DIRITTO e ROVESCIO Nuova Serie GIUSEPPE PERA UN MESTIERE DIFFICILE Il magistrato Giuffrè editore DIRITTO e ROVESCIO Nuova Serie Giuseppe Pera UN MESTIERE DIFFICILE Il magistrato Giuffrè Editore Ai miei amici e allievi magistrati PRESENTAZIONE Giuseppe Pera, dopo essersi laureato a Pisa nel 1952, è entrato in Magistratura nell’anno 1955: è stato uditore giudiziario a Firenze, poi è stato nominato pretore a San Miniato di Pisa e da ultimo ha svolto funzioni di giudice presso il Tribunale di Lucca. Nel 1964 ha lasciato la Magistratura dopo essere stato nominato assistente ordinario di Diritto del lavoro nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Pisa, ove ha insegnato, come professore ordinario, dal 1966 al 2001. Gli anni giovanili lo hanno visto impegnato politicamente: dopo essere stato espulso dal P.S.I., è entrato nell’Unione Socialisti Indipendenti; nello stesso periodo ha collaborato, talvolta con lo pseudonimo di Arturo Andrei, a varie Riviste, tra le quali meritano di essere segnalate Critica Sociale, Risorgimento Socialista, Il Mulino e Il Ponte. Conclusa, dopo otto anni e mezzo, la carriera di magistrato, Giuseppe Pera ha pubblicato nel 1967, con la Casa Editrice Il Mulino, il libro che ora, su sollecitazione di alcuni allievi, abbiamo ritenuto di ristampare. Immutate sono le ragioni che ci hanno portato a prendere questa iniziativa. Il libro, come è scritto nella premessa alla precedente edizione, « non denuncia scandali, non si at- VIII PRESENTAZIONE tarda a raccontare pettegolezzi, non pronuncia requisitorie e non propone astratte riforme in nome di questa o quella ideologia ». È un libro, quindi, che testimonia l’esperienza di un ex magistrato, ricostruita sempre dall’interno, e cioè dall’intimità della sua coscienza. La crisi della giustizia che viene denunciata in questo libro si percepisce in tutta la sua attualità, nonostante il notevole tempo trascorso; e per questo motivo lo riproponiamo ai lettori di oggi. Milano, maggio 2003 INDICE Presentazione . . . . . . . . 1. Un mestiere, una scelta 2. I giudici quali sono . . . 3. I processi e la giustizia. 4. Le riforme che urgono. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . VII 1 47 87 171 LA LEGGE PENALE PER GL’IMPIEGATI Il nostro sapientissimo padrone con venerato motu proprio impone, che da oggi in avanti ogn’ impiegato per il bene dello stato, (per dir come si dice) ari diritto, e in caso d’imperizia o di delitto, lo vuol punito scrupolosamente colla legge seguente: Se un real segretario o cameriere, tagliato, puta caso, a barattiere, ficca, a furia di brighe, in tutti i buchi un popolo di ciuchi; Se un cancellier devoto della zecca sulle volture e sul catasto lecca, e attacca una tal qual voracità alla Comunità; Se a caso un ispettor di polizia sganascia o tiene il sacco, o se la spia inventa, per non perder la pensione, una rivoluzione; son piccoli trascorsi perdonabili, dall’umana natura inseparabili: né sopra questi allungherà la mano il benigno sovrano. Ma nel delitto poi di peculato, posto il vuoto di cassa a sindacato, chi avrà rubato tanto da campare, sia lasciato svignare; chi avrà rubato poco, si perdoni, e tanto più se porta testimoni d’essersi a questi termini ridotto per il giuoco del lotto; Se un real ingegnere o un architetto ci munge fino all’ultimo sacchetto, per rimediar a questa bagatella si cresca una gabella. Se saremo costretti a trapiantare un vicario bestiale atrabiliare, tanto per dargli un saggio di rigore sarà fatto auditore. Se un consiglier civile o criminale, sbadiglierà sedendo in tribunale, visto che lo sbadiglio è contagioso, si condanni ai riposo; Se poi barella, o spinge la bilancia a traboccar dal lato della mancia, gl’infliggeremo in riga di galera congedo e paga intera. Se un ministro riesce un po’ animale, siccome bazzicava il principale, titolo avrà di consigliere emerito e la croce dei merito. Giuseppe Giusti (1835) 1. Un mestiere, una scelta Sono stato per otto anni e mezzo magistrato, avendo cosı̀ la ventura di compiere una esperienza decisiva nella mia personale vicenda; è in questi anni, posti tra il grigiore e l’incertezza spesso tormentosa circa le prospettive che sono tipiche del periodo immediatamente successivo al compimento degli studi universitari e la mezza età, che è avvenuta, per il bene e per il male, la mia maturazione, certo in gran parte a spese (ma spero, non troppo!) di quanti hanno avuto a che fare col mio ufficio. È in questa incombenza, in sostanza, che mi è capitato di divenire uomo, con quei tratti e quelle caratteristiche secondo le quali ad un certo momento la nostra personalità, quale risultato del dialettico reagire delle esperienze buone o cattive, liete e meno liete, ricche o povere di contenuto umano, sulla spinta naturale del carattere che ci viene « per li rami », più o meno rigidamente si fissa ed è destinata a consolidarsi e ad insecchirsi nel tempo, in quel naturale processo che ci fa vecchi, oltre che nelle membra, nello spirito e nel modo di porsi innanzi alla realtà. Sono maturato cosı̀ nel giudicare i miei simili, esplicando (ma non è il caso di cadere in una abusata retorica) una funzione tra le più essenziali in una civile convivenza, trascorrendo le 2 UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO mie giornate tra fascicoli civili e processi penali, tra prove, ispezioni e ricerche nei campi più disparati. E mentre sono pressoché agli inizi di un altro capitolo della mia vita al quale mi sono avviato senza pentimenti per la spinta che ho avuto in sorte di vedere nei libri ed in quello che essi racchiudono e rappresentano la fonte inesauribile e pressoché magica di un quotidiano diletto, che pur ha le sue punte faticose e tormentose, sento che resterà sempre in me (semel abbas, semper abbas!) questa esperienza decisiva che ho alle spalle. Di qui lo spunto a queste riflessioni che mi accingo a stendere, lo confesso, sull’onda di un sentimento che prepotentemente mi muove, proprio perché sono soddisfatto di questa mia vicenda e di aver compiuto in essa le mie prime incancellabili prove, perché in essa molto ho imparato e dalle vicende e dai protagonisti, onde quando frequentemente vi ripenso ciò non avviene senza una nota di rimpianto e di malinconia. Ma se dietro a queste pagine c’è, com’è naturale che avvenga, un sentimento che mi induce altresı̀ a dedicarle, con pienezza di affetto, ai miei ex colleghi dei quali in genere conservo un caro ricordo e massimamente a quelli, non scarsi, dai quali appresi buone lezioni e che talora costituirono per me un modello, mi muove altresı̀ la speranza di fare cosa non del tutto inutile per quanti hanno a cuore le sorti della giustizia nel nostro paese. Spero cioè che in questo periodo in cui per più versi e da ogni parte dell’opinione pubblica, ivi compresa quella particolarmente significativa degli stessi magistrati, si denuncia la gravissima crisi nella quale versa la nostra ammini- UN MESTIERE, UNA SCELTA 3 strazione giudiziaria, non sia trascurabile questa testimonianza di un ex magistrato. Ed in verità, se non c’è bisogno di aggiungere una ennesima voce al coro pressoché unanime delle lamentele, posto che la crisi non solo è, per adoperare una espressione di moda, nelle cose, ma è ormai nella coscienza dei più, della generalità dei cittadini, credo che vi sia viceversa necessità di indagini accurate e spassionate in proposito, per sollecitare ancora una volta e riforme e rimedi, pur se, per il carattere stesso di questo scritto parziale e limitato, non è certo nelle mie intenzioni il proposito di colmare lacune e di fornire una completa, esauriente disamina. Invero la più larga opinione è in prevalenza informata dell’andamento delle cose in questo fondamentale servizio civile a mezzo delle indagini giornalistiche ed ognuno ben sa quali siano, in una con gli indubbi vantaggi di questo mezzo di comunicazione delle idee, gli inevitabili limiti delle stesse e con ciò stesso il pericolo che esse rappresentano. Negli scritti giornalistici, infatti, quand’anche non vi domini come spesso avviene il settarismo di parte, è sempre di prammatica, forse per la parzialità e la superficialità delle indagini condotte, forse per l’andamento naturale del discorso in quella sede (il c.d. colore), una certa dose di inesattezze, di approssimazioni più o meno notevoli e talora di vero e proprio travisamento dei fatti; non per niente di un qualsiasi contributo di discutibile attendibilità si suole affermare che è scritto in stile giornalistico, ove la valutazione sostanzialmente negativa è semmai di frequente temperata dal rilievo che si tratta di un lavoro brillante e scorrevole. Le stesse crona- 4 UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO che dei fatti giudiziari sono in genere zeppe di queste mende e lo stesso avviene, come è logico, quando si intende parlare di cose assai più grosse, dei fasti e nefasti dell’amministrazione giudiziaria. Al minimo si dicono sempre delle mezze verità; spesso si cade ancor più in basso. Già una volta mi accadde di dover protestare, in un foglio scritto da giudici per i giudici (1), contro codesta superficialità giornalistica, prendendo spunto dalla circostanza che un nostro giornalista che non a torto va per la maggiore anche per il fatto d’essersi cimentato con lusinghiero successo in cose letterarie, in relazione ad un famoso caso di errore giudiziario, si chiese angosciosamente se i magistrati « responsabili » del medesimo fossero stati, come si sarebbe dovuto fare a detta dell’articolista, subito rimossi dal loro ufficio! E assai di recente, per fare un altro esempio clamoroso, in una inchiesta si è scritto (2) che per i magistrati italiani la identificazione tra morale e sesso è assoluta e corrente, onde « termini che sono stati banditi dal vocabolario corrente degli italiani (e che ricordano i romanzi di Guido da Verona o i vecchi trattati di sessuologia di Paolo Mantegazza)... appetito carnale, lascivia, concupiscenza, lussuria, libidine costituiscono il tessuto connettivo di centinaia di sentenze, da quelle dettate dalla Cassazione a quelle stilate dai pretori »; e pertanto parrebbe, a tacere delle osservazioni che potrebbero farsi sulla accettabilità della proposizione princi(1) G. PERA, Valutazioni frettolose, in « Terzo Potere », gennaio-febbraio 1962. (2) Vd. N. AJELLO, Le toghe di piombo, ne « L’Espresso » del 2 maggio 1965. UN MESTIERE, UNA SCELTA 5 pale, che i giudici italiani abbiano nella loro testa un tal quale rovello... per certe cose, che sarebbe in essi irrefrenabile il bisogno di parlarne in qualsiasi loro pronuncia, anche laddove, nella materia del contendere, per le passioni più basse non vi sia il minimo aggancio obiettivo, dovendosi decidere, putacaso, di un credito o di un reato colposo e che quindi il povero cittadino, costretto malgrado lui a frequentare certi ambienti, dovrebbe tener presente d’avere a che fare con pericolosi maniaci sessuali! Da tutto questo sorge, per quanti ne abbiano la possibilità, l’obbligo morale di contribuire viceversa ad una onesta e non tendenziosa informazione; ed è in questo ordine di idee che, accomunando alle ragioni del cuore quelle della testa, mi accingo a rendere questa testimonianza, lieto se potrò obiettivamente recare un pur modesto contributo ad una causa cosı̀ grande e nobile quale quella del miglior assetto dell’amministrazione giudiziaria, una causa che dovrebbe sommuovere e trascinare ogni cittadino premuroso dell’interesse generale in una civile convivenza. Naturalmente, per valutare il peso che obiettivamente queste riflessioni possono avere, è necessario considerare che l’esperienza personale dalla quale prendo spunto, se è stata decisiva sul piano del curriculum individuale, non può dirsi piena e complessa come quella che sta dietro a chi lascia l’ordine giudiziario avendo trascorso in esso tutta la sua vita fino al momento fatale del pensionamento o larga parte, comunque, della sua esistenza. Otto anni e mezzo di attività giudiziaria non sono molti, in particolare se si toglie il primo anno di uditorato, 6 UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO cioè di mero tirocinio senza effettivo esercizio delle funzioni; in un arco di tempo cosı̀ relativamente breve, il magistrato compie, a mio parere, solo la parabola inevitabile del suo definitivo inserimento nell’ambiente, si fa sostanzialmente le ossa, si consolida nella sua personalità. Con larga approssimazione, è solo dopo un decennio circa di attività che il giudice supera il periodo di assestamento e comincia a porsi e ad operare, con la piena maturità acquisita nella varia esperienza quotidiana; ed è solo con l’esperienza intensamente vissuta che, specialmente in queste funzioni, ci si forma e si migliora sempre più, relativamente avvicinandosi al modello ideale. La mia testimonianza soffre quindi indubbiamente di questa limitatezza dell’esperienza accumulata. In secondo luogo è bene che dica come io abbia svolto le funzioni di magistrato in determinati uffici ed in determinati ambienti, certo laddove non possono essere cosı̀ intense come in altre situazioni le occasioni decisive per potersi rendere conto appieno delle caratteristiche attive e passive del servizio. In concreto fui per un anno uditore vicepretore in una grossa pretura di una città media, essendo ivi destinato al penale e cosı̀ trascorrendo larga parte del mio tempo sui fascicoli dei procedimenti penali per lesioni colpose derivanti da fatti della circolazione stradale. Poi per cinque anni ho compiuto le mie prove decisive, come pretore, in una cittadina della valle d’Arno ovunque famosa per lo strillare delle cicale di carducciana memoria, in un ambiente avente come tutti gli ambienti certe irripetibili caratteristiche e umane e specificata- UN MESTIERE, UNA SCELTA 7 mente rilevanti sul piano del lavoro giudiziario; ad esempio in quel mandamento i procedimenti penali derivano con schiacciante prevalenza dalla circolazione stradale, contandosi le truffe e i furti sulle punte delle dita e risalendo l’ultimo omicidio volontario a circa trenta anni innanzi: solo nello scorcio della mia permanenza si verificò qualche grave episodio di sangue nell’ambiente della massiccia emigrazione meridionale avvenuta nell’ultimo decennio, ciò costituendo sociologicamente, con il contemporaneo abbandono delle campagne da parte dei nativi, il dato più imponente di questa Italia che va, in mezzo a notevoli difficoltà, felicemente rimescolandosi nelle sue varie stirpi. Infine ho trascorso l’ultimo periodo nel tranquillo tribunale della mia città natale, con funzioni anche qui promiscue, nel penale e nel civile; e la mia città è altrettanto ben nota perché i suoi abitanti sono in genere alieni per calcolata natura da ogni fatto che possa ficcarli nei guai, intenti com’essi sono a perseguire, senza avventure pericolose e con molta proverbiale, arida taccagneria, il loro « particulare »; uomini « d’ordine », insomma, nell’accezione meno simpatica e meno nobile del termine, tanto che qui, dall’unità nazionale, la corte d’assise ha tenuto aperti i battenti per celebrare, di norma, processi, anche famosi, quivi trasferiti per legittima suspicione dalle più turbolente province, ché altrimenti gli indigeni possono fornire lavoro per duetre udienze all’anno e magari per un vilipendio addebitabile a qualche stravagante! Nel complesso, quindi, ho lavorato in ambienti tranquilli, dove la grossa delinquenza è rara; in uffici, per cosı̀ dire, di 8 UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO ordinaria amministrazione, senza eccessivo sovraccarico di incombenze. Non ho perciò conoscenza diretta di quegli uffici, posti in particolare nelle grandi città, nei quali, per qualità e per quantità, la crisi della giustizia appare veramente macroscopica e ineludibile. Non ho nemmeno esperienza di tutta la trafila dell’amministrazione giudiziaria, ho conosciuto solo alcune delle funzioni che possono essere in concreto commesse ad un magistrato e che si prospettano in realtà secondo una gamma assai ricca. Quindi una esperienza non solo temporalmente, ma anche qualitativamente e per più ordini di ragioni limitata; limitatezza che ovviamente influisce, come ho premesso, sul valore di questa testimonianza la quale, a sua volta, può apparire forse in parte condizionata in senso negativo dal tipo specifico di esperienza compiuta, da quelle certe cose con le quali ho avuto a che fare nei tre uffici ricoperti. Vedano i cortesi lettori quale peso possa cosı̀ obiettivamente attribuirsi a queste pagine, in particolare quando mi indurrò a parlare di situazioni delle quali non ebbi conoscenza diretta, per formulare talune idee sulla crisi del sistema in generale. Ho già detto per inciso che mi considero soddisfatto della mia esperienza di magistrato; ed in verità penso di aver fatto a suo tempo la scelta migliore tra le diverse prospettive che, più o meno teoricamente, avevo innanzi a me dopo la laurea in giurisprudenza, cosı̀ come, presentandosi negli stessi termini la situazione, non esiterei ad imboccare di nuovo quella via. Ora può essere interessante che io chiarisca le ragioni di questa mia UN MESTIERE, UNA SCELTA 9 conclusione, specialmente in rapporto alle indagini che cominciano a farsi, in sede sociologica e psicologica, in ordine alle motivazioni e alle spinte che possono indurre nella società italiana un giovane ad entrare in magistratura (3), come testimonianza — su questo piano — di un modo particolare di porsi innanzi alla questione che probabilmente non è il più diffuso, ma nemmeno, forse, del tutto raro. Ciò importa che io dica per quali ragioni, certo del tutto personali, scelsi di divenire magistrato e per le quali, se non si fosse presentata la possibilità di dedicare il resto della mia vita allo studio della materia di elezione, certamente avrei l’onore di indossare ancora la toga. Dico subito che scelsi, deliberatamente e coscientemente, per vocazione. E mi spiego, affinché sia chiaro cosa intendo dire quando parlo di vocazione; non adopero questa parola alquanto impegnativa per dire che intesi compiere una scelta aprioristica compiuta con l’unico intento di servire in assoluto un certo ideale al pari di chi, per ispirazione religiosa o di redenzione sociale, lascia il mondo, rinuncia alla soddisfazione dei personali interessi e si fa o sacerdote o militante rivoluzionario. Intendo più modestamente dire che scelsi nello sforzo di ricercare la professione nella quale mi fosse possibile, più che altrove, combinare il soddisfacimento delle esigenze elementari di vita, posto che la natura lungi dall’avermi fatto asceta mi ha dato una certa bramosia di vivere alquanto prosai(3) Vd. ad es. l’iniziativa illustrata da A. BERIA DI ARGENTINE, Una indagine sull’Amministrazione della Giustizia in Italia, ne « La Magistratura », gennaio 1963, p. 4. 10 UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO camente, con il minor disagio possibile per la mia persona e per il mio carattere. Posta la mia naturale inclinazione, se non agli studi severamente condotti, ad un certo lieto bighellonare nei vari settori della cultura che si incentrano sui problemi dell’umana convivenza, se la sorte mi avesse concesso la rara fortuna di potermi bellamente disinteressare del pane quotidiano, certo non avrei bussato alla porta di nessuno e me ne sarei rimasto intento alle cose a me più care secondo una scelta che, rispettate le distanze che corrono tra l’uomo di genio ed il comune dilettante, mi avrebbe posto sullo stesso piano del non laureato Don Benedetto. Ma la dea fortuna non ritenne di dover essere cosı̀ prodiga nei miei confronti e poiché a quei tempi nemmeno nel bilancio universitario v’era quel poco che può consentire ad un giovane desideroso di proseguire negli studi la possibilità — per me presentatasi più di dieci anni dopo — di sbarcare il lunario, dovetti scegliere altrimenti. E poiché madre natura mi ha fatto, d’altro canto, senza presunzioni e senza iattanza, uomo insofferente di legami gerarchici, di dipendenze necessarie, intollerante delle costrizioni dello spirito comunque esse si manifestino e talora anche delle farisaiche convenienze, desideroso insomma, nella misura umanamente possibile, di vivere in condizioni di piena indipendenza, se non materiale, quanto meno spirituale, tanto che ritengo che qui sia il problema essenziale che l’umanità deve risolvere se vorrà dirsi veramente civile (garantire a tutti la massima misura possibile di libertà e di rispetto della dignità, superando tutte le tirannidi di vario colore, quelle apertamente conclamate UN MESTIERE, UNA SCELTA 11 e quelle che di fatto la società tende sempre a costituire nel suo seno), mi resi conto che nelle mie condizioni di uomo bisognoso e di laureato in diritto non v’era soluzione migliore di quella di divenire magistrato. Volli essere giudice soprattutto per assicurarmi il massimo di indipendenza possibile, nel senso più elevato del termine, avendo da risolvere il problema del minimo di garanzia economica, ciò costituendo, dal mio punto di vista, l’obiettivo essenziale da raggiungere. Il magistrato ha innanzi a sé solo una missione istituzionale da compiere, quella di operare avendo come unico metro e limite la legge, da ricostruire nella sua coscienza, innanzi agli infiniti casi della vita che gli si prospettano, con una libera operazione spirituale; egli non ha né gerarchi né padroni, ma lo domina costituzionalmente solo il dovere di attenersi, secondo coscienza ed equità, al precetto di legge. Ed il magistrato può in concreto utilizzare in pieno questa sua felice, istituzionale, posizione, può essere veramente libero da ogni servaggio nei limiti del suo ufficio. Certamente sussiste un problema di garanzie obiettive di questa posizione di indipendenza, alcune già poste concretamente e da tempo nelle nostre leggi, altre delle quali tuttora si discute; ma, in relazione a queste rivendicazioni di una più piena e completa garanzia dell’indipendenza (ad esempio con la totale abolizione della carriera), può dirsi che già oggi il magistrato, se vuole, può essere effettivamente indipendente. Già oggi il magistrato gode, ad esempio, dopo il periodo iniziale, dell’inamovibilità; il che significa che se egli si comporta bene, senza dar luogo a gravi censure, 12 UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO se si contenta di quello che ha, della sede assegnatagli, della donna legittimamente avuta in sorte, se adempie cioè a tutti i suoi doveri e mantiene una specchiata condotta in ufficio e nella vita privata (ma le garanzie non debbono valere nel senso di favorire la violazione di questo minimo!), nessuno può torcergli un capello ed egli può continuare ad amministrare giustizia in una condizione di effettiva sovranità che nessun potere, nessuna autorità, nessuna conventicola possono sminuire. Ora a me è sempre parso che tutto questo fosse di un valore inestimabile e non ragguagliabile con alcuna moneta. Proprio perché a questo soprattutto tenevo, non ho mai provato sentimenti di invidia verso chi, avendo i miei stessi titoli in astratto, magari nel regno del sottogoverno, godeva di più laute prebende e di condizioni comunque più favorevoli; anzi, a dire il vero, mi sono sentito sempre, pur evitando di mettere in rilievo la cosa con un atteggiamento provocatorio di antipatie, in condizioni di gran lunga più invidiabili, posto che mai, in nessuna occasione, se avessi osservato gli ovvi limiti sopra indicati, nessuno avrebbe potuto chiamarmi a rapporto, chiedere spiegazioni sul mio operato o darmi istruzioni di sorta. In questo senso è vero quanto frequentemente si afferma, magari al fine di difendere un determinato assetto tradizionale della magistratura, che cioè la prima garanzia di indipendenza del magistrato sta nella coscienza morale del medesimo; ancor di più è difficile poter essere buoni magistrati se non si è pervasi da questo spirito e da questa volontà di indipendenza. Ecco perché io ringrazio la UN MESTIERE, UNA SCELTA 13 sorte di avermi consentito quanto più corrispondeva alla mia più naturale ed invincibile inclinazione. Ed in verità non c’è stata mai una occasione nella quale io abbia sentita lesa la mia libertà di coscienza, mai una occasione nella quale in definitiva non abbia potuto affermare quanto l’intimo mi dettava, nei limiti ovviamente della mia competenza; al massimo, quando operava ancora la norma che consentiva al procuratore della repubblica di avocare insindacabilmente al tribunale un procedimento di naturale competenza del pretore, norma felicemente caduta a seguito di una ottima sentenza della Corte Costituzionale per la quale io brindai, in qualche raro caso ebbi l’impressione che mi si volesse sottrarre un processo ad hoc per ragioni non molto chiare ed inconoscibili: poteva esserci cioè un’« aggiramento » del giudice in forma di ineccepibile legalità, mai poteva esserci coartazione o tentativo di pressione diretta. Ed anche fuori dell’ufficio, nella vita civile, non ho mai sentito menomata la mia personalità di uomo libero. Cosı̀, in particolare, non mi fu impossibile, anche quando come pretore di una cittadina di provincia ero nella ristretta cerchia delle « autorità » che nel nostro paese sono, com’è ben noto, anche ecclesiastiche, comportarmi, con il dovuto rispetto di convenienza verso quanti rappresentano cerchie più o meno vaste della comunità, senza alcun disagio umiliante per la mia coscienza non solo laica, ma fermamente non toccata dalla grazia divina, avendo sempre cercato di attenermi anche qui ad una certa dignità, il che, oltrettutto, è essenziale per poter ottenere il rispetto degli « altri ». In realtà tutto può 14 UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO crollare, l’uomo può vanamente umiliarsi e nel contempo umiliare i valori che sono di gran lunga più grandi della sua misera persona e quindi indisponibili, solo se non lo sorregge una intima consapevolezza e la ferma volontà di essere coerente; ed è da questa deprecabile deficienza che, al di là della legge e delle forme istituzionali, può derivare quel distorcimento nella società civile che fa sı̀ che talora, indipendentemente dall’assetto formale generale, si sfoci, in pratica, in un clima di regime effettivo, con una serie di verità ufficiali non scritte, ma egualmente e più pericolosamente operanti, tanto da piegare spesso i singoli ad un volgare conformismo. Per mio conto mi sono sentito sempre liberamente fuori di un siffatto clima, anche se spesso l’ho avvertito attorno a me e nelle più varie direzioni, posto che, quando gli uomini sono intimamente disposti a servire, si moltiplica il numero di quelle entità, astratte o ben altrimenti corpose, rispetto alle quali essi reputano opportuno di dover soffocare, peccando contro il più vero degli imperativi morali, il loro spontaneo convincimento. E cosı̀, ad esempio, proprio nella vasta aula romana nella quale si svolgono le prove scritte dei vari concorsi, in occasione dell’esame di aggiunto giudiziario incontrai un collega che si meravigliò di come io osassi talora, nei miei scritti, criticare gli indirizzi della Cassazione! Altra volta quando in occasione di una cerimonia ufficiale porsi, come sempre, il mio saluto al vescovo in una forma compatibile con la coscienza di miscredente, subito dopo mi trovai innanzi, maliziosamente sorridente, chi, ben conoscendomi, mi disse: « volevo proprio vedere come si UN MESTIERE, UNA SCELTA 15 sarebbe comportato! », al che io risposi che certe cose non potevano ovviamente costituire un problema. Nessuna invidia, pertanto, nei confronti di altri materialmente più fortunati; ma spesso l’intima, profonda, indicibile soddisfazione di questa posizione di indipendenza, in particolare quando, per ragioni di ufficio, scoprivo nei fatti l’inevitabile e naturale differenza tra il giudice ed il burocrate al quale, più o meno correttamente, sono rivolti ordini o istruzioni la cui inosservanza può essere duramente pagata. Come pretore presiedevo la commissione elettorale mandamentale e questo servizio era affidato, nell’ambito della burocrazia comunale, ad un funzionario onestissimo, ossequiente fino all’abnegazione ai doveri di ufficio, pur se nel suo animo v’era la contropartita di un eccessivo, timoroso rispetto delle superiori direttive cosı̀ come, forse, nella sua testa, non era ben chiara la differenza che corre tra la legge e le circolari esplicative. Ora in una cittadina vicina, in un certo momento il partito al governo municipale, partito che non gode esattamente delle mie simpatie, ebbe il timore di riuscire sconfitto nella prossima consultazione elettorale e, usufruendo della assoluta disponibilità di massicce schiere di adepti, ritenne di dover ricorrere al rimedio di far crescere nelle liste il numero dei suoi sostenitori; e poiché in quella città, disponente dell’unico attrezzato ospedale della zona, erano nati moltissimi cittadini di famiglie residenti nei comuni viciniori, vi fu una richiesta in massa di trasferimenti ai fini elettorali, usufruendo della norma che consente appunto al cittadino di optare tra il comune di 16 UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO residenza e quello di nascita a quei fini. Pare che la prefettura si preoccupasse molto di questa situazione per ragioni politicamente inverse a quelle che l’avevano determinata, ed un giorno l’anzidetto funzionario venne a dirmi di codesta preoccupazione e di come un viceprefetto in visita ispettiva avesse caldamente raccomandato di farvi fronte e di prospettare « al signor pretore » l’opportunità di respingere le domande; risposi che come cittadino potevo certo deprecare che la legge permettesse di scegliere il domicilio elettorale sulla base di una circostanza che nell’epoca attuale si risolve sempre più di frequente in termini ostetrico-ginecologici e che, su questo piano, si poteva prendere in considerazione, de lege ferenda, la proposta restrittiva fatta, per l’elettorato amministrativo, in una famosa predica inutile di Luigi Einaudi; ma come soggetto chiamato ad applicare la legge... l’avrei scrupolosamente applicata, previo controllo dei requisiti formali richiesti, non importandomi doverosamente niente delle vicende elettorali di quel certo comune; soprattutto mi premurai di tranquillizzare l’onesta coscienza del bravo e timoroso burocrate. Finora ho detto del valore della indipendenza del magistrato dal punto di vista subiettivo, sul piano della scelta personale di una professione in condizioni date. Ma ovviamente, pur potendosi con estrema franchezza prospettare la situazione da questo punto di vista, è chiaro che l’indipendenza è riconosciuta al giudice non quale privilegio personale, ma quale garanzia funzionale, concessa in ragione delle esigenze tipiche della missione commessa. L’indipendenza pertanto non è un beneficio UN MESTIERE, UNA SCELTA 17 del quale possa abusarsi, bensı̀ quanto l’ordinamento ritiene di dover assicurare affinché il magistrato possa adempiere serenamente al suo lavoro, avendo nei fatti come unica bussola quella della fedeltà alla legge. Per ciò stesso questo beneficio va rigorosamente utilizzato dal singolo; costui, lungi dal poterne approfittare per considerarsi quasi legibus solutus, deve fare tutto il possibile affinché, rimossa con le garanzie di legge ogni possibilità di attentato alla sua persona a ragione del modo nel quale in concreto amministra la giustizia, nel suo operare vi sia la visibile, costante testimonianza di questa sua indipendenza verso tutti e verso tutte le direzioni. Il magistrato deve essere cosı̀ veramente indipendente nella sua coscienza e nelle scelte che ne conseguono nei vari casi che ha da risolvere, libero da ogni considerazione estranea a quella doverosa di applicare la legge; ma, proprio in funzione di questa sua attività, egli deve altresı̀ preoccuparsi di apparire anche all’esterno come uomo veramente libero e non prevenuto. L’indipendenza è, quindi, più esattamente un dovere; questo solleva una serie di problemi delicati nel comportamento quotidiano, giacché il cittadino deve avere la massima fiducia nel suo giudice, deve essere del tutto sicuro che il suo caso sarà giudicato da uomini liberi, sciolti da qualsiasi legame pregiudiziale con qualsiasi parte, politica o no, e con qualsiasi gruppo. Qui si pone il discusso problema della possibilità per il giudice di militare in formazioni politiche o parapolitiche, o comunque di parte. Naturalmente il giudice è un uomo e come ogni uomo ha le sue idee ed i suoi orientamenti, più o meno precisi e rigidi; ed 18 UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO è chiaro che di necessità si riflette nella sua attività, in misura più o meno accentuata, la concezione del mondo alla quale egli aderisce, specialmente quando è in giuoco l’interpretazione della legge ed in particolare quando in un determinato ordinamento, quale è quello nostro attuale, codesta interpretazione deve sovente svolgersi tenendo conto, ad esempio, del profondo contrasto che sussiste tra certi principi della superlegge costituzionale e la legislazione ordinaria, ancora in larga misura di ben diversa ispirazione, e quando la risoluzione di questo contrasto implica inevitabilmente la scelta tra orientamenti generali e particolari radicalmente agli antipodi, all’incirca contrapponendosi un indirizzo genericamente « conservatore » ad un indirizzo altrettanto genericamente « progressivo ». Il giudice-manichino non esiste né può esistere in rerum natura e su questo tema, com’è noto, s’è fin troppo scritto. Ma è altrettanto vero che il giudice non deve avere pregiudiziali in materia né deve apparire condizionato da codeste pregiudiziali, proprio perché, a tacer d’altro, di volta in volta che un certo problema si ripresenta, egli deve riproporselo ex novo nella sua interezza come se dovesse risolverlo per la prima volta, pronto a riascoltare idealmente le varie voci in contrasto e quindi anche a modificare il suo precedente orientamento. È per questo che il giudice non può assolutamente militare in un partito politico per non essere costretto a seguirne le direttive, perché, come si può argomentare con filologia spicciola, il partito è di per sé una parte, un raggruppamento formatosi con l’accettazione pregiudiziale di una ideologia, quando tutte le ideologie sono intrinsecamente parziali, assolutizzazioni UN MESTIERE, UNA SCELTA 19 di certi aspetti tendenziali della realtà e quindi, al massimo, mezze verità, mentre il magistrato ha da avere una sola pregiudiziale, un solo partito, quello della legge. Al di là della questione se convenga o no che la legge, in svolgimento di una precisa norma costituzionale, ponga un divieto formale in materia (la questione è di sostanza e non di forma ed è più pericoloso, in ipotesi, il magistrato clandestinamente iscritto), è indubitabile che il giudice deve sentire questo elementare dovere di tenersi fuori dai partiti e dalle loro competizioni. Per mio conto risolsi in questo senso il problema, abbandonando, al momento del mio ingresso in magistratura e con formale dichiarazione pubblicata su « Risorgimento Socialista », l’attività politica; e successivamente cercai sempre di comportarmi di conseguenza, ricorrendo, per la pubblicazione di qualche rarissimo articolo anche non specificatamente politico, ad uno pseudonimo. Sono rimasto sempre perplesso dinnanzi alle aperte manifestazioni di fede politica o di rilevanza politica alle quali talora, pur rarissimamente, taluni magistrati si abbandonano, in relazione o no alle tormentate vicende che dividono la categoria a proposito del suo definitivo assetto istituzionale; ciò dicasi, in particolare, per alcuni gruppi o uomini del settore più « estremista » dell’associazione nazionale magistrati. E cosı̀ non mi ha convinto l’adesione che di recente alcuni ed anche valentissimi giudici hanno dato al manifesto costitutivo dell’« alleanza costituzionale », indipendentemente dal consenso o no che come cittadino posso avere per i fini di questo sodalizio. In conclusione l’appartenenza alla magi- 20 UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO stratura implica (specialmente in un paese assai diviso dal punto di vista della concezione costituzionale per la mancanza di un generale consenso per quanto attiene alla formula di regime e nel quale altresı̀, sovente, la contrapposizione politica degrada in volgare partigianeria interessata e nel più feroce settarismo) la doverosa rinuncia a scendere in piazza sotto qualsiasi insegna; chi non ha la forza di pagare questo scotto è meglio che si astenga dal pretendere l’esercizio di cosı̀ delicate funzioni. L’astensione non va, inoltre, perseguita solo nei confronti dei partiti strettamente intesi, bensı̀ in relazione a tutte le possibili formazioni contrapposte che si rinvengono come antagoniste in una certa comunità, dividendola più o meno acutamente. Non a torto si è talora affermato che il problema si pone anche, in particolare nel nostro paese per ben note ragioni, rispetto a certe organizzazioni d’ispirazione ecclesiastica nella misura in cui queste pretendono di interferire nel concreto assetto della comunità nazionale su questo piano, in termini di discutibile confessionalismo e in generale e per quanto attiene alla risoluzione di determinati casi. Qui ovviamente il discorso si fa più delicato, perché tocca l’intimo della coscienza dell’uomo e ripropone, a questo livello, il tema della laicità dello Stato. È comunque chiaro che, a prescindere dalle legittime e rispettabili convinzioni religiose, il magistrato non può farsi pregiudizialmente condizionare da una determinata concezione dei rapporti tra la predominante confessione nazionale e lo Stato; egli deve sentirsi impegnato alla stretta osservanza della legge statuale, eventualmente anche in contrasto con le direttive UN MESTIERE, UNA SCELTA 21 promananti dalle autorità ecclesiastiche, specialmente quando queste reclamino in ipotesi posizioni di favore che non possono trovare riconoscimento nell’ordinamento che egli serve, in particolare quando siano in questione i diritti fondamentali di libertà dei cittadini. Ma, più in generale, a prescindere dalla posizione specifica del giudice, ove la questione si pone sul piano dei doveri implicitamente collegati alla funzione, io non vedo come il giurista, in quanto tale, possa aggettivarsi, politicamente o confessionalmente, in un senso o nell’altro; confesso che non ho mai condiviso le ragioni per le quali taluni si raggruppano come giuristi democratici e altri come giuristi cristiani, giacché, a prescindere dalle prese di posizione in questo senso nelle sedi adatte, i giuristi, a mio avviso, non sono né debbono essere né di questa né di quella parte, posto che come tali si distinguono semmai dai non giuristi. Cosı̀, a ben vedere, il tema dell’indipendenza e della salvaguardia nell’opinione pubblica di questa indipendenza, non si pone esclusivamente per il giudice, ma concerne il giurista in generale che, in relazione al suo lavoro interpretativo, di studioso della legge posta, deve sapersi liberare dal contrasto d’interessi e di idealità che sta dietro la legge e che può condizionare i possibili modi della sua applicazione, sentendo quindi soprattutto il motivo della fedeltà al suo mestiere. È in questo ordine di idee che ancor oggi, pur avendo una posizione politica abbastanza definita e ben nota, io mi astengo deliberatamente dal prendere la tessera di un partito per svariate ragioni, ma anche e forse soprattutto per questa che mi pare 22 UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO preclusiva: che avendo io eletto a mia disciplina di studio professionale quella più direttamente collegata al contrasto sociale, desidero non essere pregiudizialmente condizionato nella mia attività di studioso di un certo ramo del diritto da questa o quella piattaforma di interessi contrapposti; non voglio che qualcuno sia legittimato ad impormi, in nome di una milizia politica, una certa scelta o possa convocarmi per dar giustificazione di quanto dico e scrivo; desidero, in particolare, che gli studenti che mi praticano per ragioni del mio ufficio avvertano sempre questa mia doverosa posizione di indipendenza e comunque di non pregiudiziale partigianeria. In tal modo c’è, nella mia vicenda, una certa continuità tra il vecchio ed il nuovo mestiere su questo punto essenziale, cosı̀ come io nella mia coscienza ho ritenuto, allora ed ora, di doverlo risolvere. A prescindere dalle considerazioni fatte su un piano più elevato, è evidente che nei fatti di tutti i giorni c’è e non può non esservi un divario profondo tra il reciproco modo di porsi innanzi alle questioni del magistrato e dell’operatore di altro tipo, specialmente il politico in senso vasto. Il giudice ha per sua naturale funzione quella di prospettarsi i problemi in termini di stretta legalità, onde nell’opinione corrente sempre lo accompagnerà l’accusa di essere un arido formalista; viceversa il politico pone altrettanto naturalmente l’accento sui profili di opportunità di volta in volta, a ragione o a torto, emergenti. Di qui il contrasto che fortunatamente è risolto sul piano formale con la stabilita prevalenza del principio di legalità ed è attutito nei fatti dal distacco UN MESTIERE, UNA SCELTA 23 che c’è di norma tra i due mondi e quindi dalle scarse occasioni di un confronto diretto. Ma quando eccezionalmente, per necessità d’ufficio o per vicende della cronaca spicciola, il contatto si stabilisce, è naturale che si determinino delle frizioni che il giudice può tuttavia assai facilmente superare se, lungi dal rendersi comprensivo delle altre anche legittime esigenze, tiene fermo il principio dell’inderogabile rispetto della legge. Perché se il giudice è non un eroe, ma un povero uomo, con le sue passioni, le sue debolezze e i suoi umanissimi timori, è altresı̀ vero che egli ha dalla sua la forza suprema della legge, quella forza a ragione della quale egli, nella normalità dei casi, è in grado di superare ogni ostacolo e di imporsi, dato che nessuno osa di norma chiedergli la violazione del suo dovere, mentre con un pochino di fermezza e di opportuna ironia è facile smantellare le capziose interpretazioni elusive sovente prospettate dagli interessati, quelle sottili costruzioni, intendo, con le quali talora si vuol dimostrare che il bianco è nero. Nella mia esperienza posso ricordare in proposito un episodio alquanto gustoso. In base ad una legge emessa nei primi anni di questo dopoguerra, un certo tipo di case costruite dallo Stato per i più bisognosi doveva essere assegnato da una commissione presieduta dal pretore, stabilendo la legge medesima precisi criteri di preferenza. Venni adunque chiamato alla presidenza di una di queste commissioni; mentre era in corso la raccolta delle informazioni in relazione alle domande presentate per controllare l’appartenenza ad una delle categorie previste dalla legge e lo stato di grave bisogno, 24 UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO accadde nel capoluogo del comune interessato un disastro: per lo scoppio di una bombola di gas crollò un caseggiato e si ebbero numerosi feriti nonché alcuni morti. Celebrandosi, a spese dell’amministrazione comunale e con grande concorso di folla commossa, i funerali, il sindaco, di colore piuttosto vivace, ed il prefetto ritennero di poter assicurare, nelle loro orazioni, che le famiglie divenute cosı̀ tragicamente prive di tetto avrebbero senz’altro ottenuto le case disponibili... in corso di assegnazione da parte della commissione da me presieduta. La cosa non si fermò qui; il prefetto, sollecitato dal sindaco che era del resto una brava persona (quante volte succede che si chieda al giudice in perfetta buona fede ed anche a fin di bene cose che il magistrato non può concedere!), ritenne di poter intervenire presso il presidente del tribunale affinché questi mi convincesse dell’opportunità che la commissione si adeguasse alla promessa pubblicamente fatta, a vanvera e con scarsa correttezza, sia pure con l’attenuante della suggestione derivante dal clima di generale commozione seguito alla tragedia. Il presidente del tribunale compı̀ il suo dovere, limitandosi a trasmettermi la lettera del prefetto, con preghiera di rispondere direttamente; risposi come dovevo e la commissione assegnò le case nel pieno rispetto della legge; in particolare risultò dalle informazioni che taluni dei recenti senza tetto si trovavano in condizioni economiche non disagiate. (Per la cronaca si trattava di quello stesso prefetto che in altra occasione ritenne di dovermi escludere dalla lista degli invitati ad una cerimonia nella quale egli doveva consegnare una UN MESTIERE, UNA SCELTA 25 certa medaglia ad un notabile locale, a ragione della mia passata attività « sovversiva », non rendendosi egli conto del grande favore che mi rendeva escludendomi da consimili cerimoniali dai quali sono per natura alieno. Tuttavia l’episodio mi confermò che ero « schedato » come pericoloso soggetto; mentre quanto poi avvenne a proposito dei senza tetto, testimoniando della scarsa sensibilità che « sua eccellenza » — non ho mai adoperato questo titolo per la naturale avversione a tutti gli spagnolismi e a tutte le stupidità della società « bene » — aveva per l’indipendenza dei giudici, mi rese ancor più evidente la persistenza di un clima assai più tipico di altra epoca). Il magistrato deve in particolare cercare di salvaguardare al massimo la sua indipendenza, non legandosi ad alcun gruppo o conventicola locale; pertanto è consigliabile ch’egli segua talune intuibili cautele nella vita sociale e nei rapporti che in genere egli ed i suoi familiari intrattengono. Né in questo campo si è mai sufficientemente guardinghi, perché si tratta in primo luogo di non creare con le proprie mani situazioni che poi possono essere causa di disagio nelle funzioni ed in secondo luogo di non far niente che possa indurre a pensare alla sussistenza di speciali legami o di amicizia o di particolare cordialità. La situazione si prospetta relativamente facile per gli addetti ai grossi uffici delle grandi e medie città, perché quivi è la stessa ampiezza dell’ambiente che nasconde il magistrato e gli consente di approfittare dell’anonimato delle grandi folle. Viceversa il problema è ben più arduo per il pretore « di campagna »; qui il giudice è in ogni momento 26 UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO della sua giornata sotto gli occhi di tutti e poiché la vita paesana è sovente caratterizzata dalla lotta e dall’astio tra opposte conventicole, ogni passo può apparire agli occhi di questo o di quello falso o sospetto. L’ideale sarebbe certo quello di condurre una vita del tutto appartata, evitando cosı̀ ogni rapporto nella vita civile, fatti salvi i contatti strettamente indispensabili; ma è inumano richiedere al magistrato e alla sua famiglia un tale sacrificio mortificante. D’altro canto, per non rinchiudersi e nel contempo per non legarsi, la soluzione forse più acconcia o meno pericolosa è quella che io prescelsi, non tanto per un deliberato proposito, quanto perché la natura mi sospinge ad una certa socievolezza e a non disdegnare talvolta le allegre, innocenti brigate; e cosı̀ mi risolsi, essendo giunto in un ambiente che taluni colleghi mi avevano descritto molto difficile anche per la tranquillità della mia carriera e che in effetti presentava, forse con una rabbiosità altrove sconosciuta, profonde divisioni e avversioni interne e a... più piani (la piccola borghesia cittadina sommersa nel contado rosso, gli amici dell’on. X o dell’on. Y dello stesso partito, i preti di una tinta o di altra, gli schieramenti che si determinavano di volta in volta su singoli problemi etc), contrapposizioni che talora mi parvero veramente intinte di odio sordo e feroce, mi risolsi, dicevo, a parlare e a trattare liberamente e cordialmente con tutti, talora con deliberato proposito proponendomi una equa ripartizione nelle gioviali patacche, cercando di dimostrare comunque la mia assoluta estraneità alle beghe locali ed in ogni caso distinguendo nettamente tra i compiti d’ufficio e questo UN MESTIERE, UNA SCELTA 27 mio vario confondermi nell’ambiente locale senza identificarmi con questa o quella parte. E poiché ebbi modo di dimostrare nei fatti che all’occorrenza sapevo ristabilire le distanze verso tutti e superare anche situazioni di disagio ponendo l’accento sul dovere d’ufficio, talora essendomi capitato di dover mettere sullo stesso banco come imputati notabili di diversa affiliazione, credo di essermela cavata sufficientemente bene. Ne ebbi anche, a prescindere dagli incensamenti di rito che sono di prammatica nei confronti del giudice in certe occasioni e che pertanto lasciano il tempo che trovano, taluni riconoscimenti fattimi in circostanze tali da non consentirmi alcun dubbio sulla sincerità di chi mi parlava e dai quali dedussi che intorno si era capito che non intendevo sposare alcuna causa o persona. Riconoscimenti che mi furono talora amari, come quando, dopo aver provocato in una delle famose commissioni per l’assegnazione degli alloggi il rigetto della domanda presentata, come « impiegato pubblico costretto per necessità d’ufficio a risiedere nel comune » (tale, all’incirca, la dizione della legge), da un maresciallo dei carabinieri che, prossimo al pensionamento e avendo ottenuto non so quale tipo di licenza, aveva dovuto lasciare l’alloggio di servizio.., perché giuridicamente non poteva considerarsi più in servizio, mi sentii poi dire da un componente della commissione che egli non avrebbe mai creduto che un pretore potesse essere cosı̀ indipendente, laddove mi fu assai triste il constatare quale scarsa stima dei magistrati in genere poteva esserci in giro. E cosı̀, negli ultimi giorni di pretura, vi fu chi, venendomi a 28 UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO salutare, mi disse che era contristato della mia partenza perché io « andavo in farmacia, ma non ero della farmacia », cosı̀ come deliberatamente mi ero proposto di dimostrare e verso il circolo della farmacia e verso qualsiasi altro circolo. Ma, oltre il sentimento dell’indipendenza, la professione di magistrato è fonte, a mio avviso, di altre non trascurabili soddisfazioni spirituali e morali, le quali, naturalmente, sono diversamente apprezzabili in ragione dei vari caratteri e temperamenti, onde in materia è assurdo voler ipotizzare un modello ideale valido per ogni uomo. Contenendo di necessità il discorso nei limiti delle scelte in concreto operabili da parte di chi è in possesso della laurea in diritto, è da dire, in primis, della alternativa di norma più frequente rispetto a quella qui esaminata e cioè dell’avvocatura, limitandomi a mettere in rilievo quanto, in ragione della mia esperienza, mi pare degno di una certa considerazione. Avendo scelto la magistratura per la spinta personalissima dianzi indicata, debbo dire che proprio in quel contesto ho sempre avvertito come preferibile, certo avendo solo riguardo al mio temperamento, la posizione del giudice rispetto a quella dell’avvocato. Spiritualmente ed eticamente la intrasferibile bellezza del giudicare consiste appunto nel fatto che il magistrato ha come dovere istituzionale quello di esaminare e risolvere i vari casi della vita sub specie juris e secondo coscienza; a questo solo egli deve prestare attenzione, premurandosi di rapportare il singolo caso ad una regola di diritto. Compito del giudice è quindi quello di ricercare, in un certo senso, la verità obiettiva alla stregua UN MESTIERE, UNA SCELTA 29 dell’ordinamento giuridico che serve e non già quello di tener presente e di patrocinare l’interesse di questa o quella parte. L’avvocato, viceversa, è di necessità e ferreamente condizionato dal suo ben diverso dovere che è quello di tutelare gli interessi e le aspettative della parte patrocinata; egli adempie alla sua funzione istituzionale di collaboratore, in senso obiettivo, della giustizia, nella misura in cui, fermo il rispetto di certi principi e limiti, cerca di prospettare nella luce più favorevole la tesi del suo cliente. L’avvocato ha quindi un compito di parte, mentre il giudice ha il dovere di ricercare e di applicare quello che sta sopra ed eventualmente contro gli interessi delle parti, dai quali non deve essere, per definizione, condizionato. Se il giudice, come talora avviene, dopo essersi formato una prima opinione della controversia, sulla base di altri elementi emersi nell’ulteriore corso del procedimento o in ragione di un ripensamento al quale è stato indotto, in ipotesi, sulla base delle argomentazioni della difesa, muta convincimento e giunge ad una diversa conclusione, egli ha l’obbligo di decidere secondo quanto da ultimo gli detta la coscienza e cosı̀ comportandosi secondo l’ultima impressione egli compie semplicemente il suo dovere. Questa libertà di capovolgimento anche radicale, nel senso della progressiva e costante ricerca della verità obiettiva, non è concessa agli altri operatori che viceversa debbono sempre muoversi nell’ambito dell’interesse tutelato, anche se possono affinare progressivamente, dal punto di vista tecnico, le argomentazioni all’uopo prospettabili. In sostanza solo la professione di magistrato, tra le 30 UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO tante esercitabili dall’uomo, si basa peculiarmente sulla necessità istituzionale della ricerca della verità obiettiva o come tale quanto meno in buona fede ritenuta. Proprio per questo, proprio perché il giudice non è vincolato né da tesi né da interessi pregiudiziali, ho amato infinitamente il mio vecchio mestiere e, senza presunzioni, non l’ho mai ritenuto comparabile con altri pur degni ed essenziali nella vita comunitaria, giacché mancano obiettivamente gli estremi per un confronto. D’altro canto, pur rendendomi conto della immensa responsabilità morale del giudicare, quella responsabilità che esige una continua disponibilità per il ripensamento prima e dopo la decisione (e dopo talora sopravviene il