La scrittura fra igiene e sanità: storia del pensiero medico sulla scrittura
Francesco Ascoli
Storico della comunicazione scritta, Presidente dell’Istituto Scienze e Arti della Scrittura
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Premessa
Occorre fare una premessa di ordine storico metodologico e introduttivo, prima di entare
nel vivo del discorso sulla scrittura.
Dalla fine del XVI secolo, la figura del povero, dell’emarginato, inizia a subire una
profonda metamorfosi; la sua figura non rientra più in un ordine sociale prestabilito. Il
povero non rappresentava più l’occasione di beneficienza per il ricco, diventa invece
sempre di più un pericolo, un motivo di disordine sociale, un disturbatore dell’equilibrio
sociale della nascente borghesia. Le risposte che la società e i poteri si danno per eliminare
o limitare la presenza della devianza, della criminalità sono diverse e segnano, da un lato
la nascita e lo sviluppo (o la riorganizzazione) di istituzioni totali come le carceri o i bagni
penali e da un altro, un’attenzione sempre maggiore verso il soggetto deviante. Anche il
periodo da cui prendiamo nota per le nostre osservazioni, ossia il XIX secolo, vede il
passaggio dalla cosidetta “scuola classica” erede dell’illuminismo, del libero arbitrio e
quindi fautrice della piena responsabilità personale e della conseguente idea della
comminazione della pena in maniera razionalmente e meccanicamente proporzionale al
debito commesso, ad una scuola positiva che opera un radicale capovolgimento di
prospettiva (non esistono più i reati da punire, ma coloro che li commettono). Il reato
diventa solo l’espressione, l’indice di pericolosità di chi lo commette. Ciò che interessa è
studiare la personalità del delinquente e del deviante immergendolo nella sua realtà, nel
suo contesto sociale e di storia personale. Un processo tuttavia che rischia di
deresponsabilizzare il soggetto e di non riuscire a fornire criteri e parametri corretti ed
oggettivi per la determinazione della pena. Ma non è soltanto il problema del controllo
della devianza: l’800 è anche un secolo di epidemie (ben 6 solo di colera). Parallelamente,
avviene anche uno spostamento epistemologico significativo: dalle discipline
settecentesche, speculative, filosofiche, astratte, si affermano sempre di più discipline
pratiche, sperimentali, da laboratorio. Si sviluppano la psicologia sperimentale, la
fisiologia, l’igiene, che da semplice funzione di aggettivo (igiene significa
etimologicamente “che è sano”) diventa, secondo Vigarello, “l’insieme degli accorgimenti
e delle conoscenze che ne [cioè della salute] favoriscono il mantenimento”. I primi manuali
d’igiene sono degli inizi del secolo XIX. Fino al secolo precedente si parlava soltanto di
“conservazione della salute”, e di atteggiamenti di “tradizionale fatalismo con cui si
consideravano la morte e la malattia”. Ora si introduce un altro concetto, segno di un
cambio di mentalità, e si presenta un nuovo obiettivo, quello di “incidere sulla longevità
della popolazione”. Avanza un’utopia, che attraverso l’analisi, anche minuziosa, e la
misurazione e la sperimentazione, in altre parole attraverso una metodologia quantitativa,
si potesse arrivare a trovare interpretazioni e soluzioni a problemi come quello della
devianza o della degenerazione fisico-psichica della popolazione. Anche la storia
dell’igiene è la storia di un’utopia, ma surrogata anche da avventimenti e scoperte
scientifiche.
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“A partire all’incirca degli anni venti del secolo XIX cominciano però a emergere alcuni
fattori importanti delle mutate condizioni sociali: era cambiata la situazione degli operai
(comprese donne e bambini) nelle fabbriche: la metropoli e le cittadine in rapida
espansione presentano problemi ambientali qualitativamente diversi”.
La lotta contro la “degenerazione”
Il concetto di degenerazione o degenerescenza non è una novità o una stravaganza, ma fu
coniato ed utilizzato da un medico francese, Benedict Augustin Morel nel 1857, ed ha una
connotazione peggiorativa-genetica: vale a dire che con questo termine si intende
affermare che i difetti fisici, ma anche psichici, non solo si trasmettono ereditariamente, ma
con il passare delle generazioni, si possono perfino accumulare. Risulta quindi una
componente potenzialmente dannosa anche per la società e che giustifica una politica di
“pulizia sociale” e che apre le porte, assieme ad altri concetti, all’eugenetica. Nonostante
questa idea fu avversata e non ebbe poi nel prosieguo del tempo una sua continuità, ebbe
comunque la sua parte nell’avvalorare teorie di atavismo e di pratiche eugenetiche
successive.
Fino all’Ottocento, le categorie sporco-pulito più che categorie igieniche, erano indicatori
sociali: per i ceti abbienti era una questione di decoro l’essere (o spesso l’apparire) puliti,
per i poveri semplicemente la loro condizione naturale, e nessuno si scandalizzava della
loro sporcizia né ci si sforzava di rendere più salubri le loro condizioni di vita. La
situazione sarebbe cambiata radoicalmente nel corso dell’Ottocento e per diversi motivi:
l’industrializzazione aveva concentrato nelle città masse di diseredati che vivevano in
ambienti malsani e maleodoranti; soprattutto le epidemie, come quelle di colera (ben 5 nel
corso del secolo) avevano messo una seria ipoteca sulle idee di progresso e di fede nella
scienza. E’ tuttavia con Pasteur che la questione della pulizia e dell’igiene si pone con
drammatica evidenza. La pulizia non è più, dopi di lui, una questione morale o di censo,
ma diventa una necessità, un imperativo categorico. E di fronte ai fallimenti della
medicina diagnostica e curativa, che non conosce ancora bene le malattie e soprattutto non
le sa ancora curare (l’inefficenza terapeuticha in questo periodo è enorme) l’igiene
preventiva appare come un miraggio, una panacea per tutti i mali.
Malattie, guerre, il grado di inabilità alla leva aveva generato e sollevato la questione della
“degradazione fisica” degli italiani. Inadatti alla guerra, ma anche alle officine. L’igiene e
la ginnastica acquistano sia rilevanza etica, sia economica, assistendo ad un processo
continuo e crescente di scientifizzazione delle ormai varie discipline igieniche fra cui
emerge quasi subito anche quella scolastica. Osserva acutamente F.De Peri (Il medico e il
folle p. 1068) “Non si trattava quindi soltanto di guarire un ammalato, ma si raccoglieva la
sfida utopica alla razionalizzazione della società.”
In tal modo agli educatori e ai filosofi si sostituiscono i medici, gli scienziati, gli
antropologi, e il pensiero positivo inizia subito a lavorare in questa direzione rivolgendo al
corpo umano un’attenzione privilegiata e dettagliatissima. Esso diventa oggetto di
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osservazione scientifica, e di misurazione accurata e di statistiche sempre più precise. Si
misura sia l’anatomia (misure del cranio, del torace ecc.) sia il comportamento.
Incidere sul corpo
Già dalla prima metà del secolo decimonono vi era stata un’attenzione verso la scrittura;
non mancarono iniziative di ogni genere per cercare di promuovere una didattica nuova e
numerosissimi furono gli esempi di singoli professori o di altri membri della società
impegnati in attività didattiche che proponevano o inventavano strumenti nuovi, metodi
nuovi per l’insegnamento della scrittura: penne e pennini di nuova concezione, quaderni,
banchi, metodi calligrafici giudicati innovativi. Un calligrafo di Strasburgo, Arnauld
Berliner, inventa nel 1836 un busto ortopedico per prevenire posizioni e posture scorrette
mentre si scrive, un altro inventa una penna “a vapore”, anche per ovviare inconvenienti
di natura strumentale. Ricordiamo che si usa ancora il calamaio!
