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Ufficio Scolastico Regionale per la Toscana
Direzione Generale
Lettera agli insegnanti che accolgono i bambini immigrati o figli di immigrati
© 2009 convegno A scuola nessuno è straniero – Firenze 9 ottobre 2009
di Graziella Favaro
In occasione del convegno “A scuola nessuno è straniero”,
ho pensato di scrivere una lettera agli insegnanti che accolgono nelle loro classi i bambini stranieri, per fare il
punto su vent’anni di progetti e pratiche di integrazione
e per cercare di rilanciare il tema in maniera più “larga” e
inclusiva. In realtà, dovrei dire che mi rivolgo agli insegnanti
senza alcuna specificazione, dal momento che oggi la quasi totalità dei docenti, perlomeno nella scuola primaria,
può contare fra i suoi alunni almeno un bambino con una storia, diretta o familiare, di migrazione.
Una lettera a tutti i docenti, dunque, che si compone di
tre parti:
• un preambolo iniziale in cui cerco di delineare lo scenario attuale della scuola e di descrivere a grandi linee i
bambini “stranieri” di cui parliamo;
• una parte centrale che raccoglie le consapevolezze e le
acquisizioni comuni, ormai piuttosto diffuse nella scuola
e che tuttavia vale la pena di riprendere e di fissare ancora una volta sulla carta per non dover ripartire sempre da
capo come se fossimo all’anno zero;
• una sorta di conclusione che vuole essere un augurio e
un auspicio affinché si inauguri una nuova fase per una
scuola di qualità per tutti i bambini.
In questi anni di lavoro con le scuole con gli insegnanti,
ho incontrato moltissimi docenti che si sono rimboccati
le maniche per accogliere in maniera positiva i bambini
stranieri, per insegnare l’italiano ai nuovi arrivati, per comunicare con i genitori immigrati, per fare della classe una
vera comunità sempre più “colorata”. Molti hanno studiato, provato, prodotto, scambiato; si sono formati e si sono interrogati su temi nuovi; hanno acquisito delle certezze e poi si sono ricreduti; hanno provato a fare e a pensare in modo nuovo.
La scuola multiculturale è certamente una sfida per gli
alunni stranieri, che vi entrano come se fossero inseriti in
un’orchestra senza avere prima imparato a suonare uno
strumento, ma lo è anche per i loro docenti, che devono
allargare lo sguardo, mediare, facilitare, tenere insieme
bambini che hanno storie e percorsi differenti…
E tutto questo in una scuola dove progressivamente le risorse si riducono, i tempi si comprimono, le occasioni di
riflessione e di confronto diventano sempre più rare.
Anche per questo, una lettera, che racconta in breve come siamo diventati e che fissa alcune azioni e proposte,
mi sembra un buon modo per continuare a tenere il filo
del nostro discorso…
Rocio, Karim, Alban… L’immigrazione ha cambiato la scuola.
“Io sono nata in Italia, a Montecchio, però mia mamma e mio papà
sono albanesi e anch’io allora sono albanese. Io ho fatto l’asilo qui, la
scuola materna qui. Vorrei chiedere al maestro due cose; la prima è questa: io sono italiana o albanese, o tutt’e due? La seconda: io sono immigrata o no?”
Fatima, 10 anni
(da G. Caliceti, Italiani, per esempio,
Feltrinelli, in pubblicazione)
Come ad ogni rientro, avete fatto l’appello dei bambini
che iniziano il nuovo anno scolastico e vi siete accorti che
il cognome, il nome, il colore della pelle, i tratti somatici… rimandano sempre di più a storie familiari che hanno radici altrove e raccontano esodi che, per ragioni diverse, e spesso drammatiche, hanno portato qui molte
persone dai quattro angoli del mondo.
Anche noi, come Fatima, non sappiamo più con sicurezza
come denominare la realtà e le persone e continuiamo a
chiamare “stranieri” questi bambini per la loro condizione giuridica di non italiani, ma essi non sono certamente
degli “estranei”. Molti di loro sono nati qui, spesso non
hanno neppure mai visto il Paese di cui hanno la nazionalità; parlano in gran parte un italiano fluente, a tratti vivificato da colorite inflessioni locali. Vediamo allora alcune caratteristiche degli alunni “stranieri” cha val la pena
conoscere per progettare al meglio il percorso di integrazione e di inclusione.
“Stranieri” o futuri italiani?
Gli alunni che abbiamo in classe sono stranieri per nazionalità, dal momento che la vigente legge sulla cittadinanza si basa ancora sul diritto “di sangue” e riconosce la
cittadinanza ai discendenti di terza, quarta generazione di
italiani (oppure ai coniugi di cittadini italiani), ma contrariamente ad altri Paesi europei, non prevede l’opportunità di diventare cittadino per “diritto di suolo”, cioè in
seguito alla nascita da genitori che risiedono qui da qualche tempo. In altre città o Paesi europei, i bambini stranieri che abbiamo in classe sarebbero invece a tutti gli effetti cittadini inglesi, tedeschi, francesi e, di conseguenza, non comparirebbero neppure nelle statistiche degli
“stranieri”.
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Tante origini diverse
Come sapete bene, i bambini stranieri hanno provenienze,
origini, lingue, nazionalità plurali e diverse: le loro famiglie
provengono infatti da ben 191 Paesi. In Italia, tranne pochi rari casi, non vi sono situazioni monoetniche dove si
concentra la presenza di una sola comunità o di poche etnie, ma la provenienza è variegata e molteplice. È questo
un fattore favorevole o contrario a una buona integrazione? Le ricerche ci suggeriscono che la varietà delle origini
facilita il cammino dell’integrazione perché impedisce la
formazione delle “piccole patrie”, delle comunità chiuse e
consente invece un inserimento più diffuso e facilitato nelle città.
© 2009 convegno A scuola nessuno è straniero – Firenze 9 ottobre 2009
L’avanzare della “seconda generazione”
Se andate a vedere quale è il luogo di nascita dei vostri
alunni, potrete registrare che molti di loro sono nati in Italia, o sono arrivati qui nella prima infanzia. Nella scuola primaria, la percentuale dei nati qui è pari a circa il 50% (in
alcune città, meta da più tempo dei flussi migratori, è ancora più alta). Si tratta quindi di “futuri cittadini” a pieno
titolo, dal momento che i nati in Italia potranno chiedere
di diventare italiani de jure alla maggiore età, sulla base della legge attuale sulla cittadinanza (Legge del 1992). La quota restante è in gran parte giunta nel nostro Paese già da
qualche anno e ha frequentato la scuola dell’infanzia.
