A10 185 Elena Filippi Fritz Burger (1877–1916) Arte come critica – Critica come arte Tendenze e ragioni della disciplina storico–artistica agli inizi del XX secolo Postfazione di Bert Burger Con un saggio di Nicola Curcio Copyright © MMVI ARACNE editrice S.r.l. www.aracneeditrice.it [email protected] via Raffaele Garofalo, 133 A/B 00173 Roma (06) 93781065 ISBN 88–548–0601–3 I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento anche parziale, con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi. Non sono assolutamente consentite le fotocopie senza il permesso scritto dell’Editore. I edizione: maggio 2006 Possa questo libro mostrare ai giovani la loro origine, le loro radici, additare chi li ha anticipati nello spirito: il suo scopo, dunque, è servire il presente. Quanto più questo testo appartiene loro autenticamente, tanto più resterà esso stesso giovane. (Fritz Burger, Einführung in die moderne Kunst) A Filippo, che ora sa distinguere il “Fischer Fritz” da un altro, audace Fritz… la sua mamma INDICE DEI CAPITOLI Avvertenza p. IX Ringraziamenti p. XI 1. Introduzione p. 3 2. «Ein Dürerscher Ritter trotz Tod und Teufel»: una biografia intellettuale p. 9 3. «Entro il mio petto albergano due anime». La questione del metodo p. 27 4. La formazione di Burger e gli studi fino al 1909 p. 49 5. Le Ville di Andrea Palladio: la svolta p. 69 6. Michelangelo, Dürer e gli «antenati» p. 83 7. L’ambiente monacense p. 109 8. Principi fondamentali della critica d’arte Arte come critica – critica come arte p. 131 9. Burger e i problemi fondamentali dell’arte contemporanea p. 169 10. «L’artista in me, e lo studioso». Il cammino di una vocazione p. 199 VII VIII Indice APPENDICI Fritz Burger e l’empatia di Nicola Curcio p. 265 Princìpi fondamentali della critica d’arte p. 289 L’essenza dell’arte di Böcklin p. 295 Direttive per i redattori del manuale p. 305 Introduzione all’arte contemporanea p. 309 Una testimonianza su Fritz Burger (1916) p. 315 Postfazione di Bert Burger p. 317 Indice dei nomi p. 319 Tavole a colori p. 329 TRADUZIONI DI BRANI BURGERIANI AVVERTENZA Il presente lavoro si basa sostanzialmente su due ordini di fonti: i materiali a stampa, pubblicati da Fritz Burger e postumi, nonché su quanto reperito presso i lasciti Fritz Burger, Clara Burger von Duhn, Erich Burger e Lili Fehrle-Burger. Ragioni di agilità e di buon senso mi spingono ad adottare per le diverse citazioni dai vari lasciti la formula più generale di “Carte Burger”, senza operare ogni qual volta un distinguo. Questa è anche l’indicazione di massima con cui prossimamente metterò ordine alle suddette carte in accordo con gli eredi Burger. La storia del lascito dello studioso, scomparso nel 1916, si riassume come segue: i testi pubblicati, i manoscritti e alcune lettere hanno trovato alloggio nella casa di famiglia a Ried, presso Benediktbeuren; mentre le lettere private, i diari e le commemorazioni di Burger hanno seguìto la vedova nella villa paterna di Heidelberg (Werrgasse 7), dove si trasferì definitivamente. Qui, soprattutto dopo la Seconda Guerra, se ne è occupata la figlia Lilly, detta Lili, coniugata Fehrle, che ha recuperato anche parte del lascito di Ried. Nel 1974, dopo la morte di Clara, e in seguito a un contenzioso legale relativo alla suddivisione dell’eredità, il nipote, architetto Bert Burger – figlio del primogenito Erich – ha radunato a Heidelberg l’intero lascito cartaceo, unendolo a quanto già si trovava in possesso di suo padre. La quasi totalità dei documenti di Fritz Burger si trova così nella residenza von Duhn e nell’abitazione privata di Bert, a Heidelberg, escluse alcune lettere e un dipinto a pastello, in possesso di una figlia di Lili, Dietlind Lehmann (Lampertheim), e qualche altro documento nell’abitazione IX X Avvertenza di Birgit Burger, sorella di Bert, a casa von Duhn. Delle opere pittoriche del Monacense si dirà nel capitolo a queste dedicato. Vale la pena registrare alcuni dati sull’abbondante quantità di lettere allogate presso l’Archivio Burger (che è a disposizione dell’utenza, quantunque rimanga privato e non strutturato). Il corpus più abbondante riguarda le 232 lettere che Fritz scrisse dal fronte occidentale di guerra (1914-1916): 113 di esse sono disponibili nella trascrizione dattiloscritta a cura di Hansdieter Erbsmehl (1986). Le rimanenti, di argomento del tutto personale, non sono consultabili. Più in generale, qualche corrispondenza burgeriana, al pari in versione dattiloscritta, è reperibile nel fondo Lili Fehrle-Burger, mentre ve ne sono altre che – grazie alla sensibilità degli eredi Bertram e Birgit – abbiamo affidato pochi mesi or sono alla competente decifrazione del dr. Ewald Kessler, già archivista dell’Università di Heidelberg. A lui si è commissionata in particolare la decodifica di lettere di Fritz Burger dal Veneto, recentemente individuate da chi scrive, e parte dello scambio epistolare con Heinrich Wölfflin. Da ultimo, la famiglia ha reso noto all’Autrice un memoriale di Clara Burger, una sorta di diario segreto, con preghiera di un uso privatissime. Perciò, è stato estrapolato da questa preziosa fonte soltanto quanto forniva appoggio documentario alla materia scientifica del libro. Una cospicua serie di documenti, resi in versione italiana, viene presentata al pubblico per la prima volta. Tutte le traduzioni qui proposte, salvo diversa indicazione, sono di chi scrive. Laddove non espressamente specificato, le fonti del lascito burgeriano sono da intendersi inedite. Ringraziamenti Questa indagine sulla figura e l’opera di Fritz Burger muove da un precedente progetto editoriale, in cui qualche anno fa mi coinvolse Lionello Puppi. Insieme a lui si stimò l’importanza di un volume, scritto dal Monacense e pubblicato nel 1909, che riguardava Le ville di Andrea Palladio, ma che aveva bisogno di una contestualizzazione rispetto ad altre proposte coeve sull’argomento. Di qui lo scavo a recuperare quel poco che dell’Autore pareva emergere da una bibliografia quasi inesistente, fatta di richiami indiretti e trasversali alle discipline. Nella ricostruzione del profilo di Burger ebbi la fortuna di essere coadiuvata da persone che, a titolo diverso, avevano colto l’importanza dell’eredità burgeriana. Tra loro il dr. Jens Kräubig, già conservatore del Kurpfälzisches Museum di Heidelberg, curatore di una piccola ma significativa mostra, promossa dall’Istituto di Storia dell’arte dell’Università di Heidelberg nel 1986, sulle opere del Nostro, prima che esse ritornassero alla famiglia alla fine degli anni Novanta; e poi sono stati gli amici del Kunsthistorisches Institut di firenze, a ragionare con me sulla sua posizione storico-critica e a mettermi a disposizione i materiali ivi depositati, come del resto il Zentralinstitut für Kunstgeschichte, il Ludwig-Maximilians-Universitätsarchiv e il Bayerischer Hauptstaatsarchiv di Monaco di Baviera; la Biblioteca Museion di Bolzano, la Royal Academy of British Architects di Londra (R.I.B.A.), l’Accademia Olimpica e la Biblioteca Civica Bertoliana di Vicenza, il Centro Internazionale di Architettura “Andrea Palladio” (C.I.S.A.), la Biblioteca Nazionale Marciana di Venezia, la Biblioteca della Facoltà di Lettere e filosofia “A. Bassi” dell’Università degli Studi di Ferrara. Debbo molto all’Istituto Regionale Ville Venete per aver promosso l’edizione italiana de Le ville, per averne quindi fatto conoscere i risultati a enti e istituzioni anche straniere e a studiosi che si sono successivamente messi in contatto con me per accendere un appassionante dialogo sul Monacense e sulle derive del suo metodo conoscitivo nella storia dell’arte. Poiché avevo nel frattempo individuato gli eredi Burger a Heidelberg, l’Istituto ha provveduto a recapitare copia del Palladio all’arch. Bertram Burger, aprendo una nuova occasione d’indagine archivistica. Si è così materializzata una fortunata “cordata” di appassionati, ai quali rivolgo il mio più sincero ringraziamento per ogni momento di attenzione, di aiuto e di sprone, che con tanta benevolenza e generosità mi hanno continuato ad accordare: Vittorio Andolfato, Giuseppe Barbieri, Piergiuseppe Beltrame, Anna Bernabè, Nicola Curcio, Simone Doll-Gerstendörfer, Giovanni Fazzini, Giovanna Grossato, Giovanni Gurisatti, Ewald Kessler, Hubertus Kohle, Ursula Lochner, Sonia Gasparini e Carlo Longhin, Cecilia Mazzetti di Pietralata, Paul von Naredi-Rainer, Götz Pochat, Giampaolo Poli, Francesco Pontarin, Lionello Puppi, Raphael Rosenberg, Massimiliano Rossi, Gianni Carlo Sciolla, Salvatore Settis, Monika Siedel, Daniela Tovo, Franca Varallo, Enrica Volpi, Gerhard Wolf, e il Corso di Laurea Specialistica in Gestione dei Beni Culturali della Facoltà di Lettere e filosofia di Trento, per il quale questo testo primieramente è stato concepito. XI XII È curioso come la storia torni a proporre usati solchi: quando mi sono ritrovata a leggere, ospite della famiglia Burger, le lettere inedite che Fritz spediva dal suo soggiorno in Veneto, dove lo aveva portato l’interesse per la rivisitazione del contesto in cui ebbe a maturare l’esperienza palladiana, mi ha vinta una ineffabile emozione, perché mi ritrovavo a percorrere a rèbours le tappe di avvicinamento e il metodo di studio del Nostro. «La gente del posto era così amichevole con me, e i proprietari [di una villa] tanto cortesi da lasciarmi solingo davanti alle carte dell’archivio di famiglia… Se va avanti così, posso dirmi davvero contento!». Queste espressioni di riconoscenza di Fritz intendo farle proprie, manifestando insieme l’intima soddisfazione, di cui ho goduto, nel frequentare alcuni membri della famiglia Burger: Bert Burger, che nella veste di conservatore del lascito burgeriano si è prodigato in tutti i modi – con lui, i figli Anne e Björn – e sua sorella Birgit (nipoti del Nostro), per agevolarmi il compito di saldare quello che a mio avviso si poneva come un improrogabile risarcimento alla damnatio memoriae della politica nazionalsocialista e, a seguire, a una certa qual distrazione degli studi sulla storia della storia dell’arte e della critica d’arte a noi più vicini. Alla mia famiglia il grande merito di aver creduto in questa sfida. e.f. Nicola Curcio (Vicenza, 1962), autore del testo Fritz Burger e l’empatia (pp. 265285), è dottore di ricerca in filosofia e traduttore di testi filosofici dal tedesco, tra cui si ricordano il saggio di A. Schopenhauer, L’arte di ottenere ragione (con F. Volpi), le biografie heideggeriane di E. Nolte e di R. Safranski, la Storia dell’estetica di N. Schneider, il volume Su Heidegger: Cinque voci ebraiche. Ha approfondito le proprie ricerche all’Università di Freiburg i. Br., con il riconoscimento del DAAD. Per Rai-Educational ha tradottto e adattato Il cammino del pensiero (2000), un ciclo di videolezioni tenute da H.G. Gadamer. Da anni si occupa del pensiero di Martin Heidegger, al quale ha dedicato traduzioni, saggi in riviste e una monografia (La domanda sul nulla e sull’essere. Introduzione alla lettura di “Che cos’è metafisica?” di Martin Heidegger, Schio: Tamoni, 1992), e sta attualmente lavorando a un’estesa indagine storico-sistematica sulla nozione di Einfühlung nella tradizione estetica, psicologica e fenomenonologica, nonché come chiave interpretativa del cammino filosofico di questo pensatore. PIÈCE PER IL DR. BURGER REDATTA DAGLI STUDENTI 1. INTRODUZIONE In qualche scenetta tentiam la prodezza di illustrare e narrare com’era a lezione il nostro Dottore L’incipit del Prologo apre una scherzosa pièce, offerta ai coniugi Fritz e Clara Burger il primo febbraio del 1910 da alcuni studenti durante una visita serale al loro professore di storia dell’arte. Luogo dell’azione: l’aula 223 della Ludwig-Maximilians-Universität di Monaco; tempo presente. Personaggi: oltre al Dr. Burger, tre studenti dai nomi macchiettistici: Max, Moritz e Peter.1 Com’era, dunque, questo giovane libero docente, chiamato dalla Facoltà monacense a insegnare in uno fra gli istituti più prestigiosi della Germania di allora? E perché, si chiederà il lettore, avvicinare il profilo del Nostro da quest’ottica assai peculiare? L’idea che sottende queste pagine introduttive è il tentativo di condurre – senza filtri, ma con l’ausilio delle carte d’archivio – risolutamente in medias res, nel cuore palpitante dell’attività burgeriana. Prima ancora di rendere note le sue vicissitudini, le sue ambizioni, l’impeto irrefrenabile del suo talento, financo le tribolazioni e il suo lascito intellettuale, occorre che si faccia chiarezza sullo spirito che anima questo testo. Non si tratta di propugnare una causa, piuttosto che di rivendicare sfortune o preconcetti, posizioni critiche che ancora si attardano su clichés non più attendibili alla luce dei ritrovamenti archivistici.2 Né la questione riguarda il grado di valutazione precipuo delle opere di Burger, tanto meno i risvolti del suo vissuto famigliare, pur se di particolare intensità. fin dal titolo di questo saggio si è cercato di indirizzare la curiosità del lettore a un approccio il più possibile obiettivo e impostato sulla conoscenza scientifica dei fatti. Perciò, laddove affioreranno brandelli 3 4 Capitolo 1 di esistenza e squarci di vita quotidiana della famiglia Burger, sarà giocoforza in un preciso disegno – ragionato fin nei dettagli più riposti – per dare rilevanza massima al contesto dell’evoluzione della disciplina storico-artistica di inizio Novecento.3 Le carte, del resto, parlano da sole: come si evince, ad esempio, da una lettera di Fritz al suocero (Friedrich von Duhn, famoso archeologo, consigliere di Guglielmo II, e cattedratico a Heidelberg), poco dopo che il giovane studioso aveva iniziato a proporre i suoi seminari e lezioni presso l’Ateneo monacense, un passaparola formidabile rese quasi impossibile trovare posti a sedere, e perfino spazi per sostare all’inpiedi, durante le sue performance. È senza dubbio un dato interessante: se solo si rammenta la concomitante attività di docenti come, fra gli altri, Heinrich Wölfflin, che pure affascinava l’uditorio,4 non si potrà non riflettere sulla circostanza. Dopo un solo semestre di attività presso l’Istituto di Storia dell’arte monacense, già il Nostro si era conquistato attenzione da parte degli studenti,5 se è vero che all’annuncio della sua prima visita guidata alla galleria di quadri allestita dal barone von Schack – iniziativa che di per sé era una novità in ambito accademico locale6 – si presentarono ben 120 studenti, mettendo in difficoltà l’organizzazione, e costringendo il Nostro a dare appuntamento a una metà di loro il giorno seguente.7 Sul significato di questa proposta si tornerà in seguito. Va però anticipato quanto ebbe a ravvisare l’allievo Benno Reifenberg, a proposito di una guida per illustrare quella collezione, redatta dal giovane storico dell’arte e continuamente ripubblicata: in nessun altro luogo come nel breve testo introduttivo a corredo di quel volumetto si affaccia e dischiude compiutamente la portata del metodo burgeriano di approccio all’arte.8 Il titolo individuato da chi scrive per il presente volume rispecchia e condensa l’attività teorico-pratica di Fritz Burger, così come essa viene focalizzata da uno degli allievi a lui più vicini, Walter Dexel, nella prefazione alla seconda edizione, postuma, del suo libro forse più noto, il Cézanne und Hodler: «[F.B.] è caduto prima di poter offrire ciò che soltanto lui era in grado di raggiungere – lui che univa il realismo dell’erudito con l’intuizione dell’artista: una sistematica della critica d’arte, un accertamento dei princìpi del fare artistico, del Introduzione 5 pensiero visuale. Era l’opera cui mirava con tutto se stesso. Tutto ciò che da lui è stato fatto è funzionale a rendere chiara e accessibile questa meta. Anche questo libro». Ebbene: l’opera di Burger ha il suo fulcro e il suo massimo obiettivo nel «chiarire i fondamenti del pensiero visuale»; se pensiero visuale è un pensare per visione, esporne i fondamenti è un vedere nel pensiero. In altre parole: il pensiero visuale è arte come pensiero, il chiarire i fondamenti è pensiero come arte. Ma – ed è il passaggio conseguente e ultimo – Burger concepisce il pensiero, si vedrà, kantianamente come attività critica, ed è perciò appropriato, muovendo da una prospettiva siffatta, cercare di parlare del suo lavoro nei termini di arte come critica e critica come arte. Va subito riconosciuto, con Dexel, che «talvolta la sovrabbondanza dello spirito burgeriano è stata d’impedimento alla “chiarezza e comprensibilità” delle sue opere».9 Per questo aspetto, si auspica di poter offrire in questa sede un contributo per penetrare con qualche strumento critico ulteriore l’eredità burgeriana. Con tutto ciò, si attaglia alla vicenda umana e intellettuale del Monacense quanto Goethe ebbe a scrivere di Winckelmann: «Le sue opere, unitamente alle sue lettere, configurano una immagine di vita, sono anzi un’esistenza in sé. Esse individuano, come peraltro la vita della maggior parte degli uomini, soltanto un viatico, non già un lavoro fatto e compiuto». Fondamentalmente Fritz Burger dedicò tutte le sue energie a una causa, che tutto racchiude, e cioè l’approccio all’arte secondo un metodo che sia precisamente adeguato al suo oggetto; altrimenti detto – in una formula burgeriana tanto stringata quanto di assoluta cogenza: «la scienza storica è ricerca dell’essenza delle culture a partire dalla loro intima peculiare struttura». Solo da una prospettiva sì aperta e impregiudicata può cogliersi, giusta Burger, il codice dei fenomeni e dei manufatti artistici di ogni tempo e di qualsivoglia popolo.10 6 Capitolo 1 NOTE 1 Il riferimento degli autori a Max e Moritz non può essere casuale: si tratta dei capostipiti di tutti i ragazzetti terribili che la storia della vignetta con testo – prima ancora del fumetto propriamente detto – ha consegnato alle diverse generazioni di lettori dall’anno della loro invenzione da parte di Wilhelm Busch (1832-1908), autore amatissimo, «una sorta di Lare o divinità tutelare del genio della tribù» (Adelphi, 2003). A sedici anni viene attratto dagli studi filosofici (Kant specialmente), e si iscrive alla Politecnico di Hannover, partecipando nello stesso anno 1848 ai moti rivoluzionari. Su consiglio di un pittore studia quindi arte a Düsseldorf, poi all’Accademia di Belle Arti di Anversa e infine a Monaco, dove entra nel Künstlerverein (Associazione degli artisti). Qui affinerà il gusto per la caricatura. Nel 1858 comincia a disegnare storie per i «Münchener Fliegende Blätter», la testata della casa editrice Braun e Schneider di Monaco, che li ripubblicherà in grandi fogli a colori. Nel 1865 realizza una storia articolata in più episodi, con protagonisti i due monelli Max e Moritz (Pippo e Peppo nelle versioni italiane). L’opera ha un successo straordinario, anche oltre i confini tedeschi, e gli vale il posto d’onore tra i grandi precursori del fumetto. Continuerà la sua produzione di storie disegnate fino ai primi anni del Novecento. Partecipe dei fermenti politici, sociali e culturali del suo tempo, ha problemi con l’autorità e con gli ambienti religiosi. 2 Sulla (s)fortuna storiografica del magistero burgeriano si rinvia al testo di Rolf Hauck, Fritz Burger (1877-1916). Kunsthistoriker und Wegbereiter der Moderne am Beginn des 20. Jahrhundert, Phil. Diss., LMU, München 2005, qui pp. 254-258, un lavoro appena licenziato e già disponibile in rete (http://edoc.ub.uni-muenchen.de/archive/ 00003176/01/Hauck_Rolf.pdf), utile per lo spoglio del lascito burgeriano presso gli eredi a Heidelberg, ma nonostante il titolo assai promettente, più che altro di natura compilativa e, in aggiunta, con una serie di sviste che fanno specie, in modo particolare riguardo alla sezione dedicata al confronto con l’opera palladiana. La scrivente, riconsiderando daccapo le Carte Burger, ha individuato nuovi tasselli, non ragionati da Hauck. Va pur riconosciuto, malgrado ciò, che la suddetta tesi dottorale si poneva – fino a oggi – come prima ricerca complessiva sullo Studioso, ed è il frutto di una genuina attenzione, risvegliatasi a partire dall’importante convegno monacense del 2001 sui 200 anni della storia dell’arte a Monaco, coordinato da Hubertus Kohle e Christian Drude. 3 L’intera vicenda biografica del Nostro ben si presta, anche sulla scorta dei documenti inediti, a suggerire derive romanzesche; ma non è questo lo scopo, nulla negando al decoro di velleità letterarie future. La materia c’è ed è qualitativamente accattivante. Ma, come detto, l’ambito entro cui s’inscrive il presente contributo è specificatamente la entusiasmante dinamica di storia e critica d’arte nella Monaco all’abbrivo del XX secolo. 4 Cfr. ultra: L’ambiente monacense. 5 Su ciò vd. ultra, capp. su Gli anni della formazione e sul Praktikum. 6 Come ebbe a ricordare, fra gli altri, il suo allievo Theodor Hetzer. Introduzione 7 7 Lettera di Fritz e Clara al genitore di lei, datata Monaco 3 novembre 1907. Carte Burger, Heidelberg. 8 Cfr. Benno Reifenberg, lettera ad Albert Erich Brinckmann del 21 giugno 1919, dopo che la vedova gli aveva affidato l’incarico di una prima sistemazione della produzione scientifica burgeriana. Carte Burger, Heidelberg (trascrizione Kessler). 9 Walter Dexel Premessa a Fritz Burger, Cézanne und Hodler. Einführung in die Probleme der Malerei der Gegenwart, München: Delphin Verlag, 19172, p. VII. 10 Carl von Lorck, Fritz Burger zum 46. Tausend des vorliegenden Buches: Einführung in die moderne Kunst, Potsdam (s.d.), p. III. 2. «EIN DÜRERSCHER RITTER TROTZ TOD UND TEUFEL»: UNA BIOGRAFIA INTELLETTUALE «È seria la vita, allegra è l’arte» (Friedrich Schiller, Wallenstein)1 «Possa il sacrificio, che sono chiamato a offrire, valere la pena! Il mio amore riposa nel vostro futuro. Non sono triste… Il mio corpo può essere lacerato, ma la mia anima 2 sarà sempre con voi…» (Fritz Burger) «Un cavaliere düreriano a dispetto della morte e del diavolo»3: parafrasando la celeberrima intitolazione di uno dei capolavori d’incisione del Maestro di Norimberga, Albert Erich Brinckmann, uno degli allievi più dotati, divenuto fra i più stretti collaboratori, scelse di immortalare la figura di Fritz Burger, all’indomani della notizia della sua tragica dipartita.4 Uno studioso nel fiore degli anni – ne aveva giusto trentotto – sposato con Clara von Duhn, figlia di un illustre archeologo di Heidelberg, lasciava quattro figli ancora piccoli5 e un imperioso compito, per molta parte appena avviato. La sua eredità intellettuale abbraccia non soltanto argomenti di storia dell’arte europea, ma si allarga al tentativo di comprendere l’apporto di culture e sistemi di vita piuttosto distanti, nel tempo come nello spazio. È da un atteggiamento di sana curiositas – affrancata una supponenza tutta occidentale – che lo storico dell’arte Burger si lasciò via via guidare da un’urgenza profonda, da un bisogno che peraltro caratterizzò, sia pur in modo diverso, molti esponenti della vita accademica e dell’ambiente artistico, istituzioni museali comprese, di quell’epoca in sommovimento:6 l’urgenza di trovare il senso della peculiare ricerca stori- 9 10 Capitolo 2 co-artistica, il senso, cioè, per una disciplina che in quegli anni era in via di affermazione, marcando con precisa volontà obiettivi, metodi e limiti che la dovevano distinguere per un verso dalla critica d’arte, per un altro dalla estetica, per un altro ancora dalla pratica dell’«Attribuzzler», come ebbe a dire Burckhardt, con il peso della sua autorevolezza.7 L’intera vicenda umana e professionale del Nostro può essere riguardata seguendo il fil rouge della fondamentale domanda sul significato più proprio della scienza dell’arte. Ogni sua scelta, ogni sua decisione, e perfino la temerarietà di accettare con altrettanto impeto il dovere di soldato al fronte di guerra, corrispondono alla sua visione integrale della vocazione dello storico dell’arte. Si tratta, infatti, di una missione etica, la quale, per sua stessa natura, non può non interrogarsi sulla verità, sul rapporto uomo-realtà, azione creativarecezione. Sarà per questa inclinazione, oltre che per l’indubbia altezza dei rispettivi magisteri, che fra le figure di riferimento egli tenne sempre presenti, anche quando non siano esplicitamente fatti oggetto di studio, gli esempi di Dürer e di Michelangelo.8 Una ricerca, talora pressante, di «predecessori», di «antenati», di una continuità, alfine, con un peculiare approccio all’arte, non era all’epoca solo di Burger. Siffatta predisposizione orientava giovani e meno giovani in tutta Europa, coloro i quali avvertivano più da presso la necessità di ricominciare, ma da un’altra parte (O. Wilde)9. Ma su questo torneremo a tempo debito. Il legame con artisti dalla personalità forte e complessa, quali Michelangelo e Dürer, va rapportato alla cifra fondamentale dell’atteggiamento burgeriano nei confronti della sua attività: si tratta, a ben vedere, di una vocazione, una risposta a una chiamata che vieppiù attinge a una spinta etica. Ben lo colse Wölfflin, quando, a pochi giorni dalla morte del collega, prese pubblicamente la parola: «Egli si fece sempre più saldo nella convinzione che la storia dell’arte del nostro Una biografia intellettuale 11 tempo sia chiamata [berufen]10 a conquistare nuovi fondamenti, se davvero ambisce a diventare in senso proprio una scienza dell’arte […] È morto come un’incompiuta [Unvollendeter], ma con tutto ciò, ogni qual volta ci si sforzerà di interrogarsi sullo specifico storicoartistico, non si potrà non fare il suo nome».11 FRITZ BURGER IN DIVISA FRA I SUOI LIBRI Fritz Burger nasce a Monaco, il 10 settembre 1877. Il padre, facoltoso banchiere, muore prematuramente (1895), lasciando una vedova con due figli ancora adolescenti, ma sostanze sufficienti con cui 12 Capitolo 2 provvedere al loro mantenimento; gli viene perciò consentito di poter scegliere un percorso di studi secondo inclinazione. Così, Fritz si dedica presto all’architettura (che resterà una sorta di passione di famiglia);12 si diletta in schizzi e abbozzi già al tempo della scuola e dal 1896 lo troviamo a far praticantato presso uno studio, fino alla progettazione di una chiesa di lì a poco.13 Dopo una frequentazione durata meno di due anni del Politecnico monacense, dove tiene ad approfondire non soltanto il dominio architettonico, ma anche le scienze esatte, la fisica e la storia dell’arte, si decide per un viaggio di formazione che lo porta ad attraversare i territori di Francia e Italia, prima di affrontare un regolare percorso curricolare all’Università di Heidelberg (1900-1903). Sarà Henry Thode il suo mentore, colui che lo seguirà anche nella ricerca per la dissertazione dottorale, che gli vale una promozione summa cum laude. Il titolo, rimasto fino a oggi referenza fondamentale negli studi di settore, recita: Die Entstehung und Entwicklung des Trecentograbmals in Mittelitalien, opera pubblicata un anno dopo a Strasburgo, nel 1904, con il più altisonante Storia del monumento funebre fiorentino dai tempi più antichi fino a Michelangelo. Si sposta quindi a Friburgo in Brisgovia, mancando di poco l’incontro con Wilhelm Vöge, ma giovandosi, sul versante degli studi filosofici, delle lezioni del neokantiano Rickert, che lasceranno nella forma mentis burgeriana un saldo ancoraggio. Oltretutto, proprio nel tempo della sua permanenza friburghese, Rickert affrontava a lezione il debito che quella generazione aveva contratto con Nietzsche e Schopenhauer, autori che parimenti si trovano spesso menzionati negli studi burgeriani. Tra il 1904 e il 1906 si muove variamente in Europa, con soggiorni prolungati – come vedremo – in Italia. Conseguita la libera docenza nel 1906, s’inizia per Burger una stagione di grande coinvolgimento in una Monaco letteralmente spaccata in due dalle provocazioni secessioniste in campo artistico.14 fino all’arruolamento del 1914, Burger presterà la sua opera sia nelle aule universitarie del capoluogo bavarese, in qualità di Privatdozent (libero docente a contratto), sia per gli allievi della Akademie der bildenden Künste, ma non si risparmia, se è vero che studenti, colleghi, appassionati hanno libero accesso a casa sua più sere alla settimana, a ragionare con lui dei problemi dell’arte. Non bastasse, s’impegna, non senza spiacevoli tribolazioni, per offrire agli studenti un kunstwissen- Una biografia intellettuale 13 schaftliches Praktikum, nonché visite da lui guidate alla Alte Pinakothek, alla Neue Pinakothek e alla Schackgalerie, unitamente a quelle dai galleristi privati. Le sue iniziative godono di un travolgente consenso di pubblico, ma gli attirano parecchi malumori e diffidenza in seno alla Facoltà e da parte degli ambienti più conservatori. Le cifre parlano chiaro: a lezione Burger si trovano anche punte di qualche centinaio di presenze, fino al numero impressionante di 549 (allora i cattedratici venivano pagati secondo il numero di presenze registrate), provocando col suo seguito un certo irrigidimento dell’establishment. Aveva però sostenitori di rango: dal suocero von Duhn, allo stesso Thode, da Wölfflin – che cercò in modo pressante di fargli ottenere una chiamata per una cattedra – a mecenati e collezionisti di Monaco. Se questo capitolo intende rendere ragione di una biografia intellettuale, sarà altrove che si cercheranno indizi e informazioni utili a compaginare l’intero percorso del Nostro. Dagli anni della formazione a quelli della libera docenza fino alle opere e all’attività del secondo decennio; dai rapporti con le istituzioni, a quelli con l’ambiente artistico monacense, all’indagine, certo non meno urgente, relativa al metodo burgeriano di approccio al multiforme mondo dell’espressione artistica. Una biografia intellettuale che si rispetti tormenta il lettore più con dubbi che con certezze acquisite; dissoda, con l’ausilio di strumenti critici e documentari, terreni fino a oggi ancora poco frequentati, promuove, insomma – cercando una rigorosa aderenza ai testi e al contesto burgeriano – la Weltanschauung del protagonista. 14 Capitolo 2 BURGER ALLA TESTA DI UNA MISSIONE Fritz Burger spirò – appena trentottenne – durante l’estenuante assedio di Verdun, che si andava protraendo già da mesi, il 22 maggio 1916, dopo essere stato colpito da una granata al comando di un reggimento a cavallo.15 Tre giorni dopo, Heinrich Wölfflin suggellava la lettera di condoglianze a Clara con queste parole: «Sono convinto che anche come soldato sia salito a cavallo per l’ultima galoppata con lo stesso slancio risoluto con cui lo vedevo balzare in piedi dal nostro ufficio per correre a salire sul pulpito a far lezione». In quell’inferno perse la vita – appena qualche settimana prima – anche il suo fraterno amico Franz Marc,16 pittore di Monaco, nume tutelare dell’ardita e avvincente avventura del Blauer Reiter, alla quale Burger prese parte da ammiratore esterno.17 Fu proprio Franz Marc che gli raccomandò – assieme a Kandinsky, altra sua assidua frequentazione – di coltivare anche il proprio talento artistico, incoraggiandolo a realizzare numerosi dipinti e disegni, attività cui egli si votò soprattutto negli ultimi tempi.18 Una biografia intellettuale FRITZ BURGER AL FRONTE DURANTE UNA ISPEZIONE 15 16 Capitolo 2 Burger e l’orizzonte del sacro Nell’ultima lettera dal fronte, spedita alla moglie il 21 maggio 1916, Fritz espone un progetto, cui sta attendendo: una sorta di opera teatrale su Buddha e, più in generale, sul senso della vita: «Was heisst Leben?», «Vita – si chiede – ma che cosa significa»? Certo, più che tentare una risposta, Fritz s’incammina in una ricerca di senso, in una esperienza mai paga delle nuove conquiste e delle nuove risposte, che revoca in dubbio, continuamente andando oltre l’apparenza accreditata. Così fu anche per la sfera del sacro, cui egli attinse sollecitazioni, non già accomodanti e saldi appigli.19 Consideriamo la introduzione ai Problemi riguardanti la visione del mondo e i modelli di vita, un suo libro uscito postumo. La citazione d’esordio, nota bene, riporta un passo dalle Storie del rabbino Nachman. Non si tratta di un testo qualsiasi. Benché finora a mia scienza nessuno l’abbia osservato, c’è un filo rosso coerente, teso fra le richieste incalzanti delle sue lettere dal fronte, volte a recuperare precise letture e autori – quelli che possono ravvivare la sua sete di «regole di vita» (Lebensgesetze) – e lo spirito che innerva e domina l’ultima pubblicazione del Monacense, curata dalla vedova Clara Burger, che vide la luce nel marzo 1918. Che cosa riporta la frase d’esordio prescelta dall’Autore? «Si dovrebbero proferire le parole come se con esse si dischiudesse il cielo, e come se non già tu portassi la parola alla bocca, ma piuttosto come se tu penetrassi dentro la parola». Non interessa qui la pur suggestiva eco di un tema vistosamente empatico,20 e invece la questione vuol essere indagata a partire dalle asserzioni che immediatamente seguono e che riguardano da vicino la sfera religiosa – lato sensu: «Lo spirito dei morti vive nella rappresentazione [Gestalt] delle loro opere, e noi siamo debitori della nostra Gestalt come essenza spirituale alla loro eredità, al loro effetto […] è un flusso, che non si arresta, di secolo in secolo, di popolo in popolo e di mondo in mondo, e che li mette in relazione e li porta a dialogare o anche a contrastare […] Si tratta di un’anima sempre raminga [wandernde Seele] che trova illuminata quiete nei misteri della fede e tuttavia è un flusso inarrestabile […] Solo con la dannazione della nostra temporalità ci può essere concessa l’esperienza della nostra eternità». Una biografia intellettuale 17 È una scelta di campo: seguendo un’autentica ispirazione moderna che – attraverso Nietzsche – tragitta alla volontà di comprendere altre dimensioni esistenziali e di fede, Burger si fa carico di un confronto con le posizioni di intellettuali suoi contemporanei, privilegiando chi istituisce un dialogo di elezione con le culture orientali e più in generale quelle espressioni di ricerca del sacro che si situano lontano da gerarchie e rituali ecclesiastici. S’affaccia qui imperiosa la personalità di un suo coetaneo, Martin Buber, famoso in seguito,21 che già all’epoca provocava le coscienze a una riflessione radicale sull’essenza della religione. A entrambi sta a cuore il dialogo con le culture extraeuropee e la dignitosa considerazione dell’altro – Ich und Du – come recita il titolo di uno dei libri più noti di Buber; una disposizione all’ascolto e al disvelamento di ciò che è altro da sé, senza diffidenza, senza supponente distacco, lontano da una logica corporativa, more gerarchico. «Noi europei abbiamo tutte le ragioni per essere particolarmente umili – afferma Burger – e non possiamo più riconoscere nella nostra visione cristiana del mondo il coronamento della realtà, tanto meno di quella attuale, dacché abbiamo dovuto apprendere che religioni da tempo “passate” invero sopravvivono, come quella indiana, che in forma rinnovata torna a radicarsi in Nordamerica, o come quella ebraica, sul nostro suolo, dal quale trae mirabili frutti proprio in mezzo a noi».22 Lo aveva del resto già scritto chiaramente nel cruciale 1913, in uno studio su Ludwig Herterich e le rappresentazioni della Pietà: il rapporto del Nostro con la religione è «libero da ogni teatralità così come dal razionalismo più crudo».23 18 Capitolo 2 LUDWIG HERTERICH, D EPOSIZIONE, DISEGNO PREPARATORIO «La deposizione non dev’essere realtà drammatizzata, ma idea calata nella forma, e l’intera costruzione dell’immagine dev’essere, musicalmente, variazione di un motivo che tutto determina e pervade, ricavato dal pensiero della vita che si diparte e della morte». In tal modo, continua Burger, la religione assume forma e grandezza senza pathos: «Anche il silenzioso residuo della vita, grazie al suo inserimento nel motivo geometrico della cornice che tutto abbraccia, viene risolto nell’immota maestà di quella grande legge, di quel destino dominante che fa ridestare in silenziosa grandezza il muto lamento di una quiete altera, destando l’amabile pace conciliatrice dell’eternità; senza pathos, senza alcun gesto, nella quiete di un’energia rattenuta, che non si esprime tanto nel fare, quanto nell’umiltà e grandezza del puro esserci, nella forma peculiare della sua esistenza sensibile».24 Una biografia intellettuale 19 La domanda fondamentale che il rabbino Nachman si poneva – «Andiamo noi alla montagna o viene la montagna stessa a noi?»25 – non lascia indifferente l’uomo Burger. Non è nel suo carattere. Sicché l’uomo istruisce e indirizza lo studioso a cercare in ogni dove risposta attiva e coerente. Dal fronte chiede con insistenza alcuni testi, tra cui – oltre al “programmatico” Simposio di Platone – le nuove uscite di Martin Buber e Gustav Meyrink, che, anzi, consiglia anche alla moglie:26 «Leggili! Sono fondamentali per molto altro!». E il giorno appresso, ancora più esplicito: «Non potresti procurarti il Golem di Meyrink, e così pure Buber, lo spirito del Giudaismo…? C’è molto di me lì dentro, se lo leggi».27 Non fa specifica menzione dei titoli,28 salvo qualche eccezione, ma non è difficile pensare che si tratti delle Storie del rabbino Nachman (1906), de La leggenda di Baalschem (1908) – entrambe riportano la citazione posta da Burger in esergo al suo volume postumo del 1918 di cui s’è detto; ancora, La dottrina del Tao (1910) e TschuangTse. Discorsi e paragoni (1910) fino a Lo spirito cinese e favole d’amore (1911).29 Di Meyrink era appena stato pubblicato, con clamore e diffidenza insieme, Il Golem (1915), che divenne subito un bestseller.30 Mistero, mistica e gnosi s’incrociano suggestivamente nelle pagine del romanzo, che interpreta mirabilmente lo Zeitgeist di quell’epoca tanto inquieta.31 Das grüne Gesicht (La faccia verde, 1916) potrebbe non di meno essere stata una delle ultime letture burgeriane. Nel racconto si descrivono con modi magistrali e carichi di tragica ironia le difficoltà e gli smarrimenti di chi è alla ricerca di una propria spiritualità! Non sfugge, con tutto ciò, la ragione profonda – di estrema coerenza – che detta in Burger la preferenza per figure quali Dürer, Michelangelo, El Greco, e – ai suoi giorni – Kandinsky, Marc. L’amore negli occhi: questo il titolo di un saggio intorno a Michelangelo teologo.32 Credo che molte siano, fatte le debite precisazioni, le affinità di approccio, soprattutto laddove si scavi nel rapporto con la figura cristologica,33 tale per cui, una volta di più, consuonano le lunghezze d’onda emotive e umane dei suoi predecessori.34 20 Capitolo 2 LUDWIG HERTERICH, D EPOSIZIONE, PART. La nota di fondo che anima la ricerca di fede e di pienezza di vita nei suddetti artisti è, a ben osservare, una costante affermazione di amore: di sé, del diverso, della Natura e dell’assolutamente Altro.35 Fra le pagine del Simposio, che Fritz rileggeva in un contesto assai più periglioso rispetto agli anni della sua formazione filosofica, gli avrà fatto specie quanto riaffermato da Socrate sul conto di Amore, e cioè che esso è «qualcosa di mezzo fra mortale e immortale»; Diotima, con lui: «Un demone grande, o Socrate. E difatti ogni essere demonico sta in mezzo fra il dio e il mortale». «E qual è la sua funzione»? – viene chiesto. «Di interpretare e di trasmettere agli dei qualunque cosa degli uomini e agli uomini qualunque cosa degli dei […] In mezzo fra i due, colma l’intervallo sicché il tutto risulti seco stesso unito».36 In questo orizzonte di pensiero Burger non esita a far propria l’eredità di Nietzsche,37 quando afferma: «Conosco me stesso come la forza della vita, che mi penetra e mi attraversa… ma in che cosa consiste poi tutta questa forza infinita? È un perenne mistero. So soltanto che la morte appresso non è temibile. L’isolamento dello spirito, che scaturisce dalla forma, che mi trapassa, è finito e io mi unisco al tutto!».38 Una biografia intellettuale FRITZ BURGER AL FRONTE 21 22 Capitolo 2 N OTE 1 La citazione, dalla chiusa del Prologo della tragedia schilleriana, era divenuta già ai tempi di Burger un motto frequentemente ricordato; ad esempio, da uno dei suoi professori più stimati, quel Kuno fischer che aveva concepito un saggio Sull’Arguzia, che anticipava ancora nel 1889 uno dei temi più intriganti della cultura primo novecentesca, di cui si nutre lo stesso Fritz. Su ciò vd. il saggio introduttivo di Giovanni Gurisatti all’edizione italiana del testo (1991), in una bella collana diretta da Franco Volpi, Gallio Editori di Ferrara, purtroppo non più esistente. 2 Cit. dall’ultima lettera di Fritz Burger, scritta intorno alla mezzanotte tra il 21 e il 22 maggio 1916; morirà vittima di un’imboscata verso le cinque del mattino seguente per le ferite riportate. 3 Cfr. lettera dal fronte del maggio 1916 e note relative, ultra. 4 Albert E. Brinckmann, Fritz Burger, in «Der Cicerone», 8, 1916, 11/12, p. 239. 5 Erich, il maggiore, era stato partorito a Berlino il 26 febbraio 1903; Gerta il 9 novembre 1904 a Friburgo, Lili – colei che si assumerà più di tutti il compito di risarcire la memoria paterna – nasce a Monaco il 13 febbraio 1907; così Till, venuto al mondo il 7 marzo 1913, il quale morirà suicida. A lui il padre, prima della missione fatale, indirizza parole che, forse, pesarono come macigni sulla coscienza dolente e turbata del figlioletto: «L’ultimo mio pensiero, carissima [Clara], va a Te e a Till, che è di gran lunga la mia goccia d’acqua, il mio ritratto, in lui vivrò ancora». Anche altrove riaffiorano nelle lettere dal fronte considerazioni analoghe sulla speciale affinità tra i due. 6 Vd. ultra. 7 Wilhelm Schlink, Jacob Burckhardt et le “rôle” de l'historien de l’art, in Relire Burckhardt, a cura di Matthias Waschek, Paris 1997, pp. 21-53, qui p. 34. Cfr. anche Udo Kultermann, Storia della storia dell’arte, trad. it. di Elena filippi, Vicenza: Neri Pozza, 1997, p. 176. 8 Sulla scelta di anteporre al suo Diario dal fronte la riproduzione del Vir Dolorum, una xilografia düreriana che costituisce il frontespizio della cosiddetta Piccola Passione, vd. ultra. 9 Cit. dalla chiusura dell’intervento di Lionello Puppi, Il volto nero e la maschera bianca. La villa-reggia di Henri-Christophe, re di Haiti, in occasione del 22° seminario internazionale di storia dell’architettura, La villa nel mondo, a cura di Donata Battilotti e Lionello Puppi, C.I.S.A., Vicenza, 16-22 giugno 2005 (atti in c.s.). 10 È legittimo il riferimento al celebre passo di Max Weber che associa la nozione di «professione» (Beruf) a quella di vocazione (Berufung) nei contesti linguistici dell’Europa protestante. Cfr. Max Weber, Die protestantische Ethik und der Geist des Kapitalismus, Tübingen: Mohr, 1922, cap. 1.3, trad. it. di Piero Burresi, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, firenze: Sansoni Editore, 19773, pp. 138 sgg. Una biografia intellettuale 11 23 Rede von Heinrich Wölfflin zum Tode Burgers, Eingang in die Akten, 24 giugno 1916, in Fakultätsakten der Philosophischen Fakultät der Universität München (in seguito UA München), E-II-1039 (E-II-N, Burger, Bd. 2). 12 Ancor oggi il nome Burger è legato all’architettura. A Heidelberg lavora infatti lo studio Borkowski-Burger, che si occupa sia di progettazione che di conservazione. Il nipote, architetto Bert Burger, è conservatore delle carte d’archivio del Nostro, allogate presso la Villa di famiglia, che fu di von Duhn. In ciò che rimane del salone principale, dopo le modifiche strutturali per riadattare i grandi spazi alle mutate esigenze, insieme al Nachlass e a una raccolta esaustiva delle pubblicazioni di Fritz Burger, sono esposte alcune delle sue opere di artista, eccezione fatta per l’Autoritratto del 1915 (una copia del quale è esposta nel vano scale, dirimpetto a un ritratto della moglie Clara), oggi presso il cugino Dierk Burger, avvocato a Monaco di Baviera. Nel 1981, Frank Burger (nipote di Fritz, figlio del suo ultimogenito Till), ha curato il catalogo di una esposizione per il centenario della morte del Maestro rinascimentale, Palladio, 1508-1580. Ausstellung der Bayerischen Architektenkammer in Verbindung mit der Bayerischen Verwaltung der staatlichen Schlosser, Garten und Seen, a cura di Frank Burger, München: Gersbach & Sohn, 1981. Nel volume è ospitato un contributo di Lili Fehrle Burger, Die Palladio-Resonanz in Deutschland, pp. 25-40. 13 Il progetto si conserva a tutt’oggi presso l’Archivio Burger. 14 Vd. ultra, cap. L’ambiente monacense. In generale, su questo tema si veda almeno il lavoro di Maria Makela, The Munich secession. Art and Artists in TurnOf-The-Century Munich, Princeton University Press, 1990. 15 La sua abilità di cavallerizzo lo aveva fatto notare dai suoi superiori e per questo era stato destinato come ufficiale alla guida di un reggimento a cavallo, dopo essere stato arruolato in fanteria. Del resto, la sua passione per il maneggio risaliva all’infanzia. Con i soldi dell’eredità paterna, non ancora diciottenne acquisì una stalla e alcuni cavalli, e la sua scuola divenne subito un centro di equitazione molto ambito dai Monacensi. Nel lascito Burger esistono anche foto che accreditano questi trascorsi. Anche la morte lo colse in sella al suo destriero, come un cavaliere dell’Apocalisse – è immagine burgeriana degli ultimi giorni di battaglia. fino al 1977 la salma del Nostro era sepolta ad Azannes vicino a Douamont, dove ancora si trova il cimitero militare tedesco dei caduti della Prima Guerra Mondiale, nonostante il proposito della vedova di corrispondere prontamente alle ultime volontà di Fritz, dettate nella lettera di commiato del 21 maggio 1916 (è quanto si legge in una corrispondenza tra Clara e Wölfflin del 31 maggio), di far allogare le sue spoglie mortali nel Waldfriedhof di Monaco di Baviera, dove ancor oggi riposa. 16 Nacque a Monaco, da padre pittore, l’8 febbraio 1880 e cadde vittima sul fronte franco-tedesco il 4 marzo1916. Fritz Burger lo ricorda, in una corrispondenza struggente e in un commento a Waldlichtung (Radura), un piccolo dipinto in cui si commemora il luogo dell’agguato. Vd. ultra. 17 Come artista Burger si stava frattanto orientando piuttosto verso referenti quali anzitutto Munch e Nolde, e quindi a una personale recezione del fenomeno d’avan- 24 Capitolo 2 guardia dell’Espressionismo. Un dipinto a pastello, dal titolo Es werde Licht (Sia fatta la luce), venne realizzato dal Nostro – come da lui stesso dichiarato – nel giorno della tragica morte di Franz Marc. 18 Alcune delle sue opere sono state esposte in una permanente presso il Kurpfälzisches Museum di Heidelberg fino agli anni Novanta, per essere quindi restituite agli eredi. Vd. ultra. 19 Che il Nostro non amasse le gerarchie ecclesiastiche e le espressioni autoritarie di certo cattolicesimo bavarese risulta chiaramente da alcuni commenti di un periodo della sua vita di per sé ben meno inquieto, quando come interlocutore della prova orale per la libera docenza egli si trovò un professore che viene definito «con atteggiamento tipicamente da gesuita […] e dai modi preteschi anche nelle lodi». Cfr. lettera di Fritz Burger a un amico nell’ottobre 1906, Carte Burger, Heidelberg. 20 Su ciò si rinvia al contributo di Nicola Curcio in questo stesso volume. 21 Martin Buber (Vienna 1878 – Gerusalemme 1965), studiò in più università europee, annoverando fra i suoi maestri Simmel e Dilthey. Dopo un periodo di riflessione, aderì al movimento sionista. Docente a Francoforte, all’avvento del Nazismo perse il diritto all’insegnamento e nel 1938 si trasferì a Gerusalemme, dove ricoprì la cattedra di filosofia sociale e difese l’ideale di una pacifica convivenza fra Arabi ed Ebrei. È del 1923 una delle sue opere più famose, Io e Tu, proprio nell’anno in cui cominciò l’esperienza accademica a Francoforte. Nel 1925 incontrò Franz Rosenzweig, con il quale tradurrà la Bibbia (impresa che porterà a termine nel 1962). Fra gli scritti successivi, meritano senz’altro di essere ricordati: Il problema dell’uomo (1943) ed Eclissi di Dio (1952), e naturalmente i fondamentali studi sullo hassidismo, quella declinazione dell’Ebraismo europeo orientale del XVIII secolo che si contraddistinse per l’importanza attribuita all’azione. Buber elabora negli anni una prospettiva di pensiero il cui cardine è il tema del dialogo e della relazione. 22 Fritz Burger, Weltanschauungsprobleme und Lebenssysteme in der Kunst der Vergangenheit, München: Delphin Verlag, 1918, p. 18. 23 Fritz Burger, Ludwig Herterichs Darstellungen der Pietà, in «Die Kunst für alle» XXIX, 3, 1913, pp. 68-72, qui p. 70. 24 Ivi. 25 La questione viene accolta da Burger nell’assiduità del confronto con Martin Buber e qui convocata attraverso l’esplicito riferimento al libro del 1906, Die Geschichten des Rabbi Nachman. 26 Cfr. Lettera a Clara della domenica di Pasqua, 23 aprile 1916, Carte Burger, Heidelberg. 27 Cit. dalla lettera del 24 aprile 1916, Carte Burger, Heidelberg (trascrizione Erbsmehl, n. 203, pp. 399-401, qui p. 401). L’opera di Buber cui fa riferimento il Nostro è apparsa nel 1915 per i tipi dell’editore Kurt Wolff di Lipsia. Il titolo corretto è Vom Geist des Judentums. Reden und Geleitworte (Dello spirito del Giudaismo. Discorsi e parole di commento). 28 Il nome di Buber ricorre con una certa insistenza nel Diario e nelle Lettere di Fritz dal fronte. Una biografia intellettuale 29 25 «Quello che riferite della filosofia cinese è di straordinario significato e mostra nel suo intimo un peso prorompente, come le affermazioni di Maestro Eckhart», così Georg Simmel a Martin Buber. 30 V’è anzi un’attenzione speciale da parte di Burger ai contenuti del Golem. Nel Diario dal fronte sono segnalati alcuni passi, talora riportati testualmente. Occorrerà recuperarli in seguito, giacché costituiscono una peculiare chiave di lettura alle opere dipinte dall’Autore in quel periodo. Vd. ultra, cap. Burger critico interpreta Burger artista. 31 Cfr. Hermann Hesse, Gustav Meyrink, in Gustav Meyrink, L’orologiaio, Viterbo: Stampa alternativa, Nuovi Equilibri ed., (s.a.), pp. 4-6. 32 Timothy Verdon, Michelangelo teologo, Milano: Àncora editrice, 2005, p. 142. 33 Questo motivo non ha finora intercettato l’attenzione di quanti si sono occupati di Burger, il che sorprende non poco. Come si avrà modo di constatare, v’è una traccia ben delineata che rivela precisa simpatia nei confronti del modello cristologico, in un approccio alla religione che predilige i momenti umanamente più intensi, più carichi di pathos, e, insieme, elementi di provocazione, di vigorosa presa di posizione, di profetico disinganno e, soprattutto, di amore. È il Cristo come Vir Dolorum che viene prescelto dal Nostro per il suo Diario dal fronte. Ed è altrettanto un Cristo che condivide le sorti tragiche dell’uomo, quello che viene evocato da un’accorata preghiera di Fritz durante un attacco dell’artiglieria nemica: «Che Tu sia Cristo, o Buddha, […] resta con noi!». Ed è, infine, un Padrenostro – grondante umanità e panica disperazione – la preghiera che come figlio di questo mondo egli eleva al cielo il 3 maggio 1916 durante un perigliosissimo spostamento a cavallo, per raggiungere un presidio medico. Cfr. Fritz Burger, Tagebuch V, Carte Burger, Heidelberg (trascrizione Erbsmehl, n. 210, pp. 417-421, qui p. 421). 34 Vd. ultra, i capp. Michelangelo, Dürer e gli «antenati» e Burger critico interpreta Burger artista. 35 In tempi meno sospetti, allorché frequentava le lezioni di teologia e di filosofia all’Università di Friburgo i.B., Fritz rifletteva sulla religione, San Paolo e i Greci, esponendo il suo punto di vista al suocero. Cfr. Lettera di Fritz a Friedrich von Duhn, da Freiburg 13 dicembre 1904, Carte Burger, Heidelberg. 36 Platone, Opere complete, 3. Parmenide, filebo, Simposio, Fedro, traduzione del Simposio di Piero Pucci, Bari: Laterza, 1988, pp. 181sg. Su ciò da ultimo Giovanni Reale, Eros Dèmone mediatore. Il gioco della maschera nel Simposio, Milano: Bompiani, 2005. 37 Non è immediatamente facile spiegare quale nietzschianesimo in Burger. In ogni caso, sia dalle sue opere a stampa, sia dalla corrispondenza privata (e specialmente alcune lettere dal fronte e il suo Diario), risulta evidente che come molti della sua generazione, anche il Nostro si è confrontato con la sfida del pensiero di Nietzsche; ed è altrettanto palese che si trattò di lasciar essere molte irriducibili contraddizioni dello stile di vita della Jahrhundertwende, a cavaliere, dunque, di due secoli. Ma su questo mi riprometto di tornare in futuro. Quello che per oggi si può affer- 26 Capitolo 2 mare senza tema di incertezza, oltre al fatto che molti sono gli espliciti richiami al filosofo, è che laddove Burger è ansioso di Lebengesetze, di regole di vita, e le cerca anche al fronte, tra le letture e con l’arte, nel tentativo di un oltrepassamento – proprio attraverso l’arte – della penosa contingenza, quivi egli incarna un autentico Übermensch. È proprio del super-uomo darsi delle leggi, laddove s’imponga il caos. Per altri aspetti, vd. ultra. 38 Fritz Burger, Einführung in die moderne Kunst. Die Kunst des 19. und 20. Jahrhunderts, Berlin: Athenaion, 1917, pp. 132 sg. (in corsivo nell’originale). 3. «ENTRO IL MIO PETTO ALBERGANO DUE ANIME» LA QUESTIONE DEL METODO «Zwei Seelen wohnen, ach! in meiner Brust» (Goethe, Faust I) La citazione faustiana del titolo,1 attribuita alla personalità di Fritz Burger, è stata significativamente evocata in occasione dell’unica mostra dedicata all’Autore.2 «Era meraviglioso – fu scritto del suo magistero – vedere come sapeva rifiorire di fronte a un’opera d’arte, che stava ad esempio davanti a lui sullo schermo, e quando poi le fiamme dell’entusiasmo bruciavano ardenti ed egli sembrava perdere sotto i piedi qualunque terreno reale, tanto intensa era l’estasi che provava, assistere all’improvviso flettersi dell’onda, quando sapeva corroborare le effusioni estatiche con le analisi formali e gli impianti dimostrativi più sobri che esistano!».3 Se si volesse trovare una via privilegiata per accostarsi con profitto al metodo burgeriano – almeno fino a quando, come si ebbe a constatare – «l’artista Burger ha avuto partita vinta sullo storico dell’arte Burger»,4 potrebbe risultare conveniente, per molti riguardi, la lettura del saggio monografico su Le ville di Andrea Palladio, edito a Lipsia nel 1909 e a tutt’oggi unica sua opera tradotta. Ci si imbatte in una percezione dell’architettura come organismo vivente – o meglio, come una carcassa che fu dotata di vita propria, oggi irrimediabilmente morta, in decomposizione – ma, contestualmente, nel tentativo di immedesimarsi nel soffio vitale che la animò un tempo, nelle funzioni organiche di ciascun membro che l’articolava, nelle abitudini di vita e nei difetti strutturali che eventualmente l’opprimevano. Tale osservazione è peraltro confortata, nel caso di Burger, da un dato biografico significativo: prima di svolgere i propri regolari studi con Thode a Heidelberg,5 aveva assistito non solo a lezioni di architettura, disegno e scultura, ma anche a esercitazioni di 27 28 Capitolo 3 fisica e anatomia al Politecnico di Monaco. La fredda disposizione di anatomista connota il suo stile di critico d’arte non meno dell’impeto espressionistico, come osservato da molti contemporanei e dagli allievi. Prima che «nella sua lotta soggettiva con l’attualità […] le vie dello storico dell’arte, dell’artista e del giornalista si separassero l’una dall’altra [cosicché] gli scritti di Burger cominciano a deviare dalla storia dell’arte come disciplina specifica»,6 il Monacense aveva guadagnato positiva attenzione nel suo sforzo caparbio di rinvenire efficaci modalità di approccio all’opera d’arte. Ne è qualificata testimonianza il giudizio espresso da Hans Tietze nel del 1913: «i lavori da Hegel a Riegl fino a Worringer e Burger sono di grande significato per la storia dell’arte».7 Rimane oltretutto scoperto il fatto che ancora nel 1924 il saggio sulla Methodenlehre di Robert Hedicke lamentava «il vistoso proliferare in seno alla storia dell’arte di indirizzi e procedimenti tra loro quanto mai difformi, tale per cui v’era profondo bisogno di uscire dall’anarchia delle opinioni sul metodo […] delle visioni parziali, delle molte prefazioni e introduzioni […] con cui ci vengono incontro oggi i tentativi dei diversi autori».8 La questione dell’adeguatezza del metodo per una disciplina come la storia dell’arte aveva cominciato ad affacciarsi, in verità, già sullo scorcio del XIX secolo. È dato constatare come ancora agli inizi del Novecento fosse il metodo storico-filologico a ottenere il consenso dei più autorevoli specialisti. Sono gli anni in cui vedono la luce le grandi monografie e le sintesi rigorose – Herman Grimm, Anton Springer, Carl Justi, August von Schmarsow, e poi Henry Thode, Georg Dehio, per citare solo le auctoritates – d’altro canto, è pur vero che «le poetiche dell’ultimo Ottocento e del primo Novecento (dagli impressionisti ai cubisti) avevano specialmente focalizzato l’attenzione sull’opera d’arte intesa come forma, non più soltanto come oggetto di rappresentazione, bensì di fruizione e di percezione».9 La questione dell’impostazione dello statuto epistemologico della critica d’arte – o della Kunstwissenschaft, come la si chiama ormai di preferenza in area linguistica tedesca – era stata lungamente dibattuta nel corso dell’Ottocento, quando la disciplina, che già con Winckelmann era uscita dalla dimensione dei soli conoscitori, e che dalla Estetica di Hegel aveva ereditato un solido apparato categoriale, avan- La questione del metodo 29 zò vieppiù la pretesa di non ridursi alla sola ricostruzione storica di vicende legate agli artisti e alle loro opere, ma di avocare a sé il rigore di una scienza, nel senso e con il rispetto che il Positivismo attribuiva a questo termine. Gli studiosi del secondo Ottocento tedesco si erano affannati intorno ai presupposti conoscitivi di tale disciplina, avevano messo a fuoco le esigenze di metodo e chiarito il suo oggetto. La psicologia del Positivismo aveva elaborato in tal senso uno strumento di eccezionale portata, la nozione di Einfühlung – empatia – che, derivata di fatto dal vocabolario dei Romantici (i quali usavano comunemente la forma Sich-hineinfühlen),10 ma ricondotta nel terreno più asciutto e controllabile di una psicologia descrittiva, conobbe una vivace discussione in Friedrich Theodor Vischer, Robert Vischer – probabilmente colui che introdusse l’uso di questo termine – Theodor Lipps, Johannes Volkelt, Wilhelm Worringer e Moritz Geiger.11 Costoro, sia pur con accenti e prospettive differenti, avevano meditato su una possibile modalità di approccio all’opera d’arte che fosse irriducibile a quella che dà accesso ad altri oggetti di esperienza, visto che l’atto empatico non è assimilabile a quello della percezione sensibile né a una penetrazione intellettuale della realtà. Un intento non diverso muoveva il dibattito interno all’ambiente degli storici dell’arte di professione, che cercarono di focalizzare lo specifico dell’esperienza artistica differenziandolo da tutte le altre modalità di approccio che potevano risultare simili, come quella estetica orientata alla percezione del «bello». Sono significative in tal senso le parole programmatiche pronunciate da Moritz Thausing nel 1873 in occasione della sua lezione inaugurale all’Università di Vienna: «Mi immagino la migliore storia dell’arte possibile, in cui la parola “bello” non compare affatto».12 Ma con questa indicazione per la pratica della storia dell’arte sia lui sia i suoi successori non sono riusciti appieno a sciogliere gli impacci di cui all’epoca soffriva la disciplina; piuttosto, «Thausing e poi la Scuola di Vienna spostarono sostanzialmente la questione su un altro piano: il problema della bellezza venne subordinato a quello dell’originalità. Bello e dunque degno di considerazione scientifica diventava con ciò solo l’originale».13 S’innesta su questo terreno di confronto il metodo morelliano, tale per cui, come è ben noto, l’esercizio conoscitivo del dettaglio (naso, orecchi, taglio degli occhi…), supportato da confronti vieppiù selettivi e dalla possibilità di conoscere dappresso quante più opere possibile, approdando anche 30 Capitolo 3 alle esposizioni più periferiche o presso i privati collezionisti, avrebbe consentito una maggiore scientificità nel lavoro dello storico dell’arte, quando si fosse trovato di fronte il problema attributivo. Non è un caso se l’esperienza di Giovanni Morelli viene ampiamente dibattuta nella Vienna di primo Novecento, in un contesto che in misura più generosa che altrove facilitava allora il dialogo fra le realtà museali e quelle accademiche, come l’attività di Julius von Schlosser esemplifica al sommo grado. L’Italia da questo punto di vista risentiva di un ambiente, quello della connoisseurship, che dal magistero di Cavalcaselle aveva filiato la eccezionale figura di Adolfo Venturi, ma, di fatto, piuttosto isolata, se prescindiamo dal gruppo dei suoi collaboratori. «In principio era la scuola di Adolfo Venturi» è stato scritto con felice formulazione. Egli fu per l’Italia quello che per la Germania furono Karl Friedrich von Rumohr e Wilhelm von Bode; nell’Italiano trovarono casa straordinarie competenze di funzionario museale dapprima, rigenerate poi dall’approccio all’opera d’arte nella veste di docente universitario, come ha magistralmente illustrato Giovanni Agosti nella sua ricognizione sull’impegno e la fondamentale azione di Venturi per l’evoluzione della disciplina storico-artistica nella penisola.14 Ma l’Italia soffriva all’epoca del retaggio di vincolanti schematismi dettati da un accanimento sul metodo dei conoscitori, oltre che, storicamente, di un più generale ritardo sulle questioni metodologico-critiche. Così, mentre in Germania il riconoscimento della specificità della storia dell’arte come disciplina autonoma avviene già nel 1873, con l’istituzione della prima cattedra universitaria – quella di Herman Grimm a Berlino – mentre in Francia s’insegnava questa materia dal 1820 all’École des Chartres e dal 1882 alla École du Louvre a Parigi, in stretta collaborazione con la Sorbona, laddove anche in tutti gli Atenei svizzeri e austriaci la storia dell’arte rientrava di diritto nell’offerta didattica, almeno dalla fine dell’Ottocento, l’Italia poteva contare all’abbrivo del XX secolo soltanto tre cattedre: a Torino, Bologna e Roma, e tutte sotto l’egida venturiana. È chiaro come, a fronte di queste precedenze, anche il confronto sulle metodologie viveva stagioni più o meno rigogliose.15 Se si prendono in esame i titoli della pubblicistica sulla storia dell’arte appena scoccato il nuovo secolo, fa specie rilevare l’insistenza sulle questioni fondamentali, sui Grundbegriffe e sulla Metho- La questione del metodo 31 denlehre, da Schmarsow (1905) a Wölfflin (1915), Tietze (1913), Heidrich (1917), fino al consuntivo di Hedicke (1924). È soprattutto alla cosiddetta Scuola di Vienna che dobbiamo, come è noto, un preciso impegno nei confronti dell’oggetto artistico. Alla fine del secolo XIX Alois Riegl – una delle anime più attive della Wiener Schule – introducendo la nozione di Kunstwollen isolava il carattere formale dell’opera d’arte e insieme la sua genesi rispetto agli altri fenomeni storici di cui la scienza si occupa, senza però privarla del segno di epocalità cui quel concetto da presso si richiama.16 Max Dvoák tentò dal canto suo di illuminare proprio lo specifico della storicità dell’opera d’arte, che affonda in una «genetische Entwicklung» (un’evoluzione genetica),17 la quale va compresa iuxta propria principia, così come, affermava Wilhelm Dilthey, l’intero settore delle discipline umanistiche, le cosiddette Geisteswissenschaften, doveva veder riconosciuti presupposti, metodi e rigorosità non riconducibili a quelli delle Naturwissenschaften, al cui metodo il pensiero moderno, sin da Bacone e Cartesio, aveva tentato di ancorare ogni scienza nella sua pretesa d’esser tale. Anche l’impegno di Conrad Fiedler18 – uno dei numi tutelari della Monaco della Jahrhundertwende – è inteso ad affrancare l’arte dal primato dell’estetica, nell’ottica di un lavoro esplicito della visione che rende conoscibile il mondo come pura visibilità. «Das Kunstwerk muss augengerecht sein»: l’opera deve rendere giustizia all’occhio. Questa è la frase lapidaria che Wölfflin, recensore del saggio fondamentale di Adolf von Hildebrand,19 uno degli interlocutori privilegiati di Fiedler, suo grande amico e sodale, colse quale summa del suo pensiero, che si manifesta con dovizia di articolazione ne Il problema della forma nell’arte figurativa,20 una sorta di guida per giovani scultori che si basa sulla sua personale esperienza nel processo creativo, ma che diviene immediatamente un bestseller, tanto amato quanto discusso, fino a contare otto edizioni in vent’anni.21 Del resto, è innegabile che la forma è stata una delle grandi ossessioni del XX secolo, giusta Pinotti.22 Come osservò Wölfflin, questo libro persuase molti a cercare un nuovo modo di intendere l’opera d’arte: «pioggia rinfrescante, caduta su di un arido terreno». Fra questi anche una nuova “scuola” di scultori. Attraverso un confronto serrato con Fiedler, Hildebrand esaminava quei processi percettivi che sono rilevanti per la scultura, in parti- 32 Capitolo 3 colare l’apprensione ottica da lontano e da vicino e la funzione tattile della vista, e il ruolo che rivestono nelle opere destinate a luoghi aperti o chiusi. Compito dell’artista è infatti di trasformare il dato percettivo, nella sua presunta passività, in un processo capace di comunicare, cioè di plasmare la forma; a tal fine egli studiò opere della statuaria antica e rinascimentale (Michelangelo, anche in riferimento ai suoi sonetti). Uno dei meriti di Hildebrand è di aver ancorato in questo scritto la realtà dell’arte all’essenza stessa dell’uomo, cercando di assegnarle in essa un luogo e una necessità affatto specifici, a partire dai quali la differenza fra i generi artistici non dà luogo a priorità dell’uno o dell’altro di essi: sono tutti ugualmente legittimati; sicché, ciò che Hildebrand scrive pensando alla scultura ridonda in tutte le altre forme d’arte. Per il radicamento in tale nuova realtà, questo saggio, pubblicato nel 1893 da Adolf Hildebrand (1847-1921), può essere considerato una delle più importanti teorizzazioni della riflessione contemporanea sulla forma; non soltanto perché il testo ebbe una diffusione capillare e una influenza decisiva nel mondo delle arti, proprio in un momento cruciale e rivoluzionario, ma anche perché focalizzò due aspetti decisivi per la comunicazione artistica del Novecento: il carattere performativo delle arti e la capacità dei linguaggi artistici di rendere espliciti i propri processi di produzione. La teoria dell’arte elaborata da Hildebrand e, più in generale, dal côté che lo attorniava, intende mostrare che il fare artistico deve essere inquadrato in una teoria generale dell’esperienza, per la quale le percezioni non sono dati ma prodotti. La forma, scopo ultimo dell’attività artistica, diventa perciò uno strumento di illustrazione delle naturali capacità di rappresentazione e, in specie, della rappresentazione spaziale. Forma, spazio e apparenza, costituiscono quindi il fulcro di una serrata riflessione sull’esperienza artistica. La reine Sichtbarkeit, accolta da Adolf Hildebrand e primieramente da Hans von Marées, libera dunque l’arte figurativa da ogni dato naturale preesistente e le assegna il regno della pura forma.23 In questo consiste, in estrema sintesi, il purovisibilismo. Non si può tralasciare di osservare quanto profonde siano le relazioni del Problema della forma con l’epistemologia, la filosofia e la storia dell’arte sue contemporanee, tali da evidenziare le modalità di penetrazione di un contributo siffatto nella cultura estetica, artistica e storico-artistica del Novecento. Ed è con il portato strepitosamente moderno di questo li- La questione del metodo 33 bro, al di là dei traguardi effettivamente guadagnati, che Burger si misura, laddove, ancora nel 1913 – e sia pur sul crinale dell’esperienza figurativa – caparbiamente ne ragiona con l’Autore in una lettera che verrà presentata e contestualizzata più avanti.24 Vicino all’impostazione metodologica che, fino a un certo periodo almeno, si riscontra in Burger è l’approccio di Heinrich Wölfflin, il quale, più vecchio di quasi una generazione (era nato nel 1864), gli sopravvisse di alcuni decenni (fino al 1945). Già prima della pubblicazione dei Grundbegriffe, Tietze affermava che «Wölfflin considerava talora quale suo compito precipuo quello di imparare a vedere». È tutto sommato ingeneroso classificarlo – tout court – come il vessillifero di una «storia dell’arte senza nomi» e del «formalismo».25 Prendendo congedo dal suo pubblico di Monaco nel 1924, prima di rientrare per sempre in Svizzera, Wölfflin stigmatizzò da par suo l’immagine che di lui si era diffusa: «Se si passano in rassegna gli storici dell’arte, io sono il formalista, il freddo cultore dell’intelletto. Coloro che mi conoscono meglio sanno che non è vero».26 Negli anni in cui pubblicò la propria summa teorica, i Kunstgeschichtliche Grundbegriffe. Das Problem der Stilentwicklung in der neueren Kunst (1915),27 egli insegnava a Monaco (1912-1924),28 dove fu per qualche anno collega di Burger,29 che conosceva e stimava già in precedenza, quando occupava a Berlino la cattedra che fu di Hermann Grimm. Aveva ad esempio redatto una recensione incoraggiante del libro di Burger sulle ville di Palladio. 30 La fotografia qui convocata ci riporta al 1902, nello studio berlinese di Wölfflin e rende testimonianza di una peculiarità del metodo didattico da questi impartito. Come già Grimm, che si era entusiasmato per la nuova tecnologia con cui si riusciva a proiettare immagini di qualità e grandezza inusitate, introdotta nel 1892, e da lui subito messa in uso;31 così lo Svizzero, che gli succedette alla cattedra di storia dell’arte, fece ampio uso di diapositive e fu il primo ad accendere in contemporanea due proiettori al fine di operare confronti o di illustrare simultaneamente più dettagli di una stessa immagine.32 34 Capitolo 3 HEINRICH WÖLFFLIN, BERLINO 1902 Ancor oggi, sia pure dopo le critiche di Panofsky, si ritiene che il merito maggiore di Wölfflin sia stato quello di aver indicato alla Kunstwissenschaft il tratto specifico e distintivo del suo oggetto: la forma. Per l’influenza da lui esercitata, si può dire, giusta Meier, che tutti coloro che si sono occupati di storia dell’arte sono stati, in misura più o meno consapevole, suoi “allievi”.33 Ma ciò che non sempre è stato adeguatamente recepito – ed è la ragione per cui vi fu una certa attrazione reciproca fra lo stimato cattedratico e il giovane libero docente Burger – è che Wölfflin non si è mai adagiato sugli schemi pure da lui stesso individuati e promossi. Ancora all’inizio della sua carriera, lo Svizzero si riprometteva di scrivere «un libro in cui le opere d’arte vengono analizzate sistematicamente»,34 oltre gli steccati delle catalogazioni e degli specialismi, come usava nelle ricerche di chi invece si era formato in ambiente museale. Quel libro rimase soltanto un progetto, poiché Wölfflin si avvide di dover prima dominare nella sua articolata complessità ciò di cui avrebbe voluto riferire nel dettaglio. La volontà sistematica muove tanto la ricerca wölffliniana quanto il percorso affrontato da Burger, come vedremo, sia pur con le dovute differenze. La questione del metodo 35 A conferma dell’atteggiamento wölffliniano capace di rinnovamento e di nuove sfide, giova recuperare quanto egli annotava nel suo diario privato nel 1920: «Non è la cronologia di Schäuffelein né il corpo del Maestro X che fanno l’arte. Per questo c’è ancora tempo […] Ora devo passare a ciò che resta e che “è” […] fare ciò che è degno e importante».35 D’altro canto, ancora qualche anno prima di licenziare i Concetti fondamentali (1915), Wölfflin scriveva ai suoi familiari: «Il mio sforzo è quello di procedere oltre il professore verso l’uomo, la mia anima anela a uscire dall’edificio dello studio specialistico […] qualcosa per cui valga la pena di essere vissuti».36 Sono segnali, questi, dell’emergenza improrogabile di una domanda e di una questione affatto diverse, non già riguardanti in via esclusiva lo statuto epistemologico, il metodo e l’oggetto della critica d’arte, ma soprattutto il suo senso, la sua capacità di abbracciare la vita come un intero e di offrirle un appoggio stabile e compaginato.37 Tale aspirazione coinvolgeva necessariamente l’ambito didattico, come ci ricordano lo stesso Wölfflin e, con lui, sulla stessa lunghezza d’onda di impegno pedagogico, August von Schmarsow.38 Vi gioca senza dubbio un ruolo importante il radicale disorientamento che precedette e seguì il primo conflitto mondiale e che anche Burger, con la sua sensibilità di artista, avvertì profondamente negli anni di intensa attività monacense, quando l’inquietudine si accompagnava ancora – inestricabilmente – con l’esaltazione e il fervore.39 In una lettera non datata, ma per certo riferibile all’estate del 1908, Clara annota quanto si dice di suo marito negli appuntamenti settimanali a Villa von Duhn, non lontana dall’Istituto dove teneva le sue lezioni Thode a Heidelberg: «Ieri sera c’è stata la solita riunione con gli studenti (ogni giovedì) e mi sono intrattenuta piacevolmente col dr. Weber […] e il dr. Weinrauch. […] I due imprecavano terribilmente contro Thode. Per me era piuttosto penoso, in quanto erano presenti parecchi suoi allievi, in parte piuttosto ottusi. […] Il dr. Weber ha commentato che sarebbe stato per lui molto interessante sapere se davvero anche tu sei diventato sempre più wölffliniano; lui stesso lo avrebbe notato già da solo confrontando la prefazione ai Monumenti sepolcrali toscani con le tue ultime recensioni».40 Gli storici della critica d’arte considerano il Nostro un esponente della «storia dell’arte dell’Espressionismo, che ebbe i suoi precursori in Riegl e Dvoák, Vöge e Croce, e che culminò in studiosi come 36 Capitolo 3 Worringer, Burger, Heidrich e Rintelen».41 I suoi interessi cominciarono ben presto a spaziare ampiamente fra le epoche e le culture artistiche. Già dal 1908 egli aveva cominciato a creare un contraltare ai suoi interessi per l’Italia rinascimentale, votandosi con altrettanta indomita passione al Rinascimento nordico, al quale dedicò corsi di lezioni universitarie e una ricognizione sulla pittura tedesca dal tardo Medioevo alla fine del Rinascimento.42 Ma egli era alla ricerca di una cifra interpretativa universale di tutte le produzioni artistiche, e fin da quegli anni cullò un progetto di ben altro respiro, aperto ai diversi apporti culturali, di cui poté vedere solo i primi risultati in quello Handbuch der Kunstwissenschaft (Manuale di critica d’arte), che dopo la sua morte fu proseguito dal già menzionato Brinckmann, arrivando a contare ben 32 volumi (Si veda in appendice a questo stesso volume la versione tradotta delle direttive per i collaboratori).43 In questa stessa ottica, Burger istituì presso l’Accademia di Arti figurative di Monaco un corso di esercitazioni pratiche dedicato all’incontro fra studiosi d’arte e artisti, allo scopo di ragionare insieme sulla misteriosa nascita dell’opera d’arte.44 Tale istituzione rappresenta ancor oggi qualcosa di unico, e ha suggerito a Burger alcuni spunti per un trattato rimasto inedito, dal titolo assai impegnativo: Systematik der Kunstwissenschaft (Sistematica della critica d’arte). Quest’ultimo doveva realizzare una storia universale dell’arte di tutti i popoli e di tutte le età, senza limiti geografici, e coinvolgere tutto ciò che può favorire comprensione e contestualizzazione del fenomeno artistico, dalla storia dei singoli artisti, al catalogo dei luoghi d’arte, alle fonti letterarie e alle discipline di supporto come l’araldica, la sfragistica, l’iconografia, o comunque strumenti utili allo studioso come allo studente, quali la fotografia, la calcografia, i lessici, le riviste, i repertori bibliografici. Il progetto dello Handbuch, al quale Burger iniziò a lavorare nel luglio del 1912 per conto dell’Akademische Verlagsgesellschaft Athenaion di Berlino, ha il suo aspetto innovativo nell’intenzione di affidare i singoli fascicoli ad autori specialisti del rispettivo settore trattato. Burger voleva rivolgere la pubblicazione tanto al pubblico della divulgazione quanto agli esperti, ai quali voleva consegnare apparati iconografici e bibliografici di facile consultazione. Il piano dell’opera prevede uno spazio relativamente ridotto per l’arte antica (di cui ebbe a lamentarsi Ludwig Curtius, autore cui fu affidata questa parte) e una valorizzazione di ambiti meno frequentati, La questione del metodo 37 fra cui l’arte islamica, in una prospettiva che vedeva il Monacense già proiettato alla polemica contro l’eurocentrismo e teso a valorizzare i positivi apporti delle culture extraeuropee al linguaggio figurativo dei Moderni. Questi due progetti burgeriani hanno in comune la centralità del termine Kunstwissenschaft, e ciò offre l’occasione per formulare un chiarimento in merito: esso dovrebbe essere letteralmente tradotto con «scienza dell’arte»,45 in quanto aspira al rigore proprio di una disciplina universitaria (e in tal senso è reso anche semplicemente con «studio dell’arte»). In questa sede è stato interpretato per lo più con l’espressione «critica d’arte», in primo luogo perché la scientificità del suo metodo si concreta in un’attitudine critica (che certo presuppone la ricognizione storica e in più in generale la conoscenza – la scienza – di tutto ciò che concorre a produrre un manufatto artistico), in secondo luogo perché in Fritz Burger, come emergerà dai prossimi capitoli, proprio la Kunstkritik, la critica d’arte, s’impone come tratto distintivo fra approccio storiografico e affondo scientifico, e anzi legittima la peculiare rigorosità di questo rispetto alla prassi delle altre scienze. La critica d’arte richiede per lui insieme la precisione dell’analisi storica e tecnica, ma altresì la capacità di afferrare l’essenza della creazione artistica: le due anime che in lui s’accompagnano. La questione attanaglia il Monacense, se è vero che variamente ritorna su questo punto. Ecco un passo eloquente da una sua lettera databile al 1908: «È sempre infatti l’artista in me, a confliggere con lo studioso, e da una parte come dall’altra è sempre l’uomo pratico ad andare in cerca della vita!».46 Non manca di ribadire l’insorgere assillante di tale intimo conflitto nemmeno nelle pagine dal fronte: «Lo percepisco esattamente; sento (fühle) in me l’artista; sento (fühle) l’erudito, vivo il dissidio: da una parte il marito amorevole, insieme padre, guida, esempio; dall’altra l’animale nelle mie viscere, la forza della sua rapacità, sempre e comunque in lotta contro la sacra intangibilità del primo…».47 Se tale lacerazione non può dirsi mai risolta, è pur vero che Burger riuscì a coinvolgere alcuni fra gli esponenti più esposti delle avanguardie, ai quali il suo intento si mostrò in tutta la sua dirompente portata. Un personaggio come Kandinsky, poco incline a compiacere gli altri, tanto meno sullo stesso terreno delle sue ricerche, ebbe a dichiarare apertamente: «La vostra visione dell’opera d’arte come di un 38 Capitolo 3 pezzo a sé stante di una Weltanschauung è l’idea più pregnante e preziosa di cui la moderna storia dell’arte tedesca sia depositaria».48 E questo nonostante una articolata critica che il Monacense gli aveva riservato nel suo bestseller. Nel 1913, per l’appunto, Burger consegna il proprio fondamentale tributo alla pittura contemporanea, dando alle stampe lo studio Cézanne und Hodler, 49 al quale deve la propria notorietà, ma anche le molte critiche riguardanti il suo singolare approccio alle problematiche della storia dell’arte. Recensendo quest’opera, Hans Tietze annotò che l’autore «prendendo le mosse dalla funzione gnoseologica dell’arte fa riemergere binari semisepolti […] ed è in grado di far trapelare dalle opere d’arte, in modo spesso sorprendente, quanto vi è di conscio e di inconscio nel nostro fermento spirituale». Risuona qui l’eco delle riflessioni che variamente in Europa si stavano proponendo sia in ambito psicanalitico sia nel contesto delle teorie dell’arte, come in Astrazione e empatia, di Wilhelm Worringer. A proposito dell’empatia, nell’adozione e nell’uso di queste dottrine da parte degli storici e critici dell’arte, Burger mostra affinità con la posizione di Heinrich Wölfflin, riferita in specie all’architettura.50 Affermava quest’ultimo: «Ciò che ora possiamo dare come base della nostra analisi è che la nostra organizzazione di corpi fisici è la forma con cui comprendiamo tutto ciò che è fisico. Ora si tratterà di dimostrare che tutti gli elementi dell’architettura: materiale e forma, peso e forza, si lasciano definire a partire dalle esperienze che abbiamo vissuto noi stessi; che le leggi dell’estetica formale non sono altro che le condizioni entro le quali soltanto ci pare possibile il benessere organico, che infine l’espressione che sta nella distribuzione orizzontale e verticale, si basa su principi umani (organici)».51 L’architettura era divenuta per lui l’incarnazione di relazioni fisico-psichiche, e così la critica d’arte diviene osservazione analitica della realtà coscienziale. In quest’ottica, Wölfflin fa della domanda sul bello una questione scientifico-fisiologica sulla fatticità del vissuto, ponendola però su basi scientifiche. Ma proprio la sua vocazione genuina di studioso gli consentiva, al di là delle formule cui si è voluto relegare, di revocare in dubbio i suoi stessi risultati, se è vero, ad esempio, che la categoria del «pittoresco» per il Barocco romano in architettura, gli creò presto non poche perplessità, di cui scrive nelle sue memorie. Se per tutta la vita lo Svizzero restò fedele al motto goethiano secondo cui il classico è sano, gli va riconosciuto che non si precluse La questione del metodo 39 mai di osservare i fenomeni dell’età sua. In uno dei suoi taccuini annotò questa riflessione: «Bisogna prestar fiducia solo a quello storico che sia in grado di percepire e di raccogliere i fenomeni del presente». È un pensiero sciolto, non datato, ma ben si attaglia al rapporto di tormentata stima che egli riservò al suo giovane collega Burger. Di lui senza dubbio apprezzava anche lo slancio concettuale, nella misura in cui soleva dichiarare: «nell’aula di filosofia siedono le teste migliori. La storia dell’arte ha molte teste vuote».52 In uno dei suoi manoscritti, a tutt’oggi inedito, Burger ha espresso lucidamente l’essenza del proprio metodo, laddove ha dichiarato che è necessario soprattutto sottolineare «quelle vie che conducono alla forma, alla disposizione della forma»,53 cioè cogliere e portare alla luce quei «binari semisepolti» (Tietze) che tragittano dall’ispirazione alla sua espressione formale. Egli considerava l’arte come una modalità vera e propria di pensiero: «un pensiero visuale» che si pone accanto a quello concettuale.54 Riteneva perciò che la Kunstwissenschaft, come riflessione scientifica sull’arte, si collocasse proprio nell’intersezione fra queste due modalità, partecipando tanto dell’una quanto dell’altra. Potremmo dire, in altri termini, che il critico d’arte dev’essere egli stesso tanto artista quanto filosofo, tanto espressivo in immagine quanto rigoroso nei concetti; ovvero, deve appunto praticare una «scienza espressiva». Nell’incontro di questi due aspetti fondamentali sta il presupposto fondamentale della poetica di Kandinsky e Klee, con cui egli si confrontò in maniera decisiva. Le testimonianze riportate più sopra sulla duplice natura espressiva e analitica delle lezioni di Burger non fanno che offrire un’ulteriore conferma in tal senso, così come il suo impegno nell’istituzione di un «laboratorio di scienza dell’arte» – il kunstwissenschaftliches Praktikum –,55 al quale invitava gli artisti perché illustrassero agli studenti i problemi formali che dovevano essere superati e le vie attraverso le quali maturava l’ispirazione creativa, ovvero quel «pensiero formale» (Formgedächtnis), in cui egli ravvisava «il fattore fondamentale di ogni creazione artistica e di ogni giudizio sull’arte». In una corrispondenza non datata, Burger afferma: «d’altro canto, non si può ignorare il dato di fatto, che studiosi d’arte [ma il tedesco Kunstwissenschaftler è senza dubbio termine più incisivo nell’evocare anche l’impegno scientifico, N.d.A.] di così fondamentale significato quali A. Hildebrand e Conrad Fiedler, perfino loro ricusano la storia 40 Capitolo 3 dell’arte secondo una piena storia dell’arte [dove, all’evidenza, nell’originale il gioco è proprio tra la storia e l’arte, su cui diversamente si pone l’accento, N.d.A.]». Per questa sua concezione della critica d’arte Burger ci appare – ed è – senz’altro innovativo. E, in effetti, la volontà di rinnovamento è un altro tratto fondamentale dell’Espressionismo. Il suo giudizio su Palladio – osannato campione del classicismo da generazioni di storici che lo avevano preceduto – dev’essere compreso alla luce di questa stessa ottica: la volontà di rinnovare cerca modelli praticabili; in tale ricerca deve sondare i momenti più elevati della tradizione precedente, cui l’architettura palladiana appartiene di diritto. Ma una ricognizione di quest’ultima non offre alcun modello attualizzabile: solo uno scheletro ormai privo di vita, da comprendere storicamente. Ne consegue che bisogna cercare altrove. Ecco quindi che, una volta esaurito il canone vitruviano e le sue riprese, prevale l’attrazione dell’arte contemporanea, alla quale Burger si rivolge con passione, per cercarvi stimoli ulteriori, proprio negli anni successivi al 1909, dopo la pubblicazione dello studio palladiano. Quest’ultimo si colloca così in un punto critico, di svolta e di commiato, un momento nel quale le esigenze teoriche della scienza espressionista vengono precisandosi e palesandosi sul terreno della ricerca, per poi spingere dall’interno verso altre direzioni, solo in apparenza desuete rispetto alle indagini già svolte. Pertanto, il saggio sulle ville di Palladio rappresenta un luogo di osservazione privilegiato, e oserei dire unico – sulla pratica della storiografia artistica espressionista e sulle sue problematiche: una sorta di limen, prima che il guado sia risolutamente attraversato. Avverrà meno di un lustro dopo, e la svolta nell’approccio di Burger alla produzione artistica sarà tale per cui nell’«espressionista storico dell’arte» il primo termine finì per prevalere, facendo di lui «un evocatore profetico dell’arte, e un mistico».56 * * * La questione del metodo della storia dell’arte e della critica d’arte conosce una accentuazione che, come risulterà dai successivi capitoli, corre parallela alla svolta che sospinge il Nostro verso i problemi dell’arte contemporanea, sino a saldarsi integralmente con questi ultimi nel volume del 1913 su Cézanne e Hodler. Ma anche negli anni imme- La questione del metodo 41 diatamente precedenti la sua scomparsa egli tornerà più volte sullo specifico di discipline che gli appaiono ancora non nettamente distinte, come l’estetica, la storia dell’arte, la critica d’arte. Ricorre spesso negli ultimi abbozzi – a tutt’oggi inediti57 – il termine Kunstgeschichtswissenschaft, qualcosa di più di una semplice giustapposizione estrinseca di «storia dell’arte» (Kunstgeschichte) e «critica d’arte» (Kunstwissenschaft): non già una scienza storica accanto ad altre, bensì un sapere che muova dall’arte stessa, dal suo radicamento nella circostanza storica, e non già a partire da quest’ultima. Questa scienza, la sua specificità e il suo «rigore» (è termine usato più volte nei fogli), rappresentano per Burger il tentativo di far quadrare il difficile cerchio in cui s’inscrive la sua esperienza di studioso e di artista capace di calarsi interamente nell’immagine: le due anime che albergarono entro il suo petto. Risultano utili in tal senso oltre alle due tracce intitolate Kunstwissenschaft und Kunstgeschichte (una delle quali interamente manoscritta), una testimonianza a firma di Clara Burger, che getta uno sguardo retrospettivo sulla produzione scientifica del defunto marito, e un dattiloscritto recante la dicitura Systematik für Kunstwissenschaft.58 La parola a Clara: «Nonostante le sue doti filosofiche e l’acume intellettuale, egli era troppo artista perché in lui il dionisiaco non sopraffacesse, per così dire dall’interno, il carattere apollineo dell’osservazione. Ciò costituiva la sua forza, ma anche la sua debolezza. Restano indimenticabili le sue analisi figurative, quando davanti alle opere d’arte lasciava che queste lo afferrassero e gli infiammassero parole e gesti, rivelavando all’uditorio entuasiasta tutta l’inconscia congenialità che suscitavano in lui. […] Ma i suoi scritti sono infarciti di filosofemi, conducono in una selva da cui è difficile districarsi, mentre Wölfflin sin da principio si era rassegnato a porsi di fronte all’opera d’arte come uomo di scienza». Che cosa può costituire il comune denominatore fra queste due anime di Burger: quella apollinea che sa ragionare freddamente su aspetti tecnici, circostanze storiche e aspetti teorici, e quella dionisiaca che muove il suo genio all’unisono con il fare dell’artista? Nel manoscritto Kunstwissenschaft und Kunstgeschichte il Monacense rimprovera a Dvoák di aver cercato, sulle orme di Riegl, una regola specifica per giudicare l’opera d’arte, attagliato alle esigenze di questa, finendo tuttavia per assumere criteri estranei, come la sua for- 42 Capitolo 3 tuna o le condizioni storiche che ne videro la nascita. In tal modo il punto di partenza e il fine dell’indagine perdono di vista l’oggetto medesimo. Questo è appunto il «tallone d’Achille» di tale disciplina: non saper afferrare l’individualità dell’opera. L’alternativa resta da un lato la «speculazione estetica», «interessante, ma notoriamente infruttuosa», dall’altro il richiamo alle moderne teorie della psicologia associativa, quali si riscontrano in Semper, Hildebrand, Schmarsow, e ciò sfocia in un eclettismo, che pure perde di mira il suo oggetto. Invero, secondo Burger, l’elemento decisivo dell’opera capitale di Riegl sull’industria artistica tardoromana è che si tratta di un libro di estetica, e non di critica d’arte. D’altro canto, la storia dell’arte priva di un orientamento teorico diventa mera catalogazione di materiale artistico, il che rende incapace lo storico di penetrare il fatto artistico in quanto tale. La moderna storia dell’arte, sottolinea il Nostro, «deve pertanto considerare questo rapporto con la critica d’arte (Kunstwissenschaft) come un problema centrale della propria scientificità, non già in senso negativo, ma positivamente». Anche l’abbozzo dattiloscritto s’interroga sugli stessi problemi, cercando di istituire un nesso positivo fra storia e critica d’arte. «Che cosa sono gli eventi artistici che noi dobbiamo indagare storicamente, separare, congiungere, articolare? In quale relazione stanno questi eventi artistici con gli eventi storico-artistici?». Proprio nelle parole «separare, congiungere, articolare» (trennen, verbinden, gliedern) si prospetta la soluzione, alla quale queste pagine sciolte cercano di offrire la base per una trattazione esaustiva, che non andrà oltre la fase preliminare, redatta purtroppo in un linguaggio involuto e provvisorio. Paradossalmente, come si vedrà, la trattazione più compiuta della soluzione prospettata da Burger – di arte come critica e di critica come arte – sarà contenuta in un breve, denso e chiaro saggio introduttivo redatto nel 1912 per una guida a un’esposizione museale. La questione del metodo 43 NOTE 1 «Entro il mio petto albergano due anime» (v. 1112), qui nella traduzione di Vincenzo Errante, firenze: Sansoni 1948, p. 65. 