Chiapas è scoppiata una rivolta contro il governo centrale messicano. La città di Cristobal de las Casas è stata occupata dai guerriglieri « zapatisti », così chiamati da Emiliano Zapata, eroe messicano e combattente per la libertà. Vi sono state molte vittime e l'insurrezione è stata repressa dall'esercito con una certa difficoltà, causa di estremo imbarazzo per un governo ansioso di dare alla World Bank l'impressione che il Messico sia un luogo sicuro nel quale fare investimenti. La popolazione che ha scatenato la rivolta era composta di maya cholan,16 discendenti di una nazione che un tempo ha prodotto la più grande civiltà precolombiana d'America. Si sapeva ben poco del suo straordinario passato fino al 1773, quando un canonico della cattedrale di Ciudad Real nel Chiapas, frate Ordoñez, raccolse la voce che nascosta nella giungla c'era un'intera città abbandonata, di proporzioni straordinarie. Con autentico spirito coloniale, si fece trasportare in palanchino dai parrocchiani per quasi cento chilometri fino al luogo in cui sorgeva la presunta città perduta. Là, completamente avviluppato dalla vegetazione della giungla, si offrì ai suoi occhi uno spettacolo impressionante: Palenque. Affacciata sulla verde pianura alluvionale del fiume Usumacinta, questa città abbandonata, che comprende piramidi, templi e palazzi di calcare bianco, sorge ai piedi di una bassa catena di colline interamente ricoperte dalla foresta pluviale. Qui are macao e pappagalli dai colori vivaci volano sulla cima degli alberi e l'ululato delle scimmie si sente in lontananza. In questo scenario magnifico i maya costruirono la loro città più imponente, che ancor oggi racchiude molti segreti ed enigmi per gli archeologi e gli storici insieme. Padre Ordoñez descrisse le sue scoperte in una monografia intitolata Storia della creazione del cielo e della terra, cercando di spiegare le rovine, che battezzò la Grande Città dei Serpenti, alla luce dei miti locali. Egli sosteneva che Palenque era stata creata da un popolo proveniente da Atlantide e guidato da un uomo di nome Votan, che aveva come simbolo il serpente. La storia di Votan era narrata in un libro dei maya quiché dato alle fiamme nel 1691 dal vescovo del Chiapas, Nuñes de la Vega. Per fortuna il vescovo aveva copiato parte del testo prima di 16 I maya sono divisi in un certo numero di gruppi linguistici, tutti probabilmente derivati dallo stesso ceppo protomaya. I gruppi più importanti sono gli yucatecan, della penisola dello Yucatán, i cholan, della regione centrale, e i quiché, ancora più a oriente, in Belize e Guatemala. bruciarlo e da questa copia padre Ordoñez aveva ricavato la storia. Secondo il libro, Votan era arrivato in America con un corteggio di seguaci vestiti di lunghe tuniche. Gli indigeni si erano mostrati cordiali, sottomettendosi al suo dominio e gli stranieri avevano sposato le loro figlie. Pur avendo bruciato il libro originale, il vescovo Nuñes era abbastanza interessato alla storia da prendere sul serio la voce che vi era riportata, secondo la quale Votan aveva collocato un tesoro segreto in una casa buia e sotterranea. Cercando quel tesoro per tutta la sua diocesi, alla fine aveva creduto di trovarlo, ordinando a chi lo custodiva di arrendersi e di consegnarlo: ma si era trovato di fronte a qualche giara d'argilla chiusa, alcune pietre verdi (probabilmente giada) e qualche manoscritto. Questi ultimi li aveva subito bruciati sulla piazza del mercato insieme al libro di Votan. Secondo la copia finita fra le mani di Ordoñez, Votan aveva attraversato ben due volte l'Atlantico per tornare nell'antica patria, chiamata Valum Chivim, che il frate identificava con la città di Tripoli in Fenicia. Era sottinteso dunque che Votan fosse un navigatore fenicio che aveva scoperto le Americhe forse due millenni o più prima di Colombo. Secondo la leggenda, in almeno uno dei suoi viaggi in patria Votan aveva visitato una grande città nella quale era in costruzione un tempio che avrebbe sfiorato il cielo, anche se era condannato a portare a una confusione delle lingue. Il vescovo Nuñes, nel suo libro Constitutiones Diocesanos de Chiapas, affermava che la città visitata da Votan doveva essere Babilonia, con la sua famosa torre; ammesso che la vera torre di Babele fosse una ziqqurat e che Babilonia fosse la città più grande della terra al tempo dei navigatori fenici, era un'idea allettante. Le ziqqurat della Mesopotamia erano piramidi a gradini sormontate da templi, molto simili nell'aspetto alle piramidi di Palenque, quindi l'idea non era tanto peregrina quanto potrebbe sembrare. In seguito alla scoperta di Ordoñez, fu ordinata un'ispezione ufficiale delle rovine, della quale fu incaricato un capitano di artiglieria, Don Antonio del Rio. Egli mise al lavoro squadre di indigeni per disboscare la giungla con i machete, riportando alla luce uno dopo l'altro degli edifici straordinari. Uno dei suoi assistenti eseguiva disegni delle costruzioni e calchi dei rilievi in stucco, che erano di eccezionale bellezza. Del Rio era convinto che gli edifici fossero opera degli antichi romani e citava altri esperti convinti che