rimorso), non ho mai messo sullo stesso piano questa responsabilità con quella dell’avvocato che mi è sempre parsa, in un certo senso, assai più gravosa ed impegnativa; infatti il giudice si trova di necessità a dover giudicare di casi e situazioni che egli non ha determinato e non ha posto in essere, mentre l’avvocato ha, di frequente, il compito di introdurre in via contenziosa la lite. Se si vuole, in genere è l’avvocato che lancia la palla; il giudice se la trova ad un certo momento sul tavolo e deve cercare, bene o male, di sbrigarsela: il primo ha sovente la responsabilità della lite, consigliando in questo senso il cliente, mentre il giudice ha la ben diversa responsabilità della soluzione della lite medesima, mettendosi idealmente al centro tra i due litiganti e cercando la soluzione obiettiva del caso. Ora, sotto questo profilo, giuoca decisamente il temperamento personale; per chi sia, ad esempio, per natura portato al dubbio e alla UN MESTIERE, UNA SCELTA 31 perplessità, per chi non sia capace di scegliere ad un certo punto con una certa tranquilla sicurezza e di assumersi quindi la responsabilità morale di consigliare in un senso o nell’altro, è senz’altro preferibile la via della magistratura, proprio perché l’avvocatura richiede queste doti, la sapienza, difficile ad aversi, di saper prendere, con un certo fiuto per il quale non esistono manuali, una decisione impegnativa e gravida di implicazioni sul piano degli interessi, mentre il giudice è liberato istituzionalmente da questa responsabilità dell’affare. Per l’avvocato e per il giudice la buona preparazione giuridica non è, rispettivamente, la dote decisiva, perché la conoscenza delle pandette e delle elaborazioni dottrinali ci fa solo dotti o eruditi della particolare materia; per l’uno e per l’altro si esige un’altra qualità, che la buona preparazione e l’esperienza possano affinare, ma che è in definitiva dono della natura. Ma sono qualità assai diverse nei due casi; per l’avvocato la capacità di sapersi muovere e di scegliere sul piano della valutazione degli interessi nell’economia dei rapporti intersoggettivi, della convenienza o no di dedurli in via contenziosa, di realisticamente considerarli seguendo questa via anche sulla base di un calcolo delle probabilità, di poter afferrare al volo la possibilità di una composizione transattiva in corso di causa sulla base delle risultanze già acquisite ed anche degli umori del giudice (che è dote non ultima, di olfatto, del buon avvocato); per il giudice non si tratta di avere questo fiuto dell’affare nella sua dimensione giuridica, ma di saperlo inquadrare e risolvere nelle categorie costruite sulla base della legge. L’avvo- 32 UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO cato è l’uomo della mischia e delle scelte sostanziali, del compromesso realisticamente opportuno a prescindere dalla linearità dei principi, della tesi e dell’ipotesi subordinata; al giudice conviene viceversa un animus profondamente diverso, una naturale inclinazione al dubbio come condizione essenziale per la ricerca della verità e quindi quella conseguente umiltà che consiste nel saper ascoltare ogni voce giacché è da ogni parte che può aprirsi lo spiraglio, coltivando il quale può venir fuori la decisione più esatta o meno discutibile. Il giudice non può mai dirsi completamente soddisfatto delle ricerche compiute e delle analisi effettuate; e se frequentemente si dice nell’ambiente, ad esempio, che è bene non abbondare negli scritti difensivi perché altrimenti si rischia di non farsi leggere, cosı̀ facendo balenare l’idea del giudice onnisciente che può bellamente disinteressarsi dell’attività di parte, confesso che personalmente sono stato ben lungi dall’incarnare questo preteso modello, essendomi sempre sentito incerto e dubbioso innanzi alle cause, di conseguenza leggendomi dalla prima all’ultima parola tutti i fascicoli perché non mi sfuggisse, possibilmente, in qualche pagina o in un singolo passo la chiave della soluzione; cosı̀ come ho sempre ascoltato chi parlava innanzi al mio banco, posto che, se talora visibilmente si menava il can per l’aia, non raramente da quelle parole mi veniva l’illuminazione decisiva e di volta in volta, come sempre si trattasse della prima trepida udienza, desideravo non lasciarmi sfuggire la preziosa occasione. E se mi preparavo alla decisione delle cause civili segnando diligentemente in certi miei taccuini UN MESTIERE, UNA SCELTA 33 le varie dichiarazioni, ammissioni ed argomentazioni, affrontavo l’udienza penale sulla base di uno studio altrettanto attento degli atti e dopo essermi prospettate anche le probabili eccezioni di diritto rispetto alle quali procuravo di non giungere disarmato, anche perché ho sempre istintivamente temuto gli improvvisi colpi di scena che potevano turbarmi e scompaginare il filone raccolto, di gran lunga preferendo la calma ed il silenzio della mia stanza; con tutto ciò era frequente che mutassi, sulla base delle risultanze dibattimentali, la prima impressione di massima e non raro il caso nel quale, innanzi all’improvvisa eccezione, mi liberavo senza alcun disagio dal tumulto dell’aula per poter riflettere con maggior raccoglimento nel chiuso della camera di consiglio. Conclusivamente, tolte le pecore nere che nell’uno e nell’altro versante egualmente si trovano, avvocati e giudici formano in effetti e senza ricorrere all’abusata retorica, un tutto dialetticamente legato nel giuoco delle rispettive parti attraverso il quale si cerca di fare giustizia; non raramente dal mio scanno di giudice ho sentito la insostituibile funzione ed anche la bellezza dell’avvocatura, soprattutto in quanto questa esprime un momento irriducibile di libertà. L’importante è che, individualmente, non si sbagli porta, giacché il buon giudice può essere pessimo avvocato e viceversa; per questo il problema più grave e delicato del giovane che esce dall’università, in quel periodo assai tormentoso delle scelte, è quello di sapersi giudicare, con estremo rigore, circa le naturali attitudini, di avvertire senza deleteri infingimenti da quale parte del banco conviene che si collochi. E 34 UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO non è facile saper rispondere ad un cosı̀ grave interrogativo ed evitare un grave fallimento. In quanto ho detto in tema di valutazione della posizione reciproca dei giudici e degli avvocati, è in un certo senso implicito quanto io penso a proposito del pubblico ministero. Il pubblico ministero si trova, rispetto al giudice, in una posizione che è per qualche verso analoga a quella dell’avvocato. Egli è e deve essere, nella sostanza, l’avvocato di parte pubblica, colui che agisce azionando in via giurisdizionale l’interesse pubblico e che ha la responsabilità-doverosità della lite, posto l’obbligo del promovimento dell’azione penale. In particolare il pubblico ministero, proprio come parte, ha e deve avere una propria politica giudiziaria, ponendo di volta in volta l’accento, in relazione al vario andamento della criminalità e della valutazione fattane secondo una comparazione tra i vari aspetti della situazione sotto questo profilo nel codice penale, sulla necessità, ad esempio, di più severamente reagire contro quei comportamenti che, in quel determinato contesto, paiono più minacciosi per l’ordine giuridico e per la pace sociale (4). Anche se (4) Vd. le felici notazioni di D. GRECO, Il pubblico ministero, ne « Il tempo e la giustizia », Milano, Ed. Comunità, 1963, p. 67: « E non vale obiettare che è sufficiente che il pubblico ministero si attenga alla legge, la quale è già il risultato di una scelta politica. Chi ragiona in questo modo ha conoscenza dell’attività giudiziaria soltanto dai trattati procedurali; nella realtà il momento dell’applicazione della legge (la quale tra l’altro consente più scelte di quanto comunemente non si creda) è preceduto per il pubblico ministero da un altro momento in cui le scelte sono di ordine politico. Quali forme di illecito perseguire con maggiore rigore e tenacia? quali orientamenti sono rispondenti a quello che, si ritiene, sia l’interesse pubblico UN MESTIERE, UNA SCELTA 35 il pubblico ministero è quindi ispirato dall’interesse pubblico secondo una sua discrezionale valutazione, egli si trova di necessità in una posizione assai diversa rispetto a quella del giudice, precisamente in quei termini che, mutatis mutandis, ho prima configurato per l’avvocato; per il giudice la parte pubblica è sostanzialmente sullo stesso piano della parte privata, prospettando essa una valutazione del caso di per sé opinabile e discutibile nella dialettica processuale. Come si è giustamente osservato è assai diversa la situazione psicologica del portatore dell’accusa rispetto a chi deve poi giudicarne, e su questo piano chi « per vocazione » aspiri a divenire magistrato, specialmente se mosso dalla spinta che giustificò la mia scelta, non può certo considerare e quali invece non sono rispondenti? in quali casi è tollerabile un orientamento clemente del giudice e in quali casi non lo è? quali sono le situazioni che esigono un più tempestivo intervento? quale norma è inopportuno invocare perché caduta in desuetudine e quale invece non può rimanere inapplicata senza gravi conseguenze sociali, economiche, politiche, ecc.? Questi sono i problemi che si pongono al pubblico ministero allorché deve sollecitare l’attività giurisdizionale e che comportano scelte politiche ». Ed è facile anche esemplificare a proposito di questa inevitabile politica giudiziaria. Alcuni anni or sono nel distretto di una corte di appello del nord i magistrati del pubblico ministero solevano spiccare l’ordine di cattura nei confronti dei responsabili dei più gravi incidenti stradali; e si introdusse anche l’uso di illustrare in conferenze-stampa questi provvedimenti proprio al fine di dimostrare come la macchina giudiziaria fosse decisamente orientata verso una giustizia esemplare e tempestiva in materia per garantire una situazione generale di rispetto delle norme di comune prudenza nella circolazione. E di recente una scelta di politica giudiziaria è stata compiuta dagli uffici della pubblica accusa quando si è deciso di incriminare i ferrovieri per talune forme di lotta sindacale (scioperi a singhiozzo), in una situazione normativa che è notoriamente assai controversa ed oscura. 36 UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO con soddisfazione la destinazione a questo ufficio; ed infatti per quanto mi riguarda ho sempre cercato di tenermene lontano, anche quando, col passaggio alla requirente, mi sarebbe stato forse possibile ottenere una sede di maggior gradimento. In sostanza si tratta di due funzioni assai diverse che richiedono uomini diversi, secondo una naturale considerazione delle inclinazioni reciprocamente opportune che è a torto misconosciuta in larga misura nell’attuale sistemazione nella quale si può essere indifferentemente assegnati all’uno o all’altro ufficio; di qui, a mio avviso, la necessità di separare radicalmente le due professioni, anche per favorire con questa riforma l’affluire spontaneo all’una e all’altra di chi rispettivamente avverta in sé il temperamento dell’accusatore o quello ben diverso del giudice (5). Con questo non intendo affatto schierarmi con coloro che propongono di sottrarre al pubblico ministero lo status di magistrato per farne un funzionario alle dipendenze del potere esecutivo (6). La separazione delle due professioni, di pubblico ministero e di giudice, non implica affatto una tale conseguenza che è giustamente deprecata nell’opinione forse maggioritaria, posto che è nel pubblico interesse che vi siano determinati pubblici ufficiali, fruenti di garanzie analoghe a quelle dei magistrati, ai quali sia commesso l’obbligo di promuovere (5) Vd. in tal senso F. CARNELUTTI, Lettera, in « La Magistratura », ottobre 1963; A. C. JEMOLO, La Giustizia, ne « La Stampa » del 19 gennaio 1965. (6) Vd. in questo senso G. FOSCHINI, La riforma del processo penale, in « Rassegna dei magistrati », dicembre 1961, pp. 385 e ss. UN MESTIERE, UNA SCELTA 37 l’azione penale, giacché altrimenti è assai probabile che assisteremmo a guai assai più gravi degli attuali se non vi fosse appunto qualcuno che, senza aver niente da temere, abbia per specifica funzione quella di mettere in moto il meccanismo repressivo. Coi tempi che purtroppo corrono, quando domina una classe politica che non può certo dirsi molto sensibile all’esigenza di una giustizia che non guardi in faccia a nessuno, la degradazione amministrativa del pubblico ministero rappresenterebbe una gravissima iattura. Del resto, malgrado l’ambivalenza di certe indicazioni anche costituzionali (7), nella nostra tradizione mi pare senz’altro diffusa e sentita nella opinione generale la considerazione del pubblico ministero quale magistrato a servizio esclusivo della legge e non mi pare che sia opportuno, qui come altrove, rompere con quanto è già radicato, non a caso, nell’ambiente. E a chi obietta che dal (7) Vd. D. R. PERETTI GRIVA, L’indipendenza del magistrato con speciale riguardo al pubblico ministero, in Magistrati o funzionari?, a cura di G. Maranini, Milano, Ed. Comunità, 1962, p. 709. L’A. rileva che l’art. 107 Cost., laddove afferma che « il pubblico ministero gode delle garanzie stabilite nei suoi riguardi dalle norme sull’ordinamento giudiziario » pare prospettare una situazione di minori garanzie per questi magistrati che egli, a ragione, risolutamente critica invocando una piena equiparazione tra i magistrati giudicanti e quelli requirenti: « Ciò dovrebbe intendersi rispondere allo spirito della Costituzione, posto che avendo questa mirato a togliere al potere esecutivo la possibilità di immettersi nell’ambito giurisdizionale, è logico che debba venir incluso nelle garanzie normali il pubblico ministero, il quale, se è rappresentante del potere esecutivo nel campo dell’esecuzione dei provvedimenti, fa pur sempre parte dell’ordine giudiziario per ciò che ha tratto alle sostanziali incidenze della sua attività nell’ambito giurisdizionale, tanto che la modalità del suo intervento, positivo o negativo, può essere esclusiva e dirimente nell’azione penale ». 38 UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO punto di vista delle garanzie del cittadino meglio conviene la proposta degradazione amministrativa specialmente per porre rimedio all’eventuale rifiuto del pubblico ministero di promuovere l’azione penale (8), si può ribattere che bene può aversi un sistema nel quale costui non abbia l’esclusiva del promovimento dell’azione, un sistema cioè alquanto più articolato, permettendo e al potere esecutivo, a mezzo dell’avvocatura dello Stato, e anche ai cittadini eventualmente agenti in un certo numero (con un più vasto impiego, quindi, dell’azione popolare anche in materia penale), di mettere in moto il procedimento; avremmo cosı̀ la più ampia garanzia circa la possibilità di sottoporre effettivamente al giudice tutti i casi nei quali il dubbio è seriamente prospettabile, mobilitando all’uopo il potere politico e la sensibilità collettiva ed in ogni caso facendo affidamento su un magistrato a carico del quale sia posto un obbligo inderogabile, naturalmente previa valutazione del fumus boni juris. Tornando ai vantaggi spirituali che la professione di magistrato assicura, mi pare di poter dire che un benefico effetto discende dalle funzioni esercitate nella complessiva personalità di chi ne è investito. Il giudice deve essere al di sopra degli (8) Vd. P. CURATOLA, Indipendenza del giudice e guarentigie del pubblico ministero nell’ordinamento giudiziario, in Magistrati o funzionari?, cit., p. 38. Sul problema si è tenuto in Roma, nell’aprile 1966, un apposito convegno promosso dai Comitati di azione per la Giustizia; vd., in particolare, la relazione di A. PIZZORUSSO, La posizione ambigua del pubblico ministero nella Costituzione: necessità di una revisione. UN MESTIERE, UNA SCELTA 39 interessi e delle passioni di parte; la logica del suo mestiere lo porta di conseguenza non solo a comportarsi da galantuomo anche nella vita privata, ma a moderare, fino a tacitarle più o meno completamente, le spinte negative che verrebbero altrimenti fuori dalla sua natura. Pertanto, se il giudice è veramente pervaso del suo compito, ha la ventura di subire un progressivo processo di miglioramento etico e di perfezionamento civile. La funzione richiede al magistrato inflessibilità nei principi, ma nel contempo una grande apertura e comprensione verso le vicende umane; il processo, d’altro canto, imperniato com’è sul dovere di dare sfogo alle opposte tesi e di ascoltarle tutte senza prevenzioni, è una grande scuola di civismo, di tolleranza e di urbanità per tutti i suoi protagonisti. Naturalmente questo implica una estrema lealtà del giudice, nella sostanza e sul piano della condotta processuale (9); (9) Vd. le essenziali osservazioni in proposito di G. LEONE, La lealtà nei processi, in « La Stampa » del 30 marzo 1965. Ed è sul piano della lealtà che in questi ultimi tempi la magistratura requirente ha spesso formalmente esorbitato quando si è preteso di istruire col rito sommario processi estremamente delicati, estromettendo cosı̀ la difesa dalla possibilità di interloquire su indagini complesse e decisive. Questo sul piano della legge e dei criteri che essa intuitivamente fissa tra le situazioni nelle quali è possibile l’istruttoria sommaria e le altre nelle quali è inevitabile il ricorso all’istruttoria formale; ma la questione, da problema di corretta applicazione della legge secondo il buon uso del potere riservato in materia al magistrato, è divenuta un problema di legittimità di una determinata norma del codice di procedura penale in quella convulsa vicenda che ha portato nel giro di pochi mesi da una prima sentenza « interpretativa » della Corte Costituzionale alla successiva sentenza che ha dichiarato tout court illegittima la norma in questione, per il contrasto determinatosi con la suprema magistratura ordinaria. C’è stata indubbiamente una logica in questa vicenda, essendo da una parte inconcepibile che il pubblico 40 UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO il giudice non può lasciarsi guidare da prevenzioni, non può « sposare » alcuna causa, non può ricorrere ministero possa essere arbitro della forma d’istruzione ed essendo inevitabile che la questione ad un certo punto si imposti in termini di legittimità anche se questa impostazione è teoricamente discutibile, quando solo cosı̀ è possibile stroncare un diffuso abuso nell’uso del potere concesso; in pratica all’abuso del potere si è risposto con la sottrazione del medesimo. La conclusione non è comunque appagante rispetto alle esigenze del procedimento penale, specialmente nelle preture, ed è da auspicare che il problema venga organicamente risolto con la riforma del codice di rito. Decisiva in materia resta la lealtà del magistrato, su un piano di vera collaborazione coi difensori; per mio conto non mi trincerai mai dietro la tesi secondo la quale nell’istruttoria sommaria venivano meno le garanzie difensive, ma fui sempre pronto ad accogliere ogni istanza, in istruttoria e dopo, ad esempio sul punto della rinnovazione delle indagini peritali e della richiesta di chiarimenti al perito d’ufficio. Tutto questo sul piano del rispetto delle forme, che nella sostanza, nella vicenda di determinate cose nel nostro paese, il problema è assai diverso. C’è infatti da chiedersi come e perché, ad un certo momento, certi uffici giudiziari abbiano assunto determinate iniziative rispetto a certe situazioni, in un clima specifico politico e di sottogoverno; interrogativo che per il momento è nascosto nella coscienza dei protagonisti di questi episodi e al quale non può certo rispondersi sulla base di quanto è stato detto o pubblicato nelle varie occasioni. Per mio conto, astraendo dalle considerazioni puramente giuridiche in particolare in punto di procedura, sono convinto che la vicenda è stata ed è complessivamente benefica avendo essa messo in luce una realtà esplosiva su come si amministrano le cose pubbliche e sulla natura dei rapporti che corrono tra il potere politico e il cd. sottogoverno. Sono stati commessi certo errori di forma, si sono fatte dichiarazioni che era meglio omettere (ad esempio la famosa frase dell’alto magistrato romano: « quando vengono meno gli usuali controlli dello Stato, non possono censurarsi i controlli dell’autorità giudiziaria », giacché il magistrato deve semplicemente ignorare quello che fanno o non fanno gli altri poteri nell’ambito della loro competenza, premurandosi solo ed in ogni caso di compiere il suo dovere, salvando l’anima sua, cosı̀ come in generale egli deve evitare di teorizzare, specialmente in pubblico, parlando solo caso per caso con i suoi provvedimenti: per questo ho sempre trovato discutibile il ricorso alle conferenze stampa che non si addicono al magistrato e lo possono UN MESTIERE, UNA SCELTA 41 nel processo a meschini espedienti e sotterfugi, ma deve viceversa procedere con grande rispetto di tutti e di tutto, premurandosi in primo luogo di non travisare mai quello che ascolta e registra. Soprattutto egli deve rifuggire dal troncare le possibilità difensive, dal rifiutare gli accertamenti e gli esami che gli vengono richiesti, col solo limite, di pubblico interesse, di non prestarsi a manovre palesemente dilatorie o a richieste chiaramente infondate. Il cittadino e l’avvocato che lo tutela in giudizio devono constatare palpabilmente che essi hanno avuto la possibilità piena di essere ascoltati, che il caso è stato veramente visto e considerato sotto tutti i profili, rispetto ai quali se ne presentava l’opportunità, per far trionfare la verità; il sentimento naturale di giustizia è soprattutto ferito non tanto dalle opinabili conclusioni finali comunque sempre sorrette da una più o meno congrua motivazione, ma dalla sensazione di non aver potuto dire a sufficienza, di non aver potuto prospettare a fondo tutti gli aspetti, di essere stati ostacolati nella possibilità di indurre tutte le possibili prove, di essersi in conclusione imbattuti in un giudice o prevenuto o frettoloso o negligente. Per mio conto ho cercato sempre, nella misura del possibile, di attenermi a questi criteri; fui un giudice notoriaporre in una posizione imbarazzante. E la libertà di stampa, la libertà dei giornalisti di cercare notizie non significa che gli altri siano obbligati a darne!), ma nel complesso e nella sostanza si è servito il paese, né io mi sento di condannare la magistratura quando forse per la prima volta ha preso l’iniziativa doverosa di vedere come vanno certe cose. E se tutti i magistrati della requirente seguissero l’esempio molte cose cambierebbero. 42 UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO mente assai severo per le considerazioni di cui dirò, un giudice che non si adagiava nella falsa pietà e nella colpevole indulgenza, che al contrario non esitava, se convinto della responsabilità, a colpire e duramente; ma ho sempre cercato di fare tutto il possibile per dimostrare e convincere dello scrupolo che ponevo nel giungere alla decisione finale, conducendo con molta lealtà, senza insofferenze di sorta, il processo, essendo disposto in linea di principio ad ascoltare tutto e tutti, ma in ogni caso senza sotterfugi ed espedienti e comunque con la massima cortesia possibile verso i difensori anche nelle loro richieste di rinvio, rispetto alle quali cercavo, se possibile, di conciliare l’interesse dell’ufficio, spostando eventualmente il processo al pomeriggio dello stesso giorno, pur se cosı̀ andava in fumo mezza giornata di « libertà ». In linea di massima consideravo doveroso accogliere tutte le istanze probatorie, tranne i casi che mi parevano di patente superfluità; ed ero solito far chiamare, alla udienza penale, i processi d’opposizione a decreto assai sul tardi, per fugare ogni ombra di dubbio che io volessi speculare sull’orologio al fine di risparmiarmi un poco di dibattimento ed una sentenza motivata. In sintesi, massima liberalità nel processo, severità e rigore adeguati nelle decisioni, se necessario. Deve tuttavia dirsi che per il giudice questo processo di progressivo affinamento etico-professionale non costituisce, in definitiva, il risultato di un grande sforzo interiore per superare le sue passioni e le sue tendenze istintive, non implica affatto, secondo una immagine di abusata retorica, l’esercizio eroico delle UN MESTIERE, UNA SCELTA 43 virtù di cui si legge nelle vite dei santi di santa romana chiesa. E questo perché l’ambiente stesso aiuta singolarmente il giudice ad essere sereno, equanime, cortese, poiché tutto cospira a circondare il magistrato di un clima, in genere, di rispetto e di ossequio e da parte della generalità del pubblico, presso il quale il concetto di giudice è uno di quei pochi che ancora conservano in tanta violenta iconoclastia un poco di sacertà, e da parte degli avvocati che cosı̀ di massima si comportano metà per convinzione e metà per interesse, fino a scivolare, talora, in un quasi disdicevole servilismo. Il giudice procede cosı̀ nell’ovatta, tutto di massima è ammorbidito intorno a lui ed in questo clima è assai facile, quindi, comportarsi secondo quei canoni elementari che qui si sono ribaditi, giacché è veramente raro che vi sia l’occasione propizia per lo scatenamento dei nervi e per il disfrenarsi dell’attacco collerico. Tutto quindi aiuta ed è per questo che mi è sempre stato difficile rendermi conto di come possa pervenirsi all’oltraggio del magistrato; infatti, se non si ha a che fare con un esaltato che talora circola nelle aule di giustizia al pari del violento, questi episodi, in considerazione del clima generale, farebbero viceversa pensare che all’origine di tutto vi sia qualche comportamento poco corretto dell’oltraggiato o qualche sua grave deficienza; da essi, pertanto, a prescindere dal profilo puramente penale, dovrebbe trarsi l’occasione per valutare appieno la personalità del giudice. Ed infine, visto che l’uomo non vive di solo pane, si mettano nel conto anche i vantaggi non esclusivamente spirituali e quelli puramente materiali. Si consideri, ad esempio, per chi ci tiene, il 44 UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO prestigio formale del giudice; il suo trattamento economico che, pur non essendo favoloso, non è nemmeno trascurabile quanto meno secondo una valutazione comparativa nell’ambito del pubblico impiego e che è — inflazione evitandosi — certo ad ogni scadenza; la possibilità assai frequente di poter decidere sui tempi del proprio lavoro; il periodo non trascurabile anzi veramente cospicuo di ferie. Si aggiunga, infine, che molto spesso, in questo allegro paese nel quale si lasciano sopravvivere uffici ormai inutili rispetto alle necessità, i magistrati sono preposti a canonicati di tutto riposo o prestano il loro servizio in uffici nei quali la mole del lavoro non è invero eccessiva, onde resta ad essi molto tempo libero da dedicare, secondo la personale inclinazione, o agli studi giuridici o ai diletti vari dello spirito o anche alle battute di caccia e alle partite di scopone nel circolo cittadino. Se è infatti vero che in molti altri uffici, come contropartita della disorganizzazione che importa la dilapidazione del pubblico denaro, con l’organico esistente non si può provvedere a smaltire convenientemente l’ingente mole del lavoro accresciutosi come risultato congiunto dell’aumento dell’urbanesimo e del ritmo degli affari, ed è quindi imposto un ritmo assai intenso di lavoro condotto alquanto frettolosamente e comunque sempre impari alla bisogna, credo che una non trascurabile percentuale degli uffici cosı̀ malamente distribuiti consti, appunto, di canonicati o di semicanonicati, mentre in prevalenza l’accento cade comunque sui tranquilli tribunali di provincia nei quali l’otium è più o meno copiosamente consentito. Per tutto questo non UN MESTIERE, UNA SCELTA 45 credo che corrisponda alla situazione media, come pur si è detto, un lavoro massacrante; ancor più mi pare alquanto esagerata l’affermazione che, a ragione di questo preteso ritmo ossessivo, le morti per infarto sono percentualmente più elevate tra i magistrati (10); quanto meno di queste punte del fenomeno non mi sono reso conto nella mia pur limitata esperienza. (10) Cosı̀ A. PERONACI, La crisi della giustizia, ne « La Magistratura » del febbraio 1963. 2. I giudici quali sono Come risulta dalle cose che ho detto finora, vi sono molti, eccellenti e nobili motivi per i quali il giovane laureato in giurisprudenza può essere indotto ad entrare in magistratura e a restarvi con piena soddisfazione spirituale, senza delusioni e senza rimpianti, nuovamente convinto, giorno per giorno, della bontà della scelta, quanto meno secondo una valutazione comparativa delle possibili alternative. Per quanto mi riguarda fui sempre in questo stato di grazia e dal punto di vista del relativo appagamento delle esigenze personali e perché, malgrado la piena consapevolezza della crisi del sistema della quale dirò in seguito, trovai sempre conforto nella constatazione che avevo la ventura di operare nel settore comunque più pulito, meno toccato da quei fenomeni deteriori che sono forse il dato caratteristico, coessenziale di tanta parte delle nostre cose e in particolare della pubblica amministrazione in senso vasto. Le disillusioni, le amarezze, la tristezza che prende nel rovello costante che deriva dal pensare alla crisi del sistema e della nostra società moralmente cosı̀ tarata, non misero mai in dubbio la relativa bontà della scelta, non mi tolsero se non fugacemente la soddisfazione e la gioia del mio lavoro, anzi furono motivo per 48 UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO ritrovare sempre in esso una ragione ed una giustificazione, constatando che comunque a me era data la grande ventura di poter operare, nella ristretta area delle mie possibilità, per il bene. Di qui anche l’impulso a fare sempre più nel senso migliore, affinché qualcosa di onesto e di serio rimanesse in piedi, nella profonda convinzione che la causa di una più civile convivenza si salva non con soluzioni miracolistiche ed esterne, ma nella misura in cui, a tutti i livelli, c’è gente disposta a non mollare e a tirare innanzi come se tutto procedesse nel migliore dei modi. Ed incontrai colleghi che mi parvero pervasi da questi sentimenti, veramente convinti di adempiere ad una missione che non ha eguali; colleghi che, al di là delle formali dichiarazioni che spesso sfociano nella vuota retorica e dietro le quali v’è solo, sovente, una pura mistificazione, con tutto il loro comportamento, velato dal pudore che naturalmente copre le spinte più profonde nell’animo del giusto in un mondo nel quale sempre più si apprezza la furberia e la capacità di arrivare, testimoniavano eloquentemente nei fatti di tutti i giorni di una temperie morale e di un assoluto, tetragono convincimento. Ma, in verità, furono assai rari questi incontri che sempre mi furono di estremo conforto, giacché giova moltissimo la consapevolezza di non essere soli nella buona battaglia, cosı̀ come, specialmente per i giovani, ha virtù trascinatrice, in luogo dei facili discorsi d’occasione, l’esempio operoso; come al contrario la suggestione intensa derivante da una severa predicazione crolla in un secondo se nel predicatore si accerta un momento di debolezza, talora una parola o un gesto. I GIUDICI QUALI SONO 49 Formalmente, almeno a giudicare dalle apparenze, il tono medio è, al contrario, altro e ben diverso; per tutta una serie di circostanze, di fatti, di dichiarazioni, di comportamenti costituenti un tutto eloquente, mi convinsi ben presto, e spero che si sia trattato e si tratti di una impressione erronea, che nell’ambiente decisamente prevale la spinta meramente impiegatizia, in ragione della quale vengono messi nel conto solo i vantaggi aridamente materiali della professione, onde è assai facile e corrente il confronto con altre attività, ricavandone un senso di insoddisfazione, e si è spiritualmente pronti a navigare verso altri lidi, quando balenino i vantaggi di più corpose fortune. Una serie di elementi convince ben presto il giovane magistrato di questa amara verità sulla stoffa media del suo collega, giacché solo raramente, come ho detto, avverte l’operosa presenza di una spinta anche morale. Ed allora si spiega come la media dei magistrati consideri burocraticamente il proprio lavoro come l’inevitabile tributo da pagare alla società per ottenere in cambio i mezzi necessari per vivere e quindi come una fatica della quale si sente solo il peso e il disagio; perché anche qui spesso si assuma come metro esclusivo di valutazione il denaro; perché la categoria trovi in prevalenza motivo per agitarsi e per sentirsi viva e pugnace, quasi di norma, nelle sole questioni di stipendio e di carriera in funzione dello stipendio; perché siano frequenti il confronto, talora errato anche sul piano grettamente materiale, e l’invidia rispetto alle fortune, più o meno esagerate, di altri, specialmente rispetto agli avvocati (dove, con una certa presunzione, il confronto viene istituito solo 50 UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO mentalmente riferendosi ai professionisti più affermati che sono, specialmente in provincia, pochissimi; in ogni caso non considerando l’alea insita nella libera professione; mai ricordando, realisticamente, quali prospettive in concreto aveva innanzi il giovane laureato nello sperduto borgo della provincia meridionale. Ma è tipica del burocrate in generale l’ingiusta invidia verso chi rischia nelle professioni, nelle industrie, nel commercio, mai mettendosi in calcolo la contropartita di una relativa sicurezza rispetto al grigiore dell’impiego pubblico). Ben presto si è quasi indotti a pensare che, nella massa, i veri giudici sono pochissimi, perché la grande maggioranza ha scelto e rimane avendo messo in calcolo solo i vantaggi materiali della particolare carriera, con una intima disponibilità verso possibili soluzioni alternative; nella biografia di molti ciò è del resto formalmente testimoniato dalla circostanza che si sostenne il concorso per la magistratura, tentando nel frattempo altri concorsi e lasciando cosı̀ alla sorte la scelta più conveniente al livello delle personali possibilità. Nella media, pertanto, i magistrati italiani appaiono e si comportano come burocrati, come se non fossero mai sfiorati dalla consapevolezza di quello che spiritualmente può essere la loro professione; rispetto a molti di essi sfiora la sensazione che costoro entrino, passino, escano senza essere stati mai, in un giorno qualsiasi di questa loro vicenda, giudici veri nel senso più augusto. Dal mio punto di vista di inguaribile ingenuo, sono stato sempre sorpreso nell’apprendere di un collega che ci aveva lasciato (approfittando della possibilità offerta da quel pessimo I GIUDICI QUALI SONO 51 amministratore che è lo Stato, di ottenere la pensione a diciannove anni, sei mesi ed un giorno di servizio, fornendo cosı̀ un incentivo all’abbandono da parte di uomini che sono ancora nel pieno delle loro possibilità, a spese di Pantalone) per il notariato, cosı̀ anteponendo i vantaggi materiali di una onesta, ma arida professione, alla missione del giudice. Nel meditare su questo porsi del giudice medio come burocrate, mi sono spesso chiesto, augurandomi di poter giungere ad una diversa conclusione, se per caso non si trattava di mere apparenze esteriori, se oltre questo atteggiamento identificabile in un primo contatto, vi fosse nell’intimo una disposizione ben diversa mascherata dal pudore e dal desiderio di non mettere l’accento sulle spinte più vere, in un mondo che è sempre più dominato dai valori di Mammona, che giudica e manda in relazione alla quantità delle fortune accumulate, al successo mondano, al potere ottenuto. Mi son prospettato sempre questo dubbio, perché, quale sia la spinta iniziale, mi è difficile se non impossibile credere che il magistrato, calato nel pieno del suo lavoro, non possa mai essere toccato da quello stato di grazia che ho detto; la funzione è cosı̀ prepotentemente alta ed impegnativa che non può, ad un certo momento, non prendere e trascinare anche il più arido degli uomini. Ed infatti, che lo stato di grazia conforti almeno agli inizi e per un breve periodo, è fatto obbiettivamente accertabile. È ben noto come da diversi indizi possa dedursi che i più giovani dei nostri magistrati sono, di norma, i più attivi ed i più entusiasti, nonché i più sensibili alle 52 UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO questioni di principio e a quel complesso di valori che è accolto, ad esempio, nella Costituzione, ciò ricavandosi dal fatto che in netta prevalenza proprio i pretori hanno investito la Corte Costituzionale della questione di legittimità o no delle numerose norme della legislazione ordinaria che, essendo d’ispirazione fascistica, prestano il fianco alla critica e al dubbio se considerate alla stregua della superlegge. A questo punto, accertati il normale punto di partenza ed il normale punto di arrivo, può apparire plausibile una spiegazione complessiva nella quale siano armonicamente risolvibili i vari elementi, di per sè contraddittori, che emergono dalla situazione. È vero che agli inizi, quale che sia stata la spinta occasionale — di norma quella meramente impiegatizia — la funzione prende l’uomo; il giovane magistrato, assunte le funzioni, si appresta, di norma, ad esercitarle con una punta di entusiasmo giovanile, ci crede e vuol crederci con tutta la generosa baldanza di cui è capace l’animo giovanile. Gli anni tristi della ricerca, talora angustiante, di un pezzo di pane sono ormai alle spalle; un minimo è assicurato: la ragione ed il cuore sono disponibili per offrire quanto di meglio sempre sonnecchia nel fondo, sotto la spessa coltre di quello scetticismo amaro che la vita ci riserva man mano che procediamo di situazione in situazione, di delusione in delusione. Di qui la spinta del neofita, l’illusione e la convinzione di poter contribuire a cambiare il mondo. Si è detto (11) che proprio i più giovani (11) Vd. F. UNGARO, La macchina della Giustizia, in « Realtà nuova », novembre 1962, p. 1140. I GIUDICI QUALI SONO 53 magistrati sono, in genere, i più autoritari; ma il rilievo, nel quale c’è certo un pizzico di vero, è ingeneroso ed ingiusto. Il giovane magistrato « crede » e credendo è certamente più fermo, più rigido, meno disposto ad accettare soluzioni transattive e a metà tipicamente dettate dal c.d. buon senso; spesso indubbiamente, in questa spinta messianica, esagera e sbaglia, vede fantasmi o brandelli di un mondo respinto nei fatti più innocenti, perde, per la volontà di perseguire sempre il rigore dei principi, le dimensioni dell’equità e giunge talora a soluzioni visibilmente sproporzionate. Qualche volta ho raccolto nelle confidenze degli avvocati lamentele di questo tipo verso i più giovani colleghi e, pur concedendo talora nel riconoscimento della sostanziale iniquità o della eccessiva rigorosità della singola decisione, ho sempre difeso queste giovanili esorbitanze, fatte purtroppo a spese dei cittadini, invitando ad una umana comprensione di esse e ad attendere con pazienza che il tempo e soprattutto l’esperienza levigassero queste punte, consentissero al giovane divenuto più maturo di saper proporzionare il rigore dei principi alla effettiva consistenza dei casi umani. Ma soprattutto dicevo che quel medesimo giovane, oggi cosı̀ rigidamente consequenziario, di lı̀ a qualche anno si sarebbe purtroppo trasformato secondo una evoluzione in senso del tutto inverso ed egualmente negativa: per mille circostanze il neofita di oggi sarebbe divenuto, con tutta probabilità, un miscredente, se non un cinico, non avrebbe più creduto alla possibilità di realizzare i valori della giustizia, avrebbe considerato l’amministrazione giudiziaria ed i principi in 54 UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO essa formalmente conclamati come una mistificazione che l’ipocrisia sociale impone come supremo inganno e dileggio. Ed in verità le cose procedono, a grandi linee, in questi termini e comportano che in un giro assai breve di anni il medio magistrato subisca una metamorfosi più o meno completa; ben presto egli quasi si convince che, ad esempio, ammesso che la giustizia possa essere di questo mondo, essa non è certamente di questa nostra terra nella quale pare che le grandi canaglie, i più temibili delinquenti, i fatti più gravi di corruzione e di malcostume sfuggano alla rete nella quale semmai incappa il solito malcapitato sprovveduto; si convince, per mille episodi, che il sistema non funziona e non serve. E giorno per giorno la c.d. sapienza dei più anziani colleghi è lı̀ ad ammonirlo di queste amare verità, cosı̀ come ovunque l’amara consapevolezza, materiata di sofferenze e di delusioni, ha gettato in tutti i tempi molta acqua sul fuoco degli imberbi giovanetti, secondo il naturale sviluppo di quel processo attraverso il quale la vita è destinata forse sempre a smentire le generose illusioni dei venti anni e a farci riscoprire, purtroppo veri ed attuali, gli adagi che un tempo ci parvero unicamente dettati da insipienza o da angustia morale. Il giorno in cui il magistrato si accorge di tutto questo, quando si rende conto che tutto e tutti operano contro il suo entusiasmo di un tempo, c’è solo una cosa che può salvarlo, una intima convinzione morale che gli prospetti come in ogni caso preferibile la soluzione di salvare, in tanta delusione, l’anima sua, magari solo per un orgoglio innato; se questa riserva intima manca, se è assente I GIUDICI QUALI SONO 55 la forza di saper essere disperatamente soli nell’intimo della nostra coscienza, il crollo è inevitabile e si passa a far numero nella maggioranza disillusa dei mortali. Allora il magistrato è maturo nel senso più deteriore, è ormai un uomo posato e di buon senso come la convenzione sociale richiede; è, rispetto ai traffici, ai mercanteggiamenti, alle truffe e agli imbrogli della onesta società, un uomo d’ordine nel senso più farisaico, un uomo che si limita a mantenersi personalmente pulito, ma non crede più alla sua funzione nel mondo e non ha quindi più la spinta per aggredirlo nei suoi lati negativi; si difende e non offende, quando l’offesa costituirebbe pur sempre un inderogabile imperativo. Rimanere o no nell’ordine diviene, a questo punto, una mera questione d’interesse, un affare certo fra i più onorevoli per sbarcare il lunario, giacché non si comprende perché in un mondo di furbi solo questo povero cristo debba far la parte dell’idealista idiota; la vita con le sue ferree leggi ha riassorbito l’ingenuo di un tempo. E cosı̀, salvata l’anima nel senso più angusto della media che si contenta di mantenere le mani pulite senza però coltivare illusioni missionarie, le questioni di stipendio e di carriere ridiventano, com’è logico, l’alfa e l’omega dei problemi nella più prosaica esistenza, cosı̀ come può apparire allettante la prospettiva di andarsene. E in questa ultima soluzione c’è, forse, ancora un pizzico di contorta reazione morale; me ne vado per essere coerente fino in fondo alla tavola dei valori (rectius, di disvalori) che questa società pervertita, dominata dalla passione, dall’aridità e dal vizio, ha voluto malgrado tutto instillarmi nel- 56 UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO l’animo; me ne vado perché se cosı̀ è e se cosı̀ deve essere senza speranza di salvezza, provo con un gusto pervertito a sbattere sul tavolo della vostra ipocrisia questo più consistente sacchetto di denaro; me ne vado perché preferisco non ammantarmi più di una toga dietro la quale non c’è alcuna spinta trasformatrice, perché me ne vergogno, perché dobbiamo vergognarci della nostra capitolazione e della nostra inettitudine, perché non abbiamo alcun titolo per arrogarci il diritto di giudicare; me ne vado per confondermi nella folla che cerca, senza nasconderlo, anzi apertamente dichiarandolo, di arrangiarsi nel migliore dei modi e di massima limitandosi a correre, con qualche accorgimento, sul filo del rasoio del rispetto della sola legalità formale, comunque ritenendo, per un radicato convincimento rispetto al quale la legge niente vale e niente significa spesso anche presso chi è chiamato ad esserne agente, che l’onestà non è certo infirmata, ad esempio, dalla menzogna alla quale tutti ricorrono nella dichiarazione annuale dei redditi. Non so certo in quale misura questo ipotizzato stato d’animo muova i singoli nel loro esodo; ma è chiaro che, obiettivamente, ogni esodo rappresenta, di norma, una sconfitta morale per l’ordine che lo subisce ed esso andrebbe annunciato nel bollettino ufficiale nella stessa guisa in cui, nelle grandi occasioni, i giornali compaiono listati a lutto. Ma conclusivamente, con questo approssimativo stato d’animo, si spiega perché domini quella grigia atmosfera impiegatizia che si constata subito dopo il primo contatto. Ma resta da dire, più specificatamente, come mi I GIUDICI QUALI SONO 57 sia apparsa la media dei miei ex colleghi. Deve premettersi che la qualità media dei magistrati può essere giudicata dai più diversi punti di vista; cosı̀ ci si può proporre di appurare quale sia, grosso modo, la concezione etico-sociale che di massima prevale in questa determinata categoria, secondo quel tipo d’indagine che è stato prospettato con molte felici intuizioni da Dino Greco (12), rilevandosi, anche a ragione della predominante estrazione meridionale e piccolo-borghese, come la tavola dei valori normalmente tipica del magistrato italiano sia quella corrispondente alla ideologia di una società ancora arretrata. Ma non è da questo punto di vista che intendo collocarmi, ché qui il discorso diventa di necessità assai delicato e soprattutto problematico ed incerto, in quanto ognuno costruisce la sua tavola di valori secondo le proprie scaturigini e inclinazioni. Il discorso diventa poi particolarmente opinabile nel quadro di una comunità nazionale che come quella attuale italiana appare in profonda e contorta evoluzione da un certo modello verso un altro. Certamente può essere importante, sul piano delle constatazioni sociologiche e psicologiche, appurare quale sia il contesto etico-culturale dal quale muovono le valutazioni di fondo della magistratura italiana, perché questo è un modo in definitiva non trascurabile per la comprensione della giurisprudenza; ma si resta appunto sul piano delle constatazioni, mentre io non so quale succo possa cavarsene quando (12) Vd. D. GRECO, La formazione culturale del giudice, in Magistrati o funzionari?, cit., 562. 