PALESTINA: PROSPETTIVE DI PACE E PROSPETTIVE DI GuERRA Istituto d’Istruzione Superiore “Claudio Varalli” Milano, 24 febbraio 2009 Atti del Convegno di studi sulla questione israelo-palestinese Introduzione del Prof. Luigi Pincini (Istituto di Istruzione Superiore Claudio Varalli) Relatore: Prof. Alessandro Colombo (Ordinario di Relazioni Internazionali all’Università degli Studi di Milano) Con il contributo del Comitato di Redazione del “Portavoce Fuoriclasse” (Giornalino dei Consigli di Classe promosso dal Comitato Genitori I.I.S. Claudio varalli) PRE-TESTO l'operazione “Piombo Fuso”, attuata dalle Forze Armate Israeliane nella Striscia di Gaza, dal 27 dicembre 2008 al 17 gennaio 2009, ha innegabilmente e prepotentemente richiamato l’attenzione dell’opinione pubblica internazionale. Gli studenti dell’Istituto “Varalli” non hanno fatto eccezione. Molti di loro, preoccupati per la tragedia che si stava consumando davanti ai loro occhi, hanno chiesto al nostro Corpo docente di fornire un’adeguata informazione “storico/politica”, con l’intento di capire le radici di quel conflitto apparentemente inestinguibile ed i possibili sviluppi nello scenario mediorientale. Con questo intento, martedì 24 febbraio, l’Istituto Varalli ha organizzato un incontro dedicato alla Palestina, al quale hanno partecipato gli studenti delle classi quarte e quinte. Le relazioni introduttive sono state tenute dal Prof. Luigi Pincini (dell’I.I.S. Claudio Varalli) e dal Prof. Alessandro Colombo (Ordinario di Relazioni Internazionali all’Università degli Studi di Milano). Il Comitato dei genitori, con il gruppo di redazione del giornalino del Varalli “Portavoce Fuoriclasse”, ha aderito con entusiasmo a questa iniziativa, dando il suo contributo al dibattito con una comunicazione di apertura che ha affrontato, con coraggio e disincanto, questo difficile argomento. Sono stati scelti due brani musicali e due poesie, particolarmente pertinenti, come introduzione all’incontro. Quello che ne é seguito é stato un vero e proprio Convegno di Studi, i cui atti vengono riportati in questa pubblicazione, con l’auspicio che questo evento inauguri una vera e propria tradizione che dia lustro al nostro Istituto. Il Preside Prof. Michele Del Vecchio Noa Hawk and sparrow Hawk and sparrow hope and fear rainbow and arrow laughter and tear Achinoam Nini, “sorella della pace” in ebraico, conosciuta come Noa, è nata in Israele il 23 Giugno del 1969. Il suo debutto in Europa, con il brano Calling”, é avvenuto il 17 Maggio 1996 nella Valle dei Templi, ad Agrigento. I should run for my life, but I stay still I should scream till I’m sore, but I don’t I should lay down my life and I will but for this for this I won’t I feel sorry for those who’ve lost their compassion I feel sorry for those who still can, but don’t I would lay down my life for my child but for them, for them i won’t Nel 2003 Noa é stata nominata ambasciatrice della FAO (l’agenzia internazionale che lavora per combattere la povertà e la fame con uno sviluppo agricolo e una miglior nutrizione). hawk and sparrow hope and fear rainbow and arrow laughter and tear Questo brano è stato scelto a seguito del grande impegno, che l’autrice esprime, nel promuovere la pace tra israeliani e palestinesi. (translation: my heart is crying, tears of sorrow when the soul is divided, all our worlds are broken but if it comes to taking human life, I refuse… not me... not ever…) motema eleli pinzoli ya maura bokabuani ya molino ekobebisa mokili soki po na koboma bato naboyi ngai na kokoka te, oh… hawk and sparrow hope and fear rainbow and arrow laughter and tear Metallica One I Can't Remember Anything Can't Tell If this Is True or Dream Deep down Inside I Feel to Scream this Terrible Silence Stops Me Now That the War Is Through with Me I'm Waking up I Can Not See That There Is Not Much Left of Me Nothing Is Real but Pain Now Hold My Breath as I Wish for Death Oh Please God,wake Me Back in the Womb its Much Too Real in Pumps Life That I must Feel but Can't Look Forward to Reveal Look to the Time When I'll Live Fed Through the Tube That Sticks in Me Just like a Wartime Novelty Tied to Machines That Make Me Be Cut this Life off from Me Hold My Breath as I Wish for Death Oh Please God,wake Me Now the World Is Gone I'm Just One Oh God,help Me Hold My Breath as I Wish for Death Oh Please God Help Me Darkness Imprisoning Me All That I See Absolute Horror I Cannot Live I Cannot Die Trapped in Myself Body My Holding Cell Landmine Has Taken My Sight Taken My Speech Taken My Hearing Taken My Arms Taken My Legs Taken My Soul Left Me with Life in Hell I Metallica sono un gruppo “trash metal” statunitense, formatosi a Los Angeles nel 1981. Hanno fortemente contribuito allo sviluppo del loro genere, insieme a Megadeth, Stayer ed Anthrax. Con oltre 100 milioni di dischi venduti, di cui 57 milioni nei soli Stati Uniti d’America, sono annoverati tra i musicisti di maggior successo nella storia dell’heavy metal e del rock contemporaneo. Il loro brano è stato scelto per il tema trattato (la tragedia della guerra) e per l’arrangiamento che utilizza, tra l’altro, un sottofondo di “rumori di guerra”. Mahmoud Darwish >>> Pubblicò la sua prima raccolta di poesie, Foglie d’Ulivo, nel 1964. È un’opera che trasfigura in quadri di forte impatto l’identità nazionale palestinese. Diresse varie testate: il quotidiano palestinese Unità, il mensile palestinese Affari Palestinesi, quindi divenne direttore della rivista letteraria palestinese alKarmel, pubblicata da un dicastero dell’OLP. Dopo un periodo di esilio a Cipro, visse tra Beirut e Parigi. Lavorò anche al Cairo presso il quotidiano nazionale "al-Ahram". La seconda metà degli anni Ottanta furono l’epoca del suo maggiore impegno politico. Nel 1987 fu eletto nel Comitato Esecutivo dell'OLP. Ha redatto il testo della Dichiarazione d'Indipendenza dello Stato Palestinese. Darwish é morto all'età di 67 anni, a Houston, il 10 agosto 2008, a seguito di un intervento al cuore. A tutt’oggi è la prima ed unica personalità palestinese, dopo Arafat, alla quale sono stati concessi i funerali di stato. Mahmoud Darwish nacque nel 1941 nel villaggio di al-Birweh, situato in alta Galilea, a est della città di Akko (Acri). Il suo villaggio natale è stato raso al suolo, nel 1948, dall’esercito Israeliano - durante il primo conflitto arabo-israeliano. I genitori di Mahmoud cercarono rifugio in Libano per sfuggire ai massacri, ma furono tra i pochi che riuscirono rientrare nel loro paese, illegalmente, dopo appena un anno. Nel frattempo la loro terra d’origine era diventata parte dello stato di Israele, i loro beni confiscati ed essi non godevano più di alcun diritto di cittadinanza. In questa condizione, fin da bambino, Darwish si trovò nello status legale di “alieno”, cittadino che risiede come “ospite illegale” nel suo stesso paese. Da giovane fu arrestato e condannato più volte a pene detentive, per la sua presenza in Israele senza permesso e per aver recitato poesie in pubblico. Non ebbe la possibilità di laurearsi a causa delle interruzioni degli studi nei periodi trascorsi in prigione. >>> Si tratta di un Uomo Incatenarono la sua bocca legarono le sue mani alla roccia della morte e dissero: “Sei un assassino!”. Gli tolsero il cibo, gli abiti e le bandiere lo gettarono nella cella dei morti e dissero: “Sei un ladro!”. Lo rifiutarono in tutti i porti portarono via la sua piccola amata e dissero: “Sei un profugo!”. Oh tu, dagli occhi e le mani sanguinanti! La notte é effimera, ne’ la camera dell’arresto ne’ gli anelli delle catene sono permanenti. Nerone é morto, ma Roma no, lotta persino con gli occhi! E i chicchi di una spiga morente riempiranno la valle di grano. Natan Zach, nato nel 1930 a Berlino da padre tedesco e madre italiana, si trova ben presto, costretto dal nazismo, ad emigrare in Palestina con la famiglia. Benché all’epoca fosse molto piccolo, quest’evento segnò indelebilmente la sua vita (“Hitler ancora scorre nelle mie vene”, egli scrive), configurandosi come un fatto traumatico nella sua poesia (“...ma io mi accontento di gridare nel sogno”). Zach è considerato uno dei maggiori esponenti di quella che è stata definita la “new wave” della poesia israeliana, nata intorno agli anni '50. Egli fu uno dei redattori della rivista Akhshàv (Adesso), organo ufficiale dei nuovi poeti e la sua prima raccolta Shirim Rishonim (Prime poesie) risale al 1955. Zach è stato definito “il più chiaro e insistente portavoce del movimento modernista della poesia israeliana” ed è forse più vicino di ogni altro alla lezione dei poeti inglesi e americani. Ha saputo ben interpretare i sentimenti e gli umori dell’opinione pubblica israeliana, diventando >>> Popolo di padroni, popolo di servi Un popolo padrone si avvia alla guerra Santa contro un popolo di servi. C’é la luna piena e lo Spirito Santo dice che tutto andrà bene: le tombe saranno piene. Il popolo dei servi sta ammassando armi per l’ultima battaglia. Che cos’altro ha da perdere fuori di una vita ignominiosa ma aspettare il fine-mese, però, é una buona cosa e incassare lo stipendio il primo. E sia dunque battaglia, concordano le due parti temprati gli animi alla soluzione finale, le prèfiche già affilano la gola per il lamento e solo un bimbetto nudo scorrazza qua e là libero ancora per la via e grida con gola secca: “E che sarà di me? Che sarà?” Natan Zach >>> poeta nazionale d'Israele. Dal 1968 al 1979 visse in Inghilterra, dove completò i suoi studi; di ritorno in Israele, insegnò nelle università di Tel Aviv e Haifa e svolse un incarico di grande prestigio presso i teatri Ohel e Carmi. Notevole è, inoltre, la sua opera di traduttore; si ricordino in particolare le sue traduzioni di Allen Ginsberg, di Else Lasker-Schüler (la poetessa tedesca che fuggita dalla Germania nazista morì a Gerusalemme nel 1945) e delle canzoni popolari arabe, queste ultime realizzate in collaborazione con Rashid Hussein. Relativamente tardi giunsero per Zach i riconoscimenti ufficiali: nel 1995, infatti, grazie alla raccolta Keivan SheAni Ba-Svivah (Dal momento che sono nei paraggi), vinse il prestigioso Premio Israele, mentre nel 2000, per l’antologia “Sfavorevole agli addii” (Donzelli Editore, Roma 1996), gli