I neoarrivati in constante diminuzione
Nonostante i ripetuti allarmismi, la quota degli alunni neoarrivati, che entrano per la prima volta nelle nostre classi, si riduce di anno in anno: ammonta, infatti, in media a
circa il 10% del totale degli alunni stranieri (per la scuola
primaria è di circa l’8%). La situazione di non italofonia al
momento dell’ingresso diventa dunque sempre più contenuta (più diffusa nelle regioni del sud che al centro-nord),
pur richiedendo tuttavia ancora e a lungo misure adeguate, risorse e attenzioni mirate. È dunque importante oggi
precisare e distinguere tra coloro che rientrano in una condizione di ingresso nella scolarità del tutto comune ai pari
(nati qui o arrivati da piccoli, inseriti nei servizi educativi
per l’infanzia) e coloro che richiedono invece interventi specifici, soprattutto a carattere linguistico, nella fase iniziale.
Le difficoltà del percorso scolastico
Gli alunni stranieri registrano alcune difficoltà ricorrenti nel
loro percorso scolastico: un ritardo scolastico iniziale dovuto all’inserimento in una classe inferiore (di uno, due o
più anni), rispetto all’età anagrafica e al percorso di studi
precedente; un tasso di bocciature più alto rispetto ai coetanei italiani; risultati scolastici inferiori, soprattutto nelle
discipline a forte carattere verbale. La nostra scuola, ancora fortemente basata sulla trasmissione orale e scritta (lezioni e spiegazioni frontali; libri di testo dai contenuti non
sempre linguisticamente accessibili; modalità di verifica ancora per lo più a carattere verbale…), penalizza ovviamente chi non conosce (ancora) la lingua, dal momento che alcuni sembrano pensare erroneamente che chi non sa l’italiano, non sa, in assoluto.
La voglia di riuscire
Accanto ai bambini stranieri che incontrano difficoltà scolastiche lungo il loro percorso di studi, molti sono tuttavia
coloro che “ce la fanno” e che riescono a scuola con motivazione e impegno. In generale, la maggior parte dei bambini stranieri e dei loro genitori ripone nella scuola italiana grandi aspettative e pensa che essa rappresenti il trampolino più efficace per inserirsi in maniera positiva nel nostro Paese. Anzi, alla base della migrazione familiare, c’è
spesso il progetto di una scuola di qualità per i figli, che
rappresenta per il nucleo e per le nuove generazioni un investimento per il futuro. Anche per queste ragioni, una
scuola che fa una buona integrazione, deve avere aspettative adeguate e promozionali nei confronti di tutti gli alunni, qualunque sia la loro origine.
Tra vulnerabilità e resilienza
I bambini della migrazione vivono l’esperienza del distacco e della separazione dai luoghi delle origini e dal gruppo
familiare allargato; sperimentano la fatica di dover ricominciare da capo e di ritessere altrove legami affettivi, linguistici, amicali… Oltre alle sfide e ai compiti di sviluppo
comuni ai pari, devono quindi affrontare sfide ulteriori e lo
fanno spesso in solitudine, contando solo su se stessi e sulle proprie risorse. Questi elementi di vulnerabilità possono però diventare, se bene accompagnati, fattori di “resilienza” e di rafforzamento e far sì che, per i bambini stranieri, il viaggio di ricomposizione delle parti di sé e dei momenti della loro storia possa accogliere memoria e futuro,
parole, lingue, immagini, saperi differenti.
Gli insegnanti, che accolgono e accompagnano questo viaggio, hanno dunque un compito cruciale di mentore e di “traghettatori” tra i mondi e i riferimenti culturali.
Una multiculturalità diffusa
Come potete constatare ogni giorno, la pluralità linguistica, culturale, religiosa… che si ritrova oggi nelle classi è ormai la condizione “normale” di chi insegna e di chi apprende, un dato di fatto con il quale fare i conti e dal quale partire per un’educazione di qualità per tutti.
Si tratta allora di vivificare e riproporre in maniera operativa e non più solo retorica l’approccio interculturale, basato sulla curiosità, il rispetto, il riconoscimento di ciascuno,
il confronto fra saperi e punti di vista diversi, la scoperta reciproca delle differenze che ci rendono unici e singolari e
delle innumerevoli analogie e corrispondenze che ci uniscono e ci accomunano.
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NERO SU BIANCO: DIECI CONSAPEVOLEZZE E
PRATICHE DI INTEGRAZIONE
© 2009 convegno A scuola nessuno è straniero – Firenze 9 ottobre 2009
Un uomo saggio impara dalla propria esperienza; un uomo
ancora più saggio impara anche dall’esperienza degli altri.
proverbio cinese
Cari insegnanti, nella parte di apertura di questa lettera ho
cercato di delineare le caratteristiche dei bambini stranieri e
le modificazioni più evidenti che sono intervenute nel tempo e nel paesaggio culturale e sociale delle nostre città e
scuole. Molto è cambiato in questi anni. Agli esordi dell’immigrazione familiare, i bambini venuti da lontano erano pochi, li conoscevamo uno a uno, sapevamo la loro storia, la
situazione familiare, le loro paure e le speranze per il futuro.
Ora, gli alunni stranieri rappresentano il 15-20-30%, perfino
il 40-50% del totale e rischiano talvolta di esser percepiti come un tutt’uno, come un “problema”, e non più considerati
come singoli bambini che hanno una storia inedita e stanno compiendo un faticoso viaggio di crescita.
Siamo stati forse un tempo più accoglienti, aperti e curiosi,
data la novità del tema, ma certamente eravamo meno competenti professionalmente.
Vediamo allora di mettere nero su bianco alcune consapevolezze e attenzioni pedagogico-didattiche che sono il frutto delle esperienze e dei progetti condotti in questi vent’anni da molte scuole e da moltissimi insegnanti.
Era infatti il 1989 quando venne emanata la prima circolare
sul tema dell’inserimento degli alunni stranieri: la C.M. n. 301
dell’8/9/1989 che aveva come titolo “Inserimento degli stranieri
nella scuola dell’obbligo: promozione e coordinamento delle iniziative per
l’esercizio del diritto allo studio”. Molte cose sono cambiate in questi anni e molti passi avanti sono stati fatti: normative di riferimento che si sono succedute (non sempre chiare e coerenti); innumerevoli esperienze e progetti sperimentati in città diverse e spesso trasferibili ad altre realtà; materiali, libri
e strumenti sempre più mirati e articolati; siti e centri di documentazione accessibili e ricchi di risorse e di proposte.
