RIASSUNTO
La tesi propone una ricerca fatta con i pazienti malati di SLA e con i loro
caregiver, tramite la somministrazione di Questionari. Il lavoro mira a
reperire informazioni sull'importanza di avere un Infermiere di riferimento
durante una malattia progressivamente ingravescente, con lo scopo di
migliorare le cure prestate, migliorare i rapporti interpersonali e diminuire i
costi per le aziende sanitarie.
I Questionario sono identici per le due parti, in modo da poter essere
confrontati. Inoltre da ogni punto di vista potevamo reperire informazioni
su cui ragionare e lavorare.
I risultati, pensando che il lavoro è stato fatto solo su carta, sono stati
positivi e forse anche sorprendenti. Sono stati molti i consensi, sia da una
parte che dall'altra, sul progetto proposto. Inoltre sono emerse
problematiche che non erano state prese in considerazione e che possono
trovare risoluzione anche in questa maniera.
Dal punto di vista dei rapporti interpersonali, come avevamo presupposto,
abbiamo visto che la comunicazione spesso non è efficacie e le due parti
possono avere pensieri totalmente opposti.
Intervenire instaurando l'Infermiere di riferimento sembra poter
migliorare il modo di affrontare la malattia presso il proprio domicilio.
1
INDICE
1
INTRODUZIONE
1.1
Presentazione del problema e rassegna della letteratura
1.2
Contenuto della tesi
5
8
2
INTRODUZIONE ALLA MALATTIA
2.1
Sclerosi Laterale Amiotrofica - La malattia
2.2
L'approccio multidisciplinare per migliorare la qualità di vita
12
16
3
LE “BUONE PRATICHE” UTILI SECONDO IL PUNTO
DI VISTA INFERMIERISTICO
3.1
La teoria della “STANZA”
3.2
La comunicazione amica della cura
3.3
Mai più solo - I caregiver a fianco del malato
3.4
Lavaggio delle mani - Pratica fondamentale
in tutti gli stati di malattia
3.5
Le altre pratiche fondamentali
4
UNO STUDIO INFERMIERISTICO
4.1
La spinta iniziale - Introduzione alla ricerca
4.2
Costruire per capire - La metodologia di ricerca
4.3
Il dato fondamento della disciplina
4.4
Il miglior sistema sanitario
Come questo intervento dovrebbe migliorare il SSN
40
48
55
61
68
86
91
97
119
5
RINGRAZIAMENTI
5.1
Grazie a…
127
6
BIBLIOGRAFIA
131
2
Tabelle
133
Appendice A: Questionario per i pazienti
138
Appendice B: Questionario per i caregiver
139
Appendice C: Lavaggio sociale delle mani
140
Appendice D: Igiene intima a letto
141
Appendice E: Bagno a letto
142
Appendice F: Spostamento del paziente dal letto alla carrozzina e viceversa
144
3
4
1
INTRODUZIONE
1.1
Presentazione della problematica e rassegna della letteratura
Esistono non poche famiglie con persone malate in cui si devono improvvisare
pratiche per l’igiene e la cura personale del malato. Ho quindi ipotizzato che una figura
professionale possa non solo spiegare le “buone pratiche assistenziali”, ma anche
seguire il paziente e la sua famiglia in un percorso strutturato a seconda delle loro
esigenze.
Le
problematiche
che
vengono
affrontate
si
collocano
in
un
ambiente
extraospedaliero, dove persone inesperte si trovano a dover prendersi cura di un malato
di Sclerosi Laterale Amiotrofica (SLA) la cui sintomatologia evolve progressivamente.
Questo tipo di malattia viene curata, per lo più, ambulatorialmente e spesso alcune
domande possono rimanere soffocate nella mente delle persone.
Abbiamo supposto di instituire un Infermiere di riferimento utile in diversi ambiti.
Dobbiamo peraltro ricordarci che le abitazioni delle persone non possono, e non
devono, diventare delle stanze di ospedale! Invero, nel caso della SLA ci avviciniamo
molto a questa trasformazione con il passare del tempo, ma deve essere trovato un
giusto compromesso, in modo da poter fornire una buona assistenza senza dover
spersonalizzare il luogo nel quale vive il paziente.
Il ruolo dell’infermiere deve essere utile per il paziente, per i caregiver e per il
Sistema Sanitario Nazionale (SSN) . Nel prendersi cura del paziente le persone devono
sapere quali sono le cose importanti da tenere in considerazione durante l’assistenza
anche durante la “degenza domiciliare”.
I caregiver possono sentirsi più tranquilli dopo aver preso dimestichezza con queste
tecniche. Si punta anche alla prevenzione di malattie da stress psicofisico diminuendo la
fatica fisica derivante da manovre sbagliate. Il tutto va a vantaggio di una convivenza
più serena.
Le aziende ospedaliere ricevono così benefici con un impatto positivo sui costi. Un
solo infermiere può essere riferimento per più famiglie e può risolvere molti problemi,
anche in collaborazione con il medico di famiglia, riducendo il numero degli accessi in
5
ospedale. Basti pensare ad un’ulcera da pressione, ad un’eventuale infezione o ad altri
problemi non urgenti. Si cercherà di arrivare ad un’autonomia del caregiver nel
prendersi cura del paziente.
Da un punto di vista relazionale l’intervento di un infermiere dovrebbe migliorare il
rapporto che si instaura tra le persone durante la malattia. Alcune situazioni di tensione,
come vedremo, portano le persone ad avere pensieri contrastanti senza nemmeno
esserne a conoscenza. Per questo motivo ho creato la “Teoria della stanza del malato”.
La motivazione che mi ha spinto a fare questa ricerca è la mia esperienza di nipote
all’epoca quindicenne, totalmente estraneo alle pratiche assistenziali, che non sapeva
bene come, con gli altri familiari, gestire il nonno affetto da SLA.
Sono ricorso così ad un questionario molto semplice, ideato da me, per sapere se
anche altre persone al mio posto e al posto di mio nonno sentano il bisogno di un aiuto.
Vorrei cercare di capire, anche, come un infermiere (ospedaliero o domiciliare) debba
“evolversi” nel suo lavoro secondo le persone intervistate.
Questa metodologia è nata dall’idea di poter lasciare liberi i pazienti ed i loro familiari
di scegliere se e come rispondere.
Dobbiamo ricordarci anche che oggi l’assistenza domiciliare è un campo sempre più
vasto, in quanto si cerca di trattenere un paziente in ospedale il meno possibile: questo è
un vantaggio per i pazienti che nel proprio ambiente stanno meglio; per i familiari che
non devono preoccuparsi di andare continuamente in ospedale; e per le aziende
ospedaliere che riducono i loro costi.
Sappiamo, però, che ogni medaglia ha il suo rovescio, e in molti casi l’assistenza
domiciliare non riesce a risolvere tutte le problematiche che crea la SLA. Se pensiamo a
medicazioni, prelievi o in generale alla gestione di malattie diverse dalla SLA, vediamo
come l’assistenza domiciliare abbia a tutt’oggi un ruolo completamente diverso da
quello descritto da me. Pazienti con malattie diverse vengono accolti in strutture
sanitarie dove possono passare la maggior parte della giornata per poi tornare a casa:
tutto questo è più problematico con i pazienti affetti da SLA, che fanno esperienza di una
continua progressione di malattia in presenza - il più delle volte - di un
normofunzionamento cognitivo.
6
Prima di iniziare il mio lavoro e di costruire un mio questionario ho cercato su siti
specialistici qualcosa di simile, fatto anche in altri ambiti, ma non sono riuscito a
trovare alcun dato.
Sono certo dell’importanza della mia ricerca, sapendo quanto sia fondamentale
prendersi cura del paziente in maniera olistica. Anche se alcune considerazioni possono
sembrare scontate, sono certo che altre non lo siano affatto, e che questa è una di quelle
problematiche che, nonostante sia davanti alle persone ogni giorno, non viene presa in
debita considerazione.
7
1.2
Contenuto della Tesi
La Tesi ha l’obiettivo di riportare l’attenzione sull’assistenza domiciliare affrontando
il problema con i diretti interessati e mettendo in evidenza quelle che sono le “Buone
pratiche dell’assistenza” nella SLA, una malattia neurologica a decorso progressivo
gestita per lo più ambulatorialmente.
Andare a sostituire il paziente nelle sue attività pratiche di ogni giorno non è facile,
soprattutto all’inizio, e le tecniche usate in infermieristica devono essere divulgate a chi
svolge questi compiti a domicilio. La malattia comporta che con il passare del tempo le
condizioni cliniche peggiorino, e quindi non si può spiegare tutto alle persone nel solito
momento. Fornire un bagaglio di informazioni non utili sul momento porta a
dimenticarle: per questo devono essere comunicate mano a mano che necessitino.
Anche l’utilizzo di opuscoli informativi è stato omesso in quanto potrebbero nascere
dubbi che non verrebbero colmati: possono essere però usati come promemoria.
Viene preso in considerazione anche il punto di vista psicologico: è importante capire
se un nfermiere di riferimento possa rivestire un ruolo significativo nel sostenere le
persone durante i cambiamenti ingenerati dalla malattia. Ogni nuova condizione porta
con sè dubbi, preoccupazioni ed incertezze.
L’obiettivo generale è, quindi, cercare di migliorare la qualità di vita del paziente e
supportare i caregiver nella loro attività. Condividere le problematiche e cercare
soluzioni, creando un percorso di diagnosi infermieristica, dovrebbe essere la naturale
conseguenza di una visione olistica del paziente. Oltre alla cura della malattia, compito
tipicamente medico, si prende in considerazione la persona in quanto tale. Tutto questo
per cercare di prevenire l’insorgenza di complicazioni nel paziente e di nuove malattie
nel caregiver, come ad es. un ernia discale.
La Tesi inizia con un’introduzione sulla malattia per far capire di che cosa si tratta, e
prosegue con un Capitolo fondamentale nel trattamento delle malattie: la
multidisciplinarietà.
Quest'ultimo prende in considerazione anche tutte quelle figure professionali che
dovrebbero lavorare con un malato di SLA, indicandone per ognuno le funzioni
8
all’interno del percorso terapeutico.
La cura di moltissime malattie richiede l’intervento di più professionisti. La figura che
cura la malattia, il medico, è sempre presente e non può essere omessa; l’altra figura che
dovrebbe in molti casi far parte dell’équipe assistenziale è quella dell’infermiere che
deve prendersi carico del paziente.
La terza Sezione inizia con una teoria che ho elaborato personalmente. Questa teoria
vale per tutte le malattie, non solo per la SLA: intitolata la “Teoria della stanza” spiega il
mio punto di vista su come dovrebbe essere visto un malato.
Il Secondo Capitolo spiega l’importanza della comunicazione ed i vantaggi che porta
nella cura di una persona. Poter comunicare è tanto rilevante quanto capire l’importanza
di trovare metodi alternativi per chi non può comunicare verbalmente: si arriva a
spiegare perché il colloquio è preferito rispetto ad altri mezzi.
Il capitolo successivo illustra per quale motivo sia stato scelto di spiegare queste
pratiche piuttosto che altre: è fondamentale capire la loro importanza per lo sviluppo di
tutta la Tesi.
Successivamente il Quarto Capitolo va a spiegare l’utilità del lavaggio sociale delle
mani e quando farlo: vengono menzionate anche alcune ricerche a sostegno di questo
importante atto. E’ fatto anche un accenno sul frizionamento settico delle mani, visto
che può sostituire il lavaggio sociale ed in alcuni casi essere anche più efficace.
L’ultimo Capitolo illustra e motiva le altre pratiche facendo una breve panoramica su
ognuna di esse.
La nuova Sezione è quella che riguarda la ricerca. Nel primo capitolo viene spiegato
come è nata l’idea, da quali domande è nato il Progetto e chi sono le persone a cui è
destinato.
Si prosegue con il capitolo che spiega come sono stati preparati i questionari, a chi
vengono somministrati e perché: vengono identificati anche i criteri di inclusione e di
esclusione.
Nel Capitolo Tre si introducono quelli che dovrebbero essere i risultati da attendersi:
in qualche misura vengono presupposti dalla mia esperienza.
Il Quarto Capitolo è quello della ricerca vera e propria. Vengono analizzati i dati
9
raccolti, presentati in forma di tabella per essere commentati più facilmente.
Nell’ultimo Capitolo si individua se applicando questo intervento si abbia o meno un
miglioramento. Si spiega, inoltre, come i dati ottenuti dovrebbero migliorare il SSN. Si
può capire anche quali devono essere gli obiettivi che un infermiere deve porsi
lavorando con pazienti affetti da SLA.
Questo lavoro deve rafforzare l’idea di quanto sia importante lavorare in squadra, oltre
ad evidenziare di non sottovalutare quanto viene fatto per la cura del paziente. I dati
ottenuti hanno evidenziato quanto sia importante il paziente come persona: ognuno, in
un modo o nell’altro, ha dichiarato di aver bisogno di aiuto.
Guardando il mondo, adesso, siamo molto più vicini, ma in realtà siamo sempre più
lontani: ci scriviamo, ma non comprendiamo, ad es., l’importanza di un gesto che
potrebbe avere rilevanti ripercussioni psicologiche.
10
11
2
INTRODUZIONE ALLA MALATTIA
2.1
Sclerosi Laterale Amiotrofica - La malattia
Il Morbo di Lou Gehring (dal nome di un giocatore di baseball, la cui malattia nel
1939 scosse l’opinione pubblica), meglio conosciuto come Sclerosi Laterale
Amiotrofica (SLA), ma anche come Malattia di Charcot o Malattia del Motoneurone, è
una
malattia
neurodegenerativa
progressiva
del
motoneurone,
che
colpisce
selettivamente i motoneuroni, appunto, superiori (“I motoneurone”, a livello della
corteccia cerebrale) ed inferiori (“II motoneurone”, a livello del tronco encefalico e del
midollo spinale).
La SLA venne descritta per la prima volta nel 1860 da un neurologo francese, Jean-
Martin Charcot. Attualmente le sue cause sono ancora ignote, pur ipotizzandosi fattori
genetici associati o meno ad altri ambientali.
Si tratta di una malattia rara, prevalentemente sporadica: ha un’incidenza di due-tre
casi ogni 100.000 individui all’anno. Colpisce a metà del corso della vita con frequenza
simile tra i due sessi con lieve predominanza per quello maschile; è estremamente rara
oltre gli ottanta anni. Le forme familiari rappresentano circa il 5% del totale.
Un’alta incidenza è stata riportata nella Nuova Guinea Occidentale, nella penisola di
Kii del Giappone e, in una forma associata a demenza e morbo di Parkinson, anche
presso i Chamorro dell’isola di Guam.
Nell’arco di tempo che va dal 2004 al 2008 il procuratore torinese Raffaele
Guariniello ha condotto un’inchiesta che ha accertato cinquantuno casi di SLA su
30.000 calciatori italiani presi in esame: si è ipotizzata una maggiore prevalenza in
questa categoria di persone per motivi occupazionali.
L’etimologia della definizione “Sclerosi Laterale Amiotrofica” chiarisce le
caratteristiche della malattia. La parola “amiotrofica” è l’aggettivo di “amiotrofia”,
parola greca composta da “a-” (che significa “assenza”), “mio-” (che sta per “muscolo”)
e “trofia” (che significa “nutrimento”): quindi i muscoli si indeboliscono e si
atrofizzano.
La parola “laterale” è un aggettivo che si riferisce alla zona del midollo spinale dove
12
si localizzano i cordoni laterali che contengono i fasci cortico-spinali, ossia le vie
piramidali che connettono il primo con il secondo motoneurone.
Il processo neurodegenerativo moto neuronale, che coinvolge anche i fasci di
collegamento tra i due ordini di motoneuroni,
produce un rimaneggiamento di
quest’area che, a seguito della morte neuronale, viene ad essere occupata da una
reazione proliferativa astrogliale per cui progressivamente tende ad “indurirsi”, cioè a
“sclerotizzarsi” (donde il termine “Sclerosi”).
Le varie forme di Malattia del Motoneurone possono interessare solo il primo, solo il
secondo od entrambi i motoneuroni (solo in quest’ultimo caso si parla propriamente di
SLA): per ogni forma si hanno segni e sintomi differenti.
Nel caso sia colpito il primo motoneurone si hanno iperreflessia1 e spasticità2.
Nel caso venga colpito il secondo motoneurone il paziente si presenterà con flaccidità
muscolare3 ed atrofia muscolare progressiva.
Nel 90% dei casi si ha la sindrome classica, mentre dal 10 al 20% possono presentarsi
varianti anche molto rare: in questi casi anche le prognosi cambiano.
Tra questi quadri nosografici troviamo:
- Paralisi Bulbare Progressiva (con prognosi peggiore);
- Sclerosi Laterale Primaria (con prognosi migliore);
- Atrofia Muscolare Progressiva (con prognosi peggiore);
- Demenza Fronto-temporale, sindrome con deterioramento cognitivo associata a SLA.
I sintomi iniziali possono essere rappresentati da disartria4 che può condurre più o
meno rapidamente all’anartria5. Spesso, però, si hanno ingravescenti deficit di forza a
carico degli arti superiori (con incapacità ad usare i bottoni, o a pettinarsi) e/o degli arti
inferiori (con difficoltà deambulatorie). Coesistono frequentemente fascicolazioni6 e
crampi7.
Più o meno precocemente durante il decorso clinico si ha anche la perdita progressiva
1
2
3
4
5
6
7
Accentazione abnorme dei riflessi tendinei
Aumento patologico del tono muscolare
Diminuzione di consistenza di un organo o di una parte anatomica, in questo caso dei muscoli
Disturbo articolatorio dell'eloquio
Totale incapacità di parlare
Contrazioni muscolari visibili superficialmente
Contrazioni muscolari sostenute particolarmente dolorose
13
ed irreversibile delle normali capacità di deglutizione (disfagia) per liquidi soprattutto,
ma poi anche per i solidi: si avranno pertanto scialorrea ed un eccessivo sbadigliare.
La progressiva perdita dei muscoli scheletrici porta ad una paralisi con un'estensione
variabile. Anche la muscolatura respiratoria potrà essere interessata: si manifesteranno
allora ipoventilazione notturna, dispnea ed insufficienza respiratoria che renderà
necessaria la ventilazione assistita.
L’exitus sopraggiunge in genere dopo pochi anni: l’unico modo per prolungare la
sopravvivenza del malato è la tracheotomia per poter intraprendere la ventilazione
invasiva permanente. Invero, anche se in condizioni di disabilità estrema, il paziente, se
tenuto al riparo da infezioni e malattie respiratorie, può vivere anche venti anni o più.
La SLA non altera le funzioni sensitivo-sensoriali, sessuali e sfinteriche del malato.
D’altro canto, in una percentuale variabile dal 20 al 30% dei pazienti si può riscontrare
decadimento cognitivo.
L’eziopatogenesi della SLA è sconosciuta, ma verosimilmente si tratta di una malattia
multifattoriale. Alcuni possibili meccanismi che causano la morte dei motoneuroni
sembrano essere:
•
- accumulo di proteine anomale all’interno della cellula - TDP43 (sia nelle forme
sporadiche sia in alcune forme familiari); SOD1 nei pazienti portatori di
mutazioni del gene per la medesima proteina; FUS parimenti nei pazienti con
•
•
•
mutazioni del gene omonimo;
- ridotta eliminazione di proteine intracellulari - autofagia ed attività lisosomale
deficitarie;
- alterazione dei meccanismi di trasporto intraneuronale - alcune mutazioni
genetiche rare codificano per proteine che sono implicate nel trasporto assonale
(trasporto di sostanze tra nucleo e periferia della cellula);
stress ossidativo - il danno dovuto ai radicali dell’ossigeno ed ad altre sostanze
tossiche che si accumulano fisiologicamente all’interno della cellula potrebbe
portare
•
alla
morte
motoneuronale,
ad
es.
accelerando
apoptotici/proptotici alla base dell’invecchiamento cellulare;
processi
alterazioni mitocondriali, con conseguente riduzione della produzione energetica
14
•
•
•
all’interno della cellula;
carenza di fattori di crescita, che sostengono la vitalità motoneuronale e che
facilitano i contatti tra motoneuroni e cellule muscolari;
eccesso di glutammato che determina un’iperattività neuronale citotossica - il
Riluzolo, unico farmaco approvato nella terapia della SLA, agisce per l’appunto
come antiglutamatergico, riducendo l’azione del glutammato;
neuroinfiammazione - alterazione delle interazioni tra gliociti e motoneuroni con
disregolazione dei meccanismi modulanti i processi neuroflogistici (esiste,
invero, ancora un dibattito se questo stato infiammatorio all’interno del sistema
nervoso centrale sia una concausa oppure una conseguenza del danno moto
neuronale).
Parlando di agenti tossici o contagiosi alcuni studi scientifici hanno ipotizzato possibili
correlazioni fra l'esposizione ed alcuni fitofarmaci (Oggi, in botanica, indica sia gli
antiparassitari, pesticidi, sia, in senso più generale, le sostanze usate nella prevenzione e
nella cura delle malattie delle piante) e la SLA. Una metanalisi del 2012, condotta su
studi retrospettivi, ha dimostrato, sia pure solo in soggetti di sesso maschile, una
correlazione statisticamente significativa fra l'esposizione a fitofarmaci e lo sviluppo
della malattia; gli studi presi in esame, tuttavia, non specificavano la sostanza coinvolta.
Nessun test può fornire una diagnosi definitiva, benché la presenza di segni di
interessamento del I e del II motoneurone in un singolo arto sia fortemente indicativa.
La diagnosi della malattia è basata principalmente sui sintomi riferiti dal paziente e sui
segni che il medico osserva, nonché su una serie di test che servono per escludere altre
malattie. I medici considerano attentamente l’anamnesi8 e la catamnesi9 e di solito
conducono esami neurologici ad intervalli regolari per valutare se la sintomatolgia
(debolezza ed atrofia muscolare, iperreflessia e spasticità) peggiorino nel tempo.
Ovviamente è stato detto solamente il minimo indispensabile per quanto riguarda
questa malattia, da usare come introduzione al tema dell’elaborato.
Soltanto un’analisi completa delle problematiche aiuta a capire dove agire.
8
9
Raccolta particolareggiata delle notizie che riguardano il paziente
Biografia clinica di un malato nel periodo successivo a un qualsiasi trattamento terapeutico
15
2.2
L'approccio multidisciplinare per migliorare la qualità di vita
Oggi la medicina, come ogni altra scienza, sta facendo dei forti passi in avanti su tutti
i fronti.
Vediamo come la sempre maggiore, nonché migliore, tecnologia aiuti e migliori alcuni
interventi anche quotidiani, prima difficoltosi o poco applicabili se non addirittura
impossibili da eseguire. Possiamo far riferimento, nel nostro caso, alla sonda
gastrostomia, o più semplicemente ad un elettrocardiogramma (ECG).
Dobbiamo però tenere presenti due punti fondamentali che non devono essere
tralasciati quando si studia questo argomento.
Iniziamo con il sottolineare che la tecnologia, pur essendo molto diffusa, non riesce a
soddisfare tutte le esigenze dei vari campi di studio, o magari non riesce, ancora, a dare
un supporto tale da migliorare gli interventi.
Come avremo modo di vedere parlando di assistenza di base, che è indice di una
buona assistenza, sono pochi gli interventi i quali beneficiano dell’utilizzo di nuove
tecnologie. Spesso risulta più facile, veloce, e addirittura meno traumatizzante per il
paziente, adottare tecniche “antiche” ma ancora molto efficaci. E’ doveroso, oltretutto,
tenere conto proprio dei fondamenti dell’assistenza, e cioè che deve essere arrecato il
minor traumatismo possibile al paziente.
Il secondo punto da tenere in considerazione è il fatto che le nuove tecnologie,
soprattutto in malattie ad esito infausto, non sempre riescono a salvare una vita o ad
allungarla.
In questi casi è fondamentale far capire ai pazienti ed ai loro familiari che devono
essere usate per migliorare la qualità di vita, in modo da ridurre le sofferenze del
paziente e quelle di chi gli sta vicino, per il periodo più o meno lungo che rimane al
paziente.
Vorrei soffermarmi anche sul fatto che il ricorso alle nuove tecnologie deve essere una
scelta del paziente e non delle varie figure professionali che lo hanno in “custodia”
come purtroppo spesso accade.
Nonostante le nuove tecnologie, come già detto, dobbiamo però accompagnare le
16
persone verso l’exitus del paziente, non verso false speranze. In tutto questo processo lo
psicologo collabora insieme con gli altri professionisti che ruotano intorno al paziente,
ma soprattutto con l’Infermiere di riferimento.
Migliorare la qualità di vita, quindi, dovrebbe essere l’obiettivo di ogni professionista,
sia nel caso la malattia possa essere combattuta sia nel caso in cui la malattia continui il
suo decorso, come accade per la SLA, portando all’exitus.
Proprio questa malattia, la SLA, che stiamo prendendo in esame, ci mostra come il
binomio TECNOLOGIA e MULTIPROFESSIONALITA’ possa dare dei risultati eccellenti, in
termini di valutazione dello stato di salute e dell’evoluzione della patologia.
Risultati eccellenti si notano, tenendo sempre in considerazione la malattia, anche
nella qualità di vita, e cioè in tutti quei momenti in cui la tecnologia aiuta le persone
vicine al malato o il malato stesso dandogli la possibilità di comunicare o richiedere
assistenza solo attraverso lo sguardo, oppure quando vogliamo alzarlo da letto con un
sollevatore per metterlo su di una poltrona.
Adesso ci addentreremo in quelle che sono le visite più ricorrenti, e anche più
importanti, per un paziente affetto da SLA, tenendo sempre conto del fattore tecnologico
ed avendo un occhio di riguardo per la figura infermieristica.
La visita neurologica, in questa malattia, è il punto di partenza per capire l’evoluzione
clinica e lo stato di salute del malato.
Il medico che conduce la visita si preoccuperà di valutare il paziente proprio dal punto
di vista neuromuscolare, eseguendo delle prove sulla forza e sul tono muscolare,
utilizzando due scale clinimetriche.
La Scala MRC, per ogni prova da effettuare, attribuisce un punteggio che va da 0 a 5.
Il 5 indica una forza di contrazione nella norma; il 4 indica una forza sufficiente ma non
completa (quasi normale); il 3 indica una moderata debolezza; il 2 indica la capacità di
muovere l’arto ma non di vincere completamente la forza di gravità; 1 indica una forza
contrattile minima (la contrazione muscolare può essere palpata ma non si nota
movimento dei capi articolari); lo 0 indica paralisi completa (plegia).
17
Il tono muscolare viene valutato con la Scala di Ashworth.
Potendosi con questa scala valutare sia la spasticità10, sia la flaccidità11, la normalità è
rappresentata dallo 0 che si trova in mezzo e che, quindi, indica che non c’è nessuna
variazione di tono, né in più, né in meno. Alla sua destra ci sono i segni positivi correlati
con l’aumento del tono; mentre alla sua sinistra ci sono i segni negativi che, al contrario,
indicano una diminuzione del tono muscolare.
Il 1 indica incremento moderato del tono muscolare; il 2 un incremento più evidente;
il 3 aumento ancora più marcato del tono; il 4 viene assegnato quando l’arto non è
mobilizzabile per nulla dall’esaminatore.
Anche in questo caso, come per la Scala MRC, è importante confrontare i punteggi
ottenuti valutando i due lati del corpo.
La visita neurologica, se il paziente lo consente, può essere eseguita su una poltrona
pesapersone che ci indica subito il peso del paziente in modo da poter essere confrontato
con quello della visita precedente.
Avere il paziente sdraiato è utile anche per un ulteriore accertamento strumentale, la
bioimpedenzometria. L’esame viene effettuato utilizzando 8 elettrodi che vengono
posizionati su entrambi i piedi e su entrambe le mani. Potendo collegare all’apparecchio
solo 4 elettrodi per volta, si dovranno spostare le pinze di collegamento, in modo da
registrare, ad es., dagli arti di sx, quindi dall’arto superiore dx e dall’arto inferiore sx,
poi da quelli di dx, ed infine dall’arto superiore sx e dall’arto inferiore dx.
La bioimpedenzometria è una metodica utilizzata per la determinazione della
composizione corporea, consentendo di analizzare massa grassa, massa magra ed acqua
totale, grazie alla misurazione dell’impedenza corporea (bioimpedenza, appunto) al
passaggio di una corrente elettrica a bassa intensità e ad alta frequenza (50kHz).
Il ruolo dell’infermiere, oltre ad aiutare il paziente per lo spostamento, consiste nel
coadiuvare il medico nella preparazione del paziente, nonché nell’installazione della
strumentazione.
Conoscendo la malattia, però, si capisce che questa visita è solo il punto di partenza
per seguire il malato che, solitamente, deve poi essere inviato in altri ambulatori
10 Aumento del tono muscolare
11 Diminuzione del tono muscolare
18
specialistici, come analizzeremo tra poco.
Il neurologo e l’infermiere che opera in ambito neurologico dovrebbero cercare di
programmare le visite in base alle preferenze del paziente ed anche alla disponibilità
degli altri specialisti: quindi è fondamentale sapere se il paziente preferisce eseguire
tutte le valutazioni nella solita giornata o se ritiene sia meglio, per non stancarsi troppo,
fare il tutto a più riprese.
Ovviamente si dovranno programmare solamente visite utili, e quindi non inviare il
paziente da professionisti se non ne sussiste la necessità.
Tra le figure più importanti dove inviare i nostri malati ci sono gli otorinolaringoiatri, i
quali dovranno studiare la deglutizione del paziente per capire se ha bisogno di una
sonda gastrostomica.
La deglutizione viene valutata tramite due esami.
Il primo viene fatto tramite radiografia dopo l’introduzione di un liquido radiopaco, il
solfato di bario, che è una polvere inodore ed incolore, non granulare e completamente
insolubile (quindi non viene assorbita dall’organismo). Il solfato di bario viene fatto
ingerire in forma di sospensione acquosa più o meno concentrata.
L’esame permette di rilevare anomalie anatomiche o alterazioni funzionali degli
organi e degli sfinteri del tratto gastrointestinale superiore.
Il paziente ingerisce il solfato di bario sotto diretta osservazione fluoroscopica: mentre
questo mezzo di contrasto scende nello stomaco vengono evidenziate la posizione, la
pervietà ed il calibro dell’esofago. Viene valutato il tempo di transito e la pervietà della
valvola pilorica.
Il secondo esame consiste in un’endoscopia a fibre ottiche (fibroscopia) del tratto
gastrico superiore.
Questa indagine consente di avere una visione diretta della mucosa esofagea, gastrica
e duodenale. La procedura può documentare i dati sotto forma di immagini fisse o di
filmato.
Successivamente a queste indagini si decide con il paziente se procedere
all’inserimento della sonda gastrostomica, in gomma morbida, tramite la Gastrostomia
19
Endoscopica Percutanea (PEG). Questo risulta essere un vero e proprio intervento
eseguito in sedazione in sala operatoria: il suo scopo è la somministrazione di cibi e
bevande bypassando la bocca, onde evitare nei pazienti disfagici il fenomeno
dell’aspirazione.
Dopo aver praticato l’anestesia locale, nel quadrante addominale superiore sx si
inserisce una cannula che arriva nello stomaco tramite un incisione addominale.
Successivamente si fa passare un filo da sutura non riassorbibile all’interno della
cannula. Utilizzando l’endoscopio inserito nello stomaco, un altro operatore usa l’ansa
dello strumento per afferrare la porzione terminale del filo da sutura per guidarlo fuori
attraverso la bocca del paziente.
Il filo viene poi legato alla punta dilatatrice che si trova all’estremità del sondino.
Mentre dalla bocca viene spinto all’interno il sondino, l’altro operatore tira il filo
guidando così il sondino nell’esofago, dentro lo stomaco e quindi fuori dal foro
addominale. La punta a fungo e la guarnizione interna fissano il sondino alla parete
dello stomaco, mentre una guarnizione esterna mantiene il sondino in sede. Il sondino
verrà aperto e chiuso con un morsetto al momento del bisogno.
Il presidio deve adattarsi perfettamente allo stomaco perché non si verifichino perdite
di succhi gastrici, e viene mantenuto in sede mediante trazione tra il punto di fissaggio
interno ed il punto di ancoraggio esterno.
La PEG risulta utile nelle persone disfagiche che ragionevolmente non potranno più
riprendere a deglutire, facendo sì che la nutrizione avvenga sempre per via enterale,
evitando la fase buccale e quella esofagea. Con questo intervento possiamo migliorare
la qualità di vita, in quanto il paziente che non si nutre o che si nutre male va incontro a
malnutrizione che provoca decadimento fisico ancora più velocemente del previsto.
Oltretutto non usare la via gastrointestinale vorrebbe dire andare incontro a disfunzioni
a livello intestinale che possono peggiorare la salute del paziente. Una situazione come
questa sappiamo che può portare non solo ad una sofferenza ulteriore per il paziente ma
anche ad un incremento degli accessi dello stesso in ospedale con conseguente aumento
del costo delle cure.
Un altro vantaggio molto importante è quello che, nonostante si continui ad usare il
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tratto gastrointestinale per l’alimentazione, si ridurrà il rischio di broncopolmonite ab
ingestis, cioè una complicazione infettiva da aspirazione di cibo nel tratto respiratorio
solitamente nell’emisistema dx.
Notiamo come anche in questo caso, parlando di ambulatorio, troviamo la figura
dell’infermiere. I compiti sono analoghi a quelli precedenti e la collaborazione con
medico, paziente e familiari continua ad essere fondamentale.
Risulta meno fondamentale il ruolo dell’infermiere in sala operatoria nei confronti di
pazienti e familiari, ma non meno importante professionalmente.
Continuando a parlare di alimentazione dobbiamo prendere in considerazione, nel
caso in cui il neurologo non abbia conoscenze in campo nutrizionale, la collaborazione
col dietologo che, secondo il mio punto di vista, risulta essere molto importante in tutte
le condizioni patologiche e a maggior ragione in malattie debilitanti come la SLA. La
sua valutazione servirà per diete mirate e specifiche, visto anche il grado di disfagia del
paziente, prima e dopo l’inserimento della PEG, indirizzando la famiglia e chi lo segue
verso prodotti e cibi adeguati.