è stato conferito il Premio Internazionale di Poesia Camaiore Ma che ci frega del Medio Oriente? Due Paesi in eterno conflitto. Ormai da tempo in Medio Oriente, quando va bene, ci sono tensioni. Tutte le altre zone del mondo sono al centro dell’attenzione anche per anni, ma poi rientrano nell’oblio; vale per la Corea, per l’Indocina, l’Argentina, il Cile, l’Algeria, il Congo, il Sudafrica e, più di recente,l Georgia e l’Ucraina. Ma questo discorso non vale per il Medio Oriente: da sempre é al centro di attentati, guerre, stragi, bombardamenti, invasioni, e le motivazioni sembrano sempre più incomprensibili. Proprio per questo forte é la tentazione di estraniarsi e “lasciarli nel loro brodo”. Perchè dovremmo interessarci? Perchè dovremmo sforzarci di comprendere qualcosa di apparentemente incomprensibile? La maggioranza delle vittime di questo ultimo conflitto erano per lo più bambini e ragazzi. Si é palato di colpe e responsabilità di chi ha iniziato questo conflitto come se questa ennesima guerra dovesse essere ulteriormente compresa o giustificata oppure trovare un responsabile preciso, come se fosse un comune litigio fra vicini per individuare chi ha iniziato per primo. Ancora alla ricerca di un facile capro espiatorio. Chi é responsabile di queste morti? Chi ha lanciato i missili per primo o si é fatto scudo della popolazione inerme? Siamo dell’idea che la giusta riflessione passi attraverso la comprensione di ciò che é successo e che non esistano “guerre utili” ad alcuno scopo. E’ caduto l’alibi della “Giusta Guerra difensiva”? Ma all’opinione pubblica internazionale gliene frega? Il Medio Oriente controlla le maggiori riserve di petrolio del mondo, e dal prezzo del petrolio praticamente dipende il costo di tutti gli altri beni di consumo, nonchè tutte le scelte strategiche di tutti gli Stati avanzati, fra cui il nostro. Attraverso il Medio Oriente passano tutte le linee di influenza delle varie potenze, e da quelle dipendono tutti gli scontri e gli schieramenti politici internazionali. Quindi, il Medio Oriente condiziona pesantemente le nostre vite e le nostre azioni, anche le più semplici. Possiamo fare qualcosa? Il nostro impegno, i nostri sforzi, hanno una reale efficacia? Interessano a qualcuno? Carlo Jean, ex Generale degli Alpini ed ex Comandante di Stato Maggiore dell’Esercito Italiano, nonchè docente di Studi Strategici alla LUISS e Presidente del Centro Alti Studi Difesa, nella prefazione al suo libro “L’uso della forza”, usa una parafrasi della frase latina “Se vuoi la pace, prepara la guerra”, e cioè “Se vuoi la pace, comprendi la guerra”. Il fenomeno “guerra” ha subito pesanti trasformazioni negli ultimi decenni, trasferendo il peso delle maggiori perdite fra i civili: é un caso o un atto deliberato? E i bombardamenti dei quartieri operai tedeschi, durante la seconda guerra mondiale, erano davvero necessari? Come mai, sempre nella seconda guerra mondiale, Milano é stata bombarda- ta molto più pesantemente di Torino? Solo esigenze belliche? La maggior comprensione di questi temi permette anche di comprendere molto più profondamente una politica che sembra sempre più persa nella rissosità provinciale del Parlamento italiano, nonchè di svincolarsi da un’informazione televisiva sempre più “spettacolare” e sempre meno carica di contenuti. La conferenza di oggi é una splendida occasione per seguire un’altra strada: quella di provare a fare delle domande per cercare di comprendere. La scelta di un sistema di difesa condiziona il futuro strategico e lo sviluppo economico? Israele utilizza il 7,3% del PIL a scopo difensivo ed importa la maggioranza dei sistemi d’arma dagli USA. Potrà adottare un sistema d’arma antimissile che la sua tecnologia militare attuale é già in grado di fornirle? Potrà adottarlo come unico sistema difensivo? Dall’altra parte Hamas potrà uscire dalla dipendenza economica - militare dei paesi arabi vicini, come l’Egitto o l’Iran? Potrà sviluppare i progetti internazionali per la costruzione - ricostruzione come il risanamento dell’acquedotto di Gaza o il potenziamento di un sistema sanitario efficiente? Potrà il Parlamento Europeo adottare il ruolo di Comunità garante di un processo di pace in quell’area Roberto Saranga e Dario Podestà Comitato dei Genitori Comitato di Redazione del “Portavoce Fuoriclasse” Un Mare all’orizzonte. Relazione del Prof. Luigi Pincini I.I.S. “Claudio Varalli” - Milano 1914: L’Impero Ottomano alla vigilia della dissoluzione Nello scegliere uno sfondo per questa presentazione su powerpoint, la prima icona su cui ho cliccato casualmente, tra le tante che propone questo programma, mi è parsa emblematica(a): mostra un paesaggio che appare ostile all'insediamento umano, e un mare sullo sfondo. Così la mia immaginazione ha simbolicamente rappresentato la storia del conflitto arabo – israeliano: un mare che affiora dietro una terra aspra, come a rappresentare una speranza. Vedo in quel mare, a cui questa terra sembra girare le spalle, il Mediterraneo, bacino agitato da perenni antagonismi, ma anche luogo di scambio, di contaminazione: nessun’altra area del mondo ha avuto la stessa capacità di elaborare nel tempo i conflitti trasformandoli in manifestazione di pluralità in ogni campo, dalla lingua ai costumi alla religione alle arti; sarà anche per il clima universale e cosmopolita che ha respirato fin dall’antichità con i due grandi Imperi ellenistici, quello greco e quello romano. Potrebbe oggi scandalizzare qualcuno il fatto che a celebrare solennemente il millennio di Roma nel 248 d. C. fosse l’imperatore Filippo l’Arabo, del quale le statue esaltano ancora gli evidenti tratti semitici. Del Medioevo ricordiamo giustamente l’espansionismo degli Arabi e le nostre crociate, ma sottovalutiamo spesso l’apporto di quelli alla cultura europea, se si considera, ad esempio, che ci restituirono tradotto nella loro lingua Aristotele che l’Europa aveva dimenticato, o che con Averroè influenzarono lo Stilnovo e lo stesso Dante. Non si potrebbe poi comprendere pienamente la cultura del Rinascimento senza l’apporto dei trattati alchemici tradotti da studiosi arabi, o dei testi cabalistici ebraici… Non basterebbe un libro a esaurire questo argomento, su cui vi invito comunque a soffermarvi durante le ore di storia. Fine XIX secolo: l’espansionismo europeo; la nascita del sionismo. (1): L’iniziativa di Herzl parte sull’onda dell’affare Dreyfuss, ufficiale dll’esercito francese di origine ebraica, condannato per spionaggio sulla base di accuse giudicate poi infondate. Il colonialismo europeo, iniziato nel XVI secolo, alla fine dell’Ottocento si sta espandendo ormai su scala planetaria in particolare per opera della potenza inglese e francese. Al 1897 risale la nascita ufficiale del sionismo. Questo movimento, fondato dal giornalista ungherese ebreo askenazita Theodor Herzl, nasce da una situazione di malessere vissuta da molti ebrei, i quali stanno subendo la persecuzione dei pogrom nei paesi dell'est e più in generale percepiscono all'interno dei popoli di appartenenza un clima di perdurante diffidenza e ostilità(1). Herzl raccoglie un’istanza che alcuni ebrei sentono, quella di creare un focolare nazionale. Va precisato che tale istanza appare fortemente minoritaria all’interno dell’arcipelago ebrai- co: non viene sentita ad esempio dagli ebrei ortodossi, secondo i quali il regno di Israele deve ristabilirsi solo all'arrivo del messia. Il sionismo è invece un movimento laico: di qui gli scontri con gli ebrei osservanti. Ma anche nel mondo laico il sionismo incontrerà forti resistenze, ad esempio da parte dei cosiddetti ebrei “di sinistra” (come il Bund, della zona sovietica), i quali vedono nel nazionalismo sionista una forma di aggressività borghese e più in generale, degli ebrei cosmopoliti di matrice illuministica che si sentono cittadini del mondo e non avvertono la necessità di appartenere a una nazione. Il sionismo infine, come vedremo nei prossimi punti, oltre a godere di un forte sostegno economico da parte di potenti gruppi finanziari internazionali, nel perseguimento dei propri obiettivi inseguirà e otterrà numerose concessioni soprattutto da governi europei a cominciare da quello inglese, mostrando di crescere nel seno del colonialismo occidentale fino ad apparirne, soprattutto nella percezione araba, una diretta emanazione. 1923-1948: La Palestina sotto il mandato britannico La dissoluzione dell’Impero Ottomano e la spartizione del Medio Oriente. Nel 1914, alla vigilia dello sfaldamento dell’Impero Ottomano, si avvertono segnali di risveglio nel mondo arabo. La cultura araba, d’altronde, ha sempre conservato un repertorio sapienziale che affascina anche il carismatico colonnello Lawrence, il mitico “Lawrence d'Arabia” che, per conto del governo inglese, sosterrà il loro popolo nell’insurrezione contro i Turchi. Gli Inglesi dunque appoggiano militarmente la rivolta araba, ma si muovono anche sul versante diplomatico: è del 1915 il carteggio del ministro plenipotenziario di Sua Maestà Sir Henry MacMahon, Alto Commissario in Egitto, e del sovrano hashemita(2) Hussein della Mecca, massima autorità religiosa in quanto guardiano dei luoghi santi, personalità importante per gli Inglesi, i quali avevano compreso che se fossero riusciti ad attirare dalla loro parte le massime autorità politico-religiose avrebbero mosso l’intero popolo alla rivolta. Questo carteggio, nel quale viene promessa l’indipendenza agli Arabi, sortisce l’effetto sperato, con la sollevazione del 1916. La promessa di MacMahon, come noto, verrà disattesa e gli Arabi, insieme al Colonnello Lawrence con cui avevano militato, si sentiranno traditi. Questo si può considerare il primo tradimento delle potenze occidentali, che poi peserà moltissimo nello stato d’animo degli arabi nei confronti dell'occidente. Gli Inglesi infatti mostrano di preferire altri interlocutori: nello stesso 1916 con l’accordo SykesPicot, dal nome dei due ministri rispettivamente della Gran Bretagna e della Francia, viene definita la spartizione del Medio Oriente in (2): La dinastia hascemita vnta la discendenza diretta dalla famiglia del profeta Maometto. Importanti discendenti furono, nel secolo scorso, il sovrano della Mecca Hussein, animatore della rivolta araba, e suo figlio Feisal, poi sovrano dell’Iraq. A questa dinastia verrà concesso, dagli inglesi, l’Emirato della nuova Transgiordania (a compenso della mancata attuazione dell’accordo Mac Mahon / Hussein. 