DIRITTO e ROVESCIO
Nuova Serie
GIUSEPPE PERA
UN MESTIERE
DIFFICILE
Il magistrato
Giuffrè editore
DIRITTO e ROVESCIO
Nuova Serie
Giuseppe Pera
UN MESTIERE
DIFFICILE
Il magistrato
Giuffrè Editore
Ai miei amici e allievi magistrati
PRESENTAZIONE
Giuseppe Pera, dopo essersi laureato a Pisa nel
1952, è entrato in Magistratura nell’anno 1955: è
stato uditore giudiziario a Firenze, poi è stato nominato pretore a San Miniato di Pisa e da ultimo ha
svolto funzioni di giudice presso il Tribunale di
Lucca. Nel 1964 ha lasciato la Magistratura dopo
essere stato nominato assistente ordinario di Diritto
del lavoro nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Pisa, ove ha insegnato, come professore
ordinario, dal 1966 al 2001.
Gli anni giovanili lo hanno visto impegnato politicamente: dopo essere stato espulso dal P.S.I., è
entrato nell’Unione Socialisti Indipendenti; nello
stesso periodo ha collaborato, talvolta con lo pseudonimo di Arturo Andrei, a varie Riviste, tra le quali
meritano di essere segnalate Critica Sociale, Risorgimento Socialista, Il Mulino e Il Ponte.
Conclusa, dopo otto anni e mezzo, la carriera di
magistrato, Giuseppe Pera ha pubblicato nel 1967,
con la Casa Editrice Il Mulino, il libro che ora, su
sollecitazione di alcuni allievi, abbiamo ritenuto di
ristampare.
Immutate sono le ragioni che ci hanno portato a
prendere questa iniziativa.
Il libro, come è scritto nella premessa alla precedente edizione, « non denuncia scandali, non si at-
VIII
PRESENTAZIONE
tarda a raccontare pettegolezzi, non pronuncia requisitorie e non propone astratte riforme in nome di
questa o quella ideologia ». È un libro, quindi, che
testimonia l’esperienza di un ex magistrato, ricostruita sempre dall’interno, e cioè dall’intimità della
sua coscienza.
La crisi della giustizia che viene denunciata in
questo libro si percepisce in tutta la sua attualità,
nonostante il notevole tempo trascorso; e per questo
motivo lo riproponiamo ai lettori di oggi.
Milano, maggio 2003
INDICE
Presentazione . . . . . . . .
1. Un mestiere, una scelta
2. I giudici quali sono . . .
3. I processi e la giustizia.
4. Le riforme che urgono.
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VII
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LA LEGGE PENALE PER GL’IMPIEGATI
Il nostro sapientissimo padrone
con venerato motu proprio impone,
che da oggi in avanti ogn’ impiegato
per il bene dello stato,
(per dir come si dice) ari diritto,
e in caso d’imperizia o di delitto,
lo vuol punito scrupolosamente
colla legge seguente:
Se un real segretario o cameriere,
tagliato, puta caso, a barattiere,
ficca, a furia di brighe, in tutti i buchi
un popolo di ciuchi;
Se un cancellier devoto della zecca
sulle volture e sul catasto lecca,
e attacca una tal qual voracità
alla Comunità;
Se a caso un ispettor di polizia
sganascia o tiene il sacco, o se la spia
inventa, per non perder la pensione,
una rivoluzione;
son piccoli trascorsi perdonabili,
dall’umana natura inseparabili:
né sopra questi allungherà la mano
il benigno sovrano.
Ma nel delitto poi di peculato,
posto il vuoto di cassa a sindacato,
chi avrà rubato tanto da campare,
sia lasciato svignare;
chi avrà rubato poco, si perdoni,
e tanto più se porta testimoni
d’essersi a questi termini ridotto
per il giuoco del lotto;
Se un real ingegnere o un architetto
ci munge fino all’ultimo sacchetto,
per rimediar a questa bagatella
si cresca una gabella.
Se saremo costretti a trapiantare
un vicario bestiale atrabiliare,
tanto per dargli un saggio di rigore
sarà fatto auditore.
Se un consiglier civile o criminale,
sbadiglierà sedendo in tribunale,
visto che lo sbadiglio è contagioso,
si condanni ai riposo;
Se poi barella, o spinge la bilancia
a traboccar dal lato della mancia,
gl’infliggeremo in riga di galera
congedo e paga intera.
Se un ministro riesce un po’ animale,
siccome bazzicava il principale,
titolo avrà di consigliere emerito
e la croce dei merito.
Giuseppe Giusti (1835)
1.
Un mestiere, una scelta
Sono stato per otto anni e mezzo magistrato,
avendo cosı̀ la ventura di compiere una esperienza
decisiva nella mia personale vicenda; è in questi
anni, posti tra il grigiore e l’incertezza spesso tormentosa circa le prospettive che sono tipiche del
periodo immediatamente successivo al compimento
degli studi universitari e la mezza età, che è avvenuta, per il bene e per il male, la mia maturazione,
certo in gran parte a spese (ma spero, non troppo!)
di quanti hanno avuto a che fare col mio ufficio. È
in questa incombenza, in sostanza, che mi è capitato
di divenire uomo, con quei tratti e quelle caratteristiche secondo le quali ad un certo momento la
nostra personalità, quale risultato del dialettico
reagire delle esperienze buone o cattive, liete e
meno liete, ricche o povere di contenuto umano,
sulla spinta naturale del carattere che ci viene « per
li rami », più o meno rigidamente si fissa ed è
destinata a consolidarsi e ad insecchirsi nel tempo,
in quel naturale processo che ci fa vecchi, oltre che
nelle membra, nello spirito e nel modo di porsi
innanzi alla realtà. Sono maturato cosı̀ nel giudicare
i miei simili, esplicando (ma non è il caso di cadere
in una abusata retorica) una funzione tra le più
essenziali in una civile convivenza, trascorrendo le
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UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO
mie giornate tra fascicoli civili e processi penali, tra
prove, ispezioni e ricerche nei campi più disparati. E
mentre sono pressoché agli inizi di un altro capitolo
della mia vita al quale mi sono avviato senza
pentimenti per la spinta che ho avuto in sorte di
vedere nei libri ed in quello che essi racchiudono e
rappresentano la fonte inesauribile e pressoché
magica di un quotidiano diletto, che pur ha le sue
punte faticose e tormentose, sento che resterà sempre in me (semel abbas, semper abbas!) questa
esperienza decisiva che ho alle spalle.
Di qui lo spunto a queste riflessioni che mi
accingo a stendere, lo confesso, sull’onda di un
sentimento che prepotentemente mi muove, proprio perché sono soddisfatto di questa mia vicenda
e di aver compiuto in essa le mie prime incancellabili prove, perché in essa molto ho imparato e dalle
vicende e dai protagonisti, onde quando frequentemente vi ripenso ciò non avviene senza una nota di
rimpianto e di malinconia. Ma se dietro a queste
pagine c’è, com’è naturale che avvenga, un sentimento che mi induce altresı̀ a dedicarle, con pienezza di affetto, ai miei ex colleghi dei quali in
genere conservo un caro ricordo e massimamente a
quelli, non scarsi, dai quali appresi buone lezioni e
che talora costituirono per me un modello, mi
muove altresı̀ la speranza di fare cosa non del tutto
inutile per quanti hanno a cuore le sorti della
giustizia nel nostro paese. Spero cioè che in questo
periodo in cui per più versi e da ogni parte dell’opinione pubblica, ivi compresa quella particolarmente
significativa degli stessi magistrati, si denuncia la
gravissima crisi nella quale versa la nostra ammini-
UN MESTIERE, UNA SCELTA
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strazione giudiziaria, non sia trascurabile questa
testimonianza di un ex magistrato. Ed in verità, se
non c’è bisogno di aggiungere una ennesima voce al
coro pressoché unanime delle lamentele, posto che
la crisi non solo è, per adoperare una espressione di
moda, nelle cose, ma è ormai nella coscienza dei
più, della generalità dei cittadini, credo che vi sia
viceversa necessità di indagini accurate e spassionate in proposito, per sollecitare ancora una volta e
riforme e rimedi, pur se, per il carattere stesso di
questo scritto parziale e limitato, non è certo nelle
mie intenzioni il proposito di colmare lacune e di
fornire una completa, esauriente disamina.
Invero la più larga opinione è in prevalenza
informata dell’andamento delle cose in questo fondamentale servizio civile a mezzo delle indagini
giornalistiche ed ognuno ben sa quali siano, in una
con gli indubbi vantaggi di questo mezzo di comunicazione delle idee, gli inevitabili limiti delle stesse
e con ciò stesso il pericolo che esse rappresentano.
Negli scritti giornalistici, infatti, quand’anche non vi
domini come spesso avviene il settarismo di parte, è
sempre di prammatica, forse per la parzialità e la
superficialità delle indagini condotte, forse per l’andamento naturale del discorso in quella sede (il c.d.
colore), una certa dose di inesattezze, di approssimazioni più o meno notevoli e talora di vero e
proprio travisamento dei fatti; non per niente di un
qualsiasi contributo di discutibile attendibilità si
suole affermare che è scritto in stile giornalistico,
ove la valutazione sostanzialmente negativa è semmai di frequente temperata dal rilievo che si tratta
di un lavoro brillante e scorrevole. Le stesse crona-
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UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO
che dei fatti giudiziari sono in genere zeppe di
queste mende e lo stesso avviene, come è logico,
quando si intende parlare di cose assai più grosse,
dei fasti e nefasti dell’amministrazione giudiziaria.
Al minimo si dicono sempre delle mezze verità;
spesso si cade ancor più in basso. Già una volta mi
accadde di dover protestare, in un foglio scritto da
giudici per i giudici (1), contro codesta superficialità
giornalistica, prendendo spunto dalla circostanza
che un nostro giornalista che non a torto va per la
maggiore anche per il fatto d’essersi cimentato con
lusinghiero successo in cose letterarie, in relazione
ad un famoso caso di errore giudiziario, si chiese
angosciosamente se i magistrati « responsabili » del
medesimo fossero stati, come si sarebbe dovuto fare
a detta dell’articolista, subito rimossi dal loro ufficio! E assai di recente, per fare un altro esempio
clamoroso, in una inchiesta si è scritto (2) che per i
magistrati italiani la identificazione tra morale e
sesso è assoluta e corrente, onde « termini che sono
stati banditi dal vocabolario corrente degli italiani
(e che ricordano i romanzi di Guido da Verona o i
vecchi trattati di sessuologia di Paolo Mantegazza)... appetito carnale, lascivia, concupiscenza, lussuria, libidine costituiscono il tessuto connettivo di
centinaia di sentenze, da quelle dettate dalla Cassazione a quelle stilate dai pretori »; e pertanto parrebbe, a tacere delle osservazioni che potrebbero
farsi sulla accettabilità della proposizione princi(1) G. PERA, Valutazioni frettolose, in « Terzo Potere »,
gennaio-febbraio 1962.
(2) Vd. N. AJELLO, Le toghe di piombo, ne « L’Espresso » del
2 maggio 1965.
UN MESTIERE, UNA SCELTA
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pale, che i giudici italiani abbiano nella loro testa un
tal quale rovello... per certe cose, che sarebbe in essi
irrefrenabile il bisogno di parlarne in qualsiasi loro
pronuncia, anche laddove, nella materia del contendere, per le passioni più basse non vi sia il minimo
aggancio obiettivo, dovendosi decidere, putacaso, di
un credito o di un reato colposo e che quindi il
povero cittadino, costretto malgrado lui a frequentare certi ambienti, dovrebbe tener presente d’avere
a che fare con pericolosi maniaci sessuali! Da tutto
questo sorge, per quanti ne abbiano la possibilità,
l’obbligo morale di contribuire viceversa ad una
onesta e non tendenziosa informazione; ed è in
questo ordine di idee che, accomunando alle ragioni
del cuore quelle della testa, mi accingo a rendere
questa testimonianza, lieto se potrò obiettivamente
recare un pur modesto contributo ad una causa cosı̀
grande e nobile quale quella del miglior assetto
dell’amministrazione giudiziaria, una causa che dovrebbe sommuovere e trascinare ogni cittadino
premuroso dell’interesse generale in una civile convivenza.
Naturalmente, per valutare il peso che obiettivamente queste riflessioni possono avere, è necessario considerare che l’esperienza personale dalla
quale prendo spunto, se è stata decisiva sul piano
del curriculum individuale, non può dirsi piena e
complessa come quella che sta dietro a chi lascia
l’ordine giudiziario avendo trascorso in esso tutta la
sua vita fino al momento fatale del pensionamento
o larga parte, comunque, della sua esistenza. Otto
anni e mezzo di attività giudiziaria non sono molti,
in particolare se si toglie il primo anno di uditorato,
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UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO
cioè di mero tirocinio senza effettivo esercizio delle
funzioni; in un arco di tempo cosı̀ relativamente
breve, il magistrato compie, a mio parere, solo la
parabola inevitabile del suo definitivo inserimento
nell’ambiente, si fa sostanzialmente le ossa, si consolida nella sua personalità. Con larga approssimazione, è solo dopo un decennio circa di attività che
il giudice supera il periodo di assestamento e comincia a porsi e ad operare, con la piena maturità
acquisita nella varia esperienza quotidiana; ed è
solo con l’esperienza intensamente vissuta che, specialmente in queste funzioni, ci si forma e si migliora sempre più, relativamente avvicinandosi al
modello ideale.
La mia testimonianza soffre quindi indubbiamente di questa limitatezza dell’esperienza accumulata. In secondo luogo è bene che dica come io
abbia svolto le funzioni di magistrato in determinati
uffici ed in determinati ambienti, certo laddove non
possono essere cosı̀ intense come in altre situazioni
le occasioni decisive per potersi rendere conto
appieno delle caratteristiche attive e passive del
servizio. In concreto fui per un anno uditore vicepretore in una grossa pretura di una città media,
essendo ivi destinato al penale e cosı̀ trascorrendo
larga parte del mio tempo sui fascicoli dei procedimenti penali per lesioni colpose derivanti da fatti
della circolazione stradale. Poi per cinque anni ho
compiuto le mie prove decisive, come pretore, in
una cittadina della valle d’Arno ovunque famosa
per lo strillare delle cicale di carducciana memoria,
in un ambiente avente come tutti gli ambienti certe
irripetibili caratteristiche e umane e specificata-
UN MESTIERE, UNA SCELTA
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mente rilevanti sul piano del lavoro giudiziario; ad
esempio in quel mandamento i procedimenti penali
derivano con schiacciante prevalenza dalla circolazione stradale, contandosi le truffe e i furti sulle
punte delle dita e risalendo l’ultimo omicidio volontario a circa trenta anni innanzi: solo nello scorcio
della mia permanenza si verificò qualche grave
episodio di sangue nell’ambiente della massiccia
emigrazione meridionale avvenuta nell’ultimo decennio, ciò costituendo sociologicamente, con il
contemporaneo abbandono delle campagne da
parte dei nativi, il dato più imponente di questa
Italia che va, in mezzo a notevoli difficoltà, felicemente rimescolandosi nelle sue varie stirpi. Infine
ho trascorso l’ultimo periodo nel tranquillo tribunale della mia città natale, con funzioni anche qui
promiscue, nel penale e nel civile; e la mia città è
altrettanto ben nota perché i suoi abitanti sono in
genere alieni per calcolata natura da ogni fatto che
possa ficcarli nei guai, intenti com’essi sono a perseguire, senza avventure pericolose e con molta
proverbiale, arida taccagneria, il loro « particulare »; uomini « d’ordine », insomma, nell’accezione
meno simpatica e meno nobile del termine, tanto
che qui, dall’unità nazionale, la corte d’assise ha
tenuto aperti i battenti per celebrare, di norma,
processi, anche famosi, quivi trasferiti per legittima
suspicione dalle più turbolente province, ché altrimenti gli indigeni possono fornire lavoro per duetre udienze all’anno e magari per un vilipendio
addebitabile a qualche stravagante! Nel complesso,
quindi, ho lavorato in ambienti tranquilli, dove la
grossa delinquenza è rara; in uffici, per cosı̀ dire, di
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UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO
ordinaria amministrazione, senza eccessivo sovraccarico di incombenze. Non ho perciò conoscenza
diretta di quegli uffici, posti in particolare nelle
grandi città, nei quali, per qualità e per quantità, la
crisi della giustizia appare veramente macroscopica
e ineludibile. Non ho nemmeno esperienza di tutta
la trafila dell’amministrazione giudiziaria, ho conosciuto solo alcune delle funzioni che possono essere
in concreto commesse ad un magistrato e che si
prospettano in realtà secondo una gamma assai
ricca. Quindi una esperienza non solo temporalmente, ma anche qualitativamente e per più ordini
di ragioni limitata; limitatezza che ovviamente influisce, come ho premesso, sul valore di questa
testimonianza la quale, a sua volta, può apparire
forse in parte condizionata in senso negativo dal
tipo specifico di esperienza compiuta, da quelle
certe cose con le quali ho avuto a che fare nei tre
uffici ricoperti. Vedano i cortesi lettori quale peso
possa cosı̀ obiettivamente attribuirsi a queste pagine, in particolare quando mi indurrò a parlare di
situazioni delle quali non ebbi conoscenza diretta,
per formulare talune idee sulla crisi del sistema in
generale.
Ho già detto per inciso che mi considero soddisfatto della mia esperienza di magistrato; ed in
verità penso di aver fatto a suo tempo la scelta
migliore tra le diverse prospettive che, più o meno
teoricamente, avevo innanzi a me dopo la laurea in
giurisprudenza, cosı̀ come, presentandosi negli
stessi termini la situazione, non esiterei ad imboccare di nuovo quella via. Ora può essere interessante che io chiarisca le ragioni di questa mia
UN MESTIERE, UNA SCELTA
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conclusione, specialmente in rapporto alle indagini
che cominciano a farsi, in sede sociologica e psicologica, in ordine alle motivazioni e alle spinte che
possono indurre nella società italiana un giovane ad
entrare in magistratura (3), come testimonianza —
su questo piano — di un modo particolare di porsi
innanzi alla questione che probabilmente non è il
più diffuso, ma nemmeno, forse, del tutto raro. Ciò
importa che io dica per quali ragioni, certo del tutto
personali, scelsi di divenire magistrato e per le quali,
se non si fosse presentata la possibilità di dedicare il
resto della mia vita allo studio della materia di
elezione, certamente avrei l’onore di indossare ancora la toga. Dico subito che scelsi, deliberatamente
e coscientemente, per vocazione. E mi spiego, affinché sia chiaro cosa intendo dire quando parlo di
vocazione; non adopero questa parola alquanto
impegnativa per dire che intesi compiere una scelta
aprioristica compiuta con l’unico intento di servire
in assoluto un certo ideale al pari di chi, per
ispirazione religiosa o di redenzione sociale, lascia il
mondo, rinuncia alla soddisfazione dei personali
interessi e si fa o sacerdote o militante rivoluzionario. Intendo più modestamente dire che scelsi nello
sforzo di ricercare la professione nella quale mi
fosse possibile, più che altrove, combinare il soddisfacimento delle esigenze elementari di vita, posto
che la natura lungi dall’avermi fatto asceta mi ha
dato una certa bramosia di vivere alquanto prosai(3) Vd. ad es. l’iniziativa illustrata da A. BERIA DI ARGENTINE,
Una indagine sull’Amministrazione della Giustizia in Italia, ne « La
Magistratura », gennaio 1963, p. 4.
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UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO
camente, con il minor disagio possibile per la mia
persona e per il mio carattere. Posta la mia naturale
inclinazione, se non agli studi severamente condotti,
ad un certo lieto bighellonare nei vari settori della
cultura che si incentrano sui problemi dell’umana
convivenza, se la sorte mi avesse concesso la rara
fortuna di potermi bellamente disinteressare del
pane quotidiano, certo non avrei bussato alla porta
di nessuno e me ne sarei rimasto intento alle cose a
me più care secondo una scelta che, rispettate le
distanze che corrono tra l’uomo di genio ed il
comune dilettante, mi avrebbe posto sullo stesso
piano del non laureato Don Benedetto. Ma la dea
fortuna non ritenne di dover essere cosı̀ prodiga nei
miei confronti e poiché a quei tempi nemmeno nel
bilancio universitario v’era quel poco che può consentire ad un giovane desideroso di proseguire negli
studi la possibilità — per me presentatasi più di
dieci anni dopo — di sbarcare il lunario, dovetti
scegliere altrimenti. E poiché madre natura mi ha
fatto, d’altro canto, senza presunzioni e senza iattanza, uomo insofferente di legami gerarchici, di
dipendenze necessarie, intollerante delle costrizioni
dello spirito comunque esse si manifestino e talora
anche delle farisaiche convenienze, desideroso insomma, nella misura umanamente possibile, di vivere in condizioni di piena indipendenza, se non
materiale, quanto meno spirituale, tanto che ritengo
che qui sia il problema essenziale che l’umanità
deve risolvere se vorrà dirsi veramente civile (garantire a tutti la massima misura possibile di libertà
e di rispetto della dignità, superando tutte le tirannidi di vario colore, quelle apertamente conclamate
UN MESTIERE, UNA SCELTA
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e quelle che di fatto la società tende sempre a
costituire nel suo seno), mi resi conto che nelle mie
condizioni di uomo bisognoso e di laureato in diritto
non v’era soluzione migliore di quella di divenire
magistrato. Volli essere giudice soprattutto per assicurarmi il massimo di indipendenza possibile, nel
senso più elevato del termine, avendo da risolvere il
problema del minimo di garanzia economica, ciò
costituendo, dal mio punto di vista, l’obiettivo essenziale da raggiungere.
Il magistrato ha innanzi a sé solo una missione
istituzionale da compiere, quella di operare avendo
come unico metro e limite la legge, da ricostruire
nella sua coscienza, innanzi agli infiniti casi della
vita che gli si prospettano, con una libera operazione spirituale; egli non ha né gerarchi né padroni,
ma lo domina costituzionalmente solo il dovere di
attenersi, secondo coscienza ed equità, al precetto
di legge. Ed il magistrato può in concreto utilizzare
in pieno questa sua felice, istituzionale, posizione,
può essere veramente libero da ogni servaggio nei
limiti del suo ufficio. Certamente sussiste un problema di garanzie obiettive di questa posizione di
indipendenza, alcune già poste concretamente e da
tempo nelle nostre leggi, altre delle quali tuttora si
discute; ma, in relazione a queste rivendicazioni di
una più piena e completa garanzia dell’indipendenza (ad esempio con la totale abolizione della
carriera), può dirsi che già oggi il magistrato, se
vuole, può essere effettivamente indipendente. Già
oggi il magistrato gode, ad esempio, dopo il periodo
iniziale, dell’inamovibilità; il che significa che se egli
si comporta bene, senza dar luogo a gravi censure,
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UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO
se si contenta di quello che ha, della sede assegnatagli, della donna legittimamente avuta in sorte, se
adempie cioè a tutti i suoi doveri e mantiene una
specchiata condotta in ufficio e nella vita privata
(ma le garanzie non debbono valere nel senso di
favorire la violazione di questo minimo!), nessuno
può torcergli un capello ed egli può continuare ad
amministrare giustizia in una condizione di effettiva
sovranità che nessun potere, nessuna autorità, nessuna conventicola possono sminuire.
Ora a me è sempre parso che tutto questo fosse
di un valore inestimabile e non ragguagliabile con
alcuna moneta. Proprio perché a questo soprattutto
tenevo, non ho mai provato sentimenti di invidia
verso chi, avendo i miei stessi titoli in astratto,
magari nel regno del sottogoverno, godeva di più
laute prebende e di condizioni comunque più favorevoli; anzi, a dire il vero, mi sono sentito sempre,
pur evitando di mettere in rilievo la cosa con un
atteggiamento provocatorio di antipatie, in condizioni di gran lunga più invidiabili, posto che mai, in
nessuna occasione, se avessi osservato gli ovvi limiti
sopra indicati, nessuno avrebbe potuto chiamarmi a
rapporto, chiedere spiegazioni sul mio operato o
darmi istruzioni di sorta.
In questo senso è vero quanto frequentemente
si afferma, magari al fine di difendere un determinato assetto tradizionale della magistratura, che
cioè la prima garanzia di indipendenza del magistrato sta nella coscienza morale del medesimo;
ancor di più è difficile poter essere buoni magistrati
se non si è pervasi da questo spirito e da questa
volontà di indipendenza. Ecco perché io ringrazio la
UN MESTIERE, UNA SCELTA
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sorte di avermi consentito quanto più corrispondeva
alla mia più naturale ed invincibile inclinazione. Ed
in verità non c’è stata mai una occasione nella quale
io abbia sentita lesa la mia libertà di coscienza, mai
una occasione nella quale in definitiva non abbia
potuto affermare quanto l’intimo mi dettava, nei
limiti ovviamente della mia competenza; al massimo, quando operava ancora la norma che consentiva al procuratore della repubblica di avocare
insindacabilmente al tribunale un procedimento di
naturale competenza del pretore, norma felicemente caduta a seguito di una ottima sentenza della
Corte Costituzionale per la quale io brindai, in
qualche raro caso ebbi l’impressione che mi si
volesse sottrarre un processo ad hoc per ragioni non
molto chiare ed inconoscibili: poteva esserci cioè
un’« aggiramento » del giudice in forma di ineccepibile legalità, mai poteva esserci coartazione o
tentativo di pressione diretta. Ed anche fuori dell’ufficio, nella vita civile, non ho mai sentito menomata la mia personalità di uomo libero.
Cosı̀, in particolare, non mi fu impossibile, anche quando come pretore di una cittadina di provincia ero nella ristretta cerchia delle « autorità »
che nel nostro paese sono, com’è ben noto, anche
ecclesiastiche, comportarmi, con il dovuto rispetto
di convenienza verso quanti rappresentano cerchie
più o meno vaste della comunità, senza alcun disagio umiliante per la mia coscienza non solo laica, ma
fermamente non toccata dalla grazia divina, avendo
sempre cercato di attenermi anche qui ad una certa
dignità, il che, oltrettutto, è essenziale per poter
ottenere il rispetto degli « altri ». In realtà tutto può
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UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO
crollare, l’uomo può vanamente umiliarsi e nel
contempo umiliare i valori che sono di gran lunga
più grandi della sua misera persona e quindi indisponibili, solo se non lo sorregge una intima consapevolezza e la ferma volontà di essere coerente; ed
è da questa deprecabile deficienza che, al di là della
legge e delle forme istituzionali, può derivare quel
distorcimento nella società civile che fa sı̀ che
talora, indipendentemente dall’assetto formale generale, si sfoci, in pratica, in un clima di regime
effettivo, con una serie di verità ufficiali non scritte,
ma egualmente e più pericolosamente operanti,
tanto da piegare spesso i singoli ad un volgare
conformismo. Per mio conto mi sono sentito sempre
liberamente fuori di un siffatto clima, anche se
spesso l’ho avvertito attorno a me e nelle più varie
direzioni, posto che, quando gli uomini sono intimamente disposti a servire, si moltiplica il numero
di quelle entità, astratte o ben altrimenti corpose,
rispetto alle quali essi reputano opportuno di dover
soffocare, peccando contro il più vero degli imperativi morali, il loro spontaneo convincimento. E
cosı̀, ad esempio, proprio nella vasta aula romana
nella quale si svolgono le prove scritte dei vari
concorsi, in occasione dell’esame di aggiunto giudiziario incontrai un collega che si meravigliò di come
io osassi talora, nei miei scritti, criticare gli indirizzi
della Cassazione! Altra volta quando in occasione
di una cerimonia ufficiale porsi, come sempre, il mio
saluto al vescovo in una forma compatibile con la
coscienza di miscredente, subito dopo mi trovai
innanzi, maliziosamente sorridente, chi, ben conoscendomi, mi disse: « volevo proprio vedere come si
UN MESTIERE, UNA SCELTA
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sarebbe comportato! », al che io risposi che certe
cose non potevano ovviamente costituire un problema.
Nessuna invidia, pertanto, nei confronti di altri
materialmente più fortunati; ma spesso l’intima,
profonda, indicibile soddisfazione di questa posizione di indipendenza, in particolare quando, per
ragioni di ufficio, scoprivo nei fatti l’inevitabile e
naturale differenza tra il giudice ed il burocrate al
quale, più o meno correttamente, sono rivolti ordini
o istruzioni la cui inosservanza può essere duramente pagata. Come pretore presiedevo la commissione elettorale mandamentale e questo servizio era
affidato, nell’ambito della burocrazia comunale, ad
un funzionario onestissimo, ossequiente fino all’abnegazione ai doveri di ufficio, pur se nel suo animo
v’era la contropartita di un eccessivo, timoroso
rispetto delle superiori direttive cosı̀ come, forse,
nella sua testa, non era ben chiara la differenza che
corre tra la legge e le circolari esplicative. Ora in
una cittadina vicina, in un certo momento il partito
al governo municipale, partito che non gode esattamente delle mie simpatie, ebbe il timore di riuscire
sconfitto nella prossima consultazione elettorale e,
usufruendo della assoluta disponibilità di massicce
schiere di adepti, ritenne di dover ricorrere al
rimedio di far crescere nelle liste il numero dei suoi
sostenitori; e poiché in quella città, disponente
dell’unico attrezzato ospedale della zona, erano nati
moltissimi cittadini di famiglie residenti nei comuni
viciniori, vi fu una richiesta in massa di trasferimenti
ai fini elettorali, usufruendo della norma che consente appunto al cittadino di optare tra il comune di
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UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO
residenza e quello di nascita a quei fini. Pare che la
prefettura si preoccupasse molto di questa situazione per ragioni politicamente inverse a quelle che
l’avevano determinata, ed un giorno l’anzidetto
funzionario venne a dirmi di codesta preoccupazione e di come un viceprefetto in visita ispettiva
avesse caldamente raccomandato di farvi fronte e di
prospettare « al signor pretore » l’opportunità di
respingere le domande; risposi che come cittadino
potevo certo deprecare che la legge permettesse di
scegliere il domicilio elettorale sulla base di una
circostanza che nell’epoca attuale si risolve sempre
più di frequente in termini ostetrico-ginecologici e
che, su questo piano, si poteva prendere in considerazione, de lege ferenda, la proposta restrittiva fatta,
per l’elettorato amministrativo, in una famosa predica inutile di Luigi Einaudi; ma come soggetto
chiamato ad applicare la legge... l’avrei scrupolosamente applicata, previo controllo dei requisiti formali richiesti, non importandomi doverosamente
niente delle vicende elettorali di quel certo comune;
soprattutto mi premurai di tranquillizzare l’onesta
coscienza del bravo e timoroso burocrate.
Finora ho detto del valore della indipendenza
del magistrato dal punto di vista subiettivo, sul
piano della scelta personale di una professione in
condizioni date. Ma ovviamente, pur potendosi con
estrema franchezza prospettare la situazione da
questo punto di vista, è chiaro che l’indipendenza è
riconosciuta al giudice non quale privilegio personale, ma quale garanzia funzionale, concessa in
ragione delle esigenze tipiche della missione commessa. L’indipendenza pertanto non è un beneficio
UN MESTIERE, UNA SCELTA
17
del quale possa abusarsi, bensı̀ quanto l’ordinamento ritiene di dover assicurare affinché il magistrato possa adempiere serenamente al suo lavoro,
avendo nei fatti come unica bussola quella della
fedeltà alla legge. Per ciò stesso questo beneficio va
rigorosamente utilizzato dal singolo; costui, lungi
dal poterne approfittare per considerarsi quasi legibus solutus, deve fare tutto il possibile affinché,
rimossa con le garanzie di legge ogni possibilità di
attentato alla sua persona a ragione del modo nel
quale in concreto amministra la giustizia, nel suo
operare vi sia la visibile, costante testimonianza di
questa sua indipendenza verso tutti e verso tutte le
direzioni. Il magistrato deve essere cosı̀ veramente
indipendente nella sua coscienza e nelle scelte che
ne conseguono nei vari casi che ha da risolvere,
libero da ogni considerazione estranea a quella
doverosa di applicare la legge; ma, proprio in
funzione di questa sua attività, egli deve altresı̀
preoccuparsi di apparire anche all’esterno come
uomo veramente libero e non prevenuto. L’indipendenza è, quindi, più esattamente un dovere; questo
solleva una serie di problemi delicati nel comportamento quotidiano, giacché il cittadino deve avere la
massima fiducia nel suo giudice, deve essere del
tutto sicuro che il suo caso sarà giudicato da uomini
liberi, sciolti da qualsiasi legame pregiudiziale con
qualsiasi parte, politica o no, e con qualsiasi gruppo.
Qui si pone il discusso problema della possibilità
per il giudice di militare in formazioni politiche o
parapolitiche, o comunque di parte. Naturalmente il
giudice è un uomo e come ogni uomo ha le sue idee
ed i suoi orientamenti, più o meno precisi e rigidi; ed
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UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO
è chiaro che di necessità si riflette nella sua attività,
in misura più o meno accentuata, la concezione del
mondo alla quale egli aderisce, specialmente quando
è in giuoco l’interpretazione della legge ed in particolare quando in un determinato ordinamento, quale
è quello nostro attuale, codesta interpretazione deve
sovente svolgersi tenendo conto, ad esempio, del profondo contrasto che sussiste tra certi principi della
superlegge costituzionale e la legislazione ordinaria,
ancora in larga misura di ben diversa ispirazione, e
quando la risoluzione di questo contrasto implica inevitabilmente la scelta tra orientamenti generali e particolari radicalmente agli antipodi, all’incirca contrapponendosi un indirizzo genericamente « conservatore » ad un indirizzo altrettanto genericamente
« progressivo ». Il giudice-manichino non esiste né
può esistere in rerum natura e su questo tema, com’è
noto, s’è fin troppo scritto. Ma è altrettanto vero che
il giudice non deve avere pregiudiziali in materia né
deve apparire condizionato da codeste pregiudiziali,
proprio perché, a tacer d’altro, di volta in volta che
un certo problema si ripresenta, egli deve riproporselo ex novo nella sua interezza come se dovesse risolverlo per la prima volta, pronto a riascoltare idealmente le varie voci in contrasto e quindi anche a
modificare il suo precedente orientamento. È per
questo che il giudice non può assolutamente militare
in un partito politico per non essere costretto a seguirne le direttive, perché, come si può argomentare
con filologia spicciola, il partito è di per sé una parte,
un raggruppamento formatosi con l’accettazione
pregiudiziale di una ideologia, quando tutte le ideologie sono intrinsecamente parziali, assolutizzazioni
UN MESTIERE, UNA SCELTA
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di certi aspetti tendenziali della realtà e quindi, al
massimo, mezze verità, mentre il magistrato ha da
avere una sola pregiudiziale, un solo partito, quello
della legge. Al di là della questione se convenga o no
che la legge, in svolgimento di una precisa norma
costituzionale, ponga un divieto formale in materia
(la questione è di sostanza e non di forma ed è più
pericoloso, in ipotesi, il magistrato clandestinamente
iscritto), è indubitabile che il giudice deve sentire
questo elementare dovere di tenersi fuori dai partiti
e dalle loro competizioni.
Per mio conto risolsi in questo senso il problema, abbandonando, al momento del mio ingresso in magistratura e con formale dichiarazione
pubblicata su « Risorgimento Socialista », l’attività
politica; e successivamente cercai sempre di comportarmi di conseguenza, ricorrendo, per la pubblicazione di qualche rarissimo articolo anche non
specificatamente politico, ad uno pseudonimo. Sono
rimasto sempre perplesso dinnanzi alle aperte manifestazioni di fede politica o di rilevanza politica
alle quali talora, pur rarissimamente, taluni magistrati si abbandonano, in relazione o no alle tormentate vicende che dividono la categoria a proposito
del suo definitivo assetto istituzionale; ciò dicasi, in
particolare, per alcuni gruppi o uomini del settore
più « estremista » dell’associazione nazionale magistrati. E cosı̀ non mi ha convinto l’adesione che di
recente alcuni ed anche valentissimi giudici hanno
dato al manifesto costitutivo dell’« alleanza costituzionale », indipendentemente dal consenso o no che
come cittadino posso avere per i fini di questo
sodalizio. In conclusione l’appartenenza alla magi-
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UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO
stratura implica (specialmente in un paese assai
diviso dal punto di vista della concezione costituzionale per la mancanza di un generale consenso per
quanto attiene alla formula di regime e nel quale
altresı̀, sovente, la contrapposizione politica degrada in volgare partigianeria interessata e nel più
feroce settarismo) la doverosa rinuncia a scendere
in piazza sotto qualsiasi insegna; chi non ha la forza
di pagare questo scotto è meglio che si astenga dal
pretendere l’esercizio di cosı̀ delicate funzioni.
L’astensione non va, inoltre, perseguita solo nei
confronti dei partiti strettamente intesi, bensı̀ in
relazione a tutte le possibili formazioni contrapposte che si rinvengono come antagoniste in una certa
comunità, dividendola più o meno acutamente. Non
a torto si è talora affermato che il problema si pone
anche, in particolare nel nostro paese per ben note
ragioni, rispetto a certe organizzazioni d’ispirazione
ecclesiastica nella misura in cui queste pretendono
di interferire nel concreto assetto della comunità
nazionale su questo piano, in termini di discutibile
confessionalismo e in generale e per quanto attiene
alla risoluzione di determinati casi. Qui ovviamente
il discorso si fa più delicato, perché tocca l’intimo
della coscienza dell’uomo e ripropone, a questo
livello, il tema della laicità dello Stato. È comunque
chiaro che, a prescindere dalle legittime e rispettabili convinzioni religiose, il magistrato non può farsi
pregiudizialmente condizionare da una determinata
concezione dei rapporti tra la predominante confessione nazionale e lo Stato; egli deve sentirsi impegnato alla stretta osservanza della legge statuale,
eventualmente anche in contrasto con le direttive
UN MESTIERE, UNA SCELTA
21
promananti dalle autorità ecclesiastiche, specialmente quando queste reclamino in ipotesi posizioni
di favore che non possono trovare riconoscimento
nell’ordinamento che egli serve, in particolare
quando siano in questione i diritti fondamentali di
libertà dei cittadini. Ma, più in generale, a prescindere dalla posizione specifica del giudice, ove la
questione si pone sul piano dei doveri implicitamente collegati alla funzione, io non vedo come il
giurista, in quanto tale, possa aggettivarsi, politicamente o confessionalmente, in un senso o nell’altro;
confesso che non ho mai condiviso le ragioni per le
quali taluni si raggruppano come giuristi democratici e altri come giuristi cristiani, giacché, a prescindere dalle prese di posizione in questo senso nelle
sedi adatte, i giuristi, a mio avviso, non sono né
debbono essere né di questa né di quella parte,
posto che come tali si distinguono semmai dai non
giuristi. Cosı̀, a ben vedere, il tema dell’indipendenza e della salvaguardia nell’opinione pubblica di
questa indipendenza, non si pone esclusivamente
per il giudice, ma concerne il giurista in generale
che, in relazione al suo lavoro interpretativo, di
studioso della legge posta, deve sapersi liberare dal
contrasto d’interessi e di idealità che sta dietro la
legge e che può condizionare i possibili modi della
sua applicazione, sentendo quindi soprattutto il
motivo della fedeltà al suo mestiere.
È in questo ordine di idee che ancor oggi, pur
avendo una posizione politica abbastanza definita e
ben nota, io mi astengo deliberatamente dal prendere la tessera di un partito per svariate ragioni, ma
anche e forse soprattutto per questa che mi pare
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UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO
preclusiva: che avendo io eletto a mia disciplina di
studio professionale quella più direttamente collegata al contrasto sociale, desidero non essere pregiudizialmente condizionato nella mia attività di
studioso di un certo ramo del diritto da questa o
quella piattaforma di interessi contrapposti; non
voglio che qualcuno sia legittimato ad impormi, in
nome di una milizia politica, una certa scelta o possa
convocarmi per dar giustificazione di quanto dico e
scrivo; desidero, in particolare, che gli studenti che
mi praticano per ragioni del mio ufficio avvertano
sempre questa mia doverosa posizione di indipendenza e comunque di non pregiudiziale partigianeria. In tal modo c’è, nella mia vicenda, una certa
continuità tra il vecchio ed il nuovo mestiere su
questo punto essenziale, cosı̀ come io nella mia
coscienza ho ritenuto, allora ed ora, di doverlo
risolvere.
A prescindere dalle considerazioni fatte su un
piano più elevato, è evidente che nei fatti di tutti i
giorni c’è e non può non esservi un divario profondo
tra il reciproco modo di porsi innanzi alle questioni
del magistrato e dell’operatore di altro tipo, specialmente il politico in senso vasto. Il giudice ha per sua
naturale funzione quella di prospettarsi i problemi
in termini di stretta legalità, onde nell’opinione
corrente sempre lo accompagnerà l’accusa di essere
un arido formalista; viceversa il politico pone altrettanto naturalmente l’accento sui profili di opportunità di volta in volta, a ragione o a torto, emergenti.
Di qui il contrasto che fortunatamente è risolto sul
piano formale con la stabilita prevalenza del principio di legalità ed è attutito nei fatti dal distacco
UN MESTIERE, UNA SCELTA
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che c’è di norma tra i due mondi e quindi dalle
scarse occasioni di un confronto diretto.
Ma quando eccezionalmente, per necessità d’ufficio o per vicende della cronaca spicciola, il contatto si stabilisce, è naturale che si determinino delle
frizioni che il giudice può tuttavia assai facilmente
superare se, lungi dal rendersi comprensivo delle
altre anche legittime esigenze, tiene fermo il principio dell’inderogabile rispetto della legge. Perché
se il giudice è non un eroe, ma un povero uomo, con
le sue passioni, le sue debolezze e i suoi umanissimi
timori, è altresı̀ vero che egli ha dalla sua la forza
suprema della legge, quella forza a ragione della
quale egli, nella normalità dei casi, è in grado di
superare ogni ostacolo e di imporsi, dato che nessuno osa di norma chiedergli la violazione del suo
dovere, mentre con un pochino di fermezza e di
opportuna ironia è facile smantellare le capziose
interpretazioni elusive sovente prospettate dagli
interessati, quelle sottili costruzioni, intendo, con le
quali talora si vuol dimostrare che il bianco è nero.
Nella mia esperienza posso ricordare in proposito un episodio alquanto gustoso. In base ad una
legge emessa nei primi anni di questo dopoguerra,
un certo tipo di case costruite dallo Stato per i più
bisognosi doveva essere assegnato da una commissione presieduta dal pretore, stabilendo la legge
medesima precisi criteri di preferenza. Venni adunque chiamato alla presidenza di una di queste
commissioni; mentre era in corso la raccolta delle
informazioni in relazione alle domande presentate
per controllare l’appartenenza ad una delle categorie previste dalla legge e lo stato di grave bisogno,
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UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO
accadde nel capoluogo del comune interessato un
disastro: per lo scoppio di una bombola di gas crollò
un caseggiato e si ebbero numerosi feriti nonché
alcuni morti. Celebrandosi, a spese dell’amministrazione comunale e con grande concorso di folla
commossa, i funerali, il sindaco, di colore piuttosto
vivace, ed il prefetto ritennero di poter assicurare,
nelle loro orazioni, che le famiglie divenute cosı̀
tragicamente prive di tetto avrebbero senz’altro
ottenuto le case disponibili... in corso di assegnazione da parte della commissione da me presieduta.
La cosa non si fermò qui; il prefetto, sollecitato dal
sindaco che era del resto una brava persona (quante
volte succede che si chieda al giudice in perfetta
buona fede ed anche a fin di bene cose che il
magistrato non può concedere!), ritenne di poter
intervenire presso il presidente del tribunale affinché questi mi convincesse dell’opportunità che la
commissione si adeguasse alla promessa pubblicamente fatta, a vanvera e con scarsa correttezza, sia
pure con l’attenuante della suggestione derivante
dal clima di generale commozione seguito alla
tragedia. Il presidente del tribunale compı̀ il suo
dovere, limitandosi a trasmettermi la lettera del
prefetto, con preghiera di rispondere direttamente;
risposi come dovevo e la commissione assegnò le
case nel pieno rispetto della legge; in particolare
risultò dalle informazioni che taluni dei recenti
senza tetto si trovavano in condizioni economiche
non disagiate. (Per la cronaca si trattava di quello
stesso prefetto che in altra occasione ritenne di
dovermi escludere dalla lista degli invitati ad una
cerimonia nella quale egli doveva consegnare una
UN MESTIERE, UNA SCELTA
25
certa medaglia ad un notabile locale, a ragione della
mia passata attività « sovversiva », non rendendosi
egli conto del grande favore che mi rendeva escludendomi da consimili cerimoniali dai quali sono per
natura alieno. Tuttavia l’episodio mi confermò che
ero « schedato » come pericoloso soggetto; mentre
quanto poi avvenne a proposito dei senza tetto,
testimoniando della scarsa sensibilità che « sua eccellenza » — non ho mai adoperato questo titolo
per la naturale avversione a tutti gli spagnolismi e a
tutte le stupidità della società « bene » — aveva per
l’indipendenza dei giudici, mi rese ancor più evidente la persistenza di un clima assai più tipico di
altra epoca).
Il magistrato deve in particolare cercare di
salvaguardare al massimo la sua indipendenza, non
legandosi ad alcun gruppo o conventicola locale;
pertanto è consigliabile ch’egli segua talune intuibili
cautele nella vita sociale e nei rapporti che in genere
egli ed i suoi familiari intrattengono. Né in questo
campo si è mai sufficientemente guardinghi, perché
si tratta in primo luogo di non creare con le proprie
mani situazioni che poi possono essere causa di
disagio nelle funzioni ed in secondo luogo di non far
niente che possa indurre a pensare alla sussistenza
di speciali legami o di amicizia o di particolare
cordialità. La situazione si prospetta relativamente
facile per gli addetti ai grossi uffici delle grandi e
medie città, perché quivi è la stessa ampiezza dell’ambiente che nasconde il magistrato e gli consente
di approfittare dell’anonimato delle grandi folle.
Viceversa il problema è ben più arduo per il pretore
« di campagna »; qui il giudice è in ogni momento
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UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO
della sua giornata sotto gli occhi di tutti e poiché la
vita paesana è sovente caratterizzata dalla lotta e
dall’astio tra opposte conventicole, ogni passo può
apparire agli occhi di questo o di quello falso o
sospetto. L’ideale sarebbe certo quello di condurre
una vita del tutto appartata, evitando cosı̀ ogni
rapporto nella vita civile, fatti salvi i contatti strettamente indispensabili; ma è inumano richiedere al
magistrato e alla sua famiglia un tale sacrificio
mortificante. D’altro canto, per non rinchiudersi e
nel contempo per non legarsi, la soluzione forse più
acconcia o meno pericolosa è quella che io prescelsi,
non tanto per un deliberato proposito, quanto
perché la natura mi sospinge ad una certa socievolezza e a non disdegnare talvolta le allegre, innocenti brigate; e cosı̀ mi risolsi, essendo giunto in un
ambiente che taluni colleghi mi avevano descritto
molto difficile anche per la tranquillità della mia
carriera e che in effetti presentava, forse con una
rabbiosità altrove sconosciuta, profonde divisioni e
avversioni interne e a... più piani (la piccola borghesia cittadina sommersa nel contado rosso, gli amici
dell’on. X o dell’on. Y dello stesso partito, i preti di
una tinta o di altra, gli schieramenti che si determinavano di volta in volta su singoli problemi etc),
contrapposizioni che talora mi parvero veramente
intinte di odio sordo e feroce, mi risolsi, dicevo, a
parlare e a trattare liberamente e cordialmente con
tutti, talora con deliberato proposito proponendomi
una equa ripartizione nelle gioviali patacche, cercando di dimostrare comunque la mia assoluta
estraneità alle beghe locali ed in ogni caso distinguendo nettamente tra i compiti d’ufficio e questo
UN MESTIERE, UNA SCELTA
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mio vario confondermi nell’ambiente locale senza
identificarmi con questa o quella parte. E poiché
ebbi modo di dimostrare nei fatti che all’occorrenza
sapevo ristabilire le distanze verso tutti e superare
anche situazioni di disagio ponendo l’accento sul
dovere d’ufficio, talora essendomi capitato di dover
mettere sullo stesso banco come imputati notabili di
diversa affiliazione, credo di essermela cavata sufficientemente bene.
Ne ebbi anche, a prescindere dagli incensamenti
di rito che sono di prammatica nei confronti del
giudice in certe occasioni e che pertanto lasciano il
tempo che trovano, taluni riconoscimenti fattimi in
circostanze tali da non consentirmi alcun dubbio
sulla sincerità di chi mi parlava e dai quali dedussi
che intorno si era capito che non intendevo sposare
alcuna causa o persona. Riconoscimenti che mi
furono talora amari, come quando, dopo aver provocato in una delle famose commissioni per l’assegnazione degli alloggi il rigetto della domanda
presentata, come « impiegato pubblico costretto per
necessità d’ufficio a risiedere nel comune » (tale,
all’incirca, la dizione della legge), da un maresciallo
dei carabinieri che, prossimo al pensionamento e
avendo ottenuto non so quale tipo di licenza, aveva
dovuto lasciare l’alloggio di servizio.., perché giuridicamente non poteva considerarsi più in servizio,
mi sentii poi dire da un componente della commissione che egli non avrebbe mai creduto che un
pretore potesse essere cosı̀ indipendente, laddove
mi fu assai triste il constatare quale scarsa stima dei
magistrati in genere poteva esserci in giro. E cosı̀,
negli ultimi giorni di pretura, vi fu chi, venendomi a
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UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO
salutare, mi disse che era contristato della mia
partenza perché io « andavo in farmacia, ma non
ero della farmacia », cosı̀ come deliberatamente mi
ero proposto di dimostrare e verso il circolo della
farmacia e verso qualsiasi altro circolo.
Ma, oltre il sentimento dell’indipendenza, la
professione di magistrato è fonte, a mio avviso, di
altre non trascurabili soddisfazioni spirituali e morali, le quali, naturalmente, sono diversamente apprezzabili in ragione dei vari caratteri e temperamenti, onde in materia è assurdo voler ipotizzare un
modello ideale valido per ogni uomo. Contenendo
di necessità il discorso nei limiti delle scelte in
concreto operabili da parte di chi è in possesso della
laurea in diritto, è da dire, in primis, della alternativa di norma più frequente rispetto a quella qui
esaminata e cioè dell’avvocatura, limitandomi a
mettere in rilievo quanto, in ragione della mia
esperienza, mi pare degno di una certa considerazione. Avendo scelto la magistratura per la spinta
personalissima dianzi indicata, debbo dire che proprio in quel contesto ho sempre avvertito come
preferibile, certo avendo solo riguardo al mio temperamento, la posizione del giudice rispetto a quella
dell’avvocato. Spiritualmente ed eticamente la intrasferibile bellezza del giudicare consiste appunto
nel fatto che il magistrato ha come dovere istituzionale quello di esaminare e risolvere i vari casi della
vita sub specie juris e secondo coscienza; a questo
solo egli deve prestare attenzione, premurandosi di
rapportare il singolo caso ad una regola di diritto.
Compito del giudice è quindi quello di ricercare, in
un certo senso, la verità obiettiva alla stregua
UN MESTIERE, UNA SCELTA
29
dell’ordinamento giuridico che serve e non già
quello di tener presente e di patrocinare l’interesse
di questa o quella parte. L’avvocato, viceversa, è di
necessità e ferreamente condizionato dal suo ben
diverso dovere che è quello di tutelare gli interessi
e le aspettative della parte patrocinata; egli adempie
alla sua funzione istituzionale di collaboratore, in
senso obiettivo, della giustizia, nella misura in cui,
fermo il rispetto di certi principi e limiti, cerca di
prospettare nella luce più favorevole la tesi del suo
cliente. L’avvocato ha quindi un compito di parte,
mentre il giudice ha il dovere di ricercare e di
applicare quello che sta sopra ed eventualmente
contro gli interessi delle parti, dai quali non deve
essere, per definizione, condizionato. Se il giudice,
come talora avviene, dopo essersi formato una
prima opinione della controversia, sulla base di altri
elementi emersi nell’ulteriore corso del procedimento o in ragione di un ripensamento al quale è
stato indotto, in ipotesi, sulla base delle argomentazioni della difesa, muta convincimento e giunge
ad una diversa conclusione, egli ha l’obbligo di
decidere secondo quanto da ultimo gli detta la
coscienza e cosı̀ comportandosi secondo l’ultima
impressione egli compie semplicemente il suo dovere. Questa libertà di capovolgimento anche radicale, nel senso della progressiva e costante ricerca
della verità obiettiva, non è concessa agli altri
operatori che viceversa debbono sempre muoversi
nell’ambito dell’interesse tutelato, anche se possono
affinare progressivamente, dal punto di vista tecnico, le argomentazioni all’uopo prospettabili. In
sostanza solo la professione di magistrato, tra le
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UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO
tante esercitabili dall’uomo, si basa peculiarmente
sulla necessità istituzionale della ricerca della verità
obiettiva o come tale quanto meno in buona fede
ritenuta. Proprio per questo, proprio perché il giudice non è vincolato né da tesi né da interessi
pregiudiziali, ho amato infinitamente il mio vecchio
mestiere e, senza presunzioni, non l’ho mai ritenuto
comparabile con altri pur degni ed essenziali nella
vita comunitaria, giacché mancano obiettivamente
gli estremi per un confronto.
