Acta apuana, I (2002), 5-23 ANTONIO BARTELLETTI* LA SCOPERTA DELLE NECROPOLI LIGURI APUANE DI LEVIGLIANI DI STAZZEMA E MINAZZANA DI SERAVEZZA (ALTA VERSILIA)1 Riassunto – L’Autore ricostruisce la storia dei ritrovamenti archeologici nelle necropoli liguri d’età ellenistica di Levigliani di Stazzema e Minazzana di Seravezza (Alta Versilia), nel corso del XIX sec., attraverso manoscritti inediti e con l’aiuto della cartografia catastale. I documenti permettono di datare con maggiore precisione l’età delle scoperte e descrivono diversi oggetti del corredo funebre, di particolare valore, mai rinvenuti in precedenza ed oggi purtroppo dispersi. Résumé – L’Auteur reconstruit, par le moyen de manuscrits inédits et à l’aide de la cartographie cadastrale, l’histoire des découvertes archéologiques, au XIXe siècle, dans les nécropoles ligures de l’âge hellénistique, qui se trouvent près de Levigliani de Stazzema et Minazzana de Seravezza (Haute Versilia). Les documents permettent de dater, avec majeure précision, les âges des découvertes archéologiques et ils décrivent divers objets du mobilier funéraire, qui n’ont jamais été trouvés précédemment et aujourd’hui ils sont malheureusement dispersés. Mots clef – Ligures Apuans, nécropole, tombes à incinération, mobilier funéraire estensori della Carta Archeologica d’Italia (Banti, 1929, p. 7; Neppi Modona, 1956, p. 19), si rifanno a Santini, riproponendo in modo talvolta pedissequo quanto lo stesso ha annotato nella sua opera citata. Altri sono riusciti perfino ad equivocare la lettera dei passi santiniani, aggiungendo così errori ad imprecisioni. Il presente lavoro, grazie anche al recupero di documenti inediti del tempo, ha l’ambizione di riordinare la storia dei ritrovamenti archeologici del XIX sec. nelle due aree indicate, fornendo agli studiosi del periodo ellenistico, in ambito ligure orientale, nuove informazioni soprattutto sulla necropoli di Levigliani. Inoltre, l’utilizzo di informazioni ricavabili dai catasti preunitari e, in certi casi, d’impianto pregeodetico – sovrapposto a dati documentali – ha consentito di gettare ulteriore luce sull’ubicazione dei luoghi di antico rinvenimento archeologico. Premessa Nel territorio dell’Alta Versilia due sono le necropoli liguri, di età ellenistica, che hanno fornito corredi funebri all’interno di tipiche tombe a cassetta litica. Di diversa consistenza per la qualità e quantità dei reperti riportati alla luce, le necropoli di Levigliani di Stazzema e Minazzana di Seravezza trovano, nelle tombe di Pariana di Massa (loc. Tombara) a nord-ovest e di Vado di Camaiore (loc. Serra) a sud-est, i più vicini siti sepolcrali del medesimo periodo storico (cfr. Maggiani, 1979, p. 86 fig.; 1984, p. 352 fig.; AA.VV., 1990, pp. 23 e 42), ben caratterizzato dalle ultime fasi dell’occupazione ligure delle Alpi Apuane e dalle cruente guerre che poi sancirono la rapida romanizzazione del territorio. Posizionate entrambe su terrazzi orografici, comunque a diversa altezza sul livello del mare (750 m Levigliani, 480 m Minazzana), con esposizione comune a solatìo (in particolare a sud e sud-ovest), le due necropoli sono state oggetto di ripetuti ritrovamenti, per lo meno dal XIX sec. fino al 1980. Gran parte delle notizie più antiche si ricava dai Commentarii storici sulla Versilia centrale (VI voll., 1858-62) di Vincenzo Santini (1807-1876: scultore e archeologo pietrasantese) che – come vedremo – non ha sempre raccolto le informazioni da fonti primarie, portando in certi casi alla diffusione di notizie ed indicazioni imprecise. Diversi Autori, compresi gli Le due scoperte in letteratura Bruno Antonucci (1963, p. 9) è il primo che ha tentato di stabilire una cronologia dei più antichi ritrovamenti della necropoli di Levigliani. Utilizzando come fonte i Commentarii di Vincenzo Santini (1858-62), senza però indicare né volume, né pagina, ma soltanto uno degli anni di pubblicazione dell’opera in più volumi – il 1861 – ci dice che: “’alla *) Direttore del Parco Regionale delle Alpi Apuane – viale Stazione, 82 – 54100 Massa. 5 si stabilisca però una coincidenza di datazione tra i due eventi, ma soltanto una relazione di somiglianza tipologica tra sepolture d’interesse archeologico. Il passo è riportato letteralmente anche da Antonucci (1963, p. 10), confermando l’ipotesi di un’errata comprensione delle informazioni contenute.2 Scartato il 1847 come anno di scoperta della necropoli di Levigliani, la datazione successiva del 1858, spesso affiancata alla prima, sembra comunque più accettabile, pur non trovandosi mai direttamente citata da Santini nei vari passi in cui ha trattato di questi “antichi sepolcreti” (1858, vol. I, p. 13, 27; 1859, vol. III, p. 261; V, 1861, p. 177). Probabilmente, il 1858 è stato desunto dalla data di pubblicazione del I volume dei Commentarii, entro cui si pone il passo sopra citato, in coincidenza di un chiaro riferimento ‘spazio-temporale’: “nel qual luogo pur di presente altre Olle cinerarie si ritrovano”. Anche il passo a pagina 13 dello stesso volume I suggerisce come, al tempo della pubblicazione dell’opera di Santini, fosse probabilmente in atto uno scavo archeologico pianificato o comunque progressivo della tombe liguri apuane di Levigliani: “come consta dalla vicina necropoli che ivi si va discoprendo”. È stata nostra cura consultare il manoscritto dei Commentarii di Santini per trovare eventuali ‘lezioni’ diverse e rivelatrici al confronto testuale con quella poi data alle stampe. In effetti, il passo fondamentale di pagina 27 del volume I corrisponde ad una stesura leggermente differente nel manoscritto, che prefigura anche un successivo intervento integrativo. 3 Analoga cosa si osserva per l’altra citazione (vol. I, p. 13) trovandosi aggiunta a margine nel manoscritto (c. 6 v). Tutto ciò induce a pensare che Santini possa aver acquisito dati più completi sulla necropoli di Levigliani e/o – forse meglio – notizie di successivi ritrovamenti, in un periodo appena antecedente alla pubblicazione del I volume dei Commentarii. La cosa risulterebbe coerente con l’indicazione del 1858, stabilendo pure la possibilità di un ritrovamento antecedente, come conferma la documentazione inedita che è stata rinvenuta ed illustrata nel presente lavoro. Piana’ di Levigliani furono ritrovate nel 1847 alcune olle cinerarie, e che altre se ne trovarono nel 1858”. Guglielmo Lera (1963, p. 78) ha ripreso quasi letteralmente il passo riportato, indicando però di nuovo Santini come fonte bibliografica della “scoperta, avvenuta nel 1847, di un rozzo sarcofago contenente olle con ossa abbruciate, un serto un brando e una scure. Scoperta questa a cui altre seguirono nel 1858”. L’indicazione, comunque di fonte secondaria, riferita al 1847 e al 1858 come gli anni dei primi ritrovamenti archeologici presso la necropoli di Levigliani, si è poi ripetuta e diffusa invariabilmente anche in lavori successivi di altri Autori. In Lucca preistorica di Mencacci e Zecchini (1976, p. 151) si legge che, alle tombe di Levigliani accertate e descritte nel XX sec., “va aggiunto un numero imprecisabile di sepolture venute alla luce nel 1847, nel 1858 e nei primi anni del nostro secolo”. Anche Maggiani (1983, p. 434) recupera le medesime citazioni attribuendo all’erudito Santini la menzione di “una serie di scoperte casuali, dovute alla intensa attività agricola, avvenute tra il 1847 e il 1858”. Pure in un successivo lavoro di Maggiani (1995, p. 104) viene detto che “i più antichi rinvenimenti di cui si conservi memoria, risalgono agli anni centrali del secolo scorso (1847 e 1858 per Levigliani)”. Per la necropoli di Minazzana di Seravezza le notizie in letteratura non cambiano riguardo alla fonte (ancora Vincenzo Santini), ma mutano per la datazione del primo rinvenimento, poiché la cosa si fa indubbiamente più incerta e più lontana nel tempo. Nel passo appena citato di Maggiani (1995, p. 104), l’età è detta “imprecisata ma anteriore al 1861, anno di edizione dei Commentari del Santini, che registra tali scoperte archeologiche, per Minazzana”. Inoltre, la consistenza del materiale ritrovato è ritenuta pure sconosciuta, così come la sua tipologia (Mencacci e Zecchini, 1976, p. 153). Qualsiasi tentativo di ricostruire la cronologia dei ritrovamenti nelle necropoli di Levigliani e di Minazzana non può prescindere da un primo passo obbligato: la revisione critica delle indicazioni di Vincenzo Santini. Siamo dunque andati alla lettura dei sei volumi dei Commentarii per registrare quanto l’Autore, più o meno coevo alle scoperte, abbia scritto sullo stesso argomento. La cosa non è stata né breve, né agevole, per la quasi assoluta mancanza di indici nella stessa opera e per il gusto ottocentesco di trattare più volte gli argomenti e di disperderli in contesti narrativi e tematici imprevedibili. Minazzana Per l’altra necropoli versiliese, le citazioni bibliografiche di Vincenzo Santini, fino ad oggi utilizzate in letteratura (Mazzini, 1923, p. 56; Lopes Pegna, 1958, p. 63; 1965, p. 114; Mencacci e Zecchini, 1976, p. 153, ecc.), si riferiscono unicamente al V volume (1861, p. 177), là dove si parla soprattutto del ritrovamento di tombe a cassetta nella zona del Baccatoio di Pietrasanta, durante i lavori per la costruzione della linea ferroviaria: “poste ognuna, o più insieme, tra 5 o 6 rozze pietre, onde servir loro di custodia, nella guisa istessa che lo erano quelle trovate già presso Solaio, Minazzana e Livigliani”. Il riferimento a Minazzana è del tutto incidentale e, almeno per questo passo di Santini, non si può che concordare con la conclusione di Mencacci e Levigliani A consuntivo della ricerca bibliografica ci sembra che i riferimenti al 1847 per Levigliani derivino da una non corretta lettura di un passo dei Commentarii di Santini (1858, vol. I, p. 27), là dove si parla di un ritrovamento di una cassa sepolcrale presso il “Colle della Guardia”, vicino a Solaio e Vallecchia, con la specificazione perfino del mese della scoperta. Ne segue, in verità, un riferimento generico ad “altre urne consimili” rinvenute presso Levigliani, senza che 6 anni immediatamente successivi all’evento narrato (probabilmente il 1856-57).4 Il “Ricordo interessante” di Simi ci documenta oggi di un’unica sepoltura, appartenente ad un individuo di sesso maschile – non necessariamente