1916: La spartizione franco-britannica secondo gli accordi Sykes-Picot. (3): Più recisamente ad Abdallàh, figlio di Hussein, Screriffo della Mecca. Poco più tardi, nel 1925, gli hascemiti perderanno il controllo dei luogi santi, concentrati nell’Hijaz, la regione occidentale della penisola arabica lungo il Mar Rosso. A conqiuistarli è Muhammad ibn Saud, il quale unifica l’Arabia che da lui prenderà il nome di “Saudita”. Saud fu discepolo e alleato di Muhammad bin Abd alWahhab, la cui dottrina, lo wahabismo, diventa la confessione dell’Arabia Saudita. Lo wahabismo, che propugna una visione della vita estremamente severa e austera in nome del ritorno alla purezza originaria del messaggio coranico, determinerà una struttura rigidamente integralista delle istituzioni giuridiche e sociali arabo-saudite. E’ curioso osservare che, se i regnanti sauditi sono stati alleati costantemente a Gran Bretagna e USA, il loro concittadino Osama Bin Laden, in nome dello stesso wahabismo, ha dichiarato guerra all’intero Occidente. rispettive zone di competenza: le due aree più a nord sotto diretto controllo o influenza francese, le altre due più a sud agli Inglesi. Vi è poi invece una zona sotto controllo internazionale che riguarda in prevalenza la regione della Palestina, con al centro Gerusalemme. Nel 1920 si cerca di elaborare una politica diversa dal colonialismo tradizionale: la Società delle Nazioni, al congresso di San Remo, vuole ratificare ufficialmente dei “mandati” internazionali per Gran Bretagna e Francia. In che cosa consistono i Mandati? In sostanza: le potenze più importanti, nel caso specifico Francia e Gran Bretagna, devono controllare il processo che porterà queste nuove nazioni alla modernizzazione e al liberalismo per guidarle verso la democrazia e il libero scambio. Notate come questo sia un linguaggio abbastanza attuale: questi popoli in sostanza hanno bisogno di una sorta di tutor perché vengono considerati ancora troppo primitivi. In quella carta venivano intanto definiti tutti i monopoli dei commerci, dello sfruttamento delle materie prime… Nel 1921 i territori a levante del fiume Giordano prendono il nome di Transgiordania e l’Inghilterra, che detiene il mandato in quest’area, ne affida il governo alla dinastia hashemita(3), a compenso della mancata attuazione dell’accordo MacMahon – Hussein. Le pressioni del movimento sionista. A esasperare ulteriormente gli Arabi, nel 1917, arriva la dichiarazione di Balfour, dal nome del ministro inglese, il quale dichiara a Lord Edmond Rothschild, uno dei massimi esponenti del neonato movimento sionista, che il Governo inglese guarda con favore a un focolare ebraico in Palestina. Nel frattempo, a nome del movimento sionista, Chaim Weizmann, futuro Presidente dello Stato d’Israele, da un lato si accorda temporaneamente con l’emiro Feysal, figlio del già citato Hussein, per appoggiare la realizzazione di un grande stato arabo in cambio della concessione della Palestina; dall’altro, nella conferenza di Parigi del 1919, alle potenze vincitrici della Prima Guerra Mondiale, propone per il futuro Stato di Israele un’area che oltrepasserebbe di gran lunga il fiume Giordano, e acquisirebbe anche alcuni territori degli attuali Siria e Libano. La proposta viene rifiutata. Crescenti flussi migratori ebraici in Palestina e violenze tra Arabi e sionisti. Coinvolgimento dell’esercito inglese. Le massicce immigrazioni di ebrei europei e americani, in Palestina, vengono mal sopportate dagli stessi ebrei nativi; ma, soprattutto, trasformano la già evidente insofferenza degli Arabi in collera. A partire dal 1921, con i moti di Jaffa, le violenze coinvolgono intere collettività, senza risparmiare talvolta chi non è parte in causa. A Hebron, ad esempio, i numerosi ebrei nativi che la abitavano in prevalenza, vengono letteralmente spazzati via, nel 1929, dalle violenze arabe. Ma gli stessi Inglesi si accorgono di non poter più gestire questi afflussi e, con il Libro Bianco del 1922 redatto dal Ministro Winston Churchill, stabilisce che essi saranno da quel momento commisurati alla capacità economica di assorbimento della Palestina. Nel frattempo i sionisti si organizzano in formazioni paramilitari, la prima è l’Haganah di Ben Gurion(4), che anche nei momenti di massima conflittualità con i Britannici si dichiarerà loro fedele. Al contrario, altri gruppi paramilitari formatisi successivamente, come l’Irgun e il Gruppo Stern, non si limiteranno alla guerriglia antiaraba, ma si segnaleranno anche per azioni terroristiche nei confronti di politici e militari britannici e rappresentanti diplomatici stranieri. Ne deriva una sorta di guerra triangolare fra Palestinesi, Ebrei sionisti e Britannici. Nel corso della “grande rivolta araba” (1936-39) che mobilitò oltre 150.000 Palestinesi e fu duramente repressa dalle truppe inglesi, viene elaborato nel ‘37 il cosiddetto Piano Peel da una Commissione britannica. Esso prevede la cessazione del Mandato inglese e la tripartizione del territorio: al futuro Stato ebraico viene proposta la parte settentrionale, meno estesa ma particolarmente fertile. Al centro la zona di Gerusalemme, rimarrebbe sotto mandato britannico. Il Piano stabilisce, inoltre, dei trasferimenti in massa delle popolazioni, come già avvenne al termine del sanguinoso conflitto greco – turco. La proposta viene rifiutata con forza da parte araba ,soprattutto per la scarsa estensione di terreno coltivabile ad essa assegnata, mentre nel mondo sionista, nonostante forti resistenze, le componenti più moderate lo accolgono. Nel 1939, in un altro Libro bianco il Governo inglese, per placare l’ira della popolazione araba, cerca di arginare definitivamente l’espansione sionista, fissando un tetto massimo di 75 000 unità per l’immigrazione ebraica in Palestina nei cinque anni seguenti, vietando la vendita di terre dagli arabi agli ebrei in aree specifiche (95% del paese). Stabilisce infine la creazione, entro dieci anni, di uno stato arabo unitario a maggioranza palestinese in cui gli ebrei non possono superare un terzo della popolazione totale. Si nega quindi esplicitamente la legittimità di uno Stato ebraico. 1937: La tripartizione del territorio prevista dal Piano Peel. Ai palestinesi la zona a sud, arida e impervia; ai sionisti la zona, a nord, più piccola ma molto piò fertile. Al centro la zona di Gerusalemme che rimarrebbe sotto il controllo britannico. (4): Ben Gurion, Il grande architetto della nazione ebraica che, il 14 maggio del 1948, proclamerà la nascita dello Stato di Israele. Socialista militante, a lui si ispira il Partito Laburista israeliano. Quella sionista non fu solo un’immigrazione pacifica. I Britannici ormai non riescono più a frenare le immigrazioni ebraiche, che procedono illegalmente grazie anche alle grandi somme di denaro garantite da gruppi finanziari europei e statunitensi di orientamento sionista. La Risoluzione 181 dell’ONU prevede, rispetto al vecchio Piano Peel, un differene criterio di ripartizione delle terre e uno Statuto Internazionale per Gerusalemme Anno Totale Musulmani Ebrei Cristiani Altri 1922 752.048 589.177 (78%) 83.790 (11%) 71.464 (10%) 7.617 (1%) 1931 1.036.339 761.922 (74%) 175.138 (17%) 89.134 (9%) 10.145 (1%) 1945 1.764.520 1.061.270 (60%) 553.600 (31%) 135.550 (8%) 14.100 (1%) I nuovi insediamenti vengono preceduti dall’acquisto di enormi appezzamenti di terreno. In Palestina vige ancora una struttura feudale e in fondo alla scala sociale si trovano i fellah, i contadini che rappresentano comunque, ancora nel 1921, il 71% della popolazione. Proprio questi diventano le prime vittime della colonizzazione sionista, in quanto i nuovi inquilini ripuliscono sostanzialmente le aree acquisite dall’elemento arabo. I fellah espulsi da quel momento vanno a costituire una nuova classe miserabile di sottoproletariato urbano, che forma fin da subito le frange più attive e feroci nelle violenze contro gli Ebrei. Un altro trauma, questa volta sociale, si sovrappone ad altre fratture di tipo politico ed etnico. Ma a questi problemi già gravi, intorno al ‘45 si aggiunge un’improvvisa emergenza umanitaria: molti Ebrei sfuggiti alla persecuzione bussano alla porta della Palestina. Dopo l’armistizio del 1949: Israele si impadronisce di gran parte della Palestina. (5): Fecero scalpore, ad esempio, gli attentati dinamitardi all’hotel “King David” di Gerusalemme e all’Ambascita britannica a Roma e l’assassinio dell’Alto Commissario britannico Lord Moyne, al Cairo (6): Futuro fondatore del partito di destra Likud. Iniziative dell’ONU. Proclamazione dello Stato di Israele. Guerra arabo - israeliana. Un’altra proposta di spartizione della Palestina viene formulata dall’ONU nel 1947 allorché la Gran Bretagna, provata dalle rivolte palestinesi e dagli attacchi terroristici dei sionisti(5), rimette il proprio mandato nelle sue mani. Essa è nota come Risoluzione 181; prevede, rispetto al vecchio Piano Peel, un differente criterio di ripartizione delle terre e uno statuto internazionale per Gerusalemme. I sionisti, nonostante l’opposizione di frange di destra come l’Irgun di Menachem Begin(6), accettano ufficialmente il Piano. Le autorità dei paesi arabi, invece, lo rifiutano. Forti della risoluzione dell’ONU i sionisti scatenano le loro formazioni paramilitari (Haganah, Palmach, Irgun e Banda Stern), contrastate dalle forze arabe palestinesi. La situazione di caos determinatasi, con eccidi indiscriminati di civili di entrambe le etnie, non può essere normalizzata nemmeno dall’ONU, il cui alto rappresentante, il Conte Folke Bernadotte, inviato per imporre la tregua, viene assassinato nel ’48 dalla Banda Stern. Il 14 maggio del 1948 David Ben Gurion proclama l’indipendenza dello “Stato ebraico in terra d’Israele”. Il nuovo Stato da quel momento intensifica le operazioni militari per acquisire più territori possibili, inducendo alla fuga buona parte della popolazione araba dalle città conquistate ed estromettendo tutta la popolazione rurale dalle nuove terre acquisite. Si formano ora gli squallidi campi profughi nei paesi arabi limitrofi, nei quali i rifugiati vivono precariamente, al di sotto dei livelli di sussistenza. Nello stesso 1948 La Lega Araba(7) scatena la “guerra di liberazione” con attacchi congiunti contro Israele, che tuttavia, grazie a un armamento modernissimo reso possibile da massicci finanziamenti stranieri e a sorprendenti capacità organizzative, riesce non solo a respingere gli assalti ma a contrattaccare e si impadronisce di gran parte della Palestina. Rimangono sotto il controllo arabo la Striscia di Gaza e la Cisgiordania, con Gerusalemme est, occupate rispettivamente dall’esercito dell’Egitto e della Transgiordania (il futuro Regno di Giordania) a scopo di tutela, in attesa dell’auspicata creazione di un futuro Stato sovrano palestinese. 