D’altro canto, pur rendendomi conto della immensa responsabilità morale del giudicare, quella
responsabilità che esige una continua disponibilità
per il ripensamento prima e dopo la decisione (e
dopo talora sopravviene il rimorso), non ho mai
messo sullo stesso piano questa responsabilità con
quella dell’avvocato che mi è sempre parsa, in un
certo senso, assai più gravosa ed impegnativa; infatti
il giudice si trova di necessità a dover giudicare di
casi e situazioni che egli non ha determinato e non
ha posto in essere, mentre l’avvocato ha, di frequente, il compito di introdurre in via contenziosa
la lite. Se si vuole, in genere è l’avvocato che lancia
la palla; il giudice se la trova ad un certo momento
sul tavolo e deve cercare, bene o male, di sbrigarsela: il primo ha sovente la responsabilità della lite,
consigliando in questo senso il cliente, mentre il
giudice ha la ben diversa responsabilità della soluzione della lite medesima, mettendosi idealmente al
centro tra i due litiganti e cercando la soluzione
obiettiva del caso. Ora, sotto questo profilo, giuoca
decisamente il temperamento personale; per chi sia,
ad esempio, per natura portato al dubbio e alla
UN MESTIERE, UNA SCELTA
31
perplessità, per chi non sia capace di scegliere ad un
certo punto con una certa tranquilla sicurezza e di
assumersi quindi la responsabilità morale di consigliare in un senso o nell’altro, è senz’altro preferibile la via della magistratura, proprio perché l’avvocatura richiede queste doti, la sapienza, difficile
ad aversi, di saper prendere, con un certo fiuto per
il quale non esistono manuali, una decisione impegnativa e gravida di implicazioni sul piano degli
interessi, mentre il giudice è liberato istituzionalmente da questa responsabilità dell’affare. Per l’avvocato e per il giudice la buona preparazione giuridica non è, rispettivamente, la dote decisiva, perché
la conoscenza delle pandette e delle elaborazioni
dottrinali ci fa solo dotti o eruditi della particolare
materia; per l’uno e per l’altro si esige un’altra
qualità, che la buona preparazione e l’esperienza
possano affinare, ma che è in definitiva dono della
natura. Ma sono qualità assai diverse nei due casi;
per l’avvocato la capacità di sapersi muovere e di
scegliere sul piano della valutazione degli interessi
nell’economia dei rapporti intersoggettivi, della
convenienza o no di dedurli in via contenziosa, di
realisticamente considerarli seguendo questa via
anche sulla base di un calcolo delle probabilità, di
poter afferrare al volo la possibilità di una composizione transattiva in corso di causa sulla base delle
risultanze già acquisite ed anche degli umori del
giudice (che è dote non ultima, di olfatto, del buon
avvocato); per il giudice non si tratta di avere
questo fiuto dell’affare nella sua dimensione giuridica, ma di saperlo inquadrare e risolvere nelle
categorie costruite sulla base della legge. L’avvo-
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UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO
cato è l’uomo della mischia e delle scelte sostanziali,
del compromesso realisticamente opportuno a prescindere dalla linearità dei principi, della tesi e
dell’ipotesi subordinata; al giudice conviene viceversa un animus profondamente diverso, una naturale inclinazione al dubbio come condizione essenziale per la ricerca della verità e quindi quella
conseguente umiltà che consiste nel saper ascoltare
ogni voce giacché è da ogni parte che può aprirsi lo
spiraglio, coltivando il quale può venir fuori la
decisione più esatta o meno discutibile. Il giudice
non può mai dirsi completamente soddisfatto delle
ricerche compiute e delle analisi effettuate; e se
frequentemente si dice nell’ambiente, ad esempio,
che è bene non abbondare negli scritti difensivi
perché altrimenti si rischia di non farsi leggere, cosı̀
facendo balenare l’idea del giudice onnisciente che
può bellamente disinteressarsi dell’attività di parte,
confesso che personalmente sono stato ben lungi
dall’incarnare questo preteso modello, essendomi
sempre sentito incerto e dubbioso innanzi alle
cause, di conseguenza leggendomi dalla prima all’ultima parola tutti i fascicoli perché non mi sfuggisse, possibilmente, in qualche pagina o in un
singolo passo la chiave della soluzione; cosı̀ come ho
sempre ascoltato chi parlava innanzi al mio banco,
posto che, se talora visibilmente si menava il can per
l’aia, non raramente da quelle parole mi veniva
l’illuminazione decisiva e di volta in volta, come
sempre si trattasse della prima trepida udienza,
desideravo non lasciarmi sfuggire la preziosa occasione. E se mi preparavo alla decisione delle cause
civili segnando diligentemente in certi miei taccuini
UN MESTIERE, UNA SCELTA
33
le varie dichiarazioni, ammissioni ed argomentazioni, affrontavo l’udienza penale sulla base di uno
studio altrettanto attento degli atti e dopo essermi
prospettate anche le probabili eccezioni di diritto
rispetto alle quali procuravo di non giungere disarmato, anche perché ho sempre istintivamente temuto gli improvvisi colpi di scena che potevano
turbarmi e scompaginare il filone raccolto, di gran
lunga preferendo la calma ed il silenzio della mia
stanza; con tutto ciò era frequente che mutassi, sulla
base delle risultanze dibattimentali, la prima impressione di massima e non raro il caso nel quale,
innanzi all’improvvisa eccezione, mi liberavo senza
alcun disagio dal tumulto dell’aula per poter riflettere con maggior raccoglimento nel chiuso della
camera di consiglio. Conclusivamente, tolte le pecore nere che nell’uno e nell’altro versante egualmente si trovano, avvocati e giudici formano in
effetti e senza ricorrere all’abusata retorica, un tutto
dialetticamente legato nel giuoco delle rispettive
parti attraverso il quale si cerca di fare giustizia; non
raramente dal mio scanno di giudice ho sentito la
insostituibile funzione ed anche la bellezza dell’avvocatura, soprattutto in quanto questa esprime un
momento irriducibile di libertà. L’importante è che,
individualmente, non si sbagli porta, giacché il buon
giudice può essere pessimo avvocato e viceversa;
per questo il problema più grave e delicato del
giovane che esce dall’università, in quel periodo
assai tormentoso delle scelte, è quello di sapersi
giudicare, con estremo rigore, circa le naturali attitudini, di avvertire senza deleteri infingimenti da
quale parte del banco conviene che si collochi. E
34
UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO
non è facile saper rispondere ad un cosı̀ grave
interrogativo ed evitare un grave fallimento.
In quanto ho detto in tema di valutazione della
posizione reciproca dei giudici e degli avvocati, è
in un certo senso implicito quanto io penso a
proposito del pubblico ministero. Il pubblico ministero si trova, rispetto al giudice, in una posizione
che è per qualche verso analoga a quella dell’avvocato. Egli è e deve essere, nella sostanza, l’avvocato di parte pubblica, colui che agisce azionando in
via giurisdizionale l’interesse pubblico e che ha la
responsabilità-doverosità della lite, posto l’obbligo
del promovimento dell’azione penale. In particolare
il pubblico ministero, proprio come parte, ha e deve
avere una propria politica giudiziaria, ponendo di
volta in volta l’accento, in relazione al vario andamento della criminalità e della valutazione fattane
secondo una comparazione tra i vari aspetti della
situazione sotto questo profilo nel codice penale,
sulla necessità, ad esempio, di più severamente
reagire contro quei comportamenti che, in quel
determinato contesto, paiono più minacciosi per
l’ordine giuridico e per la pace sociale (4). Anche se
(4) Vd. le felici notazioni di D. GRECO, Il pubblico ministero,
ne « Il tempo e la giustizia », Milano, Ed. Comunità, 1963, p. 67: « E
non vale obiettare che è sufficiente che il pubblico ministero si
attenga alla legge, la quale è già il risultato di una scelta politica. Chi
ragiona in questo modo ha conoscenza dell’attività giudiziaria soltanto dai trattati procedurali; nella realtà il momento dell’applicazione della legge (la quale tra l’altro consente più scelte di quanto
comunemente non si creda) è preceduto per il pubblico ministero da
un altro momento in cui le scelte sono di ordine politico. Quali forme
di illecito perseguire con maggiore rigore e tenacia? quali orientamenti sono rispondenti a quello che, si ritiene, sia l’interesse pubblico
UN MESTIERE, UNA SCELTA
35
il pubblico ministero è quindi ispirato dall’interesse
pubblico secondo una sua discrezionale valutazione,
egli si trova di necessità in una posizione assai
diversa rispetto a quella del giudice, precisamente
in quei termini che, mutatis mutandis, ho prima
configurato per l’avvocato; per il giudice la parte
pubblica è sostanzialmente sullo stesso piano della
parte privata, prospettando essa una valutazione del
caso di per sé opinabile e discutibile nella dialettica
processuale. Come si è giustamente osservato è
assai diversa la situazione psicologica del portatore
dell’accusa rispetto a chi deve poi giudicarne, e su
questo piano chi « per vocazione » aspiri a divenire
magistrato, specialmente se mosso dalla spinta che
giustificò la mia scelta, non può certo considerare
e quali invece non sono rispondenti? in quali casi è tollerabile un
orientamento clemente del giudice e in quali casi non lo è? quali sono
le situazioni che esigono un più tempestivo intervento? quale norma
è inopportuno invocare perché caduta in desuetudine e quale invece
non può rimanere inapplicata senza gravi conseguenze sociali, economiche, politiche, ecc.? Questi sono i problemi che si pongono al
pubblico ministero allorché deve sollecitare l’attività giurisdizionale e
che comportano scelte politiche ». Ed è facile anche esemplificare a
proposito di questa inevitabile politica giudiziaria. Alcuni anni or
sono nel distretto di una corte di appello del nord i magistrati del
pubblico ministero solevano spiccare l’ordine di cattura nei confronti
dei responsabili dei più gravi incidenti stradali; e si introdusse anche
l’uso di illustrare in conferenze-stampa questi provvedimenti proprio
al fine di dimostrare come la macchina giudiziaria fosse decisamente
orientata verso una giustizia esemplare e tempestiva in materia per
garantire una situazione generale di rispetto delle norme di comune
prudenza nella circolazione. E di recente una scelta di politica
giudiziaria è stata compiuta dagli uffici della pubblica accusa quando
si è deciso di incriminare i ferrovieri per talune forme di lotta
sindacale (scioperi a singhiozzo), in una situazione normativa che è
notoriamente assai controversa ed oscura.
36
UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO
con soddisfazione la destinazione a questo ufficio;
ed infatti per quanto mi riguarda ho sempre cercato
di tenermene lontano, anche quando, col passaggio
alla requirente, mi sarebbe stato forse possibile
ottenere una sede di maggior gradimento. In sostanza si tratta di due funzioni assai diverse che
richiedono uomini diversi, secondo una naturale
considerazione delle inclinazioni reciprocamente
opportune che è a torto misconosciuta in larga
misura nell’attuale sistemazione nella quale si può
essere indifferentemente assegnati all’uno o all’altro ufficio; di qui, a mio avviso, la necessità di
separare radicalmente le due professioni, anche per
favorire con questa riforma l’affluire spontaneo
all’una e all’altra di chi rispettivamente avverta in sé
il temperamento dell’accusatore o quello ben diverso del giudice (5).
Con questo non intendo affatto schierarmi con
coloro che propongono di sottrarre al pubblico
ministero lo status di magistrato per farne un funzionario alle dipendenze del potere esecutivo (6).
La separazione delle due professioni, di pubblico
ministero e di giudice, non implica affatto una tale
conseguenza che è giustamente deprecata nell’opinione forse maggioritaria, posto che è nel pubblico
interesse che vi siano determinati pubblici ufficiali,
fruenti di garanzie analoghe a quelle dei magistrati,
ai quali sia commesso l’obbligo di promuovere
(5) Vd. in tal senso F. CARNELUTTI, Lettera, in « La Magistratura », ottobre 1963; A. C. JEMOLO, La Giustizia, ne « La Stampa » del
19 gennaio 1965.
(6) Vd. in questo senso G. FOSCHINI, La riforma del processo
penale, in « Rassegna dei magistrati », dicembre 1961, pp. 385 e ss.
UN MESTIERE, UNA SCELTA
37
l’azione penale, giacché altrimenti è assai probabile
che assisteremmo a guai assai più gravi degli attuali
se non vi fosse appunto qualcuno che, senza aver
niente da temere, abbia per specifica funzione
quella di mettere in moto il meccanismo repressivo.
Coi tempi che purtroppo corrono, quando domina
una classe politica che non può certo dirsi molto
sensibile all’esigenza di una giustizia che non guardi
in faccia a nessuno, la degradazione amministrativa
del pubblico ministero rappresenterebbe una gravissima iattura. Del resto, malgrado l’ambivalenza
di certe indicazioni anche costituzionali (7), nella
nostra tradizione mi pare senz’altro diffusa e sentita
nella opinione generale la considerazione del pubblico ministero quale magistrato a servizio esclusivo
della legge e non mi pare che sia opportuno, qui
come altrove, rompere con quanto è già radicato,
non a caso, nell’ambiente. E a chi obietta che dal
(7) Vd. D. R. PERETTI GRIVA, L’indipendenza del magistrato
con speciale riguardo al pubblico ministero, in Magistrati o funzionari?, a cura di G. Maranini, Milano, Ed. Comunità, 1962, p. 709. L’A.
rileva che l’art. 107 Cost., laddove afferma che « il pubblico ministero
gode delle garanzie stabilite nei suoi riguardi dalle norme sull’ordinamento giudiziario » pare prospettare una situazione di minori
garanzie per questi magistrati che egli, a ragione, risolutamente
critica invocando una piena equiparazione tra i magistrati giudicanti
e quelli requirenti: « Ciò dovrebbe intendersi rispondere allo spirito
della Costituzione, posto che avendo questa mirato a togliere al
potere esecutivo la possibilità di immettersi nell’ambito giurisdizionale, è logico che debba venir incluso nelle garanzie normali il
pubblico ministero, il quale, se è rappresentante del potere esecutivo
nel campo dell’esecuzione dei provvedimenti, fa pur sempre parte
dell’ordine giudiziario per ciò che ha tratto alle sostanziali incidenze
della sua attività nell’ambito giurisdizionale, tanto che la modalità del
suo intervento, positivo o negativo, può essere esclusiva e dirimente
nell’azione penale ».
38
UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO
punto di vista delle garanzie del cittadino meglio
conviene la proposta degradazione amministrativa
specialmente per porre rimedio all’eventuale rifiuto
del pubblico ministero di promuovere l’azione penale (8), si può ribattere che bene può aversi un
sistema nel quale costui non abbia l’esclusiva del
promovimento dell’azione, un sistema cioè alquanto più articolato, permettendo e al potere
esecutivo, a mezzo dell’avvocatura dello Stato, e
anche ai cittadini eventualmente agenti in un certo
numero (con un più vasto impiego, quindi, dell’azione popolare anche in materia penale), di mettere in moto il procedimento; avremmo cosı̀ la più
ampia garanzia circa la possibilità di sottoporre
effettivamente al giudice tutti i casi nei quali il
dubbio è seriamente prospettabile, mobilitando all’uopo il potere politico e la sensibilità collettiva ed
in ogni caso facendo affidamento su un magistrato a
carico del quale sia posto un obbligo inderogabile,
naturalmente previa valutazione del fumus boni
juris.
Tornando ai vantaggi spirituali che la professione di magistrato assicura, mi pare di poter dire
che un benefico effetto discende dalle funzioni
esercitate nella complessiva personalità di chi ne è
investito. Il giudice deve essere al di sopra degli
(8) Vd. P. CURATOLA, Indipendenza del giudice e guarentigie del
pubblico ministero nell’ordinamento giudiziario, in Magistrati o funzionari?, cit., p. 38. Sul problema si è tenuto in Roma, nell’aprile
1966, un apposito convegno promosso dai Comitati di azione per la
Giustizia; vd., in particolare, la relazione di A. PIZZORUSSO, La
posizione ambigua del pubblico ministero nella Costituzione: necessità
di una revisione.
UN MESTIERE, UNA SCELTA
39
interessi e delle passioni di parte; la logica del suo
mestiere lo porta di conseguenza non solo a comportarsi da galantuomo anche nella vita privata, ma
a moderare, fino a tacitarle più o meno completamente, le spinte negative che verrebbero altrimenti
fuori dalla sua natura. Pertanto, se il giudice è
veramente pervaso del suo compito, ha la ventura di
subire un progressivo processo di miglioramento
etico e di perfezionamento civile. La funzione richiede al magistrato inflessibilità nei principi, ma
nel contempo una grande apertura e comprensione
verso le vicende umane; il processo, d’altro canto,
imperniato com’è sul dovere di dare sfogo alle
opposte tesi e di ascoltarle tutte senza prevenzioni,
è una grande scuola di civismo, di tolleranza e di
urbanità per tutti i suoi protagonisti. Naturalmente
questo implica una estrema lealtà del giudice, nella
sostanza e sul piano della condotta processuale (9);
(9) Vd. le essenziali osservazioni in proposito di G. LEONE, La
lealtà nei processi, in « La Stampa » del 30 marzo 1965. Ed è sul piano
della lealtà che in questi ultimi tempi la magistratura requirente ha
spesso formalmente esorbitato quando si è preteso di istruire col rito
sommario processi estremamente delicati, estromettendo cosı̀ la
difesa dalla possibilità di interloquire su indagini complesse e decisive. Questo sul piano della legge e dei criteri che essa intuitivamente
fissa tra le situazioni nelle quali è possibile l’istruttoria sommaria e le
altre nelle quali è inevitabile il ricorso all’istruttoria formale; ma la
questione, da problema di corretta applicazione della legge secondo
il buon uso del potere riservato in materia al magistrato, è divenuta
un problema di legittimità di una determinata norma del codice di
procedura penale in quella convulsa vicenda che ha portato nel giro
di pochi mesi da una prima sentenza « interpretativa » della Corte
Costituzionale alla successiva sentenza che ha dichiarato tout court
illegittima la norma in questione, per il contrasto determinatosi con la
suprema magistratura ordinaria. C’è stata indubbiamente una logica
in questa vicenda, essendo da una parte inconcepibile che il pubblico
40
UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO
il giudice non può lasciarsi guidare da prevenzioni,
non può « sposare » alcuna causa, non può ricorrere
ministero possa essere arbitro della forma d’istruzione ed essendo
inevitabile che la questione ad un certo punto si imposti in termini di
legittimità anche se questa impostazione è teoricamente discutibile,
quando solo cosı̀ è possibile stroncare un diffuso abuso nell’uso del
potere concesso; in pratica all’abuso del potere si è risposto con la
sottrazione del medesimo. La conclusione non è comunque appagante rispetto alle esigenze del procedimento penale, specialmente
nelle preture, ed è da auspicare che il problema venga organicamente
risolto con la riforma del codice di rito. Decisiva in materia resta la
lealtà del magistrato, su un piano di vera collaborazione coi difensori;
per mio conto non mi trincerai mai dietro la tesi secondo la quale
nell’istruttoria sommaria venivano meno le garanzie difensive, ma fui
sempre pronto ad accogliere ogni istanza, in istruttoria e dopo, ad
esempio sul punto della rinnovazione delle indagini peritali e della
richiesta di chiarimenti al perito d’ufficio. Tutto questo sul piano del
rispetto delle forme, che nella sostanza, nella vicenda di determinate
cose nel nostro paese, il problema è assai diverso. C’è infatti da
chiedersi come e perché, ad un certo momento, certi uffici giudiziari
abbiano assunto determinate iniziative rispetto a certe situazioni, in
un clima specifico politico e di sottogoverno; interrogativo che per il
momento è nascosto nella coscienza dei protagonisti di questi episodi
e al quale non può certo rispondersi sulla base di quanto è stato detto
o pubblicato nelle varie occasioni. Per mio conto, astraendo dalle
considerazioni puramente giuridiche in particolare in punto di procedura, sono convinto che la vicenda è stata ed è complessivamente
benefica avendo essa messo in luce una realtà esplosiva su come si
amministrano le cose pubbliche e sulla natura dei rapporti che
corrono tra il potere politico e il cd. sottogoverno. Sono stati
commessi certo errori di forma, si sono fatte dichiarazioni che era
meglio omettere (ad esempio la famosa frase dell’alto magistrato
romano: « quando vengono meno gli usuali controlli dello Stato, non
possono censurarsi i controlli dell’autorità giudiziaria », giacché il
magistrato deve semplicemente ignorare quello che fanno o non
fanno gli altri poteri nell’ambito della loro competenza, premurandosi solo ed in ogni caso di compiere il suo dovere, salvando l’anima
sua, cosı̀ come in generale egli deve evitare di teorizzare, specialmente in pubblico, parlando solo caso per caso con i suoi provvedimenti: per questo ho sempre trovato discutibile il ricorso alle
conferenze stampa che non si addicono al magistrato e lo possono
UN MESTIERE, UNA SCELTA
41
nel processo a meschini espedienti e sotterfugi, ma
deve viceversa procedere con grande rispetto di
tutti e di tutto, premurandosi in primo luogo di non
travisare mai quello che ascolta e registra. Soprattutto egli deve rifuggire dal troncare le possibilità
difensive, dal rifiutare gli accertamenti e gli esami
che gli vengono richiesti, col solo limite, di pubblico
interesse, di non prestarsi a manovre palesemente
dilatorie o a richieste chiaramente infondate. Il
cittadino e l’avvocato che lo tutela in giudizio
devono constatare palpabilmente che essi hanno
avuto la possibilità piena di essere ascoltati, che il
caso è stato veramente visto e considerato sotto
tutti i profili, rispetto ai quali se ne presentava
l’opportunità, per far trionfare la verità; il sentimento naturale di giustizia è soprattutto ferito non
tanto dalle opinabili conclusioni finali comunque
sempre sorrette da una più o meno congrua motivazione, ma dalla sensazione di non aver potuto
dire a sufficienza, di non aver potuto prospettare a
fondo tutti gli aspetti, di essere stati ostacolati nella
possibilità di indurre tutte le possibili prove, di
essersi in conclusione imbattuti in un giudice o
prevenuto o frettoloso o negligente. Per mio conto
ho cercato sempre, nella misura del possibile, di
attenermi a questi criteri; fui un giudice notoriaporre in una posizione imbarazzante. E la libertà di stampa, la libertà
dei giornalisti di cercare notizie non significa che gli altri siano
obbligati a darne!), ma nel complesso e nella sostanza si è servito il
paese, né io mi sento di condannare la magistratura quando forse per
la prima volta ha preso l’iniziativa doverosa di vedere come vanno
certe cose. E se tutti i magistrati della requirente seguissero l’esempio
molte cose cambierebbero.
42
UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO
mente assai severo per le considerazioni di cui dirò,
un giudice che non si adagiava nella falsa pietà e
nella colpevole indulgenza, che al contrario non
esitava, se convinto della responsabilità, a colpire e
duramente; ma ho sempre cercato di fare tutto il
possibile per dimostrare e convincere dello scrupolo
che ponevo nel giungere alla decisione finale, conducendo con molta lealtà, senza insofferenze di
sorta, il processo, essendo disposto in linea di
principio ad ascoltare tutto e tutti, ma in ogni caso
senza sotterfugi ed espedienti e comunque con la
massima cortesia possibile verso i difensori anche
nelle loro richieste di rinvio, rispetto alle quali
cercavo, se possibile, di conciliare l’interesse dell’ufficio, spostando eventualmente il processo al pomeriggio dello stesso giorno, pur se cosı̀ andava in
fumo mezza giornata di « libertà ». In linea di
massima consideravo doveroso accogliere tutte le
istanze probatorie, tranne i casi che mi parevano di
patente superfluità; ed ero solito far chiamare, alla
udienza penale, i processi d’opposizione a decreto
assai sul tardi, per fugare ogni ombra di dubbio che
io volessi speculare sull’orologio al fine di risparmiarmi un poco di dibattimento ed una sentenza
motivata. In sintesi, massima liberalità nel processo,
severità e rigore adeguati nelle decisioni, se necessario.
Deve tuttavia dirsi che per il giudice questo processo di progressivo affinamento etico-professionale
non costituisce, in definitiva, il risultato di un grande
sforzo interiore per superare le sue passioni e le sue
tendenze istintive, non implica affatto, secondo una
immagine di abusata retorica, l’esercizio eroico delle
UN MESTIERE, UNA SCELTA
43
virtù di cui si legge nelle vite dei santi di santa romana
chiesa. E questo perché l’ambiente stesso aiuta singolarmente il giudice ad essere sereno, equanime,
cortese, poiché tutto cospira a circondare il magistrato di un clima, in genere, di rispetto e di ossequio
e da parte della generalità del pubblico, presso il
quale il concetto di giudice è uno di quei pochi che
ancora conservano in tanta violenta iconoclastia un
poco di sacertà, e da parte degli avvocati che cosı̀ di
massima si comportano metà per convinzione e metà
per interesse, fino a scivolare, talora, in un quasi disdicevole servilismo. Il giudice procede cosı̀ nell’ovatta, tutto di massima è ammorbidito intorno a lui
ed in questo clima è assai facile, quindi, comportarsi
secondo quei canoni elementari che qui si sono ribaditi, giacché è veramente raro che vi sia l’occasione
propizia per lo scatenamento dei nervi e per il disfrenarsi dell’attacco collerico. Tutto quindi aiuta ed
è per questo che mi è sempre stato difficile rendermi
conto di come possa pervenirsi all’oltraggio del magistrato; infatti, se non si ha a che fare con un esaltato
che talora circola nelle aule di giustizia al pari del
violento, questi episodi, in considerazione del clima
generale, farebbero viceversa pensare che all’origine
di tutto vi sia qualche comportamento poco corretto
dell’oltraggiato o qualche sua grave deficienza; da
essi, pertanto, a prescindere dal profilo puramente
penale, dovrebbe trarsi l’occasione per valutare appieno la personalità del giudice.
Ed infine, visto che l’uomo non vive di solo
pane, si mettano nel conto anche i vantaggi non
esclusivamente spirituali e quelli puramente materiali. Si consideri, ad esempio, per chi ci tiene, il
44
UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO
prestigio formale del giudice; il suo trattamento
economico che, pur non essendo favoloso, non è
nemmeno trascurabile quanto meno secondo una
valutazione comparativa nell’ambito del pubblico
impiego e che è — inflazione evitandosi — certo ad
ogni scadenza; la possibilità assai frequente di poter
decidere sui tempi del proprio lavoro; il periodo
non trascurabile anzi veramente cospicuo di ferie. Si
aggiunga, infine, che molto spesso, in questo allegro
paese nel quale si lasciano sopravvivere uffici ormai
inutili rispetto alle necessità, i magistrati sono preposti a canonicati di tutto riposo o prestano il loro
servizio in uffici nei quali la mole del lavoro non è
invero eccessiva, onde resta ad essi molto tempo
libero da dedicare, secondo la personale inclinazione, o agli studi giuridici o ai diletti vari dello
spirito o anche alle battute di caccia e alle partite di
scopone nel circolo cittadino. Se è infatti vero che in
molti altri uffici, come contropartita della disorganizzazione che importa la dilapidazione del pubblico denaro, con l’organico esistente non si può
provvedere a smaltire convenientemente l’ingente
mole del lavoro accresciutosi come risultato congiunto dell’aumento dell’urbanesimo e del ritmo
degli affari, ed è quindi imposto un ritmo assai
intenso di lavoro condotto alquanto frettolosamente e comunque sempre impari alla bisogna,
credo che una non trascurabile percentuale degli
uffici cosı̀ malamente distribuiti consti, appunto, di
canonicati o di semicanonicati, mentre in prevalenza l’accento cade comunque sui tranquilli tribunali di provincia nei quali l’otium è più o meno
copiosamente consentito. Per tutto questo non
UN MESTIERE, UNA SCELTA
45
credo che corrisponda alla situazione media, come
pur si è detto, un lavoro massacrante; ancor più mi
pare alquanto esagerata l’affermazione che, a ragione di questo preteso ritmo ossessivo, le morti per
infarto sono percentualmente più elevate tra i magistrati (10); quanto meno di queste punte del
fenomeno non mi sono reso conto nella mia pur
limitata esperienza.
(10) Cosı̀ A. PERONACI, La crisi della giustizia, ne « La Magistratura » del febbraio 1963.
2.
I giudici quali sono
Come risulta dalle cose che ho detto finora, vi
sono molti, eccellenti e nobili motivi per i quali il
giovane laureato in giurisprudenza può essere indotto ad entrare in magistratura e a restarvi con
piena soddisfazione spirituale, senza delusioni e
senza rimpianti, nuovamente convinto, giorno per
giorno, della bontà della scelta, quanto meno secondo una valutazione comparativa delle possibili
alternative. Per quanto mi riguarda fui sempre in
questo stato di grazia e dal punto di vista del
relativo appagamento delle esigenze personali e
perché, malgrado la piena consapevolezza della crisi
del sistema della quale dirò in seguito, trovai sempre conforto nella constatazione che avevo la ventura di operare nel settore comunque più pulito,
meno toccato da quei fenomeni deteriori che sono
forse il dato caratteristico, coessenziale di tanta
parte delle nostre cose e in particolare della pubblica amministrazione in senso vasto. Le disillusioni,
le amarezze, la tristezza che prende nel rovello
costante che deriva dal pensare alla crisi del sistema
e della nostra società moralmente cosı̀ tarata, non
misero mai in dubbio la relativa bontà della scelta,
non mi tolsero se non fugacemente la soddisfazione
e la gioia del mio lavoro, anzi furono motivo per
48
UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO
ritrovare sempre in esso una ragione ed una giustificazione, constatando che comunque a me era data
la grande ventura di poter operare, nella ristretta
area delle mie possibilità, per il bene. Di qui anche
l’impulso a fare sempre più nel senso migliore,
affinché qualcosa di onesto e di serio rimanesse in
piedi, nella profonda convinzione che la causa di
una più civile convivenza si salva non con soluzioni
miracolistiche ed esterne, ma nella misura in cui, a
tutti i livelli, c’è gente disposta a non mollare e a
tirare innanzi come se tutto procedesse nel migliore
dei modi. Ed incontrai colleghi che mi parvero
pervasi da questi sentimenti, veramente convinti di
adempiere ad una missione che non ha eguali;
colleghi che, al di là delle formali dichiarazioni che
spesso sfociano nella vuota retorica e dietro le quali
v’è solo, sovente, una pura mistificazione, con tutto
il loro comportamento, velato dal pudore che naturalmente copre le spinte più profonde nell’animo
del giusto in un mondo nel quale sempre più si
apprezza la furberia e la capacità di arrivare, testimoniavano eloquentemente nei fatti di tutti i giorni
di una temperie morale e di un assoluto, tetragono
convincimento. Ma, in verità, furono assai rari
questi incontri che sempre mi furono di estremo
conforto, giacché giova moltissimo la consapevolezza di non essere soli nella buona battaglia, cosı̀
come, specialmente per i giovani, ha virtù trascinatrice, in luogo dei facili discorsi d’occasione, l’esempio operoso; come al contrario la suggestione intensa derivante da una severa predicazione crolla in
un secondo se nel predicatore si accerta un momento di debolezza, talora una parola o un gesto.
I GIUDICI QUALI SONO
49
Formalmente, almeno a giudicare dalle apparenze, il tono medio è, al contrario, altro e ben
diverso; per tutta una serie di circostanze, di fatti, di
dichiarazioni, di comportamenti costituenti un tutto
eloquente, mi convinsi ben presto, e spero che si sia
trattato e si tratti di una impressione erronea, che
nell’ambiente decisamente prevale la spinta meramente impiegatizia, in ragione della quale vengono
messi nel conto solo i vantaggi aridamente materiali
della professione, onde è assai facile e corrente il
confronto con altre attività, ricavandone un senso di
insoddisfazione, e si è spiritualmente pronti a navigare verso altri lidi, quando balenino i vantaggi di
più corpose fortune. Una serie di elementi convince
ben presto il giovane magistrato di questa amara
verità sulla stoffa media del suo collega, giacché
solo raramente, come ho detto, avverte l’operosa
presenza di una spinta anche morale. Ed allora si
spiega come la media dei magistrati consideri burocraticamente il proprio lavoro come l’inevitabile
tributo da pagare alla società per ottenere in cambio
i mezzi necessari per vivere e quindi come una fatica
della quale si sente solo il peso e il disagio; perché
anche qui spesso si assuma come metro esclusivo di
valutazione il denaro; perché la categoria trovi in
prevalenza motivo per agitarsi e per sentirsi viva e
pugnace, quasi di norma, nelle sole questioni di
stipendio e di carriera in funzione dello stipendio;
perché siano frequenti il confronto, talora errato
anche sul piano grettamente materiale, e l’invidia
rispetto alle fortune, più o meno esagerate, di altri,
specialmente rispetto agli avvocati (dove, con una
certa presunzione, il confronto viene istituito solo
50
UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO
mentalmente riferendosi ai professionisti più affermati che sono, specialmente in provincia, pochissimi; in ogni caso non considerando l’alea insita
nella libera professione; mai ricordando, realisticamente, quali prospettive in concreto aveva innanzi il giovane laureato nello sperduto borgo della
provincia meridionale. Ma è tipica del burocrate
in generale l’ingiusta invidia verso chi rischia nelle
professioni, nelle industrie, nel commercio, mai
mettendosi in calcolo la contropartita di una relativa sicurezza rispetto al grigiore dell’impiego pubblico). Ben presto si è quasi indotti a pensare che,
nella massa, i veri giudici sono pochissimi, perché la
grande maggioranza ha scelto e rimane avendo
messo in calcolo solo i vantaggi materiali della
particolare carriera, con una intima disponibilità
verso possibili soluzioni alternative; nella biografia
di molti ciò è del resto formalmente testimoniato
dalla circostanza che si sostenne il concorso per la
magistratura, tentando nel frattempo altri concorsi
e lasciando cosı̀ alla sorte la scelta più conveniente
al livello delle personali possibilità. Nella media,
pertanto, i magistrati italiani appaiono e si comportano come burocrati, come se non fossero mai
sfiorati dalla consapevolezza di quello che spiritualmente può essere la loro professione; rispetto a
molti di essi sfiora la sensazione che costoro entrino,
passino, escano senza essere stati mai, in un giorno
qualsiasi di questa loro vicenda, giudici veri nel
senso più augusto. Dal mio punto di vista di inguaribile ingenuo, sono stato sempre sorpreso nell’apprendere di un collega che ci aveva lasciato (approfittando della possibilità offerta da quel pessimo
I GIUDICI QUALI SONO
51
amministratore che è lo Stato, di ottenere la pensione a diciannove anni, sei mesi ed un giorno di
servizio, fornendo cosı̀ un incentivo all’abbandono
da parte di uomini che sono ancora nel pieno delle
loro possibilità, a spese di Pantalone) per il notariato, cosı̀ anteponendo i vantaggi materiali di una
onesta, ma arida professione, alla missione del
giudice.
Nel meditare su questo porsi del giudice medio
come burocrate, mi sono spesso chiesto, augurandomi di poter giungere ad una diversa conclusione,
se per caso non si trattava di mere apparenze
esteriori, se oltre questo atteggiamento identificabile in un primo contatto, vi fosse nell’intimo una
disposizione ben diversa mascherata dal pudore e
dal desiderio di non mettere l’accento sulle spinte
più vere, in un mondo che è sempre più dominato
dai valori di Mammona, che giudica e manda in
relazione alla quantità delle fortune accumulate, al
successo mondano, al potere ottenuto. Mi son prospettato sempre questo dubbio, perché, quale sia la
spinta iniziale, mi è difficile se non impossibile
credere che il magistrato, calato nel pieno del suo
lavoro, non possa mai essere toccato da quello stato
di grazia che ho detto; la funzione è cosı̀ prepotentemente alta ed impegnativa che non può, ad un
certo momento, non prendere e trascinare anche il
più arido degli uomini. Ed infatti, che lo stato di
grazia conforti almeno agli inizi e per un breve
periodo, è fatto obbiettivamente accertabile. È ben
noto come da diversi indizi possa dedursi che i più
giovani dei nostri magistrati sono, di norma, i più
attivi ed i più entusiasti, nonché i più sensibili alle
52
UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO
questioni di principio e a quel complesso di valori
che è accolto, ad esempio, nella Costituzione, ciò
ricavandosi dal fatto che in netta prevalenza proprio
i pretori hanno investito la Corte Costituzionale
della questione di legittimità o no delle numerose
norme della legislazione ordinaria che, essendo
d’ispirazione fascistica, prestano il fianco alla critica
e al dubbio se considerate alla stregua della superlegge. A questo punto, accertati il normale punto di
partenza ed il normale punto di arrivo, può apparire
plausibile una spiegazione complessiva nella quale
siano armonicamente risolvibili i vari elementi, di
per sè contraddittori, che emergono dalla situazione. È vero che agli inizi, quale che sia stata la
spinta occasionale — di norma quella meramente
impiegatizia — la funzione prende l’uomo; il giovane magistrato, assunte le funzioni, si appresta, di
norma, ad esercitarle con una punta di entusiasmo
giovanile, ci crede e vuol crederci con tutta la
generosa baldanza di cui è capace l’animo giovanile.
Gli anni tristi della ricerca, talora angustiante, di un
pezzo di pane sono ormai alle spalle; un minimo è
assicurato: la ragione ed il cuore sono disponibili
per offrire quanto di meglio sempre sonnecchia nel
fondo, sotto la spessa coltre di quello scetticismo
amaro che la vita ci riserva man mano che procediamo di situazione in situazione, di delusione in
delusione. Di qui la spinta del neofita, l’illusione e la
convinzione di poter contribuire a cambiare il
mondo. Si è detto (11) che proprio i più giovani
(11) Vd. F. UNGARO, La macchina della Giustizia, in « Realtà
nuova », novembre 1962, p. 1140.
I GIUDICI QUALI SONO
53
magistrati sono, in genere, i più autoritari; ma il
rilievo, nel quale c’è certo un pizzico di vero, è
ingeneroso ed ingiusto. Il giovane magistrato « crede » e credendo è certamente più fermo, più rigido,
meno disposto ad accettare soluzioni transattive e
a metà tipicamente dettate dal c.d. buon senso;
spesso indubbiamente, in questa spinta messianica,
esagera e sbaglia, vede fantasmi o brandelli di un
mondo respinto nei fatti più innocenti, perde, per la
volontà di perseguire sempre il rigore dei principi,
le dimensioni dell’equità e giunge talora a soluzioni
visibilmente sproporzionate. Qualche volta ho raccolto nelle confidenze degli avvocati lamentele di
questo tipo verso i più giovani colleghi e, pur
concedendo talora nel riconoscimento della sostanziale iniquità o della eccessiva rigorosità della singola decisione, ho sempre difeso queste giovanili
esorbitanze, fatte purtroppo a spese dei cittadini,
invitando ad una umana comprensione di esse e ad
attendere con pazienza che il tempo e soprattutto
l’esperienza levigassero queste punte, consentissero
al giovane divenuto più maturo di saper proporzionare il rigore dei principi alla effettiva consistenza
dei casi umani. Ma soprattutto dicevo che quel
medesimo giovane, oggi cosı̀ rigidamente consequenziario, di lı̀ a qualche anno si sarebbe purtroppo trasformato secondo una evoluzione in
senso del tutto inverso ed egualmente negativa: per
mille circostanze il neofita di oggi sarebbe divenuto,
con tutta probabilità, un miscredente, se non un
cinico, non avrebbe più creduto alla possibilità di
realizzare i valori della giustizia, avrebbe considerato l’amministrazione giudiziaria ed i principi in
54
UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO
essa formalmente conclamati come una mistificazione che l’ipocrisia sociale impone come supremo
inganno e dileggio.
Ed in verità le cose procedono, a grandi linee, in
questi termini e comportano che in un giro assai
breve di anni il medio magistrato subisca una
metamorfosi più o meno completa; ben presto egli
quasi si convince che, ad esempio, ammesso che la
giustizia possa essere di questo mondo, essa non è
certamente di questa nostra terra nella quale pare
che le grandi canaglie, i più temibili delinquenti, i
fatti più gravi di corruzione e di malcostume sfuggano alla rete nella quale semmai incappa il solito
malcapitato sprovveduto; si convince, per mille
episodi, che il sistema non funziona e non serve. E
giorno per giorno la c.d. sapienza dei più anziani
colleghi è lı̀ ad ammonirlo di queste amare verità,
cosı̀ come ovunque l’amara consapevolezza, materiata di sofferenze e di delusioni, ha gettato in tutti
i tempi molta acqua sul fuoco degli imberbi giovanetti, secondo il naturale sviluppo di quel processo
attraverso il quale la vita è destinata forse sempre a
smentire le generose illusioni dei venti anni e a farci
riscoprire, purtroppo veri ed attuali, gli adagi che un
tempo ci parvero unicamente dettati da insipienza o
da angustia morale. Il giorno in cui il magistrato si
accorge di tutto questo, quando si rende conto che
tutto e tutti operano contro il suo entusiasmo di un
tempo, c’è solo una cosa che può salvarlo, una
intima convinzione morale che gli prospetti come in
ogni caso preferibile la soluzione di salvare, in tanta
delusione, l’anima sua, magari solo per un orgoglio
innato; se questa riserva intima manca, se è assente
I GIUDICI QUALI SONO
55
la forza di saper essere disperatamente soli nell’intimo della nostra coscienza, il crollo è inevitabile e
si passa a far numero nella maggioranza disillusa dei
mortali. Allora il magistrato è maturo nel senso più
deteriore, è ormai un uomo posato e di buon senso
come la convenzione sociale richiede; è, rispetto ai
traffici, ai mercanteggiamenti, alle truffe e agli
imbrogli della onesta società, un uomo d’ordine nel
senso più farisaico, un uomo che si limita a mantenersi personalmente pulito, ma non crede più alla
sua funzione nel mondo e non ha quindi più la
spinta per aggredirlo nei suoi lati negativi; si difende
e non offende, quando l’offesa costituirebbe pur
sempre un inderogabile imperativo.
Rimanere o no nell’ordine diviene, a questo
punto, una mera questione d’interesse, un affare
certo fra i più onorevoli per sbarcare il lunario,
giacché non si comprende perché in un mondo di
furbi solo questo povero cristo debba far la parte
dell’idealista idiota; la vita con le sue ferree leggi ha
riassorbito l’ingenuo di un tempo. E cosı̀, salvata
l’anima nel senso più angusto della media che si
contenta di mantenere le mani pulite senza però
coltivare illusioni missionarie, le questioni di stipendio e di carriere ridiventano, com’è logico, l’alfa e
l’omega dei problemi nella più prosaica esistenza,
cosı̀ come può apparire allettante la prospettiva di
andarsene. E in questa ultima soluzione c’è, forse,
ancora un pizzico di contorta reazione morale; me
ne vado per essere coerente fino in fondo alla tavola
dei valori (rectius, di disvalori) che questa società
pervertita, dominata dalla passione, dall’aridità e
dal vizio, ha voluto malgrado tutto instillarmi nel-
56
UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO
l’animo; me ne vado perché se cosı̀ è e se cosı̀ deve
essere senza speranza di salvezza, provo con un
gusto pervertito a sbattere sul tavolo della vostra
ipocrisia questo più consistente sacchetto di denaro;
me ne vado perché preferisco non ammantarmi più
di una toga dietro la quale non c’è alcuna spinta
trasformatrice, perché me ne vergogno, perché dobbiamo vergognarci della nostra capitolazione e della
nostra inettitudine, perché non abbiamo alcun titolo
per arrogarci il diritto di giudicare; me ne vado per
confondermi nella folla che cerca, senza nasconderlo, anzi apertamente dichiarandolo, di arrangiarsi nel migliore dei modi e di massima limitandosi a correre, con qualche accorgimento, sul filo
del rasoio del rispetto della sola legalità formale,
comunque ritenendo, per un radicato convincimento rispetto al quale la legge niente vale e niente
significa spesso anche presso chi è chiamato ad
esserne agente, che l’onestà non è certo infirmata,
ad esempio, dalla menzogna alla quale tutti ricorrono nella dichiarazione annuale dei redditi. Non so
certo in quale misura questo ipotizzato stato
d’animo muova i singoli nel loro esodo; ma è chiaro
che, obiettivamente, ogni esodo rappresenta, di
norma, una sconfitta morale per l’ordine che lo
subisce ed esso andrebbe annunciato nel bollettino
ufficiale nella stessa guisa in cui, nelle grandi occasioni, i giornali compaiono listati a lutto. Ma conclusivamente, con questo approssimativo stato
d’animo, si spiega perché domini quella grigia atmosfera impiegatizia che si constata subito dopo il
primo contatto.
Ma resta da dire, più specificatamente, come mi
I GIUDICI QUALI SONO
57
sia apparsa la media dei miei ex colleghi. Deve
premettersi che la qualità media dei magistrati può
essere giudicata dai più diversi punti di vista; cosı̀ ci
si può proporre di appurare quale sia, grosso modo,
la concezione etico-sociale che di massima prevale
in questa determinata categoria, secondo quel tipo
d’indagine che è stato prospettato con molte felici
intuizioni da Dino Greco (12), rilevandosi, anche a
ragione della predominante estrazione meridionale
e piccolo-borghese, come la tavola dei valori normalmente tipica del magistrato italiano sia quella
corrispondente alla ideologia di una società ancora
arretrata.
Ma non è da questo punto di vista che intendo
collocarmi, ché qui il discorso diventa di necessità
assai delicato e soprattutto problematico ed incerto,
in quanto ognuno costruisce la sua tavola di valori
secondo le proprie scaturigini e inclinazioni. Il discorso diventa poi particolarmente opinabile nel quadro di una comunità nazionale che come quella attuale italiana appare in profonda e contorta
evoluzione da un certo modello verso un altro. Certamente può essere importante, sul piano delle constatazioni sociologiche e psicologiche, appurare
quale sia il contesto etico-culturale dal quale muovono le valutazioni di fondo della magistratura italiana, perché questo è un modo in definitiva non trascurabile per la comprensione della giurisprudenza;
ma si resta appunto sul piano delle constatazioni,
mentre io non so quale succo possa cavarsene quando
(12) Vd. D. GRECO, La formazione culturale del giudice, in
Magistrati o funzionari?, cit., 562.
58
UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO
si tenti, su questa base, di formulare un giudizio di
valore. A prescindere dal rilievo che le qualificazioni
generali (ad esempio, in senso « conservatore » o
« progressivo ») sono di per sé in larga misura relative
ed approssimative, in quanto non è raro che si possano riscontrare notevoli disparità di schieramento in
relazione a singoli problemi o gruppi di problemi
collegati, è in definitiva assai opinabile ogni valutazione in termini di c.d. « progressività » o di c.d.
« conservatorismo ».
Un giudizio di valore non può essere mai formulato in assoluto secondo termini di ideologia
spicciola. Non c’è nessuno che individualmente
possa sentirsi legittimato ad esprimerlo rapportando la propria tavola di valori agli orientamenti di
un ordine quale è quello giudiziario. In ipotesi la
valutazione dovrebbe essere fatta, con una certa
relativa obiettività, in termini di relazione tra la
società committente ed i giudici che in suo nome
operano. Voglio dire che, su questo piano, non c’è
da rapportare gli orientamenti dei giudici a un
metro ideale astrattamente formulabile in piena
libertà di opinamenti personali; è semmai lecito
istituire un confronto tra questi orientamenti giurisprudenziali e quelli che, quale ne possa apparire il
valore in assoluto, sono storicamente prevalenti in
un dato momento in una data società, posto che, per
definizione, il giudice deve operare e qualificare
(specialmente quando si tratta di dare svolgimento
in concreto ai c.d. concetti-valvola dell’ordinamento
giuridico) in conformità di quanto, nella società a
servizio della quale egli opera, si pensa in media dei
più disparati rapporti, situazioni, relazioni. Proprio
I GIUDICI QUALI SONO
59
perché il giudice opera come organo della società
giuridicamente istituzionalizzata, il giudizio di valore non va condotto in astratto, ma in termini
storicamente adeguati, tenendo comunque conto
delle scelte compiute dal potere sovrano in termini
di politica legislativa e normativamente espressi. In
senso più rigoroso, quindi, non può esservi in
materia un giudizio di valore sulla giurisprudenza,
ma un giudizio di conformità tra questa e le convinzioni mediamente accolte nel corpo sociale; percuotere la moglie nell’esercizio del discusso jus corrigendi può essere ritenuto inconcepibile in assoluto,
alla stregua di una moralità superiore, ma è dubbio
che cento anni or sono si potesse ritenere errata la
sentenza affermante codesta potestà, oggi controversa, anche nelle sue estreme implicazioni, sulla
base dell’opinione media sociale.
In ogni caso una indagine su questo piano può
essere suscettiva di qualche risultato appagante,
allorché si abbia a che fare con una società socialmente e quindi culturalmente omogenea o con una
società che sia al livello della consapevolezza costituzionale sufficientemente unitaria. Ma, di per sé, la
stessa formulazione di una siffatta ipotesi è dubbia
o quanto meno la stabilità etico-sociale va intesa in
senso eminentemente relativo e condizionato,
giacché sempre, in ogni epoca e in ogni paese, in
limiti più o meno ristretti o con un ritmo più o meno
intenso, la vicenda storica è in movimento sul piano
delle trasformazioni tecniche ed economiche, delle
conseguenti evoluzioni di classe e della lotta delle
idee; probabilmente — è questa, del resto, una
ipotesi puramente storiografica — non c’è mai stata
60
UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO
una totale omogeneità, nel senso che, almeno rispetto a certi problemi, anche parziali e limitati
(cioè anche secondari ove si proceda ad una sistemazione della vicenda per grandi linee riassuntive
ma sempre corposamente essenziali in quel determinato contendere degli uomini) vi è sempre stata
una più o meno accentuata discrepanza di valutazioni tra i consociati e quindi un corrispondente
conflittare di orientamenti nella giurisprudenza.
Sennonché, ammessa la relativa stabilità registrabile in epoche anteriori ed in particolare in quella
che ci sta immediatamente alle spalle, assumendo
anche qui come punto convenzionale ed approssimativo di riferimento il fatale agosto del 1914, la
nostra epoca è per definizione, per relativa e cospicua accentuazione, di movimento; la nostra società
è, in particolare, non omogenea, vi coesistono diverse situazioni economico-sociali e quindi diversi
modi di pensare sui più disparati problemi, onde la
scissione di base si riflette, e in molteplici direzioni,
nella stessa esperienza giuridica complessivamente
considerata. Verso quale concezione del mondo,
verso quale modulo etico-sociale deve essere fedele
il magistrato? Basta formulare questa domanda, per
comprenderne, oggi, l’estrema inconsistenza, giacché io non vedo come, ad esempio, possa aversi
titolo per pretendersi un orientamento o c.d. conservatore o c.d. progressivo sul punto della posizione della donna nella famiglia. In realtà, su questo
piano, in corrispondenza alla scissione di base dovrebbe coerentemente registrarsi un coesistere di
orientamenti nella giurisprudenza come riflesso del
dividersi dei giudici stessi ed è certo che almeno
I GIUDICI QUALI SONO
61
sotto certi profili una pluralità di orientamenti è
rinvenibile nella nostra giurisprudenza attuale (ad
esempio sul punto della concezione dei rapporti tra
il cittadino e lo Stato, secondo una concezione
liberale o viceversa secondo il modello di lontana
origine napoleonica che ebbe poi il suo trionfo nel
regime immediatamente precedente).
Se non c’è, in ipotesi, piena corrispondenza tra
la struttura e la sovrastruttura, e se la giurisprudenza presenta, al contrario della società, una
maggiore omogeneità, la situazione va spiegata
altrimenti e qui tornano di attualità le puntuali
notazioni del Greco. Il trattamento praticato ai
magistrati, infatti, è tale che, di necessità, sul piano
del mercato del lavoro rispetto alla specifica professione, importa la prevalenza di uomini estratti da
una determinata area economico-sociale ed altresı̀
regionale con tutte le inevitabili implicazioni. Ma è
questa una notazione che può farsi per tutta la
pubblica amministrazione nel suo complesso, e se
vogliamo ragionare, alquanto superficialmente, in
termini di « conservazione » e di « progresso », di
posizioni « avanzate » o al contrario « retrograde »,
si potrebbe solo osservare che la parte c.d. più
avanzata del paese amministra cosı̀ miopemente le
sue cose da commettere l’amministrazione dei suoi
interessi sul piano della strutturazione del potere
alla parte peggiore. Dopo di che, se è vero, come mi
dicono, che nella vicina Francia si è costretti a far
regolare il traffico stradale dei « civilissimi » parigini
da poliziotti « di colore », ognuno può cavarne,
secondo il personale orientamento, le conclusioni
che vuole; certamente quella, obiettiva, che in ter-
62
UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO
mini economici il mercato del lavoro pubblico è
regolato in condizioni tali che, in ogni paese, la
pubblica amministrazione viene inflazionata, in misura non rappresentativa rispetto alla media del
paese o ad alcune sue punte, da soggetti provenienti
dalle regioni economicamente depresse, i meridionali e gli insulari in Italia, cosı̀ come i corsi in
Francia ed i montenegrini in Jugoslavia, tanto per
mantenerci nella nostra area mediterranea.
