16/10/2014
L'occhio del regime sulla Grande guerra: l'Istituto Luce tra informazione, memoria e propaganda di Antonia Liguori
L'occhio del regime sulla Grande guerra: l'Istituto
Luce tra informazione, memoria e propaganda
di Antonia Liguori
1. Considerazioni preliminari
È ormai un'acquisizione condivisa dalla migliore storiografia contemporanea1 la
necessità di individuare nella Prima guerra mondiale le premesse che hanno consentito
l'affermazione del movimento fascista in Italia. Tale consapevolezza è palese sia in
quegli storici che interpretano l'evento bellico come momento catalizzatore delle
trasformazioni già in atto dal punto di vista sociale, economico e politico, sia in quegli
studiosi che hanno focalizzato la loro ricerca su una tematica specifica ​
carica di
notevoli implicazioni di natura antropologica e sociologica ​
come quella della
connessione tra la mobilitazione del popolo per la guerra e il contemporaneo avvio di
quel processo definito come «nazionalizzazione delle masse». Una prospettiva di
questo tipo rende indispensabile una maggior attenzione a tutto ciò che ruota attorno al
concetto di "partecipazione", inteso non soltanto come effettiva integrazione del
popolo nella vita dello Stato durante e soprattutto dopo l'evento bellico, ma anche
come una sorta di atto di accusa mosso prima ​
e cioè alla vigilia dell'intervento ​
dagli
intellettuali al ceto dirigente e, successivamente, dai gerarchi del regime fascista
all'élite culturale2.
Si tratta, in realtà, di una tematica che consente numerosi riferimenti a quel dibattito
che si protrasse per l'intero arco del Ventennio e che culminò con la pubblicazione del
veemente articolo di Bottai sull'«interventismo della cultura»3. L'immagine che del
popolo avevano fornito gli intellettuali negli anni compresi tra il «piccolo dopoguerra
libico» e l'intervento italiano del 24 maggio del 1915 era in un certo senso sintomatica
del fallimento di un approccio che, comunque, rimase di natura elitaria e che, perciò,
rese evidente la scarsa percezione ​
da parte di quella cultura che «se ne stava alla
finestra» ​
delle implicazioni connesse all'avvento della società di massa. E l'insuccesso
dell'élite intellettuale, che, alla vigilia della Grande guerra, si arrogava il diritto di
presentarsi come «voce della coscienza nazionale», sarebbe divenuto ancor più palese
a posteriori ​
a confronto con la straordinaria efficacia dell'organizzazione del consenso
attuata in pieno regime.
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Quanti si proponessero di individuare i moventi ideologici che hanno indotto il
«fascismo­movimento» a cercare nella Grande guerra ​
e, più in particolare, nel
perdurare del suo mito ​
la legittimazione storica e la propria ragion d'essere,
troverebbero nel patrimonio filmico conservato presso l'Archivio storico dell'Istituto
Luce una fonte indispensabile per l'individuazione di quelle componenti emotive che
possono sfuggire alla consultazione dei documenti e delle memorie. È opportuno,
infatti, verificare la possibilità e la relativa validità dell'uso delle immagini come fonte
storica, in un ambito nel quale non si ha come scopo la ricerca di una presunta
oggettività ​
come vorrebbe uno scolastico neopositivismo ​
quanto piuttosto il tentativo
di ribadire la necessaria priorità della norma storiografica della contestualizzazione.
Per valutare a tutto tondo il panorama nel quale ha preso forza il mito della Grande
guerra, così come il fascismo­regime lo ha poi consegnato al popolo italiano, è tuttavia
necessario ampliare il concetto di produzione culturale, sia per considerare la sua
effettiva incidenza sulle masse ​
cosa che non sarebbe possibile qualora si prendesse in
considerazione soltanto il dibattito culturale qual è stato vissuto dagli addetti ai lavori ​
­
sia per verificare l'impatto che la "favola" della «quarta guerra d'indipendenza» ha
avuto negli ambienti più disparati, dalle aule scolastiche alle piazze, dalle sale di
proiezione cinematografica alle terre d'oltremare.
Proprio dopo la recente pubblicazione del testo di Norberto Bobbio sulla cultura a
Torino tra le due guerre, si è nuovamente ravvivato un dibattito storiografico che
sembrava ormai sopito. Si tratta della "vecchia" querelle relativa all'esistenza di una
"cultura fascista", questione preliminare per chi si accinge a verificare proprio
nell'organizzazione del consenso le tracce della cultura di massa. Il filosofo torinese
ripropone quella coincidenza tra fascismo e incultura che fu fornita come chiave
interpretativa di base dalla storiografia di sinistra, che, sul finire degli anni Sessanta,
partendo da presupposti crociani, salveminiani o gramsciani, dava sostegno alla
fortunata definizione coniata da Venturi4. In una delle sue lezioni, infatti, egli
condannava il fascismo delle origini ​
e con maggiore acredine il regime ​
senza alcuna
possibilità di replica, stigmatizzando con il marchio della "retorica" la produzione
culturale del Ventennio, alla quale affiancava la definizione onnicomprensiva di
«regno della parola che si muove in un mondo di fenomeni che finisce per credere
reali». Una concezione, quella di Venturi, che lascia poco spazio al momento creativo
e perciò ratifica l'inesistenza stessa di una cultura propriamente detta.
Già prima della pubblicazione del più recente volume di Bobbio ​
che in realtà è stato
concepito dall'autore alla fine degli anni Settanta ​
Angelo D'Orsi5, dalle colonne de "Il
Foglio", aveva dato il "la" a una polemica, che, sia per le dimensioni che per la durata,
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in alcuni casi è apparsa fine a se stessa e priva di quei riferimenti a una più ampia
interpretazione del fenomeno fascista che imporrebbero al dibattito una diversa sede e
un maggiore sostegno scientifico.
Proprio i tempi e i modi del rapido ravvivarsi e diffondersi del vecchio "dilemma" ​
in
un certo senso già risolto dallo stesso Bobbio nel suo volume6 diffuso in sordina
all'inizio degli anni Novanta ​
impongono una rapida riflessione sulle implicazioni
relative all'uso pubblico della storia.
Con la chiusura del Novecento si sono moltiplicati i tentativi di sintesi degli eventi del
secolo scorso, per lo più accompagnati dall'elaborazione di teorie generali su quelli
che vengono connotati come momenti chiave7. Tentativi encomiabili, se affrontati da
"professionisti" della ricerca, soprattutto per ciò che riguarda la ricostruzione delle
vicende italiane tra le due guerre, perché ​
come sosteneva Rosario Romeo ​
«un paese
idealmente separato dal proprio passato è un paese in crisi di identità e dunque
potenzialmente disponibile, senza valori da cui trarre ispirazione e senza quel
sentimento di fiducia in se stesso che nasce dalla coscienza di uno svolgimento
coerente in cui il passato si pone come premessa e garanzia del futuro»8. Ma si tratta
spesso di sintesi storiche il cui meritorio intento di uscire dalla ristretta cerchia degli
addetti ai lavori implica, però, il rischio d letture distorte da parte dei nostalgici
testimoni degli eventi narrati. O ​
cosa ancor più dannosa per la corretta interpretazione
del passato ​
sono il frutto di "compilazioni" dal taglio giornalistico puramente
divulgative. C'è chi tra gli storici9 ha dunque puntualizzato i rischi di questo
indiscriminato uso pubblico della storia, notando però che le ricostruzioni congetturali
del passato per certi versi fanno parte della tradizione italiana e in particolare proprio
di quel periodo che oggi maggiormente è vittima delle interpretazioni dei "dilettanti",
considerando con tale termine sia alcuni autori che un buon numero di lettori. Era in
virtù del principio dell'"uso pubblico" della storia, infatti, che il regime attuò una vera
e propria riscrittura del passato, con l'intento sempre più palese nel corso del
Ventennio di cementare il consenso delle masse attorno a quello che allora era il più
vivo evento suscitatore di miti, la Grande guerra.
2. La Grande guerra come evento costitutivo della memoria
L'immagine del tapis roulant, descritta da Mario Isnenghi10 per visualizzare i
meccanismi attraverso i quali avviene il viaggio delle memorie, sembra quella ideale
per dare avvio a un percorso che, attraverso l'analisi delle pellicole di cinegiornali,
documentari propagandistici e cortometraggi, si propone di ricostruire e porre l'una di
fianco all'altra le innumerevoli tracce che hanno reso possibile il perpetuarsi del mito
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della Grande guerra negli anni del "Regime realizzato". Come se si muovessero su una
serie infinita di nastri trasportatori che si snodano tra brevi tunnel e curve improvvise,
i percorsi delle memorie collettive sono talvolta ardui da rintracciare e difficili da
seguire nella loro evoluzione, a volta di breve e a volte di lungo periodo. Ciò che può
aiutare a ricostruirne l'origine è la convinzione che qualsiasi memoria che coinvolga
un ampio raggio della popolazione è generata da eventi che hanno richiesto una
partecipazione collettiva e che hanno la forza di rendersi memorabili. Il problema della
durata dei contenuti di una memoria è, invece, strettamente connesso all'efficacia di
quei mezzi di diffusione che provvedono in maniera sistematica a intrecciare storia e
mito11; primo fra tutti, nell'era della comunicazione di massa, la pellicola.
La Grande guerra, la prima guerra tecnologica del xx secolo, offre innumerevoli spunti
di riflessione in merito ai rapporti tra evento e memoria, con particolare riferimento al
drammatico dilemma tra memoria e oblio. Appare ancora oggi forte e stridente la
contraddizione in chi avvertiva il «bisogno di rimuovere» e, al contempo, «la coazione
a testimoniare»12, posto in bilico tra l'orrore dei ricordi e la grandezza degli eventi, ed
era costretto a scegliere tra la rappresentazione di se stesso come vittima o come
nuovo protagonista della vita del Paese.
Il fatto che la Grande guerra abbia costituito un evento epocale, una vera e propria
frattura del corso storico, prima che come riflessione storiografica o come
manipolazione propagandistica, compariva nell'esperienza stessa dei protagonisti. Una
cosa va però puntualizzata prima di esaminare le fonti dirette, e cioè che, laddove si
parli della Prima guerra mondiale come evento costitutivo della memoria collettiva,
non bisogna pensare ad essa come «somma delle memorie private»13, poiché se si
bada alle profonde differenze sociali e culturali del nostro paese, come ai più svariati
livelli di "nazionalizzazione" ​
intesa in questo caso come partecipazione ​
si incorre
nell'errore di chi non riconosce l'esistenza di una serie di forme di inquadramento
sociale della memoria, che si concretizzavano attraverso la scelta di spazi celebrativi
comuni e l'adesione del popolo agli appuntamenti collettivi.
La Prima guerra mondiale, dunque, si presentava soprattutto agli occhi dei reduci
come evento catastrofico, che, aprendo un baratro tra passato e futuro, diveniva
momento di accelerazione anche in tema di esperienza della morte. Tale cambiamento
è assai evidente soprattutto in quella che alcuni hanno definito la «proiezione
iperbolica dei culti postumi», che andava oltre la retorica d'occasione e dimostrava al
contrario la necessità di evocare piuttosto che nascondere la morte di massa, quasi a
volerla neutralizzare, dando ai caduti una fissa dimora, che impedisse loro di «vagare
[] disturbando indefinitamente l'immaginario»14.
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La guerra moderna pose il combattente di fronte alla inevitabilità dell'incontro con la
morte di massa e tale esperienza "aiutò" il fascismo in una maniera forse indiretta, ma
di sicuro determinante. I soldati di prima linea si erano adattati a tal punto agli orrori
vissuti al fronte da integrarli nel proprio patrimonio emotivo come motori di una lotta
che non finiva con l'esperienza bellica e che andava oltre la realizzazione personale: il
reduce, colui che aveva affrontato con spirito di sacrificio un'esperienza
ineguagliabile, doveva trovare nel ricordo del compagno morto, nel culto dei caduti,
un ulteriore stimolo ad arricchire il proprio patrimonio morale15.
L'esaltazione del soldato eroe ​
così come avveniva già nei primi anni dopo la marcia
su Roma ​
fu il principale tentativo di giustificare ed esaltare l'esperienza della guerra,
trasformando in mito la sua memoria, anche attraverso l'organizzazione delle onoranze
ai caduti.
Buona parte dell'adesione al mito va attribuita ai retaggi del cameratismo e al
conseguente bisogno di rigenerazione collettiva. La guerra come esperienza
comunitaria fu, infatti, «l'ingrediente più seducente del Mito dell'esperienza della
guerra»16, proprio perché rendeva possibile trascendere la tragicità quotidiana
attraverso l'elogio del compagno, del soldato semplice, visto come autentico
rappresentante del popolo, oltre che esempio dell'uomo nuovo, l'atteso redentore dei
destini della patria17. È scontato dire che, in nazioni come la Germania sconfitta o
l'Italia vittima del «complotto internazionale» postbellico, la memoria del cameratismo
e della sacralità del martirio vanificarono inevitabilmente qualsiasi proposito di non
fare più guerre, purché i moventi fossero in linea con lo scopo primario della
resurrezione della patria18. Ci volle la fine della Seconda guerra mondiale perché
l'intera cultura europea rifiutasse il principio dell'eticità della guerra, per cui il soldato
che sacrificava la propria vita per la patria non era più il prototipo della massima
realizzazione della virtù civica. E la mutazione antropologica che fu alla base di
questo nuovo atteggiamento intellettuale comportò anche ​
dopo il '45 e soprattutto in
seguito allo sbarco americano ​
un'ulteriore e forse più determinante mutazione
all'interno del "quadro morale" europeo: nei paesi conquistati o liberati dagli Alleati, la
disfatta delle ideologie totalitarie e il contatto con le truppe statunitensi restaurarono in
parte quei valori della morale borghese ​
quali l'individualismo, l'utilitarismo e lo
spirito di tolleranza ​
che, dopo la Grande guerra, vennero sopravanzati dall'affermarsi
dell'ideale del cittadino­soldato19.
In Italia la partecipazione del paese al primo conflitto mondiale veniva giustificata
come grande sforzo collettivo, volto non tanto a completare sul piano territoriale
l'unificazione, quanto a dare sfogo alle aspirazioni alla «grande prova», ad aprire un
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nuovo «cammino»20. Qui è inevitabile accennare a quelle allusioni di Giovanni
Gentile ​
a proposito della necessità di una riforma morale ​
che tanto condizionarono la
successiva rilettura degli eventi fornita dal fascismo. Gentile definiva il Risorgimento
una rivoluzione incompiuta, poiché aveva curato soltanto l'aspetto esteriore, cioè
quello della formazione dello Stato unitario, senza badare a costituire una coscienza
nazionale21. E la Grande guerra ​
a quanto poi sostenne la propaganda di regime ​
­
sembrò dare l'occasione per forgiare questa coscienza, attraverso l'impegno di tutti gli
italiani per uno scopo comune.
Prima di verificare ​
anche attraverso l'analisi dei quindici filmati selezionati ​
come il
fascismo tentò di risolvere il problema della partecipazione dell'italiano nuovo alla vita
nazionale ​
e cioè facendo ricorso all'analisi della guerra come punto di incontro e
sovrapposizione tra l'esperienza individuale e quella collettiva ​
è bene valutare un
ulteriore aspetto che potrà tornare utile soprattutto per comprendere la forte carica
emotiva di alcuni fotogrammi. Si tratta della nuova dimensione tecnologica del
conflitto, che condizionò non poco la sua percezione e l'immagine che di essa trassero
le generazioni future. I nuovi mezzi di comunicazione stimolarono l'immaginazione
dei giovani in maniera assai più efficace dei semplici racconti diffusi in forma
epistolare o narrati dai reduci. La tecnologia si prestava, infatti, all'inevitabile
trasformazione delle esperienze visive e sonore, potenziando le possibilità di percepire
il mondo sia per intensità che per diffusione22. È suggestivo pensare a una sequenza di
fotogrammi privi di audio come all'estremo tentativo di bilanciare l'ossessiva
predominanza dell'elemento sonoro subita sui campi di battaglia, quasi a voler creare a
posteriori una sorta di "anestesia acustica"23.
