teorie: speciale Olivetti Perché l’Olivetti non c’è più? di Francesco Varanini Si celebrano quest’anno i cent’anni della fondazione dell’Olivetti: nell’ottobre 1908 nasce la società in accomandita semplice Ing. C. Olivetti & Co. Con la mania degli anniversari che perseguita i giornalisti, e anche certi esperti di comunicazione, ci saremmo potuti aspettare più pagine e più eventi. Celebrazioni e presunzione C’è anche da dire che le celebrazioni che hanno avuto luogo hanno lasciato abbastanza a desiderare. Del recente convegno promosso dalla Fondazione Istud1, per esempio, resta nel ricordo l’incolore esibizione di Professori Ordinari di Storia Contemporanea, Professore Emeriti, ex Rettori, Dirigenti della Pubblica Amministrazione, Direttori Scientifici assortiti, giornalisti. Pubblico in gran parte di anziani. Unico intervento magari anche criticabile, ma intenso e appassionato, quello di Rosario Amodeo, Amministratore Delegato di EngineeringIngegneria Informatica: un imprenditore che nella sua vita è riuscito a fare qualcosa. Sapeva di quello che parlava, e con motivo rivendicava l’orgoglio di chi ha salvato qualche pezzo dell’immenso patrimonio olivettiano. Un patrimonio di cultura d’impresa, di modelli di business, di competenze e di tecnologie, di italianità e di orientamento al mercato globale. Interessanti anche le parole di Federico Butera, non parole di docente ma ricordi di giovane neoassunto. Spiacevole invece l’intervento di Pierpaolo Perotto, chiamato a ricordare il padre Pier Giorgio Perotto, che negli anni Sessanta aveva progettato la macchina che conosciamo come Programma 101, e che ricordiamo come la vera antesignana dei personal computer. Chiamato a ricordare il padre, Pierpaolo, che a sua volta ha lavorato in Olivetti, parla solo di sè, esaltando il proprio ruolo. Un atteggiamento diffuso, che accomuna figure professionali diversissime: manager, tecnologi, commerciali. La storia Olivetti è troppo di frequente usata da Ivrea, storica fabbrica in mattoni rossi: persone che in quella vicenda ebbero primo stabilimento nazionale di macchine per scrivere un qualsiasi ruolo, alto o modestissimo che sia, e che ora usano questa storia per celebrare se stessi, o per difendersi dal mondo. Chi ebbe la ventura di lavorare all’Olivetti, troppo spesso tende a mantenere l’atteggiamento dell’eletto. Baciato dal destino, crede forse di meritare per questo onori, rispetto e successo. La presunzione sostituisce la sostanza. Costoro, invece di farsi belli di un passato di cui hanno usufruito, dovrebbero forse invece rispondere a una domanda precisa: perché l’Olivetti non c’è più? False spiegazioni Si è ripetuto in quel convegno ciò che in altre sedi era già stato ampiamente detto: la storia Olivetti è un caso degno di essere studiato, un caso esemplare. Sì, è vero. 1 100 anni di Olivetti. Sabato 15 novembre 2008, Auditorium Il Sole 24 Ore. 38 PERSONE&CONOSCENZE N.45 Ma il caso più interessante da studiare sta nella sua fine. Nessuno l’ha raccontata bene questa storia. Tutte le spiegazioni –di testimoni, di manager sopravvissuti, di studiosi– le trovo insoddisfacenti. Penso alla fine ingloriosa dell’Olivetti: lenta fine, che è iniziata con la morte di Adriano, nel 1960, a soli 59 anni. Agonia che si è prolungata fino a tutti gli anni novanta – in qualche modo fino a oggi. L’Olivetti non è scomparsa a causa di carenze finanziarie. Le risorse finanziarie non sono mai mancate (così come non mancano oggi). Il problema degli investitori è semmai quello di non capire nulla di tecnologie. Ma sta a manager e imprenditori spiegare. L’Olivetti non è mancata certo per carenze tecnologiche: sia al tempo del Mainframe, sia al tempo del personal computer è giunta preparata. L’Olivetti eccelleva nell’hardware e nel software. Questa non è certo una condizione di svantaggio. Un management intelligente avrebbe potuto scegliere. L’Olivetti non è stata penalizzata dalla localizzazione. Aveva siti produttivi in luoghi diversi e antenne tecnologiche negli States. E comunque, il luogo non è mai un fattore di successo insuperabile. Come si producono automobili dovunque, così dovunque si può produrre hardware. Per il software, poi, il luogo non esiste – e basterebbe ricordare i successi dell’India. Negli stessi anni in cui l’Olivetti periva e deperiva, in garage californiani, con risorse enormemente minori di quelle di cui disponeva l’Olivetti in quegli anni, è nata dal nulla, una tra le tante, la Apple. E negli anni in cui l’Olivetti, dopo iniziali successi, non è riuscita a stare al passo nel mercato dei personal computer cloni del pc Ibm, la Compaq, che prima rincorreva l’Olivetti, si è affermata come grande industria. E nemmeno si può dire che l’Olivetti sia stata rovinata da carenze di Studi & Ricerche & Sviluppo. Le teste, nelle università italiane, erano ottime. Un’azienda prestigiosa attrae talenti di qualsiasi provenienza, se vuole. E poi l’Olivetti aveva una tradizione di scuola interna. Natale Cappellaro, Mario Tchou, Pier Giorgio Perotto non erano stati comprati a peso d’oro sul mercato dei talenti: erano cresciuti in Olivetti. Si sostiene anche che esisteva un problema familiare, un problema di passaggio generazionale. Il problema c’era veramente, credo. Ma la Fiat, per parlare del più evidente caso di capitalismo familiare italiano, proprio negli anni della crescita e della crisi dell’Olivetti, mostrava con Vittorio Valletta Programma 101. Il primo Pc della storia opera di un italiano come si può supplire brillantemente a un vuoto generazionale. Ho sentito anche dire che il fallimento dell’Olivetti è dovuto alla mancanza di regole che caratterizza il capitalismo italiano. Ma anche questa è una spiegazione che non regge. È prendere il problema troppo da lontano. Se proprio, dico, un’impresa può radicarsi altrove, qualcuno l’ha fatto, andando a cercare nello scenario internazionale luoghi retti da regole più sane o più precise. E poi –e dovrebbe proprio essere il caso dell’Olivetti, che ha creato dal nulla una cultura d’impresa e anche una città, Ivrea – chi, se non un’impresa, deve e può creare per sé le proprie regole, il proprio ambiente? Persone Poi si passa alle colpe ben indirizzate verso persone. Dire che Bruno Visentini –grand commis (recita il dizionario: ‘funzionario d’alto rango di una pubblica amministrazione’), signorile abitatore di salotti buoni– dire che Visentini non era un imprenditore, e non capiva nulla del business, e forse di business in generale, è dire cosa ovvia. Dire che Carlo De Benedetti, rampante finanziere con pretese di imprenditore, allora reduce da rapido e infelice raid alla Fiat, dire che De Benedetti non era l’uomo giusto al posto giusto, è sparare sul bersaglio facile. Entrambe persone con la penna d’oro in mano, pronti a firmare accordi, a proprio agio nel mondo della finanza, ma abissalmente lontani dalla fabbrica. Mi porrei piuttosto qualche altra domanda. Perché la scuola Olivetti non aveva formato nessun manager in grado di garantire la successione. Magari all’ombra di Visentini e De Benedetti, magari in coabitazione. Nessuno in grado di tenere dritta la rotta e di valorizzare le enormi risorse di cui l’impresa disponeva. Certo, dalla scuola Olivetti sono emersi ottimi professionisti – tecnologi, ingegneri e professionisti 39 PERSONE&CONOSCENZE N.45 delle Risorse Umane, del Marketing. Persone che debbono tutto a quella scuola, e che credo abbiano motivi di rimpianto: un’azienda così non credo l’abbiano poi più ritrovata. Ma credo che proprio questi professionisti abbiano motivo di rimpiangere il fatto che di lì non è emerso nessun manager veramente all’altezza. Eppure, solo un manager cresciuto all’interno –per la natura stessa dell’Olivetti, così legata a una cultura, a una storia– avrebbe potuto garantire all’Olivetti un futuro. Se è possibile generalizzare, direi che faceva loro difetto un certo senso della realtà e del limite. L’aura olivettiana toglieva spirito critico. Il senso di appartenenza tendeva a sconfinare, l’ho già notato, in gratuita presunzione. E impediva magari di guardare il mondo con la curiosità, di prendere spunto da alte scuole manageriali, impediva di guardare altrove e forse di imparare tutto quello che si sarebbe potuto imparare. Credo si possa dire che questo atteggiamento olivetticentrico, autoreferenziale avesse poche eccezioni. E che costituiva tratto comune degli olivettiani che vissero prestigiose carriere, fuori dall’Olivetti, dopo l’Olivetti. Altra connessa carenza, forse la più grave, stava in questo: aver ridotto l’Olivetti a idea, mito, un’icona. Un’astrazione certamente ricca di riferimenti all’etica e alla libertà