Si deve infine considerare che la magistratura
non consente, mantenendo il discorso nei termini
qui considerati, qualificazioni monocolori; ad esempio sul piano delle controversie di lavoro è forse
prevalente un orientamento di marca « progressiva », cioè, almeno per taluni aspetti, più favorevole
al contraente più debole del rapporto di lavoro, ma
questa circostanza può non essere decisiva ove si
voglia accertare la prevalenza o no di una tendenza
« liberale » (cioè operosamente ispirata dal presupposto che non deve esserci nel sistema una pregiudiziale gerarchia di interessi, tutto risolvendosi di
massima nella contrapposizione antagonistica), posto che è vecchia verità che un pizzico di paternalismo sociale non guasta nemmeno nei minestroni di
più pura marca borbonica.
Resta in ogni caso sempre decisiva la considerazione che siamo sul piano dell’intimo convincimento
del giudice, del suo generale orientamento, nei limiti
in cui esso può operare negli schemi formali e nelle
soluzioni specifiche dell’ordinamento. Ma quando un
uomo risolutamente e globalmente dissente dai criteri di valore comunemente accolti in una società, egli
non ha moralmente alcun titolo per pretendere di
I GIUDICI QUALI SONO
63
operare come giudice a servizio della medesima; automaticamente una siffatta situazione comporta che
con piena spontaneità ci si astenga dal servire in questo contesto, perché il radicale dissenso induce —
anche nei fatti — o all’astensione o, se se ne ha la forza
e la volontà morale, alla opposizione radicale di principio. Il problema, almeno per le ipotesi più macroscopiche, non dovrebbe quindi nemmeno porsi; per
andare al caso limite, non si è mai visto un adepto
dell’utopismo anarchico aspirare a porsi alle dipendenze dello Stato, cosı̀ come è difficile pensare che un
cristiano autentico possa servire nei tribunali della
Germania nazista o in quelli razzistici della repubblica sudafricana. Dall’altra, proprio perché quando
si è deciso di servire come giudici non c’è mai radicale
dissenso, ma c’è, quanto meno, un minimo che spiritualmente consente codesto servizio, tutto può risolversi in un problema di divergenza su particolari
questioni; e qui, fermo il rispetto della legalità, si
entra nel campo delle libere valutazioni rispetto alle
quali non c’è, in definitiva, rimedio di sorta proprio
nell’ambito della legalità, se non si vuole rimuovere
il giudice ritenuto estemporaneo, cosı̀ operando in
violazione della posizione costituzionalmente garantita al medesimo (13). Il giudice « parziale » è quindi
(13) Il problema del giudice « parziale » venne sollevato da A.
POGGI, L’indipendenza della magistratura oggi in Italia, in Magistrati
o funzionari?, cit., p. 42, sulla base della situazione emersa in
determinati processi a sfondo politico, auspicando l’A. che fosse
possibile promuovere l’azione disciplinare nei confronti del giudice
visibilmente partigiano. A questa proposta ha efficacemente risposto,
a mio avviso, S. BASILE, Il giudice parziale, ne « Il Mondo » del 4
settembre 1962 (l’articolo è riportato in appendice al volume Magistrati o funzionari?, cit., p. 767, insieme ad una lettera del Poggi
64
UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO
un episodio di cronaca destinato ad essere assorbito
nella storia.
Scendendo dall’empireo, i magistrati possono
essere valutati, prescindendo dal merito dei loro
orientamenti, per il modo in cui assolvono alle
funzioni loro commesse. E qui, com’è naturale che
avvenga, è ovvio che si incontrino tipi assai diversi,
potendosi d’altro canto condurre il discorso alla
stregua dei più vari criteri, prendendo in considerazione le doti di intelligenza, di onestà, di laboriosità,
di preparazione tecnico-giuridica, etc. Una grande
varietà, adunque, con le più diverse combinazioni
nel singolo soggetto in relazione ai vari, possibili
metri di giudizio. C’è, al limite dell’optimum, il
giudice intelligente e preparato e onesto e laborioso
e c’è chi manca, in tutto o in parte, di taluno di
questi requisiti.
Cosı̀ m’è accaduto, talora, di imbattermi in
qualche collega del tutto strampalato, visibilmente
deficiente rispetto alla media degli uomini, che forse
sarebbe stato opportuno ospitare in qualche casa di
cura; magistrati — fortunatamente rarissimi — ai
quali come cittadino non mi sentirei di affidare la
più facile delle cause e che invece sono chiamati a
giudicare — c’è da tremare! — malgrado il loro ben
visibile stato che qualche volta li fa oggetto della
successivamente pubblicata nel settimanale citato): « Ma in una
società di faziosi chi giudicherà il fazioso? ». Ed infatti, poiché non è
possibile attentare alla posizione di indipendenza del giudice a
ragione della sua ipotetica faziosità, c’è solo da sperare nei controlli
giurisdizionali interni nonché sul controllo dell’opinione pubblica e
delle sue forme di espressione in una democrazia.
I GIUDICI QUALI SONO
65
commiserazione degli avvocati e del malinconico,
disumano dileggio dei colleghi. L’interessante è
rilevare che anche costoro hanno superato, talora
benino, il concorso iniziale nonché il successivo
esame per aggiunto giudiziario. E merita ricordare
questa situazione per mettere in rilievo che sotto
questo profilo l’attuale sistema di selezione può
talora funzionare del tutto a sproposito e alla
rovescia e che nemmeno sussistono validi controlli
successivi che possano comportare l’espulsione dall’ordine di chi è del tutto incapace; per una malintesa pietà che si ritorce in un danno gravissimo per
il servizio, chi è preposto all’ufficio si astiene dal
segnalare questa dolorosa situazione o comunque
dal predisporre quanto possa giustificare il desiderabile provvedimento espulsivo.
A prescindere da queste eccezionali situazioni
patologiche, è certo che una valutazione globale, nei
limiti in cui può giustificarsi, va effettuata rispetto
alla massa che dispone di normale intelligenza (con
tutte le consuete sfumature) e normale preparazione tecnica. Rispetto a questo tipo medio di
magistrato, avendo riguardo all’intelligenza e alla
cultura specificamente richiesta, è evidente che la
valutazione decisiva deve far perno sulle doti di
sostanziale onestà e di normale laboriosità. Anche
qui si riscontrano le più varie situazioni.
Ho conosciuto magistrati per i quali, effettivamente, l’amministrare giustizia è un compito estremamente serio ed impegnativo, forse sovrumano,
ragione quotidiana di scrupolo e di tormento, talora
di rimorso angustiante, severi con il prossimo e con
sé medesimi, ma di squisita sensibilità umana; uo-
66
UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO
mini che di per sé, in tutte le loro manifestazioni,
costituiscono una testimonianza vivente di un ideale
che avvince e commuove e che sono stati per me
una stimolante lezione. Non di rado c’era in questi
colleghi veramente maggiori, in genere indotti per il
loro sentire ad un grande pudore, ad una innata
ritrosia che impediva loro di mescolarsi nelle beghe
interne di ogni tipo, una ben precisa ispirazione
religiosa particolarmente inquietante per chi, come
me, non è illuminato dalla grazia divina. Accanto a
questi asceti, altri ho conosciuto non meno seri, non
meno impegnati, ma non sofferenti, almeno giudicando dalle apparenze, a sconvolgenti tormenti
interiori, bensı̀ con una nota costante di mondanità
e di scettica signorilità, con una certa bonomia nel
trattare gli infiniti e svariati casi della vita. Insomma, sempre ad un alto livello, ho visto tutte le
gradazioni con cui l’animo umano si pone i problemi di fondo della coscienza morale, dal pessimismo all’ottimismo, dal rigorismo tormentoso alla
serietà temperata da una punta di giocondità.
Ho conosciuto altresı̀ qualche autentica canaglia, qualche briccone corrotto e corruttore, talora
disposto ad operare in aperta violazione dei suoi
doveri, anche commettendo precisi reati, oppure,
assai più di frequente, a muoversi illecitamente e a
fin di male con qualche abile accorgimento, nel
farisaico rispetto della legge; credo che ogni magistrato, se volesse o potesse dare sinceramente la
stura ai suoi ricordi, abbia da raccontare qualche
pur raro episodio rilevante su questo piano, l’incontro che talora si verifica col maggiore collega mafioso, legato a certi interessi, a certe cricche, pronto
I GIUDICI QUALI SONO
67
a rendere segnalati favori, e che, nel contempo
suadente e, se ne ha le possibilità, sostanzialmente
minaccioso, cerca di ottenere e di pervertire, determinando una situazione nel corso della quale è stato
difficile mantenere i nervi a posto, trattenersi dal
gridargli in faccia tutto il nostro sdegno ed il nostro
schifo (ed infatti la professione di magistrato è tanto
alta e nobile che quando cosı̀ male si incarna nei
singoli, il fatto non può non determinare, per naturale contrappasso, la più decisa reazione). E c’è
anche il primo della classe, colui che si sforza
visibilmente di essere bravo, dotto e laborioso sol
perché lo sospinge la brama di arrivare e di primeggiare; e, in mancanza di meglio, pur questo può
rappresentare una garanzia.
Nel complesso, tuttavia, il tipo medio del magistrato italiano si colloca più o meno, e non può non
collocarsi, in una aurea mediocrità sotto tutti i
profili. Sul piano tecnico è di media, sufficiente
preparazione, cerca comunque, di volta in volta, di
cavarsela con dignità anche se, spesso, le sue fonti di
erudizione si risolvono in una frettolosa consultazione dei repertori giurisprudenziali, ivi ricercando
qualche massima risolutiva della Cassazione; in
sostanza è al livello del medio avvocato. Per quanto
attiene alla laboriosità, non predomina il tipo dello
stacanovista; si cerca di tenere mediocremente il
passo, di fare l’indispensabile magari perché premuti da un termine da troppo tempo, in misura
straordinaria, scaduto. Del resto il sistema in generale, per un complesso di ragioni obiettive e subiettive addebitabili in parte anche agli avvocati, come
a suo tempo giustamente rilevò il procuratore ge-
68
UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO
nerale della Cassazione in un famoso discorso (14),
consente molte giustificazioni per il dolce far niente;
piuttosto, a ragione del superiore controllo e specialmente nelle preture, domina talora la preoccupazione meramente... statistica di far risultare minori pendenze nei riepiloghi semestrali, con
espedienti anche ameni e deludenti:in certi periodi
si omette perfino di registrare, rinviando l’operazione, le pratiche in arrivo al fine di far quadrare il
bilancio di chiusura, con un impegno degno di
miglior causa.
Se è doveroso lavorare, se è ottima cosa non far
dormire i processi e non accumulare l’arretrato, la
questione deve porsi su un piano sostanziale e non
su quello meramente formale. Sul piano dell’onestà
professionale che è quello decisivo, in genere il
magistrato si comporta correttamente e pulitamente; la grandissima maggioranza non è mai dimentica del suo elementare dovere d’imparzialità e
l’ambiente è certo quello di gran lunga più respirabile nel gran calderone della pubblica amministrazione, secondo una impressione non a torto diffusa
tra i cittadini. Semmai quello che domina è un clima
di onesto, generico ed inappagante galantomismo,
senza forte temperie spirituale come specialmente si
avverte nell’esercizio della giurisdizione penale su
cui tornerò in prosieguo; i giudici italiani sono,
piuttosto, troppo brave persone nel senso logoro del
termine, personalmente di una moralità certo superiore alla media, ma incapaci, per il diffuso scettici(14) Vd. la mia nota di commento Giustizia in Italia: è l’ora dei
fatti, ne « Il Ponte », gennaio 1963, p. 6.
I GIUDICI QUALI SONO
69
smo, di slanci, restii a porsi veramente con una
volontà autonoma di esercizio effettivo del potere,
troppo portati ad una non convincente bonomia e
ad una comprensione eccessiva dei guai e dei vizi
dell’uomo, disposti a perdonare e ad assolvere assai
facilmente, troppo, in definitiva, pavidi in una società che, essendo profondamente miscredente ed
imbevuta di egoismo anticivico, richiederebbe al
contrario, in reazione, ben altro impegno. In conclusione i nostri giudici sono in genere galantuomini
alquanto scettici e disincantati sulle cose del mondo
e sulla possibilità della loro funzione, onesti burocrati di una Temi che nel paese non è vento che
percuote come dovrebbe.
Quello che si riscontra nell’ambiente è, soprattutto, un vivissimo spirito di corpo; appare diffusa
l’intima convinzione, esplodente in mille episodi e
comportamenti spesso di dubbio buon gusto, di
appartenere ad una sorta di aristocrazia delle aristocrazie: l’ordine è quindi veramente unito, nel suo
complesso, nella volontà di non volersi confondere
con la massa dei burocrati e dei cittadini; a mio
avviso, al di là della contrapposizione attuale tra
vecchi e giovani, tra carrieristi e anticarrieristi, una
punta deteriore in questo senso c’è anche nelle
posizioni apparentemente e talora sostanzialmente
più spinte, più « democratiche ». Ed è certo che
talora si è caduti nel ridicolo, come quando si è
espresso il più vivo compiacimento per il fatto che
da qualche tempo è invalso l’uso di pubblicare un
annuario separato per i magistrati rispetto all’unico
70
UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO
che un tempo raggruppava anche i cancellieri (15).
Cosı̀, si bada spesso alla forma, alle ridicole questioni di precedenza (o quanta deteriore mondanità
in questa società cristiana!), senza rendersi conto
che è ravvisabile un ben più sostanzioso processo di
radicale declassamento della funzione della magistratura (16). Ora è certo che un po’ di spirito di
corpo può risultare per qualche verso benefico, se
per esso passa l’auspicabile sublimazione del meglio
che un ordine, relativamente chiuso, di ottimati può
dare al paese; è accettabile se dietro di esso c’è
l’implicito intento di sottolineare la ferma volontà
di essere migliori. Ma la questione si prospetta in
termini diversi, risulta deteriore sul piano del costume, quando dietro la facciata c’è spesso il vuoto,
quando dietro le altisonanti declamazioni e i frequenti autoincensamenti di rancida retorica c’è la
carenza del potere, la crisi del sistema, la sostanziale
abdicazione alla funzione commessa. Donde l’impressione che troppo spesso i magistrati italiani,
come gli onesti impiegati di giustizia immortalati nei
racconti cechoviani, si contentino della lustra e non
esigano la sostanza, si beino del fumo senza rendersi
conto che l’arrosto è sparito.
Cosı̀, forse per un fenomeno naturale che si
accresce a mano che dal basso si progredisce verso
l’alto, c’è un tono, un modo di esprimersi veramente
fuori posto, una magniloquenza pomposa, una albagia quasi esagitata e frenetica dietro la quale m’è
(15) Vd. la nota in « Rassegna dei magistrati », 1964, 291.
(16) Vd. in proposito il lucido articolo di A. PIZZORUSSO,
Osservazioni sul « declassamento » della Magistratura, in « Montecitorio », gennaio-febbraio 1963.
I GIUDICI QUALI SONO
71
parso talora di intravedere quasi una verbale ricerca
di giustificazione. Chi avesse voglia e tempo di
dilettarsi potrebbe cosı̀, sfogliando le orazioni solitamente pronunciate dai più alti magistrati nelle più
varie occasioni, mettere insieme una gustosa antologia di discorsi di dubbio gusto. Mi limito a riportare un esempio. In una occasione, invero commovente (si trattava di un incontro tra gli anziani
magistrati entrati in carriera nel lontano 1921),
nell’indirizzo di pur comprensibile omaggio al
primo presidente della Cassazione, ci si rivolse
all’alto magistrato « Sommo Sacerdote, Pontefice
Massimo dell’Ordine Giudiziario » in veste di « ministri di una nobilissima missione, investiti di un
potere che ci fa uguali a Dio, e, perciò, suoi
sacerdoti »! (17). In altra occasione si è scritto (18)
che i magistrati di Cassazione « hanno costituito in
ogni tempo e costituiscono anche oggi la più alta
espressione di dottrina, di conoscenza, di cautela, di
sensibilità e di disinteresse personale ». Come ho
scritto altra volta (19), questi altisonanti autoriconoscimenti lasciano in definitiva, sul piano della
storia generale del nostro paese e della funzione che
in essa ha esplicato la magistratura, del tutto scettici, onestà e disinteresse dei singoli magistrati a
parte.
Qui infatti si pretende e si sottointende un
(17) Vd. il discorso di LONARDO riportato in « Rassegna dei
magistrati » 1963, p. 212.
(18) Vd. una lettera di L. AMMANTUNA, riportata in « Rassegna
dei magistrati », 1962, p. 211.
(19) In Cronache della Magistratura, ne « Il Mulino », n. 97,
ottobre 1960, pp. 245 e ss.
72
UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO
giudizio storico che è assai azzardato voler formulare nei termini prospettati, ponendosi dal proprio
angolo particolare; sul piano della storia generale
non conta certamente la sapienza che può trasudare
da elaborate sentenze in senso meramente tecnicogiuridico, rilevando questo solo ed esclusivamente,
in ipotesi, nella vicenda interna, tecnica appunto,
della giurisprudenza. Per quanto attiene alla « grande » storia il discorso è ben diverso e i meno
autorizzati a parlare sono appunto i magistrati che
con la loro concreta attività sono proprio oggetto di
un giudizio che non conosce, per definizione, la cosa
giudicata. Sotto questo profilo non interessa nemmeno quello che la magistratura ha fatto o non ha
fatto o come ha fatto nel ventennio della dittatura
fascista perché, a mio avviso, non è in quel contesto
che il discorso diventa più pertinente. Chi allora in
ipotesi resistette e in qualche forma si oppose,
sabotò encomiabilmente il regime che richiedeva
formalmente la sicura fede « nazionale » ed ha
avuto ragione, in effetti, per il modo in cui si è
felicemente conclusa la partita. Chi servı̀, d’altro
canto, non fece che compiere il proprio dovere
verso chi lo pagava, mentre, oltre tutto, pare assurdo che si possa parlare di una magistratura libera
ed indipendente in un regime che da una parte si
poneva agli antipodi rispetto a questi valori e che
dall’altra, come tutti i regimi, non poteva non
richiedere e pretendere la fedeltà dei suoi agenti. È
importante, viceversa, accertare quello che la magistratura ha fatto o non ha fatto nei periodi in cui,
nell’ambito di un reggimento relativamente libero e
con concrete garanzie di indipendenza per il terzo
I GIUDICI QUALI SONO
73
potere, erano in effetti possibili, nella legalità, scelte
autonome ed era consentito per il magistrato compiere con una certa facilità il proprio dovere. Cosı̀ è
essenziale valutare il comportamento complessivo
della magistratura negli anni tragici della crisi del
primo dopoguerra, ricordando, come ben si è detto,
« quante bastonature, quante inumane costrizioni a
bere l’olio di ricino, sono state commesse ed apertamente vantate senza che l’autorità giudiziaria
intervenisse » (20); facciamo pure il processo, ma
prima erudiamoci sui fatti, constatiamo se ad ogni
delitto dell’epoca fece seguito o no, o in quale
misura, la doverosa reazione giudiziaria. E per
questo ventennio di democrazia postfascista quello
che conta è la pagina dolorosa scritta dalla magistratura nel suo complesso nei processi celebrati
contro i collaborazionisti ove, talora, si è escluso che
certe orribili torture potessero qualificarsi come
efferate sevizie; conta l’orientamento di norma tenuto nei confronti del movimento partigiano, repressione dei crimini commessi in nome della libertà a parte; conta la gravissima responsabilità
assuntasi dalla magistratura negli anni successivi al
1948 coll’avallare il pratico svuotamento delle
norme costituzionali con la famosa distinzione tra
efficacia precettiva e programmatica, atteggiamento
che l’alta magistratura ha mantenuto anche dopo, a
Corte Costituzionale finalmente costituita, col negare quasi sistematicamente la sola configurabilità
del dubbio circa la legittimità di numerose norme;
(20) Cosı̀ A. POGGI, Sulla indipendenza della magistratura, in
« Democrazia e diritto », ottobre-dicembre 1961, p. 14 dell’estratto.
74
UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO
conta quello che i giudici hanno definitivamente
concluso nel processo al vescovo di Prato « dove a
nessuno spirito non prevenuto — per dirla con A. C.
Jemolo (21) — può non sembrare assurdo e soprattutto senza base di sorta e nel Concordato e nella
legge italiana, che lo Stato abbia rinunciato a difendere l’onore e la fama dei suoi cittadini se questi
vengono lesi da autorità della Chiesa nell’esercizio
delle loro funzioni: là dove tutti sono d’accordo che
queste autorità non possono attentare né alla libertà
personale dei cittadini, né ai loro beni, né al loro
segreto epistolare, né possono strappare di mano le
pubblicazioni che ritengono nocive; solo la fama e
l’onore non sarebbero difendibili. Dio solo sa perché ». Contano cioè i fatti che il compianto Achille
Battaglia organicamente espose in un libro altamente apprezzabile. Onde conclusivamente, rispetto alla proposta spesso formulata di provvedere
per una storia della magistratura (22), può osservarsi che forse non conviene accingersi a questa
fatica, giacché probabilmente ne verrebbero fuori
molte pagine non certo commendevoli.
Nessuno ovviamente rimprovera i magistrati
italiani per quello che come cittadini liberamente
pensano, ma bensı̀ per avere quasi sistematicamente
assunto atteggiamenti di un certo tipo proprio nell’esercizio delle loro funzioni, talora in contrasto
con chiari principi normativamente posti. Nel 1947
(21) Vd. I giudici e la politica, ne « Il Mondo » del 27 febbraio
1962.
(22) Vd. A. TORRENTE, Il giudice, questo sconosciuto, ne « La
Magistratura » del novembre 1960, riprendendo l’A. l’idea già formulata da L. Granata.
I GIUDICI QUALI SONO
75
il numero due della magistratura preferı̀ ignorare il
mutamento istituzionale dello Stato di recente verificatosi, invece di sentire l’elementare dovere di
andarsene da quall’altissimo seggio se la sua coscienza glielo impediva; come tanti altri rimasero,
conservando gradi e quattrini, in funzione in definitiva eversiva rispetto alla volontà politica espressa
dal paese del quale i giudici sono, come tutti i
pubblici impiegati, al servizio. Per questo complesso
di ragioni ci sono ben poche tradizioni venerabili e
non si giustifica la ricorrente albagia. Quanto meno
chi ha fatto cosı̀ chiare scelte politiche, dovrebbe,
senza inutili ed infondate proteste, accettare la
logica nella quale si è volontariamente posto e non
recriminare se dall’opposta sponda si risponde, magari agitando la minaccia del vilipendio; su questo
piano, rispetto a queste inevitabili regole del giuoco,
che si sia agito nell’onesta convinzione di perseguire
il pubblico interesse è del tutto indifferente. In
conclusione, in una libera democrazia, anche l’operato dei giudici non è, vivaddio, un tabù, mentre
tutto, senza esclusioni, è sempre sub judice nella
coscienza degli uomini.
Ora, in questo contesto, è naturale che molti tra
i giovani magistrati, quelli che non hanno psicologicamente un passato da difendere, quelli che sono
nell’intimo assai critici rispetto alle vicende storiche
che ci stanno alle spalle, quelli che sono più attratti
dal messaggio innovatore della Costituzione genericamente inteso, siano per coerenza all’opposizione rispetto al mondo dei vecchi, siano insofferenti di tanta retorica e aspirino ad adempiere le
loro funzioni secondo linee sensibilmente diverse.
76
UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO
Sono quei giovani che hanno in parte riscattato
nella parte liberale dell’opinione pubblica, anche
con le loro intemperanze, la causa della magistratura, ad esempio dimostrando una viva inclinazione,
talora anche soverchia, a raccogliere qualsiasi dubbio sulla legittimità costituzionale di diverse leggi e
norme, rendendo in pratica largamente possibile il
sindacato della Corte Costituzionale. Dietro questo
atteggiamento c’è del resto, in questa epoca di crisi
profonda, un più radicato sentimento ed un più
severo porsi innanzi alla realtà etico-sociale contemporanea. Anche chi non ama le novità solo
perché tali, avverte che il passato più recente,
dilaniato da orrori, da delitti e da tirannidi in questo
angolo di terra europea che pur parve aprirsi un
secolo fa ad una grande prospettiva civile, non ha
molto da insegnare, mentre gli uomini delle trascorse generazioni non paiono degni di molto rispetto proprio perché essi hanno variamente consumato, nella tragica età apertasi nell’agosto del 1914,
il trionfo dell’irrazionale, dell’odio e della follia
fratricida. Non ci sono molte eredità attive da
salvare, sul piano generale; ed è comprensibile che
anche la più giovane magistratura partecipi a suo
modo, nelle forme che le sono consentite, all’anelito
delle nuove generazioni di edificare un mondo
migliore. Lo stato d’animo di questi giovani non è
precisamente quello di inserirsi in una onorevole
tradizione che è dubbio identificare, ma quello che
deriva dalla volontà di ricominciare oggi ex novo.
Questo è, grosso modo, lo stato d’animo contrapposto tra vecchi e giovani; ed è questo stato d’animo
che va considerato, prima della puntualizzazione
I GIUDICI QUALI SONO
77
delle reciproche posizioni su questo o quel problema particolare (qui tutto è per sua natura opinabile), per spiegare e capire l’attuale situazione interna, di profonda divisione, della magistratura
italiana.
Si è detto talora che il contrasto è frutto di una
incresciosa incomprensione, di equivoci, che esso,
pertanto, con un pizzico di buona volontà reciproca
potrebbe essere superato. In un certo senso c’è in
questo assunto qualcosa di vero; sennonché è ben
difficile che il fossato possa colmarsi lavorando in
questa direzione superficialmente, senza andare al
fondo delle cose, con abbracciamenti esteriori.
Quando i vecchi celebrano ispirati le loro orazioni
esse hanno inevitabilmente per i più giovani, per
coloro che portano nel cuore l’amara consapevolezza di un retaggio che di massima va rifiutato, il
sapore delle declamazioni patriottarde alle quali
una bolsa retorica ci ha abituato per decenni; la
prima reazione è di insofferenza se non di dileggio.
E con questo il discorso è subito aperto e chiuso, la
frattura è irrimediabilmente consumata. Innanzi
alle aspettative dei giovani solo un diverso comportamento dei più anziani potrebbe spiritualmente
ristabilire il dialogo; insieme all’abbandono di un
certo linguaggio che — lo si voglia o no riconoscere
— fa da spia di una realtà più profonda che i primi
rifiutano, occorrerebbe che vi fosse nei fatti la
testimonianza di una volontà di comprensione del
nuovo che è nelle attese dei più e che soprattutto si
mostrasse il chiaro intento di operare come un terzo
potere consapevolmente ispirato nella vicenda democratica del paese.
78
UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO
Sono profondamente convinto che l’unità spirituale della magistratura potrebbe rifarsi solo ritrovando una comune e ferma giustificazione alla luce
di quanto la legge fondamentale dello Stato impone
ed il paese esige nel suo profondo. Nel passato i
magistrati sono stati, in prevalenza, uomini d’ordine
nel senso più deteriore, uomini di estrema responsabilità secondo il significato che al termine pare
doversi attribuire nel linguaggio dei vecchi, uomini
in sostanza estremamente timorosi della dialettica
della libertà e quindi assai disposti a far propria la
valutazione politica della situazione dettata, al di là
delle leggi se necessario, dalla classe dirigente di
governo. Cosı̀ nel 1919-20 essi furono coi governi
miopemente liberali e con tutte le autorità costituite
nel partecipare del timore antisocialista della borghesia che tenne a battesimo l’illegalismo dei fasci
e, convinti di agire in buona fede per il superiore
interesse del paese, chiusero spesso gli occhi innanzi
ai quotidiani delitti. Nel 1945 e negli anni successivi
predominò, certo con maggior fondamento, lo
stesso folle timore; di qui l’indulgenza verso i fascisti, la caccia al partigiano, lo svuotamento dei
principi costituzionali. Ma nella misura in cui i
giudici si fanno compartecipi di queste preoccupazioni anche giustificate della direzione politica, annullano nei fatti la possibilità di autonoma esistenza
del terzo potere, lo identificano col potere politico e
sono quindi irrimediabilmente condannati a seguirne le sorti, i consensi del momento e i certi
superamenti del futuro, perché per chi sa pazientare
l’ora della resa dei conti, tragica o pacifica, sempre
sopravviene.
I GIUDICI QUALI SONO
79
Viceversa si chiede ai magistrati non di salvare
la patria all’occorrenza accantonando la legge, ma
di svolgere sempre ed in ogni circostanza il loro
lavoro di onesti interpreti e di leali attuatori del
diritto, giudicando di volta in volta puntualmente
rispetto ad ogni singolo caso ed inibendosi ogni
riassuntiva sintesi generale. Si tratta cioè di dar
onesto svolgimento a quanto è normativamente
posto fino alle estreme conseguenze, libero il potere
legislativo di mutare, nelle forme legali, la regolamentazione che si ritenga in ipotesi inadeguata. È
questa la corretta linea divisoria, onde si richiede al
magistrato, se necessario, come uno sdoppiamento
della sua personalità, eventualmente tra le sue
generali convinzioni politiche ed il giudizio che deve
rigorosamente poter dare del singolo episodio. La
forza morale della magistratura sta nella fedeltà al
dato obiettivo della legge; discostandosi si cade
nell’arbitrario e quindi si perde innanzi all’opinione
pubblica di prestigio e di stima, anche rispetto a
quella parte che se ne è avvantaggiata, cosı̀ come
moralmente si disprezza la spia che pur ci serve.
Se pertanto i magistrati saranno capaci, nel loro
complesso, di sradicare l’abito mentale alquanto
diffuso di timorosi uomini d’ordine nel senso che la
vandea attribuisce da sempre a codesto termine (un
ordine che all’occorrenza si alimenta del disordine
della violenza illegale o dell’aperto misconoscimento di certi principi messi da parte perché ritenuti, almeno per il momento, pericolosi), per essere
rigidamente custodi di un ordine nuovo fondato
sulla più rigorosa legalità e in leale svolgimento dei
principi posti, essi potranno presentare veramente il
80
UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO
terzo potere come il baluardo basato sui valori
permanenti del regime politico oggi felicemente
democratico, al di là delle transeunti maggioranze,
lo edificheranno come l’effettivo sovrano sopraordinato e in questo spirito e in questa comunione di
intenti potrà ristabilirsi l’unità all’interno; tutti sentiranno allora di parlare lo stesso linguaggio e cadrà
la ragione della frattura che è in primo luogo
psicologica, come un contrasto irriducibile nel sentimento di diverse generazioni. Si potrebbe avere
allora un processo di avvicinamento sui problemi
del definitivo assetto della magistratura (ad esempio, in tema di carriera), rendendosi conto che ogni
soluzione presenta un notevole margine di opinabilità; e l’esuberanza dei giovani potrebbe essere
contenuta venendo a contatto con la naturale saggezza dei più anziani. Del resto quando una situazione entra in crisi, tutto concedendo alla smania
irragionevole di innovare che talora prende i giovani, ciò testimonia in maniera eloquente della
responsabilità, della inettitudine o della capitolazione delle forze già investite del potere di comando, giacché le rivoluzioni, come insegnò il
grande Tocqueville, solo apparentemente sono fatte
dai rivoluzionari, poiché la loro ora è in primis
segnata dalla bancarotta stolida delle vecchie classi
dirigenti. Quando, sul piano della comunità nazionale nella sua interezza o in singoli settori, gli
operatori hanno capitolato di fatto, per miopia o
per essere affogati nel mare degli egoismi particolari, alla loro funzione o hanno tradito il compito
loro commesso, è giunta l’ora del nuovo. È perfettamente inutile gridare mettendo in guardia contro
I GIUDICI QUALI SONO
81
i mestatori e gli agitatori di professione, che pur vi
sono, perché il problema è appunto quello di accertare come e perché a costoro la situazione consenta
sı̀ largo successo; la risposta, ancora una volta tipica
della miopia conservatrice, non risolve, ma rinvia
semplicemente il problema.
In realtà, almeno in un paese di cosı̀ superficiale
tradizione liberale, la magistratura deve conquistarsi soprattutto da sé, con la sua forza e il suo
coraggio, il posto che le compete. Allo stato è certo
che gli « amici » della sua indipendenza sono tutti
insinceri ed infidi; in particolare non vi sono partiti
politici sui quali si possa effettivamente contare,
come è del resto clamorosamente dimostrato dal
capovolgimento delle parti verificatosi, sui problemi
di assetto del terzo potere, dopo il 1948 tra il settore
moderato e le sinistre. Finora l’autonomia della
magistratura è stata una rivendicazione strumentale
da una parte e dall’altra, in relazione ai rapporti di
forza e alle prospettive della situazione politica
complessiva. Né la magistratura può certo sperare
salvezza con l’avvento di coloro che qui si agitano
per l’attuazione costituzionale ponendo come
ideale reggimento secondo i loro obiettivi regimi
che nei fatti e nella teoria hanno rinnegato il
principio della divisione dei poteri. Ma ciò dimostra
che per ora la magistratura è disperatamente sola
nella sua battaglia e che essa potrà vincerla ponendosi al di sopra e contro il giuoco delle parti; è
dando torto, se le spetta, alla maggioranza di oggi
che si può aver titolo per dar torto alla maggioranza
di domani. E soprattutto è da considerare che una
diversa disposizione degli spiriti sul piano dell’omo-
82
UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO
geneità costituzionale caratteristica delle più consolidate democrazie che trovano qui il loro fondamento, potrà lentamente verificarsi anche in Italia
proprio nella misura in cui la magistratura opererà
in questo senso; è con l’azione dei giudici che potrà
emergere nei fatti la concreta dimensione costituzionale, superpartitica, della nostra esperienza, convincendo della necessità di comunque difenderla e
di dover sempre separare i principi nel loro dialettico svolgimento dai contingenti interessi di parte.
Alla base e agli inizi, solo la sussistenza di una
magistratura indipendente può rappresentare la cellula di una democrazia liberale.
Ma non c’è da illudersi molto circa le possibilità
di ripresa di un leale dialogo all’interno della magistratura, giacché raramente la ragione illumina gli
uomini, anche quelli meglio dotati, come in generale comprovano, malgrado i ricordi tragicamente
impressi nella maggioranza degli uomini di oggi, le
vicende di tutti i giorni ed il perdurare ovunque di
quei focolai nei quali pare che si temprino gli animi
per una ulteriore ondata di bestialità universale. Nel
grande come nel piccolo par che si tratti di una
legge costante, ognuno, magari per falso orgoglio,
resta fermo sulle sue posizioni, il tempo anziché
lenire accentua, il baratro si allarga. Cosı̀ è all’interno della magistratura, ove l’ambiente è sempre
più dilaniato determinando irriducibili antagonismi
tra le opposte fazioni. Come era facile prevedere, la
situazione ha seguito puntualmente la legge naturale degli sviluppi dei processi dissociativi; nel corso
degli anni successivi al 1960 nelle due associazioni
hanno avuto progressivamente la meglio i gruppi
I GIUDICI QUALI SONO
83
reciprocamente più estremistici, l’unione dei magistrati italiani è divenuta sempre più aridamente
conservatrice, l’associazione nazionale dei magistrati è sempre più dominata dalle punte estreme,
con alcune gravi esorbitanze sul piano politico. È
una situazione di grave disagio nella quale pare che
ambedue le parti abbiano perso completamente la
testa; ed è veramente triste dover leggere sui fogli
delle due correnti un linguaggio talora di estrema
durezza. Si è giunti al punto che in una occasione
recente è stato diffuso un opuscolo anonimo attribuito ad una delle parti; dico attribuito perché mi
rifiuto di credere che dei magistrati non abbiano
sentito il ritegno di scendere a questo livello.
È in questo clima che maturò, a fine 1962, la
decisione di una larga parte dei magistrati di far
ricorso, all’occorrenza, allo sciopero nella controversia insorta col governo; decisione inammissibile
giacché lo sciopero dei giudici è del tutto inconcepibile per intuitive ragioni sulle quali mi pare
superfluo insistere per non far torto all’intelligenza
e alla buona fede dei lettori (23). Vi sono taluni
(23) Vd. in particolare A. C. JEMOLO, Lo sciopero dei magistrati, in « Rassegna dei magistrati », 1963, p. 97, ove giustamente si
osserva che i giudici debbono essere « non pecore docili, ma che
hanno presente che quando una struttura statale appare ripugnante
alla propria coscienza, si può divenire rivoluzionari, cercare di
distruggerla: accettando tutti i rischi ed i pericoli connessi alla
insurrezione aperta. Fino a che però non si addiviene a quel punto di
rottura, non si può combattere per la vittoria delle proprie aspirazioni
se non con i mezzi che la legge pone a disposizione; e dove c’è libertà
di stampa, molteplicità di partiti, lotte elettorali, questi mezzi non
mancano ». Vd. anche le giuste osservazioni di E. ONDEI, Le ragioni
dei giudici, ne « Il Mondo », dell’11 dicembre 1962, osservandosi che
con la proclamazione dello sciopero i magistrati si sono preclusa
84
UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO
servizi essenzialissimi che costituiscono la sostanza
stessa dello Stato e nei quali la paralisi, per qualsivoglia ragione, va esclusa, pena il disfacimento
stesso dello Stato (ed infatti quando si sciopera in
certi settori, in genere si è alla vigilia di un mutamento di regime). Se i magistrati italiani, che sono
una ristretta e relativamente eletta categoria, ritengono di non poter più decentemente servire questo
Stato, essi hanno una sola possibilità: andarsene,
eventualmente rassegnando le dimissioni in massa.
È, a mio avviso, una pregiudiziale che non tollera né
obiezioni né sofismi di sorta, quale che possa essere
indubbiamente il significato dello sciopero dei magistrati ove voglia considerarsi la responsabilità
della classe dirigente politica. Quando si osò parlare
di sciopero, fu in verità un giorno tristissimo per
quanti credono a certi principi; né la situazione
mutò per il fatto che si desistette dalla progettata
azione, perché quel semplice proposito fu comunque sufficiente, sia seguita o no l’azione, a far
perdere ancora dignità e prestigio alla categoria. E
in definitiva, con questo episodio e con tutta la
situazione interna determinatasi con queste lotte
intestine, questo scadimento è nei fatti e nella
moralmente la possibilità di condannare i militari e gli addetti ad un
servizio di pubblica necessità per abbandono del servizio. Comunque,
sulla singolare motivazione di quello sciopero, vd. il « taccuino » de
« Il Mondo » del 13 novembre 1962 nonché l’articolo di P. E.
PRINCIPE, Le ragioni dei giudici, nello stesso settimanale del 27
novembre 1962 e quello di L. BASSO, Lo sciopero dei magistrati,
nell’« Avanti! » del 28 novembre 1962, osservando il deputato socialista che, sull’onda del miracolo economico, viene meno quel vasto
serbatoio di disoccupazione intellettuale che ha consentito finora di
reclutare con una certa facilità il personale della giustizia.
I GIUDICI QUALI SONO
85
coscienza del paese. Il prestigio dell’ordine giudiziario è per una parte legato alla sua tradizionale
posizione di aristocratico isolamento nel paese, al di
sopra delle vicende sociali e politiche; non per
niente resta ancora attorno ai magistrati, anche nei
paesi di più consolidata democrazia, un minimo di
formalismo, di solennità, di rito, di abbigliamento
medioevale. Se la magistratura scende in piazza,
tutto questo alone alquanto radicato nell’animo del
popolo viene meno, proprio perché essa si confonde
a torto o a ragione secondo linee di comportamento
che la gente non ha mai collegato all’idea del
giudice. Questa è la realtà, oggi: anche se questo
non assolve chi di questo sostanziale degradamento
porta la responsabilità.
3.
I processi e la giustizia
I contrasti e le beghe interne dei giudici, di per
sé, come ottimamente ha messo in rilievo il presidente della repubblica in un recente indirizzo al
Consiglio Superiore della Magistratura, non interessano il cittadino, al quale esclusivamente preme la
puntualità del servizio giudiziario rispetto alle necessità del paese; sul piano generale, com’è ovvio, i
controversi problemi della definitiva sistemazione
del personale della giustizia sono degni di considerazione solo in quanto dalla risoluzione dei medesimi sia lecito attendersi una migliore resa del
servizio. Ora non c’è nessuno che ormai contesti la
gravissima crisi della giustizia in Italia, il fallimento
pressoché completo della giurisdizione penale, la
congenita incapacità in sede civile di provvedere
con sufficiente tempestività alle domande dei cittadini; e innanzi alla quotidiana, giustificata denuncia
non è il caso di sprecare ancora molte parole.
Merita invece cercare di prendere in considerazione
le cause di questo disservizio che sono complesse e
molteplici e anch’esse, grosso modo, ben note al più
vasto pubblico per l’attenzione prestata in questi
ultimi anni alle cose della giustizia dalla stampa
d’informazione. Qui pertanto mi limito, pur ribadendo in genere cose già di pubblico dominio, a
88
UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO
mettere in rilievo quanto mi pare di un certo
interesse sulla base della mia esperienza.
In primo luogo, l’amministrazione giudiziaria
soffre di una grave e deplorevole mancanza di mezzi
che ne inceppa il funzionamento e ne lede la
dignità. Sedi ormai inadeguate, non funzionali e
spesso fatiscenti, mancanza degli strumenti che oggi
il progresso tecnico consente, frequente insufficienza del personale ausiliario, di cancellieri e di
dattilografi, sono deficienze antiche per un servizio
che lo Stato dovrebbe viceversa considerare come il
primo degno di attenzione proprio perché la Giustizia ne costituisce, storicamente e logicamente,
l’essenza. Ed è veramente triste in uno Stato che si
assume civile doversi occupare di queste cose e che
se ne debbano occupare, in particolare, i procuratori generali nei loro discorsi inaugurali dell’anno
giudiziario, ad esempio osservando che è del tutto
inutile che il magistrato depositi in termini la minuta delle sentenze se poi, per la scarsezza dei
dattilografi, si debbono attendere talora mesi per la
copiatura e quindi per la pubblicazione del provvedimento (24). Insomma siamo giunti al punto che i
conti della serva hanno dignità di problemi non
trascurabili nelle più solenni occasioni. Cosı̀, per il
periodo in cui fui addetto ad un tribunale, non fu
possibile assegnarmi un cancelliere o meglio avrei
dovuto spartirlo con altri due colleghi più anziani;
onde, posto che quel funzionario non aveva il dono
(24) Vd. F. PERFETTI, procuratore gen. della rep., Relazione
sull’amministrazione della giustizia in Toscana nel 1961 (assemblea
generale dell’11 gennaio 1962), Firenze, 1962, p. 9.
I PROCESSI E LA GIUSTIZIA
89
della ubiquità, fungevano da verbalizzanti i procuratori delle parti, in piena violazione della legge. Ed
il fenomeno più ameno è che talora lo Stato provvede inviando agli uffici, in serie, cose inutili e non
richieste; quando ero pretore, ad esempio, talora
arrivavano degli armadi metallici ultramoderni destinati a creare un orribile contrasto con i decrepiti
mobili già in dotazione; e un bel giorno arrivò anche
un ciclostile veramente superfluo, visto che nell’ambito del mio ufficio non c’erano circolari da fare o
volantini da distribuire (25)! Né si accenni, per
carità di patria, alla pressoché assoluta mancanza di
mezzi di trasporto o alla necessità, per il giudice,
eventualmente sprovvisto di proprio automezzo (situazione normale fino a pochi anni or sono), di
accettare l’ospitalità dei difensori.
Nello svolgimento concreto dell’attività giudiziaria, come in tutta l’attività della pubblica amministrazione, all’interno e nei rapporti coi cittadini, si
avverte assai di frequente il limite odioso, antifunzionale e antieconomico nonché mortificante del
nostro burocraticismo che è retto da un principio
dominante anche se inespresso; che cioè non può
aversi alcuna fiducia nella onestà dell’operatore e
pertanto, per garantirsi da frodi e distorsioni, è
posta attorno ad esso tutta una fitta rete di regolamentazioni, di necessarie autorizzazioni, di controlli
defatiganti ed assurdi che implicano appunto, sovente, la non funzionalità del servizio o talune
gravissime distorsioni rispetto alle sue finalità. Tutta
(25) Vd. nello stesso senso la lettera del pretore di Prizzi in
« Rassegna dei magistrati », 1964, p. 217.
90
UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO
una costruzione, quindi, che urta contro il più
elementare buon senso e contro la quale il giovane
deve inevitabilmente battere la testa. Qualche volta,
agli inizi della mia attività di pretore, ritenni, in
relazione a procedimenti penali particolarmente
delicati e nei quali si prospettava a mio avviso la
necessità di riferire con estrema sollecitudine al
procuratore della repubblica o al giudice istruttore
rogante, prospettando l’opportunità di adottare
certi provvedimenti, di dover riferire subito alla
procura, distante circa quaranta chilometri, inviando il plico a mano a mezzo di un carabiniere;
una operazione quindi da risolversi in due ore, tra
l’andata e il ritorno.
Nelle prime occasioni ottenni senz’altro dal
locale comando dei carabinieri quanto desideravo;
ma poi mi venne spiegato che, a stretto rigore, per
poter disporre questo spostamento di un militare
era necessaria l’autorizzazione di un superiore comando, se ben ricordo di un colonnello avente
ufficio in altra città assai più distante: finora il
comando locale aveva ben volentieri aderito alle
mie richieste, in quello spirito di collaborazione che
è caratteristico, di norma, nei rapporti tra magistrati
e carabinieri, ma a suo rischio e pericolo, giacché se
per tragica disavventura al carabiniere motociclista
fosse capitato per strada un incidente, ne sarebbero
venute delle grane (forse non tanto per le eventuali
lesioni alla persona, ma per il danno al veicolo,
posto che lo Stato è assai più geloso dei mezzi
meccanici che dell’incolumità del suo personale...).
Cosı̀ decisi di non farne più niente se dovevo
provocare tante complicazioni e preoccupazioni,
I PROCESSI E LA GIUSTIZIA
91
adattandomi per quieto vivere ai normali mezzi di
comunicazione postale, in barba al mio entusiasmo
di inquisitore.
Né le scoperte dovevano finire qui, giacché
quasi ogni giorno era, agli inizi, fonte di rivelazione.
Appresi che per un giudice è estremamente complicato rivolgersi direttamente, per lettera, ad un
cittadino per chiedere una qualsiasi cosa; infatti gli
uffici giudiziari godono sı̀ della franchigia postale,
ma solo nei confronti di determinati corrispondenti
che qualche testo minutamente specifica: altrimenti
bisogna affrancare la lettera e per la registrazione
della relativa spesa si creano certe inevitabili difficoltà di cancelleria o, per evitarle, il funzionario
deve provvedere in proprio. E cosı̀, per aggirare i
vari ostacoli, la mancanza di franchigia, le difficoltà
cancellieresche, ci sono altri espedienti senza spesa:
o si convoca il cittadino come teste previa notificazione a mezzo di ufficiale giudiziario e magari per
dirgli che deve tornare con quel certo documento o
si scrive al competente comando dei carabinieri,
rispetto al quale c’è franchigia, con preghiera di
invitare il cittadino X a consegnare quel certo
documento! E tutto questo giro complicato, fatto a
spese del malcapitato cittadino, perché non c’è
possibilità di affrancare col minimo dispendio al
pari di quanto farebbe nel caso il comune mortale.
C’è poi una norma, recentemente introdotta nel
codice di procedura penale (art. 177-bis), in virtù
della quale, dovendosi procedere contro un cittadino straniero, l’autorità procedente deve dare notizia a costui, con lettera raccomandata, della pendenza del processo con invito a costituirsi se lo
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UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO
ritiene opportuno; ebbene non ricordo esattamente
perché, ma il mio cancelliere preferiva addossarsi in
proprio la spesa perché il giuoco di farla figurare tra
le spese di ufficio non valeva la candela; e talvolta,
per assicurare una equa ripartizione, provvedevo io.
Lo Stato poi, quando il giudice deve fare una
ispezione fuori sede, ad esempio per una ricognizione di cadavere, gli riconosce una particolare
indennità, per ottenere la quale tanto il giudice che
il cancelliere debbono riempire un modulo nel
quale si deve dichiarare, come condizione imprescindibile, che si è stati fuori dell’ufficio per più di
otto ore, servendosi dei mezzi ordinari di linea.
Cosı̀, per recarmi ad effettuare un accertamento nel
vicino paese di X distante circa dieci chilometri, per
avere diritto alla indennità di circa lire 1350 noi
avremmo dovuto prendere la corriera per portarci
dalla cittadina sede di mandamento alla stazione
posta in pianura a circa tre chilometri, salire in
treno, scendere dopo tre minuti alla vicina stazione
ferroviaria, qui prendere la corriera per salire a X
sulla collina, rifare tutta questa trafila al ritorno e
impiegare almeno otto ore (ma la trafila, mai fortunatamente subita, avrebbe certo richiesto trequattro ore)! Ma nell’epoca supersonica, il giudice
non può essere costretto ad operare come ai tempi
della diligenza; non appena gli giunge la telefonata
dei carabinieri, chiama un medico e accompagnato
da questi e dal cancelliere si reca, con la sua
automobile o con quella del medico, dove deve
effettuarsi l’accertamento ed è di nuovo in ufficio
dopo due, al massimo tre ore; ma se a questo punto
egli chiede la miserrima somma indicata (recandomi
I PROCESSI E LA GIUSTIZIA
93
nella località più remota del mandamento potevo
ottenere, se ben ricordo, lire 1780), sottoscrivendo il
modulo nel quale sono inserite tutte le necessarie
indicazioni che ho detto, egli commette un falso, pur
se nella sua coscienza egli si sente del tutto a posto,
anche perché in ogni caso la benzina consumata è a
suo carico o a carico di altri. E cosı̀ per qualche
tempo, io, come tutti i giudici d’Italia, come tutti i
pubblici dipendenti, commisi i miei bravi reati di
falso; poi, col pieno accordo del cancelliere, decisi di
non più delinquere, perché mi venne la preoccupazione di poter cadere in qualche trappola. Già,
perché c’è anche questo pericolo, che taluno pour
cause vada a scoprire queste consuetudinarie magagne, questi gravissimi reati per colpire chi dà troppo
fastidio ed è bene togliere di mezzo; e poiché talora
le cronache narrano di funzionari che hanno pagato
severamente la loro sostanziale onestà e la loro
correttezza per reati di questo tipo, per reati facilitati o ai quali si è indotti da questa macchina
sgangheratissima, io mi risolsi a non mettermi, nella
misura del possibile, nei guai per non dovermi
imbattere un giorno in qualche briccone per l’occasione nei panni di censore. (Un mio predecessore
ebbe delle grane perché un pignolissimo funzionario postale scoprı̀ che la corrispondenza della commissione elettorale mandamentale, presieduta dal
pretore, era inviata in franchigia, non prendendo in
considerazione il relativo regolamento questo organo). Ma, malgrado le buone intenzioni, chissà
quanti delitti ho io sulla coscienza! Il giudice, peritus
peritorum, ha spesso necessità di illuminarsi e di
ricorrere all’opera dei consulenti tecnici nel proce-
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UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO
dimento civile o dei periti nel procedimento penale
e lo Stato si guarda bene dal negare che a questi
ausiliari del magistrato debba essere corrisposto un
compenso; ma lo Stato, come al solito, non si fida e
la legge dispone che un perito va compensato in
ragione di un certo numero di « vacazioni » (per
vacazione si intende un periodo di lavoro, una o due
ore), ognuna delle quali importa il compenso (mille
o duemila lire, ad esempio, in relazione alla qualifica del perito, laureato o no), ma le vacazioni non
possono ovviamente superare un certo numero
nella giornata. Ne deriva che certi accertamenti,
anche essenziali (ad esempio, una sezione cadaverica con connessi esami), potrebbero compiersi nel
giro di qualche giorno o anche di qualche ora; ma se
tutto si svolge cosı̀ secondo le effettive necessità, va
a finire che al perito, eventualmente un luminare
universitario, dovrebbe esse corrisposta una modestissima somma, forse meno di quanto il comune
cittadino spende per una ordinaria visita specialistica. Ed allora, per far sı̀ che il perito abbia un equo
compenso in relazione all’effettiva importanza della
sua opera, con una menzogna comunemente praticata si fa figurare fittiziamente che è necessario
prolungare le indagini di quel tanto (un mese, due
mesi) che può consentire la corresponsione della
indennità in misura ragionevole, nel formale rispetto della legge; ad esempio, anche quando tutto
è chiaro al termine dell’autopsia, il perito preleva
certe parti del cadavere affermando di doverle
sottoporre ad ulteriore esame di laboratorio al fine
di poter esaurientemente rispondere ai quesiti posti
dal giudice, cosı̀ motivandosi la richiesta di una
I PROCESSI E LA GIUSTIZIA
95
concessione di un termine per il deposito della
perizia (26); sarebbe invero iniquo chiudere a questo punto liquidando al perito una somma (ottomila
lire, poniamo) che, a parte la qualità dell’intervento,
non compenserebbe certo per la mattinata perduta.
