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Perché l’Italia?
Perché la Sicilia.
Liriche, dipinti,frammenti
Extra Hungariam non est vita,
si est vita, non est ita
(Ludovicus Caelius Rhodiginus,
alias Ludovico Ricchieri)
S
ONO NATO IN UNA PICCOLA CITTÀ DEL
ANTONIO DONATO SCIACOVELLI
SUD-EST, MATERA, UN TEMPO DESCRITTA CON TONI AL-
LARMATI E APOCALITTICI DA CARLO LEVI IN CRISTO SI È FERMATO A EBOLI, OGGI – SPERO – DIVERSAMENTE APPREZZATA NEL MONDO GRAZIE ALLA CINEMATOGRAFIA, EUROPEA E AMERICANA, CHE
NE HA UTILIZZATO SPESSO GLI SPLENDIDI PAESAGGI TUFACEI COME SFONDO DI VICENDE EVANGELICHE, E QUANDO NELLA SECONDA METÀ DEGLI ANNI OTTANTA M’ISCRISSI AI CORSI QUADRIENNALI
DI LINGUA E LETTERATURA UNGHERESE DELL’ISTITUTO UNIVERSITARIO ORIENTALE (OGGI UNIversità «L’Orientale» di Napoli), mai avrei immaginato la ricchezza di contatti, rapporti, legami e intertestualità tra Italia e l’Ungheria. Naturalmente sin dalle prime
lezioni i nostri docenti, il comparatista Amedeo Di Francesco, la traduttrice Marinella D’Alessandro e la nostra insegnante di lingua ungherese Mária Tóth, procurarono di citare decine e decine di momenti comuni di queste due culture, ma –
come spesso capita – solo le esperienze esistenziali successive resero ben più convincenti quei riferimenti dagli accenti altisonanti che spesso dovevamo ripassare
su dotte dissertazioni, prima di presentarci a sostenere un esame. Il primo momento di feed-back esistenziale, per la gran parte dei magiaristi in erba, furono i corsi
dell’Università Estiva di Debrecen, che ci raccontavano paralleli a quelli dell’Università per Stranieri di Perugia, e che negli ultimi anni del kádárismo ci offrirono
l’immagine idilliaca di un’isola lontana dai grandi problemi internazionali, un
grande crogiuolo di nazioni, lingue e mentalità, da cui sarebbero nate (anche) grandi amicizie «all’ombra dell’asse Roma–Budapest». Vennero ben presto tempi in cui
tutto aveva il sapore della rinascita, della riapertura alla collaborazione internazionale, e di lì a poco saremmo stati testimoni oculari degli effetti del grande cambiamento politico del biennio 1989–90: più facile divenne entrare in Ungheria, uscire
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dall’Ungheria (per i magiari, naturalmente), subito si fecero avanti gli investitori, le
iniziative culturali, i gemellaggi, ma anche le inevitabili commistioni popolar-culturali, le imit-importazioni, e mentre in Italia imperversava il mito ero-politico di
Cicciolina, dalle Prealpi Orientali alle ultime propaggini della Grande Pianura si
consumavano similpizze e si progettavano grandi viaggi in riva all’Adriatico, agli
scavi di Pompei, alle bellezze universali dei Musei Vaticani o degli Uffizi, poiché non
bisogna dimenticare che il quarantennale purgatorio del socialismo aveva drasticamente limitato – oltre ad altri, forse più importanti diritti – la libertà di spostamento, di allargamento degli orizzonti culturali, nach Westen. Sono passati vent’anni
appena, e ci sembra un secolo! La politica culturale e formativa magiara, all’indomani del cambiamento di regime, decise di escludere ex abrupto dall’insegnamento
scolastico la lingua russa, fino a quel momento materia obbligatoria, così che grazie
all’ingresso nei programmi ministeriali delle principali lingue europee, anche per
l’italiano si aprirono le porte di una maggiore diffusione, nelle aule scolastiche e
universitarie, con il potenziamento delle cattedre già esistenti e la nascita di nuove,
che portarono linfa fresca sia negli studi delle relazioni culturali e storiche tra Italia
e Ungheria, che nell’attuazione degli stessi, con gli scambi di docenti e studenti (il
programma Erasmus ne è ancora oggi un ottimo quadro di promozione), l’ingresso
di nuove leve nell’editoria, una maggiore (e migliore) circolazione di opere, spunti,
ispirazioni, contatti.