d’impresa. Ma un’immagine ‘dirigenziale’, aristocratica, troppo lontana da ciò che era l’impresa, nella concretezza quotidiana, per l’operaio, per il tecnico e per l’impiegato. Probabilmente, tutti gli olivettiani in carriera, come voleva la cultura della casa, da giovani avevano fatto la loro gavetta lavorando in fabbrica, pur se destinati alla Direzione del Personale, o avevano battuto le periferie vendendo macchine da scrivere. Ma credo mancasse in molti la consapevolezza della centralità della fabbrica – non dimentichiamo che c’è ‘fabbrica’ anche lì dove si produce software. Credo mancasse loro quella curiosità per le vicende delle persone, quel gusto di muoversi nei meandri dello stabilimento, quell’attenzione ai dettagli, alle minuscole novità che cambiano istante dopo istante l’impresa, corpo sociale, sistema vivente. Insomma, credo che ai manager Olivetti mancasse quell’atteggiamento che ha ogni imprenditore degno di questo nome, e che potrebbe, e anzi dovrebbe avere anche ogni manager. Atteggiamento senza il quale Adriano Olivetti non avrebbe mai scoperto le doti di Natale Cappellaro. Operaio appassionato di meccanica che si portava di nascosto a casa attrezzi e materiali, per progettare in pace nuove macchine, lontano dagli ingegneri troppo legati ai loro schemi. Ecco: i giovani filosofi che Adriano Olivetti portava in azienda, per farne i futuri manager, sono rimasti probabilmente, come gli ingegneri che Cappellaro non sapeva digerire, troppo legati a una visione schematica delle cose. Incapaci di comprendere i Cappellaro, incapaci di scovarli, privi di interesse per loro. A questa incapacità, credo, e non ad altro, si deve il fatto che l’Olivetti non c’è più. Cosa è mancato Alla domanda: perché l’Olivetti non c’è più, risponderei dunque per carenze dei suoi manager. Ne deriva un’altra domanda: cosa mancava loro. Una prima risposta sta nella difficoltà di crescere veramente stando accanto ad Adriano Olivetti: crescere senza restare figli, o figure di contorno. Qui va rilevato il difetto, l’umanissimo limite del grande leader carismatico. Che lascia crescere, stimola la crescita, purché nessuna figura possa competere con lui. Umanissimo limite che si manifesta, anche, nel tenere lontana da sè l’idea della morte, esorcizzandola. Quindi, nel non preparare la propria successione. Olivetti Lettera 22 Ma c’è anche il difetto degli altri, delle teste brillantissime di cui Olivetti si era circondato. C’è il difetto di chi è incapace di crescere, nonostante il contesto difficile, ‘uccidendo il padre’ che si porta in sè. Se questi manager fossero stati all’altezza del compito, mi dico, l’Olivetti ci sarebbe ancora. È cresciuta invece una classe manageriale di comprimari, più che di veri leader. 40 PERSONE&CONOSCENZE N.45 teorie: speciale Olivetti Olivetti cento di Emilio Renzi Lunga la vita felice della Società Olivetti. Cent’anni quasi: dal 1908 (28 novembre) al 2003 (12 marzo). Oppure dobbiamo dire: breve la vita felice della Società Olivetti? Ché essa fu spenta prima dei cent’anni. La chiave dell’antinomia sta in quel ‘quasi’. ‘Quasi’ indica il modo del finale di partita. Quel ‘quasi’ assunse la forma della coda del cavalluccio marino: che rientra su se stessa, non svetta più, impedisce di correre, continuare, svilupparsi sia pure in altre direzioni. Finale penoso e non solo per chi ci lavorava ancora, ma per i tanti che furono obbligati a lasciarla nei dieci anni precedenti. Non meno dannoso anche da un rilevante punto di vista oggettivo: la perdita per il sistema economico italiano, per il complesso industriale europeo, per la cultura e la società italiana. Emilio Renzi ha studiato Filosofia all’Università degli Studi di Milano e ha lavorato alla Olivetti, Direzione relazioni culturali. Attualmente docente di Semiotica presso la Facoltà del Design del Politecnico di Milano, polo Bovisa. Ha scritto “Caro Ricoeur, mon cher Paci. Dialogo in cinque scene”, Cuem, Milano 2006, e “Comunità concreta. Le opere e il pensiero di Adriano Olivetti”, prefazione di Giuseppe Galasso, Alfredo Guida Editore Napoli 2008. Olivetti cento, ovvero le celebrazioni per i cent’anni della fondazione della Società in Ivrea a opera dell’ingegner Camillo Olivetti, hanno riflesso quasi a opera di un’inconsapevole regia le oscillazioni, le antinomie, i dolori e le glorie, la beffa insomma di una storia quasi-centenaria. Primo fu il francobollo. Come nei racconti dell’Ottocento, un bel giorno le Poste recapitarono un messaggio affrancato... Il francobollo, prodotto da I.P.Z.S. SpA, Roma, 2008 e firmato da G. Ieluzzo, reca la scritta ‘Centenario di Fondazione della Prima Fabbrica’, nel carattere Courier delle macchine per scrivere. Raffigura la fabbrica in mattoni rossi, fatta edificare da Camillo e ancor oggi esistente. Al di sopra svolazza il primo logotipo della Società: il cognome completo, in caratteri d’epoca come si suol dire, ossia in corsivo inglese. A destra, massiccia, scura e autorevole, la visione prospettica della macchina per scrivere M1, progettata e prodotta da Camillo per l’Esposizione universale di Torino del 1911, anno cinquantenario dell’Unità d’Italia. (Consideriamo sin da ora: all’Esposizione che si sta allestendo a Torino per i centocinquant’anni della prima capitale dell’Italia unita nessun prodotto della Olivetti sarà esposto, e cosa ben più drammatica, proprio pochi prodotti originali di una qualsiasi industria nazionale). Una bella società L’atto successivo va in scena ancora a Torino, proclamata World Design Capital 2008: si deve pensare grazie ai risultati dell’auto nel settore della meccanica. Da metà giugno a metà luglio, la mostra ‘Una bella società’, curatori gli architetti Manolo De Giorgi ed Enrico Morteo, contributi di Alberto Saibene e Patrizia Bonifazio oltre che di De Giorgi, Morteo, Alexia De Steffani, Mariana Siracusa, Alessandro Uccelli. Nella mostra, la storia della Olivetti inizia correttamente con i disegni e le macchine di Camillo, prosegue e si conclude sin quasi alla fine. Gli anni Ottanta sono trascurati, i Novanta e quelli finali neanche accennati. La stazione più bella ed emozionante della rassegna è la ricostruzione al vero del negozio Olivetti di Carlo Scarpa a Venezia. Valida la serie di installazioni che mostrano materiale audiovisivo noto e non frequentato. 41 PERSONE&CONOSCENZE N.45 sato: è il volume di Patrizia Bonifazio ed Enrico Giacopelli, del Politecnico di Torino, intitolata Tutto questo vien fuori bene nel Catalogo pubbliIl paesaggio futuro: letture e norme per il patrimocato per i tipi di Allemandi, Torino. Il saggio di Alnio dell’architettura moderna di Ivrea (Allemandi, berto Saibene “Albergo Dora” racconta con molti 2007). Come la città di Ivrea (istituzioni e persone) particolari anche gustosi la raccolta che Adriano valuti e rivaluti un patrimonio urbanistico, progetOlivetti fece di laureati, poeti e grafici, e il fascino tuale ed edilizio moderno-razionalistico a dir poco che la Olivetti, la città, l’Albergo Dora e Scudo di raro in Italia, dovrebbe costituire un tema condiviFrancia, la vista dall’alto sulla Dora Baltea, la fabso da tutta la cultura italiana e non solo dagli archibrica (ma non le idee del comunitarismo adrianeo) tetti, per i quali come si sa Adriano Olivetti costituesercitarono su personalità anche non facili, come isce una delle stelle polari del Novecento. Franco Fortini, Giovanni Giudici, Paolo Volponi. Importante contributo è il Quaderno su AdriaLa parte consistente del Catalogo è formato da un no Olivetti e le Edizioni sorta di ‘dizionario olivetComunità (1946-1960) di tiano’: una novantina di Beniamino de’ Liguori voci in ordine alfabetico Canino, edito dalla Fonsulle tante sfaccettature di dazione Adriano Olivetti quell’universo, narrate in (lodevolmente immestesti né brevi né lunghi e so in .Pdf sul sito della integrate da belle illustraFondazione). È dedicato zioni, alcune delle quali ai libri e alla rivista della non frequenti. Chiude Casa editrice fondata da una conversazione con Adriano e può esser l’avRenzo Zorzi, per decenni vio della necessaria narraresponsabile delle attività zione storico-critica della culturali ed editoriali delCasa editrice, a tutt’oggi la Società. mancante. Se si eccettua la CronoAnche il saggio di Davilogia che regolarmente Negozio Olivetti. San Marco, Venezia de Cadeddu, Gli albori informa sino al 2008, il del Movimento Comunità (1947-1949), apparso nel corpo del Catalogo/Mostra ossia n. IX/6 (novembre 2008) della rivista ‘L’Acropole voci del lessico famili’, colma una lacuna, almeno inizialmente. Il Mogliare olivettiano non vimento Comunità non è infatti preso nemmeno vanno