D. Fusaro - “MONTAIGNE SCOPRITORE DEL MODERNO E DEL PENSIERO
DEBOLE”
Montaigne scopritore del dubbio moderno
L’utile egoistico
Il corpo e le passioni
La vita come sogno
Montaigne scopritore del dubbio moderno
Tutti concordiamo, almeno in linea di principio, sul fatto che l’età moderna cominci
laddove finisce il Medioevo: ma, non appena ci domandiamo quali siano gli autori che
incarnano col loro pensiero l’avvio della modernità, le prospettive cominciano a
divergere. Una lunga tradizione che trova la sua prima formulazione nella celebre
opera di Jacob Burkhardt La civiltà del Rinascimento in Italia1 e che giunge, passando
per diverse e –spesso - contrastanti tappe, fino a Giovanni Gentile2, tende a leggere
nei trattati celebrativi del genere umano fioriti soprattutto nel Quattrocento la prima e
compiuta teorizzazione del moderno: scritti platonici come l’Orazione sulla dignità
dell’uomo di Pico e la Teologia platonica di Ficino3, o trattati sensu lato aristotelici
come il De avaricia di Bracciolini4, il De familia di Leon Battista Alberti o il De
dignitate et excellentia hominis di Manetti5, segnerebbero pertanto la nascita della
modernità, di una modernità che tuttavia prenderà piena coscienza di sé soprattutto
con il Discorso sul metodo di Cartesio, che del mondo moderno costituisce il
manifesto. Ma questa prospettiva, che così a lungo è parsa inattaccabile, scricchiola
non appena ci domandiamo quali siano i tratti distintivi del moderno: a tal proposito,
la definizione fornita da Hegel6 pare illuminante; egli asserisce che il moderno
consiste in una conversione dal cielo alla terra, mettendo in luce come la differenza
più evidente –almeno in prima analisi –tra l’età medievale e quella moderna sia da
1
J. Burckhardt (1818 - 1897). Storico svizzero di lingua tedesca. È considerato uno tra gli storici più originali
del XIX secolo. Insegnò storia dell'arte, abbinando all'attività didattica frequenti viaggi di studio, soprattutto in
Italia. Spirito critico, profondamente pessimista nei confronti della moderna società industriale elaborò un
autonomo approccio storiografico, noto come “storia della civiltà”, inteso a ricomporre le diverse dimensioni del
fenomeno storico (politico, spirituale e culturale) entro un quadro unitario. Fu autore di numerose opere tra cui
le più importanti furono dedicate ad analizzare periodi di crisi o di trapasso storico. Appartiene tale La civiltà
del Rinascimento in Italia.
2
Giovanni Gentile (1875 –1944), filosofo, pedagogista e politico. Fu insieme a Benedetto Croce uno dei
maggiori esponenti del neoidealismo filosofico (che si ispirava a Hegel), un importante protagonista della cultura
italiana nella prima metà del XX secolo e una delle figure di spicco del fascismo italiano.
3
Per Pico della Mirandola e Ficino vedi dispensa “10 - Il Rinascimento e la nascita della scienza moderna”, pag.
8.
4
Poggio Bracciolini (1380 - 1459), lasciò molte opere in prosa, filosofiche, storiche, polemiche, invettive,
orazioni. Nel trattato " De avaricia " , ossia l' elogio dell' avidità possiamo scorgere quello che fu forse il primo
elogio vero e proprio del capitalismo.
5
Giannozzo Manetti, (1396 - 1459) - Uomo politico e umanista Compose opere storiche, molte orazioni,
dissertazioni filosofiche e teologiche, biografie, tra cui quelle di Dante, Petrarca, Boccaccio. Significativo come
espressione della nuova concezione rinascimentale dell'uomo, è il trattato in 4 libri De dignitate et excellentia
hominis.
6
Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770 –1831), filosofo tedesco, considerato il rappresentante più significativo
dell'idealismo tedesco. La sua visione storicista e idealista della realtà nel suo complesso ha rivoluzionato il
pensiero europeo, gettando le basi del nostro modo di intendere la cultura e la storia.
1
rintracciarsi in una diversa concezione del mondano e del terreno: mero teatro in cui si
vedono all’opera le qualità dei singoli individui che così possono guadagnarsi
l’accesso alla vita eterna, il mondo terreno, infestato dai mali e dalla presenza di un
diavolo che ci tenta in ogni istante, è per i Medioevali una semplice anticamera al vero
mondo celeste, di fronte al quale il nostro perde ogni valore. Al contrario, nell’età
moderna – un po’come era accaduto con i Sofisti e con Socrate dopo le indagini
cosmiche e fantasmagoriche dei presocratici - gli uomini tornano coi piedi per terra,
abbandonando i nebbiosi cieli della vita eterna e prendendo coscienza di come quello
in cui quotidianamente si trovano a vivere sia il mondo reale, con l’inevitabile
conseguenza che la prospettiva teocentrica cede il passo a quella antropocentrica, le
certezze rivelate dai Testi sacri vengono sostituite da una ragione che – ridestatasi
dopo il lungo letargo medievale, in cui era relegata al ruolo di ancilla theologiae –
torna ad essere socraticamente curiosa di tutto. Ma la conversione di cui parla Hegel
non consiste esclusivamente in un abbandono dei cieli della religione, ma anche di
quelli – altrettanto nebulosi distanti dalla vita reale – della metafisica e delle sue
certezze inattaccabili: le categorie platonico-aristoteliche del vero e del falso, del bene
e del male, del giusto e dell’ingiusto assolutamente intesi si fanno in disparte e il loro
posto è ora occupato da nuovi parametri saldamente legati alla vita nella quale siamo
immersi: subentrano le mondane categorie dell’utile, del conveniente, del vantaggioso,
tutte accomunate da una rinuncia alla pretesa di cogliere il mondo quale effettivamente
è, e dall’accettazione di una più modesta e risicata prospettiva che renda conto di che
cosa è al singolo utile di volta in volta. In una tale ottica, le categorie totalizzanti
adottate dalla metafisica risultano a dir poco chimeriche ed illusorie, fantastiche e
inapplicabili alla realtà, quasi come se nella ricerca platonica e aristotelica delle
essenze universali si fossero perse di vista le entità individuali che popolano il mondo
reale: il metafisico –tanto quello platonico-aristotelico quanto quello cristiano –può
allora essere a ragion veduta accostato a Talete, che –scrutando il cielo –smarriva il
contatto con la terra, precipitando nei pozzi e facendosi perciò deridere dalle serve. Ma
se la modernità consiste in un ritorno coi piedi a terra dopo il lungo quanto
improduttivo volo della metafisica, possiamo davvero dire – in sintonia con la
tradizione avviata da Burkhardt – che gli archegeti di questa nuova età siano Pico,
Leon Battista Alberti7, Ficino, Bracciolini, e tutti gli altri autori di trattati del primo
Quattrocento? Se soffermiamo per un attimo la nostra attenzione sulla già citata
Orazione sulla dignità del genere umano di Pico ci accorgiamo facilmente di come la
conversione dal cielo alla terra sia più apparente che reale: l’uomo è sì per Pico il
supremo tra gli esseri del creato, in quanto capace – grazie al libero arbitrio – di
innalzarsi a Dio o di abbassarsi ai bruti, ma in definitiva mantiene il cielo come mèta
ultima (platonica e insieme cristiana) dell’uomo, restando in tal maniera lontanissimo
dall’affermazione hegeliana secondo cui il moderno sarebbe un passaggio dal cielo
alla terra. La stessa immagine dell’uomo che affiora dal pensiero di Ficino pare non
riuscire a smarcarsi del tutto dal cielo: pur insistendo egli –in termini spiccatamente
antropocentrici - sull’assoluto primato di cui l’uomo (inteso come copula mundi) può
vantare all’interno del cosmo, ciononostante non rinuncia a porre Dio come punto
supremo a cui l’uomo tende. Sul versante in senso lato “aristotelico”ci imbattiamo in
un reale svincolamento dai cieli cristiani, ma non per questo possiamo affermare di
trovarci dinanzi al moderno: tutti questi autori (Alberti, Manetti, Bracciolini) restano
saldamente legati alla prospettiva aristotelica dell’uomo come campione di virtù,
capace di coprirsi di una nobiltà acquisita per merito e non per via ereditaria.
7
Leon Battista Alberti (1404 - 14729. La produzione albertiana è bilingue, latina e volgare, e molto ampia:
trattati morali, opere comico-umoristiche, scritti sull’amore e il matrimonio, trattati d’arte, scritti linguistici,
opuscoli e frammenti vari (questa la classificazione prevista nel piano delle opere per l’Edizione Nazionale). La
riflessione sulla lingua è una costante). grande rilievo hanno molti passaggi dei trattati tecnico-artistici, in cui si
sofferma sulla necessità della trasparenza soprattutto lessicale dei testi di questo tipo.
