STORIA
E IDENTITÀ
DI GENERE
IperTeSTo
Fascismo e identità
di genere
Il movimento fascista e le donne
Intanto, all’interno del movimento fascista,
l’idea dell’eguaglianza fra i sessi stava lasciando rapidamente il posto a una rinnovata esaltazione della virilità e della mascolinità. Sotto questo profilo, il fascismo
riprese e amplificò le posizioni già espresse in modo provocatorio, prima della guerra, da numerosi intellettuali italiani, primo
fra tutti Filippo Tommaso Marinetti che, nel Manifesto del Futurismo del 1909, aveva scritto: «Noi vogliamo glorificare la guerra – sola igiene del mondo – il militarismo, il patriottismo,
il gesto distruttore dei libertari, le belle idee per cui si muore e il disprezzo della donna.
Noi vogliamo distruggere i musei, le biblioteche, le accademie d’ogni specie, e combattere contro il moralismo, il femminismo e contro ogni viltà opportunistica o utilitaria».
Dopo la guerra, gli ex combattenti spesso si percepirono come un gruppo di uomini eccezionali, la cui energia e determinazione avrebbe trasformato l’Italia in grande potenza.
Molti di loro aderirono con entusiasmo all’impresa di Fiume o allo squadrismo fascista
perché – temprati da anni di guerra, l’attività virile per eccellenza – si consideravano un’élite, superiore sia alle donne prese nel loro complesso, sia a quei maschi borghesi che non
avevano partecipato in prima persona all’attività bellica.
F.M. Feltri, Chiaroscuro © SEI, 2010
Riferimento
storiografico
1
IPERTESTO A
pag. 6
1
Fascismo e identità di genere
Nel programma di San Sepolcro, del 23 marzo 1919, insieme ad altre rivendicazioni di evidente matrice socialista spiccava pure la richiesta del suffragio femminile. Del resto anche D’Annunzio, nella Carta del Carnaro, aveva previsto che tutti i cittadini, al compimento del ventunesimo anno d’età, dovessero godere di pieni diritti civili e politici, «senza distinzione
di sesso». Questa disponibilità del movimento fascista delle origini a valorizzare le donne è
determinato dal fatto che i Fasci, negli anni 1919-1921, avevano un carattere ambivalente,
al tempo stesso nazionalista e socialista (o meglio, antiborghese), e volevano presentarsi come
una forza moderna, capace di imprimere una spinta dinamica alla società italiana.
A riprova di un atteggiamento favorevole all’emancipazione femminile, nel 1925 venne concesso il diritto di voto, alle elezioni amministrative, a un gruppo ristretto e selezionato di
donne. Tra i requisiti che permettevano l’iscrizione alle liste elettorale vi erano l’istruzione, il reddito elevato, la prestazione di servizi particolari allo Stato in tempo di guerra, il fatto di essere madri o vedove di soldati caduti nel corso del primo conflitto mondiale. In tal modo, a fronte di milioni di escluse dal voto, varie migliaia di donne poterono accedere al suffragio. Il nuovo provvedimento, però, fu privato di ogni significato nel
settembre del 1926, allorché furono soppresse
le elezioni amministrative e il sindaco venne
sostituito dal podestà, nominato direttamente dal governo centrale.
Benito Mussolini
in una fotografia del
1935. Il programma
originario del fascismo
prevedeva «voto
ed eleggibilità per
le donne»; di fatto
però, sotto il regime,
la donna non può
votare e ha
prevalentemente
il ruolo di moglie
e madre.
IperTeSTo
Lo squadrismo fascista ereditò tutti questi elementi: da un lato, infatti, trasferì alla politica del tempo di pace metodi violenti e strategie tipiche del tempo di guerra, riproponendo l’immagine dell’eroe che aggredisce ed elimina l’avversario; dall’altro, esaltò un tipo
d’uomo che si considerava superiore anche ai valori e alla moralità borghese. Non a caso,
riprendendo le polemiche espressioni di Marinetti (che in un testo del 1910 aveva chiamato la famiglia «soffocatoio delle energie vitali»), il movimento fascista della prima ora
esaltava il libero amore, disprezzava il matrimonio e si proclamava favorevole all’introduzione
del divorzio nella legislazione italiana.
Libertà sessuale per i dominatori
UNITÀ IV
➔Recupero
del modello borghese
e cattolico
IL FASCISMO IN ITALIA
2
Cartolina
propagandistica che
mostra un soldato
italiano teneramente
abbracciato a una
giovane ragazza.