(26) Vd. N. REALE e G. TARTAGLIONE, Aspetti e soluzioni della
crisi della giustizia nel processo penale, relazione all’XI Congresso
naz. dei magistrati italiani, Sardegna, settembre 1963, p. 23: « È
notorio che, proprio per questo motivo, in moltissimi casi si accorda
un termine assai più lungo del necessario per perizie che potrebbero
essere completate in poche ore o in pochi giorni di intenso lavoro e
che alcune volte si dispongono indagini di gabinetto le quali già in
partenza appaiono inutili e, purtroppo, anche sezioni cadaveriche
manifestamente superflue ». Per quanto concerne i periti, poiché è
sempre più frequente che il magistrato debba far ricorso alla loro
opera, la soluzione ideale sarebbe certamente quella di assumere alle
dirette dipendenze dello Stato un certo numero di specialisti nelle
varie materie (tanti medici legali, tanti ingegneri, etc.) in relazione
alle necessità dell’amministrazione giudiziaria, dislocandoli opportunamente presso i più importanti uffici partendo dai quali essi
potrebbero agevolmente portarsi nelle varie località della giurisdizione secondo le richieste; avremmo in sostanza una sorta di
« magistrati tecnici » a disposizione dei giudici con una soluzione
organica corrispondente ad un bisogno costante ed indefettibile, con
maggiori garanzie di quelle attuali. Ma la soluzione esige per
definizione che sia reclutato, per ogni disciplina, quanto di meglio
offre l’ambiente, considerando che questi magistrati tecnici avrebbero a che fare con agguerriti consulenti di parte, talora luminari
universitari; e per il buon reclutamento sarebbe necessario offrire ai
possibili candidati un alto trattamento economico competitivo rispetto al mercato, un trattamento spesso superiore a quello goduto
dal magistrato-giurista, posto che, almeno per alcune specializzazioni,
il mercato di lavoro « giuridico » è assai più ampio. E con questo si è
detto che la soluzione è nel nostro paese del tutto avveniristica, posto
che presumibilmente lo Stato la svolgerebbe in termini tali da
assumere solo i falliti delle varie discipline. Ed allora è meglio non
farne niente, lasciando aperta l’attuale possibilità di richiedere
l’opera di buoni professionisti, talora onorevolmente attratti dal
prestigio che conferisce l’attività esplicata a fini di giustizia.
96
UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO
Cosı̀ si perde tempo prezioso e si contribuisce alla
esasperante lentezza dei procedimenti, salvo che il
giudice, anziché richiedere l’opera degli esperti più
qualificati e quindi più costosi, non ripieghi sulle
mezze cartucce, cosı̀ perdendosi in attendibilità
delle indagini, direttamente proporzionale all’autorità del perito, quello che in ipotesi potrebbe guadagnarsi in celerità!
Naturalmente tutte queste situazioni che ho
scelto fior da fiore non dipendono, all’origine, da un
mero capriccio, ma, come ho accennato, da una
precisa consapevolezza, che cioè il grado medio di
moralità del nostro cittadino investito di una pubblica attività o no, è tale che lo Stato ha le sue buone
ragioni per non fidarsi, essendo cosı̀ indotto a
cautelarsi e quindi a vincolare in limiti ristrettissimi
le possibili scelte dell’operatore. Allo stato delle
cose questo atteggiamento pare pienamente fondato. Giunto nel mezzo del cammino della vita,
sono pienamente convinto, con tanti, dell’amara
verità che in questo meraviglioso paese, che la
natura ha baciato e che la storia ha caricato di tanti
preziosi tesori, il singolo, che pure è in genere tanto
industrioso e solerte nelle sue cose, quasi sempre
con una nota di gentile bellezza, è tuttavia in genere
un pessimo cittadino; anche la persona di media
moralità che non concepisce nemmeno l’idea di
comportarsi dolosamente o scorrettamente nella
cerchia della sua vita privata e che tiene al suo buon
nome nei rapporti sociali, non prova alcun ritegno
all’idea di rubare o di mentire nei rapporti con la
pubblica amministrazione, proprio perché, forse per
una tradizione inveterata, non si ha il senso dello
I PROCESSI E LA GIUSTIZIA
97
Stato, non si sente lo Stato come un quid posto in
definitiva a servizio della generalità e colpendo il
quale si colpisce appunto la generalità e, alla lunga,
il ben inteso interesse di ciascuno. Ora la menzogna
ed il ladrocinio sostanziale sono moneta corrente
anche per chi è investito di pubbliche funzioni,
giacché quando si opera non avendo esclusivo riguardo a quanto è indispensabile per il funzionamento della macchina pubblica, quando si protrae
ingiustificatamente e fittiziamente il funzionamento
di questa macchina solo per soddisfare il personale
interesse, nella sostanza si ruba il pubblico denaro.
Rubano, ad esempio, quei numerosissimi galantuomini che sono soliti dar per terminate le operazioni elettorali del seggio loro affidato dopo lo
scoccare della mezzanotte del lunedı̀ sol perché
questa protrazione artificiosa consente loro di fruire
della indennità anche per il martedı̀; rubano quei
valentuomini che ad esempio tengono le riunioni
della commissione elettorale mandamentale, senza
alcuna giustificazione, nel numero massimo consentito dalla legge per arrotondare il pur magro compenso (e i compensi dello Stato sono talora veramente insultanti; quando venni mio malgrado
nominato presidente della commissione tributaria
mandamentale, il che mi costrinse ad una certa
spesa per fornirmi dei libri indispensabili per rinverdire le scarse nozioni di diritto tributario nonché ad
un non scarso lavoro nella preparazione delle sedute proprio per la mia ignoranza di partenza,
scoprii che per ogni ricorso la commissione nel suo
complesso, composta di sette-otto membri, veniva
compensata in ragione di circa duecento lire, fermo
98
UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO
il principio che al presidente doveva essere liquidato il doppio di quanto liquidato al semplice
componente); ruba chiunque attesta il falso a questi
fini. Lo Stato si muove appunto in questo ambiente
di incancrenita immoralità sul piano civico e cerca
di reagirvi come può, moltiplicando gli inutili controlli e le formalità necessarie. Ma siamo in un
circolo vizioso, di reciproca sfiducia del cittadino e
dello Stato, di reciproche ragioni e giustificazioni, il
tutto risolvendosi poi nella generale non funzionalità dell’Amministrazione e nel disagio comune,
posto che le regolamentazioni esistenti sono defatiganti ed inutili ed impediscono il puntuale funzionamento della macchina, tanto che in certe contingenze si è sentita la necessità di creare strutture
organizzative ad hoc, agili e snelle perché non
inceppate da quei vincoli che pesano sui settori
tradizionali, onde in questo ultimo quindicennio è
venuta fuori l’amena coesistenza di due pubbliche
amministrazioni.
Sennonché, proprio a ragione della antifunzionalità del vincolismo burocratico nonché del fatto
che esso si è rivelato nella sostanza inutile ad
assicurare il corretto funzionamento dell’Amministrazione specialmente perché resta aperta la possibilità, assai larga, che si operi nell’interesse privato,
rispettata la lettera della legge, quando si ignorino i
principi non scritti dell’onesto operare nell’interesse pubblico, io propendo a ritenere che sia
necessario uscire da questo terribile circolo vizioso
per porre coraggiosamente il problema in altri
termini. È auspicabile che lo Stato conceda, malgrado tutto, fiducia ai suoi operatori, che li liberi,
I PROCESSI E LA GIUSTIZIA
99
nell’interesse del servizio, da eccessive pastoie, che
consenta loro di bene operare senza la possibilità di
allegare a giustificazione della loro inerzia o inettitudine ostacoli di sorta. Solo che si dovrebbe essere
esemplarmente severi verso chi venga per avventura pescato con le mani nel sacco e non esitare
innanzi alle più gravi forme di repressione, anche a
carattere terroristico (anche il terrore ha talora la
sua storica funzione) al fine di stroncare la mala
pianta (27). Nel contempo c’è da sperare che tutto
concorra a modificare il costume, pur se bisognerà
attendere decenni per apprezzare i primi positivi
risultati, con l’incessante appello alla coscienza morale che sarà tanto più efficace, senza apparire vuota
retorica, se sarà suffragato dal buon esempio di chi
specialmente sta più in alto, nonché se si consoliderà la certezza che verso i delinquenti sarà dura e
inesorabile la spada della giustizia.
In sostanza si tratta di saper compiere un salto
rivoluzionario nella mentalità di governo, qui come
altrove, ad esempio in materia tributaria, ove attualmente possiamo registrare lo stesso circolo vizioso
(27) Nel suo testamento (traggo da M. NOVIELLI, La morale di
Massarenti, ne « Il Mondo » del 17 agosto 1965), G. MASSARENTI
scrisse: « Nelle scelte del personale, impiegati ecc. per le cooperative
e le organizzazioni operaie, bisogna seguire la presente massima che
ha servito finora di base a tutte quante le cooperative di consumo e
di lavoro di tutto il mondo operaio. Si debbono scegliere le persone
o gli uomini come se tutto si dovesse attendere dalle loro qualità e
abilità personali; e si deve negli impianti contabili e amministrativi
curare il controllo come se gli eletti o prescelti fossero palesemente
dei ladri ». Ma questa direttiva, se è ottima e praticabile per le
iniziative limitate, non può operare al livello della colossale macchina
pubblica, come i fatti dimostrano, specialmente quanto è emerso, per
il bene e per il male, in alcuni recenti e clamorosi processi.
100
UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO
di sfiducia tra lo Stato e il contribuente, circolo che
potrà rompersi solo dando credito, in linea di
massima, al secondo, con equa riduzione delle
attuali sproporzionate aliquote (che si ritorcono in
danno soprattutto dei pubblici dipendenti per i
quali è difficile l’evasione), e nel contempo rinunciando all’idea assurda ed irrealizzabile di un controllo svolto a casaccio in maniera generalizzata,
mentre invece sarebbe ben più proficuo, come pare
che avvenga in certi paesi, estrarre a sorte ogni
anno, per ogni circoscrizione tributaria, un esiguo
numero di contribuenti da setacciare fino al centesimo, punendo chi per avventura risulti in frode
rispetto a quanto dichiarato, con anni di sacrosanta
galera e con la confisca del patrimonio. Nella speranza, appunto, che col tempo il costume vada
migliorando e che scompaia l’attuale radicata convinzione che solo i mentecatti compiono il loro
dovere e che con un poco di furbizia è possibile
eludere le leggi; al pari dell’altra diffusa convinzione che c’è quasi sempre un prezzo col quale è
possibile corrompere il pubblico funzionario, specialmente i componenti di certi corpi appositamente
istituiti, per suprema ironia, per garantire le pubbliche finanze.
Per quanto mi riguarda, vi sono troppi episodi di
pubblico dominio, troppe confidenze amareggiate e
sicuramente attendibili raccolte nei miei anni di
magistratura, perché non sia indotto a ritenere in
una certa misura vera questa convinzione, tanto che
quando ho a che fare con certe persone m’è difficile
allontanare l’istintivo sospetto; quando la gente
chiacchiera, pur tutto concedendo alla facile esage-
I PROCESSI E LA GIUSTIZIA
101
razione, qualcosa di vero c’è sempre. E anche qui
bisognerà decisamente, con risolutezza e nel contempo fidando nell’operabilità a lunga scadenza dei
rimedi, innovare per ristabilire la fiducia; assicurando ai pubblici dipendenti un trattamento adeguato (ma assumendoli nel numero che le effettive
necessità richiedono e non, come spesso avviene, a
titolo assistenziale), tale che possa in ogni caso far
ritenere colpevole ogni cedimento e nel contempo
reagendo con severità contro i corrotti.
Né sarebbe male adottare qualche risolutiva
misura, ad esempio disponendo che il privato cittadino comunque non risponde, a titolo di concorso
con l’impiegato pubblico, in determinati reati contro la pubblica amministrazione, affinché i pubblici
dipendenti colpevoli possano essere con una certa
facilità messi sul banco degli imputati; ché se la
soluzione, empiricamente giustificata per ragioni di
politica legislativa, può apparire aberrante sul piano
tecnico-giuridico e moralmente ricattatoria, si tratta
di un ricatto che giustamente si rovescia sui responsabili della situazione; per mio conto ho l’inveterata
abitudine di giudicare delle soluzioni legislative non
in base ad astratti principi, ma col metro esclusivo
dell’utilità sociale ed è socialmente utile ciò che
serve al raggiungimento dell’obiettivo meritevole. E
non sarebbe male, ad analogia di quanto è stato di
recente disposto nell’Unione Sovietica, istituire una
procedura per la quale il burocrate o l’ex burocrate
possa subire la confisca dei beni, al pari dei suoi
familiari, ove, in relazione al reddito ufficialmente
percepito, vi sia il fondato sospetto che il patrimonio derivi da illecita attività e l’interessato non sia in
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UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO
grado di fornire la prova contraria; in sostanza un
controllo sulle persone forse assai più efficace dell’istituto vigente della responsabilità contabile.
Nella mia esperienza ricordo, sul piano delle cose
qui accennate, una vicenda che mi fu illuminante;
avendo avuto la ventura di imbattermi in funzionari
disposti ad andare al fondo delle cose in un certo
settore, si faceva, di comune accordo, quanto pareva indispensabile, evitandosi intermediari, per
frustrare eventuali fughe di notizie circa la motivatamente richiesta e concessa perquisizione; il risultato fu che divenne possibile giungere del tutto
inaspettatamente dove si voleva, acciuffando talora
la doppia contabilità stringendo senza rimedi il
frodatore. Ciò mi convinse che la vera materia
prima è l’uomo e se l’uomo fa difetto è inutile la
lettera della legge cosı̀ come sono inutili i solenni
impegni, mentre l’onesta decisione di avvalersi di
tutti gli strumenti concessi dalla legge può far
superare le difficoltà.
In una occasione, come giudice tutelare, mi
interessavo della tutela di un minore rimasto orfano
di genitori di condizioni relativamente agiate,
avendo titolo nell’eredità un soggetto che si trovava
in obiettivo conflitto di interessi col minore; per una
indiscrezione fattami da una persona dabbene appresi che vi era in giro una cospicua somma depositata in banca con speciali buoni al portatore e che
era in corso la manovra di occultamento, forse
anche a fin di bene e cioè per ragioni fiscali; era
comunque mio dovere ricercare questa somma per
acquisirla ad ogni buon conto al patrimonio di chi
era affidato alle mie cure e si trattava appunto di
I PROCESSI E LA GIUSTIZIA
103
accertare in primis se questi buoni erano stati
emessi, quale numero avevano, etc. Nel corso delle
indagini, nelle quali subii con molta bonomia da
parte di un funzionario bancario l’affronto per cui
questi telefonò alla direzione centrale della banca
per esserne autorizzato a deporre ormai sciolto dal
segreto bancario..., giunsi ad un punto morto; finché
mi venne come una illuminazione: telefonai al direttore della filiale, dicendogli che certamente, se si
voleva, io non sarei giunto a capo di niente, il che
però non mi impediva di andare in quella filiale e di
soggiornarvi qualche giorno per la perquisizione
che il codice impone al giudice di effettuare personalmente (art. 340 u.c. cod. proc. pen.), col risultato
che io non avrei trovato niente, ma per il mio
rovistare sarebbero occorse poi giornate di lavoro
per rimettere ordine. Dopo dieci minuti ebbi sul
mio tavolo i numeri richiesti e dopo poche ore un
signore trepidante, che aveva evidentemente avuto
notizia delle indagini in corso, mi consegnava i
buoni.
Se la mancanza di mezzi adeguati, al pari di altre
grosse deficienze della sistemazione legislativa del
processo delle quali dirò, spiegano in parte la
disfunzione giudiziaria, è anche vero che in non
indifferente misura vi concorre anche la colpa,
talora inescusabile, degli operatori latamente intesi,
in particolare per quanto attiene al procedimento
penale. È infatti troppo comodo cercare di mettersi
al sicuro allegando le carenze del sistema, quando
l’esperienza di tutti i giorni comprova anche il
sistematico vizio degli uomini, onde sarebbe moralmente colpevole il tacerne. In particolare, per sor-
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UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO
volare degli aspetti che il pubblico ben conosce, mi
pare di poter dire che in parte la crisi della giustizia
penale deriva dal fatto che si sono instaurate delle
prassi assolutamente praeter legem, cosı̀ appesantendosi il servizio con attività inutili e defatiganti.
Ad esempio tutti hanno appreso dalle istituzioni del
diritto processuale penale, che gli ufficiali di polizia
giudiziaria hanno l’obbligo di riferire alla autorità
giudiziaria su quei fatti che, secondo una prima
sormmaria impressione, possono integrare gli estremi di reato. Nella prassi viceversa è incredibile
quale sia la mole dei fatti riferiti a prescindere da
ogni valutazione sia pure approssimativa sul punto
della seria configurabilità di un reato. Cosı̀, in caso
di incidente stradale, il rapporto è di prammatica,
non solo quando si sono verificati eventi (morte o
lesioni) tipici di determinate fattispecie, ma ancor
quando tutto si sia risolto nel danneggiamento,
colposo, dei veicoli. Non solo, ma si riferisce anche
di qualsiasi lesione accidentale, della massaia ustionata per il rovesciamento di una pentola contenente
liquidi in ebollizione, come del contadino investito
da uno sciame di insetti. Lo stesso avviene quando
si tratta di richiedere l’intervento del magistrato per
una ricognizione di cadavere; in pratica è sufficiente, almeno nel distretto nel quale ho prestato
attività (mi consta, infatti, che altrove, ad esempio
in Piemonte, l’intervento del magistrato è consueto
solo in ipotesi di fatti rispetto ai quali sia configurabile il delitto doloso, mentre per i delitti colposi,
in particolare della circolazione stradale, il magistrato deve tenersi a disposizione per l’eventualità
che la polizia voglia chiedere istruzioni), morire in
I PROCESSI E LA GIUSTIZIA
105
una maniera un pochino eccezionale, ad esempio
rotolando per le scale o per chiaro proposito suicida, perché il pretore debba accorrere; ricordo che
nel 1960 fui richiesto per ben trentaquattro accessi
di questo tipo, in nessuno di questi episodi trattandosi comunque di delitti dolosi, forse perché, come
sosteneva il cancelliere, subivano la iettatura dell’anno bisestile. È evidente che in questa prassi in
parte, laddove in ogni caso mancano gli estremi per
la configurabilità del reato, chiaramente si esorbita
da quanto impone la legge, inutilmente inflazionando il numero degli affari pendenti e rendendo
necessari i pur sbrigativi provvedimenti di archiviazione; in parte si eccede, perché se è lodevole che la
polizia e i carabinieri accorrano ovunque si sia
verificato un fatto astrattamente riconducibile ad
una ipotesi delittuosa anche colposa, anche al fine di
assicurare in ipotesi le prove, è assurdo che si debba
riferire in ogni caso all’a.g. di quanto si è fatto. In
sostanza si comprende che l’intervento della polizia
sia quantitativamente più ampio di quello del giudice, proprio al fine di controllare se nei vari fatti vi
siano o no estremi di reato, ma l’intervento deve
funzionare come un primo, pur grossolano, setaccio
tra i fatti penalmente irrilevanti anche per l’occhio
più scrupoloso e i fatti rispetto ai quali c’è un
minimo per la configurabilità del reato; in teoria
sarebbe desiderabile che il rapporto giudiziario
fosse inoltrato solo nei casi in cui si ritenga di
elevare fin dagli inizi l’accusa a carico di taluno;
quanto meno, anche senza formali indicazioni, dovrebbe comunque seriamente prospettarsi un dubbio sulla responsabilità. Mi sono chiesto molte volte
106
UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO
perché questa distorsione si verifichi e ho pensato,
ad esempio, ad un eccesso di scrupolo, ad una
relativa ignoranza degli agenti, etc.; in realtà mi
sono convinto che questa prassi soprattutto, e certo
inconsciamente, deriva dal desiderio della polizia di
mettersi in ogni caso a posto: si opera meccanicamente, si riferisce su tutto quello che si fa, tanto la
matassa sarà sbrigata dal giudice; in ogni caso siamo
al riparo della possibile accusa di omissione di
rapporto. In sostanza è il classico espediente del
rinvio di responsabilità, al quale dovrebbe porsi un
argine tornando alla corretta applicazione della
legge, in particolare per quanto concerne le ricognizioni di cadavere. Da una parte gli ufficiali di stato
civile dovrebbero ricordare che essi hanno obbligo
di rapporto al pretore o al procuratore della repubblica (art. 143 legge sull’ordinamento dello stato
civile) quando nell’accertamento della morte rilevano « qualche indizio di morte dipendente da
reato », onde l’obbligo viene meno... quando manca
il pur tenue indizio; dall’altra gli ufficiali di polizia
giudiziaria dovrebbero pure ricordare (art. 144
stesso testo) che l’intervento del magistrato o degli
stessi ufficiali è imposto « quando risultano segni o
indizi di morte violenta o vi è ragione di sospettarla
per altre circostanze »: la legge consente loro,
quindi, una valutazione discrezionale caso per caso
circa la doverosità di provocare l’intervento del
magistrato, proprio perché pone sullo stesso piano,
alternativamente, i due interventi ai fini della compilazione degli atti di stato civile, onde nell’ampio
calderone delle morti violente si può omettere di
richiedere il giudice quando difetti assolutamente il
I PROCESSI E LA GIUSTIZIA
107
sospetto di reato o quando si tratti di un reato oggi
purtroppo « normale » come negli incidenti stradali,
provocandolo viceversa nell’ipotesi dei più gravi
delitti o quando siano necessarie particolari indagini.
Ma lo scarico di responsabilità opera anche, in
misura non indifferente, tra i magistrati. In pratica
nella maggior parte dei procedimenti che oggi aggravano il carico giudiziario, in relazione ai fatti
della circolazione stradale, il rinvio a giudizio da
parte dei magistrati del pubblico ministero e dei
pretori è pressoché automatico e l’istruttoria, come
autorevolmente si rilevò (28), è praticamente svuotata rispetto alla sua funzione che è quella di
sceverare nella gran massa dei procedimenti quelli
nei quali, con un minimo di attendibilità, è configurabile la responsabilità di taluno, tanto da rendere
doveroso l’ulteriore corso del procedimento. Anche
questa distorsione si verifica in parte perché consente di scaricarsi da ogni responsabilità, in parte
per pigrizia perché è più sbrigativo, nella prevalente
istruttoria sommaria, formulare un capo d’imputa(28) Vd. D. R. PERETTI GRIVA, L’indipendenza del magistrato,
cit., p. 712, sia per l’abuso lamentato nel testo sia per un certo abito
mentale del pubblico ministero: « Sarebbe poi ammaestrante una
statistica di ricorsi fatti dal pubblico ministero con risultato negativo.
Se ne potrebbe dedurre che troppo spesso il pubblico ministero “si
diverte”, per eleganza, o anche qui, per adeguarsi compiacentemente
al ritenuto o presunto orientamento dei superiori o del governo, a
ricorrere contro sentenze che non dovrebbero venire impugnate, per
evitare gli inconvenienti già accennati. C’è in questo eccessivo spirito
accusatorio una certa assenza di sensibilità, se non senso addirittura
di sadismo, che riduce l’accusatore a strumento automatico di una
inumana persecuzione ».
108
UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO
zione spesso assai generico e sottoscrivere il modulo
a stampa col quale si chiede il rinvio a giudizio,
piuttosto che provocare motivatamente il proscioglimento in istruttoria, tanto più che in questa
ultima ipotesi c’è il rischio di dover lavorare due
volte, se gli uffici all’uopo competenti vanno in
contrario avviso. Ma, cosı̀ superficialmente operando, non ci si rende conto della grave ingiustizia
che si arreca al cittadino imputato senza seria
consistenza; sballata che sia l’accusa, questa intanto
esiste ed è fonte di grave preoccupazione; si legittimano le aspettative della parte lesa talora famelica
o affetta da nevrosi post-traumatica da indennizzo,
giacché se ci « crede » il pubblico ministero non si
vede perché il privato interessato debba desistere; si
costringe, di norma, a far ricorso all’opera dell’avvocato che comunque, facile o no che sia il suo
compito, vorrà percepire il suo onorario, con un
danno economico. Ricordo che una volta, per pura
pigrizia, rinviai a giudizio un tale per lesioni colpose, essendo pienamente convinto della sua innocenza data la macroscopica colpa del leso; poiché
l’evento, cioè l’entità delle lesioni, era stato piuttosto grave, avrei dovuto motivare assai dettagliatamente le ragioni del mio convincimento e quella
sera non ne ebbi semplicemente e colposamente
voglia, giustificandomi con molta incoscienza col
pensare che « tanto avrei assolto in giudizio », convinto inoltre che tutto sarebbe andato de plano,
tanto era chiara l’innocenza dell’imputato... Ma al
processo il leso si costituı̀ parte civile e quando me
ne resi conto, sentii che non ero riuscito a trattenere
sul mio volto l’impressione di un incredulo stupore;
I PROCESSI E LA GIUSTIZIA
109
mi sentii assai colpevole e se mi astenni per rispetto
umano dal chiedere le scuse che forse dovevo, capii
quale dramma e quale danno e nel contempo quale
infondata attesa nell’altra parte avevo provocato e,
con quel rimorso nel cuore, cercai per l’avvenire di
essere più serio, utilizzando se necessario lo strumento della archiviazione.
Che dire poi di quel frequente andazzo di
rinviare a giudizio o di tenere comunque sospesa la
prospettiva in questo senso, quando il magistrato,
per un deplorevole senso di umanità e di comprensione verso il povero leso alla condotta del quale
deve attribuirsi l’incidente, cerca, cosı̀ facendo, di
spaventare l’imputato e di indurre costui o la sua
compagnia di assicurazione a corrispondere qualcosa alla vittima, pietatis causa? Perché anche questo avviene, per uno spirito umanitario del tutto
fuori di luogo, poiché non è giusto aggravare di un
intervento assistenziale chi è innocente e perché
inoltre il richiamo alla disciplina della circolazione
non deve agire a senso unico e perché infine nel
processo penale il magistrato deve essere unicamente mosso dall’interesse pubblico. Sotto questo
aspetto, in verità, non mi sento pesi sulla coscienza,
giacché fui un giudice che nemmeno uno stuolo
piangente di povere vedove e di orfani poteva
scuotere. La parte civile non mi ha mai commosso o
indotto ad espedienti per non pregiudicare comunque gli interessi di parte, concludendo il processo
penale in modo da lasciare aperta la possibilità di
promuovere poi il giudizio civile per il risarcimento
dei danni o per queste ragioni condannando anche
quando era di gran lunga prevalente la colpa del
110
UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO
leso e minima quella dell’imputato o ricorrendo alla
formula pilatesca della insufficienza di prove (29).
Piuttosto, nei casi in cui non v’era comunque questione per gli interessi della parte lesa, ma doveva
aversi solo riguardo alla pretesa punitiva dello
Stato, fui, almeno quando ne ebbi piena possibilità
come giudice monocratico, di un orientamento assai
elastico, secondo quella che mi pareva la prudente
valutazione delle circostanze: decisamente severo
fino ad irrogare la pena detentiva quando risultava
una grave, prevalente, inescusabile colpa dell’imputato, specialmente se in violazione di precise norme
di legge; lassista nei casi, invero assai più numerosi,
nei quali questa gravità doveva escludersi e tutto
doveva attribuirsi a quell’attimo fatale che anche al
(29) Vd. l’autorevole testimonianza di F. PERFETTI, Relazione
sull’amministrazione della giustizia, cit., p. 34: « Si è da taluni
lamentato che il giudice, applicando delle attenuanti, come quelle
generiche, del risarcimento del danno ecc., scenda di frequente molto
al di sotto del minimo. Ciò è vero, ma a giustificare questa apparente
eccessiva benevolenza deve rilevarsi che talvolta l’affermazione di
responsabilità dell’imputato è dai giudici fondata più che su una sua
conclamata colpa, sulla necessità di tener conto degli interessi civili
del leso o dei suoi aventi causa che non possono essere tutelati,
almeno in sede penale, che attraverso una condanna. Ci sono, infatti,
dei casi, non rari, nei quali la responsabilità del guidatore è cosı̀ lieve
che quasi sfugge o nei quali l’evento è conseguenza di un macroscopico concorso di colpa, da parte della vittima. In molti di questi casi
il giudice sarebbe forse tratto ad una maggiore benevolenza verso il
conducente, col conseguente suo pieno proscioglimento, se il danno
fosse stato risarcito. Ma poiché questa ipotesi raramente si verifica, il
magistrato, valutando con maggior rigore le prove, giunge ad una
condanna mite o ad un proscioglimento per insufficienza di prove
sulla colpa, il che lascia adito al leso di provvedersi in sede civile. Si
dirà che ciò non è del tutto giusto, ma bisogna riconoscere anche che
i giudici sono pur essi degli uomini e che summun jus è spesso summa
iniquitas ».
I PROCESSI E LA GIUSTIZIA
111
più prudente guidatore capita, magari per la concorrente colpa del leso (il vero e proprio pirata della
strada, quello che opera in colpa « con previsione »
è un monstrum assai raro). Verificandosi la seconda
ipotesi, versandosi in materia di reati colposi, di fatti
nei quali non è in questione la moralità del cittadino, non era raro il caso che io deliberatamente
chiudessi un occhio e ricorressi alla classica assoluzione per insufficienza di prove.
Ma l’abuso che io feci, stricto jure, della formula
pietistica di ripiego, non toglie che io sia risolutamente tra i sostenitori della eliminazione della
medesima, trattandosi di formula che di per sé si
presta a tutti gli abusi, a favore e contro l’imputato,
e che è gravissima di implicazioni nei procedimenti
per reati infamanti rispetto ai quali il cittadino deve
essere o condannato o assolto, ma nella seconda
ipotesi deve poter andare a testa alta, senza un
crisma ufficiale di sospetto. Del resto non vedo in
base a quali principi si giustifichi siffatta formula,
perché processualmente e sostanzialmente l’accusa
o è vittoriosamente provata o non lo è, tertium non
datur; probabilmente ripercorrendo la storia dell’istituto si troverebbe, sulla scorta dei lavori preparatori, che qui si è voluto il classico espediente
transattivo e buono a tutti gli usi, anche per mettere
a posto, in certi casi, la coscienza turbata dei
giudicanti (penso ai grossi processi indiziari sui
quali si è comprensibilmente concentrata l’attenzione della opinione pubblica e della letteratura,
anche se essi costituiscono una parte quantitativamente trascurabile dell’esperienza giudiziaria). Più
in generale, nella mia ingenuità, non ho nemmeno
112
UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO
mai ben capito perché il nostro codice si diletti di
tanta varietà di formule assolutorie (il fatto non
sussiste, non ha commesso il fatto, perché il fatto
non costituisce reato e, almeno in istruttoria, perché
il fatto non è previsto dalla legge come reato);
formule che di massima servono solo ad inutili
elucubrazioni e determinano nelle camere di consiglio lunghe diatribe circa i criteri distintivi teoreticamente tracciabili tra l’una e l’altra formula e circa
l’individuazione di quella più esattamente corrispondente alla valutazione del caso specifico. A mio
avviso sarebbe assai più convincente un sistema nel
quale si prevedessero due sole formule terminali nel
merito, quelle in definitiva reali, la condanna e
l’assoluzione, mentre si potrebbe provvedere altrimenti sul punto dei rapporti tra processo penale e
processo civile e della preclusione per cosa giudicata penale.
È inutile dire che le riferite distorsioni riscontrabili nella prassi sono tutte cause di molto e
superfluo sovraccarico giudiziario e si traducono in
grave danno per i cittadini presi negli ingranaggi di
questa macchina, come imputati, parti lese e testi.
Giacché, senza rendersi conto del grave disagio che
importa ad un cittadino di media condizione l’obbligo di rendere testimonianza (perdita di tempo
con tutte le conseguenze sul piano professionale,
specialmente quando siano necessari spostamenti a
lunga distanza; lunghe ore di attesa nei corridoi;
minimo rimborso del danno, per tacere di eventuali
complicazioni che rendano necessario il rinvio del
processo e quindi lo spettro di nuove convocazioni),
la citazione avviene automaticamente per tutti co-
I PROCESSI E LA GIUSTIZIA
113
loro che sono stati comunque sentiti nella istruttoria
e nelle prime indagini di polizia, senza alcuna
delibazione in merito e all’essenzialità della testimonianza e al profilo pregiudiziale se il teste abbia
veramente qualcosa da dire in merito al processo.
Ricordo, ad esempio, taluni processi per bancarotta
con la citazione di diecine di persone già sentite in
istruttoria, ivi avendo dichiarato di essersi limitate
ad inoltrare al fallito una fornitura su semplice
richiesta scritta, non conoscendo costui e niente
sapendo delle cause del fallimento. E se è vero che
il cittadino italiano ha anche in questo scarso civismo e cerca normalmente di evitare grane, talora
anche deplorevolmente dileguandosi, è anche vero
che niente si fa dall’altra parte per superare questo
atteggiamento, convincendo che se si disturba lo si
fa a ragion veduta, perché la testimonianza è essenziale o quanto meno seriamente opportuna, posto
che niente più mortifica ed irrita della impressione
di essere stati richiesti a vuoto, mentre al contrario
la consapevolezza di adempiere nel caso specifico
ad un dovere, che prima di essere giuridico è etico,
sprona e convince. In genere può dirsi che molto
potrebbe farsi, in tutti i sensi, al fine di ridurre per
tutti i protagonisti il costo del processo, con un
minimo di buona volontà e soprattutto sforzandosi
di considerare le cose anche mettendosi nei panni
del cittadino che ha le sue preoccupazioni quotidiane che debbono essere tenute in adeguata considerazione. Cosı̀ ben poco ci vuole a rinviare un
processo al pomeriggio se nella mattinata, come
spesso avviene, qualche difensore è impegnato a
presentarsi ad altro ufficio, anche perché l’espe-
114
UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO
diente è preferibile per tutti al rinvio ad altra
udienza; in ogni caso dovrebbe essere posta la
massima cura nel provocare la controcitazione tempestiva dei testi e delle parti, non appena si sia
disposto per il rinvio del processo. In conclusione si
dovrebbe cercare di adottare sempre quanto valga
per ridurre disagi e contrattempi, anche se è difficile, rispetto al processo, soddisfare gli interessi,
spesso contrastanti, di tutti coloro la cui partecipazione è indispensabile.
Di qui innanzi si entra nel campo in cui vi è
spesso grave ed inescusabile violazione dei propri
doveri, oppure appare discutibile il modo in cui
talora vi si provvede. Sotto quest’ultimo profilo,
dirò, ad esempio, che nella giurisdizione nella quale
prestavo servizio come pretore vi è l’uso di inviare
alla procura della repubblica, di un procedimento
penale definito in udienza, la sola sentenza e alla
procura si decide in merito alla opportunità o no di
interporre gravame su questa sola insufficiente
base, giacché non vedo come ci si possa rendere
conto della bontà o no di una decisione se non si
prende piena cognizione di tutti gli atti, puntualmente richiesti altrove. E per la vera e propria
violazione dei doveri di ufficio, è ben noto come
molti giudici siano assai corrivi a non osservare
scrupolosamente l’orario fissato per le udienze e per
i vari incombenti, determinando un comprensibile
malumore nonché quell’andazzo per cui tutti, avvocati in prima linea, mettono nel conto che normalmente inizia alle dieci quanto è stato fissato per le
nove; tanto che in una città toscana si è coniata
questa efficacissima definizione del tribunale, che
I PROCESSI E LA GIUSTIZIA
115
riporto in quanto penso possa essere di più ampia
applicabilità: « il tribunale è quel luogo in cui il
giudice che arriva per ultimo saluta per le scale il
giudice che esce per primo ». Io sono per natura
particolarmente spinto a trovarmi mezz’ora prima
nel luogo fissato per un appuntamento e per questo
trovai irritante che nella « mia » pretura dovessi
attendere almeno tre quarti d’ora dopo quella fissata prima che spuntasse il più puntuale dei difensori. Le mie ammonizioni caddero nel vuoto e
poiché mi si presentava paurosa la prospettiva di
dover soffrire col mio carattere per questo inconveniente per molti anni, decisi, come talora conviene
per rompere inveterate abitudini, di prendere il toro
per le corna; cosı̀ alla quarta o quinta udienza, date
precise istruzioni al cancelliere, iniziai l’udienza alle
quindici in punto nel vuoto dell’aula; l’udienza ebbe
termine dieci minuti dopo, avendo disposto tanti
rinvii ex art. 309 cod. proc. civ. e quindi me ne andai:
da allora, quando allo scoccare dell’ora entravo in
aula, questa era gremita e l’udienza rapidamente si
esauriva con reciproco vantaggio di tutti. Perché
questo appunto è in giuoco: il vantaggio comune.
Naturalmente la soluzione fu facile quando ero
pretore solitario di campagna, unico giudice a tenere udienza in quella località e a quella determinata ora, in una situazione quindi invidiabile. Le
cose sono molto più complicate in un grosso ufficio
nel quale, come spesso di necessità avviene, più
giudici tengono udienza alla stessa ora; di qui la
corsa affannosa dei procuratori da un giudice all’altro in una contingenza che sa molto di assordante
mercato, mentre il singolo magistrato deve rasse-
116
UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO
gnarsi a tenersi a disposizione per un tempo maggiore, con intervalli tra un « cliente » e l’altro: ma
proprio qui la puntualità è ancor più essenziale,
perché se tutti i giudici iniziano l’udienza all’ora
stabilita e la tengono tutti aperta per il tempo
opportuno, è possibile, con qualche accorgimento,
che i procuratori possano nel complesso accedere
con una certa tranquillità a tutti i magistrati, riducendo il ritmo talora ossessivo della corsa affannosa
da una stanza all’altra.
Ma la situazione più clamorosa e alquanto diffusa è quella per cui molti magistrati hanno la
pessima abitudine di non osservare i termini di
legge per il deposito delle sentenze e dei provvedimenti istruttori; il ritardo di qualche settimana è
pressoché normale e talora passano diversi mesi
perché possa aversi una ordinanza o una sentenza,
quando non si arriva a punte veramente patologiche: ho conosciuto, ad esempio, un magistrato che
aveva organizzato la sua attività in modo che egli
attendeva alla redazione delle sentenze di tutto
l’anno nel periodo feriale, depositando tutte le
sentenze al ritorno dalle « ferie » e cioè ai primi di
ottobre, onde chi aveva avuto la sorte della spedizione della causa a sentenza in autunno, doveva
rassegnatamente attendere il successivo autunno.
La situazione è veramente deplorevole in quanto, in
definitiva, testimonia da una parte della organica
incapacità di distribuire razionalmente il proprio
lavoro e dall’altra del meccanicismo burocratico al
quale di norma il magistrato si abbandona nel
processo civile. Infatti non si deve ritenere, com’è
ovvio, che il giudice ritardi solo per pigrizia, perché
I PROCESSI E LA GIUSTIZIA
117
si abbandona al dolce far niente; egli lavora, ma in
un sistematico ritardo rispetto alle scadenze perché,
com’è logico, avendo mancato di diligenza agli inizi
si produce come una catena dalla quale è poi
difficile districarsi. Si paga pertanto lo scotto della
iniziale pigrizia; poiché, invece di provvedere tempestivamente facendo subito quello che può farsi, si
è cominciato con l’assaporare le gioie dell’ozio
all’insegna del proverbio spagnolo (Quien trabaja
perde tiempo precioso, un motto che vale per molti),
rinviando progressivamente all’indomani, ad un
certo punto la mole si accumula ed è impossibile
tenervi dietro o rimontare. Ma, come ho detto, la
situazione comprova di una sorta di meccanicismo
nella conduzione del processo civile, addebitabile
all’inerzia e all’assenza del giudice istruttore. Infatti
il giudice, dopo la spedizione della causa a sentenza,
non è in grado di riferire subito, come dovrebbe, in
camera di consiglio, perché in realtà non conosce né
ha mai studiato a fondo la causa, anche se, ironia
della sorte, formalmente l’ha istruita, assumendo
anche le prove, ma avvenendo tutto questo a casaccio, senza rendersi ben conto della situazione. Qui si
toccano le note più dolenti del processo civile,
rispetto al quale è certo che molto è addebitabile,
per la tradizionale lentezza, agli avvocati che pur
hanno in materia la massima disponibilità possibile.
Quando andai in tribunale e quivi mi vennero
affidati circa duecentocinquanta processi, ve ne
erano moltissimi che pendevano da anni senza che
in essi si fosse fatto qualcosa; trovai anche qualche
causa iniziata, in primo grado, dieci anni prima,
riscontrandosi nel fascicolo, per anni e anni, pagine
118
UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO
e pagine di verbali di semplice rinvio. Pertanto il
primo problema, la prima deficienza sta appunto nei
difensori che troppo spesso, instaurata la causa,
bellamente se ne dimenticano e lasciano trascorrere
gli anni chiedendo sistematicamente il rinvio, quivi
dominando, in barba ai clienti, le esigenze degne e
meno degne di considerazione dei legali che quasi
tutti, non si comprende perché, scivolano in questo
pessimo andazzo e sono quindi avvinti in una
naturale rete, vera e propria massoneria, di solidarietà reciproca: di norma, in sostanza, il rinvio non si
nega mai ad un collega, perché « oggi a te, domani
a me » e non è infrequente che il rinvio sia appunto
richiesto allegando a giustificazione l’impedimento
dell’avversario. Il dramma del cittadino che nel
procedimento penale prevalentemente si consuma
nei corridoi degli uffici giudiziari, è nel processo
civile semplicemente spostato, celebrandosi esso, di
norma, nelle lunghe snervanti attese nelle anticamere dei legali e nella vana, ripetuta sollecitazione;
per questo io mi sono fermamente ficcato in testa
che, allo stato delle cose, uno dei peggiori guai che
può capitare al cittadino italiano è quello di doversi
rivolgere ad un giudice o ad un legale, apparendo
realisticamente preferibile che si ricerchi altrove,
bonariamente, la composizione delle liti anche con
qualche rinuncia, non valendo in effetti il giuoco la
candela. Ed in certi limiti… di valore, la soluzione di
gran lunga preferibile, in termini di tempo e di
tranquillità dello spirito, è quella di rinunciare
semplicemente alla pretesa perché, nella migliore
delle ipotesi, nessuno mai compenserà su questo
piano.
I PROCESSI E LA GIUSTIZIA
119
Chi ha avuto l’inestimabile fortuna di tenersi
alla larga in tutta la sua vita dalle aule di giustizia,
non può immaginare quanto e con quale intensità
operi questa solidarietà avvocatesca, giusta il principio — primo in realtà nell’etica professionale
effettuale — che in primo luogo non debbono
negarsi i reciproci favori tipici del dominante lassismo, dovendosi in ogni caso dar la prevalenza
all’interesse del collega avversario malgrado l’urgenza di provvedere per l’interesse del cliente.
Naturalmente ci si rende ben conto di questa situazione e talora se ne prova il disagio; ricordo che
pendevano nel mio ufficio una ventina di cause,
molte delle quali remote, nelle quali era impegnato
uno dei più illustri avvocati locali e nell’anno e
mezzo del mio servizio non fu possibile, in nessuna
di quelle cause, fare un passo innanzi; un giorno
venne a chiedere l’ennesimo rinvio l’avversario
dell’illustre professionista, dicendo col sorriso sulle
labbra che il collega non era venuto a chiederlo lui,
avendone vergogna!
Solidarietà che opera, purtroppo, non solo nel
processo civile, ma anche in quello penale e anche
laddove è in giuoco la libertà dei cittadini. Ricordo
che una volta doveva celebrarsi un processo assai
grave con tre imputati detenuti, due dei quali erano
assistiti da un valente penalista nonché parlamentare; all’udienza pervenne una lettera con la quale
l’onorevole, impegnato nella capitale nelle trattative per la formazione del governo, chiedeva un
rinvio che, essendosi nella imminenza delle feste
natalizie e quindi alla chiusura dell’anno giudiziario,
avrebbe potuto disporsi solo per la fine di gennaio,
120
UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO
a prescindere dal fatto che, retorica a parte, si
pregiudicava la più o meno teorica possibilità che gli
imputati avevano, in caso di celebrazione del processo, di tornare liberi e di passare quindi in seno
alla famiglia le prossime feste. Il difensore dell’altro
imputato dichiarò che non poteva logicamente opporsi alla richiesta del collega; la situazione era
imbarazzante ed il presidente del collegio appariva
visibilmente preoccupato ed incerto sul da farsi;
contribuii a risolvere la questione, suggerendo discretamente al presidente, con una certa malignità
invero, di rimettere ai due imputati, privi quella
mattina del difensore di fiducia, la scelta tra la
celebrazione immediata del processo con altro difensore magari di ufficio o il rinvio in attesa che le
cure di governo permettessero all’onorevole difensore di provvedere agli interessi dei clienti: i due,
per comprensibili ragioni, optarono per la seconda
alternativa, l’udienza fu tolta, ma non so con quale
stato d’animo i vari protagonisti dell’episodio si
accinsero a consumare l’insperata vacanza, specialmente quelli in manette.
A mio avviso, è questo andazzo avvocatesco che
pone, in larga misura, le condizioni che spiegano e
favoriscono la diserzione del giudice dai suoi compiti nel processo civile. Com’è ben noto, l’ideale
secondo il codice di procedura civile, specialmente
nella sua originaria formulazione malinconicamente
imperniata sui principi chiovendiani di oralità, concentrazione, speditezza, è quello che il giudice fin
dalle prime battute si impadronisca fino in fondo
della causa, ponendosi in grado di avviarla verso
una sollecita definizione; e in verità se questo si
I PROCESSI E LA GIUSTIZIA
121
facesse, sotto il pungolo dei difensori come è nella
logica della costruzione, il giudice sarebbe in grado,
ad esempio, di rendersi subito conto se vi è una
qualche questione pregiudiziale, di giurisdizione, di
competenza rilevabile d’ufficio, di procedibilità, ricorrendo la quale, può disporsi senz’altro la rimissione della causa al collegio; oppure potrebbe con
altrettanta sollecitudine disporre per i necessari
incombenti istruttori. Ma il pungolo dei difensori,
che l’ideale del codice sottintende, generalmente
manca; anche nei tranquilli tribunali di provincia
nei quali il giudice, a differenza di quanto avviene
nei grossi uffici delle grandi città, non è quasi
letteralmente sommerso dal cumulo delle pratiche,
il magistrato sa che è perfettamente inutile studiare
a fondo la causa sulla base dei primi atti difensivi,
perché di norma la semplice pendenza del processo
non significa ancora niente in termini di presente
richiesta di puntuale giustizia, posto che, come è
d’uso, si andrà forse per molto tempo innanzi con
semplici rinvii prima che qualcosa di concreto venga
richiesto. In un certo senso non so dare torto ai
magistrati, anche perché dispiace a tutti impegnarsi
a vuoto e magari più volte, in quanto, nel periodo
che corre tra una concreta richiesta e l’altra, la
memoria di norma non regge e c’è il rischio di dover
ricominciare poi tutto da capo; col solo limite che, in
ogni caso, dovrebbe darsi una scorsa agli atti iniziali
per vedere se per avventura non emerga una questione preliminare rilevabile di ufficio e per la quale
sia possibile troncare subito la causa.
A dire il vero, l’iniziale presa di possesso della
causa potrebbe essere utile sotto altro profilo, per
122
UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO
indurre il giudice, in tutti i casi nei quali questo
possa giuridicamente perseguirsi, a convocare le
parti e per sentirle liberamente sui fatti di causa
come già prevede l’art. 117 del codice di rito e per
esperire il tentativo di conciliazione secondo la
direttiva che già impone l’art. 185 dello stesso
codice. In verità, in una eventuale riforma del
codice o nel quadro di una ennesima codificazione,
pare opportuno che si disponga obbligatoriamente
per questa convocazione ai fini di tentare la pacifica
composizione della lite se possibile giuridicamente,
ed in ogni caso per l’interrogatorio libero delle
parti; l’esperienza infatti mi insegna che un franco
confronto tra i contendenti può essere estremamente utile per mettere in evidenza l’essenziale
della lite, sfrondandola da ogni inutile contestazione e acquisendo elementi decisivi sul piano probatorio; mentre, se il magistrato vi si mette con
impegno, non è infrequente che possa ottenersi
l’accordo, soprattutto quando si insista come, considerato lo stato della nostra amministrazione giudiziaria, non convenga realisticamente a nessuna
delle parti battere la lunga e defatigante trafila
processuale. Tolti i rari casi nei quali le parti siano
dotate, per naturale dote o per esperienza, di una
certa agilità mentale per poter considerare la causa
in termini realistici, come un affare, certamente il
giudice può sperare, di massima, nell’accordo solo
se ha molta flemma e pazienza, consentendo ai
litiganti quello sfogo preliminare che è talora psicologicamente liberatore e utilizzando con molta accortezza ogni spiraglio; non è facile avere i nervi a
posto per resistere alla tempesta che talora dura per
I PROCESSI E LA GIUSTIZIA
123
ore, cosı̀ essendo indotti a preferire la soluzione più
facile del non insistere, posto che tutto sommato è
meno snervante redigere una sentenza nel silenzio
di una stanza. Nella mia attività di pretore di
campagna spesso cercavo, talora all’ombra dei cipressi in occasione di ispezioni, di adoperarmi in
questo senso, in condizioni umane di particolari
difficoltà dato il rigido attaccamento delle popolazioni rurali alle loro ragioni; in genere mantenevo
una calma serafica ispiratami dalla considerazione
che, essendo in giuoco un superiore interesse, non
potevo permettermi il lusso di reazioni personali;
talvolta, invece, per il capriccio o per la stanchezza
del momento, assai rapidamente mi adeguavo alla
soluzione personalmente più facile, desistendo dalla
bonaria interposizione; non di rado i miei tentativi
andavano a monte quando pareva raggiunto l’accordo, giacché a questo punto insorgeva in genere la
questione del compenso ai difensori. Ma soprattutto, in quell’ambiente rustico, gli sforzi di pacificazione si arenavano per l’intervento delle donne
che in genere constatai di una irriducibile, passionale aggressività in contrasto con una certa ragionevolezza e remissività dei loro uomini; e speriamo,
ora che il gentil sesso sta entrando anche nel terzo
potere, che la funzione attenui nelle donne-giudici
queste caratteristiche che non sono certo le più
indicate per una professione che richiede per definizione molto signorile distacco dalle spinte emotive.
Se si comprende come l’andazzo avvocatesco
induca il magistrato ad ignorare praticamente il
contenuto dei fascicoli civili, l’ignoranza diventa del
124
UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO
tutto ingiustificata allorché i difensori chiedono in
concreto qualcosa, l’ammissione di una prova o la
rimessione della causa al collegio. Purtroppo è assai
diffusa l’abitudine di provvedere con alquanta superficialità su queste richieste, eventualmente nella
confusione della pubblica udienza e sulla base di
una superficiale scorsa degli atti o della mera illustrazione dell’istanza da parte del difensore, onde
non di rado avviene, ad esempio, che si ammettano
prove superflue o inammissibili o che la causa venga
rimessa al collegio quando in effetti non è ancora
nello stato che consente la decisione. Al contrario
queste istanze dovrebbero costituire l’occasione per
una effettiva conoscenza del processo da parte del
giudice e per consentire a questi, nei limiti che
l’andazzo posto in essere dai difensori consente, di
esplicare la funzione non passiva che il codice gli
commette. Per mio conto, mentre ero assai lassista
nel periodo anteriore a eventuali richieste proprio
perché disdegno di lavorare a vuoto, approfittavo di
queste occasioni in misura adeguata, seguendo il
prezioso consiglio datomi nel periodo di uditorato
dal mio illustre istruttore, il quale appunto mi disse
che dovevo evitare nella maniera più assoluta di
decidere a caldo in udienza, per eliminare il rischio
di combinare arrosti, riservandomi invece, come di
regola, di decidere fuori udienza. Presi questa abitudine di riservarmi sempre, rispettando tuttavia il
termine brevissimo che il codice stabilisce per il
deposito dell’ordinanza; l’unica volta che non mi
riservai parendomi l’istanza del tutto accoglibile
senza ombra di dubbio, la sorte ammonitrice volle
che io combinassi un grave errore. Riservatomi,
I PROCESSI E LA GIUSTIZIA
125
leggevo e studiavo attentamente gli atti di causa;
per le cause nelle quali si prospettavano questioni di
diritto assai complesse o a me ignote, solevo compiere una pur sommaria ricerca provvisoria in giurisprudenza e in dottrina, prendendo appunti in un
quadernetto appositamente istituito; provvedevo
quindi, a ragion veduta, sulla istanza. Specificamente utilizzavo l’ordinanza istruttoria, che è uno
strumento formidabile se sagacemente adoperato,
per esercitare ampiamente quel potere correttivo e
quella potestà di indicazione delle lacune istruttorie
che il codice concede al giudice istruttore e in più
larga misura al pretore; cosı̀ prospettavo la configurabilità di determinate questioni, specificavo i criteri
distributivi dell’onere della prova nel caso, mentre
talora mi è anche avvenuto di segnalare lo jus
superveniens; cercavo insomma di indirizzare i difensori nel senso che mi pareva più pertinente.