2
Sicuramente questa variante è più “moderna”rispetto a quella di Pico e di Ficino,
ancora così legati al “cielo”e distanti dalla “terra”, ma non è ancora corretto dire che
in questi autori si trovi la modernità, altrimenti ci troveremmo costretti ad ammettere
ch’essa consista in una ripresa anacronistica dell’etica aristotelica della virtù e
dell’ottimismo che da essa trasuda. Nella tesi che intendo sostenere, è con Montaigne
che si spalancano le porte del moderno, concepito –seguendo la definizione hegeliana
–come ritorno sulla terra, ma anche come rifiuto di quel principio di autorità a cui
costantemente ricorrevano i Medioevali e come trionfo del dubbio sulla certezza
metafisica, aspetto, questo, da cui scaturisce un necessario privilegiamento per le
piccole conoscenze che quotidianamente facciamo nella nostra personale esperienza di
contro alle grandi quanto illusorie certezze metafisiche di comprendere in toto la
struttura del mondo. Sarà pertanto utile fare costante riferimento al pensiero di
Cartesio, che abbiamo detto essere l’autore con cui il moderno prende piena coscienza
di sé e giunge alla consapevolezza che le modalità di ricerca seguite dai predecessori,
se non hanno saputo darci alcuna certezza, vanno abbandonate; si tratterà allora –
dopo essersi congedati dalla filosofia precedente –di partire da zero con una nuova
indagine, fissando però preliminarmente il nuovo metodo da seguire: ed è a tal
proposito che Cartesio stende il Discorso sul metodo. Dunque, dopo esserci sbarazzati
degli umanistici quattrocenteschi in quanto o ancora troppo legati a Dio come mèta
ultima o dipendenti da un sistema aristotelico di virtù oramai sorpassato, ci troviamo a
dover sostenere che il moderno prenda le mosse e da Montaigne e da Cartesio,
cadendo così in una (almeno) apparente aporia, dettata dalla così netta diversità tra
questi due pensatori: se il moderno nasce sulle ceneri del Medioevo e dà un’immagine
del mondo e dell’uomo simile a quella tratteggiata da Cartesio e da Montaigne, se ne
evincerà – come minimo -, data la straordinaria differenza tra il pensiero dei due
filosofi, che il moderno è segnato da un bifrontismo tale per cui l’uomo
montaigneiano, dubitante in un mondo che non dà certezze, convive in perfetta
armonia con quello cartesiano, certo delle sue conoscenze assolute che gli permettono
di avere conoscenze (laddove esse siano “chiare e distinte”) non meno precise di
quelle che ha Dio. E in effetti l’intera modernità è percorsa da due diverse scuole di
pensiero, spesso in conflitto tra loro, miranti l’una a cogliere metafisicamente il reale e
l’umano (Hobbes, Spinoza, Hegel, Marx8) e l’altra (Pascal, Hume, Nietzsche9) a
mettere in evidenza l’impossibilità di compiere tale operazione, limitando perciò il
conoscere umano al dubbio e all’incertezza. Ma, nonostante la convivenza (spesso
conflittuale) tra queste due scuole di pensiero che abbiamo visto prendere le mosse
l’una da Cartesio e l’altra da Montaigne, pare evidente che quella che pretende di
cogliere la realtà e l’uomo nel suo insieme, con sottili stratagemmi metafisici, non sia
genuinamente moderna, ma piuttosto segni il protrarsi nella nuova età delle posizioni
metafisicheggianti emerse con Platone e Aristotele e passate per il mondo medioevale;
Cartesio, che di tale posizione è il padre, sarebbe perciò, più che un nemico di Platone
e Aristotele, un loro degno prosecutore, ad essi accomunato dalla volontà di
raggiungere certezze salde e inoppugnabili. Sul versante opposto, Montaigne segna
realmente il passaggio dai cieli (sia del divino sia della metafisica) alla terra su cui ci
troviamo gettati a condurre la nostra esistenza, un passaggio che si palesa come
trapasso dalle forme chiuse del sapere metafisico ad un pensiero che si forgia nel
8
Karl Heinrich Marx (1818 –1883) filosofo, economista, storico, sociologo e giornalista tedesco. Il suo pensiero
è incentrato sulla critica dell'economia, della politica, della società e della cultura a lui contemporanea. Teorico
del socialismo scientifico e della concezione materialistica della storia, è considerato tra i filosofi maggiormente
influenti sul piano politico, filosofico ed economico nella storia del Novecento.
9
Friedrich Wilhelm Nietzsche (1844 – 1900), filosofo, saggista, e filologo tedesco. Nietzsche ha avuto
un'influenza indiscutibile sul pensiero filosofico, letterario e politico del Novecento. La sua filosofia è
considerata da alcuni uno spartiacque fra la filosofia tradizionale e il nuovo modello di riflessione del pensiero
posteriore.
3
contatto con la vita, e che mai oblia le riflessioni dei predecessori. Sia Cartesio sia
Montaigne inaugurano l’epoca moderna, ma solo Montaigne è veramente moderno
fino in fondo, ed è nelle sue pagine che si riconoscono i lineamenti dell’uomo
moderno, fluttuante nel dubbio e lontano dalle chimeriche certezze garantite da una
metafisica capace di gettar nebbia sul dubbio stesso, ma non di dissiparlo con
l’antidoto della reale certezza. Ci troviamo enigmaticamente dinanzi a due
inauguratori dell’età moderna che ne danno due immagini diametralmente opposte, a
tal punto che si potrebbe legittimamente dubitare che avessero di fronte la medesima
realtà: per Cartesio il moderno è conquista di quella certezza che l’antico non è stato in
grado di procurare, per Montaigne è invece rinuncia di cercare una certezza che gli
antichi –così pieni d’ingegno e di sagacia –non sono riusciti a conquistare. Tutti e
due volgono lo sguardo dal cielo alla terra, ma è solo Montaigne che compie
quest’operazione in modo radicale, fino all’estrema conseguenza di un dubbio che
arriva ad erodere anche le certezze che maggiormente paiono tali: egli infatti libera
l’uomo tanto dalle catene del divino quanto da quelle della metafisica, proponendoci
l’immagine di un mondo caotico in cui le certezze vengono a mancare e anche quelle
che unanimemente vengono considerate tali non sfuggono ai martellanti colpi del
dubbio. Cartesio, dal canto suo, libera la prospettiva dai vincoli dei cieli religiosi, ma
non riesce a portare l’istanza di riappropriazione della terra fino in fondo, restando
saldamente legato al cielo per quel che concerne la rigorosa veduta metafisica di cui il
suo pensiero si nutre. Il suo è –per così dire - un ritorno sulla terra solo a metà. Se gli
antichi e illustri filosofi non han saputo raggiungere la certezza, ciò è avvenuto solo in
forza dello scorretto metodo da essi dispiegato: sicchè basta mutar metodo per poter
comprendere il mondo nella sua interezza, poiché la ragione umana è onnipotente,
illimitata e perfetta, a patto che venga correttamente impiegata. E l’onnipotenza della
ragione, sulla quale Cartesio imposta l’intera sua filosofia, è quanto di meno moderno
possa esserci, giacchè era stata l’età antica che, giungendo in ciò all’apice con Platone
e – soprattutto – con Aristotele, aveva nutrito una fiducia illimitata nelle sue
potenzialità, senza riuscire ad accorgersi – nella foga – dei limiti intrinseci ed
ineliminabili che essa presenta e sui quali non potrà mai trionfare. La ragione così
come la intende Cartesio, onnipossente e incontrastata, capace di produrre conoscenze
assolutamente certe, verrà non a caso messa alla berlina dai più grandi pensatori
dell’età illuministica, che resteranno sì fedeli alle potenzialità gnoseologiche
dell’uomo, ma nella consapevolezza che esse siano pur sempre limitate e
impossibilitate a conoscer tutto: così Kant instaurerà un immaginario tribunale della
ragione, in cui essa svolge la duplice mansione di giudice e di imputato, poiché è essa
stessa ad indagare sui propri limiti costitutivi. Ancora Voltaire non esita minimamente
ad attaccare Cartesio e la sua concezione della ragione illimitata e inattaccabile, che
pretende di conoscere ogni cosa ma che in realtà non arriva a nulla e, più che risolvere
i problemi, ne genera di nuovi: così Micromega10 – nell’omonimo scritto -, gigante
proveniente da un altro pianeta, si fa beffe della dottrina del pensatore francese,
rivelando invece una certa simpatia per il pensiero di Locke, con il quale Voltaire
10
Voltaire (1694 – 1778), uno dei maggiori protagonisti dell’Illuminismo. Questo racconto di Voltaire ci
presenta la storia di Micromega, filosofo, abitante di Sirio, alto centinaia di chilometri, che nei suoi viaggio
incontra un filosofo di Saturno, alto solo poche decine di chilometri: i due, che disquisiscono della brevità della
vita (che per loro equivale a migliaia di anni), dell'infelicità, della morale, partono insieme per percorrere le
stelle, e si fermano sul minuscolo pianeta terrestre. Qui a prima vista non scorgono forme di vita, ma, con una
lente, si avvedono che ci sono esseri pensanti: gli uomini. Si mettono a discutere con ingegnosi mezzi con un
gruppo di filosofi umani, prelevando la nave che li trasportava e mettendola sulla punta dell'unghia di
Micromega. Si rendono conto come anche esseri piccoli come quelli terrestri siano intelligenti, ma afflitti da
problemi tremendi che coinvolgono i più: malvagità, pazzia, egoismo, cupidigia. Micromega e il suo amico sono
affascinati, ma ciò che li farà veramente stupire sarà il tremendo orgoglio di quel piccolo popolo, che vede nei
grandi eventi celesti solo una necessità per la loro specie, in un mondo in cui tutto è creato in loro funzione.
L'autore con questo intelligente volume si scaglia contro la stupidità umana, contro l'antropocentrismo.
4
stesso è in sintonia: di contro alla ragione sconfinata e acritica, dogmaticamente certa
di sé, Locke aveva invece ridimensionato tale fede, prospettando l’immagine di una
ragione accostabile ad una candela capace illuminarci il cammino, ma di una luce
fioca e insufficiente per cogliere la realtà nella sua interezza. Tuttavia, anche per
Locke e per gli Illuministi, la ragione resta essenzialmente l’unico mezzo di cui l'uomo
dispone nella sua indagine e deve quindi servirsene a trecentosessanta gradi, pur nella
consapevolezza che non potrà mai conoscere ogni cosa, ma che potrà almeno portarci
a smontare e a dichiarare l’inattingibilità di alcuni concetti tipicamente metafisici
tramandatici dalla tradizione. La differenza tra Locke e Cartesio si configura allora
come differenza tra il moderno in senso pieno e il moderno in senso parziale, che si è
sì svincolato dai cieli della religione, ma resta ancora vincolato a quelli della
metafisica: Locke sa bene che ogni nostra conoscenza, per quanto profonda possa
essere e sempre e di nuovo integrata da altre, non potrà mai esaurire la realtà; per
Cartesio, invece, la ragione può tutto, cosicchè, se ben condotta, può portarci alla
comprensione dell’intera realtà. Una ragione siffatta, però, finisce paradossalmente per
configurarsi come irrazionale, poiché rinuncia impulsivamente a porsi questioni
critiche sulla legittimità del proprio operato: il razionalismo cartesiano tende così a
naufragare in un irrazionalismo di fondo. Dicendo che la prospettiva critica,
rinunciataria e volutamente distante dalle certezze metafisiche, è quella che sta alla
base del moderno, non intendiamo sostenere che invece la veduta cartesiana sia
antiquata e sorpassata: chè altrimenti non si spiegherebbe come autori che rientrano a
pieno titolo nella modernità – quali Hegel o Marx – restino ancora in certo modo
fedeli ad un modello metafisicamente onnicomprensivo del reale; semplicemente,
intendiamo sostenere che il loro è il trascinarsi in età moderna di un pensiero che è
tutto fuorchè moderno. Dal canto suo, Montaigne – che è e resta un umanista tout
court, sebbene sia espressione di un umanesimo ormai in crisi – si muove con una
certa circospezione quando tratteggia il campo di applicabilità della ragione,
anticipando in tal maniera le riflessioni di Locke e degli Illuministi: lontanissimo dalla
prospettiva cartesiana, egli ravvisa nella ragione un proficuo strumento in grado di
fornire, più che certezze assolute, utili accorgimenti per la vita comune, validi consigli
per muoversi nella caoticità di un’esistenza di per sé priva di certezze; dai cieli della
metafisica a cui ancora volgeva lo sguardo Cartesio, Montaigne è tornato coi piedi per
terra, soffermando l’attenzione non sulle nebbiose conoscenze metaempiriche e
onnicomprensive –che ci inducono a creder di abbracciare tutto, quando in realtà non
stringiamo che vento -, ma su quelle orientate all’utile per l’uomo, virando in tal modo
verso il moderno (e in ciò la differenza con Cartesio è inconfutabile). Ben si attaglia
allora al pensiero di Montaigne l’immagine della ragione come candela in grado di
gettare una tenue luce sul nostro cammino: proprio perché si tratta di una candela,
resteranno necessariamente oscure molte zone (anzi: quasi tutte) del reale, cosicchè
sarà opportuno vagliare con attenzione le opinioni che in merito han formulato gli
antichi, poiché la verità non è stata da noi colta più di quanto non lo sia stata da loro.