Sappiamo che l’apporto nutrizionale è fondamentale per le persone sane, ed ancora di
più per le persone malate, soprattutto come prevenzione delle lesioni da decubito, delle
infezioni, delle deficienze del sistema immunitario, delle malattie da carenza di
vitamine, proteine, amminoacidi, sali minerali.
Un altro specialista che sicuramente visiterà il nostro paziente affetto da SLA è lo
pneumologo che attraverso una serie di esami valuta lo stato respiratorio. Come tutti
sanno l’ossigeno (O2) è alla base della vita e grazie a questo componente, che troviamo
nell’aria ambiente ad una concentrazione del 21%, i mitocondri cellulari possono
produrre energia.
Gli esami che vengono effettuati solitamente sono l’emogasanalisi (EGA) e le prove
di funzionalità respiratoria tramite spirometria.
La prima viene effettuata tramite il prelievo di un campione di sangue arterioso, in
genere a livello del polso dove si rileva l’arteria radiale. In questa regione anatomica il
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prelievo può essere fatto sia da medici sia da infermieri; altri siti per il prelievo sono le
arterie brachiale o femorale, dove può essere eseguito solo da personale medico. Il
campione può essere prelevato anche tramite un catetere arterioso a permanenza.
Per il prelievo si può usare un kit già pronto per la manovra oppure si può preparare
una siringa (anche solo da 2,5 ml) con eparina (questa deve essere aspirata nella siringa
per poi essere buttata via, in modo da bagnare le pareti per prevenire la coagulazione del
sangue).
Eseguito il prelievo uno strumento elettronico, in pochi minuti, riesce ad analizzare
alcuni parametri fondamentali per la ventilazione alveolare: pH (con range di normalità
compreso tra 7,35 e 7,45) - che indica alcalosi o acidosi metabolica o respiratoria;
pressione parziale di ossigeno “PaO2” (con valori normali compresi tra 83,0 e 108,0
mmHg) - che indica il grado di ossigenazione del sangue; e pressione parziale del
biossido di carbonio “PaCO2” (con valori normali compresi tra 35,0 e 45,0 mmHg).
Vengono messi in evidenza anche i parametri degli elettroliti sierici come gli ioni
potassio (K+), gli ioni sodio (Na+) e gli ioni cloro (Cl-).
L’apparecchio elettronico rilascia, alla fine dell’analisi, uno scontrino da poter mettere
nella cartella clinica, che riporta i valori dei vari parametri esaminati con accanto i
valori di riferimento.
L’EGA permette di fare diagnosi di insufficienza respiratoria: è utile anche per il
monitoraggio dell’ossigenoterapia, sia in ambiente ospedaliero, sia a domicilio, in
quanto dà informazioni sulla capacità dei polmoni di fornire un’adeguata quantità di O2
e di eliminare CO2, nonché di quella dei reni di riassorbire o di eliminare gli ioni
bicarbonato per mantenere un pH normale.
Un’ipoventilazione di tipo espiratorio, come può succedere nel caso di un malato di
SLA, si riconosce da un aumento oltre i 45 mmHg della PaCO2.
Non possiamo fare a meno di ricordare che l’ipossia è pericolosa per tutti i tessuti e gli
organi, ma soprattutto per cuore e cervello, dove può causare, rispettivamente, un
infarto miocardico o un ictus.
Un altro esame di fondamentale rilevanza è la spirometria.
La spirometria è usato per valutare il grado di riduzione di flusso d’aria. Questo si
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determina dal rapporto tra il FEV112 e la FVC13.
I risultati sono espressi, solitamente, sia come volume assoluto sia come percentuale,
utilizzando i valori normali di riferimento appropriati per età, sesso e peso corporeo.
Nel caso di un malato di SLA si ha dapprima un’incapacità ad espirare forzatamente
l’aria dai polmoni e successivamente una difficoltà ad espirare, riducendosi così il
FEV1: le malattie ostruttive polmonari mostrano un rapporto FEV1/FVC < 70%.
Questo esame si esegue velocemente in ambulatorio grazie ad un macchinario nel
quale il paziente, tramite un tubo, vi respira dentro: i risultati sono immediati e
velocemente valutabili.
Grazie ai dati ottenuti si riesce a capire se il paziente si trovi ad avere necessità di un
aiuto per la ventilazione e quale tipo di aiuto sia più adeguato.
Inizialmente, di solito, si utilizza un ventilatore esterno non invasivo (VMNI), ma nei
casi più gravi si può avere il bisogno di eseguire una tracheostomia per poter effettuare
la ventilazione invasiva (VMI).
Il termine VMNI indica, quindi, la fornitura di un supporto ventilatorio tramite le vie
aeree superiori del paziente grazie all’utilizzo, come dicevamo, di un ventilatore
meccanico interfacciato col paziente mediante una maschera.
La modalità più confortevole per il paziente è la ventilazione a pressione controllata
con pressione di supporto: questo facilita il lavoro respiratorio ed aumenta gli scambi
gassosi
I ventilatori più utilizzati sono quelli a pressione positiva: questi insufflano i polmoni
esercitando una pressione positiva sulle vie aeree, mediante un meccanismo simile a
quello di un mantice, obbligando gli alveoli ad espandersi durante l’inspirazione che
avviene passivamente.
Inizialmente il ventilatore verrà impostato in modo che la persona sia comoda e che la
macchina parta “in sincronia” con il paziente stesso tramite i suoi trigger, cercando di
evitare il più possibile ogni alterazione dalla normale dinamica cardiovascolare e
polmonare.
Si arriverà poi ad un supporto totale dove tutto il lavoro respiratorio è sostenuto dal
12 Volume di aria che il paziente è in grado di espirare forzatamente in un secondo
13 Capacità vitale forzata
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ventilatore: il ventilatore applica una pressione costante durante tutta l’inspirazione e
l’inizio dell’atto inspiratorio è quindi impostato dall’operatore.
La tracheostomia si ottiene tramite una procedura chirurgica: si crea una breccia sul
collo fino ad arrivare in trachea. La stomia creata viene mantenuta aperta da una
cannula che prende il nome di cannula tracheostomica. Tramite questo intervento, oltre
a bypassare le vie aeree superiori e quindi evitare il rischio di aspirazione, si può
consentire l’aspirazione tracheo-bronchiale.
L’apertura chirurgica viene effettuata nel secondo o terzo anello tracheale: così
facendo vengono lasciate intatte le strutture delle vie aeree.
Le cannule che si inseriscono nello stoma possono essere di diverso tipo, ma tutte
hanno una cannula esterna che si inserisce in trachea ed una flangia di fissaggio, che
viene appoggiata al collo e permette alla cannula di rimanere in sede anche grazie al
fissaggio tramite le fettuccine che, girando attorno al collo, la tengono in posizione.
Alcune di esse contengono una cannula interna, chiamata controcannula, che viene
fissata alla cannula esterna, tramite movimento circolare, e che può essere rimossa per
la pulizia e la sostituzione.
Alcune cannule sono cuffiate, cioè provviste di un manicotto esterno gonfiabile
chiamato cuffia, che consente una buona tenuta sulla parete tracheale. La cuffia è
fondamentale per un paziente affetto da SLA, poiché riduce il rischio di aspirazione,
oltre ad essere necessaria per l’uso del ventilatore.
Si deve ricordare che nel caso di ventilazione artificiale si deve mettere un filtro tra la
cannula ed il catetere mount.
La maggior parte di ciò che è stato descritto fino a questo punto mette in mostra, come
anche in precedenza, l’importanza delle nuove tecnologie.
Possiamo notare, inoltre, ancora una volta la presenza dell’infermiere che, oltre a
collaborare con il medico ed a fare tutto ciò che abbiamo già detto per un ambulatorio o
per una sala operatoria, può insegnare, o integrare quanto già fatto nel caso di bisogno,
il clapping ed il drenaggio posturale. Queste manovre, fatte con cautela ed attenzione
semplicemente con le mani aiutano il paziente a rimuovere le secrezioni alveolari e
bronchiali.
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Tra i controlli che vengono programmati c’è anche quello dell’internista che eseguirà
una visita generale al paziente (comprensiva della valutazione elettrocardiografica).
L’ECG è una tecnica non invasiva per rappresentare graficamente le correnti che
vengono generate dal cuore a livello superficiale: solitamente un ECG standard viene
effettuato con 12 derivazioni, collocando gli elettrodi sul torace (n=6) e sugli arti (n=4).
Il tracciato viene registrato su carta millimetrata e poi valutato.
Oltre ad evidenziare possibili aritmie cardiache, si possono sospettare squilibri
elettrolitici (in primis Ca+ e K+) e monitorare l’effetto di alcuni farmaci.
I professionisti che abbiamo visto fino a questo momento non sono gli unici a seguire
il paziente durante il suo percorso. Solitamente l’andamento del paziente viene
rivalutato circa ogni quattro mesi, salvo insorgenza di gravi problemi.
Ci sono inoltre dei professionisti che lavorano con il paziente, e alcuni anche con i
familiari, molto più spesso, con cadenza almeno settimanale.
Lo scopo è sempre quello di migliorare, per quanto possibile, le condizioni di vita del
malato e di aiutare la famiglia nel prendersi cura di lui.
Sapendo che questa è una malattia che porta al decadimento muscolare può essere
molto importante l’intervento di un fisioterapista che dovrà tenere delle sedute
settimanali.
Il suo primo lavoro dovrà essere la mobilizzazione degli arti, con esercizi attivi,
attivo-assistiti e passivi. Questi esercizi possono essere insegnati anche a chi si prende
cura del paziente (caregiver), in modo che possano essere eseguiti anche in assenza del
fisioterapista.
Durante gli esercizi attivi o attivo-assistiti il paziente usa la sua forza residua per
eseguire esercizi che il fisioterapista gli insegna.
I movimenti passivi, d’altro canto, potranno servire al paziente per aiutare il ritorno
venoso e per prevenire situazioni cliniche come stipsi o ulcere da pressione (UdP).
Un punto fondamentale è sicuramente l’elettrostimolazione che usa delle stimolazioni
elettriche per far contrarre il muscolo.
Il macchinario usato viene connesso al paziente tramite delle piastre/elettrodi che
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devono essere messe in punti specifici. Successivamente si seleziona un programma
adeguato.
Questa metodologia può essere usata fino a quando c’è una risposta anche minima dei
muscoli sui quali stiamo lavorando.
Il lavoro del fisioterapista avviene, maggiormente, nelle palestre fornite di attrezzature
che servono per i vari esercizi, o a domicilio con l’ausilio dell’elettrostimolatore che
può essere di proprietà del paziente per l’utilizzo in autonomia. Si nota, quindi, come
questa figura non abbia bisogno di un supporto specifico, diversamente da quanto visto
per molti degli ambulatori sopra descritti.
La SLA, che porta all’atrofia di tutti i muscoli volontari, arriverà a colpire anche quelli
facciali e quelli deputati alla fonazione: si potrebbe rendere necessario il lavoro di un
logopedista per una valutazione funzionale.
In base alla prima valutazione, e poi alle seguenti, il logopedista dovrà insegnare al
paziente degli esercizi fono-articolatori.
Un altro punto importante sul quale deve lavorare il logopedista sono i massaggi: si
possono concentrare sui muscoli del labbro superiore e di quello inferiore, pizzicando il
labbro e tirandolo delicatamente verso l’esterno, mentre sugli zigomi possono essere
usati dei movimenti circolari, sia in senso orario sia in senso antiorario.
Si può lavorare anche sulla lingua, cercando di tirarla fuori e massaggiandola: in tal
caso si deve far bene attenzione che questa rientri in sede.
Parlando di cavità buccale non ci si può dimenticare della salivazione che spesso è
aumentata. Peggiorando la disfagia, il paziente dovrà essere aiutato con un sistema di
aspirazione atto a
asciutta.
liberarlo dalla saliva in eccesso senza però lasciargli la bocca
L’infermiere, pur non aiutando direttamente il logopedista, deve insegnare però a chi
segue il malato ad aspirare le secrezioni salivari senza danneggiare le mucose.
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Nell’ambito di malattie a prognosi infausta risulta utile, o per lo meno opportuno, per
il paziente e per i familiari attivare uno psicologo che sceglierà il tipo di percorso da
proporre al malato ed alla sua famiglia.
L’Infermiere di riferimento non deve sostituirsi allo psicologo, come non deve fare
l’errore di sostituirsi al medico: deve però conoscere il progetto dello psicologo per
sostenerlo o almeno non contrastarlo.
Dal punto di vista del paziente lo psicologo dovrà avere dei colloqui con lui in modo
da fargli accettare la malattia - compito molto difficile -, accompagnandolo così in
serenità fino alla morte: data poi la sempre più ridotta capacità comunicativa del
paziente questo lavora diventerà sempre più difficile ma sempre di maggiore importanza
mano a mano che la malattia si aggrava.
Analogo sarà il lavoro da svolgere con i familiari che però si divide in due fasi, quella
che riguarda tutto il periodo di malattia e quella che inizia dopo l’exitus del paziente.
Nella prima lo psicologo non deve solo far accettare la malattia ai familiari, seguendo
l’evoluzione della malattia stessa, ma deve preparare i familiari anche al futuro lutto.
Nella seconda fase lo psicologo dovrà lavorare proprio sull’elaborazione del lutto.
Il lutto è un processo complesso, comprendente risposte e comportamenti fisici,
emotivi, spirituali e sociali, mediante il quale le persone, le famiglie e le comunità
integrano nella loro vita quotidiana una perdita in atto, prevista o percepita.
In base a questa definizione l’elaborazione del lutto consiste nella rielaborazione
emotiva dei significati, dei vissuti e dei processi sociali legati alla perdita della persona
cara.
Il processo di elaborazione del lutto dipende da diversi fattori ambientali e psicologici,
e la sua durata è estremamente variabile. Poiché la fase acuta può durare fino a
ventiquattro mesi, soprattutto per figure principali come genitori, figli o compagni, il
lavoro dello psicologo è estremamente complesso. Quest'ultimo deve stare attento anche
alle possibili sequele dei periodi successivi, che non sono infrequenti.
Nonostante tutto il processo di elaborazione del lutto è fortemente soggettivo.
In questi casi la tecnologia può essere utile per raggiungere il professionista di
riferimento in ogni momento, in modo da arginare subito le ricadute ed i momenti di
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sconforto: questo fatto può sembrare quasi banale, ma invero non risulta essere così per
chi sta vivendo in prima persona questi momenti.
Uno dei professionisti che dovrebbe lavorare di più con questi pazienti e con le loro
famiglie è proprio l’infermiere. Tale affermazione deriva dal fatto che la SLA viene
gestita ambulatorialmente, fatta eccezione di brevi ricoveri per l’installazione di
dispositivi che poi verranno usati a domicilio, oppure per l’insorgenza di complicanze
cliniche.
L’infermiere che segue il paziente deve essere sempre il solito, ovviamente, in modo
da conoscerne bene la storia clinica e poterlo trattare, caratterialmente e clinicamente,
nel solito modo, ottimizzando le modalità di intervento.
L’infermiere si occuperà del processo di nursing, consistente in una sequenza
organizzata di fasi di problem solving14, che deve essere utilizzato per identificare e
gestire i problemi di salute dei pazienti. Dovrebbe, quindi, costituire la cornice di
riferimento in tutti i setting di cura.
Il processo di nursing si fonda sulla conoscenza, cioè richiede l’uso del ragionamento
clinico e del pensiero critico; e deve essere pianificato in quanto le sue fasi sono
organizzate e sistematizzate, e quindi una fase conduce sistematicamente all’altra. Deve
essere centrato sul paziente e deve essere volto ad obiettivi precisi, così che sia
strutturato per priorità. Non dobbiamo scordarci la dinamicità dovuta alle costanti
variazioni dello stato di salute dei pazienti ed alla condivisione con lo stesso paziente
che deve accettare e collaborare in prima persona per raggiungere gli obiettivi prefissati.
La prima fase del processo di nursing è l’accertamento il quale consiste nella raccolta
sistematica dei dati che possono essere oggettivi o soggettivi, primari15 o secondari16.
L’accertamento deve aver inizio con il primo contatto e proseguire fino a quando per il
paziente sussista il bisogno di assistenza.
Nel nostro caso il paziente avrà bisogno del nostro aiuto fino al decesso, al contrario
dei familiari.
14 Fasi orientate alla risoluzione di problemi
15 La fonte è il paziente
16 Le fonti possono essere parenti o amici
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La seconda fase è la diagnosi che consiste nell’identificazione dei problemi di salute
del paziente. Dopo un’attenta analisi dei dati si identificano una o più diagnosi
infermieristiche. Una diagnosi infermieristica è un problema che può essere prevenuto,
ridotto, risolto o migliorato attraverso un intervento infermieristico autonomo ed
indipendente: si tratta, quindi, di una responsabilità esclusivamente infermieristica.
Una diagnosi infermieristica deve contenere 3 parti: denominazione del problema di
salute, sua eziologia e segni/sintomi.
Ci possono essere anche problemi collaborativi che sono complicanze tali da
richiedere una prescrizione medica.
La terza fase, quella della pianificazione, indica il processo in base al quale vengono
stabilite le priorità nell’ambito delle diagnosi infermieristiche. Devono essere
identificati obiettivi o risultati misurabili, selezionati interventi appropriati e
documentato il piano di assistenza. Poiché non tutti i problemi sono risolvibili in breve
tempo o nello stesso momento è importante stabilire quali problemi debbono essere
affrontati per primi.
L’attuazione è la quarta fase ed implica semplicemente la realizzazione del piano di
assistenza: questa fase riguarda sia il paziente sia il personale sanitario, ma spesso anche
i membri della famiglia.
L'ultima fase consiste nella valutazione dove si evidenziano i risultati ottenuti. Prima
della revisione del piano di assistenza è importante discutere eventuali mancati
progressi con il paziente stesso.
Grazie a questo processo si cerca di aiutare il paziente, condividendo la strada da
percorrere e lasciando che sia lui stesso a sceglierla, cercando di soddisfare le sue
esigenze.
Il solito lavoro può essere fatto per il nucleo familiare.
L’infermiere dovrebbe dedicarsi al supporto della famiglia da un punto di vista
tecnico, oltre che relazionale, insegnando alcune cose importanti in base all’evoluzione
della malattia, e relazionandosi con la famiglia stessa, oltre che con il malato, senza
però sostituirsi allo psicologo: può invece essere utile una proficua collaborazione.
Tra le prime cose da insegnare al caregiver ci dovrebbe essere proprio l’assistenza di
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base, e quindi si può iniziare con il corretto lavaggio delle mani, l’igiene intima a letto,
il bagno a letto, la corretta movimentazione del paziente per la prevenzione delle Udp
ed il corretto spostamento del paziente dal letto alla carrozzina e viceversa. Può essere
importante insegnare anche come rifare un letto occupato.
Nel caso venga messa una sonda gastrostomica, l’Infermiere referente, deve accertarsi
che i familiari siano stati istruiti adeguatamente al suo utilizzo.
Le cose importanti da sapere per gestire la sonda gastrostomica non sono molte e
dipendono da come viene alimentato il paziente. Normalmente si utilizza una nutrizione
continua tramite pompa con un apporto energetico prestabilito o, come più spesso
succede nei malati di SLA, si può somministrare il pasto ad orario.
Per prima cosa ci dobbiamo ricordare che lo stomaco non è un comparto sterile. Per la
somministrazione del cibo ad orario non importa cambiare sempre la siringa (chiamata
“schizzettone”) solitamente da 60 ml con il cono catetere. I cibi non possono essere
solidi, ma semisolidi o semiliquidi. Alla fine del pasto, onde evitare che la sonda si
intasi, deve essere lavata con un bicchiere di acqua (pari a circa 2 siringhe e mezzo da
60 ml).
I motivi per cui si usano queste siringhe sono principalmente due. Il primo è
strettamente pratico, per evitare di dover ripetere l’operazione troppe volte come
accadrebbe se si usassero siringe più piccole. Il secondo motivo è il fatto che il cono
catetere della siringa da 60 ml aderisce meglio all’imbocco della sonda gastrostomia,
consentendo di non dover usare un’eccessiva pressione ed evitando anche la perdita di
sostanze in giro per la stanza ma soprattutto sul letto del malato.
Anche nel caso in cui al paziente venga fatta una tracheostomia ci dovremmo
accertare che il caregiver sia stato formato ad una corretta aspirazione e pulizia sia della
cannula sia del sito di inserzione.
Le manovre di aspirazione servono per mantenere la pervietà delle vie aeree,
rimuovendo le secrezioni adese alla stessa cannula, e per favorirne la pulizia,
prevenendo anche le infezioni e le lesioni dell’area peristomale. Si effettuano solamente
quando si rileva un eccesso di secrezioni peristomali all’ascultazione o dal grafico
mostrato sul monitor del ventilatore.
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L’aspirazione deve essere fatta con il paziente in posizione semiseduta (o semi-fowler)
e dopo averlo iperossigenato. Il sondino di aspirazione deve essere usato in maniera
sterile. Mentre lo inseriamo nella cannula non dobbiamo aspirare; si inserisce per circa
10 cm stando attenti a non superare la lunghezza della stessa cannula: a questo punto
iniziamo ad aspirare ed usciamo con movimenti rotatori.
Il cambio della medicazione serve, ovviamente, per mantenere pulito ed asciutto lo
stoma, evitando che si creino lesioni cutanee e che si arrivi all’infezione. Ogni 24 ore
deve essere sostituita la medicazione dello stoma se non visibilmente sporca o umida: in
quel momento si deve anche valutare lo stoma. Le medicazioni preconfezionate sono
già pronte per essere usate: si deve solo far attenzione ai due lati, poiché uno è
assorbente e l’altro no. Nel caso fossero sporche anche le fettuccine di tenuta devono
essere cambiate: se queste ultime vengono cambiate, dobbiamo sempre cercare di
mantenere in sede la cannula, anche se questa è cuffiata.
In caso la cannula abbia la controcannula questa deve essere rimossa e sostituita con
una pulita e disinfettata, meglio sterile, mentre quella sporca deve essere lavata e pulita
con uno scovolino.
In ultima analisi, ma non di minore importanza, si deve prevenire la macerazione dei
tessuti, e quindi la formazione di UdP. Questo viene fatto, come vedremo più avanti, con
materassi antidecubito. La prevenzione passa anche dal mantenimento della pelle
asciutta e non si può sorvolare su un’attenta analisi delle zone sacrali, perianali e
pubiche, soprattutto nella piega formata tra lo stesso pube e la muscolatura della coscia.
Per evitare che la cute si inumidisca può essere usato un indumento assorbente
(pannolone): la forma classica è a mutandina e si tratta di materiali assorbenti, resistenti
all’acqua, sagomati e morbidi. Questi presidi sono “usa e getta”. La loro applicazione è
facilitata dalle chiusure a velcro sui lati.
Gli indumenti assorbenti sono usati indistintamente per uomini e donne, e devono
essere cambiati spesso proprio per evitare l’umidità cutanea. Si deve fare attenzione a
non ottenere l’effetto opposto nella piega che si forma tra pube e coscia dovuta agli
elastici di contenzione.
Un altro metodo molto più efficace, che però può essere utilizzato solo per gli uomini,
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è l’utilizzo di un catetere condom. Questo presidio esterno deve essere applicato sul
pene, deve rimanervi ben adeso, e poi viene collegato ad una sacca. Questi cateteri, oltre
a non essere dolorosi se messi correttamente, diminuiscono il rischio di infezione
rispetto ad una cateterizzazione a permanenza. Se vengono messi male, però, si ha il
rischio di incontinenza, ischemia o rottura cutanea.
In questo caso, come nel caso di una cateterizzazione permanente (che oltretutto è
sconsigliata in questi pazienti),si deve far attenzione quando si gira il paziente a non
schiacciare il tubo di scarico per evitare dei ristagni non voluti in vescica. Il catetere
condom deve essere tolto per la notte.
L’Infermiere referente, cui spetta di prendersi cura del paziente e non di curarlo, potrà
essere interpellato non solo per chiarimenti di carattere tecnico ma anche per un
supporto morale. Possono essere richiesti anche dei consigli che in alcuni casi devono
essere dati con molta attenzione, seguendo anche quello che è scritto nel Codice
Deontologico.
Proprio il Testo del 2009 recita che il paziente deve essere partecipe della sua
assistenza, e prendere autonomamente le proprie decisioni. Viene indicato che
l’infermiere, che si presta a fornire assistenza e a dare informazioni, si avvalga delle
conoscenze più validate. Il buon senso è sempre richiesto, ma non si deve in nessun
modo spingere il paziente o i familiari verso una scelta piuttosto che un’altra.
Le nuove tecnologie, oggi, sono presenti anche in moltissime case e possono essere
d’aiuto alle persone con SLA, soprattutto se collegate alla rete internet.
Vediamo come certe attrezzature possono aiutare i malati ed i loro familiari.
Innanzi tutto sappiamo che si può disporre di telefoni cellulari smartphone, tablet o
personal computer (PC).
I telefoni cellulari, che sono nati per telefonare, oggi sono alla portata veramente di
tutti. Si deve evidenziare il fatto che grazie all’evoluzione della tecnologia oggi basta
anche solo la voce per far partire una chiamata; tramite servizi di messaggistica
possiamo essere contattati, e non manca neppure la lettura del testo da parte
dell’apparecchio. La vera rivoluzione di questi anni è il poter scrivere a più persone
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contemporaneamente creando un gruppo in modo da comunicare in una volta sola cose
importanti, evitando che siano riportate in maniera sbagliata. Possiamo capirlo parlando
di una famiglia dove ci sono più fratelli e si deve comunicare il giorno e l’orario di una
visita: creando un gruppo la comunicazione arriva a tutti nel solito modo.
Volendo possiamo usare il nostro telefono anche per far ascoltare la musica al nostro
paziente, in modo che possa rilassarsi, durante un’attesa o magari in un viaggio.
I tablet non offrono molto di più, l’interfaccia è molto simile alla precedente, spesso
uguale, ma lo schermo è più grande. Talvolta, pur potendo navigare in internet non
possono essere usati come telefoni.
Un’altra rivoluzione importante è data dalle applicazioni, veri e propri programmi che
spaziano su qualsiasi argomento.
Tra gli usi più importanti di questi strumenti, oltretutto facilmente trasportabili, non ci
dobbiamo scordare quelli di tipo comunicativo, mediante programmi di scrittura con i
quali il malato può comunicare quando non riesce più a parlare. Se risulta necessario è
anche molto facile sostenere l’apparecchio in caso di deficit motorio del paziente.
La vera rivoluzione, dal mio punto di vista, credo sia data dal PC in questo momento,
che grazie al solo utilizzo di un sensore ottico, dopo calibrazione, fa in modo che il
paziente, ormai immobile, possa usare il suo sguardo per comunicare con gli altri: in
altre parole il mouse viene guidato dagli occhi.
In questo modo dalla scrittura fino alla navigazione in internet il PC diviene
accessibile anche in stato di immobilità: teniamo in considerazione, comunque, tutte le
difficoltà che incontra un paziente, come può essere la stanchezza degli occhi o una
calibrazione errata, durante l’utilizzo di questo sistema.
Il sistema che ho visto personalmente è fornito di un monitor adeguatamente saldato
ad una sbarra, che si posiziona davanti al paziente in modo che veda. Il sensore è posto
al di sopra del monitor e deve essere calibrato ogni volta che viene spostato.
Grazie a questo sistema il paziente può rimanere da solo visto che c’è il campanello
d’allarme; può guardare la televisione, ma può anche comunicare tramite internet
(social network o mail) e restare in contatto, per quanto voglia, con il mondo esterno.
La comunicazione è molto importante, poiché il paziente che non si isola non cade in
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depressione e riesce ad affrontare in maniera migliore le varie situazioni della vita.
Avevamo iniziato a parlare di come prevenire le UdP, argomento sempre molto attuale
anche nelle corsie ospedaliere, e abbiamo detto che tra i presidi che possono essere di
aiuto troviamo i materassi antidecubito. Questi, però, non devono essere usati da soli, o
meglio, non funzionano se usati da soli.
I materassi antidecubito devono essere sempre associati ad un piano di rotazione
attuato almeno ogni 4 ore - si passa a 2 ore con i materassi normali, e si devono tenere i
talloni alzati dal piano del letto poiché nemmeno i materassi riescono a prevenirne le
lesioni.
I materassi antidecubito migliori sembrano essere quelli ad aria e quelli ad aria
fluidizzata. I primi sono costituiti da diversi cuscini di aria posti in maniera orizzontale:
un motore esterno gonfia e sgonfia i cuscini anche in base al movimento del paziente, in
modo da distribuire la pressione a livello dei vari distretti corporei.
I letti ad aria fluidizzata usano un flusso d’aria veloce che gonfia fini particelle di
silicone all’interno di una copertura protettiva: ne risulta un presidio simile ad un letto
ad acqua. Quando si spegne il flusso d’aria, le particelle si depositano nella parte
inferiore del letto e diventano una superficie rigida e ferma, mantenendo la persona in
posizione fino a che si riattiva il flusso d’aria.
Anche in questo caso è impossibile non notare come la tecnologia possa aiutare le
persone che sono obbligate in un letto, o che per lo meno vi passano la maggior parte
della giornata, in modo da aiutare i caregiver.
Dopo aver visto come questa tipologia di malattia viene seguita mi nascono spontanee
alcune domande a cui ho risposto secondo il mio punto di vista.
CHE SENSO HA OGGI LA MULTIDISCIPLINARIETA'?
Oggi la medicina tende ad essere sempre più specialistica, formando così persone che
sono molto più brave a gestire un tipo specifico di problema invece di saperne un pò di
tutto.
Tutto questo ha come scopo, o dovrebbe averlo, un miglior trattamento del paziente,
in maniera più mirata, avvalendosi proprio della collaborazione con altri specialisti.
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Tutto questo credo sia dovuto anche a due fattori molto importanti: le nuove
tecnologie ed il sempre maggior numero di pazienti.
Le nuove tecnologie, che abbiamo visto fino a questo momento, velocizzano e spesso
migliorano anche le diagnosi, ma non possono essere presenti in tutti i reparti.
Comprare macchinari per tutti i reparti porterebbe ad una spesa eccessiva per le varie
aziende ospedaliere ed inoltre “obbligherebbe” all’utilizzo di questi, in modo che non
solo le visite si allunghino ma anche da far diventare gli operatori sanitari dei tecnici
informatici potendo così dedicare meno tempo al paziente.
Le sempre maggiori specializzazioni fanno sì, inoltre, che i pazienti effettuino visite
sempre più mirate, in maniera da diminuire le liste di attesa: questo porta dei vantaggi
per il paziente che può ricevere una diagnosi più velocemente ed un trattamento
altrettanto rapido.
LE
NUOVE
TECNOLOGIE
MIGLIORAMENTI?
HANNO
QUINDI
PORTATO
DEI
Dopo tutto quello che è stato detto fino a questo punto si potrebbe dire sicuramente di
sì, anche se personalmente non sono pienamente d’accordo.
La tecnologia ci ha portati verso una “strumentalizzazione” di moltissime situazioni
della quale molti medici, soprattutto giovani, non saprebbero farne a meno. Si capisce
come in una situazione in cui un apparecchio si guasti sia difficile riconoscere dai soli
segni clinici lo stato del paziente.
Possiamo fare un esempio. Nel caso il macchinario per l’EGA abbia problemi ed il
risultato sia falsato, un occhio non attento a riscontrare i segni clinici del paziente
potrebbe trovarsi in difficoltà.
Inoltre, come abbiamo detto sopra, queste tecnologie fanno sì che i medici, ed anche
gli
infermieri,
si
specializzino
sempre
di
più
(ad
es.
in
deglutidologia
l’otorinolaringoiatra). Tutto questo non è “favorevole” se vediamo un paziente con
pluripatologia, poiché non deve esserne gestita una sola, quella dello specialista, ma
aiutato il paziente come malato nella sua globalità di persona.
In altri casi, però, le tecnologie che vengono usate sono sempre più indispensabili,
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perché sarebbero difficilmente sostituibili con altri metodi. A tal proposito possiamo
pensare ad un ventilatore automatico proprio per un malato di SLA, il quale da un certo
punto in poi della sua malattia non riuscirebbe più a respirare senza questo ausilio.
Vediamo quindi come la tecnologia che ci accompagna tutti i giorni possa avere due
facce contrapposte ma ugualmente importanti. Dobbiamo quindi capire che in senso
diagnostico questa deve essere usata solo come supporto, in modo da confermare quelli
che sono i segni clinici e non viceversa, mentre in ambito non diagnostico è importante
capire quale sia il momento più opportuno per farla intervenire in modo da evitare delle
sofferenze inutili sia fisiche sia psicologiche.
CHE RUOLO HA OGGI L'INFERMIERE?
Come abbiamo già potuto vedere il ruolo dell’infermiere ad oggi è notevolmente
cambiato, anche se in Italia siamo ancora un po’ arretrati.
L’infermiere potrebbe avere, in una malattia come questa, il compito di seguire il
paziente sotto ogni punto di vista.
Si parte dalla pianificazione delle varie visite, delle terapie e dei modi con cui il
paziente si deve spostare. Come abbiamo accennato all’inizio, tutto questo è
fondamentale per un malato di SLA, poiché col progredire della malattia il paziente è
soggetto ad affaticarsi più precocemente ed a muoversi sempre peggio.
Le terapie che deve seguire devono essere programmate in modo da non risultare
stancanti per il paziente. Devono essere gestite con i vari impegni in modo da ottenere la
maggior compliance possibile da parte del paziente ed una collaborazione più stretta dei
familiari che non vedano il loro congiunto solo affaticato.
Per gli spostamenti risulta importante saper comunicare a chi li effettua di quale
mezzo necessiti il paziente, ma anche quali ausili servano sia per l’ambiente in cui vive,
sia per i presidi che questo si deve portare dietro, spesso vitali.
Da un punto di vista gestionale l’infermiere potrebbe risultare importante anche per il
supporto alla famiglia, in modo da insegnare alcune pratiche per migliorare la qualità di
vita. Il supporto alla famiglia non sarà solo tecnico, ma anche e soprattutto relazionale:
tutto ciò scaturisce dal fatto che le tecniche vengono apprese velocemente, mentre i
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problemi che insorgono con l’evoluzione della malattia, dati in buona parte anche dagli
stati d’animo, sono sempre nuovi. I familiari spesso non vogliono coinvolgere il
medico, che oltretutto si prende cura della malattia, nelle loro problematiche, e
continuano a cercare strade che spesso non offrono grandi benefici. La figura
infermieristica, invece, atta proprio a prendersi cura del malato e della sua famiglia,
dovrebbe riuscire a raggiungere questo scopo.