1948: A seguito della guerra arabo-israeliana, si affolleranno i campi profughi. L’esodo degli arabi palestinesi (Al-Nakba). Fra il 1947 e il 1949, oltre 700.000 palestinesi devono abbandonare la loro terra, popolando i campi profughi. L’esodo, motivato inizialmente dal timore della guerra, si intensifica per l’intervento dell’esercito israeliano, sostenuto dagli ordini dei dirigenti sionisti, di Ben Gurion in particolare. Dopo la guerra, circa 30.000 profughi rientrano in Palestina. Nella Conferenza di Losanna del 1949, Israele offre di riprendere 100.000 profughi in cambio del riconoscimento arabo della propria esistenza. L’offerta viene respinta dai paesi arabi. Nuova vittoria schiacciante di Israele nella “Guerra dei sei giorni” del 1967. La politica antioccidentale e anti israeliana, dello storico leader dell’Egitto Gamal Abdel Nasser(8), propugnatore del sogno panarabo, scatenano l’attacco “preventivo” di Israele a Egitto, Giordania e Siria: con un’offensiva fulminea della sua aviazione l’esercito israeliano, (7): O “Lega degli Stati Arabi”, formatasi il 22 marzo del 1945. (8): Nasser, nel 1956, aveva nazionalizzato la Compagnia del Canale di Suez, di proprietà inglese e francese, provocando l’intervento di questi due eserciti e il coinvolgimento militare di Israele. La chiusura della navigazione alle navi israeliane, nel maggiodel ‘67, insieme all’alleanzamilitare tra Egitto, Giordania e Siria, prefigurata da Nasser, giustificrono secondo Israele la legittimità dell’attacco ai paesi arabi confinanti. forte anche della modernissima tecnologia USA, distrugge al suolo la quasi totalità dell’aviazione dei tre paesi nemici, i quali privi di copertura aerea subiscono in soli sei giorni gravissime perdite in uomini e mezzi. Il sostegno militare fornito dall’Unione Sovietica, soprattutto a Egitto e Siria, non si rivela in grado di arginare l’attacco(9). Israele non solo conquista la Striscia di Gaza, la Cisgiordania e l’intera città di Gerusalemme, ma sottrae anche all’Egitto la penisola del Sinai e alla Siria le alture del Golan. La Risoluzione 242 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU. 1967: Israele raggiunge la massima espansione a seguito della Guerra dei 6 giorni, conquistando la Striscia di Gaza, la Cisgiordania, l’intera città di Gerusalemme, la penisola del Sinai e le alture del Golan. La risoluzione viene votata il 22 novembre 1967. Essa, a parte alcune espressioni ambigue del testo, prevede in sostanza il ritorno ai confini esistenti prima della Guerra dei sei giorni. Mentre gli Israeliani l’accettano, l’OLP(10) a nome dei Palestinesi la rifiuta a lungo (perché riconoscendola legittimerebbe le conquiste israeliane del 1948, ma anche perché in essa manca un esplicito riferimento a uno Stato palestinese), per accettarla infine come base per un dialogo quando nel 1993 lo storico Presidente dell’OLP Yasser Arafat riconoscerà ufficialmente l’esistenza di Israele. Oggi su tale documento poggiano le rivendicazioni dell’OLP e la denuncia dell’inadempienza di Israele da parte della comunità internazionale. La Guerra del Kippur. Gli Accordi di Camp David. 1973-78: Con la conclusione della “Guerra del Kippur” si aprirà un periodo di negoziati che porteranno, in ottemperanza alla “risoluzione 242”, agli Accordi di Pace di Camp David. Quella risoluzione, del C.d.S. dell’ONU, rimarrà in parte disattesa: la penisola del Sinai verrà restitita all’Egitto, ma i territori occupati non otterranno l’autogoverno richiesto. Dopo alcuni anni carichi di tensione, in cui le nuove organizzazioni militari palestinesi iniziano ad esportare il terrorismo in Europa e nel mondo(11), nel 1973 è il nuovo Presidente dell’Egitto Anwar El Sadat, successore di Nasser, a ordinare congiuntamente con la Siria il 6 ottobre, giorno della festività ebraica dello Yom Kippur, l’attacco a Israele, a cui sottrae il controllo del Canale di Suez infliggendo pesanti perdite all’aviazione nemica. Israele peraltro, con un’efficace controffensiva terrestre, riesce a penetrare per alcuni chilometri in territorio egiziano e siriano. La forza di interposizione dei “caschi blu” inviata dall’ONU porta alla conclusione delle ostilità. Dopo la Guerra del Kippur si apre tra Egitto e Israele la stagione delle trattative, che si conclude nel settembre del 1978 con gli Accordi di pace firmati a Camp David, località USA, da Sadat e dal Primo Ministro israeliano Menachem Begin, davanti al Presidente degli Stati Uniti Jimmy Carter. I due punti essenziali dell’accordo sono l’autogoverno dei territori occupati (Cisgiordania e Striscia di Gaza) in ottemperanza alla Risoluzione 242 dell’ONU, e la restituzione all’Egitto della penisola del Sinai. Se quest’ultimo impegno viene effettivamente rispettato da Israele, il primo rimane lettera morta, anche perché il contenuto piuttosto generico del testo autorizzerà gli Israeliani a interpretarlo nel senso di una generica autonomia amministrativa. L’annuncio di ulteriori insediamenti israeliani in Cisgiordania e dell’annessione di Gerusalemme come capitale attirerà l’odio dei Palestinesi e dei paesi arabi su Sadat(12), accusato di aver voluto ottenere una pace separata con Israele ignorando le istanze palestinesi. 1987: Intifada. Lo stato di crescente frustrazione dei Palestinesi, a causa delle condizioni di vita e della totale assenza di prospettive per la loro aspirazione a un focolare nazionale, determina l’esplosione di una rivolta popolare spontanea denominata Intifada (in arabo “scossa, sussulto”) nei territori occupati, soprattutto in Cisgiordania. La rivolta è condotta prevalentemente da giovanissimi palestinesi, spesso bambini, con quotidiane manifestazioni e lanci di pietre contro soldati e mezzi blindati. A queste si affiancano altre forme di protesta come scioperi generali e il boicottaggio di prodotti israeliani. La repressione è violenta: secondo le stime periscono 1000 palestinesi, per la maggioranza bambini, uccisi dall’esercito o dai coloni, e circa 160 israeliani. 1993: L’accordo di Oslo. L’asprezza di questo stato di tensione, la drammaticità delle sue conseguenze e la pressione del governo degli Stati Uniti, inducono le due parti a dare inizio a una serie di iniziative diplomatiche, come la Conferenza di Madrid del 1991. Le trattative nella fase decisiva vengono condotte direttamente da Arafat, Presidente dell’OLP e dal nuovo Primo Ministro laburista israeliano Yitzhak Rabin, eletto nel 1992. Nel 1993 con l’accordo di Oslo, successivamente perfezionato dall’accordo di Gaza-Gerico, lo Stato di Israele riconosce l’amministrazione palestinese della striscia di Gaza e di una parte della Cisgiordania e si impegna per il ritiro delle truppe da quei territori. Il 13 settembre 1993, a Washington, di fronte al Presidente americano Bill Clinton e a esponenti politici e religiosi di tutto il mondo, avviene la storica stretta di mano fra Yitzhak Rabin e Yasser Arafat. È dello stesso giorno l'accordo firmato tra Israele e OLP che sancisce il riconoscimento reciproco delle due parti. (9): Il conflitto mediorientale era ormai entrato nello scacchiere della Guerra Fredda tra USA e URSS, al punto che la Guerra dei 6 giorni venne definita una “guerra per procura” tra Israele, per conto degli USA, contro i paesi arabi, pedine dell’URSS. (10): Nata nel 1964 come organizzione politica e militare, l’Organizzazione per la liberazione della Paelestina divenne successivamente la legittima rappresentante del popolo palestinese. (11): Si tratta di attacchi a obiettivi prevalentemente israeliani, ma anche di un tentativo di tenere desta l’attenzione dell’opinione pubblica dell’Occidente, considerato in origine corresponsabile della tragedia palestinese. Si ricordano attentati dinamitardi o azioni spregiudicate come dirottamenti di aerei. Fa scalpore, nel 1972, l’azione terrorstica di Settembre Nero, a Monaco di Baviera, nel corso delle Olimpiadi, dove vengono uccisi 11 atleti israeliani. (12): Sadat, che morirà in un attentato nel 1981, muta la politica egiziana, avvicinandosi all’Occidente. Già nel 1972 Sadat aveva ordinato l’espulsione di migliaia di consiglieri militari forniti dall’Unione Sovietica, ritenuta un partner poco determinato ad appoggiare seriamente l’Egitto dal punto di vista militare. 1993-1995: La reazione della destra israeliana. 1987: Nei Terrritori Occupati scoppia la prima “Intifada”, rivolta condotta prevalentemente da giovanissimi palestinesi, con quotidiane manifestazioni e lanci di pietre contro i mezzi blindati israeliani. La repressione sarà violenta. Moriranno oltre 1000 palestinesi, molti dei quali bambini (uccisi dall’esercito e dai coloni) e circa 160 israeliani. La destra estremista e integralista di Israele reagisce con l’assassinio di Rabin (4 novembre 1995). Il gravissimo episodio rende da allora problematica l’attuazione degli accordi. Nel 3 e 4 marzo 1996 gli Israeliani eleggono Primo Ministro Benjamin (“Bibi”) Netanyahu, leader del Likud e rappresentante della coalizione dei partiti di destra. Durante il triennio del suo mandato le trattative di pace sostanzialmente ristagnano. 12 - 26 luglio 2000: un nuovo Vertice a Camp David. Le speranze di pace rinascono con le elezioni in Israele dei Laburisti guidati da Ehud Barak. Nell’incontro che si svolge a Camp David, sotto gli auspici del Presidente Clinton, tra Arafat e il nuovo Primo Ministro Barak, questi accetta la restituzione ai Palestinesi del 92 per cento dei territori occupati (inclusa la valle del Giordano) e uno statuto per Gerusalemme che concederebbe loro il controllo della Montagna del Tempio. Ma anche questa volta, più che le divergenze(13), il clima di diffidenza e gli antichi risentimenti fanno ristagnare la trattativa. 