3. Lo sviluppo metodico del rituale
La somma delle grida di dolore di chi negli occhi aveva ancora le immagini delle
scene di guerra e nella memoria i racconti strazianti dei protagonisti del grande evento
trovò sfogo nella coazione al silenzio, imposto in maniera diffusa nella gestione del
culto dei caduti attuata durante il Ventennio.
Seppellire e ricordare i morti in guerra aveva, secondo il regime, una funzione simile a
quella che avrebbe assunto la costruzione di una chiesa per la religione nazionale. E,
come dimostra con estremo rigore logico lo storico tedesco George L. Mosse, fu
proprio negli spazi destinati alla commemorazione dei caduti che trovò la sua maggior
giustificazione il mito dell'esperienza della guerra24, reso tale in quanto distinto dalla
brutale realtà della trincea. Quello che si trasformò presto in un vero e proprio culto
trovava il suo effettivo valore nella necessità di orientare per altre vie la memoria del
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conflitto: chiunque poteva dire di aver patito direttamente le conseguenze della guerra,
che, alla prova dei fatti, si era rivelata assai lontana dall'entusiasmo provato alla vigilia
del conflitto da quei giovani che avrebbero voluto viverlo come avventura o come
possibilità di autorealizzazione personale25. La liturgia dei caduti doveva annientare
l'orrore vissuto e rievocare i motivi di una gloria perpetuata dai monumenti. Ciò che
colpisce è quella sorta di conservatorismo che caratterizzava la natura di religione
civica del culto dei caduti ​
come è ovvio che accada per qualsiasi forma liturgica ​
­
quasi che anche il più impercettibile mutamento potesse mettere in crisi le certezze di
una fede che non ammetteva discussioni.
È proprio con il culto dei morti in guerra che la nazione "eleggeva" i propri martiri, i
quali, anche in tempo di pace, dovevano servire da monito alle generazioni successive
sia per la forza e la virilità che avevano dimostrato nel loro farsi carico delle
responsabilità di guerra, sia per la totale dedizione alla patria, culminata con l'estremo
sacrificio della propria giovane vita.
Si potrebbe dire che alle origini di quella propaganda che traeva stimolo dalle
emozioni suscitate dal ricordo del paese belligerante c'era il mito dell'eroe anonimo,
del soldato senza nome, del "milite ignoto", che fa pensare alla tipologia che il
fascismo attribuì alla guerra del '15­'18, al «prototipo di una guerra plebea»26, dove è
il fante che combatte a rimanere impresso nella memoria.
La forma di elaborazione del lutto personale e collettivo che nel tempo riscontrò
maggiori consensi per la straordinaria capacità di coinvolgimento ​
dato questo
evidente già nell'immediato dopoguerra sia in Italia che negli altri paesi europei ​
fu
quella della religione civica del Milite ignoto. La guerra di massa aveva individuato il
suo nuovo eroe nel "non eroe", il figlio del popolo sul quale ognuno potesse
convogliare la propria pietà27. All'estero o sul proprio fronte, i cimiteri militari erano
poco adatti a servire da centro del culto dei caduti, nonostante, ciascuno di essi ​
­
singolarmente esaminato ​
potesse svolgere la funzione di tempio nazionale. Per
rafforzare il culto dei combattenti morti al fronte, le singole nazioni28 avevano
bisogno di un luogo in cui raccogliere le folle, per sensibilizzarle ancora una volta ​
in
memoria dei caduti ​
in funzione della missione nazionale. Il fascismo trovò nel
repertorio dannunziano la motivazione ideale alla quale fare appello: essa consisteva
nel particolare rilievo a quel mito del popolo concepito come unità spirituale grazie
alla funzione mediatrice degli "eroi"29. Il rapporto reciproco tra popolo ed eroi ​
­
riproposto durante il ventennio nelle adunate di fronte ai luoghi destinati al culto dei
caduti ​
non implicava la subordinazione di quelli a questi, ma una comunione di spirito
e volontà che il Poeta definì «eucaristica». La tomba del Milite ignoto ebbe questo
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fine, come luogo del culto nazionale che simboleggiava tutti i cimiteri militari dispersi
lungo quelle che pochi anni prima erano state le linee del fronte.
Con gli anni Trenta si andarono affiancando ai luoghi di culto a loro modo "consolanti
e gentili" ​
come potevano essere, ad esempio, i parchi della Rimembranza ​
concepiti
un decennio prima, gli sconfinati piazzali di cemento dei grandi ossari, che andarono a
costituire ulteriori spazi «deputati ai colloqui dimostrativi tra i vivi e i morti»30.
L'altare della morte più praticato e venerabile fra le due guerre non poteva che essere
quello del Carso, posto nel cuore della regione più tragica, mirabilmente descritta,
nella sua natura aspra e selvatica che la poneva agli estremi confini della civiltà
urbana, nel "diario lirico" di Scipio Slataper titolato Il mio Carso. In un opuscolo
celebrativo del 1927 dedicato all'allestimento del cimitero militare di Redipuglia ​
oggi
in provincia di Gorizia ​
leggiamo tutta la commozione ispirata da una retorica pubblica
che doveva fare i conti con le imponenti dimensioni quantitative della morte, presenza
talvolta pletorica anche per chi si proponeva di gestire l'immaginario collettivo:
Salme di eroi, caduti nell'impeto dell'assalto e rimasti insepolti sulla terra squarciata,
perché il furor della mischia aveva precluso la via della pietà; salme di fratelli in giorni
avversi dovute lasciare con immenso dolore nelle linee nemiche; salme giacenti sotto
ai rottami delle opere di difesa infrante; salme affondate nelle caverne dove più lenta è
l'agonia; [] poveri corpi smembrati dalle granate; innumerevoli ossa scongiunte e
sparse in ogni luogo31.
C'è chi ha definito il grande complesso monumentale di Redipuglia «l'opera forse più
compiuta di appropriazione del culto della Grande guerra ad opera del fascismo»32,
che, nel completamento di un progetto architettonico già in parte delineato prima
ancora della fine del conflitto, trovò l'occasione per creare un luogo di culto dei caduti
che, per numero di salme raccolte ​
più di 100.000 ​
superava anche gli ossari
monumentali della Somme33.
È interessante notare la cura con cui il fascismo riuscì ad affiancare tale progetto di
rivalutazione degli spazi dedicati alla memoria collettiva al tentativo di ottenere un
ulteriore sostegno da parte dei Savoia. L'occasione fu quella dell'interramento del duca
Amedeo d'Aosta34 ​
avvenuta l'8 luglio del 1931 ​
il cui testamento spirituale venne
scolpito nella cripta della sua tomba a suggellare il binomio Savoia­Mussolini, che, in
realtà, costituiva il tarlo roditore di quello che alla lunga si rivelò un «totalitarismo
imperfetto»35.
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4. La "pupilla" del regime: l'immagine del mito
I quindici documenti selezionati presso l'Archivio storico dell'Istituto Luce
contribuiscono, nel complesso, a chiarire il rapporto tra informazione, memoria e
propaganda, oltre a ribadire, in maniera inequivocabile, la necessità avvertita dal
regime di raccogliere la nazione intera attorno all'ideale della «nuova Italia».
Ciò che preme sottolineare è l'utilità delle fotografie e, ancor più, dei filmati sia per
l'analisi sia per la sintesi storiografica, tenendo presente che un'applicazione su scala
più vasta dello strumento filmico può avvenire soprattutto su quei documenti realizzati
a partire dall'introduzione del sonoro, che, attraverso l'integrazione tra sequenze di
immagini e suoni, costituiscono «l'optimum in senso documentario»36.
In Italia l'attività di informazione cinematografica, oltre che di divulgazione
scientifica, ha avuto una sua "fioritura" già ai primi del Novecento, tant'è che, prima
del Luce, esisteva il Sindacato di istruzione cinematografica ​
il sic ​
che aveva avuto
come scopo specifico quello di soddisfare le esigenze dell'Italia liberale quanto a
produzione di film documentaristici di ispirazione governativa.
Nel '22 tra i più accaniti fautori delle iniziative del sic c'erano il giornalista Luciano
De Feo e il generale della milizia Civelli, che, neanche due anni dopo, prospettarono a
Mussolini, in un'occasione apparentemente fortuita, le potenzialità di sviluppo delle
«pellicole educative». Era l'estate del '24 quando avvenne il primo contatto tra
Mussolini e De Feo, all'interno della Mostra dell'emigrazione di Napoli, dove era stata
inserita nella programmazione serale la proiezione di una serie di documentari. Tra
questi c'era un reportage, girato il 27 luglio da Albertelli, dedicato all'attività di
Mussolini a Palazzo Chigi.
Da un incontro "forzatamente" casuale di lì a poco avveniva la con versione del sic e
la nascita de L'Unione Cinematografica Educativa37 ​
il l.u.c.e. appunto ​
­
immediatamente posta sotto le dirette dipendenze del capo del Governo e del suo
ufficio stampa. In meno di due anni venivano costituite otto cinemateche, da quella
agricola a quella di cultura nazionale, da quella igienica a quella di propaganda e
cultura all'estero, alle quali si aggiungevano la divisione fotografica e, dal '27, la
redazione del cinegiornale38.
Era in quegli anni che si riprendeva a parlare di «uso extraestetico del mezzo
cinematografico»39, alla maniera dello studioso britannico di scienze sociologiche
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John Grierson ​
un allievo di Walter Lippmann ​
che individuava nel cinema non più
«una fonte di ricreazione», ma un potente mezzo educativo. Così scrivevaa proposito
dell'uso sociale del cinema, in relazione al problema del coinvolgimento delle masse:
«il nuovo linguaggio dell'assimilazione, dal quale deve scaturire il senso collettivo
della vita sociale, ha da essere un linguaggio più emotivo che razionale»40. Lezione
questa sapientemente messa in pratica dalla "pupilla"41 del regime, che, durante tutto
il ventennio, proiettò le proprie immagini in modo che il popolo non potesse vedere la
realtà del paese con altri occhi che con quelli del Luce, trascinato da un'ondata
emotiva assai forte42.
L'evidente prevalere della funzione politica nella produzione dei filmati trasformò
rapidamente il Luce in strumento della più ampia «fabbrica del consenso»43 ​
­
interamente gestita dal Pnf, «grande pedagogo» dello Stato44 ​
verificabile nella sua
efficacia a guardare dall'operosità con la quale l'apparato culturale del regime si mosse
per la ricerca di locali idonei alla proiezione dei filmati. A Roma, ad esempio, veniva
restaurata l'antica aula Minerva all'interno delle Terme di Diocleziano e il 28 ottobre
del 1928 veniva inaugurato il Planetario, che, in un anno, ospitò oltre cinquecentomila
visitatori45. Per il resto del Paese, ai locali nei quali si proiettavano i filmati una volta
a settimana, venivano affiancati, a partire dal 1927, venticinque autocinema46. Non è
un caso che questa maggior attenzione alla diffusione delle pellicole avvenisse proprio
nel 1927, anno d'esordio del cinegiornale, destinato subito a manifestare il suo forte
tasso di politicizzazione, che, nel tempo, ne avrebbe determinato sia i contenuti che la
forma, distinguendolo anche dalla tipologia delle trasmissioni giornalistiche
radiofoniche. Il "limite" più evidente era senz'altro determinato dalla schematicità
della struttura, in base alla quale, ad esempio, gli avvenimenti riguardanti l'Italia
introducevano e chiudevano le cineattualità, per lo stesso motivo per cui le immagini
del duce dovevano essere nettamente predominanti rispetto a quelle del re. Tutto
doveva contribuire a rafforzare il mito della nuova Italia, scandito dalla ritualità dei
suoi anniversari, rigorosamente filmati e riproposti al pubblico secondo il nuovo
calendario eroico della Nazione, che contava tra le sue "feste di precetto", oltre
all'anniversario della marcia su Roma, quello dell'entrata in guerra nel '15 e della
vittoria trionfale a Vittorio Veneto. Un mito, quello della nuova Italia, che, vista la
ricorrente affermazione dell'identità tra Stato e fascismo, non poteva risparmiarsi il
vincolo con l'altrettanto decantato mito mussoliniano, accresciuto dalla varietà di
versioni che esso consentiva47, tanto da rendere il duce «il protagonista superdivistico
della comunicazione audiovisiva!»48.
Possiamo immaginare quanto il carattere ufficiale dell'informazione ​
sia quella fornita
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attraverso i cinegiornali, sia quella offerta sotto forma di documentari propagandistici
abbia influito sulla fantasia o sulla capacità stessa degli operatori, che le condizioni
andavano via via trasformando in veri e propri «burocrati della cinepresa»49. E non si
può dire che l'avvento del sonoro cambiò qualcosa quanto a necessità d'aggiornamento
che esulasse dalla sola riorganizzazione tecnica. Anzi, dopo il '31, quando nei
cinegiornali si iniziavano ad ascoltare le prime musiche di sottofondo o i primi rumori
in presa diretta ​
visto che il commento dello speaker fu possibile soltanto dal '34 ​
i
primi e clamorosi inciampi finanziari portarono a galla le rimostranze dei fascisti più
ortodossi, che imputavano al deputato abruzzese Alessandro Sardi di non aver
sfruttato a dovere, nei quattro anni della sua direzione, le potenzialità propagandistiche
del mezzo cinematografico. La gravità delle sue presunte inadempienze ​
più
ideologiche che amministrative ​
era giudicata in maniera proporzionale agli indici di
diffusione delle cineattualità, che, nel ventennio, erano di gran lunga superiori rispetto
a quelli della radio50 o, in maniera ancor più evidente, rispetto ai quotidiani51.
Una maggiore enfasi investì il dato oggettivo dei filmati proprio con l'avvento del
commento degli speaker, che, con la loro ridondanza, oltre che per la monotona
ripetitività dei contenuti, accrebbero il senso ideologico dell'informazione. E, a
proposito di enfasi e di facile manipolazione della realtà, basti pensare anche alla
scelta degli argomenti, che assolutamente non lasciavano alcuno spazio né alla
cronaca nera ​
che avrebbe agito come un tarlo roditore nelle coscienze del popolo ​
né
alle futilità, ritenute poco idonee ad un pubblico impegnato nell'austero progetto di
«innalzare i destini» della propria Patria.