Abbiamo visto come spesso gli ambulatori funzionino anche grazie ad una figura
infermieristica che collabori con il medico per la realizzazione della visita. La
collaborazione risulta quindi utile per snellire le attese e credo gradita a paziente e
familiari che si trovano ad interfacciarsi con più professionisti che mostrano di saper
interagire proficuamente tra di loro.
L’infermiere oggi deve quindi essere una figura sempre aggiornata, che segua i
pazienti a domicilio, in ambulatorio o in corsia.
Il ruolo dell’infermiere risulta tanto più importante quanto più l’équipe che segue il
paziente rimane la stessa, in modo da instaurare un rapporto di fiducia duraturo: medico
ed infermiere si sostengono a vicenda.
Avere un infermiere in ambulatorio aiuta anche il paziente nel rapporto con il medico,
poiché laddove il paziente, o chi per lui, non capisse le spiegazioni date dal medico
l’infermiere può esprimersi in termini diversi, sempre senza però sostituirsi alla figura
del medico.
L’Infermiere referente o quello che opera sul territorio risulta di particolare rilevanza,
poiché la SLA viene gestita in maggior parte a domicilio: l’infermiere cerca di
supportare la struttura che si crea per l’assistenza, come abbiamo visto fino a questo
punto.
Questo sistema relazionale può funzionare soltanto con una stretta collaborazione tra
PERSONE che sono anche figure professionali: come in ogni gioco di squadra più le
persone sono in accordo migliore sarà il risultato ottenuto.
Ma tutto questo lavoro sarà veramente utile per il paziente? Oppure non serve a niente
perché le persone sanno già come prendersi cura di lui?
La ricerca che verrà proposta nei successivi paragrafi ha proprio lo scopo di aiutare a
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discernere se l’infermiere debba collaborare con i pazienti o dedicarsi ad altro.
Come è stato già sottolineato, la collaborazione, gli interventi specialistici e quelli di
un infermiere che oltre a prendersi cura del paziente cerchi di gestire tutta la situazione,
cosa che non è facile, devono servire non solo ad appagare le persone dal punto di vista
lavorativo ma anche (e soprattutto) a migliorare la qualità di vita del paziente e dei suoi
caregiver familiari.
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39
3
LE “BUONE PRATICHE” UTILI SECONDO IL PUNTO DI VISTA
INFERMIERISTICO
3.1
La teoria della “STANZA”
Il percorso di studi del nostro Corso di Laurea prevede, tra le attività, un tirocinio
formativo all’interno dei reparti, che viene suddiviso nei vari anni. Questo fa sì che gli
studenti si trovino ad analizzare diverse situazioni reali spesso molto diverse tra loro,
anche all’interno dello stesso reparto. La caratteristica più importante che viene
richiesta, secondo il mio punto di vista, durante questi periodi è l’osservazione.
Avendo così avuto modo di osservare vari pazienti credo di poter dire che le malattie
portano gli stessi a vivere situazioni surreali dove nemmeno loro riescono, molte volte,
ad identificarsi. Dover affrontare una malattia riveste il paziente con diversi strati di
stati d’animo.
Affrontare alcune situazioni stando vicini al malato, usando un occhio critico ed
interessato, e cercando di capire le sue difficoltà mi ha portato a fare delle riflessioni.
In passato sono stato un caregiver, e questo mi ha aiutato a guardare le situazioni da
punti di vista differenti. Inizialmente ho dovuto affrontare la malattia a fianco della mia
famiglia, con tutte le difficoltà del caso; successivamente ho avuto modo di affrontare
situazioni analoghe da studente di Infermieristica, a fianco di professionisti, con un
bagaglio di conoscenze e competenze che ogni giorno va ampliandosi.
I familiari, pur non essendo malati, vivono anch’essi la malattia. Questo è dovuto allo
stile di vita, al lavoro ed agli impegni dei componenti del nucleo familiare. Inoltre avere
un familiare malato implica la capacità di saper convivere con la malattia e saper
tamponare quelli che sono i bisogni del malato.
Spesso la gestione del malato richiede conoscenze che i familiari non hanno, e
soprattutto di saper far fronte ad atteggiamenti che si diversificano da malato a malato,
anche se alcuni medici sono riusciti a raggiungere un percorso comune (Ross, anno
1970).
Molto spesso questi familiari, oggi aiutati anche da internet, cercano notizie, consigli
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o chiarimenti su come muoversi, raggiungendo, però, solo mezze verità. Tutto questo
per la cultura di non voler disturbare le persone preposte ad aiutarli: si capisce quindi
come questo metodo porti le persone vicine al malato a sbagliare, aumentandone i
traumatismi. Spesso viene usata la medicina “fatta in casa” e “tramandata” dai vicini,
che può aumentare la sofferenza del paziente spingendolo sempre più verso una
chiusura sociale.
Il contatto con i vari tipi di malati e le sempre maggiori conoscenze mi hanno portato
ad elaborare una teoria che ho chiamato “LA STANZA DEL MALATO”.
Questa teoria è nata guardando il malato dall’esterno, ossia osservandolo durante le
varie fasi della giornata, nei suoi diversi aspetti relazionali e comportamentali.
Credo che la rappresentazione mentale di questa stanza possa aiutare gli operatori ad
interagire non solo con il malato ma anche con tutte le altre persone che gli sono
intorno.
Possiamo certamente affermare che una stanza reale è un ambiente statico, mentre
posso premettere che “LA STANZA DEL MALATO” presenta un ambiente dinamico che,
come vedremo, è modificato dai vari elementi.
Ogni persona, nel momento in cui gli venga diagnosticata la presenza di una malattia,
crea intorno a sé una vera e propria stanza mentale nella quale vivrà fino all’exitus o alla
risoluzione della malattia stessa.
La stanza diviene sempre più stretta ed oppressiva quanto più il paziente si sente
isolato ed intrappolato dalla sua malattia. Più un paziente si sente intrappolato meno
sono le sue probabilità di vedere la via di uscita, che non si identifica solo nella
guarigione ma che può essere rappresentata anche da una visione più ampia di serenità,
amore, rispetto ed emozioni vissute anche durante questo periodo.
Per descrive “LA TEORIA DELLA STANZA” dobbiamo, per prima cosa, immaginarci una
vera e propria stanza, vista dall’alto, come quella che sto per descrivere. Alcuni elementi
che vengono descritti spesso sono impercettibili ai nostri occhi ma sono fondamentali
per l’esistenza della stanza.
Immaginiamo di vedere la stanza dall’alto con le sue 4 pareti che rappresentano i
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limiti imposti dalla malattia. Ai 4 angoli vi sono colonne che possono essere spostate, in
modo da ingrandire o rimpicciolire la stanza. Le travi mettono in comunicazione i vari
elementi partendo dalle colonne, in ogni direzione. Infine abbiamo almeno una finestra
ed una porta.
Iniziamo a dare vita alla stanza, vedendo come si compone, al di là della struttura
immaginaria.
Al centro troviamo il MALATO, o PAZIENTE, cioè colui che deve vivere la malattia. Il
paziente, oltre a crearsi questa stanza, può spostarsi all’interno di questa come vuole,
anche se non ne può mai uscire in quanto la malattia persiste.
Le 4 colonne sono identificate con persone e comportamenti umani che sono sempre
presenti, o meglio, sono fondamentali (dal mio punto di vista) per affrontare la malattia.
In verità le colonne non sono sempre visibili, anche se è certo che ci sono.
L’analogia con le colonne di una vera stanza, che spesso non si vedono, si trova
quando, pur dovendo essere evidenti, sono nascoste da atteggiamenti, idee o persone
culturalmente cieche; oppure, al contrario, non vengono riconosciute dal paziente per
l’umanità con cui viene trattato.
Il posizionamento delle colonne non ha un ordine ben preciso, e di conseguenza
nemmeno quello della porta e delle finestre. Tutto questo, come spiegherò in seguito,
grazie alle travi.
La prima colonna è il MEDICO, colui che diagnostica la malattia e che la dovrebbe
seguire nelle sue fasi cliniche. Il medico è una colonna importante in quanto da lui un
paziente si aspetta una risposta importante. Deve essere sempre presente in una malattia,
ma non può, o non dovrebbe, obbligare un paziente a fare ciò che lui vuole.
Il medico, spesso, è visto come la figura a cui affidare la propria vita: si capisce quindi
quanto risulti fondamentale per un paziente.
La seconda colonna della stanza del malato è l’INSEGNAMENTO che molto spesso
viene tralasciato: insegnare al paziente alcuni aspetti fondamentali della malattia in
molti casi può provocare agitazione all’inizio, ma spesso aiuta ad affrontare meglio la
stessa.
Grazie all’insegnamento le conoscenze del paziente aumentano in modo da
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migliorare, si spera, i suoi comportamenti verso la malattia, ma anche le sue interazioni
con il mondo, per quanto possibile.
Il dare delle false speranze, che non vengono riscontrate con il passare del tempo,
credo che aumenti la depressione timica, la disaffezione alle terapie e l’isolamento
sociale.
La terza colonna è rappresentata da un’altra figura che sempre più spesso è presente
nel percorso assistenziale: l’INFERMIERE.
Come figura indipendente, l’infermiere segue il paziente dal punto di vista olistico,
dovendo cercare con lui un maggior contatto. Se pensiamo ad una corsia spesso
l’infermiere è l’unica persona con cui il paziente può avere un dialogo durante la
giornata, quando non ci sono i familiari, ed è, inoltre, la persona a cui viene affidato il
proprio corpo.
L’infermiere è anche il professionista che spesso deve rendersi conto delle
modificazioni fisiologiche del paziente, da valutare poi con il medico.
Pensando ad un paziente domiciliare la situazione non cambia di molto, in quanto
l’infermiere è colui che non vivendo nell’unità abitativa riesce a far evadere il paziente
dalla routine. In questo caso l’infermiere deve aiutare a gestire il paziente, senza averne
un controllo nelle 24 ore, evitando il più possibile i traumatismi.
Al contrario del medico l’infermiere spesso non è stato scelto dal malato e non sempre
i due caratteri si amalgamano.
La quarta colonna che consideriamo è l’ASCOLTO.
Ogni paziente sente sempre il bisogno di parlare, di stare in compagnia, e quindi di
essere ascoltato.
Ascoltare un paziente in maniera attiva sottolinea come questo si senta compreso non
tanto nella sua malattia ma nel suo stato di sofferenza. Ascoltare il paziente vuol dire
anche cogliere aspetti della malattia e del carattere del paziente, che potrebbero risultare
utili nel trattamento.
Solo il malato ci può dire le sue paure o farci capire se le informazioni che gli
abbiamo fornito sono state comprese e gli sono risultate utili.
Le 4 colonne rimangono quindi nascoste molto spesso a causa di atteggiamenti umani
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ma in altri casi sappiamo come le colonne vengano messe in evidenza, come in alcune
case rustiche, avendo l’umiltà di essere una colonna.
Ovviamente la stanza deve avere una PORTA. Anche se a noi sembra normale che ci
sia, sappiamo come in una stanza si possa entrare attraverso le più svariate aperture,
senza il bisogno di una vera e propria porta che chiuda l’ambiente.
La porta serve a far entrare ed uscire le persone dalla stanza, anche se il discorso è più
ampio.
I caregiver dovranno riuscire ad entrare nella stanza che il malato si crea per poter
interagire con lui; anche gli amici che vorranno interagire con il malato devono
oltrepassare la porta ed entrare nella stanza in modo che il paziente non si chiuda in se
stesso.
Una cosa che ritengo da non sottovalutare è che le persone quando devono o vogliono
interagire con il malato abbiano bisogno di entrare nella sua stanza.
La porta della stanza del malato può essere chiusa o aperta: questo dipende dallo
stesso malato e dal suo stato d’animo.
Chiunque voglia entrare dovrà quindi bussare, presentandosi così al paziente. Dovrà
far capire al paziente perché vuole entrare, senza però fargli sentire che questo sia un
peso. Una volta all’interno possiamo interagire con il malato, ma anche con la sua
stanza, in modo creativo.
C’è differenza tra un colloquio con il malato senza interscambio di emozioni e
sensazioni ma solo con uno sterile scambio di informazioni, ed interazione vera e
propria, quando il paziente apre la porta, invitandoti nella sua stanza. A questo punto le
emozioni si fanno forti, in modo da portare modifiche anche alla stanza del malato,
costruendo così un rapporto.
La differenza tra le persone che entrano all’interno dalla porta e le due colonne,
medico ed infermiere, risiede proprio nel fatto di poter scegliere.
Il medico può essere scelto, ma tra una serie limitata di persone, e deve esserci
sempre, non perché altrimenti non c’è la malattia, ma perché altrimenti non può esserci
una cura.
L'infermiere ugualmente può essere scelto a domicilio, non sempre; e invece è
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assegnato in ospedale, senza scelta.
Le altre persone, d’altro canto, è il malato stesso che decide se farle entrare o meno, se
condividere con loro qualcosa, e soprattutto che cosa. Non sempre il solito
comportamento porta a farsi accettare da tutti i pazienti.
Le FINESTRE, infine, rappresentano il mondo esterno che oggi, grazie ai moderni
mezzi di comunicazione, può essere raggiunto più facilmente.
Anche in questo caso, comunque, la situazione deve essere analizzata in maniera
attenta.
Spesso il mondo conosce le malattie solo per nome: se riuscissimo ad andare oltre
credo che ci sarebbero meno disagi per i malati. In primo luogo il comportamento delle
persone alla vista del paziente stesso: basti pensare agli sguardi dei passanti alla vista di
una persona con Sindrome di Down, che ad oggi sono sempre stupiti.
La divulgazione di una malattia credo che faccia sentire il malato più speranzoso in
termini di ricerca sapendo che questa, come molte altre, è considerata dall’opinione
pubblica, e non accantonata perché conosciuta e riconosciuta solo da pochi esperti.
Credo inoltre che la consapevolezza della conoscenza della malattia nel mondo indichi
al malato che non è il solo a dover sopportare quella condizione di sofferenza.
Il resto del mondo, e quindi i giudizi degli altri, sono importanti per qualsiasi persona
sana o malata, ed è per questo che ritengo le finestre molto importante per la stanza del
malato, ma anche da non sottovalutare per tutte le altre persone che si trovano attorno a
lui.
Gli elementi visti fino a questo punto sono messi in comunicazione tra loro dalle travi
che nella “TEORIA DELLA STANZA” sono rappresentate dalla COMUNICAZIONE.
Questa ovviamente funziona sempre in maniera bidirezionale, in modo da avere sempre
una risposta, che può essere anche negativa.
La comunicazione è il primo elemento che fornisce dinamicità alla stanza. Spesso
comunicare sembra un cosa banale, obsoleta o marginale, e per questo tenuto in
considerazione sempre meno, anche se è una merce di scambio molto importante:
questo mezzo deve essere usato bene, considerando anche che vi può essere collegata
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l’immaginazione.
Riflettendo sulla potenza della comunicazione potremmo fare una prova molto
semplice. Se passiamo un minuto da soli in una stanza sembra lunghissimo; sembra
accorciarsi guardando la televisione; ma se intratteniamo una conversazione, senza
avere l’ansia di andare via, il tempo vola.
Riferendoci alle colonne vediamo che la comunicazione è il primo passo per insegnare
a chi abbiamo davanti cose utili per la sua malattia. Come abbiamo visto, insegnare è
fondamentale, e averne un riscontro è altrettanto importante.
La comunicazione è utile anche per far capire al paziente che è stato ascoltato.
Ascoltando possiamo percepire degli errori sulla conoscenza del paziente e quindi
colmare le possibili lacune che si sono create.
Tra le cose che possono sembrare banali c’è la condivisione del percorso terapeutico
che deve essere comunicato, nonché la programmazione dell’assistenza, che non può
avvenire solo in base alle esigenze delle figure che seguono il malato, prescindendo dal
malato stesso.
Il malato tramite la comunicazione può ingrandire la sua stanza parlando anche dei
suoi progetti in relazione a quella che è la malattia.
Comunicare serve anche ai caregiver che inizialmente non faranno parte della stanza e
dovranno riuscire ad entrare. Per fare questo dovranno essere informati sui vari stati
d’animo del malato, ma dovranno anche sapere che è il paziente a decidere come gestire
la propria stanza.
Comunicare è importante anche per far conoscere le malattie al mondo, per
condividerne gli sviluppi, le cure e le ricerche che vengono fatte nei vari Paesi.
La comunicazione è il modo più importante per interfacciarsi con le persone, cioè non
importa stringere la mano ad una persona se contemporaneamente parlo con un altro:
questo semplice es. ci indica, però, come una comunicazione verbale sia più forte di una
gestuale.
Si comunica con il malato per far sì che la sua stanza sia più grande. Inoltre le parole,
o le persone, possono dare colore alle pareti, come del resto accade anche nella nostra
vita. Quando parliamo con una persona che non vogliamo incontrare, o che non ci sta
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simpatica, questa viene rappresentata sempre con il colore nero, piuttosto che una
persona alla quale siamo sentimentalmente legati che viene rappresentata con il colore
rosso.
La comunicazione però non deve limitarsi alla malattia e deve riuscire a spaziare
anche su altri argomenti scelti dal paziente. Lo spaziare porta il paziente a fare dei
viaggi mentali lunghissimi: credo che queste conversazioni lascino anche una “coda”,
ovvero momenti in cui il paziente, in solitudine, ripensa alla conversazione ed ai suoi
contenuti, in modo da spaziare e da ingrandire la sua stanza, magari abbattendo per
qualche istante i suoi limiti.
Con il progredire della malattia far uscire un paziente di casa è generalmente sempre
più difficile: la propria camera viene percepita come un limite. Viceversa, la stanza del
malato deve essere vista come un’opportunità che viene data al malato stesso per
evadere dalla realtà della sua malattia.
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3.2
La comunicazione amica della cura
La comunicazione è fondamentale per tutte le persone, sane o malate, ed è utile nella
società per interagire con gli altri. L’uomo ha sempre sentito il bisogno di comunicare e
per questo già le prime civiltà avevano inventato un modo per potersi scambiare
informazioni cominciando dai geroglifici.
La comunicazione nei secoli è cambiata, evolvendosi. Già in antichità si sentiva il
bisogno di scambiarsi informazioni in modo sempre più chiaro e preciso, ma anche in
maniera rapida: da qui nasce un percorso che arriva fino ai giorni nostri con le
comunicazioni elettroniche.
Secondo il mio punto di vista la maggiore evoluzione della comunicazione si ha con la
lingua parlata, quando questa avviene di persona, in modo che gli utenti della
comunicazione possano confrontarsi anche su un piano visivo. Durante una
comunicazione verbale, infatti, è molto importante anche l’uso dello spazio e del corpo,
definita prossemica.
Secondo Wikipedia la comunicazione, che deriva dal latino cum = con e munire =
legare e, sempre dal latino, communico = mettere in comune, far partecipe, nella sua
prima definizione è l’insieme dei fenomeni che comportano la distribuzione delle
informazioni.
Se cerchiamo il significato di comunicazione attraverso la Treccani la definizione
sembra essere più completa: viene definita comunicazione “ogni processo consistente
nello scambio di messaggi, attraverso un canale e secondo un codice, tra un sistema
(animale, uomo, macchina, ecc.) ed un altro della stessa natura o di natura diversa”.
Lo scambio di informazioni tra un paziente ed un professionista sanitario è il primo
passo verso la diagnosi e la cura della malattia, in quanto se i segni sono evidenti ad un
occhio clinico, i sintomi devono essere spiegati dal paziente, o da chi per lui.
Non dobbiamo scordarci, inoltre, che le persone che usufruiscono del sistema sanitario
hanno conoscenze, credenze e culture diverse, ed avere un paziente davanti agli occhi
aiuta a capire quali siano i suoi segni. Un paziente, che non conosca il nome di una parte
di corpo o non sappia esprimersi, può sempre indicarlo.
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La comunicazione vocale deve essere quindi un punto cardine del rapporto con il
malato e con i suoi familiari.
Il NANDA “Diagnosi Infermieristiche definizione e classificazione 2012 – 2014”
riporta nel dominio 5: “percezione/cognizione” due diverse diagnosi con le relative
definizioni.
La diagnosi 00157 dal titolo “Disponibilità a migliorare la comunicazione” è definita
come “Modello di scambio di informazioni e di idee con altre persone che è sufficiente
a soddisfare i propri bisogni e gli obiettivi della vita e può essere rafforzato”.
La diagnosi 00051 dal titolo “Comunicazione verbale compromessa” è invece definita
come “Diminuita, ritardata o assente capacità di ricevere, elaborare, trasmettere ed usare
un sistema di simboli”.
Questo è il punto di partenza per capire che un infermiere non deve solo puntare ad
avere una comunicazione con il paziente ma anche cercare di migliorarla laddove ce ne
sia un reale bisogno.
L’infermiere deve quindi attivarsi per avere una comunicazione con il paziente - anche
se questo non ha la possibilità di rispondere - che può essere definita come
comunicazione terapeutica.
La cosa fondamentale, per iniziare una relazione con il paziente, è presentarglisi non
solo con nome e cognome, ma anche in termini di persona che gli recherà sicuramente
aiuto, descrivendogli il proprio ruolo e spiegandogli come possiamo aiutarlo. Per
raggiungere questo scopo l’infermiere deve riuscire a parlare in maniera calma, con
voce ben modulata ed ascoltando attentamente.
La comunicazione è un’azione continua e dinamica. Sebbene sia un artificio dividere
la comunicazione nei suoi componenti, farlo può essere utile. Conoscere gli elementi
individuali di un processo può aiutare ad identificare dove questo presenti dei problemi.
Gli elementi del processo qui presentato si basano sul lavoro di Berlo (1960), un teorico
della comunicazione.
Tutte le comunicazioni hanno un emittente, che nel nostro caso può essere
l’infermiere; uno scopo che deve essere tradotto in un codice, costituito dal linguaggio e
da segnali non-verbali (come gesti, atteggiamenti del viso, ecc.). Il processo attraverso
49
cui lo scopo è tradotto in un codice è chiamato codifica: quest’ultima codifica determina
un messaggio.
Un altro elemento del processo di comunicazione è il canale di comunicazione, il
mezzo che trasmette il messaggio: la voce o le parole scritte sono un canale.
Alla fine del canale troviamo il ricevente, ovvero il destinatario della comunicazione,
che deve essere in grado di comprendere (o decodificare) il messaggio.
Quando i messaggi sono decodificati e ricevuti si verifica il feedback: fonte e
ricevente usano le reciproche interazioni per produrre ulteriori messaggi.
Nel momento in cui siamo davanti ad un malato di SLA questi elementi sono molto
importanti per riuscire a mantenere viva una comunicazione, in quanto la malattia lo
porterà a dover comunicare con metodi alternativi. Saper analizzare questi elementi e
riuscire a trovare un modo per correggerli con il passare del tempo è utile per non far
chiudere il paziente in se stesso, incentivandolo invece sempre a comunicare.
La relazione tra infermiere ed assistito è vista come la chiave di volta di tutta
l’assistenza infermieristica: questa si costruisce tramite la comunicazione interpersonale
diretta che si instaura in scenari specifici.
Il principale soggetto della comunicazione, nella relazione infermiere-assistito, è la
persona assistita con le sue esperienze ed i suoi problemi. I risultati devono essere,
quindi, orientati al miglioramento delle abilità di adattamento allo stato di salute.
Si parla di comunicazione terapeutica quando si è utili, facilitando i rapporti e
centrando la comunicazione sulla persona assistita e sulle sue preoccupazioni.
Lo scopo della comunicazione terapeutica è di aiutare la persona ad esprimersi ed a
lavorare su sentimenti e problematiche correlati alla sua condizione, ai trattamenti ed
all’assistenza infermieristica.
Comunicazione terapeutica significa, quindi, che l’infermiere rispetta l’individualità
del suo assistito ed usa modalità di comunicazione per trasmettere tale rispetto.
La comunicazione terapeutica rende l’infermiere capace di rivalutare ed intervenire in
modo appropriato, se possibile usando informazioni accurate basate sulla persona. L’uso
sistematico di queste tecniche permette di scoprire i cambiamenti cognitivi nel mentre si
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verificano.
In questo caso si può utilizzare anche la comunicazione non verbale per esprimere
considerazione tramite il tatto, l’espressione facciale ed il contatto oculare.
La SLA con il tempo porta le persone a parlare in maniera incomprensibile,
peggiorando di giorno in giorno, rendendo sempre più difficile la conversazione con il
paziente. Questa, però, deve essere mantenuta costantemente, poiché il paziente riesce
ad ascoltare: se non riusciamo a capire che cosa ci ha detto dobbiamo essere onesti e
dirglielo. Non si deve certo insistere nella comunicazione in quanto alcuni sintomi
possono peggiorare con la stanchezza o con l’ansia. Si deve inoltre incoraggiare la
persona ad usare qualsiasi mezzo disponibile per esprimersi.
Lo stile della comunicazione deve essere adattato alla persona assistita, compresi
velocità, lunghezza del contenuto e contenuto stesso.
La relazione fra infermiere ed assistito può essere pensata in 3 fasi: orientamento,
lavoro e conclusione.
La fase di orientamento consiste nell’introduzione e nell’accordo tra infermiere ed
assistito sui loro ruoli e sulle mutue responsabilità. Il primo impatto tra infermiere ed
assistito è fondamentale. Ciò che vedono, sentono e toccano l’uno dell’altro nel corso
del primo incontro andrà a determinare il modo in cui si svolgeranno le successive
interazioni. Lo scopo di questa fase è, quindi, di stabilire un rapporto di fiducia in
maniera tale da capire realisticamente i problemi dell’assistito e da negoziare un piano
d’azione. Quando infermiere ed assistito iniziano a conoscersi, l’ansia iniziale dovuta al
fatto di entrare in contatto con uno sconosciuto si abbassa, aumenta la fiducia e si
prepara la strada per creare un percorso terapeutico insieme.
Durante la fase di lavoro, l’infermiere e l’assistito esplorano e sviluppano soluzioni
che vengono promulgate nelle interazioni successive. L’infermiere deve quindi agire a
sostegno della persona, assistendola nei suoi bisogni fisici ed emotivi.
La conclusione rappresenta il termine della relazione. L’infermiere rivede con
l’assistito i cambiamenti di salute e come egli ha gestito le risposte fisiche ed emotive.
Nel caso si lavori in un reparto il piano di dimissioni è una componente chiave del
processo di conclusione. La conclusione può avvenire in vari modi: ad es. quando
51
l’infermiere riceve un nuovo incarico o quando si assiste al decesso del paziente.
Nel corso di tutte le fasi l’infermiere sollecita un feedback da parte dell’assistito, così
da poter tarare i successivi incontri per ottimizzare l’assistenza.
Durante un processo comunicativo non dobbiamo scordarci dell’empatia. Questa è
definita come la “capacità di percepire e ragionare, così come di comunicare
comprendendo i sentimenti dell’altra persona ed i significati impliciti”. Secondo
Reynolds (2000) è la caratteristica principale della relazione d’aiuto. L’infermiere deve
essere in grado di comportarsi così, in modo da dimostrare obiettività e sensibilità,
mantenendo il focus sull’assistito secondo quanto afferma McDonald (2004).
L’empatia è una componente molto forte nella relazione terapeutica. Interagire ad un
livello in cui l’infermiere percepisca l’empatia con una persona, può essere in alcuni
casi automatico, ma in altri potrebbe richiedere un lavoro sulle proprie emozioni: è
opportuno che l’infermiere metta in gioco se stesso, e questo può comportare che alla
fine si senta svuotato, esausto o in burn-out, soprattutto nella situazioni in cui il contatto
infermiere-assistito è prolungato o inatteso. Tuttavia, non è necessariamente appropriato
usare l’intero processo empatico in qualsiasi situazione clinica: azioni semplici quali il
tocco, la gentilezza, l’attenzione e la condivisione delle informazioni significano
comunque empatia.
Una fase molto importante della comunicazione è l’ascolto attivo che comprende la
capacità di concentrarsi sull’assistito e sul contenuto dei suoi messaggi, riportandogli
un’accurata immagine di che cosa esprima. Gli operatori sanitari spesso sovrastimano il
valore dell’ascolto e le abilità necessarie per ascoltare bene.
L’ascolto attivo implica anche, da parte di chi ascolta, la decodifica costante dei
sentimenti inviati con il messaggio. I contenuti del messaggio comprendono pensieri,
parole, opinioni ed idee. I sentimenti si riferiscono alle emozioni dell’assistito, che
possono essere descritte verbalmente, ma che di solito sono manifestate in maniera più
accurata attraverso significati non verbali come l’espressione del viso, la posizione del
corpo, il sorriso ed il pianto. Notare congruenza o incongruenza fra questi messaggi
aiuta a comprendere come l’assistito stia vivendo ciò di cui sta discutendo.
Questo breve accenno sulla comunicazione mostra quanto essa non sia una parte
52
integrante dell’assistenza, ma una parte a se stante. Comunicare con un paziente non
vuol dire solo dargli delle informazioni o parlare di qualsiasi altra cosa, ma vuol dire
avere un dialogo con finalità terapeutica. Una comunicazione sbagliata può far regredire
il paziente o può dargli false speranze.
Per finire credo sia corretto descrivere alcune tecniche di comunicazione terapeutica.
•
L’Ascolto si definisce come processo attivo mediante il quale si ricevono
informazioni e si analizza la propria reazione al messaggio ricevuto. Il valore
terapeutico è di comunicare non verbalmente al paziente l’interesse
•
dell’infermiere nei suoi confronti.
Il Silenzio è definito come un periodo di comunicazione non verbale tra i
partecipanti. Il suo valore terapeutico si manifesta nel dare al paziente il tempo
di pensare e di potersi rendere conto; rallenta il corso dell’interazione;
incoraggia il paziente ad intraprendere una conversazione, mentre orienta
•
l’accettazione, la comprensione ed il supporto da parte dell’infermiere.
La Riasserzione è definita come la ripetizione al paziente di quello che
l’infermiere considera il pensiero o l’idea principale. Il suo valore terapeutico è
di dimostrare la comprensione da parte dell’infermiere di ciò che il paziente sta
•
dicendo, manifestando empatia, interesse e rispetto verso il paziente.
La Chiarificazione è definita come la richiesta di spiegazione al paziente su che
cosa intenda, o la richiesta di provare ad esporre idee vaghe o pensieri non chiari
in modo da incrementare il livello di comprensione da parte dell’infermiere. Il
suo valore terapeutico sta nell’aiutare a chiarire le sensazioni del paziente, le sue
idee, le sue percezioni, ed a trovarne una correlazione congrua con le azioni del
•
paziente.
La Focalizzazione consiste in una serie di domande o di informazioni al fine di
aiutare il paziente a sviluppare o espandere un’idea. Il suo valore terapeutico sta
nel consentire al paziente di discutere le questioni fondamentali e di fare in
modo che le comunicazioni siano dirette all’obiettivo.
53
•
Le Aperture estese sono definite come incoraggiamento al paziente a selezionare
degli
argomenti
di
discussione.
Il
suo
valore
terapeutico
consiste
nell’accettazione da parte dell’infermiere e nel riconoscimento del valore
•
dell’iniziativa del paziente.
L’Umore è definito come metodo per scaricare le energie ironizzando sui difetti.
Il suo valore terapeutico è di agevolare la percezione, portando il materiale non
espresso alla consapevolezza, risolvendo i paradossi, stemperando le
aggressioni, e mostrando nuove opzioni: si tratta di una forma socialmente
•
•
accettabile di sublimazione.
L’Informazione è definita proprio come il fornire informazioni. Il suo valore
terapeutico sta nell’utilità dell’educazione sanitaria o nella formazione del
paziente su aspetti rilevanti del benessere e della cura di sé.
La Condivisione delle Percezioni è definita come la richiesta al paziente di
verificare la comprensione da parte dell’infermiere riguardo a ciò che sta
pensando o provando. Il suo valore terapeutico è di portare la comprensione
dell’infermiere verso il paziente ed ha la potenzialità di chiarire la
•
comunicazione confusa.
L’Identificazione dell'Argomento è definita come il sottolineare le questioni ed i
problemi sperimentati dal paziente, che emergono ripetutamente nel corso della
relazione infermiere-paziente. Il suo valore terapeutico è di consentire
all’infermiere di promuovere al meglio l’esplorazione e la comprensione di
•
problemi importanti.
Il Suggerimento è definito come l’esposizione di idee alternative a supporto di
considerazioni del paziente relative al problem solving. Il suo valore terapeutico
è quello di incrementare le scelte o le opzioni percepite dal paziente.
Queste tecniche, viste per l’'infermiere, possono essere estese a tutte le altre figure
professionali che interagiscono con il paziente.
54
3.3
Mai più solo - I caregiver a fianco del malato
La SLA è una delle malattie peggiori: il paziente si ritrova, con il passare del tempo, ad
sempre più dipendente da altre persone.
L’assistenza deve essere completa, arrivando a sostituire in tutto e per tutto il malato
che si ritroverà immobile, incapace di svolgere qualsiasi attività motoria.
Le situazioni che il caregiver deve imparare a sostenere sono quindi molte: credo non
si possa dare un ordine di importanza, ma piuttosto possiamo affermare che a parità di
importanza ci siano delle sostanziali difficoltà ad imparare alcune tecniche piuttosto che
altre.
Abbiamo visto come un gesto generalmente semplice, con un malato, tanto semplice
non sia: la comunicazione non si ferma alla diagnosi o al riconoscimento dei problemi
del paziente, ma continua per tutto il ciclo di cure ed è fondamentale per spiegare al
paziente che cosa stiamo per fare e come può aiutarci ad aiutarlo.
L’Infermieristica moderna si deve muovere insieme col malato e deve coinvolgere
tutte quelle persone che gli stanno intorno, insegnando loro quello che serve in base ad
un percorso strutturato, ma al tempo stesso personalizzato a seconda del paziente, di chi
lo segue e del decorso della malattia.