nell'antichità l'America settentrionale fosse stata visitata da egiziani, greci, britanni e altri. Questo rapporto, inviato a Madrid, incontrò l'opposizione del clero e finì sepolto negli archivi senza clamore. Non tutto però andò perduto, dato che ne fu eseguita una copia, conservata a Città del Guatemala. La pubblicò un italiano, il dottor Paul Felix Cabrera, il quale nella premessa concluse che i cartaginesi dovevano essere giunti in America in epoca anteriore alla prima guerra punica (264 a.C.) e, incrociandosi con fanciulle indigene, avevano dato origine al popolo degli olmechi. Questa versione riveduta e corretta del rapporto di del Rio giunse finalmente a Londra, nelle mani del libraio Henry Berthoud, che la fece tradurre e pubblicare a sue spese sotto il titolo Description of the Ancient City Discovered Near Palenque (Descrizione dell'antica città scoperta nei pressi di Palenque). Questa fu la prima relazione pubblicata sulle rovine di Palenque e come al solito ci volle un estraneo al mondo scientifico per stamparla. Negli anni che seguirono vari altri avventurieri europei raggiunsero Palenque per indagare da soli sulle favolose rovine. Maximilien Waldeck, ex allievo di Jacques David,17 eseguì alcune belle incisioni degli edifici. Un americano, John Stephens, e il suo amico inglese Frederick Catherwood, che in precedenza aveva disegnato schizzi di rare antichità del Vicino Oriente, si dedicarono alla misurazione dei templi e delle piramidi di Palenque. Lavorando in condizioni spaventose, sofferenti di malaria e soggetti agli attacchi incessanti di zecche e mosche, i due realizzarono il primo vero rilievo topografico del sito archeologico. Alla fine pubblicarono le loro scoperte, con 17 Jacques Louis David (1748-1825) fu uno dei più importanti pittori francesi della Rivoluzione. Fervente rivoluzionario egli stesso, dipingeva in stile neoclassico. Nominato pittore di corte dall'imperatore Napoleone I, eseguì due dipinti notevoli, L'incoronazione (di Giuseppina Beauhamais) e La distribuzione delle aquile. Al tempo della restaurazione borbonica fu esiliato e si ritirò a Bruxelles. molte eccellenti illustrazioni, in quello che divenne un best-seller del tempo, Incidents of Travel in Central America, Chiapas and Yucatán (Episodi di viaggio in America centrale, Chiapas e Yucatán). Sebbene Stephens e Catherwood avessero fatto del loro meglio per attirare l'attenzione del pubblico su Palenque e altre antiche città maya come Copán, Quiché e Uxmal, non potevano procedere oltre nel loro lavoro, non conoscendo la lingua scritta o parlata dei maya. Ci voleva uno studioso con la preparazione intellettuale necessaria per decifrare il codice del linguaggio maya allo stesso modo in cui Champollion aveva decifrato i geroglifici egiziani. Quest'uomo era l'abate Brasseur de Bourbourg. Francese come Champollion, partì per l'America nel 1845, recandosi a New York prima di imbarcarsi per il Messico. Laggiù, grazie all'influenza di amici potenti, riuscì ad accedere agli archivi del viceré e a leggere con i suoi occhi la storia degli aztechi scritta da Ixtlilxochitl. Fece anche amicizia con un discendente di uno dei fratelli di Montezuma, che gli insegnò il nahuatl. Viaggiando per tutto il paese in cerca di testi antichi, poté salvare dall'oblio numerosi manoscritti di grande valore che allora languivano nei conventi e nelle biblioteche. Fra questi c'era il Popol Vuh, che lo studioso tradusse dopo aver appreso i dialetti maya dei cakchiquel e dei quiché, e che si rivelò uno dei grandi testi epici mondiali, un mito poetico della creazione. Tornato a Parigi, l'abate lo pubblicò e si mise al lavoro su un'opera molto più grande, l'Histoire des Nations Civilisées du Méxique et de l Amérique Centrale (Storia delle civiltà del Messico e dell'America centrale). Ormai era ben introdotto presso le autorità spagnole, che gli consentirono l'accesso agli archivi di Madrid. Qui trovò il manoscritto originale del vescovo Diego de Landa, Relación de las Cosas de Yucatán (Relazione sullo Yucatán). Grazie al fatto che il testo conteneva disegni dei geroglifici maya relativi al calendario, Brasseur de Bourbourg riuscì a decifrare almeno in parte la loro lingua. Sempre a Madrid conobbe un discendente di Hernan Cortés, un professore chiamato Jean de Tro y Ortalano, che aveva in suo possesso un documento noto col nome di Codex Troanus, che apparteneva da generazioni alla sua famiglia. Questo documento di settanta pagine, in seguito riunito con l'altra metà, il Codex Cortesianus di quarantadue pagine, e ribattezzato « codice di Madrid », costituisce il manoscritto maya più grande esistente al mondo, per quanto si sa finora. Forse ingenuamente, Brasseur in questo documento maya trovò sostegno ai miti atlantici narrati dagli indigeni della Mesoamerica. Egli riteneva che una grande isola continentale, Atlantide, si estendesse un tempo dal golfo del Messico alle isole Canarie. I maya, a suo parere, discendevano dai superstiti di un grande cataclisma, o meglio una serie di cataclismi, che avevano inghiottito quel continente. Inoltre avanzò l'ipotesi rivoluzionaria che la civiltà fosse nata ad