LE SCIENZE NATURALI NELLA SCUOLA
Bollettino dell’A.N.I.S.N.
Associazione Nazionale
Insegnanti di
Scienze Naturali
Evoluzione tra ricerca e
didattica
Scuola estiva Anisn
Viareggio Palazzo delle Muse
26 - 31 luglio 2004
periodico semestrale
anno XIV n. speciale - maggio 2005
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Direttore Responsabile: Eri Manelli
Registrazione n. 4302 del Tribunale di Napoli del 30/06/92
Comitato di Redazione
Sofia Sica (Caporedattore)
Per il presente numero: Franca Cosci, Maria Luisa D’Eugenio, Nori Domenichini,
Vincenzo Terreni
Direzione
Sede di Zoologia Federico Raffaele
Dipartimento di Biologia animale e dell’uomo
Viale dell’Università, 32 - 00185 Roma tel. 06-49914749
[email protected]
Redazione
c/o Società Naturalisti - Via Mezzocannone, 8 - 80134 Napoli
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L’immagine di copertina è opera degli studenti del Liceo Artistico di Lucca
Si ringrazia l’Assessorato alla Pubblica Istruzione della Provincia di Lucca per il
concreto aiuto che ha reso possibile lo svolgimento del seminario e la pubblicazione
degli atti.
© ANISN
Anno XIV - Numero speciale
Abbonamento annuo: per l’Italia • 20,00; per l’estero • 30,00
Costo di un fascicolo: per l’Italia • 10,00; per l’estero • 15,00
Tutti i diritti sono riservati. nessuna parte di questa publicazione può essere tradotta,
riprodotta, copiata o trasmessa senza l’autorizzazione dell’Editore.
Periodico iscritto all’Unione Stampa Periodica Italiana
La rivista viene inviata gratuitamente ai soci Anisn
STAMPERIA EDITORIALE PISANA
S. R. L. via delle Sorgenti, 81 56010 AGNANO
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PISANO
(PISA)
Darwin è tornato
Quando in Italia l’ansia riformista e revisionista dell’attuale Ministero dell’Istruzione
(non più Pubblica) ha cercato di cancellare dai programmi scolastici le teorie
sull’Evoluzionismo, tra scienziati, mondo della scuola e della cultura, si è creata una
sinergia, un fermento che è sfociato in prese di posizione singole e collettive tese ad
evitare lo scempio, riuscendo a far fare al Ministero un passo indietro.
In quelle fasi di animoso confronto l’ANISN ha fatto una scelta coraggiosa e di più
lunga durata: ha dedicato a questo tema, alla sua evoluzione storica, al dibattito
scientifico una settimana di lavori, un vero e proprio aggiornamento per gli insegnanti.
L’Amministrazione provinciale di Lucca ha collaborato alla realizzazione dell’iniziativa
ed ho personalmente partecipato all’apertura dei lavori, convinta che sono occasioni
come queste la più forte risposta a chi pensa di riscrivere con tanta facilità i contenuti
dei manuali scolastici, ma la cosa che mi ha sorpreso maggiormente è stata il fatto di
trovare un gruppo di insegnanti che, ad anno scolastico finito, decidono di dedicare
altre energie per approfondire e confrontarsi, per chiudersi ancora una volta in aula,
benché collocata nella splendida Viareggio.
L’esito è rappresentato sicuramente da questi Atti, rivolti in primo luogo a chi non ha
potuto partecipare, non solo agli insegnanti ma anche a quegli studenti appassionati di
temi scientifici che vorremmo veder tornare ad iscriversi alle facoltà universitarie in cui
si sviluppano queste competenze.
La pubblicazione rappresenta perciò un punto di arrivo ed un nuovo punto di
partenza, una base per proseguire il dibattito, per approfondire i temi proposti.
Per tutto questo desidero rivolgere all’ANISN ed al suo Presidente, il prof. Vincenzo
Terreni, un ringraziamento non formale e l’incoraggiamento a proseguire nell’ordinario quotidiano impegno che distingue l’associazione.
Cecilia Carmassi
Assessora alla Pubblica Istruzione Provincia di Lucca
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Dalla parte della cultura
V INCENZO T ERRENI
Darwin, nonostante una vita schiva e ritirata con contatti esterni mediati da altri, ha
mantenuto sempre un atteggiamento altamente prudente sulle interpretazioni non
scientifiche della sua teoria e di netto rifiuto dei tentativi di strumentalizzazione.
A distanza di tanto tempo è sempre difficile conservare la calma e la serenità di giudizio
sul tema della teoria dell’evoluzione dei viventi: un argomento utilizzato da troppi
come emblematico di una visione materialista del mondo da contrapporsi ad una
spiritualista.
L’anno scorso a Milano si è svolta la “Settimana antievoluzionista” con dibattiti e
manifestazioni concluse con una particolarmente rilevante dal titolo “Evoluzione, una
favola per bambini”. L’iniziativa venne, più che appoggiata, promossa da un
autorevole esponente di un partito dell’attuale Governo.
S. J. Gould ha raccontato in molti dei suoi saggi di quanta fatica avesse durato per
ridare, in alcuni Stati dell’Unione, un posto nei libri di testo riservato all’Evoluzione:
a molti di noi sembravano cose d’Olteoceano, lontanissime per cultura dalla nostra
ormai aperta e tollerante, credevamo di essere al sicuro da attacchi di questo genere.
Poi, tra la disattenzione generale dei cittadini e quella colpevole degli intellettuali, sono
usciti i nuovi programmi per la Scuola primaria e secondaria di primo grado
(elementari e medie): “Indicazioni nazionali per i piani di studio personalizzati”. Il
Ministero chiese un parere alle Associazioni professionali dei docenti su questa fatica
condotta da pochissimi in modo quasi nascosto ed anonimo. Con una lettera del 4
aprile 2003 il MIUR poneva scadenze molto strette per la formulazione dei pareri che
dovevano essere inviati al Ministero entro il 30 dello stesso mese. La scadenza è stata
rispettata e i pareri espressi sono stati raccolti dal Forum delle Associazioni professionali dei docenti con sede a Bologna nel volume: “Indicazioni nazionali e profili
educativi. Pareri e commenti delle Associazioni disciplinari sui documenti per il primo
ciclo dell’istruzione” del novembre del 2003. I pareri non sono lusinghieri, spesso sono
molto negativi, un dato li accomuna: nessuno ha ricevuto risposta.
L’Anisn non poteva che manifestare stupore e, dopo un esame puntuale, conclude così
la sua nota inviata al Ministero dell’Istruzione: “Di ambiente o ecosistema non si parla
più negli ultimi anni né di fenomeni di adattamento. Tanto meno di evoluzione: è
chiaro che questo argomento nella scuola elementare rischia di essere molto banalizzato, dal momento che l’idea di tempo, le conoscenze dei meccanismi genetici, l’idea
di specie sono ancora troppo abbozzate, ma la sua assenza crea sospetti; inoltre è quasi
impossibile non affrontare il discorso con i bambini che attraverso i vari mezzi di
comunicazione comunque vengono informati.” Questo parere era preceduto dal
documento comune delle Associazioni di discipline scientifiche (Scienze Naturali,
Fisica e Chimica) che tratteggiava un quadro di riferimento preciso per un curricolo
di Scienze sperimentali nel primo ciclo di istruzione che risulti didatticamente e
culturalmente sensato ed efficace.
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All’inizio dell’anno nuovo (2004) cominciarono i primi articoli sui giornali sulla
“scomparsa” di Darwin dalla scuola. Intervennero i grossi calibri dell’Università e della
Ricerca che si erano finalmente accorti dei guasti avvenuti a danno della scuola in un
ambito di grande delicatezza come quello della formazione scientifica. Naturalmente
i giornalisti fecero la loro parte, quella di enfatizzare gli aspetti più appariscenti
tralasciando il fatto che i programmi, indipendentemente da Darwin, erano da rifiutare
per un’infinità di motivi. Inoltre è rimasto in ombra un fatto determinante per una
discussione seria: Darwin e la sua teoria evolutiva erano, sono e rimarranno un tema
da non trattare specificamente nella scuola cosiddetta dell’obbligo.
Non è che i programmi siano inadeguati perché manca l’Evoluzione: sono inadeguati
anche perché manca ogni idea evolutiva: sia in Biologia che in Geologia. Anche
l’Astronomia viene proposta alle medie attraverso un percorso storico (molto
sbilanciato) che tradisce quasi un rifiuto dell’osservazione diretta.
Il dibattito si è quasi immediatamente infiammato su “Darwin sì o Darwin no”,
perdendo di vista che si tratta del primo ordine di scuola, ordine in cui si rende
necessaria una metodologia di lavoro completamente diversa da quella che emerge dai
nuovi programmi. Insomma una discussione che poteva essere seria e costruttiva su
come impostare l’insegnamento scientifico nella scuola del futuro si è trasformata in
una sorta di partita di calcio tra due schieramenti che pensavano più a fare gol che ad
analizzare con pacatezza una situazione di inadeguatezza che ha radici lontane e
responsabilità diffuse. La scomparsa di ogni idea evolutiva e del dinamismo della
materia è stata presentata come una acquisizione di una nuova forma di libertà e di
pluralismo ed è stata presa come una provocazione! In questo modo si è persa
definitivamente l’occasione di avviare un dialogo sull’efficienza del nostro sistema
formativo che non si scolla mai dalla posizione di coda in ambito internazionale. La
discussione si è poi arrestata del tutto in occasione della promessa televisiva, fatta dal
Ministro, di una commissione di premi Nobel che si sarebbero dedicati alla revisione
dei programmi di Scienze. Per quel che è trapelato, la Commissione si è riunita una sola
volta su convocazione del Ministro, poi si è tentato un altro incontro con un paio di
scienziati rimasti che hanno cercato aiuto all’esterno perché loro proprio di scuola non
se ne intendono!
Occorre riprendere con forza e pazienza la discussione su cosa deve dare la scuola ai
nostri giovani: se vogliamo trasformare l’Italia in una società popolata da pochi laureati
quasi tutti in discipline giuridiche o letterarie, allora va bene così, ma se c’è ancora chi
pensa che la cultura sia un bene in sé e che non c’è cultura senza una adeguata
conoscenza in campo scientifico, allora la riflessione deve essere più profonda e serrata
a costo di affrontare argomenti dolorosi anche per coloro che si considerano
progressisti. Il nostro Paese è ormai ai margini della ricerca scientifica di base e applicata
e non riesce a trovare la forza di uscire da una situazione di grande difficoltà: meno
la ricerca viene finanziata, meno produce attirando ancora minori finanziamenti: così
si rischia l’implosione del sistema e anche la fine dell’insegnamento universitario. Le
prime avvisaglie sono lontane nel tempo, il sistema si è mantenuto per alcuni decenni
per poi avviarsi ad un declino quasi inarrestabile negli ultimi anni: i laureati in Fisica e
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Chimica sono calati in modo impressionante, quelli in Biologia si mantengono
artificiosamente perché sostenuti dai miraggi delle biotecnologie che non trovano
riscontri lavorativi nel nostro Paese e che fanno considerare questi nuovi indirizzi di
studio una vera e propria truffa nei confronti degli studenti nell’immediato, che si
rivolgerà contro il sistema stesso tra pochi anni.
Il problema oggi non è solo quello del mantenimento della qualità di minimo decoro
nella Scuola di Stato, ma quello, ben più grave, del recupero culturale del nostro Paese
che si sta avviando verso un analfabetismo molto moderno, ma non meno pericoloso
di quello tradizionale. E’ necessario uscire, e farlo in fretta, dallo scontro tra chi, in nome
di una presunta libertà e pluralismo, rivendica il diritto di mettere sullo stesso piano
autentiche sciocchezze e teorie consolidate e chi, dall’altra parte, si limita a scontri
verbali di breve respiro e di scarsa utilità volgendo lo sguardo ad un passato in cui le
cose andavano forse meglio di ora, ma non abbastanza per collocare l’Italia nel novero
dei Paesi più acculturati del mondo. L’Italia ha una caratteristica che la rende unica:
quella di voler mantenere -qualcuno addirittura pretende di far credere di espandereil proprio tenore di vita senza adeguati investimenti nella ricerca pubblica e con
pochissime tradizioni di ricerca privata. La ricerca ha bisogno di fondi, ma soprattutto
di convincimento comune della sua utilità, questo convincimento non può che derivare
da una buona scuola, una scuola che faccia ragionare e crescere giovani che avvertano
in pieno la complessità delle scelte che sono chiamati a compiere, senza semplificazioni,
ma con profondità di conoscenza e di giudizio.
Questo seminario cade in un periodo in cui il dibattito sull’evoluzione è molto aspro,
ma non è una risposta emotiva e immediata: sono anni che ci stiamo pensando e molti
mesi sono occorsi per prepararlo, molti di più di quelli trascorsi dalle prime polemiche
scoppiate sui giornali. Siamo profondamente convinti che il tema dell’evoluzione sia
centrale nell’insegnamento biologico, e questa è la risposta. Una risposta che è un aiuto
a coloro che dovranno affrontare l’insegnamento tra difficoltà vecchie e nuove in una
scuola che sembra sempre più lontana non solo dai problemi concreti ma anche da
una cultura solida e ben bilanciata. Dobbiamo pensare alla formazione dei giovani
mediante la costruzione e il consolidamento di conoscenze attraverso l’acquisizione di
chiavi interpretative in grado di evolversi. Una formazione data dalla scuola che faccia
percepire a tutti come l’informazione non specialistica sia profondamente ignorante
dei problemi scientifici che vengono ridotti o a pura tecnologia o a slogan privi di
spessore, il tutto intriso quasi sempre di errori di fondo anche molto gravi.
Questa impresa è stata possibile grazie all’aiuto dell’Amministrazione provinciale di
Lucca e del Comune di Viareggio che ci hanno incoraggiato, fornito materiali,
assistenza e ospitalità.
Vincenzo Terreni
Presidente Anisn
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La storia
8. Il pensiero evoluzionista nell’Ottocento
Pietro Omodeo
15. Dibattito
18. Tutto si trasforma L’origine del concetto di “evoluzione” fra
Settecento e Ottocento
Angela Bandinelli
26. Dibattito
30. L’attualità di Darwin
Marcello Buiatti
43. Dibattito
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Il pensiero evoluzionista nell’Ottocento
P IETRO O MODEO
Il lascito di Lamarck
Quando Lamarck morì nel 1828, le sue idee sulla trasformazione dei viventi ebbero
poco seguito, poiché il suo potente collega Giorgio Cuvier le aveva aspramente
combattute in nome del conformismo politico e religioso. Il barone Cuvier morì solo
quattro anni dopo Lamarck, ma lasciava molti allievi e seguaci ligi alle sue vedute e al
suo volere, i quali continuarono la battaglia. Siccome detenevano le chiavi del potere
accademico l’ebbero vinta, malgrado le proteste di alcuni coraggiosi naturalisti, tra i
quali il chimico e botanico F. V. Raspail. Questi, insieme a Etienne Geoffroy St-Hilaire,
sosteneva un trasformismo di stampo romantico che si ispirava alla Naturphilosophie
tedesca. Questo trasformismo in Francia trovò seguito solo presso i geologi e i
paleontologi estranei all’università, tra i quali c’era M. Boitard che riprese, intorno al
1859, il tema illuministico della derivazione dell’uomo da forme belluine.
Tuttavia, in questo clima culturale sfavorevole, continuava ad agire un criterio
introdotto da Lamarck nella grande Histoire naturelle des animaux sans vertèbres. Si tratta
del criterio di esporre la Zoologia incominciando, per ciascuna classe, dalle forme più
minute e semplici, risalendo poi verso quelle più complesse, riunendo inoltre i gruppi
così ottenuti in alberi ramificati.
Questo criterio, che favoriva l’accettazione di una evoluzione verso il complesso, era
apparso comodo e razionale soprattutto ai naturalisti tedeschi che presero a organizzare le loro monumentali pubblicazioni secondo quest’ordine. Il primo a regolarsi così
fu Oken, autore di una storia naturale in una quarantina di volumi. Dopo di lui
pochissimi autori tornarono ai vecchi schemi, che invece in Francia dominarono, con
poche eccezioni, fino al Novecento.
Dubbi sulla creazione in actu
In Gran Bretagna, intanto, era accaduto che un editore, di nome Chambers, si fosse
entusiasmato sia dei risultati delle recenti ricerche di embriologia, sia della paleontologia dei vertebrati fondata da Cuvier, giungendo però a conclusioni del tutto opposte
a quelle del naturalista francese. Chambers trovava infatti irriverente nei riguardi del
Creatore l’idea che egli si fosse dovuto scomodare a creare animali insignificanti, o
addirittura ripugnanti, per ogni isoletta dell’oceano, e a crearne di nuovi in sostituzione
di quelli scomparsi. Di conseguenza, in un suo libro intitolato Vestiges of Natural Creation,
propose candide idee sulla trasformazione e moltiplicazione delle specie, per le quali
tirava in ballo anche l’embriologia. Il libro apparve nel 1844 ed ebbe un grande
successo, nonostante il dilettantismo dell’autore; pare che piacesse molto anche al
principe consorte della regina Vittoria. Spiacque invece al primo ministro Disraeli e a
Charles Darwin per opposti motivi: a Disraeli perché conteneva idee molto sconvenienti; a Darwin, che aveva cominciato a elaborare la sua teoria, spiacque invece perché
con la sua sciatteria screditava l’evoluzionismo. Darwin riteneva che chi l’aveva scritto
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fosse un guastamestieri; ebbe poi occasione di conoscere Chambers e divennero amici
e non seppe mai che era proprio lui l’autore del libro.
Una circostanza curiosa accomunava questi due uomini. Darwin, quando intraprese
il viaggio attorno al mondo, era deciso a fare il curato di campagna e non dubitava
della creazione dei viventi. Quando però giunse alle Galapagos e si mise a studiarne
la natura si chiese in tutta buona fede: perché mai la fauna e la flora di queste isole sono
tanto diverse da quelle delle Isole del Capoverde? Eppure entrambi gli arcipelaghi
sorgono nell’oceano sulla linea dell’equatore ed hanno origine vulcanica. Se si accoglie
la tradizione che tutto sia diretta opera del Creatore, questi si sarebbe comportato in
modo stranamente capriccioso, cosa non ammissibile e poco rispettosa. Concluse
quindi che occorreva cercare altre strade per intendere l’economia del creato.
Il trasformismo in Italia prima dell’Origine della specie
In Italia tre studiosi si proposero di far conoscere le ipotesi di Lamarck sulla evoluzione
dei viventi. Il primo è Giosuè Sangiovanni, un medico che era stato esiliato da Napoli
dopo la tragica rivoluzione del 1799 e si era recato a Parigi per studiare con i grandi
naturalisti che lì operavano: divenne discepolo di Lamarck e si convinse della bontà
delle sue idee, senonché poco dopo che era rientrato a Napoli sopraggiunse la
restaurazione borbonica e nulla poté fare. Simile fu la sorte di F. A. Bonelli, zoologo
a Torino, che si era preparato in Francia e aveva steso note interessanti che rimasero
nel cassetto: nel suo caso a indurlo a tacere fu la restaurazione sabauda. Per Fancesco
Marmocchi, uomo di umili origini e di indomabile volontà, le cose andarono in altra
maniera. Geografo autodidatta seppe scegliere il meglio dalla vastissima produzione
naturalistica del suo tempo. Fu anche cospiratore mazziniano, cosa che gli procurò
arresti ed esilio, tuttavia riuscì a pubblicare molte opere di pregio, in una delle quali
introdusse un riassunto della teoria evoluzionistica che è il più completo e meglio
articolato tra quelli che hanno preceduto l’Origine della specie di Darwin, ma che
Marmocchi non poté vedere poiché morì a cinquantatre anni nel 1858.
La nascita dell’evoluzionismo
Torniamo a Darwin, il quale, perlustrando le isole Galapagos, non si pose soltanto il
problema delle differenze tra il popolamento di questo arcipelago e quello di
Capoverde, ma anche il problema delle differenze tra le specie di tartarughe che
popolano le singole isole, delle differenze tra le specie di geospizini (i fringuelli di
Darwin) presenti in ciascuna isola, delle reazioni istintive delle iguane marine, e tanti altri
ancora.
Cercando la risposta a tutti questi perché, giunse a ipotizzare , come avevano fatto tanti
ricercatori prima di lui, che le specie si modificano nel tempo, ma le cause del processo
non gli erano chiare.
Qualche tempo dopo il rientro in patria, intorno al 1839, ebbe occasione di fare due
letture suggestive: un saggio di A. P. de Candolle, botanico francese e l’opera di
Malthus, studioso di sociologia e geografia antropica. Il primo insisteva sulla lotta per
l’esistenza, il secondo sull’accrescimento esponenziale delle popolazioni umane e la
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conseguente perdita di una quota di individui di ciascuna generazione, i perdenti
appunto nella lotta per l’esistenza. Queste tesi, oltre a confermarlo nell’idea della
trasformazione delle specie, gli aprirono uno spiraglio utile per la comprensione delle
circostanze che innescano quel processo. Negli anni successivi, Darwin incominciò a
riflettere sulle profonde trasformazioni ereditarie che allevatori e agricoltori riescono
a introdurre negli animali e nelle piante, e si dedicò lui stesso a sperimentare nel campo
della ereditarietà. Intorno al 1841 incontrò nel libro di un gentiluomo allevatore di
pecore, di nome Youatt, la parola e il concetto magico di selezione, cioè di scelta del
riproduttore. Darwin rifletté che, come l’allevatore sceglie il riproduttore più conforme alle richieste di mercato, così in natura i riproduttori delle nuove generazioni
vengono scelti attraverso la selezione naturale conseguente al successo riproduttivo dei
vincenti nella lotta per l’esistenza.
Il percorso che lo porta a concludere in questo modo è delineato in una lunga nota
programmatica scritta a matita nel 1842, indicata come Bozza. Nella Bozza non figura
soltanto la soluzione citata, ma ne vengono considerate altre, meno limpide, che egli
scarterà in seguito.
Tra i molti esempi che compaiono in questo documento ve ne sono due che illuminano
in modo perfetto il punto di maturazione -diciamo così- della teoria di Darwin. Nel
primo si parla di una modifica dell’ambiente in conseguenza della quale i conigli
spariscono e vengono sostituiti dalle lepri. Una popolazione di cani che si nutriva di
conigli venne quindi obbligata a cambiare preda e in questo cambiamento risultarono
avvantaggiati i cani più veloci, mentre i più lenti rimanevano digiuni e si riproducevano
poco o niente. Conclusione: gli animali che nella lotta per l’esistenza -non necessariamente fratricida- risultano vincitori, diventano i principali riproduttori della generazione successiva, e così via generazione dopo generazione. Questo esempio, che
ricompare con qualche variante nel Saggio, preparato nel 1844, e poi nelle varie
edizioni dell’Origine, è paradigmatico del processo che secondo Darwin dà origine
alle nuove specie.
Il secondo esempio pone a confronto selezione artificiale e selezione naturale. Si tratta
dei semi delle piante del cotone: l’agricoltore sceglierà come sementi quelle più ricche
di lanugine, e cioè quelle più richieste dalle filande; in natura i semi più ricchi in lanugine
sono quelli che vengono trascinati più lontani dal vento e quindi quelli che meglio
contribuiscono al successo della popolazione.
L’ereditarietà e gli sviluppi ulteriori del darwinismo
La conclusione raggiunta da Darwin nel 1842, quando aveva 33 anni, rimaneva tuttavia
aperta a due obiezioni. La prima riguardava l’eredità biologica, disciplina all’epoca
quasi inesistente che veniva allora confusamente interpretata secondo gli schemi
dell’eredità del patrimonio di beni.
Darwin sostenne molto modernamente che questo tipo di eredità aveva le sue leggi
e si propose di sperimentare in proposito. La seconda obiezione concerneva la
variabilità: se non esistesse una fonte di variazione -rifletté- una popolazione quando ha
esaurito la scorta presente in origine, non potrebbe adattarsi ed evolvere ulteriormente.
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Nella Bozza compare un aspetto centrale dell’opera di Darwin che è stato poco
considerato dalla più recente critica storica: si tratta del suo vivo interesse per
l’ereditarietà biologica e per il suo contrario; la variabilità, che oggi chiameremmo
mutabilità.
Darwin si dedicò attivamente allo studio sperimentale dell’ereditarietà incrociando
diverse razze di piccioni che si era procurato e anche varietà di primule per le quali
indagava il significato funzionale di certe variabili del fiore. Si documentò inoltre sul
più importante e esauriente trattato sull’ereditarietà allora esistente, opera di Prosper
Lucas, un antitrasformista di cui il naturalista inglese dice un gran bene.
Si deve notare anche che, tanto nelle 1550 pagine di Lucas, che sono del 1847-50,
quanto negli scritti di Darwin che precedono l’Origine delle specie e nell’Origine stessa, viene
formulato il principio dell’uniformità degli ibridi di prima generazione e viene
formulata quella che ora si chiama Prima Legge di Mendel, riguardante la ricombinazione dei caratteri negli ibridi di seconda generazione.
Ciò viene ricordato per spiegare come mai Darwin fu considerato, nella seconda metà
dell’Ottocento, il fondatore degli studi sull’ereditarietà, e come mai ancora nei primi
anni del Novecento, dopo la riscoperta dell’opera di Mendel, nella trattatistica si
esponeva, in alternativa alla genetica mendeliana, la genetica darwiniana. La quale
differiva da quella dell’abate boemo perché prendeva in considerazione le cause della
perenne variabilità oppure, come si dice oggi, le cause della mutagenesi.
Questo tema Darwin lo sviluppa nella Variazione degli animali domestici e nelle piante coltivate
in cui individua tre cause della variazione: l’addomesticamento, gli sports e l’ereditarietà
dei caratteri acquisiti.
La variabilità secondo Darwin
Delle tre cause della variabilità / mutabilità invocate da Darwin, due appaiono del tutto
scontate. Gli sports, infatti, nel linguaggio degli orticoltori di quel tempo indicavano
le mutazioni che appaiono inaspettatamente nelle coltivazioni (o negli allevamenti) .
Darwin aveva di certo in mente la condrodistrofia della base del cranio dei “bovini
niata”, anomalia su cui egli si era attentamente documentato in Sudamerica, e forse
anche il caso delle pecore Ancon, dalle gambe cortissime.
La terza causa, quella della variabilità conseguente all’acquisizione delle novità dovute
all’uso e al disuso di un organo o di una funzione, è invece problematica. Che si
verifichino modifiche ereditarie conseguenti e coerenti col disuso è ormai pacifico in
base alle acquisizioni della genetica molecolare. Molto improbabile appare invece
l’ereditarietà dei caratteri acquisiti attraverso l’uso.
Darwin preparò una teoria particolare per rendere plausibile questo tipo di ereditarietà, nella quale egli fermamente credeva, come fermamente vi credevano naturalisti
e medici fin dall’inizio del Cinquecento. Questa teoria, detta della pangenesi, è derivata
dalla biologia di Buffon. Prospetta che da ogni minima struttura corporea si stacchino
minutissime gemmule che ne trasportano in certo modo l’impronta negli organi della
riproduzione. Quando gli organi della riproduzione producono i gameti, questi
ricevono anche l’impronta trasportata dalle gemmule.
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La pangenesi darwiniana fu combattuta aspramente sia da F. Galton, cugino di
Darwin, sia da A. Weismann per il quale Darwin aveva scritto una elogiativa
introduzione. Galton dimostrò che la teoria delle gemmule non era credibile, mentre
Weismann sostenne che di fatto la variabilità del plasma germinale (cioè del genoma)
non è ammissibile.
L’origine delle specie attraverso la selezione naturale
Torniamo indietro al 1858. Darwin continuava a raccogliere notizie utili alla sua teoria
e ad elaborare una certa strategia per farla accettare sia dal pubblico scientifico sia dal
pubblico profano, quando ricevette dalla Indonesia un articolo di Alfred Wallace.
Wallace era, come Darwin, un bravo naturalista di campagna che già si era posto il
problema della trasformazione delle specie. Durante una forzata pausa del suo lavoro
Wallace aveva avuto occasione di leggere il saggio di Malthus sulla popolazione e lo
trovò anche lui illuminante. Concluse che la mortalità conseguente alla crescita
esuberante era differenziale, che gli individui che meglio soddisfacevano ai propri
bisogni lasciavano più discendenti e che attraverso questo meccanismo si adattavano
ai mutamenti dell’ambiente. Non parlava di selezione perché non conosceva questo
neologismo, ma il suo ragionamento ricalcava quello di Darwin.
L’articolo, e le insistenze degli amici che erano al corrente dei suoi studi, obbligarono
Darwin a mutare i suoi programmi. Pubblicò insieme all’articolo di Wallace un breve
riassunto delle proprie ricerche e, sospendendo il lavoro alla vastissima opera
progettata, scrisse in pochi mesi L’origine delle specie per selezione naturale, ampliando e
arricchendo il Saggio del 1844 che era rimasto nel cassetto per quindici anni.
Wallace lasciò volentieri al più anziano collega la priorità della teoria e, quando anni
dopo ritornò sul tema, intitolò il libro Darwinism. Quest’opera contiene la più bella ed
equilibrata esposizione in chiave naturalistica della teoria darwiniana apparsa nell’Ottocento.
L’opera di Lamarck e quella di Darwin sono complementari
Talvolta gli storici amano inventare storie di invidia e antagonismo tra grandi protagonisti, che proprio non se le sognano. La più celebre è quella dell’invidia di Amerigo
Vespucci, pilota e cartografo, nei riguardi di Cristoforo Colombo, ammiraglio della
regina Isabella. La storia dell’antagonismo tra Darwin e Lamarck è altrettanto gratuita,
poiché i due naturalisti hanno teorizzato su questioni diverse, anche se complementari.
Lamarck si è occupato del problema della specie solo per dire, in modo molto
moderno, che si tratta di un concetto che vale solo per un breve tratto di tempo;
dell’origine delle specie non si è occupato. Darwin questo problema l’ha risolto nel
modo che abbiamo visto. Lamarck si è interessato soprattutto all’evoluzione dei
grandi gruppi di viventi e per essi ha proposto alberi filogenetici molto ingegnosi,
mentre Darwin ha evitato di sviluppare questo tema che, allora come oggi, è difficile
trattare in modo rigoroso e convincente. Per lo stesso motivo di prudenza Darwin ha
evitato per lungo tempo di parlare dell’evoluzione dell’uomo, tema pericoloso che
Lamarck aveva affrontato senza ritegno.
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Che questi due autori avessero lavorato, su piani diversi, ad argomenti di vasto respiro,
avendo l’uno uno sfondo culturale illuminista e l’altro uno sfondo culturale liberista,
agli storici dell’Ottocento era ben chiaro, e chiaro era anche che l’evoluzionismo
romantico di Goethe, Treviranus, Geoffroy St.-Hilaire e Owen era altra cosa. La
confusione dei ruoli è nata in seguito, dopo il 1866.
L’intervento di Haeckel
Nel 1866 è comparsa la Generelle Morphologie del giovane Ernest Haeckel (del 1834)
entusiasta dell’evoluzionismo. Haeckel aveva studiato passando da un’università
all’altra per trovare i migliori maestri, che nella Germania di quel tempo non
mancavano. Si era quindi laureato in Medicina dedicandosi però alla Zoologia,
disciplina alla quale dette ottimi contributi.
Nei due volumi di questa difficile opera, e nelle molte che le fecero seguito, Haeckel
tentò la sintesi delle idee, spesso non congruenti, dei suoi predecessori, e in particolare
di quelle di Goethe, Lamarck e Darwin, dando la preferenza ai temi dell’evoluzione
di grandi gruppi, temi che oggi si riferirebbero alla ‘macroevoluzione’. Forte delle sue
conoscente di zoologia dei Protisti e degli Invertebrati propose alberi filogenetici che
ancor oggi appaiono validi nelle loro grandi linee.
Introdusse le cognizioni di embriologia comparata, che nell’Ottocento progredivano
in fretta e bene, allo scopo che fossero di guida nella ricostruzione della storia evolutiva.
Coniò a questo proposito il discutibile principio che “l’ontogenesi ricapitola la
filogenesi”, ripropose inoltre i temi illuministici dell’origine dell’uomo. Allargò,
insomma, l’orizzonte dell’evoluzionismo. Lo rese però più confuso a causa della
contaminazione, a volte inconsapevole, di diverse e inconciliabili correnti di pensiero.
Dopo l’unificazione degli staterelli germanici nell’Impero prussiano (1870) Haeckel,
che in Prussica era nato, aderì al Kulturkampf abbandonando le sue convinzioni
religiose e mettendo al suo servizio un monismo materialistico nel quale confluivano
idee materialistiche, idealistiche, irrazionalistiche e religiose.
Questo sincretismo gli procurò opposizioni assai virulente e accuse infondate di falso,
ma l’abile divulgazione gli procurò anche molti seguaci e obbligò altri autori a uscire
dal loro riserbo e a impegnarsi sui temi che aveva rilanciato. Tra questi autori figura
Charles Darwin che pubblicò L’Origine dell’uomo (1871).
L’affermazione dell’evoluzionismo e i suoi oppositori
In Gran Bretagna l’evoluzionismo darwiniano ebbe un rapido trionfo, oltre che per
i suoi meriti intrinseci anche perché Darwin aveva una cerchia di amici altamente stimati
per l’impegno scientifico e molto influenti sul piano culturale: Charles Lyell, Thomas
Huxley, J. D. Hooker. Certo, non mancò un’opposizione terra terra che produsse una
moltitudine di libelli denigratori più o meno divertenti, né mancò un’opposizione
accademica paludata, capeggiata dall’anatomista Richard Owen e dal fisico W.
Thompson (poi Lord Kalvin); si verificò anche un pittoresco scontro fra Thomas
Huxley e il vescovo Wilberforce in un’aula dell’Università di Oxford (1860), scontro
di cui il mondo pettegolo dei biologi non si stanca di parlare.
13
Anche negli Stati Uniti il darwinismo ebbe successo grazie a Asa Grey, corrispondente
di Charles Darwin, che prontamente curò la prima edizione americana dell’Origine, ma
il celebre L. Agassiz senior, oriundo svizzero, fu duramente contrario.
In Francia l’accoglienza fu pessima. Pierre Flourens, un fisiologo cuvieriano di ferro,
presidente dell’Académie des Sciences, non volle che Darwin ne divenisse socio. In
seguito permise che fosse ammesso, ma solo per i suoi meriti di botanico.
In Italia Bianconi, anatomista a Bologna, attaccò con argomentazioni scientifiche
l’evoluzionismo e il reverendo Pianciani S. J. fece altrettanto, ma più aspramente, sulla
CIVILTÀ CATTOLICA. Gli zoologi tuttavia si dichiararono a favore, primo fra questi
Filippo De Filippi, un cattolico che con il suo gesto destò scandalo. Dopo la sua
prematura morte tutta la scuola torinese sostenne e propagandò l’evoluzionismo ed
altrettanto fece Canestrini a Padova. L’UTET si rese particolarmente benemerita
pubblicando l’opera omnia di Darwin e di Haeckel e i libri di Canestrini a favore
dell’evoluzionismo.
L’eclissi dell’evoluzionismo
In Germania, dopo i contributi di Haeckel e di Weismann, si ebbe lo sviluppo più
vivace dell’evoluzionismo, tanto che nei repertori bibliografici editi prima a cura della
Stazione zoologica di Anton Dohrn e poi a cura dello ZOOLOGISH ANZEIGER venne
introdotta una apposita sezione.
In quell’enorme massa di contributi si nota una verbosità erudita e un gusto per la
polemica interminabile, rancorosa e poco costruttiva. Alcuni di quegli autori si
dichiararono lamarckiani o neolamarckiani, ma del vecchio giacobino materialista
rimaneva solo il nome o poco più, poiché secondo l’usanza introdotta da Haeckel
fioriva un miscuglio di materialismo grossolano con finalismo e vitalismo.
Orientarsi in quei dibattiti o soltanto riassumerli, è impresa da specialisti eruditi.
Bisogna però porre in evidenza che i dibattiti prolissi e inconcludenti stancarono un
po’ tutti. Inoltre, gli attacchi in nome della religione si moltiplicavano e si affermava
il culto dei fatti, la più nociva presa di posizione per gli scienziati. Sicché si diffuse un
grave disinteresse per l’evoluzionismo.
Nel 1909, centenario della Philosophie Zoologique e della nascita di Darwin, nonché
cinquantenario della pubblicazione dell’Origine delle specie, le commemorazioni in
Inghilterra furono in tono minore, in Francia mancarono quasi del tutto.
Pietro Omodeo
(Cefalù, 1919) ha studiato presso la Scuola Normale di Pisa, laureandosi con Giuseppe Colosi.
Ha insegnato Biologia, Zoologia, Zoogeografia in varie università, per poi diventare direttore
dell’Istituto di Zoologia di Siena, dove attualmente è professore emerito. Sin dalla sua fondazione, è membro del Coordinamento Nazionale di Biologia Teorica (CNBT); ha curato la traduzione
delle opere di Lamarck, Darwin e Diderot ed è autore di numerosi saggi.
14
Dibattito
Intervento 1
Una curiosità mia, forse lei è la persona più adatta a rispondere perché ha studiato
questi problemi a fondo. La domanda è : come è avvenuto che Darwin non abbia mai
conosciuto (magari lei mi smentisce) l’opera di Mendel? Che cosa possiamo ipotizzare
che sarebbe successo se l’avesse conosciuta? Non l’ha mai conosciuta veramente, o
l’ha conosciuta e non l’ha considerata, e quale potrebbe essere l’ipotesi filosofica su
ciò che sarebbe avvenuto se Darwin avesse considerato il lavoro di Mendel, pubblicato
nel 1866, che solo successivamente ha ricevuto riconoscimento?
Pietro Omodeo
La risposta c’è; Darwin ricevette in omaggio da Mendel la sua famosa conferenza in
cui vengono esposte le leggi statistiche che lui ha formulato, pare che non abbia
neppure sfogliato le pagine, evidentemente ne è stato dissuaso sia dal tedesco in cui
non era molto competente sia dal fatto che non cercava le leggi dell’ibridazione, che
egli aveva controllato sperimentalmente, ma lui in quel momento era molto interessato al problema dell’origine della variabilità, ossia della mutagenesi per usare il
linguaggio odierno, perché immediatamente si capisce che cosa volesse intendere,
variabilità non dice tanto all’orecchio moderno anche perché per variabilità oggi si
intende qualcosa di diverso da quello che intendeva Darwin e quindi non ritenne
necessario aprire quel piccolo opuscolo e leggere cosa c’era dentro. Badate però che
all’inizio del ‘900 in molti trattati si trova in alternativa la genetica mendeliana e la
genetica darwiniana; negli autori francesi lo trovate, ma c’è anche un autore italiano
che si sente in dovere di esporre tutti e due i tipi di genetica, quindi erano due cose
parallele che si sono ignorate reciprocamente a meno che Mendel non avesse letto
L’origine delle specie e non fosse stato indotto da L’origine delle specie a mettersi a
fare quella sperimentazione. C’è un altro autore a cui Mendel si è certamente ispirato,
ma il fatto che avesse mandato a Darwin il suo estratto sta a dire che sapeva che cosa
aveva scritto e che cosa pensava, anche se non aveva letto L’origine delle specie.
Intervento 2
La storia delle giraffe: non mi è mai riuscito di trovare dove fosse citata… lui cita ne
L’origine delle specie il collo delle giraffe?
Pietro Omodeo
No, il collo delle giraffe è in Philosophie zoologique, un piccolo passaggio molto breve
che è stato molto ridicolizzato dagli autori più recenti, non in antico. Lamarck godeva
di una grossa stima nella prima metà dell’800, soprattutto per il primo trattato di
Zoologia che sia mai stato scritto e che Darwin aveva con sé durante il viaggio; lo
aveva comprato il capitano della nave, e quando classifica gli animali marini che vede,
li classifica basandosi su Lamarck. Pensate che l’ Histoire naturelle in brevissimo tempo
ebbe tre edizioni e nessuno si permetteva allora di prendere in giro un autore che era
molto rispettato. Senza dubbio è ingenuo, però le cose ingenue hanno a volte un
nocciolo importante, in questo caso viene messo in evidenza il problema della nascita
della variabilità, anche se egli la interpreta in un modo che oggi non si accetta (però
badate, io non sono del tutto sicuro che sia tutto da rifiutare). L’esempio che fa Darwin
è quello dei cani che cessano di nutrirsi di conigli e si nutrono di lepri e debbono correre,
quindi diventano più rapidi e trasmettono questo carattere modificato, e si può
15
spiegare allo stesso modo con cui Lamarck spiegava l’allungamento del collo delle
giraffe. Qui Darwin non è esplicito sulle cause, però in tutti i suoi libri e anche nelle sue
bozze e note private, evidenzia la convinzione che l’uso e il disuso siano causa di
trasformazione, come anche l’addomesticamento. Oggi si sa che certi shock che
colpiscono la popolazione aumentano la variabilità, lo shock termico per esempio è uno
dei casi più comunemente trattati, ma anche uno shock che modifica tutti i rapporti di
una popolazione con l’ambiente è da intendere allo stesso modo e quindi è causa di
un aumento di variabilità, e questo oggi si accetta tranquillamente. Oggi si accetta
tranquillamente che il disuso porti alla scomparsa del materiale ereditario o all’ammutolimento dei caratteri ereditari che presiedono alla definizione di quel carattere, quindi
anche il non uso è tranquillamente accettato anche nelle sue cause molecolari. Che
poi invece le trasformazioni indotte dall’uso possano essere iscritte nel patrimonio
ereditario è una cosa più difficile da ammettere ma è comunque cosa che vale la pena
di prendere in considerazione molto attentamente, perché di solito non si parla delle
obiezioni all’evoluzionismo per carità di patria, per non dare argomenti alle persone
che sono pronte a buttarvisi contro, però difficoltà nell’applicare le norme che si
utilizzano nell’evoluzionismo non ne mancano. C’è una sola persona in Italia che vi si
sia dedicata, D’Ancona, che una volta che spiegava l’evoluzionismo secondo Darwin
agli studenti, e io dissi che trovavo questa difficoltà e quest’altra, mi rispose: “Si metta
a sedere che ora le racconto io le difficoltà all’evoluzionismo” e tirò fuori molti
argomenti ancora. Nondimeno, queste non sono crisi del sistema ma crisi nel sistema
che comunque vanno considerate e vanno risolte. Io per esempio ho avuto due piante
carnivore completamente diverse l’una dall’altra; si sa perché, a quale richiesta
ambientale risponde la trasformazione delle piante carnivore, ma per quale via si
possa arrivare alla comparsa non di uno ma di tre diversi ceppi di piante insettivore,
questa è una cosa acrobatica per qualunque studioso di evoluzione.
Intervento 3
Parlando di Darwin spesso si legge di un altro personaggio, Wallace, che nell’800 aveva
elaborato una teoria simile prima di lui o contemporaneamente. Che ruolo ha avuto
questo personaggio?
Pietro Omodeo
La questione di Wallace è molto interessante e anche il personaggio è interessante,
certo, non è un personaggio secondario. Un inciso: quando tutta questa gente, sia
Darwin, sia Huxley, sia Wallace, sia Heckel, entra in lizza sono tutti molto giovani,
hanno meno di 40 anni e si lanciano in questi grandi problemi e li trattano in modo
maturo, non da principianti.
Detto questo devo delineare un momento la storia di Wallace: Wallace nasce da una
famiglia molto povera; insieme con un collega, Bates, parte giovanissimo per
l’Amazzonia, il santuario delle Scienze Naturali e dei naturalisti, viaggiano attraverso
l’Amazzonia e raccolgono vario materiale, una parte del quale sarà poi venduto per
sussistenza. Sono tutti e due persone che cominciano a porsi i problemi, che è ciò che
fa grandi gli studiosi; di questo sono sicuro cioè che è proprio del vero studioso porsi
dei problemi, porsi dei perché, ed è singolare quanti perché si pone Darwin su tutte
le origini, sul perché sono salite le Ande, perché si sono formati i terrazzamenti della
Patagonia, perché ci sono due specie di struzzi in Sudamerica e via discorrendo.
Wallace ha lo stesso bagaglio dei perché si occupa, soprattutto in Amazzonia di
Botanica e delle palme, infatti c’è una grossa monografia sulle palme di Wallace. Poi
Wallace, dopo molti anni di vita di vagabondaggio, di studi intensivi sull’Amazzonia,
rientra con tutti i suoi appunti e materiali; la nave su cui è imbarcato purtroppo prende
16
fuoco e tutto viene perso; lui salva soltanto gli appunti sulle piante e sarà l’unica
pubblicazione importante che riesce a fare in quell’epoca. Chiede però soccorso alla
Società Geografica inglese per ripartire e fare ancora raccolte, la Società Geografica
inglese gli dà i soldi per l’imbarco e per studiare l’Indonesia, per cui questa volta va
nella foresta pluviale indonesiana e lì ancora si pone grandi problemi: perché la
distribuzione di questa specie ha questo confine, perché altre specie hanno distribuzioni con altri confini, e diventerà il fondatore della moderna biogeografia con dei
trattati che ancora oggi si utilizzano con grande interesse, con grande vantaggio. E
questo è Wallace, è in Indonesia e si ammala e nell’ozio della convalescenza continua
a riflettere sull’origine delle specie, problema sul quale aveva già scritto qualche cosa
sul vago, un po’ dilettantesco, che Darwin badate bene conosceva perchè Wallace
glielo aveva già mandato prima della pubblicazione de L’origine delle specie.
Convalescente, legge il libro di Malthus sulle popolazioni che gli offre lo spunto per
capire e per dare una prima risposta al problema che si era posto, il problema
dell’origine delle specie. Egli riflette sul fatto che la mortalità che si ha a ogni
generazione non è casuale ma differenziale, saranno gli organismi che meno
sopperiscono ai loro bisogni quelli a sparire, sopravvivono invece quelli che possono
soddisfare meglio i propri bisogni. E’ un discorso molto lineare, molto tranquillo, tipico
di un ecologo, su cui scrive allora un breve saggio di 15 pagine e lo spedisce a Darwin;
non è una cosa casuale perché Darwin era un uomo conosciuto come naturalista
viaggiatore perché aveva pubblicato quel bellissimo libro che se potete vi consiglio di
leggere Viaggio di un naturalista intorno al mondo, un’opera bellissima di naturalista
viaggiatore. A questo punto per Darwin c’è una crisi: sono 15 anni che lui sta lavorando
intorno a questo problema e si trova scavalcato da un collega molto più giovane. Ne
parla con gli amici e gli amici lo spingono a scrivere una bozza delle proprie idee che
verrà pubblicata insieme con il saggio di Wallace sul Journal of Linnean Society, se non
ricordo male, nel 1858 e poi Darwin si mette affannosamente a redigere L’origine delle
specie che comparirà nel 1859.
Questa è la storia del loro incontro. Wallace concederà di buonissimo grado la priorità
delle sue idee sull’evoluzione, lui non introduce né la parola né il concetto di selezione,
perché selezione è un neologismo che Darwin ha trovato in autori inglesi e quando poi
pubblica un libro sulla evoluzione lo intitolerà Darwinism. Il libro di Wallace è il migliore
riassunto dell’evoluzionismo naturalistico che viene fatto dopo Darwin.
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Tutto si trasforma
L’origine del concetto di “evoluzione” fra Settecento e Ottocento
A NGELA B ANDINELLI
Hence the modern discoveries in chemistry and in geology, by having traced the causes by the
combinations of bodies to remoter origins, as well as those in astronomy, which dignify the present age,
contribute to enlarge and amplify our ideas of the power of the Great First Cause.
Erasmus Darwin, Zoonomia, or, the Laws of Organic Life (1794 -1796).
Introduzione
Ai primi del Settecento l’immagine cartesiana del corpo-macchina predisposto al
moto fu messa in crisi con l’invenzione del termine “organismus” ad opera del filosofo
tedesco Georg Ernst Stahl (1660-1734) secondo il quale il vivente si muoveva per
moto intenzionale sostanzialmente diverso dal semplice meccanismo. Il processo di
emancipazione del mondo della vita dalle leggi della meccanica aveva trovato una
strada praticabile nella convinzione che le funzioni organiche fossero guidate dall’anima, vero e proprio principio di conservazione della vita.
Nel corso del Settecento si diffuse così la consapevolezza che l’organismo non era un
orologio messo in moto da Dio e che il suo funzionamento richiedeva leggi d’ordine
dinamico. Ma com’è che funzionava, allora, questa macchina meravigliosa e naturale
al contempo? Come poteva esser ridefinita la sua organizzazione? E ancora: le leggi
dell’organico differivano da quelle del mondo inorganico?
Se nel continente le discussioni fra i naturalisti si
concentrarono perlopiù sull’eccezionalità della vita
rispetto ai minerali, oltremanica, invece, era fiorente
una tradizione sperimentale interessata alle analogie
fra processi fisiologici e processi combustivi. La
macchina vivente era considerata un luogo di continue
fermentazioni che il chimico-filosofo poteva indagare. Allorché Antoine-Laurent Lavoisier (1743-1794)
ridefinì la combustione come un processo fisicochimico distinto da un’esplosione infiammatoria, anche i processi fisiologici vennero compresi nelle loro
regolarità di successive scomposizioni/composizioni
materiali. Grazie alla nuova disciplina analitica il vivente diventò una naturale sostanza composta soggetta a
continue trasformazioni, un’unità con caratteristiche
emergenti e, dunque, distinte da quelle dei singoli Lavoisier, Trattato elementare
componenti. Grazie alla nuova chimica, l’organismo di chimica
18
fu compreso nel suo essere un sistema fisico-chimico in
continua evoluzione innovativa, un’unità analizzabile
perché retta da due distinte leggi di conservazione: il
principio di conservazione del calore (1783) e il principio di conservazione della materia (1789).
Lavoisier aveva spiegato come la Natura non soltanto
si muove, ma cambia evolvendosi.
Grazie a queste nuove idee, infine, Jean Baptiste de
Lamarck (1744-1829) poté sviluppare il suo originale
progetto di una nuova Fisica biologica (1801-02), o
disciplina dei corpi organizzati diversificatisi nel corso
di più generazioni. La Biologie (1802) si costituiva infatti
come osservazione naturalistica di tutte le forme osservabili, una nuova fisica dei corpi viventi.
Si sostiene, dunque, che la riforma della Storia naturale
nelle nuove discipline scientifiche ottocentesche è compresa nella sua complessità rivoluzionaria soltanto attraverso l’invenzione di una nuova filosofia della materia J. B.Lamarck, Idrogeologia
che si “evolve” naturalmente grazie a giochi di affinità e calorico.
Nel 1789 Antoine-Laurent Lavoisier (1743-1794) (1) pubblicò a Parigi il suo famoso
Traité élémentaire de chimie (2) nel quale viene esposta la sintesi di vent’anni di ricerche
sistematiche in Fisica, Chimica e Fisiologia capaci di ribaltare le concezioni comunemente accettate sulla materia e le sue modificazioni.
Il nuovo sistema si basava infatti su una originale filosofia, diversa da quella cartesiana
e da quella newtoniana: la materia cambia secondo precise ed identificabili leggi di
conservazione tali per cui “niente si crea né si distrugge, tutto si trasforma.”
In questa espressione apparentemente semplice lo scienziato francese concentrava il
suo moderno pensiero proponendo un’immagine nuova della Natura, diversa dal
vitalismo (o tradizioni di ricerca animate dall’idea che esistesse un principio vitale
giustificante la vita) e diversa dalla meccanica (secondo cui la vita era organizzazione
di parti con caratteristiche simili a livello elementare e composto).
Secondo la nuova Chimica francese, nelle operazioni di laboratorio, come in quelle
naturali, i cambiamenti in atto si spiegano in accordo con le leggi fisico-chimiche di
conservazione e non con l’ipotesi di una fantastica creazione e neppure con quella di una
improbabile scomparsa della materia in gioco.
Una tale presa di posizione seguiva una stagione di intense ricerche caratterizzate da
un preciso impegno metodologico: l’introduzione da parte di Lavoisier di strumenti
tipici del laboratorio di Fisica sperimentale (come ad es., la bilancia idrostatica) nello
studio delle reazioni chimiche aveva inaugurato un nuovo corso d’indagine basato sulla
quantificazione delle sostanze con la conseguenza che le varie credenze d’origine
alchemica (come, ad esempio, l’idea che l’acqua potesse trasmutare in terra) vennero
sottoposte a rigoroso controllo sperimentale. A partire dalla metà degli anni ’60 del
Settecento, l’approccio quantitativo lavoisieriano si distinse così a poco a poco dalle
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altre tradizioni di ricerca chimica proprio nell’intenzione di procedere sulla base certa
dei fatti e non su quella probabile delle ipotesi. Nel Discorso preliminare che introduce
il trattato si dice a proposito che la conoscenza procede per analisi, ovvero “dal noto
all’ignoto”, secondo i principi della logica condillachiana. (3)
Questa innovativa scelta metodologica permise di scoprire molte verità:
1. La combustione è un’operazione di decomposizione del gas ossigeno per formare
nuovi composti (ossidi); essa comporta un effettivo cambiamento nella natura dei
componenti tale per cui il prodotto finale acquista proprietà nuove rispetto a quelle
dei reagenti. L’acqua, ad esempio, deriva dalla combustione di due specifici gas e, a
differenza del componente idrogeno, non mostra alcuna affinità per l’ossigeno;
2. L’acqua non è un elemento semplice, ma una sostanza composta.
3. L’idea tradizionale che identificava la combustione con un processo infiammatorio
veniva definita falsa.
4. I corpi combustibili sono tali perché mostrano affinità per una particolare
componente dell’aria atmosferica (l’ossigeno, principio di acidità) e non perché
contengono una ipotetica sostanza infiammabile (il flogisto, principio di infiammabilità).
5. I metalli sono corpi semplici e non composti di flogisto.
6. La diversità delle arie (respirabile, nociva, infiammabile, atmosferica, etc.) non si
spiega per quantità di flogisto in esse contenuto, ma per combinazione di specifiche
basi (ossigeno, idrogeno, azoto, etc.) con il calorico (forza repulsiva) che conferisce alla
materia lo stato aeriforme.
Alla Chimica delle arie differenti Lavoisier opponeva la nuova chimica dei gas specifici con la conseguenza che anche la fisiologia della respirazione
animale fu ridefinita come una lenta combustione
di carbone e non come un atto di espulsione
flogistica.Il rovesciamento rispetto alla tradizionale
filosofia naturale era totale: la Natura, nella sua unità
di corpi organici ed inorganici, procedeva per
continue decomposizioni/composizioni mai casuali perché regolate da un principio di reversibilità
del calore (Lavoisier-Laplace, Mémoire sur la chaleur,
1783) e da un principio di conservazione della
materia (Lavoisier, Traité élémentaire de chimie, 1789).
Dalle credenze di aristotelica memoria circa l’esistenza di pochi elementi semplici si passava ad altre
immagini quali quelle suggerite da una materia scissa
in sostanze semplici e composte che l’analisi si
prefiggeva di individuare:
“Questa operazione (fermentazione) è una delle più J. B. Lamarck, Ricerche sull’organizsconvolgenti e straordinarie di tutte quelle che la zazione dei corpi viventi
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Chimica ci presenta e noi dobbiamo esaminare da
dove viene il gas acido carbonico che si sviluppa, da
dove viene lo spirito infiammabile (alkool) che si
forma, e come avviene che un corpo dolce, un
ossido vegetale possa trasformarsi in due sostanze
così differenti, di cui l’una è combustibile, l’altra
eminentemente incombustibile. Per arrivare alla
soluzione di queste due questioni, bisogna innanzitutto conoscer bene l’analisi e la natura del corpo
suscettibile di fermentare e i prodotti della fermentazione; poiché niente si crea, né nelle operazioni
dell’arte, né in quelle della natura, e si può porre in
principio che in tutte le operazioni c’è un’uguaglianza di quantità di materia prima e dopo l’operazione;
che la qualità e la quantità dei principi è la stessa e che
non avvengono che cambiamenti, modificazioni”
(4).
Sin dagli anni Settanta Lavoisier era perfettamente
consapevole di lavorare ad un progetto di rifonda- J. B. Lamarck, Ricerche sulle cause dei
zione generale della conoscenza: sappiamo che il 1° principali fenomeni fisiologici
novembre 1772 il giovane scienziato, già membro dell’Académie des Sciences, consegnò
al segretario perpetuo della prestigiosa istituzione parigina un plico contenente
l’annuncio di scoperte rivoluzionarie e ben presto i dibattiti che ne seguirono si
diffusero in tutto il territorio europeo (5). Gli scontri si fecero via via più accesi a seguito
soprattutto della dichiarazione circa la natura composta dell’acqua avvenuta nel 1784
e videro il formarsi di due opposti partiti: da una parte stavano i sostenitori del flogisto
e, dall’altra, stavano i nuovi chimici ben presto organizzatisi in una vera e propria scuola
di pensiero, o coterie lavoisierienne. “Eccoci dunque d’accordo. Tutta questa famosa
disputa è terminata e si riduce a una querelle di nomi. Si sostituisce il termine calorico
combinato con quello di flogistico o principio infiammabile” (6).
Le polemiche si esaurirono soltanto ai primi dell’Ottocento (7) con l’affermazione della
chimica antiflogistica che, forte dei risultati sperimentali, si proponeva come scienza
distinta dalla letteratura naturalistica sancendo in tal modo una distanza abissale rispetto
alle altre tradizioni settecentesche. Lavoisier aveva imposto un aut aut a cui nessun savant
poté sottrarsi: la Natura, organica ed inorganica, può esser sottoposta ad analisi
quantitativa i cui risultati, non ottenibili altrimenti, permettono l’avanzamento delle
conoscenze.
E’ dunque evidente che i dibattiti fra le varie comunità europee non coinvolsero
solamente i chimici tradizionali e i fisici, ma anche i medici, i naturalisti, i filosofi naturali
in genere. Secondo la nuova chimica, i fenomeni organici potevano essere compresi
a prescindere dalla postulazione di un principio vitale (o causa della vita) perché studi
quantitativi avevano dimostrato che il sistema animale rinnova il calore interno per
mezzo di lente combustioni. Paragonando il calore sprigionato dalla combustione del carbone con
21
la quantità di aria fissa (acido carbonico) che si forma in questa
combustione, si ha il calore sviluppato nella formazione di una
quantità di aria fissa; se si determina inoltre la quantità di aria
fissa che un animale produce in un certo tempo, si avrà il calore
che risulta dall’effetto della respirazione sull’aria; non si tratterà
che di paragonare questo calore con quello che intrattiene il suo
calore animale e che misura la quantità di ghiaccio che fonde
all’interno delle nostre macchine; e se, come abbiamo trovato nelle
esperienze precedenti, queste due quantità di calore sono quasi
le stesse, si può concludere direttamente e senza ipotesi che è al
cambiamento dell’aria pura in aria fissa per mezzo della
respirazione che è dovuta, almeno in grande parte, la conservazione del calore animale (8). Questa nuova immagine del
vivente, corpo combustibile che si conferma vivo per
continue combustioni organiche, offriva una valida
alternativa alla crisi nella quale versava la storia naturale: il naturalismo di fine Settecento risulta infatti
caratterizzato perlopiù da speculazioni miranti a di- J. B. Lamarck, Confutazione della teoria
stinguere la vita dal resto del mondo inanimato con la pneumatica
conseguenza che i vari tentativi di definizione dell’organizzazione caratteristica dei
corpi viventi si risolvevano in dispute vane sulla sua natura.
Che cos’è dunque l’organizzazione? (9)
Nel 1801 il medico parigino Pierre Jean Georges Cabanis (1757-1808) lesse ai colleghi
dell’Accademia scientifica la decima memoria dei suoi Rapporti sul fisico e il morale
dell’uomo, opera dedicata alla ridefinizione della Scienza dell’uomo in una sorta di
Antropologia. Vi si legge che l’organizzazione caratteristica della vita si spiega coi
principi della nuova Chimica ovvero come l’emergenza naturale di una specifica
convergenza materiale: Forse oggi non proveremmo alcun stupore se le esperienze finissero per
dimostrare che sono sufficienti alcune porzioni di materia, in un certo determinato stato, in contatto
diretto per produrre esseri viventi dotati di certe proprietà particolari: proprio come un acido e una
base alcalina, o terrosa, posti in contatto in uno stato favorevole alla loro combinazione formano un
nuovo prodotto (10).
Alla fine del Settecento la chimica lavoisieriana offriva un modello di spiegazione
estraneo alla meccanica e al vitalismo e soddisfacente la complessità organica: non è
un caso, dunque, se Erasmus Darwin (1731-1802), nonno di Charles, compose tra il
1794 e il 1796 un’opera di filosofia naturale intitolata Zoonomia, or, the Laws of organic
Life nella quale il processo di generazione e di differenziazione embrionale sono
spiegati per analogia ricorrendo alla logica delle composizioni chimiche.
Se potessi abbandonarmi ad una similitudine in un lavoro filosofico, direi che le appetenze animali sono
forse inizialmente meno numerose delle affinità chimiche, ma alla pari di queste ultime si modificherebbero ad ogni nuova combinazione: l’aria vitale e l’azoto combinandosi producono acido nitroso il quale
acquista in tal modo la proprietà di sciogliere l’argento; analogamente io suppongo che a mano a mano
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che nell’embrione si vanno aggiungendo nuove parti, come trachea o polmoni, vengono prodotte anche
nuove appetenze animali (11).
Contrariamente al collega Cabanis che aveva individuato nell’analisi lavoisieriana la
strada aperta per una riforma della Storia naturale, Jean Baptiste de Lamarck (17441829), il più importante protagonista di questa rifondazione, preferì seguire la strada
più tradizionale (12).
Nel 1794 il naturalista francese decise di pubblicare un’opera composta ben diciotto
anni prima, quasi a sottolineare l’estraneità della Storia naturale dalle recenti scoperte
pneumatiche (13). In queste ricerche si sostiene in particolare che la vita è un fenomeno
non naturale, dovuto ad un principio inconcepibile e, in quanto dinamica di resistenza
alle forze corruttive della Natura, essa risulta investigabile da un punto di vista fisico.
A differenza del naturalismo lamarckiano, la filosofia della materia di Lavoisier
prescindeva dalla postulazione di principi extra-fisici: i viventi, secondo i nuovi chimici,
sono corpi naturali che vengono analizzati nei loro legami con il resto dell’universo
fisico. Invece di cercare una risposta all’insolubile “Cos’è la vita?”, Lavoisier aveva
preferito indagare le modalità attraverso le quali i fenomeni vitali si conservano.
Recuperando una tradizione sperimentale inglese (14) interessata alle analogie fra
combustione e respirazione, Lavoisier arrivò a comprendere il processo fisicochimico attraverso il quale la vita, allo stesso modo della fiamma di una candela, si
consuma inesorabilmente. Come un pezzo di carbone sottoposto a ripetuti incendi
pian piano si volatilizza completamente, allo stesso modo il corpo vivente decompone
l’aria che respira e gli alimenti necessari alla sua composizione.
La crescita, secondo la nuova chimica della
vita, si spiega attraverso specifici passaggi
evolutivi e non più per aggiunte posticce di
sostanze estranee: Osservazioni fatte sulla respirazione delle uova degli animali mi hanno insegnato che
queste uova durante il loro sviluppo assorbono ossigeno;
se questo gas manca loro, lo sviluppo è sospeso e questa
respirazione, o piuttosto assorbimento d’aria, può
essere accelerato o sospeso accelerando o fermando
l’affluenza di ossigeno che influisce sullo sviluppo del
germe. Le esperienze di William Cruicksank ci
insegnano che l’orzo germogliando assorbe l’ossigeno e
che questo assorbimento è in ragione dell’evoluzione del
germe (15). Anche se Lamarck non riconobbe
mai i suoi profondi debiti nei confronti della
rivoluzione chimica, l’influenza che queste
scoperte e riflessioni esercitarono sulla sua
produzione sono evidenti nel passaggio da
una concezione meccanico-vitalistica della
materia ad una concezione trasformazionale
per via di successive emergenze innovatrici: J. B. Lamarck, Filosofia zoologica
23
Come fa la Natura a creare i primi tratti di organizzazione in una data massa dove prima non ce
n’erano i segni? (16)
Nelle Recherches del 1802 Lamarck cambia decisamente opinione rispetto alla produzione precedente: attenua sensibilmente la distanza fra viventi e non-viventi, accoglie
senza imbarazzo la teoria della generazione spontanea per spiegare la nascita dei primi
lineamenti di organizzazione, ammette che la vita è un fenomeno naturale.
L’adozione, peraltro mai ammessa, del nuovo materialismo scientifico permise al
naturalista di sviluppare l’idea lavoisieriana di una Natura resa dinamica da “trasformazioni conservative” nell’originale direzione di una teoria evoluzionistica di tutte le
specie viventi. Il genio lamarckiano trovò così la sua originalità nel limitare la
generazione spontanea ai soli organismi più semplici e nel definire la varietà delle specie
osservabili come il risultato storico di continue trasformazioni di generazione in
generazione. La contraddizione che vede Lamarck un antilavoisieriano convinto e
insieme il punto di inizio di una nuova scienza biologica (17) (basata sul concetto di
organizzazione compreso dall’analisi chimica) si risolve probabilmente con l’ipotesi
secondo cui il naturalista, affatto indifferente nei confronti di quella rivoluzione
metodologica, abbia ciononostante deciso di continuare ad osservare, collezionare e
descrivere teorie intese come una summa di riflessioni generali, ivi comprese quelle
derivate da altri pensatori: Un savant célébre (Lavoisier, Chimie, T 1°, p. 202) a dit avec raison
que Dieu, en apportant la lumière, avoit répandu sur la terre le principe de l’organisation, du sentiment
et de la pensée (18).
Per concludere, giova sottolineare che l’aver individuato nella dottrina lavoisieriana il
contributo principale alla costruzione di una moderna immagine della Natura in
evoluzione creativa non esclude affatto il verificarsi di isolate intuizioni evoluzionistiche
ad essa precedenti, ma mira casomai a riconoscere al chimico francese il grande merito
d’aver scoperto certe regolarità di trasformazione materiale, comuni al mondo
inorganico ed organico. Segue che l’evoluzionismo lamarckiano, lungi dall’esser
semplicemente lo sviluppo di preesistenti idee settecentesche, è piuttosto la felice sintesi
naturalistica di informazioni in gran parte mutuate dalla nuova analisi chimica.
Istituto e Museo di Storia della Scienza, Firenze.
Angela Bandinelli
Note
(1) Vedi Marcelin Berthelot, La révolution chimique Lavisier, Paris, Alcan, 1890; MAURICE DAUMAS,
Lavoisier téoricien et expérimentateur, Paris, 1955; HENRY GUERLAC, Lavoisier- The Crucial Year, Ithaca,
Cornell University Press, 1961; Ferdinando Abbri, Le terre, l’acqua, le arie. La rivoluzione chimica alla
fine del Settecento, Bologna, Il Mulino, 1984; Arthur L.Donovan, The Chemical Revolution: Essays
in reinterpretation, «Osiris», 4, 1988; Frederic L. Holmes, Lavoisier and the Chemistry of Life, Madison,
University of Wisconsin Press, 1985; Marco Beretta, A New Course in Chemistry, Firenze, Olschki,
1994. Vedi anche il museo virtuale curato da Beretta, Panopticon Lavoisier http://moro.imss.fi.it/
lavoisier
(2) Antoine-Laurent lavoisier, Traité élémentaire de chimie, Paris, chez Cuchet Libraire, 1789, 2 voll.
(3) Etienne Bonnot de Condillac, La Logique, ou les premiers développemens de l’art de penser (1780),
in Oeuvres complètes, Paris, Dufart, 31 voll., 1803; vol. 30. Vedi in particolare, Beretta, The
24
Enlightenment of Matter: the Definition of Chemistry from Agricola to Lavoisier, Canton, Science History
Publications, 1993; Maurice Crosland, Historical Studies in the Language of Chemistry, London,
Heinemann, 1962.
(4) Lavoisier, Traité..., op. cit.; vol. 1, pp. 140-41. La traduzione dal francese è mia e così per le altre
citazioni.
(5) Ferdinando Abbri, Bernardette Bensaude-Vincent (a cura di), Lavoisier in European Context
Negotiating a New Language for Chemistry Canton, Science History Publications, USA, 1995.
(6) Jean Claude Delamétherie, De la combustion, in « Observations sur la physique », t. 38, 1791,
pp. 394-403: 395-96.
(7) Vedi per il dibattito sulla nomenclatura, Pietro Corsi, Il prezzo della politica: ascesa e caduta di una nuova
lingua per la scienza 1795-1802, in Marco Ciardi, Franco Giudice (a cura di), Atti del X Convegno Nazionale
di Storia e Fondamenti della Chimica (Pavia, 22-25 Ottobre 2003), pp. 203-22
(8) Antoine-Laurent Lavoisier, Pierre Simon Laplace, Mémoire sur la chaleur, in Lavoisier, Œuvres
publiées par les soins de S.E. le ministre de l’Instruction publique et des cultes, Paris, Imprimerie Impériale
et Nationale, 1862-1893, 6 voll. ; vol. 2, pp. 283-333:332.
(9) André De Luc,Vingt-deuxième lettre de M. De Luc à M. Delamétherie, remarques sur différentes origines
particulières dans les phénomènes géologiques, 23 Avril 1792, «Observations sur la physique», t. 40, 1792,
p. 367
(10) Pierre Georges Cabanis, Rapports du physique et du moral de l’homme, in Oeuvres complètes de Cabanis,
Paris, Bossange Frères, Firmin Didot, 1823-1825, 5 voll.; vol. 1, p. 519.
(11) Erasmus Darwin, Zoonomia, or, the Laws of organic Life, London, J. Johnson, 1794-1796, 2
voll.; vol. 1, pp. 499-500
(12) Jean Baptiste Pierre Antoine de Monet de Lamarck, Réfutation de la théorie pneumatique, ou de
la nouvelle doctrine des chimistes modernes, Paris, chez l’Auteur, Agasse, 1796. Vedi, curato da Corsi,
il sito su Lamarck, http://www.lamarck.net
(13) Lamarck, Recherches sur les causes des principaux faits physiques, Paris, Maradan, 1794, 2 voll.
(14) Robert Frank, Harvey e i fisiologi di Oxford. Idee scientifiche e relazioni sociali, Bologna, Il Mulino, 1983.
(15) Victor Michelotti, Expériences et observations sur la vitalité et la vie des germes, « Journal de Physique,
de Chimie et d’Histoire Naturelle », Paris, chez Cuchet, t. 9, 1801, pp. 185-94:193.
(16) Lamarck, Recherches sur l’organisation des corps vivans, Paris, Maillard, An X, 1802.
(17) Lamarck, Hydrogéologie... 1801-1802, Paris, chez l’Auteur, Agasse, An X.
(18) Lamarck, Recherches sur l’organisation des corps vivans, op. cit., p. 102.
Bibliografia essenziale di riferimento
Paolo Rossi, La nascita della scienza moderna in Europa, Roma, Laterza, 1998. Marco Beretta, Storia
materiale della scienza. Dal libro ai laboratori, Milano, Mondadori, 2002. Renato Giuseppe Mazzolini
, I Lumi della Ragione: dai sistemi medici all’organologia naturalistica , in Mirko D. Grmek (ed.), Storia
del Pensiero Medico Occidentale, Roma, Laterza, 1993-1996, 3 vols.; vol. 2, pp. 155-194. Ferdinando
Abbri, J. Priestley e A.L. Lavoisier: il diverso significato di uno stesso esperimento, in Silvano Tagliagambe,
Antonio Di Meo (a cura di), Scienza e Storia: analisi critica e problemi attuali, Roma, Editori Riuniti,
1980.Abbri , Le terre, l’acqua, le arie: la rivoluzione chimica del Settecento, Bologna, Il Mulino, 1984.
Pietro Corsi , The Age of Lamarck. Evolutionary Theories in France 1790-1830, Berkeley, University
of California Press, 1988.
25
Dibattito
Pietro Omodeo
Mi volevo complimentare e volevo fare alcune aggiunte. Erasmus Darwin era molto
amico di Priestley, non so valutare fino a che punto le sue idee sulla chimica siano
filtrate attraverso Priestley o siano diretto appannaggio da parte di Darwin. Tanto
Priestley che Erasmus Darwin a quel tempo erano considerati e credo che si
dichiarassero anche giacobini, come oggi dire stalinisti, più o meno. Infatti Priestley
ebbe la casa saccheggiata e dovette scappare…
Angela Bandinelli
… e Lavoisier fece in modo di mandare a Priestley i soldi perché il laboratorio venisse
ricostruito, fu un modo per riavvicinare i due. Priestley dovevo citarlo perché era forse
uno dei più grandi sperimentatori, ma l’approccio non era quello lavoisieriano, era un
approccio metodologico completamente diverso.
Pietro Omodeo
Storicamente io posso aggiungere solo questo dato: allora come adesso, le tendenze
politiche e ideologiche pesavano molto anche nella presentazione e nella accettazione
dei dati di laboratorio, dei dati scientifici e Lavoisier è considerato dall’estrema sinistra
rivoluzionaria come uno sfruttatore del popolo e c’è quella parte estremamente
patetica di Lavoisier che vede crollare il modo intorno a sé, il mondo di un fermier ricco
a miliardi e miliardi, che aveva potuto finanziare la cinta daziale e torna a Parigi, e lui
come uomo intelligente percepisce questa posizione di pericolo estremo e finanzierà
addirittura due grosse città che ora non ricordo quali siano, senza interessi, perché
provvedano ad alimentare la popolazione.
Angela Bandinelli
E’ stato anche rappresentante del terzo stato, prima del terrore, per cui non si capisce
tanta ingenuità, l’ingenuità probabilmente si giustifica con il fatto che egli credeva di
essere compreso come uno dei più grandi fautori della repubblica e quindi dell’avvento
della democrazia e che quindi lo potessero risparmiare, però era troppo compromesso. Comunque Lavoisier era un borghese ma era anche facoltoso di famiglia e il
laboratorio più all’avanguardia d’Europa, cioè quello costruito da lui all’Arsenale i cui
strumenti Beretta ha quantificato per oltre 100 mila degli attuali euro, conservati ora
a Parigi, è stato costruito probabilmente anche con i soldi che Lavoisier riceveva come
fermier. Però, ce ne fossero oggi persone che investono così il denaro!
Pietro Omodeo
Su questo non c’è dubbio questa però è una visione un po’ moderna, il popolo francese
allora non faceva queste riflessioni.
Angela Bandinelli
Io non voglio fare la difesa di Lavoisier da questo punto di vista, però nel 1789 scrisse
queste cose, perché c’era un dibattito in corso, e contemporaneamente promuoveva,
prese anche posizione nei confronti del nuovo corso, ciò nonostante ci rimise la testa
perché erano anni e anni che era una delle autorità più importanti della ferma
nazionale.
26
Pietro Omodeo
Anche il suocero era un grande fermier e fu ghigliottinato con il genero. E’ commovente
come percepisca la propria posizione di pericolo estremo e cerchi di rimediare e scrive
anche, nell’imminenza del processo “io mi ritirerò in campagna, farò il farmacista,
camperò di quello che renderà il mio lavoro manuale e intellettuale”. Certamente è un
personaggio che merita molto.
Angela Bandinelli
Volevo sottolineare che è anche un grande filosofo. Io sono stata recentemente al Max
Planck: i fisici lo considerano un chimico e i chimici lo considerano un fisico, insomma
è uno sfortunato, io mi sono veramente stupita di questa cosa quindi ho rivendicato
questa dimensione di un grande al pari di un Newton, o di un Leibniz, per cui dovrebbe
entrare nei manuali di Storia della filosofia perché c’è filosofia nell’opera di Lavoisier.
E’ un autore che ha lasciato tantissimi scritti, quindi ci vorrà tempo per affrontarne tutta
l’opera, anche perché è un po’ faticoso, come quando fa le considerazioni relative al
passaggio dall’aria pura al fluido igneo. Holmes, un grande studioso di Lavoisier, ha
definito l’emergenza di questa carriera scientifica come l’imbarazzo di uno scienziato
che, come si può leggere dalle note di laboratorio, prima prende posizione più vicine
a Priestley, poi verso Sheley, quindi la sua è una carriera in fieri che non è così, ipso
facto, delineabile. Comunque questa è una cosa importante da sottolineare, è un
grande filosofo.
Pietro Omodeo
Quello che gli ha nociuto è stata la santificazione dopo la ghigliottina. Santificare non
giova mai alle persone.
Angela Bandinelli
Poi i nazisti hanno pensato bene di buttarne giù la statua a Parigi, proprio intenzionalmente e c’è stata ora la riappacificazione Germania-Francia perché al Deutch Museum
hanno messo tra tutti gli scienziati tedeschi anche il busto di Lavoisier. C’è stata proprio
a settembre dell’anno scorso la proclamazione di questa pacificazione GermaniaFrancia a memoria di questo senso di colpa legato al busto di Lavoisier.
Se si leggono le riviste specializzate relativamente al dibattito a seguito della natura
composta dell’acqua, si nota che Priestley fino all’ultimo pensava che l’acqua
precipitasse dalla rottura delle molecole d’aria, cioè che l’acqua fosse contenuta come
altre sostanze nelle molecole d’aria, aveva dunque una concezione del composto come
aggregazione. In lui non c’è assolutamente l’idea del mutamento chimico, che è
lavoisieriano ed è proprio della chimica moderna, l’approccio di Priestley è di somma
e sottrazione della quantità di materia in gioco, infatti egli spiegava tutto con il flogisto,
c’è in lui un approccio di ordine meccanico. Io sono più propensa a pensare che
Erasmus Darwin si fosse ben accorto delle discussioni che stavano incendiando
l’Europa, era ormai evidente, alla fine degli anni ’90, che le cose si stavano sfrangiando
e l’affermazione della nuova chimica era cosa fatta forte dei risultati sulle probabilità
delle ipotesi.
Un collega
Una considerazione a fronte dell’importanza e dell’influenza di Lavoisier che emerge
da questa relazione: credo che gran parte di noi insegnanti abbia di Lavoisier soltanto
la citazione del principio di Lavoisier e, per quanto mi riguarda, io ho intuito
l’importanza di Lavoisier indirettamente, leggendo un libro in cui due astronomi si
27
riferiscono alla situazione parigina e all’esperienza di Lavoisier nel campo della
Scienza oltre che del governo. Mi domando: a scuola chi si deve occupare di questi
personaggi la cui influenza nella scienza è indiscutibile, perché io sarei un po’
preoccupato che Lavoisier trovasse posto in un manuale di Storia della Filosofia.
Angela Bandinelli
Deve stare anche nei manuali di storia della Filosofia, ma senza toglierlo dai manuali
di Fisica e di Chimica. Se siete interessati, ne parlavamo prima con il Prof. Omodeo
perché è stata una delle discussioni al Max Planck; è noto che Lavoisier nel Trattato
elementare di chimica, pone il calorico come elemento nella tavola delle sostanze ma
vi pone anche la luce. Nella Memoria sul calore del 1783 scritta in collaborazione con
il matematico Laplace, il calore viene definito come forza di resistenza alla gravità, vis
viva, forza viva; intenzionalmente si decide di uscire dall’ottica newtoniana per cui la
f = m · a e si definisce secondo l’ottica leibniziana il calore come mv2: è una intuizione
che prelude a tutto un discorso di discipline ottocentesche, sono intuizioni, però in
questa memoria sul calore, che è celeberrima e non è per niente facile da leggere, ci
sono intuizioni di ordine filosofico che preludono a tutta la scienza ottocentesca, e
siamo nel 1783, quindi che il calore sia una forza e non sia materia viene stabilito come
ipotesi e richiamato nel Trattato elementare di chimica. Dice Lavoisier: “Non importa
supporre che il calore sia materia, usciamo dalle discussioni circa la natura, a noi
interessa misurare gli effetti o le quantità di calore”; siamo in un’ottica moderna che
è assolutamente sconosciuta nelle tradizioni della Chimica e della Fisica settecentesche; quando nella prima memoria, nella Memoria sulla respirazione degli animali dice
“Si potrebbe misurare ciò che c’è di meccanico nel lavoro di un filosofo che riflette”,
cioè il corpo viene considerato come un laboratorio di operazioni chimiche, non più
come una macchina, come si diceva stamattina, di ingranaggi i cui elementi hanno le
stesse caratteristiche della macchina generale, c’è un senso di progressione, di
interrelazione, c’è una tradizione assolutamente moderna.
Altro intervento
C’è qualche rapporto con Carnot? Ha detto che meno conosciuto è l’antagonismo con
Senebier (?)