Scrivere una guida con tutto ciò che serva ad un paziente potrebbe essere utile nel
caso in cui ci siano da spiegare tante cose insieme e/o non ci siano i tempi materiali,
oppure ancora per chiarimenti ulteriori. Non penso che sia opportuna una guida, invece,
trattandosi di un malato di SLA il quale non avrebbe necessità di avere informazioni su
come riconoscere la malattia, né sulle fasi di riacutizzazione; d’altro canto la SLA
comporta un peggioramento progressivo, dando il tempo a chi segue il paziente di
imparare con calma quello che deve fare.
Vorrei aggiungere ancora che se certe conoscenze serviranno sicuramente è vero anche
che ogni malato è unico nel suo genere e può aver bisogno di focalizzarsi di più su un
determinato aspetto o su un determinato passaggio di una procedura piuttosto che su
altri.
Un ultimo aspetto, fondamentale, che vorrei sottolineare a sfavore della stesura di una
55
brochure sulla malattia ed il suo decorso è il fatto di mettere subito tutto nero su bianco,
cioè dire già sin dall’inizio al paziente come andrà a finire, consegnandolo così ad uno
stato di rassegnazione ed in alcuni casi anche di grave depressione, piuttosto che
permettergli di vivere l’attimo presente della malattia.
Mettere in mano una brochure alle persone, sempre se non adeguatamente spiegata,
crea a mio avviso un muro tra le stesse persone ed i professionisti: io mi sentirei come
consegnato ad un futuro a cui altri non vorrebbero partecipare in nessuna maniera. In
questo modo le domande ed i dubbi non verranno chiariti, proprio perché il muro che si
viene a creare spesso fa sì che le persone si allontanino, così da dover ricorrere ad altri
strumenti che abbiamo visto come spesso siano poco attendibili.
Percorrendo insieme quello che succede ad un malato di SLA arriveremo a capire
come mai ritengo alcune pratiche degne di nota più di altre.
La diagnosi di malattia porta le persone ad affrontare nuove situazioni che come
abbiamo detto evolvono con il passare del tempo.
La strada inizia con i primi problemi fisici che devono essere affrontati insieme con
una situazione psicologico-relazionale inaspettata.
La diagnosi, spesso, arriva quando il paziente ha già dei problemi, anche se riesce
ancora ad essere autonomo e ad affrontare le situazioni che gli si pongono davanti, o per
lo meno la maggior parte delle situazioni di vita quotidiana.
La malattia progredisce e si richiede sempre maggior attenzione da parte dei familiari
nei confronti del malato, creando il bisogno, secondo il mio punto di vista e la mia
esperienza, di un confronto e di conoscenze, per affrontare un percorso sconosciuto.
L’infermiere che si prende cura del malato e della sua famiglia li segue nel loro
percorso, che ogni volta è sempre nuovo e diverso, per le variabili dipendenti sia dalla
malattia, sia dalle persone. Basta guardare il nostro Paese e già vediamo come famiglie
culturalmente uguali, cresciute con i soliti valori mostrino al loro interno delle notevoli
differenze nell’affrontare la vita di tutti i giorni.
Un fattore che deve essere tenuto in considerazione è lo status economico, non perché
faccia la differenza nel tipo di cura di una persona, ma proprio per i valori che si trovano
all’interno della famiglia. Il fattore economico influisce anche sulla gestione del malato
56
e del tempo dei familiari.
Il percorso che si costruisce, comunque sia, porta con sé dei fondamenti
immodificabili. Il medico valuterà e seguirà il paziente sempre nel solito modo, pur
modificando la terapia in base al tipo di paziente. L’infermiere si prenderà cura del
paziente in base allo stato di malattia del paziente, ma servendosi di conoscenze e
capacità uguali per tutti, che purtuttavia si possono modificare in piccoli dettagli.
Il percorso continua in modo che chi accudisce il malato a domicilio debba acquisire
sempre nuove conoscenze, o meglio, capacità pratiche: se il corpo viene ben curato
anche la mente potrà essere più rilassata.
La comunicazione aiuta i familiari a capire come svolgere gli atti pratici, tramite le
spiegazioni, ed è il modo per chiedere informazioni e risolvere dubbi; serve anche per
identificare le nuove esigenze del paziente e capire se ciò che è stato fatto gli piaccia; è
utile anche per spiegare al paziente che cosa si farà, che cosa potrebbe provare e come
ci potrebbe aiutare.
Gli atti pratici richiedono una buona manualità dell’operatore. Solitamente nella vita
di tutti i giorni per affrontare un atto pratico si usa una “scaletta”, o meglio una
procedura, dove passo per passo ci viene indicato che cosa dobbiamo fare. Poter usare le
procedure ci semplifica notevolmente la vita, in quanto gli standard portano a dei
risultati già provati e confermati da altri per noi: una procedura che venga studiata,
provata e messa a punto per tutti non ci indurrà in errori o dimenticanze, e con il tempo
ci offre anche la possibilità di personalizzarla in base alle nostre esigenze.
Gli atti pratici devono essere spiegati alle persone, guardandole negli occhi e facendo
sì che vengono condivisi i dubbi: si deve poi procedere alla dimostrazione, in modo che
l’operatore stesso possa rendersi conto di dover fornire ulteriori spiegazioni.
Le persone che gestiscono i pazienti a domicilio devono andare a casa con procedure
che siano state provate, a casa o in ospedale, con personale competente, in modo da aver
chiarito la maggior parte dei dubbi. E’ necessario anche organizzare una reperibilità per
superare le incertezze a mezzo telefono o, ancora meglio, di persona: sappiamo,
peraltro, che tra tutte le persone alcune potrebbero usufruire in maniera errata del
57
servizio, ma si tratta pur sempre di problematiche che non si possono né sottovalutare,
né evitare, in molti casi.
Alcuni atti pratici, anche se parliamo di pazienti, sono semplici da realizzare (ad es.
l’utilizzo della sonda gastrostomica): certo ci vuole sempre attenzione nel compierli, ma
la loro esecuzione risulta essere veloce, e facilmente valutabile in termini di
miglioramento del benessere.
Altri atti pratici, pur sembrando banali, anche perché compiuti da tutti almeno una
volta nella vita, vedremo come non siano così banali da eseguire su un paziente. La
difficoltà aumenta quando il paziente non è collaborante e non riesce nemmeno a darci
alcune indicazioni. Pensando all’igiene intima, possiamo chiedere ad un paziente di
girarsi su un fianco ed alla fine possiamo domandargli se si senta asciutto: nel caso in
cui il paziente non ci possa aiutare dobbiamo fare tutto da soli.
A volte proprio la loro semplicità porta le persone a sbagliare o ad adottare
comportamenti non idonei: un punto molto critico, ad es., è proprio lasciare il paziente
umido.
Un altro motivo per cui le persone sono portate a sbagliare è dato dalla
disinformazione o da informazioni errate.
Tutti gli atti pratici che vengono svolti richiedono un’attenzione particolare per quanto
riguarda la manualità, ma anche un occhio attento che ci deve aiutare in tutti quei casi in
cui i fatti non siano così ovvi.
Facciamo ora due esempi.
La sonda gastrostomica in seguito alla somministrazione di cibo deve essere lavata:
questo atto deve essere fatto, sempre, per evitare l’occlusione della sonda, e la quantità
di acqua non può essere decisa sul momento, ma deve essere almeno 200 ml. Nel caso
dell’occlusione della sonda gastrostomica la soluzione al problema spesso si ottiene con
un mandrino che va all’interno della sonda stessa per disostruire la via, lavoro non
semplice e anche fastidioso per il paziente, ma di veloce risoluzione.
Se dobbiamo igienizzare il letto del paziente siamo noi che dobbiamo capire quando il
paziente è pulito e quando è asciutto, per evitare macerazioni più veloci e successive
infezioni.
58
Il tempo che deve passare perché il tessuto cutaneo si ricostituisca è molto. La
discontinuità del tessuto cutaneo diventa anche una porta di ingresso per virus e batteri
che proliferano velocemente in soggetti immunocompromessi: l’antibioticoterapia non
sempre risulta efficace e non è certo una strada da percorrere nelle persone già
debilitate. Inoltre l’infezione allunga i tempi di guarigione e porta cattivo odore alla
ferita.
Poter prevenire è effettivamente meglio che dover curare e correggere un errore.
Dobbiamo tenere in considerazione che i malati di SLA devono essere accuditi ogni
giorno sempre di più: con un atto sbagliato non si fa altro che aumentare la sofferenza
del paziente.
Un atto pratico ha la stessa importanza di un farmaco, di un piano terapeutico o di un
piano fisioterapico, poiché vanno tutti di pari passo nella cura e nella gestione del
paziente.
La vita spesso ci fa scordare il vero significato di termini molto importanti.
La SLA, come abbiamo ripetuto, porta i pazienti a degenze obbligate nel letto di casa,
e qualsiasi atto deve essere eseguito da altre persone: il paziente è quasi come un
bambino piccolo che sta nella culla. Peraltro è risaputo che in vecchiaia e nella malattia
ritorniamo bambini.
Concentrandoci ora sulla vita umana e sul suo ciclo, dalla nascita alla morte, ci
rendiamo conto che la cosa più ambita da qualsiasi persona, in un modo o nell’altro, è
l'INDIPENDENZA.
Il vocabolario Garzanti dà una definizione molto veloce della parola, ma così intensa
da racchiudere tutto il suo significato in un’esplosione di parole. Definisce, infatti,
l'indipendenza come “la condizione di chi non dipende da altri: ad es. raggiungere
l'indipendenza economica”.
Vediamo come questo significato contrasti fortemente con quello che stiamo
spiegando. Personalmente, penso che dia proprio un’idea di libertà assoluta.
Dando uno sguardo sul dizionario Treccani vediamo come, inizialmente, distingua il
potersi riferire a stati, nazioni, ecc o a persone singole. La definizione per le persone
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singole dice che s’intende in genere la “libertà da uno stato di soggezione, anche
economica (dalla famiglia o da altri), o una condizione non subordinata e comunque
autonoma”.
In questa definizione, secondo il mio punto di vista, meno incisiva dell’altra, si parla
anche di stato d’animo, riferendosi quindi alla persona nella sua globalità, avvicinandosi
molto di più ad un modello olistico della malattia, e quindi alla sfera di competenza
dell’infermiere.
Tornando a percorrere mentalmente la vita di una persona possiamo riconoscere come
tutti, in un modo o nell'altro, cerchino di raggiungere l'indipendenza.
L’importanza di questo termine sembra così scontato che molto spesso viene
dimenticato, anche se credo essere fondamentale lavorarci con un paziente. Durante la
malattia questo stato viene perso, o per lo meno crediamo che venga perso, e per molti
aspetti è proprio così. Basti pensare a chi non può raggiungere il bagno autonomamente,
o ancor peggio, chi non riesce ad avere interazioni sociali a causa dell’immobilità.
Parlando di atti pratici il paziente diviene sempre più dipendente dagli altri, come
abbiamo visto, che nel sostituirsi a lui devono cercare di fargli pesare il meno possibile
la situazione che sta vivendo. Questo credo si possa raggiungere mantenendo il più
possibile le abitudini del paziente, senza spersonalizzarlo come succede in un ospedale,
dove gli operatori organizzano la giornata e tutti sono costretti a quei ritmi. Non
dobbiamo sottovalutare nemmeno le richieste del paziente, o meglio, dobbiamo
intervenire tempestivamente alle sue richieste per diminuire il disagio, diversamente,
ancora una volta, da ciò che succede in ospedale, dove a causa del personale sempre
molto impegnato, in alcuni momenti, il paziente deve attendere per vedersi accontentare
nella sua richiesta.
A livello psicologico, far capire ad un paziente quanto sia AUTONOMO è molto
importante: fargli constatare come il suo cervello sia ancora in grado di controllare ciò
che accade intorno a lui è il primo passo verso il concetto di autonomia.
Parlare di autonomia però non deve essere solo un bel discorso, una frase fatta o una
scusa, ma deve essere molto di più: mettere più impegno in un gesto e spesso anche
riuscire a sopportare di più i caratteri che vengono fuori, pensando meno a noi stessi.
60
3.4
Lavaggio delle mani - Pratica fondamentale in tutti gli stati di malattia
Il lavaggio delle mani è un atto pratico su cui gravita un grande interesse da parte di
tutti coloro che operano nel settore sanitario. Nei reparti ospedalieri si trovano, infatti,
gel lavamani e manifesti sul lavaggio delle mani e sulle procedure corrette, prima di
entrare in reparto ed in mezzo ai corridoi. Quello che non sempre viene detto o scritto
sono i benefici di avere le mani pulite, e quindi molti di noi si chiedono perché questa
campagna “pubblicitaria” ci tartassi così tanto solo in ospedale.
Come abbiamo visto, gli atti pratici sono molti, tutti di fondamentale importanza,
anche se ognuno ha il suo livello di difficoltà. Il lavaggio delle mani è uno di quelli a
bassissimo livello di difficoltà, anche se ritengo che sia importante spiegarne le corrette
modalità e farne capire la rilevanza. Anch’io, quindi, come molti altri, sono dell’avviso
che il primo atto pratico da insegnare ai pazienti, e soprattutto a chi li accudisce, è il
corretto lavaggio delle mani.
Prima di iniziare a spiegarne l’importanza dovremmo fare un passo indietro e capire
che per compiere un atto pratico, nella maggior parte dei casi per non dire nella loro
quasi totalità, vengono usate le mani che, come possiamo immaginare, vanno a contatto
con oggetti, strumenti e pazienti.
Iniziamo parlando di precauzioni standard.
Lavarsi le mani è una precauzione standard in quanto, essendo tutte le persone
colonizzate o infettate da microorganismi, indipendentemente dalla presenza o meno di
segni e sintomi, dovrebbe essere usato un livello uniforme di cautela nell’assistenza dei
pazienti.
Si parla di precauzione per indicare che questa serve a prevenire, sottolineando
l’importanza di questo gesto.
Nonostante l’uso dei guanti per la prevenzione delle infezioni legate al contatto con le
secrezioni del paziente e non solo, l’igiene delle mani rimane la strategia maggiormente
efficace per la prevenzione della diffusione delle infezioni: questo metodo risulta anche
essere il più economico nel ridurre il rischio di infettarsi o di infettare i pazienti.
61
La trasmissione per contatto rappresenta la forma più comune di contaminazione: è la
causa più frequente dell’insorgenza di infezioni nelle strutture sanitarie e non.
La superficie dell’epidermide sono colonizzate da microorganismi: la flora batterica,
che di solito non è associata ad infezioni, ma bensì ha una funzione protettiva ponendosi
in antagonismo microbico.
La flora batterica residente è costituita batteri Gram Positivi aerobi ed anaerobi: lo
Staphylococcus epidermidis è la specie più diffusa. La patogenicità degli stafilococchi
aumenta nei pazienti debilitati, a motivo della resistenza antibiotica.
La flora residente può essere responsabile di infezioni opportunistiche che si
verificano per la contaminazione di siti corporei normalmente sterili o della cute non
integra.
I microorganismi della flora transitoria sono acquisiti da chi opera con il paziente
durante il contatto diretto con esso o con le superfici ambientali contaminate.
Analizzando le concentrazioni di batteri nelle diverse aree del corpo vediamo che
variano notevolmente. I batteri si contano in Unità Formanti Colonie (UFC), valore che
indica il numero di colonie visibili su un determinato terreno di cultura dopo
incubazione a 37°C per 48 ore o più. Se analizziamo l’area degli avambracci avremmo
un risultato di circa 4*104 UFC/cm2; la conta totale delle UFC sulle mani del personale
sanitario varia da 3,9*104 a 4,6*106 UFC/cm2, compresa la punta delle dita (da 0 a 300
UFC).
Alcuni fattori che sembrano influenzare il trasferimento da superficie a superficie, e
quindi il tasso di contaminazione crociata, sono: il tipo di microorganismo, le
caratteristiche delle superfici contaminate, il livello di umidità e la quantità di
contaminanti.
Inoltre sembra che l’uso dei guanti non assicuri una protezione completa delle mani
degli operatori sanitari dalla contaminazione batterica, anche se ne dimezza la carica.
Alcune scuole di pensiero dichiarano che le mani dovrebbero essere lavate prima e
dopo ogni contatto con la persona assistita. Altre scuole di pensiero, invece, sostengono
che le mani dovrebbero essere lavate o decontaminate di frequente durante l’assistenza
al paziente. Ovviamente l’uso di guanti durante l’assistenza al paziente non elimina la
62
necessità di lavarsi le mani.
Nel 2009 l'Organizzazione Mondiale della Sanità ha pubblicato le linee-guida sul
lavaggio delle mani come pietra miliare di un progetto più ampio di prevenzione delle
infezioni.
Le linee-guida si focalizzano in modo particolare sui momenti in cui gli operatori si
dovrebbero lavare le mani e sull’utilizzo di prodotti a base alcolica per la frizione delle
mani, più efficaci nel ridurre o inibire la crescita dei microorganismi rispetto al lavaggio
delle mani con acqua e sapone e/o con antisettico.
I 5 momenti individuati per il lavaggio delle mani o la frizione sono finalizzati ad
interrompere la catena di trasmissione interumana dei microorganismi:
•
prima del contatto con il paziente;
•
dopo l’esposizione a liquidi biologici;
•
•
•
prima di procedure asettiche;
dopo il contatto con il paziente;
dopo il contatto con l’ambiente circostante.
Le linee-guida indicano anche le caratteristiche dei prodotti per l’igiene delle mani.
L’Alcol al 60-80% in formulazione appropriata, che eviti effetti disidratanti, è un
antisettico efficace con ottimo spettro di attività ed azione rapida. Non è un detergente, e
per questo non è raccomandato in caso di mani sporche o visibilmente contaminate da
liquidi biologici. Inoltre, in caso di malattie da Clostridium difficile non è raccomandata
la frizione alcolica, ma l’uso di guanti e lavaggio con acqua e sapone.
La Clorexidina al 2-4% in soluzione con detergente è indicata per il lavaggio-antisepsi
della cute e delle mani. Buono lo spettro d’azione, la velocità di azione è intermedia,
ottimo l’effetto residuo. Sono stati riportati casi di intolleranza cutanea e resistenza.
Pure gli Iodofori al 7,5-10% in soluzione con detergente sono indicati per il lavaggio-
antisepsi delle mani: buono lo spettro di azione (che copre anche i funghi), velocità di
azione intermedia, scarso l’effetto residuo. Sono riportate dermatiti da contatto in
misura maggiore rispetto agli altri antisettici.
Il Clorexilenolo allo 0,3-3,75% è un composto fenolico con un buon spettro d’azione;
in associazione con l’acido etilendiamminotetraacetico (EDTA) aumenta l’attività
63
battericida contro lo Pseudomonas aeruginosa. Generalmente ben tollerato, tuttavia è
minima la riduzione dell’attività antimicrobica in presenza di materiale organico.
Il Triclosan allo 0,2-2% in soluzione detergente ha uno spettro d’azione un po’ più
limitato rispetto agli altri antisettici, ma un’ottima efficacia sullo Staphylococcus
aureus, anche meticillino-resistente, velocità di azione intermedia, buono l'effetto
residuo.
La maggior parte della flora presente sulle mani risiede nel letto ungueale e sotto le
unghie. Gli infermieri, e nell’assistenza domiciliare anche chi accudisce il malato, non
dovrebbero portare unghie artificiali o prolungamenti di esse durante l’assistenza al
paziente: questi oggetti sono stati epidemiologicamente collegati all’insorgenza di
infezioni. Le unghie naturali dovrebbero essere mantenute di una lunghezza inferiore ai
0,6 cm e lo smalto, se scheggiato, dovrebbe essere rimosso, in quanto può sostenere
l’aumento della crescita batterica.
Durante il lavaggio delle mani un altro errore molto comune riguarda anelli e monili
che dovrebbero essere rimossi prima del lavaggio delle manie e posti in luoghi dove non
disturbino l’assistenza al paziente: in questo modo potenziali crescite ed annidamenti di
batteri vengono ridotti al minimo, in quanto le aree cutanee coperte da questi possono
essere appropriatamente pulite.
Inoltre, i monili, quando sono particolarmente lunghi, oltre a tornare a contaminare le
mani tramite un contatto anche casuale, potrebbero andare a disturbare o ad infettare il
paziente, strusciandolo durante le pratiche assistenziali; non solo, ma potrebbero anche
strusciare inavvertitamente su liquidi biologici portandosi dietro del materiale.
Il lavaggio delle mani o la disinfezione riduce la quantità della normale flora benigna,
o residente, e dei microorganismi transitori, diminuendo il rischio di trasmissione al
paziente.
Le mani possono essere igienizzate con due differenti modalità per effettuare
l’assistenza di base: il lavaggio sociale e il frizionamento settico.
La procedura è la stessa per le due modalità: ciò che cambia sono piccoli dettagli che
hanno però una fondamentale importanza per la diversità dei prodotti usati.
Prima di iniziare una procedura dobbiamo prendere il contenitore del detergente o del
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gel antisettico per controllarne ovviamente la scadenza e se la modalità di uso è corretta,
nonché quanto prodotto deve essere prelevato. In base a queste istruzioni possiamo già
prelevare il prodotto nel caso del gel, mentre dovremmo bagnarci prima le mani nel
caso del detergente. Dobbiamo stare ben attenti che la confezione non tocchi la nostra
mano durante l’erogazione, in entrambi i casi, per evitare così che l’erogatore si
contamini.
La tempistica è stata fissata intorno ai 15 secondi per il lavaggio sociale delle mani,
mentre per quanto riguarda il gel settico non possono essere dati dei tempi ma si
continua fino a quando le mani sono ben asciutte.
Dopo il lavaggio sociale delle mani devono essere usate salviette monouso per
asciugarsi le mani e per chiudere il rubinetto dell’acqua che deve essere tiepida.
Dobbiamo ricordarci che il lavaggio sociale delle mani può essere usato sempre, ogni
volta si voglia, mentre il frizionamento antisettico non deve essere usato per più di due
volte consecutive, se le mani sono umide e se sono visibilmente sporche.
Nel caso le mani non siano visibilmente sporche, infatti, si incoraggiano gli operatori
ad utilizzare proprio i prodotti a base alcolica senz’acqua per la decontaminazione
routinaria: queste soluzioni sono superiori al sapone o agli agenti antimicrobici, per la
loro velocità di azione e per l’efficacia contro batteri e virus, e sono meglio tollerati
rispetto ad altri agenti, poiché la loro formulazione contiene sostanze emollienti.
Per gli operatori che si trovano a lavorare a domicilio esistono anche le soluzioni a
base alcolica in formato tascabile, in modo da poterle portare sempre dietro.
Le linee-guida emanate nel 2002 dal “Centers for Disease Control and Preventions”
(CDC) di Atlanta suggeriscono le seguenti tecniche per l’igiene delle mani quando si ha
a che fare con un paziente:
Quando si utilizza un prodotto a base alcolica occorre applicare la soluzione sul palmo
di una mano e quindi frizionare entrambe le mani interessando anche tutta la superficie
delle dita fino a che le mani non siano completamente asciutte.
Un efficace lavaggio delle mani richiede almeno, come abbiamo già detto, 15 secondi
di rigoroso sfregamento, con speciale attenzione alle aree attorno alle unghie e fra le
dita, dove c’è una maggiore crescita batterica. Inoltre, le mani dovrebbero essere
65
adeguatamente risciacquate dopo il lavaggio.
Migliorare le misure di igiene delle mani permette quindi di ridurre le infezioni
trasmesse dagli operatori e lo sviluppo di antibiotico-resistenza e, di conseguenza,
consente di incrementare la sicurezza del paziente e la qualità dell’assistenza.
Il lavaggio delle mani rimane ancora, però, una misura debole di controllo delle
infezioni, in quanto scarsamente effettuato da parte degli operatori sanitari. Alcuni
fattori che contribuiscono alla ridotta adesione al lavaggio delle mani sono i seguenti:
•
•
•
•
•
mancanza di consapevolezza rispetto alle attività assistenziali che richiedono il
lavaggio delle mani, come le procedure “pulite” eseguite abitudinariamente
(compresa la rilevazione della pressione arteriosa);
errata convinzione comune che calzare i guanti o indossare il camice permetta di
evitare il lavaggio delle mani;
personale insufficiente e carichi di lavoro elevati;
inaccessibilità dei lavandini o degli erogatori di sapone liquido;
irritazione e disidratazione della cute.
Nel caso in cui le mani diventino disidratate e screpolate o si sviluppino delle
dermatiti l’operatore sanitario, ma anche il familiare, è meno propenso al lavaggio delle
stesse tanto frequentemente quanto sarebbe necessario. Per la prevenzione può essere
utile cambiare il sapone liquido o la soluzione antisettica, asciugare accuratamente le
mani dopo ogni lavaggio ed applicare creme emollienti.
Una brochure, come avevamo ipotizzato, deve essere ben dettagliata per spiegare tutto
questo in maniera sintetica. Inoltre deve essere scritta in modo da non far perdere
l’attenzione, cosicché il lettore non salti subito alla procedura senza capire bene tutto il
resto.
Il colloquio tra il professionista ed i pazienti/caregiver aiuta a semplificare la
situazione associando alla parola il gesto. Questo può dar luogo anche a domande e
quindi a chiarimenti, sia di natura tecnica sulla stessa procedura, sia di natura
scientifica.
Poter associare alle parole i gesti, e quindi dare enfasi alle parole, aiuta sia l’operatore
66
nella spiegazione sia chi deve recepire il messaggio.
La gestione di questi atti non deve essere lasciata al caso, proprio per l’importanza che
questi rivestono, essendo non solo alla base dell’assistenza in senso stretto, ma avendo
anche una valenza di prevenzione.
Ogni giorno ci laviamo le mani non più di 3-4 volte, del tutto insufficiente per chi
assiste un malato: non è però solo questione di quanto frequentemente ci laviamo le
mani, ma di come.
Le mani sono il primo metodo usato dai microorganismi per spostarsi: un paziente che
viene curato perfettamente ma con le mani sporche è un paziente che viene curato male!
Una procedura per lavare il paziente eseguita correttamente e con i guanti può
comunque recare danno, magari in caso di lesioni da decubito, se chi la esegue non si è
accuratamente lavato le mani.
Ritengo che insegnare alle persone il corretto lavaggio delle mani, l’uso corretto del
frizionamento settico ed il perché si debbano fare queste cose sia il primo passo da
compiere quando ci si presenta davanti ad un paziente con i suoi familiari. Credo che sia
nostro dovere, di professionisti, diffondere questa cultura in ambiente sanitario e non,
cercando di raggiungere tutti lo stesso obiettivo: per far questo, però, dobbiamo essere
noi stessi i primi a capirne l’importanza, per non veicolare microorganismi dalle nostre
mani al corpo del paziente.
Il lavaggio, inoltre, dona un senso di freschezza alle mani in modo da poter lavorare
meglio!
67
3.5
Le altre pratiche fondamentali
In questo Capitolo parleremo di una serie di pratiche fondamentali sia per il paziente,
sia per chi lo accudisce. Il paziente, tramite queste pratiche eseguite in maniera corretta,
può sentirsi meglio a livello mentale e disporre di più energia per affrontare il resto della
giornata. I caregiver, oltre ad essere più veloci ed a consumare anch’essi meno energie,
possono sentirsi meglio nel vedere il familiare più tranquillo.
Pensando ad una qualsiasi persona, le sue attività di vita sono dormire, uscire,
lavorare, mangiare, lavarsi, muoversi, svagarsi, riposarsi ed avere rapporti sociali: un
malato condannato ad ingravescente ipomobilità fino all’immobilità riuscirà a sostenere
sempre meno queste attività, in autonomia, avendo viceversa sempre più bisogno degli
altri.
La situazione ci porta a dover eliminare alcune attività, concentrando le energie del
paziente su attività fondamentali. L’igiene del corpo e della persona non possono essere
tralasciati (“igiene intima a letto” e “bagno a letto”); il riposo ed il sonno non posso
essere dimenticati (“movimentazione del paziente per evitare la formazione di piaghe da
decubito”); ed infine si deve ricordare che la persona ha bisogno di svagarsi e di avere
rapporti sociali (“corretta movimentazione del paziente dal letto alla carrozzina e
viceversa”).
Tutto questo dovrebbe dare un senso di benessere al paziente e riuscire ad ottimizzare
il lavoro di chi lo accudisce.
Queste pratiche sono fondamentali anche da altri punti di vista, che analizzeremo
partendo dalla cute.
Quest’ultima è un organo, il più esteso, che deve essere curato per molte ragioni. La
sua funzione di protezione si evince dai seguenti elementi fisiologici:
•
•
i cheratinociti sono cellule dell’epidermide che costituiscono una barriera
bidirezionale in grado di limitare la perdita di acqua ed elettroliti e l’ingresso di
sostanze tossiche, microorganismi e radiazioni;
i melanociti, attraverso la formazione della melanina, assorbono le radiazioni
ultraviolette;
68
•
la giunzione dermoepidermica, una struttura complessa, ancora l’epidermide al
•
il collagene dermico conferisce alla cute la proprietà tensile, le fibre elastiche
•
•
derma;
l’elasticità;
attraverso la perdita dell’acqua transepidermica e la sudorazione la cute regola la
temperatura corporea: la cute è un sensore della temperatura ambientale;
le terminazioni nervose cutanee sono un sistema di allarme per traumi
meccanici, chimici e fisici.
Il bilancio proliferazione/desquamazione fa sì che l’epidermide si rinnovi ogni 28
giorni. Il secreto delle ghiandole sebacee, come quello delle altre ghiandole, partecipa
alla formazione del film idrolipidico cutaneo: esso ha fondamentali proprietà
antiossidanti, idrorepellenti ed antibatteriche; il pH acido (compreso tra 4,2 e 5,6)
inibisce la crescita di funghi e batteri in genere - a livello dei genitali esterni, sia
maschili sia femminili, il pH è di circa 5,5-6; nella donna in vagina il pH è più acido
(circa 4-4,5).
Il film idro-lipidico è importante per mantenere l’idratazione cutanea e per contrastare
la proliferazione di germi patogeni.
L’invecchiamento cutaneo è un processo in cui vi è una progressiva perdita
dell’integrità strutturale e della funzione fisiologica della cute, a causa della riduzione
del numero di fibroblasti17 presenti nel derma, componenti essenziali della matrice
extracellulare. Nell’età compresa tra i 30 e gli 80 anni il turnover epidermico si riduce
del 30-50%, e ciò sembrerebbe in parte correlabile con la diminuzione progressiva del
10-20% ogni decade del numero di melanociti enzimaticamente attivi e delle cellule di
Langerhans. Le modificazioni del derma consistono in un assottigliamento tissutale
mediamente del 20%.
L’invecchiamento intrinseco, o naturale, è determinato geneticamente, è inevitabile ed
è legato alla tipologia etnica: si presenta diversamente nelle diverse sedi anatomiche di
ogni singolo individuo.
L’invecchiamento estrinseco è provocato negli anni dall’esposizione a fattori climatici
ambientali e dalle abitudini e stili di vita.
17 Cellule deputate alla produzione di collagene e elastina
69
Nelle persone anziane si formano velocemente le dermatiti da contatto, e soprattutto si
verificano molto spesso dermatiti da pannolone in caso di incontinenza. Il mantello
idro-lipidico (mantello acido epicutaneo) rappresenta una barriera di difesa naturale
neutralizzante le sostanze capaci di alterare l’equilibrio funzionale della cute. In caso di
incontinenza l’urina si decompone sulla pelle sotto forma di idrossido di ammonio, una
sostanza alcalina che aumenta il pH della pelle e favorisce la proliferazione batterica.
La causa primaria della dermatite da pannolone è il prolungato contatto con le urine e
le feci, anche se prende avvio dall’aumento dell’umidità cutanea e dalla frizione con la
superficie del pannolone.
Le feci contengono enzimi, tra cui proteasi e lipasi, che compromettono la funzione di
barriera della pelle. La dermatite associata ad incontinenza è un’infiammazione del
derma che si manifesta con arrossamento, con o senza formazione di vesciche, ed
erosione: si verifica a seguito di esposizione cronica ripetuta della pelle all’urina o alle
feci. Una volta che la pelle è danneggiata, l’abbondante quantità di microorganismi (che
costituisce il 50% della componente solida delle feci), può ulteriormente aggravare la
dermatite con una sovrainfezione fungina (ad es. da Candida) o batterica (ad es. da
Corynebacterium). Anche la macerazione e l’umidità favoriscono la proliferazione di
batteri e funghi.
La detersione è un atto di igiene che si compie quotidianamente, più volte al giorno,
ed ha il compito di rimuovere dal nostro corpo, o da quello del paziente, materiale
esogeno e/o endogeno.
Il materiale esogeno si deposita sul e nel film idro-lipidico e, quindi, la detersione
deve obbligatoriamente rimuovere anche parte della barriera protettiva della pelle: una
detersione troppo aggressiva però può danneggiare il film idro-lipidico.
Le sostanze maggiormente indicate per la detersione devono rispettare anche il fattore
naturale di idratazione, indicato come Natural Moisturizing Factor (NMF). Sia il film
idro-lipidico sia l’NMF, infatti, determinano una complessa barriera chimico-fisica che
mantiene un’adeguata idratazione degli strati epiteliali superficiali e si oppone agli
stimoli aggressivi di tipo chimico, nonché alla proliferazione di batteri e funghi.
La detersione può essere fatta mediante tensioattivi o per affinità.
70
La detersione mediante tensioattivi è il risultato di un sistema detergente composto da
tensioattivi e acqua che, mediante l’azione meccanica esercitata durante il lavaggio e
grazie alle proprietà dei tensioattivi, permette la rimozione dalla cute sia delle molecole
tensioattive che si sono unite allo “sporco” adeso sul film idro-lipidico cutaneo, sia della
soluzione acquosa in esso contenuta. Infatti queste molecole sono caratterizzate da
un’estremità idrofobica (o lipofilica) che si lega al film idro-lipidico di superficie, e da
una idrofilica che si lega all’acqua. Quindi, la parte idrofilica del tensioattivo è immersa
nell’acqua, mentre la parte lipofilica nello sporco “grasso”: si forma così una specie di
“emulsione”, anzi una “sospensione” di sporco nell’acqua. Tale sistema di goccioline si
miscela con l’acqua di risciacquo, e lo sporco viene così allontanato.