Naturalmente non era facile esprimersi in questo
colloquio coi difensori, anche per la preoccupazione
di non superare i limiti posti ai poteri del giudice e
per non dare l’impressione di correre in soccorso di
questa o quella parte; cercavo quindi di mantenere
un tono adeguato e credo di aver qualche volta, per
quello che scrivevo e soprattutto per quello che
cercavo di far capire tra le linee, raddrizzato alcune
cause. Poiché poi, trattandosi di un sistema di
lavoro, seguivo questi criteri sempre con ovvia
rigorosa imparzialità, veniva meno la preoccupazione di apparire in funzione di salvataggio; al
massimo i salvataggi sono stati equamente ripartiti!
Poiché poi ero solito riservarmi anche sull’istanza di
rimessione della causa a sentenza, ad eccezione dei
126
UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO
casi nei quali già conoscevo la causa, e perché per
decidere su questa istanza studiavo il fascicolo, era
logico che al momento della spedizione fossi già
padrone della lite o per deciderla o per riferirne
subito in camera di consiglio. Con questi facili
espedienti, avendo evitato poi la pigrizia iniziale,
mai una volta, se la memoria non mi inganna, m’è
avvenuto di essere in mora (30).
L’osservanza della legge mi fu facilissima nella
più invidiabile posizione di giudice monocratico che
ha la rara fortuna di dipendere solo da se stesso,
senza dover fare i conti, per l’adempimento dei suoi
doveri, con le abitudini degli altri; scrivevo direttamente le sentenze nella prescritta carta bollata e a
macchina, risparmiando la cancelleria, giacché
quando si è ben studiata la causa e si ha in testa
l’ordine delle questioni, è facile scrivere cosı̀ di
getto (solo due o tre volte mi è accaduto di dover
stracciare il foglio, provvedendo a mie spese alla
sostituzione) ed io non capisco perché, almeno i
giovani, non facciano quel piccolo sforzo che è
necessario per impadronirsi di questo moderno e
corrente mezzo di scrittura (e di questo rimbrotto
sempre i giovani laureandi, quando mi dicono che
debbono affidarsi per la stesura della tesi ad un
dattilografo). Negli uffici collegiali c’è invece meno
libertà... funzionale, ma tutto può superarsi tenendo
duro, anche per il giudice che, avendo buone intenzioni ed essendo nel contempo il più giovane del
(30) Sulla responsabilità concorrente degli operatori per
quanto attiene la crisi dell’amministrazione giudiziaria ha spesse
volte messo l’accento G. A. RAFFAELLI, del quale vd. da ultimo
Disservizio giudiziario, in « Rassegna dei magistrati », 1964, p. 108.
I PROCESSI E LA GIUSTIZIA
127
collegio e quindi destinato a riferire per ultimo,
talvolta ha in camera di consiglio l’ansia di non
farcela, se sta avvicinandosi il momento fatale in cui
la riunione si interromperà data « l’ora tarda ». In
ogni caso, comunque si pervenga alla spedizione
della causa a sentenza, è del tutto inammissibile che
il magistrato non adempia al suo elementare dovere
di rispettare i termini di legge. Purtroppo è diffuso
l’andazzo contrario, il giudice riferisce in camera di
consiglio non immediatamente, ma quando se ne
sente in grado, a settimane e talora a mesi di
distanza, e dopo la decisione collegiale passano
altre settimane o mesi perché si provveda alla
redazione della sentenza e ai conseguenti adempimenti. E l’andazzo è favorito dal fatto che nessuno
degli strumenti di pungolo e di controllo sul giudice
funziona. In primo luogo generalmente non funzionano i capi degli uffici che non provvedono, come
sarebbe loro dovere, a far sı̀ che si osservi la legge.
Nel tribunale presso il quale io ebbi la ventura di
compiere il mio periodo di uditorato e che è ancora
uno dei pochi tribunali seri, tutto era ottimamente
congegnato in modo da imporre il rispetto dei
termini di legge: all’udienza collegiale che si teneva
con una certa non inutile solennità (col tempo mi
sono convinto che, purtroppo, la forma ed il rito
possono rappresentare garanzie sostanziali; quando
vedo, nelle sedute di laurea, quale scempio spesso si
fa della serietà di questo « esame », senza alcun
rispetto per le forme, tutto sovente riducendosi ad
uno stentato colloquio tra il relatore ed il candidato,
disturbato dalle conversazioni che intanto gli altri
commissari più o meno discretamente conducono
128
UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO
quando non sono in altre faccende affaccendati,
offendendo il prestigio dell’istituto e offendendo il
giovane che bene o male è al termine di un sudato
curriculum, capisco quale importanza abbiano le
solennità formali ed anche i paludamenti esteriori
della amministrazione giudiziaria), per ogni causa il
relatore doveva pur succintamente riferire; terminata l’udienza, subito aveva inizio la camera di
consiglio che continuava nel pomeriggio e se necessario l’indomani fino alla decisione di tutte le cause,
onde il giudice sapeva in anticipo che doveva essere
pronto; inoltre il presidente controllava che il deposito delle sentenze, sulla redazione delle quali esercitava anche un non inutile controllo stilistico, avvenisse nei termini.
Ma se vengono meno gli strumenti interni,
altrettanto avviene di quelli « esterni ». In teoria
non è vero che non ci sia alcun rimedio, che gli
avvocati e le parti siano semplicemente costretti a
tollerare l’inerzia del giudice; c’è, infatti, nel codice
di procedura civile, una norma (art. 55) che consente di mettere in mora il giudice con un atto
formale e quindi, quando sia inutilmente decorso il
termine di dieci giorni, di agire in giudizio per far
dichiarare la responsabilità civile del magistrato.
Non so se qualche volta questa precisa previsione
normativa sia stata utilizzata con la formale messa
in mora del magistrato negligente; comunque non
credo che almeno in questi ultimi ventitré animi vi
siano stati processi civili instaurati per far affermare
la responsabilità civile del giudice: posso dirlo con
qualche cognizione di causa, avendo io curato, per
una ben nota rassegna di giurisprudenza al codice,
I PROCESSI E LA GIUSTIZIA
129
la parte nella quale trovasi appunto l’art. 55, senza
reperire traccia, nei repertori e nelle riviste, di
alcuna pronuncia.
Gli avvocati mugugnano, si sfogano dicendo non
a torto nelle private confidenze peste e corna di quel
giudice innanzi al quale in genere riverenti ed ossequiosi si presentano, ma non reagiscono, semplicemente perché, com’è umano, temono conseguenze
complessivamente negative della loro eventuale reazione, temono cioè, cosı̀ certo testimoniando di una
scarsa stima dei magistrati, che l’azione si ritorca in
una loro minore possibilità di trovare ascolto presso
i decidenti. Temono cioè che possa capitare loro qualcosa di analogo a quello che in anni assai lontani si
dice (ma l’autenticità dell’episodio è dubbia) che accadde ad un ingenuo studente universitario che aveva
ottenuto l’annullamento dell’esame sostenuto innanzi ad un grandissimo maestro del diritto di fama
universale, adducendo che nel caso non si era proceduto innanzi alla commissione di tre esaminatori
prevista dalla legge, tutto essendosi risolto in un colloquio solitario col docente (e quanti falsi in quei
registri!); ebbene, rinnovandosi l’esame innanzi ad
una commissione regolarmente costituita, il presidente vi dette inizio con queste parole: « adunque
Ella desidera essere bocciato da tre commissari »!
Cosı̀, per intuitive ragioni, oltre alla massoneria « interna » dei legali, l’ambiente giudiziario consta, con
tutto danno dei cittadini, di una più vasta e complessa
massoneria che accumuna in un sol tutto, secondo
una deprecabile solidarietà, gli uni e gli altri, giacché
nel reciproco deteriore interesse, in genere avvocato
non morde avvocato, cosı̀ come avvocato non morde
130
UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO
giudice e viceversa. Ma se è comprensibile che in
questa situazione di fondo i rimedi formalmente previsti facciano cilecca, è veramente triste che non
debba funzionare nemmeno il controllo che la legge
commette a chi è fuori di questa rete di solidarietà;
credo infatti che non si possa registrare casi in cui il
ministro per la giustizia abbia esercitato l’azione disciplinare nei confronti di magistrati negligenti.
Questa azione è in genere esercitata solo quando il magistrato si macchia di fatti veramente gravi
o quando assuma pubblicamente posizione sui problemi della magistratura con una certa intemperanza, ma mai per garantire il corretto funzionamento del servizio. Per questo le discussioni,
accesissime, che si sono fatte a suo tempo sul punto
della attribuzione al ministro di questa facoltà o a
proposito del mantenimento dei servizi ispettivi
nell’ambito ministeriale, appaiono ex post, come
molte delle nostre discussioni, meramente astratte e
vane: il sistema non soffre per queste previsioni
della legge, bensı̀ del fatto che esse siano, di massima, rimaste solo previsioni senza svolgimenti
concreti; non è da lamentare che la Costituzione
attribuisca al ministro la titolarità dell’azione disciplinare, ma al contrario che di questa facoltà si
faccia cosı̀ parco uso.
E in definitiva sarebbe sufficiente, per far mutare registro, dimostrare di voler agire; basterebbe
un caso, adeguatamente pubblicizzato, di un magistrato deposto per far intendere alla massa, come
suol dirsi in Toscana, l’antifona.
Finora ho detto del modo in cui i magistrati
adempiono ai loro obblighi formali, senza valuta-
I PROCESSI E LA GIUSTIZIA
131
zioni di merito in ordine alla bontà o no, per grandi
linee, delle decisioni. Ed invero una indagine siffatta, un esame di merito della giurisprudenza,
oltreché impossibile, esorbita dai limiti di questa
testimonianza. Ma c’è un aspetto dell’esercizio in
concreto della giurisdizione a mio avviso tanto
grave ed imponente che richiede una specifica considerazione. Intendo riferirmi al predominante lassismo in materia penale. Debbo premettere che, per
un inguaribile pessimismo sulle qualità morali dell’uomo medio, sono risolutamente convinto della
funzione positiva della pena in una ordinata società,
sostanzialmente secondo la concezione che fu tipica
della scuola classica del diritto penale; cosı̀ sono
risolutamente avverso alle diffuse opinioni che negano o sminuiscono questa essenziale funzione,
accampando le più varie giustificazioni scientifiche e
più spesso pseudoscientifiche. Checché si pensi, in
termini filosofici, dell’eterno ed irrisolubile problema della libertà e della necessità nell’umano
comportamento e quindi della congruenza o no, su
quel piano, del principio di imputabilità, la società
organizzata proprio per il suo porsi normativamente, in termini di regolamentazione dell’operare
umano, postula inderogabilmente dal punto di vista
concettuale, se si vuole in funzione di una esigenza
fisiologica interna dell’organismo e del sistema,
l’accettazione di codesto essenziale principio, in
virtú del quale si assume la possibilità di esigere
dall’uomo medio un comportamento doveroso, discostandosi dal quale la società sia arbitra di punire.
Mentre rispetto al deficiente sono utilizzabili altri
strumenti di salvaguardia sociale (ad esempio, i
132
UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO
manicomi), all’uomo capace di intendere e di volere
viene rivolto un comando assunto per definizione
come esigibile per libera scelta interiore e alle
eventuali inosservanze nel sistema si postula che
possa reagirsi punendo, in tal modo difendendo il
corpo sociale. Di qui la sostanza della pena, in
questa sua imprescindibile ragion d’essere; e se è
vero che è possibile ed anche auspicabile che la
pena adempia o venga utilizzata anche ad altri fini,
per ottenere l’emenda del reo e la sua reimmissione
nel corpo sociale, è altrettanto vero che queste
possono essere solo utilizzazioni secondarie e collaterali, mentre la misura penale ha la sua giustificazione autosufficiente nella esigenza logica della
repressione intimidatrice e solo in funzione di questa sua intrinseca funzione può essere definita. La
pena cosı̀ risponde, in primis, ad una esigenza
organica della società, non vi sarebbe se mancasse
codesta esigenza; d’altro canto le eventuali utilizzazioni secondarie di essa non possono essere spinte al
punto di alterarne la funzione essenziale. Di qui la
relatività storica del sistema sanzionatorio e nel
senso che il potere costituito liberamente valuta
quali fatti siano in quella determinata epoca talmente gravi da dover essere più o meno severamente puniti e nel senso ulteriore che la qualità e la
entità della pena sono pure demandate ad una
valutazione discrezionale della necessità storica.
Nell’esperienza concreta poi si dimostra eloquentemente la funzione della pena, giacché a parte
le elucubrazioni se per questa via sia possibile
ottenere l’emenda del reo (rispetto alla funzione
intrinseca della pena la diatriba è inconsistente), è
I PROCESSI E LA GIUSTIZIA
133
comunque dimostrabile che il sistema repressivo
serve soprattutto ad avere un minor numero di
delinquenti rispetto a quello che naturaliter si
avrebbe, posto che la media degli uomini nel decidere circa la propria condotta mette nel conto
questa possibile evenienza repressiva e cerca, come
è nella realtà di tutti i giorni, di evitare il possibile
male.
Basta pensare a quello che accade nei periodi e
nelle istituzioni nelle quali per le più varie ragioni, il
sistema repressivo non funziona
La maggioranza degli uomini si comporta in
condizioni di normalità sociale, più o meno correttamente ed evita quanto meno di delinquere e se
viceversa il sistema repressivo è inceppato, si verifica semplicemente l’aumento della delinquenza.
Quel cittadino irreprensibile che evita normalmente
di incappare nel codice penale, una volta vestito di
una divisa militare e mandato in territorio nemico,
non esita, in condizioni date, a commettere fatti
gravissimi, ruba, minaccia, violenta, stupra, uccide;
quel medesimo cittadino in periodi di caos sociale,
di guerra civile, ad esempio come è avvenuto nel
nostro paese negli anni tragici che vanno dal 1943 al
1946, non esita ad abbandonarsi a vendette private,
a uccidere l’odiato nemico personale o colui dal
quale subı̀ a torto o a ragione un affronto, ad
impadronirsi delle cose di chi proprio per le condizioni di emergenza è stato costretto a fuggire e a
nascondersi; quel giovane di buona famiglia che è
tanto educato e rispettoso in condizioni normali,
non ha ritegno, nei suoi anni universitari, ad abbandonarsi ad atti di violenza e a comportamenti de-
134
UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO
littuosi nei confronti delle malcapitate matricole.
Tutto questo non avviene per uno strano, improvviso ed occasionale cedimento della coscienza, ma
semplicemente perché in queste condizioni, ideali
per la constatazione di come sonnecchi in genere
nel fondo dell’uomo « civile » la bestia, l’irreprensibile cittadino sa di poterla fare franca, sa che di
norma non incontrerà reazioni né pubbliche né
private, giacché, ad esempio, l’imberbe mascalzone
universitario si guarderebbe bene dal costringere la
matricola a denudarsi o dall’estorcere denaro, non
solo se sapesse dell’eventualità di poter andare nelle
patrie galere come almeno in certe ipotesi dovrebbe
avvenire se la polizia e i procuratori della repubblica applicassero la legge, ma anche se gli si
prospettasse l’eventualità che l’oggetto della sua
attività criminale, lungi dal comportarsi da agnello
smarrito, possa mettere in pericolo la sua incolumità come avrebbe non dico il diritto, ma l’impegno
morale di fare, posto che è doveroso esigere in noi
il rispetto della persona umana; basterebbe anche la
certezza di poter subire nelle pareti domestiche una
adeguata reazione, che sarebbe altrettanto doverosa, se innanzi al giovane non si trovasse un
soggetto della stessa stoffa morale un poco più
attempato. Tutto questo dimostra come nell’uomo
di media moralità sonnecchi il selvaggio e come solo
con estrema fatica, nelle condizioni normali di
stabilità del corpo sociale, sia contenibile la tendenza innata; tanto che è sufficiente il perturbamento di quelle condizioni e la sussistenza di
un’area di pratica immunità per ritornare allo stadio
primitivo e per moltiplicare i delinquenti reali. Qui
I PROCESSI E LA GIUSTIZIA
135
sta precisamente la funzione della pena e del sistema repressivo nel suo complesso, sia quello in
mano pubblica sia quello che in certi limiti è
demandato ai privati cittadini.
E invero, ai fini della difesa sociale, non bisogna
limitarsi a considerare il sistema di irrogazione delle
pene ex post, ma il complesso delle reazioni complessivamente esperibili nei confronti della delinquenza, comprese quindi anche quelle che gli agenti
pubblici ed anche i privati possono beneficamente
utilizzare quando l’attività criminosa è in corso. Si
dice spesso, e a ragione, che è meglio prevenire che
reprimere, ad esempio che è auspicabile, in sede
civile, consentire al cittadino la pronta, immediata
salvaguardia del suo diritto innanzi agli attentati in
corso di effettuazione o che si minacciano, con i
provvedimenti d’urgenza, anziché rinviare all’esaurimento, di necessità defatigante, dei rimedi giurisdizionali normali che non potranno, per definizione, riparare interamente il torto subito se nel
frattempo la lesione ha avuto modo di concretizzarsi. Si pone quindi giustamente l’accento sulla
preferibilità dei rimedi immediati che consentano di
stroncare sul nascere l’attività illecita. Ma non capisco perché di questo sennato criterio non debba
farsi applicazione in materia di repressione dell’attività criminosa, dove è certo che la prospettiva di
poter incontrare una immediata risposta è, per i
male intenzionati, assai più eloquente ostacolo,
talvolta, della sanzione successiva.
È in questo ordine di idee che sono assai
perplesso rispetto all’orientamento che pare vada
affermandosi negli ultimi tempi per quanto attiene
136
UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO
alla possibilità di azione della polizia nella flagranza
del reato ed anche in occasione di disordini pubblici, ove è vano richiamare la invidiabile situazione
di certi paesi civilissimi nei quali, se la polizia è
disarmata, è anche vero che la media della popolazione è ad un livello di civismo assai più elevato. A
mio avviso la polizia, naturalmente nei limiti dello
stretto necessario e senza esorbitanze, deve avere
possibilità di agire in uno scontro diretto contro la
criminalità in azione e le risposte immediate date su
questo terreno devono essere giudicate con molta
ragionevolezza; in particolare, anche se mi rendo
conto di andare contro corrente e di presentarmi
cosı̀ in posizione abominevole innanzi all’attuale
« illuminata » opinione, deve procedersi assai cautamente per quanto attiene all’uso delle armi in
queste contingenze (ed invece oggi si legge di agenti
immediatamente incolpati ed arrestati, quando in
ogni caso dovrebbe partirsi dalla presunzione, ovviamente suscettiva di prova contraria, che essi
abbiano agito nei limiti del loro mandato ed in stato
di necessità). Del resto non c’è in materia alcun
sacro principio vincolante, tutto risolvendosi in termini di valutazioni di opportunità; dicasi questo di
una ipotetica norma che autorizzi le forze di polizia
a far uso delle armi contro i delinquenti in fuga
perché sorpresi in piena attività criminosa: quello
che soprattutto conta è la repressione della criminalità, coi mezzi più efficaci e tempestivi, ciò essendo semplicemente doveroso da parte della società organizzata verso se medesima. Tutto il resto,
anche se opportuno e desiderabile, è concettualmente superfluo rispetto alla funzione essenziale del
I PROCESSI E LA GIUSTIZIA
137
sistema repressivo e comunque si pone in altro
ordine di idee; cosı̀ la utilizzazione di questo sistema
anche ai fini dell’emenda e del reinserimento del
soggetto, costituisce una specie di servizio sociale
reso a costui dopo il servizio sociale reso alla
generalità nel suo complesso, avendo fatto tutto il
possibile per garantire la sicurezza dei cittadini. Se
in materia c’è un principio di diritto che va assolutamente osservato, è solo quello della certezza e
della predeterminazione delle possibili reazioni; o,
se si vuol dire altrimenti, chi si dispone a delinquere
ha un solo « diritto », quello di sapere esattamente
quello che gli può capitare e a evento criminoso
perfezionato e prima, quando ci si abbandona all’attività criminosa.
Sono fermamente convinto che è in ogni caso
estremamente deleterio creare nella mente degli
agenti dell’ordine, di coloro che spesso, come i
carabinieri, prestano con abnegazione la loro opera
in cambio di un trattamento talora civilmente abnorme, la convinzione di non poter agire con una
certa tranquillità e sicurezza; guai se un giorno
fossero costretti a pensare che è preferibile non
agire, non affrontare la criminalità in campo aperto,
per evitare spiacevoli conseguenze a loro carico:
allora si constaterebbe come la società sia nel
complesso disarmata innanzi all’ondata di delinquenza che cresce in forme adeguate al miracolo
economico, come da taluni episodi già oggi risulta.
D’altro canto è nella logica dell’inceppamento
delle forze di polizia che i cittadini, sentendosi
ormai indifesi, cerchino di tutelarsi con i propri
mezzi, come si è potuto constatare in alcuni episodi
138
UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO
verificatisi nelle grandi città del nord, determinandosi cosı̀ una situazione assai più pericolosa. Cosı̀
pure sul piano dell’ordine pubblico si è assistito in
questi ultimi tempi a episodi gravissimi, con la
teppaglia invasata intenta in occasione di lotte
sociali a distruggere i beni pubblici e privati, rovesciando auto, saccheggiando negozi ecc.; episodi che
si sono verificati avendo anche inciso la consapevolezza di una minore forza della polizia investita da
un’ombra ingiustificata di sospetto e quindi psicologicamente frustrata.
Egualmente dicasi dell’orientamento che pare
delinearsi in tema di legittima difesa (31), anche qui
essendosi determinato, a prescindere dalla doverosa
repressione delle esorbitanze, uno stato d’animo di
estrema perplessità nel cittadino comune, il quale si
domanda se per caso, per poter sparare al malvivente penetrato nella privata abitazione, sia indispensabile chiedere cortesemente a costui se abbia
la disponibilità di un’arma nonché l’intenzione di
servirsene. Per mio conto, fermo il rispetto della
norma di legge, ho sempre istintivamente impostato
la questione nel suo ordine logico, avendo in primo
luogo riguardo alla determinazione di chi per
primo, per la sua iniziativa criminosa, fu all’origine
dell’episodio, conseguentemente valutando con
estrema benevolenza la reazione dell’offeso, proprio perché, in linea di massima, chi si difende non
può essere messo, moralmente e giuridicamente,
(31) Sul problema che allarma l’opinione pubblica vd. da
ultimo M. BERUTTI, Quando un galantuomo sorprende i ladri in casa,
ne « La Stampa » del 22 agosto 1965.
I PROCESSI E LA GIUSTIZIA
139
sullo stesso piano di chi offende. Ecco perché, nel
complesso, sono in radicale disaccordo con tutte
quelle anime elette che con le loro teorizzazioni
hanno messo in circolo un orientamento del tutto
inaccettabile sul punto della concezione del sistema
penale e delle sue finalità, assumendo cosı̀, culturalmente, una grave responsabilità.
Né è il caso, infine, di indulgere ad un vago
determinismo sociale a buon mercato, allegando
appunto le giustificazioni sociali e ambientali di
certe forme di delinquenza, cosı̀ in definitiva offendendo la grande maggioranza degli uomini che tira
più o meno faticosamente la carretta nei limiti e nel
rispetto della morale elementare e della legge; in
effetti il tema della delinquenza e della sua scaturigine nell’animo umano è assai più complesso di
quanto un certo positivismo spicciolo ritenne sul
finire dell’età ingenuamente fiduciosa dell’Ottocento. Proprio quanto avviene oggi, nei paesi e nelle
situazioni in cui le pretese cause economico-sociali
del delitto sono venute meno sull’onda del crescente benessere di massa, costituisce la irrefutabile
smentita di idee false tuttavia e purtroppo correnti;
si pensi, in particolare, alla criminalità giovanile
dilagante, in forme inusitate di isterismo collettivo,
nei paesi « più sviluppati ». Situazione che apre
prospettive paurose circa la possibilità, giustamente
accarezzata, di ridurre a ragione e a civiltà l’uomo,
situazione che chiarisce come la molla occasionale
del delitto possa essere la più varia e scaturire cosı̀
e dall’estrema indigenza e dalla estrema facilità
egualmente abbrutente di appagare bisogni, istinti e
passioni, ovunque insomma, per un verso o per
140
UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO
l’altro, si affoghi nel disordine e venga meno la
funzione, di necessità limitatrice dell’istinto innato,
dell’etica; cosa che deve in particolare dirsi di
alcune storture correnti in tema di c.d. educazione
sessuale (dove, tutto concedendo all’auspicata liberazione da ogni inibizione (32), resta da stabilire, ad
esempio, se una volta invecchiato il partner prescelto e goduto, si abbia o no diritto, in nome della
liberazione dal bisogno… in questo campo, ad
un’altra scelta, cosı̀ come è possibile ai signorotti
orientali. Bene osservò Mauriac, a condanna senza
appello della morale trasudante da un famoso romanzo britannico, che restava da vedere quale
destino avessero innanzi a loro la nobildonna e il
guardiacaccia quando avrebbero subito entrambi i
colpi fatali dell’età).
Ponendo l’accento sulla necessità di difendere
nel modo più efficace la società, confesso di aver
abbandonato molte prevenzioni che erano in me
radicate, come avviene a tutti, nella ingenuità e
nello schematismo illuministico dell’età giovanile,
ad esempio per quanto attiene alla ammissibilità
della pena di morte rispetto alla quale io non riesco
a trovare più nella mia coscienza, certo del tutto
ottenebrata, pregiudiziali d’ordine moralistico. Anche per quanto attiene a questa massima sanzione,
la questione si pone in termini di mera opportunità
secondo una discrezionale valutazione politica del
legislatore, soprattutto quando esso ritenga di voler
(32) Su un certo irresponsabile utopismo liberatore in materia
vd. ad es. W. REICH, La rivoluzione sessuale, Milano, Ed. Feltrinelli,
1963.
I PROCESSI E LA GIUSTIZIA
141
reagire, in maniera drastica ed esemplare, nei confronti di certe manifestazioni intollerabili della criminalità. Resta piuttosto da vedere quali siano, in
assoluto e in relazione alle caratteristiche dei tempi,
le forme più efferate di criminalità che merita
stroncare col massimo rigore ed in ipotesi anche con
la massima sanzione concepibile. A mio avviso, ad
esempio, è discutibile che sempre ed in ogni caso
l’omicidio rappresenti il delitto più grave, rivelatore
di una assoluta asocialità; la gravità di questo delitto
deriva dalla entità del bene ch’esso pregiudica, la
vita, onde ben si comprende come esso sia stato
sempre severamente punito; ma il togliere il bene
supremo della vita non è sempre e di necessità
l’espressione di una natura congenitamente criminale. Spesso, come si rivela eloquentemente nelle
reazioni abnormi con le quali talora tragicamente si
concludono i diverbi caratteristici della circolazione
stradale, l’omicidio costituisce l’espressione tipica di
una natura profondamente malata, minata da uno
squilibrio interiore dell’inconscio che si scatena nel
contesto emotivo suscitatosi quando la guida del
veicolo è intesa in senso agonistico; qui veramente
ci troviamo, se si vuole, nel terreno d’elezione del
positivismo penale e delle scienze alle quali codesto
indirizzo si collega. Altre volte l’azione criminosa
contro la vita è la conclusione di una vicenda amara
che si è andata svolgendo giorno per giorno per
lungo tratto di tempo, talora per larga parte della
vita, e nella quale chi impugna l’arma, quasi per un
irresistibile moto liberatore, ha recitato la parte, in
concreto, della vittima angariata; oppure il dramma
segna egualmente l’epilogo di un rapporto nel qua-
142
UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO
le, come spesso avviene nell’ambito della famiglia,
lui e lei, individualmente nella norma, sono incappati senza rendersi conto dell’impossibilità di convivere dato il reciproco carattere e che non si è
avuto la forza di rompere in tempo, eventualmente
per non danneggiare i figli. Oppure la spinta omicida è la manifestazione improvvisa, agente come
vero raptus, di una esasperazione a lungo covata ed
accumulata o di un attimo di incontenibile collera.
Su questo piano, credo che l’omicidio sia nel novero
di quei pochi reati, identificabili nel segno di presentare la comune nota caratteristica di una manifestazione di odio o di avversione e di esasperazione
verso altro soggetto, che sono potenzialmente commissibili dalla stragrande maggioranza degli uomini,
ad eccezione di quella esigua minoranza che ha
avuto da madre natura l’inestimabile dono di poter
conservare sempre, in ogni occasione, innanzi a
qualsiasi provocazione, i nervi a posto; credo che
quasi ogni uomo, più volte almeno nella sua vita, sia
stato per questo verso sull’orlo dell’abisso e si sia
salvato solo per qualche circostanza fortuita e provvidenziale, per aver saputo fare una estrema violenza contenitrice sulla forza prorompente dall’intimo o perché l’altro non ha spinto fino in fondo la
provocazione o perché un terzo è intervenuto... Se
fosse quindi veramente possibile adoperare, nella
valutazione dei comportamenti umani, un metro
esclusivamente subiettivo avendo riguardo al significato criminale dell’atto rispetto alla personalità del
suo autore, prescindendo del tutto dal bene in
questione e dall’entità dell’evento, sarebbe spesso
possibile una considerazione benevola dell’omici-
I PROCESSI E LA GIUSTIZIA
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dio, da considerarsi talora come lo spiacevole infortunio occorso ad un soggetto di media moralità per
altri aspetti incensurabile. E sia ben chiaro che con
questo non intendo minimamente accogliere la configurazione tradizionale del delitto c.d. d’onore che
al contrario, nell’ordine di idee qui prospettato, può
essere diversamente considerato; ci può essere il
delitto di onore che è effettivamente la conseguenza
di un raptus incontenibile nella constatazione emotiva di una situazione che è prepotentemente sentita
come un atroce insulto e c’è invece, molto spesso, il
delitto d’onore in realtà commesso a freddo, senza
alcuna seria commozione e senza improvvisa rottura dell’equilibrio psichico, ma semplicemente
perché la morale corrente ed il rispetto umano
comandano che in quelle contingenze si uccida
specialmente in quelle nostre regioni nelle quali,
mentre si è in genere di una assoluta amoralità
costituzionale, ad esempio sul piano dei rapporti
con la cosa pubblica (tanto che qui domina l’imperativo di non essere fessi in barba alla legge e
fidando nella solidarietà degli « amici »), l’onore
essenzialmente consiste non in quello di cui si può
essere chiamati a rispondere legittimamente, ma in
quello che un parente fa nella vita intima (quasi che
per siffatto parente valesse la pena di subire un solo
giorno di prigione; ma qui forse mi faccio prendere
eccessivamente dallo spirito amaro e beffardo della
mia regione dove assai spesso ci si comporta, in
simili contingenze, come recitò in un famoso film il
grande Fernandel e cioè pubblicamente dichiarandosi « cornuto di prima classe »). Per questo, se è
comprensibile che finora il legislatore abbia fatto
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UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO
largo omaggio ad una insopprimibile realtà (il legislatore, infatti, non può mai farsi ispirare da principi
assoluti di etica razionalmente posti e svolti, ma
deve tenere in un certo senso il passo con la morale
corrente, pur ponendosi ad un gradino superiore), è
finalmente venuta l’ora che si cancelli nel nostro
codice questo residuo barbarico, sia perché per un
complesso di circostanze e soprattutto per il rimescolamento delle genti della patria la mentalità va
sia pure lentamente mutando sia perché, a questo
livello, l’eventualità di dover subire, malgrado il c.d.
onore, decenni di galera può convincere dell’opportunità di abbandonare l’odiosa regola e di portare
con una certa filosofia certi attributi del resto invisibili. Comunque resta ferma in generale la conclusione, per me, che proprio il delitto che attenta al
bene supremo della vita non è sempre, subiettivamente, il più grave.
Di per se stessi gravi ed inescusabili anche sul
piano subiettivo sono viceversa quei fatti e quei
comportamenti che in ogni caso non sono l’espressione di una incontenibile spinta emotiva, ma il
risultato di una deliberata, fredda volontà criminosa
maturata a tavolino, tutti i delitti che esigono un
deliberato proposito delinquenziale, come il furto e
ancor di più la truffa, le frodi alimentari, i delitti
patrimoniali contro la pubblica amministrazione. E
nel novero di questi delitti a freddo, commessi da
coloro che sono i veri delinquenti, il legislatore deve
specificatamente prescegliere quelli che, secondo
una valutazione adeguata ai tempi, appaiono i più
gravi perché più direttamente rivolti contro le basi
stesse dell’ordine sociale e perché rivelano un ine-
I PROCESSI E LA GIUSTIZIA
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scusabile istinto delinquenziale. Ma anche qui, mentre si deve auspicare un sistema severamente repressivo di quei comportamenti criminosi che sono
gravi per il pericolo sociale che determinano, in
astratto o in concreto (ad esempio, per le rapine a
mano armata che sempre più di frequente si verificano in pieno giorno e negli uffici più affollati, come
forma di criminalità tipica di una società economicamente più evoluta), c’è da procedere ad ulteriori
gradazioni, tenendo conto dello scarto che può
registrarsi, in misura non indifferente, tra il pericolo
sociale insito nel comportamento dato ed il porsi del
medesimo in termini subiettivi. Il ladro ed il bandito
affrontano consapevolmente il rischio di una immediata reazione, comparabile al grado di violenza che
essi sono disposti, eventualmente, ad adoperare; c’è
in questo loro delinquere un costo ed una incognita.
Ma c’è la delinquenza che viceversa, di per sé, non
opera in un contesto nel quale si pone a rischio
l’incolumità personale, la delinquenza che agisce, ad
esempio nei laboratori di certe industrie, magari in
camice bianco ed avvalendosi malvagiamente dei
più perfetti ritrovati della scienza o negli uffici
privati e pubblici giostrando registrazioni e voci e
approfittando della posizione di partenza superiore
ad ogni sospetto; la delinquenza in guanti gialli, per
intenderci, la più subdola e con ciò stesso la più
ributtante moralmente. È rispetto a queste ultime
forme criminose che si impone oggi, a mio avviso, la
più severa delle reazioni, onde non troverei affatto
contraddittorio un sistema che da una parte non
implicasse automaticamente la più grave delle pene
per l’omicidio e dall’altra parte questa pena indero-
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UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO
gabilmente prevedesse per i sofisticatori in danno
della pubblica salute e per i burocrati delinquenti o
per coloro che, ad esempio, hanno per avventura
speculato in danno dei bambini del popolo bisognosi di cure: qui non è possibile alcuna comprensione, ogni attenuante è colpevole.
Piuttosto, come si è giustamente osservato (33),
è da lamentare che il sistema penale odierno, considerato nel suo complesso, consideri solo come
misure afflittive riparatrici quelle che incidono sulla
libertà personale e sul patrimonio, mentre sarebbe
possibile far ricorso ad una più vasta gamma di
sanzioni, con una ricca e proporzionata articolazione. Su questo piano, ad esempio, si potrebbe
rispondere, almeno per la prima volta, a certi
episodi di teppismo giovanile con una certa dose di
nerbate date sulla pubblica piazza o con appropriate
tosature delle ciniche pulzelle, cosı̀ come in certi
casi non sarebbe male far ricorso a campi di lavoro
forzato; si potrebbero altresı̀ inventare diversi tipi di
pena privativa della libertà personale, con diverse
gradazioni della sottrazione di questa o quella possibilità, ad esempio per quanto attiene alla possibilità di colloquiare e al tipo di alimentazione e alla
disponibilità di giornali ecc.; su questa linea l’aggravamento qualitativo della pena potrebbe anche
consentire una riduzione della durata della medesima. Assurgendo, in ipotesi, la concreta regola(33) Vd. N. REALE e G. TARTAGLIONE, Aspetti e soluzioni della
crisi della giustizia nel processo penale, cit., p. 13, ove si osserva che
il sistema delle misure penali « si gioverebbe dell’adozione di una più
estesa gamma di sanzioni e di una maggiore elasticità sui criteri di
scelta e di applicazione delle stesse ».
I PROCESSI E LA GIUSTIZIA
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mentazione della pena privativa della libertà a
criterio distintivo di varie specie di pena, ne verrebbe come conseguenza che quello che oggi si
rinviene nei regolamenti carcerari in fase attuativa
della pena genericamente prevista nel codice penale, in gran parte dovrebbe essere trasfuso nel
codice medesimo che oggi, per l’impostazione accolta, è in gran parte muto circa il concreto trattamento praticato ai reclusi; e d’altro canto attiene
alla sostanza del sistema repressivo stabilire non
solo che si è costretti a soggiornare in certi luoghi,
ma determinare anche... il trattamento dei pensionati coatti. In ogni caso, mi par chiaro che il
principio costituzionale secondo il quale « le pene
non possono consistere in trattamenti contrari al
senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato » (art. 27, terzo comma,
Cost.), va inteso logicamente cum grano salis, fermo
cioè l’ovvio criterio che la pena... è la pena e quindi
deve far male; il che significa che il trattamento
fatto ai condannati deve essere comunque assai
inferiore, sotto tutti i profili, a quello che in media la
sorte riserba ai ceti più diseredati della popolazione,
altrimenti essendo privo di significato il sistema
repressivo. In questo senso sarebbe ad esempio
assurdo voler introdurre in Italia, in relazione alle
condizioni medie della popolazione meno fortunata, certi sistemi carcerari modello che hanno
trovato attuazione in paesi nei quali le condizioni
medie del popolo sono ben più elevate (34).
(34) Tutto è per definizione relativo rispetto alle condizioni di
partenza. Ed è amaro dover leggere che circa venticinque anni or
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UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO
L’esperienza pur scarsa che ho compiuto mi ha
convinto nei fatti della esattezza di quanto sono
venuto finora dicendo. È inevitabile che ogni giudice abbia una sua « politica giudiziaria », stabilisca
nella sua coscienza una diversa valutazione, in
termini di relativa gravità, dei comportamenti assunti nel sistema come delittuosi, sia per qualche
verso comprensivo verso taluni di essi e viceversa
disposto a reagire con maggior rigore verso altri.
Anche io ebbi, pertanto, come tutti i giudici d’Italia,
una mia scala di valori e di disvalori e quindi una
mia valutazione libera, nei limiti della legge, della
gravità dei fatti. Cosı̀ consideravo e considero assai
grave l’emissione di assegni bancari a vuoto e trovai
particolarmente intollerabile che per molte persone, in particolare per numerosi piccoli imprenditori aventi scarsa serietà e consistenza spesso a
ragione di un credito bancario concesso con molta
superficialità, fosse del tutto normale correre quotidianamente sul filo dell’insolvenza ed emettere
sistematicamente, quasi professionalmente, assegni
non coperti, sovente in pieno accordo col prendisono nell’ambiente dei poveri contadini di Sicilia si considerava
invidiabile la condizione del soldato, almeno in tempo di pace; vd. L.
PRETI, Giovinezza, giovinezza, Milano, Ed. Mondadori, 1965, pp.
191-192: « La caserma è un palazzo da signori. Mio marito mi
racconta sempre come stava bene in servizio di leva a Torino.
Mangiava carne tutti i giorni e gli davano le sigarette gratis... Gli
hanno perfino insegnato a leggere e scrivere ». E un illustre critico
letterario che mi onora della Sua amicizia mi disse un giorno come e
con quanta commozione E. Lussu gli narrò di un povero soldato
sardo che, al termine della prima guerra mondiale, smobilitandosi
l’eroica Brigata Sassari, andava implorando di poter fare per tutta la
vita il soldato.
I PROCESSI E LA GIUSTIZIA
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tore e quindi con reciproca consapevolezza di operare contro l’interesse più vasto alla serietà delle
contrattazioni. Per questo, in caso di recidiva — e
ho trattato casi nei quali il modulo normale del
certificato penale non era sufficiente a contenere la
lunga filza di condanne alla multa inflitta per questo
reato con decreto penale, onde vi era, come per le
cambiali, un prolungamento — mi astenevo dall’emettere decreto penale, convincendomi la situazione che spesso si trovava in definitiva economicamente conveniente persistere nell’abitudine criminosa se tutto si risolveva nell’eventualità di dover
pagare una piccola somma, e portavo a giudizio
contestando la gravità del reato e quindi irrogando
la pena detentiva; quando poi gli assegni emessi
erano assai numerosi in un giro ristretto di tempo,
incaricavo i carabinieri di svolgere accurate indagini
in ordine alle circostanze nelle quali si era verificata
l’attività delittuosa e se queste indagini confermavano, come di regola avveniva, la sussistenza di uno
stato d’insolvenza, inviavo gli atti al pubblico ministero o al tribunale ai fini della eventuale dichiarazione di fallimento. Questa mia « politica » ebbe
come conseguenza un notevolissimo crollo dei procedimenti per il reato in questione; più esattamente
da una parte vi fu effettivamente una reale diminuzione di questi reati e dall’altra, secondo quanto mi
parve di capire, si rimediò con un facile espediente,
facendo figurare sull’assegno un luogo di emissione
non posto nella mia giurisdizione, in modo da
radicare artificiosamente la competenza territoriale
altrove e per capitare possibilmente in una di quelle
grosse preture nelle quali il magistrato, anche per la
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UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO
mole di lavoro, non è solito esaminare autonomamente ogni singolo caso, avendo disposto che per
questo reato come per tutti quelli nei quali la cosa è
possibile si proceda automaticamente per decreto
penale. Pertanto di norma capitavano nell’ambito
della mia competenza solo quelle persone che,
estranee all’ambiente, erano anche del tutto ignare
della politica giudiziaria del giudice locale! Comunque ne risultava dimostrato che se tutti i pretori
avessero voluto e potuto seguire un criterio rigorista, prospettando ai contravventori l’eventualità di
essere condannati alla pena detentiva magari da
scontare effettivamente per la mancata concessione
del beneficio della sospensione condizionale della
pena, si sarebbe potuto stroncare in gran parte la
comoda abitudine di certa gente, proprio perché la
pena serve soprattutto a far convinta la gran massa
della non convenienza del reato.
Per chi come me si muove sulla base di un
inguaribile pessimismo per quanto attiene alla identificazione della spinta naturale dell’uomo e pertanto resta fedele alla concezione classica del diritto
penale, l’aspetto più conturbante e deplorevole
della nostra giurisprudenza è dato, appunto, dal
predominante lassismo. Ed è veramente ora, per
doveroso civismo, di mettere in guardia l’opinione
pubblica che pur giustamente si commuove quando
un ladruncolo di pochi frutti che ha commesso il
fatto sotto la spinta irresistibile del bisogno è condannato, sulla base della più stretta applicazione del
codice, ad una pena visibilmente sproporzionata o
quando si mettono in rilievo le singolari implicazioni di un famoso caso di errore giudiziario per
I PROCESSI E LA GIUSTIZIA
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quanto attiene alla possibilità di porvi rimedio con il
procedimento di revisione. In realtà il giudice italiano si attiene quasi costantemente, nella irrogazione delle pene, al minimo della previsione edittale, senza alcuna preoccupazione di adeguare la
pena alla effettiva gravità del reato, spaziando tra il
minimo ed il massimo che il codice prevede; in certi
tribunali, ad esempio, era quasi di rito, prima della
recente riforma, che l’affermazione di responsabilità per omicidio colposo fosse punita, previa rituale
concessione delle circostanze attenuanti generiche,
con quattro mesi di reclusione a prescindere dalla
entità della colpa, fosse essa gravissima, inescusabile, derivante in ipotesi dalla violazione di di una
precisa norma di comportamento oppure lieve e
trascurabile, per quel fatale attimo di disattenzione
che può verificarsi per il guidatore normalmente
scrupoloso o perché nel caso concorre una colpa
macroscopica della vittima. Con questa sorta di
meccanicismo pietistico si viola sostanzialmente
non solo la legge che formalmente impone (art. 133
cod. pen.) di adeguare la pena alla effettiva gravità
del reato, ma il più elementare sentimento di giustizia che esige appunto che chi più gravemente ha
contravvenuto sia più gravemente punito. E non c’è
quindi da meravigliarsi se per il giudice italiano non
solo l’attenersi al minimo è di norma di rigore, ma è
altrettanto corrente la meccanica concessione a tutti
dei benefici sol che formalmente sussistano gli
estremi di legge, come avviene per la continuazione
del reato, per la concessione delle circostanze attenuanti generiche, per i benefici della sospensione
condizionale della pena e della non menzione della
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UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO
condanna nel certificato del casellario giudiziario. E
poiché oggi sono di moda le indagini statistiche,
credo che sarebbe estremamente interessante condurre in proposito una indagine accurata, confermando con i numeri la verità di quanto affermo; ci
si renderebbe conto che nel nostro paese vige una
regolamentazione effettuale dei fatti criminosi assai
diversa da quella che la lettera del codice pare
prospettare; c’è un codice reale che è agli antipodi
rispetto a quelle valutazioni che in concreto la legge
impone al giudice.
È del resto significativo che di recente si sia
aspramente criticata la sentenza pronunciata dal
tribunale romano nei confronti di Felice Ippolito
per il fatto che quei giudici ritennero discrezionalmente di dover negare all’imputato le attenuanti
generiche, muovendo appunto la critica dalla considerazione che un siffatto beneficio, come il mezzo
sigaro toscano e la croce di cavaliere, non si nega
ormai a nessuno. Da qui deriva appunto che c’è uno
scarto abissale tra le previsioni del codice e le
applicazioni che di norma se ne fanno; quello che
nel codice non è fatto automatico, ma è condizionato ad una serie di precisi accertamenti demandati
alla valutazione discrezionale e non arbitraria del
giudice, è divenuto nella prassi come una singolare
specie di ritualismo pietistico. Ne consegue una
sistematica obliterazione dei principi posti dalla
legge per ogni istituto, tanto che, ad una rigorosa
indagine, ben poche sentenze penali potrebbero
restare indenni da censura, poiché anche la motivazione sul punto della concessione dei benefici è, in
genere, meramente formale, con formule quasi ste-
I PROCESSI E LA GIUSTIZIA
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reotipate. Quando mai i giudici, ad esempio, allorché ritengono che sussista il vincolo della continuazione tra i vari episodi, si premurano di motivare in
ordine alla ricorrenza nel caso di quel « medesimo
disegno criminoso » che il capoverso dell’art. 81 del
codice richiede? Ma la stessa frettolosità delle motivazioni è la prova eloquente di come il pietismo sia
un principio implicito e dominante nella nostra
giurisprudenza. Né i pubblici ministeri si premurano
di reagire a questo meccanicismo, insistendo attivamente affinché i benefici di legge siano concessi solo
quando in realtà ne ricorrono i presupposti o gli
imputati ne appaiono veramente meritevoli o affinché si operi una effettiva gradazione delle pene in
relazione alla diversa gravità dei reati; essi, come
per una strana deformazione professionale che ben
poco si addice a chi opera nell’interesse della legge,
ritengono doveroso chiedere di norma la condanna,
cosı̀ non si premurano a sufficienza dei criteri invalsi
per la irrogazione delle pene, accontentandosi comunque della affermazione della responsabilità
quale ne siano state in concreto le conseguenze
tratte dai giudici, quasi sempre interponendo gravame solo contro le sentenze di assoluzione e non
contro le sentenze di condanna a ragione della
esiguità della pena.
Tutta questa situazione non solo viola di per sé
la legge e l’equità, cioè la giustizia distributiva, ma è
in ultima analisi assai scarsamente giustificabile sul
piano della funzionalità, della auspicabile resa della
macchina repressiva. L’esperienza dimostra che vi
sono assai di frequente situazioni personali irrimediabilmente non recuperabili, malgrado tutti i ten-
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UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO
tativi e gli espedienti; accanto ai cittadini recuperabili e talora recuperati, a coloro che beneficamente
fanno tesoro della lezione appresa nella prima
occasione di contatto con la giustizia, vi sono i
delinquenti incalliti, quelli che niente può distogliere dall’idea di persistere nell’attività criminosa,
soggiogati come sono da un demone dal quale non
riescono a liberarsi. Insomma il regno degli uomini,
al pari di quello di Dio, presenta accanto a coloro
che possono essere ammessi dopo un certo periodo
di anticamera, i dannati alla perdizione eterna. La
logica vorrebbe che quando il giudice si imbatte in
una di queste situazioni testimoniate dalla plurima
recidiva, non esitasse a punire non solo in relazione
alla obiettiva consistenza del singolo episodio sub
judice, ma anche tenendo conto di questa irrecuperabilità e quindi della opportunità di mettere il
delinquente, per il periodo massimo che la legge
consente, in condizioni di non poter più nuocere
alla società; è la stessa legge che del resto si informa
a questo criterio prevedendo l’aggravamento della
pena in caso di recidiva nonché le figure del delinquente abituale e di quello professionale, pur esse
di rarissima applicazione in concreto.
Oltre tutto, anche dal punto di vista egoistico, il
gioco comunemente praticato qui non vale assolutamente la candela: se si ha la convinzione che
quell’individuo, scontata la pena, tornerà a delinquere, è più razionale colpire a fondo, allontanando
nella misura massima possibile questa eventualità.
E invece anche qui si persiste nel falso pietismo;
cosı̀ si spiega come spesso il curriculum di certi
delinquenti consti di venti, trenta, quaranta con-
I PROCESSI E LA GIUSTIZIA
155
danne, quando il sistema dovrebbe funzionare in
modo che obiettivamente non dovrebbe esservi la
possibilità di giungere a questo punto, semplicemente perché è ridotta al minimo la possibilità di
girare liberamente per il mondo nel quale non si è
degni di stare. Né, acquisita la consapevolezza della
irrecuperabilità, è serio favorire la delinquenza mettendo in essere le premesse di un più grave danno
collettivo.
Ho avuto in proposito una esperienza interessante. Negli ultimi mesi dell’anno in cui mi furono
affidiate le funzioni di uditore vicepretore, mi venne
affidato un processo contro un imputato di truffa
continuata in stato di detenzione. Si trattava di un
giovane già più volte condannato per truffa, mentre
tutte le circostanze mi convinsero di avere a che fare
con un vero delinquente per tendenza. Risultò
infatti che questo giovane era stato condannato in
precedenza in relazione alla sua attività di agente
assicurativo; che, malgrado i pessimi precedenti, era
stato riassunto dalla stessa compagnia di assicurazione con un compenso minimo mensile di lire
duecentomila (circa dieci anni or sono) poiché il
soggetto era di una straordinaria capacità negli
affari; che dopo pochi giorni di lavoro, costui praticamente lo abbandonò dandosi di nuovo all’attività
criminosa per la quale visibilmente provava una
particolare attrazione: precisamente, impossessatosi
nella sala di un ente previdenziale di moduli ivi a
disposizione del pubblico, truffò una diecina di
poveri artigiani di somme oscillanti tra le cinquanta
e le centomila lire, qualificandosi a costoro come un
funzionario dell’ente e prospettando la possibilità di
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UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO
ricostruire col versamento della somma richiesta
determinate posizioni assicurative al fine di conseguire poi la pensione. Per questo negai in primo
luogo all’imputato la libertà provvisoria che egli mi
chiese facendo leva su un facile sentimentalismo (si
era vicini ad una grande festa cristiana, pezzo forte
di certa deteriore retorica avvocatesca) ed esplicitamente dicendosi spinto alla richiesta perché convinto della mia « bontà » testimoniata dal sorriso col
quale avevo condotto gli interrogatori, mentre nel
suo precedente soggiorno in quel carcere ne era
stato trattenuto dal volto arcigno del collega.
Quindi trassi l’imputato a giudizio e ivi gli inflissi, se
ben ricordo, oltre quattro anni di reclusione. La
sentenza fece scalpore tra i miei cari colleghi di
pretura, quasi inorriditi della mia severità; uno di
costoro mi disse che ero cosı̀ severo sol perché non
mi ero reso conto della « terribile » condizione dei
carcerati e che mi sarebbe stato salutare un soggiorno in quei luoghi (35). Cercai di difendermi
affermando che speravo bene che il carcere non
fosse un comodo soggiorno e invitando i miei
colleghi, cosı̀ pietosamente solleciti a mettersi nei
panni del povero imputato, a mettersi anche nei
panni delle parti lese, giacché quello che mi ha
(35) E purtroppo un siffatto sofisma è assai diffuso: vd. ad
esempio la strabiliante argomentazione di G. C. PAJETTA in risposta
alla presa di posizione di C. Smuraglia contro l’amnistia, in « Rinascita » del 27 febbraio 1965: in sostanza per questo uomo politico
l’amnistia va comunque bene perché attenua la sofferenza umana...
giacché « comunque a stare in carcere sono pur degli uomini e delle
donne; se qualcuno uscirà qualche mese o qualche anno prima, non
sarò io a dolermene ». E se è cosı̀, aboliamo senz’altro il codice
penale e torniamo alla legge della giungla!