58 UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO si tenti, su questa base, di formulare un giudizio di valore. A prescindere dal rilievo che le qualificazioni generali (ad esempio, in senso « conservatore » o « progressivo ») sono di per sé in larga misura relative ed approssimative, in quanto non è raro che si possano riscontrare notevoli disparità di schieramento in relazione a singoli problemi o gruppi di problemi collegati, è in definitiva assai opinabile ogni valutazione in termini di c.d. « progressività » o di c.d. « conservatorismo ». Un giudizio di valore non può essere mai formulato in assoluto secondo termini di ideologia spicciola. Non c’è nessuno che individualmente possa sentirsi legittimato ad esprimerlo rapportando la propria tavola di valori agli orientamenti di un ordine quale è quello giudiziario. In ipotesi la valutazione dovrebbe essere fatta, con una certa relativa obiettività, in termini di relazione tra la società committente ed i giudici che in suo nome operano. Voglio dire che, su questo piano, non c’è da rapportare gli orientamenti dei giudici a un metro ideale astrattamente formulabile in piena libertà di opinamenti personali; è semmai lecito istituire un confronto tra questi orientamenti giurisprudenziali e quelli che, quale ne possa apparire il valore in assoluto, sono storicamente prevalenti in un dato momento in una data società, posto che, per definizione, il giudice deve operare e qualificare (specialmente quando si tratta di dare svolgimento in concreto ai c.d. concetti-valvola dell’ordinamento giuridico) in conformità di quanto, nella società a servizio della quale egli opera, si pensa in media dei più disparati rapporti, situazioni, relazioni. Proprio I GIUDICI QUALI SONO 59 perché il giudice opera come organo della società giuridicamente istituzionalizzata, il giudizio di valore non va condotto in astratto, ma in termini storicamente adeguati, tenendo comunque conto delle scelte compiute dal potere sovrano in termini di politica legislativa e normativamente espressi. In senso più rigoroso, quindi, non può esservi in materia un giudizio di valore sulla giurisprudenza, ma un giudizio di conformità tra questa e le convinzioni mediamente accolte nel corpo sociale; percuotere la moglie nell’esercizio del discusso jus corrigendi può essere ritenuto inconcepibile in assoluto, alla stregua di una moralità superiore, ma è dubbio che cento anni or sono si potesse ritenere errata la sentenza affermante codesta potestà, oggi controversa, anche nelle sue estreme implicazioni, sulla base dell’opinione media sociale. In ogni caso una indagine su questo piano può essere suscettiva di qualche risultato appagante, allorché si abbia a che fare con una società socialmente e quindi culturalmente omogenea o con una società che sia al livello della consapevolezza costituzionale sufficientemente unitaria. Ma, di per sé, la stessa formulazione di una siffatta ipotesi è dubbia o quanto meno la stabilità etico-sociale va intesa in senso eminentemente relativo e condizionato, giacché sempre, in ogni epoca e in ogni paese, in limiti più o meno ristretti o con un ritmo più o meno intenso, la vicenda storica è in movimento sul piano delle trasformazioni tecniche ed economiche, delle conseguenti evoluzioni di classe e della lotta delle idee; probabilmente — è questa, del resto, una ipotesi puramente storiografica — non c’è mai stata 60 UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO una totale omogeneità, nel senso che, almeno rispetto a certi problemi, anche parziali e limitati (cioè anche secondari ove si proceda ad una sistemazione della vicenda per grandi linee riassuntive ma sempre corposamente essenziali in quel determinato contendere degli uomini) vi è sempre stata una più o meno accentuata discrepanza di valutazioni tra i consociati e quindi un corrispondente conflittare di orientamenti nella giurisprudenza. Sennonché, ammessa la relativa stabilità registrabile in epoche anteriori ed in particolare in quella che ci sta immediatamente alle spalle, assumendo anche qui come punto convenzionale ed approssimativo di riferimento il fatale agosto del 1914, la nostra epoca è per definizione, per relativa e cospicua accentuazione, di movimento; la nostra società è, in particolare, non omogenea, vi coesistono diverse situazioni economico-sociali e quindi diversi modi di pensare sui più disparati problemi, onde la scissione di base si riflette, e in molteplici direzioni, nella stessa esperienza giuridica complessivamente considerata. Verso quale concezione del mondo, verso quale modulo etico-sociale deve essere fedele il magistrato? Basta formulare questa domanda, per comprenderne, oggi, l’estrema inconsistenza, giacché io non vedo come, ad esempio, possa aversi titolo per pretendersi un orientamento o c.d. conservatore o c.d. progressivo sul punto della posizione della donna nella famiglia. In realtà, su questo piano, in corrispondenza alla scissione di base dovrebbe coerentemente registrarsi un coesistere di orientamenti nella giurisprudenza come riflesso del dividersi dei giudici stessi ed è certo che almeno I GIUDICI QUALI SONO 61 sotto certi profili una pluralità di orientamenti è rinvenibile nella nostra giurisprudenza attuale (ad esempio sul punto della concezione dei rapporti tra il cittadino e lo Stato, secondo una concezione liberale o viceversa secondo il modello di lontana origine napoleonica che ebbe poi il suo trionfo nel regime immediatamente precedente). Se non c’è, in ipotesi, piena corrispondenza tra la struttura e la sovrastruttura, e se la giurisprudenza presenta, al contrario della società, una maggiore omogeneità, la situazione va spiegata altrimenti e qui tornano di attualità le puntuali notazioni del Greco. Il trattamento praticato ai magistrati, infatti, è tale che, di necessità, sul piano del mercato del lavoro rispetto alla specifica professione, importa la prevalenza di uomini estratti da una determinata area economico-sociale ed altresı̀ regionale con tutte le inevitabili implicazioni. Ma è questa una notazione che può farsi per tutta la pubblica amministrazione nel suo complesso, e se vogliamo ragionare, alquanto superficialmente, in termini di « conservazione » e di « progresso », di posizioni « avanzate » o al contrario « retrograde », si potrebbe solo osservare che la parte c.d. più avanzata del paese amministra cosı̀ miopemente le sue cose da commettere l’amministrazione dei suoi interessi sul piano della strutturazione del potere alla parte peggiore. Dopo di che, se è vero, come mi dicono, che nella vicina Francia si è costretti a far regolare il traffico stradale dei « civilissimi » parigini da poliziotti « di colore », ognuno può cavarne, secondo il personale orientamento, le conclusioni che vuole; certamente quella, obiettiva, che in ter- 62 UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO mini economici il mercato del lavoro pubblico è regolato in condizioni tali che, in ogni paese, la pubblica amministrazione viene inflazionata, in misura non rappresentativa rispetto alla media del paese o ad alcune sue punte, da soggetti provenienti dalle regioni economicamente depresse, i meridionali e gli insulari in Italia, cosı̀ come i corsi in Francia ed i montenegrini in Jugoslavia, tanto per mantenerci nella nostra area mediterranea. Si deve infine considerare che la magistratura non consente, mantenendo il discorso nei termini qui considerati, qualificazioni monocolori; ad esempio sul piano delle controversie di lavoro è forse prevalente un orientamento di marca « progressiva », cioè, almeno per taluni aspetti, più favorevole al contraente più debole del rapporto di lavoro, ma questa circostanza può non essere decisiva ove si voglia accertare la prevalenza o no di una tendenza « liberale » (cioè operosamente ispirata dal presupposto che non deve esserci nel sistema una pregiudiziale gerarchia di interessi, tutto risolvendosi di massima nella contrapposizione antagonistica), posto che è vecchia verità che un pizzico di paternalismo sociale non guasta nemmeno nei minestroni di più pura marca borbonica. Resta in ogni caso sempre decisiva la considerazione che siamo sul piano dell’intimo convincimento del giudice, del suo generale orientamento, nei limiti in cui esso può operare negli schemi formali e nelle soluzioni specifiche dell’ordinamento. Ma quando un uomo risolutamente e globalmente dissente dai criteri di valore comunemente accolti in una società, egli non ha moralmente alcun titolo per pretendere di I GIUDICI QUALI SONO 63 operare come giudice a servizio della medesima; automaticamente una siffatta situazione comporta che con piena spontaneità ci si astenga dal servire in questo contesto, perché il radicale dissenso induce — anche nei fatti — o all’astensione o, se se ne ha la forza e la volontà morale, alla opposizione radicale di principio. Il problema, almeno per le ipotesi più macroscopiche, non dovrebbe quindi nemmeno porsi; per andare al caso limite, non si è mai visto un adepto dell’utopismo anarchico aspirare a porsi alle dipendenze dello Stato, cosı̀ come è difficile pensare che un cristiano autentico possa servire nei tribunali della Germania nazista o in quelli razzistici della repubblica sudafricana. Dall’altra, proprio perché quando si è deciso di servire come giudici non c’è mai radicale dissenso, ma c’è, quanto meno, un minimo che spiritualmente consente codesto servizio, tutto può risolversi in un problema di divergenza su particolari questioni; e qui, fermo il rispetto della legalità, si entra nel campo delle libere valutazioni rispetto alle quali non c’è, in definitiva, rimedio di sorta proprio nell’ambito della legalità, se non si vuole rimuovere il giudice ritenuto estemporaneo, cosı̀ operando in violazione della posizione costituzionalmente garantita al medesimo (13). Il giudice « parziale » è quindi (13) Il problema del giudice « parziale » venne sollevato da A. POGGI, L’indipendenza della magistratura oggi in Italia, in Magistrati o funzionari?, cit., p. 42, sulla base della situazione emersa in determinati processi a sfondo politico, auspicando l’A. che fosse possibile promuovere l’azione disciplinare nei confronti del giudice visibilmente partigiano. A questa proposta ha efficacemente risposto, a mio avviso, S. BASILE, Il giudice parziale, ne « Il Mondo » del 4 settembre 1962 (l’articolo è riportato in appendice al volume Magistrati o funzionari?, cit., p. 767, insieme ad una lettera del Poggi 64 UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO un episodio di cronaca destinato ad essere assorbito nella storia. Scendendo dall’empireo, i magistrati possono essere valutati, prescindendo dal merito dei loro orientamenti, per il modo in cui assolvono alle funzioni loro commesse. E qui, com’è naturale che avvenga, è ovvio che si incontrino tipi assai diversi, potendosi d’altro canto condurre il discorso alla stregua dei più vari criteri, prendendo in considerazione le doti di intelligenza, di onestà, di laboriosità, di preparazione tecnico-giuridica, etc. Una grande varietà, adunque, con le più diverse combinazioni nel singolo soggetto in relazione ai vari, possibili metri di giudizio. C’è, al limite dell’optimum, il giudice intelligente e preparato e onesto e laborioso e c’è chi manca, in tutto o in parte, di taluno di questi requisiti. Cosı̀ m’è accaduto, talora, di imbattermi in qualche collega del tutto strampalato, visibilmente deficiente rispetto alla media degli uomini, che forse sarebbe stato opportuno ospitare in qualche casa di cura; magistrati — fortunatamente rarissimi — ai quali come cittadino non mi sentirei di affidare la più facile delle cause e che invece sono chiamati a giudicare — c’è da tremare! — malgrado il loro ben visibile stato che qualche volta li fa oggetto della successivamente pubblicata nel settimanale citato): « Ma in una società di faziosi chi giudicherà il fazioso? ». Ed infatti, poiché non è possibile attentare alla posizione di indipendenza del giudice a ragione della sua ipotetica faziosità, c’è solo da sperare nei controlli giurisdizionali interni nonché sul controllo dell’opinione pubblica e delle sue forme di espressione in una democrazia. I GIUDICI QUALI SONO 65 commiserazione degli avvocati e del malinconico, disumano dileggio dei colleghi. L’interessante è rilevare che anche costoro hanno superato, talora benino, il concorso iniziale nonché il successivo esame per aggiunto giudiziario. E merita ricordare questa situazione per mettere in rilievo che sotto questo profilo l’attuale sistema di selezione può talora funzionare del tutto a sproposito e alla rovescia e che nemmeno sussistono validi controlli successivi che possano comportare l’espulsione dall’ordine di chi è del tutto incapace; per una malintesa pietà che si ritorce in un danno gravissimo per il servizio, chi è preposto all’ufficio si astiene dal segnalare questa dolorosa situazione o comunque dal predisporre quanto possa giustificare il desiderabile provvedimento espulsivo. A prescindere da queste eccezionali situazioni patologiche, è certo che una valutazione globale, nei limiti in cui può giustificarsi, va effettuata rispetto alla massa che dispone di normale intelligenza (con tutte le consuete sfumature) e normale preparazione tecnica. Rispetto a questo tipo medio di magistrato, avendo riguardo all’intelligenza e alla cultura specificamente richiesta, è evidente che la valutazione decisiva deve far perno sulle doti di sostanziale onestà e di normale laboriosità. Anche qui si riscontrano le più varie situazioni. Ho conosciuto magistrati per i quali, effettivamente, l’amministrare giustizia è un compito estremamente serio ed impegnativo, forse sovrumano, ragione quotidiana di scrupolo e di tormento, talora di rimorso angustiante, severi con il prossimo e con sé medesimi, ma di squisita sensibilità umana; uo- 66 UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO mini che di per sé, in tutte le loro manifestazioni, costituiscono una testimonianza vivente di un ideale che avvince e commuove e che sono stati per me una stimolante lezione. Non di rado c’era in questi colleghi veramente maggiori, in genere indotti per il loro sentire ad un grande pudore, ad una innata ritrosia che impediva loro di mescolarsi nelle beghe interne di ogni tipo, una ben precisa ispirazione religiosa particolarmente inquietante per chi, come me, non è illuminato dalla grazia divina. Accanto a questi asceti, altri ho conosciuto non meno seri, non meno impegnati, ma non sofferenti, almeno giudicando dalle apparenze, a sconvolgenti tormenti interiori, bensı̀ con una nota costante di mondanità e di scettica signorilità, con una certa bonomia nel trattare gli infiniti e svariati casi della vita. Insomma, sempre ad un alto livello, ho visto tutte le gradazioni con cui l’animo umano si pone i problemi di fondo della coscienza morale, dal pessimismo all’ottimismo, dal rigorismo tormentoso alla serietà temperata da una punta di giocondità. Ho conosciuto altresı̀ qualche autentica canaglia, qualche briccone corrotto e corruttore, talora disposto ad operare in aperta violazione dei suoi doveri, anche commettendo precisi reati, oppure, assai più di frequente, a muoversi illecitamente e a fin di male con qualche abile accorgimento, nel farisaico rispetto della legge; credo che ogni magistrato, se volesse o potesse dare sinceramente la stura ai suoi ricordi, abbia da raccontare qualche pur raro episodio rilevante su questo piano, l’incontro che talora si verifica col maggiore collega mafioso, legato a certi interessi, a certe cricche, pronto I GIUDICI QUALI SONO 67 a rendere segnalati favori, e che, nel contempo suadente e, se ne ha le possibilità, sostanzialmente minaccioso, cerca di ottenere e di pervertire, determinando una situazione nel corso della quale è stato difficile mantenere i nervi a posto, trattenersi dal gridargli in faccia tutto il nostro sdegno ed il nostro schifo (ed infatti la professione di magistrato è tanto alta e nobile che quando cosı̀ male si incarna nei singoli, il fatto non può non determinare, per naturale contrappasso, la più decisa reazione). E c’è anche il primo della classe, colui che si sforza visibilmente di essere bravo, dotto e laborioso sol perché lo sospinge la brama di arrivare e di primeggiare; e, in mancanza di meglio, pur questo può rappresentare una garanzia. Nel complesso, tuttavia, il tipo medio del magistrato italiano si colloca più o meno, e non può non collocarsi, in una aurea mediocrità sotto tutti i profili. Sul piano tecnico è di media, sufficiente preparazione, cerca comunque, di volta in volta, di cavarsela con dignità anche se, spesso, le sue fonti di erudizione si risolvono in una frettolosa consultazione dei repertori giurisprudenziali, ivi ricercando qualche massima risolutiva della Cassazione; in sostanza è al livello del medio avvocato. Per quanto attiene alla laboriosità, non predomina il tipo dello stacanovista; si cerca di tenere mediocremente il passo, di fare l’indispensabile magari perché premuti da un termine da troppo tempo, in misura straordinaria, scaduto. Del resto il sistema in generale, per un complesso di ragioni obiettive e subiettive addebitabili in parte anche agli avvocati, come a suo tempo giustamente rilevò il procuratore ge- 68 UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO nerale della Cassazione in un famoso discorso (14), consente molte giustificazioni per il dolce far niente; piuttosto, a ragione del superiore controllo e specialmente nelle preture, domina talora la preoccupazione meramente... statistica di far risultare minori pendenze nei riepiloghi semestrali, con espedienti anche ameni e deludenti:in certi periodi si omette perfino di registrare, rinviando l’operazione, le pratiche in arrivo al fine di far quadrare il bilancio di chiusura, con un impegno degno di miglior causa. Se è doveroso lavorare, se è ottima cosa non far dormire i processi e non accumulare l’arretrato, la questione deve porsi su un piano sostanziale e non su quello meramente formale. Sul piano dell’onestà professionale che è quello decisivo, in genere il magistrato si comporta correttamente e pulitamente; la grandissima maggioranza non è mai dimentica del suo elementare dovere d’imparzialità e l’ambiente è certo quello di gran lunga più respirabile nel gran calderone della pubblica amministrazione, secondo una impressione non a torto diffusa tra i cittadini. Semmai quello che domina è un clima di onesto, generico ed inappagante galantomismo, senza forte temperie spirituale come specialmente si avverte nell’esercizio della giurisdizione penale su cui tornerò in prosieguo; i giudici italiani sono, piuttosto, troppo brave persone nel senso logoro del termine, personalmente di una moralità certo superiore alla media, ma incapaci, per il diffuso scettici(14) Vd. la mia nota di commento Giustizia in Italia: è l’ora dei fatti, ne « Il Ponte », gennaio 1963, p. 6. I GIUDICI QUALI SONO 69 smo, di slanci, restii a porsi veramente con una volontà autonoma di esercizio effettivo del potere, troppo portati ad una non convincente bonomia e ad una comprensione eccessiva dei guai e dei vizi dell’uomo, disposti a perdonare e ad assolvere assai facilmente, troppo, in definitiva, pavidi in una società che, essendo profondamente miscredente ed imbevuta di egoismo anticivico, richiederebbe al contrario, in reazione, ben altro impegno. In conclusione i nostri giudici sono in genere galantuomini alquanto scettici e disincantati sulle cose del mondo e sulla possibilità della loro funzione, onesti burocrati di una Temi che nel paese non è vento che percuote come dovrebbe. Quello che si riscontra nell’ambiente è, soprattutto, un vivissimo spirito di corpo; appare diffusa l’intima convinzione, esplodente in mille episodi e comportamenti spesso di dubbio buon gusto, di appartenere ad una sorta di aristocrazia delle aristocrazie: l’ordine è quindi veramente unito, nel suo complesso, nella volontà di non volersi confondere con la massa dei burocrati e dei cittadini; a mio avviso, al di là della contrapposizione attuale tra vecchi e giovani, tra carrieristi e anticarrieristi, una punta deteriore in questo senso c’è anche nelle posizioni apparentemente e talora sostanzialmente più spinte, più « democratiche ». Ed è certo che talora si è caduti nel ridicolo, come quando si è espresso il più vivo compiacimento per il fatto che da qualche tempo è invalso l’uso di pubblicare un annuario separato per i magistrati rispetto all’unico 70 UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO che un tempo raggruppava anche i cancellieri (15). Cosı̀, si bada spesso alla forma, alle ridicole questioni di precedenza (o quanta deteriore mondanità in questa società cristiana!), senza rendersi conto che è ravvisabile un ben più sostanzioso processo di radicale declassamento della funzione della magistratura (16). Ora è certo che un po’ di spirito di corpo può risultare per qualche verso benefico, se per esso passa l’auspicabile sublimazione del meglio che un ordine, relativamente chiuso, di ottimati può dare al paese; è accettabile se dietro di esso c’è l’implicito intento di sottolineare la ferma volontà di essere migliori. Ma la questione si prospetta in termini diversi, risulta deteriore sul piano del costume, quando dietro la facciata c’è spesso il vuoto, quando dietro le altisonanti declamazioni e i frequenti autoincensamenti di rancida retorica c’è la carenza del potere, la crisi del sistema, la sostanziale abdicazione alla funzione commessa. Donde l’impressione che troppo spesso i magistrati italiani, come gli onesti impiegati di giustizia immortalati nei racconti cechoviani, si contentino della lustra e non esigano la sostanza, si beino del fumo senza rendersi conto che l’arrosto è sparito. Cosı̀, forse per un fenomeno naturale che si accresce a mano che dal basso si progredisce verso l’alto, c’è un tono, un modo di esprimersi veramente fuori posto, una magniloquenza pomposa, una albagia quasi esagitata e frenetica dietro la quale m’è (15) Vd. la nota in « Rassegna dei magistrati », 1964, 291. (16) Vd. in proposito il lucido articolo di A. PIZZORUSSO, Osservazioni sul « declassamento » della Magistratura, in « Montecitorio », gennaio-febbraio 1963. I GIUDICI QUALI SONO 71 parso talora di intravedere quasi una verbale ricerca di giustificazione. Chi avesse voglia e tempo di dilettarsi potrebbe cosı̀, sfogliando le orazioni solitamente pronunciate dai più alti magistrati nelle più varie occasioni, mettere insieme una gustosa antologia di discorsi di dubbio gusto. Mi limito a riportare un esempio. In una occasione, invero commovente (si trattava di un incontro tra gli anziani magistrati entrati in carriera nel lontano 1921), nell’indirizzo di pur comprensibile omaggio al primo presidente della Cassazione, ci si rivolse all’alto magistrato « Sommo Sacerdote, Pontefice Massimo dell’Ordine Giudiziario » in veste di « ministri di una nobilissima missione, investiti di un potere che ci fa uguali a Dio, e, perciò, suoi sacerdoti »! (17). In altra occasione si è scritto (18) che i magistrati di Cassazione « hanno costituito in ogni tempo e costituiscono anche oggi la più alta espressione di dottrina, di conoscenza, di cautela, di sensibilità e di disinteresse personale ». Come ho scritto altra volta (19), questi altisonanti autoriconoscimenti lasciano in definitiva, sul piano della storia generale del nostro paese e della funzione che in essa ha esplicato la magistratura, del tutto scettici, onestà e disinteresse dei singoli magistrati a parte. Qui infatti si pretende e si sottointende un (17) Vd. il discorso di LONARDO riportato in « Rassegna dei magistrati » 1963, p. 212. (18) Vd. una lettera di L. AMMANTUNA, riportata in « Rassegna dei magistrati », 1962, p. 211. (19) In Cronache della Magistratura, ne « Il Mulino », n. 97, ottobre 1960, pp. 245 e ss. 72 UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO giudizio storico che è assai azzardato voler formulare nei termini prospettati, ponendosi dal proprio angolo particolare; sul piano della storia generale non conta certamente la sapienza che può trasudare da elaborate sentenze in senso meramente tecnicogiuridico, rilevando questo solo ed esclusivamente, in ipotesi, nella vicenda interna, tecnica appunto, della giurisprudenza. Per quanto attiene alla « grande » storia il discorso è ben diverso e i meno autorizzati a parlare sono appunto i magistrati che con la loro concreta attività sono proprio oggetto di un giudizio che non conosce, per definizione, la cosa giudicata. Sotto questo profilo non interessa nemmeno quello che la magistratura ha fatto o non ha fatto o come ha fatto nel ventennio della dittatura fascista perché, a mio avviso, non è in quel contesto che il discorso diventa più pertinente. Chi allora in ipotesi resistette e in qualche forma si oppose, sabotò encomiabilmente il regime che richiedeva formalmente la sicura fede « nazionale » ed ha avuto ragione, in effetti, per il modo in cui si è felicemente conclusa la partita. Chi servı̀, d’altro canto, non fece che compiere il proprio dovere verso chi lo pagava, mentre, oltre tutto, pare assurdo che si possa parlare di una magistratura libera ed indipendente in un regime che da una parte si poneva agli antipodi rispetto a questi valori e che dall’altra, come tutti i regimi, non poteva non richiedere e pretendere la fedeltà dei suoi agenti. È importante, viceversa, accertare quello che la magistratura ha fatto o non ha fatto nei periodi in cui, nell’ambito di un reggimento relativamente libero e con concrete garanzie di indipendenza per il terzo I GIUDICI QUALI SONO 73 potere, erano in effetti possibili, nella legalità, scelte autonome ed era consentito per il magistrato compiere con una certa facilità il proprio dovere. Cosı̀ è essenziale valutare il comportamento complessivo della magistratura negli anni tragici della crisi del primo dopoguerra, ricordando, come ben si è detto, « quante bastonature, quante inumane costrizioni a bere l’olio di ricino, sono state commesse ed apertamente vantate senza che l’autorità giudiziaria intervenisse » (20); facciamo pure il processo, ma prima erudiamoci sui fatti, constatiamo se ad ogni delitto dell’epoca fece seguito o no, o in quale misura, la doverosa reazione giudiziaria. E per questo ventennio di democrazia postfascista quello che conta è la pagina dolorosa scritta dalla magistratura nel suo complesso nei processi celebrati contro i collaborazionisti ove, talora, si è escluso che certe orribili torture potessero qualificarsi come efferate sevizie; conta l’orientamento di norma tenuto nei confronti del movimento partigiano, repressione dei crimini commessi in nome della libertà a parte; conta la gravissima responsabilità assuntasi dalla magistratura negli anni successivi al 1948 coll’avallare il pratico svuotamento delle norme costituzionali con la famosa distinzione tra efficacia precettiva e programmatica, atteggiamento che l’alta magistratura ha mantenuto anche dopo, a Corte Costituzionale finalmente costituita, col negare quasi sistematicamente la sola configurabilità del dubbio circa la legittimità di numerose norme; (20) Cosı̀ A. POGGI, Sulla indipendenza della magistratura, in « Democrazia e diritto », ottobre-dicembre 1961, p. 14 dell’estratto. 74 UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO conta quello che i giudici hanno definitivamente concluso nel processo al vescovo di Prato « dove a nessuno spirito non prevenuto — per dirla con A. C. Jemolo (21) — può non sembrare assurdo e soprattutto senza base di sorta e nel Concordato e nella legge italiana, che lo Stato abbia rinunciato a difendere l’onore e la fama dei suoi cittadini se questi vengono lesi da autorità della Chiesa nell’esercizio delle loro funzioni: là dove tutti sono d’accordo che queste autorità non possono attentare né alla libertà personale dei cittadini, né ai loro beni, né al loro segreto epistolare, né possono strappare di mano le pubblicazioni che ritengono nocive; solo la fama e l’onore non sarebbero difendibili. Dio solo sa perché ». Contano cioè i fatti che il compianto Achille Battaglia organicamente espose in un libro altamente apprezzabile. Onde conclusivamente, rispetto alla proposta spesso formulata di provvedere per una storia della magistratura (22), può osservarsi che forse non conviene accingersi a questa fatica, giacché probabilmente ne verrebbero fuori molte pagine non certo commendevoli. Nessuno ovviamente rimprovera i magistrati italiani per quello che come cittadini liberamente pensano, ma bensı̀ per avere quasi sistematicamente assunto atteggiamenti di un certo tipo proprio nell’esercizio delle loro funzioni, talora in contrasto con chiari principi normativamente posti. Nel 1947 (21) Vd. I giudici e la politica, ne « Il Mondo » del 27 febbraio 1962. (22) Vd. A. TORRENTE, Il giudice, questo sconosciuto, ne « La Magistratura » del novembre 1960, riprendendo l’A. l’idea già formulata da L. Granata. I GIUDICI QUALI SONO 75 il numero due della magistratura preferı̀ ignorare il mutamento istituzionale dello Stato di recente verificatosi, invece di sentire l’elementare dovere di andarsene da quall’altissimo seggio se la sua coscienza glielo impediva; come tanti altri rimasero, conservando gradi e quattrini, in funzione in definitiva eversiva rispetto alla volontà politica espressa dal paese del quale i giudici sono, come tutti i pubblici impiegati, al servizio. Per questo complesso di ragioni ci sono ben poche tradizioni venerabili e non si giustifica la ricorrente albagia. Quanto meno chi ha fatto cosı̀ chiare scelte politiche, dovrebbe, senza inutili ed infondate proteste, accettare la logica nella quale si è volontariamente posto e non recriminare se dall’opposta sponda si risponde, magari agitando la minaccia del vilipendio; su questo piano, rispetto a queste inevitabili regole del giuoco, che si sia agito nell’onesta convinzione di perseguire il pubblico interesse è del tutto indifferente. In conclusione, in una libera democrazia, anche l’operato dei giudici non è, vivaddio, un tabù, mentre tutto, senza esclusioni, è sempre sub judice nella coscienza degli uomini. Ora, in questo contesto, è naturale che molti tra i giovani magistrati, quelli che non hanno psicologicamente un passato da difendere, quelli che sono nell’intimo assai critici rispetto alle vicende storiche che ci stanno alle spalle, quelli che sono più attratti dal messaggio innovatore della Costituzione genericamente inteso, siano per coerenza all’opposizione rispetto al mondo dei vecchi, siano insofferenti di tanta retorica e aspirino ad adempiere le loro funzioni secondo linee sensibilmente diverse. 76 UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO Sono quei giovani che hanno in parte riscattato nella parte liberale dell’opinione pubblica, anche con le loro intemperanze, la causa della magistratura, ad esempio dimostrando una viva inclinazione, talora anche soverchia, a raccogliere qualsiasi dubbio sulla legittimità costituzionale di diverse leggi e norme, rendendo in pratica largamente possibile il sindacato della Corte Costituzionale. Dietro questo atteggiamento c’è del resto, in questa epoca di crisi profonda, un più radicato sentimento ed un più severo porsi innanzi alla realtà etico-sociale contemporanea. Anche chi non ama le novità solo perché tali, avverte che il passato più recente, dilaniato da orrori, da delitti e da tirannidi in questo angolo di terra europea che pur parve aprirsi un secolo fa ad una grande prospettiva civile, non ha molto da insegnare, mentre gli uomini delle trascorse generazioni non paiono degni di molto rispetto proprio perché essi hanno variamente consumato, nella tragica età apertasi nell’agosto del 1914, il trionfo dell’irrazionale, dell’odio e della follia fratricida. Non ci sono molte eredità attive da salvare, sul piano generale; ed è comprensibile che anche la più giovane magistratura partecipi a suo modo, nelle forme che le sono consentite, all’anelito delle nuove generazioni di edificare un mondo migliore. Lo stato d’animo di questi giovani non è precisamente quello di inserirsi in una onorevole tradizione che è dubbio identificare, ma quello che deriva dalla volontà di ricominciare oggi ex novo. Questo è, grosso modo, lo stato d’animo contrapposto tra vecchi e giovani; ed è questo stato d’animo che va considerato, prima della puntualizzazione I GIUDICI QUALI SONO 77 delle reciproche posizioni su questo o quel problema particolare (qui tutto è per sua natura opinabile), per spiegare e capire l’attuale situazione interna, di profonda divisione, della magistratura italiana. Si è detto talora che il contrasto è frutto di una incresciosa incomprensione, di equivoci, che esso, pertanto, con un pizzico di buona volontà reciproca potrebbe essere superato. In un certo senso c’è in questo assunto qualcosa di vero; sennonché è ben difficile che il fossato possa colmarsi lavorando in questa direzione superficialmente, senza andare al fondo delle cose, con abbracciamenti esteriori. Quando i vecchi celebrano ispirati le loro orazioni esse hanno inevitabilmente per i più giovani, per coloro che portano nel cuore l’amara consapevolezza di un retaggio che di massima va rifiutato, il sapore delle declamazioni patriottarde alle quali una bolsa retorica ci ha abituato per decenni; la prima reazione è di insofferenza se non di dileggio. E con questo il discorso è subito aperto e chiuso, la frattura è irrimediabilmente consumata. Innanzi alle aspettative dei giovani solo un diverso comportamento dei più anziani potrebbe spiritualmente ristabilire il dialogo; insieme all’abbandono di un certo linguaggio che — lo si voglia o no riconoscere — fa da spia di una realtà più profonda che i primi rifiutano, occorrerebbe che vi fosse nei fatti la testimonianza di una volontà di comprensione del nuovo che è nelle attese dei più e che soprattutto si mostrasse il chiaro intento di operare come un terzo potere consapevolmente ispirato nella vicenda democratica del paese. 78 UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO Sono profondamente convinto che l’unità spirituale della magistratura potrebbe rifarsi solo ritrovando una comune e ferma giustificazione alla luce di quanto la legge fondamentale dello Stato impone ed il paese esige nel suo profondo. Nel passato i magistrati sono stati, in prevalenza, uomini d’ordine nel senso più deteriore, uomini di estrema responsabilità secondo il significato che al termine pare doversi attribuire nel linguaggio dei vecchi, uomini in sostanza estremamente timorosi della dialettica della libertà e quindi assai disposti a far propria la valutazione politica della situazione dettata, al di là delle leggi se necessario, dalla classe dirigente di governo. Cosı̀ nel 1919-20 essi furono coi governi miopemente liberali e con tutte le autorità costituite nel partecipare del timore antisocialista della borghesia che tenne a battesimo l’illegalismo dei fasci e, convinti di agire in buona fede per il superiore interesse del paese, chiusero spesso gli occhi innanzi ai quotidiani delitti. Nel 1945 e negli anni successivi predominò, certo con maggior fondamento, lo stesso folle timore; di qui l’indulgenza verso i fascisti, la caccia al partigiano, lo svuotamento dei principi costituzionali. Ma nella misura in cui i giudici si fanno compartecipi di queste preoccupazioni anche giustificate della direzione politica, annullano nei fatti la possibilità di autonoma esistenza del terzo potere, lo identificano col potere politico e sono quindi irrimediabilmente condannati a seguirne le sorti, i consensi del momento e i certi superamenti del futuro, perché per chi sa pazientare l’ora della resa dei conti, tragica o pacifica, sempre sopravviene. I GIUDICI QUALI SONO 79 Viceversa si chiede ai magistrati non di salvare la patria all’occorrenza accantonando la legge, ma di svolgere sempre ed in ogni circostanza il loro lavoro di onesti interpreti e di leali attuatori del diritto, giudicando di volta in volta puntualmente rispetto ad ogni singolo caso ed inibendosi ogni riassuntiva sintesi generale. Si tratta cioè di dar onesto svolgimento a quanto è normativamente posto fino alle estreme conseguenze, libero il potere legislativo di mutare, nelle forme legali, la regolamentazione che si ritenga in ipotesi inadeguata. È questa la corretta linea divisoria, onde si richiede al magistrato, se necessario, come uno sdoppiamento della sua personalità, eventualmente tra le sue generali convinzioni politiche ed il giudizio che deve rigorosamente poter dare del singolo episodio. La forza morale della magistratura sta nella fedeltà al dato obiettivo della legge; discostandosi si cade nell’arbitrario e quindi si perde innanzi all’opinione pubblica di prestigio e di stima, anche rispetto a quella parte che se ne è avvantaggiata, cosı̀ come moralmente si disprezza la spia che pur ci serve. Se pertanto i magistrati saranno capaci, nel loro complesso, di sradicare l’abito mentale alquanto diffuso di timorosi uomini d’ordine nel senso che la vandea attribuisce da sempre a codesto termine (un ordine che all’occorrenza si alimenta del disordine della violenza illegale o dell’aperto misconoscimento di certi principi messi da parte perché ritenuti, almeno per il momento, pericolosi), per essere rigidamente custodi di un ordine nuovo fondato sulla più rigorosa legalità e in leale svolgimento dei principi posti, essi potranno presentare veramente il 80 UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO terzo potere come il baluardo basato sui valori permanenti del regime politico oggi felicemente democratico, al di là delle transeunti maggioranze, lo edificheranno come l’effettivo sovrano sopraordinato e in questo spirito e in questa comunione di intenti potrà ristabilirsi l’unità all’interno; tutti sentiranno allora di parlare lo stesso linguaggio e cadrà la ragione della frattura che è in primo luogo psicologica, come un contrasto irriducibile nel sentimento di diverse generazioni. Si potrebbe avere allora un processo di avvicinamento sui problemi del definitivo assetto della magistratura (ad esempio, in tema di carriera), rendendosi conto che ogni soluzione presenta un notevole margine di opinabilità; e l’esuberanza dei giovani potrebbe essere contenuta venendo a contatto con la naturale saggezza dei più anziani. Del resto quando una situazione entra in crisi, tutto concedendo alla smania irragionevole di innovare che talora prende i giovani, ciò testimonia in maniera eloquente della responsabilità, della inettitudine o della capitolazione delle forze già investite del potere di comando, giacché le rivoluzioni, come insegnò il grande Tocqueville, solo apparentemente sono fatte dai rivoluzionari, poiché la loro ora è in primis segnata dalla bancarotta stolida delle vecchie classi dirigenti. Quando, sul piano della comunità nazionale nella sua interezza o in singoli settori, gli operatori hanno capitolato di fatto, per miopia o per essere affogati nel mare degli egoismi particolari, alla loro funzione o hanno tradito il compito loro commesso, è giunta l’ora del nuovo. È perfettamente inutile gridare mettendo in guardia contro I GIUDICI QUALI SONO 81 i mestatori e gli agitatori di professione, che pur vi sono, perché il problema è appunto quello di accertare come e perché a costoro la situazione consenta sı̀ largo successo; la risposta, ancora una volta tipica della miopia conservatrice, non risolve, ma rinvia semplicemente il problema. In realtà, almeno in un paese di cosı̀ superficiale tradizione liberale, la magistratura deve conquistarsi soprattutto da sé, con la sua forza e il suo coraggio, il posto che le compete. Allo stato è certo che gli « amici » della sua indipendenza sono tutti insinceri ed infidi; in particolare non vi sono partiti politici sui quali si possa effettivamente contare, come è del resto clamorosamente dimostrato dal capovolgimento delle parti verificatosi, sui problemi di assetto del terzo potere, dopo il 1948 tra il settore moderato e le sinistre. Finora l’autonomia della magistratura è stata una rivendicazione strumentale da una parte e dall’altra, in relazione ai rapporti di forza e alle prospettive della situazione politica complessiva. Né la magistratura può certo sperare salvezza con l’avvento di coloro che qui si agitano per l’attuazione costituzionale ponendo come ideale reggimento secondo i loro obiettivi regimi che nei fatti e nella teoria hanno rinnegato il principio della divisione dei poteri. Ma ciò dimostra che per ora la magistratura è disperatamente sola nella sua battaglia e che essa potrà vincerla ponendosi al di sopra e contro il giuoco delle parti; è dando torto, se le spetta, alla maggioranza di oggi che si può aver titolo per dar torto alla maggioranza di domani. E soprattutto è da considerare che una diversa disposizione degli spiriti sul piano dell’omo- 82 UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO geneità costituzionale caratteristica delle più consolidate democrazie che trovano qui il loro fondamento, potrà lentamente verificarsi anche in Italia proprio nella misura in cui la magistratura opererà in questo senso; è con l’azione dei giudici che potrà emergere nei fatti la concreta dimensione costituzionale, superpartitica, della nostra esperienza, convincendo della necessità di comunque difenderla e di dover sempre separare i principi nel loro dialettico svolgimento dai contingenti interessi di parte. Alla base e agli inizi, solo la sussistenza di una magistratura indipendente può rappresentare la cellula di una democrazia liberale. Ma non c’è da illudersi molto circa le possibilità di ripresa di un leale dialogo all’interno della magistratura, giacché raramente la ragione illumina gli uomini, anche quelli meglio dotati, come in generale comprovano, malgrado i ricordi tragicamente impressi nella maggioranza degli uomini di oggi, le vicende di tutti i giorni ed il perdurare ovunque di quei focolai nei quali pare che si temprino gli animi per una ulteriore ondata di bestialità universale. Nel grande come nel piccolo par che si tratti di una legge costante, ognuno, magari per falso orgoglio, resta fermo sulle sue posizioni, il tempo anziché lenire accentua, il baratro si allarga. Cosı̀ è all’interno della magistratura, ove l’ambiente è sempre più dilaniato determinando irriducibili antagonismi tra le opposte fazioni. Come era facile prevedere, la situazione ha seguito puntualmente la legge naturale degli sviluppi dei processi dissociativi; nel corso degli anni successivi al 1960 nelle due associazioni hanno avuto progressivamente la meglio i gruppi I GIUDICI QUALI SONO 83 reciprocamente più estremistici, l’unione dei magistrati italiani è divenuta sempre più aridamente conservatrice, l’associazione nazionale dei magistrati è sempre più dominata dalle punte estreme, con alcune gravi esorbitanze sul piano politico. È una situazione di grave disagio nella quale pare che ambedue le parti abbiano perso completamente la testa; ed è veramente triste dover leggere sui fogli delle due correnti un linguaggio talora di estrema durezza. Si è giunti al punto che in una occasione recente è stato diffuso un opuscolo anonimo attribuito ad una delle parti; dico attribuito perché mi rifiuto di credere che dei magistrati non abbiano sentito il ritegno di scendere a questo livello. È in questo clima che maturò, a fine 1962, la decisione di una larga parte dei magistrati di far ricorso, all’occorrenza, allo sciopero nella controversia insorta col governo; decisione inammissibile giacché lo sciopero dei giudici è del tutto inconcepibile per intuitive ragioni sulle quali mi pare superfluo insistere per non far torto all’intelligenza e alla buona fede dei lettori (23). Vi sono taluni (23) Vd. in particolare A. C. JEMOLO, Lo sciopero dei magistrati, in « Rassegna dei magistrati », 1963, p. 97, ove giustamente si osserva che i giudici debbono essere « non pecore docili, ma che hanno presente che quando una struttura statale appare ripugnante alla propria coscienza, si può divenire rivoluzionari, cercare di distruggerla: accettando tutti i rischi ed i pericoli connessi alla insurrezione aperta. Fino a che però non si addiviene a quel punto di rottura, non si può combattere per la vittoria delle proprie aspirazioni se non con i mezzi che la legge pone a disposizione; e dove c’è libertà di stampa, molteplicità di partiti, lotte elettorali, questi mezzi non mancano ». Vd. anche le giuste osservazioni di E. ONDEI, Le ragioni dei giudici, ne « Il Mondo », dell’11 dicembre 1962, osservandosi che con la proclamazione dello sciopero i magistrati si sono preclusa 84 UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO servizi essenzialissimi che costituiscono la sostanza stessa dello Stato e nei quali la paralisi, per qualsivoglia ragione, va esclusa, pena il disfacimento stesso dello Stato (ed infatti quando si sciopera in certi settori, in genere si è alla vigilia di un mutamento di regime). Se i magistrati italiani, che sono una ristretta e relativamente eletta categoria, ritengono di non poter più decentemente servire questo Stato, essi hanno una sola possibilità: andarsene, eventualmente rassegnando le dimissioni in massa. È, a mio avviso, una pregiudiziale che non tollera né obiezioni né sofismi di sorta, quale che possa essere indubbiamente il significato dello sciopero dei magistrati ove voglia considerarsi la responsabilità della classe dirigente politica. Quando si osò parlare di sciopero, fu in verità un giorno tristissimo per quanti credono a certi principi; né la situazione mutò per il fatto che si desistette dalla progettata azione, perché quel semplice proposito fu comunque sufficiente, sia seguita o no l’azione, a far perdere ancora dignità e prestigio alla categoria. E in definitiva, con questo episodio e con tutta la situazione interna determinatasi con queste lotte intestine, questo scadimento è nei fatti e nella moralmente la possibilità di condannare i militari e gli addetti ad un servizio di pubblica necessità per abbandono del servizio. Comunque, sulla singolare motivazione di quello sciopero, vd. il « taccuino » de « Il Mondo » del 13 novembre 1962 nonché l’articolo di P. E. PRINCIPE, Le ragioni dei giudici, nello stesso settimanale del 27 novembre 1962 e quello di L. BASSO, Lo sciopero dei magistrati, nell’« Avanti! » del 28 novembre 1962, osservando il deputato socialista che, sull’onda del miracolo economico, viene meno quel vasto serbatoio di disoccupazione intellettuale che ha consentito finora di reclutare con una certa facilità il personale della giustizia. I GIUDICI QUALI SONO 85 coscienza del paese. Il prestigio dell’ordine giudiziario è per una parte legato alla sua tradizionale posizione di aristocratico isolamento nel paese, al di sopra delle vicende sociali e politiche; non per niente resta ancora attorno ai magistrati, anche nei paesi di più consolidata democrazia, un minimo di formalismo, di solennità, di rito, di abbigliamento medioevale. Se la magistratura scende in piazza, tutto questo alone alquanto radicato nell’animo del popolo viene meno, proprio perché essa si confonde a torto o a ragione secondo linee di comportamento che la gente non ha mai collegato all’idea del giudice. Questa è la realtà, oggi: anche se questo non assolve chi di questo sostanziale degradamento porta la responsabilità. 3. I processi e la giustizia I contrasti e le beghe interne dei giudici, di per sé, come ottimamente ha messo in rilievo il presidente della repubblica in un recente indirizzo al Consiglio Superiore della Magistratura, non interessano il cittadino, al quale esclusivamente preme la puntualità del servizio giudiziario rispetto alle necessità del paese; sul piano generale, com’è ovvio, i controversi problemi della definitiva sistemazione del personale della giustizia sono degni di considerazione solo in quanto dalla risoluzione dei medesimi sia lecito attendersi una migliore resa del servizio. Ora non c’è nessuno che ormai contesti la gravissima crisi della giustizia in Italia, il fallimento pressoché completo della giurisdizione penale, la congenita incapacità in sede civile di provvedere con sufficiente tempestività alle domande dei cittadini; e innanzi alla quotidiana, giustificata denuncia non è il caso di sprecare ancora molte parole. Merita invece cercare di prendere in considerazione le cause di questo disservizio che sono complesse e molteplici e anch’esse, grosso modo, ben note al più vasto pubblico per l’attenzione prestata in questi ultimi anni alle cose della giustizia dalla stampa d’informazione. Qui pertanto mi limito, pur ribadendo in genere cose già di pubblico dominio, a 88 UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO mettere in rilievo quanto mi pare di un certo interesse sulla base della mia esperienza. In primo luogo, l’amministrazione giudiziaria soffre di una grave e deplorevole mancanza di mezzi che ne inceppa il funzionamento e ne lede la dignità. Sedi ormai inadeguate, non funzionali e spesso fatiscenti, mancanza degli strumenti che oggi il progresso tecnico consente, frequente insufficienza del personale ausiliario, di cancellieri e di dattilografi, sono deficienze antiche per un servizio che lo Stato dovrebbe viceversa considerare come il primo degno di attenzione proprio perché la Giustizia ne costituisce, storicamente e logicamente, l’essenza. Ed è veramente triste in uno Stato che si assume civile doversi occupare di queste cose e che se ne debbano occupare, in particolare, i procuratori generali nei loro discorsi inaugurali dell’anno giudiziario, ad esempio osservando che è del tutto inutile che il magistrato depositi in termini la minuta delle sentenze se poi, per la scarsezza dei dattilografi, si debbono attendere talora mesi per la copiatura e quindi per la pubblicazione del provvedimento (24). Insomma siamo giunti al punto che i conti della serva hanno dignità di problemi non trascurabili nelle più solenni occasioni. Cosı̀, per il periodo in cui fui addetto ad un tribunale, non fu possibile assegnarmi un cancelliere o meglio avrei dovuto spartirlo con altri due colleghi più anziani; onde, posto che quel funzionario non aveva il dono (24) Vd. F. PERFETTI, procuratore gen. della rep., Relazione sull’amministrazione della giustizia in Toscana nel 1961 (assemblea generale dell’11 gennaio 1962), Firenze, 1962, p. 9. I PROCESSI E LA GIUSTIZIA 89 della ubiquità, fungevano da verbalizzanti i procuratori delle parti, in piena violazione della legge. Ed il fenomeno più ameno è che talora lo Stato provvede inviando agli uffici, in serie, cose inutili e non richieste; quando ero pretore, ad esempio, talora arrivavano degli armadi metallici ultramoderni destinati a creare un orribile contrasto con i decrepiti mobili già in dotazione; e un bel giorno arrivò anche un ciclostile veramente superfluo, visto che nell’ambito del mio ufficio non c’erano circolari da fare o volantini da distribuire (25)! Né si accenni, per carità di patria, alla pressoché assoluta mancanza di mezzi di trasporto o alla necessità, per il giudice, eventualmente sprovvisto di proprio automezzo (situazione normale fino a pochi anni or sono), di accettare l’ospitalità dei difensori. Nello svolgimento concreto dell’attività giudiziaria, come in tutta l’attività della pubblica amministrazione, all’interno e nei rapporti coi cittadini, si avverte assai di frequente il limite odioso, antifunzionale e antieconomico nonché mortificante del nostro burocraticismo che è retto da un principio dominante anche se inespresso; che cioè non può aversi alcuna fiducia nella onestà dell’operatore e pertanto, per garantirsi da frodi e distorsioni, è posta attorno ad esso tutta una fitta rete di regolamentazioni, di necessarie autorizzazioni, di controlli defatiganti ed assurdi che implicano appunto, sovente, la non funzionalità del servizio o talune gravissime distorsioni rispetto alle sue finalità. Tutta (25) Vd. nello stesso senso la lettera del pretore di Prizzi in « Rassegna dei magistrati », 1964, p. 217. 90 UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO una costruzione, quindi, che urta contro il più elementare buon senso e contro la quale il giovane deve inevitabilmente battere la testa. Qualche volta, agli inizi della mia attività di pretore, ritenni, in relazione a procedimenti penali particolarmente delicati e nei quali si prospettava a mio avviso la necessità di riferire con estrema sollecitudine al procuratore della repubblica o al giudice istruttore rogante, prospettando l’opportunità di adottare certi provvedimenti, di dover riferire subito alla procura, distante circa quaranta chilometri, inviando il plico a mano a mezzo di un carabiniere; una operazione quindi da risolversi in due ore, tra l’andata e il ritorno. Nelle prime occasioni ottenni senz’altro dal locale comando dei carabinieri quanto desideravo; ma poi mi venne spiegato che, a stretto rigore, per poter disporre questo spostamento di un militare era necessaria l’autorizzazione di un superiore comando, se ben ricordo di un colonnello avente ufficio in altra città assai più distante: finora il comando locale aveva ben volentieri aderito alle mie richieste, in quello spirito di collaborazione che è caratteristico, di norma, nei rapporti tra magistrati e carabinieri, ma a suo rischio e pericolo, giacché se per tragica disavventura al carabiniere motociclista fosse capitato per strada un incidente, ne sarebbero venute delle grane (forse non tanto per le eventuali lesioni alla persona, ma per il danno al veicolo, posto che lo Stato è assai più geloso dei mezzi meccanici che dell’incolumità del suo personale...). Cosı̀ decisi di non farne più niente se dovevo provocare tante complicazioni e preoccupazioni, I PROCESSI E LA GIUSTIZIA 91 adattandomi per quieto vivere ai normali mezzi di comunicazione postale, in barba al mio entusiasmo di inquisitore. Né le scoperte dovevano finire qui, giacché quasi ogni giorno era, agli inizi, fonte di rivelazione. Appresi che per un giudice è estremamente complicato rivolgersi direttamente, per lettera, ad un cittadino per chiedere una qualsiasi cosa; infatti gli uffici giudiziari godono sı̀ della franchigia postale, ma solo nei confronti di determinati corrispondenti che qualche testo minutamente specifica: altrimenti bisogna affrancare la lettera e per la registrazione della relativa spesa si creano certe inevitabili difficoltà di cancelleria o, per evitarle, il funzionario deve provvedere in proprio. E cosı̀, per aggirare i vari ostacoli, la mancanza di franchigia, le difficoltà cancellieresche, ci sono altri espedienti senza spesa: o si convoca il cittadino come teste previa notificazione a mezzo di ufficiale giudiziario e magari per dirgli che deve tornare con quel certo documento o si scrive al competente comando dei carabinieri, rispetto al quale c’è franchigia, con preghiera di invitare il cittadino X a consegnare quel certo documento! E tutto questo giro complicato, fatto a spese del malcapitato cittadino, perché non c’è possibilità di affrancare col minimo dispendio al pari di quanto farebbe nel caso il comune mortale. C’è poi una norma, recentemente introdotta nel codice di procedura penale (art. 177-bis), in virtù della quale, dovendosi procedere contro un cittadino straniero, l’autorità procedente deve dare notizia a costui, con lettera raccomandata, della pendenza del processo con invito a costituirsi se lo 92 UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO ritiene opportuno; ebbene non ricordo esattamente perché, ma il mio cancelliere preferiva addossarsi in proprio la spesa perché il giuoco di farla figurare tra le spese di ufficio non valeva la candela; e talvolta, per assicurare una equa ripartizione, provvedevo io. Lo Stato poi, quando il giudice deve fare una ispezione fuori sede, ad esempio per una ricognizione di cadavere, gli riconosce una particolare indennità, per ottenere la quale tanto il giudice che il cancelliere debbono riempire un modulo nel quale si deve dichiarare, come condizione imprescindibile, che si è stati fuori dell’ufficio per più di otto ore, servendosi dei mezzi ordinari di linea. Cosı̀, per recarmi ad effettuare un accertamento nel vicino paese di X distante circa dieci chilometri, per avere diritto alla indennità di circa lire 1350 noi avremmo dovuto prendere la corriera per portarci dalla cittadina sede di mandamento alla stazione posta in pianura a circa tre chilometri, salire in treno, scendere dopo tre minuti alla vicina stazione ferroviaria, qui prendere la corriera per salire a X sulla collina, rifare tutta questa trafila al ritorno e impiegare almeno otto ore (ma la trafila, mai fortunatamente subita, avrebbe certo richiesto trequattro ore)! Ma nell’epoca supersonica, il giudice non può essere costretto ad operare come ai tempi della diligenza; non appena gli giunge la telefonata dei carabinieri, chiama un medico e accompagnato da questi e dal cancelliere si reca, con la sua automobile o con quella del medico, dove deve effettuarsi l’accertamento ed è di nuovo in ufficio dopo due, al massimo tre ore; ma se a questo punto egli chiede la miserrima somma indicata (recandomi I PROCESSI E LA GIUSTIZIA 93 nella località più remota del mandamento potevo ottenere, se ben ricordo, lire 1780), sottoscrivendo il modulo nel quale sono inserite tutte le necessarie indicazioni che ho detto, egli commette un falso, pur se nella sua coscienza egli si sente del tutto a posto, anche perché in ogni caso la benzina consumata è a suo carico o a carico di altri. E cosı̀ per qualche tempo, io, come tutti i giudici d’Italia, come tutti i pubblici dipendenti, commisi i miei bravi reati di falso; poi, col pieno accordo del cancelliere, decisi di non più delinquere, perché mi venne la preoccupazione di poter cadere in qualche trappola. Già, perché c’è anche questo pericolo, che taluno pour cause vada a scoprire queste consuetudinarie magagne, questi gravissimi reati per colpire chi dà troppo fastidio ed è bene togliere di mezzo; e poiché talora le cronache narrano di funzionari che hanno pagato severamente la loro sostanziale onestà e la loro correttezza per reati di questo tipo, per reati facilitati o ai quali si è indotti da questa macchina sgangheratissima, io mi risolsi a non mettermi, nella misura del possibile, nei guai per non dovermi imbattere un giorno in qualche briccone per l’occasione nei panni di censore. (Un mio predecessore ebbe delle grane perché un pignolissimo funzionario postale scoprı̀ che la corrispondenza della commissione elettorale mandamentale, presieduta dal pretore, era inviata in franchigia, non prendendo in considerazione il relativo regolamento questo organo). Ma, malgrado le buone intenzioni, chissà quanti delitti ho io sulla coscienza! Il giudice, peritus peritorum, ha spesso necessità di illuminarsi e di ricorrere all’opera dei consulenti tecnici nel proce- 94 UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO dimento civile o dei periti nel procedimento penale e lo Stato si guarda bene dal negare che a questi ausiliari del magistrato debba essere corrisposto un compenso; ma lo Stato, come al solito, non si fida e la legge dispone che un perito va compensato in ragione di un certo numero di « vacazioni » (per vacazione si intende un periodo di lavoro, una o due ore), ognuna delle quali importa il compenso (mille o duemila lire, ad esempio, in relazione alla qualifica del perito, laureato o no), ma le vacazioni non possono ovviamente superare un certo numero nella giornata. Ne deriva che certi accertamenti, anche essenziali (ad esempio, una sezione cadaverica con connessi esami), potrebbero compiersi nel giro di qualche giorno o anche di qualche ora; ma se tutto si svolge cosı̀ secondo le effettive necessità, va a finire che al perito, eventualmente un luminare universitario, dovrebbe esse corrisposta una modestissima somma, forse meno di quanto il comune cittadino spende per una ordinaria visita specialistica. Ed allora, per far sı̀ che il perito abbia un equo compenso in relazione all’effettiva importanza della sua opera, con una menzogna comunemente praticata si fa figurare fittiziamente che è necessario prolungare le indagini di quel tanto (un mese, due mesi) che può consentire la corresponsione della indennità in misura ragionevole, nel formale rispetto della legge; ad esempio, anche quando tutto è chiaro al termine dell’autopsia, il perito preleva certe parti del cadavere affermando di doverle sottoporre ad ulteriore esame di laboratorio al fine di poter esaurientemente rispondere ai quesiti posti dal giudice, cosı̀ motivandosi la richiesta di una I PROCESSI E LA GIUSTIZIA 95 concessione di un termine per il deposito della perizia (26); sarebbe invero iniquo chiudere a questo punto liquidando al perito una somma (ottomila lire, poniamo) che, a parte la qualità dell’intervento, non compenserebbe certo per la mattinata perduta. (26) Vd. N. REALE e G. TARTAGLIONE, Aspetti e soluzioni della crisi della giustizia nel processo penale, relazione all’XI Congresso naz. dei magistrati italiani, Sardegna, settembre 1963, p. 23: « È notorio che, proprio per questo motivo, in moltissimi casi si accorda un termine assai più lungo del necessario per perizie che potrebbero essere completate in poche ore o in pochi giorni di intenso lavoro e che alcune volte si dispongono indagini di gabinetto le quali già in partenza appaiono inutili e, purtroppo, anche sezioni cadaveriche manifestamente superflue ». Per quanto concerne i periti, poiché è sempre più frequente che il magistrato debba far ricorso alla loro opera, la soluzione ideale sarebbe certamente quella di assumere alle dirette dipendenze dello Stato un certo numero di specialisti nelle varie materie (tanti medici legali, tanti ingegneri, etc.) in relazione alle necessità dell’amministrazione giudiziaria, dislocandoli opportunamente presso i più importanti uffici partendo dai quali essi potrebbero agevolmente portarsi nelle varie località della giurisdizione secondo le richieste; avremmo in sostanza una sorta di « magistrati tecnici » a disposizione dei giudici con una soluzione organica corrispondente ad un bisogno costante ed indefettibile, con maggiori garanzie di quelle attuali. Ma la soluzione esige per definizione che sia reclutato, per ogni disciplina, quanto di meglio offre l’ambiente, considerando che questi magistrati tecnici avrebbero a che fare con agguerriti consulenti di parte, talora luminari universitari; e per il buon reclutamento sarebbe necessario offrire ai possibili candidati un alto trattamento economico competitivo rispetto al mercato, un trattamento spesso superiore a quello goduto dal magistrato-giurista, posto che, almeno per alcune specializzazioni, il mercato di lavoro « giuridico » è assai più ampio. E con questo si è detto che la soluzione è nel nostro paese del tutto avveniristica, posto che presumibilmente lo Stato la svolgerebbe in termini tali da assumere solo i falliti delle varie discipline. Ed allora è meglio non farne niente, lasciando aperta l’attuale possibilità di richiedere l’opera di buoni professionisti, talora onorevolmente attratti dal prestigio che conferisce l’attività esplicata a fini di giustizia. 