un adulto guerriero – i cui resti cremati si conservavano in recipienti fittili, posti entro una cassetta litica a sei lastre di scisto, dalle dimensioni forse stimate per eccesso (2 braccia = ca. 120 cm). Il corredo è indubbiamente ligure (e non etrusco come preferiva Simi) e costituito, di sicuro, da un’olla maggiore contenente le ceneri, un’olla minore, una “tazza” (da intendersi come ‘coppa biansata’ o kylix), mentre il termine “coppa di terra” sembra riferirsi piuttosto ad una ciotola in argilla ocra o rosata e non ad un altrettanto consueta coppa in vernice nera. Si segnala comunque un’incongruenza nella nota di Simi sul numero di “vasi” rinvenuti, poiché all’indicazione numerica iniziale di quattro corrisponde poi un’elencazione di cinque oggetti ceramici, con l’aggiunta di un “bacinello” non meglio descritto ed individuabile. Emilio Simi è da ritenere un testimone più che attendibile di questa prima scoperta, non soltanto perché persona istruita, attenta e sensibile alla storia e all’archeologia della propria terra. Il caso ha voluto che, proprio nei terreni della famiglia, venisse alla luce questa tomba a cassetta ligure apuana. Va qui precisato che la zona è sempre la medesima degli scavi del XX sec., malgrado il suo toponimo abbia subito nel tempo una piccola modificazione, passando dal più antico “Le Piane/Alla Piana” all’attuale “Piane Alte”. Il documento di Simi assume dunque un valore particolarmente significativo non soltanto per l’attestazione della data e per la conferma del luogo di ritrovamento, anche perché proietta più lontano nel tempo probabili ed analoghe scoperte archeologiche. In effetti, la nota ci ricorda come già la tradizione volgare considerasse “Le Piane” il luogo in cui doveva esistere, in epoca comunque remota, un villaggio e perfino un tempio. Simile leggenda, raccolta pure da Levi (1932, p. 530), vuole l’origine del borgo di Levigliani proprio in quella stessa zona e rimanda a tempi relativamente recenti il suo spostamento più in basso, nell’attuale sede. È fuor di dubbio che queste credenze popolari abbiano raccolto la memoria della sporadica scoperta di tracce della grande necropoli ligure apuana che si estendeva lungo le dolci pendici che discendono dal fianco meridionale del Monte Corchia. Le numerose cassette litiche prive di corredo, scoperte anche nel XIX sec., farebbero pensare a precedenti ritrovamenti occasionali nel corso di lavori agricoli e/o di antichi saccheggi. Inoltre, esiste anche un dato bibliografico che sembrerebbe confermare tutto ciò, una volta testata la sua attendibilità. Non manca infatti una pubblicazione di un erudito locale, tale Guido Gherardi (1935, p. 18 n), che documenterebbe come “presso il paese di Levigliani (alta Versilia) verso il 1830 Zecchini (1976, p. 153), che ritengono la notizia così scarna e non utile a stabilire l’età del ritrovamento, la tipologia del materiale e la sua consistenza numerica. Tuttavia, in una pubblicazione di Antonucci (1965, p. 77), scritta all’epoca del recupero degli unici reperti oggi conosciuti e conservati delle tombe di Minazzana, si cita di nuovo Santini come fonte del ritrovamento di “olle cinerarie” (sic tra virgolette) in quello stesso luogo. Come al solito il riferimento bibliografico è indefinito, ma l’espressione virgolettata non appartiene al passo e al contesto testuale sopra citato. Dopo una complessa ricerca riteniamo di aver trovato tale indicazione di Antonucci in una pubblicazione postuma di Santini, dedicata alle Vicende storiche di Seravezza e di Stazzema (1874, p. 263), che doveva rappresentare il volume VII, mai dato alle stampe, dei più volte citati Commentarii. In particolare, nella descrizione del paese di Minazzana si racconta anche di “olle cinerarie, assai rozze, trovate anni sono nei terreni dei Bartelletti e delle quali altrove si disse”. Le ulteriori informazioni fornite da questo passo di Santini, rispetto al dato della ‘cassetta litica’ sopra detto, riguardano non solo la presenza di “olle cinerarie”, ma pure una vaga indicazione sui proprietari dei terreni in cui è avvenuta la scoperta. Inoltre, non può passare inosservata la parte finale della frase – “delle quali altrove si disse” – poiché sottende l’esistenza di ulteriori citazioni sull’argomento. In effetti, abbiamo avuto modo di constatare che il III volume dei Commentarii (1859, p. 261) contiene il migliore e più completo tra i riferimenti a questa necropoli: “altre Olle ancora, trovate, 30 anni fa, presso Minazzana, in un terreno dei Marchesini, ed ora dei Bartelletti”. Si confermano così le “olle” (anche se qui non sono dette cinerarie), si specifica meglio la situazione proprietaria del sito e, fatto non secondario, si dà informazione sull’età del ritrovamento, attestandolo dunque intorno al 1830. Quest’ultimo particolare sulla datazione sarà trattato con maggior dettaglio e verificato più avanti. Il “Ricordo interessante” di Emilio Simi Il primo documento riportato in Appendice (‘doc. 1’) riesce da solo a svelare l’enigma del più antico ritrovamento certo nella necropoli di Levigliani. È una breve memoria del naturalista Emilio Simi (1820-1875), che fa da inserto ad un caotico libro di ricordi ottocenteschi ed oltre, trascritti e raccolti da un certo prete Giuseppe Mattei di Seravezza. Sotto il titolo di “Ricordo interessante”, Simi ha registrato l’età della scoperta della prima tomba ligure della necropoli di Levigliani, risalente al maggio del 1855. La nota non porta date relative alla sua stesura, ma dal contesto del libro di memorie in cui è contenuta, si può farla risalire agli 7 della “calce” per sigillare le tombe a cassetta.5 Nel ritornare all’analisi delle due relazioni, va detto che, indipendentemente dalla nostra attribuzione, si tratta sempre di due documenti autentici che, scritti nella seconda metà del XIX sec., costituiscono l’uno la verosimile ripresa e sviluppo redazionale dell’altro, con il possibile fine di giungere ad una pubblicazione organica sui primi ritrovamenti archeologici della necropoli di Levigliani. I documenti qui trascritti non costituiscono l’intera stesura, dato che il testo è mutilo per lo meno nel pezzo finale della seconda relazione (doc. 3), così come il suo apparente incipit richiama una parte non pervenuta a noi. Che il doc. 3 dell’Appendice segua temporalmente il doc. 2 è evidente anche da alcuni termini descrittivi che, presenti nel testo relativamente più antico, si trovano cassati e sostituiti nel più recente. Questa successione logica è confermata pure dalla maggiore estensione e sviluppo della seconda relazione rispetto alla prima e dal fatto che sia costituita non solo da parti puramente descrittive, ma anche da un abbozzo di ragionamento storicoarcheologico sul ritrovamento. La cosa che immediatamente colpisce dall’esame comparato delle due relazioni è la segnalazione di un diverso numero di sepolture rinvenute con il loro corredo rispetto a quelle risultate vuote. In totale le cassette litiche sono sempre tredici in entrambi i documenti, ma se nella prima relazione i reperti appartenevano soltanto a tre tombe, il numero di sepolture complete sale a quattro nella seconda relazione. Questo fatto ci sembra in relazione ad un’altra anomalia descrittiva, che vede l’Autore riportare misure identiche di più oggetti ritrovati in sepolture diverse. L’esperienza insegna che soprattutto i vasi in ceramica possono assumere un aspetto simile, sebbene mai perfettamente equivalenti in forma e dimensioni. Potrebbe trattarsi di una semplificazione descrittiva (anche se le misure denunciate appaiano molto precise), oppure potrebbe anche segnalare un’incompleta disponibilità dei materiali presso l’Autore, a seguito di una spartizione del “bottino di guerra” archeologica, così come di una dispersione già avvenuta, non escludendo il caso della possibile distruzione dei reperti durante le fasi del recupero o per eventi precedenti allo stesso. In questi ultimi casi, le relazioni si sarebbero riferite soltanto ad una parte del materiale repertoriabile per accesso diretto, cosicché i dati complessivi deriverebbero da integrazioni con notizie, più o meno sommarie, raccolte o desunte sul materiale non più disponibile. Tuttavia, queste incongruenze non svalutano più di tanto l’importanza archeologica delle relazioni, poiché le informazioni contenute sono più che attendibili e, in certi casi, documentano pure il ritrovamento di oggetti mai attestati per la necropoli di Levigliani, benché simili a reperti di vicine necropoli liguri apuane. fu fatta la scoperta di una necropoli preromana, con olle cinerarie; per cui siamo indotti a credere che il paese sia stato un primitivo centro ligure, e un Ostis degli antichi apuani”. A meno che Gherardi non abbia attribuito questa data a Levigliani, confondendola con quella del tutto indicativa, ma più corrispondente al ritrovamento di Minazzana. Le due relazioni successive L’Appendice riporta due relazioni (contraddistinte dalla sigla ‘doc. 2’ la prima e ‘doc. 3’ la seconda), completamente inedite nel loro contenuto, tra loro strettamente legate e, come vedremo, successive al “Ricordo interessante” sopra riproposto ed analizzato. Soprattutto la seconda relazione, che riprende ed amplia la prima, consente di assegnare i ritrovamenti alla necropoli stazzemese, presentando pure un termine post quem per una possibile datazione dei testi. In effetti, i riferimenti dello scritto alle pagine 13 e 27 del I volume dei Commentarii di Santini, stabiliscono che almeno questa seconda stesura è stata redatta dopo il 1858, anno di pubblicazione del tomo citato. L’attribuzione ad Emilio Simi del “Ricordo interessante” è sicura perché ne porta inequivocabilmente la firma, mentre quella delle due relazioni manoscritte è cosa soltanto probabile in base all’esame calligrafico e, volendo, al particolare stile descrittivo e all’uso di un lessico connotante, spesso derivato dal vocabolario abituale di un naturalista e, più nello specifico, di un botanico (foglia lanceolata, f. ovato-ellittiche, mucrone, ecc.). Altra conferma la si può trovare dallo spunto particolarmente polemico verso Vincenzo Santini, con il quale Simi aveva ingaggiato nel 1857 una furiosa e mai sopita polemica (Bartelletti, 1991, p. 204 n). A questo proposito è da rilevare come, nella seconda relazione, il nostro Autore (di certo in possesso dei reperti) critichi Santini e pure Francesco Donati (1821-1877: padre scolopio meglio noto come “Cecco Frate” e come amico di Giosuè Carducci e insegnante di Giovanni Pascoli) per aver trattato delle tombe di Levigliani senza aver mai preso visione dei corredi funebri. Il fatto, non secondario, spiegherebbe anche l’errata attribuzione delle sepolture all’età romana, contenuta nei Commentarii, così come l’inesatta descrizione dei reperti (in cui solo il “serto” corrisponde). Noi ipotizziamo che la fonte di Santini sia stata Giuseppe Mattei, sul cui racconto o lettura della nota di Simi può aver fondato la notizia fino ad oggi accettata in letteratura. Siamo per altro convinti che Santini, considerandosi esperto di archeologia, abbia forse voluto correggere Simi e reinterpretare i suoi dati, cercando di intendere la romanità dei reperti sia nel costume d’incenerire le spoglie mortali, sia nell’informazione (comunque non corretta) dell’uso 8 Fig. 1 – Necropoli di Levigliani: beni campivi (“lavorativi”) di proprietà di Angelo Simi in località “La Piana” (oggi Piane Alte), verso il 1855, riportati sulla maglia del vecchio catasto terreni (sez. K, f.