2 Jens Kräubig, Der Kunsthistoriker Fritz Burger. 1877-1916, quaderno dattiloscritto della mostra tenutasi nel 1986, quando ancora erano in deposito presso i locali del Museo cittadino le opere pittoriche del Nostro e l’allora conservatore del Kurpfälzisches Museum di Heidelberg fu promotore dell’iniziativa. 3 Oskar Lang, Fritz Burger †, in «Die Rheinlande. Monatsschrift für deutsche Kunst und Dichtung» 26, 1916, p. 372. 4 Robert Hedicke, Methodenlehre der Kunstgeschichte, Straßburg: Heitz 1924, p. 132. 5 Da quest’ultimo ereditò il pathos filosofico e la passione per il Rinascimento italiano, ma forse anche l’attenzione riservata alla scena artistica contemporanea. 6 Hedicke Methodenlehre, cit., p. 132. 7 Vd. ultra: cap. sui Principi fondamentali della critica d’arte. 8 Cit. da Robert Hedicke, Methodenlehre der Kunstgeschichte: ein Handbuch für Studierende, Strassburg: Heitz, 1924, p. 273. 9 Gianni Carlo Sciolla, La critica d’arte del Novecento, Torino: UTET, 1995, p. 18. 10 Cfr. Andrea Pinotti, Empatia: «un termine equivoco e molto equivocato», in Una “scienza pura della coscienza: l’ideale della pscicologia in Theodor Lipps, a cura di Stefano Besoli, Marina Manotta e Riccardo Martinelli, «Discipline filosofiche» XII, 2, 2002, pp. 63-83. 11 Su ciò si veda ad esempio il bel lavoro antologico a cura di Andrea Pinotti, Estetica ed empatia, Milano: Guerini, 1997. Vd. ultra, in appendice. 12 Cfr. Heinrich Dilly, Kunstgeschichte als Institution. Studien zur Geschichte einer Disziplin, Frankfurt a.M. 1979, p. 168. 13 Ivi. 14 Giovanni Agosti, La nascita della storia dell’arte in Italia. Adolfo Venturi: dal museo all’università 1880-1940, Venezia: Marsilio, 1996. 15 Una statistica della distribuzione delle cattedre di storia dell’arte fra la fine dell’Ottocento e gli anni Venti si trova ragionata in Heinrich Dilly, Kunstgeschichte als Institution. Studien zur Geschichte einer Disziplin, Frankfurt a.M.: Suhrkamp, 1979, pp. 33 sg. 16 Per un profilo dello Studioso e dei tratti più rilevanti della sua opera, vd. almeno Sciolla, La critica, cit., pp. 13-22 e pp. 39-41; Udo Kultermann, Storia della storia dell’arte, trad. it. di Elena Filippi, Vicenza: Neri Pozza, 1997, pp. 154-157 (con le integrazioni bibliografiche relative a cura della traduttrice). Fra i contributi più recenti si segnalano Hans Sedlmayr, The quintessence of Riegl’s thought. Framing formalism. Riegl’s work essays, Amsterdam: G+B Arts International, 2001, pp. 11-31; Hans H. Aurenhammer, 150 Jahre Kunstgeschichte an der Universität Wien (1852 - 2002) eine wissenschaftliche Chronik, in «Mitteilungen der Gesellschaft für Vergleichende Kunstforschung in Wien» 54, 2002 No. 2/3, pp. 1-15, una sintesi di grande lucidità e da ultimo Die Wiener Schule der Kunstgeschichte und die Kunst 44 Capitolo 3 ihrer Zeit: zum Verhältnis von Methode und Forschungsgegenstand am Beginn der Moderne, a cura di Edwin Lachnit, Wien [u.a.]: Böhlau, 2005. 17 Fra gli inediti burgeriani vi sono pagine dedicate al confronto con la Wiener Schule e in special modo con le tesi di Dvoák, ma su questo mi riservo di approfondire ulteriormente i dati in mio possesso, per offrire una ricostruzione puntuale della questione. Frattanto, vd. il fondamentale Julius von Schlosser, Die Wiener Schule der Kunstgeschichte. Rückblick auf ein Säkulum deutscher Gelehrtenarbeit in Österreich, rielab. da Hans Hahnloser, Innsbruck: Wagner, 1934, e la sua versione italiana, La scuola viennese di storia dell'arte, in «Mitteilungen des oesterreichischen Instituts für Geschichtsforschung», Ergänzungsband XIII, Heft 2, Innsbruck, 1934. 18 Su Fiedler è fondamentale Gottfried Boehm, Introduzione a Conrad Fiedler, Schriften zur Kunst, I, München 1991, pp. I-XCVII; più di sintesi, ma estremamente utile è Id., »Sehen lernen ist alles«. Conrad Fiedler und Hans von Marées, in Hans von Marées, a cura di Christian Lenz, München 1987, pp. 145-150; Andreas Beyer, Anatomie einer Entzweiung: über Konrad Fiedler und Hans von Marées, in Auge und Hand. Konrad Fiedlers Kunsttheorie im Kontext, a cura di Stefan Majetschak, München 1997, pp. 223-236. 19 Adolf von Hildebrand (1847-1921) ha vissuto e lavorato sia in Italia che in Germania. Fra il 1880 e la fine della prima Guerra Mondiale, egli era considerato il più importante scultore tedesco del suo tempo. Ammiratore dell’opera di Auguste Rodin, di appena 7 anni più vecchio, Hildebrand si propose quale suo antagonista, sebbene i due avessero un obiettivo comune: l’eliminazione del superfluo sia figurativo che psicologico. Nel 1867, durante un viaggio a Roma, fece conoscenza del pittore Hans von Marées e di Conrad Fiedler, uomo di legge e filosofo. Stimolato da questi, Hildebrand iniziò a occuparsi della teoria dell’arte, specialmente per i risvolti che toccano da vicino l’ambito plastico. In proposito scrive nel 1893 il suo testo più famoso e dibattuto, Il problema della forma nell’arte figurativa. Il libro tratta della genesi fisiologica e psicologica dell’opera tridimensionale considerando le leggi dell’occhio umano. 20 Adolf von Hildebrand, Das Problem der Form in der bildenden Kunst, Straßburg: Heitz, 1893; Il problema della forma, a cura di Sergio Samek Lodovici, 1a ed. ital., Milano: TEA, 1996; Il problema della forma nell’arte figurativa, a cura di Andrea Pinotti e Fabrizio Scrivano, Palermo, Aesthetica Edizioni 2001 (con traduzioni di inediti e il carteggio con Wölfflin). 21 L’ottava edizione vede la luce nello stesso anno in cui Burger dà alle stampe il suo Cézanne und Hodler. Vd. ultra. 22 Cfr. Pinotti, Presentazione di Hildebrand, Il problema, cit., p. 7. 23 Imprescindibile rimane la dissertazione di Arminio Janner, se non altro per la data molto precoce e ancora pregna degli umori del dibattito dell’epoca, Adolf Hildebrand’s und Conrad Fiedler’s Kunsttheorie, Locarno 1912; per una panoramica vd. il “classico” Geschichte der Kunstgeschichte di Udo Kultermann (trad. it. Storia, cit., pp. 150-177 e relative integrazioni bibliografiche). Specificatamente, Konrad Fiedler, L’attività artistica. Tre saggi di estetica e teoria della “pura visibilità”, trad. it. di Carlo Sgorlon, con una prefazione di Carlo L. Ragghianti, Venezia: Pozza, 1963; Fabrizio Scrivano, Lo spazio e le forme: basi teoriche del vedere con- La questione del metodo 45 temporaneo, firenze: Alinea Editrice, 1996. 24 Vd. ultra, cap. su Burger pittore: Il kunstwissenschaftliches Praktikum. 25 Il lavoro più ampio e articolato sulle diverse fasi della produzione scientifica wölffliniana rimane a tutt’oggi quello di Meinhold Lurz, Heinrich Wölfflin. Biographie einer Kunsttheorie, Heidelberg: Werner’sche Verlagsgesellschaft Worms, 1981. 26 Cit. in Nikolaus Meier, Heinrich Wölfflin, in Altmeister moderner Kunstgeschichte, a cura di Heinrich Dilly, Berlin: Dietrich Reimer Verlag, qui p. 74. In effetti, se si acquista maggior familiarità, oltre che con i suoi scritti, anche con la critica più avvertita – tra cui si segnalano gli studi dello stesso Meier e dell’antico allievo Joseph Gantner – non si fatica ad avallare la rivendicazione dello Zurighese. 27 Trad. it. Concetti fondamentali della storia dell’arte. La formazione dello stile nell’arte moderna, Milano 1953; Concetti fondamentali della storia dell’arte, presentazione di Giusta Nicco Fasola, Milano: TEA, 1994, e Vicenza: Neri Pozza, 1999. 28 Wölfflin fu chiamato a occupare le cattedre più prestigiose: da Basilea (18931901) a Berlino (1901-1912) e Monaco (1912-1924). Rientrato in Svizzera, dal 1924 e per un decennio, insegnò a Zurigo, svincolato però dai gravamina istituzionali aggiuntivi di un ordinario. 29 Cfr. Heinrich Wölfflin, Autobiographie, Tagebücher und Briefe, a cura di Joseph Gantner, Basel-Stuttgart 19842, pp. 287 e 290. 30 Cfr. la traduzione italiana della suddetta recensione wölffliniana in Elena Filippi, A tu per tu con Palladio. Burger e la lotta fra teoria e pratica dell’arte, in Fritz Burger, Le ville di Andrea Palladio, a cura di Elena Filippi e Lionello Puppi, Istituto Regionale Ville Venete-Umberto Allemandi & C., Torino et al.: Allemandi, 2004, pp. 22 sg. 31 In un intervento del 1892 Grimm sostiene l’efficacia delle diapositive di nuova concezione, che consentono di proiettare la riproduzione di un’opera a grandezza naturale, ovvero possono ingrandire porzioni di un manufatto su scala enorme. Herman Grimm, Die Umgestaltung der Universitätsvorlesungen über Neuere Kunstgeschichte durch die Anwendung des Skioptikons (1892 e 1893), dapprima apparso sulla stampa nazionale, quindi riedito in Id., Beiträge zur Deutschen Kulturgeschichte, Berlin: Dümmler, 1897, pp. 276-395. 32 Una breve nota sugli strumenti e i materiali ritenuti da Wölfflin indispensabili per le lezioni di storia dell’arte si può leggere nel suo Der Apparat für Vorlesungen über neuere Kunstgeschichte, in Max Lenz, Geschichte der Königlichen FriedrichWilhelms-Universität zu Berlin, Halle: Buchhandlung des Waisenhauses, 1910., pp. 265-266. Più in generale, sul tema vd. il dettagliato Heinrich Dilly, Lichtprojektion – Prothese der Kunstbetrachtung, in Kunstwissenschaft und Kunstvermittlung, a cura di Irene Below, Giessen: Anabas-Verlag, 1975, pp. 153-172; Steven Nelson, The Slide Lecture, or the Work of Art History in the Age of Mechanical Reproduction, in «Critical Inquiry» 26, 2000, pp. 414-434, qui pp. 432 sg. 33 Meier, Heinrich Wölfflin, cit., p. 64. 34 Heinrich Wölfflin, Gedanken zur Kunstgeschichte. Gedrucktes und Ungedrucktes, Basel: Schwabe, 1941, p. 1. 46 Capitolo 3 35 Wölfflin, Autobiographie, cit., p. 338. Ivi, 9 luglio 1911, p. 257. 37 Recentemente Daniel Adler, Painterly politics: Wölfflin, Formalism and German Academic Culture 1885-1915, in «Art History» 27, 3, 2004, pp. 431-456. 38 Ivi, pp. 440-442. Riguardo alle riflessioni di Schmarsow sulle modalità dell’apprendimento della storia dell’arte, fra i molti aspetti egli rivendica l’utilità del disegno, per far capire i termini tecnici dei problemi architettonici; raccomanda, inoltre, di prender parte all’operare artistico contemporaneo. Cfr. August von Schmarsow, Die Kunstgeschichte an unseren Hochschulen, Berlin 1891, qui pp. 59 sg. 39 Come accade, fra gli altri, all’amico Franz Marc, di cui si potrebbero citare molti Frammenti, ovvero pensieri sparsi sull’arte e sulla vita, scritti al fronte, in cui accenti mistici e di deciso ottimismo nei confronti delle potenzialità della nuova epoca incrociano pensieri ben più cupi sul fremito di una follia collettiva e di un non-senso relativo a quanto sta effettivamente succedendo in Europa. 40 Clara Burger-von Duhn, lettera a Fritz non datata (ma risalente al secondo soggiorno in Veneto del Nostro, inviata a ridosso del 20 giugno 1908), fogli 3 e 4, Carte Burger, Heidelberg. 41 Kultermann, Storia, cit., p. 192. La tesi dell’A. riprende il giudizio di Brinckmann, recentemente valorizzato da Matthias Müller-Lentrodt, che mi ha gentilmente concesso in lettura il testo allora ancora inedito di un suo intervento al Carl EinsteinKolloquium del 14 settembre 2001, intitolato Carl Einstein und Fritz Burger: Über das Geistige in der Kunstkritik oder gibt es eine «expressionistische» Kunstgeschichte?, apparso poi negli atti della succitata giornata di studi, Die visuelle Wende der Moderne. Carl Einsteins ‘Kunst des 20. Jahrhunderts’, a cura di Klaus H. Kiefer, München 2003, pp. 65-80. 42 Die deutsche Malerei vom ausgehenden Mittelalter bis zum Ende der Renaissance, un lavoro a più mani, ma con un suo contributo sostanziale, uscito postumo a Berlino circa il 1918. 43 Fritz Burger-Albert E. Brinckmann, Handbuch der Kunstwissenschaft, 32 voll., Berlin: Athenaion, 1913-1930. Cfr. Sciolla, La critica, cit., p. 73. 44 «Che cos’è un dipinto» – si chiedeva il Nostro e, così provocando, incitava a una risposta i suoi interlocutori, fra cui il monacense Walter Dexel (che sarebbe divenuto uno dei pionieri del costruttivismo e poi dell’arte concreta nella Germania contemporanea, con una stagione assai feconda, fino alla morte, che lo coglie nel 1973) – «Non è nient’altro che un ordine di macchie di colore!». È il tempo in cui Burger stava elaborando i contenuti di un discorso impegnativo, tenuto in occasione del centenario dell’Hohen Meissner e rivolto alle giovani generazioni, poi apparso col titolo Über die junge Kunst der Gegenwart und die Wissenschaft, Jena: Eugen Diederichs Verlag, 1913. Ma su ciò vd. ultra. 45 In questo senso è corretta e condivisa la scelta di tradurre il titolo della serie dei voll. burgeriani come Manuale di scienza artistica, così come appare in Sciolla, La critica, cit., p. 73, e filippi, A tu per tu, cit., p. 13. 46 Su questo vd. ultra: cap. «L’artista in me, e lo studioso». 47 Fritz Burger, Tagebuch II, Pasqua 1916 (trascrizione Erbsmehl, n. 181, pp. 330-334, qui p. 330), Carte Burger, Heidelberg. 36 La questione del metodo 48 47 Lettera a Fritz Burger, da Murnau 7 luglio 1914, Carte Burger, Heidelberg. Cfr. anche Müller-Lendtrodt, Subjektivieren, cit., p. 69. 49 Fritz Burger, Cézanne und Hodler. Einführung in die Probleme der Malerei der Gegenwart, Delphin Verlag, München 1913. Le edizioni successive, tra il 1917 e il 1923, vennero curate e in parte modificate proprio da Dexel, allora anche direttore del Kunstverein di Jena e attivo collaboratore del Bauhaus. 50 Heinrich Wölfflin, Prolegomena zu einer Psychologie der Architektur (München, 1886), in Id., Kleine Schriften, a cura di Joseph Gantner, Basel: Schwabe, 1946, pp. 13-47; ed. it., Psicologia dell’architettura, a cura di Ludovica Scarpa, introduzione di Dieter Hoffmann-Axthelm, Venezia: Cluva, 1985. Si tratta della dissertazione di laurea dello studioso (e sul suo valore fondativo nel pensiero wölffliniano si rinvia giocoforza all’oramai “datato” Umberto Barbaro, Introduzione a Heinrich Wölfflin, Avvicinamento all’opera d’arte [1921] ed. it. Milano: Minuziano, 1948, pp. 20-26), qui citata nella traduzione italiana. Anche alla luce del ragionamento nel testo, di qualche non trascurabile interesse appare la breve recensione dedicata da Wölfflin a Die Villen in «Repertorium für Kunstwissenschaft», 33, 1910, pp. 266 sg. 51 Wölfflin, Psicologia, cit., p. 37. 52 Meier, Heinrich, cit., p. 71. 53 Cfr. Liane Burkhardt, »... bei aller Wissenschaftlichkeit, lebendig ...«. Zu einzelnen Positionen des Kunsthistorikers Fritz Burger (1877-1916), in «Kunstchronik» 51, 1998, p. 170. 54 Müller-Lentrodt, Carl Einstein, cit., p. 72. 55 Sul Praktikum vd. ultra. 56 Cit. dal dattiloscritto di Jens Kräubig, Carte Burger, Heidelberg, p. 2. 57 Chi scrive ne ha individuate tre versioni appena differenti, e talora con parziali trascrizioni di Clara e con interventi autografi, talaltra esclusivamente manoscritti, altra volta battuti a macchina. Carte Burger, Heidelberg. 58 Tutti i testi sono presso il lascito Burger a Heidelberg. 4. LA FORMAZIONE DI BURGER E GLI STUDI FINO AL 1909 1901-1902: HEIDELBERG LIBRETTO UNIVERSITARIO In questo capitolo si tratterà dei suoi professori di Heidelberg, quindi dei contatti e i corsi a Friburgo, della tesi di dottorato e della lezione pubblica per la libera docenza (Probevorlesung) all’Università di Monaco, insieme alle peregrinazioni in tutta Europa – per forza di cose tratteggiate qui sommariamente – che videro Fritz Burger studia- 49 50 Capitolo 4 re dappresso fenomeni e opere d’arte, instancabile volano di questioni e proposte metodologiche. Dei nomi che compaiono nel suo libretto universitario,1 alcuni sono cattedratici e studiosi di chiara fama: basti citare Henry Thode, nipote acquisito di Richard Wagner2 e illustre storico dell’arte; Carl Neumann, che in modo formidabile ridestava il dibattito sulla figura e l’opera di Rembrandt, trascinando con sé anche un’apertura a temi legati all’età barocca,3 e Friedrich von Duhn, una delle massime autorità dell’archeologia classica tedesca, direttore dell’Istituto da lui fondato (dal 1880 al 1919), quindi rettore dell’Ateneo (1911/12), nonché consigliere personale dell’imperatore Guglielmo II per le acquisizioni di opere d’arte antica.4 Di von Duhn – ma è faccenda privata – il giovane pensionario Fritz diverrà anzi inopinatamente genero.5 Seguiranno i giorni dell’allontanamento da Heidelberg, dapprima in Inghilterra, poi a Friburgo in Brisgovia, con Clara, la sposa sedicenne incinta di Erich – primo dei quattro figli – fino al 1906, anno del trasferimento a Monaco, dopo aver ottenuto la libera docenza. Il nume tutelare degli anni universitari fu senza dubbio Thode, del quale il Nostro segue i corsi sulla storia della pittura veneta e più in generale sulla rinascenza artistica veneziana nel XVI secolo, nonché le esercitazioni, certo assai formative, di storia dell’arte tout court.6 Per un altro artista, che studierà da vicino, Fritz gli è debitore. Non avrebbe probabilmente speso un patrimonio di energie, anche economiche, sulla produzione michelangiolesca, se sottesa alla sua ricerca non si fosse delineata anche una nobile sfida sul campo in cui ancora s’impegnava il Maestro.7 Vediamo di far luce sui rispettivi apporti allo studio dell’attività del genio di Caprese. Thode promuove una monumentale ricostruzione della vita e dell’opera del Buonarroti con il suo Michelangelo und das Ende der Renaissance (Michelangelo e la fine del Rinascimento), che vede la luce a Berlino tra il 1902 e il 1913, in ben sei tomi. Le primizie degli esordi di questo progetto editoriale datano ai semestri in cui Fritz frequentava assiduamente le lezioni dell’Autore e con lui si accordava per un argomento di tesi, che venne di concerto individuato nella evoluzione della tipologia del monumento funebre in Toscana dai tempi più antichi fino a Michelangelo.8 L’edizione a stampa, ampliata di molto rispetto alla dissertazione, La formazione e gli studi fino al 1909 51 e riccamente corredata di illustrazioni, venne accolta dall’editore Heitz di Strasburgo nel 1904. FOTO-RITRATTO DI THODE DALL’ALBUM DI FAMIGLIA DEI BURGER Riguardo allo specifico del contributo burgeriano per lo studio della tomba di Giulio II, esso si segnala soprattutto per l’interpretazione iconografica e per la conseguente risoluta presa di distanza dalle argomentazioni esposte nella monografia di Carl Justi, da poco uscita.9 La controversia era massima intorno al rapporto del progetto giuliesco con la tradizione sepolcrale fiorentina.10 Laddove Justi cercava di motivare un supposto bisogno di Michelangelo di recidere il legame con la tipologia tradizionale, attraverso l’ispirazione pagana e il ricorso a un repertorio desunto dall’Antico, per converso Burger avverte, sin dalla premessa, che scopo del suo lavoro è dimostrare l’elemento di continuità con siffatta tradizione monumentale. 52 Capitolo 4 DA F. BURGER, STUDI SU MICHELANGELO 1907 Nel ricostruire la storia della tomba di papa della Rovere egli convoca apertis verbis i risultati e la cronologia del Thode, appena diffusa (1902). Lamenta invece il fatto che quest’ultimo, pur recependo certi indizi e documenti presentati nella ricerca burgeriana – compresa quella immediatamente successiva degli Studi su Michelangelo – e mostrando di condividerne gli esiti, non manifesta pubblicamente un apprezzamento.11 Quali furono, dunque, i risultati più significativi della proposta burgeriana, accolti dallo stesso Thode,12 almeno nella so- La formazione e gli studi fino al 1909 53 stanza? Anzitutto, Michelangelo non avrebbe mai voltato le spalle alla tradizione dei monumenti funebri del primo Rinascimento, quelli – per intendersi – che seguivano lo schema architettonico del prototipo di Mino da Fiesole (Monumento a Paolo II), che prevedeva una tomba a parete con nicchie, e che vedrà un vertice indiscusso nei progetti di Sansovino, come quello realizzato in Santa Maria del Popolo a Roma.13 A suo giudizio, lo scarto decisivo tra il monumento sepolcrale a tutto tondo, ovvero libero nello spazio, vagheggiato primieramente dal Buonarroti e quello invece più tradizionale, si può cogliere nella redazione del terzo progetto per la tomba di Giulio II, quello che risale al 1516. La riflessione muove dalla disamina della descrizione della nuova versione della tomba contenuta nel contratto stipulato a quella data, giacché esso prevedeva un addossamento alla parete, ma non più sul lato breve (come nel progetto del 1513), bensì su quello lungo. Una disposizione così ripensata avrebbe naturalmente portato a modificare anche lo spazio della piattaforma e, al tempo stesso, a rimeditare i rapporti proporzionali fra la cappelletta, le nicchie laterali e il basamento sottostante. Non sussistendo più gli schizzi originali per codesta proposta michelangiolesca, si prova Burger a formulare un’ipotesi restitutiva,14 prendendo le mosse dagli exempla sansoviniani. Rispetto a quegli esiti, comunque debitori della tradizione toscana quattrocentesca, lo scarto michelangiolesco – giusta l’Autore – doveva piuttosto riguardare altro, vale a dire l’uso libero e potente delle emergenze plastiche, capaci di coniugare la fede cristiana e la percezione dei vertici eccelsi delle forme antiche, sia pur pagane.15 54 Capitolo 4 RITRATTO A GRAFITE DI FRITZ BURGER Un ritratto del 1907 immortala il Monacense nei giorni in cui stava per licenziare i suoi Studi su Michelangelo. Era ritornato nei luoghi sì familiari, dopo avervi soggiornato con l’intera famiglia nel 1905 e fino all’estate successiva. I Burger avevano preso dimora al “Castelvecchio”, non lontano da piazzale Michelangelo. Quello fu senza dubbio uno dei periodi più sereni per Fritz e Clara, attorniati dalla stima di molti, circondati dalle premure della gente del posto, in una condizione idilliaca per la stesura di saggi importanti, come quello su France- La formazione e gli studi fino al 1909 55 sco Laurana. Uno studio sulla scultura italiana del Quattrocento,16 e su Donatello e l’Antico, entrambi usciti 1907.17 La residenza fiorentina viene definita da Clara come «il Paradiso», ovvero «un castello di fiaba», quand’anche il marito non si dia tregua e sia spesso in viaggio per operare gli opportuni riscontri alle sue argomentazioni, talora dimentico, addirittura, di fornire un suo recapito alla moglie.18 Nell’odoroso giardino di Castelvecchio i Burger organizzano anche dei buffet, dilettati dalla musica suonata dal vivo, per compiacere gli amici fiorentini.19 Tutto questo sarà rimpianto dai due, perché al rientro definitivo a Monaco – città che pure continua a offrire moltissimo al giovane talentoso ricercatore – cala su di loro uno stress irriducibile, fonte di irrequietudini famigliari e di disagio.20 L’incalzante ritmo della vita nella capitale bavarese, unitamente agli sforzi talvolta decisamente eccessivi cui si sottoponeva il libero docente, consapevole, forse, della precarietà della sua posizione in seno alla comunità accademica, e, non di meno, l’insaziabile foga con cui Fritz era solito accettare le sfide non soltanto scientifiche,21 portò ben presto all’insostenibile gestione del ménage quotidiano, tanto da risolversi a traslocare dalla lussuosa abitazione dei primi tempi al civico 23 di Prinzregentenplatz.22 All’annuncio, che il Nostro apprende dalla moglie mentre è a Venezia sulle tracce di Palladio, lo sconforto più cupo si abbatte su di lui, che quindi commenta: «La notizia, che l’appartamento è stato affittato, mi ha profondamento scosso… Ti penso molto, povera mammina».23 E tuttavia, la sua è la tempra di un «entusiasta, un prolifico entusiasta», come dirà Edwin Kuntz, nel ricordare i giorni del suo compianto magistero.24 In quelle settimane, a dir poco tumultuose, preoccupato sul piano finanziario e distratto dalle tensioni interne al corpo docente dell’Università, «Fritz non sa proprio – annota la moglie – dove ha la testa […] per l’alto numero di ore dei seminari, le recensioni, i 5 libri che ancora giacciono lì, e di cui entro un mese deve dire qualcosa, e in aggiunta l’affaire Halden. Ciò nonostante ci facciamo coraggio e le giornate sfrecciano via tra le mille incombenze come automobili (bel paragone!)».25 Ma Fritz è ancora più esplicito: «La sfortuna è che come accademico e per ragioni finanziarie sono costretto continuamente a produrre, davanti a diversi gruppi di uditori, attingendo dal mio laboratorio spirituale del momento. 56 Capitolo 4 Wölfflin è in una situazione diversa, non solo per temperamento e per l’educazione ricevuta, ma anche per la sua situazione economica. Ha il tempo per lasciare che tutto maturi, il tempo per prepararsi le lezioni, può concedersi il lusso di evitare qualsiasi indagine storica per la quale non è sufficientemente attrezzato, mentre io sono esposto da tutte le parti, e devo anche potenziare e perfezionare quei rudimenti di Kant che avrei dovuto apprendere da studente. […] Negli ultimi tempi l’insegnamento accademico è diventato per me così odioso, perché il tutto mi appare come una profanazione e una prostituzione di sapere personale, e ciò è dettato dal bisogno e dalla necessità di improvvisare. […] Ma io devo continuare a produrre e a offrire più di quanto non possa immagazzinare. Ecco, dovrei avere del tempo per me, per assimilare meglio la mia materia. […] Ma i lavori cominciati devono essere finiti, e così, per finirli, non trovo alcun raccoglimento. C’è sempre una frusta dietro di me che mi perseguita».26 Come si poneva Burger nei confronti degli studenti e come proponeva loro i diversi argomenti di storia dell’arte? La sua lezione inaugurale – dopo aver sostenuto in modo brillante la prova orale per la libera docenza su Vitruvio e il Rinascimento (autunno del 1906) – risale al 4 dicembre 1906. A dire il vero, in famiglia si nutriva una certa apprensione per il fatto che oramai tutti i corsi erano già avviati, e dunque si profilava la possibilità di un pubblico particolarmente esiguo. Per un docente, specie se a contratto, il modo peggiore per cominciare! Voci di corridoio alimentavano frattanto la tensione per l’evento, rinfocolando proprio questi timori sulle presenze. Ma lasciamo la parola a un ospite attento di quella seduta, la moglie Clara, che l’indomani così descrive l’accaduto al padre: «Il gran giorno giunse grigio e fosco: una terribile bufera mugghiava intorno alla nostra casa. Quando mi accingevo a uscire, a mezzogiorno meno venti, Fritz era ancora seduto al suo lavoro, e alle mie insistenze perché si preparasse per tempo rispondeva invitandomi a non preoccuparmi per quell’unico uditore che avrebbe avuto. Fu così che alle dodici e cinque mi trovai nella grande aula ad anfiteatro, in cui doveva aver luogo il debutto. È almeno una volta e mezzo più grande e tre volte più alta di quella in cui Dieterich lesse la sua prolusione. Andai a sedermi all’incirca al centro e cercai di dominare una crescente La formazione e gli studi fino al 1909 57 eccitazione: l’Auditorium cominciava a riempirsi. Affluivano masse sempre più cospicue. Cominciai a pensare che il mio Fritz non sarebbe riuscito a far lezione lì dentro; rivedo ancora una volta il cartello sulla porta, con il suo nome scritto bene in grande e in chiaro. Ecco già alle mie spalle la voce di uno studente dire: “Ehi gente, oggi c’è un debutto, lo facciamo andar male?” […] L’aria diventava per me sempre più opprimente, quando un leggero brusio rivelò l’impazienza degli studenti.27 Era ormai quasi la mezza quando una figura dal volto paonazzo entrò incespicando dalla porta posteriore dell’Auditorium scorgendolo inopinatamente affollato, e solo in seguito passò a togliersi il cappotto, mentre intanto il brusio lasciava posto al battimani, e quando infine quest’ultimo ebbe la meglio, fu chiaro che la lunga attesa era terminata. Dopo qualche parola di scusa, pronunciata con calma, ebbe inizio la lezione con una considerazione introduttiva sull’argomento. Tutto procedeva molto tranquillamente. L’impressione era più di un discorso a braccio che di una lettura. Gli studenti si facevano sempre più attenti. Verso la fine Fritz fece circolare tre grandi fotografie e affermò che, qualora il numero degli uditori restasse immutato, avrebbe cercato di procurare un proiettore per la volta successiva, suscitando il battimani. Poco dopo il suono della campanella Fritz concluse, accompagnato da un forte applauso. Tre studenti si alzarono per aiutarlo con il cappotto e iscriversi alle esercitazioni che iniziano oggi a mezzogiorno».28 Fra le varie osservazioni, capita di annotare che riuscire a proiettare immagini era stato fin da subito un obiettivo cruciale del Nostro. S’impegnerà molto per questo, fino ad accumulare fatture per l’epoca davvero esorbitanti. Si legge, ad esempio, di cifre per un ordine di diapositive che rasentano i 700 marchi!29 In questo, però, non era certo un pioniere, se solo si ricordano le aspettative che già l’anziano Burckhardt riponeva nella riproduzione fotografica come utile strumento didattico.30 E certamente tale proposta trovava nel pubblico studentesco il consenso più entusiasta. Negli anni del Praktikum perfino Wölfflin sentirà l’impulso di aiutare il giovane collega in questa sua lotta impari con l’approvvigionamento – avvertito sempre come inadeguato – dei materiali di studio più diversi, dalle incisioni ai corredi per dipingere, modellare, alle centinaia di diapositive.31 58 Capitolo 4 ABBOZZO DEI CORSI E DELLE VISITE GUIDATE DEL SECONDO SEMESTRE 1909 Il 26 giugno 1907, sul finire del semestre estivo, Fritz scrive un rendiconto al suocero, manifestando soddisfazione per come vanno le cose in Università. Riferisce che il giorno precedente ha ospitato per la prima volta a casa alcuni studenti, fra i migliori e più adulti, tutti del Nord, e tutti già allievi di Wölfflin e Schmarsow.32 È ancora più contento per il fatto che uno di loro gli ha chiesto lumi su una ricerca – animato dall’entusiasmo delle sue lezioni – a lui, che è il più giovane fra i docenti a contratto. Ma la lettera riserva anche altre osservazioni interessanti, soprattutto relative alla «drammatizzazione» del problematico incedere dei lavori della fabbrica di San Pietro. E perfino Claretta, la più intransigente dei suoi critici, era finalmente soddisfatta dell’esposizione! «Se ne potrebbe ricavare un libro da questa esperienza, come e quando, certo ancora non lo so. Mi è riuscito, io credo, di armonizzare le idee di Riegl con la evoluzione storica della struttura nel suo complesso e, al tempo stesso, di chiarirne i concetti e anzi di ampliarli. A Riegl va comunque riconosciuto, tutto sommato, di aver avuto ragione in pieno e gli sono debitore».33 La formazione e gli studi fino al 1909 59 Conclude, il Nostro, con una affermazione impegnativa, nel mentre si sente ora – in virtù del successo di cui è pienamente consapevole – pronto ad affrontare con maggior coraggio l’opprimente situazione finanziaria: «Adesso per lo meno so che cosa può significare la scienza per le persone». Molte fonti concordano nel riportare il soprannome con cui amici e studenti erano soliti appellarlo. Era “il Mago”, e si riconobbe forse in questa veste, o comunque accettò di buon grado di indossarla, perfino nelle sere del Carnevale monacense. 34 Racconterà poi la vedova nel suo Diario, che chi si sedeva, come lei, nell’ultima fila di una sala sempre affollattissima, stipata anche nei camminamenti laterali, «si faceva prendere dal flusso che dal suo verbigerare promanava, come di un sacerdote sull’altare».35 Anche quando era consuetudine registrare una flessione di presenze in tutto l’Ateneo – proprio durante l’impazzare del Carnevale – Burger poteva scrivere al suocero, non senza un certo stupore orgoglioso, che «sebbene ai seminari in giro si faccia naturalmente notare in misura vistosa, ai miei incontri su Rubens e Rembrandt mancano in pochissimi; nessuna defezione, per contro, alle mie esercitazioni, i cui risultati anzi mi hanno sorpreso. Qui si danno sicuramente i presupposti per un nuovo lavoro, in un ambito che è ancora assolutamente terra incognita. Le persone vengono con grande motivazione e già tre hanno tenuto una relazione».36 Per non parlare di quando egli cominciò a proporre argomenti di arte contemporanea: una novità assoluta.37 Nell’estate del 1911 Fritz aveva concluso il primo ciclo di lezioni dedicate agli Indirizzi artistici più recenti a Parigi e nelle capitali tedesche dell’arte, presente un’ottantina di studenti. All’età di 34 anni si cimentava publice con la lettura dei fenomeni legati alla modernità. Ricorda Clara: «mi pareva, come se avesse trovato se stesso. Ci era proprio tagliato. Queste lezioni erano capaci di coinvolgere me, come anche altri, molto molto di più di quanto si era visto fino a quel momento».38 Ma questo “Mago”, questa sorta di Zarathustra (così un suo ascoltatore di allora), che trascinava a sé con magnetismo l’uditorio e «annunciava le sue idee con la passione e l’entusiasmo di un apostolo»,39 avvertiva talora fremiti d’irrequietudine, se non di vera e propria insofferenza rispetto all’ambiente accademico, cui peraltro ambiva. 60 Capitolo 4 È del 7 marzo 1909 una eloquente corrispondenza col suocero, in cui Burger si sofferma – facendo nomi e cognomi – su vicissitudini legate alla vita dell’Istituto e a posizioni “di bandiera” ben riconoscibili. Analoga impressione (soltanto più apprensiva) traluce da alcune lettere coeve che Clara indirizza ai genitori. Lasciamo le questioni e gli imbarazzi che inevitabilmente turbano anche la comunità scientifica, pur sempre consorzio di persone, e recuperiamo proficuamente qualche altra testimonianza circa la propensione incontestabile di Fritz Burger alla didattica, non meno che alla ricerca; a parere di chi scrive, anzi, più feconda.40 Un allievo austriaco, divenuto poi scrittore, coglie l’occasione di una conferenza tenuta dalla figlia Lili nel 1944, per rinverdire vecchi, ma palpitanti ricordi del carisma burgeriano: «Vedo ancora molto vividamente quell’uomo grande, slanciato, dagli occhi chiari con il viso fresco della gioventù e il profilo marcato, mentre saliva in tutta fretta la scalinata della Alte Pinakothek avvolto nel suo mantello svolazzante. Lui, sovraccarico di lavoro, lui così brillante, era proprio sempre di fretta. La sua vita terrena è stata troppo breve rispetto alla pienezza del suo spirito traboccante. Le sue visite guidate alla Pinacoteca sono rimaste per me qualcosa di indimenticabile! Quella era vita, era il comprendere e il destare alla comprensione, era critica e insieme corrispondere affermativamente a una domanda, appagato e appagante!».41 Come non riconoscere che, di fatto, ci troviamo di fronte a una delle sintesi più pregnanti del suo magistero? Quanto diceva a lezione il libero docente Burger destò la passione di futuri storici dell’arte. Non minore impatto sortivano le sue spiegazioni durante le avventurose escursioni nei ripetuti viaggi di studio all’estero, tutti taccuino alla mano, come soleva fare lo Studioso sin dai tempi del trasferimento per le nozze a Londra.42 Altri appunti e schizzi risalgono ai soggiorni veneziani, come si evince dagli autori e dalle opere ivi velocemente abbozzate. Kurt Badt, che scelse di frequentarne i corsi tra il 1910 e il 1911, riconobbe nel suo magistero un alcunché di autentico, e così ne riferisce da studioso maturo, in una memoria affidata alla stampa:43 «Già allora gli appariva chiaro, che una Kunstwissenschaft, che portasse esclusivamente a vuoti “Stilbegriffe” [concetti relativi allo stile] e che attraverso una ricerca mossa nel più ampio raggio facesse dei fattori La formazione e gli studi fino al 1909 61 storici la questione principale, senza condurre dappresso allo specifico dell’opera d’arte, fa correre il rischio di staccarsi dalla vita spirituale». Kurt Badt divenne cognato del giovanissimo Rudolph Arnheim – futuro padre della Gestaltungspsychologie,44 che aiutò in misura notevole a riconoscere la propria vocazione. Nelle sue memorie, infatti, questi ricorda: «As a child he [Kurt Badt] already showed me works of art… took me to the museum and taught me fundamental ideas of the art, which never left me».45 Più d’uno degli allievi di Burger ha approfondito, sebbene a titolo diverso, gli spunti di cui il Monacense costellava gli incontri settimanali e i seminari. È il caso di Ludwig Hirschfeld-Mack, pittore e grafico, poi alla “scuola” del Bauhaus e, con lui, di Walter Dexel, che fu per certo fra gli allievi che nel 1912, e poi nel 1913, accompagnarono Burger a Firenze e che proprio in quell’anno cominciava ad applicarsi alla pittura;46 proprio lui sarà direttore del Bauhaus a Potsdam e curatore di ristampe burgeriane; Maid Merz, futura psichiatra di successo;47 fra gli storici dell’arte – che ovviamente non mancano alle sue performances – Robert Hedicke, Albert E. Brinckmann, di cui si è parlato e si dirà in più occorenze. C’era anche l’intraprendente Gustav Hartlaub, chiamato a collaborare – fresco di laurea – con la Kunsthalle di Mannheim, subentrando poi nel 1923 come direttore. Aveva frattanto pubblicato un libro che fece molto parlare di sé: Il genio nel bambino (Der Genius im Kinde, Breslau 1922), precedente importante di molti percorsi a esplorare i concetti di «spontaneità» e «originalità» nell’arte, prontamente accolto dal plauso di ambienti pedagogici vicino alle scuole waldorfiane di ispirazione steineriana. Hartlaub non fu meno trainante sul fronte dell’attenzione verso nuove tendenze dell’Espressionismo. Al suo acume critico si deve l’espressione «Neue Sachlichkeit», ovvero Nuova Oggettività, per definire una pittura come quella di Max Beckmann, Otto Dix, Georg Grosz, e di altri artisti che – sferzanti – misero all’indice in modo espressivamente crudo l’abbruttimento dello stile di vita della Repubblica di Weimar. Egli fece di tutto, tra mille ostacoli e i contrasti con le forze più retrive delle amministrazioni locali, per far conoscere gli esiti dell’Espressionismo anche in aree e contesti provinciali, fino a quando gli riuscì di inaugurare – il 14 giugno 1925 – l’evento espositivo (ma non soltanto artistico!), della Neue Sachlichkeit. La sua Kunsthalle mise con ciò 62 Capitolo 4 una pietra miliare nell’orizzonte dei fenomeni intercettati dalla cultura artistica a cavallo delle due guerre e, insieme, pose le basi per una dimensione sovraregionale per la diffusione delle nuove conoscenze.48 Fra coloro i quali, dopo gli anni delle lezioni monacensi, troveranno la loro strada nell’ispirazione letteraria, ricordiamo lo scrittore austriaco Fritz List, il pubblicista e saggista Hermann Buddensieg, Oskar Lang, Benno Reifenberg, Norbert von Hellingrath; quest’ultimo era un giovane e sfortunato germanista (anche lui morirà a Verdun, il 14 dicembre 1916), che nel 1910, grazie al rinvenimento delle traduzioni di Pindaro realizzate da Hölderlin, pose le basi per la riscoperta dell’opera tarda del genio di Tubinga, provocando una svolta epocale nella fortuna hölderliniana, cui sono legati i nomi di letterati quali Stefan George e la sua cerchia, Rainer Maria Rilke e alcuni espressionisti. FRITZ BURGER, TACCUINO LONDINESE La formazione e gli studi fino al 1909 DA UN TACCUINO DI FRITZ BURGER, VIAGGIO DI STUDIO IN ITALIA 63 64 Capitolo 4 N OTE 1 Alla Ruprecht-Karls-Universität di Heidelberg Fritz s’iscrive nel secondo semestre del 1900, con l’intenzione dichiarata di dedicarsi allo studio della storia dell’arte. Fin dalle prime prove spicca per la vivace intelligenza e l’acume critico, che gli fa ottenere una medaglia d’oro messa in palio dalla Facoltà di Filosofia. Conclude positivamente i suoi studi con l’esame orale nel semestre estivo del 1903. Suoi professori furono: Otto Cartellieri (storia), Bernhard Erdmannsdörfer (storia), Kuno Fischer (storia della filosofia), Henry K. Marks (storia), Carl Neumann (storia dell’arte), Albert E. Schaefer (letteratura tedesca), Karl Vossler (filologia romanza), Henry Thode (storia dell’arte) e Friedrich von Duhn (archeologia). Oltre all’indubbia importanza degli studi storico-artistici, come si evidenzierà, non va sottovalutato il peso del magistero di uno dei maître à penser sul crinale del secolo: l’eredità di Kuno Fischer è variamente tangibile nei percorsi mentali del Nostro. Negli anni in cui Fritz frequenta le lezioni di storia della filosofia (che spesso lambiscono altri ambiti, quali l’estetica e la storia della letteratura), Fischer si occupa di Diotima, del Faust di Goethe, di Schiller come filosofo, e del suo Hegel, che cerca di coniugare – non senza originalità – con la dottrina kantiana. Echi profondi di questo orizzonte di pensiero vibrano continuamente nelle successive produzioni burgeriane. 2 Henry Thode sposa Daniela Senta von Bülow, figlia di primo letto di Cosima Liszt unitasi in seconde nozze con Richard Wagner. Anche il Nostro vanta legami notabili, giacché la bisnonna ebbe un figlio naturale da Luigi I di Baviera. La somiglianza fra Fritz Burger e il nipote del sovrano – Luigi II, a sua volta amante viscerale dell’opera wagneriana – se si confrontano alcune foto dell’adolescenza, appare punto impressionante. 3 Carl Neuman, Über den Zusammenhang von Wissenschaft und Leben, in Die Kunstwissenschaft der Gegenwart in Selbstdarstellungen, a cura di Johannes Jahn, Leipzig: Meiner, 1924, pp. 33-76. 4 Valga il ricordo di un invito a corte, di cui von Duhn scrive nel dettaglio a Clara e Fritz, in data 27 luglio 1913. Carte Burger, Heidelberg. A lui l’Università di Heidelberg ha dedicato nel 1986 una esposizione commemorativa, in cui furono messi in luce in particolare i numerosi contributi di sistemazione degli studi sull’arte peninsulare preromana. Nello stesso anno, in un contesto di ragioni che andrebbe indagato e riportato alla luce, anche il Museo cittadino dedicò uno spazio espositivo al genero Fritz Burger. 5 Il matrimonio verrà celebrato in sordina a Londra il 4 dicembre 1902. Si conserva il documento ufficiale, Carte Burger, Heidelberg. 6 Guardando la registrazione dei corsi seguiti da Burger ci si accorge che un’altra passione, che lo accompagna nella sua breve esistenza, in qualche misura fu alimentata da Thode. Si tratta dello studio dell’opera di Wagner, di cui sarà un estimatore e membro sostenitore dell’Associazione musicofila e culturale a lui intitolata in Heidelberg. Ciò detto, va pur riconosciuto che di fronte all’impianto argomentativo che impalcherà negli anni monacensi per difendere la sua proposta critico-metodologica, non esiterà ad attaccare lo stesso Wagner, relativamente a certe indulgenze al gusto La formazione e gli studi fino al 1909 65 per una stordente meraviglia di cui la sua produzione sarebbe promotrice. Su questo cfr. Fritz Burger, Cézanne und Hodler. Einführung in die Probleme der Malerei der Gegenwart, München: Delphin, 1913, pp. 184-186. 7 Del legame stretto che sussisteva fra i due all’epoca ci dice fra l’altro una lettera che Henry Thode invia all’allievo, che si trovava in viaggio di nozze/studio in Inghilterra, in data 2 gennaio 1903, in cui il Cattedratico allude ai grandi vantaggi che verranno a Burger dal suo soggiorno londinese (stava studiando i disegni di Michelangelo conservati al British Museum e più in generale l’arte del Rinascimento italiano); rende quindi conto della sua attività e dei corsi che sta tenendo, dando anche informazioni sugli sviluppi di ricerche in corso presso l’Istituto, fino a qualche cenno sugli eventi della locale Associazione wagneriana, di cui i due erano membri. Interessanti sono le informazioni sul secondo volume del suo Michelangelo, il cui manoscritto definitivo Thode spera di poter consegnare alla casa editrice entro il marzo 1903. Carte Burger, Heidelberg. Questo documento risulta essere una copia, fatta pervenire alla famiglia Burger in occasione del centenario della nascita di Thode (1956). Altro elemento a suffragio del saldo legame fra le rispettive famiglie è la reiterata presenza di foto di Henry Thode nell’album dei Burger. Lascito Burger, Heidelberg. 8 Vd. Anna Maria Szylin, Henry Thode (1857-1920). Leben und Werk, Frankfurt [u.a.]: Peter Lang, 1993, pp.191-236. 9 Carl Justi, Michelangelo. Beiträge zur Erklärung der Werke und des Menschen, Leipzig 1900. 10 La querelle aveva già incontrato momenti di particolare impegno, da Springer a Grimm, da Burckhardt a Bode. Vd. in proposito Max Seidel, «Nur künstlerische Gedanken». Die Bedeutung Michelangelos in Jacob Burckhardts Kunst der Renaissance, in Jacob Burckhardt. Storia della cultura, storia dell’arte, [Convegno del Kunsthistorisches Institut in Florenz, Max-Plack-Institut Firenze, 25-27 ottobre 1999], a cura di Maurizio Ghelardi e Max Seidel, Venezia: Marsilio Editori, 2002, pp. 63-98, qui pp. 80 sgg. 11 Dai documenti in nostro possesso e dai riscontri indiretti si può stabilire il periodo di massima in cui i rapporti fra Burger e Thode si guastarono, grosso modo tra il 1904 e il 1906. Da una certa data imprecisabile del 1907 si manifesta un recupero del contatto e del reciproco rispetto, come attestato da certi passi delle lettere di Burger al suocero. 12 Thode suddivise la storia della tomba in quattro fasi, sulla scorta dei cinque contratti di committenza noti, delle lettere e di una serie di altri documenti, la maggior parte dei quali ragionati già in Justi e in Burger. Studiò approfonditamente soprattutto la seconda redazione, impegnandosi in una lettura iconologica che è assimilabile a quella burgeriana, con ciò accreditandola. Cfr. Henry Thode, Michelangelo Kritische Untersuchungen über seine Werke, I, Berlin: Grote, 1908, pp. 125-230. 13 Fritz Burger, Geschichte des florentinischen Grabmals von den ältesten Zeiten bis Michelangelo, Straßburg: Heitz, 1904, pp. 313-344. 14 Come farà, del resto, anche per la Rotonda palladiana e altre fabbriche. 66 Capitolo 4 15 Burger, Geschichte, cit, pp. 342 sg. Sebbene, a leggere quanto ricorda Clara nel suo Diario segreto del 1921, parrebbe che il giovane ricercatore non fosse pienamente soddisfatto della sua stesura. Cfr. Clara Burger- Tagebuch, Carte Burger, Heidelberg. 17 Per un inquadramento del contesto vd. Storia dell’arte e politica culturale intorno al 1900. La fondazione dell’Istituto Germanico di Storia dell'Arte di Firenze, Atti del Convegno internazionale di Studi (Kunsthistorisches Institut Florenz, 21-24 maggio 1997), a cura di Max Seidel, con red. Martina Hansmann con la collaborazione di Irmgard Siede, Venezia: Marsilio, 1999. Riguardo alle vicende e alle personalità che al tempo ruotavano intorno a questa istituzione, fondamentale è la disamina di Hans Hubert, L’Istituto Germanico di Storia dell’Arte di Firenze. Cent’anni di storia (1897 - 1997), Firenze: Il Ventilabro, 1997. 18 Come si legge in una corrispondenza di Clara da Firenze del 25 ottobre 1905, Carte Burger, Heidelberg. In questa stessa vi è una lettura molto interessante della cosiddetta Primavera di Botticelli e dell’ambiente culturale mediceo, su cui Clara era stata provocata dal marito in una precedente missiva. 19 Clara Burger, lettera alla madre da Firenze, 2 aprile 1906, Carte Burger, Heidelberg. 20 Oltre a quanto trapela dalle corrispondenze epistolari, segnatamente quelle fra i Burger e i von Duhn, ci soccorre per questo anche il Diario segreto di Clara, che è attualmente in possesso del nipote Bert, che ringrazio per la fiducia accordatami. 21 La famiglia Burger andò incontro a un tracollo finanziario perché Fritz si era impegnato a sponsorizzare le ricerche di un amico fisico che collaborava con la Marina imperiale per esperimenti su materiali bellici. Al fallimento di quanto era stato brevettato con grandi speranze di futuri guadagni, il fisico si suicidò e il Nostro si trovò di fronte alle conseguenze del caso. Memoria di Lili Fehrle-Burger, Carte Burger, Heidelberg. 22 Una nota della figlia Lili ci informa brevemente sull’accaduto, e sulla reazione decorosa di Clara, che senza indugio, pur a malincuore, propose il trasferimento in un appartamento più modesto e inoltre si rese disponibile a dare lezioni private di inglese, fino a quando il marito non avesse coronato con successo la sua carriera accademica. Fu anche in virtù di questa risoluta risposta, almeno così si legge, se Fritz potè disporre per un ritorno a Venezia di lì a qualche mese. 23 Lettera da Venezia, 12 (?) 1908, Carte Burger, Heidelberg. 24 Edwin Kuntz, Fritz Burger – Produktiver Enthusiast, in «Rheinische Neue Zeitung», 10 settembre 1977, pagina della cultura. 25 Clara Burger-von Duhn, lettera al padre, 3 novembre 1907. Carte Burger, Heidelberg. 26 Da una corrispondenza di Fritz alla moglie, non datata, Carte Burger, Heidelberg (trascrizione Kessler). 27 In una cartolina postale, scritta da Heidelberg l’indomani della lezione inaugurale di Burger (5.12.1906), il suocero produce una serie di riflessioni in merito, dettate dalla lunga esperienza accademica. Si complimenta peraltro, ritenendo assai 16 La formazione e gli studi fino al 1909 67 lusinghiero che più studenti si siano già iscritti alle esercitazioni del neodocente. Von Duhn sente quindi anche l’urgenza di avvertire l’esuberante giovane Studioso, di non «volare troppo alto» con le sue esposizioni, almeno fino a quando non avrà saggiato il polso dell’uditorio. Carte Burger, Heidelberg. 28 Lettera congiunta di Clara e Fritz ai genitori, Monaco 5 dicembre 1906, Carte Burger, Heidelberg. 29 Lettera manoscritta di Clara a Fritz, in viaggio nel Veneto, non datata (ma riferibile al 1908), Carte Burger, Heidelberg. 30 In quest’ottica vd. Nikolaus Meier, Der Mann mit der Mappe. Jacob Burckhardt und die Reproduktionsphotographie, in Jacob Burckhardt, cit., pp. 259-297, ma specialmente pp. 274 sgg. 31 In una lettera non datata (ma riferibile alla primavera 1912), Clara descrive alla madre il considerevole aiuto dato da Wölfflin alla causa del Praktikum, tanto da farsi carico della spesa per diapositive di 500 marchi. Carte Burger, Heidelberg. 32 L’allusione alla regione di provenienza può sottintendere una captatio benevolentiae, visto che Friedrich von Duhn proveniva da Lubecca. Gli studenti qui menzionati erano stati precedentemente a lezione a Berlino, dove insegnavano i due acclarati storici dell’arte. 33 Fritz Burger, lettera a Friedrich von Duhn, Monaco 26 giugno 1907, pp.1-3, Carte Burger, Heidelberg. 34 Cfr. Clara Burger, Diario (1921), Carte Burger, Heidelberg (trascrizione Bert Burger), foglio 7. 35 Ivi. 36 Cit. da Fritz Burger, lettera a Friederich von Duhn, 10 febbraio 1908, p. 3, Carte Burger, Heidelberg. 37 Per ricavare un’idea circostanziata degli ambiti cronologici cui solitamente si accordava attenzione nell’insegnamento monacense, si possono passare in rassegna i titoli delle dissertazioni dottorali assegnate negli anni tra il 1900 e lo scoppio della guerra. Cfr. Rolf Hauck, Fritz Burger (1877-1916). Kunsthistoriker und Wegbereiter der Moderne am Beginn des 20. Jahrhundert, Phil. Diss., LMU, München 2005, p. 56. I dati sono disponibili anche in rete presso il sito dell’Istituto di Storia dell’arte dell’Università di Monaco. 38 Cfr. Clara Burger, Diario (1921), Carte Burger, Heidelberg (trascrizione Bert Burger), foglio 10. 39 Cit. da A.L.M. [August L. Mayer], Fritz Burger †, in «Kunstchronik» N.F. XXVII, 36, 2 giugno 1916, p. 1. 40 Cfr. Fritz Burger, articolo del Berliner Tageblatt, 31 maggio 1916, qui tradotto da Nicola Curcio in appendice. 41 Cit. dalla lettera di Fritz List a Lili Fehrle-Burger, da Graz, 19 novembre 1944. Carte Burger, Heidelberg (corsivi nell’originale). 42 Clara Burger descrive nel suo Diario, un tantino infastidita, come passava le sue giornate Fritz, neosposo e a breve papà, mentre lei tutelava con prudente tranquillità la vita che aveva in grembo. Si arrovellava sul c.d. Maestro della Vita di 68 Capitolo 4 Maria, un argomento su cui all’epoca insisteva l’attenzione di Thode, e s’impegnava a capofitto fra i musei e le visite ai monumenti, schizzando su taccuini “alla Chatwin” – che ho potuto riunire – le impressioni di quei giorni e nuovi problemi su cui ragionare. Cfr. lascito Burger, Heidelberg. 43 Kurt Badt zu seinem 70. Geburtstag, in «Frankfurter Allgemeine Zeitung», 2 marzo 1960. Carte Burger, Heidelberg; cfr. anche Zeitschriften-Archiv des Germanischen Nationalmuseums Nürnberg, ad vocem. Più in generale, sulle presenze a lezione, vd. anche Rolf Hauck, Fritz, cit., pp. 203-206. 44 Qui valga la introduzione di Gillo Dorfles al “classico” Rudolf Arnheim, Arte e percezione visiva, Milano: Feltrinelli, 200519; da ultimo, Rudolf Arnheim. Arte e percezione visiva, atti dell’omonimo Seminario promosso dal Centro Internazionale di Studi di Estetica e Università degli Studi di Palermo, a cura di Lucia Pizzo Russo (Palermo, 19-20 novembre 2004), Palermo: Aesthetica edizioni, 2005. 45 Cit. da Helmuth H. Diederichs, The Soul Of The Silver Layer. (1997), 21 settembre 2002 (s.l.). 46 In questo caso riscontri sono pure nel lascito Dexel e in memorie da questo artista pubblicate. Valga per tutti il curriculum vitae, in due versioni successive, contenuto in Hommage à Dexel (1890-1973). Beiträge zum 90. Geburtstag des Künstlers, a cura di Walter Vitt, Stanberg: Keller, 1980, pp. 165 sg. 47 Nelle Carte Burger vi sono alcune sue lettere alla famiglia Burger, scritte dopo la guerra, che potrebbero costituire ora, alla luce di quanto fino a oggi è emerso, ulteriore motivo d’indagine. 48 Dopo Mannheim la mostra venne riallestita da colleghi di Hartlaub, persuasi della validità del progetto culturale, dapprima a Dresda e Chemnitz, poi a Erfurt, Halle e Dessau, e finalmente a Breslavia e Stettino. 5. LE VILLE DI ANDREA PALLADIO: LA SVOLTA LETTERA DA V ERONA (1908) «Per stimare rettamente l’importanza delle opere» – scriveva Burger nel suo volume sulle ville di Andrea Palladio – «bisogna guardarsi dal definirle ricorrendo alla comune nozione di classicismo. Si è sempre soliti negare che il “classicista” possieda un cuore capace di sentire; ma la maturazione artistica di quest’uomo insegna che anch’egli fu un lottatore sul terreno dell’arte».1 Appresso, a ribadire esplicitamente il suo peculiare approccio al genio veneto, scrive che «la produzione palladiana è invece una lotta nel campo dell’arte; dietro tutta la sua classicità si cela una vita individuale, le cui radici, saldamente barbicate al suolo, si sono sviluppate e hanno fruttato per secoli».2 Ciò che per anni il Monacense aveva nutrito nell’intimo esce ora allo scoperto. Si tratta di un approccio risolutamente soggettivo – lungi però dall’essere personalistico – al peculiare linguaggio dell’arte palladiana. Nel capitolo conclusivo del saggio monografico uscito a stampa nel 1909 egli afferma: «L’evoluzione di Palladio come architetto di ville dimostra che in architettura la volontà artistica non si estrinseca solo nella creazione di forme (perché questa è pressoché sterile), bensì in essa gioca un ruolo determinante la visione (veneziana) dello spazio e del corpo, che possono esprimersi solo con una nota di carattere personale. Anche come rivoluzionario, Palladio rimase comunque un Veneziano. La sua campagna contro il linguaggio formale incomprensibile è ben più che un aspetto secondario della sua opera. Già all’inizio abbiamo osservato che il contributo artistico positivo di Palladio è stato al tempo stesso anche una negazione di quell’arte decorativa “pittoresca” e spesso filistea tipica del Rinascimento nell’alta Italia. Pertanto qui siamo di fronte al processo inverso rispetto a Roma. Dal “pittore- 69 70 Capitolo 5 sco” si passa al “rigoroso”. I pensieri mediocri scompaiono e il pathos elevato dell’orgogliosa borghesia cosmopolita trova la sua espressione anche in architettura».3 Le riflessioni riportate evidenziano alcuni tratti caratterizzanti il percorso di studio burgeriano. Anzitutto, appare chiaro come non si debbano accettare dogmi,4 nemmeno quando l’indagine verte su un Maestro indiscusso del Rinascimento.5 E non si creda che il moto di ribellione sia dettato da una personale vocazione libertaria, se è vero – come provano le lettere dei ripetuti soggiorni in Veneto per la preparazione del volume – che il Nostro non manca di verificare misure, segnalare discrepanze, visitare archivi pubblici e privati, nel tentativo di restituire appieno l’esperienza palladiana e del contesto in cui essa figliò. Piuttosto, ne va della perenne lotta fra teoria e pratica dell’arte, quella stessa che caratterizza l’intero processo evolutivo della posizione critica burgeriana, come si è visto altrove. Il fatto è che proprio con l’ostinato lavoro su Palladio, non privo di tutta una serie di difficoltà, anche famigliari, quando non di veri e propri momenti di sconforto e di pena,6 il Monacense rompe gli indugi e alza il tono della polemica nei confronti di certa accademia, qui rivolto a quella che recentemente Lionello Puppi ha definito la «dittatura neoclassica su Palladio».7 Non nasce d’un fiato, per irruenza creativa, il suo Palladio. Anzi, a saper leggere le carte d’archivio si può perfino ridefinire questa ricerca come una sorta di pars pro toto, nel senso che il Nostro aveva dapprima individuato la sfida di un impegno sull’intero orizzonte della cultura artistica veneta di età rinascimentale.8 Ma il suocero, messo al corrente del progetto, gli fornisce parecchi elementi su cui riflettere, primo dei quali l’ineludibile confronto con Thode, che da tempo stava accumulando materiali allo scopo. Non era forse per questo, appunta von Duhn, che il collega andava da anni in trasferta estiva sul Lago di Garda,9 per essere così vicino alle mete delle sue indagini? Non era per caso, si aggiunga, che nel corso del 1907 Thode aveva proposto una serie di conferenze sul Rinascimento veneziano e poi, se non fosse stato per il virage d’interesse dell’editore su Michelangelo – che uscirà con un lavoro poderoso in cinque tomi fino al 1912 –,10 egli intendeva promuovere un’opera di ampio respiro su temi e problemi del Rinascimento veneto.11 Ecco come si spiega, allora, l’affermazione iniziale della Prefazione al libro sulle ville: «Ad avvicinarmi a Pal- Le Ville di Andrea Palladio: la svolta 71 ladio è stato il desiderio di approfondire l’essenza e la storia dell’arte e della cultura a Venezia».12 Fra le righe, egli non si nasconde che per un certo tempo l’aveva ritenuto un ripiego, ancorché degno di attenzione. Ma, una volta finita l’avventurosa fatica, «dalla sua arte ho ricevuto più di quanto mi aspettassi».13 A dire il vero, già se n’era reso conto lucidamente, se durante il primo dei due soggioni a Vicenza rivela alla moglie: «Per quanto mi riguarda Ti posso riferire tutte cose eccellenti. Il mio lavoro su Palladio sarà quanto di più fondamentale fra tutto quello che finora ho scritto».14 Quello che era sembrato un ridimensionamento del progetto iniziale, finisce in realtà per esserne il coronamento: Palladio apparirà infatti a Burger come l’incarnazione stessa della cultura veneziana e della sua essenza, rendendo allo studioso assai più di quanto non potesse attendersi da una ricerca specialistica di storia dell’architettura: e cioè una risposta agli interrogativi con cui si era accostato alla storia dell’arte e alla cultura di Venezia. Dal primo incarico monacense come libero docente – nell’autunno del 1906 – fino al decisivo 1913, quando Burger si vota audacemente al contemporaneo, sembra quasi che il giovane docente si confronti in ogni semestre, ancorché a distanza e talora in modo poco appariscente, con le posizioni del suo Maestro. Non manca mai, infatti, un corso o un seminario su Michelangelo, oppure sulla cultura artistica veneta del Rinascimento. In un caso anzi, proprio nell’anno di edizione de Le ville di Andrea Palladio, Burger non lascia dubbi al riguardo, visto che il titolo di uno dei suoi corsi recita: Michelangelo und das Ende der Renaissance, esattamente come suona la referenza thodiana. E tuttavia, resosi conto dell’imbattibile auctoritas del suo primo mentore, con cui peraltro v’era pur stato un periodo di insofferenza reciproca se non addirittura di grave impasse relazionale, come detto,15 il libero docente Burger seppe cogliere un motivo distintivo del Rinascimento veneto, su cui ancora v’era buon margine per portare un contributo originale (e di questo ben se ne avvide anche Thode) 16: si trattava di studiare da vicino il tessuto storico, culturale e sociale, su cui s’innestò e con il quale dialogò il genio palladiano. Ma ad una condizione, che doveva essere irrinunciabile. Accostarsi a Palladio senza l’inibente ottica del dogma! 72 Capitolo 5 DISEGNO DA F. BURGER, LE VILLE DI ANDREA PALLADIO (1909) Solo in virtù di un approccio impregiudicato egli fu in grado, ad esempio, di avvertire – con molto anticipo su quanto soltanto da pochi anni si sta focalizzando nella comunità scientifica (a parte qualche illuminata eccezione)17 – che l’opera dell’architetto doveva essere riguardata nella prospettiva del rapporto con l’ambiente circostante, con la mentalità da esso plasmata, con la realtà ineludibile del giardino. Ed è un vero peccato, fra l’altro, che molte delle fotografie da lui scattate per la illustrazione del volume siano andate perdute. Si può sottolineare il fatto che ancora oggi, nel contesto di un acceso dibattito sulla Le Ville di Andrea Palladio: la svolta 73 conservazione e sul vincolo di certi monumenti, quali appunto le ville palladiane, le riproduzioni presentate nel libro di Burger sono servite a supportare efficacemente la posizione di quanti hanno a cuore non soltanto il manufatto in sé, sia pure di indiscussa qualità, ma non di meno il con-testo in cui siffatto progetto ha avuto concreto sviluppo.18 Questo studio sulle ville palladiane è originale per più ragioni. In primo luogo, Palladio è considerato come un tipico esponente dell’arte veneta – anzi Burger insiste sull’aggettivo venetianisch, veneziano – di cui riconosce lo spirito nella «curiosa mescolanza di ardente sensibilità e sobria recezione delle cose»,19 e in quell’affaristico ingegno, che spinge Burger a osservare: «nella sua villa il Veneziano non vuole soltanto godersi la vita, vuole anche guadagnare. Di qui la scelta di creare una combinazione di orto e giardino ornamentale, che corrisponde interamente alla congiunzione architettonica di edifici di servizio e di rappresentanza. I grandi orti vengono occultati da viali che corrono lungo gli assi principali della costruzione, sia davanti che dietro, e che suggeriscono l’impressione di un quieto boschetto, attraverso il quale una via conduce alla casa, in festosa linea retta, come verso la dimora di una divinità».20 A Venezia, secondo Burger, «manca totalmente l’alta scuola di una tradizione edilizia, derivata dalla rigorosa disciplina della logica costruttiva, che a Roma e Firenze faceva giungere a maturazione l’istinto artistico per le proporzioni e il ritmo formale. […] L’arte veneziana ha avvertito pesantemente la mancanza di questa tradizione, e lo stesso Tiziano dovette cimentarsi a lungo e con fatica per giungere a capire la funzione dello spazio e della forma con la stessa chiarezza con cui coglieva il ruolo del colore, e per conseguire quella sicurezza nella suddivisione delle masse che invece l’artista fiorentino possedeva sin dalla culla come un’ovvia disposizione ereditaria».21 Proprio qui l’Autore ravvisa l’originalità e il merito di Palladio, nell’essere stato «muto interprete della cultura», a partire dalla quale ha saputo creare un linguaggio espressivo nuovo, legato all’antico, e capace di offrire lo scenario adatto in cui il patrizio veneziano potesse apparire come un dio che abita in un tempio sfarzoso, disegnato con lucida e sobria disciplina. Vengono in mente le parole con cui Hofmannsthal rievocava, appena qualche anno prima, la Rotonda: «Non è casa, non è tempio, ed è l’una e l’altra insieme. […] Per una tale gioia sembra edifica- 74 Capitolo 5 ta questa casa, come non fosse edificata per uomini mortali, ma per gli dei».22 Palladio non si limita però a soddisfare le esigenze della sua committenza. «La produzione palladiana» – si ribadisce con Burger – «è una lotta nel campo dell’arte; dietro tutta la sua classicità si cela una vita individuale».23 Il metodo con cui l’Autore affronta l’esposizione delle singole opere palladiane segue uno schema fisso: illustra il sito e le notizie storiche su di esso, ripercorre la storia della famiglia e della figura del committente, ipotizza ove necessario la possibile datazione, basandosi su considerazioni stilistiche, sulla maturità del progetto. Procede quindi alla descrizione tecnica della pianta e dell’alzato, poi alla discussione sulle fasi costruttive e sui successivi interventi, sino all’attualità. E la sistematicità di fondo nell’indagine sull’experiri architettonico palladiano affiora oggi anche da alcune lettere, finora inedite.24 Si viene messi al corrente, fra l’altro, dell’irriducibile sete di conoscenza del Nostro, se è vero che laddove non arriva un mezzo pubblico (solitamente il treno), arrivano le sue pedalate con bici di fortuna, fino a percorrere oltre cento chilometri in una sola giornata.25 Si apprende inoltre che porta con sé la sua inseparabile macchina fotografica, non badando a spese, quando si tratta di immortalare lo status quo anche di un degrado dei siti perlustrati: «Ho trovato edifici in uno stato decisamente penoso». Orgogliosamente riferisce alla moglie delle ore di lavoro accumulate, anche di sera, delle località visitate, dei materiali acquistati, nel mentre, per contro, cerca di contenere al massimo le spese di vitto e alloggio, consapevole di dipendere per molta parte dalla generosità del suocero, solidale al progetto tanto da esserne anche sponsor, oltre che depositario di alcuni acuti di malinconia e di intima lacerazione affettiva.26 L’aiuto di von Duhn e della famiglia non si ferma all’aspetto economico, che pure è fondamentale per condurre a buon fine l’indagine sulle ville. Sulla fitta trama di informazioni che tragittano da Heidelberg al Veneto nelle settimane in cui Fritz si sposta da una località all’altra sulle tracce di Palladio ci soccorre un altro passaggio epistolare: «Ancora molte grazie, Claretta, per il Tuo lavoro su [Bertotti-] Scamozzi, che mi giunge proprio a fagiolo, e mi fa risparmiare tempo prezioso sulle ville di Scamozzi e Palladio. Tuttavia, mi ha fatto sorridere la Tua idea, o per meglio dire quella di papà [il Le Ville di Andrea Palladio: la svolta 75 suocero], che il mio lavoro fosse già stato fatto da [Bertotti-] Scamozzi. Non sono così superficiale! […] Al momento però è ancora più importante il Magrini: Palladio 1848. Per favore, prova a controllare se c’è in biblioteca a Heidelberg».27 LETTERA DA VICENZA, 14 OTTOBRE 1907 Ancora una indicazione assai preziosa proviene dalla suddetta lettera vicentina, in cui, a giustificazione dell’obiezione mossagli dalla famiglia sul senso della sua ricerca sulle ville, Fritz osserva che «[Ber- 76 Capitolo 5 totti-] Scamozzi riporta, se andiamo a vedere al fondo, né più né meno quello che già dice Palladio, per cui si tratta di una ricostruzione dell’idea palladiana!28 – Per quanto mi riguarda, invece, si tratta di questo: 1) Che cosa è stato realizzato della idea di Palladio? 2) Fino a che punto i suoi successori si sono attenuti all’idea di Palladio nella prosecuzione del libro? 3) Che cosa è dato vedere ai giorni nostri? 4) Storia dell’esistente. È assolutamente incredibile, che sino a oggi questo importante lavoro di ricognizione non sia ancora stato affrontato…».29 Si può quindi seguire, in modo piuttosto puntuale, l’incremento della bibliografia palladiana oraganizzata dal Monacense a partire dalla corrispondenza con la famiglia e perfino registrare quali testi egli poté consultare in loco – fra Verona, Vicenza e Venezia – e di quali invece chiedeva lumi alla moglie e, per suo tramite, al suocero che, come direttore dell’Istituto di Archeologia classica (cui afferivano anche gli insegnamenti di Storia dell’arte voluti dallo stesso), era naturalmente nelle migliori condizioni per aiutare Fritz nella ricerca bibliografica. Vi sono luoghi nel suo libro, dove Burger eleva il tono e si spinge ad abbozzare un’ermeneutica del palladianesimo, che penetra la natura stessa dell’operare del grande architetto. Il risultato di tale disamina è insieme geniale, irriverente e paradossale. Si legge: «Le ville palladiane sono diventate un prodotto tipico della sua terra, preziose vestigia di quel regno delle meraviglie che fu il Rinascimento veneziano, sparse per la regione come tante perle sfavillanti. Ma esse furono disegnate solo ed esclusivamente per soddisfare le esigenze di sfarzo dei Veneziani e appaiono oggi assolutamente inabitabili e scomode. Laddove non sono arrivate le ristrutturazioni a frammentare gli antichi sontuosi saloni, e ad abbassarne i soffitti, sono arrivati la civetta e il pipistrello ad annidarsi sotto le volte cadenti, mentre a terra il baco da seta svolge il suo paziente lavoro per conto del proprietario, che intanto, comodamente seduto nei lontani e confortevoli locali di un grande Le Ville di Andrea Palladio: la svolta 77 agglomerato urbano, si gode il frutto della sua proprietà».30 Da un lato troviamo qui espressa apertis verbis una lucida, acuta sensibilità nei confronti del tema della conservazione del bene culturale; dall’altro lato, «si coglie quanto poco vi fosse, in realtà, in quest’arte, di quel puritanesimo che gli Inglesi cercavano di scorgervi».31 Maestro Andrea anticipa anzi, secondo Burger, problemi e soluzioni che troveranno il loro naturale esito nel rococò: «Chi vede in Palladio solo il rappresentante dell’accademismo, scorgerà naturalmente nel rococò soltanto la più forte opposizione a quello. Non si può analizzare uno stile solo attraverso la caratterizzazione delle singole sue forme. Il rapporto della parete spazializzante con la forma decorativa, la funzione corporea del muro nelle facciate e le relazioni che l’edificio, quale corpo in movimento, intrattiene con lo spazio circostante devono servire anche qui da base per la definizione dello stile. L’architettura del rococò si fonda, per la configurazione degli esterni e dell’articolazione spaziale, proprio nello stile delle ville palladiane, e rappresenta il chiarimento e la realizzazione di quella volontà artistica che si mostra creativamente all’opera proprio nelle ville di Palladio, negli interni come negli esterni».32 La critica non ha mai perdonato, così pare, siffatti accostamenti spericolati e neppure la vis polemica nei confronti di certe debolezze del celebrato genio palladiano; talché Burger ha patito una damnatio memoriae, governata soprattutto dagli ambienti anglosassoni, contro cui già l’Autore aveva lanciato i propri strali dalle pagine di codesto saggio. Di contro, va rilevato che già Wölfflin, all’indomani dell’uscita del volume, gli dedicò una lucida recensione, accreditandolo come «lavoro solido e utile».33 La rivista accademica monacense «Kunstchronik», in genere poco incline all’elogio, constatò – sia pur in un necrologio dedicatogli – che «una delle sue migliori fatiche fu l’opera sulle ville di Andrea Palladio».34 Ma l’attestazione decisiva della centralità che spetta a questa monografia nella storia dgli studi palladiani è certamente nelle parole di James S. Ackerman, il quale, nel fortunato Penguin Book sul grande architetto veneto, affermò che «le basi per lo studio delle ville palladiane (superate in parte da successive ricerche) sono state poste da Fritz Burger, Die Villen des Andrea Palladio».35 Un termometro dell’influenza esercitata in Germania da questo contributo burgeriano è la seconda edizione del volume sul Rinasci- 78 Capitolo 5 mento italiano dello Handbuch der Architektur, redatto da Josef Durm,36 in cui si accredita la tesi che a un primo invasamento per Palladio («Überschätzung»), sarebbe seguito un giudizio meno trionfalistico: «eine kühlere Beurteilung».37 A fronte di chi, all’epoca come in seguito, non volle né seppe stimare quanto di significativo era contenuto in questa ricerca, una nota di alto apprezzamento venne da Antonio Fogazzaro, uno degli esponenti più in vista della letteratura orientata al modernismo, e allora presidente dell’Accademia Olimpica. Fu su sua proposta – accolta all’unanimità – che Fritz Burger divenne membro onorario della più illustre istituzione vicentina.38 RICORDO DI UNA VISITA DI BURGER A VENEZIA CON I SUOI STUDENTI Le Ville di Andrea Palladio: la svolta FRITZ BURGER A VENEZIA (PRIMAVERA 1912) 79 80 Capitolo 5 N OTE 1 Fritz Burger, Die Villen des Andrea Palladio. Ein Beitrag zur Entwicklungsgeschichte der Renaissancearchitektur, Leipzig: Klinkhardt & Biermann, 1909, p. 124; ed. it. Le ville di Andrea Palladio, a cura di Elena Filippi e Lionello Puppi, trad. di Elena Filippi, Istituto Regionale Ville Venete-Umberto Allemandi & C., Torino et al.: Allemandi, 2004, p. 133. 