Una volta conquistato il potere, Mussolini iniziò ben presto a imbrigliare e frenare tutte
le spinte eversive e gli elementi trasgressivi che avevano caratterizzato il movimento fascista dei primi anni Venti. Nel campo delle relazioni sessuali, ciò volle dire l’abbandono di
ogni comportamento che apparisse in contrasto con il rispettabile modello borghese e con
la tradizionale morale cristiana. In primo luogo, fu abbandonata ogni polemica nei confronti della famiglia e del matrimonio; mentre all’inizio degli anni Venti era normale celebrare le imprese erotiche dello squadrista, sul finire del decennio si mise l’accento soprattutto
sul fatto che il fascista ideale doveva essere anche marito e padre, oltre che soldato
dedito alla causa nazionale. Non era affatto escluso, da Mussolini e dagli altri fascisti, che il maschio potesse avere relazioni extraconiugali; esse, tuttavia, dovevano avvenire nella più assoluta discrezione, oppure compiersi all’interno delle case chiuse, nelle quali vennero concentrate tutte le prostitute.
Solo del Duce e di pochi altri gerarchi la stampa continuò a descrivere per diverso tempo, senza alcun imbarazzo,
l’estrema libertà sessuale. Anche in questo ambito, si lasciava intendere, il capo del fascismo è una figura diversa
dai comuni mortali, sicché il suo comportamento può superare quello previsto per le masse dalla morale corrente. «Chi doveva rispondere di sé solo di fronte alla storia, chi era legibus solutus [signore assoluto, perché libero dall’obbligo di rispettare le leggi e le regole che ponessero un limite al suo potere] nella gestione della cosa
pubblica, non poteva non esserlo anche rispetto ai modelli di comportamento correnti. In questo modo, per successive approssimazioni, la libertà sessuale diveniva non
solo un attributo, ma addirittura uno dei segni distintivi del potere» (p.G. Zunino).
La propaganda fascista aprì questa libertà sessuale a tutti i dominatori – cioè, in sostanza, a tutti i maschi italiani – in occasione della campagna di etiopia (19351936). Da moltissime riviste, l’etiopia venne descritta come una specie di paradiso sessuale, o meglio come un luogo in cui il maschio italiano avrebbe potuto facilmente appagare tutti i propri desideri erotici. Le donne africane furono spesso raffigurate a seno
nudo, segno eloquente di una straordinaria disponibilità a concedersi al conquistatore. Questo iniziale orientamento della propaganda fascista denota un razzismo e un
maschilismo formidabili (la donna etiope non era una persona: era sempre e solo un
oggetto, una merce, una preda); ben presto, però, il regime si rese conto dei pericoli di una simile impostazione e decise di cambiare completamente linea. A partire
dal 1938, pertanto, furono vietati i matrimoni misti, mentre ogni forma di unione fra
europei ed etiopi fu rifiutata, screditata e disprezzata come contraria all’onore e alla
purezza della razza italiana.
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Fra le numerose misure attivate per rilanciare l’incremento demografico dev’essere ricordata la cosiddetta tassa sui celibi. Approvata il 19 dicembre 1926, essa colpiva tutti gli scapoli tra i
26 e i 65 anni, in misura inversamente proporzionale rispetto
all’età. Il celibe, insomma, era considerato una specie di disertore, che non compiva il proprio dovere nei confronti del popolo italiano e della grandezza nazionale, la quale risultava danneggiata dal suo rifiuto di procreare. A maggior ragione, fu proibita la vendita degli anticoncezionali, mentre l’aborto fu solennemente condannato come un delitto «contro la integrità
e la sanità della stirpe», nel nuovo codice penale approvato il
19 ottobre 1930.
Nel 1933, il 24 dicembre, fu celebrata per la prima volta la Giornata della madre e del fanciullo, creata al fine di rendere onore alle madri più prolifiche. Le 92 donne premiate, complessivamente avevano avuto 1380 figli! Comunque, non pare che lo sforzo fascista per
rilanciare l’incremento demografico abbia sortito grandi successi: negli anni 1936-1940,
il tasso di natalità scese ulteriormente, toccando il livello nazionale di 23,4 nati vivi per
mille abitanti. Sotto questo profilo, l’Italia si stava adeguando agli altri Paesi industrializzati, come emerge dal fatto che i tassi di natalità dei grandi centri urbani del Nord
(19,8 per mille) erano notevolmente più bassi rispetto alla media nazionale appena citata. Non a caso, nella propaganda di regime, la città fu dipinta a tinte sempre più cupe,
fino a essere definita «luogo di ogni male, mostro, palude», contrapposta a una campagna ampiamente idealizzata, i cui abitanti – diceva la stampa fascista – erano moralmente
più sani, consapevoli dei doveri nazionali, e quindi più prolifici.