96 UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO Cosı̀ si perde tempo prezioso e si contribuisce alla esasperante lentezza dei procedimenti, salvo che il giudice, anziché richiedere l’opera degli esperti più qualificati e quindi più costosi, non ripieghi sulle mezze cartucce, cosı̀ perdendosi in attendibilità delle indagini, direttamente proporzionale all’autorità del perito, quello che in ipotesi potrebbe guadagnarsi in celerità! Naturalmente tutte queste situazioni che ho scelto fior da fiore non dipendono, all’origine, da un mero capriccio, ma, come ho accennato, da una precisa consapevolezza, che cioè il grado medio di moralità del nostro cittadino investito di una pubblica attività o no, è tale che lo Stato ha le sue buone ragioni per non fidarsi, essendo cosı̀ indotto a cautelarsi e quindi a vincolare in limiti ristrettissimi le possibili scelte dell’operatore. Allo stato delle cose questo atteggiamento pare pienamente fondato. Giunto nel mezzo del cammino della vita, sono pienamente convinto, con tanti, dell’amara verità che in questo meraviglioso paese, che la natura ha baciato e che la storia ha caricato di tanti preziosi tesori, il singolo, che pure è in genere tanto industrioso e solerte nelle sue cose, quasi sempre con una nota di gentile bellezza, è tuttavia in genere un pessimo cittadino; anche la persona di media moralità che non concepisce nemmeno l’idea di comportarsi dolosamente o scorrettamente nella cerchia della sua vita privata e che tiene al suo buon nome nei rapporti sociali, non prova alcun ritegno all’idea di rubare o di mentire nei rapporti con la pubblica amministrazione, proprio perché, forse per una tradizione inveterata, non si ha il senso dello I PROCESSI E LA GIUSTIZIA 97 Stato, non si sente lo Stato come un quid posto in definitiva a servizio della generalità e colpendo il quale si colpisce appunto la generalità e, alla lunga, il ben inteso interesse di ciascuno. Ora la menzogna ed il ladrocinio sostanziale sono moneta corrente anche per chi è investito di pubbliche funzioni, giacché quando si opera non avendo esclusivo riguardo a quanto è indispensabile per il funzionamento della macchina pubblica, quando si protrae ingiustificatamente e fittiziamente il funzionamento di questa macchina solo per soddisfare il personale interesse, nella sostanza si ruba il pubblico denaro. Rubano, ad esempio, quei numerosissimi galantuomini che sono soliti dar per terminate le operazioni elettorali del seggio loro affidato dopo lo scoccare della mezzanotte del lunedı̀ sol perché questa protrazione artificiosa consente loro di fruire della indennità anche per il martedı̀; rubano quei valentuomini che ad esempio tengono le riunioni della commissione elettorale mandamentale, senza alcuna giustificazione, nel numero massimo consentito dalla legge per arrotondare il pur magro compenso (e i compensi dello Stato sono talora veramente insultanti; quando venni mio malgrado nominato presidente della commissione tributaria mandamentale, il che mi costrinse ad una certa spesa per fornirmi dei libri indispensabili per rinverdire le scarse nozioni di diritto tributario nonché ad un non scarso lavoro nella preparazione delle sedute proprio per la mia ignoranza di partenza, scoprii che per ogni ricorso la commissione nel suo complesso, composta di sette-otto membri, veniva compensata in ragione di circa duecento lire, fermo 98 UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO il principio che al presidente doveva essere liquidato il doppio di quanto liquidato al semplice componente); ruba chiunque attesta il falso a questi fini. Lo Stato si muove appunto in questo ambiente di incancrenita immoralità sul piano civico e cerca di reagirvi come può, moltiplicando gli inutili controlli e le formalità necessarie. Ma siamo in un circolo vizioso, di reciproca sfiducia del cittadino e dello Stato, di reciproche ragioni e giustificazioni, il tutto risolvendosi poi nella generale non funzionalità dell’Amministrazione e nel disagio comune, posto che le regolamentazioni esistenti sono defatiganti ed inutili ed impediscono il puntuale funzionamento della macchina, tanto che in certe contingenze si è sentita la necessità di creare strutture organizzative ad hoc, agili e snelle perché non inceppate da quei vincoli che pesano sui settori tradizionali, onde in questo ultimo quindicennio è venuta fuori l’amena coesistenza di due pubbliche amministrazioni. Sennonché, proprio a ragione della antifunzionalità del vincolismo burocratico nonché del fatto che esso si è rivelato nella sostanza inutile ad assicurare il corretto funzionamento dell’Amministrazione specialmente perché resta aperta la possibilità, assai larga, che si operi nell’interesse privato, rispettata la lettera della legge, quando si ignorino i principi non scritti dell’onesto operare nell’interesse pubblico, io propendo a ritenere che sia necessario uscire da questo terribile circolo vizioso per porre coraggiosamente il problema in altri termini. È auspicabile che lo Stato conceda, malgrado tutto, fiducia ai suoi operatori, che li liberi, I PROCESSI E LA GIUSTIZIA 99 nell’interesse del servizio, da eccessive pastoie, che consenta loro di bene operare senza la possibilità di allegare a giustificazione della loro inerzia o inettitudine ostacoli di sorta. Solo che si dovrebbe essere esemplarmente severi verso chi venga per avventura pescato con le mani nel sacco e non esitare innanzi alle più gravi forme di repressione, anche a carattere terroristico (anche il terrore ha talora la sua storica funzione) al fine di stroncare la mala pianta (27). Nel contempo c’è da sperare che tutto concorra a modificare il costume, pur se bisognerà attendere decenni per apprezzare i primi positivi risultati, con l’incessante appello alla coscienza morale che sarà tanto più efficace, senza apparire vuota retorica, se sarà suffragato dal buon esempio di chi specialmente sta più in alto, nonché se si consoliderà la certezza che verso i delinquenti sarà dura e inesorabile la spada della giustizia. In sostanza si tratta di saper compiere un salto rivoluzionario nella mentalità di governo, qui come altrove, ad esempio in materia tributaria, ove attualmente possiamo registrare lo stesso circolo vizioso (27) Nel suo testamento (traggo da M. NOVIELLI, La morale di Massarenti, ne « Il Mondo » del 17 agosto 1965), G. MASSARENTI scrisse: « Nelle scelte del personale, impiegati ecc. per le cooperative e le organizzazioni operaie, bisogna seguire la presente massima che ha servito finora di base a tutte quante le cooperative di consumo e di lavoro di tutto il mondo operaio. Si debbono scegliere le persone o gli uomini come se tutto si dovesse attendere dalle loro qualità e abilità personali; e si deve negli impianti contabili e amministrativi curare il controllo come se gli eletti o prescelti fossero palesemente dei ladri ». Ma questa direttiva, se è ottima e praticabile per le iniziative limitate, non può operare al livello della colossale macchina pubblica, come i fatti dimostrano, specialmente quanto è emerso, per il bene e per il male, in alcuni recenti e clamorosi processi. 100 UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO di sfiducia tra lo Stato e il contribuente, circolo che potrà rompersi solo dando credito, in linea di massima, al secondo, con equa riduzione delle attuali sproporzionate aliquote (che si ritorcono in danno soprattutto dei pubblici dipendenti per i quali è difficile l’evasione), e nel contempo rinunciando all’idea assurda ed irrealizzabile di un controllo svolto a casaccio in maniera generalizzata, mentre invece sarebbe ben più proficuo, come pare che avvenga in certi paesi, estrarre a sorte ogni anno, per ogni circoscrizione tributaria, un esiguo numero di contribuenti da setacciare fino al centesimo, punendo chi per avventura risulti in frode rispetto a quanto dichiarato, con anni di sacrosanta galera e con la confisca del patrimonio. Nella speranza, appunto, che col tempo il costume vada migliorando e che scompaia l’attuale radicata convinzione che solo i mentecatti compiono il loro dovere e che con un poco di furbizia è possibile eludere le leggi; al pari dell’altra diffusa convinzione che c’è quasi sempre un prezzo col quale è possibile corrompere il pubblico funzionario, specialmente i componenti di certi corpi appositamente istituiti, per suprema ironia, per garantire le pubbliche finanze. Per quanto mi riguarda, vi sono troppi episodi di pubblico dominio, troppe confidenze amareggiate e sicuramente attendibili raccolte nei miei anni di magistratura, perché non sia indotto a ritenere in una certa misura vera questa convinzione, tanto che quando ho a che fare con certe persone m’è difficile allontanare l’istintivo sospetto; quando la gente chiacchiera, pur tutto concedendo alla facile esage- I PROCESSI E LA GIUSTIZIA 101 razione, qualcosa di vero c’è sempre. E anche qui bisognerà decisamente, con risolutezza e nel contempo fidando nell’operabilità a lunga scadenza dei rimedi, innovare per ristabilire la fiducia; assicurando ai pubblici dipendenti un trattamento adeguato (ma assumendoli nel numero che le effettive necessità richiedono e non, come spesso avviene, a titolo assistenziale), tale che possa in ogni caso far ritenere colpevole ogni cedimento e nel contempo reagendo con severità contro i corrotti. Né sarebbe male adottare qualche risolutiva misura, ad esempio disponendo che il privato cittadino comunque non risponde, a titolo di concorso con l’impiegato pubblico, in determinati reati contro la pubblica amministrazione, affinché i pubblici dipendenti colpevoli possano essere con una certa facilità messi sul banco degli imputati; ché se la soluzione, empiricamente giustificata per ragioni di politica legislativa, può apparire aberrante sul piano tecnico-giuridico e moralmente ricattatoria, si tratta di un ricatto che giustamente si rovescia sui responsabili della situazione; per mio conto ho l’inveterata abitudine di giudicare delle soluzioni legislative non in base ad astratti principi, ma col metro esclusivo dell’utilità sociale ed è socialmente utile ciò che serve al raggiungimento dell’obiettivo meritevole. E non sarebbe male, ad analogia di quanto è stato di recente disposto nell’Unione Sovietica, istituire una procedura per la quale il burocrate o l’ex burocrate possa subire la confisca dei beni, al pari dei suoi familiari, ove, in relazione al reddito ufficialmente percepito, vi sia il fondato sospetto che il patrimonio derivi da illecita attività e l’interessato non sia in 102 UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO grado di fornire la prova contraria; in sostanza un controllo sulle persone forse assai più efficace dell’istituto vigente della responsabilità contabile. Nella mia esperienza ricordo, sul piano delle cose qui accennate, una vicenda che mi fu illuminante; avendo avuto la ventura di imbattermi in funzionari disposti ad andare al fondo delle cose in un certo settore, si faceva, di comune accordo, quanto pareva indispensabile, evitandosi intermediari, per frustrare eventuali fughe di notizie circa la motivatamente richiesta e concessa perquisizione; il risultato fu che divenne possibile giungere del tutto inaspettatamente dove si voleva, acciuffando talora la doppia contabilità stringendo senza rimedi il frodatore. Ciò mi convinse che la vera materia prima è l’uomo e se l’uomo fa difetto è inutile la lettera della legge cosı̀ come sono inutili i solenni impegni, mentre l’onesta decisione di avvalersi di tutti gli strumenti concessi dalla legge può far superare le difficoltà. In una occasione, come giudice tutelare, mi interessavo della tutela di un minore rimasto orfano di genitori di condizioni relativamente agiate, avendo titolo nell’eredità un soggetto che si trovava in obiettivo conflitto di interessi col minore; per una indiscrezione fattami da una persona dabbene appresi che vi era in giro una cospicua somma depositata in banca con speciali buoni al portatore e che era in corso la manovra di occultamento, forse anche a fin di bene e cioè per ragioni fiscali; era comunque mio dovere ricercare questa somma per acquisirla ad ogni buon conto al patrimonio di chi era affidato alle mie cure e si trattava appunto di I PROCESSI E LA GIUSTIZIA 103 accertare in primis se questi buoni erano stati emessi, quale numero avevano, etc. Nel corso delle indagini, nelle quali subii con molta bonomia da parte di un funzionario bancario l’affronto per cui questi telefonò alla direzione centrale della banca per esserne autorizzato a deporre ormai sciolto dal segreto bancario..., giunsi ad un punto morto; finché mi venne come una illuminazione: telefonai al direttore della filiale, dicendogli che certamente, se si voleva, io non sarei giunto a capo di niente, il che però non mi impediva di andare in quella filiale e di soggiornarvi qualche giorno per la perquisizione che il codice impone al giudice di effettuare personalmente (art. 340 u.c. cod. proc. pen.), col risultato che io non avrei trovato niente, ma per il mio rovistare sarebbero occorse poi giornate di lavoro per rimettere ordine. Dopo dieci minuti ebbi sul mio tavolo i numeri richiesti e dopo poche ore un signore trepidante, che aveva evidentemente avuto notizia delle indagini in corso, mi consegnava i buoni. Se la mancanza di mezzi adeguati, al pari di altre grosse deficienze della sistemazione legislativa del processo delle quali dirò, spiegano in parte la disfunzione giudiziaria, è anche vero che in non indifferente misura vi concorre anche la colpa, talora inescusabile, degli operatori latamente intesi, in particolare per quanto attiene al procedimento penale. È infatti troppo comodo cercare di mettersi al sicuro allegando le carenze del sistema, quando l’esperienza di tutti i giorni comprova anche il sistematico vizio degli uomini, onde sarebbe moralmente colpevole il tacerne. In particolare, per sor- 104 UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO volare degli aspetti che il pubblico ben conosce, mi pare di poter dire che in parte la crisi della giustizia penale deriva dal fatto che si sono instaurate delle prassi assolutamente praeter legem, cosı̀ appesantendosi il servizio con attività inutili e defatiganti. Ad esempio tutti hanno appreso dalle istituzioni del diritto processuale penale, che gli ufficiali di polizia giudiziaria hanno l’obbligo di riferire alla autorità giudiziaria su quei fatti che, secondo una prima sormmaria impressione, possono integrare gli estremi di reato. Nella prassi viceversa è incredibile quale sia la mole dei fatti riferiti a prescindere da ogni valutazione sia pure approssimativa sul punto della seria configurabilità di un reato. Cosı̀, in caso di incidente stradale, il rapporto è di prammatica, non solo quando si sono verificati eventi (morte o lesioni) tipici di determinate fattispecie, ma ancor quando tutto si sia risolto nel danneggiamento, colposo, dei veicoli. Non solo, ma si riferisce anche di qualsiasi lesione accidentale, della massaia ustionata per il rovesciamento di una pentola contenente liquidi in ebollizione, come del contadino investito da uno sciame di insetti. Lo stesso avviene quando si tratta di richiedere l’intervento del magistrato per una ricognizione di cadavere; in pratica è sufficiente, almeno nel distretto nel quale ho prestato attività (mi consta, infatti, che altrove, ad esempio in Piemonte, l’intervento del magistrato è consueto solo in ipotesi di fatti rispetto ai quali sia configurabile il delitto doloso, mentre per i delitti colposi, in particolare della circolazione stradale, il magistrato deve tenersi a disposizione per l’eventualità che la polizia voglia chiedere istruzioni), morire in I PROCESSI E LA GIUSTIZIA 105 una maniera un pochino eccezionale, ad esempio rotolando per le scale o per chiaro proposito suicida, perché il pretore debba accorrere; ricordo che nel 1960 fui richiesto per ben trentaquattro accessi di questo tipo, in nessuno di questi episodi trattandosi comunque di delitti dolosi, forse perché, come sosteneva il cancelliere, subivano la iettatura dell’anno bisestile. È evidente che in questa prassi in parte, laddove in ogni caso mancano gli estremi per la configurabilità del reato, chiaramente si esorbita da quanto impone la legge, inutilmente inflazionando il numero degli affari pendenti e rendendo necessari i pur sbrigativi provvedimenti di archiviazione; in parte si eccede, perché se è lodevole che la polizia e i carabinieri accorrano ovunque si sia verificato un fatto astrattamente riconducibile ad una ipotesi delittuosa anche colposa, anche al fine di assicurare in ipotesi le prove, è assurdo che si debba riferire in ogni caso all’a.g. di quanto si è fatto. In sostanza si comprende che l’intervento della polizia sia quantitativamente più ampio di quello del giudice, proprio al fine di controllare se nei vari fatti vi siano o no estremi di reato, ma l’intervento deve funzionare come un primo, pur grossolano, setaccio tra i fatti penalmente irrilevanti anche per l’occhio più scrupoloso e i fatti rispetto ai quali c’è un minimo per la configurabilità del reato; in teoria sarebbe desiderabile che il rapporto giudiziario fosse inoltrato solo nei casi in cui si ritenga di elevare fin dagli inizi l’accusa a carico di taluno; quanto meno, anche senza formali indicazioni, dovrebbe comunque seriamente prospettarsi un dubbio sulla responsabilità. Mi sono chiesto molte volte 106 UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO perché questa distorsione si verifichi e ho pensato, ad esempio, ad un eccesso di scrupolo, ad una relativa ignoranza degli agenti, etc.; in realtà mi sono convinto che questa prassi soprattutto, e certo inconsciamente, deriva dal desiderio della polizia di mettersi in ogni caso a posto: si opera meccanicamente, si riferisce su tutto quello che si fa, tanto la matassa sarà sbrigata dal giudice; in ogni caso siamo al riparo della possibile accusa di omissione di rapporto. In sostanza è il classico espediente del rinvio di responsabilità, al quale dovrebbe porsi un argine tornando alla corretta applicazione della legge, in particolare per quanto concerne le ricognizioni di cadavere. Da una parte gli ufficiali di stato civile dovrebbero ricordare che essi hanno obbligo di rapporto al pretore o al procuratore della repubblica (art. 143 legge sull’ordinamento dello stato civile) quando nell’accertamento della morte rilevano « qualche indizio di morte dipendente da reato », onde l’obbligo viene meno... quando manca il pur tenue indizio; dall’altra gli ufficiali di polizia giudiziaria dovrebbero pure ricordare (art. 144 stesso testo) che l’intervento del magistrato o degli stessi ufficiali è imposto « quando risultano segni o indizi di morte violenta o vi è ragione di sospettarla per altre circostanze »: la legge consente loro, quindi, una valutazione discrezionale caso per caso circa la doverosità di provocare l’intervento del magistrato, proprio perché pone sullo stesso piano, alternativamente, i due interventi ai fini della compilazione degli atti di stato civile, onde nell’ampio calderone delle morti violente si può omettere di richiedere il giudice quando difetti assolutamente il I PROCESSI E LA GIUSTIZIA 107 sospetto di reato o quando si tratti di un reato oggi purtroppo « normale » come negli incidenti stradali, provocandolo viceversa nell’ipotesi dei più gravi delitti o quando siano necessarie particolari indagini. Ma lo scarico di responsabilità opera anche, in misura non indifferente, tra i magistrati. In pratica nella maggior parte dei procedimenti che oggi aggravano il carico giudiziario, in relazione ai fatti della circolazione stradale, il rinvio a giudizio da parte dei magistrati del pubblico ministero e dei pretori è pressoché automatico e l’istruttoria, come autorevolmente si rilevò (28), è praticamente svuotata rispetto alla sua funzione che è quella di sceverare nella gran massa dei procedimenti quelli nei quali, con un minimo di attendibilità, è configurabile la responsabilità di taluno, tanto da rendere doveroso l’ulteriore corso del procedimento. Anche questa distorsione si verifica in parte perché consente di scaricarsi da ogni responsabilità, in parte per pigrizia perché è più sbrigativo, nella prevalente istruttoria sommaria, formulare un capo d’imputa(28) Vd. D. R. PERETTI GRIVA, L’indipendenza del magistrato, cit., p. 712, sia per l’abuso lamentato nel testo sia per un certo abito mentale del pubblico ministero: « Sarebbe poi ammaestrante una statistica di ricorsi fatti dal pubblico ministero con risultato negativo. Se ne potrebbe dedurre che troppo spesso il pubblico ministero “si diverte”, per eleganza, o anche qui, per adeguarsi compiacentemente al ritenuto o presunto orientamento dei superiori o del governo, a ricorrere contro sentenze che non dovrebbero venire impugnate, per evitare gli inconvenienti già accennati. C’è in questo eccessivo spirito accusatorio una certa assenza di sensibilità, se non senso addirittura di sadismo, che riduce l’accusatore a strumento automatico di una inumana persecuzione ». 108 UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO zione spesso assai generico e sottoscrivere il modulo a stampa col quale si chiede il rinvio a giudizio, piuttosto che provocare motivatamente il proscioglimento in istruttoria, tanto più che in questa ultima ipotesi c’è il rischio di dover lavorare due volte, se gli uffici all’uopo competenti vanno in contrario avviso. Ma, cosı̀ superficialmente operando, non ci si rende conto della grave ingiustizia che si arreca al cittadino imputato senza seria consistenza; sballata che sia l’accusa, questa intanto esiste ed è fonte di grave preoccupazione; si legittimano le aspettative della parte lesa talora famelica o affetta da nevrosi post-traumatica da indennizzo, giacché se ci « crede » il pubblico ministero non si vede perché il privato interessato debba desistere; si costringe, di norma, a far ricorso all’opera dell’avvocato che comunque, facile o no che sia il suo compito, vorrà percepire il suo onorario, con un danno economico. Ricordo che una volta, per pura pigrizia, rinviai a giudizio un tale per lesioni colpose, essendo pienamente convinto della sua innocenza data la macroscopica colpa del leso; poiché l’evento, cioè l’entità delle lesioni, era stato piuttosto grave, avrei dovuto motivare assai dettagliatamente le ragioni del mio convincimento e quella sera non ne ebbi semplicemente e colposamente voglia, giustificandomi con molta incoscienza col pensare che « tanto avrei assolto in giudizio », convinto inoltre che tutto sarebbe andato de plano, tanto era chiara l’innocenza dell’imputato... Ma al processo il leso si costituı̀ parte civile e quando me ne resi conto, sentii che non ero riuscito a trattenere sul mio volto l’impressione di un incredulo stupore; I PROCESSI E LA GIUSTIZIA 109 mi sentii assai colpevole e se mi astenni per rispetto umano dal chiedere le scuse che forse dovevo, capii quale dramma e quale danno e nel contempo quale infondata attesa nell’altra parte avevo provocato e, con quel rimorso nel cuore, cercai per l’avvenire di essere più serio, utilizzando se necessario lo strumento della archiviazione. Che dire poi di quel frequente andazzo di rinviare a giudizio o di tenere comunque sospesa la prospettiva in questo senso, quando il magistrato, per un deplorevole senso di umanità e di comprensione verso il povero leso alla condotta del quale deve attribuirsi l’incidente, cerca, cosı̀ facendo, di spaventare l’imputato e di indurre costui o la sua compagnia di assicurazione a corrispondere qualcosa alla vittima, pietatis causa? Perché anche questo avviene, per uno spirito umanitario del tutto fuori di luogo, poiché non è giusto aggravare di un intervento assistenziale chi è innocente e perché inoltre il richiamo alla disciplina della circolazione non deve agire a senso unico e perché infine nel processo penale il magistrato deve essere unicamente mosso dall’interesse pubblico. Sotto questo aspetto, in verità, non mi sento pesi sulla coscienza, giacché fui un giudice che nemmeno uno stuolo piangente di povere vedove e di orfani poteva scuotere. La parte civile non mi ha mai commosso o indotto ad espedienti per non pregiudicare comunque gli interessi di parte, concludendo il processo penale in modo da lasciare aperta la possibilità di promuovere poi il giudizio civile per il risarcimento dei danni o per queste ragioni condannando anche quando era di gran lunga prevalente la colpa del 110 UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO leso e minima quella dell’imputato o ricorrendo alla formula pilatesca della insufficienza di prove (29). Piuttosto, nei casi in cui non v’era comunque questione per gli interessi della parte lesa, ma doveva aversi solo riguardo alla pretesa punitiva dello Stato, fui, almeno quando ne ebbi piena possibilità come giudice monocratico, di un orientamento assai elastico, secondo quella che mi pareva la prudente valutazione delle circostanze: decisamente severo fino ad irrogare la pena detentiva quando risultava una grave, prevalente, inescusabile colpa dell’imputato, specialmente se in violazione di precise norme di legge; lassista nei casi, invero assai più numerosi, nei quali questa gravità doveva escludersi e tutto doveva attribuirsi a quell’attimo fatale che anche al (29) Vd. l’autorevole testimonianza di F. PERFETTI, Relazione sull’amministrazione della giustizia, cit., p. 34: « Si è da taluni lamentato che il giudice, applicando delle attenuanti, come quelle generiche, del risarcimento del danno ecc., scenda di frequente molto al di sotto del minimo. Ciò è vero, ma a giustificare questa apparente eccessiva benevolenza deve rilevarsi che talvolta l’affermazione di responsabilità dell’imputato è dai giudici fondata più che su una sua conclamata colpa, sulla necessità di tener conto degli interessi civili del leso o dei suoi aventi causa che non possono essere tutelati, almeno in sede penale, che attraverso una condanna. Ci sono, infatti, dei casi, non rari, nei quali la responsabilità del guidatore è cosı̀ lieve che quasi sfugge o nei quali l’evento è conseguenza di un macroscopico concorso di colpa, da parte della vittima. In molti di questi casi il giudice sarebbe forse tratto ad una maggiore benevolenza verso il conducente, col conseguente suo pieno proscioglimento, se il danno fosse stato risarcito. Ma poiché questa ipotesi raramente si verifica, il magistrato, valutando con maggior rigore le prove, giunge ad una condanna mite o ad un proscioglimento per insufficienza di prove sulla colpa, il che lascia adito al leso di provvedersi in sede civile. Si dirà che ciò non è del tutto giusto, ma bisogna riconoscere anche che i giudici sono pur essi degli uomini e che summun jus è spesso summa iniquitas ». I PROCESSI E LA GIUSTIZIA 111 più prudente guidatore capita, magari per la concorrente colpa del leso (il vero e proprio pirata della strada, quello che opera in colpa « con previsione » è un monstrum assai raro). Verificandosi la seconda ipotesi, versandosi in materia di reati colposi, di fatti nei quali non è in questione la moralità del cittadino, non era raro il caso che io deliberatamente chiudessi un occhio e ricorressi alla classica assoluzione per insufficienza di prove. Ma l’abuso che io feci, stricto jure, della formula pietistica di ripiego, non toglie che io sia risolutamente tra i sostenitori della eliminazione della medesima, trattandosi di formula che di per sé si presta a tutti gli abusi, a favore e contro l’imputato, e che è gravissima di implicazioni nei procedimenti per reati infamanti rispetto ai quali il cittadino deve essere o condannato o assolto, ma nella seconda ipotesi deve poter andare a testa alta, senza un crisma ufficiale di sospetto. Del resto non vedo in base a quali principi si giustifichi siffatta formula, perché processualmente e sostanzialmente l’accusa o è vittoriosamente provata o non lo è, tertium non datur; probabilmente ripercorrendo la storia dell’istituto si troverebbe, sulla scorta dei lavori preparatori, che qui si è voluto il classico espediente transattivo e buono a tutti gli usi, anche per mettere a posto, in certi casi, la coscienza turbata dei giudicanti (penso ai grossi processi indiziari sui quali si è comprensibilmente concentrata l’attenzione della opinione pubblica e della letteratura, anche se essi costituiscono una parte quantitativamente trascurabile dell’esperienza giudiziaria). Più in generale, nella mia ingenuità, non ho nemmeno 112 UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO mai ben capito perché il nostro codice si diletti di tanta varietà di formule assolutorie (il fatto non sussiste, non ha commesso il fatto, perché il fatto non costituisce reato e, almeno in istruttoria, perché il fatto non è previsto dalla legge come reato); formule che di massima servono solo ad inutili elucubrazioni e determinano nelle camere di consiglio lunghe diatribe circa i criteri distintivi teoreticamente tracciabili tra l’una e l’altra formula e circa l’individuazione di quella più esattamente corrispondente alla valutazione del caso specifico. A mio avviso sarebbe assai più convincente un sistema nel quale si prevedessero due sole formule terminali nel merito, quelle in definitiva reali, la condanna e l’assoluzione, mentre si potrebbe provvedere altrimenti sul punto dei rapporti tra processo penale e processo civile e della preclusione per cosa giudicata penale. È inutile dire che le riferite distorsioni riscontrabili nella prassi sono tutte cause di molto e superfluo sovraccarico giudiziario e si traducono in grave danno per i cittadini presi negli ingranaggi di questa macchina, come imputati, parti lese e testi. Giacché, senza rendersi conto del grave disagio che importa ad un cittadino di media condizione l’obbligo di rendere testimonianza (perdita di tempo con tutte le conseguenze sul piano professionale, specialmente quando siano necessari spostamenti a lunga distanza; lunghe ore di attesa nei corridoi; minimo rimborso del danno, per tacere di eventuali complicazioni che rendano necessario il rinvio del processo e quindi lo spettro di nuove convocazioni), la citazione avviene automaticamente per tutti co- I PROCESSI E LA GIUSTIZIA 113 loro che sono stati comunque sentiti nella istruttoria e nelle prime indagini di polizia, senza alcuna delibazione in merito e all’essenzialità della testimonianza e al profilo pregiudiziale se il teste abbia veramente qualcosa da dire in merito al processo. Ricordo, ad esempio, taluni processi per bancarotta con la citazione di diecine di persone già sentite in istruttoria, ivi avendo dichiarato di essersi limitate ad inoltrare al fallito una fornitura su semplice richiesta scritta, non conoscendo costui e niente sapendo delle cause del fallimento. E se è vero che il cittadino italiano ha anche in questo scarso civismo e cerca normalmente di evitare grane, talora anche deplorevolmente dileguandosi, è anche vero che niente si fa dall’altra parte per superare questo atteggiamento, convincendo che se si disturba lo si fa a ragion veduta, perché la testimonianza è essenziale o quanto meno seriamente opportuna, posto che niente più mortifica ed irrita della impressione di essere stati richiesti a vuoto, mentre al contrario la consapevolezza di adempiere nel caso specifico ad un dovere, che prima di essere giuridico è etico, sprona e convince. In genere può dirsi che molto potrebbe farsi, in tutti i sensi, al fine di ridurre per tutti i protagonisti il costo del processo, con un minimo di buona volontà e soprattutto sforzandosi di considerare le cose anche mettendosi nei panni del cittadino che ha le sue preoccupazioni quotidiane che debbono essere tenute in adeguata considerazione. Cosı̀ ben poco ci vuole a rinviare un processo al pomeriggio se nella mattinata, come spesso avviene, qualche difensore è impegnato a presentarsi ad altro ufficio, anche perché l’espe- 114 UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO diente è preferibile per tutti al rinvio ad altra udienza; in ogni caso dovrebbe essere posta la massima cura nel provocare la controcitazione tempestiva dei testi e delle parti, non appena si sia disposto per il rinvio del processo. In conclusione si dovrebbe cercare di adottare sempre quanto valga per ridurre disagi e contrattempi, anche se è difficile, rispetto al processo, soddisfare gli interessi, spesso contrastanti, di tutti coloro la cui partecipazione è indispensabile. Di qui innanzi si entra nel campo in cui vi è spesso grave ed inescusabile violazione dei propri doveri, oppure appare discutibile il modo in cui talora vi si provvede. Sotto quest’ultimo profilo, dirò, ad esempio, che nella giurisdizione nella quale prestavo servizio come pretore vi è l’uso di inviare alla procura della repubblica, di un procedimento penale definito in udienza, la sola sentenza e alla procura si decide in merito alla opportunità o no di interporre gravame su questa sola insufficiente base, giacché non vedo come ci si possa rendere conto della bontà o no di una decisione se non si prende piena cognizione di tutti gli atti, puntualmente richiesti altrove. E per la vera e propria violazione dei doveri di ufficio, è ben noto come molti giudici siano assai corrivi a non osservare scrupolosamente l’orario fissato per le udienze e per i vari incombenti, determinando un comprensibile malumore nonché quell’andazzo per cui tutti, avvocati in prima linea, mettono nel conto che normalmente inizia alle dieci quanto è stato fissato per le nove; tanto che in una città toscana si è coniata questa efficacissima definizione del tribunale, che I PROCESSI E LA GIUSTIZIA 115 riporto in quanto penso possa essere di più ampia applicabilità: « il tribunale è quel luogo in cui il giudice che arriva per ultimo saluta per le scale il giudice che esce per primo ». Io sono per natura particolarmente spinto a trovarmi mezz’ora prima nel luogo fissato per un appuntamento e per questo trovai irritante che nella « mia » pretura dovessi attendere almeno tre quarti d’ora dopo quella fissata prima che spuntasse il più puntuale dei difensori. Le mie ammonizioni caddero nel vuoto e poiché mi si presentava paurosa la prospettiva di dover soffrire col mio carattere per questo inconveniente per molti anni, decisi, come talora conviene per rompere inveterate abitudini, di prendere il toro per le corna; cosı̀ alla quarta o quinta udienza, date precise istruzioni al cancelliere, iniziai l’udienza alle quindici in punto nel vuoto dell’aula; l’udienza ebbe termine dieci minuti dopo, avendo disposto tanti rinvii ex art. 309 cod. proc. civ. e quindi me ne andai: da allora, quando allo scoccare dell’ora entravo in aula, questa era gremita e l’udienza rapidamente si esauriva con reciproco vantaggio di tutti. Perché questo appunto è in giuoco: il vantaggio comune. Naturalmente la soluzione fu facile quando ero pretore solitario di campagna, unico giudice a tenere udienza in quella località e a quella determinata ora, in una situazione quindi invidiabile. Le cose sono molto più complicate in un grosso ufficio nel quale, come spesso di necessità avviene, più giudici tengono udienza alla stessa ora; di qui la corsa affannosa dei procuratori da un giudice all’altro in una contingenza che sa molto di assordante mercato, mentre il singolo magistrato deve rasse- 116 UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO gnarsi a tenersi a disposizione per un tempo maggiore, con intervalli tra un « cliente » e l’altro: ma proprio qui la puntualità è ancor più essenziale, perché se tutti i giudici iniziano l’udienza all’ora stabilita e la tengono tutti aperta per il tempo opportuno, è possibile, con qualche accorgimento, che i procuratori possano nel complesso accedere con una certa tranquillità a tutti i magistrati, riducendo il ritmo talora ossessivo della corsa affannosa da una stanza all’altra. Ma la situazione più clamorosa e alquanto diffusa è quella per cui molti magistrati hanno la pessima abitudine di non osservare i termini di legge per il deposito delle sentenze e dei provvedimenti istruttori; il ritardo di qualche settimana è pressoché normale e talora passano diversi mesi perché possa aversi una ordinanza o una sentenza, quando non si arriva a punte veramente patologiche: ho conosciuto, ad esempio, un magistrato che aveva organizzato la sua attività in modo che egli attendeva alla redazione delle sentenze di tutto l’anno nel periodo feriale, depositando tutte le sentenze al ritorno dalle « ferie » e cioè ai primi di ottobre, onde chi aveva avuto la sorte della spedizione della causa a sentenza in autunno, doveva rassegnatamente attendere il successivo autunno. La situazione è veramente deplorevole in quanto, in definitiva, testimonia da una parte della organica incapacità di distribuire razionalmente il proprio lavoro e dall’altra del meccanicismo burocratico al quale di norma il magistrato si abbandona nel processo civile. Infatti non si deve ritenere, com’è ovvio, che il giudice ritardi solo per pigrizia, perché I PROCESSI E LA GIUSTIZIA 117 si abbandona al dolce far niente; egli lavora, ma in un sistematico ritardo rispetto alle scadenze perché, com’è logico, avendo mancato di diligenza agli inizi si produce come una catena dalla quale è poi difficile districarsi. Si paga pertanto lo scotto della iniziale pigrizia; poiché, invece di provvedere tempestivamente facendo subito quello che può farsi, si è cominciato con l’assaporare le gioie dell’ozio all’insegna del proverbio spagnolo (Quien trabaja perde tiempo precioso, un motto che vale per molti), rinviando progressivamente all’indomani, ad un certo punto la mole si accumula ed è impossibile tenervi dietro o rimontare. Ma, come ho detto, la situazione comprova di una sorta di meccanicismo nella conduzione del processo civile, addebitabile all’inerzia e all’assenza del giudice istruttore. Infatti il giudice, dopo la spedizione della causa a sentenza, non è in grado di riferire subito, come dovrebbe, in camera di consiglio, perché in realtà non conosce né ha mai studiato a fondo la causa, anche se, ironia della sorte, formalmente l’ha istruita, assumendo anche le prove, ma avvenendo tutto questo a casaccio, senza rendersi ben conto della situazione. Qui si toccano le note più dolenti del processo civile, rispetto al quale è certo che molto è addebitabile, per la tradizionale lentezza, agli avvocati che pur hanno in materia la massima disponibilità possibile. Quando andai in tribunale e quivi mi vennero affidati circa duecentocinquanta processi, ve ne erano moltissimi che pendevano da anni senza che in essi si fosse fatto qualcosa; trovai anche qualche causa iniziata, in primo grado, dieci anni prima, riscontrandosi nel fascicolo, per anni e anni, pagine 118 UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO e pagine di verbali di semplice rinvio. Pertanto il primo problema, la prima deficienza sta appunto nei difensori che troppo spesso, instaurata la causa, bellamente se ne dimenticano e lasciano trascorrere gli anni chiedendo sistematicamente il rinvio, quivi dominando, in barba ai clienti, le esigenze degne e meno degne di considerazione dei legali che quasi tutti, non si comprende perché, scivolano in questo pessimo andazzo e sono quindi avvinti in una naturale rete, vera e propria massoneria, di solidarietà reciproca: di norma, in sostanza, il rinvio non si nega mai ad un collega, perché « oggi a te, domani a me » e non è infrequente che il rinvio sia appunto richiesto allegando a giustificazione l’impedimento dell’avversario. Il dramma del cittadino che nel procedimento penale prevalentemente si consuma nei corridoi degli uffici giudiziari, è nel processo civile semplicemente spostato, celebrandosi esso, di norma, nelle lunghe snervanti attese nelle anticamere dei legali e nella vana, ripetuta sollecitazione; per questo io mi sono fermamente ficcato in testa che, allo stato delle cose, uno dei peggiori guai che può capitare al cittadino italiano è quello di doversi rivolgere ad un giudice o ad un legale, apparendo realisticamente preferibile che si ricerchi altrove, bonariamente, la composizione delle liti anche con qualche rinuncia, non valendo in effetti il giuoco la candela. Ed in certi limiti… di valore, la soluzione di gran lunga preferibile, in termini di tempo e di tranquillità dello spirito, è quella di rinunciare semplicemente alla pretesa perché, nella migliore delle ipotesi, nessuno mai compenserà su questo piano. I PROCESSI E LA GIUSTIZIA 119 Chi ha avuto l’inestimabile fortuna di tenersi alla larga in tutta la sua vita dalle aule di giustizia, non può immaginare quanto e con quale intensità operi questa solidarietà avvocatesca, giusta il principio — primo in realtà nell’etica professionale effettuale — che in primo luogo non debbono negarsi i reciproci favori tipici del dominante lassismo, dovendosi in ogni caso dar la prevalenza all’interesse del collega avversario malgrado l’urgenza di provvedere per l’interesse del cliente. Naturalmente ci si rende ben conto di questa situazione e talora se ne prova il disagio; ricordo che pendevano nel mio ufficio una ventina di cause, molte delle quali remote, nelle quali era impegnato uno dei più illustri avvocati locali e nell’anno e mezzo del mio servizio non fu possibile, in nessuna di quelle cause, fare un passo innanzi; un giorno venne a chiedere l’ennesimo rinvio l’avversario dell’illustre professionista, dicendo col sorriso sulle labbra che il collega non era venuto a chiederlo lui, avendone vergogna! Solidarietà che opera, purtroppo, non solo nel processo civile, ma anche in quello penale e anche laddove è in giuoco la libertà dei cittadini. Ricordo che una volta doveva celebrarsi un processo assai grave con tre imputati detenuti, due dei quali erano assistiti da un valente penalista nonché parlamentare; all’udienza pervenne una lettera con la quale l’onorevole, impegnato nella capitale nelle trattative per la formazione del governo, chiedeva un rinvio che, essendosi nella imminenza delle feste natalizie e quindi alla chiusura dell’anno giudiziario, avrebbe potuto disporsi solo per la fine di gennaio, 120 UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO a prescindere dal fatto che, retorica a parte, si pregiudicava la più o meno teorica possibilità che gli imputati avevano, in caso di celebrazione del processo, di tornare liberi e di passare quindi in seno alla famiglia le prossime feste. Il difensore dell’altro imputato dichiarò che non poteva logicamente opporsi alla richiesta del collega; la situazione era imbarazzante ed il presidente del collegio appariva visibilmente preoccupato ed incerto sul da farsi; contribuii a risolvere la questione, suggerendo discretamente al presidente, con una certa malignità invero, di rimettere ai due imputati, privi quella mattina del difensore di fiducia, la scelta tra la celebrazione immediata del processo con altro difensore magari di ufficio o il rinvio in attesa che le cure di governo permettessero all’onorevole difensore di provvedere agli interessi dei clienti: i due, per comprensibili ragioni, optarono per la seconda alternativa, l’udienza fu tolta, ma non so con quale stato d’animo i vari protagonisti dell’episodio si accinsero a consumare l’insperata vacanza, specialmente quelli in manette. A mio avviso, è questo andazzo avvocatesco che pone, in larga misura, le condizioni che spiegano e favoriscono la diserzione del giudice dai suoi compiti nel processo civile. Com’è ben noto, l’ideale secondo il codice di procedura civile, specialmente nella sua originaria formulazione malinconicamente imperniata sui principi chiovendiani di oralità, concentrazione, speditezza, è quello che il giudice fin dalle prime battute si impadronisca fino in fondo della causa, ponendosi in grado di avviarla verso una sollecita definizione; e in verità se questo si I PROCESSI E LA GIUSTIZIA 121 facesse, sotto il pungolo dei difensori come è nella logica della costruzione, il giudice sarebbe in grado, ad esempio, di rendersi subito conto se vi è una qualche questione pregiudiziale, di giurisdizione, di competenza rilevabile d’ufficio, di procedibilità, ricorrendo la quale, può disporsi senz’altro la rimissione della causa al collegio; oppure potrebbe con altrettanta sollecitudine disporre per i necessari incombenti istruttori. Ma il pungolo dei difensori, che l’ideale del codice sottintende, generalmente manca; anche nei tranquilli tribunali di provincia nei quali il giudice, a differenza di quanto avviene nei grossi uffici delle grandi città, non è quasi letteralmente sommerso dal cumulo delle pratiche, il magistrato sa che è perfettamente inutile studiare a fondo la causa sulla base dei primi atti difensivi, perché di norma la semplice pendenza del processo non significa ancora niente in termini di presente richiesta di puntuale giustizia, posto che, come è d’uso, si andrà forse per molto tempo innanzi con semplici rinvii prima che qualcosa di concreto venga richiesto. In un certo senso non so dare torto ai magistrati, anche perché dispiace a tutti impegnarsi a vuoto e magari più volte, in quanto, nel periodo che corre tra una concreta richiesta e l’altra, la memoria di norma non regge e c’è il rischio di dover ricominciare poi tutto da capo; col solo limite che, in ogni caso, dovrebbe darsi una scorsa agli atti iniziali per vedere se per avventura non emerga una questione preliminare rilevabile di ufficio e per la quale sia possibile troncare subito la causa. A dire il vero, l’iniziale presa di possesso della causa potrebbe essere utile sotto altro profilo, per 122 UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO indurre il giudice, in tutti i casi nei quali questo possa giuridicamente perseguirsi, a convocare le parti e per sentirle liberamente sui fatti di causa come già prevede l’art. 117 del codice di rito e per esperire il tentativo di conciliazione secondo la direttiva che già impone l’art. 185 dello stesso codice. In verità, in una eventuale riforma del codice o nel quadro di una ennesima codificazione, pare opportuno che si disponga obbligatoriamente per questa convocazione ai fini di tentare la pacifica composizione della lite se possibile giuridicamente, ed in ogni caso per l’interrogatorio libero delle parti; l’esperienza infatti mi insegna che un franco confronto tra i contendenti può essere estremamente utile per mettere in evidenza l’essenziale della lite, sfrondandola da ogni inutile contestazione e acquisendo elementi decisivi sul piano probatorio; mentre, se il magistrato vi si mette con impegno, non è infrequente che possa ottenersi l’accordo, soprattutto quando si insista come, considerato lo stato della nostra amministrazione giudiziaria, non convenga realisticamente a nessuna delle parti battere la lunga e defatigante trafila processuale. Tolti i rari casi nei quali le parti siano dotate, per naturale dote o per esperienza, di una certa agilità mentale per poter considerare la causa in termini realistici, come un affare, certamente il giudice può sperare, di massima, nell’accordo solo se ha molta flemma e pazienza, consentendo ai litiganti quello sfogo preliminare che è talora psicologicamente liberatore e utilizzando con molta accortezza ogni spiraglio; non è facile avere i nervi a posto per resistere alla tempesta che talora dura per I PROCESSI E LA GIUSTIZIA 123 ore, cosı̀ essendo indotti a preferire la soluzione più facile del non insistere, posto che tutto sommato è meno snervante redigere una sentenza nel silenzio di una stanza. Nella mia attività di pretore di campagna spesso cercavo, talora all’ombra dei cipressi in occasione di ispezioni, di adoperarmi in questo senso, in condizioni umane di particolari difficoltà dato il rigido attaccamento delle popolazioni rurali alle loro ragioni; in genere mantenevo una calma serafica ispiratami dalla considerazione che, essendo in giuoco un superiore interesse, non potevo permettermi il lusso di reazioni personali; talvolta, invece, per il capriccio o per la stanchezza del momento, assai rapidamente mi adeguavo alla soluzione personalmente più facile, desistendo dalla bonaria interposizione; non di rado i miei tentativi andavano a monte quando pareva raggiunto l’accordo, giacché a questo punto insorgeva in genere la questione del compenso ai difensori. Ma soprattutto, in quell’ambiente rustico, gli sforzi di pacificazione si arenavano per l’intervento delle donne che in genere constatai di una irriducibile, passionale aggressività in contrasto con una certa ragionevolezza e remissività dei loro uomini; e speriamo, ora che il gentil sesso sta entrando anche nel terzo potere, che la funzione attenui nelle donne-giudici queste caratteristiche che non sono certo le più indicate per una professione che richiede per definizione molto signorile distacco dalle spinte emotive. Se si comprende come l’andazzo avvocatesco induca il magistrato ad ignorare praticamente il contenuto dei fascicoli civili, l’ignoranza diventa del 124 UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO tutto ingiustificata allorché i difensori chiedono in concreto qualcosa, l’ammissione di una prova o la rimessione della causa al collegio. Purtroppo è assai diffusa l’abitudine di provvedere con alquanta superficialità su queste richieste, eventualmente nella confusione della pubblica udienza e sulla base di una superficiale scorsa degli atti o della mera illustrazione dell’istanza da parte del difensore, onde non di rado avviene, ad esempio, che si ammettano prove superflue o inammissibili o che la causa venga rimessa al collegio quando in effetti non è ancora nello stato che consente la decisione. Al contrario queste istanze dovrebbero costituire l’occasione per una effettiva conoscenza del processo da parte del giudice e per consentire a questi, nei limiti che l’andazzo posto in essere dai difensori consente, di esplicare la funzione non passiva che il codice gli commette. Per mio conto, mentre ero assai lassista nel periodo anteriore a eventuali richieste proprio perché disdegno di lavorare a vuoto, approfittavo di queste occasioni in misura adeguata, seguendo il prezioso consiglio datomi nel periodo di uditorato dal mio illustre istruttore, il quale appunto mi disse che dovevo evitare nella maniera più assoluta di decidere a caldo in udienza, per eliminare il rischio di combinare arrosti, riservandomi invece, come di regola, di decidere fuori udienza. Presi questa abitudine di riservarmi sempre, rispettando tuttavia il termine brevissimo che il codice stabilisce per il deposito dell’ordinanza; l’unica volta che non mi riservai parendomi l’istanza del tutto accoglibile senza ombra di dubbio, la sorte ammonitrice volle che io combinassi un grave errore. Riservatomi, I PROCESSI E LA GIUSTIZIA 125 leggevo e studiavo attentamente gli atti di causa; per le cause nelle quali si prospettavano questioni di diritto assai complesse o a me ignote, solevo compiere una pur sommaria ricerca provvisoria in giurisprudenza e in dottrina, prendendo appunti in un quadernetto appositamente istituito; provvedevo quindi, a ragion veduta, sulla istanza. Specificamente utilizzavo l’ordinanza istruttoria, che è uno strumento formidabile se sagacemente adoperato, per esercitare ampiamente quel potere correttivo e quella potestà di indicazione delle lacune istruttorie che il codice concede al giudice istruttore e in più larga misura al pretore; cosı̀ prospettavo la configurabilità di determinate questioni, specificavo i criteri distributivi dell’onere della prova nel caso, mentre talora mi è anche avvenuto di segnalare lo jus superveniens; cercavo insomma di indirizzare i difensori nel senso che mi pareva più pertinente. Naturalmente non era facile esprimersi in questo colloquio coi difensori, anche per la preoccupazione di non superare i limiti posti ai poteri del giudice e per non dare l’impressione di correre in soccorso di questa o