Angela Bandinelli
Sono i miei studi infatti, Joule, l’equivalente meccanico del calore; Senebier si convertì;
io ho ricostruito il dibattito nell’ordine dei giorni attraverso le riviste scientifiche, è una
cosa assolutamente esaltante vedere come questi scienziati ad uno ad uno cadessero
in crisi e poi davanti alle discussioni mollassero; Priestley è uno di questi, che alla fine
dice: “Ma ci sono esperimenti che possono dimostrare che l’acqua è l’una e l’altra cosa”
cioè che l’acqua non sia un precipitato delle molecole d’aria ma che sia un prodotto
derivato dai due gas, cioè piano piano scivola nell’accettazione dell’evidenza dei fatti
sperimentali.
Nella memoria sul calore quando arrivano a trattare la sezione combustione e
respirazione alla fine si dice “ Siamo arrivati a capire che cosa è che conserva la vita
e senza ipotesi” dice Lavoisier, si riferisce senza ipotesi del principio vitale, senza
ipotesi del flogisto, cioè siamo arrivati a quantificare il rinnovamento delle funzioni
vitali. Questi due scienziati hanno congegnato una macchina, il calorimetro a ghiaccio
nato dall’idea di mettere un topolino dentro una sfera di ghiaccio concava e lasciato
lì in ottime condizioni di salute per una decina di ore; poi il ghiaccio si scioglieva per
evidente emissione calorica e l’acqua raccolta era secondo loro la misura della forza
viva usata dal topolino per rinnovare la sua temperatura. Siamo quindi in un’ottica
28
assolutamente ottocentesca tramite questo tipo di analisi. Poi c’è tutto il discorso della
introduzione dell’analisi matematica, delle equazioni lineari. Lavoisier aveva bisogno
di un matematico che traducesse in una equazione lineare quella che era la sua idea,
perché era la tradizione scozzese di Blake, Crawford; anche loro studiavano il
problema della conservazione animale; avevano scoperto che due corpi a contatto
dopo un po’ di tempo raggiungono la stessa temperatura, raggiungono la temperatura
uniforme; per intuito si pensa che il calore vada da uno all’altro, giustamente; dopo
un po’ di tempo si raggiunge l’equilibrio. Nella Memoria del calore si affronta lo stesso
esperimento con un altro approccio; dice Lavoisier: “Siccome si suppone che il calore
sia costante in un sistema di corpi allora la forza viva persa dall’uno è uguale alla forza
viva acquisita dall’altro”; ecco l’equazione che poi dà una x che è il calore specifico e
che mi permette con il metodo sperimentale e il calorimetro di avere valori di calore
specifico.
Altro intervento
Una precisazione, a proposito delle molecole di acqua di Priestley, vorrei sapere se il
termine esatto è molecola d’acqua o altro.
Angela Bandinelli
Molecule, sì, non con l’accezione della molecola ottocentesca, però si trovano questi
termini come atomi ecc. ma da storica della scienza devo dire che anche se i termini
sono gli stessi, nell’arco di pochi anni i significati cambiano inesorabilmete, per cui
vanno sempre contestualizzati.
29
L’attualità di Darwin
M ARCELLO B UIATTI
Premessa
Credo che sarebbe sbagliato e anche in parte controproducente affrontare il problema
della eliminazione dello studio di Darwin e della sua opera dalle scuole patrie solo
schierandoci in difesa dei valori laici e della svolta in questo senso che il grande
evoluzionista ha determinato nel modo di pensare del Mondo occidentale. Non che
non sia giusta questa posizione, in particolare in un Paese in cui per molto tempo e a
tratti anche adesso, la Chiesa è stata fonte di idee oscurantiste e contrarie alla scienza.
Tuttavia le cose sono molto cambiate da diverso tempo e, almeno in materia di
evoluzione, non vi è dissidio sostanziale fra i cattolici ed i laici nell’ammettere che
evoluzione vi sia stata salvo magari accentuare da parte dei credenti in questa religione
la natura teleologica della storia degli esseri viventi, secondo alcuni tutta mirata alla
nascita della nostra specie. Inoltre, trattare la questione in quel modo ci farebbe
colpevolmente trascurare del tutto la discussione su Darwin all’interno della scienza e
con essa il modo distorto con cui i concetti di Darwin sono stati e sono ancora
presentati nei mezzi di comunicazione di massa, nelle scuole ed anche nella Università
in nome del neo-darwinismo e della visione meccanica della vita che ne deriva.
Secondo me è giunto il momento di tornare a Darwin dopo la ubriacatura positivista
derivata dal dogma centrale anche sulla base di una visione materialista ma non
meccanica che proprio molti dei nostri laici tendono colpevolmente a dimenticare. Ho
sempre creduto che la equivalenza materialismo = meccanicismo sia stata una delle
cause di molte delle sconfitte dell’area laica incapace di confrontarsi con i fenomeni
dinamici complessi che pure a tanti sono stati sempre evidenti.
Certo, la concezione meccanica, primo risultato della applicazione vincente del
metodo riduzionista allo studio degli esseri viventi, ha avuto grandi e meritati successi
e per questo ha dominato la scena della scienza fino a pochi anni fa. Prova ne sia la
affermazione a lungo incontrastata del neo-darwinismo della “Sintesi moderna” di
Huxley, del Dogma centrale che individua nel DNA l’“invariante” fondamentale”
(Monod,1972) che ci determina completamente, della metafora informatica (Buiatti
1998) che identifica gli esseri viventi con un computer dotato di un unico ed invariabile
programma. Non a caso infatti i nostri libri di testo identificano Darwin stesso con
il neo-darwinismo e per questo lo snaturano in modo consistente. La ragione di questo
mio insistere su questo punto sta invece nel fatto che Darwin aveva in realtà anticipato
una serie di concetti che nel terzo millennio si stanno prepotentemente affermando e
che invece non potevano essere popolari in un Novecento tutto teso ad affermare la
onnipotenza degli esseri umani e la loro capacità di predizione totale delle dinamiche,
molto rassicurante nei tempi di rivoluzione industriale. Non a caso è proprio la
ideologia industrialista che è stata l’antagonista dell’ambientalismo che ha sempre
identificato come limite invalicabile l’esistenza di aree di impredicibilità (ignoranza)
intrinseca in tutta la natura e in particolare nei sistemi viventi.
La divergenza fra Darwin e il neodarwinismo è particolarmente evidente in relazione
ai due concetti di indipendenza ed additività dei componenti dei sistemi viventi da una
30
parte, di assenza di effetti significativi dell’ambiente dall’altra. Ambedue i concetti sono
perfettamente adeguati alle macchine che infatti sono costituite di componenti
indipendenti la cui natura non cambia se sono o no associati fra di loro in un
assemblaggio, e il cui progetto, in quel caso di origine umana, non è in alcun modo
influenzato dall’ambiente. Le macchine infatti non cambiano progetto durante la loro
esistenza (non si adattano) ma possono solo essere degradate (perdere il progetto).
Vediamo cosa dice Darwin:E’interessante contemplare una plaga lussureggiante... e pensare che
tutte queste forme così elaboratamente costruite, così differenti l’una dall’altra in maniera così complessa,
sono state prodotte da leggi che agiscono intorno a noi. Queste leggi, prese nel loro più ampio significato,
sono la legge dell’accrescimento con riproduzione, l’eredità che è quasi implicita nella riproduzione; la
variabilità per l’azione diretta e indiretta delle condizioni di vita e dell’uso e non uso; il ritmo di
accrescimento così elevato da condurre ad una lotta per l’esistenza, e conseguentemente alla selezione
naturale, che comporta la divergenza dei caratteri e l’estinzione delle forme meno perfette. Quindi, e
qui, come spesso accade, Darwin ha del profetico, Un grandioso e pressoché inesplorato
campo di ricerca si aprirà sulle cause e sulle leggi della variazione, sulla correlazione, sugli effetti dell’uso
e del non uso, sull’azione diretta delle condizioni esterne e così via. Queste aree di ricerca, che
avrebbero dovuto chiarire i temi più importanti per la comprensione completa dei
processi evolutivi ancora oscuri al tempo di Darwin, sono state trascurate per
moltissimo tempo ma hanno avuto tutte un forte sviluppo in anni più recenti e lo hanno
ancora adesso. In particolare per Darwin il tema della correlazione fra parti era di
grandissima importanza. Per Darwin infatti: La variabilità è regolata da molte leggi
sconosciute, la più importante delle quali è forse quella dello sviluppo correlato. E ancora: Vediamo
dunque che nelle piante, molti cambiamenti morfologici possono essere attribuiti alle leggi dell’accrescimento e della interazione fra le parti, indipendentemente dalla selezione naturale... Perciò sono incline
a credere che le differenze morfologiche che consideriamo importanti,come la disposizione delle foglie, le
divisioni del fiore e dell’ovario, la posizione degli ovuli ecc. inizialmente comparvero in molti casi come
variazioni fluttuanti, che prima o poi divennero costanti a cagione della natura dell’organismo e delle
condizioni ambientali,come pure a cagione dell’incrocio fra individui distinti, ma non per effetto della
selezione naturale. Del resto anche negli animali le correlazioni sono di grande importanza
in quanto, Affinché un animale possa acquisire una struttura sviluppata in modo particolare, è quasi
indispensabile che diverse altre parti si modifichino e si adattino reciprocamente. Il termine
variazione correlata viene infatti così definito da Darwin: Con questa espressione voglio
indicare che le diverse parti dell’organismo sono così strettamente collegate durante l’accrescimento e lo
sviluppo, che quando compaiono, in qualsiasi parte, leggere variazioni, e si accumulano per selezione
naturale, le altre parti subiscono modificazioni. Detto in altri termini, questo sembrerebbe
significare che le parti sono in qualche modo vincolate l’una all’altra di modo che una
variazione non può essere fissata indipendentemente senza che si ripercuota sulle parti
correlate a quella in cui è avvenuta. Ne discende che la correlazione, le cui leggi sono
per Darwin misteriose, limita il numero di forme possibili in forza dei vincoli che legano
le diverse parti. Queste affermazioni, ripetute più volte negli scritti di Darwin,
introducono per la prima volta in Biologia il concetto di non additività degli eventi e
cioè il fatto che una modificazione, inserita in un contesto, influisce in zone di questo
contesto in cui non è avvenuta ma a cui è legata da una interazione, determinando effetti
31
non interamente prevedibili a partire dalla conoscenza della sua natura al di fuori del
contesto. Questo, Darwin non l’ ha detto esplicitamente, ma dalla non additività e dal
rapporto evento-contesto di cui si parlava, discende che ci possono essere regole del
contesto legate al suo funzionamento che influiscono sulla “accettazione” di modificazioni in un componente prima che il tutto sia sottoposto al filtro finale che è quello
selettivo.Ciò significherebbe l’esistenza di una certa “autonomia decisionale” dell’interno rispetto all’esterno, derivante dallo stato delle sue connessioni, dalle loro regole
e dall’effetto che una modificazione potrebbe avere sulla vitalità dell’organismo a
prescindere, in prima istanza, dalle sue interazioni con l’ambiente. Cito ancora il
Darwin della Origine su questo punto: Geoffroy e il vecchio Goethe formularono, quasi
contemporaneamente, la legge della compensazione o equilibrio dell’accrescimento ovvero, per usare la
espressione di Goethe, per largheggiare da una parte la natura è costretta ad economizzare da un’altra.
Per quanto riguarda le possibili interazioni fra ambiente e organismo va detto che
Darwin non è mai giunto ad elaborare con chiarezza una teoria definitiva sulla origine
della variazione. Nella sua monumentale opera su questo argomento Darwin si mostra
infatti dubbioso quando dice: Se noi ci facciamo la domanda, perché questo o quel carattere sia
stato modificato allo stato domestico, noi ci troviamo generalmente avvolti in dense tenebre. Molti
naturalisti, e soprattutto quelli della scuola francese, attribuiscono quelle modificazioni al monde
ambiant, ossia al cambiamento del clima con tutte le sue differenze di temperatura, di umidità e di siccità,
di luce ed elettricità, alla natura del suolo e alla diversa qualità e quantità di nutrimento. Prosegue
poi nel capitolo finale: Quantunque ogni modificazione debba avere la sua causa determinante, ed
essere sottomessa ad una legge, noi possiamo così raramente intendere la relazione fra causa ed effetto
che siamo portati a parlare delle variazioni come sorte spontaneamente. Noi possiamo chiamarle anche
accidentali, ma nel senso soltanto che noi diamo al termine, dicendo, per esempio, che un frammento di
roccia cadendo da una altezza deve la sua forma al caso. Questo non per dire che Darwin fosse
lamarckiano ma per riaffermare che era ben cosciente che l’organismo, nella dinamica
della sua struttura-funzione, è il risultato di una continua interazione fra interno ed
esterno.
Neodarwinismo fra additività e interazione
Come è noto, la nascita della Genetica, avvenuta con la “riscoperta” delle leggi di
Mendel, all’inizio del ’900, introdusse all’inizio elementi di pesante conflittualità nel
dibattito sulla dinamica dei processi evolutivi. Dagli esperimenti di Mendel e dei suoi
riscopritori, infatti, il patrimonio ereditario degli individui sembrava essere paragonabile ad un “sacco di fagioli” (Mayr), insieme di elementi discontinui non collegati, ad
azione del tutto additiva, che si distribuivano a caso di generazione in generazione. Non
a caso, Hugo de Vries, l’unico dei “riscopritori” a trarre delle conseguenze teoriche da
questa visione, praticamente rifiutava gran parte del darwinismo e attribuiva l’evoluzione alla fissazione casuale di varianti (le mutazioni), negando il ruolo determinante
della selezione e con esso anche le altre leggi delle variazioni.Il dibattito fra i mendeliani
e i darwinisti puri della scuola di Galton fu accesissimo sia sulla alternativa fra caso (le
mutazioni, l’assortimento) e la necessità (l’adattamento selettivo) che su quella fra
discontinuità e continuità fino a quando il nascente neodarwinismo non costruì un
32
compromesso ritenuto, allora almeno, sufficiente. Secondo questo compromesso,
come è noto, sia il caso (la cosiddetta deriva genetica e la mutazione) che la selezione
hanno un ruolo nell’evoluzione e la continuità della distribuzione dei valori dei caratteri
cosiddetti quantitativi come il peso, l’altezza ecc.) deriva da una somma di piccole
discontinuità mendeliane sulla cui espressione influisce, a confondere ancora più le
cose, l’ambiente. Il compromesso in questa sua prima versione non riguarda il
problema della additività dei fattori, poco rilevante per gli oppositori del mendelismo
che erano soddisfatti della interpretazione dei caratteri quantitativi e del fatto che anche
l’evoluzione era interpretabile come un continuo succedersi di eventi piccoli e
discontinui, evitando così il problema dei “salti” evolutivi introdotti dal solo DeVries.
E infatti la genetica di popolazione, base della interpretazione neo-darwiniana della
evoluzione, si fonda su estrapolazioni a n geni del comportamento probabilistico di
un gene o meglio delle sue diverse forme (alleli) compresenti nelle popolazioni. Tutto
deriva infatti dallo studio classico di un gene che possiamo indicare con la lettera a che
ha due sole forme alleliche (A e a) a frequenza rispettivamente p e q negli individui di
una popolazione, per cui i genotipi possibili, dato che ogni individuo ha due e due sole
copie di un gene, saranno AA (frequenza p2), aa (frequenza q2), Aa (frequenza 2pq).
Nel processo evolutivo, molto sinteticamente, la frequenza p tenderà a salire se l’allele
A conferisce vantaggio selettivo e quindi maggiore capacità riproduttiva all’individuo
che lo possiede nel suo genotipo mentre q salirà nel caso opposto. Questa la versione
classica proposta dai fondatori della genetica di popolazione S. Wright, R. A. Fisher,
J. B. S. Haldane e in particolare dal secondo di essi che fu anche quello complessivamente più rigido nel sostenerla. Le cose sono poi parzialmente cambiate nel senso che
i dati sperimentali e il sorgere di sub-teorie derivate dal neodarwinismo hanno imposto
aggiustamenti anche di non poco conto.
Il primo di questi è derivato dalla scoperta, fatta quasi contemporaneamente da
genetisti vegetali ed animali che si occupavano del miglioramento genetico delle specie
domesticate, che gli individui che possedevano contemporaneamente due alleli diversi
di molti geni (gli “eterozigoti” del tipo Aa, quindi) tendevano di per sé ad essere più
vigorosi e quindi avvantaggiati. In questo caso, quindi, si era di fronte ad una interazione
che determinava un effetto diverso da quello previsto dalla somma degli effetti dei due
componenti presi a sé. Giova notare che il vantaggio selettivo dell’eterozigote tende
a stabilizzare p e q e cioè verso p=q = 0,5, aumentando, a differenza della selezione
naturale per uno degli alleli, l’ entropia del sistema per quanto riguarda le frequenze dei
singoli alleli. La questione cambia se, invece, consideriamo i genotipi nel loro
complesso, in quanto combinazioni di alleli di molti geni. In questo caso, il vantaggio
selettivo delle combinazioni eterozigoti alza la probabiità di queste rispetto a quelle
“omozigoti” (con i due alleli uguali) e in questo senso riduce l’entropia dei genotipi nel
loro complesso. Si è visto poi che l’effetto dell’eterozigosi, detto “eterosi”, è
essenzialmente dovuto ad una maggiore capacità di mantenere costante la strutturafunzione dell’organismo in presenza di variazioni ambientali. A questo tipo di
“omeostasi” del fenotipo corrisponde una omeostasi genetica che è appunto data
dalla tendenza a stabilizzare le frequenze alleliche della popolazione come ha discusso
33
approfonditamente I. M.Lerner nel suo famoso libro del 1954 intitolato appunto
Genetic Homeostasis. Mentre questo avveniva, del resto, stavano nascendo la genetica
biochimica e quella molecolare e cominciavano ad arrivare le prime dimostrazioni di
interazione fra prodotti di geni diversi e fra i geni stessi. Si giunge così, alla fine degli
anni ’70-inizio anni ’80 alla enunciazione del concetto di “paesaggio genetico”(genetic
landscape), introdotto dal vecchio Sewall Wright che può anche essere chiamato, come
lo ha chiamato molto dopo Stuart Kauffmann, “paesaggio di adattabilità” (fitness
landscape ove per fitness si intende la capacità riproduttiva differenziale di individui con
un determinato genotipo). Per capirci, diciamo che lo “spazio dei genotipi” è dato da
tutti i genotipi possibili in una popolazione di un organismo.
La genetica dei caratteri quantitativi e le correlazioni
Come ho accennato precedentemente, i “compromessi” neodarwiniani fra darwinismo e genetica furono due. Il primo, ora discusso, verteva sulla teoria evolutiva, il
secondo interpretava in termini mendeliani la variazione continua, quella dei caratteri
detti quantitativi. La continuità, come si è detto, risultava dalla somma di molti
cambiamenti numerici discontinui e dall’azione dell’ambiente sulla espressione dei geni
relativi.Per la prima volta veniva così introdotto esplicitamente il concetto che il
fenotipo è in realtà il derivato della interazione fra genotipo ed ambiente e non riflette
quindi solo il primo come sembrava apparire dalla genetica mendeliana. La genetica
dei caratteri quantitativi che nacque su questa base di principio, ha elaborato poi una
serie di strumenti di calcolo statistico anche molto raffinato che permettono di valutare
numericamente l’impatto relativo del genotipo e dell’ambiente sulla quantità e struttura
della variabilità esistente in una popolazione. Dato che molti dei caratteri quantitativi
hanno importanza per la produzione agricola sia animale che vegetale, è di facile
comprensione il fatto che lo sviluppo di questa branca sia stato promosso da allevatori
e coltivatori e sia stato in gran parte opera dei selezionatori (plant and animal breeders).
Questi si sono subito dovuti confrontare con le darwiniane variazioni correlate in
quanto si è osservato che selezionare per un carattere quantitativo poteva portare a
modificazioni nella distribuzione dei valori di un altro, magari in modo imprevisto. Per
questo sono stati elaborati metodi statistici che hanno permesso di valutare la stretta
correlazione esistente fra diversi caratteri di una stessa popolazione permettendo anche
in questo caso una analisi dell’importanza relativa della componente genetica e di quella
non ereditaria. Si è potuto osservare così che il genotipo agisce in modo fortemente
concertato, almeno per quanto riguarda questo tipo di caratteri, formando una fitta
rete di correlazioni più o meno strette (il “coefficiente di correlazione” va da 0 ad 1
ed è 1 nel caso di completa linearità della corrispondenza dei valori di due parametri
correlati). L’interpretazione della quota genetica delle correlazioni è qui sviluppata sulla
base dell’ipotesi che gli alleli dei molti geni coinvolti nella determinazione dei valori di
un carattere quantitativo (si parla appunto di sistemi “poligenici”), diano ognuno un
contributo numerico più o meno alto alla determinazione dei valori di quel carattere
in una popolazione. Una correlazione positiva fra due caratteri vorrà quindi dire che
ad alte frequenze di alleli con contributo positivo per un carattere corrispondono
34
elevate frequenze di alleli con lo stesso tipo di effetto anche per l’altro e che lo stesso
avviene per quanto riguarda i contributi che fanno abbassare la media in tutti e due i
casi.Tutto questo significa, di nuovo che le distribuzioni degli alleli dei geni per i due
caratteri sono tanto più vincolate quanto più alta è la correlazione. E’ evidente in ogni
modo che da tutto questo appare chiara l’esistenza di un qualche ordine interno fra i
geni che influiscono su questi caratteri relativamente complessi, di cui il selezionatore
non può non tenere conto. Il risultato potrebbe infatti essere globalmente negativo se,
selezionando per i valori positivi di un carattere, ci si “portassero dietro” i valori
negativi di un altro, al primo correlato, e magari di uguale o maggiore importanza. Si
può allora anche dire, darwinianamente, che, se questa è una modalità di comportamento dei corredi genetici per quanto riguarda la selezione artificiale, lo dovrebbe
essere anche per quella naturale. In altre parole anche quest’ultima non potrebbe
scegliere qualsiasi combinazione di geni ma sarebbe in qualche modo vincolata, nelle
scelte, dalla esistenza di correlazioni. Conviene qui ancora considerare, per quello che
implica per il ragionamento generale che sto cercando di sviluppare, che l’esistenza
stessa di un vincolo di correlazione è fuori dal concetto di pura additività delle azioni
geniche. Possiamo allora ricordare che è stata proprio la genetica dei caratteri
quantitativi che ha elaborato metodi statistici per la analisi del fenomeno della eterosi,
di ovvia, grande, importanza applicativa fino a permettere la valutazione in termini
numerici del contributo alla eterosi stessa della componente additiva e di quella non
additiva (la cosiddetta “abilità combinatoria specifica”). La suddivisione fra queste due
componenti del resto è calcolabile numericamente mediante l’uso di una serie di
metodi avanzati di scomposizione della variabilità dei caratteri quantitativi e comprende la stima sia delle interazioni fra alleli che di quelle fra geni (la cosidetta “epistasi”)
che sono ambedue considerate sempre presenti come del resto lo è la componente
non additiva della interazione con l’ambiente. Questa è un’altra quantità di variabilità
di grande importanza che tiene conto del fatto che i diversi genotipi reagiscono
diversamente a variazioni ambientali uguali dando ancora una volta risultati non
interamente prevedibili sulla base della sola conoscenza degli ambienti e dei genotipi
non interagenti.
Ordine e processi di sviluppo
Come ho accennato precedentemente, il concetto della esistenza di vincoli derivanti
dalla interazione non additiva fra le parti, che riducono la libera azione della selezione
naturale da parte dell’ambiente, è presente in Darwin e nella stessa genetica di caratteri
quantitativi di derivazione neodarwiniana. Questa anzi giunge fino a valutarne
numericamente l’impatto relativo, ma nonostante questo il concetto della indipendenza dei geni e dei caratteri non ne risulta inficiato e continua a permanere in praticamente
tutti i testi di genetica di gran parte del Novecento, anche se, naturalmente non nel
capitolo specifico dei caratteri quantitativi. Questa strana rimozione di dati e concetti
non coerenti con lo spirito del tempo o, se vogliamo, con quella che Kuhn chiamava
la “scienza normale”, penso derivasse anche dal fatto che le basi materiali di questi
vincoli apparivano allora poco chiare ai genetisti ed agli evoluzionisti e che, nonostante
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tutto, il modello additivo è nettamente più facile da analizzare ed era predominante
in una Biologia che sembrava aver trovato nel funzionamento della macchina
molecolare basata sul DNA la chiave per una interpretazione completamente
meccanica e quindi additiva della vita. Sono non a caso gli embriologi ed in genere i
biologi dello sviluppo e non i genetisti puri che invece si accorgono della difficoltà di
comprendere su questa base i processi dinamici complessi della differenziazione
cellulare che portano alla formazione dell’organismo intero dalla sola cellula uovo
fecondata ed allo svolgersi del ciclo vitale. Sono ancora soprattutto alcuni biologi dello
sviluppo che si accorgono del fatto apparentemente banale che l’evoluzione è fatta da
un susseguirsi di cicli vitali e che quindi le regole di questi ultimi, se ve ne sono, possono
essere utili anche per interpretare la dinamica evolutiva. Se vogliamo, la domanda
fondamentale che molti si pongono è, innanzitutto, come possa, da un uovo
indifferenziato, iniziare un processo che dura tutto un ciclo vitale, in cui si crea
continuamente ordine ed un ordine con una storia, attraverso la ingestione e la
eliminazione di materia non ordinata dall’esterno e di energia, e come parte di questo
stesso ordine possa essere trasmesso di generazione in generazione.
Conrad Hal Waddington, insieme genetista, biologo dello sviluppo ed evoluzionista,
è stato probabilmente il primo a tentare una reale unificazione fra biologia dello
sviluppo e genetica evoluzionistica sottolineando il fatto, ovvio, ma fino ad allora
essenzialmente trascurato, che ad essere oggetto di selezione non è mai direttamente
il genotipo ma il fenotipo, l’organismo nella sua interezza, per cui la storia vitale di
questo deve essere tenuta presente nello studio della storia della vita nel suo complesso
e cioè della dinamica evolutiva. Si tratta allora di studiare l’epigenesi e cioè l’insieme
degli eventi che avvengono durante un ciclo vitale e che comportano per Waddington
una progressiva acquisizione di informazione non contenuta nel genotipo ma derivante dalla interazione fra questo e l’ambiente. La dinamica della forma-funzione di un
organismo risente tanto delle regole di coerenza del fenotipo da avere un continuo
comportamento omeostatico o meglio,”omeorretico” nel senso che si mantiene
coerente con sé stessa rispondendo alle variazioni ambientali ed interne con sistemi di
“riparo”del cambiamento, ma contemporaneamente scorre utilizzando un fascio
relativamente ampio di possibilità date, di nuovo, dalla interazione storica fra genotipo
ed ambiente. Si può così individuare un “paesaggio” epigenetico concettualmente
parallelo a quello genetico di cui si è parlato precedentemente, dato proprio dallo
spazio di possibilità dell’organismo.
La struttura di questo paesaggio, discussa ed elaborata da Waddington in stretta
collaborazione con l’amico matematico René Thom, si può rappresentare come un
insieme di valli (minimi) e di monti fra di esse. Un organismo quindi, allo stato di uovo,
ha davanti a sé tutto il paesaggio possibile e, quando parte, il suo cammino si muove
cercando, per quanto gli è permesso, di mantenersi in condizioni ottimali e cioè nei
minimi. L’ambiente e la sua storia tendono quindi a influenzare il percorso che va avanti
per scelte successive e quindi per successive “canalizzazioni” che comportano una
progressiva perdita di gradi di libertà. In tutto questo i geni funzionano come un
insieme tanto concatenato da far sì che, non essendo tutte le combinazioni necessaria36
mente compatibili con le regole armoniche del fenotipo, non tutte saranno possibili.
Sul piano evolutivo questo significa che da un minimo non ci si potrà sempre muovere,
nel paesaggio genetico, ad una posizione immediatamente vicina che potrebbe essere,
appunto, incompatibile, ma si dovrà in alcuni casi “saltare” ad un nuovo equilibrio
funzionale (un nuovo minimo) anche relativamente distante. Si verificherà quindi un
evento “catastrofico” alla Thom, di passaggio da una forma, funzione ad un’altra
nettamente diversa. In tutto questo, naturalmente, il ruolo della selezione naturale resta
determinante ma non libero dai vincoli che derivano dalla struttura e dalle interazioni
fra gli elementi che compongono il fenotipo. E’ in questo senso che Waddington
invitava ad elaborare un nuovo paradigma dello sviluppo e della evoluzione, il
“paradigma fenotipico”.
Nonostante la costante presenza di una linea di pensiero che contestava anche
pesantemente la antica visione del genotipo come somma di geni indipendenti che
funzionano in modo totalmente deterministico, per lunghissimo tempo ha avuto
partita vinta la visione neo-darwinista di Fisher, molto più coerente delle altre con
quello che sembrava emergere dalla rivoluzione molecolare che, sfruttando la potente
semplificazione del metodo riduzionista, sembrava aver risolto ogni problema. E’
stata poi questa la concezione che è durata di più e prevale tuttora non solo nei mezzi
di comunicazione di massa ma anche nei libri di testo delle scuole ed anche in parte
di quelli per la Università. La codificazione definitiva in termini moderni del
determinismo in Biologia è stata in realtà introdotta da un fisico, Erwin Schrödinger.
Questi, nel 1944, precorse di fatto la Biologia molecolare prevedendo la esistenza di
una macromolecola in cui, secondo un codice preciso, sono scritte le indicazioni per
tutti i caratteri degli esseri viventi. Per cui, diceva Schrödinger, “se si potesse leggere
l’uovo si conoscerebbe la gallina”. Coerentemente con la previsione di Schrödinger,
nel 1953, James Watson e Francis Crick scopersero la struttura del DNA che era stato
poco prima individuato come la “molecola informazionale” e nel 1958, ad opera di
Crick, apparve su NATURE un articolo dal titolo illuminante Il dogma centrale della Biologia
molecolare. In questo articolo l’autore, sulla base dei dati derivanti da una serie di brillanti
lavori sperimentali, affermava che l’informazione genetica, scritta nell’alfabeto a
quattro lettere del DNA, viene trascritta senza possibilità di errore in un alfabeto simile
nella molecola dell’RNA (acido ribonucleico) e poi tradotta nella lingua a venti lettere
delle proteine, gli strumenti della vita, le macromolecole fondamentali per la nostra
struttura ed il nostro metabolismo dalla nascita fino alla morte.
Questo significa in parole povere che: a) i geni e cioè gli elementi ereditari sono fatti
di DNA e le loro funzioni sono “scritte” su questo; b) ogni gene specifica una funzione
indipendentemente dagli altri; c) quello che è scritto sul gene non è ambiguo e
determina in tutto e per tutto il carattere; d) essendo i geni separati e non interattivi noi
siamo completamente dati dalla somma dei nostri geni ; e) se leggiamo il DNA
correttamente conosceremo e saremo in grado di predire perfettamente e compiutamente la nostra vita, morte e miracoli e se ne modifichiamo una parte secondo un
nostro progetto le conseguenze saranno completamente prevedibili; f) la nostra storia
di vita non conta nulla perché è completamente determinata all’inizio.
37
I sistemi viventi secondo questa concezione, sono, come disse nel 1971 Jacques
Monod in un famoso libro, determinati dal caso e dalla necessità. La componente
casuale era data dalle mutazioni (cambiamenti da una variante ad un’altra dei singoli
geni e dall’assortimento casuale dei geni e degli alleli ad ogni generazione; la necessità
dal DNA, chiamato da Monod non a caso lo “invariante fondamentale”, rigido e
preciso determinante di tutti i sistemi viventi. Queste affermazioni, come il lettore avrà
compreso, sono estremamente simili a quelle di Laplace se sostituiamo la vita
all’Universo e noi esseri umani al suo “demone”. Secondo questa concezione gli esseri
viventi si distinguono dal resto della materia solo per il meccanismo riproduttivo che
trasmette di generazione in generazione il codice della vita. L’ambiente al massimo
entra in tutto questo solo come giudice esterno che sceglie quelli che hanno avuto la
fortuna di avere ricevuto i DNA migliori e sono quindi in grado di trasmetterli ad una
progenie più numerosa di quella degli altri. La predicibilità da parte dell’uomo è
comunque totale e dipende solo dalle sue capacità tecniche di lettura del patrimonio
genetico degli organismi. Questa visione della vita è stata poi avvalorata nei primi anni
’60 del Novecento dalla decifrazione del codice secondo il quale la informazione
contenuta negli acidi nucleici (DNA e RNA) viene tradotta in proteine e si è mantenuta
largamente prevalente fino agli anni ’90 dello stesso secolo, anche se era dagli anni ’70
che si andavano accumulando le cosiddette eccezioni al dogma centrale. Può essere
interessante notare che in Fisica il programma di Laplace era andato in crisi molto
prima con la meccanica quantistica e poi nella seconda metà del Novecento con gli
studi sempre più rilevanti sui “ sistemi complessi” su cui ritorneremo in seguito. Le cose
hanno cominciato a cambiare solo negli ultimi decenni del Novecento a causa
dell’accumularsi di dati, ottenuti anch’essi con il potente metodo di impostazione
riduzionista della Biologia molecolare, che erano in contraddizione con la visione
concettualmente derivata dal dogma centrale. In altre parole quella che è stata
fortemente messa in dubbio è la cosiddetta “metafora informazionale” che assimila
di fatto gli esseri viventi a computer che si auto-costruiscono sulla base di un progetto
immutabile trasmesso di generazione in generazione. E’ andata cioè in crisi la versione
più recente della “macchinizzazione della vita” (Buiatti, 1998) quando si è andato
scoprendo che i sistemi viventi, per restare tali, hanno bisogno non di un programma
rigido ma di plasticità, elemento essenziale per la sopravvivenza attraverso l’adattamento. Si parla adesso, con sempre maggiore chiarezza, di “strategie esplorative” e di
“evolvibilità”. Con il primo termine si intendono appunto strategie che si basano sulla
presenza, nei sistemi viventi, di “generatori di variabilità “ fissatisi durante la evoluzione,
che mantengono alto il livello delle diversità fra cui scegliere di momento in momento
i varianti più adatti all’ambiente ma anche, ad esempio, alla età ed allo stato del sistema
stesso. Con evolvibilità si indica invece la capacità di un dato sistema di cambiare in
modo da restare vivente di generazione in generazione. In altre parole un sistema
vivente non è determinato interamente da quanto è “scritto” nel DNA dei suoi
componenti, cellule, individui, popolazioni, ecosistemi che siano, ma anzi ha bisogno
estremo del “disordine benevolo” (Buiatti, 2004) che gli permette di cambiare
opportunamente di momento in momento. Come è stato visto anche nel laboratorio
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di chi scrive, è lo stesso DNA a contenere veri e propri generatori di variabilità sotto
forma di sequenze di “lettere” “ipervariabili”. Il DNA infatti, come è noto, non è altro
che una sequenza di quattro “lettere” (A,T,G,C) che si susseguono con un ordine non
necessariamente casuale. In particolare, le sequenze cosiddette “omogenee” e cioè
costituite da ripetizioni dello stesso “motivo” (ad esempio tutte A, o tutte G-C o tutte
A-T ecc.) tendono ad essere “fragili” e cioè a rompersi e riarrangiarsi con una
frequenza maggiore delle altre. E’ interessante notare che sequenze di questo genere
sono spesso presenti in geni che hanno a che fare ad esempio con la risposta a patogeni
o in genere a stress proprio perché di fronte ad attacchi non previsti l’organismo ha
bisogno di trovare sempre nuove “ armi” che gli permettano di respingerli. Sono
anche ricche in zone omogenee le stringhe di DNA che non servono a fare le proteine
ma a indicare quando, dove e quanto devono essere prodotte (sequenze “non
codificanti” o “regolatrici”). L’importanza dei meccanismi di regolazione, ancora in
via di chiarimento, risulta evidente da quanto si è appreso molto recentemente dal
sequenziamento di un numero elevato di genomi fra cui quello umano. Queste analisi
hanno ulteriormente dimostrato innanzitutto che la differenza fra i sistemi genetici
degli eucarioti e dei procarioti è davvero grande. Non tanto però per il numero di geni
che è di un paio di migliaia in un batterio e solo poco più di venti volte di più in un
organismo complesso come il nostro. Il numero dei geni non sembra essere in alcun
modo correlato con i livelli di complessità degli organismi e nemmeno con il numero
di funzioni di cui sono capaci. Anche all’interno degli eucarioti infatti il moscerino
dell’aceto (la Drosophila dei genetisti) ha circa metà geni di noi e il lievito, che è
unicellulare, arriva a poco meno di un quarto. Inoltre moltissimi geni di organismi
anche molto distanti dal punto di vista evolutivo sono quasi uguali. Ad esempio i geni
nostri e quelli dello scimpanzé o del Bonobo, le due specie di primati che ci sono più
vicine, sono praticamente gli stessi, mentre i cambiamenti sono più frequenti nelle zone
non codificanti. Ma la scoperta forse più importante degli ultimi tempi è che se
guardiamo alla quantità complessiva di DNA per cellula il divario fra noi e i batteri è
veramente enorme ma a cambiare è soprattutto il rapporto fra DNA “codificante”
(i geni in senso classico) e non codificante. Ebbene noi esseri umani abbiamo in ogni
cellula circa tre miliardi di “lettere” mentre i batteri ne hanno da cinquecentomila a 56 milioni. Ne consegue che nei batteri i geni veri e propri, ovvero la porzione
codificante di essi (quella che viene trascritta e tradotta in proteine) costituisce circa l’8090% dell’intero genoma mentre nel caso degli esseri umani la quantità relativa di queste
sequenze si riduce al 2%. Il resto, di cui si conosceva già la esistenza da diverso tempo,
veniva anche chiamato con sprezzo “DNA spazzatura”, ma spazzatura davvero non
è in quanto contiene appunto gran parte delle indicazioni per le funzioni di regolazione.
Appare quindi ormai evidente che l’aumento di complessità al passaggio fra procarioti
ed eucarioti è essenzialmente correlato con l’incremento in sequenze regolatrici che
sembrano essere anche responsabili di una parte consistente delle differenze morfofisiologiche fra animali e piante. Entra qui in gioco un complesso di altri meccanismi
generatori di variabilità che potrebbero anche essere considerati come la fonte più
importante della “ambiguità” dei geni e in genere dei genomi. Ove per ambiguità si
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intende la capacità dei genomi dei singoli individui di fornire strumenti per la
realizzazione di diversi percorsi vitali con la stessa informazione genetica. Si può dire
che la ambiguità è possibile: a) modulando in modo concertato la attivazione e inattivazione e la regolazione di combinazioni diverse di geni dello stesso individuo; b)
producendo proteine diverse, con funzioni diverse sulla base dello stesso gene; c)
modificando in vario modo le proteine prodotte e sfruttando la loro versatilità di
funzione.
Per comprendere bene come funzionano questi diversi meccanismi di produzione di
ambiguità bisogna qui introdurre un altro concetto di base della Biologia contemporanea e cioè quello di comunicazione fra componenti di un sistema vivente. La
comunicazione è infatti uno degli elementi fondamentali della vita e si realizza
attraverso il riconoscimento fra molecole, cellule, organismi. Il primo, che ci interessa
immediatamente, avviene per “complementarietà” delle forme in termini sterici ed
energetici. E’ con un meccanismo di questo genere che gli enzimi (le proteine
catalitiche) riconoscono i substrati (le molecole che devono trasformare). I substrati
infatti si complessano con gli enzimi e poi, una volta trasformati, se ne liberano. E’ così
che noi assimiliamo ed eliminiamo, è così che costruiamo tutte le sostanze di cui
abbiamo bisogno volta per volta. L’enzima in questa operazione dovrà quindi
assumere una conformazione precisa per riconoscere e complessarsi con un substrato.
Se la conformazione cambia, quel riconoscimento può non avvenire o, invece, la
proteina può riconoscere un altro substrato e servire a produrre un’altra sostanza.
Essere capaci di assumere più conformazioni significa quindi anche per singole
proteine poter sintetizzare sostanze diverse. Si basano sul riconoscimento fra diversi
(in questo caso proteine e DNA) anche i meccanismi di attivazione, in attivazione,
modulazione dei geni. I geni infatti vengono trascritti in RNA da un enzima che
riconosce il punto in cui la trascrizione del DNA deve avere inizio e poi scorre lungo
la stringa abbandonandola ad un punto di termine della lettura. Perché questo enzima
si attacchi al DNA, tuttavia, è necessaria la presenza, nella parte a monte del gene, di
tutta una serie di proteine che devono riconoscersi fra di loro e riconoscere piccole
sequenze del DNA. Su quest’ultimo quindi ci devono essere, nei diversi punti corti
“motivi” con una composizione tale da poter assumere una conformazione locale
complementare alla porzione della proteina con cui si dovranno complessare. Se quel
gene verrà trascritto o no dipenderà quindi della esistenza nella cellula di tutte le
proteine con cui la zona regolatrice del DNA si deve unire a formare quello che viene
chiamato “ complesso di trascrizione”. Quanto sarà lo RNA trascritto invece deriverà
dal livello di correttezza del riconoscimento fra le molte diecine di proteine diverse e
il DNA regolatore e dalla sua stabilità. E’ quindi il livello di complementarietà fra
partner dei complessi di trascrizione quello che conta nella regolazione della espressione dei geni, tutta basata sulla comunicazione fra molecole. La presenza di partner
complementari in uno stesso momento e quindi l’espressione nonché il suo livello di
intensità sono determinati dal contesto interno ed esterno all’organismo. Si può parlare
di “concertazione” per definire i rapporti qualitativi e quantitativi fra i diversi geni e fra
i loro prodotti. La concertazione, naturalmente, si ha fra molecole e gruppi di molecole
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ma si è stabilizzata anche in senso temporale nel senso che, ad esempio, anche lo
sviluppo procede per attivazioni successive di gruppi di geni diversi e in momenti
diversi. In altri termini, durante lo sviluppo di un organismo multicellulare come il
nostro, e in genere degli animali e delle piante superiori, bisognerà che fin dalle prime
divisioni embrionali gli eventi si susseguano in un certo ordine temporale e con
caratteristiche che, almeno nelle linee generali, si sono ottimizzate durante la evoluzione.
Perché questo avvenga è necessario che geni diversi siano attivati in momenti diversi
e, quando intervenga una differenziazione di tipi cellulari e tessuti, in luoghi diversi.
Tutto ciò avviene perché la attivazione di un gene e i suoi prodotti fungono da segnale
per una serie di atti regolativi che inibiscono/attivano altri geni dando luogo ad una
cascata di eventi finemente regolata qualitativamente e quantitativamente anche se
sufficientemente flessibile per poter rispondere ai cambiamenti ambientali che si
verificano durante la vita. Le proteine per la trascrizione, anch’esse prodotte sulla base
di geni corrispondenti, saranno presenti solo quando è necessario e cioè quando i
segnali avranno “detto” che è il momento giusto per intervenire. Un organismo si
svilupperà quindi secondo un piano che non è in quanto tale precostituito ma lo diventa
automaticamente per la struttura della catena di eventi che si attivano l’un l’altro. Ne
deriverà che ogni cellula di un organismo complesso esprime solo una parte dei suoi
geni (poche migliaia) e che gli altri sono inattivati. Tutto ciò significa che l’evoluzione
ha costruito in milioni e miliardi di anni un finissimo equilibrio dinamico basato sulla
comunicazione fra componenti, proteine strutturali, enzimi, DNA, RNA le cui formefunzioni sono correlate, possono quindi riconoscersi ed agire di concerto. Ogni specie
si è cioè via via differenziata costituendo una sua rete, diversa da quelle delle altre specie.
Tutti gli individui di una stessa specie hanno esattamente gli stessi geni e quindi possono
eseguire le stesse funzioni concertate anche se i geni sono presenti in diverse varianti
(gli “alleli”). Questi dati dimostrano definitivamente che i diversi geni o meglio le
diverse sequenze di DNA non possono che avere strutture correlate, fissatesi durante
la evoluzione per permettere quella comunicazione plastica che è alla base della vita.
Conclusioni
La breve storia di alcuni concetti in Biologia che ho fatto si conclude, fino ad ora col
ritorno, in modo ovviamente nuovo e molto più articolato, di concetti che Charles
Darwin aveva in gran parte intuito, probabilmente per la sua formazione fortemente
naturalistica che lo spingeva ad osservare gli organismi, gli ecosistemi e la Terra, nelle
loro interezze e non frammentati in settori o componenti. A differenza di Mendel, che
era un fisico, Darwin non conosceva il metodo riduzionista ed era ancora convinto
della bontà della osservazione dall’esterno di cui è stato maestro insuperabile.
All’epoca, nonostante i già numerosi tentativi, non si era affermata ancora una corrente
meccanicista né il potente metodo riduzionista che l’avrebbe poi contraddistinta. E’
in parte a questo che dobbiamo le intuizioni incredibili di Darwin che probabilmente,
se Darwin si degnassero di leggere, non piacerebbero nemmeno ad una parte
consistente dei biologi applicati e non solo del nostro tempo. Questo per dire che
anche quelli che non hanno bisogno davvero di essere convinti del fatto che gli esseri
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viventi si sono evoluti, che l’uomo è un animale con caratteristiche particolari ma che
nonostante questo appartiene di diritto ai Primati, farebbero molto bene a rileggersi
Darwin, mettendo da parte per un momento il famoso disegnino della evoluzione
della giraffa in versione lamarckiana accanto a quella data per darwiniana e in realtà
coerente con le posizioni dei seguaci di Charles Darwin, come molti dei seguaci di
chiunque, un po’ apocrifi e comunque fortemente, come tutti noi, influenzati dallo
spirito del loro tempo industrialista e meccanicista. C’è un forte bisogno di ritorno a
Darwin e non solo alle sue idee ma anche al suo atteggiamento di osservatore della
realtà materiale vera, quella degli organismi, delle specie, della macro come della
microevoluzione. Potremo così recuperare un tantinello di realtà in questo mondo che
cerca di farci credere che gli esseri viventi siano spezzettati, fatti su ordine del loro
immutabile DNA, assemblabili ad libitum in modi diversi senza che ne soffrano.
Marcello Buiatti
(Pisa, 1937) Laureato a Pisa in Agraria si perfeziona a Pavia in Genetica, disciplina che insegna al
Corso di Laurea in Biologia a Firenze. Ricopre numerosi incarichi accademici e scientifici.
Nell’attività di ricerca si avvale di metodi molecolari per l’analisi della variabilità genetica, lo
studio dell’evoluzione di animali e piante, l’identificazione delle interazioni che si stabiliscono
fra piante e loro patogeni; inoltre, nei suoi studi applica la modellistica matematica all’analisi dei
processi di sviluppo in animali e nei batteri. Molto attento alla corretta divulgazione del pensiero
scientifico, interviene nei mass media in Italia e all’estero per affrontare temi riguardanti le
prospettive aperte dalle applicazioni della moderna biologia e argomenti inerenti la Biologia
Teorica. Partecipa come relatore a corsi di aggiornamento per insegnanti promossi dall’ANISN
tiene conferenze e dibattiti con gli studenti di numerose scuole.
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Dibattito
Fabio Fantini
Una premessa: il padre della tendenza alla ipersemplificazione della genetica, che lei
critica, è Mendel, ma chi, se non lui, è riuscito a individuare attraverso un modello
ipersemplificato le regole di trasmissione dei caratteri ereditari? Allora come logica
conseguenza diciamo che tutto sommato di modelli riduzionisti abbiamo bisogno per
cominciare ad affrontare i problemi, se non ci fossero questi modelli non potremmo
fare passi avanti. Io credo che dal punto di vista didattico, nella situazione italiana
almeno per quello che la conosco io, noi dovremmo insistere, non la prenda come
offesa, sulla teoria sintetica dell’evoluzione perché è questa che voglio insegnare, che
manca e se non c’è questa base non possiamo affrontare gli approfondimenti
successivi come quelli che lei ha fornito, e che sono in sostanza correzioni, verissimo.
Crick ha usato il termine “dogma” in modo ironico rispetto alla formulazione. In ogni
caso gli appunti che lei faceva, come diceva il Prof. Omodeo prima, sono discussioni
all’interno di quel contesto. Per esempio quando lei ha detto giustamente che noi
abbiamo un certo numero di geni e un numero molto maggiore di proteine che
produciamo utilizzando il metabolismo, a me viene in mente che forse qualcosa che
va rivista è la definizione di gene, perché quando diciamo che nel genoma umano ci
sono 35.000 geni come li contiamo? Ci sono almeno 100 coppie di basi, 100 basi, tra
un promotore e un terminatore conosciuti, dopo di che uno va a vedere con un
calcolatore quante volte avviene questo contando tutti i geni che conosciamo, per cui
siamo costretti a indicare come geni una routine di calcolo, non un’identificazione
funzionale. Dopo di che se un gene si sovrappone a un altro, come da tantissimo tempo
è noto per i genomi virali, non mi sembra uno scandalo, allora forse è il numero di geni
che va rivisto, e il termine un gene-una proteina potrebbe ritornare ad avere una
validità se noi cambiassimo questa definizione di gene. Un’ultima cosa, quando lei
parla di genotipo iniziale da cui possono derivare molti fenotipi diversi, d’accordo,
credo che questa sia una discussione ampiamente compresa all’interno del panorama
della teoria sintetica, questo non è vero per tutti i geni: io ricordo quando si parla di
norma di reazione per es., che per alcuni geni esiste una norma fissa. Quindi non
generalizzerei quella affermazione.
Marcello Buiatti
Io sono assolutamente convinto che il metodo riduzionista sia di grandissima importanza, su questo non ci sono dubbi. Il metodo riduzionista che la Biologia ha ereditato dalla
Fisica e dalla Chimica nella seconda metà dell’Ottocento essenzialmente ha permesso
di fare tutto quello che si è fatto fino ad ora. Io non sono contro il metodo riduzionista,
lo uso tutti i giorni, in quanto sono un Biologo molecolare. Io sono contro l’ideologia
riduzionista, che è altra cosa, perché il metodo riduzionista vuol dire: si stanno studiando
cose che si conoscono, si scinde l’organismo in pezzi più semplici perché si riesce a
studiarlo molto meglio; basta che si tenga conto che è un organismo. E questo non lo
dico solo ora, cioè io non sono contro la teoria sintetica, siamo fatti di parti interagenti,
cioè se mi tolgo via un dito, né io né il dito siamo uguali dopo che l’ho tolto; quindi io devo
studiare il dito e il resto a parte, ma devo essere cosciente che prima di dare una legge
complessiva devo vedere come funziona il dito quando è su di me; dopo aver fatto la
scomposizione, devo essere in grado di cercare una ricomposizione, ed è questo che
non è stato fatto da alcuni neodarwinisti, quelli che poi si ritrovano nei libri di testo.
Intendiamoci bene, io sono ben lontano dall’essere contro il neodarwinismo, Mike Lerner
è un neodarwinista, Wright è uno dei tre fondatori della teoria sintetica, se si legge Julian
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Huxley The modern synthesis o Ernest Mayr che sono stati i sostenitori del neodarwinismo, è Meyr che attacca tale concezione nel suo libro, che usa il termine “sacco di
fagioli”, attaccando la concezione non il fatto che uno studi il singolo fagiolo, diamine
che studia il singolo fagiolo, come fa a studiarli tutti insieme!
Fabio Fantini
Lei lo sa perché usava l’espressione “sacco di fagioli”; a scuola si usavano per le
esperienze fagioli rossi e fagioli bianchi ….
Marcello Buiatti
Questo per far capire ai bambini, ma il concetto “sacco di fagioli” è quello che ho detto
io, non c’è nessuna differenza; il concetto del “sacco di fagioli” non è sufficiente, non
è che sia sbagliato, io ho detto prima che la vita è appunto multiversa; io non capisco
perché si debba per forza insegnare una cosa anche nei suoi lati sbagliati, quando
Darwin proponeva i dati giusti. E queste non sono idee nuove venute in mente adesso
a me, sono le idee di Darwin che ora sono state tradotte in concetti diversi da quelli
di Darwin. E’ vero che cambia sempre tutto, ma chiariamo che ci sono dei punti fermi:
la selezione c’è, la deriva genetica c’è, la mutazione c’è, ma il funzionamento
complessivo delle cose è diverso da quella che viene chiamata la subteoria classica
del neodarwinismo sostenuta da Fisher e che non è stata seguita più quando sono
venute le altre due teorie importanti del neodarwinismo che sono la selezione
bilanciata e il neutralismo, tutte e due complementari alla teoria classica, perché ci
sono fenomeni casuali e perché ci sono fenomeni di interazione genica su cui Lewontin
che è un neodarwinista basa la teoria di selezione bilanciata. Quindi attenzione perché
io sono d’accordo che si insegni l’evoluzione ai nostri figli, sono un evoluzionista, ma
dando ai ragazzi una concezione che non è limitata a un pezzetto della teoria della
nuova sintesi per di più non aggiornata, perché questo è sbagliato. Io sono un
evoluzionista, sono anche fortemente darwinista, ho fatto pezzi di strada con la nuova
sintesi però, come Sewall Wright io continuo a pensare, perché non ci sono dogmi,
perché tutto cambia e ora abbiamo scoperto altri fatti che vanno detti ai ragazzi, anche
perché altrimenti diventa ideologia ed è ideologia meccanica, non scienza, cioè se uno
ci mette i dogmi o è fede o è ideologia. Io sono fortemente contrario alla cristallizzazione di alcuni dei concetti della vita in ideologie perché questo ha portato conseguenze
spaventose in campo sociale, politico e sta portando in questo momento a conseguenze a cui un formatore dovrebbe stare attento, perché dovrebbe dare una interpretazione di tutto quello che dice non dogmatica, e lasciare che i ragazzi, soprattutto i più
grandi ma anche i più piccini, abbiano diverse possibilità davanti e non si debbano
fermare a un pezzetto di una teoria che sta cambiando continuamente. Per cui nessuna
contrarietà alla sintesi, si usa il metodo riduzionista, serve assolutamente, non se ne
può fare a meno, ma si deve fare la sintesi dopo aver fatto l’analisi. E la nuova sintesi
conteneva tutti quegli aspetti che adesso noi consideriamo parte della nuova sintesi
perché il libro di Julian Huxley The modern synthesis è la sintesi della nuova sintesi,
ma fatta da uno che aveva anche interessi naturalistici come Mayr e vedeva anche
l’organismo.
Una collega
Vorrei portare il discorso sull’aspetto della filosofia.
Alla luce delle cose che ci ha detto, quale attualità mantiene la metafora della macchina
per descrivere il vivente che ha citato lei, alla luce delle cose che la biologia
contemporanea ha scoperto quali complessità, ambiguità dell’organismo; c’è un’altra
immagine che risulta più soddisfacente e più pertinente all’organismo ad oggi?
44
Marcello Buiatti
Io sono personalmente contrario alla reificazione delle metafore. Io dico “sono fatto come
un computer”, perché mi è comodo e utile come metafora perché mi aiuta a spiegarmi,
che è molto diverso dalla reificazione di questa metafora cioè dire “io sono un computer”.
Io vorrei fare una distinzione che viene fatta in campo filosofico, essere materialisti non
vuol dire essere meccanicisti; uno può essere convinto che siamo fatti di materia, però
non essere meccanicisti, perché la macchina è materia naturalmente ma 1. è materia
morta, 2. è fatta su progetto nostro, noi non siamo stati fatti su progetto nostro, il nostro
progetto cambia continuamente. Noi abbiamo delle regole che sono diverse dalle regole
delle macchine, tutto qui. Il pericolo anche qua non è fare la metafora della macchina, io
posso dire che il DNA funziona come un computer perché per certi versi lo fa; ma non devo
mai dire il DNA è un software; il DNA è DNA, è una molecola ecc. Io le uso le metafore,
a lezione la metafora informazionale la uso dicendo tutto quello che vi ho detto, non
dicendo mai il DNA è un software, ma dicendo il DNA in parte si comporta come un
software, questo serve moltissimo per spiegare, è ottima come esplicativa, non va
reificata perché reificare vuol dire far diventare cosa la metafora.
Un’altra collega
Allora nella macchina di Turing che viene assimilata al vivente, la macchina che conta
lei ce lo vede il vivente?
Marcello Buiatti
Io uso come metafora anche quella, certo questa è un’altra metafora possibile perché
anche noi computiamo perché noi continuamente cambiamo in base a un meccanismo
che potrebbe anche richiamare il computer; il problema nostro è che noi non abbiamo
un programma, noi abbiamo una enorme varietà di scelte nell’ambito degli strumenti
che possediamo. La metafora, va bene anche quella. Il progetto non è invariante,
cambia di generazione in generazione e anche durante la stessa generazione; infatti
se lei vede anche fisicamente due gemelli che hanno lo stesso progetto in teoria,
intanto il carattere è complementare, non è uguale, uno è più introverso e l’altro più
estroverso, ma anche fisicamente l’aspetto è diverso; in due gemelli che sono nati
insieme e hanno fatto due vite diverse anche l’aspetto è diventato diverso, perché
abbiamo la faccia che ci meritiamo.
Pietro Omodeo
Se noi interpretiamo il vivente come un sistema sede di un flusso di materia, di energia
e di informazione, la macchina di Turing ci spiega uno degli aspetti fondamentali
dell’essere vivente; non ci spiega tutto …
La collega precedente
Un conto è l’ambiente in base al quale viene tenuta l’invarianza però computa e perciò
sposa a mio parere l’invarianza con le variazioni.
Marcello Buiatti
E infatti io cosa ho detto: ho detto che noi variamo per restare uguali.
Sandra Magistrelli
Una osservazione che volevo dividere con lei. Mi sono occupata in questi ultimi mesi
per passione e perché faccio parte dell’ANISN, della riforma Moratti della scuola media
e dell’eliminazione dell’impianto evolutivo del pianeta; per capire meglio mi sono
messa a guardare su Internet quelli che sono gli argomenti scientifici; lei dice la vita
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è frutto del benevolo disordine, questo da una parte è vero ed è però un concetto
potentissimo che fa paura; arrivare a padroneggiare un concetto del genere non è
banale. Allora andando a scuola, giustamente lei raccomanda di non dare ideologia ai
ragazzi, quindi di formarli ad un pensiero critico cosicché, poniamo, e poniamo in
termini di teoria dell’evoluzione far loro notare anche quelli che sono i limiti, che sono
i punti di fallacia. Però in questo giustissimo appello a una tolleranza mentale si
insinuano tutta una serie di cunei, tra cui quello del disegno intelligente dei nostri
creazionisti, che fa un po’ irrigidire anche l’uomo tollerante, non so se mi spiego.
Andando avanti ho ripreso in mano tutta una serie di consapevolezze sul profondo
timore che c’è nel comune sentire di ciò che è variabile, di ciò che cambia, che muta
e quindi la difficoltà che abbiamo noi insegnanti nel proporre questo concetto base forte
nello studio conservazione e della mutazione. E’ una domanda che non è una domanda,
un aiuto a riflettere meglio: in che modo questo discorso conservazione-mutazione in
senso lato si può provare a rendere vulgata?
Marcello Buiatti
Prima di tutto noi non abbiamo paura solo della variabilità perché siamo per esempio
terrorizzati dall’immagine dei cloni, è terrorizzante il concetto di cloni perché
probabilmente istintivamente sappiamo che non dobbiamo essere cloni; ci fa paura la
diversità se pensiamo che rompa le nostre connessioni, ci distrugga: questo è il
malevolo disordine. La diversità che ci permette di evitare la diversità distruttiva è il
benevolo disordine, cioè la nostra capacità di cambiare. Come si insegna; è molto
semplice: basta far vedere ai ragazzini, se uno li segue per 2-3 anni, che hanno
cambiato continuamente altezza, peso ecc., basta dirgli che quando vanno al mare si
abbronzano, che è vero che noi abbiamo il gene per gli occhi neri e il gene per gli occhi
azzurri, che ci sono i neri e ci sono i bianchi, poi ci sono però tutte le popolazioni
intermedie. Mi ricordo sempre, quando tanti anni fa mi specializzavo in Genetica a
Pavia, venne fuori un libro di Gedda sulle razze, e c’era un colorimetro, per cui si poteva
sapere quanto uno fosse negro dal colore della pelle; noi eravamo tutti abbronzati, e
si era genetisti, e si scoprì che eravamo tutti negri. Il concetto fondamentale da far
passare ai ragazzi, soprattutto ai più piccini ma anche ai più grandi, è il fatto che loro
sono vivi, che cambiano continuamente, che si adattano perché sudano quando fa
caldo e consumano di più quando fa freddo, che i loro nonni sono diversi da loro e i
loro genitori lo stesso, le sorelle lo stesso, e eventualmente fare qualche piccolissimo
esperimento di adattamento con i batteri per es., per fare vedere quanto è importante
la variabilità. Non per dire che è la sola cosa è importante, anche la mia roba non è
dogmatica, cambierà, ma io ora vedo queste cose. Se vogliamo insegnare la teoria
sintetica insegniamo la teoria sintetica, ma non insegniamone un pezzetto come se
fosse la teoria sintetica, per impedire che i creazionisti dicano: anche loro hanno dei
dubbi. Il concetto è che non esiste una teoria dell’evoluzione, esiste l’evoluzione , è
un fatto materiale che si è succeduto durante un sacco di tempo, ci siamo evoluti, noi
siamo venuti da organismi che non erano uguali a noi, come quelli sono venuti da altri.
Che l’evoluzione esiste, che è un fatto storico, una narrazione, come dicono tanti, che
è avvenuta in miliardi di anni ecc.: questo va affermato con forza. I modi con cui è
avvenuta sono tanti, tutta la teoria sintetica è dentro i modi, il dogma centrale (se non
ci fosse la parola dogma) è vero, sono tutte cose vere, solo che andando avanti ne
impariamo di più, allora non fossilizziamoci su certe cose. In questo modo si evita di
essere tacciati di non essere certi; mica non sono certo perché penso che qualcuno
abbia fatto l’uomo così; d’altra parte la nostra Chiesa, la Chiesa ufficiale non lo pensa,
poi che ci siano persone di chiesa che lo pensano è altra cosa, ma ci sono anche tanti
laici di una certa area politica che la pensano in questo modo.
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La ricerca
La ricerca
48. Temi dell’evoluzione nella Biologia contemporanea
Dario Riccardo Valenzano
54. Dibattito
56. Il ruolo dell’Anatomia comparata nella ricerca e nella
didattica universitaria fra ieri e oggi
Vincenzo Caputo
74. Dibattito
76. L’evoluzione vista attraverso lo sviluppo
Robert Vignali
83. Dibattito
89. Dai fossili alle molecole: nuovi indizi sull’evoluzione
umana
Olga Rickards
94. Dibattito
101. Un approccio evolutivo allo studio del cervello: la
teoria del darwinismo neurale
Yuri Bozzi
108. Dibattito
112. Basi biologiche dell’attrazione
Alessandro Cellerino
133. Dibattito
137. Evoluzione e risposta cellulare allo stress
Isabella Marini
158. Dibattito
47
Temi dell’evoluzione nella Biologia
contemporanea
D ARIO R ICCARDO V ALENZANO
Teoria dei giochi
La “Teoria dei Giochi”, nata nel XIX secolo in seno allo studio matematico delle
dinamiche economiche della società umana, ha trovato nella biologia evolutiva un
fecondo campo di applicazione. In particolare essa si è rivelata molto utile per
comprendere e formalizzare i processi di interazione tra diverse strategie comportamentali (variabili in tipologia e frequenza) messe in atto tra gli individui di una
popolazione animale che devono incessantemente negoziare i costi dell’adozione di
una data strategia con i suoi benefici (in termini di fitness genetica).
La strategia evolutiva ottimale per un individuo singolo è quella in cui la differenza tra
benefici (in termini di fitness) e costi (in termini di sopravvivenza) è massimizzata.
Considerando il vantaggio teorico per una rana maschio di avere un richiamo potente
e quindi attrarre più femmine per l’accoppiamento, rispetto al costo di attrarre (con
richiami estremamente intensi) molte più
femmine di quante se ne possano fecondare
(quindi disperdere energia), si possono disegnare le curve (fig. 1).
Sovrapponendo le curve dei costi e benefici
associati al volume del richiamo emesso, è
evidente che la differenza tra le due curve
non aumenta con l’aumentata intensità del
canto (espressa in volume) (fig. 2).
Il modello della strategia ottimale predice
che il richiamo migliore non è il più intenso Fig. 1
(risultato atteso se non ci fossero i costi legati ai richiami più forti) ma è uno di intensità
intermedia.
Nella teoria della Strategia Ottimale si
fanno previsioni circa il miglior comportamento per un particolare animale senza tener conto di quanto fanno gli
altri.
L’aspetto centrale della Teoria dei Giochi è che l’adozione di una particolare
Fig. 2
strategia dipende dalle strategie adottate dagli altri. Un comportamento che funziona benissimo (garantisce una fitness
ottimale a chi lo adotta) quando applicato di rado, come nel caso dei comportamenti
di inganno, non è più vantaggioso se diventa diffuso nella popolazione, se quindi viene
48
più frequentemente a scontrarsi contro se stesso. Una rana maschio, ad esempio,
potrebbe evitare di emettere il richiamo (annullando la curva dei costi) ed accoppiarsi
con le femmine attratte dai richiami degli altri maschi. Se tuttavia questa strategia si
diffondesse, un numero sempre minore di maschi emetterebbe il richiamo sessuale e
quindi sempre meno femmine sarebbero attratte per l’accoppiamento. Questo
significa che diminuirebbero in maniera analoga sia i costi che i benefici legati alla
strategia adottata. La fitness per un individuo legata ad un dato comportamento è
quindi strettamente dipendente dalla frequenza degli individui che adottano la stessa
strategia e dalle frequenze delle strategie adottate dagli altri individui della popolazione.
Nel nostro esempio, la fitness della rana maschio che non canta è strettamente
dipendente dalla frequenza di rane maschio che cantano. Applicata a livello di
popolazione, la Teoria dei Giochi considera come giocatori non più i singoli individui,
ma le strategie stesse o i geni che specificano per dette strategie. Per cogliere questo
concetto possiamo considerare l’esempio del successo della strategia “marcatura a
zona” rispetto alla strategia “marcatura ad uomo” per le squadre di calcio di un
campionato ideale. Il nostro gioco terrà conto della fitness complessiva di ciascuna
strategia dopo tutti gli scontri possibili, espressa come il numero di goal subiti, alla fine
di un girone del campionato, dalle squadre che applicano ciascuna strategia, moltiplicato per la probabilità di ciascuno scontro. Alla fine del gioco la strategia vincente
passerà alla generazione successiva con un numero relativamente maggiore di copie
(nel nostro esempio, nel girone o nel campionato successivo, un numero maggiore di
squadre applicherà la strategia che è risultata essere più efficace).
Quando una strategia è più efficace di tutte le altre strategie sperimentate o quando
sono presenti più strategie e nessuna di queste è più efficace delle altre, si incorre in Stasi
Evolutiva rispetto al comportamento considerato, cioè non c’è variazione nella
frequenza relativa delle strategie nel tempo. Queste due situazioni sono note come
Strategie Evolutivamente Stabili (ESS, Evolutionary Stable Strategies).
Nel primo caso si parla di “ESS pure”, in cui cioè una strategia vince sulle altre ed è
immune da fig. 1 invasioni da parte di altre strategie note, che quindi sono destinate
a non diffondersi o ad estinguersi, data la loro fitness minore (formalizzato come
E(A,A) > E(B,A), cioè l’esito dello scontro tra A ed A è più vantaggioso per A di
quanto non sia per B lo scontro tra B ed A).
Nel secondo caso si parla di “ESS miste”, in cui due strategie coesistono in maniera
permanente. Le ESS possono essere adottate ciascuna da soggetti diversi (per esempio
il 60% delle rane maschio canta sempre ed il restante 40% non canta mai), oppure tutti
gli individui giocano una strategia mista (cantano il 60% delle volte o, nell’esempio
calcistico, applicano la marcatura a zona con una frequenza che è la frequenza di
equilibrio per questa strategia). In entrambi i casi di ESS mista, tutti i giocatori del
nostro gioco hanno la stessa fitness. Se abbiamo due strategie, “A” e “B”, con le
rispettive frequenze “a” e “b”, si ha che la fitness di ciascuna strategia F(A) ed F(B) è
data da:
F(A)= a*F(A,A) + b*F(A,B)
F(B)= b*F(B,B) + a*F(B,A)
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dove F(A,B) è punteggio ottenuto da A nell’incontro con B.
Se, come detto F(A) = F(B), allora
a*F(A,A) + b*F(A,B) = b*F(B,B) + a*F(B,A)
dato che “A” e “B” sono le uniche due strategie in gioco, allora
a+b=1
quindi, sostituendo 1 – a per b, si può risolvere come segue:
a
F(B,B) – F(A,B)
=
1- a
F(A,A) - F(B,A)
da cui è possibile conoscere come variano F(A) ed F(B) in funzione di a.
Infatti F(A) ed F(B) si possono esprimere nel seguente modo:
F(A) = a*(F(A,A) - F(A,B)) + F(A,B)
F(B) = a*[F(B,A) - F(B,B)] + F(B,B)
Il punto di intersezione tra le due rette mostra il valore di a corrispondente alla ESS
mista per A.
E’ chiaro che il caso di una ESS pura o mista a due sole strategie è molto raro in natura.
Più frequenti sono i casi in cui sono in gioco molteplici strategie allo stesso tempo e
ciascuna strategia è applicata a seconda del contesto specifico.
La Teoria dei Giochi ha posto le basi teoriche per capire da un’ottica evolutiva
fenomeni biologici complessi come la cooperazione. La cooperazione sembra aver
svolto un ruolo fondamentale nelle grandi transizioni evolutive, come nell’integrazione
dei progenitori dei mitocondri e cloroplasti, un tempo liberi, nelle cellule eucariote
(Maynard Smith & Szathmàry, 1995). Anche i progenitori degli organismi multicellulari erano un tempo cellule singole libere ed il passaggio da organismi unicellulari ad
organismi multicellulari può essere stato promosso da meccanismi di tipo cooperativo
(Buss, 1987; Maynard Smith & Szathmàry, 1995).
Un esempio classico di approccio analitico al problema della cooperazione è il noto
“Dilemma del Prigioniero” in cui due prigionieri sono arrestati perché sospettati di
aver commesso un reato. Non ci sono prove schiaccianti della loro colpevolezza ed
il loro giudizio dipende direttamente dall’esito dell’interrogatorio. I due vengono
interrogati separatamente e possono rimanere in silenzio (cioè cooperare con il
compagno) o confessare il reato (tradire il compagno).
50
Tale situazione può essere schematizzata nel modo seguente.
Dove Coop (cooperare, cioè non confessare) e Trad
(tradire, cioè confessare) sono le strategie possibili ed A,
B, C e D sono gli esiti dell’incontro delle due strategie per
la strategia in riga, ovverosia, come abbiamo già visto, A
= E (Trad, Coop), dove E è l’esito dell’incontro di Trad
con Coop. In particolare, per la strategia in riga
A>B>C>D. Posto il gioco in questi termini, qualunque cosa faccia l’altro (qualunque
sia la strategia in colonna), la cosa migliore da fare per ciascuno è confessare, cioè
tradire. Infatti, per ciascuna colonna, il punteggio più alto lo si ottiene con la strategia
Trad (perché A>B e C>D). La strategia Trad è stabile rispetto a Coop perché C>D
quindi Coop non può soppiantare Trad. Questo vuol dire che in un mondo di non
cooperatori, un mutante cooperativo sarebbe presto eliminato dalla selezione naturale.
E’ quindi interessante capire come, da questa situazione, possa esserse evoluta la
cooperazione nelle prime forme.
Osservando che B>C risulta chiaro d’altra parte che, se l’esito dell’incontro delle
strategie equivale alla fitness della stessa strategia, una società di cooperatori si espande
più di una società di traditori. Ma come può evolvere tale società di cooperatori? Il
modello del Dilemma del Prigioniero assume che ogni individuo che adopera una
strategia (cooperare o tradire) possa interagire con tutti gli altri individui della
popolazione. Ponendo invece un vincolo “locale” al modello, rendendo cioè possibile
l’interazione solo tra individui che sono tra loro confinanti, come in un grosso gioco
della dama, e ponendo che di generazione in generazione le caselle cambino strategia
uniformemente a quella adottata dalla casella vicina di maggiore successo, si può
dimostrare che l’esito del gioco per ciascuna strategia dipende direttamente dai valori
di A, B, C, D (vedi tabella). A seconda di questi valori si possono avere situazioni
variabili, come ad esempio “equilibri oscillanti” tra stati diversi (le distribuzioni spaziali
delle frequenze di Trad e Coop, cioè, oscillano nel tempo tra due configurazioni fisse),
oppure si può arrivare a situazioni di “flusso dinamico”, in cui, cioè, caselle che al
tempo T(0) erano occupate dalla strategia Trad, al tempo T(n) sono occupate dalla
strategia Coop e caselle che al tempo T(0) erano occupate dalla strategia Coop, al
tempo T(n) sono occupate dalla strategia Trad. In sostanza, in questo modello non
esiste una “strategia stabile” per la definizione data sopra.
Nel “Dilemma del Prigioniero Continuo” invece di avere due strategie estreme (Coop
e Trad), esistono infinite strategie intermedie. Quello che varia da strategia a strategia è
l’investimento che essa comporta, espresso come differenza tra benefici e costi (fig. 3).
Tale situazione è simulata per una popolazione spazialmente limitata, in cui ciascun
individuo interagisce con gli individui ad esso più prossimi e paga i costi del proprio
investimento rivolto a tutti gli individui adiacenti in cambio della somma dei benefici
prodotti dagli investimenti dei vicini. In tale situazione, se ad ogni generazione ciascun
51
individuo adotta la strategia dell’individuo adiacente con la differenza più
alta tra benefici e costi, il livello medio
di investimento per l’intera popolazione cresce col succedersi delle generazioni fino ad un valore fisso che è
una frazione significativa della differenza massima tra la curva dei benefici e quella dei costi nella figura precedente. Questo vale anche quando il
livello di investimento medio alla ge- Fig. 3
nerazione zero è molto vicino allo
zero, situazione paragonabile ad una strategia stabile in partenza del tipo Trad (fig. 4).
Benché sembri sorprendente che elevati livelli di investimento possano evolversi da
situazioni iniziali a basso investimento, bisogna osservare che gli individui che
investono ottengono un mutuo
beneficio nel raggrupparsi e quindi
contaminano con la loro strategia tutti gli individui adiacenti con
livelli di investimento più moderati.
Questi modelli spiegano ragionevolmente l’evoluzione della
cooperazione per popolazioni
spazialmente limitate.
Fig. 4
Computazione evoluzionistica
La dialettica dell’evoluzione, consistente nel produrre una varietà di sistemi capaci di
scambiare tra di loro informazioni e replicarsi per dar vita ad una continuità di tipi
simili, è stata presa come modello per sviluppare algoritmi capaci di evolversi e
produrre soluzioni nuove rispetto ad una classe specifica di problemi. Negli anni ’60,
negli USA, John Holland (Holland, 1975) ha teorizzato gli Algoritmi Genetici (AG),
capaci di produrre soluzioni di un problema procedendo da dati (stringhe di bit)
organizzati “a cromosoma”. Questi “cromosomi di dati” vengono elaborati da
operatori specifici di ricombinazione che li modificano in maniera analoga ad una
riproduzione sessuata, in modo da preservare l’informazione critica dei dati stessi. Gli
AG sono stati sfruttati per ottimizzare i processi di produzione di un articolo scritto,
per ottimizzare la catena di montaggio di alcune case automobilistiche, per disegnare
i motori delle turbine attualmente in funzione sui moderni aeroplani.Gli AG selezionano e riproducono, in una popolazione di cromosomi artificiali (cioè in uno spazio
di operatori a struttura simile che danno soluzioni diverse ad un medesimo problema)
quelli che offrono la soluzione ottimale, quella che (ad esempio) minimizza i consumi,
velocizza il sistema, trova il minimo locale, etc. Gli AG operano per selezione,
52
ricombinazione e mutazione, in modo da generare cromosomi sempre rinnovati che
producono soluzioni nuove al problema (un ottimo tutorial interattivo per la
comprensione degli AG è fornito nel sito http://cs.felk.cvut.cz/~xobitko/ga/). Gli
AG sono popolazioni di algoritmi che evolvono di generazione in generazione
scambiando informazioni l’un l’altro per mezzo di crossing-over e che mutano a basse
frequenze per produrre algoritmi capaci di dare nuove soluzioni nello spazio delle
soluzioni in cui operano. Nato nell’ambito delle Scienze Naturali e della Biologia in
senso lato, l’Evoluzionismo ha promosso una spinta rivoluzionaria in molteplici
ambienti della ricerca scientifica. Ad oggi l’Evoluzione è studiata nei centri di
matematica applicata e bioinformatica di tutto il mondo, dove vengono prodotti
modelli matematici che svelano nuove possibilità interpretative per fenomeni naturali
complessi, come abbiamo visto per l’evoluzione dell’altruismo e come è successo
anche per alcuni aspetti della teoria della Selezione Sessuale. L’edificio teorico eretto
da Darwin alla fine del XIX secolo si trova oggi in uno stato di ottima salute in ambito
scientifico in quanto esso è sempre più lente essenziale per l’analisi di problemi
scientifici nuovi e vecchi. L’Evoluzionismo è indiscutibilmente un patrimonio culturale
di valore elevatissimo che, purtroppo, non è ancora considerato universalmente come
uno dei pilastri fondamentali della società contemporanea.
Dario Riccardo Valenzano
Scuola Normale Superiore - Pisa
Bibliografia
Buss, L.W. 1987 The Evolution of individuality Menlo Park, CA: Princeton University Press Holland,
J. H. 1975 Adaptation in Natural and Artificial Systems University of Michigan Press Maynard Smith,
J. & Szathmàry, E.1995 The major transitions in evolution Oxford: W.H. Freeman & Co.
53
Dibattito
Brunella Danesi
Noi la ringraziamo molto perché l’argomento dell’invecchiamento e il valore selettivo,
evolutivo diciamo, dell’invecchiamento si discute da tempo, soprattutto per quanto
riguarda il discorso che fondamentalmente non si dovrebbe invecchiare perché è vero
che il tasso di mutazione aumenta però le cellule cambiano continuamente, continuamente assumono materiale dall’esterno, continuamente ne buttano fuori, quindi la
cellula non è mai perfettamente uguale a quella che era ieri.
Dario Riccardo Valenzano
Però comunque le cellule vanno incontro a disfunzione: si è visto in maniera
chiarissima che la linea somatica rispetto alla linea germinale ha meccanismi di
riparazione degli errori, meccanismi di prevenzione dell’accumulo di mutazioni
radicalmente diversi, le cellule somatiche vanno incontro a disfunzione molto più
rapidamente delle cellule germinali, proprio perché le germinali hanno bisogno di
un’informazione tramandabile, quindi più pulita possibile.
Brunella Danesi
Tuttavia ormai mi sembra che la differenza tra cellule germinali e cellule somatiche
sia diventata una distinzione piuttosto artificiosa con la scoperta delle biotecnologie.
Robert Vignali
Vorrei semplicemente chiederti che cosa si sa del DNA dei telomeri di questa specie,
se è stato studiato, se è una cosa che intendete fare.
Dario Riccardo Valenzano
Sicuramente intendiamo farlo, però noi siamo i primi che abbiamo rivolto la nostra
attenzione a questa specie, questi pesci non sono interessanti neanche per l’acquariofilia, perché vivono molto poco, e questo è un fatto davvero impressionante, in
undici settimane sono tutti andati, quindi non hanno avuto neanche uno sviluppo
commerciale tale da poter poi favorire un impiego scientifico, come per es. zebrafish
ha avuto, ma non si sa assolutamente nulla perché noi siamo i primi che mettiamo le
mani su questo modello.
Intervento
Io vorrei sapere, quanto nell’impostazione che avete dato all’approccio sperimentale,
abbia pesato la valutazione della questione riduzionistica, perché nel momento in cui
voi avete isolato gli individui rispetto all’ambiente, avete creato delle condizioni di non
interazione tra individuo e ambiente. Ora, io penso che, da quello che ho capito,
l’ambiente venga modificato dagli organismi e a sua volta l’ambiente seleziona gli
organismi, quindi gli organismi creano l’ambiente che poi li seleziona. Ora, nei vostri
esperimenti quanto peso avete dato a questo discorso di fondo?