2 Ivi. Credo possa essere questo l’elemento che ha particolarmente attratto l’interesse di Bruno Zevi. 3 Burger, Le ville, cit., p. 133. 4 Cfr. quanto si legge nell’Introduzione a Burger, Le ville, cit. 5 Questa posizione viene ribadita con enfasi nella Premessa al volume d’esordio della serie dello Handbuch dedicato a La pittura tedesca dal tardo Medioevo alla fine del Rinascimento, uscito a Berlino nel 1913, qui pp. VI sg. 6 Nelle lettere dal Veneto, e durante gli spostamenti del 1908, è ricorrente un sentimento di struggente nostalgia per gli affetti famigliari, talora persino una certa depressione, che lo Studioso fuga con una applicazione accanita alla materia da trattare. Cfr. ad esempio quanto scrive in data 13 giugno 1907 da Vicenza, ovvero da Verona (non datata, ma 1908) e da Venezia (1908, trascrizione Kessler), Carte Burger, Heidelberg. 7 Burger, Le ville, cit., p. 211. 8 L’intenzione si trova ribadita ancora in una corrispondenza di Fritz al suocero da Monaco, 18 dicembre 1908, dove si legge della scelta di temi per i seminari, «utili alla rielaborazione del [suo] libro sul Rinascimento veneziano» (corsivo di chi scrive), Carte Burger, Heidelberg (trascrizione anonima dattiloscritta). 9 La villa di Cargnacco, contrada di Gardone Riviera, di proprietà dello storico dell’arte, è certo più famosa col nome che ricevette dal poeta-vate D’Annunziò che vi subentrò nel 1921, dopo l’esproprio dettato dagli esiti della Prima Guerra mondiale. 10 Henry Thode, Michelangelo und das Ende der Renaissance, 5 voll., Berlin: Grote, 1902-1912. Nel 1908 escono i voll. 4 e 5, Michelangelo. Kritische Untersuchungen über seine Werke. 11 Friedrich von Duhn, Lettera a Fritz Burger, Heidelberg 21 novembre 1907, Carte Burger, Heidelberg. 12 Burger, Le ville, cit., p. 31. 13 Ivi. 14 Lettera da Vicenza del 13 giugno 1907, Carte Burger, Heidelberg. 15 Vd. supra: Gli anni della formazione fino al 1909. 16 L’Autore riferisce alla moglie che, giunto a buon punto della prima stesura del Palladio, intende mandarlo a Thode per chiedergli, per scrupolo scientifico – e a questo punto, nel 1907, il rapporto si è rasserenato – se lui ha ancora qualcosa da segnalare o da eccepire. Evidentemente il giovane studioso stima e ad un tempo teme la competenza del suo interlocutore. Le Ville di Andrea Palladio: la svolta 17 81 È il caso, ad esempio, di Gian Giorgio Zorzi. Cfr. Puppi, Postfazione a Burger, Le ville, cit., p. 212. 18 Valgano gli esempi delle riproduzioni n. 2 di tav. XXXIII, n. 2 di tav. XXVIII, n. 2 di tav. XXXII in Burger, Le ville, cit. 19 Burger, Le ville, cit., p. 41. 20 Ivi, p. 39. 21 Ivi, p. 34. 22 Hugo von Hofmannsthal, Viaggi e saggi, ed. it. a cura di Leone Traverso, Firenze: Vallecchi, 1958, p. 80. 23 Burger, Le ville, cit., p. 133. 24 Quando ormai disperavo della posibilità di trovare le “pezze giustificative” della presenza in Veneto di Fritz Burger, sono emerse, unitamente alla trascrizione che la figlia Lili approntò di due lettere da Vicenza, ancora un paio corrispondenze dal capoluogo berico, insieme ad altre da Verona e da Venezia, tutte decifrate dal dr. Kessler, che qui ringrazio per la pronta collaborazione. Non entro nel merito, in questa sede, delle numerose annotazioni di indubbio interesse storico-documentario, oltre che critico, nel mentre mi permetto di rinviare alla trascrizione e traduzione integrale commentata delle medesime di prossima pubblicazione in «Odeo Olimpico»: Sulle tracce di Palladio. La genesi del volume di Fritz Burger sulle ville venete alla luce delle carte inedite. 25 Lettera da Vicenza, 20 giugno 1908, Carte Burger, Heidelberg (copia manoscritta da Lili Fehrle-Burger). 26 Nel suo modo di vivere appieno, con grande foga, ogni possibilità che la sua professione gli offre, Fritz non è dimentico dei costi affettivi che questo suo girovagare comporta. Scrive al suocero: «Come padre di famiglia e insieme ricercatore uno è sempre nella condizione di sedersi fra due sedie […] a stento riesco a frenare la brama di riavere vicino a me i miei bambini…». Cit. da una lettera scritta da Vienna nell’agosto 1907, Carte Burger, Heidelberg. E, qualche settimana prima, da Vicenza: «Non voglio pensare a niente altro che al lavoro, giacché ogni minuto libero si traduce nel cocente dolore di una Sehnsucht di moglie e figli». 27 Lettera da Vicenza alla moglie Clara, datata 20 giugno 1908, Carte Burger, Heidelberg. 28 Burger, Le ville, cit., p. 31: «Ho rinunciato a riproporre le differenze di misura fra il progetto e la sua realizzazione, indicate da Scamozzi, anche se è stata necessaria una verifica». 29 Lettera da Vicenza, 20 giugno 1908, cit. (corsivi di Burger). 30 Burger, Le ville, cit., p. 43. 31 Ivi, p. 41. 32 Ivi, p. 150. 33 Heinrich Wölfflin, recensione a Burger, Die Villen, cit., in «Repertorium für Kunstwissenschaft» 33, 1910, pp. 266 sg. Per la traduzione integrale cfr. Filippi, A tu per tu, cit., pp. 22 sg. 82 Capitolo 5 34 Cit. da A.L.M. [August L. Mayer], Fritz Burger †, in «Kunstchronik» N.F. XXVII, 36, 2 giugno 1916, p. 1. 35 James S. Ackerman, Palladio, Harmondsworth: Penguin Books Ltd, 1966; cit. dall’ed. it., trad. di Giuseppe Scattone, Palladio, Torino: Einaudi, 1972, p. 107. 36 Professore alla Technische Hochschule di Karlsruhe, e già direttamente coinvolto da Burger per il disegno dell’ipotesi restitutiva del progetto primigenio della Rotonda, Josef Durm (1837-1919) fu in contatto epistolare con lui, anche dopo la pubblicazione della monografia palladiana. Una lettera dello stesso, datata 5 maggio 1910, con richieste di precisazioni sulla decorazione interna della Rotonda, è conservata fra le Carte Burger, Heidelberg. 37 Cfr. Bernhard Rupprecht, Die Aktualität Palladios, in Palladio, 1508-1580. Ausstellung der Bayerischen Architektenkammer in Verbindung mit der Bayerischen Verwaltung der staatlichen Schlösser, Garten und Seen, a cura di Frank Burger, München: Gersbach & Sohn, 1981, pp. 9-17, qui p. 9. 38 Cfr. «Atti della Accademia Olimpica di Vicenza», nuova serie, II, 1909-1910, pp. 65 sg. Nella seduta del 27 dicembre 1909 Fritz Burger viene nominato socio onorario insieme a Tancredi Borenius di Londra, per il suo The Painters of Vicenza, 1480-1550, e a Mary Prichard Agnetti per l’opera Vicenza: The Home of “the Saints”. Cfr. anche il Libro dei Verbali della seduta del Consiglio Accademico (1907-1915), pp. 81-83: «Atto della seduta del Consiglio Accademico di lunedì 27 dicembre 1909, ore 16,30, protocollo n. 173». 6. MICHELANGELO, DÜRER E GLI «ANTENATI» «Vedo il tumulto del cuore, la sua ansia, e vedo il sorriso della quiete e mi chiedo dove sta qui la grandezza, l’eterno… nell’acuto della passione o nel bagliore della gioia, e contrappongo i tormentati giganti di Michelangelo al sorriso vittorioso di Monna Lisa». 1 (Fritz Burger) Dai suoi Studi su Michelangelo,2 al confronto fra il Buonarroti e Andrea Palladio, fino all’exploit del 1913, come vedremo, ricorre nell’attività burgeriana la volontà di scavare sempre più in profondità nell’opera del Toscano. Sono poche decine di pagine, in verità, quelle che Burger licenzia nel 1907 sul campione del Rinascimento, e riprendono vigorosamente un fil rouge appena dipanato nel capitolo conclusivo dell’indagine sullo sviluppo del monumento funebre fiorentino. Per riuscire a cogliere appieno la portata del dialogo a distanza col Buonarroti, mantenuto negli anni della sua breve esistenza si devono scorrere con attenzione le opere che Burger dà alle stampe dopo la svolta del 1909, suggellata dalla pubblicazione delle Ville di Andrea Palladio, in cui, si dice, «Palladio sta a Michelangelo più o meno come Boileau e Racine stanno a Shakespeare».3 A partire dal corso di lezioni da lui tenute nel 1909, e poi via via all’incalzante sequenza dei volumi riguardanti l’arte fra Ottocento e Novecento, Burger rilancia – talora inopinatamente e nei modi più spiazzanti – proprio sullo specifico del genio michelangiolesco. Nella sua Autopresentazione del Cézanne und Hodler, apparsa nella rivista «Die Zukunft», Burger scrive: «Nell’“eroico furore” Michelangelo scorge la potenza di quella legge che è in noi, la quale porta a conoscere ed esperire l’unità e originarietà della natura. Ma il furore non è per lui l’essenza della vita, bensì il mezzo per esperire, il medium in cui si autoelidono la disarmonia cosmica, i confini fra i sessi, fra l’aldiqua e l’aldilà, fra i sensi e lo spirito. Da figlio del Rinascimento, Michelangelo è crollato sotto il peso di tale consapevolezza. 83 84 Capitolo 6 I tempi moderni attraversano sconvolgimenti analoghi, sospingendosi oltre il ductus ideale del Rinascimento, cercando di lambire l’immagine medioevale del mondo. Ma essi ricacciano dall’arte il piacere dei sensi non già in nome di un ideale religioso o morale, bensì a causa del conoscere universale. Sospinti su questa via dalle scienze, essi non cercano di tipizzare né il genere né la divinità, ma l’assoluto, quell’essenza primigenia delle cose che tutto unifica, rispetto alla quale l’animale non si distanzia più che l’uomo e verso la quale entrambi si dirigono come a un invisibile polo vitale. Colori fosforescenti, prodigi sfavillanti, l’occhio dell’eternità, non quello della figura (Nolde, Jawlensky, Marc). Nello sguardo dell’animale, nel pensiero del bambino, nell’azione del selvaggio i Moderni scorgono un pezzo di meravigliosa e perduta essenza primigenia, cui animale, bambino e selvaggio sono più prossimi di tutta la nobile umanità. Ma il dissidio ancestrale resta tale anche per i Moderni: gli uni, come Cézanne, Hodler e Picasso cercano il prodigio dell’eternità unicamente nel plasmare (Gestaltung), mentre la maggior parte dei successori lo cercano nel plasmato (Gestalt)».4 Ebbene, il dissidio fra il plasmare e il plasmato è croce e grandezza dell’«eroico furore» di Michelangelo. L’elemento conflittuale viene ad essere una sorta di Leitmotiv, una costante della poetica artistica michelangiolesca, per come la recepisce il Nostro. L’indagine burgeriana si affissa precisamente sulla decorazione plastica delle Cappelle Medicee. Si legge: «Incontriamo lo stesso contrasto lineare, lo stesso andamento dei controrni anche nelle figure della “Notte” e del “Giorno”. Però le linee sono più energiche, più inquiete e meno nette. Già solo per questo il Maestro fu costretto ad avvicinare maggiormente le statue alle colonne e a sollevarle di un poco al di sopra della base. Anche qui le gambe enfatizzano lo spigolo anteriore esterno del sarcofago, per poi inarcarsi a sospingere la parete di fondo. La spalla esterna del “Giorno”, come pure quella della “Notte” esprime questo stesso movimento. Più ancora delle due altre figure distese al sepolcro di Lorenzo, queste statue ci parlano della vita del Maestro. Il sonno della “Notte” non è un riposo ristoratore. Essa giace inquieta, in una posa tormentata. Il capo è sprofondato nel petto, fortemente ombreggiato. La mano, che cerca di sorreggerlo, nel sonno è scivolata. Il braccio di sostegno è Michelangelo, Dürer e gli «antenati» 85 in stato di quiete. È come se la figura fosse stata sopraffatta dal sonno in un rovello disperato; e le membra, che hanno dovuto mantenere l’equilibrio fisico della veglia, testimoniano ora una lotta psichica che si protrae nel sonno. La scultura del “Giorno” è la personificazione del carattere di Michelangelo, un autoritratto del suo spirito. Una tormentosa inquietudine pervade questo corpo titanico. Ovunque, in ogni muscolo, v’è tensione, energia, passione, eppure tutto ciò resta raffrenato. È la figura di un incatenato senza catene, di un prigioniero senza carcere. Non è dato sapere se il destino o il proprio volere soggiogano qui questo titano senza tregua, che pare bestemmiare il mondo e accingersi a volgere altrove il suo corpo. Soltanto la testa scruta una volta di più, con minaccioso cipiglio, da dietro le spalle vigorosamente levate».5 Altrove, negli Studi su Michelangelo si legge: «La Notte e il Giorno sono il riflesso della sua condizione di sconforto, di insofferenza, insoddisfazione e smania creativa mai appagata».6 Forse, il Monacense non conosceva questi versi del Buonarroti – laddove altri ne menziona con enfasi negli stessi Studi – che potentemente s’attagliano alla sua interpretazione, testé proposta in traduzione italiana: «Vorrei voler, Signor, quel ch’io non voglio:/ tra ’l foco e ‘l cor di ghiaccio un vel s’asconde/ che ’l foco ammorza, onde non corrisponde/ la penna all’opre, e fa bugiardo ’l foglio».7 Il concetto, però, è afferrato, se possiamo incontrare nella sua interpretazione dell’apparato decorativo delle Tombe medicee un’affermazione di questo tenore: «Lo studioso viene trascinato in prima persona in tale tensione del volere, in tutte le contraddizioni di questa tragica naturalità».8 Nonostante la vocazione al contemporaneo maturata negli anni delle sue frequentazioni con Marc, Kandinsky, insieme a molti altri giovani artisti e intellettuali – nel pieno, cioè, della stagione secessionista monacense – Burger non tralascia occasione per tornare, magari anche per inciso, sulla Weltanschauung espressa da Michelangelo. È curioso: anche nell’opera che più lo rese autore di successo, il suo Cézanne e Hodler. Introduzione ai problemi della pittura contemporanea,9 egli riserva uno spazio rimarchevole all’opera del genio fiorentino. Lo stesso farà nei saggi sistemati al fronte e usciti postumi. Come mai, c’è da chiedersi, in un libro che tratta delle vicissitudini dell’arte fra il Postimpressionismo e l’abbrivo del Novecento, l’Autore sceglie di dedicare un capitolo ai Problemi conoscitivi della mi- 86 Capitolo 6 stica nell’arte antica e il Medioevo nelle ultime opere di Michelangelo? A guardar bene, anche altrove, nella breve Autopresentazione del progetto editoriale, più sopra riportata, è perfino singolare lo spazio riservato alla evocazione dell’«eroico furore» michelangiolesco. Qui si gioca, in realtà, l’intera problematica dell’approccio all’opera d’arte, così come formulata da Fritz Burger. Fra «Gestalt» e «Gestaltung», fra canone e intenzione si apre uno spazio tragico e contraddittorio, di cui Michelangelo fu paradigma, un esempio – non il solo, come si dirà – al quale guardare nell’ansia creativa della modernità. La rivista «Das Kunstblatt», nell’intento di ricordare lo studioso scomparso, nel primo numero del 1917 optò non già per un necrologio, sinteticamente racchiuso in una nota, bensì per la pubblicazione di un brano burgeriano ritenuto significativo e rappresentativo dello stile dell’autore, selezionando un passo dallo Handbuch der Kunstwissenschaft dedicato al confronto fra Dürer e il Rinascimento italiano: «Così come in Hegel il realismo aristotelico torna nuovamente a maturare nel mondo intellettuale tedesco alla luce della dottrina kantiana, così pure con Dürer il magistero artistico del Rinascimento italiano». Quest’ultimo viene esemplificato da Michelangelo, e il confronto così istituito è condotto attraverso l’esame comparato della massiccia figura femminile della Melencholia con gli Schiavi del monumento funebre per papa Giulio II. È il senso tragico dell’esistenza umana che Burger vede all’opera in questi due esempi, e che egli contrasta da un lato con l’«incarnazione della bellezza e armonia» nella Scuola di Atene di Raffaello, dall’altro con l’anelito sentimentale dei Romantici tedeschi verso la meraviglia e la bellezza dell’essere. «Non è un pensiero estetico quello che Dürer insegue; inoltre c’è sicuramente ben di più che la mera descrizione sentimentale di uno “stato d’animo”. Questa idea può essere confrontata solo con ciò che Michelangelo esprime nelle figure degli schiavi nel suo monumento funebre per Giulio II: il mondo sensibile, corporeo, diventa la catena che rinserra lo spirito. In Michelangelo il pathos delle forze imponenti in lotta contro il loro destino di schiavitù, la potenza della divinità nella creatura, in Dürer la gravità cerimoniale del momento in cui lo spirito del creato tiene colloquio con quello della creatura e la natura dell’umana spiritualità si vede lontana dal desiderato spirito della natura».10 Michelangelo, Dürer e gli «antenati» 87 Michelangelo rivela così la propria figura di ponte in due sensi diversi: come chiave per accedere alla comprensione dei Moderni, rispetto ai quali è un ponte crollato sotto il peso degli ideali del proprio tempo, dall’altro come elemento di contrasto per comprendere lo spirito tedesco che aleggia in Dürer: in Michelangelo la tragedia prende le mosse a partire dall’ideale, dal divino, dallo spirito che sprigiona, e che per via di levare vuole liberarsi dai ceppi del corporeo, in Dürer partendo dalla fatticità creaturale dell’umano. Nel Fiorentino la figura riassume nella sua singolarità l’intero universo, nel Norico è in perenne dialogo con le cose che la circondano, riceve da quelle la fioca luce notturna in cui si riflette il suo stato d’animo. Tutto ciò non può non ricordare quanto Wölfflin avrà a scrivere, anni dopo, sul sentimento tedesco della forma in relazione a quello italiano, ravvisando il primo nella relazione degli elementi, il secondo nell’identità della figura.11 Dürer e Michelangelo costituiscono agli occhi di Burger due modelli cui richiamarsi, sia pure per ragioni diverse e complementari, per comprendere i Moderni e per offrir loro una direttiva. Al pari dei Moderni, Dürer era alla ricerca di un canone che individuò e fissò soltanto alla fine della sua vita, con la Underweysung der Messung (1525), con le grandi opere che ne traducono in atto l’insegnamento, e con i Vier Bücher von menschlicher Proportion (postumi, 1528). Tale canone passava attraverso la scoperta della realtà individuale, non già questo o quell’esemplare però, bensì l’individuo Dürer, che ripetutamente ritrae se stesso per tutto il corso della sua attività d’artista. Analoga è la condizione dei Moderni, alla ricerca di un canone e alla ricerca di se stessi. Laddove però i Moderni sentono il bisogno di sganciarsi dai canoni della tradizione, di una consuetudine consolidata, il loro modello non può che esaltare Michelangelo nel suo essere anticlassico, nel suo radicarsi nell’estetica del Rinascimento per imboccare una via individuale. Michelangelo, però, nel far questo si è «spezzato». In quest’ottica sembra acquistare un senso nuovo perfino il lavoro di Burger su Palladio, che determina una vera e propria svolta nella sua produzione e prepara il suo approccio all’arte contemporanea. Nella principale trattazione in merito, il Cézanne und Hodler, egli torna infatti a parlare di Michelangelo contrapponendo lui e insieme l’arte contemporanea a un orizzonte – non espressamente menzionato – definito in termini assai prossimi a quelli adoperati nel 1909 per enu- 88 Capitolo 6 cleare l’essenza dell’architettura palladiana: «È chiaro che quel culto della personalità, orgoglioso ma superficiale, che fu del Rinascimento, la sua pomposa fraseologia, i suoi gesti imponenti, contrastano nel modo più netto con queste idee dei giorni nostri. Certo, anche il Rinascimento ha conosciuto una determinazione dell’apparire sensibile. […] L’insano pensiero che l’arte sia solo decorazione della vita, asservita al godimento, deriva da quest’epoca. […] Così come il Rinascimento fiorentino-romano concepì il mondo nella prospettiva del rapporto uomo-natura, allo stesso modo esso si adoperò anche nel dare forma artistica al rapporto fra i contorni delle figure e lo spazio circoscritto. Nelle Stanze di Raffaello la storia universale è storia ecclesiastica e l’infinità divina è calata in una piacevole finitezza monumentale. Nella Sistina di Michelangelo domina la figura umana, un inno orgoglioso al potere di una volontà sovrumana. Jacob Burckhardt ha celebrato il ridestarsi di questo volere individuale, il suo affrancamento, come un atto cosmico-storico. […] Invero, anche per i tempi moderni il punto di partenza è la considerazione mondana dell’uomo. Ma non nel senso del Rinascimento. […] Il canone è stato avvertito più fortemente come una catena proprio laddove l’impulso di libertà della personalità era massimo, e lo scopo più bello della vita era ravvisato nella libertà, nell’assenza di vincoli. Michelangelo fu colui che più di tutti ebbe a soffrirne. Nella sua Madonna di San Pietro il dolore si era ritratto dietro la bellezza e la rigorosa unità del gruppo e poteva cautamente esprimersi solo nel gesto, che però si collocava al di fuori dei nessi sensibili. […] Il Michelangelo tardo la pensava diversamente. Nella Madonna di San Lorenzo non c’è più alcun gesto che alluda alla volontà personale, ma solo una trepidazione inquieta e tormentata che domina l’intero corpo. Egli è schiavo di questo volere che agita le membra, inarca la nuca, domina le braccia. Michelangelo non pensa più a quell’ideale di bellezza, ma solo a questa volontà sovrapersonale che determina l’aspetto. L’unità sensibile non è la bellezza, ma l’espressione di un essere mistico che decide non solo l’azione, ma anche il sembiante, essendo entrambi il medesimo, entrambi in ugual misura determinati dal volere divino. Per molto tempo questa lotta ingaggiata dalla personalità con le potenze determinanti della legge che tutto delimita e aggioga apparve a Michelangelo come l’idea tragica, da cui sono condizionati il divenire e il trapassare, la vita e la morte».12 Michelangelo, Dürer e gli «antenati» 89 La contrapposizione fra i gesti imponenti del Rinascimento e lo stile dei «giorni nostri» si riflette in quella fra Palladio e Michelangelo. E anzi, il gesto ampio e superficiale è per il Tedesco caratteristico dell’arte veneziana, «della quale l’intera produzione di Palladio deve essere vista come un frutto».13 Palladio – incalza Burger – «il classico rappresentante del dogmatismo dottrinale in architettura, nell’attuale clima di sentimentale idolatria dell’individualismo, è assai meno stimato di quanto non fosse nella passata età del classicismo, che onorò in lui il messia della propria visione artistica del mondo».14 In queste parole anche l’individualismo, qui contrapposto a Palladio, è peraltro oggetto di una caratterizzazione negativa. Si dovrà quindi considerare con cautela l’apparente binomio Michelangelo-individualismo, che pure sembra emergere dalle parole del critico. Per Palladio «la posa antica vale di più della fantasia individuale»15, mentre Michelangelo, ad esempio nel suo progetto per San Pietro, è – con le parole di Burckhardt – «interamente dominato dai suoi capricci».16 Nel confrontare il loro stile architettonico Burger rivela che cosa si aspetta di trovare in Michelangelo e, per via negativa, che cosa vuole focalizzare nel Maestro veneto: «In Palladio abbiamo semplicemente la descrizione di un’unità corporea in senso proporzionale. L’azione contrastante di più unità architettoniche è rinvenibile soprattutto negli edifici rinascimentali romani. Nel Palazzo dei Conservatori di Michelangelo colonne e muri costituiscono due unità antitetiche. In tal modo viene solo drammatizzato un principio che si trova già proprio nelle ville toscane, come ad esempio la Villa Vittoria, dove le scattanti verticali delle colonne urtano rigidamente sulla massa muraria che si estende informe in larghezza. Si pensi a Maser, dove il pilastro si fonde con la massa muraria per mezzo della raffinata curvatura di archi a tutto sesto, cosicché muro e pilastro, sostegno e carico si fondono l’uno nell’altro in quieta armonia. In Michelangelo anche la massa muraria è caricata di azione. Essa è mobile e lotta con piccoli e robusti elementi che la incalzano da terra, mentre gli ampi pilastri s’innalzano fieri a sovrastarla».17 La contrapposizione è quella fra il rispetto delle proporzioni, la «quieta armonia», in cui sembra risuonare il celebre adagio di Winckelmann, e le «masse caricate di azione». Proprio in queste è ravvisabile il tratto peculiare dell’Espressionismo, quella volontà mai paga 90 Capitolo 6 che Burger adotta peraltro anche nella sua prosa, che gli è valsa l’epiteto di «storico dell’arte espressionista». Dai passi testé richiamati emerge con maggior chiarezza il ponte gettato – secondo il critico tedesco – fra Michelangelo e l’Espressionismo. Quest’ultimo non sta anzitutto a significare espressione del vissuto individuale, ma del confronto operante con la natura, che Burger definisce in termini di conoscenza, di quella specifica forma di conoscenza che è l’arte,18 e che rispetto al conoscere comunemente inteso rappresenta alcunché di indicibile e perciò di «mistico», quel mistico che determina tanto l’agire quanto la forma, nella loro identità di fondo, e che in Michelangelo si «esprime» come unità dell’opera d’arte. In tal senso, il mistico, cui pure Burger più volte fa riferimento laddove parla dei Moderni, non è affatto un nebuloso vagheggiamento, cui peraltro potrebbe far pensare,19 bensì è conoscenza. Così, quando Burger afferma che nelle Cappelle Medicee non è la Chiesa né la Madonna, non sono gli angeli a parlare, e nemmeno le figure storiche, qui elevate a umanità universale, bensì «è solo l’artista che ci parla!»20, non intende riferirsi a Michelangelo quale individuo particolare che qui si esprime, bensì appunto in quanto «artista», il quale proprio per questo, e in ciò «simile a Dante», «nelle Cappelle Medicee ha voluto far sorgere nel marmo un paragone figurativo dell’umano vivere»,21 e così dotare di «espressione» quella conoscenza che è appannaggio della sola arte. Proprio qui, come reputo, è racchiuso il senso precipuo dell’«espressionismo» di Burger. Vien dato osservare come non lontana da questa Weltanschauung si collochi quella di El Greco, pittore, del resto, di casa nella Monaco di inizio Novecento,22 come lo era stato, per altro verso, nella cerchia michelangiolesca, respirando profondamente quegli umori. Da questo specifico misticismo alla comune accezione deteriore – quando si taglia di netto i ponti rispetto ai propri percorsi – il passo è breve e lo stesso Burger negli ultimi mesi della sua esistenza è caduto in questa condizione dello spirito,23 incapace di mantenere quell’equilibrio che in fondo costituisce il peculiare presupposto del suo «misticismo»; nel senso che l’arte è conoscenza, la quale avviene attraverso il «Gestalten» e questo è un abitare i confini della forma, quindi è un giudicare operante e la critica d’arte è anch’essa, in quanto conoscenza, un krínein, una crisi.24 Michelangelo, Dürer e gli «antenati» 91 Non si può dire a proposito di Burger ciò che egli stesso ebbe ad affermare, con le parole di Jacob Burckhardt, riferendosi a Palladio: «un alto rispetto della tradizione protegge il maestro dai traviamenti».25 Con l’arte del suo tempo, e anzi marcando vieppiù l’accento sulla parola Kunst in Kunstgeschichte, Burger volle prendere commiato dalla tradizione, privandosi con ciò stesso della protezione dai «traviamenti» e alimentando le asprezze nei propri confronti da parte del mondo accademico – e non solo.26 Così ebbe a stigmatizzarne la parabola l’allievo Robert Hedicke, cha sarà professore a sua volta a Heidelberg, in un testo di orientamento allo studio delle metodologie storico-artistiche: «[Poco dopo il 1913] l’artista Burger sembra prendere il sopravvento sullo storico dell’arte. Burger diviene artista espressionista (dipingendo egli stesso quadri espressionisti) e così il suo orientamento complessivo è rivolto al presente».27 In ciò appare anch’egli, come il suo Michelangelo, un ponte crollato oltre la modernità. Michelangelo e i Moderni Proprio nel Cézanne und Hodler, libro dedicato alla evoluzione della cultura figurativa più recente, Michelangelo è tra gli autori maggiormente citati, e torna a più riprese in tutte le sezioni in cui il lavoro si articola. È accostato a costoro perché, nella Madonna di San Lorenzo, ad esempio, «Michelangelo non pensa più a quell’ideale di bellezza, ma solo alla volontà sovrapersonale che determina il sembiante. L’unità sensibile non è bellezza, ma espressione di un esser mistico, che determina non solo l’azione, anche l’apparire. […] A lungo questa lotta della personalità con le potenze decisive della legge, che delimita e soggioga tutto il vivente, apparve a Michelangelo come la tragica idea che condiziona il divenire e il tramontare, la vita come la morte. Gli Abbozzati [in italiano nell’originale] dell’Accademia sono di ciò l’espressione più adeguata; in seguito lo sarà la Pietà di Palazzo Rondanini. Qui egli non vuole raffigurare azioni che danno lustro, quanto cogliere nel suo aspetto la morte stessa. Nello Schiavo morente del Louvre era ancora sostanzialmente la mimica a contare sulla nostra compassione per quel bel corpo. Nella Pietà Rondanini Michelangelo ci dà solo l’impressione di un corpo gracile e allungato. Nel gruppo 92 Capitolo 6 tutto scivola docile verso il basso e i contorni non separano più i corpi, scompaiono teneramente nel rigido blocco. Da nessun’altra parte Michelangelo è stato tanto coerente nello smaterializzare l’oggetto, nel rendere l’immagine attraverso la pura idea delle relazioni fenomeniche. Non l’apoteosi della volontà personale, ma il dileguare del limitato nell’illimitato, questo vuol far vedere. Il dolore non viene connotato per mezzo della personalità; colui che trascende i mondi non viene presentato come un eroe: ci mostra soltanto la morte come volontà che determina il sembiante. Al cospetto di questa potenza l’uomo non è che un individuo, senza volontà e senza risorse. La conoscenza è rassegnazione. Michelangelo si è avvicinato straordinariamente ai Moderni in questa “deformazione” irriguardosa del sembiante in nome della visibilità dell’idea della morte senza mimica alcuna e senza farsi inibire da un ideale estetico. Rodin, il suo epigono più grande fra i Moderni, lo ha talvolta seguito su questa via, nonostante una forte inclinazione alla peggior mimica teatrale».28 Un altro tipico carattere della modernità di cui Burger rinviene traccia nel Maestro rinascimentale è la caduta della differenza sessuale che si fa presagio di morte nel Tristan und Isolde di Wagner. «L’arte dei Moderni è in un certo senso asessuata. Il tentativo di togliere le opposizioni sessuali è un segno distintivo dell’anelito mistico alla conoscenza dell’unità dell’universo. Nella tarda grecità e nel suo culto dell’ermafroditismo, come nel culto michelangiolesco della figura ermafrodita ideale, ritornano idee analoghe (molte figure maschili di Michelangelo possiedono tratti femminili e viceversa). I confini fra i sessi si confondono per far spazio a un ideale umano al di là dei sessi, il quale abbraccia l’assoluto della natura umana e in esso l’eternità».29 Torna qui il passo, già citato in precedenza, e ripreso da Burger nell’autopresentazione del volume, in cui si parla della disarmonia cosmica, sotto il cui peso Michelangelo si schianta al pari dei Moderni. La lotta fra il determinato e l’indistinto, quale appare paradigmatica nei Prigioni del Buonarroti è occasione per accostarlo alla poetica di Cézanne: «Nello spazio paesaggistico Cézanne realizza qualcosa di simile a quanto fece Michelangelo nei suoi Abbozzati all’Accademia fiorentina: la lotta del singolo con il suo destino, con le sue catene. So- Michelangelo, Dürer e gli «antenati» 93 lo che qui il singolo non è una personalità che abbia un nome, ma un complesso che fa parte di un’idea figurativa, e la lotta non è l’agire contrapposto di volontà ostili, piuttosto è la stessa legge che plasma e muta le forme, la quale costringe ogni parte entro l’intero. Michelangelo e Cézanne sono affini non solo nel carattere, ma anche nella loro arte: non un biasimo per il Maestro della Sistina, non una lode eccessiva per Cézanne».30 È così additata la via che ha condotto Burger, non solo come uomo, ma anche come critico, dalle strade e dai musei di Firenze agli atelier degli artisti di Monaco, fino a Murnau. L’arte del Medioevo tedesco e noi 31 Proprio nel decisivo 1913 il Monacense dedica a questo tema un paio di paginette – nella sua incalzante e assai prolifica attività di pubblicista – che a tutta prima sembrerebbero collocarsi a margine del suo netto virage ad abbracciare temi e problemi dell’arte del suo tempo. In realtà, se proviamo a ordinare i materiali e i testi burgeriani dal Cézanne fino alle uscite postume, non uno di quelli manca di un affondo diretto al significato della propria tradizione di appartenenza. È come se nel dare un assetto alle questioni più urgenti della critica contemporanea Burger non possa fare a meno del confronto col passato remoto. Ma scorgere questo aspetto non basta a motivare il peculiare legame burgeriano con la tradizione, e specialmente il tentativo di gettare una nuova luce sull’arte tedesca dell’età di mezzo. Sempre nel 1913 – primo di tanti volumi che i suoi collaboratori continueranno a pubblicare anche dopo la sua morte – viene dato alle stampe Die deutsche Malerei vom ausgehenden Mittelalter bis zum Ende der Renaissance (La pittura tedesca dal tardo Medioevo fino alla fine del Rinascimento).32 Nella Premessa, l’Autore mette subito in chiaro di che si tratta, e cioè «che cosa [l’arte tedesca di quell’epoca] abbia da dire al mondo e alla nostra generazione, dove si nasconda il ganglio vitale, che lega la nostra esistenza e il nostro modo di guardare a quello dei nostri predecessori e alla specificità del carattere nazionale».33 Non è certo Burger il primo a promuovere in questo torno d’anni la questione; semmai, ciò che gli si deve riconoscere, è la determinazione con cui ritorna ad occuparsene nelle sedi più diverse. At- 94 Capitolo 6 tinge, forse, ancora una volta, a una provocazione del Maestro degli anni di Heidelberg, dal momento che Thode aveva dato alle stampe le sue poderose riflessioni sull’argomento in un volume collettaneo apparso nel 1898 dal titolo inequivocabile: Das deutsche Volkstum (Il carattere nazionale tedesco).34 Ritornerà ancora sul tema, specie in una conferenza dal titolo lusinghiero, Was ist deutsch?35 che tuttavia non gli riserverà grandi consensi, se stiamo a una pungente nota burgeriana di qualche tempo dopo. Cos’è «tipico» tedesco? Una domanda fondamentale, cui naturalmente s’erano votate generazioni di scrittori e intellettuali fino all’attualità. Ma per la storia dell’arte la questione si poneva in termini affatto nuovi proprio sul crinale del XX secolo, complici le pubbliche esposizioni, una crescita delle coscienze individuali e collettive e, non di meno, un fiorente mercato dell’arte.36 Non da ultimo, si assisteva all’irrobustirsi veemente di subdole forme di sciovinismo anche in seno alla critica d’arte, come vedremo.37 V’era pure chi, come Wölfflin, stava cercando una via d’indagine, risultata poi assai preziosa, ma al fondo rivolta al passato, sebbene egli abbia consegnato con il suo studio L’Italia e il sentimento tedesco della forma appunti formidabili per la storia delle idee tout court. Ma, per questo, si doveva aspettare – il saggio uscirà nel 1931 – e frattanto gli umori della storia sarebbero altrimenti cambiati. Già nei suoi Concetti fondamentali della storia dell’arte, però, lo Svizzero se n’era occupato intensamente e pure il Worringer di Astrazione ed empatia e dei Problemi formali del gotico. Burger muove dalla consapevolezza che «lo studio della storia dell’arte tedesca è come l’idra di Lerna: a ogni chiarimento di un interrogativo la ricerca si trova davanti a nuovi problemi, sicché finora la storia della pittura tedesca è rimasta uno degli ambiti più confusi della storia dell’arte».38 Che cosa si prefigge quindi l’Autore? «Il libro non poteva assumersi il compito di sciogliere tutti i nodi gordiani inerenti ai molti diversi motivi che si sono manifestati nella storia della pittura tedesca, non poteva pensare di risolvere ogni questione, né di illuminare ogni angusto angolo della materia».39 Inoltre, come spesso accade nei suoi scritti, Burger ha a cuore di arrivare possibilmente a tutti, non soltanto a chi si occupa del settore, e perciò intende operare degli interventi che costituiscano «un aiuto pratico alla conoscenza», una sistemazione Michelangelo, Dürer e gli «antenati» 95 ordinata delle questioni (come si evince dai titoli dei capitoli).40 E qui si riaffaccia prepotentemente l’attualità, il servizio che egli vuol rendere al pubblico dell’età sua, quello stesso cui si rivolge nella introduzione al volume su Cézanne e i problemi dell’arte contemporanea. «I tempi più recenti – scrive – ci hanno portato davanti agli occhi nuove conoscenze, le quali ci disvelano anche un volto diverso dell’essenza del passato storico». «La storia dell’arte è qui prevalentemente intesa come una storia della conoscenza umana, rinunciando all’uso unilaterale di una nozione come quella di “ascesa e declino” in riferimento a determinati archi temporali. Siamo infatti certi che ciò introdurrebbe una partizione temporale entro cui fra lo studioso che indaga e la conoscenza oggettiva s’insinuano valori etici soggettivi. […] Non esiste alcun cosiddetto periodo aureo di un’arte, il cui fiorire non sia determinato da preziose conoscenze acquisite nell’epoca precedente, né alcuna “età di decadenza” che non abbia portato nuove positive conoscenze sulla scena della storia».41 Come non riconoscere in queste parole una consonanza spirituale con certe posizioni della Wiener Schule, e in specie con le istanze di Riegl e di Dvoák? Nella periodizzazione dei fenomeni artistici il Ceco si occupò di quei momenti di crisi che gli apparvero più attuali dal punto di vista della nuova problematica del tempo, come, appunto, il trapasso dal Medioevo al Rinascimento.42 Nel volume burgeriano dedicato alla pittura tedesca tra la fine del XV secolo e la prima età moderna vi sono passi che garantiscono una proficua penetrazione di quel mondo,43 ed è quindi un vero peccato dover ammettere che, ad esempio, la sua lettura dell’Autoritratto con pelliccia di Dürer non sia di solito ripresa dai manuali, ché, per contro, offrirebbe una sintesi qualitativamente notabile dell’essenza di quel testo. Che cosa scrive il Nostro in proposito? «Il rigore ieratico del Medioevo trova espressione nella schietta solennità dell’autoritratto di Dürer, e nonostante l’amore devoto per tutti i dettagli e la civetteria della capigliatura elaborata, della serica morbidezza della pelliccia, della segreta vita della mano, la potenza che domina il dipinto resta l’idea sovraindividuale e sovrapersonale. La vita della figura non consta nell’agire libero e autocosciente, né nella trasognata dedizione all’idea divina, bensì nella grandezza di questa esistenza priva di volontà e di desiderio. La scienza della pro- 96 Capitolo 6 spettiva e delle proporzioni aveva per Dürer più un fascino mistico che un valore pratico effettivo. Nella regola egli scorgeva più il mistero della vita che un rimedio della ragione pratica. La bellezza non era per lui la naturale accompagnatrice dell’esistenza, bensì il mistero della grande legge della vita che si annida persino nel più piccolo degli esseri. Dürer distingue pertanto due tipi di bellezza: quella che si esprime tramite la configurazione della necessità naturale dei tratti individuali, nella quale il carattere interiore si rivela come “causa” della forma [Ritratto di Oswolt Krell, 1499], e quella in cui anche ciò che è personale diventa impersonale, ideale assoluto. Pertanto, laddove è intervenuta la metafisica della costruzione, manca ogni indicazione di carattere o di azione [Autoritratto, 1500]. Egli cerca l’ideale non nel tipo interessante della personalità, come l’Italiano, bensì nell’ideale unitario, impersonale e assoluto. Perciò Dürer non “idealizza” la sua personalità, ma, rinunciando a ogni nota spirituale, indaga il problema dei mezzi con cui l’individualità del suo apparire sensibile possa essere elevata alla maestà del sovrapersonale».44 Va osservato come un’intera generazione di storici dell’arte tedeschi – quella nata intorno al 1880 – si è assunta l’impegno non facile (né scevro di insidie), di riflettere intorno alle peculiarità della cultura figurativa patria, in un periodo che potenziava le posizioni frontali e radicali, e che al tempo stesso stava maturando i frutti del dissidio postimpressionistico circa gli apporti dell’arte extraeuropea. In Astrazione ed empatia, non a caso, si attacca il pregiudizio «eurocentrico» con cui il connazionale Robert Vischer guarda allo stile bizantino.45 Il neologismo adottato dall’Autore – «in analogia alla parola “geocentrismo”» – deve aver sollecitato non poco il Nostro, se è vero che, pur stimando profondamente le espressioni artistiche del suo Paese, non perderà occasione per scardinare siffatta mentalità eurocentrica. Questo il senso più alto del progetto dello Handbuch burgeriano, che contempla lo studio dell’arte nella sue multiformi e specifiche emergenze regionali, ivi comprese realtà come quelle islamiche, indiane, cinesi, giapponesi e coreane. Lo spirito con cui i suoi collaboratori hanno portato avanti, dopo la sua morte, il complesso dell’iniziativa è quello dettato dallo stesso Burger nelle Indicazioni alla redazione del Manuale di scienze artistiche.46 Si parlava molto a Monaco di questa operazione senza dubbio coraggiosa. Forse anche per questo vi furono insi- Michelangelo, Dürer e gli «antenati» 97 stiti tentativi affinché egli prendesse a cuore le sorti della neonata rivista «Das arische Europa. Internationales Jahrbuch für Kulturphilosophie und Kulturpolitik», fondata dal giovane bosniaco Dimitrije Mitrinovi, un esuberante allievo di Wölfflin. Era approdato nella metropoli bavarese dopo aver studiato a Roma, Madrid e Parigi, animato da spirito ardimentoso e libero, assetato di filosofia, e curiosissimo delle nuove tendenze artistiche. Per siffatte propensioni egli intercetta ben presto il gruppo di Kandinsky e Marc, di cui diventa uno strenuo sostenitore, nel mentre promuove traduzioni di classici latini e di testi orientali in serbo, nel tentativo di fornire testi significativi alle frange radicali della politica del suo Paese, oppresso dall’Impero austro-ungarico. Nella prima metà del 1914, unitamente a Kandinsky e al giovane architetto Erwin Gutkind, dà vita a un movimento internazionale con lo scopo di «rivolgersi all’umanità del futuro mediante l’Europa ariana», attraverso una rete di intellettuali, alcuni dei quali già simpatizzanti del Blauer Reiter, che si prefiggevano di contribuire a formare una coscienza collettiva di una Europa unita. Allora si pensava che un movimento «paneuropeo» fosse possibile, anzi auspicabile, nel tentativo di spegnere la vampa dei nazionalismi che divorava il continente e che avrebbe portato fatalmente al primo conflitto su scala mondiale. È da chiarire l’occorrenza del termine «ariano» nell’intitolazione della rivista che dava voce all’iniziativa. Il suo uso nel contesto della cultura coeva è all’evidenza altro rispetto alle degenerazioni della politica nazionalsocialista; s’inserisce, magari troppo utopicamente, in un sottobosco culturale la cui germinazione avrebbe potuto presagire una diffusa e impregiudicata rinascenza a livello mondiale. In quest’ottica si era proposta anche la universale fratellanza fra i popoli. Programma e ambizioni del movimento vennero quindi resi manifesti nell’almanacco «L’Europa ariana», cui contribuirono firme qualificate, tra cui Maurice Maeterlinck, Emile Verhaeren, Martin Buber, Henri Bergson, Upton Sinclair, Pablo Picasso e altri, oltre al copromotore Kandinsky.47 Nel sommario del primo numero – uscito quando già Mitrinovi era riparato in Inghilterra, stante il suo passaporto serbo – si declinavano i principi ispiratori dell’aggregazione per «una politica culturale internazionale», di seguito riportati: a) l’iniziativa per un’Europa ariana muove dalla convinzione che in futuro l’umanità non debba essere 98 Capitolo 6 plasmata dal cieco istinto della storia e del destino, né dalle guerre che si vanno preparando in ogni dove, e neppure dovranno sussistere mondi civilizzati in cui lo Stato regni calpestando l’umanità, con le sue leggi, industrie e commerci…; b) una reale soluzione ai problemi della cultura dell’umanità nel suo complesso e nelle singole specificità non sarà possibile fintanto che l’Europa non porrà fine al suo suicidio, fatto di contrasti reciproci, nonché di uno stato permanente di rischio di conflitto e di guerra; c) i popoli dell’Europa debbono essere in grado di creare le condizioni di mutua solidarietà, gli uni con gli altri fraternizzando, con le genti slave dell’Est, dei Balcani, così come con i Russi. L’Europa ariana dovrebbe includere perciò anche i non Ariani: Ungheresi, Finnici ed Ebrei; d) il movimento dell’Europa ariana crede che le istituzioni progressiste e altri movimenti del continente si salderanno all’iniziativa per l’unità delle genti, e che la fratellanza fra i popoli sarà veicolo di prosperità e sviluppo; e) la nuova umanità può essere pensata soltanto in una Federazione [«Union»] di repubbliche europee.48 «Ariana» era la connotazione di una cultura che accomunava, sotto l’egida degli studi ottocenteschi, l’alba delle diverse produzioni regionali del continente, tutte derivanti dal sanscrito, supposta lingua madre dei popoli indoeuropei e con l’ulteriore argomentazione che essa fosse stata portata dall’India da un gruppo di tribù antropologicamente omogenee. Se fino ad allora lo sforzo degli ideologi della società borghese era stato quello di circoscrivere l’ambito dei diritti universali alla razza bianca e all’homo europaeus visto come vertice dell’evoluzione naturale, con l’emergere del nazionalismo, anche la nozione di razza bianca diventa troppo ampia e l’Europa si frantuma, nella coscienza degli intellettuali nazionalisti, in tante piccole “patrie”. Da questo punto di vista la nozione ottocentesca di nazione come unità culturale e linguistica non basta più e si muove alla ricerca di una connotazione di identità forte, se possibile biologica, ma anche profondamente interiorizzata, viatico che porta dritto alle teorie razziali e alla caccia al diverso. Ma dobbiamo ritornare al punto, vale a dire l’indagine sulla posizione assunta da Burger negli eventi ora evocati. Assodata la sua irrefrenabile insofferenza rispetto al dilagare dei nazionalismi, contro cui non manca occasione di ammonire, egli viene individuato come un in- Michelangelo, Dürer e gli «antenati» 99 terlocutore imprescindibile dalla costituenda redazione dell’«Europa ariana». Non si era ancora prossimi alla composizione del primo numero, previsto per il 1915, ma Mitrinovi già faceva da tempo pressione su Kandinsky per ottenere pubblico appoggio dal Nostro, pur sapendo che il libero docente aveva formulato qualche perplessità sull’ultima sua conferenza a Monaco.49 Ciò nonostante, il Bosniaco così si espresse: «Il Dr. Burger dev’essere assolutamente dei nostri!».50 La lettera con cui il pittore cerca di ottenere l’attenzione del Nostro è di grande rilevanza storica,51 giacché sintetizza umori e aspirazioni del movimento. Va pertanto letta e ragionata. Qui viene presentata al pubblico per la prima volta. FOGLIO 1 FOGLIO 8 100 Capitolo 6 W. Kandinsky Murnau, Oberbayern 7 luglio 1914 Egregio Dottore! 52 Come credo di averLe raccontato, un po’ fugacemente, Mitrinovi ha in mente una grande associazione internazionale – naturalmente senza alcuna ufficialità formale – la quale metta in contatto personaggi in vista e di peso, che vivono nell’oggi, ma che pensano al domani e si preoccupano per questo, e i cui sguardi e animi sono orientati a questo “domani”. Nella sua conferenza egli ha illustrato solo per cenni – talora di proposito, talaltra per la scarsità del tempo a disposizione – questo progetto. Eppure questa è una delle idee più notabili, di cui questo tempo abbisogna. Il successivo anello della catena, che va sotto il nome di “intima compenetrazione” [innere Verschmelzung], è appunto quella unione progettata delle nazioni, dato che la fusione nella famiglia e nelle “gens” è già avvenuta da tempo. Al nocciolo deve essere e sarà un’unione ariana [arische Einigung]. Personalmente spero che le altre razze non si facciano attendere. Il progetto di Mitrinovi è ponderato a fondo, intimamente sentito e molto articolato. Tutti gli ambiti dello spirito umano dovranno essere parimenti e sempre coltivati in un duplice senso: arte, politica, religione, educazione (pedagogica), scienza, filosofia. Tutte le forze, che hanno fatto qualcosa di buono, di importante – davvero importante – e che sono proiettate al “domani” in atteggiamento di consapevole apertura, tutte devono attivarsi per questa grande opera sorta spontaneamente. Anzitutto sarà preparato un almanacco, un lavoro per dir così programmatico, che comprenda tutti gli argomenti e le discipline di cui sopra. L’opera dovrà uscire nella primavera del 1915. Mitrinovi lavora alla raccolta delle forze necessarie con un’energia davvero rara. Si sposterà in Francia, Russia, Inghilterra, Italia, per tenere conferenze, ecc. Viaggi simili dovranno essere intrapresi poi anche dagli altri collaboratori, almeno quelli che ne hanno facoltà e voglia. Mitrinovi mi prega di scriverLe per chiederLe la Sua collaborazione. Mi scrive che «la Sua “visione dell’opera d’arte” [Anschauung über das Kunstwerk] come di una parte della visione del mondo [Weltanschauung] è l’idea più valida che la storia dell’arte moderna tedesca possegga». Michelangelo, Dürer e gli «antenati» 101 Egli è senz’altro al corrente del fatto che Lei è rimasto piuttosto scettico nei confronti della sua conferenza, e tuttavia già da un paio di mesi mi ha detto: «Il Dr. Burger dev’essere assolutamente dei nostri!». Più in là (oltre alle conferenze ecc.) dovrebbe essere pubblicata una rivista di alto livello, ove possibile in tre lingue: in francese (per i popoli di lingua romanza), tedesco (Germani), russo (Slavi). Purtroppo ho dimenticato la lista di Mitrinovi a Monaco. Ciò nonostante sono in grado di rammentarne qualcuno: Chamberlain, Otto Braun (filosofo), Christiansen, Deussen, Bergson, Mereschkowsky, Fritz Mauthner, Przybyszewski, Maeterlinck, Papini, Däubler e altri ancora.53 Se Lei è interessato a qualche aspetto, con la sua visita farebbe la felicità di Mitrinovi. Con lui si potrà intendere. Il suo nuovo indirizzo è Georgenstrasse 24/III.54 Ha letto il libro sulla nuova arte di Arthur J. Eddy (Chicago)? Postimpressionism and Cubism? Per l’America un’opera incredibile. Questo Eddy (avvocato) un anno fa era in Europa e studiava a Monaco (allora io ero a Mosca) – e ha comperato una piccola selezione (circa 25 pezzi) di cose mie di tutti i periodi. In breve, grazie a lui ho ricevuto una commissione da New York, per cui sono stato impegnato tutto questo tempo: quattro quadri per un salone di ricevimento. Qui (a Murnau, Ob.) abbiamo conosciuto una famiglia Seefried e presso di loro un Suo allievo, Utticher, un giovane posato e simpatico. Nuova generazione tedesca! Cari saluti Il suo affezionato Kandinsky 102 Capitolo 6 LETTERA DI MITRINOVI A BURGER – STRALCI (1914) Trascorsa una settimana, fu lo stesso Mitrinovi a reclamare attenzione dallo Studioso. A nome della redazione della «Europa ariana» gli viene rinnovata la preghiera non soltanto di collaborare alla rivista, ma di far parte del comitato scientifico come curatore. Burger viene incalzato anche altrimenti: «ore 11 [19 luglio]. Il Signor Mitrinovi mi telefona; vuole conferire con me circa la fondazione di una nuova rivista».55 Le cose poi precipitarono; quelli erano per il libero docente giorni frenetici: alla chiusura del semestre estivo, voleva sbrigare una serie incredibile di affari sospesi, appuntamenti con gli editori, corrispondenze (in un giorno ne conta ben 18!)56. Una di queste viene indirizzata proprio al Bosniaco.57 Michelangelo, Dürer e gli «antenati» 103 22 luglio 1914 Egregio Dottore! Oggi ho scritto al Sig. Mitrinowitsch. Innanzitutto, la sua attività non mi sembra né pratica né attraente, dato che almeno in Germania risulterebbe solo dannosa. Noi vogliamo produrre un lavoro, non tenere discorsi con cui incendiare le masse. Io, in particolare, devo proteggermi, per il ruolo ufficiale che ricopro, e nell’interesse della cosa devo conservare la mia efficace credibilità. Perciò è difficile pensare che io possa *** pubblicamente con persone che hanno solo entusiasmo per la questione, e poco o nulla di più. Tuttavia, mi sono messo a sua disposizione per parlarne. Con i migliori saluti, Suo devotissimo F. Burger La sua mente, oltretutto, era già altrove. Sognava da settimane di ricongiungersi a Clara e, lasciati i figlioletti dai nonni a Heidelberg, avrebbero dovuto incontrarsi ad Amburgo, per proseguire verso l’isola di Sylt, per «il nuovo viaggio di nozze, verso quella terra benedetta!».58 Così Fritz lo stesso 22 luglio. Ma l’illusione durò una manciata di ore. «Com’è cambiato tutto da ieri: siamo alla vigilia di un conflitto mondiale [Weltkrieg]! Chi lo avrebbe immaginato!...».59 Il 4 agosto Fritz Burger viene assegnato alla 7a colonna munizioni della 8a batteria del reggimento artiglieria a piedi. Evidentemente, rispetto all’attivismo per cui tanto si era prodigato Mitrinovi, ora è il tempo desolato della guerra, non dell’anelito di pace. Non si possono pertanto azzardare ipotesi sulla decisione che lo Studioso si sarebbe riservato di prendere. Meglio lasciar parlare la sua produzione a stampa, dove – lo si è visto con chiarezza – egli mostra una decisa avversione contro ogni forma, anche occulta, di sciovinismo. La sua eredità come uomo e come intellettuale è affidata al congedo dai lettori – ma sarà una pagina che chiude l’intero libro della sua vita – nella Prefazione del volume cui stava lavorando con accanimento nel maggio 1916, e che uscirà postumo: 104 Capitolo 6 «Un libro tedesco deve tenersi sulla giusta via e la storia dell’arte deve essere praticata non dal punto di vista tedesco, bensì, oggi più che mai, in una prospettiva universale. Al di là delle fosse scavate di fresco, lo spirito tedesco tesserà i fili di quella riconciliazione con i simboli ereditati che lo nobilitano, che all’inizio del secolo fece dire a Beethoven: “Siate avvinti, milioni” e ancor oggi con rinnovata forza, tenacia e fierezza rivolgerà ai popoli la parola d’ordine di un’età nuova: umanità universale».60 Michelangelo, Dürer e gli «antenati» 105 N OTE 1 Cit. dal burgeriano Tagebuch eines “fahrenden” Soldaten (Diario di un soldato “viaggiatore”), aprile 1916, Carte Burger, Heidelberg («[Ich] sehe das Toben des Herzens, seine Angst, und sehe das Lächeln des Friedens und frage, wo liegt hier das Grosse, Ewige…im Schmerz der Leidenschaft oder in der Sonne des Glückes, und stelle Michelangelos sich krämpfende Riesengestalten vor Mona Lisas sieghaftes Lächeln»). 2 Fritz Burger, Studien zu Michelangelo, Strassburg: Heitz, 1907. 3 Fritz Burger, Le ville di Andrea Palladio, a cura di Elena Filippi e Lionello Puppi, traduzione di Elena Filippi, Istituto Regionale Ville Venete-Umberto Allemandi & C., Torino: Allemandi, 2004, p. 42. 4 Fritz Burger, Selbstanzeige – Cézanne und Hodler. Einführung in die Probleme der Malerei der Gegenwart, in «Die Zukunft» 84, 1913, pp. 232-234, qui p. 234. Corsivo di chi scrive. Fa specie come, anche nel caso delle riedizioni successive di quest’opera (parimenti accadde per la guida alla Schackgalerie), l’ultimo passaggio, quello in verità più denso, venga sacrificato, come rileva anche Jens Kräubig nella sua brossura su Der Kunsthistoriker Fritz Burger (1877-1916), Heidelberg 1986, nota 46. 5 Fritz Burger, Geschichte des florentinischen Grabmals von den ältesten Zeiten bis Michelangelo, Straßburg: Heitz, 1904, p. 373. 6 Fritz Burger, Cézanne und Hodler. Einführung in die Probleme der Malerei der Gegenwart, München: Delphin Verlag, 1913, p. 21. 7 Michelangelo Buonarroti, Rime, LXXXVII, vv. 1-4. 8 Burger, Studien, cit., p. 12. 9 Da ultimo Elena Filippi, Fritz Burger. Cézanne und Hodler. Einführung über die Probleme der Malerei der Gegenwart, in Hauptwerke der Kunstgeschichtsschreibung, Lexikon a cura di Paul von Naredi-Rainer, Konrad Eberlein e Götz Pochat, Alfred Kröner Verlag, Stuttgart 2006, ad vocem. 10 Fritz Burger †: Tragik des mystischen Bewußtseins, in «Kunstblatt» 1, 1917, p. 59. 11 Heinrich Wölfflin, L’arte del Rinascimento. L’Italia e il sentimento tedesco della forma, trad. it. di Bernardetta Carta, a cura di Maurizio Ghelardi, Livorno: Le Sillabe, 2001, presentato dalla scrivente in «Critica d’Arte» LXVII, 2004, pp. 8-9. 12 Da Burger, Le ville, cit., p. 144 sg. 13 Ivi, p. 34. 14 Ivi, p. 33. 15 Ivi, p. 42. 16 Ivi, p. 34. 17 Ivi, pp. 138sg. 18 Cfr. Elena Filippi, La modernità della nozione di critica d’arte in Fritz Burger (1877-1916), in «Annali di critica d’arte», 2, 2006 (in c.s.). 106 19 Capitolo 6 E nell’ultimo Burger a ragion veduta, come si dirà. Burger, Geschichte, cit., p. 371. 21 Ivi, p. 374. 22 Hugo von Tschudi, nominato nel 1909 direttore generale dei Musei Bavaresi a Monaco, dopo essere stato rimosso dal suo incarico presso la Galleria Nazionale di Berlino per la sua politica di acquisti considerata troppo progressista, aveva ottenuto nel 1911 di esporre alla Alte Pinakothek ben otto opere di El Greco, tra le quali il Laocoonte e il Temporale su Toledo, provenienti dalla collezione Marczell von Nemes. Dello stesso Theotokópulos, l’anno seguente, il movimento del Blauer Reiter sceglierà la tela col San Giovanni come uno dei testi più eloquenti del suo approccio autentico alla realtà e alla tradizione. 23 Cfr. la Postfazione di Albert E. Brinckmann, in Fritz Burger, Einführung in die moderne Kunst…, I, Handbuch der Kunstwissenschaft, Berlin: Athenaion, 1917, pp. 134 sg. Più in generale, su questo aspetto basti qui il rimando allo studio di Magdalena Bushart, Der Geist der Gotik und die expressionistische Kunst. Kunstgeschichte und Kunsttheorie 1911-1925, München: Schreiber 1990, e in particolare al cap. Der Künstler als Mystiker, pp. 145 sgg. 24 Vd. ultra, al cap. Princìpi fondamentali della critica d’arte. 25 Burger, Le ville, cit., p. 34. 26 Si veda, ad esempio, lo stroncante intervento di Walter Friedländer, Zur Kunstgeschichtsschreibung der Moderne, in «Monatshefte für Kunstwissenschaft» XII, 1919, pp. 286-297. 27 Cit. da Robert Hedicke, Methodenlehre der Kunstgeschichte. Ein Handbuch für Studierende, Straßburg: Heitz, 1924, pp. 152 sg. 28 Burger, Cézanne, cit., pp. 145 sg. 29 Ivi, p. 209. 30 Ivi, p. 95. 31 Fritz Burger, Die Kunst des deutschen Mittelalters und wir, in «Deutsches Altertum und Mittelalter» 3, 1913, Heft 7, pp. 209-211. 32 Da ultimo Rolf Hauck, Fritz Burger (1877-1916). Kunsthistoriker und Wegbereiter der Moderne am Beginn des 20. Jahrhundert, Phil. Diss., LMU, München 2005, qui pp. 176-186. Ivi si trovano sunteggiati i diversi momenti e motivi delle sezioni di cui l’opera è composta. 33 Burger, Die Kunst, cit., p. V (corsivi di Burger). 34 L’intervento di Thode, che s’intitolava Das deutsche Volkstum in der bildenden Kunst, venne poi ripubblicato in separata sede nel 1901 come Die deutsche bildende Kunst. 35 Henry Thode, Was ist deutsch?, in Id., Böcklin und Thoma: acht Vorträge über neudeutsche Malerei gehalten…in Sommer 1905, Heidelberg: Carl Winters Universitätsbuchhandlung, 1905, pp. 22-40. 36 Inter alia, giova l’indagine dettagliata di Elisabeth Mylarch, Akademiekritik und moderne Kunstbewegung in Deutschland um 1900: zum Verständnis der ideengeschichtlichen, kulturideologischen und kunstmarktpolitischen Implikationen 20 Michelangelo, Dürer e gli «antenati» 107 geschichtlichen, kulturideologischen und kunstmarktpolitischen Implikationen des Kunsturteils über moderne Malerei in den Kunst- und Kulturzeitschriften Gesellschaft, Kunstwart und Freie Bühne, Frankfurt a.M. [u.a.]: Peter Lang, 1994. 37 Vd. ultra, cap. L’ambiente monacense. 38 Burger, Die Kunst, cit., p. V. 39 Ivi. 40 Una disamina della struttura e dei singoli capp. del volume è in Hauck, Fritz, cit., pp. 176-186. 41 Burger, Die Kunst, cit., p. VI. 42 Cfr. Max Dvoák, Idealismus und Naturalismus in der gotischen Skulptur und Malerei, München: Oldenbourg, 1918. 43 Dal punto di vista statistico i dati confermano che questa monografia fu la più venduta dell’intera serie dello Handbuch. 44 Burger, Die Kunst, cit., pp. 17 sg. (corsivi nell’originale). 45 Wilhelm Worringer, Astrazione e empatia, introduzione di Jolanda Nigro Covre, trad. it. di Elena De Angeli, Torino: Einaudi, 1975, p. 110. 46 Vd. ultra, in Appendice. 47 In proposito vd. Shulamith Behr, Wassily Kandinsky and Dimitrije Mitrinovi: pan-Christian universalism and the yearbook towards the mankind of the future through Aryan Europe, in «Oxford Art Journal» 15, 1, 1992, pp. 81-88. 48 Su questo vd. Duan Paijn, Globalisation and the European Identity, in «Journal of the North American Society for Serbian Studies» 14, 1, 2000, pp. 41-64, qui pp. 41 sg. 49 Si trattava di una esposizione sull’arte di Kandinsky, come ci informa un appunto di Paul Klee, Notes on my First Fotry Years II, a cura di John Russell, in «The London Magazine» 1, 5, 1961, pp. 59-65, qui p. 59; cfr. anche Id., Tagebücher: 1898-1918, a cura e con una introduzione di Felix Klee, Köln: DuMont Schauberg, 1957, ad annum (1914). 50 Wassily Kandinsky, lettera a Fritz Burger, Murnau 7 luglio 1914, Carte Burger. Esiste una fotocopia dell’originale e una trascrizione dattiloscritta, qui p. 2. Chi scrive ha rilevato in quest’ultima una errata interpretazione della grafia, per cui è stato travisato il passo relativo all’unione delle nazioni. 51 Questa lettera è stata esposta soltanto una volta, in occasione di una mostra sulla grafica di Kandinsky presso il Kurpfälzisches Museum di Heidelberg, 1986, ma mai pubblicata. Cfr. Hauck, Fritz, cit., p. 192. 52 Il registro formale con cui l’estensore della lettera si rivolge a Burger non rende giustizia dei rapporti che allora intercorrevano fra i due, come si dirà più avanti. Si osserva, comunque, che tutta la corrispondenza a noi nota fra Kandinsky e Burger rimane impostata su convenzioni ed etichette, probabilmente per il fatto che dal punto di vista caratteriale i due risultano abbastanza diversi e in questo caso, oltretutto, s’imponeva una certa enfasi dichiaratoria. 108 53 Capitolo 6 Come si può notare dall’elenco delle personalità menzionate, si tratta di un gruppo di lavoro assai disomogeneo. La parabola di queste vite renderà conto di una condizione di disagio, laddove non di confusione e smarrimento, che produrrà azioni e opere tra loro clamorosamente in contrasto. Basti pensare all’evoluzione del pensiero di un Giovanni Papini, di un Houston Stewart Chamberlain, piuttosto che alle aspirazioni democratiche del poeta polacco Stanisaw Przybyszewski. 54 È anche il recapito della redazione della neonata rivista. Dato curioso, la sede era a pochi passi da dove attualmente è allogato l’Istituto di Storia dell’arte dell’Università di Monaco. 55 Fritz Burger, lettera alla moglie del 19 luglio 1914, Carte Burger, Heidelberg (trascrizione Erbsmehl, n. 4, p. 7). 56 Fritz Burger, lettera alla moglie del 22 luglio 1914, Carte Burger, Heidelberg (trascrizione Erbsmehl, n. 5, p. 10). 57 La traduzione che segue corrisponde al foglio due di tre lettere dattiloscritte, copie di missive del Nostro a Kandinsky, Carte Burger, Heidelberg. 58 Dopo un periodo un po’ difficile e di frequenti incomprensioni fra i due coniugi, Fritz sentiva l’assoluta necessità di una pausa, per riprendere le redini del ménage familiare. 59 Fritz Burger, lettera alla moglie del 26 luglio 1914, Carte Burger, Heidelberg (trascrizione Erbsmehl, n. 7, p. 13). 60 Dal Vorwort alla Einführung in die moderne Kunst. Die Kunst des 19. und 20. Jahrhunderts, Handbuch der Kunstwissenschaft, I, Berlin: Athenaion, p. VII. Cfr. ultra, traduzione in Appendice. 7. L’AMBIENTE MONACENSE «Vi guardiamo, ora, con occhi diversi». (Max von Schenkendorf) 1 «München leuchtete». L’attacco folgorante di Gladius Dei, in cui Thomas Mann comincia la descrizione del «gaio traffico della città bella e gradevole» in un assolato giorno di giugno,2 viene spesso ripreso nei contesti più vari, a vestire – di autorità – una legittimazione per la qualità della vita offerta dalla capitale bavarese. Monaco sfolgorava. Sulle piazze festose e sui bianchi templi a colonne, sopra i monumenti anticheggianti e le chiese barocche, sui palazzi e sui giardini della Residenza si dipingeva un cielo di seta turchina…tranquilla giocondità per ogni dove…Viaggiatori di tutti i paesi si lasciano trasportare dalle pigre carrozzelle, guardando con imparziale curiosità i muri delle case a destra e a sinistra, e salgono le gradinate dei musei […] Giovanotti che fischiettano il motivo di Nothung e la sera affollano i posti in piedi del moderno teatro di prosa, entrano ed escono dall’Università e dalla Biblioteca nazionale con le tasche della giacca piene di riviste letterarie. Davanti all’Accademia di Belle Arti […] si vedono i gruppi multicolori dei modelli: pittoreschi vecchi, bambini e donne abbigliate nella foggia dei Colli Albani […]. Qua e là, nel succedersi dei palazzi borghesi, spicca una costruzione artistica, opera di qualche giovane architetto d’accesa fantasia: larga, ad arco schiacciato, bizzarramente adorna, piena di sapore e di stile… È sempre fonte di nuovo diletto soffermarsi alle vetrine dei negozi di arte… Dappertutto sono disseminate le bottegucce di statuaria, di cornici, di antichità; e i busti di dame fiorentine del Quattrocento ti guardano, con arguzia raffinata, dalle vetrine; e il più piccolo e il più modesto di questi negozianti parla di Donatello e di Mino da Fiesole come se avesse ottenuto personalmente da loro il diritto di riprodurne le opere. Ma laggiù nell’Odeonsplatz, davanti alla grandiosa loggia…, una folla di curiosi ammira lo spazioso negozio d’arte varia di M. Bluthenzweig. Quella mostra è una vera gioia degli occhi! Riproduzioni di capolavori di tutte le gallerie del globo… copie di quadri moderni, fantasie sensuali e gioconde nelle quali il mondo antico sembra riplasmarsi in saporoso realismo… volumi lussuosi, trionfi della nuova 109 110 Capitolo 7 arte grafica, opere di poeti alla moda, presentate in vesti sfarzose ed eleganti; e in mezzo a tutto questo ritratti di artisti, di musicisti, filosofi, attori, poeti, dati in pasto alla volgare curiosità dell’anedottico… L’arte è in fiore, l’arte impera, l’arte brandisce sopra la città il suo scettro inghirlandato di rose, e sorride. E ognuno, reverente, partecipa al suo culto, ognuno con impegno e devozione, si dedica a esercitarla, a propagarla, e venera assiduo la linea, l’ornamento, la forma, i sensi, la bel3 lezza… Sfolgorante Monaco! Non troppo velatamente, in realtà, le osservazioni del giovane Mann costituiscono – complice una sottile ironia – una critica ben dura alle manifestazioni artistiche dello Storicismo sul crinale del secolo, le quali, tanto floride in apparenza, riproducono vacui schemi imitativi votati all’aridità di senso. Il personaggio principale della novella, tale Girolamo, incarna un fanatismo ascetico e un’integrità morale esasperata, che se per un verso alludono al Savonarola e al «Renaissancekult» intorno al 1900, al tempo stesso evocano figure sacerdotali di nietzschiana memoria. Come reagire alla sensazione di soffocante appagamento dei sensi che certa arte produceva, come saggiare modalità di approccio più immediate all’opera d’arte, e come piegare la tirannia di un gusto à la page? Nel 1904 le cronache cittadine riportano che «il Kunstverein è tornato e questa volta propone una collezione di quadri degli artisti francesi Gauguin e Vincent van Gogh – opere che non hanno mancato di fare sensazione, o meglio, di destare sorpresa e spaesamento».4 I visitatori della mostra si dicono piuttosto scettici. E, tuttavia, un’esigenza di novità si andava propagando, complici le molte riviste – quelle stesse che «i giovanotti con le tasche piene [di tali strumenti di provocazione]» leggevano e dibattevano in ogni dove e a tutte le ore.5 Rispetto alla situazione immortalata in Gladius Dei, un mutamento di rotta veniva promosso ancora nel 1892, con l’istituzione della Münchner Sezession, in assoluto la prima delle associazioni di artisti che si qualifica come tale nella Germania guglielmina.6 Dalle sue costole nascerà la Phalanx (1901) e a seguire la Neue Künstlervereinigung (1909). Fra gli esponenti dell’avanguardia monacense si avvertiva un disagio, vieppiù palpabile, rispetto a quanto stava accadendo sulla scena tedesca: «nel corso di una seduta dei trenta rappresentanti delle associazioni degli artisti, a Dresda [nel 1904], su proposta del L’ambiente monacense 111 portavoce di Monaco, Consigliere Wülfert, si è deliberato di istituire una lega di tutte le federazioni artistiche tedesche […] I partecipanti di Monaco erano oppressi dalla convinzione che la loro città avesse trovato un nuovo pericoloso concorrente nella “Firenze dell’Elba” e che dovesse adoperarsi con ogni sforzo per affermare la propria egemonia come città d’arte».7 Stando così le cose, si cercò di porvi rimedio attraverso una sinergia di apporti: dalle redazioni delle nuove riviste a una lungimirante politica museale, chiamando alla direzione dei Musei Bavaresi lo scomodo Hugo von Tschudi;8 dall’apertura al dibattito sui metodi e le finalità della storia e critica delle arti, fino alle novità in campo teatrale e soprattutto cinematografico.9 La cultura monacense si inebriò di fatto per una sorta di doppia vita, sullo sfondo contrastato del periodo prebellico:10 da un lato gli epigoni di un Decadentismo estetizzante, che riversava sulla vita reale pulsioni erotico-distruttive, dall’altro un’ondata di sferzante energia, talora perfino brutale, sempre provocatoria, in ogni caso spontanea nella sua ricerca di autenticità. In una formula, è stato detto incisivamente «che il geniale era di casa a Monaco così come il volgare».11 Mentre si dava alle stampe la raccolta manniana Il piccolo signor Friedemann e altri racconti – con tutto il suo carico di conflitti tra arte e vita, che impalca l’antitesi tra cittadino medio e adeguato al sistema e personalità lacerate da un insopprimibile dissidio interiore, Leitmotiv di tutta la sua produzione futura – un manipolo di artisti si staccava dalla Münchner Sezession, fondando la Neue Künstlervereinigung München (NKM), nuova associazione di artisti, presieduta da Wassily Kandinsky. Siamo nel 1909. Non è questa la sede per argomentare le ragioni della scissione, né per discutere sui contenuti e sugli obiettivi del gruppo, tra cui si ritrovano pittori postimpressionisti e attratti dal Fauvismo. I pittori che si riconoscevano nella NKM erano alla ricerca di un linguaggio formale in grado di restituire non solo le impressioni del mondo esterno, ma anche quelle dell’universo interiore. Tra i componenti del gruppo figurano Erbslöh, Jawlensky, Kanoldt, Kubin, Münter, Schnabel, Werefkin, lo scultore Kogan e il ballerino Sacharoff. È del 1911 l’adesione di Marc, laddove Klee e Macke preferiscono seguire da presso gli sviluppi dell’associazione, optando però per un rapporto svincolato.12 112 Capitolo 7 Torneremo fra poco sull’evoluzione della NKM, per non perdere di vista l’orizzonte più spettacolare in cui il giovane storico dell’arte Burger, fresco di abilitazione alla libera docenza, si trova a muovere i primi passi sulla scena metropolitana. Nel processo evolutivo della storia dell’arte tedesca, Monaco ricopriva agli inizi del XX secolo, insieme a Berlino, un ruolo sicuramente trainante. Da quando i Wittelsbach avevano dedicato la loro regale cura alla salvaguardia dei monumenti, la storiografia artistica aveva preso dimora a Monaco e nella sua Università con una ininterrotta risonanza internazionale. Nel 1909 viene fondato, tra i primi in tutto il Paese, l’Istituto di Storia dell’arte della Ludwig-Maximilians-Universität e presto viene chiamato Heinrich Wölfflin, che vi insegnerà dal 1912 al 1924. Proprio Wölfflin induce ad aggiungere qui una nota non solo sulla temperatura culturale della Monaco di quegli anni, ma anche sulla capacità che l’atmosfera monacense ebbe di ispirare artisti e critici. Come ha fatto notare Nikolaus Meier, è quello stesso studioso a parlare di «topografia della scienza», e a situare le proprie produzioni scientifiche nei luoghi in cui sono i monumenti ivi discussi. In tal senso, Monaco ebbe un ruolo chiave nella vita e nell’opera di Wölfflin. Le sue lettere attestano il legame empatico con la città – «Per la prima volta ho la sensazione di sentirmi a casa mia»;13 «l’Università di Monaco, dove ho trascorso gli anni più belli della mia vita»14 –, anche laddove la vivace metropoli bavarese gli offra una incitazione soltanto negativa: al cospetto della superficialità dei divertimenti cittadini ammoniva se stesso: «Non si diviene ciò che si è senza esercitarsi in compiti e ostacoli sempre nuovi».15 Sono parole che sembrano uscire dal Tonio Kröger di Thomas Mann, il quale pure ambienta a Monaco la sua teoria artistica improntata sulla resistenza agli impulsi vitali che attraversano e scuotono la vita monacense di primo Novecento, come risulta dal lungo intermezzo teorico della novella. Ma, come nel caso autobiografico manniano, non è solo il colore e l’atmosfera locale della metropoli bavarese a costituire fonte d’ispirazione: Wölfflin giungeva a Monaco – dopo aver declinato l’invito di Thode ad assumere il ruolo di docente a Heidelberg16 – con l’intento di scrivervi un libro sull’Italia, ma in quegli anni si destò in lui l’idea di leggervi in filigrana insieme il Nord e il Sud. Così il volume Italien und das deutsche Formgefühl è in realtà un libro su Monaco, che, pur essendo sta- L’ambiente monacense 113 to redatto poi negli anni di Zurigo, compendia scientificamente l’atmosfera degli anni monacensi.17 Anche al Nostro l’atmosfera della capitale bavarese risulta estremamente confacente e stimolante, come si evince, fra l’altro, da un passaggio di una lettera del 1907 alla suocera Marie von Duhn:18 «Indipendentemente dal fatto che qui [a Monaco] ho trovato un terreno di attività efficace, come non mi sarebbe stato dato in alcuna altra università della Germania, ci si trova oltretutto in un certo modo nel più stretto contatto della moderna palpitante arte e del fermento artistico, e inoltre al contempo con un mercato dell’arte davvero impressionante, i cui fili si dipanano in tutto il resto del mondo, come avviene altrimenti solo a Parigi o a Londra […] Tuttavia, non sono i Monacensi al centro di questa cerchia, ma piuttosto il contingente maggiore è costituito dagli elementi che sono giunti da altri luoghi, e formano un’élite intellettuale e artistica, come non si riscontra altrove in Germania […] Di questo Claretta riferisce in continuazione non solo alla signora Furtwängler [moglie dell’archeologo Adolf] e alla signora Hildebrand [moglie del famoso scultore e professore Adolf von Hildebrand]19». Lo scrittore Hermann Buddensieg, ricordando i propri studi monacensi nel semestre estivo 1913, a proposito dei corsi di storia dell’arte annota da par suo: «A Monaco c’erano a quel tempo due docenti assai stimati: Heinrich Wölfflin e Fritz Burger. Wölfflin, uno Svizzero timido e compassato, dal portamento fermo e spiccatamente aristocratico, teneva un corso sull’architettura monacense. Di tutt’altra impronta – quasi come la sistole sta alla diastole – era Fritz Burger. Faceva lezione con diapositive nell’aula più grande dell’Università, spesso sovraffollata. Fritz Burger parlava, senza leggere, di quella pittura moderna che, con Kandinsky, Marc e Macke, appariva persino rivoluzionaria. […] Interpretava le loro opere a partire dallo spirito recondito».20 E la disponibilità del docente Burger non disdegnava supplementari incontri serali e seminari privati – a casa sua – cui spesso partecipava anche la moglie; ovvero guidava gli studenti, non pago di introdurli in ambiti inesplorati, alle gallerie private più marcatamente attente alle prove dei giovani artisti di avanguardia.21 Più in là, dopo il 1912, organizzerà anche escursioni a Murnau presso l’atelier di Kandinsky, protraendo sulla via del ritorno le discussioni sui temi dell’almanacco Der Blaue Reiter e sulla produzione teorica dello stesso pittore russo.22 114 Capitolo 7 Del rapporto intercorso fra il più anziano cattedratico, che dava lustro all’Ateneo monacense, e il libero docente Burger già si è detto nella disamina delle posizioni-chiave nel contesto dello sviluppo della disciplina nell’Europa sul crinale del secolo. Gioverà brevemente ricordare un percorso d’indagine, che chi scrive ha in animo di sistemare quanto prima, e che si basa sul carteggio fra i due, almeno parzialmente recuperato, sulle indicazioni che – retrospettivamente – emergono dalla corrispondenza fra Clara Burger, che il destino volle prematuramente vedova e bisognosa di appoggi, e il Cattedratico, che molto si prodigò per la sua situazione e per l’eredità del Nostro, dopo le fonti che già menzionavano i ripetuti interessamenti dello Svizzero per far ottenere a Fritz stabile incarico presso una qualche università. Wölfflin fa memoria del suo nome in un paio di lettere alla famiglia, riportate nella sua Autobiografia, così come il Nostro non manca di chiamarlo in causa nelle sue missive, fosse anche solo per constatare con la moglie come il collega più anziano abbia maggior agio di concentrasi sul lavoro, cui si dedica in modo indefesso e assolutamente organizzato, come un padre di famiglia non riesce certo a fare; oppure lasciandosi andare alla stizza – consapevole della auctoritas wölffliniana – quando non accetta che il Professore vada in giro a dire che Tietze, nella sua Methodenlehre, cita Burger in una nota, laddove, invece, egli figura in un passaggio del testo, in cui l’Autore mostra di stimare il contributo metodologico del collega. Ben altro si dovrà riferire relativamente all’aiuto plateale che Wölfflin concesse al giovane docente nell’avventuroso progetto del Praktikum, nonostante le difficoltà e talora qualche diffidenza. Ma di questo si parlerà nell’ultimo capitolo. Nel pieno del suo periodo monacense, nel 1909, Burger pubblica uno dei volumi più significativi della sua produzione, una sorta di giro di boa e di punto di non-ritorno: con Le ville di Andrea Palladio, lo studioso si congeda dalle indagini di ambito rinascimentale italiano e recide – in modo peraltro geniale, come si è cercato di evidenziare in precedenza – il cordone ombelicale che lo teneva avvinto a un determinato percorso usuale per uno storico dell’arte, vale a dire il reiterato confronto con l’Antico. L’ambiente monacense 115 Leggendo uno dei necrologi più sentiti, dedicatogli da Oskar Lang,23 ci si imbatte in un’affermazione che, al di là della forza evocativa, non può non far riflettere sull’atteggiamento del Nostro. «La sua opera è destinata a rimanere per sempre, pur se in una dimensione possente, un Torso…». Chissà se all’autore riecheggiava nella mente uno dei versi più lapidari e sorprendenti di Rainer Maria Rilke (anch’egli di casa a Monaco e vicino agli ambienti artistici), che sigla in modo inequivocabile una lirica del 1908; certamente, quel monito era stato fatto proprio da Burger, nel momento stesso in cui si decideva ad affrontare risolutamente i problemi della storia dell’arte dell’età sua: «Du mußt dein Leben ändern» – Devi cambiare la tua vita! È la perentoria asserzione con cui il poeta chiude la sua riflessione dinnanzi al celebre Torso del Belvedere,24 un richiamo, in tempi di opposte spinte e provocazioni, a prendere posizione. Ne parla anche Josif Brodskij nel suo Canto del pendolo, a proposito della situazione degli intellettuali russi nel XX secolo.25 Il classico degli antichi – che, come osservò Goethe, «si sentivano bene entro i confini leggiadri del mondo» (il problema fondamentale, si badi, è quello del métron, della misura con cui riuscire a rapportarsi alla realtà circostante) – ci parla da una distanza che muove al tempo stesso a un imperativo e a una nostalgia. L’unica via, così Rilke, la più rispettosa nei confronti della classicità, invita risolutamente a prendere nelle proprie mani il nostro destino e poi a viverlo secondo modi di responsabilità nei confronti del nostro tempo, traducendo la lezione dei classici in un metodo di ricerca, piuttosto che in un bagaglio pesante di rivendicazioni e richiami.26 Non a caso l’intellettuale praghese amò profondamente l’opera di Domínikos Theotokópulos, El Greco, che anzi lo folgorò durante un suo viaggio a Toledo: quello stesso artista che aveva saputo tradurre, senza tradire malamente, la sua appartenenza alla cultura bizantina e mediterranea, ellenica dunque, nella riproposizione di un Laocoonte misurato sul suo tempo; e siccome era «un tempo critico, così la pittura di El Greco rappresenta conflitti […] ma non segue il fascino della moda e bene illustra quella che è stata definita “l’età conflittuale di Filippo II”».27 Si faccia caso a come questo dipinto sia il solo di soggetto mitologico realizzato dal Greco, nell’ultima fase della sua produzione (1610-1614). Il quadro, che oggi si trova presso la National Gallery di Washington, era esposto negli 116 Capitolo 7 anni qui focalizzati alla Alte Pinakothek di Monaco, dove Burger portava i suoi allievi ad affrancarsi dagli impacci di un modo erudito, ma spesso supponente, di studiare la storia dell’arte.28 La lezione dei “classici”, da Vitruvio a Palladio, da Donatello a Michelangelo, dalle statue greche fino a Böcklin, Burger l’aveva profondamente fatta propria, se è vero che il concetto di imitazione degli antichi attira a sé il problema dell’autenticità del proprio volersi misurare con la Storia. Giustamente Glenn Most richiama questo verso osservando la sete di riconoscimento, dietro la nobile facciata della Grecia classica, di una ineludibile imperatività che proviene dall’arcaico e primitivo mondo greco, sulla scia