Ecco spiegato il titolo dell’opera montaigneana: “Saggi”innanzitutto nel senso del
saggiare con circospezione critica il terreno per appurarsi che esso sia abbastanza
consistente per essere percorso, il che mette in luce quell’istanza critica e sempre
diffidente verso le presunte certezze che invece manca a Cartesio. Montaigne, più
modestamente rispetto al suo collega, non pretende di conoscere il mondo nella sua
interezza, ma si accontenta di frugare fra le pieghe dell’animo umano, fluttuando
costantemente nel dubbio, dal quale non riuscirà mai ad uscire completamente,
rivelando in ciò una matrice scettica. Nel capitolo XXVI dei “Saggi”, egli scrive
significativamente: “soltanto i pazzi sono sicuri e risoluti”, aggiungendo a conferma
della funzione conoscitiva del dubbio il verso dantesco: “che non men che saper
dubbiar m'aggrada”. Il fatto stesso che nessuno degli antichi –con cui nel suo scritto
Montaigne dialoga costantemente in una conversazione al di là del tempo – abbia
raggiunto certezze assolute dovrebbe indurci a ridimensionare la nostra convinzione di
5
poter riuscire laddove tutti han fallito, di fronte ad una realtà configurantesi come un
groviglio inestricabile, che è a dir poco illusorio credere di poter sciogliere; la
posizione del saggio sarà allora quella di chi – liquidando la chimerica pretesa di
conoscere il reale nel suo complesso –si accontenterà di piccole conoscenze utili per
la vita quotidiana, conoscenze che, in forza di tale aspetto ridimensionato, non
possono che essere strutturalmente deboli. Anche Cartesio fa del dubbio il suo cavallo
di battaglia, ma in modo del tutto diverso: Montaigne parte dal dubbio e vi rimane,
prendendo atto dell’impossibilità di conoscenze “forti” che rendano conto della
struttura del reale; in Cartesio il dubbio è un gradino per raggiungere la certezza, si
serve di esso per eliminarlo: revocata in dubbio ogni cosa, non appena rinviene nel
cogito, ergo sum l’incontestabile punto archimedico su cui far poggiare una
conoscenza illimitata e certa, che non possa essere in alcun modo corrosa da dubbi.
Anzi, se egli abbatte l’edificio del sapere tramandato dagli antichi è proprio perché
esso poteva troppo facilmente essere attaccato (e di fatto lo era) da dubbi in grado di
farlo vacillare: il suo obiettivo è di ricostruirlo da zero su nuove basi
incontestabilmente certe, che non lascino più alcuno spazio ai dubbi. Tanto più che
quello di Cartesio non è un dubbio genuino, di cui egli sia stato effettivamente in
balia: il suo è invece un dubitare meramente metodico e artificiale, un voler dubitare
su cose di cui in realtà si è certi per considerare quali conseguenze ne derivino.
Merita, a tal proposito, per meglio comprendere questa divergenza di vedute, affidarci
ai testi stessi dei due pensatori. Scrive Cartesio nel Discorso sul metodo:
“non imitavo, gli scettici, che dubitano solo per dubitare e ostentano una perenne
incertezza: al contrario, ogni mio proposito tendeva soltanto a raggiungere qualcosa di
certo, e a scartare il terreno mobile e la sabbia, per trovare la roccia e l'argilla”. E più
avanti egli prosegue: “presi la decisione di fingere che tutte le cose che da sempre si
erano introdotte nel mio animo non fossero più vere delle illusioni dei miei sogni. Ma
subito dopo mi accorsi che mentre volevo pensare, così, che tutto è falso, bisognava
necessariamente che io, che lo pensavo, fossi qualcosa. E osservando che questa
verità: penso, dunque sono, era così ferma e sicura, che tutte le supposizioni più
stravaganti degli scettici non avrebbero potuto smuoverla, giudicai che potevo
accoglierla senza timore come il primo principio della filosofia che cercavo”
(Discorso sul metodo, parte IV). Dai due passi testé riportati, affiora chiaramente il
proposito e l’esito del pensiero cartesiano: egli muove da certezze che però la
tradizione non è riuscita a dimostrare tali, e, per riuscire laddove i suoi predecessori
han fallito, Cartesio gioca la carta del dubbio, mettendo strumentalmente in forse ogni
cosa per poter trovare un punto assolutamente fermo (il cogito, ergo sum) sul quale
edificare una filosofia della certezza. Scrive invece Montaigne: “io non sono
pienamente signore di me stesso e dei miei impulsi. Il caso ha più potere di me in ciò.
L’occasione, la compagnia, lo stesso tono della mia voce traggono dal mio spirito più
di quanto vi trovo quando lo esploro e lo uso per mio conto. [… ] Mi capita anche
questo: non mi trovo dove mi cerco; e trovo me stesso più per caso che per
l’investigazione del mio giudizio. Posso aver gettato là qualche arguzia nello scrivere.
(Voglio dire: spuntata per qualcuno, acuta per me. Ognuno dice ciò secondo le proprie
capacità). L’ho smarrita al punto di non sapere che cosa ho voluto dire; e un estraneo
talvolta l’ha scoperta prima di me. Se usassi il raschietto ogni volta che ciò mi accade,
mi cancellerei del tutto. L’occasione mi offrirà qualche altra volta luce più chiara di
quella del mezzogiorno; e mi farà stupire del mio esitare” (I, 10). La prospettiva
cartesiana è ribaltata: il dubbio di Montaigne non è artificiosamente impiegato, ma
genuino ed in esso egli resta impigliato a tal punto da non trovar via d’uscita: perfino
la sfera dell’interiorità ne è contagiata, sicchè l’io non costituisce il punto cardinale su
cui far leva per sfuggire al dubbio, ma è anzi un’incerta zona d’ombra alla pari della
realtà esterna, una zona in cui non si ha potere e in cui, addentrandosi, si finisce per
smarrire la via.
6
Sicché Cartesio si adopera per individuare un metodo in grado di guidare la ragione
umana ad una certezza così salda da non poter più essere scalfita da alcun dubbio, e
sebbene presenti – nel Discorso sul metodo –, con una forma di modesta
autodiminuzione, il proprio procedere come un’acquisizione meramente soggettiva,
senza alcuna pretesa di universalità, non si fatica a comprendere come in realtà egli sia
assolutamente certo che il suo metodo sia inattaccabile e applicabile universalmente.
Dal canto suo, Montaigne mette preventivamente in guardia il lettore, nella prefazione
ai Saggi, dal ritenere che il suo scritto sia animato dalla pretesa di dispensare verità o
precetti universalmente validi e utili, giacchè “mes forces ne sont pas capables d'un tel
dessein”11: al contrario, il fine dell’opera appare notevolmente ridimensionato se
raffrontato con l’intento universalistico che, seppur taciuto, Cartesio rivendicava, e
può essere in certo senso ridotto (ed è ciò che Montaigne stesso fa) all’utilità personale
dello scrittore stesso, il quale, nel comporre l’opera, ha l’opportunità di meglio
addentrarsi nella conoscenza di se stesso, di quell’io che –come abbiam già rilevato –
sfugge alla certezza riconosciuta da Cartesio. Al preteso universalismo di stampo
metafisico che soggiace alle opere cartesiane si oppone l’utilitarismo personalistico di
Montaigne, che scrive non già per imbandire verità o nozioni valide e utili per tutti gli
uomini, bensì per conoscersi meglio (e per farsi meglio conoscere dai suoi amici più
intimi), secondo l’antico motto delfico “conosci te stesso”. Ma tale solenne imperativo
è, nel caso di Montaigne, destinato a rimanere incompiuto, giacchè il dubbio che
travaglia il filosofo francese non risparmia neppure la sua interiorità, cosicché può
essere a ragion veduta ripreso l’antico aforisma di Eraclito secondo cui “per quanto tu
possa camminare, e neppure percorrendo intera la via, tu potresti mai trovare i confini
dell'anima: così profondo è il suo lógos” (Eraclito, fr. 45 Diels-Kranz). Ma –
domandiamoci – non è forse il dubbio, questo inseparabile compagno del filosofare
montaigneano, una delle più tipiche e abituali componenti dell’uomo moderno? Più
che raccoglier certezze, non deve egli seminare dubbi? Ne segue che l’immagine
dell’autentico uomo moderno si rispecchia molto più nel pensiero sempre e di nuovo
dubitante di Montaigne che non in quello di Cartesio, dogmaticamente riposante su
verità già accertate. Pare quanto meno enigmatico che due uomini così diversi e
inaccostabili fra loro siano entrambi i fondatori dell’età moderna. Lo scetticismo a cui
Montaigne costantemente si richiama è il più fulgido esempio della sua insofferenza
per le certezze di ogni sorta: nello scontro tra il dogmatismo cartesiano e il criticismo
montaigneano possiamo leggere in filigrana l’affacciarsi sullo scenario filosofico di
quella distinzione –magistralmente colta da Vattimo12 –tra il “pensiero forte”, certo
delle sue verità (in nome delle quali è anche pronto a brandire la spada) e il “pensiero
debole”, rifiutante le categorie forti e le legittimazioni onnicomprensive, consapevole
dei propri limiti intrinseci e, perciò, pronto ad aprirsi agli altri, poiché –non potendo
essere mai data la verità nella sua interezza –è solo dal confronto e dal dialogo che la
conoscenza può andare via via arricchendosi, senza tuttavia mai giungere a traguardi
ultimi. L’apertura verso gli altri –da Vattimo intesa come un progressivo aprirsi verso
le culture “altre”, da sempre tacitate e represse in nome di una presunta verità di cui
esse non partecipavano –è presente in Montaigne nella misura in cui egli dialoga con
11
“Le mie forze non sono capaci di un tal disegno”
Gianni Vattimo (1936) ha proposto una propria interpretazione, che ha chiamato pensiero debole, in
contrapposizione con le diverse forme di pensiero forte dell'Otto-Novecento: l'hegelismo con la sua dialettica, il
marxismo, la fenomenologia, la psicanalisi, lo strutturalismo. Ognuno di questi movimenti si è proposto come
superamento delle posizioni filosofiche precedenti e smascheramento dei loro errori. Ma ogni volta l'errore,
secondo Vattimo, consisterebbe proprio in questo gesto teoretico. Il pensiero debole è un atteggiamento della
postmodernità che accetta il peso dell'"errore", ossia del caduco, dell'effimero, di tutto ciò che è storico e umano.