La schiuma non svolge attività detergente, anzi, per formarsi in gran quantità è
necessario l’uso di una dose eccessiva di tensioattivi anionici, molto spesso
esageratamente aggressivi. L’acqua, da sola, non è in grado di svolgere un’azione
detergente, a causa della sua elevata tensione superficiale.
La detersione per affinità agisce rimuovendo con sostanze lipidiche il grasso della cute
stessa (film idro-lipidico) e lo sporco ad esso adeso: non necessita dell’utilizzo di
sostanze tensioattive. Le sostanze lipofiliche rimuovono facilmente le sostanze ad esse
affini; dunque, un olio o un latte detergente sono in grado di rimuovere il film idro-
lipidico e, conseguentemente, lo sporco in esso incluso in modo sicuramente più
eudermico. In questo caso, è necessario provvedere ad un risciacquo o ad un
completamento della detersione della pelle attraverso l’uso di lozioni specifiche, come i
tonici.
Sebbene questo tipo di detersione sembri essere più fisiologico, i prodotti utilizzati
contengono altre sostanze quali emulsionanti e conservanti che, se permangono sulla
cute, possono dare origine ad effetti indesiderati quali le dermatiti.
Vediamo ora, molto velocemente, quale significato sociale e culturale viene dato alla
cura del corpo, per cercare di capire quanto sia importante ancora oggi nella società
moderna.
Già nella vita quotidiana dell’antica Roma, l’igiene personale e la cura del corpo erano
considerate indice del grado di civiltà e dell’indiscutibile modernità raggiunte dal
71
popolo romano: a quei tempi le donne, particolarmente attente alla bellezza della pelle,
per evitare che si rovinasse, facevano abbondante uso di oli profumati, ottimi per
contrastare l’aridità cutanea e per conferire a tutto il corpo un piacevole profumo.
Nella civiltà egizia la cosmesi era considerata una necessità per la cura e l’igiene del
corpo e per la bellezza esteriore; non per ultimo, aveva anche un significato religioso ed
una funzione funeraria: l’igiene e la cura della persona erano fondamentali, ma la
pulizia del corpo era collegata anche alla purezza dello spirito.
Anche oggi molti sono i motivi che ci spingono a migliorare la nostra apparenza. Tra
questi:
•
il desiderio di piacere e di essere attraenti;
•
il desiderio di successo e prestigio;
•
•
il mantenimento e la crescita dell’autostima;
una maggiore attenzione alla propria salute.
La cura del corpo è indubbiamente una via indispensabile per il benessere generale
della persona, a livello sia fisico sia psicologico; ognuno la vive in maniera differente,
attribuendole gradi di importanza diversi.
Consideriamo ora il corpo della persona assistita.
La pelle può essere vista come struttura anatomica avente funzioni di protezione, di
barriera immunitaria e di regolatore della temperatura e dell’omeostasi dell’organismo.
La pelle costituisce anche un’interfaccia tra esterno ed interno, un punto di confine e di
passaggio.
Attraverso la pelle, il corpo comunica con il mondo e, al tempo stesso, si difende dalle
intrusioni. La pelle ci rivela agli altri, oltre che a noi stessi, così da rendere
“superficiale” ciò che normalmente riteniamo “profondo”: pensieri, emozioni e
sentimenti (Santori, 2003).
Dal punto di vista biologico, la pelle è a tutti gli effetti un apparato multisistemico per
la presenza di vasi sanguigni, fibre nervose, immunociti, strutture del sistema
connettivo, tessuto muscolare liscio, recettori ormonali: per questo è uno specchio
fedele della salute generale del corpo. Diversamente dagli altri organi di senso, la pelle
si presta ad essere luogo di espressione privilegiata della psiche. Essa può infatti dar
72
voce e far trasparire molti stati d’animo: si pensi al rossore, al pallore, alle variazioni
della sudorazione.
Nella cura personale il corpo necessita di essere concepito non come entità fisica, ma
come alcunché caratterizzato da un vissuto e da un sentire, da proprietà simboliche,
culturali e sociali che si manifestano attraverso gli abiti, gli odori, i profumi e le posture.
Nell’aiutare la persona durante la cura personale è importante trasmetterle:
•
un senso terapeutico ai gesti di cura per ridurre l’imbarazzo, facilitare “l’entrata”
•
una modalità di relazione interessata ad entrare in contatto con lui;
•
nello spazio intimo della persona e ridurre le distanze socialmente accettate;
la volontà di capire e conoscere i bisogni della persona: il momento dell’igiene è
spesso occasione di valutazione dello stato di salute della persona, delle sue
reazioni alla malattia, delle sue capacità di affrontare le situazioni contingenti,
ecc.
Riuscire a garantire la capacità di vestirsi e di mantenere il proprio aspetto attraverso
l’aiuto o l’utilizzo di ausili è un diritto di tutte le persone, anche in ospedale, ed aiuta a
rallentare processi di inabilità e di abbandono di sé.
La cura del corpo e dell’aspetto della persona assistita nelle strutture sanitarie ed a
domicilio è spesso affidata al personale di supporto o ad infermieri novizi, perché
considerata come un’attività assistenziale “semplice” e ripetitiva, se effettuata per la
sola componente fisica di “igiene e cura della pelle: ciò, però, può comportare per gli
infermieri la perdita di informazioni importanti relative ai bisogni della persona e
dell’opportunità di instaurare una relazione terapeutica (Downey e Lioyd, 2008).
Nelle diagnosi infermieristiche NANDA troviamo nella classe 5 “Cura di sé” la
diagnosi di “Deficit della cura di sé”, suddivisa in: bagno (00108); vestirsi (00109);
alimentazione (00102); uso del gabinetto (00110).
Con “Deficit della cura di sé” si intende lo stato in cui la persona ha una
compromissione delle funzioni motorie o cognitive, che provoca una diminuita capacità
di svolgimento delle attività di cura di sé.
73
L’accertamento analizza il grado di autonomia o di supporto richiesto dalla persona
assistita per ogni attività di vita quotidiana. L’infermiere valuta:
•
se la persona è completamente autonoma;
•
se necessita di supervisione;
•
•
•
•
se richiede il supporto di ausili;
la necessità di istruzioni o educazione della persona per consentirle di svolgere
al meglio le proprie attività;
la necessità di sostituzione parziale o aiuto in quelle attività che la persona non
riesce a svolgere in autonomia;
la necessità di sostituzione completa della persona nelle attività che non riesce a
svolgere da sola.
Il momento della giornata dedicato all’igiene del corpo varia notevolmente da persona
a persona: ad es., alcuni preferiscono fare il bagno o la doccia la mattina; altri trovano
che il bagno serale sia più rilassante e favorisca il sonno.
La frequenza dell’igiene, perineale e completa, deve essere determinata dalle esigenze
del paziente.
Nelle persone anziane i lavaggi frequenti possono favorire la disidratazione della cute
in modo da favorirne le lesioni. D’altra parte, un paziente in coma con eccessiva
sudorazione o con la presenza di secrezioni dovute a ferite deve essere lavato tutti i
giorni, una o più volte al giorno, per evitare irritazioni, lesioni ed infezioni cutanee.
Nell’igiene della persona è importante rispettare le preferenze dell’assistito, oltre che
il suo pudore ed il suo desiderio di intimità.
Le modalità per lavare il paziente possono variare in base alle sue condizioni ed alle
sue capacità residue, favorendo al massimo la sua autonomia. Occorre considerare la
sua forza e la necessità di conservare energie per altre sue attività.
Durante le procedure di lavaggio è importante sostituire le salviette da una parte del
corpo all’altra per prevenire la contaminazione.
Quando si lavano gli arti si consiglia di partire dalla parte distale, in modo da
stimolare il ritorno venoso.
Prevenire la disidratazione è importante per la salute e per l’integrità cutanea. Il
74
rischio di disidratazione aumenta quando l’assunzione di liquidi è insufficiente; se i
bagni con sapone o detergente sono troppo frequenti; se si usa acqua molto calda e se la
cute viene trattata spesso con agenti (come l’alcool) che rimuovono il film lipidico di
superficie. E’ inoltre importante idratare spesso la cute con creme idratanti.
Per quanto riguarda le donne, l’igiene perineale comporta la pulizia della parte
superiore interna delle cosce, delle grandi labbra e della piega tra le grandi labbra e le
piccole labbra. La pulizia deve procedere sempre dal pube verso il coccige per evitare di
contaminare la zona vaginale o l’uretra con i microorganismi provenienti dall’ano.
Per gli uomini, l’igiene perineale prevede di lavare la parte superiore interna delle
cosce, il pene e lo scroto; negli uomini non circoncisi, il prepuzio deve essere retratto
per la pulizia del glande.
In entrambi i sessi si lavano i glutei dopo i genitali, con la persona girata su di un
fianco.
I tessuti del perineo sono più sensibili di altre aree: per questo è necessario evitare
eccessive temperature dell’acqua. Versare acqua sul perineo quando il paziente è sul
WC o sulla padella è un modo corretto di curare l’igiene quando il bagno o la doccia
non sono possibili.
Esistono alcuni tipi di bagni terapeutici che potrebbero risultare utili per i pazienti
allettati, come i malati di SLA. Tra questi troviamo il semicupio, il bagno caldo, il
bagno tiepido e gli impacchi.
Il semicupio, che prevede il posizionamento del paziente su una bacinella piena
d’acqua, è utile per l’igiene, per rilassare e ridurre l’infiammazione dell’area perianale o
per alleviare le irritazioni locali dovute ad emorroidi o ragadi. La temperatura
dell’acqua dipende dalle condizioni del paziente e delle preferenze individuali: di solito
è tra i 40 e i 45° C.
Il bagno caldo si usa comunemente per l’igiene, ma risulta utile anche per il
rilassamento e per alleviare la tensione. La temperatura dell’acqua varia in base alle
preferenze del paziente.
Il bagno tiepido aiuta ad alleviare la tensione muscolare o ad abbassare la temperatura
corporea nei pazienti con febbre. L’acqua deve essere a 37° C, non di meno: un
75
raffreddamento eccessivo, che ingeneri brivido, potrebbe aumentare la temperatura
corporea.
Gli impacchi possono essere utili per ridurre il dolore e l’edema o il prurito, in caso di
infiammazione od irritazione cutanea. Si possono aggiungere all’acqua farmaci per uso
topico o di altro tipo. L’impacco, con acqua calda, tiepida o fredda, viene applicato su
una specifica parte del corpo.
Uno dei problemi che deve essere affrontato quando il paziente è a domicilio, e
spaventa sempre molto pazienti e familiari, è l’insorgenza di UdP.
Negli ospedali questa eventualità è uno degli indicatori della qualità assistenziale.
Il decorso di guarigione delle lesioni da decubito è sempre lungo, richiede trattamenti
ripetuti ed ha costi elevati.
Solitamente con il termine ulcera da decubito, piaga da decubito o ulcera da
pressione (UdP) si descrive una lesione tissutale, con evoluzione necrotica, che interessa
l’epidermide, il derma e gli strati sottocutanei fino a raggiungere, nei casi più gravi, la
muscolatura e le ossa.
L’UdP, termine raccomandato dal National Pressure Ulcer Advisory Panel (NPUAP),
è la conseguenza diretta di un’ischemia localizzata che si sviluppa quando un tessuto
molle viene compresso tra una prominenza ossea ed una superficie esterna per un
periodo di tempo prolungato, determinando uno stress meccanico ai tessuti e la
strozzatura dei vasi sanguigni.
Negli Stati Uniti è stato condotto uno studio, dal 1990 al 2001, nel quale è stato
riportato che le UdP costituiscono una probabile causa di morte, stimata in 3,79 su
100.000 persone (Redelings, Lee, Sorvillo, 2005).
Il fattore patogeno principale per l’insorgenza delle UdP è considerata la pressione
esercitata sul tessuto: la compressione esterna diventa lesiva per i tessuti quando supera
il livello critico di 32 mmHg, pressione di chiusura dei capillari, e se è prolungata nel
tempo.
La riduzione della circolazione sanguigna determina un fenomeno a cascata, che porta
ad ipossia tissutale, emorragia interstiziale per danno della parete capillare, che si
76
manifesta con eritema permanente.
Il tessuto adiposo sottocutaneo ed i dotti escretori delle ghiandole sudoripare sono i
più delicati, e quindi sono i primi ad essere interessati. La necrosi può estendersi
successivamente alle ghiandole sebacee, all’epidermide ed ai follicoli piliferi.
I fattori che determinano l’insorgenza delle UdP sono quelli primari (detti anche
estrinseci o fattori meccanici) e quelli secondari (detti anche intrinseci o fattori
fisiopatologici).
Tra i fattori primari evidenziamo in primo luogo l’immobilità. Alcuni studi hanno
evidenziato che mentre le persone dormono effettuano, generalmente, dei cambi di
posizione anche minimi ogni 15 minuti; inoltre fare meno di 20 movimenti per notte
incrementa il rischio di sviluppare un’UdP.
La durata della pressione è più importante della sua intensità: basse intensità
prolungate nel tempo provocano con più frequenza danni tissutali rispetto ad elevata
intensità esercitate per un periodo di tempo limitato.
Dopo un periodo di ischemia tissutale, se la pressione viene eliminata ed il flusso
ematico viene ripristinato, la cute diviene rossa.
La forza di stiramento, o frizione, è la forza di deformazione tangenziale che si
produce quando due strati cutanei scivolano uno sull’altro in direzione opposta,
causando una lesione del tessuto sottostante per microtrombosi locale con ostruzione dei
vasi sanguigni e necrosi tissutale profonda: questa forza è esercitata parallelamente alla
cute ed è causata da una “frizione” tra il paziente ed una superficie. Tale forza riesce a
triplicare il rischio di lesioni, perché altera i componenti elastici.
La forza di sfregamento, o attrito, si realizza per manovre scorrette di mobilizzazione
del paziente, per cui la cute “sfrega” sulle lenzuola, provocando un’abrasione, ossia una
perdita di cellule dallo strato corneo tanto da produrre sanguinamento: la rimozione
dello strato più superficiale della cute, con conseguente riduzione dell’attività
fibrinolitica del derma, rende questo più suscettibile alla necrosi da compressione.
Una lesione da sfregamento può verificarsi nei pazienti con movimenti incontrollabili
ed in quelli la cui cute viene trascinata, piuttosto che sollevata dalla superficie del letto,
durante i cambiamenti di posizione.
77
L’umidità potenzia l’azione degli altri fattori, in quanto rende la pelle più fragile e
facilmente aggredibile. Un’esposizione prolungata della cute all’umidità provoca
fenomeni di macerazione ed alterazione del pH riducendo la funzione barriera della cute
stessa, come avviene ad es. in presenza di incontinenza o di eccessiva sudorazione.
I fattori secondari sono di diverso tipo, ed adesso li analizzeremo dettagliatamente.
La malnutrizione, cachessia e obesità sono fattori che compartecipano ad aggravare il
rischio di sviluppo di UdP. Il paziente malnutrito ha un maggior rischio di UdP, ma
anche il paziente obeso vede aumentare la probabilità di UdP per una sproporzione tra
sviluppo del circolo capillare e massa tissutale.
L’ipossia tissutale aumenta la probabilità della formazione di UdP, perché peggiora
l’ischemia da compressione: può essere determinata da un aumento delle richieste di
ossigeno (come nelle situazione febbrili persistenti) o da una riduzione dell’apporto di
ossigeno dovuta all’ipoperfusione tissutale che si instaura in situazioni di ipotensione
prolungata, di criticità vitale o come effetto di alcuni trattamenti invasivi con agenti
adrenergici che producono vasocostrizione periferica.
I soggetti anziani con età maggiore di 70 anni sono più suscettibili alla formazione di
UdP, a causa delle modificazioni fisiologiche della cute e del tessuto sottocutaneo;
l’invecchiamento inoltre determina, come abbiamo visto, una riduzione della capacità
rigenerativa cellulare.
La riduzione della sensibilità incide in quanto il paziente avverte meno dolore, e
quindi modifica meno spesso la sua posizione a letto o sulla sedia.
L’assunzione di farmaci può contribuire ad aumentare la probabilità di rischio di UdP,
perché riducono la tollerabilità del tessuto: alcuni farmaci possono agire ritardando il
processo di guarigione di una lesione.
L’accertamento precoce del rischio può ridurre l’incidenza delle UdP, in una struttura
sanitaria, sino al 60%: prevede la valutazione della presenza dei fattori meccanici e
fisiopatologici descritti in precedenza. Si è riscontrato che la maggior parte delle ulcere
da pressione, il 96% circa, si sviluppano nelle prime 2 settimane (NICE18, 2005).
E’ consigliabile l’ispezione regolare e sistematica della cute nelle aree sottoposte a
pressione, in particolare le zone di carico. Per prevenire l’insorgenza delle UdP
18 Nationals Institute for Healt and Care Excellence
78
dobbiamo comunque rivalutare il rischio, specie in un paziente affetto da SLA, in cui
tenderà ad aumentare più o meno rapidamente: è importante capire la frequenza con cui
questi malati devono essere rivalutati.
Credo che sia necessario osservare il paziente giornalmente, al momento dell’igiene.
Il rischio che il paziente sviluppi un’UdP si determina combinando il giudizio clinico
dell’infermiere con i risultati ottenuti attraverso uno strumento affidabile di valutazione
del rischio: la Scala di Norton. Quest’ultima prende in considerazione 5 indicatori di
autonomia/indipendenza: svolgimento delle Attività di Vita Quotidiana (Activity of
Daily Living, ADL), condizioni mentali, deambulazione, mobilità ed incontinenza. Ad
ogni variabile può essere assegnato un punteggio da 1 (peggiore) a 4 (migliore). Un
punteggio minore di 14 indica un rischio di sviluppare UdP.
Questa scala clinimetrica è stata modificata da Stotts che ha previsto, per ogni
categoria, una breve descrizione, in modo da aumentare l’obiettività dell’uso della scala
ed evitare la sovrastima del rischio.
Un’altra scala che si può usare è quella di Braden composta da 6 indicatori:
percezione sensoriale, grado di esposizione della cute all'umidità, grado di attività fisica,
mobilità, alimentazione, frizione e strofinamento. I punteggi vanno sempre da un
minimo di 1 ad un massimo 4 per voce.
La scala di Braden è consigliata per identificare pazienti a rischio elevato.
Gli interventi per la gestione della persona a rischio di UdP sono orientati alla
prevenzione, alla cura ed alla protezione dell’integrità cutanea.
Tutte le linee-guida sulla prevenzione delle UdP stabiliscono che l’accertamento dei
fattori di rischio fornisce un quadro di riferimento per la pianificazione di interventi
personalizzati di carattere preventivo.
La valutazione dello stato della cute comprende l’ispezione e la palpazione per
verificare il colore della cute, la presenza di edema, eventuali indurimenti, ecc.
Deve essere concordato con il paziente e con il caregiver un programma scritto e
personalizzato di posizionamento che dovrà prevedere:
•
cambio di posizione ad intervalli regolari di 2-3 ore. Il cambio di postura, o
posizionamento, è considerato il primo intervento per evitare danni da
79
compressione; va adottato anche nella posizione seduta per ridurre la pressione a
•
livello delle tuberosità ischiatiche;
se possibile, posizionare il paziente in tutti i decubiti in relazione alle sue
condizioni cliniche, purché questi non gravino su una lesione già esistente; solo
nei pazienti allettati a rischio elevato di UdP evitare, se possibile, la posizione
•
seduta durante l’immobilità a letto;
addestrare le persone coinvolte nell’assistenza.
La tecnica di posizionamento deve tenere in considerazione i seguenti aspetti:
•
il posizionamento deve contribuire al comfort;
•
durante il riposizionamento evitare forze di trazione e l’attrito con il lenzuolo;
•
•
•
•
•
riposizionare la persona in modo che la pressione sia alleviata e ridistribuita;
evitare di posizionare il paziente direttamente sopra ai sistemi di drenaggio;
nel posizionamento mantenere l’allineamento posturale (questo consente una
corretta distribuzione del peso);
elevare la testiera del letto non oltre i 30° per evitare un’eccessiva pressione sul
trocantere e sul sacro;
evitare il posizionamento del paziente su prominenze ossee con cute che
presenta eritema persistente.
Si devono consigliare, ai caregiver, l’utilizzo di dispositivi o supporti per ridurre la
pressione sulle prominenze ossee a rischio di sviluppare UdP.
E’ sconsigliato da tutte le linee-guida l’uso di cuscinetti o ciambelle riempiti ad aria o
con acqua, perché non distribuiscono la pressione ma, al contrario, determinano una
compressione sull’area di contatto, ostacolando così la circolazione in questa zona.
Esistono delle superfici antidecubito, come i sovramaterassi, materassi e sistemi/letto,
ma nessuna di queste elimina in modo completo gli effetti della pressione, per cui il loro
uso non può sostituire i cambi posturali, pur permettendo di ridurne la frequenza e
consentendo al paziente di tollerare meglio la posizione assunta tra un cambio e l’altro.
Le superfici antidecubito possono essere di tipo statico (cioè “senza movimento”),
tranne che in risposta ai movimenti del paziente, che condizionano la redistribuzione
della pressione: riducono l’incidenza di UdP nelle popolazioni a basso rischio rispetto ai
80
materassi standard.
Le superfici antidecubito dinamiche invece si “muovono” in modo ciclico,
indipendentemente dalla presenza e dalle posizioni del paziente, riproponendo il
comportamento dell’individuo sano che cambia posizione in seguito alla percezione di
fastidio/dolore dovuto alla pressione: vanno adottate nelle persone a medio ed alto
rischio.
La scelta di un materasso antidecubito deve tenere in considerazione molti fattori
diversi ma ugualmente importanti.
Il livello di rischio del paziente, come abbiamo detto, nel nostro caso è crescente fino
all’immobilità. Il presidio deve essere accettato dal paziente, in quanto alcuni materassi
come quelli a cessione d’aria, possono diminuire il comfort a causa del rumore.
Per cercare di mantenere l’integrità cutanea, oltre ad utilizzare dispositivi come i
materassi antidecubito, è fondamentale pulire la cute non appena si sporca per evitare
che si modifichi il pH: si deve evitare di usare acqua troppo calda e saponi
eccessivamente alcalini (saponi e lozioni a base alcolica provocano secchezza e lasciano
un residuo alcalino favorendo un’eccessiva crescita di batteri opportunisti), nonché di
praticare frizioni e sfregamenti della cute.
Anche un maggior apporto calorico può aiutare a prevenire la formazione di una
lesione, sebbene pochi studi ne supportino l’efficacia.
Tra gli interventi quello che però riesce a prevenire meglio la formazione delle UdP è
il posizionamento.
Le posizioni utilizzate più spesso nel caso di pazienti immobili sono quella supina,
dove il paziente giace sdraiato sulla schiena: sono consigliati cuscini sotto la testa e
sotto le ginocchia, mentre è obbligatorio il loro uso sotto i polpacci per alzare i calcagni,
unica regione del corpo che si lesiona anche con un materasso antidecubito. Questa
posizione non viene però usata per pazienti dispnoici o a rischio di aspirazione.
Un’altra posizione da usare con i malati di SLA è quella laterale, dove il paziente giace
su un fianco con il peso appoggiato sull’anca e sulla spalla: la gamba ed il braccio
ipsilaterali sono semiflessi, quelli controlaterali appoggiati sui cuscini che li separano
dai corrispettivi; testa e dorso sono stabilizzati da cuscini. Questa è la posizione
81
d’elezione quando si vuole evitare la pressione sulle prominenze ossee del dorso e lo
sviluppo di UdP nell’area sacrale.
Una posizione molto usata, non solo a scopo terapeutico, è la posizione di Sims: è
semiprona, in modo che il paziente giaccia su un fianco con il peso distribuito verso la
porzione anteriore dell’osso iliaco, l’omero e la clavicola; braccia e gambe flesse sono
sostenute da cuscini.
Da ultime ricordiamo la posizione di Fowler e la cosiddetta semi-Fowler: nella prima,
in cui si ha l’inclinazione della testa del paziente di 80°-90°, è possibile utilizzare
cuscini sotto testa e braccia; la seconda permette al paziente semiseduto di elevare la
testa di 30°-45° rispetto al piano del letto.
Qualunque sia la posizione adottata, per un cambiamento occorre seguire i principi
generali della meccanica corporea, mantenendo il corretto allineamento del corpo ed
assicurando un adeguato sostegno a tutte le parti del corpo.
Per girare e riposizionare un assistito sono necessari particolari accorgimenti, quali:
•
pianificare la sequenza delle azioni prima di incominciare;
•
prima di iniziare lo spostamento, spiegare esattamente all’assistito tutto quello
•
•
•
assicurarsi che tutto il necessario sia a portata di mano;
che accadrà;
appena terminato il cambio di posizione chiedere all’assistito se si sente
comodo;
dire alla persona per quanto tempo dovrà rimanere in quella posizione.
E’ fondamentale valutare la necessità di chiedere l’aiuto di altre persone ed assicurarsi
che esse siano presenti prima di iniziare il cambio di posizione.
In generale, una persona con ridotta autonomia nel movimento può apprendere
tecniche di posizionamento da utilizzare con o senza l’assistenza dell’infermiere:
altrimenti,
il
paziente
incapace
di
muoversi
dipende
totalmente
dall’aiuto
dell’infermiere o di chi lo assiste per cambiare posizione. Aiutare a promuovere la
mobilità è un compito totalmente affidato all’infermiere che agisce in modo
indipendente, rispettando le restrizioni della mobilità prescritte dal medico: in assenza di
controindicazioni, il paziente dovrebbe essere messo seduto in poltrona almeno due
82
volte al giorno.
Secondo la maggior parte delle pubblicazioni infermieristiche, il paziente incapace di
muoversi dovrebbe essere girato e riposizionato ogni 2 ore su materasso normale; si può
passare a 4 ore se si utilizza un materasso antidecubito.
Il programma per girare e riposizionare il paziente dovrebbe essere inserito nel piano
generale di assistenza.
Durante la rotazione laterale, bisogna posizionare un cuscino tra le gambe del
paziente; mantenere i diversi segmenti corporei in asse, onde evitare che la colonna
vertebrale venga sottoposta a piegamenti o rotazioni.
Tutto quanto è stato descritto non è certo di facile applicazione a causa del peso che
deve essere spostato, movimentando un paziente.
Alcuni testi sulle procedure di sicurezza nel settore sanitario ci indicano come
affrontare queste situazioni. Dobbiamo ricordare che sono frequenti le lesioni derivanti
dalla movimentazione manuale dei pazienti, ad insorgenza acuta (ad es. le rachialgie) o
croniche (ad es. discoartrosi o spondilo artrosi). Una corretta movimentazione dei
carichi è la prevenzione migliore per ridurre il rischio di lesioni dorso-lombari
dell’infermiere.
Il posizionamento delle gambe, in modo da avere una buona stabilità ed un buon
baricentro deve essere sempre il punto di partenza.
Il paziente deve essere tenuto saldamente e vanno effettuati spostamenti graduali
partendo dalla posizione a ginocchia flesse con la schiena in posizione retta; il corpo
dell’infermiere deve essere il più possibile vicino a quello del paziente, senza torcere il
busto ma spostando le gambe.
Il paziente può essere afferrato sul cingolo scapolare e sul cingolo pelvico usando una
presa a mano aperta a livello della porzione posteriore della scapola e del bacino: tali
manovre permettono di muovere il paziente facendo presa su zone supportate da
superficie ossea, evitando così lesioni da stiramento.
La tecnica di presa crociata a due operatori deve essere usata per posizionare il
paziente seduto in carrozzina o scivolato dalla sedia. L’operatore si pone dietro al
83
paziente le cui braccia sono conserte ed infila le proprie braccia, passando sotto le
ascelle del paziente, fino ad afferrarne gli avambracci con le mani; in seguito, creando
una presa con i gomiti a livello scapolare, porta lievemente in avanti il busto del
paziente e lo solleva. Il secondo operatore aiuta nel sollevare e sostenere gli arti inferiori
del paziente.
Per poter posizionare il paziente dal letto alla sedia, quando ne abbiamo le possibilità,
è molto utile l’utilizzo del sollevatore che facilita il compito e risulta meno traumatico e
faticoso.
Riuscire a spostare il paziente dal letto ad una sedia dà l’opportunità al paziente di
uscire dalla sua camera da letto e a chi lo accudisce di poterlo portare in giro con sè, in
casa o fuori, nonché di poter sistemare l’ambiente di degenza in assenza del malato.
84
85
4
UNO STUDIO INFERMIERISTICO
4.1
La spinta iniziale - Introduzione alla ricerca
Oltre i testi, di medicina o di infermieristica, si trova il mondo reale: un mondo che
gira sempre più velocemente, che ci connette a chilometri di distanza e a cui non
importa quali siano i tuoi obiettivi.
Il mondo è bello da vedere, con le sue opere d’arte, con la natura e con luoghi
caratteristici di ogni posto. Il mondo è un luogo sempre più affollato di gente che passa
e che va da una meta all’altra.
Tra i posti più affollati del mondo, senza distinzioni di nazione, continente o razza, ci
sono gli ospedali che ospitano persone di ogni tipo, con lo scopo di fare il loro bene.
Ecco che, spesso, ci si sbaglia, credendo che questo sia il luogo in cui si trattino tutte
quelle situazioni le quali non sappiamo come affrontare a casa, o magari un luogo dove
scaricare un paziente come se fosse la sua ultima spiaggia.
Oggi, nel 2015, le degenze ospedaliere servono per curare le fasi acute della malattia,
per ospitare un paziente che deve subire un intervento o per tenere sotto controllo un
paziente critico. Sempre più spesso si cerca di tenere la persona nel suo ambiente, nella
sua casa, per una questione di costi ma anche per un miglioramento della sua qualità di
vita: sono molte le malattie che vengono curate in ambulatorio, in modo da evitare il
ricovero.
Ogni malattia richiede un suo trattamento personale, sia a livello medico, sia a livello
infermieristico: anche l’unicità di una persona richiede trattamenti personalizzati,
soprattutto a livello infermieristico.
Una delle malattie a gestione domiciliare è proprio la SLA: le caratteristiche di questa
malattia permettono ai pazienti di vivere consapevolmente tutto quello che avviene
attorno a loro.
Parlo della SLA come di “una bestia che ti assale e non ti lascia scappare”, perché
prima di essere infermiere sono persona, e prima di essere professionista sono stato
caregiver: ho cercato di fare tutto il possibile perché mio nonno si sentisse meno a
86
disagio. Il nostro obiettivo, infatti, è stato quello di far soffrire il meno possibile una
persona che ogni giorno viveva in continuo movimento tra i campi e la casa: capisco
che cosa voglia dire affrontare un percorso molto difficile ma più che altro sconosciuto;
non sapendo che cosa succederà il giorno dopo logicamente non puoi fare altro che
fidarti delle poche persone che il SSN ti mette a disposizione (nel periodo 1999-2001
solo il medico) e che inizialmente sono degli sconosciuti.
Il percorso, proposto in questa maniera, mi fa immaginare una persona che si lancia
nel vuoto senza sapere dove andrà a finire: questo è quanto provo ogni volta che ripenso
a ciò che è stato in quei 3 anni.
All’inizio dei miei studi per diventare infermiere ho appreso delle pratiche che la mia
mente ha ricollegato subito alla situazione vissuta con mio nonno. Andando avanti, ho
cercato di capire quali, secondo la mia esperienza, sarebbero state più importanti per
aiutarlo, creandomi così una scaletta mentale.
Ero certo, purtroppo, che ci fossero altre persone come mio nonno, che dovevano
essere accudite in casa, con la stessa malattia, ingenerando le medesime difficoltà ai loro
caregiver.
Cercando di mettere a fuoco questa situazione, con quello che man mano stavo
imparando, ho capito anche quale fosse il campo di attività dell’infermiere, dal mio
punto di vista, nell’assistenza domiciliare.
La situazione, che già mi si delineava in testa, si è fatta ancora più evidente quando
anche ad un amico di famiglia, molto giovane, è stata diagnosticata la stessa malattia.
Vedendolo, anche se poche volte, mi sono reso conto delle difficoltà che anche la sua
famiglia provava nell’accudirlo.
Pensare di rimanere immobile, con un cervello funzionante, sarebbe come avere un
computer che va ma con un monitor nero: il computer sarebbe inutile, mentre da una
persona malata si può imparare!
Le scienze infermieristiche non potranno dare una risposta alla malattia, ma sono certo
che potranno aiutare le persone rispondendo ad alcuni dubbi sulla gestione del paziente.
Questo ragionamento logico e di vita vissuta mi ha portato ad ideare un progetto a
livello infermieristico per aiutare chi si trovasse in una situazione come quella di mio
87
nonno. Affrontare la consapevolezza di una persona malata ed i disagi di una autonomia
che pian piano viene a ridursi, sfumando di giorno in giorno, non è cosa facile ma
sappiamo come nessuna delle più belle opere al mondo è stata cosa facile per i popoli
che ne hanno partecipato alla costruzione.
L’idea nasce, quindi, dalla voglia di migliorare, se davvero ce ne sia il bisogno, la vita
quotidiana delle persone in questa situazione. Il progetto che avevo nella mente doveva
cercare di capire dove fossero le difficoltà e come porvi un rimedio.
Come abbiamo accennato in precedenza, non è facile costruire un percorso comune,
data la diversità delle persone. La difficoltà sta anche nel capire se le persone ritengono
necessario avere dei professionisti, oltre al medico, che gestiscano insieme con loro il
malato e le supportino durante il percorso.
Mi sono chiesto inizialmente che cosa avrei voluto sapere io, di quello che ho
imparato nel mio percorso di studi, durante il percorso fatto con mio nonno. Ho scelto
così una serie di attività che ritenevo utili: le ho analizzate successivamente da studente
di infermieristica, con l’esperienza dei tirocini, per capire veramente che cosa dovesse
essere spiegato alle persone.
Mi sono indirizzato dapprima a pratiche che potrebbero di primo acchito sembrare
banali, ma che sono le prime ad essere spiegate all’Università durante il Corso di laurea
in Infermieristica.