di Nietzsche (La nascita della tragedia è del 1872) e di Stefan George, e che nei primi anni del secolo trova incisiva formulazione nel già citato passo rilkiano al cospetto del torso arcaico del presunto dio Apollo. Nel volgere del primo decennio del Novecento l’apollinea visione della Grecia classica va in pezzi, si rifrange nelle visioni patetiche e grondanti di nuove tremende allusioni di un Hofmannsthal e di un Borchardt.29 E si prepara la strada alla strepitosa rivalutazione dell’arcaismo ellenico che porterà ad assunti di questo tenore: «Presupposto di ogni cultura è uno stile arcaico» (Oswald Spengler, Il tramonto dell’Occidente, 1918).30 Fritz Burger riconvoca esplicitamente siffatto plesso di questioni in uno scritto tardo e stilisticamente difficile qual è Problemi di visioni del mondo e sistemi di vita nell’arte del passato, dove sceglie di parlare di «arte dei primitivi», che i Moderni hanno «ripetutamente eletto a propri maestri»31 – laddove fa riferimento all’ordine apparente che si riscontra nella produzione della grecità arcaica, mentre domina in realtà un Suchen, una ricerca spasmodica di legge e di ordine – in sé priva di norma – che è «niente meno che primitiva»32, e che racchiude implicitamente in questo cercare un supremo imperativo morale, che potrebbe essere così formulato: «die ordnende Gesetzlichkeit des Lebens um ihrer selbst willen suchen»: ricercare in sé e per sé la legge immanente che regola la vita. Tale imperativo si concentra nel gesto: «Il gesto è tutto. Per questo è possibile, qui, parlare di un espressionismo»33. E così il cerchio del ritorno all’arcaico fuoco dei Greci si richiude e si reduplica nell’età presente. Lo Zeitgeist di primo Novecento guarda alle proprie radici culturali insieme con disincanto e nuova motivazione. Se si volesse cercare L’ambiente monacense 117 un comun denominatore per le aspirazioni della nuova arte tedesca intorno al 1910, si dovrebbe fare appello a quel sentimento – alla Stimmung – che anela all’«essenza» delle cose, al riconoscimento dei «principi generatori», alla individuazione delle qualità «autentiche» delle manifestazioni espressive dell’uomo, quel sentire, cioè, la vita interiore delle forme. «Il desiderio di rompere con gli storicismi, con la rappresentazione mimetica e con il lusso maniacale che imperavano nella cultura tedesca, erano alla base della promozione di un nuovo inizio culturale per il nuovo secolo, un nuovo modo ci concepire le arti come un universo omogeneo: l’opera d’arte totale doveva abbracciare tutti gli ambiti ed essere in grado di coinvolgere ogni dimensione del vivere e del sentire», giusta Mazzotta.34 Era necessario ripartire da un approccio differente, peraltro già additato dal romantico Schenkendorf nella sua lirica Die altdeutschen Gemälde (I dipinti tedeschi antichi), occasionata da una visita alla celebre collezione Boisserée nel 1814: «Nun schauen wir euch anders an» – Ecco, ora vi guardiamo con occhi diversi! Questa eredità fu avvertita da più di uno storico e da intellettuali sensibili ai problemi dell’Europa contemporanea. È il caso di Walter Cohen, che nel 1919 fa appello al verso testé citato e lo inserisce in una rivista d’avanguardia, che gli aveva accettato un articolo sull’antica pittura di Colonia, ragionandone le motivazioni profonde.35 In effetti, il Medioevo non parla più ai Moderni con le suggestioni che fecero vibrare l’animo romantico, né attraverso quell’immagine devota e oleografica che fu icona rassicurante per certo Storicismo. All’abbrivo del XX secolo la recezione del Gotico mostra caratteri e intendimenti originali.36 La pubblicazione nel 1911 del fortunato Formprobleme der Gotik,37 scritto da Worringer pochi anni dopo la clamorosa tesi su Astrazione e empatia (sempre presso Reinhardt Piper, uno tra gli editori più ardimentosi dell’epoca),38 costituisce una sorta di cartina al tornasole circa l’interesse suscitato allora dalla produzione – lato sensu – medioevale. Per cogliere appieno quale fu il contributo di Burger a questo versante degli studi storico-artistici, in primis con la redazione di un volume uscito nel 1913 per la collana da lui fondata e diretta dello Handbuch für Kunstwissenschaft, «sulla pittura tedesca dalla fine del Medioevo fino alla fine del Rinascimento», non si può tralasciare di ri- 118 Capitolo 7 cordare qualche passaggio-chiave del testo worringeriano.39 Rispetto alla tesi del 1908, è nei Problemi formali del Gotico che s’affaccia una teoria generale sull’arte medioevale, quell’arte che esibisce uno stile non ispirato dal modello classico. Qui l’uso delle dicotomie risulta vieppiù insistito, accentuato: Nord vs Sud, astrazione vs empatia, Gotico vs Rinascimento; altrimenti detto, l’esaltazione dell’«impulso gotico» a creare arte stilizzata in opposizione all’eredità che vige per l’arte del bacino del Mediterraneo, da sempre incline a cercare l’aderenza al verosimile, l’imitazione del dato di natura. La domanda di fondo era questa: «cosa c’è di tedesco nell’arte tedesca»? E su questo interrogativo si scaldano gli animi, specialmente a ridosso del conflitto mondiale. Nei Problemi formali del Gotico si cerca di definire propriamente l’«essenza» (das Wesen) dell’arte medioevale.40 Le riflessioni di Worringer sull’arte astratta e l’interpretazione del Kunstwollen gotico diventano, perfino suo malgrado, campo di battaglia per gli artisti contemporanei, e precisi riferimenti alla sua indagine orientano gli Espressionisti nella loro azione creativa.41 L’architettura gotica è presentata da Worringer come espressione che piega la materia fino a snaturarla e a manifestare lo spirito: «Tutto ciò che l’architettura greca consegue in fatto di espressione, lo consegue con la pietra, attraverso la pietra; tutto ciò che l’architettura gotica consegue in fatto di espressione, lo consegue – qui si fa valere il contrasto – nonostante la pietra. L’espressione che le è propria non si fonda sulla materia, ma si realizza al contrario soltanto attraverso la sua negazione, quindi la sua smaterializzazione […] Ciò che è in contraddizione con la materia è lo spirito. Smaterializzare la pietra significa spiritualizzarla».42 In ciò si evidenzia un carattere precipuo della volontà, l’opposizione vitalistica al peso della materia (e della tradizione) in nome dello spirito. Ancora Worringer: «Si potrebbe designare l’architettura gotica come una costruzione priva di oggetto, poiché essa non ha uno scopo pratico immediato, ma serve esclusivamente la volontà di espressione artistica».43 Nel 1910 Kandinsky produce il suo primo acquerello astratto; nella Composizione IV, del 1911, le figure sono talmente semplificate, il colore arbitrario e lo spazio dissolto che è impossibile distinguere il soggetto senza riferirsi ai precedenti della serie. Lo spettatore è parti- L’ambiente monacense 119 colarmente disorientato dal modo in cui usa la linea: tanto come elemento indipendente, quanto come limite per il colore. Qui insiste l’abissale, inammissibile differenza con l’uso tradizionalmente inteso della linea. L’espressione è conseguita nonostante il colore, lo spazio, la linea. E ciò accentua, per contrasto, colore, spazio e linea, non già al servizio di uno scopo pratico, bensì al solo fine del Kunstwollen. A causa delle tensioni seguite alla ricusazione di un’opera dal titolo Composizione V, che lo stesso Kandinsky avrebbe voluto esporre alla terza collettanea della NKM, si determinò uno strappo in seno al gruppo, per cui il pittore russo, unitamente alla compagna Münter, a Kubin e Marc, si ritira dall’associazione e fonda una distinta unione artistica: Der Blaue Reiter. La prima esposizione ha luogo a dicembre dello stesso anno, presso la Galleria Thannhauser di Monaco.44 Scrive in proposito Kandinsky: «A quel tempo i più bei locali per mostre di tutta Monaco erano quelli di Heinrich Thannhauser: Tschudi riuscì a farli mettere a nostra disposizione… La stampa sfogò tutto il suo livore contro la mostra; il pubblico insultò, minacciò, sputò sui quadri… Noi espositori non riuscivamo a capire le ragioni di quel furore… Ci stupivamo inoltre che proprio a Monaco, “città amica dell’arte”, non ci venisse rivolta, a parte Tschudi, una sola parola di simpatia. E un giorno la parola venne: Heinrich Thannhauser ci diede la lettera di un pittore che non conoscevamo e che si rallegrava con noi per la mostra, esprimendo fervidamente ed efficacemente il proprio entusiasmo. Questo pittore era un “bavarese puro sangue”: Franz Marc».45 Pochi mesi prima, dall’editore Albert Langen di Monaco viene proposto un libriccino a dir poco inquietante. L’arte muore, di Victor Aubertin. L’autore, un feulletonniste dal pessimismo graffiante, dileggia i futuristi come ridicoli e spara a zero, fino al paradosso, contro gli altrettanto detestati cubisti, le cui figure umane erano composte di «pure e semplici scatole di sigari»: e tuttavia «questi uomini-tabacchiera continuavano a essere uomini secondo il canone antico, che potremmo comprendere e stimare in base alla proporzione e al movimento. I futuristi hanno dissolto tutte le forme: non fanno che punti e linee. La pittura è arrivata alla fine». Il giudizio di Aubertin è formulato nell’ottica della cultura classicista e nella sua diagnosi si avverte la paura che l’arte sia fagocitata da una civilizzazione che funzionalizza ogni cosa. Contro una tale proditoria accusa si levano voci, come 120 Capitolo 7 quella – altrettanto caustica, ma assai più arguta – di Karl Kraus, e controcanti che non mancano di vivacità verbale. È il caso dell’almanacco Il Cavaliere azzurro, l’omonima pubblicazione annuale dell’ultima neonata associazione di artisti, che prende forma editoriale nel 1912, quando ha luogo la seconda esposizione del Blauer Reiter presso la Galleria di Hans Goltz.46 In uno degli articoli scritti da Franz Marc per l’Almanacco, intitolato Beni spirituali, si legge una dedica commovente a colui che, altrove, già il sodale Kandinsky aveva definito «non soltanto un grand’uomo, ma anche un grande uomo»:47 «speriamo ardentemente – così Marc – di poter continuare a dedicare le nostre deboli forze al compito immane verso cui, ora che Tschudi non è più, nessuno può guidarci; speriamo di riuscire a ricondurre il suo popolo alle fonti dell’arte, in attesa che sorga ancora un uomo, dotato come lui di energie mistiche, che coroni l’opera e riduca al silenzio i presuntuosi, saccenti, schiamazzanti avversari del grande scomparso: i negatori dello spirito libero e dell’azione eletta. Nessuno ha sperimentato più duramente di Tschudi, e oltre la morte, quanto sia difficile fare doni spirituali al proprio popolo; ma questo popolo troverà ancor più difficile liberarsi dagli spiriti che Tschudi ha evocato. Lo spirito abbatte le fortezze.»48 E infatti, più sopra, v’è la dichiarazione programmatica di Marc. Di contro al disprezzo con cui nuovi quadri e nuove idee vengono respinti dalla società – anche quella intellettualmente più preparata –, «può darsi però che noi si tenga duro. La gente non vorrà, ma dovrà. Abbiamo piena coscienza che il nostro mondo ideale non è un castello di carte con cui ci trastulliamo, ma racchiude in sé gli elementi di un moto che oggi fa sentire le sue vibrazioni in tutto il mondo».49 Lo Spirituale nell’arte, al pari del 1912,50 è lo scritto in cui Kandinsky espone le proprie idee sulla pittura non figurativa, sulla forza psicologica del colore puro e l’analogia tra arte e musica. Con Linee Nere (1913), non si può più parlare per la sua produzione di astrazione a partire da un soggetto; il colore e la linea hanno assunto tale autonoma espressività da non seguire più un modello dato. Opere come questa sono le prime decisamente astratte. Il percorso di Kandinsky verso l’astrazione – è noto – cerca e trova immediata giustificazione teorica in Astrazione e Empatia di Worringer. L’autore argomenta che L’ambiente monacense 121 la tradizionale gerarchia di valori, basata sulle regole rinascimentali, non è valida per considerare l’arte di altre culture; molti artisti creano dalla realtà ma con un impulso «astratto», cosicché le ultime tendenze dell’arte si trovano in società meno corrotte da una visione materiale del mondo. Gli fa eco Marc, quando esalta il caso del Greco, la cui arte «è intimamente connessa con la fioritura delle nostre nuove idee: Cézanne e El Greco sono spiritualmente apparentati al di là dei secoli che li dividono. […] Le opere di questi due artisti stanno oggi all’ingresso di una nuova èra della pittura,51 perché entrambi sentirono l’intima struttura mistica dell’immagine del mondo, che è il grande problema della nostra generazione».52 L’atteggiamento di chiusura e di biasimo, con cui taluni ambienti respingevano il montante risveglio di interesse per l’arte contemporanea, a partire da quella francese – i vari Cézanne, Gauguin, van Gogh, Picasso, ecc. – sfociò in un vero e proprio «conflitto sui Moderni», come venne definito già a quel tempo (Der Streit um die Moderne), e nella Protesta degli artisti tedeschi del 1911. Si tratta di un pamphlet,53 orchestrato da menti accademiche e da ministeriali, non meno che da artisti locali, in cui si prendeva decisa posizione contro l’acquisizione di pitture moderne provenienti da oltreconfine, come proponevano alcuni direttori di museo tedeschi. Centoquaranta voci di storici dell’arte e artisti s’impegnavano a illustrare le motivazioni per cui si doveva osteggiare l’ipotesi della Kunsthalle di Brema relativamente all’acquisto del Campo di papaveri di van Gogh. Qui affondano – irriducibili – le radici di una polemica senza quartiere, e duratura, sui rapporti fra arte tedesca e arte francese e, più in là, sulle politiche museali. Passarono soltanto pochi mesi e presso l’intrepido editore Piper di Monaco apparve la Risposta alla ‘Protesta degli artisti tedeschi’, che troverà prosecuzione nell’almanacco del Cavaliere Azzurro. La controversia non riguardava, a ben vedere, questioni stilistiche, mentre più prosaicamente si attardava su episodi legati alle possibilità espositive, di trovare quindi alloggio o meno, meglio se in via permanente, presso le pubbliche gallerie. Delle 2452 nuove acquisizioni avvenute intorno al 1910, un numero contenuto, in realtà, era quello di opere straniere. Di quei 236 pezzi la maggior parte erano quadri provenienti dalla Francia. In quel torno d’anni, oltretutto, 122 Capitolo 7 la propaganda guglielmina cominciava a vagheggiare “un posto al sole” per la produzione figurativa tedesca. Rispetto alle pulsioni imperialistiche del Reich, tutto sommato marginali, contava il conflitto d’interessi degli artisti locali, i più prossimi a poter profittare delle scarse risorse e in condizione di fomentare un certo revanscismo culturale. Fa specie osservare, tuttavia, quanto tale protesta venne condivisa da persone fra loro estremamente dissimili, per formazione, aspettative, ideali. Fra queste, Franz von Stuck, Theodor Heine, ma anche Käthe Kollwitz, e il suocero di Burger, von Duhn… L’imputato principale, contro cui si scagliava il libello, era l’allora direttore della Kunsthalle di Brema, Gustav Pauli. Si era messo in testa, complice un’associazione di amici del museo, di far approdare alla pinacoteca una tela di van Gogh del 1889, la prima effettivamente acquistata da un’istituzione pubblica tedesca. Gli si rimproverava la mancanza di spirito patriottico, nel momento in cui non incoraggiava finanziariamente «la specificità del nostro popolo». E dire che di Carl Vinnen ve n’erano già due di quadri esposti nelle sale di quel museo! E la posizione di Burger in siffatta diatriba? Non figura fra gli estensori della Risposta, fra cui ricordiamo almeno – oltre a Pauli, naturalmente – direttori di musei: Osthaus, Lichtwark, Swarzenski; artisti, quali Lovis Corinth, Max Beckmann, Gustav Klimt, Otto Modersohn (che era esponente del gruppo di “Worpspede”, cui apparteneva, ironia della sorte, lo stesso Vinnen); ancora, Marc e Kandinsky, insieme a scrittori e critici, come Worringer, Henry van de Velde, Hans Tietze.54 Ci si può interrogare a lungo sull’assenza vistosa di Burger – a quella data – dal novero dei paladini dei Moderni. A fronte di possibili imbarazzi familiari, per il fatto che il suocero aveva detto la sua in modo autorevole,55 vi sono ben altri elementi che sostanzierebbero una sua presa di posizione ufficiale. Nel Diario segreto della moglie sta scritto: «Lì, nell’isola di Sylt, nell’estate del 1911, mio marito cominciò il suo libro su Cézanne e Hodler». Appena più sopra, la stessa Clara riferisce che Fritz, all’età di 34 anni – dunque, proprio nel 1911 – aveva iniziato per la prima volta a tenere corsi sull’arte contemporanea e, si badi, «è come se avesse ritrovato se stesso! […] Queste sue lezioni affascinavano me e gli altri molto di più di tutto quello che aveva proposto finora».56 I registri dei corsi tenuti dal libero docente in quell’anno accademico, riportano, fra gli altri, quelli relativi a L’arte e L’ambiente monacense 123 i problemi artistici del presente (un’ora a settimana con un pubblico di oltre cento studenti), nel semestre invernale, e in primavera Storia delle correnti artistiche nella Germania e nella Francia del XIX secolo, per quattro ore a settimana, seguite da più di ottanta studenti, cui si possono aggiungere i 216 visitatori che Burger accompagnava ogni sabato per le sale della Schackgalerie e della Neue Pinakothek, dove Tschudi, in carica da soli due anni, era riuscito a garantirsi dei Cézanne, oltre ai vertici dell’Impressionismo, da Manet e Monet, a strepitosi esempi di postimpressionisti, tra cui Gauguin e van Gogh.57 Va sollevata anche un’altra singolare “latitanza” da parte di Burger. Siamo informati del fatto che tra il 16 e il 21 settembre 1909 si svolse proprio nella capitale bavarese il IX Congresso internazionale degli Storici dell’arte, a dimostrare, se ancora ve ne fosse bisogno, il ruolo cruciale dell’arte nella Monaco dei primi anni del Novecento. Era senza dubbio occasione significativa, e infatti si contano 313 partecipanti, dei quali 166 in qualche modo legati alla realtà accademica monacense.58 La prolusione venne affidata a Max Dvoák, che si desiderava chiamare a insegnare alla Ludwig-Maximilians-Universität (ma preferirà restarsene a Vienna). Il caso aveva voluto che Franz Wickhoff, il padre della Wiener Schule, collega di Dvoák, fosse morto a soli 56 anni nella primavera precedente a Venezia. Celebrando la sua persona, si misero in evidenza i metodi formulati da quella scuola di storia dell’arte e, con ciò, anche gli snodi di potenzialità future. Un altro exploit fu quello della relazione del giovane Aby Warburg, che pose in quella circostanza le premesse per quanto sarà chiamato a dire qualche tempo dopo nell’Urbe. Più in generale, questo Congresso si differenzia dai precedenti per una serie di motivi: anzitutto, il gran numero di “non addetti ai lavori” che vollero affacciarsi alle giornate del seminario – il che la dice lunga sull’evoluzione che stava prendendo il dibattito intorno alla Kunstwissenschaft – in second’ordine, non furono soltanto discussioni sugli orientamenti disciplinari, né su questioni filologico-attributive (pure rappresentate), ma il raduno fu volano di altri appuntamenti, fra i più ambìti senz’altro quelli dai galleristi che meglio rappresentavano gli umori e le tendenze del momento. Si portarono alla ribalta anche problemi riguardanti il riordino della materia nei diversi indirizzi e gradi della scuola, sicché cominciarono ad emergere orientamenti pedagogici nuovi, che ancor oggi valgono alla 124 Capitolo 7 Germania un ruolo trainante rispetto alle modalità di approccio all’opera d’arte. Anche quest’ultimo punto, sicuramente innovativo, intercettava le aspirazioni e gli esperimenti di Burger, ma di lui – a quel congresso – fino a oggi nessuna traccia. 59 Ci si può chiedere se per caso non fosse troppo preso dalla chiusura del suo Palladio,60 ovvero dall’organizzare la partenza per il soggiorno di studi londinese, insieme alle molte altre scadenze. Può essere, ma non si può non accarezzare l’idea che in quei giorni non mancasse almeno di ragionare e discutere con gli interessati di nuove tipologie di lezioni, di un andamento congiunto di teoria e pratica, e chissà di quali altre molteplici suggestioni riverberate dagli argomenti inconsueti di cui si faceva talora portavoce in aula e anche fuori. A questa missione, in un pellegrinaggio spirituale senza sosta né incertezze, si volge l’opera di Fritz Burger a partire dal 1913. BURGER A SYLT CON KANDINSKY E MARC (ESTATE 1912)61 L’ambiente monacense 125 N OTE 1 «Nun schauen wir euch anders an». Maximilian Gottfried von Schenkendorf, scrittore e poeta (1783 – 1817), si arruola nel 1813 come volontario e partecipa alle guerre di liberazione tedesche contro Napoleone. Dal 1815 è membro attivo del governatorato militare di Aquisgrana e di Colonia. È uno dei poeti più famosi delle guerre di liberazione. Un volume di sue liriche, Gedichte, esce intorno al 1910 a Berlino, e una nuova edizione a cura di Friedrich Max Kircheisen, sempre a Berlino, Morawe & Scheffelt, nel 1913. 2 Cfr. Jürgen Kolbes, Heller Zauber. Thomas Mann in München 1894-1933, (1987), Berlin 1987 (con bibliografia, pp. 428-437). 3 Thomas Mann, Gladius Dei (1902), in Racconti, trad. it. di Emilio Castellani, introduzione di Roberto Fertonani, Milano: Mondadori, 1978, pp. 177-191, qui pp. 177-179. 4 Cit. dalla Münchner Stadtchronik, 21 agosto 1904, selezione proposta dallo Stadtarchiv München: Skeptische Münchner Ausstellungsbesucher. 5 Illustrierte Moderne in Zeitschriften um 1900, catalogo della mostra a cura di Angela Karasch, Universitätsbibliothek Freiburg (15.-31.08.2005), Freiburg i.Br.: Universitätsbibliothek, 2005, segnatamente Die Metropole München, pp. 45-76. 6 Fra i fondatori erano Franz von Stuck, Wilhelm Trübner e Fritz von Uhde. La Secessione viennese seguirà nel 1897. Si vedano Rita Hummel, Die Anfänge der Münchner Sezession, München 1989; Maria M. Makela, The Munich Sezession Art and Artists in Turn-of-the-Century, Princeton/N.J.: Princeton University Press, 1990; Markus Harzenetter, Zur Münchner Sezession, München 1992. Vd. anche Jolanda Nigro Covre, L’arte tedesca del Novecento, Roma: Carocci ed., 1998, cap. Intorno all’anno 1900: le Secessioni e le basi teoriche dell’arte nuova, pp. 13-26 e note relative, pp. 211-213. 7 Dalla Münchner Stadtchronik, 2 maggio 1904 – Die Kunststadt München fürchtet Konkurrenz. 8 Alla sua attività si deve un significativo nucleo di acquisizioni di opere per la Neue Pinakothek di Monaco, rappresentative delle tendenze della pittura europea dall’Impressionismo alle avanguardie. 9 Nel 1909 vengono aperti gli studi cinematografici di Geiselgasteig. 10 Sugli orientamenti della cultura monacense ante 1914 rinvio a Reinhard Bauer-Ernst Piper, München. Die Geschichte einer Stadt, München-Zürich 1993, pp. 216-242: Kulturelles und geistiges Leben vor dem Krieg. 11 Ivi, p. 216. 12 Recentemente Neue Welten – Deutsche und österreichische Kunst 1890-1940, catalogo della mostra a cura di René Price, con la collaborazione di P. Kort, Neue Galerie New York (16.11.2001-18.02.2002), Köln: DuMont, 2001. 13 Heinrich Wölfflin, Autobiographie. Tagebücher und Briefe, a cura di Joseph Gantner, Basel-Stuttgart 19842, p. 266, lettera alla sorella del 27 marzo 1912. 126 14 Capitolo 7 Ivi, p. 485, lettera al Rettore dell’Univesità, 21 luglio 1944. Ivi, p. 305; cfr. Nikolaus Meier, Heinrich Wölfflin in München: Kunstwissenschaft und Wissenschaftstopographie, in 200 Jahre Kunstgeschichte in München. Positionen, Perspektiven, Polemik 1780-1980, a cura di Christian Drude e Hubertus Kohle, Atti delle giornate internazionali di studio (200 Jahre Kunstgeschichte in München, Internationales Symposium, 7- 9 giugno 2001, Künstlerhaus am Lenbachplatz, ZI e LMU München), München: Deutscher Kunstverlag, 2003, München [u.a.] : Deutscher Kunstverlag, 2003, pp. 94-111, qui p. 102. 16 Cfr. Meinhold Lurz, Wölfflins geplante Professur in Heidelberg und seine Beziehungen zur Heidelberger Universität, in «Ruperto Carola» 54, 1975, pp. 35-40. 17 Heinrich Wölfflin, Italien und das deutsche Formgefühl, München 1931, trad. it. di Bernardetta Carta, L’arte del Rinascimento. L’Italia e il sentimento tedesco della forma, a cura di Maurizio Ghelardi, Livorno: Le Sillabe, 2001; si veda Meier, Heinrich, cit., pp. 106 sgg. 18 Lettera del 24 gennaio 1907, Carte Burger, Heidelberg. 19 Adolf Furtwängler era un archeologo di Monaco. Adolf von Hildebrand uno scultore e professore, anche lui monacense; i due facevano parte di una cerchia elitaria e si incontravano spesso non soltanto in patria, ma anche quando soggiornavano a Firenze. Fu proprio il primo a spianare e rendere possibile per Fritz la via della abilitazione alla libera docenza universitaria. L’assiduità della frequentazione dei Burger con la famiglia Hildebrand non si affievolirà negli anni, e soprattutto va notato come proprio Adolf von Hildebrand, indiscusso Maestro della scultura a Monaco e stimato docente dell’Accademia di Belle Arti, diventa uno degli interlocutori privilegiati e sponsor del laboratorio di esercitazioni pratiche ideato per gli studenti universitari da Burger. Vd. ultra, Da Firenze a Verdun. 20 Hermann Buddensieg, Fritz Burger und die freie deutsche Jugendbewegung, dattiloscritto, Carte Burger, Heidelberg, p. 1. L’immagine della complementarietà fra i due docenti, come di polarità antinomiche, ma dalla sintesi fruttuosa, si trova anche in una memoria di Clara Burger al Prof. Gantner, allievo di Wölfflin a Zurigo, che ne cura il Nachlaß. Cfr. Lettera da Heidelberg, 11 febbraio 1959, Carte Burger, copia dell’originale che è conservato al Wölfflin-Archiv, Basel. Ivi si legge, fra l’altro, che Gerta Burger, la secondogenita, sarebbe stata allieva di Wölfflin fra il 1916 e il 1919; il che, all’evidenza, non può essere (è nata nel novembre 1904). Sarà piuttosto da verificare se, nel caso, la sua presenza alle lezioni sia accreditabile fra il 1918 e il 1919, appena iscritta all’Università. 21 Le testimonianze ci riportano i nomi della Moderna Galleria di Brakl, quella di Caspari e quella, assai rinomata, che Justin Thannhauser rileva dal padre nel 1909. Esse diventarono per Burger indirizzi familiari. 22 Cfr. Liane Burkhardt, Kunstwissenschaft zwischen Fach- und Berufsprofilierung: eine vergleichende Untersuchung zur Gegenwarts- und Anwendungsnähe eines Studienfaches an deutschen Universitäten um 1900 bzw. in der jüngeren Disziplingeschichte, Phil. Diss., Berlin, Humboldt-Univ., 1996, p. 100 e note relative a p. 15 L’ambiente monacense 127 216. Non sono molti i luoghi epistolari specifici che riferiscono puntualmente di questo andirivieni tra Monaco e Murnau, oltre a Wassily Kandinsky, Franz Marc, Briefwechsel: mit Briefen von und an Gabriele Münter und Maria Marc, a cura di Klaus Lankheit, München [u.a.]: Piper, 1983, pp. 251-253, e una lettera di Fritz Burger alla moglie, (inizi) aprile 1916, cit. in Id., Franz Marc: sein Leben und seine Kunst, Köln: DuMont, 1976, p. 112. Un ulteriore indizio è il fatto che dopo la morte di Marc e di Burger le vedove si ritrovano per qualche tempo ad abitare, vicine, a Ried presso Kochel am See (dove ancora risiedono membri della famiglia Burger); da ultimo vd. anche il Diario di Clara Burger, 1921, Carte Burger, Heidelberg, foglio 12 (trascrizione Bert Burger). 23 Oskar Lang, Fritz Burger †, in «Die Rheinlande. Monatsschrift für deutsche Kunst und Dichtung» 26, 1916, p. 372. 24 Rainer Maria Rilke, Archaïscher Torso Apollos, in Der neuen Gedichte anderer Teil (1908). 25 Si tratta di una raccolta di scritti edita in Italia da Adelphi nel 1987. Il verso di Rilke viene commentato all’interno del saggio Catastrofi nell’aria, p. 87. Ma si veda anche l’insistente accenno – Leitmotiv recidivo – che ritorna con forza nella riflessione di Patrick Süskind, Amnesia in litteris, in Id., Ossessioni. Tre racconti e una riflessione, ed. it., Parma: Guanda, 1996, pp. 53-60. 26 Cfr. Elena Filippi, Il ‘tradimento’ dell’Antico: paradossi della sensibilità artistica moderna, in «Il Veltro. Rivista della Civiltà Italiana», 3-4, 2006, pp. 25-48. 27 Cit. da Maria Zambrano, Luoghi della pittura, ed. it. a cura di Rosella Prezzo, Milano: Medusa ed., 2002, p. 70. 28 Su questo vd. ultra. 29 Glenn W. Most, Du musst dein Leben ändern. Sehnsucht nach dem Ursprünglichen: Warum die Moderne die Archaik so liebte, in «Berliner Zeitung» 252, 28 ottobre 2000, p. 4. 30 «Siamo nati in quest’epoca - constatava Spengler nel 1931, a Monaco, nel corso di una conferenza, pubblicata successivamente con il titolo L’uomo e la tecnica e dobbiamo percorrere fino in fondo la via che ci è stata assegnata. Non ve n’è un’altra. Resistere nella postazione perduta, senza speranza, senza salvezza, è dovere». Niente illusioni. Niente consolazioni. Solo il dovere di tenere una posizione perduta in partenza e assegnata in sorte con l’ineluttabilità di un destino. A quel destino epocale che, con le catastrofi storiche, gli portava i segni di un’irreversibile crisi culturale, Spengler corrispose però con una filosofia tutt’altro che disfattista. Il tramonto dell’Occidente è affresco straordinario di una civiltà «occidua», e tramontante: topografia del moderno segnato dalla fine, mappa di un paesaggio desolante abbracciato dall’orizzonte del nichilismo. Il libro ebbe una fortuna strabiliante, rarissimo caso di bestseller filosofico, sebbene l’Autore fosse certo di usare «un linguaggio impopolare e inaccessibile per l’orda semi-istruita dei nostri letterati», nella Germania degli anni Venti, «madre dolorosa della modernità», come si legge nella prefazione all’edizione italiana del saggio, a cura di Stefano Zecchi. 128 31 Capitolo 7 Fritz Burger, Weltanschauungsprobleme und Lebenssysteme in der Kunst der Vergangenheit, München: Delphin-Verlag, 1917, p. 26. 32 Ivi, p. 30. 33 Ivi. 34 Cit. da Martina Mazzotta, La «poesia dello spazio». L’estetica di Theodor Lipps e l’arte moderna: un percorso, in «Discipline Filosofiche» XII/2 (2002), pp. 133-148, qui p. 138. 35 Walter Cohen, Altkölnische Malerei, in «Feuer» 1, 1919, pp. 203-212. 36 Sulla complessa questione rinvio all’indagine di Gerhard Renda, “Nun schauen wir euch anders an”. Studien zur Gotikrezeption im deutschen Expressionismus, Phil. Diss., Erlangen-Nürnberg 1990, qui pp. 1-12 e pp. 60-94. 37 Wilhelm Worringer, Formprobleme der Gotik, München: R. Piper, 1912; L’art gothique, trad. franc. di D. Decourdemanche, Paris: Gallimard, 1941 e 1967; Form in Gothic, trad. ingl. di sir Herbert Read, London: A. Tiranti, 1957; Problemi formali del gotico, trad. it. a cura di Giorgio Franck e Giovanni Gurisatti, Venezia: Cluva, 1985. 38 Jolanda Nigro Covre, Introduzione a Wilhelm Worringer, Astrazione e empatia, trad. it. di Elena De Angeli, Einaudi, Torino 1975, p. VII. 39 Sulla produzione di questo storico dell’arte è appena uscito un monumentale lavoro, che s’impone all’attenzione degli studi per l’esaustività dei materiali, comprendendo anche le trascrizioni di inediti manoscritti e di versioni differenti di articoli e conferenze. Cfr. Wilhelm Worringer, Schriften, 2 voll. + CD-ROM, a cura di Hannes Böhringer, Helga Gebing e Beate Söntgen, Wilhelm Fink Verlag, München 2004. 40 Come ha osservato Magdalena Bushart in Der Geist der Gotik und die expressionistische Kunst. Kunstgeschichte und Kunsttheorie 1911-1925, München: Verlag Silke-Schreiber, 1990, non si tratta di un discorso sulla razza, quale si è voluto fare nel clima dei decenni successivi, ma di un’impostazione «völkerpsychologisch», comune alle intenzioni di Burger, di Worringer e pure – aggiungo – di Wölfflin. 41 Bushart, Der Geist, cit., p. 118 sg. 42 Worringer, Problemi, cit., pp. 71 sg. 43 Ivi, p. 74. 44 Der Blaue Reiter und das neue Bild: von der »Neuen Künstlervereinigung München« zum »Blauen Reiter«, catalogo della mostra a cura di Helmut Friedel, Annegret Hoberg, München, Städtische Galerie im Lenbach-Haus (02.07.199903.10.1999), München: Prestel, 1999. In particolare si segnalano i contributi di Johannes Eichner, Erste Fanfaren der modernen Kunst. Münchens Internationalität vor 40 Jahren; Titia Hoffmeister, Die Ausstellungen der “Neuen Künstlervereinigung München”: zu den Aktivitäten und Kontakten ihrer Mitglieder; Franziska Uhlig, Die “Neue Künstlervereinigung München” im Spannungsverhältnis zwischen Ost und West; Mario-Andreas von Lüttichau, Der “Blaue Reiter” in der Modernen Galerie Heinrich Thannhauser; Hans Wille, “Das Neue Bild” von Otto Fischer. L’ambiente monacense 45 129 Cit. da Klaus Lankheit, Appendice critica, in Wassily Kandinsky-Franz Marc, Il cavaliere azzurro, commento e note di K. Lankheit, trad. it. di Giuseppina Gozzini Calzecchi Onesti, Milano: SE, 1988, p. 202 (traduzione leggermente modificata). 46 Questo gallerista e mecenate offrì ospitalità alla redazione dell’almanacco presso alcuni locali del suo negozio di oggetti d’arte. Fu inesausto promotore di esposizioni (oltre 160), attraverso le quali cercava di rendere familiare al pubblico monacense le nuove tendenze artistiche – dalla pittura alla grafica, alla scultura e all’artigianato, nelle diverse prove di cubisti, espressionisti e artisti vicino ai Fauves. 47 Cit. in Franz Marc im Urteil seiner Zeit, a cura di Klaus Lankheit, Köln: DuMont Schauberg, 1960, p. 45 (rist. München: Piper Verlag, 1989). 48 Da Kandinsky-Marc, Il cavaliere, cit., p. 17. 49 Ivi, p. 16. 50 A dire il vero, la prima edizione di Über das Geistige in der Kunst viene licenziata dall’Autore il giorno di Natale del 1911, e questo ha creato una qualche discordanza nel riferirsi all’opera. Cfr. Elena Pontiggia, Postafazione a Wassily Kandinsky, Lo spirituale nell’arte, ed. it. a cura di Elena Pontiggia, Milano: SE, 1989, pp. 115-126, qui p. 119. 51 Vd. l’incisivo contributo di Teresa Posada Kubissa, August L. Mayer. Ein Experte der spanischen Kunst in München, in 200 Jahre Kunstgeschichte in München. Positionen, Perspektiven, Polemik 1780 – 1980, a cura di Christian Drude e Hubertus Kohle, München [u.a.]: Deutscher Kunstverlag, 2003, pp. 120-130. 52 Ibidem. Sulla stagione del recupero di interesse nei confronti dell’opera di Theotókopulos rinvio allo studio di Veronika Schroeder, El Greco im frühen deutschen Expressionismus: von der Kunstgeschichte als Stilgeschichte zur Kunstgeschichte als Geistesgeschichte, Ph. Diss., Frankfurt a.M.: Lang, 1998; in particolare alle pp. 50-75: Die theoretische Greco-Rezeption. 53 Ein Protest deutscher Künstler, con una introduzione di Carl Vinnen, Jena: Diederichs 1911, 80 pp. 54 L’elenco dei contributori si trova in Im Kampf um die Kunst. Die Antwort auf den »Protest Deutscher Künstler«. Mit Beiträgen deutscher Künstler, Galerieleiter, Sammler und Schriftsteller, München: Piper, 1911. 55 È rimarchevole il commento caustico che Burger affiderà a una lettera dal fronte del luglio 1915: «Nessuno può abitare tanto a lungo impunito nella casa di un archeologo, conservatore incallito». Carte Burger, Heidelberg (trascrizione Erbsmehl, n. 96, p. 178). 56 Diario di Clara Burger, 1921, Carte Burger, Heidelberg, foglio 10 (trascrizione Bert Burger). Il commento recupera ricordi dell’estate 1911. 57 Allo stato attuale delle ricerche non è dato spingersi oltre la congettura su certe vicissitudini monacensi del Nostro e dunque è prudente sospendere il giudizio anche su tale faccenda. Rimane saldo, a ogni buon conto, quanto le faziosità “da parrocchietta” infastidissero il giovane studioso. Lo abbiamo potuto constatare poc’anzi, a 130 Capitolo 7 proposito dei duri attacchi che Burger pervicacemente rilancia contro i nazionalismi che si sono appropriati dei fatti dell’arte. 58 Quello successivo, altrettanto notabile, sarà organizzato nel 1912 a Roma. Cfr. Heinrich Dilly, Kunstgeschichte als Institution. Studien zur Geschichte einer Disziplin, Frankfurt a.M.: Suhrkamp, 1979, p. 32. 59 Comunicazione scritta della dr. Ursula Lochner, Archivio dell’Università di Monaco, 7 dicembre 2005. 60 Burger firma la Prefazione nell’ottobre di quell’anno. 61 La fotografia qui pubblicata per la prima volta, dall’archivio di famiglia a Heidelberg, è corredata da una nota esplicativa di Clara Burger, secondo la quale le due figure sullo sfondo sono appunto Kandinsky e Marc, in visita ai Burger durtante il soggiorno estivo a Sylt nel 1912. Riscontri indiretti e indizi documentari (ad es. il suo Diario) sono in grado di supportare la dichiarazione, ma chi scrive intende promuovere allo scopo un supplemento d’indagine. Bert Burger, in una nota scritta del 9 novembre 2005, in risposta a un mio quesito dichiara che, anzi, dovrebbe esistere anche un’altra foto dei tre, sempre di quel soggiorno estivo a Sylt. 8. PRINCIPI FONDAMENTALI DELLA CRITICA D’ARTE ARTE COME CRITICA – CRITICA COME ARTE «…i lavori di Hegel e di Riegl, fino a quelli di Worringer e di Burger sono di grande importanza per la critica d’arte» (Hans Tietze, 1913) «Nondimeno, un metodo c’era già… mai però, così mi sembra, lo definì più chiaramente che nel saggio per la Schackgalerie, dove sono enunciati forse tutti i princìpi generali del sistema del Prof. Burger» (Benno Reifenberg) 1 I. Introduzione. Immerso nel clima ribollente della capitale bavarese prima della Grande Guerra, Burger si dedicò intensamente a una riflessione sullo statuto teorico della critica d’arte, mentre i suoi metodi d’insegnamento, volti a condurre gli studenti a contatto diretto con il fare artistico concreto, ottenevano, come detto, un successo strepitoso.2 Da un lato egli cercò di abbracciare la disciplina in senso estensivo, mettendosi a capo di un progetto enciclopedico di ampio respiro, quello di uno Handbuch der Kunstwissenschaft (Manuale di critica d’arte) di cui poté vedere solo i primi frutti – l’opera, poi continuata da Brinckmann, giunse a contare ben 32 volumi3 – dall’altro si adoperò in brillanti affondi teoretici intesi a guidare alla comprensione del manufatto artistico e quindi del senso propriamente scientifico di una disciplina peculiare come la Kunstwissenschaft, che elegge a proprio oggetto un fenomeno speciale qual è l’arte. Negli anni successivi alla monografia palladiana Burger impresse al suo insegnamento a Monaco un virage che conduceva da un lato verso la pittura dei Moderni, dall’altro a privilegiare i problemi della critica d’arte. In quella stessa Università Wölfflin stava attendendo alla stesura dei suoi Grundbegriffe,4 un’opera con cui «pose le fondamenta scientifiche della moderna storia dell’arte», il cui metodo vi è «esposto nel modo più compiuto».5 Lo stesso Burger progettava un’o- 131 132 Capitolo 8 pera sistematica e aveva già iniziato a lavorarvi, quando la morte lo colse a Verdun nel maggio del 1916. La sua carriera era del resto iniziata con un testo sull’arte contemporanea, che necessariamente impegnava le sue doti di critico. Ma la sua attenzione all’aspetto teoretico della disciplina accompagna costantemente la sua attività, ed è testimoniata dai corsi universitari di 4 o 5 lezioni settimanali che tenne ripetutamente, a partire dal semestre invernale 1909/10 sul tema Sistematica della critica d’arte (Introduzione ai princìpi della critica d’arte e del fare artistico).6 La svolta verso l’esperienza dei Moderni si accompagna all’approfondimento dei problemi teorico-critici, e diventa anzi un banco di prova per questi ultimi. Già dal 1907/08 Burger esemplificava il suo impegno teorico con gli studenti offrendo visite didattiche alle principali pinacoteche cittadine. In occasione dell’apertura della Schackgalerie nel 1909 redasse un breve articolo,7 ma nel 1912 licenziò una fortunata guida all’esposizione che il collezionista Adolf Friedrich barone von Schack (18151894) aveva allestito, rendendo accessibile al pubblico la sua raccolta di dipinti dell’Ottocento. Più volte ristampato, il volume fu concepito dapprima come un vademecum per gli studenti, ma dalla terza edizione, del 1916, cambiò intitolazione per soddisfare le esigenze del più ampio pubblico dei visitatori. Proprio questo libretto contiene una parte introduttiva, breve ma assai densa di concetti – poi significativamente rimaneggiata per la terza edizione – in cui è in nuce la teoria critica di Burger, quale troverà poi una prima ricaduta nell’opera capitale Cézanne und Hodler, il cui deciso impegno teoretico si annuncia sin dal sottotitolo, legato ai problemi dell’arte contemporanea. È probabile che la densità di queste pagine, che si ritrova nel fitto affastellamento di idee del libro del 1913, avrebbe trovato una più distesa sedimentazione nella successiva produzione di Burger, se fosse rimasto in vita. Certamente, egli cercò di dar seguito e sviluppo a questi pensieri, come dimostrano una prolusione tenuta alla Freideutsche Jugend nel 1913 – di cui si dirà in seguito – e qualche abbozzo rimasto inedito. Il saggio introduttivo alla guida per la Schackgalerie è intitolato Prinzipielles über die künstlerische Kritik [Principi fondamentali di critica d’arte]. L’intenzione che esso persegue è quella di offrire, pur nella brevità richiesta dal contesto di una guida museale, un discorso Arte come critica – critica come arte 133 capace di far cogliere l’essenza della critica d’arte e di situare il suo statuto epistemologico nel novero delle altre discipline scientifiche, così da restituire il senso di una scienza ancora relativamente giovane, e ciò peraltro in un’epoca tormentata, in cui la domanda sul senso era diventata urgente e non ulteriormente differibile, soprattutto per le giovani generazioni. Questo capitolo è incentrato sulla sistematica implicita nelle dense formulazioni del suddetto saggio introduttivo, e si rivolge per la prima volta all’analisi delle due stesure, in parte differenti, contenute rispettivamente nelle edizioni del 1912 (prima e seconda, identiche) e del 1916 (terza edizione).8 Non a caso, già in quest’ultima, uscita subito dopo la scomparsa dell’autore che ne aveva approvato la stampa, il necrologio firmato da August L. Mayer afferma: «Nel breve saggio sulla critica d’arte Burger ha definito l’essenza della sua considerazione filosofica dell’arte in modo più chiaro di quanto altri non abbiano fatto altrove».9 II. La prima stesura (1912). Burger inizia il testo della prima stesura con una serie di frasi lapidarie: «[L’arte non è né oggetto di fede né questione di gusto, bensì è una questione di conoscenza. Infatti tutto il pensiero umano è un configurare e ogni configurare è insieme un separare e congiungere.] Animo e fantasia non potrebbero manifestarsi senza la facoltà di questo pensare e configurare, e anche l’attività della fantasia artistica indica solo un pensare sulle relazioni fra singolarità sensibili rappresentate».10 L’arte è soprattutto una «questione», anzi, come recita il testo tedesco, una Frage, un interrogativo, una domanda, un problema; un problema della conoscenza, non già una Sache, un oggetto già dato e reperito in essa e prima del dispiegarsi della sua attività. Non a caso, il sottotitolo del volume del 1913 recherà il termine «Probleme». La conoscenza si differenzia dal canto suo rispetto alla fede – dei cui contenuti non si fa questione – e dal gusto, le cui questioni non potranno mai trovare risposta oggettiva, e perciò sono destinate a restare problematiche. La conoscenza è inoltre un umano pensiero interrogante. 134 Capitolo 8 Ogni modalità del pensiero è però un «configurare» (Gestalten). Tale termine non coincide necessariamente con il semplice dar forma e plasmare: significa infatti separare e congiungere, ovvero porre segni – insieme congiunzioni e cesure – che definendo una determinata realtà la relazionano e la distinguono da ogni altra. Se innanzitutto e in primo luogo non esistesse questa capacità plasmatrice, non ci sarebbe nemmeno alcuna fantasia. Questa è possibile, come attività, in quanto l’atto primigenio, che rende possibili tutti gli altri è tale pensiero configurativo. Esso fa sorgere quei tratti insieme congiungenti e separanti che istituiscono relazioni, pongono nessi fra le differenti singolarità sensibili. Queste ultime devono il loro stesso apparire all’atto del pensiero, grazie al quale sono poi rappresentate. Ma se ogni pensare è un configurare, ogni forma d’arte è un pensiero che conosce. Non ogni pensiero – tuttavia – è forma d’arte. La differenza risiede nel linguaggio: «Il linguaggio tramite cui questo pensiero si esterna non è senz’altro accessibile al non-artista. [L’artista infatti enuncia qualcosa su nessi sensibili tra fenomeni, mentre chi non è andato alla scuola del pensiero artistico riconosce prevalentemente solo singoli fenomeni]».11 Il linguaggio del pensiero artistico ha la sua specifica modalità enunciativa. Se il linguaggio tradizionale del pensiero descrive solo nessi fra segni convenzionali, il linguaggio dell’arte dice qualcosa su nessi sensibili tra fenomeni, cioè fra segni che non appaiono singolarmente e separati l’uno dall’altro (quali sono i segni convenzionali, che assumono potere enunciativo solo grazie alla reciproca estrinseca congiunzione), bensì tali da apparire solo ed esclusivamente nella loro connessione, vale a dire nel loro essere al tempo stesso uniti e separati. Questo linguaggio, inteso come linguaggio dell’arte – è qui opportuno ricordarlo – non enuncia né verità assolute, cui bisogna prestar fede, né verità soggettive e private, quali sono quelle legate al gusto. Il pensiero artistico non è di esclusiva accessibilità né da parte di una cerchia esoterica di adepti, né da parte del singolo individuo preso isolatamente dal mondo o nel rapporto che il suo gusto privato istituisce con questo. Esso è invece accessibile a tutti coloro che sono andati alla scuola di tale pensiero. Colui che si è formato a questa scuola può riconoscere tali nessi tra fenomeni; gli altri non li afferrano, e per lo più perseguono solo singoli aspetti, cioè riconoscono soltanto i singoli Arte come critica – critica come arte 135 segni, come se questi fossero i segni convenzionali propri del linguaggio non artistico. Si tratta però, è bene rimarcarlo, di una scuola che è accessibile di fatto a tutti, proprio perché rifugge dall’esoterismo dei pochi come dalla dimesione privata dell’individuo. Come già osservato, l’arte è soprattutto domanda. Il suo linguaggio dice infatti solo «qualcosa». Bisogna accontentarsi di questo qualcosa: approfondire, interrogando, questa debole traccia, senza pretendere di poter avere davanti agli occhi una volta per tutte l’intera verità del configurare. Tale verità resta sempre aperta. Perché siamo tutti in grado di andare alla sua scuola? «“La percezione è uguale in tutti gli uomini, il vedere e il creare sono doti soltanto dell’artista”, dice Lessing. Configurare artisticamente significa ordinare rappresentazioni sensibili in un visibile (l’opera d’arte). Ebbene, noi tutti possediamo rappresentazioni “sensibili”, infatti esse sono il materiale del nostro pensiero. Ma finché non siamo noi a configurare artisticamente, siamo costretti a connettere le nostre impressioni sensibili per mezzo di concetti, siamo tenuti ad afferrarle linguisticamente. Mediante la congiunzione di concetti ci procuriamo invero un ordine di quanto abbiamo visto, ma con ciò non facciamo che ordinare i segni convenzionali per le rappresentazioni sensibili (i concetti), non ordiniamo le rappresentazioni sensibili stesse in alcunché di visibile (nell’opera d’arte)».12 Le rappresentazioni sensibili sono comunemente umane. Disporle in ordine è un configurare (e ogni pensare è un configurare). Pensare possono perciò tutti. Ma non ogni avere sensazioni13 è un vedere. Il vedere avvista e intravede, si attiva nel ravvisare. Per questo è un creare. La congiunzione «e» fra «il vedere e il creare» può essere perciò intesa in senso esplicativo. Laddove noi vogliamo dare ordine a queste rappresentazioni, pensiamo, e nel far ciò siamo costretti a raccogliere le impressioni linguisticamente. Questo è senz’altro un dar ordine, che però è esteriore e sovrapposto rispetto all’essenza di ciò che vi è ordinato, giacché quest’ultimo – i segni convenzionali, come le singole lettere, le singole parole – può essere raccolto in concetti secondo criteri arbitrari e secondo differenti principi ordinativi. I concetti sono invisibili; non già per il fatto che il loro contenuto è il pensiero. La visibilità di cui qui si parla non è quella propria degli occhi: anche la musica e la poesia sono arte, arte che si sottrae all’evi- 136 Capitolo 8 denza visibile. La musica offre un buon esempio in tal senso: una partitura è certamente un ordine di segni convenzionali visibili. Tale ordine rimane comunque in un certo senso visibile agli occhi, tuttavia in modo tale che colui che non è andato alla scuola della musica non è in grado di ricostruire la sua vera visibilità, cioè la musica stessa che è il senso ultimo di quei segni. Costui si fermerebbe per lo più a riconoscere solo singoli fenomeni (la notazione, le legature, i segni di pausa, ecc.). C’è bisogno di una scolarizzazione per saper leggere la partitura musicale. Ma per poterla dominare e per crearla è necessario in aggiunta il dono che è proprio dell’artista. La visibilità dell’arte riposa nell’essere in grado di ricostruire la necessaria legge immanente ai nessi sensibili, di contro alla composizione esteriore di segni convenzionali, la quale è a sua volta convenzionale (anche nelle convenzioni è necessario possedere una certa quale scuola, come risulta chiaramente da un passo assai arduo dell’introduzione alla terza edizione del 1916). Ma se non si possedesse la capacità dell’ordinare esteriore i singoli fenomeni, la scolarizzazione nel pensiero artistico sarebbe affatto impossibile. In ciò risiede dunque la condizione di possibilità del poter essere scolarizzati. Si spiegano così anche le parole con cui Burger prosegue il suo ragionamento: «Al cospetto della natura noi ci creiamo quotidianamente rappresentazioni visive del nostro ambiente circostante, ma non le disponiamo nel materiale dell’artista. Chi scorge nell’arte solo un godimento riconosce solo le peculiarità dell’opera d’arte che lo interessano; chi considera l’arte come un mezzo di rappresentazione della conoscenza umana, dovrà cercare di concepire l’immagine come un atto conoscitivo, cioè tentare di capire ciò che l’immagine enuncia su una determinata connessione di singolarità sensibili».14 Il modo in cui l’artista ordina le rappresentazioni della natura che sono comuni a tutti gli uomini costituisce un atto creativo che fa sorgere un materiale, nel senso della visibilità di una legge materiale, di cui sopra. Chi non compenetra la legge del pensiero artistico, vede per lo più solo peculiarità, singolarità. Questo pensiero viene ampliato qui affermando che non solo chi non è andato alla scuola del pensiero artistico, ma anche chi coglie nell’arte solo il godimento, riconosce solo singoli aspetti. L’arte non ha nulla a che fare con il godimento. Chi la intende come veicolo di piacere, perde di mira ciò che l’arte dà a co- Arte come critica – critica come arte 137 noscere, al pari di quanti sono privi della scuola dell’arte. L’arte è invero conoscenza. Atto conoscitivo. L’immagine, artisticamente configurata, è atto conoscitivo, è «enunciato», una proposizione enunciativa che però dice la cosa stessa in se stessa, senza smembrarla nella somma dei segni convenzionali di cui pure si compone, come potrebbe fare ad esempio la logica formale; in questa il legame è costituito da una copula valida per tutti i casi, la quale vincola un qualunque soggetto con qualunque sostituibile predicato, o da esso lo disgiunge. Ciò non significa però affatto che nella conoscenza della natura l’arte sia migliore della scienza, o che possa sostituirsi a questa. Infatti «Tale connessione non è mai presente nella “Natura”, viene sempre creata dall’artista. Le rappresentazioni di rapporti fra singolarità sensibili, quali sono state acquisite dal non-artista, non offrono pertanto un appiglio sicuro per comprendere i particolari nessi dell’immagine».15 Ciò che la scienza, orientata a singolarità, trova sempre già dato, è presente nella natura. Scienza della natura e arte non coincidono, poiché quest’ultima non ha il proprio oggetto nella natura. Esso viene creato sempre dall’artista. L’arte è infatti un configurare che contempla e crea, e le cui peculiarità esteriori non offrono – come s’è detto – alcun appiglio per il concetto. Ma come può l’oggetto dell’arte essere prodotto dall’artista se l’arte è un conoscere e non espressione di un arbitrio personale? Il conoscere non presuppone forse qualcosa di già dato che attende di essere riconosciuto? Che ruolo spetta alla irripetibile soggettività in quel conoscere che è l’arte? «Tutto ciò che chiamiamo oggetto, contenuto, colore, particolarità nella realizzazione formale dei dettagli, espressione ecc., è la materia di quella conoscenza da parte dell’artista; i nessi nell’immagine sono la forma sensibile di tale conoscenza. La “materia” può essere prescritta all’artista dal committente, da certe consuetudini del tempo, dal gusto e da altro ancora, ma la forma, vale a dire la connessione sensibile, è sempre sua proprietà. Essa connota ciò che chiamiamo individualità e costituisce l’autentico valore dell’immagine».16 Secondo una distinzione tradizionale, nell’arte si evidenziano forma e materia. La materia consta di quei dettagli che tutti riconoscono. La scienza della natura è orientata alla materia. Spesso anche la critica d’arte, che è una scienza dell’arte (Kunstwissenschaft) è tale da riconoscere il proprio rigore nell’indagare datità esteriori verificabili e 138 Capitolo 8 nel pronunciare sul loro conto asserzioni di tipo tradizionale. Tuttavia una scienza così intesa finisce per mancare il proprio obiettivo, impedendosi di cogliere totalmente l’autentico valore dell’immagine. Per quanto concerne la materia dell’arte, il committente può anche essere a digiuno della scuola dello spirito artistico. Il momento storico e il suo gusto prescrivono a volte certe peculiarità, per esempio una predilezione per certi oggetti, temi, colori e così via. La tendenza stilistica del committente o dell’epoca appartiene alla sfera del gusto, ma l’arte non è «né argomento di fede né questione di gusto». Tutto ciò non ha assolutamente a che fare con l’autentico valore dell’immagine e nemmeno con l’essenza dell’arte, che risiede nella forma della conoscenza. I termini «proprietà» (Eigentum) e «individualità» (Individualität) sono facilmente fraintendibili e possono essere interpretati in modo adeguato solo congiuntamente. Proprietà significa qui ciò che è proprio di un artista, ciò che fa della sua arte qualcosa di unico e inconfondibile, vale a dire ciò che distingue tale arte dalle altre, lasciandola così apparire nella sua individualità. La natura anticipa le peculiarità, la materia; l’arte consiste essenzialmente nella forma. Pertanto il nesso che essa riconosce non è «mai presente nella “natura”», nella «cosiddetta» natura, intesa come somma di cose e di fatti preesistenti, bensì nella natura – cioè nell’essenza – dell’artista, la cui conoscenza è particolare, individuale, propria. Dice «qualcosa»: e questo dire qualcosa rimane sempre una questione aperta, non diventa mai un possesso sicuro. La critica d’arte – la Kunstwissenschaft – deve rimanere una scienza che si interroga su alcunché di riconosciuto. Ciò nonostante essa è una scienza assoluta, come Burger sottolinea sotto un duplice punto di vista: «Indubbiamente, nella scelta dell’oggetto ecc. è già contenuto un giudizio, che è molto importante per la psicologia dell’epoca e dell’artista, ma non per l’opera d’arte intesa come particolare nesso di rappresentazioni sensibili. L’interesse di un osservatore moderno di fronte a un’arte del passato si dirigerà in due direzioni. Da un lato vedrà nelle opere d’arte documenti della volontà e delle concezioni di epoche e di personalità del passato, vorrà riconoscere la differenza fra il nostro presente e il passato – e questo è il versante storiografico dell’arte. Dall’altro si vorrà però fare chiarezza sul va- Arte come critica – critica come arte 139 lore assoluto dell’opera d’arte, appunto come documento della conoscenza artistica in quanto tale».17 In questo passo viene concisamente affrontato il rapporto fra critica d’arte e storia dell’arte, tenendo presenti gli insegnamenti della seconda Considerazione inattuale di Nietzsche.18 La storia dell’arte può documentare nel migliore dei casi la volontà artistica e indagare le concezioni dell’artista. In questo senso essa è un sapere – e quindi una scienza – dell’arte. Ciò è indubbiamente «assai importante» al fine di raccogliere informazioni che si collocano accanto al vero e proprio valore dell’arte. Nella terza edizione del 1916 il passo citato è ampliato con la seguente osservazione: «Questo è il lato scientifico dell’arte. Il suo valore è determinato dal limite di tutta la scienza».19 Si tratta di una formulazione assai dubbia e fraintendibile, posto che l’arte sin da principio è stata definita come un conoscere, e quindi come un sapere, vale a dire come scienza. Nel presente passo, tuttavia, la parola scienza (Wissenschaft) è intesa nel senso e nell’uso comune, quello cui si ricorre laddove si parli di scienza esatta o di dottrina storicamente inoppugnabile. Comunque, questo lato dell’arte, il reperimento di informazioni sulle peculiarità che circondano il fatto artistico, è un lato limitato. Di contro a questo, Burger parla di un valore assoluto dell’arte. Il termine «assoluto» è da leggersi qui nell’accezione del latino «absolutus», «libero, assolto da qualcosa», e non già come sinonimo di assolutamente vero, definitivo: è da ripetersi, infatti, ancora una volta che l’arte non è un oggetto di fede, bensì «questione». Essa è assolta da quei valori che le sono esteriori, soprattutto da quelli del gusto, del godimento, della storiografia, della fede e della scienza. Le opere d’arte sono sempre a portata di mano come documenti storici. Ma che ne è di un’arte che nella sua essenza, quale documento della conoscenza, sia assolta da tutti gli altri valori? È possibile trovare un accesso assoluto nei suoi confronti? «Non è difficile essere all’altezza della prima parte del compito, ma è impossibile soddisfare la seconda esigenza. Qui possono essere offerti solo ausilii alla conoscenza, non però questa stessa. Una guida scientifica attraverso una collezione di dipinti deve sottolineare con tutta l’enfasi questa difficoltà insuperabile nella trattazione scientifica dei veri e propri problemi artistici. Infatti una guida può dare solo ciò che può essere compreso pur senza un’approfondita considerazione 140 Capitolo 8 metodologica e una scolarizzazione nella disciplina specifica. Alla scientificità sono dunque posti qui limiti naturali. È necessario che tali limiti siano preliminarmente segnalati».20 Se l’opera d’arte possiede un valore assoluto, ne consegue l’impossibilità di venire in chiaro su di essa. Ogni lavoro di chiarimento resta sempre e solo un ausilio, una via che rimane soltanto tangente rispetto al vero e proprio carattere artistico dell’opera d’arte. Paradossalmente – così sembra – l’arte è conoscenza, ma la scienza dell’arte non lo è. Nella sua prospettiva l’arte è appunto una «questione di conoscenza», una «Frage». Per uscire da questo dilemma è necessario ripensare ancora una volta, con Burger, i concetti di «arte», «critica» e «scienza». Il testo di Burger porta il titolo Prinzipielles über die künstlerische Kritik: «elementi di principio sulla critica d’arte». Il suo compito è quello di elaborare i princìpi fondamentali di quel tipo di critica che si esercita in particolare nei confronti di un oggetto come quello artistico. Non è di «scienza» che vi si parla principalmente, dato che il termine «scienza» (Wissenschaft) è già gravato nel suo significato da una dottrina orientata alle cosiddette scienze della natura. La parola «scienza» è intesa qui da Burger con due differenti significati: da un lato è presente l’accezione comune che ci si aspetta di trovare in una «guida scientifica attraverso una collezione di dipinti», dall’altro invece la specificità di quel sapere che si occupa d’arte. Qui non si tratta di fissare e rendere note datità. Queste sono peculiarità che non colgono affatto il valore assoluto dell’arte. Con ciò è soddisfatta soltanto una prima parte del compito.21 Questa scienza conosce «limiti naturali», in quanto il suo oggetto e il suo metodo sono prefigurati dalla natura. Essenzialmente differente è invece «un’approfondita considerazione metodologica e una scolarizzazione nella disciplina specifica». Questa disciplina scientifica che è la critica d’arte non si accontenta del facile compito di portarsi all’altezza del lato storiografico dell’arte, cioè di quello scientifico nel senso comune del termine. Ciò che le interessa è «un’approfondita considerazione metodologica dell’arte» (eingehende methodische Betrachtung): si tratta di approfondire, cioè di addentrarsi (ein-gehen), anziché di aggirare (umgehen), e invero con metodo, o meglio con met-hodos, cioè accompa- Arte come critica – critica come arte 141 gnando l’opera lungo una via che le si addentra, e che è tracciata dall’opera stessa, contribuendo a definirne il tratto. Un anno più tardi, nel Cézanne und Hodler, Burger affermerà chiaramente: «Si tratta di osservare (betrachten) l’oggetto in conformità alla necessità della sua natura propria; sul piano negativo ciò significa che essa tiene alla larga tutte le ingerenze del caso da parte del pensiero calcolante». 22 Le casualità del pensiero calcolante sono qui le peculiarità dell’approccio storiografico. «Osservazione» (betrachten), dunque, anziché esposizione di peculiarità. Alcune righe più sopra, nel distinguere il godimento dell’arte dalla ricerca di un atto conoscitivo, Burger connotava questa seconda forma come un «Betrachten». Una siffatta esigenza è impossibile per un sapere orientato nel senso delle scienze della natura: tale scientificità incontra qui limiti naturali. Se l’oggetto deve dunque essere osservato secondo la necessità della sua natura, la disciplina specifica che mette in opera un’approfondita osservazione metodologica dell’arte dev’essere essa stessa analoga all’arte. Ciò è possibile in quanto ogni arte è conoscenza, e in quanto tale è pensiero, e ogni pensiero è un configurare, un separare e congiungere al tempo stesso. La parola «critica» (Kritik) deriva dal greco krínein, giudicare, selezionare, abitare il luogo originario di quel distinguere (Ur-teilen), di quel congiungere che separa, che a sua volta è lo specifico pensiero configurativo dell’arte. Arte e critica abitano entrambe nel medesimo. Una «scienza» che afferrasse l’arte dall’esterno non comporterebbe «un’approfondita osservazione metodologica». La critica può invece osservare a fondo perché la sua essenza fa tutt’uno con quella dell’arte, e vi si è perciò già sempre addentrata, immedesimata. La critica d’arte come disciplina specialistica è però a suo modo anch’essa una disciplina rigorosa. Il suo rigore non scaturisce tuttavia da una presunta natura delle cose, bensì dall’essenza dell’arte, dallo specifico della sua natura. Così come questa è un configurare del «pensiero artistico», alla cui scuola è necessario formarsi, ciò vale anche per la disciplina che concerne l’arte, nei confronti della quale è possibile una scolarizzazione scientifica. Soltanto in questo contesto Burger può finalmente collocare la prospettiva della sua guida e giustificare il fatto che questa sia stata redatta da un docente universitario di storia e critica d’arte. Una volta 142 Capitolo 8 che sia stato affrontato lo specifico di tale disciplina, è opportuno introdurre i modi della sua insegnabilità, entro cui si fonda appunto la legittimità di una guida artistica. Già la critica d’arte richiede un lavoro impossibile per la scienza tradizionale. Una guida per coloro che non siano già educati a questa disciplina è in tal senso doppiamente difficile e deve quindi limitarsi a offrire soltanto un ausilio alla conoscenza. Le due difficoltà – quella specifica della critica d’arte e quella della guida artistica – dovranno essere affrontate una volta di più e più a fondo nella prosecuzione dello scritto, mediante un ulteriore scavo nell’essenza della disciplina. «I princìpi di ogni giudizio artistico dipendono dalla risposta che è data alla questione dell’oggetto della conoscenza artistica. Si dice che l’oggetto della configurazione sia la “natura”. Ma ciò presuppone che si sappia che cosa sia “natura” e sin troppo facilmente si dimentica che questa è l’eterna domanda cui ogni pensiero e ogni agire cercano di rispondere. Tutta la conoscenza non è che una teoria su questa “natura”, un tentativo di comprenderla all’interno di un qualche ordine. La “natura” può essere compresa solo nella natura del nostro pensiero, mai nell’essenza sua che a noi si contrappone.23 Ciò vale per artisti e “pensatori”. Si ritiene che ciò che si vede sia il vero per il fatto che così tanti lo vedono allo stesso modo, ma si dimentica che questa visione è il prodotto di convenzioni pratiche, che mutano con il tempo e le circostanze. Si trascura inoltre il fatto che l’opera d’arte non è una semplice somma di singolarità, bensì un giudizio sulla natura, il quale consiste di connessioni fenomeniche individuali, create dall’artista. Che cosa sia natura rimane in fin dei conti una questione di Weltanschauung, sia per chi giudica sia dal punto di vista del singolo giudizio, che è questione di visione del mondo. Questa visione del mondo si manifesta come nella sua forma propria nell’arte come pure nel contenuto della conoscenza. Non appena si considera la materia come contenuto del raffigurato si ha a che fare con problemi culturali, non appena si tiene in vista la forma, soltanto con l’arte. Solo in quest’ultimo caso sono i nessi sensibili delle parti della stessa opera d’arte, vale a dire la sua essenza come creazione, a diventare oggetti della conoscenza».24 Arte come critica – critica come arte 143 Questo lungo paragrafo conclusivo potrebbe recare il titolo Natura, essenza, verità dell’arte. In esso Burger condensa un nucleo concettuale che è stato preparato sin dapprincipio nel testo. L’intento filosofico di fondazione della critica d’arte si fa chiaro anche già nella scelta lessicale. Inoltre le osservazioni che egli svolge in questo passo valgono in ugual misura per artista e pensatore. Si tornerà su ciò alla conclusione di questo capitolo. Occorre andare con ordine a soppesare la fitta scansione delle argomentazioni. La scienza della natura, quale modello della scientificità in generale, si fonda – come già Kant ebbe a mostrare magistralmente nella Critica della ragion pura – in giudizi. Ebbene, un giudizio (che in senso tecnico consta della congiunzione o nella separazione di un soggetto e di un predicato per mezzo di un legame chiamato copula) non può riguardare la natura in quanto tale, nella sua essenza, perché stando a Kant non sarebbe un giudizio scientifico, bensì metafisico. Ciascuna scienza può giudicare soltanto nell’ambito degli oggetti che le sono anticipatamente dati. Che cosa sia «natura» non è una questione di scienza della natura (Naturwissenschaft), bensì una domanda metafisica, perciò «eterna»; non è un interrogativo che, al pari di quelli posti dalle scienze, possa essere definitivamente accantonato da una risposta formulabile in un giudizio enunciativo. Dunque, la questione della natura è al di fuori della «scienza». Questa può riconoscere nella natura solo singolarità, singoli aspetti. Dal canto suo, anche la scienza storica può evidenziare solo convenzioni pratiche mutevoli, i cui prodotti sono le nostre opinioni sulla natura. In ultima istanza, la «scienza» può giudicare sulla materia della natura – e dell’arte – non però sulla sua forma. L’arte non si pone in concorrenza con la scienza. Essa dice qualcosa sui «nessi sensibili dei fenomeni» e produce essa stessa un tipo di «giudizio», non però in forma di enunciati veri e verificabili. I fondamenti del giudizio artistico sono legati al fatto che l’arte contribuisce a costituire ciò che la natura stessa è. La natura è compresa solo e unicamente nella natura del nostro pensiero configurante. In quanto l’arte, plasmando, pone segni che insieme separano e congiungono, fa essere realtà, fa sorgere nessi, un ordine, e tutto ciò essa condivide originariamente con la natura. Soltanto in questo senso si può parlare di uno «Ur-teil», di un «giudizio» artistico, che è appunto originaria condivi- 144 Capitolo 8 sione, Ur-Teilen. Tale è il krínein della critica. L’arte è un conoscere – e con ciò un originario giudicare – perché a una materia già data conferisce la propria forma: il suo conoscere è un conoscere configurante che prende parte così alla costituzione del conosciuto.25 Il vero è perciò tale perché la sostanza già preliminarmente data dal di fuori viene inverata in una forma assoluta e tuttavia individuale. FRITZ BURGER NEL SUO STUDIO Arte come critica – critica come arte 145 Nella versione del 1916 Burger non scrive «la forma» (die Form), ma «il sistema dell’ordine formale» (das System der formalen Ordnung).26 Con ciò egli richiama il ruolo dell’arte come ordine interno e insieme come forma. Il vero che l’arte anima – conoscendo e configurando – è assoluto, cioè assolto dalle singolarità materiali, dalle convenzioni e dai giudizi veri nel senso della scienza della natura o della scienza storica. Per queste ultime tale verità è impossibile. Questo vero non è mai possesso, piuttosto è questione e problema. La critica d’arte – in quanto condivide con l’arte la stessa essenza configuratoria – può far proprio questo vero, può realizzare quel «qualcosa» che è detto dall’arte, e condurlo all’apparire. III. La seconda stesura (1916). Alcune divergenze rispetto alla prima stesura, riscontrabili nella seconda e ultima redazione (1916) dello scritto Principi fondamentali di critica d’arte sono già state qui evidenziate e discusse nella trattazione della prima versione. In questa sede si tratta innanzitutto di chiarire il paragrafo introduttivo scritto appositamente per l’edizione del 1916, e di spiegarlo in riferimento a quanto l’analisi ha sin qui evidenziato. Le frasi lapidarie con le quali ha inizio la prima stesura non si ritrovano nella seconda, dove sono sostituite da un lungo ragionamento introduttivo: «Un antico libro sapienziale distingue la capacità umana di pensare e di assimilare in una magica e in una astratta,27 mai sovrapponibili l’una all’altra. Quella magica è un mirabile dono di Dio, mentre quella astratta ciascuno può conquistarla con l’aiuto di una guida. Certo, molti che provengono dalla sfera del quotidiano saranno assetati di quel dono, ma noi, che dobbiamo servirci della scienza come organo di mediazione, possiamo offrire solo quella conoscenza “astratta” e cercare come sempre, solo a partire da parti esteriori dell’opera d’arte, in certo qual modo simbolicamente, di chiarirne l’intima interezza. 146 Capitolo 8 Però l’osservazione dell’arte non è per la scienza una faccenda di gusto e di sensibilità poetica personale, bensì è compito solo di un metodo unitario di ricerca scientifica, mirato alla conoscenza positiva. Da questo punto di vista il lavoro artistico – l’immagine – non è nient’altro che il risultato della nostra coscienza rappresentatrice, una configurazione visiva delle nostre rappresentazioni visive, mediante le quali riceve una forma sensibile ciò che nell’opera d’arte è stato pensato, percepito, sentito o… sognato. Così considerata, l’arte non è prodotto della “fantasia”, ma solo figura della medesima, e inoltre né indulge al gioco né è funzionale al godimento, né celebra la bellezza, e annuncia, più ancora della particolare volontà di chi la crea, l’universale essenza della natura nello specchio dello spirito umano. Per mezzo della configurazione visibile l’attività della nostra coscienza pensante si comunica solo in un particolare materiale, ed è per mezzo di tale attività che essa si distingue dal pensiero concettuale. In linea di principio il pensiero per intuizione non è diverso da quello in concetti. In definitiva arte e scienza si distinguono perciò solo nel materiale del pensiero».28 Questa nuova formulazione, che consta di tre paragrafi, può essere articolata sul piano del significato in due distinte sezioni: la prima (a) coincidente con i primi due paragrafi, la seconda (b) con l’ultimo lungo paragrafo. (a) Mentre la prima stesura dello scritto prendeva le mosse dall’essenza dell’arte come pensiero configurante, facendo emergere poi soltanto un poco alla volta i connotati di una scienza dell’arte intesa come critica d’arte e giungendo soltanto alla fine alla legittimazione della guida artistica, la seconda versione imbocca una via più diretta. Anziché parlare dell’essenza dell’arte, essa tratta dell’essenza di una considerazione scientifica dell’arte e giunge così sin dall’inizio al punto vero e proprio, che è costituito dalla presente guida artistica. L’accento cade con forza sulla scienza, termine sempre evidenziato in tondo. O si possiede un dono di Dio, oppure si è avviati ai tentativi della scienza. Una guida può offrire soltanto questi. Una scienza dell’arte non è dunque un dono di Dio, non è un prodigio cui è possibile solo credere, e perciò non è oggetto di fede. Essa è piuttosto una «conquista» (Erringen) e un «tentativo di chiarimento». Per il resto, però, l’osservazione dell’arte «non è per la scienza una faccenda di gusto», Arte come critica – critica come arte 147 «bensì solo compito di un […] metodo di ricerca». Qui infatti non si sta più parlando dell’arte stessa, bensì della scienza che la concerne. Poiché però, come si è detto, l’essenza della critica è strettamente imparentata con quella dell’arte, c’è un perfetto parallelismo di entrambe: l’arte non è né oggetto di fede né questione di gusto, bensì problema di conoscenza e la conoscenza dell’arte, intesa come scienza critica, non è né un dono di Dio né una faccenda di gusto, bensì «metodo d’indagine», «un’approfondita considerazione metodologica dell’arte», la quale innanzitutto cerca e interroga. Questo metodo scientifico di ricerca mira «alla conoscenza positiva». Il termine «positiva» assume qui due significati, ciascuno dei quali è riferito a entrambi i concetti di scienza: la scienza positiva, da un lato, e quella scienza dell’arte – la critica d’arte – dall’altro lato, che si riflette in una positiva conoscenza dell’arte. La differenza fra il sapere orientato al modello delle scienze naturali e la critica come disciplina applicata all’arte sta proprio qui, ed è indicata solo per cenni nell’uso degli aggettivi «abstrakt» e «gewissermaßen symbolisch»: la scienza è astratta laddove astrae singoli aspetti e li compone successivamente insieme esteriormente («parti esteriori»). In tal senso essa è ciò che comunemente s’intende con le parole «scienza positiva». Quando però il suo modo di procedere è in certo qual modo simbolico e mira a un’intima totalità, allora essa compone insieme – come accade nel symbolon letteralmente inteso – ciò che già si coappartiene sin da principio. Questa è allora la scientificità propria della critica d’arte. Presso gli antichi Greci il symbolon consisteva nello spezzare un oggetto unitario in due parti, ciascuna delle quali aveva il suo senso soltanto nell’intero e in vista dell’intero originario. Questo è quanto costituisce l’arte intesa come un configurare che è «separare e congiungere a un tempo». Ciò è quanto è compiuto anche dal pensiero, anch’esso un configurare. Il medesimo è, come già è stato qui esposto, ciò che è compiuto dalla critica, intesa nel suo krínein, sicché il legame fra la Kunst e la Kritik nell’espressione Kunstkritik è stricto sensu simbolico e mai astratto. La scienza di cui ci si avvale è e rimane sempre la stessa, a mutare è però la modalità della mediazione: essa può essere un «organo di mediazione» nel vero senso del termine, oppure no. 148 Capitolo 8 (b) Una volta descritta la scienza in questa sua duplicità, Burger rivolge il suo discorso all’arte stessa. Il Bild – e la Schackgalerie contiene solo Bilder, dipinti – è risultato di una configurazione, non è un prodotto della fantasia (come tale sarebbe accessibile a un solo individuo); è un configurare che dà forma a un materiale, secondo quella teoria che Burger esporrà di seguito. Perciò l’arte rispecchia l’essenza universale della natura, e lo specchio è l’inconfondibile individualità di ciascun artista. Così anche l’arte è considerata provvisoriamente come un configurare in vista del sapere, e per Burger è già possibile concludere un primo giro della sua argomentazione paragonando arte e scienza: quel pensare che è rappresentato dall’arte – configurazione visiva – è sin da principio e fondamentalmente (è questo il significato delle parole «dem Prinzipe nach») la stessa cosa del pensiero scientifico, se questo sia concepito appunto come un pensare, un configurare, un krínein. Il pensare della scienza configura concetti, quello dell’arte configura nessi sensibili di fenomeni, ma entrambi sono un separare e congiungere che in ultima istanza si distinguono solo nel materiale del pensiero. IV. Note per un confronto. Facendo seguito al discorso introduttivo appositamente redatto per la nuova edizione del volumetto sulla Schackgalerie, Burger riprende pressoché testualmente, con poche varianti e digressioni qui segnalate, il testo già redatto per l’edizione del 1912, nel punto in cui si dice: «Animo e fantasia non potrebbero manifestarsi senza la facoltà di questo pensare e configurare».29 Qui però il nesso che queste parole intrattengono con il ragionamento dell’edizione originale va perduto, perché è stato cassato quanto precede, vale a dire la definizione dell’arte come questione di conoscenza e come un configurare che insieme separa e congiunge. Qualche riga più avanti viene cancellato un ulteriore passaggio estremamente importante, in cui l’attività dell’artista viene definita in contrapposizione a quella di chi non è andato alla scuola del pensiero artistico. Arte come critica – critica come arte 149 Il testo della prima edizione è un esempio di consequenzialità e di coerenza intima del ragionamento, che nella seconda edizione si può cercare solo con grande difficoltà. Nel 1912, scrivendo il denso contributo sui principi fondamentali della critica d’arte, Burger aveva in mente soprattutto il pubblico dei suoi numerosi studenti universitari, fra i quali vi erano anche molti artisti che visitavano con lui una volta alla settimana l’esposizione del barone von Schack. Nella prefazione alla prima edizione, del marzo 1912 (rimasta immutata nella seconda edizione, sempre del 1912) scriveva: «Questa guida vuole introdurre il pubblico colto, gli studiosi d’arte e i giovani artisti ai problemi artistici delle opere figurative della Schackgalerie […] Si è rinunciato quindi a redigere un’introduzione divulgativa».30 Questo libretto dovette avere un successo inatteso, se nello stesso anno della prima edizione se ne rese necessaria una seconda. Del resto, riferiva Clara Burger alla madre: «La guida alla Schackgalerie sta ottenendo cospicui riconoscimenti […] In cinque giorni, infatti, il solo custode ne ha già venduti trenta esemplari […] te ne manderò una copia appena possibile».31 Quando la Casa editrice pianificò di procedere a una terza edizione, pur essendo in tempo di guerra, nel 1916, ebbe un ruolo nelle decisioni editoriali – è probabile – anche la prospettiva di raggiungere un pubblico più vasto, come quello dei numerosi visitatori dell’istituzione museale cui lo scritto è dedicato. Il nuovo titolo sembra essere pensato in questa stessa luce: I Maestri tedeschi della Schackgalerie di Monaco, da Genelli a Böcklin. Con questi due nomi era richiamato l’interesse tanto dei classicisti quanto dei cosiddetti modernisti (Böcklin era già un nome-culto per questi ultimi, e i suoi lavori godevano di un crescente interesse). Nella breve prefazione alla terza edizione, sottoscritta «nel campo di battaglia, maggio 1916», Burger afferma: «La guida è stata sostanzialmente ampliata, sia nel testo che nelle illustrazioni […] dopo aver conquistato così tanti estimatori in tempi così rapidi».32 La prima introduzione teorica sulla critica d’arte non era adatta a un vasto pubblico, e ciò per due motivi: il tema vero e proprio del volume è coinvolto solo in parte da quelle riflessioni che, in secondo luogo, costituiscono un difficile testo filosofico accessibile solo a un pubblico assai colto e accademico, quello al quale Burger si era rivolto nella prima edizione.33 Nel nuovo testo la finalità di introdurre a un 150 Capitolo 8 opuscolo sulla Schackgalerie viene decisamente in primo piano. Il discorso iniziale, redatto per l’occasione e qui già interamente riprodotto, serve appunto a tale scopo. Osservato più attentamente, questo passo rivela comunque, al proprio interno, la concezione burgeriana della critica d’arte. Ma da questo punto di vista, era necessario che il testo fosse riscritto integralmente e non solo, in buona sostanza, nelle battute iniziali. È assai probabile che Burger abbia spedito la nuova versione dell’introduzione assieme alla prefazione alla terza edizione dal fronte, nel maggio del 1916, poco prima di essere mortalmente ferito nei pressi di Verdun. Non ebbe il tempo di rivedere egli stesso le bozze di stampa.34 A quel tempo, del resto, lo Studioso era malato da alcuni mesi. Il 13 ottobre 1914 Heinrich Wölfflin scriveva a sua sorella: «Il mio collega Burger, anche lui è già gravemente ferito; l’avevo incontrato per strada in piena salute ancora alla fine di giugno, adesso sta imparando un po’ alla volta a usare le stampelle».35 Le sue lezioni, annunciate nel bollettino del semestre invernale 1914/15, non furono tenute, anche a causa del suo impegno al fronte.36 Il periodo di convalescenza fu dedicato dall’Autore anche alla sua attività di pittore: nel 1915 realizzò il suo autoritratto. Il testo della seconda versione dei Princìpi fondamentali di critica d’arte soffre di quest’insieme di circostanze e non è stato rielaborato sino in fondo. Esso è comprensibile in tutta la sua portata soltanto chiamando in causa la prima stesura, e nel confronto con questa, ma qua e là può essere convocato per chiarire finalità e percorso argomentativo della prima edizione. Ad esempio, laddove in quest’ultima il modo di configurazione specifico dell’arte viene definito dicendo: «Le rappresentazioni di rapporti fra peculiarità sensibili, quali sono state acquisite dal non-artista, non offrono pertanto un appiglio sicuro per comprendere i particolari nessi dell’immagine»,37 la versione del 1916 vi aggiunge una frase importante: «e così, inversamente, l’artista che non è andato alla scuola del pensiero teoretico pensa alla modalità di configurazione che gli è familiare, anziché ai nuovi contenuti configurativi realizzati in un altro materiale sensibile».38 Non solo l’arte, anche il pensiero teoretico necessita di una scuola. Ossia, la critica possiede del pari regole inconfondibili. L’insegnante Burger avrebbe voluto impartire anche quelle al «giovane artista», co- Arte come critica – critica come arte 151 sì come, grazie al suo Praktikum (il laboratorio pratico di critica d’arte), intendeva calare nella concreta attività del fare artistico gli studenti che ne erano digiuni. «Ciò vale per artisti e “pensatori”». La critica senza arte è cieca, l’arte senza critica è vuota: questo è ciò che ritengo si debba cogliere non solo dall’analisi dei testi qui convocati, ma anche dalla testimonianza vivente di Fritz Burger. E quivi sono «il principio fondamentale» del suo insegnamento e la stella polare dei suoi brillanti scritti. Ma la domanda sulla Kunstwissenschaft non ha affatto in Burger il sapore tranquillizzante di una questione epistemologica che si gioca entro le mura dell’accademia, ha piuttosto il gusto nietzschiano dello smascheramento,39 della ricerca genealogica, dello sforzo titanico di fissare in parole l’attimo panico della creazione artistica, che proprio come tale dilegua e ama nascondersi, come la physis di Eraclito. Apollineo e dionisiaco convivono nell’animo di Burger come già in quello di Nietzsche, e come questo è una porta fra un’età che si chiude e una che si apre – in quanto egli capovolge gli assunti della metafisica sull’uomo quale animal rationale – così Burger invera i tratti della tradizione moderna assumendone il portato e tuttavia rovesciandolo di netto: il pensiero moderno è incentrato sulla ricerca della certezza (certitudo). Lungo questa via, i suoi padri, da Cartesio a Vico a Kant, hanno elaborato un principio all’apparenza sobrio e di sano buon senso: non è possibile conoscere una cosa senza sapere come la si faccia, «quod nescis quomodo fiat, id non facis» (Geulincx), ovvero, in altri termini «verum ipsum factum» (Vico). Si tratta del principio della soggettività, che avrebbe attraversato l’età moderna fino al criticismo kantiano e all’idealismo assoluto di Hegel. Burger ne fa un caposaldo della propria Kunstwissenschaft, in omaggio al quale cerca di sopprimere la distanza fra l’arte nel suo farsi fra le mani dell’artista e il suo essere riconosciuta nell’asettico ambiente degli studiosi, divisa fra atto creativo e atto conoscitivo. A tale principio s’ispira il suo Kunstpraktikum,40 che tanto successo riscosse presso gli studenti, guidati sin dentro il laboratorio dell’artista all’opera per assistere al segreto del nascere dell’arte, per respirare l’aria della creazione. Ma non minore credibilità presso i discenti gli valeva probabilmente il profondo radicamento della sua richiesta di senso con cui aggrediva con intrepida baldanza la disciplina altrimenti equiparata agli standard del- 152 Capitolo 8 l’insegnamento universitario. Eppure, non è per giungere a certezze rassicuranti che Burger di fatto ricorre a questo assunto di fondo dell’età moderna, la certitudo, bensì per revocarle in dubbio e per rovesciarle, per voltare le spalle alle verità e ai giudizi descrittivi e storici e calarsi nella scaturigine buia e deserta donde prende forma la produzione artistica. Ed è questa che egli chiama verità: «La verità riposa nella vitalità dell’unità artistica». L’unità è appunto la semplicità e unità del nesso che dà vita alle cose e ai fenomeni da esso connessi, e che in questi è custodito (bewahrt): ecco perché Burger può parlare in questo senso di Wahrheit, verità. Se la veritas sta nel «nesso» – tradizionalmente nella adaequatio fra un soggetto e un predicato, fra proposizione e cose – per Burger il vero risiede innanzitutto in un nesso fra cose, e nell’istituire, in secondo luogo, una connessione fra tale nesso di cose e la sensibilità, e ciò è compito che spetta innanzitutto all’arte, che è così depositaria di una conoscenza originaria. V. Critica d’arte dell’Espressionismo? A questo punto, e alla luce di quanto emerso fin qui, è opportuno ricordare e reinterpretare due affermazioni ricorrenti nella pur esigua bibliografia burgeriana, e che paiono reciprocamente connesse. La prima vede in lui il rappresentante espressionista della storia dell’arte41 e giunge a dire che «creò il tipo dello scienziato espressionista, senza sospettare che in questa locuzione il sostantivo viene corroso dall’aggettivo».42 La seconda, che risale a Oskar Lang – un allievo diretto – dice che egli «fu capace, come forse nessuno prima di lui nella storia dell’arte, di porre l’accento non già sulla parola “storia”, ma sulla parola “arte”, un fatto che gli attirò le inimicizie più accese da parte dei critici di stampo tradizionale, e che d’altro canto gli fece conquistare il cuore degli artisti».43 A legare fra loro questi due giudizi è innanzitutto lo spostamento di accento, il rovesciamento di prospettiva, il carattere rivoluzionario della figura e dell’opera di Burger. Ma all’interno di questi stessi luoghi interpretativi, tale carattere è interpretabile in almeno due sensi diversi, che incidono profondamente sul messaggio complessivo. Arte come critica – critica come arte 153 La lettura più ovvia e palese potrebbe essere questa: l’animo espressionista di Burger lo condusse a privilegiare il versante dell’espressione artistica piuttosto che il rispetto formale dei canoni, tanto dell’arte che della scienza, nella prima perché l’espressione dell’artista è l’unica legge dell’opera d’arte, nella seconda perché, stando così le cose, una Kunstwissenschaft è costretta a piegare la Wissenschaft (la scienza) al servizio della Kunst (l’arte), dovendo adattare la conoscenza alla peculiarità del suo oggetto. Sicché – ne deriva come un corollario – questa particolare forma di scrittura artistica possiede invero un valore intrinseco in quanto è essa stessa una forma d’arte, ma non può e non vuole ambire al rigore della scientificità qual è tradizionalmente intesa. E infatti lo stesso Wölfflin ebbe una volta a lamentare in Burger «la riconoscibile assenza di disciplina scientifica».44 Questo esito inesplicito ha di fatto contribuito all’oblio dell’opera di Fritz Burger, assieme alle farneticazioni di un Alfred Rosenberg.45 Contro questa interpretazione è però necessario muovere alcune obiezioni, a partire dalle poche frasi cruciali dell’Autore qui riportate, giungendo così a dare una seconda, diversa lettura dei giudizi testé ricordati sulla figura storica e sull’opera di questo studioso. Innanzitutto, è da dire che Burger non concepisce l’arte in primo luogo come espressione dell’artista e della sua individualità o soggettività, o comunque come manifestazione del suo personale mondo interiore. Ed è su questo punto che manifesterà nel Cézanne und Hodler il suo dissenso dal pur stimato Kandinsky, come si dirà nel prossimo capitolo. Anche laddove l’arte renda manifesta la percezione della natura che è irriducibilmente propria di un solo determinato artista, essa è sempre e comunque forma di conoscenza, discorso sui nessi sensibili, sulla verità, una verità che è dato pertanto di riconoscere scientificamente. «Solo la forma connota ciò che possiamo chiamare individualità»,46 il contenuto è un contenuto di verità, tale per cui «la fruizione artistica non è questione né di fede né di gusto, né di sensibilità poetica personale, è piuttosto questione di unitario metodo scientifico d’indagine, mirato a conoscenza positiva».47 «L’arte non è prodotto della “fantasia”, bensì solo figura [forma, appunto] di quest’ultima. Essa, inoltre, non è al servizio del gioco o del godimento, né celebra la bellezza; piuttosto, essa è annuncio della 154 Capitolo 8 volontà particolare dell’artista, dell’essenza universale della natura nello specchio dello spirito umano».48 Altrove Burger precisa tuttavia che «ogni fare artistico è un confronto reciproco (Auseinandersetzung) con la natura».49 L’arte è con ciò un porsi fuori di sé (aus/Setzung) in quella alterità (einander) che è la natura, per portarne alla luce i nessi (secondo la volontà formale dell’artista), per cogliere cioè – non è un gioco di parole come potrebbe sembrare – la vera natura della natura. Ecco perché Burger può pronunciare un’affermazione che suona a tutta prima come un soggettivismo tronfio e senza freni: «Questa conoscenza data nell’opera d’arte, essa soltanto è realtà, non la “natura”». 