Dario Riccardo Valenzano
Il massimo del peso perché mentre normalmente si lavora su organismi di laboratorio,
essenzialmente su ratti, topi, rane che vengono tenuti in laboratorio e sono sottoposti
a un tipo di selezione che è sostanzialmente affidata all’uomo, con condizioni costanti,
diete sempre uguali, condizioni di luce e temperatura sempre uguali, noi invece ci
siamo preoccupati proprio di avere un modello selvatico, per questo siamo andati
54
proprio in natura a prendere tali pesci, proprio per studiare la generazione F1, cioè la
prima generazione ottenuta da questi pesci selvatici. E’ giustissimo quello che lei dice,
l’ambiente modifica notevolmente le caratteristiche biologiche della specie, e l’ambiente di laboratorio altrettanto.
Domanda
Avete pensato alle implicazioni legate al fatto che nella popolazione non c’è la selezione
poiché si trova in un ambiente artificiale?
Dario Riccardo Valenzano
Noi lo studio lo abbiamo fatto proprio sulla F1 dei selvatici quindi sulla popolazione meno
influenzata possibile dalle condizioni artificiali; comunque questo lo abbiamo confrontato con delle curve ottenute su pesci della stessa specie, pescati alla fine degli anni
Sessanta, era l’unico ceppo di Lotobranchius Furzeri disponibile al mondo, noi lo
abbiamo avuto, lo abbiamo seguito, lo abbiamo anche studiato dal punto di vista sia
demografico che immunochimico e i risultati che avevamo li abbiamo messi a
confronto con quelli dei pesci selvatici, e i confronti dicono la stessa cosa, sono
sovrapponibili, anzi siamo andati in Mozambico proprio perché questa popolazione di
cui noi avevamo questa pescata nel ‘69 è stata molto incrociata, quindi dal punto di
vista genetico è stata molto impoverita, perché era molto piccolo sostanzialmente.
Domanda
Che tipo di prospettive vede per la ricerca italiana? Glielo chiedo perché molti ragazzi
a scuola vorrebbero una parola di speranza.
Dario Riccardo Valenzano
No, sinceramente non me la sento di seminare speranza, chiunque ha a che fare con
la ricerca, soprattutto alla mia età, si sente dire questa cosa un po’ penosa, che c’è
bisogno del periodo all’estero. Ora, chiaramente per questioni formative può essere
utile però a volte c’è il timore che questo consiglio accorato nasconda dell’altro dietro.
Sinceramente non vedo molto spazio, noi stiamo provando ad esplorare un campo
nuovo, abbiamo proposto un soggetto nuovo e abbiamo avuto la fortuna di renderci
subito interessanti anche per il privato, infatti la nostra missione è stata finanziata da
una biotech privata, però io non posso costruire alcun tipo di progetto scientifico per
me, che non vada al di là dei 3-4 anni, per l’Italia soprattutto.
55
Il ruolo dell’Anatomia comparata nella
ricerca e nella didattica universitaria fra
ieri e oggi
V INCENZO C APUTO
Cenni storici su origine e declino dell’Anatomia comparata nell’Università
italiana
L’Anatomia comparata andò configurandosi quale
disciplina scientifica distinta rispetto agli altri campi
della “Storia naturale” fra Settecento e Ottocento: nel
1807 venne istituita in Italia, presso l’Università di
Napoli, la prima cattedra universitaria della Materia. Il
primo titolare fu Giosuè Sangiovanni (1775-1849)
(Fig. 1), già allievo di Lamarck a Parigi negli anni della
restaurazione borbonica, seguita all’effimera rivoluzione
giacobina del 1799 (Omodeo, 1949). Tale definizione,
anche accademica, dell’Anatomia comparata, nacque
dall’esigenza di un profondo rinnovamento dell’indagine
morfologica che, da un mero livello descrittivoclassificatorio more Linnaei, si elevasse a scienza
“filosofica” delle strutture e dei rapporti tra le forme
Fig. 1. Giosuè Sangiovanni (Lau- (La Vergata, 1988). La visione della natura in questo
rino, Salerno, 1775-Pozzuoli, Na- periodo, profondamente influenzato dalla
poli, 1849), primo professore di Naturphylosophie tedesca, è dominata dall’idea che la
Anatomia comparata in Italia (da molteplicità delle forme e delle strutture degli organismi
un ritratto conservato presso la viventi possa essere ricondotta a dei piani di
biblioteca del Dipartimento di organizzazione fondamentali comuni a più organismi.
Zoologia dell’Università “Federi- La cause célèbre della Biologia di questo orientamento fu
co II” di Napoli).
la teoria vertebrale del cranio di Johann Wolfgang
Goethe (1749-1832), secondo la quale la scatola cranica è il risultato dell’unione e della
trasformazione di una serie di vertebre. Il regno animale è dunque visto come un unico
grande organismo in continua metamorfosi e gli organismi individuali come una
ripetizione e modificazione di parti fondamentali. Secondo Etienne Geoffroy SaintHilaire (1772-1844), forse il massimo esponente di questa corrente di pensiero, la
natura ha formato tutti gli esseri viventi su un unico piano, essenzialmente lo stesso nel suo
principio, ma ch’essa ha variato in mille modi nelle parti accessorie e le forme di tutti gli organismi
risultano, per quanto variate, da organi comuni a tutte (cit. in La Vergata, 1988; Laurent, 2003).
Secondo il grande anatomista e zoologo francese, la diversità dei piani corporei animali
può essere in definitiva ricondotta a un unico archetipo originario: ben noto è
l’esempio degli Artropodi e dei Vertebrati visti come versioni diverse dello stesso
progetto base (cfr. Gould, 2003, 2004).
56
Fig. 2. Ipotesi di Meyrant & Laurencet sulla derivazione dei Molluschi dai Vertebrati per
ripiegamento del corpo, raddoppiamento degli arti e trasformazione della colonna vertebrale in
conchiglia (da Capanna, 1989).
Alcune varianti del modello di Saint-Hilaire hanno contribuito a mettere in cattiva luce
e quasi a ridicolizzare la sua idea originaria. Una è la teoria di due suoi discepoli, Meyrant
e Laurencet, secondo i quali l’organizzazione dei Molluschi Cefalopodi si può
considerare corrispondente a quella di un Vertebrato piegato a U e con le due branche
dell’U saldate, in modo che l’intestino venga a sboccare al di sotto della bocca (Fig. 2).
Tale ipotesi scatenò una celebre controversia il 15 febbraio 1830 presso l’Accademia
delle Scienze, fra lo stesso Saint-Hilaire e Georges Cuvier (1769-1832) il quale
riconduceva invece la diversità animale a quattro grandi tipi (embrachements). Un’altra è
la teoria di Walter H. Garskell (1847-1914), anatomico umano inglese recentemente
“portato alla ribalta” da Gould (2004), che ipotizzava una derivazione del piano
organizzativo dei Vertebrati per inversione dorso-ventrale da un archetipo artropode.
Ricordo, infine, Richard Owen (1804-1892), insieme a Darwin il più grande naturalista
inglese dell’Ottocento, che portò alle estreme conseguenze la teoria vertebrale del
cranio. Egli infatti sostenne che l’intero scheletro di ogni classe di Vertebrati potesse
essere interpretato come una serie di vertebre ideali, ossia una successione di segmenti
indifferenziati da cui si potevano derivare le modificazioni reali di ogni scheletro.
Owen chiamò questa concatenazione “archetipo dei Vertebrati”: essa raffigurava lo
scheletro nella sua forma più elementare, simile a quello dei pesci, con un accenno
soltanto alle modificazioni che si riscontrano nei Vertebrati reali (Fig. 3). Al di là di
questa teoria, ormai obsoleta, un frutto immediato e incontestato del suo lavoro fu la
semplificazione e standardizzazione della terminologia relativa all’osteologia comparata
e umana e la distinzione rigorosa fra omologia e analogia (La Vergata, 1988; Rupke,
2003).
E’ interessante ricordare che queste visioni unitarie del piano corporeo animale
trovano oggi un inatteso sostegno nelle recenti ricerche sui geni omeotici, come
Stephen J. Gould (1941-2002) ha esemplificato nei suoi ultimi saggi (Gould, 2003,
2004; si vedano anche Gilbert, 2003 e Carrol et al., 2004).
57
Fig. 3. L’archetipo dello scheletro dei Vertebrati può essere interpretato secondo Owen come una
serie di vertebre ideali, una successione di segmenti indifferenziati da cui si possono derivare le
modificazioni reali di ogni scheletro (da Capanna, 1989).
L’anno cruciale che segna il “prima” e il “dopo” nello studio delle Scienze naturali, è
il 1859 che vede la pubblicazione de L’origine delle specie di Charles R. Darwin (18091882). Dal momento della pubblicazione di questa opera fondamentale, che dà avvio
alla cosiddetta “rivoluzione darwiniana” (cfr. Continenza, 1998), la ricerca morfologica e anatomica si fonde con la teoria darwiniana per dare origine a quella
“morfologia evoluzionistica” che dominerà tutta la seconda metà dell’Ottocento e i
primi anni del Novecento (Capanna, 1989). D’ora innanzi il criterio esplicativo non
sarà più il piano corporeo archetipico, ma l’antenato comune e obiettivo fondamentale della
ricerca anatomo-comparativa diverrà la ricostruzione della filogenesi basata sulla
ricerca di caratteri informativi di un’ascendenza comune. A tale riguardo, è interessante
confrontare la prima edizione del classico manuale di Anatomia comparata di Karl
Gegenbaur (1826-1903), che fu uno dei massimi anatomo-comparati dell’‘800, con
l’edizione successiva alla pubblicazione del testo di Darwin: i termini “tipo morfologico” o “archetipo” vengono rimpiazzati dal nuovo termine “antenato comune”,
anche se l’impostazione metodologica e la prassi scientifica della ricerca anatomica
rimangono sostanzialmente immutate.
L’autore che più di ogni altro nell’Ottocento si dedicò alla interpretazione in chiave
filetica delle strutture anatomiche fu Ernst Haeckel (1834-1919), che fu uno dei primi
evoluzionisti a dichiarare esplicitamente che ogni schema classificatorio non può che
partire dalla definizione dei rapporti filetici tra gli organismi; la classificazione deve cioè
derivare immediatamente dalla genealogia evolutiva (cfr. Minelli, 1991). Egli fu anche
il primo autore a usare in modo sistematico la rappresentazione della filogenesi sotto
forma di alberi genealogici (dendrogrammi), dove i vari livelli della classificazione
scaturiscono dalla successione delle dicotomie evolutive (Fig. 4). Haeckel considerò
infatti la rappresentazione grafica della filogenesi come il compito più importante e
interessante per la morfologia del futuro, in ciò anticipando l’approccio tipico della
Cladistica hennigiana (Jahn, 2003).
In Italia il nuovo filone della morfologia evoluzionistica ebbe uno dei principali
esponenti in Giovanni Battista Grassi (1854-1925), che si formò alla scuola di
Gegenbaur a Heidelberg e insegnò Anatomia comparata per circa 30 anni presso
l’Università di Roma (Capanna, 1989). Il suo fu un metodo di ricerca che mirava sempre
alla conoscenza dell’intero ciclo dell’animale in esame, per la quale si serviva di
osservazioni morfologiche, fisiologiche ed ecologiche. La sua ricerca morfologica toccò
molti argomenti nell’ambito della zoologia e dell’Anatomia comparata dei Vertebrati: ad
58
esempio, scoprì la
vera natura del Leptocephalus brevirostris
come larva di Anguilla e scrisse
un’ampia monografia sulle vertebre
dei pesci (Alizi Cappelletti, 1989).
Questo avvio promettente subì presto una brusca frenata e già nel 1937
Mario F. Canella,
docente di Anatomia comparata nell’Ateneo bolognese, individuava
come cause di una
crisi già profonda:
a) il sopravvento
dello sperimentalismo, col suo approccio basato sulla riproducibilità
dell’esperimento,
più affine alla ricerca chimico-fisica che al metodo
descrittivo dell’Anatomia comparata; b) gli entusiasmi suscitati daFig. 4. Albero genealogico (dendrogramma) dei viventi, disegnato nel 1866 gli indirizzi di ridallo zoologo tedesco Ernst Haeckel (da Minelli, 1991).
cerca “alla moda”;
e c) la crisi dell’evoluzionismo darwiniano, che troverà una soluzione nella “Modern
synthesis” negli anni Quaranta e Cinquanta (Mayr, 1990). In definitiva, col Novecento,
la ricerca biologica in Italia vede la funzione sostituire la forma come obiettivo
dell’indagine scientifica e come principio esplicativo. “L’enfasi viene posta sulla
riduzione del numero delle variabili osservate, sulle condizioni controllate in laboratorio, sulla base del principio metodologico che la funzione di una parte isolata è la
stessa della parte integrata nell’organismo, sull’uso di tecniche chimiche e fisiche”
(Fantini, 1988). Nell’Università italiana degli inizi del terzo millennio il “compimento
59
del dramma” è sotto gli occhi di tutti: già pressoché scomparsa dalla ricerca
accademica (cfr. Dallai, 1989), l’Anatomia comparata è stata drasticamente ridotta nei
corsi di laurea biologico-naturalistici dell’attuale assetto curricolare universitario (il
famigerato “3 + 2”). Presso l’Università “Federico II” di Napoli, dove pure è nata
come disciplina accademica, l’Anatomia comparata è addirittura sparita come materia
autonoma, travolta da esigenze di innovazione a tutti i costi che mascherano, a mio
avviso, una sconfortante pochezza culturale.
L’Anatomia comparata e le “due anime” della Biologia
In realtà le due “anime” della Biologia, come le ha definite Mayr (1990), cioè la Biologia
evolutiva e quella funzionale, vengono sicuramente a saldarsi nell’Anatomia comparata
(Ghiara, 1992). Queste due anime hanno la loro ragione d’essere nel fatto che i viventi
possiedono un programma genetico di cui la Biologia funzionale, quella che Mayr (per
es., 1982a) chiama “Biologia del come”, studia le modalità di traduzione e di
decodificazione; la Biologia evolutiva, che Mayr chiama “Biologia del perché”, si
occupa invece dell’origine di questi programmi e del loro cambiamento storico.
L’Anatomia comparata costituisce certamente un terreno comune di elezione per
questi differenti approcci, dal momento che dei differenti sistemi dei Vertebrati è
possibile delineare il percorso storico-evolutivo che li ha portati alla configurazione
attuale e, di quest’ultima, è possibile analizzare gli aspetti funzionali da un punto di vista
fisiologico e di sviluppo. Ad esempio, confrontando la funzionalità dell’orecchio
medio nei Rettili e nei Mammiferi attuali, è possibile constatare come la maggiore
acuità uditiva dei secondi nasca da una struttura profondamente diversa, con una
membrana timpanica molto ampia che riesce a convogliare sulla staffa una quantità di
energia tale da vincere l’impedenza dell’endolinfa; inoltre, la concatenazione degli
ossicini dell’orecchio medio (staffa, incudine e martello) agisce come un sistema di leve
in grado di aumentare fino a una volta e mezzo l’amplificazione del suono rispetto alla
condizione rettiliana, caratterizzata da un singolo ossicino (corrispondente alla staffa
dei Mammiferi) (Liem et al., 2002). E questo è il settore di pertinenza del biologo
funzionale, ma anche il biologo evolutivo ha la sua voce in capitolo: per comprendere
infatti come si sia arrivati alla configurazione attuale, non possiamo non tenere conto
dei dati storici, documentati da una ricca serie di reperti fossili dei Terapsidi, i Rettili
mammaliformi che hanno preceduto il piano strutturale dei Mammiferi (cfr. Carrol,
1988; Benton, 2000). In queste forme estinte si assiste al progressivo cambiamento di
struttura e di funzione di due ossa di sostituzione (quadrato e articolare) originariamente e tuttora coinvolte nell’articolazione della mandibola al cranio nei Vertebrati con
endoscheletro ossificato, ad eccezione dei Mammiferi dove tale articolazione coinvolge due ossa dermiche (dentale e squamoso). In questi ultimi il quadrato, come incudine,
e l’articolare, come martello, sono contenuti nell’orecchio medio, fungendo, insieme
alla staffa, da trasmettitori e amplificatori delle vibrazioni sonore. E’ molto probabile
che quadrato e articolare iniziarono a svolgere una funzione legata all’udito durante il
processo di perdita di quella precedente, strutturale-meccanica: infatti, la loro posizione di contiguità con la regione otica li rendeva già “disponibili” e adatti alla nuova
60
funzione. Essi erano “preadattati” al loro nuovo ruolo quando ancora funzionavano
da ossa mascellari. Un carattere preadattato, dunque, svolge una funzione nel
progenitore, ma è predisposto, in modo del tutto casuale e non per una sorta di
“premonizione finalistica”, a svolgere una funzione differente nei discendenti. Gould
(cfr., 2003) ha comunque proposto di sostituire il termine preadattamento, per i
possibili fraintendimenti in chiave teleologica, con il termine certamente più neutro ma
non altrettanto evocativo di exaptation.
Anatomia comparata e Biologia evolutiva
I caratteri anatomici possono essere utilizzati nella ricerca evoluzionistica in quanto
indicatori del grado di parentela fra gli organismi di cui si tenti di ricostruire le relazioni
tassonomiche. In quest’ottica, il carattere anatomico assume il valore di carattere
tassonomico, cioè un qualunque attributo di un membro di un taxon, per il quale esso
differisce o può differire da un membro di un taxon diverso (Mayr, 1982b). I caratteri
tassonomici hanno una duplice funzione: permettono di effettuare la diagnosi delle
specie e di altri taxa e di rilevare le affinità. L’utilità di un carattere per la classificazione
dipende dal suo contenuto di informazione, cioè dalla sua correlazione con il
raggruppamento reale dei taxa prodotto dall’evoluzione. Infatti le caratteristiche
morfologiche e anatomiche più utili in tassonomia differiscono da un gruppo
sistematico all’altro. Nei Mammiferi, ad esempio, sono particolarmente utili l’osteologia cranica e la struttura dentaria; negli Uccelli le caratteristiche del piumaggio; nei
Rettili i diversi caratteri cranici, le dimensioni, il numero e la forma delle squame.
Un altro concetto importante riguarda il fatto che i differenti caratteri morfoanatomici possono rivestire un diverso significato evolutivo e, conseguentemente, un
differente grado di utilità ai fini tassonomici. In particolare, occorre distinguere fra quei
caratteri che rappresentano degli adattamenti generali e quelli che costituiscono invece
adattamenti speciali (cfr. Mayr, 1982b; Mayr & Ashlock, 1991). Gli adattamenti generali
sono caratteri di tipo conservativo, che evolvono cioè lentamente e sono spesso
condivisi in uno stato simile dalla maggioranza, se non da tutti i membri di un taxon.
Essi costituiscono i caratteri chiave di un dato raggruppamento tassonomico, le strutture
che si sono evolute agli albori della storia evolutiva del gruppo, consentendogli di
occupare una nuova zona adattativa o un nuovo stile di vita: una volta affermatisi,
questi caratteri non vanno più incontro a grossi cambiamenti perché rappresentano un
adattamento alle condizioni ambientali più diverse. Di conseguenza, gli adattamenti
generali sono utili per il riconoscimento delle categorie tassonomiche superiori, dagli
ordini in su. Gli adattamenti speciali sono invece quei caratteri con un tasso evolutivo
più rapido, che rappresentano la risposta a condizioni ambientali variegate e possono
essere utilmente impiegati per diagnosticare i livelli tassonomici dalla famiglia in giù.
Ad esempio, la struttura degli incisivi a forma di scalpello e a crescita continua nei
Roditori attuali è molto simile a quella dei Roditori fossili più antichi, designando quindi
il rango dell’ordine Rodentia: tutte le specie riferibili a questo taxon, dal più piccolo
topolino della case al castoro o all’istrice, condividono questo stesso, comune,
adattamento generale che costituisce il carattere chiave dei Roditori come gruppo
61
tassonomico, come ordine. Viceversa, se consideriamo altri caratteri della dentizione,
per esempio i molari, osserveremo che le specie appartenenti alla famiglia Microtidae
(le arvicole o topi campagnoli) hanno molte cuspidi taglienti come adattamento
speciale a un’alimentazione che si basa su materiali vegetali; le specie riferibili ai Muridae
(topi e ratti) possiedono invece dei molari di tipo bunodonte, cioè con cuspidi
arrotondate, che rappresentano un adattamento speciale a un tipo di alimentazione
onnivora (Fig. 5).
In questi ultimi anni, gli approfondimenti metodologici della tassonomia cladistica
hanno permesso di definire in modo rigoroso l’utilità dei caratteri tassonomici nella
ricostruzione filogenetica e nella classificazione. E’ diventato sempre più chiaro che,
oltre alla indispensabile distinzione tra omoplasie (caratteri condivisi per convergenza) e
omologie (caratteri condivisi per eredità), occorre anche distinguere le omologie
ancestrali o plesiomorfie da quelle derivate o apomorfie e ritenere solo quest’ultime ai fini
filogenetici. Per la discriminazione tra omoplasie e omologie sono stati messi a punto
vari approcci metodologici, ma sicuramente quello oggi più diffuso nella pratica
tassonomica è il metodo basato sul principio di parsimonia (entia non sunt multiplicanda
praeter necessitatem), che risale alla filosofia dello scolastico Guglielmo di Ockam (circa
1280-1347). Si dia per esempio
il caso di dover classificare tre
organismi, una trota, una balena e un topo, disponendo di un
set di caratteri utili per inferire
la parentela evolutiva. La balena ha una forma simile a quella
della trota ed entrambe sono
fornite di “pinne”, ma la balena ha un maggior numero di
caratteri in comune con il topo
(cuore quadriloculare, presenza di polmoni, endotermia,
viviparità, etc.) che con la trota. E’ dunque più semplice
fare l’ipotesi che la forma affusolata si sia evoluta due volte e rappresenti perciò
un’omoplasia e non, al contrario, pensare che siano state
tutte le caratteristiche comuni
alla balena e al topo a evolversi
Fig. 5. Adattamenti generali (incisivi a crescita continua) e due volte. Concludiamo quinspeciali (struttura dei molari) nei Roditori. M1 = primo molare di che quest’ultime caratteristisuperiore, in alto in un Microtide, in basso in un Muride che rappresentino delle omologie e che la balena abbia
(modificato da Locatelli & Paolucci, 1998 e Nappi, 2001).
62
rapporti di parentela più stretti con il topo. Quando ci troviamo di fronte a dati
contrastanti scegliamo sempre la spiegazione più semplice.
L’importanza, poi, di discriminare tra plesiomorfie e apomorfie nasce dal fatto che
solo queste ultime, cioè i caratteri ereditati dall’ultimo progenitore in comune, sono
informativi della genealogia evolutiva. Ad esempio, la presenza di cinque dita, pur
costituendo un’omologia, è un carattere ingannevole per la ricostruzione filogenetica
all’interno del taxon Mammalia: infatti, l’antenato comune di tutti i Mammiferi
possedeva già cinque dita e in alcune linee si è verificata una modificazione di questo
carattere. Raggruppare tutti i Mammiferi con cinque dita separate significherebbe
semplicemente individuare quelle linee in cui il carattere, inizialmente comune a tutti,
non è andato perduto. La metodologia che la scuola cladistica ha introdotto per
operare tale scelta è il confronto con un “gruppo esterno” (out group comparison), un
taxon genealogicamente vicino (sister group o gruppo fratello) a quello di cui vogliamo
ricostruire la filogenesi (in group). L’approccio cladista assume che lo stato del carattere
condiviso da una o più specie del gruppo in esame con l’out group, costituisca lo stato
ancestrale che si trovava nel più remoto antenato comune: per valutare, all’interno del
taxon Carnivora, quale dei due stati sia quello apomorfo, se la mano con cinque dita
libere presente nell’orso e nel cane, o la pinna di foche e otarie, si guarderà la condizione
presente in un out group come l’uomo, appartenente all’ordine Primates. Dobbiamo
infatti aspettarci che la condizione presente in quest’ultimo sia quella primitiva
(adattamento generale), plesiomorfa, per il gruppo in esame. La mano pentadattila,
che si trovava nel più remoto antenato comune a Carnivori e Primati, si è ragionevolmente conservata nell’uomo e in alcune specie del taxon Carnivora, mentre si è
trasformata nel corrispondente stato apomorfo, la pinna, in foche e otarie.
Possiamo quindi concludere che gli adattamenti generali rappresentino valide sinapomorfie ad alti livelli della gerarchia sistematica, mentre diventano delle simplesiomorfie
quando scendiamo nella gerarchia tassonomica. Ad esempio, la colonna vertebrale è
senz’altro una caratteristica sinapomorfica del subphylum Vertebrata, ma a livello della
classe Mammalia, assume il valore di una plesiomorfia, priva di qualsiasi contenuto
informativo circa la posizione dei Mammiferi rispetto alle altre classi di Vertebrati.
Occorrerà quindi individuare altri caratteri in grado di designare il livello in cui i
Mammiferi si sono “staccati” come ramo distinto della genealogia dei Vertebrati:
alcuni esempi di sinapomorfie che segnano tale livello della gerarchia tassonomicofilogenetica potrebbero essere i peli o altri derivati cutanei, quali le ghiandole
sudoripare o mammarie. Ma se scendiamo a livello di singoli ordini mammaliani, la
presenza di peli diventa una plesiomorfia. Dobbiamo quindi rivolgere la nostra
attenzione a “caratteri chiave” che hanno favorito la separazione di queste ramificazioni secondarie della genealogia mammaliana.
Nel caso dell’ordine dei Primati, tali sinapomorfie sono senz’altro rappresentate dalle
unghie piatte o dal pollice opponibile, chiari adattamenti allo stile di vita dell’antenato
comune arboricolo delle scimmie attuali, uomo compreso.
Il problema dell’utilizzo dei caratteri morfo-anatomici come indicatori di evoluzione
offre non poche difficoltà a causa della natura adattativa della maggior parte di tali
63
caratteri. In ogni momento, infatti, le interazioni tra gli organismi e i loro ambienti
definiscono una serie di più o meno vasti campi o zone adattative (Simpson, 1953).
Tutti gli organismi che condividono uno stesso livello di organizzazione strutturale
come adattamento ad una specifica zona adattativa costituiscono un grado evolutivo. Per
clado si intende invece un gruppo di specie che condividono uno stesso comune
progenitore, costituendo quindi un gruppo monofiletico (Fig. 6) (cfr. Futuyma, 1986).
Non sempre i due concetti coincidono: scopo del sistematico evolutivo è di
riconoscere e denominare i cladi, in quanto “prodotti” della filogenesi, escludendo i
gradi in quanto possibile risultato di evoluzione convergente o parallela. La ricerca è
tuttavia complessa: membri di uno stesso clado possono infatti appartenere a gradi
differenti in virtù della differente velocità evolutiva a cui sono sottoposti i caratteri
morfologici, “bersaglio” della selezione naturale. E’ il classico caso degli Uccelli e dei
Coccodrilli che, pur appartenendo allo stesso gruppo monofiletico, o clado, degli
Arcosauromorfi, si collocano in due zone adattative profondamente diverse: gli
Uccelli si sono infatti allontanati moltissimo -in seguito ai molteplici adattamenti al
volo- dal grado strutturale rettiliano. Spesso è dunque assai utile confrontare i dati della
morfologia e dell’anatomia, che pure rappresentano l’insostituibile punto di partenza,
con set di dati che siano indipendenti da questi, come quelli chimico-molecolari o ecoetologici.
A proposito del diverso tasso evolutivo dei tratti morfo-anatomici,
consideriamo il caso di una specie
che evolve un nuovo piano organizzativo, un carattere chiave che le
consente di accedere a una nuova
zona adattativa. Mentre la penetrazione iniziale nella nuova zona è
dovuta a un adattamento generale,
l’evoluzione successiva determinerà
una radiazione adattativa, in cui le
specie discendenti divergeranno dalla
forma ancestrale, adattandosi progressivamente alle varie sottozone o
nicchie ecologiche particolari. Talvolta la divergenza sul piano morfo-anatomico è talmente marcata
da “mascherare” le reali affinità filetiche fra i discendenti di questa specie ancestrale. Un caso emblematiFig. 6. Le interazioni tra gli organismi e i loro ambienti
definiscono una serie di campi o zone adattative (aree co è quello dell’ordine dei Cetacei,
in grigio). Membri di uno stesso clado possono comprendente i due grandi gruppi
appartenere a gradi differenti a causa delle differenti degli Odontoceti e dei Misticeti,
caratterizzati da anatomie, modi di
velocità evolutive (da Futuyma, 1986).
64
Fig. 7. Il complemento cromosomico di un Misticeto, la Balenoptera borealis, in alto, è identico a
quello di un Odontoceto, il Delphinus delphis, in basso. Ciò suggerisce che balene e delfini siano
i discendenti di un antenato comune (da Austin & Short, 1980).
vita e nicchie trofiche così divergenti da aver fatto ipotizzare, in passato, un’origine
polifiletica per essi (cfr. Dal Piaz & Malaroda, 1966). Se però si guarda a caratteristiche
genomiche come la struttura cromosomica, si scopre che è pressoché impossibile
discriminare al microscopio i cromosomi di una balena da quelli di un delfino: i loro
assetti cariotipici sono infatti del tutto sovrapponibili, non solo per quanto concerne
il numero diploide (2n = 44), ma anche per la struttura e il bandeggio fine degli
omologhi (Austin & Short, 1980, Fig. 7). La stessa classica dicotomia dei Cetacei in
Odontoceti e Misticeti è stata recentemente messa in discussione; infatti, filogenesi
molecolari basate sulla comparazione di geni mitocondriali hanno evidenziato una
profonda unitarietà filogenetica del gruppo, con i Misticeti sister group dei capodogli
(Milinkovitch et al., 1993).
Se una faccia della medaglia è rappresentata dalla divergenza, l’altra è la convergenza, che
si verifica quando strutture diverse tendono ad assumere forme e funzioni simili per
effetto delle stesse pressioni selettive. Anche in tal caso il confronto con dati non
morfologici può aiutare a chiarire punti controversi. Un esempio calzante è rappresentato dagli avvoltoi americani quali il condor delle Ande (famiglia Catarthidae), a
lungo considerati un gruppo di Falconiformi, che comprendono i rapaci del Vecchio
Mondo come falchi, aquile e avvoltoi. In particolare, con questi ultimi condividono
becchi e artigli acuminati e, soprattutto, testa e collo nudi, caratteristiche che consentono di inserire il capo all’interno delle carogne per strapparne le viscere, senza
65
danneggiare il piumaggio. Osservando però l’assetto cromosomico del condor, si
individua subito una particolarità, la cosiddetta bimodalità del cariotipo, con una serie
di cromosomi di grandi dimensioni, i macrocromosomi, a cui si contrappone una serie
di piccoli microcromosomi. L’assetto cromosomico di un Falconiforme che assomiglia molto al condor, l’avvoltoio del Capo, presenta un quadro molto diverso mentre,
sorprendentemente, i Ciconiformi hanno un corredo cariotipico identico a quello
degli avvoltoi americani (cfr. Capanna, 1989, Fig. 8). Queste evidenze citogenetiche,
sono state anche confermate da esperimenti di ibridazione del DNA (Sibley &
Ahlquist, 1999) e hanno portato alla conclusione tassonomica di includere i Catartidi
all’interno dei Ciconiformi.
Fig. 8. Il cariotipo del condor delle Ande, al centro, è confrontato con quelli della cicogna bianca, in
alto, e dell’avvoltoio del Capo, in basso. La netta somiglianza cariotipica tra condor e cicogna è ben
evidente non solo per la netta asimmetria del cariotipo con numerosissimi microcromosomi, ma
anche per l’identità morfologica delle prime coppie di macrocromosomi (da Capanna, 1989).
Anatomia comparata e Biologia funzionale
Se la Biologia evolutiva enfatizza il significato dei tratti morfo-anatomici quali
“indicatori filogenetici”, la Biologia funzionale ne esalta la loro utilità quali “indicatori
di adattamento”. In particolare, le ipotesi sul valore adattativo di un carattere sono
basate sull’assunzione che alcune particolari configurazioni di una struttura anatomica
conferiscano a chi le possieda una maggiore capacità di sopravvivenza rispetto ad altre
(Ridley, 2004). Queste ipotesi possono essere verificate con un approccio ingegneristico, cioè alterando sperimentalmente la struttura di cui vogliamo saggiare il significato
adattativo, confrontandone poi la funzione, la performance, con il pattern inalterato.
L’altro approccio è il classico metodo comparativo, che consiste nel confrontare la
stessa struttura in specie correlate (cfr. Gans, 1974).
Come esempio dell’approccio ingegneristico mi riferirò a un argomento che rappresenta un “cavallo di battaglia” dell’Anatomia comparata: il significato adattativo del
palato secondario nei Mammiferi, evolutosi a partire da un palato primario in cui le
narici interne o coane si aprivano anteriormente nella volta palatina. Nel corso
dell’evoluzione dei Terapsidi, la posizione delle coane andò gradualmente arretrando
66
per il cambiamento dell’architettura di alcune ossa, in particolare mascellari, premascellari e palatine, che formarono come un ponte, un “controsoffitto”, che raddoppiò il
palato originario formando il palato secondario. In classici testi di Anatomia
comparata, quali ad esempio il Romer (1978) e il Padoa (1982), viene riportato in
modo apodittico che il significato evolutivo-adattativo di questa struttura sarebbe
legato alla separazione fra vie respiratorie e vie alimentari, e alla conseguente possibilità
per i Mammiferi di realizzare un flusso respiratorio costante durante la masticazione.
Alcuni autori americani hanno sottoposto a verifica questa ipotesi attraverso un
approccio ingegneristico (Thomason & Russel, 1986; Russel & Thomason, 1993). A
tale scopo hanno esercitato su crani di opossum forze tangenziali all’altezza degli archi
zigomatici in strutture integre, fessurate a livello del palato e completamente private
del palato secondario e hanno misurato la conseguente alterazione elastica del cranio.
Nei crani integri la resistenza a queste forze è molto elevata, mentre è risultata minima
in quelli mancanti delle strutture ossee palatali. La conclusione, molto ragionevole, è
che il palato secondario abbia rivestito, nel corso dell’evoluzione dei Rettili mammaliformi prima e dei Mammiferi poi, una funzione primaria di irrobustimento
meccanico della regione rostrale del cranio, in rapporto alla profonda riorganizzazione
del complesso mascellare in cui si sono modificati a) la struttura della mandibola, b)
i suoi muscoli adduttori e c) la dentizione che è diventata eterodonte. Una maggiore
rigidità era necessaria proprio per garantire un’efficace resistenza alle sollecitazioni
meccaniche che si sviluppavano durante periodi di masticazione progressivamente più
lunghi rispetto alla condizione rettiliana. La funzione legata alla respirazione, richiamata
nei testi di Anatomia comparata,
rappresenta probabilmente una
conseguenza secondaria, ma non il
primum movens dell’evoluzione del
complesso palatale dei Mammiferi (cfr. Caputo, 1991).
Riguardo al metodo comparativo, richiamerò i risultati di ricerche
che ho svolto su un gruppo di
Rettili molto interessanti, le specie
del genere Chalcides (Squamata, Scincidae) (Caputo, 2004; Caputo et al.,
1995, 2000; Greer et al., 1998).
L’interesse suscitato nell’anatomocomparato nasce dal fatto che specie strettamente affini mostrano
piani corporei profondamente diversi, con forme tetrapode e pentadattile, tipicamente lacertiformi
Fig. 9. Due specie di Scincidi del genere Chalcides. A = (Fig. 9A), e forme che hanno acgongilo (C. ocellatus); B = luscengola (C. chalcides).
quisito una morfologia “da ser67
pente” (Fig. 9B) attraverso l’incremento nel numero di vertebre e la progressiva
riduzione degli arti. Le specie allungate utilizzano sempre meno gli arti per la
locomozione e sempre più l’ondulazione laterale del corpo e differiscono dalle specie
congeneriche con gli arti ben sviluppati anche quanto ad ambienti di vita. Queste ultime
vivono infatti in habitat caratterizzati da fitta vegetazione arbustiva, mentre le specie
serpentiformi si sono adattate ad ambienti prativi o sono diventate fossorie in zone
sabbiose.
Una caratteristica che le specie del genere Chalcides condividono con gli altri Rettili è il
fatto di essere animali assai criptici, trascorrendo gran parte della propria vita nascosti
in cavità del terreno, fra le radici o nei tunnel che essi stessi provvedono a scavare.
Vivere sotto terra ha dei chiari vantaggi, poiché il microclima sotterraneo è “tamponato” dal suolo circostante: vivere in un tunnel permette di sfuggire alla radiazione
solare diretta e alla escursione termica notturna; le cavità entro il suolo hanno spesso
un tasso di umidità più elevato rispetto alla superficie. La vita fossoria permette inoltre
di sfuggire all’attenzione di molti predatori. Una “strategia adattativa” che ha spesso
consentito ai Rettili di occupare queste nicchie sotterranee è stata la miniaturizzazione:
già i primi Amnioti del Carbonifero medio, Hylonomus e Paleothyris, non erano più
lunghi di 20 cm compresa la coda e si nascondevano in fessure del terreno e tronchi
cavi, come testimoniano i fossili di queste forme ancestrali (Benton, 2000). La tendenza
verso la miniaturizzazione ha infatti un ovvio vantaggio selettivo: poiché il costo
energetico per scavare un tunnel aumenta in funzione del diametro del tunnel stesso,
la diminuzione del diametro corporeo ridurrà l’ammontare di energia necessaria per
penetrare nel terreno. Il risparmio energetico rappresenta quindi la “molla” che
avrebbe innescato il rimpicciolimento corporeo, con profonde ripercussioni sull’anatomia e, in particolare, sul cranio. Nei Rettili, questo può essere visualizzato come due
cilindri concentrici, uno più esterno, il dermatocranio che include uno più interno, il
neurocranio che a sua volta avvolge e protegge l’encefalo. Inoltre, i vari segmenti del
cranio rettiliano
possono essere
considerati come
elementi funzionali
relativamente indipendenti gli uni
dagli altri (“cranio
cinetico”), con due
fondamentali punti cardine, il giunto
mesocinetico e il
giunto metacinetico (Fig. 10), che
permettono al
complesso mascelFig. 10. Modello di cranio cinetico di Squamato (da Arnold, 1998)
lare un’ampia mo68
bilità rispetto alle altre componenti craniche: ciò consente alla mascella di fare una presa
ottimale sulle prede, evitando che queste sfuggano al morso (cfr. Arnold, 1998).
Un aspetto interessante è che, in conseguenza della miniaturizzazione, si riducono le
dimensioni complessive del cranio, ma il neurocranio non può rimpicciolire oltre un
certo limite, poiché i canali semicircolari in esso contenuti perderebbero altrimenti la
loro funzionalità. Si può quindi osservare che, mano a mano che le dimensioni assolute
del cranio si riducono, le dimensioni relative del condrocranio vanno viceversa
aumentando. Questo fenomeno ha delle conseguenze funzionali, determinando nelle
piccole specie fossorie del genere Chalcides l’obliterazione del giunto metacinetico.
Infatti, col progressivo incremento delle dimensioni relative della scatola cranica,
questa si fa sempre più vicina al dermatocranio, riducendo la finestra postemporale
Fig. 11. Col progressivo incremento delle dimensioni relative del condrocranio, questo si fa sempre
più vicino al dermatocranio, riducendo la finestra postemporale (Fp) a una sottile fessura. A =
Chalcides polylepis, specie di grossa taglia; B = C. mauritanicus, specie miniaturizzata (crani in norma
occipitale, disegnati a scala diversa. Da Caputo, 2004).
a una sottile fessura e riducendo la mobilità tra la componente dermica e la
componente condrale del cranio (Fig. 11). Per le stesse ragioni, anche la finestra
temporale superiore tende a diventare
una sottile fessura, determinando una
maggiore compattezza del cranio. Queste stesse relazioni allometriche si osservano a livello intraspecifico quando si
confrontino individui di differenti età,
con i giovani caratterizzati da crani piccoli ma scatola cranica proporzionalmente maggiore rispetto agli adulti. E’
dunque chiaro che negli adulti miniaturizzati in seguito a eterocronia di svilupFig. 12. Nelle specie fossorie del genere Chalcides le po, la maggiore rigidità cranica possa
ossa pre- e postfrontale (frecce), largamente separa- aver costituito un vantaggio adattativo
te nelle forme meno specializzate (A = C. chalcides), poiché il cranio, in questi animali scavasono invece articolate fra loro (B = C. sepsoides) (da tori, costituisce il fondamentale organo
Caputo, 2004).
di scavo. Nelle radiografie mostrate in
69
Fig. 12 si può osservare, infine, un’altra caratteristica evolutasi nelle specie scavatrici del
genere Chalcides, cioè la solida articolazione tra le ossa pre- e postfrontale, che sono
invece largamente separate nelle forme meno specializzate. Tale articolazione, bloccando il movimento del giunto mesocinetico, impedisce la conseguente rotazione della
regione del muso rispetto al dermatocranio, col possibile significato funzionale di
rendere rigida la regione preorbitale del cranio, fortemente sollecitata durante lo scavo.
Il confronto con specie appartenenti a famiglie filogeneticamente distanti da quella
oggetto del mio studio, ma che hanno imboccato anch’esse la strada verso la
fossorialità, indica soluzioni dello stesso tipo, quali una maggiore rigidità cranica e
rapporti articolari modificati (cfr. Rieppel, 1984).
Considerazioni conclusive
In conclusione, voglio sottolineare che l’Anatomia comparata, nelle impostazioni più
moderne, guarda all’evoluzione dei complessi morfo-funzionali dei Vertebrati in
relazione all’occupazione di nuove zone adattative, abbracciando aspetti molteplici
della Biologia di questi animali. Ed è proprio dall’integrazione dell’Anatomia comparata con la Biologia molecolare e la Genetica dello sviluppo, ma anche con l’Ecologia
e la Biologia del comportamento (cfr. Liem et al., 2002), che sta emergendo una
multidisciplinarità in grado di rivitalizzare una materia che molti ritengono, a torto, aver
fatto definitivamente il suo tempo. Ciò non potrà che avere effetti positivi sulla
didattica, considerato che l’insegnamento universitario è legittimato dall’esperienza
scientifica del docente e dai
suoi contributi originali alla conoscenza della materia, che ne
arricchiscono di continuo il contenuto.
Vorrei, infine, fare un cenno
alla polemica della scorsa primavera sulla proposta legislativa di abolire l’insegnamento
dell’evoluzionismo dalle scuole medie. In particolare, alcuni
articoli giornalistici sembravano adombrare possibili ingerenze della gerarchia cattolica
nella spinosa querelle (Fig. 13).
In realtà, anche leggendo uno
degli ultimi saggi di Gould
(2004), mi sono convinto dell’infondatezza di questi sospetti.
Fig. 13. Vignetta satirica, pubblicata sul quotidiano “La Re- Nell’articolo, in cui Gould tratpubblica”, in riferimento alla polemica sull’insegnamento ta dell’indipendenza dei magidell’evoluzionismo nelle scuole medie.
steri della religione e della scien70
za, viene citata una frase molto significativa dell’attuale Pontefice, da cui si evince come
la Chiesa cattolica abbia accettato l’evoluzione come fatto provato: “Oggi … nuove
conoscenze hanno condotto a non considerare più la teoria dell’evoluzione come una
mera ipotesi” (Giovanni Paolo II, discorso ai Membri della Pontificia Accademia delle
Scienze nell’ottobre 1996). L’importanza attribuita da uno degli estensori della
proposta di legge alla dimensione favolistica del mito, rispetto all’obiettività delle
Scienze naturali, fa piuttosto pensare a una frettolosa rilettura della riforma Gentile del
1924. Il Filosofo siciliano, allora ministro della Pubblica istruzione, aveva infatti
reintrodotto la religione fra le materie scolastiche delle elementari, come disciplina che
dovesse gettare le basi per lo studio successivo della filosofia (cfr. Romano, 2004).
Ma il pericolo incombente per l’Anatomia comparata e che, più in generale, sta
minando alla base la raison d’être dell’insegnamento accademico (cfr. Ortega y Gasset,
1991), è la “metamorfosi aziendalistica” dell’università, cioè la sua trasformazione in
senso sempre più tecnicistico e modulare (Derrida & Rovatti, 2002). In questa
inquietante deriva aziendale, temo che le materie evoluzionistiche, non avendo un taglio
immediatamente “produttivo”, saranno le prime a essere sacrificate: il caso emblematico di Napoli, dove l’Anatomia comparata è stata soppressa proprio nell’Ateneo in
cui era nata come disciplina accademica, dà un’idea precisa del vento che spira.
Concludo il mio intervento con una frase del grande anatomico umano Joseph Hyrtl
(1887), che pur essendo un “applicativo”, era anzitutto un uomo di cultura, mercanzia
ormai quasi introvabile nei nostri atenei-super market: L’Anatomia comparata non giova
immediatamente come l’applicata anatomia ai bisogni del pratico, la sua nobiltà non poggia sulla
considerazione materiale dell’utile, bensì sul perfezionamento dello spirito col vero.
Vincenzo Caputo
Istituto di Biologia e Genetica dell’Università Politecnica delle Marche
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73
Dibattito
Bianca Isolani
Vorrei una definizione di Antenato comune perché non si capisce mai, ed anche i testi
non aiutano perché ne parlano in modo sempre diverso, se si tratti di un gruppo, di
una specie, di una coppia di individui. Cosa si intende per Antenato comune? Perché
non gli si dà una dizione plurale, visto che sempre, quando si parla di evoluzione, si
fa un discorso di popolazioni? E ancora, quando si parla, in Anatomia comparata ma
anche in altre discipline, si dice “si sono evoluti per” “questo gli permetteva di” e quindi
“hanno modificato la loro struttura “in funzione di”, così è come metterci un finalismo,
mentre quando si insegna ai ragazzi bisogna dire che non c’è finalismo. Quindi è difficile
per degli insegnanti spiegare in modo non contraddittorio le varie discipline, tant’è vero
che poi i ragazzi molto spesso fanno confusione, ma non solo i ragazzi, ma anche tutti
gli articoli che si leggono sui normali mass media, direi di più, anche i ricercatori, i quali
si esprimono in un modo in alcune discipline e in altro in altre discipline.
Vincenzo Caputo
Riguardo alla prima questione, forse questa nebulosità nasce dalla molteplicità dei
meccanismi di speciazione: in certi casi, la popolazione fondatrice che darà origine a
una nuova specie può essere costituita da pochi individui (una singola femmina
gravida, nel caso di entità partenogenetiche), secondo il modello peripatrico o
dell’isolato periferico di Mayr; al contrario, nel modello classico di speciazione
allopatrica (modello dicopatrico di Mayr), una popolazione-specie ancestrale viene
suddivisa in due da una qualche barriera geografica, e da tali ampie sottopopolazioni,
costituite da un elevato numero di “progenitori”, si origineranno in seguito due specie
distinte. Riguardo poi al “finalismo latente” che si annida nel nostro modo di esprimerci,
è un chiaro esempio del retaggio culturale derivante dalla rappresentazione del
processo evolutivo come un “cammino di progresso”, a sua volta scaturito dal modo
di raffigurare la realtà biologica come una Scala naturae di progressivo perfezionamento, di derivazione scolastico-platonica.
Bianca Isolani
E’ proprio il retaggio delle culture che fanno sì che anche noi, nel XXI secolo, siamo
pieni degli stessi pregiudizi che si avevano nei secoli scorsi e che noi siamo abituati
a considerare dei secoli scorsi e che noi non ne abbiamo, invece, il fatto stesso che
parliamo di peccato originale, di antenato comune ecc., ripercorre degli schemi che
sono religiosi, perché è l’antenato comune che non si sa se è uno o è una coppia come
dall’arca di Noè. Perché non si usa la terminologia plurale? Ma no, si è scelta la
terminologia singolare. La stessa cosa si è fatta per il DNA , che viene considerato “il
DNA”, e non “i DNA”: Perché si dice “le proteine” e invece si dice “il DNA”? Perché si
è quasi divinizzata questa molecola. Io parlo da persona che durante la propria vita
professionale è stata profondamente delusa dalla Scienza, la religione l’avevo già
abbandonata perché non soddisfaceva la mia razionalità, la Scienza avrebbe dovuto
soddisfarla, invece, ancora adesso, trovo che non viene soddisfatta, e questo vale non
solo per me che ci ho riflettuto a lungo, ma molto probabilmente non soddisfa neanche
i ragazzi e non soddisfa neanche l’opinione pubblica, tant’è vero che da parte
dell’ANISN è stato fatto il lavoro “Il declino della Scienza”. Se un ragazzo è costretto
ad usare schemi finalistici in certi momenti e non finalistici in altri, perché da un lato
si dice che c’è il gradualismo, ma poi si parla di antenato comune, bisognerebbe che
ci fosse un catastrofismo per cui quasi tutti muoiono e rimangono solo quelli che erano
74
adatti, però non è confermato, anche se in certi momenti può esserlo. Quando noi
insegniamo ai ragazzini le Scienze pretendiamo che abbiano una visione razionalistica
e molto critica mentre lo schema generale della Scienza non è razionale, dietro c’è tutta
una filosofia che deriva dai nostri pregiudizi ancestrali e occorrerebbe che si facesse
molta chiarezza su questo con tante, tante discussioni, soprattutto nell’ambito ANISN,
perché siamo noi quelli che devono usare degli strumenti, dei cui difetti ci accorgiamo
ma che non spetta a noi singoli mettere a punto. Ci vuole una riflessione collettiva, e
questo non è stato mai fatto.
Oggi parlare delle cose della natura, dando un quadro organico, come aveva fatto
Lucrezio riprendendo da Epicureo, praticamente non è mai stato fatto ed invece è
questo che noi dobbiamo pretendere che si faccia, dobbiamo avere anche la chiarezza,
secondo me, di mettere in evidenza tutti i punti oscuri, invece, da molti colleghi, quando
esprimo i miei dubbi, mi sento dire che ai ragazzi bisogna dare certezze, no, ai ragazzi
non bisogna dare certezze, bisogna dare tanti dubbi: è questa secondo me l’educazione da dare; così ognuno può pensare che lui stesso può costruire qualcosa, che lui
stesso,può arrivare a certe mete. E se ci sono cose che non vanno bene nei libri di testo,
o nel nostro stesso insegnamento, se il ragazzino ci fa notare che ci sono contraddizioni, è corretto rispondere che, sì, ci sono contraddizioni, io stessa molte volte mi
esprimo in modo contraddittorio. Però molto spesso la contraddizione non è difetto
nostro, è difetto proprio della “scienza ufficiale” che, da una parte non ha raggiunto
determinati risultati (e spero che non li raggiunga mai sennò agli altri che cosa resta
da studiare!) e dall’altra molto spesso viene anche divulgata in modo molto negativo.
Robert Vignali
Hai illustrato una revisione della posizione tassonomica e filetica dell’avvoltoio
americano sulla base dell’analisi cromosomica, e questo tipo di analisi è ovviamente
abbastanza importante, però vorrei che tu commentassi altre evidenze che in altre
specie mostrano come, invece, forme estremamente affini anche dal punto di vista
genetico, abbiano assetti cromosomici completamente diversi e quand’è che possiamo
dare più importanza all’assetto cromosomico e quand’è che invece due assetti
cromosomici completamente distinti non implicano necessariamente una lontananza
filetica fra due specie.
Vincenzo Caputo
E’ anzitutto chiaro che non è possibile fare generalizzazioni partendo dal mero studio
dell’assetto morfologico dei cromosomi: non è assolutamente certo che una somiglianza complessiva del cariotipo indichi sempre una stretta parentela filogenetica e che,
al contrario, assetti cromosomici diversi indichino distanza tassonomica. Occorrerà
sempre, nello studio dei processi evolutivi, tener conto di una molteplicità di dati, che
spazino dalla morfologia, alla genetica, ma anche all’eco-etologia. Come giustamente
enfatizzato da “mostri sacri” della scienza tassonomica come Mayr o Simpson, la
sistematica è una disciplina sintetica che deve tener conto di informazioni che
riguardino vari aspetti biologici: è dunque una scienza “olistica”.
75
L’evoluzione vista attraverso lo
sviluppo
R OBERT V IGNALI
Uno dei principali nodi da risolvere per comprendere l’evoluzione è costituito dai
meccanismi genetici che sottintendono alle variazioni morfologiche. L’interesse dei
biologi evoluzionistici verso lo sviluppo è, in un certo senso, abbastanza ovvio. Infatti,
se vogliamo studiare come la morfologia di una certa struttura si sia modificata durante
l’evoluzione, dobbiamo capire come tale struttura si formi durante lo sviluppo. E’
durante lo sviluppo che si realizza la morfogenesi e che dunque viene creata la
morfologia; se la morfologia di una struttura o di un organo si modifica e la variazione
è ereditaria, questo non può che avvenire attraverso la modificazione dei programmi
genetici alla base del suo sviluppo. In questo contributo verranno considerati alcuni
esempi di come i geni controllino lo sviluppo, e di come modulazioni nella loro attività
possano essere alla base di importanti transizioni morfologiche comparse durante
l’evoluzione.
Uno dei primi studiosi ad interessarsi della natura della variazione morfologica fu
William Bateson (1894). Egli si occupò di catalogare un gran numero di variazioni
morfologiche osservate in numerose specie diverse, come, ad esempio, la sostituzione
di un paio di antenne sul capo di un insetto con un paio di zampe; o come la
modificazione della prima vertebra cervicale, l’atlante, che normalmente non porta
coste, in una vertebra fornita di coste; o come la comparsa di vertebre soprannumerarie in individui di una determinata specie. Secondo Bateson, se fossimo stati in grado
di capire come le variazioni morfologiche si originassero all’interno di una specie, allora
saremmo forse stati anche in grado di spiegare la natura delle variazioni morfologiche
che differenziano i diversi gruppi animali, e, quindi, di spiegare importanti transizioni
evolutive. Bateson previde tuttavia che, per arrivare a questo, sarebbe stato necessario
un lungo e paziente lavoro, realizzando incroci sistematici tra individui portatori delle
variazioni, e studiandone quindi la progenie, per cercare in essa modificazioni di una
qualche entità, la cui interpretazione avrebbe consentito di dischiudere i segreti della
variazione.
Seguendo un approccio sistematico di questo tipo è stato possibile, in tempi più
recenti, decifrare le modalità con cui viene costruito il piano strutturale di un
organismo, il comune moscerino dell’aceto, la Drosophila melanogaster. Numerosi
ricercatori si sono impegnati in quest’impresa, e tre fra di loro sono stati abbastanza
audaci, capaci e fortunati da essere premiati, per i loro risultati, col premio Nobel nel
1995: Ed Lewis, Cristiane Nusslein-Volhard ed Eric Wieschaus.
Perché è stata scelta la Drosophila come organismo modello per lo studio dello sviluppo
animale? Le ragioni sono varie. Un primo motivo sta nel fatto che si tratta di una specie
d’insetto facile da allevare in laboratorio, per la quale erano noti numerosi mutanti, sia
per caratteri come il colore degli occhi o il numero delle setole su una certa appendice,
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che per modificazioni strutturali più ingenti, come ad esempio il mutante bithorax, in
cui un bel paio d’ali compare sul terzo segmento toracico al posto di un paio di ali
ridotte (bilancieri), quali si osservano in un moscerino normale. Un secondo motivo
consiste nel fatto che la genetica di questa specie è stata ben caratterizzata per lungo
tempo: infatti, nelle cellule delle ghiandole salivari, le larve di questa specie possiedono
cromosomi giganti, sui quali è stato possibile mappare gli alleli collegati a tali mutazioni,
costruendo così una mappa fine dei cromosomi di Drosophila, molti anni prima del
sequenziamento del suo genoma. Inoltre, sono stati messi a punto sistemi di screening
genetici somministrando composti mutageni a drosofile adulte, o irraggiandole con
raggi X, e quindi incrociando gli individui trattati; la progenie di tali individui veniva
poi analizzata alla ricerca di nuovi mutanti che manifestassero anomalie dello sviluppo,
di cui i geni responsabili potessero quindi essere studiati. L’isolamento di tali geni è stato
reso possibile dallo sviluppo delle tecnologie di biologia molecolare, che tra l’altro,
hanno consentito l’analisi della espressione genica utilizzando procedure come la
ibridazione in situ, che permette di determinare la localizzazione dei trascritti di specifici
geni, o come l’immunoistochimica, che consente la localizzazione di specifiche
proteine tramite l’utilizzo di opportuni anticorpi.
La Drosophila presenta una organizzazione segmentale, con il corpo costituito da
numerosi segmenti, ed una chiara polarità antero-posteriore (AP) e dorso-ventrale
(DV). Ciascun segmento consta di un compartimento anteriore ed uno posteriore, e
ciascun segmento ha una precisa identità.
Ad esempio, il primo segmento toracico porta solo un paio di appendici deambulatorie (zampe) e nessun paio di ali, il secondo segmento toracico porta un paio di zampe
ed un paio di ali, il terzo segmento toracico porta un paio di zampe ed un paio di ali
ridotte o bilancieri; i segmenti addominali non portano tali appendici, ma ciascuno di
essi ha una sua precisa identità, e così pure i segmenti cefalici. La comparsa dei segmenti
è preceduta durante lo sviluppo da quella dei parasegmenti, che risultano leggermente
sfasati rispetto ai segmenti, ma per i quali valgono essenzialmente le stesse considerazioni valide per i segmenti.
Ma come vengono stabiliti durante lo sviluppo tutti questi segmenti, e come a ciascuno
di essi viene attribuita una precisa identità? Oggi sappiamo che tutto questo avviene
attraverso la attivazione di un preciso programma genetico. Ad esempio, per quanto
riguarda l’asse AP dell’embrione, inizialmente i prodotti dei geni materni stabiliscono
delle coordinate generali (anteriore, posteriore, terminale) lungo l’asse AP dell’embrione. I prodotti dei geni materni servono ad attivare la trascrizione dei geni zigotici,
inizialmente silenti. Tra questi, hunchback è uno dei primi, assieme ad altri geni zigotici
detti gap, che cominciano ad individuare nell’embrione ampie regioni di cui dirigono
lo sviluppo. Successivamente entrano in azione i geni “pair rule”, che sono espressi,
secondo una periodicità precisa, in sette strisce trasversali; questi geni cominciano ad
individuare i confini dei parasegmenti (e quindi dei segmenti). Temporalmente
successivi ai geni pair rule, i geni della polarità segmentale individuano un preciso
orientamento AP all’interno di ciascun segmento (ad esempio individuano il compartimento anteriore e quello posteriore). Infine i geni omeotici attribuiscono a ciascun
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segmento una precisa identità, stabilendo la natura delle strutture e delle appendici che
ciascun segmento deve sviluppare. In senso figurato, è come se “dicessero” al primo
segmento toracico (T1) che deve portare un paio di zampe, al secondo segmento
toracico (T2) che deve portare un paio di zampe ed un paio di ali, al terzo segmento
toracico (T3) che deve portare un paio di zampe ed un paio di bilancieri, e così via.
Oggi sappiamo dunque tutto questo, ma all’inizio queste categorie di geni furono
identificate sulla base “dei disastri e delle mostruosità che causano le loro mutazioni”
(Carroll et al., 2004). Così, mutazioni dei geni materni, i quali identificano delle
coordinate generali lungo l’asse AP, possono produrre grosse alterazioni e la mancanza
dell’intera regione anteriore (mutante bicoid), posteriore (mutante nanos), o delle regioni
terminali (mutante torso). Mutazioni a carico dei geni zigotici gap, invece, hanno come
conseguenza l’assenza di intere porzioni di embrione, grosso modo corrispondenti alle
regioni in cui tali geni normalmente si esprimono. Mutazioni a carico dei geni pair rule
hanno conseguenze su segmenti o parasegmenti alterni. La mancata funzione di geni
della polarità segmentale ha come conseguenza un’alterazione della normale polarità
AP di ciascun segmento. Mutazioni dei geni omeotici producono trasformazioni
dell’identità di uno o più segmenti: ad esempio, nel mutante Antennapedia, un paio di
zampe compaiono sulla testa al posto delle antenne; nel mutante bithorax, un secondo
paio d’ali compare al posto dei normali bilanceri presenti sul terzo segmento toracico
(il terzo segmento acquisisce in effetti l’identità segmentale del secondo) (Gilbert,
2003).
I geni omeotici sono un gruppo di otto geni che nella Drosophila si trovano tutti su un
medesimo cromosoma, il numero 3. Cinque di essi (Labial, Proboscipedia, Deformed, Sex
Comb Reduced, Antennapedia) si trovano sul braccio lungo del cromosoma; gli altri tre
(Ultrabithorax, Abdominal A, Abdominal B) sul braccio corto. Questi geni mostrano due
particolari proprietà: la colinearità temporale e quella spaziale. Procedendo da una
estremità all’altra del cromosoma (fissate arbitrariamente come 3’ e 5’) si trova infatti
che quelli più vicini al 3’ sono espressi per primi durante lo sviluppo, e successivamente
seguono in sequenza quelli via via più vicini al 5’ del cluster (colinearità temporale).
Inoltre, i geni più prossimi al 3’ controllano le identità di regioni più anteriori, in cui sono
attivi, rispetto a quelli che si trovano via via verso il 5’ (colinearità spaziale). Infine, tutti
questi geni condividono una sequenza nucleotidica conservata di 180 nt, l’homeobox, che
codifica per un dominio peptidico di 60 aa, pure conservato, l’omeodominio. Questo
dominio, è un motivo strutturale costituito da tre alfa eliche congiunte da un
ripiegamento (motivo helix-turn-helix) e consente alle proteine che lo contengono, e
quindi ai prodotti genici dei geni homeobox, di riconoscere specifiche sequenze
nucleotidiche sul DNA e di legarsi ad esse. Queste proteine contenenti l’omeodominio
sono infatti fattori di trascrizione, in grado di regolare l’espressione di altri geni.
Per capire come i geni omeotici controllino le identità dei segmenti della Drosophila
possiamo prendere ad esempio l’effetto della delezione completa del complesso
bithorax (geni Ubx, AbdA, AbdB). In questo caso tutti i segmenti posteriori al T2 (in cui
viene a mancare l’attività di questi geni, che vi sarebbero normalmente espressi, cioè
attivi) assumono la stessa identità e divengono tutti fenotipicamente simili al T2. Quindi
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perdono la loro identità per assumerne una più anteriore; questo ci illustra il principio
che la perdita di funzioni omeotiche determina una trasformazione anteriore dei
segmenti interessati dalla perdita di funzione. Se adesso immaginiamo di partire da
questa condizione di base in cui il complesso bithorax è assente, e di restituire ad uno
ad uno i tre geni che abbiamo tolto, osserveremo che i segmenti, inizialmente tutti T2,
vengono progressivamente trasformati, questa volta in senso posteriore, a mano a
mano che aggiungiamo nuovamente i tre geni. Questo ci illustra un secondo punto,
quello per cui un guadagno di funzione (aggiunta di funzioni geniche) porta ad una
trasformazione posteriore dei segmenti in cui tale guadagno si realizza. Quindi: perdita
di funzione, trasformazione anteriore; guadagno di funzione, trasformazione posteriore. Benché questo assunto sia un po’ una semplificazione, in realtà ci consente di
orientarci abbastanza e di capire come questi geni possano controllare le identità
segmentali nella Drosophila.
Quanto abbiamo detto vale per la larva, ma vale anche per l’adulto, che si forma da
gruppi di cellule selezionate, i dischi imaginali. Le cellule dei dischi imaginali mantengono le informazioni posizionali che hanno ricevuto durante lo sviluppo. Ad esempio,
il disco imaginale dell’ala si forma da cellule selezionate all’interno del segmento T2,
mentre quello del bilanciere si forma da cellule del segmento T3. Il disco dell’ala non
esprime Ubx, mentre quello del bilanciere lo esprime. Se adesso immaginiamo di
togliere Ubx dal disco del bilanciere (perdita di funzione) avremo che queste cellule,
in termini di espressione dei geni omeotici, si troveranno nella stessa condizione delle
cellule del disco dell’ala, e formeranno un’ala. Viceversa, se immaginiamo di fare
esprimere Ubx nelle cellule del disco dell’ala (guadagno di funzione) avremo che da
esso formerà un bilanciere, in quanto esse si troveranno in una situazione simile, dal
punto di vista dell’espressione di Ubx, alle cellule del disco posteriore.
Una delle scoperte più importanti degli ultimi decenni è stata l’osservazione che questi
geni sono estremamente conservati nei phyla animali. Un gruppo più o meno esteso
di geni omeotici si trova infatti in tutti i Metazoi, con la sola eccezione (forse) delle
spugne. Nei vertebrati esistono addirittura quattro gruppi di geni omologhi al
complesso omeotico della Drosophila, chiamati geni Hox. Questi gruppi sono disposti
su quattro cromosomi diversi, ed anche per tali gruppi valgono le regole della
colinearità spaziale e temporale viste per l’unico gruppo di geni omeotici della
Drosophila. Se il corpo della Drosophila, osservato dall’esterno, mostra immediatamente
la sua organizzazione segmentale, metamerica, il nostro corpo di vertebrati non appare
immediatamente suddivisibile in unità metameriche. Tuttavia anche i vertebrati sono
metamerici e tale organizzazione diviene più manifesta quando si consideri l’organizzazione della nostra colonna vertebrale, costituita da una serie di pezzi seriali, le
vertebre, ciascuna delle quali ha una precisa identità, esattamente come i segmenti del
corpo della Drosophila. Ebbene, anche nei vertebrati, i geni Hox, come i loro
corrispondenti in Drosophila, sono in grado di controllare le identità regionali lungo
l’asse AP, e quindi, tra l’altro, le identità vertebrali. Ad esempio, il gene Hoxb4,
normalmente è attivo fino ad un livello anteriore che include l’abbozzo della seconda
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vertebra cervicale, l’epistrofeo. La perdita della funzione Hoxb4 lascia questo abbozzo
privo di questa funzione genica, e in una condizione paragonabile a quella presente
nell’abbozzo più anteriore. La conseguenza di questa perdita di funzione è la
trasformazione, in senso anteriore, dell’epistrofeo in atlante (Ramirez-Solis et al., 1993).
Gli stessi principi visti in Drosophila valgono quindi anche nei vertebrati.
Lo studio dell’anatomia comparata ci mostra l’esistenza di una variazione morfologica
tra i vari gruppi, e, coi fossili, ci consente di osservare e quasi di toccare l’evoluzione
morfologica. Tuttavia, non ci spiega i meccanismi genetici attraverso cui queste
transizioni si sono realizzate. Ad esempio, ci informa che ogni specie o gruppo di
vertebrati possiede un numero caratteristico di vertebre; sappiamo che per ogni
regione della colonna vertebrale (cervicale, toracica, lombare, sacrale, caudale) il
numero degli elementi vertebrali è caratteristico anch’esso dei vari gruppi. E’
significativo che i confini tra le varie regioni vertebrali siano costantemente segnati, nei
vari gruppi, dai confini dell’espressione di specifici geni Hox. Ad esempio il confine
tra la regione cervicale e quella toracica coincide con il bordo anteriore dell’espressione
di Hoxc6, quello tra la lombare e la sacrale con il bordo dell’espressione di Hoxc10 e
Hoxd10, e così via (Gilbert, 2003).
Nei serpenti, le vertebre più anteriori mostrano una morfologia di tipo toracico e
portano coste, diversamente dalle vertebre cervicali; tuttavia un’attenta analisi comparativa rivela alcuni tratti di tipo cervicale, facendo pensare che in realtà possano essere
il risultato di una trasformazione morfologica di preesistenti elementi cervicali. L’analisi
della espressione molecolare dimostra che alcuni geni Hox, come Hoxc6 e Hoxc8, che
nel pollo sono espressi nella sola regione toracica, nel pitone hanno invece un’espressione estesa più anteriormente, abbracciando gli abbozzi di quelle che sarebbero state
vertebre cervicali (Cohn and Tickle, 1999). Lo spostamento della espressione di questi
geni potrebbe quindi essere alla base della trasformazione di queste vertebre verso una
morfologia di tipo toracico: un curioso esperimento di guadagno di funzione
escogitato dalla natura. La prova che le cose sono veramente andate così la si avrebbe
se potessimo “riportare indietro”, in posizione posteriore, l’espressione di questi geni
Hox nei serpenti e restituire alle vertebre più anteriori del tronco l’originaria facies
cervicale. Sarebbe come ripercorrere all’indietro l’evoluzione. Ma per ora questo
particolare esperimento non è stato realizzato.
Tuttavia esperimenti simili, che hanno consentito in un certo senso di “riportare
indietro l’orologio dell’evoluzione”, sono stati effettivamente realizzati, e riguardano
altri aspetti classici dello studio dell’anatomia comparata. Un primo esempio è quello
relativo alla evoluzione della regione occipitale del cranio. Questa regione compare
evolutivamente con l’inglobamento, nella regione posteriore del cranio, di un certo
numero di abbozzi vertebrali. Questo evento è dimostrato dallo studio embriologico,
ma le modalità genetiche, molecolari e di sviluppo che regolano questa transizione
sono a lungo rimaste sconosciute. Tuttavia, nel 1993, è stato dimostrato che lo
spostamento in avanti, a livello degli abbozzi pre-vertebrali occipitali della espressione
di Hoxd4, un gene normalmente attivo fino alla prima vertebra cervicale, provoca la
trasformazione degli esooccipitali e del sovraoccipitale in archi vertebrali: una vera
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trasformazione omeotica che riporta pezzi normalmente destinati a contribuire
all’occipite all’antica morfologia vertebrale (Lufkin et al., 1993).
Un altro classico dell’anatomia comparata riguarda la specificazione degli archi
viscerali, derivati dalle creste neurali, che mostrano diverse identità in senso anteroposteriore: il primo di essi, nei vertebrati gnatostomi, è modificato in un arco orale
(mascella e mandibola), che si abbozza in due pezzi cartilaginei (cartilagine palatoquadrata, e cartilagine di Meckel); il secondo è modificato in arco ioideo, costituito
principalmente da un pezzo superiore iomandibolare e da una cartilagine inferiore o
iale; gli archi viscerali successivi sono morfologicamente simili tra loro (archi branchiali). L’embriologia e l’anatomia comparata ci mostrano una progressiva trasformazione
evolutiva degli elementi che derivano dalla cartilagine palato-quadrata, dalla cartilagine
di Meckel, e dall’arco ioideo. Già negli osteitti, le parti prossimali della cartilagine palatoquadrata e della cartilagine di Meckel forniranno gli elementi dell’articolazione mascellomandibolare, fornendo rispettivamente il quadrato e l’articolare; col passaggio alla vita
terrestre, compare nei primi tetrapodi la staffa, il primo degli ossicini dell’orecchio
medio, che deriva dalla trasformazione dell’iomandibolare. A questo si aggiungono, nei
Mammiferi, l’incudine (derivata dal quadrato) e il martello (dall’articolare).
L’identità del secondo arco (ioideo) è controllata dal gene Hoxa2; la perdita di questa
funzione genica nel topo provoca la trasformazione di elementi del secondo arco in
identità tipiche del primo arco: la staffa scompare e si osservano invece un secondo
martello ed una seconda incudine (ed anche un secondo timpanico). La cosa
estremamente interessante è la comparsa di un elemento, assimilabile allo pterigoquadrato dei rettili, di cui nel topo non esiste traccia. In un certo senso, l’eliminazione
della funzione di Hoxa2 ha riesumato un pezzo di cui si era persa memoria, riportando
davvero indietro l’orologio dell’evoluzione morfologica (Rijli et al., 1993).
Mentre questi casi calzano come esempi di sbalzi morfologici piuttosto notevoli, ci
sono modificazioni più fini e collegate ad adattamenti ecologici, delle quali oggi si
cominciano a conoscere le basi durante lo sviluppo. Un recente esempio sarebbe
piaciuto a Darwin. Alle isole Galapagos, il giovane naturalista inglese fu colpito dalle
specie locali di fringuelli del genere Geospiza, i cui tratti morfologici del becco
apparivano perfettamente adattati a diverse nicchie ecologiche. Queste differenze
sono dovute, in gran parte, a variazioni nella entità di un segnale molecolare, prodotto
dalle cellule mesodermiche nel becco dei giovani fringuelli durante lo sviluppo
embrionale. Questo segnale è rappresentato dalla proteina secreta BMP-4, i cui RNA
messaggeri sono maggiormente abbondanti nel mesenchima delle specie col becco
più grosso. Esperimenti sugli embrioni di pollo hanno effettivamente dimostrato che
l’aumento della produzione di BMP-4 nella porzione mesodermica dell’abbozzo del
becco (ottenuta tramite infezione di virus opportunamente ingegnerizzati) produce un
aumento nelle dimensioni del becco; d’altro canto, somministrando un inibitore di
BMP-4, la proteina noggin, la morfologia del becco diviene più sottile (Abzhanov et
al., 2004; Wu et al., 2004).
In conclusione, l’analisi dello sviluppo sta fornendo i mezzi per comprendere alcuni
dei principali passaggi morfologici-evolutivi in termini di modificazioni dei program81
mi genetico-molecolari costruttivi degli organismi. Nella Prefazione al suo “Manuale
di Anatomia Comparata dei Vertebrati”, su cui generazioni di biologi si sono formati,
Emanuele Padoa scriveva che “multa debetur reverentia alla vecchia morfologia, la quale
può e deve essere integrata, ma non dimenticata”: non c’è dubbio che la moderna
biologia dello sviluppo possa chiarire transizioni evolutive che i vecchi morfologi
avevano già descritto, ma i cui meccanismi genetici essi non avevano allora potuto
spiegare.
Robert Vignali
Dip. di Fisiologia e Bioch. - Labor. di Biol. cellulare e dello sviluppo - Università di Pisa
Bibliografia essenziale
Abhzanov et al. (2004) Science 305: 1462-1465
Bateson (1894) Materials for the study of variation. Macmillan, London
Carroll et al. (2004) Dal DNA alla diversità. Zanichelli, Bologna
Cohn and Tickle (1999) Nature 399: 474-479
Gilbert (2003) Developmental Biology. Saunders, Sunderland
Lufkin et al. (1992) Nature 359 : 835-841
Ramirez-Solis et al. (1993) Cell 73 : 279- 294
Rijli et al. (1993) Cell 75 : 1333-1349
Wu et al. (2004) Science 305: 1465-1466
L’evoluzione vista attraverso lo sviluppo. L’osservazione dello sviluppo è stata tradizionalmente,
con l’embriologia descrittiva e comparata, un supporto allo studio dell’evoluzione ed alla
ricostruzione dei rapporti filetici tra gli organismi animali. Oggi la biologia dello sviluppo consente
di osservare e decifrare alcuni dei meccanismi genetico-molecolari alla base di modificazioni
morfologiche comparse durante l’evoluzione.
82
Dibattito
Domanda
Chiedo se nel vostro lavoro avete valutato l’importanza degli introni?
Robert Vignali
Noi personalmente non stiamo studiando l’importanza degli introni, però è chiaro che
sono fenomeni di splicing alternativo e quindi giunzioni di introni e esoni che sono
fondamentali per lo sviluppo di “novità” evolutive, basta per esempio ricordare che
il meccanismo della determinazione del sesso in Drosofila è proprio basato su
meccanismi di splicing alternativo e, a seconda dello splicing differenziale, si ha sesso
maschile o femminile, quindi è chiaro che questo tipo di fenomeno è importantissimo.
Per quanto riguarda più in particolare i geni Otx, posso dire che una parte del recupero
funzionale ad opera di ortodentical di Drosofila è legato a sequenze che sono adiacenti
al gene che noi inseriamo al posto di Otx 2, cioè se il gene ortodentical viene inserito
nudo e crudo, rimovendo anche delle porzioni non codificanti di Otx2, allora il recupero
non c’è o è molto inefficiente, se vengono lasciate delle regioni 3’ UTR, cioè un 3’ non
tradotto nel gene e quindi queste regioni vanno a far parte del messaggero, allora il
recupero è più efficiente. Questo fatto probabilmente è legato ad una diversa efficienza
della traduzione degli RNA messaggeri e quindi ci dice che è vero che ci possono essere
meccanismi di regolazione della trascrizione, ci possono essere meccanismi di
modificazione delle proteine che acquisiscono nuove funzioni biochimico-molecolari,
ci possono essere regolazioni nella quantità delle proteine presenti e questi effetti
dose-dipendenti sono pure stati descritti proprio per i geni OTX e quindi sono anch’essi
importanti.
Domanda
Nella penultima diapositiva che Lei ci ha presentato ha usato un verbo “possono”, cioè
“…modificazioni dell’attività di questi geni possono spiegare importanti variazioni
morfologiche e transizioni evolutive”. Io vorrei chiedere qual è secondo Lei la distanza
tra i risultati di questi esperimenti e la possibilità che rappresentino delle prove
sperimentali della teoria dell’evoluzione.
Robert Vignali
Che dire? Io posso dire quella che è la mia opinione, cioè nel momento in cui nel topo,
dove non si forma il palatoquadrato completo, questo esce fuori eliminando la funzione
di Hox2 questo ci dice che il programma genetico molecolare è probabilmente
condiviso ed è stato ereditato da antenati, da progenitori comuni rettiliani e il
programma genetico c’è, solo che non viene attivato per formare quel particolare
pezzo completo. Quindi in un certo senso questo esperimento è una retrazione e, in
che modo prova l’evoluzione? C’è ancora bisogno di provare l’evoluzione? Se
vogliamo, è un dato di fatto, si tratta di capire qual è il meccanismo, e qui è chiaro
che tutto questo porta nuovi contributi ed è in grado di fornire delle risposte anche se
provvisorie, comunque, allo stato dell’arte questa è la situazione, nuovi esperimenti
daranno nuove indicazioni e forse porteranno a revisioni dei nostri modelli. A volte
propongo ai miei studenti dei modelli per spiegare certi fenomeni, questo è un modello,
quest’altro è un modello, l’embrione è una cosa più complessa, come diceva ieri
Marcello Buiatti, i modelli li facciamo per interpretare i dati e per programmare
esperimenti che possono aiutarci a capire i fenomeni. L’embrione non si cura dei
modelli, cioè ha i suoi geni che funzionano in un certo modo, possono cambiare le loro
83
sequenze e le loro regolazioni, è difficile capire tutta l’evoluzione, stiamo cercando
delle risposte a come certe novità evolutive possono essersi generate nel corso del
tempo, e alcuni di questi esperimenti tendono a dare un certo tipo di spiegazione. Per
esempio, parlando dell’esperimento della eliminazione di Hoxa2 nell’arco ioideo,
quando questo esperimento è stato fatto, è stato proposto che probabilmente nei
vertebrati più ancestrali tutti agnati, che hanno una facies agnata, tutti gli archi
viscerali probabilmente erano identici, o simili fra di loro e potevano trovarsi in una
situazione, per es., in cui tutti i geni Hox fossero espressi fino all’arco più anteriore,
omologando così anche l’arco orale ai successivi e posteriori, per cui quello che alcuni
hanno pensato di fare è stato di andare a vedere qual è l’espressione di geni Hox negli
agnati, e qui ci sono dati contrastanti per cui alcuni gruppi riportano che ci sono geni
Hox espressi nelle creste neurali più anteriori, supportando in questo modo il fatto che
è stato necessario spostarli indietro per consentire l’evoluzione di un arco orale, altri
gruppi invece hanno riportato che non ci sono geni Hox espressi nel primo arco orale,
e questo quindi va in direzione opposta. E’ chiaro che la risposta per adesso è parziale,
noi non possiamo già risolvere tutto, stiamo cercando un nuovo strumento per leggere
il libro dell’evoluzione e spiegare alcune transizioni che sono peraltro documentate dai
fossili. Per il caso del passaggio quadrato e articolare nella catena degli ossicini
dell’orecchio, ci sono dei fossili che indicano chiaramente la connessione fisica fra il
quadrato e la staffa, nel cranio di alcuni rettili Cinodonti , se non sbaglio.
Vincenzo Caputo
Volevo solo dire appunto che l’evoluzione non è una teoria, è una realtà, semmai poi
ci sono le teorie delle evidenze sperimentali che cercano di capire come funzioni, quali
siano i meccanismi dell’evoluzione, ma l’evoluzione è documentata, appunto, dai
fossili, dallo sviluppo, da tanto altro. Neanche il Papa oggi parla più dell’evoluzione
come teoria, come dice chiaramente Gould in uno dei suoi ultimi saggi, questa è
un’acquisizione su cui ormai nessuno discute, neanche il Papa.