La domanda successiva che mi sono posto era rivolta ai pazienti, per cercare di capire
quanto a loro fossero state utili queste pratiche: ancora una volta ho analizzato, in base
alle mie conoscenze, le situazioni che mi ero proposto, allo scopo di capire quali
veramente potessero dare un miglioramento della qualità di vita.
Le problematiche che ho messo in evidenza si sono dovute confrontare con una
situazione dinamica, ossia con il peggioramento progressivo del paziente, e quindi con
le sempre nuove difficoltà di gestione familiare. Allora è emersa un’altra domanda: al di
là della figura del medico, le persone ritengono necessario potersi giovare di altri
professionisti per la gestione del malato? Oppure il malato sente il bisogno di un
professionista con il quale confrontarsi nei momenti in cui chi lo accudisce non riesce a
capire i suoi bisogni? Io penso che il confronto sia sempre utile; e che avere una persona
88
più esperta di me che possa darmi una mano, o anche solo ascoltarmi, pur non
risolvendo i problemi aiuti comunque ad affrontarli.
Detto tutto questo, il problema sarebbe stato presto risolto con un piccolo opuscolo
informativo, nel quale si spiegasse i modi con cui gestire alcune situazioni. Ma mi sono
domandato: se le persone sentono il bisogno di un confronto, di qualcuno con cui
parlare, l’opuscolo è veramente la strada più opportuna? Se noi, da studenti, dobbiamo
fare prove su prove sui manichini e capire dove sbagliamo e dove focalizzare la nostra
attenzione, una persona che deve gestire un malato a casa può essere sempre così brava
da comprendere tutto attraverso un foglio di carta? L’opuscolo informativo non rischia
di far “chiudere” le persone allontanandole dalla voglia di chiedere informazioni?
E’ nata così l’idea di domandare direttamente agli interessati che cosa ne pensino della
loro gestione, somministrando un questionario semplice e chiaro. Il questionario che ne
è derivato è stato utile anche per capire se veramente l’opinione che ci siamo fatti di
diversità tra le persone sia così netta o se su alcuni aspetti, come in molte altre malattie,
si possa seguire un filo conduttore comune.
Arrivato all’elaborazione del Progetto ho capito che avevo messo in campo due
protagonisti con cui lavorare, ponendomi nei panni del professionista e del caregiver.
Nelle mie risposte, però, non bastava il mio punto di vista di studente e futuro
professionista della salute e quello di caregiver: mancava certo l’opinione più
importante, a mio avviso, quella del paziente che, arrivando ad essere persona da curare
integralmente, deve stare al centro dell’assistenza.
Quando, nella mia esperienza, ho visto mio nonno affrontare la malattia, non sapevo
veramente come stesse mio nonno. Il mio disagio era uguale a quelle di un uomo,
grande e grosso, di circa 70 anni, che si ritrovava a farsi vestire da sua moglie e si
vedeva portare a giro anche da suo nipote? Ciò che oggi provano i pazienti è veramente
uguale a quello dei parenti?
Sappiamo che le persone sane si trovano a sostituire quelle malate nelle azioni
quotidiane: spesso, quando ci impegniamo in qualcosa; crediamo di farla bene, o per lo
meno siamo ragionevolmente certi di non aver fatto danni, seguendo le regole.
Dall’altra parte, però, non sempre si ha la solita valutazione, perché una dimenticanza
89
può essere vista come un gesto fatto di proposito o, ancora, un’azione fatta
delicatamente può essere vista come fatta lentamente. Ognuno di noi valuta le cose con
dei metodi diversi, in base al proprio vissuto, in modo da vederle su piani diversi.
Questa ricerca è rivolta anche ai caregiver che vorrebbero vedere il loro familiare
stare meglio, o soffrire il meno possibile: in questo modo sanno che non solo sono
ascoltati, ma anche supportati da personale preparato per la gestione del malato, e ciò
credo che diminuisca anche l’ansia di un futuro ignoto.
I risultati ottenuti dovrebbero essere utili anche agli infermieri: questa potrebbe essere
una traccia, per non aspettare che gli altri facciano domande, ma per essere noi a fare
per primi domande e a dare indicazioni utili anche per orientarci nel capire quanto in
quel contesto ci sia bisogno del nostro intervento.
Pure il medico può trarne dei benefici, comprendendo di poter aiutare i suoi pazienti
anche in altri modi: un carico di lavoro distribuito su più professionisti è meno pesante
per ciascuno di loro e permette ad ognuno di svolgere il proprio compito con maggiore
serenità.
90
4.2
Costruire per capire - La metodologia di ricerca
La mia strada per creare il Progetto che avevo nella mente è iniziata, come tante altre,
su internet: attraverso siti specializzati, quali Pubmed©, ho cercato di capire se ci fossero
state delle ricerche precedenti, a livello infermieristico, sull’argomento, dalle quali poter
partire per sviluppare il mio Progetto. Poiché la ricerca ha dato esito negativo, non mi è
stato possibile prendere spunto od utilizzare dei lavori già fatti, dei questionari già
validati, e soprattutto non ho avuto dei dati da poter confrontare con i miei alla fine del
lavoro.
La ricerca da proporre doveva essere valida ed avere un interesse infermieristico. Per
fare ciò ho cercato di ragionare su alcune difficoltà incontrate personalmente nel mio
percorso di caregiver incrociandole con le responsabilità dell’infermiere.
Inizialmente mi sono soffermato a valutare come proporre la ricerca alle persone
interessate.
L’analisi è cominciata ragionando sulle risposte che avrei potuto ottenere: ho deciso
che è corretto lasciare una persona libera di esprimersi, ma al tempo stesso evitare
complicazioni interpretative derivanti da risposte a domande aperte, preferendo pertanto
il metodo di domande formulate ad hoc, seguite da un campo libero per i commenti.
Un secondo punto su cui ho ritenuto opportuno soffermarmi è stata la chiarezza delle
domande: volevo evitare incomprensioni testuali tali da condizionare non-risposte,
optando così per qualcosa di semplice ed intuitivo, che al tempo stesso lasciasse libere
le persone di esprimersi aggiungendo loro considerazioni e commenti.
Si è costruito, allora, un Questionario (identico per pazienti e caregiver) con due
domande chiuse ed una aperta.
In alto ho scritto l’intestazione che contiene il titolo dello studio e l’indicazione di chi
compila il questionario (paziente o familiare).
La parte sottostante esplicita formalmente la tutela dell’anonimato, la non
obbligatorietà della compilazione (parziale o completa), l’assenza di ricadute sulle cure
mediche e, ovviamente, lo scopo del questionario. Prima delle domande ho voluto
91
aggiungere alcune righe di ringraziamento ai partecipanti per aver contribuito a questa
ricerca.
Questa piccola parte introduttiva è stata inserita con l’intento di aumentare l’aderenza
da parte delle persone nella compilazione del questionario.
I dati anagrafici, per mantenere l’anonimato, non vanno oltre l’età del paziente e del
caregiver compilante. Viene chiesto anche il rapporto parentale tra caregiver e paziente:
l’anonimato del paziente e dei suoi familiari è fondamentale, perché sapere chi ha
compilato il questionario potrebbe portare a interpretazioni distorte su base
pregiudiziale; d’altro canto, conoscere precisamente l’identità del paziente e/o del
caregiver non porterebbe un valore aggiunto alla ricerca.
La fase successiva è stata la stesura delle domande e delle loro eventuali risposte.
Inizialmente ho voluto chiedere alle persone: “Che cosa ritenete più importante che
vi venga insegnato per migliorare le cure prestate?” (per i caregiver) e “Che cosa
pensate sia più importante insegnare a chi vi sta più vicino per migliorare il vostro
stato di salute?” (per i pazienti).
Nell’elaborare questa domanda ho simulato una situazione reale, ispirandomi alla mia
esperienza di assistenza al nonno.
La versione originale prevedeva soltanto di barrare le caselle di risposta relative ad
una o più delle 5 pratiche assistenziali di cui abbiamo parlato nella Parte III;
successivamente, però, ho capito che doveva essere aggiunta una seconda opzione,
“NULLA” che desse la possibilità alle persone di dire che sapevano già tutto o che
sapevano dove trovare fonti autorevoli e chiare; a questo, infine, ho affiancato la voce
“TUTTO”, per indicare l’opposto, evitando di barrare singolarmente tutte le risposte.
Le scelte possibili ammettono le seguenti interpretazioni: barrare la risposta “NULLA”
indica che un intervento infermieristico non provoca nessun miglioramento secondo i
pazienti ed i loro familiari; mentre al contrario la risposta “TUTTO” indicherebbe un
miglioramento sostanziale; rispondere poi solo con alcune delle pratiche proposte
significherebbe che il miglioramento, secondo le persone che hanno compilato i
questionari, non è massimo ed aumenta con l’aumentare del numero di pratiche
selezionate.
92
Sarebbe utile discutere con i partecipanti delle pratiche ritenute da loro poco
importanti, allo scopo di chiarirne, invece, la rilevanza: approfondire le conoscenze
delle persone permette di far capir loro per quale motivo certe situazioni devono essere
gestite in un certo modo, facendo così aumentare la sicurezza e l’efficienza della
gestione del paziente, nonché diminuire l’ansia delle persone, creando un ambiente più
sereno.
La seconda domanda a risposta multipla ci dovrebbe chiarire le idee sull’opportunità
di mettere tutto su carta, predisponendo una brochure; oppure di insegnare tutte queste
pratiche per poi continuare a seguire il paziente. Secondo le persone interpellate essere
sostenuti anche da una figura che non sia quella medica è effettivamente importante o
possiamo farne a meno? D’altro canto, è facile dire ad una persona “ti insegno”, ma
sappiamo che non tutti recepiamo le cose nel solito momento: non è altrettanto facile
passare tutti i giorni al domicilio del paziente ed aiutare chi è presente in casa a fare il
necessario per l’assistenza di base.
L’accordo, secondo me, si trova sempre ad un livello intermedio, al quale si possono
incontrare i professionisti, i familiari ed i pazienti. Ho deciso così di chiedere ai
caregiver ed ai pazienti se: “Ritiene importante riuscire ad avere una figura di
riferimento con la quale poter affrontare gli aspetti assistenziali della malattia?”
In questo caso le possibilità di scelta che ho deciso di proporre sono state 4, suddivise
sostanzialmente in 2 gruppi, il “No” ed il “Sì”. Ad ogni risposta sono state date 2
motivazioni diverse, per capire - nel caso della risposta “No” - se le persone si sentono
autonome, oppure se a causa della difficile situazione non vogliano essere aiutate perché
non sanno che cosa chiedere.
Parlando della risposta “Sì”, le situazioni che ho proposto sono esattamente l’opposto
tra di loro, come nel caso precedente, con una risposta netta che ritiene il confronto utile
e con una risposta che invece lascia trasparire cautela ed incertezza dovuta ad una
situazione esperienziale non ben conosciuta.
Se andiamo ad analizzare il miglioramento che ci propone il Questionario si capisce
come con una risposta negativa l’intervento di un infermiere a supporto della famiglia
non dia un miglioramento; le risposte positive indicheranno, al contrario, un effettivo
93
miglioramento grazie ad un Infermiere di riferimento.
Le varianti per il “Sì” e per il “No” non vengono pesate, in quanto propongono
solamente due motivazioni alla scelta, che indicano la direzione presa da una persona
oppure da un’altra. Le motivazioni ci consentono, invece, di capire come le persone
affrontano la malattia: essere decisi fa capire, secondo me, che le persone conoscono
già, o credono di conoscerla, la direzione di quello che accadrà, e sulla base di queste
certezze creano il loro percorso.
Una risposta che indichi incertezza non può che essere valutata come tale: in questo
caso le persone indicano spontaneamente di non avere le idee ben chiare, al di là di
mostrare chiusura in se stessi o apertura verso gli altri. Non avere le idee ben chiare
solitamente porta ad errori che, nel nostro caso, possono ingenerare danni anche
irreversibili o almeno difficilmente rimediabili.
Le domande a risposta chiusa non sempre riescono a far esprimere i pensieri di tutte le
persone. Dopo aver dato l’input ed aver chiesto quello che ritenevo fondamentale per la
mia ricerca, ho deciso di lasciare spazio alle persone, volendo recepire i loro messaggi,
le loro idee e le loro valutazioni a sostegno o meno della mia tesi: “In caso vi sentiate
di aggiungere dei commenti saremo ben lieti di leggerli e di valutarli” è stata la mia
ultima richiesta a queste persone che hanno compilato i questionari.
Sono certo che non tutti hanno molto da aggiungere sull’argomento, ma credo che
altre persone abbiano trovato delle difficoltà inaspettate o abbiano voglia di aggiungere
uno sfogo personale, indicando qualcosa che secondo loro non va. Questo rappresenta
ciò che le persone dovrebbero fare con un Infermiere referente.
Poter dare voce alle persone aiuta gli infermieri a capire verso quale direzione andare,
che cosa modificare e come, ma soprattutto consente di capire che cosa ci sia di
sbagliato nell’assistenza proposta. Spesso, in buona fede, crediamo di fare tutto il
possibile, cosa che si rivela poi non vera quando ci confrontiamo.
Ritengo che il confronto sia utile sia per poter capire le idee delle persone, ma anche
per poter far capire alle persone perché lavoriamo in un certo modo.
La parte finale del questionario riporta la mia firma, la data ed il luogo della stesura.
Il questionario è stato studiato in modo che potesse essere somministrato più volte nel
94
tempo, ad almeno 3 mesi di distanza dal precedente, a due categorie di persone: i
pazienti affetti da SLA ed i loro caregiver. Potrebbe essere usato anche all’inizio ed alla
fine del percorso assistenziale, per capire se ci siano stati dei veri e propri
miglioramenti.
La somministrazione dei questionari è iniziata il 15 gennaio 2015 e durata 5 mesi.
I pazienti sono coloro che ricevono assistenza, e quindi possono dirci in quali
situazioni si sentano meno tutelati. Sono loro che alla fine devono sentirsi meglio, sicuri
e più sereni per affrontare la malattia con uno spirito diverso; inoltre la loro “voce” deve
essere la guida per un’assistenza migliore.
Tutti i malati hanno bisogno di sentirsi puliti e tutti devono avere l’opportunità di
poter uscire di casa. Le abitudini devono essere tenute in considerazione quando si
decide, con il paziente, quando vuole essere lavato o quando deve essere messo in
poltrona o su una sedia per spostarsi.
I caregiver sono le persone che stanno vicine al malato, i familiari di riferimento,
quelli che staranno sempre vicini ai pazienti. Insegnare e far capir loro l’importanza
delle tecniche utilizzate rappresenta un’evoluzione nella gestione domiciliare della
malattia.
Dobbiamo impedire che siano sempre i caregiver ad aiutare il malato in questi atti
pratici ma saranno loro a decidere chi li sostituirà, e saranno sempre loro a decidere
come agire, che cosa fare e come muoversi, controllando quello che succede. Le
persone che accudiranno i malati al posto loro dovranno solo soddisfare i bisogni del
paziente, non quelli della famiglia: non possiamo sottovalutare che spesso le figure
esterne non hanno nessuna conoscenza, e non sono nemmeno interessate ad averle. Non
potranno nemmeno conoscere le persone che accudiscono bene come i caregiver.
Oltre a tutto ciò i caregiver devono interfacciarsi con i vari professionisti che
prendono parte all’assistenza del malato; tra questi ci sono anche gli infermieri che
devono reperire informazioni come quelle chieste nel questionario. L’obiettivo deve
essere di capire se la famiglia senta il bisogno di comunicare con persone che li
supportino durante questo difficile percorso, per dare un punto di partenza all’assistenza
95
olistica.
Il rapporto che deve nascere tra un professionista e queste famiglie deve essere di
fiducia: l’infermiere deve lavorare in autonomia, dando una direzione alla famiglia,
mostrandole quello che è importante e parlandole.
Le persone che si ritrovano ad assistere i pazienti devono lavorare in autonomia ma
sotto stretto controllo della famiglia. Dobbiamo tenere presente, purtroppo, che non tutti
gli assistenti familiari (badanti) accudiscono il malato con il dovuto rispetto.
La ricerca prevede anche dei criteri di inclusione e di esclusione.
Vengono inclusi i pazienti con SLA diagnosticata da almeno 3 mesi: inizialmente le
persone devono elaborare quello che succede e devono ancora capire bene come
muoversi; solo dopo qualche mese dalla comunicazione della diagnosi possono iniziare
ad avere delle idee più chiare su che cosa pensano di necessitare. Si includono solo i
pazienti che hanno perso l’autonomia, anche per una sola funzione.
Tra i criteri di esclusione dobbiamo inserire tutti quei casi dove non ci sia ancora una
diagnosi clinicamente definita. I pazienti che vivono all’interno di strutture protette,
come le Residenze Sanitarie Assistenziali (RSA), sono anch’essi esclusi in quanto le
pratiche assistenziali dovrebbero già essere eseguite correttamente e non dovrebbe
mancare un supporto al paziente ed alla famiglia. Si escludono, infine, le persone
accudite da personale formato, anche se vivono all’esterno di ambienti protetti e quelli i
cui familiari sono operatori sanitari o comunque personale che lavori in strutture
sanitarie, in modo da poter ricevere delle informazioni esaurienti.
96
4.3
Il dato come fondamento delle discipline
Personalmente ho scelto di analizzare i dati suddivisi nelle 4 parti del Questionario:
Intestazione; Prima domanda; Seconda domanda; Commenti.
I questionari somministrati e raccolti in questi 5 mesi sono stati 24 tra pazienti e
caregiver, di cui 11 dei pazienti e 13 dei caregiver. Purtroppo, due pazienti sono stati
impossibilitati a compilare autonomamente il questionario e hanno avuto difficoltà nel
comunicare ciò che pensavano. Per il resto la partecipazione è stata ottima, e tutte le
persone a cui è stato chiesto di compilare il questionario hanno mostrato grande
interesse.
Intestazione
Il primo campo compilato è quello relativo all’età.
Per analizzare meglio i dati dividiamo i pazienti in fasce di 10 anni.
Pazienti tra i 40 ed i 49 anni: 2 pazienti (15%)
Pazienti tra i 50 ed i 59 anni: 5 pazienti (39%)
Pazienti tra i 60 ed i 69 anni: 2 pazienti (15%)
Pazienti tra i 70 ed i 79 anni: 4 pazienti (31%)
Possiamo notare che il più giovane ha 41 anni, mentre il più anziano di anni ne ha 78.
La fascia di età più rappresentata è quella dai 50 fino ai 59 anni: le persone sono
mature ma solitamente anche nella seconda giovinezza; magari hanno visto crescere dei
figli; si è imparato molto dalla vita, ma c'è ancora la voglia di dare tanto.
Ciò che risulta e che credo non passi inosservato, è la percentuale di persone malate
che ancora non abbiano un’età pensionabile: il 69% di loro non ha ancora raggiunto i 67
anni.
Questo dato dimostra che molti di loro sono sempre giovani, ma purtroppo iniziano
già a perdere la loro autonomia: in tanti potrebbero non aver ancora realizzato i propri
desideri.
La media delle età rilevate è di 61 anni, mentre la moda è di 57 anni: questi due indici
dimostrano ancora la giovane età dei pazienti.
97
Se provassimo a confrontare i dati ottenuti fino a questo momento non risulterebbe
niente di nuovo rispetto a ciò che è stato detto. In questo modo, però, sappiamo che le
risposte ottenute nei questionari sono ottenute da persone alle quali l’uragano della
malattia ha sconvolto la vita proprio nel momento “migliore”. Possiamo presupporre
che un campione come questo dall’assistenza si aspetti ancora molto. Le aspettative di
queste persone, nella malattia, sono sicuramente diverse dalle aspettative di persone più
anziane e con problematiche diverse.
Il successivo quesito richiede di indicare le relazioni familiari tra malati e caregiver:
solamente in 3 casi su 13 i caregiver sono i figli (23%), mentre nei restanti 10 casi i
caregiver sono i partner (moglie/marito, compagno/a), avendosi così due categorie
principali di persone che si occupano in casa del malato.
Considerando l’età dei pazienti, nessuno ha dichiarato che i caregiver sono i genitori:
questo dimostra che la vita prosegue, cioè che non ci si tira indietro a causa della
malattia, i coniugi/partner si sostengono reciprocamente. Oggi è più facile divorziare
che affrontare i problemi: constatare che nel nostro campione di popolazione si ha un
trend opposto è rassicurante.
Un intervento socio-assistenziale non tempestivo potrebbe destabilizzare tale
equilibrio: è importantissimo, invece, mantenere il rapporto, perché nel caso il caregiver
si allontanasse dal malato, o viceversa, la parte più lesa resterebbe ancora una volta il
malato che non riuscirebbe a compiere gli atti di vita quotidiana da solo. Il caregiver, e
ancora di più il malato, se hanno impiegato tempo ed energie a costruire quella sinergia,
in particolar modo nelle ultime fasi della malattia, avrà la voglia di proseguire in questo
rapporto.
Questo equilibrio deve essere mantenuto: ogni qualvolta che ci relazioniamo con il
paziente dobbiamo entrare nello spazio che si sono creati, in modo da non danneggiarlo.
Nel caso in cui entrambe le persone volessero essere aiutate cambierebbe
completamente il punto di vista: la dimensione che verrebbe a crearsi, per passaggi
successivi, comprenderebbe già una figura in più all’interno della sfera familiare, che
non va a sostituirsi ma solamente ad integrare i protagonisti di questa situazione, in
modo da rafforzare un rapporto già esistente.
98
Per quanto riguarda i figli, a causa dell’età dei pazienti, non credo sia sempre possibile
averli già grandi, in modo che possono prendersi cura come caregiver del genitore.
Avere un caregiver molto giovane vuol dire anche che dovrà imparare molte più cose,
in quanto le conoscenze/capacità crescono con il passare del tempo.
Adesso analizzeremo le età dei caregiver, come è stato fatto per i pazienti, suddivisi in
fasce di età.
Premetto che tra i caregiver che hanno compilato il questionario il più giovane è un
figlio/a di 35 anni, mentre la più anziana è una moglie di 74 anni.
Caregiver tra i 30 ed i 39 anni: 1 caregiver (8%)
Caregiver tra i 40 ed i 49 anni: 6 caregiver (46%)
Caregiver tra i 50 ed i 59 anni: 3 caregiver (23%)
Caregiver tra i 60 ed i 69 anni: 2 caregiver (15%)
Caregiver tra i 70 ed i 79 anni: 1 caregiver (8%)
La prima informazione importante è che la fascia di età, compresa tra i 40 e i 49 anni,
sia la più rappresentata nei caregiver: possiamo presupporre che un’età così giovane
abbia bisogno di un buon supporto, in quanto nessuno si aspetta di doversi ritrovare ad
affrontare una malattia come questa, tantomeno quando è giovane.
Le energie richieste per stare dietro a questi malati sono sempre molte: spesso i
caregiver devono appoggiarsi a terze persone a causa di loro esigenze lavorative,
familiari, sociali o fisiche.
Proviamo a confrontare l’età dei caregiver con quelli dei pazienti. Nei caregiver si è
aggiunta una fascia di età che va dai 30 ai 39 anni: questa rappresenta solo l’8% del
totale, ma dà un input importante, indicando che anche i giovanissimi potrebbero
trovarsi a dover combattere questa malattia.
Nella fascia di età che va dai 40 ai 49 anni i pazienti sono solo un 15%,
fortunatamente, mentre i caregiver sono il 46%. Questi ultimi, oltre a dover affrontare la
vita quotidiana si potrebbero ritrovare a rinunciare ad alcuni progetti per seguire il
proprio familiare, con enormi sacrifici.
La successiva fascia di età, tra i 50 ed i 59 anni raccoglie molti pazienti, mentre sono
un po’ meno i caregiver.
99
La fascia di età che va dai 60 ai 69 anni, invece, vede un identico 15% tra pazienti e
caregiver.
Nell’ultima fascia, tra i 70 ed i 79 anni, vediamo come ci sia un solo caregiver rispetto
a 4 pazienti: in questo caso le persone che non hanno ancora raggiunto l’età
pensionabile sono il 92%. Questo dato, nettamente superiore al precedente, ci conferma
quello che avevamo ipotizzato: spesso si devono gestire più situazioni, la malattia che
incombe nel nucleo familiare, il lavoro ed eventuali figli. Anche se abbiamo visto che la
maggior parte dei caregiver è costituita da giovani, la situazione che si ritrovano ad
affrontare è stressante.
Tra i caregiver la moda è di 44 anni, mentre la media è di 52 anni: anche in questo
caso si riscontra chiaramente che caregiver sono giovani. Rispetto ai pazienti, i dati di
moda e mediana, sono molto più bassi: la media è di 10 anni inferiore rispetto a quella
dei pazienti.
Il divario generazionale tra pazienti e caregiver è importante, dal mio punto di vista,
per i cambiamenti che il mondo propone: abbiamo visto quante cose sono cambiate in
10 anni.
L’eterogeneità delle persone che hanno compilato i questionari è un fattore positivo,
mostrandoci le problematiche assistenziali da più punti di vista: non avremo la visione
soltanto di persone che si sono trovate ad affrontare la malattia durante la pensione, ma
anche di persone che possono avere dei figli ancora molto giovani.
Prima domanda
Dopo aver inquadrato le persone che hanno risposto al questionario passiamo ad
analizzare quello che hanno voluto trasmetterci. Partendo dai caregiver vedremo come
hanno risposto alla prima domanda: “Che cosa ritiene più importante che vi venga
insegnato per migliorare le cure prestate al vostro caro?”.
La prima risposta è “NULLA”. La scelta indica che l’insegnare queste pratiche per la
gestione del paziente al proprio domicilio non porti alcun miglioramento dell’assistenza.
Dai questionari è emerso che solo 1 persona su 13 ha barrato questa risposta (7,7%):
secondo questo caregiver, quindi, gli interventi medici basterebbero per la gestione
100
domiciliare del paziente.
Il miglioramento del 20%, barrando quindi una sola opzione, è stato scelto da una sola
persona su 13 (7,7%) che lo giudicherebbe minimo.
La scelta ricade solo su “Movimentazione del paziente per evitare la formazione di
piaghe da decubito”. L’intervento per la prevenzione delle UdP è sicuramente
importante, ma da solo non è efficace, come è stato spiegato nei capitoli precedenti. La
scelta del caregiver, però, ricade su una pratica importante, soprattutto nel momento in
cui il paziente ha una tracheostomia che non solo deve rimanere in sede, ma anche non
creare lesioni, né ripercussioni sull’attività respiratoria. Una difficoltà da tenere in
considerazione può essere l’aumento della salivazione del paziente, che sempre più
spesso deve essere rimossa tramite aspirazione.
Andando avanti con l’analisi dei questionari passiamo a quelli in cui sono state barrate
due risposte: (il miglioramento passerebbe al 40%) 2 persone su 13 (15,4%) hanno
trovato importanti due degli interventi di proposti.
Entrambi i caregiver avrebbero voluto imparare “Igiene intima a letto per una minor
fatica del malato ed un maggior benessere”: questo intervento è tra i più importanti per
evitare la formazione di UdP, per mantenere la pulizia del paziente e per diminuire le
infezioni che potrebbero insorgere, soprattutto a livello urinario.
La seconda scelta varia tra i due: il primo, come il caregiver precedente, ha dichiarato
che sarebbe importante conoscere la “Movimentazione del paziente per evitare la
formazione di piaghe da decubito”, mentre il secondo si è orientato verso il “Corretto
lavaggio delle mani per diminuire la possibilità di contaminazione”.
Vediamo adesso quante persone hanno scelto almeno 3 pratiche: in questo caso è stato
dichiarato che il miglioramento raggiunto facendo intervenire un infermiere a fianco
della famiglia sarebbe del 60%.
Ben 5 persone su 13 (38,5%) hanno scelto 3 pratiche su 5. Quelle che hanno ricevuto
il maggior numero di risposte, scelte da 4 persone per ogni risposta, sono “Igiene intima
a letto per una minor fatica del malato e un maggior benessere” e “Bagno a letto”: la
prima risposta era già stata messa in evidenza da altri caregiver, mentre la seconda no.
Eseguire un igiene intima ed un bagno al letto del malato sono due pratiche
101
estremamente diverse: l’una non sostituisce l’altra. Come abbiamo visto, l’igiene intima
sarebbe meglio eseguirla almeno una volta al giorno, mentre il bagno a letto può
integrare la prima e può essere eseguita più di rado: la frequenza del bagno a letto varia
anche in base alle stagioni, in quanto un paziente che in estate esce un po’ di più rispetto
all’inverno ha la necessità di essere lavato un po’ più frequentemente.
Tra le varie scelte sono state barrate da 3 persone anche la “Movimentazione del
paziente per evitare la formazione di piaghe da decubito” ed il “Corretto spostamento
del paziente dal letto alla carrozzina e viceversa”: questi due interventi sono
decisamente diversi tra loro. Anche lo scopo per il quale sono stati inseriti è diverso: il
primo intervento ha un ruolo di prevenzione, come abbiamo visto, mentre il secondo ha
un ruolo più sociale, di interazione con l’ambiente.
Spostare i pazienti è un lavoro molto faticoso che può diventare dannoso per chi lo
esegue: in casa di alcuni malati troviamo i sollevatori che facilitano questo compito, ma
dobbiamo considerare che non tutte le case sono a misura di sollevatore e che fare delle
modifiche alla struttura della casa comporta dei costi.
Infine una sola persona a scelto “Corretto lavaggio delle mani per diminuire la
possibilità di contaminazione”. Questa voce è già stata ampiamente studiata e
valorizzata.
Analizziamo adesso quante persone ritengono che il miglioramento arrivi a 80%: solo
una persona su 13 (7,7%) ha barrato 4 voci su 5. L’intervento che non ritiene importante
gli venga insegnato è il “Corretto lavaggio delle mani”, mentre tutto il resto è stato
ritenuto utile e poco conosciuto.
Prendiamo in analisi le risposte “TUTTO” che indicano un miglioramento del 100%,
attivando tutti gli interventi proposti: solo in 3 hanno indicato questa scelta (23,0%).
Si riporta una Tabella riassuntiva dei dati analizzati fino ad ora.
Vedi Tabella N. 1 pagina 133
102
La percentuale di miglioramento che ha la frequenza maggiore è il 60% (3 interventi
su 5), seguita dal 100% (5 interventi su 5) e dal 40% (2 interventi su 5); i restanti hanno
ricevuto una preferenza ciascuno. Nonostante i pochi questionari che abbiamo potuto
somministrare i dati sono stati molto positivi.
Se consideriamo il 60% come percentuale soglia di miglioramento, secondo i
caregiver, al di sotto di questa si trovano le scelte di soli 4 caregiver con il 30,8%:
questa percentuale da sola non riesce a raggiungere quella delle persone che hanno
scelto 3 pratiche.
Per 9 caregiver si otterrebbe un miglioramento insegnando queste pratiche alle
famiglie.
La prossima Tabella metterà in evidenza quali pratiche sono più richieste e su che cosa
dovremmo lavorare di più secondo i caregiver.
Nella compilazione di questa Tabella la risposta “Nulla” non influirà sulla somma,
mentre la risposta “TUTTO” consegnerà una preferenza in più ad ogni voce.
Vedi Tabella N. 2 pagina 133
Questa domanda ha ricevuto 39 risposte da 13 persone diverse.
La tecnica che ha ricevuto più consensi è quella sull’igiene intima a letto con una
percentuale del 25,6% delle richieste. I caregiver si sono mostrati molto interessati
anche alla prevenzione delle UdP tramite la movimentazione del malato (con una
percentuale del 23,1%).
Vediamo chiaramente come il lavaggio delle mani, a conferma dei dati
precedentemente analizzati, sia una tecnica ritenuta poco importante o magari le persone
ritengono già di conoscerla.
Le percentuali evidenziano il grande interesse per le pratiche da eseguire al letto del
malato: potrei presupporre che lo spostamento del paziente sulla carrozzina per uscire
non sia ritenuto importante e forse anche poco praticato.
Analizziamo ora i dati da un altro punto di vista. Vediamo, in base alle risposte totali
103
disponibili che erano 65, quante ne sono state selezionate, per capire se l’intervento
risulterebbe migliorare, sempre per i caregiver, la degenza del paziente.
Vedi Tabella N. 3 pagina 134
Tramite questa Tabella otteniamo dei dati diversi, come diverse sono le nostre
conclusioni. Il totale delle risposte date è stato paragonato con il totale delle risposte
possibili.
Tra le varie pratiche l’analisi non cambia.
Quello che vorrei analizzare, in aggiunta, è il numero di risposte ottenute. Per ogni
questionario si poteva dare un massimo di 5 risposte da moltiplicare per 13, stante il
numero di caregiver che hanno risposto: si totalizzavano così 65 risposte.
I caregiver hanno selezionato solo 39 risposte che corrispondono al 60%: questo dato,
superiore alla metà, indica che il ruolo dell’infermiere referente solo per un 40%
sarebbe stato inutile.
I caregiver hanno risposto che, secondo loro, un intervento diretto nell’insegnamento
delle pratiche assistenziali di base migliorerebbe l’assistenza al paziente: questa
conclusione è sostenuta da tutti i dati analizzati per quanto riguarda i caregiver.
Dopo aver analizzato che cosa pensano i caregiver sulle pratiche più importanti da
insegnare, andiamo ad analizzare ora quello che pensano i pazienti.
La risposta “NULLA” ha ricevuto una sola preferenza su 11 (9,1%): in questo caso, il
paziente ritiene che quello che viene fatto nei suoi confronti vada bene e che non si
possa migliorare niente.
I pazienti che hanno barrato una sola risposta, indicando un miglioramento del 20%,
sono 2 (18,2%). Tra loro le scelte sono nettamente diverse.
Il primo paziente vorrebbe che fossero date maggiori informazioni alla famiglia sul
“Corretto lavaggio delle mani per diminuire la possibilità di infezioni”, mentre il
secondo focalizza il suo interesse nel “Corretto spostamento del paziente dal letto alla
carrozzina e viceversa”: la stessa malattia porta i pazienti ad avere obiettivi
104
completamente diversi.