50 È necessario prestare qui attenzione al fatto che la parola «natura» è posta fra virgolette. Con ciò l’autore vuole indicare che «natura» significa qui «la cosiddetta natura», vale a dire “ciò che comunemente s’intende con natura”, cioè la somma degli enti così come essi appaiono davanti agli occhi di ciascuno, immediatamente. In questa natura immediata, senza la mediazione del «pensiero artistico», i singoli fenomeni sembrano riposare in se stessi irrelati, nella loro quieta presenza, e i nessi che li governano si ritraggono invece nella ovvietà di ciò che è inapparente. L’arte, invece, fa essere e fa conoscere proprio quei nessi sensibili fra le cose, e perciò non è espressione né dell’individuo, né della soggettività, ma del confronto operante con la natura, il quale è conoscenza. La conoscenza è così espressione del rispecchiarsi dell’essenza universale della natura, che non è dato conoscere in sé – «nella sua essenza propria», indipendente – nella volontà particolare dell’artista. Solo laddove il senso della parola «espressione» venga così inteso, è lecito parlare di Burger come di un «espressionista», non solo in veste di artista e pittore, ascrivibile stilisticamente a una corrente, ma anche come pensatore teorico. Ma se il senso dell’arte è concepito in questi termini, conseguentemente l’accento posto sulla Kunst – nella parola Kunstwissenschaft – non significa un asservimento della scienza al capriccio dell’arbitrio, ma ben altro: Wissenschaft significa innanzitutto «il sapere»; il sapere è sempre sapere di qualcosa, di un oggetto, che gli è dato. E quando gli è dato immediatamente, è di volta in volta un sapere di questo o di quell’ente, cioè di singoli fenomeni, che la scienza cerca di connettere sistemandoli e organizzandoli entro scomparti disciplinari; quando in- Arte come critica – critica come arte 155 vece tale oggetto gli perviene dalla scuola del pensiero artistico, è sapere dei nessi fra i fenomeni, cioè di ciò che concede loro di essere quei fenomeni che sono, così relazionati come in realtà sono. «L’artista afferra un lato della realtà del mondo che può essere afferrato solo con i suoi mezzi, e di tale realtà perviene a una consapevolezza che non può mai essere raggiunta da alcun pensiero concettuale».51 Quando si tratta di tradurre in un sapere una tale consapevolezza ottenuta dall’artista, è necessario che si faccia una Kunstwissenschaft – una critica d’arte – in cui l’accento principale cade appunto sulla parola arte, infatti: «È necessario che l’oggetto sia riguardato in conformità alla natura sua propria»,52 e che quindi il sapere organizzi secondo le sue modalità peirastiche e di incasellamento disciplinare quello che l’arte gli ha offerto con il proprio specifico accesso alla realtà. Laddove Burger, a lezione, si estasiava davanti a un dipinto, era totalmente calato nell’esperienza dell’arte, mentre all’improvviso si assisteva al flettersi dell’onda che recava «analisi formali e sobri impianti dimostrativi», interveniva la scienza, con le sue modalità, cercando di strutturare ciò che l’arte aveva conosciuto plasmando: «Ciò che l’artista conosce configurando, anche la scienza cerca di configurarlo conoscendo». Un esempio brillante di tale concezione artistica è la trattazione che l’Autore offre delle opere di Arnold Böcklin presso la Schackgalerie di Monaco. La testatina delle pagine dedicate a questo pittore reca l’intitolazione Das Wesen der Kunst Böcklins (L’essenza dell’arte di Böcklin),53 onde segnalare che non si tratta in primo luogo di descriverne o interpretarne questa o quell’opera, ma di coglierne il tratto fondamentale dell’istanza artistica: «Böcklin vuole dipingere la “natura naturans”, l’inafferrabile volontà cosmica in tutta la sua grigia infinitezza. Questa volontà, inesorabile, brutale e ognora inquieta, come la stessa forza primigenia, si contrappone al volere umano. Già in tale concezione dualistica del problema, la grandiosità della sua idea conosce una limitazione gravida di conseguenze». 54 Dunque, l’arte è un confronto con la natura, un dissidio fra la volontà particolare dell’artista e la volontà cosmica della natura, nel suo ritrarsi. Tale limitazione è problema,55 proiettato all’infinito nella forma conferitagli dall’artista, nell’immagine plasmata dalla sua fantasia, in cui la natura si rispecchia. Tale contrasto non investe solo l’attingimento artistico della 156 Capitolo 8 natura, ma ridonda anche nello stile, nella modalità dell’esecuzione, che però manifesta la volontà artistica: «Böcklin plasma ispirandosi a due diversi princìpi artistici che si escludono a vicenda: cerca di dipingere l’atmosfera che dissolve le localizzazioni cromatiche, e tuttavia, nel far questo, vuol essere quanto più possibile cromatico, anzi, vuol rendere le localizzazioni cromatiche in sé, come aveva visto negli affreschi pompeiani e nei dipinti fiamminghi del Quattrocento».56 In tal modo, la legge formale stessa è un modo con cui l’artista uniforma la propria volontà al volere della natura: «Egli cerca questa volontà creatrice nella natura stessa, anziché nell’artista, come fanno i più moderni, innanzitutto Cézanne e Hodler».57 Costoro, laddove mettono invece in evidenza la volontà dell’artista nel suo stagliarsi di contro alla natura, preparano «i problemi della pittura contemporanea», come è detto nel sottotitolo dell’opera capitale di Burger, che da questi due artisti prende le mosse, nella quale ne va, ancora una volta, della focalizzazione della Kunstwissenschaft, proprio quando i termini della contesa fra le opposte volontà esce allo scoperto. Ma – è lecito e necessario chiedere – a quali condizioni è possibile questa Kunstwissenschaft, questa critica d’arte così intesa? Che cosa rende possibile l’applicabilità di un sapere – un termine così generico e universale – a una modalità di accesso alla realtà tanto peculiare e specifica? Che cosa fa sì, in altre parole, che tale sapere possa interamente assumere la coloritura di quell’esperienza irriducibile che è l’arte, e farsi scuola del «pensiero artistico»? Che cosa lo rende comunicabile, di modo che si possa essere educati (geschult) a tale pensiero? È indispensabile che vi sia una qualche uniformità che conceda all’uno e all’altro dei termini – la Kunst e la Wissenschaft – di incontrarsi su uno stesso piano. Che cosa vi è di comune fra la specifica e irriducibile esperienza dell’arte e l’universalità del sapere? La risposta è nel saggio introduttivo al volumetto sulla Schackgalerie testé esaminato: Se il termine Wissenschaft subisce – come s’è visto – una metamorfosi all’incontro con la Kunst, non di meno ciò accade alla Kritik in «Kunstkritik». «Kritik» significa per lui chiarimento dei fenomeni artistici; chiarire nel senso di portare allo scoperto affinità, differenze, connessioni e separazioni, cioè ancora una volta nessi che intercorrono fra fenome- Arte come critica – critica come arte 157 ni artistici. Il pensiero umano, tutto, è per Burger un Gestalten, un configurare e dar forma, un plasmare e riconoscere linee di demarcazione. Ogni definizione, di cui la scienza si nutre, è, in senso derivato, una linea di demarcazione e con ciò un nesso che regge e sostiene identità e differenze. D’altro canto, la genesi stessa della possibilità che vi sia un’arte, risiede per Burger nella percezione della realtà. L’arte è percezione di realtà. E del resto, come viene affermato nella Einführung in die moderne Kunst, non ha senso giudicare l’arte dal punto di vista del suo riprodurre la realtà – nell’ottica del cosiddetto «realismo»58 – perché ciò significa assumere la realtà come qualcosa di già dato, prima e al di fuori del Gestalten dell’arte, e quindi piegare quest’ultima al servizio di un sapere già presupposto, anziché sviscerarla in conformità alla sua natura propria, che è un dar forma originario, un Gestalten a sé stante. Anch’esso, come ogni percepire, coglie «macchie di colore semplicemente delimitate (lediglich umgrenzte Farbflecke)». Mettendo in relazione i confini di tali macchie, o anche confrontando via via i contrasti cromatici, ad esempio mediante differenze di luce, istituiamo una connessione di queste singolarità: proprio in ciò sta la scuola del pensiero artistico, che conosce i nessi fra i fenomeni sensibili. Un’opera di divisione e connessione è ciò che Burger fa rientrare nel composto «Farbenprobleme». Probleme: è di questo che si tratta, non di rassicuranti soluzioni, ma di rovelli che accompagnano e attraversano l’esistenza. Ed è così che la pittura, come l’arte figurativa in genere, si riconduce a Farbenprobleme, visto che anche il cosiddetto «problema della forma» (Formproblem) è per Burger una modalità del Farbenproblem, in quanto che ciò che chiamiamo «forma» o «linea» altro non è che il confine di una macchia di colori (e del resto, l’occhio vede colori, come chiariva già Aristotele).59 Tanto l’attività dell’arte quanto quella del conoscere sono un Gestalten nel senso dell’abitare il confine, il limite fra le cose, quel limite che le fa essere, le unisce e le distingue, le relaziona. In che cosa consiste, allora, la modernità della nozione burgeriana di critica d’arte? Vi sono due accezioni nelle quali è possibile parlare di Burger come di un moderno: quella italiana, che attribuisce alla parola moderno una nozione storica, sostanzialmente contrapposta a «medioevale», 158 Capitolo 8 la quale ha la sua fondazione più propria nel pensiero avviato da Cartesio – e in tal senso la modernità di Burger sta nell’avere afferrato l’istanza di fondo, inverandola fino a rovesciarla nel radicale dubbio nietzschiano. V’è inoltre l’espressione tedesca, «die Moderne», riferita invece allo stacco e alla svolta verificatisi a cavallo fra la fine dell’Ottocento e la Prima Guerra Mondiale, in concomitanza con la seconda Rivoluzione industriale e, nel campo dell’arte, con un susseguirsi di fenomeni che proprio nella Monaco degli anni di Burger ebbe uno dei suoi fulcri più ragguardevoli. La modernità della concezione di Burger risiede qui anzitutto nell’aver ancorato l’istanza fondativa non solo alla questione dello statuto epistemologico, ma alla ineludibile domanda sul senso – alla vita e all’esistenza – il cui nocciolo oscuro è in fondo la vera anima dell’Espressionismo. In secondo luogo, Burger ha offerto i presupposti per avvicinare e comprendere l’arte dei «Moderni», facendo ad esempio cadere una distinzione, tanto importante per l’Ottocento ma non più pregiudizievole per i contemporanei, come quella fra abbozzo e opera compiuta. La compiutezza di un’opera è infatti qualcosa che discende dalla legge interna all’arte stessa, è data da quel krínein che in essa è afferrato e fatto problema, sicché anche il frammento – come nell’opera poetica – reca in sé l’intera impronta della creazione e può essere interrogato al pari di quella (quanto è giovato tutto ciò a Burger nel rivolgersi alle incompiute fabbriche palladiane, peraltro non “moderne”, nelle quali cercava però ispirazione per l’arte del suo tempo!)60. Così anche il cosiddetto problema dello stile e delle forme stilistiche storicamente attestate ricade a semplice variabile del pensiero artistico.61 Anche il problema dell’oggetto rappresentato o raffigurato, e l’alternativa formale/informale, realismo/irrealismo assume un ruolo secondario e marginale rispetto al pensiero artistico e critico. Talché, la focalizzazione sul pensiero artistico come espressione di fenomeni sensibili crea il presupposto per un esercizio depsicologizzato dell’empatia, quale era stato tentato pure da Heinrich Wölfflin: una Einfühlung che è modalità del pensiero, la quale risiede nell’armonizzare quel Gestalten che è l’arte e quel Gestalten che è la scienza, laddove le due esperienze trovino incontro in una Kunstwissenschaft che è propriamente Kunstkritik. Arte come critica – critica come arte 159 Nelle pagine conclusive del suo Cézanne, il Monacense ebbe a stigmatizzare vigorosamente certa critica, laddove afferma: «quei teorici che biasimano o lodano un’opera prendendo le mosse dall’analisi di forme già date sono i peggiori mistificatori, in quanto erigono un muro fra l’opera d’arte e il fruitore inesperto. Da questo punto di vista – che per lo più è purtroppo l’unico possibile – la critica d’arte è il peggior nemico dell’arte […] Il critico d’arte ideale non è quindi quello che cercasse di scoprire errori, lacune, incertezze e imprestiti ecc., ma quello che provasse a saggiare (fühlen) come questa o quella forma agisca intimamente, trasmettendo al pubblico con pregnanza espressiva (ausdrucksvoll) e nella sua interezza ciò che intanto ha esperito».62 BURGER A LEZIONE VI. Ancora su arte e scienza: il discorso alla gioventù tedesca. La critica d’arte così esperita nel discorso burgeriano prepara le categorie con cui aprire alla comprensione dell’esperienza contemporanea, appannaggio per lo più di giovani artisti e rivolta alle nuove generazioni. Per loro il Monacense si spendeva senza sosta, come visto, 160 Capitolo 8 al di là delle riflessioni ex cathedra, in seminari supplementari e nelle visite alle gallerie, nonché in esercitazioni pratiche, ove possibile. Ma un’occasione speciale fu quella in cui parlò alla Freideutsche Jugend, durante il grande raduno di almeno tremila persone per una manifestazione alternativa alle celebrazioni patriottiche per il centenario della battaglia delle Nazioni a Lipsia. Burger si rivolse dunque, come pure altri nomi famosi come Cornelius Gurlitt e Paul Natorp alla gioventù democratica tedesca raccolta sulla collina di Meissen in Sassonia, nei giorni 11 e 12 ottobre 1913. Nel programma delle celebrazioni, i cui atti furono pubblicati a Jena in quello stesso anno, intitolò il proprio intervento Über die junge Kunst der Gegenwart und die Wissenschaft (Sulla giovane arte contemporanea e la scienza).63 In questo caso è soprattutto ai giovani artisti che Burger indirizza il proprio appello, il quale, nonostante l’occasione di festa, ma nello spirito di innovazione che la innerva, istituisce un nuovo rapporto fra l’arte – quella del presente – e la scienza. Egli torna così a intrecciare i fili di una riflessione difficile, ma fondamentale, avviata pubblicamente nelle brevi, dense pagine del 1912. «L’arte e la scienza: si è soliti ravvisare in loro i due poli del nostro vedere e pensare. Questi due concetti, tanto che li prendiamo in senso assoluto o relativo, sembrano escludersi. Epperò si parla di una scienza dell’arte. Sarebbe assolutamente giusto dire che l’arte non ammette una considerazione scientifica laddove – presa assolutamente – è in contraddizione con la scienza e con ogni pensiero scientifico; l’arte va vissuta, si dice allora; e tutto il pensiero teoretico le nuoce. Ma l’arte è anche qualcosa che siamo noi a configurare e quindi – visivamente – a escogitare, e ciò ha senso e valore solo in forza del cogitare, cioè del pensare. Pertanto la scienza dell’arte, in quanto teoria artistica, ha il compito di offrire sia l’essenza di tale configurare sia i mezzi della sua conoscenza». 64 Il passo contiene la tipica movenza burgeriana, dall’impossibilità di una scienza dell’arte alla necessità di una nozione di scientificità tale che la scienza dell’arte sia un configurare, al pari di questa, e analogamente alle scienze, conoscenza. Nel procedere del ragionamento, Burger mette in guardia dal pericolo di cadere in una via sbagliata, sempre in agguato, come ricorda con le parole di Mefistofele allo studente nel Faust di Goethe.65 La scienza si sta impadronendo, attraverso la tecnica, di un campo tradi- Arte come critica – critica come arte 161 zionalmente occupato dall’arte: la fotografia soppianta il dipingere e il ritrarre: «Nel momento in cui, grazie alla scienza ottica e chimica, la macchina fotografica è in grado di restituire senza residui l’apparire cromatico della realtà empirica, realizzando il sogno di millenni, l’arte si ritrae nel suo sacro regno primigenio, maledice l’occhio gaudente dell’esteta e il godimento volgare della massa, e contrae con la filosofia, che le sovviene all’incontro a mezza via, un patto inaudito. Entrambe volgono le spalle all’empirismo che guarda alla scienza della natura, verso un mondo e verso una conoscenza della vita imbevuti di idee mistiche».66 A proposito del mistico vale qui, nuovamente, quanto già affermato più sopra: la tacitazione del discorso empirico e delle sue verità. La scienza, con le scoperte astronomiche ad esempio, sembra avere sottratto la domanda sul senso. È proprio questa che spetta ora all’arte. Laddove la scienza ha squarciato il velo dell’universo e mostrato la nostra pochezza, è necessario ricostruire, per un attimo almeno, l’unità «con quella potenza omnipervasiva che ci guida e che opera in noi. È assolutamente il medesimo processo che ovunque si fa riconoscibile nella poetica, nella filosofia e nell’arte»:67 l’io, che si è perduto nel grande edificio del mondo eretto dalle scienze, si ritrae nell’intimità dell’anima, ove ricostruisce il proprio cosmo. «Credevamo di conoscere e di nominare ogni cosa; era inesauribile il materiale che la scienza accumulava davanti ai nostri occhi come una montagna; e ora l’arte comincia ad articolarlo (gliedern), a vivificarlo, a farne un nuovo magnifico nostro possesso».68 Il modello dell’arte è dunque quello del vivente, che si articola in membra (Glieder), dove ciascuna parte è in funzione del tutto, dell’intero, come accade in filosofia. Questo carattere del sapere, assimilato alla vita, è quello che lo preserva dal decadere a mera decorazione usa-e-getta: «La cultura viene condotta a spasso per la vita come una bella veste, felici di questo bell’involucro, che diventa simbolo di nobiltà e promette onore e protezione insieme».69 Attraverso l’arte Burger si ripromette di guidare la scienza «in die goldenen Lebensgründe», nelle «auree profondità della vita». Risuonano in queste parole i versi della già citata scena faustiana, in cui Mefistofele, al termine della sua dotta conversazione con lo studente, esclama: «Son grigie, amico bello,/ tutte le teorie./ Verdi le fronde ha 162 Capitolo 8 sclama: «Son grigie, amico bello,/ tutte le teorie./ Verdi le fronde ha solo/ l’albero rifulgente della Vita».70 Con l’arte, scienza e vita tornano a fare tutt’uno. L’una e l’altra sono domanda aperta, problema: «Il problematico diventa il tratto distintivo di ogni filosofia critica, e Henri Bergson osa dire che la realtà incompresa è la verità vera. L’arte eleva le sfere della conoscenza e dell’esperienza pura alla dignità di un principio configuratore assoluto […] Richiamandosi a Kant, Conrad Fiedler ha già indicato la via alla nuova critica d’arte. Egli non intende indagare né gli effetti di un’opera d’arte sotto il profilo psicologico, né le questioni legate alla pratica artistica, bensì riconoscere nell’opera d’arte un irrazionale realizzato e reso visibile, che attraverso la vita rappresentativa dell’artista e l’unità della sua coscienza diventa un organismo autonomo singolare, spiegabile solo in base a se stesso, la cui individualità, scaturita dalla naturale autonomia del nostro pensiero, diventa manifestazione della legge universale della natura. Non si tratta più, perciò, di conoscere l’imitazione di un oggetto di natura, in cui il ruolo decisivo spetterebbe al sapere o al saper fare, bensì, accantonando tutti i giudizi soggettivi di valore, di conoscere puramente le forme della nostra attività sensibile conscia, si tratta di contemplare, nelle loro cangianti figure, le mille metamorfosi della nostra primigenia natura spirituale (geistige Urnatur)».71 Così è possibile concludere che «il trattato scientifico o l’organizzazione artistica di una figura sono in quest’ottica una e medesima cosa: una creatura della nostra conoscenza ordinatrice».72 Si tratta di una riconduzione alla nozione di organismo di quella stessa identità di arte e scienza nella critica d’arte, che era evidenziata pure nel saggio introduttivo al volumetto sulla Schackgalerie. Ma il richiamo all’organismo conduce in maggiore prossimità alla nozione wölffliniana di empatia, già implicitamente presente nelle descrizioni dei corpi di fabbrica palladiani del 1909,73 e pone le basi per un utile accostamento fra la teoria wölffliniana, pur nei diversi accenti della sua evoluzione, e quella verso cui si avviava il sentiero interrotto di Fritz Burger. Arte come critica – critica come arte 163 N OTE 1 Cit. da Benno Reifenberg, lettera al prof. Albert E. Brinckmann, copia non datata (ma estate 1919), Carte Burger, Heidelberg (trascrizione Kessler). 2 Il numero di presenze alle lezioni è assai eloquente: dai registri dell’Università di Monaco, così come da quanto lo stesso Burger scrive in più occasioni, ad esempio al suocero, a sua volta docente a Heidelberg, si riscontrano fino a 549 uditori per corso. 3 Germain Bazin, Storia della storia dell’arte da Vasari ai nostri giorni, trad. it. di Paolo Mascilli Migliorini, Napoli: Guida, 1993, p. 452; Gianni Carlo Sciolla, La critica d’arte del Novecento, Torino: UTET, 1995, p. 73, e soprattutto le diverse commemorazioni, tra cui quella di Wölfflin, che lo ricorda all’indomani della notizia ferale alla presenza di colleghi accademici e studenti: «Era saldamente persuaso che la storia dell’arte del nostro tempo sia chiamata a guadagnare nuovi fondamenti, per riuscire a divenire una vera e propria scienza dell’arte, […] fiducioso nella inesauribilità delle sue energie, s’impegnò in un’impresa imponente, lo Handbuch der Kunstwissenschaft…». Cit. da Rede von Heinrich Wölfflin zum Tode Burgers, Eingang in die Akten: 24 giugno 1916, in Fakultätsakten der Philosophischen Fakultät München, E-II-1039 (E-II-N, Burger, Bd. 2). 4 Heinrich Wölfflin, Kunstgeschichtliche Grundbegriffe, München: Bruckmann, 1915. 5 Kurt Gerstenberg, in Heinrich Wölfflin, Die Kunst Albrecht Dürers, Sonderausgabe zum 100. Geburtstag von H. Wölfflin, a cura di K. Gerstenberg, München: Bruckmann, 1963, p. 327. 6 Quattro ore settimanali nel semestre invernale 1909/10, cinque ore settimanali nel semestre invernale 1910/11, quattro ore nel 1911/12 e nel 1912/13. Cfr. Rolf Hauck, Fritz Burger (1877-1916). Kunsthistoriker und Wegbereiter der Moderne am Beginn des 20. Jahrhundert, Phil. Diss., LMU, München 2005, pp. 280 sgg. 7 Fritz Burger, Zur Eröffnung der neuen Schackgalerie, in «Die Tat» I, 1910, Heft 11, pp. 673 sg. Qui l’Autore attacca i criteri di allestimento tali per cui «quelle sale, spoglie e uniformate in modo quasi militaresco, provvedono più che altro a tener lontano da questo asilo proprio il genius loci della Schackgalerie [...] Per non parlare della cattiva illuminazione [...] e delle scelte espostive, che fanno sembrare importanti opere mediocri e ne sacrificano altre [...] come la superba Pietà di Feuerbach [...] L’Imperatore è stato mal consigliato [relativamente al progetto del recupero di codesta galleria], sicché né all’esterno né internamente essa riesce ad essere quel monumento che a buon diritto l’alto patrocinio imperiale si attendeva...». 8 Fritz Burger, Die Schackgalerie München, München: Delphin Verlag, 1912, pp. 11-14; Id., Die deutschen Meister in der Schackgalerie München von Genelli bis Böcklin, München: Delphin Verlag, 1916, pp. 13-17. La stesura del 1912 è qui riportata e tradotta in appendice. 9 Burger, Die deutschen, cit., p. 1. Burger morì nel maggio del 1916, dopo aver licenziato, dal campo di battaglia, la prefazione alla terza edizione; il testo del necrologio reca la data luglio 1916. 164 10 Capitolo 8 Burger, Die Schackgalerie, cit., p. 11. Il testo è redatto interamente in corsivo. Come Burger spiega nella prefazione, »Quei paragrafi che contengono affermazioni generali sui problemi artistici, sono […] evidenziati in corsivo rispetto a quelli che commentano i dipinti». Il testo qui posto fra parentesi quadre si trova solo nella prima edizione e nella seconda, non nella terza edizione del 1916. 11 Ivi. Le parole che nel testo originale sono evidenziate mediante spaziatura, sono qui segnalate in tondo. 12 Ivi. 13 L’Autore usa il verbo «empfinden», che connota un’azione insieme attiva e passiva. 14 Ivi, pp. 11 sg. 15 Ivi, p. 12. 16 Ivi. 17 Ivi, p. 12 sg. 18 Friedrich Nietzsche, Vom Nutzen und Nachteil der Historie für das Leben, Leipzig 1874; Sull’utilità e il danno della storia per la vita, trad. it. di Sossio Giametta e Mazzino Montinari, con un saggio di Giuliano Baioni, Torino: Einaudi, 1972. 19 Burger, Die deutschen, cit., p. 16. 20 Burger, Die Schackgalerie, cit., p. 13. 21 Nel libro su Palladio aveva scritto: «Lo storico, che si limita a spiegare il presente e a indagare il passato, compie solo la metà del lavoro». Cit. da Fritz Burger, Le ville di Andrea Palladio, a cura di Elena Filippi e Lionello Puppi, traduzione di E. Filippi, Istituto Regionale Ville Venete-Umberto Allemandi & C., Torino et al.: Allemandi, 2004, p. 131. 22 Fritz Burger, Cézanne und Hodler. Einführung in die Probleme der Malerei der Gegenwart, München: Delphin Verlag, 1913, p. 15 sg. (Corsivo di chi scrive). 23 La natura, diceva Eraclito, ama nascondersi. 24 Die Schackgalerie, cit., p. 13sg. 25 Nel Cézanne Burger scriverà con grande forza retorica: «Ciò che l’artista conosce configurando, la scienza cerca di configurarlo conoscendo» (Was der Künstler gestaltend erkennt, sucht auch die Wissenschaft erkennend zu gestalten), p. 196. 26 Burger, Die deutschen, cit., p. 17. 27 La distinzione fra queste due facoltà della vita, magica e astratta, è da Burger desunta dalla lettura del Golem di Meyrink (1915). Cfr. Fritz Burger, Tagebuch II, Pasqua 1916 (trascrizione Erbsmehl, n. 181, p. 333), Carte Burger, Heidelberg. Vd. anche supra, cap. secondo: Una biografia intellettuale. 28 Burger, Die deutschen, cit., p. 13 sg. 29 Ivi, p. 14, cfr. Burger, Die Schackgalerie, cit., p. 11. 30 Ivi, p. 3, Vorwort und Anleitung zur Benutzung des Führers (Prefazione alla prima e seconda edizione). 31 Clara Burger von Duhn, lettera alla madre non datata (ma 1912), Carte Burger, Heidelberg. Arte come critica – critica come arte 32 165 Burger, Die deutschen, cit., p. 5. Ciò vale del resto anche per l’opera capitale Cézanne und Hodler: in una recensione, di cui al capitolo dedicato a questo scritto, si osserva che: «L’introduzione a quest’opera è forse piuttosto difficile da leggere», in «Rheinische Hochschulzeitung», 9 giugno 1913, p. 73. Vd. in proposito anche la lettera di Friedrich von Duhn, 21 dicembre 1912, Carte Burger, Heidelberg. 34 Il lascito di Burger fu amministrato dalla moglie Clara fino alla sua morte, avvenuta nel 1973. 35 Heinrich Wölfflin, Autobiographie, Tagebücher und Briefe, a cura di Joseph Gantner, Basel-Stuttgart: Schwabe & Co., 19842, p. 290. 36 Cfr. Hauck, Fritz, cit., p. 282. 37 Burger, Die Schackgalerie, cit., p. 12; Burger, Die deutschen, cit., p. 15. 38 Ivi. 39 Apprezzabile è l’indagine di Hans-Dieter Erbsmehl, Kulturkritik und Gegenästhetik: zur Bedeutung Friedrich Nietzsches für die bildende Kunst in Deutschland, 1892-1918, Diss., Los Angeles, Calif., University of California, 1993. 40 Su ciò Liane Burkhardt, »... bei aller Wissenschaftlichkeit, lebendig ...«. Zu einzelnen Positionen des Kunsthistorikers Fritz Burger (1877-1916), in «Kunstchronik» 51, 1998, pp. 170 sgg. 41 Albert E. Brinckmann, Postfazione a Fritz Burger, Einführung in die moderne Kunst (Handbuch der Kunstwissenschaft, Die Kunst des 19. und 20. Jahrhunderts, I), Berlin, Athenaion, 1917, p. 135; cfr. anche Udo Kultermann, Storia della storia dell’arte, trad. it. di Elena Filippi, Vicenza: Neri Pozza, 1997, p. 197. 42 Cit. in Burkhardt, ... bei aller, cit., p. 171. 43 Da Oskar Lang, Fritz Burger †, in «Die Rheinlande. Monatsschrift für deutsche Kunst und Dichtung» 26, 1916, p. 372. 44 Cfr. Filippi, A tu per tu, cit. p. 11. 45 Alfred Rosenberg, Der Mythus des 20. Jahrhunderts. Eine Wertung der seelisch-geistigen Gestaltungskämpfe unserer Zeit, München: Hoheneichen-Verlag, 1930. Il riferimento a Fritz Burger è nel secondo libro Das Wesen der germanischen Kunst, al cap. sull’ideale bellezza razziale, p. 302: «Innerlich haltlos, verschlang man “primitive Kunst”, überschlug sich in Lob von Japan und China und begann allen Ernstes, europäisch-nordische Kunst auf – Asien zurückzuführen (Burger)». Si consideri che questo saggio toccò nel 1937 la cifra da capogiro di quasi seicentomila esemplari tirati. Il libro ebbe un influsso indicibile sul movimento nazista. In esso sono rielaborate le principali teorie razziste, e si proclama che l’elemento razziale determina lo sviluppo della cultura, delle arti e della scienza e il corso stesso della storia. Nel 1933 Rosenberg divenne “Delegato del Führer per l’educazione e la formazione intellettuale e filosofica del Partito Nazionalsocialista”. 46 Burger, Die deutschen, cit., p. 15. 47 Ivi, p. 13. 48 Ivi. 49 Cfr. Burger, Cézanne, cit., p. 9. 33 166 50 Capitolo 8 Ivi. Ivi, p. 13. 52 Ivi, p. 15. 53 Vd. il brano proposto in traduzione italiana della scrivente in appendice. 54 Burger, Die deutschen, p. 118. 55 Cfr. Burger, Cézanne, cit., pp. 81 sg. 56 Burger, Die deutschen, cit., pp. 141 sg. 57 Ivi, p. 145. 58 Burger, Einführung, cit., pp. 136 sg; cfr. Hauck, Fritz, cit., p. 78 e nota 28. 59 In proposito si veda quanto ragionato da Kandinsky, Über das Geistige in der Kunst. Insbesondere in der Malerei, a cura di Max Bill, Bern: Bentelli 19655, p. 69, cfr. trad. it., cit. p. 49, che dal canto suo mostra una propensione per la priorità del problema formale. Cfr. anche Burger, Cézanne, cit., cap. conclusivo: Rassenpsychologisches und Farbenprobleme, pp. 211-224. 60 Vd. la postfazione di Lionello Puppi a Burger, Le ville, cit., qui pp. 212-215. 61 Cfr. Hauck, Fritz, cit., p. 82, n. 40. 62 Das Dogma der modernen Kritik, p. 202 (tutte le citazioni da Burger riportate nel presente contributo sono tradotte dalla scrivente). È qui ripresa integralmente e tradotta la citazione posta in esergo a questo saggio. Il passo di Kandinsky è desunto, come lo stesso Burger indica, da un articolo uscito nel Blauer Reiter del 1912, solo pochi mesi prima, dunque, dall’edizione del volume su Cézanne e Hodler. Il contributo di Kandinsky è disponibile in edizione italiana: Wassily KandinskyFranz Marc, Il Cavaliere Azzurro, commento e note di Klaus Lankheit, trad. di Giuseppina Gozzini Calzecchi Onesti, con una postfazione di Elena Pontiggia, Milano: SE, 1988, qui pp. 142 sg. L’unica traduzione parziale di un capitolo del Cézanne und Hodler è stata realizzata da Andrea Pinotti, Fritz Burger. Picasso: il misticismo della logica, 1913, in Pittura e idea. Ricerche fenomenologiche sul cubismo, a cura di A. Pinotti, Firenze 1998, pp. 35-48. 63 Fritz Burger, Über die junge Kunst der Gegenwart und die Wissenschaft, in Freideutsche Jugend. Zur Jahrhundertfeier auf dem Hohen Meißner 1913, Jena: Eugen Diederichs Verlag, 1913, pp. 51-57. 64 Ivi, p. 51. 65 Chissà quante volte un monito siffatto è stato proferito da Kuno Fischer nelle sue lezioni dedicate proprio all’essenza del Faust goethiano, di cui lui, filosofo, era peraltro all’epoca uno dei più validi esegeti, richiamando perciò in Heidelberg molti giovani talentosi. 66 Burger, Über die junge, cit., p. 52. 67 Ivi, p. 53. 68 Ivi, p. 54. 69 Ivi. 70 «Grau, teuer Freund, ist alle Theorie,/ Und grün des Lebens goldner Baum», Johann Wolfgang von Goethe, Faust I, vv. 2038sg., trad. it. di Vincenzo Errante, Firenze: Sansoni, 1948, p. 117. 51 Arte come critica – critica come arte 71 Burger, Über die junge Kunst, cit., pp. 55sg. Ivi, p. 56. 73 Vd. il contributo su Burger e l’empatia in appendice. 72 167 9. BURGER E I PROBLEMI FONDAMENTALI DELL’ARTE CONTEMPORANEA VOLANTINO PUBBLICITARIO DEL VOLUME (1913) Il libro del 1913, Cézanne und Hodler. Einführung in die Probleme der Malerei der Gegenwart, pubblicato presso Delphin Verlag di Monaco, fu senz’altro il più grande successo editoriale della produzione di Burger, almeno di quella destinata alla riflessione sulla critica d’arte.1 Esso marca decisamente la svolta di Burger verso l’arte contemporanea, e prepara l’immagine di lui come di uno storico dell’arte espressionista, che più volte sarà ripetuta nei decenni. Se è vero che il volume su Cézanne e Hodler portò Burger alla ribalta e al successo di pubblico, è altrettanto inconfutabile che egli si volle trovare già per tempo nell’occhio stesso del ciclone, là dove si forgiavano, come visto, le nuove categorie con cui affrontare il rovello 169 170 Capitolo 9 intorno all’essenza dell’arte contemporanea. Burger non si era risparmiato, anche in tempi in cui atteggiamenti audaci potevano costituire seri ostacoli alla carriera accademica. Del resto, egli ne fu straordinariamente consapevole: «Poiché mi espongo assai nelle mie visioni relative alla modernità, e con ciò mi sono anche isolato, non posso attendermi niente di buono circa una qualche chiamata nel prossimo futuro. Conosco infatti precisamente le conseguenze del caso».2 Siamo ora in grado di asserire che la genesi del volume risale all’estate del 1911, anche sulla scorta di quanto ricorda la moglie dieci anni dopo: «Lì, a Sylt, mio marito cominciò il suo libro su Cézanne».3 Quest’opera fu recensita da una rivista di studi superiori – la «Rheinische Hochschulzeitung» – con parole che l’Editore adottò prontamente nei propri cataloghi di promozione: «Dopo il Laocoonte di Lessing non era forse mai stata scritta un’opera altrettanto profonda sui problemi della pittura!».4 A parere di chi scrive, è opportuno intendere queste parole al di là dello slogan, che ha contribuito a dare al lavoro di Burger una notorietà protrattasi ben oltre la sua scomparsa e per tutti gli anni Venti, sino alla condanna ideologica pronunciata dalla politica culturale del Nazionalsocialismo. C’è più di un punto di contatto fra il Cézanne und Hodler e il Laokoon. Entrambi gli scritti si impegnano nel focalizzare l’essenza della pittura e la sua autonomia come manifestazione dello spirito, anzi, come forma di pensiero irriducibile ad altre. Ambedue attribuiscono a questa forma d’arte una funzione educatrice dell’umanità, un ethos insostituibile. E lo fanno indirizzando lo sguardo disorientato di una generazione verso un polo accessibile a tutti, nell’intento di destare una coscienza non solo settoriale dell’arte. I due testi rimangono di fatto incompiuti: il Cézanne und Hodler non reca invero la dicitura «prima parte» come il Laokoon, ma al pari di questo addensa, attorno a un nucleo teoretico centrale, una miriade di spunti: è come se un paziente orologiaio vi abbia accumulato tutta la minuteria che si appresta a montare, e si fosse poi provato a sperimentare se il meccanismo principale funzioni, riproponendosi di terminare il lavoro in un secondo tempo, che purtroppo non vi fu. Così questo scritto pullula di frammenti che attendono di interagire, ed è testimonianza di un’epoca che sa di se stessa attraverso l’arte, che riflette sé nella propria sensibilità artistica e si affida ai posteri perché Burger e i princìpi fondamentali dell’arte contemporanea 171 lo specchio ancora imperfetto delle sue intuizioni rifletta lucidamente l’intero. Lessing negava che la pittura fosse poesia muta e la poesia una pittura in parole. Burger ricostruisce di fatto questo assunto del grande illuminista prendendo le mosse dai germi fecondi della pittura contemporanea. In quest’ottica concepì, in quegli stessi anni, il faraonico progetto di uno Handbuch der Kunstwissenschaft. Al pari di Lessing, che nel celebre apologo del saggio Nathan scardinava la centralità dell’Europa cattolica, e riconosceva uguali diritti alle culture ebraica e islamica, Burger guarda all’arte con una volontà di soppressione di certo eurocentrismo imperante e di creare le categorie per comprendere tutta l’arte informale e non tradizionale, quale è non solo nella pittura contemporanea, ma anche in quella dei Paesi lontani, dell’Oriente, e dei cosiddetti Primitivi. Tale estensione dell’apparato categoriale implica un sottofondo filosofico dello scritto di Burger, che ancora una volta lo apparenta a quello dell’autore del Laocoonte. Per l’arte dei Moderni è anzi caratteristico un legame fra filosofia e arte: «entrambe distolgono lo sguardo dall’empirismo orientato alle scienze naturali, verso una conoscenza del mondo e della vita permeata di idee mistiche».5 Il misticismo era assai in voga in quegli anni, venato di esoterismo e di magia. Ma la mistica di Burger è più sobria e forse più prossima a quella del Neoplatonismo. Essa rappresenta il silenzio del pensiero calcolante ed empirico delle scienze esatte. Il mistico è il silenzio del linguaggio computante e oggettivante delle scienze esatte, in cui il segno è strettamente legato a ciò che denota. La tacitazione di questo linguaggio è il mistico che apre lo spazio dell’arte, in cui non si dice e non si nega, ma si «mostra». E in tal senso la dimensione dischiusa da Burger è analoga all’esperienza espressa nelle ultime proposizioni del Tractatus Logico-Philosophicus di Ludwig Wittgenstein. Non si tratta di una fuga dal presente, dalla storia e dalla tradizione, bensì di una rivoluzione copernicana che spetta propriamente alla critica d’arte. Il suo pensiero si esprime nel proposito che «noi storici dell’arte non dobbiamo sempre limitarci alla mera ricerca di come la conoscenza storica debba essere valutata per l’età presente, bensì quali conoscenze l’età presente ci offra per la valutazione del passato. […] Si tratta di considerare l’oggetto secondo la necessità della natura sua 172 Capitolo 9 propria».6 Così non è la storia a servire all’arte, ma l’arte a offrire le categorie per leggere la storia, per fluidificarne i tratti. Dall’arte contemporanea emerge una nozione nuova di natura: non l’adeguazione alla natura propria dell’arte imitativa, non la creazione di una seconda natura, traguardo dell’arte romantica e di quella forma di romanticismo della scienza che è il Neopositivismo, bensì una «Auseinandersetzung mit der Natur», un confronto paritario, una compenetrazione, che non si limita a contemplare, ma che scopre e contempla sé in questo atto medesimo. L’opera d’arte è «teoria sull’essenza della natura». Ed è proprio questo che consente di rivolgersi alle epoche passate, istituendo quella che Burger chiama «evoluzione del concetto di natura», dal Rinascimento al presente. In tale contesto entra in gioco la centralità di due artisti affatto difformi come Paul Cézanne (1839-1906) e Ferdinand Hodler (1853-1918). Costoro hanno tracciato le «relazioni essenziali» che intercorrono fra natura e volontà. L’Espressionismo si presenta in opposizione da un lato all’Impressionismo, dall’altro allo spirito del Rinascimento. Sicché la poetica dell’espressionismo burgeriano si legge già, per via negativa, nella critica a Palladio come incarnazione del Rinascimento veneziano. Ma torniano allo specifico del volume e al ruolo che esso riveste nella produzione del Nostro. Esso connota il passaggio di Burger da acclamato professore sui generis di Monaco a studioso riconosciuto anche al di là della sfera degli studenti e degli studiosi.7 Ciò avviene con un’opera volutamente problematica – il sottotitolo parla di «introduzione ai problemi» – anche per la sua collocazione: non è solo un libro di storia dell’arte. Sin da principio, e nella partizione stessa del volume, l’arte è vista nel contesto più generale della cultura, e intende operare all’interno di essa per offrire una prospettiva di senso anche storico: «Noi storici dell’arte non dobbiamo sempre limitarci alla pura e semplice indagine su come la conoscenza storica debba essere stimata in vista del presente, ma anche su quali conoscenze il presente ci offra per giudicare il passato. Perciò qui non si parlerà tanto di storia dell’arte, quanto dell’arte in sé» (6).8 Di conseguenza, Cézanne e Hodler sono l’occasione storica da cui muove un discorso che, attraverso i problemi della pittura, affronta più in generale il tema della creazione artistica e della sua comprensione, onde pervenire infine all’età presente e alla possibilità di riconsiderare il passato nell’ottica del presen- Burger e i princìpi fondamentali dell’arte contemporanea 173 te. Così l’arte mostra di essere una via verso la conoscenza, è un grimaldello per dischiudere un orizzonte di senso e, in quanto tale, si pone come forma di sapere dell’intero accanto alla filosofia e come questa aspira a parlare dell’uomo in quanto tale, non solo come specialista in un campo sia pure degno di attenzione qual è quello dell’arte – pur riconoscendo, con Cézanne, che «l’arte si rivolge a un numero estremamente limitato di individui» (così recita una frase messa in calce alla prima grande partizione del volume).9 Ma Burger, con il suo libro, sembra voler dimostrare che ciò non esclude che un numero tendenzialmente illimitato di individui possa e debba dal canto proprio rivolgersi all’arte, pur non essendo essi stessi coloro – gli artisti – cui l’arte si rivolge. Così bisogna distinguere, sin dall’inizio, da una parte il ruolo dell’artista, dall’altra quello del pubblico, ed è solo mediante quest’ultimo che il lavoro dell’arte si rinsalda alla realtà presente, ed è parimenti questa la ragione che – stimo – sprona il Monacense a illustrare pensieri anche complessi in riviste di varia umanità con intenti formativi, fra cui «Das Neue Leben» («La Vita Nuova») e «Die Tat» («L’Azione»). Quale rapporto, allora, s’istituisce fra l’artista e il suo fruitore? Il problema s’innesta in un orizzonte più ampio, che può essere formulato come segue: l’arte è un “fare” (Schaffen) che è proprio dell’uomo; e «ogni fare umano è un confronto con la natura. Questa nozione di natura è ristretta e ampia ad un tempo. La grande massa intende con ciò quella realtà che l’occhio crede di vedere, e questa fede nell’infallibilità dell’occhio possiede l’inamovibilità di un dogma religioso». In realtà, osserva Burger, «ogni epoca crede di sapere che aspetto abbia la “natura”. È con questo sapere che essa giudica» (9). Fino a che punto può spingersi tale giudizio? Dove cessa la sua legittimità? Virtualmente non v’è limite se, stando alle parole del poeta – poste in esergo al capitolo in oggetto, insieme a quelle già citate di Cézanne, «auch das Unnatürliche ist Natur»: ovvero, la natura si spinge fino alla sua negazione più estrema, anche ciò che è più innaturale le appartiene, giusta Goethe. Poiché dunque l’arte, come modalità dell’agire umano, è questo confronto con la natura, l’arte è epocale e pronuncia il giudizio dell’epoca sulla natura. Essa si rivolge a pochi, agli artisti: a costoro, prima che ad altri (come si evince dal motto di Schiller citato in calce al- 174 Capitolo 9 la successiva partizione del volume),10 l’arte destina il proprio giudizio sulla natura. Che cosa deve fare il fruitore per appropriarsene? Ecco il luogo del problema specifico qui affrontato: «Nell’arte bisogna saper pensare con l’artista per poter capire che cosa intende con natura e ciò che egli enuncia su di essa con il proprio configurare (gestaltend)» (9 sg.). Ritornano qui all’evidenza i nodi e gli esiti teoretici degli scritti precedenti, vale a dire il Gestalten e la peculiarità dell’arte come enunciazione.11 L’arte e lo studio dell’arte sono così in funzione del motto di Maurice Maeterlinck posto in esergo all’intero volume, e che inizia solennemente recitando: «Non addormentiamoci sul nostro passato!». Si tratta di un autore caro anche a Kandinsky, che gli dedica alcune pagine dello Spirituale nell’arte.12 È da notare che il dogma dell’infallibilità dell’occhio, assieme a quello, a esso collegato, della pittura come imitazione, è ciò che muove anche l’opera principale di Wölfflin, che inizia proprio raccontando la paradigmatica vicenda dei quattro pittori che, volendo raffigurare esattamente il giardino di Tivoli, si ritrovano con altrettanti dipinti stilisticamente differenti di un medesimo soggetto. Così come l’arte non si limita a riprodurre questo o quel momento della realtà, e perciò si distanzia dall’indagine storica, al tempo stesso essa si accosta alla filosofia: «Ché i grandi artisti son sempre al tempo stesso filosofi» (10). Come spiegherà Burger duecento pagine più avanti, ormai verso la conclusione del libro, «ciò che sospinge innanzi l’arte e la scienza moderne è proprio l’amore per il tutto, per l’intero, la cui intensità è più forte che mai» (210). E in effetti, accanto ai nomi dei pittori, fra i più citati nel testo sono quelli di filosofi come Kant e Hegel (meno menzionato, ma non meno presente nel panorama del Nostro è Nietzsche). Non era il solo a pensarla così, se è vero che uno degli aforsimi di Franz Marc afferma testualmente: «Dopo il mitico, grande Kant, abbiamo un unico punto d’appoggio, un’isola verde nella preistoria della nostra epoca: l’opera di chi ha filosofato col martello...».13 Insieme al filosofo di Königsberg, altrove definito colui che «guarda molto avanti, oltre il XIX secolo», la gioventù intellettuale tedesca intende sfruttare appieno la forza dirompente dell’eredità nietzschiana. Ma l’idealismo romantico ha lasciato sul terreno altra pietra miliare nell’opera di Hegel. Quest’ultimo è utile a Burger per collocare il ruolo dell’artista in una dialettica che lo sottrae tanto al solipsi- Burger e i princìpi fondamentali dell’arte contemporanea 175 smo individualista quanto agli angusti limiti dello stile nazionale. Da un lato, infatti, «non solo è stupida, ma anche priva di gusto l’estensione dei fanatismi patriottico-sentimentali al campo dell’arte» (10, 113) – e questa sarà una delle ragioni della condanna nazista di Burger – dall’altro, tuttavia, «il valore di ogni agire personale sta sostanzialmente nel risultato sovrapersonale del lavoro. Perciò Hegel dice che “la vera libertà dell’individuo è la condivisione e la massima comunità è la massima libertà”» (11). L’artista non è un individuo isolato, è il medio fra la natura e la sua comunità. Il suo lavoro è prossimo a quello del filosofo, ma non è confondibile con esso. Altrimenti esposto, con le parole di Fiedler: «L’artista afferra un lato del mondo che può essere colto soltanto con i suoi mezzi e perviene a una coscienza della realtà che nessun pensiero può mai raggiungere» (13). Su questa base Burger ricusa tanto l’idea di arte come imitazione della realtà, che equivale a una sua riduzione ad altro, quanto come godimento, che ancora una volta la rinvia ad altro, e ne fa un mezzo in vista di un fine a esso esterno (13-15). Di nuovo soccorrono le parole di Hegel, secondo le quali si tratta «di considerare l’oggetto in base alla necessità della natura sua propria» (ivi). «Le opere d’arte sono teorie sull’esistenza del mondo […] Se tutto il pensiero umano è un giudizio sulla natura, così pure l’arte è un giudizio sulla natura. Questa conoscenza data nell’opera d’arte, essa è il vero effettivo, non la natura» (17). Emergono ancora, in vista di un dispiegamento più ampio, i temi del breve e intenso saggio introduttivo al volume del 1912 sulla Schackgalerie. La natura è qualcosa di effettivo (wirklich: capace di wirken, di generare effetti; generarli nel senso del greco phy, da cui la physis, la natura, appunto). L’arte sa far essere la natura e, si potrebbe chiosare, poiché va affrontata secondo la necessità della natura sua propria, è l’arte a istituire e fondare se stessa e le modalità dell’approccio a sé, e ciò prelude già alla nozione di Kunstkritik, quale è emersa nel saggio sui Princìpi fondamentali della critica d’arte. «Il male fondamentale in tutta la critica artistica risiede per lo più nel fatto che nell’atto del configurare (Gestaltung) si vede innanzitutto un processo manuale, e si fa dipendere la realizzazione del raffigurato dalla “tecnica”. Un’immagine può essere di una semplicità infantile, e tuttavia più unitaria di un’opera d’arte che s’impone per la dovizia di 176 Capitolo 9 mezzi tecnici» (ivi). Il marchio specifico dell’opera d’arte è così ravvisato, almeno in via provvisoria, nel suo carattere unitario e fondante. L’arte è epocale; alle poche persone cui si rivolge essa dischiude la possibilità di far essere la natura creando le condizioni per un giudizio su di essa, palesando loro una volontà formale, che è quella di un’epoca. «Ma tutti i giovani che hanno seguito questa volontà dell’epoca si raggruppano attorno a due personalità: Hodler e Cézanne! Non che li si possa definire allievi o epigoni di uno di questi Maestri. Però le trasformazioni che sono avvenute nell’arte degli ultimi quindici anni, la svolta verso due direzioni all’apparenza del tutto opposte, ma in sostanza non così estranee fra loro, e i mutamenti nelle concezioni del mondo che in queste prendono forma, trovano la loro espressione più spiccata nell’arte di Hodler e Cézanne. È raro che Hodler e Cézanne siano menzionati insieme, eppure, nonostante le differenze esteriori, sono vicini. L’affinità del loro essere è attestata dal fatto che l’arte tedesca più recente segue le orme di questi due grandi. […] Nel genio teutonico di Hodler la calorosa esigenza di dar corpo allo spirito s’esprime più intensamente, ma anche in modo più unilaterale che nel latino Cézanne, nel quale la logica figurativa, la configurazione, passa sempre attraverso la figura. Ma in entrambi ogni individuo, nella natura, è solo una creatura di quella volontà creatrice sovrapersonale che ovunque si esprime nella peculiarità del suo apparire e nei nessi di questo. Soltanto che Cézanne perviene a ciò che si chiama psiche più attraverso il sensibile, mentre Hodler, partendo dal moto espressivo della figura e dalla sua determinazione psichica, giunge al motivo unificatore della figura» (33). Così, al fondo della volontà artistica dei Moderni v’è non tanto un’esperienza trascinata verso opposti indirizzi, quanto piuttosto una sorta di chiasmo e di moto complementare.14 L’attenzione a Cézanne era suggerita a Burger innanzitutto dall’acquisizione di dipinti del Maestro francese da parte dei Musei di Monaco, il cui direttore, Hugo von Tschudi – come ricorda lo stesso Autore nel tracciare una breve nota biografica dell’artista – fu il primo responsabile di una galleria pubblica tedesca ad accogliere dei dipinti di Cézanne, ivi compreso il suo Autoritratto del 1880 ca., ancora oggi esposto nelle sale della Neue Pinakothek. Ma il pittore di Aix aveva Burger e i princìpi fondamentali dell’arte contemporanea 177 destato un deciso interesse nell’ambiente dell’avanguardia artistica tedesca e monacense. 15 Ferdinand Hodler era ancora vivente alla data della pubblicazione del libro (morirà a Ginevra nel 1918). Nel 1904 aveva preso parte alla Secessione monacense. Fra il 1906 e il 1911 v’erano state più manifestazioni espositive a lui dedicate nella capitale bavarese. Nelle pagine del suo libro Burger illustra – non attraverso un tracciato regolare e geometrico, ma proponendo al lettore di districarsi in un «sentiero spinato di confronti di principio», annunciato in modo di excusatio sin dalla prefazione (6) – un percorso di affinità e di filiazioni, di raffronti talvolta serrati, talaltra offrendo ampie divagazioni e incursioni nelle epoche passate in cui dà prova del proprio magistero, dello stile sempre oscillante fra la fredda descrizione e la passione teoretica per l’astrazione, un itinerario che s’addentra con originalità nei gangli problematici della modernità, per trarne allo scoperto intuizioni spesso geniali e folgoranti. «Da tre giorni – scriverà il suocero – sto interamente sotto il segno del Cézanne und Hodler. È un grosso lavoro speculativo quello che Tu, mio caro Fritz, hai svolto in questo libro: certo, è altrettanto un grosso lavoro quello che Tu pretendi dal Tuo lettore. Il libro non è facile, ma straordinariamente stimolante e scritto con uno stile eccellente. Non tutto, peraltro, mi è risultato chiarissimo, forse perché mi mancano quella formazione e dimestichezza con la filosofia in cui Ti sei destreggiato così abilmente. E sono però persuaso che anche chi inizialmente resta perplesso, non soltanto di fronte all’arte dei Moderni, ma anche davanti alle Tue considerazioni, e chi magari ritiene che dogmatizzi troppo e cerchi in modo insistito di incatenare la libera essenza dell’arte entro leggi astratte, quegli non potrà esimersi dal riconoscere con fervore e gratitudine il grande e autentico sforzo di chiarire per Te stesso e per gli altri tutte queste significative manifestazioni artistiche, calando siffatta chiarezza entro una forma determinata, regolata da princìpi filosofici. In ogni caso, è una vera benedizione che Tu riesca ad afferrare saldamente quella grande linea orizzontale che attraversa l’intera età presente, e non Ti lasci turbare e deviare lo sguardo da confini politici o addirittura etnici che inducono a tracciare differenze di fondo – come va facendo Thode a Roma – fra germanesimo e romanità…».16 178 Capitolo 9 In questa operazione affatto pionieristica nemmeno Clara riusciva a seguirlo e a comprenderlo convenientemente… «Era una giornata splendida […] Dopo aver atteso fino a mezzogiorno entrai da mio marito nel suo studio. Sedeva alla scrivania e teneva alte le diapositive contro la luce. “Pittura assolutamente moderna – astratta, non figurativa, musica dipinta”, commentò, ma tutto ciò mi era estraneo. Che cosa aveva a che fare un tale caos con l’ordine, che l’essenza più profonda della musica rappresentava…?».17 In Cézanne e Hodler l’idea figurativa cerca di affrancarsi dalla convenzione tradizionale dominata dall’ordine delle nostre rappresentazioni sensibili, per trovare espressione solo nelle relazioni di confine delle macchie di colore (72): vi pervengono tuttavia da esperienze differenti: «Cézanne forma la sua immagine a partire da un unico elemento: la luce. Si vede l’affinità del differente, non la sua diversità, e là dove qualcosa sembra staccarsi da quanto lo circonda non nasce mai una separazione. Quello che per Hodler è il motivo limitante la figura, per Cézanne è il motivo cromatico. Nei suoi lavori le figure sono difficili da riconoscere. Si riceve un’impressione di movimento corporeo, che però si ritrae di fronte all’insolito baluginio di chiaro e scuro sullo sfondo. Le ombre, che sono distribuite sull’intero dipinto, scorrono giù dal cielo come fiumi di pece, mentre i bagliori di luce sembrano lacerare in brandelli le pareti grigio-azzurro […] i movimenti sono difficili da connotare e non si sa nemmeno se siano rivolti a un fine, oppure se esprimano istintivamente l’ansia di fronte all’incertezza degli eventi che cova in agguato» (75, tav. 45; cfr. I bagnanti, ill. qui riprodotta). «Cézanne non conosce pose, le sue figure non interessano nei loro dettagli; agiscono solo nell’intero e con l’intero, di cui si presentano come la parte colorata […] Con “armonia” egli non intende il convenire graduale di parti diverse, come il Rinascimento, bensì l’affinità dell’essenza e l’unità di tutte le parti. Non ci sono momenti di trapasso (Übergänge), ma solo l’intero» (76). «Cézanne non conosce alcuna determinatezza del gesto, ma solo la libera regolarità dell’apparire, mentre Hodler è pervenuto solo dal gesto della figura al motivo entro cui appaiono la figura e lo spazio» (216). Burger e i princìpi fondamentali dell’arte contemporanea 179 Egli cerca di evitare l’isolamento dell’oggetto (110); lui, l’impressionista, ricerca i contrasti di colori complementari e conquista l’unità attraverso le gradazioni di questi, mentre Hodler unisce separando con contorni netti: «Ciò che l’impressionista rifugge, Hodler ricerca» (42); «per l’impressionista l’infinito è lo sconfinato, per Hodler è volontà che crea tutti i confini e tutti li unifica (43). Così l’unità è in Hodler il risultato di un contrasto pieno di tensione; «Cézanne non narra alcun dramma» (90): i contorni non sono per lui «rigide linee di confine […] ma mobili macchie di colore che come tali, appunto, a un tempo congiungono e separano» (92). Cézanne e Hodler sono in definitiva le due risposte uguali e contrarie al problema della forma che, come ha mostrato il saggio per la Schackgalerie, consta proprio nel Gestalten inteso come originario congiungere e separare insieme. 180 Capitolo 9 FERDINAND HODLER, PAESAGGIO LACUSTRE, 1905 Il Gestalten gioca un ruolo di primo piano nel dirimere il nesso fra arte, filosofia, scienza, e nel teorizzare la legittimità dell’arte entro questo novero. Esso è formulato in modo assai efficace: «Ciò che l’artista conosce configurando, la scienza cerca di configurarlo conoscendo» (196).18 La brillantezza retorica di queste parole rischia di metterne in ombra il portato di pensiero, che merita invece un esame approfondito. I termini coinvolti in questa inversione sono i verbi gestalten ed erkennen. Il primo si riferisce al plasmare la figura, profilandola nei suoi contorni, in quel nesso essenziale che la staglia da tutto il resto. Il secondo è un conoscere che è spesso sinonimo di «riconoscere» (anerkennen) ciò che intanto è, e che è in attesa di essere tratto allo scoperto – alla luce – a partire dall’oscurità del suo occultamento. L’artista, in quanto si confronta con il prendere forma delle cose, conosce e riconosce. In lui i due verbi vigono simultaneamente. Non così nella scienza, dove fra di essi si inserisce un suchen, un ricercare, che cerca di orientare il sapere a una forma conchiusa, sedimentata nel progettare modelli, nell’istituire strutture e formazioni, nell’approntare quadri e scomparti, suddividendo e articolando. Burger pensa qui all’esempio delle scienze positive, che muovono da un positum, da un dato, il qua- Burger e i princìpi fondamentali dell’arte contemporanea 181 le viene saputo e riconosciuto in quanto preventivamente già posto dallo stesso soggetto conoscente, come insegna Kant, il cui linguaggio risuona spesso nella lingua di Burger. Mentre nell’arte il Gestalten è il principio fondativo, che fa tutt’uno con il conoscere – cioè con l’interpretare e quindi far essere la natura – nella scienza esso è guidato dalla conoscenza da un lato e dalla ricerca dall’altro, così da arrivare come un risultato auspicato, laddove nell’arte è presente sin dal principio. Il Gestalten dell’arte è più prossimo a quello della filosofia, come si diceva. Questa ha il suo dominio nel pensiero. I pensieri, tuttavia, «non vengono solo formulati concettualmente, ma anche configurati artisticamente; cioè il pensiero filosofico diventa configurazione artistica, e con ciò la filosofia studio dell’arte (Kunstwissenschaft)» (179). L’incontro della filosofia e dell’arte avviene sul difficile terreno del mistico, sulla cui nozione vi è ora rinnovata occasione di tornare. Il concetto di «mistico», per il ruolo capitale che di fatto riveste in questo libro di Burger (come pure, del resto, nel celebre scritto di Kandinsky), avrebbe meritato di essere messo appositamente a tema e di essere più chiaramente illustrato da parte dell’Autore. Vi sono però almeno alcuni spunti che permettono di leggitimare l’interpretazione qui proposta, vale a dire quella della tacitazione del linguaggio reificante delle scienze positive. Laddove inizia a disquisire dei problemi culturali del presente alla luce dell’arte, Burger osserva: «L’arte è la logica conseguenza di un movimento culturale profondo che sempre, anche in passato, è apparso con sorprendente regolarità come un segno premonitore, un movimento che annuncia il tramonto e la nuova nascita di un’epoca: la mistica che oggi comincia a dominare non solo l’arte, ma anche ogni forma di pensiero e di configurazione» (169). A riprova di ciò, lo Studioso cita parole tratte dalla rivista «Logos», da lui lodata come importante evento culturale: «È rimarchevole notare con quanta necessità ogni allargamento della sfera oggettiva sia stato accompagnato sempre anche dalla consapevolezza della impossibilità di una soluzione oggettiva dei problemi ultimi e della accresciuta esigenza di questa. Così l’età alessandrina, in cui vi fu il dominio esclusivo delle singole scienze, fu seguita dal massimo slancio della mistica che l’umanità abbia mai conosciuto. La conquista dell’autonomia delle scienze fisiche in età rinascimentale ha condotto a un nuovo avvento 182 Capitolo 9 dell’atmosfera mistica. La critica di Kant, che ha aperto la via a una conoscenza filosofica obiettiva e autonoma, ha portato a un aumento del bisogno di mistica. Lo sviluppo più recente della filosofia si muove nella stessa direzione: conduce a rendere ancor più profondo il baratro che sussiste fra la sfera oggettiva e quella soggettiva e a liberare la filosofia da motivi e problemi estranei e a “purificare” il mistico da tutti i momenti razionali. Perciò l’estremo “impoverimento” della sfera oggettiva non è che il rovescio dell’estrema tensione dell’esperienza irrazionale. Da qui anche l’intonazione mistica dell’uomo moderno!» (170 sg.). Il mistico o l’irrazionale appare in siffatta analisi storica come una necessaria fluidificazione di ciò che la ratio ha inquadrato, sclerotizzato, oggettivato e con ciò reificato, assegnando a ogni settore regole e autonomia, indipendenza rispetto alla flessuosità della creazione. Non si può contrapporre il mistico al razionale come il positivo e apprezzabile al negativo e biasimevole. Basti pensare al grande rispetto con cui il pensiero di Kant è considerato dallo stesso Burger. Il mistico ha i connotati dello slancio plasmatore, che è capace di creare forme nuove proprio dalla cancellazione dei recinti irrigiditi dalla tradizione precedente. In tal senso si giustifica l’insistito ritorno al mistico per connotare la sfera della creazione artistica, e in questo contesto sono probabilmente da intendersi anche le parole di Kandinsky che ravvisa la «radice delle radici» nel «contenuto mistico dell’arte».19 Le scienze settorializzano e parcellizzano l’intero dell’esperienza. Proprio a partire da questa consapevolezza Burger definisce il compito mistico dell’arte, ricordando le parole che il giovane romanziere e poeta Otto Ludwig scrisse nel 1839: «Tutta quanta la nostra formazione, per tramite della scuola, dell’arte e della società è finalizzata solo a questo: smembrarci. […] Lo scopo dell’arte non dovrebbe essere solo quello di ricostruire l’uomo già smembrato?!» (190). Se perciò si vuol parlare di un compito dell’arte – afferma Burger, stavolta con le autorevoli parole dell’amico Hildebrand – «esso può essere solo quello di costituire e di far avvertire sempre, nonostante tutte le malattie dell’epoca, il sano e giusto rapporto della nostra rappresentazione e della nostra attività sensoriale» (ivi). Burger e i princìpi fondamentali dell’arte contemporanea 183 Ma per cogliere ulteriormente la concezione burgeriana del mistico e il ruolo che esso svolge in quest’opera si deve percorrere il cammino di Cézanne e Hodler sino a Picasso. Cézanne e Hodler hanno adempiuto a tale compito laddove hanno problematizzato la forma affissandosi sul problema del limite, dei confini che la determinano, sia pure offrendo opposte soluzioni fra le quali si apre il ventaglio delle proposte artistiche moderne. Alle origini di tale diversa opzione c’è secondo Burger una differente sensibilità artistica sedimentata nella storia della pittura dell’Ottocento: «Tale differenza fra i due Maestri risponde alla contrapposizione persino tradizionale fra la pittura tedesca e francese del secolo XIX. Da Poussin attraverso Lancret, Courbet, Delacroix, Corot muove la linea evolutiva che conduce a Cézanne, mentre l’arte di Hodler concresce da un terreno che ha generato pure Philipp Otto Runge, Schwind, Rethel e Böcklin, Stuck, Erler, Karl Haider e Hans Thoma, nonché, last not least, Hans von Marées» (216). Ma il cammino che conduce a Hodler ha radici ben profonde, se, come scrive altrove il Nostro, sempre nel 1913, «c’è una via che porta dai primi artisti di Norimberga, attraverso Dürer, Holbein e Grünewald, sino a Hodler».20 Non vi è invece in Burger particolare apprezzamento di pittori impressionisti come Manet, Degas e Renoir, i quali costituivano assieme a Cézanne «le quattro colonne della pittura moderna», almeno a detta di Julius Meier-Graefe, che dedicò la prima fondamentale monografia al pittore di Aix, appena quattro anni dopo la sua morte.21 Quanto a Manet, Cézanne lo rende obsoleto in quanto «osa di più» (79). Degas non è mai nominato nel volume del 1913, mentre Renoir risulta perdente nel confronto con Cézanne condotto sullo stesso tema, quello delle Bagnanti: «Renoir: corpi molli in luce molle, tutto è confuso, come il raggio di sole che s’infrange nelle onde dell’atmosfera, un amabile pezzo di rococò senza la grazia civettuola, con una sottolineatura un po’ insistita della libertà della luce colorata – un’arte borghese, guastata dallo spirito della Rivoluzione. In Cézanne un’apoteosi di colori negli alberi, grandi masse di luce e ombra s’accumulano come nubi che salgono da terra in uno spazio gigantesco, e le figure, piccole e inapparenti, e tuttavia intimamente congiunte alla struttura del tutto, insieme membra e anima dello spazio. In Renoir manca totalmente il senso dell’interazione delle forme cromatiche…» (75). 184 Capitolo 9 Questi giudizi decisamente tranchant, come pure le omissioni, denunciano soprattutto l’intenzione di evidenziare la novità di Cézanne, la sua appartenenza al versante che inclina verso la modernità. Il fatto è, come ebbe a scrivere Burger in un annuncio promozionale del suo libro, che «non si cerca più l’infinito mutare dei fenomeni, come fece l’Impressionismo, bensì la legge nell’essere e nel fare».22 Dalla genealogia qui sunteggiata dei due capisaldi delle problematiche moderne nel dipingere si può passare alla ricostruzione delle discendenze dalla linea di Cézanne (di fatto più copiosa) e da quella di Hodler, anche se Burger non è – e non vuol essere – né sistematico né apodittico, e preferisce operare mediante il confronto dei dipinti (secondo una tipologia del discorso artistico portata in auge da Wölfflin). Per il senso tragico del suo dipingere e per la prevalenza del colore sui valori luministici, Arnold Böcklin discende da Hodler, mentre l’intento di dipingere la «natura naturans sul volto della Terra» lo assimila piuttosto a Cézanne. In lui c’è l’eredità del classicismo romantico che traduce nel paesaggio «il nobile, la rovina, il bello, l’ideale rinascimentale con una tonalità sentimentale di fondo, e qui ha cercato di incarnare, al tempo stesso, l’idea tragica del cosmo» (25 sg.). La tragicità del reale è la cifra di fondo del dipingere di Böcklin, come risulta dai magistrali commenti che Burger aveva fatto nel 1912 di alcuni suoi dipinti conservati alla Schackgalerie.23 Il tema che attraversa la produzione di van Gogh è invece quello di una volontà indomita, irrazionale, inflessibile. Se Hodler marcando i confini delle forme vuol visualizzare una «volontà fattasi forma (formgewordener Wille)» (48) – e in ciò è assimilato a Michelangelo – «van Gogh vuole qualcosa di analogo:24 ciò che appare dev’essere volontà divenuta forma, ma tale volontà non è legge di natura, bensì una spinta selvaggia, sregolata e fantastica, in cui la veemente volontà di vita e la spaventosa ansia di annullamento trovano ugualmente espressione in questo impeto di fuga verso il basso e verso l’alto. […] Certo, questo volere della natura è in van Gogh selvaggia anarchia. Qui sta il confine della sua arte rispetto a Hodler» (58). Burger e i princìpi fondamentali dell’arte contemporanea 185 VINCENT VAN GOGH, LES PEIROLUTES, 1889 Ma ci sono aspetti per i quali van Gogh rinvia a Cézanne: il colore e la vita infusa nel non vivente: «Cézanne è capace di animare, in modo sinora inaudito, la materia per noi inerte, come il muro, la strada, etc., non però nel senso degli impressionisti della prima ora, che danno forma solo a colori in movimento. Analogamente a van Gogh egli dipinge la volontà di vita nel corpo cromatico, determinato dall’ambiente che lo circonda. Ma van Gogh avrebbe dipinto qui la demonica volontà di vita in ogni singolo aspetto, mentre Cézanne ci mostra la conciliazione unitaria della sua mano creatrice solo nella quieta sinergia delle cose» (110). La volontà di vita di Cézanne è tale da ricondurre l’umano nell’orizzonte del cosmico, in van Gogh invece è il cosmico ad assumere tratti umanizzati: «L’antica contrapposizione fra volere ed essere riaffiora in van Gogh. In Cézanne dietro ogni volere, dietro ogni accadere si affaccia il volto ineluttabile della necessità. La visione del mondo di van Gogh si spiega con l’antropomorfizzazione di tutto l’essere. Il volere dell’individuo e della natura sono i nemici opposti. Il problema centrale della concezione del mondo è come in Schopenhauer la volontà cosmica. Perciò in Cézanne la volontà perso- 186 Capitolo 9 nale è una legge ricondotta entro forme sensibili, adempiuta entro il caso individuale, e così l’immagine; in van Gogh ogni forma è condizionata da questa volontà personale, che senza posa alcuna s’annienta in un lavorìo eterno. Qui l’essere è il nulla, in cui si smorza il volere della personalità» (124sg.). Anche Kandinsky espresse un’analoga considerazione di Cézanne, laddove disse che «sapeva trasformare una tazza in un essere animato, o meglio sapeva riconoscere l’essere in quella tazza. Le cose morte diventano vive».25 Del resto, fu lo stesso Cézanne a dichiarare in una lettera: «Il paesaggio si riflette, si umanizza, si pensa in me».26 In quest’ottica si vede agire, dietro la contrapposizione di Cézanne e Hodler, un’antitesi categoriale divenuta celebre con la tesi di Wilhelm Worringer Abstraktion und Einfühlung, discussa nel 1907 e pubblicata dall’editore Piper di Monaco nel 1908, mai peraltro menzionata nella monografia di Burger, né in Kandinsky (ma Worringer cita a sua volta Hildebrand, solido punto di riferimento per Burger). L’impulso empatico (animazione del subumano) corrisponde alla linea Cézanne-van Gogh, mentre quello all’astrazione è identificabile con la riconduzione della vita alla legge, tipica di Hodler. Ma così come il sistema di Worringer rimane legato all’identità di fondo di astrazione ed empatia (essendo la prima una sorta di «controempatia, un’empatia negativa»,27 allo stesso modo, come si è visto, Cézanne e Hodler sono identificati al centro del chiasmo da cui traggono origine i «problemi della pittura moderna». È interessante notare che questa contrapposizione a Hodler, che vede un Cézanne mistico ed empatico, è bensì in linea con la visione che ne presentò Worringer nel saggio del 1911 per il volume collettaneo Im Kampf um die Kunst, nel quale fra l’altro si riferisce ai «Jungpariser» (Cézanne, van Gogh, Matisse) definendoli «Synthetisten und Expressionisten», parlando della «mistica di quest’arte», che fa coincidere nella capacità di immedesimarsi con ciò che è primitivo, di contro al razionalismo visivo dell’Europa colta.28 Ma già in uno scritto del 1919, Kritische Gedanken zur neuen Kunst, Worringer assegna il ruolo mistico al solo van Gogh, cui contrappone Cézanne piuttosto come esponente di una linea scolastica, geometrica e astratta, adottando un’interpretazione con cui Burger (e con lui Kandinsky) sarebbe stato in netto disaccordo.29 Burger e i princìpi fondamentali dell’arte contemporanea 187 Matisse è per Burger «Cézanne tradotto in ornamento» (126). Il suo dipingere, esaminato ad esempio in La musique (1910), è mistico nel senso che «l’anelito a dar forma al prodigio dell’infinito ha guidato anche il pennello di Henri Matisse» (140). Anche Corot è da accostare a Cézanne, «ma senza la stessa unità artistica» (109); «Corot è invero più esatto. […] Nell’opera di Corot la forma viene raffigurata (abgebildet), mentre in Cézanne raffigurare (abbilden) significa “plasmare” (formen)» (110). Proprio per questa priorità dell’atto del plasmare sulla ricettività del riprodurre Burger fa discendere dal magistero di Cézanne anche il cubismo di Picasso, dichiarandolo impossibile da comprendere senza l’arte di Cézanne (132). Egli si spinge anzi ad affermare che lo stesso Kandinsky non lo avrebbe rettamente inteso nell’almanacco Der Blaue Reiter, in quanto «l’anarchismo e spiritualismo di Kandinsky è in nettissimo contrasto con la schietta filosofia cosmica e metafisica di Picasso, mentre è più affine a van Gogh nel senso che vuole configurare non ciò che è formato, ma ciò che si forma, solo che, a differenza di lui e di Cézanne, si libera totalmente dall’oggettuale» (ivi). «In Hodler il volontarismo dell’epoca antica e moderna gioca ancora un ruolo decisivo, che in Picasso così come in Cézanne è stato completamente eliminato. Quel che ci viene incontro in Picasso sono le forme della mistica, come non hanno mai osato esternarsi in modo così puro nell’arte precedente. Poiché la mistica esige la formazione dell’informe, la figura di ciò che è privo di figura. La sua essenza è indifferenza assoluta, “essa è ciò che resiste alla forma, ciò che è lì per essere superato. Essa stessa non è una realtà, piuttosto è ciò che solo rende possibile il reale, il concetto di ciò che non è ancora. Oltre la nozione della possibilità, dell’indeterminato e dell’informe, lo sconfinato e infinito è affine all’essenza della mistica. La sua natura è non solo contrapposta, ma ostile al valore logico. Essa prepara al concetto la notte e il tramonto”» (134 sg.).30 Il «mistico» è qui chiaramente la condizione di possibilità, intesa in senso kantiano; ha a che fare con il prender forma della forma, con il segno che rende possibile il reale, in quanto separa e congiunge a un tempo. In tal senso, il mistico può essere contrapposto alla razionalità solo se con questa s’intende l’oggetto del Verstand (la conoscenza delle cose subordinata alle leggi della logica), non della Vernunft, la qua- 188 Capitolo 9 le prepara al logico la notte e il tramonto perché riconosce che nel trapassare – nel confine che dà forma alla forma, nel crepuscolo che è insieme notte e giorno, pur senza essere né notte né giorno – la contraddizione è hegelianamente la regula veri; la regola del vero concepito come intero, quello stesso che costituisce la passione dell’arte e della filosofia, come si è visto. L’intero è contrapposto – quale legge immanente a ogni organismo – all’individuale isolato: «Le figure che Picasso rappresenta non possono quindi né essere belle né portare a espressione qualsivoglia potenza dello spirito o dell’anima connessa con l’individualità di un oggetto. Poiché l’essenza della mistica sta in questa differenza dell’individualità. Si cerca qui di eliminare completamente l’opposizione sensibile di figura e spazio, inorganico e organico, un caos muto di cristalli che si accumulano. Per l’Impressionismo la figura era una macchia cromatica che si subordinava alla logica figurativa. L’esperienza vissuta mistica diventa qui conoscenza formale, e viceversa la conoscenza vede nei suoi aspetti formali un prodigio mistico. Non è impossibile che un’epoca posteriore riconosca in queste opere il riflesso sensibile della massima tragicità dell’essenza umana che, almanaccando su se stessa, forma sempre di nuovo il prodigio del proprio essere e per cogliere l’infinito crea sempre una connessione spirituale del finito, attraverso la quale il prodigio della sua esistenza traspare come attraverso un velo tetro. La mistica è qui liberata da ogni aggiunta teistica. È la mistica del cosmo, non quella dell’individualità, quella di Plotino, non di Eckhart, che ci viene offerta qui. Se l’Impressionismo aveva già tentato di istituire un’arte che fosse libera da ogni valore extra-artistico, qui si presenta un’esperienza che sotto tutti gli aspetti è ostile al valore come la mistica, e che tenta di configurare in modo puro l’assoluta unità dello spirito creatore in ogni creatura. Ogni volontarismo è eliminato, non si può ovviamente parlare di simbolo o di allegoria. E neanche si deve chiarire tramite il configurare il nascere e il perire, bensì illustrare quel destino notturno che, al di là del bene e del male, governa la crescita del cosmo. Non udiamo nulla di titani che infuriano nei cieli, né di oscure potenze spirituali, dobbiamo solo vedere questa forza mistica e coglierla come apparenza, la figura che si forma in figura universale» (135 sg.). La figura universale non è questa o quella figura, ma il suo farsi, la condizione di possibilità di ogni configurare e di ogni esperire for- Burger e i princìpi fondamentali dell’arte contemporanea 189 male. Perciò Burger osserva che «quel che è dato in Picasso non ha proprio nulla a che fare con l’esperienza nel senso tradizionale; la percezione non viene concepita come conoscenza sensibile di un oggetto, bensì viene oggettivata come atto della rappresentazione, e la sua essenza naturale che urge all’unità viene configurata come un mistero. Perciò qui le idee di Kant si incontrano con quelle del mistico, poiché qui a essere formata non è l’essenza dell’oggetto, bensì l’essenza della conoscenza» (137). «In Picasso – così come in Hodler e in Cézanne – non si tratta della comprensione sensibile di una connessione, bensì della conoscenza della forma stessa che condiziona le connessioni; della conoscenza non di ciò che è formato, bensì del principio formante» (129). «Picasso dipinge il carattere spirituale della legge. Egli non pensa alle relazioni di spazio e figura, bensì all’identità di finitezza e infinità, e cerca di rendere visibile come ogni singolo elemento sia conseguenza e al contempo causa del tutto. Egli non dipinge o illustra una conoscenza filosofica del mondo, bensì riflette su di essa puramente come artista e la configura. Configurare non significa però per lui produrre figure o oggetti, bensì rendere visibile nella configurazione la legge configurativa» (130). In definitiva, per comprendere rettamente il portato di quest’arte e la sua intima relazione con la creazione artistica in quanto tale, Burger osserva: «Picasso non dipinge né il cubo né il peso, ma la legge in quanto tale, nelle relazioni di confine fra le macchie di colore, dipinge il principio in base al quale, pensando, formiamo» (ivi). 