2001: La seconda Intifada. Nel frattempo la massiccia ripresa degli insediamenti illegali nella Cisgiordania aveva determinato un’atmosfera di nuove tensioni, che esplodono nel Settembre del 2000 con la visita, ritenuta provocatoria, dell'allora capo del Likud Ariel Sharon al Monte del Tempio, luogo sacro per musulmani ed ebrei, situato nella Città Vecchia. Sharon, che con questo gesto intende rivendicare la sovranità israeliana sul luogo(14). Alla presenza di Sharon nella spianata delle moschee segue prima una rivolta a Gerusalemme, che provoca l’uccisione di 18 giovani da parte della polizia di Israele. Successivamente ha inizio nei Territori la rivolta armata vera e propria, nota come Seconda Intifada, caratterizza dal fenomeno degli attentati suicidi attuati da kamikaze nelle principali città israeliane, in autobus, o all’interno di locali molto frequentati. Di lì a pochi mesi le elezioni politiche in Israele sanciscono la sconfitta di ogni forma di dialogo con Arafat e premiano il Likud guidato da Sharon, il cui atteggiamento intransigente gli consente di intercettare i consensi di un’opinione pubblica sempre più esasperata. La reazione militare israeliana si esprime in varie operazioni contro la popolazione civile della striscia di Gaza e in Cisgiordania, come la demolizione di edifici e quartieri, in una politica di "omicidi mirati" a sfondo politico e in battaglie sanguinose come l'assedio di Jenin. Arafat viene di fatto confinato nella sede dell'Autorità Nazionale Palestinese di Ramallah, in Cisgiordania. Uscirà di qui solo per andare a morire a Parigi, il 4 novembre 2004. Per la seconda Intifada si parla di 3.858 morti da parte palestinese e di 1.022 da parte israeliana. 2002: La Road Map. 1995: La storica stretta di mano tra Yitzhak Rabin e Yasser Arafat, in occasione dell’incontro di Wahington. Negli ultimi anni gli Stati Uniti d’America, sotto la Presidenza di George W. Bush, intervengono ancora nella Questione Palestinese con un nuovo piano, la Road Map, elaborato da Usa, Unione Europea, Russia e Nazioni Unite, sulla base del principio “2 popoli - 2 stati”. I principi di cui tener conto sono: 1) la nascita dello Stato Palestinese 2) il diritto di circa 2 milioni e mezzo di profughi palestinesi a rientrare nei loro territori 3) il rinnovamento dell’Olp che doveva impegnarsi a rinunciare e a contrastare il terrorismo. 2003-2005: La politica di Sharon. Il muro. Per arginare l’ondata di attentati Sharon stabilisce di erigere un “muro di sicurezza” lungo il confine settentrionale e occidentale della Cisgiordania. L’opera viene portata a termine nonostante nel 2004 l’ONU condanni ufficialmente il muro e ne chieda lo smantellamento. Nel frattempo il Premier israeliano ha stabilito un piano di ritiro dei coloni dalla striscia di Gaza che incontra grandi resistenze tra i coloni stessi. Il piano di evacuazione interessa una popolazione di ottomila coloni che hanno vissuto all’interno di un territorio popolato da circa 1,5 milioni di Palestinesi. La politica di Olmert. Poco prima di subire un ictus, che lo fa vivere attualmente in stato vegetativo, Sharon abbandona il Likud per fondare il nuovo partito centrista Kadima, nel quale è confluito anche lo storico leader del partito laburista Shimon Peres, considerato da tempo un fervente sostenitore di una soluzione politica del problema palestinese. Ehud Olmert, leader di Kadima, ricopre la carica di Primo Ministro fino alle elezioni politiche anticipate del 10 febbraio 2009. Da segnalare sul piano diplomatico la Conferenza di Annapolis, promossa nel 2007 dal Presidente USA G. W. Bush, chiusasi con un documento congiunto fir- (13): Non si era raggiunto, ad esempio, un accordo sulla questione del ritorno dei profughi palestinesi dopo la guerra del 1948. (14): Sharon é inoltre considerato, dai palestinesi, il responsabile morale se non addirittura il mandante del massacro di Sabra e Shatila, due campi profughi palestinesi, perpetrato nel settembre del 1992 da milizie cristiane libanesi in un’area direttamente controllata dagli israeliani durante l’invasione di questi in Libano. mato da Ehud Olmert e Abu Mazen, che impegna genericamente le due parti a proseguire le trattative sulla base comune della Road Map. L’attuale politica palestinese. Gli insediamenti ebraici in Cisgiordania continuano, secondo la rivista Limes dello scorso febbraio, come confermato recentemente dalla radio militare israeliana. In seguito alla morte di Arafat viene eletto a capo della ANP (Autorità Nazionale Palestinese) Abu Mazen. Sotto di lui in questi ultimi anni si segnala, da una parte, una politica dell’ANP più aperta al dialogo con Israele, dall’altra un inasprimento della lotta politica tra Fatah, l’organizzazione storica di Arafat di cui Abu Mazen ha raccolto l’eredità, e Hamas, l’organizzazione radicale islamica che negli ultimamente ha guadagnato vasti consensi nella popolazione. Sanguinosi scontri tra le due fazioni portano di fatto a un autogoverno di Hamas nella Striscia di Gaza. Dicembre 2008: la “terza intifada” di Gaza. Proclamata da Khaled Meshaal, leader politico di Hamas, a difesa del territorio, in seguito all’offensiva militare lanciata dall’esercito israeliano contro Gaza per neutralizzare i razzi lanciati da Hamas su Israele nel corso di tutto il 2008. Le operazioni militari di Israele consistono in un massiccio bombardamento delle sedi istituzionali di Hamas (talora anche di abitazioni civili e di strutture di assistenza umanitaria) e in frequenti raid di terra. Le elezioni politiche in Israele del febbraio 2009: il paese si sposta a destra. Pur ottenendo la maggioranza relativa, Kadima, guidato dalla giovane Tzipi Livni, Ministro degli Esteri uscente, non ha i numeri sufficienti per formare un nuovo Governo né da solo né con i potenziali alleati laburisti usciti fortemente ridimensionati; mentre i partiti di destra, con in testa il Likud, raggiungono la maggioranza assoluta di seggi alla Knesset, il Parlamento israeliano. Il leader del Likud Netanyahu, incaricato di formare il nuovo governo, il 16 marzo raggiunge un’intesa con Israel Beitenu, il partito nazionalista guidato dal controverso Avigdor Lieberman(15), ma in seguito, sorprendentemente, anche col partito laburista di Barak, nonostante metà del suo gruppo dirigente e parlamentare si dichiari fermamente contrario all’accordo. A questa coalizione eterogenea entrano infine a far parte altri partiti minori, due ultraortodossi e due di estrema destra. La situazione degli insediamenti ebraici in Cisgiordania. Lo scorso 12 marzo la radio militare israeliana conferma il progetto governativo di costruire in Cisgiordania 73.000 nuove case per 280.000 persone. Israele ha finora confiscato complessivamente il 52% della terra e ha costituito 232 colonie i cui abitanti (285.000, senza considerare Gerusalemme est) controllano il 52% del territorio; hanno in mano i 5/6 delle risorse idriche (su 41mila pozzi 32mila appartengono ormai ai coloni israeliani). Come mostra la rivista Limes di febbraio, la popolazione araba della Cisgiordania, di 2,4 milioni secondo le stime palestinesi del 2005(16), è stretta nella morsa degli insediamenti, delle strade di collegamento ad uso esclusivo dei coloni, dei posti di blocco e del Muro israeliano che non solo la circonda, ma in certi tratti penetra nel cuore profondo della regione. La Cisgiordania, in inglese West Bank(17), è stata ribattezzata da molti israeliani, a cominciare dai coloni, con l’antico nome di Giudea e Samaria, i due regni biblici a cui corrisponde all’incirca l’attuale regione, come a rivendicarne l’appartenenza ancestrale. La situazione di Gerusalemme est. Ma le attività edilizie che negli ultimi anni hanno proceduto a ritmi più frenetici si trovano a Gerusalemme est(18), la zona araba della Città Santa conquistata da Israele nel ’67 e successivamente annessa allo Stato ebraico. Si tratta di un’area particolarmente cruciale nel quadro di un accordo di pace definitivo tra Israeliani e Palestinesi, in quanto questi ultimi non sono disposti a concepire altrove la capitale di un futuro Stato palestinese. Lo status della città, capitale d’Israele secondo la legislazione israeliana dal 1980, rimane tuttora incerto nel contesto internazionale: nello stesso ‘80, con la Risoluzione 478, il Consiglio di Sicurezza dell’ONU ha dichiarato nulla tale legge, con la sola astensione degli Stati Uniti. Attualmente nessuna ambasciata straniera ha sede nella città di Gerusalemme. Di qua dal mare. Se invertiamo la prospettiva dell’immagine iniziale, in fondo a quella distesa d’acqua che si scorgeva all’orizzonte, ci siamo noi. Proviamo, dal nostro punto di osservazione al centro delMediterraneo, a rivolgere idealmente lo sguardo alla sponda orientale del nostro mare. Proviamo, per una volta, a esaminare la natura di questo conflitto senza atteggiamenti di pretesa superiorità, senza generici richiami alla pace universale, ma provando, con lo stesso approccio mimetico della tragedia greca(19), a riconoscerci nelle ragioni di entrambe le parti. (15): Accusato di portare avanti una politica antiaraba, d’impronta razzista, Lieberman ha coagulato nel so partito soprattutto i consensi dei numerosi immigrati ex sovietici di ultima generazione (di cui egli stesso fa parte). Abitante di un villaggio ebraico della Cisgiordania, si é recentemente dichiarato non ostile alla creazione di uno Stato palestinese, ma nel quadro di una ridefinizione dei territori e soprattutto di una futura “purezza” etnica della nazione israeliana. Ha fatto scalpore la sua recente proposta di imporre ai numerosi arabi israeliani (oltre 1,5 milioni di persone) un solenne “giuramento di fedeltà” allo Stato ebraico e il servizio militare. (16): Stime contestate da alcuni ambienti israeliani, anche se confermati dal Prof. Sergio Della Pergola, di origine italiana, uno dei più autorevoli studiosi israeliani di fenomeni demografici. (17): Così chiamata in inglese già in epoca coloniale, nel