Nella seconda metà dell’Ottocento, dopo l’Unità, si fa sempre più evidente la
consapevolezza dello stato di degenerazione fisica, intellettuale degli italiani. Passeggiare
per le strade o visitare le campagne non doveva offrire una vista consolante: povertà,
malattie, malnutrizione segnavano la vita di vaste parti della popolazione anche
visibilmente attraverso deformazioni, mutilazioni, gozzi, cicatrici…
La questione era anche, se forse non soprattutto, economica: una popolazione siffatta non
era pronta al grande slancio industriale del periodo. Le officine avevano bisogno di gente
sana, forte, capace, anche se finivano poi esse stesse a diventare fonte di insalubrità. Una
cartina tornasole di questa situazione era rappresentata dalla percentuale di scarto nelle
leve militari (24% circa nel 1860-1). Le autorità avevano infatti anche la necessità di
misurare le renitenze alla leva, dato che molti simulavano malattie inesistenti pur di essere
esonerati dal servizio.
L’anomalia, per esser esorcizzata, aveva bisogno il suo teatro, un corpo da esibire:
esecuzioni pubbliche, gogne, cartelli con la descrizione dei misfatti compiuti, un corpo
“alla berlina” un corpo su cui si infieriva e sul quale si voleva lasciare una traccia
indelebile, un segno, ma nell’epoca moderna, piano piano, questi “spettacoli”
diminuiscono, perdono di efficacia. Da una pratica violenta e drammatica di marchiatura,
ricordiamo appunto il marchio infamante (come la lettera scarlatta di Hawthorne) o
perfino il taglio della mano in alcuni casi, da un corpo inscritto e/o cancellato (pre
parafrasare Chartier) si passa ad un corpo che è invece tutto da leggere, esaminare,
vivisezionare, misurare. E del corpo si inizia infatti a misurare tutto, proprio tutto:
ampiezze, proporzioni, cavità ossee. Alphonse Bertillon (proprio lui, quello dell’affare
Dreyfus) getta le basi di una polizia scientifica, inventa delle schede segnaletiche, il ritratto
parlante; nasce la dattiloscopia e si inizia ad usare, a fini segnaletici, la neonata tecnica
fotografica.
Due risposte furono avanzate in merito alla questione della degenerescenza: la ginnastica e
l’igiene. La ginnastica prese la sua strada, ostacolata e complicata da dibattiti accesi e
polemiche sulla sua più o meno utilità (qualcuno ricorda Amore e ginnastica?). L’igiene fu
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considerata invece quasi una panacea per affrontare il tema del degrado degli italiani, una
utopia, come è stato rilevato.
La nascita dell’igiene scolastica
La nascita dell’igiene scolastica poneva anche il problema del coinvolgimento degli attori
principali della realtà educativa; maestri, corpo insegnante in genere, educatori. Furono
indette numerose conferenze pedagogiche con temi di igiene scolastica e non solo allo
scopo di formare nuove competenze, ma anche con quello di istruire direttamente le
scolaresche per una più approfondita coscienza igienica. Scrive Diana De Rosa : “La forte
valenza educativa assunta dall’ìgiene e dalla medicina ha modo di applicarsi in maniera
più efficace con l’introduzione nell’Italia post-unitaria dell’obbligo scolastico” . La scuola
si era anche posta come obiettivo non solo l’istruzione, il sapere, ma anche quello di “dar
vigore al corpo….la resistenza alla fatica…” . L’igiene entra ufficialmente come materia
scolastica nel 1894. Per venire incontro a tutte queste esigenza, nasce e si sviluppa una
nutrita pubblicistica: trattati, compendi, manuali, numerosissimi articoli su riviste mediche
e scolastiche, guide per i maestri fioriscono e si diffondono con grande rapidità e successo.
Fu comunque subito avvertita una ingerenza della medicina nelle questioni pedagogiche.
Scrive ancora Diana De Rosa: “La necessità di una precisa distinzione e di una chiara
autonomia della pedagogia dall’igiene e dalla medicina…appare in tutta la sua evidenza.”
Il Fornelli parla addirittura di una “invasione medica”. L’igiene acquista tuttavia piano
piano un valore non soltanto di prevenzione medica, con accezione salutista, ma anche, se
non soprattutto, un valore etico, morale: contribuisce alla costruzione di una società più
sana fisicamente e moralmente: lavarsi, mantenersi puliti concorre anche per una
coscienza di una “pulizia interiore”; e di tutto questo sono soprattutto i maestri i garanti e
i fornitori di questi valori etici.
Il banco scolastico
E’ quasi immediata l’applicazione dei principi igienici alle questioni scolastiche e nasce
una vera e propria branca autonoma. Le questioni che riguardano più in particolare la
scuola sono da questo punto di vista:
1. Il superlavoro intellettuale e la mancanza di un adeguato esercizio fisico;
2. La mancanza di aule e di ambienti adeguati, ben aerati e luminosi e non
sufficientemente capienti;
3. I banchi scolastici inadatti, fonte di deviazioni della colonna vertebrale e di altri
malanni.
Anche se l’art.137 del Regolamento sulle scuole del 1860 prevedesse che “Le scuole
debbano essere salubri, con molta luce, in luoghi tranquilli e decenti” la realtà era ben
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diversa, soprattutto nelle campagne. La questione del banco scolastico poi, divenne un
vero e proprio terreno di battaglia degli igienisti e aveva suscitato dibattiti, proposte,
iniziattive e anche aspre diatribe. Se si dà un’occhiata, anche frugale, alla letteratura del
periodo sull’argomento, alla pubblicistica, alle proposte dei fabbricanti di suppellettili
scolastiche, si può avere un’idea della gran mole di discorsi e di dibattititi al proposito.
Ciascuno proponeva il suo modello e spesso lo fabbricava anche. Banco a due posti, con
tavola reclinabile a scomparsa, con pedana, con schienale diritto o curvo.
Si eseguono esperimenti con diversi tipi di banco per vedere quale è il più adatto, si
dichiara solennemente che “il banco di scuola è un elemento de’ più importanti dell’igiene
scolastica” (Repossi, p.70) e che “è sempre il cattivo banco la cagione delle positure più
strane, più antigieniche.” Il sedile, lo schienale sono altri elementi del banco che hanno la
loro rilevanza: diritto o reclinato? Diritto o curvilineo? Una statistica dichiarò che l’87% di
un campione di scolari predilige quello curvilineo e curvilineo sia! Si propongono diverse
versioni secondo classi di età: di un certo modello per gli allievi dai 6 agli 8 anni; un altro
per quelli dagli 8 ai 10, un altro ancora dagli 11 ai 13.
Le scritture ordinarie e straordinarie
L’attenzione verso le scritture ordinari nasce anche perché, da molto tempo, come
sottolinea D.Fabre e, per altri versi, M.Ferraris, l’uso sociale della scrittura è iscritto in
termini essenzialmente giuridici ossia come atto di trascrizione o di registrazione e quindi
non garantisce più l’accesso ad una lettura ed interpretazione personale. Il controllo
politico della scrittura non può più passare attraverso le pratiche di uso sociale che sono
istituzionalizzate, omologate.