Una ripresa? O forse parliamo di un legame che non si era mai interrotto? La
poesia ungherese (in latino e in volgare) sin dai primi grandi autori, Janus Pannonius e Bálint Balassi, aveva intrecciato la sua storia alla vicenda più complessa dell’Umanesimo italiano ed europeo, e per secoli i poeti ungheresi avevano gettato
uno sguardo ai paesaggi italiani, prima di comporre alcuni piccoli capolavori in cui
si sente tutto il fascino esercitato dalla bellezza e dalla vita italiane: saltando subito
al XX secolo, ricorderemo che Endre Ady, il vate che con la sua opera condizionò
tutta la letteratura magiara del Novecento, immortalò la luna di un pomeriggio dell’estate romana in Nyárdélutáni hold Rómában (apparsa nel 1911 sulla rivista letteraria Nyugat, con l’epigrafe A Roma, primi di giugno), mentre Mihály Babits, il traduttore della Commedia di Dante, scrisse la meravigliosa Esti kérdés (Questione
della sera) ponendo al centro della sua riflessione sulla natura del cosmo, l’immagine della Laguna e del ricordo:
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Quando la morbida, placida e nera / cortina vellutata della sera / scende a coprir la
terra, / da mani immense di balia distesa, / sì delicata ch’ogni filo d’erba / sta dritto
sotto il soffice suo velo, / né petali ritorce / né le ali di farfalle / perdon lo smalto d’iride
che le orna, / tutto posa sotto il velo placido / all’ombra del suo tocco di velluto / senz’avvertirne il peso: / allora, dovunque tu stia vagando, / che segga nella mesta stanza
bruna, / che fuori dal caffé guardi allibito / come s’accendono i lampioni intensi, /
stanco, da un colle, col tuo cane accanto / guardi la pigra luna; / che sulla strada impolverata guidi / un torpido cocchiere, / che sul ponte rullante venga meno / di una
nave, o sul sedil del treno; / che attraversando la città straniera / ti fermi ad ogni angolo
a guardare / intimorito delle lontane vie / l’intreccio, e doppie file di lampioni; / o che
sulla Laguna / mirando dalla Riva, / ove l’opale specchio / le fiamme opaco frange, /
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rimembri immerso nel più che passato, / ricordo che dolcissimo tormenta, / nel
tempo tuo passato: / come l’immagine della lanterna / magica, t’appare, è, già non è
più, / ricordo che non cede, / ricordo grave, eppure ti arricchisce: / lì chinerai, sulla
marmorea terra / il capo appesantito dai ricordi; / immerso tra bellezza e meraviglia /
pauroso penserai: a cosa serve, / tutta questa bellezza? / orfano penserai, a cosa serve,
/ quest’acqua di seta? a che i marmi? / la sera, questa soffice cortina? / i colli? gli alberi?
/ e il mare, inetto al seminare? / a che le sempre mobili maree, / e le nubi, dolenti
Danaidi? / il sole, sisifeo masso afoso? / a che i ricordi? e il passato? / a che i lampioni?
a che le lune? / e l’infinito tempo? / prendi quel filo d’erba, per esempio: / a che
ricresce, se poi secco muore? / e perché secca, se ricresce ancora?1
Tra le due guerre mondiali un altro grande protagonista della letteratura ungherese,
Antal Szerb, scrive un romanzo dall’atmosfera di sogno, Utas és holdvilág2 (1937),
partendo dal viaggio di nozze di una coppia ungherese, Mihály ed Erzsi: quello che
sembra un normalissimo viaggio-centone (Venezia, le gondole, le calli, i piccioni)
si trasforma ben presto in una narrazione da dormiveglia, in cui si incrociano esistenze e destini e il protagonista, nel mezzo del cammin di sua vita (nella finzione
del romanzo Mihály ha 36 anni), compie un lungo e affannoso viaggio in Italia, alla
ricerca della propria identità. L’incipit stesso del romanzo è chiaramente legato all’immagine del viaggio in Italia, dell’ingresso in un’altra dimensione:
In treno filò tutto liscio. I problemi cominciarono a Venezia con le calli. La ragnatela di
calli apparve a Mihály a destra e sinistra appena il motoscafo si staccò dal pontile della
fermata e lasciò il Canal Grande per seguire una scorciatoia. Ma in quel momento non
prestò loro grande attenzione perché il suo interesse era totalmente assorbito dalla
«venezianità» di Venezia: l’acqua in mezzo alle case, le gondole, la laguna, la limpidezza dei tetti color rosso-rosa. Perché Mihály si trovava in Italia per la prima volta, a
trentasei anni, in viaggio di nozze.3