I PROCESSI E LA GIUSTIZIA
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sempre colpito è la normale insensibilità dei giudici
su questo piano, quasi che essi non siano chiamati
ad operare nell’interesse della massa degli uomini
che si mantengono almeno nei limiti della legge e
che dalla legge si attendono protezione e tutela (ma
si narra di un giudice, intelligente, colto e danaroso,
il cui inguaribile pietismo subı̀ un crollo allorché gli
avvenne di subire nella sua villa un furto). Cinque
anni dopo, una mattina ero di turno all’udienza
penale del tribunale; si doveva in particolare celebrare un processo assai voluminoso, per diecine di
furti di automobili e per altri reati a carico di due
imputati detenuti. Dallo scanno ebbi l’impressione
di aver già visto uno degli imputati e poco dopo
ravvisai in costui colui che avevo condannato nelle
circostanze riferite: mi convinsi cosı̀ che se la mia
sentenza, certamente riformata in appello, fosse
stata mantenuta ferma (d’altra parte avevo irrogato
all’incirca metà dei nove anni di reclusione che la
legge prevedeva come massimo per il reato), l’imputato non avrebbe potuto commettere negli ultimi
tre anni tanti reati e quella mattina non avremmo
dovuto sbrigare un processo cosı̀ voluminoso; e
confesso di avere un convincimento duro almeno
quanto quello dei delinquenti professionali.
Naturalmente la cosa più importante è quella di
comprendere le ragioni di questo lassismo che è di
per sé rivelatore di una profonda crisi morale nella
società, giacché una giustizia cosı̀ amministrata attesta, in definitiva, che per un motivo o per l’altro
non si crede più alla sostanziale giustizia delle
tavole costituite, alla bontà del sistema o non si ha
quanto meno la forza morale di essere coerenti nel
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UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO
darvi svolgimento, tanto che si è negligenti nel
garantire l’efficace tutela del sistema stesso (non a
caso tutte le società puritane, tutte le società nelle
quali è in media tenuta ben ferma una tavola di
valori, si caratterizzano per il fatto che in esse non si
esita a punire talora con la pena capitale; il lassismo
è, al contrario, la spia di una società nella quale la
fede è scossa e nella quale circola ovunque e in tutti
un oscuro senso di colpa collettiva). Si è detto (36)
che la pietà indiscriminata dei giudici costituirebbe
inconsciamente come una specie di rivalsa rispetto
ai casi nei quali la legge impone di punire fatti del
tutto trascurabili con pene esorbitanti e ripugnanti
in concreto alla più elementare equità; ma confesso
di non aver ben compreso il succo di questa concettosa spiegazione psicologica, anche perché il disagio
che il magistrato avverte nell’irrogare pene non
adeguate alla effettiva proporzione del caso non
giustifica affatto la pietà indiscriminata, anzi dovrebbe indurre ad un maggiore rigore verso i responsabili di fatti più gravi; quindi l’inevitabile
rigore per i piccoli furti in una col lassismo praticato
per i più gravi fatti quando la legge formalmente lo
consenta, rende ancor più palese la complessiva
iniquità della esperienza alla quale ci si abbandona.
Piuttosto è da ravvisare anche qui una specie di
circolo vizioso tra questo lassismo e le conseguenze
che forse inconsapevolmente il legislatore ne trae,
reagendo al primo fenomeno con previsioni edittali
esorbitanti nei minimi, come spesso è avvenuto
(36) Vd. M. RAMAT, Il sabato e l’uomo, ne « Il Mondo » del 23
ottobre 1962.
I PROCESSI E LA GIUSTIZIA
159
nella più recente legislazione speciale. Si pensi, ad
esempio, alla drastica severità di alcune leggi in
tema di disciplina del commercio al pubblico e di
genuinità dei prodotti messi in commercio; ogni
pretore ha conosciuto i casi in cui, per una minima
divergenza riscontrata tra la gradazione dichiarata
del vino e quella effettivamente accertata, è stato
costretto talora a condannare i titolari di modestissimi esercizi sperduti nella campagna, pur con la
concessione delle circostanze attenuanti generiche,
a pene nell’ordine di duecentocinquanta-trecentomila lire, aggiungendosi poi la pena accessoria ed
onerosa della pubblicazione dell’estratto della sentenza in due giornali (37), non potendosi talora
(37) La pubblicazione ha evidentemente un senso in quanto
afflittiva; di qui la necessità di seguire l’ovvio criterio di farla
effettuare nei giornali più diffusi nell’ambiente in cui opera ed è
conosciuto il condannato. Per questo come pretore io feci rilevare dai
carabinieri i dati approssimativi di diffusione dei vari giornali e sulla
base di questi dati disponevo per una equa diffusione tra i giornali più
diffusi, tanto che fui in grado di rispondere e soprattutto di convincere quel direttore di un giornale di categoria che mi scrisse
lamentando che da un po’ di tempo aveva registrato un certo calo
negli introiti provenienti dalla pretura da me retta. Inoltre, poiché tra
le quinte appresi del facile giochetto elusivo di far pubblicare
l’estratto nella pagina della cronaca locale di una cittadina posta ad
esempio a duecento chilometri dal luogo delle malefatte, instaurai
l’uso di specificare in sentenza che la pubblicazione doveva avvenire
nel giornale X, « cronaca di Y » o « fuori cronaca ». Ebbene spesso è
evidente che taluni magistrati distribuiscono le pubblicazioni a certi
giornali « del cuore » che nessuno legge o che nella zona non sono
diffusi invece di orientarsi sulla ben più diffusa stampa « indipendente » e di informazione; ho personalmente registrato anche qualche
caso in cui era visibile l’intento di giovare al condannato, facendo ad
esempio pubblicare in un quotidiano torinese l’estratto di una
sentenza emessa in Calabria a carico di un imputato calabrese. Si
tratta di evidenti abusi o piccole porcheriole da segnalare in primo
160
UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO
concedere nemmeno il beneficio della sospensione
condizionale della pena (38). Ho quindi l’impressione che, almeno nella legislazione dell’ultimo
decennio, specialmente in quella disposta sotto il
peso di una opinione pubblica vivamente impressionata per certi fatti, il legislatore si sia indotto a
porre minimi di pena edittali esorbitanti per arginare il lassismo giudiziario, con un risultato cosı̀
veramente sconcertante rispetto a chi per primo
porta la responsabilità del prevalente indirizzo;
proprio perché in genere il giudice applica il minimo, si è indotti a stabilire questo minimo ad un
livello assai consistente. Se ne deve concludere che
la situazione migliore è quella di un sistema nel
quale la legge stabilisca le pene in una misura
luogo ai procuratori della repubblica (affinché, impugnando la sentenza o il provvedimento sul punto specifico e cosı̀ mettendo alla
gogna il responsabile, stronchino queste pratiche indubbiamente
rare) nonché al competente ministro, titolare dell’azione disciplinare.
(38) Ma spesso una responsabilità penale di questi piccoli
esercenti, che in genere acquistano ad esempio il vino dal contadino,
va esclusa perché, com’è noto, per l’analisi possono essere adoperati
diversi metodi che danno piccole, del tutto trascurabili divergenze;
precisamente alcuni metodi di laboratorio scientificamente più esatti
(metodi densimetrico, ebulliometrico, volumetrico), mentre nel comune commercio si fa ricorso al metodo cd. ebulliometrico assai più
rapido, ma approssimativo per una trascurabile frazione. In una
occasione, sulla base degli elementi forniti al pubblico dibattimento
da un difensore che portò seco una serie di trattati scientifici, fui
costretto a farmi una discreta cultura in materia; tanto che successivamente quando riscontravo queste infinitesime differenze assolvevo
e conservo ancora tra le mie carte un « modello di sentenza assolutoria... per il vino », modello che feci data la particolare astrusità
tecnica delle argomentazioni che mi avrebbe reso assai difficile
ripetermi di volta in volta a memoria. Certo non mi sarei fatto questa
cultura, benefica, se non mi fossi imbattuto in un difensore cosı̀
zelante.
I PROCESSI E LA GIUSTIZIA
161
adeguata tra un minimo di per sé equo per le più
trascurabili violazioni ed un massimo proporzionato
alle più gravi violazioni e che il giudice quindi faccia
uso di tutta la gradazione possibile innanzi all’entità
varia degli infiniti casi nel più rigoroso rispetto di
quella direttiva che è implicita nel fatto stesso che la
norma prevede un minimo ed un massimo (39).
(39) Ma la discrezionalità adeguatrice del giudice può esplicarsi solo quando egli può operare alla luce del sole, sulla base di
elementi incontrovertibili emersi e rispetto ai quali, pur se è sempre
umanamente discutibile la valutazione operatane, il magistrato può
adeguatamente motivare circa la sua conclusione. In altri termini
l’equità, la giustizia del caso per caso, esige che tutto il processo
interiore del convincimento del giudice sia obiettivamente motivabile; per questo la sede più idonea è quella processuale. Laddove
questo non è possibile, nei casi nei quali il giudice non può avere
certezza dei fatti semplicemente affermati e non provati, nelle
situazioni nelle quali può sconfinarsi nel « sentito dire », credo che la
spinta interiore sia del tutto all’opposto, rifuggendosi dalla valutazione equitativa non motivabile per ricercare invece un metro
uniforme, perché quando ci si muove nell’indimostrato l’uniformità è
l’unico espediente che tranquillizza rispetto alla preoccupazione di
arbitrarietà o dell’apparenza dell’arbitrarietà. Questa almeno è stata
la mia posizione, con concrete implicazioni. Ad esempio, proprio per
la mancanza di elementi obiettivi di riferimento e per non cadere nel
capriccio del momento col rischio di prestare il fianco all’accusa di
favoritismi, decisi, in materia di graduazione degli sfratti, di adottare
un metro uniforme; per questo in una delle prime udienze dichiarai
pubblicamente che avevo deciso di assegnare a tutti, poveri e meno
poveri, un certo periodo e mi attenni sempre alla regola cosı̀ posta.
Una soluzione certo criticabile, ma giustificata dall’impossibilità di
misurare con una pur approssimativa tranquillità la miseria e il
bisogno della gente; una soluzione che ebbe comunque il non
trascurabile vantaggio della certezza in materia: l’inquilino sapeva
esattamente quando sarebbe giunto, in ipotesi, l’ufficiale giudiziario
per lo sfratto per regolare di conseguenza il suo affare, alla pari del
locatore. Sarebbe interessante una indagine approfondita ed in
concreto di questa contrastante spinta del giudice all’equità e alla
legalità e del loro reciproco giuoco in rapporto alle diverse situazioni.
162
UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO
A mio avviso le spinte psicologiche di questo
orientamento sono di vario ordine. Innanzitutto è
certo che in larga misura i giudici sono indotti alla
perniciosa pietà perché convinti che il sistema non è
affatto garante di una effettiva, sostanziale giustizia;
quanto meno è questa la spiegazione addotta,
perché è pressoché la unica di per sé facilmente
conclamabile. E molte cose inducono il giudice a
questa amara conclusione. In primo luogo si constata che troppo spesso incorrono nelle maglie della
giustizia i piccoli diavoli, i cittadini socialmente più
sprovveduti, mentre i pesci grossi, coloro che la
fortuna ha assistito per censo o per relazioni sociali
più difficilmente vi incappano (40); di qui la spinta
del giudice ad essere clemente e a trasformarsi
talora, nell’inconscio, nel difensore d’ufficio del
povero malcapitato che non ha, per naturale ignoranza, la possibilità di parlare, nè ha, per le disagiate
condizioni, i mezzi per pagare chi possa parlare in
sua vece, secondo una esperienza quotidiana. E poi
urta lo spettacolo, cui talora si assiste, dell’imputato
al quale la disponibilità dei mezzi consente di
utilizzare tutti gli espedienti legali per sfuggire alla
giustizia o per esserne colpito in misura sensibilmente più lieve, magari con la scientifica dimostrazione della seminfermità mentale.
Ma vi sono dei casi nei quali il magistrato avverte che è chiamato non
a far giustizia, ma ad applicare la legge come affermò un giudice
nordamericano in una famosa proposizione; o meglio vi sono dei casi
nei quali solo applicando rigidamente la legge si fa giustizia, o
piuttosto quel tanto o quel poco di giustizia che è in concreto
possibile.
(40) Vd. D. GRECO, Il tempo e la giustizia, cit., p. 17.
I PROCESSI E LA GIUSTIZIA
163
In una società spesso ancora socialmente iniqua,
il servizio della giustizia funziona, per forza di cose,
in maniera diversa per i poveri e per i ricchi, per i
diseredati e per i protetti, onde il giudice spesso
reagisce ristabilendo nei fatti un certo equilibrio. In
secondo luogo il giudice ha la sensazione che certe
forme di deliquenza sfuggano in larga misura alla
giustizia attraverso i meandri e i misteri di certo
sottogoverno; quando nelle cronache di tutti i giorni
dilagano gli scandali e gli episodi di corruzione,
quando si ha la sensazione che non vi sia riparo a
questo precipitare nel baratro, quando si ritiene che
la situazione sia giunta ad un punto tale che il
ventennio dittatoriale può essere almeno sotto questo profilo moralmente riabilitato e che oggi i
profitti di regime siano tali che quelli di allora
appaiono come trascurabili bagatelle, se non altro
perché con l’ingente aumento delle occasioni di
presenza pubblica nell’economia è enormemente
cresciuto il numero di posti che sono attribuiti in
questo contesto, si mina senza scampo la fiducia nel
sistema e non credendo ci si abbandona al lassismo.
Talora poi la valutazione di iniquità complessiva
non si riduce ad una impressione radicata, ma
generica e difficilmente dimostrabile con pezze precise di appoggio, ma è una certezza evidente; basti
pensare all’abuso che si è fatto in questo ventennio
postfascista dell’immunità parlamentare. Se chi è
assistito da questo privilegio, che ha fatto in larga
misura il suo tempo (41), può delinquere senza
(41) Ed infatti se, a prescindere dal principio dell’imperseguibilità dei parlamentari per le opinioni espresse e i voti dati nell’eser-
164
UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO
preoccupazioni di sorta, se vi sono notoriamente in
giro dei parlamentari che hanno dei conti in sospeso
con la giustizia senza prospettiva di liquidazione,
perché infierire contro chi non ha la ventura di
questo privilegio? Basta ricordare il caso clamoroso
di un processo iniziato dodici (!) anni or sono in
relazione all’attività dei funzionari di un ente istituito per la riscossione delle imposte di consumo,
rispetto al quale, discutendosi in Parlamento della
opportunità o no di concedere l’autorizzazione a
procedere, si è in pratica affermato che non commette reato chi si appropria di denaro da destinare
alle casse di partito; rispetto a questa vicenda, non si
comprende veramente perché mai i magistrati continuino ad istruire la pratica nei confronti degli
imputati non parlamentari, giacché nel caso mi
sembra moralmente di rigore una sola e semplice
conclusione: pronunciare sentenza di non doversi
procedere per inesistenza di reato, perché se i
parlamentari sono incensurabili, altrettanto deve
cizio delle loro funzioni, è comprensibile che i rappresentanti del
popolo non possano essere privati della libertà personale o subire
altre misure coattive, non convince, a mio avviso, l’istituto dell’autorizzazione a procedere, anche indipendentemente dagli abusi che se
ne stanno facendo. Infatti se è logico che il terzo potere non possa
distrarre in concreto il parlamentare dal suo mandato se non col
consenso dell’organo in cui questo deve essere esplicato, non si
comprende come e perché le camere possano essere arbitre dell’applicabilità del diritto, da esse medesime posto, nei confronti dei loro
membri; perché questo privilegio? Per questo l’istituto dovrebbe
essere radicalmente eliminato, libere poi le camere di decidere
sovranamente circa l’utilizzabilità o no dell’opera ulteriore di quei
loro componenti che siano per avventura incappati nelle maglie della
giustizia. Ma la logica vorrebbe che chi pone il diritto (e si pone anche
mantenendolo in vigore) ne esiga anche l’applicazione erga omnes.
I PROCESSI E LA GIUSTIZIA
165
dirsi, per il principio di eguaglianza e per elementare equità, per i non parlamentari, in quanto
quando un potere abusa delle sue prerogative,
all’abuso si deve rispondere come, in tranquilla
coscienza, si conviene; mentre in un domani più o
meno lontano ciascuno risponderà per la parte di
competenza innanzi a quel tribunale della storia che
per fortuna si può adire senza preclusioni.
In terzo luogo il senso di giustizia è nel magistrato gravemente ferito dai frequenti provvedimenti di clemenza che si sono susseguiti in questi
ultimi anni e a ragione dei quali si può dire che
bisogna averla fatta proprio grossa per essere costretti a subire un giorno di galera; l’amnistia,
questo istituto medioevale che può avere in via
straordinaria una utile applicazione in momenti
eccezionali nella vita del paese, ad esempio per
chiudere una pagina dolorosa di guerra civile, ripugna di per sé al più elementare sentimento del
diritto ed il giudice avverte una profonda ripugnanza a condannare chi ha commesso il fatto il
giorno x se solo per un capriccio sovrano deve
andare indenne da responsabilità chi commise lo
stesso fatto il giorno precedente. È da auspicare,
pertanto, che si desista ormai da questa prassi che è
ragione non ultima, oltretutto, del sovraccarico
giudiziario, posto che la aspettativa della provvidenziale amnistia o dell’indulto, che può sempre ragionevolmente coltivarsi, induce a interporre gravami
del tutto infondati nella speranza che nel frattempo
sopraggiunga il provvedimento di clemenza. Piuttosto, per eliminare le conseguenze eventualmente
eccessive della applicazione dello stretto diritto o
166
UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO
per mandare esente da pena chi comunque al di là
della stretta applicazione del diritto positivo ne
appaia meritevole, conviene far ricorso, caso per
caso, alla grazia né sarebbe male demandare la
competenza in proposito ad una apposita corte,
composta da magistrati e in prevalenza da laici, cosı́
consentendosi nel sistema la più ampia e serena
valutazione equitativa dei casi nei quali essa appare
giustificata nella coscienza comune.
Allo stato, pertanto, molti fattori inducono più o
meno consapevolmente il giudice al pietismo. Ed io
ho avuto occasione di incontrare magistrati che non
esitano a proclamare apertamente la propria pregiudiziale inclinazione pietistica alla quale danno
concreto svolgimento tutte le volte che si può
pervenire con un minimo di decenza alla soluzione
assolutoria. Ma non occorre spendere molte parole
per dimostrare che questo atteggiamento, quale che
ne sia la giustificazione, è da condannare recisamente giacché chi è indotto programmaticamente a
pietà o per una valutazione specifica della concreta
situazione italiana o per l’adesione a più generali
indirizzi pietistici o « umanitari », indipendentemente dal buon fondamento o no di queste rispettabilissime opinioni, ha il dovere di allontanarsi
spontaneamente da un ufficio che oramai non è più
il suo.
Ma io non credo che la spinta lassista trovi la sua
base nelle motivazioni finora riscontrate o solo in
queste; se tutto finisse qui, dovrebbe riconoscersi
che l’atteggiamento dei giudici è in definitiva dettato da un vivo sentimento della giustizia che è stato
profondamente offeso. Purtroppo la qualità media
I PROCESSI E LA GIUSTIZIA
167
dei giudici italiani non consente di poter affermare
che in essi opera, almeno in via esclusiva, questa
distorta carica morale; alla base del lassismo c’è
anche, in varia combinazione, un altro fattore.
Quando ci si attiene programmaticamente al minimo, opera in definitiva, nell’animo del giudice,
quella sorta di rinvio di responsabilità che ho già più
volte messo in rilievo come un dato costante di
tante situazioni nel nostro paese; solo che qui, non
essendovi la possibilità di rinviare la responsabilità
ad altri, ci si rifugia dietro il paravento della legge.
In sostanza il giudice da una parte è troppo onesto
per mandare comunque libero da responsabilità
l’imputato se la valutazione del caso alla stregua
della norma rende imprescindibile l’affermazione
della stessa responsabilità senza possibilità di scappatoie; dall’altra è troppo timido per agire responsabilmente in prima persona, per procedere ad una
valutazione veramente autonoma del caso sul punto
della sua maggiore o minore gravità, irrogando
quindi la pena adeguata; preferisce quindi trincerarsi dietro quel minimo che la legge inderogabilmente detta. Esemplificando, se la legge stabilisce
che il minimo della pena è per quel certo reato tre
anni di reclusione ed il giudice irrogasse quattro
anni di reclusione, egli si sentirebbe personalmente
responsabile di questo anno in più rispetto al minimo, avvertirebbe la cosa come un male personalmente arrecato quando formalmente la legge lo
esentava da tanto; cosı́ è indotto a non portare
nell’affare un suo autonomo contributo, preferisce
stringersi nelle spalle o allargare le braccia come per
dire che la « colpa » non è sua, ma di quell’impac-
168
UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO
ciante testo di legge che non consentiva di fare
altrimenti. Ancora una volta non si è psicologicaniente in grado di sentire l’interesse pubblico come
proprio, non si è in grado di operare in quel senso
attivo e partecipe che la legge richiede, si preferisce
ridurre al minimo la propria responsabilità in concreto.
Questo principio del rinvio di responsabilità
opera inavvertitamente sovrano in molta parte del
lavoro giudiziario, come in tutta l’attività della
pubblica amministrazione. Per le stesse ragioni psicologiche per le quali il pubblico ministero in
genere evita di procedere d’ufficio come la legge gli
comanda, ma attende il rapporto o la denuncia della
polizia, onde il principio posto nel codice di procedura penale è in pratica inoperante (42), il giudice,
(42) Vd. A. DESSIv, Osservazioni in tema di esercizio dell’azione
penale, in « Terzo Potere », settembre-ottobre 1961: « Mi si può
invero citare qualche caso — eccettuati i procedimenti immediati per
delitti commessi in udienza ed anche in tal caso per l’iniziativa,
certamente abnorme, del presidente — in cui il pubblico ministero
abbia proceduto veramente d’ufficio? »; anche per A. PERONACI, La
crisi della giustizia nell’instaurazione del processo penale, in « La
Magistratura », maggio 1963, il principio per il quale il pubblico
ministero deve agire d’ufficio è del tutto platonico, onde una « inconfondibile atmosfera di timore aleggia negli uffici del pubblico
ministero »; ad esempio quando i giornali riferiscono di un terremoto
in borsa, mai avviene che il p.m. agisca d’ufficio per accertare se si
tratta in ipotesi di aggiottaggio. Per questo, come ho già detto supra,
sub nota n. 9, trovo complessivamente benefica la svolta registratasi
negli ultimi tempi ad iniziativa della magistratura requirente della
capitale, malgrado gli attacchi anche vivaci che essa ha subito (vd. ad
esempio P. BARILE, Il codice di Giannantonio, ne « L’Espresso » del
24 gennaio 1965). Ma c’è il dubbio che la svolta sia destinata a
rientrare presto, se è vero che essa è stata determinata solo per la
presenza di un alto magistrato che nel frattempo è stato promosso
I PROCESSI E LA GIUSTIZIA
169
anche quando la pratica è irrimediabilmente nelle
sue mani, senza possibilità di rinvii di competenza,
rifugge dall’assumersi una parte di responsabilità in
proprio. E le giustificazioni formali del lassismo
sono infinite, come le vie del Signore; talora anche
classiste nel senso più deteriore: si legge ad esempio
in una sentenza, per altro verso « coraggiosa » in
tanto grigiore, che « la gravità dei fatti, le modalità
di esecuzione, l’intensità del dolo, sono tutti elementi che imporrebbero una pena severa e proporzionata al male che fu cagionato; la sottrazione di
grandi somme di denaro, che dovevano essere impiegate per lenire le sofferenze degli infermi e per
sollevare le miserande condizioni igieniche e sanitarie di un Paese pressocché distrutto, costituisce un
fatto talmente biasimevole da meritare una sanzione massiccia. Ma non ritiene il Collegio di infierire sui condannati, già sufficientemente puniti,
attesa la loro alta posizione, dall’essere stati a lungo
esposti, nel corso del dibattimento e prima, all’indagine pubblica del loro operato » (43); insomma
non si può essere cosı̀ severi come si dovrebbe
giacché questi poveri imputati altolocati hanno già a
sufficienza sofferto per la menomazione del loro
prestigio, dal dubbio che prima nella pubblica opinione e poi negli uffici di giustizia si è prospettato
sulla correttezza della loro azione! Ci sarebbe
(vd. la nota Giannantonio se ne va, ne « L’Espresso » dell’8 agosto
1965); e mi auguro che il futuro smentisca questa malinconica
previsione.
(43) Cosı̀ si è affermato nella sentenza pronunciata per il
famoso scandalo della penicillina: Trib. Roma 22 dicembre 1961, in
« Foro it. », 1962, 2, 77, specificatamente c. 102-103.
170
UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO
quindi un diverso onore per i grossi pescicani e per
i poveri diavoli. Ognuno naturalmente è libero di
pensarla come vuole; per mio conto ho sempre
praticato in tranquilla coscienza un classismo alla
rovescia rispetto a quello accolto nella sentenza in
discorso, convinto che proprio i grossi pescicani,
proprio coloro che hanno fatto scempio dei loro
doveri di ufficio per interessi personali non sono
mai sufficientemente puniti.
4.
Le riforme che urgono
Nella crisi attuale della giustizia incide quindi, in
non trascurabile misura, la colpa dei magistrati o
per la sistematica violazione degli obblighi che
formalmente la legge pone a loro carico o per il
modo in cui assolvono nel merito alla loro funzione.
Ed è in considerazione di questo che, per fedeltà a
quel canone morale che impone di fare in primo
luogo e senza residui il proprio dovere prima di aver
titolo per reclamare alcunché, io ho sempre sentito
in un certo senso tiepidamente la causa della totale
indipendenza dei giudici nei termini che sono consueti alla frazione più estremista della magistratura
associata e mi posi sempre istintivamente in disparte rispetto a questa campagna, come cavallo che
facilmente ombreggia. Cioè, pur sostanzialmente
concordando in un certo programma, ho sentito
sempre un certo disagio a pormi in posizione agitatoria nella misura in cui gli agitatori erano estratti in
prevalenza nella cerchia dei diretti interessati, tra
coloro che portano, come categoria, una non indifferente responsabilità nella crisi; cosı̀ ho sempre
messo istintivamente l’accento sulla necessità di
mettersi in regola coi propri doveri se si voleva
commuovere e trascinare la più vasta opinione
pubblica sulla buona strada. Giacché non c’è dubbio
172
UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO
che i magistrati potrebbero assai più decisamente
convincere della bontà della loro causa, se essi
sapessero dimostrare già oggi, con gli strumenti a
disposizione, la loro concreta volontà di porsi come
potere garante senza residui della libertà e dei diritti
dei cittadini nonché dei capisaldi dell’ordinamento
giuridico (44). E in questo mio atteggiamento,
alquanto emotivo invero, non ragionato a tavolino,
incise anche la constatazione che molte volte pro(44) Già nell’articolo Il consolidamento della Magistratura Terzo Potere, pubblicato in « Terzo Potere », marzo-aprile 1963,
mettevo in rilievo come la causa della totale indipendenza della
magistratura fosse scarsamente popolare a ragione del diffuso malcontento per la crisi dell’amministrazione giudiziaria in parte addebitabile anche ai magistrati e dicevo che il paese poteva essere
convinto di questa causa se avesse potuto avvertire già ora l’operosa
presenza del terzo potere: « In verità la gente vuol vedere concretamente all’opera questo potere, vuol sapere a cosa esso deve servire,
esige che il suo esercizio corrisponda ai suoi bisogni. La generalità
non può essere interessata ad un determinato assetto istituzionale del
potere se non riesce a vedere un concreto legame funzionale tra
questo assetto e le cose che da esso legittimamente ci si può
attendere. In fondo a questo atteggiamento mentale c’è una intuizione profonda: che le guarentigie che si chiedono non hanno valore
se non in quanto servono a conseguire certi obiettivi... questa causa
meglio si serve con una lotta condotta concretamente giorno per
giorno nel nostro lavoro, dimostrandoci fin d’ora meritevoli di quanto
chiediamo... Ogni volta che ci facciamo prendere dalla pigrizia, ogni
volta che arriviamo in ritardo e facciamo attendere, ogni volta che
lasciamo invano trascorrere i termini di legge, non solo violiamo il
nostro dovere, ma portiamo un contributo negativo sul piano delle
rivendicazioni istituzionali. C’è nel nostro lavoro una massa di tante
piccole cose che hanno tuttavia una grande importanza, che, sommate insieme, fanno ambiente e sistema o almeno cosı̀ sono apprese
dalla generalità. Chi viola i doveri del lavoro quotidiano si assume
una responsabilità che non è solo individuale; è colpevole su un piano
più vasto perché col suo comportamento diffonde nel pubblico,
indotto sempre a generalizzare, una opinione negativa che colpisce
tutto l’ordine ».
LE RIFORME CHE URGONO
173
prio coloro che più si sbracano per la causa della
totale indipendenza sono quelli che meno sollecitamente adempiono ai loro doveri. Oggi, proprio
perché sono ormai fuori dell’ordine, quel senso di
disagio è in me scomparso com’era inevitabile e mi
sento assai più disposto a patrocinare la causa dei
giudici, malgrado i giudici...
Sennonché, prima ancora di esaminare quale sia
l’assetto che meglio convenga al personale della
giustizia, è pregiudiziale vedere che cosa la Repubblica dovrebbe fare, in linea di principio, per risolvere con riforme strutturali la crisi dell’amministrazione giudiziaria. Proprio perché l’indipendenza dei
magistrati si rivela come uno strumento per ottenere possibilmente una migliore e più puntuale
giustizia, i problemi dell’ordinamento giudiziario
seguono logicamente quelli strutturali, giacché non
si deve assicurare l’indipendenza in astratto, ma
l’indipendenza delle persone nell’ambito di una
struttura ben determinata. Per questo si tratta di
vedere in primo luogo quali siano le preferibili
strutture della giurisdizione e qui mi permetto di
esternare alcune mie riflessioni e proposte, esplicitamente premettendo che nel formularle prescindo
deliberatamente dai profili d’ordine costituzionale.
L’attuale Costituzione ipotizza invero una determinata strutturazione della giurisdizione, quella tradizionale, mentre qui si tratta di accertare quale possa
essere in assoluto e a prescindere dalla Costituzione
il miglior assetto, con la conseguenza che, ove si
concordi in ipotesi della necessità di certe riforme e
queste siano per avventura ostacolate da un certo
disposto della superlegge, si dovrebbe procedere
174
UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO
alla necessaria previa revisione del testo ostativo.
Dopo tutto, proprio perché da una parte la Costituzione accoglie la strutturazione tradizionale e
dall’altra perché la crisi della giustizia deriva anche
da sistemazioni obiettive insite in quella strutturazione, è da evitare in linea di principio che il meglio
in materia debba essere evitato per una preclusione
d’ordine formale. Questo in assoluto, perché qui si
esamina la questione a prescindere da ogni considerazione d’ordine politico contingente in punto di
possibilità concreta di attuare determinate riforme
ove esse implichino un procedimento di revisione
costituzionale, non essendo io un uomo politico né
essendo questo un pamphlet politico, cioè l’enunciazione di un programma possibile di azione attuale in
senso politico. Io mi limito a recitare la mia parte,
facendo tesoro della mia esperienza.
Mi pare intanto ovvio che lo Stato dovrebbe
considerare la Giustizia come il primo dei suoi
servizi, anzi come l’essenza medesima, irriducibile,
immancabile del suo stesso essere; è ovvio, ma non
inutile partire da questa pregiudiziale premessa
nella misura in cui essa, come tutti i sacri principi, è
sempre ritualmente ricordata, salvo poi ad ignorarla
o a frustrarla nei concreti svolgimenti, secondo la
sorte che la realtà effettuale riserba in genere alle
verità elementari. Lo Stato invero si pone in sé
come ordinamento giuridico, pone una regolamentazione per i soggetti, assume l’esclusiva di risolvere
i loro eventuali contrasti ed in questo atteggiarsi
come giudice, esso ha la sua prima giustificazione,
onde si fa arbitro e responsabile della pace sociale e
della possibilità che ogni vicenda trovi in esso e
LE RIFORME CHE URGONO
175
nella sua attività appagamento e risoluzione. Di qui
la coessenzialità concettuale dello Stato alla Giustizia che non può essere concepita come un servizio
pur importante tra i tanti, ma come il servizio per
eccellenza, proprio perché la giurisdizione è o dovrebbe essere svolgimento in concreto dell’ordinamento giuridico, dello Stato medesimo normativamente considerato, nel passaggio necessario dalla
regolamentazione in astratto alla risoluzione in
concreto dei possibili conflitti. Nella misura, quindi,
in cui la giurisdizione è ben strutturata e funzionante e diventa attuale nella concretezza della vita
la presenza dello Stato quale ordinamento giuridico, la sua regola si approssima ad identificarsi
nella misura del possibile con la società. Al contrario ogni deficienza della giurisdizione si traduce in
una più o meno grave estraneità dello Stato rispetto
alla società, in una illogica imperfezione del suo
naturale sviluppo, in una più o meno incosciente
automutilazione. Di qui deriva che è di per sé
inconcepibile una regolamentazione della giurisdizione che ne rappresenti un ostacolo sul piano
della massima espansività possibile dell’ordinamento; in realtà ogni ostacolo che si frapponga alla
esperibilità della tutela giurisdizionale è un limite
che lo Stato assurdamente pone a sé medesimo.
Purtroppo lo Stato non è raramente alieno
dall’ostacolare consapevolmente la possibilità di
questa piena espansione tutte le volte che si induce
a intorbidare l’essenza della giurisdizione per il
perseguimento di altri suoi concreti interessi e
quindi la adopera come l’occasione per l’appagamento di queste sue diverse finalità... Ciò avviene,
176
UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO
ad esempio, quando lo Stato, come spesso avviene,
condiziona la esperibilità della tutela giurisdizionale
al pagamento di certi tributi o balzelli, quando, per
procurarsi un’entrata, rende costoso il processo ed
impone l’uso della onerosa carta bollata. A prescindere dalla questione di legittimità costituzionale di
talune delle norme in discorso, è evidente che lo
Stato, frapponendo questi ostacoli, non solo opera
contro l’esigenza più elementare dei cittadini che è
quella di ottenere giustizia, ma opera contro sé
medesimo, miopemente evirandosi nella sua funzione essenziale. Ed invero qui il bene inteso interesse dei cittadini e la linea di sviluppo dell’ordinamento giuridico verso una sempre più puntuale
concretezza di svolgimenti, costituiscono come le
due facce della medaglia ed è da auspicare che si
cessi dal considerare il processo, secondo quanto
ammonı̀ Calamandrei (45), come una trappola fiscale, facendone invece uno esclusivo strumento di
civiltà.
Nello stesso ordine di idee, proprio per realizzare nel processo quei valori civili che sono legati
indissolubilmente all’idea stessa di giudizio, c’è da
(45) Vd. Il processo civile sotto l’incubo fiscale, in « Riv. dir.
proc. civ. », 1931, I, 50, e in Studi sul processo civile, vol. III, Padova,
1934, p. 75, in particolare pp. 104-105: « E pare strano e pericoloso
che lo Stato si rifiuti di giudicare e di adempiere a quello che è il suo
ufficio più antico e più esclusivo, solo perché una delle parti o
entrambe siano responsabili di una trasgressione alle disposizioni
tributarie. È come se nelle operazioni chirurgiche fosse vietato agli
operatori di servirsi di strumenti che non fossero preventivamente
bollati dalla finanza; di fronte a un cosı̀ assurdo divieto, il comune
buon senso obietterebbe che le operazioni chirurgiche si fanno per
salvare il malato, non per accrescer gli introiti dell’erario ».
LE RIFORME CHE URGONO
177
auspicare che lo Stato vi operi nel rispetto assoluto
del sentimento elementare del diritto il quale esigerebbe, ad esempio, che quando un organo pubblico
promuove un procedimento nei confronti del cittadino, dopo averne eventualmente disposto la carcerazione preventiva, costringendo costui a provvedere per la sua difesa ed infliggendogli di necessità
altri gravi danni, all’assoluzione consegua la condanna dello Stato alla rifusione delle spese processuali ed eventualmente al risarcimento dei danni.
Sono fermamente convinto che, ben oltre gli angusti
limiti entro i quali è oggi ammessa la riparazione a
seguito di errori giudiziari veri e propri, la logica e
l’equità esigono questa conseguenza; la logica processuale, in primis, perché se lo Stato è parte, della
parte deve subire gli oneri e le responsabilità;
l’equità, giacché non si vede perché, in uno Stato
civile, un cittadino dichiarato innocente non possa
vantare la pretesa di andare indenne, nella misura
umanamente possibile, dalle conseguenze negative
del processo e quanto meno pretendere la rifusione
delle spese processuali. Con una siffatta riforma,
purtroppo assai avveniristica, si porrebbe un freno
alla facilità estrema con la quale oggi, quasi meccanicamente, si rinvia a giudizio e si risolverebbe nel
contempo, indirettamente, il problema di assicurare
ad ogni cittadino una adeguata tutela, superando
l’attuale lustra della difesa di ufficio. Si stabilirebbe
la normalità nel processo penale, inducendosi l’organo pubblico a promuovere l’azione nei soli casi in
cui essa pare ragionevolmente fondata; e, scontato
questo ridimensionamento, non andrebbe certa-
178
UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO
mente in rovina il bilancio statale per i pochi milioni
necessari per provvedere alle spese di giustizia.
Ma è soprattutto essenziale strutturare la giurisdizione in termini tali che obiettivamente consentano di superare l’attuale crisi, rendendola più
accessibile, più pronta, più sollecita. Di giorno in
giorno diventa sempre più evidente che al livello
dello sviluppo economico e sociale contemporaneo,
nell’età della progressiva industrializzazione e del
dinamismo crescente in tutti gli aspetti della vita, la
società non può tollerare il costo di un processo cosı̀
lungo e defatigante come quello attuale. La giustizia
è oggi in crisi, perché essa giunge, nella migliore
delle ipotesi, con notevole ritardo rispetto alle
necessità; di qui lo scadimento gravissimo della
giurisdizione penale, giacché la definizione del procedimento e l’irrogazione della pena talora a distanza di molti anni dai fatti svirilizza il sistema
repressivo in partenza, potendosi la stessa cosa
affermare per la giurisdizione civile, tanto che è del
tutto logico il progressivo ricorso dei cittadini a
forme extrastatuali di risoluzione delle liti. Si esige,
quindi, un sistema estremamente puntuale, senza
inutili e defatiganti complicazioni, posto che, nell’economia dei rapporti sociali, la rapida definizione
delle liti ha, nel complesso, pari importanza alla
perseguita bontà delle decisioni ed è dubbio che una
sentenza, supposta esatta e giusta, serva quando
sopravviene dopo larghissimo lasso di tempo.
Più in generale deve dirsi che un sistema giuridico è tanto più preferibile quanto più esso riduce
gli ostacoli che si frappongono alla necessaria concretizzazione specificante del diritto sostanziale;
LE RIFORME CHE URGONO
179
nella misura in cui si moltiplicano le regole di
competenza e di rito si opera contro l’esigenza
indicata, onde tutto consiglia a ridurre al minimo
veramente indispensabile il congegno che consente
di passare dalle regole astratte alla risoluzione dei
casi concreti. In conclusione un sistema giuridico è
tanto più perfetto quanto più elimina l’eventuale
molteplicità dei giudici e le regole di procedura; al
limite costituisce un modello ideale quel sistema che
realizza veramente l’unità della giurisdizione, la
risolve in pochissimi gradi e riduce al minimo le
formalità. Le procedure latamente intese, quando si
esorbita nel porle e congegnarle, sono un male, un
diaframma tra il diritto e la vita, qualcosa che va
contenuto, quindi, nei limiti dello strettamente necessario, giacché ogni volta che una lite trova la sua
soluzione non già nel merito, ma per un vizio di
competenza o di procedura, la causa può essere
definita, ma la giustizia è elusa. In questo ordine di
idee sarebbe opportuno un generale ripensamento
del nostro sistema per accertare, ad esempio, se
veramente sia indispensabile mantenere l’attuale
distinzione tra la giurisdizione ordinaria e quella
amministrativa, proprio perché solo l’indispensabilità giustifica. Ed ovviamente mi astengo dal coltivare questo filone, giacché esso richiederebbe ben
altre conoscenze ed esperienze.
Per limitarmi al settore rispetto al quale posso
presumere di avere qualche titolo per azzardare
alcune considerazioni, quello cioè della giurisdizione ordinaria, il primo problema che a mio
avviso si impone è di vedere se convenga mantenere
l’attuale assetto a tre gradi culminante nel giudizio
180
UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO
di cassazione, al quale può far seguito il giudizio di
rinvio; e la questione si traduce praticamente in
quella della convenienza o no di conservare l’istituto della cassazione secondo i suoi ultimi sviluppi,
posto che la possibilità del riesame della lite, in
concreto del giudizio di appello, non può porsi
ovviamente in questione. A tal fine mi pare sovrabbondante rifare la storia, tormentata e complessa,
della suprema istanza di vertice del nostro attuale
sistema e quindi prendere posizione, astrattamente
o in assoluto, sul problema medesimo; è invece assai
più realistico partire dalla constatazione che in larga
misura l’istituto non ha consentito in pratica la
realizzazione degli obiettivi che con la istituzione
del medesimo ci si era proposti, in particolare
quello di assicurare l’uniformità della interpretazione del diritto nell’ordinamento. Anche perché si
sono eccessivamente allargati, con una ben nota
norma costituzionale e con la riforma del 1950 del
codice di procedura civile, i casi di possibile ricorso
al supremo collegio, in pratica oggi la Corte, come
può facilmente constatarsi, non è in grado di adempiere alla sua funzione istituzionale; in concreto
essa opera divisa per sezioni tra le quali non è raro
il contrasto interpretativo, né sempre soccorre il
rimedio di demandare la risoluzione del punto
controverso alle sezioni unite; aggiungasi che con la
novella del 1950, prevedendosi il possibile controllo
della Cassazione sulla congruità e sulla completezza
della motivazione del giudice di merito, si è alquanto snaturato il carattere originario di questo
giudizio, con ciò ulteriormente mettendosi in pericolo la uniformità della giurisprudenza di ver-
LE RIFORME CHE URGONO
181
tice (46). In sostanza la questione si pone non in
teoria, ma nei fatti che vedono frustata la finalità
stessa dell’istituto e con ciò stesso pongono il quesito della sua utilità.
D’altro canto a mio parere è seriamente discutibile la stessa distinzione tra giudizio di fatto e
giudizio di diritto o di legittimità, giacché essa, nel
momento stesso in cui per definizione suppone la
possibilità di scindere la valutazione del caso specifico, si rivela alquanto astratta. Se nella esperienza
giuridica è naturale il passaggio dall’astratto al
concreto pare azzardata la possibilità di una considerazione delle liti solo in una visuale limitata, quasi
che, al livello elementare della giurisdizione, questa
cellula prima dell’esperienza nella quale il fatto e il
diritto inestricabilmente e beneficamente si confondono in un tutto possa tollerare siffatta distinzione,
che in ogni caso fa del mero giudizio di legittimità
un giudizio limitato, meno pieno e con ciò meno
appagante; solo il c.d. giudizio di merito è giudizio
pieno e quindi vero giudizio. In conclusione, fallito
l’istituto della cassazione di cosı̀ dubbia giustificazione e teorica e culturale, si pone seriamente il
problema della sua soppressione, in modo che ogni
lite possa essere definitivamente risolta, con notevole semplificazione, nei due gradi di merito. E se si
appalesa possibile un tale salto rivoluzionario, una
corte suprema può utilmente conservarsi solo come
(46) Sul problema vd. da ultimo G. FLORE, Considerazioni sulle
funzioni della Corte di Cassazione, in « Rassegna dei magistrati »,
1961, p. 45, in particolare osservando l’A. che spesso, per la mole del
lavoro, una sezione della Corte ignora la giurisprudenza delle altre
sezioni.
182
UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO
giudice della giurisdizione e della competenza
nonché per i conflitti di attribuzione e di giurisdizione, se ed in quanto non si ritenga di dover
anche introdurre, come sopra si è prospettato, un
sistema di integrale ed effettiva unità della giurisdizione; ma a questo fine sarà sufficiente un ristretto collegio.
Piuttosto è da ipotizzare seriamente l’istituzione
di una speciale corte che possa, per altra via e su
altri presupposti, assicurare la certezza e l’uniformità nella interpretazione del diritto, cioè la realizzazione di quei fini rispetto ai quali l’attuale esperienza della Cassazione si è rivelata negativa; una
corte alla quale non sia affatto demandato di decidere in ultima istanza sulle liti, ma che abbia il
compito, quando si accerti in concreto una difformità d’interpretazione tra i giudici di merito su
specifici punti di diritto, di dettare una interpretazione vincolante su ricorso proposto, nell’interesse
della legge, da corti di merito o da altri organi.
Codesta corte, per la sua stessa funzione di assicurare l’interpretazione vincolante della legge, dovrebbe essere composta con giudici di varia estrazione, da magistrati, da giudici eletti dal parlamento
nonché da altri eletti dal plenum dei professori di
diritto ed infine da un certo numero di giudici
designati dal consiglio nazionale forense, per realizzare in materia il concorso di tutte le competenze.
Se tanto fosse possibile avremmo un organo ad hoc
per assicurare un costante complemento delle previsioni astratte e incomplete della legge, con una
maggiore certezza del diritto; qualcosa cosı̀ assai più
consistente rispetto all’attuale giudizio di cassa-
LE RIFORME CHE URGONO
183
zione; in particolare questa corte speciale potrebbe
risolvere quei problemi complicatissimi che oggi
sempre più di frequente si prospettano per lo
scadimento tecnico-giuridico della legislazione,
sempre più frutto di assemblee impreparate e dominate da un pauroso pressapochismo, raddrizzando le gambe ai frutti infelici di tanta prolificazione.
In tal modo tutto il processo potrebbe risolversi
nei due normali gradi di merito, primo grado e
appello. E per quanto riguarda il primo grado io
sono fermo sostenitore della necessità di demandare tutte le controversie civili ed anche tutti i
procedimenti penali, fatte alcune eccezioni, al giudice unico, cioè in concreto al pretore. Anche qui è
perfettamente inutile discutere in astratto sui vantaggi o no della collegialità nel processo, mentre è
assai più ragionevole e convincente puntualizzare il
problema in concreto, partendo dalla constatazione
che già oggi la collegialità si riduce di norma ad una
vera lustra, tanto che praticamente il processo è di
norma nelle mani di quel solo giudice che lo conosce e ne riferisce (47). La collegialità che in astratto
(47) La realistica considerazione è di F. UNGARO, La macchina
della Giustizia, cit. A favore del giudice unico si sono pronunciati da
ultimo A. TORRENTE e P. PASCALINO, Aspetti e soluzioni della crisi della
giustizia nel processo civile, relazione all’XI Congresso dei Magistrati,
Sardegna, settembre 1963, con minute, pertinenti considerazioni.
Nello stesso senso anche A. C. JEMOLO, La Giustizia, ne « La
Stampa » del 19 gennaio 1965, che parla di un vero feticismo della
collegialità, praticamente operante solo quando si presentano casi
appassionanti, altrimenti risolvendosi in una perdita di tempo posto
che « i giudici... non hanno neppure in mano le scritture occorrenti
per valutare appieno le controversie ».
184
UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO
costituisce una più seria garanzia di giustizia, cosı̀
come in teoria le camere di consiglio potrebbero
costituire una grande scuola, nei fatti presupporrebbe che ogni componente del collegio abbia la
possibilità di conoscere a fondo, direttamente, la
causa; cosı̀ sarebbe necessario che prima di ogni
camera di consiglio ogni giudice avesse, con congruo anticipo, la copia degli atti e in effetti li
studiasse come se ne dovesse personalmente riferire. Al contrario le camere di consiglio civili si
svolgono sulla base di una relazione del giudice
istruttore, il quale naturalmente si sforza di riferire
nel modo più obiettivo possibile sui fatti e sulle
questioni di diritto emerse in causa, ma niente
garantisce della congruità e della completezza della
esposizione per quel naturale processo che inconsciamente porta ciascuno a vedere le cose in un
certo modo, a ritenere essenziale questa o quella
circostanza, a delimitare in un senso o nell’altro, in
perfetta buona fede, i punti che sono meritevoli di
esame per la risoluzione della lite; nessuna relazione, per quanto esauriente, può sostituire la conoscenza diretta. Ma ammesso che la relazione sia
al massimo obiettivamente completa, questo non
significa ancora niente, giacché, se in camera di
consiglio deve svolgersi una discussione, questo
richiederebbe che tutti i componenti fossero sullo
stesso piano per quanto attiene alle conoscenze di
diritto all’uopo indispensabili; quale contributo può
seriamente apportare il giudice che, non avendo
istruito la causa, non ne ha mai affrontato le questioni di diritto che può, in ipotesi, ignorare totalmente o parzialmente, non avendo compiuto in
LE RIFORME CHE URGONO
185
proposito ricerche giurisprudenziali e di dottrina?
Mentre il giudice relatore giunge o dovrebbe giungere alla camera di consiglio preparatissimo, essendosi erudito sotto tutti i profili, per gli altri componenti del collegio che niente sanno del contenuto
della causa che per essi rappresenta una novità, la
situazione è del tutto diversa, potendo essi accidentalmente essere in grado di portare un contributo
per la loro preparazione generale o essendo costretti, come talora avviene, a tacere o a menare il
can per l’aia facendo perdere semplicemente tempo
se il livello della loro ignoranza specifica è tale che
le loro osservazioni mancano del tutto di puntualità
rispetto alla questione. Insomma la camera di consiglio ha un senso se tutti i giudici vi giungono
convenientemente attrezzati; in mancanza di questo
presupposto il contributo collegiale si riduce a ben
poco o è equivoco perché basato sulla relativa
ignoranza dei giudici diversi dal relatore. Di norma
ora la collegialità serve al singolo giudice, nella
misura in cui questi sia scrupoloso, per cercare di
trovare nei colleghi il conforto della sua impostazione o un aiuto per risolvere quei punti rispetto ai
quali egli è incerto; la camera di consiglio funziona
quindi di massima come una occasione per farsi
consigliare da altri, per qualcosa, quindi, che il
magistrato coscienzioso può risolvere anche fuori di
questa occasione, attingendo oltre che ai libri e alle
riviste e alla giurisprudenza al consiglio spesso
richiesto al collega che si sa più preparato in una
certa materia; quante volte mi è avvenuto di ricercare, anche deliberatamente, il parere di un collega
da me supposto più esperto o di maggiore intuito,
186
UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO
anche quando come giudice unico portavo intera la
responsabilità! Naturalmente non è escluso che un
giudice, preparatissimo e aggiornatissimo su ogni
questione, possa portare un decisivo contributo, ma
l’ipotesi è veramente rara se non impossibile, posto
che quasi nessuno è umanamente in grado di padroneggiare tutto il diritto; il buon giudice, accanto alla
preparazione generale, ha una conoscenza più o
meno approfondita di alcune materie in virtù della
esperienza accumulata e nel contempo una infinità
di lacune che egli, se è coscienzioso, cerca di
colmare di volta in volta in relazione alle cause
personalmente curate.
La stessa situazione si verifica nel processo
penale, dove i giudici a latere ignorano del tutto i
procedimenti che solo il presidente del collegio ha
studiato prima dell’udienza, con l’ulteriore considerazione che questi giudici non hanno pratica possibilità di influire sullo svolgimento dell’istruttoria
dibattimentale demandata alla guida del solo presidente; ad esempio non possono porre quella domanda che a loro avviso potrebbe spostare o diversamente illuminare i termini del processo: dal punto
di vista della conduzione del processo essi sono
quindi giudici a metà, giudici di quello che fa il
presidente.