Sono stati i docenti e gli operatori a costruire in questi anni
– con pazienza, quotidiana fatica, tentativi ed errori, confronto continuo con i colleghi – le pratiche di integrazione
che si sono poi via via diffuse nelle scuole.
Dalla periferia al centro: molte di queste azioni e attenzioni
sono poi diventate documento nazionale, linee guida, vademecum operativi. Tutto questo deposito di saperi e pratiche
deve oggi diventare modalità ordinaria e normale dell’agire in classe: non più “progetto” speciale da riscrivere per l’ennesima
volta, da promuovere e attivare con fatica, rischiando la sua
chiusura dopo poco tempo, ma offerta disponibile, continuativa e sostenuta di una scuola che è diventata multiculturale.
La maggior parte di queste azioni e pratiche vedono come
destinatari gli alunni stranieri neoarrivati e mettono ancora
al centro i temi dell’accoglienza, dell’insegnamento dell’italiano L2, dell’organizzazione della prima fase di inserimento. In realtà, abbiamo visto che la quota di bambini di recente
immigrazione è contenuta e si riduce progressivamente: è
dunque il tempo di passare da una fase di pedagogia e didattica a carattere soprattutto “compensatorio”, ad un’altra
di “inclusione”, in cui le azioni e i progetti siano destinati all’intera classe, microcosmo di relazioni, differenze, saperi,
storie diverse.
Per andare avanti e guardare più in là, proviamo a fare il punto sulle pratiche di integrazione fin qui sperimentate in molte scuole che dovrebbero costituire il nucleo comune delle
scuole accoglienti ed efficaci.
1. “A” come accoglienza: dispositivi e modi dell’inserimento
Molti sono gli strumenti, i materiali e i siti sui quali contare
per sostenere e accompagnare la prima fase di inserimento
degli alunni neoarrivati: protocolli di accoglienza, schede e
questionari plurilingui per i nuovi alunni, opuscoli informativi, prove di ingresso (anche nelle lingue d’origine)... Il suggerimento operativo è quello di organizzare nella scuola un
dispositivo per l’accoglienza, agile e flessibile (una “commissione per l’accoglienza”), formato da due-tre insegnanti
che si occupano della fase di osservazione e di primo inserimento dei bambini neoarrivati e di recuperare i materiali
per l’accoglienza più adatti disponibili sui siti dei centri di
documentazione, delle scuole, degli enti… (costituendo così uno “scaffale per l’accoglienza”) per usarli in maniera puntuale, facilitando il primo impatto.
2. Italiano L2: laboratori, non classi “ponte”
Come molti di voi fanno da anni, nel caso di inserimento di
bambini in situazione di non conoscenza dell’italiano, la
scuola organizza un dispositivo per l’insegnamento della seconda lingua. In una situazione come quella attuale che vede una forte contrazione delle risorse e una diminuzione delle ore di compresenza fra i docenti, è importante che la scuola si organizzi anche contando sulla collaborazione degli enti locali, le associazioni del territorio, gli operatori esterni
specializzati in glottodidattica dell’italiano L2. Il bambino
non italofono frequenterà per un certo numero di ore settimanali (da 4 a 8 ore settimanali) lo “spazio laboratorio” – soprattutto durante le materie a forte carattere linguistico –
contando su materiali specifici e di qualità predisposti per
l’insegnamento della L2 (testi di diverso livello e per bambini di età diversa, supporti, materiali multimediali ) e seguirà in classe molti insegnamenti comuni.
3. Italiano per lo studio: facilitazione e testi semplificati
L’apprendimento dell’italiano per la comunicazione inter-
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personale richiede, in genere, tempi abbastanza rapidi (anche se molte sono le variabili individuali): imparare la lingua
per studiare, le microlingue delle diverse discipline, i concetti
e le astrazioni richiede invece tempi più lunghi e coinvolge
tutti i docenti della classe. Ognuno per la propria area disciplinare diventa così “facilitatore di apprendimento” e potrà adottare le molte e consuete forme della facilitazione
(supporti non verbali, ridondanza, operatività, metodo cooperativo…) e contare inoltre sui testi semplificati e ad alta
comprensibilità dal punto di vista linguistico che molti insegnanti hanno prodotto e diffuso in questi anni per rispondere ai bisogni degli alunni stranieri.
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4. Aiuto allo studio in tempo extrascolastico
Molte scuole coinvolgono i genitori e attivano i canali del volontariato presente nella zona per far sì che i bambini stranieri che necessitano di un aiuto allo studio in tempo extrascolastico possano essere accompagnati e sostenuti anche
fuori dalla scuola, dal momento che le famiglie spesso non
possono svolgere questo compito. Ci sono molte iniziative
in tal senso che rifanno della scuola un luogo vivo e cooperante, ricco di proposte e di azioni educative svolte in partneriato.
5. Adattamento del programma/piano personalizzato
Nei primi tempi dell’inserimento, l’alunno straniero deve poter contare, come recita la normativa, sul “necessario adattamento del programma” (DPR 394/1999 e Linee guida per l’accoglienza degli alunni stranieri, MIUR, febbraio 2006). Concretamente, che cosa significa? Significa che, per un certo periodo (primo quadrimestre) i contenuti del curricolo comune
possono essere ridotti a favore di un insegnamento intensivo dell’italiano L2. Questo può non valere per tutte le materie; in alcuni casi, infatti, alcune contenuti disciplinari potranno essere perfino più densi rispetto al programma della
classe (per esempio, per l’area logico-matematica ci possono essere alunni stranieri che hanno seguito un piano di studi più corposo nella scuola precedente; così come può succedere per le lingue straniere).
Naturalmente si tratta di una fase transitoria che permette
all’alunno neoarrivato di inserirsi in maniera graduale e gli
dà il tempo per “mettersi alla pari”.
6. Come valutare i progressi
La valutazione dei progressi e delle competenze dell’alunno
straniero deve naturalmente tener conto del programma personalizzato e dell’eventuale “adattamento del programma”.
Alcuni Paesi in Europa prevedono che si possa sospendere
la valutazione standard per gli alunni di recente immigrazione fino due anni dopo il loro arrivo.