oltre quella sorta in minima considerazione nei manuali e storie dei di autocensorio tetto di partiti e delle idee politiche del Secondo Novecento vetro costituito appunitaliano. to dagli anni finali e dalla fine fattuale. Civitas hominum Nello stesso periodo di pieGiuseppe Lupo e l’editore Aragno di Torino rina estate giunge in libreria pubblicano gli scritti di Adriano Olivetti degli quel tipo di ricerche conanni della formazione prima della guerra, rivolcepite molto tempo prima ti all’organizzazione del lavoro e all’urbanistica: i e che non fanno parte della temi che com’è noto lo appassionarono allora e poi. programmazione ufficiale o La raccolta si intitola Civitas hominum. Scritti di ufficiosa delle celebrazioni centenarie. Ed è qui il urbanistica e di industria 1933-1943. punto di divaricazione da cui cominciano a rendersi La contrattazione aziendale. Esperienze in Olivetti visibili le faglie del discorso critico sulla Olivetti: 1975-1995 di Raffaele Del Vecchio (Bruno Mondai vari approcci e le risposte diverse alla sua genesi, dori, 2008) rappresenta già un discorso che, sia pur ascesi, sviluppo, declino e caduta. sotto un punto di vista parziale, si tiene alle spalle Vi sono ricerche che si occupano della Società e di gli anni di Adriano e si inoltra negli anni delle presuoi specifici aspetti sino agli anni che precedono sidenze di Ottorino Beltrami e di Carlo De Beneil marasma finale. Sappiamo tutti che ogni storia è detti e dei rispettivi management. storia contemporanea perché nasce da un problema, Anche il volume Quattro anni con Olivetti. Riflessioun interesse, uno spasmo del presente, e dunque la ni e interviste da una ‘Città dell’uomo’ (2004-2007) dicitura ‘ricerche storiche’ non dev’essere intesa in allunga lo sguardo su tutta la vita della Società. Esso un significato miope del termine. raccoglie gli atti delle giornate di studio organizzate Ecco quindi un’opera specialistica importante, che per quattro anni consecutivi a Imola dall’associasi preoccupa dei modi per dare continuità al pas- Albergo Dora 42 PERSONE&CONOSCENZE N.45 zione “Città dell’uomo”. Stampato dall’Editrice La Mandragora di Imola, è a cura dei promotori – Antonio Castronuovo e Mauro Casadio Farolfi e testimonia non solo dell’attenzione diffusa in molte parti d’Italia, ma anche dell’importanza attribuita al nesso tra comunitarismo e cooperativismo. Più densa della mostra torinese quella montata a Ivrea tra ottobre e novembre dall’Archivio storico Olivetti, alle Officine H, affidata per l’allestimento a Pier Paride Vidari e a Federico Vidari e per i contenuti ad Alberto De Macchi, Giovanni Maggia ed Eugenio Pacchioli. Dalla mostra origina la giornata Olivetti rivolta agli studenti della Facoltà del Design del Politecnico di Milano/polo Bovisa, il 28 ottobre, coordinatore Paolo Ciuccarelli, relatori Mauro Broggi, Alberto De Macchi, Emilio Renzi e Pier Paride Vidari. Negli ultimi giorni di ottobre tambureggia l’eco delle celebrazioni ufficiali. La Fondazione Olivetti le organizza a Torino, invitando tra gli altri Roberto Colaninno e, a Milano, Carlo De Benedetti. Più ascoltata, forse, l’intervista radiofonica a Elserino Piol, dai microfoni di RadioRai Tre, la mattina del 23 ottobre. no (e capitani coraggiosi bresciano-mantovani) per reperire i mezzi per l’Opa a Telecom, il vero anno cruciale è il 1989, quando la fuoruscita del partner americano AT&T e la crescente stretta della concorrenza internazionale sui piani congiunti dei prodotti innovativi e dell’erosione dei prezzi sancisce l’addio alla prospettiva di fare del gruppo di Ivrea un player globale” (p. 326). Talché non sarà più metamorfosi, in ogni caso preceduta dalla diversificazione degli investimenti da parte di De Benedetti in settori e aree geografiche anche lontane. La dismissione dell’informatica non è che una consequenziale tragicità. La metamorfosi La conclusione di Bricco è che ‘in un settore come l’informatica, segnato da transizioni tecnologiche di rottura e da un elevato grado di concorrenza, dalla necessità di ingenti capitali e da strutture di mercato multiformi e in perenne mutamento, De Benedetti ha operato con un impegno costante, ma non esclusivo, come probabilmente sarebbe stato richiesto” (p. 341). Questo non toglie che si debba parlare della fine della Olivetti come di “uno dei casi a maggiore rapidità di consunzione nella storia del capitalismo italiano” (p. 323). Completa il documentato quadro una panoramica sulla metamorfosi del distretto industriale del Canavese: le piccole imprese e la disoccupazione, i ritorni e i tentativi di intraprese, il ruolo dell’amministrazione locale e il Patto territoriale del Canavese. E la dinamicità nonostante tutto della media industria, “pur nell’unicità di un passaggio storico segnato da un crollo industriale unico nella sua rapidità e violenza” (p. 378). Bricco ha curato anche un bel paginone polifonico del Sole 24 Ore apparso il 23 ottobre 2008, il cui titolo generale è Lo spirito Olivetti e tutti i suoi eredi. Viaggio tra le 98 imprese nate dopo il dissolvimento della vecchia fabbrica. Da realtà industriale a fenomeno finanziario Ricerca che viceversa indaga proprio gli anni ultimi della Società e anzi di Ivrea e del distretto del Canavese dopo la chiusura della Olivetti è il saggio di Paolo Bricco, Dalla crisi della grande impresa all’imprenditorialità diffusa: la Olivetti e l’Eporediese, contenuto nel volume collettivo La questione settentrionale. Economia e società in trasformazione, curato da Giuseppe Berta e pubblicato nell’Universale Economica Feltrinelli, 2008. Bricco conduce l’analisi, in termini di cronaca stretta e di tabelle numeriche, del passaggio della Olivetti da realtà industriale a fenomeno finanziario et ultra. Bricco distingue quattro metamorfosi nella storia dell’azienda: con Adriano dalla meccanica semplice a quella più complessa delle calcolatrici; nel 1972 (Beltrami e Bellisario) la conversione all’elettronica; nel 1978 (De Benedetti) il passaggio all’informatica, con il 1986 come ultimo anno di crescita e il 1991 con il primo ‘rosso’ nel bilancio. È del 1994 “il tentativo debenedettiano di indurre nel complesso, e ormai in via di decomposizione, corpo industriale, finanziario e tecnologico olivettiano” (p. 325) il nascente business delle telecomunicazioni, nella forma della telefonia mobile. “Se la mossa –il cui padre naturale è com’è noto Elserino Piol– inizia bene ma verrà poi ribaltata da Colanni- Il declino Anche il saggio nello stesso volume di Fabio Lavista, Il declino della grande impresa, si occupa in larga misura, com’è naturale, della parte discendente della parabola della Olivetti, dalla fondazione e poi cessione della Divisione Elettronica alla cessione e dissoluzione di tutto. Istruttivi confronti con i picchi e le riprese di Pirelli e di Fiat. Questi saggi presuppongono l’accoglimento delle tesi sulle trasformazioni profonde in atto nel capitalismo italiano sostenute dalla maggior parte degli storici: segnatamente da Giuseppe Berta, nei suoi Metamorfosi. L’industria italiana fra declino 43 PERSONE&CONOSCENZE N.45 e trasformazione (Università Bocconi, 2004), L’Italia delle fabbriche (il Mulino, 2006) e Nord. Dal triangolo industriale alla megalopoli padana 1950-2000 (Mondadori, 2008). Replica, in un certo senso, alle celebrazioni ufficiali, è stato il Convegno organizzato dalla Fondazione Istud ma anche dalla Fondazione Olivetti stessa nell’Auditorium del Sole 24 Ore, il 15 novembre a Milano, regista dal tavolo Marco Vitale. Tre i contributi che segnaliamo: la comunicazione di Giuseppe Rao su Mario Tchou e l’Elea 9003; la relazione su “Olivetti nella grande sfida internazionale dell’informatica” di Rosario Amodeo; la presentazione dei risultati dell’indagine conoscitiva condotta da Istud tra una rete di manager olivettiani e non olivettiani, partendo dal quesito: “Olivetti: cosa resta?”