senso di “sponda occidentale” del fiume Giordano. (18): E’ del febbraio scorso la più recente protesta, con uno sciopero generale indetto a Gerusalemme est e in tutta la Cisgiordania, contro l’ordinanza del Comune di Gerusalemme che prevede la demolizione, nel quartiere di Silwan, di 88 edifici palestinesi, abitati da 130 famiglie (duemila persone) che verranno espropriate senza possibilità di appello. Secondo l’organizzazione pacifista israeliana “Peace Now”: nel corso del 2008, a Gerusalemme est, sono stati presentati progetti per 5431 unità abitative: di queste, ben 2730 hanno ottenuto l’approvazione finale (nel 2007 l’hanno ottenuta solo 391 alloggi). (19): La Tragedia Greca ci invita a pensare criticamente, a comprendere che Bene e Male sono avviluppati in un intreccio inestricabile. (20): Autore del libro “Le metamorosi di Israele”, UTET, 2.a edizione 2008. Ebreo piemontese, pioniere dell’impresa sionista dal 1939, soldato della guerra del 1948, diplomatico, professore universitario e intellettuale di fama internazionale, Dan Segre racconta un lungo processo evolutivo nella coscienza di Israele che ne ha fatto una creatura irriconoscibile per gli stessi sionisti delle origini. Segre considera la colonizzazione dei territori occupati molto più di un semplice ostacolo al processo di pace, ma come il vero e proprio “vitello d’oro” della politica israeliana. Proviamo innanzitutto a immaginarci arabi palestinesi: racconteremmo la storia di un popolo che si è visto privare della propria terra subendo massacri, saccheggi ed espropri, ad opera di uomini venuti da lontano, come se esso dovesse scontare la colpa della diaspora subita in epoca remota dai loro avi ad opera dei Romani. Racconteremmo un presente di campi profughi, di povertà ai limiti della sussistenza, di rabbia,di frustrazione… E se fossimo poi ebrei sionisti? Racconteremmo di un sogno carico di fascinazione che ha aggregato individui e comunità sparse per il mondo e spesso discriminate: il sogno di costituire una nazione nel luogo più simbolico della loro storia. E di come questo progetto fosse già arduo in partenza, visto che loro stessi, provenienti da ogni continente, erano privi di quella comune appartenenza culturale, persino linguistica, che costituisce il sostrato di una nazione. In questo contesto, già fortemente disomogeneo, era realisticamente praticabile la realizzazione di quel sogno all’interno di un tessuto etnico, culturale, religioso così distante, per giunta preesistente e dunque fortemente radicato in quella terra, come quello arabo? Come avrebbe potuto realizzarsi pacificamente? Si dice, non a torto, che il tempo ha il potere di far decantare ogni cosa. Ma il tempo della storia di solito è smisurato: negli ultimi decenni il protrarsi della contesa ha invelenito l’aria di questa terra, irrigidendo i due popoli non solo nel reciproco antagonismo, ma addirittura nell’affermazione della loro stessa identità: da una parte il fondamentalismo islamico sta catturando i consensi di una popolazione, quella palestinese, al cui interno fin dall’impero ottomano si era formata una classe intellettuale laica e imbevuta di cultura europea. Dall’altra emergono tumultuosamente sentimenti messianici, che si manifestano, ad esempio, nel processo di colonizzazione della Cisgiordania che appare oggi inarrestabile. Da Vittorio Dan Segre(20) “la congiunzione ibrida del nazionalismo laico pionieristico con lo sviluppo di un nuovo messianismo” viene vista come un vero cortocircuito collettivo, come un morbo capace di corrodere la fibra morale della nazione. Aspettiamo nel frattempo che l’aria di questo Mare, che porta il profumo del mirto e rende fertile di ulivi le sue sponde, sappia produrre il suo ennesimo miracolo alchemico… Prof. Luigi Pincini Di qua dal mare: Che l’aria di questo mare che ci unisce (il “nostro” Mediterraneo), che porta il profumo del mirto e rende fertile di ulivi le sue sponde, sappia produrre il suo ennesimo miracolo alchemico... Prospettive di Pace e Prospettive di guerra. Relazione del Prof. Alessandro Colombo Ordinario di Relazioni Internazionali all’Università degli Studi di Milano Anche nei prossimi mesi, malgrado le prevedibili iniziative della nuova presidenza Usa di Barack Obama, le prospettive di pace in Palestina resteranno deboli. La guerra del dicembre-gennaio non ha cambiato per niente la situazione – il che, da un punto di vista politico, equivale a dire che anche questa guerra è stata un fallimento. Mentre, sul versante interno, neppure la guerra è stata sufficiente alla coalizione Kadima-Laburisti a recuperare lo svantaggio nei confronti delle destre nazionaliste e religiose. L’unico effetto dell’ultima vampata del conflitto è stato, piuttosto, quello di produrre una ulteriore radicalizzazione delle parti: sul versante israeliano, con l’ascesa al potere del governo probabilmente più estremista nella storia di Israele; sul versante palestinese, con la crescita della separazione anche materiale tra Cisgiordania e Gaza, l’aggravamento dei rapporti tra Al-Fatah e Hamas, l’ulteriore perdita di potere e prestigio della leadership già debolissima di Abu Mazen. Ma che cosa rende così intrattabile la questione palestinese? Oppure, per dire la stessa cosa da una diversa prospettiva: che cosa ha reso e continua a rendere così difficile il negoziato? Il primo nodo riguarda proprio la grammatica di questo negoziato. Perché potesse e possa funzionare, esso richiederebbe almeno due condizioni elementari: l’esistenza di parti sufficientemente forti e autorevoli da essere in grado di scambiarsi concessioni reciproche e farle accettare dalle rispettive opinioni pubbliche; l’iniziativa di un terzo, un mediatore esterno, abbastanza autorevole a propria volta da potere supplire alla mancanza di fiducia delle parti in conflitto, e abbastanza intelligente da comprendere che, in un conflitto ineguale tra una parte forte e una parte debole, il ruolo di un mediatore efficace non è quello di restare equidistante, bensì quello di fare pressioni sul contraente forte (visto che quello debole è già soggetto alle pressioni di quest’ultimo). Gli Stati Uniti, oltre tutto, hanno già dimostrato nel dopoguerra di conoscere benissimo questo paradosso. Quando decisero di intervenire nella guerra della ex Jugoslavia, contro il parere delle Nazioni Unite e della Comunità Europea che insistevano sull’equidistanza e, quindi, sull’embargo totale alla vendita di armi a tutti i contendenti, gli Usa sostennero che l’equidistanza non avrebbe fatto altro che cristallizzare lo squilibrio tra le forze serbe e tutti gli altri; mentre l’unico modo di convincere i serbi a fermare le operazioni militari sarebbe stato quello di sostenere i più deboli fino a ricreare un equilibrio. La scelta degli Usa si rivelò, al di là di ogni altra considerazione politica e giuridica, diplomaticamente e militarmente più efficace di quella europea. Ma, appunto, lo stesso dovrebbe valere per il conflitto israelo-palestinese. Non c'è bisogno di fare ulteriori pressioni sulle leadership palestinesi, perché c’è già Israele a fare pressioni di ogni tipo su di loro! Al contrario, occorrerebbe qualcuno che facesse pressioni su Israele, e solo gli Stati Uniti possono fare questo mestiere, non certo le Nazioni Unite o i paesi europei. Qui gli americani, proprio sul piano della grammatica del negoziato, hanno sbagliato e continuano a sbagliare. Rimane poi l’altro nodo che ha fatto fallire il negoziato: il negoziato è fallito perchè le parti si sono indebolite, e proprio nel momento decisivo, cioè nel momento in cui sarebbe stato necessario fare concessioni. Questo vale tanto per cominciare per la leadership palestinese (ricordate il lento declino di Arafat, bollato come terrorista all'esterno e come corrotto all'interno). Questo vale per le leadership israeliane: dopo Rabin non c'è stato più nessun leader forte interessato al negoziato; ci sono stati sì leader forti, come Netanyahu, ma poco interessati al negoziato o invisi a una parte consistente dell’opinione pubblica di Israele. E questo vale per lo stesso mediatore americano, il cui potere e il cui prestigio in Medio Oriente è diminuito continuamente negli ultimi quindici anni, fino al disastro politico e diplomatico dell’amministrazione Bush. A che punto siamo adesso? Adesso siamo in una posizione che può sembrare migliore ma in realtà è peggiore: può sembrare migliore perchè non c'è più George Bush e c'è Barak Obama. Barak Obama in realtà non ha ancora impresso una vera svolta, ma gode di un credito assoluto; l'uomo sa benissimo di godere di questo credito; è dotato di un carisma straordinario e per alcuni mesi potrà giocarsi questo carisma e credo che giocherà questo carisma. Il problema è che Barak Obama in Palestina non troverà nulla. Da un lato troverà un governo israeliano al limite della presentabilità e con una società israeliana divisa, lo vedremo tra poco, come mai è stata divisa. Dall’altro lato troverà un vero e proprio deserto, cioè la mancanza totale di una leadership palestinese. Sulla mancanza di una leadership palestinese c'è, anche in questo caso, una grave responsabilità internazionale, non solo americana ma anche, perché no, europea. Le leadership palestinesi negli ultimi 15 anni sono state sistematicamente massacrate dall'esterno: è stato massacrato Arafat prima, è stata massacrata la nuova leadership di Hamas poi. Si sono poste in modo scientifico le condizioni per la guerra civile interpalestinese e la divisione attuale della Palestina non è il risultato di un accidente storico, ma è il risultato di una politica preordinata: quella che oggi può consentire a Israele di dire “Io non posso trattare con la Palestina perchè non c'è nessuno che parli a nome della Palestina”. Ma ci sono cose che credo interessino di più in una scuola e dal punto di vista storico: questa debolezza delle parti non è soltanto una debolezza politica, ma è una debolezza identitaria, e la questione israelo-palestinese e il negoziato israelo-palestinese risente di una crisi cronica delle identità. Questo è un problema immane, perchè è facile fare concessioni ad un altro quando almeno si è sicuri della propria identità: voi sapete chi siete e partendo da chi siete