Naturalmente le situazioni e le variabilità individuali devo-
no essere tenute in considerazione e questa “sospensione del
giudizio” può valere per alcune, e non per altre discipline; per
un alunno, ma non per un altro. I criteri importanti di cui tener conto sono, tra gli altri, il fatto che la valutazione valuta
il percorso effettivamente fatto (il piano personalizzato, il
“programma adattato”); che essa misura i progressi a partire da una determinata situazione di partenza e che bisogna
dare tempo a chi si trova a dover ricominciare da capo. Una
chiara indicazione nella normativa sulla valutazione degli
alunni neoarrivati, in cui si preveda di consentire (caso per
caso) un certo lasso di tempo prima di procedere alla valutazione standard, potrebbe finalmente ridurre le discrezionalità e i dubbi che ci sono in proposito fra gli insegnanti.
7. Relazione con le famiglie e mediazione linguistico-culturale
L’immigrazione ha cambiato la scuola, ma anche la scuola sta
cambiando fortemente l’immigrazione e soprattutto modifica profondamente le famiglie. Stabilire una buona relazione
con i genitori stranieri è importante per la scuola, per i bambini, per la famiglia stessa.
A volte i genitori possono sentirsi lontani dall’istituzione scolastica e rimanere in disparte e “sulla soglia” per varie ragioni:
linguistiche e di difficoltà di comprensione; legate a una rappresentazione della scuola e della relazione fra i due spazi
educativi più tradizionale e asimmetrica; problemi organizzativi e di mancanza di tempo… La scuola deve cercare di
promuovere modalità di incontro in cui i due partner educativi possano dialogare e migliorare le relazioni tra i due spazi anche contando sulla presenza dei mediatori linguisticoculturali, formali o informali, coinvolgendo anche genitori
stranieri inseriti da tempo che “accolgono” i nuovi genitori.
8. In classe, le relazioni fra bambini
Che succede dentro le classi sempre più colorate e variegate? La relazione fra pari che hanno origini, storie, tratti somatici, lingue… differenti è ancora tutta da esplorare per il
nostro Paese. Sicuramente fra i bambini passano e si sedimentano gli stereotipi, ma si stabiliscono anche giorno dopo giorno amicizie e vicinanze cruciali per il futuro delle generazioni a venire. Dobbiamo prestare attenzione alle modalità quotidiane dello stare insieme, alle “etichette” che vengono usate per escludere e separare, alle immagini reciproche che possono diventare rigide e stereotipate, alla gestione dei piccoli e grandi conflitti che possono diventare occasioni di scambio e di confronto.
9. Riconoscere e valorizzare le lingue d’origine
“Non sanno una parola di italiano…”: è una frase che avrete spesso sentito anche nella vostra scuola. Quasi mai, a questo si aggiunge che il bambino X parla, legge e scrive in ci-
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nese, arabo, russo, spagnolo... Passa così l’immagine che “chi
non sa l’italiano, non sa in assoluto” e che il bambino neoarrivato sia una sorta di tabula rasa da riempire con la nuova lingua, estirpando, se è possibile, l’idioma precedente.
Questa è un’immagine vecchia e negativa della condizione
bilingue. Compito privilegiato della scuola è certamente
quello di insegnare l’italiano di qualità, ma il riconoscimento e la valorizzazione delle lingue d’origine dei bambini stranieri sono la condizione per un buon apprendimento e rappresentano inoltre un’occasione importante di conoscenza e
di apertura sul mondo per tutti i bambini, che si possono
confrontare con la varietà e la ricchezza linguistica.
10. Sul piano cognitivo, sul piano affettivo: l’educazione
interculturale
Come abbiamo visto, in questi anni le azioni e i progetti delle scuole si sono concentrati in maniera specifica sui bisogni degli alunni stranieri e il tema dell’educazione interculturale è stato spesso confuso o assimilato ai dispositivi mirati per i bambini immigrati (accoglienza, italiano L2, mediazione linguistico-culturale…). In realtà, agire in senso interculturale sui saperi e le conoscenze, da un lato, e sugli atteggiamenti e le rappresentazioni, dall’altro – sul piano cognitivo e su quello affettivo – insegnando a tutti a vivere insieme nelle diversità, è l’orizzonte educativo comune, valido
sempre, anche quando una scuola o una classe sono ancora monoculturali e monolingui.
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DALL’INTEGRAZIONE ALL’INCLUSIONE. LA SFIDA
DELLA QUALITÀ EDUCATIVA PER TUTTI
La montagna ha una sola cima, ma ci sono tanti sentieri per
raggiungerla.
proverbio africano
Cari insegnanti, la sfida che abbiamo oggi davanti, dopo
vent’anni di pratiche di integrazione, è duplice: da un lato,
rendere ordinario, praticabile e facilmente accessibile il
patrimonio di esperienze, materiali e progetti che gli
insegnanti hanno prodotto in questo tempo, potendo così
continuare a lavorare, migliorare, sperimentare,
approfondire, senza dover più ripartire da capo.
Dall’altro lato, tuttavia si deve avere la consapevolezza che
una fase – quella della pedagogia specifica e di tipo “compensatorio”, fatta di azioni e di attenzioni destinate in maniera mirata agli alunni immigrati – rappresenta oggi una
risposta parziale – pur se ancora fortemente necessaria –
che considera una parte, ma non il tutto.
Si tratta di lavorare insieme per una scuola che:
• pone la qualità educativa per tutti come criterio base;
• insegna a diventare cittadini insieme, proponendo un orizzonte
comune, a partire da origini e storie differenti;
• coniuga l’unità e la comunanza con la diversità e la singolarità di ciascuno;
• riconosce valore alle lingue e ai riferimenti culturali degli altri.
Una scuola dunque che incorpora e fa proprie le buone pratiche di integrazione condotte in questi anni e rilancia un
progetto educativo di inclusione al fine di costruire le condizioni per una positiva convivenza fra uguali e diversi.
Voglio concludere questa lettera con un elogio e con una domanda rivolti agli insegnanti.
L’elogio è rivolto a tutti i docenti e agli operatori che hanno costruito in questi vent’anni le condizioni per una integrazione dei bambini stranieri, certo non sempre eccellente, ma spesso buona e adeguata. Sono state le loro fatiche
e la loro perseveranza ad avere fatto delle nostre scuole i
luoghi privilegiati del vivere insieme e ad avere sostenuto
nelle città la quotidiana multiculturalità di fatto, spesso in
assenza di chiari riferimenti nazionali e di un modello di
convivenza proposto in maniera esplicita.
Anzi, talvolta in condizioni di allarme sociale e di paura diffusa nei confronti degli “altri”.
E infine alcune domande che vorrei porre a ciascun insegnante e alle scuole, in generale.