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IPERTESTO A
➔Il numero
come forza
3
Fascismo e identità di genere
Il fascismo aveva iniziato a preoccuparsi per la qualità e la quantità della stirpe italiana,
reputata superiore a tutte le altre, ben prima della svolta razzista del 1938. Fin dal 1927
Mussolini lanciò la cosiddetta battaglia demografica, che nasceva da un’elementare constatazione: in tutto il paese, nelle famiglie si stava affermando con forza la tendenza a diminuire il numero di figli. Mentre negli anni ottanta dell’ottocento il tasso di natalità
italiano era di 39 nati vivi per mille abitanti, negli anni 1921-1925 il livello delle nascite era sceso a 29,9 per mille. Agli occhi di Mussolini e, più in generale, dei nazionalisti,
tale orientamento era pericoloso per il futuro della stirpe italiana, che i più pessimisti ritenevano vicina all’estinzione.
Tralasciando il fatto che l’Italia era stata, per decenni, terra di emigranti e che il flusso era cessato solo perché gli Stati Uniti si rifiutavano di accogliere altri italiani poveri (nel 1927, ne furono ammessi solo 4000), l’opinione più radicata negli ambienti fascisti era quella secondo cui lo sciopero delle culle non fosse dettato da motivi economici, bensì da carenze morali, da egoismo e da mancanza di virtù civiche: in una
parola, dal rifiuto di contribuire allo sforzo comune, che avrebbe trasformato l’Italia
in grande potenza. Nel 1928, Mussolini stesso pubblicò un saggio intitolato Il numero
come forza. Solo un popolo in continua crescita demografica, a parere del Duce, avrebbe avuto le energie per espandersi e lanciarsi in grandi imprese imperiali. Così, nel 1927,
scriveva un alto funzionario del Ministero della stampa: «Se si
diminuisce non si fa l’impero. Se le donne daranno i frutti loro,
l’impero è solo questione di tempo».
Quest’ultima osservazione è indicativa di un atteggiamento mentale diffuso nel mondo fascista, per aggirare il problema dell’eccesso
di popolazione, che in assenza di risorse avrebbe provocato un imponente fenomeno migratorio. proprio la carenza di mezzi – si diceva – sarebbe stata uno stimolo poderoso all’espansione imperiale, che sarebbe risultata inarrestabile proprio perché dettata dalla necessità.
IperTeSTo
L’incremento della stirpe
Manifesto del 1939
per celebrare la sesta
edizione della Giornata
della madre e del
fanciullo.
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UNITÀ IV
IL FASCISMO IN ITALIA
4
La battaglia demografica del regime
fascista
DOCUMENTI
Riportiamo alcuni passi di un opuscolo pubblicato nel 1928. Si tratta di uno degli innumerevoli testi divulgativi tramite i quali il regime diffuse le proprie idee e le proprie aspirazioni.
Nel suo grandioso discorso dell’Ascensione [del 26 maggio 1927, n.d.r.] il Duce
disse: «Affermo che, dato non fondamentale, ma pregiudiziale della potenza politica
e quindi economica e morale delle nazioni,
è la loro potenza demografica. Parliamoci
chiaro: che cosa sono 40 milioni d’Italiani di
fronte a 90 milioni di Tedeschi e a 200 milioni di slavi? Volgiamoci a occidente: che
cosa sono 40 milioni d’Italiani di fronte a 40
milioni di Francesi, più i 60 milioni di abitanti
delle colonie, o di fronte ai 46 milioni di Inglesi, più i 450 milioni che stanno nelle colonie? Signori, l’Italia, per contare qualche
cosa, deve affacciarsi sulla soglia della seconda metà di questo secolo con una popolazione non inferiore ai 60 milioni di abitanti».