Sono queste probabilmente le caratteristiche che nota a una prima osservazione chi si
accosta oggi ai cinegiornali del ventennio con l'intento di scorgere in essi le tracce di
un percorso ideologico e propagandistico di più ampia portata. Nella selezione dei
quindici filmati52 che in questa sede si propongono come testimonianze chiave delle
notevoli implicazioni connesse alla rilettura degli eventi della Grande guerra fornita
dal regime fascista, è sembrato opportuno far riferimento immediato a una serie di
"cineattualità". Si tratta, infatti, di alcune tra le testimonianze più efficaci proprio
perché l'estrema sintesi nella trattazione delle singole tematiche rendeva con
immediatezza il senso di un "discorso" che si basava più su "enunciati minimi" che su
articolate costruzioni. E la semplificazione diveniva d'obbligo per una capillare
diffusione di un messaggio che fosse inequivocabile e che, al contempo, facesse
appello a una fede dogmatica, che ​
come tale ​
non ammetteva repliche. Entrava,
dunque, in causa il "sentimento", o meglio, la suggestione, cioè quella qualità delle
masse che si fondeva con il loro incessante bisogno di credere in qualcosa di ben
definito e di creare un proprio "patrimonio intellettuale" che non le emarginasse ​
­
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L'occhio del regime sulla Grande guerra: l'Istituto Luce tra informazione, memoria e propaganda di Antonia Liguori
almeno formalmente ​
dallo spazio e dal tempo nel quale vivevano. Un sentimento più
volte chiamato in causa e posto «di fronte a una galleria di immagini [] che tocchino
acutamente le sue capacità di azione e di rivalsa»53. La propaganda ​
e ci riferiamo in
particolare a quella attuata dal regime in virtù della creazione del mito della Grande
guerra ​
consisteva, infatti, in una vera e propria tecnica, che aveva come suo scopo
essenziale quello di condurre verso la conformizzazione di massa e come suoi mezzi
più efficaci "l'annichilimento dell'avversario" e la quasi totale assenza di riferimenti
razionali. Per "avversario" dobbiamo intendere anche chiunque non mostrasse un
consenso integrale e che, a causa di una seppur parziale difformità di pensiero, nelle
adunate o nelle varie ricorrenze evocative, veniva quasi indotto a vergognarsi. Il
dissenziente agli occhi del regime non era poi tanto diverso dall'oppositore, che veniva
a priori bollato come un traditore, «un abietto da schiacciare». Si trattava, in fin dei
conti, di un controllo delle masse che non poneva in essere un vero e proprio processo
di convinzione, ma che riteneva opportuno portarsi più sul fronte suggestivo e
psicologico che su quello ideologico, tenendo ben presente la reciprocità dichiarata tra
forza e consenso, laddove il processo "educativo" di massa imponesse un intervento
più concreto. Ciò comportava un'adesione collettiva al concetto di libertà che qualsiasi
totalitarismo impone e che consiste ​
volendo semplificare ​
nella subordinazione della
volontà dell'individuo al bene comune.
5. Quattro cinegiornali come sintesi del "continuum storico"
Nei quattro cinegiornali presi in esame ​
due del '32, uno del '33 e uno del '39 ​
soltanto
l'ultimo è provvisto di musica di sottofondo, una serie di spezzoni di inni della patria e
della rivoluzione cantati dai giovani della gil54, alternata con le consuete acclamazioni
della folla e con il commento del cronista. Le immagini sono, comunque, esplicative
in tutti i documenti, poiché rimarcano quelli che sono i quattro punti cardine da
considerare all'inizio di un percorso visivo attraverso il quale si voglia rivisitare
l'interpretazione della Grande guerra così come venne ricostruita dall'apparato di
propaganda fascista.
Nel Giornale Luce archiviato con il codice B 0098, il concetto attorno al quale ruota
l'intera sintesi è quello della continuità storica della quale il fascismo si fece
portavoce. Si tratta, infatti, di una serie di riprese effettuate in occasione
dell'inaugurazione sul Gianicolo, a Roma, di un monumento dedicato ad Anita
Garibaldi, raffigurata dallo scultore come amazzone al galoppo, con una rivoltella in
una mano e un lattante nell'altra. Un'abile regia mostra di saper sfruttare al meglio
l'occasione per amplificare, tra l'altro, l'ovvia allusione alla duplice funzione della
donna sia rispetto alla patria sia verso la famiglia: la figura femminile viene, infatti,
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rappresentata simbolicamente dalla statua equestre di Rutelli come «guerriero che
segue il nemico e madre che protegge il figlio».
Su un cartello in sovrimpressione compaiono i punti cardine del discorso
commemorativo pronunciato dal duce, la cui presenza è di molto privilegiata rispetto a
quella del re e di sua moglie. Inevitabile il riferimento celebrativo alle glorie
garibaldine, messe in stretta relazione con le virtù del popolo belligerante e, in
particolare, con gli arditi di Vittorio Veneto e con le camicie nere. Il messaggio
giungeva chiaro dal colle di Roma: sia l'antico "duce" ​
Garibaldi ​
che quello nuovo
possedevano una straordinaria coerenza strategica e, magari, nonostante le accuse dei
malevoli, la presunta superiorità storica del fascismo consisteva proprio nell'aver
saputo animare «masse di combattimento» e non «nuclei rari». La missione del regime
come «erede» del «protofascismo», che, secondo la versione ufficiale ideata dallo
stesso Mussolini, consisteva nella spinta attivistica dell'interventismo ​
veniva, dunque,
presentata come compimento della migliore tradizione morale italiana, la cui memoria
veniva tutelata e salvata dal rischio di cadere nell'oblio al quale era stata condannata
dai "politicanti" liberali.
Nel secondo Giornale Luce del '32 ​
marcato dal codice A 1037 ​
lo spunto di riflessione
sul passato dell'Italia belligerante è offerto, invece, dalle riprese effettuate in occasione
della "Mostra della Rivoluzione fascista", nata come idea celebrativa del decennale del
regime. Il nucleo ideologico attorno al quale ruota l'intero montaggio delle immagini è
quello della definizione dell'intervento nella Grande guerra come inizio del cammino
per la «rivoluzione fascista»55. I primi piani e le dissolvenze sono tutti per le prime
pagine de "Il Popolo d'Italia", del quale si tende a sottolineare il ruolo centrale
all'interno della corrente interventista, presentata come frazione minoritaria che,
all'alba della Grande guerra, interpretò la presunta volontà di riscatto morale avvertita
da un Paese ancora inconsapevole del proprio destino. Si intuisce il grosso successo di
pubblico della mostra ​
c'è chi parla di due milioni di visitatori in due anni56 ​
che non si
spiega solo con l'impegno, che pure fu cospicuo da parte del regime, di promuovere
gite e visite organizzate, ma che si collega soprattutto con la vera e propria liturgia
connessa alla mostra stessa, che negli anni ​
più volte prolungata ​
si trasformò in uno
stabile Museo della rivoluzione. Fugaci le immagini dei numerosi pannelli fotografici
presenti in una delle sale all'interno della mostra: evidente, però, la ricorrente presenza
dei soldati feriti ​
eletti come primi «martiri della rivoluzione fascista» ​
e del giovane
Mussolini sui campi di battaglia.
Secondo la rilettura ufficiale degli eventi bellici, aveva avuto ragione Gioacchino
Volpe nell'annunciare, a posteriori, l'eredità storica mutuata dalla Grande guerra, che
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consisteva, in sintesi, nel «patrimonio morale» acquisito da ogni singola nazione,
inteso come nuovo modo di gestire i rapporti tra Stato e individuo57. A dimostrazione
della volontà di strumentalizzare l'intervento per giustificare l'affermazione del
fascismo e la sua necessità storica, oltre che per dare una più salda base teorica a una
dottrina che può essere definita come volutamente «anti­ideologica»58, leggiamo
qualche stralcio tratto da alcune tra le pagine più rappresentative del pensiero di
Francesco Ercole:
Là nelle colonne del Popolo d'Italia, sin dal febbraio del '15, gli interventisti di tutte le
origini e di tutti i Partiti cercavano quasi istintivamente la bussola più sicura del
proprio orientamento e la ragion d'essere più persuasiva del proprio improvviso
riconoscersi, al di là dei dissensi e delle antitesi, fratelli nella spontanea disciplina
verso una causa comune. Specialmente rapido, quasi direi insieme istintivo e intuitivo,
fu il riconoscimento di un'intima fraternità spirituale fra l'interventismo, che potremmo
dire di marca immediatamente mussoliniana, e l'interventismo dei nazionalisti, nonché
il reciproco agire e influire dell'uno sull'altro, quasi a inconscio presentimento del
prossimo inserirsi e risolversi dell'uno nell'altro. [] Nei mesi di passione intercorsi tra
lo scoppio della guerra mondiale e il nostro intervento, Mussolini fu, di fatto, di fronte
agli interventismi di sinistra e di destra, per riconoscimento tacito e implicito, quasi
direi per una specie di investitura naturale, il Capo. [] La storia dirà che risolvendosi la
Rivoluzione fascista nella instaurazione del governo della Patria dello spirito, in virtù
del quale il popolo italiano volle la guerra, essa non poteva avere altro Capo, se non
Colui, che aveva guidato il popolo italiano a imporre la propria volontà di guerra al
governo della Patria59.
Questa pagina sintetizza in maniera esemplare i punti essenziali sui quali il regime
fondò la propria interpretazione ufficiale degli eventi immediatamente precedenti
l'intervento italiano in guerra. Il ruolo trainante attribuito a posteriori al "Popolo
d'Italia" in seno all'interventismo non deve far sottovalutare due aspetti tipici del
fenomeno: innanzi tutto, l'eclettismo della realtà italiana come sintomo di debolezza
delle basi teoriche dell'interventismo ​
in modo particolare di quello di sinistra, che non
poteva rendere credibile il mito della guerra democratica e rivoluzionaria, senza
l'adesione delle grandi masse cattoliche e socialiste ​
; in secondo luogo, il fatto che si
trattava pur sempre di una corrente minoritaria, appoggiata però da elementi
fondamentali, sicuramente più efficaci della semplice forza propagandistica. Ci
riferiamo sia al sostegno fornito dal governo da un certo momento in poi ​
al contrario
di quanto farebbe credere quel carattere "eversivo" attribuito in seguito dal fascismo ​
­
sia al non indifferente appoggio di alcuni gruppi capitalistici e anche al peso di tutta ​
o
quasi ​
la cultura impegnata e militante, alla ricerca di un radicale rinnovamento
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L'occhio del regime sulla Grande guerra: l'Istituto Luce tra informazione, memoria e propaganda di Antonia Liguori
culturale e politico60.
Ciò che, in sostanza, volevano ribadire filmati con una simile impostazione era che la
storia della «nuova Italia» cominciava dal «maggio radioso», perché allora ​
a più di
cinquant'anni dall'unificazione ​
erano finalmente prevalsi i motivi ideali sulle ragioni
politiche, a conferma dell'idea che il successo di una nazione poteva scaturire soltanto
da un atteggiamento morale che comprendesse la sofferenza e l'abnegazione
dell'individuo.
Nel terzo cinegiornale preso in esame61, abbiamo la testimonianza diretta della
ritualità divenuta di routine durante le celebrazioni degli anniversari tratti dal
calendario eroico della nazione. Ci troviamo, infatti, a Nervesa, in occasione del
quindicesimo anniversario della battaglia del Piave, definita da Luigi Federzoni
«eroico preludio della vittoria di Vittorio Veneto». Inutile ribadire quanto l'intera
sequenza delle immagini miri a rafforzare il mito della vittoria trionfale, del quale si
fanno portavoce, non a caso, i mutilati e gli ex combattenti. L'imponente presenza di
insegne e stendardi sollevati durante la sfilata degli artiglieri fa da sfondo alla «parola
rievocatrice» di Federzoni62, sintetizzata a chiusura del servizio da uno striscione con
la celebre frase: «Il Piave mormorò: non passa lo straniero».
Qualche anno prima della realizzazione di queste immagini si era sollevata sulle
pagine di "Gerarchia" una pungente e significativa polemica in merito agli eccessi di
memorialismo, che faceva appello a una maggior esigenza di pudore ​
da intendere
forse più come "ortodossia" ​
nel ricordo della partecipazione del popolo combattente
alla Grande guerra. Comparve, infatti, un articolo di Paolo Monelli che accusava
apertamente la condotta di chi si ostinava alla raccolta di cimeli bellici quasi a voler
confinare le esperienze vissute al fronte in quegli oggetti, in un passato chiuso per
sempre, che condannava all'inazione i reduci, mortificati nel loro spirito combattivo.
Monelli scriveva, infatti:
Leggo ai cantoni delle vie di Milano un manifesto che invita i combattenti a mandare
cimeli ad un già esistente Museo della Guerra; e quali rabbrividenti cimeli sono
indicati come quelli maggiormente desiderati. Cartoline, fotografie, indumenti, parti di
corredo del povero caduto. [] La stessa roba che vedemmo da ragazzi nei vari musei
del Risorgimento dove ci conducevano a schiera (uno ce n'era e c'è ancora di sicuro
nella mia Bologna, che ricordo come la più triste rigatteria del genere). [] Ah no,
signor conservatore del Museo di Milano. Io non ho cimeli, ma ne avessi, non li
manderei al vostro Museo; li terrei ben nascosti in casa, da vedermeli io stesso assai di
rado, che non me ne venisse un'inerzia sterile, un pigro compiacimento che mi
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confinasse per sempre, prigioniero del morto passato63.
La polemica sollevata sulla rivista politica diretta da Mussolini fa pensare
all'interpretazione di chi, riscrivendo l'epopea della Grande guerra, ha voluto
individuare nel mito postumo assunto come elemento trainante della politica culturale
di regime non un semplice aggancio al passato, bensì una molla per il futuro che
implicasse anche una concreta integrazione dei reduci, quali principali artefici ​
seppur
all'alba del «maggio radioso» inconsapevoli del loro destino ​
della palingenesi
nazionale. Il richiamo di Monelli fornì anche lo spunto per affrontare ancora una volta
il problema della spontaneità nelle manifestazioni celebrative, come si può leggere
nella replica che seguì nel numero di novembre, per mettere a tacere eventuali
equivoci sulla validità della memoria e sulle competenze della dirigenza centrale:
L'articolo di Paolo Monelli [] non era certo un incoraggiamento a dimenticare la
guerra e la vittoria, e men che meno voleva deprimere i valori morali od offendere i
reduci! [] Sì bene era un monito a circondare queste cose sacre ​
la guerra, la vittoria, lo
spirito combattivo e l'amor di patria ​
di quel verecondo e sobrio pudore, per il quale
esse meglio conservano il loro carattere di santità. Non bisogna ad ogni momento
sventolare la bandiera dei grandi ricordi né tirar fuori le parole grosse; se no la retorica
se ne impadronisce e le snatura avvilendole, come avviene dei conii logori per troppo
uso. Per lo stesso ordine di ragioni il Duce ha limitato le parate e ha persino proibito
che si suonino Marcia Reale e Giovinezza fuori che in determinate solenni
occasioni64.
La gestione della memoria, dunque, doveva essere unica e inequivocabile, se si voleva
evitare che l'abuso delle ricorrenze svilisse il significato profondo del messaggio
gestito dal regime, autentico artefice del proprio culto politico.
Il quarto tassello, che contribuisce a rendere chiara la base sulla quale poggiava la
rilettura dei principali eventi della Prima guerra mondiale, è costituito dall'ultimo
cinegiornale selezionato, datato 8 novembre 193965. Ci troviamo di fronte alla
celebrazione dell'annuale della vittoria, che avveniva, come di consueto, nel luogo­
culto per eccellenza, il Vittoriano. In quella sede, il rituale celebrativo volto alla
glorificazione degli eventi emblematici della Grande guerra acquisì nel primo
decennio66 una sua forma specifica. Si pensi, ad esempio, alla cerimonia del 4
novembre, che si ripeteva negli anni secondo la stessa "liturgia": la "scaletta" ​
così
lasciano intendere anche le fugaci sequenze riportate nel cinegiornale ​
prevedeva in
apertura una funzione religiosa in Santa Maria degli Angeli, alla quale prendeva parte
l'intera rappresentanza delle autorità; successivamente la folla attendeva Mussolini e i
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membri del governo in piazza Venezia, dove avveniva il consueto e commosso
omaggio al Milite ignoto, di fronte al quale le autorità rimanevano in ginocchio per
pochi istanti, quasi a suggellare l'ossequio della nazione intera al sacrificio dell'eroico
simbolo dell'epopea bellica. Di solito ogni celebrazione si svolgeva, secondo le
disposizioni del partito, in due tempi, il rito e la festa, che rappresentavano le due sfere
della consuetudine liturgica, il sacro e il profano. Al rito si attribuiva una solennità
degna delle maggiori cerimonie religiose: alla messa in ricordo dei caduti seguiva,
infatti, la sfilata delle organizzazioni di regime, talvolta precedute dalle autorità civili
e militari, tra le quali spiccavano i rappresentanti delle associazioni di reduci; il
momento culminante consisteva nel discorso del duce, la cui voce si stagliava nel
silenzio delle piazze colme di folla. La festa, al contrario, aveva una funzione
prettamente ricreativa e si svolgeva nelle prime ore pomeridiane, accompagnata da
danze e canti, quando non comprendeva anche gite in campagna.