Per tutto questo conviene risolutamente semplificare, passando al sistema del giudice unico che
presenta, com’è noto, ulteriori vantaggi. In primo
luogo il giudice monocratico è ben altrimenti responsabile, si sente investito senza rimedi della
risoluzione della controversia senza poter fidare
LE RIFORME CHE URGONO
187
nell’equivoco della collegialità (48). Inoltre il giudice unico ha nel processo penale ben altri vantaggi,
massimamente quello di poter condurre l’udienza in
un leale confronto con le parti. Ho detto come nel
procedimento penale innanzi al giudice collegiale i
giudici a latere siano per forza di cose dei giudici a
metà per quanto attiene alla conduzione dell’istruttoria dibattimentale; può aggiungersi che anche il
presidente del collegio si trova in una singolare
situazione; se egli è scrupoloso, rispettoso della
regola della collegialità, deve mettere costantemente nel conto la valutazione pel momento imprevedibile dei colleghi che se ne stanno intanto muti al
suo fianco; pertanto egli deve condurre innanzi il
processo come conservando una specie di « segreto
pubblico », non pregiudicando per alcun verso la
valutazione collegiale né azzardando apprezzamenti personali: tutto può essere importante sul
piano di quella valutazione da venire, niente può
(48) Vd. ottimamente M. RAMAT, Il giudice unico, ne « Il
Mondo » del 31 dicembre 1963: « La consuetudine a dividere in tre la
responsabilità della decisione può portare anche inconsapevolmente
alla tendenza ad adagiarsi psicologicamente sulle decisioni altrui »,
mentre il giudice unico è posto obiettivamente al di là del conformismo. In ogni caso è da auspicare che sia concesso al giudice
dissenziente di poter esprimere pubblicamente questo suo dissenso,
come è ammesso in altri ordinamenti e come di recente si è proposto
da noi a proposito della Corte Costituzionale. E circa il funzionamento in concreto del sistema collegiale, ricordo un episodio gustoso
ed invero abnorme; incaricato di stendere una sentenza penale come
giudice a latere, mi accorsi che ci si era dimenticati di pronunciarci su
uno dei reati rubricati e del quale il presidente, certo assai negligente
nel preparare i processi, non ci aveva affatto parlato in camera di
consiglio; trattandosi di un reato minore nella lunga filza delle
imputazioni tutti ne avevano ignorato l’esistenza nel pubblico dibattimento.
188
UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO
essere pregiudicato, donde una inevitabile maggior
lentezza del procedimento. Il giudice unico non
deve avere invece di queste preoccupazioni; proprio
perché solo lui deve decidere, egli può procedere in
udienza con la massima libertà, non ha da evitare
anticipazioni pericolose; al contrario, poiché non ha
senso il riserbo... verso se medesimo, il pretore può
condurre speditamente avanti la causa, sgombrando
formalmente il campo, ad esempio, da questioni che
egli ritenga superflue e pacifiche nel senso più
favorevole per la difesa, onde non conviene insistervi e invitando al contrario a soffermarsi sui punti
che a suo avviso sono meritevoli di chiarimento e
dai quali dipende la sorte dell’imputato. In un
procedimento penale per lesioni colpose è del tutto
inutile, ad esempio, che il giudice lasci discutere a
vuoto sulla pretesa eccessiva velocità tenuta dall’imputato al momento dell’incidente se egli è convinto
che la velocità non superava la norma e che comunque non è su questo elemento che può basarsi la
colpa; meglio conviene che si dia subito atto di
questa convinzione e che si inviti la difesa a prendere in esame altri elementi che il magistrato ritiene
in ipotesi ben più rilevanti; cosı̀ veramente il procedimento penale innanzi al giudice unico si risolve in
un franco dialogo che è preferibile anche per la
difesa e che si risolve in una maggiore speditezza,
senza inutili e defatiganti concioni. Quindi tutto
convince della opportunità di generalizzare al massimo il sistema dei giudice unico che nel nostro
paese ha fatto del resto ottima prova; non credo
infatti che la giustizia dei pretori sia deteriore
rispetto a quella dei tribunali, anzi ritengo che la
LE RIFORME CHE URGONO
189
c.d. giustizia minore funzioni in modo di gran lunga
più soddisfacente. Merita, invece, conservare la
collegialità, a tre persone, per l’appello; in pratica
l’attuale tribunale potrebbe funzionare come giudice di secondo grado per tutto il civile e per la
massima parte del penale, nonché come giudice
penale di primo grado per i reati più gravi, di
massima quelli ora demandati alle odierne corti di
assise, eliminandosi questa ibrida esperienza dello
scabinato (49). Infine vi sarebbe posto per la corte
di appello, sempre funzionante a tre magistrati,
come giudice di secondo grado per i reati più gravi
demandati in prima istanza al tribunale.
La strutturazione estremamente semplificata
che ho ipotizzato dovrebbe consentire obiettivamente un miglior funzionamento della giurisdizione, rendendola in particolare assai più rapida
e incisiva. Il sistema potrebbe essere completato
conservando alla base il giudice conciliatore, estendendone la competenza che potrebbe comprendere
le minori cause civili (poniamo le liti non superanti
(49) Come la stragrande maggioranza dei magistrati, sono
risolutamente avverso all’istituto della corte d’assise, trovando inconcepibile, ed in ciò divergendo da certa facile demagogia populistica,
che proprio i reati più gravi siano affidati in prevalenza a giudici del
tutto improvvisati; espresse benissimo questo stato d’animo, in un
discorso all’Assemblea Costituente, G. Porzio che di queste cose se
ne intendeva: « La realtà è che sono stato sempre avversario dell’istituzione dei giurati. Mi sgorga dal fondo. Sono istintivamente, organicamente, contro ogni arbitrio, contro ogni decisione immotivata,
contro quel monosillabo incontrollabile, irrevocabile la cui genesi è
oscura e qualche volta torbida »; ed a un congresso forense il grande
avvocato aggiunse in proposito: « Quante vittorie, signori, che nel
fondo dell’anima furono un’amarezza » (cito da un articolo di F.
ARGENTA, ne « La Stampa » del 23 settembre 1962).
190
UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO
il valore di lire centomila) da risolvere equitativamente, nonché estendersi alla materia penale e
precisamente a tutti i reati contravvenzionali punibili esclusivamente con la pena pecuniaria dell’ammenda, il tutto forse senza possibilità di gravame
giacché, come ha comunque giustamente sostenuto
A. C. Jemolo (50), è semplicemente assurdo ed
entieconomico il sistema attuale che consente di
arrivare anche per le minori infrazioni e per le liti
più trascurabili alla Cassazione. Naturalmente, questo completamento della riforma in basso esige che
gli uffici di conciliazione siano convenientemente
attrezzati sotto tutti gli aspetti; i giudici onorari
dovrebbero essere scelti tra persone aventi un minimo di competenza tecnica, eventualmente in una
rosa di nomi formulata dai consigli comunali (51).
(50) Vd. A. C. JEMOLO, La crisi della Giustizia, ne « La
Stampa » del 30 maggio 1963: « Affidando ad un giudice di equità che
decida senza appello le minuscole controversie. Non posso rassegnarmi a vedere intere udienze della Corte di Cassazione assorbite da
controversie il cui oggetto è lo sporto del balcone di dieci centimetri
oltre la misura legale, il muro che ha invaso ancora di dieci centimetri
la proprietà altrui ». Contra vd. F. TALASSANO, I problemi della
giustizia, ne « La Magistratura », novembre-dicembre 1963. È ben
noto che da molte parti si propone di degradare molti illeciti
contravvenzionali a meri torti amministrativi, demandati alle competenti autorità, al fine di alleggerire il sovraccarico giudiziario; in
questo senso giace innanzi alla Camera dei Deputati un disegno di
legge. Ma si tratta di una proposta che suscita molte perplessità; vd.
ad esempio le osservazioni di A. GUARINO, La riforma delle contravvenzioni rischia di aumentare gli incidenti, nel « Corriere della Sera »
del 20 agosto 1965: l’A. in particolare osserva che « dilagherà di pari
passo la mala pianta, a tutti nota, dei tentativi di evitare per vie
traverse che alla loro effettiva irrogazione si giunga ».
(51) Vd. in tal senso M. RAMAT, Il giudice elettivo, ne « Il
Mondo » del 6 aprile 1965. È invece da respingere nettamente,
LE RIFORME CHE URGONO
191
Una notevole facilitazione al fine di ricercare buoni
elementi si otterrà non facendo coincidere necessariamente la giurisdizione del conciliatore col comune, come oggi avviene col risultato che le funzioni giurisdizionali sono talora commesse, nei più
piccoli comuni (e sono moltissimi), a cittadini del
tutto sprovveduti, al macellaio o al ciabattino proprio perché vi è un limite alla ricerca del meglio in
una area ristretta. Mentre nei grandi e grandissimi
comuni potrebbero essere istituiti eventualmente
più uffici di conciliazione (ma dove può presentarsi
l’esigenza con i mezzi di trasporto oggi a disposizione?), i minori comuni, in particolare quelli montani,
dovrebbero essere raggruppati in modo da consentire cosı̀, su un’area più vasta, una migliore scelta
dei giudici che dovrebbero essere investiti dell’ufficio per un quinquennio e ricevere una adeguata
indennità. Sono d’altro canto convinto che una più
seria utilizzazione di questa magistratura onoraria,
oggi praticamente abbandonata, solleciterebbe la
non disprezzabile ambizione dei cittadini più probi
in una direzione cospirante con l’interesse generale:
se oggi è tanto ambita la deprezzata croce di
cavaliere, a maggior ragione dovrebbe essere considerato come un grande riconoscimento morale e
ragione altresı̀ di prestigio il conferimento di queste
malgrado una indicazione costituzionale (art. 106 cap.), la proposta di
una elezione diretta popolare dei magistrati onorari patrocinata da
M. FRANCESCHELLI, in M. BERUTTI e M. FRANCESCHELLI, Aspetti e
soluzioni della crisi della giustizia nell’ordinamento giudiziario, relazione per l’XI Congresso dei magistrati, Sardegna, settembre 1963:
nell’attuale situazione la proposta comporterebbe una diretta e
perniciosa interferenza partitica nell’amministrazione giudiziaria.
192
UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO
funzioni, posto che, come l’esperienza di altri civilissimi paesi dimostra, anche l’amministrazione giudiziaria può contare su un diffuso sentimento civico.
Come ho premesso, i problemi del personale
della giustizia vanno risolti in relazione ad una
determinata strutturazione del servizio, in concreto
e non in astratto. In questo ordine di idee ritengo
che la strutturazione da me ipotizzata consenta una
più adeguata e funzionale sistemazione del personale. Il primo quesito attiene all’opportunità o no di
richiedere una precisa specializzazione dei giudici,
secondo una idea che è stata di recente ripresa e
suffragata con la considerazione che il lavoro giudiziario oggi si accentra in larga misura in taluni tipi di
controversie di prevalente contenuto tecnico o che
richiedono la conoscenza specifica di certi fatti e
comportamenti tipici, per i quali è opportuno che il
magistrato abbia la padronanza anche di altre discipline non giuridiche, ad esempio in materia di
circolazione stradale (52). Io ritengo che la proget(52) La c.d. tecnicizzazione dell’attività giudiziaria costituisce,
come è noto, il leit-motiv di alcuni studiosi; vd. ad es. N. BERNARDINI
e A. MARCUCCI, Alcuni problemi costituzionali e funzionali dell’ordinamento giudiziario, in Magistrati o funzionari?, cit., pp. 443 e ss. Del
Bernardini vd. anche Ordinamento, giudizio e progresso tecnologico,
in Studi sul progresso tecnologico e la società italiana, Milano, 1960,
vol. VI, Aspetti giuridici, p. 100. Secondo questo orientamento il fatto
tecnico va assumendo un’importanza via via prevalente nell’economia del giudizio, il processo esige sempre di più d’essere risolto alla
stregua di « norme tecniche », le liti si addensano attorno a gruppi
tipici tecnicamente identificabili. Ma, come dissi altra volta (in
Cronache della magistratura, cit., p. 255), questo indirizzo è di dubbia
attendibilità, tolto il contributo positivo che apporta mettendo in luce
un fenomeno in parte reale e auspicando una conseguente attrezza-
LE RIFORME CHE URGONO
193
tata specializzazione sia di difficile concretizzazione;
penso altresı̀ che essa debba essere respinta per
precise ragioni di principio. È estremamente difficile che possa procedersi ad una ripartizione degli
affari giudiziari per materia, giacché nella massima
parte dei casi la controversia si risolve in una serie
di quesiti che hanno almeno qualche attinenza con
le più varie ripartizioni di comodo del diritto o
comunque, proprio ai fini della più esatta risoluzione, si richiedono di necessità nel giudice conoscenze non limitate, bensı̀ generalizzate all’intera
esperienza giuridica (53); proprio per questo continuo intrecciarsi dei vari profili, al giudice civile non
è sufficiente una esclusiva preparazione civilistica
cosı̀ come al giudice penale non basta una esclusiva
preparazione penalistica, onde la stessa distribuzione rigida del personale in questi due campi
appare assai problematica. Direi invece che deve
favorirsi al massimo, nella misura del possibile,
l’attitudine del magistrato a risolvere, senza eccessivo dispendio, ogni tipo di controversia, destinantura soggettiva. Infatti, incidenza o no di un contesto tecnico, il
giudizio si contraddistingue, al pari di tutta l’esperienza giuridica, sul
piano della valutazione comparativa degli interessi contrapposti nella
loro dimensione sociale; e qui non c’è attrezzatura tecnica che tenga,
la tecnica aiutando, ma mai risolvendo. E culturalmente a me pare
che in queste proposizioni vi sia la traccia di un certo neo-positivismo
che ora va risorgendo dalle ceneri, nella perseguita utopia di una
scientificità « obiettiva » risolutrice di ogni dramma e di ogni passione
e che è destinato fortunatamente a soccombere, come il vecchio
positivismo, nella infinita libera e liberante, « inventività » della
realtà umana, mai domabile e mai domata.
(53) Cosı̀ esattamente, fra i tanti, F. PERFETTI, Relazione sull’amministrazione della giustizia, cit., p. 11; M. RAMAT, Il giudice
specialista, ne « Il Mondo » del 18 giugno 1963.
194
UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO
dolo a rotazione alle varie incombenze, anche se
questo comporta nel complesso uno sforzo non
indifferente. Ma appunto la specializzazione, nel
mentre favorisce la pigrizia dei singoli inducendoli a
riguardare esclusivamente il loro orticello e a diventare cosı̀ progressivamente ignoranti su tutto il
resto, peggiora e non migliora la preparazione
media e le attitudini dei magistrati, mentre, anche
dal punto di vista di una comprensiva cultura, è
desiderabile che avvenga esattamente il contrario,
che le funzioni di volta in volta commesse inducano
il singolo ad arricchirsi e a migliorarsi. Ed il buon
giurista si fa progressivamente per questa via certo
più impegnativa.
Piuttosto per altra via potrà ottenersi di fatto un
fecondo scambio di esperienze tra gli stessi magistrati opportunamente raggruppati in grandi uffici.
La strutturazione da me proposta potrebbe risolversi agevolmente nella istituzione della pretura in
ogni capoluogo di provincia; in una ventina di
tribunali e in cinque-sei corti di appello in tutto il
Paese, risolvendosi cosı̀, con questa concentrazione,
una serie di problemi. In primo luogo si sopprimerebbero gli uffici che oggi in misura non trascurabile
sono inutili o si risolvono in veri canonicati, mantenuti in vita solo per quelle deteriori ragioni di
campanilismo e di prestigio locale rispetto alle quali
l’interesse pubblico pare impotente, all’insegna di
quella parola d’ordine, veramente ridicola nell’epoca delle facili e comode comunicazioni, che la
giustizia deve andare al popolo (54); si avrebbe cosı̀
(54)
Vd. ad es. l’articolo La Giustizia, cit.
LE RIFORME CHE URGONO
195
una adeguata distribuzione del personale con un
carico di lavoro proporzionato per i singoli, evitandosi di inflazionare l’organico in modo deleterio,
posto che vi è un limite obiettivo, oggi spesso
superato, per il reperimento di buoni giudici. Sarebbe inoltre possibile attrezzare i pochi uffici giudiziari dei mezzi che oggi la tecnica consente per la
piena funzionalità del servizio. In particolare presso
ogni ufficio potrebbe essere istituita a spese dello
Stato una biblioteca giuridica convenientemente
attrezzata a disposizione dei magistrati e degli avvocati i quali ultimi potrebbero concorrere alla
spesa con un canone di abbonamento; più precisamente un ufficio centrale istituito presso il ministero
dovrebbe curare la simultanea distribuzione in tutte
le biblioteche delle pubblicazioni di vario tipo e
delle riviste. Non credo che questo servizio importerebbe una grossa spesa in un bilancio statale cosı̀
inflazionato come l’attuale, mentre si risolverebbe
un problema che oggi, al livello dell’economia individuale, non è facilmente risolvibile. Si pubblicano
oggi in Italia oltre cento riviste giuridiche, nazionali
e locali, generali e specializzate, senza contare le
monografie, le raccolte annuali di giurisprudenza,
etc.; di volta in volta il giudice può avere necessità di
consultare questa o quella pubblicazione, mentre
egli non ha personalmente né il denaro né lo spazio
per farsi una adeguata biblioteca onde deve far
talora ricorso o all’espediente del prestito amichevole o alla consultazione (pericolosa!) delle sole
massime nei repertori, aggravandosi la situazione
per chi è costretto ad amministrare la giustizia in
luoghi remoti. L’importanza del problema risulta
196
UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO
dal fatto che il Consiglio Superiore della Magistratura ha proposto di alleviare le difficoltà dei singoli
con la concessione di buoni-libro (55). La concentrazione degli uffici permetterebbe cosı̀ la costituzione di biblioteche aggiornate da concepirsi come
un vero servizio pubblico. Infine la stessa concentrazione eliminerebbe alcune difficoltà che oggi
sussistono sul piano del reclutamento; la prospettiva
attuale di dover esercitare le funzioni, anche per
molti anni, in un paese remoto trattiene spesso i
giovani dall’entrare in magistratura perché non tutti
sono disposti a vivere nella quiete delle campagne e
anche quando lo sono debbono spesso fare i conti
con la tirannide più o meno giustificata delle esigenze domestiche, da quelle della consorte che non
se la sente semplicemente di intristire in provincia o
ha le sue esigenze di lavoro in questa epoca di
crescente immissione della donna nelle attività produttive a quelle derivanti dalle esigenze scolastiche
dei figli. Se fosse possibile accogliere l’idea qui
sostenuta, il temuto spettro verrebbe meno ed il
giudice potrebbe contare di risiedere almeno in un
capoluogo di provincia (56). Avremmo cosı̀, com(55) Con l’ordine del giorno approvato il 5 luglio 1961 su proposta di P. Glinni; vd. « La Magistratura », settembre-ottobre 1962.
(56) Vd. A. C. JEMOLO, La crisi della giustizia, cit. D’altro canto
non sono affatto d’accordo con chi ritiene anacronistico l’obbligo
attuale di residenza (cosı̀ M. BOCCASSINI, Attuazione delle garanzie
costituzionali in tema di ordinamento giudiziario, in Magistrati funzionari?, cit., p. 496); se è vero che con gli attuali mezzi di comunicazione il problema non si presenta nei termini del passato, è
altrettanto vero che una limitazione in materia è indispensabile per
infrenare gli abusi oggi frequenti di magistrati che abitualmente
risiedono in città assai distanti dalla sede. Si dice ad es. che gran parte
LE RIFORME CHE URGONO
197
plessivamente, la migliore strutturazione degli uffici
e la soddisfazione più piena del personale in condizioni di normalità e con tutti i possibili strumenti a
disposizione.
dei magistrati di una certa zona dell’Italia centrale abitano nella
capitale. In realtà la questione è assai più sostanziale rispetto a quello
che la formula letteralmente esprime; non si tratta tanto di risiedere,
quanto di far sı̀ che il servizio commesso non soffra della circostanza
dell’abitare fuori sede. In questo senso è assai diversa la posizione dei
vari magistrati secondo l’ufficio ad essi commesso; chi ad es. è
addetto come talora avviene al solo lavoro civile nei tribunali, in
pratica deve trovarsi in ufficio solo due-tre volte la settimana, mentre
è assai diversa la situazione del pretore « di campagna » che, dovendo
provvedere per le richieste urgenti, praticamente può essere sempre
ricercato e pertanto si trova nell’alternativa o di vivere in una specie
di confino o di vivere di espedienti con la sensazione spiacevole di
essere costantemente « braccato ». Per coloro che versano nella
seconda situazione è quindi inevitabile la necessità di risiedere in
luogo relativamente vicino, cioè in un luogo che consenta in ogni caso
di raggiungere la sede, per le chiamate urgenti, nel giro di una, al
massimo due ore; il che esige che si sia convenientemente attrezzati,
con la disponibilità di un veicolo. Anche a prescindere dalle chiamate
urgenti, l’attrezzatura personale conta perché chi si serve, ad es., dei
mezzi pubblici può essere indotto a tirar via all’udienza per non
perdere quella certa corriera; viceversa la disponibilità del mezzo
consente di attendere con tranquillità al lavoro, protraendo se
necessario l’udienza ad ora tarda. È un problema quindi di autoresponsabilità del singolo, obbligo di residenza o no; essendo inconcepibile il comportamento di quel magistrato che ad un certo punto,
trovandosi in camera di consiglio, cominciava ad essere impaziente
prospettandosi la probabilità di perdere la prossima, comoda partenza del mezzo pubblico. La concentrazione degli uffici, con la
conseguente assegnazione di più magistrati, risolverà il problema,
consentendo di far ricorso al turno di urgenza; non vi sarà quindi più
lo spettro, veramente inumano, del semiconfino in campagna, quando
l’allontanarsi anche per mezza giornata per recarsi alla vicina città
costituisce un incubo ed ogni trillo di telefono fa balzare. È un
problema che va quindi risolto coordinando le esigenze dell’ufficio
con le giuste esigenze dei singoli. È interessante ricordare infine che
un giudice, L. SCIACCHITANO, in « Rassegna dei magistrati », 1962, p.
198
UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO
L’ingresso in magistratura non può non avvenire sulla base tradizionale del concorso aperto ai
giovani laureati. In un paese come il nostro, ancora
costituzionalmente instabile e dominato ferreamente dal settarismo di partito, nel quale a torto o
a ragione l’ostracismo del « sovversivo » inteso talora alquanto latamente è ancora di frequente praticato al pari dell’abuso partitico, anche quando per
l’unica giustificazione della divisione delle spoglie si
affidano delicate funzioni pubbliche o a emeriti
cretini o a persone di dubbia moralità senza che mai
sfiori l’idea di nominare la persona competente ed
onesta militante nel partito avverso, il sistema del
concorso è, malgrado i suoi innegabili difetti, il
migliore ed è, del resto, collaudato dalla tradizione.
Come è riconosciuto anche da chi comprensibilmente critica l’assetto della nostra magistratura e
mette in rilievo i pregi di altri sistemi (57), non è
possibile in Italia altro sistema; non la scelta dei
giudici da parte del potere esecutivo perché con
siffatto sistema si esigerebbe in concreto la fedeltà
al partito se non alle conventicole dominanti; non il
sistema elettivo che, alquanto discusso altrove (58),
implicherebbe certamente più perniciose conse341 ha proposto che si ponga il divieto di residenza per allontanare il
magistrato dall’ambiente dei giudicabili, cosı̀ prospettando una giusta
esigenza della quale ho detto nel testo; e la concentrazione, allargando l’ambiente, risolve anche questo.
(57) Vd. G. MARANINI, in « Rassegna dei magistrati », 1962, p.
257; S. BASILE, Considerazioni sull’indipendenza del potere giudiziario, in Magistrati o funzionari?, cit., p. 293.
(58) Vd. R. ZARISKI, I giudici statali e locali negli Stati Uniti
d’America e il problema dell’indipendenza della magistratura, in
Magistrati o funzionari?, cit., p. 170.
LE RIFORME CHE URGONO
199
guenze nel nostro paese; non l’affidamento delle
funzioni giurisdizionali agli avvocati con una soluzione certo ideale per certi profili e felicemente
affermata altrove, perché da noi avremmo probabilmente la sistemazione in magistratura dei falliti.
Non conviene quindi discostarsi dalla tradizione che
ha fatto del resto, almeno relativamente, buona
prova, consentendo l’ingresso in magistratura, in
ogni tempo, fra la massa dei mediocri e dei timidi,
anche di soggetti effettivamente indipendenti ai
quali si deve se ancor oggi il terzo ordine rappresenta, malgrado tutto, uno dei pochi pilastri relativamente sani nel paese.
Il mantenimento del concorso iniziale non deve
pregiudicare tuttavia la severità della selezione
sotto tutti i profili. In primo luogo la selezione
tecnico-giuridica, conservando ed anzi incrementando la severità delle prove, giacché ho l’impressione che in questi ultimi anni, come traspare da
qualche relazione (59), le commissioni giudicatrici,
(59) Vd. in « Foro it. », 1962, 4, 37 la relazione della commissione esaminatrice del concorso per uditore giudiziario bandito con
d.m. 20.2.1959 a firma del presidente U. Pioletti nonché ivi, c. 38 la
relazione del presidente della prima commissione referente del
Consiglio Superiore della Magistratura, prof. G. M. De Francesco. In
ambedue le pregevoli relazioni è messo in rilievo che la preparazione
dei candidati è in genere modesta tanto che non fu possibile coprire
tutti i posti messi a concorso (come è avvenuto in molti altri
concorsi); si constata altresı́ la quasi totale assenza di candidati
provenienti dalle regioni centrali e soprattutto settentrionali; si
afferma che per una serie di ragioni i migliori laureati vanno
disertando il concorso trovando immediata collocazione, a condizioni
economicamente migliori, nelle imprese private che effettuano cosı̀ la
prima scelta; si ricorda il fenomeno diffuso della presentazione
contemporanea a più concorsi: « I giovani presentano più domande
200
UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO
pressate dall’esigenza di completare l’organico, abbiano alquanto allentato la morsa; è auspicabile,
viceversa, un estremo rigore perché è preferibile il
vuoto dell’organico all’assunzione di soggetti del
tutto scadenti. Piuttosto un elevamento del trattamento economico della magistratura potrà attrarre
assai più di quanto oggi avvenga i giovani più
preparati. Ma anche la selezione umana è in certi
limiti indispensabile, giacché su questo piano non è
certo sufficiente che il candidato presenti il certificato penale bianco o il generico certificato di buona
condotta, proprio per evitare che, a prescindere da
questo minimo, entri in magistratura la persona
incensurata, ma visibilmente squilibrata per qualche
verso, come in alcuni casi oggi si verifica. L’esigenza
è naturale, perché al diritto del cittadino di accedere
di concorso e assumono l’impiego nel Ministero presso il quale
possono conseguirlo più sollecitamente »; si rileva che solo una
ristretta percentuale intraprende la carriera « per ponderata elezione ». E nella relazione De Francesco si osserva che il reclutamento
sarà ancor più arduo nella misura in cui il benessere economico
investirà anche le regioni meridionali ed insulari. Alle difficoltà del
reclutamento ed in particolare a quella derivante dal fatto che spesso
i giovani non sono in grado di attendere i due anni al minimo
necessari dopo la laurea per entrare in carriera, si potrebbe ovviare
in parte istituendo una speciale accademia per la preparazione al
concorso cosı̀ come venne proposto in un discorso del Ministro on.
Bosco del 15 ottobre 1963 (v. in « Rassegna, dei magistrati », 1963, p.
413); in pratica si tratterebbe di offrire subito ai laureati che hanno
riportato buone votazioni negli esami universitari la possibilità di
frequentare questa accademia con una borsa di studio sufficiente, pur
escludendo che solo gli accademisti possano sostenere il concorso. In
sostanza lo Stato, senza impegni reciproci, farebbe come una prenotazione sulle migliori leve mentre sarebbe certo che questo espediente temporaneo consentirebbe a molti di preferire la scelta in
questione.
LE RIFORME CHE URGONO
201
ai pubblici uffici, del resto secondo i requisiti richiesti dalla legge (e la non originalità in senso deteriore
deve intendersi, comunque si formuli il concetto,
come un requisito), sovrasta il dovere dello Stato di
garantire l’assunzione di funzionari idonei sotto
ogni profilo. Dovrebbe quindi istituirsi un qualche
controllo in materia, culminante nella valutazione
discrezionale del Consiglio Superiore della Magistratura, poiché è visibilmente assurdo che lo Stato
sia del tutto sprovveduto in materia o alla mercé
delle informative provenienti da soggetti all’uopo
non qualificati, quando le imprese private ricorrono
alle più varie procedure per cautelarsi in materia. E
se si può nutrire qualche legittima preoccupazione
in proposito, è inevitabile che se ne paghi il costo a
ragione del criterio di fare tutto il possibile nell’interesse pubblico e, mettendo sul piatto della bilancia quanto si vuole e quanto si deve evitare, è da
concedere un minimo di fiducia ad un consesso
indipendente da pressioni politiche o di altro genere
come il Consiglio Superiore. Ed è inevitabile, anche
se in ipotesi umanamente doloroso, richiedere che il
giudice provenga da un ambiente familiare moralmente ineccepibile, non convincendo, ad esempio,
che non debba farsi conto della condotta dei suoi
parenti (60), quando è inevitabile che da parte
dell’opinione pubblica si richiedano magistrati non
(60) E mi spiace cosı̀ di dover essere in disaccordo con M.
Ramat che sollevò il problema in un articolo pubblicato ne « Il
Mondo » del 1º gennaio 1963 al quale fece seguito una nota polemica,
In nome della Costituzione!..., in « Rassegna dei magistrati », 1963, p.
82 con argomentazioni analoghe a quelle svolte nel testo; ma v. anche
una successiva lettera del RAMAT, ivi, 1963, p. 230.
202
UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO
discutibili anche sotto questo profilo, se non altro
per allontanare il sospetto, umiliante, che costoro,
chiamati ad esercitare una funzione che implica
l’assoluto rispetto di quel minimo etico che si
incorpora nella normativa giuridica, siano costretti
in una situazione di disagio nelle pareti domestiche,
situazione che può riflettersi nell’ufficio. Non è
ammissibile, per fare il caso limite, che possa divenire giudice il figlio di una prostituta che domani
può salire la scala del palazzo di giustizia per
contestare al figlio, magari beceramente vociando,
la misura degli alimenti; cosı̀ come, e a maggior
ragione, è inammissibile che il magistrato si leghi a
qualche allegra donnina dando scandalo. In conclusione, se è deprecabile che in prosieguo un giudice
maturo debba subire il disagio di un figlio canaglia
(e taluni ne soffrirono tanto da uccidersi), è logico
che di consimili situazioni si possa tener conto agli
inizi, quando niente è in definitiva pregiudicato (61). Tutto, al limite, deve essere pulito nel
(61) Si tratta di una esigenza obiettiva, tanto che si comprende
come, ai sensi dell’art. 98, comma secondo e quinto, della legge
fondamentale della repubblica federale tedesca si preveda la remozione o il trasferimento del magistrato « quando fatti estranei nella
sua attività giudiziaria nuocciano gravemente e stabilmente alla sua
considerazione o all’attività giudiziaria da lui svolta, sı́ da rendere
necessaria una misura di questo genere nell’interesse della giustizia »:
vd. K. DOEHRING, Particolarità della posizione giuridica dei giudici
nella repubblica federale germanica, in Magistrati o funzionari?, cit.,
p. 233 ; previsione che comprova, malgrado il pericolo di abuso e di
arbitrarietà che comporta, quanto la società si attende dal giudice
anche per quanto attiene alla sua vita privata. Non a caso circolano
aneddoti di un certo tipo, il caso classico dell’imputato che pubblicamente ricorda al giudice che anch’egli si è macchiato dello stesso
reato per il quale si sta procedendo a suo carico (e poiché ho
LE RIFORME CHE URGONO
203
giudice innanzi all’opinione pubblica, anche l’ambiente che lo circonda, tanto che in una soluzione
ideale non sarebbe illogico richiedere al magistrato
quelle stesse limitazioni che si chiedono al sacerdote; ma se tanto è umanamente impossibile e se
può consentirsi che il giudice prenda moglie proprio
in quell’ordine di idee che la sapienza canonistica
collega sulle orme dell’insegnamento paolino al
matrimonio, deve almeno richiedersi ch’egli sia
indipendente dalla propria moglie in una accezione
funzionale alla missione, onde egli procurerà di
spartire i giorni lieti e meno lieti della sua vita con
una compagna che non possa essere oggetto di
censura e che condividendo la sua ispirazione al
bene potrà essergli di aiuto e di conforto nell’esplicazione delle funzioni; chi per avventura sceglie
male ne porta la responsabilità proprio anche come
magistrato, per quel doveroso comportamento che
si esige dall’uomo-giudice, dimostrandosi inadatto
al suo compito (62).
riscontrato che episodi del genere sarebbero avvenuti, secondo la
voce corrente nei vari ambienti, nei luoghi più disparati, sono
propenso a ritenere che molti siano almeno in termini testuali parto
della fantasia); ed infatti chi giudica deve avere le carte in regola
secondo un modello ideale, purtroppo anche quando è in giuoco il
fatto di altri.
(62) Circa l’indipendenza dalla propria moglie (ma non da
quello che si è imparato all’università e non dai principi morali accolti
nella società), vd. l’arguto intervento di T. ECKHOFF, in Magistrati o
funzionari?, cit., pp. 340-341. Certo, a prescindere dalla deontologia
professionale, si comprende come il frequente contrasto tra le
esigenze della funzione e le umane miserie del giudice-uomo possa
costituire, al pari di quanto si affermò in un famoso saggio bergsoniano a proposito delle cause del riso, un ottimo spunto letterario,
umanistico-patetito. Ed infatti c’è tutto un filone in questo senso, al
204
UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO
Una delle esigenze essenziali è quella che il
giovane magistrato sia posto in grado, dopo il
concorso, di compiere un serio tirocinio che lo
renda pienamente disponibile per l’ufficio. Oggi su
questo piano la situazione è assai lamentevole,
anche se in questi ultimi anni si sono fatti diversi
esperimenti di dubbia consistenza. In pratica chi ha
superato il concorso viene immesso come uditore
negli uffici per il periodo di un anno nel quale il
giovane dovrebbe venire in contatto col servizio
sotto la guida di giudici anziani e quindi ascoltando
e vedendo senza effettivo esercizio delle funzioni.
In pratica spesso si verifica che l’uditore sia utilizzato concretamente laddove vi è più carenza, ad
esempio nella raccolta delle testimonianze e nella
quale hanno concorso autori grandissimi e autori ormai dimenticati,
cosı̀ come c’è tutta una letteratura a sfondo giudiziario, a carattere
minore, memorialistico-aneddotica; una letteratura di pressoché immancabile successo, pur occasionale, proprio perché il giudice-uomo
è quasi sempre più o meno lontano dal modello del giudicesuperuomo che la società, anche nella sua ipocrisia, esige. Mentre
resta da chiarire come e perché un corrispondente sviluppo di siffatto
« genere letterario » manchi, pur essendovi alcune notevoli tracce,
per il sacerdote; forse per la ragione del tutto empirica che i sacerdoti
parlano meno e che la loro posizione è tanto più profondamente
intrisa di sacertà, a differenza della mondanità caratteristica del
giudice, dal distrarre gli altri da un cimento ad intenti di poetica che
potrebbe sfociare nel sacrilego. Resta tuttavia da stabilire in quali
limiti possa il giudice liberamente parlare delle sue miserie; limiti
certo inevitabili perché la funzione comanda possibilmente di essere
nei fatti cosı̀ come si richiede e comunque di cercare di dominare e di
nascondere le miserie e i drammi intimi, portandoli per quanto è
possibile nel chiuso della propria coscienza. E comprendo quindi
come taluno, avendo superato questo limite, ne sia stato chiamato a
pagare lo scotto; al giudice è infatti richiesto di cimentarsi in una lotta
quotidiana contro se medesimo, risolvendo nel doveroso silenzio i
suoi problemi.
LE RIFORME CHE URGONO
205
vera e propria preparazione delle sentenze; il periodo di uditorato è quindi svuotato rispetto alle sue
finalità. Per quanto mi riguarda, ebbi la ventura di
essere destinato ad un tribunale assai serio nel
quale, malgrado la mole del lavoro, non si distorceva la funzione dell’uditorato e debbo ringraziare
chi mi consigliò a ragion veduta di chiedere questa
destinazione; per sei mesi fui affidato ad un magistrato destinato al civile e ai fallimenti, assistendo
alle camere di consiglio nelle quali imparai molto
data l’ottima composizione qualitativa della sezione
e facendo i primi esperimenti nella compilazione
delle sentenze, nel senso che preparavo una minuta
che veniva rivista dal mio istruttore ed eventualmente riscritta, totalmente o parzialmente, una
seconda o anche una terza volta sulla base delle
osservazioni fatte; studiavo i fascicoli e ne riferivo
sempre all’istruttore sui punti di fatto e di diritto
della causa: in sostanza, lungi dall’alleviare, costituivo una ulteriore incombenza per il maestro.
Successivamente per tre mesi fui affidato ad un
giudice di una sezione penale ed in questo periodo
ebbi modo di assistere anche ad alcuni grossi procedimenti della corte d’assise; per gli ultimi tre mesi
spartii infine il mio tempo tra l’ufficio di istruzione
penale e quello del giudice addetto all’esecuzione
forzata; non si mancò di farmi impartire qualche
lezione dai cancellieri affinché mi rendessi conto
anche di questi servizi; nel complesso si cercò di
utilizzare nel migliore dei modi quell’anno. Ma il
problema in generale della destinazione degli uditori si è costantemente riproposto; dopo il mio
ingresso in magistratura si esperimentò per alcuni
206
UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO
anni una accademia in Roma: in pratica per alcuni
mesi i neomagistrati dovevano ascoltare una serie di
conferenze tenute da alti magistrati e da professori
universitari, con scarso costrutto, a quanto si dice,
proprio ai fini dell’inserimento pratico nel servizio.
Ora gli uditori vengono concentrati nelle sedi di
corte di appello e ivi distribuiti tra i vari uffici, con
un affidamento collettivo ad un magistrato. Fino a
poco tempo fa al giovane, compiuto l’anno di
uditorato, venivano assegnate le funzioni come pretore o giudice di tribunale o sostituto procuratore
della repubblica (c’è l’obbligo di un biennio di
pretura entro i primi cinque anni come condizione
della promozione a magistrato di tribunale); dopo
pochi mesi dall’assegnazione delle funzioni si deve
sostenere un esame teorico-pratico che è nella
sostanza la ripetizione del concorso iniziale, con
l’unica differenza che i temi vanno redatti in forma
di sentenza o di requisitoria; superato l’esame si
continua in una delle tre funzioni indicate con la
qualifica di aggiunto giudiziario e dopo un triennio
sopravviene la promozione a magistrato di tribunale
senza particolari prove, ma su semplice parere (mai
negato) del consiglio giudiziario. Di recente, con
legge 30 maggio 1965 n. 579, si è disposto che le
funzioni possono essere assegnate dopo appena sei
mesi di uditorato, giustificandosi il provvedimento
per la grave carenza del personale, posto che, con le
recenti innovazioni sul punto della progressione in
carriera, la magistratura si va avviando a divenire
un esercito di generali senza soldati. Basta questa
semplice descrizione per chiarire come il sistema sia
oggi pessimo, giacché in esso non si garantisce affat-
LE RIFORME CHE URGONO
207
to un autentico tirocinio, mentre l’esame di aggiunto è di per sé discutibile, in particolare a ragione del
fatto che si svolge in un periodo troppo ravvicinato
rispetto al concorso iniziale per rendere seria una
selezione definitiva (infatti questo esame segna il
definitivo ingresso nell’ordine). Aggiungasi che il
sistema tocca la punta massima dell’irrazionalità,
consentendo l’assegnazione delle funzioni di pretore, eventualmente destinato a reggere da solo una
pretura di campagna, al giovane che non si è fatto
ancora le ossa; come si è ripetutamente osservato (63), proprio le funzioni più impegnative,
tecnicamente ed umanamente, del giudice unico
chiamato talora a decidere quasi nell’immediatezza
nei campi più disparati, sono commesse ai più
giovani gettati cosı̀ allo sbaraglio, malgrado la decantata funzione istruttiva che la collegialità assicurerebbe: una scuola che di norma si ha modo di
frequentare dopo anni e anni di analfabetismo
individuale nelle preture! Nella migliore e certo più
frequente delle ipotesi, il giovane si fa veramente e
duramente le ossa in pretura, ma se le fa, come si è
giustamente osservato (64), a spese dei cittadini che
a lui si rivolgono o che debbono soggiacere al suo
magistero; per una logica naturale il giovane pretore si affina pro-gressivamente, si impadronisce del
mestiere, ma tutto questo avviene nel vivo della
esperienza di cui altri può essere vittima; ed infatti,
(63) Vd. ad es. A. PERONACI, La crisi della giustizia, cit.
(64) Vd. D. GRECO, Il tempo e la giustizia, cit., p. 27: « In
definitiva il neo-magistrato è costretto a colmare le lacune della sua
preparazione professionale con l’esperienza, ed a spese, quindi, dei
suoi amministrati e della giustizia ».
208
UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO
dietro questo apprendimento, c’è spesso la nota
dolente se non il rimorso di qualche errore anche
grave commesso nella buona fede dell’inesperienza,
se non di qualche grave e conturbante cantonata. È
indispensabile, pertanto, che si rovesci il sistema e
se questo deve poggiare alla base, come è preferibile, sul giudice unico, il momento in cui sono
commesse al magistrato queste funzioni deve segnare la sua definitiva e irrevocabile immissione
nell’ordine dopo un serio tirocinio (65). In concreto
il vincitore del concorso dovrebbe essere destinato
subito come giudice aggiunto nei tribunali, ferma la
regola che ogni collegio non possa contenere più di
un tirocinante e ivi rimanere con queste funzioni
per un lungo periodo, almeno per cinque anni (66)
nei quali egli, mai da solo, ma sempre avendo al
fianco due colleghi anziani sarebbe posto innanzi
alla infinita varietà dei casi e delle situazioni giuridiche che il tribunale, come giudice di appello o
come giudice penale di prima istanza, deve affrontare. Al termine di questo tirocinio, destinato a
gettare il magistrato nel vivo dell’esperienza e con
(65) Giustamente si è detto, in difesa del giudice unico: « Sı̀ —
è vero — il Collegio è una scuola, ma perché i magistrati non vengono
addestrati con un severo tirocinio prima di essere ammessi ad
esercitare le funzioni? »: A. TORRENTE, Aspetti e soluzioni della
giustizia nel processo civile, cit.
(66) Riprendo quindi l’idea espressa da P. PASCALINO, Aspetti e
soluzioni della giustizia nel processo civile, cit., p. 25: « È evidente
pertanto che l’attuale sistema di tirocinio dovrebbe essere sostituito
da un lungo periodo di addestramento presso il giudice d’appello (in
modo da far partecipare il giovane magistrato alle discussioni in
camera di consiglio); da una adeguata rotazione presso i vari uffici
dell’amministrazione giudiziaria, e da veri e propri corsi di perfezionamento professionale ».
LE RIFORME CHE URGONO
209
ciò a smaltire e a ridimensionare in senso appropriato anche i bollori della gioventù, l’aggiunto
dovrebbe sostenere un severo esame definitivo,
scritto e orale; in particolare le prove scritte dovrebbero consistere nella risoluzione in forma di sentenza di casi pratici, mettendo a disposizione del
candidato tutti gli strumenti dei quali normalmente
il giudice si avvale e cioè i libri e le riviste, per
accertare appunto quale sia l’attitudine del singolo,
in condizioni normali, al decidere (67). Superato
l’esame il magistrato verrebbe definitivamente assunto ed investito come pretore delle funzioni di
giudice unico.
A questo punto si pone il problema dei modi di
passaggio del giudice dalla prima alle ulteriori
istanze, dalla pretura al tribunale e quindi alla corte
di appello secondo la strutturazione qui prospettata
o anche rispetto a quella attualmente esistente. Si
pone il problema se convenga o no che vi sia una
carriera, cioè una progressione per gradi, dei magistrati, sul quale si sono accese in questi ultimi anni
tante dilanianti polemiche nelle quali la questione è
stata vista e rivista sotto tutti i profili, in una
tormentosa storia nella quale si sono fatti da parte
del legislatore tutti gli esperimenti possibili senza
contentare mai del tutto gli schieramenti contrapposti nell’ambito della magistratura associata e
(67) Vd. in questo senso, ottimamente, A. APPONI, L’indipendenza della magistratura nella Costituzione della Repubblica italiana e
nelle norme di attuazione finora emanate, in Magistrati o funzionari?,
cit., p. 3, in particolare a pp. 28-29 tuttavia in riferimento all’esame
come mezzo eventuale di selezione per la promozione.
210
UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO
fuori. Non mi diffonderò nell’illustrare i termini
della questione, limitandomi a riepilogarli e a ribadire nelle linee essenziali quanto ebbi già modo di
osservare in proposito in precedenti scritti (68),
anche perché l’opinione pubblica conosce ormai
quanto è essenziale in una polemica per molti versi
già stantia. Anche qui prescindo dalle indicazioni
costituzionali, anche perché esse sono del tutto
contraddittorie e ambivalenti e testimoniano di una
grossa mancanza di chiarezza in materia tanto delicata da parte dei padri costituenti; se l’art. 105 Cost.
parla di promozioni demandando la competenza in
proposito al Consiglio Superiore della Magistratura,
il capoverso dell’art. 101 afferma che « i giudici sono
soggetti soltanto alla legge »; la proposizione può
avere un senso solo ritenendo che con essa si siano
voluti ripudiare i concetti di carriera e di superiorità
gerarchica, essendo vacuamente ovvio che il giu(68) Vd. I problemi della Magistratura italiana, ne « Il Mulino », febbraio 1959, p. 43, in particolare pp. 82 e ss.; Cronache della
Magistratura, cit.; Problemi della magistratura, in « Critica Sociale »
del 5 e 20 aprile, 5 e 20 maggio 1961 (con lo pseudonimo A. Andrei).
In particolare, contro il sistema nozionistico dell’esame, vd. A.
APPONI, L’indipendenza della magistratura, cit., ove si osserva che la
vera sapienza del giudice sfugge ad ogni esame perché deriva dalla
capacità di applicare le nozioni ai fatti concreti: « Ciò che nessun
libro e nessun massimario della cassazione può dare ad un magistrato, è la capacità di saper scegliere, di sapersi orientare, di saper
congiungere le controversie nella loro infinita varietà alla norma che
le dirime. L’opera precipua del giudice è quella di valutare e di
scegliere (anche se valuta o sceglie la tesi proposta da un collega o da
un avvocato) e il valore di questa opera si sottrae ad ogni esame
teoretico ». E sempre contro l’esame v. la significativa presa di
posizione dell’Unione dei Magistrati delle Corti (ora Unione Magistrati Italiani) nell’opuscolo Studi e proposte sul sistema delle promozioni in Magistratura, Roma, 1961, pp. 12-13.
LE RIFORME CHE URGONO
211
dice, proprio perché tale, deve operare nell’esercizio delle sue funzioni solo avendo riguardo all’obbligo di dare attuazione, secondo il suo libero
convincimento, al precetto di legge (69). In realtà
basta scorrere i lavori preparatori per rendersi
conto che i costituenti videro il problema in termini
assai angusti, avendo solo riguardo alla indipendenza o no della magistratura dal potere esecutivo e
dal ministro per la giustizia, mirando la sinistra
marxista, allora più o meno convinta della sua
imminente ascesa al potere, a conservare le prerogative dell’Esecutivo e perseguendosi viceversa da
parte della destra e del settore clerico-moderato,
per la preoccupazione inversa in termini di prospettive politiche a breve scadenza, una più ampia
autonomia del terzo ordine; essendosi cosı̀ impostata la questione, il contrasto sfociò, su quel piano,
nella consueta soluzione di compromesso, garantendosi nella sostanza l’indipendenza esterna dell’ordine con l’istituzione del Consiglio Superiore e
mantenendosi però il ministero per la giustizia,
attribuendo al titolare la possibilità di esercitare
l’azione disciplinare. Proprio a ragione di questa
(69) Sul problema discendente dalle contraddittorie proposizioni costituzionali, vd. in particolare L. CANEPA, L’indipendenza
istituzionale dei magistrati in relazione all’ordinamento processuale, in
Magistrati o funzionari?, cit., p. 67, in particolare pp. 74 e ss. Sui
problemi dell’assetto costituzionale della Magistratura vd. in particolare G. MARANINI, Giustizia in catene, Milano, Ed. Comunità, 1964,
ove in appendice trovasi la ben nota sentenza della Corte Costituzionale sulla legittimità della legge istitutiva del Consiglio Superiore;
e su questa sentenza vd. in particolare la nota di E. CAPACCIOLI,
Forma e sostanza dei provvedimenti relativi ai magistrati ordinari, in
« Riv. it. dir. proc. pen. », 1964, p. 265.
212
UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO
angusta impostazione, il problema venne implicitamente esaminato avendo riguardo alla strutturazione attuale del terzo potere e al tradizionale
ordinamento del personale secondo una carriera,
tutto risolvendosi sul punto della competenza, ministeriale o no, in materia ed operandosi in definitiva solo un trasferimento di questa competenza al
nuovo Consiglio Superiore. Non si mise quindi in
questione l’assetto tradizionale, ignorandosi in concreto i problemi della indipendenza c.d. interna dei
singoli magistrati; mancò quindi quella assai più
complessa impostazione che è venuta emergendo
solo nel dibattito successivo e ancora in corso.
Ponendo la questione in termini sostanziali, si
possono distinguere grosso modo tre posizioni. Vi
sono coloro che ritengono essenziale il mantenimento della carriera, essendo logico che alle funzioni « superiori » accedano solo i migliori e i più
preparati. All’opposto vi sono quanti, sulla scorta di
un indirizzo che annovera da sempre nomi illustrissimi, deprecano la sussistenza della carriera implicando essa tutte le distorsioni del deteriore carrierismo nei singoli e nell’ambiente, auspicando un
sistema nel quale effettivamente il giudice non
abbia alcuna preoccupazione in proposito e quindi
non sia indotto a ingraziarsi nessuno o a tenere un
certo atteggiamento al fine di non pregiudicare di
fatto la sperata promozione; di qui la proposta che
si acceda alle ulteriori istanze sulla base del criterio
della semplice anzianità. In mezzo vi sono quanti in
astratto aderiscono alla tesi anticarrieristica, ma
ritengono che in un sistema come il nostro, di
necessità basato sulla scelta iniziale di tipo burocra-
LE RIFORME CHE URGONO
213
tico col concorso tra i giovani laureati ancora complessivamente immaturi, debba di necessità conservarsi qualche metro selettivo; in sostanza, secondo
questo orientamento mediano, si comprende come
in Inghilterra non vi sia carriera per i giudici perché
in quel sistema la selezione avviene pregiudizialmente con la nomina, prescegliendosi gli avvocati
già affermati e preparati, mentre nel nostro paese il
presupposto di base è assolutamente diverso e
quindi si impone in prosieguo quella più accurata
selezione che non può per definizione aversi agli
inizi (70).
A mio avviso è necessario partire da una considerazione che mi pare ovvia; la carriera non può
essere considerata come un mezzo indispensabile
per il conferimento di funzioni superiori, semplicemente perché è da contestare che le funzioni ulteriori rispetto alla prima istanza siano di per sé
superiori o più elevate o più impegnative. Questa
intrinseca superiorità non sussiste, tutto si risolve
invece nell’osservanza del principio che, al fine di
perseguire la giustizia delle decisioni, è opportuno
che di norma la controversia sia suscettiva di riesame da parte di altri giudici, non costituendo
affatto, di per sé, questo riesame un compito più
(70) Vd. con estrema chiarezza in questo senso mediano V.
CHIEPPA, Il sistema della progressione secondo l’Associazione nazionale magistrati, in Magistrati o funzionari?, cit., p. 625: « Tuttavia la
eliminazione della carriera e delle promozioni richiede che l’assunzione in magistratura — come avviene in America, in Inghilterra e
nel Canada — sia il punto di arrivo per professionisti (avvocati,
docenti universitari, in genere esperti del diritto), che abbiano
raggiunto per altre vie pienezza di responsabilità e di capacità ».
214
UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO
impegnativo rispetto alla prima decisione. Anzi, se
si vuole, l’attuale giudizio di cassazione, quale giudizio di mera legittimità, è sensibilmente più facile e
meno oneroso di quello demandato ai giudici di
merito che debbono non solo esaminare il caso nella
sua globalità, ma anche istruirlo; ed infatti a questa
corte di vertice potrebbero benissimo essere avviati
in esclusiva giovani di buona preparazione e di
naturale attitudine meramente logica (cioè conseguenziaria), cioè quei primi della classe che non
hanno sviluppato nell’esperienza concreta la loro
personalità e che non possono essere per definizione buoni giudici, proprio perché la sola erudizione pandettistica non significa di per sé niente. A
prescindere quindi dalla constatazione che già oggi
la promozione non importa affatto di necessità
l’affidamento di funzioni « superiori », perché si dà
il caso che il magistrato di tribunale promosso
magistrato di appello sia destinato ad un ufficio i cui
provvedimenti sono soggetti al sindacato di un
collegio nel quale sono in maggioranza i colleghi
non promossi del promosso..., non c’è mai effettiva
superiorità di funzioni; il giudizio di primo grado è
importante quanto i giudizi ulteriori, anzi in un
certo senso è più impegnativo proprio perché è in
prima istanza che avviene, talora decisivamente,
l’impostazione della controversia e si possono commettere errori e storture talora irrimediabili malgrado gli ulteriori gravami; in questo senso sarebbe
teoricamente più giustificato affidare proprio il giudizio di prima istanza ai migliori per dare meno
lavoro alle istanze ulteriori, se non fosse assorbente
la considerazione che la spinta verso le ulteriori fasi
LE RIFORME CHE URGONO
215
proviene, almeno nel processo civile, non dalla
disinteressata volontà di ottenere la decisione più
esatta, ma dal contrasto degli interessi. Proprio
perché non vi sono funzioni superiori e inferiori, la
logica dell’orientamento carrieristico esigerebbe invece un sistema volto non tanto a selezionare per le
più impegnative funzioni, quanto ad espellere gli
inetti e gli incolti ovunque essi si trovino ed in
particolare nelle prime istanze: l’osservazione diventa ancor più calzante in un sistema che eventualmente elimini, come qui si è sostenuto, il giudizio di
mera legittimità.