Con queste parole il Primo Ministro dichiarava aperta la battaglia demografica,
tendente all’incremento della stirpe. La battaglia assume, nei suoi sviluppi successivi, un Il fascismo
triplice aspetto. Da un lato si tratta di conservare e possibilmente di potenziare la forza incoraggiava la
espansiva insita nella razza per effetto di una notevole natalità. Secondariamente è ne- creazione di famiglie
cessario diminuire la mortalità, aumentando la durata media della vita nel nostro Paese. numerose, come quelle
Quindi dobbiamo tendere a conservare la razza nel proprio alveo, rendendo minime le per- della fotografia qui
sotto. La politica
dite dovute all’emigrazione corrispondente ad un sistematico dissanguamento.
demografica del
Per quanto si riferisce alla natalità, i provvedimenti già attuati dal Presidente, o da lui regime si ricollegava al
già ideati ed in corso d’attuazione, sono di varia natura. Esistono in Italia 5700 istituzioni noto slogan coniato
benefiche che si occupano della maternità e dell’infanzia. Per provvedere al loro finan- dal Duce «Il numero è
ziamento, il Capo del Governo ha istituito la tassa sui celibi il cui gettito è dai 40 ai 50 mi- potenza».
lioni annui. Né il tributo di quanti disertano la battaglia giova solo a tale scopo. «Ho approfittato di questa tassa – disse il Duce – per dare una frustata demografica alla Nazione».
Quasi come contraltare ai provvedimenti fiscali contro il celibato, stanno i provvedimenti
in favore delle famiglie numerose. Il Duce stesso fa giungere il suo premio ai genitori attorniati da una fitta e gioconda nidiata. Per quanto non ancora attuata, non è però nemmeno ancora esclusa la tassa sui matrimoni sterili. L’urbanesimo – cioè il congestionamento progressivo della popolazione dei maggiori centri industriali – porta ad una
sensibilissima diminuzione della natalità. Anche in considerazione di questo, Benito Mussolini è uno strenuo fautore del ruralismo. [...]
Sopra tutto, i risultati brillantissimi già ottenuti, nel primo trimestre del 1928, della battaglia demografica, si comprendono per il fatto che essa si svolge nell’atmosfera mistica
della nuova Italia. Allo Stato ateo [lo Stato liberale, per il quale la religione è una questione Quale giudizio dava
il fascismo sulle
puramente privata del singolo cittadino, n.d.r.] si è sostituito lo Stato cattolico, cioè corcittà? Sotto questo
rispondente ai sentimenti religiosi dell’assoluta maggioranza del popolo italiano. [...] Beprofilo, il fascismo
nito Mussolini ha saputo ristabilire rapporti di cordialità fra la Chiesa e lo Stato. Il Vaticano
appare un
non ignora più la Nazione che lo ospita. Con la fede cattolica, ritorna nei costumi la momovimento
rale cattolica. Nell’ambito di questa morale, la gente dell’Italia rinascente ha costituito la
moderno?
sua prima, la sua più semplice, la sua incrollabile istituzione: la famiglia. Nell’ambito di
questa morale – rinnovata, rinsaldata, vivificata dal Duce – la gente nuova dell’Italia fa- La politica
demografica del
scista ricompone le belle famiglie numerose, come manipoli in marcia verso l’aurora imfascismo andava
periale.
contro la morale
della Chiesa
r. MANDeL, Il Duce. Gli atti e le opere, i discorsi e le direttive, l’azione di governo, Sonzogno,
cattolica?
Milano 1928, pp. 104-105, 108
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L’ideale femminile fascista
L’insistenza sulla necessità di procreare rilanciò una concezione quanto mai tradizionale
della donna, concepita prima di tutto come moglie e come madre. Secondo la concezione fascista, solo l’uomo avrebbe dovuto lavorare e proprio la crescente presenza delle donne nelle fabbriche e negli uffici fu considerata la principale causa del calo demografico. Negli anni Trenta, quando la grande crisi economica internazionale provocò un
pesante aumento della disoccupazione maschile, il regime fascista prese una serie di provvedimenti per limitare il più possibile il lavoro delle donne; fra queste misure, la più drastica fu il decreto del 5 settembre 1938, che vietò una presenza femminile negli uffici (pubblici e privati) superiore al 10% del totale dei lavoratori impiegati. D’altra parte, per un
numero crescente di famiglie italiane, il lavoro della donna divenne un’assoluta necessità.
Il fascismo, insomma, si trovò in una specie di vicolo cieco: nel momento in cui non poteva rinunciare all’appoggio e all’alleanza con la grande industria, era costretto a rinunciare al proprio progetto di incremento numerico della nazione e ad ammettere il fallimento di quella battaglia demografica che aveva come presupposto il ritorno della maggioranza delle donne al suo ruolo più tradizionale.