Le classi dominanti si premuniscono, per così dire, contro usi “eversivi della scrittura” e,
in età moderna, parallelamente ad un percorso di democratizzazione e di accesso alla
cultura scritta, nasce l’esigenza di controllo e di divieto verso forme ed usi sociali che
potrebbero essere in qualche modo pericolosi.
H.A.Frégier nelle sue “Classes dangereuses de la population dans les grandes villes et des
moyens de les rendres meilleures” pubblicato a Parigi nel 1840 elenca, nelle categorie
portatrici di vizi e di immoralità, gli scrivani e i copisti, di cui molti dediti all’alcol, al gioco
e alla pigrizia, considerata come un vero e proprio vizio dannoso non solo a se stessi, ma
anche alla società. L’interdizione dell’attività di scrittura verso certe categorie sociali come
pazzi e delinquenti non solo continua ad essere perseguita, ma viene costantemente
ribadita. Non si può non ricordare l’operato di Cesare Lombroso, uno dei primi
antropologi che si è occupato di scrittura (ma che, ricordiamolo, era anzitutto un medico)
autore non solo di un’opera (scientificamente discutibile) di grafologia, ma anche di una
collezione di scritti proibiti di carcerati da lui raccolti, trascritti e pubblicati nei suoi
“Palimsesti del carcere” nel 1888. Si tratta di una imponente raccolta di epigrafi carcerarie,
di incisioni sugli orci da bere, sui legni del letto, sui margini dei libri concessi in lettura, e
molti tatuaggi. Lombroso, per le sue concezioni sull’atavismo, sulla degenerescenza
dovute alla sua impostazione filosofica positivista, è infatti decisamente contrario a
processi di alfabetizzazione e acculturazione dei detenuti. I regolamenti carcerari
vietavano le comunicazioni fra detenuti, cui era assolutamente proibito di scrivere.
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Naturalmente, essi trovavano ugualmente il modo di comunicare e di scrivere, con i mezzi
più disparati, aghi, qualsiasi oggetto appuntito, con inchiostri anch’essi improvvisati,
perfino il sangue. Lombroso parte dalla considerazione che “l’aumento dell’istruzione non
ha coinciso con una diminuzione dei delitti, anzi… (p.319) A che servirebbe una scuola in
un carcere? Quando si cerca d’impedire la comunicazione fra i detenuti? D’altronde,
quando abbiamo istruito questi giovani (e questo purò servire anche per le case di
correzione) nella scrittura, e nella cognizione dell’alfabeto, che guadagno abbiamo loro
offerto, e che mezzo moralizzatore abbiamo noi fornito?. Forseche essi, poi, vanno a
leggere la morale cristiana o piuttosto appeno lo possano, non leggono essi libri osceni,
giornali di cronache scandalose e criminali, perferzionandosi nel delitto e cercando una
nuova fonte di vanità nel delitto, del farvi parlar di sé? E perciò io credo che debba abolirsi
del tutto l’istruzione alfabetica nei carceri giudiziari ed anche nelle case di pena.”
Piuttosto, consiglia “letture adatte allo spirito, non ascetiche, ma di morale applicata come
le Vite di Plutarco, come i romanzi di D’Azeglio i il Cuore di De Amicis”.
L’attenzione di Lombroso verso le scritture di “anormali” non era certo una novità: i
disegni e gli scritti degli alienati erano utilizzati da tempo per una indagine di natura
semeiotica. Già nel 1864 Marcé aveva pubblicato negli Annales d’hygiène et de médicine
legale, un “Etude sur la valeur des écrits des alienés, au point de vue de la sémiéiologie et
de la médicine legale”. J.Crepieux Jamin, nel suo libro “Les elemements de l’ecriture des
canailles” critica in maniera decisa i criteri lombrosiani, specialmente per ciò che riguarda
la sua grafologia. Per Jamin “La théorie du type criminel est la negation de ce que je vien
d’exposer et doit etre rejetée comme dissolvante et fausse” Il celebre grafologo cerca di
identificare nelle scritture quelle combinazioni di segni che predispongono ad attitudini
viziose, con una prospettiva ed un linguaggio però che fa riferimento a categorie morali,
non psicologiche; parla infatti di “grossolanità, confusione, complicazione, esagerazione,
disarmonia, disordine, orgoglio, debilitazione, menzogna”, Lombroso, per C.Jamin, si
nasconde dietro ai numeri, considerate polvere negli occhi, e affermando che le sue
misurazioni non concludono e non dimostrano nulla. Ma Jamin è ancora più esplicito nei
confronti del nostro antropologo: “Les assassin, au dire de Lombroso, se signalent par le
prolegement net et accentué de la barre du t… les voleurs se reconnaissent au tracé mou,
effacé, un peu feminin de leur manière d’écrire – concludendo deciso – nous sommes là en
pleine ignorance et en plein fantasie”.
Le scritture dei malati, dei criminali diventano un oggetto privilegiato dell’indagine
medica e grafologica, ma queste ricerche si avvalgono ancora una volta linguaggi non
adatti, scientificamente non adeguati. M Duparchy pubblica agli inizi del secolo XX un
libro sulle malattie e le scritture, una sorta di grafologia patologica, utilizzando categorie
ippocratiche come i temperamenti, distinguendo temperamenti artritici, malattie dello
stomaco e del cuore, osservando, per es., che i temperamenti artitrici hanno una scrittura
dall’andamento pesante e monotono, con le linee uniformemente verticali, con i pieni che
si distinguono appena dai filetti. Aggiunge una serie di scritture che riguardano “les
troubles du caractère” e la “rumination du moi”. L’atteggiamento dei medici traccia
spesso il percorso inverso, ossia osservare la scrittura dei malati e cercare di trarne delle
leggi o degli indizi utili per i casi successivi. I medici si sono impegnati in questo tipo di
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ricerche, orientandosi alla comprensione della neurofisiologia del gesto grafico, mentre i
grafologi hanno continuato a cercare di intravvedere nella scrittura segni o indizi di
malattie, alla ricerca di una vera e propria semeiotica della scrittura. Per i medici la
scrittura è un’occasione di ricerca del funzionamento di una funzione importante del
cervello. Esiste tutta una serire di indagini sulle scritture di malati con malattie gravi come
l’Alzheimer, ma l’attenzione non è rivolta a capire i meccanismi della scrittura di per se,
quanto a scoprire i sintomi e i segni dell’insorgere di queste malattie.