Dobbiamo tenere in considerazione la progressiva degenerazione del paziente,
diversificandone il percorso per ognuno di essi. In questo caso particolare, però, ho
confrontato l’età dei due pazienti ed il tempo trascorso dalla diagnosi: corrono
solamente 6 anni tra di loro ed entrambi sono nella fascia d’età dei 50-59 anni; il tempo
trascorso dalla diagnosi è di circa 36 mesi ed il caregiver di riferimento è la moglie, per
entrambi.
Siamo davanti a situazioni veramente simili, dove la cultura e la vita quotidiana
influenzano le idee delle persone. Potendo dare un’interpretazione alle risposte, vorrei
affermare che nel caso in cui si parla dell’igiene delle mani sia un punto di partenza per
capire successivamente l’importanza delle altre pratiche con calma. Nel secondo caso
sembra, invece, evidente che la prima cosa che si voglia è uscire: quando c’è questa
possibilità, lo si vuole fare senza la fatica dello spostamento, mettendo tutto il resto in
secondo piano.
Proseguendo nell’analisi vediamo quanti pazienti hanno indicato il 40% delle pratiche
e quali: in questo caso i questionari sono 2 su 11 (18,2).
I pazienti hanno indicato 4 pratiche nettamente diverse tra loro: il primo si è
focalizzato sul “Corretto lavaggio delle mani per diminuire la possibilità di infezioni” ed
il “Corretto spostamento del paziente dal letto alla carrozzina e viceversa”; il secondo
paziente ha espresso interesse per “Igiene intima a letto per una minor fatica e un
maggior benessere” associata alla “Movimentazione per evitare le formazioni di piaghe
da decubito”.
Ad una prima analisi sembra che le situazioni dei due pazienti sia molto diverse:
mentre il primo sembrerebbe interessato ad uscire, il secondo sembra voler migliorare la
sua situazione nel letto.
Successivamente troviamo un questionario su 11 (9,1%) che indica il 60% delle
pratiche proposte: questo ritiene importante conoscere meglio come si effettua “Igiene
intima a letto per una minor fatica e un maggior benessere”, “Bagno a letto” e
“Movimentazione per evitare la formazione di piaghe da decubito”.
Continuando a sfogliare i questionari andiamo ad analizzare quelli con l’80% delle
105
preferenze: anche in questo caso una sola persona su 11 (9,1%) si è orientata verso
questa scelta.
La scelta mancante è il “Bagno a letto”: escludendo questa voce si ha comunque una
visione ampia delle tecniche di base per la gestione del paziente.
Infine vediamo quanti pazienti hanno scelto il 100%, indicando la voce “TUTTO”: i
questionari pervenuti sono 4 su 11 (36,3%).
Questi pazienti hanno deciso di optare per una visione ampia e completa della
situazione: secondo il mio punto di vista, ovviamente, questa è la scelta migliore per
avere una visione d’insieme, ma anche come punto di partenza per nuove domande,
informazioni e nuovi percorsi conoscitivi e non solo.
L’analisi delle risposte ottenute prosegue come nel caso precedente. Con l’aiuto delle
tabelle cercheremo di estrapolare altre informazioni iniziando da un riepilogo dei dati
commentati fino a questo momento.
Vedi Tabella N. 4 pagina 134
Ad una prima analisi vediamo come dallo 0% fino all’80% i risultati siano molto
simili tra loro, anche in numeri assoluti. Arrivati al 100% del miglioramento c’è una
tendenza nettamente più alta, che va oltre il 30%: questa impennata dà l’idea di quanto
un gruppo nutrito di persone, nonostante il piccolo campione, senta il bisogno di
maggiori informazioni e sicurezza. Vorrei puntualizzare anche che alcuni dei pazienti
intervistati non necessita ancora di un aiuto così importante.
Prendendo come limite per il miglioramento il 60% delle pratiche (3 su 5) la
sommatoria delle percentuali arriva a 54,6%: questa percentuale appena sopra al 50%, a
differenza del precedente, non indica un netto miglioramento delle condizioni secondo i
pazienti.
Dobbiamo considerare che un miglioramento del 50%, però, in malattie degenerative
come questa non è certo da sottovalutare, tenendo conto anche dell’eterogeneità del
campione e della sua ridotta dimensione. Ancora una volta, quello che risulta è la netta
affermazione della risposta “TUTTO” rispetto alle altre risposte, e soprattutto rispetto alla
106
risposta “NULLA”: anche in questo caso solamente una persona ritiene di non aver
bisogno che il caregiver impari le pratiche indicate, mentre tutti gli altri, anche se hanno
indicato una sola voce su 5, hanno sentito il bisogno di conoscere qualcosa in più, il che
potrebbe rappresentare un primo passo per migliorare la condizione imposta dalla
malattia.
Continuando l’analisi di questi dati e cercando di capire quali tecniche interessano di
più i pazienti ci baseremo sul numero di risposte date. Come per la Tabella precedente la
risposta “NULLA” non viene contata, mentre la risposta “TUTTO” assegna ad ogni pratica
un punto in più.
Vedi Tabella N. 5 pagina 135
L’analisi di questa Tabella ci mostra come non c’è una pratica che sovrasti l’altra. Il
“Bagno a letto” è l’unica che ha ricevuto meno preferenze: 2 in meno alle altre.
Guardando il risultato con gli occhi dei pazienti possiamo confermare ciò che abbiamo
detto precedentemente, ovvero che nessuna pratica dovrebbe essere tralasciata, in
quanto 11 pazienti diversi non hanno espresso nessuna maggioranza così rilevante da
sovrastare le altre: non possiamo affermare che per i pazienti ci sia una sola o due
pratiche più importanti di altre, ma tutte hanno lo stesso peso.
Paragonando i risultati con quelli dei caregiver ci rendiamo conto che mentre i primi
sono più concentrati sulle pratiche che si fanno al letto del malato, i secondi non
mostrano preferenze. Da questo si può dedurre che tra i caregiver e i pazienti non
sempre c’è quella sintonia e quella comunicazione che avevo ipotizzato inizialmente.
La situazione di non comunicazione si ricollega alla “Teoria della stanza”: nel caso
non ci sia comunicazione, le insicurezze degli uni non vengono percepite dagli altri che
registrano le reazioni come stati d’animo diversi dall'insicurezza. Sia i caregiver sia i
pazienti viaggiano su una lunghezza d’onda simile tra loro, ma nettamente diversa tra le
due categorie. Il far prevalere una pratica rispetto ad un’altra indica che le persone
hanno bisogno di lavorarci sopra e che si può accantonare qualcos’altro; al contrario,
non prediligere una pratica all’altra, indica uno stato di interesse generale che ritiene
107
tutto per lo meno interessante di essere conosciuto.
Vedi Tabella N. 6 pagina 135
L’analisi della Tabella sovrastante ci conferma quello che abbiamo detto
precedentemente: i pazienti non sono interessati in particolare ad una, o ad un gruppo di
pratiche, ma a tutto quello che può migliorare la loro degenza.
Anche nel caso dei pazienti, le risposte totali che sono state date superano
abbondantemente il 50% delle risposte possibili: questi dati, giustificati sempre dal
basso numero di risposte possibili, indica un buon miglioramento nell’assistenza.
Dobbiamo associare questo dato, ovviamente, anche ad un equilibrio maggiore, rispetto
a quello dei caregiver, sulla scelta delle pratiche.
Un dato che mi ha stupito è stato il totale delle risposte non date: in entrambi i casi, sia
i caregiver sia i pazienti, hanno lasciato il 40% delle risposte. Pur puntando su obbiettivi
diversi posso credere di confermare che ciò che viene concluso per i caregiver possa
essere concluso anche per i pazienti.
I dati ottenuti dalla compilazione dei questionari ci consentono di affermare che
intervenire nell’assistenza al malato insegnando le pratiche di base ai familiari possa
migliorare ulteriormente lo stato di salute del paziente.
Anche se le percentuali non sono eccessivamente alte ho tenuto conto di due fattori
che sono la progressione della malattia ed il fatto di non avere un riscontro pratico.
Il primo fattore influisce quando il paziente, che ha perso solo una minima parte delle
sue funzionalità, ed ha quindi un bisogno minimo di aiuto, potrebbe pensare di non aver
bisogno di queste informazioni.
Il secondo fattore influisce soprattutto quando le persone perdono fiducia e non
credono di poter veramente migliorare la loro condizione.
Vieppiù, l’intervento dell’infermiere referente potrebbe portare, oltre al miglioramento
previsto, un ulteriore miglioramento a catena: se all’inizio si tratta fondamentalmente di
soddisfare i bisogni dei pazienti (il che rappresenta lo scopo dell’agire dell’infermiere),
108
in un secondo tempo pazienti e caregiver si impegnano a realizzare obiettivi che vanno
oltre i bisogni originari, seguendo dei percorsi personalizzati per ogni famiglia.
Poter mettere in atto questo intervento potrebbe portare anche ad una diminuzione di
quel divario che abbiamo visto tra caregiver e paziente: in questo modo le due parti si
capirebbero più facilmente, soprattutto quando il paziente non riesce più a comunicare.
In questo modo si possono cogliere momenti ed emozioni diverse, intense e forse anche
uniche.
A costruire un percorso personalizzato, che aumenterebbe l’aderenza di pazienti e
caregiver al progetto, devono venirci in aiuto le diagnosi infermieristiche.
Seconda domanda
L’analisi dei questionari continua con la seconda domanda.
Inizieremo ancora una volta analizzando le risposte dei caregiver, cercando di
costruire delle tabelle per una lettura più chiara dei dati.
La domanda che è stata fatta chiedeva: “Ritenete importante riuscire ad avere una
figura di riferimento con la quale poter affrontare gli aspetti assistenziali della
malattia?”. Le risposte possibili erano 4 che vedremo nel dettaglio.
La domanda propone una figura professionale come l’infermiere che aiuti le persone
non solo dal punto di vista pratico ma anche da un punto di vista relazionale, senza
sostituirsi allo psicologo: si prevede che il professionista usi le sue conoscenze per
affiancare la famiglia ed il paziente nei loro dubbi, nel loro desiderio di conoscenza, nel
loro bisogno di sfogarsi, ecc..
Le risposte in termini di miglioramento sono due: il “Sì” che indica un bisogno netto
del paziente o del caregiver di una figura vicina; il “No” che, al contrario, indica
un’autonomia dal punto di vista “psicologico”. Ad ogni risposta sono state associate due
motivazioni diverse, che indicano strade completamente diverse.
La lettura dei questionari per la seconda domanda ci dà subito delle indicazioni
precise per quanto riguarda i caregiver. Nessuno di loro ha barrato le risposte “No”. I 13
caregiver si sono così divisi nelle 3 possibili combinazioni di motivazione del “Sì”:
questo è già un risultato molto forte da analizzare con attenzione.
109
Vedi Tabella N. 7 pagina 136
Avevamo già visto come i caregiver avessero indicato tutti il bisogno di una figura
diversa dal medico, come riferimento, per affrontare gli aspetti assistenziali della
malattia.
Diversamente dalla prima domanda, dove alcuni avevano dichiarato di non avere
bisogno di aiuto, adesso si scopre che una persona preparata a fianco può essere utile.
Dobbiamo capire se questa figura è un infermiere, o se invece dobbiamo affidarci ad
altri professionisti.
L’infermiere, che non deve sostituirsi per nessun motivo ad altre figure professionali,
potrebbe essere la figura adatta per ricoprire questo ruolo, in quanto esperto
dell’approccio olistico all’assistenza del malato neurologico: è importante affrontare un
percorso che nasce con le esigenze determinate dalla malattia, si sviluppa verso le
conoscenze pratiche e prosegue nella direzione della comunicazione completa.
Per continuare l’analisi dei dati ed avere un quadro più completo dobbiamo analizzare
le risposte date dai caregiver. La Tabella indica, in base alle opzioni proposte, quelle che
sono state più scelte.
Vedi Tabella N. 8 pagina 136
Alcune persone hanno dato entrambe le motivazioni. In base alle risposte ricevute,
alcuni pensano che sia loro utile un confronto, mentre altri, pur avendo delle
insicurezze, reputano opportuno confrontarsi su attività che già svolgono, chiedendosi
se quello che fanno è corretto e come eventualmente possono migliorare.
La maggior parte delle persone dichiara di non sapere come affrontare alcune
situazioni, con l’idea di rimanere bloccato o di avere paura di sbagliare.
Considerando anche lo stato d’animo delle persone dovuto alla malattia che incombe
sul familiare, l’infermiere deve prendere per mano le persone che vivono con il malato
accompagnandoli nella migliore assistenza, diventando per loro il fulcro su cui loro
stessi ruotano: spingere le persone a sentirsi più sicuri migliora i rapporti interpersonali
110
che abbiamo visto essere importantissimi.
Trasmettere sicurezza a queste persone crea la giusta “atmosfera mentale” per
affrontare quello che succede ogni giorno: fa sì che tutto quello che deve essere fatto al
paziente non venga affrontato con ansia e paura, e che venga fatto in maniera più rapida.
Passiamo ad analizzare adesso nello specifico come si suddividono le motivazioni, o
meglio, se in realtà ci sono più persone con dei dubbi, o viceversa ci sono più persone
decise.
Vedi Tabella N. 9 pagina 136
Le persone che mostrano di avere già un percorso in testa da seguire sono solo 3: è
positivo anche che queste siano disposte a confrontare il loro percorso con altri,
mettendosi quindi in gioco.
Quello che deve essere valutato con attenzione è il 76,9%, sommatoria percentuale
delle altre due risposte: in entrambi i casi ci sono persone che non sanno affrontare
alcune situazioni ma, mentre le prime rimangono in bilico e credo che debbano trovare
delle risposte a delle domande importanti, le seconde si sono costruite una strada di
dubbi e di certezze.
In genere le problematiche da discutere vanno ben oltre l’atto pratico o un colloquio
con lo psicologo, ma si correlano col bisogno di un gesto umano da parte di una persona
che sappia guidare chi è in difficoltà: spesso basta una pacca sulla spalla, un abbraccio o
un semplice sorriso per sollevare le persone dai pensieri negativi che le affliggono. Si
tratta, quindi, di migliorare la comunicazione per migliorare la strada che deve essere
percorsa con un morale diverso e magari più incisivo nell’affrontare certe situazioni.
Sulla base della mia esperienza, posso dire che vedere ogni giorno peggiorare la
situazione clinica di un familiare aumenta i dubbi, le paure e le ansie di chi gli è vicino:
come un vortice questo susseguirsi di eventi sbalza via le persone dal mondo in cui
vivevano, e per questo motivo credo che debbano essere aiutate.
L’intervento di un infermiere andrebbe quindi a migliorare quella che è la condizione
di partenza: non possiamo presupporre un miglioramento del 100%, ma sicuramente
111
sarà valido per evitare di entrare in questo vortice. Al contrario di quello che succede
adesso, le persone si sentirebbero meno sole nella gestione e nella cura dell’assistito,
con un palese miglioramento dell’assistenza domiciliare.
Vediamo adesso che cosa pensano i pazienti che affrontano la malattia in prima
persona. Gli stati d’animo che la malattia comporta non sempre sono positivi: vedremo
se influiscono in modo da dover dichiarare di non ottenere un miglioramento attuando
un intervento domiciliare che riguardi solo la parte pratica.
Vedi Tabella N. 10 pagina 137
Non tutti i pazienti hanno risposto “Sì” alla domanda, lasciando intendere che con una
figura di riferimento non si otterrebbe nessun miglioramento, rifiutando pertanto un
aiuto esterno per affrontare le difficoltà.
Il dato che mi lascia positivamente sorpreso sono gli altri 10 “Sì”. Spesso, per
l’esperienza che mi sono fatto durante i tirocini, i pazienti non parlano facilmente dei
loro problemi, dei loro dubbi; tendono a deviare il discorso su argomenti diversi,
soprattutto all’inizio del rapporto, quando non hanno ancora un punto di riferimento in
una persona di cui fidarsi. In questo caso, davanti ad una domanda ben precisa, senza
poter aggirare l’argomento, hanno dichiarato che avere vicino un professionista di
riferimento, con il quale condividere ed affrontare gli aspetti assistenziali della malattia,
è utile.
Mettendo a confronto i dati con quelli ottenuti dai caregiver noto alcune cose che
ritengo molto importanti. Il paziente che ha indicato “No” come risposta si allontana dal
suo caregiver (moglie) sotto questo aspetto: ne deduco che differiscono i modi di vivere
con la malattia. Invero, la maggioranza, pazienti e caregiver, ha risposto concordemente
“Sì”: ciò è rassicurante per chi dovesse aiutare basandosi sulla collaborazione di
entrambe le parti per costruire un percorso di cura, come accade nel processo di nursing.
Oltre all’analisi delle scelte è importante considerare i perché cercando di capire come
possiamo interagire per un’assistenza completa.
112
Vedi Tabella N. 11 pagina 137
Il primo dato da commentare è la motivazione della risposta “No”: la sua percentuale,
in base al numero totale di risposte date, si abbassa ulteriormente.
La negazione che il paziente ha usato è una vera e propria chiusura, affermando che ha
già tutto l’aiuto che gli serve: le possibilità di scelta non sono state molte, ma una
negazione assoluta in questo modo mi ha lasciato molto perplesso.
Negare in questa maniera, contrastando inoltre quelle che sono le dichiarazioni dei
familiari, propone un’idea di chiusura, e forse anche di solitudine: avere tutto l’aiuto di
cui si ha bisogno, o per lo meno sentire di averlo, è sicuramente una cosa molto bella,
ma contemporaneamente molto forte.
Analizzando i perché delle risposte “Sì” non notiamo notevoli differenze. L’incertezza
ha una percentuale leggermente più alta rispetto all’altra: i pazienti, che con il tempo
diventeranno sempre più dipendenti dagli altri, vorrebbero avere notizie più chiare su
quale sia il loro ruolo in questa assistenza e come possano essere aiutati, ma sembrano
avere anche un’idea tutta loro su come affrontare certe problematiche.
Le scelte dei pazienti, anche in questo caso, non si discostano molto da quelle dei
caregiver: questo ci permette di costruire ancora più velocemente un percorso
assistenziale.
Suddividendo i perché, come è stato fatto in precedenza, capiremo se quello che è
stato dedotto fino a questo momento è corretto o se dobbiamo rivedere alcune cose.
Vedi Tabella N. 12 pagina 137
I pazienti, diversamente da quello che sembrava precedentemente, si suddividono in
quelli che credono che il confronto sia utile ed in quelli che invece non sanno come
affrontare certe situazioni: solamente una persona ha indicato entrambi i perché.
La difficoltà di affrontare determinate situazioni è sempre la risposta più indicata: i
pazienti sentono il bisogno, quindi, di essere aiutati nelle situazioni che credono difficili
o che non sanno come affrontare. In questo modo si lascia libero il professionista di
113
agire in maniera autonoma.
In contrasto con questa scelta ci sono quelli che hanno indicato come perché un
metodo di confronto: questi hanno già una strada in mente, ma ritengono opportuno
avere un confronto. Lavorare con loro sarà molto più difficile perché, in caso ci debba
essere qualcosa da modificare che non soddisfa il paziente, sarà molto difficile farglielo
capire.
Confrontando i dati con quelli dei caregiver vediamo che i primi si sentono meno
sicuri rispetto ai secondi o per lo meno anche in un atteggiamento di sicurezza aprono le
porte a nuove conoscenze per le situazioni che non conoscono: in entrambi i casi la
risposta che ha ricevuto il maggior numero di preferenze è sempre quella che indica
un’incertezza sul metodo con cui affrontare le situazioni. In base a questi dati possiamo
vedere che una grande maggioranza di caregiver e di pazienti si senta in difficoltà
nell’affrontare alcune nuove situazioni. Il resto delle motivazioni si divide in maniera
completamente diversa tra i due gruppi: mentre i caregiver differiscono tra di loro
preferendo indicare ambedue i perché, i pazienti si indirizzano verso risposte più decise.
Concludendo questa analisi posso affermare che una figura infermieristica di
riferimento che lavori con pazienti e caregiver è sicuramente in grado di migliorare
l’assistenza domiciliare.
La domanda che è stata posta è molto esplicita e l’assenza, quasi totale, di risposte
negative, anche se su un piccolo campione, fa capire quanto questo aspetto della cura
del paziente sia sottovalutato. Il paziente che viene gestito a domicilio sembra essere
dimenticato fino al momento in cui si arriva alla visita. Le abitazioni non possono
diventare delle stanze di ospedale, ma occorre istruire le persone per evitare che queste
si presentino in ospedale per situazioni “banali”, o meglio, risolvibili a domicilio.
Sempre più spesso la tecnologia ci allontana dal colloquiare con le altre persone e
questo fa sì che spesso ci si scordi di spiegare, indicare o aiutare gli altri nel modo
corretto. La strada dell’assistenza domiciliare non è certo semplice, proprio perché si
deve evitare di spersonalizzare una casa a discapito di creare un ambiente ospedaliero,
ma deve essere curata tanto quanto l’assistenza al malato in ospedale.
Pazienti e caregiver richiedono in questo modo di potersi confrontare con qualcuno
114
che, anche se crediamo presente, sembra non esserlo poi così tanto: creare un percorso
assistenziale è molto difficile, percorrerlo richiede molte energie e tornare indietro,
perdendo tutto quello che si è investito, è molto facile; inserirvi un aiuto sembra essere,
secondo quanti hanno compilato i questionari, un modo corretto per cercare di non
tornare indietro sul percorso che è stato costruito.
Commenti
Fino a questo punto è stato analizzato quello che era stato proposto alle persone, ma
adesso andremo ad analizzare quello che le persone hanno proposto a noi: la nostra
richiesta è stata di aggiungere dei commenti da leggere e valutare, in caso qualcuno se la
fosse sentita.
Questa analisi può portare delle informazioni importanti per l’argomento che abbiamo
trattato. Vorrei, peraltro, sottolineare, la differenza con la modalità delle risposte a scelta
multipla, nella quale le risposte sono già presenti e devono solo essere barrate, mentre in
questo caso la risposta non varia solo in base all’interpretazione di chi la legge, ma
ancor prima ci può essere una non corrispondenza tra ciò che si voleva dire e quanto si è
esplicitato da parte di chi la scrive.
Inizieremo leggendo quello che hanno scritto i pazienti, o meglio, ciò che ha scritto un
paziente, visto che uno solo ha lasciato un suo commento. Che un paziente abbia voluto
scrivere qualcosa e “liberarsi anche di un piccolo sassolino” è una nota positiva per gli
stati d’animo che nascono in seguito alla scoperta della malattia: far sentire la propria
voce non è semplice, soprattutto per chi - stante la sua situazione esistenziale - è il
primo a tenersi, spesso, tutto dentro.
Il paziente che ci ha lasciato una nota è un signore di 57 anni, la cui caregiver è la
moglie. Il suo commento è: “Maggiore attenzione da parte degli ENTI locali e
NAZIONALI (ASL, ecc.)”.
La prima cosa che notiamo è che questa persona non ha ancora l’età pensionabile:
questo porta ad una serie di considerazioni di tipo sociale che potremmo meglio
argomentare interagendo direttamente col paziente stesso.
Questo paziente di certo si sente abbandonato, confermando l’idea di maggiore
115
attenzione al bisogno assistenziale domiciliare: lasciare soli queste persone e le loro
famiglie, come succede per altre malattie, è un orrore disumano che può essere colmato
solo con l’assunzione di personale esterno. Quello che colpisce di tutta la frase è proprio
la parola “ATTENZIONE”, come se si indicasse una scatola di scarpe vuota collocata
dietro ad una porta, della quale conosciamo l’esistenza ma che non ci interessa più di
tanto.
Un maggior numero di commenti sono arrivati dai caregiver.
Il primo commento è stato scritto da un figlio di 41 anni che ha un genitore di 73 anni:
“Molto gradite maggiori informazioni sull’alimentazione e sull’igiene orale”.
Questo tipo di commento è stato l’unico, cioè solamente lui ci ha chiesto informazioni
di questo tipo. Parlando di alimentazione capiamo che il lavoro di équipe risulti
fondamentale nella gestione della malattia; parlando, invece, di igiene orale osserviamo
che questo intervento possa ulteriormente migliorare l’assistenza del paziente,
personalizzandone il percorso.
Il commento successivo è stato scritto da una donna di 55 anni, caregiver di suo
marito: “Servirebbe maggior aiuto fisico e maggior comprensione da parte degli enti
statali”.
Vediamo come una donna, che deve pensare a molte cose domestiche, debba accollarsi
anche il pensiero di come essere aiutata nell’assistenza diretta del marito, in modo da
farlo soffrire il meno possibile: essere davanti ad un paziente, fisicamente impotente,
senza avere un’idea di come poterlo aiutare in quel momento è molto penoso ed
ingenera depressione dell’umore. L’aiuto fisico non è importante solo per lavare, nutrire
e cambiare il paziente, ma è rilevante anche in molti altri casi.
Il terzo commento ci arriva da una moglie di 49 anni, caregiver del coniuge coetaneo:
“All'inizio della malattia e nei momenti di aggravamento ci sarebbe stato molto utile
ricevere questi tipi di insegnamenti per sprecare meno tempo e fare meno fatica nel
tentativo di imparare da soli attraverso l’esperienza quotidiana con il malato”.
Ecco che una persona ancora giovane ci indica quanto sia stato difficile per lei
acquisire alcune conoscenze e capacità: sembrerebbe anche questo uno sfogo di rabbia,
indicando in maniera diversa la solitudine ed il bisogno di aiuto; una lettura attenta di
116
questo commento ci fa capire anche la fatica provata, sia dal caregiver, sia dal paziente
nell’affrontare queste nuove situazioni. La signora parla di tempo sprecato
nell’imparare, intendendo, forse, anche il tempo passato ad eseguire le varie manovre
assistenziali per capire come fare, a scapito di attività diverse magari più gratificanti.
Il commento successivo è stato scritto ancora da una moglie (63 anni) che assiste un
marito della sua stessa età: “E’ una situazione estremamente difficile, perché le nuove
condizioni di salute ad es. collo sempre affossato (flesso) e deambulazione strascicata e
linguaggio incomprensibile rendono tutto più difficile”.
La signora, più anziana delle altre, descrive la sua situazione in maniera chiara:
“estremamente difficile” dà un senso faticoso alla situazione; le “nuove condizioni di
salute” sono certo gravi e riuscire ad ovviarle in qualche modo non è facile: in questo
commento si arriva a sottolineare il linguaggio incomprensibile che peggiora la
comunicazione e - aggiungerei io - la voglia stessa di comunicare. Dobbiamo provare ad
immaginarci come si senta una persona che non riesce a comunicare il bisogno di bere o
di essere pulito, oltre al disagio di dover chiedere di essere assistito.
Un altro commento di una moglie di 44 anni, caregiver del marito di 58 anni, riporta:
“In queste malattie, per chi sta vicino al malato oltre ad un aiuto dal punto di vista
materiale, è importante il sostegno psicologico per aiutare ad affrontare certe
situazioni”.
Ecco che, per la prima volta in un commento, oltre alla richiesta di aiuto fisico, viene
esplicitata la richiesta di aiuto psicologico: intravvediamo in questo caso la completa
assenza di un’équipe che segua la situazione, una condizione che peggiora i rapporti tra
malato e malattia, ma anche tra malato e familiari. I caregiver che sono vicini a questi
malati potrebbero, per la chiusura psicologica del malato, portarsi dentro piccoli o
grandi rimorsi, anche senza averne colpa.
L’ennesimo commento arriva ancora da una giovane caregiver di 46 anni, moglie di
un uomo di 50 anni: “Credo manchi un vero supporto psicologico. Le manovre materiali
si imparano e si affrontano; l’essere invece spettatori impotenti di un film al quale non
si credeva/voleva partecipare è dura da affrontare. Il disagio e la debolezza è proprio lì.
Quando poi si hanno dei figli diventa ancora più difficile sapere se è giusto farsi vedere
117
soffrire, o se bisogna invece essere forti per tutti quanti”.
Questo commento è quello che personalmente mi ha commosso più di tutti gli altri: le
parole dimostrano l’importanza di ogni ruolo professionale, e si capisce anche quanto
sia rilevante creare un percorso personalizzato per ogni famiglia, per ogni paziente.
Questa moglie parla anche dei propri figli, chiedendosi se la sofferenza è una cosa
giusta. Dal mio punto di vista, far intervenire un infermiere potrebbe iniziare a far
diminuire la sofferenza della famiglia, ottimizzando l’offerta assistenziale ripartendola
su più livelli di intervento: si attiverebbe così una prima risposta a queste situazioni che
poi saranno analizzate da altri professionisti, anche su consiglio proprio di chi lavora in
maniera olistica, cioè dell’infermiere.
Il percorso è tale perché passa da più punti per arrivare alla sua conclusione: ciò viene
esplicitato da questo commento.
Tutti questi commenti ci mostrano sfumature diverse di persone diverse che a modo
loro chiedono aiuto. Leggere i vari commenti ci fa capire quanto affrontare una malattia
di questo tipo sia paragonabile a percorrere un sentiero nella giungla: le difficoltà non
mancano mai e non si fa in tempo a colmare le conoscenze/capacità per una cosa che
spunta subito qualcosa di nuovo. Quello che soffre è il paziente, che non sente esplicitati
i suoi bisogni e che quindi sta male anche per questo, ma pure i caregiver soffrono,
consapevoli come sono di non essere riusciti ad accontentare il loro familiare.
Posso affermare che una buona cura prende l’avvio da buone conoscenze e capacità
che devono essere trasmesse alle persone per non farle sentire sole e per non farle
sentire in difficoltà.
La cura domiciliare, oggi sempre più importante, regala al paziente uno spazio
migliore perché vive in casa sua, ed al caregiver la possibilità di non doversi spostate
aspettando l’ora del passo per stare insieme con il suo congiunto; ma se non viene
correttamente gestita, invece di essere un alcunché di positivo contro la malattia, diviene
soltanto un grosso incubo con tante difficoltà da affrontare.
118
4.4
Il miglior Sistema sanitario – Come questo progetto dovrebbe migliorare il SSN
Prima di iniziare qualsiasi percorso le persone si fanno sempre delle idee su quello che
vorrebbero fosse il futuro. Se prendiamo un giornalista che fa un’intervista ad un
personaggio pubblico, ad es., sicuramente si aspetterà che costui durante l’intervista
risponda in una certa maniera.
Dobbiamo considerare anche le speranze. Le persone, oltre all’idea che si fanno, a
quello che attendono, sperano - spesso - che qualcosa vada diversamente.
In infermieristica è molto importante avere delle idee di partenza, delle aspettative e
delle speranze sulle quali lavorare con le persone: da questi elementi capiamo quanto
dobbiamo lavorare con le persone per raggiungere determinati obbiettivi.
Essendo stato caregiver ho voluto dare peso alle risposte che potevo ricevere,
ponendomi delle aspettative e delle speranze. Tutto questo mi dovrebbe aiutare a capire
se le persone, oggi, dopo circa 15 anni da quando sono stato caregiver io, si trovano ad
affrontare le mie stesse problematiche. Adesso che io posso aiutare gli altri, con
l’evoluzione del mondo, della medicina e della sanità mi chiedo se veramente è
cambiato qualcosa.
Parlando di speranza, credo possa facilmente farci commettere un errore
nell’interpretare una domanda a risposta aperta, poiché la nostra mente interpreta,
alcune volte, in maniera equivoca quello che altri scrivono. La risposta multipla, invece,
è uno strumento non interpretabile e chiunque la legga arriverà alla stessa conclusione:
in questo modo i dati che otterremo potranno essere interpretati con facilità.
Andando ad analizzare le domande, cercherò di mettere in luce quelle che erano le
mie aspettative e quelle che erano le mie speranze mentre studiavo la struttura del
questionario.
Le aspettative sulla prima domanda, parlando di pazienti, erano volte verso tre voci
ritenute, come futuro infermiere, molto importanti. La prima, in ordine di risposta,
“Igiene intima a letto per una minor fatica ed un maggior benessere”, perché il paziente
oltre a sentirsi pulito ha bisogno di sentirsi sicuro. Spesso le persone a casa cercano
metodi alternativi alle nostre procedure, non conoscendole. Tale situazione potrebbe
119
portare a metodi dannosi, o anche solo non convenienti, per quello che dobbiamo fare.
Se pensiamo di fare manovre “errate” o faticose per più volte al giorno la situazione
sicuramente si complica.
La seconda risposta che mi aspettavo “Movimentazione per evitare piaghe da
decubito”. Tutti conoscono l’importanza negativa che rivestono le UdP. Spesso negli
ospedali si sentono le persone domandare come stanno i propri cari sotto questo punto
di vista: questo va ad indicare che molti sanno le difficoltà che si presentano in questi
casi.
La terza risposta “Corretto spostamento del paziente dal letto alla carrozzina e
viceversa”. La prima cosa che dobbiamo tener presente è la nostra sicurezza. Dobbiamo
fare attenzione a non farci male e successivamente a non far male nemmeno al paziente.
Altro fattore che ho tenuto in considerazione è la voglia delle persone di uscire:
spostando correttamente il paziente e facendo meno fatica può essere fatto più spesso e
anche più volentieri.
Ben diverse erano le mie speranze. Avrei voluto che i pazienti, in quanto tali, capissero
che non ci fosse solo una cosa importante ma che lo fossero tutte.
Spero che i pazienti selezionino la risposta “TUTTO”, perché sono certo di aver
selezionato delle informazioni interessanti, importanti e poco divulgate. Sono partito dai
fondamenti dell’assistenza, proprio per dar modo alle persone di potersi esprimere tutti
nello stesso modo. E' importante anche capire che la conoscenza non esclude il
confronto, ma al contrario lo rafforza.
Spostando l’attenzione verso i caregiver le aspettative erano nettamente diverse. La
consapevolezza tra le due parti spesso è diversa: questa ci fa credere di fare le cose in
modo corretto. Per questo motivo mi aspettavo di trovare le risposte “Movimentazione
del paziente per evitare la formazione di piaghe da decubito”, perché - nonostante ciò
che ho scritto prima - non tutti sanno che il paziente va movimentato per evitare la
formazione di UdP. In alcuni casi le persone utilizzano borotalchi vari che non fanno
respirare la pelle, o creme utili solo a far scivolare meglio i pazienti. Se per lavare gli
altri impariamo tecniche, più o meno personali, per evitare la formazione di UdP è più
facile ammettere di avere delle carenze.