190 Capitolo 9 Il tema del mistico conduce direttamente a Kandinsky, che Burger conosceva e frequentava anche personalmente. Come artista egli lo vede discendere dal misticismo cromatico di Cézanne, che ridonda nel simbolismo cromatico dell’artista russo (119). «Egli è impressionista nel senso che muove dall’impressione cromatica, romantico e mistico nel senso che non vuol far vedere la mera impressione ottica come tale in un elaborato figurativo, quanto piuttosto mostrare i sentimenti nel Burger e i princìpi fondamentali dell’arte contemporanea 191 loro congiungersi. Vuole tradurre nel sensibile quei sentimenti che ha ottenuto tramite la pura impressione dei sensi […] Ma sentimenti e rappresentazioni possono essere trasmessi solo in figura. Kandinsky, però, vuole liberarsi interamente dall’oggettuale, così da comunicare il proprio evento psichico, analogamente a quanto accade in musica, coi puri mezzi espressivi dell’arte, […] con una determinata sequenza cromatica di chiari e scuri. […] Quello che Kandinsky ci offre è però l’allegoria del colore che vuole rendere sensibile lo spirituale, non spiritualizzare il sensibile, configurandolo. Senza riguardo per le convenzioni, quali che siano, e nella sua lotta contro queste stesse, deve restare per forza incomprensibile, poiché non c’è comunicazione che possa sfuggire a strutture convenzionali. Ogni reciproca convenzione, al pari di ogni umana comunità, riposa su convenzioni. Per rendersi comprensibile, Kandinsky avrebbe dovuto porne di nuove al posto delle vecchie, e con ciò sarebbe approdato ancora a convenzioni, anziché evitarle. Esponente di un tentativo analogo a quello condotto a Vienna da Schönberg in campo musicale, dovette egli stesso giungere a riconoscere questo fatto. […] Ma Kandinsky scambia “configurazione dell’oggetto” con “configurazione del fenomeno”. Combattendo contro la prima, Kandinsky perde di vista anche la seconda. La questione è se le idee possano essere rappresentate e comprese in altro modo che in nessi prodotti sulla base di princìpi unitari. Certo, il romantico potrebbe obiettare che non si tratta di comprendere, ma appunto di sentire, di esperire il proprio io nella metamorfosi sensibile. Ma questo soggettivismo romantico sfocia alla fine solo in una sorta di estasi dell’occhio, in uno stato onirico, in un balbettio di suoni lacerati, incomprensibile a tutti, uno spiritismo nell’arte che, paragonato con tentativi analoghi, ha però dalla sua almeno una cosa di buono: la coerenza» (119 sg.). Questa accusa contro l’amico esprime in realtà la preoccupazione che venga reciso quel nesso fra arte e critica d’arte che per Burger costituisce un asse portante irrinunciabile per l’una come per l’altra. Lo stesso Kandinsky non sottovalutava affatto questo aspetto, e nel suo saggio Lo spirituale nell’arte aveva scritto chiaramente che «comprendere è formazione dello spettatore, che lo approssima al punto di vista dell’artista».31 È proprio in vista di questo obiettivo che Burger aveva avviato i suoi corsi di esercitazione pratica, nel cui contesto a- 192 Capitolo 9 veva condotto con sé gli studenti nell’atelier di Kandinsky a Murnau. La comunicazione prevede invero l’instaurarsi di una struttura, di un codice entro cui convengono coloro che vi sono coinvolti, ma non può essere che l’artista debba muovere verso il critico per porgergli l’arte in categorie a lui familiari. Al contrario: è l’osservatore che deve approssimarsi all’ottica dell’artista, imparando, con le stesse parole usate da Burger nel Cézanne, a vedere con gli occhi di questo. Del resto, lo stesso Burger annota: «È ridicolo osservare l’inettitudine con cui alcuni critici, basandosi su di una fraseologia che hanno imparato, si tormentano con espressioni come “lineare”, “pittorico”, “tipizzazione” o “astrazione” per definire le cose. Kandinsky lo ha detto assai rettamente nel Cavaliere azzurro: “L’astratto perde il sostegno rappresentato dalla diversione nell’oggettivo e l’osservatore si sente come librato in aria. Si dice: l’arte non poggia più a terra. A sua volta l’oggettivo non è più passibile di idealizzazione mediante la diversione nell’astratto (l’elemento ‘artistico’) e l’osservatore si sente inchiodato al suolo. Si dice: l’arte perde l’ideale”» (131).32 Picasso e Kandinsky appaiono a Burger come antipodi: «Kandinsky lotta come anarchico per la liberazione della sua personalità dalle convenzioni che egli ritiene di sentire come catene, per configurare le sue peculiari esperenze vissute, libero da esse, e con ciò anche da ogni elemento oggettuale. Anche a tal riguardo Picasso rappresenta il polo opposto. Poiché non cerca la libertà, bensì il segreto del sovrapersonale, della legge. Egli è, sotto questo profilo, una conseguenza dell’arte di Courbet e di Cézanne, che qui si disfa di ogni tendenza impressionistica, e cerca le proprie forme per le sue idee cosmiche. In Hodler anche l’azione dell’individuo, i suoi gesti servono all’espressione, all’“animazione” delle connessioni sensibili, che qui in Picasso cercano di esprimere il trascendente nella loro propria essenzialità sovraoggettuale» (138). Burger e i princìpi fondamentali dell’arte contemporanea 193 WASSILY KANDINSKY, I MPROVVISAZIONE V, 1910 Entrambi affondano nel mistico, e tuttavia: «In Picasso una teoria sensibile sui problemi della mistica, in Kandinsky e in parte in Matisse una illustrazione di idee mistiche!» (139). La mistica di Kandinsky è nel segno di una «anarchia spirituale» (126, 132), «nel più aspro contrasto con la semplice filosofia cosmica e metafisica di Picasso; egli è invece più affine a van Gogh, nella misura in cui non vuole ciò che è formato, bensì il configurare formantesi (das sich formende Gestalten), solo che, in opposizione a van Gogh e a Cézanne, Kandinsky si libera completamente dell’oggettuale» (132). Gli autori del Blauer Reiter erano vicini a Burger sin dal momento in cui si rivolse alla pittura contemporanea. «Fritz – ricorda la vedova nel Diario – fece amicizia con una cerchia di artisti che filosofavano sullo spirituale nell’arte. Queste cose io non le capivo o non le volevo capire. La maggior parte dei quadri mi sembravano come se li avesse dipinti con la coda il diavolo. Erano assolutamente privi di un cuore 194 Capitolo 9 che pulsa […] Alle volte raggiungeva in bicicletta il paese dove questo gruppo di giovani artisti si riuniva nel segno del Cavaliere azzurro. Non ne parlava molto e non gli facevo domande, anche perché provavo una forte avversione per il capo di questa scuola. Mi sembrava un nemico del nostro matrimonio; avevano consorti ma non figli: le loro donne non ne volevano, dipingevano anche loro, alla maniera dei loro compagni…».33 Fra questi provocatori della nuova pittura spicca Franz Marc, del quale Burger riproduce due opere già nelle illustrazioni del volume Cézanne und Hodler. La sua personalità artistica viene qui ricondotta a una linea che risale a Cézanne attraverso Gauguin. Quest’ultimo è paragonato al Maestro innanzitutto nella ritrattistica, dove si distingue a giudizio di Burger per una minor finezza e una certa propensione a illustrare e decorare (82), e tuttavia si colloca agli antipodi di Rousseau. Se in Henri il Doganiere l’arte è un modo per conoscere la realtà, per Gauguin è un «manifesto socialista» (160). La sua arte è condotta dall’«anelito a una natura infantile, libera, semplice, tipica dell’uomo moderno acculturato» (ivi). E per questo stesso motivo «l’arte di Gauguin si contrappone nettamente anche ai deliri visivi di van Gogh» (ivi). Proprio a Gauguin viene ancorata la produzione di Marc: «I suoi animali, accovacciati nel bosco, vogliono essere natura che vi si esprime infantile, fidata, schietta e misteriosa. Le corna del cervo non si distinguono dai rami; la cerbiatta, di un bianco visionario, è come un’apparizione di sogno sul fondo blu. Non giace propriamente al suolo, ma si staglia come una macchia contornata di colore rispetto al terreno, che possiede una sagoma simile. Per amore di questa relazione sensibile di somiglianza è qui necessario sacrificare la prospettiva e la correttezza anatomica, intese in senso tradizionale, in modo da rendere questa pacifica, idillica prossimità di esseri affini, sopprimendo la comune opposizione fra l’organico e l’inorganico degli oggetti a favore di una loro unità sensibile» (162). Marc s’immedesima nell’animale, e cerca di calarsi nella sua esperienza della realtà, intonando il suo dipingere a questo vissuto empatico. Burger e i princìpi fondamentali dell’arte contemporanea 195 196 Capitolo 9 N OTE 1 Ove non diversamente indicato, tutte le citazioni dal Cézanne und Hodler qui riportate si riferiscono all’edizione originale del 1913, un esemplare della quale è presso l’Autrice. In realtà, il volume era già stampato nel dicembre del 1912, nonostante quanto riportato già nel frontespizio e anche nel colophon, se, come risulta da una lettera di Friedrich von Duhn al genero, datata 21 dicembre 1912, lo stesso ne aveva ultimato la lettura e ne aveva fatto dono di una copia al collega Prof. dr. Vinzenz Czerny (1842-1916), allora Ministro dell’istruzione, in occasione del suo 70° compleanno. Questo chirurgo di fama internazionale fu il fondatore dell’Istituto di ricerca sul cancro presso l’Università di Heidelberg. Carte Burger, Heidelberg (a giudizio di chi scrive dovrebbe trattarsi però di una copia dattiloscritta, passata fra le carte di Erich Burger). 2 Stralcio di corrispondenza privata (il destinatario manca), degli anni in cui Burger era Privatdozent a Monaco (non datata). Carte Burger, Heidelberg (trascrizione Kessler). 3 Cit. da Clara Burger von-Duhn, Diario, p. 10, Carte Burger, Heidelberg (trascrizione Bert Burger). 4 Cit. da «Rheinische Hochschulzeitung», XIII, 4, 1913, p. 73. È piuttosto singolare che l’editore Delphin accetti di pubblicare, nello stesso anno, anche lo studio di Max Raphael, Von Monet zu Picasso. Grundzüge einer Ästhetik und Entwicklung der modernen Malerei, München: Delphin, 1913; oggi in Max Raphael: Werkausgabe, 11 voll. Von Monet zu Picasso, Vol. 2, a cura di Hans-Jürgen Heinrichs, Frankfurt a.M.: Suhrkamp, 1989. 5 Burger, Cézanne, cit., p. 14. 6 Ivi, p. 6. 7 Sulla ricaduta del tema Cézanne nel contesto della letteratura artistica di età guglielmina da ultimo vd. Friederike Kitschen, Der “deutsche” Cézanne in der Kunstrezeption der wilhelminischen Epoche, in Distanz und Aneignung – relations artistiques entre la France et l’Allemagne, 1870- 1945 – Distanz und Aneignung – Kunstbeziehungen zwischen Deutschland und Frankreich, 1870-1945, a cura di Alexandre Kostka e Françoise Lucbert, Berlin: Akademie-Verlag, 2004, pp. 317-332. Si segnala anche il volume collettaneo frutto di competenze diversificate ma omogeneo nell’ispirazione, Il Cézanne degli scrittori dei poeti e dei filosofi, a cura di Giovanni Cianci, Elio Franzini e Antonello Negri, Milano: Bocca Editori, 2001; in particolare vd. i contributi di Silvia Bignami, Julius Meier-Graefe e Wilhelm Worringer. Appunti per un Cézanne “gotico”, ivi, pp. 75-80 (peccato che il lavoro burgeriano sia soltanto citato, ma non ragionato), e Andrea Pinotti, Tra astrazione ed empatia. Cézanne, Worringer e il Blaue Reiter, ivi, pp. 81-103. 8 In questo capitolo i numeri di pagina relativi al volume di Fritz Burger, Cézanne und Hodler. Einführung in die Probleme der Malerei der Gegenwart, München: Delphin Verlag, 1913, saranno segnalati fra parentesi nel testo. 9 Problemi della pittura moderna, ivi, pp. 9-168. 10 Problemi culturali del presente alla luce dell’arte, ivi, pp. 169-210, qui p. 169. Burger e i princìpi fondamentali dell’arte contemporanea 11 197 Vd. supra, il cap. sui Principi fondamentali. Wassily Kandinsky, Lo spirituale nell’arte, trad. it. a cura di Elena Pontiggia, Milano: SE, 1989, pp. 32 sgg. 13 Cit. da Franz Marc, La seconda vista. Aforismi e altri scritti, ed. it. a cura di Elena Pontiggia Milano: SE, 1999, n. 28, p. 46. 14 Nel recensire il volume di Burger uno studioso dello spessore di Hans Tietze aderì con entusiasmo alla sua diagnosi e alla scelta di questi due Maestri: «Essi configurano il contenuto di pensiero del nostro tempo; un’interpretazione come quella di Burger, che muove dalla funzione conoscitiva dell’arte, riporta alla luce binari ormai semisepolti […] Cézanne e Hodler sono lo zoccolo del futuro perché con potenti braccia afferrano tutto ciò che il passato aveva da lasciare in eredità». H. Tietze, Recensione a Cézanne und Hodler, in «Die Kunst für alle» XXVIII, 15 (maggio), 16, pp. 365-367, qui pp. 365 sg. Si osservi che questa nota cade nello stesso anno in cui Tietze licenzia il suo lavoro sui Metodi della storia dell’arte, di cui scrive che «era pieno zeppo delle domande fondamentali della nostra disciplina». Cfr. H. Tietze, Geisteswissenschaftliche Kunstgeschichte, in Die Kunstwissenschaft der Gegenwart in Selbstdarstellungen, a cura di Johannes Jahn, Leipzig: Meiner, 1924, pp. 183-198, qui p. 183. 15 Si veda in proposito: Jolanda Nigro Covre, Cézanne e l’avanguardia tedesca, in Cézanne e le avanguardie, a cura di Nello Ponente, Roma 1981, pp. 94-115, e Bignami, Julius Meier-Graefe, cit., pp. 75-80. 16 Traduzione parziale della lettera di Friedrich von Duhn a Fritz Burger, Heidelberg, 21 dicembre 1912, cit. 17 Cit. da Clara Burger von-Duhn, Diario, p. 11, Carte Burger, Heidelberg (trascrizione Bert Burger). Qui s’annida, oltretutto, una diversa concezione della musica nei due coniugi, entrambi interpreti, ma con predilezioni talora dissonanti. 18 «Was der Künstler gestaltend erkennt, sucht auch die Wissenschaft erkennend zu gestalten». 19 Kandinsky, Lo spirituale, cit., p. 57. 20 Fritz Burger, Die Kunst des deutschen Mittelalters und wir, in «Deutsches Altertum und Mittelalter» 3, 1913, Heft 7, qui p. 19. 21 Julius Meier-Graefe, Cézanne, München: R. Piper, 1910 (nel 1923 vantava già una quinta ed.); Id., Cézanne und sein Kreis. Ein Beitrag zur Entwicklungsgeschichte der modernen Kunst, München: Piper & Co. Verlag, 1924. 22 Fritz Burger, Selbstanzeigen – Cézanne und Hodler. Einführung in die Probleme der Malerei der Gegenwart, in «Die Zukunft» 84, 1913, pp. 232-234, qui p. 233. 23 Si veda il passo riportato in appendice al presente volume. 24 Burger lo afferma commentando il dipinto Les Peiroulets (1889) del Rijksmuseum di Otterlo. 25 Kandinsky, Lo spirituale, cit., p. 36. 26 Paul Cézanne, Lettere, a cura di Elena Pontiggia, Milano: SE, 1997, p. 119. 12 198 27 Capitolo 9 Cfr. Jolanda Nigro Covre, Introduzione a Wilhelm Worringer, Astrazione e empatia, Torino: Einaudi, 1973, p. XIV. 28 Wilhelm Worringer, Entwicklungsgeschichtliches zur modernsten Kunst, in Im Kampf um die Kunst. Die Antwort auf den «Protest deutscher Künstler», München: Piper Verlag, 1911, pp. 92-99, qui pp. 93-96. 29 Id., Kritische Gedanken zur neuen Kunst, in Fragen und Gegenfragen, München: Piper, 1956, pp. 86-105, qui pp. 92 sg.; vd. anche Nigro Covre, Introduzione, cit., pp. XXVI sg., e Pinotti, Tra astrazione, cit., qui pp. 83-87. 30 La citazione interna è da Hans Mehlis, Formen der Mystik, in «Logos», II, 1911-12, p. 242. I brani citati dalle pp. 127-139 del Cézanne riprendono, talora modificandola, la sola parziale traduzione italiana disponibile contenuta nell’antologia a cura di Andrea Pinotti, Pittura e idea. Ricerche fenomenologiche sul cubismo, Firenze: Alinea editrice, 1998, pp. 35-48. 31 Kandinsky, Lo spirituale, cit., p. 26. 32 Cfr. Wassily Kandinsky-Franz Marc, Il cavaliere azzurro, trad. it. di Giuseppina Gozzini Calzecchi Onesti, Milano: SE, 1988, p. 134. 33 Clara Burger, Diario, cit., pp. 11 sg., Carte Burger, Heidelberg (trascrizione Bert Burger). È interessante osservare come Clara, benché giovane, sia refrattaria alle spiazzanti proposte dell’avanguardia, e incarni il punto di vista della borghesia tedesca. Lei stessa si diletterà di pittura, rivelando una volta di più un’inclinazione ai modi e al gusto più accademico. Non mancano in tal senso scambi di opinione tra lei e il marito perfino nelle lettere che lo raggiungevano al suo avamposto di guerra. 10. «L’ARTISTA IN ME, E LO STUDIOSO». IL CAMMINO DI UNA VOCAZIONE «È sempre infatti l’artista in me, a confliggere con lo studioso, e da una parte come dall’altra è sempre l’uomo pratico, ad andare in cerca della vita…!» 1 (Fritz Burger) I. Da Firenze a Verdun. Probabilmente, il pensiero che spinse Burger a frequentare il corso di disegno che Gustaf Britsch (1879-1923) teneva a Firenze nell’estate 19102 – in via dei Serragli 130a, appresso Porta Romana, come si può leggere nell’appunto autografo a matita che compare nell’album delle esercitazioni di Fritz, oggi presso gli eredi a Heidelberg – fu quello stesso che riuscì poi a esprimere compiutamente qualche tempo dopo, nel 1913: «bisogna imparare a vedere con gli occhi dell’artista», e ciò a partire dal senso letterale di questa affermazione: il critico, per poter essere davvero efficace nella sua azione, deve impadronirsi delle tecniche artistiche, apprendere i problemi materiali, provare in prima persona gli imbarazzi, le difficoltà del confronto con la materia.3 Tralasciamo di registrare qui le conseguenze di quell’incontro, piuttosto pesanti per il Nostro, ma da cui uscì a testa alta. Il riferimento è alla denuncia sporta da Britsch all’indomani della pubblicità con cui a Monaco si propose un Praktikum diretto dal dottor Burger presso i locali dell’Ateneo. Forse a causa del vistoso consenso che l’iniziativa si avviava a raccogliere, il “collega” fece di tutto per screditare Burger agli occhi del Senato accademico, tacciando il Monacense di plagio e accanendosi nella iniziativa legale contro di lui con ogni mezzo.4 È perfino ridondante sottolineare l’inconsistenza di un’accusa del genere, nel momento stesso in cui Fritz si era adoperato in tal senso fin dagli anni del praticantato come architetto e via via nel corso di ri- 199 200 Capitolo 10 petute esplorazioni dell’universo artistico materiale e delle sue molteplici applicazioni. Certo, non va scartata l’ipotesi che egli abbia tratto notevole giovamento dall’esperienza fiorentina,5 ma essa s’inserisce a buon diritto in una prospettiva già da lungi coltivata dal Nostro, ché, altrimenti, qualche lezione – sia pur assai ispirata – non avrebbe potuto da sé fruttare un’evoluzione di tale portata, da essere stata da molti percepita quale prodromo diretto del Bauhaus.6 Come che sia, entrambi dichiarano il loro debito metodologico nei confronti delle teorie di Conrad Fiedler e di Adolf von Hildebrand.7 Da un lato vi sono ripetuti riferimenti nel lascito di Britsch, che risalgono agli anni fra il 1905 e il 1911, spesso scritti a Firenze, dall’altro lato è lo stesso Burger a rivolgere lettere accorate all’illustre artista e critico. Una più di altre giova qui essere convocata.8 Si tratta di una corrispondenza del 22 aprile 1911, indirizzata proprio a Hildebrand: Stimatissimo Professore, dal semestre scorso ho introdotto all’Università un Kunstwissenschaftliches Praktikum, vale a dire esercitazioni pratiche di disegno, modellato e pittura, nel contesto del mio seminario teorico basato essenzialmente sulle idee fiedleriane. A ciò mi spinge soprattutto il riconoscimento del fatto che il presupposto primo di ogni critica d’arte è l’esperienza pratica e una certa dimestichezza con il fare artistico. Perciò, essendo fortunatamente sostenuto da mezzi adeguati, ho potuto predisporre, oltre a una serie di copie da originali antichi – sia di opere plastiche che pittoriche – anche qualche creazione autonoma, in parte sotto la supervisione di artisti di rango, con i quali ho avuto modo di discutere, nell’approntare tali opere, i problemi legati allo studio dell’arte. Nell’organizzazione del mio laboratorio pratico mi ha guidato sopratttutto il proposito di sviluppare la memoria visiva, facendo disegnare e modellare a memoria, con determinati ausilii esterni. Ho cercato di indurre i praticanti a rendersi conto di volta in volta del loro operato dal punto di vista della teoria artistica per stimolarli in tal modo al pensiero visuale attraverso un processo autocorrettivo. Ho preso le mosse dal disegno a memoria da un modello dal vivo, cercando di spiegare l’immagine ottica a partire dalla dinamica del corpo e di evidenziare i mezzi figurativi servendomi di semplici linee (ricostruite a memoria). «L’artista in me, e lo studioso» 201 Contemporaneamente, ho inteso far emergere i caratteri essenziali delle opere d’arte sulla base di rappresentazioni visive in possesso dei praticanti. Sono stati proposti anche esercizi di ornato e architettonici, e su princìpi analoghi saranno affrontati ora, nel semestre estivo, anche problemi pittorici. In buona sostanza m’interessa ottenere – a complemento del corso teorico – che il singolo studente, a prescindere dalle sue doti artistiche, riesca a meditare autonomamente sulle problematiche dell’arte, quand’anche siano così “primitive”9 da costringerlo ad ampliare le sue rappresentazioni visive e a farlo familiarizzare con le questioni tecniche fondamentali. Quanto tutto ciò si richiami alle idee di Fiedler non ho bisogno di dirlo a Lei. Vorrei che i nostri storici dell’arte, abituati ai paroloni, fossero indotti innanzitutto a misurarsi, grazie al lavoro pratico, sul terreno originario dell’arte, prima di avventurarsi a parlare di questa. Devono prima aver consolidato le loro capacità a questa scuola, e aver dimostrato coi fatti di possedere già in sé ciò che li autorizza a parlare. Soltanto dopo potranno subentrare anche le indagini sulle relazioni storiche. Il fatto di imparare sempre a considerare le opere d’arte dalla cosiddetta angolatura storica, o ricercando lo “stile” dell’artista, ci fa perdere per lo più di vista l’autentica opera d’arte come organismo unico e irripetibile. La formazione dell’odierno storico dell’arte non gli consente affatto di afferrare il valore di un’opera sul piano genuinamente critico. Potrà suonare paradossale che io voglia combattere il dilettantismo nel lavoro e nello studio per mezzo di un dilettantismo nello sperimentare scientifico. Solo coloro che sono davvero dotati riusciranno a maturare nella pratica una conoscenza scientifica autonoma dell’arte: questo è ovvio. In ogni caso, sono stato piacevolmente sorpreso nel constatare che di circa trenta praticanti motivati, venti sono stati in grado, nell’arco di un semestre e senza precedenti esperienze, di produrre buone copie da Michelangelo o Donatello, come dall’antico – buone per un principiante, s’intende – una volta addestrate le facoltà della memoria e del pensiero visuale… Dr. Fritz Burger libero docente all’Università 202 Capitolo 10 ESERCITAZIONI PRATICHE DI BURGER DAL “TACCUINO BRITSCH” «L’artista in me, e lo studioso» ESERCITAZIONI PRATICHE DI BURGER DAL “TACCUINO BRITSCH” 203 204 Capitolo 10 Come si ricava da questo scritto, redatto pochi mesi prima della Introduzione alla guida della Schackgalerie, solo chi esercita le capacità del pensiero visuale alla “scuola” dell’arte – senza con ciò dover essere artista egli stesso – può cogliere l’opera d’arte in quanto «organismo unico e irripetibile», a monte di qualsivoglia indagine storica che ne illumini un determinato aspetto. Qualcuno ha detto che in Burger, da un certo momento in poi, prevale l’artista; può darsi, e comunque anche quando egli si è espresso col mezzo grafico, piuttosto che pittorico, lo ha fatto sempre sostenuto dal critico. In fondo, è pur vero che in lui c’è il primato dell’azione sulla riflessione. Uno specchio di ciò può essere ravvisato nell’impegno assiduo di Burger a prendere la parola nelle più diverse riviste, e sugli argomenti più disparati, fino, anzi, a ipotizzarne di nuove, contrariamente alla inopportunità dichiarata da Wölfflin in merito.10 Quando nel Cézanne si afferma: «Ciò che l’artista conosce configurando, anche la scienza cerca di configurarlo conoscendo», vien di fatto ascritto un primato all’artista e laddove l’Autore introduce la parte del libro che s’intitola Kulturprobleme der Gegenwart im Lichte der Kunst (Problemi culuturali del presente nell’ottica dell’arte)11, la citazione che viene messa in calce è presa dalle lettere di Schiller sulla educazione estetica dell’umanità, in cui si sostiene che «prima ancora che la verità mandi la sua luce vittoriosa nelle profondità dei cuori, la forza della poesia ne raccoglie i raggi, e le vette dell’umanità risplenderanno, quando ancora la notte umida regnerà nelle valli».12 È l’arte che arriva prima della conoscenza e in questo Burger, che spesso cita Hegel, si mostra coerentemente hegeliano: «a dire anche una parola sulla dottrina di come dev’essere il mondo, la filosofia arriva sempre troppo tardi […] quando la filosofia dipinge a chiaroscuro, allora un aspetto della vita è invecchiato, e, dal chiaroscuro, esso non si lascia ringiovanire, ma soltanto riconoscere: la nottola di Minerva inizia il suo volo sul far del crepuscolo».13 Da questo punto di vista è logico che nella sua teoria egli voglia radicare l’elemento critico nell’esperienza artistica, tanto è vero che, sempre nel Cézanne, si osserva che l’aspetto insolito e nuovo dei Moderni è di cercare la Urwahrheit, la verità primigenia, della vita tutta, sicché nella loro arte rivive un’antica dottrina del Cristianesimo: «dovete diventare come bambini».14 «L’artista in me, e lo studioso» 205 II. Il kunstwissenschaftliches Praktikum. «Bisogna prestar fiducia solo a quello storico che sia in grado di osservare e registrare i fenomeni del presente» (H. Wölfflin, Notizbücher) Il Praktikum – chiariva Fritz Burger alla Facoltà di Filosofia di Monaco – «non ha a che fare con le lezioni tradizionali di pratica artistica, non può sostituirle, né essere da queste sostituito. Lo stesso vale per le esercitazioni di anatomia plastica che lo accompagnano. Piuttosto, il Praktikum ha esclusivamente lo scopo di ricondurre l’osservazione dell’arte totalmente sul terreno dei fatti artistici, liberandola da qualsivoglia posa, da qualsiasi metafisica o estetica romanticospeculativa».15 Perciò, una istituzione di questo genere non soltanto necessita di modelli dal vivo, ma ha anche bisogno del numero più alto possibile di gessi di opere plastiche, di copie di ottima fattura, di dipinti, di una gran quantità di riproduzioni grafiche, incisioni, e di quanti disegni originali si possano mettere insieme.16 L’immagine di copertina rende ragione proprio di questo: si osserva il Nostro nella stanza allestita per siffatte esercitazioni, in un contesto di gessi, calchi, prove di studenti, sotto l’egida dell’inimitabile Michelangelo. Le motivazioni del Praktikum hanno le loro premesse in ciò che Burger ebbe a dire una volta, e che Clara ricorda nelle sue memorie: «Per spiegarvi questo disegno di Michelangelo, dovrei essere Michelangelo io stesso. Ma Michelangelo non avrebbe dato interpretazioni, ne avrebbe fatto uno di nuovo».17 Con ciò è indicata nettamente la differenza fra il fare dell’artista e quello dell’interprete. Gli allievi, sembra suggerire Burger, capirebbero meglio il disegno di Michelangelo vedendoglielo rifare. 206 Capitolo 10 Ciò non sostituisce l’interpretazione che ne può dare lo studioso d’arte, e tuttavia aggiunge qualcosa alla comprensione, qualcosa che non può venire dalla spiegazione.18 FRITZ BURGER AL PRAKTIKUM Anche Wölfflin aveva cominciato a esortare gli studenti affinché andassero negli atelier degli artisti a imparare da un approccio più vicino alla creazione, pur non mancando di qualche atteggiamento scostante,19 e si interessava attivamente di quanto cercava di ottenere dall’Ateneo il più giovane collega. «L’artista in me, e lo studioso» 207 Un primo tentativo di introdurre esercitazioni pratiche nel contesto del suo insegnamento universitario risale al 1907, come risulta dalla documentazione personale su Fritz Burger nell’Archivio dell’Università di Monaco: in quell’anno egli tenne, non rubricato nel Bollettino delle lezioni, un corso sull’«Essenza del colore – con dimostrazioni».20 Soltanto nell’ottobre del 1910 Burger si assicurerà un locale presso il Seminario di Psicologia.21 I primi tempi dell’attività furono probabilmente accompagnati da maldicenze e proteste, giacché in una circostanziata nota del Senato, datata 16 novembre 1910, si precisa la sua personale responsabilità sull’affidabilità delle persone da lui ingaggiate per fare da modelli,22 e gli si impone il rispetto di una serie di regole, che vanno dalla pulizia dei pavimenti, alla manutenzione dei locali, alla rimozione dei resti della lavorazione dell’argilla.23 In una sua memoria relativa al Praktikum, Clara Burger spiega che fra le ragioni che ne impedirono la ripresa dopo la scomparsa del marito, stante la disponibilità dei materiali utilizzati presso l’Università di Monaco, è che lo Studioso non ebbe il tempo per formare chi potesse sostituirlo in questa attività, e che inoltre molti dei suoi allievi trovarono come lui la morte sui campi di battaglia della Grande Guerra (così il suo assistente Külpe) 24 e fra quei pochi che fecero ritorno a casa, alcuni dovettero rivolgersi ad altre attività, altri emigrare. Ricorda Clara: «Così F[ritz] B[urger] istituì il suo Praktikum, dove dominava un profondo silenzio e gli studenti dovevano esercitare le loro “rappresentazioni visive”25 nell’osservare un modello dal vivo». In tal modo, i partecipanti dovevano familiarizzare coi problemi strettamente legati alla creazione artistica. «Un incontro è tanto più influente e decisivo quanto più grande è la persona o l’opera d’arte che s’incontra. Egli cercava di occasionare simili incontri capaci di indurre trasformazioni, in particolare mediante il suo Praktikum – istituito [formalmente] nel 1912 – dove educava i suoi allievi a dimorare in rispettoso silenzio davanti all’opera d’arte, lasciandola per una volta agire su di sé. Il distacco dai “discorsi logorroici sull’arte” era per lui un bisogno tanto più urgente, dato che egli stesso cadeva facilmente nell’errore di sottoporre l’opera d’arte a conoscenze e riflessioni filosofiche. D’altro canto era troppo ricolmo di adorazione per poter collocare l’opera d’arte nel quadro di un sistema, sebbene il suo collega Wölfflin, più anziano di lui, lo avesse sedotto a operare in tal senso». 208 Capitolo 10 Questo passo, che ben si attaglia a quelli citati a proposito delle due anime che albergano nel petto del Monacense, indica nel laboratorio pratico un’istanza metodologica di approccio all’opera d’arte, intesa a liberarla da tutte le sovraimposizioni teoriche, sistematiche, estetiche che lo stesso Fritz temeva. L’opposizione al metodo di Wölfflin, al quale Burger sarebbe stato indotto dalla frequentazione con lo studioso svizzero è però – stimo – un giudizio a posteriori della vedova. La posizione di Wölfflin nei confronti dell’iniziativa del collega è, almeno inizialmente, di tiepida approvazione. Il suo metodo prescindeva dal tipo di approccio al fare artistico che Burger cercava di far guadagnare ai propri studenti.26 Tuttavia, Wölfflin «concordava con lui nel ritenere che nel cogliere un’opera d’arte il “presagio istintivo” fosse da collocarsi al di sopra della limitatezza di ogni conoscenza scientifica, anche se, in veste di “artista impedito” (verhinderter Künstler) – come ebbe a dire una volta nel definire gli storici dell’arte con il suo singolare umorismo svizzero – non si sentiva in grado di continuare il nuovo metodo introdotto da Burger. Che egli non si sia però limitato a mostrarsi ben disposto a questa prassi, ma la abbia anche fortemente appoggiata, risulta da una lettera di F. B. indirizzata alla Facoltà di Filosofia della Reale Università Monacense il 23 gennaio 1913». La missiva alla quale Clara fa qui riferimento – conservata in originale fra i documenti di Heidelberg – è molto importante perché rivela certezze e dubbi, ansie ed entusiasmi del Nostro, dopo qualche semestre di esperienza di laboratorio pratico. In essa Burger, rivolgendosi alla Facoltà, fa subito allusione a colloqui avuti con Wölfflin e richiama il parere di gran parte dei colleghi più e meno anziani sulla necessità di riformare la didattica.27 Dallo sforzo di aggiornare il proprio insegnamento alle moderne esigenze è nata, come spiega, l’istituzione del suo Praktikum, sulla cui finalità e la cui disposizione sarà lieto di entrare nel merito, quando richiesto. L’intento che lo guida, in questa sede, è, come dichiara, soprattutto quello di accantonare false interpretazioni di questa iniziativa, dovute allo «zelo eccessivo di seguaci sin troppo fedeli», che hanno finito per farne passare un’immagine «grottesca», ma anche – Burger lo ammette – ingenerate da un suo errore personale: quello di avere talvolta oltrepassato i confini fra la docenza universitaria e il terreno dell’attività puramente artistica. «L’artista in me, e lo studioso» 209 LIBRETTO UNIVERSITARIO DI WALTER DEXEL28 (1913/1914) Già da tre semestri, come «risulta dal bollettino delle lezioni», Burger ha sostituito (e ci tiene a farlo notare) la denominazione «Practicum» (sic) con «Esercitazioni di critica d’arte» (Kunstwissenschaftliche Übungen, vd. ill.), evidenziando così che l’attività manuale vi ha un ruolo secondario e ausiliario, finalizzato alla conoscenza criticostilistica.29 Riproponendosi pertanto di non riesumare la formula del «Practicum», Burger chiede di riconoscere alle esercitazioni manuali il ruolo di «strumento pedagogico-sperimentale» e di «guida all’autonoma percezione delle rappresentazioni visive realizzate nell’opera d’arte», senza che ciò degeneri in lezioni di pratica artistica finalizzate alla libera espressione. Propone perciò di aggiungere alla denominazione adottata – «Esercitazioni di critica d’arte» – la specifica: «Introduzione al metodo della critica stilistica con guida allo sviluppo sistematico dell’acquisizione delle rappresentazioni visive per mezzo di dimostra- 210 Capitolo 10 zioni pratiche». Questa attività richiede però un locale, non distante dall’Istituto di Storia dell’Arte e dalla rispettiva biblioteca, nel quale gli studenti possano lavorare anche al di là delle ore di esercitazione guidata dal docente. Inoltre, a differenza di quanto accade in altre Università, anche più piccole – lamenta la lettera – a Monaco manca un apparecchio per realizzare calchi da sculture. Poiché non vi è la prospettiva di ottenere a breve fondi utilizzabili a tal fine, Burger propone di trasferire in proprietà dell’Università la collezione da lui stesso allestita, del valore di diecimila Marchi, per la creazione di una «Universitätssammlung» a disposizione anche degli altri docenti. Tale collezione, spiega, contiene calchi in gesso per il valore di settemila Marchi, soprattutto di età rinascimentale, calchi anatomici, attrezzatura completa per scultura, pittura, incisione, e inoltre colori, vernice, preparati a olio, esempi di tecnica a fresco, venti dipinti a olio e a tempera da usare come esempi per esercitarsi sulle rispettive tecniche, antiche e moderne, nonché due dipinti a olio antichi e due di artisti moderni. Vi sono altresì alcuni disegni originali, xilografie giapponesi,30 calcografie, uno scheletro umano. Per quanto riguarda il locale in cui collocare tali oggetti, «bisogna considerare che il Signor Consigliere Wölfflin pensa all’assunzione di un insegnante di disegno, utile anche ai miei scopi, nonché di un tecnico fotografico che abbia dimestichezza con le diapositive,31 di modo che prima o poi l’Università dovrà provvedere a reperire nuovi spazi per l’Istituto, che attualmente non può nemmeno essere paragonato ad analoghe strutture di altre Università più piccole, come Heidelberg o Bonn». La lettera chiude con alcune notizie di servizio, relative a informazioni reperite dallo stesso Burger presso il Ministero e l’Ufficio per l’edilizia.32 La figura di Wölfflin è così richiamata due volte, e sin dall’inizio dell’appello, per dare legittimità alle richieste presentate e per collocarle al riparo di un’autorità da tutti riconosciuta. In una lettera manoscritta di Clara Burger alla madre, non datata, ma redatta probabilmente nel 1912 (vi sono infatti riferimenti alle prime vendite del volume sulla Schackgalerie, pubblicato proprio in quell’anno), si parla ancora dello studioso svizzero in relazione al laboratorio pratico del marito: «Ieri Wölfflin è venuto in visita al Praktikum, dimostrando interesse. Pare anche a Fritz. Ha affermato di voler “fare in modo di purificargli l’aria”. Che cosa intendesse dire, però, «L’artista in me, e lo studioso» 211 non lo sappiamo. Fritz è contento di ottenere i suoi locali e di poter portare avanti quello che ritiene utile. Wölfflin si è subito fatto carico di 500 Marchi per diapositive».33 Probabilmente la frase di Wölfflin si riferisce al fatto che la sua visita avrebbe conferito legittimità e prestigio all’iniziativa, sanando, per quanto possibile, quell’aura di sospetto che la circondava nel mondo accademico. All’indomani della scomparsa di Burger, il Cattedratico inviò alla vedova una lettera concisa ma toccante, ricordando qualche passaggio della propria commemorazione ufficiale dello scomparso. Conclusivamente dichiarava: «Se posso esserLe utile in qualche modo per tenere in ordine il lascito, La prego di volermi ritenere a Sua disposizione».34 Clara von Duhn risponde il 31 maggio formulando «una grande preghiera: nel sotterraneo dell’Università c’è, come dicevo, il Praktikum. Mio marito vi ha accumulato molte cose. […] Il Praktikum rimane un ausilio importante per la gioventù dedita allo studio dell’arte. Per me sarebbe prezioso se potessi ricostituirlo e ampliarlo». A tal fine propone l’istituzione di una Fritz-Burger-Gedächtnis-Stiftung, una fondazione dunque, sotto il patrocinio dello stesso Wölfflin. Furono soltanto ragioni esterne, come racconterà in seguito Clara, a impedire l’attuazione del progetto. Tornando alla missiva che Fritz Burger fece pervenire alla Facoltà, diversamente da quanto suggerito in essa, il bollettino delle lezioni per il successivo semestre estivo 1913 reca la dicitura: «Esercitazioni di critica d’arte (Introduzione alla storia della critica d’arte con discussione della letteratura scientifica) – 4 ore».35 Si tratta di una ulteriore cautela che di fatto mimetizza le reali intenzioni delle esercitazioni medesime. Il bollettino rende pubblica anche, da questo stesso semestre e per un’ora settimanale, un’attività rubricata come «Esercitazioni nell’osservazione di opere figurative moderne».36 Immaginiamo fosse un’attività complementare all’esercitazione pratica, più simile a quella descritta da Clara Burger. Tale impegno è annunciato anche per il semestre estivo 1914. In realtà, guardando agli elenchi dei corsi e dei seminari segnalati e tenuti da Burger a Monaco,37 e come risulta peraltro dalla già citata corrispondenza di Burger con il Senato accademico, il Praktikum compare per la prima volta già nel semestre invernale 1910/11: «Laboratorio di critica d’arte (introduzione pratica all’anatomia plastica, 212 Capitolo 10 alle tecniche del disegno, della pittura e del modellato come base della critica stilistica) – 4 ore».38 Questa dicitura prepara per la prima volta un corso che, a detta dello stesso Burger, ha portato a eccessi e a errate interpretazioni. Bisogna però riconoscere che tale intitolazione riflette esattamente gli stessi intenti che Burger metterà in chiaro più in là, nella lettera del 1913. Nel successivo semestre estivo 1911 la denominazione dell’attività proposta era già stata corretta: «Laboratorio di critica d’arte per principianti (introduzione pratica ai problemi configurativi della pittura) – 5 ore».39 Viene annunciata solo la pittura, per giunta unicamente per gli esordienti allo studio, ed è tolto il riferimento alle tecniche. Non si tratta di apprendere tecniche, ma problemi di Gestaltung, di quella attività del dar forma, che nel testo per la Schackgalerie del 1912 costituirà l’anello di congiunzione fra l’operare dell’arte e quello della critica. Intanto, però, viene aggiunta un’ora settimanale. Nel semestre invernale 1911/12 viene introdotta un’altra lieve modifica: «Laboratorio di critica d’arte (introduzione pratica ai problemi configurativi della pittura e ai principi della critica stilistica) – 4 ore».40 Rimane fermo l’orientamento alla pittura, e il richiamo alla critica stilistica da un lato accentua la finalità scientifica, dall’altro reintroduce la possibilità di ampliare l’esperienza ad altre forme artistiche (scultura, modellato etc.). Nel semestre estivo 1912 viene effettivamente tolta la parola «Praktikum», sostituita da «Übungen» (esercitazioni), assai più consueta nei bollettini accademici. Ma già nell’inverno 1912/13 il termine ricompare, anche se stemperato dall’esplicazione: «Laboratorio di critica d’arte (introduzione pratica alla configurazione artistica finalizzata a ricerche di critica stilistica) – 4 ore».41 La finalità scientifica è qui nettamente esplicitata. È da notare che proprio in questo semestre cade la citata lettera alla Facoltà. Che la parola sospetta fosse stata cancellata da tre semestri – come dichiara Burger – è quindi impreciso, anche se risponde al vero che già con le diverse intitolazioni egli cercò via via di mettere in chiaro il senso e i limiti dell’attività che intendeva promuovere. È bene del resto osservare che di fronte alle molte richieste di partecipare al laboratorio, come pure alle esigenze di ordinato e proficuo «L’artista in me, e lo studioso» 213 svolgimento del lavoro individuale, il numero degli iscritti fu progressivamente limitato nel corso dei semestri.42 Nei documenti del lascito è conservato un testo dattiloscritto non datato, di due fogli, che potrebbe essere il germinale manifesto del «Praktikum», probabilmente ad uso di studenti interessati o soltanto curiosi. Si tratta di pagine redatte in uno stile non molto scorrevole, ancora da perfezionare, in cui vengono richiamate alcune espressioni contenute nella lettera alla Facoltà. Ciò rende plausibile che si tratti di parole scritte all’inizio del semestre estivo 1913/14, quando nuovamente il termine usato è «Übungen» e le ore sono ridotte da 4 a 2: «Esercitazioni di critica d’arte: guida allo sviluppo metodologico della rappresentazione visiva finalizzato alla conoscenza criticostilistica – 2 ore».43 Ne diamo conto in traduzione, presentandolo per la prima volta al lettore: «Le esercitazioni non mirano a raggiungere abilità artistiche nel senso dell’artista creatore, il quale è tenuto in prima linea a dar forma alla percezione o rappresentazione soggettiva, quanto piuttosto alla conoscenza oggettiva del fare artistico in genere, secondo la sua essenza e la sua evoluzione in rapporto alla storia dell’arte. L’intento perseguito è perciò quello di offrire un’introduzione pratica alla soluzione di problemi che si manifestano in qualsiasi creazione artistica, anche in quelle più primitive, come fondamento di una critica stilistica basata su conoscenze puramente artistiche o di critica d’arte. Il primo passo sta nel confronto fra un soggetto dal vivo (un nudo maschile con pube coperto) e opere d’arte, in modo di introdurre ai problemi figurativi e di consentire di disegnare, modellare, dipingere il soggetto solo con alcuni ausilii che favoriscono la percezione dapprima a memoria, poi in diretta presenza del soggetto. L’immagine così creata sarà confrontata con opere primitive analoghe, in modo da fare chiarezza sulla diversità dei mezzi con cui ha avuto luogo la figurazione. Posizione spaziale e mutamenti di postura, così facili da riscontrare nel corpo umano, possono essere studiati sulla base di ogni opera d’arte (o delle creazioni realizzate da ciascuno), per esaminare quali variazioni vi sono, volontarie o involontarie, rispetto al soggetto dal vivo, quali leggi ottiche, quali fatti empirici e percettivi hanno guidato la raffigurazione e quindi anche la differenza fra la rappresenta- 214 Capitolo 10 zione della natura, acquisita mediante l’esperienza, e la raffigurazione della natura resa necessaria dall’atto configurativo. Le conoscenze critico-artistiche acquisite, in quanto sperimentate personalmente e il perfezionamento della capacità osservativa così ottenuto, faciliteranno l’esperienza di ciò che vi è di artisticamente essenziale in un’opera d’arte e svilupperanno inoltre la memoria formale, che è il fattore basilare di ogni fare artistico come di ogni giudizio sull’arte. Nella misura in cui nell’atto configurativo è possibile implicare l’uso della memoria, ciò significa che questo lo possono e anzi lo devono fare anche i principianti e coloro che non possiedono talenti artistici. I singoli partercipanti dovranno perciò attenersi, anche in conformità al grado delle loro capacità figurative e conoscitive, a fissare nel disegno di volta in volta ciò che vi è di puramente artistico nelle singole opere d’arte nelle collezioni di Monaco, per poi valutare i propri lavori dal punto di vista critico-stilistico. Pertanto, il Praktikum non ha nulla a che fare con le lezioni tradizionali di pratica artistica, non può sostituirle né essere da queste sostituito. Lo stesso vale per le esercitazioni di anatomia plastica che lo accompagnano. Piuttosto, esso serve esclusivamente alla conoscenza critico-stilistica e alla indagine scientifica che vuole favorire, liberandola – grazie a un’introduzione pratica a uno dei suoi metodi più importanti – da ogni luogo comune, dalla metafisica come dall’estetica romantico-speculativa, collocandola esclusivamente nel terreno dei fatti artistici. La lezione è possibile solo disponendo di un modello dal vivo, che nulla può sostituire, nemmeno la migliore delle fotografie. La necessaria raccolta, soprattutto di calchi da sculture rinascimentali, assieme a una grande quantità di disegni originali, xilografie giapponesi e schizzi originali di artisti moderni è già stata organizzata utilizzando appositi fondi».44 Nel testo compare il termine «Praktikum» che Burger usava comunemente per riferirsi a questa sua attività (e che ricorre in lettere e testimonianze anche di sua moglie). Ma più interessante è notare che in questo scritto affiorano gli interessi teorici che affaticavano la sua produzione tarda. Nei già citati abbozzi rimasti inediti, in cui cerca di definire l’essenza della Kunstwissenschaft, egli è animato dalla volontà di vederla fondata in se stessa e da se stessa, senza ricorrere né alla «L’artista in me, e lo studioso» 215 metafisica, né all’estetica, né alla dimensione storico-ambientale. La risposta, emersa con chiarezza nel 1912, organizzata sulla configurazione che in quanto insieme separa e congiunge è comune tanto all’arte che alla critica (perciò: l’arte come critica; la critica come arte), è adombrata anche in questo scritto, reso difficile e involuto proprio dall’intersecarsi di intenti euristici ed esplicativi. Qui il tratto comune del fare artistico, come di ogni giudizio sull’arte, che nel saggio introduttivo al volumetto del 1912 era individuato nell’atto del Gestalten, è ravvisato nella «memoria formale». Questa non è né interamente oggettiva, né interamente soggettiva, si colloca allo snodo decisivo fra Naturvorstellung e Naturdarstellung, cioè fra rappresentazione della natura e sua raffigurazione, la prima prevalentemente passiva, la seconda prevalentemente attiva. Laddove la forma si fissa nella memoria, essa perde i propri caratteri per assumerne altri, quelli che presiedono alla elaborazione del manufatto artistico. Nell’espressione «memoria formale» (Formgedächtnis), nel «formale» prevale l’oggettività, mentre nella «memoria» la componente soggettiva entro cui quello s’inscrive. Il termine Formgedächtnis dev’essere pensato nelle sue implicazioni e nella ricchezza dei suoi significati. Nell’immagine delle forme percepite, che ciascuno di noi plasma in sé, c’è traccia (cioè memoria) della forma. Nella forma plasmata dall’artista c’è traccia della memoria formale, che è stata nell’artista, e che ha ricevuto configurazione. Infine, nella percezione di questa traccia, cioè dell’opera d’arte (da parte dell’osservatore), si ripete la memoria formale, dato che è sempre una forma a essere accolta. In questa circolarità risiede tanto il fare artistico quanto quello critico-scientifico. Nell’esercizio della memoria formale si racchiude il segreto del Gestalten e la possibilità stessa di una critica d’arte. Ma tale esercizio è possibile anche ai principianti o in coloro che non possiedono doti artistiche, e in esso – è lecito pensare – consiste la «scuola del pensiero artistico», di cui parla il saggio del 1912. Questo passaggio, angusto, ma chiaro, illumina l’anello di congiunzione fra il Burger teorico e il Burger artista e docente, e conferisce un senso comune a tutte le sue attività. Laddove il critico esercita la memoria formale, vive il momento della creazione artistica non dal di fuori, come lo storico, l’esteta, il filosofo, ma immedesimandosi 216 Capitolo 10 nell’artista stesso, nel momento in cui, adoperandosi a dar forma, esercita pienamente il ruolo suo proprio. Esaudisce cioè quel compito che Burger formulava chiaramente nelle pagine di apertura del Cézanne und Hodler: «Nell’arte bisogna saper pensare con l’artista per poter capire che cosa intende con natura e ciò che egli enuncia su di essa con il proprio configurare. Pensare questo, cioè comprendere in un certo senso con l’occhio, è il presupposto per ogni esperienza artistica e richiede la conoscenza dei princìpi configurativi (Gestaltungsgrundsätze), come pure la capacità di configurare. I grandi artisti sono infatti sempre anche filosofi».45 Fritz Burger fu come si dirà, un artista. Non accanto allo storico e critico d’arte, ma in quanto tale. Anch’egli è filosofo, non perché ricorre spesso e volentieri a dottrine filosofiche, ma perché ha la passione per l’intero. Gli si addicono perciò veramente le parole con cui Wölfflin volle commemorarlo all’indomani della scomparsa: «Quello che uno lascia dietro di sé è sempre frammento, ma chi come lui ha attinto a una pienezza, in cui ha messo in gioco tutto, ha fatto della sua vita un intero, anche se ha dovuto morire giovane».46 In ciò gli fa eco «Kunstchronik»: «di dettagli Burger non si curava: mirava sempre all’intero».47 Il Praktikum non è dunque un’attività collaterale che abbia lo scopo di ampliare le conoscenze del critico. In esso ne va della dignità e dello statuto stesso della disciplina storico-artistica. Nel Cézanne Burger dichiara infatti, riportando opinioni emerse nel corso di un convegno sull’educazione artistica svolto a Dresda: «Un esperto d’arte dovrebbe essere al contempo un artista e lo studio dell’arte dovrebbe presupporre allora un’attività artistica pratica, come ormai si comincia a esigere. La critica d’arte (Kunstwissenschaft) non servirebbe più solo per intrattenimento o per la cosiddetta formazione completa; nelle Università avrebbe un ruolo del tutto diverso: come disciplina scientifica dell’arte avrebbe un posto paritario accanto a quello della filosofia, e opererebbe dal canto suo, con altri mezzi e adattandosi alle circostanze. […] L’arte configura nel sensibile un’immagine unitaria del mondo cui ha accesso, come la scienza, e la conoscenza, in quanto manifestazione del sapere umano, è prodotto della sua rappresentazione ordinatrice – come l’arte».48 «L’artista in me, e lo studioso» MODELLO DAL VIVO – FOTO B. H IEBS, MÜNCHEN 217 218 Capitolo 10 FRITZ BURGER, TESTA DEL DESTINO (1912) Per la Testa del Destino49 Fritz Burger cercò un modello, individuandolo in un robusto macellaio bavarese, e ha plasmato così un’opera che, pur realizzata nel 1912,50 incarnò anche una sorta di simbolica denuncia della forza brutale dello spirito materialistico di cui si alimentavano i venti di guerra, o almeno, così fu poi interpretata. Se però cerchiamo di attenerci ai fatti, quelli stessi evocati dalla vedova anni dopo, è chiaro che il pezzo risale alla primavera del 1912, e non al Praktikum, come vien dato di credere, ma a un corso di esercitazioni che contestualmente teneva presso l’Accademia di Arti figurative di Monaco, dove era frattanto stato nominato professore straordinario: «Egli modellò una testa maschile nell’arco di una settimana, ed era dura nei tratti, brutale; “Destino” fu il nome che le diede».51 «L’artista in me, e lo studioso» 219 Nel corso di successive interpretazioni in cui si cimentò la storica dell’arte Lili Fehrle-Burger,52 poteva sembrare che l’urgenza di quest’opera fosse dettata dalla degenerazione prebellica, tanto da riproporne in sedi diverse una peculiare lettura. Ciò che lei non ha minimamente evidenziato, è il fatto che la Testa ricopre una funzione, per dir così, esplicativa di un debito metodologico che chiama in causa il magistero hildebrandiano, per infondergli rinnovato vigore; con l’impressione, in aggiunta, che gli approcci quasi quotidiani del Nostro al mondo panico böckliniano abbiano scolpito in lui immagini indelebili, pronte a rianimarsi in figure faunesche. Lì, a pochi passi, erano infatti la Schackgalerie e la Neue Pinakothek, entrambe in possesso di opere del Maestro svizzero che, del resto, nel soggiorno fiorentino faceva parte del cenacolo di Marées e di Hildebrand.53 Le iniziative prese dal Nostro sia nel laboratorio di esercitazioni pratiche sia presso i locali dell’Accademia erano ricordate vividamente dagli studenti di un tempo, ancora negli anni Sessanta. Karl Beringer, ad esempio, rilasciò alla «Frankfurter Allgemeine Zeitung» un’intervista in cui disse «di aver imparato che i concetti relativi allo stile e le indagini storiche da soli non conducono al cuore del fatto artistico. Persuaso di ciò, [Burger] aveva approntato un atelier presso l’Università, dove i suoi allievi venivano introdotti al linguaggio delle forme attraverso la prassi disegnativa, la possibilità di dipingere e modellare. La stessa cosa fece nel corso dei viaggi a Firenze [1910, 1912 e 1913]». Per concludere alla fine che «il merito di tutto questo è soltanto suo, dal momento che era il solo fra gli storici dell’arte». Nel suo consuntivo Beringer, accomunandosi a Dexel ed altri, rileva come l’iniziativa del Praktikum ponesse le basi per lo sviluppo di quel tipo di esperienza che sarà il Bauhaus di Weimar (1918).54 Dopo qualche fallimentare tentativo di riunire a Monaco un consorzio di personalità inclini alla sperimentazione, i luoghi dell’apertura e del confronto fra tecniche e discipline saranno altrove. Eppure, il 10 gennaio 1919, proprio Dexel ricorda le vicissitudini del Maestro scrivendo alla vedova: 220 Capitolo 10 «A ripulire le stalle di Augia dell’arte monacense ci vuole un autentico Ercole – e lui ci manca oggidì non soltanto per questo impegno».55 Un altro versante della pratica di laboratorio cui si era rivolto Burger durante le sedute del Praktikum riguarda lo studio del movimento e del ritmo, delle culture del corpo in rapporto a usi e costumi dei diversi popoli, a indagare significati e orientamenti anche dei fenomeni di ricaduta nell’arte. Osservazioni siffatte costituivano del resto un orizzonte cui guardavano anche le avanguardie di inizio secolo, nel tentativo di recuperare la perduta armonia di corpo, anima e intelletto, rivendicata già da Rousseau e dal Romanticismo. In questo senso il Monacense – eccellente atleta (ci sono foto che lo immortalano mentre pattinando crea astratte figurazioni sul ghiaccio), oltre che cavallerizzo di rango (sapeva dunque stimare l’importanza del giusto incedere col ritmo dell’animale) – non mancava occasione per attirare al laboratorio i nuovi talenti della danza ritmica ed espressiva, cui offriva uno spazio per le loro performances, modulando poi schemi grafici delle stesse con i presenti. Parrebbe anzi che Kandinsky, invitato talora ad assistere e a collaborare, ricreasse colà il dibattito sul senso delle linee, dei punti, delle superfici e ovviamente dei ritmi, anche per quanto riguarda la pittura astratta. GRET PALUCCA - WASSILI KANDINSKY: STUDIO «L’artista in me, e lo studioso» 221 JAWLENSKI, VON DERP, WEREFKIN, SACHAROFF ISADORA DUNCAN, 1903 JAWLENSKY, RITRATTO DEL BALLERINO SACHAROFF Al tempo in cui la vita dell’atelier si era fatta più intensa, a partire cioè dal 1912, Lo spirituale nell’arte era da poco stato pubblicato. Vi si legge, fra l’altro: «Per la danza, però, come per la pittura, questo è un momento di transizione. È necessario creare la nuova danza, la danza del futuro […] Anche qui bisognerà gettare a mare la “bellezza” convenzionale del movimento e dichiarare inutile, se non dannoso, il procedimento naturalistico (racconto = elemento letterario).56 E come in musica o in pittura non esistono “suoni brutti” o “dissonanze” estetiche, perché ogni accordo è bello (= utile al fine) se è dettato da una necessità interiore, così nella danza si sentirà presto il valore interiore di ogni movimento e la bellezza interiore subentrerà a quella esteriore. Dai movimenti “non belli”, divenuti improvvisamente belli, nasce un’inaspettata energia e una forza viva. È allora che inizia la danza del futuro […] che sarà all’altezza della musica e della pittura contemporanee, saprà anch’essa realizzare, come terzo elemento, la composizione scenica». 57 Ciò che al Nostro non riuscì, causa un destino tragico, «L’artista in me, e lo studioso» 223 diventerà obiettivo specifico di Kandinsky al Bauhaus; nella seconda metà degli anni Venti, di fatto, il Russo coinvolgerà nella propria indagine la danzatrice Gret Palucca,58 fissandone i movimenti mediante fotografie, e successivamente traendone schemi compositivi per la sua ispirazione pittorica. Nella Monaco pre- e postbellica fioriscono molte iniziative per l’insegnamento della «danza di espressione e ritmica», ovvero «danza libera», «danza moderna». Tra le protagoniste indiscusse degli albori Clotilde von Derp e Isadora Duncan.59 Nel 1910 la Derp venne acclamata proprio nella metropoli bavarese «prima ballerina della danza “moderna”». Tra il suo pubblico un entusiasta Rainer Maria Rilke, così la cerchia degli artisti e degli intellettuali dell’avanguardia monacense, che lei già frequentava da qualche tempo, offrendo il suo corpo da modella per scultori, pittori e fotografi. Si unirà anzi ad Alexander Sacharoff – lui pure ballerino – e al Blauer Reiter, che accoglieva nel gruppo le diverse espressioni dell’arte, e così sono anche ricordati da foto d’epoca. Da questo mondo di libera espressione corporea, di attenzione al ritmo dell’esistente, Burger era variamente affascinato, sia come uomo, sia come artista, sia come ricercatore.60 HENRI MATISSE, LA DANSE, 1910 224 Capitolo 10 Non meno significativo fu il lavoro che Burger dedicò al problema del colore in pittura, sempre presente nei suoi pensieri, variamente riproposto a lezione, e anche in più occorrenze ragionato nelle sue pubblicazioni. Indagini sulle relazioni che s’instaurano fra i colori come nei rapporti musicali gli erano familiari, essendo lui stesso musicista. Perciò su questo s’intendeva bene con Kandinsky.61 Ripercorrendo le vicende della collaborazione di Fritz Burger con l’Università monacense, siamo in grado di assodare che già a meno di un anno dal conferimento della libera docenza egli si cimenta con un corso di lezioni dal titolo: L’essenza del colore – con dimostrazioni.62 La tappa successiva di un certo rilievo si trova nel capitolo finale della guida alla Schackgalerie, la cui prima edizione è del 1912. Nel mentre, già stava lavorando al suo Cézanne, dove riserverà il capitolo conclusivo, come visto, ai Problemi dei colori e della psicologia della razza. In quello stesso anno, nel discorso dell’Hohen Meissner alla gioventù tedesca, egli chiedeva al suo pubblico – fra cui stava Walter Dexel, che aveva iniziato a dipingere giusto un anno addietro, con Burger a Firenze: «Che cos’è un dipinto?» – così provocando, incitava i suoi interlocutori a una risposta, che poi dava lui stesso: «Non è nient’altro che una disposizione di macchie di colore!». Anche il tanto dibattuto problema della forma, si risolve quindi, secondo Burger, in un «problema del colore», se è vero che definizioni come «forma» o «linea» rappresentano in realtà il confine di una macchia di colore. Così anche Kandinsky nello Spirituale nell’arte. Tuttavia, a differenza di quest’ultimo, dalla trattazione burgeriana del 1912 si evince che i colori sono veicoli di una Stimmung, di una sensazione emotiva, sono il materiale della Gestaltung, ma ricevono il loro significato soltanto nel contesto della intima relazione che si istituisce nel dipinto.63 Su questo si accaloravano i presenti al Praktikum, fra cui gli studenti dell’Accademia, spesso invitati a collaborare, come pure, oltre al suddetto Kandinsky, l’amico Franz Marc.64 In un dattiloscritto rimasto inedito, lo Studioso si preparava a esporre una sistematica dei pigmenti e, più in generale, delle modificazioni chimiche e fisiche dei colori, attraverso una serie di riferimenti esemplari: il giallo dai primitivi fiamminghi a Dürer; il “giallo italiano”, prendendo spunto dai quadri presenti alla Alte Pinakothek, e così via. Parimenti avrebbe voluto trattare del rosso, del blu del verde e «L’artista in me, e lo studioso» 225 dell’ocra, con aggiunte sul rapporto fra i colori e la mimica nella rappresentazione.65 Ne risulta una breve storia dei colori, innervata però, costantemente, di un riflesso teorico-critico che la risospinge in una dimensione di studio ben più ampia. Scriverà un allievo incaricato dalla vedova di mettere mano al riordino – poi naufragato – del lascito burgeriano: «I fogli sciolti sui problemi dei colori mi paiono molto importanti».66 Ma, se è vero che il Nostro non è mai pago di posizioni critiche acquisite, non ci stupisce il fatto che durante gli anni del Praktikum si fa più urgente in lui l’idea ambiziosa di una sistematica della critica d’arte. Raccomandava ai suoi studenti di non abbassare la guardia, e di non credere di poter ritenere valido in modo definitivo questo o quel metodo. Perciò il suo scavo si problematizza vieppiù col passare del tempo, nonostante egli ne avesse già delineato uno, e al grado massimo di chiarezza – giusta Benno Reifenberg – nel saggio sulla Schackgalerie, dove «per come uno può osservare, è contenuto tutto ciò che il prof. Burger poteva comunicare relativamente al suo sistema».67 Molte delle sollecitazioni promosse dal Praktikum crearono altrettanti originali approcci all’arte. Del fortunato libro di Paul Brandt già s’è detto altrove, ma occorre ricordare almeno la spinta data all’avvicinamento alle opere del Postimpressionismo e dei Cubisti, che troverà un testimone importante in Carl Einstein, sebbene con esiti critici in parte difformi, come è stato recentemente segnalato.68 Al Monacense non bastava essersene occupato come studioso; gli premeva far vedere ai suoi allievi il cubismo con gli occhi dei cubisti, parafrasando un suo famoso modo di dire. A tal fine, oltre a produrre esperimenti grafici sulla differente percezione dello spazio, ad esempio fra opere create secondo la prospettiva rinascimentale, ovvero altre delle avanguardie, faceva usare la creta per ricreare in laboratorio «il gioco dei corpi naturali di Cézanne», cercando di far proprio il pensiero del pittore di Aix, secondo cui «tutto in natura si modella secondo la sfera, il cono e il cilindro; bisogna imparare a dipingere su queste semplici figure, poi si potrà fare tutto quello che si vorrà».69 Contestualmente Burger accompagnava gli allievi alla Neue Pinakothek, per riappropriarsi – con occhi diversi – delle opere del Maestro francese ivi esposte. 226 Capitolo 10 Con tutto ciò, l’esperimento burgeriano dei laboratori fu caso singolare – e tale rimase – nel contesto universitario tedesco dell’epoca. Nemmeno si salvò la memoria materiale del Praktikum, nonostante la caparbietà e i primi successi dell’impegno wölffliniano in tal senso, di cui si ha precisa testimonianza. Un attacco aereo nelle ultime battute disastrose del 1944 ha sepolto per sempre la raccolta. «L’artista in me, e lo studioso» ESERCIZI DI CONFRONTO 227 228 Capitolo 10 III. Note per Burger pittore. «Questi pensieri non sono nati nel celebrato atelier della modernità, ma in sella e tra il rombo dei cannoni. Proprio questa realtà assordante (…) li ha condotti verso una possibilità più alta e più spirituale di questo impossibile presente» (Franz Marc, Aforismi) Negli ultimi anni della sua esistenza, lo Studioso dedicò i propri interessi all’arte extraeuropea, soprattutto dell’Africa, dell’Asia e dell’America precolombiana, influenzato da analoghi interessi di artisti contemporanei come Edvard Munch e soprattutto Emil Nolde, ai quali è senz’altro debitore non da ultimo per quell’ispirazione artistica che traspare nettamente dalla sua produzione pittorica. Come per Franz Marc, anche per Fritz Burger fra le ultime opere che licenziò – tra il 1915 e il 1916 – sono i pastelli e i disegni dal fronte. Come per Marc, «una tentazione analitica lo spinge al frammento, alla narrazione per spicchi, tagli, quadrettature».70 Il 4 marzo 1916 l’artista monacense muore per una scheggia di granata durante una ricognizione presso Braquis, poco lontano da Verdun. A distanza di una settimana il commilitone e amico Fritz realizza un dipinto a lui espressamente dedicato. «Es werde Licht!»: Sia fatta la luce, nel mentre fissa con solchi tormentati la Radura boschiva71 in cui cadde vittima di un agguato lo sfortunato Cavaliere azzurro. Scriveva Marc alla moglie: «In mezzo alle orribili immagini di sterminio in cui vivo, il pensiero del ritorno mi appare di uno splendore incredibile».72 Era il giorno stesso in cui sarebbe caduto vittima della tetra follia collettiva. Il nero tormentava anche Kandinsky, e pesava come non mai nelle tele di un Nolde, e di altri espressionisti. Per contro, da più parti ci si preoccupava di indagare «percorsi di luce». Una peculiare vocazione filosofica, per non dire teologica, lato sensu, era divenuta attitudine di più di un intellettuale, di musicisti e artisti «L’artista in me, e lo studioso» 229 dell’Avanguardia, proprio come Marc e Kandinsky. Qualcuno, Burger compreso, si spinge verso derive visionarie. La sua produzione pittorica ne è precisa testimonianza. Basti ricordare i titoli delle creazioni che Burger realizzò negli ultimi mesi della sua esistenza: L’albero della conoscenza (Paradies), Il Diluvio universale (Urmeer), Sia fatta la luce, Il risveglio dell’anima (Le tre grazie).73 Ad affiancare opere siffatte altrettante letture di respiro cosmico, come detto.74 ESPOSIZIONE DI HEIDELBERG 1986 L’albero della conoscenza (Paradiso), Il Diluvio universale e Sia fatta la luce vennero concepiti dall’artista come una trilogia, che vistosamente gioca col tema delle polarità antinomiche oltre che, all’evidenza, s’appropria di un orizzonte profetico ineffabile. Occorre qui fare un distinguo: altro è ciò che nelle lettere dal fronte e nel suo Diario Burger scrisse intorno a queste sue realizzazioni, altro è quanto esse dicono a noi, oggi, da un punto di vista storico e della loro contestualizzazione all’interno del raggio d’azione delle avanguardie artistiche; altro ancora, inevitabilmente, è quanto la figlia 230 Capitolo 10 Lili, storica dell’arte a sua volta, ma anzitutto votata a promuovere una peculiare immagine del padre, ha avuto modo di scrivere e pubblicare sull’argomento. Pertanto, le riflessioni burgeriane autografe sulle suddette opere confluiranno nel contesto di Burger critico interpreta Burger artista, mentre è al momento imprescindibile un richiamo ai contenuti e alle scelte formali impalcate nella Trilogia. FRITZ BURGER, L’ALBERO DELLA CONOSCENZA, 1916 Se si guarda a L’albero della conoscenza può essere illuminante un aforisma scritto da Franz Marc agli inizi del 1915, che così recita: «Vidi l’immagine che si frange negli occhi della gallinella d’acqua, quando s’immerge nello stagno: i mille anelli che abbracciano ogni piccola vita, l’azzurro del cielo mormorante che il lago beve, il riemer- «L’artista in me, e lo studioso» 231 gere incantato in un altro luogo. Sapete, amici, cosa sono i quadri: il riemergere in un altro luogo».75 Ho ripescato alla memoria questo brano ascoltando la nipote Birgit che accompagnandomi nel salone di Villa von Duhn, dove attualmente il quadro è esposto, ebbe a rammentare vividamente le mattine dell’infanzia quando, sull’uscio, si sentiva attratta dal Paradiso, che la invitava e «entrare nel dipinto e a perdersi in esso». Non ci competono commenti sentimentali, né questioni di sensibilità artistica,76 quanto piuttosto il significato di una siffatta immedesimazione. FRANZ MARC, RICONCILIAZIONE, XILOGRAFIA (1912)77 La Trilogia burgeriana costituisce una reazione, unitamente all’impegno sui progetti editoriali, al degrado delle condizioni ambientali dettate dalla evoluzione della guerra. Osserva infatti Burger: «Cerco consolazione nel lavoro».78 Dai giorni dell’Autoritratto – luglio 1915 – la vena creativa s’è spenta, soffocata dal frastuono delle operazioni belliche, dalle sofferenze dei molti che lo attorniano. Trova migliore ispirazione nella pa- 232 Capitolo 10 rola scritta e nello studio. Sono i mesi in cui attende alla Introduzione all’arte contemporanea. Eppure, «qualcosa in mente ce l’ho», confida alla moglie il 22 febbraio 1916: «a fianco dell’Es werde Licht mi sto occupando della rappresentazione del Paradiso».79 Si scopre che il tema lo affascina al punto da proporne una versione ad uso della figlioletta Lili, per il suo album dei disegni, e che ne parla diffusamente in più luoghi dell’epistolario dal fronte, come si riporterà. In una pagina del Secondo Diario dal fronte che risale ai giorni della Pasqua 1916 sta scritto: «È strano che il dipinto “Es werde Licht”, assieme a “Erwachen” sia appeso nella sua camera [di Mia von Duhn, sorella di Clara]. Oggi mi sembra di averlo dovuto dipingere per lei, come per Te il “Paradiso”, dato che Tu stessa hai potuto condividere interamente con me questo lato del mio io, nel quale stavo fra l’albero della conoscenza e l’albero della vita, e hai dovuto vivere anche il “Diluvio universale” in tutta la sua fertilità. Tu “stai” nel “Paradiso”, conosci l’albero della vita, te ne stai sorridente nella sua luce splendente davanti alla palude dell’albero della conoscenza…».80 Non ci dobbiamo nascondere lo sfondo polemico, pur appena percettibile, che aleggia in questo passo. Si tratta di un confronto a distanza – una distanza resa incommensurabile dalla guerra – fra l’approccio di Burger alla vita e quanto manifesta l’atteggiamento di sua moglie. Ciò che conta è, al fondo, riconoscere una volta di più, con le stesse parole del Monacense, che per lui si tratta ora e sempre di un’esistenza che oscilla fra il godimento della pienezza di vita (le gioie della paternità, gli affetti, le pulsioni profonde) e, insieme, la spinta a mettersi in gioco nei contesti più diversi, pur di non sacrificare l’ulteriorità di una ricerca. Davanti alla palude della conoscenza Fritz Burger non si arresta. Giova qui rievocare l’ambiente monacense, con le sue suggestioni, e la cultura coeva. Nella copia del Cézanne presente nel lascito Burger si trovano sottolineati i passaggi dedicati a Rudolf Steiner, alla teosofia, nonché ai metodi educativi.81 Se pure alcuno prova diffidenza nei confronti di possibili tangenze fra la ricerca burgeriana del senso dell’arte per la vita e le contemporanee sortite di Steiner, occorre ripensare, senza accenti pregiudiziali, alle Stimmungen che nella Monaco di quegli anni spesso si accordavano su un registro di continuo slancio emotivo, nel tentativo di cogliere la genuina via alla conoscenza di sé, per proiettarsi quindi all’incontro con l’altro. Impressionanti «L’artista in me, e lo studioso» 233 sono le consonanze fra L’albero della conoscenza e certe liriche di una appassionata amica del gruppo del Blauer Reiter (e di Marc sovratutti), la poetessa Else Lasker-Schüler. Suo, ad esempio, il verso che recita: «Non Dio è morto, nemmeno il Suo mondo lieve, ma il Paradiso del tuo Essere s’è oscurato»82 (da Die Seele und ihr Licht). Occorre ricordare che la xilografia della Riconciliazione fu tra le opere che Fritz scelse di portare con sé al fronte, come registra nel suo Diario di guerra. È qui a tema la rifrazione della luce, ma una luce affatto speciale: nel Paradiso burgeriano la luce promana dall’alto, da Dio, è Luce di conoscenza, laddove nell’incisione di Marc la radiosità muove dall’uomo, è ciò che consente agli individui di provocare una riconciliazione, nel senso in cui la pensa il verso. È evocazione dello Yom Kippur, festa considerata come la più sacra e solenne del calendario ebraico.83 Così, quasi senza avvedercene, si ritorna a parlare del mistico in Burger. Sia fatta la luce! intona il titolo di un’altra parte della trilogia: una specie di fendente che da terra sale e punta diretto al cielo, si scaglia come la folgore per ottenere risposta, romba un suono ineffabile, nel contesto di schegge impazzite di vita e colori, quasi pezzo di bravura di un orfismo futurista. Eppure, il contrasto fra contenuto e forma non potrebbe essere più stridente. Si tratta di un monumento alla memoria dell’amico Franz Marc, la cui luce mondana è stata violata e spenta per sempre dal fuoco nemico.84 A lui, infatti, la creatura burgeriana è dedicata. Ma se osserviamo il dipinto, più forte della morte è il tumulto delle geometrie, è lo slancio interiore di chi confida in un mondo migliore, se è vero che l’amico soleva dire: «Come i “rinati in Cristo” viviamo oggi il grande distacco dal vecchio uomo europeo, l’entrata nel chiarore dei nuovi pensieri, che finora si agitavano nello scintillio della nostra vita. Viviamo oggi nel suo calore e colore, nel suo suono e nella sua panica velocità».85 234 Capitolo 10 Stilisticamente, oltre agli elementi che incrociano l’esperienza orfica e cubofuturista, non si può scordare la serie di prove grafiche nate in seno ai gruppi dell’Espressionismo tedesco, come quelle, fra gli altri, di Campendonck, figura di spicco del cosiddetto Espressionismo renano, poi collaboratore del Cavaliere Azzurro. Ma qualcosa di più pregnante esce dalla penna di Burger, e lo leggeremo a tempo debito. HEINRICH CAMPENDONCK, XILOGRAFIE.86 «L’artista in me, e lo studioso» 235 FRITZ BURGER, DILUVIO UNIVERSALE, 1916 Riguardo al secondo momento della Trilogia, esso richiama da vicino analoghi esiti cui all’evidenza si ispira, da Nolde a Jawlensky, autori più volte convocati negli scritti burgeriani a partire dal 1913. Un andamento ondivago delle linee, un serpeggiante umore di esplosione nativa, un magmatico flusso di esistenza, acceso da cupi bagliori e rossi impenetrabili, in cui un irriducibile anelito di vita scompiglia la morfologia del creato: nulla è impossibile, parrebbe, all’artista che vuole esprime la forma dello spirito dei tempi. 