La scrittura e la questione igienica
Nella seconda metà del secolo XIX, attorno agli anni 60-70 circa, sorse in Francia un
dibattito sulla pericolosità e perniciosità della scrittura finora adottata nelle scuole, e cioè
l’inglese pendente. Nel 1879 la società di medicina francese intravvide infatti nella
scrittura pendente una delle cause responsabili di miopia, scoliosi ed altre malformazioni e
difetti di vista. Il medico oftalmologo Emile Javal pubblica un testo destinato ad un grande
successo sull’insegnamento della scrittura e della lettura in cui si mostra partigiano della
scrittura diritta. Membro dell’Accademia di Medicina di Parigi, direttore onorario del
laboratorio di oftalmologia alla Sorbona, Javal è anzitutto naturalmente preoccupato, data
la sua professione, dall’aumento dei difetti di vista nella popolazione scolastica. Il suo
libro, che raccoglie articoli precedenti pubblicati sugli Annales d’Oculistique o sulla
famosissima Revue Scientifique, è suddiviso in tre parti: una di carattere storico, una di
considerazioni teoriche ed una di “deduzioni pratiche”. Javal osserva i professionisti della
scrittura all’opera e ne trae delle deduzioni, conosce lo sviluppo storico della calligrafia
(ha in mano un manoscritto del celebre Poujade). Javal non si limita a suggerire la scrittura
diritta, ma crea anche un metodo calligrafico apposito. Parla anche di lettura, di tipografia,
di stenografia, di scrittura musicale, di scrittura a specchio, di litografia, dei mancini e
delle regole per una buona illuminazione. L’opera di Javal rappresenta comunque una
pietra miliare, un passo importante anche se l’enfasi, la foga direi quasi in favore della
scrittura diritta è decisamente eccessiva. Per molti anni questo testo rimarrà un punto di
riferimento indispensabile e imprescindibile per i partigiani della scrittura diritta. Buisson,
il celebre pedagogista, assieme a Javal e Lavisse, fondano addirittura una “Lega per la
scrittura diritta”. Altri congressi si susseguono rapidamente un po’ ovunque e affrontano
questo tema e spesso si risolvono con altrettante condanne della scrittura inglese. Si iniziò
allora a discuterne anche in Italia e a proporre esperimenti di scrittura diritta, come nel
conservatorio Witaker a Palermo nel 1885. Le riviste di igiene e di pedagogia spesso
ospitano articoli su questo tema, in un alternanza di favorevoli e contrari e ci mostrano sia
l’ampiezza e la diffusione del dibattito, sia quanto questa questione stava a cuore di tutti.
La rivista francese Revue d’hygiène et de police sanitaire, ospita, per es., nel 1906 (n.28) un
articolo di Desnoyers, un professore di calligrafia, partigiano della scrittura pendente
(anche lui fonda una Lega, ma per la scrittura pendente), con la risposta di Javal. Alcune
conferenze di igiene discutevano esplicitamente di scrittura diritta o inclinata. In Italia fu
soprattutto Giovanni Colombini il portavoce e propagatore della scrittura diritta. Direttore
e fondatore del periodico “La scuola fiorentina” fu attivissimo nella propaganda per
l’adozione della scrittura diritta, proponendo anche un suo metodo ed attraverso una
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intensa attività pubblicistica fitta di lettere a personalità del mondo della scuola,
giornalisti, medici. Gli ultimi anni dell’800 furono quelli in cui davvero sembrava che la
scrittura diritta avesse la meglio; i programmi scolastici ufficiali del 1888 si limitavano
prima a non esagerare la pendenza dell’inglese, ma, successivamente con i programmi del
1905 si cominciò a raccomandare la scrittura diritta, ammettendo, di fatto, entrambe le
scritture.
La questione ha anche risvolti economici, oltre che sermplicemente didattici: i fabbricanti
di oggetti di scrittura si adeguano e cominciano a produrre pennini espressamente
dedicati alla scrittura diritta (plumes Bourgougnon); si fabbricano quaderni con rigature
apposite e metodi calligrafici. Il dibattito mostra anche tutta una articolazione di
argomenti e di sfaccettature che complicano non poco: si discute sulla posizione del
quaderno e su molte altre variabili. Si fanno sentire anche le argomentazioni contro la
scrittura diritta: è lenta, tanto per cominciare. Il famoso detto della Sand sulla bocca di tutti
i favorevoli alla scrittura diritta che recita “corpo diritto, quaderno diritto, scrittura diritta”
andrebbe quantomeno modificato almeno per quello che riguarda il quaderno. Nella
posizione alla Sand succede che non è solo la mano a scrivere, ma tutto l’avambraccio e
perciò, ci avverte C.A.Mor, professore di pedagogia e Direttore delle Scuole Elementari di
Milano in un articolo del 1916 sull’Igiene della Scuola, che “il braccio destro deve scorrere
all’infuori di tanto quanto è lunga la linea del foglio. Onde per l’appunto i Calligrafi ne
deducono che fra le due scritture, la meno igienica sia quella richiesta dalla scrittura
diritta, perché il braccio, dovendosi spostare verso destra, mentre adduce squilibrio e
asimmetria al corpo, fa acquistare gradatamente tensione alla mano.”
Nel ’23 e nel ’34 continuano le raccomandazioni (ma la scrittura pendente non è abolita)
mentre nel 1945 la scrittura diritta fu prescritta tassativemente “per ragioni igieniche”.
Tuttavia, dai programmi della Falcucci in poi, non vi è più nessun cenno né su quale
inclinazione debba avere il modello scolastico, né tanto meno su quale modello si debba
adottare. L’accento è di fatto spostato verso l’attività di produzione di testi a scapito
dell’aspetto grafico formale, tuttora ingiustamente e colpevolmente dimenticato e
sottovalutato.
Il Colombini, al I° congresso degli insegnanti di calligrafia svoltosi a Roma nel dicembre
del 1901, presenta una memoria sulla scrittura diritta in Italia facendo anche in sala alcuni
esperimenti di scrittura diritta per manifestarne pubblicamente i vantaggi. Non
soddisfatto di ciò, indice l’anno seguente un concorso a premi fra i maestri italiani con
relativa cartolina commemorativa.
Tuttavia, anche le voci contrarie non tardano a farsi sentire. E allora si precisa che la
scrittura diritta non ha la pretesa di sostituire quella pendente, ma di volersi solo proporre
per le prime classi delle elementari, poiché la scrittura pendente la si deve saper condurre
e non riesce se non si ha la mano allenata e non si ha già un po’ destrezza con la mano.
Filippo Repossi, altro notissimo calligrafo, fa anche notare che possono nascere degli
inconvenienti allorquando un allievo passa da una scuola ad un’altra dove si insegnano
tipi di scrittura diversi. Ma la critica del Repossi non si ferma qui: interrogando i maestri e
altre autorità del mondo scolastico e politico, scopre che molti affermano la superiorità
della scrittura diritta sulla base di quanto affermano i loro colleghi, e non sulla base di
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personale esperienze o verifiche, e affermando che laddove vi erano stati esperimenti con
la scrittura diritta, questi sono stati successivamente sospesi. Giovanni Cucchiaroni, un
calligrafo di Camerino, pubblica nel 1892 un importante “Studio comparativo fra l’alunno
abituato a positura igienica e quello scomposta nello scrivere e brevi cenni sui mali fisici, a
cui si va incontro chi scrive scomposto” Con l’ausilio di tavole in fototipia, l’autore illustra
le varie posizioni con cui si tiene la penna, si sta seduti al tavolino e mostra gli
inconvenienti di posizioni e posture errate compiendo osservazioni anche di natura
medica che riguardano, per es., il percorso dell’occhio durante la scrittura. In una
medesima tavola si possono vedere, di schiena, due posture, una errata ed una corrette,
evidenziando le differenze. L’opera ebbe una certa eco negli ambienti scolastici e fra gli
igienisti, testimoniata dalle loro lettere a sostegno allegate al testo nonché da dichiarazioni
entusiastiche di allievi per i risultati raggiunti che hanno ottenuto dopo aver frequentato le
sue lezioni. Non poteva mancare naturalmente una parte dedicata alla famigerata
“questione igienica”. La sua dichiarazione iniziale è inequivocabile: “La riforma che,
secondo Javal si vorrebbe apportare alla scrittura inclinata per andare alla scrittura diritta
allo scopo di scansare la frequenza della miopia, è, a mio debole avviso, inoccasionale
rimedio, in quanto che (ed a chiunque non può sfuggire l’osservazione) il foglio della
carta, collocato in linea parallela a quella del tavolo, se porge all’occhio la perpendicolare
in prima posa, non la concede di poi, quando cioè la mano, vergando lettere e parole, è
costretta a correre in linea longitudinale…” Altri calligrafi, oltre il Cucchiaroni ed il
Repossi partecipano al dibattito schierandosi per lo più dalla parte della scrittura inclinata:
Eliodoro Andreoli, per es., reputato fra i massimi calligrafi di quel tempo, fu invitato dalla
Società di Igiene di Milano per una conferenza sulla scrittura dal punto di vista igienico.