Atlantide, e non nel Vicino Oriente come si riteneva generalmente, e che fossero stati i superstiti di Atlantide a introdurre la civiltà in Egitto, oltre che nell'America Centrale. Queste idee non furono prese sul serio dagli ambienti accademici, come tuttora avviene, ma se non altro fornirono una spiegazione a certe sconcertanti somiglianze fra la scrittura maya e quella egizia. Altri preziosi documenti messicani furono copiati e incorporati nei nove tomi, ponderosi e riccamente illustrati, dell'opera di un altro inglese, Lord Kingsborough. Egli era convinto che i maya discendessero dalle tribù perdute d'Israele,18 e nel suo monumentale trattato incluse lunghe dissertazioni in questo senso. Particolare interessante, inserì un'illustrazione tratta dal Codex Borgianus che rivelava come i segni usati nel calendario maya per indicare i venti giorni del mese (vedi fig. 3) corrispondessero alle varie parti del corpo umano, un po' come le raffigurazioni medievali dei dodici segni dello zodiaco e dei loro attributi. Commentando questo 18 L'antico regno di Israele, governato dal re Davide a Gerusalemme, fu diviso in due dopo la morte di Salomone. Guidate dalla tribù di Giuseppe, dieci delle dodici tribù originali di Israele formarono uno stato a sé con una nuova capitale, Samaria. Andarono « perdute » dopo che questo nuovo regno di Israele (Samaria) fu invaso dagli assiri e il suo popolo fu mandato in esilio. Furono sostituite da non israeliti, definiti dalla Bibbia «samaritani». Le due tribù rimanenti del regno meridionale di Giudea, quella di Giuda e quella di Beniamino, rimasero e divennero note col nome di ebrei. Da allora la sorte dei discendenti delle « tribù perdute » è oggetto di dispute. particolare nel suo libro Mysteries of the Mexican Pyramids (I misteri delle piramidi del Messico), e senza motivo apparente, Peter Tomkins19 suggerì che l'immagine fosse connessa con la teoria che l'energia vitale del sole si distribuisce attraverso i vari pianeti nelle ghiandole del corpo umano da essi controllate. Le prime fotografie delle piramidi messicane furono scattate da un francese, Claude Charnay, che lavorava sotto gli auspici del ministro delle Belle Arti di Napoleone III Viollet-le-Duc. In seguito Charnay compì scavi a Teotihuacán ed eseguì dei calchi in cartapesta dei rilievi di Palenque; questi ultimi furono inviati a Parigi. Ebbe un rivale sul campo, nella persona di un inglese che faceva parte del servizio coloniale, Alfred Maudsley. I risultati del meticoloso rilievo topografico delle rovine maya e dei loro testi ideografici compiuto dal Maudsley furono pubblicati infine in una edizione in venti volumi fra il 1889 e il 1902.20 Egli eseguì con grande difficoltà dei calchi in gesso delle stele maya, che inviò in Inghilterra, dove furono confinati nel seminterrato del Victoria and Albert Museum di South Kensington, a Londra. E là probabilmente sono rimasti abbandonati da allora. La lastra di Palenque All'inizio del secolo gli avventurieri e i viaggiatori che fino a quel momento avevano dominato il campo dovettero cedere gradualmente il passo a una nuova ondata, quella degli archeologi professionisti. Sebbene l'archeologia del Nuovo Mondo fosse, e sia tuttora, una parente povera di quella europea e del Vicino Oriente, pian piano il velo che celava le città dei maya si stava sollevando. Gran parte della giungla che circondava Palenque fu disboscata, rivelando appieno i suoi monumenti per la prima volta da quando erano stati abbandonati, oltre mille anni prima. La scoperta di resti appartenenti a una cultura anteriore a quella dei maya e soprattutto di enormi teste di basalto, diede consistenza alla leggenda che gli olmechi fossero stati la prima razza civile dell'America centrale. Le moderne tecniche di scavo e un decisivo passo avanti nella comprensione del calendario maya resero possibile la datazione dei monumenti con una precisione tale che negli anni '50 si giunse a ricostruire una cronologia generalmente accettata per quanto riguarda l'ascesa e il declino delle civiltà mesoamericane. In quel periodo gli archeologi di Palenque avevano scoperto varie tombe ben fornite, talvolta incluse nelle piattaforme dei templi e persino nei palazzi. Tuttavia queste risultarono insignificanti in confronto alla scoperta fatta da un archeologo messicano, Alberto Ruz, nel 1952. Fra le rovine di Palenque si trova un edificio notevole, conosciuto col nome di tempio delle Iscrizioni (vedi tavv. 1 e 2). Questo edificio, che sorge in cima a una piramide a gradini alta sessantacinque metri, ha un pavimento fatto di grosse lastre di pietra. L'attenzione di Ruz fu attirata da quel pavimento quando notò che una delle lastre aveva sulla superficie una doppia fila di fori, chiusi da tasselli in pietra asportabili. Decise che vi erano stati collocati per poter sollevare la pietra e procedette subito a farlo, ma, nel sollevare la lastra, scoprì che al di sotto vi era una scala riempita di ghiaia (vedi tav. 8). Furono necessarie quattro stagioni di scavo per sgomberare il vano della scala, che a metà strada cambiava direzione, ma arrivato in fondo, all'incirca alla stessa altezza della base della piramide, Ruz trovò una camera. Sul pavimento del locale, sotto la ghiaia, c'erano gli scheletri di sei giovani adulti, quasi certamente vittime di sacrifici umani. All'estremità opposta c'era un passaggio, bloccato da una grossa lastra Peter Tompkins, un autore americano, è più noto per The Secrets of the Great Pyramid (I segreti della grande piramide) (1971) e The Secret Life of Plants (La vita segreta delle piante), scritto in collaborazione con Christopher Bird. La sua opera Mysteries of the Mexican Pyramids (I misteri delle piramidi messicane) (1976) riferisce con dovizia di dettagli la storia degli studi sulle piramidi in Messico e le numerose teorie, spesso bizzarre, avanzate per dar loro una spiegazione. 