Che cosa abbiamo imparato in questi vent’anni di pratiche di integrazione? Che cosa ha imparato la scuola dalla multiculturalità di fatto che la abita e la pervade?
Possiamo articolare la domanda, ponendoci quesiti più mirati, quali, per esempio:
Che cosa ha acquisito la scuola, in termini didattici e relazionali? E culturali e linguistici?
Accostandosi con più attenzione all’insegnamento della nostra lingua, diventata nel frattempo seconda lingua, quali
consapevolezze e scoperte abbiamo fatto?
E il plurilinguismo presente in classe, quali curiosità e aperture ha prodotto?
Quali riflessioni e cambiamenti possiamo trarre dalle relazioni fra bambini e adulti che hanno origini e storie differenti?
Dalle risposte a queste e altre domande – occasioni e stimoli per continuare a dialogare e confrontarci – possiamo
ripartire, fermandoci prima un po’ a riflettere sul cammino
fatto e sui cambiamenti che abbiamo attraversato/che ci
hanno attraversato.
A tutti, buon lavoro di integrazione e di inclusione.
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Graziella Favaro
pedagogista, Centro COME Milano, coordinatore
scientifico di “Sesamo didattica interculturale”
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CANDELARIA ROMERO
[email protected] - http://www.operaidelcuore.it/romero/romero.htm
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Identità multicolori
Mia Lecomte, poeta, francese residente a Roma,
quando parla della migrazione usa a volte l’espressione landscape ed inscape; in inglese paesaggio (landscape) ed inscape, che sarebbe come il paesaggio
che abbiamo dentro. Tutti noi abbiamo un paesaggio
che ci circonda e poi abbiamo un mondo interiore, un
paesaggio interiore. Capita però a volte che il paesaggio fuori, il landscape non coincida con il paesaggio dentro di noi, l’inscape. Capita, ad esempio, di
sentire delle cose, di vivere degli eventi che suscitano
in noi emozioni oppure abbiamo dei ricordi di paesaggi vissuti, che però non ritroviamo più fuori.
Non coincidono i due paesaggi, quello dentro con
quello fuori.
Capita, è capitato a me, soprattutto nell’adolescenza,
di vivere in un mondo tutto mio, un mondo interiore,
che non c’entrava nulla con il mondo fuori. Il mondo
interiore non aveva nulla che fare per esempio con il
mondo degli adulti. Non coincidevano per niente i due
mondi, quindi non mi sentivo capita, creduta ed ascoltata. E questo mio malessere mi escludeva dal mondo
esteriore, mi isolava. Questa sensazione l’hanno vissuta in tanti.
Sono nata nel ‘73 in Argentina, ho vissuto l’inizio della
dittatura militare che fu nel ‘75. All’età di tre anni
siamo fuggiti con mia famiglia per la Bolivia. Nel ‘79
una dittatura militare colpì la Bolivia. Siamo finiti come
rifugiati politici in Svezia. Senz’altro dentro di me
c’erano molti paesaggi, quello Argentino, quello Boliviano e poi il paesaggio fuori che a sei anni fu quello
svedese. Immaginatevi i paesaggi interiori delle Ande
argentine, della giungla boliviana assieme al paesaggio esterno ora candido, freddo di Stoccolma. Bello!
Tutto molto esotico. Molti paesaggi quindi da tener a
bada. Ma voi direte, i paesaggi dentro sono solo paesaggi interiori, ricordi. Credo invece che un paesaggio
interiore non sia meno vero che quello esteriore. Andiamo a dire ad un adolescente, ad una qualsiasi persona, che quello che sente dentro non è vero, che i
ricordi, i colori che custodisce dentro di sé non sono
reali. Il mondo dentro e quello fuori sono in ugual
modo reali. Questa è la realtà. Emozioni, sogni, ricordi
sono reali, sono realtà.
Mahmud Darwish, poeta palestinese, nel suo libro
Murale edito da Epoché (Milano), ce lo ricorda
quando dice che “il reale è la conferma dell’immaginario”. L’immaginario è un paesaggio altrettanto importante come il paesaggio fuori. Con questi due
paesaggi, quello dentro e quello fuori, dobbiamo
saper convivere, lo dobbiamo fare, non possiamo cancellare il mondo che abbiamo dentro. Sarebbe facile
cancellare il mondo dentro e così finalmente vivere in
un paesaggio unico. Senza problemi! Coinciderebbe
tutto. Ma non funzionerebbe mai. Qualcuno pensa
che l’integrazione del migrante sia questo; cancellare
il paesaggio che sta dentro la persona migrante, cancellare le sue radici, sbiadire i colori che porta appresso e vivere così nel mondo che lo accoglie
pienamente integrato. Il problema è che questi colori
che portiamo dentro non li governiamo sempre noi e
non si stingono facilmente. La memoria, le nostre
emozioni, i ricordi saranno sempre lì, anche se facciamo tutto il possibile per dimenticarle o anche
quando gli altri fanno il possibile per non ascoltarle.
Saranno sempre lì per ricordarci che facciamo parte di
più mondi. Ma come si fa allora? Come vivere con più
mondi? Come far coincidere i mondi dentro con
quello fuori. Dobbiamo farli coincidere? Dobbiamo
sbiadirne un paesaggio perché non sia troppo ingombrante verso l’altro? O dobbiamo magari chiuderci
dentro nel nostro paesaggio interiore ed escludere
quello fuori? O possiamo magari in qualche modo vivere tutte e due i paesaggi contemporaneamente? È
possibile? Come ci si deve muovere per fare questo?
Come potrebbe essere questa danza del corpo che si
muove da un paesaggio all’altro, dentro e fuori contemporaneamente. Certamente vivere in un mondo
dove si tende ad escludere più che includere, dove si
tende a respingere più che accogliere, non facilità di
certo un processo di questo genere così dinamico. La
convivenza con più mondi non è mai statica ma dinamica. La convivenza con più mondi è rischiosa senza
troppe certezze, ci si muove in continuazione tra un
mondo e l’altro ed il movimento è vita, la vita con tutti
i suoi rischi.
Io, i più mondi, li ho sempre vissuti, fin dall’inizio,
anche prima della mia prima migrazione, c’erano tanti
mondi, un casino di mondi, ad iniziare con la mia famiglia; io mi chiamo Candelaria, e già li, in Svezia, fate
pronunciare bene “Candelaria” ad uno svedese.