236 Capitolo 10 ALEXEJ JAWLENSKY, OBENRSDORF, 1912 CA. EMIL NOLDE, MARE D’AUTUNNO VII, 1910 «L’artista in me, e lo studioso» 237 FRITZ BURGER, ES WERDE LICHT, 1916 «Se si pensa alla tendenza espressionistica a formare l’oggetto totalmente in base all’arbitrio del soggetto, non deve sorprendere che ciò giunga infine sino alla negazione della forma del dipinto senza rinunciare all’idea della figurazione. […] Anche nella variopinta tela del geniale Fritz Burger, caduto a Verdun, non si può non riconoscere la potenza del simbolo […]: il raggio che penetra nel caos si divide nei colori dello spettro e si rifrange in molteplici riflessi gli elementi in parte cristallini e in parte sferici del cosmo: una dichiarazione d’amore dello studioso nei confronti dell’arte dei Moderni!».87 È una «dichiarazione» che ha un suo prezzo, e ben alto. A partire dal 1933, ogni nuova edizione di Sehen und Erkennen subirà la censura, per cui Burger non troverà più accoglienza nel testo. Fino ad allora, tuttavia, il libro di Paul Brandt aveva avuto fortuna copiosa, promuovendo l’immagine burgeriana alle nuove generazioni.88 Dal punto di vista compositivo, Es werde Licht dialoga con la produzione più tarda del Blauer Reiter, in specie con quadri come i Ca- 238 Capitolo 10 valli di Campendonck qui illustrati,89 e con certe opere più sperimentali di Marc, cui, come detto, il lavoro burgeriano è idealmente offerto. Ma non è da escludere un’eco di una produzione, senza dubbio ancorata alla figurazione, ma con derive e allusioni simboliche, come l’opera tarda di Hans Thoma.90 Tutte le componenti la Trilogia si risolvono, giusta Lili FehrleBurger, in «visioni di forze primordiali del destino dell’esistenza umana»91 e, citando l’Autore, il medesimo non ha «mai sentito in modo più vigoroso la vita come nella sua intima e misteriosa animazione».92 FRANZ MARC, CERBIATTO NEL GIARDINO FIORITO, 1913 «L’artista in me, e lo studioso» HEINRICH CAMPENDONCK, CAVALLO E PULEDRO FRANZ MARC, CAVALLO AZZURRO CON ARCOBALENO, 1913 239 240 Capitolo 10 HANS THOMA, CREATORE DEL MONDO GIACOMO BALLA, COMPENETRAZIONE IRIDESCENTE, 1913-1914 «L’artista in me, e lo studioso» GIACOMO BALLA, MERCURIO DAVANTI AL SOLE 1914 241 242 Capitolo 10 GINO SEVERINI, LANCIERS ITALIENS AU GALOP, 1915 Se è vero che Sia fatta la luce dialoga con le vicine realtà del Cavaliere Azzurro, nelle diverse sue anime e componenti, ma principalmente con la pittura di Campendonck e Marc, è altrettanto avvertibile un’attenzione nei confronti delle complesse interazioni fra cubismo, futurismo e sperimentazioni astratte come quelle di Natalia Gontcharova. Sappiamo dalla moglie che Burger si reca in missione a Parigi nella primavera del 1912:93 ciò significa che non soltanto è nelle condizioni di approfondire certe osservazioni relativamente al Cézanne und Hodler, in fase di stesura; e non approfittano solo i fortunati studenti al seguito del soggiorno nella capitale delle avanguardie: è lo stesso docente a potersi accostare ai nuovi lavori proposti, in prima assoluta, nella mostra degli artisti futuristi. Dall’autunno del 1911 Boccioni era a Parigi, dove tramite Severini conosce Picasso e Guillaume Apollinaire. Opere di Boccioni, Carrà, Russolo e Severini sono esposte alla Galerie Bernheim-Jeune proprio nel 1912; questa stessa manifestazione verrà quindi presentata a Londra, Bruxelles e Berlino, «L’artista in me, e lo studioso» 243 dove pure il Nostro potrebbe aver fatto una visita. La metropoli tedesca deve a Herwart Walden, fondatore della rivista «Der Sturm», già sostenitore del Blauer Reiter,94 il primo discusso «Salone tedesco d’Autunno», all’evidenza esemplato su quelli francesi.95 È a lui che la cultura tedesca deve lo “sdoganamento” del Futurismo italiano al Nord,96 e con esso la diffusione della poetica della velocità, della sintesi dinamica del reale, della proiezione spinta verso il futuro, nella ricerca di linee vettoriali, di rifrazioni e iridescenze prismatiche, come nelle opere presentate da Balla e Severini. Con l’aspirazione a conferire alla sua iniziativa un’impronta il più possibile internazionale, nel nome dell’universalità di un’arte senza distinzione di nazionalità e di etichetta, lo scrittore e compositore Walden apre le porte ad artisti di ogni parte del mondo. Alcune realizzazioni erano state già rese disponibili al pubblico tedesco in occasione di una mostra allestita a Colonia nel 1912, dove si era recato anche Franz Marc. La variante russa del futurismo è incarnata dalla tendenza al raggismo di Natalia Gontscharova, che a Berlino espone Gatti (1910) e Bosco verde e blu (1912), due opere piuttosto affini per ispirazione ed esiti all’Es werde Licht burgeriano. La pittrice russa era del resto già nota al Monacense, in quanto attiva all’epoca nella cerchia del Blauer Reiter. Aveva esposto suoi lavori già nella seconda mostra del movimento, presso il gallerista Hans Goltz da febbraio a marzo 1912. 244 Capitolo 10 NATALIA GONTSCHAROVA, GATTI, 1910 Lo studio della luce affascina molti dei nomi qui convocati. Nel 1912 Giacomo Balla soggiorna a Londra e a Düsseldorf, dove dipinge i suoi primi studi astratti precisamente sulla luce. L’anno seguente, anch’egli partecipa all’Erster Deutscher Herbstsalon, presso la galleria berlinese «Der Sturm». Riguardo a Gino Severini, entrato in contatto con gli esponenti dell’avanguardia parigina, tra i quali Juan Gris, Georges Braque e Pablo Picasso, Lugné-Poë e la sua cerchia dell’ambiente teatrale, e dopo aver firmato il Manifesto Tecnico della Pittura Futurista dell’aprile 1910, a differenza degli altri estensori del programma, più spesso sceglie figure di danzatori per esprimere le teorie futuriste del dinamismo nell’arte, non provando particolare attrazione per il tema della macchina. Da questo punto di vista, è, insieme a Balla, colui che più condivide – almeno in linea tendenziale – il coevo slancio dei gruppi monacensi, come si è visto. «L’artista in me, e lo studioso» 245 IV. Burger critico interpreta Burger artista. L’albero della conoscenza – Paradiso febbraio 1916 Involontariamente, nel mio dipinto la forza dirompente dell’albero della conoscenza diventa la voce imperiosa del destino, che bussa alla porta del Paradiso. Ma sto ancora dipingendo la primavera dell’umanità, in cui, sopra un terreno vulcanico, le figure oniriche del Paradiso, nella loro sgargiante colorazione tropicale, sono sbocciate tutto d’un tratto, come arbusti dell’età dell’oro, da cui cola fuori miele puro e ai cui rami pendono come balocchi frutti lucenti. È un giardino fatato che pullula di gioia di vita, nella cui luce piena tutto ristà, come gioco e sogno. […] La minuscola coppia umana, appena accennata, che ancora non percepisce alcun desiderio di potere e di grandezza, sta davanti al lago blu del Paradiso, in cui si rispecchia il miracolo della Creazione del mondo. Soltanto l’«albero della conoscenza», che sale oltre il muro del Paradiso, si divincola con pathos teatrale dalla sua forma primigenia, spinto dalla voglia satanica di impadronirsi delle anime umane. Luci sfavillanti dipingono la flessuosa eloquenza con la quale si torce e si avvita nel suo compiacimento di sé, protendendo però al tempo stesso le braccia ad afferrare gli umani. […] Ieri ho lavorato fino all’una di notte a dipingere il Paradiso… non per l’entusiasmo, ma per la rabbia: non ne ero soddisfatto; adesso è «finito»; a volte mi piace proprio, altre invece no. Perciò il nostro Paradiso è diventato un simbolo dei felici albori dell’umanità, la cui fantasia plasmatrice si beava ancora dell’ingenuo gioco di forme e colori. Tutto si sviluppa ancora senza sforzo da quel senso spontaneo e sorgivo di appartenere all’essenza dell’universo, così come i suoni appartengono alla musica in Johann Sebastian Bach. Quanto è mutato il mondo da allora! Là fuori, sotto il grigio cielo invernale, l’ampio fiume si contorce come un cupo messaggero dell’immenso sconforto che un giorno assalirà i popoli d’Europa, quando, di fronte a tutto ciò che questa guerra avrà ridotto in cenere, saranno gravati dal dovere d’iniziare una nuova vita. Allora il mio dipinto del Paradiso dovrà rinfrancarti nella certezza che dopo qualsiasi tempesta, per quanto devastante possa essere, viene una nuova aurora; quando ho dipinto questo quadro avevo in animo le parole che un tempo disse Lutero: «Se sapessi che domani il mondo finirà, ancora oggi pianterei un melo». La piccola coppia umana nel nostro Paradiso sta ancora nel raggio di luce di un mattino gravido di promessa. Lo sfarzo cromatico dei frutti, di cui si ristorano spensierati i figli della vita, si rispecchia nello stagno illuminato dallo splendore del sole, occhio del cielo, dal quale irradia loro l’amore che tutto vivifica. Ma già, 246 Capitolo 10 dall’altra parte, il demone del progresso, avido di conquista, sotto forma di albero diabolico, tenta di trascinare a sé la coppia ancora sognante. Perciò nel mio Paradiso non c’è più alcun «ritorno», e non c’è sosta, ma soltanto un «passare attraverso», È questo anelito faustiano alla conoscenza che nelle età auree di uomini e popoli non concede alcuna tregua al lieto sentore d’intimità, sicché le forme usate paiono catene opprimenti. Così l’albero della conoscenza, con la sfida del suo pathos teatrale, è l’elemento non solo tragico, ma anche fautore di progresso nella storia dell’umanità. Nel mio quadro la forza esplosiva dell’albero della conoscenza diventa di riflesso voce imperiosa del destino, che batte alle porte del Paradiso […] Diluvio universale Mainz, settembre 1915 […] Oggi pomeriggio, in una sola «seduta», ho dipinto il «mare». Un quadro un poco più grande dell’ultimo, e che vorrei chiamare «Rinascimento» o magari «Michelangelo come motivo di natura». Conformemente al tema, è un po’ patetico, ma credo che, per la rapidità dell’esecuzione, sortisca un effetto immediato. Peccato che non lo abbia dipinto su cartone trattato, ma su carta, così dovrò farlo tirare e incorniciare, col rischio che vada rovinato qualcosa. Nel «mare» sono stato stimolato da Nolde. Ma durante il lavoro ne è risultato qualcosa di assolutamente diverso da quello che pensavo inizialmente, dato che nel frattempo ho avvertito ancora l’influenza della “Settima di Palestrina”97 che mi hai suonato l’ultima sera… Vedi, anche Tu sei madrina di questa “creatura”. Sia fatta la luce Mainz, marzo 1916 Proprio oggi, giorno in cui ho terminato il dipinto Es werde Licht [Sia fatta la luce], nel quale ho sfruttato in un’opera a sé le impressioni che ho ricevuto da Marc, vengo informato della sua morte. È la più terribile delle perdite che l’arte tedesca debba patire in questi giorni. La sua morte mi tocca tremendamente, perché mi aspettavo ancora molto da lui. Il mio nuovo dipinto mi tiene così avvinto che ho solo l’urgente desiderio di riportarlo presto fuori dalla mia abitazione, dato che me ne sto seduto per ore in sogno, e non riesco a rendermi conto che proprio io sono riuscito a dar forma a tutto ciò: un’apologia della luce generatrice cosmica, e ci sono riuscito! E ora Ti posso mostrare e dire tutto ciò che penso e che sento, assai meglio di quanto non possano le parole, le mere parole; e Tu vedrai questo mio io artistico tangibilmente di fronte «L’artista in me, e lo studioso» 247 a Te: penso sempre a come Ti posso mostrare e spiegare questa o quella cosa, e ciò mi rende felice…! Mainz, marzo 1916 […] In Es werde Licht ho detto tutto quello che so sulla luce; qui mi sembra di essere una via di mezzo fra Kandinsky e Marc, senza volermi confrontare con nessuno dei due. Ma ho proiettato in chiave cosmica le idee di Marc… FRANZ MARC, DESTINI DI ANIMALI, 1913 CA. 248 Capitolo 10 Tuttavia, con un ritmo assai rigoroso che ho certo acquisito dalla Tua musica, e talvolta mi pare quasi che nella mia arte sia penetrato il Tuo io musicale a purificarla. Il ritmo infatti non è di natura razionalistica, bensì sostanzialmente alogica… Del resto, questo dipinto potrebbe benissimo esser chiamato: la forza o il genio di Dio. Esso è appunto una sorta di professione di fede. Se soltanto potessi averlo a casa, ma temo il trasporto. Il risveglio dell’anima (1916) Tre figure femminili, introdotte nell’immagine da una onda marina proveniente da lontananze remote, si avvicinano al tempio di una nuova religione dell’umanità. La prima ne dischiude la porta. Alle tre sembianze, ritmicamente animate, fa da sfondo l’ampia distesa del mare. Sono le tre fasi di trasformazione della vita, che raffigurano il “risveglio”, coincidendo rispettivamente con il Medioevo, il Rinascimento e l’era moderna. L’anima che si ridesta, nella dolce eco di remoti spazi siderali, scaturisce dal mare della vita come una mirabile fioritura ancestrale, una potenza occulta. Procedendo di grado in grado verso Dio, il moto ondulatorio, ritmico, ha un suo primo momento nell’oscillazione trasognata di un’esile figura gotica, che, timida e fredda nella pallida luce lunare, ancora rifugge il pesantore della terrestrità, quella pienezza corporea che connota la figura antistante, dalla sensualità pregna d’esistenza. Questa sembra quasi volersi sottrarre all’incedere ritmico dell’onda vitale, per poter ristare a bearsi di sé il più a lungo possibile. Ma già la figura successiva, che nella sua natura ignea ha assunto ormai una trasparente corporeità, intuendo alcunché di più elevato, anela a liberarsi dalle catene opprimenti di ciò che fu, e così dalla prigionia del volere e del desiderio. Ecco, davanti alla soglia del mistero della redenzione, esperisce l’attimo della propria illuminazione divina, il vero ritorno a casa, prima di doversi nuovamente calare nell’essere delle cose. Qui subentra una grande quiete. Tacciono i vortici sibilanti fra le costellazioni, si smorzano le fiaccole della grande devastazione, s’arresta il dolore cosmico, per porsi in ascolto della voce della Grazia celeste. La sua immagine è già accennata e lumeggiata dalla luce redentrice della risurrezione dell’anima. Dalle delucidazioni dello stesso Burger.98 «L’artista in me, e lo studioso» 249 FRITZ BURGER, ERWACHEN DER S EELE, 1916 «Erwachen der Seele» di Lili Fehrle-Burger99 Riferendo del dipinto anche come di una Frühlingsvision, Lili parla del risveglio dell’anima che «secondo antichissime credenze, prima di diventare umana sente una musica». «…La prima figura del dipinto, di una tenerezza eterea, ancora rinchiusa nel proprio bocciolo, non partecipa ancora del gioco cromatico della vita. Su di lei giace ancora lo splendore argenteo della luna, dalla quale sembra essere discesa per porre ascolto alla magia di suoni che promettono felicità, seguendoli con esitazione. La figura a lei prossima, dai colori terragni, dal melodioso andamento, funge da mediatrice entro la triade di queste Grazie dal piede leggero, e si rivolge con soave gesto all’una come all’altra, guidando così lo sguardo verso la terza figura, animata da un fuoco interiore. Questa, quasi anima umana assurta a medium di forze cosmiche, si spinge a tastare la porta del tempio con la punta delle dita, per ricevere in sé, grazie a questo tocco magico, i raggi che ne fuoriescono, mentre è nell’atto di varcare la soglia della sua patria spirituale». 250 Capitolo 10 Uno sguardo dal passato: sul presente, sul futuro In una lettera dalla postazione di Magonza, non datata, ma certamente riferibile all’autunno del 1915, Fritz rivolgeva alla moglie riflessioni molto private sulla nostalgia dei figli, sul sorriso che gli sbocciava spontaneo al ricordo di episodi e immagini delle ultime fugaci occasioni d’incontro e sul senso irreparabile d’estraneità alle vicende della guerra. Scrive anche, il Nostro, dell’irriducibile «fanciullo interiore», che auspicabilmente potrà risollevare – sia pur per poco – perfino l’amata Clara… sono pensieri e meditazioni che squarciano appena la persistente cappa di tenebra spirituale, ma si legge che Fritz ha iniziato a sbozzare, con i mezzi a disposizione, alcuni schizzi dalla trincea, da far avere allo zio, con la postilla, però, che essi sono realizzati «ohne “Zirkel und Richtscheid”».100 La citazione, collocata dallo stesso Fritz fra virgolette, è esplicito omaggio düreriano. E non si tratta soltanto di difendere prosaicamente un certo talento, abbrutito dalle condizioni in cui egli si trovava a operare: a dire, i disegni sono quel che sono, senza compasso e riga… Al di là della giustificazione ben rimarcata sull’oggettiva impossibilità di redigere abbozzi qualitativamente apprezzabili, in mancanza di strumenti adeguati, ritengo piuttosto evidente che qui come altrove Burger faccia appello all’autorità morale del Maestro di Norimberga. Il riferimento in questo caso è al trattato della Underweysung der Messung mit Zirckel und Richtscheyt (Precetti di misurazione col compasso e con la riga), la prima opera teorico-pratica pubblicata da Dürer nel 1525. Facciamo caso a un paio di occorrenze: ora come allora si affronta un tempo di guerra, un tempo di preoccupante incognita sul futuro. Il 1525 aveva visto soffocare brutalmente nel sangue la sollevazione dei contadini e di quanti avevano intuito un orizzonte di dignità fino all’epoca negata; è un tempo di scelte decisive – di qua o di là dal guado della Riforma – e, ancora, un tempo in cui a Nord delle Alpi ci si interrogava sulla funzione dell’arte e sul ruolo dell’artista. In quel «monumento della contraddizione»101 – giusta la lucida formula di Mittig – che è l’incisione düreriana la quale introduce al suddetto manuale per giovani artisti o soltanto amanti dell’arte, nota col titolo di Colonna dei contadini, sta il senso ultimo, a mio giudizio, dell’impegno burgeriano. V’è un unico fil rouge che tiene insieme la scelta «L’artista in me, e lo studioso» 251 programmatica di inserire l’immagine del Vir Dolorum – il frontespizio della Piccola Passione (1511) – e il richiamo a quest’altra opera del fatale 1525: è un conflitto quello che comunque l’uomo è costretto a vivere su di sé in prima persona, nella misura in cui il singolo accetti di corrispondere al modello cristologico, assumendo fino in fondo la responsabilità della condizione umana, al tempo stesso fragile ma dignitosa. E sempre a Dürer guarda il Monacense, quando si tratta di affrontare l’ineludibile sfida con l’autoritratto. Certo, dopo tutte le visite fatte alla Alte Pinakothek insieme agli studenti, quella tappa d’obbligo doveva essersi trasformata per lui in una sorta di refugium, di salda fortezza contro la pazzia dilagante della Storia. Da Strasburgo,102 luglio 1915: «Sono a casa, seduto, e attraverso la finestra mi giunge dal giardino il canto degli uccelli; appeso alla mia destra mi sta osservando il mio “Io”, in forma di seconda monumentale versione. L’autoritratto è finito […] Sono particolarmente ansioso di sapere che ne pensi […] Certo, mi rendo conto che in futuro potrò probabilmente cercare ben altri mezzi per esprimermi, e tuttavia ho provato una gioia nel realizzarlo simile a quella del buon Dio nel creare la Terra. Insomma, devo proprio descrivertelo, almeno un pochino, così che tu possa fartene un’idea. Allora: la foggia del corpo e del volto è simile a quella dell’Autoritratto di Dürer della Pinacoteca, rigorosamente frontale, vestito di una giacca azzurra, che si apre ampiamente sul collo nudo e che lascia vedere il petto altrettanto nudo, mostrando appena le lievi righe di una camicia di pelle gialla. Il capo, in accesi colori solari, chiari a sinistra, con forti contrasti, in piena luce a destra; il tutto risalta appena su uno sfondo dai toni molto sorvegliati e tenui. Il mare, verde chiaro, bagna la retrostante costa dalle dune giallo-oro, striature di nubi biancheggiano in un cielo sfumato di violetto; il blu della giacca rafforza l’effetto del colore degli occhi, e i contrasti cromatici – un po’ alla Hodler – si smorzano sullo sfondo. Ho così cercato di sbozzare la naturalezza dei tratti e, insieme, l’uomo che osserva la vita meditando sulla sua grandezza e vastità, in una mescolanza di giovanile freschezza e di quieta serietà, quasi solenne, in modo da farti dono, in immagine, di quanto scorgo di buono e di prezioso in me stesso, di ciò per cui so di essere amato da 252 Capitolo 10 te, anche se ho cercato di rivestire i tratti caratteristici con un tocco di grazia». AUTORITRATTO A PASTELLI (1915) «L’artista in me, e lo studioso» AUTORITRATTO A CARBONCINO (1915) 253 254 Capitolo 10 Risuonano in mente le parole che Fritz rivolse alla moglie, nei tristi giorni dopo la tragica scomparsa di Marc: «Per tutto quello che sento e vedo sono sconvolto, scioccato...»; nei fogli del Diario, redatti tra la fine di aprile e i primi di maggio del 1916, si legge: «è come se uno spirito di vendetta apocalittico imperversasse su queste distese e con un gigantesco martello battesse a pesanti portali di bronzo […] Guardo le stelle che risplendono lassù, al di sopra degli spari che squarciano il velo del cielo, al di sopra del diabolico ghigno delle granate: “Chi siete voi, lassù? Siete le anime di tutti gli spiriti terrestri e celesti che stanno a guardare dall’infinita volta del cielo la furia infernale che impazza sulla Terra? A quale delle fazioni in lotta concedete il vostro favore? A chi auspicate vittoria? Tu, Zeus, Cristo, o chi altro tu sia, abbi pietà di noi e resta con noi!” […] Continuo ad attendere il quarto sparo. Ora… ora… all’incrocio delle vie giungerà, dico fra me. Sarà per me stavolta? Silenzioso canto dentro di me: Ein’ feste Burg ist unser Gott, e tengo in spalla il frustino come fa il cavaliere di Dürer, nonostante la morte e il diavolo».103 «L’artista in me, e lo studioso» 255 N OTE 1 «Das ist eben immer der Künstler in mir, der mit dem Gelehrten in Conflict gerät, einerseits u. anderseits eben der Practicus, der das Leben sucht, ...!», parte finale di una lettera, non datata e non integralmente pervenuta (ma che risale per certo, considerati gli indizi ivi contenuti, all’estate del 1908), redatta durante un soggiorno del Nostro in Veneto. 2 Gustaf Britsch, Theorie der bildenden Kunst, a cura di Egon Kornmann, München: Bruckmann, 1926; Gustaf Britsch, Schriften – Fragmente zur Kunsttheorie des frühen 20. Jahrhunderts, a cura di Wilhelm Johann Menning und Karina Türr, Berlin: Gebr. Mann, 1981; Otfried Schütz, Britsch und Kornmann: quellenkundliche Untersuchungen zur Theorie der bildenden Kunst, Würzburg: Königshausen u. Neumann, 1993. 3 «Il tragico nella sua vita è di non essere del tutto pervenuto alla statura di artista pittore […] e d’altro canto non volle né poté abituarsi al “tono sobrio”, alla chiarezza e semplicità della scienza», così August L. Mayer, Fritz Burger †, in «Kunstchronik» N.F. XXVII, 36, 2 giugno 1916, p. 1. 4 Burger propose per la prima volta il suo Praktikum a pochi mesi dalla partecipazione al corso di modellato di Britsch, e cioè per il semestre invernale 1910/11. La missiva contro di lui è del 19 gennaio 1911. 5 Su questo punto vd. Johann Paulweber, Die Kunsttheorien von Gustaf Britsch und Fritz Burger, in «Hochland», 17, 1930, Heft 2, pp. 169-177. 6 Vd. ultra. Sul contesto relativo alle difficoltà incontrate dall’attenzione ai moderni e a nuovi approcci all’arte nella Germania guglielmina, vd. almeno il recente John V. Maciuika, Before the Bauhaus, Cambridge (Mass.): Cambridge University Press, 2005. 7 Cfr. Schütz, Britsch, cit., pp. 37 sgg. 8 Cit. da Adolf von Hildebrand und seine Welt: Briefe und Erinnerungen. Bayerische Akademie der Schönen Künste, a cura di Bernhard Sattler, München: Callwey, 1962, pp. 592-594. Per tutti i riferimenti insistiti al rapporto tra Hildebrand e Fiedler, vd. il carteggio Adolf von Hildebrands Briefwechsel mit Conrad Fiedler, a cura di Günther Jachmann, Dresden: Jess, 1927 (le parole segnalate in tondo sono così enfatizzate da Burger). 9 Cfr. Dirk Heißerer, Das “Problem der Form”, der “Blaue Reiter” und die “Negerplastik”: zu den Voraussetzungen der Kunstkritik Carl Einsteins, in Die visuelle Wende der Moderne. Carl Einsteins ‘Kunst des 20. Jahrhunderts’, a cura di Klaus H. Kiefer, München: Fink, 2003, pp. 21-38. 10 Cfr. una lettera di Wölfflin indirizzata al giovane Privatdozent, datata 19 novembre 1912. Carte Burger, Heidelberg (trascrizione Kessler). 11 Fritz Burger, Cézanne und Hodler. Einführung in die Probleme der Malerei der Gegenwart, München: Delphin Verlag, pp. 168 sg. 256 12 Capitolo 10 Friedrich Schiller, Lettere sull’educazione estetica dell’uomo, introduzione, traduzione e note di Antonio Sbisà, Firenze: La Nuova Italia, 1970, Lettera nona, p. 32. (Nell’originale: «Ehe noch die Wahrheit ihr siegendes Licht in die Tiefen der Herzen sendet, fängt die Dichtungskraft ihre Strahlen auf, und die Gipfel der Menschheit werden glänzen, wenn noch feuchte Nacht in den Thälern liegt»). 13 Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Prefazione a Lineamenti di filosofia del diritto, trad. it. di Francesco Messineo, Roma-Bari: Universale Laterza, 1978, p. 20. 14 Burger, Cézanne, cit., pp. 125 sg. 15 Lettera datata 23 gennaio 1913, inedita, Carte Burger, Heidelberg. 16 È qui evocata la collezione privata di Burger, che venne alla sua morte devoluta all’Università di Monaco, ma in seguito a un’incursione aerea durante il secondo conflitto mondiale irrimediabilmente distrutta. 17 Cit. da un documento di due pagine dattiloscritte intitolato Aufzeichnung v. Frau Clara Burger von Duhn über die Arbeitsweise ihres Mannes Fritz Burger, Carte Burger, Heidelberg. 18 In nuce già August von Schmarsow aveva proposto qualcosa di simile, ragionando sulla convenienza e l’utilità del disegno per far capire motivi e termini tecnici dell’architettura agli studenti; auspicava anche che i discenti prendessero parte all’operare artistico del presente. Cfr. la sua Kunstgeschichte an unseren Hochschulen, Berlin 1891, qui p. 59. 19 È il caso della sua ricusazione della tesi di dottorato del suo allievo Max Raphael, che era stato un periodo a studiare l’opera di Picasso presso l’atelier dell’artista a Parigi, secondo le indicazioni dello stesso Wölfflin. In ogni caso, come detto altrove, il saggio monografico troverà ugualmente diffusione a stampa, proprio in concomitanza con l’edizione del Cézanne burgeriano. 20 Das Wesen der Farbe – mit Demonstrationen, Universitätsarchiv München, Phil. Fak., Personalia, E II-N, Burger, Bd. 1, Anlage zum Gutachten über Burgers Universitätstätigkeit, cfr. Burkhardt, Kunstgeschichtswissenschaft, cit., pp. 73 sgg. e p. 199. 21 Su ciò riferisce una lettera di Burger al Senato accademico del 12 ottobre 1910, ivi. 22 I modelli erano rigorosamente di sesso maschile, come dettavano le regole del perbenismo borghese nella cattolicissima capitale della Baviera, dove del resto, appena defunto nonno Burger, importatore in città della formula termale “alla romana”, era stato prontamente chiuso quel centro “peccaminoso”, frequentato peraltro anche da Sua Maestà imperiale (cfr. memoria scritta di Erich Burger, Natale 1991, Carte Burger). 23 Ivi. Cfr. pure Liane Burkhardt, Kunstgeschichtswissenschaft zwischen Fachund Berufprofilierung. Eine vergleichende Untersuchung zu Gegenwarts- und Anwendungsnähe eines Studienfaches an deutshcen Universitäten um 1900 bzw. in der jüngeren Disziplingeschichte, Humboldt-Univ., Berlin, 1996, p. 74 e p. 200, nota 55. 24 Cfr. lettera di Clara Burger a Wölfflin, Heidelberg, 31 maggio 1916, foglio 4, Carte Burger, Heidelberg. «L’artista in me, e lo studioso» 25 257 Chiara citazione dall’hildebrandiano Problema della forma. Sin dal 1907 Wölfflin aveva espresso le proprie idee su una riforma dell’insegnamento della storia dell’arte, la cui trattazione esula però dai limiti di questo studio. Vd. comunque Meinhold Lurz, Heinrich Wölfflin. Biographie einer Kunsttheorie, Heidelberg: Werner’sche Verlagsgesellschaft Worms, 1981, pp. 159-161. 27 La dissertazione dottorale di Liane Burkhardt, Kunstgeschichtswissenschaft, cit., traccia un percorso di esempi e di approcci metodologici offerti dalla didattica della storia dell’arte agli inizi del XX secolo in Germania ed è perciò un utile strumento conoscitivo, ma, per quanto ne so, poco noto. 28 Riprodotto in Walter Vitt, Hommage à Dexel (Einleitung), in Hommage à Dexel (1890-1973). Beiträge zum 90. Geburtstag des Künstlers, a cura di Walter Vitt, Stanberg: Keller, 1980, qui p. 13. 29 «Sekundäres Hilfsmittel zum Zwecke der stilkritischen Erkenntnis». 30 Altrove Burger racconta di essersi imbattuto casualmente in una grande raccolta di xilografie giapponesi che agì su di lui come una rivelazione. «Senza di esse», afferma, «non si può capire l’Impressionismo, anzi tutta l’arte moderna». A Londra Burger acquistò in un negozio, dopo una scelta durata tre ore, sei xilografie giapponesi, con l’intento di farne uso a lezione confrontandole con opere di artisti occidentali. Cit. da una lettera di Fritz Burger al suocero, Londra, 13 ottobre 1908, Carte Burger (trascrizione Kessler, E 12-13). Opere di Hokusai saranno qualche tempo dopo ragionate e riprodotte nel Cézanne, cit., pp. 41-42, 105-106. 31 Vd. supra in riferimento alle metodologie. 32 Fritz Burger, lettera del 23 gennaio 1913 da Monaco alla Facoltà di Filosofia dell’Università. Carte Burger, Heidelberg. 33 Lettera di Clara Burger alla madre, non datata. Carte Burger, Heidelberg. 34 Heinrich Wölfflin, lettera del 25 maggio 1916, Carte Burger, l’originale è presso il Wölfflin-Archiv, Basel. 35 Kunstwissenschaftliche Übungen (Einführung in die Geschichte der Kunstwissenschaft mit kritischen Besprechungen kunstwissenschaftlicher Abhandlungen). 36 Übungen im Betrachten moderner Bildwerke. 37 Universitätsarchiv München, Phil. Fakultät, Personalia, E- II-N, Burger. Cfr. anche Burkhardt, Kunstgeschichtswissenschaft, cit., pp. 73-78 e note relative a pp. 199-202; Rolf Hauck, Fritz Burger (1877-1916). Kunsthistoriker und Wegbereiter der Moderne am Beginn des 20. Jahrhundert, Phil. Diss., LMU, München 2005, pp. 61-65 e pp. 281 sg. 38 Kunstwissenschaftliches Praktikum (praktische Einführung in die plastische Anatomie, Zeichen-, Mal- und Modelliertechnik als Grundlage der Stilkritik). 39 Kunstwissenschaftliches Praktikum für Anfänger (praktische Einführung in die Gestaltungsprobleme der Malerei). 40 Kunstwissenschaftliches Praktikum (praktische Einführung in die Gestaltungsprobleme der Malerei und die Grundsätze der Stilkritik). 41 Kunstwissenschaftliches Praktikum (praktische Einführung in die künstlerische Gestaltung zum Zwecke stilkritischer Untersuchungen). 26 258 42 Capitolo 10 A fronte dei 47 partecipanti nel 1910/11, nei semestri successivi il tetto massimo fu posto a 35 iscritti e dal 1912/13 a soli 20 studenti. I registri delle iscrizioni annoverano 36 iscritti per il 1911, 35 per il 1911/12, 32 per il 1912, 21 per il 1912/13. Cfr. UA München, Phil. Fak., Personalia, E II-N, Burger, Bd. 1. 43 Kunstwissenschaftliche Übungen: Anleitung zur methodischen Entwicklung der Gesichtsvorstellung zum Zwecke der stilkritischen Erkenntnis. 44 Dattiloscritto originale, non altrimenti identificabile; Carte Burger, Heidelberg. 45 Burger, Cézanne, cit., pp. 9-10. 46 Cit. da una copia della missiva del Cattedratico alla vedova Burger, Monaco 25 maggio 1916, Carte Burger, Heidelberg. L’originale è presso il Wölfflin-Archiv, Basel. 47 Cit. da A.L.M. [August L. Mayer], Fritz Burger †, in «Kunstchronik» N.F. XXVII, 36, 2 giugno 1916, p.1. 48 Burger, Cézanne, cit., pp. 206 sg. 49 Una copia si trova attualmente nel vano scale di Villa von Duhn. Lili FehrleBurger la menziona variamente come Testa del Destino con corna di diavolo, ovvero come Il Caino strabico. 50 In più occasioni la figlia Lili ne ha scritto, sistemando abbozzi per le conferenze da lei tenute, soprattutto negli anni Settanta, sostenendo che la Testa risaliva all’estate (agosto?) del 1914. Il ritrovamento del Diario di Clara Burger, per contro, fornisce una serie di indicazioni dettagliate, che ne consentono una diversa e più precisa collocazione temporale. 51 Cfr. Diario, Carte Burger, Heidelberg (trascrizione di Bert Burger, foglio 8). 52 Docente di storia dell’arte in America fra il 1936 e il 1939, poi animatrice del Goethe-Institut in Heidelberg. 53 Deutsche Künstler von Marées bis Slevogt, a cura di Christian Lenz e Barbara Hardtwig (Bayerische Staatsgemäldesammlungen, Neue Pinakothek München, Gemäldekataloge; Bd. VIII/1-3), München: Hirmer 2003. 54 Su questo punto si conserva, fra l’altro, corrispondenza fra Lili Fehrle-Burger e Klaus Lankheit, illustre esperto delle tendenze storico-artistiche fra lo scorcio del XIX e i primi movimenti del XX secolo, il quale considerava «plausibile e fascinosa siffatta ipotesi». Carte Burger, Heidelberg. 55 Nel ricordare Fritz Burger, Dexel evoca la quinta fatica di Ercole, quella relativa alle stalle di Augia appunto. Re dell’Elide, Augia possiedeva un gran numero di greggi e mandrie, sempre fertili. Per lungo tempo nessuno aveva ripulito lo sterco e le stalle e le valli ne erano ricoperte da uno strato così alto da non poter più seminare. Eracle propose al sovrano che avrebbe ripulito lo sterco dalle sue enormi stalle prima del calar del sole. 56 Vd. I Sakharoff. Un mito della danza fra teatro e avanguardie artistiche, a cura di Patrizia Veroli, testi di John E. Bowlt, Eugenia Casini Ropa, Giorgio Di Genova, Jelena Hahl Fontaine, José Sasportes, Alberto Testa, Elisa Vaccarino, Patrizia Veroli, Comune di Argenta (BO): Edizioni Bora, 1991; da ultimo, si rinvia alla ricca serie di spunti e alla bibliografia offerta nel catalogo La danza delle Avanguardie. «L’artista in me, e lo studioso» 259 Dipinti, scene e costumi, da Degas a Picasso, da Matisse a Keith Haring, a cura di Gabriella Belli, Elisa Guzzo Vaccarino, Milano: Skira, 2005. 57 Wassily Kandinsky, Lo spirituale nell’arte, trad. it. a cura di Elena Pontiggia, Milano: SE, 1989, p. 83. 58 La Palucca fonda nel 1926 una compagnia di danza libera che avrà modo di collaborare proficuamente con esponenti del Bauhaus. 59 Apprezzata fra gli altri anche da Thode, come si legge nelle memorie di Cosima Wagner. 60 Se l’esuberanza degli anni giovanili gli ha creato più di qualche incomprensione con la famiglia, è pur vero che la sua curiosità insaziabile gli ha occasionato gli incontri più singolari; il resto lo ha prodotto il caso, come lo spostamento della residenza da Prinzregentenplatz – centro lussuoso della vita borghese – alla palazzina in cui abitava il poeta e drammaturgo Wedekind (ricordato del resto nel Cézanne, p. 184), che non pochi guai ebbe con la censura, per le sue idee sulla messa in scena della libertà sessuale. Fu sicuramente attratto, sia pure non assorbito, dalle manifestazioni dell’associazione teosofica, e dalle conferenze promosse da Rudolf Steiner sull’argomento. Bramava di ritornare, ogni qual volta ne aveva facoltà, sull’isola di Sylt, dove restare con la sua compagna – cito – «in costume adamitico dall’alba al tramonto», e dipingere e scrivere in spontaneo contatto con la natura. Casi analoghi ve ne furono parecchi, come quello di Edvard Munch, che si fa fotografare sulla spiaggia con pennelli e tavolozza a Warnemünde e altrove, in compagnia di altri nudisti. Cfr. le foto presentate in occasione della mostra veronese, Edvard Munch l’io e gli altri, a cura di Giorgio Cortenova e Arne Eggum, Milano: Electa, 2001, pp. 170 e 175. Clara Burger ricorda, inoltre, con malcelata gelosia, le visite che Fritz faceva alla comunità del Cavaliere azzurro a Murnau, dove la libertà regnava sovrana fra i membri del gruppo, che contava anche intriganti presenze femminili. 61 La ricerca burgeriana muove contestualmente a quella di Kandinsky, come è abbozzata da quest’ultimo nel cap. VI dello Spirituale nell’arte: Il linguaggio delle forme e dei colori. 62 Das Wesen der Farbe – mit Demonstrationen (1907), non indicato però in bollettino. Cfr. UA München, Personalia, Anlage zum Gutachten über Burgers Universitätstätigkeit. 63 Burger, Die deutschen Meister, cit., pp. 142 e 164 sg. 64 Cfr. UA München, Phil. Fak., Personalia, E II-N, Burger, Bd. 1. 65 Vd. Carte Burger, dattiloscritto composto di 21 fogli A4 di formato oblungo, i cui primi 16 sono riservati alla materia in oggetto, laddove l’intitolazione generale assegnata a questo progetto di saggio suona Zur Kunst und Wissenschaft. 66 Benno Reifenberg, lettera a Clara Burger, 23 marzo 1919, Carte Burger, Heidelberg. 67 Lettera al prof. Albert E. Brinckmann, copia non datata (ma estate 1919), in cui vi è un rendiconto sui contenuti del Nachlaß burgeriano, e specialmente una valutazione circa l’opportunità o meno di curare per la pubblicazione le diverse stesure 260 Capitolo 10 solo abbozzate della Sistematica della critica d’arte. Carte Burger, Heidelberg (trascrizione Kessler). Ma l’allievo di Burger esprime delle forti perplessità in merito. 68 Cfr. Matthias Müller-Lentrodt, “Subjektivieren mit höchster Kraft” – Carl Einstein und Fritz Burger: Über die expressionistische Wende in der Kunstgeschichte, in Die visuelle Wende der Moderne, a cura di Klaus H. Kiefer, München: Fink Verlag, 2003, qui pp. 77 sgg. 69 Cit. da Paul Cézanne, in «Mercure de France» LXIX, p. 400. 70 Cit. da Elena Pontiggia, Eliminare l’io. Note sulla pittura di Franz Marc, in Franz Marc, La seconda vista. Aforismi e altri scritti, a cura di E. Pontiggia, Milano: SE, 1999, pp. 101-119, qui p. 116. 71 Il dipinto si trova attualmente presso Birgit Burger, Villa Burger-von Duhn, Heidelberg. 72 Pontiggia, Eliminare, cit., p. 116. 73 I titoli originali suonano rispettivamente: Der Baum der Erkenntnis, altrove menzionato da Burger solo come Paradies; Sintflut, chiamato dall’Artista anche Urmeer; Es werde Licht, come già ricordato, e Das Erwachen der Seele. 74 Cfr. supra, cap. sulla Biografia intellettuale. 75 Franz Marc, La seconda vista, cit., n. 82, p. 66. 76 Birgit Burger dipinge e propone visite guidate alle bellezze monumentali di Heidelberg (come già suo nonno, di cui l’Archivio conserva una foto scattata durante una perlustrazione con i suoi studenti al locale castello nel 1912). 77 La lirica, dapprima uscita nella rivista «Der Sturm», diretta dal secondo marito della poetessa ebrea, fu scritta nel 1910, ma trovò subito consensi tali da essere variamente ristampata in molte sedi. Qui sotto il testo originale. Versöhnung: Es wird ein großer Stern in meinen Schoß fallen .../ Wir wollen wachen die Nacht,/ In den Sprachen beten/ Die wie Harfen eingeschnitten sind./ Wir wollen uns versöhnen die Nacht –/ So viel Gott strömt über./ Kinder sind unsere Herzen,/ Die möchten ruhen müdesüß./ Und unsere Lippen wollen sich küssen,/ Was zagst du?/ Grenzt nicht mein Herz an deins –/ Immer färbt dein Blut meine Wangen rot./ Wir wollen uns versöhnen die Nacht,/ Wenn wir uns herzen, sterben wir nicht./ Es wird ein großer Stern in meinen Schoß fallen. 78 Lettera di Fritz a Clara, 16 febbraio 1916 (trascrizione Erbsmehl, n. 153, p. 283), Carte Burger, Heidelberg. 79 Lettera di Fritz a Clara, 22 febbraio 1916 (trascrizione Erbsmehl, n. 155, p. 285), Carte Burger, Heidelberg. 80 Burger, Tagebuch II, Pasqua 1916 (trascrizione Erbsmehl, n. 181, pp. 332 sg.), Carte Burger, Heidelberg. 81 Cfr. Burger, Cézanne, cit., ed. 1917, pp. 177, 178, 180 sg. e 206. Le ultime lettere di Fritz dal fronte richiamano insistentemente l’attenzione della moglie su motivi teosofici, e tuttavia soltanto annunciati, il cui contenuto non ci è dato conoscere. 82 «Nicht Gott, auch nicht Seine lichte Welt ist tot, aber das Paradies deines Wesens verfinsterte sich». «L’artista in me, e lo studioso» 83 261 È un giorno totalmente dedicato alla preghiera e alla penitenza e vuole l’Ebreo, consapevole dei propri peccati, chiedere perdono al Signore. Secondo la tradizione, Dio suggella nel Kippur il suo giudizio verso il singolo. Ci si deve avvicinare a questo giorno con animo sereno e fiduciosi che la richiesta di essere iscritti da Dio nel “Libro della vita” sarà esaudita. 84 Cfr. lettera di Fritz a Clara, 6 marzo 1916 (trascrizione Erbsmehl, n. 160, p. 291; Hauck riporta erroneamente n. 159), Carte Burger, Heidelberg. 85 Marc, La seconda vista, cit., n. 84. 86 Cfr. Alfred G. Roth, Der «Blaue Reiter» und unsere Region, dal «Burgdorfer Tagblatt» del 9 gennaio 1988, p. 2. Qui si menziona la xilografia riprodotta come prestito dal patrimonio di Fritz Burger. Carte Burger, Heidelberg. 87 Paul Brandt, Sehen und Erkennen. Eine Einleitung zu vergleichender Kunstbetrachtung, Leipzig 19297, n. 767. 88 Paul Brandt fu un filologo assai stimato e dal 1910 direttore del Königliches Reformgymnasium, un Istituto unico nel suo genere per le modalità di apprendimento e per offrire, pur in un curricolo che aveva come dominanti il latino e la matematica, anche una precoce apertura all’insegnamento della Storia dell’arte secondo avanzati metodi pedagogici, comprendenti anche la proiezione di diapositive. Siffatta sperimentazione trovò ostacolo insormontabile nella politica del nazionalsocialismo. 89 Significativi confronti sono istituiti da Martina Ewers-Schultz, Die französischen Grundlagen des “Rheinischen Expressionismus” 1905 bis 1914. Stellenwert und Bedeutung der französischen Kunst in Deutschland und ihre Rezeption in den Werken der Bonner Ausstellungsgemeinschaft von 1913, Münster: Lit, 1996. 90 L’artista, originario di un borgo della Selva Nera, fu pittore e grafico (18391924), amatissimo dai suoi contemporanei. A Parigi, fra il 1867 e il 1868, conobbe fra gli altri Gustave Courbet. Dal 1870 e fino al 1876 lavora a Monaco, frequentando soprattutto Victor Müller, Wilhelm Leibl e Arnold Böcklin. Del 1874 è il suo viaggio in Italia, dove ritornerà più volte, specialmente al Nord (Venezia) e Firenze. Sullo scorcio del secolo viene nominato direttore della Kunsthalle di Karlsruhe e professore della locale Accademia. Trascorreva le sue estati nel rigenerante ambiente dello Schwarzwald, particolarmente adatto allo studio degli effetti della luce. Nella tarda produzione, oltre ai paesaggi, propone eccellenti ritratti, un numero molto alto di incisioni e dipinti caratterizzati da una forte componente allegorico-religiosa. 91 Cfr. Lili Fehrle-Burger, Erwachen der Seele. Ein unbekanntes Gemälde von Fritz Burger, dattiloscritto, p. 1, Carte Burger, Heidelberg. 92 Fritz Burger, Tagebuch eines “fahrenden” Soldaten (Diario), I, non datato (aprile 1916), Carte Burger, Heidelberg (trascrizione Erbsmehl, n. 177, qui p. 321). 93 Clara Burger, Tagebuch (trascrizione Bert Burger, p. 7), Carte Burger, Heidelberg. 94 È proprio in «Der Sturm» che nel 1912 appare la xilografia Riconciliazione di Marc. 95 Vd. Mario-Andreas von Lüttichau, Erster Deutscher Herbstsalon, in Stationen der Moderne. Kataloge epochaler Kunstausstellungen in Deutschland 1910-1962, a 262 Capitolo 10 cura di Eberhard Roters, Köln: Buchhandlung König, (catalogo della mostra, Berlin 1988), 1988, pp. 131 sgg. 96 Walden fu grande amico di Marinetti e pubblicò, in traduzione francese, il Manifesto del Futurismo e altri scritti. Erster Deutscher Herbstsalon, Galerie «Der Sturm», coordinamento di Herwarth Walden, Berlin 1913 – Esposizioni futuriste 1912- 1918, ventisei cataloghi originali riprodotti dallo Studio per Edizioni Scelte, Firenze, a cura di Piero Pacini, Firenze [rist. 1977 ca.]. 97 Si tratta dell’Offertorium. Dominica septima post Pentecostem, dal titolo Sicut in holocaustis. Come in altri frangenti, anche qui Burger oscilla fra la percezione del tragico che incombe e la “religiosa” fiducia escatologica. Non a caso ricorre il nome di Michelangelo, che evoca la lotta titanica contro l’irriducibile potenza della natura, cui fa da contraltare il confidente abbandono al proprio destino. 98 Erwachen der Seele, foglio sciolto dattiloscritto anonimo (ma verosimilmente di Lili), Carte Burger, Heidelberg. Da osservare che in quelle settimane Burger sta leggendo Platone, Plotino, scritti di teosofia (lettere di marzo e aprile 1916) e di mistica. 99 Il testo, offerto in traduzione, è parte di un articolo di giornale pubblicato dalla figlia nell’inserto domenicale della «Rhein-Neckar-Zeitung» del 28/29 aprile 1984. Se ne dà conto in questa sede, anzitutto perché ivi sono riprese, così l’Autrice, affermazioni di Fritz e quindi, per coerenza con la materia trattata, si affianca al precedente testo per poterlo compendiare, non disponendo per questo dipinto che di una sola menzione precisa – e unicamente un riferimento al titolo – in tutte le lettere burgeriane dal fronte a noi note. 100 Fritz Burger, lettera a Clara, Magonza (autunno 1915, trascrizione Erbsmehl, n. 120, p. 217), Carte Burger, Heidelberg. 101 Cfr. Hans-Ernst Mittig, Dürers Bauernsäule: ein Monument des Widerspruchs, Frankfurt a.M. : Fischer, 1984, specialmente pp. 48 e 53. 102 Nel periodo strasburghese (primavera-estate 1915) Fritz era stato sistemato nella casa dove due poeti – Arno Holz e Oskar Jerschke – trovarono ispirazione per una pièce teatrale, il Traumulus del 1904, che ebbe fin da subito enorme successo, tanto da divenire per la Germania di allora un riferimento usato. Il protagonista, il professor Niemeyer, è meglio conosciuto dai suoi studenti come il “Traumulus” (neologismo costruito sul termine Traum, sogno, visione), “il Sognatore”, che si rifiuta di applicare le rigide norme della disciplina scolastica nelle sue classi. Dalla vicenda il regista Carl Froelich trasse uno dei suoi capolavori (1936). 103 Burger cita qui una famosa cantata di J.S. Bach, BWV 80, il cui incipit è: «Il Signore è mia fortezza», dal Salmo 46,1 secondo la versione di Lutero (1529). In corsivo nell’originale. Cfr. Tagebuch V, 3 maggio 1916 (trascrizione Erbsmehl, n. 210, pp. 417-421, qui p. 420) e l’immagine riaffiora anche in un passo del 4 maggio 1916, n. 213, p. 425. Carte Burger, Heidelberg. APPENDICI FRITZ BURGER E L’EMPATIA di Nicola Curcio I. Le premesse In Fritz Burger, innanzitutto teorico dell’arte, non c’è una teoria dell’empatia (Einfühlung). Non è dato trovarla, nemmeno per cenni, neanche negli abbozzi inediti, che pure annunciano un notevole sforzo di pensiero. Tuttavia – è questa la tesi che qui si sostiene – essa costituisce di fatto una chiave privilegiata per comprendere l’unità del suo percorso di storico, critico e artista, e così, in generale, la sua stessa concezione dell’arte. Un primo giro di approssimazione in tal senso, può muovere dalla constatazione che nell’empatia fossero largamente coinvolti i suoi riferimenti più diretti, da Hildebrand a Wölfflin fra gli studiosi, da Kandinsky a Marc fra gli artisti a lui vicini. Ma è opportuno muovere da una ricognizione più ampia, che considera le premesse generali del dibattito sulla Einfühlung1 a partire dalla metà dell’Ottocento, per rinvenirne le tracce – anzi la presenza viva – negli scritti di Burger, e assistere così allo sviluppo di tali presupposti entro il suo pensiero, sino a cogliere dall’interno la necessità del risvolto pratico-artistico che ha conosciuto. Il primo a usare questo termine, certo di ascendenza romantica, pare sia stato Robert Vischer,2 il cui padre, Friedrich Theodor Vischer (1807-1887), anch’egli latore di un contributo essenziale all’elaborazione di questo orizzonte di pensiero, ne seppe ricondurre le trame non già alla pretesa origine romantica, di fatto assai derivata, quanto 265 266 Nicola Curcio all’Estetica di Hegel, e in particolare alla nozione di «simbolo» ivi discussa. All’estetica dedicò un’opera monumentale in sei volumi, pubblicata fra il 1847 e il 1857, le cui tesi di fondo, almeno relativamente all’empatia, si riassumono in un saggio pubblicato nel 1887 (anno della sua scomparsa) dedicato al concetto di simbolo.3 Il problema dell’empatia è infatti strettamente legato a quello del simbolo, nel senso originario di questo termine (symbolon) che connota l’incontro di due elementi sulla base di un’originaria unità di entrambi: l’Einfühlung ha a che fare con l’immedesimazione, cioè con il calarsi in altro, senza tuttavia essere totalmente assorbiti in esso, ma conservando la propria identità. Come è dunque possibile che un due converga in unità senza con ciò sopprimersi? Ebbene, in questo saggio di Vischer sono indicate tre possibili modalità di connessione: una prima, detta «oscura e non libera», consta nella identificazione (Identificirung),4 cioè nell’appiattimento totale nell’altro termine da parte di ciò che vi s’immedesima. La seconda possibilità comporta empatia vera e propria: l’anima si riconosce negli eventi e negli oggetti, ritrovando in essi i propri stati d’animo, sicché il linguaggio registra formulazioni quali «il mattino sorride, gli alberi sussurrano, il tuono brontola, la nube minaccia […] Esseri inanimati di ogni genere vengono dotati di volontà».5 In queste tracce si conserva insieme il contributo dell’immedesimante e dell’immedesimato, che, distinti, vi concorrono in unità, come accade nel symbolon. Vischer la definisce come un «punto intermedio» (Mitte) in cui ha luogo una sorta di «crepuscolo» (Zwielicht).6 Vi accade infatti una fusione di opposti, quali la notte e il giorno, che rappresenta l’unità di entrambi. Senza crepuscolo, è dato di aggiungere, non vi è né notte né giorno. E così, si può già dire, l’empatia è il peculiare confluire del due in uno, pur nella distinzione, sulla base del confine in cui essi trapassano l’uno nell’altro, un limite che al tempo stesso congiunge e separa. La terza forma, che Vischer chiama «del tutto chiara e libera», è quando il simbolo diventa «allegoria». L’immagine e il senso sono «collegati solo attraverso un tertium comparationis […] si pensi all’ancora, alla palma, al ramoscello d’ulivo, all’aquila», tutti simboli definitivamente codificati.7 In questo caso, il convenire in unità è solo esteriore, frutto di giustapposizione, in cui ciascuno dei termini ristà in sé. Il simbolo è di fatto solo convenzionale: il ramoscello d’ulivo rin- Burger e l’empatia 267 via alla pace come i colori dei segnali stradali richiamano a determinati comportamenti. Ebbene, il discorso di Vischer è riferibile a qualsiasi modalità del simbolo: i momenti costitutivi possono essere il conoscere e il suo oggetto, per esempio il critico d’arte e l’opera che gli sta di fronte. L’empatia si colloca a metà strada fra l’essere assorbiti nella cosa stessa – il che porterebbe all’afasia, al silenzio totale – e il coglierla a partire dall’esterno, ciò che fa l’indagine puramente storica, la quale perviene all’opera d’arte muovendo da altro, dalle circostanze esteriori della sua realizzazione, dalla figura e dalla vicenda del suo artefice, da aspetti materiali o psichici che riguardino la sua realtà oggettiva o la disposizione soggettiva di chi l’ha realizzata. In effetti, Friedrich Theodor Vischer ancorava il pensiero dell’empatia a un’esigenza di approccio all’arte a partire dall’arte stessa – e da nient’altro – che egli coglieva appunto nell’Estetica di Hegel, e in generale nel pensiero del grande idealista. Nel Cézanne und Hodler di Burger troviamo la seguente affermazione: «Ciò che Hegel esige per la filosofia come principio di ogni conoscenza critica, vale esattamente in ugual misura anche per la critica d’arte (Kunstwissenschaft). Si tratta di questo: “considerare l’oggetto secondo la necessità della sua natura propria”; negativamente si può formulare così: prescindere da tutte le ingerenze delle accidentalità del pensiero raziocinante, rinunciare a ogni presunzione ed escogitazione soggettiva di una qualche realtà postulata». 8 Bisogna appunto considerare l’oggetto, senza perdersi in esso, ma anche senza ricorrere a qualcosa d’altro, che esso non è. Si tratta di una formulazione assimilabile al motto fenomenologico «Zu den Sachen selbst» (alle cose stesse!), così come era rinvenibile in un autore come Husserl, che proprio nel Cézanne Burger mostra di conoscere, citandone un ampio passo.9 In questo senso specifico, il critico d’arte dev’essere filosofo: proprio nella critica d’arte deve realizzarsi un intero, senza assorbimento della critica nell’arte, né separazione e approccio estrinseco. Ma anche l’artista, del pari, è filosofo: «Infatti, i grandi artisti sono sempre al contempo filosofi, che possiedono una propria conoscenza del mondo. “L’arte è l’unico organo vero ed eterno e al tempo stesso documento della filosofia”, dice Kant».10 268 Nicola Curcio In questa prospettiva si spiega l’enunciato con cui Burger entra di fatto nel vivo del tema dell’immedesimazione: «nell’arte bisogna saper pensare con l’artista per comprendere ciò che intende con natura e ciò che, configurando, afferma su di essa».11 L’arte va compresa, in ciascun suo fenomeno, secondo la natura sua propria. Ma per quanto riguarda la nozione di «natura», è necessario ricorrere alla precisazione di Burger nel saggio introduttivo alla prima edizione della guida alla Schackgalerie di Monaco, laddove afferma che, si presume, oggetto dell’arte sia, in generale, la natura: «Ma ciò presuppone che si sappia che cosa sia “natura” e sin troppo facilmente si dimentica che questa è l’eterna domanda cui ogni pensiero e ogni agire cercano di rispondere. Tutta la conoscenza non è che una teoria su questa “natura”, un tentativo di comprenderla all’interno di un qualche ordine. La “natura” può essere compresa solo nella natura del nostro pensiero, mai nell’essenza sua che a noi si contrappone. Ciò vale per artisti e “pensatori”».12 La natura si costituisce solo nell’atto configurativo che vi si confronta, risiede – anticipando quanto emergerà in seguito – nel punto d’intersezione fra congiungere e separare insieme (Trennen und Verbinden zugleich), che è proprio del «Gestalten», comune al fare artistico e al pensiero. La natura è appunto nell’intero, ma non in un suo presunto stersene per sé oggettivabile al di fuori dell’azione configuratrice dell’arte o del pensiero. Il congiungere e separare insieme è il luogo della «Zwielicht», in cui, ricordando Vischer, accade empatia. L’arte va intesa a partire dalla sua natura, non da qualcosa d’altro. È questo il principale capo d’imputazione da parte di Burger contro la tradizione degli studi, da lui più volte formulato nelle lettere e negli scritti editi e inediti. Nemmeno la teoria dell’empatia sembra salvarsi da tale accusa di approccio estrinseco alla cosa, dal momento che nel suo più celebre esponente, Theodor Lipps (1851-1914), la Einfühlung si presenta come una dottrina psicologica, come la declinazione di una «psicologia pura», che muove dalla psiche – condizione del percepire – e quindi da qualcosa di estraneo alla creazione artistica.13 Quello di Lipps è un concetto di empatia di tipo meccanicistico, «idraulico». Scrive infatti: «L’oggetto estetico non ha solo una forma, ma ha anche un contenuto. Questo contenuto è sempre un contenuto psichico. Esso penetra negli Burger e l’empatia 269 oggetti estetici per mezzo dell’“empatia”». «L’empatia si compie in vari modi e riempie (erfüllt) gli oggetti estetici di un contenuto vario. Ma questo contenuto è sempre ricavato dalla stessa fonte: quella della mia auto-attivazione (Selbstbetätigung)». «Riempio ovunque la natura di impulsi, attività e forze. Ma è chiaro che solo io la riempio con ciò».14 È proprio per l’ostilità nei confronti di tale psicologismo di marca meccanicistica e positivistica che la scuola husserliana muove una decisa critica a Lipps, finendo però per ridurre le dimensioni dell’empatia alla sola immedesimazione nel vissuto altrui, come accade in Edith Stein.15 Nel lascito di Heidelberg è presente una porzione di lettera dattiloscritta di Burger a Friedrich von Duhn, databile al 1909, nella quale Fritz prende le distanze da Lipps e dalla sua empatia, riconoscendosi in lui solo per l’acceso antistoricismo. Il foglio conservato inizia con queste parole: «…non può proprio annoverarsi nella sua teoria dell’empatia. Nel caso dell’arte e della psicologia dei popoli, del resto, Lipps è assolutamente in linea con me, posto che lui stesso è contrario al materialismo storico nell’attuale storiografia artistica e osteggia la valutazione eccessiva delle ricerche minuziose. Non sono portato alla “storia” in tal senso; devo inoltrarmi in ambiti in cui sono certo di poter produrre cose buone. E spero che questa sia la via dell’avvenire».16 Alla visione psicologistica dell’empatia propria di Lipps si richiama direttamente ed espressamente Wilhelm Worringer, che nella sua fortunata dissertazione pubblicata da Piper a Monaco nel 1907 (il frontespizio reca la data 1908), Abstraktion und Einfühlung, contrappone due modalità di approccio psichico al mondo, ricondotte all’impulso all’astrazione e all’empatia, laddove con questo termine intende 270 Nicola Curcio la fusione con l’ambiente circostante, nel senso di una identificazione e conciliazione con esso, e, in chiave più specificamente estetica, «il godimento estetico oggettivato di noi stessi».17 II. L’empatia animata Non è la declinazione lippsiana e worringeriana dell’empatia quella alla quale ricondurre gli approcci burgeriani all’opera d’arte. È piuttosto all’opera di Heinrich Wölfflin che si deve guardare. Lo studioso svizzero si era confrontato con questo tema sin dal maggio del 1884, quando, ancora studente – in quell’anno a Basilea – tenne un Referat nell’ambito del corso accademico di Johannes Volkelt (1848-1930) sul metodo psicologico dell’empatia. È dunque per tramite di Volkelt che Wölfflin perviene a questa tematica, che di lì a poco avrebbe sviluppato nella tesi di laurea Prolegomena zu einer Psychologie der Architektur redatta nel 1886. In Volkelt Wölfflin ritrova, assieme ai suoi filosofi di riferimento, Kant e Schopenhauer,18 anche il portato del precedente dibattito in materia di empatia.19 Anch’egli valente teorico della Einfühlung, Volkelt aveva ripreso proprio la declinazione simbolica dell’empatia, nel suo libro del 1876 sulla nozione di simbolo nell’estetica contemporanea.20 Come enuncia il richiamo spiccatamente kantiano del titolo della dissertazione wölffliniana, l’intenzione del giovane studioso è di tipo fondativo: istituire lo studio dell’arte come scienza. Il riferimento alla psicologia non è riconducibile alla versione di Lipps, quanto al magistero di Wilhelm Dilthey, frequentato da Wölfflin a Berlino nel 1885/86, il quale lo convinse della necessità di una «fondazione psicologica delle scienze».21 Senza realmente comprendere gli scritti di Robert e Theodor Vischer, che conosce solo indirettamente, per tramite di Volkelt, Wölfflin dichiara di aderire interamente alla teoria di quest’ultimo,22 ma di fatto sottolinea più ancora del maestro la base fisiologica dell’empatia,23 sino a formulare, evidenziato in corsivo, il principio secondo il quale «la nostra organizzazione corporale (leiblich) è la forma entro la quale afferriamo (auffassen) tutto ciò che è corporeo (körperlich)».24 Si tratta di un passo denso di significato, perché ricorre a una finezza linguistica di cui peraltro la lingua italiana è sprovvi- Burger e l’empatia 271 sta, e che svolge invece un ruolo determinante nella corretta interpretazione dell’intento wölffliniano. Il Leib proprio dell’umano esprime una corporeità che non è mai riducibile al puro e semplice corporeo (körperlich) del mondo circostante, animato o inanimato che sia. Solo al Leib si addice lo auffassen, che è insieme un ghermire, accogliere e ricevere, irriducibile a moto meccanico e sempre anche psichico. La fisiognomica dell’architettura inaugurata da Wölfflin con la sua dissertazione è una forma di psicologia affatto diversa dalla declinazione idraulica lippsiana. Fra il Leib, che è inestricabile unità psicofisica – e con ciò indistinguibilità di forma animante e materia animata – e il corpo architettonico, in cui v’è opposizione fra materia e forma (nel senso che le due vi sono esteriormente congiunte, per mezzo dell’arte), non ci può essere appiattimento dell’uno sull’altro, cioè una immedesimazione sul modello della Identificirung di cui parla Friedrich Theodor Vischer, anche perché Wölfflin ricusa il solo percepire passivo, «insufficiente a fissare un ordine delle percezioni, senza che vi sia una spontaneità dello spirito conoscente».25 Vi può bensì essere – ed è di fatto attestato – un approccio estrinseco di tipo storiografico, di fronte al quale è nota la refrattarietà di questo studioso. Una risposta alla domanda sulle forme architettoniche come espressione può essere tentata, ricorda Wölfflin, sia sul piano soggettivo che su quello oggettivo, e in entrambi i casi si è rivelata unilaterale,26 anche perché il soggettivo non è mai solo spirituale, ma ha una base materiale che lo accomuna all’oggettivo, e l’oggettivo non è mai solo materiale, ma ha una forma spirituale che lo accomuna al soggettivo. In sostanza vacilla la distinzione soggettivo-oggettivo, e in definitiva anche la concezione dell’uomo come animal rationale, in quanto tende a separare e persino a contrapporre due sfere, anziché mirare al loro fondamento unitario. Lo Auffangen del körperlich da parte della Leiblichkeit si colloca nella zona comune, da cui traggono luce ambedue (Zwielicht), il momento corporeo e quello corporale: «Per quanto non vi siano somiglianze fra una casa e una figura umana, nelle finestre troviamo organi analoghi ai nostri occhi»; «L’arco tondo è notoriamente più felice di quello a sesto acuto: quello si sfoga serenamente – una sazia rotondità; questo è in ogni sua linea volontà, sforzo senza posa, che sembra voler condurre sempre più in alto la fenditura del muro».27 272 Nicola Curcio Soltanto successivamente, in seguito alla lettura del lavoro capitale di Hildebrand, Wölfflin accoglierà istanze purovisibilistiche, mai disgiunte, tuttavia, dalla presenza del sottofondo empatico corporale elaborato nella dissertazione ottocentesca, tant’è che le categorie storico-artistiche che lo hanno reso famoso, discendono proprio da questo orizzonte. Già Robert Vischer, nei suoi scritti di teoria dell’Einfühlung, distingueva due modalità di approccio alle forme: «la prima è un tracciare linee, in cui con la massima precisione io mi assicuro dei contorni, per così dire con le punte delle dita; la seconda – quella naturale, su cui si riflette di meno – è invece un puntare alle masse, per cui ripercorro in certo qual modo con la mano aperta le superfici».28 Del resto, lo stesso Hildebrand non è a propria volta scevro da istanze empatiche, ed è egli stesso influenzato da Vischer e dal giovane Volkelt quando nel Problema della Forma afferma che: «con la percezione dei segni ci rappresentiamo il processo, lo sentiamo interiormente, per così dire partecipandovi», sicché le apparenze «sono da noi animate».29 Tornando a Wölfflin, come ha opportunamente formulato Gottfried Boehm, valutando la connotazione kantiana del suo intento fondativo, e riannodandolo all’esperienza di Konrad Fiedler, il suo merito consiste nel voler «cogliere l’organizzazione psico-fisica (antropologica) dell’uomo come il nuovo apriori».30 Laddove Wölfflin, sulla scia di Volkelt, intende la relazione empatica come un’«animazione» (Beseelen), questo termine non ha nulla a che fare con l’animazione (Beleben) che caratterizza la vivificazione psichica di forme morte, che già ricorre in Robert Vischer, ma che assume vigore nel quadro del modello «idraulico» dell’empatia. Il Beseelen è termine che circoscrive l’intero di un duplice moto di animazione, a parte objecti e a parte subjecti: l’architettura empatizzata anima lo spettatore, inducendo in lui moti su base corporale, e lo spettatore vive il fenomeno architettonico come animato, sicché «di fronte al Ministero delle Finanze di Monaco non possiamo sottrarci all’impressione che aggrotti la fronte, mentre un Palazzo Strozzi, con la sua ampia muratura superiore, nonostante l’uso della rustica sortisce un effetto non già d’indignazione, ma solo di importante gravità».31 Affermazioni di questo tenore si trovano nell’opera non solo giovanile di Wölfflin. Ad esempio, nella monografia del 1931, laddove descrive Burger e l’empatia 273 certi tratti dell’architettura nordica (a differenza di quella italiana), richiama il modo «in cui il tetto è modellato» sicché esso, «a mo’ di cappello, si abbassa in modo diverso sulla fronte».32 Questo esempio richiama una tendenza di Wölfflin – che si annuncia sin dalle prime righe dei Prolegomena33 – a ricorrere all’empatia come a una bussola per interpretare certe differenze stilistiche, come quella fra Rinascimento e Barocco. Nella transizione fra questi stili egli vede un passaggio dal rigoroso e libero al pittoresco, e dalla forma normata alla forma libera, insomma dall’essere all’apparire.34 Si tratta, a ben vedere, delle due anime che albergano nel petto di Burger, quella razionale, astratta, descrittiva, apollinea e quella emotiva, empatica, entusiasta, dionisiaca. Sono questi gli aspetti che indurranno Clara Burger ad annotare nel proprio diario, da un lato che «davanti alle opere d’arte lasciava che queste lo afferrassero e gli infiammassero parole e gesti», dall’altro che «era troppo artista perché in lui il dionisiaco non sopraffacesse, per così dire dall’interno, il carattere apollineo dell’osservazione».35 L’empatia di Burger è di tipo wölffliniano, almeno sino a quando si è occupato prevalentemente di arte italiana, soprattutto nella monografia del 1909 sulle Ville di Andrea Palladio; e fino a quando «sembra che l’artista Burger abbia avuto partita vinta sullo storico dell’arte Burger».36 In questa fase si riscontra in lui quella che potremmo chiamare una «empatia animata», nel senso del wölffliniano Beseelen. In seguito, Burger s’inoltrerà nel periglioso cammino che conduce a quella che emergerà nei suoi tratti portanti come una «empatia totale». Non è difficile, ora, esemplificare l’ascendenza della cifra empatica del Monacense dallo studioso svizzero, almeno nel suo principale scritto di architettura di questo periodo, quello appunto dedicato al Palladio. Lo ha già fatto magistralmente Elena Filippi nel saggio introduttivo alla sua traduzione del Die Villen des Andrea Palladio.37 Come annota la studiosa, Burger esperisce l’insieme architettonico «come un organismo antropomorfo, che si muove, respira, si slancia, soffre; la cupola sembra nascondersi timidamente fra le pieghe del tetto, o pavoneggiarsi spavalda. […] Finestre che si allontanano “ansiose” dal portico, scale che si arrampicano “timide”, e la villa di Meledo 274 Nicola Curcio “sembra invitare il visitatore, giocando ad abbracciarlo e insieme a ritrarsi, superbamente inaccessibile”». 38 Si tratta appunto di una movenza empatica di stampo wölffliniano, che motiva pure la benevola recensione che lo studioso svizzero riservò al volume.39 III. L’empatia assoluta Ciò che distingue Burger rispetto al più anziano e celebre collega è, innanzitutto, quella passione filosofica per l’intero, quella volontà di afferrare l’opera d’arte come un tutto che gli impedisce di procedere sistematicamente e secondo paradigmi, come tende a fare Wölfflin. È proprio questo anelito all’intero che quest’ultimo apprezzò in Burger, quando disse, all’indomani della sua scomparsa, ricordandolo all’Università: «Chi come lui ha attinto a una pienezza, in cui ha messo in gioco tutto, ha fatto della sua vita un intero, anche se ha dovuto morire giovane».40 Ebbene, come si realizza in Burger l’intero, ovvero la circolarità di arte, artista, critico, fruitore? Che ruolo vi ha l’empatia, e in che senso si può evincere negli ultimi turbinosi anni della sua attività una nozione di Einfühlung che procede oltre il Beseelen di ascendenza wölffliniana? In una testimonianza di Clara Burger, relativa alle motivazioni del laboratorio pratico, si riporta la seguente affermazione di Fritz: «Per spiegarvi questo disegno di Michelangelo, dovrei essere Michelangelo io stesso. Ma Michelangelo non avrebbe dato interpretazioni, ne avrebbe fatto uno di nuovo».41 Diverso è il ruolo interpretativo dello studioso e dell’artista. Anche l’artista interpreta. L’opera d’arte è un giudizio sulla natura, come si evince dal saggio sui Princìpi della critica d’arte posto a introduzione del volumetto sulla Schackgalerie. E una volta che sia prodotta, l’opera d’arte appartiene essa stessa alla natura – «Auch das Unnatürlichste ist Natur», afferma Goethe, citato da Burger42 – ed è così passibile d’interpretazione tanto da parte dell’artista che del critico: si è visto infatti, che essa «può essere compresa solo nella natura del nostro pensiero, mai nell’essenza sua che a noi si contrappone», e appun- Burger e l’empatia 275 to «ciò vale per artisti e “pensatori”».43 Che cosa differenzia in tal senso artisti e pensatori? Una frase di Cézanne, che Burger pone in calce alla sezione principale della monografia del 1913 – di cui riprende il sottotitolo «Probleme der modernen Malerei» – recita: «L’arte si rivolge a un numero estremamente limitato di individui».44 Costoro, cui l’arte si indirizza, sono gli artisti. L’arte si dispone loro rivelandosi e chiamandoli a sé. L’artista, in quanto realizza l’opera, s’immedesima in questo appello. Se è vero, però, che l’arte si rivolge a pochi, molti sono coloro che possono rivolgersi all’arte. Questi non sono artisti, e tuttavia «nell’arte bisogna saper pensare con l’artista per poter capire che cosa intende con natura e ciò che egli enuncia su di essa con il proprio configurare (Gestalten)».45 Bisogna cioè immedesimarsi nell’artista: attraverso le sue lezioni, Burger conduceva l’uditorio a contatto con l’opera d’arte, quasi facendolo riemergere in un altro luogo. Questo era pure lo scopo del Praktikum monacense. Ma come e perché ciò è possibile? Nel breve testo già citato del 1912 sui Princìpi fondamentali Burger afferma che la scienza dell’arte consta di «un’approfondita considerazione metodologica dell’arte (eingehende methodische Betrachtung)»,46 di un addentrasi che si concreta in una compenetrazione. E l’osservare, il Betrachten, deve avvenire (anche questo è già emerso) a partire dalla cosa stessa. È dunque necessario che fra l’atto di addentrarsi e il suo luogo vi sia alcunché di comune, che permetta all’addentrarsi di non pervenire alla cosa per così dire dal di fuori, dall’esterno, ma dal di dentro, risuonando all’unisono con essa medesima. Il terreno comune è il Gestalten, il «configurare», posto che, come afferma l’incipit del testo, «L’arte non è né oggetto di fede né questione di gusto, bensì è una questione di conoscenza. Infatti tutto il pensiero umano è un configurare e ogni configurare è insieme un separare e congiungere». Laddove l’arte traccia segni che separano e congiungono, è un pensiero che configura; quando la scienza, concretandosi in enunciati, separa e congiunge, è pur essa un pensiero configurante. Sicché l’espressione Kunstkritik (intesa come l’essenza della Kunstwissenschaft) congiunge termini che si coappartengono, che si immedesimano l’uno nell’altro, senza identificarsi e senza giustapporsi. La loro comunanza e differenza si esprime nelle parole di Burger: «Ciò che l’artista conosce configurando, la scienza cerca di configu- 276 Nicola Curcio rarlo conoscendo».47 L’arte è conoscenza, enunciato, che dice la cosa in se stessa e da se stessa; non la smembra nei segni convenzionali, cui pure ricorre. Così la critica, nei confronti dell’arte. Ma il terreno configurativo comune ai momenti costitutivi della Kunstkritik presuppone a sua volta una volontà della critica di approcciare l’arte, e pure dell’arte di aprirsi all’approccio della critica. L’arte si rivolge a pochi, chiedendo che essi vi si immedesimino, ma l’opera d’arte s’indirizza al critico, appellandosi alla sua facoltà di compenetrazione. Se si riflette sul tedesco Ein-fühlung si osserva in effetti che da esso promana e in esso si radica la specularità di distinti che si manifesta nella Kunstkritik quale è sbozzata nelle parole di Fritz Burger. Il prefisso «Ein–» allude già all’intero della Einfühlung: nomina sia l’unità, sia lo Eingehen, l’addentrarsi. E questi due significati sono inseparabili perché non è possibile alcun addentramento se non vi è un terreno unitario, comune. D’altro canto, però, se lo Ein– che significa unità fosse spinto sino all’identificazione, non sarebbe più possibile il penetrare di qualcosa in qualcos’altro, che presuppone appunto l’alterità fra ciò che si addentra e ciò in cui fa ingresso. Il «Fühlen» contiene dal canto suo parimenti l’intero dell’empatia, la rispecchia e chiarifica. Il suo fondamento è nel toccare. E per Hildebrand, come per Wölfflin, ma anche per Robert Vischer, laddove tratteggia di fatto la genesi del lineare e del pittorico – e quindi, sostanzialmente, nella dottrina dell’empatia – il vedere è un’estensione del toccare. Nel tatto – ed è ciò che lo caratterizza rispetto alla vista, all’udito e all’olfatto – il medio attraverso cui il senso si attua è in certo qual modo tolto, e vi è contatto, immedesimazione nella differenza, fra senziente e sentito. Del resto, nella sua duplicità, anche lo «Ein–» ridonda nel Fühlen: il ricadere del molteplice nell’uno, il fare tutt’uno da parte di una molteplicità, è detto da Eraclito harmoní, parola tradotta in tedesco con Stimmung. La Stimmung, «intonazione» o «tonalità emotiva», è ciò senza cui non v’è alcun vero e proprio sentire, è conditio sine qua non del Fühlen. Le componenti dell’empatia s’immedesimano così dall’interno l’una nell’altra, senza appiattirsi nell’identificazione. Burger e l’empatia 277 Nella Einfühlung c’è la possibilità più recondita del venire insieme di unità e di sentire, un sentire che comporta un’unità primigenia, sul cui terreno s’incontrano la Kunst e la Kritik. Il fondamento nascosto della critica d’arte, quale Burger la intende, è così nell’empatia. * * * Si potrebbe obiettare che questa è una teoria di cui non v’è traccia esplicita in Burger. Ma non è così. Se è vero che la Kunstkritik come Gestalten e il Gestalten come «Trennen und Verbinden zugleich» sono da lui teorizzati, la Einfühlung è invece mostrata, esperita. Dice Kandinsky che «comprendere è formazione dello spettatore, che lo approssima al punto di vista dell’artista».48 Ma questa approssimazione può essere superata, in Burger, laddove lo spettatore sia egli stesso fra quei pochi cui l’arte si rivolge. Lungo questa via Burger attraversa rapidamente tre fasi nel breve volgere di pochi mesi che precedono la sua morte sulla piana di Verdun. In un primo stadio egli interpreta, da artista, la «natura», essendo non già artista oltre che critico, bensì il primo proprio in virtù del secondo. Si immedesima nel fare creativo, conducendo se stesso là dove voleva guidare i propri studenti per mezzo del Praktikum monacense. In ciò, Burger differisce da Hildebrand, che era artista e anche critico, e che certo fu favorito in questa veste dalla sua personale esperienza di scultore, ma perseguì finalità affatto differenti, da una parte poietiche, dall’altra conoscitive. E si diversifica pure da Kandinsky, le cui opere sono spesso sedimentazioni di pensieri teorici. In una seconda fase, che coincide cronologicamente con la prima e anzi ne discende come un corollario, il Burger critico s’immedesima nel Burger artista, riuscendo così, mediante questo stratagemma, a vedere e interpretare il mondo davvero con gli occhi di quest’ultimo, perché l’artefice di cui si tratta è lui stesso, Fritz Burger. E su questo comune terreno convergono le distinte attività del pensare critico e del fare artistico, con la garanzia che tale incontro non è estrinseco, ma 278 Nicola Curcio necessario, e che l’arte è esplicitata a partire dal suo stesso fare, anzi dalla fonte che l’ha generata. C’è un terzo, drammatico momento, di cui rimane una sola testimonianza: il piccolo dipinto a olio della primavera del 1916, raffigurante la radura in cui fu ucciso l’amico pittore Franz Marc. Marc aveva scritto che «i quadri sono il riemergere in un altro luogo»,49 cioè, in altre parole l’essere sé in altro: Einfühlung. Nei suoi numerosi dipinti di caprioli nel bosco, la natura è vista con gli occhi degli animali. È quanto affiora anche dalle pagine appassionate che Burger dedica a Marc nel Cézanne und Hodler.50 Per inciso, Martin Heidegger si chiederà, in una celebre Vorlesung friburghese del semestre invernale 1929/30: «Possiamo trasporci nell’animale? Che cosa è per noi autenticamente problematico? Nient’altro che questo: se riusciamo ad accompagnarci con l’animale nel modo in cui esso ascolta e vede. […] Non è affatto problematico che l’animale, in quanto tale, porti in qualche modo con sé una tale sfera di trasponibilità. Problematica è solo l’effettiva riuscita del nostro trasporci in questa sfera determinata».51 Una risposta a tale questione è certamente contenuta nei dipinti di Franz Marc. Ma è possibile immedesimarsi in un altro uomo? La domanda è ampia, e solo nel 1917 avrebbe preso il volo nella magistrale indagine di Edith Stein. A tal proposito vi sono parole esplicite di Burger: «Nessun uomo sente (fühlt) nell’altro uomo una vibrazione (Schwingung) senza averla già in sé medesimo».52 Negli ultimi mesi sofferti della sua vita al fronte, il linguaggio delle sue lettere si fa sempre più empatico, oltre che mistico, pittorico e musicale: in una missiva alla moglie, dell’aprile 1916, le attribuisce una «feine Einfühlungsmöglichkeit», una fine dote empatica;53 fra aprile e maggio ricorre spesso il termine Brücke in senso figurato, come un ponte fra l’anima propria e quella di Clara, che dice di sentire dentro di sé, e sé in lei. Lo testimoniano le sue letture, fra cui anche il libro del 1913 di Scheler nel quale la nozione di Einfühlung è rivisitata come Einsfühlung (unipatia).54 Burger leggeva il Golem di Meyrink, donde citava quasi testualmente nel riformulare la prefazione del volume sulla Schackgalerie. Proprio in questo scritto leggeva un’affascinata formulazione dell’empatia: «Tutto ciò che questo Athanasius Pernath ha vissuto, nel Burger e l’empatia 279 mio sogno l’ho vissuto anch’io; in una sola notte l’ho visto, udito, patito anch’io, come se fossi lui».55 Ma, almeno nel campo dell’arte, è a questo orizzonte empatico che mirano gli sforzi di Burger, sia come interprete, che come ideatore del laboratorio pratico: «pensare l’arte con l’artista». Nella primavera del 1916 egli dipinse un piccolo pastello (30x48 cm), attualmente in possesso della nipote Birgit a Heidelberg. FRITZ BURGER: LA RADURA DOVE MORÌ FRANZ MARC, 1916 Marc era morto in un «radioso pomeriggio» sul far della primavera, il 4 marzo 1916, travolto da una doppia granata francese nei pressi di Verdun, come racconta un commilitone.56 Così scrive Klaus Lankheit: «Fritz Burger, che a quel tempo si trovava a Magonza in seguito a una ferita riportata, fu assai sconvolto dalla notizia della morte di Franz Marc, diffusa telegraficamente quel giorno stesso. Ancora profondamente scosso dalla scomparsa dell’amico, colse la prima occasione per raggiungere a cavallo, sul fronte occidentale, il luogo in cui era caduto Franz Marc, fissando in un dipinto quella radura boschiva».57 Questa volta, nel bosco non ci sono i caprioli, al cui modo d’essere, da lui empatizzato, Marc piegava l’apprensione della natura nei 280 Nicola Curcio suoi quadri: «Le corna del cervo non si distinguono dai rami; la cerbiatta, di un bianco visionario, è come un’apparizione di sogno sul fondo blu. Non giace propriamente al suolo, ma si staglia come una macchia contornata di colore rispetto al terreno, che possiede una sagoma simile […] in modo da rendere questa pacifica, idillica prossimità di esseri affini, sopprimendo la comune opposizione fra l’organico e l’inorganico degli oggetti a favore di una loro unità sensibile».58 È tolta, perciò, come è lo stesso Burger a notare, la distinzione fra organico e inorganico in cui Worringer fondava la sua distinzione fra empatia e astrazione. È soppressa e risolta nella prima, nell’unità sensibile (unità di differenti), cui anche la seconda, peraltro, va ricondotta. La radura dipinta da Burger è il bosco «di» Marc. Fra i due gruppi di alberi, ripassati di rosso cupo, si apre uno scenario deliberatamente vuoto, dove si nota solo un’informe macchia rossa (si racconta che Marc perse molto sangue prima di morire),59 il cui profilo convesso si riproduce in quello del manto erboso e, più sopra, già accompagnato dal doloroso zigzagare verso il cielo, sul contorno delle cime degli alberi. Un accenno di luce sull’erba, potenziato dal moto degli alberi, vuole condurre lo sguardo sullo sfondo, verso la sinistra, ma a impedirlo è il fitto bosco di latifoglie in primo piano, pesantemente e rozzamente ripassato in rosso, quasi con la punta delle dita intinte nel sangue (tuttavia non in chiave lineare, ma pittorica). La conifera sulla destra sembra vibrare verso il basso i suoi cupi strali, verso la macchia: quattro colate di spine. In primo piano, in basso, una scia bianca: non può essere un sentiero, perché s’interrompe contro il tronco dell’albero. Agisce come un candido sudario in cui trascolora quella chiazza di vita che per l’ultima volta s’è inarcata, irradiando verso l’alto. Tutto freme. La radura è vista, questa volta, immedesimandosi con il pittore che muore, che da artista coglie i colori e per l’ultima volta traccia confini, anima lo spazio, unisce e separa a un tempo, come fa l’attimo della morte, che sfuma nel tono indistinto, vibrante e angoscioso, di una selva, redenta dall’arte: «Nessun uomo sente nell’altro uomo una vibrazione senza averla già in sé medesimo». Burger e l’empatia 281 Qui, però, l’empatia è assoluta: in essa è tolta ogni frattura e separazione, anche quella fra lo studioso e l’artista, persino quando i due siano identici, nella medesima persona. Non sono le parole a empatizzare le immagini – il che lascia comunque un margine di differenza – ma l’immagine stessa. A essere empatizzato è insieme l’uomo e l’artista: nel momento in cui Fritz s’immedesima nell’amico, lo fa intonandosi al suo modo d’essere, che sta nel calarsi nell’altro senza appiattirvisi – lo stile è di Burger, non di Marc – senza approcciarlo dall’esterno, ma incontrandolo empaticamente. Fritz Burger, lo studioso e l’artista, l’apollineo e il dionisiaco, si ritrovano qui. Pure il “filosofo”, se la filosofia, con Platone, è un pensare alla morte, che separa e magari congiunge. È forse vero che, da ultimo, l’artista ha preso il sopravvento sullo studioso, e ciò può essere nuociuto alla sobrietà, alla scientificità e credibilità di quest’ultimo. Tuttavia, l’artista raggiunge e invera ciò cui il critico stesso mirava: vedere, nell’arte, con gli occhi dell’artista. A ragione Wölfflin poté affermare, con ammirazione e non senza un pizzico d’invidia, che la sua vita, pur breve, ebbe a realizzare un intero. 282 Nicola Curcio N OTE 1 Il tedesco Einfühlung è comunemente tradotto con l’italiano «empatia» o «immedesimazione». Sulla sua riccheza semantica si tornerà all’interno del presente saggio. L’attenzione sul ruolo dell’Einfühlung nell’evoluzione delle avanguardie artistiche è stata richiamata con forza già da Morpurgo Tagliabue, il quale è giunto a ipotizzare che «l’Einfühlung possa considerarsi la prima vera cultura dell’espressione»: Guido Morpurgo-Tagliabue, L’esthetique contemporaine, une enquête, Milano: Marzorati, 1960, p. 46. Più recentemente, Andrea Pinotti, a cura di, Estetica ed empatia. Antologia, Milano: Guerini, 1997. 2 Hermann Glockner, Friedrich Theodor Vischer und das neunzehnte Jahrhundert, Berlin: Junker und Dünnhaupt, 1932, pp. 228, 237. 3 Friedrich Theodor Vischer, Das Symbol, in Philosophische Aufsätze Eduard Zeller zu seinem fünfzigjährigen Doctor-Jubiläum, Leipzig 1887, pp. 153-193; trad. it. di Francesca Marelli in Andrea Pinotti, Estetica, cit., pp. 141-175. Su ciò si veda, ivi, il saggio di Pinotti, Arcipelago empatia. Per una introduzione, pp. 9-59, soprattutto pp. 36-40. 4 Vischer, Das Symbol, cit., p. 158, trad. it. p. 145. 5 Ivi, p. 167, trad. it. p. 153. 6 Ivi, p. 166, trad. it. p. 152. 7 Ivi, p. 190, trad. it. p. 172. 8 Fritz Burger, Cézanne und Hodler. Einführung in die Probleme der Malerei der Gegenwart, München: Delphin Verlag, 1913, pp. 15-16. La citazione riportata da Burger è tratta da un sunto del pensiero hegeliano nella serie «Große Denker» (II, p. 214). 9 Cfr. ivi, pp. 137-138, dove cita dal saggio Philosophie als strenge Wissenschaft. 10 Ivi, p. 10. 11 Ivi, pp. 9-10. 