° I del comune di Stazzema) Fig. 2 – Necropoli di Levigliani: le proprietà Simi di cui alla fig. 1, riportate sui mappali del nuovo catasto terreni (f.° 19 del comune di Stazzema), con la distribuzione dei settori dell’area sepolcrale ligure apuana (secondo Maggiani, 1995b: ricostruito e modificato) 9 Problematica è l’indicazione, per alcune olle, del loro colore nero (cfr. doc. 3), a meno che l’Autore non abbia apprezzato come vernice di tale colore un più probabile impasto bruno. L’analisi del corredo Prima di iniziare l’analisi dettagliata e comparativa dei reperti rinvenuti nella necropoli di Levigliani, appena dopo la metà del XIX sec., e descritti nelle due relazioni attribuite ad Emilio Simi, è opportuno dare ragguaglio sul sistema di misurazione ‘preunitario’ adottato dall’Autore nel descrivere gli oggetti, per poi convertirlo nel metrico decimale odierno. Già il fatto che un uomo di scienza – qual era Simi – usasse, per le misure di lunghezza, le braccia, i soldi e i quattrini, in luogo di centimetri e millimetri, dimostra come i documenti non possano esser stati elaborati in un tempo di molto successivo all’Unità d’Italia, quando ai sistemi regionali e locali si sostituì definitivamente il metrico decimale (cfr. R. D. n. 3836 del 20 maggio 1877).6 Nella tab. 1 in Appendice sono riportate le misure ragguagliate al sistema metrico decimale, degli oggetti descritti prioritariamente nella seconda relazione attribuita a Simi (doc. 3). L’ultima colonna riporta poi il confronto dimensionale con reperti museali non solo di Levigliani. La sigla tra parentesi individua l’appartenenza dell’oggetto ad un determinato corredo funebre della stessa necropoli versiliese, secondo la classificazione di Maggiani (1995), con l’anno che indica la data della scoperta e il numero oltre la barra che stabilisce l’ordine progressivo di rinvenimento della stessa sepoltura. Anche in base alla comparazione dimensionale sopra detta, oltre agli elementi descrittivi desumibili dalle due relazioni, è stato possibile giungere alle seguenti conclusioni in merito al corredo del complesso tombale rinvenuto a partire dal 1855. La successione degli oggetti segue l’ordine indicato dal doc. 2: Coppe biansate (“tazze... con manubrj”) La descrizione e le misure riportate nelle relazioni si attagliano alla tipologia generale di una kylix, quasi sempre presente nei corredi funebri delle tombe liguri apuane d’età ellenistica. Si tratta indubbiamente di ceramica a vernice nera d’importazione, forse proveniente da officine dell’Etruria settentrionale. Ciotole/coppe (“vasi lacrimatorj/coppe... senza manubrj”) Siamo in presenza, in ogni caso, del tipico elemento del corredo posto rovesciato a chiusura protettiva del cinerario (cfr. doc. 1). Le dimensioni sarebbero più in linea con una ciotola, così come la forma rappresentata come “mezza sfera”. Tuttavia, è da ritenersi probabile che, tra i coperchi dell’ossuario, siano stati rinvenute coppe di ceramica di vernice nera d’importazione, analoghe alle coppe biansate di cui sopra, prendendo per buona la specificazione descrittiva del colore “nero-lucente” della vernice (cfr. doc. 3). Invece, la presenza di vasi con “vernice laterizio” si riferisce a ciotole e non a coppe. Fibula (“spillo di rame”) La rappresentazione testuale dell’oggetto non pone dubbi sul fatto che si tratti di una fibula, di certo del tipo Certosa, per altro l’unico modello fino ad oggi documentato nella necropoli di Levigliani (Antonucci, 1967a, 135; Maggiani, 1995b, p. 105). Il termine descrittivo usato dal naturalista Simi per l’arco della fibula – “foglia lanceolata” – oltre a confermare il ‘sottotipo II di Certosa’ (Maggiani, 1979, p. 83), ne raffigura meglio la forma che non il diffuso termine di scuola archeologica ‘a foglia d’olivo’ (dato che la specie vegetale presenta spesso in natura anche forme foliari ovali o linearispatolate). Imprecisioni si rivelano comunque nel riconoscimento del metallo della fibula – probabilmente non il rame ma la sua lega con lo stagno, cioè il bronzo (che si ossida con una simile patina verdognola) – nonché dalla posizione della maglia ad uncino, in cui si ferma la staffa, posta all’apice anteriore e non posteriore dell’arco a foglia. Olle maggiori (“olle cinerarie”) Come riportato da Simi sono gli ossuari contenenti le ceneri dell’estinto. Le misure prodotte e soprattutto le proporzioni tra le stesse ci sembrano più corrispondenti ad un’olla ovoide o globulare, indicata come ‘forma 1’ (variante comunque non riconoscibile) della tassonomia proposta da Maggiani (1979, pp. 74-76), piuttosto che ad un’olla sferoide o deinos, priva di collo, comunque rappresentata a Levigliani in due sepolture (1967/2 e 1968/1). Si tratta, in ogni caso, di ceramica dipinta, probabilmente di produzione locale, in cui prevale una decorazione geometrica a fasce, e con un fregio a zig-zag non comune e per la prima volta attestato alla sommità dell’orlo. Meno consueto risulterebbe pure l’uso di vernice scura in luogo di quella rossastra. Armilla a spirale (“piccolo serpe d’argento/braccialetto d’argento a spira cilindrica”) Tra le maggiori novità dei documenti qui commentati, rispetto ai reperti noti per la necropoli di Levigliani, c’è la presenza di un’armilla d’argento con spire cilindriche, portante una testa di serpente lavorata a graffito, a ciascuna delle due estremità. Le armille a spirale sono relativamente frequenti nella necropoli di Genicciola/Cenisola di Podenzana, benché in Lunigiana risultino caratterizzate da Olle minori (“olle vuote”) Costituiscono il ‘vasetto accessorio’ della sepoltura. Simi descrive questa tipologia vascolare “quasi simile” alla precedente, sebbene di dimensioni minori, per cui si riproporrebbe (come confermano anche le misure) la ‘forma 1’ di Maggiani (1979). 10 Gli stessi vaghi e pendenti di vetro risultano relativamente più comuni nella Valle del Serchio, come dimostrano i tre pendaglietti di analogo materiale ritrovati nel 1957 a Filicaia di Camporgiano, nonché le tre grosse perle (forse pure qui in associazione con quattro bulle d’ambra) della tomba ligure venuta alla luce nel 1976 a Castelvecchio Pascoli, in località Monte Ceneri (Mencacci e Zecchini, 1976, pp. 163, 177-178). Anche l’abitato di Monte Pisone, in Comune di S. Romano in Garfagnana, ha restituito, più di recente, una perla di collana di pasta vitrea. un diverso aspetto delle estremità, con un bottoncino a pigna, preceduto da collarini d’ispessimento (Formentini, 1978, pp. 117, 146, 176). Una tipologia più rispondente all’oggetto descritto da Simi, ci sembra di intravederla nelle armille in argento, a spirale di due giri e mezzo, terminanti a piccola foglia lanceolata (che potrebbe simulare anche una testa di serpente), con rifiniture a sbalzo, ritrovate nel 1957 a Filicaia di Camporgiano, in Garfagnana (Pfanner, 1957a, p. 49; 1957b, p. 88 fig.). Anello d’oro con smalto (idem) Dalla descrizione si è portati a ritenere che il castone contenesse una pietra o, meglio, materiale vetroso finemente inciso con motivi lineari (cfr. Formentini, 1978, p. 192). Questo anello è un’ulteriore novità riguardo al materiale e alla tipologia di simili oggetti, con evidenza forse di valore assoluto per i corredi funebri delle tombe liguri, almeno a circoscrivere l’analisi a quanto rinvenuto in territorio apuano. Negli immediati intorni della stessa catena montuosa, la necropoli di Cafaggio di Ameglia ha restituito orecchini e spirali d’oro, ma anelli soltanto d’argento (Durante e Massari, 1977, p. 21 e 28; Durante, 1981-1982, p. 31; Durante e Massari, 1984, p. 64; Durante, 1987, p. 22), mettendo comunque in luce, per questi oggetti, l’esistenza di rapporti commerciali con l’Etruria. A Genicciola/Cenisola invece, il metallo di maggior valore rinvenuto è l’argento, presente comunque in discreta quantità tra monete, armille, fibule, bulle ed anelli (Podestà, 1879, pp. 295, 297, 299-300, 303305). Un anello, così raffinato e prezioso come quello descritto da Simi, suggerisce contatti con la realtà culturale etrusca, oppure è il risultato di scorrerie e depredazioni in territori dell’Etruria settentrionale, romanizzati o meno. Borchie coniche (“bottoni in rame”) La descrizione dei 24 “bottoni in rame” corrisponde del tutto alle 18 borchie coniche (19 in origine) ritrovate nella tomba 1967/2 di Levigliani (Antonucci, 1967b, p. 110). Reperti simili sono stati rinvenuti in Lunigiana nella tomba di Ponzolo di Aulla, scoperta nel 1938, così come in sepolture della Garfagnana, dove il tipo assume maggiore somiglianza e diffusione: Filicaia di Camporgiano (1957), Val di Vaiana di Barga (1952?), Pian della Rocca di Borgo a Mozzano (1974), come indicato da Mencacci e Zecchini (1976, pp. 163, 167, 175). Anche in questo caso, Simi cita il rame in luogo del bronzo come materiale delle borchie. Armille? ornate di foglie (“serti di ferro/cerchia di ferro”) Tale oggetto si trova citato in tutti i documenti pubblicati in Appendice ed è pure l’unico elemento corrispondente all’indicazione nota in letteratura di Santini (1858, vol. I, p. 27), più volte citata. Potrebbe anche