Il culto della vittoria, oltre che glorificare le gesta dei protomartiri fascisti, doveva
stimolare le generazioni più giovani ​
quelle che avrebbero dovuto dare il proprio
sostegno all'affermazione dello Stato totalitario ​
ad apprendere, anche attraverso
l'esempio dei «gloriosi mutilati», «la gioia del dovere e la bellezza del sacrificio»67.
Il tassello mancante, tuttavia, non consiste nella celebrazione dell'anniversario, quanto
in un'affermazione del cronista che le acclamazioni della folla inneggiante al duce non
possono mettere in sordina. Questi uomini nuovi parlavano un linguaggio che era
anch'esso nuovo, un linguaggio che irrigidiva i modi espressivi tradizionali e li
integrava in una visione del mondo manichea, fatta soltanto di amici e nemici. Durante
la suggestiva panoramica sull'ormai abituale adunata oceanica, il commentatore
definiva Mussolini «potenziatore della vittoria», lasciando intendere che, senza
l'affermazione del regime fascista, il sacrificio compiuto dal popolo­truppa durante la
Grande guerra sarebbe stato vanificato dalla condotta dei «politicanti italiani».
Ecco emergere, sotto un'altra veste, quel carattere "rivoluzionario" attribuito dalla
cultura fascista alla dittatura, che consisteva nel fatto che la nuova organizzazione
nasceva sotto l'egida di una nuova parola d'ordine, "combattere", anch'essa
pronunciata in tempi non sospetti e proprio per questo ancor più utile per legittimare
successivamente la trasformazione del fascismo da movimento in regime. Già il 17
febbraio del '19, infatti, Mussolini, nell'articolo pubblicato sul "Popolo d'Italia" dal
titolo Contro la bestia trionfante, affermava: «Noi siamo disposti a convertire le
piazze delle città d'Italia in tante trincee munite di reticolati, per vincere la nostra
battaglia». E si trattava di una battaglia che si muoveva sotto l'impulso della «grande
voltata nella storia italiana»68, quella che ​
a quanto sosteneva lo stesso Mussolini ​
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aveva visto «per la prima volta la maggioranza della Nazione [prendere] una decisione
attiva, in contrasto ai parlamentari e ai politicanti»69.
6. "Camicia nera", il kolossal del Luce per il decennale
I quattro "pilastri" che danno sostegno all'interpretazione della Grande guerra fornita
dal regime nei cinegiornali selezionati sono presenti in maniera più articolata in quello
che alcuni hanno definito il «kolossal del Luce»70, Camicia nera, film con intento
documentaristico realizzato nel '33 da Gioacchino Forzano. Si tratta del frutto di un
concorso indetto per un soggetto che commemorasse l'avvento del fascismo, girato
parzialmente a Roma, presso gli stabilimenti della Farnesina, e costato una cifra forse
eccessiva rispetto alle aspettative degli incassi e al rimborso previsto come premio71.
Il soggetto prende spunto da un film sovietico del '29, Frammenti di un impero, di
Emler, a dimostrazione del fatto che all'Unione Sovietica spettava una sorta di primato
nell'uso del cinema all'interno di un più vasto progetto di trasformazione socio­politica
che mirasse a sfruttare le forme di comunicazione audiovisiva per la conquista del
consenso. La sceneggiatura di Emler ha come protagonista un soldato russo in preda a
un grave stato di shock che gli impedisce di ricordare il proprio paese d'origine e che
lo consegna nelle mani dei tedeschi. Tornato in patria, il reduce avrà gravi difficoltà di
integrazione soprattutto a causa dei mutamenti interni sopraggiunti con la Rivoluzione
d'ottobre.
Anche Forzano ha il suo combattente, vittima di un totale vuoto mnemonico che sarà
colmato dagli psichiatri di una clinica tedesca solo al suono delle note del "Piave" e
alla notizia della vittoria italiana. Al contrario della vicenda sovietica, è «inevitabile»
per il fabbro­reduce72 l'immediato riconoscimento nel fascismo della sola via possibile
per prolungare la vittoria e non vanificare gli sforzi compiuti fino ad allora.
Protagonista della vicenda, che comprende i principali eventi italiani dal '14 al '32, è
quel proletariato che, nell'immediato dopoguerra, si sentiva tradito tanto dai socialisti ​
­
il cui fallimento era stato decretato dalla scarsa razionalità della propaganda
internazionalista e antibellicista ​
quanto dalla classe dirigente liberale, alla quale fa da
contraltare la tanto decantata "sincerità" di Mussolini. Il mito mussoliniano è
rafforzato anche dal tentativo del futuro duce di prendere atto delle sorti dei reduci e
delle loro difficoltà di integrazione una volta abbandonato il fronte. Sullo sfondo fa
sentire la sua imponente presenza il mito della "vittoria mutilata", sul quale s'innesta
l'idea di un presunto complotto internazionale ai danni dell'Italia. È interessante
osservare come la vicenda del protagonista di Camicia nera rappresenti la comoda
occasione per innestare una storia comune su quel gran canovaccio costituito dalla
progressiva affermazione del fascismo e dal più immediato e genuino consenso di
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L'occhio del regime sulla Grande guerra: l'Istituto Luce tra informazione, memoria e propaganda di Antonia Liguori
massa. A tale scopo servono i continui cambi di scena che sovrappongono l'immagine
del fabbro in ospedale a quella dell'organizzazione dei fasci di combattimento o
all'espressione ispirata del figlio del protagonista di fronte agli scritti giovanili di
Mussolini. L'ultima parte del filmato ritrae il popolo di fronte alle realizzazioni del
regime, che suggeriscono ancora una volta la necessità di riversare la propria più
assoluta "fede" nei confronti di chi ha definito le bonifiche «la guerra che noi
preferiamo». La bonifica, soprattutto dopo la fondazione di Littoria73, aveva ormai
assunto nella pubblicistica corrente, come nella stampa e addirittura nella letteratura
tecnica, la veste metaforica della guerra. Veniva dipinta sia come scontro destinato a
vedere sconfitto il nemico che aveva per troppo tempo tenuto d'assedio alcune zone
della penisola, sia come forma di esercizio bellico, applicato sul "fronte" civile e
destinato a preparare le nuove generazioni alle guerre vere.
Proseguendo con l'analisi dei fotogrammi si scorge, all'interno della Mostra della
Rivoluzione fascista, un'inquadratura che si sofferma su una scritta alla parete
fortemente esplicativa: «Nel nome di Dio e dell'Italia, giuro di eseguire senza discutere
gli ordini del duce e di servire con tutte le mie forze e se è necessario con il mio
sangue la causa della rivoluzione fascista». Il montaggio prevede un repentino stacco
sull'immagine di un sacrario, una stanza circolare alle cui pareti compare ripetuta la
scritta «presente». La "guerra" non era ancora finita: la mobilitazione generale
consisteva questa volta nella totale remissività dell'individuo nei confronti delle
priorità dello Stato. Le ultime immagini scorrono sulla fondazione della città di
Littoria e sul richiamo evocativo alle «grandi nostalgie» della Grande guerra attraverso
l'attribuzione dei nomi ai borghi della nuova città74. È opportuno segnalare la presenza
di numerose sequenze nelle quali prendono la parola alcuni preti fascisti, a
dimostrazione del successo della politica di regime anche nella gestione dei rapporti
con la Chiesa. L'atteggiamento che alla lunga prevalse fu quello del realismo politico,
per cui apparve fallimentare rivaleggiare con le autorità ecclesiastiche per il controllo
e la formazione delle coscienze. La soluzione vincente fu quella di applicare una
«strategia di convivenza sincretica»75, che mirasse ad associare il cattolicesimo e la
Chiesa nel proprio progetto totalitario, attraverso il frequente uso della religione
tradizionale come «instrumentum regni». Leggiamo, ad esempio, un intervento
comparso nel numero di gennaio del 1927 di "Gerarchia" per commemorare ​
­
attraverso la pubblicazione del suo ultimo scritto ​
la figura emblematica di padre
Pistelli, definito «prezioso collaboratore» per la sua straordinaria capacità di forgiare
le anime all'insegna degli ideali proposti già dai protofascisti interventisti, attribuendo
il suo suggello di sacralità anche al sacrificio estremo: «Interventista e fascista di
innanzi alla prima ora e sino all'estrema, nella buona e nell'avversa fortuna senza
incertezze; fece la rivoluzione tra i più accaniti con i manipoli sovversivi accesi, nel
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L'occhio del regime sulla Grande guerra: l'Istituto Luce tra informazione, memoria e propaganda di Antonia Liguori
maggio 1915, primavera d'Italia. I ragazzi d'Italia oggi tutti piangono il papà
scomparso. Essere maestri così è una maniera quasi divina di paternità e dei suoi
figlioli spirituali pianse egli i migliori»76.
7. La "marcia trionfale" del popolo combattente nella produzione propagandistica
I temi proposti da Camicia nera, anche se prospettati con chiaro intento
propagandistico, vengono avvolti nella trama sotterranea delle vicende degli abitanti
delle lestre, testimoni e attori della trasformazione del fascismo da movimento in
regime. Non hanno, infatti, quella stessa enfasi ​
e, forse, perciò hanno un maggior peso
sulle coscienze ​
dei veri e propri documentari, nei quali ogni sequenza è studiata per
rendere inequivocabile il messaggio da consegnare nelle mani del popolo.
«Il compito della propaganda non sta nell'educazione critica (Wissenschaftlich) del
singolo, ma nel far rivolgere la massa verso determinati fatti, processi, necessità, la cui
importanza solo a questo modo verrà portata nell'orizzonte visuale della massa
stessa»77; nessuno meglio dell'autore del Mein Kampf avrebbe mai potuto sintetizzare
in maniera così efficace il significato e lo scopo della tecnica sulla quale le dittature
del Novecento hanno fondato la loro ricerca di consenso. Quel "compito" dell'attività
propagandistica andava a priori definito e individuato in determinati nuclei tematici
che garantissero tanto la loro facile comprensione, quanto la loro assoluta necessità.
Non bisognava lasciare, infatti, nessuno spazio alla replica, puntando solo a palesare
l'ineluttabilità di un determinato fatto o di una particolare interpretazione, generando la
convinzione diffusa della veridicità e della realtà del fatto stesso. Fautori e fruitori
della propaganda venivano posti l'uno accanto all'altro, con lo sguardo rivolto verso la
stessa direzione, accomunati dallo stesso repertorio di grandi e piccoli miti, che
andavano recepiti ed assimilati con il massimo dell'entusiasmo, ma in maniera del
tutto acritica.
Se si confronta il film di Forzano con una produzione propagandistica dell'Istituto
Luce che sintetizza i medesimi concetti, la diversità è facilmente palpabile. Questo
piccolo "esperimento" può riuscire bene prendendo in esame un documentario del '32
dal titolo Il duce nelle trionfali giornate del decennale. Anche qui si esalta
l'interventismo e l'attività dei combattenti, si accenna al fallimento di Versailles e al
mito della «vittoria mutilata», ma tutto in maniera estremamente sintetica e per nulla
allusiva; anzi, a nostro dire, in un modo così carico di enfasi da toccare i limiti della
credibilità. Le adunate oceaniche78 fanno da sfondo a due importanti discorsi di
Mussolini, quello di Torino del 23 ottobre del '32 e quello di Ancona del 3 novembre
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dello stesso anno79. Caratteristiche comuni sono la mimica e la gestualità forzata
all'inverosimile, oltre che l'uso di quel gergo cameratesco ereditato dal protofascismo
combattente, del quale gli stessi fascisti andavano fieri, come del resto appare evidente
in una recensione a un testo di Eugenio Adami80 pubblicata qualche anno più tardi su
"Gerarchia": «L'oratoria del Duce è l'espressione dell'epoca che intensamente viviamo,
è la precisazione della realtà considerata da un cuore saldo e affrontata da una volontà
inflessibile. È l'imperativo richiamo al combattimento inteso come necessità etica»81.
Nei discorsi pronunciati in occasione delle celebrazioni del decennale della marcia su
Roma, il 1915 viene ribattezzato come anno di nascita della «vera nazione italiana» e
più volte i caduti della Grande guerra vengono chiamati in causa, «perché se fossero
vivi avrebbero voluto un'Italia fascista». Quella alla quale si fa riferimento è l'epica
liberatoria di una guerra vittoriosa, due volte intrapresa come insurrezione di
avanguardie interventiste e due volte coralmente conclusa come guerra combattuta da
un popolo disciplinato e gregario.
Un approccio commemorativo più vicino a quello di Camicia nera ​
ma anche in
questo caso meno allusivo e strutturato con fini essenzialmente autocelebrativi ​
può
essere rintracciato in una produzione del '34, Gloria, che ripercorre le vicende della
Grande guerra ritenute più significative. Un chiaro imbarazzo si fa, però, palese nel
momento in cui la sequenza cronologica avrebbe previsto un accenno alla disfatta di
Caporetto. Le immagini del '17 scorrono rapidamente e la sconfitta italiana è rivissuta
soltanto attraverso le prime pagine di una serie di quotidiani82. I fotogrammi staccano
su un'animazione di una scena di propaganda ricostruita in teatro ​
compare un alpino
che chiede aiuto al fronte interno ​
alla quale segue una breve "sequenza a soggetto"
sulla reazione di un possente soldato italiano di fronte al tentativo di aggressione di un
gruppo di austriaci. Le scene di morte e distruzione relative alle principali offensive
attuate dall'esercito italiano lasciano spazio alla puntuale descrizione della scelta del
milite ignoto ​
nella cattedrale di Aquileia il 28 ottobre del '21 ​
e della sua successiva
deposizione presso l'Altare della Patria. Come nota a margine, è da segnalare la
presenza in questo filmato di un fotogramma assai ricorrente nei documentari relativi
alla Grande guerra: si tratta dell'immagine di una casa semidistrutta con la scritta
«Tutti eroi! O il Piave o tutti accoppati!», presente in Gloria ben due volte, quasi a
dare il ritmo all'incedere delle trionfali giornate della vittoria. Un altro appunto che
appare significativo è quello relativo al particolare interesse per le novità della
tecnologia bellica, puntualmente riprese laddove si voglia stigmatizzare il valore e il
coraggio dei corpi d'armata più rappresentativi della guerra di tipo tradizionale, quali i
fanti e gli alpini.