Sandra Magistrelli
A proposito di questa certezza dell’evoluzione, e del fatto che ormai la scienza si
occupa di spiegare i meccanismi all’interno della teoria e non più l’esistenza o meno
della teoria, è una cosa di cui io pure ero certa fino a quest’anno. Quando è scoppiata
la questione della riforma Moratti, di cui appunto mi sto occupando per l’ANISN, ho
inviato una lettera a LE SCIENZE che è stata pubblicata a giugno e da allora è fiorito
un forum sulla questione Darwin, pro, anti ecc., che dura tuttora e che chiunque può
andare a vedere sul sito de Le Scienze, molto interessante non sul piano delle
“giustificazioni” pro o contro la teoria, ma perché siamo a livello molto molto basso,
basso nel senso migliore della parola, intendiamoci, di senso comune, ma per il fatto
che anche da parte di coloro che credono in questa teoria, non è ancora chiara la sua
assoluta e ineluttabile veridicità, tant’è vero che io privatamente ho ricevuto molte email di molti signori che avevano scritto in questo forum dove io mi ero firmata come
facente parte dell’ANISN, dicendo se io potevo dar loro delle spiegazioni a proposito
di questa realtà, qualche prova provata.
Allora, il mio discorso è semplicemente questo: nel mondo della scienza e anche un
po’ della scuola, si dovrebbe ogni tanto impattarsi con questo mondo del comune
sentire, che pure è fatto magari di persone colte, che hanno degli interessi culturali,
mondo che però è lontanissimo dall’aver acquisito queste problematiche, dall’averne
colto il livello di sviluppo. Per quanto riguarda la Chiesa, poiché mi sono occupata
proprio anche di queste questioni per organizzare il Darwin day, mi permetto di
sottolineare che nella Chiesa non c’è nessuna parola, da parte dei Pontefici che si sono
84
espressi sull’evoluzionismo, (Pio XII e il Papa attuale) a favore della teoria, anzi ci sono
sempre parole molto chiare per mettere in guardia da quella che sarebbe una malattia
dello spirito. Io ho portato, e ne parlerò venerdì, proprio le parole che sono state scritte
in Fides et ratio da papa Giovanni Paolo II a questo proposito. Ho detto questo per
evidenziare che, senza volere uno dà per scontate delle cose che non lo sono affatto.
Si dà per scontato per esempio il fatto che la Chiesa in fondo sia d’accordo, che ci sia
una vasta parte dell’opinione pubblica che ormai è convinta per cui, di fatto, questo
tipo di manomissioni per es. nei programmi può sembrare una piccola cosa, in realtà
non turberà troppo l’insegnamento complessivo della biologia, perché l’evoluzione “è”
la biologia, “è nella” biologia, e quindi è più forte di qualunque cosa. Ecco, volevo
sottolineare questo pericolo, che c’è.
Robert Vignali
Non so se posso rispondere facendo una valutazione che parte dalla mia esperienza
personale, riforma Moratti o no. Il fatto che ci sia questo tentativo di eliminare questa
parte di, chiamiamola filosofia, o della scienza dall’insegnamento è, se non altro, poco
democratico, non è corretto. Comunque, al di là di questo, io ho studiato al liceo
vent’anni fa, nessuno mi ha detto nulla di evoluzione e quindi questo vuol dire che forse
questo non è un problema di ministri ma di rapporti dell’italiano con la scienza, cioè
io penso che in altri Paesi la scienza è più considerata, gli studi scientifici hanno più
spazio, ma forse è solo una mia impressione, forse mi sbaglio, però di fatto la prima
volta che io ho incontrato qualcuno che mi ha parlato di evoluzione in una lezione, è
stato all’università, fino a quel momento nessuno me ne aveva parlato, e non perché
avessi dei professori antievoluzionisti o clericali, ma perché probabilmente non era (è)
ritenuta cosa importante da spiegare a lezione, dove vengono spiegate altre cose
ritenute da loro più importanti. Anche a filosofia si parla di Kant, di Hegel, ma non si
parla di Darwin, eppure la concezione darwiniana dell’uomo è, se vogliamo, in
contrasto con tutto quello che c’è stato prima, è una visione completamente diversa.
Quindi mi domando perché, forse siamo noi che consideriamo poco questi aspetti
scientifici.
Intervento
Vorrei dire solo una piccola cosa a proposito di questo: l’esperienza di un insegnante
di Scienze al liceo scientifico è che i ragazzi di seconda, di terza, di quarta svolgono
le stesse ore di latino delle ore complessivamente dedicate a tutte le discipline
scientifiche, quindi secondo me è proprio un problema di ristrutturazione dei programmi di studio perché la scienza è andata avanti, la ricerca ha visto tantissime
innovazioni, con un’espansione enorme delle conoscenze scientifiche, però la struttura
del sistema scolastico è rimasta estremamente arretrata. Il danno maggiore che si fa
in questo momento è proprio quello di non considerare questo e addirittura restringere
lo spazio dedicato allo studio delle discipline scientifiche nei livelli di scuola inferiori.
Intervento
Secondo me, nella scuola italiana non solo l’evoluzionismo ma la biologia non è
considerata scientifica, perché non è falsificabile come le teorie fisiche in senso
popperiano, quindi bisognerebbe che noi insegnanti di Scienze naturali fossimo
disposti a occuparci anche di filosofia della scienza e ci facessimo un po’ ferrati in
questo campo, senza delegare o lasciare la materia nelle mani dei colleghi di filosofia.
Vorrei anche fare una domanda un po’ tecnica a proposito della trascrizione dell’RNA
messaggero nella sintesi delle proteine, vorrei cioè sapere se può darmi qualche
indicazione sulla velocità di trascrizione in termini di aminoacidi al secondo e se esiste
85
una stima attendibile in termini di kilobyte, per un parallelo con l’informatica, perché,
a proposito di modelli, molto spesso si parla di una modellizzazione del programma
genetico con programmi informatici e soprattutto nella sovrapposizione delle funzioni
dei geni Hox, mi pare che si possa riconoscere la funzione End o forse or nelle porte
logiche, quindi mi interessava avere qualche stima attendibile o almeno sapere se è
stata fatta.
Robert Vignali
La risposta in tutta onestà è: non lo so; quando nel corso di studi ho affrontato
Biochimica ho studiato qual era la velocità di replicazione del DNA ma non lo ricordo.
Forse il prof. Omodeo nella parte informatica può rispondere.
Pietro Omodeo
Io ho sostenuto già da moltissimo tempo che c’è un rapporto molto preciso tra numero
di basi nel patrimonio genetico del genoma e complessità dell’organizzazione, ma
questa affermazione spesso è stata messa da parte perché si dimostra che certi anfibi
hanno un numero di nucleotidi molto superiore a quelli dell’uomo e quindi viene
falsificata la proporzione. Sta di fatto, come ha detto ieri Marcello Buiatti, che nel
patrimonio ereditario dell’uomo, facciamo il caso più noto, ci sono 35000 geni
sottintendendo geni strutturali o che specificano o incapaci di specificare proteine (34% del complesso del patrimonio ereditario); questo residuo enorme, il 96% del
patrimonio ereditario dell’uomo, non è spazzatura -come è stato sostenuto molto a
lungo- ma ha funzioni regolatrici. Queste funzioni regolatrici in larga parte dipendono
dalla ridondanza, e qui faccio riferimento alla tecnologia moderna, soprattutto alla
tecnologia dei satelliti, delle sonde spaziali: perché una sonda spaziale possa
funzionare per anni e continuare a mandare messaggi utili al nostro pianeta, bisogna
che tutte le strutture interne, soprattutto circuiti, siano altamente ridondanti perché se
c’è un danno dovuto all’inefficienza nella costruzione o a un fattore esterno, questo
viene automaticamente e immediatamente riparato dall’intervento di un altro circuito
che sostituisce quello difettoso. Più alta è la ridondanza e più meticoloso è il controllo.
Mi rifaccio alla citazione di Gould che hai portato che si può anche applicare a questa
parte del problema: più alto è il controllo e più alta è la ridondanza e più grande è
l’affidabilità del funzionamento dell’organismo. C’è poi anche una questione di
economia: nel patrimonio ereditario di un organismo si può rinunziare per motivi
fisiologici di economia metabolica a una parte della ridondanza se ciò mette a rischio
la sopravvivenza di quel determinato ceppo, di quel determinato animale, però la
descrizione funzionale del patrimonio ereditario rimane sempre valida, quindi io posso
fare, con un quarto o una metà di geni esistenti, un topo perfettamente normale ma
che ha poche prospettive di sopravvivere a lungo. Questa può sembrare un’affermazione di principio, però si può fare una verifica sulle cellule in coltura; quando si ha a
che fare con le cellule in coltura ci si accorge che via via viene perso qualche
cromosoma o alcuni pezzi di cromosoma e certe volte, come nel ceppo Chila si vede
che il genoma si è materialmente ridotto a molto meno, eppure queste continuano a
riprodursi e a fare tutto ciò di cui hanno bisogno perché si è persa la ridondanza, ma
non si è perso però il messaggio genetico. Io insisto però soprattutto sui problemi della
regolazione: la regolazione genetica si ottiene accendendo e spegnendo i geni al
momento opportuno, e ciò sembra particolarmente vero quando si va a studiare lo
sviluppo sotto questo profilo. Però accendere e spengere un gene richiede che ci siano
delle molecole particolari, si pensa di solito che siano proteine, che siano capaci di
impedire la traduzione del gene e sono costruite dal patrimonio ereditario stesso,
vanno a far parte di quel 96% di DNA che esiste dentro la cellula e che ha appunto la
86
funzione di autocontrollo dello sviluppo. Il tema è stato sviluppato da Jacob e poi da
Monod (Monod poi si è ritirato) che hanno avuto il premio Nobel quando hanno studiato
l’operone nel batterio, in cui ha funzione chiave il repressore o il corepressore a
seconda del tipo di controllo che esiste. Questo è estremamente importante per capire
come funziona il patrimonio ereditario nei procarioti, che è molto più semplice, perché
in questo caso non esiste praticamente ridondanza, esiste solo per i geni che fanno
l’RNA ribosomale che io sappia, però il controllo si esercita non su singoli geni ma su
gruppi di geni, sempre per motivi di economia perché costruire una proteina che
controlla una sequenza di geni è molto costoso e molti hanno proposto che ci siano
anche altri sistemi, come sequenze di RNA che hanno la funzione di bloccare in qualche
caso la trascrizione, è un sistema molto più economico. Su tutta questa tematica c’è
una notevole letteratura, non recentissima, degli anni Sessanta-Settanta, e la
questione dell’autocontrollo del patrimonio ereditario è molto importante ed io insisto
molto che venga ripresa, non conviene usare organismi pluricellulari perché troppo
complessi e troppo costosi, ma su individui unicellulari questo lavoro si può fare, come
già hanno fatto Jacob e Monod e la loro scuola.
Robert Vignali
Vorrei aggiungere a questo punto, relativamente alla ridondanza che rappresenterebbe un’aggiunta di meccanismi di sicurezza, che anche la presenza di più copie geniche
facenti una stessa funzione può essere un meccanismo di sicurezza, per i geni Hox
questo è vero, ci sono quattro gruppi di geni Hox; io vi ho presentato dei dati in cui
eliminando la funzione di uno di questi geni, si ha una perturbazione strutturale
enorme, però non è sempre vero, non è che possiamo eliminare ciascuno dei geni Hox
ed osservare dei fenotipi di vertebrati così forti. Questo perché, e ritorno allo schema
dei geni Hox, vedete che qui ci sono tre copie del primo gene, due copie del secondo,
quattro copie del quarto, e se noi eliminiamo uno di questi quattro, magari non succede
nulla, perché gli altri tre sono espressi in regioni simili, magari nelle stesse cellule, e
possono vicariarne la funzione. Anche in questo caso si parla di ridondanza, è come
se fosse un meccanismo di sicurezza: da questo punto di vista può essere un
meccanismo che assicura un successo evolutivo, una prospettiva evolutiva, una
plasticità maggiore, come mi pare dicesse ieri Marcello, però alcuni geni, come vi ho
mostrato, hanno una funzione specifica, se si elimina selettivamente un particolare
gene, quella funzione non la fa nessun altro, quindi ci sono delle valvole di sicurezza,
ma non sempre.
C’è un altro punto su cui vorrei tornare, ed è quello dell’importanza del controllo
dell’attività dei geni, dell’espressione genica durante lo sviluppo nel tempo. Per
esempio, vi ho detto che nella parte addominale della drosofila non si formano zampe,
però ci sono larve di insetti che hanno zampe nella regione addominale, perché esiste
un gene che serve per costruire queste zampe e che normalmente è espresso nei
segmenti toracici, ma non in quelli addominali. Durante lo sviluppo delle larve di
lepidotteri per es., che formano zampe posteriori, per lo meno parte di zampe
posteriori, si rilassa il controllo di ultrabithorax che reprime distalles nella parte
posteriore, cioè ultrabithorax spenge distalles normalmente per es. nella mosca, nella
drosofila e fa lo stesso nelle fasi iniziali dello sviluppo della farfalla. A un certo punto
però, questa repressione di ultrabithorax su distalles si rilassa in un certo numero di
segmenti addominali, e le larve cominciano ad esprimere distalles, e si formano delle
zampe su quei segmenti. Anche qui c’è un’importante osservazione da fare, che
ultrabithorax contiene uno stretch di alanina dopo l’omodominio, che gli conferisce la
specificità per bloccare l’azione di distalles, altri artropodi che hanno zampe anche
addominali non hanno questo pezzo della proteina ultrabithorax e si trova solo negli
87
insetti, per cui probabilmente anche qui si tratta di un meccanismo addizionale che gli
insetti hanno per reprimere distalles, cosa che non avviene in altri artropodi che di fatto
formano appendici anche nelle parti posteriori del corpo.
Fabio Fantini
Un brevissimo intervento su due questioni.
Intanto a proposito dell’atteggiamento nei confronti delle teorie evolutive, mi permetto
di considerare significativo un aneddoto di vita scolastica: io ho un collega di Storia e
Filosofia che è un grande tradizionalista, cattolico, integralista sotto molti punti di vista,
e sembra che un giorno abbia apostrofato il collega di religione dicendogli “Ma come,
sei evoluzionista anche tu?”. Voglio dire cioè che è molto articolato l’atteggiamento
esistente all’interno del mondo cattolico in Italia nei confronti delle teorie evolutive.
Ho poi una domanda tecnica: quando abbiamo visto per es. la mutazione che fa
diventare bilancieri ali, a occhio almeno, osservando quelle e altre fotografie, viene
da pensare che è T3 che è diventato T2, non è soltanto il bilanciere, allora nella
segmentazione interna ci sono altri geni omeotici che riguardano non soltanto la
morfologia esterna di cui finora abbiamo parlato, ma anche l’organizzazione interna
del segmento, oppure sono gli stessi geni omeotici che agiscono anche sulla parte
interna del segmento?
Robert Vignali
Vuoi dire per es. sull’endoderma? Che io sappia sono gli stessi geni che regionalizzano
anche queste regioni.
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Dai fossili alle molecole: nuovi indizi
sull’evoluzione umana
OLGA RICKARDS
Gli ultimi anni hanno rappresentato per l’antropologia un periodo di intenso dibattito
che ha modificato profondamente il modo di intendere alcuni dei passaggi fondamentali dell’evoluzione umana. Il dibattito è stato attivato dalle numerose scoperte di nuovi
fossili e dalle ricerche condotte sul DNA delle popolazioni viventi e su quello estratto
da reperti antichi.Particolarmente rilevanti sono state le scoperte che hanno permesso
di identificare l’habitat nel quale l’uomo ha acquisito la stazione eretta e l’andatura
bipede, cioè le caratteristiche che vengono ancora utilizzate per separare il gruppo
zoologico umano da quello delle scimmie antropomorfe africane. A differenza di
quanto si pensava, l’uomo non si è alzato in piedi nella savana, ma in un ambiente ancora
forestale, e i suoi primi rappresentanti sapevano stare dritti e camminare su due gambe
e allo stesso tempo muoversi sugli alberi. Queste ricerche fondamentali, svolte in
Sudafrica e in Africa orientale, hanno consentito di sostituire uno dei modelli scientifici
di riferimento più condivisi dagli antropologi durante i decenni passati.
Dall’Africa orientale inoltre sono arrivate di recente alcune tra le più sensazionali scoperte di fossili: quelle relative al Kenyanthropus di 3,5 milioni di
anni fa, all’Ardipithecus di 4,5 milioni di
anni fa, all’Orrorin di 6 milioni di anni
fa e al Sahelanthropus di circa 7 milioni
di anni fa. Finalmente, nelle mani degli
scienziati sono arrivati i documenti
fossili per ricostruire la nostra prima
immagine, così come l’evoluzione l’ha
consegnata al mondo. Questi reperti
così antichi sono di particolare rilevanza perché, fino al 2000, l’unica
informazione che possedevamo sulla
nostra origine era la data della separazione evolutiva uomo-scimpanzé, fissata dagli studi molecolari a 5-6 milioni di anni fa. Nei mesi di febbraio e
luglio 2001, però, è giunta la notizia
della scoperta di ben due fossili che
potevano contendersi il ruolo di patriarca dell’umanità: l’Orrorin tugenensis
(di 6 milioni di anni, trovato in Kenya Orrorin tugenensis (Kenya)
89
da Brigitte Senut del Museo di Storia Naturale di Parigi e Martin Pickford del Collegio
di Francia) e l’Ardipithecus ramidus kadabba (di 5,2-5,8 milioni di anni, trovato in Etiopia
dal gruppo di Tim White dell’Università di Berkeley). Nonostante l’acceso dibattito su
quale fosse il più accreditato ad interpretare quella parte, il mondo accademico aveva
maturato la convinzione di essere ormai giunto alla radice dell’albero filogenetico degli
ominini (la sottofamiglia zoologica alla quale appartengono l’uomo e i suoi antenati
fino alla separazione dallo scimpanzé). Ma come è avvenuto spesso in paleoantropologia, un nuovo rinvenimento ha costretto gli scienziati a cambiare profondamente la
visione dell’evoluzione umana. Il reperto in questione (un cranio quasi completo, due
frammenti di mandibola e tre denti) è stato trovato in Ciad nel 2002 da un’equipe francociadiana diretta dal Michel Brunet dell’Università di Poitiers.Oltre ad un’età davvero
eccezionale, 6-7 milioni di anni, quel fossile presenta un insieme di caratteristiche
morfologiche allo stesso tempo arcaiche e moderne, che ne fanno un rompicapo per
gli antropologi. La scatola cranica è scimmiesca, con una capacità che non supera i 320380 cc; ma la conformazione del forame occipitale compatibile con la stazione eretta,
la faccia piatta, con solo un leggero prognatismo sottonasale, il toro sopraorbitario
largo, spesso e continuo, i canini piccoli e l’assenza del diastema l’avvicinano a nostri
antenati molto recenti. Un’anatomia tanto unica ha convinto Brunet a definire una
nuova specie, Sahelanthropus tchadensis, che considera, con il conforto di Tim White, la
prima della sottofamiglia ominina e l’antenata
dell’ardipiteco; mentre Orrorin sarebbe fuori dalla
nostra evoluzione. Questa ricostruzione non è
condivisa da tutti gli studiosi, alcuni dei quali non
escludono che tchadensis possa essere la forma
femminile di un progenitore dello scimpanzé e
Brigitte Senut è addirittura certa che si tratti di un
ascendente del gorilla. Come si vede, chi riporta
alla luce un fossile reclama per la sua creatura il
rango di avo dell’umanità e tende ad escludere i
concorrenti.Per chi non è afflitto dal “complesso
del genitore”, l’importanza del sahelantropo sta
Sahelanthropus tchadensis
più nei paradigmi che falsifica che nel posto
occupato nell’albero filogenetico degli ominini. Intanto, supera il concetto di evoluzione lineare e accredita, come per tutti gli altri animali, il modello a cespuglio: secondo
il quale fin dall’inizio molte specie sarebbero convissute; toglie poi fondamento all’idea
che la nostra storia evolutiva possa essere raffigurata mediante un albero e dà enfasi
a quella che possiamo meglio concepire come un cespuglio, di rapporti filogenetici;
cancella quindi ogni residuo della suggestione che possa essere stato il cervello grande
a farci uomini; e, infine, concede all’intera Africa, e non solo alle terre ad oriente del
Rift Valley, il ruolo di “culla” del genere umano.L’ultimo punto in discussione l’ha
sollevato l’età di tchadensis, perché si pone proprio al limite superiore dell’intervallo
stimato da molti antropologi molecolari per la separazione ominini-scimpanzé: un
evento che le ricerche molecolari collocano attorno a 5 milioni di anni fa. Tutto ciò
90
sembra rendere ragionevole la critica di chi,
come Phillip Tobias dell’Università del
Witwatersrand, sostiene che la datazione
molecolare non sia attendibile e che la divergenza debba essere decisamente più antica,
come i fossili starebbero a testimoniare. La
ragionevolezza della critica, comunque, resiste solo se si accetta l’idea che l’evoluzione
proceda per via parsimoniosa; tuttavia, un
tale assunto sarebbe smentito dalla storia di
diversi animali. Ecco allora che i tratti che
consideriamo derivati e acquisiti solo dopo
esserci separati dalle antropomorfe africane,
e cioè l’andatura bipede e la faccia senza
muso, potrebbero essere invece dei caratteri
Sahelanthropus tchadensis
primitivi, propri dell’antenato
comune ed ereditati dai nostri
avi, mentre il gorilla e lo scimpanzé andavano sperimentando delle vere e proprie invenzioni evolutive, come per esempio l’andatura sulle nocche. La
visione di un’evoluzione non
parsimoniosa, che potrebbe
avere forse un punto di forza
nell’oreopiteco, un primate vissuto circa 10 milioni di anni fa
ma già bipede e dotato di presa
di precisione, vanificherebbe la
critica alla datazione molecolare, rendendola del tutto indiArdipithecus ramidus kadabba (Etiopia)
pendente dai fossili, e allevierebbe almeno in parte l’acredine della discussione in corso. Altri ritrovamenti davvero
eccezionali sono quelli relativi ai crani di Homo georgicus riportati alla luce a Dmanisi in
Georgia e vecchi di 1,8-1,7 milioni di anni, e a diversi manufatti litici di età compresa
tra 1,4 e 1,2 milioni di anni fa rinvenuti nella Valle del Giordano. Questi reperti hanno
dimostrato con assoluta chiarezza che gli antenati dell’uomo sono usciti per la prima
volta dall’Africa ben prima di quanto si fosse fino ad ora ritenuto. E fu l’Homo ergaster
a intraprendere 2 milioni di anni fa quel viaggio che dal continente “culla” lo portò in
tutto il Vecchio Mondo. Un tale evento però non rimase isolato, perché un’altra specie
evolutasi in Africa da ergaster, l’Homo sapiens, ha ripetuto l’esperienza ed ha nuovamente
raggiunto l’Asia e l’Europa. Il nostro viaggio verso oriente è cominciato circa 50.000
anni fa ed ha percorso la via che dal Corno d’Africa si snoda lungo le coste dell’Arabia
91
e dell’India. Poco dopo, altri uomini sapienti si
sono diretti verso nord e attraverso il Medio
Oriente hanno colonizzato il nostro continente,
che allora era abitato dai neandertaliani. Se l’importanza dello studio dei fossili per ricostruire la
nostra storia non può essere messa in dubbio da
nessuna persona di buon senso, è pur vero che
ormai l’analisi del DNA, quello degli uomini
attuali e quello dei nostri antenati e parenti antichi,
si è dimostrata assolutamente indispensabile per
districare il percorso dell’evoluzione. L’antropoArdipithecus ramidus ramidus
logia molecolare, dopo aver dimostrato che la
separazione dei nostri antenati da quelli delle scimmie antropomorfe africane è
piuttosto recente, 5-6 milioni di anni fa, ha messo in discussione che l’uomo ed i suoi
ancestori diretti e collaterali costituissero una famiglia zoologica, gli Hominidae, diversa
da quella dove erano inseriti lo scimpanzé ed il gorilla. Infatti, ora molti studiosi
inseriscono le antropomorfe africane nella famiglia umana, creando per la nostra stirpe
la sottofamiglia degli Homininae, e altri ancora addirittura nel nostro stesso genere, che
così comprenderebbe oltre Homo sapiens anche Homo troglodytes, Homo paniscus (le due
specie di scimpanzé) e Homo gorilla. Queste specie, insomma, sarebbero proprio molto
simili, esattamente come aveva previsto Darwin un secolo e mezzo fa. L’analisi
molecolare ha inoltre
permesso di intervenire in una delle dispute
più accese che hanno
interessato l’antropologia della seconda metà
del secolo appena trascorso: l’origine della
nostra specie, Homo sapiens. Da una parte erano schierati i sostenitori del multiregionali- Kenyanthropus platyops (sinistra) e Homo rudolfensis (destra)
smo, che sostiene che
in ogni continente del Vecchio Mondo i primi uomini colà giunti, gli ergaster, si
sarebbero evoluti parallelamente e indipendentemente verso i sapiens e questi ultimi non
sarebbero diventati tante specie diverse, ma sarebbero rimasti una sola specie, grazie
ad un elevato tasso di mescolamento tra le popolazioni delle varie aree geografiche.
Dall’altra parte si contrapponevano i fautori del modello di un’evoluzione recente e
africana dell’uomo moderno, secondo la quale sapiens sarebbe nato in Africa intorno
a 100-200.000 anni fa e da lì sarebbe uscito -è questa la seconda migrazione del nostro
genere- per occupare tutto il resto del mondo, dove avrebbe sostituito gli uomini
arcaici senza ibridarsi con loro essendo una specie nuova. Ma i fossili non potevano
92
dirimere la questione. Gli studi molecolari invece hanno stabilito che la nostra origine
è recente (150.000 anni fa) e africana, e che l’uomo moderno non si è mescolato a livello
genetico in modo consistente con l’umanità più arcaica. Era questo un punto cruciale
che assillava gli antropologi. I sostenitori dell’evoluzione multiregionale davano per
certo che sapiens e neanderthal fossero una popolazione panmittica, ma le molecole
hanno confutato l’ipotesi , forse definitivamente. Infatti, lo sviluppo delle tecniche per
analizzare il DNA antico ha consentito di confrontare il DNA mitocondriale di alcuni
neandertaliani, di sapiens fossili e di molti soggetti appartenenti a diverse popolazioni
dell’umanità attuale, dimostrando che il numero di mutazioni accumulate dall’uomo
di Neandertal era circa tre volte maggiore di quello che contraddistingue in media
l’uomo moderno, decretando la completa estraneità dei neandertaliani dalla nostra
linea evolutiva. Pertanto i due gruppi non sono certo sottospecie: Homo sapiens
neanderthalensis e Homo sapiens sapiens, come i sostenitori dell’ipotesi multiregionale hanno
a lungo sostenuto, ma due specie distinte: Homo neanderthalensis e Homo sapiens.Inoltre,
lo studio del DNA di Neanderthal ha aperto la possibilità di sviluppare una vera e
propria genetica di popolazione di questa specie fossile e così di chiarire i fattori
evolutivi che hanno determinato la sua storia.
Olga Rickards
Centro di Antrop. molec. per lo studio del DNA antico - Dip. di Biologia - Università di Roma
“Tor Vergata”
Bibliografia
G. Biondi, O. Rickards I sentieri dell’evoluzione. Nuovi indirizzi sull’origine dell’uomo CUEN Napoli,
2000
G. Biondi, O. Rickards Uomini per caso. Mito, fossili e molecole nella nostra storia evolutiva Editori Riuniti,
Roma, 2000. 2^ ed. 2003
93
Dibattito
Una collega
La mia domanda non riguarda tanto quest’ultima parte, ma quella precedente perché
secondo me la questione più spinosa è ancora quella di stabilire quando c’è stata la
divergenza tra l’uomo e lo scimpanzé e utilizzare anche i dati della biologia molecolare
per arrivare a questo risultato; in particolare, quando si applica il metodo dell’orologio
molecolare per determinare il momento in cui dovrebbe essere avvenuta questa
divergenza, si tiene conto del fatto che il tasso delle mutazioni conservate nel genoma
può non essere costante? Cioè le mutazioni possono verificarsi con una velocità
costante, però vengono conservate da una generazione all’altra solo quelle che
vengono scelte dalla selezione naturale: è questa in genere la critica che ho sentito
fare e mi permetto di farla, all’applicazione di questo metodo per cui si dice che in
pratica il metodo dell’orologio molecolare sottostima il tempo trascorso dal momento
in cui c’è stata la divergenza, perché considera solo una parte delle mutazioni che si
sono verificate.
Olga Rickards
Senza dubbio il concetto di orologio molecolare è uno di quelli che è stato più criticato
in assoluto ed è anche quello che è più utilizzato in assoluto, per cui ci sono pro e contro.
Allora, prima di tutto dico una cosa breve sull’orologio molecolare: adesso sappiamo,
soprattutto con l’incremento degli studi a livello di DNA, che l’orologio molecolare non
funziona proprio com’era stato detto all’inizio, quando è stato proposto, sappiamo che
non esiste un orologio molecolare universale, ma esistono numerosi orologi molecolari
locali. Bisogna infatti tarare l’orologio molecolare per ogni tratto di genoma, perché
non tutto il genoma evolve allo stesso modo, per esempio le zone codificanti non
possono evolvere a loro piacere, per es. l’emoglobina, che ha una funzione così
primaria per la respirazione, non può accumulare mutazioni mentre una zona non
codificante accumula mutazioni in maniera più “disinvolta”. Dunque abbiamo un
orologio molecolare per ogni tratto di genoma ma anche per ogni gruppo di specie o
di forme che siano molto simili tra di loro, perché un altro problema grosso è quello
della “durata delle generazioni”.
La durata delle generazioni influisce sulla velocità di accumulo delle mutazioni, per es.
i primati non hanno la stessa velocità di accumulo di mutazioni che ha il topo, la cui
durata di generazione è molto più bassa per cui se noi ammettiamo che per anno il
numero di mutazioni sia uguale nelle due specie, è ovvio che uno deve fare più
velocemente dell’altro. Anche tra i primati, l’uomo evolve più lentamente delle altre
scimmie, per cui bisogna calibrare l’orologio molecolare in maniera opportuna, per
tratto di genoma e per gruppo di specie.
C’è un’altra cosa su cui io non sono perfettamente d’accordo ed è che le mutazioni si
fissino, perché il tasso di evoluzione non è il tasso di mutazione, il tasso di evoluzione
è dato dal tasso di mutazione per le mutazioni che vengono fissate, che sono due cose
completamente diverse. L’orologio molecolare già si basa su un tasso di evoluzione
e non tutti (io per es. sono completamente in disaccordo) accettano che l’evoluzione
sia proceduta unicamente su base di mutazioni selezionate, per me il motore
fondamentale dell’evoluzione (non a caso abbiamo scritto un libro Uomini per caso)
è il caso, per cui le mutazioni si fissano in maniera per lo più casuale; ovviamente
nessuno mette in dubbio che ci siano mutazioni che abbiano un forte valore selettivo,
però non credo che siano state quelle che abbiano praticamente guidato il motore della
nostra evoluzione. Questa non è una mia opinione, proprio i fossili stessi ci dicono
94
questo, perché ci sono una serie di esempi di mutazioni che si sono accumulate ancor
prima che quel carattere modificato da quella mutazione potesse avere un valore
adattativo. Un esempio: l’acquisizione della stazione eretta era già in l’Oreopitecus
bambolii che viveva qui in Toscana 9 milioni di anni fa, per cui quelle sono una serie
di mutazioni che avvengono per caso; per me, ripeto, l’evoluzione procede con un
accumulo casuale di mutazioni che si fissano nel genoma, dopo di che, quando quel
genoma, in un particolare ambiente si trova ad essere più adatto, allora quelle
mutazioni possono poi prendere una forma più esplicita. Insomma ciò che lei dice è
un problema di fondo, se le mutazioni siano assolutamente di tipo selezionato,
adattative per cui quelle che si fissano sono soltanto quelle adattative, o no; è ovvio
che se sono solo adattative l’orologio molecolare non funziona.
Intervento
Ho capito, ci possono essere delle mutazioni che non hanno influenza né in senso
adattativo, né in senso non adattativo, però se una mutazione ha importanza dal punto
di vista adattativo, allora la selezione naturale agisce.
Olga Rickards
Questa è una diatriba che sta andando avanti nel mondo scientifico da tantissimo
tempo, il problema è che le mutazioni adattative ci sono sicuramente e, come dicevo
prima, ci permettono di ricostruire la storia ecologica delle popolazioni, perché sono
sicuramente quelle che hanno a che fare con un ambiente però, se noi vogliamo
ricostruire la filogenesi con i rapporti evolutivi e non ecologici, tra le popolazioni, le
mutazioni adattative non ci possono, per definizione, andare bene. Possiamo crederci
o meno, ma siamo scienziati e non è che ci sono dei dogmi imposti, non solo ma con
lo studio dell’evoluzione voi sapete che siamo nel campo di una scienza storica e non
di una scienza esatta, per cui l’esperimento non lo possiamo ripetere -è quello che dico
ai miei studenti- ci vorrebbe la macchina del tempo per tornare indietro e vedere se
è andato bene o meno. L’unica cosa che noi possiamo fare è avere informazioni da più
settori e vedere se queste informazioni coincidono, se coincidono è come una
scommessa, e l’orologio molecolare si basa su due assunti principali: la neutralità delle
mutazioni e l’evoluzione costante.
Ancora lo stesso collega
Il bipedismo è una mutazione neutra?
Olga Rickards
No, il bipedismo prima di tutto non si deve ad una sola mutazione, come tutti i caratteri
quantitativi ha una genetica molto complessa, per cui devono essere stati coinvolti una
serie di meccanismi molto particolari. A me è capitato ultimamente di leggere un
articolo su un giornalino visto all’università, di quelli che danno sulla metropolitana,
riguardante un fatto peculiare, un macaco che aveva sofferto di disturbi intestinali
terribili che l’hanno portato quasi alla morte, gli hanno somministrato non so quante
cure e quando si è riavuto camminava perfettamente eretto. Questo è un campo molto
importante, se qualche danno cerebrale può influire sul tipo di postura. Adesso ci sono
una serie di studi a livello molecolare che hanno preso in considerazione non solo
mutazioni puntiformi molto semplici che vi ho fatto vedere io, ma stanno prendendo
in considerazione i caratteri complessi, come quelli quantitativi e ci sono già alcune
indicazioni abbastanza interessanti circa le capacità cognitive, il linguaggio. Il
bipedismo ancora non è stato affrontato, e anche questo è uno dei problemi grossi,
per es. per tantissimo tempo - proprio per rifarci a Darwin e all’adattabilità- si è pensato
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che il bipedismo si fosse verificato in risposta al camminare in savana, in savana era
più adatto essere bipedi perché ci si può guardare intorno, si può cacciare, mentre
adesso sappiamo che è un falso, perché il bipedismo è sorto in ambiente forestale, e
questo lo conosciamo dai resti fossili, perché i resti fossili dei nostri antenati bipedi sono
stati trovati in associazione con fauna e flora di ambiente forestale.
A questo proposito, ci sono quelli che io chiamo i famosi paradigmi dell’antropologia,
che sono falsi (noi nel libro Uomini per caso li abbiamo considerati punto per punto)
e una falsità è proprio il sorgere del bipedismo in savana, che sappiamo non essere
vero. Allora, perché siamo diventati bipedi? E’ un altro punto interrogativo e ancora
ce lo stiamo chiedendo, per questo parlo del caso, perché noi siamo diventati bipedi
quando ancora non era poi così utile esserlo, ancora stavamo sugli alberi ma
camminavamo dritti, per cui avevamo questo tipo di vita intermedia.
Ancora la stessa persona
Ho capito il senso, però mi chiedevo ancora un’altra cosa a proposito del fatto che
anche questi nuovi ominidi scoperti, tipo Sahelantropus, di cui è provato dalle
caratteristiche anatomiche che comunque erano bipedi, potessero essere antenati
dello scimpanzé o del gorilla, mentre io ho sempre sentito dire che in realtà, dal
momento che avevano sviluppato questo carattere, non poteva poi regredire
nuovamente alla forma dello scimpanzé che non è bipede, cioè questo avrebbe dovuto
comportare un ritorno indietro dell’evoluzione.
Olga Rickards
Allora, prima di tutto il bipedismo totale in questi resti non è provato, perché sono resti
molto frammentari, non abbiamo lo scheletro completo per cui non possiamo
ricostruire del tutto quello che è successo. Per quanto riguarda poi il regredire o meno,
anche lì io sarei molto cauta perché quella che noi definiamo la polarità dei caratteri
e cioè lo stabilire se un carattere è primitivo o derivato (dove primitivo si intende non
in senso dispregiativo ma in senso evolutivo) sta cambiando tantissimo. Per es. uno
dei caratteri primitivi e derivati discussi era lo spessore dello smalto dei denti, per cui
io credo che una delle poche cose di cui siamo sicuri è che la nostra evoluzione è stata
sicuramente, come quella di tutte le altre specie, a mosaico, cioè che ogni tratto di
genoma, ogni tratto morfologico è andato evolvendo con tempi diversi, in forme
diverse. Un altro modello evolutivo, che ormai per la nostra storia evolutiva è nel
dimenticatoio e mi fa particolarmente piacere perché ancora una volta ci toglie da
questa unicità che tante volte vogliamo pensare che sia la nostra peculiarità, è il fatto
che non abbiamo avuto un’evoluzione di tipo lineare, cioè noi, come tutti gli altri
animali, abbiamo avuto un’evoluzione a cespuglio, per cui non è esistita in ogni
particolare periodo evolutivo un’unica forma che andava evolvendo nell’altra, come
Darwin invece aveva intuito, ma noi in ogni periodo abbiamo più forme, ognuna delle
quali va sperimentando l’evoluzione di caratteri differenziati. E’ ovvio che, all’interno
di questi cespugli, una sola forma, quella fortunata, è quella che dà origine alla forma
successiva, per questo vi dico quanto gioca il caso, perché l’Orepitecus bambolii, che
viveva in Toscana 9 milioni di anni fa, quando la Toscana era un’isola all’interno del
Mediterraneo, se fosse vissuto in un ambiente non insulare, e già sembrava che fosse
eretto, magari sarebbe stato lui il nostro progenitore, e invece di avere l’origine degli
Ominidi in Africa, l’avremmo avuta in Toscana. Quello sì, già aveva sperimentato la
stazione eretta, però il fatto che vivesse in un ambiente insulare ha portato alla perdita
di questo carattere che è ricomparso successivamente in Africa, intorno circa ai sette
milioni di anni fa, e quella volta a questo carattere è andata bene. Ovviamente questa
è una mia visione dell’evoluzione, condivisa anche da altri scienziati nel senso non è
96
un’intuizione mia particolare però, e per rispondere alla sua domanda, dico che ci sono
visioni diverse, ci sono alcuni miei colleghi che pensano che la selezione sia stato il
motore principale di tutta l’evoluzione, non solo dell’uomo ma delle altre specie. Per
me il caso ha giocato un ruolo molto grosso e di questo ci sono proprio le prove a livello
paleontologico.
Bianca Isolani
Anch’io la ringrazio molto perché è stata molto stimolante perché, pur preferendo alcune
spiegazioni rispetto ad altre, le ha esposte tutte. Però io volevo far notare quanto ci sia
ancora di incerto e di poco -se mi si permette- scientifico, non nella sua relazione ma
in tutte queste ipotesi. Per es. non si può dire che il Neandertal ha un genoma
completamente diverso dal nostro ovviamente,perché se noi abbiamo il 98% di
similarità con lo scimpanzé, con il Neandertal magari ne abbiamo il 99,9%, allora come
minimo occorrerebbe che gli antropologi e i genetisti definissero meglio il concetto di
specie, che noi sappiamo non avere limiti netti, secondo la teoria dell’evoluzione non ha
limiti netti. Invece di andare soltanto a ricostruire l’evoluzione degli umani, potremmo
provare a farlo con i bovini, oppure con i cavalli e gli asini, che sono perfettamente
interfecondi, anche se il bardotto o la mula sono sterili, però si sa che in certe occasioni
sono in grado di riprodursi, la stessa cosa avviene persino per la pantera e il leone che
alcuni ascrivono a generi diversi. Per questo povero Neandertal, io taglio molto, occorre
definire il concetto di specie e occorre essere più puntuali, per es. si parla tanto dei
famosi mitocondri e non si sa nemmeno quali siano molti loro geni, quindi non si può
sapere se hanno un valore adattativo o di casualità; ci sono poi per es. dei dati sui
microrganismi per cui si ascrivono alla stessa specie organismi che hanno il 70% di
differenza nel DNA, e questo è un problema fondamentale.
Altro collega
Volevo chiedere l’influenza dei fattori culturali nell’evoluzione umana in relazione al
continuo arretramento delle scoperte sull’uso del fuoco, per il quale siamo arrivati
credo a un milione di anni fa.
Olga Rickards
Mi permetto di dissentire sul fatto che dei mitocondri non si sappia niente perché si sa
tutto, cioè è l’unico genoma che si conosce completamente perché ne è stata stabilita
la sequenza completa per l’uomo già dal 1981, è uno dei primi genomi che sono stati
totalmente sequenziati, per cui sappiamo bene la funzione di ogni gene, di ogni RNAt,
si sa tutto non solo nell’uomo ma anche in numerose altre specie. Sul fatto che il
mitocondrio possa essere o meno selezionato, è il solito discorso di tutti i geni, se sono
o non sono selezionati, questo è il problema proprio di fondo della biologia, perché
molti tratti di genoma, per es. quando vi dico vi ho mostrato tutto quello, quello è stato
fatto su un tratto del genoma mitocondriale che è la zona non codificante, allora,
essendo non codificate si trovano ovviamente in queste zone i tratti di genoma che
accumulano più velocemente mutazioni, per cui, essendo non codificante, per default
noi diciamo che sono zone non soggette a selezione, molto verosimilmente però, nel
senso di una differente interpretazione perché io posso anche avere dei dati sicurissimi
di neutralità di un tratto di genoma, che però per il fenomeno di hitchhiking (autostop)
magari è legato ad altri tratti di genoma che invece sono selezionati per cui viene
trasmesso da una generazione a un’altra come pacchetto, allora, lui magari non è
selezionato però viene selezionato perché viene portato appresso da un tratto che in
effetti valore selettivo lo ha, eccome. Gli studi che sono stati fatti fino adesso non
sembrano indicare che ci siano effetti selettivi nel genoma mitocondriale eclatanti.
97
Venendo poi alla questione dei mescolamenti tra i genomi, a proposito di quello a cui
lei faceva riferimento, ci possono essere casi di mescolamento tra specie diverse che
danno anche adito a prole fertile, son però dei casi peculiari, cioè non è la situazione
comune in natura, infatti quello che vi dicevo prima di Neandertal è che noi al momento
attuale non possiamo assolutamente dire, io non mi sento di dirlo, che ci sia stato un
certo tipo di contributo tra Neanderthal e Sapiens, ma non mi interessa neanche, quello
che mi interessa stabilire è quanto c’è questo contributo. Siamo una popolazione ibrida
tra Sapiens e Neanderthal? Al momento attuale io mi sento di dire: non mi sembra che
questo sia il caso, cioè non mi sembra che i dati che noi abbiamo adesso a disposizione
indichino che ci sia questa mescolanza, perché se così fosse, le sequenze che noi
andiamo a trovare in neandertal cadrebbero all’interno dell’intervallo che noi troviamo
nella nostra specie. Le sequenze del DNA mitocondriale dell’ Homo sapiens che noi
adesso abbiamo sono circa trentamila, possibile allora che in trentamila sequenze non
ne troviamo nessuna che è simile a quella di Neanderthal?
Ma è ovvio che abbiamo l’origine comune se andiamo indietro, però se fossero stati
interfecondi noi avremmo dovuto trovare prove di questa interfecondità. C’è un’altra
cosa che non ho detto per motivi di tempo, noi abbiamo studiato anche il DNA
mitocondriale di rappresentanti antichi della nostra specie, io personalmente nel mio
laboratorio ho studiato tutti i famosi resti di Balzi rossi e Arene candide, cioè resti
gravettiani e rigravettiani, e qui siamo intorno a 20000-30000 anni fa, per cui siamo
molto vicini al momento in cui Neandertal è scomparso. C’è stato un periodo in cui
hanno convissuto, i rigravettiani sapiens rientrano totalmente all’interno delle nostre
sequenze, infatti confrontando le sequenze delle popolazioni attuali (del Mediterraneo
orientale, europei, africani, asiatici, indiani d’America, europei del nord), con quelle
di sapiens di circa 20.000 anni si vede che ricadono all’interno della variabilità nota per
la nostra specie, ma non è così per quelle dei Neanderthal. Queste sono tutte
indicazioni, quando facciamo gli studi evolutivi, se dovessi scommettere, punterei sul
fatto che tutto questo grosso mescolamento tra Neanderthal e sapiens non c’è stato,
non siamo state popolazioni interfeconde. Anche se è ovvio che la differenza genetica
tra sapiens e Neanderthal è sicuramente più bassa di quella che c’è tra sapiens e lo
scimpanzé, questo è innegabile perché sono evolutivamente più vicini a noi. Il
problema è stabilire quanto del loro patrimonio genetico ci sia nel pool genico della
popolazione attuale e allo stato attuale delle conoscenze mi sembra che l’idea che ci
sia stato un grosso mescolamento sia poco sostenibile.
Per quanto riguarda il punto di vista culturale, e non ho parlato neanche di quello
perché è tutto un altro mondo, la cultura ha influito sicuramente in maniera
considerevole su tutta la nostra storia evolutiva.
Per quanto riguarda l’utilizzo del fuoco, sicuramente lo aveva Homo ergaster per cui
siamo intorno a due milioni di anni fa in Africa, però questo non vuol dire che per es.
già gli australopiteci non potessero utilizzare il fuoco che trovavano in maniera
occasionale. Questo della cultura è un problema molto grosso perché si basa anche
sul fatto di che cosa definiamo noi cultura, che cosa definiamo arte. È lo stesso
problema del dire che l’arte è cominciata con l’uomo di Cro-Magnon in Europa, per me
è un po’ riduttivo perché l’industria litica trovata in Africa è molto più antica, l’uso di
ocra trovato in tempi molto più antichi (ottocentomila anni fa ) in Africa per me
potrebbe già essere indicazione di un certo spirito artistico; sono cose interpretabili in
maniera un po’ discordante.
Sandra Magistrelli
La ominazione non è un’evoluzione di tipo lineare, si avvicina piuttosto al modello a
cespuglio, ma come si spiega questo esplodere di specie? L’altro giorno il prof. Buiatti
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parlava di un’ipotesi per cui si tratterebbe di una differente regolazione dei geni, per es.
quelli che controllano lo sviluppo del cervello rispetto alla stessa batteria di geni che
invece controlla fegato, reni ecc. Una volta si parlava addirittura di una mutazione
cromosomiale, quasi una creazione di Adamo ed Eva, adesso a che punto siamo in
questo senso?
Olga Rickards
Il punto è molto complesso perché, come vi dicevo prima, sono stati affrontati i grossi
problemi di ominazione che sono appunto l’inizio delle capacità cognitive, o del
linguaggio, caratteristiche che più ci differenziano rispetto allo scimpanzé, perché
quando io vi dico che, a seconda delle stime, noi differiamo dallo scimpanzé soltanto
dello 0,6 %, questo non vuol dire che quando ci guardiamo, non vediamo delle
differenze a livello cognitivo, comportamentale, anatomico, che sono eclatanti, per cui
si è cercato di trovare una risposta a “in che cosa siamo diversi”. All’inizio sembrava
che fossero soltanto mutazioni di tipo qualitativo, poi sono stati studiati per dei tratti
di genoma la quantità di RNA messaggero prodotta in tessuti diversi, tra l’uomo e vari
gruppi di primati non umani, e si è visto che, mentre per il fegato l’uomo e lo scimpanzé
hanno quantità di RNA messaggero molto simili e diverse dalle altre scimmie, per
quanto riguarda RNA messaggero a livello cerebrale è completamente diverso, cioè
l’uomo ha le stesse proteine ma le produce in maniera molto più elevata, per cui questo
sembrerebbe indicare chiaramente che sia qualche cosa di tipo quantitativo, e non
qualitativo. Altri studi, sul linguaggio (di cui è stata data notizia sui giornali al solito in
maniera errata, perché si parlava del gene del linguaggio) hanno mostrato uno dei
geni, che è implicato con il linguaggio -nel senso che, se ci sono delle mutazioni in
questo gene, individui della nostra specie hanno delle difficoltà a livello lessicale, e
grammaticale- e studiando quel gene si è visto proprio che il nostro gene è diverso in
alcuni aminoacidi da quello dello scimpanzé e applicando l’orologio molecolare
all’origine di questo gene nell’uomo, arriviamo sempre ai famosi duecentomila anni fa,
per cui sempre questa data sembrerebbe indicare questa origine recente della nostra
specie. Al momento attuale io credo che non sia più sostenibile che è soltanto a livello
quantitativo ma, come ovviamente ci dobbiamo immaginare, è a carico sia di
variazioni qualitative che quantitative, o almeno, queste sono le prime indicazioni che
noi abbiamo a questo proposito.
Fabio Fantini
Vorrei dire due parole anche se magari non riguardano direttamente ciò che Lei ha
detto. Io sono un po’ perplesso nel sentire che in questa sede facciamo carico spesso
alle teorie scientifiche di non dare una verità certa. A me sembra che in realtà questa
critica sia cavillosa, proprio se parliamo di teorie scientifiche dobbiamo sapere che la
loro peculiarità è quella di essere aperte, a loro può essere applicata qualsiasi critica.
Allora è vero che il concetto di specie fa acqua da tante parti, però, finché non ne
abbiamo uno migliore che pragmaticamente ci dia qualcosa di meglio, è chiaro che
quello usiamo. Inoltre, a proposito di datazioni molecolari, esiste un criterio che è
abbastanza affidabile, io credo, che consiste nel fatto che quando metodi diversi
concordano nel dare un certo risultato, quel risultato va preso non come la verità
definitiva ma come quello sul quale, come diceva lei giustamente, si potrebbe
scommettere. Spesso quelle critiche per cui si dice che le teorie evolutive sono teorie,
non danno una certezza, quindi come tali vanno trattate alla stessa stregua di ipotesi
creazioniste,, no, non è così. Dopodiché è chiaro che ognuno di noi ha anche delle
preferenze personali, è chiaro che queste in qualche modo intervengono, che la teoria
regionalista prenda qualche legnata a me fa anche un po’ piacere, per le implicazioni
99
razziste che ha, però cerchiamo di essere comunque coscienti di queste preferenze
e muoverci in un ambito di ragionamento più generale.
Olga Rickards
Sono perfettamente d’accordo e voglio proprio dire una cosa a proposito del
multiregionalismo: il multiregionalismo è ormai caduto pesantemente in disgrazia,
cioè ci sono una percentuale minima di colleghi che pensano ancora che sia il modello
più idoneo a spiegare l’origine della nostra specie, mentre fa troppa acqua da tutte le
parti tanto che gli stessi sostenitori hanno dovuto rivederlo e rimodificarlo, insomma
non ci sono dati che lo sostengono, né a livello molecolare, assolutamente no, ma
neanche a livello paleontologico.
Altro intervento
Una domanda velocissima, prima si parlava del modello multiregionale e del modello
out of Africa, quali sono secondo lei le ricadute socioculturali, nel caso prevalga il primo
o il secondo modello?
Olga Rickards
Come diceva il suo collega precedentemente il modello multiregionale ha delle
implicazioni a livello della possibilità di individuare, all’interno della nostra specie,
razze biologiche diverse molto fortemente, nel senso che se noi, come i multiregionalisti sostenevano (ma ormai sostengono sempre meno) abbiamo iniziato la nostra
storia evolutiva in maniera abbastanza differente, acquisendo delle caratteristiche
anatomiche peculiari intorno a due milioni di anni fa nei vari continenti, allora c’è stato
tempo a sufficienza perché si possano essere create all’interno della nostra specie
delle categorie sottospecifiche che alcuni definiscono come razze. Questo però è
sicuramente incompatibile con tutte le evidenze molecolari che sono state ottenute fino
adesso, che ci dimostrano completamente il contrario, cioè ci dimostrano che il grado
di variabilità che si riscontra tra le popolazioni è in quantità talmente bassa che non
può assolutamente giustificare l’idea di poter discriminare le popolazioni. Con questo
non voglio dire che se noi andiamo a guardare le varie popolazioni del mondo non
vediamo delle differenze, gli scandinavi sono differenti dai pigmei, sono differenti per
quei caratteri che, come vi dicevo prima, ci spiegano la storia ecologica delle
popolazioni. Se noi andiamo a vedere le popolazioni dell’Africa, le popolazioni
australiane, gli indiani dell’India, sono tutti scuri, sono dunque uguali filogeneticamente? Ma proprio per niente, cioè gli europei e gli africani sono tra loro a livello genetico
molto più simili, quelli sembrano simili a livello morfologico perché vivono tra i due
tropici dove l’insolazione è massima dove essere scuri è vantaggioso per cui ci
raccontano un’altra storia, che può essere importantissima. Non è detto che la storia
dei caratteri adattativi non sia importante, però è un’altra storia; se noi vogliamo fare
filogenesi dobbiamo utilizzare i caratteri neutri, e quelli ci dicono qualche altra cosa,
la teoria dell’out of Africa ci dice che siamo una specie nuova che non ha avuto neanche
il tempo di poter accumulare quelle differenze a livello genetico che permetterebbero
di individuare delle razze.
100
Un approccio evolutivo allo studio del
cervello: la teoria del “darwinismo
neurale”
YURI BOZZI
Un po’ di storia
Il termine “darwinismo neurale” indica una precisa teoria (nota anche come “teoria
della selezione dei gruppi neuronali”), proposta per la prima volta nel 1978 da Gerald
Edelman (1) e poi pubblicata nel 1987 nel libro “Neural darwinism. The theory of
neuronal group selection” (2, 3) per cercare di spiegare i processi di base di funzionamento
del cervello e della mente. Edelman usa il termine “darwinismo” per indicare che nel
cervello, in ogni istante della vita di ogni individuo, operano dei meccanismi di
“selezione” a livello molecolare, cellulare ed anatomico. Quella di Edelman si presenta
come una vera e propria teoria “evolutiva” del cervello. Secondo Edelman, la struttura
e la funzione del cervello mutano ed evolvono continuamente, in base a fattori genetici
ed ambientali; e continuamente le strutture cerebrali -a tutti i livelli: molecole, cellule,
connessioni, gruppi di cellule- sono sottoposte ad una selezione ad opera di questi
fattori, in modo tale che solo le migliori (le più “adattate”, si direbbe in termini
evoluzionistici) sopravvivano e continuino ad evolversi. Il funzionamento del cervello,
quindi, viene visto come un processo “evolutivo”, ma non su una scala temporale di
milioni di anni, bensì nel corso della vita di un individuo. Secondo Edelman, questi
processi selettivi agiscono a tutti i livelli stutturali e funzionali del cervello; la teoria
proposta dovrebbe quindi spiegare, in maniera organica ed unitaria, tutti gli aspetti
funzionali dello sviluppo del cervello umano, dallo sviluppo embrionale alla formazione
della coscienza individuale.
Prima di approdare alle neuroscienze, Edelman si era occupato, con grande successo,
dello studio del sistema immunitario. Nel 1972, era stato infatti insignito del Premio
Nobel per la Fisiologia e la Medicina, grazie alle sue rivoluzionarie scoperte sui
meccanismi che regolano la produzione degli anticorpi. Sino a quel tempo, si pensava
infatti che tutti gli anticorpi avessero la stessa sequenza aminoacidica e che ciascun
antigene, entrando in contatto con il sistema immunitario, determinasse una diversa
struttura tridimensionale dell’anticorpo stesso. Il più autorevole sostenitore di questa
teoria “istruttiva” era il grande biochimico Linus Pauling, che nel 1954 aveva vinto
premio Nobel per la chimica grazie ai suoi studi sulla struttura delle proteine. Edelman
dimostrò invece che l’organismo possiede un repertorio pressoché infinito di
anticorpi, ed ogni volta che un antigene penetra nell’organismo, “seleziona” uno
specifico anticorpo (prodotto da un particolare clone di linfociti B) in grado di
neutralizzarlo. Questa teoria (originariamente proposta, ma non dimostrata, già nel
1959 da MacFarlane Burnet) è conosciuta ancor oggi come “teoria della selezione
clonale”.
101
Si coglie immediatamente la somiglianza tra la teoria della selezione clonale del sistema
immunitario e la teoria della selezione dei gruppi neuronali del sistema nervoso: in
entrambe, l’impianto evoluzionistico, darwiniano, è il punto centrale del pensiero
scientifico di Edelman. E nel formulare la sua teoria del “darwinismo neurale”,
Edelman attinge a piene mani dalla sua precedente esperienza di ricerca. E’ inoltre
interessante osservare che le prime ricerche di Edelman nel campo delle neuroscienze
furono strettamente correlate alle sue precedenti ricerche sul sistema immunitario. Per
molti anni Edelman si è occupato infatti dello studio delle cosiddette “molecole di
adesione cellulare del sistema nervoso” (“neuronal cell adhesion molecules”, NCAMs), che hanno una struttura molto simile a quella degli anticorpi e che svolgono
un ruolo fondamentale nella formazione e nel funzionamento dei circuiti nervosi.
Sin dal momento della sua pubblicazione, la teoria del darwinismo neurale di Edelman
fu molto criticata, soprattutto per il linguaggio spesso di difficile comprensione usato
dall’autore. In un polemico articolo del 1989, Francis Crick arrivò addirittura a definire
la teoria di Edelman come “Edelmanismo neurale” (4). E nel 1993, sei anni dopo
l’uscita del suo libro, Edelman continuava a scrivere articoli divulgativi su autorevoli
riviste di neuroscienze per spiegare la sua teoria (5). Il darwinismo neurale non ha avuto
quindi una vita assolutamente facile. Eppure, soprattutto per il periodo in cui è stato
proposto, contiene molti spunti interessanti, che negli anni successivi hanno trovato
piena conferma sperimentale.
Una visione d’insieme
Secondo la teoria di Edelman, il bersaglio principale della selezione neurale sono i
gruppi neuronali. Un gruppo neuronale è definito come “un gruppo di cellule nervose
(in numero variabile tra 50 e 10.000), più o meno strettamente connesse tra di loro,
che presentano una risposta sincrona ad un determinato stimolo” (2, 3). Le connessioni
tra i neuroni (connessioni sinaptiche) sono fortemente variabili da un gruppo neuronale
all’altro, e ciascun gruppo neuronale avrà quindi una capacità di rispondere in modo
diverso a segnali diversi. E’ su questa variabilità che agisce la selezione neuronale.
Edelman propone tre meccanismi fondamentali responsabili del comportamento
adattattivo del sistema nervoso (Fig. 1): la selezione durante lo sviluppo, la selezione
durante l’esperienza e la segnalazione rientrante.
Selezione durante lo sviluppo: regola il modo in cui le principali strutture nervose
cominciano a formarsi durante la vita embrionale, sotto l’azione di fattori genetici.
Selezione durante l’esperienza: opera durante la vita post-natale dell’organismo, e
permette di rifinire la struttura e la funzione cerebrale in maniera adeguata ed in risposta
agli stimoli ambientali (si parla di “plasticità sinaptica”).
Segnalazione rientrante: i primi due processi selettivi sopra menzionati contribuiscono
a creare “mappe” di gruppi neuronali specializzati a rispondere a specifici segnali che
provengono dal mondo esterno. Mappe diverse controllano modalità sensoriali
diverse, e rispondono preferenzialmente a caratteristiche diverse degli stimoli. In un
sistema selettivo, le mappe sono sottoposte a continui riarrangiamenti. Edelman
102
propone quindi un complesso meccanismo di segnali tra gruppi neuronali
diversi, che egli chiama
segnalazione rientrante,
che permetta la coordinazione tra mappe diverse.
Nei paragrafi successivi
analizzeremo in dettaglio
i tre punti principali della
teoria, cercando di evidenziare -in base a ricerche più recenti- la correttezza o l’inesattezza delle
intuizioni di Edelman.
La selezione durante lo Figura 1. Rappresentazione schematica dei processi di selezione
sviluppo
durante lo sviluppo, selezione durante l’esperienza e segnalazioLa selezione durante lo ne rientrante proposti da Edelman. Tratta da (5).
sviluppo regola il modo
in cui le principali strutture nervose cominciano a formarsi durante la vita embrionale,
essenzialmente sotto l’azione di fattori genetici. Lo sviluppo embrionale del sistema
nervoso dei Mammiferi consiste essenzialmente di quattro fasi principali:
Proliferazione dei neuroni: durante questa fase vengono generate le cellule che daranno
origine a tutto il sistema nervoso.
Migrazione: dalla loro zona di origine, le cellule nervose migrano in altre aree del
sistema nervoso in via di sviluppo, per raggiungere la loro posizione definitiva.
Differenziamento: una volta migrate nella loro posizione definitiva, le cellule nervose
si differenziano in vari tipi di neuroni.
Crescita dei prolungamenti nervosi: i neuroni, mentre si differenziano, emettono
prolungamenti e formano connessioni con altri neuroni.
Lo sviluppo embrionale del sistema nervoso è caratterizzato da una fase iniziale in cui
sia i neuroni che le connessioni tra i neuroni si formano in largo eccesso. La selezione
durante lo sviluppo consiste proprio nell’eliminazione dei neuroni e delle connessioni
in eccesso ad opera di meccanismi geneticamente predeterminati. Nella sua teoria,
Edelman postulava che le cosiddette “molecole di adesione cellulare del sistema
nervoso” (“neuronal cell adhesion molecules”, N-CAMs), svolgessero un ruolo
fondamentale in questi processi (Fig. 1). Studi successivi alla pubblicazione del saggio
di Edelman hanno solo parzialmente confermato la sua ipotesi. Attualmente si ritiene
piuttosto che la “morte neuronale programmata” (apoptosi) ed alcune molecole note
come “fattori neurotrofici” (tra cui il “Fattore di crescita nervoso”, NGF, scoperto
da Rita Levi-Montalcini) siano importanti per regolare l’esatto numero di neuroni e di
connessioni neuronali durante lo sviluppo embrionale (6).
103
La selezione durante l’esperienza
La selezione durante l’esperienza opera durante la vita post-natale di un organismo, e
permette di rifinire la struttura e la funzione cerebrale in maniera adeguata ed in risposta
agli stimoli ambientali. Questo processo di riorganizzazione anatomica e funzionale
del cervello avviene essenzialmente a livello delle connessioni sinaptiche tra le cellule
nervose, e prende infatti il nome di “plasticità sinaptica”. Edelman ipotizza che questo
avvenga essenzialmente attraverso la modificazione della “forza” delle connessioni
sinaptiche, ma non del loro numero. Oggi sappiamo che questa è vera, ma non del
tutto esatta. Più precisamente, la riorganizzazione anatomica delle connessioni neuronali
in risposta a stimoli ambientali avviene attraverso la modificazione dell’efficacia delle
connessioni stesse (alcune connessioni si rafforzano, altre si indeboliscono), ma anche
del loro numero (alcune si formano ex novo, altre scompaiono).
Lo sviluppo del sistema visivo dei Mammiferi rappresenta un esempio perfetto di
“selezione durante sviluppo” e di “selezione durante l’esperienza”. In tutti i Mammiferi
esiste una precisa area del cervello, posta nella zona posteriore degli emisferi cerebrali,
che è deputata alla percezione dello stimolo visivo proveniente dagli occhi. In questa
area, chiamata “corteccia visiva primaria”, arrivano informazioni distinte dai due
occhi: essa infatti è anatomicamente organizzata in “colonne di dominanza oculare”
che ricevono connessioni da un occhio o dall’altro. E’ ormai noto che le colonne di
dominanza oculare si formano grossolanamente durante lo sviluppo embrionale, cioè
in assenza dello stimolo visivo (7). Successivamente, durante lo sviluppo post-natale,
l’esperienza visiva “modella” in maniera fine ed accurata, attraverso un processo di
eliminazione e formazione (cioè, di “selezione”), l’organizzazione delle connessioni
sinaptiche a livello della corteccia visiva primaria. Un caso limite di questo fenomeno,
descritto negli anni ’60 del secolo scorso da David Hubel e Torsten Wiesel (Premi
Nobel per la Fisiologia e la Medicina nel 1981), è rappresentato dagli effetti della
deprivazione sensoriale nei Mammiferi. Se durante le prime fasi dello sviluppo postnatale viene persa la visione da un occhio (per esempio, nell’uomo, in seguito ad una
cataratta congenita) le aree della corteccia visiva primaria normalmente connesse a
quell’occhio si restringono, mentre quelle connesse all’altro occhio si espandono (7). In
altre parole, l’esperienza sensoriale modifica la struttura anatomica delle aree cerebrali
che si sono già formate durante lo sviluppo embrionale.
La segnalazione rientrante
I due processi selettivi descritti sopra contribuiscono a creare “mappe” di gruppi
neuronali specializzati a rispondere a specifici segnali che provengono dal mondo
esterno. Mappe diverse controllano modalità sensoriali diverse, e rispondono a
caratteristiche diverse degli stimoli. In un sistema selettivo, le mappe sono sottoposte
a continui riarrangiamenti. La “segnalazione rientrante” è il meccanismo di segnali tra
gruppi neuronali diversi che permette la coordinazione tra mappe diverse.
Le “mappe” sono una serie interconnessa di gruppi neuronali che rispondono
selettivamente ad una specifica componente di uno stimolo sensoriale (per es., colore
o movimento per lo stimolo visivo). La percezione di uno stimolo (visivo, acustico…)
104
deriva dalla sincronizzazione di molte mappe ciascuna relativa a diversi aspetti dello
stimolo stesso. Questo processo è dinamico, in quanto le mappe si modificano in base
all’esperienza (sono, cioè, “plastiche”). Le mappe inoltre sono reciprocamente
connesse tra di loro, e proprio le estese connessioni tra le diverse mappe permettono
la “segnalazione rientrante”, cioè la continua comunicazione tra le mappe (suscettibile
anch’essa di essere modulata dall’esperienza).
Ancora una volta, la corteccia visiva rappresenta un esempio perfetto di come le
mappe sono organizzate nel cervello. La corteccia visiva ha infatti una struttura
“modulare”, e contiene circa una trentina di mappe diverse ciascuna deputata alla
percezione di una precisa caratteristica dello stimolo visivo (orientamento, colore,
provenienza da un occhio o dall’altro...). Le informazioni visive provenienti da tutte
queste mappe parallele convergono per formare un’unica rappresentazione dello
spazio visivo.
Si possono fare molti esempi della plasticità delle mappe cerebrali. Le mappe si
modificano in seguito all’apprendimento (nei violinisti, la rappresentazione della mano
sinistra nella corteccia motoria è tanto più estesa quanto prima hanno cominciato a
suonare), oppure in seguito a lesioni periferiche (dopo l’amputazione di una mano,
l’area della corteccia somato-sensoriale normalmente deputata al suo controllo viene
occupata dalla rappresentazione del viso e delle labbra). Le mappe inoltre si
influenzano a vicenda, secondo un fenomeno conosciuto come “plasticità crossmodale”: un classico esempio di questo tipo di plasticità è rappresentato dagli individui
ciechi dalla nascita, nei quali la lettura in Braille attiva la corteccia visiva e non la corteccia
somato-sensoriale (come avviene invece nei vedenti): per loro, la lettura in Braille
equivale cioè ad uno stimolo visivo, non tattile.
I modelli neurali e gli automi della serie “Darwin”
Esistono dunque numerose evidenze dei processi di plasticità delle mappe cerebrali,
che indicano chiaramente la stretta interconnessione ed il continuo scambio di
informazioni tra mappe sensoriali diverse. Tuttavia, le evidenze a favore dell’esistenza
di questo scambio di informazioni (che Edelman definisce appunto “segnalazione
rientrante”) rimangono comunque indirette: ad oggi infatti, non è ancora possibile
visualizzare in alcun modo, neppure con le più moderne tecniche di “imaging”
cerebrale, il continuo scambio di informazione tra le mappe. Da questo deriva
l’importanza dei modelli informatici di sistema nervoso (reti neurali) sviluppati da
Edelman e dai suoi collaboratori. A partire dagli anni ’80 del secolo scorso, infatti,
Edelman ed il suo gruppo hanno cercato di verificare ed ampliare le ipotesi sulla
segnalazione rientrante sviluppando “reti neurali” e robot “intelligenti”, capaci cioè di
apprendere e modificare il proprio comportamento in base all’esperienza. Già in
“Neural darwinism”, Edelman aveva descritto il modello Darwin II, un automa
dotato di un semplice “sistema nervoso” con due sole modalità sensoriali (visiva e
tattile) ed in grado di imparare a riconoscere oggetti.
Un passo decisivo nella costruzioni di robot intelligenti è rappresentato però dalla
comparsa, nel 1992, di Darwin IV, costituito dall’automa NOMAD (“Neurally
105
Organized Multiply Adaptive Device) posto sotto il controllo di un sistema nervoso
simulato al computer. NOMAD è un piccolo automa dotato di “braccia”, “gambe”
e di varie modalità sensoriali. Possiede infatti un sistema visivo (una telecamera), dei
sensori tattili, dei sensori di calore, dei sensori chimici di “gusto”; grazie alle
informazioni che raccoglie attraverso questi “organi” impara a “categorizzare”,
riconoscere e scegliere alcuni oggetti scartandone altri. In altre parole, impara e
modifica il proprio comportamento in base all’esperienza. Gli aspetti teorici importanti
sono essenzialmente due. Il primo è rappresentato dal fatto che NOMAD può
funzionare solo grazie a dei cosiddetti “sistemi di valore”, che non sono altro che
programmi che consentono al robot di eseguire alcuni compiti di base (muoversi, per
esempio). Edelman fa notare che questi “sistemi di valore” sono presenti anche nel
nostro cervello: si pensi alle strutture “vitali” che controllano tutte le funzioni vegetative
quali ad esempio il respiro. Il secondo è rappresentato dal fatto che il “sistema
nervoso” di NOMAD è controllato da un computer, che permette di monitorare
costantemente lo scambio di informazioni che avvengono al suo interno (cioè, la
segnalazione rientrante).
Un paragone tra Edelman e Darwin
Che cosa c’entra, tutto questo, con la teoria della selezione naturale proposta da
Darwin? Si può tentare di fare un paragone tra le due teorie, mettendo in evidenza
alcuni punti in comune (8). La teoria della selezione dei gruppi neuronali di Edelman
propone che nel corso di tutta la vita di un individuo la struttura e la funzione del
cervello evolvano costantemente, sulla base di un processo selettivo che premia le
strutture cerebrali più adatte o, meglio, adattate. I bersagli della selezione (candidati
cioè al possesso di “fitness”) nella teoria di Edelman sono le sinapsi, i neuroni, i gruppi
neuronali e le mappe corticali, mentre nella teoria di Darwin sono costituiti da DNA,
geni, cromosomi, organismi, popolazioni e specie.
Un importante punto di contatto tra le due teorie è la correlazione tra “fitness” ed
ereditarietà. Infatti, come in base alle teorie darwiniane le differenze nell’adattamento
degli organismi ad un ambiente portano a differenze nel loro successo riproduttivo,
cambiando di conseguenza le frequenze genotipiche in una popolazione, nella teoria
di Edelman le differenze nella connettività dei gruppi neuronali portano a differenze
nella loro iniziale risposta ad uno stimolo, e di conseguenza modificano la probabilità
della successiva risposta di un gruppo neuronale allo stesso stimolo. Un secondo punto
di contatto è il concetto di “variabilità del repertorio”. Una conseguenza fondamentale
dell’evoluzione della specie è che il repertorio genico (e fenotipico) iniziale di una
popolazione varia continuamente: alcuni genotipi (e fenotipi) si estinguono, altri si
conservano. In maniera analoga, secondo Edelman il repertorio neuronale si modifica
continuamente: durante lo sviluppo embrionale del cervello questo repertorio di
neuroni e connessioni si forma inizialmente secondo un programma essenzialmente
genetico, in maniera indipendente dall’ambiente. Poi però, sotto l’influsso dell’esperienza,
questo repertorio cambia: alcuni gruppi neuronali rafforzano le proprie connessioni,
altri le indeboliscono.
106
Conclusione
La teoria di Edelman rappresenta un tentativo organico ed unico nel suo genere di
descivere in maniera unitaria lo sviluppo e le funzioni del cervello umano. Dal 1987,
anno in cui uscì “Neural darwinism”, alcune ipotesi di Edelman hanno trovato
conferma, altre invece si sono rivelate inesatte. Un pregio della teoria di Edelman è
certamente quello di aver spiegato che il cervello non è un computer che esegue in
maniera automatica programmi prestabiliti, ma una struttura che si evolve di continuo,
e che impara effettuando costantemente nuove “scelte”. Una conseguenza ovvia (e
forse anche un po’ banale...) di questa teoria è una visione fortemente individualistica
della natura umana: sotto la spinta dei processi selettivi, non può esistere un cervello
(e, quindi, un individuo) uguale ad un altro.
Edelman ha sempre difeso strenuamente e con grande presunzione le proprie idee,
spesso accolte con poco entusiasmo (se non addirittura con aperta ostilità) dal mondo
scientifico. Nel 1993, ad esempio, descrivendo il proprio lavoro nella prefazione al suo
libro “Bright Air, Brilliant Fire”, egli scrisse: “Siamo all’inizio di una rivoluzione
neuroscientifica. Alla fine, sapremo come funziona la mente, che cosa governa la nostra
natura e in che modo conosciamo il mondo”. Da allora sono passati più di dieci anni,
ed indubbiamente le neuroscienze hanno fatto molti progressi; ma siamo ancora
molto, molto lontani dal conoscere i segreti della mente umana...
Juri Bozzi
Istituto di Neuroscienze del C.N.R. di Pisa
Riferimenti bibliografici
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mindful brain, MIT Press Cambridge, Massachusetts, 1978
G. M. Edelman Neural darwinism. The theory of neuronal group selection Basic Books, New York,
1987
G. M. Edelman Darwinismo neurale. La teoria della selezione dei gruppi neuronali Ed. Einaudi, 1992
F. Crick Neural edelmanism Trends Neurosci 12, 240-248, 1989
G. M. Edelman Neural darwinism: selection and reentrant signaling in higher brain function Neuron 10,
115-123, 1993
A. M. Davies Regulation of neuronal survival and death by extracellular signals during development EMBO
J. 22, 2537-2545, 2003
L. C. Katz, J. C. Crowley Development of cortical circuits: lessons from ocular dominance columns NAT REV
NEUROSCI 3, 34-42, 2002
R. Michod Neural edelmanism TRENDS NEUROSCI 13, 12-13, 1990
107
Dibattito
Brunella Danesi
Quando l’argomento del cervello viene affrontato a scuola c’è sempre qualcuno che
chiede che cosa succederebbe se si riuscisse a fare un trapianto del cervello, dal
momento che ci sono anche gli ormoni che sollecitano la fissazione della memoria.
Yuri Bozzi
E’ una mia idea, ma io sono estremamente scettico, credo molto nella individualità
della struttura del cervello, almeno questo è quanto viene fuori da ciò che io studio,
però quello a cui ho accesso e che studio lo possono studiare tante altre persone e non
tutti la pensano assolutamente come me. Ora, un trapianto di cervello è cosa
veramente inarrivabile perché c’è un “piccolo” aspetto tecnico che per il momento
ostacola il trapianto del cervello, dove con cervello si intende il sistema nervoso
centrale, e consiste nel fatto che, mentre le terminazioni nervose periferiche si
ricostituiscono, quelle centrali, no. Se trapiantate un cervello, la ferita fra cervello e
midollo per ora nessuno è riuscito a ricucirla. Ammettiamo comunque che lo si faccia,
a qual pro si farebbe? Non credo che io sarei Einstein se avessi il cervello di Einstein.
Il discorso del cervello trapiantato risente, secondo me, dell’idea di un cervello
autonomo e staccato dall’organismo. Qualche giorno fa leggevo un articolo divulgativo
di uno studioso della Columbia University esperto di sistema nervoso enterico, cioè di
tutte le terminazioni nervose che abbiamo nella pancia, che egli chiama secondo
cervello. Ora, è una bomba messa lì per attirare l’attenzione, però non ci si deve
dimenticare di tutti i segnali che il nostro cervello riceve dal nostro corpo e viceversa,
ed è vero che quelli che il cervello manda al corpo sono se volete più immediati, e
questo è più intuibile pensarlo perché la percezione degli stimoli è immediata e dal
cervello si trasforma in qualche modo in azione, però anche il nostro corpo in modo
non cosciente manda dei segnali al cervello. Gli ormoni regolano la proliferazione dei
neuroni, le connessioni tra i neuroni regolano la memoria, gli ormoni hanno importantissimi ruoli e non se ne sa quasi niente. Dunque, ammesso che sia fattibile, secondo
me la risposta è: trapiantando a me il cervello di Einstein io non divento Einstein.
La teoria di Edelman a suo tempo è stata criticata, i suoi libri sono molto difficili, però
voleva essere, secondo me, abbastanza rivoluzionario, al di là dell’autocelebrazione,
nel senso che si presentava come teoria globale di funzionamento del cervello e
soprattutto cercava di spingere al massimo l’idea che il cervello si sviluppa, lavora e
funziona in maniera assolutamente non separata da tutto ciò che circonda un
organismo, un individuo, quindi spinge al massimo l’idea di individualismo.
Yuri Bozzi
Che la struttura tridimensionale degli anticorpi abbia un ruolo è fuori di dubbio perché
non è solo la sequenza del DNA che determina la variabilità degli anticorpi. Io non sono
un esperto di sistema immunitario, per cui magari posso dire delle sciocchezze, però
nei mammiferi, durante lo sviluppo embrionale, quello che arriva al feto sono gli
anticorpi della madre, quindi probabilmente più che di sviluppo embrionale si parla di
vita postnatale come elemento selettivo della specificità anticorpale perché i bambini
prima che nascano prendono solo gli anticorpi circolanti della madre, quindi lì ci sarà
sicuramente un fenomeno selettivo dovuto all’ambiente.
Quello è il bersaglio della selezione, come è inteso nella teoria di Edelman, però è
anche vero che in fin dei conti è il meccanismo più utilizzato dai neuroni per
comunicare, la sinapsi, e anche se è vero che comunicano poi anche attraverso fattori
108
diffusibili, non necessariamente rilasciati a livello della sinapsi, però lo scambio di
informazione elettrica, quindi il segnale, fondamentalmente è a livello delle sinapsi,
quindi quello è il punto della selezione, formazione di connessioni, in sostanza.
Sandra Magistrelli
Per quanto riguarda l’apprendimento, nel vostro lavoro avete scambi con pedagogisti
o con esperti di altre discipline e di altri Istituti?
Yuri Bozzi
La risposta alla domanda diretta è:sì, e anche nel caso specifico del nostro Istituto, che
è l’Istituto di Neuroscienze del CNR, ci sono delle persone affiliate al nostro istituto, per
es. due professoresse, una delle quali insegna Psicologia a Firenze e un’altra a Milano,
quindi ci sono almeno tre persone, una delle quali è la professoressa Berardi, che
insegna Psicologia a Firenze, è una neurofisiologa, però insegna ed è un punto di
contatto, i suoi studenti fanno esperimenti di comportamento animale, studiano per
es. le basi cellulari o molecolari del comportamento nei roditori, a dimostrazione del
fatto che punti di contatto ci sono. Il caso degli altri due professori che lavorano da noi,
Dave Board e sua moglie Concetta Morrone, studiano principalmente la psicofisica del
sistema visivo ed hanno rapporti molto stretti con cliniche nelle quali si studiano per
es. bambini in età scolare che hanno non solo difetti della visione, anzi più spesso
studiano aspetti di deficit visivi in bambini che hanno ritardo mentale e difficoltà di
apprendimento, e questi sono i colleghi della Stella Maris del Calabrone di Pisa. Stella
Maris è un IRCS centro di livello assolutamente alto, in Italia è uno dei centri migliori,
dove si fa ricerca clinica su malattie del sistema motorio, autismo, da parte di medici
che studiano riabilitazione motoria in bambini che hanno problemi motori magari
conseguenti al parto, o comunque patologie piuttosto gravi, altri studiano l’epilessia,
altri l’autismo, ed hanno sempre un approccio misto, medico ma anche psicofisico e
psicologico: insomma persone che fanno da ponte ci sono, assolutamente sì.