potete cedere una parte di quello che avete. Ma cedere una parte di quello che avete quando non sapete ancora fino in fondo chi siete significa letteralmente vivere la concessione come un'amputazione identitaria. Questo è un problema che ha pesato su tutto il corso del conflitto israelo-palestinese e che pesa tutt'ora. Tanto per cominciare pesa sulla cosiddetta identità nazionale palestinese. Non dimentichiamoci come è nata questa identità nazionale: l'identità nazionale palestinese non è semplice così come non è semplice l'identità nazionale di qualunque altro popolo o di qualunque stato arabo. L’identità araba è una sorta di ginepraio, forse con l'unica eccezione dell'Egitto. L'identità araba da 50 anni a questa parte si è costruita su un equilibrio fragilissimo. Da un lato gli arabi, come tutti i paesi del terzo mondo o come tutti i paesi usciti dalla colonizzazione, hanno costruito la loro identità sull'idea di nazione. Dall’altro lato, l'idea di nazione dava agli arabi un'identità che non era quella dei loro stati esistenti, perchè l'unica nazione che esista è la nazione araba, ma la nazione araba è un'unica nazione araba. E allora come è possibile costruire identità separate all'interno di un'identità che richiama continuamente il tema dell’unità? Questo è un po' il ginepraio dell'identità in quella regione; da un lato c'è l'esigenza di costruire identità separate (siriana, giordana, irachena, palestinese ecc.) e dall'altra ci sono due grandi richiami unitari: quello della grande nazione araba (Nasser, Saddam Hussein) e quella dell'Umma islamica. Tutti e due negano le identità separate. E non è un caso che, quando nasce l'OLP nel 1964, lo statuto dell'Organizzazione per la Liberazione della Palestina non parla affatto di nazione palestinese, ma parla ancora di “arabi di Palestina”. È ancora la nazione araba a essere in gioco! E' un pezzo della nazione araba, non è una nazione separata. Quando cambia lo statuto? Cambia dopo il 1967, dopo la catastrofe della Guerra dei Sei Giorni; è lì che, di fronte alla sconfitta di Nasser - che è la sconfitta del nazionalismo arabo nel suo insieme - i palestinesi cominciano a pensare a se stessi in termini di “popolo”, non di “pezzo di popolo arabo” ma popolo a se stante. E ciò è doppiamente rilevante, perché significa che l'identità nazionale palestinese nasce da una sconfitta e dall'esperienza dell'occupazione, e non c'è identità nazionale palestinese al di fuori della sconfitta e dell'occupazione. E per Israele le cose non sono tanto più semplici (lo ha già richiamato l'introduzione storica): Israele nasce con un problema identitario. Che cosa deve essere Israele? Cosa deve essere uno stato per gli ebrei? Che rapporto c'è fra ebraismo e sionismo? E come definire l'ebraismo? Attraverso il sionismo o attraverso l'appartenenza religiosa? Questi sono problemi che Israele affronta sin dall’inizio della propria storia, e non smette mai di porsi. Poiché non abbiamo tempo vi accenno soltanto a come si pongono oggi. Tanto per cominciare si pongono, appunto, e temo che questo sarà uno dei motivi di lacerazione politica del prossimo governo israeliano. Da un lato questi problemi si pongono in relazione agli arabi-israeliani che vivono entro i confini di Israele: questi arabi hanno la cittadinanza di Israele ma non sono cittadini israeliani come gli altri, e voi sapete che uno dei partiti che con ogni probabilità parteciperà alla coalizione di governo, il partito ultranazionalista di Lieberman, ha una soluzione molto radicale al problema, cioè l'espulsione. Un progetto che nasce da una delle angosce di Israele degli ultimi dieci anni, quella che in Israele viene considerata una bomba a orologeria demografica, e cioè il fatto che la componente araba all'interno di Israele continua a crescere per pure e semplici ragioni demografiche. Come risolvere il problema? Come mantenere l'identità ebraica di Israele con una crescita di questo tipo della popolazione araba? L'altro pezzo della crisi d'identità di Israele è quello che abbiamo visto riflesso nei risultati delle elezioni, che non vanno semplicemente letti in termini di confusione politica, perchè la confusione politica è, a propria volta, l’epifenomeno di una crescente confusione identitaria. Allora che cosa è successo nelle ultime elezioni israeliane? E' successo tanto per cominciare che è stato spazzato via il partito laburista, quello dell'identità originaria di Israele: il partito degli ebrei di origine europea, il partito ashkenazita e socialista e, appunto, il partito di Rabin. Oggi il partito laburista è in caduta libera e tutti sappiamo che resterà in caduta libera. E allora che cosa c'è al posto della soluzione identitaria del sionismo del partito laburista? C'è il nazionalismo del Likud. Il Likud è un'altra soluzione identitaria, ma è un altro pezzo di mondo ebraico: il Likud ha racchiuso dall'inizio l'ebraismo sefardita e gli ebrei venuti via dai paesi del Medio Oriente dopo il 1948 e dopo il 1967, cacciati dai paesi del Medio Oriente come rappresaglia per la cacciata degli arabi dei territori di Palestina. E' inutile dire che è un'identità, anche in termini religiosi, totalmente diversa. Poi c'è il vecchio partito della destra religiosa, Shas, anche questo un partito identitario: è l'identità di Israele come identità religiosa. E poi c'è questo nuovo partito di Lieberman, che raccoglie gli ebrei, e in qualche caso i finti ebrei, di nuovissima immigrazione dalla Russia e dai territori dell'ex Europa orientale comunista. Anche questo è un progetto identitario ma, ancora una volta, diverso; nazionalista ma per niente religioso, tanto che Lieberman non vuole stare nello stesso governo con Shas. Ma all’identità si collega anche a un ultimo grande nodo del negoziato, quello della memoria. Il nodo della memoria è un nodo di comunicazione culturale; per questo credo che sia un'altra delle ragioni fondamentali per le quali il conflitto israelo-palestinese è risultato intrattabile e risulta intrattabile. Questo conflitto è il luogo di confluenza e di scontro di due memorie storiche diverse che racchiudono probabilmente due delle vicende più importanti del Novecento. Una è la memoria storica attraverso la quale Israele guarda se stesso e la memoria storica attraverso la quale noi, in Europa e negli USA guardiamo ad Israele, cioè la memoria storica della Shoa e la memoria storica di quello che è avvenuto in generale nel novecento In Europa. Questo è il retroterra, la memoria, la vicenda storica sulla quale noi proiettiamo, che lo sappiamo oppure no, questo conflitto. Sennonché gli arabi non attivano questa memoria storica, perchè per il mondo arabo, per tutto il mondo islamico e per una larghissima parte del terzo mondo (pensate soltanto a quello che scriveva su questo Gandhi) la storia di Israele non è la storia della Shoah. La storia di Israele appare piuttosto come un pezzo della storia della decolonizzazione, ed è da qui che Israele può diventare quello che dice il presidente iraniano Ahmadinejad: un anacronismo, un paese coloniale che nasce nell’epoca in cui finisce il colonialismo. Tutte e due, la Shoa e la decolonizzazione, sono vicende innegabili del novecento. Ma, ancora una volta, quello che conta è la differenza di percezioni, una differenza di percezioni che non ha a che fare con l'invenzione ma con esperienze diverse. A maggior ragione perché queste due esperienze, queste due memorie, trovarono per tutto il novecento un grande terreno di mediazione, il socialismo e il nazionalismo - il terreno di mediazione sul quale, non a caso, viveva Arafat. Attraverso quel linguaggio comune, questi due linguaggi e queste due memorie potevano trovare una sorta di narrazione comune. Con la fine della guerra fredda, invece, anche questo terreno comune è venuto meno. Contrariamente a quello che ci suggerisce il chiacchiericcio della globalizzazione, il nostro contesto politico, culturale e ideologico non è un contesto di avvicinamento e restringimento del mondo ma, invece, è un contesto di scomposizione, di allontanamento. Oggi la questione palestinese è infinitamente più lontana da noi di quanto non fosse nel periodo della guerra fredda, perchè viene declinata con un linguaggio che non è più il nostro. Se voi andate a guardare quali sono le rivendicazioni di Hamas non pensate di trovare qualche cosa di essenzialmente religioso: Hamas non chiede più moschee nei Territori Occupati e non chiede l'islamizzazione dei Territori Occupati. Hamas chiede ESATTAMENTE quello che chiedevo il Fronte del Rifiuto degli anni 60, e le stesse cose che chiedeva lOLP negli anni 70 e 80. Ma con una differenza: l'OLP richiedeva queste cose in un linguaggio che era anche il nostro; Hamas esprime queste stesse rivendicazioni in un linguaggio che non è il nostro e che noi non possiamo comprendere. Malgrado internet, la questione palestinese, come tante altre questioni politiche e sociali, non si è affatto avvicinata, anzi si è drammaticamente allontanata. Prof. Alessandro Colombo LA GUERRA GIUSTA La Val Badia è un posto meraviglioso che si trova tra le montagne più belle del mondo: le Dolomiti. Com’è ovvio che sia, trattandosi di un territorio montagnoso, vi si trovano rifugi alpini incantevoli. Sopra il passo Falzarego, tra Corvara e Cortina, ce n’è uno che si chiama “Scotoni Hütte”. Nelle sue vicinanze c’è una chiesetta, molto suggestiva, costruita dagli Alpini in memoria dei caduti della Grande Guerra, dove ho trovato un opuscolo che riportava questo pensiero: “La Guerra è un massacro, tra milioni di persone che non si conoscono, nell’interesse di poche persone che si conoscono benissimo; ma che non si massacrano” Questa frase, evidentemente scritta da chi di Guerra se ne intende, mi ha fatto tornare alla mente una domanda che mi sono fatto tante volte: “esiste la Guerra Giusta?”