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Tra i documenti filmici selezionati, quello che meno risente delle finalità
propagandistiche e della conseguente ideologizzazione è anche il più "precoce". Si
tratta, infatti, di una produzione del '25, periodo nel quale si è ancora lontani dalla
piena consapevolezza delle prospettive di utilizzo dei mezzi audiovisivi e dalla
ottimizzazione della "struttura" recentemente mutuata dal sic. La scelta dell'argomento
e della relativa ambientazione è comunque significativa, anche se il mito puramente
"patriottico" della Grande guerra risente ancora poco della sua successiva investitura
"nazionalista". I tratti del conflitto mondiale ridisegnati nel documentario Dal Grappa
al mare sono quelli ereditati dalla propaganda bellicista diffusa al fronte, con qualche
leggerissima, ma già indicativa, variante83. In occasione del decimo anno dalla
dichiarazione di guerra, i reduci ripercorrono il tratto dal Monte Grappa a Trieste in un
ideale cammino verso la redenzione84. Frequente la sovrapposizione di immagini di
repertorio, nelle quali si tende a sottolineare l'ardore della truppa, l'incitamento dei
comandanti e il cameratismo vissuto quotidianamente in trincea. Puntuale la visita
degli ex combattenti ai sacrari, dove le spoglie dei soldati e quelle degli ufficiali
riposano l'una accanto all'altra, a testimoniare come il conflitto possa rappresentare ​
da
un punto di vista sociale ​
una sorta di riscatto per le persone più umili.
Un filmato, invece, fortemente allusivo, grazie anche a una serie di piccoli artifici
tecnici ​
quali la sequenza di immagini accelerate, le sovrimpressioni e le dissolvenze ​
è
Il segreto del chicco di grano. L'apertura è dedicata alla visita di Mussolini a una
comunità agricola durante la «battaglia del grano», «la prima grande campagna
agricola dello stato fascista»85 lanciata nell'estate del 1925 e poi ripresa con forza nel
1936 in occasione della proclamazione ufficiale della politica autarchica del regime.
L'intento del documentario ​
che una nota a margine definisce «favola vera» ​
è
palesemente propagandistico: l'impegno dei contadini nella produzione dei cereali è
messo, infatti, in relazione con il contributo dei soldati italiani in guerra86, come
sintetizza e chiarisce una fugace didascalia frapposta tra gli ultimi fotogrammi: «Con
questa battaglia il governo ha impegnato ricchezze che sono di tutti, e di tutti sarà
l'esito della vittoria. Come un giorno gli italiani dettero il sangue per difendere la
Patria dal nemico». L'immagine del germoglio che fiorisce lascia spazio a una serie di
sequenze che ritraggono scene di guerra: soldati che si sollevano dalle trincee, feriti
trasportati sulle barelle; i boati delle esplosioni si alternano al religioso silenzio di un
sacrario sorto su un'altura. La regia stacca di nuovo su un campo con le spighe al
vento: è la vita che nasce dall'operosità dell'uomo, temprato anche dall'esperienza della
guerra, rigenerato e motivato dal ricordo del sacrificio compiuto per la patria.
Assimilazioni un po' "azzardate" non sono certamente prerogativa unica di questa
suggestiva e breve animazione, che suggerisce il confronto con un frammento di
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un'altra produzione propagandistica, titolata Sulle orme dei nostri pionieri. All'interno
del documentario, che si propone di mobilitare l'opinione pubblica in favore della
politica coloniale fascista in Africa orientale, la prima sequenza di immagini ​
­
abbastanza prevedibile per la scelta dei soggetti ​
stacca repentinamente su un
mappamondo in sovrimpressione che ruota sulle immagini della battaglia di Vittorio
Veneto e su quelle di una nave di emigranti. Poco dopo compare una roulette, che
pone evidentemente in relazione la volontà espansionistica dell'Italia con il gioco
d'azzardo. Qui la lettura è un po' più complessa rispetto al Segreto del chicco di grano,
dove il messaggio non consentiva letture diverse da quelle proposte nelle didascalie. In
Sulle orme dei nostri pionieri, invece, le componenti sono molteplici e la brevissima
animazione non contribuisce a chiarirle; tuttavia, sono esplicite le pretese coloniali
fasciste e la necessità di "poggiarle" su una base salda come soltanto il mito della
vittoria trionfale ​
quella di Vittorio Veneto ​
poteva fornire. Per giunta l'attivismo del
regime andava correlato alla presunta passività dei governi liberali87, corresponsabili
anche dell'imponente ondata di emigrazione d'inizio secolo. L'elemento del rischio
nell'impresa coloniale va cercato invece nel presunto complotto internazionale del
quale sarebbe stata vittima l'Italia, tradita a Versailles rispetto agli accordi previsti dal
Patto di Londra, anche a causa dell'incapacità della classe politica coinvolta in quella
delicata vicenda internazionale. Mentre una didascalia propone alcuni passaggi del
Patto di Londra, il mappamondo in sovrimpressione riprende a girare: al centro del
disegno di animazione compare una nuova carta geografica con la suddivisione delle
terre d'oltremare prevista dalla politica coloniale fascista. La successiva scansione di
alcune sequenze che propongono pagine dei trattati firmati tra Italia, Francia e
Inghilterra dal 1821 al 1928 ha l'esplicito intento di ribadire la presunta legittimità da
parte del regime dello sfruttamento minerario del nord dell'Etiopia e la possibilità di
costruire la contestata strada tra Assad e Dessié.
Il mito dell'Impero nel fascismo non era un'improvvisazione propagandistica collegata
alla conquista dell'Etiopia, ma era un mito già presente, che emerse sempre di più
attraverso la valorizzazione della funzione rivoluzionaria del fascismo come
movimento universale e non solo italiano88, come nazionalismo che aspirava ​
più che
all'espansione territoriale ​
a porsi nel mondo come centro irradiatore di una nuova
civiltà universale89.
Nella rilettura ufficiale delle singole fasi della Grande guerra ​
come dei suoi "naturali
prolungamenti" ​
sapientemente diffusa dal regime fascista, il passo dalla «vittoria
trionfale» alla «vittoria mutilata» era breve, almeno da quanto chiarisce un filmato
interamente dedicato a L'impresa di Fiume. Qui è determinante il commento dello
speaker, per verificare come il ruolo da protagonista di D'Annunzio nella marcia di
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Ronchi fosse finalizzato alla rappresentazione di determinati aspetti che furono poi
acquisiti come propri dal regime. Era stato il poeta a coniare la fortunata espressione
della «vittoria mutilata», ma fu il duce a farne la ragione del suo mandato90.
Fiume ​
nei sette minuti del documentario ​
non è celebrata per la vicenda dannunziana,
bensì come luogo nel quale maturò il piano della marcia su Roma e dove per la prima
volta si sperimentarono rituali collettivi, quali le adunate e i dialoghi tra il "capo" e la
folla. La marcia di Ronchi, dunque, era presentata come una sorta di prova generale
della marcia su Roma, dove forte compariva il nesso tra l'avventura dei più audaci,
capaci di violare la legge per puntare verso una meta ben definita attraverso i loro
slogan, e il balcone del palazzo civico dal quale si affacciava il capo di quell'ardita
milizia. Significativo è anche il risalto dato dalla regia alla presenza della popolazione
civile a sostegno delle azioni dei volontari, proprio a testimoniare l'esigenza del
regime di mobilitare e invitare alla partecipazione una nazione intera.
L'opera intrapresa sull'Adriatico nel '19 non poteva essere consegnata in altre mani che
in quelle di Mussolini, come si legge in queste poche righe tratte da un articolo di
Arrigo Solmi comparso su "Gerarchia" in occasione del diciannovesimo anniversario
della marcia di Ronchi: «La luce di questa impresa, durata fino al Natale di sangue del
dicembre 1920, è la premessa sicura della prossima resurrezione della patria; è il
preannuncio dei bagliori del Fascio Littorio, che condurrà l'Italia, in meno di quindici
anni, alla potenza e all'Impero»91.
Verrebbe da dire «nessuna impresa che tenda a glorificare l'Italia è ardua», prendendo
in prestito le parole con le quali Angelo De Vito, in un cortometraggio prodotto a New
York, osannava ogni atto compiuto dal duce del fascismo. De Vito era il direttore della
Cinema Productions, che trovò ​
probabilmente nel '36 ​
in Giovambattista Cincotta il
suo regista per un breve film che fosse l'omaggio dei fascisti italoamericani a
Mussolini. Si tratta di una produzione ​
questa volta giunta dagli Stati Uniti ​
che aiuta a
comprendere con maggiore chiarezza la forte carica emotiva che il più delle volte
trascinava l'opinione pubblica verso la realizzazione del mito92 mussoliniano.
L'artefice della nuova Italia si proponeva di ripercorrere le vicende comprese tra
l'inizio della Prima guerra mondiale fino all'avvento del fascismo, secondo l'angolo di
visuale offerto dal cronista, influenzato anche nella mimica dalla sua straordinaria
ammirazione per il duce, definito «campione incomparabile [] davanti a tutti gli
ostacoli della vita».
Significative le prime immagini che propongono Mussolini combattente, favorito dal
destino anche nel suo ferimento, che rappresenta il momento in cui la sorte lo
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risparmia per consentirgli in futuro di dare un «nuovo tono spirituale alla Nazione». Il
fascismo, attraverso lo stereotipo dell'"uomo nuovo", rappresentava se stesso come
modello per l'affermazione di una società maschile che proseguiva in tempo di pace il
cameratismo nato nelle trincee. Le caratteristiche del cittadino­soldato erano precisate
con chiarezza: atletico, perseverante, pronto al sacrificio, l'italiano nuovo doveva
incarnare una virilità forte e invulnerabile93. Il sentimento dominante nel filmato di De
Vito è la nostalgia dell'italoamericano nei confronti della «nuova Italia», assai diversa
da quella che consentì il disperato tentativo di cercar fortuna oltremare. Era quella
l'Italia dei liberali «confusionari, chiacchieroni e cerebrali», e cioè dei già stanchi
rappresentanti del vecchio ordine.
Bisogno estremo di certezze, di ordine apparente, di efficienza e forza dell'apparato
governativo, stanchezza per una libertà mal gestita, seguita allo scollamento
successivo alla prima conflagrazione universale: questa è la situazione "morale" che
aveva favorito la diffusione di quella che Volpe ha definito una sorta di «religione
antropomorfica»: «Carattere di tutti i movimenti di masse: esse si raccolgono attorno a
un uomo, si danno, si abbandonano a lui. La loro religione è antropomorfica: togli
l'uomo e la religione si stempera e svanisce».
E in quel caso si trattava di un uomo che, giocando sulle astuzie oratorie e sulla più
totale mistificazione di ogni evento, doveva pensare a "ricostruire" tutta una serie di
circostanze storiche, politiche e persino morali, che potessero giustificare la sua ascesa
al potere. È interessante notare nel documentario americano la sequenza degli anni
scelti per ricostruire il percorso mussoliniano ​
il 1915, il 1918, il '22, il '29, il '31 e il
'33 ​
posto continuamente in relazione con le vicende internazionali. A quanto scrisse
D'Annunzio nel '37, il duce sembrava proprio aver raggiunto il suo obiettivo; anzi,
sembrava quasi averlo superato: «Dopo tante battaglie, dopo tante vittorie, dopo tanti
contrasti, dopo tanta volontà, tu hai veramente compiuto quel che nelle storie dei
grandi uomini non è quasi mai compiuto. Tu hai creato il tuo mito»94. E i contenuti
del discorso di De Vito ne sono un'ulteriore conferma: ogni commento riferito
all'attività di Mussolini ​
dall'interventismo in poi ​
sembra testimoniare una «superiorità
morale che non conosce ostacoli», messa alla prova e fortificata giorno per giorno
proprio a partire dall'esperienza bellica.
Il passaggio del fascismo da movimento a regime è riscritto in maniera del tutto unica
in uno di quei filmati che risente particolarmente del periodo di realizzazione. Si tratta
di una produzione "Dolomiti film" del 1941 dal titolo Il covo, che ricostruisce la storia
de "Il Popolo d'Italia", proponendolo come chiave di lettura per gli eventi compresi tra
il '14 e il '20. Forte è il contrasto con quelle pellicole autocelebrative ​
elaborate tra la
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fine degli anni Venti e tutto il decennio successivo ​
nelle quali il quotidiano di
Mussolini godeva del privilegio di essere presentato come il traino di tutto
l'interventismo italiano e ​
durante la guerra ​
il solo organo di stampa capace di
sollevare il morale della truppa. Il termine "ante quem" della narrazione è anche qui
l'intervento in guerra, definito ormai in maniera indiscutibile come momento decisivo
per le future sorti italiane. La novità consiste nell'ambientazione, che potremmo
definire quasi funerea, particolarmente evocativa anche se strutturata su pochi
elementi: la sede del "covo" ​
e cioè la redazione de "Il Popolo d'Italia" ​
la scrivania del
duce, i gagliardetti affissi alle pareti, lo scantinato dell'edificio. Tutto scandito
dall'incessante alternarsi di carrellate in ambienti più simili a musei, di dissolvenze e
di interferenze di foto e cineattualità che alludono al succedersi degli eventi: i trascorsi
interventisti di Mussolini, la fondazione dei fasci di combattimento e, infine, l'ascesa
al potere, non descritta, ma suggerita da una "soggettiva" in movimento sulle pietre
romane della via Appia Antica.
8. La fine della retorica come parabola della morte
Abbiamo lasciato in ultimo l'analisi di due filmati interamente dedicati al duce del
fascismo, perché, visto il loro più recente periodo di produzione, aiutano a verificare il
progressivo mutare dell'approccio rispetto
agli eventi fin qui analizzati. Si tratta di Benito Mussolini ​
per la regia di Pasquale
Prunas ​
e dell'assai simile Benito Mussolini, anatomia di un dittatore, realizzato con
materiale di repertorio nel 1952. In entrambi vengono proposti episodi ovviamente
mai accennati nei documentari con dichiarato intento propagandistico95 e, per di più, il
ruolo attribuito agli eventi relativi alla partecipazione di Mussolini alla Grande guerra
è pressoché nullo.
Addirittura, nell'ultimo filmato preso in considerazione, la vicenda del Duce è
presentata come una sorta di parabola della morte, che si apre e si chiude sulle
immagini del cimitero di Predappio, quasi a stigmatizzare un destino ormai privato di
qualsiasi retaggio retorico.
Non tradisce emozioni neanche uno degli ultimi fotogrammi nel quale compare
l'immagine capovolta di una cancellata chiusa, quella dove, forse, fu ucciso Mussolini.
Immediato è il salto dell'immaginazione alla clamorosa espressione di dissenso che si
consumò in piazzale Loreto, dove «lo spettatore non si identifica più con l'attore e anzi
smania di mostrargli la propria dissociazione»96. E altrettanto evidente ​
quasi a voler
"segnare" la parabola discendente del consenso della nazione verso il regime ​
è
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l'intento di rappresentare il fallimento di quella carrellata di miti, ai quali si è già fatto
cenno, nella pavida fine di Mussolini, che, dopo aver cresciuto l'Italia al suono del
motto «se avanzo seguitemi, se indietreggio uccidetemi», lasciò come ultima
immagine di sé quella dell'uomo in fuga travestito da tedesco.
Su questa gelida chiusura, attuata da una regia libera dagli obblighi dell'ideologia, ma
forse ingabbiata dall'altrettanto vincolante scelta di manifestarsi "estranea" rispetto alle
vicende rivissute nel filmato, termina un percorso con il quale si è tentato di suggerire
alcune tracce di quel "debito" del fascismo nei confronti della straordinaria cesura
storica rappresentata dalla Grande guerra. La lezione che si può trarre dal contatto con
le fonti dirette consiste nella consapevolezza che ogni tipo di manifestazione culturale
ancor più se "viziata" dal proprio tempo di produzione ​
fornisce spunti ulteriori per
l'analisi e lo studio del contesto nel quale si sviluppano i "codici culturali" di un'epoca.
Riconoscere la diversità dei punti di osservazione ​
anche attraverso il confronto con
quelli "investiti" dall'ideologia ​
può risultare utile per percepire con maggior
consapevolezza la complessità degli eventi e della loro interpretazione.