quella parte; cercavo quindi di mantenere un tono adeguato e credo di aver qualche volta, per quello che scrivevo e soprattutto per quello che cercavo di far capire tra le linee, raddrizzato alcune cause. Poiché poi, trattandosi di un sistema di lavoro, seguivo questi criteri sempre con ovvia rigorosa imparzialità, veniva meno la preoccupazione di apparire in funzione di salvataggio; al massimo i salvataggi sono stati equamente ripartiti! Poiché poi ero solito riservarmi anche sull’istanza di rimessione della causa a sentenza, ad eccezione dei 126 UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO casi nei quali già conoscevo la causa, e perché per decidere su questa istanza studiavo il fascicolo, era logico che al momento della spedizione fossi già padrone della lite o per deciderla o per riferirne subito in camera di consiglio. Con questi facili espedienti, avendo evitato poi la pigrizia iniziale, mai una volta, se la memoria non mi inganna, m’è avvenuto di essere in mora (30). L’osservanza della legge mi fu facilissima nella più invidiabile posizione di giudice monocratico che ha la rara fortuna di dipendere solo da se stesso, senza dover fare i conti, per l’adempimento dei suoi doveri, con le abitudini degli altri; scrivevo direttamente le sentenze nella prescritta carta bollata e a macchina, risparmiando la cancelleria, giacché quando si è ben studiata la causa e si ha in testa l’ordine delle questioni, è facile scrivere cosı̀ di getto (solo due o tre volte mi è accaduto di dover stracciare il foglio, provvedendo a mie spese alla sostituzione) ed io non capisco perché, almeno i giovani, non facciano quel piccolo sforzo che è necessario per impadronirsi di questo moderno e corrente mezzo di scrittura (e di questo rimbrotto sempre i giovani laureandi, quando mi dicono che debbono affidarsi per la stesura della tesi ad un dattilografo). Negli uffici collegiali c’è invece meno libertà... funzionale, ma tutto può superarsi tenendo duro, anche per il giudice che, avendo buone intenzioni ed essendo nel contempo il più giovane del (30) Sulla responsabilità concorrente degli operatori per quanto attiene la crisi dell’amministrazione giudiziaria ha spesse volte messo l’accento G. A. RAFFAELLI, del quale vd. da ultimo Disservizio giudiziario, in « Rassegna dei magistrati », 1964, p. 108. I PROCESSI E LA GIUSTIZIA 127 collegio e quindi destinato a riferire per ultimo, talvolta ha in camera di consiglio l’ansia di non farcela, se sta avvicinandosi il momento fatale in cui la riunione si interromperà data « l’ora tarda ». In ogni caso, comunque si pervenga alla spedizione della causa a sentenza, è del tutto inammissibile che il magistrato non adempia al suo elementare dovere di rispettare i termini di legge. Purtroppo è diffuso l’andazzo contrario, il giudice riferisce in camera di consiglio non immediatamente, ma quando se ne sente in grado, a settimane e talora a mesi di distanza, e dopo la decisione collegiale passano altre settimane o mesi perché si provveda alla redazione della sentenza e ai conseguenti adempimenti. E l’andazzo è favorito dal fatto che nessuno degli strumenti di pungolo e di controllo sul giudice funziona. In primo luogo generalmente non funzionano i capi degli uffici che non provvedono, come sarebbe loro dovere, a far sı̀ che si osservi la legge. Nel tribunale presso il quale io ebbi la ventura di compiere il mio periodo di uditorato e che è ancora uno dei pochi tribunali seri, tutto era ottimamente congegnato in modo da imporre il rispetto dei termini di legge: all’udienza collegiale che si teneva con una certa non inutile solennità (col tempo mi sono convinto che, purtroppo, la forma ed il rito possono rappresentare garanzie sostanziali; quando vedo, nelle sedute di laurea, quale scempio spesso si fa della serietà di questo « esame », senza alcun rispetto per le forme, tutto sovente riducendosi ad uno stentato colloquio tra il relatore ed il candidato, disturbato dalle conversazioni che intanto gli altri commissari più o meno discretamente conducono 128 UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO quando non sono in altre faccende affaccendati, offendendo il prestigio dell’istituto e offendendo il giovane che bene o male è al termine di un sudato curriculum, capisco quale importanza abbiano le solennità formali ed anche i paludamenti esteriori della amministrazione giudiziaria), per ogni causa il relatore doveva pur succintamente riferire; terminata l’udienza, subito aveva inizio la camera di consiglio che continuava nel pomeriggio e se necessario l’indomani fino alla decisione di tutte le cause, onde il giudice sapeva in anticipo che doveva essere pronto; inoltre il presidente controllava che il deposito delle sentenze, sulla redazione delle quali esercitava anche un non inutile controllo stilistico, avvenisse nei termini. Ma se vengono meno gli strumenti interni, altrettanto avviene di quelli « esterni ». In teoria non è vero che non ci sia alcun rimedio, che gli avvocati e le parti siano semplicemente costretti a tollerare l’inerzia del giudice; c’è, infatti, nel codice di procedura civile, una norma (art. 55) che consente di mettere in mora il giudice con un atto formale e quindi, quando sia inutilmente decorso il termine di dieci giorni, di agire in giudizio per far dichiarare la responsabilità civile del magistrato. Non so se qualche volta questa precisa previsione normativa sia stata utilizzata con la formale messa in mora del magistrato negligente; comunque non credo che almeno in questi ultimi ventitré animi vi siano stati processi civili instaurati per far affermare la responsabilità civile del giudice: posso dirlo con qualche cognizione di causa, avendo io curato, per una ben nota rassegna di giurisprudenza al codice, I PROCESSI E LA GIUSTIZIA 129 la parte nella quale trovasi appunto l’art. 55, senza reperire traccia, nei repertori e nelle riviste, di alcuna pronuncia. Gli avvocati mugugnano, si sfogano dicendo non a torto nelle private confidenze peste e corna di quel giudice innanzi al quale in genere riverenti ed ossequiosi si presentano, ma non reagiscono, semplicemente perché, com’è umano, temono conseguenze complessivamente negative della loro eventuale reazione, temono cioè, cosı̀ certo testimoniando di una scarsa stima dei magistrati, che l’azione si ritorca in una loro minore possibilità di trovare ascolto presso i decidenti. Temono cioè che possa capitare loro qualcosa di analogo a quello che in anni assai lontani si dice (ma l’autenticità dell’episodio è dubbia) che accadde ad un ingenuo studente universitario che aveva ottenuto l’annullamento dell’esame sostenuto innanzi ad un grandissimo maestro del diritto di fama universale, adducendo che nel caso non si era proceduto innanzi alla commissione di tre esaminatori prevista dalla legge, tutto essendosi risolto in un colloquio solitario col docente (e quanti falsi in quei registri!); ebbene, rinnovandosi l’esame innanzi ad una commissione regolarmente costituita, il presidente vi dette inizio con queste parole: « adunque Ella desidera essere bocciato da tre commissari »! Cosı̀, per intuitive ragioni, oltre alla massoneria « interna » dei legali, l’ambiente giudiziario consta, con tutto danno dei cittadini, di una più vasta e complessa massoneria che accumuna in un sol tutto, secondo una deprecabile solidarietà, gli uni e gli altri, giacché nel reciproco deteriore interesse, in genere avvocato non morde avvocato, cosı̀ come avvocato non morde 130 UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO giudice e viceversa. Ma se è comprensibile che in questa situazione di fondo i rimedi formalmente previsti facciano cilecca, è veramente triste che non debba funzionare nemmeno il controllo che la legge commette a chi è fuori di questa rete di solidarietà; credo infatti che non si possa registrare casi in cui il ministro per la giustizia abbia esercitato l’azione disciplinare nei confronti di magistrati negligenti. Questa azione è in genere esercitata solo quando il magistrato si macchia di fatti veramente gravi o quando assuma pubblicamente posizione sui problemi della magistratura con una certa intemperanza, ma mai per garantire il corretto funzionamento del servizio. Per questo le discussioni, accesissime, che si sono fatte a suo tempo sul punto della attribuzione al ministro di questa facoltà o a proposito del mantenimento dei servizi ispettivi nell’ambito ministeriale, appaiono ex post, come molte delle nostre discussioni, meramente astratte e vane: il sistema non soffre per queste previsioni della legge, bensı̀ del fatto che esse siano, di massima, rimaste solo previsioni senza svolgimenti concreti; non è da lamentare che la Costituzione attribuisca al ministro la titolarità dell’azione disciplinare, ma al contrario che di questa facoltà si faccia cosı̀ parco uso. E in definitiva sarebbe sufficiente, per far mutare registro, dimostrare di voler agire; basterebbe un caso, adeguatamente pubblicizzato, di un magistrato deposto per far intendere alla massa, come suol dirsi in Toscana, l’antifona. Finora ho detto del modo in cui i magistrati adempiono ai loro obblighi formali, senza valuta- I PROCESSI E LA GIUSTIZIA 131 zioni di merito in ordine alla bontà o no, per grandi linee, delle decisioni. Ed invero una indagine siffatta, un esame di merito della giurisprudenza, oltreché impossibile, esorbita dai limiti di questa testimonianza. Ma c’è un aspetto dell’esercizio in concreto della giurisdizione a mio avviso tanto grave ed imponente che richiede una specifica considerazione. Intendo riferirmi al predominante lassismo in materia penale. Debbo premettere che, per un inguaribile pessimismo sulle qualità morali dell’uomo medio, sono risolutamente convinto della funzione positiva della pena in una ordinata società, sostanzialmente secondo la concezione che fu tipica della scuola classica del diritto penale; cosı̀ sono risolutamente avverso alle diffuse opinioni che negano o sminuiscono questa essenziale funzione, accampando le più varie giustificazioni scientifiche e più spesso pseudoscientifiche. Checché si pensi, in termini filosofici, dell’eterno ed irrisolubile problema della libertà e della necessità nell’umano comportamento e quindi della congruenza o no, su quel piano, del principio di imputabilità, la società organizzata proprio per il suo porsi normativamente, in termini di regolamentazione dell’operare umano, postula inderogabilmente dal punto di vista concettuale, se si vuole in funzione di una esigenza fisiologica interna dell’organismo e del sistema, l’accettazione di codesto essenziale principio, in virtú del quale si assume la possibilità di esigere dall’uomo medio un comportamento doveroso, discostandosi dal quale la società sia arbitra di punire. Mentre rispetto al deficiente sono utilizzabili altri strumenti di salvaguardia sociale (ad esempio, i 132 UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO manicomi), all’uomo capace di intendere e di volere viene rivolto un comando assunto per definizione come esigibile per libera scelta interiore e alle eventuali inosservanze nel sistema si postula che possa reagirsi punendo, in tal modo difendendo il corpo sociale. Di qui la sostanza della pena, in questa sua imprescindibile ragion d’essere; e se è vero che è possibile ed anche auspicabile che la pena adempia o venga utilizzata anche ad altri fini, per ottenere l’emenda del reo e la sua reimmissione nel corpo sociale, è altrettanto vero che queste possono essere solo utilizzazioni secondarie e collaterali, mentre la misura penale ha la sua giustificazione autosufficiente nella esigenza logica della repressione intimidatrice e solo in funzione di questa sua intrinseca funzione può essere definita. La pena cosı̀ risponde, in primis, ad una esigenza organica della società, non vi sarebbe se mancasse codesta esigenza; d’altro canto le eventuali utilizzazioni secondarie di essa non possono essere spinte al punto di alterarne la funzione essenziale. Di qui la relatività storica del sistema sanzionatorio e nel senso che il potere costituito liberamente valuta quali fatti siano in quella determinata epoca talmente gravi da dover essere più o meno severamente puniti e nel senso ulteriore che la qualità e la entità della pena sono pure demandate ad una valutazione discrezionale della necessità storica. Nell’esperienza concreta poi si dimostra eloquentemente la funzione della pena, giacché a parte le elucubrazioni se per questa via sia possibile ottenere l’emenda del reo (rispetto alla funzione intrinseca della pena la diatriba è inconsistente), è I PROCESSI E LA GIUSTIZIA 133 comunque dimostrabile che il sistema repressivo serve soprattutto ad avere un minor numero di delinquenti rispetto a quello che naturaliter si avrebbe, posto che la media degli uomini nel decidere circa la propria condotta mette nel conto questa possibile evenienza repressiva e cerca, come è nella realtà di tutti i giorni, di evitare il possibile male. Basta pensare a quello che accade nei periodi e nelle istituzioni nelle quali per le più varie ragioni, il sistema repressivo non funziona La maggioranza degli uomini si comporta in condizioni di normalità sociale, più o meno correttamente ed evita quanto meno di delinquere e se viceversa il sistema repressivo è inceppato, si verifica semplicemente l’aumento della delinquenza. Quel cittadino irreprensibile che evita normalmente di incappare nel codice penale, una volta vestito di una divisa militare e mandato in territorio nemico, non esita, in condizioni date, a commettere fatti gravissimi, ruba, minaccia, violenta, stupra, uccide; quel medesimo cittadino in periodi di caos sociale, di guerra civile, ad esempio come è avvenuto nel nostro paese negli anni tragici che vanno dal 1943 al 1946, non esita ad abbandonarsi a vendette private, a uccidere l’odiato nemico personale o colui dal quale subı̀ a torto o a ragione un affronto, ad impadronirsi delle cose di chi proprio per le condizioni di emergenza è stato costretto a fuggire e a nascondersi; quel giovane di buona famiglia che è tanto educato e rispettoso in condizioni normali, non ha ritegno, nei suoi anni universitari, ad abbandonarsi ad atti di violenza e a comportamenti de- 134 UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO littuosi nei confronti delle malcapitate matricole. Tutto questo non avviene per uno strano, improvviso ed occasionale cedimento della coscienza, ma semplicemente perché in queste condizioni, ideali per la constatazione di come sonnecchi in genere nel fondo dell’uomo « civile » la bestia, l’irreprensibile cittadino sa di poterla fare franca, sa che di norma non incontrerà reazioni né pubbliche né private, giacché, ad esempio, l’imberbe mascalzone universitario si guarderebbe bene dal costringere la matricola a denudarsi o dall’estorcere denaro, non solo se sapesse dell’eventualità di poter andare nelle patrie galere come almeno in certe ipotesi dovrebbe avvenire se la polizia e i procuratori della repubblica applicassero la legge, ma anche se gli si prospettasse l’eventualità che l’oggetto della sua attività criminale, lungi dal comportarsi da agnello smarrito, possa mettere in pericolo la sua incolumità come avrebbe non dico il diritto, ma l’impegno morale di fare, posto che è doveroso esigere in noi il rispetto della persona umana; basterebbe anche la certezza di poter subire nelle pareti domestiche una adeguata reazione, che sarebbe altrettanto doverosa, se innanzi al giovane non si trovasse un soggetto della stessa stoffa morale un poco più attempato. Tutto questo dimostra come nell’uomo di media moralità sonnecchi il selvaggio e come solo con estrema fatica, nelle condizioni normali di stabilità del corpo sociale, sia contenibile la tendenza innata; tanto che è sufficiente il perturbamento di quelle condizioni e la sussistenza di un’area di pratica immunità per ritornare allo stadio primitivo e per moltiplicare i delinquenti reali. Qui I PROCESSI E LA GIUSTIZIA 135 sta precisamente la funzione della pena e del sistema repressivo nel suo complesso, sia quello in mano pubblica sia quello che in certi limiti è demandato ai privati cittadini. E invero, ai fini della difesa sociale, non bisogna limitarsi a considerare il sistema di irrogazione delle pene ex post, ma il complesso delle reazioni complessivamente esperibili nei confronti della delinquenza, comprese quindi anche quelle che gli agenti pubblici ed anche i privati possono beneficamente utilizzare quando l’attività criminosa è in corso. Si dice spesso, e a ragione, che è meglio prevenire che reprimere, ad esempio che è auspicabile, in sede civile, consentire al cittadino la pronta, immediata salvaguardia del suo diritto innanzi agli attentati in corso di effettuazione o che si minacciano, con i provvedimenti d’urgenza, anziché rinviare all’esaurimento, di necessità defatigante, dei rimedi giurisdizionali normali che non potranno, per definizione, riparare interamente il torto subito se nel frattempo la lesione ha avuto modo di concretizzarsi. Si pone quindi giustamente l’accento sulla preferibilità dei rimedi immediati che consentano di stroncare sul nascere l’attività illecita. Ma non capisco perché di questo sennato criterio non debba farsi applicazione in materia di repressione dell’attività criminosa, dove è certo che la prospettiva di poter incontrare una immediata risposta è, per i male intenzionati, assai più eloquente ostacolo, talvolta, della sanzione successiva. È in questo ordine di idee che sono assai perplesso rispetto all’orientamento che pare vada affermandosi negli ultimi tempi per quanto attiene 136 UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO alla possibilità di azione della polizia nella flagranza del reato ed anche in occasione di disordini pubblici, ove è vano richiamare la invidiabile situazione di certi paesi civilissimi nei quali, se la polizia è disarmata, è anche vero che la media della popolazione è ad un livello di civismo assai più elevato. A mio avviso la polizia, naturalmente nei limiti dello stretto necessario e senza esorbitanze, deve avere possibilità di agire in uno scontro diretto contro la criminalità in azione e le risposte immediate date su questo terreno devono essere giudicate con molta ragionevolezza; in particolare, anche se mi rendo conto di andare contro corrente e di presentarmi cosı̀ in posizione abominevole innanzi all’attuale « illuminata » opinione, deve procedersi assai cautamente per quanto attiene all’uso delle armi in queste contingenze (ed invece oggi si legge di agenti immediatamente incolpati ed arrestati, quando in ogni caso dovrebbe partirsi dalla presunzione, ovviamente suscettiva di prova contraria, che essi abbiano agito nei limiti del loro mandato ed in stato di necessità). Del resto non c’è in materia alcun sacro principio vincolante, tutto risolvendosi in termini di valutazioni di opportunità; dicasi questo di una ipotetica norma che autorizzi le forze di polizia a far uso delle armi contro i delinquenti in fuga perché sorpresi in piena attività criminosa: quello che soprattutto conta è la repressione della criminalità, coi mezzi più efficaci e tempestivi, ciò essendo semplicemente doveroso da parte della società organizzata verso se medesima. Tutto il resto, anche se opportuno e desiderabile, è concettualmente superfluo rispetto alla funzione essenziale del I PROCESSI E LA GIUSTIZIA 137 sistema repressivo e comunque si pone in altro ordine di idee; cosı̀ la utilizzazione di questo sistema anche ai fini dell’emenda e del reinserimento del soggetto, costituisce una specie di servizio sociale reso a costui dopo il servizio sociale reso alla generalità nel suo complesso, avendo fatto tutto il possibile per garantire la sicurezza dei cittadini. Se in materia c’è un principio di diritto che va assolutamente osservato, è solo quello della certezza e della predeterminazione delle possibili reazioni; o, se si vuol dire altrimenti, chi si dispone a delinquere ha un solo « diritto », quello di sapere esattamente quello che gli può capitare e a evento criminoso perfezionato e prima, quando ci si abbandona all’attività criminosa. Sono fermamente convinto che è in ogni caso estremamente deleterio creare nella mente degli agenti dell’ordine, di coloro che spesso, come i carabinieri, prestano con abnegazione la loro opera in cambio di un trattamento talora civilmente abnorme, la convinzione di non poter agire con una certa tranquillità e sicurezza; guai se un giorno fossero costretti a pensare che è preferibile non agire, non affrontare la criminalità in campo aperto, per evitare spiacevoli conseguenze a loro carico: allora si constaterebbe come la società sia nel complesso disarmata innanzi all’ondata di delinquenza che cresce in forme adeguate al miracolo economico, come da taluni episodi già oggi risulta. D’altro canto è nella logica dell’inceppamento delle forze di polizia che i cittadini, sentendosi ormai indifesi, cerchino di tutelarsi con i propri mezzi, come si è potuto constatare in alcuni episodi 138 UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO verificatisi nelle grandi città del nord, determinandosi cosı̀ una situazione assai più pericolosa. Cosı̀ pure sul piano dell’ordine pubblico si è assistito in questi ultimi tempi a episodi gravissimi, con la teppaglia invasata intenta in occasione di lotte sociali a distruggere i beni pubblici e privati, rovesciando auto, saccheggiando negozi ecc.; episodi che si sono verificati avendo anche inciso la consapevolezza di una minore forza della polizia investita da un’ombra ingiustificata di sospetto e quindi psicologicamente frustrata. Egualmente dicasi dell’orientamento che pare delinearsi in tema di legittima difesa (31), anche qui essendosi determinato, a prescindere dalla doverosa repressione delle esorbitanze, uno stato d’animo di estrema perplessità nel cittadino comune, il quale si domanda se per caso, per poter sparare al malvivente penetrato nella privata abitazione, sia indispensabile chiedere cortesemente a costui se abbia la disponibilità di un’arma nonché l’intenzione di servirsene. Per mio conto, fermo il rispetto della norma di legge, ho sempre istintivamente impostato la questione nel suo ordine logico, avendo in primo luogo riguardo alla determinazione di chi per primo, per la sua iniziativa criminosa, fu all’origine dell’episodio, conseguentemente valutando con estrema benevolenza la reazione dell’offeso, proprio perché, in linea di massima, chi si difende non può essere messo, moralmente e giuridicamente, (31) Sul problema che allarma l’opinione pubblica vd. da ultimo M. BERUTTI, Quando un galantuomo sorprende i ladri in casa, ne « La Stampa » del 22 agosto 1965. I PROCESSI E LA GIUSTIZIA 139 sullo stesso piano di chi offende. Ecco perché, nel complesso, sono in radicale disaccordo con tutte quelle anime elette che con le loro teorizzazioni hanno messo in circolo un orientamento del tutto inaccettabile sul punto della concezione del sistema penale e delle sue finalità, assumendo cosı̀, culturalmente, una grave responsabilità. Né è il caso, infine, di indulgere ad un vago determinismo sociale a buon mercato, allegando appunto le giustificazioni sociali e ambientali di certe forme di delinquenza, cosı̀ in definitiva offendendo la grande maggioranza degli uomini che tira più o meno faticosamente la carretta nei limiti e nel rispetto della morale elementare e della legge; in effetti il tema della delinquenza e della sua scaturigine nell’animo umano è assai più complesso di quanto un certo positivismo spicciolo ritenne sul finire dell’età ingenuamente fiduciosa dell’Ottocento. Proprio quanto avviene oggi, nei paesi e nelle situazioni in cui le pretese cause economico-sociali del delitto sono venute meno sull’onda del crescente benessere di massa, costituisce la irrefutabile smentita di idee false tuttavia e purtroppo correnti; si pensi, in particolare, alla criminalità giovanile dilagante, in forme inusitate di isterismo collettivo, nei paesi « più sviluppati ». Situazione che apre prospettive paurose circa la possibilità, giustamente accarezzata, di ridurre a ragione e a civiltà l’uomo, situazione che chiarisce come la molla occasionale del delitto possa essere la più varia e scaturire cosı̀ e dall’estrema indigenza e dalla estrema facilità egualmente abbrutente di appagare bisogni, istinti e passioni, ovunque insomma, per un verso o per 140 UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO l’altro, si affoghi nel disordine e venga meno la funzione, di necessità limitatrice dell’istinto innato, dell’etica; cosa che deve in particolare dirsi di alcune storture correnti in tema di c.d. educazione sessuale (dove, tutto concedendo all’auspicata liberazione da ogni inibizione (32), resta da stabilire, ad esempio, se una volta invecchiato il partner prescelto e goduto, si abbia o no diritto, in nome della liberazione dal bisogno… in questo campo, ad un’altra scelta, cosı̀ come è possibile ai signorotti orientali. Bene osservò Mauriac, a condanna senza appello della morale trasudante da un famoso romanzo britannico, che restava da vedere quale destino avessero innanzi a loro la nobildonna e il guardiacaccia quando avrebbero subito entrambi i colpi fatali dell’età). Ponendo l’accento sulla necessità di difendere nel modo più efficace la società, confesso di aver abbandonato molte prevenzioni che erano in me radicate, come avviene a tutti, nella ingenuità e nello schematismo illuministico dell’età giovanile, ad esempio per quanto attiene alla ammissibilità della pena di morte rispetto alla quale io non riesco a trovare più nella mia coscienza, certo del tutto ottenebrata, pregiudiziali d’ordine moralistico. Anche per quanto attiene a questa massima sanzione, la questione si pone in termini di mera opportunità secondo una discrezionale valutazione politica del legislatore, soprattutto quando esso ritenga di voler (32) Su un certo irresponsabile utopismo liberatore in materia vd. ad es. W. REICH, La rivoluzione sessuale, Milano, Ed. Feltrinelli, 1963. I PROCESSI E LA GIUSTIZIA 141 reagire, in maniera drastica ed esemplare, nei confronti di certe manifestazioni intollerabili della criminalità. Resta piuttosto da vedere quali siano, in assoluto e in relazione alle caratteristiche dei tempi, le forme più efferate di criminalità che merita stroncare col massimo rigore ed in ipotesi anche con la massima sanzione concepibile. A mio avviso, ad esempio, è discutibile che sempre ed in ogni caso l’omicidio rappresenti il delitto più grave, rivelatore di una assoluta asocialità; la gravità di questo delitto deriva dalla entità del bene ch’esso pregiudica, la vita, onde ben si comprende come esso sia stato sempre severamente punito; ma il togliere il bene supremo della vita non è sempre e di necessità l’espressione di una natura congenitamente criminale. Spesso, come si rivela eloquentemente nelle reazioni abnormi con le quali talora tragicamente si concludono i diverbi caratteristici della circolazione stradale, l’omicidio costituisce l’espressione tipica di una natura profondamente malata, minata da uno squilibrio interiore dell’inconscio che si scatena nel contesto emotivo suscitatosi quando la guida del veicolo è intesa in senso agonistico; qui veramente ci troviamo, se si vuole, nel terreno d’elezione del positivismo penale e delle scienze alle quali codesto indirizzo si collega. Altre volte l’azione criminosa contro la vita è la conclusione di una vicenda amara che si è andata svolgendo giorno per giorno per lungo tratto di tempo, talora per larga parte della vita, e nella quale chi impugna l’arma, quasi per un irresistibile moto liberatore, ha recitato la parte, in concreto, della vittima angariata; oppure il dramma segna egualmente l’epilogo di un rapporto nel qua- 142 UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO le, come spesso avviene nell’ambito della famiglia, lui e lei, individualmente nella norma, sono incappati senza rendersi conto dell’impossibilità di convivere dato il reciproco carattere e che non si è avuto la forza di rompere in tempo, eventualmente per non danneggiare i figli. Oppure la spinta omicida è la manifestazione improvvisa, agente come vero raptus, di una esasperazione a lungo covata ed accumulata o di un attimo di incontenibile collera. Su questo piano, credo che l’omicidio sia nel novero di quei pochi reati, identificabili nel segno di presentare la comune nota caratteristica di una manifestazione di odio o di avversione e di esasperazione verso altro soggetto, che sono potenzialmente commissibili dalla stragrande maggioranza degli uomini, ad eccezione di quella esigua minoranza che ha avuto da madre natura l’inestimabile dono di poter conservare sempre, in ogni occasione, innanzi a qualsiasi provocazione, i nervi a posto; credo che quasi ogni uomo, più volte almeno nella sua vita, sia stato per questo verso sull’orlo dell’abisso e si sia salvato solo per qualche circostanza fortuita e provvidenziale, per aver saputo fare una estrema violenza contenitrice sulla forza prorompente dall’intimo o perché l’altro non ha spinto fino in fondo la provocazione o perché un terzo è intervenuto... Se fosse quindi veramente possibile adoperare, nella valutazione dei comportamenti umani, un metro esclusivamente subiettivo avendo riguardo al significato criminale dell’atto rispetto alla personalità del suo autore, prescindendo del tutto dal bene in questione e dall’entità dell’evento, sarebbe spesso possibile una considerazione benevola dell’omici- I PROCESSI E LA GIUSTIZIA 143 dio, da considerarsi talora come lo spiacevole infortunio occorso ad un soggetto di media moralità per altri aspetti incensurabile. E sia ben chiaro che con questo non intendo minimamente accogliere la configurazione tradizionale del delitto c.d. d’onore che al contrario, nell’ordine di idee qui prospettato, può essere diversamente considerato; ci può essere il delitto di onore che è effettivamente la conseguenza di un raptus incontenibile nella constatazione emotiva di una situazione che è prepotentemente sentita come un atroce insulto e c’è invece, molto spesso, il delitto d’onore in realtà commesso a freddo, senza alcuna seria commozione e senza improvvisa rottura dell’equilibrio psichico, ma semplicemente perché la morale corrente ed il rispetto umano comandano che in quelle contingenze si uccida specialmente in quelle nostre regioni nelle quali, mentre si è in genere di una assoluta amoralità costituzionale, ad esempio sul piano dei rapporti con la cosa pubblica (tanto che qui domina l’imperativo di non essere fessi in barba alla legge e fidando nella solidarietà degli « amici »), l’onore essenzialmente consiste non in quello di cui si può essere chiamati a rispondere legittimamente, ma in quello che un parente fa nella vita intima (quasi che per siffatto parente valesse la pena di subire un solo giorno di prigione; ma qui forse mi faccio prendere eccessivamente dallo spirito amaro e beffardo della mia regione dove assai spesso ci si comporta, in simili contingenze, come recitò in un famoso film il grande Fernandel e cioè pubblicamente dichiarandosi « cornuto di prima classe »). Per questo, se è comprensibile che finora il legislatore abbia fatto 144 UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO largo omaggio ad una insopprimibile realtà (il legislatore, infatti, non può mai farsi ispirare da principi assoluti di etica razionalmente posti e svolti, ma deve tenere in un certo senso il passo con la morale corrente, pur ponendosi ad un gradino superiore), è finalmente venuta l’ora che si cancelli nel nostro codice questo residuo barbarico, sia perché per un complesso di circostanze e soprattutto per il rimescolamento delle genti della patria la mentalità va sia pure lentamente mutando sia perché, a questo livello, l’eventualità di dover subire, malgrado il c.d. onore, decenni di galera può convincere dell’opportunità di abbandonare l’odiosa regola e di portare con una certa filosofia certi attributi del resto invisibili. Comunque resta ferma in generale la conclusione, per me, che proprio il delitto che attenta al bene supremo della vita non è sempre, subiettivamente, il più grave. Di per se stessi gravi ed inescusabili anche sul piano subiettivo sono viceversa quei fatti e quei comportamenti che in ogni caso non sono l’espressione di una incontenibile spinta emotiva, ma il risultato di una deliberata, fredda volontà criminosa maturata a tavolino, tutti i delitti che esigono un deliberato proposito delinquenziale, come il furto e ancor di più la truffa, le frodi alimentari, i delitti patrimoniali contro la pubblica amministrazione. E nel novero di questi delitti a freddo, commessi da coloro che sono i veri delinquenti, il legislatore deve specificatamente prescegliere quelli che, secondo una valutazione adeguata ai tempi, appaiono i più gravi perché più direttamente rivolti contro le basi stesse dell’ordine sociale e perché rivelano un ine- I PROCESSI E LA GIUSTIZIA 145 scusabile istinto delinquenziale. Ma anche qui, mentre si deve auspicare un sistema severamente repressivo di quei comportamenti criminosi che sono gravi per il pericolo sociale che determinano, in astratto o in concreto (ad esempio, per le rapine a mano armata che sempre più di frequente si verificano in pieno giorno e negli uffici più affollati, come forma di criminalità tipica di una società economicamente più evoluta), c’è da procedere ad ulteriori gradazioni, tenendo conto dello scarto che può registrarsi, in misura non indifferente, tra il pericolo sociale insito nel comportamento dato ed il porsi del medesimo in termini subiettivi. Il ladro ed il bandito affrontano consapevolmente il rischio di una immediata reazione, comparabile al grado di violenza che essi sono disposti, eventualmente, ad adoperare; c’è in questo loro delinquere un costo ed una incognita. Ma c’è la delinquenza che viceversa, di per sé, non opera in un contesto nel quale si pone a rischio l’incolumità personale, la delinquenza che agisce, ad esempio nei laboratori di certe industrie, magari in camice bianco ed avvalendosi malvagiamente dei più perfetti ritrovati della scienza o negli uffici privati e pubblici giostrando registrazioni e voci e approfittando della posizione di partenza superiore ad ogni sospetto; la delinquenza in guanti gialli, per intenderci, la più subdola e con ciò stesso la più ributtante moralmente. È rispetto a queste ultime forme criminose che si impone oggi, a mio avviso, la più severa delle reazioni, onde non troverei affatto contraddittorio un sistema che da una parte non implicasse automaticamente la più grave delle pene per l’omicidio e dall’altra parte questa pena indero- 146 UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO gabilmente prevedesse per i sofisticatori in danno della pubblica salute e per i burocrati delinquenti o per coloro che, ad esempio, hanno per avventura speculato in danno dei bambini del popolo bisognosi di cure: qui non è possibile alcuna comprensione, ogni attenuante è colpevole. Piuttosto, come si è giustamente osservato (33), è da lamentare che il sistema penale odierno, considerato nel suo complesso, consideri solo come misure afflittive riparatrici quelle che incidono sulla libertà personale e sul patrimonio, mentre sarebbe possibile far ricorso ad una più vasta gamma di sanzioni, con una ricca e proporzionata articolazione. Su questo piano, ad esempio, si potrebbe rispondere, almeno per la prima volta, a certi episodi di teppismo giovanile con una certa dose di nerbate date sulla pubblica piazza o con appropriate tosature delle ciniche pulzelle, cosı̀ come in certi casi non sarebbe male far ricorso a campi di lavoro forzato; si potrebbero altresı̀ inventare diversi tipi di pena privativa della libertà personale, con diverse gradazioni della sottrazione di questa o quella possibilità, ad esempio per quanto attiene alla possibilità di colloquiare e al tipo di alimentazione e alla disponibilità di giornali ecc.; su questa linea l’aggravamento qualitativo della pena potrebbe anche consentire una riduzione della durata della medesima. Assurgendo, in ipotesi, la concreta regola(33) Vd. N. REALE e G. TARTAGLIONE, Aspetti e soluzioni della crisi della giustizia nel processo penale, cit., p. 13, ove si osserva che il sistema delle misure penali « si gioverebbe dell’adozione di una più estesa gamma di sanzioni e di una maggiore elasticità sui criteri di scelta e di applicazione delle stesse ». I PROCESSI E LA GIUSTIZIA 147 mentazione della pena privativa della libertà a criterio distintivo di varie specie di pena, ne verrebbe come conseguenza che quello che oggi si rinviene nei regolamenti carcerari in fase attuativa della pena genericamente prevista nel codice penale, in gran parte dovrebbe essere trasfuso nel codice medesimo che oggi, per l’impostazione accolta, è in gran parte muto circa il concreto trattamento praticato ai reclusi; e d’altro canto attiene alla sostanza del sistema repressivo stabilire non solo che si è costretti a soggiornare in certi luoghi, ma determinare anche... il trattamento dei pensionati coatti. In ogni caso, mi par chiaro che il principio costituzionale secondo il quale « le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato » (art. 27, terzo comma, Cost.), va inteso logicamente cum grano salis, fermo cioè l’ovvio criterio che la pena... è la pena e quindi deve far male; il che significa che il trattamento fatto ai condannati deve essere comunque assai inferiore, sotto tutti i profili, a quello che in media la sorte riserba ai ceti più diseredati della popolazione, altrimenti essendo privo di significato il sistema repressivo. In questo senso sarebbe ad esempio assurdo voler introdurre in Italia, in relazione alle condizioni medie della popolazione meno fortunata, certi sistemi carcerari modello che hanno trovato attuazione in paesi nei quali le condizioni medie del popolo sono ben più elevate (34). (34) Tutto è per definizione relativo rispetto alle condizioni di partenza. Ed è amaro dover leggere che circa venticinque anni or 148 UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO L’esperienza pur scarsa che ho compiuto mi ha convinto nei fatti della esattezza di quanto sono venuto finora dicendo. È inevitabile che ogni giudice abbia una sua « politica giudiziaria », stabilisca nella sua coscienza una diversa valutazione, in termini di relativa gravità, dei comportamenti assunti nel sistema come delittuosi, sia per qualche verso comprensivo verso taluni di essi e viceversa disposto a reagire con maggior rigore verso altri. Anche io ebbi, pertanto, come tutti i giudici d’Italia, una mia scala di valori e di disvalori e quindi una mia valutazione libera, nei limiti della legge, della gravità dei fatti. Cosı̀ consideravo e considero assai grave l’emissione di assegni bancari a vuoto e trovai particolarmente intollerabile che per molte persone, in particolare per numerosi piccoli imprenditori aventi scarsa serietà e consistenza spesso a ragione di un credito bancario concesso con molta superficialità, fosse del tutto normale correre quotidianamente sul filo dell’insolvenza ed emettere sistematicamente, quasi professionalmente, assegni non coperti, sovente in pieno accordo col prendisono nell’ambiente dei poveri contadini di Sicilia si considerava invidiabile la condizione del soldato, almeno in tempo di pace; vd. L. PRETI, Giovinezza, giovinezza, Milano, Ed. Mondadori, 1965, pp. 191-192: « La caserma è un palazzo da signori. Mio marito mi racconta sempre come stava bene in servizio di leva a Torino. Mangiava carne tutti i giorni e gli davano le sigarette gratis... Gli hanno perfino insegnato a leggere e scrivere ». E un illustre critico letterario che mi onora della Sua amicizia mi disse un giorno come e con quanta commozione E. Lussu gli narrò di un povero soldato sardo che, al termine della prima guerra mondiale, smobilitandosi l’eroica Brigata Sassari, andava implorando di poter fare per tutta la vita il soldato. I PROCESSI E LA GIUSTIZIA 149 tore e quindi con reciproca consapevolezza di operare contro l’interesse più vasto alla serietà delle contrattazioni. Per questo, in caso di recidiva — e ho trattato casi nei quali il modulo normale del certificato penale non era sufficiente a contenere la lunga filza di condanne alla multa inflitta per questo reato con decreto penale, onde vi era, come per le cambiali, un prolungamento — mi astenevo dall’emettere decreto penale, convincendomi la situazione che spesso si trovava in definitiva economicamente conveniente persistere nell’abitudine criminosa se tutto si risolveva nell’eventualità di dover pagare una piccola somma, e portavo a giudizio contestando la gravità del reato e quindi irrogando la pena detentiva; quando poi gli assegni emessi erano assai numerosi in un giro ristretto di tempo, incaricavo i carabinieri di svolgere accurate indagini in ordine alle circostanze nelle quali si era verificata l’attività delittuosa e se queste indagini confermavano, come di regola avveniva, la sussistenza di uno stato d’insolvenza, inviavo gli atti al pubblico ministero o al tribunale ai fini della eventuale dichiarazione di fallimento. Questa mia « politica » ebbe come conseguenza un notevolissimo crollo dei procedimenti per il reato in questione; più esattamente da una parte vi fu effettivamente una reale diminuzione di questi reati e dall’altra, secondo quanto mi parve di capire, si rimediò con un facile espediente, facendo figurare sull’assegno un luogo di emissione non posto nella mia giurisdizione, in modo da radicare artificiosamente la competenza territoriale altrove e per capitare possibilmente in una di quelle grosse preture nelle quali il magistrato, anche per la 150 UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO mole di lavoro, non è solito esaminare autonomamente ogni singolo caso, avendo disposto che per questo reato come per tutti quelli nei quali la cosa è possibile si proceda automaticamente per decreto penale. Pertanto di norma capitavano nell’ambito della mia competenza solo quelle persone che, estranee all’ambiente, erano anche del tutto ignare della politica giudiziaria del giudice locale! Comunque ne risultava dimostrato che se tutti i pretori avessero voluto e potuto seguire un criterio rigorista, prospettando ai contravventori l’eventualità di essere condannati alla pena detentiva magari da scontare effettivamente per la mancata concessione del beneficio della sospensione condizionale della pena, si sarebbe potuto stroncare in gran parte la comoda abitudine di certa gente, proprio perché la pena serve soprattutto a far convinta la gran massa della non convenienza del reato. Per chi come me si muove sulla base di un inguaribile pessimismo per quanto attiene alla identificazione della spinta naturale dell’uomo e pertanto resta fedele alla concezione classica del diritto penale, l’aspetto più conturbante e deplorevole della nostra giurisprudenza è dato, appunto, dal predominante lassismo. Ed è veramente ora, per doveroso civismo, di mettere in guardia l’opinione pubblica che pur giustamente si commuove quando un ladruncolo di pochi frutti che ha commesso il fatto sotto la spinta irresistibile del bisogno è condannato, sulla base della più stretta applicazione del codice, ad una pena visibilmente sproporzionata o quando si mettono in rilievo le singolari implicazioni di un famoso caso di errore giudiziario per I PROCESSI E LA GIUSTIZIA 151 quanto attiene alla possibilità di porvi rimedio con il procedimento di revisione. In realtà il giudice italiano si attiene quasi costantemente, nella irrogazione delle pene, al minimo della previsione edittale, senza alcuna preoccupazione di adeguare la pena alla effettiva gravità del reato, spaziando tra il minimo ed il massimo che il codice prevede; in certi tribunali, ad esempio, era quasi di rito, prima della recente riforma, che l’affermazione di responsabilità per omicidio colposo fosse punita, previa rituale concessione delle circostanze attenuanti generiche, con quattro mesi di reclusione a prescindere dalla entità della colpa, fosse essa gravissima, inescusabile, derivante in ipotesi dalla violazione di di una precisa norma di comportamento oppure lieve e trascurabile, per quel fatale attimo di disattenzione che può verificarsi per il guidatore normalmente scrupoloso o perché nel caso concorre una colpa macroscopica della vittima. Con questa sorta di meccanicismo pietistico si viola sostanzialmente non solo la legge che formalmente impone (art. 133 cod. pen.) di adeguare la pena alla effettiva gravità del reato, ma il più elementare sentimento di giustizia che esige appunto che chi più gravemente ha contravvenuto sia più gravemente punito. E non c’è quindi da meravigliarsi se per il giudice italiano non solo l’attenersi al minimo è di norma di rigore, ma è altrettanto corrente la meccanica concessione a tutti dei benefici sol che formalmente sussistano gli estremi di legge, come avviene per la continuazione del reato, per la concessione delle circostanze attenuanti generiche, per i benefici della sospensione condizionale della pena e della non menzione della 152 UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO condanna nel certificato del casellario giudiziario. E poiché oggi sono di moda le indagini statistiche, credo che sarebbe estremamente interessante condurre in proposito una indagine accurata, confermando con i numeri la verità di quanto affermo; ci si renderebbe conto che nel nostro paese vige una regolamentazione effettuale dei fatti criminosi assai diversa da quella che la lettera del codice pare prospettare; c’è un codice reale che è agli antipodi rispetto a quelle valutazioni che in concreto la legge impone al giudice. È del resto significativo che di recente si sia aspramente criticata la sentenza pronunciata dal tribunale romano nei confronti di Felice Ippolito per il fatto che quei giudici ritennero discrezionalmente di dover negare all’imputato le attenuanti generiche, muovendo appunto la critica dalla considerazione che un siffatto beneficio, come il mezzo sigaro toscano e la croce di cavaliere, non si nega ormai a nessuno. Da qui deriva appunto che c’è uno scarto abissale tra le previsioni del codice e le applicazioni che di norma se ne fanno; quello che nel codice non è fatto automatico, ma è condizionato ad una serie di precisi accertamenti demandati alla valutazione discrezionale e non arbitraria del giudice, è divenuto nella prassi come una singolare specie di ritualismo pietistico. Ne consegue una sistematica obliterazione dei principi posti dalla legge per ogni istituto, tanto che, ad una rigorosa indagine, ben poche sentenze penali potrebbero restare indenni da censura, poiché anche la motivazione sul punto della concessione dei benefici è, in genere, meramente formale, con formule quasi ste- I PROCESSI E LA GIUSTIZIA 153 reotipate. Quando mai i giudici, ad esempio, allorché ritengono che sussista il vincolo della continuazione tra i vari episodi, si premurano di motivare in ordine alla ricorrenza nel caso di quel « medesimo disegno criminoso » che il capoverso dell’art. 81 del codice richiede? Ma la stessa frettolosità delle motivazioni è la prova eloquente di come il pietismo sia un principio implicito e dominante nella nostra giurisprudenza. Né i pubblici ministeri si premurano di reagire a questo meccanicismo, insistendo attivamente affinché i benefici di legge siano concessi solo quando in realtà ne ricorrono i presupposti o gli imputati ne appaiono veramente meritevoli o affinché si operi una effettiva gradazione delle pene in relazione alla diversa gravità dei reati; essi, come per una strana deformazione professionale che ben poco si addice a chi opera nell’interesse della legge, ritengono doveroso chiedere di norma la condanna, cosı̀ non si premurano a sufficienza dei criteri invalsi per la irrogazione delle pene, accontentandosi comunque della affermazione della responsabilità quale ne siano state in concreto le conseguenze tratte dai giudici, quasi sempre interponendo gravame solo contro le sentenze di assoluzione e non contro le sentenze di condanna a ragione della esiguità della pena. Tutta questa situazione non solo viola di per sé la legge e l’equità, cioè la giustizia distributiva, ma è in ultima analisi assai scarsamente giustificabile sul piano della funzionalità, della auspicabile resa della macchina repressiva. L’esperienza dimostra che vi sono assai di frequente situazioni personali irrimediabilmente non recuperabili, malgrado tutti i ten- 154 UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO tativi e gli espedienti; accanto ai cittadini recuperabili e talora recuperati, a coloro che beneficamente fanno tesoro della lezione appresa nella prima occasione di contatto con la giustizia, vi sono i delinquenti incalliti, quelli che niente può distogliere dall’idea di persistere nell’attività criminosa, soggiogati come sono da un demone dal quale non riescono a liberarsi. Insomma il regno degli uomini, al pari di quello di Dio, presenta accanto a coloro che possono essere ammessi dopo un certo periodo di anticamera, i dannati alla perdizione eterna. La logica vorrebbe che quando il giudice si imbatte in una di queste situazioni testimoniate dalla plurima recidiva, non esitasse a punire non solo in relazione alla obiettiva consistenza del singolo episodio sub judice, ma anche tenendo conto di questa irrecuperabilità e quindi della opportunità di mettere il delinquente, per il periodo massimo che la legge consente, in condizioni di non poter più nuocere alla società; è la stessa legge che del resto si informa a questo criterio prevedendo l’aggravamento della pena in caso di recidiva nonché le figure del delinquente abituale e di quello professionale, pur esse di rarissima applicazione in concreto. Oltre tutto, anche dal punto di vista egoistico, il gioco comunemente praticato qui non vale assolutamente la candela: se si ha la convinzione che quell’individuo, scontata la pena, tornerà a delinquere, è più razionale colpire a fondo, allontanando nella misura massima possibile questa eventualità. E invece anche qui si persiste nel falso pietismo; cosı̀ si spiega come spesso il curriculum di certi delinquenti consti di venti, trenta, quaranta con- I PROCESSI E LA GIUSTIZIA 155 danne, quando il sistema dovrebbe funzionare in modo che obiettivamente non dovrebbe esservi la possibilità di giungere a questo punto, semplicemente perché è ridotta al minimo la possibilità di girare liberamente per il mondo nel quale non si è degni di stare. Né, acquisita la consapevolezza della irrecuperabilità, è serio favorire la delinquenza mettendo in essere le premesse di un più grave danno collettivo. Ho avuto in proposito una esperienza interessante. Negli ultimi mesi dell’anno in cui mi furono affidiate le funzioni di uditore vicepretore, mi venne affidato un processo contro un imputato di truffa continuata in stato di detenzione. Si trattava di un giovane già più volte condannato per truffa, mentre tutte le circostanze mi convinsero di avere a che fare con un vero delinquente per tendenza. Risultò infatti che questo giovane era stato condannato in precedenza in relazione alla sua attività di agente assicurativo; che, malgrado i pessimi precedenti, era stato riassunto dalla stessa compagnia di assicurazione con un compenso minimo mensile di lire duecentomila (circa dieci anni or sono) poiché il soggetto era di una straordinaria capacità negli affari; che dopo pochi giorni di lavoro, costui praticamente lo abbandonò dandosi di nuovo all’attività criminosa per la quale visibilmente provava una particolare attrazione: precisamente, impossessatosi nella sala di un ente previdenziale di moduli ivi a disposizione del pubblico, truffò una diecina di poveri artigiani di somme oscillanti tra le cinquanta e le centomila lire, qualificandosi a costoro come un funzionario dell’ente e prospettando la possibilità di 156 UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO ricostruire col versamento della somma richiesta determinate posizioni assicurative al fine di conseguire poi la pensione. Per questo negai in primo luogo all’imputato la libertà provvisoria che egli mi chiese facendo leva su un facile sentimentalismo (si era vicini ad una grande festa cristiana, pezzo forte di certa deteriore retorica avvocatesca) ed esplicitamente dicendosi spinto alla richiesta perché convinto della mia « bontà » testimoniata dal sorriso col quale avevo condotto gli interrogatori, mentre nel suo precedente soggiorno in quel carcere ne era stato trattenuto dal volto arcigno del collega. Quindi trassi l’imputato a giudizio e ivi gli inflissi, se ben ricordo, oltre quattro anni di reclusione. La sentenza fece scalpore tra i miei cari colleghi di pretura, quasi inorriditi della mia severità; uno di costoro mi disse che ero cosı̀ severo sol perché non mi ero reso conto della « terribile » condizione dei carcerati e che mi sarebbe stato salutare un soggiorno in quei luoghi (35). Cercai di difendermi affermando che speravo bene che il carcere non fosse un comodo soggiorno e invitando i miei colleghi, cosı̀ pietosamente solleciti a mettersi nei panni del povero imputato, a mettersi anche nei panni delle parti lese, giacché quello che mi ha (35) E purtroppo un siffatto sofisma è assai diffuso: vd. ad esempio la strabiliante argomentazione di G. C. PAJETTA in risposta alla presa di posizione di C. Smuraglia contro l’amnistia, in « Rinascita » del 27 febbraio 1965: in sostanza per questo uomo politico l’amnistia va comunque bene perché attenua la sofferenza umana... giacché « comunque a stare in carcere sono pur degli uomini e delle donne; se qualcuno uscirà qualche mese o qualche anno prima, non sarò io a dolermene ». E se è cosı̀, aboliamo senz’altro il codice penale e torniamo alla legge della giungla! I PROCESSI E LA GIUSTIZIA 157 sempre colpito è la normale insensibilità dei giudici su