120
Tra le aspettative del caregiver avevo indicato a me stesso “Corretto spostamento del
paziente dal letto alla carrozzina e viceversa”. Anche in questo caso le persone
dovrebbero sapere l’importanza di portare una persona fuori dal suo ambiente fisico. I
trasferimenti, se non vengono effettuati con dei sollevatori, divengono sempre più
complicati ogni giorno che passa, a causa anche della forza sempre minore del paziente.
Poter usare delle tecniche consolidate dovrebbe fornire dei risultati migliori in
un’assistenza complessa.
In questo caso, però, ritenevo molto importanti le speranze che avevo riposto in questa
domanda. La mia prima speranza si attestava sulla risposta “TUTTO”, in quanto sapendo
che queste pratiche non sono state spiegate da nessuno volevo che le persone fossero
almeno curiose di sapere perché sono state menzionate. Il “TUTTO”, in questo caso,
potrebbe rappresentare anche la voglia di migliorare le proprie performance nei
confronti dei familiari malati.
Un’altra risposta che avrei voluto leggere sarebbe stata “Corretto lavaggio delle mani
per diminuire la possibilità di contaminazione”. Questa voce è la prima pratica che
viene insegnata a tutti gli infermieri, perché i pazienti malati sono immunodepressi, ed è
fondamentale non portare infezioni su di essi: per evitare di fare ciò serve un lavaggio
delle mani efficacie.
Andando ad analizzare la seconda domanda dalla parte dei pazienti le mie aspettative
e le mie speranze erano nettamente in contrasto: mi aspettavo di sentirmi dire “Sì,
perché non sappiamo bene come affrontare certe situazioni”, in modo da delineare
un’incertezza data dalla carenza di informazioni infermieristiche. Questa carenza di
informazioni non può indirizzare le persone verso delle scelte sicure, in quanto mancano
proprio i fondamenti.
La speranza era nettamente opposta, perché guardava verso “Sì, perché il confronto è
utile”, delineando una certezza: avrei sperato in ciò, perché vorrebbe dire che le persone
sarebbero state consapevoli del loro percorso, dei loro bisogni e della loro condizione di
malattia. Una risposta decisa dimostra anche la sicurezza delle persone che, nonostante
debbono affrontare la malattia, non vogliono mollare.
Le risposte che credevo di leggere e quelle che avrei voluto leggere, analizzando i
121
caregiver, dovevano essere opposte al precedente caso. Non vorrei sottovalutare, in
questo momento, l’importanza di chi, con il passare del tempo, andrà a sostituirsi al
paziente.
L’aspettativa era “Sì, perché il confronto è utile”: in questo modo si delinea una strada
dove la sicurezza può essere pericolosa, soprattutto se non ci si vuole confrontare. Come
dicevamo prima, l’impegno ci può portare verso una falsa convinzione di fare tutto bene
quando invece il paziente non si sente così sicuro.
Per i caregiver farsi un’idea di quello che avverrà, in base alle spiegazioni ricevute,
dovrebbe essere, in molti casi, più facile: questa idea via via si rafforza fino a creare
quella certezza che credo di trovare nelle mie risposte.
La speranza era riposta nella risposta “Sì, perché non sappiamo bene come affrontare
la situazione”, delineando una condizione normale per tutte le persone quando si
imbattono in un percorso nuovo, e soprattutto tortuoso, come in questo caso.
L’incertezza non deve essere quella che blocca le persone e non fa andare avanti, ma
deve essere utile per affrontare situazioni nuove in totale sicurezza.
Parlando dei commenti, mi aspettavo di non trovarne tra i questionari dei pazienti,
data la difficoltà nello scrivere. Questo non deve essere un modo per evitare di trovare
una soluzione che vada bene anche a loro, ma per aprire un contatto che deve
accompagnarli durante la malattia.
Al contrario, la speranza di leggervi qualcosa era molto forte: questa dimostrerebbe la
voglia del malato di affrontare questo ostacolo e dire che è presente. La sua voce è la
più importante, perché l’assistenza deve essere indirizzata verso di loro.
Tra i commenti dei familiari, mi aspettavo di trovare dei forti sfoghi causati dalle
carenze del SSN: queste sono state osservate più volte parlando con le famiglie. Meno
probabili domande dirette volte a chiedere come affrontare certe situazioni.
La mia speranza, invece, era di trovare delle indicazioni su come migliorare il nostro
cammino, o il nostro comportamento, a fianco del malato. Anche delle richieste dirette
di pratiche che loro stessi ritengono interessanti sarebbero state una bella sorpresa.
Guardando il mio Progetto, le mie aspettative sono di ascoltare i pazienti e di
trasmettere agli altri quelle che sono le loro voci. Una ricerca che richiede energie a
122
persone che in alcuni casi ne hanno pochissime non può essere messa in un angolo, ma
deve essere presa in considerazione per migliorare, dove ce ne sia il bisogno,
l’assistenza domiciliare.
Proprio l’assistenza domiciliare, che rappresenta un nuovo orizzonte per gli infermieri,
non deve essere sottovalutata: in questi luoghi i pazienti hanno ancora più bisogno di
noi, poiché lontani sì dalla spersonalizzazione dell’ospedale ma anche dalle sue
certezze!
La speranza è di capire quanto sia necessario intervenire in questo campo e,
soprattutto, di riuscire a capire dei malati così importanti ed, al tempo stesso, “libri di
vita”.
L’analisi dei dati è stata molto lunga ed in alcuni casi anche complessa. I questionari
che ci sono stati riconsegnati compilati hanno mostrato l’unicità di ogni paziente e di
ogni caregiver. Non solo, ma analizzarli ha portato a tante riflessioni, andando oltre a
quello che era in senso stretto lo scopo della ricerca.
Un dato che non può certo essere ignorato è l’età dei pazienti e dei caregiver che,
come abbiamo detto risulta essere bassa: persone giovani hanno relazioni, atteggiamenti
e comportamenti diversi da quelli di persone di età più avanzata. Ogni malattia ha le sue
difficoltà, ma affrontare una malattia come la SLA a questa età richiede molta forza di
volontà da parte dei malati e dei loro caregiver e deve essere trovata, secondo il mio
punto di vista, soprattutto grazie all’aiuto di un professionista come l’infermiere.
La domanda a cui dovremmo rispondere è se l’intervento di un infermiere che operi
attraverso l’insegnamento di pratiche assistenziali di base (e non solo), e che sia una
figura di riferimento per il supporto al caregiver ed al paziente possa migliorare il
percorso assistenziale in caso di SLA.
Dal punto di vista del campione che ha risposto alle domande la risposta è sì: la figura
di riferimento, che operi al domicilio del paziente, creando un rapporto diverso con la
struttura familiare dovrebbe portare un buon miglioramento. Spesso però l’efficacia
delle pratiche assistenziali è sottovalutata, e non solo perché non può essere chiesto al
medico di svolgere i compiti dell’infermiere.
123
La formazione e la prevenzione sappiamo essere un campo d’azione proprio
dell’infermiere: le persone hanno così dichiarato l’importanza di avere questa figura che
guidi chi non fa parte di questo mondo e vi si trova coinvolto per un caso sfortunato.
Certo non possiamo affermare che il miglioramento sia del 100%, in base ai dati
raccolti su carta, ma sulla base delle dichiarazioni sappiamo che verrebbe accolto in
maniera positiva ed aiuterebbe la maggior parte delle persone che hanno individuato
delle difficoltà nella gestione del paziente. Non parliamo solo di gestione fisica, ma
anche di gestione morale: ascoltando le persone, indirizzandole dove ce ne sia il bisogno
e lavorando sulla fiducia che si costruisce nella collaborazione.
L’intervento, con l’attuazione di un vero e proprio processo di nursing porterebbe dei
vantaggi anche sul piano familiare, migliorando la relazione tra le persone e diminuendo
il divario di cui abbiamo parlato: questo divario, talvolta impercettibile, può creare
“danni” ulteriori al malato che difficilmente verranno riparati.
Intervenire quindi in questo modo aiuterebbe i pazienti ed i caregiver, migliorando il
modo di prendersi cura del paziente, affrontando così situazioni nuove con un
professionista al proprio fianco.
Seguire il paziente in modo olistico, inoltre, alleggerisce il SSN sotto vari punti di
vista, considerando il sempre maggior numero di persone affette da SLA e le sempre
maggiori richieste di aiuto.
Un solo infermiere può gestire più pazienti (che non devono essere visti
necessariamente tutti lo stesso giorno) direttamente a domicilio senza che accedano in
ospedale e telefonicamente (in alcune situazioni non critiche). Questo metodo previene
situazioni peggiori (ad es. le UdP, il che fa risparmiare molti soldi alle Aziende
ospedaliere). Il SSN viene snellito gestendo i pazienti in ospedale solamente per gli
appuntamenti programmati o nei momenti critici. La prevenzione abbassa molti costi
dovuti proprio alla disinformazione, ed il personale presente sul territorio potrebbe
dedicarsi ad altre attività. In questo modo anche prelievi per esami ematici o quant’altro
diventerebbero di competenza dell'infermiere referente.
L’assistenza domiciliare continua a crescere, a causa di una sempre maggiore gestione
dei pazienti a casa. I bisogni non cambiano rispetto a quelli delle strutture pubbliche, ma
124
cambia il personale, o meglio, le persone ed il contesto. Questa situazione deve essere
seguita molto attentamente, proprio per evitare costi inutili derivati dalla mancanza di
informazioni: l’assistenza domiciliare potrebbe migliorare l’assistenza alle persone e le
spese per la loro assistenza.
Per riuscire a fare tutto questo la collaborazione dell’Infermiere di riferimento è
fondamentale. La sua preparazione deve essere mirata, come è stato chiesto anche da
alcuni commenti sui test. Le condizioni cliniche spesso complesse e le capacità
intellettive delle persone rendono l’assistenza un punto cardine per il paziente e la sua
famiglia.
Gli obiettivi da prefissare sono certo quelli di migliorare la degenza da un punto di
vista fisico. La pulizia ed il comfort non devono mai mancare. Successivamente, si deve
puntare alla comprensione tra paziente e caregiver, in modo da creare un colloquio che
serve per capire le esigenze di chi abbiamo davanti e per cercare di risolverle, ma anche
per creare quel ponte che abbiamo visto mancare, in alcuni casi, tra le persone. Uno
degli obiettivi più importanti credo sia non far sentire il paziente solo, abbandonato, e
quindi riuscire ad interagire con la sua “stanza”.
Tra gli obiettivi dell’infermiere non deve certo mancare la capacità di migliorare
quello che viene offerto alle famiglie, cioè capire che cosa manca nell’assistenza
generale e presentarlo: uno schema preimpostato è utile, ma deve essere aggiornato
nelle conoscenze e nella struttura sulla base di un ragionamento scientifico e di un’idea
critica che non deve mancare mai.
Un obiettivo da non scordarsi mai è la formazione continua, specie quando si tratta di
SLA, potendo offrire così sempre maggiori conoscenze alle persone ed una migliore
assistenza ai malati, in modo da raggiungere gli obiettivi prefissati e migliorare
veramente il SSN.
125
126
5
RINGRAZIAMENTI
5.1
Grazie a...
Il momento della Laurea credo che rappresenti uno degli obiettivi più belli per le
persone, in quanto queste mettono in luce loro stesse e quello che hanno appreso con i
lavori che propongono. Il mio lavoro è nato da una storia vera, vissuta in casa accanto a
mio nonno e rielaborata in base alle esperienze ed alle conoscenze acquisite.
Voglio ricordare che cause sfortunate non mi hanno dato l’opportunità di conoscere i
nonni paterni e di trascorrere più tempo con quelli materni.
Prima di approdare agli studi universitari ho deciso di prendermi dopo la scuola
secondaria una pausa lavorativa di circa 10 anni, durante i quali ho voluto cambiare
molti lavori costruendomi un bagaglio di conoscenze molto ampio.
L’Università mi ha regalato 3 anni molto pieni che ora mi sembrano volati via. Giorno
dopo giorno le difficoltà e le responsabilità aumentano e questo, oltre ad essere un
motivo di orgoglio, richiede sempre molto discernimento che sempre più è diventato un
mio bagaglio culturale. Devo ammettere che durante tutto questo tempo ho passato
momenti di gioia e soddisfazione, come pure momenti di tristezza e di difficoltà, ma
sono sempre riuscito a rialzare la testa ed a raggiungere i miei obiettivi.
Essere arrivato a questo punto mi è costato tanto impegno e ci è voluta tanta costanza,
ma in tutto questo tempo sono state molte le persone che mi hanno aiutato.
La prima persona che devo nominare è mia nonna che in ogni momento mi
domandava degli esami: mi ha sempre incoraggiato a modo suo, oltre ad essere stata la
mia prima paziente.
Devo ringraziare poi mio fratello, Alessio, che mi ha sempre sostenuto anche solo con
un “bravo”: sono certo che anche lui continuerà a darci grandi soddisfazioni come sta
già facendo.
Mio padre Paolo, per motivi di lavoro, lo vedo sempre poco in settimana, ma non ha
mai mancato di chiamarmi dopo un esame per farmi i complimenti, incitandomi a
proseguire.
127
Mia madre Vincenza è stata la persona che in casa mi ha sostenuto nei momenti di
sconforto e di difficoltà: davanti ad ogni dubbio mi ha sempre aiutato a capire che strada
prendere consigliandomi per il meglio.
La mia famiglia è stata molto importante per il mio percorso, e la fiducia che ho avuto
da loro è stata fondamentale: in ogni singolo momento sai che, se ti sei allontanato da
casa, vi puoi far sempre ritorno perché la tua famiglia ti sosterrà in ogni caso. Questo è
importante, perché se sei deluso, sai di poter contare su qualcuno che ti vuol bene.
Tra tutte le persone che voglio ringraziare non posso dimenticare i miei amici, in
particolare Marco, per avermi sopportato, supportato e anche incitato: riuscire a
condividere le difficoltà con un amico rende tutto più leggero, ed ottenere la sua fiducia
ti dà comunque forza.
Poter ridere e scherzare nella vita è fondamentale, e se in molte occasioni non ci
fossero stati Marco e Luca avrei riso molto meno.
Vorrei ringraziare il Prof. P. Bongioanni, mio relatore, per avermi aiutato a realizzare il
mio Progetto. Questa collaborazione mi ha portato a nuove ed importanti conoscenze, e
sono molto felice di aver potuto conoscere la NeuroCare onlus con i suoi volontari. Le
esperienze vissute sono state molto utili, per la tesi, per i rapporti con le persone e per
guardarmi dentro un po’ di più e meglio.
Vorrei ancora ringraziare chi mi ha sostenuto, con una parola, con un gesto o in
qualsiasi altro modo, purché sincero. Molte persone mi hanno chiesto della tesi, mi
hanno ascoltato e mi hanno detto ciò che ne pensavano. L’interesse su quello che è stato
il mio lavoro mi ha regalato molte soddisfazioni, soprattutto perché mi dà modo di far
conoscere le problematiche delle persone malate di SLA.
Tra tutte le persone che mi sono venute in mente non poteva mancare mio nonno che
ha ispirato questo lavoro incredibile, non per dimensioni ma per umanità: un lavoro
assistenziale che è iniziato proprio con la malattia del nonno e che ho voluto continuare
qui, nella speranza di poter dare una mano a chi ne ha bisogno.
Infine voglio ringraziare chi si è prestato a compilare il Questionario. Come ho sempre
ripetuto, le persone più importanti nella malattia sono gli stessi malati ed i loro
familiari: durante il tirocinio mi sono confrontato con tanti tipi di malati, ma quella
128
vissuta a contatto con i malati di SLA ed i loro caregiver credo sia stata un’esperienza
unica.
Dopo aver messo tutto l’impegno possibile in quello che ho fatto, sono fiero di essere
arrivato qui, felice che una nuova porta si apra su una nuova strada.
129
130
6
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Redelings M.D., and Lee S.K., and Sorvillo S., Pressure ulcer: more lethal then we
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Berlo D.K., The process of communication: an introduction to theory and practice,
Rinehart & Winston, London, 1960.
Ross E.K., La morte e il morire, Cittadella, Assisi, Edizione italiana 1976.
131
132
Tabelle
Tabella N. 1 (pagina 102)
Percentuale di
miglioramento
0%
Questionari che riportano Percentuale di questionari che
tale scelta
riportano tale scelta
20%
40%
60%
80%
100%
1
7,7%
2
15,4%
1
7,7%
1
7,7%
5
38,5%
3
23,0%
13
100%
Tabella N. 2 (pagina 103)
Tecniche proposte per
l’assistenza di base
“Igiene intima a letto per una
minor fatica del malato ed un
maggior benessere”
“Bagno a letto”
N. di caregiver interessati
Percentuale del N. di
alla tecnica
caregiver interessati alla
tecnica
10
25,6%
8
20,5%
“Movimentazione del paziente
per evitare la formazione di
piaghe da decubito”
9
23,1%
“Corretto lavaggio delle mani
per diminuire la possibilità di
contaminazione”
5
12,9%
“Corretto spostamento del
paziente dal letto alla
carrozzina e viceversa”
7
17,9%
Totale
39
100%
133
Tabella N. 3 (pagina 104)
Tecniche proposte per l’assistenza
N. di caregiver
Percentuale del N. di
di base
interessati alla tecnica caregiver interessati alla
tecnica
“Igiene intima a letto per una
minor fatica del malato ed un
maggior benessere”
10
15%
“Movimentazione del paziente per
evitare la formazione di piaghe da
decubito”
8
9
12%
14%
“Corretto lavaggio delle mani per
diminuire la possibilità di
contaminazione”
5
8%
“Corretto spostamento del
paziente dal letto alla carrozzina e
viceversa”
7
11%
Risposte non date
26
40%
“Bagno a letto”
Totale
65
100%
Tabella N. 4 (pagina 106)
Percentuale di
miglioramento
Questionari che riportano
tale scelta
Percentuale di questionari
che riportano tale scelta
20%
2
18,2%
1
9,1%
0%
40%
60%
80%
100%
Totale
1
2
1
4
11
9,1%
18,2%
9,1%
36,3%
100%
134
Tabella N. 5 (pagina 107)
Tecniche per l’assistenza di
base proposte
N. di pazienti interessati
alla tecnica
“Igiene intima a letto per una
minor fatica del malato ed un
maggior benessere”
7
Percentuale del N. di
pazienti interessati alla
tecnica
21,2%
“Bagno a letto”
5
15,2%
“Corretto lavaggio delle mani
per diminuire la possibilità di
contaminazione”
7
21,2%
7
21,2%
Totale
33
100%
“Movimentazione del paziente
per evitare la formazione di
piaghe da decubito”
“Corretto spostamento del
paziente dal letto alla carrozzina
e viceversa”
7
21,2%
Tabella N. 6 (pagina 108)
Tecniche per l'assistenza di base
proposte
“Igiene intima a letto per una minor
fatica del malato ed un maggior
benessere”
“Bagno a letto”
N. di pazienti
Percentuale del N. di
interessati alla tecnica pazienti interessati alla
tecnica
7
12,7%
5
9,2%
“Movimentazione del paziente per
evitare la formazione di piaghe da
decubito”
7
12,7%
“Corretto lavaggio delle mani per
diminuire la possibilità di
contaminazione”
7
12,7%
“Corretto spostamento del paziente dal
letto alla carrozzina e viceversa”
7
12,7%
Risposte non date
22
40%
Totale
55
100%
135
Tabella N. 7 (pagina 109)
Possibilità di scelta
“No” - Nessun miglioramento
“Sì” - Netto miglioramento
N. di caregiver che hanno % di caregiver che hanno
effettuato la scelta
fatto questa scelta
0
0%
13
100%
N. di caregiver che lo
hanno scelto
% di caregiver che lo
hanno scelto
“No, perché non sapremmo che
cosa chiedere”
0
0%
“Sì, perché non sappiamo bene
come affrontare certe situazioni”
8
10
44,4%
55,6%
18
100%
Totale
13
100%
Tabella N. 8 (pagina 110)
Risposte proposte
“No, perché ci sentiamo
completamente autonomi”
“Sì, perché il confronto è utile”
Totale
0
0%
Tabella N. 9 (pagina 111)
Motivazioni scelte dai
caregiver
“Il confronto è utile”
“Non sappiamo bene come
affrontare certe situazioni”
“Il confronto è utile” + “Non
sappiamo bene come affrontare
certe situazioni”
Totale
N. di caregiver che hanno % di caregiver che hanno
fatto tale scelta
fatto tale scelta
3
23,0%
5
38,5%
13
100%
5
38,5%
136
Tabella N. 10 (pagina 112)
Possibilità di scelta
“No” - Nessun miglioramento
N. di pazienti che hanno
effettuato la scelta
% di pazienti che hanno
fatto questa scelta
10
90,9%
1
“Sì” - Netto miglioramento
Totale
9,1%
11
100%
Tabella N. 11 (pagina 112)
Risposte proposte
N. di pazienti che lo hanno
scelto
% di pazienti che lo hanno
scelto
“No, perché non
sapremmo che cosa
chiedere”
0
0%
“Sì, perché il confronto è
utile”
5
41,7%
“Sì, perché non sappiamo
bene come affrontare
certe situazioni”
6
50%
Totale
12
100%
“No, perché ho tutto
l'aiuto che mi serve”
1
8,3%
Tabella N. 12 (pagina 112)
Motivazioni scelte dai pazienti
“Il confronto è utile”
“Non sappiamo bene come
affrontare certe situazioni”
“Il confronto è utile” + “Non
sappiamo bene come affrontare
certe situazioni”
Totale
N. di pazienti che hanno
fatto tale scelta
% di pazienti che hanno
fatto tale scelta
5
50%
4
40%
1
10%
10
100%
137
Appendice A: Questionario per i pazienti
STUDIO “Il supporto infermieristico nei pazienti affetti da SLA”
Questionario per il paziente
SI CONSIDERI CHE IL QUESTIONARIO PRESENTATO SARA':
- COMPLETAMENTE ANONIMO;
- NON VINCOLANTE PER LE CURE IN ATTO;
- NON E' OBBLIGATORIA LA SUA COMPLETA COMPILAZIONE;
- SERVIRA' PER UNA RICERCA INFERMIERISTICA DA PRESENTARSI PER LA
TESI.
Sono certo che il tempo che avete speso per compilare questo breve questionario sarà
utile per capire di più i pazienti e i familiari nella speranza di poter offrire un'assistenza
mirata. I dati saranno pubblicati sulla mia tesi di laurea.
Augurandovi una buona giornata, vi ringrazio per aver aderito a questa piccola ricerca.
Età: _________
Chi tra i familiari si prende più cura di Lei (moglie/figli/ecc): ____________________
Da quanto tempo è stata diagnosticata la malattia (preferibilmente mesi): ______
Che cosa pensate sia più importante insegnare a chi vi sta vicino per migliorare il vostro
stato di salute:
(Si può scegliere più di una voce, escluse la prima e l'ultima)
0 Nulla
0 Igiene intima a letto per una minor fatica ed un maggior benessere
0 Bagno a letto
0 Movimentazione per evitare la formazione di piaghe da decubito
0 Corretto lavaggio delle mani per diminuire la possibilità di infezioni
0 Corretto spostamento del paziente dal letto alla carrozzina e viceversa
0 Tutto
Ritenete importante riuscire ad avere una figura di riferimento con la quale poter
affrontare gli aspetti assistenziali della malattia?
0 No, perché ho tutto l'aiuto che mi serve
0 No, perché non sapremmo che cosa chiedere
0 Sì, perché il confronto è utile
0 Sì, perché non sappiamo bene come affrontare certe situazioni
In caso vi sentiate di aggiungere dei commenti saremo ben lieti di leggerli e valutarli.
______________________________________________________________________
______________________________________________________________________
______________________________________________________________________
In Fede
Pisa, lì 28-11-14
M. Mestrone
138
Appendice B: Questionario per i caregiver
STUDIO: “Il supporto infermieristico nei pazienti affetti da SLA”
Questionario per i familiari
SI CONSIDERI CHE IL QUESTIONARIO PRESENTATO SARA':
- COMPLETAMENTE ANONIMO;
- NON VINCOLANTE PER LE CURE IN ATTO;
- NON E' OBBLIGATORIA LA SUA COMPLETA COMPILAZIONE;
- SERVIRA' PER UNA RICERCA INFERMIERISTICA DA PRESENTARSI PER LA
TESI.
Sono certo che il tempo che avete speso per compilare questo breve questionario sarà
utile per capire di più i pazienti e voi familiari nella speranza di poter offrire
un'assistenza mirata. I dati saranno pubblicati sulla mia tesi di laurea.
Augurandovi una buona giornata, vi ringrazio per aver aderito a questa piccola ricerca.
Età del paziente: _________
Età del caregiver compilante: ________
Rapporto del caregiver con il paziente (moglie/marito/ecc): _____________________
Da quanto tempo è stata diagnosticata la malattia (preferibilmente mesi): ______
Che cosa ritenete più importante che vi venga insegnato per migliorare le cure prestate
al vostro caro:
(Si possono barrare più di una scelta, escluse la prima e l'ultima)
0 Nulla
0 Igiene intima a letto per una minor fatica del malato ed un maggior benessere
0 Bagno a letto
0 Movimentazione del paziente per evitare la formazione di piaghe da decubito
0 Corretto lavaggio delle mani per diminuire la possibilità di contaminazione
0 Corretto spostamento del paziente dal letto alla carrozzina e viceversa
0 Tutto
Ritenete importante riuscire ad avere una figura di riferimento con la quale poter
affrontare gli aspetti assistenziali della malattia?
0 No, perché ci sentiamo completamente autonomi
0 No, perché non sapremmo che cosa chiedere
0 Sì, perché il confronto è utile
0 Sì, perché non sappiamo bene come affrontare certe situazioni
In caso vi sentiate di aggiungere dei commenti saremo ben lieti di leggerli e valutarli.
______________________________________________________________________
______________________________________________________________________
______________________________________________________________________
In Fede
Pisa, lì 28-11-14
M. Mestrone
139
Appendice C: Lavaggio sociale delle mani
1.
2.
3.
4.
Rimuovere tutti gli anelli e i monili, compreso l'orologio;
Aprire il rubinetto dell'acqua e controllare che sia tiepida. Non schizzare l'acqua
e non appoggiarsi al lavandino umido;
Con le mani in posizione più bassa rispetto ai gomiti bagnare con l'acqua
corrente le mani e la parte distale degli avambracci;
Applicare il sapone liquido sulla cute e strofinare i palmi, i polsi e i dorsi delle
mani energicamente con movimenti circolari. Detergere gli spazzi interdigitali
e tutta la superficie delle dita. Continuare a frizionare per 15-30 secondi ogni
5.
6.
7.
8.
mano;
Pulire lo spazio sotto le unghie usando le unghie dell'altra mano o l'apposito
bastoncino (se disponibile) aggiungendo eventualmente altro sapone;
Risciacquare le mani e i polsi accuratamente mantenendo le mani in posizione
più bassa rispetto ai gomiti;
Asciugare le mani e gli avambracci accuratamente con un asciugamano di carta,
procedendo dalla punta delle dita verso l'avambraccio. Eliminare l'asciugamano
monouso nell'apposito contenitore;
Chiudere il rubinetto dell'acqua utilizzando un asciugamano di carta asciutta.
140
Appendice D: Igiene intima a letto
1.
2.
3.
4.
5.
6.
Informare e spiegare la procedura;
Posizionare in decubito supino, la donna con le gambe flesse, l'uomo con le
gambe distese;
Effettuare il lavaggio sociale delle mani;
Indossare i guanti monouso, non sterili;
Togliere gli slip sporchi e coprire il paziente con il lenzuolo, lasciando scoperto
il bacino;
Chiedere al paziente di flettere gli arti inferiori e sollevare il bacino, per inserire
la padella sotto ad esso. Se il paziente non è collaborante, posizionarlo in
decubito laterale, appoggiare al suo bacino la padella, mantenerla in
7.
8.
posizione durante lo spostamento del paziente in decubito supino;
Versare l'acqua, mediante la brocca, sulla spugna e applicare il detergente;
Utilizzare una nuova porzione del presidio, impiegato per l'igiene, ad ogni
passaggio. Eseguire l'igiene perineale femminile con la seguente modalità:
allargare le grandi e piccole labbra con la mano non dominante, detergere, dalla
zona più pulita sino a quella più sporca, cioè dalla zona pubica all'ano.
Eseguire l'igiene perineale maschile con la seguente modalità: scoprire il glande,
nei pazienti non circoncisi. Detergere, dalla zona più pulita sino a quella più
9.
10.
11.
sporca, dal meato urinario verso il glande, con movimenti circolari;
Se la zona anale è imbrattata di feci, sostituire il presidio impiegato per l'igiene;
Asciugare, tamponando delicatamente, con un telino di cotone o con
l'asciugamano, iniziando dalla zona pubica fino all'ano;
Rimuovere la padella, riporla a terra e coprire con un telino;
12.
Sostituire la traversa;
14.
Aiutare il paziente ad assumere una posizione comoda ed adeguata;
13.
15.
16.
Aiutare il paziente ad indossare slip puliti;
Smaltire correttamente il materiale;
Togliere i guanti ed eseguire il lavaggio sociale delle mani.
141
Appendice E: Bagno a letto
1.
Aiutare il paziente ad usare la padella o il pappagallo se necessario;
3.
Lavarsi le mani;
2.
4.
5.
Chiudere porte e finestre per eliminare le correnti d'aria;
Sollevare la testata del letto. Alzare e bloccare le sponde laterali del letto sul lato
opposto a quello dal quale si intende lavorare;
Togliere il lenzuolo superiore, la coperta e il copriletto; stendere il telo da bagno
sull'assistito. Aiutarlo a mettersi più vicino al lato del letto da cui si lavora e a
togliersi gli indumenti. Se il paziente ha un'infusione endovenosa in corso,
togliere la camicia dal braccio, abbassare il flacone dell'infusione e farlo passare
6.
7.
8.
9.
nella manica. Riappendere il flacone e controllare il flusso;
Stendere un asciugamano sul torace dell'assistito;
Prendere la prima manopola preinsaponata monouso oppure bagnare il guanto di
spugna. Se si usa una salvietta, bagnarla e piegarla per farne una manopola;
Pulire gli occhi solo con acqua, procedendo dall'interno verso l'esterno. Usare un
angolo diverso della manopola per ciascun occhio;
Lavargli la faccia, il collo e le orecchie. Evitare di lasciare la saponetta nel
catino o l'acqua diventerà troppo insaponata per risciacquare il paziente. Si può
usare un prodotto detergente che si aggiunge direttamente all'acqua. Questi
10.
11.
12.
13.
14.
prodotti non necessitano di risciacquo e non disidratano l'epidermide;
Togliere il telo da bagno dall'arto superiore più lontano, porvi un asciugamano al
di sotto e lavare, sciacquare e asciugare l'arto con movimenti ampi e rapidi, dalle
dita della mano verso l'ascella. Lavare l'ascella;
Ripetere i passaggi del punto 10 per l'altro arto superiore;
Applicare un prodotto deodorante o talco. Evitarne un uso eccessivo e
l'inalazione del talco;
Controllare la temperatura dell'acqua, se necessario, cambiare l'acqua;
Mettere un asciugamano sul torace dell'assistito. Abbassare il telo da bagno fino
all'ombelico;
142
15.
Togliere l'asciugamano dal torace, lavare il torace e l'addome, compiendo con il
guanto o con la manopola movimenti ampi e rapidi. Se la persona è in
sovrappeso, dedicare particolare attenzione alla cute sotto il seno e a ogni altra
plica cutanea. Sciacquare e asciugare bene. Applicare un poco di talco sotto il
16.
17.
18.
19.
20.
21.
22.
seno o tra le pliche cutanee;
Aiutare l'assistito ad indossare indumenti puliti;
Esporre l'arto inferiore dal lato opposta a quello dal quale si lavora, piegando
indietro il telo da bagno. Fare attenzione a mantenere il perineo coperto;
Alzare l'arto inferiore e porre l'asciugamano sotto di esso. Lavare, sciacquare e
asciugare l'arto usando movimenti ampi e rapidi, dalla caviglia verso la coscia;
Lavare il piede. Sciacquare e asciugare bene, con particolare attenzione agli
spazi interdigitali;
Ripetere la procedura per l'altro arto e l'altro piede;
Controllare la temperatura dell'acqua; se necessario cambiarla;
Aiutare il paziente a girarsi su un fianco. Indossare i guanti monouso. Stendere
l'asciugamano lungo la schiena e i glutei per evitare di bagnare le lenzuola.
Lavare, sciacquare e asciugare la schiena e i glutei. Massaggiare la schiena con
23.
la lozione;
Aiutare il paziente a mettersi supino. Coprire il paziente con il telo, in modo che
solo i genitali siano esposti. Indossare i guanti monouso puliti. Usando acqua e
una salvietta o una manopola pulite, lavare, sciacquare e asciugare i genitali e il
24.
25.
perineo (si veda la procedura nel testo);
Completare l'igiene secondo le preferenze dell'assistito. Applicare il talco, una
lozione o la colonia. Assistere il paziente per l'igiene dei capelli e del cavo orale.
Rifare il letto con lenzuola pulite;
Riordinare il materiale e lavarsi le mani.
143
Appendice F: Spostamento del paziente dal letto alla carrozzina e viceversa
1.
Preparare il materiale necessario vicino al letto del paziente;
3.
Mantenere l'allineamento corporeo del paziente sia supino che seduto;
2.
4.
5.
6.
7.
8.
9.
Eseguire il lavaggio sociale delle mani;
Mettere il paziente seduto sul letto;
Dopo aver accostato la carrozzina al letto, frenarla ed estrarre il bracciolo dal
lato del letto, se possibile;
Posizionarsi dietro il paziente;
Effettuare una presa crociata. Il paziente incrocia le braccia davanti a se,
poggiandole sulle gambe, l'operatore da dietro fa passare le sue braccia sotto le
ascelle del paziente e va ad ancorare le sue mani alle braccia del paziente;
Un altro operatore flettendo i propri arti inferiori, sostiene gli arti del paziente
afferrandoli sotto le ginocchia. Il sollevamento del paziente deve avvenire in
sinergia;
Compiere le manovre in maniera opposta per riposizionare il paziente sul letto.
144
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tesi montata 2