corrispondere ai “frammenti di ferro, arcuati, che formano pressoché un intero cerchio... (bracciale, o campanella?)” del corredo della tomba 1932/1 della stessa necropoli di Levigliani (Levi 1932, p. 529). Un reperto simile – “un cerchio ed un ansa di ferro” – almeno ad una sommaria analisi, apparteneva ai reperti di una cassetta litica scoperta nel 1976 presso la località Monte Ceneri a Castelvecchio Pascoli, nella Valle del Serchio (Mencacci e Zecchini, 1976, p. 177). Infine, un cerchio, probabilmente di ferro, del diametro di circa 10 cm fu rinvenuto negli scavi anteriori al 1878 nella necropoli di Genicciola/ Cenisola di Podenzana (Podestà, 1879, p. 298). Collana (idem) È un altro elemento caratteristico, sebbene non sempre presente nel corredo femminile delle tombe liguri apuane. Rispetto ad un oggetto simile di un’altra sepoltura della necropoli di Levigliani (1967/2), i vaghi qui si limitano a 10 e solo per metà di essi si può ipotizzare, secondo la descrizione di Simi, che siano stati ricavati dall’ambra fossile. Le forme sono comunque differenti, non di tipo discoidale e lenticolare come nel caso conosciuto e citato, ma tendenti alla sfericità. I restanti cinque vaghi sembrano invece corrispondere a perle policrome di pasta vitrea, dal tipico colore bleu/azzurro, con sezioni/decorazioni gialle (o bianche) ed una forma che si caratterizza per un evidente schiacciamento ai lati. Se così fosse, sarebbe la prima volta che monili in pasta vitrea, probabilmente di produzione celtica e assai meno comuni dei grani d’ambra, si documentano in corredi di età ellenistica rinvenuti nel versante marittimo delle Alpi Apuane (cfr. Maggiani, 1995a, p. 87). Punte di lancia (“lance... con penna a due tagli”) La descrizione delle armi trova un oggettivo limite nello stato di conservazione dei reperti, dato che i processi di ossidazione del ferro hanno reso questi oggetti corrosi e poco leggibili. Sotto il titolo di “lance... con penna a due tagli”, Simi può aver illustrato punte di lancia, così almeno per la forma, ma con dimensioni comunque ridotte rispetto alla norma di tali strumenti di offesa. Misure analoghe a quelle riportate si ritrovano, ad esempio, in una cuspide proveniente da Genicciola/Cenisola di Podenzana (Formentini, 1978, p. 149), per altro interpretata più come giavellotto, per la particolare 11 snellezza e fragilità, essendo ritenuta più adatta ad un’arma leggera da lancio. finali forse ricognitive di quanto riportato alla luce in alcuni anni di scavi fortuiti e/o pianificati; b) i reperti d’uso tipicamente femminile (con la contemporanea assenza di armi), sono tutti concentrati in un’unica cassetta litica (anello, collana, armilla, fibula, borchie coniche). Invece, gli elementi che attribuiscono una connotazione guerriera alla sepoltura e quindi il sesso maschile del defunto, sono distribuiti in due tombe, con corredo sorprendentemente identico; c) l’ultima sepoltura presenta un corredo non attribuibile ad un sesso preciso, poiché costituita soltanto da quattro elementi fittili ‘neutri’ (olla maggiore, olla minore, coppa biansata, coppa/ciotola). Così almeno si interpreta l’incremento numerico dei reperti, limitati a quelli sopra specificati, nel passaggio tra la prima e la seconda relazione. La tomba femminile ha diverse affinità con la 1967/2 della stessa necropoli, in cui il ricco ornatus costituisce un documento di prim’ordine del costume muliebre (Maggiani, 1990). Quali differenze più significative, forse interpretabili in senso di un maggior rango e/o censo della defunta restituita dalle relazioni di Simi, riguardano la presenza dell’armilla in argento, di vaghi di collana anche in pasta vitrea, dell’oro in luogo del bronzo nell’anello. Mancano invece il gancio del cinturone e soprattutto le fuseruole, chissà se a marcare un ruolo sociale svincolato dalla filatura domestica. La tomba femminile trova maggiori identità con il corredo di Pila di Filicaia di Camporgiano, malgrado quest’ultima presenti alcune differenze rilevanti tra i vasi in ceramica di vernice nera d’importazione (Pfanner, 1957a, p. 48). Altre evidenti corrispondenze si realizzano anche con la tomba di Monte Ceneri di Castelvecchio Pascoli (Mencacci e Zecchini, 1976, pp. 176-177). Invece, per le sepolture maschili è più problematico stabilire corrispondenze con materiale noto in letteratura, sia per la generale uniformità della panoplia, sia perché i caratteri di distinzione del corredo non possono essere letti attraverso una descrizione che, purtroppo in questo caso, risulta assai meno dettagliata. Le tombe a cassetta litica di Simi erano formate “da sei lapide di steaschisto” (doc. 1) o, se si preferisce, consistevano “di sei lastre di schisto tegolare” (doc. 2). Il dato è in linea con la quasi totalità delle sepolture liguri, anche di età precedente e successiva. L’eccezione è comunque stata riscontrata in altre tombe della necropoli di Levigliani, quali la 1958/1 e 1958/2, che risultavano costituite da cinque lastroni di scisto, poiché mancanti della pietra di appoggio sul fondo (Antonucci, 1963, p. 5). Le dimensioni, riteniamo medie, delle lastre – ca. 50 cm di lunghezza e 35 cm di larghezza (per lo spessore la misura riportata è di certo errata) – sono coerenti con i valori misurati per la tomba 1958/1, di 50 x 40 cm (Antonucci, 1963, p. 5). Queste misure Punte di giavellotto (“lance... con penna cuspidata/ mucronata”) La considerazione è analoga a quella dei reperti di cui sopra, non fosse altro perché si trovano descritti insieme nelle due relazioni in parola. Siamo propensi a ritenere questi oggetti delle punte di giavellotto soprattutto per la larghezza ridotta della “penna” terminale, incompatibile con una lancia tipica. Le dimensioni riportate da Simi sono comunque inferiori a quelle dei reperti rinvenuti a Levigliani nel corso del XX sec. Punta di giavellotto (“mucrone cilindrico”) Ci pare d’intendere, nelle parole di Simi, l’illustrazione inconsapevole di una punta d’arma da getto, ripiegata ad uncino per fini rituali e/o per renderla inutilizzabile. Se si dovesse trattare di un giavellotto del tipo ‘pilum’, le sue dimensioni sarebbero ancora più miniaturizzate rispetto al reperto rinvenuto a Levigliani nella tomba 1980/3 (Maggiani, 1995b, p. 114). La presumibile sezione circolare di un simile oggetto cilindrico è già stata attestata a fianco di quella più consueta a sezione quadrata (Formentini, 1978, p. 192 da cfr. con pp. 180, 181, 206). Gancio? (“cuspide... biforcata”) Reperto difficilmente intelligibile. Diverse ipotesi possono essere avanzate per un oggetto che potrebbe anche esser giunto in termini frammentari. Forse è il caso di un gancio che, fissato al bordo della cassetta litica, poteva consentire l’allestimento dell’ambiente funerario, come già documentato nella tomba rinvenuta nel 2000 a Pulica di Fosdinovo (Paribeni, 2001, p. 50). Caratteristiche delle sepolture La prima relazione di Emilio Simi (doc. 2 in Appendice) informa sommariamente sulla composizione dei corredi. Se si opera un contemporaneo confronto con il diverso numero di reperti descritti nella seconda relazione (doc. 3) e sugli oggetti indicati nel “Ricordo interessante” (doc. 1), si possono trarre le seguenti conclusioni: a) la tomba venuta alla luce nel 1855 è probabilmente computata nel novero degli oggetti repertoriati nei due documenti posteriori. A noi pare verosimile che, nel caso di un medesimo estensore del “Ricordo interessante” e delle due relazioni successive, i reperti di doc. 1 siano conteggiati e descritti, insieme ai successivi rinvenimenti, in doc. 2 e doc. 3 dell’Appendice. Il tempo relativo che è intercorso tra i diversi testi, insieme all’elemento ricorrente e del tutto particolare del “serto in ferro”, fanno pensare a relazioni 12 in gruppi e coperte da rozzi accumuli di pietrame (...) che interessavano più sepolture, certo quelle dei membri di un medesimo gruppo familiare” (Maggiani, 1995b, p. 104). Rispetto alla posizione degli altri rinvenimenti noti in letteratura, i testi di Simi confermano indirettamente il dato della distribuzione delle tombe per gruppi, anche se, nel caso in questione, si sarebbe adottata, all’interno del nucleo sepolcrale, una disposizione in linea e non a cerchio o, comunque, accentrata. Un analogo sistema d’allineamento in serie si ritrova nella necropoli di Villacollemandina in Alta Garfagnana (Mencacci e Zecchini, 1976, p. 133), mentre gli scavi a Cafaggio di Ameglia, dal 1976 al 1981, hanno restituito due sequenze parallele di strutture tombali a recinto, che si adeguano all’andamento naturale del rilievo ed indicano pure un’organizzazione programmata dell’area sepolcrale (Durante e Massari, 1977, p. 18; Durante, 1982, p. 150; Durante e Massari, 1984, p. 64; Durante, 1987 p. 16). Diverso è il caso, del tutto irregolare nell’impianto, dell’altra grande necropoli ligure di Genicciola/Cenisola di Podenzana, entro cui “i sepolcri non erano disposti a file regolari, né continuativamente ad eguali distanze, ma qua e là distribuiti a gruppi” (Podestà, 1879, p. 296). La profondità di rinvenimento delle tombe descritte da Simi – a 120 cm ca. – si avvicina più alla situazione dell’area sepolcrale della stessa necropoli definita come settore ‘B’ da Maggiani (1995) [più avanti da noi detto ‘B.2’], soprattutto nel caso delle tombe 1967/1-2-3 e 1980/2-3, che Antonucci (1967a, pp. 135-138) ha stimato a circa 180 cm dall’attuale livello di campagna. Comunque, nel medesimo settore ‘B’ [più avanti da noi detto ‘B.1’], assai superficiale (a 30 cm ca.) è stato il rinvenimento della cassetta litica 1958/1 (Antonucci, 1962, p. 5), come quello (a 40 cm ca.) della tomba 1932/1 recuperata nel settore ‘A’ (Levi, 1932, p. 529). Simi nulla dice rispetto agli accumuli di pietrame al di sopra delle cassette litiche, ma informa sulla presenza di residui di combustione vegetale nell’intorno, non senza aver precisato da buon naturalista, che si trattava di carbone di quercia, posto alla distanza di quasi 2 metri e mezzo (cfr. doc. 2) dalle ‘urne sepolcrali’. La presenza di resti di combustione presso tombe liguri risulta documentata, in Garfagnana, nelle necropoli di Pian di Paolo di Villacollemandina, Pianellone di S. Romano e Pila di Filicaia di Camporgiano (Mencacci e Zecchini, 1976, pp. 131, 140, 162). Anche in