. La relazione di Amodeo è quella che affonda nel merito. Ammette che la superiorità in mezzi economici e in tecnologia della Ibm non poteva che far affondare la Divisione Elettronica della Olivetti e ogni suo grande progetto, più ancora della cattiva volontà del ‘gruppo di controllo’ (leggi: Fiat) al comando dopo la morte di Adriano. Ma dimostra l’incomprensione, le mosse incerte e la dissipazione strategica e tattica della Olivetti di De Benedetti, esattamente in quel settore che doveva rivelarsi il più ricco e importante e anzi decisivo dell’informatica: il software e i servizi. Settore, bisogna aggiungere, ancora oggi ignorato dagli analisti e dagli studiosi. il 22% è attuale, per il 15% è desueto, per il 10% è inesistente, ma per il 45% è desiderabile. In conclusione: non alimentare il mito, farlo emergere nelle Business School e nelle Università come un patrimonio accessibile, laicamente interpretabile. Infine, opera di sintesi, nel senso che cerca di esporre assieme e di mostrare la coerenza e le intime relazioni tra le molte attività di Adriano Olivetti, è la monografia di Emilio Renzi, Comunità concreta. Le opere e il pensiero di Adriano Olivetti, per i tipi di Alfredo Guida Editore Napoli. Poiché autore del libro e autore del presente saggio sono la stessa persona, non se ne parlerà qui. Sia solo concesso di indicare l’attenzione non consueta portata all’opera teorica di Adriano Olivetti, L’Ordine politico delle Comunità, scritta nell’esilio svizzero, apparsa nel 1945 e introvabile da anni; e che nella conclusione che va oltre Adriano sino al 2003, si spende il termine ‘olivetticidio’. Anche la tesi del convegno Fiom/Cgil Piemonte di metà dicembre è così presentata: ‘La Olivetti è stata vittima di un vero e proprio omicidio industriale’. Linguaggio più casto, ma contenuti non meno decisi quello usato qualche settimana prima nel Convegno di studi organizzato dalla Diocesi di Ivrea. Anche perché pochi lo sanno, ma una realtà industriale che si chiama Olivetti esiste ancora e meglio sarebbe dire resiste ancora, arroccata tra Ivrea e le propaggini della Val d’Aosta. Da quell’estate del 2003 la Telecom racchiude nel proprio seno alcune centinaia di persone, due fabbriche (Agliè e Arnad) e una tecnologia proprietaria, inventata dalla Olivetti: la tecnologia di stampa ink-jet. Ma Telecom dev’essere una madre arcigna se le più recenti notizie di stampa, peraltro su testate locali e non nazionali, riportano di smobilitazioni, riconversioni, Cig. Arnad è ristretta, Agliè è caduta. Per contro una piccola, piccola buona notizia è arrivata attraverso gli infiniti fili della rete dalla sfarinata fabbrica di Pozzuoli, uno dei capolavori e di Adriano e dell’architettura italiana del Novecento. In un’ala, a cura della Regione Campania, è entrata in funzione la più grande struttura di asilo nido aziendale del Mezzogiorno. E sarà insomma ben sintomatico che nel recente Storia dei laici nell’Italia clericale e comunista (Marsilio, 2008) Massimo Teodori riservi un capitolo alla rivista Comunità, con tutto che Adriano mai si definì laico bensì cristiano, e che un saggio che si intitola Adriano Olivetti nei percorsi storici del comunitarismo appaia per la firma dello studioso Giorgio Campanini nel numero di dicembre 2008 della rivista della sinistra cattolica Aggiornamenti sociali. Il modello Olivetti Ora, queste in sintesi le domande e le risposte della ricerca Istud. Esiste nella memoria un modello Olivetti, che si esprime in quattro elementi ricorrenti: struttura organizzativa flessibile, poco formalizzata; leadership forte e carismatica; gestione delle risorse umane centrata sulla valorizzazione del potenziale; innovazione di prodotto attenta all’estetica come elemento strategico e distintivo. Esiste nella memoria una corona di valori: attenzione alla Persona; libertà di pensiero; rispetto per la diversità; partecipazione sociale e consenso (stakeholder relazionali). La conoscenza oggi del modello Olivetti si affida per il 26% alla presenza di un imprenditore illuminato; per il 24% al design industriale e ai prodotti; per il 19% alla sventura finanziaria; per il 13% alla centralità della persona; per il 12% all’organizzazione di successo. È, il ‘modello Olivetti’, attuale? Il 48% vede meglio il modello gerarchizzato; il 68% antepone la guida e intuizione al carisma; il design resta centrale in quanto elemento driver ossia fertilizzazione/contaminazione fra mondo aziendale e mondo culturale. In definitiva è più desiderabile che attuale: per 44 PERSONE&CONOSCENZE N.45 PERSONE CONOSCENZE LA RIVISTA DI CHI INVESTE SU SE STESSO Presentano Roma 12 febbraio Hotel Melià Aurelia Antica Bari 19 marzo Sheraton Nicolaus Hotel Bologna 6 maggio Savoia Hotel Regency Milano 18 giugno Atahotel Executive Torino 6 ottobre NH Jolly Ambasciatori Padova 18 novembre Sheraton Padova Hotel Sei convegni rivolti a Responsabili Risorse Umane, Responsabili Organizzazione, Responsabili IT e in generale a Manager e Imprenditori che gestiscono le Persone in Azienda. Per confrontarsi e conoscere le pratiche di gestione delle Risorse umane dal punto di vista organizzativo, formativo e tecnologico. teorie: speciale olivetti Cent’anni di Olivetti, cent’anni di solitudine di Pietro Condemi Nel 1908 nasceva a Ivrea la società Ing. C. Olivetti & C. con 20 dipendenti; nel 1968 conterà oltre 60.000 dipendenti in cinque continenti. Un successo imprenditoriale da manuale, un esempio strategico, manageriale, culturale e sociale che vorrebbe proporsi a ogni uomo, prima ancora che a ogni azienda. Equità, responsabilità sociale, fiducia, partecipazione e trasparenza sono temi dibattuti da molti, attuati da pochissimi; la Olivetti li ha incarnati, li ha resi manifesti e concreti esercitando un potere: il potere di fare impresa diversamente. Pietro Condemi vive e lavora a Milano come imprenditore e docente Silsis nell’area di Scienze dell’Educazione. È stato un imprenditore industriale e ha coperto, nel corso degli anni, funzioni di Responsabile Vendite Italia, Marketing Manager, Consulente aziendale. Nel 2004 si è laureato in Scienze dell’Educazione all’Università di MilanoBicocca. www.ipoc.it L’anno 2008, oramai a conclusione, verrà certamente ricordato per l’elezione del primo presidente afro-americano degli Stati Uniti d’America. Qualcuno lo ha definito un evento più ancora che un avvenimento, per le sue conseguenze globali a livello epistemologico prima ancora che politico; l’Altro, il diverso, assurge alla massima carica politica dei nostri tempi, testimoniando di per sé una logica incentrata sul dialogo, sull’avvicinamento tra culture, sull’unità di aspettative che non possono più essere prerogativa solamente dell’uomo ‘bianco’. Tuttavia esiste una differenza tra avvenimento ed evento, che per essere tale necessita di attualizzarsi. Tristemente assordato dalla logica del profitto e dal dirigismo politico, il 2008 sarebbe tuttavia un anno importante, sia per l’Italia sia per il mondo intero, per un reale evento risalente a 100 anni fa, ovvero la nascita della Olivetti di Ivrea, fondata appunto nel 1908; se a prima vista il termine ‘evento’ può sembrare fuori luogo, cercherò di motivare tale scelta e il paragone con il neo-presidente americano. Evento come attualizzazione Dopo aver assistito all’incontro promosso per ricordare i cento anni della nascita dell’azienda, organizzato dalla Fondazione Olivetti a Milano, che faceva seguito alla mattinata svoltasi a Torino, e dopo aver avuto la fortuna di assistere agli splendidi spettacoli teatrali di Laura Curino e Gabriele Vacis, dedicati rispettivamente a Camillo e Adriano Olivetti, confesso di essermi commosso; i motivi di tale stato d’animo sono stati la figura di Laura Olivetti e l’essenza del messaggio di Adriano Olivetti. Così pacata, così dolce, così nostalgica la prima: traspariva, palpabile, non solo il sentimento e la tristezza per la prematura perdita del padre, ma tutta quella umanità, quella disponibilità e timidezza che ci viene testimoniata da chi Adriano Olivetti l’ha conosciuto. Così profondo, così carico d’immanenza, così pregno di senso il secondo. Evento, dicevo. Osserva Diego Napolitani (Individualità e gruppalità, pp. 42-57): “La destrutturazione degli accoppiamenti cognitivi già dati è la condizione necessaria per la strutturazione di nuovi accoppiamenti, che possiamo descrittivamente accostare a certi fenomeni fisici come la turbolenza, ‘per Adriano Olivetti i quali non abbiamo addirittura elementi che ci permettano di immaginare in dettaglio un sistema deterministico che dia loro origine’ (Maturana e Varela, 1987). Questi accoppiamenti si stabiliscono tra quella cognizione che si annulla e si apre, che muore e rinasce… ed elementi emergenti del mondo trasformato. Questi elementi emergenti sono letteralmente gli eventi, ciò che viene incontro allo stupore nell’ambito di una turbolenza non descrivibile se non nei termini della casualità. Ciascun evento è di per sé indicatore di una direzione, di un senso che rimanda a un altro evento, che a sua volta rimanda a un terzo evento e così via fin tanto che non si delinea un percorso connettivo sufficiente per compiere un certo attraversamento di quello spicchio di mondo che è stato rifondato e di consentire quindi di farne un 46 PERSONE&CONOSCENZE N.45 a salvaguardia dell’ambiente; edifici luminosi e moderni (dalla fabbrica di Pozzuoli, del 1955, si poteva vedere il