Una collega
Che cosa si sa sull’apprendimento? Come si impara?
Yuri Bozzi
Io ho un bimbo di tre anni, e come impara? Mi sfinisce ripetendo dieci volte la stessa cosa,
le canzoni, i movimenti, le domande, cioè ripete allo sfinimento e un motivo ci sarà, visto
che tutti i bambini fanno così. Secondo me è proprio perché è la reiterazione martellante
di un pattern neuronale, di una sequenza comportamentale che fissa un circuito e lo
rende efficace. Tutto questo non è che lo dico io, si sa, e si può anche dimostrare magari
sulle singole cellule, come vi ho fatto vedere: si dà una scarica elettrica di un certo tipo,
in realtà è un treno di impulsi quindi un impulso ripetuto nel tempo e si forma una
connessione. Allora, è molto probabile, anzi io penso che sia proprio così, che a livello
comportamentale la ripetizione reiterata di un determinato schema comportamentale,
fissi quel comportamento. Questo nei bambini è clamoroso quindi non vedo perché
imparare una poesia a memoria, non solo ti fa ricordare “La nebbia agli irti colli”, ma
ti abitua anche a ricordarne altre. Non c’è dubbio che il cervello vada tenuto in esercizio,
e secondo me la memorizzazione era utile: se uno la usa, funziona.
Sandra Magistrelli
A proposito dei robot io mi chiedo, è partito dicendo che c’era, e c’è ancora, l’idea del
cervello computer, è con Edelman che si cambia questa visione; allora, perché questo
ritorno al robot, oppure, sono in antitesi queste ricerche? E costano soldi?
109
Yuri Bozzi
Non credo che quelle siano le ricerche più costose perché l’hardware, il calcolatore in
sé ha un costo che non è equiparabile agli equipaggiamenti da laboratorio di biologia
cellulare o molecolare, inoltre se fai il programmatore, una volta che hai l’hardware,
fai il programma, ma non usi nient’altro. Il robottino non so quanto è costato, ma credo
non molto. Perché lo fanno? L’idea è di creare dei modelli di funzionamento del sistema
nervoso per “tappare” quei buchi che per il momento non si possono fisicamente
realmente dimostrare. In realtà lui insiste nel dire che quell’aggeggio non è un robot
programmato, e questo è il punto, perché la differenza a proposito della quale il gruppo
di Edelman stressa fino alla fine è questa: un conto è avere davanti un computer che
appena premi un tasto fa una cosa, (uno potrebbe costruirsi un automa che appena
messo in mezzo a una stanza va a prendere il primo cubo, lo porta nella tana e chiuso),
altro è, come loro hanno fatto, costruire un automa che, messo lì nella stanza, comincia
prima di tutto a guardarsi intorno, poi piano piano si avvicina, tocca, c’è un sensore
di conduttanza elettrica, di calore o simile, che, eccolo lì, utilizzando un programmino
-quello che loro chiamano sistema di valore- dirà: siamo in un range che per te va
bene, è caldo a sufficienza, non è caldo a sufficienza. Qualche categoria di scelta
preconfezionata la deve avere, ma a parte questo il robottino può andare a prendere
prima il cubo bianco, o il rosso o il nero o quello con i pallini, e magari diversi robottini
fanno cose diverse, cioè non sono automi nel senso che fanno sempre la stessa cosa,
quindi sono guidati da un computer ma è un computer che impara strada facendo,
esprimendo ogni volta delle preferenze.
Robert Vignali
Quanti sistemi diversi di memoria, apprendimento e “coscienza” potremmo generare
facendo esperimenti di questo tipo, cambiando software, hardware?
Yuri Bozzi
Ho messo di proposito l’ultima diapositiva, perché se si diventa troppo gobbi sul
computer si perde il filo della vita, questo è il rischio dei modellisti. Io non sono un
modellista, non faccio modelli, sono uno sperimentatore, osservo e traggo delle
piccole, minime conclusioni da quello che osservo. La domanda è giustissima, la
risposta non ce l’ho, però mi viene da pensare, nell’esperienza comune, che fra noi
individui, tutti diversi, uomini diversi, sicuramente esistono dei meccanismi di base di
apprendimento che sono uguali in tutti, è incredibile che sia così ma a livello molecolare
molto probabilmente non siamo tanto diversi, però siamo portati a pensare che la
coscienza dell’uomo sia di un certo tipo; spesso si parla della coscienza e non si parla
mai “delle” coscienze di ciascuno di noi, secondo me già qui dentro c’è una bella
variabilità, c’è una variabilità anche in come noi percepiamo tutto quello che ci
circonda. Da questo punto di vista non parlo da scienziato, parlo con il senso comune:
viviamo in un mondo fatto di categorie, che ci siamo, in quanto tali, costruite noi, e
parlando per es. dei colori, tutti li categorizziamo: blu, rosso, giallo, abbiamo
categorizzato un po’ di sfumature e se uno ha un computer ne caratterizza in modo
preciso la composizione delle varie componenti, però non prendiamo le sfumature tutti
allo stesso modo: ciò ha chiaramente un substrato biologico perché sono i nostri
pigmenti visivi che ci permettono una percezione del colore particolare, ma la
sfumatura del colore non è uguale in tutti noi. Questo è un esempio stupidissimo però
lo puoi riportare a qualunque livello della percezione e se vai anche sopra, ciascuna
divisione ha la sua, quindi, senza stare nemmeno a pensare ai modelli di Edelman, è
vero, un robottino può evolvere un proprio sistema completamente diverso dall’altro,
ma forse quello che vuole dire è che in ciascuno di noi si verifica proprio questo:
110
l’evoluzione di un cervello che è diverso. Lo saprete meglio di me, ma in culture diverse
esistono delle categorie percettive diverse, ci sono tribù nella cui lingua vengono usati
30-40 pronomi diversi che vogliono dire non “io”, “tu”, ma “io e altri due con i capelli
rossi”, “io e il fratello di quella che ieri stava con te”, con una parola sola, e ciò
condiziona per forza la capacità percettiva e la vita di relazione degli individui, porta
ad avere in un individuo adulto un cervello che ragiona sicuramente in modo diverso
dal mio, non voglio dire migliore o peggiore, ma diverso dal mio. Io non lo concepisco
nemmeno di categorizzare due individui come “tu e la sorella di Beppe che ieri l’altro
è stata con te”, e chiamare per esempio tutto questo “U”.
Volevo dire allora che senza tirare in ballo i modelli probabilmente un grosso livello
di variabilità lo abbiamo già noi stessi.
Quindi esistono tanti apprendimenti e bisognerebbe non parlare di “apprendimento”
al singolare ma di “apprendimenti”. Infatti i bambini imparano le stesse cose con
strategie assolutamente diverse, ciascuno ha la sua strategia di apprendimento.
Altra domanda
Allora la scuola banalizza?
Yuri Bozzi
Secondo me no, molti insegnanti sì, probabilmente. Voi che siete qui sicuramente non
banalizzate, non credo proprio, a questo rispondo, da studente che sono stato,
effettivamente molti insegnanti banalizzano.
Altro intervento
Se a una certa domanda pretendiamo da tutti gli studenti la stessa risposta,
banalizziamo?
Noi diamo delle categorie e ciò non significa necessariamente banalizzare, e questo
lo facciamo anche senza essere insegnanti, nelle scelte che una persona fa nella
propria vita, nei rapporti sociali che ha, le amicizie che ha.
Yuri Bozzi
La scuola, da come me la ricordo io, può essere un grosso punto negativo perché
incanala male le coscienze; di un ragazzo non si coglie il lato positivo fra le tante
stramberie che ha, e lo si perde, magari un ragazzo strambo che però ha un
grandissimo talento musicale e non è detto che l’insegnante se ne accorga. Il rischio
della banalizzazione c’è e ce n’è molto anche all’università.
Io ho un mia interpretazione sul discorso della banalizzazione: l’insegnante, a
qualunque livello lavori, ha potere. Questo l’ho visto molto bene nei professori
universitari, nel qual caso si tratta anche di potere politico, se uno fa male il suo lavoro
e si fa prendere da questo, è ovvio, è semplice incanalare gli studenti in un binario,
perché se li fai rispondere come vuoi tu, da lì non ti toglie nessuno, se invece li aiuti
a ragionare non è detto. Comunque non tutti i sistemi educativi sono così, il sistema
anglosassone è molto più aperto. Nel sistema universitario c’è un aspetto che mi ha
sempre sconvolto quando ero studente quando tutti mi prendevano in giro perché
studiavo, se facevo domande dicevano che ero un secchione, è il fatto che gli studenti
non fanno domande, mentre il docente si propone come quello che tiene la verità in
mano e quindi esercita un potere.
111
Basi biologiche dell’attrazione
A LESSANDRO C ELLERINO
Il titolo originale della relazione che avevo mandato era Evoluzione della sessualità, ma ciò
di cui vi parlerò oggi, a parte una brevissima introduzione, è l’evoluzione del viso
umano in relazione alla scelta sessuale.
L’unica cosa che dirò rapidamente sull’evoluzione della sessualità è che, per quanto
possa sembrare strano, il sesso, così come l’invecchiamento, rappresentano i due grossi
problemi aperti della biologia. Questo perché, come tutti noi ben sappiamo, il sesso
non è l’unico modo per riprodursi, ma anzi, la partenogenesi è un metodo altrettanto
valido ed efficiente per propagare i propri geni, quindi in un’ottica di biologia
evoluzionistica moderna in cui ogni strategia comportamentale è il risultato di un punto
di bilancio tra costi e benefici, è a tutt’oggi difficile spiegare come mai un organismo,
in modo particolare una femmina, decida di entrare in società con un maschio e quindi
avere la proprietà solo del 50% dei geni della prole, piuttosto che riprodursi
partenogeneticamente e avere quindi la proprietà del 100% dei geni della prole. In altre
parole, il meccanismo di riproduzione sessuale può evolvere solo ed esclusivamente
nella situazione in cui la sopravvivenza dei figli che si ottengono da una riproduzione
sessuale è più che doppia di quella dei figli che si ottengono per partenogenesi. Esistono
al momento due ipotesi che spiegano solo in parte questa cosa, la prima chiama in causa
la resistenza ai parassiti, questo perché a noi sembra molto strano e molto buffo, in
realtà il 95% della biologia evoluzionistica si occupa di resistenza dei parassiti, perché
generalmente è molto più probabile che un organismo muoia a causa di una malattia
che non perché predato. Basta solo pensare a come, fino alla scoperta della penicillina,
morire di polmonite era comunissimo, e stiamo parlando solo di 60 anni fa. Perché
il sesso è un’arma contro i parassiti? Perché i parassiti si evolvono a velocità molto più
rapida dell’ospite e che cosa fanno, qual è l’habitat di un parassita? L’habitat di un
parassita è il genotipo del suo ospite, quindi inevitabilmente i parassiti si adattano per
attaccare il genotipo più comune. Siccome ogni volta che due organismi si riproducono sessualmente, a causa della ricombinazione vengono sempre prodotti genotipi
nuovi, i genotipi nuovi e rari sono quelli più resistenti ai parassiti, anche se questo,
chiaramente, durerà solo una generazione perché poi di generazione in generazione i
parassiti si evolvono sempre, per attaccare il genotipo più comune. La riproduzione
sessuale permette quindi di creare genotipi rari che sono anche più resistenti all’attacco
dei parassiti.
L’altro modello è invece quello che chiama in causa l’azione sinergica di mutazioni
negative, ciò vuol dire che ogni organismo accumula mutazioni invalidanti e, nel caso
della riproduzione per partenogenesi, praticamente è impossibile che avvenga una
back mutation, cioè ogni organismo alla fine non fa altro che accumulare mutazioni
su mutazioni, invece nel caso della riproduzione sessuale parte dei figli avranno un
112
numero di mutazioni identico a quelle dei genitori, parte dei figli avranno più mutazioni
dei genitori, ma parte dei figli avranno meno mutazioni di entrambi i genitori, quindi
da questo punto di vista la riproduzione sessuale è un meccanismo che permette di
creare degli organismi che hanno un numero minore di mutazioni rispetto a entrambi
i genitori. Qual è il problema di questi due modelli? Entrambi sono modelli
matematici, che funzionano perfettamente all’interno di certe condizioni, se poi queste
condizioni si verifichino realmente in natura o no è un problema tuttora aperto. In
modo particolare, un parametro fondamentale per vedere se il modello è predittivo
o no di quello che succede nel mondo reale, è sapere qual è il numero di mutazioni per
genoma per generazione. La biologia molecolare ancora non ci sa dire per ognuno di
noi nel corso della propria vita quante mutazioni accumula, quindi in mancanza di
questa informazione non è possibile dire se questo modello, che teoricamente funziona
molto bene, è realmente descrittivo del mondo nel quale viviamo.
Detto questo da qui in poi io mi occuperò esclusivamente di facce e di come la
preferenza per certi tipi di tratti facciali può aver poi scolpito l’evoluzione della specie
umana.
Allora, cominciamo facendo una piccola carrellata sulla storia naturale delle facce.
Nella figura sono rappresenate alcune facce di primati. Ognuna di queste cinque specie
possiede sulla sua faccia dei tratti che sono esclusivi di quella specie, ad es. le due
produzioni alari del maschio di orango esistono solo nel maschio di orango, la faccia
bianca e nera della velvet monkey Cercopythecus aethiops, esiste solo in questo, il maschio
di mandrillo è l’unica scimmia ad avere il muso colorato in quel modo, il Sanguinus che
è quella scimmia bianca e nera con questi baffoni bianchi, è l’unica scimmia con faccia
nera e baffoni bianchi. Nel caso della nostra specie esistono almeno tre segnali che noi
portiamo sulle nostre facce e che sono esclusivi della specie umana: le labbra everse,
che non esistono in nessuna altra specie di primati, la sclera bianca, che non esiste in
113
nessuna altra specie di primati perché tutti gli altri primati hanno la sclera nera, e la barba
nei maschi della nostra specie. Questi sono solo alcuni dei segnali che il viso umano
presenta. Adesso, il fatto che questo tipo di segnali vari enormemente da una specie
all’altra mentre poi alla fine della storia la maggior parte delle scimmie con la faccia
devono fare la stessa cosa, cioè respirare mangiare guardare ascoltare annusare,
dimostra come questo tipo di segnali non abbia alcun significato funzionale. Ad
esempio io posso tagliarmi la barba e questo non ha alcuna conseguenza sulla mia
fitness, non è che muoio perché mi taglio la barba, quindi evidentemente la forza
evolutiva che è alla base della comparsa di questo tipo di tratti fenotipici non è una
selezione naturale di tipo darwiniano, ma deve essere identificata come una forza
selettiva di comunicazione tra individui della stessa specie. Incidentalmente, se noi ci
pensiamo, le caratteristiche più tipicamente umane, specifiche della specie umana, cioè
le sopracciglia, il bianco della sclera, le labbra everse, sono anche quelle che noi usiamo
in maniera predominante nella espressione emotiva, quindi non solo abbiamo dei tratti
specie specifici sul nostro viso, ma sono anche quelli che usiamo preferenzialmente per
trasmettere le nostre emozioni, a maggior dimostrazione di quanto la forza evolutiva
che è dietro la comparsa di questi tratti fisici è un’esigenza di segnalazione a individui
della stessa specie e non un’esigenza di tipo meramente fisiologico. Si vede che le facce
sono di fatto non un segnale ma una collezione di vari segnali che sono fondamentali
per leggere una serie di variabili biologiche fondamentali, questi sono l’identità, il sesso
della persona, la sua età, il suo grado di parentela con altri e gli stati interni, cioè ciò che
noi chiamiamo emozioni: questi sono tutti segnali che vengono pubblicizzati in
maniera visibile e facilmente percepibile da altri membri della nostra specie sulla nostra
faccia. Nel caso particolare delle espressioni facciali, molto lavoro è stato fatto per
dimostrare che le espressioni facciali sono segnali automatici e innati dei nostri stati
interni. La prima persona a portare avanti questa ipotesi con la dovizia di documentazione che gli era propria è stato proprio Charles Darwin, che scrisse il famoso libro
Le espressioni facciali nell’uomo e negli animali ed è stata poi ripresa in tempi più moderni
soprattutto da Paul Eckmann che ha legato tutta la sua storia scientifica allo studio delle
emozioni. Paul Eckmann mostrò delle
foto alle popolazioni dell’altopiano dell’Iranyaia in Indonesia che si trova al di là di
montagne quasi invalicabili (la scoperta
dell’esistenza di popolazioni umane nell’altopiano dell’Iranyaia è stata fatta all’inizio
del 1920) e quando, negli anni Settanta
andò sull’altopiano, quella poteva essere
considerata una popolazione che aveva
avuto il minimo contatto con gli occidentali, ciononostante anche gli indigeni dell’altopiano dell’ Iranyaia erano perfettamente
in grado di dire quali erano le sei emozioni
che venivano espresse su quel viso. Per
114
contro, quando Paul Eckmann filmò quegli indigeni e poi fece vedere a degli
occidentali le loro espressioni, gli occidentali non ebbero nessun problema a riconoscere su di loro queste sei espressioni. Infine, l’esperimento fondamentale fatto da Paul
Eckmann fu quello di assoldare degli attori ai quali faceva mimare queste espressioni
facciali senza dare però delle indicazioni esplicite, cioè non diceva: sorridi, diceva:
solleva il lato sinistro della bocca, solleva il lato destro della bocca, alza il sopracciglio
sinistro, alza il sopracciglio destro, cioè li costringeva ad utilizzare la muscolatura
facciale che esprime una certa emozione senza dire esplicitamente: esprimi questa
emozione. Poi, facendo delle misure poligrafiche, quindi misurando fondamentalmente l’attività elettrodermica, quella che viene misurata dalla famosa macchina della
verità, riuscì a dimostrare che costringendo delle persone ad avere un certo tipo di
espressione facciale, le loro variazioni neurovegetative erano consistenti con quello che
quell’espressione facciale esprimeva, in altre parole, se costringeva un attore ad avere
un’espressione sorridente o una triste, le variazioni del battito cardiaco, della respirazione, della pressione sanguigna nell’attività elettrodermica, erano consistenti con
queste due emozioni. Quindi questo ha portato all’ipotesi in base alla quale le nostre
espressioni facciali altro non sono che la espressione pubblica di quello che è un nostro
stato interno emotivo, e sono di fatto automatiche tant’è vero che noi dobbiamo
imparare a reprimerle, non dobbiamo imparare ad esprimerle. Quindi, almeno le
espressioni facciali sono indubbiamente un segnale, che noi mandiamo all’esterno, di
importanti variabili biologiche nostre, che però sono “variabili” nel tempo.
Un pensiero che invece si è molto diffuso nella biologia evoluzionistica contemporanea è che le facce siano non solo un’espressione, un segnale esterno del nostro stato
neurovegetativo, ma siano anche
un’espressione dei nostri geni. A chiunque abbia dubbi su questa mia affermazione basta che guardi la foto di
due gemelli che si chiamano non per
niente gemelli identici, come, ad esempio queste due ragazze che, all’occhio
non allenato sembrano assolutamente indistinguibili e questo dimostra
quanto preponderante sia la componente genetica nello sviluppo dei nostri tratti facciali. Ciò significa che
selezionando un tratto facciale rispetto ad un altro io di fatto sto selezionando alcuni
geni rispetto ad altri.
Già negli anni Settanta e poi in maniera preponderante quando è entrata in campo la
possibilità di fare brain imaging, quindi di studiare l’attività del cervello nelle persone
viventi al lavoro, diversi studiosi hanno deciso di vedere come le facce vengono
rappresentate nel nostro cervello; essendo appunto le facce uno stimolo ecologicamente estremamente rilevante, era lecito supporre che alcune zone del cervello umano
fossero particolarmente dedicate all’analisi delle facce rispetto ad altri compiti
115
cognitivi. Questi studi cominciarono verso la metà degli anni Settanta, quando un
signore di nome Ian Perret ebbe la folle idea di registrare dal cervello della scimmia
mentre le faceva vedere delle facce e scoprì che nel lobo temporale inferiore della
scimmia si possono incontrare dei neuroni che rispondono in maniera preferenziale
alla presentazione di facce, non alla presentazione di altri stimoli complessi, e che non
solo rispondono a stimoli naturalistici ma addirittura a uno schemino, a uno
scarabocchio che assomiglia ad una faccia. Questa fu la prima dimostrazione molto
importante dell’esistenza di regioni nel cervello umano che specificamente rispondono
quando il soggetto vede una faccia. Studi successivi hanno identificato una regione
cerebrale, il giro fusiforme, che effettivamente risponde in maniera preponderante alla
presentazione di facce rispetto ad altri stimoli e, ciò che è più importante, lesioni del
giro fusiforme portano a una sindrome molto particolare, che si chiama prosopagnosia, per cui i soggetti non sono più in grado di riconoscere le persone e nemmeno loro
stessi guardando la faccia, cioè non si riconoscono allo specchio né riconoscono i loro
familiari, mentre sono perfettamente in grado di riconoscere le persone in base alla
voce, all’odore e addirittura al modo in cui camminano, però non sono più in grado
di analizzare le facce.
Altri studi, sempre di neuroscienze cognitive, hanno individuato un’altra regione nel
cervello umano, l’amigdala, che è specificamente legata al riconoscimento dell’espressione di paura, per cui i soggetti con lesione dell’amigdala riconoscono tutte le
espressioni facciali tranne la paura, non solo, quello che è più importante, non hanno
paura loro, cioè non solo non riconoscono la paura negli altri ma non provano essi
stessi paura in situazioni che altrimenti sarebbero ansiogene.
Infine, come è stato dimostrato molto elegantemente in Italia dal gruppo di Rizzolatti,
questo succede perché, quando noi vediamo in un altro un’espressione facciale, quello
che succede nel nostro cervello è attivare le stesse aree cerebrali che si attivano quando
noi stessi proviamo questa emozione, questo è il concetto molto importante di mirror
neurons (neuroni specchio) che ha proposto Rizzolatti cioè esistono dei neuroni che si
attivano sia quando uno compie un gesto sia quando vede un’altra persona compiere
lo stesso gesto. L’esperimento che è stato fatto in questo caso è stato quello di far
annusare un odore disgustoso a delle persone oppure mostrare a loro il film di
qualcuno che stava facendo la stessa cosa e in entrambe le condizioni si attivavano le
stesse aree cerebrali. Quindi nel caso dello studio delle emozioni facciali, noi non solo
stiamo portando all’esterno quello che è un nostro stato interno, ma questo nostro
portare all’esterno un nostro stato interno induce nella persona che è di fronte a noi
un’attivazione delle stesse regioni cerebrali che si attiverebbero se stesse vivendo questo
stato interno. Sono state anche identificate delle regioni cerebrali che sono specificamente attivate quando le persone vedono dei visi attraenti o, per contro, quando
vedono dei visi sgradevoli.
Noi abbiamo fatto una serie di studi in cui fondamentalmente ciò di cui ci siamo
occupati è la relazione tra variazione geometrica dei visi e percezione che le persone
hanno di questi visi. La prima cosa che ci siamo chiesti è stata quali fossero le
componenti della geometria facciale che ci fanno decidere se un viso è di uomo o di
116
donna, questo perché il sesso, abbiamo visto, ha due qualità interessanti: la prima è che
è una variabile dicotomica contrariamente all’identità, e la seconda è che ha un’estrema
validità ecologica per cui è ragionevole supporre che il cervello umano sia estremamente abile nel riconoscere il sesso dei visi, e questo è anche ciò che viene visto in
laboratorio. Cioè, anche se mostro delle foto che sono in vario modo schermate,
generalmente i soggetti hanno un’accuratezza del 96% nel giudicare il sesso delle
persone, anche se magari faccio vedere solo gli occhi, oppure se faccio vedere il viso
mostrando solo una parte del viso eliminando completamente i capelli e l’angolo della
mascella. Dunque noi abbiamo creato dei visi medi, cioè abbiamo preso foto di
persone reali, abbiamo prima di tutto calcolato la geometria media di questi visi reali,
abbiamo deformato le mappe colore dei visi reali secondo la geometria media -noi
lo chiamiamo secondo step normalizzazione in forma- dopodiché li abbiamo
sovrapposti l’uno sull’altro. In questo modo si può creare un viso medio, in A in realtà
un viso mediato maschile, in C un viso mediato femminile, in B la sovrapposizione dei
due che è un viso androgino. Dopodiché abbiamo preso delle foto di persone reali,
abbiamo spalmato addosso questa mappa-colore androgina, e a questo punto
abbiamo creato una classe di stimoli che sono rappresentativi della variazione
geometrica naturale delle facce e che sono omogenei per colore, quindi qualunque tipo
di giudizio che le persone danno su questi visi può essere mediato solo dalla variazione
di forma. Questo, perché? Negli ultimi anni è stata sviluppata una teoria matematica
potente per analizzare variazioni complesse di forma, siamo invece molto lontani
dall’avere alcun tipo di supporto matematico statistico per studiare variazioni in quella
che si chiama texture, quindi, siccome una delle due variabili non la potevamo studiare,
l’abbiamo eliminata. Abbiamo poi reclutato un centinaio di persone, 50 uomini e 50
donne, a cui abbiamo fatto vedere tutti questi visi in sequenza random sullo schermo
di un computer e dovevano semplicemente dire se secondo loro erano un uomo o
una donna. Il rapporto tra il numero di volte che dicevano uomo rispetto al numero
totale di presentazioni veniva preso da noi come un indice di mascolinità percettiva,
cioè quante più volte un viso veniva considerato maschile, tanto più il viso era maschile.
Nella figura 0,1 corrisponde ad un viso che solo nel 10 % delle volte è stato considerato
117
un viso di uomo, mentre il valore 1 corrisponde a un viso che nel 100% delle volte è
stato considerato di uomo. Per circa la metà dei visi maschili, nonostante che noi
mettiamo una texture androgina, il 100% delle volte vengono considerati ugualmente
come visi di uomo.
In generale le persone sono abbastanza brave a discriminare anche quando si elimina
la variabile colore, esiste però una certa sovrapposizione, ci sono cioè quei visi, tra 0,5
e 0,9 e che dunque vengono considerati visi di uomo dal 50% fino al 90%, che
statisticamente possono essere visi di uomini o di donne, esiste cioè una zona grigia in
cui le persone non sono in grado di essere particolarmente efficienti nel distinguere un
viso di uomo da un viso di donna, il che ci fa comodo perché vuol dire che quella è
precisamente la zona dove noi possiamo andare a studiare.
A questo punto, mentre studiare la percezione delle persone è abbastanza facile, è
molto più complicato studiare la geometria di oggetti così complessi come le facce.
Quello che abbiamo fatto noi è stato ridurre la geometria a uno scheletro che abbiamo
giudicato essere ragionevolmente rappresentativo e allo stesso tempo abbastanza
semplice, quindi abbiamo identificato una serie di punti non equivoci sul profilo, che
sono ad esempio il punto più sporgente, meno sporgente, più sporgente, meno
sporgente e così via che quindi potevano essere estratti in maniera automatica, e
abbiamo descritto la geometria dei volti maschili e femminili in base alla posizione di
questi punti. Poi abbiamo fatto un paio di manipolazioni molto semplici che sono lo
scalarli in modo che abbiano tutti la stessa area e ruotarli in modo che siano il più vicino
possibile l’uno all’altro, e il risultato è quello che voi vedete in B: in nero sono i visi di
donna, in grigio i visi di uomo, questo è lo scatter dei punti reali che abbiamo preso.
La cosa che vi voglio far vedere, e che è fondamentale, è quanto piccola sia la distanza
tra queste distribuzioni di punti e ciononostante quanto forte sia l’effetto sulla nostra
percezione. Però la cosa importante è questa: sono riportate le due medie maschile
118
e femminile, vediamo quanto siano veramente simili
l’una all’altra. Quello che noi
abbiamo fatto, utilizzando
“un’analisi discriminante” è
stato di far fare al computer
un semplice modello lineare, che aveva scritta una funzione lineare della posizione di tutti quei punti e, in
base a questo banale modello, è possibile discriminare perfettamente il volto
maschile dal volto femminile. E quello che apparentemente può sembrare stupefacente di fatto non lo è
perché nella figura B: i due
gruppi di punti, quello grigio e quello nero praticamente non si sovrappongono. Quindi, dopo che
abbiamo scalato e messo in registro visi di uomini e visi di donne, ci sono alcuni punti
geometrici che sono praticamente diagnostici del sesso di una persona, cioè facendo
una combinazione lineare della posizione di questi pochi punti, i punti grigi e neri non
si sovrappongono anzi facendo una semplice funzione lineare di soli tre punti si
discriminano perfettamente i visi maschili dai visi femminili.
Questo ci dice anche un’altra cosa, cioè che l’informazione statistica ci permette di
discriminare perfettamente i visi di uomini dai visi di donne sulla base di questa
informazione, confrontando la figura D con quella che invece è la performance che
hanno le persone. Cioè gli osservatori reali fanno un uso molto poco efficiente della
reale informazione statistica che è presente.
A questo punto la cosa diventa ancora più complessa, ci siamo chiesti che cosa usiamo
noi realmente per decidere se un viso è di uomo o di donna, per fare questo abbiamo
utilizzato il modello del thin plate spline, molto utilizzato in fisica matematica: è la
deformazione di una piastra metallica che si suppone infinitamente grande e infinitamente sottile. Quindi, se metto tutti i punti corrispondenti al viso medio su questa
piastra metallica e poi li sposto, posso studiare come tutto il resto della piastra metallica
segue questo spostamento. La cosa interessante è che posso differenziare due tipi di
trasformazioni, dal viso femminile a quello maschile, in questo caso il viso femminile
sarebbe una griglia tutta perpendicolare, se la trasformo nel viso maschile la griglia
viene deformata in un modo, nell’altro caso è l’inverso, dal viso maschile a quello
femminile. Per prima cosa si separano due componenti, quella che si chiama affine
119
dalla non affine, dove una componente affine altro non è che una rotazione del piano,
che non comporta nessuna deformazione, si vede che effettivamente questa componente di trasformazione dal viso maschile al femminile sia imponente ed è statisticamente molto significativa. Però non è una cosa che utilizziamo nella nostra percezione,
assolutamente, cioè, nonostante questa componente sia statisticamente predittiva del
sesso di un volto, io posso prendere i visi e girarli e per le persone se prima era un viso
di uomo diventa un viso di donna e viceversa. Invece, la componente non affine è una
reale deformazione della griglia.
A questo punto noi siamo andati a
vedere dove realmente si deforma la
griglia quando trasformiamo un viso
di uomo in un viso di donna e viceversa, ma soprattutto qual è la differenza
tra un viso geometricamente maschile
e un viso invece percettivamente maschile. Allora, in un caso abbiamo fatto
la media geometrica di tutti i visi, nell’altro caso abbiamo fatto la media
geometrica pesata per quello che è il
valore di mascolinità percettiva, quindi
i visi percettivamente più maschili nella
media pesavano di più, e quelli percettivamente meno maschili pesavano di
meno. Questa è la differenza tra i due,
dove bianco e nero rappresentano dif120
ferenze positive e negative: si vede che le zone fondamentali sono l’occhio, la bocca,
il mento e un punto della mascella, cioè sono le zone che percettivamente vengono
iper-rappresentate, che percettivamente hanno più peso di quello che dovrebbero
avere statisticamente, in altre parole queste sono le zone che noi andiamo a scansionare
quando guardiamo un viso.
Per fare la cosa in maniera ancora più precisa abbiamo preso queste griglie di
deformazione, relative a ognuno dei visi reali e li abbiamo decomposti nelle
deformazioni principali, che sono, se vogliamo, come le armoniche di un suono, cioè
come io posso separare un suono complesso in una serie di armoniche, così posso
separare una deformazione complessa in una serie di deformazioni più semplici che
si formano linearmente. In altre parole, un suono lo descrivo come la somma di tante
note, una forma la descrivo come la somma di tante forme semplici, quindi, in modo
particolare, questo viso è uguale alla trasformazione affine più queste altre deformazioni, quindi possiamo andare a vedere quale tra queste è più predittiva del sesso reale
dei volti e quale di queste è più predittiva della nostra percezione. E’ un po’ come
prendere un suono e vedere tra tutte le armoniche quali sono quelle che realmente
portano informazione.
E’ venuto fuori che queste variazioni di forma, sono quelle che dal punto di vista
statistico sono più predittive del sesso di un volto, le altre sono quelle più predittive
della percezione delle persone; la differenza fondamentale che voglio mostrare è
questa: queste sono tutte deformazioni “morbide”, in gergo tecnico si dice che hanno
una bassa energia di ripiegamento, sono tutte deformazioni molto localizzate, cioè in
gergo tecnico si dice cha hanno un’alta energia di ripiegamento, tutto il resto della griglia
rimane uguale e solo in un punto la griglia comincia a torcersi. I punti che vediamo
avere la massima correlazione con la percezione delle persone sono l’occhio, il mento,
la bocca e la posizione dell’angolo della mascella.
Ma alla fine che cosa ci dice tutto questo? Ci dice una cosa abbastanza interessante e
cioè che queste differenze sono, come vedremo anche più avanti, 1) le differenze tra
il sapiens e il neanderthal, 2) queste caratteristiche cioè che il neanderthal ha la mascella
rotonda ed è completamente privo di mento, e ha l’arcata sopraccigliare estremamente
alta rispetto al sapiens. Se vado a studiare i fossili di 50.000 anni fa, tipo Cro-Magnon o
i fossili asiatici, vedo che tutte queste caratteristiche fisiche, il mento, la mascella
angolata, la bassa arcata sopraccigliare sono già presenti, quindi vuol dire che i segnali
che noi estraiamo da questo tipo di analisi sono anche quelli che per primi si sono
evoluti nella specie umana, quindi non stiamo guardando qualche tipo di strano
artefatto, stiamo proprio guardando delle caratteristiche geometriche la cui comparsa
è coincidente con la comparsa della specie umana in quanto tale.
Abbiamo usato gli stessi metodi per studiare non solo le caratteristiche geometriche
associate con la decisione sul sesso di un volto, ma anche quelle associate con la
decisione della bellezza di un volto, con l’idea che, appunto, anche la bellezza ha un
significato biologico, siccome le persone più belle si suppone teoricamente che
abbiano avuto maggiori opportunità di riprodursi e che quindi selezionare un certo
tipo di tratti rispetto ad altri ha effettivamente poi fatto evolvere il viso della nostra
121
specie. Dunque, esistono una serie di studi che dimostrano come almeno parte dei
nostri giudizi sulla bellezza dei volti siano, se non innati, abbastanza invarianti. Il primo
e tuttora più valido è lo studio fatto in bambini di 9 mesi che ha dimostrato come già
a quella età guardano più a lungo i visi che anche gli adulti giudicano più attraenti.
Un’altra evidenza che abbiamo confermato anche noi è che se faccio vedere a delle
persone dei visi che non conoscono, e questo è importante, la correlazione tra il
giudizio che danno sullo stesso viso è elevatissima, è circa intorno al 90%, questo valore
dell’alfa di Crombach che appunto misura quanto affidabile è il giudizio che diversi
osservatori danno sullo stesso fenomeno. Inoltre, alcune caratteristiche che sono
associate con l’attrazione dei volti, ad esempio la simmetria, sono conservate tra culture
diverse, infatti agli europei, agli africani, ai giapponesi piacciono volti simmetrici ed è
stato isolato un locus neuropsicologico, cioè un locus cerebrale associato con la
percezione dei visi attraenti ed infine che, in maniera transculturale è stato osservato che
le donne vanno incontro a uno shift, a un cambiamento delle loro preferenze in
corrispondenza dell’ovulazione, quindi esiste un’influenza neuroendocrina sulla
percezione.
Allora, quali sono le caratteristiche che sono state generalmente associate con la
bellezza? La prima è la media, questo volto al centro è la media dei quattro volti sui
lati e credo che siate tutti d’accordo nel dire che questo volto è più attraente dei quattro
volti che lo compongono. Questo è un risultato molto robusto, è stato fatto vedere
un numero incredibile di volte, anche se ci sono dei problemi tecnici dovuti al fatto
che, nel momento in cui io sovrappongo la pelle di molte persone è come se ci mettessi
il cerone quindi parte di questo effetto è dovuto al fatto che la texture della pelle di
questi visi medi è particolarmente bella, però come vedremo esiste anche una certa
influenza della media dal punto di vista geometrico sulla bellezza.
122
Il secondo risultato, sul quale esiste un totale accordo, nel senso che chiunque ha
ripetuto lo stesso esperimento ha ottenuto lo stesso risultato, è che, se prendo un viso
Iperfemmina
Volto medio
medio e lo rendo più femminile esaltando le caratteristiche geometriche tipiche delle
donne, cioè aumento il dimorfismo sessuale, ottengo un viso che viene giudicato più
femminile. Noi abbiamo voluto vedere quanto questi due modelli erano validi, non
in visi creati al computer ma in visi reali, quindi invece di muoverci in un ipotetico spazio
delle facce secondo delle direzioni predeterminate, abbiamo voluto vedere che cosa
succede se noi andiamo ad esplorare la naturale variazione di geometria dei volti, e non
ci concentriamo esclusivamente su quell’asse di variazione di forma che è quello che
passa tra i visi maschili e i visi femminili. Le tecniche sono quelle appena viste, cioè
abbiamo creato questi visi che cambiavano solo per forma ma non per colore, poi
diverse persone dovevano giudicare questi visi e dire, su un scala da 1 a 5, quanto li
giudicavano attraenti. A questo punto potevamo misurare la distanza di questi visi dal
viso medio femminile, semplicemente sommando la distanza di tutti i punti dai punti
del viso medio. Emerge così una correlazione statisticamente significativa tra il rating
(giudizio posto in ordinata) , dove 1 è il minimo e 5 è il massimo, e la distanza dal viso
medio (in ascisse). Man mano che ci spostiamo verso destra, il viso è sempre meno
medio: e la valutazione positiva (rating) diminuisce; dunque c’è una correlazione tra
distanza dal viso medio e attrazione, quindi noi abbiamo potuto effettivamente
confermare che i visi più vicini al viso medio vengono giudicati più attraenti.
Abbiamo anche correlato il giudizio di attrazione di questi visi con quell’indice di cui
ho parlato prima, che è l’indice di mascolinità, quindi in un asse, ancora, c’è il giudizio,
inell’altro c’è quanto un viso viene giudicato maschile, e vedete che c’è una bella
correlazione negativa, cioè quanto più un viso è facilmente riconosciuto come
femminile, tanto più è anche considerato attraente. Però questo non spiega tutto,
dunque, questo è il viso femminile, la trasformazione dal viso medio al viso femminile,
123
Effetti del sesso geometrico sull’attrazione
questo è quello che noi chiamiamo l’attractive shape cioè un viso medio in cui il giudizio
di attrazione è utilizzato come peso statistico, ovvero, mentre qua per calcolare la
posizione di questi punti sommiamo la posizione dei punti di tutti i visi e dividiamo
per il numero dei visi, in questo caso ognuno dei visi viene moltiplicato per quel valore
da 1 a 5 e quindi i visi più attraenti pesano di più nella media. Questa è la differenza
tra i due e si vede che mentre nella regione del viso attorno agli occhi, praticamente
non esiste differenza tra un viso femminile ed uno maschile, la differenza nelle altre
zone è abbastanza marcata. Questo abbiamo potuto dimostrarlo anche in un altro
modo, cioè siamo andati di nuovo a scomporre la variazione in tutte le deformazioni
principali e abbiamo cercato quali di queste erano massimamente correlate con il
giudizio, ne abbiamo estratta una, correla molto bene con il giudizio delle persone ma,
cosa importante, questa deformazione principale non distingue visi maschili da visi
femminili; questa è la distribuzione dei valori di questa funzione tra visi maschili e visi
femminili e vedete che sono praticamente completamente sovrapposti.
124
Alla fine dunque abbiamo dimostrato, nei visi reali, che quelle due componenti che
erano state già suggerite da altri, cioè la media e la femminilità sono effettivamente
associate con la bellezza del viso, ma esistono anche alcune componenti di forma che
non sono associate con il dimorfismo sessuale e ciononostante sono altamente
predittive del giudizio che le persone danno su questi visi.
A questo punto la domanda è: che cos’è dunque che ha generato il dimorfismo sessuale
del volto umano? Se non è semplicemente l’attrazione, che cosa è stato che ha generato
il dimorfismo sessuale del volto umano?
Bisogna a questo punto fare una piccola digressione sul processo di selezione sessuale:
è un processo che è stato originariamente, tanto per cambiare, ipotizzato dallo stesso
Darwin ed è quello che porta all’evoluzione di tratti fenotipici o, per quel che ci può
interessare, anche comportamentali che non hanno alcuna funzione nell’aumentare la
sopravvivenza di un individuo ma l’hanno nell’aumentare la sua riproduzione. Quindi
l’evoluzione di questi sexual ornament, ornamenti sessuali, esempio classico la coda del
pavone, è il risultato di due processi concatenati, la presenza del tratto in uno dei due
sessi e la preferenza per quel tratto in un altro dei due sessi. Si può dimostrare che se
esiste un linked genetico che in termini matematici vuol dire una covarianza tra
l’espressione di un tratto in uno dei due sessi e la preferenza per quel tratto nell’altro
sesso, in altre parole, se le figlie dei pavoni con una coda grande ereditano la preferenza
per la coda grande, allora si scatena un meccanismo di feedback positivo che porta
all’evoluzione del tratto e, quello che è importante, senza che questo tratto abbia alcun
valore di sopravvivenza. Cioè questo tipo di fenomeno porta all’evoluzione di tratti
che sono assolutamente neutrali per quanto riguarda la sopravvivenza e che hanno il
loro pay-back, il loro controvalore, esclusivamente nel fatto che se una femmina decide
di accoppiarsi con un maschio che possiede l’ornamento, i suoi figli maschi possiede125
ranno anche loro l’ornamento e quindi il vantaggio per la femmina è nel maggiore
successo riproduttivo dei suoi figli maschi. Tutto questo nel caso che l’ornamento sia
portato dai maschi e ovviamente l’opposto nel caso che l’ornamento sia presentato
dalle femmine. Un caso particolare di selezione sessuale è quella che si chiama
evoluzione sessuale divergente per cui, quando due specie strettamente correlate
vivono in simpatria, cioè
nella stessa regione,
molto spesso evolvono alcuni segnali che
sono divergenti, possono essere divergenti visivamente, ad es. una
Un famoso esempio: Lake Victoria (Seehausen et al. SCIENCE, 1997) diventa bianca e l’altra
nera, una a strisce e l’altra a pallini, una stretta e una lunga, oppure possono avere canti
diversi, oppure odori diversi, comunque evolvono dei tratti fenotipici che non hanno
nessun significato funzionale, che sono divergenti e che divergendo nel corso
dell’evoluzione, portano alla nascita di due specie da una singola. L’esempio classico
è l’evoluzione dei Ciclidi del lago Vittoria, e il caso più studiato è quello di due pesci.
Tra l’altro sono estinti in natura ed esistono ormai solo come animali d’acquario, che
vivono nella stessa isoletta del lago Vittoria, quelli rappresentati sono i maschi, le
femmine sono assolutamente indistinguibili, i maschi di una specie sono rossi, e quelli
di un’altra sono blu e il rosso e il blu sono i due estremi dello spettro. Ora, se queste
due specie sono tenute in cattività,
non danno luogo a ibridi ma, nel
caso in cui vengano tenuti in acquari
con una luce monocromatica, si
ibridano tra di loro e gli ibridi sono
fertili indefinitamente, in altre parole, l’unico meccanismo che mantiene separate queste due specie, è
un meccanismo di tipo di scelta
sessuale. Un esperimento naturale
che ha dimostrato che ciò è vero è
il fatto che nel lago Vittoria, che
negli ultimi 20 anni è andato incontro a una fortissima eutrofizzazione, esiste una correlazione negativa
molto precisa tra biodiversità e
torbidità dell’acqua, ovvero, in zone
del lago che hanno ancora acqua
limpida ci sono molte diverse speModellizzazione della selezione sessuale disgregativa cie di Ciclidi, in zone del lago più
torbide invece il numero di pesci è
(Higashi et al. NATURE, 1999)
126
lo stesso ma il numero di specie si riduce sempre di più, cioè se viene impedito a questi
pesci di riconoscersi questi si ibridano tra di loro. Che questo meccanismo realmente
può funzionare è stato dimostrato da svariati modelli matematici, e questo è il più
famoso ed infatti è stato anche pubblicato su NATURE: espressione del tratto nei maschi
e preferenza nelle femmine, ovviamente sotto determinate condizioni del modello, si
nota che nel corso delle generazioni il tratto sempre di più assume una distribuzione
bimodale, la preferenza nelle femmine allo stesso modo assume una distribuzione
bimodale. Quindi con questo modello, partendo da una sola specie, partendo da un
modello di selezione sessuale, senza nessun altro tipo di ipotesi tranne il fatto che questi
animali possono scegliersi tra di loro, si sviluppano due specie. Esistono svariati altri
esempi, uno molto carino è quello dei cavallucci di mare. Questi animali possono
variare moltissimo nelle dimensioni, e hanno l’interessante caratteristica di essere per
lo più monogami, inoltre, siccome è il maschio che incuba le uova nel marsupio, quindi
è il maschio che va incontro a gestazione, è il maschio che sceglie la femmina e non
viceversa. Allora si è visto che i maschi scelgono le femmine in base alle dimensioni,
maschi grandi preferiscono femmine grandi e maschi piccoli preferiscono femmine
piccole. E’ stata fatta la filogenesi molecolare di tutte le specie di cavallucci conosciute:
quella rappresentata in figura è la dimensione standard; ad es. in Florida, si trova
l’Hippocampus erectus dalla dimensione media di 12 cm, l’Hippocampus zosterae che ha una
dimensione media di 2,5 cm. Se però si va a fare la filogenesi molecolare, la specie più
vicina a erectus è zosterae non un’altra che magari ha le stesse dimensioni. Allo stesso
modo in Australia convivono Hippocampus breviceps e Hippocampus abdominalis, dove
Hippocampus abdominalis ha una dimensione media di 20 cm, breviceps di 3,6cm , però
la specie più vicina filogeneticamente ad abdominalis è proprio breviceps. Quindi nel caso
dei cavallucci di mare effettivamente un meccanismo di questo tipo per cui maschi di
una certa dimensione sceglievano preferenzialmente femmine della stessa dimensione,
ha fatto sì che da una singola specie si siano separate due specie che variano in maniera
estrema le dimensioni. Un esempio bellissimo che riguarda uno studio decennale fatto
dal gruppo di Ole Seehausen in collaborazione con Axel Meyer, che è uno dei più
Selezione sessuale disgregativa nei cavallucci di mare (Jones et al., PNAS, 2003)
127
grandi esperti di filogenesi molecolare dei pesci, ha studiato un enorme numero di
specie presunte tali nel lago Malawi. Da una parte è rappresentata la filogenesi molecolare,
e dall’altra l’aspetto fenotipico di questa specie: si vede che questi animali tendono ad essere
blu o gialli. La domanda adesso è: tutti quelli blu sono imparentati tra di loro e tutti quelli
gialli tra di loro? La risposta è: no, è vero assolutamente il contrario. Qua si vede che tra
gruppi di specie sorelle molto spesso ce n’è una blu e una gialla, cioè le specie sorelle tendono
ad essere più dissimili cromaticamente.
Speciazione simpatrica nel Lago Malawi (Seehausen et al. PNAS, 2003)
Torniamo dunque ora alla nostra specie e guardiamo di nuovo quelle caratteristiche
già esaminate: neanderthal non ha il mento, noi abbiamo il mento, la mandibola di
neanderthal è liscia, la nostra mandibola è angolata, l’orbita del neanderthal è molto aperta,
rispetto alla nostra che è molto più chiusa, il prognatismo alveolare, l’angolo formato
dai denti, che nel neanderthal è più tondo e nel nostro caso è più piatto.
Queste sono esattamente le caratteristiche fisiche che abbiamo visto essere maggiormente associate con la percezione del sesso di un volto.
Quindi facciamo l’ipotesi che durante l’evoluzione della specie umana i maschi con la
faccia più dissimile da quella neandertaliana siano stati preferiti.
Questa ipotesi ha due predizioni:
1 - che il dimorfismo sessuale di Homo sapiens deve ripercorrere in parte la differenza
tra sapiens e neanderthalensis, in altre parole che la geometria facciale degli uomini deve
128
essere più diversa dal neanderthal di quella delle donne, perché le donne sceglievano gli
uomini che erano più diversi dai neanderthal, quindi la pressione selettiva era più forte
negli uomini che nelle donne;
2 - se cambio la forma del viso umano lungo l’asse sapiens-neanderthal devo cambiare
la percezione del sesso di quel viso.
Dunque abbiamo utilizzato di nuovo le nostre griglie, in questo caso sui crani e non
sui volti, quindi questa è la trasformazione da sapiens a neanderthal e si può vedere che
accade quanto previsto: è più tondo, l’angolo della mascella viene in su, il mento
sparisce e si apre l’orbita.
H. neaderthaliensis e H. sapiens
E’ possibile operare la trasformazione inversa, da neanderthal a sapiens: si vede
comparire il mento, si appiattisce e si chiude l’orbita, è quanto i paleoantropologi
avevano descritto tante volte.
Si può trasformare un cranio maschile in femminile e viceversa: la trasformazione dal
cranio femminile al maschile è molto simile alla trasformazione dal neanderthal al sapiens:
si può vedere il cambiamento del prognatismo alveolare, la riduzione del mento,
oppure l’aumento del mento e la riduzione del prognatismo alveolare ecc.: in un caso
la griglia è concava, nell’altro convessa.
Per dimostrare che effettivamente la morfologia del cranio femminile è simile a quella
del neandertaliano abbiamo utilizzato appunto l’energia di ripiegamento. Si può
calcolare quanta energia ci vuole per trasformare l’uno nell’altro e viceversa utilizzando
il nostro modello della piastra metallica e il risultato è proprio quello che noi ci
aspettavamo, cioè che occorre più energia per trasformare il cranio maschile nel cranio
di neanderthal di quanta ne occorra per trasformare il cranio femminile nel cranio di
neanderthal.
Quindi la prima delle nostre due predizioni è vera, cioè la forma del viso femminile
è più vicina alla forma del cranio di neanderthal di quanto non lo sia il viso maschile.
129
Abbiamo poi fatto esperimenti
in cui rendevamo i visi più
simili o meno simili a quelli del
neanderthal prendendo dei punti
di riferimento sul profilo per i
quali esistono statistiche in
letteratura che ci dicono quanto
è spesso il pannello di tessuti
molli. Questo è il lavoro degli
antropologi fisici (Figura) che
non fanno altro che misurare
persone dalla mattina alla sera,
e che hanno dato misure
estremamente precise di quanto
siano spessi tutti questi pannelli
di tessuto in corrispondenza
dei punti di riferimento cranici
e quindi di dove noi dovevamo
piazzare i punti di riferimento
sul viso per rendere un viso
Morfometria geometrica sui crania umani
umano più o meno neanderthaliano. Abbiamo quindi preso il viso androgino, che in una direzione veniva
neanderthalizzato, nell’altra veniva deneanderthalizzato, poi abbiamo fatto il solito test, cioè
mostrato questi visi a molte persone e abbiamo misurato quante volte dicevano uomo
e quante donna: allora, è il viso medio femminile con texture androgina, e viene
giudicato donna circa nel 40% delle volte, passando poi al viso maschile con texture
androgina, questo è il viso androgino, sono cioè i tre punti di riferimento, e vedete
come neandertalizzando questo viso diminuisce la mascolinità percettiva,
deneandertalizzandolo aumenta la mascolinità percettiva.
Creare un continuum morfologico
Abbiamo fatto anche un’altra misura, cioè abbiamo misurato i tempi di reazione, ovvero
abbiamo valutato quanto tempo le persone mettevano nel rispondere uomo, e vedete
che i tempi di reazione diminuiscono man mano che il viso viene deneandertalizzato.
130
Queste sono due misure indipendenti che ci dicono che
movendoci lungo l’asse sapiens
neanderthal percepiamo il viso
come più femminile o più
maschile, quindi la seconda
conclusione è che aumentando la distanza di una faccia
umana mediata dal viso del
neanderthal si aumenta la sua
mascolinità percettiva.
Noi proponiamo dunque che
un meccanismo di selezione
sessuale divergente sia stata una
delle forze che hanno portato
all’evoluzione del viso umano.
Infine abbiamo fatto anche
qualche studio in quel campo
minato che è lo studio dell’attrazione dei visi maschili, perché in generale, mentre sono
tutti abbastanza d’accordo nel
Una faccia “iper-umana” è percepita come una faccia iper- dire che cosa è attraente in un
mascolina
viso femminile, non si trovano
due persone che siano d’accordo nel dire che cosa è attraente in un viso maschile. Di
nuovo abbiamo creato i nostri visi medi, un viso maschile femminilizzato, un viso
maschile mascolinizzato, il primo è ipomaschile, il secondo è ipermaschile. Abbiamo
dunque creato un film in cui si passava in maniera fluida dall’uno all’altro e abbiamo
chiesto al bel numero di 236 donne di dirci, lungo questo film, qual era il punto in cui
a loro sembrava di trovare il viso che giudicavano più fisicamente attraente. Il risultato
è stato questo: sulla valutazione del viso medio maschile ci sono due picchi di preferenza
abbastanza bilanciati tra di loro, cioè un 50% delle donne tende a preferire un viso
femminilizzato e l’altro 50% uno mascolinizzato. Il che può essere interpretato in due
modi che al momento non siamo in grado di distinguere, cioè o che esistono realmente
due prototipi oppure che il viso maschile “ideale” contiene alcuni tratti maschili e alcuni
tratti femminili per cui nessuno dei due è una buona approssimazione ma tutti e due
vanno più o meno bene e quindi le donne tendono a scegliere da un lato e dall’altro. E’
ancora in corso un altro esperimento (abbiamo purtroppo per ora soltanto 30 soggetti),
nel quale abbiamo studiato donne all’inizio del ciclo e poi al momento dell’ovulazione,
controllando il momento dell’ovulazione con i livelli di ormoni nelle urine, abbiamo
visto che, in fase follicolare precoce, il che vuol dire cinque giorni dopo l’inizio delle
mestruazioni che è il momento di minima probabilità di concepimento, tendono ad
essere da un lato, al momento dell’ovulazione tendono ad essere dall’altro.
131
Infine, un’altra cosa che
abbiamo visto è che se
invece di un viso mediterraneo, come quello che vi
ho mostrato ora, utilizziamo un viso biondo, ci sono
sempre due picchi di preferenza ma in quel caso
prevale la preferenza per il
viso femminile.
Concludo dicendo chi
sono le varie persone che
mi hanno aiutato in questo
studio:
- per la parte di neurofisiologia (che in realtà non
vi ho presentato) in cui
abbiamo studiato la risposta dell’elettroencefalogramma ai visi di uomini e
di donne, sono Davide
Borghetti e Ferdinando
Sartucci della Clinica Neurologica;
- il programma di morphing (che tra l’altro è open source, quindi se qualcuno di voi ci vuole
giocare se lo può scaricare dalla rete) è stato fatto da Andrea Mennucci della Scuola
Normale Superiore;
- la parte di morfometria geometrica è stata fatta con Dario Riccardo Valenzano,
dottorando della Scuola Normale Superiore e Giandonato Tartarelli che in realtà è un
antropologo ma fa il tecnico fotografico alla SNS ma che noi siamo riusciti a utilizzare
per fare ricerca e non per fare foto agli studenti.
Alessandro Cellerino
Istituto di Neuroscienze - CNR Pisa
132
Dibattito
Brunella Danesi
Noi la ringraziamo perché la relazione è stata estremamente stimolante e penso si
possa aprire un dibattito perché sulla selezione sessuale, come penso sappiate tutti,
ci sono ancora in corso grosse discussioni, infatti secondo molti scienziati per es. essa
potrebbe essere soltanto attinente ad animali che sono poligamici, mentre l’uomo
teoricamente in molti casi dovrebbe essere monogamico, o comunque tutti hanno
accesso alla riproduzione. Indipendentemente da quelle che volgarmente vengono
chiamate corna, mi risulta che tutte le femmine e tutti i maschi umani hanno accesso
alla riproduzione, quindi indipendentemente dal partner. E’ vero che quello che conta
è il numero di figli che riesce a fare, cosa che non è nemmeno del tutto vera perché
poi bisogna che campino: ecco, questa per me potrebbe essere una domanda, cioè
avete valutato il fatto che, tutto sommato, quasi tutti gli uomini e quasi tutti i maschi
hanno accesso alla riproduzione? E un’altra domanda: e gli omosessuali?
Alessandro Cellerino
Nel caso delle specie monogame rispetto a poligame, al di là del fatto che gli uomini
dovrebbero essere monogami e non è detto che lo siano, ci sono moltissimi studi fatti
negli uccelli, che pure dovrebbero essere monogami, e lì è entrata potentemente la
biologia molecolare nello studio etologico. Oggi è possibile in maniera semplice,
prendendo i pulcini all’interno di un nido, utilizzando il DNA microsatellite, vedere di chi
sono effettivamente figli. Si scopre che, se ad es. si prende un nido di rondini, il 10-20%
dei pulcini non sono figli del partner sociale, inoltre è stato fatto un bell’esperimento sulla
lunghezza della coda che è sessualmente dimorfica, per cui maschi hanno la coda più
lunga e questo è un parametro di scelta, cioè le femmine preferiscono i maschi con la
coda più lunga. Allora, sono state prese alcune povere rondini maschi, a cui è stata
tagliata un pezzettino di coda e appiccicato sulla coda di altre rondini, quindi si sono
create delle rondini “brutte” e delle rondini “belle” per l’occhio della rondine, e quando
si è andati a vedere nel nido delle rondini belle, tutti i pulcini erano figli del padre sociale,
mentre in quello delle rondini brutte il numero di figli “illegittimi” era molto più alto e vi
lascio indovinare chi era il padre di questi figli. Quindi nelle specie prevalentemente
monogame, la selezione sessuale può giocare un ruolo importante, ma anche nelle
specie esclusivamente monogame, infatti se c’è una correlazione fra il tratto che viene
selezionato e la fitness dell’individuo (il tratto è quello che si chiama un indicatore di
fitness) succede che, anche se si sceglie un solo partner, la scelta si vede nella seconda
generazione, cioè le femmine e i maschi che hanno saputo scegliere il partner migliore
avranno più figli che sopravvivono, quindi anche nelle specie monogame la selezione
sessuale gioca un ruolo a patto che in quel caso il tratto che viene selezionato sia un
indicatore di fitness, o un indicatore di qualità fenotipica.
Adesso sorge però la domanda: i tratti che sono selezionati sono effettivamente
indicatori di qualità fenotipica? Esistono molte evidenze equivoche nella letteratura e
qualcuna che invece equivoca non è, come ad es. la colorazione dei maschi dello
spinarello. Come probabilmente molti di voi sapranno, nel caso dello spinarello è stato
estremamente studiato da Konrad Lorenz e dai vari etologi, le femmine scelgono e per
esse un maschio è una cosa a forma di pesce con una macchia rossa, più rossa è la
macchia più la femmina è motivata ad accoppiarsi. Adesso la cosa importante è
questa, che i pesci non sono in grado di fare il colore rosso, dovuto semplicemente
all’accumulo di carotenoidi, che devono assumere con il cibo, quindi di fatto il colore
133
rosso nel maschio di spinarello è una funzione abbastanza diretta di quanti carotenoidi
ha mangiato, e siccome li può assumere soltanto mangiando crostacei, siamo in questo
caso di fronte a un tratto fenotipico condizione-dipendente, quindi se non altro, la
femmina, scegliendo il maschio più rosso ha per lo meno scelto il maschio che ha avuto
la dieta migliore fino a quel momento. Sono stati fatti una quantità immensa di studi
in cui si vedeva se la sopravvivenza dei figli di maschi più ornamentati era maggiore
o minore di quella dei figli di maschi meno ornamentali e la risposta è: in alcuni casi
sì, in altri no. Però esiste un numero di esempi in cui effettivamente il tratto che viene
selezionato è veramente un indicatore di fitness, un indicatore di qualità fenotipica.
Alessandro Cellerino
L’ ipotesi è alla base di questo tipo di studi, però la media è solo una delle tante
componenti e tra l’altro la cosa è un po’ più complicata perché quello che è stato fatto
vedere è che se io abituo dei soggetti a vedere, e questo nel giro di minuti, visi con
gli occhi piccoli, questi dopo una decina di minuti cominceranno a dare giudizi di
attrazione più alta per i visi che hanno gli occhi piccoli, cioè questa media è una media
appresa, tant’è vero che noi siamo attratti dalla media degli occidentali e gli africani
sono attratti dalla media degli africani. E’ vero però che c’è anche un fenomeno di
apprendimento percettivo che è abbastanza difficile da distinguere e tra l’altro una
cosa alquanto difficile da risolvere, che noi stiamo cercando di risolvere, è vedere se
una texture facciale, una struttura della pelle media è realmente attraente, perché
chiaramente quando io faccio queste medie al computer, è come se ci spalmassi sopra
il cerone, elimino tutte le impurità, quindi noi, o meglio Andrea Mennucci che è un
matematico sta scrivendo dei programmi per creare delle pelli artificiali ma che hanno
un numero di impurità medio rispetto a tutte quelle dalle quali è stato tirato fuori.
Incidentalmente, qualche giorno fa io e lui abbiamo scoperto, mentre eravamo all’acquario
di Berlino, che precisamente è quello che fa la sogliola, cioè se prendo la sogliola e la metto
su della ghiaia bianca con qualche puntino nero qua e là la sogliola ci si mette sopra e diventa
bianca con qualche puntino nero qua e là, se la metto sulla sabbia rossa con puntini gialli,
nel giro di tre secondi diventa rossa con puntini gialli, la sogliola sa fare questo, noi non lo
sappiamo ancora fare, nonostante il computer! Però la sogliola ha avuto più tempo per
imparare.
Fabio Fantini
Sono un po’ incuriosito da un aspetto che discutevo anche con amici qualche tempo
fa: noi abbiamo questa strabiliante capacità innata di riconoscere anche al primo
sguardo; una persona e per un po’ di giorni se la incontrassimo la riconosceremmo
sicuramente al primo sguardo, io sono incuriosito dal fatto che molti studenti e anche
molti colleghi hanno sviluppato una capacità analoga nel riconoscere la primo sguardo
alcuni manufatti costruiti dall’uomo, per es. alcune automobili da alcuni particolari
come fanali, posizione delle ruote ecc. Che lei sappia, ci sono ricerche che sfruttano
le tecniche di imaging che possono individuare una tale corrispondenza …
Alessandro Cellerino
Assolutamente sì, ad es. gli allevatori: se uno fa vedere a un allevatore di cavalli la
faccia di un cavallo, gli si attiva l’area delle facce, che negli altri si attiva quando vedono
la faccia delle persone.
Fabio Fantini
Lei sa se i progettisti di automobili sfruttano questo fatto coscientemente oppure solo
inconsciamente?
134
Alessandro Cellerino
Non lo so, però dal punto di vista di imaging, sì, gli esperti hanno proprio studiato gli
esperti di automobili e quelli di cavalli e hanno visto che in tutti e due i casi…
Non solo, noi riconosciamo molto peggio le persone se sono a testa in giù, se si fanno
vedere delle foto a testa in giù e per gli esperti di cavalli è la stessa cosa , cioè non
sono più in grado di riconoscere la faccia del cavallo se è a testa in giù, però in quel
caso loro si appoggiano, un po’ come facciamo noi quando nuotiamo usando le braccia
che servirebbero per fare qualcos’altro, cioè utilizzano un meccanismo che è innato
per fare qualcos’altro.
Sandra Magistrelli
Volevo chiedere, sempre a proposito di chi paga o per lo meno di chi favorisce questo
tipo di studi, poiché mi ha suscitato stupore questa questione dell’androgino e di come
in qualche modo sia importante nella percezione e nella scelta come punto di
separazione di due estremi, siccome il mondo della moda, il mondo della televisione,
degli spettacoli di massa è pieno di volti androgini e di corpi androgini, mi chiedevo se
questa è una cosa indotta da queste ricerche, oppure ci sono arrivati per caso.
Alessandro Cellerino
C’è una ragione specifica per la quale io non parlo mai di corpi, parlo solo di volti ed
è questo: se io vedo il volto della regina Nefertiti che è del 1387 a. C. riconosco nel
suo volto quello di una bella donna, di fatto l’unico ostacolo alla comparsa di volti che
anche noi giudichiamo belli nell’arte antica è di tipo tecnico, cioè appena hanno
imparato a disegnare e a scolpire hanno fatto volti che anche noi giudichiamo belli. Per
i corpi non è assolutamente così, ad es. pochi oggi si riconoscerebbero non solo nelle
donne di Rubens, ma anche nelle veneri greche che non sono conformi al nostro
standard di bellezza, e questo almeno in parte perché (tra l’altro questo non è vero
per il corpo maschile è vero soprattutto per il corpo femminile: gli atleti greci sono
perfetti anche per i nostri standard) ha molto a che fare anche con una questione di
status symbol, cioè infatti piace ciò che è raro, piace ciò che è difficile da ottenere per
cui, molto banalmente, fino a quando la gente non aveva da mangiare, quindi fino agli
anni Cinquanta, si cercava la donna in carne, la donna prosperosa perché in quella
società era veramente sinonimo di salute perché per essere in carne doveva avere
ben mangiato, perché allora le risorsa limitante era mangiare. Nella nostra società
attuale la risorsa limitante è diventato andare in palestra, fare la dieta, perché c’è cibo
dappertutto. Ciò che si dimostra con un corpo esageratamente magro significa avere
molto tempo a disposizione che si può sottrarre alle attività produttive per dedicarsi
al proprio corpo. In generale in biologia evoluzionistica si parla del principio
dell’handicap, cioè si tende a dire che molti tratti selezionati sessualmente sono
indicatori di fitness, in base a questo principio, ad es. la coda del pavone è
indubbiamente un intralcio, se il pavone può permettersi di andare in giro con quella
coda, vuol dire che ha delle qualità fenotipiche particolarmente buone e, siccome una
femmina non può andare a fare l’analisi del DNA di tutti i vari pavoni prima di decidere
con chi accoppiarsi, utilizza come indicatore di fitness, come proxy si dice in gergo, la
coda perché solo i maschi che sono fisicamente forti possono avere la coda. Rigiriamo
ora la cosa: se io guido una Ferrari voglio far vedere a chi mi guarda che, poco poco,
avevo 150.000 euro che mi avanzavano, gli altri non possono guardare nel mio conto
in banca, però se mi vedono sulla Ferrari dicono che come minimo avevo 150.000 euro
da buttare via. Allo stesso modo, il corpo femminile è diventato uno status secondo
lo stesso principio dell’ handicap, è sempre attraente ciò che è raro, mentre una volta
era raro avere le persone in salute perché non c’era da mangiare, ora è il contrario,
135
è raro essere magri e scolpiti, essere androgino per una donna perché non tutti
possono andare dal dietologo e farsi dodici ore di palestra alla settimana.
Sandra Magistrelli
Io non mi riferivo soltanto al corpo, mi riferivo anche al volto, il volto androgino è un
volto ambiguo che si rivolge ad ambedue i sessi, ha un potere, diciamo così, evocatore,
allora questo come viene collocato all’interno delle vostre ricerche perché è come se
si avesse, da una parte, appunto, una mascolinizzazione legata a determinate
caratteristiche, un’ iperfemminilizzazione legata a un rigonfiamento di certe caratteristiche neoteniche quasi verrebbe da dire e poi c’è questo androgino che pure ha una
funzione attraente forte: come si spiega?
Alessandro Cellerino
In realtà nel caso dei volti femminili non è vero, perché più è femminile e più viene
giudicato attraente, nel caso dei volti maschili si spiega abbastanza bene con quella
famosa distribuzione bimodale che vi ho fatto vedere, cioè un volto androgino
corrisponde a uno dei due picchi della distribuzione.
136
Evoluzione e risposta cellulare allo
stress
I SABELLA M ARINI
Quae medicamenta non sanant, ferrum sanat.
Quae ferrum non sanat, ignis sanat.
Quae vero ignis non sanat, insanabilia reportare oportet.
Ippocrate
Più di 40 anni fa a Napoli, nel Laboratorio Internazionale di Genetica e Biofisica di
Ferruccio Ritossa, qualcuno, forse inavvertitamente, ha regolato il termostato ad una
temperatura più alta del solito e i cromosomi giganti delle ghiandole salivari di
Drosophila, sottoposti ad uno shock termico, hanno mostrato i rigonfiamenti tipici di
un’attività trascrizionale localizzata. I loci coinvolti codificano per quelle che da allora
sono state chiamate proteine da shock termico, in inglese heat shock proteins (hsp), le
più abbondanti ed ubiquitarie proteine solubili intracellulari.
La “risposta allo stress”, che ha come elementi caratterizzanti l’incremento della
produzione delle hsp ed un drammatico cambiamento dell’espressione genica (Figura 1), è un sistema generalizzato di difesa da attacchi proteotossici
e genotossici, straordinariamente simile in cellule molto diverse tra loro sia
dal punto di vista funzionale che evoluzionistico, che salvaguarda la vitalità
cellulare. Questo meccanismo ancestrale di difesa non viene scatenato solo
in seguito all’esposizione alle alte temperature, ma anche da una grande varietà di stress metabolici ed ambientali,
nonché da vari stati patologici fra cui:
intossicazioni da metalli pesanti, alcol o
tossine, trattamenti con agenti chimici
quali analoghi di amminoacidi, ossidanti, ionofori, modificatori dei sulfidrili proteici, veleni metabolici, inibitori della trascrizione e della traduzione,
agenti teratogeni, infezioni virali, febbre, infiammazione, ischemie, neoplasie ed ipertrofie.
Figura 1- Elettroforesi delle proteine di cellule di All’inizio le hsp costituivano una sorta
Drosophila a diverse temperature.
di “curiosità”, oggi invece sappiamo,
137
grazie ad una mole enorme di dati sperimentali, che sono indispensabili in molti
processi fondamentali per la vitalità cellulare. Se volessimo dare una definizione
sintetica del loro ruolo fisiologico potremmo dire che sono le principali protagoniste
di quell’arsenale di strutture e strategie che la natura ha messo in atto per avere nella
cellula proteine di altissima qualità. Le hsp sono quindi delle proteine che esercitano il
loro ruolo su altre proteine, definite genericamente proteine bersaglio, sia in presenza
di stress che in condizioni fisiologiche.
Le hsp
Le hsp rappresentano uno dei gruppi di proteine più conservate, sono una sorta di
Matusalemme evoluzionistico; l’omologia di sequenza fra l’hsp di un batterio e quella
di un uomo può anche essere superiore al 50%. Come esempio possiamo prendere
le hsp a basso peso molecolare (small-hsp, shsp, polipeptidi con peso molecolare
compreso tra 16 e 28 kDa) che in organismi diversi tra loro come piante, batteri, lieviti
e animali hanno tutte in comune, nella porzione C-terminale il cosiddetto alpha-crystallin
domain, un tratto omologo di circa 90 amminoacidi su una media di circa 130,
responsabile del loro ruolo fisiologico.
Le hsp sono presenti nei procarioti e in tutti i compartimenti subcellulari degli eucarioti;
fin dalla loro scoperta sono state raggruppate in cinque famiglie principali: hsp100,
hsp90, hsp70, hsp60 e shsp sulla base del loro peso molecolare. Per esempio
l’acronimo hsp70 indica le proteine indotte dallo shock termico con peso molecolare
di 70.000 Da. Adesso la disponibilità delle sequenze amminoacidiche e nucleotidiche
consente una classificazione più sistematica su base filogenetica che sostanzialmente ha
confermato i raggruppamenti originari. I membri appartenenti ad una stessa famiglia
sono accomunati dalle dimensioni, dalla struttura, dalle funzioni e mostrano un alto
grado di identità di sequenza, mentre tra famiglie diverse non c’è omologia.
Il problema del ripiegamento delle proteine
Questa non è certo la sede per descrivere le caratteristiche speciali delle proteine o la
loro eccezionale versatilità funzionale, ricordo solo che le proteine, dopo l’acqua, sono
le molecole più abbondanti nei viventi. Noi siamo capaci di produrre circa 100.000
proteine diverse, ma il numero di proteine possibili di 300 amminoacidi (la dimensione
“media” di una proteina) supera di gran lunga il numero di atomi dell’universo (20300).
Nelle proteine sono presenti diversi livelli di organizzazione strutturale e solo quando
la molecola è ripiegata correttamente è in grado di funzionare. Il folding (ripiegamento) proteico è il processo mediante il quale amminoacidi vicini e distanti in un
polipeptide lineare interagiscono per dar vita ad una struttura nativa con attività
biologica unica, risultato del compromesso fra l’imperativo della stabilità strutturale
da una parte e la flessibilità funzionale dall’altra (Figura 2); il folding è quindi un
processo fondamentale per convertire l’informazione genetica lineare e unidirezionale
nella struttura proteica tridimensionale funzionale, termodinamicamente stabile. Nel
1973 Anfinsen con il suo pionieristico esperimento sulla ribonucleasi bovina arrivò alla
conclusione che le proteine denaturate, una volta rimosso l’agente denaturante, sono
138
capaci di ripiegarsi nella struttura terziaria nativa, la quale, a sua volta, è unicamente
determinata dalla struttura primaria, ovvero dalla sequenza amminoacidica (Figura 3).
Unfolded
Molten globule
Figura 2- Il folding proteico.
Figura 3- L’esperimento di Anfinsen sulla ribonucleasi A bovina.
139
Native
Ma come la topologia della struttura proteica è codificata dalla sequenza? La risposta
a questa domanda è sempre oggetto di un ampio dibattito, vari approcci sperimentali
suggeriscono che il pattern di residui idrofobici e idrofilici giochi un ruolo importante
rispetto ai caratteri specifici dei residui coinvolti; è chiaro per esempio che lo stesso
ripiegamento può essere ottenuto e generato da sequenze molto diverse. Comunque
attualmente il folding proteico costituisce una delle sfide teoriche principali dei biologi;
il paradigma dominante della chimica delle proteine: una sequenza Æ una struttura,
adesso è in discussione perché pensiamo che la relazione fra sequenza e struttura sia
probabilmente più profonda e indefinibile rispetto a quello che si riteneva originariamente, basta pensare ai prioni in cui la stessa struttura primaria dà origine a due forme
tridimensionali diverse di cui una è addirittura patologica.
C’è poi un secondo quesito: come fa una proteina a trovare la struttura nativa in un
tempo finito? Nel folding proteico la differenza tra i dati calcolati teoricamente e quelli
ottenuti sperimentalmente è detto paradosso di Levinthal. Considerando una piccola
proteina costituita solo da 100 residui amminoacidici, Cyrus Levinthal ha calcolato che
se ciascun residuo potesse assumere solo tre posizioni, il numero totale di strutture
possibili sarebbe 3100 (5x1047 ); se occorressero solo 10-13 secondi per convertire una
struttura in un’altra, il tempo totale per la ricerca della struttura termodinamicamente
più stabile sarebbe di 3x1027 anni! Ma le proteine con alto contenuto di a-eliche si
ripiegano mediamente in 50 msec e quelle con prevalenza di b-struttura possono
richiedere un tempo solo di un ordine di grandezza superiore.
Il folding nella cellula
Quanto gli studi in vitro sono in grado di simulare la situazione reale dell’interno delle
cellule? Il meccanismo alla base del folding è lo stesso in vitro e in vivo, solo che l’ambiente
intracellulare in cui le proteine si ripiegano è certamente molto diverso rispetto alle
condizioni utilizzate negli esperimenti in vitro; Anfinsen aveva scelto delle condizioni
particolari, noi biochimici infatti spesso abbiamo l’abitudine di lavorare con soluzioni
diluite e con molecole pure, prima di studiare qualcosa lo purifichiamo togliendolo dal
contesto in cui opera. All’interno della cellula la concentrazione di macromolecole è
spesso superiore ai 400 mg/ml e tutte le biomolecole si sono evolute per funzionare
correttamente in tale ambiente. L’affollamento macromolecolare presente nella cellula
comporterebbe per le proteine in via di sintesi o ripiegate non correttamente un
inesorabile destino: l’aggregazione o l’associazione impropria con altri componenti
cellulari; ma sappiamo che questo non avviene in realtà, se non in condizioni
patologiche. Il folding proteico in vivo è stato a lungo considerato un processo
autonomo e quasi automatico, non influenzato da altre proteine o da altri componenti
cellulari.
Questo paradigma è stato abbandonato con l’identificazione degli chaperone molecolari che assistono, facilitano ed accelerano il folding proteico; il loro ruolo nei
confronti del ripiegamento e del controllo di qualità delle proteine potrebbe essere
paragonato a quello svolto dagli enzimi sulle reazioni biochimiche: generare specificità
e controllo dell’ambiente biologico. Nei sistemi viventi le proteine non vengono mai
140
lasciate sole, i problemi che sorgono durante la loro vita sono risolti infatti dagli
chaperone molecolari e dalle proteasi, che assistono rispettivamente il refolding o
indirizzano verso l’eliminazione le molecole che non soddisfano i requisiti di stabilità
e funzionalità. La differenza fondamentale tra il folding in vitro e in vivo sta proprio qui:
l’evoluzione ha selezionato un complesso sistema per controllare e regolare l’intero
processo all’interno degli organismi.
Il concetto di chaperone molecolare
Molte hsp, ma non tutte, sono funzionalmente correlate con le attività di chaperone
molecolare anche se spesso nella letteratura scientifica i due termini hsp e chaperone
sono usati impropriamente come sinonimi.
Gli chaperone molecolari prevengono le associazioni inter ed intramolecolari non
corrette dei polipeptidi non ancora ripiegati, che porterebbero alla loro aggregazione;
in altre parole agiscono come supervisori nel controllo della qualità delle proteine di
nuova sintesi o danneggiate a vari livelli. La loro importanza fisiologica è facilmente
dimostrabile. A causa della cooperatività dei processi di ripiegamento, la formazione
di strutture terziarie stabili richiede la presenza di un polipeptide completo o
comunque almeno di un domain proteico (circa 100 amminoacidi di lunghezza). Nella
cellula le proteine durante la loro sintesi emergono dai ribosomi come catene non
ripiegate dalla parte ammino-terminale e solo quando un domain è stato completamente sintetizzato raggiungono una parziale struttura tridimensonale corretta. Una
situazione simile avviene anche quando le catene polipeptidiche devono attraversare
in forma estesa la membrana di qualche organello intracellulare, per passare da un
compartimento all’altro. Un polipeptide completamente esteso o parzialmente
ripiegato espone al solvente acquoso delle superfici idrofobiche che nella proteina
nativa si trovano normalmente nella parte interna della struttura. Nello stato non
ripiegato, i polipeptidi potrebbero potenzialmente interagire l’uno con l’altro mediante
le superfici idrofobiche esposte formando aggregati anche a concentrazioni relativamente basse. Gli chaperone hanno evoluto due distinti meccanismi per prevenire queste
interazioni improduttive ed indesiderate e promuovere il folding. Il primo consiste nello
schermare le superfici idrofobiche esposte per evitare l’aggregazione ad uno stadio in cui
non è ancora possibile il ripiegamento corretto di una catena polipeptidica perché ancora
incompleta; il secondo comporta l’allontanamento dal mezzo intracellulare di una
proteina completa, ma ancora non correttamente ripiegata o parzialmente denaturata in
seguito ad uno stress proteotossico, per prevenirne l’aggregazione ed allo stesso tempo
consentirne il folding fino allo stato nativo (Figura 4).
Le principali famiglie di hsp
Hsp100- Sono poco espresse costitutivamente, ma dopo uno stress il loro livello
aumenta moltissimo. Giocano un ruolo chiave nella sopravvivenza cellulare in
condizioni estreme e nell’acquisizione della termotolleranza, la capacità di resistere a
stress successivi ad un primo stimolo subletale. Mediante un meccanismo ATPdipendente sono in grado di disassemblare gli aggregati proteici e cooperano alla
141
Figura 4- Azione degli chaperone sul folding proteico.
destrutturazione di proteine destinate alla degradazione. Molte evidenze sperimentali
suggeriscono un loro coinvolgimento nella propagazione della forma prionica
infettiva, la loro capacità disgregante libererebbe infatti i prioni monomerici che
fungerebbero da nuovo innesco per le reazioni di “contagio” strutturale.