questo caso, Simi li interpreta come “gli avanzi dei roghi ove erano stati abbruciati cadaveri umani”. Degna di rilievo è comunque la scoperta e la relativa descrizione di un forno rudimentale per la cremazione dei defunti, ritenuto dal nostro Autore un “cinerario comune” e ricavato in uno strato di argilla compatta del terreno, fino a raggiungere misure ragguardevoli (all’incirca 2,4 m di profondità e 1,8 m di larghezza). Qualcosa di simile sembra individuarsi nella necropoli di Genicciola/Cenisola confermano, in modo indiretto, una peculiarità della necropoli di Levigliani, che ha spesso restituito cassette litiche molto ridotte, con uno spazio all’interno piuttosto angusto, talvolta di appena 35 x 25 x 30 cm (Antonucci, 1967a, p. 135). L’unione tra le lastre era assicurata “da mastice di rena ed argilla” (doc. 2); un dato mai riportato nei lavori di Antonucci sulla necropoli di Levigliani (Antonucci, 1963; 1967a; 1967b; 1969; 1975; 1977; 1979), ma registrato da Levi (1932, p. 529), che parla di pietre otturate da argilla, nonché da Maggiani (1983, p. 435), che conferma come il lastrone superiore della tomba 1980/3, fosse sigillato ancora con argilla sui bordi della cassetta litica. Riguardo alla sistemazione del corredo, Simi non può fare a meno di annotare come l’urna cineraria fosse racchiusa da una ciotola/coppa rovesciata (doc. 1 e doc. 3). Tuttavia, l’ossuario non risulterebbe qui adagiato sulla kylix, secondo una deposizione ricorrente, poiché viene specificato che la “tazza con manubri” era “appesa alla sinistra parete della cassa” (doc. 3). In doc. 1 e doc. 3 è detto che il “serto”, al momento della scoperta della sepoltura, si trovava all’interno dell’ossuario, posato sopra i resti incinerati. Probabilmente ciò doveva rivestire un significato rituale ben preciso ed è già attestato, anche in altre necropoli, il costume di collocare oggetti appartenuti al defunto, soprattutto fibule, sulle sue stesse ceneri. È questo il caso, ad esempio, di Pian di Paolo di Villacollemandina, del Pianellone di S. Romano in Garfagnana, di Val Vaiana di Barga e di Serra di Vado di Camaiore (Mencacci e Zecchini, 1976, pp. 132, 141, 168, 172). A Genicciola/Cenisola di Podenzana si documenta ancora una piccola armilla d’argento e una moneta romana rinvenute tra i resti combusti, mentre per l’anello in ferro di circa 10 cm, già detto in precedenza, non è conosciuto dove fosse collocato, poiché reperito a seguito di scavi di rapina (o quasi), antecedenti gli interventi di Chierici e Podestà (1879, p. 298, 300). Il contesto della necropoli È indubbio come le due relazioni di Emilio Simi forniscano ulteriori dati sulla necropoli di Levigliani, non soltanto perché confermano e aggiungono reperti a quelli già noti, ma perché illustrano meglio la disposizione e le caratteristiche interne ed esterne delle tombe a cassetta litica, dando notizia pure su alcuni importanti elementi del contesto. Il dato più rilevante è la distribuzione di queste 13 sepolture, che il doc. 2 dice: “disposte per linea lungo il ciglio di un campo, alla distanza di tre braccia l’una dall’altra e alla profondità di 2 braccia dal suolo”. I ritrovamenti del XX sec. hanno consentito di descrivere la necropoli di Levigliani come organizzata probabilmente su più terrazze, lungo un falso pianoro degradante dal M. Corchia (vedi fig. 1 della tav. I fuori testo), con le tombe “raccolte 13 di Podenzana che, alla fine dello scorso secolo, ha restituito un ‘ustrino’ ben costruito e munito di graticola e soprattutto una cavità semicircolare scavata nel suolo, di un metro di diametro e per metà ripiena di carboni e ceneri (Podestà, 1879, p. 297). Anche nella necropoli di Cafaggio di Ameglia è presente una fossa dell’ustrino, successivamente utilizzata per la costruzione di una tomba a tegoloni o comunque a struttura laterizia, d’età imprecisata ma senz’altro posteriore (Durante, 1981-82, pp. 2526; Massari, 1981, p. 100). dell’area sepolcrale così ricostruita). C’è tuttavia un’informazione importante già accennata e ricavabile dalla prima relazione (doc. 2) di Emilio Simi, che merita una certa attenzione poiché riguarda la discreta profondità a cui furono trovate le tredici cassette litiche: circa 120 cm o, come scriveva il nostro Autore, “2 braccia dal suolo”. Gran parte delle scoperte di tombe nella necropoli di Levigliani, anche di quelle di cui si ha vaga notizia, sono accadute in occasione di lavori agricoli ordinari, per cui i reperti sono venuti alla luce in condizioni di particolare superficialità nel terreno. È già stato detto come la 1932/1 del settore ‘A’ fosse ad una quarantina di centimetri dal livello del suolo (Levi, 1932, p. 529); la 1958/1 del settore ‘B.1’ si trovasse ad appena 30 cm (Antonucci, 1963, p.5) ed analoga situazione doveva risultare per la 1968/1, rinvenuta anch’essa nell’eseguire lavori agricoli ordinari (Antonucci, 1969, p. 85). Soltanto il settore ‘B2’, oggetto di scavi sistematici nel 1967 e nel 1980, ha fornito sepolture a profondità sensibilmente superiori ai dati sopra riportati.7 Nel voler trarre, da quanto sopra, un’immediata ed automatica conseguenza logica, saremmo portati a ritenere possibile il ritrovamento delle tredici tombe del 1855 e dintorni nel settore ‘B.2’, in base al dato della rilevante profondità di rinvenimento. Tuttavia, non è possibile escludere un settore diverso, fino ad oggi rimasto sconosciuto e magari limitato al ritrovamento in parola, dove potrebbero essersi realizzate condizioni di deposito colluviale del tutto analoghe al ‘B.2’. Per ogni caso in ipotesi andrebbero sempre trovate le ragioni particolari che hanno indotto lo scavo in profondità, visto che la prima scoperta del 1855 sembra del tutto casuale, almeno dal senso della frase di Emilio Simi (“fu trovato, nello scavare, un sarcofago”, in doc. 1).8 Il confronto tra le mappe del nuovo e vecchio catasto, compresi i frazionamenti intervenuti dal XIX al XX sec., non mette in risalto interventi extragricoli di significativa trasformazione dei luoghi e di movimentazione del terreno. La situazione è rimasta pressoché la stessa, a parte la costruzione (sulle ex proprietà Simi) di due edifici contraddistinti dai nuovi mappali 127 e 205. Va da sé l’osservazione di come le opere di fondazione di questi fabbricati possano aver raggiunto livelli significativi nel suolo e quindi, in linea ipotetica, aver interessato strati profondi d’eventuale interesse archeologico. Una lunga e accurata indagine catastale non ha però permesso di stabilire l’anno di costruzione di tali edifici (forse per il “vizio” allora diffuso di non accatastare), che poteva anche risultare indicativa nel caso di coincidenza temporale con i ritrovamenti archeologici di metà sec. XIX.9 In mancanza di documentati eventi di trasformazione edilizia e viaria attorno al 1855, il dato solo della rilevante profondità delle tombe rimane un elemento di individuazione piuttosto flebile e mal utilizzabile. Lo stesso dato può Ipotesi sull’ubicazione delle necropoli In questa ultima parte del lavoro tenteremo di giungere ad una più precisa ubicazione dei trovamenti del XIX sec., sia a Levigliani che a Minazzana, sulla base dei dati documentali e con il conforto delle notizie di fonte catastale, non dimenticando di utilizzare altri strumenti cartografici (cfr. fig. 2 della tav. I fuori testo). Levigliani I dati localizzativi più significativi che emergono dai tre documenti riportati in Appendice, si integrano e talvolta si confermano tra di loro. In estrema sintesi, essi riguardano: a) l’età della scoperta: 1855 e anni successivi; b) il luogo della scoperta: Le Piane (oggi Piane Alte) nei pressi di Levigliani; c) il proprietario del fondo: Angelo Simi; d) il tipo di soprassuolo: un campo. La ricerca sul catasto ferdinandeo-leopoldino del comune di Stazzema – riguardo ad una situazione compatibile con tutti i criteri di ricerca sopra detti – ha dato il risultato di cui alla fig. 1, che viene riportato sopra l’originale maglia catastale dell’impianto del novembre 1825. Le proprietà di Angelo Simi alle Piane Alte, “fotografate” poco dopo la metà dell’Ottocento, abbracciano dunque una discreta estensione di terreni; un fatto che, in prima approssimazione, non consente con precisione di ubicare il nostro ritrovamento (in A.S.L., u.t.e., v.c.t., Stazzema, r.o n. 2602, sez. K). Nella fig. 2, abbiamo provato a riposizionare la proprietà Simi sul catasto attuale (f.° 19 di Stazzema senza il tracciato stradale del 1980-81), indicando pure i settori di articolazione della necropoli, sulla base dei ritrovamenti noti, articolando e modificando parzialmente l’ordinamento spaziale proposto da Maggiani (1995) e come più avanti specificato. Il ‘sovrapposto’ non risolve il problema, dato che le tredici tombe del 1855 e dintorni possono essere state rinvenute in qualsiasi settore della necropoli, essendo tutte le zone compatibili con il dato patrimoniale. Questa operazione consente soltanto di escludere il ritrovamento archeologico nella particella n. 170 del nuovo catasto e nella 204 per piccolissima parte (e volendo pure dalla 169, 174 e 175, poiché poste agli estremi limiti orientali 14 comunque essere adoperato per escludere un settore, nel caso quest’ultimo si sia sempre caratterizzato per la scoperta di tombe prossime alla superficie. Il criterio è applicabile ai settori ‘A’ e ‘B.1’, poiché forse privi di spesse coperture colluviali, in relazione alla maggiore acclività dei luoghi. Nonostante l’elemento favorevole della profondità dei reperti, anche il sottosettore ‘B.2’ andrebbe scartato, sulla base del fatto che è l’unico ad esser stato oggetto di scavi sistematici e di ritrovamenti ripetuti nella prima metà del XX sec. (Antonucci, 1963, p. 5). È difficile che un’area così diffusamente indagata e generosa di scoperte relativamente recenti, possa aver restituito anche le 13 cassette litiche del 1855 e dintorni. Seguitando per esclusione rimarrebbe ancora in piedi l’ipotesi del settore ‘C’ di Maggiani (1995), che ha il pregio di aver reso poche tombe note in letteratura, di presentarsi assai esteso e con morfologia e condizioni di deposito simili a ‘B.2’ (almeno verso l’alto), ma difettante per l’assenza di memoria storica di ritrovamenti antichi. Tutto questo se non vogliamo proprio pensare ad un settore del tutto