mare); massima cura nella progettazione dell’ambiente di vita-lavoro (“Quando un ente di riforma costruisce un Nel 1926 Adriano Olivetti, di rientro dal suo viaggio negli villaggio di agricoltori o un centro di servizi, controlla con i Stati Uniti, inizia a collaborare con il padre Camillo per rimuri delle case e gli edifici pubblici un determinato assetto organizzare la produzione; la fabbrica conta 500 dipendensociale”, Adriano Olivetti). ti, per una produzione annua superiore a 8.000 macchine La cultura si riflette non solo in quanto sopra, ma prende da scrivere. L’‘accoppiamento cognitivo’ di Adriano concorpo nel famoso Centro Formazione Meccanici (1936): siste nell’organizzazione scientifica si insegnano cultura generale, politaylorista del lavoro, la modalità più tica, economica e sindacale, educaefficiente per produrre a costi bassi. zione artistica, accanto alle materie L’impennata produttiva che ne contecniche; la formazione informale segue avrebbe potuto esaurire, sotto comprende la casa editrice Ediziola spinta della conseguente esplosione ni di Comunità, la rivista Comunità, degli utili aziendali, ogni ulteriore idea moltissime altre riviste sostenute ecoemancipativa; ma quell’uomo “timido nomicamente, il Centro Culturale e silenzioso”, che quando parlava fisOlivetti, l’Irur, nato per condividere sava “il vuoto coi piccoli occhi celesti, e aiutare altre iniziative produttive che erano insieme freddi e sognanti” mettendo a disposizione la cultura (Natalia Ginzburg, Lessico famigliare, e le esperienze maturate all’interno Camillo Olivetti p. 66) era ‘turbolento’, cercava nuove dell’impresa Olivetti. connessioni di senso per sé. A metà degli anni Scriverà nel 1955 (Città dell’uomo, 1960): “Può l’inCinquanta prende a dustria darsi dei fini? Si trovano questi semplicemente funzionare il Centro nell’indice dei profitti? Non vi è al di là del ritmo apdi Psicologia: si studia parente qualcosa di più affascinante, una destinaziola relazione tra procene, una vocazione anche nella vita di fabbrica?”. La dure di produzione e direzione è già tracciata, il ‘percorso connettivo’ è già disturbi psicofisici, allo strutturato per riattraversare il mondo e per farne un scopo di intervenire racconto; quel che manca ancora è l’attualizzazione, direttamente presso appunto ‘l’eventualizzazione’ del mondo. Eventum, l’Ufficio tempi e metoda e-venire, ovvero accadere, venir fuori: deve concredi; il lavoro frantumato Irur, Centro Culturale Olivetti tizzarsi, deve realizzarsi. E si realizzerà. L’ingegnere e dequalificato riduce i Adriano corre in aiuto del filosofo Adriano: complessoggetti a non usare la propria intelligenza, a non ritrovare sità e non determinismo e consequenzalità, uno straordiun significato nel proprio ruolo sociale, a viverlo come un nario breakdown frutto di tormenti, idee, riflessioni, pragmale necessario “sacrificando il bisogno di responsabilità matismo, responsabilità, progettazione, sogno: un evento e autonomia” (Francesco Novara, Psicologi in fabbrica). storico. Occorre intervenire: personalizzazione del metodo di lavoro, rifiuto della dicotomia quantità-qualità, apertura ad Una rivoluzione copernicana arricchimenti funzionali della mansione, supporto formaLe consolidanti modalità operative della fabbrica vengono tivo per la professionalità. Come ricorda Franco Ferrarotti, ridiscusse: il lavoro diviene mezzo e non fine per liberare per Olivetti l’organizzazione era “capacità di far convivere l’uomo dall’ignoranza, prima di tutto, e dal bisogno. Il saesigenze umane, tecniche, meccaniche, industriali, amper fare non è abbastanza: senza cultura non si può progetbientali” (La rosa di Jericho, p. 73). Cento anni fa nasceva tare, non si può pensare al nuovo, non si possono destrutdunque una fabbrica, come soleva chiamarla Adriano Oliturare gli accoppiamenti cognitivi che ci fanno replicare il vetti, il cui scopo si andava via via modificando, mettendo passato. sotto critica un paradigma nascente e destinato a governare L’attualizzazione prende corpo in biblioteche, scuole, asili il mondo, debordante, come ci insegna Michel Foucault, in nido, case per le vacanze per i figli dei dipendenti, stipentutti gli aspetti del nostro vivere sociale. Un evento nel suo di doppi rispetto alla media del settore, medico di fabbripiù completo significato, dal momento che ha fatto seguire ca, alloggi per i dipendenti, riduzione dell’orario di lavoro, alla progettazione una reale attuazione, che si è dimostrata consiglio di gestione, compartecipazione degli utili, periodo foriera di benessere individuale e collettivo, che ha realizzadi maternità retribuito. Ma non solo: urbanizzazione come to utili aziendali strepitosi, che ha coniugato mirabilmente costruzione di un ambiente rispettoso di salvaguardare la formazione, cultura e strategia imprenditoriale, che ha gebellezza dei luoghi; decentralizzazione produttiva atta a nerato innovazione sociale e tecnologica; basterà ricordare evitare il congestionamento delle città; servizi di trasporti a tale proposito che Adriano Olivetti è stato tra i fondatori racconto… Non è, in altri termini, la novità oggettiva di un fenomeno che lo rende ‘evento’, ma è la creazione di una nuova combinatoria… che attivamente ‘eventualizza’ il mondo”. 47 PERSONE&CONOSCENZE N.45 dell’odierna STMicroelectronics, che il sistema Elea 9003 è stato il primo elaboratore al mondo a transistor anziché valvole (1959), che il primo pc al mondo è nato in Olivetti nel 1965, e si chiamava Programma 101. figura esistenziale estranea a ogni articolazione tecnica e a ogni programmazione razionale, e che è legata all’intuizione e all’apertura dialogica… alimentata dalla testimonianza e dall’esperienza” (Eugenio Borgna): fiducia di non essere manipolati, di non perdere il posto di lavoro, di essere considerati persone e non risorse, di essere trattati da uomini e non da bambini, di essere remunerati con equità; fiducia che si realizza attraverso l’esemplarità, il contatto personale, la relazione, la trasparenza. Cosa mancava in Olivetti per essere un’azienda eccellente? Esserci per l’altro Ma il mio entusiasmo e la mia tristezza, forse la stessa che mi è parso di cogliere negli occhi di Laura Olivetti, mi hanno portato a non rispettare la promessa fatta all’inizio, e riguardante gli spettacoli di Laura Curino e Gabriele Vacis, e il senso dell’opera di Adriano Olivetti che mi è sembrato emergesse con maggior vigore. Così mirabilmente recita Laura Curino nel suo spettacolo Adriano Olivetti, attingendo da Natalia Ginzburg (Lessico famigliare, p. 78): “Aveva gli occhi spaventati, risoluti e allegri… Erano gli occhi che aveva quando aiutava una persona [Filippo Turati] a scappare, quando c’era un pericolo e qualcuno da portare in salvo”. E ancora (p. 168): “Lo incontrai a Roma per la strada… Era vestito come tutti gli altri, ma sembrava, nella folla, un mendicante; e sembrava, nel tempo stesso, anche un re. Un re in esilio, sembrava”. E a proposito della precipitosa fuga dalla propria casa a seguito dell’arresto del marito Leone da parte dei tedeschi (p. 168): “Io ricorderò sempre, tutta la vita, il grande conforto che sentii nel vedermi davanti, quel mattino, la sua figura… e ricorderò sempre la sua schiena china a raccogliere, per le stanze, i nostri indumenti sparsi, le scarpe dei bambini, con gesti di bontà umile, pietosa e paziente. E aveva, quando scappammo da quella casa, il viso di quella volta che era venuto da noi a prendere Turati, il viso trafelato, spaventato e felice di quando portava in salvo qualcuno”. Trovo in queste parole l’essenza dell’avvento-evento di una delle figure più importanti del Novecento italiano. Il senso della vita, quel qualcosa che ricerchiamo e rimuoviamo, sembra risiedere in uno slancio che ci rende trafelati e spaventati: portare in salvo qualcuno. In questo c’è tutta la turbolenza della paura, della nuova possibilità che si staglia di fronte a noi, ma che cozza con il nostro egoismo, con la mal interpretata idea del bastare a se stessi. Scrive Christopher Lasch nel suo La cultura del narcisismo: “L’ideologia della crescita personale lascia trapelare profondo sconforto e rassegnazione. È la fede di chi non ha più fede”. Il portare in salvo qualcuno diventa esigenza per poter dare senso alla nostra vita, e richiede la capacità di esistere, letteralmente ex-sistere, uscire da se stesso (Vicktor Frankl), l’opposto di in-sistere (nel replicare) per Slavoj Zizek, ma ancor più esserci come fattualità e progettualità “del possibile e del divenire”, progetto concreto (Martin Heidegger, Diego Napolitani). “Conoscere non basta per sopravvivere; per sopravvivere