➔La donna
moglie-madre
L’insuccesso fu totale anche tra le donne di ceto medio-alto. Un sondaggio realizzato a
roma nel 1937 rivelò che le ragazze iscritte agli istituti magistrali avrebbero desiderato
un lavoro extradomestico e rifiutavano di esaurire nella maternità i loro progetti di vita.
Le ragazze italiane, dunque, erano molto lontane dall’ideale femminile perseguito dal fascismo. paradossalmente, a questo risultato aveva in parte contribuito il fascismo stesso,
che aveva lanciato alle italiane delle nuove generazioni un messaggio decisamente contraddittorio. Da un lato, esse erano invitate fin da piccole a prendere come esempio rosa
Maltoni (la madre del Duce, morta nel 1905), «donna all’antica» disposta a realizzarsi completamente nella maternità. Nello stesso tempo, tuttavia, alle giovani furono
offerte varie occasioni di socializzazione, che offrirono loro inaspettate e inedite occasioni di libertà.
Negli anni Trenta, l’orizzonte di una ragazza molto raramente
era più vasto di quello familiare. Il regime, al contrario, creò per le giovani donne nuovi spazi
che – pur essendo rigidamente inseriti nel progetto totalitario di condizionare in senso fascista
le nuove generazioni – comunque rompevano con la tradizione, visto che le ragazze, per
la prima volta, si trovarono a fronteggiare, lontane dai genitori, esperienze come gli esercizi ginnici di gruppo, le parate e le adunanze di massa, a roma o in altre città, diverse
da quella di abituale residenza. Che una giovane (senza nessuno della famiglia presente come
accompagnatore) viaggiasse in treno da sola,
o insieme ad altre ragazze, era per l’epoca qualcosa di assolutamente nuovo e, secondo l’opinione di molti benpensanti, di inammissibile, di sconveniente, di scandaloso.
In molte ragazze, al contrario, quelle esperienze
generarono una nuova fiducia in se stesse, uno
straordinario desiderio di libertà e di indipendenza, che il regime mise in moto, malgrado l’innegabile contrasto con l’immagine
della donna passiva e remissiva che altre
componenti della propaganda di regime cercavano di trasmettere.
Riferimento
storiografico
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Fascismo e identità di genere
Una donna italiana
circondata dai suoi
numerosi figli.
IPERTESTO A
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IperTeSTo
Riferimenti storiografici
1
Donna e famiglia nell’ideologia fascista
UNITÀ IV
Uno dei tratti più tipici del fascismo fu il rifiuto del principio egualitario. Pertanto, anche se la politicizzazione della componente femminile della popolazione (soprattutto a livello giovanile) spingeva
di fatto in altre e più moderne direzioni, l’orientamento prevalente fu quello che insisteva sulla supremazia maschile.
IL FASCISMO IN ITALIA
6
Un’impiegata al lavoro
alle poste durante il
periodo fascista.
Benché Mussolini non
vedesse con favore
l’occupazione delle
donne, diversi
industriali preferirono
avvalersi di
manodopera
femminile, perché il
loro salario era più
basso rispetto a quello
degli uomini.
L’ordine e la disciplina che devono regnare
nella società sono il riflesso speculare della solidità granitica assicurata al nucleo familiare.
Fuori dalla famiglia se non è solo il regno del
gaudente e del libertino, quantomeno è il
campo d’azione di quel tale individuo, il celibe,
che «non sente la vita come missione e responsabilità, bensì come speculazione e avventura». Con tono minaccioso vi era chi affermava che intorno ai celibi e alle nubili il
«cerchio» si stava stringendo. La famiglia si
presentava dunque come un potentissimo
stabilizzatore sociale. Fuori da quelle mura, anche quando non imperava il vizio, c’era la mutabilità e l’irregolarità di fenomeni da cui, in
qualche modo, avrebbero potuto scaturire
scintille incontrollabili. E non era neppure ben
chiaro se l’individuo non incardinato nella famiglia fosse ancora pienamente un cittadino.
Il singolo doveva necessariamente essere un probo lavoratore e un buon padre; gli uomini e le
donne isolati non potevano costituire le cellule autentiche della società. Insomma, l’asse sociale
passava attraverso la famiglia e sul capo di chi non si faceva trovare a quell’appuntamento si
addensava una non trascurabile deminutio [diminuzione di prestigio e di ruolo sociale, n.d.r.]. Possiamo ben dire, allora, che anche osservata attraverso lo spiraglio della famiglia, la società fascista si presentava con i suoi inconfondibili tratti di immobilità e di controllo dall’alto.