nuovo oppure ad una porzione di necropoli del tutto speciale, la ‘B.3’ ad esempio, che è indiziata da ricordi popolari di antiche scoperte di tombe.10 In conclusione, i fatti sopra esposti orientano oggi la nostra preferenza verso il sottosettore ‘B.3’ come luogo delle scoperte del 1855 e dintorni, senza scartare del tutto il ‘C’, rimanendo la cosa allo stato di semplice ipotesi di lavoro da sottoporre a successive verifiche e riscontri. Ulteriori elementi favorevoli consistono nel particolare e tipico spianamento che assume qui il rilievo (da cui anche la possibilità di trattenere meglio gli accumuli di terreno provenienti dall’alto).11 andando a rileggere tutti i passaggi di proprietà della zona, nella prima metà dell’Ottocento, con l’obiettivo di stabilire, in prima istanza, se tale compravendita si sia verificata davvero e a che data risalga. In effetti, i registri del vecchio catasto terreni di Seravezza annotano al 1835 un passaggio di proprietà da Marchesini a Bartelletti, proprio per terreni posti in vicinanza di Minazzana.12 La data del 1835 rappresenta quindi un termine ante quem del tutto coerente con la notizia di fonte santiniana che farebbe risalire agli anni intorno al 1830 la scoperta delle tombe liguri di Minazzana. Dopo questa conferma del dato bibliografico si è passati alla localizzazione dei fondi rustici individuati dalla fonte catastale. Per prima cosa, è sembrato logico scartare i terreni della sez. G, poiché troppo distanti dall’area archeologica e posizionati al di sotto del paese, in un’area degradante verso Cerreta S. Antonio. Sono stati invece considerati soltanto i ‘mappali’ della sez. F, f.° I (196, 198, 205), essendo ubicati in località “La Fontanaccia”, in contiguità e non in sovrapposizione all’area di ritrovamento più recente. Nella fig. 3, abbiamo posizionato sul catasto attuale (f.° 26 del comune di Seravezza) le proprietà Marchesini, divenute Bartelletti nel 1835, con l’indicazione pure del luogo dove avvenne l’unico ritrovamento certo del XX sec. (Antonucci, 1965). Discernere quale delle tre particelle abbia restituito i reperti non è cosa facile, anche perché all’epoca erano tutte caratterizzate dalla stessa natura di soprassuolo (castagneto), da cui la medesima necessità teorica di interventi agricoli di movimentazione del terreno. Una piccola preferenza rimane per il mappale più esteso, non solo per la maggiore probabilità legata alla superficie, ma pure per la relativa vicinanza alla zona conosciuta di ritrovamento dei primi anni sessanta del Novecento. In definitiva, questa seconda indagine catastale fornisce sostegno e conferma al dato bibliografico più volte citato di Santini (1859, III, p. 261), dimostrando pure un’articolazione in più settori della necropoli di Minazzana, analogamente al caso delle Piane Alte di Levigliani. Minazzana Dopo il notevole spazio lasciato lungo tutto l’articolo alla necropoli di Levigliani, è giusto in chiusura ritornare su Minazzana per ricercare, sulla fonte catastale, conferme e riscontri a quanto noto in letteratura, seguendo un procedimento metodologico analogo a quello sopra illustrato. Nel nostro caso l’obiettivo è di ottenere indicazioni sull’esatta ubicazione dei primi ritrovamenti del XIX sec., ricordati da Vincenzo Santini (1859, III, p. 261), verificando la loro coincidenza o meno con la scoperta dei primi anni sessanta (Antonucci, 1965; 1975, pp. 20-21; 1978, pp. 6-7), avvenuta durante i lavori di adattamento a campo sportivo di un pianoro, conosciuto come “Le Campore” (da ultimo “Pianaccio” per estensione di un vicino toponimo), esistente ad ovest del paese. Il passo già citato e più eloquente di Santini, su un ritrovamento a Minazzana stimabile al 1830, reca un’informazione catastale assai precisa: “in un terreno dei Marchesini, ed ora dei Bartelletti”. Pertanto il primo passo della nostra verifica è stato quello di controllare la veridicità del dato bibliografico, Considerazioni conclusive Ricordiamo, in quest’ultima parte del lavoro, l’elemento saliente che emerge dalla disamina dei documenti di Emilio Simi riportati in Appendice. I reperti rinvenuti dal 1855 in poi sono caratterizzati da una consueta e notevole omogeneità degli elementi culturali, che vale non soltanto nel confronto con i dati conosciuti della stessa necropoli di Levigliani, ma pure con tutti i ritrovamenti coevi di quella vasta fascia montuosa e collinare, estesa tra Pistoia e la Val di Magra, in cui dominava l’aggruppamento etnico dei Liguri Apuani. Gli elementi distintivi, che si ripetono invariabilmente 15 sfiorare il numero di 30, senza che si sia operata una revisione critica dei documenti e una raccolta di ulteriori testimonianze. Questo è comunque l’obiettivo di un lavoro già in cantiere, di necessario approfondimento di quanto conosciuto e di quanto c’è ancora da scoprire sulla necropoli di Levigliani. Siamo sicuri che il lavoro riserverà sorprese, con un risultato quantitativo finale di certo superiore al dato provvisorio qui fornito. Bastino le citazioni contenute nelle ultime pubblicazioni di Vincenzo Santini a solleticare la curiosità e suscitare nuovi interessi. In effetti, nelle Vicende storiche di Seravezza e Stazzema (Santini, 1874, p. 481), l’Autore ritornava sulla necropoli di Levigliani annotando la scoperta complessiva di “un centinaio di olle funerarie, situate in rozze arche, composte di sei pietre, in luogo detto ‘Alla Piana’, e dove giornalmente se ne scopre”. Infine, nella Guida alle Alpi Apuane (Zolfanelli e Santini, 1874, p. 145) si spinge oltre, parlando di Levigliani come il villaggio dove “vi fu trovato di recente 120 olle cinerarie romane, nel luogo detto la Piana”. Se i dati corrispondessero al vero, le tombe con corredo ritrovate a Levigliani nel terzo quarto dell’Ottocento, salirebbero ad una trentina, contro le quattro descritte nelle relazioni di Emilio Simi. nei corredi funebri, sono la ceramica dipinta a fasce e le fibule derivate dal tipo Certosa (Maggiani, 1979, p. 96). I reperti descritti da Simi, pur con qualche novità di rilievo (armilla a spirale d’argento, anello d’oro, vaghi di pasta vitrea), si collocano all’interno dell’excursus cronologico noto per la necropoli di Levigliani: seconda metà del III sec. e, forse, breve coda all’inizio del II sec. a.C. (Maggiani, 1995b, p. 104). L’elenco degli oggetti consente poi di smentire la notizia riportata da Santini (1858, vol. I, p. 27), sul ritrovamento di una “scure”, benché presente in un corredo successivo (1968/1). Infine, i documenti riportati in Appendice confermano un dato generale, difficilmente controvertibile in futuro: la necropoli ligure apuana di Levigliani di Stazzema è, alla luce delle notizie provenienti dal XIX sec. e i ritrovamenti del successivo, la più cospicua delle Alpi Apuane. Gli Autori, fino ad oggi, hanno parlato di 15 tombe a cassetta (Maggiani, 1995b, p. 104), basandosi soprattutto su ritrovamenti effettivi e documentati e, in qualche misura, su notizie attendibili di altre scoperte con materiali dispersi. I documenti qui trascritti e commentati portano le sepolture a Fig. 3 – Necropoli di Minazzana: le ex proprietà Marchesini, poi Bartelletti, riportate sui mappali del nuovo catasto terreni (f.° 26 del comune di Seravezza), con la localizzazione del ritrovamento della tomba ligure apuana nei primi anni sessanta (linea tratteggiata indicante la superficie del campo sportivo) 16 APPENDICE DOCUMENTARIA I tre documenti riportati in questa Appendice o, forse meglio, la nota informativa e le due relazioni successive sono, come già detto, opera di Emilio Simi. La trascrizione ha seguito il criterio filologico dell’edizione conservativa, per cui i testi pubblicati sono rispettosi della stesura originale dei documenti. Le parole o i passi di difficile decifrazione sono seguiti dal segno (?), quelli non leggibili sono stati tralasciati, indicando la lacuna con il segno [...], così come le integrazioni ad opera del trascrittore si trovano anch’esse tra parentesi quadrate. Doc. 1 Il primo documento si trova come annotazione finale manoscritta di tre pagine di un fascicoletto interamente dedicato a notizie sulla Rettoria e sul paese di Levigliani, conservato in A.P.S.L.S., Memorie storiche del prete Giuseppe Mattei di Seravezza, lib. n. 467, p. 487: Ricordo interessante Nel Maggio del 1855, in un terreno del Sig. Cav. Angelo Simi, posto nelle vicinanze di Levigliani, in luogo detto le Piane, ov’è tradizione volgare essere esistito un Villaggio ed un tempio in epoca molto antica, fu ritrovato, nello scavare, un sarcofago, o vetusto sepolcro, formato da sei lapide di steaschisto, della lunghezza ciascuna di Braccia due circa, ordinate a foggia di cassa e bene sigillate fra loro da duro mastice di calce e terra: quale sepolcro racchiudeva quattro Olle, od Urne cinerarie di terra fine, benissimo levigate e verniciate, due lance di ferro, un serto pure di ferro, ed altri emblemi guerreschi: il tutto di gusto e disegno indubitatamente etrusco. L’Olla maggiore, ossia l’Urna cineraria propriamente detta, aveva l’altezza e la larghezza di circa mezzo braccio, e racchiudeva ossa umane abbruciate, sulle quali era collocato il piccolo serto di ferro. La bocca di quest’Urna era chiusa da Coppa di terra, la quale rappresentava il così detto Vaso lacrimatorio, ove soleano gli Etruschi raccoglere (sic) le lacrime dei congiunti, per porle sulle ossa dell’estinto. Gli altri vasi presentavano dimensioni più piccole, forme semplici ma eleganti, e consistevano in un Olla (sic), una Tazza, ed un Bacinello. I descritti oggetti spiegano ad evidenza che le ossa racchiuse entro l’Urna maggiore appartenevano ad un Guerriero distinto, e che questo era o Etrusco, o Ligure Apuano. Questi medesimi oggetti, interessanti non poco l’arte e la storia, si conservano di presente in casa Simi a Levigliani. Emilio Simi Doc. 2 I testi delle due relazioni sono trascritti da fotocopie riprodotte dai documenti originali. Entrambi i manoscritti originali delle relazioni – un fascicoletto sciolto, in ottavo, di quattro pagine ciascuno – sono custoditi nell’archivio privato del Dott. Luigi Santini di Seravezza (Lucca). Sono riportate anche le parti più significative cassate con tratto di penna presumibilmente ad opera dello stesso Autore: 3 Olle cinerarie della altezza di soldi 7 e 2 quattrini e del diametro di soldi 8, di forma ovale schiacciata, con orifizio stretto, pure ovale e convesso, base piccola rotonda, colore laterizio solcato da 4 fasce lineari e smerli all’orifizio a zig zag di colore nero. 3 Olle vuote dell’altezza di soldi 4 e 1 quattrino e diametro di soldi 4 e 2 quattrini, di forma quasi simile alle precedenti, base ed orifizio perfettamente rotondo, colore o tutto nero o tutto laterizio. 