occorre progettare. A noi lo ha insegnato Adriano…” scrive Riccardo Musatti (La rosa di Jericho, p. Attualità che fa paura? Perché, ci si potrebbe chiedere, di fronte a tutto questo non ci sono state commemorazioni pubbliche? Perché della Olivetti non se ne vuole più parlare? Perché si dice che “la sua [di Adriano Olivetti] visione dei compiti di un’azienda era completamente sbagliata” (Cesare Romiti, L’Espresso, 19.06.1988), che “era satura di paternalismo” (Edoardo Sanguineti, Corriere della Sera, 17.02.1998)? Eppure, il recente libro di Jim Collins Good to Great (2001) ripropone lo stesso modello di leadership e di organizzazione aziendale insegnato al mondo intero dalla Olivetti, in maniera che rasenta il plagio, e che è stato sposato dalle più importanti aziende di successo americane; eppure, il Libro Verde della Cee Com (2001) 366 parla di formazione, responsabilità sociale, tutela dell’ambiente, luoghi di lavoro, cooperative di lavoratori, equilibrio tra lavoro, famiglia e tempo libero, partecipazione ai benefici e formule di azionariato nei termini in cui non ne parlava, ma che metteva in pratica (e-ventum) Adriano Olivetti. STMicroelectronics Il leader delle 11 aziende americane definite eccellenti dalla ricerca di Jim Collins, selezionate in un panel di 1.435 aziende, ha il volto di Adriano Olivetti: calmo, timido, riservato, un misto di umiltà e voglia di essere un vero professionista, “più simile a Socrate e Lincoln, che non Patton o a Cesare”, focalizzato più sul benessere dell’azienda che non sul proprio, riflessivo, attento alla propria crescita personale e interiore, tra un mentore e un bravo insegnante, orientato al benessere collettivo. L’organizzazione che crea il vantaggio competitivo si fonda sulla possibilità di condividere conoscenze, e questa si dà quando regna la fiducia, “una 48 PERSONE&CONOSCENZE N.45 47). Portare in salvo qualcuno è immanenza, ricerca del senso che trova una risposta al di qua di una visione teistica. Oso asserire che l’esigenza (da exigere: spingere, condurre fuori) di Adriano Olivetti di dare un senso alla propria esistenza (ormai trasformatasi da vita a esistenza) lo ha fatto transitare da un primo momento di purgatorio, per poter costruire le condizioni economiche fondanti il suo progetto, a un momento nel quale i fini sono diventati i mezzi per andare oltre, per realizzare il senso della propria esistenza. La semplicità e l’umiltà dei suoi gesti, come ci ricorda Natalia Ginzburg, sono la testimonianza di come tutto questo sia sotto i nostri occhi, non richieda performance apicali, ma sia accessibile a chiunque si dichiari uomo, o persona, come avrebbe preferito dire l’ingegner Adriano. Lui, il ricco industriale, sembrava “un mendicante”, per le strade di Roma, ma al tempo Il messaggio dell’evento Olivetti parte dunque dall’uomo, dalla sua cultura, dal suo benessere economico e interiore; senza queste pre-condizioni non solo non si comprende a fondo il messaggio di Adriano Olivetti e dei suoi collaboratori, ma non sembra darsi la possibilità di dare senso alla propria esistenza. Ecco perché la formazione, che poggia sulla cultura e sul pragmatismo, come ci insegna John Dewey, diventa il motore del cambiamento: i sogni dell’uomo, così ben visibili nella filosofia che attraversa i secoli, possono diventare realtà attraverso il pensiero tecnico-scientifico. Adriano Olivetti era prima di tutto un educatore: poi un filosofo, un ingegnere, un mecenate, un industriale, e, come dice Massimo Fichera, “tutto era funzionale all’azienda e niente lo era… non gli vidi fare mai qualcosa per mero interesse, mai qualcosa che non gli servisse” (La rosa di Jericho, p. 53). Inutile far finta di non vedere: Adriano Olivetti era un genio, uno straordinario leader che ha saputo raccogliere presso la sua fabbrica le migliori menti italiane, che spaziavano dal management alla psicologia, dalla sociologia alla filosofia, dall’urbanistica al design. Eccellenza culturale di vere personae: persona che, nell’accezione di Olivetti ripresa da Emmanuel Mounier, “nasce da una ‘vocazione’, dalla consapevolezza cioè del compito che ogni uomo ha nella società terrena… ha profondo senso, quindi, nel rispetto, sostanzialmente e intimamente cristiani, della dignità altrui, sente profondamente i legami che l’uniscono alla comunità cui appartiene, ha vivissima la coscienza di un dovere sociale” (La rosa di Jericho, p. 21). Formare, educare gli individui li rende liberi e responsabili, e in grado di cercare il senso della propria vita, cercare di esistere, ovvero necessariamente prendersi cura dell’altro, ‘salvare qualcuno’. Natalia Ginzburg stesso un re: cosa rifletteva quello sguardo? Rifletteva tutta la sua umiltà, tutto il suo bisogno dell’altro: il ‘difetto’ del mendicum diviene dipendenza di chi sa che la propria nascita avverrà solo nella possibilità di essere riconosciuti dall’altro da sé; ma rifletteva anche tutta la sua determinazione a rendere concreta la sua vita, a permettersi di darle un senso: un re che aveva in sé tutta la potenzialità e il desiderio, ma era frustrato e vinto dall’impotenza contingente. Un re in esilio, appunto, che non doveva far altro che pazientare, attendere. Questione di volto Sarà capace, il neo-presidente americano, di trasformare un avvenimento in evento? Questa è la speranza di tutti noi. Ma eventi di altrettanta portata possono essere realizzati a livello individuale e sociale, all’interno delle proprie famiglie e delle fabbriche, delle scuole e degli ospedali, nel tessuto sociale attraverso i mass media; il messaggio di Adriano Olivetti si propone a tutti coloro che, umilmente, vogliono dare un senso al proprio transito terreno. Lui aspetta, come una rosa di Jericho, l’acqua per tornare verde: si tratta di un’esigenza che non riguarda solamente la possibilità di competere sui mercati internazionali, di innovare, di creare benessere collettivo, di etica e responsabiltà, ma che interessa ognuno di noi. Lui aspetta, con i suoi occhi azzurri e il suo “viso trafelato, spaventato e felice di quando portava in salvo qualcuno”. Peccato che, su quel palco, fatta eccezione per le figure femminili, nessuno avesse quel viso. Il senso dell’esistenza Scriveva Giorgio Soavi (Adriano Olivetti. Una sorpresa italiana): “Perché gli uomini giovani del nostro tempo si impegnano esclusivamente nei soldi, negli affari, certo, non hanno torto, ma hanno torto quando non vedono altro al mondo. Quelle teste, seppure di talento finanziario, non sono deludenti? Perché il cervello, le ambizioni, non vanno, non sfiorano qualche altra emozione che non sia quella, unica, di far denaro? Mai un’emozione diversa da quella? Credo che, così facendo, il risultato che si ottiene da quelle teste sia, tirando le somme, abbastanza modesto. Per non dire penoso. Abbiamo –hanno– dunque studiato e vissuto solo per i soldi? Tutto il resto può esistere o non c’è proprio?”. 49 PERSONE&CONOSCENZE N.45 teorie speciale Olivetti teorie: Il Centenario Olivetti visto dalla prospettiva del lavoro commerciale di Galileo Dallolio Il 22 novembre 2008, a Milano si è raggiunto il tutto esaurito. Non era più possibile iscriversi per partecipare a un evento che vedeva presenti 150 ex dipendenti Olivetti, degli oltre mille collegati in rete, nel ricordo del Centenario dell’Azienda. In modo spontaneo, venditori, dirigenti, tecnici, progettisti, formatori che hanno dato vita a www.olivettiani.org, si sono incontrati per il piacere di rivedersi e di parlare della vita trascorsa in Olivetti. Così come già avviene in Spagna, Inghilterra, Danimarca, Belgio. Galileo Dallolio ha studiato Sociologia e ha lavorato alla Olivetti, Direzione del Personale Commerciale Italia, dal 1960 al 1991. Ha collaborato al testo’Storia e storie delle risorse umane in Olivetti’ edito da F.Angeli e curato da M. La Rosa, P.A.Rebaudengo e C.Ricciardelli. Attualmente è direttore editoriale di FOR, la rivista dell’Associazione Italiana Formatori e gestisce il sito: www.bottegadellaformazione.it Le informazioni su Olivetti sono reperibili nell’archivio Olivetti www.arcoliv.org e in una bibliografia composta da molte centinaia di titoli. Tra questi ‘Olivetti: una bella società’, catalogo della mostra svolta a Torino nel 2008, a cura di Manolo De Giorgi e Enrico Morteo, Umberto Allemandi Editore. Racconto questo Centenario per i lettori di Persone&Conoscenze secondo uno schema maturato attraverso lo scambio con colleghi, con Concessionari e con clienti e utilizzando 31 anni di lavoro trascorsi lavorando nella Filiale di Bologna e alla Direzione Commerciale Italia della Olivetti, a Milano. È la storia vista da organizzazioni