Con un passo abbiamo scavalcato un primo fondamentale aspetto di questo tratto dell’ideologia fascista. Un secondo salto ci porta nel mezzo del problema della donna, dove le
perturbazioni e le variabilità incominciano a farsi più sensibili. […] Il ritratto della donna che
prende forma sotto i colpi di penna di talune giornaliste fasciste ci presenta infatti una donna
attiva, cui deve pur toccare «qualche officio sociale». Le donne di cui talvolta si reclama la
presenza sono quelle che non stanno solo intorno al focolare. Occorrono donne, si osa dire,
«che sappiano anche guardare più lontano rispetto al cerchio della famiglia e ammirare l’ampio orizzonte della patria». Contro le donne agnostiche [prive di fede nel fascismo, n.d.r.],
contro la loro asocialità e apoliticità: talvolta ricorrono parole d’ordine di questo genere. È
difficile trattenersi dall’etichettare questa vena come una sorta di femminismo fascista; tanto
più nel momento in cui accade che la esecrata espressione venga aggirata ma, sostanzialmente, non rigettata quando si parla di un femminismo vero, di un femminismo sano di
fronte al quale il fascismo non deve ritrarsi inorridito. La formula era edulcorata nell’espressione irredentismo spirituale della donna, ma la sostanza era a un di presso la medesima e
dava energie ad un vigoroso contrattacco in campo avverso, come allorché si affermava che
le donne non potevano essere solo un oggetto passivo o come quando, cosa inaudita, si
poneva all’ordine del giorno della volontà riformatrice del fascismo il problema maschile.
Placato il primo stupore, sarà opportuno intendere queste intonazioni così poco conformi
ai presupposti del regime come un effetto della profonda opera di attivazione politica cui
venne sottoposta la società italiana da parte del fascismo – in particolare nella prima metà
della sua parabola. Diamo pure per scontato che certe tematiche, soprattutto dopo lo scuotimento bellico, fossero nell’aria, ma un’idea della politica – come quella fascista – che soffiava inesausta su tutti i territori della società e che sembrava dovesse rivoltare dal più
profondo sedimentazioni, consuetudini e pigrizie mentali, non è dubbio che dovesse investire anche certi settori femminili, attizzando l’idea che, anche per quanto riguardava la condizione della donna, si fosse giunti sul punto di una svolta decisiva. C’era, al di sotto di que-
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I paradossali esiti della mobilitazione
femminile
Diversamente dalle dittature tradizionali, il fascismo tentò di trasmettere il suo messaggio ideologico a tutte le componenti della popolazione e di tenere le masse in stato di perenne mobilitazione. Anche le ragazze italiane furono investite da tali nuovi processi, che tuttavia entrarono in contrasto con
le abitudini tradizionali. Inoltre, promuovendo un inedito spirito di autonomia rispetto alla famiglia, finirono per generare in molte giovani un atteggiamento verso la vita che era in contraddizione con quello spirito passivo e remissivo che il fascismo chiedeva alle donne.
Nel giugno del 1930 Augusto Turati, segretario del Partito nazionale fascista, convoca
1200 Giovani fasciste di Roma e della provincia, in occasione della consegna della tessera.
È la prima volta che il Partito fascista, attraverso il suo segretario, riunisce le iscritte della
nuova organizzazione, ragazze dai diciotto ai ventidue anni. Vi è una certa curiosità intorno
all’incontro: quali sono gli scopi di quest’ennesimo raggruppamento, che si propone come
evidente prolungamento dei gruppi giovanili delle Piccole e Giovani italiane e quali compiti
ricadranno sulle Giovani fasciste? L’evento dà origine a un piccolo ma espressivo fuori programma. Fuori dal Teatro Argentina, dove si svolge la cerimonia, gli organizzatori si trovano
di fronte a una massa rumoreggiante di madri che preme per entrare; sono arrivate lì per
accompagnare le figlie e non intendono di certo essere messe da parte e perdersi lo spettacolo. Impossibile resistere alle pressioni: le madri, sia pure pigiate nei palchi, conquistano
il diritto ad assistere alla consegna delle tessere e ad ascoltare quanto ha da dire alle figlie
il segretario del partito. Lo stesso Turati, nel suo discorso, è costretto a fare ammenda della
miopia degli organizzatori: «Poiché è la prima volta che questa vostra organizzazione si riunisce e si raccoglie… ed è la prima volta che io vi parlo, avrei voluto che la manifestazione
fosse per voi sole; ma poiché tutto questo aveva l’aria di una congiura, abbiamo aperto le
porte del teatro anche alle mamme. Noi vogliamo solamente essere i continuatori dell’educazione saggia che i vostri genitori vi hanno data e speravamo che per un giorno vi avrebbero lasciate sole: ma le mamme non hanno voluto: siano le benvenute». […]
Il discorso di Turati è una perfetta espressione di quell’ambigua misoginia che connota, come
sappiamo, il programma politico fascista, così come le migliaia di madri, che avvolgenti e intrusive impongono una deroga al copione previsto, offrono una testimonianza paradigmatica
del clima e della mentalità familiare del tempo. Dietro tanta diffidenza s’intuiscono varie motivazioni: in primo luogo, l’ostilità con cui le famiglie guardano a ogni forma di intrusione da parte
dei poteri dello stato su un terreno che ritengono di loro esclusiva pertinenza, vale a dire l’educazione dei figli; in secondo luogo, lo strisciante boicottaggio per forme di inquadramento e
di attivismo di cui non si condividono scopi e obiettivi. Un boicottaggio che si trasforma in vero
e proprio allarme quando a essere coinvolte sono anche bambine e ragazze.