Spesso anche, le pubblicazioni sulla calligrafia, manuali di metodica per gli insegnanti od
altri opuscoli didattici si esprimono sulla questione igienica. Famoso a questo proposito il
testo di Emilio Ageno “La calligrafia nella storia, nella vita, nella scuola” pubblicato a
Genova nel 1907 e in seconda edizione nel 1921. La questione, già affrontata nella prima
edizione, è poi ulteriormente ampliata in quella successiva (p. 131 e succ.) in cui, con
appassionate argomentazioni, dimostra non solo che la scrittura pendente non causa
inconvenienti, ma anche che questa presenta maggiori vantaggi rispetto a quella diritta in
quanto “risponde alle ragioni storico-evolutive e alle naturali tendenze”. Le cause dei
disturbi scolastici sono dovuti, secondo l’Ageno, “nella trascuratezza delle regole igieniche
[!] nella irrazionale e inadatta conformazione dei banchi, nella luce deficiente o mal
distribuita. L’Ageno suggerisce quindi una “posizione dello scrivere che veramente
risponde ai requisiti dell’igiene e dell’arte calligrafica. Ai due requisiti, banco e
illuminazione, l’autore aggiunge la vigile attività del maestro che deve “curare con la
massima diligenza, sin dal primo giorno e ininterrottamente la regolare, la buona
posizione della persona del fanciullo mentre scrive”.
D’altra parte, anche i Ministri sono perplessi e con riescono a capire e interpretare bene la
foga di queste polemiche. Nel 1901, l’allora ministro della Pubblica Istruzione Nasi,
sollecitato dal Colombini alla richiesta di adozione dei suoi testi, è più portato ad una
politica del laissez faire e scrive: “In osservanza di quello che prescrivono i vigenti
regolamenti, io credo sia miglior partito rispettare quella libertà di scelta che, quanto alle
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opere di testo ad uso delle scuole, si è lasciata finora agl’ìnsegnanti.” Sono soprattutto i
calligrafi ad essere i più perplessi e i più contrari o quanto meno, dubbiosi; perplessità
registrate in quegli anni nel periodico pisano di settore “Il calligrafo” diretto da
P.Moriglioni.
Questa vicenda illustra bene ad ogni modo quanto la questione generale
dell’insegnamento della scrittura scappi di mano ai calligrafi, a coloro i quali cioè si erano
occupati da sempre di insegnamento della scrittura, e ciò per due ordini di motivi (che ho
già evidenziato in un altro scritto): 1) non erano più i calligrafi ad insegnare nelle scuole
elementari, per cui non erano più i diretti interessati, anche se molti continuano a
pubblicare modelli per le scuole, specie in quelle in cui era ancora richiesta la presenza di
un calligrafo; 2) la progressiva medicalizzazione del discorso sulla scrittura. Anche nella
vicenda scrittura diritta/inclinata i principali attori non sono tanto gli scrittori di materie
pedagogiche, quanto i medici, ottici o igienisti che siano, a dettare legge. Lo stesso Javal
non osserva i calligrafi al lavoro per fare le sue osservazioni sulla scrittura, ma scrivani
professionisti. Si preoccupa della velocità più che della precisione della forma, osservando
che: “L’écriture la plus rapide et la plus regulière est celle qui reduit un minimum les
mouvements de doigts et se fonde le plus possible sur le mouvements du poignet”
aggiungendo che “L’écrivain habile, s’il a oublié les précepts de son maitre d’écriture,
appuie son coude sur le bord de la table si bien que, tout qu’il écrit sur une feuille étroite,
le coude reste absolument immobile et la ligne d’écriture est non pas une ligne droite, mais
un arc de cercle.” Ma Javal ha la sua diagnosi sulla calligrafia in declino: “Si les méthodes
de ces calligraphes sont tombées dans un oubli immerité, c’est qu’il ont eu le tort de
vouloir appliquer à l’enseignement de l’enfance des principes qui leur avaient réussi pour
rectifier des écritures d’adultes destinés à se faire expédionnaires. Ils ont oublié que
l’immense majorité de la nation n’a pas besoin d’écrire à garnde vitesse”.
L’ostracismo verso la scrittura inclinata e la progressiva e conseguente adozione di una
scrittura diritta presero, successivamente, anche una coloritura politica che qui soltanto
possiamo accennare. Riccardo Dal Piaz, ispettore scolastico e direttore di una rivista di
settore negli anni 30 Scuola e Riforma, pubblicò, in varie edizioni, un testo sulla lettura e la
scrittura nelle prime classi elementari che ebbe molto successo. Nell’edizione del ’36
intitolata significativamente “A scuola con i figli della lupa” scrive (p.228): Se sentiamo il
bisogno di parlarne, è perché la scrittura diritta, oltre che un quesito didattico ed igienico,
rappresenta per noi un vitale problema nazionale…un rapido sguardo alla storia della
grafia ci afferma che in origine la vera scrittura italiana, fin dai tempi di Roma, fu sempre
diritta. Lo dimostra la scrittura cancelleresca, grave e soda, diritta e virile,
inconfondibilmente italiana…” Concludendo: “E questo [la diffusione della scrittura
diritta] è l’alto ambito compito che, con l’introduzione della scrittura diritta, la legge affida
agli educatori dell’Italia fascista”. Una frase poi naturalmente espunta nell’edizione del
1950.
La scrittura diritta ebbe poi un altro alleato con la creazione e la diffusione della scrittura
cosiddetta “script” o sia stampatello, che nasce diritta, anche se successivamente sono state
anche create delle variazioni inclinate.
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Potremmo concludere questo punto osservando che l’attenzione verso l’analisi della
scrittura diritta/inclinata si muove su coordinate che riguardano soltanto l’assetto dello
scrivere, il “setting” come si dice, ossia l’analisi di ciò che predispone la scrittura: la
posizione del quaderno, la prensione dello strumento, l’impugnatura, più che la fisiologia
della scrittura, l’analisi dei movimenti, sia di quelli scritti che di quelli aerei. Si analizzano
posizioni fisse, ma si perde il valore dinamico della grafia, come sarà invece analizzato
meglio dai grafologi (basti pensare a Callewaert). Non si indaga cioè su quale sia il ductus
più breve, più coerente e meno faticoso, su quali legamenti siano i più rapidi, su quale
disegno di lettera sia più funzionale. La costruzione dinamica dell’alfabeto è trascurata; la
pedagogica, così come per altri versi il disegno di carattere tipografico, propongono
modelli statici, ove si focalizza l’aspetto della costruzione della lettera e delle leggibilità
della singola lettera a scapito di quello della corsività e delle ergonomia della scrittura.