tipiche del mondo industriale, ma che in Olivetti hanno assunto significati molto particolari. C’è infatti Ivrea che è il centro e sul quale si è scritto e si continuerà a scrivere e ci sono tante Olivetti sparse nel territorio dove, per una singolare combinazione, quella storia assumerà profili diversi. Generatori di questa originalità sono la Direzione Commerciale Italia (inaugurata a Milano nel Palazzo di Via Clerici nel 1955), la Scuola per Venditori di Firenze (il 1°corso comincia nel febbraio 1954 nell’aula magna della facoltà di Architettura) e la Scuola per meccanici di Piacenza (Stac: servizio tecnico assistenza clienti) le Filiali e le Concessioni (in Italia e all’estero). Le Filiali e le Concessioni devono vendere, installare e assistere le macchine prodotte a Ivrea e vengono organizzate per questi scopi. Ma in breve tempo assumono un carattere distintivo: sono luoghi belli, ben organizzati e dove si lavora bene. Nel 1957, in Italia le Filiali erano 30 e 235 i Concessionari (i dipendenti in tutto erano 24.000); nel 1963 le Filiali passano a 60 i Concessionari a 332 (i dipendenti erano diventati 54.600). Questa crescita fu originata da una scelta molto coraggiosa. “Alla metà degli anni Cinquanta si esprime in pieno la capacità organizzativa e di progetto industriale di Adriano, ma soprattutto la sua capacità di realizzare prodotti non solo buoni ma anche in grande quantità, il che determina un intasamento dei magazzini dell’azienda. Si apre allora un grande dibattito: chiudere gli stabilimenti (come forse si farebbe oggi) o individuare canali nuovi per portare i prodotti al mercato. Si opta per questa seconda strada, una scelta che la dice lunga sulla visione di Adriano in tema di responsabilità d’impresa”.1 La persona che organizza e innova il sistema distributivo si chiama Ugo Galassi. “Per ricordare Adriano Olivetti nel centenario della sua nascita, si è parlato sempre di quanto 1 G.Maggio p.504, Uomini e lavoro alla Olivetti a cura di Francesco Novara, Renato Rozzi e Roberta Garruccio, postfazio- ne di Giulio Sapelli, Bruno Mondadori, 2004. 50 PERSONE&CONOSCENZE N.45 Sono infinite le storie di lavoro che hanno visto la presenza di venditori, di tecnici e di programmatori nella soluzione di problemi di sviluppo organizzativo per le imprese, le banche, gli enti pubblici, le scuole, i professionisti… Filiali e Concessioni erano e sono (i concessionari sono a tutt’oggi 600) punti di riferimento nella realtà economica locale. I venditori venivano selezionati da giovani che si chiamavano Furio Colombo, Tiziano Terzani, Ottiero Ottieri, Alberto Projettis, Giancarlo Lunati... Interessante notare che nel 1960 Einaudi pubblica I venditori di Milano una piece teatrale di Ottiero Ottieri (con dedica a Elio Vittorini). “Poi, se il colloquio è stato positivo, vieni mandato a Firenze, in una splendida villa del cinquecento, il Cisv (Centro specializzazione vendite) o meglio conosciuta da tutti noi come Villa Natalia. Svegliandoti al mattino, vedi attraverso i pini marittimi e i cipressi la cupola del Brunelleschi, poi dopo colazione ti avvii per un sentiero nel verde a Villa degli Ulivi, sul colle di fronte, dove ci sono le aule per i corsi di formazione. In questo contesto apprendi le tecniche di vendita e impari a conoscere i prodotti che dovrai proporre ai clienti”.3 In questa straordinaria scuola i futuri venditori studiavano assieme ai giovani ternisti o ‘nela’(neolaureati). “La Olivetti assumeva i laureati a ‘terne’: un tecnico, un economista, un umanista. Modello di superamento della schizofrenia fra le ‘due culture’, di comprensione del nesso tra innovazione tecnologica e cultura classica, di valorizzazione della interdisciplinarietà”.4 “Nessuna azienda aveva un centro come questo per la formazione del personale appena assunto. Ma mi spaventò che si parlasse di una mia destinazione al settore commerciale. Ignoravo che tutti venivano mandati a Villa Natalia e passavano un mese di corso come momento introduttivo nell’azienda”.5 Oggi che per diversi mestieri, impieghi, professioni, si debba ‘fare il corso’ è scontato, negli anni Cinquanta e Sessanta non lo era. L’idea della vendita era piuttosto elementare: prendere la valigetta e andare dal cliente, forti della propria capacità persuasiva e di molta energia fisica. “Nel periodo 1954-1962 si sono sommate, per felici e irripetibili circostanze, quelle condizioni ambientali, organizzative, umane e tecniche capaci di influire in modo significativo sull’apprendimento di uno stile di comportamento organizzativo, oltreché di serie e approfondite conoscenze tecnico professionali. Villa Natalia la Olivetti ha fatto sul piano dell’architettura, dell’organizzazione del lavoro, della cultura, dell’arte, della sociologia; si è parlato lungamente di tutti gli artisti, scrittori, poeti che sono passati all’Olivetti, ma non si è mai parlato della sua formidabile organizzazione commerciale. Se uno si limitasse a leggere certi resoconti, credo sarebbe legittimato a concludere che l’Olivetti era fatta da architetti, ingegneri, letterati, poeti, e non riuscirebbe a capire chi possa avere venduto i suoi prodotti. In effetti ci fu un padre dello sviluppo del settore commerciale, a cui si deve l’importanza che esso ha avuto nella storia dell’Olivetti. Questo padre si chiamava Ugo Galassi […]. Certe metodologie, certe pratiche, certe norme, una certa pianificazione dell’attività commerciale, messa a punto da parte di uno staff, si devono al dottor Galassi, che dovrebbe essere ricordato, a mio avviso, con la stessa enfasi con la quale sono ricordati altri illustri e mitici personaggi olivettiani”.2 Modernizzare il lavoro Le Filiali erano vetrine del design italiano; perché anche chi non entrava poteva guardare le realizzazioni progettuali (scrivanie, sedie, scaffali, arredo da ufficio, macchine) di Belgiojoso, Peressuti, Rogers, Nizzoli, Pintori, Bellini, von Klier, Zanuso. Filiali e Concessioni Olivetti erano note per essere luoghi ‘belli e importanti’ della città, e facevano parte dell’universo del lavoro e non dello shopping. Erano luoghi dai quali provenivano idee e prodotti per modernizzare il lavoro d’ufficio. Prodotti e soluzioni che, in una concorrenza piuttosto severa con produttori tedeschi e americani in particolare, erano vendute e assistite da persone competenti e ben formate. N.Colangelo p. 486, Uomini e lavoro in Olivetti. In Giuseppe Silmo M.P.S Macchine per scrivere Olivetti e non solo. Memorie di un venditore di macchine per scrivere, Tecnologic@mente Storie/Fondazione Natale Capellaro 2008, pag. 31. 4 In Comunità concreta. Le opere e il pensiero di Adriano Olivetti, di Emilio Renzi, Guida 2008, p. 147. 5 M.Torta, p. 527, Uomini e lavoro in Olivetti, cit. 2 3 51 PERSONE&CONOSCENZE N.45 I fondatori Camillo Olivetti (1868-1943) Laureato in ingegneria a Torino, fu per due anni assistente di elettrotecnica alla Stanford University. In America era andato la prima volta per accompagnare il suo maestro Galileo Ferraris, lo scienziato torinese scopritore del campo magnetico rotante e ideatore del motore elettrico alternato. La sua esperienza americana, che fu alla base della sua idea imprenditoriale, è in ‘Lettere americane’ edite nel 1968. L’impresa comincia nel 1908 a Ivrea con la costruzione dei primi modelli di macchine per scrivere e la creazione di filiali di vendita, le prime nel 1912 a Milano, Roma, Napoli e Genova. Quando nel 1933 il figlio Adriano, a 32 anni, diventerà direttore generale subentrando al padre, l’azienda avrà 870 dipendenti, 13 filiali, 79 concessionari e sarà presente in due Paesi africani, 5 sudamericani, 12 europei e 13 mediorientali. Il brevissimo quadro va completato con questa annotazione dello scrittore Libero Bigiaretti, che fu capo ufficio stampa in Olivetti,: “Camillo Olivetti, amico ed estimatore di Filippo Turati e di Oddino Morgari, finanziatore e collaboratore, nei primi anni del regime, del settimanale antifascista torinese ‘Tempi nuovi’; coraggioso autore di un opuscolo in cui, proponendo un’ardita riforma tributaria, condanna apertamente il fascismo (ancora dominante) e l’egoismo della classe dirigente”. Adriano Olivetti ( 1901-1960) Si laureò a 23 anni in ingegneria chimica al Politecnico di Milano. Dopo un soggiorno negli Stati Uniti, entrò come operaio nella fabbrica del padre. Le sue capacità umane e manageriali portarono l’azienda a uno straordinario successo (nel 1942 i dipendenti sono 4.673).Qualche cenno sulla sua visione del mondo si può ricavare da queste iniziative: avvia gli studi per la prima esperienza di pianificazione territoriale in Italia (il Piano regolatore della Valle