Hsp90- Sono le proteine citosoliche più abbondanti negli eucarioti. In vivo sono
dimeriche e regolano le funzioni delle loro proteine bersaglio che sono principalmente
i recettori per gli ormoni steroidei, alcune proteine coinvolte nei processi di trasduzione
di segnale e nella trascrizione. Sopprimono l’aggregazione aspecifica durante lo stress
termico, stabilizzando le proteine in via di denaturazione. Dopo anni di studi dai
risultati controversi, è stato accertato che la loro azione è ATP-dipendente (Figura 5).
Hsp70- Sono chaperone molecolari monomerici o dimerici che assistono il folding
di polipeptidi di nuova sintesi, l’assemblaggio di complessi multiproteici ed il trasporto
intracellulare di proteine attraverso le membrane. La loro espressione è correlata con
la proliferazione cellulare e con tumori maligni di varia origine. Fra le hsp sono le più
antiche ed hanno un potente effetto anti-apoptotico. Stabilizzano le parti idrofobiche
esposte in polipeptidi non ripiegati, abbracciando e contenendo la proteina bersaglio
in una conformazione caratteristica che può essere paragonata ad una mandibola, che
stringe il suo substrato mediante denti idrofobici impedendone l’aggregazione e
mediandone il refolding. La loro azione è ATP-dipendente e necessita del cochaperone hsp40.
Hsp60- Nella loro forma di tetradecamero a doppio toroide che delimita una cavità
funzionale (denominata “Anfinsen cage”) ed in presenza del co-chaperone eptamerico hsp10 sono una vera e propria macchina per il folding proteico mediato
dall’idrolisi di ATP. E’ noto in dettaglio il meccanismo molecolare d’azione di GroESGroEL, il sistema hsp60-hsp10 di E. coli (Figura 6).
142
Figura 5- Principali funzioni delle hsp90. A: con i recettori degli ormoni steroidei. B: con una
tirosina chinasi. C: con proteine denaturate.
Shsp- Il loro monomero ha un peso molecolare compreso tra 16 e 28 kDa e sono
organizzate in grandi complessi multimerici con composizione dinamicamente
variabile e modulabile a seconda delle condizioni presenti (Figura 7). Esercitano un
potentissimo effetto antiaggregante stabilizzando le proteine stressate e sono fondamentali per l’acquisizione della termotolleranza. Salvaguardano la struttura del citoscheletro, mediano l’aumento dei livelli di glutatione in seguito ad uno stress ossidativo
ed esercitano un effetto anti-apoptotico. Sono chaperone molecolari completi, infatti
recentemente io insieme al gruppo di ricerca in cui opero abbiamo dimostrato che le
a-cristalline, le principali proteine solubili del cristallino dei vertebrati e le shsp più
rappresentative, sono sono in grado di promuovere il refolding di proteine denaturate
chimicamente con un meccanismo indipendente dall’idrolisi di ATP.
143
Figura 6- Il ciclo di reazione di GroES e GroEL (hsp60).
Nessuna delle classi di hsp esercita tutte le funzioni via via richiamate, anzi ciascuna è
specializzata nello svolgimento di un particolare ruolo; in vivo i membri delle varie
famiglie agiscono insieme in un processo concertato di folding e recupero proteico
assistito (Figura 8).
Misfolding e malattie
Considerata l’importanza del folding proteico nella cellula, è inevitabile che un
malfunzionamento di questo processo sia all’origine di varie forme patologiche. Sono
note molte malattie da misfolding ed ogni anno se ne aggiunge qualcuna alla lista
(Tabella I); molte di queste sono gravi patologie neurodegenerative, fra cui cui il morbo
di Alzeheimer, il morbo di Parkinson, le malattie da prioni ed il morbo di Huntington.
144
Figura 7- Modello di una struttura oligomerica delle shsp.
Figura 8- Un esempio di chaperone network.
145
146
Alcune forme patologiche sono dovute all’incapacità di una proteina essenziale a
ripiegarsi correttamente. La fibrosi cistica è causata da una mutazione del gene relativo
ad un canale di membrana che regola il trasporto dei cloruri (CFTR). Durante la sintesi
della proteina mutata si produce un intermedio alterato di folding che viene riconosciuto
come difettoso dal sistema di controllo-qualità. Il CFTR mutato quindi viene indirizzato
verso la degradazione e non può raggiungere la membrana cellulare, nella quale peraltro
sarebbe in grado di svolgere correttamente la sua funzione (Figura 9).
Figura 9- La fibrosi cistica: una malattia da errato ripiegamento.
147
In altri casi, come nelle malattie da b-amiloide, l’incapacità a ripiegarsi o a rimanere
ripiegato correttamente, provoca interazioni indesiderate, l’aggregazione e la deposizione degli aggregati che ne risultano, in uno o più tipi di tessuti. I sintomi della malattia
possono dipendere dalla pura quantità di aggregati proteici disseminati in vari organi
o, in alternativa, dalla funzione tossica esercitata dagli aggregati formati inizialmente.
Varie recenti ricerche hanno suggerito che la capacità di formare fibre amiloidi stabili
ed altamente organizzate sia una proprietà generale dei polipeptidi che interessa
essenzialmente lo scheletro carbonioso delle proteine e non gli specifici gruppi laterali
degli amminoacidi. Le sequenze che, in assenza di fattori stabilizzanti come gli
chaperone, hanno una maggior propensione di altre a formare strutture amiloidi sono
meno frequenti in natura, come se la selezione naturale avesse eliminato quelle tendenti
a promuoverne la formazione. Comunque persiste la tendenza delle proteine a
ritornare verso la “primordiale” struttura amiloide se la normale omeostasi dell’organismo è perturbata; questa tendenza non viene adeguatamente prevenuta nell’invecchiamento e le sue conseguenze risultano molto evidenti in cellule post-mitotiche come
i neuroni. La pressione evoluzionistica ha fatto un lavoro enorme per prevenire
l’aggregazione proteica nel periodo in cui passiamo i nostri geni e diamo assistenza alla
nostra prole, ma in tarda età non c’è pressione per aumentare la capacità “vitale” delle
nostre proteine o dei nostri sistemi di protezione.
Una maggior comprensione del folding e del misfolding, dei meccanismi cellulari di
sorveglianza interna e dei legami specifici fra il processo di aggregazione ed il
comportamento patologico risulterà cruciale per lo sviluppo di strategie terapeutiche
contro queste malattie. Potenziare e modulare opportunamente i sistemi naturali di
controllo-qualità costituirebbe la soluzione generale a tutte queste forme patologiche.
Se fosse così, uno dei principali obiettivi dei primi alchimisti, la produzione dell’elisir
di lunga vita, potrebbe in futuro essere una realtà.
Hsp e ciclo cellulare
Grazie alla loro multifunzionalità, le hsp sono fra le principali proteine regolatorie della
cellula per il mantenimento di un ciclo cellulare efficiente; sono presenti a livelli elevati
in cellule di mammifero che proliferano, si trovano spesso associate transientemente
a molecole chiave del sistema di controllo del ciclo cellulare e sono coinvolte nella
localizzazione nucleare di proteine regolatorie e nel differenziamento.
La controprova dell’importanza delle hsp in questo contesto è data dagli studi condotti
su modelli sperimentali knock-out per i geni di alcune hsp. Knock-out per hsp70, hsp60
e a-cristalline mostrano instabilità genomica, tendenza alla iperproliferazione cellulare e difetti nella sintesi di DNA ed RNA. L’instabilità genomica provoca errori
nell’organizzazione del fuso e nella replicazione che hanno come conseguenze evidenti
aneuploidia ed aberrazioni cromosomiche (Figura 10).
Proprio perché coinvolte nella regolazione del ciclo cellulare, le hsp possono svolgere
un ruolo fondamentale nella progressione tumorale; infatti sono indotte in vitro da
molti farmaci citotossici e sembrano in parte responsabili nella resistenza ai farmaci
antitumorali.
148
A
B
Figura 10- Mitosi in cellule epiteliali di cristallino. A: distribuzione della subunità B delle αcristalline nel wild type (b-tubulina in rosso; DNA in blu; aB in verde). B: anormalità mitotiche
in cellule knockout per le aB (b-tubulina in rosso; DNA in verde).
Hsp e apoptosi
La morte cellulare programmata, un processo generale ampiamente conservato che
opera nel “modellamento” di organismi pluricellulari, così come nell’eliminazione di
cellule vecchie, danneggiate o non desiderate, probabilmente si è evoluta nel contesto
della risposta allo stress. Devono infatti esistere necessariamente delle interazioni fra
questi due meccanismi fondamentali ed al tempo stesso funzionalmente opposti, che
regolano la decisione cellulare di vivere o morire.
Vari studi hanno stabilito che gli effetti delle hsp nel promuovere la sopravvivenza
cellulare possono essere in parte attribuiti alla loro capacità di sopprimere l’apoptosi.
Le differenti funzioni svolte dalle varie famiglie di hsp possono facilmente generare
il potenziale di punti multipli di intervento lungo la via apoptotica per regolare e
modulare la risposta cellulare a stimoli dannosi.
Attualmente l’organizzazione molecolare delle vie apoptotiche viene descritta mediante un modello che prevede tre fasi funzionalmente distinte. La prima fase, la premitocondriale, comprende varie vie di trasduzione del segnale che dipendono dal tipo
cellulare e dallo stimolo primario induttore di morte. Tutte queste vie convergono sul
mitocondrio che le integra canalizzandole in una via finale comune, mediante la perdita
irreversibile della funzione di barriera della membrana mitocondriale (seconda fase),
punto di non ritorno in seguito al quale vengono rilasciate molte proteine potenzialmente apoptogeniche con attività biochimiche differenziate (fra cui l’AIF, il fattore
induttore di apoptosi, ed il citocromo c). Secondo questo modello il mitocondrio
funzionerebbe come una sorta di “vaso di Pandora”: il rilascio di proteine che
normalmente sono ben segregate nel compartimento mitocondriale determina il
destino della cellula. La catastrofe bioenergetica e redox che avviene in seguito alla
permeabilizzazione della membrana mitocondriale è da sola sufficiente a determinare
la morte della cellula. Nella terza fase, la post-mitocondriale, la cellula acquisisce i
caratteri biochimici e morfologici tipici dell’apoptosi (Figura 11).
149
Figura 11- L’apoptosi.
Sono stati finora identificati molti punti in cui le hsp interagiscono con molecole
coinvolte nell’apoptosi. Le hsp60 interagiscono con la caspasi 3, una delle proteasi
effettrici, mediando la sua attivazione e funzionano quindi come molecole proapoptotiche. Invece le shsp e le hsp70 hanno marcati effetti anti-apoptotici; le prime
agiscono, tra l’altro, legando il citocromo c prevenendo così l’attivazione delle caspasi
e le seconde bloccano specificamente l’AIF. A questo proposito è interessante notare
come, così come le hsp, anche l’AIF ed il citocromo c siano proteine filogeneticamente
antiche. C’è poi una modulazione dei modulatori: molte molecole apoptogeniche
interagiscono con il fattore di trascrizione per le hsp bloccandone la sintesi.
Il coinvolgimento delle hsp in molti meccanismi citoprotettivi le colloca come
coordinatori centrali della decisione sul destino della cellula. I livelli delle varie hsp, così
come la loro quantità in forma libera, possono risultare critici per la citoprotezione e
per la sopravvivenza. Le hsp potrebbero essere utilizzate come nuovi bersagli
farmacologici e terapeutici sia per prevenire che per provocare l’apoptosi.
Hsp e sistema immunitario
Durante l’evoluzione, partendo dalla presenza di sistemi multipli e ridondanti, i
meccanismi di difesa e di sorveglianza immunitaria devono essere stati sottoposti ad
una forte selezione. Un sistema sensoriale basato sul riconoscimento del rilascio di hsp
nell’ambiente extracellulare in seguito a stress o a necrosi, potrebbe aver costituito
l’archetipo di un sistema ancestrale di immunosorveglianza.
Recentemente molti dati stanno dimostrando come le hsp possiedano delle caratteristiche uniche che consentono il loro utilizzo per generare risposte immunitarie
specifiche contro i tumori e contro gli agenti infettivi, indicando un loro ruolo chiave
nell’immunità innata ed acquisita.
150
Le hsp hanno un forte effetto immunogenico e risultano degli adiuvanti naturali molto
potenti nei confronti dei peptidi che legano, per questo le proteine da stress sono
talvolta coinvolte nell’eziologia di forme patologiche autoimmuni.
Le hsp citosoliche e del reticolo endoplasmatico si associano con moltissimi peptidi
generati all’interno della cellula, compresi quelli provenienti da antigeni tumorali, virali
e batterici; i complessi hsp/peptide che ne derivano vengono indirizzati alle molecole
del complesso maggiore di istocompatibilità (MHC) di classe I; i complessi esposti
sulla superficie cellulare o rilasciati in seguito a stress o necrosi cellulare sono
internalizzati, mediante dei recettori per le hsp, dalle circostanti APC (cellule che
presentano l’antigene) che li ripresentano alle cellule effettrici della risposta immunitaria. Le hsp da sole, secrete in assenza di peptidi, sono in grado di attivare i macrofagi
ed i linfociti T citotossici. In condizioni di stress la produzione di hsp aumenta, quindi
aumentano i livelli dei complessi hsp/peptide che vengono esposti; se si supera il livello
di guardia si scatena l’attivazione delle cellule natural killer e dei linfociti T citotossici
che provvedono all’eliminazione delle cellule stressate. Quindi gli effettori dell’immunità innata e specifica usano le hsp ed i complessi hsp/peptide per rispondere
sinergicamente ad una situazione di stress elevato.
I dati sperimentali a nostra disposizione rendono plausibile l’ipotesi che le più
abbondanti molecole solubili della cellula siano anche i più adatti messaggeri del danno
cellulare; questo spiegherebbe anche la “strana” presenza di un recettore di superficie
per le hsp che sono intracellulari. In questa prospettiva le proteine da stress non solo
proteggono la singola cellula dagli attacchi esterni, ma fungono anche da messaggeri
di stress o “sensori di pericolo” a livello pluricellulare.
Ci sono alcuni aspetti delle proprietà immunologiche delle hsp che potrebbero essere
rilevanti per l’immunobiologia applicata, infatti nei mammiferi le hsp si sono mostrate
molto efficaci nel generare una protezione immunitaria antitumorale, antivirale ed
antibatterica. Le proteine da stress potrebbero essere utilizzate a scopi terapeutici per
bloccare o potenziare, secondo le necessità, la capacità di risposta degli effettori
immunitari.
Hsp, invecchiamento e aspettativa di vita
L’invecchiamento è un processo lento e graduale di deterioramento di un organismo
e ritardarlo è uno dei sogni più antichi del genere umano.
J. Maynard Smith nel 1958 fu uno dei primi a notare che l’esposizione a un breve
periodo di stress termico aumentava la lunghezza della vita di Drosophila. Questi effetti
che aumentano la longevità e conferiscono altre caratteristiche anti-invecchiamento
osservati dopo esposizione ad uno stress moderato, sono rappresentativi del fenomeno dell’ormesi.
Durante l’invecchiamento la simultanea presenza di ossidazione, misfolding e aggregazione delle proteine, aumenta il divario tra la quantità di lavoro che le hsp devono
svolgere e la loro effettiva disponibilità in forma libera. In queste condizioni il
mantenimento della citoarchitettura, l’efficienza della trasduzione del segnale ed il
blocco delle mutazioni silenti, competono con la presenza di proteine danneggiate. Se
151
le hsp non riescono a far fronte a tutte le richieste, le cellule perdono la loro
rganizzazione, non rispondono più ad alcuni segnali e le mutazioni silenti sfuggono al
loro controllo (Figura 12).
Molte evidenze sperimentali
suggeriscono che alcuni chaperone molecolari, e fra questi
soprattutto le shsp, giochino un
ruolo significativo come antagonisti del processo di invecchiamento. La transfezione di
singoli chaperone comporta
l’aumento dell’aspettativa di vita,
così come una loro over-espresFigura 12- Invecchiamento ed hsp.
sione o uno stress moderato
correlano con una maggior longevità sia a livello cellulare che di organismo. Le shsp
aumentano la sopravvivenza di cellule epatiche allo stress ossidativo, un fenomeno
legato alla capacità di queste proteine di far calare i livelli intracellulari di specie reattive
dell’ossigeno mediante una via glutatione-dipendente. In esperimenti condotti su
Drosophila e C. elegans, le shsp hanno dimostrato di avere una enorme influenza
sull’invecchiamento e la modulazione della loro espressione suggerisce un loro
coinvolgimento in processi connessi con la longevità. I dati ottenuti indicano che queste
proteine, oltre a conferire la capacità di resistere agli stress, sono in grado di allungare
la vita degli organismi in esame fino a raddoppiarla. Il loro meccanismo d’azione in
questo caso è per ora sconosciuto.
Fra i vari tentativi di ritardare l’invecchiamento, la restrizione calorica della dieta è
l’unico trattamento che ha mostrato una certa efficacia, dopo una ampia sperimentazione in varie specie. Questa condizione nei ratti rallenta la degenerazione legata all’età
proteggendo gli enzimi glicolitici ed aumentando i livelli delle hsp mediante la
stimolazione della trascrizione dei geni della risposta allo stress.
Anche gli effetti benefici sull’invecchiamento confermano il ruolo centrale che le hsp
svolgono per la vitalità cellulare; le proteine da stress sono molto di più che degli
aspecifici chaperone!
Hsp ed evoluzione
Sessanta anni fa Conrad Waddington, osservando tra l’altro la grande stabilità degli
organismi di tipo selvatico rispetto ai mutanti, ipotizzò che molti caratteri fenotipici
celassero delle variazioni genetiche la cui espressione in condizioni ambientali normali
era prevenuta da un processo di “tamponamento genetico”. Come egli stesso
dimostrò in esperimenti condotti sulle ali di Drosophila, condizioni stressanti compromettevano il sistema di tamponamento influenzando negativamente il normale
sviluppo e consentendo l’espressione delle variazioni genetiche criptiche sotto forma
di cambiamenti fenotipici, che in apparenza sembravano “acquisiti”. Quando tali
variazioni venivano sottoposte ad un periodo di selezione stabilizzante nelle genera152
zioni successive, il nuovo carattere era geneticamente
“assimilato”, cioè veniva espresso anche quando
l’agente stressogeno era assente. A questo proposito
Waddington citava diversi esempi presenti in natura,
di caratteri utili nell’organismo adulto, che si manifestavano già nel feto non avendo alcuna funzione a
questo stadio, fra cui le callosità degli struzzi (Figura
13), l’ispessimento della pelle della pianta del piede
degli uomini o le punte del dente molare del dugongo; l’esistenza di questi adattamenti poteva essere
spiegata proprio in termini di “assimilazione genetica di un carattere acquisito”. Lo stesso autore non
riuscì ad identificare né il meccanismo né gli agenti
responsabili del processo osservato, ne intuì però la
presenza; l’oggetto “sconosciuto” di Waddington è
quello che oggi definiamo “canalizzatore adattativo
inducibile” o “condensatore evoluzionistico”.
E’ dello stesso autore il concetto di “paesaggio
epigenetico” (Figura 14), una metafora in cui l’organismo è una pallina che rotola tra colline e valli a
diversa profondità, che rappresentano i possibili
percorsi dello sviluppo, determinati sia dal sistema
genetico che dal contesto ambientale interno ed
esterno dell’organismo. Un forte stimolo ambienFigura 13- Le callosità degli struzzi. tale provoca un punto di transizione tra le valli, a quel
punto la pallina può essere spinta in una valle alternativa che risulta tanto più profonda
quanto più si ha “canalizzazione” del fenotipo.
Le hsp sono candidate ideali come
condensatori evoluzionistici o
molecole da tamponamento genetico; infatti in condizioni fisiologiche possono agire come “silenziatori” post-traduzionali di
molte variazioni genetiche, assistendo efficientemente i difetti
del folding e nascondendo mediante le loro interazioni le mutazioni che potrebbero essere dannose per la cellula. In caso di
stress l’accumulo di proteine danFigura 14- Il paesaggio epigenetico di Waddington.
neggiate comporta un calo nella
capacità di riparazione hsp-mediata dei difetti conformazionali e quindi un decremento della capacità tamponante. La multifunzionalità delle hsp, da una parte coinvolte nel
153
ciclo cellulare, nella trascrizione, nell’interazione funzionale con proteine di trasduzione
del segnale ed altre proteine regolatorie e dall’altra responsabili della sensibilità a
variazioni ambientali, ed il loro essere organizzate in una via metabolica chaperoneassistita, le rende particolarmente adatte ad essere dei modulatori fra genotipo e
fenotipo. Conferme a queste ipotesi sono venute da studi su Arabidopsis, Drosophila e
lievito. In due articoli pubblicati su Nature il gruppo di Susan Lindquist lavorando con
le hsp90 bloccate farmacologicamente, per mutazione o a seguito di un intenso stress
termico ha notato la comparsa in Arabidopsis e Drosophila (Figura 15) di un notevole
numero di varianti fenotipiche potenzialmente adattative. Questi nuovi tratti morfologici, dopo un periodo di selezione stabilizzante nelle generazioni successive, erano
espressi anche quando l’attività fisiologica delle hsp90 veniva ripristinata. Il carattere era
quindi stato geneticamente assimilato, c’era qualcosa che aveva fissato quel fenotipo
nel genotipo, rendendolo ereditabile. L’ipotesi qual è?
Figura 15- Diversi fenotipi associati al blocco delle hsp90 in Drosophila ed Arabidopsis.
L’oggetto sconosciuto di Waddington
forse sono le hsp90 e forse anche tutte
le altre hsp, che agiscono da canalizzatori adattativi inducibili tamponando
le variazioni genetiche accumulate senza avere alcun effetto sulle caratteristiche espresse, finché una loro ridotta
funzionalità non consente la “liberazione” delle variazioni nascoste (Figura 16).
Le hsp collegherebbero la risposta
allo stress con il controllo dello sviluppo, fornendo uno strumento mediante il quale una maggior variabilità amFigura 16- I polimorfismi criptici possono essere bientale potrebbe essere accompagnata
rivelati dallo stress ed arricchiti mediante selezione. ad una maggior varietà nella forma e
154
nelle funzioni di un organismo (Figura 17). Ancora una volta il mantenimento del
folding appropriato e la regolazione delle varie attività degli chaperone sono cruciali
ed il tamponamento genetico potrebbe essere uno degli elementi chiarificatori delle
complesse interazioni molecolari fra genotipo e fenotipo. Questo meccanismo
fornirebbe un mezzo tramite il quale cambiamenti radicali nella forma del corpo
potrebbero essere notevoli e discreti piuttosto che incrementali e progressivi; d’altra
parte i fossili contengono molti esempi di cambiamenti apparentemente rapidi della
forma del corpo intercalati a periodi di relativa stabilità.
Figura 17- La gerarchia dei vincoli che influenzano l’evoluzione.
Il genoma non è un progetto deterministico per il fenotipo di un organismo; una
miriade di influenze danno forma alla traduzione del genotipo nel fenotipo. Quando
valutiamo ed analizziamo l’evoluzione fenotipica, si deve partire dal genotipo ed
andare oltre, alla vasta, e ancora largamente ignota, complessità dei processi basati sulle
interazioni proteina-proteina a livello intra ed intercellulare e dei meccanismi di
controllo della “qualità strutturale” delle proteine.
Colgo l’opportunità per ringraziare il Prof. Umberto Mura, del Dipartimento di
Fisiologia e Biochimica dell’Università di Pisa, con cui lavoro da sempre, una delle
persone che hanno reso possibile coltivare e tenere viva la mia passione per la ricerca
e poi tutti gli altri componenti del Laboratorio di Biochimica per la loro collaborazione
e per la loro disponibilità a favorire il mio lavoro di ricerca nei tempi che mi vedono
libera dagli impegni istituzionali.
Ringrazio gli organizzatori e fra questi soprattutto il Prof. Enrico Pappalettere, mio
collega al Liceo Dini, per avermi “sopportato” nel discutere e commentare la parte
155
di Waddington e per avermi dato l’opportunità di presentare l’argomento su cui faccio
ricerca rivisto da un punto di vista evoluzionistico. Questo per me è stato uno stimolo
forte perché mi ha “costretta” a leggere cose che volevo leggere da tanto tempo.
Studiare libri ed articoli vecchi e recentissimi mi ha confermato come il “fare scienza”
sia un ricchissimo processo culturale e quanto il progresso scientifico non sia
automatico, lineare e cumulativo; mi è venuta in mente a questo proposito una
riflessione di Lucio Russo in La rivoluzione dimenticata: “…Un importante contributo
contro la concezione del progresso automatico è venuto nel Novecento da Karl
Popper… Un residuo resistente di questa pericolosa fede è nella diffusa abitudine
degli studiosi di usare e citare nei propri lavori quasi esclusivamente pubblicazioni
recentissime, come se l’essere aggiornati fosse di per sé una garanzia di qualità. In questo
modo si assicura la subitanea diffusione di qualsiasi moda culturale, accelerando il
progresso ma anche l’eventuale regresso delle conoscenze.”
Dipartimento di Fisiol. e Biochimica - Università di Pisa
Isabella Marini
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157
Dibattito
Intervento
Vorrei chiedere un chiarimento sulla fibrosi cistica. Io non so molto sull’argomento
però avevo capito che la fibrosi cistica è indotta da una mutazione che modifica questa
proteina di membrana per cui poi il cloro non transita; il chaperon quindi elimina la
proteina: quelloc he è sbagliato è la proteina.. quindi se non ci fosse il chaperon
funzionerebbe.
Isabella Marini
L’azione del sistema di controllo di qualità in questo caso è negativa, perché fa un
danno nel senso che per voler fare le cose troppo bene alla fine eccede; d’altra parte
per esempio le αβ che sono una delle due subunità delle α-cristalline sono il principale
autoantigene della sclerosi multipla; queste proteine così antiche si somigliano tanto
per cui quando mi aggredisce un batterio io posso fare anticorpi non solo contro l’hsp
del batterio ma anche contro la mia, proprio perché si somigliano tanto e possono venir
fuori le malattie autoimmuni. Per la sclerosi multipla è proprio stato dimostrato che il
principale autoantigene sono le αβ, quindi non è che le hsp siano la panacea che
facciano tutto bene, anche loro possono dare dei problemi.
Bianca Isolani
E’ molto interessante il fatto che a fenotipi uguali non corrispondono genotipi uguali e
viceversa; penso si potrebbero fare molti esempi biologici come il ciclo dei parassiti
in cui, pur avendo il parassita lo stesso genotipo, cambia molto l’aspetto a seconda
dell’ospite; oppure le alghe aploidi e diploidi che sono estremamente differenti; oppure
i microbi addirittura che hanno delle caratterizzazioni fenotipiche a cui non corrisponde
per niente il genotipo che anzi varia per il 70%. Ecco questo discorso è estremamente
interessante e penso che andrebbe molto più divulgato; visto che mi sembra che tu
sia una brava divulgatrice.
Isabella Marini
E’ tutto il concetto di prione che è rivoluzionario in questo senso perché il prodotto
genico è lo stesso, è la struttura superiore della proteina che cambia e cambia
completamente il fenotipo; non solo, ci sono dei prioni di lievito -su cui tra l’altro lavora
la stessa Lindquist che ha fatto gli esperimenti su Drosophila- che sembrano
responsabili di un tipo di ereditarietà basata sulle proteine; quando la sup35, che è
il prione del lievito, fa lo switch da α-elica a β-foglietto fa cambiare il fenotipo alla cellula
e poi questo fenotipo viene ereditato. La fede cieca nel dogma centrale a questo punto
è scardinata completamente. Però è una cosa che sta venendo fuori ora, è tutta da
studiare, ci sono questi segnali che ci fanno capire che oltre ai geni c’è molto di più.
Bianca Isolani
Con ciò si ritorna un po’ alle origini quando, prima che fosse scoperta la doppia elica
del DNA, c’era una grossa fetta di biologi che riteneva l’ereditarietà basata sulle
proteine e non sul DNA. Pauling era un assertore di questo.
Isabella Marini
Sì, erano convinti di questo anche perché le proteine sono molto più variabili del DNA.
D’altra parte ogni tanto mi viene in mente il libro La rivoluzione dimenticata di Lucio
Russo che nella prefazione dice “noiscienziati molto spesso facciamo il gravissimo
158
errore di leggere la letteratura dell’ultimo periodo”, anzi anche noi facciamo lo stesso
quando affrontiamo un lavoro scientifico; ricordo che per la mia prima tesi di dottorato
avevo trovato un riferimento del 1800 ed ero incerta se mettercelo o no; invece ci sono
tante idee che negli ultimi 20 anni di letteratura, si sono perse e che farebbe bene ogni
tanto andarsi a riguardare.
Intervento
Visto che riesce a integrare queste due attività strepitose, la ricercatrice e l’insegnante,
allora nel suo discorso come porta l’evoluzione ai ragazzi alla luce di questa esperienza
complessa e variegata per cui vede l’evoluzione da tanti punti di vista, anche in qualche
caso eretico rispetto al darwinismo ortodosso, come presenta la faccenda, come
rispondonoi ragazzi?
Isabella Marini
Devo dire che al Liceo insegno solo da due anni, peraltro con il semiesonero lavorando
anche alla SSIS e per questo non ho ancora un quadro completo del quinquennio. Io
cerco (non so se ci riesco sempre) di dare l’evoluzione come impostazione, cioè come
quadro di lettura dei vari argomenti. Cerco di presentare l’evoluzione non come fatto
a se stante, staccato ma come filo conduttore che sta sotto a tutti quei fatti biologici
che noi descriviamo e facciamo studiare ai ragazzi. Non so se ci riesco, bisognerebbe
sentire i ragazzi, però l’idea è questa, la spinta è questa. Per quanto riguarda il
presentare l’evoluzione da diversi punti di vista posso farlo solo con i ragazzi di quinta
perché ci vogliono delle preconoscenze di base senza le quali uno deve fare l’atto di
fede e allora non mi va bene.
Altro intervento
Che cosa si pensa nell’ambiente di ricerca a proposito delle proteine per cui il fenotipo
sembra essere molto più potente di quanto si sospettava e di quanto si dice
effettivamente? Costituisce uno stimolo all’interno della teoria evolutiva, perché
bisognerebbe rivedere un bel po’ di dogmi.
Isabella Marini
Nella ricerca ciascuno è molto focalizzato sul suo tema; per me essere insegnante e
poi lavorare anche alla SSIS è una grandissima fortuna perché invece di stare a
guardare il mio argomento sperimentale, i risultati che ottengo e basta, io devo sempre
passare dal molecolare al macro, da un approccio riduzionista ad uno più olista, e
quindi devo pormi qualche problema in più di chi fa solo ricerca o comunque di chi la
fa senza avere un certa sensibilità scientifica complessiva. In letteratura il dibattito c’è,
ed è molto acceso, ma che questo porti a rivedere subito tutto è ancora presto per
dirlo.
Bianca Isolani
E’ una bellissima teoria quella della simbiosi e bisognerebbe rivedere meglio i rapporti
genotipo-fenotipo per cui vorrei proprio un evolution-day per far capire che è ancora
tutto aperto e che, mentre l’evoluzione è un fatto, le spiegazioni sono ancora tutte
ipotesi e anche perché per i ragazzi ci sia ancora qualcosa da scoprire perché se
pensano che si è già scoperto tutto, è da morire.
159
La didattica
La didattica
161. Evoluzione ed altre storie
Brunella Danesi
186. Dibattito
188. Chi ha paura di Carlo Darwin?
Alessandra Magistrelli
196. Dibattito
203. Didattica dell’evoluzione
Fabio Fantini
210. Dibattito finale
160
Evoluzione ed altre storie
B RUNELLA DANESI
Tra i problemi che ogni insegnante di Scienze naturali ha davanti quotidianamente nel
suo lavoro, due presentano un particolare rilievo: l’uno riguarda le forme e i modi
dell’assimilazione da parte degli studenti delle conoscenze scientifiche che consentono
di interpretare la realtà naturale; l’altro concerne la storicità che, accompagnando la
formulazione dei paradigmi scientifici, invita a leggere lo sviluppo della scienza nel
contesto della cultura di un’epoca e di una società.
Pensare di risolvere il primo problema integrando il manuale con l’uso anche
sistematico del laboratorio sarebbe riduttivo e porterebbe gli studenti ad assimilare il
lavoro scientifico ad una metodologia ingenuamente “verificazionista” e “induttivista”, da tacchino di Russell; d’altra parte, affrontare il secondo problema risolvendo
la scienza nella cultura storica e quasi sommergendola in un generico “storicismo”,
impedirebbe agli studenti di cogliere la specificità della conoscenza scientifica e, nel
caso della nostra disciplina, di evidenziare la peculiarità delle questioni teoriche e
metodologiche ad essa connesse.
Come fare dunque per promuovere un apprendimento consapevole e motivato, che
permetta di evitare i pericoli così dell’induttivismo ingenuo come di una cultura alla
melting pot? Come fare per risvegliare l’attenzione per la disciplina e sostenere
l’interesse per continuare a coltivarla? Come fare a precisare il contesto culturale in cui
una teoria si è sviluppata?
Per affrontare questi interrogativi senza semplificare, può essere utile prendere in
considerazione, oltre ai mezzi tradizionali- manuale più laboratorio- l’opportunità di
ricorrere a strumenti diversificati di “navigazione”, attraverso i quali compiere
esplorazioni in territori altri -figurativi, letterari, artistici-, ma dai quali “ si ritorna” alla
disciplina quasi “riscoprendola” in termini di avvertita problematicità e di maggiore
consapevolezza circa il significato delle leggi e delle teorie apprese: incursioni e itinerari
in altri contesti, che possiedono registri e linguaggi diversi da quelli propri del metodo
e dei termini scientifici, ma che possono risvegliare il pensiero, attivare l’interesse,
sollecitare approfondimenti, suggerire prospettive di ricerca.
Né va tralasciata l’importanza di almeno due tra le ricadute didattiche non secondarie
che questo tipo di lavoro può presentare:
- la prima riguarda la maggiore vicinanza tra le discipline (si adopera volutamente
questo termine, per evitare gli equivoci di una interdisciplinarietà che- pressoché
sempre- sacrifica le specificità disciplinari);
- la seconda è collegata alla formazione complessiva della personalità dello studente,
perché gli itinerari sopra ricordati -quadri, racconti, romanzi, saggi- richiedono
l’interazione tra l’ intelligenza, la fantasia, l’immaginazione, le emozioni.
Relativamente al primo punto, nella scuola si fa ancora sentire la separazione delle
culture, umanistica e scientifica, e ogni docente lavora facendo appello a quelle
conoscenze “enciclopediche” che gli studenti dovrebbero possedere: quando vengo161
no lette, insieme ad insegnanti di materie umanistiche, pagine di Cartesio, Manzoni o
Darwin, ad esempio, si fa implicitamente riferimento a presupposte informazioni
“enciclopediche” possedute dallo studente, ma non sempre queste informazioni
esistono, o, quando ci sono, non vengono ripescate e messe in relazione con ciò di cui
si parla nell’ambito di un’altra disciplina, tanto che lo stesso Darwin studiato a Filosofia
è altro rispetto a quello fatto a Biologia; ancora, malgrado la letteratura del Novecento
sia ricchissima di scrittori, la cui formazione iniziale è stata di tipo scientifico (basti citare
Gadda, Musil, Primo Levi), la separazione fra le culture fa sìche difficilmente ci si
spinga ad introdurre argomenti di chimica utilizzando ad esempio Il sistema periodico di
Levi, o ad inserire Mitosi e Meiosi di Calvino, parlando di biologia; in questo modo, certi
autori perdono larga parte del loro fascino oppure certi loro percorsi vengono
completamente tralasciati nell’insegnamento umanistico perché troppo difficili.
Relativamente al secondo punto, la teoria dell’evoluzione, che rappresenta il quadro
di riferimento essenziale ed indispensabile a qualunque argomento scientifico, si presta
particolarmente bene al tipo di itinerari proposti in questa ipotesi di lavoro, anche
perché proprio per la sua natura propone risposte, pur parziali e provvisorie, a
domande esistenziali che gli adolescenti da sempre si sono posti ( chi siamo, da dove
veniamo ). E’ anche una teoria che molti studenti hanno difficoltà ad accettare, proprio
perché le loro preconoscenze li hanno convinti di tutt’altro, che cioè l’uomo non può
essere paragonato a nessun animale o che comunque esso è al vertice di quella ideale
scala, che dal protozoo giunge alle stelle, insomma, come per Panglosso “... i nasi son
stati fatti per portar gli occhiali, infatti ci sono gli occhiali. Le gambe sono evidentemente istituite per esser calzate, ed ecco che ci sono i calzoni. Le pietre sono state
formate per essere squadrate, e per farne castelli...” (1). Siamo di fronte alla convinzione
incrollabile e consolatoria di uno sviluppo lineare e progressivo della vita, difficile da
mettere in crisi e sostituire. Ritengo che al di là della conoscenza tecnica dei vari
meccanismi che hanno determinato la micro e la macro evoluzione, sia importante
mettere in evidenza, qualunque tema biologico venga affrontato, la “animalità”
dell’uomo, la sua stretta dipendenza dagli altri organismi e, tutto sommato, la sua
marginalità, pur mettendo in risalto che lo sviluppo della coscienza è stato l’avvenimento più sconvolgente della storia della vita sul nostro pianeta, se non altro perché ne
siamo direttamente coinvolti. Questi sono i motivi per cui riterrei utile far leggere agli
studenti libri di letteratura, affidati loro durante le vacanze estive e successivamente
discussi in classe ad inizio dell’anno scolastico; è chiaro che sarebbe auspicabile svolgere
questo lavoro con la collaborazione di altri docenti del corso, ma questo, in genere,
si è sempre rivelato solo un pio desiderio. La mia relazione verterà su alcuni esempi,
alcuni pensati per studenti di scuola media o di biennio, altri adatti ad un triennio
superiore. Gli autori che verranno esaminati sono, per la scuola dell’obbligo, Frances
Burnett e Jack London, mentre i percorsi suggeriti per il triennio riguardano Joseph
Conrad, Samuel Butler ed Italo Calvino.
In questo contesto è doveroso citare almeno uno fra gli scienziati che si sono cimentati
in racconti sull’uomo primitivo, Bjorn Kurten, con la sua splendida saga familiare di
cui sono protagonisti i Cro Magnon e i Neanderthal.
162
Per quanto riguarda le incursioni in storia dell’arte è doveroso fare almeno un piccolo
accenno ad Aby Warburg e all’influenza che su di lui ebbe il lavoro L ‘espressione delle
emozioni nell’uomo e negli altri animali di Charles Darwin
La Natura salvifica
Frances Burnett (Francis Eliza Hodgson, 1849-1924) nacque a Manchester ma alla
morte del padre si trasferì in Knoxville, nel Tennessee (1865); la sua opera più nota è
forse Piccolo Lord (Little Lord Fauntleroy ) del 1886, ma il libro più interessante per il
nostro discorso è Il giardino segreto del 1888, da cui è stato anche tratto un film nel 1949,
che vide come protagonista principale Margaret O’ Brien.
La protagonista del racconto è Mary Lennox, una bambina cresciuta in India,
circondata dalle sole cure dei domestici, che, rimasta improvvisamente orfana, viene
mandata in Inghilterra presso uno zio, che vive in un tetro castello, circondato da un
enorme parco, in mezzo alla brughiera. Mary, magra, pallida, sgraziata e sgradevole
è abituata a farsi servire dai domestici e non ha mai conosciuto persone che le dessero
affetto. Nel nuovo ambiente, ancora una volta abbandonata a se stessa, durante le sue
solitarie escursioni nel parco, prende lentamente contatto con la natura. Saputo dalla
domestica Martha dell’esistenza di un giardino segreto, chiuso da più di dieci anni, ne
subisce immediatamente un irresistibile fascino; perché lo zio ne ha nascosto la chiave?
Quali tesori nasconde? Un pettirosso, dall’alto delle fronde che sporgono dal muro
di recinzione sembra invitarla a trovare la porta di accesso e a scoprire i segreti del
giardino. Le lunghe passeggiate solitarie cominciano ad irrobustirla e a dare un po’ di
colore alle sue pallide gote, impara a comprendere il linguaggio del pettirosso, il suo
cuore si apre alla pietà per la storia legata al giardino; la natura ha iniziato ad operare
in lei grandi trasformazioni. Quando finalmente, trovata la chiave del giardino, vi può
penetrare, pensa di aver trovato il luogo più bello e misterioso. Mary scopre anche un
altro mistero all’interno del castello, la presenza del cugino Colin, che dalla nascita è
relegato nella sua camera, perché tutti temono che possa morire o diventare un povero
storpio. Mary e Colin, aiutati da Dickon, il fratellino della domestica, che conosce la
natura e ne sa interpretare il linguaggio, lavorano insieme a che il giardino ritorni allo
splendore che doveva avere un tempo ed i due piccoli orfani si aprono lentamente alla
vita, divengono disponibili agli affetti, cambiano anche nell’aspetto. Il tema fondamentale del racconto non è soltanto il giardino segreto, un posto magico, dove gli adulti
non hanno accesso, dove i bambini possono coltivare i propri sogni, ma è anche la
scoperta della Natura, una natura che è trasformata dai bambini e li trasforma: lo
sporcarsi le mani con la terra per rimuovere le zolle indurite, il seminare e il piantare
bulbi, il contatto con pettirossi, scoiattoli, caprette e farfalle, il volger delle stagioni che
arrecano cambiamenti nei colori, negli odori e nei suoni all’esterno, porta anche
sostanziali cambiamenti nei piccoli protagonisti, che vengono salvati dalla solitudine,
l’aridità di cuore, la paura. Il libro è carico di messaggi, ma il più forte è a mio avviso
quello legato alla coevoluzione, bambini-natura, possibile solo se i primi prendono con
essa contatti non virtuali (2). E’ libro molto adatto anche per bambini della scuola
elementare, non solo perché insegna a coltivare sogni, ma anche perché dà loro una
163
prima percezione del trascorrere del tempo e fa venir voglia di conoscere questa natura
da cui molti bambini sono così lontani.
La natura descritta dalla Burnet sprizza vitalità benefica, nel suo mondo non vi sono
le ombre che solo un adulto disincantato potrebbe scorgere.
Storie di cani, di lupi, di uomini
John Griffith London (1876-1916) nacque a San Francisco, ma presto si trasferì, con
la madre Flora Wellman e il patrigno, un veterano della guerra civile, a Oakland, dove
fece gli studi primari per poi intraprendere vari mestieri, contrabbandiere di ostriche
nella baia di San Francisco, lavoratore stagionale in vari stati dell’Unione, marinaio e
cacciatore di foche, guarda-costa. A diciannove anni riprese gli studi e terminò la scuola
secondaria. Nel 1897 il fallimento dei primi tentativi letterari lo portò a cercar fortuna
nel Klondike, nel Canada Nord Orientale, alla ricerca dell’oro, dove rimase un solo
anno, per far ritorno in California colpito dallo scorbuto; questa esperienza farà da
sfondo a tutta una serie di racconti pubblicata inizialmente in riviste e poi raccolta nel
libro Il figlio del lupo (1900); proprio in quelle terre selvagge saranno ambientate anche
le sue opere più riuscite, come Il richiamo della foresta (1903) e Zanna Bianca (1906). La
fama letteraria non calmò la sua natura inquieta; per sfuggire ad un matrimonio ormai
in crisi, da cui aveva avuto due figlie, lo scrittore partì per Londra, dove frequentò le
zone più degradate della città, raccogliendo materiale per il resoconto giornalistico Il
popolo dell’abisso (1903). Ne seguì un periodo di intensa produzione letteraria, tanto che
in soli 16 anni scrisse ben 50 libri, fra romanzi e saggi. Fra essi merita citare Prima di
Adamo (1907), una storia sulla vita selvaggia dei primi uomini, Il tallone di ferro, un
romanzo di fantapolitica in cui l’America, piegata da un capitalismo rapace, se ne libera
raggiungendo il socialismo, Martin Eden (1909), il cui protagonista sale la scala sociale
ed intellettuale, conquistando fama e prestigio in un mondo borghese che inizialmente
lo aveva respinto, ma, disilluso, si toglie la vita. Si tratta di un’autobiografia romanzata
della vita del suo autore che si mostrò profetica; London stesso, sette anni dopo la sua
pubblicazione, minato dall’alcol, si toglierà la vita.
Il pensiero di London, lettore vorace, anche se poco sistematico, fu profondamente
influenzato da David Starr Jordan (1851 - 1931), Herbert Spencer, Thomas Huxley,
Charles Darwin, Karl Marx, Ernst Haeckel, Friedrich Nietzsche. Proprio il darwinismo sociale di Spencer, Heackel e Jordan e il pensiero di Nietzsche contribuirono alla
formazione della sua ideologia, basata sulla fiducia nelle capacità di miglioramento del
singolo, in grado di emergere rispetto ad una massa informe. Agli inizi del secolo il
dibattito sull’evoluzione era particolarmente vivace; molti sollevavano dubbi sulla
incondizionata fiducia in un illimitato progresso dell’umanità e ad essa contrapponevano una progressiva degenerazione, un ritorno inesorabile al bruto o ad una stolida
infanzia, come quella prefigurata da Wells nella Macchina del tempo (1895). Il riemergere
all’interno della specie di caratteristiche rimaste sepolte per molte generazioni (reversione o atavismo) rappresentava un problema, il cui significato sarebbe stato
pienamente compreso solo con lo sviluppo della genetica, ma su cui molti scrittori,
come Zola (si pensi alla Bestia umana) e lo stesso London basarono molte loro opere.
164
L’americano, convinto che l’evoluzionismo fosse diretto da una lotta per la vita
interpretata nella sua forma più elementare di “legge del bastone e della zanna” (3), nutrì
un amore incondizionato per le terre selvagge, in cui la lotta per la sopravvivenza
raggiunge gradi estremi di ferocia e in cui gli istinti primordiali potevano manifestarsi
in tutta la loro forza. Fu particolarmente interessato al magico rapporto che è possibile
stabilire fra l’uomo e il cane, o la sua forma selvaggia, il lupo, e probabilmente
considerava gli altri mammiferi non umani molto più “umani” degli indigeni; del resto,
anche Darwin nutriva dubbi sul livello di umanità degli Indiani d’America (4).
Lo scrittore, nel saggio, dal significativo titolo Gli altri animali (1908), a quanti lo
attaccavano di umanizzare gli animali, rispondeva:
“...i cani che ho scelto come protagonisti non erano guidati da ragionamenti astratti,
ma dall’istinto, dalla sensazione, dall’emozione e da ragionamenti semplici... ho cercato
di far combaciare le mie storie con i fatti dell’evoluzione...”
I movimenti animalisti nati a partire dalla seconda metà del Novecento e lo sviluppo
degli studi etologici, d’altra parte, ci hanno resi convinti che la barriera che ci separa dai
nostri fratelli minori è labile e pertanto si può benissimo perdonare a London
antropizzazioni che a volte possono sembrare eccessive e dalle quali lo stesso Darwin
non era immune.
A difesa di London, accusato da più parti di razzismo, c’è da dire che nell’ambito del
colonialismo di fine Ottocento il razzismo fu un atteggiamento assai diffuso sia in
Europa, dove rappresentava una giustificazione all’espansione degli Stati-nazione, sia
in America, le cui terre erano state recentemente sottratte ai loro antichi abitanti e gli
scienziati amati da London, come Thomas Huxely, Davis Starr Jordan e Ernst
Haeckel, non solo non ne erano immuni, ma lo teorizzavano, preparando il terreno
a quel darwinismo sociale che in molti Paesi farà approvare leggi sull’eugenetica.
I due racconti, Il richiamo della foresta (1903) e Zanna Bianca (1906) (5) sono fra loro
complementari; nel primo Buck, un incrocio fra un san bernardo e un pastore
scozzese, viene sottratto ad una vita sonnolenta ed agiata all’interno della grande tenuta
californiana del suo padrone e venduto da un servitore infedele come cane da slitta,
merce rara e preziosa nei tempi della caccia all’oro. Catapultato in Alaska, in un mondo
“primordiale” dove l’unica legge è quella del più forte, dopo un iniziale periodo in cui
a Buck sembra di vivere in un incubo, l’aggressività, sopita ma non spenta, durante la
sua vita in California, coniugata ad un orgoglio ritrovato per le sue capacità di
sopravvivere, lottare e lavorare, prendono il sopravvento; lo spirito dei suoi avi
riemerge con tutta la sua forza e fa di lui un capo branco, “una creatura selvaggia, che
avanzava furtiva a passi felpati, un’ombra fuggevole che appariva e scompariva fra le
ombre” (da Il richiamo della foresta).
Zanna Bianca percorre il cammino opposto: è un lupo, anche se con un nonno cane,
è nato allo stato selvaggio, dove ha imparato a sopravvivere lottando, viene catturato
dagli “dei” umani, di fronte ai quali rimane “impietrito” da un incantesimo ereditario,
che consisteva nel timore e nel rispetto scaturito da secoli di lotte e dalle esperienze di
generazioni e generazioni” (da Zanna Bianca) e incontra padroni indifferenti o folli,
come Beauty Smith, che lo costringe a lottare con altri animali in un giro di scommesse
165
clandestine. È proprio in quest’ambiente, in cui Zanna Bianca ha raggiunto il massimo
della ferocia e delle capacità di lottare per sopravvivere, che incontra un nuovo
padrone che “sa amare”, da cui si farà lentamente sottomettere e al quale si
abbandonerà incondizionatamente, rinunciando per sempre ad una vita selvaggia.
Sia Buck che Zanna Bianca sono due personaggi indimenticabili, ma ai fini del nostro
discorso sono preziosi per affrontare e discutere il tema della lotta per l’esistenza in
London, per il quale, come già accennato, si risolve quasi esclusivamente nella legge del
bastone e della zanna, e nella sua moderna accezione (che era poi quella di Darwin), in cui
il termine si risolve in una metafora dal potente valore esplicativo. I personaggi di
London, siano essi animali o uomini, si comportano, come Beauty Smith, secondo
l’“argilla” di cui sono fatti e in base alle esperienze loro riservate dalla vita; Buck e Zanna
Bianca sono plasmati da “buona argilla” e pertanto le vicissitudini della loro vita non
riescono a piegarli, sono cani in grado di emergere dalla massa, prendere il comando
del branco, eroi nietzschani.
I due racconti, a parte il loro intrinseco valore, sono interessanti anche in quanto
permettono di prendere in considerazione le omologie di comportamento di tutti gli
animali (ivi compreso l’uomo) -già abbondantemente individuati di Darwin in
L’espressione delle emozioni, che sul comportamento del cane e dei suoi antenati ha scritto
pagine molto moderne- e di appassionarsi all’etologia, scienza comprensibile solo alla
luce dell’evoluzionismo.
London si rivela, infatti, un ottimo osservatore, non soltanto per le sue descrizioni delle
terre selvagge, del loro immacolato biancore, dei loro suoni, mutevoli al variare delle
stagioni e dell’ora del giorno, ma soprattutto quando narra le esperienze del cane o del
lupo. Si tratta di pagine piene di poesia ma anche di grande sensibilità e intelligenza; la
descrizione del lupacchiotto che si apre alla vita e alla conoscenza è insuperabile.
Si tratta di temi che potrebbero benissimo introdurre argomenti legati ai meccanismi
biologici che consentono l’apprendimento.
A volte, però, London si lascia prendere la mano dal suo mondo in cui la lotta per la
vita si tinge sempre e comunque di sangue, come nella descrizione del combattimento
per la conquista della femmina, in cui Senz’occhio, il futuro padre di Zanna
Bianca, ”...si abbassò di scatto e chiuse le zampe sulla gola del compagno: un morso
profondo e nello stesso tempo lungo e lacerante... il giovane capo... pieno di sangue
e ormai colpito a morte, si scagliò contro l’anziano rivale e combatté mentre già la vita
lo abbandonava... e per tutto quel tempo la lupa rimase seduta, sorridendo...” (p. 65,
op. cit)
Da tempo sappiamo che negli animali le lotte intraspecifiche per la conquista del
territorio che preludono all’accoppiamento sono altamente ritualizzate e regolate da
coordinazioni motorie ereditarie che bloccano l’aggressività, quando questa potrebbe
essere pericolosa per la sopravvivenza del conspecifico; è questo un ulteriore esempio
a conferma dei meccanismi evolutivi che salvaguardano la sopravvivenza delle
popolazioni; proprio a proposito dei lupi, Lorenz ha scritto in L’anello di re Salomone
pagine scientificamente corrette che rivaleggiano quanto a poesia con quelle di
London.
166
I due racconti insegnano l’amore e il rispetto per la natura e fanno anche comprendere
che non esistono cani o lupi “cattivi”, sono gli uomini che questi incontrano che
contribuiscono in modo decisivo a renderli amici per la vita o spietate macchine di
morte. Ci sono state diverse trasposizioni cinematografiche sia di Zanna Bianca che di Il
richiamo della foresta, ma si tratta, per quanto mi risulta, di operazioni commerciali, senza
alcun valore artistico, in cui i due racconti vengono generalmente mescolati e falsati.
Nowhere, anywhere
L’inglese Samuel Butler (1835-1902), figlio e nipote di ecclesiastici della chiesa
anglicana, destinato lui stesso a rivestire l’abito talare, studiò alla Shrewsbury School e
frequentò il St John’s College di Cambridge. Negli anni 1858-59, per prepararsi al
sacerdozio, visse in una povera parrocchia di Londra e in questo ambiente maturarono
i primi dubbi sull’azione salvifica della religione: i fanciulli, sia che fossero o meno
allevati nella fede religiosa, tenevano lo stesso comportamento; ingenuamente, ne
scrisse al padre, sperando in una risposta che fugasse le sue perplessità, ma questi si
mostrò estremamente contrariato, non potendo ammettere che il figlio potesse
cambiare idea poco prima di prendere i voti. La reazione del padre confermò i dubbi
di Samuel, che senza indugio nel 1859 decise di imbarcarsi in cerca di fortuna per la
Nuova Zelanda . Qui fece con discreto successo l’allevatore di pecore ed ebbe anche
il tempo di leggere molto; fu in questo periodo, fra l’altro, che si accostò al pensiero
di Darwin, rimanendone entusiasta, tanto da scrivere allo scienziato una lettera di
plauso a proposito dell’opera pubblicata nel 1859, L’origine della specie.
Tornato in Inghilterra nel 1864, si stabilì a Londra a Clifford’s Inn, dove visse sino alla
morte, scrivendo, dipingendo e dedicandosi alla traduzione dal greco dell’Iliade e
dell’Odissea. Nell’ambiente londinese, il dibattito suscitato dall’Origine ferveva vivace
e Butler pensò di poter dare il proprio contributo. Inizialmente appoggiò lo scienziato
inglese, ma prontamente sottolineò che le modifiche apportate dall’ambiente erano
fondamentali per la trasformazione della specie, concetto peraltro già presente nel
pensiero di Darwin. Successivamente, dopo la lettura della Filosofia zoologica di Lamarck
e del libro di Jackson Mivart, Genesi della Specie, in cui era attaccata l’ipotesi della
selezione, Butler si convinse che in realtà Darwin non aveva detto niente di importante,
niente per lo meno che non avesse già affermato, cinquanta anni prima, Lamarck, ed
espresse questa convinzione in numerosi articoli e in due saggi, Life and habit (1878) e
Evolution, Old and New (1879). In quest’ultima opera erano ulteriormente ribadite le
critiche che egli muoveva alla teoria darwiniana, accusata di non lasciare margini di
libertà all’individuo e di non consentire il controllo di una Mente creativa sul processo
evolutivo, a differenza di quanto avevano sostenuto Lamarck ed Erasmo Darwin.
L’ultimo suo approdo filosofico si espresse in un netto rifiuto del meccanicismo e si
precisò in direzione del pragmatismo e del vitalismo di impronta bergsoniana.
Erewhon (rovesciamento di no where, in nessun posto) è il romanzo più importante di
Butler, originato da una serie di articoli che egli scrisse per il giornale neozelandese, The
Press, tra il 1860 e il 1864: precisamente, Darwin among the machines, The mechanical Creation,
167
Lucubratio Ebria. La forma narrativa ripropone il tema del viaggio in un paese
immaginario, inaugurato nella tradizione inglese da Daniel Defoe e Jonathan Swift. In
realtà, il paese immaginario è l’Inghilterra del periodo vittoriano, la cui società,
moralista e vacua, salutista e culturalmente povera, benestante e meschina, è rivisitata
da Butler con sarcasmo e ironia.
La trama ha come protagonista il biondo e ambizioso Higgs, che arriva in una colonia
britannica di nuovo insediamento (la Nuova Zelanda) col dichiarato scopo di “potersi
arricchire più rapidamente che in Inghilterra”. Le terre migliori sono però già occupate,
cosicché egli pensa di recarsi al di là di impervie e invalicate montagne, che sembra
nascondano terribili segreti, ma in cui probabilmente potrebbero esserci buone terre
da pascolo non ancora sfruttate e forse qualche filone aurifero. Dopo un drammatico
viaggio si ritrova, appunto, in Erewhon. Nel paese, retto istituzionalmente da una
monarchia, gli uomini sono sani e forti e le donne gentili e belle; accoglienti gli alberghi,
buono il cibo. La vita scorre senza scontri dovuti ad ambizione o a competizione e
con la piena accettazione di alcune apparenti stranezze: i delinquenti sono sottoposti
a visite mediche e curati, mentre i malati sono condannati ad ammende o alla prigione;
i ladri sono valutati in base alla destrezza con cui hanno compiuto i furti, mentre gli
ingenui sono severamente perseguiti; i luoghi di culto sono diventati Banche musicali
dove si specula sulle ricompense eterne attraverso una contabilità particolare, fatta di
versamenti dietro cambiali; le scuole insegnano agli alunni ragionamenti di ipotetica,
la cultura impone la tirannia della maggioranza contro la genialità e una nuova divinità,
Ydgrun (la vittoriana Mistress Grundy) (6) stabilisce le regole del bon ton; inoltre dalla
realtà quotidiana sono state cancellate le macchine, i cui esemplari -dagli orologi alle
locomotive- sono esposti nei musei, come cimeli di orrori che, se non estirpati in
tempo, avrebbero ridotto gli uomini in servitù. Il giovane Higgs scoprirà a sue spese
quanto conti in Erewhon un bell’aspetto -gli abitanti e in particolare i sovrani
apprezzano molti i biondi-; è infatti grazie a questa qualità del tutto esteriore che sarà
liberato dal carcere dove era finito per una colpa considerata dal tribunale molto grave,
cioè il possesso di un orologio. Invitato a pranzo dal ricco Nosibor (è evidente il
riferimento a Robinson, l’eroe di Defoe), un funzionario disonesto controllato da un
“raddrizzatore” per essere curato, il nostro eroe si innamora di sua figlia Arowhena,
la secondogenita, ma la sua richiesta si infrange contro le regole familiari che gli
imporrebbero come consorte la primogenita. Higgs e Arowhena, però, riescono a
fuggire su un pallone aerostatico; giunti in Inghilterra, sognano di tornare nel paese per
convertirne gli abitanti. Questa, in sintesi, la trama.
Qual è il significato dell’Erewhon di Butler? E perché proporne la lettura nell’ambito
della disciplina di Scienze naturali?
Erewhon è, in generale, una satira dell’Inghilterra vittoriana, impregnata di moralismo
e di “materialismo onesto”, un paese i cui abitanti esibiscono con orgoglio e
supponenza il proprio standard di vita e il proprio modello di civiltà e, nello specifico,
rappresenta una critica impietosa e una protesta contro le istituzioni religiose,
scolastiche, culturali proprie della società inglese a lui contemporanea, contro l’ipocrito
perbenismo nei comportamenti e il vuoto appagamento delle persone nel benessere
168
materiale. Non si dimentichi che in Erewhon il conformismo è la regola e il genio è
guardato con riprovazione; inoltre, la società è organizzata in modo da operare una
sorta di selezione razionale e programmata: le persone sole e senza appoggio, i malati,
i derubati vengono trattati da delinquenti e come tali puniti, selezionati negativamente,
mentre i ladri, gli omicidi, gli amministratori disonesti sono considerati malati, curati
amorevolmente e rieducati. Come si può notare, il registro stilistico è, sotto questo
profilo, lo stesso dei dipinti di William Hogarth (1697-1764).
Eppure, l’Erewhon di Butler non è solo questo, perché nei tre capitoli intitolati Il libro delle
macchine l’incalzante ironia dell’autore contro la selezione darwiniana e la sua capacità di
delineare come nuovo scenario della lotta per la sopravvivenza quello connesso
all’antagonismo tra le macchine e l’uomo, per un verso conferiscono a molte di queste
pagine quasi un tocco di divinazione sul futuro cibernetico che attendeva l’umanità, per
l’altro attribuiscono a una prosa intensa e concitata i connotati di un manifesto postmoderno che enunci i rischi cui l’umanità è esposta per l’inarrestabile ascesa delle
macchine e il conseguente dominio che esse riusciranno ad imporre sull’uomo.
Questa parte del romanzo consente numerosi spunti di riflessione:
LOTTA PER L’ESISTENZA
Nel monologo della patata, si legge: “Metterò un tubero in questo punto e un altro
un poco più in là, in modo da assorbire ciò che mi serve fra quanto mi circonda. Questa
pianta vicina la soffocherò con la mia ombra, e quest’altra la scalzerò alle radici; e ciò
che potrò fare sarà il limite di ciò che farò. Chi è più forte di me ed è meglio situato
mi vincerà, mentre chi è più debole io lo vincerò”
In questo brano, il riferimento alla lotta per l’esistenza di Darwin è quasi letterale.
SVILUPPO DELLE FACOLTÀ MENTALI
Mentre Darwin, nell’Origine dell’uomo affermava “..In qual modo si siano sviluppate
dapprima le facoltà mentali negli organismi inferiori, è una ricerca senza speranza,
come quella intorno al modo in cui si è sviluppata la vita....”, gli abitanti di Erewhon
non hanno dubbi sul fatto che anche nelle macchine si formerà prima o poi una
coscienza: “... Il fatto che attualmente le macchine posseggano ben poca coscienza, non
ci autorizza affatto..a ritenere che la coscienza meccanica non raggiungerà col tempo
il massimo sviluppo.Un mollusco non possiede gran che di coscienza.Pensate alla
straordinaria evoluzione delle macchine in questi ultimi secoli e osservate con quale
lentezza progrediscono il regno animale e vegetale. Le macchine più altamente
organizzate sono creature non di ieri, ma addirittura degli ultimi cinque minuti, oserei
dire, di fronte alla storia dell’universo”.
QUESTIONI LEGATE AL GENOMA
“...Chi può dire che la macchina a vapore non possieda una qualche sorta di coscienza?
Dove comincia e dove finisce la coscienza? Chi può fissare il limite?”
Quindi, perché non prendano il sopravvento, gli abitanti di Erewhon ritengono che
è meglio abolirle completamente, altrimenti “... verrà un tempo in cui esaminando con
un potente microscopio anche un solo capello, sarà possibile accertarsi se colui a cui
quel capello apparteneva può venire insultato impunemente...”
169
Questa affermazione può anche essere letta come una sorta di profezia: non ci sono
alcuni che sono completamente contrari al genoma perché in esso vedono proprio
questo rischio?
Nella valutazione complessiva del romanzo e nel giudizio del suo autore non possono
peraltro essere trascurate due considerazioni.
La prima è collegata alla constatazione che un mondo, come quello di Erewhon, in
cui ha vinto il partito contrario all’esistenza delle macchine, non è però più libero e
felice: attraverso una “selezione artificiale”, attuata in base alle leggi ipotizzate da
Lamarck (adattamento all’ambiente) e Darwin (selezione differenziale), è stato
possibile eliminare i malati, i poveri, le persone sole e tristi; le persone ottuse e
conformiste vengono accolte con il massimo di benevolenza e premiate; in questa terra
felice la società “ben pensante”, seria e ricca, non viene disturbata da visioni sgradevoli
o da idee troppo intelligenti.
La seconda riguarda la fuga, giacché di questo poi si tratta: una fuga resa possibile dal
pallone aerostatico, in qualche modo connesso al mondo delle macchine.
Il ritorno da Erewhon, effettuato da Higgs e Arowena , è dunque una sorta di ritorno
dal futuro? E Butler, questo autore sarcastico e ironico, è davvero un rivoluzionario
post-moderno? Per la verità, al termine della lettura si è orientati a rispondere
negativamente ad entrambi i quesiti. Infatti, nel suo vero significato -soltanto in
apparenza rovesciato- quel ritorno non è dal futuro al presente, bensì dal presente
industrializzato a un presente industrializzato “corretto” e “controllato”, che poi ad
un’analisi razionale risulta essere assai prossimo al passato pre-industriale (pallone
aerostatico). E il nostro Butler? Fustigatore di costumi e anticonformista quanto si
vuole, non riesce ad impedire che lo salutiamo lasciandolo in compagnia di William
Morris (7) e George Bernard Shaw, e che prendiamo commiato da lui come da un
conservatore illuminato.
Joseph Conrad
Teodor Josef Konrad Nalecz Korzeniowski, noto col nome di Joseph Conrad (18571924) è considerato uno dei maggiori esponenti della letteratura di lingua inglese della
fine del Diciannovesimo secolo. Il padre, appartenente alla piccola aristocrazia
polacca, era impegnato nella lotta di liberazione della sua terra dalla sudditanza zarista
e fu presto condannato all’esilio, per cui con la famiglia condusse una vita errabonda;
il giovane Joseph perse presto entrambi i genitori, ma durante la fanciullezza ebbe
modo di apprendere il francese, l’inglese e, naturalmente, il polacco; fu un lettore
onnivoro, con una profonda predilezione per i libri di avventure sul mare, probabilmente era stato “imprintato” da I lavoratori del mare di Hugo tradotto dal padre in
polacco. Fra le sue prime letture vi fu anche l’opera di Alfred Wallace L’arcipelago malese
(1869) e Il viaggio di Darwin. A soli diciassette anni si arruolò nella marina mercantile
francese e nel 1878 ottenne l’imbarco in battelli inglesi, con cui percorse le acque
comprese nel sud est asiatico fra Singapore e il Borneo; nel 1890 risalì le acque del fiume
Congo, esperienza che sarà fonte di ispirazione per il suo capolavoro, Cuore di Tenebra;
nel 1896 prese congedo dalla Marina, ritirandosi ad Ashford nel Kent.
170
Considerato inizialmente da molti suoi contemporanei come uno scrittore per ragazzi
di avventure nei mari, presto ne è stata riconosciuta tutta la potenza espressiva e
attualmente viene considerato uno scrittore in grado di indagare magistralmente il
profondo della coscienza umana.
Per comprendere appieno il suo pensiero è forse opportuno fissare qualche data,
legata a libri che molto probabilmente l’autore lesse da cui fu influenzato:
- Herbert Spencer (1820-1903) Developmental Hypothesis del 1852
- 1857 Herbert Spencer: Progess: Its Law and Causes, THE WESTMINSTER REVIEW, Vol 67
- 1859 Charles Darwin L’origine delle Specie
- 1871 Charles Darwin L’origine dell’uomo
- 1871 Edward Burnett Tylor (1832-1917) La cultura dei primitivi. L’autore, uno dei
padri dell’antropologia propose un’ipotesi sullo sviluppo delle religioni: l’animismo si
trasforma in magia che origina il politeismo che si evolve in monoteismo; nel saggio,
come in altri suoi scritti, Tylor sostenne che gli uomini hanno tutti identiche capacità
mentali, tesi estremamente rivoluzionaria per quegli anni;
- 1872 Charles Darwin, L’espressione delle emozioni nell’uomo e negli altri animali
- 1878 Sir Henry Morton Stanley (1841-1904) Attraverso il continente nero; il grande
esploratore inglese, che aveva viaggiato a lungo nel continente asiatico, si fece affidare
l’incarico di rintracciare Livingston, disperso in Africa e lo trovò, moribondo, a
Zanzibar. Il lungo viaggio lo aveva portato a conoscere e descrivere ampie zone del
territorio africano, esperienze riportate nel libro succitato, in cui è anche presente una
forte denuncia del colonialismo belga.
Per una curiosa coincidenza Cuore di tenebra venne pubblicato nel 1898, stesso anno della
pubblicazione dell’Interpretazione dei sogni di Sigmond Freud.
CUORE DI TENEBRA
Su una iolla da crociera, nel sicuro porto di Londra, Marlow, uomo di mare ma
soprattutto vagabondo, sotto un cielo immacolato, benigna immensità di luce pura,
che però anch’esso, a suo tempo è stato un angolo tenebroso della terra, racconta a
tre amici una delle sue esperienze inconcludenti, avvenuta quando decise di raggiungere
un luogo che, anche se aveva cessato di essere uno spazio vuoto incantevole e
misterioso -una macchia bianca che un bambino può riempire di sogni di gloria-,
continuava ad affascinarlo perché conteneva un fiume, soprattutto, un fiume grandissimo che appariva sulla carta come un immenso serpente con la testa nel mare, mentre
il corpo in riposo formava un’ampia curva su una vasta regione e la coda si perdeva
nella profondità della terra. Grazie all’interessamento di una zia, riesce ad ottenere un
ingaggio e giunge alla città (Bruxelles?), sede della Compagnia, dove viene accolto da
“... Due donne, una grassa e l’altra magra, che sedevano su due sedie impagliate
sferruzzando della lana nera...” (due parche?); il medico chiede il permesso di
misurargli il cranio perché desidererebbe capire cosa cambia nella mente degli uomini
che vanno a lavorare laggiù, anche se aggiunge: i cambiamenti avvengono dentro, sa.
Il viaggio già nelle fasi iniziali si presenta angosciante e Marlow ha sempre più la
sensazione di non appartenere più al mondo di fatti schietti; si imbatte in una nave da
171
guerra che assurdamente fa fuoco alla cieca contro il continente, dove sono annidati
ipotetici nemici. Giunto alla stazione della Compagnia, incontra un gruppo di
schiavi ”... che camminavano lenti col busto eretto, bilanciando sulla testa dei cestelli
pieni di terra e il tintinnio seguiva il ritmo dei loro passi. Intorno ai lombi portavano
degli stracci neri, le cui corte estremità si agitavano dietro come code. Potevo contar
loro le costole, e le giunture delle membra parevano nodi su di una corda; intorno al
collo avevano tutti un anello di ferro, i collari erano uniti l’uno all’altro da una catena
che oscillava in mezzo a loro tintinnando ritmicamente...” e conosce un incredibile
ragioniere, che sembrava indubbiamente il manichino di un parrucchiere, ma nella
demoralizzazione generale di quella terra, continuava a curare il proprio aspetto. Da
costui ha per la prima volta notizia dell’altro protagonista del racconto, Kurtz, agente
di prima classe... una persona davvero notevole, in grado di mandare tanto avorio
quanto tutti gli altri messi insieme. Partito verso l’interno, giunge finalmente alla stazione
centrale, dove fa la conoscenza con il direttore, un fabbricante di mattoni che non
possiede la materia prima per produrli, una serie di bianchi che vanno in giro con lunghi
bastoni, tutte persone occupate in squallidi intrighi e preoccupate del potere acquistato
da Kurtz; il battello che dovrebbe condurlo verso l’interno è danneggiato, per cui il
viaggio di Marlow subisce ulteriori ritardi: i chiodi necessari per la riparazione non
arrivano, arrivano solo frotte di bianchi, attirati da una terra che promette arricchimenti
rapidi. Finalmente Marlow intraprende il viaggio verso la stazione interna, alla ricerca
di Kurtz.
Risalire quel fiume era come viaggiare a ritroso verso i più remoti primordi del mondo,
quando la vegetazione invadeva la terra e i grandi alberi ne erano sovrani.
E’ un viaggio verso il cuore delle tenebre, durante il quale Marlow prende sempre più
coscienza di un’umanità altra, costituita dagli uomini sulle rive, che, malgrado le
differenze, somigliano all’uomo occidentale.
A poca distanza dalla stazione interna, in una capanna, Marlow trova un messaggio
sibillino: “Affrettatevi. Avvicinatevi con cautela e un libro di questioni di tecnica di
navigazione”. Il viaggio prosegue in un’atmosfera sempre più carica di presagi
angoscianti, la nebbia, urla di dolore che risuonano dalle rive, tronchi affioranti che
minacciano l’imbarcazione; improvvisamente figure umane si stagliano fra le fronde
e nugoli di frecce piovono sull’imbarcazione. Finalmente giungono in vista della
stazione interna dove li riceve una sorta di arlecchino, con gli abiti coperti dovunque
di pezze multicolore che parla di Kurtz come di un eroe, che gli ha allargato la mente
e a cui si sente devoto. Kurtz, gravemente malato, giace in una capanna, circondata da
pali sulle cui cime sono ancorati dei teschi umani. Marlow viene a sapere che è stato
Kurtz ad inviare i selvaggi nel tentativo di fermare il cammino del battello, Kurtz che
non vuole allontanarsi dal regno che si è costruito e a cui si sente ormai indissolubilmente legato. Portato sull’imbarcazione, fugge per ritornare a quella che ormai è
divenuta la sua terra, ma viene riportato a bordo. Mentre la nave si allontana, una donna
selvaggia e superba, magnifica, con lo sguardo allucinato si protende dalle rive,
osservata con desiderio disperato da Kurtz, che muore poco dopo mormorando
orrore, orrore. Marlow, tornato in patria, sente il desiderio di conoscere la promessa
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sposa di Kurtz e la va a trovare nella sua casa; la donna è bella e delicata, è il tipico
archetipo della virtù vittoriana e parla del nobile Kurtz che ... aveva il dono dei grandi...
Attirava gli uomini per quello che di meglio avevano in loro. Marlow, commosso, le
mente, dicendo che Kurtz è morto con il suo nome sulle labbra.
Cuore di tenebra è un capolavoro e sulla sua interpretazione sono stati scritti numerosi
saggi, in cui sono stati esaminati gli intrecci fra l’autore e il colonialismo di fine secolo,
il difficile rapporto di Conrad con le figure femminili (la zia, la nera, selvaggia e
superba, la promessa sposa dai capelli chiari, il volto pallido, la fronte pura...) e vi si
possono anche rintracciare suggestioni ecologiste; come non pensare, infatti, agli
elefanti, oggi specie a rischio di estinzione, leggendo: “...Nell’aria risuonava la parola
‘avorio’, la si sentiva sussurrare, sospirare. Sembrava che le innalzassero preghiere. Da
tutto ciò spirava un lezzo di rapacità imbecille, come una zaffata da qualche
cadavere...”?
In questo contesto, tuttavia, verranno esaminate soltanto le suggestioni che il nuovo
pensiero evoluzionista determinò sul suo autore e che emergono dal racconto.
Lo scrittore polacco aveva ben compreso che il processo evolutivo non consiste in uno
sviluppo lineare e prevedibile, simile a quello prefigurato da Spencer, che paragona
l’evolversi di una società a ciò che porta dal seme all’albero o dall’uovo all’animale,
dall’uniforme al differenziato, attraverso un continuo progresso; gli era ben chiaro
quanto fosse falsa questa visione, che ancora oggi in molti ambienti gode di ottima
salute e che alla fine del Diciannovesimo secolo si incarnò nel darwinismo sociale
giustificando, in nome del progresso, la conquista di territori appartenenti a popolazioni diverse da quella europea. L’albero, non la scala, rappresentano la corretta
metafora dell’evoluzione, come aveva messo in evidenza Darwin e come successivamente ha esplicitato Gould nel saggio La vita meravigliosa. Anche la scelta della forma
narrativa, non lineare e con più voci narranti, sembra voler sottolineare un’evoluzione
(del racconto in questo caso) che procede attraverso soste, ritorni, percorsi secondari,
involontaria metafora del processo evolutivo. L’evoluzione dell’uomo non è un
dispiegarsi lento e solenne, dagli uomini bruti, immersi nelle tenebre, al civile uomo
occidentale, portatore di luce; i comportamenti istintivi propri della bestia permangono in tutti gli uomini, sono segni anche questi della nostra comune origine, come
Darwin aveva messo in luce nell’Origine e nell’Espressione (1872), ma Conrad va molto
al di là dello stesso Darwin, le sue intuizioni si liberano dai preconcetti propri dell’epoca
vittoriana; l’accorto, prudente scienziato aveva infatti affermato: “...Con i mezzi ora
specificati e con l’aiuto forse di altri non ancora scoperti, l’uomo si è elevato al suo stato
presente. Ma da quando ha raggiunto la sua posizione, si è diviso in razze distinte, che
molto più propriamente si potrebbero chiamare sotto-specie. Alcune di queste, per
esempio il nero e l’europeo, sono tanto distinte che, se ad un naturalista fossero stati
presentati alcuni esemplari senza nessuna informazione precedente, egli le avrebbe senza
dubbio considerate come vere e proprie specie. Con tutto ciò, tutte le razze concordano
in tanti particolari poco importanti di struttura ed in tante facoltà mentali, che queste
possono venire attribuite soltanto all’eredità da un progenitore comune; ed un progenitore così caratterizzato avrà molto probabilmente meritato il posto di uomo....”
173
Conrad supera il suo mentore, facendo dire a Marlow: “... No, non erano disumani.
E, sapete, proprio questo era il peggio -il sospetto che non fossero disumani. Era
qualcosa che saliva dentro lentamente. Quelli urlavano e saltavano, e giravano, e
facevano smorfie orrende; ma quel che dava i brividi era il pensiero della loro umanità
-pari alla nostra- il pensiero di una remota parentela con quel grido selvaggio e sfrenato.
Brutt’affare. Brutt’affare davvero; eppure se eravate abbastanza uomini avreste
dovuto confessare a voi stessi l’esistenza di un’eco, magari debolissima, alla tremenda
franchezza di quel chiasso, un vago sospetto che contenesse un significato che noi -pur
così lontani dalla notte dei primordi- potevamo comprendere...”
In un periodo in cui la schiavitù veniva (e verrà ancora per lungo tempo) giustificata
in nome della presunta non umanità dei neri, che notoriamente non possedevano
un’anima, Conrad ci appare di una lucidità esemplare.
La stretta parentela fra i bianchi e i neri si fa più pressante, grazie alla scoperta
dell’esistenza di demoni, alcuni piccoli, incarnati nella menzogna, l’imbroglio, i piccoli
maneggi, l’avidità, l’invidia, e annidati in uomini squallidi e con essi più o meno
pacificamente conviventi; altri demoni sono invece titanici e restano per lo più nascosti
in anime nobili, ma sono pronti, in condizioni opportune, a liberarsi dal controllo e
portare alla pazzia.
Kurtz, nella relazione da inviare ai suoi datori di lavoro, la società con sede nella città
simile ad un sepolcro imbiancato, aveva scritto: ...noi bianchi, dato il livello di sviluppo
raggiunto, “dobbiamo necessariamente apparire loro [ai selvaggi] con la natura di
esseri soprannaturali -li avviciniamo con la potenza di una divinità”. “Attraverso il
semplice esercizio della nostra volontà possiamo esercitare un potere benefico in
pratica illimitato.
Il nobile amministratore, partito dalla Inghilterra con la mente piena di grandi ideali,
ha creduto alle menzogne della Compagnia sulla funzione salvifica dell’imperialismo
nei confronti del Libero Stato del Congo (mai nome è suonato più beffardo), ma
soccombe al fascino dei richiami istintuali provenienti dall’ immenso serpente e dalle
sue rive. La cultura aveva imbrigliato le tendenze aggressive, distruttive ed autodistruttive, presenti in lui come in ogni uomo o animale, retaggio di lontane origini ancestrali
in cui la lotta per la vita si manifestava in tutta la sua brutalità, ma l’istinto può riemergere
in ogni momento e il passo che divide l’uomo civilizzato dai così detti primitivi è molto
breve e può essere superato con estrema facilità; Kurtz, poeta e musicista nella sua
patria, alla Stazione Interna si abbandona a riti orgiastici, uccide, depreda, ama una nera
selvaggia e superba, magnifica, con lo sguardo allucinato e la guarda come se stesse
osservando l’immagine della propria anima tenebrosa e appassionata... Arrivato
convinto di avere una missione civilizzatrice, si lascia affascinare da questo mondo
selvaggio ed oscuro che ...come il serpente ammalia l’uccello - un uccellino sciocco ...,
libero dai condizionamenti che la società impone, si abbandona agli istinti, si fa re con
la complicità dei neri che lo considerano un dio e per lui (e con lui) uccidono e
depredano; solo al termine del suo viaggio senza ritorno, quando forse ripercorre tutta
la sua vita, come trapela dal suo volto d’avorio in cui si manifesta l’espressione
dell’orgoglio cupo, del potere spietato, del terrore vile -di una disperazione intensa e
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irreparabile... riacquista la perduta razionalità e con le parole: “Che orrore, che orrore”
misura il baratro in cui gli istinti lo hanno trascinato.