. La “Guerra”, probabilmente, è antica quanto l’Uomo. Però a volte mi domando se, almeno anticamente, che so, ai tempi di Leonida o di Carlo Magno, non ci sia mai stato un momento di “Onestà della Guerra”, un momento in cui si è combattuto per motivi “Giusti”. Sappiamo che c’è stato un tempo in cui, la Guerra, era regolata da una sorta di Princìpi e Valori. Basti pensare ai Codici Cavallereschi; i quali hanno fornito, in una certa misura, una specie di “Etica della Guerra”. Tradizionalmente, infatti, le guerre venivano combattute essenzialmente fra eserciti. Chi batteva l’avversario sul campo: vinceva. Le popolazioni civili soffrivano la loro parte di privazioni, ma normalmente non venivano coinvolte direttamente nei conflitti. E’ vero anche che ci sono stati casi di ignominia colossale… Guardando in “casa nostra”, ad esempio, ci sarebbe molto da dire sul processo di unificazione della penisola italica: massacri di contadini, eliminazione fisica di oppositori politici e intellettuali, latifondisti letteralmente rapinati di tutti i loro averi… Tutto questo, naturalmente, ad opera dei nostri eroi nazionali in camicia rossa e in nome della Patria, si intende… Un volta unita, però, l’Italia non ci ha regalato giorni migliori… Qualcuno si ricorderà del “grande generale” Bava Beccaris che, nel maggio del 1898, ordinò di sparare cannonate sui milanesi, che chiedevano pane, provocando una strage… Lo hanno decorato e fatto Senatore (Gaetano Bresci, però, ha fatto Giustizia!)… Chissà cosa avrebbero detto, gli Eroi del Risorgimento Italiano, se il Maresciallo Radetzky avesse fatto lo stesso… Queste cose non vengono riportate nei vostri libri di testo… La Prima Guerra mondiale, poi, è stata come un grande spartiacque; nel senso che, grazie all’innovazione tecnologica, sono stati utilizzati strumenti di morte talmente potenti da causare un’ecatombe... Si, ci sono stati anche episodi di “valore cavalleresco”, come quelli che hanno visto personaggi dello spessore di Manfred von Richtofen, il famoso Barone Rosso, che si ritirava dal duello aereo quando si accorgeva che l’avversario aveva l’arma inceppata, o scendeva lui stesso a soccorrere il nemico ferito… Ci sono stati anche episodi di cameratismo, fra truppe nemiche, quando gli opposti eserciti si concedevano delle “pause” per consentire il soccorso dei loro feriti… In generale, però, la Grande Guerra è stata caratterizzata da ufficiali che ordinavano attacchi suicidi in massa, solo per compiacere il loro Re, mandando al massacro migliaia di giovani, poco più grandi di voi… e chi se la “faceva sotto” e si ritirava dall’assalto (a causa di una resistenza troppo accanita): VENIVA FUCILATO… Questa pratica veniva chiamata “decimazione” (uno ogni dieci veniva “giustiziato”). Non sto alludendo alla nazione che pensate voi… sto parlando della nostra Italia… Bisogna riconoscere che l’Italia, di guerra, se ne intende… Provate a chiedere, ai vostri “prof” di storia, quante guerre sono state dichiarate da Piemonte e Regno d’Italia, magari confrontandole con il numero di quelle ricevute… Nell’estate del 1945 è stata addirittura dichiarata guerra ad un Giappone moribondo, mentre si caricavano le bombe atomiche destinate a Hiroshima e Nagasaki… Resterete meravigliati… ne abbiamo dichiarata una persino alle mosche, ma non se ne è più parlato, forse perché l’abbiamo persa… Temo che nemmeno queste cose siano riportate nei vostri libri… Non intendo certo dire che il Regno d’Italia fosse l’unico paese crudele o criminale; ce ne sono molti altri che hanno gareggiato più che dignitosamente… Robert Stinnet, nel suo “Day of Deceit” (in Italia: Il Giorno dell’Inganno), ha portato alla luce un’ imponente documentazione, desecretata negli anni ’90, che dimostra che il Presidente Roosvelt non solo sapeva dell’attacco a Pearl Harbor, ma ha fatto di tutto per provocare la reazione del Giappone, sapendo che sarebbero andati a colpire in quel punto preciso… Lo scopo era quello di far uscire gli USA dal loro isolazionismo (e non certo per motivi umanitari). Stinnet parla di quella scoperta come dello shock più terrificante della sua vita… I vostri libri di testo, cosa dicono al riguardo? Ma non solo gli altri sono “cattivi”… Parlando di tempi più recenti, marzo 1999, l’Italia ha partecipato ai bombardamenti NATO sulla ex Yugoslavia, violando la sua Costituzione e causando più di 10.000 morti tra i civili, donne, bambini, uomini, anziani e non… Al Governo c’era una persona che, fino a qualche anno addietro, manifestava in piazza per l’uscita dell’Italia dalla NATO e in seguito ha dichiarato che i nostri aerei hanno, si, volato sulla Yugoslavia; ma non l’hanno bombardata… Stendiamo un velo pietoso sulla vicenda delle munizioni all’uranio impoverito e alle vittime che hanno causato tra i “nostri” ragazzi, che sono stati mandati allo sbaraglio, senza la minima preparazione in materia… Con tutto ciò, SIA CHIARO, che non intendo criticare questo o quel governo, piuttosto che questo o quel paese… Quello che cerco di dire è che la guerra è SEMPRE sbagliata; perché “massacra milioni di persone che non si conoscono, nell’interesse di poche persone che si conoscono benissimo; ma che non si massacrano”… Non può esistere, quindi, la Guerra Giusta… Non intendo entrare nel merito di argomenti che, i relatori di oggi, conoscono meglio di me… Voglio invitarvi, semplicemente, a NON ACCONTENTARVI della COMODA OPINIONE che i media cercano di vendervi… Sono molti i casi in cui la “Supposta Verità”, che non è un farmaco da assumere per via esclusiva, è stata smentita… Si pensi alla schiavitù nell’antico Egitto, allo “spirito” delle Crociate, o della Santa Inquisizione, al processo subito da Galileo Galilei… Sarebbe bello vedervi impegnati nella ricerca, se non della Verità, di informazioni più complete e obiettive... I mezzi per formarvi un’opinione personale, al giorno d’oggi, non mancano… Anche perché, un giorno, qualcuno potrebbe venire a bussare alla vostra porta… e i problemi, che oggi sono solo degli altri, potrebbero diventare i vostri… Quel giorno potrebbe rivelarsi utile sapere come si sono svolte veramente le cose… Per quanto mi riguarda… spero vivamente che i personaggi che controllano i media e la “Cultura“ abbiano il mio stesso desiderio: quello di non trovarsi mai, in un futuro più o meno prossimo, nella penosa e imbarazzante situazione, di sentirsi chiedere dai propri figli: “Perché ci avete mentito?” Milano, 24 febbraio 2009. Massimo Mainardi (Comitato Genitori) SEGNALAZIONI BIBLIOGRAFICHE E “WEB MEDIA” La Storia dell’Altro Israeliani e Palestinesi a confronto Un progetto nato cinque anni fa, in seno a un’ONG, per mettere a confronto le diverse storie nawionali di Israele e Palestina. Un gruppo di insegnanti israeliani e palestinesi hanno scritto un manuale di storia per gettare le basi di una convivenza comune ed é diventato un libro. Con la presentazione di Walter Veltroni, la prefazione di Pierre Vidal-Naquet e l’introduzione di Dan Bar-On, Sam Adwan,Eyal Naveh, Adam Mussallam. I Sette Pilastri della Saggezza T. E. Lawrence (Ed. Bompiani - Collana Bompiani Overlook) Dopo essere riuscito, praticamente da solo, a organizzare un esercito arabo e a guidarlo alla vittoria contro l’oppressore ottomano, durante gli anni della Prima Guerra Mondiale, T. E. Lawrence, passato alla Storia come “Lawrence d’Arabia”, comprende che l’appoggio inglese, alla causa di indipendenza araba, non é che un atto di facciata finalizzato a consolidare la potenza coloniale britannica in area mediorientale. È così che Lawrence, archeologo, scrittore, avventuriero, capo militare profondamente innamorato dell’Oriente e della sua cultura, si dimette dalla carica di consigliere politico degli Affari Arabi, rifiuta la carica di Viceré delle Indie e l’onoreficenza della Victoria Cross offertagli al valor militare e si ritira a vita privata. Da questo libo di memorie, pubblicato integralmente solo nel 1936, sarà tratto il film che ha reso celebre questa incredibile, romantica figura di eroe moderno. Sulla narrazione epica, tuttavia, prevalgono il senso di poesia, di profonda riflessione sull’animo umano, la contemplazione del fascino e della profondità della cultura orientale, l’ammirazione per un popolo indomito, il fascino e i misteri d’Arabia. I frequenti errori di traduzione non compromettono il fascino di quest’opera. SUL WEB: www.btselem.org B’ Tselem é un’associazione di intellettuali israeliani, che si batte per la difesa dei Diritti palestinesi. Drammaticamente dettagliato, offre la panoramica più completa della vicenda israelo-palestinese. Impossibile restare indifferenti di fronte alle loro statistiche, resoconti e testimonianze. Grande scalpore ha suscitato la loro recente iniziativa “Shooting Back”; attraverso la quale sono state distribuite, ai palestinesi dei Territori Occupati, centinaia di videocamere per riprendere le ingiustizie di cui sono testimoni. GALLERIA FOTOGRAFICA Theodor Herzl Padre del Sionismo Sir Henry MacMahon Alto Commissario in Egitto Il Sovrano Hussein Sceriffo della Mecca Thomas Edward Lawrence “Lawrence d’Arabia” Winston Churchill Un giovanissimo politico rampante Re Faisal I dell’Iraq A Versailles con i suoi sostenitori Ben Gurion Leader dell’Haganah Conte Folke Bernadotte Diplomatico svedese assassinato dalla banda Stern Chaim Weizmann Primo Presidente di Israele Yitzhak Rabin Premio Nobel per la Pace, assassinato da un colono estremista Ehud Olmert Leader di Kadima Shimon Peres Già Presidente di Israele, premio Nobel per la Pace Yasser Arafat Leader storico dell’OLP, premio Nobel per la Pace Abu Mazen Successore di Arafat alla guida di Fatah Khaled Meshaal Leader di Hamas Camp David Il Presidente USA Bill Clinton con i premi Nobel per la Pace Rabin e Arafat Ariel Sharon Ex leader del Likud Sir Arthur Balfour Autore della lettera a Edmond Rothschild Abdul Hamid Il Sovrano Ottomano Edmond Rothschild Forse il massimo esponente del neonato Sionismo Mark Sykes Il Ministro inglese Georges Picot Il Ministro francese Kemal Ataturk Respinse gli inglesi e fondò la moderna Turchia Edwin Samuel Montagù Tra i massimi esponenti del Sionismo inglese Lord Reading Moses Haim Montefiore Avraham Stern Fondatore del gruppo Lehi conosciuto poi come Banda Stern Gamal Abdel Nasser Leader egiziano della politica antioccidentale e anti-israeliana Road Map Sharon, Bush e Abu Mazen Avigdor Lieberman Leader di Israel Beitenu, il partito Nazionalista Israeliano Benjamin Netanyahu Leader del Likud Curiosità Una delle manifestazioni anti Israele tenuta da ebrei ortodossi in USA Tzipi Livni Attuale guida di Kadima Barak Obama Portatore di nuove speranze?