A tal proposito viene in mente una riflessione di Henri Pirenne ​
da lui elaborata
qualche anno dopo la fine della Prima guerra mondiale ​
relativa alla perfettibilità
dell'opera storica. Egli, partendo dal presupposto che anche i pregiudizi degli autori
possano contribuire a migliorare le nostre conoscenze sul passato, afferma che
un'opera storica ​
e nel nostro caso l'affermazione può essere trasferita anche
all'interpretazione degli eventi fornita dal regime sia nella sua globalità che nelle sue
singole manifestazioni ​
è sempre incompleta in quanto consiste in una «ricostruzione
congetturale del passato», nella quale ciascun autore «mette in luce una parte, fa
risaltare certi tratti, considera certi aspetti»97, che, se possono viziarne
l'interpretazione, letti con cura, non perdono la loro utilità. Anzi ​
si potrebbe
aggiungere ​
offrono un ulteriore stimolo alla conoscenza.
Note
1. E. Gentile, Fascismo. Storia e interpretazione, Laterza, Roma­Bari 2002, p. 45.
2. L'elemento sul quale la politica culturale successiva al '24 fondò le proprie radici era, da una
parte, l'aspetto "dinamico" che, nel periodo prebellico, trovò eco soprattutto nelle provocazioni
futuriste, dall'altra, quello che potremmo definire "etico", che comprendeva orientamenti che
andavano dall'apologia della vita nazionale compiuta da Corradini sulle colonne de "Il Regno"
all'invocazione a quei "sentimenti virili" ai quali alludeva Pareto. Un afflato etico che permise
al fascismo di tracciare una propria storia spirituale, il cui richiamo divenne quasi un rito in
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ogni momento della vita della Nazione nella quale si rendesse necessario gonfiare di elementi
"rivoluzionari" una struttura fortemente reazionaria o dare credibilità alle più ricorrenti
interpretazioni del passato, caricandole di un forte senso della profezia. Ecco allora
ricomparire nel tessuto retorico del regime tutte quelle allusioni alla forza che i «padri della
rinascita borghese novecentesca» (si veda a tal proposito A. Asor Rosa, Storia d'Italia.
Dall'unità a oggi, vol. iv, t. ii, La cultura, Einaudi, Torino 1975, p. 1314) avevano fatte
proprie per pervenire alla giustificazione teorica della guerra. Ci riferiamo in particolare ai
miti della violenza, diffusi come elementi di educazione rivoluzionaria, dal pensatore francese
George Sorel ​
principale teorico del sindacalismo rivoluzionario ​
condivisi e ripresi anche dai
nazionalisti; o all'immagine che Oriani fornì della guerra, della quale evidenziava un valore
quasi taumaturgico; o a quella che offrì D'Annunzio, che dal conflitto attendeva la più efficace
manifestazione dell'individualità eroica. E come non pensare a Pareto, che mostrava la guerra
come unico rimedio per arrestare l'avanzata del socialismo o alle affermazioni dei futuristi ​
­
Marinetti in testa ​
che inneggiano alla guerra «sola igiene del mondo», come momento
massimo di «negazione dell'ordine», inteso sia in senso psicologico e individuale che politico
e collettivo.
3. G. Bottai, L'interventismo della cultura, in "Primato", 1° giugno 1940; citato anche in L.
Mangoni, L'interventismo della cultura. Intellettuali e riviste del fascismo, Laterza, Bari 1974.
Ecco allora rifarsi avanti nel 1940 quell'idea dell'"interventismo della cultura", concetto già
presente all'alba del Novecento, anche se ancora non ben definito, nelle menti dei giovani
fondatori di "Leonardo", che non poterono fare a meno di puntare la loro attenzione sulla
priorità del pensiero rispetto all'arte, quale promotore di una immediata «rivoluzione di valori»
(si veda a tal proposito D. Frigessi (a cura di), La cultura italiana del '900 attraverso le riviste,
vol. i, Leonardo, Hermes, Il Regno, Einaudi, Torino 1960, pp. 11­3). Era il mese di agosto del
1906 quando Gian Falco dalle colonne di "Leonardo" lanciava la sua "Campagna per il forzato
risveglio", dando voce a un'esigenza ancora fumosa nei dettagli, ma già indicativa quanto a
espressione di una forte volontà di rottura, resa inderogabile dalle sue parole: «Voglio che una
parte, anche piccola, dell'ultima generazione italiana, si liberi da certe tendenze, da certi gusti,
da certe debolezze e acquisti invece altri caratteri, nuove passioni e preoccupazioni.
Modificare uomini, amputare e ingrandire anime, trasformare spiriti: ecco l'arte mia favorita"»
(cfr. Gian Falco, La campagna per il forzato risveglio, in "Leonardo", 1906, iv, agosto, citato
in Frigessi (a cura di), La cultura italiana del '900, cit., p. 312). Ma esattamente un anno dopo,
su quelle stesse pagine era l'ora della resa, dichiarata in maniera sconsolata da Giovanni Papini
e Giuseppe Prezzolini, che nell'articolo La fine fanno parlare il loro rammarico per non essere
riusciti in cinque anni di presunta militanza a incidere minimamente sulle coscienze italiane:
«Il Leonardo è stato sempre da noi considerato come un apparecchio per eseguire determinate
esperienze sull'anima vile italiana. Dopo cinque anni di queste esperienze, dopo aver cercato
con questa rivista e con altre opere, di scoprire uomini, di svegliare e trasformare anime, di
trovare giovani che fossero per noi compagni e schermidori e non pappagalli male
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ammaestrati, ci siamo persuasi che non val la pena di continuare» (cfr. G. Papini, G.
Prezzolini, La fine, in "Leonardo", 1907, v, agosto). Trascorse ancora un anno prima che lo
stesso Prezzolini riprendesse il cammino precedente di denuncia della «mediocrità morale
dominante» (cfr. A. Asor Rosa, Storia della letteratura italiana, La Nuova Italia, Firenze
1990, p. 556), questa volta dalle pagine de "La Voce", la cui missione fu portata avanti fino al
'14. Egli si oppose con forza a chi ​
come Renato Serra ​
voleva delegare alla classe colta la sola
funzione di «depositario della tradizione» (cfr. Mangoni, L'interventismo della cultura, cit.,
pp. 21­4) senza neanche intravederne la potenziale forza dirompente all'interno di una società
che si sentiva ancora così lontana dai suoi rappresentanti. La rivista fiorentina si faceva avanti
come mediatrice tra il paese e la classe dirigente, ponendo come nodo centrale del suo lavoro
il concetto di «rigenerazione del sentimento morale» (Asor Rosa, Storia della letteratura
italiana, cit., p. 534).
4. F. Venturi, Corso di storia moderna, a. a. 1963­64, Cooperativa Libraria Universitaria
Torinese, Torino 1964.
5. A. D'Orsi in un'intervista pubblicata su "Il Foglio" il 19 maggio del 2000, ha dichiarato:
«Come oggi uno storico possa riproporre la doppia equazione bobbiana (fascismo = incultura,
cultura = antifascismo) costituisce per me davvero il quarto mistero di Fatima». Si veda anche
A. D'Orsi, La cultura a Torino tra le due guerre, Einaudi, Torino 2000.
6. N. Bobbio, Il dubbio e la scelta, Carocci, Roma 20012. La raccolta di saggi sulla questione
degli intellettuali è considerata dallo stesso autore uno dei suoi testi più importanti, poco letto
e discusso perché uscito in un momento in cui si facevano avanti tematiche più pressanti
(come la fine della guerra fredda, ad esempio).
7. E. Gentile, Fascismo. Storia e interpretazione, Laterza, Roma­Bari 2002, p. 60.
8. R. Romeo, Scritti politici 1953­1987, Il Saggiatore, Milano 1990, p. 40.
9. Si veda ad esempio la lezione tenuta dal prof. Alberto Preti il 22 marzo 2002 presso il
Dipartimento di Studi storici dell'Università di Bologna a proposito delle interpretazioni del
Novecento. Nel seminario rivolto ai dottorandi di "Storia e informatica", Preti, prendendo le
mosse dal confronto di quattro testi che hanno ottenuto una straordinaria risonanza anche sulle
colonne dei quotidiani (Il secolo breve di Hobsbawm, l'intervento di Mayer comparso nel
1996 sulla rivista "Parolechiave", La fine della storia di Fukuyama, Lo scontro delle civiltà di
Huntington), ha puntualizzato le implicazioni connesse al concetto di uso pubblico della storia.
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10. M. Isnenghi (a cura di), I luoghi della memoria. Strutture ed eventi dell'Italia unita,
Laterza, Roma­Bari 1997, p. vii.
11. C'era chi, come Bottai, avvertiva la necessità di distinguere fra miti "falsi", con fini
puramente strumentali, e miti "veri", capaci di coinvolgere come oggetti di culto l'intera
collettività, in quanto rappresentazioni profonde di un'epoca ​
e questo è il caso del mito della
Grande guerra ​
; tuttavia, il successo del fascismo, nella gestione e nel recupero dei miti, non
consisteva nell'abolizione dei cosiddetti miti "falsi", bensì nella capacità di rendere labile il
confine tra gli uni e gli altri, e allo stesso modo tra mito e storia.
12. A. Gibelli, L'officina della guerra. La Grande guerra e le trasformazioni del mondo
mentale, Bollati Boringhieri, Torino 1991, p. 47.
13. Isnenghi (a cura di), I luoghi della memoria, cit., p. 275.
14. Gibelli, L'officina della guerra, cit., p. 195.
15. La mitologia del fascismo poggiava a tal proposito sulla coincidenza tra l'adesione alla
guerra e il suo significato simbolico come atto costitutivo della «rinascita della stirpe» (si veda
D. Mack Smith, Mussolini. La vita del duce raccontata dal grande storico inglese, Rizzoli,
Milano 1981, p. 46), di quel popolo finalmente consapevole di dover affrontare ​
trascinato
dalle passioni suscitate dal duce ​
una vera e propria missione di civiltà nel mondo moderno. In
particolare, secondo i fascisti, la guerra aveva dato il suo determinante contributo per
l'agognata unificazione delle classi sociali attraverso l'esperienza del cameratismo dei soldati,
basato su una «gerarchia del carattere» (E. Gentile, Storia del partito fascista (1919­1922).
Movimento e milizia, Laterza, Roma­Bari 1989, p. 524), ossia sul valore di ognuno e sulla
rispettiva adesione ai miti costitutivi della Grande guerra. L'uomo nuovo fascista, moralmente
forgiato dalla trincea, esempio di virtù militare e di totale dedizione alla patria, incarnava il
mito della giovinezza, in netto contrasto con il prodotto della democrazia parlamentare,
«tollerante perché senza fede». Fino alla guerra, la politica era ritenuta l'oggetto di quella
rigenerazione intesa come rivoluzione spirituale dalle avanguardie culturali. A conclusione del
conflitto, è la politica a rivendicare la funzione rigeneratrice della nazione, poiché assume il
«monopolio nella definizione del significato e del fine ultimo dell'esistenza» (E. Gentile,
Un'apocalisse nella modernità. La Grande guerra e il mito della Rigenerazione della politica,
in "Storia contemporanea", ottobre 1995, pp. 733­87).
16. Gibelli, L'officina della guerra, cit., p. 73.
17. Il fascismo non può essere definito un'ideologia "di" masse, ma "per" le masse, poiché, pur
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comprendendo il ruolo determinante dell'anima collettiva per la vita del paese, non riconobbe
alla folla né la possibilità di esprimere un'idea politica, né tanto meno la capacità di
autogovernarsi. Al contrario, il processo di partecipazione doveva coincidere con
l'integrazione dei singoli individui nelle organizzazioni dello Stato totalitario, attraverso la
diffusione della nuova tipologia del "cittadino soldato". Tale modello ​
che doveva distinguersi
per qualità morali e non intellettuali ​
costituiva l'elemento propulsore di una sorta di
«rivoluzione antropologica» (E. Gentile, La Grande Italia. Ascesa e declino del mito della
nazione nel xx secolo, Mondadori, Milano 1999, p. 173): compito del regime era quello di
trasformare gli italiani in fascisti integrali, attraverso un progresso morale, determinato
dall'azione dello Stato, che avrebbe agito sull'innata ferinità dell'uomo. Solo instillando il
valore della vita come dovere e missione, la dedizione alla patria poteva avere la meglio sul
naturale egoismo dell'individuo. E tale concetto poteva trarre il suo sostegno in un ulteriore
richiamo al mito dell'esperienza della guerra, laddove si facesse appello al conflitto come
nuova forma di partecipazione.
18. La Francia, invece, nazione vittoriosa e soddisfatta, vide sorgere potenti movimenti di ex
combattenti che proclamavano la fine di ogni guerra (si veda a tal proposito G. L. Mosse, Il
fascismo. Verso una teoria generale, Laterza, Roma­Bari 1996, p. 29).
19. S. Romano, La cultura europea tra Ottocento e Novecento, in "Nuova Storia
Contemporanea", v, settembre­ottobre 2001, pp. 5­28.
20. Come non ricordare l'immagine dell'«Italia in cammino» coniata da Gioacchino Volpe nel
1928 nella sua riflessione sulle vicende dell'ultimo cinquantennio? Immagine "mitica" che
testimonia in un certo senso l'adesione più "sentimentale" che politica dello storico italiano al
regime fascista. Si tratta di una di quelle «immagini motrici» ​
per appropriarsi della
definizione fornita da Sorel a proposito de «la mystique» ​
che, d'altra parte, fu facile bersaglio
della visione critica di Benedetto Croce, il quale, in polemica con Volpe dopo la pubblicazione
della sua Storia d'Italia, non tardò ad affermare che «l'Italia di Volpe cammina, ma non
pensa».
21. G. Gentile, Guerra e fede, De Alberti Editore, Roma 1926. Nella prefazione a questa
raccolta di articoli, Giovanni Gentile affermava che per l'Italia «il problema della guerra era un
problema superiore alla guerra stessa e tale da impegnare tutto l'avvenire della vita italiana».
Rinnovava in questo modo l'impegno della politica postbellica, che doveva valutare come
priorità assoluta la necessaria riforma del carattere italiano. Ciò procedeva inevitabilmente
nella stessa direzione dell'abbandono di quella politica scettica di tipo giolittiano, sulla quale
pesò la secolare sfiducia nelle capacità degli italiani di porsi di fronte a duri sacrifici e a prove
impegnative. L'occhio, dunque, veniva puntato in primo luogo sulla rigenerazione collettiva,
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intesa come esperienza che, attraverso la trasfigurazione degli eventi vissuti dalla generazione
dei combattenti, veniva abbracciata anche da chi non fosse stato al fianco dei protagonisti
della Grande guerra.
22. Si veda anche a tal proposito, oltre all'atteggiamento di Marinetti e dei futuristi, E. Jünger,
L'operaio: dominio e forma, Guanda, Parma 2000.
23. Gibelli, L'officina della guerra, cit., p. 164.
24. G. L. Mosse, Le guerre mondiali. Dalla tragedia al mito dei caduti, Laterza, Roma­Bari
1998, p. 118.
25. M. Isnenghi, Il mito della Grande guerra, il Mulino, Bologna 1997, pp. 183­6.
26. E. Gentile, Il culto del littorio, Laterza, Roma­Bari 1993, p. 10.
27. Fu questo il "capolavoro" del socialriformista Ivanoe Bonomi, che, il 4 novembre del
1920, consegnò agli italiani quel nuovo simbolo che i fascisti non tardarono a integrare
nell'istituzione di una liturgia nazionale attorno al mito della Grande guerra e alla resurrezione
della patria. Si vedano a tal proposito B. Tobia, L'altare della Patria, il Mulino, Bologna
1998, e Id., Dal Milite ignoto al nazionalismo monumentale fascista, in Storia d'italia, Annali
18, Guerra e pace, Einaudi, Torino 2002.