F.M. Feltri, Chiaroscuro © SEI, 2010
IperTeSTo
IPERTESTO A
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Fascismo e identità di genere
sta illusoria attesa, una fiducia autentica nella forza trasformatrice del fascismo; è qui che
dobbiamo andare a scavare se vogliamo trovare le radici di talune espressioni poco intonate, diciamolo pure, ad una visione tradizionale della donna. […]
Attese, speranze, illusioni, si doveva essere mossi da una inestinguibile sete per nutrirle allorché un’altra parte del fascismo dal tema femminile faceva scaturire suoni che pure per quei
tempi erano talvolta stridenti. [Il giornalista e politologo italiano] Sergio Pannunzio diceva che
la donna «ha il suo posto nel sistema fascista», ed erano parole che si sarebbero prestate ad
ogni lettura. Ma altre voci non si avviluppavano neppure in quelle lievi ambiguità e giungevano
a dichiarare riprovevole persino il lavore femminile. La donna che lavora si mascolinizza, tende
alla sterilità. Occorre quindi favorire il ritorno alla casa, frenando con tutti i mezzi l’invadenza fem- Per quali motivi
minile in ambito professionale (con cipiglio severo si riportavano i dati che rilevavano il progressivo
il fascismo guardava
espandersi della presenza femminile tra gli insegnanti). Quanto alla politica, al Korherr [Riccardo
ai celibi con timore
Korherr, autore del saggio di demografia Regresso delle nascite: morte dei popoli (1928), n.d.r.],
e disprezzo?
prediletto dal duce, scappa di dire: l’unica vera politica della donna «è la conquista dell’uomo». Per quali ragioni
Quel certo inaspettato ardore quasi femministico l’abbiamo spiegato come l’effetto di fer«femminismo» era
menti che erano nell’aria; queste altre valutazioni (che talvolta assumevano sapori postribolari)
un’espressione
appaiono, dal canto loro, incardinate in uno degli ingranaggi essenziali della macchina ideo«esecrata» dal
logica fascista, vale a dire la sua fondamentale concezione antiegualitaria. L’insaziabile fame
fascismo?
di gerarchie e di diversità, la disuguaglianza non solo riconosciuta e accettata, ma addirit- Per quali ragioni
tura esaltata, era inevitabile trovasse una esemplare applicazione proprio in una delle più tral’autore definisce
dizionali e radicate forme di discriminazione, quella appunto tra uomo e donna.
«illusorie» le
aspettative delle
p.G. ZUNINo, L’ideologia del fascismo. Miti, credenze e valori nella stabilizzazione
donne fasciste?
del regime, il Mulino, Bologna 1995, pp. 289-294
IperTeSTo
UNITÀ IV
Un gruppo di “Giovani
italiane” partecipano
a un saggio ginnico nel
Parco della Farnesina
a Roma, fotografia del
1939.
IL FASCISMO IN ITALIA
8
Spiega l’espressione
«ambigua misoginia»,
usata per indicare
l’atteggiamento tenuto
verso le donne dal
regime fascista.
Che cosa significa
l’affermazione
secondo cui la morale
familiare corrente
negli anni Trenta era
«asimmetrica»?
Su quale punto le
memorie di coloro che
erano giovani donne
negli anni del
fascismo sono
praticamente
unanimi?