20 Biologia Centrali-Americana, Archaeology: testo, più quattro volumi di tavole. 19 triangolare (vedi tav. 7). Scostandola gli archeologi rimasero sbalorditi nello scoprire una tomba intatta (vedi tav. 6). La camera funeraria si rivelò di notevoli dimensioni: nove metri di lunghezza per sette di altezza. Lungo le pareti si susseguivano figure a rilievo in stucco, dall'abbigliamento molto arcaico, che oggi si ritiene siano rappresentazioni dei Nove Signori della Notte della teologia maya. Sul pavimento erano disposti vari oggetti che sembravano collocati li con uno scopo ben preciso: si trattava di due figure di giada e di due teste meravigliosamente modellate. Comunque l'elemento di interesse più immediato era la tomba in sé, chiusa da un enorme coperchio rettangolare, ricoperto di incisioni intricate che componevano rilievi altamente stilizzati. Sollevando il coperchio, i ricercatori sbalorditi trovarono all'interno un autentico tesoro di oggetti d'arte maya. Il viso del defunto, ormai decomposto, era coperto da una splendida maschera a mosaico di giada (vedi tav. 3). L'uomo sepolto nella tomba portava ciondoli alle orecchie in giada e madreperla, numerose collane di grani tubolari di giada e anelli di giada alle dita. Aveva un grosso pezzo di giada in ciascuna mano e un altro in bocca, una pratica tipicamente cinese, ma diffusa anche presso i maya e gli aztechi. Per quanto splendido fosse questo tesoro (e la maschera di giada è tuttora la più bella che sia mai stata trovata), la scoperta più sconcertante era rappresentata dal coperchio del sarcofago (vedi tav. 20). La lastra di Palenque pesa circa cinque tonnellate ed è troppo grande per essere rimossa dalla tomba, dove si trova tuttora. E stata oggetto di attenta osservazione da parte di studenti e studiosi ansiosi di interpretarne i misteriosi disegni. Il più celebre è lo scrittore e studioso svizzero di fatti extraterrestri, Erich von Däniken. Nel suo libro Chariots of the Gods (I carri degli dèi), egli ha avanzato l'ipotesi che la figura enigmatica al centro della lastra rappresenti un essere giunto dallo spazio a bordo della sua astronave. Va da sé che un suggerimento del genere gli ha attirato lo scherno degli archeologi che operano nel settore. Benché essi siano riusciti a identificare l'uomo sepolto nella tomba come un re di Palenque molto rispettato e chiamato Signore del Sole Pacal morto nell'anno 683 d.C. all'età di ottant'anni, non c'era nulla che suggerisse che a quell'epoca lui o chiunque altro in Messico avesse mai visto una navicella spaziale, per non parlare di guidarla. Come le teorie precedenti che collegavano i maya con Atlantide, l'antico Egitto e le tribù perdute d'Israele, le teorie sul dio come astronauta maya sono finite nel limbo delle ipotesi respinte. Eppure, per quanto sgradite alla corrente dominante nel mondo accademico, le sue tesi erano in sintonia con le mode degli anni '60 e il suo libro divenne un best-seller internazionale. Volenti o nolenti, gli archeologi che si occupavano del Messico si trovarono di fronte a un pubblico fin troppo disposto ad accogliere le teorie di von Däniken e la lastra di Palenque divenne un totem che rappresentava tutto ciò in cui egli credeva. Non c'è da stupirsi che si mostrassero diffidenti quando Maurice Cotterell si fece avanti con una nuova e discussa ipotesi di interpretazione della lastra, durante la sua visita in Messico nel 1992. I maya sono circondati da un grande mistero, tuttora insoluto. Da dove venivano? Per quale motivo hanno costruito i loro monumenti? Come mai sono scomparsi all'improvviso, abbandonando le loro favolose città all'abbraccio vorace della giungla? Sono questi gli interrogativi pressanti che hanno lasciato perplesse generazioni di esploratori e visitatori di Palenque e delle altre città maya. L'archeologia ci ha fornito alcune risposte, soprattutto grazie alla decifrazione dell'antico calendario maya, ma finora non è riuscita a spiegare i veri moventi dei maya. In questo senso sembra che la lastra di Palenque rappresenti un indizio importante e, a quanto pare, stiamo finalmente per decifrare il suo codice. segue da pag. 13 2 LA CONCEZIONE DEL TEMPO PRESSO I MAΥA Ricostruire il calendario maya Non c'è dubbio che la distruzione integrale delle vestigia dell'antico Messico abbia prodotto danni irreparabili. Nei primi anni del dominio spagnolo è andato perduto un numero così alto di archivi, monumenti e persino lingue, che probabilmente vi sono molti aspetti della cultura degli antichi maya dei quali non sapremo mai nulla. Nonostante tutto, negli ultimi due secoli sono stati compiuti grandi passi in avanti e molto è stato ricuperato dalle ceneri della storia. L'esplorazione e la registrazione delle rovine maya da parte di dilettanti appassionati come Stephens, Maudsley e Charnay ne ha rappresentato soltanto una parte. Di eguale interesse e di importanza quasi altrettanto grande è il costante lavoro di decifrazione dei testi maya a opera di altri studiosi. 