Hanno finito per chiamarmi Cando. Mia sorella che si
chiama Jimena, ha dirittura cambiato nome, si è fatta
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chiamare Maria. Ha cancellato il suo nome – paesaggio per farlo coincidere con il paesaggio fuori.
Ma torniamo a prima, dicevo; già prima di vivere la
migrazione, vivevamo, all’interno della mia famiglia
mondi diversi.
Sono figlia di Mario Romero, scrittore, poeta; un mestiere un po’ diverso, era di origine molto povera, nero
di pelle, perché di origine indio, guarany e quindi discriminato nel suo Paese d’origine. Dunque; padre
poeta, nero, indio, povero, ateo e per giunta comunista. E già qui abbiamo diversi mondi.
Poi sono anche figlia di Marisa Villagra, poeta pure lei,
bianca, bianchissima, con gli occhi verdi, di famiglia
borghese, professoressa universitaria, catechista nell’azione cattolica degli anni ‘70 in Argentina. Anche
qui, altri mondi. Entrambi i miei genitori erano nati in
Argentina, nella stessa città ma come vedete provenienti da mondi completamente diversi tra di loro, con
qualche cosa in comune come per esempio la poesia.
Sono nata in Argentina anche io, quindi vissuta in Bolivia, poi in Svezia ed infine da 17 lunghi anni vivo a
Bergamo, nella città delle montagne, Berg Hem.
A Bergamo ho conosciuto mio marito Paolo, nato a
Bergamo, ma di origini veneto–toscano–pugliesi, dal
quale matrimonio sono nati Leandro e Naira. Entrambi
facciamo teatro e poi si continua con la tradizione di
famiglia, con la poesia.
Mio padre diceva sempre, essere un poeta non vuol
dire per forza essere sempre tristi o sentirsi fuori dal
mondo. Anzi, la poesia, secondo lui aiutava ad affrontare meglio il mondo.
La poesia infatti è stata per la nostra famiglia, quella
cosa che ha permesso di avvicinare tutti i mondi, i
paesaggi, quelli dentro con quelle fuori. Parliamo di
poesia ma potremo dire arte, danza, sport, insomma;
una qualsiasi passione purché creativa e quindi sana.
L’arte è stata come un ponte che ha permesso di legare i molteplici paesaggi e quindi in ogni momento,
ogni qualvolta lo si desiderasse, passare da un paesaggio all’altro, da quello dentro a quello fuori.
L’arte è diventata un ponte tra un mondo e l’altro.
In tal senso, vi leggo la prima poesia che scrissi all’età
di sette anni appena arrivata come esiliata politica in
Svezia.
Il mio viaggio in Svezia
Quando arrivai in Svezia
mi sembrò molto bella
mi sembrò come se avessi viaggiato ad un altro pianeta.
Guardai fuori dalla finestra
e vidi tutto bianco,
bianco come un cartoncino bianco
sul quale bisognava disegnare bambini che giocavano
con la neve.
Uscii per giocare con qualcuno
ma nessuno mi capiva.
Allora disegnai tanti bambini
che giocavano con me.
L’arte è comunicazione. Attraverso colori, forme,
suoni, movimenti, comunichiamo qualcosa. L’arte non
è chiudersi dentro in un mondo estraneo, non è di
èlite, per poche persone addetti che ti capiscono, non
è come molti pensano, emarginarsi ancor di più dal
mondo, beh, lo potrebbe diventare, un rifugio,
un’esclusione, un allontanarsi dal mondo. L’arte invece, se lo si vuole, mette in comunicazione la gente.
E poi è un gioco. Un gioco a volte serio ma anche no.
Attraverso la poesia per esempio si gioca, con le parole, magari sbagliando, perché può darsi che per te
sia una nuova lingua (tanto se sbagli c’è la licenza poetica!).
Appena arrivata in Svezia in miei genitori proposero all’ufficio scolastico della città un laboratorio artistico
per il mantenimento della madre lingua. Un laboratorio dove attraverso l’arte, il teatro, la scrittura creativa
e la costruzione di burattini, ci si allenava a mantenere
viva la propria madre lingua. Nel nostro caso lo spagnolo. Il laboratorio durò tutto un anno scolastico,
nelle aule della scuola, eravamo una decina di ragazze
e ragazzi che al pomeriggio per circa tre ore settimanali ci si trovava a giocare in spagnolo. I miei genitori,
al momento, non erano probabilmente così preoccupati nel doverci inserire in un mondo nuovo o in ansia
per la nuova lingua che si doveva imparare. Certo,
c’era da faticare, ma non c’era tutta questa paura del
nuovo, anzi, quel nuovo era qualcosa di eccitante. La
preoccupazione semmai era quella di non catapultare
di colpo dei bambini, delle persone umane, in qualcosa di nuovo senza dimenticare ciò che finora era
stato il loro mondo, senza dimenticare o cancellare i
propri colori dentro. Come faccio ad entrare in un
nuovo mondo, come mi presento se non con i miei colori. Non posso entrare in un nuovo paesaggio ed es-
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sere nulla di tutto ciò che sono stata finora. I colori che
ho dentro devono in qualche modo splendere ancora,
e devono poter uscire alla scoperta senza paura di non
essere capiti o ascoltati. Cito ancora Darwish che dice
“ogni volta che ho cercato me stesso, ho trovato gli
altri. Ogni volta che li ho cercati, in loro non ho trovato che me stesso straniero. Che io sia il singolo –
moltitudine?” ancora dal suo libro Murale.
Non è facile far risplendere i propri colori nella moltitudine. Abbiamo paura. E gli altri hanno paura. Hanno
paura del diverso. La paura del diverso diventa razzismo, diventa discriminazione. La paura diventa solitudine, violenza, ignoranza. La paura anche diventa
bullismo, anoressia e quant’altro.
Mio padre diceva sempre; la paura è una smorfia allo
specchio. La paura è la tua immagine allo specchio ma
deformata.
© 2009 convegno A scuola nessuno è straniero – Firenze 9 ottobre 2009
Immigrata senza voto
Mi aggiro rotonda
nella città quadrata
spigoli arrestano il fiato
riconosco che non vuoi vedermi
non vuoi baciarmi
no mirarme no besarme
invece baciami
besame mucho
per quello che sono
per quello che tu non sei in me.
A volte nemmeno con tutte le forze interiori del
mondo, nemmeno con l’arte è possibile far avvicinare
i diversi paesaggi interiori, esteriori, a volte nemmeno
con la poesia ci riusciamo. Ricorderò sempre mio
padre, all’inizio del nostro esilio svedese. Lui scriveva
poesie in spagnolo e quindi mettersi a 40 anni a scrivere poesie in svedese non fu mai una cosa scontata.