È la nozione di verità a doversi modellare sulla dimensione umana, non viceversa. Secondo Vattimo il pensiero
debole è la chiave per la democratizzazione della società, la diminuzione della violenza e la diffusione del
pluralismo e della tolleranza.
12
7
gli antichi e con i contemporanei, introducendo e discutendo - all’interno dei suoi
scritti - numerose loro opinioni; Cartesio, dal canto suo, nella fortezza del suo pensare
metafisico, non sente questa esigenza, e il suo si configura, più che come un dialogo,
come un monologo, tipico di chi è convinto di possedere la verità: nel “Discorso sul
metodo”, egli scrive che “a conversare con gli uomini del passato accade quasi lo
stesso che col viaggiare. E' bene conoscere qualcosa dei costumi di altri popoli, per
poter giudicare dei nostri più saggiamente [… ].Ma quando si spende molto tempo nei
viaggi, si diventa alla fine stranieri in casa propria”. Da ciò emerge benissimo come il
rapporto intrattenuto da Cartesio con gli antichi e, in generale, con gli altri non sia
mirante ad un autentico arricchimento del proprio sapere, ma, piuttosto, per prendere
coscienza che esistono pensieri diversi dal nostro, a cui però non è bene appressarsi
troppo, per non correre il rischio di diventare “stranieri in casa propria”. Per
Montaigne, imperando il dubbio, non si può mai aver certezza che quanto asserito
dagli altri sia meno vero rispetto alle nostre credenze, poiché manca un termine di
paragone a cui riferirsi: da qui scaturisce il costante riferimento al pensiero altrui,
ciceronianamente esposto in maniera dossografica, senza mai accordare la palma d’oro
a nessuna corrente filosofica, salvo poi nutrire una certa simpatia per le posizioni
scettiche. Ma non è per questo motivo lecito nemmeno fare –sulle orme di Socrate una stabile e dogmatica professione di non sapere, cosicchè la formula perfetta non é
quella degli antichi “io non so”(a sua volta ricadente nel dogmatismo) , ma “che so
io?”; ciò è forse dovuto al fatto che la realtà stessa sia soggetta ad un fluire incessante
che la rende cangiante in ogni momento, cosicché –riprendendo Eraclito ed Epicarmo
–Montaigne può dire che non possiamo immergerci due volte nelle stesse acque o che
l’invito a cena non vale più il giorno --------dopo poiché non siamo più gli stessi. A
coronamento di questa situazione abbandonata da ogni certezza, Montaigne si chiede
aporeticamente “che cosa veramente è?”, domanda destinata a restare in lui irrisolta.
Infatti, a dispetto di quanto crede Cartesio, non siamo in alcun contatto col vero essere
delle cose e chi si ostina a voler attingere l'essere, fa come chi volesse, stringere nel
pugno l’acqua, che più la stringi e più schizza via dappertutto. Sotto questo profilo, la
posizione scettica è da Montaigne riconosciuta come quella che meglio si adegua ad
una realtà inattingibile quale è quella circostante, nella quale abitualmente ci
muoviamo con troppa certezza, senza interrogarci sul significato delle nostre azioni
più comuni. Così Cartesio, partito dal dubbio, lo seppellisce ben presto, ripristinando
una certezza ancora più metafisicamente indubitabile di quella tramandata dagli
antichi; sull’altro versante, Montaigne –in ciò pirroniano13 fino in fondo - non trova
vie d’uscita e, perciò, resta nel perpetuamente rinnovantesi circolo del dubbio, finendo
paradossalmente –al fine di evitare di cadere in contraddizione –per dubitare perfino
di dubitare. Sicchè l’uomo della modernità quale viene presentato da Cartesio è
l’uomo erede della tradizione umanistica, la pedina fondamentale che si muove sulla
scacchiera del mondo terreno, di cui può conoscere anche gli anfratti più nascosti
attraverso una ragione metafisicamente “forte”, a cui nulla resta celato; al contrario,
l’uomo che emerge dagli scritti di Montaigne è un uomo più attaccato alla mondanità,
giacchè si è liberato dei ceppi sia del dogmatismo religioso sia di quello metafisico,
13
Pirrone ( 360 circa - 270 circa a. C.). È considerato il fondatore dello scetticismo. Punto di partenza della
sospensione del giudizio (scepsi) di Pirrone è senza dubbio la concezione della soggettività di ogni conoscenza,
che a P., a causa dell'incontrollabilità della corrispondenza del conosciuto con il reale, appare in luce
assolutamente negativa. Così il sofistico «doppio discorso», per cui ogni tesi non era meno vera di quella che le
si poteva opporre, viene capovolto nel pirroniano «nulla più», per cui ciascuna tesi non è «per nulla più» vera
della tesi opposta. Da tale impossibilità di conoscere come le cose realmente siano, deriva la «sospensione» di
ogni giudizio circa la verità, e, infine, l'astensione da qualsiasi discorso o espressione verbale, destinata
irrimediabilmente a dare per vero o per falso ciò che non si sa se è vero o falso: donde la piena indifferenza circa
la valutazione pratica delle cose, che assicura all'animo l'atarassia, supremo ideale etico ed eudemonistico
dell'uomo.
8
ma ciononostante è di inferiore statura rispetto all’onnisciente uomo cartesiano che,
equipaggiato di una ragione “forte”, può conoscere tutto; infatti, pur coi piedi per
terra, egli non può conoscere fino in fondo la realtà in cui si trova immerso, non è il
centro del creato, ma uno degli infiniti granelli che lo costituiscono e – poiché, per
dirla con Orazio, parvum parva decent – la conoscenza di cui può disporre conseguibile con sforzi immani –sarà sempre e comunque debole e incerta, poiché la
ragione stessa è affetta da una certa miopia connaturata.
Sarebbe però fuorviante e, al contempo, riduttivo credere che Montaigne approdi al
dubbio esclusivamente perché suggestionato dalla lettura del pensiero scettico, giacchè
quest’ultimo – a ben vedere – si configura più come conferma che non motore del
dubbio montaigneano, acceso primariamente dal particolare momento storico in cui il
pensatore francese si è trovato a vivere e di cui il suo pensiero è, in certo senso, uno
specchio; non a caso, si tratta di un periodo storico profondamente segnato
dall’improvviso crollo di buona parte di quelle certezze che avevano fino ad allora
accompagnato l’uomo occidentale lungo il suo cammino. Il primo caposaldo a franare
in questa strage di certezze è l’assoluta certezza della propria fede che ogni cristiano in
cuor suo nutriva: infatti, con i dissidi religiosi divampati in seguito alla vibrata
protesta luterana, che aveva a sua volta acceso la miccia per l’esplodere di altri
movimenti di opposizione al cattolicesimo (primo fra tutti il calvinismo), era entrata in
crisi la certezza – fino ad allora incrollabile – del cristiano, il quale ora si trova
dilaniato dal dubbio nel dover scegliere la vera religione da professare, disorientato
dinanzi ad un proliferare di diversi credo religiosi che, per forza di cose, si trovavano a
coesistere. La stessa scoperta dell’America aveva travolto la certezza, da sempre
nutrita dall’uomo europeo – salvo le eccezioni, che, seppur sporadiche, non
mancarono - di essere al centro della terra, certezza ulteriormente demolita dalle teorie
di Copernico che, sebbene fossero state presentate dal pensatore polacco solo come
ipotesi, prospettavano insidiosamente l’idea che l’uomo europeo non solo non fosse al
centro della terra, ma neanche dell’universo, facendo così tramontare definitivamente
la prospettiva ficiniana dell’homo copula mundi, trapassante ora nella più mesta
constatazione di Giordano Bruno secondo cui umbra profunda sumus (De umbris
idearum). Questa congerie di dubbi assillanti confluisce interamente nella riflessione
di Montaigne e trova il suo più adeguato adattamento nel pensiero scettico, che per
primo aveva messo in luce in maniera così netta i limiti intrinseci un uomo isolato
nella fluidità dell’universo e movente verso una verità a cui mai potrà approdare; ed è
proprio il pensiero scettico che sventola come vessillo dell’antidogmatismo
contrapposto ai “cieli” della metafisica e della religione, che non a caso avevano
ravvisato in esso il loro acerrimo nemico, capace di gettar scompiglio nelle presunte
certezze metafisicamente propugnate.
Ma, nonostante lo scetticismo che informa il pensiero montaigneano e ne fa un
baluardo dell’età postmetafisica, sembra che nel rifiuto cartesiano della tradizione
antica, volto a fondare su basi certe e stabili l’età moderna, ci sia molto più di
moderno che non in Montaigne e nel suo costante dialogare con i pensatori del
passato: si tratta però solo di un’apparenza, destinata a crollare non appena ci
domandiamo se l’età moderna, nella sua profondità, si sia davvero svincolata da ogni
legame con la tradizione antica o, piuttosto, se non sia ancora strettamente legata ad
essa. A tal proposito, Heidegger dice significativamente che noi moderni non facciamo
altro che chiosare Platone e Aristotele, mettendo in questa maniera in luce la stretta
dipendenza –che Cartesio aveva tentato di recidere - che ci lega agli antichi; ancora
Hegel –che pure nell’intendere la filosofia è molto più prossimo a Cartesio che non a
Montaigne –propone il proprio sistema come risposta alle domande poste dai Greci, e
similmente il pensiero di Nietzsche e di Freud nasce sulle venerabili rovine del mondo
antico, di cui la nostra età è figlia. Se ci soffermiamo anche solo brevemente sugli altri
pensatori che costellano l’età moderna, non possiamo non ravvisare tale dipendenza
9
col mondo antico e con le sue realizzazioni, soprattutto con quella stagione felicissima
della storia umana che coincide con il mondo dei Greci.