1 primo, e sotto certi aspetti il più importante, è stato anche il personaggio più pittoresco, Charles Etienne Brasseur de Bourbourg. Ormai disprezzato dal mondo accademico e ritenuto quasi un pazzoide per la sua fede nell'esistenza di Atlantide, ai suoi tempi invece era molto stimato negli ambienti più elevati della società europea, e fu persino incaricato dal governo di Napoleone III di scrivere il testo di un libro sullo Yucatán. Le incisioni che dovevano accompagnare il testo di Brasseur erano del conte Jean-Frederick Waldeck, anch'egli considerato oggi- segue da pag. 14 Spigolature pag. 108-109 Autore: Adrian G. (Gilbert) Maurice M. (Cotterell) Per quanto poté capire Cotterell, la critica fondamentale alle sue tesi era che i Maya non avevano a disposizione l’acetato per i trasparenti, quindi qualunque scoperta potesse aver fatto usando quel metodo non era valida. In apparenza questo era un argomento solido. Naturalmente i Maya non avevano copie dell’acetato della lista di Palenque con le quali giocherellare come aveva fatto lui, ma ne avevano davvero bisogno? Poteva esserci una un’altra spiegazione. Se ne avesse avuto il tempo, Cotterell avrebbe citato il Popol Vub, che diceva: … e i re sapevano se vi sarebbe stata una guerra, e tutto era chiaro ai loro occhi; vedevano se vi sarebbe stata morte, e carestia, se vi sarebbe stato conflitto… Per Cotterell, il Popol Vub era il libro del passato, del presente e del futuro. Conteneva anche un’allusione rivelatrice all’intelligenza superiore della quale erano dotati i padri fondatori: … Essi vedevano, e potevano vedere lontano all’istante, riuscivano a sapere tutto quello che vi era al mondo. Quando guardavano, vedevano subito tutto intorno a loro e contemplavano di volta in volta l’arco del cielo e il volto rotondo della terra. Le cose nascoste (in lontananza) le vedevano tutte, senza doversi muovere; subito vedevano il mondo… grande era la loro saggezza. Per quanto concerneva Cotterell, i Maya non avevano affatto bisogno di trasparenti. Ne erano prova sufficiente i loro scritti e la loro sofisticata conoscenza dell’astrologia, dell’architettura e della scienza. Benché non si sapesse in che modo esattamente avessero acquisito le loro elevate facoltà di percezione dello spazio , era convinto di averne la prova davanti a sé, nelle immagini che aveva decodificato nella lastra. I Maya erano di sicuro molto più progrediti dei popoli confinanti, essendo quasi gli unici fra le tribù indigene del Nordamerica a possedere un linguaggio scritto. Loro soltanto facevano uso del calendario del Lungo Computo, che nella sua complessità superava di gran lunga quello degli aztechi, dei tolteci e di qualsiasi altra civiltà precolombiana. Costruivano le loro città e i loro templi con quel genere di gusto artistico che si associa a una cultura elevata, e a loro, o almeno ai loro avi, era largamente accreditata la prima coltivazione di mais sotto forma di coltura stabile. Tutte queste realizzazioni notevoli indicavano un’intelligenza eccezionale, almeno fra i capi. pag. 166-167-168 Autore: Adrian G. (Gilbert) Mautrice M. (Cotterell) Il “teschio maledetto” Una scoperta che a prima vista sembra priva di connessioni con quanto si è detto finora, e comunque eccezionale, fu compiuta nel 1927 in quello che allora si chiamava Honduras Britannico e ora è diventato Belize. Alcuni anni prima un celebre archeologo, il dottor Thomas Gann, docente di Archeologia del Centroamerica all’università di Liverpool, aveva annunciato la scoperta di un’antica città sul corso del Rio Grande, non lontano dal confine con il Guatemala. Si tratta di un sito estremamente singolare, poiché sembra di un’età anteriore ai maya e si ignora chi siano stati i fondatori. In un articolo publico sul London Illustrated News del 26 luglio 1924, Gann scrive: Gli edifici consistono in piramidi a terrazze rivestite di grosse pietre, alle quali sono accostate a un lato ampie gradinate di pietra. La prima costruzione liberata dalla vegetazione e dal terriccio era una piramide tronca della lunghezza di 27,5 metri per 22,5 di lato, alta dieci metri… L’intera piramide era completamente riversa da blocchetti di arenaria e calcare tagliati con cura, alla faccia inferiore dei quali aderiva in molti casi uno strato di selce dello spessore di due centimetri. Per cementare questa pietre non è stato usato alcun tipo di malta o materiale simile… Prima di allontanarci, battezzammo la città Lubaantun, che in lingua maya significa letteralmente “il luogo delle pietre cadute”. Questa città è