questo piano, quasi che essi non siano chiamati ad operare nell’interesse della massa degli uomini che si mantengono almeno nei limiti della legge e che dalla legge si attendono protezione e tutela (ma si narra di un giudice, intelligente, colto e danaroso, il cui inguaribile pietismo subı̀ un crollo allorché gli avvenne di subire nella sua villa un furto). Cinque anni dopo, una mattina ero di turno all’udienza penale del tribunale; si doveva in particolare celebrare un processo assai voluminoso, per diecine di furti di automobili e per altri reati a carico di due imputati detenuti. Dallo scanno ebbi l’impressione di aver già visto uno degli imputati e poco dopo ravvisai in costui colui che avevo condannato nelle circostanze riferite: mi convinsi cosı̀ che se la mia sentenza, certamente riformata in appello, fosse stata mantenuta ferma (d’altra parte avevo irrogato all’incirca metà dei nove anni di reclusione che la legge prevedeva come massimo per il reato), l’imputato non avrebbe potuto commettere negli ultimi tre anni tanti reati e quella mattina non avremmo dovuto sbrigare un processo cosı̀ voluminoso; e confesso di avere un convincimento duro almeno quanto quello dei delinquenti professionali. Naturalmente la cosa più importante è quella di comprendere le ragioni di questo lassismo che è di per sé rivelatore di una profonda crisi morale nella società, giacché una giustizia cosı̀ amministrata attesta, in definitiva, che per un motivo o per l’altro non si crede più alla sostanziale giustizia delle tavole costituite, alla bontà del sistema o non si ha quanto meno la forza morale di essere coerenti nel 158 UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO darvi svolgimento, tanto che si è negligenti nel garantire l’efficace tutela del sistema stesso (non a caso tutte le società puritane, tutte le società nelle quali è in media tenuta ben ferma una tavola di valori, si caratterizzano per il fatto che in esse non si esita a punire talora con la pena capitale; il lassismo è, al contrario, la spia di una società nella quale la fede è scossa e nella quale circola ovunque e in tutti un oscuro senso di colpa collettiva). Si è detto (36) che la pietà indiscriminata dei giudici costituirebbe inconsciamente come una specie di rivalsa rispetto ai casi nei quali la legge impone di punire fatti del tutto trascurabili con pene esorbitanti e ripugnanti in concreto alla più elementare equità; ma confesso di non aver ben compreso il succo di questa concettosa spiegazione psicologica, anche perché il disagio che il magistrato avverte nell’irrogare pene non adeguate alla effettiva proporzione del caso non giustifica affatto la pietà indiscriminata, anzi dovrebbe indurre ad un maggiore rigore verso i responsabili di fatti più gravi; quindi l’inevitabile rigore per i piccoli furti in una col lassismo praticato per i più gravi fatti quando la legge formalmente lo consenta, rende ancor più palese la complessiva iniquità della esperienza alla quale ci si abbandona. Piuttosto è da ravvisare anche qui una specie di circolo vizioso tra questo lassismo e le conseguenze che forse inconsapevolmente il legislatore ne trae, reagendo al primo fenomeno con previsioni edittali esorbitanti nei minimi, come spesso è avvenuto (36) Vd. M. RAMAT, Il sabato e l’uomo, ne « Il Mondo » del 23 ottobre 1962. I PROCESSI E LA GIUSTIZIA 159 nella più recente legislazione speciale. Si pensi, ad esempio, alla drastica severità di alcune leggi in tema di disciplina del commercio al pubblico e di genuinità dei prodotti messi in commercio; ogni pretore ha conosciuto i casi in cui, per una minima divergenza riscontrata tra la gradazione dichiarata del vino e quella effettivamente accertata, è stato costretto talora a condannare i titolari di modestissimi esercizi sperduti nella campagna, pur con la concessione delle circostanze attenuanti generiche, a pene nell’ordine di duecentocinquanta-trecentomila lire, aggiungendosi poi la pena accessoria ed onerosa della pubblicazione dell’estratto della sentenza in due giornali (37), non potendosi talora (37) La pubblicazione ha evidentemente un senso in quanto afflittiva; di qui la necessità di seguire l’ovvio criterio di farla effettuare nei giornali più diffusi nell’ambiente in cui opera ed è conosciuto il condannato. Per questo come pretore io feci rilevare dai carabinieri i dati approssimativi di diffusione dei vari giornali e sulla base di questi dati disponevo per una equa diffusione tra i giornali più diffusi, tanto che fui in grado di rispondere e soprattutto di convincere quel direttore di un giornale di categoria che mi scrisse lamentando che da un po’ di tempo aveva registrato un certo calo negli introiti provenienti dalla pretura da me retta. Inoltre, poiché tra le quinte appresi del facile giochetto elusivo di far pubblicare l’estratto nella pagina della cronaca locale di una cittadina posta ad esempio a duecento chilometri dal luogo delle malefatte, instaurai l’uso di specificare in sentenza che la pubblicazione doveva avvenire nel giornale X, « cronaca di Y » o « fuori cronaca ». Ebbene spesso è evidente che taluni magistrati distribuiscono le pubblicazioni a certi giornali « del cuore » che nessuno legge o che nella zona non sono diffusi invece di orientarsi sulla ben più diffusa stampa « indipendente » e di informazione; ho personalmente registrato anche qualche caso in cui era visibile l’intento di giovare al condannato, facendo ad esempio pubblicare in un quotidiano torinese l’estratto di una sentenza emessa in Calabria a carico di un imputato calabrese. Si tratta di evidenti abusi o piccole porcheriole da segnalare in primo 160 UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO concedere nemmeno il beneficio della sospensione condizionale della pena (38). Ho quindi l’impressione che, almeno nella legislazione dell’ultimo decennio, specialmente in quella disposta sotto il peso di una opinione pubblica vivamente impressionata per certi fatti, il legislatore si sia indotto a porre minimi di pena edittali esorbitanti per arginare il lassismo giudiziario, con un risultato cosı̀ veramente sconcertante rispetto a chi per primo porta la responsabilità del prevalente indirizzo; proprio perché in genere il giudice applica il minimo, si è indotti a stabilire questo minimo ad un livello assai consistente. Se ne deve concludere che la situazione migliore è quella di un sistema nel quale la legge stabilisca le pene in una misura luogo ai procuratori della repubblica (affinché, impugnando la sentenza o il provvedimento sul punto specifico e cosı̀ mettendo alla gogna il responsabile, stronchino queste pratiche indubbiamente rare) nonché al competente ministro, titolare dell’azione disciplinare. (38) Ma spesso una responsabilità penale di questi piccoli esercenti, che in genere acquistano ad esempio il vino dal contadino, va esclusa perché, com’è noto, per l’analisi possono essere adoperati diversi metodi che danno piccole, del tutto trascurabili divergenze; precisamente alcuni metodi di laboratorio scientificamente più esatti (metodi densimetrico, ebulliometrico, volumetrico), mentre nel comune commercio si fa ricorso al metodo cd. ebulliometrico assai più rapido, ma approssimativo per una trascurabile frazione. In una occasione, sulla base degli elementi forniti al pubblico dibattimento da un difensore che portò seco una serie di trattati scientifici, fui costretto a farmi una discreta cultura in materia; tanto che successivamente quando riscontravo queste infinitesime differenze assolvevo e conservo ancora tra le mie carte un « modello di sentenza assolutoria... per il vino », modello che feci data la particolare astrusità tecnica delle argomentazioni che mi avrebbe reso assai difficile ripetermi di volta in volta a memoria. Certo non mi sarei fatto questa cultura, benefica, se non mi fossi imbattuto in un difensore cosı̀ zelante. I PROCESSI E LA GIUSTIZIA 161 adeguata tra un minimo di per sé equo per le più trascurabili violazioni ed un massimo proporzionato alle più gravi violazioni e che il giudice quindi faccia uso di tutta la gradazione possibile innanzi all’entità varia degli infiniti casi nel più rigoroso rispetto di quella direttiva che è implicita nel fatto stesso che la norma prevede un minimo ed un massimo (39). (39) Ma la discrezionalità adeguatrice del giudice può esplicarsi solo quando egli può operare alla luce del sole, sulla base di elementi incontrovertibili emersi e rispetto ai quali, pur se è sempre umanamente discutibile la valutazione operatane, il magistrato può adeguatamente motivare circa la sua conclusione. In altri termini l’equità, la giustizia del caso per caso, esige che tutto il processo interiore del convincimento del giudice sia obiettivamente motivabile; per questo la sede più idonea è quella processuale. Laddove questo non è possibile, nei casi nei quali il giudice non può avere certezza dei fatti semplicemente affermati e non provati, nelle situazioni nelle quali può sconfinarsi nel « sentito dire », credo che la spinta interiore sia del tutto all’opposto, rifuggendosi dalla valutazione equitativa non motivabile per ricercare invece un metro uniforme, perché quando ci si muove nell’indimostrato l’uniformità è l’unico espediente che tranquillizza rispetto alla preoccupazione di arbitrarietà o dell’apparenza dell’arbitrarietà. Questa almeno è stata la mia posizione, con concrete implicazioni. Ad esempio, proprio per la mancanza di elementi obiettivi di riferimento e per non cadere nel capriccio del momento col rischio di prestare il fianco all’accusa di favoritismi, decisi, in materia di graduazione degli sfratti, di adottare un metro uniforme; per questo in una delle prime udienze dichiarai pubblicamente che avevo deciso di assegnare a tutti, poveri e meno poveri, un certo periodo e mi attenni sempre alla regola cosı̀ posta. Una soluzione certo criticabile, ma giustificata dall’impossibilità di misurare con una pur approssimativa tranquillità la miseria e il bisogno della gente; una soluzione che ebbe comunque il non trascurabile vantaggio della certezza in materia: l’inquilino sapeva esattamente quando sarebbe giunto, in ipotesi, l’ufficiale giudiziario per lo sfratto per regolare di conseguenza il suo affare, alla pari del locatore. Sarebbe interessante una indagine approfondita ed in concreto di questa contrastante spinta del giudice all’equità e alla legalità e del loro reciproco giuoco in rapporto alle diverse situazioni. 162 UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO A mio avviso le spinte psicologiche di questo orientamento sono di vario ordine. Innanzitutto è certo che in larga misura i giudici sono indotti alla perniciosa pietà perché convinti che il sistema non è affatto garante di una effettiva, sostanziale giustizia; quanto meno è questa la spiegazione addotta, perché è pressoché la unica di per sé facilmente conclamabile. E molte cose inducono il giudice a questa amara conclusione. In primo luogo si constata che troppo spesso incorrono nelle maglie della giustizia i piccoli diavoli, i cittadini socialmente più sprovveduti, mentre i pesci grossi, coloro che la fortuna ha assistito per censo o per relazioni sociali più difficilmente vi incappano (40); di qui la spinta del giudice ad essere clemente e a trasformarsi talora, nell’inconscio, nel difensore d’ufficio del povero malcapitato che non ha, per naturale ignoranza, la possibilità di parlare, nè ha, per le disagiate condizioni, i mezzi per pagare chi possa parlare in sua vece, secondo una esperienza quotidiana. E poi urta lo spettacolo, cui talora si assiste, dell’imputato al quale la disponibilità dei mezzi consente di utilizzare tutti gli espedienti legali per sfuggire alla giustizia o per esserne colpito in misura sensibilmente più lieve, magari con la scientifica dimostrazione della seminfermità mentale. Ma vi sono dei casi nei quali il magistrato avverte che è chiamato non a far giustizia, ma ad applicare la legge come affermò un giudice nordamericano in una famosa proposizione; o meglio vi sono dei casi nei quali solo applicando rigidamente la legge si fa giustizia, o piuttosto quel tanto o quel poco di giustizia che è in concreto possibile. (40) Vd. D. GRECO, Il tempo e la giustizia, cit., p. 17. I PROCESSI E LA GIUSTIZIA 163 In una società spesso ancora socialmente iniqua, il servizio della giustizia funziona, per forza di cose, in maniera diversa per i poveri e per i ricchi, per i diseredati e per i protetti, onde il giudice spesso reagisce ristabilendo nei fatti un certo equilibrio. In secondo luogo il giudice ha la sensazione che certe forme di deliquenza sfuggano in larga misura alla giustizia attraverso i meandri e i misteri di certo sottogoverno; quando nelle cronache di tutti i giorni dilagano gli scandali e gli episodi di corruzione, quando si ha la sensazione che non vi sia riparo a questo precipitare nel baratro, quando si ritiene che la situazione sia giunta ad un punto tale che il ventennio dittatoriale può essere almeno sotto questo profilo moralmente riabilitato e che oggi i profitti di regime siano tali che quelli di allora appaiono come trascurabili bagatelle, se non altro perché con l’ingente aumento delle occasioni di presenza pubblica nell’economia è enormemente cresciuto il numero di posti che sono attribuiti in questo contesto, si mina senza scampo la fiducia nel sistema e non credendo ci si abbandona al lassismo. Talora poi la valutazione di iniquità complessiva non si riduce ad una impressione radicata, ma generica e difficilmente dimostrabile con pezze precise di appoggio, ma è una certezza evidente; basti pensare all’abuso che si è fatto in questo ventennio postfascista dell’immunità parlamentare. Se chi è assistito da questo privilegio, che ha fatto in larga misura il suo tempo (41), può delinquere senza (41) Ed infatti se, a prescindere dal principio dell’imperseguibilità dei parlamentari per le opinioni espresse e i voti dati nell’eser- 164 UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO preoccupazioni di sorta, se vi sono notoriamente in giro dei parlamentari che hanno dei conti in sospeso con la giustizia senza prospettiva di liquidazione, perché infierire contro chi non ha la ventura di questo privilegio? Basta ricordare il caso clamoroso di un processo iniziato dodici (!) anni or sono in relazione all’attività dei funzionari di un ente istituito per la riscossione delle imposte di consumo, rispetto al quale, discutendosi in Parlamento della opportunità o no di concedere l’autorizzazione a procedere, si è in pratica affermato che non commette reato chi si appropria di denaro da destinare alle casse di partito; rispetto a questa vicenda, non si comprende veramente perché mai i magistrati continuino ad istruire la pratica nei confronti degli imputati non parlamentari, giacché nel caso mi sembra moralmente di rigore una sola e semplice conclusione: pronunciare sentenza di non doversi procedere per inesistenza di reato, perché se i parlamentari sono incensurabili, altrettanto deve cizio delle loro funzioni, è comprensibile che i rappresentanti del popolo non possano essere privati della libertà personale o subire altre misure coattive, non convince, a mio avviso, l’istituto dell’autorizzazione a procedere, anche indipendentemente dagli abusi che se ne stanno facendo. Infatti se è logico che il terzo potere non possa distrarre in concreto il parlamentare dal suo mandato se non col consenso dell’organo in cui questo deve essere esplicato, non si comprende come e perché le camere possano essere arbitre dell’applicabilità del diritto, da esse medesime posto, nei confronti dei loro membri; perché questo privilegio? Per questo l’istituto dovrebbe essere radicalmente eliminato, libere poi le camere di decidere sovranamente circa l’utilizzabilità o no dell’opera ulteriore di quei loro componenti che siano per avventura incappati nelle maglie della giustizia. Ma la logica vorrebbe che chi pone il diritto (e si pone anche mantenendolo in vigore) ne esiga anche l’applicazione erga omnes. I PROCESSI E LA GIUSTIZIA 165 dirsi, per il principio di eguaglianza e per elementare equità, per i non parlamentari, in quanto quando un potere abusa delle sue prerogative, all’abuso si deve rispondere come, in tranquilla coscienza, si conviene; mentre in un domani più o meno lontano ciascuno risponderà per la parte di competenza innanzi a quel tribunale della storia che per fortuna si può adire senza preclusioni. In terzo luogo il senso di giustizia è nel magistrato gravemente ferito dai frequenti provvedimenti di clemenza che si sono susseguiti in questi ultimi anni e a ragione dei quali si può dire che bisogna averla fatta proprio grossa per essere costretti a subire un giorno di galera; l’amnistia, questo istituto medioevale che può avere in via straordinaria una utile applicazione in momenti eccezionali nella vita del paese, ad esempio per chiudere una pagina dolorosa di guerra civile, ripugna di per sé al più elementare sentimento del diritto ed il giudice avverte una profonda ripugnanza a condannare chi ha commesso il fatto il giorno x se solo per un capriccio sovrano deve andare indenne da responsabilità chi commise lo stesso fatto il giorno precedente. È da auspicare, pertanto, che si desista ormai da questa prassi che è ragione non ultima, oltretutto, del sovraccarico giudiziario, posto che la aspettativa della provvidenziale amnistia o dell’indulto, che può sempre ragionevolmente coltivarsi, induce a interporre gravami del tutto infondati nella speranza che nel frattempo sopraggiunga il provvedimento di clemenza. Piuttosto, per eliminare le conseguenze eventualmente eccessive della applicazione dello stretto diritto o 166 UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO per mandare esente da pena chi comunque al di là della stretta applicazione del diritto positivo ne appaia meritevole, conviene far ricorso, caso per caso, alla grazia né sarebbe male demandare la competenza in proposito ad una apposita corte, composta da magistrati e in prevalenza da laici, cosı́ consentendosi nel sistema la più ampia e serena valutazione equitativa dei casi nei quali essa appare giustificata nella coscienza comune. Allo stato, pertanto, molti fattori inducono più o meno consapevolmente il giudice al pietismo. Ed io ho avuto occasione di incontrare magistrati che non esitano a proclamare apertamente la propria pregiudiziale inclinazione pietistica alla quale danno concreto svolgimento tutte le volte che si può pervenire con un minimo di decenza alla soluzione assolutoria. Ma non occorre spendere molte parole per dimostrare che questo atteggiamento, quale che ne sia la giustificazione, è da condannare recisamente giacché chi è indotto programmaticamente a pietà o per una valutazione specifica della concreta situazione italiana o per l’adesione a più generali indirizzi pietistici o « umanitari », indipendentemente dal buon fondamento o no di queste rispettabilissime opinioni, ha il dovere di allontanarsi spontaneamente da un ufficio che oramai non è più il suo. Ma io non credo che la spinta lassista trovi la sua base nelle motivazioni finora riscontrate o solo in queste; se tutto finisse qui, dovrebbe riconoscersi che l’atteggiamento dei giudici è in definitiva dettato da un vivo sentimento della giustizia che è stato profondamente offeso. Purtroppo la qualità media I PROCESSI E LA GIUSTIZIA 167 dei giudici italiani non consente di poter affermare che in essi opera, almeno in via esclusiva, questa distorta carica morale; alla base del lassismo c’è anche, in varia combinazione, un altro fattore. Quando ci si attiene programmaticamente al minimo, opera in definitiva, nell’animo del giudice, quella sorta di rinvio di responsabilità che ho già più volte messo in rilievo come un dato costante di tante situazioni nel nostro paese; solo che qui, non essendovi la possibilità di rinviare la responsabilità ad altri, ci si rifugia dietro il paravento della legge. In sostanza il giudice da una parte è troppo onesto per mandare comunque libero da responsabilità l’imputato se la valutazione del caso alla stregua della norma rende imprescindibile l’affermazione della stessa responsabilità senza possibilità di scappatoie; dall’altra è troppo timido per agire responsabilmente in prima persona, per procedere ad una valutazione veramente autonoma del caso sul punto della sua maggiore o minore gravità, irrogando quindi la pena adeguata; preferisce quindi trincerarsi dietro quel minimo che la legge inderogabilmente detta. Esemplificando, se la legge stabilisce che il minimo della pena è per quel certo reato tre anni di reclusione ed il giudice irrogasse quattro anni di reclusione, egli si sentirebbe personalmente responsabile di questo anno in più rispetto al minimo, avvertirebbe la cosa come un male personalmente arrecato quando formalmente la legge lo esentava da tanto; cosı́ è indotto a non portare nell’affare un suo autonomo contributo, preferisce stringersi nelle spalle o allargare le braccia come per dire che la « colpa » non è sua, ma di quell’impac- 168 UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO ciante testo di legge che non consentiva di fare altrimenti. Ancora una volta non si è psicologicaniente in grado di sentire l’interesse pubblico come proprio, non si è in grado di operare in quel senso attivo e partecipe che la legge richiede, si preferisce ridurre al minimo la propria responsabilità in concreto. Questo principio del rinvio di responsabilità opera inavvertitamente sovrano in molta parte del lavoro giudiziario, come in tutta l’attività della pubblica amministrazione. Per le stesse ragioni psicologiche per le quali il pubblico ministero in genere evita di procedere d’ufficio come la legge gli comanda, ma attende il rapporto o la denuncia della polizia, onde il principio posto nel codice di procedura penale è in pratica inoperante (42), il giudice, (42) Vd. A. DESSIv, Osservazioni in tema di esercizio dell’azione penale, in « Terzo Potere », settembre-ottobre 1961: « Mi si può invero citare qualche caso — eccettuati i procedimenti immediati per delitti commessi in udienza ed anche in tal caso per l’iniziativa, certamente abnorme, del presidente — in cui il pubblico ministero abbia proceduto veramente d’ufficio? »; anche per A. PERONACI, La crisi della giustizia nell’instaurazione del processo penale, in « La Magistratura », maggio 1963, il principio per il quale il pubblico ministero deve agire d’ufficio è del tutto platonico, onde una « inconfondibile atmosfera di timore aleggia negli uffici del pubblico ministero »; ad esempio quando i giornali riferiscono di un terremoto in borsa, mai avviene che il p.m. agisca d’ufficio per accertare se si tratta in ipotesi di aggiottaggio. Per questo, come ho già detto supra, sub nota n. 9, trovo complessivamente benefica la svolta registratasi negli ultimi tempi ad iniziativa della magistratura requirente della capitale, malgrado gli attacchi anche vivaci che essa ha subito (vd. ad esempio P. BARILE, Il codice di Giannantonio, ne « L’Espresso » del 24 gennaio 1965). Ma c’è il dubbio che la svolta sia destinata a rientrare presto, se è vero che essa è stata determinata solo per la presenza di un alto magistrato che nel frattempo è stato promosso I PROCESSI E LA GIUSTIZIA 169 anche quando la pratica è irrimediabilmente nelle sue mani, senza possibilità di rinvii di competenza, rifugge dall’assumersi una parte di responsabilità in proprio. E le giustificazioni formali del lassismo sono infinite, come le vie del Signore; talora anche classiste nel senso più deteriore: si legge ad esempio in una sentenza, per altro verso « coraggiosa » in tanto grigiore, che « la gravità dei fatti, le modalità di esecuzione, l’intensità del dolo, sono tutti elementi che imporrebbero una pena severa e proporzionata al male che fu cagionato; la sottrazione di grandi somme di denaro, che dovevano essere impiegate per lenire le sofferenze degli infermi e per sollevare le miserande condizioni igieniche e sanitarie di un Paese pressocché distrutto, costituisce un fatto talmente biasimevole da meritare una sanzione massiccia. Ma non ritiene il Collegio di infierire sui condannati, già sufficientemente puniti, attesa la loro alta posizione, dall’essere stati a lungo esposti, nel corso del dibattimento e prima, all’indagine pubblica del loro operato » (43); insomma non si può essere cosı̀ severi come si dovrebbe giacché questi poveri imputati altolocati hanno già a sufficienza sofferto per la menomazione del loro prestigio, dal dubbio che prima nella pubblica opinione e poi negli uffici di giustizia si è prospettato sulla correttezza della loro azione! Ci sarebbe (vd. la nota Giannantonio se ne va, ne « L’Espresso » dell’8 agosto 1965); e mi auguro che il futuro smentisca questa malinconica previsione. (43) Cosı̀ si è affermato nella sentenza pronunciata per il famoso scandalo della penicillina: Trib. Roma 22 dicembre 1961, in « Foro it. », 1962, 2, 77, specificatamente c. 102-103. 170 UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO quindi un diverso onore per i grossi pescicani e per i poveri diavoli. Ognuno naturalmente è libero di pensarla come vuole; per mio conto ho sempre praticato in tranquilla coscienza un classismo alla rovescia rispetto a quello accolto nella sentenza in discorso, convinto che proprio i grossi pescicani, proprio coloro che hanno fatto scempio dei loro doveri di ufficio per interessi personali non sono mai sufficientemente puniti. 4. Le riforme che urgono Nella crisi attuale della giustizia incide quindi, in non trascurabile misura, la colpa dei magistrati o per la sistematica violazione degli obblighi che formalmente la legge pone a loro carico o per il modo in cui assolvono nel merito alla loro funzione. Ed è in considerazione di questo che, per fedeltà a quel canone morale che impone di fare in primo luogo e senza residui il proprio dovere prima di aver titolo per reclamare alcunché, io ho sempre sentito in un certo senso tiepidamente la causa della totale indipendenza dei giudici nei termini che sono consueti alla frazione più estremista della magistratura associata e mi posi sempre istintivamente in disparte rispetto a questa campagna, come cavallo che facilmente ombreggia. Cioè, pur sostanzialmente concordando in un certo programma, ho sentito sempre un certo disagio a pormi in posizione agitatoria nella misura in cui gli agitatori erano estratti in prevalenza nella cerchia dei diretti interessati, tra coloro che portano, come categoria, una non indifferente responsabilità nella crisi; cosı̀ ho sempre messo istintivamente l’accento sulla necessità di mettersi in regola coi propri doveri se si voleva commuovere e trascinare la più vasta opinione pubblica sulla buona strada. Giacché non c’è dubbio 172 UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO che i magistrati potrebbero assai più decisamente convincere della bontà della loro causa, se essi sapessero dimostrare già oggi, con gli strumenti a disposizione, la loro concreta volontà di porsi come potere garante senza residui della libertà e dei diritti dei cittadini nonché dei capisaldi dell’ordinamento giuridico (44). E in questo mio atteggiamento, alquanto emotivo invero, non ragionato a tavolino, incise anche la constatazione che molte volte pro(44) Già nell’articolo Il consolidamento della Magistratura Terzo Potere, pubblicato in « Terzo Potere », marzo-aprile 1963, mettevo in rilievo come la causa della totale indipendenza della magistratura fosse scarsamente popolare a ragione del diffuso malcontento per la crisi dell’amministrazione giudiziaria in parte addebitabile anche ai magistrati e dicevo che il paese poteva essere convinto di questa causa se avesse potuto avvertire già ora l’operosa presenza del terzo potere: « In verità la gente vuol vedere concretamente all’opera questo potere, vuol sapere a cosa esso deve servire, esige che il suo esercizio corrisponda ai suoi bisogni. La generalità non può essere interessata ad un determinato assetto istituzionale del potere se non riesce a vedere un concreto legame funzionale tra questo assetto e le cose che da esso legittimamente ci si può attendere. In fondo a questo atteggiamento mentale c’è una intuizione profonda: che le guarentigie che si chiedono non hanno valore se non in quanto servono a conseguire certi obiettivi... questa causa meglio si serve con una lotta condotta concretamente giorno per giorno nel nostro lavoro, dimostrandoci fin d’ora meritevoli di quanto chiediamo... Ogni volta che ci facciamo prendere dalla pigrizia, ogni volta che arriviamo in ritardo e facciamo attendere, ogni volta che lasciamo invano trascorrere i termini di legge, non solo violiamo il nostro dovere, ma portiamo un contributo negativo sul piano delle rivendicazioni istituzionali. C’è nel nostro lavoro una massa di tante piccole cose che hanno tuttavia una grande importanza, che, sommate insieme, fanno ambiente e sistema o almeno cosı̀ sono apprese dalla generalità. Chi viola i doveri del lavoro quotidiano si assume una responsabilità che non è solo individuale; è colpevole su un piano più vasto perché col suo comportamento diffonde nel pubblico, indotto sempre a generalizzare, una opinione negativa che colpisce tutto l’ordine ». LE RIFORME CHE URGONO 173 prio coloro che più si sbracano per la causa della totale indipendenza sono quelli che meno sollecitamente adempiono ai loro doveri. Oggi, proprio perché sono ormai fuori dell’ordine, quel senso di disagio è in me scomparso com’era inevitabile e mi sento assai più disposto a patrocinare la causa dei giudici, malgrado i giudici... Sennonché, prima ancora di esaminare quale sia l’assetto che meglio convenga al personale della giustizia, è pregiudiziale vedere che cosa la Repubblica dovrebbe fare, in linea di principio, per risolvere con riforme strutturali la crisi dell’amministrazione giudiziaria. Proprio perché l’indipendenza dei magistrati si rivela come uno strumento per ottenere possibilmente una migliore e più puntuale giustizia, i problemi dell’ordinamento giudiziario seguono logicamente quelli strutturali, giacché non si deve assicurare l’indipendenza in astratto, ma l’indipendenza delle persone nell’ambito di una struttura ben determinata. Per questo si tratta di vedere in primo luogo quali siano le preferibili strutture della giurisdizione e qui mi permetto di esternare alcune mie riflessioni e proposte, esplicitamente premettendo che nel formularle prescindo deliberatamente dai profili d’ordine costituzionale. L’attuale Costituzione ipotizza invero una determinata strutturazione della giurisdizione, quella tradizionale, mentre qui si tratta di accertare quale possa essere in assoluto e a prescindere dalla Costituzione il miglior assetto, con la conseguenza che, ove si concordi in ipotesi della necessità di certe riforme e queste siano per avventura ostacolate da un certo disposto della superlegge, si dovrebbe procedere 174 UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO alla necessaria previa revisione del testo ostativo. Dopo tutto, proprio perché da una parte la Costituzione accoglie la strutturazione tradizionale e dall’altra perché la crisi della giustizia deriva anche da sistemazioni obiettive insite in quella strutturazione, è da evitare in linea di principio che il meglio in materia debba essere evitato per una preclusione d’ordine formale. Questo in assoluto, perché qui si esamina la questione a prescindere da ogni considerazione d’ordine politico contingente in punto di possibilità concreta di attuare determinate riforme ove esse implichino un procedimento di revisione costituzionale, non essendo io un uomo politico né essendo questo un pamphlet politico, cioè l’enunciazione di un programma possibile di azione attuale in senso politico. Io mi limito a recitare la mia parte, facendo tesoro della mia esperienza. Mi pare intanto ovvio che lo Stato dovrebbe considerare la Giustizia come il primo dei suoi servizi, anzi come l’essenza medesima, irriducibile, immancabile del suo stesso essere; è ovvio, ma non inutile partire da questa pregiudiziale premessa nella misura in cui essa, come tutti i sacri principi, è sempre ritualmente ricordata, salvo poi ad ignorarla o a frustrarla nei concreti svolgimenti, secondo la sorte che la realtà effettuale riserba in genere alle verità elementari. Lo Stato invero si pone in sé come ordinamento giuridico, pone una regolamentazione per i soggetti, assume l’esclusiva di risolvere i loro eventuali contrasti ed in questo atteggiarsi come giudice, esso ha la sua prima giustificazione, onde si fa arbitro e responsabile della pace sociale e della possibilità che ogni vicenda trovi in esso e LE RIFORME CHE URGONO 175 nella sua attività appagamento e risoluzione. Di qui la coessenzialità concettuale dello Stato alla Giustizia che non può essere concepita come un servizio pur importante tra i tanti, ma come il servizio per eccellenza, proprio perché la giurisdizione è o dovrebbe essere svolgimento in concreto dell’ordinamento giuridico, dello Stato medesimo normativamente considerato, nel passaggio necessario dalla regolamentazione in astratto alla risoluzione in concreto dei possibili conflitti. Nella misura, quindi, in cui la giurisdizione è ben strutturata e funzionante e diventa attuale nella concretezza della vita la presenza dello Stato quale ordinamento giuridico, la sua regola si approssima ad identificarsi nella misura del possibile con la società. Al contrario ogni deficienza della giurisdizione si traduce in una più o meno grave estraneità dello Stato rispetto alla società, in una illogica imperfezione del suo naturale sviluppo, in una più o meno incosciente automutilazione. Di qui deriva che è di per sé inconcepibile una regolamentazione della giurisdizione che ne rappresenti un ostacolo sul piano della massima espansività possibile dell’ordinamento; in realtà ogni ostacolo che si frapponga alla esperibilità della tutela giurisdizionale è un limite che lo Stato assurdamente pone a sé medesimo. Purtroppo lo Stato non è raramente alieno dall’ostacolare consapevolmente la possibilità di questa piena espansione tutte le volte che si induce a intorbidare l’essenza della giurisdizione per il perseguimento di altri suoi concreti interessi e quindi la adopera come l’occasione per l’appagamento di queste sue diverse finalità... Ciò avviene, 176 UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO ad esempio, quando lo Stato, come spesso avviene, condiziona la esperibilità della tutela giurisdizionale al pagamento di certi tributi o balzelli, quando, per procurarsi un’entrata, rende costoso il processo ed impone l’uso della onerosa carta bollata. A prescindere dalla questione di legittimità costituzionale di talune delle norme in discorso, è evidente che lo Stato, frapponendo questi ostacoli, non solo opera contro l’esigenza più elementare dei cittadini che è quella di ottenere giustizia, ma opera contro sé medesimo, miopemente evirandosi nella sua funzione essenziale. Ed invero qui il bene inteso interesse dei cittadini e la linea di sviluppo dell’ordinamento giuridico verso una sempre più puntuale concretezza di svolgimenti, costituiscono come le due facce della medaglia ed è da auspicare che si cessi dal considerare il processo, secondo quanto ammonı̀ Calamandrei (45), come una trappola fiscale, facendone invece uno esclusivo strumento di civiltà. Nello stesso ordine di idee, proprio per realizzare nel processo quei valori civili che sono legati indissolubilmente all’idea stessa di giudizio, c’è da (45) Vd. Il processo civile sotto l’incubo fiscale, in « Riv. dir. proc. civ. », 1931, I, 50, e in Studi sul processo civile, vol. III, Padova, 1934, p. 75, in particolare pp. 104-105: « E pare strano e pericoloso che lo Stato si rifiuti di giudicare e di adempiere a quello che è il suo ufficio più antico e più esclusivo, solo perché una delle parti o entrambe siano responsabili di una trasgressione alle disposizioni tributarie. È come se nelle operazioni chirurgiche fosse vietato agli operatori di servirsi di strumenti che non fossero preventivamente bollati dalla finanza; di fronte a un cosı̀ assurdo divieto, il comune buon senso obietterebbe che le operazioni chirurgiche si fanno per salvare il malato, non per accrescer gli introiti dell’erario ». LE RIFORME CHE URGONO 177 auspicare che lo Stato vi operi nel rispetto assoluto del sentimento elementare del diritto il quale esigerebbe, ad esempio, che quando un organo pubblico promuove un procedimento nei confronti del cittadino, dopo averne eventualmente disposto la carcerazione preventiva, costringendo costui a provvedere per la sua difesa ed infliggendogli di necessità altri gravi danni, all’assoluzione consegua la condanna dello Stato alla rifusione delle spese processuali ed eventualmente al risarcimento dei danni. Sono fermamente convinto che, ben oltre gli angusti limiti entro i quali è oggi ammessa la riparazione a seguito di errori giudiziari veri e propri, la logica e l’equità esigono questa conseguenza; la logica processuale, in primis, perché se lo Stato è parte, della parte deve subire gli oneri e le responsabilità; l’equità, giacché non si vede perché, in uno Stato civile, un cittadino dichiarato innocente non possa vantare la pretesa di andare indenne, nella misura umanamente possibile, dalle conseguenze negative del processo e quanto meno pretendere la rifusione delle spese processuali. Con una siffatta riforma, purtroppo assai avveniristica, si porrebbe un freno alla facilità estrema con la quale oggi, quasi meccanicamente, si rinvia a giudizio e si risolverebbe nel contempo, indirettamente, il problema di assicurare ad ogni cittadino una adeguata tutela, superando l’attuale lustra della difesa di ufficio. Si stabilirebbe la normalità nel processo penale, inducendosi l’organo pubblico a promuovere l’azione nei soli casi in cui essa pare ragionevolmente fondata; e, scontato questo ridimensionamento, non andrebbe certa- 178 UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO mente in rovina il bilancio statale per i pochi milioni necessari per provvedere alle spese di giustizia. Ma è soprattutto essenziale strutturare la giurisdizione in termini tali che obiettivamente consentano di superare l’attuale crisi, rendendola più accessibile, più pronta, più sollecita. Di giorno in giorno diventa sempre più evidente che al livello dello sviluppo economico e sociale contemporaneo, nell’età della progressiva industrializzazione e del dinamismo crescente in tutti gli aspetti della vita, la società non può tollerare il costo di un processo cosı̀ lungo e defatigante come quello attuale. La giustizia è oggi in crisi, perché essa giunge, nella migliore delle ipotesi, con notevole ritardo rispetto alle necessità; di qui lo scadimento gravissimo della giurisdizione penale, giacché la definizione del procedimento e l’irrogazione della pena talora a distanza di molti anni dai fatti svirilizza il sistema repressivo in partenza, potendosi la stessa cosa affermare per la giurisdizione civile, tanto che è del tutto logico il progressivo ricorso dei cittadini a forme extrastatuali di risoluzione delle liti. Si esige, quindi, un sistema estremamente puntuale, senza inutili e defatiganti complicazioni, posto che, nell’economia dei rapporti sociali, la rapida definizione delle liti ha, nel complesso, pari importanza alla perseguita bontà delle decisioni ed è dubbio che una sentenza, supposta esatta e giusta, serva quando sopravviene dopo larghissimo lasso di tempo. Più in generale deve dirsi che un sistema giuridico è tanto più preferibile quanto più esso riduce gli ostacoli che si frappongono alla necessaria concretizzazione specificante del diritto sostanziale; LE RIFORME CHE URGONO 179 nella misura in cui si moltiplicano le regole di competenza e di rito si opera contro l’esigenza indicata, onde tutto consiglia a ridurre al minimo veramente indispensabile il congegno che consente di passare dalle regole astratte alla risoluzione dei casi concreti. In conclusione un sistema giuridico è tanto più perfetto quanto più elimina l’eventuale molteplicità dei giudici e le regole di procedura; al limite costituisce un modello ideale quel sistema che realizza veramente l’unità della giurisdizione, la risolve in pochissimi gradi e riduce al minimo le formalità. Le procedure latamente intese, quando si esorbita nel porle e congegnarle, sono un male, un diaframma tra il diritto e la vita, qualcosa che va contenuto, quindi, nei limiti dello strettamente necessario, giacché ogni volta che una lite trova la sua soluzione non già nel merito, ma per un vizio di competenza o di procedura, la causa può essere definita, ma la giustizia è elusa. In questo ordine di idee sarebbe opportuno un generale ripensamento del nostro sistema per accertare, ad esempio, se veramente sia indispensabile mantenere l’attuale distinzione tra la giurisdizione ordinaria e quella amministrativa, proprio perché solo l’indispensabilità giustifica. Ed ovviamente mi astengo dal coltivare questo filone, giacché esso richiederebbe ben altre conoscenze ed esperienze. Per limitarmi al settore rispetto al quale posso presumere di avere qualche titolo per azzardare alcune considerazioni, quello cioè della giurisdizione ordinaria, il primo problema che a mio avviso si impone è di vedere se convenga mantenere l’attuale assetto a tre gradi culminante nel giudizio 180 UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO di cassazione, al quale può far seguito il giudizio di rinvio; e la questione si traduce praticamente in quella della convenienza o no di conservare l’istituto della cassazione secondo i suoi ultimi sviluppi, posto che la possibilità del riesame della lite, in concreto del giudizio di appello, non può porsi ovviamente in questione. A tal fine mi pare sovrabbondante rifare la storia, tormentata e complessa, della suprema istanza di vertice del nostro attuale sistema e quindi prendere posizione, astrattamente o in assoluto, sul problema medesimo; è invece assai più realistico partire dalla constatazione che in larga misura l’istituto non ha consentito in pratica la realizzazione degli obiettivi che con la istituzione del medesimo ci si era proposti, in particolare quello di assicurare l’uniformità della interpretazione del diritto nell’ordinamento. Anche perché si sono eccessivamente allargati, con una ben nota norma costituzionale e con la riforma del 1950 del codice di procedura civile, i casi di possibile ricorso al supremo collegio, in pratica oggi la Corte, come può facilmente constatarsi, non è in grado di adempiere alla sua funzione istituzionale; in concreto essa opera divisa per sezioni tra le quali non è raro il contrasto interpretativo, né sempre soccorre il rimedio di demandare la risoluzione del punto controverso alle sezioni unite; aggiungasi che con la novella del 1950, prevedendosi il possibile controllo della Cassazione sulla congruità e sulla completezza della motivazione del giudice di merito, si è alquanto snaturato il carattere originario di questo giudizio, con ciò ulteriormente mettendosi in pericolo la uniformità della giurisprudenza di ver- LE RIFORME CHE URGONO 181 tice (46). In sostanza la questione si pone non in teoria, ma nei fatti che vedono frustata la finalità stessa dell’istituto e con ciò stesso pongono il quesito della sua utilità. D’altro canto a mio parere è seriamente discutibile la stessa distinzione tra giudizio di fatto e giudizio di diritto o di legittimità, giacché essa, nel momento stesso in cui per definizione suppone la possibilità di scindere la valutazione del caso specifico, si rivela alquanto astratta. Se nella esperienza giuridica è naturale il passaggio dall’astratto al concreto pare azzardata la possibilità di una considerazione delle liti solo in una visuale limitata, quasi che, al livello elementare della giurisdizione, questa cellula prima dell’esperienza nella quale il fatto e il diritto inestricabilmente e beneficamente si confondono in un tutto possa tollerare siffatta distinzione, che in ogni caso fa del mero giudizio di legittimità un giudizio limitato, meno pieno e con ciò meno appagante; solo il c.d. giudizio di merito è giudizio pieno e quindi vero giudizio. In conclusione, fallito l’istituto della cassazione di cosı̀ dubbia giustificazione e teorica e culturale, si pone seriamente il problema della sua soppressione, in modo che ogni lite possa essere definitivamente risolta, con notevole semplificazione, nei due gradi di merito. E se si appalesa possibile un tale salto rivoluzionario, una corte suprema può utilmente conservarsi solo come (46) Sul problema vd. da ultimo G. FLORE, Considerazioni sulle funzioni della Corte di Cassazione, in « Rassegna dei magistrati », 1961, p. 45, in particolare osservando l’A. che spesso, per la mole del lavoro, una sezione della Corte ignora la giurisprudenza delle altre sezioni. 182 UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO giudice della giurisdizione e della competenza nonché per i conflitti di attribuzione e di giurisdizione, se ed in quanto non si ritenga di dover anche introdurre, come sopra si è prospettato, un sistema di integrale ed effettiva unità della giurisdizione; ma a questo fine sarà sufficiente un ristretto collegio. Piuttosto è da ipotizzare seriamente l’istituzione di una speciale corte che possa, per altra via e su altri presupposti, assicurare la certezza e l’uniformità nella interpretazione del diritto, cioè la realizzazione di quei fini rispetto ai quali l’attuale esperienza della Cassazione si è rivelata negativa; una corte alla quale non sia affatto demandato di decidere in ultima istanza sulle liti, ma che abbia il compito, quando si accerti in concreto una difformità d’interpretazione tra i giudici di merito su specifici punti di diritto, di dettare una interpretazione vincolante su ricorso proposto, nell’interesse della legge, da corti di merito o da altri organi. Codesta corte, per la sua stessa funzione di assicurare l’interpretazione vincolante della legge, dovrebbe essere composta con giudici di varia estrazione, da magistrati, da giudici eletti dal parlamento nonché da altri eletti dal plenum dei professori di diritto ed infine da un certo numero di giudici designati dal consiglio nazionale forense, per realizzare in materia il concorso di tutte le competenze. Se tanto fosse possibile avremmo un organo ad hoc per assicurare un costante complemento delle previsioni astratte e incomplete della legge, con una maggiore certezza del diritto; qualcosa cosı̀ assai più consistente rispetto all’attuale giudizio di cassa- LE RIFORME CHE URGONO 183 zione; in particolare questa corte speciale potrebbe risolvere quei problemi complicatissimi che oggi sempre più di frequente si prospettano per lo scadimento tecnico-giuridico della legislazione, sempre più frutto di assemblee impreparate e dominate da un pauroso pressapochismo, raddrizzando le gambe ai frutti infelici di tanta prolificazione. In tal modo tutto il processo potrebbe risolversi nei due normali gradi di merito, primo grado e appello. E per quanto riguarda il primo grado io sono fermo sostenitore della necessità di demandare tutte le controversie civili ed anche tutti i procedimenti penali, fatte alcune eccezioni, al giudice unico, cioè in concreto al pretore. Anche qui è perfettamente inutile discutere in astratto sui vantaggi o no della collegialità nel processo, mentre è assai più ragionevole e convincente puntualizzare il problema in concreto, partendo dalla constatazione che già oggi la collegialità si riduce di norma ad una vera lustra, tanto che praticamente il processo è di norma nelle mani di quel solo giudice che lo conosce e ne riferisce (47). La collegialità che in astratto (47) La realistica considerazione è di F. UNGARO, La macchina della Giustizia, cit. A favore del giudice unico si sono pronunciati da ultimo A. TORRENTE e P. PASCALINO, Aspetti e soluzioni della crisi della giustizia nel processo civile, relazione all’XI Congresso dei Magistrati, Sardegna, settembre 1963, con minute, pertinenti considerazioni. Nello stesso senso anche A. C. JEMOLO, La Giustizia, ne « La Stampa » del 19 gennaio 1965, che parla di un vero feticismo della collegialità, praticamente operante solo quando si presentano casi appassionanti, altrimenti risolvendosi in una perdita di tempo posto che « i giudici... non hanno neppure in mano le scritture occorrenti per valutare appieno le controversie ». 184 UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO costituisce una più seria garanzia di giustizia, cosı̀ come in teoria le camere di consiglio potrebbero costituire una grande scuola, nei fatti presupporrebbe che ogni componente del collegio abbia la possibilità di conoscere a fondo, direttamente, la causa; cosı̀ sarebbe necessario che prima di ogni camera di consiglio ogni giudice avesse, con congruo anticipo, la copia degli atti e in effetti li studiasse come se ne dovesse personalmente riferire. Al contrario le camere di consiglio civili si svolgono sulla base di una relazione del giudice istruttore, il quale naturalmente si sforza di riferire nel modo più obiettivo possibile sui fatti e sulle questioni di diritto emerse in causa, ma niente garantisce della congruità e della completezza della esposizione per quel naturale processo che inconsciamente porta ciascuno a vedere le cose in un certo modo, a ritenere essenziale questa o quella circostanza, a delimitare in un senso o nell’altro, in perfetta buona fede, i punti che sono meritevoli di esame per la risoluzione della lite; nessuna relazione, per quanto esauriente, può sostituire la conoscenza diretta. Ma ammesso che la relazione sia al massimo obiettivamente completa, questo non significa ancora niente, giacché, se in camera di consiglio deve svolgersi una discussione, questo richiederebbe che tutti i componenti fossero sullo stesso piano per quanto attiene alle conoscenze di diritto all’uopo indispensabili; quale contributo può seriamente apportare il giudice che, non avendo istruito la causa, non ne ha mai affrontato le questioni di diritto che può, in ipotesi, ignorare totalmente o parzialmente, non avendo compiuto in LE RIFORME CHE URGONO 185 proposito ricerche giurisprudenziali e di dottrina? Mentre il giudice relatore giunge o dovrebbe giungere alla camera di consiglio preparatissimo, essendosi erudito sotto tutti i profili, per gli altri componenti del collegio che niente sanno del contenuto della causa che per essi rappresenta una novità, la situazione è del tutto diversa, potendo essi accidentalmente essere in grado di portare un contributo per la loro preparazione generale o essendo costretti, come talora avviene, a tacere o a menare il can per l’aia facendo perdere semplicemente tempo se il livello della loro ignoranza specifica è tale che le loro osservazioni mancano del tutto di puntualità rispetto alla questione. Insomma la camera di consiglio ha un senso se tutti i giudici vi giungono convenientemente attrezzati; in mancanza di questo presupposto il contributo collegiale si riduce a ben poco o è equivoco perché basato sulla relativa ignoranza dei giudici diversi dal relatore. Di norma ora la collegialità serve al singolo giudice, nella misura in cui questi sia scrupoloso, per cercare di trovare nei colleghi il conforto della sua impostazione o un aiuto per risolvere quei punti rispetto ai quali egli è incerto; la camera di consiglio funziona quindi di massima come una occasione per farsi consigliare da altri, per qualcosa, quindi, che il magistrato coscienzioso può risolvere anche fuori di questa occasione, attingendo oltre che ai libri e alle riviste e alla giurisprudenza al consiglio spesso richiesto al collega che si sa più preparato in una certa materia; quante volte mi è avvenuto di ricercare, anche deliberatamente, il parere di un collega da me supposto più esperto o di maggiore intuito, 186 UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO anche quando come giudice unico portavo intera la responsabilità! Naturalmente non è escluso che un giudice, preparatissimo e aggiornatissimo su ogni questione, possa portare un decisivo contributo, ma l’ipotesi è veramente rara se non impossibile, posto che quasi nessuno è umanamente in grado di padroneggiare tutto il diritto; il buon giudice, accanto alla preparazione generale, ha una conoscenza più o meno approfondita di alcune materie in virtù della esperienza accumulata e nel contempo una infinità di lacune che egli, se è coscienzioso, cerca di colmare di volta in volta in relazione alle cause personalmente curate. La stessa situazione si verifica nel processo penale, dove i giudici a latere ignorano del tutto i procedimenti che solo il presidente del collegio ha studiato prima dell’udienza, con l’ulteriore considerazione che questi giudici non hanno pratica possibilità di influire sullo svolgimento dell’istruttoria dibattimentale demandata alla guida del solo presidente; ad esempio non possono porre quella domanda che a loro avviso potrebbe spostare o diversamente illuminare i termini del processo: dal punto di vista della conduzione del processo essi sono quindi giudici a metà, giudici di quello che fa il presidente. Per tutto questo conviene risolutamente semplificare, passando al sistema del giudice unico che presenta, com’è noto, ulteriori vantaggi. In primo luogo il giudice monocratico è ben altrimenti responsabile, si sente investito senza rimedi della risoluzione della controversia senza poter fidare LE RIFORME CHE URGONO 187 nell’equivoco della collegialità (48). Inoltre il giudice unico ha nel processo penale ben altri vantaggi, massimamente quello di poter condurre l’udienza in un leale confronto con le parti. Ho detto come nel procedimento penale innanzi al giudice collegiale i giudici a latere siano per forza di cose dei giudici a metà per quanto attiene alla conduzione dell’istruttoria dibattimentale; può aggiungersi che anche il presidente del collegio si trova in una singolare situazione; se egli è scrupoloso, rispettoso della regola della collegialità, deve mettere costantemente nel conto la valutazione pel momento imprevedibile dei colleghi che se ne stanno intanto muti al suo fianco; pertanto egli deve condurre innanzi il processo come conservando una specie di « segreto pubblico », non pregiudicando per alcun verso la valutazione collegiale né azzardando apprezzamenti personali: tutto può essere importante sul piano di quella valutazione da venire, niente può (48) Vd. ottimamente M. RAMAT, Il giudice unico, ne « Il Mondo » del 31 dicembre 1963: « La consuetudine a dividere in tre la responsabilità della decisione può portare anche inconsapevolmente alla tendenza ad adagiarsi psicologicamente sulle decisioni altrui », mentre il giudice unico è posto obiettivamente al di là del conformismo. In ogni caso è da auspicare che sia concesso al giudice dissenziente di poter esprimere pubblicamente questo suo dissenso, come è ammesso in altri ordinamenti e come di recente si è proposto da noi a proposito della Corte Costituzionale. E circa il funzionamento in concreto del sistema collegiale, ricordo un episodio gustoso ed invero abnorme; incaricato di stendere una sentenza penale come giudice a latere, mi accorsi che ci si era dimenticati di pronunciarci su uno dei reati rubricati e del quale il presidente, certo assai negligente nel preparare i processi, non ci aveva affatto parlato in camera di consiglio; trattandosi di un reato minore nella lunga filza delle imputazioni tutti ne avevano ignorato l’esistenza nel pubblico dibattimento. 