Qualche anno più tardi anche Sándor Márai scrive il suo primo romanzo italiano,
A nővér (pubblicato nel 1946), in cui l’Italia è lo sfondo, il grigio – a volte allucinato
– palcoscenico del dolore che colpisce l’uomo (potremmo anche dire l’Uomo, con
la U maiuscola, l’artista, l’intellettuale, lo spirito libero, che sente tutta la tragedia
del suo tempo e tenta di reagire, con i suoi mezzi, con la sua forza spirituale) e lo
annichilisce, e quasi per tutto il romanzo non ci appare che attraverso la luce che
di tanto in tanto filtra da una finestra, oppure nel vago ricordo di qualcosa, un fiore,
un dolce, un particolare architettonico, in contrasto stridente con le aspettative
cullate nel corso del viaggio in treno:
il treno correva con un rumore smorzato nella sera, attraverso il paesaggio a me
familiare – al mattino sarei stato a Trieste, a mezzogiorno a Firenze, l’indomani sera in
una bella sala, davanti a persone devotamente attente ed esperte di musica, mi sarei
seduto al pianoforte e avrei provato a dire loro quello che la musica dice a me... Avevo
tutte le ragioni per aver fiducia nel destino. (…) Ancora qualche ora e poi, grazie al perfetto funzionamento della civiltà, mi sarei ritrovato di nuovo sulla riva dell’Arno, avrei
visto i colli e i campanili, i tetti e le viuzze anguste dove confluisce meravigliosamente
tutto ciò che mi è familiare: l’armonia, l’armonia eterna delle forze creatrici, che nella
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pietra, nelle linee, nei colori e nei riflessi della luce si erano unite a creare un
capolavoro senza tempo al di sopra delle miserie terrene.4
Si tratta di un momento di calda intertestualità, poiché rappresenta un richiamo da
parte di Márai a un altro grande poeta ungherese fatalmente promotore (anche)
della letteratura italiana, Dezső Kosztolányi5, che nell’immortale alter ego di Kornél
Esti ci ha regalato interminabili racconti di viaggi in treno, uno dei quali – nel terzo
capitolo dell’opera – si arresta a Fiume, per poi continuare a nuoto (!), verso l’Italia,
l’Italia santa ed amata.6
Anni dopo, durante l’esilio volontario in Italia, Márai vivrà un intenso periodo
di napoletanità di cui possiamo leggere nel Sangue di San Gennaro, uno dei più toccanti affreschi della Napoli immediatamente postbellica, che ancora una volta testimonia la forte attrazione della letteratura ungherese nei confronti della complessa
identità mediterranea del nostro Meridione. E ancora anni dopo, nel romanzo storico7 erősítő 8 (letteralmente fortificatore, l’opera venne pubblicata per la prima
volta nel 1975 a Toronto9), Márai ripercorre le strade della Roma accesa, tra il 1598
e il 1600, dalle aspettative del Giubileo e dal processo a Giordano Bruno, con gli
occhi di un carmelitano spagnolo, fornendoci un interessante romanzo-parabola
sull’eterno problema del rapporto tra fede, sapere e potere. Data la materia del romanzo, e l’intenzione dello scrittore, il dolce suolo italico si trasforma, nella premonizione anche troppo scoperta dell’autore, nella visione infernale dei lager, dei
gulag, dei campi di rieducazione, concentramento e sterminio che tanto sovente
s’incontrano nella storia del XX secolo:
Bisogna creare dei campi, dove tenere entro recinti di filo spinato e alte palizzate,
ospitati in nude baracche, tutti quelli che abbiamo ragione di sospettare, non solo che
siano già eretici, ma che prima o poi lo saranno. In campi di questo genere potremmo
tenere sotto il nostro controllo non solo qualche dozzina, ma diecine di migliaia di individui. È anche vero che nelle carceri è più facile tenere sott’occhio determinate persone: in alcune città, dove il Santo Ufficio agisce con la massima attenzione in questo
senso, come per esempio a Venezia, non sono trascurabili i risultati ottenuti da quegli
inquisitori che hanno tenuti alcuni imputati, per vari giorni e notti, in celle dove
l’acqua arriva al ginocchio. (…) Chi passa qualche giorno e qualche notte in queste
condizioni, sarà in breve tempo disposto ad accondiscendere alle richieste di confessione, oltre che a pentirsi delle proprie colpe.»10
Con questo parallelo tra la Roma tardorinascimentale e la cruda rappresentazione
dei metodi polizieschi dello stalinismo, Márai ottiene una distorsione del locus