Negli ultimi anni l’attenzione di medici, in particolare neurofisiologi, ma anche di
informatici hanno focalizzato l’attenzione sullo studio del movimento ai fini di capire il
movimento grafico, ma anche per cercare di riprodurlo e di sviscerarne le leggi
neurologiche e cognitive ma non affrontano il cammino inverso, quello che cioè va dalla
scrittura allo scrivente. Sulle colonne di giornali come Journal of Educational Research o altri,
si trovano numerosissimi articoli che riguardano la fisiologia del gesto grafico, ma non
hanno mai approdato ad una nuova didattica della scrittura perché gli autori, intenti a
cercare di svelare solo alcuni particolari problematiche e malfunzionamenti della scrittura
senza una visione complessiva, senza una unità e visione d’insieme, si perdono in diatribe
di tipo sì/no e non compiono passi in avanti. La mancanza del raggiungimento di una
pedagogia dello scrittura complessiva anche per la frammentazione dei saperi collegati
che però non cercano questo obiettivo comune, denunciando forse la necessità di una
disciplina o di una metodologia comune.
La scrittura pericolosa. Grafomania
La regolamentazione dell’attività di scrittura non era certo una novità: l’accesso alla
scrittura in antico regime era riservato a certe funzioni, con certe caratteristiche e modalità.
Con l’Illuminismo, la rivoluzione francese e l’avocazione allo stato dell’educazione, si
allargano gli orizzonti della scrittura, ma rimangono ancora delle ambiguità, degli
isolamenti, come la frattura fra la scrittura maschile e quella femminile nell’uso e
diffusione della scrittura. Le donne non potevano ancora scrivere come i maschi, e lo
potevano solo a certe condizioni ed erano in tutto ostacolate nel lavoro di diffusione della
loro scrittura. Anche il pensiero igienico o della psicologia cosiddetta “morbida” cioè
quella che non si occupa di malati gravi, intravvede nell’eccessiva attività di scrittura un
pericolo, quasi una malattia sociale e le si dà perfino un nome: grafomania. Anche il
collezionismo d’autografi non è del tutto visto bene. E’ il primo termine, per così dire,
“medicalizzato” sulla scrittura. Ancora nel 1920 Ossip-Lourié pubblica un saggio
intitolato “La graphomanie. Essai de pshychologie morbide” un minuzioso trattato
sull’argomento. Si distingue fra grafomania clinica da quella psicologica fornendone la
seguente definizione: “Il y a graphomanie quand l’act d’écrire se produit sans nécessité
psychologique…” C’è anche una grafomania letteraria ed una, naturalmente, tutta al
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femminile. Il grafomane quando si esprime, dice l’autore, lo si riconosce facilmente: “Il est
très facile de reconnaitre un graphomane..”
C’è anche una forma di grafomania “depressiva” in cui il soggetto è “suceptible,
imprévoyant” Inoltre i grafomani usano riscrivere spesso le stesse parole, le stesse frasi.
Oltre la grafomania letteraria, c’è naturalmente anche quella epistolare, suggerita dalla
grande espansione della corrispondenza privata alla fine del secolo 19. E l’autore cita
anche la mania di leggere, la bibliomania: indaga sulle possibili cause di queste patologie e
ne indica terapia e profilassi.. Sempre secondo l’autore la grafomania è malattia
psicosociale, debilita, crea dei fanatici della scrittura. Interessanti e illuminanti le
indicazioni di profilassi che indica l’autore, perché vanno anche a sollevare delle questioni
di didattica della lettura e della scrittura. Egli propone di:
1. Supprimer, dans les écoles, la dictée, procédé purement mécanique;
2. Donner aux élèves des sujets de composition à leur portée
3. Etablir une methodologie de lecture
4. Eriger un axiome de verité: accumuler…
5. Réhabiliter le travail manuel et agricole
In un vocabolario travestito da linguaggio paramedico o psicologico, l’autore, partendo da
presupposti assolutamente infondati e privi di qualsiasi timbro di scientificità, arriva a
conclusioni e ad affermazioni assolutamente false gratuite, ma che lasciano intravvedere i
pregiudizi e gli atteggiamenti verso l’attività di scrittura e che riflettono a loro volta
pregiudizi ancora più antichi come la differenza fra uomini e donne o la dicotomia
sani/malati.
Gli esperimenti sulla scrittura
Così come tuta l’attività del corpo umano viene analizzata, stessa sorte subisce la scrittura;
si analizzano le scritture dei sani, ma soprattutto quelle dei pazzi, dei geni e dei
delinquenti. Non si medicalizza tanto la scrittura in sé, quanto il discorso sulla scrittura.
La si utilizza per misurare l’intelligenza od altre capacità fisico psichiche. E la scrittura
entra in laboratorio, si costruiscono macchine e si cerca di misurare con sempre maggiore
precisione le maggiori componenti possibili che entrano nel gioco della scrittura.
Nell’epoca della psicologia sperimentale dove molti medici si erano cimentati con la
grafologia e con la scrittura (Fernet, Marée, Garnot, Héricourt, Mathieu, Roques de Fursac,
Erlenmayer), e non potevano mancare quelli che presentavano congegni e macchine per
rilevazioni di tipo grafico, come la tavoletta grafica di Buccola, il grafografo di Obici, la
stazione di scrittura di Agostino Gemelli, o penne particolari come vari tipi di penna
elettriche, il grafotachimetro di Vignini, lo scriptocronografo di Katz e così via. Lo scopo
principale di questi apparecchi era principalmente quello di capire il segreto della
complessa fisiologia della scrittura, ma non sembra che tutti questi esperimenti abbiano
portato a conclusioni definitive, sia per la strumentazione inadeguata (per lo più fatta in
casa) sia per la ancora scarsa cognizione sui meccanismi complessi del cervello.
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Secondo Marchesan, il primo a esperimentare (cioè a fare esperimenti su) la scrittura è
stato Alfred Binet, i cui risultati furono pubblicati nel 1906 con il libro Les révélations…cui
seguirono altri fra cui quelli di Saudek, Powers, Allport negli anni 20-30, ma soprattutto
per quello che riguarda l’area italiana, negli anni 40 eseguiti da Agostino Gemelli, il
fondatore della Università Cattolica di Milano.
Ad A.Binet interessava la scrittura come test in sé, per la determinazione dell’intelligenza
del soggetto; più che altro il suo libro rappresenta un altro tipo di test, quello sulla prova
della scientificità o meno della nascente grafologia. Egli vuole, in buona sostanza,
verificare se le analisi grafologiche per determinare l’età, il sesso, l’intelligenza, sono
fondate scientificamente e se i risultati di conseguenza siano attendibili o meno. Le
conclusioni cui arrivano i suoi esperimenti non forniscono una risposta soddisfacente, ma
Binet li attribuisce al fatto che in quei tempi la grafologia, disciplina ancora alle prime
armi, non aveva ancora sviluppato metodi e criteri sufficientemente validi. Ma gli
esperimenti di Binet non si esauriscono qui. Riguardo alla diatriba diritta/pendente affida
a due rispettivi esponenti un altro test, ma le conclusioni non sono soddisfacenti. Binet
conclude che ciò che conta, prima di tutto, è che il maestro, fin dall’inizio, non faccia
prendere agli alunni una posizione sbagliata. La scoperta dell’acqua calda. Ma è quello che
i calligrafi hanno sempre scritto e sostenuto: ma nessuno, purtroppo, li ascolta più.
Molto meno incline alla grafologia (è ben noto l’episodio dello scontro-incontro con padre
Moretti) è invece padre Gemelli. Nel suo laboratorio di psicologia dove indaga anche su
altri fronti, prende di mira anche la scrittura. Inventa un apparecchio per analizzarla.