3 Tazze con manubri ai lati alte due soldi e 1 quattrino, larghe 4 soldi e due quattrini, base rotonda, colore nero o bronzino cangiante. 3 Vasi lacrimatorj alti soldi 2 e quattrini 2, larghi 6 soldi e un quattrino, in forma di coppa senza manubrj, e con base rotonda. 1 Spillo di rame o altro metallo, rappresentante, in avanti una foglia lanceolata divisa in mezzo da nervo e prolungata in punta alle due estremità, e terminata dietro da spirale elastica, che va a rannordarsi con la lunga punta ad una maglia fatta ad uncino posta nell’apice posteriore della foglia. La lunghezza dello spillo è di soldi 3 e quattrini 1, e la larghezza di quattrini 2 e danari 1. 1 Piccolo serpe d’argento a spira cilindrica terminato da due teste alle due estremità, lungo soldi 12. 1 Anello d’oro della circonferenza di soldi 2 e 1 quattrino con cesello quadrato solcato da incisioni rettilinee e profonde nei lati, e da incisioni delicatissime a zig-zag nel centro. 1 Collana composta da 10 amuleti forati in mezzo a mo’ di deca, 5 delle quali di forma globosa, schiacciata ai lati, di materia argillo-resinosa trasparente gialla ed azzurra, e gli altri cinque trottoliforme, di materia cristallino-resinosa di colore di granato e trasparenti. 24 Bottoni di rame di forma ombelicata a rovescio, muniti nella parte concava di manichino a ponte fermato in due punti, e della larghezza e diametro di 1 soldo. 2 Serti di ferro ornati di foglie ovali-ellittiche in rilievo e della circonferenza di soldi 9. 4 Lance di ferro senz’asta, due delle quali con manico vuoto per introdurvi l’asta della lunghezza di soldi 4 e quattrini 2, e penna a due tagli lunga soldi 5 larga 1 soldo e 2 quattrini. Le altre due con manico della lunghezza di soldi 2 e quattrini 2, e penna cuspidata larga 2 quattrini e lunga 5 soldi e 2 quattrini. 1 Un mucrone cilindrico di ferro colla punta piegata ad uncino, della lunghezza di soldi 6. 1 Una cuspide quadrilatera di ferro biforcata nell’apice, con manico della lunghezza di soldi 3 e biforcazioni di soldi 2. Le urne erano in numero di 13, tre delle quali con olle, le altre vuote. Due di esse contenevano ciascuna un vaso lacrimatorio, una tazza appesa, un’olla vuota ed una piena, due lance, un serto ed una cuspide. 17 La terza pure conteneva quattro olle ed invece delle armi un anello, uno spillo, un serpe, una collana di amuleti, e 24 bottoni di rame. Le urne ritrovate erano disposte per linea lungo il ciglio di un campo alla distanza di 3 braccia l’una dall’altra ed alla profondità di 2 braccia dal suolo. A 4 braccia di distanza dall’urna esistevano sempre i residui di carbone del rogo ov’era stato abbruciato il cadavere, il quale carbone era di querce. A poca distanza dall’urne era nel campo un cinerario comune, ossia un vacuo scavato nel terreno, fondo braccia 4 e largo 3, tutto ripieno di ossa abbruciate e residui di carbone. Le urne erano composte di sei lastre di schisto tegolare riunite da mastice di rena ed argilla ed ogni una aveva 17 soldi di lunghezza, 12 di larghezza, e 12 di grossezza. Il coperchio era convesso. Doc. 3 Questo documento presenta una grafia peggiore se confrontata al testo precedente, soprattutto nelle parti di commento finale, che abbiamo considerato come aggiuntive rispetto ad una prima stesura, corrispondente allo stesso doc. 2. In effetti, risultano alcune parole non trascritte o di incerta trascrizione per difficoltà di lettura. Il documento è per lo meno incompleto nella parte finale: Delle dette tredici casse, nove erano vacue e quattro contenevano olle fittili ripiene di ossa abbruciate, olle vote, tazze, coppe ed oggetti di ferro di rame oro ed argento. Ciascuna cassa però non conteneva più di quattro olle, cio[è] quella destinata alla custodia delle ceneri, una coppa giacente a guisa di coperchio rovesciato sopra l’orifizio di questa prima olla, un olla vuota, posta a contatto della prima, ed una tazza con manubri appesa alla sinistra parete della cassa e più un cerchio di ferro simbolo dell’eternità. Il numero, la forma e le direzioni (?) tanto delle olle come degli oggetti metallici era come appresso cioè: Quattro olle cinerarie dell’altezza ciascuna di soldi 7 e quattrini 2 e del diametro di soldi 8, di forma ovale schiacciata, con orifizio stretto ovale e alquanto convesso, base angusta rotonda, di colore laterizio solcato da fasce ora lineari ora a zig-zag di vernicie (sic) oscura. Quattro olle vuote dell’altezza ciascuna di soldi quattro e quattrini 1 e del diametro di soldi 4 e quattrini 2, di forma quasi simile alle precedenti, con base ed orifizio però perfettamente rotondi, verniciate di nero, o di colore laterizio. Quattro coppe alte soldi 2 e quattrini 2 larghe soldi 6 e quattrini 1, aventi forma di mezza sfera senza manubrj, piede rotondo angusto, colore della vernice laterizio, o nero-lucente. Quattro tazze alte soldi 2 e quattrini 1, larghe soldi 4 e quattrini 2, con manubri ai lati, base rotonda, e verniciate di nero cangiante in lucido-abronzato, simile a quello che si osserva nei Vasi etruschi Aretini. Quattro lance di ferro, due delle quali con manico vuoto della lunghezza di soldi 4, e con penna a due tagli lunga soldi 4 e larga soldi 1: le altre due con manico della lunghezza di soldi 2 e quattrini 2, e con penna mucronata lunga soldi 5 e quattrini 2 e larga soli quattrini 2. Un mucrone cilindrico di ferro colla punta piegata ad uncino, della lunghezza di soldi 6. Una cuspide di ferro quadrangolare, biforcata nell’apice, con manico della lunghezza di soldi 3 e biforcazioni di soldi 2. Due cerchia serti od anelli di ferro della circonferenza di soldi 9, giacenti sopra le ossa abbruciate dell’urna cineraria, quasi simbolo di eternità, ornati di foglie ovato-ellittiche in rilievo. Ventiquattro bottoni di rame del diametro di un soldo di forma ombelicata muniti nella parte concava di manichino a ponte. Un braccialetto d’argento a spira cilindrica, della lunghezza di soldi 12, con ambe l’estremità, terminate da testa di serpente, lavorate in grafitto. Un anello d’oro della circonferenza di soldi 2, con smalto quadrato in mezzo, solcato nei lati da lineette parallele, e nel centro da linee a zig-zag disposte in croce. Uno spillo, o borchia di rame, rappresentante nel d’avanti (sic) la figura di una foglia lanceolata il di cui gambo avviticchiato a spirale elastica e terminato in punta va dalla base a rannodarsi ad una maglia fatta ad uncino posta all’apice posteriore della foglia medesima. Una collana composta di 10 amuleti forati in mezzo a mo[’] di deca, 5 dei quali di materia argillo-resinosa traslucido-azzurrina aventi forma globulosa ed impronte lineari; e gli altri 5 di materia cristallino-resinosa e del colore rosso-trasparente di granato molto foggiati a sfere, ora più ora meno depresse e senza impronte lineari. Un sotterraneo cinerario, ossia una camera sepolcrale della profondità di braccia quattro e della larghezza di braccia tre scavata in uno strato di argilla compatta ma in parte rovinato, ripieno di ossa abbruciate, di frantumi di vasi fittili, e residui di carbone. Alcuni mucchi di carboni indicanti gli avanzi dei roghi ove erano stati abbruciati cadaveri umani. Lo scultore Vincenzo Santini di Pietrasanta male informato della qualità degli oggetti stati rivenuti (sic) entro le casse sepolcrali che sopra, asserisce che in una di queste inve[ce] di cerchi, mucroni e piccola lancia, erano ossidati e di composizione metallica un serto, un brando, ed una scure, e basandosi sul falso ritrovamento di queste seconde armi e ornamenti guerrieri che erano in uso presso i romani, e sul uso (sic) pure romano di riporre le ceneri dei cadaveri abbruciati entro urne, riferisce quei monumenti ai tempi di Roma (Com. Stor. sulla Versilia T. 1 P. 13 e 27). Altri P. Francesco Donati di Serravezza, che similite mai ha veduto le urne cinerarie, le armi guerriere, e gli ornamenti muliebri più sopra descritti, deducendo che da Livi, nome di una delle tribù dei Liguri rammentata da Tito Livio, ne sia derivato il nome di Livigliani, villaggio prossimo al luogo ove furono ritrovate le casse sepolcrali, crede piuttosto che questi oggetti di antichità siano appartenuti ai liviani stanziati in quel sito. Io però non parteggiavo né per l’una né per l’altra opinione. Ritengo che predetti monu[me]nti (?) piuttosto che Romani, Liguri Apuani, o Liviani debbesi dire Etruschi. Non a Romani: perché se per ritenerli tali remane l’uso, presso quella [...], dell’abbruciamento dei cadaveri, s’oppone a ciò la qualità e la forma delle armi ritrovate, che non essendo ne brandi, ne scuri, ne pili, ne contus, ne spiculum, etc., ma mucroni uncinati, e cuspidi biforcate e piccolissime lance non si possono dire appartenenti a quei popoli. 