amoenus, della sua visione positiva (eppur sempre problematica) dell’Italia come
si legge in un momento intenso del viaggio ad Assisi rappresentato nel Sangue di
San Gennaro:
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Per il momento eravamo ancora lì, ma ben presto saremmo andati lontano... In
Australia o in America, o chissà dove... e non saremmo più tornati in Italia. Mi si strinse
il cuore a sentirglielo dire. Ma perché? gli chiesi. Perché mai non dovremmo più
tornare in Italia? Perché, mi rispose, l’Italia per noi non è un paese da visitare come
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turisti, ma un sentimento. E una volta che l’abbiamo abbandonato, non possiamo più
ritrovarlo... non avremmo davanti che città, pietre, uomini. L’Italia è un intreccio di
sentimenti, come l’amore. È l’ultimo grande dono che il mondo offre a uomini senza
patria, disse, e anche agli italiani, perché molti di loro sono già diventati apolidi, nella
loro adorata Italia... Allora non partiamo, gli dissi.11
Non è un caso che si siano finora citati romanzi e racconti in cui il viaggio, in particolare il viaggio verso il mare, o per mare, si trova ben al centro dell’immaginario
letterario, e nonostante siano non sempre direttamente legati all’Italia i riferimenti
al viaggio per eccellenza della letteratura antica, all’avventura odissiaca, dobbiamo
ricordare che un’altra arte, la pittura, ha contribuito a diffondere le immagini
dell’altra Italia, della Magna Grecia, di un mondo sospeso nel tempo storico e nello
spazio marino (in quanto insula), che nei dipinti del medico e pittore autodidatta
Tivadar Csontváry Kosztka (1853–1919) trovano un’interpretazione unica e insieme
straordinariamente universalizzante del paesaggio mediterraneo: eccezionale
anche per le dimensioni (302 x 570 cm.), l’olio su tela A görög színház romjai Taorminában (Le rovine del teatro greco di Taormina, 1904–1905, esposto nelle sale della
Galleria Nazionale Ungherese di Budapest) può essere considerato non tanto un
semplice omaggio, quanto una vera e propria visione (ungherese?) della Sicilia. Probabilmente proprio sulla scorta di questa visione csontváryana nasce l’opera di
Attila Jász Perché la Sicilia (Miért Szicília, J.A.K. – Kijárat, Budapest 1998), autore che
ha appena ricevuto il premio letterario «Quasimodo» in quel di Balatonfüred, città
che ospita da un ventennio il festival letterario internazionale intitolato al poeta siciliano, che tra l’altro nel 1940 pubblicò, suscitando un grande dibattito, le sue traduzioni di Lirici greci (con uno studio di Luciano Anceschi, Corrente, Milano 1940).
I destini letterari s’incrociano, l’opera di Jász parte da un grande momento della
storia della filosofia greca, il tentativo di Platone di formare alle proprie teorie poTivadar Csontváry Kosztka: Le rovine del teatro greco di Taormina
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litiche lo stato siracusano, per passare a considerazioni di altro genere, esposte in
maniera frammentaria, poiché il volume è dichiaratamente formato da frammenti
di un diario perduto:
[E] una nave parte. Rolla attraverso un mare di frasi. Nell’immaginazione del mare. Tra
una frase e l’altra, un’isola bianca. La nave approda. Si ambienta. Ripete. Dopo un
certo tempo le immagini diventano familiari. Ma non è proprio così. Non esiste una
ripetizione perfetta.
Il filosofo, fuggendo da se stesso, approda sulla costa della Sicilia. Arriva in un
posto, da cui spera di ottenere il conforto. La purificazione. Ma non l’ottiene. Il suo
errore, naturalmente, ha una ripercussione di enorme importanza dal punto di vista
dei posteri, poiché la questione è: come diventare se stessi? come conservare la nostra
esistenza? come identificarci con il nostro Io?, ovvero Dove sono? Cosa significa il
mondo? Perché sono?12
Come ricorda Jenő Alföldy13 nella sua analisi, tra le fila del discorso frammentario
di Jász, le implicazioni culturali ungheresi sono soprattutto nella sua interpretazione
del rapporto tra Csontváry e l’arte (e la Sicilia), che sottolinea la condizione del
pittore ungherese di autentico schiavo della mania platonica, poiché
[A] Taormina trova un luogo carico di forza, di energia, le rovine del teatro greco. Per
Csontváry, dipingere precisamente un luogo concreto, vuol dire evocare un paesaggio.