12 Fritz Burger, Prinzipielles über künstlerische Kritik, in Id., Die Schackgalerie München, München: Delphin Verlag, 1912, pp. 11-14, qui p. 13. Il testo è riprodotto in originale e in traduzione italiana in questa stessa appendice. 13 Sulla nozione di empatia in Theodor Lipps, e più in generale sul suo pensiero, oltre al già citato lavoro antologico di Pinotti, Estetica ed empatia, soprattutto alle pp. 40-44 e 177-217, si veda anche Maria Rosaria De Rosa, Theodor Lipps: estetica e critica delle arti, Napoli: Guida, 1990 e il numero monografico della rivista «Discipline Filosofiche» XII/2 (2002), Una «scienza pura della coscienza»: l’ideale della psicologia in Theodor Lipps. Per lo specifico dell’empatia, vi sono raccolti due saggi lippsiani, commentati da Andrea Pinotti 14 Theodor Lipps, Ästhetik, in AA.VV., Systematische Philosophie, BerlinLeipzig: B.G. Teubner, 1908, pp. 351-390, cit. dalla trad. it. di Paola Galimberti Estetica in Pinotti, Estetica, cit., pp. 177-217, qui pp. 183-185; si veda pure Andrea Pinotti, Stimmung ed Einfühlung. Modello idraulico e modello analogico nelle teorie dell’empatia, in Atti del convegno “Estetica fenomenologica”. Reggio Emilia, 29-31 Burger e l’empatia 283 ottobre 1997, a cura di Roberto Poli e Gabriele Scaramuzza, Firenze: Alinea, 1998, pp. 347-364. 15 Edith Stein, Zum Problem der Einfühlung, Halle: Buchdruckerei des Weisenhauses, 1917, repr. München: Kaffke, 1980, trad. it., Il problema dell’empatia, a cura di Elio Costantini, Roma: Studium, 1988. 16 Fritz Burger, foglio sciolto, firmato, di una lettera non datata a Friedrich von Duhn, Carte Burger, Heidelberg. Ringrazio Elena Filippi per questa segnalazione. 17 Wilhelm Worringer, Abstraktion und Einfühlung, München: Piper, 1908; trad. it. di Jolanda Nigro Covre, Astrazione ed empatia, Torino: Einaudi, 1975, p. 26. Si veda anche, ivi, l’Introduzione della Nigro Covre, pp. VII-XLI. Su Worringer e l’empatia cfr. Pinotti, Estetica, cit., pp. 44-47 e 219-228. 18 Cfr. Meinhold Lurz, Heinrich Wölfflin: Biographie einer Kunsttheorie, Worms: Werner, 1981, p. 54. 19 Come ha mostrato nella sua fondamentale monografia il Lurz, Wölfflin ebbe dei due Vischer solo una conoscenza indiretta, mediata dalla lettura di Volkelt, e giunse così motu proprio a sviluppare una teoria dell’empatia sostanzialmente affine a quella dei due studiosi; cfr. ivi, pp. 71 sgg. 20 Johannes Volkelt, Der Symbol-Begriff in der neuesten Ästhetik, Jena: H. Dufft, 1876. Su Volkelt cfr. Pinotti, Estetica, cit., pp. 47-51 e pp. 229-260 (in cui viene riportato un capitolo della successiva Theorie der ästhetischen Einfühlung. 21 Vd. Frank Büttner, Das Paradigma “Einfühlung” bei Robert Vischer, Heinrich Wölfflin und Wilhelm Worringer. Die problematische Karriere einer kunsttheoretischen Fragestellung, in 200 Jahre Kunstgeschichte in München: Positionen, Perspektiven, Polemik; 1780-1980, a cura di Hubertus Kohle e Christian Drude, München: Deutscher Kunstverlag, 2003, pp. 82-93, qui p. 84. Büttner ricorda una lettera di Wölfflin ai genitori, del 05.11.1885 (peraltro non riportata nel volume curato da Joseph Gantner, Heinrich Wölfflin. 1864-1945. Autobiographie einer Kunsttheorie, Basel-Stuttgart: Schwabe & Co., 19842), ivi, p. 91, nota 24. 22 Heinrich Wölfflin, Prolegomena zu einer Psychologie der Architektur, in Kleine Schriften, a cura di Joseph Gantner, Basel: Schwabe, 1946, pp. 13-47, qui p. 17. [Non è stato possibile reperire la traduzione italiana Psicologia dell’architettura, a cura di Ludovica Scarpa, introduzione di Dieter Hoffmann-Axthelm, Venezia: Cluva, 1985]. 23 Cfr. Lurz, Heinrich, cit., p. 69. 24 «Unsre leibliche Organisation ist die Form, unter der wir alles Körperliche auffassen», Wölfflin, Prolegomena, cit., p. 21. 25 Cfr. Lurz, Heinrich, cit., p. 61. 26 Wölfflin, Prolegomena, cit., pp. 13-14. 27 Ivi, pp. 38-39. 28 Robert Vischer, Über das optische Formgefühl. Ein Beitrag zur Ästhetik (1872), rist. in Drei Schriften zum ästhetischen Formproblem, Halle: Max Niemeyer Verlag, pp. 1-44, qui p. 7, trad. it. di Isabella Amaduzzi, in Pinotti, Estetica, cit., pp. 95-138, qui p. 101; cfr. Büttner, Das Paradigma, cit., p. 85. 284 29 Nicola Curcio Adolf von Hildebrand, Das Problem der Form in der bildenden Kunst, Straßburg: Heitz, 1893; la citazione è tratta dalla traduzione italiana Il problema della forma, a cura di Sergio Samek Lodovici, Milano: TEA, 1996, p. 100; si veda anche Pinotti, Estetica, cit., p. 52. Corsivo di N.C. 30 Gottfried Boehm, Einleitung. Zur Aktualität von Fiedlers Theorie, in Konrad Fiedler, Schriften zur Kunst, I, a cura di Gottfried Boehm, München: Fink, 19912, pp. LXXXIX-XCV, p. XCI. Il rapporto fra Wölfflin e Fiedler, peraltro da determinare in modo più preciso, «è reso assai complesso dal parco ricorso alle citazioni dirette da parte del primo», ivi. 31 Wölfflin, Prolegomena, cit., p. 39. 32 Heinrich Wölfflin, Italien und das deutsche Formgefühl (1931), München: Bruckmann, 19642, p. 181, trad. it. di Bernardetta Carta L’arte del Rinascimento. L’Italia e il sentimento tedesco della forma, a cura di Maurizio Ghelardi, Livorno: Sillabe, 2001, p. 169. 33 Nel primo paragrafo dei Prolegomena, laddove pone la domanda: «Come è possibile che le forme architettoniche esprimano alcunché di psichico (seelisch), uno stato d’animo?», Wölfflin si riferisce espressamente all’architettura che caratterizza «epoche e popoli», anticipando i suoi studi sul Barocco e persino sul sentimento della forma in Germania e Italia. Vd. Prolegomena, cit., p. 13. 34 Vd. Heinrich Wölfflin, Renaissance und Barock. Eine Untersuchung über das Wesen des Barockstils in Italien, München: Bruckmann, 1888, ristampa Basel: Schwabe, 1961; trad. it. di Luigi Filippi, Rinascimento e barocco: ricerche intorno all'essenza e all’origine dello stile barocco in Italia, con un saggio di Simone Viani, Firenze: Vallecchi, 1988. Anche nei Kunstgeschichtliche Grundbegriffe del 1915 è rinvenibile un sottofondo empatico, come ha mostrato Meinhold Lurz, Der einfühlungs-psychologische Hintergrund der Grundbegriffe Heinrich Wölfflins: WirkungEntwicklung-Kritik, dissertazione, Heidelberg 1976. 35 Clara Burger, Aufzeichnung von Frau Clara Burger-von Duhn über die Arbeitsweise ihres Mannes Fritz Burger, Carte Burger, Heidelberg. 36 Robert Hedicke, Methodenlehre der Kunstgeschichte, Straßburg: Heitz, 1924. Cit. da Elena Filippi, A tu per tu con Palladio. Burger e la lotta fra teoria e pratica dell’arte, in Fritz Burger, Le ville di Andrea Palladio. Contributo alla storia dell’evoluzione dell’architettura rinascimentale (1909), a cura di Elena Filippi e Lionello Puppi, Torino: Umberto Allemandi & C., 2004, pp. 9-27, qui p. 10 e p. 24, n. 7. 37 Filippi, A tu per tu, cit., pp. 16-20. 38 Ivi, p. 18. 39 Riprodotta ivi, pp. 22-23. 40 Cit. da una copia della missiva del Cattedratico alla vedova Burger, Monaco 25 maggio 1916, Carte Burger, Heidelberg. L’originale è presso il Wölfflin-Archiv, Basel. 41 Clara Burger, Aufzeichnung, cit. 42 Burger, Cézanne, cit., p. 9. 43 Burger, Prinzipielles, cit., p. 13. Burger e l’empatia 44 285 Burger, Cézanne, cit., p. 9. Ivi. 46 Burger, Prinzipielles, cit., p. 13. 47 «Was der Künstler gestaltend erkennt, sucht auch die Wissenschaft erkennend zu gestalten», in Burger, Cézanne, cit., p. 196. 48 Wassily Kandinsky, Lo spirituale nell’arte, 1912, trad. it. di Elena Pontiggia, Milano: SE, 1989, p. 26. 49 Franz Marc, La seconda vista. Aforismi e altri scritti, a cura di Elena Pontiggia, Milano: SE, 1999, n. 82, p. 66. 50 Burger, Cézanne, cit., pp. 162-163 e figg. 156, 157. Si veda anche Fritz Burger, Einführung in die moderne Kunst (Handbuch der Kunstwissenschaft, Die Kunst des 19. und 20. Jahrhunderts, I), Berlin: Athenaion, 1917, pp. 130-131. Qui, a p. 130, Burger attribuisce a Marc una «innerliche Ganzheit» (intima totalità). 51 Martin Heidegger, Gesamtausgabe, vol. 29/30: Die Grundbegriffe der Metaphysik. Welt – Endlichkeit – Einsamkeit, a cura di Friedrich-Wilhelm von Herrmann, Frankfurt a.M.: Klostermann, 1983, pp. 298-299; trad. it. di Paola Coriando, I concetti fondamentali della metafisica. Mondo – finitezza – solitudine, a cura di Carlo Angelino, Genova: Il melangolo, 1992, p. 263. 52 «Kein Mensch fühlt im anderen Menschen eine Schwingung, ohne sie selbst in sich zu haben». Le parole sono citate testualmente, probabilmente da una lettera privata, non attestata nel lascito, in un articolo di giornale di Lili Fehrle-Burger, figlia del Nostro, intitolato Erwachen der Seele. Ein unbekanntes Gemälde von Fritz Burger, inserto domenicale della «Rhein-Neckar-Zeitung» del 28/29 aprile 1984. Carte Burger, Heidelberg. 53 Burger, Briefe, trascrizione Erbsmehl, n. 189, p. 357. 54 Max Scheler, Zur Phänomenologie der Sympathiegefühle und von Liebe und Haß. Mit einem Anhang über den Grund zur Annahme der Existenz des fremden Ich, Tübingen: Niemeyer, 1913. Il riferimento alla lettura scheleriana è in Carte Burger, lettere di Fritz a Clara, trascrizione Erbsmehl, aprile 1916 n. 182, p. 335, n. 192, p. 367. 55 «Alles, was dieser Athanasius Pernath erlebt hat, habe ich im Traum miterlebt, in einer Nacht mitgesehen, mitgehört, mitgefühlt, als wäre ich er gewesen». Ringrazio Elena Filippi per la segnalazione; Gustav Meyrink, Der Golem, Leipzig: Kurt Wolff Verlag, 1915. Burger ne parla nelle lettere a Clara, trascrizione Erbsmehl, n. 182, p. 334. 56 Dattiloscritto presso Birgit Burger, Heidelberg. 57 Klaus Lankheit, Franz Marc. Sein Leben und seine Kunst, Köln: DuMont, 1976, pp. 149-150. 58 Burger, Cézanne, cit., p. 162. 59 Il commilitone del pittore riferisce che: «Marc doveva esplorare un sentiero celato nel bosco per il trasporto di munizioni. Dopo circa venti minuti il suo fedele attendente H. tornò indietro inondato di sangue (blutüberströmt), e lui stesso leggermente ferito». Dattiloscritto presso Birgit Burger, Heidelberg. 45 TRADUZIONI DI BRANI BURGERIANI PRINCIPI FONDAMENTALI DELLA CRITICA D’ARTE* L’arte non è né oggetto di fede né questione di gusto, bensì è una questione di conoscenza. Infatti tutto il pensiero umano è un configurare e ogni configurare è insieme un separare e congiungere. Animo e fantasia non potrebbero manifestarsi senza la facoltà di questo pensare e configurare, e anche l’attività della fantasia artistica indica solo un pensare sulle relazioni fra singolarità sensibili rappresentate. Il linguaggio tramite cui questo pensiero si esterna non è senz’altro accessibile al non-artista. L’artista infatti enuncia qualcosa su nessi sensibili tra fenomeni, mentre chi non è andato alla scuola del pensiero artistico riconosce prevalentemente solo singoli fenomeni.“La percezione è uguale in tutti gli uomini, il vedere e il creare sono doti soltanto dell’artista”, dice Lessing. Configurare artisticamente significa ordinare rappresentazioni sensibili in un visibile (l’opera d’arte). Ebbene, noi tutti possediamo rappresentazioni “sensibili”, infatti esse sono il materiale del nostro pensiero. Ma finché non siamo noi a configurare artisticamente, siamo costretti a connettere le nostre impressioni sensibili per mezzo di concetti, siamo tenuti ad afferrarle linguisticamente. Mediante la congiunzione di concetti ci procuriamo invero un ordine di quanto abbiamo visto, ma con ciò non facciamo che ordinare i segni convenzionali per le rappresentazioni sensibili (i concetti), non ordiniamo le rappresentazioni sensibili stesse in alcunché di visibile (nell’opera d’arte). Al cospetto della natura noi ci creiamo quotidianamente rappresentazioni visive del nostro ambiente circostante, ma non le disponiamo nel materiale dell’artista. Chi scorge nell’arte solo un godimento riconosce solo le peculiarità dell’opera 289 290 Fritz Burger d’arte che lo interessano; chi considera l’arte come un mezzo di rappresentazione della conoscenza umana, dovrà cercare di concepire l’immagine come un atto conoscitivo, cioè tentare di capire ciò che l’immagine enuncia su una determinata connessione di singolarità sensibili». Tale connessione non è mai presente nella “Natura”, viene sempre creata dall’artista. Le rappresentazioni di rapporti fra singolarità sensibili, quali sono state acquisite dal non-artista, non offrono pertanto un appiglio sicuro per comprendere i particolari nessi dell’immagine. Tutto ciò che chiamiamo oggetto, contenuto, colore, particolarità nella realizzazione formale dei dettagli, espressione ecc. è la materia di quella conoscenza da parte dell’artista; i nessi nell’immagine sono la forma sensibile di tale conoscenza. La “materia” può essere prescritta all’artista dal committente, da certe consuetudini del tempo, dal gusto e da altro ancora, ma la forma, vale a dire la connessione sensibile, è sempre sua proprietà. Essa connota ciò che chiamiamo individualità e costituisce l’autentico valore dell’immagine. Indubbiamente, nella scelta dell’oggetto ecc. è già contenuto un giudizio, che è molto importante per la psicologia dell’epoca e dell’artista, ma non per l’opera d’arte intesa come particolare nesso di rappresentazioni sensibili. L’interesse di un osservatore moderno di fronte a un’arte del passato si dirigerà in due direzioni. Da un lato vedrà nelle opere d’arte documenti della volontà e delle concezioni di epoche e di personalità del passato, vorrà riconoscere la differenza fra il nostro presente e il passato – e questo è il versante storiografico dell’arte. Dall’altro si vorrà però fare chiarezza sul valore assoluto dell’opera d’arte, appunto come documento della conoscenza artistica in quanto tale. Non è difficile essere all’altezza della prima parte del compito, ma è impossibile soddisfare la seconda esigenza. Qui possono essere offerti solo ausilii alla conoscenza, non però questa stessa. Una guida scientifica attraverso una collezione di dipinti deve sottolineare con tutta l’enfasi questa difficoltà insuperabile nella trattazione scientifica dei veri e propri problemi artistici. Infatti una guida può dare solo ciò che può essere compreso pur senza un’approfondita considerazione metodologica e una scolarizzazione nella disciplina specifica. Alla scientificità sono dunque posti qui limiti naturali. È necessario che tali limiti siano preliminarmente segnalati. Princìpi fondamentali della critica d’arte 291 I princìpi di ogni giudizio artistico dipendono dalla risposta che è data alla questione dell’oggetto della conoscenza artistica. Si dice che l’oggetto della configurazione sia la “natura”. Ma ciò presuppone che si sappia che cosa sia “natura” e sin troppo facilmente si dimentica che questa è l’eterna domanda cui ogni pensiero e ogni agire cercano di rispondere. Tutta la conoscenza non è che una teoria su questa “natura”, un tentativo di comprenderla all’interno di un qualche ordine. La “natura” può essere compresa solo nella natura del nostro pensiero, mai nell’essenza sua che a noi si contrappone. Ciò vale per artisti e “pensatori”. Si ritiene che ciò che si vede sia il vero per il fatto che così tanti lo vedono allo stesso modo, ma si dimentica che questa visione è il prodotto di convenzioni pratiche, che mutano con il tempo e le circostanze. Si trascura inoltre il fatto che l’opera d’arte non è una semplice somma di singolarità, bensì un giudizio sulla natura, il quale consiste di connessioni fenomeniche individuali, create dall’artista. Che cosa sia natura rimane in fin dei conti una questione di Weltanschauung, sia per chi giudica sia dal punto di vista del singolo giudizio, che è questione di visione del mondo. Questa visione del mondo si manifesta come nella sua forma propria nell’arte come pure nel contenuto della conoscenza. Non appena si considera la materia come contenuto del raffigurato si ha a che fare con problemi culturali, non appena si tiene in vista la forma, soltanto con l’arte. Solo in quest’ultimo caso sono i nessi sensibili delle parti della stessa opera d’arte, vale a dire la sua essenza come creazione, a diventare oggetti della conoscenza. * * * PRINZIPIELLES ÜBER DIE KÜNSTLERISCHE KRITIK Kunst ist weder Glaubenssache noch eine Geschmacksfrage, sondern eine Frage der Erkenntnis. Denn alles menschliche Denken ist ein Gestalten und alles Gestalten ein Trennen und Verbinden zugleich. Gemüt und Phantasie könnten sich nicht äußern ohne die Fähigkeit dieses Denkens und Gestaltens, und auch die Tätigkeit der künstlerischen Phantasie bedeutet nur ein Denken über die Beziehungen von vorgestellten, sinnlichen Einzelheiten. Die Sprache, durch die sich dieses Denken äußert, ist dem Nichtkünstler nicht ohne weiteres geläufig. Denn der Künstler sagt etwas über sinnliche Zusammenhänge von Erscheinungen aus, während der im kün- 292 Fritz Burger stlerischen Denken nicht Geschulte vorwiegend nur Einzelerscheinungen erkennt. «Empfinden können alle Menschen gleich, das Schauen und Schaffen sind nur Künstlergaben», sagt Lessing. Künstlerisch gestalten heißt sinnliche Vorstellungen in einem Sichtbarem (dem Kunstwerk) ordnen. Nur besitzen wir alle «sinnliche» Vorstellungen, denn sie sind das Material unseres Denkens. Aber solange wir nicht selbst künstlerisch gestalten, sind wir genötigt, unsere sittlichen Eindrücke durch Begriffe in einen Zusammenhang zu bringen, sie sprachlich zu erfassen. Durch die Verbindung von Begriffen verschaffen wir uns wohl eine Ordnung des Geschauten, aber wir ordnen nur die konventionellen Zeichen für die sinnlichen Vorstellungen (die Begriffe), nicht die sinnlichen Vorstellungen selbst in etwas Sichtbaren (im Kunstwerk). Im Ansehen der Natur schaffen [12] wir uns wohl täglich anschauliche Vorstellungen von unserer Umgebung, aber wir ordnen sie nicht in dem Material des Künstlers. Derjenige, der in Kunst nur einen Genuß sieht, erkennt nur die ihn am Kunstwerk interessierenden Einzelheiten; derjenige, der die Kunst als ein Darstellungsmittel menschlicher Erkenntnis betrachtet, wird versuchen müssen, das Bild als einen Erkenntnisakt zu begreifen, d.h. das zu verstehen, was in dem Bilde über einen bestimmten Zusammenhang von sinnlichen Einzelheiten ausgesagt ist. Dieser Zusammenhang ist nie in der «Natur» vorhanden, er wird immer erst durch den Künstler geschaffen. Die Vorstellungen von Beziehungen sinnlicher Einzelheiten, die sich der Nichtkünstler erworben hat, geben daher keine sichere Handhabe zum Begreifen der besonderen Bildzusammenhänge. Alles was wir mit Gegenstand, Inhalt, Farbenwahl, Besonderheiten in der Formgebung der Einzelheiten, Ausdruck usw. benennen, ist der Stoff jener Erkenntnis des Künstlers, die Bildzusammenhänge sind die Erscheinungsform der Erkenntnis. Ihr «Stoff» kann dem Künstler durch den Auftraggeber, durch gewisse Gewohnheiten der Zeit, Geschmack usw. gegeben sein, die Form aber, d.h. der sinnliche Zusammenhang ist immer sein Eigentum. Er bezeichnet das, was wir Individualität nennen und macht den eigentlichen Wert des Bildes aus. Nun ist zweifellos in der Wahl des Gegenstandes usw. schon ein Urteil enthalten, das sehr wichtig ist für die Psychologie der Zeit und des Künstlers, nicht aber für das Kunstwerk als einen besonderen Zusammenhang sinnlicher Vorstellungen. Das Interesse des modernen Beschauers an einer Kunst der Vergangenheit wird daher [13] nach zwei Richtungen sich lenken. Auf der einen Seite wird er in den Kunstwerken Dokumente des Willens und der Anschauungen vergangener Zeiten und Persönlichkeiten sehen, den Unterschied zwischen unserer Gegenwart und der Vergangenheit erkennen wollen – das ist die historische Seite der Kunst. Andererseits wird man aber über den absoluten Wert des Kunstwerkes, eben als ein Dokument künstlerischer Erkenntnis überhaupt sich Klarheit verschaffen wollen. Es ist nicht schwierig, dem ersten Teil der Aufgabe gerecht zu werden, unmöglich aber die zweite Forderung zu erfüllen. Hier können nur Hilfsmittel zur Erkenntnis, nicht diese selbst gegeben werden. Ein wissenschaftlicher Führer durch eine Gemäldesammlung muß auf diese unüberwindliche Schwierigkeit bei der wissenschaftlichen Behandlung der eigentlichen künstlerischen Probleme mit allem Nachdruck hinweisen. Denn ein Führer kann nur das geben, was ohne eingehende methodische Betrachtung und fachwissenschaftliche Schulung verstanden werden kann. Princìpi fondamentali della critica d’arte 293 Der Wissenschaftlichkeit sind deshalb hier natürliche Grenzen gesteckt. Es ist notwendig, auf diese Grenzen vorher hinzuweisen. Die Grundsätze jedes künstlerischen Urteils sind abhängig von der Beantwortung der Frage nach dem Gegenstand der künstlerischen Erkenntnis. Man sagt das Objekt der Gestaltung sei die «Natur». Aber das setzt voraus, daß man weiß, was «Natur» ist und allzu leicht wird vergessen, daß dies die ewige Frage ist, die alles Denken und Schaffen zu beantworten sucht. Alle Erkenntnis ist nur eine Theorie über diese «Natur», ein Versuch, sie in irgendeiner Ordnung zu begreifen. Die «Natur» kann allein in der Natur unseres Denkens [14] begriffen werden, nie aber in ihrem eigenen uns entgegengesetzten Wesen. Dies gilt für Künstler und «Denker». Man glaubt das, was man sieht, sei darum das Wahre, weil es so und so viele Menschen auch so sehen, vergißt aber, daß diese Anschauungen Produkte praktischer, nach Zeit und Umständen wechselnder Konventionen sind. Auch übersieht man, daß das Kunstwerk keine lockere Summe von Einzelheiten darstellt, sondern ein Urteil über die Natur, bestehend aus individuellen, vom Künstler geschaffenen Erscheinungszusammenhängen. Was Natur ist, bleibt schließlich eine Frage der Weltanschauung sowohl für Urteilende, als auch jedes künstlerische Urteil eine Sache der Weltanschauung. Diese Weltanschauung tritt in der Kunst sowohl im Stoff der Erkenntnis als in ihrer Form zutage. Sofern man den Stoff als Inhalt des Dargestellten in seinen außerkünstlerischen Beziehungen betrachtet, hat man es mit Kulturproblemen zu tun, sofern man die Form im Auge hat, allein mit der Kunst. Nur in diesem letzten Falle sind die sinnlichen Beziehungen der Teile des Kunstwerks selbst, d.h. sein Wesen als eine Schöpfung Gegenstand der Erkenntnis. N OTA * Da Fritz Burger, Die Schackgalerie München, München: Delphin Verlag, 1912, pp. 11-14. La scelta di offrire al lettore anche il testo originale tedesco è motivata dal particolare rilievo teorico attribuitogli nel presente volume. L’ESSENZA DELL’ARTE DI BÖCKLIN* Ultimo nel novero dei grandi, ecco ARNOLD BÖCKLIN (1827-1901). È noto quanto l’arte di questo svizzero-tedesco abbia occupato un ruolo centrale nell’interesse artistico della Germania al volgere del secolo, mentre in tempi a noi più prossimi si guarda ai suoi lavori più freddamente, senza più prestare credito ai suoi sostenitori. Non si è più inclini come un tempo a vedere in lui la classica immagine del modo d’essere dei Tedeschi e a collocare l’opera della sua vita accanto a quella dei grandi artisti teutonici, come fu sin dall’apparire dell’Impressionismo. Ma se Böcklin non può essere inteso esclusivamente nell’ottica dell’arte rinascimentale, nemmeno il cosiddetto Impressionismo moderno è in grado di fornire i mezzi per criticare o avversare la sua arte. Al pari di Poussin, egli è un epigono della nobile arte del Rinascimento, eppure, come quello, possiede una natura artistica originale, che non ha cercato di vedere i cosiddetti motivi paesaggistici con gli occhi dei Maestri antichi, sforzandosi piuttosto di intravedere e di plasmare in questi lo sconvolgente dominio di cosmiche forze vitali. Perciò in nessun’altra collezione di dipinti Böcklin è più a casa propria che nella Schackgalerie. Qui egli si trova infatti circondato dalle personalità artistiche a lui più affini. Romantico al loro pari, è più intenso, selvaggio, patetico, più bestialmente feroce e infantile, e animato dal sacro zelo di afferrare l’archetipo della bellezza sensibile. E tuttavia è sentimentale come i Romantici, alla cui scuola è andato. Gli spiriti affini alla sua arte sono Tieck, Hebbel e Richard Wagner. Nei suoi quadri allo straziante dolore cosmico del Romanticismo si alterna bacchica frenesia. Le parole del prologo al 295 296 Fritz Burger Barbablù di Tieck valgono anche per Böcklin: «È la grotta fatata dell’infanzia, in cui s’annidano il terrore e la graziosa stupidità». Al pari della materia, così pure la forma: idee e forme classiciste e romantiche, accanto alle quali risuona la “Marsigliese” dell’arte moderna. Ma la sua modernità è originale. Non gli deriva dai Moderni francesi, da cui non ha peraltro preso nulla, pur essendo stato a Parigi. La sua origine è in Schirmer e Lessing, nei Romantici di Düsseldorf, e da questa via non ha mai deragliato, testardo come fu, sino alla fine della vita. Nei paesaggi di Böcklin non si fa storia antica, come in Preller, né si celebra l’eroismo della natura, come in Rottmann: Böcklin vuole piuttosto dipingere la «natura naturans», l’inafferrabile volontà cosmica, in tutta la sua grigia infinitezza. Questa volontà, inesorabile, brutale e ognora inquieta, come la stessa forza primigenia, si contrappone al volere umano. Già in tale concezione dualistica del problema, la grandiosità della sua idea conosce una limitazione gravida di conseguenze. Tutto ciò che accade è un trapassare; la volontà universale non è potenza creatrice, ma distruttrice. Manieri flagellati da tempeste, che torreggiano come rocce scoscese nella fioca luce lunare, rive solitarie, dove marciscono artefatti umani, la morte in veste di nero cavaliere galoppa nel crepuscolo di una burrascosa giornata autunnale, foglie che cadono come gocce di sangue dal cielo e la luce pallida e spettrale, peste, assassinio, azioni sacrificali di raccapricciante bellezza, draghi, i cui corpi di abbacinante splendore, in scenari montani smisurati, con abissi profondi come la gola dell’inferno, e il freddo gioco delle tempeste marine, gelido come uno squalo, che sfiora gli orrendi esseri degli abissi. In questo universo di orribile incanto vive l’uomo, sfibrato e impaurito al cospetto del volere dell’esistenza, sentimentale di fronte al suo mistero. Ma questo dolore cosmico non è, come in Feuerbach, un insoddisfatto desiderio di bellezza, bensì anelito di redenzione e di pace. Un pezzo di filosofia di Schopenhauer si cela nella materia dell’arte böckliniana. Ma è una pena vedere come questa grande lotta si consuma nei nuclei razionalistico e materialistico del Romanticismo, come lo spirito del passato s’impossessi di Böcklin proprio nel momento in cui vuole liberarsene per afferrare nel presente il giovane avvenire. Ciò che sopravvive nella sua arte è sia l’ideale razionalisti- L’essenza dell’arte di Böcklin 297 co della bellezza rinascimentale, come pure l’idealismo tedesco che finisce per dar forma al sovrasensibile. Ma accanto a ciò, affiora anche in veste romantica il moderno impressionismo e materialismo. Il dipinto Ninfa nel bosco, la più bella fra le opere giovanili: energia domata, vita rasserenata in bellezza e grandezza, la ninfa come polvere d’oro su fondo di verde vellutato. Niente alberi, foglie e rami: il bosco è visto come un eroe che, formato da scure masse burrascose, rifugge dalla luce e nel bagliore crepuscolare della sera dispiega le sue forze selvagge nel segreto gioco delle membra. È in vista di questo nesso che forma e colore ritraggono totalmente il loro valore specifico. Si percepisce qualcosa del pathos orgoglioso dei grandi del Rinascimento, ma si arriva a sfiorare anche qualcosa del quieto idillio della vita negli antichi Maestri tedeschi. [In Pan spaventa un pastore (1859) si vede una moderna pittura all’aria aperta di fronte a quella di Carl Boeheim (1830-1870)…] Ma chi osserva attentamente, non faticherà a riconoscere che i contorni principali del dipinto sono tutti in vista dell’unica figura del pastore che scende a precipizio, così da formare un complesso unitario e ben ordinato, che si conclude gradevolmente entro i confini del quadro. Nella successiva ripresa del tema in Paul Heyse a Monaco tale ideale compositivo desunto dal Rinascimento è completamente assente, e l’organismo scenico è invece interamente in funzione della sola idea di terrore panico. Il tema non è qui Pan o il pastore, bensì dar forma allo spavento. Ecco perché uomo e animale divergono nella corsa, come se sotto di loro fosse esplosa una bomba. Questa idea dello sconcerto ridonda ora sulla stessa composizione del dipinto. Invano vi si cercherebbero contorni in grado di dare ordine e connessione. Le macchie chiare e scure volano davanti ai nostri occhi in cangiamenti improvvisi, «il terrore» è diventato il motivo del dipinto. 298 Fritz Burger ARNOLD BÖCKLIN, PAN SPAVENTA UN PASTORE, 1859 Analogo è il caso del grazioso quadretto Pastorella con il gregge. La pastorella sognante è davvero seduta fra la lieta realtà baciata dal sole e la penombra di un’esistenza trasognata. All’esterno sfolgorano il rosso, il giallo e il bianco dello splendore estivo, mentre qui fiori azzurri dardeggiano misteriosi nell’oscurità come occhi di serpente e il rosso freddo della gonna della fanciulla è già avvolto dalla buia avvolgente magia del fondo scuro. La poesia risiede qui nel linguaggio del colore e della luce. Böcklin cerca di afferrare l’incomprensibi- L’essenza dell’arte di Böcklin 299 le nella figura particolare della natura stessa, cioè nella sfera puramente sensibile. Questo rimarrà sempre il suo intramontabile merito, e l’alloro per l’avvenire gli è assicurato più da queste piccole creazioni che da certe opere più grandi e più celebri. Ma non sempre Böcklin è andato avanti per questa via. Un confronto fra l’anacoreta di Schwind con quello di Böcklin entro un impervio paesaggio roccioso offre l’esempio migliore in tal senso: Schwind erige per noi una casa fatata nella natura come un bambino con i suoi cubetti. Böcklin ci porta davanti agli occhi con una fedeltà quasi fotografica un pendio da cui pende sterpaglia. Nel far ciò, dispone tutto il paesaggio, nella sua costruzione diagonale, in funzione della figura dell’anacoreta, ma al di là della ricchezza del singolo elemento che vuole raffigurare nel modo più completo possibile, omette di conferire a questi tratti di contorno una vera e propria visibilità. Si avverte la volontà, ma se ne cerca invano la figura. In questa brillante caratterizzazione del paesaggio nel suo apparire materiale Böcklin è più vicino a Piloty che a Feuerbach; perciò il gesto ascetico del penitente non si estende allo spazio circostante. Rispetto al volto quotidiano del paesaggio e al suo traboccante rigoglio, questa minuscola figura funge da contraltare muto. Nei corvi che volano gracchiando attrorno alla croce, Böcklin cerca pertanto di sopperire, per mezzo di oggetti, a ciò che non ha raggiunto con la pura realtà sensibile. Qui cominciano a farsi avvertibili i conflitti nell’arte di Böcklin, che raggiungono forse l’apice nel dipinto Il lamento del pastore (1865) […] che in base all’Idillio di Teocrito raffigura il giovane pastore innamorato davanti alla grotta della bella ninfa Amarilli. Si faccia un confronto con l’analoga raffigurazione del pastorello musicante con ninfa sullo sfondo di Feuerbach. Böcklin appare rispetto a questo come il geniale organizzatore, che sa aggirare più abilmente gli scogli compositivi e che con felice artificio riesce a sviluppare primo piano e sfondo chiudendoli al centro sulla superficie del dipinto. La silhouette del pastore che si muove verso sinistra si risolve nel verde pendio luminoso in modo tale che questo, continuandola, abbraccia anche la grotta in cui siede la ninfa. Rispetto a Feuerbach colpisce la freschezza rugiadosa dei colori del paesaggio. Feuerbach dipinge foglie anziché alberi, e i suoi verdi, soprattutto in primo piano, sono 300 Fritz Burger quasi sempre fortemente saturati di bianco, «ingrigiti». Nel paesaggio Böcklin offre forti colori locali. La differenza rispetto a Morgenstern, Preller e altri sta nel fatto che essi sono appena sfumati senza ricorrere a tempere vitree, riproducono l’impressione dell’atmosfera e a prescindere da tutte le altre caratterizzazioni materiali, con il loro alterno linguaggio mirano a chiarire e a trasfigurare non solo la composizione dell’immagine, ma anche l’idea che ne costituisce il contenuto. Nelle comuni riproduzioni i chiaroscuri sembrano peraltro aggregarsi assai finemente. Nell’originale stupisce l’immediato contrasto della chiarezza del giorno con la luce crepuscolare della grotta, sicché il colore locale della figura debolmente modellata del pastore tende un poco a perdersi. L’imbarazzo nel gesto appare particolarmente penoso proprio in questa silhouette realizzata senza tener conto dei classici motivi di movimento. I bei denti del fanciullo, le rose, la pelle caprina, il vaso e i melograni apportano una certa smanceria sentimentale nella fresca robustezza del dipinto. Lo spirito femmineo del Romanticismo entra in conflitto con la sana brutalità del naturalismo moderno. Pur con tutta la naturalezza, Feuerbach aveva raffigurato nella natura una favola. I suoi «pastori» non erano pastori reali vestiti di pelli e dotati di questi requisiti teatrali esteriori, che stimolano la fantasia e ricordano Piloty, bensì figure, come la personificazione della poesia, a colori scintillanti, e la ninfa è una creatura tratta dallo stesso Paese delle meraviglie che ci apparve tanto prossima all’umanità. Böcklin fa apparire spettri nella freschezza estiva del giorno. In lui la sobria vivacità del presente e la mistica trasognata della fantasia si scontrano duramente in uno stesso spazio. Ma l’illusione addotta dagli oggetti «poetici» non può superare questo contrasto sensibile. L’essenza dell’arte di Böcklin 301 ARNOLD BÖCKLIN , TRITON UND NEREIDE , 1874 Nell’idillio marino Tritone e Nereide […] Böcklin si cimenta con un motivo a lui particolarmente caro e perciò spesso riproposto, che gli è valso a suo tempo molte ostilità. Ma simili idee compositive non sono una novità: risalgono a fregi greci ripresi da dipinti rinascimentali, soprattutto in Raffaello, e da qui li ha derivati pure Schwind in quel grazioso quadretto della Schackgalerie, Tritoni e Nereidi, una sorta di momento preliminare alla creazione di Böcklin: il sole si distende piacevolmente sopra la quieta superficie del mare, su cui sono felicemente indaffarate in un grazioso gioco avventurose creature marine. Schwind mette in mano una lira alla sirena che appare sullo sfondo a sinistra, rivolgendole lo sguardo estasiato a contemplare il cielo. In Böcklin si vedono due figure indolenti in posa piacevolmente animalesca sopra una massa rocciosa nerastra, intorno alle quali fischia e rumoreggia un vento afoso, che sospinge le onde increspate di verde e plumbee nubi gonfie di pioggia. In Schwind le figure agiscono come bravi attori sopra il palco, rivolti verso lo spettatore. In Böcklin l’irsuto individuo, mezzo uomo, mezzo scimmia, mezzo pesce, ci offre la schiena mentre, soffiando con comica serietà in una conchiglia purpurea, cerca di accompagnare il canto del vento. Frattanto la sua compagna – l’ozio è padre di tutti i vizi – si dedica al frivolo gioco di respingere la serpe libidinosa che con voluttuoso piacere av- 302 Fritz Burger volge il suo corpo possente in enormi volute. È sorprendente la grandiosa trovata e la fiduciosa franchezza con cui Böcklin dispone queste figure a formare una piramide sulla tela e l’abilità con cui sa inserirle nella cornice del dipinto. Il sottile gioco del rosso e del bruno nel tritone e nella sua conchiglia è ripetuto nel delicato intreccio delle sfumature sullo sfondo. La singolare mescolanza di brutalità animalesca e di umana, contegnosa gioia di vivere, il fosco scenario dell’azione e però la quiete, anzi la festosità dell’immagine! Non è un mare, quello che qui si vede, bensì il mare, e così la tempesta, un pezzo di una vitalità e di una grandiosità primordiali, uno squisito diverbio fra le potenze invisibili e le figure visibili, un demone selvaggio sullo sfondo della quieta tranquillità dell’esistenza bruta. Certo, il piacere dell’osservazione non è del tutto indisturbato. Chi si dispone con tanta pedante esattezza a modellare il corpo della serpe e a dipingere quella squama sulla gamba dell’uomo, puntando così tanto sulla nettezza dei corpi, chi sa plasmare con tanta fastosità la silhouette della femmina distesa, sorprende poi negativamente l’osservatore con l’infelice abbreviazione del braccio sinistro della ninfa e soprattutto con la scarsa illuminazione del primo piano. Inoltre, Böcklin elabora una compiutezza del gruppo senza l’intervento dei contorni. Le figure sono godibili singolarmente, ma la loro presenza di gruppo nel dipinto è troppo debole. Sul piano lineare e cromatico, il rosso arancio del braccio destro non riesce a trovare una connessione ideale con la tonalità complessiva del tritone. In sostanza, Böcklin è più interessato alla plausibilità di queste figure nella loro esistenza singolare e alla peculiarità del loro essere, che non al loro aspetto nel dipinto. Non si può dire che la trascuri interamente, ma che gli interessa soltanto in secondo luogo. Un drastico esempio in tal senso è la cosiddetta Gola rocciosa, opera basata sui versi di Goethe: Conosci il monte e il sentiero che tra le nubi si perde? Il mulo cerca il suo cammino tra le nebbie; l’antica stirpe dei draghi abita in spelonche… [da Mignon] Rocce, che si perdono in alto e in basso nel buio semioscuro di spaventose infinità, nebbia spettrale, pare che sullo sfondo stiano demoni in agguato, davanti il mostro orribile con le bave che escono L’essenza dell’arte di Böcklin 303 dalle avide fauci e nel mezzo, sopra un ponticciolo di pietra senza parapetto, la piccola schiera si accalca impaurita. Rosso brillante accanto a bianco brillante nella semioscurità, come un grido nel silenzio inquietante del crepaccio. Ci sono raffigurazioni analoghe nell’arte tedesca: un’acquaforte di Menzel, in basso, alla luminosa uscita della valle vapori polverosi, bagliori di fuoco, figure a precipizio e lassù, nel buio, i massicci montuosi. Anche in questo caso la controparte dell’azione è ottenuta sensibilmente attraverso il colore. Vi si comprende l’azione nella specificità dei nessi fenomenici; in Böcklin gli oggetti illustrano un’azione più nella peculiarità della loro singola esistenza sensibile, e tale azione è strumentale alla produzione di uno stato d’animo. Al di là dell’interesse per l’oggetto, il suo aspetto figurativo gioca un ruolo relativo; si ammira l’avvincente concretezza di questa tremenda realtà, il garbo della sua raffigurazione, non la sapienza nei nessi sensibili. Böcklin intende dar forma all’impressione psichica di un siffatto oggetto di natura, illustrandone e materializzandone tutta la terribilità mediante una fiaba. La psiche invisibile dello spazio si fa realtà tanto nella narrazione quanto nell’oggetto, il sovrannaturale si fa presente e rimane poco più che il brivido. La tensione drammatica dell’evento è prevalentemente in funzione di questa impressione. È eliminato l’effetto finale della ballata goethiana: «precipita la rupe e, sopra, la massa di onde». La descrizione del quadro di natura riceve un senso in Goethe solo dal fatto di essere il punto di partenza del dramma. Böcklin ci fornisce solo la prima parte, quella descrittiva. Non si può affermare che Böcklin voglia dipingere lo stato d’animo nella natura. Infatti egli lo trasforma in un’azione, ed è questa che egli dipinge. È questa, non già la presentazione formale, a contenere quella tonalità emotiva. Ma la «natura» non è diventata azione vivente, bensì il palcoscenico su cui si muovono le figure, portatrici delle idee romantiche. Quella tonalità emotiva che la natura ottiene mediante il colore, è posta anch’essa al servizio dell’azione. La grande abilità e la precisione con cui è riprodotto l’essenziale sono fuori discussione. Mediante l’equiparazione del sentiero che si spinge in profondità alle pareti verticali della roccia, lo spazio viene strutturato riconducendolo alla formula più semplice. Le rocce circostanti, rese come un gruppo di forma piramidale, sono utilizzate per implementare il drago e il suo collo proteso nelle linee che procedono 304 Fritz Burger in profondità nel sentiero. Ma si vedono le rocce, non i loro nessi cromatici e lineari. Ben saldi sul terreno della realtà si fatica a ritrovare la via verso l’arte. È una caratteristica di molti di questi dipinti, come ad esempio La Morte a cavallo o Assassino e Furie: la narrazione non vuol essere veicolo emotivo, ma tragica realtà. Böcklin cadde talvolta nel moderno naturalismo, conferendo al Romanticismo un contenuto realistico. Vale per lui esattamente quanto a suo tempo Haym ebbe a dire a Tieck: «il contenuto fiabesco scardina la forma drammatica, la forma drammatica scardina la fiaba». Il terribile nucleo prodigioso deve apparire come realtà, ed è per mezzo di questa, non già per tramite dell’arte, che dobbiamo essere scossi. N OTA * Fritz Burger, Die deutschen Meister in der Schackgalerie München von Genelli bis Böcklin, München: Delphin Verlag, 1916, pp. 117-133. Il titolo è preso dall’intestazione di p. 117: Das Wesen der Kunst Böcklins. DIRETTIVE PER I REDATTORI DEL MANUALE* Il manuale si è proposto il compito di raccogliere e sistemare per la prima volta i materiali storico-artistici ormai enormemente accresciuti, in cui nemmeno lo specialista è più in grado di orientarsi. Il manuale non intende presentare una storia dell’arte in senso tradizionale; esso vuole invece offrire, entro singoli volumi autonomi e in una disposizione ben ordinata del materiale artistico, una introduzione accessibile ai problemi artistici e storici di determinate epoche. Pertanto, non vuol essere una lettura d’intrattenimento per il pubblico colto, bensì un sussidio pratico per acquisire quelle conoscenze artistiche che sono il presupposto e la base per qualsiasi approfondimento di storia dell’arte o dell’arte in quanto tale, antica o moderna che sia. Non si tratterà tanto di spiegare concetti stilistici né di dimostrare norme estetiche, quanto di trasmettere i fatti artistici in modo da tracciare innanzitutto i caratteri generali preminenti, in connessione con le loro relazioni storiche, per poi evidenziare, all’interno delle singole epoche, le differenze locali e infine le singole personalità, di modo che i tratti specifici individuali concrescano per così dire dalle comunanze artistiche e l’evoluzione delle diverse età emerga chiaramente nei suoi aspetti principali. Il manuale intende realizzare, per la prima volta, una storia vera dell’arte, a differenza degli attuali manuali di storia dell’arte, per lo più obsoleti nel contenuto e nel sistema, i quali propongono in sostanza una storia degli artisti. Muovendo dalla convinzione che una feconda trattazione delle singole personalità debba essere lasciata alla monografia, il manuale si limita in tal senso a rinviare alla letteratura secondaria, predispo- 305 306 Fritz Burger sta con completezza, anche per quanto riguarda gli ambiti locali, e offre così anche allo studioso la possibilità di orientarsi rapidamente nella principale bibliografia relativa a settori d’indagine a lui lontani. Le singole vicende storico-artistiche devono essere ricordate nei loro lineamenti specifici solo nella misura in cui risultano necessarie a chiarire aspetti prettamente artistici, oppure a favorire ulteriori indagini scientifiche e possano offrire al giovane studioso uno stimolo a intraprendere nuove ricerche. L’indicazione degli aspetti problematici sarà perciò altrettanto importante quanto la sintetica ricapitolazione di ciò che è già noto. Bisogna evitare di giudicare le singole epoche secondo cosiddetti ideali stilistici usando concetti come «apogeo» e «declino», e cercare invece di impostare un’esposizione ben strutturata dei fatti artistici e della loro evoluzione a partire da una visione d’insieme. Anche i cosiddetti periodi di «decadenza» dovranno essere considerati sia nel versante negativo che in quello positivo, e ciò vale anche per l’arte «provinciale» o per gli stili «misti». Il manuale mira alla comprensione dei fenomeni artistici e a una storia dello stile nel senso più ampio del termine, senza far ricorso a ideali stilistici tradizionali. Il termine «stile» non deve significare altro che la peculiarità della conoscenza sensibile. Per la trattazione di singoli settori disciplinari vi saranno accordi specifici con i vari autori; è comunque importante che gli argomenti fra loro correlati sul piano dello studio dell’arte siano trattati da una stessa persona. I concetti stilistici tradizionali, come Romanico, Gotico, Rinascimento non devono ersercitare alcuna influenza e fungere esclusivamente da criteri di raggruppamento pratico della materia. Risulterà comodo, ad esempio, trattare riassuntivamente la pittura del Seicento e del Settecento, nei suoi tratti essenziali, enunciando dapprima quanto accade all’inizio del Seicento in Germania, Francia, Olanda e Italia relativamente alle problematiche artistiche, per passare quindi ai singoli Paesi e infine alle personalità artistiche nel differente modo in cui hanno concepito, ampliato, arricchito, approfondito o modificato un determinato tema. Oppure, nel caso dell’arte medioevale, sarà opportuno innanzitutto evidenziare che cosa distingue il secolo decimo dall’undicesimo e questo dal dodicesimo, all’interno delle sfumature nazionali e locali e quindi, entro queste, trattare di Direttive per i redattori del Manuale 307 singole personalità, e poi, sulla base delle opere datate, mostrare nel loro complesso l’evoluzione e le connessioni della storia. Il manuale persegue lo scopo di offrire al futuro funzionario museale la possibilità di familiarizzare con la materia artistica nelle sue peculiarità basilari. Lo studente dev’essere messo in grado, per suo tramite, di prepararsi ai corsi universitari. Il docente dovrà vedersi sollevato dall’incombenza di esporre al suo uditorio gli aspetti artistici più elementari del suo argomento e insieme potrà egli stesso dominare epoche della storia dell’arte a lui lontane, senza doversi preoccupare della letteratura specifica. Anche il profano amante dell’arte, e soprattutto il collezionista, come pure il religioso che vive lontano dai centri accademici o il pubblico ufficiale interessato all’arte devono poter trovare risposta nel manuale alle questioni fondamentali dell’arte e della storia, in modo semplice, ma completo e approfondito. È perciò importante che prendano parte alla redazione del manuale solo quei collaboratori che oltre ad avere approfondita conoscenza materiale ed esperienza pratica, dispongano pure delle necessarie doti pedagogiche che conferiscono alla materia, grazie alla sobria strutturazione architettonica, quella chiarezza e panoramicità che consente al lettore di appropriarsi interamente di ciò che ha letto, e di addestrare la facoltà conoscitive sensoriali e la memoria. Lo stile dev’essere libero da qualsiasi retorica e da orpelli storici o storicoculturali, ma pur con tutta l’oggettività la scrittura dev’essere tanto vivace e stimolante da porgere le conoscenze in modo che il lettore ne tragga sicuro giovamento; per questo le illustrazioni avranno il compito di sorreggere il testo con confronti artistici, secondo princìpi pedagogici, mostrando esempi e controesempi. La Casa Editrice procurerà, grazie al materiale illustrativo, anch’esso di prima qualità, e curando la nitidezza tipografica, di dare al lavoro una veste esteriore in grado di venire incontro alle esigenze più elevate. L’opera uscirà in fascicoli in quarto, con ottima carta, stampata in tondo con illustrazioni, calcografie e immagini a colori, per ora in 12-15 volumi da 13 fogli tipografici ciascuno (più circa 130-150 illustrazioni); sarà data maggiore importanza alla selezione anziché al numero delle illustrazioni. Il manuale offrirà al mondo degli studiosi tedeschi, che ha già dato innumerevoli contributi nel campo della monografia come nelle ri- 308 Fritz Burger cerche specialistiche, l’occasione di mostrare che cosa sa produrre nell’organizzazione artistico-pratica. È lecito sperare, se le personalità coinvolte vorranno collaborare, di poter creare un’opera nel suo campo unica in tutte le nazioni del mondo, capace di soddisfare una urgenza improrogabile. N OTA * Testo a stampa di Fritz Burger, diffuso dalla Casa Editrice Athenaion di Berlino, in vista della realizzazione della serie dello Handbuch der Kunstwissenschaft. Le pagine qui riportate recano tuttavia un titolo lievemente difforme: Handbuch der Kunstwissenschaften. La preferenza del Curatore era caduta primieramente, così sembrerebbe, sulla forma plurale; ma fattori estemporanei, dopo la tragica scomparsa dello stesso, hanno promosso la formula con la quale il manuale è stato poi conosciuto. INTRODUZIONE ALL’ARTE CONTEMPORANEA * EDVARD MUNCH, DIPINTO MONUMENTALE A CRISTIANIA Le prefazioni sono un male necessario, un male, tuttavia, particolarmente indispensabile, laddove si abbia a che fare con una storia dell’arte del XIX e XX secolo. Questa infatti va a toccare alcunché di personale, anzi di personalissimo: investe il mondo di ciascuno, l’ordine stesso del nostro vivere. E nessuno può farlo impunemente. Perciò è pericoloso scrivere libri che non affrontino la materia secondo princìpi consueti. È una lotta quella che si affronta. Non deve forse uno storico ristare assolutamente al di là del conflitto delle opinioni comuni? Non rischia di mettere a repentaglio la sua “obiettività” scientifica, se in un certo qual modo prende posizione in tale conflitto? Intorno all’arte di questi due secoli ci sono libri che non prendono posizione. Nomina sunt odiosa. Quello che offrono è solo una saggezza da castrati, che non suscita né odio né passione. Questo libro predilige cose che molti detestano, e tuttavia non detesta tutto ciò che quei molti prediligono. È scritto non nell’ottica di abbracciare una tendenza artistica, ma piuttosto con lo spirito del presente. È il presente ad essere partigiano e guida, nello sguardo retrospettivo sulle creazioni e sulle associazioni del secolo scorso. Possa questo libro 309 310 Fritz Burger mostrare ai giovani la loro origine, le loro radici, additare chi li ha anticipati nello spirito: il suo scopo, dunque, è servire il presente. Quanto più questo testo appartiene loro autenticamente, tanto più resterà esso stesso giovane. Gli addetti ai lavori avranno sicuramente di che scuotere il capo a ripetizione, dal momento che manca la distanza storica per occuparsi in modo scientifico dell’arte del presente. L’accademia intende misurare il valore dell’opera d’arte e degli artisti a partire dagli effetti, dalla loro importanza per successivi sviluppi. Noi siamo del parere – con i più giovani – che siffatte descrizioni evolutive si fondino su interessi del tutto personali e su premesse gnoseologiche, le quali, alla fin fine, nella maggior parte dei casi appartengono solo a una condizione spirituale del presente antiquata e facile da valutare e pertanto sono non meno soggettive di una Weltanschauung artistica che assuma tali interessi e fondamenti conoscitivi attuali con piena consapevolezza e nella convinzione del loro valore cosmico-storico. Trasmettere questi valori è compito arduo, soprattutto perché devono essere contrastate certe opinioni di una erudizione scolastica dogmatica sia dei profani che degli specialisti. Del resto, è sempre stato così con tutte le novità. Perciò è meglio che si faccia parlare il Mefisto di Goethe: Ravviso nell’eletto discorso che tenete l’emerito Dottore, che sempre foste e siete. Lontano è mille miglia, quello che non palpate. Del tutto inesistente, ciò che non adunghiate. Menzogna solamente, quel che non calcolate. Non ha peso veruno, ciò che non soppesate. Vi par moneta falsa, quella che non coniate.1 Che cosa voglia l’arte contemporanea e quale sia il suo significato più intimo lo dice la Introduzione. Tuttavia – non senza polemica – è bene premettere ancora qualcosa. L’arte contemporanea conia per sé nuovi simboli e nuovi contenuti, simboli di nuovi princìpi per la vita. La sua relativa incomprensibilità non è contro di lei, nemmeno è contro l’arte del passato, ma nel peggiore dei casi è contro la “tradizione artistica”. Anche quest’ultima, del resto, incarna un concetto Introduzione all’arte contemporanea 311 dai contenuti soggettivi e mutevoli. Si può pertanto affermare che ogni nuova corrente artistica consegna a quella che si definisce tradizione un contenuto originale. A tal fine è rivolto, almeno in parte, l’impegno di questo libro. Per converso, sarebbe folle evocare la tradizione quale testimone contro il contemporaneo: un errore di principio. I nuovi simboli saranno compresi un po’ alla volta da tutti – e contano oggi, più che mai, di agire in profondità e durevolmente sull’“universalizzabilità” – laddove i simboli della generazione passata non sono più il velo offuscante della conoscenza e sono in buona parte tramontati. Ed è particolarmente duro per quei teorici e storici dell’arte, che hanno già improntato i loro metodi scientifici e conoscitivi ricorrendo alla tradizione e che per motivi di opportunismo parlano, ingenuamente, di non-arte ovvero di un approccio non scientifico, quando invece è il loro concetto di arte e scienza a non essere più all’altezza. Talché si deve qui spendere una parola sul metodo di approccio all’opera d’arte. Esso si adegua alla materia da trattare e di contro alla stragrande maggioranza dell’odierna indagine sull’arte non cede a un’estetica formalista-razionale, bensì è di natura formale. Non è il controllo formale di un problema spaziale o geometrico a fornire la base del giudizio artistico, bensì la forma del pensiero artistico, cioè del rappresentare in termini cromatici e spaziali. La forma va considerata manifestazione visibile di precipui contenuti di pensiero, non già un mezzo finalizzato alla mera disposizione spaziale di una rappresentazione sensibile. L’osservazione scientifica si fonda quindi su una teoria trascendentale della conoscenza. Con tutto ciò non si afferma che l’arte sia una questione di filosofia, ma si è detto solo qualcosa sui mezzi e i fondamenti sul metodo scientifico qui adottato. Di alcuni irrinunciabili puntelli del proprio giudizio si dovrà perciò fare a meno: parole come, ad esempio, “essere capace” (können, l’essere in grado, potere), “giusto” e “sbagliato”, non costituiscono alcun termine di giudizio, laddove si tratti di conoscere e caratterizzare le rappresentazioni visive realizzate nell’opera d’arte e la loro struttura spirituale che si esprime nelle relazioni formali. Diciamo subito, pertanto, che plasmare “pensieri” nell’arte non significa ancora praticare un’arte che “riflette” sui pensieri. Il problema piuttosto è un altro, se questi pensieri inverano la loro idealità tramite il 312 Fritz Burger motivo artistico. Dare forma sensibile ai pensieri non equivale per ciò stesso a materializzarli. Libri come questo hanno necessariamente un carattere programmatico, che non dovrà essere scambiato per tendenzioso. Per questa ragione si è dovuto far chiarezza sul rapporto con l’arte precedente in una sezione più ampia, dato che i problemi davanti a quali ci pone l’arte contemporanea, ci costringono a fare i conti con ciò che più in generale definiamo arte, un consuntivo dell’arte antica, non già al fine di disfarcene, bensì in ragione del suo rapportarsi al presente. L’origine dell’arte contemporanea può essere rinvenuta solo a patto che la nozione di storia dell’arte non sia limitata solo al materiale europeo a noi familiare, ma si estenda a una vera e propria storia universale dell’arte. È qui che a mio avviso risiede anche il principale errore di MeierGraefe nella sua brillante introduzione alla pittura del XIX secolo. Qui è il Rinascimento che continua a prevalere come progenitore del mondo contemporaneo, mentre il pensiero nordico è appena sfiorato, quello orientale del tutto trascurato, sebbene quest’ultimo costituisca in parte la base di quello e abbia offerto il fondamento più importante per la modernità. L’arte delle ultime generazioni è prerogativa dei popoli nordici. Il Gotico e il Contemporaneo congiungono la Francia romanica più all’elemento teutonico della Germania che all’Italia romanica. Pertanto, non è possibile prendere le mosse solo da questioni di razza e di nazionalità per fondare il giudizio artistico, relegandolo a una psicologia dell’arte. La stessa cosa vale però per le etichette estetiche come, fra l’altro, il termine Impressionismo. La storia della pittura di Meier-Graefe soffre del fatto di essere redatta troppo nell’ottica della pittura francese e del cosiddetto Impressionismo, sicché la Germania viene relegata a provincia ed è del tutto trascurato il fatto storico che la Germania e la sua arte hanno assunto una posizione centrale nel movimento artistico moderno. Il rovente incantesimo della guerra traccia il sanguinoso sfondo storico-universale della sua nuova grandezza nazionale e addita la sua nuova missione universale. Questa miseria e grandezza dei tempi esige simboli nuovi e penetranti, impone una sosta di intimo raccoglimento in tutti i settori. Per questo, però, un libro tedesco deve tenersi sulla giusta via2 e la storia dell’arte deve essere praticata non dal punto di vista Introduzione all’arte contemporanea 313 tedesco, bensì, oggi più che mai, in una prospettiva universale. Al di là delle fosse scavate di fresco, 3 lo spirito tedesco tesserà i fili di quella riconciliazione con i simboli ereditati che lo nobilitano, che all’inizio del secolo fece dire a Beethoven: “Siate avvinti, milioni”4 e ancor oggi con rinnovata forza, tenacia e fierezza rivolgerà ai popoli la parola d’ordine di un’età nuova: umanità universale. XILOGRAFIA TEDESCA, SECOLO XVI 314 Fritz Burger N OTE * Fritz Burger, Einführung in die moderne Kunst, in Die Kunst des 19. und 20. Jahrhunderts, Handbuch der Kunstwissenschaft, I, Berlin: Athenaion, 1917. Il volume è stato pubblicato postumo, con una postfazione di Albert E. Brinckmann (pp. 134-135) e la riproduzione del dipinto Es werde Licht. La presente traduzione si riferisce alle pp. V-VII. Le parole stampate in spaziato nel testo originale sono qui rese in tondo. Nella lingua tedesca il termine «Modern» equivale anche ad «attuale», contemporaneo, nel senso in cui, ad esempio, l’italiano usa l’espressione «tecnica moderna»; laddove, per converso, con arte moderna noi ci riferiamo, almeno in ambito specialistico, alle manifestazioni artistiche dal Rinascimento al Neoclassicismo. Le note che seguono sono di E.F. 1 Johann Wolfgang Goethe, Faust, II, vv. 4917-4922. Trad. in versi italiani di Vincenzo Errante, Firenze: Sansoni, 1948, p. 328. 2 Cfr. quanto affermato dall’Autore nel suo Cézanne und Hodler. Einführung in die Probleme der Malerei der Gegenwart, München: Delphin Verlag, 1913, pp. 10 sg. Vd. inoltre l’acuta disamina di Francis Haskell, Le immagini della storia. L'arte e l'interpretazione del passato, (1993), Torino: Einaudi, 1997, pp. 191-217, sui fenomeni espositivi del primo decennio del secolo XX in Europa e segnatamente sulla mostra di Bruges del 1902 riguardante i c.d. “primitivi” fiamminghi. 3 Lo scenario in cui Burger si trova a redigere questa prefazione – non va dimenticato – è quello dei campi di battaglia di Verdun. 4 È dato osservare che una sorta di fil rouge corre fra la introduzione al Cézanne und Hodler e quest’ultima, nel momento stesso in cui lo Studioso, contro ogni fanatismo nazionalistico e avverso ai campanilismi, sia pure artistici, così si esprime: «dobbiamo renderci conto che esattamente ciò che noi oggi definiamo l’elemento “storico” ovvero nazionale nell’opera d’arte, costituisce il dato transeunte, mentre invece ciò che resiste al tempo sta soltanto nel campo dell’arte. Nel suo dominio tutti gli artisti sono fratelli (Brüder)». Riecheggia qui un altro celebre verso dello schilleriano Inno alla gioia, che chiude l’esaltante programma della Nona Sinfonia di Beethoven. UNA TESTIMONIANZA SU FRITZ BURGER (1916) La conclusione della breve rassegna antologica è affidata a questa memoria di un giornale berlinese, il cui fervido periodare restituisce meglio di altre parole il pathos e gli accenti quasi religiosi con cui l’operato di Burger fu accolto da tanta gioventù tedesca in fermento, alla quale egli si era già rivolto in occasione del raduno della Freideutsche Jugend, nel 1913. Ma il testo ci offre, al tempo stesso, un’immagine vivida di questo spirito sospeso fra Apollo e Dioniso, uno sciamano della parola che aspirava a un nuovo, diverso rigore della scienza. «Berliner Tageblatt», edizione serale, 31 maggio 1916 Fritz Burger. Un giovane studioso d’arte ci scrive: chi si oppone all’appiattimento – almeno all’Università di Monaco – è andato a lezione da questo professore. Non uno dei Sette Savi, la cui notorietà, per una volta, vogliamo ignorare; non un eletto, salito in cattedra trentenne: piuttosto, uno intorno al quale s’accalcava la gioventù assetata di fuoco. Chi ancora non reggeva la grandezza acclarata di un Wölfflin, quella stirpe selvaggia che alligna spontanea alle sponde dell’Isar, adorava lui, il bel Cristo dalla bionda criniera. Il giovane sauro si faceva guardingo quando entrava nei vestiboli e nel magnifico androne dell’Ateneo, fiero e raggiante come il dio del Sole, metà artista, metà profeta, discutendo eccitato qualche questione sollevata da un paio di discepoli. Entravamo a frotte nella sua aula, e dopo l’ebbrezza del plauso subentrava l’attesa della Rivelazione. Si toccava con mano perché esistono le accademie: parole veraci, che non possono essere scritte, né stampate. Anima allo stato puro. Poteva essere Michelangelo o Cé315 316 zanne: là dove scorgeva qualcosa di unico e di vero il suo eloquio si scioglieva in un inno. E ardeva sino all’estasi la sua voce, di rara duttilità e armonia; ma sibilava come acciaio affilato quando falcidiava gli epigoni nella loro «semplice attitudine classicista!». L’uomo che lavorava con tanta sobria serietà, di fronte a un foglio in bianco e nero di van Gogh era capace di un entusiasmo che bruciava d’esaltazione. E così improvvisava, come sa fare un artista di genio: e in un istante infiammava cento teste calde. Ora lo ha colpito una qualche pallottola vagante. La scienza piange una perdita. Restano, certo, alcuni suoi scritti; il suo “manuale” proseguirà. Ma per mille giovani è stata un’esperienza inestinguibile. (traduzione di Nicola Curcio) POSTFAZIONE Dopo approfondite ricerche, Elena Filippi presenta la prima monografia critica su Fritz Burger. Questo lavoro la contraddistingue come indiscussa conoscitrice di questo storico dell’arte e della sua epoca. In qualità di nipote di Fritz Burger desidero ringraziarla a nome della famiglia e dei discendenti per averne attualizzato i frutti dell’attività scientifica. In questo libro non solo viene descritto con lucidità e penetrazione il suo cammino individuale, ma al tempo stesso è efficacemente tratteggiato il ruolo che ebbe a rivestire come intellettuale engagé. Facendo perno sulla personalità di Fritz Burger, la Filippi illustra gli inquieti fermenti di quegli anni. I molteplici stimoli che promanano dagli scritti di mio nonno furono spesso in anticipo sui tempi, come mostra anche lo scambio epistolare, spesso controverso, con i contemporanei. La modernità di certe sue idee appare tale a volte ancor oggi. Putroppo, a Fritz Burger non fu concesso di esperire in prima persona gli sviluppi delle sue intuizioni: cadde durante la Grande Guerra, il 22 maggio 1916. Il merito di Elena Filippi sta nell’aver colto e delineato assai opportunamente l’importanza di Fritz Burger, soprattutto per l’età in cui visse. Prima di questo contributo, la Studiosa ha tradotto in italiano la monografia burgeriana sulle ville di Andrea Palladio, e in quell’occasione ha allacciato i contatti col nostro archivio di famiglia. Le siamo pertanto riconoscenti in special modo per il suo impegno e vogliamo formularle il nostro cordiale e amichevole ringraziamento per questo lavoro. Heidelberg, primo marzo 2006 Bert Burger 317 INDICE DEI NOMI Dall’indice dei nomi sono stati espunti i ricorrenti riferimenti ai membri della famiglia Burger menzionati nel testo: oltre a Fritz, Clara Burger von Duhn, i figli Erich, Gerta, Lili Ferhle-Burger, Till; i nipoti Birgit e Bertram (Bert) e i pronipoti. Behr, Shulamith, 107 Belli, Gabriella, 258 Below, Irene, 45 Beltrame, Piergiuseppe, XI Bergson, Henri, 97, 101, 162 Beringer, Karl, 219 Bernabè, Anna, XI Bernheim-Jeune, galleria, 241 Bertotti Scamozzi, Ottavio, 74-76 Besoli, Stefano, 43 Beyer, Andreas, 44 Bignami, Silvia, 196 Bill, Max, 166 Bluthenzweig, M., 109 Boccioni, Umberto, 241 Böcklin, Arnold, 106, 116, 149, 155, 156, 183, 184, 260, 295, 296, 298304 Bode, Wilhelm von, 30, 65 Boehm, Gottfried, 44, 272, 284 Boeheim, Carl, 297 Böhringer, Hannes, 128 Boileau, Nicolas, 83 Bonaparte, Napoleone, 125 Borchardt, Rudolph, 116 Borenius, Tancredi, 82 Botticelli, Sandro, 66 Bowlt, John E., 257 Brakl, galleria, 126 Brandt, Paul, 225, 236, 260 Ackerman, James S., 77, 82 Adler, Daniel, 46 Agosti, Giovanni, 30, 43 Alighieri, Dante, 90 Amaduzzi, Isabella, 283 Amarilli, 299 Andolfato, Vittorio, XI Angelino Carlo, 285 Apollinaire, Guillaume, 241 Apollo, 116, 315 Aristotele, 157 Arnheim, Rudolf (Rudolph), 61, 68 Aubertin, Victor, 119 Augia, re dell’Elide, 220, 257 Aurenhammer, Hans H., 43 Bach, Johann Sebastian, 244, 261 Bacone, Francis Bacon, 31 Badt, Kurt, 60, 61, 68 Baioni, Giuliano, 164 Balla, Giacomo, 239, 240, 242, 243 Barbaro, Umberto, 47 Barbieri, Giuseppe, XI Bardi, Donato di Niccolò di Betto detto Donatello, 55, 109, 116, 201 Battilotti, Donata, 22 Bauer, Reinhard, 125 Bazin, Germain, 163 Beckmann, Max, 61, 122 Beethoven, Ludwig van, 313, 314 319 320 Indice dei nomi Braque, Georges, 243 Braun, Otto, 101 Brinckmann, Albert Erich, 7, 9, 22, 36, 46, 61, 106, 131, 163, 165, 258, 314 Britsch, Gustaf, 199, 200, 202, 203, 254 Brodskij, Josif, 115 Buber, Martin, 17, 19, 24, 25, 97 Buddensieg, Hermann, 62, 113, 126 Buddha, 16, 25 Bülow, Daniela Senta von, 64 Buonarroti, Michelangelo, 10, 12, 19, 25, 32, 50-54, 65, 70, 71, 80, 83-93, 105, 116, 184, 201, 205, 245, 261, 274, 315 Burckhardt, Jacob, 10, 22, 57, 65, 67, 88-90 Burkhardt, Liane, 47, 126, 165, 255, 256 Burresi, Piero, 22 Busch, Wilhelm, 6 Bushart, Magdalena, 106, 128 Büttner, Frank, 283 Campendonck, Heinrich, 233, 237, 238, 241 Carrà, Carlo, 241 Carta Bernardetta, 105, 126, 284 Cartellieri, Otto, 64 Cartesio Descartes, René, Casini Ropa, Eugenia, 257 Caspari, galleria, 126 Castellani, Emilio, 125 Cavalcaselle, Giambattista, 30 Cézanne, Paul, 7, 38, 40, 44, 47, 65, 83-85, 87, 91-93, 95, 105, 106, 121123, 132, 141, 153, 156, 159, 164166, 169, 170, 172, 173, 176-179, 183-187, 189, 190, 192-194, 196, 197, 204, 216, 224, 225, 231, 241, 254-259, 267, 275, 278, 282, 284, 285, 314, 315 Chamberlain, Houston Stewart, 101, 108 Chatwin, Bruce, 68 Christiansen, 101 Cianci, Giovanni, 196 Cohen, Walter, 117, 128 Coriando, Paola, 285 Corinth, Lovis, 122 Corot, Camille, 183, 187 Cortenova, Giorgio, 258 Costantini, Elio, 283 Courbet, Gustave, 183, 192, 260 Cristo 25, 232, 253, 315 Croce, Benedetto, 35 Curcio, Nicola, XI, XII, 24, 67, 265 Curtius, Ludwig, 36 Czerny, Vinzenz, 196 D’Annunzio, Gabriele, 80 Dante Alighieri, Dante Däubler, Theodor, 101 De Angeli, Elena, 107, 128 De Rosa, Maria Rosaria, 282 Decourdemanche, D., 128 Degas, Edgar, 183, 258 Dehio, Georg, 28 Delacroix, Eugène, 183 Della Rovere, Giuliano (papa Giulio II), 51-53, 86 Derp, Clotilde (Clothilde) von, 221223 Descartes, René, 31, 151, 158 Deussen, Paul, 101 Dexel, Walter, 4, 5, 7, 46, 47, 61, 68, 209, 219, 224, 256, 257 Di Genova, Giorgio, 257 Diederichs, Helmuth H., 68 Dieterich, Hans H., 56 Dilly, Heinrich, 43, 45, 130 Dilthey, Wilhelm, 24, 31, 270 Dioniso, 315 Indice dei nomi Diotima, 20, 64 Dix, Otto, 61 Doll Gerstendörfer, Simone, XI Donatello vd. Donato di Niccolò di Betto Bardi Dorfles, Gillo, 68 Drude, Christian, 6, 126, 129, 283 Duhn, Friedrich von, 4, 13, 23, 25, 50, 64, 66, 67, 70, 74, 80, 122, 165, 196, 197, 269, 283 Duhn, Marie von, 66, 113 Duhn, Mia von, 231 Duncan, Isadora, 221-223 Dürer, Albrecht, 10, 19, 25, 83, 86, 87, 95, 96, 163, 183, 249, 250, 253 Durm, Josef, 72, 78, 82 Dvoák, Max, 31, 35, 41, 44, 95, 107, 123 Eberlein, Konrad, 105 Eckhart, Meister, 25, 188 Eddy, Arthur J., 101 Eggum, Arne, 258 Eichner, Johannes, 128 Einstein, Carl, 46, 47, 225, 254, 259 El Greco vd. Theotokópulos Eraclito, 151, 164, 276 Erbslöh, Adolf, 111 Erbsmehl, Hansdieter, X, 24, 25, 108, 129, 164, 165, 259-261, 285 Ercole, 220, 257 Erdmannsdörfer, Bernhard, 64 Erler, Fritz, 183 Errante, Vincenzo, 43, 166, 314 Ewers Schultz, Martina, 260 Farnese, Alessandro, 53 Faust, 64 Fazzini, Giovanni, XI Fertonani, Roberto, 125 Feuerbach, Anselm, 163, 296, 299 Fiedler, Conrad, 31, 39, 44, 162, 175, 321 200, 201, 254, 272, 284 Filippi, Elena, 22, 43, 45, 46, 80, 81, 105, 127, 164, 165, 273, 283-285, 317 Filippi, Luigi, 284 Filippo II di Spagna, 115 Fischer, Kuno, 22, 64, 166 Fogazzaro, Antonio, 78 Franck, Giorgio, 128 Franzini, Elio, 196 Friedel, Helmut, 128 Friedländer, Walter, 106 Froelich, Carl, 261 Furtwängler, Adelheid, 113 Furtwängler, Adolf, 113, 126 Gadamer, Hans-Georg, XII Galimberti, Paola, 282 Gantner, Joseph, 45, 47, 125, 126, 165, 283 Gasparini, Sonia, XI Gauguin, Paul, 110, 121, 123, 194 Gebing, Helga, 128 Geiger, Moritz, 29 Genelli, Buonaventura, 149, 304 George, Stefan, 62, 116 Gerstenberg, Kurt, 163 Geulincx, Arnold, 151 Ghelardi, Maurizio, 65, 105, 126, 284 Giametta, Sossio, 164 Giulio II (papa) vd. Della Rovere, Giuliano Glockner, Hermann, 282 Goethe, Johann Wolfgang, 5, 27, 64, 160, 166, 173, 257, 274, 302, 303, 314 Gogh, Vincent van, 110, 121-123, 184-186, 193, 194, 315 Goltz, Hans, 120, 242 Gontscharova, Natalia, 241-243 Gozzini Calzecchi Onesti, Giuseppina, 129, 166, 198 322 Indice dei nomi Grimm, Herman, 28, 30, 33, 45, 65 Gris, Juan, 243 Grossato, Giovanna, XI Grosz, Georg, 61 Grünewald Neithardt Gothardt Mathis detto Guglielmo II di Hohenzollern, Kaiser, 4, 50 Gurisatti, Giovanni, XI, 22, 128 Gurlitt, Cornelius, 160 Gutkind, Erwin, 97 Guzzo Vaccarino, Elisa, 258 Hahl Fontaine, Jelena, 257 Hahnloser, Hans, 44 Haider, Karl, 183 Halden, Herwarth, 55 Hansmann, Martina, 66 Hardtwig, Barbara, 257 Haring, Keith, 258 Hartlaub, Gustav, 61, 68 Harzenetter, Markus, 125 Haskell, Francis, 314 Hauck, Rolf, 6, 67, 68, 106, 107, 163, 165, 166, 256, 260 Haym, 304 Hebbel, Christian Friedrich, 295 Hedicke, Robert, 28, 31, 43, 61, 91, 106, 284 Hegel, Georg Wilhelm Friedrich, 28, 64, 86, 131, 151, 174, 175, 204, 255, 266, 267 Heidegger, Martin, XII, 278, 285 Heidrich, Ernst, 31, 36 Heine, Theodor, 122 Heinrichs, Hans-Jürgen, 196 Heißerer, Dirk, 254 Hellingrath, Norbert von, 62 Hermann, Friedrich-Wilhelm von, 285 Herterich, Ludwig, 17, 18, 20, 24 Hesse, Hermann, 25 Hetzer, Theodor, 6 Heyse, Paul, 297 Hiebs, B., 217 Hildebrand, Adolf von, 31, 32, 39, 42, 44, 113, 126, 182, 186, 200, 219, 254, 265, 272, 276, 277, 284 Hirschfeld-Mack, Ludwig, 61 Hoberg, Annelore, 128 Hodler, Ferdinand, 7, 38, 40, 44, 47, 65, 83-85, 87, 91, 105, 122, 132, 141, 153, 164-166, 169, 170, 172, 176180, 183, 184, 186, 187, 189, 192, 194, 196, 197, 216, 241, 250, 254, 267, 278, 282, 314 Hoffmann-Axthelm, Dieter, 47, 283 Hoffmeister, Titia, 128 Hofmannsthal, Hugo von, 73, 81, 116 Hokusai, Katsushika, 256 Holbein, Hans il Giovane, 183 Hölderlin, Friedrich, 62 Holz, Arno, 261 Hubert, Hans, 66 Hummel, Rita, 125 Husserl, Edmund, 267 Jachmann, Günther, 254 Jahn, Johannes, 64, 197 Janner, Arminio, 44 Jawlensky, Alexej, 84, 111, 221, 222, 234, 235 Jerschke, Oskar, 261 Justi, Carl, 28, 51, 65 Kandinsky, Wassily, 14, 19, 37, 39, 85, 97, 99-101, 107, 111, 113, 118120, 122, 124, 127, 129, 130, 153, 156, 166, 174, 181, 182, 186, 187, 190-193, 197, 198, 220, 222-224, 227, 228, 246, 258, 265, 277, 285 Kanoldt, Alexander, 111 Kant, Immanuel, 6, 56, 143, 151, 162, 174, 181, 182, 189, 267, 270, Indice dei nomi Karasch, Angela, 125 Kessler, Ewald, X, XI, 7, 66, 80, 81, 163, 196, 256, 259 Kiefer, Klaus H., 46, 254, 259 Kircheisen, Friedrich Max, 125 Kitschen, Friederike, 196 Klee, Felix, 107 Klee, Paul, 39, 107, 111 Klimt, Gustav, 122 Kogan, Moissey, 111 Kohle, Hubertus, XI, 6, 126, 129, 283 Kolbes, Jürgen, 125 Kollwitz, Käthe, 122 Kornmann, Egon, 254 Kort, Pamela, 125 Kostka, Alexandre, 196 Kräubig, Jens, XI, 43, 47, 105 Kraus, Karl, 120 Krell, Oswolt (Oswald), 96 Kröger, Tonio, 112 Kubin, Alfred, 111, 119 Külpe, assistente di F.B., 207 Kultermann, Udo, 22, 43, 44, 46, 165 Kuntz, Edwin, 55, 66 Lachnit, Edwin, 44 Lancret, Nicolas, 183 Lang, Oskar, 43, 62, 115, 127, 152, 165 Langen, Albert, 119 Lankheit, Klaus, 127, 129, 166, 257, 279, 285 Lasker-Schüler, Else, 232 Laurana, Francesco, 55 Lehmann, Dietlind, IX Leibl, Wilhelm, 260 Lenz, Christian, 44, 257 Lenz, Max, 45 Lessing, Gotthold Ephraim, 135, 170, 171, 289, 292, 296 Lichtwark, Alfred, 122 Lipps, Theodor, 29, 43, 128, 268- 323 270, 282 List, Fritz, 62, 67 Liszt, Cosima; Cosima Wagner, 64, 258 Lochner, Ursula, XI, 130 Longhin, Carlo, XI Lorck, Carl von, 7 Lucbert, Françoise, 196 Ludwig, Otto, 182 Lugné-Poë, Aurelien François Marie, 243 Luigi I di Baviera, Ludwig I Wittelsbach, 64 Luigi II di Baviera, Ludwig II Wittelsbach, 64 Lurz Meinhold, 45, 126, 256, 283, 284 Lutero vd. Luther, Martin Luther, Martin, 244, 261 Lüttichau, Mario-Andreas von, 128, 260 Maciuika, John V., 254 Macke, August, 111, 113 Maestro della Vita di Maria, 67 Maeterlinck, Maurice, 97, 174 Magrini, Antonio, 75 Majetschak, Stefan, 44 Makela, Maria M., 23, 125 Manet, Édouard, 123, 183 Mann, Thomas, 109, 110, 112, 125 Manotta, Marina, Manotta, Marina, 43 Marc, Franz, 14, 19, 24, 46, 84, 85, 97, 111, 113, 119-122, 124, 127, 129, 130, 166, 174, 194, 195, 197, 198, 224, 227-230, 232, 237, 238, 241, 242, 245, 246, 253, 259, 260, 265, 278-281, 285 Marc, Maria, 127 Marées, Hans von, 32, 44, 183, 219, 257 324 Indice dei nomi Marelli, Francesca, 282 Marinetti, Filippo Tommaso, 260 Marks, Henry K., 64 Martinelli, Riccardo, 43 Mascilli Migliorini, Paolo, 163 Matisse, Henri, 186, 187, 193, 223, 258 Mauthner, Fritz, Mayer, August L., 67, 82, 129, 133, 254, 257 Mazzetti di Pietralata, Cecilia, XI Mazzotta, Martina, 117, 128 Mefisto, 310 Mehlis, Hans, 198 Meier, Nikolaus, 34, 45, 47, 67, 112, 126 Meier-Graefe, Julius, 183, 196, 197 Menning, Wilhelm Johann, 254 Menzel, 303 Mereschkowsky, Constantin, 101 Merz, Maid, 61 Messineo, Francesco, 255 Meyrink, Gustav, 19, 25, 164, 278, 285 Michelangelo vd. Buonarroti Mino da Fiesole, 53, 109 Mitrinovi, Dimitrije, 97, 99-103, 107 Mittig, Hans-Ernst, 249, 261 Modersohn, Otto, 122 Monet, Claude, 123, 196 Montinari, Mazzino, 164 Morelli, Giovanni, 30 Morgenstern, Karl, 300 Morpurgo-Tagliabue, Guido, 282 Most, Glenn W., 116, 127 Müller, Victor, 260 Müller-Lentrodt, Matthias, 46, 47, 259 Munch, Edvard, 23, 227, 258, 309 Münter, Gabriele, 111, 119, 127 Mylarch, Elisabeth, 106 Nachman, rabbino, 16, 18, 19, 24 Napoleone vd. Bonaparte Naredi-Rainer, Paul von, XI, 105 Nathan, il Saggio, 171 Natorp, Paul, 160 Negri, Antonello, 196 Neithardt Gothardt, Mathis detto Grünewald, 183 Nelson, Steven, 45 Nemes, Marczell von, 106 Neumann, Carl, 50, 64 Nicco Fasola, Giusta, 45 Niemeyer, prof. (Traumulus), 261 Nietzsche, Friedrich Wilhelm, 12, 17, 20, 25, 116, 139, 151, 164, 165, 174 Nigro Covre, Jolanda, 107, 125, 128, 197, 198, 283 Nolde, Emil, 23, 84, 227, 234, 235, 245 Nolte, Ernst, XII Osthaus, Karl E., 122 Pacini, Piero, 261 Paijn, Duan, 107 Palestrina, Giovanni Pierluigi da, 245 Palladio, Andrea di Pietro della Gondola, XI, 23, 27, 33, 40, 55, 6978, 80-83, 87, 89, 91, 105, 114, 116, 124, 164, 172, 273 Palucca, Gret, 220, 222, 258 Panofsky, Erwin, 34 Paolo III (papa) vd. Farnese, Alessandro Papini, Giovanni, 101, 108 Pauli, Gustav, 122 Paulweber, Johann, 254 Pernath, Athanasius, 278, 285 Picasso, Pablo, 84, 97, 121, 166, 183, 187-190, 192, 193, 196, 241, 243, 255, 258 Indice dei nomi Piloty, Karl von, 299, 300 Pindaro, 62 Pinotti, Andrea, 31, 43, 44, 166, 196, 198, 282-284 Piper, Ernst, 125 Piper, Reinhardt, 117, 121 Pizzo Russo, Lucia, 68 Platone, 19, 25, 261, 281 Plotino, 188, 261 Pochat, Götz, XI, 105 Poli, Giampaolo, XI Poli, Roberto, 283 Ponente, Nello, 197 Pontarin, Francesco, XI Pontiggia, Elena, 129, 166, 197, 258, 259, 285 Posada Kubissa, Teresa, 129 Poussin, Nicolas, 183, 295 Preller, Friedrich, 296, 300 Prezzo, Rosella, 127 Price, René, 125 Prichard Agnetti, Mary, 82 Przybyszewski, Stanisaw, 108 Pucci, Piero, 25 Puppi, Lionello, XI, 22, 45, 70, 80, 81, 105, 164, 166, 284 Racine, Jean, 83 Raffaello Sanzio, Raffaello Ragghianti, Carlo L., 44 Raphael, Max, 196, 255 Read, sir Herbert, 128 Reale, Giovanni, 25 Reifenberg, Benno, 4, 7, 62, 131, 163, 225, 258 Rembrandt Rijn, Rembrandt Harmenszoon van Renda, Gerhard, 128 Renoir, Pierre-Auguste, 183 Rethel, Alfred, 183 Rickert, Heinrich, 12 Riegl, Alois, 28, 31, 35, 41-43, 58, 325 95, 131 Rijn, Rembrandt Harmenszoon van, 50, 59 Rilke, Rainer Maria, 62, 115, 127, 223 Rintelen, Friedrich, 36 Rodin, Auguste, 44, 92 Rosenberg, Alfred, 153, 165 Rosenberg, Raphael, XI Rosenzweig, Franz, 24 Rossi, Massimiliano, XI Roters, Eberhard, 260 Roth, Alfred G., 260 Rottmann, Karl, 296 Rousseau, Henri detto Il Doganiere, 194 Rousseau, Jean-Jacques, 220 Rumohr, Karl Friedrich von, 30 Runge, Philipp Otto, 183 Rupprecht, Bernhard, 82 Russell, John, 107 Russolo, Luigi, 241 Sacharoff, Alexander, 111, 221-223, 257 Safranski, Rüdiger, XII Samek Lodovici, Sergio, 44, 284 San Paolo (Paolo di Tarso), 25 Sansovino, Jacopo, 53 Sanzio, Raffaello, 86, 88, 301 Sasportes, José, 257 Sattler, Bernhard, 254 Savonarola, Girolamo, 110 Sbisà, Antonio, 255 Scamozzi, Vincenzo, 74 Scaramuzza Gabriele, 283 Scarpa, Ludovica, 47, 283 Scattone, Giuseppe, 82 Schack, barone Adolf Friedrich von, 4, 132, 149 Schaefer, Albert E., 64 Schäuffelein, Hans Leonard, 35 326 Indice dei nomi Scheler, Max, 278, 285 Schenkendorf, Maximilian (Max) Gottfried von, 109, 117, 125 Schiller, Friedrich, 9, 64, 173, 204, 255 Schirmer, August Wilhelm Ferdinand, 296 Schlink, Wilhelm, 22 Schlosser, Julius von, 30, 44 Schmarsow, August von, 28, 31, 35, 42, 46, 58, 255 Schnabel, Hermann, 111 Schneider, Norbert, XII Schönberg, Arnold, 191 Schopenhauer, Arthur, XII,12, 185, 270, 296 Schroeder, Veronika, 129 Schütz, Otfried, 254 Schwind, Moritz Ludwig von, 183, 299 Sciolla, Gianni Carlo, XI, 43, 46, 163 Scrivano, Fabrizio, 44, 45, Sedlmayr, Hans, 43 Seefried, famiglia, 101 Seidel, Max, 65, 66 Semper, Gottfried, 42 Settis, Salvatore, XI Severini, Gino, 241-243 Sgorlon, Carlo, 44 Shakespeare, William, 83 Siede, Irmgard, 66 Siedel, Monika, XI Simmel, Georg, 25 Sinclair, Upton, 97 Slevogt, Max, 257 Socrate, 20 Söntgen, Beate, 128 Spengler, Oswald, 116, 127 Springer, Anton, 28, 65 Stefano Besoli, Stein, Edith, 269, 278, 283 Steiner, Rudolf, 231, 258 Stuck, Franz von, 122, 125, 183 Süskind, Patrick, 127 Swarzenski, Georg, 122 Szylin, Anna Maria, 65 Teocrito, 299 Testa, Alberto, 257 Thannhauser, galleria, 119 Thannhauser, Heinrich, 119 Thannhauser, Justin, 126 Thausing, Moritz, 29 Theotokópulos, Domìnikos detto El Greco, 19, 90, 106, 115, 121, 129 Thode, Henry, 12, 13, 27, 28, 35, 5052, 64, 65, 67, 70, 71, 80, 94, 106, 112, 177, 258 Thoma, Hans, 106, 183, 237, 239 Tieck, Ludwig, 295, 296, 304 Tietze, Hans, 28, 31, 33, 38, 39, 114, 122, 131, 197 Tiziano vd. Vecellio Tovo, Daniela, XI Traverso, Leone, 81 Trübner, Wilhelm, 125 Tschudi, Hugo von, 106, 111, 119, 120, 123, 176 Türr, Karina, 254 Uhde, Fritz von, 125 Uhlig, Franziska, 128 Utticher, 101 Vaccarino, Elisa, 257 Varallo, Franca, XI Vasari, Giorgio, 163 Vecellio, Tiziano, 73 Velde, Henry van de, 122 Venturi, Adolfo, 30, 43 Verdon, Timothy, 25 Verhaeren, Emile, 97 Veroli, Patrizia, 257 Viani, Simone, 284 Indice dei nomi Vico, Giambattista, 151 Vinnen, Carl, 122, 129 Vischer, Friedrich Theodor, 29, 265268, 270, 271, 282, 283 Vischer, Robert, 29, 96, 265, 270, 272, 276, 283 Vitruvio, Marco Pollione, 56, 116 Vitt, Walter, 68, 256 Vöge, Wilhelm, 12, 35 Volkelt, Johannes, 29, 270, 272, 283 Volpi, Enrica, XI Volpi, Franco, XII, 22 Vossler, Karl, 64 Wagner, Richard, 50, 64, 92, 295 Walden, Herwart, 242, 260 Warburg, Aby, 123 Waschek, Matthias, 22 Weber, dr., 35 Weber, Max, 22 Wedekind, Frank, 258 Weinrauch, dr., 35 Werefkin, Marianne, 111, 221 Wickhoff, Franz, 123 327 Wilde, Oscar, 10 Wille, Hans, 128 Winckelmann, Johann Joachim, 5, 28, 89 Wittelsbach, principi di Baviera, 112 Wittgenstein, Ludwig, 171 Wolf, Gerhard, XI Wölfflin, Heinrich, X, 4, 10, 13, 14, 23, 31, 33-35, 38, 41, 44-47, 158, 163, 165, 174, 184, 204-208, 210, 211, 216, 254-257, 265, 270-274, 276, 281, 283, 284, 315 Worringer, Wilhelm, 28, 29, 36, 38, 94, 107, 117, 118, 121, 122, 128, 131, 186, 196, 198, 269, 280, 283 Wülfert, 111 Zambrano, Maria, 127 Zarathustra, 59 Zecchi, Stefano, 127 Zeller, Eduard, 282 Zeus, 253 Zevi, Bruno, 80 Zorzi, Gian Giorgio, 81 TAVOLE A COLORI 329 331 333 335 DIDASCALIE ALLE TAVOLE A COLORI pagina 329: Fritz Burger, Der Baum der Erkenntnis; Sintflut, 1916, Villa Burger-von Duhn, Heidelberg pagina 331: Fritz Burger, Es werde Licht, 1916 Villa Burger-von Duhn, Heidelberg Franz Marc, Tierschicksale, 1913, Kunstmuseum, Basel pagina 333: Fritz Burger, Selbstbildnis, 1915, presso Dierk Burger, München pagina 335: Fritz Burger, Waldlichtung, 1916, presso Birgit Burger, Villa Burger-von Duhn, Heidelberg AREE SCIENTIFICO–DISCIPLINARI Area 01 – Scienze matematiche e informatiche Area 02 – Scienze fisiche Area 03 – Scienze chimiche Area 04 – Scienze della terra Area 05 – Scienze biologiche Area 06 – Scienze mediche Area 07 – Scienze agrarie e veterinarie Area 08 – Ingegneria civile e Architettura Area 09 – Ingegneria industriale e dell’informazione Area 10 – Scienze dell’antichità, filologico–letterarie e storico–artistiche Area 11 – Scienze storiche, filosofiche, pedagogiche e psicologiche Area 12 – Scienze giuridiche Area 13 – Scienze economiche e statistiche Area 14 – Scienze politiche e sociali Le pubblicazioni di Aracne editrice sono su www.aracneeditrice.it Finito di stampare nel mese di giugno del dalla «ERMES. Servizi Editoriali Integrati S.r.l.» Ariccia (RM) – via Quarto Negroni, per conto della «Aracne editrice S.r.l.» di Roma