Se, alla fine del racconto, proviamo a riproporre il quesito che accompagnò il
darwinismo ottocentesco: “Sopravvive il più adatto o è il più adatto colui che
sopravvive?”, che risposta daremo? Come intendere “il più adatto”? E’ ben vero che
Kurz, tra “i più adatti” in Europa, non è “adatto” nella giungla, e infatti muore, mentre
i nativi continuano a viverci ( e anche il direttore della stazione), ma come nella giungla
non sopravvivono “i migliori”, così neppure in Europa. Kurtz , la cui fittness sembrava
ottimale in Europa, non risulta “adatto” nella giungla, dove soccombe.
Nel racconto sono anche presenti figure simboliche proprie di quello che Jung
chiamerà inconscio collettivo e che Warburg identificherà come invarianti nell’arte
figurativa di tutti i tempi: il fiume è un serpente, che terrorizza e nello stesso tempo
ammalia; le donne, vestite di nero che lavorano a maglia, sono l’incarnazione di due
parche, che detengono (e conoscono) il destino degli uomini che partono pieni di sogni
dalla città; il bianco e il nero sono ambigui simboli di purezza e corruzione; la splendida
selvaggia è forse la terza Parca, che ha partecipato, decretato e assistito al compiersi
del destino di Kurtz. La teoria degli archetipi, formulata inizialmente in ambiente
ellenistico, secondo cui questi sono modelli di forme di cui gli oggetti sensibili sono
semplici copie, assume diverso significato a partire dal pensiero di Darwin, divenendo
simboli di invarianti presenti nel cuore di ogni uomo, tracce indelebili di una comune
origine. Nel romanzo c’è anche una forte percezione del tempo: “...Pensavo ai tempi
antichi, quando arrivarono qui i Romani, mille e novecento anni fa – l’altro giorno...
La luce irradia da questo fiume sin dai tempi dei -i Cavalieri dite? Sì, ma è come un
incendio che corre sulla pianura, come un lampo tra le nubi. Noi viviamo nel suo
guizzo- speriamo che duri fintanto che la vecchia terra continua a girare! Ma qui ieri
c’erano le tenebre...” legata alla consapevolezza che tutte le civiltà sono sede di infinite
trasformazioni che non necessariamente portano al migliore dei mondi possibili ma
che inevitabilmente sono destinate a soccombere; come tutti i viventi sono incalzate
dalla inesorabile falce dell’estinzione. Tenebre e luce, sembra suggerire l’autore, sono
relative non solo nel tempo storico, ma anche all’interno del cuore degli uomini, in cui
permangono indissolubilmente intrecciate. Del resto, i fatti accaduti in aprile 2003 in
Irak, sono un’ulteriore testimonianza di come nel cuore di ogni uomo sia radicato un
lato oscuro pronto a rinascere quando determinate condizioni ambientali si fanno
propizie: le decapitazioni, gli stupri, la violenza di un uomo sull’altro non sembrano
avere connotazione di religione, di nazione o di sesso.
L’incontro
Il finlandese Björn Kurtén (1924-1999), docente di Paleontologia presso l’università
di Helsinki dal 1972 al 1988, è stato, insieme a George G. Simpson, il padre fondatore
del movimento scientifico che rintracciò in numerosi dati paleontologici consistenti
conferme alla teoria evolutiva di Darwin. Nei suoi studi Kurtén ha sempre mostrato
una grande attenzione agli aspetti paleoecologici e questo aspetto della sua ricerca gli
ha consentito di ricostruire con grande precisione la flora e la fauna del passato e le loro
175
reciproche interazioni. Le sue opere scientifiche più significative sono: Variazione e
dinamica delle popolazioni di mammiferi fossili e recenti (1953), I mammiferi del Pleistocene in Europa
(1968) I mammiferi del Pleistocene in Nord America (1980), Evoluzione e fossili di mammiferi
(1988). Nel 1988 gli venne attribuito l’Unesco Kalinga Prize, premio conferito agli
scienziati che si sono distinti per opere di divulgazione ; in questo campo, la sua
produzione è stata numerosa: L’età dei dinosauri (1966), L’età dei Mammiferi (1972), Storia
dell’Orso delle caverne (1976), Gli assassini innocenti (1991), I nostri più antichi antenati (1993).
Kurtén si è misurato anche con due bei romanzi ambientati nelle terre del Nord di
30000 anni fa, La danza della tigre e Zanna sola (8).
TRAMA E COMMENTO
I due volumi costituiscono una sorta di saga familiare degna della migliore tradizione
nordica; essi narrano la vita quotidiana nella Scandinavia del sud avvolta dai ghiacci, di
un clan di Neri, che si autodefiniscono Uomini, i Cro-Magnon, e di un gruppo di
bianchi Neanderthaliani. Questi ultimi raccolgono un giovane Nero ferito, Tigre, e lo
curano con affetto e dedizione, vedendo in lui e nei suoi compagni personaggi simili
a dei, per il loro aspetto elegante, mentre Tigre, a sua volta, lentamente rimane
affascinato dalla loro dolcezza, dai modi gentili mascherati da un aspetto in apparenza
feroce. Dall’incontro delle due popolazioni nascono i Bruni, intelligenti, agili e forti, ma
segnati da un destino infelice; alcuni di loro tenteranno una disperata quanto vana
rivolta che porterà solo lutti.
I due libri sono innanzi tutto romanzi dalla trama avvincente, ma gran parte del loro
fascino è strettamente legato alla capacità dell’autore di descrivere con efficacia un
mondo completamente scomparso e nel restituire nuova vita al mammuth, alla tigre
dai denti a sciabola, all’alce gigante e a tutti gli innumerevoli abitanti animali e vegetali
delle foreste e delle steppe del Paleolitico. I Neri ed i Troll sono dolci o violenti, amanti
fedeli o volubili, cercano scorciatoie per la felicità o si piegano al sacrificio per gli altri,
hanno cura dei piccoli e dei vecchi o uccidono brutalmente per stupidità o ingordigia,
temono gli dei o se ne fanno beffe, cercano il potere o le piccole felicità legate al
quotidiano. Quegli uomini, insomma, sebbene molto più dipendenti dagli eventi
naturali, siamo noi, nel bene e nel male, i loro bisogni e i loro desideri sono i nostri.
Kurtén -e per chi si occupa di Scienze Naturali questa è la parte più interessante dei due
libri- utilizza le sue conoscenze per ricreare una storia che, sebbene non avvalorata da
evidenze sperimentali, risulta credibile sul piano scientifico. Ai fini di una possibile
utilizzazione didattica nei due romanzi sono presenti contenuti e argomenti di
indubbio rilievo.
E’ avanzata una straordinaria ricostruzione degli uomini del Paleolitico, che può essere
utilmente messa a raffronto con saggi di divulgazione scientifica sull’argomento e che
può incuriosire il lettore tanto da spingerlo ad approfondire le conoscenze sulle nostre
origini. Nei due romanzi i Bianchi neandertaliani sono descritti come ben adattati al
clima freddo dei paesi del nord, dato che vivono da lungo tempo in Europa e sono
stati soggetti alla selezione naturale che ha premiato gli individui di carnagione chiara
, con ossa grosse e ben vascolarizzate; hanno il fisico potente, forti arcate sopraciliari,
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volto largo, movimenti lenti e misurati; malgrado il loro linguaggio sia sgraziato, a
causa della particolare conformazione delle strutture deputate alla fonazione, sono
gentili e ospitali; portano nomi di piante -Alloro, Betulla Bianca, Centaurea, Angelicaa indicare il loro modo di mantenersi in contatto con gli spiriti dei vegetali; vivono in
piccoli gruppi prevalentemente sedentari e presentano un’organizzazione sociale
matriarcale dovuta anche ad un dimorfismo sessuale trascurabile. A loro volta, i CroMagnon, approdati recentemente al Nord, ma provenienti dalle assolate regioni del
Sud, sono invece descritti neri, alti, agili, dai tratti del volto aggraziati; “...hanno un
linguaggio tanto variato e flessibile quanto il canto degli uccelli”; vivono in piccole
associazioni ad organizzazione patriarcale (in loro il dimorfismo sessuale è più
marcato); gli uomini procurano la selvaggina, fabbricano strumenti per la caccia e la
pesca, commerciano in selci, pellicce ed avorio con i gruppi vicini, con cui si incontrano
durante grandi raduni annuali; intagliano le pietre e il legno, producendo oggetti di
squisita fattura per scopi rituali o per puro piacere estetico; le loro donne raschiano le
pelli, cuciono indumenti, cucinano e conservano gli animali portati all’accampamento;
hanno nomi di animali- Tigre, Oriolo, Martora-, cercano di comprendere il volere dei
Guardiani attraverso i segni che questi inviano attraverso il vento, la nebbia, il volo degli
uccelli; conoscono l’esistenza dei Troll e li temono.
- E’ chiarito il significato evolutivo della neotenia ed è sottolineata la sua importanza
per l’affermarsi delle cure parentali nei mammiferi e (nel romanzo) per le scelte sessuali
operate dai bianchi.
- E’ messo in luce il significato genetico di vigore degli ibridi: i Bruni, nati dal matrimonio
dei bianchi con i Neri sono forti, agili, intelligenti e sopravvivono alle malattie infantili che
decimano gli altri bambini sia della tribù dei Bianchi che di quella dei Neri.
- E’ chiarito come il dimorfismo sessuale, spiccato nei Neri, poco marcato nei Bianchi,
possa essere uno dei motivi della diversa organizzazione di animali (o uomini) che
vivono in società.
- E’ utilizzato l’incrocio fra le due popolazioni per parlare della sterilità degli ibridi. In
questo contesto è avanzata un’ipotesi intrigante, anche se non suffragata dai fatti, circa
l’estinzione dei Neanderthaliani:
Negli accampamenti dei Neandertaliani le donne neandertaliane preferiscono concepire figli con i Neri, che risvegliano i loro sentimenti di tenerezza, ma dal matrimonio
nascono i Bruni, intelligenti, vigorosi, eppure sterili e quindi “morti viventi”; negli
accampamenti dei Neri l’unione fra donne nere e Neandertaliani non è tollerato e
comunque le altere Nere non si sentono attratte dai Bianchi.
Sono esemplificati moduli comportamentali, presenti in tutti gli animali sociali, atti a
rassicurare il con-specifico, da cui possono discendere approfondimenti in etologia:
“...Così terribili erano gli occhi dei Bianchi, che era divenuto per loro un segno di
deferenza passarsi le mani sul viso, nascondendo per un momento il luccichio delle
pupille e la truce minaccia delle sopracciglia...”;
Sono ricreate battaglie indimenticabili, come quella fra i mammut e la tigre.
E’ presentata una straordinaria ricostruzione della geologia delle terre del Nord, strette
nella morsa del ghiaccio, sono introdotti eventi, come un primo tentativo fallito di
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domesticazione di animali simili ai caribù o l’uso di bacche per produrre bevande
alcoliche, che sono credibili e certamente avvennero, con meccanismi simili, anche se
in epoca molto successiva.
E’ infine rappresentata in modo magistrale la tensione dell’artista che cerca di fissare
nel legno o su una roccia le immagini di animali.
Kurtén propone una elaborazione completamente nuova della nostra storia evolutiva.
Gli sgraziati uomini di Neandertal, che nell’immaginario collettivo restano associati a
forme bestiali e stupide, erano in realtà perfettamente umani: avevano una invidiabile
capacità di controllo sul territorio, curavano i loro piccoli e gli anziani (cosa del resto
testimoniata da resti fossili di anziani gravemente menomati); erano quindi simili ai
nostri diretti antenati, i Cro-Magnon. Questi ultimi, che nei due romanzi hanno i volti
con i primi caratteristici tratti dell’uomo moderno, furono indubbiamente in grado di
costruire strumenti più sofisticati e si aprirono all’arte, lasciandoci gli enigmatici
affreschi che in tante parti del vecchio continente ci danno testimonianza della loro
civiltà, ma non appaiono i migliori, i più intelligenti, i più abili o i più feroci, come molti
hanno ipotizzato; sono semplicemente i sopravvissuti nell’eterno gioco dei possibili
che non necessariamente premia il più adatto in assoluto.
I due racconti ci insegnano anche come l’uomo da sempre abbia temuto il diverso, per
pelle, abitudini o credo religioso e come soltanto la sua conoscenza possa placare la
diffidenza e mettere in luce le somiglianze. Sotto questo aspetto, il finlandese Björn
Kurtén, fine poeta che faceva di professione il paleontologo, mentre tracciava una
ricostruzione indimenticabile delle nostre radici, ci regalava una storia su cui continuare
a riflettere. Nel 1857, in una piccola grotta attualmente distrutta, Neanderthal, in
Vestfalia, alcuni operai trovarono dei resti di uno scheletro, ma Mayer e Virchow,
autorità indiscusse in quel tempo, videro nell’esemplare niente altro che un uomo
afflitto da malattie ossee degenerative.
Nel 1886, vennero trovati, associati con resti ossei di animali estinti e strumenti di pietra
più elaborati di quelli tipici di Homo erectus, due scheletri di Neanderthal; e nel 1908 a
la Chapelle-aux-Saints, nel sud ovest della Francia fu trovato un esemplare in buono
stato che venne studiato dal paleontologo Marcellin Boule, che, guidato dai pregiudizi
propri del suo tempo, descrisse il reperto, e quindi tutti i Neanderthaliani, come
individui simili a scimmie, che dovevano aver avuto una deambulazione incerta e
strascicata, spalle curve, capacità intellettuali primitive. Questa ricostruzione fu accettata dalla comunità scientifica per molto tempo ed è rimasta sostanzialmente immutata
nell’immaginario collettivo.
I Neanderthal sono vissuti in Europa e nel Sud-Est dell’Asia in un periodo compreso
fra i 130.000 e i 29.000 anni fa. E’ probabile che si siano evoluti da forme arcaiche di
Homo sapiens o da Homo heidelbergensis in Europa Sud orientale.
David Caramelli e il suo gruppo, dell’Università di Firenze, hanno recuperato materiale
genetico appartenente a due Cro-Magnon, un maschio e una femmina, rinvenuti a
Grotta Paglicci, un sito del paleolitico nel Parco Nazionale del Gargano. Il DNA
mitocondriale esaminato è stato confrontato con quello di uomini moderni e con
quello proveniente da uomini di Neandertal; l’analisi sembra dimostrare che non
178
esistono differenze sostanziali fra i Cro-Magnon e gli uomini moderni, mentre
esistono sostanziali differenze rispetto alle sequenze genetiche di Neandertal. Le
popolazioni di Cro-Magnon e di Neandertal, pertanto, pur essendo convissute non
si sarebbero mai incrociate.
L’incantamento della scienza
“Le denominazioni animali o antropomorfe che le costellazioni portano ancora hanno
perduto la loro carica mitica già dall’antichità. A ogni secolo e a ogni rivoluzione del
pensiero sono la scienza e la filosofia che rimodellano la dimensione mitica della
immaginazione, cioè il fondamentale rapporto tra gli uomini e le cose” (9).
Italo Calvino (1923-1984) nacque a Santiago de las Vegas (Cuba), dove il padre,
agronomo, dirigeva una stazione sperimentale di agricoltura; la madre, laureata in
Scienze naturali, era assistente di Botanica presso l’Università di Pavia. La famiglia si
trasferì presto in Italia, a San Remo, la patria di adozione dello scrittore. Il suo primo
amore per la lettura scaturì precocemente, grazie alla scoperta dei romanzi di Kipling
e sin dai primi anni del liceo classico iniziò a scrivere racconti e poesie. Iscrittosi alla
facoltà di Agraria di Torino nel 1941, fu talmente colpito dalla morte di un partigiano
a cui aveva assistito personalmente, da decidere di aderire alla Resistenza, militando
nella Brigata Garibaldi in Liguria. Al termine della guerra, si laureò in Lettere, con una
tesi su Conrad ed iniziò a lavorare presso la casa editrice Einaudi. Nel 1947, esortato
anche da Pavese, scrisse il suo primo romanzo breve, Il sentiero dei nidi di ragno. La sua
collaborazione con la casa editrice si intensificò e nel 1950 passò a dirigere la parte
letteraria della collana “Piccola Biblioteca Scientifico-Letteraria”; in questo ambiente
contrasse rapporti di amicizia con Elio Vittorini, Natalia Ginzburg, Delio Cantimori,
Franco Venturi, Norberto Bobbio, Felice Balbo. La sua attività letteraria, inizialmente
diretta prevalentemente verso opere di impianto realistico e sociale, subì una svolta
decisiva negli anni Cinquanta, con Il visconte dimezzato (1952) e Le fiabe italiane (1956). A
Il visconte dimezzato fecero seguito Il barone rampante (1957) e Il cavaliere inesistente (1959),
che nell’insieme costituirono la trilogia I Nostri antenati (1960). Nel 1956, dopo i fatti
di Ungheria, lo scrittore si allontanò dal PCI e progressivamente da qualunque
impegno politico. La sua attività letteraria si intensificò con la stesura di nuovi romanzi
quali La giornata di uno scrutatore (1963), Marcovaldo, ovvero le stagioni in città (1963), Le
Cosmicomiche (1964) (10), Ti con zero (1967), Le città invisibili (1972), Il castello dei destini
incrociati (1973), Se una notte d’inverno un viaggiatore (1979), Palomar (1983); si dedicò anche
ad alcune traduzioni, fra cui spiccano I fiori blu di Raymond Queneau, e fu presente sul
terreno della critica letteraria e della riflessione culturale con interventi e saggi sempre
lucidi e stimolanti. Uscirono postume Lezioni americane (1988) e Perché leggere i classici
(1991). Tra gli scritti di Calvino, quelli che ci interessano per il nostro percorso sono
Le Cosmicomiche, una serie di racconti pubblicati in quattro raccolte (1965-1984), di cui
la prima dal titolo omonimo.Gli argomenti dei vari racconti disegnano “storie”,
ciascuna delle quali prende avvio da un enunciato di natura scientifica concernente uno
specifico tema: l’origine dell’universo, il moto delle stelle, la formazione dell’atmosfera,
l’organizzazione dei primi vertebrati, la scomparsa dei dinosauri ed altri ancora.
179
L’enunciato concettuale è la mossa di apertura verso il racconto, più precisamente
verso il gioco autonomo delle immagini che lo sostiene e attraverso il quale si
dispiegano le infinite forme del possibile e dell’impossibile. Il tema dell’immaginazione
non tragga in inganno, poiché, come ci ricorda opportunamente l’autore, la molteplicità potenziale di immagini visuali -il modello della rete dei possibili- è indispensabile per ogni
forma di conoscenza. Del resto, per la scienza e l’attività scientifica Calvino mostrò
sempre grande interesse e attenzione: trasse dall’ ambiente familiare un appassionato
amore per le scienze sperimentali, e rimase sempre un instancabile e curioso lettore di
trattati di Informatica, Genetica, Evoluzione, Cosmologia. Le Lezioni americane
testimoniano, appunto, questo legame esistente nell’autore tra l’interesse per la
letteratura e l’interesse per la scienza. In questi interventi, tenuti all’università di Harvard,
nel Massachussetts, nell’anno accademico 1985-1986, le categorie attraverso le quali
viene “rivisitato” l’ambito della letteratura sono infatti le stesse che consentono di
“rivisitare” l’ambito della scienza: leggerezza, rapidità, esattezza, visibilità, molteplicità. Ad
esempio, dopo le notazioni sulla levità di elementi presenti nelle Metamorfosi di Ovidio
(un gesto di rinfrescante gentilezza di Perseo verso la testa recisa della Medusa) o dopo
la citazione delle tracce madreperlacee e dello smeriglio di vetro calpestato nei versi di Eugenio
Montale (Piccolo testamento), ecco subito affiorare una riflessione relativa agli ultimi
risultati della ricerca scientifica: “...oggi ogni ramo della scienza sembra ci voglia
dimostrare che il mondo si regge su entità sottilissime come i messaggi del DNA, gli
impulsi dei neuroni, i quarks, i neutrini vaganti nello spazio dall’inizio dei tempi...bits
senza peso...” (11) Perché allora, non cercare la leggerezza nella scienza?
Le Cosmicomiche sono dunque un’esperienza letteraria che attinge dalla scienza un’inesauribile fonte per l’affabulazione e mostrano come “...il discorso per immagini tipico del
mito possa nascere da qualsiasi terreno: anche dal linguaggio più lontano da ogni
immagine visuale come quello della scienza d’oggi. Anche leggendo il più tecnico libro
scientifico o il più astratto libro di filosofia si può incontrare una frase che inaspettatamente fa da stimolo alla fantasia figurale...” (12).
Attraverso l’utilizzazione delle scoperte scientifiche, Calvino riannoda un filo molto antico
nella storia della poesia: il De rerum natura di Lucrezio è un poema che si sviluppa in poesia
immortale partendo da una teoria proto-scientifica, quella di Epicuro, secondo cui la
materia è costituita da atomi, che, pur ubbidendo a rigorose leggi meccaniche, sono
anche in grado di deviare in modo imprevedibile dalla linea retta, consentono alle cose
e agli uomini gradi di libertà e tolgono pesantezza al mondo, in quanto, circondati dal
vuoto, sono minutissimi e invisibili; per contro le Metamorfosi di Ovidio attingono al
pensiero di Pitagora e, invece di partire dalla realtà fisica, partono dai miti, che
raccontano vicende di ordine superiore e i cui gradi di libertà, nel tessere relazioni fra
figure e forme primordiali, sono infiniti; nel mito, infatti, a differenza che nella scienza,
sono possibili la contraddizione e l’ambiguità, anzi, ne sono ingrediente fondamentale.
Nelle Cosmicomiche, Calvino ha cercato di coniugare la razionalità della scienza con la
dimensione mitica dell’immaginazione, costruendo racconti che possiedono, come
molti critici hanno più volte sottolineato, eleganza, leggerezza, misura, chiarezza,
razionalità, le stesse qualità possedute dalla Scienza quando riesce a formulare grandi
180
teorie, le stesse qualità che tutti dovrebbero poter imparare ad utilizzare per non cadere
nei loro opposti.
Il titolo, Cosmicomiche, è l’unione di due termini: Cosmico, che fa riferimento non tanto
alle scoperte spaziali, quanto a qualcosa di molto più antico, qualcosa che rimanda al
mito, al senso che del cosmo avevano gli antichi e Comico, che si riferisce sia alle
comiche del cinema muto, che ai comics, le storielle a fumetti in cui il protagonista si trova
di fronte a situazioni sempre nuove, fantastiche, improbabili e nello stesso tempo
credibili e in cui le vignette hanno una forte valenza evocativa ed esplicativa. Le
Cosmicomiche sono racconti che per la maggior parte possiedono una struttura
omogenea: a poche righe introduttive, in cui viene enunciata una teoria scientifica, fa
seguito un racconto breve; il protagonista -voce narrante- è il vecchio Qfwfq, di cui
non si conosce nulla, tranne che ha più o meno l’età dell’universo ed ha visto e
sperimentato tutta le trasformazioni subite dal cosmo in formazione e dalla Terra in
continua evoluzione. Si tratta della narrazione poetica dei grandi miti sulle origini
(dell’Universo, dei pianeti, della Terra, del Sole, della vita), sulla trasformazione
continua che ha accompagnato tali eventi e sulla morte (individuale e di specie); la
grande fonte di ispirazione è data dalle scoperte scientifiche del Novecento, trasfigurate e rese lievi dalla fantasia e l’umorismo; come si vede, si tratta degli stessi temi trattati
da tutti i modelli evolutivi formulati in tutte le epoche.
- Qfwfq, quando la Luna era molto vicino alla Terra, ha assistito ad enormi maree,
continue eclissi, è stato attirato dalla forza di gravità del satellite e qui ha raccolto il latte,
denso come una specie di ricotta;
- è stato, bambino, sulle nebule, al freddo, rincalzato in uno strato di materia fluida e
granulosa, contemplando il buio;
- …quando i tempi dell’acqua erano finiti e quelli che si decidevano a fare il grande passo erano sempre
in maggior numero…, ha avuto come prozio dalla parte della nonna paterna, nata dai Celacanti
del Devoniano, il vecchio N’ba N’ga, che abitava in acque basse e limacciose, fra radici
di protoconifere e, malgrado le insistenze dei parenti, si rifiutava di provare a
frequentare la terra asciutta e nemmeno voleva assaggiare gli insetti nuovi che
crescevano all’asciutto; malgrado fosse così antiquato, però, conquistò la bella Lll, che
lo sposò e ritornò con lui alla vecchia vita fra le acque;
- è stato dinosauro e, insieme ai suoi simili,… aveva la coscienza di essere nel giusto e si faceva
rispettare ..., ma arrivò l’epoca della grande morìa e Qfwfq cercò scampo su altipiani
deserti e quando ridiscese a valle, si trovò di fronte un mondo cambiato, irriconoscibile, popolato dai Nuovi che non lo riconobbero e lo considerarono un Nuovo, uno
di loro, anche se il ricordo dei dinosauri era rimasto nell’intrico dei pensieri di chi resta. Dalla
penombra delle paure e dei dubbi di generazioni ormai ignare, continuavano a protendere i loro colli,
a sollevare le loro zampe artigliate, e quando l’ultima ombra della loro immagine s’era cancellata, il
loro nome continuava a sovrapporsi a tutti i significati, a perpetuare la loro presenza nei rapporti tra
gli esseri viventi.. (13);
- ha assistito alla nascita degli uccelli, quando, quello dei volatili era considerato un capitolo
chiuso, ormai. Non s’era detto e ripetuto che dai rettili tutto quello che poteva nascere era nato?...,
181
quando non esistevano più dubbi …su chi era mostro e chi non lo era: …non mostri siamo tutti
noi che ci siamo e mostri invece sono tutti quelli che potevano esserci e invece non ci sono, perché la
successione delle cause e degli effetti ha favorito chiaramente noi, i non mostri, anziché loro…; in quel
periodo, per la prima volta, dalla nascita del mondo, ha udito un canto e ha potuto
vedere animali ricoperti di cangianti piume multicolori e, affascinato, ha inseguito
queste forme seducenti sino all’orlo della terra, dove ha visto i continenti alla deriva
scontrarsi fragorosamente…
I vari racconti prendono insomma spunto da un fenomeno scientifico, lo trasformano
in mito, ritornano ai fatti scientifici e se ne allontanano nuovamente in un gioco di
rimandi imprevedibili, in cui la fantasia e l’umorismo, proprio come nei fumetti, sono
strettamente intrecciati e, come nelle strisce, ogni episodio è in sé concluso ed
indipendente, ma nello stesso tempo la voce narrante, Qfwfq,-un nome tra l’altro
impronunciabile per l’assenza di vocali- che durante la sua lunga vita ha subito diverse
metamorfosi -corporeo oppure privo di sostanza, bambino, pesce-anfibio, dinosauro- ci rassicura che la vicenda che si svolge nel tempo e nello spazio è sempre la stessa
e il vero protagonista ne è il Cosmo e la Terra e la loro continua evoluzione. Qfwfq,
come un vecchio verboso, è sempre pronto al racconto, anche se i suoi ricordi sono
pieni di contraddizioni e di volta in volta avallano ipotesi contraddittorie o addirittura
opposte e inconciliabili, come quelle del big bang (Tutto in un punto) e dello stato
stazionario (Giochi senza fine) e, prima che l’evento accadesse, il nostro eroe è sempre
pronto a giurare che non sarebbe successo, ma chi, se fosse stato presente, avrebbe
potuto prevedere l’origine del pianeta Terra o della vita, o ancora la “conquista” delle
terre emerse, la nascita degli uccelli o la venuta dell’uomo? Qfwfq ha spesso sbagliato
le sue previsioni, ma la storia, quella degli uomini, quella della vita sulla terra, quella del
cosmo, è ricca di biforcazioni, destini incrociati, strade a fondo cieco, percorsi che, con
piccole variazioni, riportano a situazioni precedenti e gli sconfitti, gli estinti non sempre
sono i peggiori. Calvino ci dimostra, insomma, con ironia, con leggerezza, a volte con
struggente malinconia, ma sempre con rigore, quanto sia grande la forza mitica della
scienza e la lettura di alcuni di questi racconti, anche in forma decontestualizzata, si
presta molto bene per trasmettere l’infinito stupore per le inenarrabili avventure che
hanno portato la Terra ad essere quella che noi oggi conosciamo, lo stesso incantamento che si può provare nel vedere per la prima volta il Diplodocus, un dinosauro estinto,
esposto nella prima sala del museo di Storia Naturale di Londra.
Aby Warburg
Aby Warburg (1866-1929) nacque ad Amburgo da una ricca e colta famiglia di
banchieri israeliti. Destinato come primogenito a succedere al padre nella gestione della
banca di famiglia, preferì dedicarsi agli studi di Storia dell’arte a Firenze, Bonn e
Strasburgo. Il suo nome è legato alla sua prestigiosa Biblioteca per la scienza della cultura,
organizzata da lui ad Amburgo sin dai primi anni dei suoi studi ed oggi divenuta a
Londra il Warburg Institute (14). Alla sua maturazione intellettuale contribuirono
Hermann Usener, il filologo delle religioni primitive che privilegiava l’analisi comparata fra arte e mito, filosofia e religione, Karl Lamprect, particolarmente interessato
182
al significato dei gesti e dei rituali e alla loro evoluzione nel corso della storia, Tito
Vignoli e Charles Darwin.
Warburg rivolse i suoi studi al Rinascimento italiano; poco interessato agli aspetti
estetici dell’opera d’arte, privilegiò un approccio interdisciplinare, unito ad un’attenta
ricerca filologica; negli archivi fiorentini andò alla ricerca di notizie che gli permettessero di ricostruire il mondo sociale ed intellettuale che circondava Lorenzo dei Medici
per comprendere che cosa ricercassero i committenti del Quattrocento nell’antichità
classica e per quale motivo simboli creati in un contesto pagano avessero ripreso vita
nel Rinascimento. Il nuovo paradigma che guidò i suoi studi fu pertanto l’influsso
dell’antico sugli aspetti sociali, politici, religiosi, scientifici, filosofici, letterari ed artistici
della civiltà moderna; anche i libri della sua biblioteca amburghese furono raccolti
secondo questa logica di “buon vicinato”. Nel 1889 Warburg, a Firenze, nella
Biblioteca Nazionale, lesse il libro di Charles Darwin sull’Espressione delle emozioni
nell’uomo e negli animali, trovandovi una serie di risposte ai suoi problemi, tanto da
annotare: finalmente un libro che mi aiuta (15) Interessato in quel momento a comprendere
l’evoluzione dell’espressione dei volti in Masolino e Masaccio, lo studioso amburghese
trovò illuminanti le convinzioni di Darwin e i dati da lui riportati a proposito ad
esempio dell’espressione del dolore con l’analisi dei muscoli responsabili dell’abbassamento degli angoli della bocca e quelli coinvolti nell’aggrottamento delle sopracciglia
e ... L’energica chiusura delle palpebre e la conseguente compressione dei globi oculari ... servono a
proteggere gli occhi da un eccessivo afflusso di sangue.. (16). Warburg fece proprio il significato
del lavoro di Darwin: i nostri antenati, come gli altri animali, maturarono comportamenti istintivi per reagire a situazioni di pericolo o per comunicare con i conspecifici;
tali reazioni persistono anche nell’uomo civilizzato, trasformati in archetipi dell’esperienza umana, rielaborati sotto forma di simboli che si ritrovano con poche variazioni
in molte espressioni artistiche e in altre manifestazioni sociali; i simboli non sono altro
che forme cristallizzate di un immaginario collettivo “...che la volontà selettiva di
un’epoca riattiva ed inevitabilmente polarizza. Nel confronto con la carica energetica
addensata nei simboli, l’artista o ne è travolto, come accadde allo stesso Antonio
Pollaiuolo e ai seguaci di Raffaello e Michelangelo, o ne controlla l’insita minaccia,
come seppero fare Dûrer e Rembrandt. Se questa teoria della memoria sociale era
legittima -e le analisi compiute da Warburg sulle forme artistiche del Rinascimento
italiano e nordico lo dimostravano- allora era possibile arrivare a concepire la stessa
storia della cultura occidentale come uno straordinario viaggio attraverso il labirinto
delle immagini e dei segni. Nel 1926, col progetto Mnemosyne (17), Warburg divenne
“l’affascinante signore del labirinto”. Per giungere a questo risultato egli aveva dovuto
però fare un’altra importante scoperta: quella delle immagini astrali e delle loro
“migrazioni”. Nel ciclo degli affreschi di Ferrara il Warburg decifrò l’origine delle
figure, alcune delle quali oscuramente scomposte, che stanno nella fascia mediana,
occupata dai segni zodiacali: sono i decani dei mesi identificabili nelle antiche divinità
astrali di Babilonia... a Ferrara i demoni babilonesi sopravvivevano, ma ricondotti nel
loro luogo più proprio, quello mediano, che le divinità olimpiche ora controllavano
dalla fascia superiore in cui erano collocate, libere dalla sovrapposizione con i segni
183
astrologici, avendo riacquistato le forme originarie in cui le aveva cantate Manilio:
tutrici benefiche dei vari mesi dell’anno. Esse, dall’alto, attraverso gli astri, seguivano
le opere e i giorni del principe giusto, Borso d’Este, rappresentati nella fascia inferiore
degli affreschi...” (18).
Brunella Danesi
Direttore del Seminario
Note
(1) Da Candido, Rizzoli 1974, pp 18-20
(2) La natura descritta dalla Burnet è un canto armonioso: “...Quel pomeriggio era splendido: la
natura pareva essersi vestita a festa solo per far contento Colin, e la primavera pareva essersi
preoccupata di rendere bello solamente quel pezzetto di terra. ... Avevano fermato il carrozzino
di Colin sotto un prugno tutto fiorito e carico di api ronzanti: un candido baldacchino preparato
per il re delle fate. Più in là erano allineati ciliegi e meli coi loro boccioli rosa e bianchi, che già
cominciavano ad aprirsi; tra l’intrico dei rami in fiore s’intravedevano lembi di cielo...
(3) ... La legge del bastone e della zanna è il titolo del secondo capitolo di Il richiamo della foresta
(4) Si legga il seguente passo, tratto da Second notebook on trasmutation of Species (1838) di Darwin,
riportato nel libro di Antonello La Vergata L’evoluzione biologica da Linneo a Darwin, ed. Loescher,
1979 : L’uomo (l’uomo rozzo e incivile) non avrebbe potuto vivere mentre erano in vita certi altri animali che
poi sono periti. L’uomo vada a vedere l’orangutan in cattività, ascolti il suo espressivo piagnucolare, veda la sua
capacità di intendere quando gli si parla, come se capisse ogni parola che si dice, veda il suo affetto per quelli che
conosce, veda la sua passione e la sua ira, la sua scontrosità e la sua estrema disperazione; guardi il selvaggio,
che arrostisce il genitore, nudo e senz’arte, che non progredisce, eppure può progredire, e allora si provi a vantarsi
della sua orgogliosa preminenza. L’incomprensibile linguaggio dei Fuegini li pone al livello delle scimmie.
(5) Le citazioni sono riprese dai libri: Zanna Bianca, Piemme Pocket, 2003; Il richiamo della foresta,
Marsilio, 2003
(6) Mrs Grundy è un personaggio assurto a simbolo dell’atteggiamento ipocrita e perbenista della
società vittoriana
(7) William Morris (1834 - 1896) studiò ad Oxford; le letture di Carlyle, Kingsley and Ruskin,
lo indussero a dedicare la sua vita all’arte; molto interessato alla pittura preraffaellita, frequentò
e fu influenzato da Dante Gabriel Rossetti, per dedicarsi poi alle arti decorative e divenire uno dei
fondatori della moderna grafica di design. Nel 1888 fondò il movimento Arts and Crafts,
attraverso cui intendeva opporsi alla degenerazione del gusto provocata dalla rivoluzione
industriale e dall’uso delle macchine, con un ritorno all’artigianato; collaborò con molti architetti,
facendo i cartoni per vetrate di chiese, carta da parati, stoffa e disegnando mobili e oggetti d’arredo
(8) Kurtén Björn La danza della tigre, Muzzio, 2002; Zannasola, Editori Riuniti, 1990
(9) Da Il Corriere della Sera, 7 settembre 1975, nella rubrica Osservatorio del signor Palomar.
(10) Le cosmicomiche sono state pubblicate in quattro raccolte: Le cosmicomiche, Einaudi, Supercoralli,
1965; Ti con zero, Einaudi, Supercoralli, 1967; La memoria del mondo e altre storie cosmicomiche, Club
degli editori, 1968; Cosmicomiche vecchie e nuove, Garzanti, 1984
(11) Da Lezioni americane, Leggerezza, 1985
(12) Da Lezioni americane, Leggerezza, 1985
(13) Da La memoria del mondo, Mondadori, Oscar, 2000
(14) Per maggiori informazioni, si visiti il sito: http://www.sas.ac.uk/warburg/institute/
institute_introduction.htm
(15) Si veda Ernst Gombrich, “Aby Warburg una biografia intellettuale”, Feltrinelli, 2003, pg. 71
184
(16) Da L’espressione delle emozioni nell’uomo e negli altri animali con introduzione, postfazione e
commenti di Paul Ekman, Bollati Boringhieri, 1998, pg. 183
(17) La Mnemosyne, nelle intenzioni dell’autore, doveva essere una sorta di atlante fotografico
che testimoniasse il percorso compiuto attraverso i secoli dagli uomini del bacino del mediterraneo; anche in questo caso, il progetto risentì dell’influenza di Darwin, che nell’Espressione aveva
riconosciuto l’importanza del documento fotografico, come eccellente strumento di studio, in
quanto copia fedele e, a differenza del disegno, non soggetta ad interpretazione.
(18) Da G. Perugi, M. Bellucci, Storiografia 2, Zanichelli, Aby Warburg e l’istituto Warburg,(pp. 444-447)
185
Dibattito
Una collega
Mi sembra che tu abbia troppa fiduzia nelle capacità di lettura dei ragazzi.
Brunella Danesi
Una critica sbagliata; probabilmente ho anche sbagliato mestiere ma se c’è una cosa
che dobbiamo trasmettere è inutile dire agli studenti “dovreste leggere….” quando poi
l’insegnante non legge mai nulla, e questo è un aspetto; l’altro aspetto è che per me
insegnare ha sempre voluto dire crescere con gli studenti e crescere con gli studenti
vuol dire anche leggere con gli studenti, quindi dare libri da leggere durante l’estate
è un compito che non si dà solo agli studenti, ma si dà anche all’insegnante. E’ chiaro
che io ho raccolto tutta una serie di cose che ho fatto nell’arco di 35 anni perché sono
carica d’anni e di poche virtù, però un libro l’anno si può leggere secondo me utilmente,
non soltanto prendendo come tema l’evoluzione, perché altrettanto si potrebbe fare
prendendo altri temi come per esempio la neurologia oppure saggi scientifici perché
non è detto che uno si debba buttare nella letteratura, quella mi diverte, io non sono
potuta andare a Lettere (veramente volevo andare a Storia) ma il pallino mi è rimasto;
i saggi sono tanti e sono, vi assicuro, estremamente accessibili e, o io mi sono illusa
per 35 anni o, secondo me, funziona.
Sandra Magistrelli
Questo che proponi è un itinerario meraviglioso nel vero senso della parola, che desta
meraviglia, che fa riflettere su tante cose. Io mi chiedo però, da un punto di vista
strettamente didattico, se facciamo leggere ai ragazzi quel libro di Kurtèn sull’incontro
romanzato del Neandertal con il Cro-Magnon, con tutte queste varianti, se così facendo
non si corra il rischio che i ragazzi escano dalla scuola convinti che quello sia vero, a
meno che tu non faccia un lavoro molto complicato e serrato di comparazione tra quello
che si sa fino adesso sull’ominazione che come abbiamo sentito è tanto ma è anche
poco e comunque anche fonte di incertezze e dubbi, rispetto a una cosa romanzata che
per la sua simpatia risulta molto più convincente.
Concludo: il lavoro didattico è difficile perché si tratta sempre di andare contro
corrente; si tratta, come dire, di annoiare piano piano il ragazzo, nel senso di fargli
capire che ci sono degli escamotage mentali, purtroppo però le cose non stanno
esattamente così.
Brunella Danesi
E’ chiaro, non c’è stato tempo e forse ho esagerato con le sollecitazioni, ma io ti spiego
per esempio come ho utilizzato il libro di Kurtèn : il libro fu utilizzato in una terza, cioè
alla fine della seconda fu dato agli studenti il libro che fu letto durante l’estate,
chiedendo come compito semplicemente di parlarne e di mettere in luce gli aspetti
salienti e la faccenda è finita lì. A gennaio di quell’anno si è preso un altro libro che però
leggevamo insieme, Il cammino dell’uomo di Tattersal, che è un libro sull’uomo con
tutta una serie di sollecitazioni scientifiche su quanto se ne sa, ma senza annoiarli
troppo, senza entrare mai in particolari come sono quelli riportati dalla prof. Rickards,
perché a me interessava che capissero che sono convissute tutta una serie di
popolazioni, che capissero il concetto di neotenia ecc. In quel libro c’era, quel libro è
stato letto in classe a brani, la tecnica che seguivo era di dare un capitolo al mese dopo
di che ci si faceva una relazione scritta in classe, con delle domande specifiche
altrimenti non lo avrebbero letto, e contava come valutazione quadrimestrale. Alla fine
186
di questo lavoro ci siamo rivisti e in questo caso è stato costruito un ipertesto sull’uomo,
un lavoro sugli altri autori potrebbe benissimo essere fatto a più voci e in certi casi lo
puoi fare. Quella volta mi è riuscito di coinvolgere l’insegnante di inglese; perché è
importante coinvolgere altre persone, perché i ragazzi risparmiano, è vero che forse
gli fai leggere un libro in più però è anche vero che quello che studiano a Scienze
possono utilizzarlo a Inglese perché per esempio ci fanno la relazione, invece di
parlare di letteratura, tanto per l’insegnante di inglese l’importante è l’acquisizione
linguistica, e anche l’acquisizione dell’inglese scientifico visto che io ho insegnato in un
liceo Scientifico.
E’ vero, sembra un grosso lavoro, però se uno riesce a utilizzarlo facendo tutto un
lavoro in parallelo, e soprattutto non presentando agli studenti un libro e pretendendo
che lo leggano subito e che traggano conclusioni, il libro è vero, non ti risolve, ma al
libro poi ritorni.
Sandra Magistrelli
La mia paura è che, proprio per ritornare alla questione “morattiana”, essendo nei
giovani e anche in noi tanto forte l’anelito mitologico, l’istanza favolistica, perché è una
forma di pensiero sicuramente molto potente che alla fine dà una soluzione rapida,
diventi un escamotage cognitivo rispetto ad altre soluzioni che sono lunghe, difficili,
che molto spesso non sono soluzioni ma interrogativi, che è un po’ il nostro compito,
e qui faccio la parte dell’avvocato del diavolo mentre peraltro sono d’accordo con te
su questa sistemazione di input, di interessi. E’ dal punto di vista cognitivo che mi pongo
domande, non certo dal punto di vista delle difficoltà concrete di portare avanti un
lavoro del genere, possibilmente in concomitanza con i colleghi di altre discipline.
Brunella Danesi
Io ribadisco questo, siccome l’ho fatto diverse volte è un modo come un altro per fare
scienza.
Io vi dico la mia esperienza: se riesco a catturare l’interesse dell’insegnante di Inglese
e indurlo a far leggere Conrad agli studenti, gli faccio notare che la cultura serve e non
soltanto quella umanistica: per es. gli archetipi non li hanno studiati, ma li ha studiati
anche Darwin perché sono un invariante biologico, cioè metto il naso in altri campi per
insegnare la mia disciplina. E’ chiaro che se vado a insegnare nella scuola elementare
quindi sono una maestra, è fondamentale che i bambini acquisiscano la capacità di
lettura, allora perché non leggere per esempio un libro per poi andare a cercare le
piante e gli animali che sono descritti. Ecco, questo è il mio intento, cioè ritagliare dei
percorsi là dove i percorsi sono sempre stati negati e con ciò mi è sembrato anche di
risparmiare. Anche il fare leggere d’estate serve per guadagnare tempo; io addirittura
al liceo scientifico entravo nelle prime a fine anno e mi presentavo dando un libro, per
esempio Della misura giusta di Haldane che tra l’altro si poteva fare come un lavoro
interdisciplinare perché riguarda Matematica, perchè parla appunto delle lunghezze
e ci sono delle cose strepitose, per esempio perché un topo che cade dalle scale non
si spacca.
Sia chiaro, il libro di testo è fondamentale, non ci voglio rinunciare come non voglio
rinunciare al laboratorio, non è questo il punto, il mio problema e il mio scopo è che
io dimostri che la scienza è cultura, e la strada che mi è riuscito di trovare è questa
di fare percorsi altri, poi faccio leggere anche articoli de Le Scienze anche perché nei
libri di Biologia questo si vede poco e male, eppure sono argomenti che interessano
ai ragazzi.
187
Chi ha paura di Carlo Darwin?
A LESSANDRA M AGISTRELLI
La scienza è dogmatica perché non dimostra, né può farlo, che esista il suo oggetto
Giovanni Gentile
Lei crede che il Sole ruoti attorno alla Terra o che sia la Terra a ruotare intorno al Sole?
Questa domanda fu rivolta qualche tempo fa a Tom Willis, leader del creazionismo
statunitense, che così rispose: Molti lettori si divertiranno per questa mia risposta, ma devo dire che non
lo so. Qualunque fisico che se ne sia occupato seriamente deve ammettere che non possiamo saperlo con certezza.
Perché Dio avrebbe creato Darwin?
Dio ha detto chiaramente che a coloro che rifiutano di amare la verità avrebbe inviato uno spirito
ingannevole che li avrebbe costretti a credere in una falsità. Penso che Darwin sia stato creato per dare
al mondo qualcosa in cui credere. Qualsiasi bambino che abbia letto L’Origine delle specie può
constatare che le sue argomentazioni non stanno letteralmente in piedi. Io l’ho letto quando non credevo
in Dio; eppure ho riempito i margini del libro di note che esprimevano con parole irripetibili il mio stupore
che simili assurdi ragionamenti e non ragionamenti potessero essere accettati e chiamati scienza.
Geografia del creazionismo
Il creazionismo, e in particolare il creazionismo scientifico, è un fenomeno più diffuso
di quanto si possa pensare. Il movimento è presente in tutto l’Occidente, oltre che negli
Stati Uniti si ritrova in Canada, dove però l’evoluzione viene insegnata nelle scuole, e
in Gran Bretagna dove, sorto nel 1932, conta oltre 2000 membri. E’ molto forte nei
Paesi Bassi in cui l’evoluzionismo è rimasto fuori dalla scuola fino al 1976. Esiste in
Russia, ben 100 scienziati farebbero parte della creation science, in Turchia, in Corea, in
Australia, in Nuova Zelanda.
In Italia nel 2004, l’AISO (Associazione Italiana Studi sulle Origini), sostituisce il
preesistente Centro Studi sul Creazionismo. L’articolo 2 del nuovo statuto afferma che:
L’evoluzionismo non è scienza bensì ipotesi a sfondo filosofico mentre, a proposito della scuola
e della società, nel giornale dell’AISO Eco creazionista si dice che ...si vuol dare anche in Italia
una informazione più equilibrata affinché i giovani e le persone più attente possano fare la loro scelta
fra la visione del mondo evoluzionista e quella basata sulla Bibbia. L’associazione, oltre a
pubblicare Eco creazionista, ha un sito: www.creazionismo.org.
L’affaire Cerullo e la Riforma Moratti
Nel gennaio 2003 sui giornali compare la notizia che Alleanza Studentesca e alcuni
esponenti di Alleanza Nazionale, tra cui spicca l’ex parlamentare di AN Pietro Cerullo,
stanno organizzando a Milano una settimana antievoluzionista, con dibattiti, incontri
con le autorità cittadine, volantinaggio davanti al Museo Civico di Scienze naturali. La
settimana sarà chiusa dal convegno Evoluzionismo, una favola per le scuole.
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Si vuole denunciare pubblicamente il fatto che nei libri, scientifici e scolastici, il
darwinismo viene considerato una verità assoluta mentre, parole di Cerullo: Dagli studi
compiuti da numerosi scienziati, sia in campo biologico che geologico, la tesi evoluzionista sia ormai
considerata impossibile, mentre prevale quella creazionista..... (i giovani organizzatori) vogliono
sottolineare come il presentare il darwinismo come una verità assoluta porti poi a considerare la scienza
come una verità assoluta e a una visione del mondo totalmente meccanicista. Mentre così non è.
Nel febbraio 2004 vengono pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale i nuovi programmi per
la scuola media e, per quanto riguarda le Scienze, sono scomparsi i capoversi barrati
e sono invece comparsi gli argomenti segnalati in corsivo:
Evoluzione della Terra
Comparsa della vita sulla Terra. I fossili . Il tempo geologico
Il sistema eliocentrico
Il sole e il sistema solare: dalle osservazioni degli antichi alle ipotesi della scienza contemporanea
Struttura, Funzione ed Evoluzione dei viventi
Origine ed evoluzione biologica e culturale della specie umana
La funzione nutritiva: gli alimenti e i loro componenti, controllo dell’alimentazione,
sostanze dannose.
Sistema nervoso umano ed effetti di psicofarmaci, sostanze stupefacenti od eccitanti
Malattie da lavoro
Le problematiche affettive e psicologiche tipiche della preadolescenza e le manifestazioni psicosomatiche
Malattie che si trasmettono per via sessuale
Nella materia Tecnologia, insegnata probabilmente dallo stesso insegnante di Matematica e Scienze, compaiono i vecchi/nuovi Principi di economia domestica in cui si dice di:
...Individuare e praticare esperienze di design, cucitura, tessitura e ricamo per scopi funzionali ed estetici.
E ancora: La biotecnologia e il mondo dello sport, dove non è chiara la relazione esistente tra
i due settori.
Alcune risposte delle autorità competenti alle critiche rivolte da ricercatori,
giornalisti, insegnanti
Perché il tema dell’evoluzione è stato tolto dai nuovi programmi?
Risposta di Letizia Moratti, Ministro del MIUR:
Le indicazioni nazionali privilegiano le narrazioni fantastiche, i cosiddetti miti delle origini che
favoriscono l’approccio del bambino al dato scientifico...
Risposta del Prof. Criscuoli, dirigente del MIUR e membro della Commissione
Nuovi Programmi:
L’evoluzione veniva insegnata come filosofia e non come ipotesi scientifica ed inoltre è troppo difficile per
i ragazzi.
Risposta del Prof. Bertagna, pedagogista e coordinatore dell’intero progetto di
riforma scolastica Moratti:
Solo dopo i primi otto anni di scuola è possibile affrontare in modo adeguato le teorie sull’evoluzione
della specie umana, solo allora i giovani sono in grado di apprendere con una complessità e comparazione
diverse.
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Come preparare i ragazzi (su questo tema)?
Risposta di Bertagna:
Non bisogna trascurare gli aspetti narrativi ... ad esempio i bambini si appassionano ai cartoni animati
che raffigurano gli uomini mentre combattono con i dinosauri...
(Da un’intervista comparsa su La Repubblica il 23/4/04).
Il darwinismo in Italia e nella scuola italiana
E’ noto che sin dalla sua pubblicazione nel 1859, L’Origine delle specie suscitò nel mondo
culturale, scientifico e religioso un gran trambusto. Le idee di Darwin erano tali da
dividere i lettori in pro e contro. In Italia è solo nel 1864 che lo zoologo Filippo de
Filippi tiene all’università di Torino una conferenza dal titolo L’uomo e le scimmie in cui
parla a favore delle idee darwiniane. Nello stesso anno Zanichelli pubblica L’Origine
delle specie tradotta dallo zoologo Giovanni Canestrini. I maggiori esponenti del
positivismo italiano si dichiarano pro Darwin, tra cui Mantegazza, Lombroso,
Cattaneo, Sergio Sergi, Morselli, Maria Montessori.
Nel 1875 Darwin è nominato membro dell’Accademia dei Lincei e nel 1878 lo è Huxley.
In ambiente cattolico ci fu un sollevamento di scudi, soprattutto per quanto riguarda
l’origine dell’uomo. L’accusa per chi condivideva le idee di Darwin era di ateismo.
Le critiche si appuntavano sulla questione dell’origine animale dell’uomo e sulla
conseguente caduta della teleonomia presente in natura secondo le precedenti visioni
fissiste e creazioniste. La selezione naturale infatti è una vis a tergo che agisce come forza
anticaso sulla gamma di variabilità creata da processi puramente casuali quali le
mutazioni e la ricombinazione genica. La teoria veniva considerata pericolosa
soprattutto per le classi sociali inferiori. Così scrisse Raffaele Lambruschini, direttore
de La Nazione di Firenze, il 24 marzo 1869: (Non è opportuno infatti)...trattare dinanzi
a uditori mal preparati un argomento intorno al quale s’aggruppano questioni che tengono agitati gli
spiriti non tanto degli uomini di scienza quanto degli uomini di mondo e della gente timorata.
Tra i maggiori oppositori delle idee darwiniane spicca il letterato N. Tommaseo
(1802-1874) che tentò di demolire ... la lieta novella che ha messo gli Italiani alla pari non
solamente coi Russi e gli Ottentotti, ma con le scimmie. Più tardi si aggiunsero personalità come
B. Croce e G. Gentile. In ambiente scientifico si schierarono contro il geografo A.
Stoppani, autore del Bel Paese e lo zoologo Bianconi. Oggi, in Italia, tra gli scienziati
antidarwinisti si fanno i nomi del genetista G. Sermonti (Dopo Darwin, 1980,e
Dimenticare Darwin, 1999) e del fisico A. Zichichi (Perché io credo in Colui che ha fatto il mondo
1999). Per quanto riguarda l’accoglienza riservata alle idee darwiniste ed evoluzioniste
da parte della scuola italiana mi viene alla mente il ricordo di un’esperienza personale.
Nell’archivio del liceo “Terenzio Mamiani” di Roma, dove ho insegnato dal 1976 al
1981, si conservano ancora alcuni documenti relativi al prof. Carlo Anfosso che fu
ordinario di Scienze naturali nel liceo dal 1905 al 1918.
Carlo Anfosso, medico e naturalista, nacque a Torino dove frequentò i circoli
positivistici della città. Fu amico di Faldella, di Lessona, di De Amicis, di Lombroso
e di altri scienziati e liberi pensatori del suo tempo. Iniziò a insegnare a Venezia, poi
andò Milano e infine a Roma, al liceo Mamiani. Partecipò a una commissione
190
ministeriale per la revisione dei libri di testo scolastici , scrisse molti libri di divulgazione
(La fisica dilettevole, La fisica per ridere, I mestieri strani, La chimica dilettevole, ecc.) e testi per
le scuole. Organizzò il museo di Scienze naturali, ricco di collezioni e di materiali
ostensivi, e il laboratorio del liceo Mamiani per una didattica basata sulla osservazione
e la sperimentazione. Alla morte (1918) nella scuola fu istituito un premio annuale in
suo onore destinato all’allievo autore del migliore tema scientifico. Dopo la riforma
Gentile (1924) e fino al 1940 il “premio Anfosso” rimase nel liceo, ma il tema
scientifico fu sostituito da uno a carattere letterario.
La cura investita dal prof. Anfosso nell’allestimento della collezione naturalistica del
liceo Mamiani e la nascita di collezioni simili in molte altre scuole di Roma e d’Italia,
confermano che l’insegnamento scientifico, nei primi anni del Novecento, doveva
essere di buon livello, secondo un’accezione moderna del termine, e attento alle idee
positiviste ed evoluzioniste. La riforma Gentile sancì poi, come sappiamo, il prevalere
dell’impronta idealista nella cultura scolastica del Paese per cui l’insegnamento scientifico
si ridusse nella maggior parte dei casi a recita mnemonica di nomi e concetti.
Passano gli anni e ancora ricorro a un ricordo personale. Nel 1963, mi preparai alla
maturità classica senza aver mai studiato l’evoluzione che né la professoressa di Scienze,
eppure molto brava, né i libri di testo nominarono mai.
Dal 1963 al 1968 frequentai all’università La Sapienza di Roma il corso di laurea in
Scienze Biologiche. Nemmeno lì ebbi occasione di fare uno studio organico delle
teorie di Darwin e dell’evoluzionismo moderno, solo qualche cenno sull’argomento,
e questo nonostante lo studio di due materie fondamentali di chiaro stampo
evoluzionista: Anatomia Comparata e Paleontologia umana.
Nel 1972 l’editore Zanichelli traduce e pubblica per la scuola superiore il testo
americano BSSC Dalle molecole all’uomo. Finalmente Darwin e l’evoluzionismo entrano
nella scuola italiana, 113 anni dopo L’Origine delle specie e 101 anni dopo L’Origine
dell’uomo che è del 1871. Nel 1978 viene varata la riforma della scuola media unica e
nei nuovi programmi di Scienze appare un impianto evoluzionista. Ma già nel 2004,
riforma Moratti e scomparsa dell’impianto evoluzionista dai programmi della scuola
elementare e media.
La posizione della Chiesa Cattolica
Molti in ambiente ecclesiastico accettarono l’idea di una evoluzione preordinata dal
Creatore e di una selezione naturale intesa come forza causale e diretta al perfezionamento
delle forme viventi.
Nel 1950 Pio XII scrisse nell’Enciclica Humani generis:
...il Magistero della Chiesa non proibisce che, in conformità dell’attuale stato delle scienze e della teologia,
sia oggetto di ricerche e di discussioni, da parte dei componenti di tutti e due i campi, la dottrina
dell’evoluzionismo, in quanto cioè essa fa ricerche sull’origine del corpo umano, che verrebbe da materia
organica preesistente (la fede cattolica ci obbliga a ritenere che le anime sono state create immediatamente
da Dio). Però questo deve essere fatto in modo che le ragioni delle due opinioni, cioè quella favorevole
e quella contraria all’evoluzionismo, siano ponderate e giudicate con la necessaria serietà, moderazione
e misura, e purché tutti siano pronti a sottostare al giudizio della Chiesa, alla quale Cristo ha affidato
191
l’ufficio d’interpretare autenticamente la Sacra Scrittura e di difendere i dogmi della fede. Però alcuni
oltrepassano questa libertà di discussione, agendo in modo come fosse già dimostrata con totale certezza
la stessa origine del corpo umano dalla materia organica preesistente, valendosi di dati indiziali finora
raccolti e di ragionamenti basati sui medesimi indizi; e cioè come se nelle fonti della divina Rivelazione
non vi fosse nulla che esiga in questa materia la più grande moderazione e cautela.
E nel 2003 Giovanni Paolo II nell’Enciclica Fides et ratio scrive:
(I filosofi e i teologi)... devono conoscere queste opinioni, sia perché le malattie non si possono curare
se prima non sono ben conosciute, sia perché qualche volta nelle stesse false affermazioni si nasconde un
po’ di verità, sia infine perché gli stessi errori spingono la mente nostra a investigare e scrutare con più
diligenza alcune verità sia filosofiche che teologiche.
Le teorie sostitutive del darwinismo in Italia
Agli inizi del Novecento lo zoologo Daniele Rosa parla di preformismo nel senso che
l’evoluzione sarebbe determinata da forze interne insite nei viventi e previste da una
Mente superiore, sviluppando l’idea lamarckiana di progresso e di perfezionamento
presente nel mondo organico.
Altra corrente di pensiero di stampo finalista fu il neolamarchismo basato sul concetto
di eredità dei caratteri acquisiti, idea perseguita da A. Weissman e da E. Haeckel alla fine
dell’Ottocento e da Lysenko in Unione Sovietica negli anni Trenta-Quaranta del ’900.
Oggi si è già detto del creazionismo scientifico che, sorto negli Stati Uniti negli anni
Settanta, si propone di rivalutare le idee creazioniste alla luce della scienza e di esaminare
con più cura le, inevitabili, carenze della teoria evolutiva. Per quanto riguarda la scuola
si propone di affiancare l’insegnamento dell’evoluzione a quello del creazionismo.
Ma chi ha paura di Carlo Darwin?
Non è un caso che proprio oggi, in un clima nazionale e internazionale che si distingue
per il suo fondamentalismo oscurantista, le richieste della parte più arretrata del nostro
mondo politico, accademico, e ministeriale (mai, mai scomparso) siano state accolte
nella riforma scolastica appena varata. Ecco che dai programmi della scuola media
scompare il concetto di evoluzione e di altri argomenti connessi. I programmi della
scuola superiore al momento non sono ancora noti per cui sospendiamo il giudizio.
Il metodo utilizzato per far passare queste decisioni è sempre lo stesso, il preferito
dalla nostra classe dirigente e ben radicato nella nostra storia culturale, infatti:
L’emarginazione della scienza nella cultura italiana si è venuta svolgendo secondo modalità che non
sono di rifiuto o di critica radicale del discorso scientifico, ma di liquidazione della sua componente critica
e problematica, liquidazione che si è accompagnata spesso con l’esaltazione della componente pratica,
operativa e strumentale (Micheli, p. XVIII, in ANNALI DELLA STORIA D’ITALIA, 1980,
Einaudi). Seguendo l’esortazione Sopire, dormire, le innovazioni dei programmi Moratti
sono state imposte in una situazione di confusione politica, di assenza di dibattito
critico e di ogni possibilità di emendamento. Non c’è dubbio, tuttavia, che il
creazionismo scientifico e la critica antidarwiniana siano in fase di ripresa in gran parte
del mondo occidentale.
Ma perché e a chi Darwin, allora, fa ancora tanta paura?
192
I fatti
Da E.Mayr cito:
Spero di essere riuscito a illustrare l’ampia portata delle idee di D. Egli fondò una filosofia della biologia
introducendovi il fattore tempo, dimostrando in primo luogo l’importanza del caso e della contingenza,
e in secondo luogo che le teorie evoluzionistiche si basano più sui concetti che sulle leggi. Ma al di là di
ciò- e questo forse è il più grande contributo di D.- egli sviluppò un insieme di nuovi principi che oggi
influenzano il pensiero di chiunque: l’evoluzione può spiegare il mondo dei viventi senza ricorrere a
interventi soprannaturali; occorre pensare in termini di popolazioni, ossia di gruppi all’interno dei quali
ogni individuo sia unico (un concetto vitale ai fini dell’educazione e del rifiuto del razzismo); la selezione
naturale applicata ai gruppi sociali è sufficiente a spiegare le origini e il mantenimento di sistemi etici
altruistici; il finalismo cosmico -che postula l’esistenza di un processo intrinseco rivolto a una sempre
maggior perfezione- si fonda su false premesse, giacché tutti i fenomeni apparentemente teleleologici
possono essere spiegati attraverso processi naturali; e in questa concezione il determinismo viene
ripudiato, il che rimette totalmente il destino nelle nostre mani di creature evolute.
Le opinioni
Coloro che hanno paura di Darwin erano già previsti da Darwin stesso e dai darwinisti della
prima ora.
Ecco cosa ne dice T. Huxley dopo aver insistito sulla parentela dell’Uomo coi bruti, ma
anche sulla profonda differenza fisica e fisiologica che lo separa dagli altri animali:
Da ogni parte sentirò gridarmi: Noi siamo uomini e donne e non una specie semplicemente migliorata di
scimmie, un po’ più lunga di gambe, col piede a dita non opponibili, col cervello più grande dei vostri brutali
scimpanzé e gorilla. Il potere della conoscenza, la coscienza del bene e del male, la tenerezza e la pietà degli
affetti umani ci innalzano al di sopra di ogni reale consorteria coi bruti, per quanto essi ci possano sembrare
strettamente affini. Ed io posso solamente rispondere che queste recriminazioni sarebbero giustissime ed
avrebbero la mia simpatia se non fossero semplicemente irrilevanti. (...) Io ho tentato di mostrare che tra
il mondo degli animali e noi non si può tirare una linea di demarcazione assoluta o comunque più ampia
di quella che separano gli animali che vengono subito dopo di noi nella scala...
Nello stesso tempo nessuno maggiormente di me è convinto dell’ampiezza del golfo tra l’uomo civilizzato
ed i bruti; e nessuno più certo che l’Uomo, derivi dai bruti o no, certamente non è uno di loro.
La paura di essere confusi coi bruti, il timore di contraddire la tradizione religiosa e il
senso comune, la sensazione sempre più forte che la costruzione crolla!, per usare le stesse
parole di Darwin, erano e sono ancora alla base dell’ostilità di molti per il pensiero
darwiniano. Esiste però anche una malafede antidarwiniana propria di coloro che
vogliono ricollocare la nostra specie in cima alla Grande catena dell’essere (Bonnet,1764)
per cui, sono parole di Linneo: Il fine della creazione della terra è la gloria di Dio a partire dalle
opere della natura, attraverso l’Uomo, lui solo.
In effetti costoro sembrano essere alla ricerca dell’autorizzazione a usare il mondo
organico e inorganico come una proprietà assoluta dell’uomo di cui si può decidere
il destino al di là delle leggi di natura che, viceversa, ci invitano in continuazione a una
maggiore prudenza e umiltà.
Quanti poi protestano contro il darwinismo sociale, oltre a ignorare che fu Herbert
Spencer e non Darwin a introdurre il concetto di sopravvivenza del più adatto, sono spesso
193
i più devoti seguaci della sopraffazione di uomo su uomo. Darwin detestava invece
la violenza, da uomo mite e ragionevole qual era e come sa chiunque abbia scorso le
sue opere. Nella sua Autobiografia ad esempio critica duramente Carlyle, idealista
fanatico e sostenitore della dottrina dell’eroe: ...Carlyle ridusse tutti al silenzio tenendo per
tutta la durata del pranzo una concione sui pregi del silenzio....D’altra parte le sue idee sulla schiavitù
erano rivoltanti. Ai suoi occhi potenza valeva diritto.
Ed ecco cosa dice nell’Origine dell’uomo a proposito delle “qualità sociali” dell’uomo
primitivo: Dovevano sentirsi a disagio quando erano separati dai compagni per cui provavano un
certo grado d’amore; si saranno avvertiti reciprocamente del pericolo e si saranno aiutati scambievolmente
quando attaccavano o si difendevano. Tutto ciò comporta un certo grado di generosità, fedeltà e coraggio
... Quando due tribù di uomini primitivi abitanti nella stessa zona venivano in conflitto, se ( a parità
di altre circostanze) una delle due contava un maggior numero di membri coraggiosi, generosi e
fedeli....questa tribù doveva avere miglior successo e conquistare l’altra.
Omodeo ci spiega come sia stato possibile confondere il darwinismo col darwinismo
sociale in quanto: Col negare l’ereditarietà dei caratteri acquisiti, Weismann (1) sposta infatti tutto
l’accento sul fenomeno concorrenziale nell’interno della specie e conferisce accenti hobbesiani all’evoluzionismo
che diventa bellum omnium contra omnes.
In effetti il problema più generale, e complicatissimo, di cosa sia l’aggressività
distruttiva dell’uomo, con i suoi corollari estremi (violenza fisica e morale, torture,
guerre) , ha a che vedere con la teoria dell’evoluzione delle specie e con la storia naturale
dell’uomo come qualunque altro problema riguardante la nostra specie. Sono in molti,
tra i naturalisti (Lorenz, Storr, Wilson), tra gli psicologi (in parte lo stesso Freud), oltre
che tra i filosofi, i politici e gli economisti a credere nella naturale e invincibile
propensione dell’uomo per il male, ma questo non vuol dire che le cose stiano
esattamente così. Studi recenti e recentissimi sull’attaccamento infantile (Bowlby), sulla
psicologia del Sé e sul comportamento di affiliazione gettano una luce diversa sulla
belluinità umana, che sembra essere, in fondo, più culturale di quanto si voglia credere.
Un silenzio assordante
Qui sono riportate alcune tra le iniziative sorte per contrastare l’eliminazione
dell’evoluzionismo dai programmi Moratti.
- 10 marzo 04: Stefano Della Casa ([email protected]), studente di Scienze naturali a
Bologna, per primo -per quanto ne so- scrive alla rubrica Lettere di C. Augias in La
Repubblica, denunciando la scomparsa di Darwin dai programmi della scuola media.
- 27 marzo 04: Mozione dell’ANISN approvata all’unanimità al convegno di Torino,
27 marzo 2004 e inviata al MIUR
- marzo - aprile 04: Il Prof. M. Mandrioli, genetista dell’università di Modena, si fa
promotore di organizzare in tutti gli atenei una Settimana pro Darwin per i primi di
giugno con seminari, conferenze, dibattiti ecc.
- 18 aprile 04: Risposta del ministro all’interpellanza parlamentare rivolta al MIUR
dall’on. Vittoria Franco dei DS in cui si lamenta l’assenza di riferimenti all’evoluzione dei
viventi e alle teorie di Darwin nelle Indicazioni nazionali per i piani di studio
personalizzati allegate al d.l. n.59 del 19-02-04
194
- 25 aprile: Esce su La Repubblica un appello dal titolo Un danno per la cultura scientifica
a firma, tra gli altri, di C. Bernardini, E. Boncinelli, R. Dulbecco, M. Hack, L. Cavalli
Sforza, A.Piazza in cui si chiede al ministro di ... rivedere i programmi colmando una dimensione
dannosa per la cultura scientifica delle nuove generazioni.
Si raccolgono rapidamente oltre 50.000 firme. L’on.Moratti promette di formare una
Commissione per la revisione dei programmi presieduta da R. Levi Montalcini e
costituita da C. Rubbia, V. Sgaramella, U. Colombo.
- 27 maggio: La Settimana pro Darwin promossa dal prof. Mandrioli non decolla
perché le università, inizialmente favorevoli, danno forfait fidandosi della Commissione
di revisione promessa dal ministro Moratti.
Rimane solo il Darwin day organizzato dall’ateneo di Bologna, di Padova e di Firenze
e dall’Anisn in tutta Italia con importanti manifestazioni a Napoli, Bari e in molte altre
città (www.anisn.it)
- luglio 04: Siamo in attesa di:
a) insediamento della commissione per la revisione dei programmi di scuola media
b) OSA della scuola superiore per le Scienze.
Speriamo bene e ad majora!
Responsabile Anisn per i programmi di Scienze Naturali
Alessandra Magistrelli
Note
(1) Entomologo tedesco che studiò e diffuse con successo i temi dell’eredità e dell’evoluzionismo.
Bibliografia e sitografia
C. Darwin Autobiografia Feltrinelli, 1967
C. Darwin L’origine dell’uomo Editori Riuniti, 1966
T. H. Huxley Il posto dell’uomo nella natura Feltrinelli, 1956
P. Omodeo Creazionismo ed evoluzionismo Laterza, 1984
C. von Linné Systema naturae in A. La Vergata L’evoluzione biologica da Linneo a Darwin Loescher,
1979
E. Mayr L’influenza di Darwin sul pensiero moderno in LE SCIENZe, numero 385, settembre 2000
P. Piazzano Perché Dio creò Darwin? in LE SCIENZE, numero 385, settembre 2000
F. de Zulueta Dal dolore alla violenza Cortina, 1999
www.cicap.org
www.creazionismo.org
195
Dibattito
Fabio Fantini
Faccio solo un appunto, nel senso che condivido quasi tutto quello che hai detto. Secondo
me è un po’ pericoloso valutare la correttezza di una teoria scientifica in funzione di quanto
ci piace, allora è vero che ci può dare preoccupazione una natura magari aggressiva
dell’uomo, però bisognerebbe valutare sulla base di una serie di dati comparativi; io non
sono pessimista da questo punto di vista, non credo nella specie umana comunque
destinata ad un comportamento aggressivo, ma è indubbio che noi abbiamo nel nostro
repertorio comportamentale da specie territoriale quale siamo una serie di moduli per
l’aggressività e forse se c’è una speranza questa è nella cultura perché la plasticità del
cervello umano, come ci è stato ricordato da molti relatori nei giorni precedenti, ci
consente di modificare i moduli comportamentali di cui disponiamo. Su questa base io
starei un po’ attento nel dire che certe formulazioni vanno rigettate perché ci stanno
antipatiche, anche se è vero che ci stanno antipatiche, anche perché una ragione
dell’aggressività che caratterizza le nostre società attuali, sta nel fatto che ormai è diffuso
a livello planetario un concetto che è quello che si chiamava della mano invisibile, cioè la
gente agisce per il proprio tornaconto, alla fine ci sarà comunque una somma delle varie
componenti che porteranno a un beneficio complessivo della società. Questo è chiaro che
favorisce l’uso nel repertorio comportamentale di quei moduli che incoraggiano l’aggressività, voglio dire che noi come animali culturali possiamo superare questo limite che la
natura ci dà, che è nostra eredità e che non possiamo rigettare, però dobbiamo sapere
che esiste questa possibilità in noi, cioè non diciamo che non siamo aggressivi.
Sandra Magistrelli
Mi rendo conto che è stato detto in modo molto superficiale, ma tra dirlo e non dirlo
ho preferito tirarlo fuori. E’ un discorso che mi sta molto a cuore questo dell’aggressività umana. Anche io penso che la nostra specie sia potenzialmente distruttiva,
aggressiva ecc., però qui si tratta di vedere in che momento la cultura, intesa in senso
antropologico, può intervenire, deve intervenire e va fatta intervenire per limitare
questa caratteristica. Io non voglio negare l’istintualità aggressiva, voglio dire che
tutte le derive orribili di un eccesso di aggressività portano a conseguenze che non è
detto che siano scritte nel DNA della specie e che siano, come dire, inevitabili e
ineluttabili, mentre sono in molti in fondo a pensare questo. Tu dici che sei ottimista,
ma per essere ottimisti bisogna agire presto e molto rapidamente, gli studi sono tanti,
sono stati fatti soprattutto da psicologi e psicanalisti, gente che ha lavorato con i
bambini. L’altro giorno mi stavo interessando alla letteratura che riguarda la violenza
fisica e psichica su donne e bambini, c’era veramente da avere paura ma era
interessante capire e vedere che ci sono persone che ci si sono avvicinate con un
occhio più lucido e anche speranzoso: considerando che cosa si può fare. Il confine
è stato superato con la seconda guerra mondiale con l’olocausto che ha dato come un
altolà è vero e da allora gli studi si sono andati infittendo, perché pensare adesso a
come un popolo colto, esemplare come era, e come è, il popolo tedesco abbia potuto
produrre a livello di massa un fenomeno del genere ci rende molto prossimi alla fine
del mondo. Adesso non voglio fare la catastrofica ma non possiamo neanche scherzarci
sopra. Per questo dico: studiamo come naturalisti anche questo, però sono d’accordo
con te che non basta una simpatia per dire no.
196
Una domanda
Vorrei sapere che spazio hanno nei nuovi programmi soprattutto delle scuole superiori
l’Etologia e l’Antropologia, che permettono un approccio particolare, una attenzione
e una sensibilità particolari rispetto a quella che è l’evoluzione e ai rapporti tra le varie
specie.
Sandra Magistrelli
Non sappiamo ufficialmente come sono questi programmi in modo ufficiale, abbiamo
dato un’occhiata in modo ufficioso e sembra di vedere giustappunto l’indice del libro
sul quale ho studiato nel 1963, Maria Cori Biologia edito da Cappelli, cioè diciamo che
la Biologia è ritornata ad essere non le Scienze Naturali, magari!, ma una Storia
naturale estremamente osservativa, descrittiva, molto ricca di nomenclatura, per cui
la evoluzione è un capitolo, non è l’impianto, non è la filosofia che ti permette di capire
che cosa succede nei viventi, è un capitolo che come tale può essere senz’altro
eliminato se non hai tempo. Quindi l’Etologia, l’Antropologia che, in quanto scienze di
confine stanno tra la natura e la cultura, non sono assolutamente contemplate; il che
non toglie che se uno vuole credo possa fare, però il livello culturale, mi permetto di
dire, che i programmi così come sono ora manifestano, è assolutamente datato e
comunque molto basso.
Altra domanda
Io vorrei ritornare al discorso precedente anche se sì, mi sembra molto opportuno
discorso della collega; esistono già dei programmi?
il
Sandra Magistrelli
Ci sono delle bozze che girellano, non si sa …
Una collega
Le tue conclusioni sono state interessanti perché hai messo in luce che l’aspetto
dell’aggressività può essere un prodotto della cultura più che dell’istinto. Adesso mi
viene in mente una cosa che fa parte degli adagi, proverbi, non si è mai vista una specie
più aggressiva di quella umana in realtà, è l’unica specie capace di organizzare in
maniera così sistematica e razionale l’aggressività contro i componenti della stessa
specie. Mi sembra comunque che il darwinismo ha messo in luce la competizione tra
i componenti della stessa specie, ma non l’aggressività diretta e volontaria che è una
cosa un po’ diversa, quindi selezione naturale in cui l’effetto selettivo è determinato
dall’ambiente, da una scarsità di risorse, ma non c’è un atteggiamento di predominio
e di aggressività, di sopraffazione di un individuo di una specie su un individuo della
stessa specie; questo è un carattere che invece è tipico nostro e secondo me è tipico
non tanto della cultura umana in genere ma proprio della cultura occidentale. Il fatto
che la cultura occidentale sia permeata anche di spirito cattolico fa pensare, perché
il fondamentalismo religioso che è stato introdotto anche dal cattolicesimo molte volte
nella storia, ha introdotto molte forme di aggressività e sopraffazione verso altri gruppi
umani. Quindi penso che il discorso aggressività può essere impostato dal punto di
vista biologico ma ha una componente culturale così importante che non può essere
assolutamente trascurato. Secondo me il pensiero di Darwin è stato utile invece per
impostare il superamento dell’aggressività dell’uomo nei confronti delle altre specie,
cioè il pensiero evoluzionistico in campo biologico ci ha fatto comprendere bene che
noi siamo una parte del mondo vivente e che dobbiamo inserirci all’interno del mondo
vivente, capire e accettare le sue leggi, essere in armonia con queste leggi, evitare
in ogni modo l’aggressività verso il mondo naturale anzi cercare di conoscere il più
197
possibile il mondo naturale, perché attraverso il mondo naturale possiamo conoscere
noi stessi.
Beatrice Lenzi
Vorrei chiarimenti su tre punti che hai toccato.
Il Papa non approva in modo esplicito l’evoluzionismo: vorrei sapere da te se questo
fatto che non assuma una posizione netta ma lasci aperto il campo non può essere visto
anche in modo positivo, cioè il rovescio della medaglia, non è il suo ruolo, non tocca
certo a lui esprimersi, non è uno scienziato se un domani dovesse approvare, a me
come credente non piacerebbe per niente perché oggi lo fa con l’evoluzionismo, e a
me piace, a me sta bene, ma domani lo può fare su qualcosa che a me può non piacere.
Un altro punto è: in questa sede ho sentito portare avanti il discorso della contrapposizione tra creazionismo e evoluzionismo, aiutami perché io non riesco proprio a
mettermela nella testa perché io vedo la contrapposizione evoluzionismo/fissismo, il
creazionismo è secondo me un altro campo di indagine: c’è il mondo della materia che
io posso vedere in evoluzione o fisso, poi cosa c’è prima …
Poi un’ultima cosa: tu hai esposto il rischio morattiano, di chi ha una certa visuale, se
vediamo l’uomo come derivato dagli animali allora l’aggressività ecc., io darei molto
più risalto al rischio morattiano che deriva dal voler riproporre la lettura dei testi sacri
come testi scientifici, il vero grosso rischio è questo. Mi sarebbe piaciuto che fosse stata
data più forza a questo aspetto. Come insegnanti noi abbiamo il dovere di insegnare
ai ragazzi a leggere il libro della natura, come qualcuno qualche secolo fa ci ha
insegnato, poi altri tipi di libri glieli insegnerà qualcun altro.
Sandra Magistrelli
Creazionismo, fissismo, evoluzionismo, è giusto sono cose diverse. Allora per quello
che ho potuto vedere perché io non mi sono formata una specializzazione sul
creazionismo scientifico, il creazionismo scientifico si propone di rivalutare l’interpretazione scientifica dei sacri testi. Come faccia questo non lo so, mi interessa e quindi
cercherò di approfondirlo perché è anche interessante cercare di capire come, chi non
la pensa come noi, intende portare avanti il discorso. Io vi ho dato anche la sitografia
del Cicap, che è il centro contro le affermazioni del paranormale fondato da Piero
Angela, che offre molti spunti e molte informazioni interessanti. Fino ad ora per quel
che ho potuto vedere non si tratta di affermazioni scientifiche, cioè non c’è un lavoro
scientifico di esegesi seria; anche negli stessi libri di Sermonti e Zichichi ci sono più
che altro dichiarazioni di principio, afflati, rivelazioni, si va avanti con le visioni, con
gli insight. Fino ad ora siamo a questo punto, ecco perché risulta ancora più strano voler
affiancare l’ipotesi evoluzionista e la creazionista, perché se c’è un’ipotesi evoluzionista -io dico che è una teoria ma per tanti aspetti sicuramente è un’ipotesi-,
sicuramente sembra che non ci sia un’ipotesi creazionista perché non si vede su che
cosa si possa basare. Se io voglio riportare all’attenzione questi testi letti sempre in
modo metaforico e li voglio leggere in modo letterale, bene, allora andiamo avanti,
vediamo su che cosa si basa, e fino adesso tutto questo non si vede.