Secondo questo ricercatore uno scrive come è stato abituato a scrivere e come gli è stato
insegnato (evidente tautologia): “allo psicologo importa determinare – scrive - quali siano
le leggi alle quali obbedisce il soggetto nell’esecuzione del compito di eseguirle, come è
abituato a fare e come ha imparato” Ma le asserzioni di Gemelli sono o tautologie o
contraddizioni. Da una parte afferma che la scrittura sottende delle leggi, che esistono dei
“fattori psicologici – scrive M.Marchesan - che conferiscono alla scrittura un carattere
individuale, dall’altra effettua esperimenti dove cerca di annullare le potenzialità di questi
fattori introducendo alterazioni che ostacolano la spontaneità della scrittura”. Le
conclusioni, in effetti, degli esperimenti del padre Gemelli sono delle non-conclusioni e
basate su affermazioni quali: “Ciascun soggetto ha abitualmente una propria velocità
costante” Così non si va da nessuna parte.
Gli esperimenti sulla scrittura sono ripresi ed anzi, aumentati notevolmente, con
l’introduzione dei computer per le possibilità di calcolo e di analisi che offrono.
Particolarmente importanti sono quelli condotti dalla IGS (International Graphonomic
Society) su due fronti: uno essenzialmente cibernetico, i cui team sono composti da
informatici esperti di software dedicati, ed uno composto da medici, prevalentemente
neurofisiologi ma non solo. Il loro scopo è ancora una volta quello di interpretare la
neurofisiologia del gesto grafico secondo schemi e parametri che fanno riferimento alla
psicologia cognitiva. Per i ricercatori dell’IGS la scrittura è soltanto affrontato come
problema di “motor skill”, e come processo psicomotorio e neurofisiologico. Le loro
ricerche hanno prodotto in effetti un enorme ammontare di pubblicazioni specialistiche,
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ma non hanno ancora fornito fino ad ora risultati apprezzabili sul piano di un modello
complessivo soddisfacente.
Conclusioni (sempre provvisorie)
Che cos’è la disgrafia?
Vorrei accennare a mo’ di conclusione provvisoria, soltanto un inizio di percorso e di
ragionamenti sulla scrittura e la sua didattica. Occorre tener presente che, anche se esiste
un aspetto medico che disegna un confine fra normalità e patologia, la scrittura è
un’attività intellettuale e sociale, che si ricollega ad un background e ad una cultura dello
scrivere che non possiamo ignorare. Partiamo dunque dalla parola che percorre tutto
questo convegno. Che cosa intendiamo esattamente per disgrafia anzitutto? Se
analizziamo le principali definizioni, possiamo notare che sono utilizzate diverse categorie
di significato. Per alcuni, come la scuola dell’équipe di Ajuraguerra, la disgrafia non ha
nulla a che fare con la patologia, anzi definisce un bambino disgrafico un bambino la cui
scrittura sia deficiente ancorché non sussista nessun deficit neurologico o intellettuale. Ci
si potrebbe chiedere: deficienza di che cosa e rispetto a che cosa, ma soprattutto non ci si
chiede quali possano essere le cause, una volta escluse quelle di natura neurologica o
cognitiva. Ajuraguerra e la sua équipe individuano gli items di una potenziale disgrafia
da una analisi formale della scrittura; è naturale e giusto; ma per farlo occorre conoscere
quale sia il termine di riferimento di questa formalità. Se indago sulle deviazioni della
norma, devo conoscere quale sia questa norma; non intendo solo l’anatomia delle lettere,
ma anche quali sono le leggi che sottintendono alla costruzione delle lettere, il linguaggio
tecnico relativo, e le motivazioni per cui si devono costruire le lettere e le parole in un
certo modo anziché in un altro.
Per altri, invece, si tratta di un vero e proprio disturbo: “Disgraphy as a disturbance of the
written form of speech is one of the common forms of written pathology” (J.Jekov
Pavlova). Credo che riferire che la disgrafia rappresenta un disturbo del linguaggio scritto
(è questa la definizione della Associazione Italiana Dislessia) non sia una vera definizione,
perché si tratta soltanto di una indicazione di appartenenza ad un ordine gerarchico
superiore (in questo caso le DSA, i disturbi specifici dell’apprendimento). Un’altra
definizione rileva la disgrafia dal punto di vista dell’esito performativo del gesto di
scrittura: si ha disgrafia quando si è in presenza di una cattiva esecuzione del gesto
grafico. “Avere difficoltà nello scrivere a mano.” Va da sé che se la disgrafia implica
difficoltà esecutiva, disordine, poca leggibilità, lentezza del tracciato, non è
necessariamente vero il contrario. Ancor più oggi come oggi, in cui si sono molto ridotte le
distanze fra quelle che una volta si chiamavano “cacografie” e le vere e proprie disgrafie,
ma sinceramente mi preoccupa che semplicemente “avere delle difficoltà nello scrivere”
sia messo in relazione ad una patologia. Ciò sottintende:
1) che le difficoltà fanno parte, a priori, di una patologia, indipendentemente dal
grado, dalle modalità in cui si manifesta tale difficoltà. E’ sufficiente essere in
presenza di una scrittura difficile da leggere che già ci precipitiamo ad identificare
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difficoltà insormontabili e siamo subito pronti nello stesso modo a diagnosticare
disturbi e malattie;
2) che è meglio il più possibile eliminare qualsiasi tipo di difficoltà, senza chiedersi se
non esistono altri presupposti, oltre quelli legati alla disabilità o a deficit di vario
tipo.
Purtroppo il termine a disposizione, disgrafia, si presta a diversi significati ed
interpretazioni secondo l’ottica con la quale lo presentiamo; unisce in un solo lemma due
livelli di definizione, che però sono ben distinti e da considerare ciascuno a suo modo. La
parola “grafia” indica più che altro un sistema di segni (grafemi), mentre il prefisso “dis”
appartiene già alla sfera dell’interpretazione, e che comunque esprime anche un giudizio
di valore che si basa su elementi formali (disordine, incertezze ecc.). In tal modo il termine
riassume sia il sintomo sia la malattia creando potenzialmente una confusione tutta
epistemologica: quali sono le discipline che possono dunque a pieno titolo occuparsi di
disgrafia? A mio avviso le frontiere sono:
• quella medica (neurologica o psicologica) che vede nella scrittura soltanto un
prodotto del cervello;
•
una più legata alla discipline del linguaggio, che considera la scrittura più una
pratica sociale e un sistema di codici;
•
una pedagogica che vede nella scrittura il mezzo per il trasferimento di know-how e
di competenze e apprendimenti specifici.
Relativamente alla prima accezione possiamo intendere la disgrafia come un “disordine
del componenti del movimento periferico” potremmo andare a ritroso e chiederci come
questo “disordine” sia tale rispetto a quale concetto di ordine.
Credo si possa dire della didattica e del percorso scolastico quello che afferma il filosofo
Sergio Moravia (Filosofia e scienze umane nell’età dei lumi p.324) visti come “un’esperienza
fondata su prestazioni tipologicamente predeterminate sistematicamente incluse in una
dimensione competitiva, che privilegia non i contenuti e i significati delle azioni compiute,
ma i loro tempi di esecuzione e la loro efficienza di realizzazione.”