C’è un passo –nell’apologia di Raymon Sebond14 –che costituisce un punto nodale
del pensiero di Montaigne, un passo in cui vengono ad incontrarsi pressochè tutte le
diverse prospettive del suo pensiero: “quand je me joue à ma chatte, qui sait si elle
passe son temps de moi plus que je ne fais d'elle?”15 Da questa divertente domanda
traspare quel dubbio che alimenta l’intera filosofia montaigneana e che arriva a
travolgere perfino gli aspetti più scontati della nostra vita quotidiana, quale può
appunto essere il nostro rapporto con gli animali domestici: che cosa può infatti
garantirmi che, nel momento in cui gioco con la mia gatta, essa non si stia divertendo
più di me? Non c’è nulla, evidentemente, che possa dissipare tale dubbio, cosicché
peccano di un ottuso dogmatismo coloro i quali vivono nella certezza pregiudiziale di
essere al centro del mondo, come voleva la tradizione umanistica da Pico ad Alberti,
da Ficino a Valla. Ciascuno di noi finisce per essere in maniera protagorea la misura
della realtà che lo circonda, il che non solo è legittimo, ma è anzi del tutto inevitabile,
poiché ognuno vede sempre e comunque il mondo coi propri occhi; l’errore nasce
quando non ci si accorge della limitatezza della propria debole posizione e si avanza
l’assurda pretesa di universalizzarla e assolutizzarla metafisicamente, facendo del
nostro debole punto di vista una prospettiva forte e totalizzante, alla quale uniformare
la realtà. Montaigne stesso sa bene che, prima facie, la realtà appaia a tutti tale per cui
i protagonisti, tanto nel giocare col gatto quanto nel muoverci nel mondo, siamo noi,
ma è altresì convinto che tale certezza debba essere scavata, saggiata e, in certo modo,
incrinata, poiché riposante su una convinzione dogmatica che può in qualsiasi
momento essere messa in dubbio: l’età umanistica dell’uomo in bilico tra il terrestre e
il divino (homo copula mundi) è ormai irrimediabilmente sorpassata, ma non certo in
vista di quella che sarà la prospettiva altrettanto dogmatica e assolutizzante di
Cartesio, ad avviso del quale –non diversamente da Aristotele –l’uomo è un animale
pensante il cui ufficio precipuo è di conoscere la realtà, rispecchiandola
oggettivamente. Al contrario – se proprio dobbiam dare una definizione che renda
conto del pensiero di Montaigne – l’uomo è e resta perennemente un animale
dubitante, sospeso nel nulla e sorretto solamente dalla fede, intesa però non in maniera
dogmatica, bensì come esito necessario di una ragione troppo debole per farsi strada
da sé: tale concezione è contenuta in nuce in questa riflessione montaigneana: “se
chiamiamo prodigi o miracoli le cose a cui la nostra ragione non può arrivare, quanti
se ne presentano continuamente al nostro sguardo? Consideriamo attraverso quali
nebbie e come a tastoni siamo condotti alla conoscenza della maggior parte delle cose
che abbiamo fra le mani: certo troveremo che è piuttosto l’abitudine che la scienza a
non farcene vedere la stranezza”(I, XXVII) . La stessa sensibilità di Montaigne per il
mondo animale –sensibilità che ben emerge nel passo della gatta - pare come non mai
moderna ed è anch’essa il frutto di un pensiero che, fluttuando nel dubbio, non può
ricadere nella dogmatica convinzione di un’indiscussa superiorità dell’uomo o –
ancora peggio –nella credenza cartesiana che gli animali siano mere macchine che, a
differenza dell’uomo - “macchina che, essendo stata fatta da Dio, é incomparabilmente
meglio ordinata e ha in sè movimenti più meravigliosi di qualsiasi altra tra quelle che
gli uomini possono inventare”(Discorso sul metodo) -, sono prive di ragione e di
sensibilità e si muovono “solo per una disposizione dei loro organi”(Discorso sul
14
"Apologia di Raymond Sebond" costituisce il capitolo più organico e ampio dei "Saggi" di Montaigne. Col
pretesto di difendere la "Teologia naturale" del tolosano Raymond Sebond dalle numerose accuse che le erano
state rivolte, Montaigne concepisce un disegno apologetico della fede cristiana largamente estraneo agli schemi
tradizionali e dal quale traspare il ritratto culturale della propria epoca in cui nuove cosmologie, nuovi continenti,
nuovi popoli, nuove confessioni religiose, nuove immagini di uomo e di ragione umana irrompono sulla scena
storica.
15
“Quando gioco con la mia gatta chi sa se essa passa il suo tempo con me più di quello che faccio io con lei?”
10
metodo, parte V). L’uomo stesso, in una tale dogmatica prospettiva meccanicistica,
altro non è se non una macchina pensante o, come ha suggestivamente sostenuto
Ryle16, una “macchina”abitata da uno “spettro”battezzato “spirito”o “anima”. Dal
passo della gatta, poi, emerge chiaramente come Montaigne proietti sempre, con una
certa modestia, la propria indagine su realtà quotidiane e, in forza di ciò, più vicine a
noi, che le sentiamo a tutti gli effetti nostre perché può accadere che ci poniamo
questioni analoghe: l’investigazione cartesiana che si propone di abbracciare tutto lo
scibile umano, dall’universo fisico alle passioni dell’anima, appare allora un miraggio
di una ragione che si crede più forte di quanto non sia e, nell’avvitarsi su questioni
metafisiche sempre più alte, finisce per perdere contatto con la realtà terrena; con
Montaigne si affaccia invece finalmente sullo scenario filosofico la ipermoderna
categoria dell’utile - preconizzata da Machiavelli -, che detronizza quella –tipica dei
tempi d’oro della metafisica –del sapere disinteressato, privo di risvolti pratici e, in
virtù di ciò, di qualità superiore. La conoscenza viene in tal maniera subordinata
all’utilità, cosicchè –se non produce effetti fruibili –è indegna di essere seguita: tesi,
questa, che trova la sua piena formulazione in Bacone prima e nell’Illuminismo poi,
che di Bacone è in certo senso figlio. Infine, merita di essere rilevato il gradevole
umorismo che permea costantemente gli scritti montaigneani - fedele in ciò alla
poetica oraziana del ridentem dicere verum quid vetat? –e che raggiunge uno stato di
perfetta sobrietà nella gustosa scenetta di Montaigne che si diverte con la sua gatta;
l’umorismo, tuttavia, non era una componente estranea neppure al pensiero di
Cartesio, seppur non in maniera così radicata come in Montaigne, che trova il suo
diretto precedente in tale gusto per lo scherzo e per l’umorismo raffinato in Luciano di
Samosata, a cui è peraltro anche accomunato dal deciso ripudio di ogni dogmatismo sia di tipo filosofico, sia di tipo religioso –e dalla convinzione che il pensiero umano
sia connaturatamente debole. L’antidogmatismo di Luciano –questo antesignano del
“pensiero debole” – si coniugava sapientemente con il gusto del comico e dello
scherzo, quando egli, nei suoi scritti dissacranti e demolitori di ogni certezza, metteva
in forse l’esistenza degli dèi e della loro integrità morale, assestando agli abitanti
dell’Olimpo il colpo decisivo già azzardato –ma non inferto con sufficiente forza - dal
Prometeo di Eschilo e dagli Uccelli di Aristofane. Del resto, nella Storia vera,
l’avversione per ogni dogmatismo sfociava in un divertito e divertente tripudio della
fantasia, con l’incredibile viaggio di Luciano –Astolfo ante litteram –sulla luna e su
altri mondi infinitamente distanti e diversi dal nostro, fino ad essere ingerito da una
balena, anticipando la sorte che toccherà a Pinocchio. Ora, soffermandosi – seppur
giocosamente –su questi mondi “altri”rispetto al nostro, Luciano mette in luce come
la nostra abitudine a pensarci al centro dell’universo riposi esclusivamente su una
dogmatica convinzione, non altrimenti fondata che sull’ignoranza e su preconcetti
accumulatisi l’uno sopra l’altro. Egli fa pertanto professione di quel relativismo
culturale già predicato da Protagora e che Montaigne – in nome del suo dichiarato
scetticismo – recupera, alla luce delle recenti scoperte geografiche che avevano
portato a prendere coscienza dell’esistenza di popolazioni abitanti sull’altra faccia del
pianeta e viventi secondo norme e costumi diversissimi dai nostri, ma non per questo
inferiori e indegni di rispetto. Nella ripresa del relativismo culturale - che
necessariamente scaturisce da un pensiero il cui cardine sia un dubbio mai appagato –
possiamo leggere ancora una volta una componente assolutamente imprescindibile
16
Gilbert Ryle (1900 –1976), filosofo britannico, in Il concetto di mente (1949), Ryle sviluppa una critica del
dualismo mente-corpo, diffuso nella filosofia occidentale da Cartesio in poi. L'idea di una mente come entità
indipendente, che abita e controlla il corpo, va rifiutata come un rimasuglio superfluo di un periodo antecedente
lo sviluppo della biologia moderna e che non può più essere preso alla lettera. Parlare di una mente e un corpo
come entità separate può avere solo la funzione di descrivere metaforicamente le abilità di organismi complessi,
come strategie per la risoluzione di problemi, capacità di astrazione e generalizzazione, di generare ipotesi e
metterle alla prova, eccetera, in relazione al loro comportamento.
11
dell’età moderna, di cui Montaigne si riconferma scopritore, anticipando, in questo
senso, le riflessioni relativistiche di Locke (miranti a scardinare la possibilità di idee
innate), del Montesquieu17 delle Lettere persiane, del Voltaire di Micromega e, in
generale, dell’intera narrativa di viaggi che fiorirà nel Settecento. Di fronte agli
indigeni brasiliani, impietosamente etichettati come “barbari”e “selvaggi”dall’Europa
in cui dilagavano le funeste guerre di religione, Montaigne assume un atteggiamento
che non tradisce, ma anzi ravviva la sua posizione scetticheggiante e antidogmatica, da
cui traspare un relativismo che riecheggia i versi pindarici “la consuetudine è padrona
di tutte le cose”: “or je trouve, pour revenir à mon propos, qu'il n'y a rien de barbare et
de sauvage en cette nation, à ce qu'on m'en a rapporté : sinon que chacun appelle
barbarie, ce qui n'est pas de son usage. Comme de vray nous n'avons autre mire de la
verité, et de la raison, que l'exemple et idée des opinions et usances du païs où nous
sommes. Là est tousjours la parfaicte religion, la parfaicte police, parfaict et accomply
usage de toutes choses. Ils sont sauvages de mesmes, que nous appellons sauvages les
fruicts, que nature de soy et de son progrez ordinaire a produicts”(I, 31)18. Dal rilevato
dogmatismo che ci spinge a concepire ottusamente come rozzo e indegno tutto ciò che
esula dalle nostre usanze, Montaigne prende spunto per mettere in luce i numerosi
aspetti che fanno della civiltà europea dilaniata dai conflitti religiosi un ben più
indegno panorama rispetto al mondo dei cannibali: “je ne suis pas marry que nous
remerquons l'horreur barbaresque qu'il y a en une telle action, mais ouy bien dequoy
jugeans à point de leurs fautes, nous soyons si aveuglez aux nostres. Je pense qu'il y a
plus de barbarie à manger un homme vivant, qu'à le manger mort, à deschirer par
tourmens et par gehennes, un corps encore plein de sentiment, le faire rostir par le
menu, le faire mordre et meurtrir aux chiens, et aux pourceaux (comme nous l'avons
non seulement leu, mais veu de fresche memoire, non entre des ennemis anciens, mais
entre des voisins et concitoyens, et qui pis est, sous pretexte de pieté et de religion)
que de le rostir et manger apres qu'il est trespassé”19. L’Europa non è per Montaigne il
centro del mondo, né l’uomo è il cuore dell’universo: quelle che a noi paiono usanze
ragionevoli, se osservate dal punto di vista di chi non ne partecipa (ad esempio i
cannibali, o i Persiani di Montesquieu), si rivelano come morbosi gesti insensati, che
poggiano più sull’abitudine che non sulle prescrizioni di una presunta ragione
legiferante. Questi, che noi in via del tutto pregiudiziale bolliamo con l’etichetta di
“selvaggi”, non possono esser detti barbari solo perché dotati di una cultura diversa,
giacchè –se così fosse –noi stessi diverremmo barbari ai loro occhi, e ciascuno lo
sarebbe dinanzi ad ogni altro: più che una dogmatica e violenta imposizione delle
17
Montesquieu (1689 –1755), filosofo, giurista, storico e pensatore politico francese. È considerato il fondatore
della teoria politica della separazione dei poteri.