188 UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO essere pregiudicato, donde una inevitabile maggior lentezza del procedimento. Il giudice unico non deve avere invece di queste preoccupazioni; proprio perché solo lui deve decidere, egli può procedere in udienza con la massima libertà, non ha da evitare anticipazioni pericolose; al contrario, poiché non ha senso il riserbo... verso se medesimo, il pretore può condurre speditamente avanti la causa, sgombrando formalmente il campo, ad esempio, da questioni che egli ritenga superflue e pacifiche nel senso più favorevole per la difesa, onde non conviene insistervi e invitando al contrario a soffermarsi sui punti che a suo avviso sono meritevoli di chiarimento e dai quali dipende la sorte dell’imputato. In un procedimento penale per lesioni colpose è del tutto inutile, ad esempio, che il giudice lasci discutere a vuoto sulla pretesa eccessiva velocità tenuta dall’imputato al momento dell’incidente se egli è convinto che la velocità non superava la norma e che comunque non è su questo elemento che può basarsi la colpa; meglio conviene che si dia subito atto di questa convinzione e che si inviti la difesa a prendere in esame altri elementi che il magistrato ritiene in ipotesi ben più rilevanti; cosı̀ veramente il procedimento penale innanzi al giudice unico si risolve in un franco dialogo che è preferibile anche per la difesa e che si risolve in una maggiore speditezza, senza inutili e defatiganti concioni. Quindi tutto convince della opportunità di generalizzare al massimo il sistema dei giudice unico che nel nostro paese ha fatto del resto ottima prova; non credo infatti che la giustizia dei pretori sia deteriore rispetto a quella dei tribunali, anzi ritengo che la LE RIFORME CHE URGONO 189 c.d. giustizia minore funzioni in modo di gran lunga più soddisfacente. Merita, invece, conservare la collegialità, a tre persone, per l’appello; in pratica l’attuale tribunale potrebbe funzionare come giudice di secondo grado per tutto il civile e per la massima parte del penale, nonché come giudice penale di primo grado per i reati più gravi, di massima quelli ora demandati alle odierne corti di assise, eliminandosi questa ibrida esperienza dello scabinato (49). Infine vi sarebbe posto per la corte di appello, sempre funzionante a tre magistrati, come giudice di secondo grado per i reati più gravi demandati in prima istanza al tribunale. La strutturazione estremamente semplificata che ho ipotizzato dovrebbe consentire obiettivamente un miglior funzionamento della giurisdizione, rendendola in particolare assai più rapida e incisiva. Il sistema potrebbe essere completato conservando alla base il giudice conciliatore, estendendone la competenza che potrebbe comprendere le minori cause civili (poniamo le liti non superanti (49) Come la stragrande maggioranza dei magistrati, sono risolutamente avverso all’istituto della corte d’assise, trovando inconcepibile, ed in ciò divergendo da certa facile demagogia populistica, che proprio i reati più gravi siano affidati in prevalenza a giudici del tutto improvvisati; espresse benissimo questo stato d’animo, in un discorso all’Assemblea Costituente, G. Porzio che di queste cose se ne intendeva: « La realtà è che sono stato sempre avversario dell’istituzione dei giurati. Mi sgorga dal fondo. Sono istintivamente, organicamente, contro ogni arbitrio, contro ogni decisione immotivata, contro quel monosillabo incontrollabile, irrevocabile la cui genesi è oscura e qualche volta torbida »; ed a un congresso forense il grande avvocato aggiunse in proposito: « Quante vittorie, signori, che nel fondo dell’anima furono un’amarezza » (cito da un articolo di F. ARGENTA, ne « La Stampa » del 23 settembre 1962). 190 UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO il valore di lire centomila) da risolvere equitativamente, nonché estendersi alla materia penale e precisamente a tutti i reati contravvenzionali punibili esclusivamente con la pena pecuniaria dell’ammenda, il tutto forse senza possibilità di gravame giacché, come ha comunque giustamente sostenuto A. C. Jemolo (50), è semplicemente assurdo ed entieconomico il sistema attuale che consente di arrivare anche per le minori infrazioni e per le liti più trascurabili alla Cassazione. Naturalmente, questo completamento della riforma in basso esige che gli uffici di conciliazione siano convenientemente attrezzati sotto tutti gli aspetti; i giudici onorari dovrebbero essere scelti tra persone aventi un minimo di competenza tecnica, eventualmente in una rosa di nomi formulata dai consigli comunali (51). (50) Vd. A. C. JEMOLO, La crisi della Giustizia, ne « La Stampa » del 30 maggio 1963: « Affidando ad un giudice di equità che decida senza appello le minuscole controversie. Non posso rassegnarmi a vedere intere udienze della Corte di Cassazione assorbite da controversie il cui oggetto è lo sporto del balcone di dieci centimetri oltre la misura legale, il muro che ha invaso ancora di dieci centimetri la proprietà altrui ». Contra vd. F. TALASSANO, I problemi della giustizia, ne « La Magistratura », novembre-dicembre 1963. È ben noto che da molte parti si propone di degradare molti illeciti contravvenzionali a meri torti amministrativi, demandati alle competenti autorità, al fine di alleggerire il sovraccarico giudiziario; in questo senso giace innanzi alla Camera dei Deputati un disegno di legge. Ma si tratta di una proposta che suscita molte perplessità; vd. ad esempio le osservazioni di A. GUARINO, La riforma delle contravvenzioni rischia di aumentare gli incidenti, nel « Corriere della Sera » del 20 agosto 1965: l’A. in particolare osserva che « dilagherà di pari passo la mala pianta, a tutti nota, dei tentativi di evitare per vie traverse che alla loro effettiva irrogazione si giunga ». (51) Vd. in tal senso M. RAMAT, Il giudice elettivo, ne « Il Mondo » del 6 aprile 1965. È invece da respingere nettamente, LE RIFORME CHE URGONO 191 Una notevole facilitazione al fine di ricercare buoni elementi si otterrà non facendo coincidere necessariamente la giurisdizione del conciliatore col comune, come oggi avviene col risultato che le funzioni giurisdizionali sono talora commesse, nei più piccoli comuni (e sono moltissimi), a cittadini del tutto sprovveduti, al macellaio o al ciabattino proprio perché vi è un limite alla ricerca del meglio in una area ristretta. Mentre nei grandi e grandissimi comuni potrebbero essere istituiti eventualmente più uffici di conciliazione (ma dove può presentarsi l’esigenza con i mezzi di trasporto oggi a disposizione?), i minori comuni, in particolare quelli montani, dovrebbero essere raggruppati in modo da consentire cosı̀, su un’area più vasta, una migliore scelta dei giudici che dovrebbero essere investiti dell’ufficio per un quinquennio e ricevere una adeguata indennità. Sono d’altro canto convinto che una più seria utilizzazione di questa magistratura onoraria, oggi praticamente abbandonata, solleciterebbe la non disprezzabile ambizione dei cittadini più probi in una direzione cospirante con l’interesse generale: se oggi è tanto ambita la deprezzata croce di cavaliere, a maggior ragione dovrebbe essere considerato come un grande riconoscimento morale e ragione altresı̀ di prestigio il conferimento di queste malgrado una indicazione costituzionale (art. 106 cap.), la proposta di una elezione diretta popolare dei magistrati onorari patrocinata da M. FRANCESCHELLI, in M. BERUTTI e M. FRANCESCHELLI, Aspetti e soluzioni della crisi della giustizia nell’ordinamento giudiziario, relazione per l’XI Congresso dei magistrati, Sardegna, settembre 1963: nell’attuale situazione la proposta comporterebbe una diretta e perniciosa interferenza partitica nell’amministrazione giudiziaria. 192 UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO funzioni, posto che, come l’esperienza di altri civilissimi paesi dimostra, anche l’amministrazione giudiziaria può contare su un diffuso sentimento civico. Come ho premesso, i problemi del personale della giustizia vanno risolti in relazione ad una determinata strutturazione del servizio, in concreto e non in astratto. In questo ordine di idee ritengo che la strutturazione da me ipotizzata consenta una più adeguata e funzionale sistemazione del personale. Il primo quesito attiene all’opportunità o no di richiedere una precisa specializzazione dei giudici, secondo una idea che è stata di recente ripresa e suffragata con la considerazione che il lavoro giudiziario oggi si accentra in larga misura in taluni tipi di controversie di prevalente contenuto tecnico o che richiedono la conoscenza specifica di certi fatti e comportamenti tipici, per i quali è opportuno che il magistrato abbia la padronanza anche di altre discipline non giuridiche, ad esempio in materia di circolazione stradale (52). Io ritengo che la proget(52) La c.d. tecnicizzazione dell’attività giudiziaria costituisce, come è noto, il leit-motiv di alcuni studiosi; vd. ad es. N. BERNARDINI e A. MARCUCCI, Alcuni problemi costituzionali e funzionali dell’ordinamento giudiziario, in Magistrati o funzionari?, cit., pp. 443 e ss. Del Bernardini vd. anche Ordinamento, giudizio e progresso tecnologico, in Studi sul progresso tecnologico e la società italiana, Milano, 1960, vol. VI, Aspetti giuridici, p. 100. Secondo questo orientamento il fatto tecnico va assumendo un’importanza via via prevalente nell’economia del giudizio, il processo esige sempre di più d’essere risolto alla stregua di « norme tecniche », le liti si addensano attorno a gruppi tipici tecnicamente identificabili. Ma, come dissi altra volta (in Cronache della magistratura, cit., p. 255), questo indirizzo è di dubbia attendibilità, tolto il contributo positivo che apporta mettendo in luce un fenomeno in parte reale e auspicando una conseguente attrezza- LE RIFORME CHE URGONO 193 tata specializzazione sia di difficile concretizzazione; penso altresı̀ che essa debba essere respinta per precise ragioni di principio. È estremamente difficile che possa procedersi ad una ripartizione degli affari giudiziari per materia, giacché nella massima parte dei casi la controversia si risolve in una serie di quesiti che hanno almeno qualche attinenza con le più varie ripartizioni di comodo del diritto o comunque, proprio ai fini della più esatta risoluzione, si richiedono di necessità nel giudice conoscenze non limitate, bensı̀ generalizzate all’intera esperienza giuridica (53); proprio per questo continuo intrecciarsi dei vari profili, al giudice civile non è sufficiente una esclusiva preparazione civilistica cosı̀ come al giudice penale non basta una esclusiva preparazione penalistica, onde la stessa distribuzione rigida del personale in questi due campi appare assai problematica. Direi invece che deve favorirsi al massimo, nella misura del possibile, l’attitudine del magistrato a risolvere, senza eccessivo dispendio, ogni tipo di controversia, destinantura soggettiva. Infatti, incidenza o no di un contesto tecnico, il giudizio si contraddistingue, al pari di tutta l’esperienza giuridica, sul piano della valutazione comparativa degli interessi contrapposti nella loro dimensione sociale; e qui non c’è attrezzatura tecnica che tenga, la tecnica aiutando, ma mai risolvendo. E culturalmente a me pare che in queste proposizioni vi sia la traccia di un certo neo-positivismo che ora va risorgendo dalle ceneri, nella perseguita utopia di una scientificità « obiettiva » risolutrice di ogni dramma e di ogni passione e che è destinato fortunatamente a soccombere, come il vecchio positivismo, nella infinita libera e liberante, « inventività » della realtà umana, mai domabile e mai domata. (53) Cosı̀ esattamente, fra i tanti, F. PERFETTI, Relazione sull’amministrazione della giustizia, cit., p. 11; M. RAMAT, Il giudice specialista, ne « Il Mondo » del 18 giugno 1963. 194 UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO dolo a rotazione alle varie incombenze, anche se questo comporta nel complesso uno sforzo non indifferente. Ma appunto la specializzazione, nel mentre favorisce la pigrizia dei singoli inducendoli a riguardare esclusivamente il loro orticello e a diventare cosı̀ progressivamente ignoranti su tutto il resto, peggiora e non migliora la preparazione media e le attitudini dei magistrati, mentre, anche dal punto di vista di una comprensiva cultura, è desiderabile che avvenga esattamente il contrario, che le funzioni di volta in volta commesse inducano il singolo ad arricchirsi e a migliorarsi. Ed il buon giurista si fa progressivamente per questa via certo più impegnativa. Piuttosto per altra via potrà ottenersi di fatto un fecondo scambio di esperienze tra gli stessi magistrati opportunamente raggruppati in grandi uffici. La strutturazione da me proposta potrebbe risolversi agevolmente nella istituzione della pretura in ogni capoluogo di provincia; in una ventina di tribunali e in cinque-sei corti di appello in tutto il Paese, risolvendosi cosı̀, con questa concentrazione, una serie di problemi. In primo luogo si sopprimerebbero gli uffici che oggi in misura non trascurabile sono inutili o si risolvono in veri canonicati, mantenuti in vita solo per quelle deteriori ragioni di campanilismo e di prestigio locale rispetto alle quali l’interesse pubblico pare impotente, all’insegna di quella parola d’ordine, veramente ridicola nell’epoca delle facili e comode comunicazioni, che la giustizia deve andare al popolo (54); si avrebbe cosı̀ (54) Vd. ad es. l’articolo La Giustizia, cit. LE RIFORME CHE URGONO 195 una adeguata distribuzione del personale con un carico di lavoro proporzionato per i singoli, evitandosi di inflazionare l’organico in modo deleterio, posto che vi è un limite obiettivo, oggi spesso superato, per il reperimento di buoni giudici. Sarebbe inoltre possibile attrezzare i pochi uffici giudiziari dei mezzi che oggi la tecnica consente per la piena funzionalità del servizio. In particolare presso ogni ufficio potrebbe essere istituita a spese dello Stato una biblioteca giuridica convenientemente attrezzata a disposizione dei magistrati e degli avvocati i quali ultimi potrebbero concorrere alla spesa con un canone di abbonamento; più precisamente un ufficio centrale istituito presso il ministero dovrebbe curare la simultanea distribuzione in tutte le biblioteche delle pubblicazioni di vario tipo e delle riviste. Non credo che questo servizio importerebbe una grossa spesa in un bilancio statale cosı̀ inflazionato come l’attuale, mentre si risolverebbe un problema che oggi, al livello dell’economia individuale, non è facilmente risolvibile. Si pubblicano oggi in Italia oltre cento riviste giuridiche, nazionali e locali, generali e specializzate, senza contare le monografie, le raccolte annuali di giurisprudenza, etc.; di volta in volta il giudice può avere necessità di consultare questa o quella pubblicazione, mentre egli non ha personalmente né il denaro né lo spazio per farsi una adeguata biblioteca onde deve far talora ricorso o all’espediente del prestito amichevole o alla consultazione (pericolosa!) delle sole massime nei repertori, aggravandosi la situazione per chi è costretto ad amministrare la giustizia in luoghi remoti. L’importanza del problema risulta 196 UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO dal fatto che il Consiglio Superiore della Magistratura ha proposto di alleviare le difficoltà dei singoli con la concessione di buoni-libro (55). La concentrazione degli uffici permetterebbe cosı̀ la costituzione di biblioteche aggiornate da concepirsi come un vero servizio pubblico. Infine la stessa concentrazione eliminerebbe alcune difficoltà che oggi sussistono sul piano del reclutamento; la prospettiva attuale di dover esercitare le funzioni, anche per molti anni, in un paese remoto trattiene spesso i giovani dall’entrare in magistratura perché non tutti sono disposti a vivere nella quiete delle campagne e anche quando lo sono debbono spesso fare i conti con la tirannide più o meno giustificata delle esigenze domestiche, da quelle della consorte che non se la sente semplicemente di intristire in provincia o ha le sue esigenze di lavoro in questa epoca di crescente immissione della donna nelle attività produttive a quelle derivanti dalle esigenze scolastiche dei figli. Se fosse possibile accogliere l’idea qui sostenuta, il temuto spettro verrebbe meno ed il giudice potrebbe contare di risiedere almeno in un capoluogo di provincia (56). Avremmo cosı̀, com(55) Con l’ordine del giorno approvato il 5 luglio 1961 su proposta di P. Glinni; vd. « La Magistratura », settembre-ottobre 1962. (56) Vd. A. C. JEMOLO, La crisi della giustizia, cit. D’altro canto non sono affatto d’accordo con chi ritiene anacronistico l’obbligo attuale di residenza (cosı̀ M. BOCCASSINI, Attuazione delle garanzie costituzionali in tema di ordinamento giudiziario, in Magistrati funzionari?, cit., p. 496); se è vero che con gli attuali mezzi di comunicazione il problema non si presenta nei termini del passato, è altrettanto vero che una limitazione in materia è indispensabile per infrenare gli abusi oggi frequenti di magistrati che abitualmente risiedono in città assai distanti dalla sede. Si dice ad es. che gran parte LE RIFORME CHE URGONO 197 plessivamente, la migliore strutturazione degli uffici e la soddisfazione più piena del personale in condizioni di normalità e con tutti i possibili strumenti a disposizione. dei magistrati di una certa zona dell’Italia centrale abitano nella capitale. In realtà la questione è assai più sostanziale rispetto a quello che la formula letteralmente esprime; non si tratta tanto di risiedere, quanto di far sı̀ che il servizio commesso non soffra della circostanza dell’abitare fuori sede. In questo senso è assai diversa la posizione dei vari magistrati secondo l’ufficio ad essi commesso; chi ad es. è addetto come talora avviene al solo lavoro civile nei tribunali, in pratica deve trovarsi in ufficio solo due-tre volte la settimana, mentre è assai diversa la situazione del pretore « di campagna » che, dovendo provvedere per le richieste urgenti, praticamente può essere sempre ricercato e pertanto si trova nell’alternativa o di vivere in una specie di confino o di vivere di espedienti con la sensazione spiacevole di essere costantemente « braccato ». Per coloro che versano nella seconda situazione è quindi inevitabile la necessità di risiedere in luogo relativamente vicino, cioè in un luogo che consenta in ogni caso di raggiungere la sede, per le chiamate urgenti, nel giro di una, al massimo due ore; il che esige che si sia convenientemente attrezzati, con la disponibilità di un veicolo. Anche a prescindere dalle chiamate urgenti, l’attrezzatura personale conta perché chi si serve, ad es., dei mezzi pubblici può essere indotto a tirar via all’udienza per non perdere quella certa corriera; viceversa la disponibilità del mezzo consente di attendere con tranquillità al lavoro, protraendo se necessario l’udienza ad ora tarda. È un problema quindi di autoresponsabilità del singolo, obbligo di residenza o no; essendo inconcepibile il comportamento di quel magistrato che ad un certo punto, trovandosi in camera di consiglio, cominciava ad essere impaziente prospettandosi la probabilità di perdere la prossima, comoda partenza del mezzo pubblico. La concentrazione degli uffici, con la conseguente assegnazione di più magistrati, risolverà il problema, consentendo di far ricorso al turno di urgenza; non vi sarà quindi più lo spettro, veramente inumano, del semiconfino in campagna, quando l’allontanarsi anche per mezza giornata per recarsi alla vicina città costituisce un incubo ed ogni trillo di telefono fa balzare. È un problema che va quindi risolto coordinando le esigenze dell’ufficio con le giuste esigenze dei singoli. È interessante ricordare infine che un giudice, L. SCIACCHITANO, in « Rassegna dei magistrati », 1962, p. 198 UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO L’ingresso in magistratura non può non avvenire sulla base tradizionale del concorso aperto ai giovani laureati. In un paese come il nostro, ancora costituzionalmente instabile e dominato ferreamente dal settarismo di partito, nel quale a torto o a ragione l’ostracismo del « sovversivo » inteso talora alquanto latamente è ancora di frequente praticato al pari dell’abuso partitico, anche quando per l’unica giustificazione della divisione delle spoglie si affidano delicate funzioni pubbliche o a emeriti cretini o a persone di dubbia moralità senza che mai sfiori l’idea di nominare la persona competente ed onesta militante nel partito avverso, il sistema del concorso è, malgrado i suoi innegabili difetti, il migliore ed è, del resto, collaudato dalla tradizione. Come è riconosciuto anche da chi comprensibilmente critica l’assetto della nostra magistratura e mette in rilievo i pregi di altri sistemi (57), non è possibile in Italia altro sistema; non la scelta dei giudici da parte del potere esecutivo perché con siffatto sistema si esigerebbe in concreto la fedeltà al partito se non alle conventicole dominanti; non il sistema elettivo che, alquanto discusso altrove (58), implicherebbe certamente più perniciose conse341 ha proposto che si ponga il divieto di residenza per allontanare il magistrato dall’ambiente dei giudicabili, cosı̀ prospettando una giusta esigenza della quale ho detto nel testo; e la concentrazione, allargando l’ambiente, risolve anche questo. (57) Vd. G. MARANINI, in « Rassegna dei magistrati », 1962, p. 257; S. BASILE, Considerazioni sull’indipendenza del potere giudiziario, in Magistrati o funzionari?, cit., p. 293. (58) Vd. R. ZARISKI, I giudici statali e locali negli Stati Uniti d’America e il problema dell’indipendenza della magistratura, in Magistrati o funzionari?, cit., p. 170. LE RIFORME CHE URGONO 199 guenze nel nostro paese; non l’affidamento delle funzioni giurisdizionali agli avvocati con una soluzione certo ideale per certi profili e felicemente affermata altrove, perché da noi avremmo probabilmente la sistemazione in magistratura dei falliti. Non conviene quindi discostarsi dalla tradizione che ha fatto del resto, almeno relativamente, buona prova, consentendo l’ingresso in magistratura, in ogni tempo, fra la massa dei mediocri e dei timidi, anche di soggetti effettivamente indipendenti ai quali si deve se ancor oggi il terzo ordine rappresenta, malgrado tutto, uno dei pochi pilastri relativamente sani nel paese. Il mantenimento del concorso iniziale non deve pregiudicare tuttavia la severità della selezione sotto tutti i profili. In primo luogo la selezione tecnico-giuridica, conservando ed anzi incrementando la severità delle prove, giacché ho l’impressione che in questi ultimi anni, come traspare da qualche relazione (59), le commissioni giudicatrici, (59) Vd. in « Foro it. », 1962, 4, 37 la relazione della commissione esaminatrice del concorso per uditore giudiziario bandito con d.m. 20.2.1959 a firma del presidente U. Pioletti nonché ivi, c. 38 la relazione del presidente della prima commissione referente del Consiglio Superiore della Magistratura, prof. G. M. De Francesco. In ambedue le pregevoli relazioni è messo in rilievo che la preparazione dei candidati è in genere modesta tanto che non fu possibile coprire tutti i posti messi a concorso (come è avvenuto in molti altri concorsi); si constata altresı́ la quasi totale assenza di candidati provenienti dalle regioni centrali e soprattutto settentrionali; si afferma che per una serie di ragioni i migliori laureati vanno disertando il concorso trovando immediata collocazione, a condizioni economicamente migliori, nelle imprese private che effettuano cosı̀ la prima scelta; si ricorda il fenomeno diffuso della presentazione contemporanea a più concorsi: « I giovani presentano più domande 200 UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO pressate dall’esigenza di completare l’organico, abbiano alquanto allentato la morsa; è auspicabile, viceversa, un estremo rigore perché è preferibile il vuoto dell’organico all’assunzione di soggetti del tutto scadenti. Piuttosto un elevamento del trattamento economico della magistratura potrà attrarre assai più di quanto oggi avvenga i giovani più preparati. Ma anche la selezione umana è in certi limiti indispensabile, giacché su questo piano non è certo sufficiente che il candidato presenti il certificato penale bianco o il generico certificato di buona condotta, proprio per evitare che, a prescindere da questo minimo, entri in magistratura la persona incensurata, ma visibilmente squilibrata per qualche verso, come in alcuni casi oggi si verifica. L’esigenza è naturale, perché al diritto del cittadino di accedere di concorso e assumono l’impiego nel Ministero presso il quale possono conseguirlo più sollecitamente »; si rileva che solo una ristretta percentuale intraprende la carriera « per ponderata elezione ». E nella relazione De Francesco si osserva che il reclutamento sarà ancor più arduo nella misura in cui il benessere economico investirà anche le regioni meridionali ed insulari. Alle difficoltà del reclutamento ed in particolare a quella derivante dal fatto che spesso i giovani non sono in grado di attendere i due anni al minimo necessari dopo la laurea per entrare in carriera, si potrebbe ovviare in parte istituendo una speciale accademia per la preparazione al concorso cosı̀ come venne proposto in un discorso del Ministro on. Bosco del 15 ottobre 1963 (v. in « Rassegna, dei magistrati », 1963, p. 413); in pratica si tratterebbe di offrire subito ai laureati che hanno riportato buone votazioni negli esami universitari la possibilità di frequentare questa accademia con una borsa di studio sufficiente, pur escludendo che solo gli accademisti possano sostenere il concorso. In sostanza lo Stato, senza impegni reciproci, farebbe come una prenotazione sulle migliori leve mentre sarebbe certo che questo espediente temporaneo consentirebbe a molti di preferire la scelta in questione. LE RIFORME CHE URGONO 201 ai pubblici uffici, del resto secondo i requisiti richiesti dalla legge (e la non originalità in senso deteriore deve intendersi, comunque si formuli il concetto, come un requisito), sovrasta il dovere dello Stato di garantire l’assunzione di funzionari idonei sotto ogni profilo. Dovrebbe quindi istituirsi un qualche controllo in materia, culminante nella valutazione discrezionale del Consiglio Superiore della Magistratura, poiché è visibilmente assurdo che lo Stato sia del tutto sprovveduto in materia o alla mercé delle informative provenienti da soggetti all’uopo non qualificati, quando le imprese private ricorrono alle più varie procedure per cautelarsi in materia. E se si può nutrire qualche legittima preoccupazione in proposito, è inevitabile che se ne paghi il costo a ragione del criterio di fare tutto il possibile nell’interesse pubblico e, mettendo sul piatto della bilancia quanto si vuole e quanto si deve evitare, è da concedere un minimo di fiducia ad un consesso indipendente da pressioni politiche o di altro genere come il Consiglio Superiore. Ed è inevitabile, anche se in ipotesi umanamente doloroso, richiedere che il giudice provenga da un ambiente familiare moralmente ineccepibile, non convincendo, ad esempio, che non debba farsi conto della condotta dei suoi parenti (60), quando è inevitabile che da parte dell’opinione pubblica si richiedano magistrati non (60) E mi spiace cosı̀ di dover essere in disaccordo con M. Ramat che sollevò il problema in un articolo pubblicato ne « Il Mondo » del 1º gennaio 1963 al quale fece seguito una nota polemica, In nome della Costituzione!..., in « Rassegna dei magistrati », 1963, p. 82 con argomentazioni analoghe a quelle svolte nel testo; ma v. anche una successiva lettera del RAMAT, ivi, 1963, p. 230. 202 UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO discutibili anche sotto questo profilo, se non altro per allontanare il sospetto, umiliante, che costoro, chiamati ad esercitare una funzione che implica l’assoluto rispetto di quel minimo etico che si incorpora nella normativa giuridica, siano costretti in una situazione di disagio nelle pareti domestiche, situazione che può riflettersi nell’ufficio. Non è ammissibile, per fare il caso limite, che possa divenire giudice il figlio di una prostituta che domani può salire la scala del palazzo di giustizia per contestare al figlio, magari beceramente vociando, la misura degli alimenti; cosı̀ come, e a maggior ragione, è inammissibile che il magistrato si leghi a qualche allegra donnina dando scandalo. In conclusione, se è deprecabile che in prosieguo un giudice maturo debba subire il disagio di un figlio canaglia (e taluni ne soffrirono tanto da uccidersi), è logico che di consimili situazioni si possa tener conto agli inizi, quando niente è in definitiva pregiudicato (61). Tutto, al limite, deve essere pulito nel (61) Si tratta di una esigenza obiettiva, tanto che si comprende come, ai sensi dell’art. 98, comma secondo e quinto, della legge fondamentale della repubblica federale tedesca si preveda la remozione o il trasferimento del magistrato « quando fatti estranei nella sua attività giudiziaria nuocciano gravemente e stabilmente alla sua considerazione o all’attività giudiziaria da lui svolta, sı́ da rendere necessaria una misura di questo genere nell’interesse della giustizia »: vd. K. DOEHRING, Particolarità della posizione giuridica dei giudici nella repubblica federale germanica, in Magistrati o funzionari?, cit., p. 233 ; previsione che comprova, malgrado il pericolo di abuso e di arbitrarietà che comporta, quanto la società si attende dal giudice anche per quanto attiene alla sua vita privata. Non a caso circolano aneddoti di un certo tipo, il caso classico dell’imputato che pubblicamente ricorda al giudice che anch’egli si è macchiato dello stesso reato per il quale si sta procedendo a suo carico (e poiché ho LE RIFORME CHE URGONO 203 giudice innanzi all’opinione pubblica, anche l’ambiente che lo circonda, tanto che in una soluzione ideale non sarebbe illogico richiedere al magistrato quelle stesse limitazioni che si chiedono al sacerdote; ma se tanto è umanamente impossibile e se può consentirsi che il giudice prenda moglie proprio in quell’ordine di idee che la sapienza canonistica collega sulle orme dell’insegnamento paolino al matrimonio, deve almeno richiedersi ch’egli sia indipendente dalla propria moglie in una accezione funzionale alla missione, onde egli procurerà di spartire i giorni lieti e meno lieti della sua vita con una compagna che non possa essere oggetto di censura e che condividendo la sua ispirazione al bene potrà essergli di aiuto e di conforto nell’esplicazione delle funzioni; chi per avventura sceglie male ne porta la responsabilità proprio anche come magistrato, per quel doveroso comportamento che si esige dall’uomo-giudice, dimostrandosi inadatto al suo compito (62). riscontrato che episodi del genere sarebbero avvenuti, secondo la voce corrente nei vari ambienti, nei luoghi più disparati, sono propenso a ritenere che molti siano almeno in termini testuali parto della fantasia); ed infatti chi giudica deve avere le carte in regola secondo un modello ideale, purtroppo anche quando è in giuoco il fatto di altri. (62) Circa l’indipendenza dalla propria moglie (ma non da quello che si è imparato all’università e non dai principi morali accolti nella società), vd. l’arguto intervento di T. ECKHOFF, in Magistrati o funzionari?, cit., pp. 340-341. Certo, a prescindere dalla deontologia professionale, si comprende come il frequente contrasto tra le esigenze della funzione e le umane miserie del giudice-uomo possa costituire, al pari di quanto si affermò in un famoso saggio bergsoniano a proposito delle cause del riso, un ottimo spunto letterario, umanistico-patetito. Ed infatti c’è tutto un filone in questo senso, al 204 UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO Una delle esigenze essenziali è quella che il giovane magistrato sia posto in grado, dopo il concorso, di compiere un serio tirocinio che lo renda pienamente disponibile per l’ufficio. Oggi su questo piano la situazione è assai lamentevole, anche se in questi ultimi anni si sono fatti diversi esperimenti di dubbia consistenza. In pratica chi ha superato il concorso viene immesso come uditore negli uffici per il periodo di un anno nel quale il giovane dovrebbe venire in contatto col servizio sotto la guida di giudici anziani e quindi ascoltando e vedendo senza effettivo esercizio delle funzioni. In pratica spesso si verifica che l’uditore sia utilizzato concretamente laddove vi è più carenza, ad esempio nella raccolta delle testimonianze e nella quale hanno concorso autori grandissimi e autori ormai dimenticati, cosı̀ come c’è tutta una letteratura a sfondo giudiziario, a carattere minore, memorialistico-aneddotica; una letteratura di pressoché immancabile successo, pur occasionale, proprio perché il giudice-uomo è quasi sempre più o meno lontano dal modello del giudicesuperuomo che la società, anche nella sua ipocrisia, esige. Mentre resta da chiarire come e perché un corrispondente sviluppo di siffatto « genere letterario » manchi, pur essendovi alcune notevoli tracce, per il sacerdote; forse per la ragione del tutto empirica che i sacerdoti parlano meno e che la loro posizione è tanto più profondamente intrisa di sacertà, a differenza della mondanità caratteristica del giudice, dal distrarre gli altri da un cimento ad intenti di poetica che potrebbe sfociare nel sacrilego. Resta tuttavia da stabilire in quali limiti possa il giudice liberamente parlare delle sue miserie; limiti certo inevitabili perché la funzione comanda possibilmente di essere nei fatti cosı̀ come si richiede e comunque di cercare di dominare e di nascondere le miserie e i drammi intimi, portandoli per quanto è possibile nel chiuso della propria coscienza. E comprendo quindi come taluno, avendo superato questo limite, ne sia stato chiamato a pagare lo scotto; al giudice è infatti richiesto di cimentarsi in una lotta quotidiana contro se medesimo, risolvendo nel doveroso silenzio i suoi problemi. LE RIFORME CHE URGONO 205 vera e propria preparazione delle sentenze; il periodo di uditorato è quindi svuotato rispetto alle sue finalità. Per quanto mi riguarda, ebbi la ventura di essere destinato ad un tribunale assai serio nel quale, malgrado la mole del lavoro, non si distorceva la funzione dell’uditorato e debbo ringraziare chi mi consigliò a ragion veduta di chiedere questa destinazione; per sei mesi fui affidato ad un magistrato destinato al civile e ai fallimenti, assistendo alle camere di consiglio nelle quali imparai molto data l’ottima composizione qualitativa della sezione e facendo i primi esperimenti nella compilazione delle sentenze, nel senso che preparavo una minuta che veniva rivista dal mio istruttore ed eventualmente riscritta, totalmente o parzialmente, una seconda o anche una terza volta sulla base delle osservazioni fatte; studiavo i fascicoli e ne riferivo sempre all’istruttore sui punti di fatto e di diritto della causa: in sostanza, lungi dall’alleviare, costituivo una ulteriore incombenza per il maestro. Successivamente per tre mesi fui affidato ad un giudice di una sezione penale ed in questo periodo ebbi modo di assistere anche ad alcuni grossi procedimenti della corte d’assise; per gli ultimi tre mesi spartii infine il mio tempo tra l’ufficio di istruzione penale e quello del giudice addetto all’esecuzione forzata; non si mancò di farmi impartire qualche lezione dai cancellieri affinché mi rendessi conto anche di questi servizi; nel complesso si cercò di utilizzare nel migliore dei modi quell’anno. Ma il problema in generale della destinazione degli uditori si è costantemente riproposto; dopo il mio ingresso in magistratura si esperimentò per alcuni 206 UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO anni una accademia in Roma: in pratica per alcuni mesi i neomagistrati dovevano ascoltare una serie di conferenze tenute da alti magistrati e da professori universitari, con scarso costrutto, a quanto si dice, proprio ai fini dell’inserimento pratico nel servizio. Ora gli uditori vengono concentrati nelle sedi di corte di appello e ivi distribuiti tra i vari uffici, con un affidamento collettivo ad un magistrato. Fino a poco tempo fa al giovane, compiuto l’anno di uditorato, venivano assegnate le funzioni come pretore o giudice di tribunale o sostituto procuratore della repubblica (c’è l’obbligo di un biennio di pretura entro i primi cinque anni come condizione della promozione a magistrato di tribunale); dopo pochi mesi dall’assegnazione delle funzioni si deve sostenere un esame teorico-pratico che è nella sostanza la ripetizione del concorso iniziale, con l’unica differenza che i temi vanno redatti in forma di sentenza o di requisitoria; superato l’esame si continua in una delle tre funzioni indicate con la qualifica di aggiunto giudiziario e dopo un triennio sopravviene la promozione a magistrato di tribunale senza particolari prove, ma su semplice parere (mai negato) del consiglio giudiziario. Di recente, con legge 30 maggio 1965 n. 579, si è disposto che le funzioni possono essere assegnate dopo appena sei mesi di uditorato, giustificandosi il provvedimento per la grave carenza del personale, posto che, con le recenti innovazioni sul punto della progressione in carriera, la magistratura si va avviando a divenire un esercito di generali senza soldati. Basta questa semplice descrizione per chiarire come il sistema sia oggi pessimo, giacché in esso non si garantisce affat- LE RIFORME CHE URGONO 207 to un autentico tirocinio, mentre l’esame di aggiunto è di per sé discutibile, in particolare a ragione del fatto che si svolge in un periodo troppo ravvicinato rispetto al concorso iniziale per rendere seria una selezione definitiva (infatti questo esame segna il definitivo ingresso nell’ordine). Aggiungasi che il sistema tocca la punta massima dell’irrazionalità, consentendo l’assegnazione delle funzioni di pretore, eventualmente destinato a reggere da solo una pretura di campagna, al giovane che non si è fatto ancora le ossa; come si è ripetutamente osservato (63), proprio le funzioni più impegnative, tecnicamente ed umanamente, del giudice unico chiamato talora a decidere quasi nell’immediatezza nei campi più disparati, sono commesse ai più giovani gettati cosı̀ allo sbaraglio, malgrado la decantata funzione istruttiva che la collegialità assicurerebbe: una scuola che di norma si ha modo di frequentare dopo anni e anni di analfabetismo individuale nelle preture! Nella migliore e certo più frequente delle ipotesi, il giovane si fa veramente e duramente le ossa in pretura, ma se le fa, come si è giustamente osservato (64), a spese dei cittadini che a lui si rivolgono o che debbono soggiacere al suo magistero; per una logica naturale il giovane pretore si affina pro-gressivamente, si impadronisce del mestiere, ma tutto questo avviene nel vivo della esperienza di cui altri può essere vittima; ed infatti, (63) Vd. ad es. A. PERONACI, La crisi della giustizia, cit. (64) Vd. D. GRECO, Il tempo e la giustizia, cit., p. 27: « In definitiva il neo-magistrato è costretto a colmare le lacune della sua preparazione professionale con l’esperienza, ed a spese, quindi, dei suoi amministrati e della giustizia ». 208 UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO dietro questo apprendimento, c’è spesso la nota dolente se non il rimorso di qualche errore anche grave commesso nella buona fede dell’inesperienza, se non di qualche grave e conturbante cantonata. È indispensabile, pertanto, che si rovesci il sistema e se questo deve poggiare alla base, come è preferibile, sul giudice unico, il momento in cui sono commesse al magistrato queste funzioni deve segnare la sua definitiva e irrevocabile immissione nell’ordine dopo un serio tirocinio (65). In concreto il vincitore del concorso dovrebbe essere destinato subito come giudice aggiunto nei tribunali, ferma la regola che ogni collegio non possa contenere più di un tirocinante e ivi rimanere con queste funzioni per un lungo periodo, almeno per cinque anni (66) nei quali egli, mai da solo, ma sempre avendo al fianco due colleghi anziani sarebbe posto innanzi alla infinita varietà dei casi e delle situazioni giuridiche che il tribunale, come giudice di appello o come giudice penale di prima istanza, deve affrontare. Al termine di questo tirocinio, destinato a gettare il magistrato nel vivo dell’esperienza e con (65) Giustamente si è detto, in difesa del giudice unico: « Sı̀ — è vero — il Collegio è una scuola, ma perché i magistrati non vengono addestrati con un severo tirocinio prima di essere ammessi ad esercitare le funzioni? »: A. TORRENTE, Aspetti e soluzioni della giustizia nel processo civile, cit. (66) Riprendo quindi l’idea espressa da P. PASCALINO, Aspetti e soluzioni della giustizia nel processo civile, cit., p. 25: « È evidente pertanto che l’attuale sistema di tirocinio dovrebbe essere sostituito da un lungo periodo di addestramento presso il giudice d’appello (in modo da far partecipare il giovane magistrato alle discussioni in camera di consiglio); da una adeguata rotazione presso i vari uffici dell’amministrazione giudiziaria, e da veri e propri corsi di perfezionamento professionale ». LE RIFORME CHE URGONO 209 ciò a smaltire e a ridimensionare in senso appropriato anche i bollori della gioventù, l’aggiunto dovrebbe sostenere un severo esame definitivo, scritto e orale; in particolare le prove scritte dovrebbero consistere nella risoluzione in forma di sentenza di casi pratici, mettendo a disposizione del candidato tutti gli strumenti dei quali normalmente il giudice si avvale e cioè i libri e le riviste, per accertare appunto quale sia l’attitudine del singolo, in condizioni normali, al decidere (67). Superato l’esame il magistrato verrebbe definitivamente assunto ed investito come pretore delle funzioni di giudice unico. A questo punto si pone il problema dei modi di passaggio del giudice dalla prima alle ulteriori istanze, dalla pretura al tribunale e quindi alla corte di appello secondo la strutturazione qui prospettata o anche rispetto a quella attualmente esistente. Si pone il problema se convenga o no che vi sia una carriera, cioè una progressione per gradi, dei magistrati, sul quale si sono accese in questi ultimi anni tante dilanianti polemiche nelle quali la questione è stata vista e rivista sotto tutti i profili, in una tormentosa storia nella quale si sono fatti da parte del legislatore tutti gli esperimenti possibili senza contentare mai del tutto gli schieramenti contrapposti nell’ambito della magistratura associata e (67) Vd. in questo senso, ottimamente, A. APPONI, L’indipendenza della magistratura nella Costituzione della Repubblica italiana e nelle norme di attuazione finora emanate, in Magistrati o funzionari?, cit., p. 3, in particolare a pp. 28-29 tuttavia in riferimento all’esame come mezzo eventuale di selezione per la promozione. 210 UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO fuori. Non mi diffonderò nell’illustrare i termini della questione, limitandomi a riepilogarli e a ribadire nelle linee essenziali quanto ebbi già modo di osservare in proposito in precedenti scritti (68), anche perché l’opinione pubblica conosce ormai quanto è essenziale in una polemica per molti versi già stantia. Anche qui prescindo dalle indicazioni costituzionali, anche perché esse sono del tutto contraddittorie e ambivalenti e testimoniano di una grossa mancanza di chiarezza in materia tanto delicata da parte dei padri costituenti; se l’art. 105 Cost. parla di promozioni demandando la competenza in proposito al Consiglio Superiore della Magistratura, il capoverso dell’art. 101 afferma che « i giudici sono soggetti soltanto alla legge »; la proposizione può avere un senso solo ritenendo che con essa si siano voluti ripudiare i concetti di carriera e di superiorità gerarchica, essendo vacuamente ovvio che il giu(68) Vd. I problemi della Magistratura italiana, ne « Il Mulino », febbraio 1959, p. 43, in particolare pp. 82 e ss.; Cronache della Magistratura, cit.; Problemi della magistratura, in « Critica Sociale » del 5 e 20 aprile, 5 e 20 maggio 1961 (con lo pseudonimo A. Andrei). In particolare, contro il sistema nozionistico dell’esame, vd. A. APPONI, L’indipendenza della magistratura, cit., ove si osserva che la vera sapienza del giudice sfugge ad ogni esame perché deriva dalla capacità di applicare le nozioni ai fatti concreti: « Ciò che nessun libro e nessun massimario della cassazione può dare ad un magistrato, è la capacità di saper scegliere, di sapersi orientare, di saper congiungere le controversie nella loro infinita varietà alla norma che le dirime. L’opera precipua del giudice è quella di valutare e di scegliere (anche se valuta o sceglie la tesi proposta da un collega o da un avvocato) e il valore di questa opera si sottrae ad ogni esame teoretico ». E sempre contro l’esame v. la significativa presa di posizione dell’Unione dei Magistrati delle Corti (ora Unione Magistrati Italiani) nell’opuscolo Studi e proposte sul sistema delle promozioni in Magistratura, Roma, 1961, pp. 12-13. LE RIFORME CHE URGONO 211 dice, proprio perché tale, deve operare nell’esercizio delle sue funzioni solo avendo riguardo all’obbligo di dare attuazione, secondo il suo libero convincimento, al precetto di legge (69). In realtà basta scorrere i lavori preparatori per rendersi conto che i costituenti videro il problema in termini assai angusti, avendo solo riguardo alla indipendenza o no della magistratura dal potere esecutivo e dal ministro per la giustizia, mirando la sinistra marxista, allora più o meno convinta della sua imminente ascesa al potere, a conservare le prerogative dell’Esecutivo e perseguendosi viceversa da parte della destra e del settore clerico-moderato, per la preoccupazione inversa in termini di prospettive politiche a breve scadenza, una più ampia autonomia del terzo ordine; essendosi cosı̀ impostata la questione, il contrasto sfociò, su quel piano, nella consueta soluzione di compromesso, garantendosi nella sostanza l’indipendenza esterna dell’ordine con l’istituzione del Consiglio Superiore e mantenendosi però il ministero per la giustizia, attribuendo al titolare la possibilità di esercitare l’azione disciplinare. Proprio a ragione di questa (69) Sul problema discendente dalle contraddittorie proposizioni costituzionali, vd. in particolare L. CANEPA, L’indipendenza istituzionale dei magistrati in relazione all’ordinamento processuale, in Magistrati o funzionari?, cit., p. 67, in particolare pp. 74 e ss. Sui problemi dell’assetto costituzionale della Magistratura vd. in particolare G. MARANINI, Giustizia in catene, Milano, Ed. Comunità, 1964, ove in appendice trovasi la ben nota sentenza della Corte Costituzionale sulla legittimità della legge istitutiva del Consiglio Superiore; e su questa sentenza vd. in particolare la nota di E. CAPACCIOLI, Forma e sostanza dei provvedimenti relativi ai magistrati ordinari, in « Riv. it. dir. proc. pen. », 1964, p. 265. 212 UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO angusta impostazione, il problema venne implicitamente esaminato avendo riguardo alla strutturazione attuale del terzo potere e al tradizionale ordinamento del personale secondo una carriera, tutto risolvendosi sul punto della competenza, ministeriale o no, in materia ed operandosi in definitiva solo un trasferimento di questa competenza al nuovo Consiglio Superiore. Non si mise quindi in questione l’assetto tradizionale, ignorandosi in concreto i problemi della indipendenza c.d. interna dei singoli magistrati; mancò quindi quella assai più complessa impostazione che è venuta emergendo solo nel dibattito successivo e ancora in corso. Ponendo la questione in termini sostanziali, si possono distinguere grosso modo tre posizioni. Vi sono coloro che ritengono essenziale il mantenimento della carriera, essendo logico che alle funzioni « superiori » accedano solo i migliori e i più preparati. All’opposto vi sono quanti, sulla scorta di un indirizzo che annovera da sempre nomi illustrissimi, deprecano la sussistenza della carriera implicando essa tutte le distorsioni del deteriore carrierismo nei singoli e nell’ambiente, auspicando un sistema nel quale effettivamente il giudice non abbia alcuna preoccupazione in proposito e quindi non sia indotto a ingraziarsi nessuno o a tenere un certo atteggiamento al fine di non pregiudicare di fatto la sperata promozione; di qui la proposta che si acceda alle ulteriori istanze sulla base del criterio della semplice anzianità. In mezzo vi sono quanti in astratto aderiscono alla tesi anticarrieristica, ma ritengono che in un sistema come il nostro, di necessità basato sulla scelta iniziale di tipo burocra- LE RIFORME CHE URGONO 213 tico col concorso tra i giovani laureati ancora complessivamente immaturi, debba di necessità conservarsi qualche metro selettivo; in sostanza, secondo questo orientamento mediano, si comprende come in Inghilterra non vi sia carriera per i giudici perché in quel sistema la selezione avviene pregiudizialmente con la nomina, prescegliendosi gli avvocati già affermati e preparati, mentre nel nostro paese il presupposto di base è assolutamente diverso e quindi si impone in prosieguo quella più accurata selezione che non può per definizione aversi agli inizi (70). A mio avviso è necessario partire da una considerazione che mi pare ovvia; la carriera non può essere considerata come un mezzo indispensabile per il conferimento di funzioni superiori, semplicemente perché è da contestare che le funzioni ulteriori rispetto alla prima istanza siano di per sé superiori o più elevate o più impegnative. Questa intrinseca superiorità non sussiste, tutto si risolve invece nell’osservanza del principio che, al fine di perseguire la giustizia delle decisioni, è opportuno che di norma la controversia sia suscettiva di riesame da parte di altri giudici, non costituendo affatto, di per sé, questo riesame un compito più (70) Vd. con estrema chiarezza in questo senso mediano V. CHIEPPA, Il sistema della progressione secondo l’Associazione nazionale magistrati, in Magistrati o funzionari?, cit., p. 625: « Tuttavia la eliminazione della carriera e delle promozioni richiede che l’assunzione in magistratura — come avviene in America, in Inghilterra e nel Canada — sia il punto di arrivo per professionisti (avvocati, docenti universitari, in genere esperti del diritto), che abbiano raggiunto per altre vie pienezza di responsabilità e di capacità ». 