Un giorno ricordo averlo visto piangere, come un bambino, era in cucina, davanti al lavandino, curvo sopra
un falò. Fiammate invadevano piatti e bicchieri ed in
mezzo a tutto quel fumo le sue poesie, che prendevano fuoco. Lui piangeva dicendo che tutto era inutile. Tutto inutile, che le sue poesie non servivano a
niente. Mia madre, vista la drammaticità dei fatti ci
portò nella nostra stanza e a bassa voce, con un pizzico di orgoglio nello sguardo ci disse: “state tranquille
ragazze, lui sta bruciando le sue poesie ma non sa che
io le ho fotocopiate tutte!”.
Che cosa aveva portato mio padre a compiere un
gesto così estremo? Perché lo aveva fatto? Credo, la
solitudine. Anche in mezzo a tutte queste poesie si era
sentito solo. Dobbiamo smettere di pensare che possiamo farcela da soli. È vero, viviamo in un mondo
dove ci viene detto di essere autonomi, devi contare
sulle tue forze, non devi dipendere da nessuno, devi
arrangiarti da solo, meglio soli che mal accompagnati,
chi fa da se fa per tre.
Ora possiamo più che mai farcela da soli, lo crediamo,
perché abbiamo ognuno un cellulare, un PC, navighiamo dappertutto, da soli, nel web, abbiamo macchine, TV, addirittura una TV in ogni stanza della
propria casa in modo da poter stare da soli a vedere un
film. Soli. In realtà è vero; noi siamo soli, come diceva
il poeta Salvatore Quasimodo, pure lui un migrante
con tanti paesaggi dentro e fuori, siciliano migrato a
Milano: “Ognuno sta solo sul cuor della terra trafitto
da un raggio di sole: ed è subito sera”.
È vero. Siamo soli, ma non sempre. Non sono convinta,
ad esempio, che si nasce soli o che si muore soli come
molti dicono; soli di fronte alla morte. Per iniziare mi
sono fatta un mazzo così nel far nascere i miei due
figli, spingendo come una furia, io e loro siamo nati
assieme. Loro sono nati da un mondo dentro al mondo
fuori ed io sono nata una seconda volta, sono nata
madre. Intanto quando è morto mio padre ero lì, l’ho
baciato, ho cosparso il suo corpo di olio e l’ho vestito
per il funerale. Lui non era solo. Non siamo sempre soli
ma ci si può sentire smarriti. Ci si può sentire smarriti
come in un labirinto ma non si è mai del tutto soli. Il
mondo è pieno di persone, attorno a noi, vicine, lontane. C’è sempre gente e qualcuno di loro, qualcuno
di queste persone sono pure persone che di lavoro aiutano altre persone. Parlo di psicologi, medici, psichiatri, tutor, consulenti famigliari, mediatori culturali. In
questo continuo muoversi tra paesaggi, mondi diversi,
sensazioni, viaggi, tragedie e gioie non siamo completamente soli, ci sono gli altri e gli altri possono esserci
d’aiuto.
E qui ricordo Laura Boella, professore ordinario di Filosofia morale presso il Dipartimento di Filosofia dell’Università Statale di Milano, curatrice e scrittrice di
numerosi saggi, in una sua meravigliosa relazione che
fece al convegno organizzato dal Centro di Educazione
alla Mondialità di Brescia tenutosi ad agosto di quest’anno a San Marino, dove ci ha ricordato a tutti dell’importanza del correre assieme, basta stare soli,
almeno in due si corre se non in più, ci ha detto, e questo è soprattutto un messaggio alle donne, alle giovane donne, non correte da sole. Ora è più che mai
importante non correre da soli.
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Quando chiam ai Alex perché mi ero persa
Ad una certa ora è l’ora dei pazzi
dei dispersi
dei confusi
dei senza orari
l’ora del treno sbagliato
preso per chissà quale ragione
stazione sconosciuta nell’ora della direzione opposta
ad una certa ora è l’ora dei disoccupati i senza terra i
drogati ed io qui
in cammino verso
parole orme sbagliate
l’ira
le ore perdute
in cammino
come me.
Rifugio
Una freccia può odiarmi
raccogliere le orme fino a ciò che chiamo rifugio
entrare
uccidermi nuovamente
immobile sarà l’oscurità
come l’attesa
il ricordo apre cammino al sole
parlo attraverso quella finestra.
© 2009 convegno A scuola nessuno è straniero – Firenze 9 ottobre 2009
Infine, la poesia come strumento per salvaguardare ciò
che di più bello può sbocciare anche nei momenti più
bui. Non è questione solo di resistere nella vita.
“Resistere, resistere, resistere”, disse qualcuno anni fa.
Lo si fa anche ma oggi più che resistenza bisogna parlare di resilienza. Cos’è la resilienza? È una parola che
nel linguaggio tecnico meccanico indica quell’ele-
mento, un pezzo di ferro, ad esempio, che nel ricevere
una forte botta, un trauma, non si spezza ma si piega.
Un’altra metafora per spiegare la resilienza: l’ostrica
che da un granello di sabbia fa nascere una perla o ancora, l’albero che viene ferito, maltrattato, non muore
ma continua a crescere attorno alla ferita, magari
prendendo altre forme. La poesia è resilienza. L’arte è
resilienza. L’arte custodisce in sé il processo della resilienza. La poesia salvaguarda la bellezza delle cose
anche nei momenti più difficili.
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LINGUE IMMIGRATE,
ITALIANO DI CONTATTO
di MASSIMO VEDOVELLI
Il 9 ottobre si svolge a Firenze il
convegno “A scuola nessuno è
straniero. Il tempo
dell’inclusione”, organizzato dalla
Regione Toscana in
collaborazione con Giunti Scuola
e le riviste “La Vita Scolastica”,
“Scuola dell’infanzia” e “Sesamo”.
Ringraziamo Massimo Vedovelli
per averci concesso
un’anticipazione della sua
relazione.
Cartellone
pubblicitario
in lingua rumena.