Ci si dimentica troppo spesso che lo scrivere è attività complessa, che richiede
un’attenzione ed una applicazione costante. Francamente mi meraviglia che, dato il poco
tempo dedicato e l’ansia di ottenere subito dei risultati, vi siano così pochi casi di vera e
propria disgrafia.
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La scrittura (veniamo al secondo punto) infatti è anche un codice, ossia un insieme di
segni discreti con un proprio linguaggio ed un proprio meccanismo di funzionamento, di
produzione e di significazione. Ecco qui una delle competenze che di solito non si
considerano ma la cui mancanza è senz’altro causa di disordine grafico. Assieme a quelle
linguistiche, visive, motorie, cognitive ecc. che si elencano quando si tratta di scrittura,
occorre anche citare la competenza specifica che riguarda il funzionamento della scrittura
come tracciato grafico e dinamico. Non è solo il disegno delle lettere che interessa qui, ma
anche il modo di collegarle, il saper trovare la strategia per una condotta grafica più
dinamica ed economica per lo scrivente. Un percorso che, normalmente, vista la mancanza
di didattica specifica, l’alunno compie da solo, ma succede sempre più spesso, che questo
goal fallisca in parte o del tutto.
Riguardo il terzo punto, ci si può chiedere se possiamo identificare con la disgrafia non
soltanto un deficit personale ma anche una mancata, totale o parziale, realizzazione di un
obiettivo didattico ben preciso o, più in generale, di un progetto educativo. Per rispondere
o per affacciarsi ad uno di questi approcci occorre proporre una definizione “generalista”
di disgrafia che sia soddisfacente per tutti. Se dovessi tentare una generica definizione,
oserei dire che essa è la evidente manifestazione di una problematica relativa alla realizzazione del
tracciato grafico. Personalmente propongo il termine disgrafia “meccanica” quando siamo
di fronte soltanto a problematiche di cattiva realizzazione dovuta per lo più ad una
mancanza o errata igiene grafica (compresa una analisi del setting) e disgrafia
“patologica” o simili come accezione medica, ossia come un “disturbo della qualità del
tracciato grafico rilevato e dimostrato essere indice di deficit cognitivi, intellettuali, visivi
ecc.” . Per arrivare ad una diagnosi di questo tipo è quindi necessario, in prima battuta,
eliminare tutte le cause meccaniche e testare “ad adiuvantibus”. E’ necessario anche
chiarire quale sia il concetto di qualità del tracciato grafico e dare indicazioni su come
discernerne uno sporco da uno pulito, e come poi, arrivare alla diagnosi esatta.
I punti deboli delle analisi e delle valutazioni che normalmente si eseguono per rilevare le
problematiche della scrittura risiedono in due questioni fondamentali: la prima è quella
che ho appena accennato e che riguarda la mancanza di una cultura di natura grafica e
calligrafica, assolutamente indispensabile per poter inquadrare correttamente i problemi
riguardo la scrittura, secondariamente (ma è implicazione della prima) occorre saper
distinguere quali siano problematiche di natura essenzialmente medica o psicologica e
quali siano problematiche dovute ad una cattiva (o mancata) educazione grafica. La
disgrafia patologica, di competenza medica riguarda una percentuale molto bassa rispetto
alle cattive scritture che sono semplicemente dovute ad una cattiva educazione grafica. Un
altro aspetto che non si considera, o lo si considera poco, è quello che i paleografi chiamo il
“rapporto di scrittura” ossia come l’allievo o anche l’adolescente vive e percepisce l’attività
grafica. Molto spesso quello che io chiamo il “disagio grafico” è dovuto ad un cattivo
rapporto di scrittura; le cause sono tutte culturali, ed è anche su quel fronte che occorre
agire. Altrettanto spesso i ragazzi si rifugiano nel computer, a volte sollecitati dagli stessi
genitori od insegnanti. L’aspetto motivazionale è importante, anzi, determinante.
Dobbiamo dare ai bambini il concetto che anche scrivere a mano è importante. Se parliamo
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di problemi di scrittura è evidente che enfatizziamo, la performance, il risultato, a scapito
di tutto quello che c’è a monte. La scrittura non è solo un obiettivo da raggiungere o un
compito da assolvere né soltanto una tappa nel percorso scolastico da superare il più in
fretta possibile.
Spesso le difficoltà che i ragazzi incontrano nello scrivere non denunciano una vera e
propria disgrafia, quanto un disagio tutto personale nella scrittura, dovuto magari al
semplice fatto che non è stato insegnato loro a scrivere in maniera corretta. Prima di
affrontare il tema, seppure importante e fondamentale delle disgrafie, occorre affrontare,
in generale, il tema dell’insegnamento della scrittura nelle scuole su basi pedagogiche e
scientifiche, accogliendo anche istanze di altre discipline. Occorre pertanto che anche la
scuola si assuma le sue responsabilità e non deleghi al medico istanze che le sono proprie e
proporre una didattica della scrittura che tenga conto anche dei vecchi parametri delle
scuole calligrafiche. Non è accettabile l’alibi del computer. La medicalizzazione della
scrittura che è in atto rappresenta un pericolo, se vogliamo vedere solo le anomalie e non
cerchiamo anche di capire che cosa occorre fare per evitare che sorgano queste anomalie.
Concentrandoci su ciò che è anomalo, infatti, corriamo il rischio di perdere l’orizzonte di
una buona pedagogia della scrittura, che dovrebbe essere uno degli obiettivi principali di
tutti noi. Non solo ri-educatori della scrittura, ma anche, e semplicemente, educatori alla e
della scrittura.
Credo che i grafologi e i veri indagatori delle scritture sappiano, infatti, che c'è sempre un
qualcosa che sfugge nel loro oggetto di indagine, che prima non ci si aspettava o di cui non
ci si era accorti, uno zoccolo duro resistente a tutte le interpretazioni e che rifugge da
incasellamenti scientifici precisi e leggi universali. Ciascuna disciplina che si interessa di
scrittura si interessa anche, e soprattutto, di qualcosa d'altro, ed forse per questo che
sempre altrove, al di là di quello che ci eravamo immaginati, una sorpresa. Con la scrittura
si trova un corpo, un'anima, una storia e, buona o cattiva che sia, ci rivela qualcosa di tutto
questo.
Ciascuna disciplina afferente alla pedagogia della scrittura si deve porre in maniera
dialettica e interlocutoria nei confronti delle altre. Occorre stabilire obiettivi, limiti,
metodologie di ricerche e linguaggio specifico comune, ed un codice deontologico per
evitare “invasioni di campo”. Le problematiche relative alla scrittura oggigiorno non sono
specifiche dell’età primaria, le ritroviamo sia alle medie o alle superiori, sia, seppure con
altri stimoli e motivazioni, anche in età adulta.
Occorrerebbe forse, a questo punto, e passo ad una proposta operativa, creare una rivista,
più utile a mio parere di un sito web o di un forum sulla rete, che affronti secondo questo
spirito le problematiche, non solo della disgrafia, ma anche quelle in generale di ciò che ho
chiamato il disagio grafico. Per questo obiettivo sono pronto a partecipare. Una palestra di
confronto, senza ideologie o schemi concettuali predeterminati, con lo scopo di riuscire a
fornire utili e fondate indicazioni a coloro che soffrono di questo disagio (compresi
genitori e adulti) ma anche con quello di arrivare a formulare una proposta di didattica e
di pedagogia della scrittura, che porti a rivalutare, in tutti i sensi, la scrivere a mano oggi.
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4. La scrittura fra igiene e sanità