214 UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO impegnativo rispetto alla prima decisione. Anzi, se si vuole, l’attuale giudizio di cassazione, quale giudizio di mera legittimità, è sensibilmente più facile e meno oneroso di quello demandato ai giudici di merito che debbono non solo esaminare il caso nella sua globalità, ma anche istruirlo; ed infatti a questa corte di vertice potrebbero benissimo essere avviati in esclusiva giovani di buona preparazione e di naturale attitudine meramente logica (cioè conseguenziaria), cioè quei primi della classe che non hanno sviluppato nell’esperienza concreta la loro personalità e che non possono essere per definizione buoni giudici, proprio perché la sola erudizione pandettistica non significa di per sé niente. A prescindere quindi dalla constatazione che già oggi la promozione non importa affatto di necessità l’affidamento di funzioni « superiori », perché si dà il caso che il magistrato di tribunale promosso magistrato di appello sia destinato ad un ufficio i cui provvedimenti sono soggetti al sindacato di un collegio nel quale sono in maggioranza i colleghi non promossi del promosso..., non c’è mai effettiva superiorità di funzioni; il giudizio di primo grado è importante quanto i giudizi ulteriori, anzi in un certo senso è più impegnativo proprio perché è in prima istanza che avviene, talora decisivamente, l’impostazione della controversia e si possono commettere errori e storture talora irrimediabili malgrado gli ulteriori gravami; in questo senso sarebbe teoricamente più giustificato affidare proprio il giudizio di prima istanza ai migliori per dare meno lavoro alle istanze ulteriori, se non fosse assorbente la considerazione che la spinta verso le ulteriori fasi LE RIFORME CHE URGONO 215 proviene, almeno nel processo civile, non dalla disinteressata volontà di ottenere la decisione più esatta, ma dal contrasto degli interessi. Proprio perché non vi sono funzioni superiori e inferiori, la logica dell’orientamento carrieristico esigerebbe invece un sistema volto non tanto a selezionare per le più impegnative funzioni, quanto ad espellere gli inetti e gli incolti ovunque essi si trovino ed in particolare nelle prime istanze: l’osservazione diventa ancor più calzante in un sistema che eventualmente elimini, come qui si è sostenuto, il giudizio di mera legittimità. In realtà la carriera potrebbe più ragionevolmente giustificarsi in un ben diverso ordine di idee, non di per sé, non al fine del conferimento delle funzioni c.d. superiori, ma come un incentivo affinché i magistrati si premurino sempre, proprio a ragione della esistenza di un sistema di promozioni assicurante vantaggi economici e di prestigio, di affinare e completare la loro preparazione; voglio dire che in un sistema nel quale si passi da un ufficio all’altro per semplice anzianità, si può essere indotti alla pigrizia e può verificarsi un generale abbassamento della preparazione dei magistrati, mentre se quel passaggio è congegnato in termini di promozione e di carriera, il sistema postula che tutti i giudici in virtù di questa desiderata eventualità cerchino di migliorarsi costantemente. In linea di principio, il problema si pone quindi in termini di una precisa scelta politica tra un sistema nel quale, mancando la carriera, il giudice non abbia veramente niente da sperare o da temere per la sua posizione, cosı̀ come avviene per i giudici inglesi, ma 216 UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO che comporti la mancanza di incentivo per il miglioramento, e un sistema che questo incentivo qualitativo comporti ma che con ciò implichi una misura inferiore di effettiva indipendenza del giudice che sarebbe quanto meno non indipendente, non sereno, non disinteressato rispetto alle prospettive personali di ulteriore avanzamento. Per mio conto, pur non essendo insensibile, proprio per la concezione pessimistica dell’uomo che mi domina, al motivo della carriera-incentivo, mi sono fermamente convinto della opportunità, per più ordini di ragioni, della soppressione integrale del sistema carrieristico, parendomi che in concreto i vantaggi di questo sistema tradizionalmente comportino però tali svantaggi che la bilancia non può non pendere per l’altro sistema, che ha d’altro canto una giustificazione di fondo non trascurabile rispetto alle attese che la società ripone nel giudice. In linea di principio l’esigenza che il magistrato sia indipendente senza residui, anche rispetto alle sue passioni e ambizioni nonché al legittimo interesse di miglioramento materiale, è pregiudiziale sul piano dell’interesse pubblico e di tale rilevanza che rispetto a questa fondamentale garanzia non vale addurre inconvenienti di altro genere che pur si possono lecitamente prospettare; per questo si impone che la posizione del giudice sia regolata in termini tali che egli, non avendo niente da chiedere a nessuno per tutta la durata del suo ufficio, da nessuno possa essere, direttamente o indirettamente, spinto a corrompersi nell’attesa di qualche vantaggio. L’essenziale è quindi che il giudice non abbia alcun serio motivo per autopro- LE RIFORME CHE URGONO 217 stituirsi; ed in questo sta certamente la forza della magistratura di altri paesi, in particolare di quella britannica. Né mi pare logicamente corretto voler trarre dal ben diverso sistema di selezione dei nostri giudici rispetto a quello inglese, la conseguenza di diminuire le garanzie di indipendenza; se è da lamentare che allo stato noi siamo costretti a tollerare, per le ragioni indicate, un sistema imperfetto di selezione iniziale, questa non è una buona ragione per cercare di risolvere il problema della selezione in prosieguo di carriera in condizioni tali da minare l’indipendenza. Meglio conviene avere giudici del tutto liberi, anche se per qualche verso balordamente selezionati all’inizio, perché altrimenti avremmo giudici solo imperfettamente indipendenti e nel contempo un dubbio sistema di selezione ulteriore. Infatti mi sono convinto che, una volta postici sul terreno tradizionale, è pressoché impossibile inventare un sistema che dia sufficienti garanzie di selezione dei migliori, in primis perché è problematico lo stesso concetto di migliore e su questo primo punto non è agevole intendersi. Non è ad esempio migliore il magistrato che, essendo un pozzo di erudizione, giudica a vuoto, non è in grado, malgrado la sua preparazione, di cavare un ragno dal buco, non ha la capacità, decisiva, di passare dall’astratto al concreto, di operare quella sintesi di dottrina e di inquadramento del fatto che è l’essenziale per la risoluzione dei vari casi, cadendo in pieno in quelle deficienze che Jhering mise alla berlina in Scherz und Ernst in der Jurisprudenz; non è migliore chi non è in grado di sbrigarsi nel vivo del 218 UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO lavoro, di condurre innanzi un processo penale, facendosi ad esempio irretire nel giuoco delle abili distorsioni e divagazioni difensive; non è migliore chi non è in grado di avvertire dove sta il centro di una questione in termini risolutivi e concreti, per tacere in ogni caso delle valutazioni propriamente morali. Altre sono le doti che si richiedono al giudice, a prescindere dalla condizione prima dell’onestà: in primis molto buon senso, la capacità di vedere il caso nella sua reale proporzione, di non irretirlo in inutili divagazioni concettuali; se il giudice onesto ha questa dote, questo fiuto, ed è inoltre di media laboriosità, egli trova sempre la possibilità di procedere ad un convincente inquadramento giuridico del caso, può prepararsi all’occorrenza per districarsi nella risoluzione di questa o quella questione. Per questo sono stato sempre risolutamente avverso, d’istinto, con tutta la mia convinzione di magistrato, alla promozione per esame, trovando assurdo e ripugnante alle esigenze della professione che si vada deliberatamente alla ricerca dei primi della classe e rifiutando a priori quella valutazione globale del soggetto per tutte le doti che gli sono complessivamente richieste: la preparazione, il buon senso, l’urbanità, lo spirito d’indipendenza etc. Egualmente assurdo è il sistema che a lungo imperò e che ormai è stato felicemente abbandonato, del concorso per titoli; sistema nel quale si pretendeva di selezionare sulla base delle sentenze e delle requisitorie, ma senza premurarsi quanto meno di controllare la bontà delle conclusioni e delle motivazioni sulla base degli atti del pro- LE RIFORME CHE URGONO 219 cesso (71), tutto limitandosi alla considerazione di titoli formali che ogni magistrato di media intelligenza e preparazione, se non è del tutto sprovveduto, può mettere insieme se non altro largamente attingendo alle riviste e alla giurisprudenza, nella stessa guisa in cui lo studente universitario medio riesce a mettere insieme quel centone ormai superato che è la tesi di laurea; sistema che faceva degenerare l’ambiente nella corsa al formalismo, inducendo il magistrato a ricercare talora disperatamente il caso elegante discettando sul quale fosse possibile far sfoggio sulla carta bollata pagata dalle parti di pura dottrina a vuoto, trascurando magari gli altri doveri di ufficio (72); sistema che poneva in gravi difficoltà le commissioni esaminatrici per scegliere, tolta la pattuglia dei pessimi e dei « valorosi », nella massa di tutti coloro che in sostanza, considerati per quei titoli, si trovavano allo stesso livello; sistema che comportava di per sé una vera e propria gerarchia interna tra civilisti e penalisti, i primi svolgenti un lavoro che comporta una maggior frequenza di questioni dottrinali, i secondi relegati nel limbo dei c.d. « fattisti ». Ora un sistema che comporta la distorsione da ultimo rilevata è condannabile di per sé senza appello, poiché è inconcepibile che siano automaticamente considerati magistrati di seconda categoria quelli che decidono della libertà e dell’onore dei cittadini; ed io ho (71) Vd. G. PENNELLO, L’indipendenza dei magistrati in relazione alla loro carriera ed al sistema di promozione, in Magistrati o funzionari?, cit., p. 66. (72) In genere, sulla carriera come fonte di formalismo, vd. M. RAMAT, Mitologia giudiziaria, ne « Il Mondo » del 5 marzo 1963. 220 UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO ancora vivissima l’impressione che provai il giorno in cui in mia presenza un giudice di prim’ordine, maturato nella dura esperienza della corte d’assise che con tratto impareggiabile presiedeva, pregò un giudice civilista di controllare se talune sentenze civili che egli aveva avuto la ventura di preparare, ed in particolare una nella quale si trattava del blocco delle locazioni, avevano tutti i requisiti per essere decentemente presentate per il concorso, commentando alquanto coloritamente la necessità in cui si trovava. Di recente la situazione è alquanto mutata, essendosi tornati al sistema già esperimentato dello scrutinio, ma anche qui, pur esigendosi in teoria la considerazione globale della personalità del candidato, l’accento cade, come è naturale, sui titoli giudiziari (73), anche perché per tutto il resto (73) Ed infatti vd. la puntuale testimonianza di L. AMMATUNA, Lo scrutinio speciale, in « Rassegna dei magistrati », 1964, p. 101 circa il modo di procedere delle commissioni esaminatrici: « I lavori giudiziari costituiscono l’elemento preminente per la formazione del giudizio di promovibilità del candidato ed è, quindi, naturale che essi diano luogo ad una attenta e particolareggiata considerazione critica. A questo scopo il relatore, avvalendosi di propri appunti (che ciascuno di noi conserva presso di sé) espone per ogni lavoro giudiziario il proprio apprezzamento circa l’ordine, il modo e la forma della sua redazione con particolare riferimento alla proprietà del linguaggio, alla eventuale prolissità o alla chiarezza della parte motiva nonché alla coerenza logica e legislativa della soluzione adottata per ogni singola questione — in una parola: il proprio apprezzamento in ordine al contenuto ed alla tecnica del documento, secondo quelle linee di proporzione e di compostezza che sono proprie di ogni lavoro giudiziario. Sull’apprezzamento espresso dal relatore si apre, per ogni singolo lavoro, la discussione fra i componenti; e le obiezioni vengono chiarite, i rilievi vengono documentati anche mediante lettura di brani del titolo in esame e le soluzioni ancora controllate non solo e non tanto alla stregua degli orienta- LE RIFORME CHE URGONO 221 nessun serio elemento può ricavarsi in genere dai rapporti informativi dei capi d’ufficio, generosi con tutti. Quindi anche l’impossibilità di trovare un sistema sufficientemente obiettivo rispetto a tutti quelli finora esperimentati, convince della opportu- menti giurisprudenziali, quanto e soprattutto sotto l’aspetto di ragionevolezza della motivazione e di congruità della sua soluzione in rapporto ai fatti di causa quali risultano enunciati dal titolo... » (ivi, p. 102) ed oltre, p. 103, si afferma che rispetto ai titoli le ulteriori condizioni di carriera sono eventualmente integrative « ma in nessun caso sostitutive ». Quindi considerazione in astratto dei titoli, senza alcun preciso riferimento alla concretezza della lite, come se il giudice di appello potesse giudicare del gravame senza conoscere gli atti di causa, il che è a mio avviso un enorme, stupefacente sproposito. Ma si tratta di una idea ben radicata; v. ad es. quanto disse il ministro on. Gonella (in Piano organico di rinnovamento della Giustizia, in « Rass. studi penitenziari », novembre-dicembre 1960, p. 24): « Anche in materia di concorsi per le promozioni bisogna tener presente che l’attività del magistrato si concreta nella sentenza o nella requisitoria, ed è quindi opportuno che le sue qualità siano valutate in rapporto alla specifica capacità di tradurre sul terreno giurisprudenziale i principi e le norme di diritto ». Certo la sentenza è essenziale per giudicare della personalità del magistrato, ma in quanto sentenza, cioè quale atto conclusivo e riassuntivo della valutazione del caso, onde non può essere adeguatamente valutata se non in rapporto a quel caso; nessuno ha mai acquistato una casa ponendo esclusiva attenzione alla solidità e alla bellezza delle tegole del tetto! Ma l’impostazione qui criticata si collega in realtà ad un orientamento più profondo, intrinseco alla nostra tradizione giuridica nella quale è sopravvalutato il momento della dissertazione formalistica; l’orientamento che costituisce non a torto la testa di turco della critica di G. GORLA del quale vd. da ultimo Offerta « ad incertam personam » (Saggi per un nuovo tipo di nota a sentenza), in « Foro it. », 1964, I, 433. Resta da vedere tuttavia in quali limiti possa essere superata questa tradizione che se c’è, c’è per complesse ragioni ambientali e culturali che formano la sostanza medesima di un mondo; e quindi c’è sempre un limite obiettivo al superamento giacché con trapianti dall’esterno talora si rischia di cadere dalla padella nella brace. 222 UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO nità di eliminare radicalmente il sistema delle promozioni. I laudatores temporis acti avrebbero forse ragione se essi potessero accampare la bontà dei risultati finora conseguiti; ma, al di là della facile retorica, è constatazione quotidiana che i migliori non si trovano oggi, di necessità, nei gradi superiori: anche in appello, anche in cassazione, cosı̀ come nei tribunali e nelle preture, accanto a magistrati egregi, ve ne sono molti mediocri e taluni veramente scadenti e con tutti i sistemi finora escogitati, tutto concedendo alle lamentele ingiustificate di quanti non sanno acquietarsi nella loro relativa inferiorità e protestano a torto per la mancata promozione, sono stati sempre registrati casi patenti di obiettiva ingiustizia, il meno dotato che è passato innanzi al collega veramente più degno della promozione. Proprio perché l’accento cade di necessità sui titoli giudiziari facilmente acquisibili, facendo difetto gli altri elementi che dovrebbero consentire una valutazione seria e globale, non è da meravigliarsi se la selezione funziona alla rovescia in molte situazioni. Io ho constatato un caso nel quale un bravuomo di infinita, crassa ignoranza, le cui espressioni di sapienza giuridica correvano come amene barzellette sulla bocca di tutti (come questa: « avvocato, il sequestro glielo concedo, ma l’esecuzione immediata no ») venne promosso sulla base di titoli che si dicevano nell’ambiente in realtà redatti da altri. Del resto, per smontare definitivamente la tesi carrieristica, sarebbe desiderabile che qualcuno, avendone tempo e modo, procedesse all’esame sistematico delle sentenze della Cassazione per un solo anno, al LE RIFORME CHE URGONO 223 fine di rendere evidente che vi si rinvengono di frequente autentiche perle, in uno stile che altrettanto spesso non è certo molto decoroso per la posizione dell’alto collegio. Né è da tacere del clima che con un sistema di promozioni, a torto o a ragione, si instaura nell’ambiente, come un certo servilismo verso i capi per la preoccupazione di non inimicarseli, posto che ad essi è affidato il compito di redigere il rapporto informativo per la promozione (ma per fortuna i rapporti sono tutti altamente elogianti per non scontentare nessuno, come le qualifiche di fine anno degli impiegati pubblici, tutti ottimi, tutti esimi, senza alcuna menda; e un arguto presidente mi diceva un giorno d’essere disperato avendo esaurito l’arsenale degli aggettivi); la ricerca di protezione e benevolenza presso i grandi baroni della magistratura romana e spesso, purtroppo, presso i politici, eventualmente rivolgendosi al deputato avvocato della giurisdizione; una certa attenzione a non assumere atteggiamenti troppo indipendenti o che possano essere riguardati sfavorevolmente; cosı̀ un giorno un magistrato impegnato in un delicatissimo processo che fece epoca, mi confidò di aver pronunciato la requisitoria premurandosi di farla registrare al fine di non avere brutte sorprese o di poter parare eventuali attacchi in vista del prossimo concorso... Ora il sistema delle promozioni si condanna di per sé se esso comporta, al di là del fondamento obiettivo delle preoccupazioni, un siffatto clima, se convince i singoli della opportunità di mantenere un certo comportamento e di ingraziarsi questo o quello, perché è questo che turba l’ambiente e mina 224 UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO lo spirito d’indipendenza, cosı̀ come sul piano politico generale e al livello delle c.d. libertà di fatto quello che decide non è tanto o non è solo il regime, ma il clima del regime che tutto ammorba e distorce nella società presa nel suo complesso, quel clima in ragione del quale anche in una situazione di proclamata dittatura ci si è indotti ad un servilismo sovrabbondante. Basta cosı̀ la mera possibilità di queste distorsioni perché si debba condannare un sistema che contrasta con quanto la società chiede soprattutto al giudice: l’allontanamento dal suo animo di ogni preoccupazione diversa da quella — suprema — di adempiere alle funzioni con spirito di indipendenza, nel rispetto della legge e secondo il convincimento che detta la coscienza. Per tutto questo io sono risolutamente contrario alla carriera; aggiungo che la sua soppressione si rivela oggi opportuna anche su un altro piano. Ho ricordato in precedenza come oggi il terzo ordine abbia perduto molto del suo prestigio avendo portato le sue diatribe interne in piazza, mentre è auspicabile che esso si trovi in una posizione tale che lo ponga al di sopra di ogni sospetto e di ogni intorbidamento, con quel certo aristocratico distacco rispetto alle vicende politiche e sociali che gli è indispensabile. Per questo è opportuno rimuovere obiettivamente ogni ragione di lamentela, regolare la posizione del giudice in modo che esso non abbia più niente da chiedere. La carità di patria consiglia quindi che si faccia questo passo decisivo in modo che per il futuro la magistratura non abbia da criticare se non se stessa, per il modo in cui, in piena autonomia, si amministra e concorre a governare il LE RIFORME CHE URGONO 225 paese; e su questo presupposto essa potrà essere giudicata dall’opinione pubblica, senza alcuna possibilità di addurre giustificazioni. A mio avviso, è auspicabile, come da molte altre parti si è sostenuto (74), che il magistrato non abbia più l’assillo di « progredire » per ragioni di carattere economico; il suo trattamento, fissato in ogni caso in misura adeguata per favorire anche per questa via l’accesso in magistratura dei giovani più preparati (75), dovrebbe automaticamente migliorare in (74) Vd. in particolare T. CARNACINI, Come intendere lo sganciamento dei magistrati, in « Riv. trim. dir. proc. civ. », 1962, 1479 e del medesimo A. la recensione al volume Magistrati o funzionari?, cit., ivi, 1963, 1121. (75) Per quanto attiene al trattamento economico dei magistrati si debbono toccare anche qui note assai dolenti. È evidente che questo trattamento deve essere fissato in modo che siano attratti alla professione i più preparati tra i laureati in diritto; e poiché la media delle persone mette nel calcolo delle scelte queste considerazioni, se si vuol procedere realisticamente è opportuno che il trattamento del giudice non sia inferiore ai vantaggi materiali ai quali può aspirare, nello specifico mercato di lavoro, chi sia meglio dotato; il termine di confronto è quindi rappresentato dai cespiti medi dei migliori avvocati. È questa una verità che è facile intendere, ma alla quale, per mancanza di decisa volontà politica, è difficile essere coerenti negli svolgimenti sotto la pressione del gran calderone del pubblico impiego. Se è vero che è doveroso assicurare a tutti un trattamento dignitoso, se è vero che in linea di massima è auspicabile che la P. A. si serva dei migliori in tutti i campi, è anche vero che nella valutazione comparativa la considerazione dello specifico mercato di lavoro non può mancare. Nei fatti il militare non ha termini di confronto nel mercato privato cosı̀ come è assai scarsa la zona competitiva per chi aspiri all’insegnamento nelle scuole medie di ogni tipo; il magistrato cioè il laureato in diritto si trova, volenti o nolenti, in diversa situazione obiettiva. È quindi inevitabile che il giudice sia pagato di più rispetto a certe categorie; cosı̀ come sarebbe del tutto logico che fossero pagati più del giudice quei magistrati tecnici dei quali ho in precedenza discorso nonché, ad es., i funzionari tecnici già 226 UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO ragione della anzianità di servizio, quali che siano le funzioni ricoperte. Il passaggio dalle preture ai assunti dalla P. A. come gli ingegneri del genio civile se non si vuole anche qui reclutare gli scarti della libera professione o dell’impiego privato, mentre nello specifico mercato di lavoro il giurista medio vale assai meno del tecnico medio proprio per il maggiore gettito. Di fatto lo Stato si trova nella pratica incapacità di attenersi a questo criterio e si registrano le sperequazioni più smaccate nel campo del pubblico impiego in senso vasto, includendo nella considerazione, come deve farsi, il settore degli enti parastatali e delle aziende autonome. Il primo presidente della corte di cassazione non ha oggi neppure lontanamente il trattamento che, a quanto si dice, è riservato ad un modesto burocrate di certi enti e aziende e perfino di certe minori banche locali, mentre gran parte della opinione pubblica è convinta della favolosità degli stipendi dei giudici perché ignora che i giudici percepiscono solo lo stipendio sia pure relativamente elevato e in più la sola modestissima aggiunta di famiglia. E cosı̀ spesse volte mi è stato detto che i magistrati percepiscono una certa « indennità di toga » che io, nei miei anni di servizio, non ho mai visto! (su questi aspetti del problema vd. S. BORGHESE, Il trattamento economico dei magistrati, in « Riv. trim. dir. proc. civ. », 1960, 1578; ID., Declassamento dei magistrati, ivi, 1962, 1476). E la cosa più grave è che non si sa niente di preciso in proposito; nei miei anni di servizio, quando raramente partecipavo alle assemblee di categoria, sentivo spesso dotte dissertazioni volte a dimostrare che i militari ad es. guadagnavano assai di più, mentre fuori di quelle assemblee mi sentivo dire spesso l’esatto contrario. E manca, a quanto so, una obiettiva indagine in materia, una indagine alla quale dovrebbe attendere un qualche istituto universitario obiettivo e sulla base della quale fosse possibile fare confronti risolutivi; forse questa deficienza è da collegare alla circostanza che di certe cose non conviene a nessuno parlare, tolti i casi in cui scoppia lo scandalo insultante. Tuttavia, fermi i criteri di sostanza sopra ribaditi, io non ho mai ben capito la trasposizione in termini economici della questione della totale indipendenza dei giudici, essendo ben noto come la famosa legge Piccioni del 1951 sullo sganciamento economico della magistratura dal settore generale del pubblico impiego sia stata considerata come il primo passo verso l’attuazione dei principi costituzionali. E sempre per i principi costituzionali venne a suo tempo giustificato e disposto il c.d. « scorrimento » della carriera, cioè la eliminazione dei quattro scatti di stipendio in precedenza stabiliti per i magistrati di LE RIFORME CHE URGONO 227 tribunali e quindi alle corti di appello dovrebbe essere deciso sulla base di una valutazione globale tribunale, allineando tutti all’ultimo scatto; tutto, lo concedo, può far brodo in una battaglia sostanzialmente esatta, ma la relazione tra principi costituzionali e scatti quadriennali di stipendio mi è sempre parsa quella classica del cavolo con la merenda, quasi che qualche principio della Carta impedisse al legislatore di stabilire infiniti scatti di stipendio in relazione alla anzianità nella qualifica. A parte quindi la constatazione assai diffusa che con questo giuoco all’autonomia... economica i magistrati sono in definitiva risultati in perdita nella valutazione comparativa rispetto alle altre carriere, io sono dell’idea che, a prescindere dalle particolarità funzionali di stato giuridico, tutti coloro che prendono un centesimo dallo Stato dovrebbero essere tutti inquadrati in una precisa, unitaria filza, dal presidente della Repubblica fino al più modesto netturbino o inserviente, naturalmente collocando ciascuno al posto giusto, di guisa che, aumentando di un millesimo lo stipendio a chi si trova nel gradino più basso, automaticamente dovrebbe aumentare di tanto lo stipendio di tutti. Certo è difficile procedere a questa unificazione tabellare, perché assisteremmo al più feroce contrasto circa il rispettivo valore delle funzioni in rapporto al grado assegnando; ma fin quando non si sarà capaci di tanto le cose andranno caoticamente tra chi tira da una parte e chi dall’altra, complicando la situazione e producendo quello stato di generale ignoranza che ho lamentato. Per questo, se sono favorevole alla giusta retribuzione di ognuno, sono risolutamente contrario alle autonomie di ogni tipo in materia e ai trattamenti particolari. Ma purtroppo circolano le idee più confuse e più pericolose, come quando si prospetta l’autonomia economica del terzo potere (v. P. GLINNI, Tre punti, in « Terzo Potere », marzo-aprile 1962: « Colgo l’occasione per sottolineare il disagio dei magistrati, i quali costituiscono un potere dello Stato nel dover ad ogni occasione bussare alle porte della finanza statale, laddove sarebbe più dignitoso che la materia fosse regolata dall’organo di governo della Magistratura che è il Consiglio Superiore »), quando poi la pretesa idea risolutiva si risolve in ben poco, nel classico topolino partorito dalla montagna, se è vero che non si ha il coraggio, come sarebbe logico, di attribuire al terzo potere la potestà impositiva al fine di ricavare le entrate necessarie per garantire a tutti i magistrati il « giusto » trattamento, ripiegandosi su una ben più modesta ed insignificante autonomia contabile giusta la quale i fondi erogati in base alla legge dovrebbero essere amministrati e ripartiti dal Consiglio Superiore 228 UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO del soggetto e a mio parere, ribadendo un’idea più volte espressa, c’è un solo sistema che consente siffatta valutazione nella cerchia delle persone che essendo impegnate nell’ambiente possono agevolmente compierla: un sistema cioè di elezionecooptazione. Quando si deve provvedere, ad esempio, per la nomina di un giudice di tribunale, la scelta dovrebbe avvenire con il voto di un collegio composto dai pretori della giurisdizione e dai giudici del tribunale interessato, concedendo a questi ultimi due voti; per mio conto non sarei nemmeno alieno dal chiamare alla votazione anche una certa rappresentanza degli avvocati che sono nel contempo estranei alle diatribe interne ed i migliori giudici dei giudici. Mutatis mutandis si dovrebbe analogamente provvedere per la copertura dell’organico delle corti di appello. Sarebbe anche opportuno porre la regola che il prescelto deve essere in servizio come pretore nella giurisdizione interessata da un certo tempo, almeno da cinque anni, cosı̀ come sarebbe opportuno porre anche nell’attuale sistema la regola che si deve reggere l’ufficio, senza poter ottenere tramutamenti, per almeno un quin(vd. D. PONE, L’autogoverno economico della Magistratura, a cura dell’Associazione Naz. Magistrati, Roma, 1964); dopo di che, visto che con la progettata riforma i fondi non crescerebbero essendo principio elementare che la legge dispone in materia, avremmo l’ulteriore complicazione di poco edificanti diatribe in una famiglia nella quale non c’è certo sovrabbondanza di reciproco affetto e comprensione! E quindi, abbandonando le inutili utopie, si persegua invece un assetto organico ed ordinato in tutto il settore del pubblico impiego, avendo il coraggio di attribuire a ciascuno il suo da parte dell’organo rappresentativo della sovranità popolare o, più prosaicamente, del contribuente. LE RIFORME CHE URGONO 229 quennio, bloccando comunque la situazione al sessantacinquesimo anno di età; e questo per impedire in particolare quei frequenti tramutamenti che sono disposti unicamente per soddisfare le legittime aspettative dei singoli, ma senza alcun riguardo alle esigenze di ufficio (si è avuto un primo presidente di Cassazione per un giorno!), perché è ovvio che chi resta in determinate funzioni solo per un tempo limitato può appena orientarsi senza lasciare traccia. Ed è singolare che a queste folleggianti presenze si acconcino coloro che almeno ufficialmente sono tanto preoccupati della strutturazione tradizionale e della conservazione, in particolare, delle attuali gerarchie, ritenute indispensabili al buon funzionamento degli uffici; chi pensa in siffatti termini dovrebbe essere coerentemente pervaso da una volontà di presenza e di controllo che è invece frustrata in radice da questo consueto girovagare di persone che, oltre tutto, dovrebbero trovare nei naturali acciacchi dell’età che indebolisce il corpo e intorbida la mente la spinta per far tesoro delle residue energie senza disperderle quali farfalle che vanno trascorrendo di fiore in fiore. Ma in realtà tutto si risolve in una schermaglia formale, dalle opposte sponde, ben pochi essendo disposti a far seguire alle teorizzazioni i fatti, ma piuttosto essendo inclini a teorizzare sulla base delle proprie individuali esigenze (76). (76) E cosı̀ chi avversa la strutturazione del terzo potere delineata nella Costituzione ed è contrario al c.d. appiattimento egualitario in nome della ben nota gerarchia dei valori, ripropone talora il metro egualitario dell’anzianità e si dimentica della selezione dei migliori quando sia in giuoco il ristretto interesse di coloro che si 230 UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO Non credo che il sistema di progressione da me caldeggiato tolga al magistrato l’incentivo per desiderarla e quindi per fare tutto il possibile per migliorare e per primeggiare al fine di essere possibilmente prescelto. L’uomo non vive di solo pane, ma, purtroppo, anche di ambizioni più o meno giustificate nonché del desiderio di evitare mortificazioni. Ora la sistematica esclusione dalla progressione per il voto non favorevole dell’apposito collegio, trovandosi comunque, almeno nell’opinione comune, il giudice di appello in posizione di più elevato prestigio rispetto al giudice di tribunale e al pretore, costituisce certo una mortificazione, mentre la vittoria nel cimento elettorale soddisferà l’amor proprio, darà lustra e prestigio. La lustra ed il prestigio, pur non collegate ad alcun vantaggio materiale, sono spinte sufficienti per lo scatenamento delle umane passioni, come l’esperienza ampiamente comprova, anche laddove non ci dovrebbe essere serio motivo di contesa. La vita sociale è largamente costituita di effettive o trovano in alto; vd. ad es. l’articolo di G. NIGRO, Il Consiglio Superiore della Magistratura, in « Rassegna dei magistrati », 1962, p. 79, nel quale si attacca la nuova istituzione, lamentando però che la legge istitutiva del Consiglio Superiore consenta, per quanto attiene al conferimento degli uffici direttivi, di poter prescindere dall’anzianità: « Sicché Magistrati che abbiano diritto ad essere valutati per conferimento di posti direttivi (diritto che sorge dalla situazione di ruolo) si trovano bloccati e troncati nella loro legittima aspettativa, sol perché a Ministro e Commissione non è parso di proporli ». E se anche è vero che l’A. parla semplicemente di un « diritto » ad essere proposto e valutato, libero il C. S. di prescegliere tra i più anziani nel ruolo il migliore, c’è nella sua argomentazione, in definitiva, quella stessa logica che informa le tendenze egualitarie della « bassa » magistratura, la logica cioè della mera anzianità. LE RIFORME CHE URGONO 231 presunte gerarchie di fatto che si stabiliscono negli ambienti e nelle situazioni più impensabili. Ricordo in proposito un gustoso episodio; in un luogo di villeggiatura si accese un giorno una vivace discussione tra due magistrati di tribunale, uno con funzioni di pretore e l’altro di sostituto procuratore della Repubblica, provocata da una certa naturale albagia del secondo che voleva dimostrare come egli fosse in effetti in posizione preminente rispetto ai pretori e allo stesso tribunale, potendo egli impugnare le sentenze dei primi e del secondo; la discussione venne troncata da un terzo magistrato che agghiacciò il sostituto facendo rilevare a costui che egli aveva quindi lo stesso rango dell’avvocato X (e indicò il più sprovveduto e strampalato avvocaticchio locale) che aveva le stesse possibilità di gravame! Tutto sommato, col sistema di elezionecooptazione, superato il problema del trattamento economico, avremmo sempre, per quello che può valere ai fini dell’interesse generale per il progressivo miglioramento dei giudici, un incentivo e precisamente quello in pratica meno pericoloso e meno suscettivo di contestazioni e di lamentele, giacché la situazione psicologica del candidato sconfitto alle elezioni è assai diversa da quella di colui che non ha superato un esame o un concorso, proprio per la diversità del contesto. Il sistema non attenterebbe comunque alla indipendenza del giudice, posto che è praticamente impossibile farsi influenzare nelle proprie scelte dalla preoccupazione di ingraziarsi la maggioranza di un collegio composto di alcune diecine di persone. Infine il corpo dei magistrati realizzerebbe in un certo senso un integrale auto- 232 UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO governo, portando l’intera ed esclusiva responsabilità delle scelte; l’espediente oggi assai comodo delle lamentele contro il potere politico, contro il ministro, contro gli alti gradi della magistratura, contro questo o quel clan sarebbe spezzato in partenza, tutto dovendosi risolvere nella cerchia dell’eletta famiglia. A questo punto si pone il problema dei capi, se convenga o no mantenere il sistema attuale in virtù del quale alla testa degli uffici giudiziari sono posti magistrati di grado più elevato rispetto a quelli che vi sono inseriti con funzioni corrispondenti alla qualifica, sostenendosi da molte parti che questo sistema burocratico va rimosso, introducendosi la regola che i dirigenti debbono essere scelti dai giudici addetti all’ufficio, con metodo elettivo. Questa richiesta è formulata per eliminare i residui della strutturazione burocratica del terzo ordine, per realizzare completamente la c.d. indipendenza interna ed in nome di un comprensibile principio democratico; e si porta a suffragio l’esempio delle facoltà universitarie nelle quali i professori eleggono nel loro seno il preside con mandato temporaneo, cosı̀ come il plenum dei professori di tutto l’ateneo elegge il rettore. Confesso, ancora una volta ripetendomi, che, a prescindere dalle impostazioni astratte di principio, la tesi non mi convince molto e soprattutto non mi persuade l’esemplificazione, essendo ben noto come funzionino in genere le facoltà universitarie nelle quali il preside è spesso assai meno di un primus inter pares, manca del minimo di autorità, non è in grado di esercitare alcun serio controllo sui colleghi che fanno quindi il LE RIFORME CHE URGONO 233 loro dovere o lo tralasciano secondo quanto detta loro la coscienza. In sostanza le autonomie fanno in genere, nel nostro paese, cattiva prova, di norma consentono la più ampia anarchia individualistica e molti abusi. Ma questa mia perplessità non può essere tradotta, purtroppo, in una radicale opposizione alla proposta, anche se essa non può entusiasmarmi. Dico purtroppo perché, sul piano della funzionalità del servizio, il sistema attuale non serve a niente, i capi degli uffici, lungi dall’adempiere al loro dovere di controllo e di stimolo, di norma bellamente se ne disinteressano, fatte salve alcune veramente rare eccezioni; è eccezionale che un capo imponga ai giudici l’osservanza dei termini e dei doveri formalmente posti cosı̀ come è ancor più eccezionale che esso provochi l’azione disciplinare nei casi, non scarsi, nei quali essa sarebbe giustificata. Il tipo medio del capo è quello del classico buon uomo che non vuole far del male a nessuno, che tutto tollera e sopporta, che per tutti trova, nei rapporti informativi, la possibilità di tessere elogi sperticati e senza alcun fondamento obiettivo. Il capo quindi, ad eccezione di quei casi invero rari in cui opera deteriormente facendosi strumento di illecite pressioni (77), è veramente una brava per(77) Sul conformismo delle camere di consiglio vd. la testimonianza di A. PERONACI, La crisi della giustizia, cit. E circa le responsabilità dei capi sull’attuale disservizio, vd. G. A. RAFFAELLI, Ordine e disciplina nell’ordine giudiziario, in « Rassegna dei magistrati », 1964, p. 296. E circa la validità del riferimento universitario vd. A. C. JEMOLO, Pochi i colpevoli molti gli apatici, ne « La Stampa » del 10 agosto 1965: « E quale mai facoltà universitaria insorge contro il collega pelandrone (rara avis, ma non specie ignota)? È questa 234 UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO sona nell’accezione corrente del termine; e la mia esperienza mi insegna che per capo buono si intende il capo lassista, quello che vive e lascia vivere, mentre per capo cattivo si intende colui che intende esercitare nei fatti il sacrosanto suo potere di controllo. La causa dei capi che non servono a niente non può quindi commuovermi; ne sarei convinto, proprio perché sono portato a porre sempre l’accento sulla funzionalità degli uffici e a disdegnare le soluzioni più favorevoli ai comodi individuali, se avvertissi dietro questa campagna difensiva dei c.d. conservatori la ferma volontà di reggere gli uffici con pugno prussiano, senza lasciarsi frastornare da considerazioni astratte di pura democrazia. Ed allora, se i capi non servono, se essi sono di massima corresponsabili dell’attuale disservizio, tanto vale eliminarli e poiché non è pensabile nemmeno un qualche altro espediente funzionale pur teoricamente ammissibile (ad esempio, quello di affidare la direzione burocratica degli uffici ad un funzionario non magistrato nominato dal ministro per la giustizia e verso il ministro responsabile), tanto vale accogliere la proposta innovativa e rimuovere cosı̀ anche questa ragione di malcontento, giustificato o no. La mia adesione è quindi dettata unicamente dalla convinzione che, rebus sic stantibus, le cose della giustizia non peggiorerebbero molto rispetto alla situazione attuale, onde, disservizio per disservizio, è preferibile dar libero sfogo alle istanze più realtà attuale che spinge me, poco propizio a pensare per universalia, ad essere contrario a tutte le forme di autogoverno nell’Italia d’oggi ». LE RIFORME CHE URGONO 235 « aperte » e più « democratiche » licenziando chi non serve e risparmiando qualche milione. Ma si adotti un correttivo, per vedere se almeno per questa via possa ottenersi qualcosa; elezione dei capi, ma non con mandato temporaneo, bensı̀ sine die e quindi, se non sopravviene la progressione ad altro ufficio, anche a vita. E questo nella speranza che il capo elettivo, non dovendo accattivarsi il favore dei colleghi per la rielezione e avendo comunque ottenuto da costoro, una volta per tutte, tutto quanto poteva sperare rimanendo in quell’ufficio, sia preso dalla funzione e possa quindi assicurare il buon funzionamento dell’ufficio senza essere indotto a colpevoli compiacenze, senza guardare in faccia nessuno. Se fosse possibile strutturare il terzo potere nei termini che ho prospettato, se inoltre si eliminasse il problema della carriera e si accogliesse, sia pure per disperazione, l’elettività dei capi, in pratica si svuoterebbe in larga misura il problema oggi assai dibattuto del Consiglio Superiore, proprio perché l’edificio verrebbe ricostruito alla base su principi assai diversi da quelli attuali. Oggi il problema del Consiglio Superiore appare esasperato e polemico perché, con scarsa preveggenza, si è iniziato a ricostruire dal vertice, dal tetto, sovrapponendo il nuovo organo di autogoverno alla struttura tradizionale; se si provasse a percorrere ab imis e più correttamente la strada inversa, ci si renderebbe conto che si può semplificare, e notevolmente, al vertice. In pratica, in un sistema snellito, senza carriere e senza capi burocraticamente sovrapposti, i compiti del Consiglio Superiore si ridurrebbero 236 UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO alla necessità di provvedere per il concorso iniziale nonché per il concorso di definitiva immissione in magistratura; il Consiglio dovrebbe poi controllare la regolarità delle operazioni svolte per la progressione nelle funzioni nonché la regolarità delle elezioni dei capi risolvendo eventuali contestazioni; dovrebbe curare la nomina dei giudici onorari e funzionare infine da corte disciplinare. Per tutto questo non è necessario un organo pletorico come l’attuale, né è necessario scomodare il presidente della repubblica per una presidenza più o meno simbolica; sette, nove, al massimo undici persone sarebbero sufficienti per amministrare una ristretta categoria che non supera oggi, se non vado errato, le seimila unità; il Consiglio, sempre funzionando unitariamente, potrebbe anche funzionare direttamente come commissione giudicatrice per i due concorsi iniziali. Naturalmente tutto questo richiederebbe un impegno assorbente, adeguatamente compensato, a prescindere dalla questione del trattamento economico, dalla elevatezza della funzione, trattandosi di garantire al paese una buona magistratura; funzione che può quindi essere considerata da ogni cittadino come una delle più degne ed onorevoli. Si potrebbe anche introdurre la regola della elezione a vita all’alto incarico, anche per ridurre al minimo le competizioni elettorali che, se sono talora indispensabili, turbano un ambiente cosı̀ delicato come quello della magistratura; e per quanto attiene alla composizione non sarei alieno dall’introdurre una prevalenza di laici nel consesso, perché i laici, essendo estranei all’ambiente, meglio possono giudicarne per un mandato commesso dagli LE RIFORME CHE URGONO 237 organi attraverso i quali si esprime la sovranità popolare a servizio della quale si trovano i giudici; infine, i componenti togati dovrebbero essere eletti da tutto il plenum dei magistrati, svuotandosi, per il nuovo complessivo assetto della magistratura, i problemi oggi dibattuti della rappresentanza delle varie categorie, a stati generali. Ma ogni riforma, anche la meno imperfetta, sarà vana se non muterà il costume e se in particolare tutti coloro che sono investiti di un pubblico ufficio non cercheranno di compiere senza residui il proprio dovere, anche quando questo comanda di nuocere alla pecora nera. Oggi, ovunque, gli impiegati pubblici in genere, ivi compresi i magistrati, sono come ispirati da un criterio guida inespresso; ch’essi sono, per dure necessità della vita, legati ad una barca che non ha pilota e sulla quale essi debbono cavarsela, arrecandosi reciprocamente il minimo disturbo possibile; di qui la falsa pietà, la reciproca indulgenza, la quasi congenita impossibilità di pensare all’interesse obiettivo della cosa pubblica che deve sovrastare i singoli (78), la man(78) Mi ha sempre colpito la carica di umanità e di fraternità che negli ambienti burocratici quasi sempre si dimostra verso il collega colpito da qualche disavventura, ad esempio caduto in grave malattia che lo tiene in concreto lontano dall’ufficio per lunghi periodi, in tale situazione facendolo figurare fittiziamente presente; e talora sono rimasti in servizio magistrati ormai distrutti dall’età e dalla malattia, incapaci di attendere all’ufficio con media diligenza. Comprendo questa spinta umana, che tuttavia avrebbe un preciso valore morale se essa non si realizzasse in danno di un terzo; la carità è meritoria quando si pone mano al proprio portafoglio, non a quello degli altri. Sta qui la costituzionale inferiorità dell’impresa pubblica, almeno nel nostro paese, rispetto a quella privata, proprio per 238 UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO canza, in conclusione, di quel senso dello Stato che altro non è che il ben inteso interesse del tutto e di tutti. Ecco perché in queste riflessioni non sono mancate le note amare che non potevano onestamente mancare, dettate come sono da un altissimo concetto della funzione del giudice nella società e dall’augurio che la magistratura possa rappresentare sempre di più un pilastro essenziale nella vita del paese. Ed infatti nella vicenda della nazione, se per le vicissitudini del potere politico passa il fiume della storia che di momento in momento diversamente varia senza che nessuno di questi successivi colori possa sperare di definitivamente fissarsi, la magistratura rappresenta al contrario quello che c’è di immodificabile e di eterno nella convivenza civile, specialmente quando essa si sostanzi in un reggimento democratico; la magistratura sintetizza istituzionalmente la prevalenza del momento costituzionale per quanto concerne in particolare l’osservanza delle regole del giuoco tra le varie aspirazioni ideali e i contrastanti interessi. Per questo ogni cittadino pensoso del pubblico bene invoca una magistratura che lungi dall’essere timida e pavida, umiliata e dilaniata da meschini problemi di assetto e da lotte interne, sia viceversa l’impossibilità che qualcuno dia corpo ed anima a quell’entità immaginaria che è lo Stato; tanto che un illustre magistrato, confidandomi un giorno come procedevano le cose nella corte nella quale espletava le funzioni di presidente, mi disse argutamente che se egli, uomo di rara laboriosità, avesse potuto prendere in appalto l’ufficio, le cose sarebbero andate benissimo, sbrigandosi il lavoro con la metà del personale al quale si sarebbe potuto riconoscere un trattamento economico raddoppiato! LE RIFORME CHE URGONO 239 costituzionalmente assisa su basi ben ferme, con una strutturazione funzionale, con un assetto interno che faccia di ogni suo componente un uomo rispettoso dei principi e delle leggi e in questa direzione libero e deciso, severo verso gli altri avendone la giustificazione morale per la severità e lo scrupolo col quale adempie ai suoi doveri, modello di civiche virtù in tutte le manifestazioni della sua vita, pubblica e privata; se tali saranno le cellule, tale sarà in corrispondenza il tutto. E non c’è dubbio che molte cose potranno cambiare in Italia, potrà ottenersi un miglior assetto civile col progressivo miglioramento del costume, se la magistratura eserciterà del tutto, come le è possibile, i suoi immensi poteri. Ho già detto che tutto sommato il giudice medio italiano è un buon giudice, non disposto a barare con la coscienza; si vorrebbe che quel pizzico di negativo che c’è in questo giudizio venisse meno, che vi fossero giudici ottimi fino in fondo, non in un certo senso disposti a scusare per scusarsi, ma severi ed implacabilmente decisi. Il giorno in cui tutti reciteranno senza pietà malintesa la parte che la legge loro commette, il miracolo più vero di una Italia avviata non solo alla prosperità sociale ma anche ad un più civile assetto sarà sul punto di verificarsi. Queste pagine sono state dettate in questa precisa disposizione dell’animo (79). (79) Questo saggio è stato scritto nell’estate del 1965, cosı̀ appassionatamente impiegando i periodi, ahimé frequenti, di forzata costrizione casalinga imposti, tra le montagne dolomitiche, dall’inclemenza del tempo. In questo periodo di oltre un anno tra la stesura e la pubblicazione, il contesto rispetto al quale ho ragionato e meditato non è, ovviamente, mutato. Pertanto mi limito qui a ricordare i fatti 240 UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO più salienti meritevoli di menzione tra la fine del 1965 e questo inizio del 1967. Gran scalpore suscitò, a fine 1965, il dodicesimo congresso nazionale dei magistrati promosso in Gardone Riviera, nei giorni 25-28 settembre, dall’associazione nazionale magistrati, sul tema « Funzione giurisdizionale ed indirizzo politico nella Costituzione », sulla base di una relazione generale di G. Maranini e di altre numerose relazioni particolari (vd. l’opuscolo dallo stesso titolo edito nell’occasione dall’A.N.M.). Una larga parte dell’opinione pubblica si allarmò, vedendo i magistrati discettare in termini di indirizzo politico. In realtà, le conclusioni pratiche furono assai modeste, contenute nei limiti della funzione istituzionale del terzo potere, in esse ribadendosi soprattutto l’esigenza di dar puntuale corso, nell’attività interpretativa, ai precetti costituzionali. Si trattò quindi, in considerazione di questo concreto svolgimento del congresso, di un falso allarme, tuttavia ampiamente giustificato dai promotori mettendo in giro, con la prospettazione del tema in quei termini, una preoccupazione non infondata e gravemente equivoca. Cercai di dimostrare altrove, in un articolo il cui titolo, redazionalmente scelto, non fu certo molto felice (vd. Giudici senza carriera, in « Leader », n. 22 del 1965), come quella impostazione fosse del tutto discutibile e come, nella prospettazione del Maranini, si confondessero problemi sostanziali assai diversi (e vd. infatti, nell’opuscolo citato, p. 29, la ben diversa relazione di P. Barile e di L. Bianchi d’Espinosa, sul Giudizio di legittimità). Nel frattempo la situazione associativa dei magistrati italiani ha subito ulteriori complicazioni. Mentre l’U.M.I. ha tenuto, nel maggio del 1966, il suo primo congresso a Terracina (vd. il resoconto in « Rassegna dei magistrati », giugno 1966), l’A.N.M. si è andata dividendo in tre correnti tra le quali il contrasto è assai forte, come è emerso quando si è trattato di procedere, nei mesi scorsi, alla sistemazione degli organi direttivi dell’associazione e alla nomina del presidente. Praticamente si contrappongono una sinistra, una destra ed un centro, per un processo distintivo reso, a mio avviso, inevitabile per le punte estreme assunte da taluni gruppi. Ma è un giudizio che esprimo con cautela perché, estraneo ormai all’ordine, forse mi sfuggono diversi aspetti e situazioni indispensabili per un motivato giudizio, anche se, grosso modo, le mie simpatie vanno per l’ala più moderata del complesso schieramento. Mi è parso, inoltre, di poter registrare in alcune recenti manifestazioni i primi sintomi di un clima meno surriscaldato. Per quanto attiene ai problemi della carriera, è stata di recente emanata una legge (25 luglio 1966, n. 570, detta comunemente legge LE RIFORME CHE URGONO 241 Breganze dal nome del parlamentare proponente) sulla nomina a magistrato di corte di appello. Praticamente con questa legge il passaggio diventa pressoché automatico, essendosi anche introdotto il principio della progressione indipendentemente dalla vacanza dei posti assegnabili, di norma, ai magistrati di appello (art. 6). È, infatti, da prevedere che quasi mai sarà espresso dai consigli giudiziari un giudizio negativo sul magistrato ai fini della progressione, per quelle considerazioni che ho fatto ripetutamente nel testo. Comunque, è questo, di fatto, un passo avanti, incerto e contorto, rispetto all’obiettivo finale della abolizione della carriera. Per una critica assai severa della nuova legge, vd. S. VISTA, Gradi e funzioni della legge Breganze, in « Rassegna dei magistrati », luglio-agosto 1966, p. 367. Malinconicamente, l’episodio più grosso nel corso del 1966, sul piano dei problemi qui considerati, è stato quello milanese del famoso processo della « Zanzara », sul quale indubbiamente vi sarebbero tante cose da dire, nel merito e fuori del merito, sul piano strettamente giuridico e in termini etico-civili. Mi limito a dire che, da ambedue le parti (e mi riferisco, purtroppo, alle parti « interne » al terzo ordine), vi è stata molta deficienza sul piano dello « stile », soprattutto perché pare che si sia deliberatamente operato per dare all’episodio giudiziario soverchia risonanza. Proprio rispetto ai fatti che più emotivamente muovono l’opinione pubblica, sarebbe invece auspicabile un maggior riserbo ed una maggiore compostezza. Il tutto si è tradotto, a mio avviso, in una ulteriore perdita di prestigio per il terzo potere. Infine, parafrasando le prime battute di un famoso romanzo dannunziano, l’anno è finito assai amaramente, con l’omaggio che il signor primo presidente della Cassazione ha ritenuto di dover rendere al giurista del ventennio fascista. È un episodio, gravissimo, che offende la coscienza migliore del paese e che testimonia, forse, dello stato d’animo di determinati gruppi certo agli antipodi rispetto ai valori accolti nel nuovo ordinamento costituzionale. Nella speranza che si tratti di un gesto isolato, non veramente rappresentativo, è tuttavia da augurarsi che se ne traggano le conseguenze sul piano politico-legislativo, facendo soprattutto in modo che la composizione del Consiglio Superiore della Magistratura sia tale da garantire contro le esorbitanze di tutti, dei giudici « inferiori », ma anche dei giudici « superiori ». Con l’augurio infine che si ponga mano alla risoluzione dei problemi della Giustizia nell’ordine di idee che il presidente Saragat ha delineato, in piena corrispondenza con le attese del paese, nel suo secondo, pubblico e forte messaggio al Consiglio Superiore (e sul quale vd. il mio articolo, La crisi della giustizia, in « Critica Sociale » del 20 settembre 1966).