diversa da tutte le altre città maya conosciute perché non vi sono palazzi e templi di pietra che sovrastino le grandi monoliti recanti iscrizioni con la data in cui furono eretti, che sono stati innalzati dai maya a intervalli di vent’anni, e più tardi di cinque anni, in tutta l’America centrale e lo Yucatàn. Gann conclude così il suo articolo: Le rovine del Rio (Lubaantun) costituiscono uno dei siti maya più antichi, che risale a un’epoca anteriore ai resti di qualsiasi altra città attualmente nota nell’America centrale. Fu in questo luogo, ancor oggi difficilmente accessibile, che nel 1927 la figlia diciassettenne di un pittoresco personaggio chiamato F.A. Mitchell_Hedges scoprì un manufatto piuttosto sinistro: un teschio di cristallo assolutamente perfetto. Ora sappiamo che gli indios del Centroametica erano estremamente abili nel lavorare l’ossidiana, o vetro vulcanico; numerosi utensili, armi e oggetti rituali di ossidiana sono stati rinvenuti in tutto il Messico e nelle regioni occupate dai maya. Questo teschio è diverso, comunque, in quanto è fatto di cristallo di roccia ed è costruito con tanta abilità da avere persino le mascelle mobili. Eppure nessuno, che io sappia, è riuscito a formulare un’ipotesi plausibile sulla tecnica usata per realizzare il teschio in un’epoca in cui non erano in uso strumenti di ferro. Si calcola che ci sarebbero voluti centocinquanta anni di lavoro intenso per levigare il cristallo, duro quasi quanto un diamante, usando la sabbia come abrasivo. Resta comunque il fatto che il teschio esiste ed è stato realizzato o ai tempi della civiltà della città perduta di Lubaantun che, come si è detto, è cronologicamente anteriore a tutti gli altri resti maya, o addirittura prima. Ne ho dedotto quindi che, se i progenitori dei maya disponevano della tecnologia adatta per levigare il cristallo di roccia ricavandone forme arrotondate, è probabile che anche i loro discendenti la conoscessero. Pertanto non è inconcepibile che i maya fossero in grado di costruire lenti convesse sufficienti se non altro a funzionare da lenti ustorie. Quello che potremmo definire il “teschio maledetto” è di puro cristallo di roccia, e secondo gli scienziati ci saranno voluti più di cento cinquanta anni, generazioni e generazioni di individui al lavoro per tutti i giorni della loro vita, intenti a sfregare pazientemente con la sabbia un immenso blocco di cristallo di roccia fino a ricavarne finalmente un teschio perfetto.14 E’ antico almento tremila e seicento anni secondo la leggenda era usato dal sommo sacerdote dei maya quando compiva riti esoterici. Si dice che quando il sacerdote evocava la morte con l’aiuto del teschio, questa arrivasse infallibilmente, e il teschio è stato descritto come l’incarnazione di ogni male. Non mi preme trovare spiegazioni a questo fenomeno. Senza indugiare sulle presunte proprietà macabre di un simile teschio di cristallo, quello che mi interessava far notare è che l’autore cita una leggenda che le associa con i sacerdoti maya e i loro riti esoterici. Era possibile, pensai, che uno di tali riti fosse stato la cerimonia del nuovo fuoco? Senza metterne alla prova l’efficacia sotto questo aspetto è difficile affermare con un certo grado di attendibilità che avrebbe potuto svolgere quella funzione, ma il cranio arrotondato doveva avere senza dubbio delle proprietà simili a quelle delle lenti. In caso affermativo, credo che si sarebbe potuto usarlo per focalizzare i raggi del sole in modo da accadere un fuoco. pag. 196-197-198-199 Autore: Adrian G. (Gilbert) Mautrice M. (Cotterell) Atlantide, il mito anteriore al diluvio Come si è visto, uno dei temi ricorrenti dei numerosi libri che sono stati scritti sui maya è la loro possibile connessione con la cosiddetta civiltà perduta di Atlantida. La sola idea di evocare questa connessione, popolare tra gli studiosi di discipline esoteriche, suscita risate e derisione da parte di che professa di sapere quasi tutto quello che c’è da sapere sull’archeologia dell’America centrale. Ma Atlantide si può davvero liquidare in modo sbrigativo definendola un mito, oppure dietro la leggenda c’è qualcosa di concreto? Spinto dalla sensazione che poteva essere così, mi accinsi a riprendere in esame le prove con occhi nuovi. La prima notizia scritta che abbiamo di Atlantide risale a Platone, che in due dei suoi ultimi dialoghi, Crizia e Timeo, fornisce una sintesi della storia. Secondo quanto afferma nel Timeo, riporta ciò che fu narrato a Solone, il grande legislatore di Atene, quando fece visita a Sais in Egitto. Crizia, uno dei personaggi di Platone, riferisce la storia a Socrate così come gli è stata tramandata dal nonno, chiamato anch’egli Crizia. Con parole che rammentano da vicino la convinzione dei maya che la Terra subisca catastrofi periodiche, un sacerdote egiziano spiega a Solone che essi conoscono la storia del mondo ben oltre quelle dei greci: Voi [gli ateniesi] in primo luogo vi ricordate di un solo diluvio terrestre, mentre prima ce n’erano stati già molti, e in oltre non sapete che la razza umana più bella e migliore visse proprio tra voi, nella vostra terre, e da essa