28. Furono Inghilterra e Francia le nazioni che inaugurarono la pratica di innalzare una tomba
al Milite ignoto come luogo del culto nazionale.
29. Johan Huizinga scrisse nel 1935 a proposito del ricorso al concetto di "eroe" come sintomo
di una diffusa crisi di valori: «C'è qualcosa di tragico nel fatto che l'odierna degenerazione
dell'ideale eroico sia partita dalla superficiale ondata di entusiasmo per la filosofia
nietzschiana, che intorno al 1890 si diffuse in ambienti vasti. [] Tutti i mediocri imbecilli della
fine del secolo parlarono di superuomo, come se fosse stato il loro fratello maggiore. Questo
volgarizzamento intempestivo del pensiero nietzschiano è stato senza dubbio l'inizio della
tendenza spirituale che oggi pone l'eroismo come parola d'ordine e come programma». J.
Huizinga, La crisi della civiltà, Einaudi, Torino 1963, (prima edizione olandese, 1935; prima
traduzione italiana, 1937).
30. M. Isnenghi, L'Italia in piazza. I luoghi della vita pubblica dal 1848 ai giorni nostri,
Mondadori, Milano 1994, p. 310.
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31. G. Antona Traversi Gismondi, Il santuario della patria. Cimitero militare di Redipuglia,
Ufficio centrale cure e onoranze salme caduti in guerra, Padova 1927, p. 9.
32. P. Dogliani, Redipuglia, in M. Isnenghi (a cura di), I luoghi della memoria. Simboli e miti
dell'Italia unita, Laterza, Roma­Bari 1996, p. 379.
33. Il progetto di ampliamento fu inserito all'interno di quell'ambiziosa politica avviata dal
regime con la legge del 12 giungo del 1931 ​
volta alla definitiva sistemazione dei cimiteri
militari del territorio nazionale ​
alla quale seguì, nel '35, l'inaugurazione dei sacrari del Monte
Grappa, di Pocol e del Montello in prossimità del Piave, nel '36, l'apertura della "via sacra" sul
Pasubio e Castel Dante a Trento, e, nei due anni successivi, il completamento ​
assieme a
quello di Redipuglia ​
dei cimiteri monumentali di Oslavia e Caporetto.
34. Queste sono le parole che il duca d'Aosta avrebbe lasciato come sua eredità spirituale:
«Muoio serenamente, sicuro che un magnifico avvenire si dischiuderà per la patria nostra,
sotto l'illuminata guida del re ed il sapiente governo del duce». Dogliani, Redipuglia, cit., p.
384.
35. G. Sabbatucci, V. Vidotto (a cura di), Storia d'Italia, 4, Guerre e fascismo, Laterza, Roma­
Bari 1997, p. xv.
36. M. Pottino, Compiti e finalità del Luce, Tipografia stet, Roma 1963, p. 5.
37. R. D. n. 1985 del 5 novembre 1925. Per una sintesi dell'attività de L'Unione
Cinematografica Educativa si veda la voce "Istituto Luce" curata da Gabriele D'Autilia in
Dizionario del fascismo, a cura di V. De Grazia e S. Luzzatto, vol. i, Einaudi, Torino 2002, pp.
684­8.
38. Questo è l'ordine di progressione con il quale vennero istituite le otto cinemateche:
agricola (18 marzo 1926), industriale di propaganda e istruzione (6 agosto 1926), per l'arte e
l'istruzione religiosa (21 settembre 1926), di cultura nazionale (26 dicembre 1926), militare e
d'istruzione e propaganda (30 gennaio 1927), turistica e di propaganda marinara (30 gennaio
1927), igienica e di prevenzione sociale (30 gennaio 1927), di propaganda e cultura all'estero
(2 giugno 1927). Cfr. G. D'Autilia, Istituto Luce, in Dizionario del fascismo, a cura di V. De
Grazia, S. Luzzatto, Einaudi, Torino 2002, pp. 684­8.
39. J. Grierson, Documentario e realtà, Ed. Bianco e nero, Roma 1950.
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40. Ibid.
41. M. Argentieri, L'occhio del regime. Informazione e propaganda nel cinema del fascismo,
Vallecchi, Firenze 1979, p. 18.
42. Già ai primi del secolo la cultura aveva individuato nella "folla" il nuovo protagonista
dell'età contemporanea, specificando, attraverso le conoscenze fornite dagli esperti in
psicologia collettiva, la nuova sfera di interessi che la politica doveva coltivare. In particolare,
si apriva un nuovo orizzonte allo studio della mentalità e del comportamento delle masse, per
giungere all'individuazione dei fattori idonei alla formazione e al controllo dell'anima
collettiva. Scriveva, ad esempio, nel 1903 Scipio Sighele: «Oggi è la voce collettiva e
grandiosa delle folle che guida il mondo; [] oggi si è compreso che il protagonista vero della
storia, quantunque non sempre visibile, è stato il popolo, vale a dire la folla anonima su cui
l'egoismo dei grandi lavorava come su un corpo vile per costruire l'edificio della propria
potenza». (Citato in E. Gentile, Il mito dello Stato nuovo dall'antigiolittismo al fascismo,
Laterza, Roma­Bari 1982, p. 10). L'organizzazione del consenso durante il ventennio fascista
dimostrò di aver assimilato questa centralità del ruolo della folla, imparando a incanalare e
controllare l'irrazionalismo delle masse attraverso la cultura dell'organizzazione, al fine di
instillare valori come la disciplina e di giustificare il comando di una minoranza. Autori come
Le Bon, Michels, Sorel ​
ai quali Mussolini fece spesso esplicito riferimento ​
avevano
dimostrato che il predomino del sentimento nella psicologia collettiva non andava interpretato
come fattore negativo, bensì come spunto di riflessione sul valore di una «svalutazione
razionale della ragione» a fini politici (cfr. Gentile, Il mito dello Stato nuovo, cit., p. 15).
43. P. V. Cannistraro, La fabbrica del consenso, Laterza, Roma­Bari 1975.
44. Gentile, Fascismo. Storia e interpretazione, cit., p. 189.
45. In dodici mesi il Planetario ospitò 84 proiezioni per ragazzi, 30 per istituti, enti e scuole,
184 per il pubblico e 10 conferenze. [Dati tratti da Argentieri, L'occhio del regime, cit.].
46. Notevole anche l'incremento produttivo: dai 210.447 metri di negativo sommati
complessivamente nel 1926 ai 300.623 del 1927, dai 531.473 del 1928 ai 797.500 del primo
semestre 1929.
47. Il duce era presentato in una infinita varietà di versioni, in qualità di presidente del
Consiglio, in famiglia, a cavallo nel parco di Villa Torlonia, a bordo dei trattori, nuotatore, in
motocicletta e, ovviamente, in qualità di arringatore di fronte alle ricorrenti adunate oceaniche.
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48. Argentieri, L'occhio del regime, cit., p. 59.
49. Ivi, p. 36.
50. Per un quadro generale sull'attività propagandistica della radio italiana tra le due guerre, si
rimanda al testo di A. Monticone, Il fascismo al microfono. Radio e politica in Italia (1924­
1945), Ed. Studium, Roma 1978.
51. Per conoscere dall'interno le dinamiche relative alla gestione delle notizie da parte del
regime fascista può tornare utile consultare il recente lavoro di R. Canosa, La voce del Duce.
L'Agenzia Stefani: l'arma segreta di Mussolini, Mondadori, Milano 2002.
52. La scansione in sequenze e le caratteristiche tecniche di maggior rilievo sono presenti sul
sito internet dell'Istituto Luce nella sezione Archivio storico, all'indirizzo:
http://www.archivioluce.com. Si può risalire ai singoli documenti con una ricerca per
argomento, inserendo il titolo o il codice indicato come parola chiave.
53. Asor Rosa, Storia d'Italia. Dall'unità a oggi, cit., p. 1323.
54. Con una legge del 27 ottobre del 1937, l'Opera Nazionale Balilla fu assorbita dalla
Gioventù Italiana del Littorio: la formazione delle più giovani generazioni passava in questo
modo sotto il controllo del Partito.
55. Mussolini nella primavera del '32, in uno dei suoi colloqui con Emilio Ludwig, affermava:
«Noi festeggiamo il 24 maggio, giorno in cui la guerra si iniziò, non il trionfo sul vinto. [] Noi
consideriamo la decisione di entrare in guerra come data rivoluzionaria: fu il popolo che
decise allora contro la volontà dei parlamentari. Con ciò cominciò la Rivoluzione Fascista» (E.
Ludwig, Colloqui con Mussolini, Mondadori, Milano 1933, p. 145; citato anche in F. Ercole,
La Rivoluzione Fascista, F. Ciuni Libraio Editore, Palermo 1936, p. 15).
56. R. Moro, Religione e politica nell'età della secolarizzazione, in "Storia Contemporanea",
n. 4, aprile 1995, pp. 255­325.
57. A tal proposito il retroterra culturale più ricco è senz'altro quello espresso dagli ideologi
del nazionalismo nostrano. Primo fra tutti Corradini, citato dal fascismo come "profeta" per i
contenuti che andò esprimendo già sulle colonne de "Il Regno", con la sua concezione
spiritualistica della nazione, che, nel dopoguerra, non tardò a gettare tra le braccia dei
mussoliniani. Sintomatica la giustificazione della partecipazione alla guerra come
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subordinazione della volontà individuale a quella collettiva, dalla quale risultava evidente
l'ammissione della negatività dell'evento bellico per l'individuo e, d'altro canto, la tensione
verso uno scopo di più ampio respiro che coinvolgesse non solo la nazione, ma l'intera civiltà
umana. «La guerra [] in stato d'animo individuale, veramente non si comprende: i soldati
quando dallo stato collettivo (esercito che combatte) tornano nello stato individuale (timor
panico), non la fanno più e fuggono, e tutta l'altra gente che non è capace di passare dallo stato
individuale a quello collettivo la condanna». Una definizione, questa, riscritta a posteriori da
Francesco Ercole (cfr. F. Ercole, Pensatori e uomini d'azione, Mondadori, Milano 1935, p.
406) e mutuata direttamente da quel nazionalismo corradiniano, così carico di volontarismo e
tutto proiettato verso l'attuazione di una "missione" da far compiere all'intera nazione.
58. Una simile affermazione può rafforzare a prima vista il paradosso che si fece sempre più
palese nel consolidarsi del regime. Esso consisteva, infatti, nella contraddittorietà di un
movimento che, privilegiando l'azione sul pensiero, si poneva inizialmente come
antideologico, ma, nel suo progressivo consolidarsi, non rinunciava a forgiare una propria
ideologia, lavorando su un materiale ben caldo come poteva essere quello dell'attivismo o
dell'irrazionalismo. La particolarità del movimento fascista, soprattutto nei primi anni,
consisteva, dunque, non tanto nel costituirsi come movimento antideologico, quanto nel porre
come princìpi basilari ideologie negative, in netta antitesi con i valori tradizionali.
59. Ercole, La rivoluzione fascista, cit., p. 34.
60. Oltre ai nazionalisti e ai futuristi, troviamo tra gli interventisti i collaboratori della "Voce"
di Prezzolini e dell'"Unità" di Salvemini e così pure filosofi e pedagogisti idealisti, come
Giovanni Gentile e Giuseppe Lombardo Radice, critici come Renato Serra, storici come
Gioacchino Volpe.
61. Siglato dal codice dell'Archivio dell'Istituto Luce B 0289.
62. La scelta di Luigi Federzoni non è stata sicuramente casuale: presidente del Senato,
acquista una straordinaria credibilità agli occhi degli ex combattenti perché, interventista della
prima ora, partito per il fronte come volontario, fu anche decorato con una medaglia d'argento
e due croci al valore militare.
63. P. Monelli, Catenaccio alle celebrazioni belliche, in "Gerarchia", giugno 1930, pp. 470­
73.
64. "Gerarchia", novembre 1930, p. 668.
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65. Siglato dal codice B 1615.
66. Una vera e propria "storia" della liturgia politica fascista può cominciare a partire dal '23,
attraverso la scansione di due fasi: il decennio 1923­32, nel quale è attuata la sua
istituzionalizzazione, e quello tra il 1932 e il 1942, che si esaurisce in una sostanziale
ripetizione meccanica che consolida il portato del decennio precedente.
67. G. Lume, La celebrazione della vittoria, in "Gerarchia", novembre 1929, pp. 956­7.
68. Ercole, La rivoluzione fascista, cit., p. 32.
69. Ludwig, Colloqui con Mussolini, cit., p. 87.
70. Argentieri, L'occhio del regime, cit., p. 88.
71. Il costo di Camicia nera fu di 3.813.635 lire, il premio previsto dal Ministero delle
Corporazioni di 200.000 lire e gli incassi nel '34 (comprese le vendite in Francia, Germania,
Turchia e Giappone) di 2.083.542 lire. Cfr. Argentieri, L'occhio del regime, cit., p. 92.
72. È interessante notare che il padre di Mussolini era stato fabbro.
73. La cerimonia di fondazione della prima delle «città nuove» dell'Agro pontino avvenne il
18 dicembre del 1932, come emblematica chiusura delle celebrazioni del decennale.
Seguirono la fondazione di Sabaudia (21 aprile 1934), di Pontinia (18 dicembre 1935), di
Aprilia (29 ottobre 1937) e di Pomezia (29 ottobre 1939).
74. I borghi di servizio creati in prossimità di Littoria si chiamavano ​
e si chiamano ancora ​
­
infatti: Podgora, Carso, Piave, Bainsizza, Montello, Sabotino, Grappa, Ermada.
75. E. Gentile, Il fascismo come religione politica, in "Storia contemporanea", dicembre 1990,
pp. 1079­106.
76. "Gerarchia", gennaio 1927, p. 43.
77. Mein Kampf, in D. Cantimori, Politica e storia contemporanea. Scritti (1927­1942), a cura
di L. Mangoni, Einaudi, Torino 1991, pp. 685­6. Prosegue, infatti, «il commissario
dell'ipocrisia» (Hitler viene così definito nella lettera di D'Annunzio a Mussolini del 10 agosto
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del 1934, in R. De Felice, E. Mariano (a cura di), Carteggio D'Annunzio­Mussolini. 1919­
1938, Mondadori, Milano 1971, p. 326): «Poiché il suo compito deve consistere, precisamente
come nel manifesto pubblicitario, nel rendere attenta la massa, e non nell'istruzione di chi è del
resto già esperimentato criticamente per conto suo, o di chi si sforzi di raggiungere una
educazione (bildung) e di farsi un giudizio, l'azione della propaganda deve essere sempre
diretta più al sentimento, e solo molto secondariamente al cosiddetto intelletto».