18 Non Liguri Apuani, o Liviani: perché il dedurre ciò dal nome di Levigliani, come derivato da Livi, parmi essere troppo meschina e lontana congettura, e perché dei costumi degli Apuani e dei Liviani e specialmente dei riti religiosi di essi non essendo dettaglio negli storici manca il fondamento per riferire ogni congettura che potesse militare in favore di tale opinione. All’opposto parmi debbonsi dire Etruschi perche a spiegare tale origine concorrono i seguenti dati, cioè: il costume presso questo popolo di abbruciare i cadaveri e riporre le ossa e le ceneri non solamente entro olle di creta, ma (...) Tab. 1 La tabella riporta le misure ragguagliate, al sistema metrico decimale, degli oggetti descritti nella seconda relazione attribuita (doc. 3), ad eccezione delle armi, per le quali sembrano più verosimili le misure del doc. 2. L’ultima colonna riporta poi il confronto dimensionale con reperti museali non solo di Levigliani: reperto descritto da relazioni Simi lunghezza cm larghezza cm altezza cm circonfer. cm diametro cm confronto con reperti museali (cm) Olla cineraria 21,4 23,3 Olla (1932/1): alt. 20,5 - diam. spalla 19 Olla (1967/1): alt. 15,2 Olla (1967/1): alt. 14,2 Olla/deinos (1967/2): alt. 19 - diam. spalla 23,1 (?) Olla/deinos (1968/1): alt. 21,8 - diam. spalla 28,2 Olla (1980/3): alt. 15,6 - diam. spalla 15,6 (?) Olla/deinos (Ponzolo 1938, in Formentini, 1978, p. 195): alt. 20,5 - diam max. 26 Olla vuota 12,6 13,6 Olletta ovoide (1932/1): alt. 10,5 - diam. spalla 1 Olla (1958/1): alt. 12,3 - diam. spalla 13,4 Olletta (1967/2): alt. 12,6 - diam. 9,5 Tazza (con manubrio) 13,6 6,8 Coppa biansata (1932/1): alt. 6 - diam. 12 Coppa biansata (1958/1): alt. 5,6 - diam. 12,5 Coppa biansata (1967/2): alt. 5,9 - diam. 13 Coppa (vaso lacrimatorio) 18,5 7,8 Ciotola (1932/1): alt. 9,5 - diam orlo 19,5 Ciotola (1967/3): alt. 8 - diam. orlo 15,6 Ciotola (1968/1): alt. 8,8 - diam. orlo 17,5 Coppa (1958/1): alt. 7 - diam. orlo 10,3 Coppa (1967/1): alt. 5,4 - diam orlo 13,2 Coppa (1967/2): alt. 7,2 - diam orlo 18 Coppa (1980/3): alt. 5,3 - diam. orlo 12,3 Spillo n.d. Braccialetto (serpe) 35,0 n.d. Fibule (1967/2): lung. 9,9 - 9,5 - 9,0 5,8 Anello Collana Bottone 2,9 Serto/Cerchia Lance... con penna a due tagli - lama - codolo 26,3 14,6 13,6 Lance... con penna cuspidata - lama - codolo 16,5 7,8 Mucrone cilindrico 17,5 Cuspide biforcata - manico - biforcazioni 8,7 5,8 [8,4] Borchia conica (1967/2): diam. 2,8 Bottone in bronzo (Ponzolo 1938, in Formentini, 1978, p. 201): diam. 3 Borchia troncoconica (Filicaia 1957, in Pfanner, 1957b, p. 87): diam. 2,9 Frammenti arcuati (1932/1): diam. 10 ca. Cuspide di giavellotto (Genicciola 1879, in Formentini, 1978, p. 149): lung. lama 16 – larg. lama 3,5 - lungh. codolo 11 4,9 [Punta di ] giavellotto (1932/1): lung. 15 [Punta di] giavellotto (1967/1): lung. max. 16,6 - diam. imman. 1,9 Punta di giavellotto (1968/1): lung. 19,5 - diam. imman. 2,5 Giavellotto, tipo “pilum” (1980/3): lung. orig. 33 Punta di giavellotto (Genicciola, in Formentini, 1978, p. 180): lungh.: 16,5 Cuspide di giavellotto (Pegazzano 1968, in Formentini, 1978, p. 192): lungh fr.: 10 Punta di giavellotto (Valdonica 1973, in Formentini, 1978, p. 206): lungh. 23 1,9 19 NOTE 1) Le abbreviazioni usate nel testo sono le seguenti: A.P.S.L.S. = Archivio Parrocchia S. Lorenzo di Seravezza (Lucca) A.S.C.P. = Archivio Storico Comunale di Pietrasanta (Lucca) A.S.L. = Archivio di Stato di Lucca 2) Santini, 1858, I, p. 27: “Ora è di più a ricordarsi, come, nel Gennaio 1847, in un possesso della famiglia Carrara di Solaio presso il Colle della Guardia, o Castellaccio, fu trovata una cassa sepolcrale, di marmi rozzi composta, ove dentro erano due Olle colle ossa abbruciate, uso che era estesissimo nei primi due Secoli dell’Impero: altre urne consimili, e coll’ossa istesse abbruciate, e poste entro le Olle, sono state pur rinvenute dai sigg. Simi in Levigliani, in luogo detto Alla Piana, ove in rozzo sarcofago, ossidati e di composizione metallica, erano un serto, un brando, ed una scure; nel qual luogo pur di presente altre Olle cinerarie si ritrovano”. 3) A.S.C.P., V. SANTINI, Commentarii Storici sulla Versilia centrale, vol. I e II, mm.ss., f. 2905 (156 v.s.), c. 13 r: “Ora è più a ricordare come nel Gennaio 1847 in un Possesso della famiglia Carrara di Solaio presso il Colle della Guardia o Castellaccio fu trovato un Sepolcro di marmi rozzi ove dentro erano 2 Olle colle ossa abbruciate, uso che si era esteso nei due primi secoli dell’Impero: altre urne consimili colle ossa bruciate entro Olle sono state pur trovate dai Sigg. Simi a Levigliani (§). Monete poi dell’Impero (...)”. In aggiunta a margine, con un segno di richiamo nel testo di prima stesura (§), è stata riportata da Santini una successiva ed importante integrazione, che troviamo pure nella stampa dell’opera: “§) in luogo detto alla piana ove nella rozza cassa ossidati in composizione metallica erano un Serto, un Brando ed una Scure, nel qual luogo presentemente se ne scavano molte altre”. 4) Conferma indiretta del 1855, come anno della scoperta della prima cassetta litica, si ricava dalla mancanza di riferimenti diretti o indiretti al ritrovamento di simili tombe nelle principali pubblicazioni di Emilio Simi, che sono tutte precedenti alla data indicata (1847, 1851, 1855). Anche se di argomento non certo archeologico, le opere a stampa nel nostro Autore cedono spesso all’erudizione, all’enciclopedismo e all’esaltazione delle “glorie patrie”, per cui è difficile pensare che un simile accadimento potesse esser stato ignorato tra le pagine dei suoi scritti. È comunque opportuno specificare che il suo Saggio corografico, ricco di documenti e argomentazioni storiche, pur recando il 1855 come anno di stampa, fu in realtà licenziato come testo definitivo e consegnato alla Tipografia Frediani di Massa il 16 dicembre del 1854 (Simi, 1857, p. 3). In questo caso, la mancanza di riferimenti alla necropoli potrebbe anche significare l’inesistenza di scoperte anteriori al maggio 1855, almeno a conoscenza diretta dell’Autore, che le avrebbe di certo segnalate. 5) Nel passo di Santini (1858, vol. I, p. 27), riportato integralmente nella nota n. 2, si trovano diversi punti in comune con il “Ricordo interessante” di Simi. Per altro, prete Giuseppe Mattei, che aveva raccolto nel suo volume la nota del primo ritrovamento, era anche amico dello scultore pietrasantese e scambiava con quest’ultimo documenti e memorie storiche (in A.S.C.P., Santini lettere, f. 2916 (165 v.s.), c. n.n.: cfr. lettera datata 4 febbraio 1857). 6) I nomi delle antiche misure citate non sciolgono il dubbio se si sia trattato di quelle in uso a Firenze e in gran parte del Granducato di Toscana, oppure delle omonime misure (però di diverso “ragguaglio metrico”) conservatesi nel Vicariato di Pietrasanta, di cui lo Stazzemese faceva parte. La Sovrana Legge Toscana dell’11 luglio 1782, pur uniformando le unità di misurazione in tutto il dominio lorenese, aveva fatto salvi gli antichi sistemi e i relativi campioni delle ‘enclaves’ fiorentine di Versilia, Barga e Lunigiana. Tuttavia, anche nei territori granducali “riformati” sopravvivevano ancora le antiche misure, così come nelle aree escluse dalla legge uniformatrice del 1782 si usavano lo stesso il braccio, la libbra e lo staio fiorentino. Da un confronto a posteriori con le misure metriche decimali dei reperti del XX sec. della necropoli di Levigliani, ci sembrano più corrispondenti, alla realtà dimensionale descritta, il braccio toscano (o fiorentino) e sottomultipli, rispetto a quello di Pietrasanta e alle sue unità minori. Inoltre, un secondo argomento a sostegno dell’uso delle misure granducali in luogo di quelle versiliesi è individuabile nella scala metrica in braccia toscane che è stata impiegata da Emilio Simi nel rilievo della Pianta della Grotta del Monte Corchia (Simi, 1855, tav. III f.t.). Qui di seguito, si riporta il diverso valore di queste diverse lunghezze, i cui rapporti di grandezza rimanevano comunque gli stessi, sia a Firenze che a Pietrasanta (1 braccio = 20 soldi; 1 soldo = 12 denari; 12 denari = 3 quattrini; 1 soldo = 3 quattrini): Misure di Firenze 1 braccio = 1 soldo = 1 denaro = 1 quattrino = cm cm cm cm 58,36 2,918 0,243 0,973 Misure di Pietrasanta 1 braccio = cm 1 soldo = cm 1 denaro = cm 1 quattrino = cm 59,8 2,99 0,249 0,997 7) Antonucci (1979) ritiene la situazione delle tombe ritrovate nel 1967 un fatto del tutto eccezionale, poiché il deposito di terra di quasi due metri che le proteggeva, era il risultato di uno smottamento localizzato di terreno, dato che le altre sepolture “sono sempre state trovate a non più di 30-35 cm dall’attuale piano di campagna”, a tener dietro anche alle informazioni ricevute dai proprietari dei terreni delle Piane Alte. 20 8) Alle Piane Alte, gli interventi conosciuti di maggiore movimentazione di terreno, soprattutto in sviluppo verticale, non si sono limitati agli scavi archeologici nel settore ‘B.2’. Tra gli altri dobbiamo annoverare lo stesso tentativo di spianamento del campo sportivo, che ha portato allo scavo sistematico del 1967, nonché la costruzione della strada interpoderale nel 1980-81, che potrebbe aver consentito la scoperta di sepolture a maggiore profondità, e non soltanto della tomba 1980/1 semidistrutta nel settore ‘C’ (Maggiani, 1995b, p. 115)”. 9) Nei frazionamenti catastali successivi al periodo considerato, rispettivamente del 1882 e del 1896, le nuove particelle non segnalano sui ‘cartoncini’ la presenza dei fabbricati in questione (in A.S.L., u.t.e., v.c.t., Stazzema, r.o n. 52, sez. K, c.i n. 61 e 74). Ad analoga conclusione si giunge con la lettura della più antica tavoletta I.G.M.I. M. Altissimo (f.° 96 II S.O., levata 1878 e correzioni 1895) in cui è evidente, con particolare chiarezza, l’inesistenza dell’edificio del mappale n. 205, che si pone proprio al centro del settore ‘B.1’ della necropoli. Per il n. 127 l’interpretazione è più difficile, trovandosi costruito in aderenza ad altro fabbricato, in una zona comunque assai decentrata, dove la presenza di simili reperti è da ritenersi improbabile. 10) I taccuini di campagna del prof. Bruno Antonucci (Giannessi, 2000, p. 120) hanno raccolto la voce di abitanti di Levigliani che rammentavano come, nel pianoro posto immediatamente ad est dell’ex casa Vannucci (cioè l’edificio n. 205 del nuovo catasto), fossero state trovate in passato 8 o 9 tombe a cassetta vuote. L’occasione della scoperta era stato lo scasso degli stessi campi per bonificarli dalle pietre: un lavoro agricolo straordinario che avrebbe portato gli attrezzi a scavare in profondità. 11) Inoltre, il numero notevole di tombe rinvenute vuote (secondo il racconto popolare citato nella nota precedente) coincide, o quasi, con quello delle relazioni di Emilio Simi, non dimenticando di considerare come i proprietari dei beni siano soliti tacere, per un comprensibile timore, sugli eventuali corredi portati alla luce. 12) Il 20 ottobre 1835, Bernardo Marchesini dell’Avvocato Nicolò volturava, sui registri catastali, a favore Raffaello Bartelletti di Domenico, alcuni appezzamenti di terreno nei pressi di Minazzana, appartenenti sia alla sez. F sia alla sez. G (in A.S.L., u.t.e., v.c.t., Seravezza, r.o n. 2609, c.e n. 1498). 21 BIBLIOGRAFIA AA.VV. (1990) – Atlante dei siti archeologici della Toscana, Giunta Regionale Toscana, Firenze, 1-590. ANTONUCCI B. 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