discendete tu e tutta la vostra cittadinanza attuale, essendone rimasto allora il piccolo seme; ma tutto questo vi sfugge perché per molte generazioni i sopravvissuti sono morti senza ever conosciuto la scrittura.7 Stando al racconto di Platone, un tempo esisteva una grande isola continentale al centro di quello che ora è l’oceano Atlantico, e furono i greci di Atene a impedire l’invasione dell’Europa e dell’Asia da parte della popolazione dell’isola. Dicono infatti i nostri testi che la vostra civiltà [Atene] arrestò un enorme esercito, che Gli aztechi (quale sarebbe stato l'orrore di Tenoch, se fosse vissuto per vederlo!) adottarono queste credenze e usanze superstiziose, portandole a limiti assurdi. Il sacrificio umano e in particolare l'asportazione del cuore, divenne il mistero centrale della loro religione. Si calcola che per la sola consacrazione del tempio principale di Tenochtitlán siano state sacrificate circa ventimila vittime. Ogni anno almeno cinquantamila sventurati trovavano la morte in quel modo. Per soddisfare il vorace appetito di cuori Quello che stupisce davvero in questo racconto, scritto intorno al 350 avanti Cristo, è che non solo rappresenta la prima fonte scritta sull’esistenza di Atlantide, ma rivela che almeno gli egiziani conoscevano il continente americano. Afferma infatti in modo categorico che esiste tutto un continente opposto intorno a quello che allora era vero e proprio mare. Anche ammesso che si voglia negare l’esistenza del continente scomparso di Atlantide, questa testimonianza offre un voglioso sostegno alla tesi di contatti precolombiani fra Vecchio e Nuovo Mondo: in quale altro modo gli egiziani avrebbero potuto apprendere che esisteva un altro continente sulla sponda opposta dell’Atlantico? Il racconto di Platone continua: In quest’isola di Atlantide si era formata una grande e straordinaria monarchia, che dominava tutta l’isola e anche molte altre isole e regioni del continente; inoltre governava, da questa parte dello stretto, la Libia fino all’Egitto e l’Europa fino alla Tirrenia [Toscana].9 Si direbbe quindi che Attende fosse una grande potenza navale che dominava non solo l’Europa occidentale, ma anche parte del continente al quale si accennava poco prima, vale a dire l’America. Non basta; si direbbe che l’impero di Atlantide intendesse espandersi ancor più a oriente per assumere il controllo anche dei paesi del Mediterraneo orientale, compresi Grecia ed Egitto. Si costruì un’alleanza per sconfiggere gli invasori e liberare dal loro gioco gli abitanti delle coste del Mediterraneo, a est e a ovest. Platone aggiunge poi: Ma in seguito si verificarono immensi terremoti e cataclismi, al sopraggiungere di un sol giorno e di una sola notte terribili, in cui il vostro esercito [ateniese] fu inghiottito tutto quanto dalla terra, e anche l’isola di Atlantide s’inabissò nel mare e sparì; ecco perché anche ora, quel mare risulta ormai inaccessibile e inesplorabile, essendoci l’ostacolo dal fango dei bassifondi che l’isola depositò inabissandosi.10 L’altro resoconto del mito in Platone, nel Crizia, riferisce che sono trascorsi novemila anni dalla dichiarazione di guerra fra coloro che vivevano all’esterno e tutti coloro che vivevano all’interno delle Colonne d’Ercole. Non sappiamo quanto tempo sia durata la guerra, ma è chiaramente sottinteso che era cominciata prima che gli abitanti di Atlantide assumessero il controllo della Libia e dell’Europa fino alla Toscana. Dal momento che il dialogo di Platone è stato scritto intorno al 350 a.C., per lo scoppio di questa guerra occorre calcolare una data intorno al 9500 a.C. E’ davvero una data incredibile, molte migliaia di anni prima dell’inizio riconosciuto della storia greca o egiziana, e in un’epoca in cui l’Europa cominciava appena a emergere dall’ultima era glaciale. Accettare il resoconto di Platone per il suo lavoro letterale pone al ricercatore problemi enormi e in apparenza insormontabili, perché lascia troppi interrogativi in sospeso. Se davvero è esistita un’isola continentale come la Libia e Asia (probabilmente intesa come Asia minore ovvero la Turchia) che è sprofondata tra le onde , come mai oggi non ve ne sono tracce? Non solo, ma secondo Platone gli egiziani del suo tempo possedevano ancora registrazioni scritte degli eventi che si erano verificati nel loro paese a quell’epoca. Eppure l’egittologia moderna ci informa che la civiltà egiziana a tutti gli effetti cominciò intorno al 3100 a.C., con la prima dinastia. Secondo i testi moderni, all’epoca indicata da Platone gli egiziani erano nomadi del paleolitico che trascorrevano il tempo dando la caccia ai leoni, capre, coccodrilli e ippopotami, e non erano ancora riusciti ad addomesticare gli animali. E’ possibile che un popolo del genere tenesse degli annali relativi a una guerra mondiale delle proporzioni di quella descritta da Platone? E’ questa la dicotomia in cui ci troviamo allo stato attuale. Da un lato Platone, grande filosofo e discepolo di Socrate, il quale racconta una storia che include informazioni importanti che non avrebbe doluto conoscere (vale a dire l’esistenza del continente americano