20
E
ntro l’Università per Stranieri di Siena
nel 2001 è stato istituito dal MIUR –
Ministero dell’Istruzione, Università e
Ricerca – il Centro di eccellenza della ricerca Osservatorio linguistico permanente dell’italiano diffuso fra stranieri e delle lingue immigrate in Italia: esso ha il compito di monitorare i
pubblici stranieri e le loro motivazioni all’apprendimento dell’italiano, nonché le dinamiche
che riguardano la posizione della nostra lingua
entro il mercato delle lingue (Calvet, 2002) ed
entro il nuovo ordine linguistico globale (Maurais, 2003). Tra le linee di ricerca del Centro senese hanno particolare rilievo quelle che indagano la presenza delle lingue immigrate in Italia e le dinamiche di contatto tra tali lingue e l’i-
LA VITA SCOLASTICA / n. 3 / 2009
taliano a seguito dei processi migratori
che interessano l’Italia da alcuni decenni.
In questa sede non ripercorriamo le vicende delle ricerche di linguistica sui
processi di apprendimento della L2 in
contesto migratorio, (per le quali rimandiamo a Vedovelli, 2000), se non
per sottolineare che da subito la ricerca
teorica e applicata di linguistica ha risposto
alla primaria esigenza degli immigrati di apprendere la lingua della nuova comunità in
cui si trova. Sempre più evidente e forte appare, però, l’esigenza di aggiungere a questa
un’altra prospettiva, ovvero quella che si chiede quale sia il destino delle lingue di origine
degli immigrati nel momento in cui entrano
nel nuovo spazio linguistico italiano e quali
effetti ne conseguano su quest’ultimo.
LINGUE DEI MIGRANTI
E LINGUE IMMIGRATE
I due diversi concetti di “lingua dei migranti” e
di “lingue immigrate” appaiono decisivi per
comprendere la natura e gli effetti dell’interazione fra il nuovo plurilinguismo e lo spazio
CONVEGNO NAZIONALE
A SCUOLA NESSUNO È STRANIERO
idiomatico di accoglienza (Bagna, Machetti,
Vedovelli, 2003; Bagna, Barni, Siebetcheu,
2004). Innanzitutto, essi rimandano alla capacità e al grado di radicamento che un gruppo
immigrato ha entro una comunità locale: rapporti quantitativi, livello di integrazione, mobilità migratoria, vitalità autonoma del gruppo immigrato, pressione della comunità ecc.
Le conseguenze linguistiche sono evidenti: le
lingue dei migranti sono idiomi di passaggio,
incapaci di lasciare segni durevoli nel panorama linguistico della società ospite; le lingue
immigrate, invece, sono quelle dei gruppi che
si stabiliscono entro una comunità, sono usate sistematicamente dagli immigrati, lasciano
tracce nel panorama linguistico urbano. Nella
società ospite entrano scritte, insegne, avvisi,
annunci in alfabeti diversi da quello latino,
nuovi suoni. In alcuni casi, la scuola si impegna nell’accoglienza delle lingue degli immigrati e dei loro figli; sempre più frequentemente i nativi italiani cercano di accostarsi a
tali nuove forme di identità per apprenderle.
Sin dalle prime fasi dei movimenti di immigrazione verso l’Italia, alla metà degli anni ’70,
essi si sono caratterizzati per il tratto della
permanenza stabile o comunque di lungo periodo. I ricongiungimenti familiari e la scolarizzazione dei figli hanno ulteriormente contribuito a rafforzare il radicamento dei migranti entro le comunità locali. I dossier statistici della Caritas confermano anno dopo anno tale spinta al radicamento. Rimane da valutare il risultato linguistico di tale radicamento: il grado di fedeltà alla propria lingua di origine; la capacità di esibire socialmente gli usi
linguistici d’origine; la forza di negoziazione a
livello sociale e istituzionale (soprattutto scolastico) circa l’inserimento e l’accettazione
della lingua d’origine entro la comunità ospite; il grado di coesione anche linguistica, ma
soprattutto culturale e sociale, di quest’ultima. Diventa quasi obbligato il mutamento di
riferimenti nella definizione dell’oggetto della
ricerca linguistica in contesto migratorio, che,
dalla diffusione dell’italiano fra gli stranieri
immigrati, diventa l’italiano e le altre lingue
in contatto. Lo strumento e il suo fine principale diventa, allora, la mappatura geolinguistica del nuovo plurilinguismo della penisola,
in diversi contesti e anche nella scuola, sulla
scia del lavoro di Baker e Eversley (2000), e attuando un costante monitoraggio delle dinamiche sociolinguistiche, con il necessario appoggio su metodiche capaci di acquisire dati
su larga scala e insieme qualitativi.
IL RUOLO DELLA SCUOLA
Il ruolo che la scuola gioca in tali processi è di
grande rilevanza: la spinta all’italianizzazione
vede nel contesto formativo la sua sede formalizzata, dove adulti e bambini vivono la
condivisione dell’impadronirsi dell’italiano
anche nelle sue forme scritte. Il grado di accoglienza delle lingue degli immigrati nel contesto scolastico, oltre ad avere un valore simbolico in rapporto alla motivazione al mantenimento dell’identità originaria, ha una diretta
implicazione sul loro mantenimento effettivo
in termini di competenza e di uso. L’italiano,
all’interno soprattutto dei contesti formativi,
diventa allora per le prime e seconde generazioni di immigrati un elemento di uno spazio
di contatto idiomatico entro il quale costruire
la propria identità multipla; in questo modo
esso assume sempre più nettamente i tratti
della lingua di contatto e identitaria.
Massimo Vedovelli
Università per Stranieri di Siena
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
• C. Bagna, M. Barni, R. Siebetcheu, Toscane favelle. Lingue immigrate
nella provincia di Siena, Guerra, Perugia 2004.
• C. Bagna, S. Machetti, M. Vedovelli, Italiano e lingue immigrate: verso un plurilinguismo consapevole o verso varietà di contatto? In: A.
Valentini, P. Molinelli, P.L. Cuzzolin, G. Bernini (a cura di), Ecologia linguistica. Atti del XXXVI congresso internazionale di studi della Società di Linguistica Italiana, Bergamo, 26-28 settembre 2002, Bulzoni, Roma 2003, pp. 201-222.
• M. Baker, Ph. Eversley (Eds.), Multilingual capital, Battlebridge, London 2000.
• L.-J. Calvet, Le marché aux langues, Plon, Paris 2002.
• J. Maurais, Towards a new linguistic order? In: J. Maurais, M.A. Morris (Eds.), Languages in a globalising world, Cambridge University
Press, Cambridge 2003.
• M. Vedovelli, La dimensione linguistica nell’immigrazione straniera
in Italia: una ricognizione e una bibliografia ragionata,“Studi Emigrazione” XXXVII, n. 140, 2000, pp. 905-928.
LA VITA SCOLASTICA / n. 3 / 2009
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