Lo spirito delle leggi, la sua opera principale, frutto di quattordici anni di lavoro è una vera e propria
enciclopedia del sapere politico e giuridico del Settecento.
Partendo dalla considerazione che il potere assoluto corrompe assolutamente, l'autore analizza i tre generi di
poteri che vi sono in ogni Stato: il potere legislativo (fare le leggi), il potere esecutivo (farle eseguire) e il potere
giudiziario (giudicarne i trasgressori). Condizione oggettiva per l'esercizio della libertà del cittadino, è che questi
tre poteri restino nettamente separati.
18
"Dunque io trovo, per ritornare al mio proposito, che non ci sia niente di selvaggio e barbaro in questa nazione,
in base a quanto mi hanno riportato, se non che ciascuno chiama barbaro ciò che non appartiene ai propri
costumi. In verità non abbiamo altra idea della verità e della ragione che gli esempi, le opinioni e le usanze del
nostro paese. Là si trova sempre la religione ideale, la perfetta politica, il completo e perfetto uso di tutte le cose.
Essi (gli indigeni) sono selvaggi così come noi consideriamo selvaggi (selvatici) i frutti così come li ha prodotti
la natura."
19
“… . Noi notiamo l’orrore barbarico che c’è in tale azione, ma tanto quanto giudichiamo con precisione i loro
errori quanto siamo ciechi con i nostri. Penso che c’è più barbarie a mangiare un uomo vivo che un uomo morto;
lacerare con tormenti un corpo ancora pieno di vita, farlo cuocere per pranzo e farlo dilaniare da cani e maiali
(come abbiamo, non solo letto, ma visto recentemente, non tra antichi nemici ma tra vicini e concittadini e
paggio ancora con il pretesto della religione) è più barbarico che arrostirlo e mangiarlo dopo che è morto”
12
nostre “verità”, imposte con l’efferata arma della crociata, sarà opportuno aprirsi a
queste culture “altre”, tentando il dialogo –ed è quel che Montaigne fa nel momento
in cui cerca di comunicare con gli indigeni brasiliani condotti in Francia nel 1571 -,
partendo dal presupposto che la ragione debole non ha svelato più a noi che a loro la
verità e che, pertanto, la via meglio percorribile resta quella del confronto, attraverso il
quale ricomporre quel mosaico dalle mille tessere che è la verità: anzi, a rigore, si
potrebbe dire che non si può andar d’accordo perché si è raggiunta la verità –giacchè
il raggiungimento di essa è e resta un concetto limite, un’idea nel senso kantiano -, ma,
viceversa, che si è raggiunta la verità nel momento in cui si va d’accordo, quando cioè
il sordo monologo di una cultura illudentesi di conoscere ogni cosa cede il passo al
libero circolo di idee che trova nel dialogo la sua forma più appropriata. In questo
senso, si può legittimamente affermare che lo scetticismo di cui Montaigne fa
professione in sede etica e gnoseologica non si traduca, sul piano pratico, in un gretto
vivere in conformità delle usanze vigenti dettato dall’impossibilità di cogliere la verità
delle cose; al contrario, il dubitar di tutto induce Montaigne a dubitare anche della
validità delle tradizioni, senza piegarsi –ché sarebbe un dogmatismo – ad esse, ma
saggiandole una ad una con la ragione, debole sì, ma non a tal punto da non accorgersi
dell’assurdità dei dogmatismi. In maniera piuttosto esplicita, il filosofo francese si
richiama, oltreché a Luciano, anche a Plutarco, apprezzandolo per la sua profondità
etica e, trasversalmente, per il “debolismo”che percorre, in maniera sotterranea, la sua
opera e che trova forse l’apice in questa professione di antidogmatismo che apre
spiragli in direzione dello scetticismo: “tutte queste cose, o Favorino, mettile a
confronto con le cose dette dagli altri; e se esse avranno un grado né maggiore né
minore di probabilità, manda a quel paese le opinioni, ritenendo più degno di un vero
filosofo sospendere il giudizio sulle questioni poco chiare, piuttosto che darvi il
proprio assenso” (Moralia, 955 c). Questo breve brano ben rende conto dello
scetticismo di cui il pensiero montaigneano si sostanzia, e che approda non già a
vacillanti certezze che poggiano su basi doxastiche, bensì all’epochè con cui gli
antichi Scettici sospendevano il giudizio, arrivando aporeticamente a sostenere che “
che ogni cosa non è più questo che quello”(Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, IX, 6162).
Con il suo fare spiccatamente antidogmatico e relativistico sul piano culturale, nonché
attento al mondo animale, Montaigne –nell’Apologia di Raymond Sebond –si chiede,
sulla scia di quanto aveva già fatto l’antico Senofane per smontare la concezione
antropomorfica della divinità: “perché un papero non potrebbe dire così: «Tutte le
parti dell'universo mi riguardano; la terra mi serve a camminare, il sole a darmi luce,
le stelle a infondermi i loro influssi; ho questo beneficio dai venti, quest'altro dalle
acque; non c'è niente che questa volta <celeste> consideri così favorevolmente quanto
me; sono il cocco di natura; non è l'uomo che mi alleva, che mi alloggia e che mi
serve?”. Pur nel dichiarare la sua simpatia per il dubitare di matrice pirroniana, l’afasia
a cui approdava la scuola scettica appare inaccettabile quanto improduttiva agli occhi
del filosofo francese, che ad essa oppone –mantenendo valido il presupposto che la
verità resti sempre sconosciuta – un vivace dibattito che finisce per coinvolgere
uomini del passato e del presente in un dialogo metastorico non su come le cose siano,
ma su come sembrino ai vari uomini che di volta in volta si sono interrogati su di esse.
Non è un caso che questa via fosse già stata seguita dallo stesso Cicerone, anch’egli
simpatizzante per la scuola scettica, nella formulazione probabilistica datane da
Carneade. Ancora una volta, tuttavia, non si tratta di una dogmatica e acritica difesa
delle posizioni tramandateci dai nostri predecessori, recepite come depositarie della
verità e da addurre come irremovibili certezze per inverare i propri discorsi: piuttosto,
sono dei sentieri già battuti da personaggi dallo straordinario acume intellettuale e che
perciò sono degni di essere presi criticamente come modelli su cui plasmare la propria
indagine, facendo di essi delle guide e non dei padroni: è questo un tema direttamente
mutuato dalla 33° delle Epistulae ad Lucilium di Seneca, a cui Montaigne
13
espressamente si rifà. Infatti, di fronte ad una vita che, per la sua brevità, ci consente
di esperire un esiguo numero di cose, non resta che affidarsi al pensiero di chi ci ha
preceduto, per poter così estendere –seppur solo virtualmente - la propria esperienza a
realtà che altrimenti non avremmo modo di conoscere, in quanto a noi precedenti: da
qui nasce l’importanza che Montaigne riconosce alla filosofia e – sulla scia di
Machiavelli – alla storia, intesa appunto come la conoscenza di accadimenti che di
persona non avremmo mai potuto esperire. Non diversamente da come Aristotele
concepiva la dialettica, Montaigne ritiene che la filosofia debba essere esercitata come
un costante dialogo con i pensatori del passato, un dialogo in cui però essi possono
anche essere criticati e smentiti in nome del dubbio e dell’antidogmatismo: in questo
modo, Montaigne scardina un altro dei pilastri dell’età metafisico/religiosa e segna un
punto nodale nella conversione al moderno: il principio di autorità (l’ipse dixit) con il
quale, anziché argomentare a favore di una tesi, si adduce l’insindacabile giudizio di
una personalità autorevole e, perciò, inattaccabile; con la caduta di tale dogmatica
difesa degli asserti altrui, ritenuti validi più in forza della loro venerabile paternità che
non della loro veridicità, la ragione torna liberamente a muoversi trecentosessanta
gradi, estendo la sua presa ad ogni cosa e arrivando a mettere in discussione gli stessi
dogmi metafisici e religiosi.
E così, di fronte ad un’Europa dogmaticamente addormentata nel pregiudizio che
vuole i “selvaggi”come barbari e indegni di esser qualificati come uomini –e perciò
da neutralizzare a tutti i costi, come attesta il caso di Francisco Pizarro e degli altri
conquistadores -, Montaigne, pilotato da una siffatta ragione instancabile, ribalta la
prospettiva, arrivando a immaginare questi uomini più felici di noi, perché immersi
nella più assoluta tranquillità, in un regno in cui il rapporto con la natura si è
conservato intatto, di contro ad un’Europa funestata dalle guerre, dalla brama del
denaro e dalla corruzione che ne deriva: in questa contrapposizione tra un’Europa in
balia della corruzione perché accecata dalla sete di potere e un mondo “selvaggio”,
incontaminato e ancora in perfetto equilibrio con la natura, Montaigne anticipa ancora
una volta l’Illuminismo –specie nella sua veste rousseauiana - e il suo mito del “buon
selvaggio”, ingenuo e perciò intrinsecamente buono, pur con la differenza che se
l’Illuminismo guarda alle culture “altre”solo per meglio comprendere la propria –
restando così in una posizione saldamente eurocentrica -, il dubbio mai appagato che
anima la filosofia di Montaigne spinge il filosofo francese ad accostarsi
disinteressatamente agli indigeni brasiliani, nella convinzione che sul piano
conoscitivo essi non fluttuino nel dubbio più di noi, ma che conducano un’esistenza
più genuina perché non (ancora) contaminata dalla virgiliana auri sacra fames che ha
appestato la “civile”Europa e dalle tremende macchinazioni ordite per soddisfarla. In
una tale prospettiva l’Europa diventa, da centro culturale e di civiltà, covo di ogni
perversione e fonte di tutte le corruzioni immaginabili, nascenti –in ultima istanza –
da quel fatidico allontanamento dalla natura che ci ha portati a credere –
metafisicamente - di essere onnipotenti.