In realtà la carriera potrebbe più ragionevolmente giustificarsi in un ben diverso ordine di idee,
non di per sé, non al fine del conferimento delle
funzioni c.d. superiori, ma come un incentivo affinché i magistrati si premurino sempre, proprio a
ragione della esistenza di un sistema di promozioni
assicurante vantaggi economici e di prestigio, di
affinare e completare la loro preparazione; voglio
dire che in un sistema nel quale si passi da un ufficio
all’altro per semplice anzianità, si può essere indotti
alla pigrizia e può verificarsi un generale abbassamento della preparazione dei magistrati, mentre se
quel passaggio è congegnato in termini di promozione e di carriera, il sistema postula che tutti i
giudici in virtù di questa desiderata eventualità
cerchino di migliorarsi costantemente. In linea di
principio, il problema si pone quindi in termini di
una precisa scelta politica tra un sistema nel quale,
mancando la carriera, il giudice non abbia veramente niente da sperare o da temere per la sua
posizione, cosı̀ come avviene per i giudici inglesi, ma
216
UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO
che comporti la mancanza di incentivo per il miglioramento, e un sistema che questo incentivo qualitativo comporti ma che con ciò implichi una misura
inferiore di effettiva indipendenza del giudice che
sarebbe quanto meno non indipendente, non sereno, non disinteressato rispetto alle prospettive
personali di ulteriore avanzamento.
Per mio conto, pur non essendo insensibile,
proprio per la concezione pessimistica dell’uomo
che mi domina, al motivo della carriera-incentivo,
mi sono fermamente convinto della opportunità,
per più ordini di ragioni, della soppressione integrale del sistema carrieristico, parendomi che in
concreto i vantaggi di questo sistema tradizionalmente comportino però tali svantaggi che la bilancia
non può non pendere per l’altro sistema, che ha
d’altro canto una giustificazione di fondo non trascurabile rispetto alle attese che la società ripone
nel giudice. In linea di principio l’esigenza che il
magistrato sia indipendente senza residui, anche
rispetto alle sue passioni e ambizioni nonché al
legittimo interesse di miglioramento materiale, è
pregiudiziale sul piano dell’interesse pubblico e di
tale rilevanza che rispetto a questa fondamentale
garanzia non vale addurre inconvenienti di altro
genere che pur si possono lecitamente prospettare;
per questo si impone che la posizione del giudice sia
regolata in termini tali che egli, non avendo niente
da chiedere a nessuno per tutta la durata del suo
ufficio, da nessuno possa essere, direttamente o
indirettamente, spinto a corrompersi nell’attesa di
qualche vantaggio. L’essenziale è quindi che il
giudice non abbia alcun serio motivo per autopro-
LE RIFORME CHE URGONO
217
stituirsi; ed in questo sta certamente la forza della
magistratura di altri paesi, in particolare di quella
britannica. Né mi pare logicamente corretto voler
trarre dal ben diverso sistema di selezione dei nostri
giudici rispetto a quello inglese, la conseguenza di
diminuire le garanzie di indipendenza; se è da
lamentare che allo stato noi siamo costretti a tollerare, per le ragioni indicate, un sistema imperfetto
di selezione iniziale, questa non è una buona ragione per cercare di risolvere il problema della
selezione in prosieguo di carriera in condizioni tali
da minare l’indipendenza. Meglio conviene avere
giudici del tutto liberi, anche se per qualche verso
balordamente selezionati all’inizio, perché altrimenti avremmo giudici solo imperfettamente indipendenti e nel contempo un dubbio sistema di
selezione ulteriore.
Infatti mi sono convinto che, una volta postici
sul terreno tradizionale, è pressoché impossibile
inventare un sistema che dia sufficienti garanzie di
selezione dei migliori, in primis perché è problematico lo stesso concetto di migliore e su questo primo
punto non è agevole intendersi. Non è ad esempio
migliore il magistrato che, essendo un pozzo di
erudizione, giudica a vuoto, non è in grado, malgrado la sua preparazione, di cavare un ragno dal
buco, non ha la capacità, decisiva, di passare dall’astratto al concreto, di operare quella sintesi di
dottrina e di inquadramento del fatto che è l’essenziale per la risoluzione dei vari casi, cadendo in
pieno in quelle deficienze che Jhering mise alla
berlina in Scherz und Ernst in der Jurisprudenz; non
è migliore chi non è in grado di sbrigarsi nel vivo del
218
UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO
lavoro, di condurre innanzi un processo penale,
facendosi ad esempio irretire nel giuoco delle abili
distorsioni e divagazioni difensive; non è migliore
chi non è in grado di avvertire dove sta il centro di
una questione in termini risolutivi e concreti, per
tacere in ogni caso delle valutazioni propriamente
morali. Altre sono le doti che si richiedono al
giudice, a prescindere dalla condizione prima dell’onestà: in primis molto buon senso, la capacità di
vedere il caso nella sua reale proporzione, di non
irretirlo in inutili divagazioni concettuali; se il giudice onesto ha questa dote, questo fiuto, ed è inoltre
di media laboriosità, egli trova sempre la possibilità
di procedere ad un convincente inquadramento
giuridico del caso, può prepararsi all’occorrenza per
districarsi nella risoluzione di questa o quella questione. Per questo sono stato sempre risolutamente
avverso, d’istinto, con tutta la mia convinzione di
magistrato, alla promozione per esame, trovando
assurdo e ripugnante alle esigenze della professione
che si vada deliberatamente alla ricerca dei primi
della classe e rifiutando a priori quella valutazione
globale del soggetto per tutte le doti che gli sono
complessivamente richieste: la preparazione, il
buon senso, l’urbanità, lo spirito d’indipendenza
etc. Egualmente assurdo è il sistema che a lungo
imperò e che ormai è stato felicemente abbandonato, del concorso per titoli; sistema nel quale si
pretendeva di selezionare sulla base delle sentenze
e delle requisitorie, ma senza premurarsi quanto
meno di controllare la bontà delle conclusioni e
delle motivazioni sulla base degli atti del pro-
LE RIFORME CHE URGONO
219
cesso (71), tutto limitandosi alla considerazione di
titoli formali che ogni magistrato di media intelligenza e preparazione, se non è del tutto sprovveduto, può mettere insieme se non altro largamente
attingendo alle riviste e alla giurisprudenza, nella
stessa guisa in cui lo studente universitario medio
riesce a mettere insieme quel centone ormai superato che è la tesi di laurea; sistema che faceva
degenerare l’ambiente nella corsa al formalismo,
inducendo il magistrato a ricercare talora disperatamente il caso elegante discettando sul quale fosse
possibile far sfoggio sulla carta bollata pagata dalle
parti di pura dottrina a vuoto, trascurando magari
gli altri doveri di ufficio (72); sistema che poneva in
gravi difficoltà le commissioni esaminatrici per scegliere, tolta la pattuglia dei pessimi e dei « valorosi », nella massa di tutti coloro che in sostanza,
considerati per quei titoli, si trovavano allo stesso
livello; sistema che comportava di per sé una vera e
propria gerarchia interna tra civilisti e penalisti, i
primi svolgenti un lavoro che comporta una maggior frequenza di questioni dottrinali, i secondi
relegati nel limbo dei c.d. « fattisti ». Ora un sistema
che comporta la distorsione da ultimo rilevata è
condannabile di per sé senza appello, poiché è
inconcepibile che siano automaticamente considerati magistrati di seconda categoria quelli che decidono della libertà e dell’onore dei cittadini; ed io ho
(71) Vd. G. PENNELLO, L’indipendenza dei magistrati in relazione alla loro carriera ed al sistema di promozione, in Magistrati o
funzionari?, cit., p. 66.
(72) In genere, sulla carriera come fonte di formalismo, vd. M.
RAMAT, Mitologia giudiziaria, ne « Il Mondo » del 5 marzo 1963.
220
UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO
ancora vivissima l’impressione che provai il giorno
in cui in mia presenza un giudice di prim’ordine,
maturato nella dura esperienza della corte d’assise
che con tratto impareggiabile presiedeva, pregò un
giudice civilista di controllare se talune sentenze
civili che egli aveva avuto la ventura di preparare,
ed in particolare una nella quale si trattava del
blocco delle locazioni, avevano tutti i requisiti per
essere decentemente presentate per il concorso,
commentando alquanto coloritamente la necessità
in cui si trovava. Di recente la situazione è alquanto
mutata, essendosi tornati al sistema già esperimentato dello scrutinio, ma anche qui, pur esigendosi in
teoria la considerazione globale della personalità
del candidato, l’accento cade, come è naturale, sui
titoli giudiziari (73), anche perché per tutto il resto
(73) Ed infatti vd. la puntuale testimonianza di L. AMMATUNA,
Lo scrutinio speciale, in « Rassegna dei magistrati », 1964, p. 101 circa
il modo di procedere delle commissioni esaminatrici: « I lavori
giudiziari costituiscono l’elemento preminente per la formazione del
giudizio di promovibilità del candidato ed è, quindi, naturale che essi
diano luogo ad una attenta e particolareggiata considerazione critica.
A questo scopo il relatore, avvalendosi di propri appunti (che
ciascuno di noi conserva presso di sé) espone per ogni lavoro
giudiziario il proprio apprezzamento circa l’ordine, il modo e la
forma della sua redazione con particolare riferimento alla proprietà
del linguaggio, alla eventuale prolissità o alla chiarezza della parte
motiva nonché alla coerenza logica e legislativa della soluzione
adottata per ogni singola questione — in una parola: il proprio
apprezzamento in ordine al contenuto ed alla tecnica del documento,
secondo quelle linee di proporzione e di compostezza che sono
proprie di ogni lavoro giudiziario. Sull’apprezzamento espresso dal
relatore si apre, per ogni singolo lavoro, la discussione fra i componenti; e le obiezioni vengono chiarite, i rilievi vengono documentati
anche mediante lettura di brani del titolo in esame e le soluzioni
ancora controllate non solo e non tanto alla stregua degli orienta-
LE RIFORME CHE URGONO
221
nessun serio elemento può ricavarsi in genere dai
rapporti informativi dei capi d’ufficio, generosi con
tutti. Quindi anche l’impossibilità di trovare un
sistema sufficientemente obiettivo rispetto a tutti
quelli finora esperimentati, convince della opportu-
menti giurisprudenziali, quanto e soprattutto sotto l’aspetto di ragionevolezza della motivazione e di congruità della sua soluzione in
rapporto ai fatti di causa quali risultano enunciati dal titolo... » (ivi, p.
102) ed oltre, p. 103, si afferma che rispetto ai titoli le ulteriori
condizioni di carriera sono eventualmente integrative « ma in nessun
caso sostitutive ». Quindi considerazione in astratto dei titoli, senza
alcun preciso riferimento alla concretezza della lite, come se il giudice
di appello potesse giudicare del gravame senza conoscere gli atti di
causa, il che è a mio avviso un enorme, stupefacente sproposito. Ma
si tratta di una idea ben radicata; v. ad es. quanto disse il ministro on.
Gonella (in Piano organico di rinnovamento della Giustizia, in
« Rass. studi penitenziari », novembre-dicembre 1960, p. 24): « Anche in materia di concorsi per le promozioni bisogna tener presente
che l’attività del magistrato si concreta nella sentenza o nella
requisitoria, ed è quindi opportuno che le sue qualità siano valutate
in rapporto alla specifica capacità di tradurre sul terreno giurisprudenziale i principi e le norme di diritto ». Certo la sentenza è
essenziale per giudicare della personalità del magistrato, ma in
quanto sentenza, cioè quale atto conclusivo e riassuntivo della
valutazione del caso, onde non può essere adeguatamente valutata se
non in rapporto a quel caso; nessuno ha mai acquistato una casa
ponendo esclusiva attenzione alla solidità e alla bellezza delle tegole
del tetto! Ma l’impostazione qui criticata si collega in realtà ad un
orientamento più profondo, intrinseco alla nostra tradizione giuridica
nella quale è sopravvalutato il momento della dissertazione formalistica; l’orientamento che costituisce non a torto la testa di turco della
critica di G. GORLA del quale vd. da ultimo Offerta « ad incertam
personam » (Saggi per un nuovo tipo di nota a sentenza), in « Foro
it. », 1964, I, 433. Resta da vedere tuttavia in quali limiti possa essere
superata questa tradizione che se c’è, c’è per complesse ragioni
ambientali e culturali che formano la sostanza medesima di un
mondo; e quindi c’è sempre un limite obiettivo al superamento
giacché con trapianti dall’esterno talora si rischia di cadere dalla
padella nella brace.
222
UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO
nità di eliminare radicalmente il sistema delle promozioni.
I laudatores temporis acti avrebbero forse ragione se essi potessero accampare la bontà dei
risultati finora conseguiti; ma, al di là della facile
retorica, è constatazione quotidiana che i migliori
non si trovano oggi, di necessità, nei gradi superiori:
anche in appello, anche in cassazione, cosı̀ come nei
tribunali e nelle preture, accanto a magistrati egregi,
ve ne sono molti mediocri e taluni veramente
scadenti e con tutti i sistemi finora escogitati, tutto
concedendo alle lamentele ingiustificate di quanti
non sanno acquietarsi nella loro relativa inferiorità
e protestano a torto per la mancata promozione,
sono stati sempre registrati casi patenti di obiettiva
ingiustizia, il meno dotato che è passato innanzi al
collega veramente più degno della promozione.
Proprio perché l’accento cade di necessità sui titoli
giudiziari facilmente acquisibili, facendo difetto gli
altri elementi che dovrebbero consentire una valutazione seria e globale, non è da meravigliarsi se la
selezione funziona alla rovescia in molte situazioni.
Io ho constatato un caso nel quale un bravuomo di
infinita, crassa ignoranza, le cui espressioni di sapienza giuridica correvano come amene barzellette
sulla bocca di tutti (come questa: « avvocato, il
sequestro glielo concedo, ma l’esecuzione immediata no ») venne promosso sulla base di titoli che si
dicevano nell’ambiente in realtà redatti da altri. Del
resto, per smontare definitivamente la tesi carrieristica, sarebbe desiderabile che qualcuno, avendone
tempo e modo, procedesse all’esame sistematico
delle sentenze della Cassazione per un solo anno, al
LE RIFORME CHE URGONO
223
fine di rendere evidente che vi si rinvengono di
frequente autentiche perle, in uno stile che altrettanto spesso non è certo molto decoroso per la
posizione dell’alto collegio.
Né è da tacere del clima che con un sistema di
promozioni, a torto o a ragione, si instaura nell’ambiente, come un certo servilismo verso i capi per la
preoccupazione di non inimicarseli, posto che ad
essi è affidato il compito di redigere il rapporto
informativo per la promozione (ma per fortuna i
rapporti sono tutti altamente elogianti per non
scontentare nessuno, come le qualifiche di fine anno
degli impiegati pubblici, tutti ottimi, tutti esimi,
senza alcuna menda; e un arguto presidente mi
diceva un giorno d’essere disperato avendo esaurito
l’arsenale degli aggettivi); la ricerca di protezione e
benevolenza presso i grandi baroni della magistratura romana e spesso, purtroppo, presso i politici,
eventualmente rivolgendosi al deputato avvocato
della giurisdizione; una certa attenzione a non assumere atteggiamenti troppo indipendenti o che
possano essere riguardati sfavorevolmente; cosı̀ un
giorno un magistrato impegnato in un delicatissimo
processo che fece epoca, mi confidò di aver pronunciato la requisitoria premurandosi di farla registrare
al fine di non avere brutte sorprese o di poter parare
eventuali attacchi in vista del prossimo concorso...
Ora il sistema delle promozioni si condanna di per
sé se esso comporta, al di là del fondamento obiettivo delle preoccupazioni, un siffatto clima, se convince i singoli della opportunità di mantenere un
certo comportamento e di ingraziarsi questo o
quello, perché è questo che turba l’ambiente e mina
224
UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO
lo spirito d’indipendenza, cosı̀ come sul piano politico generale e al livello delle c.d. libertà di fatto
quello che decide non è tanto o non è solo il regime,
ma il clima del regime che tutto ammorba e distorce
nella società presa nel suo complesso, quel clima in
ragione del quale anche in una situazione di proclamata dittatura ci si è indotti ad un servilismo
sovrabbondante. Basta cosı̀ la mera possibilità di
queste distorsioni perché si debba condannare un
sistema che contrasta con quanto la società chiede
soprattutto al giudice: l’allontanamento dal suo
animo di ogni preoccupazione diversa da quella —
suprema — di adempiere alle funzioni con spirito di
indipendenza, nel rispetto della legge e secondo il
convincimento che detta la coscienza.
Per tutto questo io sono risolutamente contrario
alla carriera; aggiungo che la sua soppressione si
rivela oggi opportuna anche su un altro piano. Ho
ricordato in precedenza come oggi il terzo ordine
abbia perduto molto del suo prestigio avendo portato le sue diatribe interne in piazza, mentre è
auspicabile che esso si trovi in una posizione tale
che lo ponga al di sopra di ogni sospetto e di ogni
intorbidamento, con quel certo aristocratico distacco rispetto alle vicende politiche e sociali che gli
è indispensabile. Per questo è opportuno rimuovere
obiettivamente ogni ragione di lamentela, regolare
la posizione del giudice in modo che esso non abbia
più niente da chiedere. La carità di patria consiglia
quindi che si faccia questo passo decisivo in modo
che per il futuro la magistratura non abbia da
criticare se non se stessa, per il modo in cui, in piena
autonomia, si amministra e concorre a governare il
LE RIFORME CHE URGONO
225
paese; e su questo presupposto essa potrà essere
giudicata dall’opinione pubblica, senza alcuna possibilità di addurre giustificazioni.
A mio avviso, è auspicabile, come da molte altre
parti si è sostenuto (74), che il magistrato non abbia
più l’assillo di « progredire » per ragioni di carattere
economico; il suo trattamento, fissato in ogni caso in
misura adeguata per favorire anche per questa via
l’accesso in magistratura dei giovani più preparati (75), dovrebbe automaticamente migliorare in
(74) Vd. in particolare T. CARNACINI, Come intendere lo sganciamento dei magistrati, in « Riv. trim. dir. proc. civ. », 1962, 1479 e
del medesimo A. la recensione al volume Magistrati o funzionari?,
cit., ivi, 1963, 1121.
(75) Per quanto attiene al trattamento economico dei magistrati si debbono toccare anche qui note assai dolenti. È evidente che
questo trattamento deve essere fissato in modo che siano attratti alla
professione i più preparati tra i laureati in diritto; e poiché la media
delle persone mette nel calcolo delle scelte queste considerazioni, se
si vuol procedere realisticamente è opportuno che il trattamento del
giudice non sia inferiore ai vantaggi materiali ai quali può aspirare,
nello specifico mercato di lavoro, chi sia meglio dotato; il termine di
confronto è quindi rappresentato dai cespiti medi dei migliori
avvocati. È questa una verità che è facile intendere, ma alla quale, per
mancanza di decisa volontà politica, è difficile essere coerenti negli
svolgimenti sotto la pressione del gran calderone del pubblico
impiego. Se è vero che è doveroso assicurare a tutti un trattamento
dignitoso, se è vero che in linea di massima è auspicabile che la P. A.
si serva dei migliori in tutti i campi, è anche vero che nella
valutazione comparativa la considerazione dello specifico mercato di
lavoro non può mancare. Nei fatti il militare non ha termini di
confronto nel mercato privato cosı̀ come è assai scarsa la zona
competitiva per chi aspiri all’insegnamento nelle scuole medie di ogni
tipo; il magistrato cioè il laureato in diritto si trova, volenti o nolenti,
in diversa situazione obiettiva. È quindi inevitabile che il giudice sia
pagato di più rispetto a certe categorie; cosı̀ come sarebbe del tutto
logico che fossero pagati più del giudice quei magistrati tecnici dei
quali ho in precedenza discorso nonché, ad es., i funzionari tecnici già
226
UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO
ragione della anzianità di servizio, quali che siano le
funzioni ricoperte. Il passaggio dalle preture ai
assunti dalla P. A. come gli ingegneri del genio civile se non si vuole
anche qui reclutare gli scarti della libera professione o dell’impiego
privato, mentre nello specifico mercato di lavoro il giurista medio
vale assai meno del tecnico medio proprio per il maggiore gettito. Di
fatto lo Stato si trova nella pratica incapacità di attenersi a questo
criterio e si registrano le sperequazioni più smaccate nel campo del
pubblico impiego in senso vasto, includendo nella considerazione,
come deve farsi, il settore degli enti parastatali e delle aziende
autonome. Il primo presidente della corte di cassazione non ha oggi
neppure lontanamente il trattamento che, a quanto si dice, è riservato
ad un modesto burocrate di certi enti e aziende e perfino di certe
minori banche locali, mentre gran parte della opinione pubblica è
convinta della favolosità degli stipendi dei giudici perché ignora che
i giudici percepiscono solo lo stipendio sia pure relativamente elevato
e in più la sola modestissima aggiunta di famiglia. E cosı̀ spesse volte
mi è stato detto che i magistrati percepiscono una certa « indennità di
toga » che io, nei miei anni di servizio, non ho mai visto! (su questi
aspetti del problema vd. S. BORGHESE, Il trattamento economico dei
magistrati, in « Riv. trim. dir. proc. civ. », 1960, 1578; ID., Declassamento dei magistrati, ivi, 1962, 1476). E la cosa più grave è che non si
sa niente di preciso in proposito; nei miei anni di servizio, quando
raramente partecipavo alle assemblee di categoria, sentivo spesso
dotte dissertazioni volte a dimostrare che i militari ad es. guadagnavano assai di più, mentre fuori di quelle assemblee mi sentivo dire
spesso l’esatto contrario. E manca, a quanto so, una obiettiva
indagine in materia, una indagine alla quale dovrebbe attendere un
qualche istituto universitario obiettivo e sulla base della quale fosse
possibile fare confronti risolutivi; forse questa deficienza è da collegare alla circostanza che di certe cose non conviene a nessuno
parlare, tolti i casi in cui scoppia lo scandalo insultante.
Tuttavia, fermi i criteri di sostanza sopra ribaditi, io non ho mai
ben capito la trasposizione in termini economici della questione della
totale indipendenza dei giudici, essendo ben noto come la famosa
legge Piccioni del 1951 sullo sganciamento economico della magistratura dal settore generale del pubblico impiego sia stata considerata
come il primo passo verso l’attuazione dei principi costituzionali. E
sempre per i principi costituzionali venne a suo tempo giustificato e
disposto il c.d. « scorrimento » della carriera, cioè la eliminazione dei
quattro scatti di stipendio in precedenza stabiliti per i magistrati di
LE RIFORME CHE URGONO
227
tribunali e quindi alle corti di appello dovrebbe
essere deciso sulla base di una valutazione globale
tribunale, allineando tutti all’ultimo scatto; tutto, lo concedo, può far
brodo in una battaglia sostanzialmente esatta, ma la relazione tra
principi costituzionali e scatti quadriennali di stipendio mi è sempre
parsa quella classica del cavolo con la merenda, quasi che qualche
principio della Carta impedisse al legislatore di stabilire infiniti scatti
di stipendio in relazione alla anzianità nella qualifica. A parte quindi
la constatazione assai diffusa che con questo giuoco all’autonomia...
economica i magistrati sono in definitiva risultati in perdita nella
valutazione comparativa rispetto alle altre carriere, io sono dell’idea
che, a prescindere dalle particolarità funzionali di stato giuridico,
tutti coloro che prendono un centesimo dallo Stato dovrebbero
essere tutti inquadrati in una precisa, unitaria filza, dal presidente
della Repubblica fino al più modesto netturbino o inserviente,
naturalmente collocando ciascuno al posto giusto, di guisa che,
aumentando di un millesimo lo stipendio a chi si trova nel gradino più
basso, automaticamente dovrebbe aumentare di tanto lo stipendio di
tutti. Certo è difficile procedere a questa unificazione tabellare,
perché assisteremmo al più feroce contrasto circa il rispettivo valore
delle funzioni in rapporto al grado assegnando; ma fin quando non si
sarà capaci di tanto le cose andranno caoticamente tra chi tira da una
parte e chi dall’altra, complicando la situazione e producendo quello
stato di generale ignoranza che ho lamentato. Per questo, se sono
favorevole alla giusta retribuzione di ognuno, sono risolutamente
contrario alle autonomie di ogni tipo in materia e ai trattamenti
particolari. Ma purtroppo circolano le idee più confuse e più pericolose, come quando si prospetta l’autonomia economica del terzo
potere (v. P. GLINNI, Tre punti, in « Terzo Potere », marzo-aprile 1962:
« Colgo l’occasione per sottolineare il disagio dei magistrati, i quali
costituiscono un potere dello Stato nel dover ad ogni occasione
bussare alle porte della finanza statale, laddove sarebbe più dignitoso
che la materia fosse regolata dall’organo di governo della Magistratura che è il Consiglio Superiore »), quando poi la pretesa idea
risolutiva si risolve in ben poco, nel classico topolino partorito dalla
montagna, se è vero che non si ha il coraggio, come sarebbe logico,
di attribuire al terzo potere la potestà impositiva al fine di ricavare le
entrate necessarie per garantire a tutti i magistrati il « giusto »
trattamento, ripiegandosi su una ben più modesta ed insignificante
autonomia contabile giusta la quale i fondi erogati in base alla legge
dovrebbero essere amministrati e ripartiti dal Consiglio Superiore
228
UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO
del soggetto e a mio parere, ribadendo un’idea più
volte espressa, c’è un solo sistema che consente
siffatta valutazione nella cerchia delle persone che
essendo impegnate nell’ambiente possono agevolmente compierla: un sistema cioè di elezionecooptazione. Quando si deve provvedere, ad esempio, per la nomina di un giudice di tribunale, la
scelta dovrebbe avvenire con il voto di un collegio
composto dai pretori della giurisdizione e dai giudici del tribunale interessato, concedendo a questi
ultimi due voti; per mio conto non sarei nemmeno
alieno dal chiamare alla votazione anche una certa
rappresentanza degli avvocati che sono nel contempo estranei alle diatribe interne ed i migliori
giudici dei giudici. Mutatis mutandis si dovrebbe
analogamente provvedere per la copertura dell’organico delle corti di appello. Sarebbe anche opportuno porre la regola che il prescelto deve essere in
servizio come pretore nella giurisdizione interessata
da un certo tempo, almeno da cinque anni, cosı̀
come sarebbe opportuno porre anche nell’attuale
sistema la regola che si deve reggere l’ufficio, senza
poter ottenere tramutamenti, per almeno un quin(vd. D. PONE, L’autogoverno economico della Magistratura, a cura
dell’Associazione Naz. Magistrati, Roma, 1964); dopo di che, visto
che con la progettata riforma i fondi non crescerebbero essendo
principio elementare che la legge dispone in materia, avremmo
l’ulteriore complicazione di poco edificanti diatribe in una famiglia
nella quale non c’è certo sovrabbondanza di reciproco affetto e
comprensione! E quindi, abbandonando le inutili utopie, si persegua
invece un assetto organico ed ordinato in tutto il settore del pubblico
impiego, avendo il coraggio di attribuire a ciascuno il suo da parte
dell’organo rappresentativo della sovranità popolare o, più prosaicamente, del contribuente.
LE RIFORME CHE URGONO
229
quennio, bloccando comunque la situazione al sessantacinquesimo anno di età; e questo per impedire
in particolare quei frequenti tramutamenti che sono
disposti unicamente per soddisfare le legittime
aspettative dei singoli, ma senza alcun riguardo alle
esigenze di ufficio (si è avuto un primo presidente di
Cassazione per un giorno!), perché è ovvio che chi
resta in determinate funzioni solo per un tempo
limitato può appena orientarsi senza lasciare traccia. Ed è singolare che a queste folleggianti presenze si acconcino coloro che almeno ufficialmente
sono tanto preoccupati della strutturazione tradizionale e della conservazione, in particolare, delle
attuali gerarchie, ritenute indispensabili al buon
funzionamento degli uffici; chi pensa in siffatti
termini dovrebbe essere coerentemente pervaso da
una volontà di presenza e di controllo che è invece
frustrata in radice da questo consueto girovagare di
persone che, oltre tutto, dovrebbero trovare nei
naturali acciacchi dell’età che indebolisce il corpo e
intorbida la mente la spinta per far tesoro delle
residue energie senza disperderle quali farfalle che
vanno trascorrendo di fiore in fiore. Ma in realtà
tutto si risolve in una schermaglia formale, dalle
opposte sponde, ben pochi essendo disposti a far
seguire alle teorizzazioni i fatti, ma piuttosto essendo inclini a teorizzare sulla base delle proprie
individuali esigenze (76).
(76) E cosı̀ chi avversa la strutturazione del terzo potere
delineata nella Costituzione ed è contrario al c.d. appiattimento
egualitario in nome della ben nota gerarchia dei valori, ripropone
talora il metro egualitario dell’anzianità e si dimentica della selezione
dei migliori quando sia in giuoco il ristretto interesse di coloro che si
230
UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO
Non credo che il sistema di progressione da me
caldeggiato tolga al magistrato l’incentivo per desiderarla e quindi per fare tutto il possibile per
migliorare e per primeggiare al fine di essere possibilmente prescelto. L’uomo non vive di solo pane,
ma, purtroppo, anche di ambizioni più o meno
giustificate nonché del desiderio di evitare mortificazioni. Ora la sistematica esclusione dalla progressione per il voto non favorevole dell’apposito collegio, trovandosi comunque, almeno nell’opinione
comune, il giudice di appello in posizione di più
elevato prestigio rispetto al giudice di tribunale e al
pretore, costituisce certo una mortificazione, mentre la vittoria nel cimento elettorale soddisferà
l’amor proprio, darà lustra e prestigio.
La lustra ed il prestigio, pur non collegate ad
alcun vantaggio materiale, sono spinte sufficienti
per lo scatenamento delle umane passioni, come
l’esperienza ampiamente comprova, anche laddove
non ci dovrebbe essere serio motivo di contesa. La
vita sociale è largamente costituita di effettive o
trovano in alto; vd. ad es. l’articolo di G. NIGRO, Il Consiglio
Superiore della Magistratura, in « Rassegna dei magistrati », 1962, p.
79, nel quale si attacca la nuova istituzione, lamentando però che la
legge istitutiva del Consiglio Superiore consenta, per quanto attiene
al conferimento degli uffici direttivi, di poter prescindere dall’anzianità: « Sicché Magistrati che abbiano diritto ad essere valutati per
conferimento di posti direttivi (diritto che sorge dalla situazione di
ruolo) si trovano bloccati e troncati nella loro legittima aspettativa,
sol perché a Ministro e Commissione non è parso di proporli ». E se
anche è vero che l’A. parla semplicemente di un « diritto » ad essere
proposto e valutato, libero il C. S. di prescegliere tra i più anziani nel
ruolo il migliore, c’è nella sua argomentazione, in definitiva, quella
stessa logica che informa le tendenze egualitarie della « bassa »
magistratura, la logica cioè della mera anzianità.
LE RIFORME CHE URGONO
231
presunte gerarchie di fatto che si stabiliscono negli
ambienti e nelle situazioni più impensabili. Ricordo
in proposito un gustoso episodio; in un luogo di
villeggiatura si accese un giorno una vivace discussione tra due magistrati di tribunale, uno con funzioni di pretore e l’altro di sostituto procuratore
della Repubblica, provocata da una certa naturale
albagia del secondo che voleva dimostrare come
egli fosse in effetti in posizione preminente rispetto
ai pretori e allo stesso tribunale, potendo egli
impugnare le sentenze dei primi e del secondo; la
discussione venne troncata da un terzo magistrato
che agghiacciò il sostituto facendo rilevare a costui
che egli aveva quindi lo stesso rango dell’avvocato
X (e indicò il più sprovveduto e strampalato avvocaticchio locale) che aveva le stesse possibilità di
gravame! Tutto sommato, col sistema di elezionecooptazione, superato il problema del trattamento
economico, avremmo sempre, per quello che può
valere ai fini dell’interesse generale per il progressivo miglioramento dei giudici, un incentivo e precisamente quello in pratica meno pericoloso e meno
suscettivo di contestazioni e di lamentele, giacché la
situazione psicologica del candidato sconfitto alle
elezioni è assai diversa da quella di colui che non ha
superato un esame o un concorso, proprio per la
diversità del contesto. Il sistema non attenterebbe
comunque alla indipendenza del giudice, posto che
è praticamente impossibile farsi influenzare nelle
proprie scelte dalla preoccupazione di ingraziarsi la
maggioranza di un collegio composto di alcune
diecine di persone. Infine il corpo dei magistrati
realizzerebbe in un certo senso un integrale auto-
232
UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO
governo, portando l’intera ed esclusiva responsabilità delle scelte; l’espediente oggi assai comodo
delle lamentele contro il potere politico, contro il
ministro, contro gli alti gradi della magistratura,
contro questo o quel clan sarebbe spezzato in
partenza, tutto dovendosi risolvere nella cerchia
dell’eletta famiglia.
A questo punto si pone il problema dei capi, se
convenga o no mantenere il sistema attuale in virtù
del quale alla testa degli uffici giudiziari sono posti
magistrati di grado più elevato rispetto a quelli che
vi sono inseriti con funzioni corrispondenti alla
qualifica, sostenendosi da molte parti che questo
sistema burocratico va rimosso, introducendosi la
regola che i dirigenti debbono essere scelti dai
giudici addetti all’ufficio, con metodo elettivo. Questa richiesta è formulata per eliminare i residui della
strutturazione burocratica del terzo ordine, per
realizzare completamente la c.d. indipendenza interna ed in nome di un comprensibile principio
democratico; e si porta a suffragio l’esempio delle
facoltà universitarie nelle quali i professori eleggono nel loro seno il preside con mandato temporaneo, cosı̀ come il plenum dei professori di tutto
l’ateneo elegge il rettore. Confesso, ancora una
volta ripetendomi, che, a prescindere dalle impostazioni astratte di principio, la tesi non mi convince
molto e soprattutto non mi persuade l’esemplificazione, essendo ben noto come funzionino in genere
le facoltà universitarie nelle quali il preside è spesso
assai meno di un primus inter pares, manca del
minimo di autorità, non è in grado di esercitare
alcun serio controllo sui colleghi che fanno quindi il
LE RIFORME CHE URGONO
233
loro dovere o lo tralasciano secondo quanto detta
loro la coscienza. In sostanza le autonomie fanno in
genere, nel nostro paese, cattiva prova, di norma
consentono la più ampia anarchia individualistica e
molti abusi. Ma questa mia perplessità non può
essere tradotta, purtroppo, in una radicale opposizione alla proposta, anche se essa non può entusiasmarmi. Dico purtroppo perché, sul piano della
funzionalità del servizio, il sistema attuale non serve
a niente, i capi degli uffici, lungi dall’adempiere al
loro dovere di controllo e di stimolo, di norma
bellamente se ne disinteressano, fatte salve alcune
veramente rare eccezioni; è eccezionale che un capo
imponga ai giudici l’osservanza dei termini e dei
doveri formalmente posti cosı̀ come è ancor più
eccezionale che esso provochi l’azione disciplinare
nei casi, non scarsi, nei quali essa sarebbe giustificata. Il tipo medio del capo è quello del classico
buon uomo che non vuole far del male a nessuno,
che tutto tollera e sopporta, che per tutti trova, nei
rapporti informativi, la possibilità di tessere elogi
sperticati e senza alcun fondamento obiettivo. Il
capo quindi, ad eccezione di quei casi invero rari in
cui opera deteriormente facendosi strumento di
illecite pressioni (77), è veramente una brava per(77) Sul conformismo delle camere di consiglio vd. la testimonianza di A. PERONACI, La crisi della giustizia, cit. E circa le
responsabilità dei capi sull’attuale disservizio, vd. G. A. RAFFAELLI,
Ordine e disciplina nell’ordine giudiziario, in « Rassegna dei magistrati », 1964, p. 296. E circa la validità del riferimento universitario
vd. A. C. JEMOLO, Pochi i colpevoli molti gli apatici, ne « La Stampa »
del 10 agosto 1965: « E quale mai facoltà universitaria insorge contro
il collega pelandrone (rara avis, ma non specie ignota)? È questa
234
UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO
sona nell’accezione corrente del termine; e la mia
esperienza mi insegna che per capo buono si intende il capo lassista, quello che vive e lascia vivere,
mentre per capo cattivo si intende colui che intende
esercitare nei fatti il sacrosanto suo potere di controllo. La causa dei capi che non servono a niente
non può quindi commuovermi; ne sarei convinto,
proprio perché sono portato a porre sempre l’accento sulla funzionalità degli uffici e a disdegnare le
soluzioni più favorevoli ai comodi individuali, se
avvertissi dietro questa campagna difensiva dei c.d.
conservatori la ferma volontà di reggere gli uffici
con pugno prussiano, senza lasciarsi frastornare da
considerazioni astratte di pura democrazia. Ed allora, se i capi non servono, se essi sono di massima
corresponsabili dell’attuale disservizio, tanto vale
eliminarli e poiché non è pensabile nemmeno un
qualche altro espediente funzionale pur teoricamente ammissibile (ad esempio, quello di affidare la
direzione burocratica degli uffici ad un funzionario
non magistrato nominato dal ministro per la giustizia e verso il ministro responsabile), tanto vale
accogliere la proposta innovativa e rimuovere cosı̀
anche questa ragione di malcontento, giustificato o
no. La mia adesione è quindi dettata unicamente
dalla convinzione che, rebus sic stantibus, le cose
della giustizia non peggiorerebbero molto rispetto
alla situazione attuale, onde, disservizio per disservizio, è preferibile dar libero sfogo alle istanze più
realtà attuale che spinge me, poco propizio a pensare per universalia, ad essere contrario a tutte le forme di autogoverno nell’Italia
d’oggi ».
LE RIFORME CHE URGONO
235
« aperte » e più « democratiche » licenziando chi
non serve e risparmiando qualche milione. Ma si
adotti un correttivo, per vedere se almeno per
questa via possa ottenersi qualcosa; elezione dei
capi, ma non con mandato temporaneo, bensı̀ sine
die e quindi, se non sopravviene la progressione ad
altro ufficio, anche a vita. E questo nella speranza
che il capo elettivo, non dovendo accattivarsi il
favore dei colleghi per la rielezione e avendo comunque ottenuto da costoro, una volta per tutte,
tutto quanto poteva sperare rimanendo in quell’ufficio, sia preso dalla funzione e possa quindi assicurare il buon funzionamento dell’ufficio senza essere
indotto a colpevoli compiacenze, senza guardare in
faccia nessuno.
Se fosse possibile strutturare il terzo potere nei
termini che ho prospettato, se inoltre si eliminasse il
problema della carriera e si accogliesse, sia pure per
disperazione, l’elettività dei capi, in pratica si svuoterebbe in larga misura il problema oggi assai
dibattuto del Consiglio Superiore, proprio perché
l’edificio verrebbe ricostruito alla base su principi
assai diversi da quelli attuali. Oggi il problema del
Consiglio Superiore appare esasperato e polemico
perché, con scarsa preveggenza, si è iniziato a
ricostruire dal vertice, dal tetto, sovrapponendo il
nuovo organo di autogoverno alla struttura tradizionale; se si provasse a percorrere ab imis e più
correttamente la strada inversa, ci si renderebbe
conto che si può semplificare, e notevolmente, al
vertice. In pratica, in un sistema snellito, senza
carriere e senza capi burocraticamente sovrapposti,
i compiti del Consiglio Superiore si ridurrebbero
236
UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO
alla necessità di provvedere per il concorso iniziale
nonché per il concorso di definitiva immissione in
magistratura; il Consiglio dovrebbe poi controllare
la regolarità delle operazioni svolte per la progressione nelle funzioni nonché la regolarità delle elezioni dei capi risolvendo eventuali contestazioni;
dovrebbe curare la nomina dei giudici onorari e
funzionare infine da corte disciplinare. Per tutto
questo non è necessario un organo pletorico come
l’attuale, né è necessario scomodare il presidente
della repubblica per una presidenza più o meno
simbolica; sette, nove, al massimo undici persone
sarebbero sufficienti per amministrare una ristretta
categoria che non supera oggi, se non vado errato,
le seimila unità; il Consiglio, sempre funzionando
unitariamente, potrebbe anche funzionare direttamente come commissione giudicatrice per i due
concorsi iniziali. Naturalmente tutto questo richiederebbe un impegno assorbente, adeguatamente
compensato, a prescindere dalla questione del trattamento economico, dalla elevatezza della funzione,
trattandosi di garantire al paese una buona magistratura; funzione che può quindi essere considerata
da ogni cittadino come una delle più degne ed
onorevoli. Si potrebbe anche introdurre la regola
della elezione a vita all’alto incarico, anche per
ridurre al minimo le competizioni elettorali che, se
sono talora indispensabili, turbano un ambiente cosı̀
delicato come quello della magistratura; e per
quanto attiene alla composizione non sarei alieno
dall’introdurre una prevalenza di laici nel consesso,
perché i laici, essendo estranei all’ambiente, meglio
possono giudicarne per un mandato commesso dagli
LE RIFORME CHE URGONO
237
organi attraverso i quali si esprime la sovranità
popolare a servizio della quale si trovano i giudici;
infine, i componenti togati dovrebbero essere eletti
da tutto il plenum dei magistrati, svuotandosi, per il
nuovo complessivo assetto della magistratura, i
problemi oggi dibattuti della rappresentanza delle
varie categorie, a stati generali.
Ma ogni riforma, anche la meno imperfetta, sarà
vana se non muterà il costume e se in particolare
tutti coloro che sono investiti di un pubblico ufficio
non cercheranno di compiere senza residui il proprio dovere, anche quando questo comanda di
nuocere alla pecora nera. Oggi, ovunque, gli impiegati pubblici in genere, ivi compresi i magistrati,
sono come ispirati da un criterio guida inespresso;
ch’essi sono, per dure necessità della vita, legati ad
una barca che non ha pilota e sulla quale essi
debbono cavarsela, arrecandosi reciprocamente il
minimo disturbo possibile; di qui la falsa pietà, la
reciproca indulgenza, la quasi congenita impossibilità di pensare all’interesse obiettivo della cosa
pubblica che deve sovrastare i singoli (78), la man(78) Mi ha sempre colpito la carica di umanità e di fraternità
che negli ambienti burocratici quasi sempre si dimostra verso il
collega colpito da qualche disavventura, ad esempio caduto in grave
malattia che lo tiene in concreto lontano dall’ufficio per lunghi
periodi, in tale situazione facendolo figurare fittiziamente presente; e
talora sono rimasti in servizio magistrati ormai distrutti dall’età e
dalla malattia, incapaci di attendere all’ufficio con media diligenza.
Comprendo questa spinta umana, che tuttavia avrebbe un preciso
valore morale se essa non si realizzasse in danno di un terzo; la carità
è meritoria quando si pone mano al proprio portafoglio, non a quello
degli altri. Sta qui la costituzionale inferiorità dell’impresa pubblica,
almeno nel nostro paese, rispetto a quella privata, proprio per
238
UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO
canza, in conclusione, di quel senso dello Stato che
altro non è che il ben inteso interesse del tutto e di
tutti. Ecco perché in queste riflessioni non sono
mancate le note amare che non potevano onestamente mancare, dettate come sono da un altissimo
concetto della funzione del giudice nella società e
dall’augurio che la magistratura possa rappresentare sempre di più un pilastro essenziale nella vita
del paese. Ed infatti nella vicenda della nazione, se
per le vicissitudini del potere politico passa il fiume
della storia che di momento in momento diversamente varia senza che nessuno di questi successivi
colori possa sperare di definitivamente fissarsi, la
magistratura rappresenta al contrario quello che c’è
di immodificabile e di eterno nella convivenza civile, specialmente quando essa si sostanzi in un
reggimento democratico; la magistratura sintetizza
istituzionalmente la prevalenza del momento costituzionale per quanto concerne in particolare l’osservanza delle regole del giuoco tra le varie aspirazioni ideali e i contrastanti interessi.
Per questo ogni cittadino pensoso del pubblico
bene invoca una magistratura che lungi dall’essere
timida e pavida, umiliata e dilaniata da meschini
problemi di assetto e da lotte interne, sia viceversa
l’impossibilità che qualcuno dia corpo ed anima a quell’entità immaginaria che è lo Stato; tanto che un illustre magistrato, confidandomi
un giorno come procedevano le cose nella corte nella quale espletava
le funzioni di presidente, mi disse argutamente che se egli, uomo di
rara laboriosità, avesse potuto prendere in appalto l’ufficio, le cose
sarebbero andate benissimo, sbrigandosi il lavoro con la metà del
personale al quale si sarebbe potuto riconoscere un trattamento
economico raddoppiato!
LE RIFORME CHE URGONO
239
costituzionalmente assisa su basi ben ferme, con
una strutturazione funzionale, con un assetto interno che faccia di ogni suo componente un uomo
rispettoso dei principi e delle leggi e in questa
direzione libero e deciso, severo verso gli altri
avendone la giustificazione morale per la severità e
lo scrupolo col quale adempie ai suoi doveri, modello di civiche virtù in tutte le manifestazioni della
sua vita, pubblica e privata; se tali saranno le cellule,
tale sarà in corrispondenza il tutto. E non c’è
dubbio che molte cose potranno cambiare in Italia,
potrà ottenersi un miglior assetto civile col progressivo miglioramento del costume, se la magistratura
eserciterà del tutto, come le è possibile, i suoi
immensi poteri. Ho già detto che tutto sommato il
giudice medio italiano è un buon giudice, non
disposto a barare con la coscienza; si vorrebbe che
quel pizzico di negativo che c’è in questo giudizio
venisse meno, che vi fossero giudici ottimi fino in
fondo, non in un certo senso disposti a scusare per
scusarsi, ma severi ed implacabilmente decisi. Il
giorno in cui tutti reciteranno senza pietà malintesa
la parte che la legge loro commette, il miracolo più
vero di una Italia avviata non solo alla prosperità
sociale ma anche ad un più civile assetto sarà sul
punto di verificarsi. Queste pagine sono state dettate in questa precisa disposizione dell’animo (79).
(79) Questo saggio è stato scritto nell’estate del 1965, cosı̀
appassionatamente impiegando i periodi, ahimé frequenti, di forzata
costrizione casalinga imposti, tra le montagne dolomitiche, dall’inclemenza del tempo. In questo periodo di oltre un anno tra la stesura e
la pubblicazione, il contesto rispetto al quale ho ragionato e meditato
non è, ovviamente, mutato. Pertanto mi limito qui a ricordare i fatti
240
UN MESTIERE DIFFICILE: IL MAGISTRATO
più salienti meritevoli di menzione tra la fine del 1965 e questo inizio
del 1967.
Gran scalpore suscitò, a fine 1965, il dodicesimo congresso
nazionale dei magistrati promosso in Gardone Riviera, nei giorni
25-28 settembre, dall’associazione nazionale magistrati, sul tema
« Funzione giurisdizionale ed indirizzo politico nella Costituzione »,
sulla base di una relazione generale di G. Maranini e di altre
numerose relazioni particolari (vd. l’opuscolo dallo stesso titolo edito
nell’occasione dall’A.N.M.). Una larga parte dell’opinione pubblica
si allarmò, vedendo i magistrati discettare in termini di indirizzo
politico. In realtà, le conclusioni pratiche furono assai modeste,
contenute nei limiti della funzione istituzionale del terzo potere, in
esse ribadendosi soprattutto l’esigenza di dar puntuale corso, nell’attività interpretativa, ai precetti costituzionali. Si trattò quindi, in
considerazione di questo concreto svolgimento del congresso, di un
falso allarme, tuttavia ampiamente giustificato dai promotori mettendo in giro, con la prospettazione del tema in quei termini, una
preoccupazione non infondata e gravemente equivoca. Cercai di
dimostrare altrove, in un articolo il cui titolo, redazionalmente scelto,
non fu certo molto felice (vd. Giudici senza carriera, in « Leader », n.
22 del 1965), come quella impostazione fosse del tutto discutibile e
come, nella prospettazione del Maranini, si confondessero problemi
sostanziali assai diversi (e vd. infatti, nell’opuscolo citato, p. 29, la ben
diversa relazione di P. Barile e di L. Bianchi d’Espinosa, sul Giudizio
di legittimità).
Nel frattempo la situazione associativa dei magistrati italiani ha
subito ulteriori complicazioni. Mentre l’U.M.I. ha tenuto, nel maggio
del 1966, il suo primo congresso a Terracina (vd. il resoconto in
« Rassegna dei magistrati », giugno 1966), l’A.N.M. si è andata
dividendo in tre correnti tra le quali il contrasto è assai forte, come è
emerso quando si è trattato di procedere, nei mesi scorsi, alla
sistemazione degli organi direttivi dell’associazione e alla nomina del
presidente. Praticamente si contrappongono una sinistra, una destra
ed un centro, per un processo distintivo reso, a mio avviso, inevitabile
per le punte estreme assunte da taluni gruppi. Ma è un giudizio che
esprimo con cautela perché, estraneo ormai all’ordine, forse mi
sfuggono diversi aspetti e situazioni indispensabili per un motivato
giudizio, anche se, grosso modo, le mie simpatie vanno per l’ala più
moderata del complesso schieramento. Mi è parso, inoltre, di poter
registrare in alcune recenti manifestazioni i primi sintomi di un clima
meno surriscaldato.
Per quanto attiene ai problemi della carriera, è stata di recente
emanata una legge (25 luglio 1966, n. 570, detta comunemente legge
LE RIFORME CHE URGONO
241
Breganze dal nome del parlamentare proponente) sulla nomina a
magistrato di corte di appello. Praticamente con questa legge il
passaggio diventa pressoché automatico, essendosi anche introdotto
il principio della progressione indipendentemente dalla vacanza dei
posti assegnabili, di norma, ai magistrati di appello (art. 6). È, infatti,
da prevedere che quasi mai sarà espresso dai consigli giudiziari un
giudizio negativo sul magistrato ai fini della progressione, per quelle
considerazioni che ho fatto ripetutamente nel testo. Comunque, è
questo, di fatto, un passo avanti, incerto e contorto, rispetto all’obiettivo finale della abolizione della carriera. Per una critica assai severa
della nuova legge, vd. S. VISTA, Gradi e funzioni della legge Breganze,
in « Rassegna dei magistrati », luglio-agosto 1966, p. 367.
Malinconicamente, l’episodio più grosso nel corso del 1966, sul
piano dei problemi qui considerati, è stato quello milanese del
famoso processo della « Zanzara », sul quale indubbiamente vi
sarebbero tante cose da dire, nel merito e fuori del merito, sul piano
strettamente giuridico e in termini etico-civili. Mi limito a dire che, da
ambedue le parti (e mi riferisco, purtroppo, alle parti « interne » al
terzo ordine), vi è stata molta deficienza sul piano dello « stile »,
soprattutto perché pare che si sia deliberatamente operato per dare
all’episodio giudiziario soverchia risonanza. Proprio rispetto ai fatti
che più emotivamente muovono l’opinione pubblica, sarebbe invece
auspicabile un maggior riserbo ed una maggiore compostezza. Il tutto
si è tradotto, a mio avviso, in una ulteriore perdita di prestigio per il
terzo potere.
Infine, parafrasando le prime battute di un famoso romanzo
dannunziano, l’anno è finito assai amaramente, con l’omaggio che il
signor primo presidente della Cassazione ha ritenuto di dover
rendere al giurista del ventennio fascista. È un episodio, gravissimo,
che offende la coscienza migliore del paese e che testimonia, forse,
dello stato d’animo di determinati gruppi certo agli antipodi rispetto
ai valori accolti nel nuovo ordinamento costituzionale. Nella speranza che si tratti di un gesto isolato, non veramente rappresentativo,
è tuttavia da augurarsi che se ne traggano le conseguenze sul piano
politico-legislativo, facendo soprattutto in modo che la composizione
del Consiglio Superiore della Magistratura sia tale da garantire
contro le esorbitanze di tutti, dei giudici « inferiori », ma anche dei
giudici « superiori ». Con l’augurio infine che si ponga mano alla
risoluzione dei problemi della Giustizia nell’ordine di idee che il
presidente Saragat ha delineato, in piena corrispondenza con le
attese del paese, nel suo secondo, pubblico e forte messaggio al
Consiglio Superiore (e sul quale vd. il mio articolo, La crisi della
giustizia, in « Critica Sociale » del 20 settembre 1966).
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Un mestiere difficile: il magistrato