La Famiglia Olivetti Chi usciva dai corsi di base sentiva di avere fatto propri i valori e gli obiettivi aziendali; sentiva l’orgoglio di essere parte attiva in un’impresa proiettata con successo verso la leadership mondiale non solo per la qualità tecnica dei prodotti e per il loro design, ma anche per il grande prestigio culturale dell’azienda. A questo segno di appartenenza che, in un certo modo nobilitava il sentirsi ‘olivettiani’, si sommava la consapevolezza, non disgiunta da un senso di gratitudine sincera, di avere potuto vivere un’importante esperienza professionale”.6 Cominciava così, nei luoghi di lavoro, un’originale combinazione di saperi. Le Filiali erano luoghi ricchi di personalità, di personaggi e di eventi e dove, nel contatto con i clienti, si andava declinando un modo molto speciale di vivere il lavoro. La formazione svolgeva un ruolo molto importante e non è un caso che l’Associazione Italiana Formatori (Aif) e il Dipartimento di Sociologia del lavoro dell’Università di Bologna organizzassero nel 2001, in occasione del centenario della nascita di Adriano, un convegno sulla formazione in Olivetti. bisogno di strumenti di lavoro ma si può dire che, in modo personale e orgoglioso insieme, ‘distribuivano’ la cultura Olivetti. Si tenga conto che nelle Filiali arrivavano regolarmente le riviste Sele Arte, Comunità e ‘Notizie Olivetti’, funzionava il Fondo di Solidarietà (originato in memoria del primo direttore tecnico Domenico Burzio nel 1933) e che i figli dei dipendenti andavano nelle Colonie estive Olivetti. Nelle città, con mostre e rassegne (molte organizzate con Egidio Bonfante e Paolo Viti) e con oggetti di gran pregio (Soavi, Sotsass, Leclerc, Nizzoli, Munari…) dalle agende progettate da Enzo Mari e illustrate ogni anni da artisti diversi, ai calendari di artisti dal mondo, classici e moderni, si instaurava un dialogo insolito con il clienti. Infine come non ricordare che le macchine e le calcolatrici, cos’altro erano se non capolavori del design italiano riconosciuti, studiati, apprezzati e accolti nei Musei del mondo? Ripensandoci ora e rivedendo i colleghi nella ricorrenza del Centenario, chi ha lavorato in particolare negli anni che hanno visto, anche dopo la sua scomparsa, l’influenza di Adriano, ha portato nelle attività che in seguito ha svolto un carattere, un tratto, uno stile che in maniera non arbitraria può essere chiamato ‘olivettiano’. La cultura Olivetti I venditori Olivetti portavano al mercato non solo i prodotti, i servizi, la capacità di comprendere le problematiche del cliente nelle varie tipologie di chi aveva 6 P.91. M.Torta, in Storia e storie delle risorse umane in Olivetti, A cura di Michele La Rosa, Paolo A.Rebaudengo e Chiara Ricciardelli, F.Angeli, 2004. 52 PERSONE&CONOSCENZE N.45 d’Aosta); nel 1937 esce il primo numero della rivista ‘Tecnica e organizzazione’ dedicata ai problemi dell’industria moderna; crea l’Ufficio Assistenti sociali, incarica gli architetti Figini e Pollini di progettare il Villaggio Operaio di Castellamonte. Nel 1939 viene inaugurata a San Giacomo di Champoluc una colonia montana estiva per i figli dei dipendenti. Nel 1941 viene costituito il Centro Agrario per risolvere il problema alimentare durante la guerra. Adriano Olivetti si oppose al regime fascista in modo attivo e partecipò con Carlo Rosselli, Ferruccio Parri, Sandro Petr e altri alla liberazione di Filippo Turati. Arrestato nel luglio del 1943 entra nella clandestinità dopo l’8 settembre. Alla Ico nel frattempo si costituisce il Comitato di Liberazione Nazionale con Guglielmo Jervis (fucilato nel 1944), Gino Martinoli Levi e Giovanni Enriques. Nel 1943 con Cesare Musatti pone le basi del primo Centro di Psicologia industriale. La ricerca dell’armonia tra sviluppo industriale, democrazia partecipativa, diritti umani dentro e fuori la fabbrica fu uno dei grandi motivi ispiratori della sua attività. “Nel 1945 pubblicò L’ordine politico delle Comu- nità che va considerato la base teorica per una idea federalista dello Stato che, nella sua visione, si fondava appunto sulle comunità, vale a dire unità territoriali culturalmente omogenea e economicamente autonome. Nel 1948 fondò a Torino il ‘Movimento Comunità’ e si impegnò affinché si realizzasse il suo ideale di comunità in terra di Canavese. Il movimento, che tentava di unire sotto un’unica bandiera l’ala socialista con quella liberale, assunse nell’ Italia degli anni Cinquanta una notevole importanza nel campo della cultura economica, sociale e politica. Sotto l’impulso delle fortune aziendali e dei suoi ideali comunitari, Ivrea negli anni cinquanta raggruppò una quantità straordinaria di intellettuali che operavano (chi in azienda chi all’interno del Movimento Comunità) in differenti campi disciplinari, inseguendo il progetto di una sintesi creativa tra cultura tecnico-scientifica e cultura umanistica. Fu sindaco di Ivrea nel 1956 e nel 1958 venne eletto deputato come rappresentante di ‘Comunità’.” (Tratto da wikipedia). Alla sua morte, nel 1960, i dipendenti sono 22.000 in Italia e 25.000 all’estero. co nell’imporre il suo punto di vista. Va, in proposito, osservato che l’apporto di capitale necessario per risolvere la crisi non era esorbitante e la situazione generale dell’azienda niente affatto drammatica. Tanto è vero che nel 1965 la società tornò a distribuire dividendo. Un altro fattore di debolezza era di natura culturale e cioè la contrapposizione tra meccanici ed elettronici all’interno dell’azienda. L’establishment aziendale era dichiaratamente avverso all’elettronica; la mentalità dominante era quella che credeva nelle produzioni meccaniche, che avevano fatto la fortuna dell’Olivetti. In questa visione conservatrice, l’elettronica non rappresentava il futuro, ma solo uno sperpero di risorse. Con la morte di Adriano diventava più facile sostenere che occorreva accantonare l’elettronica in favore di sempre più complessi (ma sempre meno proponibili) prodotti meccanici. Infine, si può mettere in conto anche una debolezza di natura politica. Infatti, nell’assenza di sostegni da parte dello Stato, oltre alla miopia dei governanti sul ruolo strategico del settore, giocò a sfavore della Olivetti una malcelata insofferenza verso la figura di Adriano, imprenditore anomalo, fuori dal coro, considerato dai più un utopista lontano dalla realtà. Sta di fatto che l’Olivetti non ebbe alcun sostegno dalle istituzioni, all’opposto di quanto avveniva negli altri Paesi, nei quali l’industria nazionale del computer godeva di varie forme di agevolazione, dalle commesse di ricerca alla preferenza negli acquisti (paradossalmente, fu anzi l’Olivetti a regalare un Elea 9003 alla Ragioneria Generale dello Stato...)”.7 L’individuazione di una grande opportunità Il prototipo del primo transistor fu creato nei laboratori Bell nel 1947 e Adriano Olivetti nel 1952 a New Canaan (in Usa) inizia a studiare le applicazioni dell’elettronica al calcolo. Attraverso Mario Tchou, un talento di padre cinese e di madre italiana, nato a Roma e docente di elettronica alla Columbia University di New York a 28 anni, Adriano Olivetti, nel 1955 e in collaborazione con l’Università di Pisa, pone le basi per un successo clamoroso. Nel 1959 viene infatti prodotto e presentato l’Elea 9003 (Elaboratore Elettronico Aritmetico), progettato e costruito in serie per impieghi scientifici e commerciali. L’Elea non fu soltanto il primo calcolatore elettronico italiano, ma anche uno dei primissimi al mondo costruito interamente a transistor, che consentiva prestazioni (velocità e affidabilità) assai maggiori e dimensioni molto più contenute rispetto ai precedenti sistemi a valvole. “In chiave storica, c’è un generale consenso sul fatto che –a prescindere dalle cause economiche contingenti– il corso degli eventi fu influenzato da fattori interni di debolezza della Olivetti, acuitisi con la morte di Adriano. Uno dei fattori era costituito dalla proprietà stessa dell’azienda”. Il controllo azionario della società era detenuto dagli eredi Olivetti, un gruppo familiare diviso e conflittuale, che aveva però in Adriano un leader riconosciuto. Dopo la sua morte, il figlio Roberto, ottima persona, erede e paladino dell’iniziativa elettronica, non riuscirà a imporsi e a risolvere i contrasti. La crisi finanziaria del 1963 troverà, quindi, un Consiglio di amministrazione frammentato e remissivo, cui il Gruppo di intervento avrà buon gio- 7 Sulle ragioni per cui la vicenda si dissolse si veda Franco Filippazzi, Elea: storia di una sfida industriale, in Luigi Dadda: La nascita dell’informatica in Italia, Polipress, Milano, 2006. 53 PERSONE&CONOSCENZE N.45