L’utile egoistico
Uno dei portati principe dell’età moderna è l’indiscussa egemonia dell’utile tanto sulle
virtù platoniche e aristoteliche quanto sulla santità cristiana, accomunate dall’essere
frutto di una concezione del mondo universalizzata e, perciò, sfuggente alle particolari
articolazioni del reale. Non appena volgiamo gli occhi dal cielo alla terra e ci
sbarazziamo dell’ingombrante fardello dell’immagine dell’uomo come campione di
virtù o come cultore della santità, ci accorgiamo improvvisamente di come ogni nostra
azione ad altro non tenda se non alla nostra individuale utilità, prima fra tutte la
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sopravvivenza, di volta in volta garantita grazie all’accumulo di ricchezza, di potere,
di amici e così via. Non c’è azione che si sottragga a questa terribile condanna.
Tuttavia accade che la ragione, lungimirante e critica, prenda atto di come sia
conveniente, ai fini del perseguimento dell’utile individuale, subordinarlo a quello
comune, perché è solo attuando una pace con gli altri individui –miranti anch’essi alla
propria autoconservazione e al proprio utile, collimante con quello altrui –che si può
garantire una condizione di sopravvivenza di tutti e, quindi, anche di se stessi, uscendo
in tal modo dal primitivo stato di natura, retto dalla feroce legge del bellum omnium
contra omnes, ed entrando nella società civile. In qualche misura, Montaigne risente di
questa lettura dell’età moderna, per la prima volta formulata in maniera esauriente e
profonda da Machiavelli, per essere poi ripresa, a meno di un secolo di distanza, da
Hobbes: l’uomo moderno, schiavo delle passioni piuttosto che loro signore, ma
comunque in grado di indirizzarle grazie all’ausilio di una ragione calcolatrice, si trova
costantemente all’inseguimento egoistico del proprio utile, in vista del quale arriva a
concepire gli altri individui come meri strumenti funzionali al proprio interesse.
Montaigne fa professione di egoismo fin dalla prefazione del suo scritto, allorché
avverte il lettore che quanto si accinge a leggere è dedicato alla “commodité
particuliere”dell’autore stesso e della ristretta cerchia dei suoi amici; ma è nel capitolo
XXXIII, significativamente intitolato De la solitude, che il pensatore francese esprime
le sue riflessioni più attente su tale tematica. Pur non respingendo la prospettiva
aristotelica dell’uomo animale congenitamente socievole, Montaigne risente delle
riflessioni di tipo utilitaristico maturate con Machiavelli e perciò muove dalla
convinzione che la situazione ideale sia quella della solitudine, in cui ci si ritaglia uno
spazio per se stessi, per meditare e riflettere indisturbati dagli altri e dagli eventi
esterni: vi é qualcosa di ascetico in questa maniera di vivere, ma é un ascetismo
mondano, che ben si distacca nel suo fine da quello medioevale del monaco isolato nel
monastero e che più che alla massima degli Epicurei (implicante un vivere lontani
dalle vicende politiche, ma sempre e comunque attorniati da una cerchia di amici
sinceri) può essere accostato alla massima stoica del saggio autosufficiente e vivente
in uno stato di incrollabile autarkeia. Quella a cui mira egoisticamente il saggio, in
vista del proprio utile, è “la vraye solitude, et qui se peut joüir au milieu des villes et
des cours des Roys; mais elle se jouyt plus commodément à part. Or puis que nous
entreprenons de vivre seuls, et de nous passer de compagnie, faisons que nostre
contentement despende de nous : Desprenons nous de toutes les liaisons qui nous
attachent à autruy : Gaignons sur nous, de pouvoir à bon escient vivre seuls, et y vivre
à nostr'aise”(cap. XXXIX, La solitudine)20. In tal maniera, egli si conferma in bilico
tra la vita solitaria ed eremitica e quella a contatto con gli altri, a cui la sua natura
aristotelicamente intesa come socievole lo richiama. Aristotele aveva asserito –nella
Politica –che solo Dio e le fiere possono condurre un’esistenza solitaria, l’uno perché,
nella sua assoluta perfezione, basta a se stesso, le altre perché prive di ragione: ma
Nietzsche correggerà la mira, aggiungendo il caso del filosofo, anfibio tra l’animale e
il divino, capace di vivere appartato senza contatti con i suoi simili: in questo
ripensamento nietzscheano del pensiero aristotelico possiamo in qualche modo dire
che si rifletta il modus vivendi di Montaigne e del vero filosofo, quale egli lo intende,
proiettato nell’introspezione e alla ricerca –costantemente aporetica –del proprio io,
che Cartesio aveva colto in maniera immediata ed autoevidente. E’l’esortazione
agostiniana dell’in te ipsum redi che ritorna, ma completamente trasfigurata, poiché –
come abbiamo già sottolineato –nel rivolgersi alla propria interiorità l’uomo moderno
20
La vera solitudine, e ciò di cui si può godere anche nell'ambiente cittadino e alle corte di un re. Ma se ne può
gioire più comodamente stando in disparte. Dunque più che intraprendere la vita solitaria, e ignorare la
compagnia, facciamo sì che la nostra soddisfazione dipenda da noi. Distogliamoci da tutti i nessi che ci legano
agli altri: cerchiamo di poter di buon grado viver soli, e vivere pure a nostro agio".
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non trova quella certezza che, secondo Agostino, mancava nel mondo esterno (noli
foras ire [… ] in interiore homine habitat verum, “De vera religione”, XXXIX, 72), ma
si imbatte in un dubbio sempre e di nuovo rinascente e proliferante. Non è un caso che
il cogito, ergo sum di Cartesio avesse un suo illustre precedente nel si fallor, sum di
Agostino, il quale si serviva – ed in ciò è seguito a ruota da Cartesio stesso – del
dubbio come gradino per innalzarsi alla Verità, giacchè è innanzitutto attraverso la
certezza di dubitare che si entra in contatto – seppur solo embrionalmente – con la
Verità stessa: ma Montaigne rigetta l’ipotesi agostiniano/cartesiana che si possa esser
certi di dubitare, poiché riconoscere esplicitamente che si sta dubitando equivale,
appunto, ad ammettere che si è in possesso della certezza di non aver certezze,
facendo in tal maniera crollare il presupposto scettico.
Il corpo e le passioni
La metafisica tradizionale, da Socrate a Plotino, passando per Platone e per Aristotele,
fino a sfociare nell’età medioevale, aveva intrapreso una lunga e difficile lotta contro
le passioni, cercando costantemente di ricondurle sotto la tutela di quella ragione che,
sola, poteva guidare l’uomo lungo il suo tortuoso cammino: questa guerra spietata e
senza esclusione di colpi si è spesso –ma non sempre: emblematico è a tal proposito il
caso di Aristotele – accompagnata alla netta avversione per il corpo, concepito ora
come prigione dell’anima, ora come sede idonea per il proliferare di quelle passioni
che non possono mai definitivamente essere sgominate dalla ragione, tutt’al più
possono esser da essa controllate, come fa l’abile auriga del Fedro (246 a-249d)
platonico che si trova a dover guidare un cavallo recalcitrante. L’immagine del saggio
stoico che, dall’alto della propria virtuosità, non è nemmeno lontanamente scalfito
dalle passioni - immagine che si tramanda fino al Medioevo, per trovare nel monaco
ascetico e separato dal mondo il suo nuovo campione - si contrappone a quella meno
intransigente del saggio tratteggiato da Platone e Aristotele, che caldeggiano un
temperamento delle passioni, pur restando fermamente consapevoli della loro
insopprimibilità: ma sono, in fondo, le due facce della stessa medaglia dell’epoca
metafisica, segnata dalla convinzione che le passioni possano sempre e comunque
essere soggiogate –anche se magari non definitivamente sconfitte. La grande novità
dell’età moderna consiste nell’essersi accorti che, non solo le passioni sono una
componente ineliminabile dell’uomo, ma che addirittura la ragione ne è docile schiava
remissiva, agente come loro ancella: così Hume (Trattato sulla natura umana, Libro
secondo, Parte terza, Sez. terza) smaschera la tradizionale posizione metafisica
mettendo in luce come la ragione agisca sempre e comunque in maniera funzionale
alle prescrizioni passionali e Kant (Critica della ragion pratica, cap. I ) lo segue a
ruota, pur ammettendo anche la possibilità di leggi promulgate autonomamente dalla
ragione stessa sotto forma di “imperativo categorico”. La prospettiva metafisica e
cristiana è spazzata via dalla nuova posizione dei moderni, la cui punta estrema è in
qualche maniera ravvisabile nella filosofia di Schopenhauer - che nella ragione vede
l’artifizio di cui si serve la volontà per volere nell’uomo –, e che trova una sua
compiuta formulazione nella definizione che dà Deleuze21 dell’uomo come macchina
21
Gilles Deleuze (1925-1995) è stato senza dubbio un maestro e un pensatore di grande profondità; però, a parte
la collaborazione con Guattari, da cui è nato uno dei libri più letti e discussi della filosofia contemporanea,
"L'Anti-Edipo" (celebre e molto discusso è l'incipit: " l'Inconscio caga, fotte e piscia "), il suo lavoro si è svolto
in modo abbastanza appartato, e solo tardivamente i suoi libri hanno iniziato a essere tradotti e conosciuti nel
mondo anglosassone. Sperimentazione ed emancipazione (due tipiche parole chiave del Novecento) sono i
princìpi orientativi del lavoro filosofico di Deleuze. La sua filosofia si presenta come una forma di
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desiderante, mero flusso di desideri. Di fronte ad una siffatta posizione, che nelle
passioni scorge l’elemento più caratterizzante dell’uomo, la battaglia contro di esse
condotta dai metafisici tradizionali appare non dissimile da quella di Don Chisciotte
contro i mulini a vento, una battaglia ingloriosa e del tutto vana. In questo senso, si
può dire che sia Montaigne sia Cartesio siano gli archegeti dell’età moderna,
proponendo una concezione delle passioni distaccantesi radicalmente da quella
tradizionale e fondante quella moderna: per Cartesio esse – di cui fa un’attenta
classificazione - sono un qualcosa che sfugge alla presa della ragione, ma non sono
perciò etichettate come dannose, in quanto risultano in certo modo utili nella misura in