Tre volte ritorna a Taormina – così come Platone compie tre viaggi in Sicilia –, attraversando i Carpazi, dopo aver dipinto i monti Tátra, raggiungendo l’isola dal mare,
facendo una tappa ad Atene. Dopo due tentativi falliti, ritorna a piantare la tenda di
fronte all’Etna, sopra le rovine del teatro. Ci riprova, e gli riesce.14
L’identificazione, la sovrapposizione, non è pero esclusiva: proprio per il carattere
frammentario, quest’opuscolo, fatto di lunghe riflessioni in prosa inframmezzate
da versi liberi (tra una frase e l’altra, un’isola bianca?), tocca varie sponde di un
viaggio per le emozioni che soprattutto le letture precedenti dell’autore stimolano
nel momento dell’incontro con i luoghi, con le visioni dei luoghi. Si affacciano alla
memoria i grandi viaggiatori, i grandi descrittori, gli altri (Virgilio, Thomas Mann,
Goethe, Hölderlin) autori, perché questo libro, come ci fa notare Tamás Prágai
è il libro dei viaggiatori. Per essere più precisi, il libro dei viaggiatori in Sicilia, dei Siculonauti, una categoria a parte, come dimostra il motto stesso dell’opera, del tutto fedele allo spirito ermetico e che, preso in prestito a Kierkegaard, promette di farci comprendere la diversità delle transizioni.15
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Perché Sicilia: la scelta dell’autore di non porre il punto interrogativo al titolo indica
chiaramente che si tratta di una domanda inevasa, di una domanda non-domanda,
ma dal punto di vista dell’ininterrotta relazione che corre tra il mare nostrum e la
nazione al di là delle Alpi Orientali, dell’Adriatico, di qua e di là del limes, fino al termine delle foreste che diedero il nome alla «terra oltre le selve» (Transilvania), la
non-domanda è un’affermazione, poetica, figurativa, filosofica, odeporica, simile a
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un’erma (nel suo etimo ermetico) che ci guarda dal ciglio della strada nel corso del
lungo viaggio, da ripetere sempre, ancora, tra liriche, dipinti, frammenti.
NOTE
1 Traduzione di chi scrive, apparsa nello scritto «Kozmikus találkozások. Babits és Leopardi. Az Esti
kérdés fordítási kísérletéről» (Incontri cosmici: Babits e Leopardi. Un tentativo di traduzione della
Questione della sera), in: Fűzfa Balázs (a cura di), A tizenkét legszebb magyar vers. 4. Esti kérdés (Le
dodici poesie più belle della letteratura ungherese. IV: Esti kérdés), Savaria University Press, Szombathely 2009, 357–362. (sottolineatura di A.D.S.)
2 Antal Szerb, Il viaggiatore e il chiaro di luna (traduzione di Bruno Ventavoli), e/o, Roma 1996.
3 Antal Szerb, Il viaggiatore, cit., p. 7.
4 Sándor Márai, La sorella (traduzione di Antonio Donato Sciacovelli), Adelphi, Milano 2006, pp.
75–6.
5 In quanto appassionato critico letterario e curatore di una storica antologia di poesia europea,
Modern költők (Poeti moderni), Élet, Budapest 1914. Una nota lirica di Kosztolányi è dedicata a
Marco Aurelio (Marcus Aurelius, pubblicata su Nyugat nel 1929), più precisamente alla statua capitolina dell’imperatore-filosofo, al passato romano della Pannonia, all’attrazione per la Città
Eterna.
6 Cfr. Kosztolányi Dezső, Esti Kornél, Révai, Budapest 1933, p. 71. In traduzione italiana: Kosztolányi
Dezső, Le mirabolanti avventure di Kornél (traduzione di Bruno Ventavoli), e/o, Roma 1990.
7 Huba Lőrinczy, nel suo saggio Az inkvizitor és az eretnek (L’inquisitore e l’eretico) parla, a nostro
giudizio con grande precisione ed acume, di parabola storica, classificando lo scritto nella particolare categoria del romanzo di crisi (in Lőrinczy Huba, Az emigráció jegyében (Nel segno dell’emigrazione), Savaria University Press, Szombathely 2005, pp. 79–113).
8 Non (ancora?) tradotto in italiano, con il titolo tutto in minuscolo.
9 L’edizione da noi consultata è una delle più recenti, apparsa nella serie curata dall’editore
Helikon: Márai Sándor, erősítő, Budapest 2002.
10 Ivi, pp. 57–58.
11 Sándor Márai, Il sangue di San Gennaro (traduzione di Antonio Donato Sciacovelli), Adelphi,
Milano 2010, p. 317
12 Jász Attila, Miért…, cit., p. 23.
13 Nella recensione Miért Szicília apparsa sulla rivista Kortárs (1999/8).
14 Jász Attila, Miért…, cit., p. 35.
15 Prágai Tamás, «Az átmenet és a hely (Jász Attila: Miért Szicília?)» (La transizione e il luogo), in
Bárka 2000/3, p. 109.
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