78. Le feste della nazione, il culto dei caduti, la glorificazione degli eroi della Grande guerra e
della "rivoluzione", le apparizioni del duce trasformarono durante il ventennio le piazze
d'Italia in uno straordinario scenario collettivo, nel quale le cerimonie d'occasione si andavano
a inserire in un vero e proprio ciclo annuale della liturgia di regime. La «piazza oceanica»
dell'Italia fascista si presentava come erede di strumenti già assunti durante l'esperienza della
«riconquista della piazza», (cfr. Isnenghi [a cura di], I luoghi della memoria, cit., p. 50) attuata
sia ad opera degli interventisti sia dei legionari fiumani. Fu proprio D'Annunzio ​
come
osserveremo più da vicino nell'analisi di un filmato interamente dedicato alla marcia di Ronchi
a riprendere nell'immediato dopoguerra quel comizio dialogico che nella corrente interventista
era particolarmente caro agli anarco­sindacalisti (si pensi a Corridoni, annesso
successivamente come protomartire fascista, e a De Ambris, che partecipò all'impresa fiumana
come luogotenente di D'Annunzio). In Germania Hitler sceglieva gli stadi per i grandi raduni
di folla, Mussolini, invece, per rafforzare i princìpi di identità e di appartenenza al nuovo
ideale di nazione ​
sorto con la guerra e ribadito dal regime ​
preferiva le piazze cittadine. In
particolare elesse piazza Venezia ​
in vista dell'Altare della Patria e del Milite ignoto ​
come
luogo simbolo per eccellenza dell'incontro rigeneratore fra il capo e la folla. In base al criterio
di adoperare un'oratoria "ubiquitaria", Mussolini moltiplicò negli anni la sua presenza sul
territorio nazionale, trasformando l'Italia attraverso i suoi viaggi ​
più che mai frequenti nelle
ricorrenze di date significative per testimoniare la progressiva legittimazione del regime ​
in
una "piazza diffusa". Le adunate, anche se la partecipazione non fosse stata obbligata, non
lasciavano alla gente accorsa nelle piazze nessuna alternativa. La psicologia collettiva, infatti,
ci suggerisce quanto in realtà abbia inciso nel nuovo universo immaginario ​
sapientemente
gestito dai regimi totalitari ​
l'agglomerato della moltitudine, stretta gomito a gomito, quasi
materialmente compatta tanto da trasformarsi in un nuovo soggetto collettivo. È nelle piazze
oceaniche che gli individui smarrivano la rispettiva autonomia e fornivano una palese
rappresentazione del nuovo rapporto istituito tra popolo e potere. L'uso del microfono
permetteva l'ampia diffusione del messaggio del duce, che negli anni ​
con lo sviluppo della
radiofonia ​
giunse anche in quelle piccole piazze d'Italia dove il popolo disciplinato acclamava
un oratore che non era di fronte a loro e sollevavano incitamenti a un "duce" che in quel
momento non poteva sentirli, a dimostrazione della loro comunione spirituale.
79. Imponenti furono le manifestazioni in occasione del decennale della vittoria, nel quale è
particolarmente visibile quella che negli anni andò consolidandosi come peculiarità della
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celebrazione: la festa del 4 novembre, vista la sua contiguità con l'anniversario della marcia su
Roma, era stata via via assimilata a questa nel senso di ulteriore tappa della rivoluzione
fascista. La rievocazione della vittoria, infatti, divenne il rito di una manifestazione collettiva
di obbedienza al regime, nella quale il culto dei caduti per la patria si sovrapponeva e si
confondeva con quello dei caduti per la "rivoluzione" fascista.
80. E. Adami, La lingua di Mussolini, Società Tipografica Modenese, Modena 1939.
81. "Gerarchia", agosto 1939, rubrica "Tra i libri", p. 588.
82. Laddove si consideri la Grande guerra come somma di eventi mitici, la rotta di Caporetto
rappresenta un momento di notevole rilievo, soprattutto se rivissuto attraverso l'ottica del
futuro duce del fascismo, che esula dall'immediato dibattito relativo alle cause della disfatta e
offre più di qualche spunto per giustificare la successiva rimozione dell'evento operata in
pieno regime. Con il suo tipico fare esagerato, Mussolini scriveva che il 24 ottobre 1917
rappresentava «la più importante disfatta della storia mondiale» e che niente in tutta la sua vita
gli aveva mai provocato un'umiliazione maggiore. Com'è ovvio, l'immediata responsabilità di
Caporetto veniva da lui attribuita al "disfattismo" dei vecchi compagni socialisti oltre che alla
condotta del nuovo presidente del Consiglio Orlando.
83. La natura essenzialmente emozionale di un simile approccio è una di quelle caratteristiche
che induce ad assimilare il fascismo alla categoria dei «movimenti situazionali» (cfr. E.
Gentile, Storia del partito fascista (1919­1922). Movimento e milizia, Laterza, Roma­Bari
1989, p. 36). Come il futurismo, l'arditismo o il fiumanesimo, traeva la sua forza dallo stato
d'entusiasmo generato dal mito dell'esperienza della guerra, che caricava la condotta politica,
soprattutto nelle prime fasi, di un evidente impeto vitalistico. Tutti questi movimenti hanno in
comune la caratteristica di essere animati da persone che hanno partecipato direttamente al
grande evento suscitatore di miti e propongono le idee, scaturite da quella esperienza, come
base per una repentina azione di cambiamento della società e per l'incessante appello
all'identità del gruppo.
84. Queste le località toccate durante il percorso: Bassano del Grappa, Treviso, Possagno, San
Donà del Piave, Meolo, Vittorio Veneto, Cividale del Friuli, Caporetto, Gorizia, Trieste,
Fiume.
85. A. Nützenadel, La battaglia del grano, in Dizionario del fascismo, cit., pp. 149­52.
86. Non c'era substrato ideologico migliore sul quale innestare la nuova "battaglia" del
patrimonio culturale ereditato dalla più recente esperienza bellica, chiamata in causa per
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fortificare quegli spiriti che non potevano tradire i sacrifici della patria, affermando quel
carattere rinunciatario tanto caro alla politica liberale. Questa volta non bisognava lasciarsi
scappare l'occasione: c'era un "Impero" da costruire, per completare gli scopi della Grande
guerra e per dare sfogo alla "Rivoluzione".
87. Numerose erano le responsabilità attribuite al regime liberale per giustificare
l'"immaturità" del popolo italiano: in gran parte degli interventi dei "burocrati" della carta
stampata e nei discorsi pubblici del duce ​
nei quali si ricordava l'intervento nella Prima guerra
mondiale ​
era ricorrente, ad esempio, l'accenno al contrasto tra le virtù definite innate nel
popolo italiano e quella «strana ideologia [che] per lunghi decenni aveva definita la
preparazione militare come spesa improduttiva¹» (A. Solmi, xxiv Maggio, in "Gerarchia",
maggio 1924, pp. 280­5).
88. Diviene facile ritrovare nella Grande guerra quella matrice ideale che poneva in stretto
legame l'intervento dell'Italia addirittura ​
ancor più sulla scia del mito della vittoria trionfale ​
­
con la proclamazione dell'Impero nel '36, laddove si voglia sottolineare l'interpretazione
dell'evento bellico come fattore di unificazione di tutta la realtà italiana, chiamata ad
assimilare il superamento di qualsiasi conflittualità interna ​
intesa anche come lotta di classe ​
e
quindi «base di partenza del rovesciamento degli attriti e dei bisogni sociali verso l'esterno»
(M. Isnenghi, Intellettuali militanti e intellettuali funzionari. Appunti sulla cultura fascista,
Einaudi, Torino 1979, p. 117).
89. L'Italia sapeva di soffrire, sin dai tempi di Crispi, di un incurabile "mal d'Africa", tema sul
quale si continuavano a creare evidenti confusioni ideologiche, animate dall'«illusione
consueta del primato italiano», osannato per rafforzare ancora una volta quel carattere
unificante che ogni esperienza bellica doveva portare con sé. In particolare, erano i giovani a
essere chiamati in causa, quella generazione alla quale si voleva inculcare l'attivismo attribuito
agli interventisti del "maggio radioso". Leggiamo, infatti in un editoriale apparso su "Critica
Fascista": «Le generazioni che sembrano destinate ad essere allevate fra il ricordo lontano
della guerra, quello più prossimo della rivoluzione non vissuta e una inattuabile aspirazione ad
agire, trovano ora nella guerra d'Africa, la più immediata, concreta e viva fonte di esperienza e
di azione cui potessero aspirare. Qui appunto si avvera il fenomeno rivoluzionario per cui quei
giovani che ieri sembravano destinati ad essere i mal rassegnati epigoni di un eroismo già
consegnato alla storia, ne divengono oggi invece i continuatori» ("Critica Fascista", cit. in
Mangoni, L'interventismo della cultura, cit., p. 306).
90. Tutto si muoveva spinto da una immane ondata emotiva, dove la storia d'Italia si
sovrapponeva alla leggenda del popolo italiano, votato quasi per necessità o per volontà
provvidenziale alla realizzazione dell'Impero fascista. L'occasione della guerra e della vittoria
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ancor di più perché "mutilata" ​
è un punto di partenza davvero unico per esemplificare
l'esigenza avvertita dall'alto di una nuova educazione e conformizzazione collettiva. Il popolo
italiano veniva addirittura riesaminato dal punto di vista antropologico, anche se il risultato
appare a posteriori alquanto contraddittorio: l'esaltazione dell'attivismo guerriero ​
inteso come
carica agonistica ​
sembra, infatti, contrastare con il ruolo che poi venne riservato in ambito
politico al nuovo prototipo di italiano, totalmente remissivo nei confronti della volontà del
regime.
91. "Gerarchia", settembre 1938, pp. 657­9.
92. Nelle teorie politiche del xx secolo era più che palese il prevalere del pensiero mitico su
quello razionale, così come era sempre accaduto nei momenti critici della vita sociale, a
dimostrazione che il mito non costituisce un elemento transitorio, ma è parte integrante della
natura umana. Esso, però, nelle dottrine del '900 ​
ed in particolare nel fascismo ​
non appariva
come «un libero e spontaneo gioco dell'immaginazione» (E. Cassirer, Simbolo, mito e cultura,
a cura di D. P. Verene, Laterza, Roma­Bari 1981, p. 238), ma era regolato e adattato in virtù
dei bisogni della politica. L'elemento innovativo consisteva nel fatto che il mito ​
­
paradossalmente ​
veniva razionalizzato, trasformandosi in strategia e tecnica. Da parte nostra
sarebbe sciocco indagare sulla eventuale "verità" dei miti politici, che, al contrario, vanno
studiati per la loro efficacia, all'interno del più ampio processo di coinvolgimento coatto delle
masse e della necessaria ricerca di consenso messa in atto dai regimi totalitari. Facendo ricorso
all'etimologia del termine, il mito appare come una narrazione, che racchiude in sé un aspetto
epico ​
che può essere quello del ricordo delle imprese di una figura eroica ​
e uno drammatico,
che richiama in causa il confronto tra forze del bene e forze del male. L'analogia dei miti della
politica contemporanea con quelli sorti spontaneamente nelle società primitive va ricercata nel
loro modo di esprimere una singolare mescolanza di tendenze in conflitto: «essi sono al
medesimo titolo un frutto e della disperazione e della fiducia» (Cassirer, Simbolo, mito e
cultura, cit., p. 254). Costituiscono, insomma, l'extrema ratio per affrontare uno straordinario
sconvolgimento della società. La forte carica suggestiva che li contraddistingue si riflette
anche nella conseguente modificazione della funzione del linguaggio. Se, infatti, in
circostanze normali, le nostre parole devono assolvere allo stesso modo alla funzione
descrittiva come a quella emotiva, laddove si affermi il potere del pensiero mitico ​
e perciò si
rielabori razionalmente la svalutazione dell'elemento razionale ​
l'accento batte in maniera più
decisa sull'elemento emotivo, superando di gran lunga il livello "letterale" della
comunicazione sociale e della reciproca comprensione. «La parola descrittiva e la parola
logica si sono trasformate in parola magica» (E. Cassirer, Simbolo, mito e cultura, cit., p. 257):
ed è così che nel linguaggio introdotto dai miti politici l'equilibrio tra elemento soggettivo e
oggettivo viene a turbarsi in profondità, quasi a voler dimostrare che nell'era della folla il mito
diviene un persuasore più efficace di qualsiasi analisi razionale della realtà. Il fascismo,
individuato il mito come motore primario del pensiero politico, diveniva potere di simboli e si
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avvicinava molto, per la sua arte di governare le masse, a quella che Serge Moscovici ha
chiamato «l'arte di dirigere la loro immaginazione» (S. Moscovici, L'age des foules, Fayard,
Paris 1981, p. 143).
93. Anche l'anonimato ​
cioè la qualità di «non essere nessuno» (A. Gibelli, L'officina della
guerra. La Grande Guerra e le trasformazioni del mondo mentale, Bollati Boringhieri, Torino
1991, p. 200) ​
veniva posto come condizione centrale dell'uomo nella società di massa, proprio
come era accaduto per milioni di persone durante la guerra, soprattutto nell'esperienza della
morte. Ma non solo; si pensi anche alla mobilitazione di massa e alla sua successiva
interpretazione come spunto per giustificare la standardizzazione del soldato. Le proporzioni
della guerra resero indispensabile il contributo della massa, e il fascismo dalla massa scelse il
suo più autentico protagonista, invocando il soldato senza qualità. Come in guerra la sua
capacità di adattarsi ai tempi della trincea, la sua inerzia, la sua passività ne favorirono la
riduzione ad anonima componente del meccanismo bellico, così nella "nuova Italia" quelle
stesse caratteristiche che resero eroiche le imprese del soldato senza qualità venivano richieste
come requisiti del cittadino soldato, pronto ad essere mobilitato ancora una volta e ad essere
incorporato nei meccanismi dello Stato nuovo. C'è chi, a tal proposito, ha parlato di
«catastrofe del soggetto», ponendo la guerra come punto di svolta: «col suo impasto di
massificazione e tecnicizzazione del massacro, con la sua assoluta programmabilità, con il
cieco scatenarsi delle dinamiche sistemiche ingovernabili da qualsiasi volontà umana
individuale, essa costituiva l'esempio più clamoroso ​
e inedito ​
di evento privo di soggetto»
(M. Revelli, Storia e scienze sociali, in "Movimento operaio e socialista", n. 1­2, a. x, 1987,
pp. 27­44). Una simile esperienza, rintracciabile nel patrimonio mentale della gente comune,
procedeva nella stessa direzione di quella ingestibile espropriazione del tempo e della vita ​
­
avvenuta durante il conflitto ​
che il fascismo impugnò e accuratamente gestì in funzione del
controllo delle masse, ben consapevole dell'attitudine degli individui ​
nei momenti di crisi ​
a
plasmare il proprio modo di agire e di pensare verso modelli suggeriti dall'esterno. In questo
ambito viene in soccorso la psicologia sociale, secondo la quale, nella dialettica tra individuo e
gruppo, tende a prevalere «il conformismo piuttosto che l'indipendenza» (P. G. Zunino,
L'ideologia del fascismo. Miti, credenze e valori nella stabilizzazione del Regime, il Mulino,
Bologna 1985, p. 51) secondo un'insaziabile sete di armonia per cui sarebbe preferibile
«sbagliare con gli altri piuttosto che avere ragione da soli» (G. De Montmollin, L'influence
sociale, Presse Universitaires de France, Paris 1977).
94. 15 aprile 1937, D'Annunzio a Mussolini, in De Felice, Mariano (a cura di), Carteggio
D'Annunzio­Mussolini, cit., p. 369.
95. Ad esempio, in entrambi si puntualizza la reazione dell'opinione pubblica alla vicenda
Matteotti o, in occasione della guerra di Spagna, vengono proposte le immagini delle
manifestazioni antifasciste a Parigi accanto alle foto di Rosselli.
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96. M. Dondi, Piazzale Loreto, in Isnenghi (a cura di), I luoghi della memoria, cit., pp. 487­
99.
97. H. Pirenne, La tache de l'historien, in "Le Flambeau", xiv, 1931, 1, p. 16, citato anche in C.
Violante, La fine della grande illusione. Uno storico europeo tra guerra e dopoguerra, Henri
Pirenne (1914­1923). Per una rilettura dell'Histoire de l'Europe, il Mulino, Bologna 1997.
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