cui ci fan provare qualcosa di fisicamente giovevole; ciò non toglie, comunque, che i
loro eccessi debbano essere adeguatamente disciplinati dalla ragione dominatrice, a
cui spetta appunto l’ardua funzione di incanalarle verso fini utili al singolo. La
prospettiva montaigneana è ancora più moderna: non concependo in maniera così forte
la distinzione tra un mondo soggettivo, regno della certezza assoluta e della
spiritualità, ed uno oggettivo, a noi esterno e caratterizzato dall’imperare della materia
e dell’incertezza, Montaigne, aprendo ogni porta al dubbio e non lasciando spazio alle
certezze dell’io, intende le passioni come portatrici di un vissuto, né più né meno vero
di quello spirituale, permettendoci di cogliere aspetti del reale che altrimenti non
vedremmo, e per di più ce li fa vedere secondo una modalità che altrimenti non
seguiremmo. In altri termini, le passioni ci disvelano un mondo - collaterale alla
ragione - in cui vige una “verità”–se così possiamo dire parlando di Montaigne - non
meno importante di quelle -dubbie- inventate dall'indagine razionale. Il corpo cessa di
essere inteso come mero impaccio al procedere della conoscenza intellettuale e si fa
ora uno strumento capace di integrarla opportunamente, aprendo i cancelli a verità
che, altrimenti, rimarrebbero dischiuse. Ciò è vero per Montaigne, meno per Cartesio,
che col corpo intrattiene un rapporto alquanto ambiguo, perseverando –sulla scia della
tradizione - nel considerarlo di minore importanza rispetto alla spiritualità: anzi,
propriamente, se è immediatamente certo che siamo soggetti pensanti, e dunque
esistenti spiritualmente (cogito, ergo sum), che invece siamo corpi materiali è
questione da dimostrarsi: “esaminando esattamente quel che ero, e vedendo che
potevo fingere di non avere nessun corpo, e che non ci fosse mondo né luogo alcuno
in cui mi trovassi, ma che non potevo fingere, perciò, di non esserci; e che al contrario,
dal fatto stesso che pensavo di dubitare della verità delle altre cose, seguiva con
assoluta evidenza e certezza che esistevo; mentre, appena avessi cessato di pensare,
ancorché fosse stato vero tutto il resto di quel che avevo da sempre immaginato, non
avrei avuto alcuna ragione di credere ch'io esistessi: da tutto ciò conobbi che ero una
sostanza la cui essenza o natura sta solo nel pensare e che per esistere non ha bisogno
di alcun luogo né dipende da qualcosa di materiale”(Discorso sul metodo, IV). Le
passioni sussistono, inestinguibili e sempre sorgenti, ma, sebbene utili nel caso in cui
siano opportunamente indirizzate, ciononostante sono più un’interferenza che disturba
l’attività intellettuale che non un apporto ad essa: la prospettiva degli antichi metafisici
e religiosi è con Cartesio –qui in fondo piuttosto vicino a Platone - attenuata in senso
moderno, ma è solo con Montaigne che il punto di vista cambia davvero, è con lui che
le passioni e il corpo divengono strumenti gnoseologici al servizio dell’uomo: sarà,
questa, un’istanza tipicamente moderna, sulla quale insisteranno con particolare
costruzionismo (compito della filosofia è " creare concetti ", come si ripete nell'ultimo testo scritto in
collaborazione con Guattari, "Che cos'è la filosofia?"); ma è dotata di motivi del tutto peculiari. In Deleuze il
costruzionismo si connette a una forma di animismo , per cui si ammette che i concetti creati non siano entità
inerti, ma al contrario siano capaci di autoformazione, e dunque siano dotati di una vita e una storia (è questa una
circostanza in parte limitativa: lo sperimentalismo deve sempre fare i conti con l'autonomia delle "cose" di cui si
occupa). Fin dagli anni Settanta il programma deleuziano si presenta come una liberazione del pensiero :
liberazione da quelle strettoie logico-linguistiche che impediscono il movimento dei concetti e per questa via
giungono a impedire l'effettivo movimento dei corpi.
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attenzione Marx, Nietzsche e anche Feuerbach22, per il quale – come è noto –
“L’uomo è ciò che mangia””.
La vita come sogno
Il dubitare scetticamente di ogni cosa porta Montaigne ad arrovellarsi su una questione
su cui da sempre l’uomo si è interrogato con inquietudine, fornendo di volta in volta
soluzioni più o meno convincenti: “perché non dovremmo domandarci se il nostro
pensare, il nostro agire, non sia un altro sognare, e la nostra veglia una specie di
sonno?”. Che cosa può darci la garanzia che quella che chiamiamo vita non sia in
realtà un sogno? In prima battuta, dobbiamo escludere che i sensi possano essere
testimoni di ciò, giacchè essi sono così instabili e vacillanti da non poterci dar
certezze; la stessa ragione, che da essi prende le mosse (e che dunque non può esser
meno debole), non è in grado di fornirci risposte appaganti. Ancora una volta, a
prevalere è il dubbio, tale per cui non ci è possibile dire se stiamo realmente vivendo
la vita o, piuttosto, un sogno così verosimile da sembrar realtà, cosicchè non è in alcun
caso dato un valido criterio per tracciare con sicurezza i confini tra veglia e sogno, tra
realtà e fantasia. Se per Lucrezio era la possibilità di sincerarsi empiricamente delle
immagini che riceviamo –possibilità che viene a mancare quando si sogna, giacchè i
nostri sensi è come se fossero temporaneamente fuori uso –a distinguere in maniera
certa il sonno dalla veglia; ciò è dovuto al fatto che – come abbiam già notato –
Lucrezio riconosce l’infallibilità dei sensi e, di conseguenza, la certezza di quanto essi
attestano; Montaigne, invece, revoca tal certezza e non esita ad estendere il dubbio
anche ad essi e a tutte le loro testimonianze.
Si tratta di una tematica particolarmente sentita dalla seconda metà del Cinquecento in
poi, non soltanto in sede propriamente filosofica, ma anche letteraria e poetica: così
Calderòn de la Barca, nella sua celebre rappresentazione teatrale, finisce per sostenere
che “la vita è un sogno”e lo stesso Shakespeare lascia trasparire una concezione assai
simile quando –nella Tempesta –, sull’onirica isola di Prospero, fa enigmaticamente
constatare ad uno dei tanti personaggi che “we are such stuff as dreams are made on”.
In campo filosofico, sul problema torna anche Cartesio, soprattutto nella prima delle
Meditazioni metafisiche, in cui giunge temporaneamente alla sconcertante conclusione
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Ludwig Andreas Feuerbach (1804 - 1872), filosofo tedesco iniziatore del cosiddetto ''umanesimo
naturalistico''. La tesi centrale, intorno a cui ruota tutto il pensiero di Feurbach, è che la filosofia è stata finora la
semplice traduzione in forma razionale dei miti e dei sogni della teologia. Hegel, che ha compendiato e
riunificato nella sua tutte le filosofie precedenti, è la sintesi conclusiva di quasi duemila anni di meditazione
cristiana. Tutte le qualità che l'essere umano attribuisce a Dio sono le qualità, gli attributi, i predicati stessi
dell'uomo fatti soggetto, cioè convertiti in una potenza estranea all'uomo e da questo poi adorata come una forza
che domina e padroneggia la sua vita. Nella religione, nella creazione di Dio, l'uomo si fa quindi ''altro'' da sé
estraniandosi da se medesimo. Perché l'uomo possa riappropriarsi delle qualità che egli ha inconsapevolmente
attribuito a un essere ''estraneo'' e ''altro'' da lui occorre che l'uomo si riconcili con sé superando quella
condizione di ostilità e di separazione reciproca tra gli uomini che è la causa principale della sua infelicità e,
quindi, dell'evasione nella religione. La separazione dell'uomo dalla sua ''essenza'' e quindi la divinizzazione di
questa ha insomma la sua radice, per Feurbach, nella separazione terrena dell'uomo dall'uomo. Alla religione
deve perciò subentrare l'umanesimo, all'amore verso Dio l'amore verso l'uomo. Ma perché ciò avvenga, perché
l'uomo riconosca il suo Dio nell'altro uomo, occorre che l'uomo si riconcili con la natura e con il suo essere
sensibile stesso, riscattando il mondo del senso e della materia dalla condanna pronunciata contro di esso dalla
teologia e da tutte le filosofie idealistiche o speculative. Di qui l'incontro nel pensiero di Feurbach di
materialismo e socialismo umanitario; e di qui anche il particolare accento del suo umanesimo che è
celebrazione della natura e, insieme ''religione dell'uomo''. L'importanza storica di Feurbach è legata all'influenza
decisiva esercitata dalla sua opera sulla formazione del pensiero di Marx.
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che “non vi sono indizi concludenti, né segni abbastanza certi per cui sia possibile
distinguere nettamente la veglia dal sonno”; al dubbio cartesiano non sfugge nemmeno
l’eventualità che l’intera nostra vita possa essere un lungo sogno, ma poi il filosofo
francese riesce a svincolarsi da tale situazione d’incertezza grazie all’assunto
fondamentale della sua filosofia –il cogito, ergo sum -, la chiave in grado di disserrare
tutte le porte della certezza: per questa via, gettate le basi del suo metodo, egli riesce a
distinguere, senza possibilità d’errore, l’attività onirica dalla realtà. Montaigne, dal
canto suo, non esce dalla condizione di dubbio e, dunque, non riesce a stabilire con
indubitabile certezza se quella che viviamo sia la realtà o un lunghissimo sogno: in
questo modo, mettendo in luce il fatto che “l’interno e l’esterno dell’uomo sono pieni
di debolezza e di menzogna”, viene ancora una volta attaccata l’arrogante baldanza
umana, quella in virtù della quale finiamo per sentirci onnipotenti nelle nostre
convinzioni, ammantandole di una certezza meramente fittizia. Non potendo risolversi
la questione se la nostra vita sia realtà o finzione, ci troviamo automaticamente
proiettati in una condizione a tal punto precaria ed incerta da ignorare perfino se stiam
vivendo o sognando: l’istanza scettica da cui trae alimento il pensiero di Montaigne è
sempre e di nuovo coniugata con l’ambizioso tentativo di sventare gli assalti della
tracotanza umana.
D. Fusaro http://www.filosofico.net/mointagne.htm
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Montaigne scopritore del moderno e del pensiero debole