dalla parte opposta dell’Atlantico); e dall’altro le prove della scienza moderna, che dichiarava fallace il mito di Atlantide. Esiste una via per uscire da questa impasse? E quali ripercussioni può avere, in caso affermativo, sulla nostra conoscenza delle civiltà maya in America? Queste sono le domande che ora richiedono una risposta. pag. 207-208-209 Autore: Adrian G. (Gilbert) Mautrice M. (Cotterell) Il continente perduto e i suoi archivi Come abbiamo visto, la storia della presenza degli abitanti di Atlantide in Egitto non è nuova, ma i dati di Cayce vi aggiungono un risvolto inedito. A prestar fede alle parole che pronunciò nel sonno, l’epoca in cui Atlantide fu sommersa dalle acque (secondo i suoi calcoli al 10.600 a.C.) fu un periodo turbolento per tutto il mondo abitato. L’Egitto, data la sua posizione geografica, era uno dei pochi luoghi sicuri del mondo e perciò fu invaso non solo dagli abitanti di Atlantide che provenivano dall’occidente, ma anche da altre popolazioni giunte da oriente. Questi nuovi venuti erano bianchi caucasici provenienti dalla regione del monte Ararat, che ora appartiene alla Turchia orientale. Poiché a quel tempo gli abitanti autoctoni della valle del Nilo erano negri e gli abitanti di atlantide per lo più rossi, l’Egitto divenne una sorta di crogiuolo razziale. Fra queste stirpi diverse, gli abitanti di Atlantide erano ovviamente i più evoluti in senso culturale e avevano portato con sé una parte della loro tecnologia, compresa la capacità di sollevare grossi massi di pietra e di costruire piramidi. Invece gli invasori di origine orientale predominavano, secondo Cayce, sul piano militare e furono loro, sotto il re Osiride, a governare il paese. Da quella strana mescolanza sarebbe nata una nuova civiltà, con una nuova religione: un amalgama dell’antico animiamo dei negri, che erano la popolazione indigena, della religione di Atlantide e di quella di Osiride e dei suoi seguaci. Parte di questa vicenda è stata tramata nel racconto biblico del diluvio, sia pure in modo un po’ confuso. Se Mosè, il presunto autore della Genesi, era nato e cresciuto in Egitto e vi era stato educativo, appare probabile che quella da lui accreditata fosse la versione egiziana della leggenda del diluvio universale. Nella Genesi si narra che l’arca di Noè si arenò sul monte Ararat e che egli ebbe tre figli, Sem, Cam e Jafet, i progenitori delle tre razze. Se identifichiamo Noè con Osiride, secondo Cayce un immigrato che proveniva dalla regione del monte Ararat, i suoi “figli” biblici corrispondono alle tre razze dell’Egitto: gli abitanti di Atlantide, dalla pelle rossa, i bianchi dell’Ararat e i negri Egiziani. Questo coincide con il racconto di Cayce, secondo il quale Osiride era il sovrano di un regno unito e multinazionale. Questo, comunque, non è tutto quello che il “profeta dormiente” aveva da dire in merito ad Atlantide. In numerose letture egli affermò che i superstiti del continente perduto avevano portato con sé dei resoconti della loro storia precedente. Questi, a suo dire, erano stati sepolti con cura in una camera segreta non lontano dalla grande Sfinge che vigila sulle piramidi di Giza. Un’altra serie di queste registrazioni d’archivio sarebbe stata presa in consegna da altri sopravvissuti al cataclisma, per essere sepolta nella regione dello Yucatàn in Messico. Cayce sosteneva che prima della catastrofe di Atlantide un sacerdote di nome Iltar aveva lasciato Poseidia (l’isola principale) insieme con un gruppo di seguaci che appartenevano alla casa reale di Atlan per dirigersi a ovest, raggiungendo lo Yucatàn: Poi, lasciando la civiltà di Atlantide (più esattamente di Poseidia), Iltar, insieme a un gruppo di compagni che discendevano dalla casa di Atland, seguaci del culto dell’ONU, con circa dieci individui abbandonò l’isola di Poseidia e si diresse a occidente, raggiungendo quella che ora sarebbe una parte dello Yucatàn. E là cominciò, con l’attività dei piccoli che vi abitavano, lo sviluppo di una civiltà che divenne grande come lo era stata nella terra di Atlantide.24 … I primi templi eretti de Iltar e dai suoi seguaci andarono distrutti nel periodo del cambiamento fisico nei contorni della terra. Ciò che ora è stato trovato, insieme con una parte già rinvenuta e rimasta ignorata per molti secoli, era allora un amalgama di popoli provenienti da Mu, Oz e Atlantide. Questo è lo scenario più vicino a quello di un “san Patrizio” che sono riuscito a trovare, e mi sembra plausibile identificare Iltar (per usare il suo nome atlanteo) il grande profeta che i maya in seguito venerarono sotto il nome del saggio Zamma. Secondo Cayce, oltre all’archivio sepolto presso la Sfinge in Egitto ne esistevano un altro, portato da Iltar nello Yucatàn, e un terzo ancora nascosto nel cuore stesso di Atlantide. Se solo potessimo metter le mani su quegli archivi, forse conosceremo con certezza la verità sulle origini della civiltà dei maya e sul modo in cui acquisirono la loro profonda conoscenza dei cicli delle macchie solari. [email protected] Contatto con Tullio Egidio [email protected] Contatto con Anna Maria Mandelli www.cristallidiatlantide.it