Agnese Pitrelli, nata a Brindisi nel 1929, laureata alla facoltà di Magistero di Roma, e in seguito dedicatasi all’insegnamento, ricorda: «Mio padre e mia madre erano furibondi quando dovevo mettermi in divisa e andare alle riunioni delle Piccole e delle Giovani italiane, perché non stava
bene che una donna andasse fuori casa. Mia madre era indignata perché non stava bene che
le donne si mettessero in mostra. Marciare tutte insieme, partecipare alle sfilate, ai saggi ginnici
era una cosa scandalosa per la mentalità tradizionale mentre io ne ero entusiasta». Principali imputate sono, dunque, le frequenti uscite di casa che la ritualità fascista imponeva. «A quell’epoca
le ragazze erano tenute sotto stretta sorveglianza. Fino all’università non potevo andarmene in
giro da sola e fino alla terza liceo sono andata a letto alle nove», aggiunge Carla Rossini, nata
nel 1922, che riuscì ad allontanarsi da casa solo in occasione dei Littoriali della cultura. Per la
morale familiare corrente, profondamente asimmetrica quanto a libertà e divieti concessi ai due
sessi e restia, come dimostrano i commenti appena riportati, ad accettare comportamenti non
appropriati per le ragazze, appariva del tutto naturale che ragazze tra i diciotto e i ventidue anni
non potessero nemmeno ricevere la consegna della tessera attestante la loro iscrizione a un partito, senza essere accompagnate dalle madri. […]
Sbagliavano dunque le madri e le famiglie a guardare con tanto allarme gli obblighi imposti
alle figlie o nel sentirsi minacciate da forme di partecipazione in definitiva così blande e innocue?
Non del tutto. Per ragazze sottoposte a divieti e limitazioni d’ogni tipo, costrette a vivere chiuse
nella routine casalinga – come «farfalla nel bozzolo» si rappresenterà la scrittrice Milena Milani
ripensando alla sua adolescenza – e sulle quali anche un fratello minore aveva un’autorità riconosciuta, le adunate, l’obbligo allo sport, in seguito il viaggio a Roma o a Predappio, paese che
aveva dato i natali a Mussolini e che divenne a partire dal 1926 sede di pellegrinaggio da parte
delle diverse associazioni giovanili, i soggiorni nelle colonie estive, le settimane d’agonismo sportivo o la partecipazione ai Littoriali della cultura, la frequentazione delle riunioni dei GUF [Gruppi
universitari fascisti, n.d.r.] per le poche e fortunate studentesse universitarie, rappresentavano
un effettivo spiraglio per sfuggire alla tirannia familiare. Diventano, in altre parole, il surrogato di
tutto ciò cui gran parte delle bambine e delle giovani non poteva ambire o che mancava nel loro
habitat, consentendo al contempo una dilatazione degli spazi dell’esperienza oltre i limiti delle
comunità familiare o di quartiere. Su questo punto i ricordi autobiografici – ahimè troppo pochi,
grazie a una storiografia che si è per molto tempo disinteressata del lungo viaggio nel fascismo
delle giovani donne – sono pressoché unanimi. Solo un esempio: «Non mancavano le novità.
La possibilità di viaggiare nel caso dei Littoriali, andarsene per i fatti propri a Bologna, cosa che
in famiglia non mi avrebbero mai lasciato fare. Ricordo la prima volta che sono tornata per conto
mio da Sanremo. Mia madre mi accolse esclamando: “Sei tornata da sola in treno?!”», ricorderà
una. Nel mondo claustrofobico in cui vivono le più giovani, «l’obbligatorietà di certe manifestazioni finiva per costituire una piccola liberazione in rapporto a qualcosa di peggio», dirà un’altra.
Per le più avventurose inoltre, le divise, le adunate, la grandiosità di alcuni riti, il saluto
alle bandiere, significa liberazione dell’immaginazione in direzione di quei movimenti plurimi
di conquista dell’io, di crescita sentimentale e ideale, che appare un connotato di parte delle
generazioni femminili tra le due guerre. […] Sia pure per una minoranza di Giovani italiane
e di Giovani fasciste, le nuove aggregazioni erano vissute non solo con sentimenti liberatori
nei confronti dell’enclave familiare ma anche come fonte per alimentare una fiducia in se
stesse, trampolino di lancio di futuri protagonismi.
F.M. Feltri, Chiaroscuro © SEI, 2010
M. D’AMeLIA, La mamma, il Mulino, Bologna 2005, pp. 209-212, 220-222
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Fascismo e identità di genere