Poi, per quanto riguarda fissismo e creazionismo in termini storici, per quello che posso
nel mio piccolo ricordare, sono cose diverse ma chiaramente parenti quindi se a volte
nel linguaggio comune si confondono credo che non ci sia da meravigliarsi, comunque
sono cose diverse.
Il fissismo è quella teoria del ‘700 per cui “tot sunt species quot creavit Ens” cioè tante
sono le specie quante ne creò l’ente supremo, quindi non ci sono stati cambiamenti
nelle specie, i fossili venivano interpretati nei modi più fantasiosi possibile anche se
non mancava chi, come Leonardo, aveva già capito tutto.
198
Il creazionismo nasce con i diluviazionisti nel ‘700 quando si cominciano a studiare i
fossili come tali, come prove provate di specie che non esistono più, uno di questi fu
Cuvier come sappiamo, però per mettere d’accordo la fede con la scoperta innegabile,
trovarono un escamotage, la teoria dei diluvi universali: ogni volta che c’era un diluvio
scomparivano molte specie vegetali e animali e poi Dio ricreava, quindi si avevano
creazioni continue e quindi sono cose simili per quanto riguarda l’apriorismo, il
ragionamento circolare, dove la ricerca di una causa esterna non c’è mai perché
dobbiamo rimanere sempre all’interno di questo ragionamento.
Per quanto riguarda il pensiero della Chiesa in merito all’evoluzionismo -pensiero che
io rispetto profondamente- diciamo che la Chiesa ha un atteggiamento di ascolto,
ferma restando la posizione di dire l’ultima parola per quanto riguarda l’anima, la
rivelazione, e va benissimo. Il discorso che si fa a volte polemicamente è quello che
le auree parole del Papa diventano parole del comune sentire e spesso cambiano
connotazione e valenza, da parole alte e ispirate diventano parole di parte, ed ecco
che questo rende un lettore critico un po’ più critico di quanto sarebbe giusto, però sono
d’accordo con te, che la Chiesa deve fare la sua parte, però solo la sua.
Per quanto attiene poi al rischio della lettura dei testi sacri come testi scientifici, io non
ho fatto una lettura accurata dei programmi morattiani, ora la porterò avanti;
comunque nei programmi di scienze non c’è un esplicito richiamo alla lettura dei sacri
testi, vi si dice piuttosto di leggere i libri sui miti delle origini, ma tutte le culture hanno
i miti delle origini, noi stessi nella nostra piccola storia personale andiamo sempre a
raccontare le noiosissime vicende dei nostri nonni, abbiamo bisogno di una mitologia
personale, quelli che si chiamano i miti fondanti, su cui basare la nostra identità, tanto
più quindi a livello di grandi gruppi; fino a qui potremmo anche intenderci però a latere,
non in sostituzione, sono d’accordo con te che i pericoli ci sono.
Bianca Isolani
Io sono senz’altro d’accordo con la collega che creazionismo e evoluzionismo non sono
in contrapposizione; cioè, la definizione che noi diamo di questi termini non è giusta
infatti sostengo e ho sostenuto con un progetto che stiamo portando avanti a Livorno,
che noi a questo punto facciamo spesso del creazionismo evoluzionista e ormai quasi
nessuno, solo Sermonti e Zichichi sono rimasti a fare creazionismo in Italia e infatti
non hanno nessun seguito. Quello che invece la biologia contemporanea sostiene è un
creazionismo evoluzionista che va benissimo alla Chiesa, magari per alcuni credenti
non va bene, ma è perfettamente adeguato a spiegare ciò che spiega la Chiesa.
Dobbiamo allora chiederci perché è stato accettato e sicuramente Darwin ha fatto
un’opera di una sottigliezza (del resto suo padre diceva che Darwin era abilissimo) ha
fatto un’opera sottilissima, tanto è vero che la sua teoria sull’evoluzione è stata
accettata dai religiosi molto presto, tanto che è sepolto nell’Abbazia di Westminster.
Quindi tutte le volte che si dice che Darwin non è stato accettato dalla Chiesa è
veramente un falso storico perché è sepolto vicino a Newton. E’ stato accettato anche
in America perché la questione della selezione naturale e del caso si presta
magnificamente ad essere integrato nel Protestantesimo. Tutta questa aggressività
come la regoli, questa visione che noi diamo ai ragazzi così terrificante della natura
che alternative ha? L’unica alternativa è la religione. Ed allora ecco perché questo
neodarwinismo piace agli atei, perché per loro dire che l’uomo discende dagli animali
è bello, li fa sentire moderni, e piace anche ai cristiani, soprattutto ai protestanti.
Io comunque ho scritto un articolo, l’ho presentato al gruppo italiano di biologia
evoluzionistica La teoria Neodarwiniana: una forma di concordismo interdisciplinare?
E la mia risposta è: assolutamente sì. Noi veicoliamo ai ragazzi delle teorie che se non
nella religione non hanno molto sbocco etico, e sono teorie terrificanti. Si continua a
199
parlare di teoria dell’evoluzione quando l’evoluzione come fatto è stata dimostrata e
proclamata l’11 Maggio 1800 cioè 59 anni prima di Darwin, dallo scienziato Lamarck
che l’ha dimostrata con tutti i fossili e tutti gli organismi nello spazio e nel tempo. Quindi
continuare a parlare di teoria è stato un escamotage visto che Lamarck era stato
bloccato per questioni religiose perché metteva in crisi la visione dell’uomo come uno
che si modifica in meglio, è stata accettata quella di Darwin. Ci si chiede allora se è
giusto continuare a discutere in questo modo e facciamo il Darwin day e non l’evolution
day per discutere quella teoria magnifica discussa in Russia prima e poi in America,
che è quella della simbiosi che dimostra, a mio parere in modo notevolmente
approfondito, anche se è ancora una teoria, che i grandi salti evolutivi, cioè la
macroevoluzione di cui Darwin non si è occupato, trova una spiegazione migliore con
la simbiosi che con la teoria darwiniana. Oggi ormai tutti dicono che gli eucarioti
derivano dai procarioti per simbiosi genomica, allora io dico, vediamo di discutere
anche questo.
Piepaolo Putzolu
La mia è una percezione che ti sottopongo a smentita o conferma, è più introspettiva
rispetto alla classe di insegnanti di scienze e nasce da un’esperienza di un conflitto con
un collega di storia e filosofia che per tutto l’anno in un Liceo Classico aveva teorizzato
che l’evoluzione è una teoria e che come tutte le teorie ha puramente un valore ipotetico.
Nella mia piccola esperienza, andando a ricostruire i programmi di biologia di molti
insegnanti sia nelle scuole sia a volte pubblicati su Internet, ho notato che l’evoluzione
come tema è carente e la stessa cosa io riscontro nei libri, non è il tema portante
ispiratore del testo, non ne è l’impianto, è solo uno dei capitoli. Allora, poiché abbiamo
visto che si tratta di una battaglia culturale, quindi di confronto con il mondo scientifico
ma anche con quello della cultura italiana in genere, forse anche gli insegnanti di biologia
dovrebbero allentare un po’ l’impeto riduzionista e spostare un po’ di più l’attenzione
sull’impianto che dovrebbe avere il loro insegnamento ed essere volto cioè un po’ più
all’evoluzione e forse un po’ meno alla biologia molecolare, perché io noto che anche
negli umanisti il DNA viene accettato da tutti come dogma perché ha un’enorme ricaduta
dal punto di vista biotecnologico, ma per loro l’evoluzione in fondo è una teoria, un’ipotesi
da dimostrare. La mia percezione è che anche nella nostra categoria bisogna crederci
veramente tutti perché la battaglia si fa nelle scuole, è una battaglia culturale che
dobbiamo fare con i colleghi, con i ragazzi, con i genitori e ci vorrebbe un po’ più di
militanza da questo punto di vista perché il rischio è che il riduzionismo che io chiamo
ideologico abbia una prevalenza e una ricaduta proprio su questo tema.
Una collega
Finora è stato posto l’accento sull’aspetto legato all’aggressività dell’uomo e a come
la teoria di Darwin abbia innescato una serie di riflessioni in questo senso; invece tu
in un passaggio hai fatto riferimento al valore della teoria darwiniana come un aspetto
dello spostamento del baricentro dall’uomo alla natura; quindi hai messo in luce che
per il creazionismo è l’uomo che diventa dominatore, signore della natura per mandato
divino, invece Darwin sposta l’uomo a un elemento di un insieme più unitario e
organico.
Maria Teresa d’Eramo
Vorrei ritornare sul darwinismo sociale che mi ha colpito molto, perché è una tematica
importante; io reputo che sia un po’ preoccupante traslare un discorso prettamente
scientifico, naturalistico ad un discorso antropologico perché si presta a più interpretazioni; faccio riferimento anche ai colleghi di filosofia che spesso giustificano il
200
darwinismo riferendosi a Malthus, e quello darebbe tutta una spiegazione a carattere
antropologico-culturale e secondo me va gestita in modo adeguato. Non sono
preoccupata però sicuramente va gestita in modo adeguato anche perché ritengo che
quello che riguarda la natura spesso ci sfugge, dobbiamo avere un certo rispetto e non
dobbiamo farlo diventare troppo antropico, di tipo culturale, le due cose vanno
separate, distinte.
Poi una cosa che mi sembra importante è dire questo: spesso noi insegnanti di scienze
facciamo la storia della biologia e puntiamo poco alla lettura di argomenti scientifici
attraverso le fonti. Ho notato con alcuni colleghi di filosofia, secondo me intelligenti,
perché poi è un discorso di persone e non solo di impostazione culturale, che loro
spesso hanno deviato la storia e la filosofia attraverso le fonti mentre noi insegnanti
di biologia trattiamo la sequenza degli avvenimenti attraverso la storia della biologia
e non diamo scientificità.
Sandra Magistrelli
Sono tutte domande che aprono punti interessanti ed è bello che ciò si verifichi, che
vengano fuori, i momenti di discussione sono sempre fertili. Rispondo un po’ senza
seguire l’ordine.
Bianca ha sottolineato la questione giusta di “Evolution day” e non “Darwin day”, come
per dire: spostiamo la nostra attenzione non tanto sul darwinismo quanto sul processo
in sé che fa da cornice al divenire del mondo naturale. Questa è una questione che si
può benissimo prendere in considerazione perché nella scelta del Darwin day siamo
stati un po’ spinti dai tempi, di fatto, nonostante i nostri sforzi di lungimiranza, anche
noi siamo figli dei nostri tempi nel senso che siamo spinti a rispondere fuoco a fuoco;
Darwin d’altra parte è il personaggio che tutti conoscono, ci sono state trasmissioni ecc.
ecc., colpisce parlare di lui, non a caso è stato lui a porre delle basi inoppugnabili alla
spiegazione dell’evoluzione, quindi il darwinismo è diventato la punta di lancia
dell’evoluzionismo tutto, però sappiamo che le cose non sono esattamente così, siamo
tutti d’accordo nel rimodellare in modo più colto e più idoneo tutte queste tematiche.
Per quanto riguarda quello che diceva il collega: a scuola poi che si fa. Poco si fa, non
c’è un impianto evolutivo, prevale un impianto riduzionista, meccanicista, è così
perché di fatto non è facile per dei poveri untorelli come noi siamo -e lo dico in senso
affettuoso e scherzoso- abbandonare quello che è il comune sentire biologico che è
riduzionista e trasformarlo nella visione di insieme quale è quella che ci può dare la
biologia evoluzionista, senza contare che per farla bisogna conoscerla molto bene.
Abbiamo visto che razza di problemi ci sono, sono prove dentro l’evoluzione e già
questo distinguo è difficile da far capire a chi non è del campo, e a chi lo è non è facile
entrare un po’ meglio nella biologia evoluzionistica allora molte volte ci si rifugia nel
DNA, ci si rifugia in questi nomi-mostro, togliendo ai ragazzi una grande linfa di
pensiero, perché io insisto sempre su questo punto: l’evoluzione, la teoria evolutiva
e tutti i suoi addentellati, anche quelli critici, sono motori di pensiero perché suscitano
una serie di riflessioni che aumentano le sinapsi, mentre altri no, sono molto più
costrittivi, mnemonici.
Una collega
Non colpevolizziamoci troppo. Io quest’anno ho provato a fare le teorie evolutive in
una terza, lo sai che cosa mi hanno detto i ragazzi? Professoressa, perché non abbiamo
fatto un po’ di fisiologia, anatomia, ci sono tante altre cose. Per affrontare il problema
dell’evoluzione dobbiamo dare comunque delle basi, sono prerequisiti il DNA, la
genetica mendeliana, la struttura della cellula, come facciamo a parlare anche di
evoluzione?
201
Sandra Magistrelli
Io su questo mi permetto di dissentire, non dalle tue giustissime osservazioni. Appunto
per questo la nostra associazione dovrebbe sforzarsi di pensare a dei contenuti,
parliamo delle superiori per ora, in cui l’impianto evolutivo è veramente il contesto su
cui si proiettano la cellula, e questo e quell’altro, è cosa non è facile ma si può provare,
certo ci vuole l’ingegno di tutti e la buona volontà. Comunque è un discorso che faremo
presto perché l’associazione ha intenzione di sviluppare questa ricerca sui contenuti
e siete pregati tutti vivamente di collaborare con noi perché tutti quanti gli spunti e le
idee sono preziosissimi.
Ancora una cosa a proposito dell’aggressività. L’idea che mi sono fatta leggendo è
quella che il discorso dell’aggressività può fare comodo. Noi siamo animali aggressivi,
siamo animali distruttivi, abbiamo un istinto, una pulsione che Freud chiama pulsione
di morte e così tutti i suoi epigoni, e sono forti e importanti come formatori di pensiero,
e questa pulsione in qualche modo ci rende quelli che siamo; come tutti gli istinti non
è facile da superare nemmeno con la cultura, ergo, tanto vale “civilizzare” l’istinto
aggressivo attraverso forme di convivenza che siano aggressive controllate, come
quelle del mondo in cui viviamo dove c’è questa competizione in tutti i settori della vita.
Questo è presentano quasi come l’unico modo di ragionare, mentre non lo è ma ce ne
sono altri, lo stesso Darwin ci ha detto che cos’è l’altruismo, ma lo sappiamo bene
anche da noi. Il problema è quello di riuscire a dare ai ragazzi questo convincimento
ottimista, rasserenante, perché vivere in un mondo così non ci piace, non so che cosa
ne pensate ma non è bello, invece il mondo è tanto bello.
Infine, a proposito di quello che Maria Teresa dice sul darwinismo sociale: sono
d’accordo, non bisogna troppo addentrarci in quelle che sono le extra moenia, può
essere rischioso andare avanti per luoghi comuni, però è pure vero che noi siamo un
tutt’uno, la nostra natura biologica è di fatto strettamente connessa con il nostro essere
esseri culturali, quindi è molto difficile ma sta alla nostra prudenza, saggezza, cultura,
equilibrio, e poi ci pensano i ragazzi.
202
Didattica dell’evoluzione
F ABIO F ANTINI
Le interpretazioni scientifiche del mondo richiedono sforzo di elaborazione e
raramente sono spontanee. Guidare alla loro conoscenza, comprensione e
concettualizzazione rappresenta un compito impegnativo per il docente.
Un modello scientifico entra spesso in conflitto con la rappresentazione immediata e
ingenua che il nostro cervello tende a costruirsi della realtà. La cosa non è sorprendente,
se pensiamo che il nostro sistema nervoso centrale si è evoluto per reagire in modo
rapido a stimoli ambientali anche complessi e tende pertanto a inserire i dati raccolti
in un contesto noto per giungere a conclusioni veloci e coerenti con quel contesto. La
cura nella raccolta dei dati, la riflessione ponderata sul loro significato, la verifica delle
regolarità che sembrano emergere dalla loro analisi sono attività non sempre favorite
nell’ambiente nel quale la nostra specie è vissuta durante l’evoluzione del suo grande
encefalo. Allo stesso modo non è facile abbandonare il contesto usuale e oltrepassare
le barriere del cosiddetto “senso comune”.
Il vantaggio legato a una previsione e un controllo più accurati dei fenomeni naturali
ha fatto sì che le spiegazioni ingenue abbiano lasciato il passo ad altre sempre più
raffinate. Si tratta di spiegazioni complesse, permesse dal contributo cumulativo di
molte generazioni e da un meccanismo di trasmissione e di accumulo extragenetico
dell’informazione. Le spiegazioni sono state selezionate in base alla efficacia, secondo
un criterio puramente pragmatico. Le spiegazioni efficaci, che chiamiamo spiegazioni
scientifiche, sono spiegazioni materialistiche, le uniche per le quali è possibile ricorrere
alla verifica sperimentale.
Le spiegazioni materialistiche hanno il vantaggio di essere provvisorie e autocorrettive:
non hanno in sé alcunché di definitivo e possono essere adeguate a nuove, più ampie
o più precise, acquisizioni di dati. Le spiegazioni dogmatico-idealistiche sono costruite
su verità assolute, rassicuranti ma ingombranti, perché non correggibili e prima o poi
inevitabilmente destinate a entrare in contrasto con i dati sperimentali. Mentre le
spiegazioni scientifiche si adattano ai dati sperimentali e possono essere abbandonate
quando le correzioni imposte sono troppo radicali, le spiegazioni dogmaticoidealistiche cercano di adattare i dati ai propri contenuti e giungono a imporne la
negazione nel caso in cui questi dati siano in contrasto troppo aperto con le spiegazioni
stesse. Si potrebbero ragionevolmente indicare campi distinti e separati per l’applicazione
delle spiegazioni scientifiche e di quelle dogmatico-idealistiche, e ciò accade spesso; ma
in certi momenti storici riemerge il mai sopito bisogno di assolutismo delle spiegazioni
dogmatico-idealistiche, che tendono a estendere la propria integralità di dominio su
tutte le interpretazioni del mondo.
Le spiegazioni scientifiche devono spesso vincere un ostacolo rappresentato dalla
forza della percezione immediata dei dati sensoriali. Ad esempio, l’immagine immediata
fornita dai nostri sensi ci spinge a pensare a una superficie della Terra piatta e immobile,
203
intorno alla quale sono in movimento numerosi corpi celesti. Codificata in alcuni
modelli dogmatico-idealistici del mondo, questa immagine della Terra è messa in crisi
da osservazioni sensate, ma è dura a lasciare il passo a una visione più efficace. Secondo
un’indagine condotta alcuni anni fa, la stragrande maggioranza delle persone che
abitano nei Paesi industriali risponde senza esitazione alla domanda se la Terra sia
sferica o piatta propendendo per la prima alternativa. Ma la convinzione interiore non
sempre si adatta a questa conquista razionale, se una percentuale variabile da Paese a
Paese, ma mai irrilevante, ritiene che un osservatore posto a Lisbona potrebbe
osservare, se disponesse di un cannocchiale sufficientemente potente, i grattacieli di
New York.
Allo stesso modo in cui la forma della Terra è percepita come piatta per il grande
raggio di curvatura della superficie, le specie viventi sono percepite come fisse nel
tempo per la lentezza con la quale i fenomeni evolutivi avvengono. Sarebbe
interessante verificare se anche per le teorie evolutive la formale conoscenza del
fenomeno si accompagna a una mancata comprensione delle sue implicazioni. Come
docenti non abbiamo però molti dubbi sul fatto che un numero consistente dei nostri
alunni conserva fraintendimenti più o meno gravi del significato delle teorie evolutive.
Farò riferimento a cinque ordini principali di fraintendimenti:
- l’individuo visto come soggetto dei processi evolutivi;
- l’idea dell’evoluzione biologica come un continuo progresso;
- l’idea di una scala evolutiva; la personalizzazione della selezione naturale;
- il finalismo dei processi evolutivi.
Il soggetto dell’evoluzione
Uno degli errori più comuni riguarda chi si evolve, cioè il soggetto dell’evoluzione. La
nostra percezione del mondo è fortemente individualizzata e siamo portati a ritenere
l’individuo soggetto di ogni fenomeno biologico. Per l’evoluzione ciò non è vero. I
singoli individui non evolvono nel corso della propria esistenza. I fenomeni evolutivi
riguardano le popolazioni, la cui composizione cambia da una generazione all’altra in
conseguenza delle diverse capacità riproduttive degli individui che le compongono.
L’idea un po’ semplicistica che i singoli individui si modifichino nel corso della propria
vita e trasmettano i caratteri così acquisiti ai propri discendenti ha tentato più volte gli
studiosi dell’evoluzione. L’influenza dell’ambiente sugli individui può essere molto
forte e determinare cambiamenti morfologici rilevanti. Il portamento del faggio, in
natura, è molto variabile: da albero maestoso, nelle formazioni ad alto fusto, ad
arbusto basso e contorto sui crinali delle montagne spazzate dai venti. Se vive isolato,
il suo tronco è tozzo e breve e mette rami fin dal basso. Al contrario, se vive in un
bosco, si sviluppa in altezza, in lotta con le altre piante.
Una pianta di faggio cresciuta in un bosco ha un aspetto assai diverso da una pianta
cresciuta da sola in un prato. I cambiamenti causati dall’ambiente non sono però
ereditabili e non provocano evoluzione. I semi prodotti da un albero di faggio in un
bosco e piantati in un prato si sviluppano in piante che assomigliano al faggio cresciuto
in un prato, non al loro genitore.
204
I cambiamenti rilevanti per l’evoluzione sono quelli che alterano la composizione del
serbatoio genico di una popolazione. I singoli individui determinano questo cambiamento
in modo indiretto. Ogni individuo che si riproduce trasmette i propri geni alla
generazione successiva. Gli individui che sono sopravvissuti fino a riprodursi possiedono,
alla prova dei fatti, i geni adatti all’ambiente in cui si trovano. Questi geni sono ereditati
dalla generazione successiva e continueranno a fare parte del serbatoio genico della
popolazione. I geni degli individui che non si sono riprodotti sono eliminati dal
serbatoio genico. Per evidenziare come a cambiare nel corso dei processi evolutivi
siano le caratteristiche medie della popolazione, non le caratteristiche dei singoli
individui, si può paragonare una popolazione a una squadra di calcio. Anno dopo
anno, la squadra rimane la stessa, anche se alcuni giocatori sono ceduti e altri acquistati.
Nelle squadre di calcio i cambiamenti nella composizione del gruppo sono i risultati
delle operazioni di calciomercato, nelle popolazioni sono dovuti alla riproduzione, alla
variabilità e alla selezione naturale.
L’evoluzione come progresso
Un altro modo errato di guardare ai processi evolutivi nasce da una concezione del
mondo che considera la specie umana come il prodotto più elevato dell’evoluzione.
I fenomeni evolutivi sono visti come un processo ascendente e lineare, culminato con
la comparsa di Homo sapiens. Anche se la maggior parte delle persone dotate di cultura
biologica rifiuta la concezione antiquata rappresentata dalla scala del progresso lineare,
l’adesione inconscia a questa visione del mondo emerge frequentemente. Ad esempio
l’iconografia classica dell’evoluzione della specie umana consiste in una sequenza lineare
che passa da scimmie antropomorfe quadrupedi dal piccolo cranio a ominidi bipedi
sempre più eretti e dal volume cranico sempre maggiore.
L’idea dell’evoluzione come progresso trova una sua ragione nello studio dei fossili.
I resti degli antichi sistemi viventi delineano infatti un quadro sempre meno vario e
meno complesso man mano che si risale indietro nel tempo. I primi sistemi viventi,
generati spontaneamente da materia non vivente, erano caratterizzati dalla minima
complessità possibile. La diversificazione delle forme di vita poteva procedere solo
verso l’occupazione di nicchie ecologiche adatte a organismi più complessi. La via
verso l’aumento di complessità è la via obbligata nell’evoluzione dei sistemi viventi,
l’unico percorso reso possibile dalla presenza di organismi semplici già bene adattati.
La simbiosi endocellulare che segnò la comparsa delle cellule eucariote, la conquista
della pluricellularità da parte degli Animali, la colonizzazione delle terre emerse con
l’acquisizione della pluricellularità delle Piante rappresentano probabilmente gli eventi
evolutivi che maggiormente hanno contribuito all’aumento di complessità dei sistemi
viventi. Si è trattato di percorsi quasi obbligati, vie d’uscita nell’unica direzione possibile,
piuttosto che tappe di un ideale percorso verso la complessità.
Il diverso grado di evoluzione delle specie
Un’altra fonte di confusione riguardo alle teorie evolutive proviene dall’uso di un
linguaggio ambiguo, che però continua a essere usato per ragioni di semplicità. Anche
205
testi scientifici, per brevità di espressione e per immediatezza di comprensione,
indulgono nell’uso di termini come “specie primitive” e “specie evolute”, oppure
“organismi inferiori” e “organismi superiori”. Poiché tutti gli organismi derivano da
un antenato comune, la durata del percorso evolutivo è la stessa per tutte le specie
attualmente viventi (sempre che non vogliamo misurarla in termini di numero di
generazioni). I termini “primitivo” e “evoluto” vanno sempre intesi come relativi e,
in genere, riferiti a particolari processi che si sono verificati all’interno di una specifica
linea evolutiva. Quando ci si riferisce a una specie come “avanzata” o “specializzata”,
ciò non implica un giudizio di maggiore perfezione. Si intende semplicemente che
quella specie presenta adattamenti a un particolare ambiente, che non erano presenti
nelle forme più arcaiche dello stesso gruppo. “Primitive” sono definite le specie che
possiedono numerose caratteristiche che si ritiene siano state proprie del ceppo
ancestrale da cui la linea evolutiva ha avuto origine.
Una specie non è mai “evoluta” o “primitiva” in assoluto. Il possesso di caratteri
specializzati si accompagna spesso a quello di caratteri primitivi. La specie umana, per
esempio, presenta un adattamento primitivo con la mano a cinque dita, mentre il
cavallo ha sviluppato un adattamento molto più avanzato con la conservazione di un
solo dito equipaggiato dallo zoccolo. Viceversa, la nostra specie è più evoluta per
quanto riguarda la posizione frontale degli occhi, mentre il cavallo ha una posizione
laterale più primitiva. Queste affermazioni derivano dal fatto che gli antenati comuni
di cavallo e uomo, vissuti prima di 65 milioni di anni fa, possedevano una struttura
dell’arto anteriore a cinque dita e gli occhi posti lateralmente nel cranio.
I termini “primitivo” e “evoluto” possono risultare fuorvianti soprattutto se impiegati
nella comparazione di gruppi diversi. Se si tiene conto, ad esempio, del fatto che gli
organismi pluricellulari si sono evoluti da quelli unicellulari, si può affermare che questi
ultimi sono più primitivi. Il termine “primitivo” suona però un po’ inadatto per molti
organismi unicellulari, la cui cellula presenta un grado di differenziazione interna che
non ha eguale presso i pluricellulari.
Spesso ci si riferisce con il termine “superiore” a specie che hanno seguito particolari
tendenze evolutive. Il termine “inferiore” è invece usato a proposito di specie che si
sono come attardate rispetto a quella tendenza evolutiva, perché occupano ambienti
che non richiedono ulteriori specializzazioni. Ad esempio ci si riferisce spesso a Poriferi
e Cnidari come ai gruppi inferiori tra gli Animali oppure a Muschi ed Epatiche come
ai gruppi inferiori tra le Piante. Infatti si ritiene che questi gruppi si siano originati, con
gran parte delle caratteristiche che li contraddistinguono, in tempi molto remoti. Da
ciò non segue però che Poriferi e Cnidari, o Muschi ed Epatiche, siano primitivi sotto
tutti i punti di vista. Soprattutto, ciò non significa che gli Animali superiori si siano
evoluti direttamente da Poriferi e Cnidari e che le Piante superiori si siano evolute
direttamente da Muschi ed Epatiche.
La personalizzazione della selezione
Esistono anche altre situazioni in cui il linguaggio tecnico ricorre a espressioni sintetiche
che rischiano di rafforzare concetti errati. E’ il caso, ad esempio, di espressioni come
206
“pressione selettiva”, intendendo quasi che un determinato ambiente spinga una
popolazione verso lo sviluppo di particolari adattamenti. La selezione non è in alcun
modo una forza né una entità consapevole, ma solo un effetto. La selezione consiste
nel vantaggio riproduttivo di certe varianti genetiche comparse casualmente in una
popolazione, senza in alcun modo contribuire alla loro comparsa.
Un altro comune caso di immagini suscitate erroneamente da un linguaggio un po’
troppo sbrigativo riguarda l’antropomorfizzazione del comportamento dei sistemi
viventi. Sembra quasi che piante, animali e perfino geni si comportino in base a
motivazioni coscienti. Spesso si usano espressioni come “il camaleonte rende il
proprio colore simile allo sfondo dell’ambiente in cui si trova perché questo
comportamento favorisce la sua sopravvivenza”. In modo più preciso occorrerebbe
dire “i camaleonti che, a causa delle caratteristiche del loro genoma, rendono il proprio
colore simile allo sfondo dell’ambiente in cui si trovano sono favoriti dalla selezione
naturale più dei camaleonti che, a causa delle caratteristiche del loro genoma, non
adottano questo comportamento”. La lunghezza della seconda locuzione è
effettivamente scoraggiante; sarebbe però opportuno usare la prima locuzione solo
in un contesto in cui si è certi di non essere male interpretati.
Il finalismo dei processi evolutivi
La quotidiana esperienza di docenti ci mostra una preoccupante frequenza nell’uso da
parte degli studenti di espressioni che lasciano trasparire una visione finalistica dei
fenomeni evolutivi (e anche di molti altri fenomeni biologici).
L’emergere delle concezioni finalistiche è un po’ l’equivalente dell’idea di potere
osservare i grattacieli di New York da Lisbona. Si concede che le specie siano in
evoluzione, ma non si interiorizza il concetto che sta alla base del pensiero popolazionale,
cioè che variabilità casuale e selezione guidata dalle necessità ambientali producano gli
adattamenti dei sistemi viventi; si tende piuttosto a pensare all’intervento di una guida
superiore.
Il nostro cervello si è evoluto in un contesto popolato da attori intenzionali, capaci di
programmare comportamenti di varia complessità per raggiungere uno scopo. Un
leopardo si mette sottovento alla potenziale preda e le si avvicina con grande
circospezione perché vuole catturarla. Attribuire uno scopo a comportamenti
apparentemente non collegati tra loro consente di prevedere le intenzioni di altri sistemi
viventi e porvi, se necessario, riparo. La capacità di intuire le intenzioni altrui è di vitale
importanza, in particolare nelle interazioni sociali tra animali capaci di apprendere
dall’esperienza e anche di mentire. Potremmo dire che la tendenza all’interpretazione
finalistica è un prodotto della nostra evoluzione.
L’interpretazione finalistica va in direzione opposta a quella della scienza. L’indagine
scientifica spiega i fenomeni di un dato livello di complessità in base a proprietà dei
livelli di complessità inferiori, dei quali sono note le regole e le proprietà. L’interpretazione
finalistica corre invece a inserire i fenomeni studiati in un livello di complessità
superiore, per il quale possono essere postulate proprietà emergenti che spesso sono
ad hoc. Ad esempio, se consideriamo la polarità della molecola d’acqua, la spiegazione
207
scientifica di questa proprietà fa ricorso alle caratteristiche degli atomi di idrogeno e
di ossigeno, alla loro differente capacità di attrarre gli elettroni di legame, alla struttura
dei due atomi. La spiegazione finalistica è che la molecola dell’acqua è polare perché
la sostanza abbia quelle caratteristiche di calore specifico, temperatura di solidificazione
e di ebollizione, densità del solido rispetto al liquido che rendono possibile la vita sul
nostro pianeta.
L’interpretazione finalistica ha un grande valore adattativo tutte le volte che abbiamo
a che fare con agenti complessi, capaci di memoria e apprendimento. Il ricorso a questa
interpretazione è però fuori luogo nella maggior parte dei casi che sono oggetto della
ricerca scientifica.
E’ tempo che le teorie evolutive riacquistino un ruolo centrale nella trattazione
scolastica della biologia. Non possiamo più dare per scontata una conoscenza diffusa
e sufficientemente precisa di queste teorie; pertanto occorre farne l’asse portante dei
progetti didattici.
Penso a due distinti livelli di acquisizione, corrispondenti a diverse età scolari. Nella
scuola di base mi sembra importante graduare una serie di osservazioni problematiche
che portino a maturare il concetto di evoluzione dei sistemi viventi. La sistematizzazione
teorica di questo concetto è fornita dalla teoria darwiniana dell’evoluzione per
selezione naturale e può essere raggiunta nella scuola media.
Nella scuola media superiore si può procedere con il consolidamento critico del
concetto di evoluzione; in particolare, è importante ricordare che le teorie evolutive
non sono ferme alla originaria formulazione darwiniana e che in circa 150 anni sono
state apportate correzioni e integrazioni, mentre ogni aspetto dell’impetuoso sviluppo
delle conoscenze biologiche ha confermato la correttezza delle teorie evolutive.
La spiegazione degli adattamenti come prodotto di un processo evolutivo lento e
senza scopo, guidato unicamente dal differenziale riproduttivo, richiede una meditata
acquisizione del pensiero popolazionale. Un argomento che si presta a verificare la
solidità del pensiero evolutivo acquisito dallo studente è l’interpretazione di un albero
genealogico, in particolare di un albero genealogico ricavato dall’analisi molecolare.
Applicare in campo molecolare i principi dell’evoluzione rappresenta un utile esercizio
e una verifica della comprensione delle teorie evolutive. Le omologie dei geni, la cui
scoperta è stata resa possibile dal sequenziamento del DNA e dal confronto dei dati
inseriti nelle banche dati elettroniche, forniscono una ulteriore convincente prova dei
processi evolutivi in tutti i fenomeni che hanno interessato i sistemi viventi.
Nei mesi scorsi la revisione dei programmi della scuola media ha fatto molto discutere
per la eliminazione dei riferimenti alle teorie evolutive. Indipendentemente dagli esiti
del successivo ampio moto di protesta e delle promesse correzioni di tiro, è certo che
molti insegnanti affronteranno con prudenza gli argomenti dell’evoluzionismo e altri
si sentiranno perfettamente legittimati nel non affrontarli affatto.
Il mancato raggiungimento dei livelli di conoscenza e comprensione delle teorie
evolutive auspicati per la scuola di base si rifletterà sulla scuola superiore, non tanto per
il tempo occorrente a recuperare gli argomenti tralasciati, quanto per la difficoltà di
intervenire su sistemi di credenze non scientifiche ormai radicati nella mente degli
208
studenti. Per molti e decisivi anni, infatti, ai giovani studenti sarà offerta, senza confronti
con l’impostazione scientifica, una interpretazione vecchia di millenni e ignara delle
conoscenze che la nostra cultura ha saputo sviluppare successivamente alla rivoluzione
francese.
Fabio Fantini
Docente di Scienze naturali L. Sc. Galilei di Ancona
209
Dibattito finale
Sandra Magistrelli
Mi farebbe piacere sentire il vostro parere sulle proposte per l’insegnamento
dell’evoluzione nella scuola di base e nella scuola superiore mostrate da Fabio Fantini.
Aggiungo un’altra che era già venuta fuori dal direttivo ANISN del 6 giugno e cioè fare
un gruppo di ricerca non teorica, ma di ricerca calata nella scuola a proposito
dell’insegnamento dell’evoluzione, quindi lavorare sulla base di una traccia contenutistica quale quella che ha molto efficacemente mostrato Fabio, integrarla con altri tipi
di interventi sui ragazzi, che possono essere la conoscenza dei loro prerequisiti, dei
loro preconcetti, la valutazione ecc., e lavorare a questo progetto in modo da fare
dell’evoluzione la cornice teorica in cui proiettare i programmi, i contenuti, che non
possono essere solo quelli dell’evoluzione, per i vari livelli di scuola.
Sapete che, per quanto riguarda la scuola elementare, c’è già un gruppo coordinato
da Silvia Caravita, Clementina Todaro e da Bernardini di Pavia, che si dovrebbe
occupare dell’educazione scientifica nelle elementari; per la scuola media si sta
costituendo un gruppo, coordinato da Lina Stramondo di Palermo; per le superiori
volevo appunto occuparmene direttamente ma solo per coordinare perché i problemi
sono immensi; infine Rosa Roberto pensava di coordinare una riflessione su un
curricolo verticale dalle elementari alla fine della scuola superiore e che appunto abbia
come filo rosso concettuale l’evoluzione. Allora, per fare tutto questo gran lavoro è
necessario il contributo di tutti, e l’intervento che tu Bianca stai per fare credo che sia
assolutamente in quella direzione, proprio per non far cadere queste proposte, queste
idee. Come educatori e cittadini, mi permetto di aggiungere -in un momento un po’
difficile per la cultura in generale del Paese e anche, mi sembra, dell’Occidente- che
bisogna stare attenti a non far contaminare, come diceva anche Fabio, i livelli della
scienza con quelli di altri settori con cui la scienza non ha molto a che vedere.
Questa è soltanto un’informazione, naturalmente avremo modo di contattarci, di
organizzarci, vorremmo vederci a settembre per fare il punto dopo le vacanze e
vedere la programmazione di questo tipo di impegno che non è una piccola cosa, si
può magari pensare di farla per piccoli campioni qua e là. Il coordinamento però deve
crearlo questo gruppo, e tutto questo è semplicemente un indirizzo a cui fare
riferimento anche solo per dire che interessa.
Catia Pardini
Tutto questo ha una finalizzazione puramente culturale nella scuola o ha anche come
obiettivo quello dei programmi che devono essere ancora organizzati a livello
ministeriale? Ora, sebbene sappia benissimo come è andata a finire per la scuola di
base e di I° grado., chiedo: noi, come ANISN, abbiamo presentato qualcosa per la
scuola secondaria, ci è stato chiesto niente?
Sandra Magistrelli
Rispondo io: certo, questo è un progetto culturale e professionale forte perché
un’Associazione si denota anche dalle sue capacità di ricerca culturale e se questa
iniziativa parte e comincia a camminare, è chiaro che l’ANISN è un interlocutore per
quanto riguarda i problemi di cui parli. Per la secondaria superiore le cose stanno così:
a noi ANISN è arrivata la richiesta di rivedere le indicazioni nazionali, cioè quella specie
di cappello teorico generale che dice che cosa deve diventare il ragazzo alla fine: il
ragazzo alla fine deve diventare un aristotelico, questo è detto espressamente nel
testo, nel senso che questo è il modello di riferimento culturale.
210
Bianca Isolani
Dalle conchiglie alla pace sembra un’estrapolazione un pochino folle.
Noi stiamo lavorando su questo da molto tempo, esattamente dal ’96, abbiamo fatto
una mostra “Le conchiglie di Lamarck”, di cui qui vedete alcuni pannelli, fra cui un
quadro che è stato fatto proprio per noi perché intendiamo valerci di molti pittori,
perché come è stato detto in questi giorni, c’è anche un discorso di sollecitazione
estetica ed emotiva, e lo abbiamo portato, in questa mostra partita nel ’96 a Livorno
alla Fortezza nuova, poi l’ha fatta l’ANISN della Valle d’Aosta che è bilingue (e siamo
riusciti a trovare i fondi per tradurre il libro anche in francese) l’abbiamo fatta anche
con i francesi del paese di Lamarck e circonvicini, in Piccardia, con cui continuiamo ad
avere molti contatti, scambi e gemellaggi.
Abbiamo fatto questa mostra con lo scopo preciso di rivalutare la figura di Lamarck,
che è stata di proposito svalutata ed è ancora tanto svalutata che Lamarck viene citato
soltanto per il collo delle giraffe di cui ha parlato in appena 15 righe. E’ stato invece
il creatore della Biologia, a cui ha dato per l’appunto anche il nome, il creatore della
terminologia vertebrati e invertebrati, il creatore della sistematica degli invertebrati,
perché ai tempi suoi la cattedra era costituita da “ Insetti, vermi e animali microscopici”: questo era lo stato degli studi sugli invertebrati al suo tempo; su questi argomenti
ha prodotto sette libri che sono stati consideratissimi per tutto l’Ottocento e che Darwin
stesso aveva sul Beagle, altrimenti, come vi è stato detto da qualche relatore
precedente, non avrebbe saputo classificarli.
Quindi per noi il fatto importante era rivalutare la figura di questo scienziato perché
era deriso, non a caso, come poi vedremo. Il discorso fondamentale era dunque di
rivalutare come egli ha scoperto l’evoluzione, perché tutti sapete che viene considerato il padre dell’evoluzione ma un padre, tutto sommato, un po’ cretino. Egli invece
ha dimostrato l’evoluzione come fatto, l’ha enunciato come fatto non come teoria l’11
maggio 1800 e noi l’11 maggio del 2000 abbiamo celebrato questa ricorrenza a
Livorno, a Milano, nel paese di Lamarck e al museo di Storia naturale di Parigi in
contemporanea. Per arrivare a enunciare l’evoluzione come fatto si è basato proprio
sugli invertebrati, in particolare si è basato sulle conchiglie: ecco perché “Dalle
conchiglie…”, perché gli hanno permesso di fare degli studi nello spazio e nel tempo.
Nello spazio: lavorando su una enorme quantità di esemplari che si faceva portare da
tutto il mondo e per il qual motivo si ridusse in miseria, dimostrava che le specie sono
variabili gradualmente e ogni specie sfocia nei generi vicini. Nel tempo: Lamarck era
nato e vissuto nel bacino di Parigi, che è un bacino fossilifero del Terziario per cui ci
sono tantissimi fossili e anche qui ha veduto la gradualità fra specie attuali e specie
più antiche. Quindi il suo ragionamento è stato induttivo: se le specie sono variabili
nello spazio e se le specie sono variabili nel tempo, o si formano dalla terra -ma era
già stato dimostrato da Redi, Spallanzani ecc. che la generazione spontanea di questo
tipo non sussisteva- oppure quelle più complesse dovevano derivare dalle più
semplici, e tertium non datur, non esiste un’alternativa per cui, continuare a parlare
a 200 anni di distanza, di teoria dell’evoluzione è improprio. L’evoluzione è un fatto.
Ecco perché qui si può considerare Lamarck come Copernico, perché mentre tutti
studiavano gli animali superiori come mammiferi, uccelli ecc., egli ha studiato gli
invertebrati e ha detto che i piani degli invertebrati sono molto molto più differenziati
di quelli dei vertebrati, quindi per studiare l’evoluzione occorre studiare gli invertebrati, che egli diceva essere oltre l’86 % degli animali. Nel 1820 ha proposto anche un
albero evolutivo, quindi molto prima dei famosi alberi evolutivi di Darwin e di Heckel
(quelli di Heckel sono degli anni Settanta dell’Otocento). Da questo concetto di albero
evolutivo che noi abbiamo voluto che fosse espresso in un quadro (al pittore era stato
chiesto di mettere in evidenza l’importanza del mare e secondo noi lo ha fatto) oggi
211
è scaturito questo moderno albero evolutivo che dà pienamente ragione a Lamarck,
infatti i vertebrati sono rappresentati solo in questa piccola parte di tutto l’albero
evolutivo, quindi è vero che per capire l’evoluzione occorre studiare gli invertebrati.
Per Lamarck alla base stavano degli organismi unicellulari: addirittura pensava,
contrariamente agli studi dell’epoca, che fossero nati per generazione spontanea e
continuassero a nascere per generazione spontanea.
Vincenzo Terreni
Sarebbe opportuno utilizzare quest’ultimo scorcio di convegno per una discussione su
tutti gli aspetti didattici dell’evoluzione.
Mi auguro poi che il discorso che presentava Bianca Isolani sulla mostra di Lamarck
abbia un seguito con la provincia di Lucca.
A questo punto invito i colleghi a porre delle domande, a Fabio Fantini e anche a
Brunella Danesi per recuperare un po’ della discussione di ieri sera e arrivare, non dico
a una conclusione del nostro convegno, perché sono stati sollevati molti più problemi
di quelli che possiamo essere in grado di risolvere da qui a quando ce ne andremo,
ma per lo meno fissare alcune questioni aperte, altre visioni su quello che è stato
presentato che credo, e di questo sono sicuro, sia stato uno spaccato estremamente
stimolante di grande profondità e interesse scientifico. Invito dunque i colleghi a porre
domande, e non solo domande ma riflessioni, invitando contemporaneamente però
anche ad una certa stringatezza.
Pier Paolo Putzolu
Alla luce di tutto quello che abbiamo ascoltato anche in questi giorni, ma soprattutto
della relazione di Fantini, non so se una proposta, per riuscire ad affrontare
l’evoluzione organicamente e con tutte le valenze che può avere anche dal punto di
vista formativo, può essere quella di tornare al percorso storico, presentandola quindi
con i suoi passaggi storici, a partire dai primi dell’Ottocento fino alla teoria sintetica
dell’evoluzione e a quello che di problematico sta emergendo oggi.
Fabio Fantini
Sono d’accordo, secondo me il percorso storico è una possibilità. Ci sono alcuni
argomenti nelle materie che insegniamo in cui l’aspetto storico è rilevante, perché in
effetti certi concetti, per maturare, hanno bisogno di una base, spesso sbagliata ma il
superamento è comunque un progresso, e credo che l’evoluzione sia uno di questi.
Penso che tutti quanti noi citiamo i primi evoluzionisti per spiegare come il concetto di
evoluzione si sia fatto strada facilmente per i motivi che dicevo prima, però c’è un
passaggio decisivo che è quello che si ha con Darwin, e Darwin è vissuto circa 150 anni
fa, quindi bisogna fare anche un po’ di storia per capire il contesto in cui Darwin lavorava,
in cui si passa da un meccanismo immediato, ingenuo, ad uno un po’ più articolato, che
richiede una riflessione maggiore sui dati. L’altro percorso che ho presentato è
ugualmente in qualche modo storico perché parte dagli inizi del Novecento e arriva agli
anni Ottanta del Novecento e giusto in mezzo c’è il DNA con tutto quello che ha
significato. Adesso non devo stare a ricordare qui che il bello della Biologia -e non è detto
che durerà per sempre probabilmente no, anzi- è che tutto si tiene, anche se qualche
crepa comincia ad emergere, e questo secondo me è importante che noi agli studenti
lo comunichiamo, quindi quello che è accaduto nel ‘900 che si può chiamare a ragione
il secolo della Biologia, il secolo per noi biologi meraviglioso, pieno di scoperte
entusiasmanti, può darsi che il 2000 sia anche meglio. Però il percorso storico in un
argomento come questo secondo me è veramente importante, anche se forse non
decisivo ma tale comunque da facilitare molto il nostro compito di insegnanti.
212
Una collega
Mi è piaciuta molto la relazione del prof. Fantini e anche quella della prof. Danesi; mi
è piaciuta molto la sua relazione, molto bella, molto incisiva, però ho notato una cosa:
lei non ha affrontato l’aspetto dell’approccio macroevolutivo e l’aspetto della storia
naturale. Io penso che una delle difficoltà maggiori nell’affrontare l’evoluzione
biologica è proprio quella che noi non abbiamo l’approccio storicistico perché,
purtroppo, l’analisi degli aspetti geografici e degli aspetti geologici connessi con
l’analisi dell’evoluzione biologica, quindi la storia naturale, è confinata soltanto in una
parte molto ristretta dei nostri programmi di Scienze. Noi siamo portati quindi dai
programmi tradizionali, ministeriali ad affrontare prima la Biologia, poi la Chimica e
non si sa perché poi la Chimica, e poi gli aspetti della geologia. Diceva il prof. Terreni
ieri: non sono solo storie di cicce ma sono anche storie di sasso, ma in realtà sono storie
di cicce e di sasso messe insieme, perché è proprio tutta l’evoluzione biologica il
risultato di una relazione tra gli organismi e l’ambiente, cioè un’integrazione tra
litosfera, biosfera, atmosfera e idrosfera e un approccio complesso come questo è
proprio quello che ci serve per capire che questi organismi si evolvono. Non si evolvono
perché vogliono diventare migliori, sarebbe più corretto dire che vengono evoluti, cioè
man mano che l’ambiente cambia cambia anche il sistema naturale, l’ecosistema e
quindi qui c’è tutto un discorso anche ecologico da considerare in relazione all’evoluzione biologica, e qui entrerebbe anche la Biologia.
Secondo me dunque un ripensamento dei programmi è proprio indispensabile
altrimenti noi queste difficoltà le abbiamo nel trasmettere certi concetti ai ragazzi, non
riusciamo ad affrontarli adeguatamente perché siamo abituati ad un approccio
microevolutivo, perciò -come diceva il relatore-: abituare i ragazzi a pensare il
pensiero popolazionista, non è semplice. Invece, se noi cominciamo con il parlare della
storia naturale, col parlare dell’evoluzione in termini di cambiamenti dei sistemi
viventi, relazioni tra gli organismi e l’ambiente, poi il pensiero popolazionistico viene
percepito meglio, e secondo me dovrebbe venire dopo. Il problema è che il nostro
sistema scolastico non è assolutamente coerente con questo tipo di approccio che
invece è l’approccio che la scienza oggi segue, anche se è vero che la gran parte delle
conoscenze poi si ottengono con un tipo di sperimentazione riduzionista, però lo sforzo
attuale e più moderno è quello di integrare l’approccio riduzionistico con questo più
globale, cioè integrare tutte queste posizioni per arrivare ad una comprensione più
completa del nostro sistema vivente.
Questo è quanto volevo dire al prof. Fantini.
Alla prof. Danesi: mi è piaciuta molto anche quella relazione perché dice che
l’emotività, quindi l’affettività deve essere inserita nei processi di apprendimento,
perché soltanto attraverso questo tipo di passaggio si può avere anche un apprendimento efficace, in grado di sviluppare la personalità complessiva dell’individuo, quindi
è giusto coniugare alla lettura quello che è il freddo manuale.
Io però vedo la lettura molto importante anche da un altro punto di vista, perché, e
qui allargo un po’ il discorso ai diversi sistemi di comunicazione, oggi non abbiamo
soltato la lettura ma abbiamo tutti i media, fumetti, televisione, cinema, e tutti questi
sistemi di comunicazione risentono un poco di quella che è la nostra cultura
occidentale. Noi “latini”, europei, abbiamo un forte difetto di conoscenze scientifiche,
gli anglosassoni pure, però sotto un altro aspetto, nel senso che loro magari a scuola
studiano meglio le materie scientifiche, però poi studiano poco in generale e quindi ci
sono delle grosse misconoscenze sul piano scientifico. Quindi secondo me utilizzare
la nostra attività didattica per fare un tipo di analisi di questo genere nelle comunicazioni dei mass media non è una cosa sbagliata: per esempio potremmo prendere un
film dove si parla, non so, di un marziano che fa delle cose stranissime, perché nella
213
fantascienza c’è moltissimo che può porre un dubbio, che può coinvolgere in maniera
sbagliata i ragazzi, così come è sbagliata la divulgazione scientifica quando è una
forma di promozione delle innovazioni tecnologiche e non semplicemente una forma
di comunicazione e di diffusione dell’innovazione scientifica. A questo proposito mi
riferisco in particolare alle innovazioni biotecnologiche, che pur essendo produzioni
serissime in questo campo, ci danno però una visione solo parziale degli effetti
dell’introduzione delle nuove tecnologie, per cui secondo me compito nostro potrebbe
essere anche quello, ma termino qui perché questo discorso non c’entra molto con
l’evoluzione.
Fabio Fantini
La questione della microevoluzione: è vero che insistere sull’aspetto della microevoluzione in qualche modo è più facile, perché ci sono gli strumenti per trattarla e dunque,
poter disporre di uno strumento efficace dal punto di vista teorico per trattare il
fenomeno secondo me è molto vantaggioso dal punto di vista didattico, non si naviga
a vista, e questo è il motivo per cui la microevoluzione io l’ho indicata tra le righe, ma
come il primo punto da affrontare.
Sulla macroevoluzione ci muoviamo invece in modo più incerto, l’ortodossia direbbe
che la macroevoluzione non è altro che l’estrapolazione della microevoluzione, poi ci
sono state alcune integrazioni. Allora ci sono gli isolati periferici a cui facevo
riferimento prima, in cui c’è un’accelerazione per motivi che non sto a ricordare,
ancora, ci sono le mutazioni nei geni omeotici, però tutti questi sono spunti che
abbiamo e non sono inquadrati in una teoria così facile da usare come quella della
microevoluzione; secondo me comunque quella teoria a un livello di base è essenziale.
Rapidamente sulla mia esperienza e sui programmi: io insegno in un liceo scientifico
tradizionale, i miei programmi ufficiali non farebbero cenno neanche della parola
“genetica” perché risalgono al 1946, ma c’è una grande libertà, la tolleranza che c’è
stata in Italia per ogni tipo di sperimentazione ha anche prodotto il fatto che nessuno
mi viene a dire che devo o non devo fare questo o quest’altro, dopodiché credo che
conti un po’ quello che noi riteniamo opportuno trattare e per la formazione e per la
conoscenza che i nostri studenti debbono avere. Da questo punto di vista confesso che
mi sento molto libero anche se sono legato (ma in qualche modo ho accettato questo
vincolo) al 2-3-3-2 Biologia-Biologia-Chimica-Scienze della Terra. Volendo, so che
potrei cambiarlo, al momento però non mi sembra il problema più importante.
Brunella Danesi
Intanto voglio fare una precisazione: quando ho parlato di fare appello al sentimento
era soprattutto per ritornare poi alla ragione, altrimenti davvero si cade nell’irrazionale, e questo non lo vorrei per gli studenti.
Ritorno poi a quello che ha detto Magistrelli e che secondo me è fondamentale, cioè
se vogliamo avere un insegnamento significativo dobbiamo avere una visione
verticale. In questo caso penso per esempio ai tedeschi, non perché mi stanno
particolarmente simpatici ma perché, in qualche modo che mi risulta misterioso, i
ragazzini di 14 anni escono dalla scuola e sanno dare un nome alle cose, c’è scritto
anche nella genesi, però i ragazzini tedeschi, e questo l’ho visto perché sono stata
ospite in Germania, mostruosamente riconoscevano farfalle, insetti, non confondevano i serpenti con i lombrichi, cosa che invece i nostri studenti fanno serenamente
per cui tutto ciò che striscia è verme, e si va a poco altro. Questo accade perché,
secondo me, bisognerebbe davvero ritornare agli alberi genealogici, ricordando, tanto
per fare un’altra citazione, ciò che dice Bateson a proposito della struttura che
connette, facendo riferimento al fatto che anche un bambino sa riconoscere un sasso
214
da un vivente perché il vivente è dotato di organizzazione, ha le zampe in genere a
sinistra e a destra, le zampe sono appunto fra loro molto simili. Qui si potrebbero fare
tutta una serie di considerazioni per esempio sulla simmetria e così via, quindi sarebbe
opportuno che questi argomenti, che sono abbastanza semplici, venissero affrontati
nell’età dello sviluppo in cui fra l’altro la memoria è molto sovrabbondante, e quindi
possono fissarsi i vari termini. E, badate, non chiedo molto, ma chiederei che
distinguessero per esempio il pino dall’abete -questo si può fare alle elementari-, che
riuscissero a capire che gli insetti hanno sei zampe, anche perché il fatto che gli insetti
hanno sei zampe li porta a vedere che, appunto, tutti gli insetti hanno sei zampe e
guarda caso, tutte queste zampe guardate con una lente presentano strutture che sono
equiparabili, e qui non dico di voler usare il termine omologo, però il ragazzino certe
cose potrebbe imparare a vederle, e a vedere anche che il gatto, il cane, l’uomo e la
scimmia (anche se per questa bisogna andare allo zoo) hanno molte parti simili.
E questa sarebbe la prima parte, dopodiché si può andare all’evoluzione e cominciare
a parlare dei modelli evolutivi, ma, al di là di questo, secondo me ha molto ragione
Fabio Fantini quando dice: va bene io parlo, che so, di genetica e faccio vedere quello
di cui ha parlato la prof. Marini (certo non a quel livello), cioè faccio vedere una
variazione adattativa a livello genetico; se parlo di macroevoluzione, e così via.
Un altro discorso sollevato, per il quale invece non sono d’accordo con Fantini, è a
proposito dell’insegnamento delle Scienze nel liceo scientifico: secondo me la Chimica,
lo abbiamo detto tante volte, dovrebbe precedere la Biologia.
Bianca Isolani
Io devo fare una precisazione in riferimento a quanto si diceva e cioè che tutti i lavori
fatti spesso vengono dimenticati. Noi, 20 anni fa, prima della riforma Brocca, eravamo
stati invitati a proporre dei modelli di programmi, i quali vedi caso, erano proprio nel
senso che dicevi tu, cioè prima c’era la Chimica, poi la Scienza della Terra, poi la
Biologia, che è l’approccio assolutamente più ragionevole, che veniva usato anche
2300 anni fa dai naturalisti greci e che è stato poi divulgato da Lucrezio nel De rerum
natura e, vedi caso, la scienza moderna è stata riscoperta quando è ricominciato a
circolare il De rerum natura, anche tradotto in italiano.
Queste sono le nostre basi, e queste andrebbero rimesse in auge.
Una collega
Premetto che non sono una chimica però, per rispondere anche alla collega riguardo
al discorso dell’organizzazione in un liceo scientifico in cui la Chimica è posizionata in
un anno che sembra strano, tra la Biologia e le Scienze della Terra, io credo che voglia
rivendicare il fatto che la Chimica ha una sua connotazione, un suo preciso significato
in quanto disciplina che un ragazzo deve conoscere a prescindere dalla sua funzione
“ancillare” cioè propedeutica ad altre. E’ vero che è una disciplina di base, come lo è
la Fisica, come lo è la Matematica per l’elaborazione di modelli, però non la possiamo
vedere esclusivamente in questa veste, perché allora dovremmo fare anche la Fisica
solamente funzionale all’insegnamento della Biologia e delle Scienze della Terra; ogni
materia scientifica ha una sua epistemologia, un suo statuto ben preciso che è giusto
che un ragazzo di liceo scientifico conosca, a prescindere dalle altre. Riflettendoci,
sono d’accordo che dovrebbe essere insegnata parallelamente per tutti gli anni, nel
senso che l’ideale sarebbe questo.
Brunella Danesi
Forse non mi sono spiegata: io per tanti anni ho trattato prima la Chimica, ma ciò non
vuol dire che la Chimica è ancillare alla Biologia, è che molte parti della Biologia, se
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non si sa bene il concetto di ossidoriduzione, secondo me non si possono fare, o
comunque si fanno in maniera più difficile, e poi probabilmente, sacrificando la Biologia
mi sembrava di avere più spazio, nel senso che, impegnata la seconda e metà anno
della terza, mi sembrava di avere più spazio, piuttosto che relegarla in quarta e vedere
questo stacco grosso fra Biologia prima e Geologia poi. Ora è chiaro che l’ideale
sarebbe averle come discipline separate, come sembrava che sarebbe successo, ma
come in realtà non succederà, perché credo fermamente che le uniche persone
interessate a questo sono gli insegnanti, che non contano niente.
Vincenzo Terreni
E’ venuto a trovarci il prof. Alberto Bargellini che ha saputo della nostra iniziativa dai
giornali e ci fa molto piacere perché è una persona che ha dato moltissimo per
l’insegnamento scientifico in Toscana e in Italia, ha diretto una grande quantità di
progetti per l’introduzione di un insegnamento scientifico corretto nella scuola
elementare e ha precorso, purtroppo, ma non per causa sua, i tempi con risultati attesi
un po’ diversi da quelli ottenuti. E’ ospite della nostra iniziativa e ci fa molto piacere.
Rispetto alla questione che ora ha sollevavato anche Brunella Danesi e che credo sia
particolarmente interessante, cioè quella dell’insegnamento della Chimica e della
Biologia, mi è venuto in mente uno scritto ormai famoso di Paolo Guidoni in un libro
che tutti hanno letto: ..fare finta di…, fare finta di sapere la Chimica per poter studiare
Biologia, fare finta di sapere che cosa sono le proteine per imparare come funzionano,
e così via, io credo che siamo ancora a questa situazione, che non siamo ancora riusciti
a prendere consapevolezza delle difficoltà oggettive ma che si proceda, specialmente
con gli ultimi programmi che sono stati pubblicati in maniera un po’ clandestina, con
questo gioco delle parti in cui gli insegnanti fanno finta di insegnare e gli studenti fanno
finta di imparare e tutti facciamo finta di avere un sistema scolastico adeguato alle
nostre esigenze.
Scusate l’amarezza con cui esprimo queste considerazioni, però io sono reduce
dall’utilizzazione di un bel libro adottato dalla maggior parte dei colleghi in seconda
liceo, l’Helena Curtis che parte proprio da questo punto: facciamo finta di sapere la
Chimica, e da lì poi fa un bel trattato di Biologia che purtroppo ai ragazzi di seconda
passa sopra come acqua sulla roccia.
Fabio Olmi
Allora, prima di passare alla risposta a Fantini volevo rispondere alla collega: dal 1984
la Divisione didattica si era data una struttura per studiare la fattibilità dell’insegnamento della Chimica anche a livello elementare, in una struttura curricolare per cui ci
sono stati dei responsabili, non sempre i soliti perché si sono alternati nel tempo, che
vi si sono dedicati e ci sono anche dei libri appositi come La Chimica alle elementari,
La prima Chimica ecc., secondo l’idea che la Chimica, come tutte le altre discipline, che
hanno avuto origine storica diversa, possono essere anche a livelli più semplici, ma
è mancata a volte la ricerca didattica che avrebbe potuto suggerire come farle,
comunque anche la Chimica, come tutte le Scienze può farsi alle elementari sia pure
su livelli elementari di approccio. Quanto alla scuola media, non si deve pensare di
affrontare la struttura atomica che, direi, è vietata ai minori di 16 anni o anche di 17,
come peraltro la mole è vietata ai minori di 10 anni e potrei continuare con i tanti divieti,
però ci sono delle concessioni che si possono fare. E dico a voi insegnanti di Scienze
-ed è una sfida che ho lanciato già ad altri- che non si possono fare le cose che non
sono state affrontate all’università e che quindi gli insegnanti non hanno digerito, per
non parlare dei libri di testo di Biologia che si ostinano a inserire nelle prime venti
pagine tutta la Chimica, il che è impossibile, e questo ve lo dico come appartenenza
216
disciplinare perché sono 30 anni che insegno anch’io queste discipline, quindi
appartengono anche a me in qualche modo, pur con la mia formazione d’origine di
chimico. Allora, non si può ragionare sempre con mente da adulto perché la mente
dell’allievo è diversa quando è al livello di scuola media, quindi bisogna calarsi e fare
in modo che gli insegnanti che non hanno avuto una formazione adeguata, possano
entrare in un’ottica, che non hanno mai avuto di considerare i bambini non adulti, come
sembrano spesso considerarli i libri di testo e come facciamo noi immaginando di poter
insegnare alla scuola media come si insegna a livello liceale, non si può. Io, guardando
dalla parte della SSIS e da 5 anni di esperienza, ho constatato situazioni disastrose
di insegnamenti completamente fasulli delle Scienze nella scuola media, è uno
scandalo e io l’ho chiamato il buco nero del nostro livello di insegnamento, e mentre
le elementari ancora si reggono con certi tipi di sperimentazioni, la scuola media è il
buco nero del nostro livello di formazione.
Dunque, noi dobbiamo incidere a quel livello in modo effettivo, non continuando a far
aggiornare gli insegnanti per via telematica -che anche se è utile non può essere
esclusivo- ma guardandoci in faccia in laboratorio e dobbiamo dar vita, e questa è la
proposta che volevo fare al termine del mio discorso, ad un progetto fra le diverse
Associazioni. Leggiamo con attenzione i nuovi programmi e vediamo che hanno
obiettivi che sono stati preparati da gente che non li ha mai formulati, perché la prima
colonna delle conoscenze ci sono i contenuti, gli obiettivi si formulano in altro modo,
non sono operativi, quindi quelli che li hanno fatti sono ignoranti. I programmi sono
prescrittivi ed è intollerabile che l’insegnate debba insegnare quelle cose lì, ma
possono diventare meno intollerabili ed essere anche comprensibili se l’insegnante sa
progettare e ha l’intelaiatura di formazione che lo rende capace in tal senso, cosa che
attualmente non è, l’insegnante non è in grado di fare ciò, quindi dobbiamo aiutarlo
noi a progettare qualcosa di sensato, proponibile, appetibile e comunque digeribile per
gli allievi. Questa è l’operazione da fare e se ci riusciamo, riusciremo probabilmente
a smuovere qualcosa, altrimenti faremo grandi convegni sulla soddisfazione culturale
con cui ognuno di noi si sentirà beato -io sono stato affascinato alla presentazione di
certe cose- però il discorso effettivo di modificare la scuola è lontano da questo tipo
di lavoro, bisogna farlo fermentare in operazioni concrete, concordate fra diverse
associazioni e mirate, dico ancora una volta, alla scuola media.
I programmi del liceo ormai sono tradizionali e riguardano marginalmente secondo
una recente inchiesta, il 10-15 % della scuola italiana perché nemmeno i licei sono
tradizionali, io per esempio vengo da un liceo sperimentale in cui i programmi di quel
tipo lì semplice pane-salame-pane si facevano nell’uno quando non c’era nessuno,
mentre oggi anche gli insegnanti del corso tradizionale fanno in ordine scalato la
Chimica, la Biologia modulando le diverse parti delle diverse discipline, comprese le
Scienze della Terra.
Vincenzo Terreni
Un’informazione che credo sia doverosa dopo le considerazioni di Fabio Olmi sulla
formazione dei docenti: quello che ha detto mi trova d’accordo, trova d’accordo
l’ANISN ovviamente, ma anche la DDSCI e l’AIF: è partito un progetto di cui è stata
presentata la richiesta di finanziamento al Ministero e le vie per raggiungere l’obiettivo
forse ci sono, si tratta di unificare la gestione della formazione in rete e la formazione
in presenza e finalmente creare delle strutture attrezzate per la formazione in sede
che possono costituire dei laboratori aperti, verticali per la formazione dei docenti.
Questa proposta è stato accolta bene alla direzione del personale e si spera che possa
andare avanti, per cui dal punto di vista delle Associazioni siamo credo sulla strada
giusta, si tratterebbe di vedere se ci sono dei varchi all’interno dei quali inserirsi nella
217
politica che stanno portando avanti ora, per vedere se, da una parte si può procedere
alla formazione, e dall’altra se si può procedere alla strutturazione di un ordinamento
scolastico che non consideri sempre le Scienze marginali. E appunto, tanto per inserire
un altro elemento di riflessione e di pianto, ho visto i programmi di studio e
l’articolazione oraria sebbene soltanto quella del liceo classico (gli altri non sono
ancora arrivati, e già questa reticenza è inspiegabile) comunque la distribuzione oraria
del classico è identica a quella del liceo di Gentile con due ore in più di lingua dalla
quarta alla quinta ginnasio, che mi sembra abbia conservato il nome; le Scienze
compaiono (per ora), provate a indovinare: 4^ ore in prima, 3^ in seconda e 2^ in
terza liceo.
Maria Teresa Eramo
Sono d’accordo con l’ultimo intervento, nel senso che secondo me è molto sentito il
fatto che la Chimica debba essere la materia cardine entro cui la Biologia, quella seria
-come se ce ne fosse una subalterna- deve avere assolutamente quell’impostazione,
lo sento molto anch’io perché è una discussione che faccio continuamente con le
colleghe quando organizziamo la programmazione, invece io sono d’accordo che ci
sono dei livelli e va stabilito un determinato livello a seconda della fascia di età. Per
esempio, ho fatto un lavoro in verticale sull’acqua con una collega delle elementari,
e vi garantisco che i ragazzini (chiaramente tutto sta a come si porgono i contenuti,
a quali livelli si arriva) con questa collega facevano delle cose estremamente
interessanti a livello sperimentale, avendo magari una metodologia diversa da quella
della scuola media e del superiore, ma riuscivano a capire con esperienze anche
semplici. Certo a quel livello non si possono fare le grandi disquisizioni scientifiche,
però ecco, al loro livello riuscivano a capire la polarità dell’acqua, facevano esperimenti estremamente interessanti, tant’è che io alla collega (preciso, laureata in Scienze)
chiedevo come mai questi ragazzini così bravi, così interessati, così stimolanti una
volta arrivati al liceo diventano sempre meno stimolati. Quindi qualche interrogativo
bisogna pur porsi quando si vede che in Chimica ci sono tanti di quei debiti che è una
cosa spaventosa, e capita anche a me, non è che per questo voglio criticare i colleghi
che danno i debiti. Evidentemente, deve essere ripensata la metodologia della Chimica
perché noi pretendiamo di fare cose estremamente complicate già nella prima con
risultati deludenti e vedo però che, se si affrontano certi argomenti con il laboratorio
di Fisica e Chimica, i ragazzini riescono ad acquisire molto più e meglio. Quando si
arriva in terza, e stranamente nel liceo scientifico uno può trovarsi neanche con tre
ore: in alcuni corsi abbiamo solo due ore, ditemi voi come si possa fare un discorso
estremamente specialistico e pensare di avere dei buoni risultati che, chiaramente,
invece non sono soddisfacenti, con la conseguenza che magari allontaniamo i ragazzi
da questa disciplina che sicuramente invece va ripensata, perché è una disciplina
importante, stabilendo però dei livelli anche rispetto alle ore che si hanno. C’è appunto
un dato di fatto: io per esempio nel Brocca ho potuto lavorare in un cero modo, però
in un corso dell’autonomia scientifica mi devo adeguare, ho due ore e non posso fare
cose straordinarie.
Ecco, io voglio puntate l’accento proprio sul discorso delle ore perché pur essendo in
un liceo scientifico e nella migliore delle situazioni nel tecnologico, mi ritrovo oggi ad
avere tre ore in prima, a differenza della collega di italiano che magari insegna dieci
ore, e questo è forse è un discorso brutale, però per veicolare anche solo delle
informazioni, o meglio per fare una cultura scientifica seria ed adeguata ci vuole un
numero di ore congruo. Ora, è vero che non ci vogliono solo le ore ma ci vogliono anche
le ore, che consentono di fare un lavoro adeguato, consentono di portare i ragazzi in
laboratorio, di fare determinate esperienze.
218
Secondo me proprio su questo discorso bisogna premere, non solo le ore per affrontare
i contenuti ma soprattutto le ore che consentono di fare un discorso di qualità. Volevo
poi dire una cosa alla collega Danesi: sicuramente il lavoro che propone è affascinante,
e anch’io con alcune colleghe magari sensibili, oppure con le compresenze, ho fatto sia
con Filosofia che con Italiano per esempio T0, però la mia preoccupazione (poi
chiaramente ognuno si difende la sua fetta di torta) è di non venire fagocitati da un asse
umanistico che comunque rimane estremamente forte e ci tiene a restare tale, anche
in un liceo scientifico a carattere tecnologico. Quando io vedo che mi ritrovo con 2-3 ore
e la collega di lettere con 10, non è solo una questione di ore, è anche una questione
di informazioni che io riesco a dare, e di posti di lavoro. A questo proposito, la mia
tirocinante della SSIS all’interno di questa situazione, ma quando lavorerà mai?
Catia Pardini
Io vorrei riportare la discussione sulla didattica dell’evoluzione perché ho il sospetto
che il solito discorso della separazione delle discipline ci porti un po’ fuori dal seminato.
In questi giorni che cosa abbiamo sentito di assolutamente vero? Che la maggior parte
delle persone a scuola non ha mai sentito parlare di evoluzione. Quando i giovani
ricercatori hanno fatto questa affermazione Fabio Fantini ha detto: meno male perché
forse, se ne avessero sentito parlare può darsi che non avrebbero preso la carriera
che hanno preso! Comunque, noi siamo di fronte al problema di affrontare l’insegnamento della Biologia in chiave evolutiva, cosa che in realtà non c’è. Noi ci siamo
indignati quando abbiamo visto che dai programmi era scomparsa questa parola e
forse, da addetti ai lavori, sul momento l’abbiamo vista come una mancanza di
considerazione nei nostri confronti, però la reazione che c’è stata successivamente dai
non addetti ai lavori è stata quella che ha scatenato poi l’opinione pubblica e quella che
a mio avviso ha creato anche momenti di malintesi e di fraintendimenti all’interno degli
insegnanti: perché questo? Qualcuno mi deve dare anche delle risposte. Alcuni hanno
interpretato il fatto di non mettere l’evoluzione nella scuola dell’obbligo (continuo a
esprimerla così anche se non si chiama più così) come un fatto positivo perché
l’evoluzione è un fatto teorico e nella scuola fino ad oggi se è stata insegnata lo è stata
in maniera teorica. Si è osservato appunto che, siccome viene proposta in modo
teorico, viene raccontata, allora è bene che non si faccia. Altri poi dicono: perché vi
scandalizzate, tanto non è mai stata fatta! Ecco, allora io chiedo come possiamo noi
insegnanti di Scienze che siamo più sensibili a questo tipo di discorso, non ci basta il
contentino che la Moratti ha dato in TV, far conoscere all’opinione pubblica da una
parte, ma soprattutto a tutti gli altri colleghi, forse meno sensibilizzati rispetto a noi,
che di evoluzione si parla sempre e comunque dicendo che non si possono fare le
Scienze fin dalla scuola dell’infanzia se non in chiave di evoluzione, pur senza usare
la parola evoluzione, però noi la facciamo e la dobbiamo fare così. Comunque
l’opinione pubblica si contenta di questo ma noi, come addetti ai lavori, non possiamo
essere soddisfatti.Ecco, io chiedo a tutti come si può uscire, come si può essere
presenti nelle scuole per tutto questo. A proposito del discorso del Ministro Moratti in
TV vorrei ricordare che ci disse che avrebbe istituito una commissione per rivedere
la questione evoluzione mentre poi non ha fatto né la commissione né i programmi né
nulla, però non più tardi di una settimana fa Augias nelle sue risposte su Repubblica
dava per scontato che fosse stata rivista e che l’evoluzione fosse stata inserita, e forse
bisognerebbe comunicare ad Augias che le cose non sono veramente così.
Brunella Danesi
Rispondo brevemente alla collega che ha affermato che la mia proposta è di spostare
l’asse culturale in senso umanistico: evidentemente sono stata fraintesa, perché la mia
219
proposta volge proprio dalla parte opposta, cioè a sfruttare ciò che letterati e umanisti
hanno sfruttato, cioè: Calvino leggeva libri scientifici, Primo Levi era un chimico, Musil
era un ingegnere e hanno fatto delle opere d’arte. Ho la profonda convinzione -che è
mia ma che non vuol difendere nessuna bottega- che la cultura è una e all’interno di
questa cultura la cultura scientifica ha un grandissimo valore e, per es. nella fattispecie
la filosofia non può essere insegnata nel vuoto come invece viene fatto spesso e
volentieri non può fare a meno delle acquisizioni scientifiche di questi anni. Per quanto
riguarda il fatto di riferirmi per esempio a T0 o anche a saggi: nella proposta che ho
presentato avevo preso come tema la letteratura, però un tema altrettanto importante
sono per esempio i saggi di divulgazione scientifica, perché far leggere brani di Gould
credo che sia altrettanto importante che far leggere Cuore di tenebra. E’ questo il punto
fondamentale: nella scuola io mi sono difesa e avendo pochissime ore a disposizione
ho cercato di erodere le ore là dove potevo andarle a elemosinare. La mia proposta
era dunque di pura sopravvivenza, cioè avendo un curricolo verticale che fa pena,
poter far fare per esempio in quinta, un compito di italiano su temi evoluzionistici
evidentemente fa risparmiare quelle tre ore di tema che non sono andate a carico
dell’insegnante di Scienze ma a carico del collega di lettere, quindi la situazione
semmai si è capovolta.
Alberto Bargellini
Ringrazio il prof. Terreni per le parole che ha usato nei miei riguardi. Volevo
partecipare a questo convegno ma per una serie di problemi familiari e anche di salute
non ho potuto e mi dispiace di non essere intervenuto prima.
Credo che uno dei problemi più urgenti da chiarire sia quello di una lettura critica e
molto attenta di quanto è scritto nei documenti della commissione Moratti. C’è una
confusione spaventosa, in primo luogo fra gli obiettivi delle tabelle del sapere e del
saper fare, e di quanto viene scritto su quelli che sono intesi come obiettivi specifici
degli insegnanti, cosa che fino ad oggi non era mai accaduta nei programmi
ministeriali; non sono per gli allievi sono per gli insegnanti: quadri di riferimento
generali per gli insegnanti.
Per gli allievi si prefigurano nella parte introduttiva obiettivi formativi che non sono
assolutamente chiariti né definiti, né in termini di concetti né in termini di procedimenti.
In una situazione come quella attuale della scuola italiana con l’autonomia, dove ogni
scuola praticamente è abbandonata, una confusione di questo genere fa dei danni
irreparabili e incalcolabili, quindi ci sarebbe bisogno di una serie di interventi
chiarificatori perché non è soltanto la filosofia degli obiettivi, ma questi obiettivi vanno
ad incidere sulle verifiche e sugli standard, cioè alla fine dell’obbligo che cosa devono
avere acquisito questi ragazzi in termini concettuali e che cosa devono saper fare in
termini procedurali? Non si tratta quindi della filosofia degli obiettivi, si tratta di definire
quali competenze devono avere questi allievi alla fine dell’obbligo. Da questo punto
di vista gli altri Paesi europei hanno detto queste cose e le hanno specificate in termini
operativi, cioè quali tipi di attività procedurali si devono fare in relazione a quali concetti
da acquisire, quindi una raccomandazione di tipo teorico da parte dei responsabili
dell’ANISN può chiarire bene questi tipi di obiettivi e può guardare alle competenze
standard, cioè alla fine cosa devono sapere e cosa devono saper fare gli allievi. Il
lavoro che personalmente ho fatto alla SSIS di Pisa -e qui ci sono delle persone che
hanno lavorato con me molto intensamente- mirava proprio a dare delle risposte a
questi problemi. Abbiamo sviluppato attività di laboratorio scientifico non sulla base
di obiettivi generici ma sulla base di attivazione di procedimenti scientifici graduati e
mirati alla formazione scientifica degli allievi, distinguendo tra le competenze procedurali, saper fare, viste in una chiave relativa all’età degli allievi. Da questo punto di
220
vista, io giudico molto antiquati i contenuti che noi svolgiamo, i modi e i contenuti sono
molto antiquati, la didattica di oggi sta invece cercando di applicare questi procedimenti scientifici a situazioni del quotidiano.Gli italiani sono nel complesso estranei a questa
situazione, perché, date le nostre capacità e la nostra creatività, noi potremmo portare
a questo livello dei contributi straordinari.
Per essere più preciso, i metodi scientifici applicati a situazioni del quotidiano, alla Coca
Cola, agli oggetti che si trovano in cucina, dando a queste attività uno spessore
scientifico che fino ad ora non avevano. E’ tutta una didattica scientifica da costruire
almeno qui da noi, quindi io sollecito, raccomando un’attenzione a queste cose, e
raccomando un’altra cosa: di recuperare materiali che sono modernissimi e di cui gli
insegnanti italiani non sanno nulla, lo SCIS, il Nuffield ecc., tutti lavori fatti all’IRRSAE
e pubblicati che sono scomparsi dalla circolazione, nessuno ne sa nulla e tutte le volte
si ricomincia da capo. Si dovrebbe smetterla di ricominciare sempre da capo, ma fare
dei riferimenti; gli insegnanti dovrebbero avere dei riferimenti concreti, i giovani non
sanno nulla dello SCIS quando parlo loro di concetti e di procedimenti, ed è roba di
cui si parlava 30-40 anni fa, rappresentava una rivoluzione trenta anni fa e si riparla
ancora oggi delle stesse cose come innovazione forte. Al seminario didattico di
Bologna Maria Ferretti e gli altri hanno parlato di queste cose nel 1967, quindi un
ripensamento da parte nostra su quello che è accaduto e su quello che stiamo facendo
oggi è necessario. I procedimenti che io insegno agli allievi della SSIS che hanno
difficoltà a seguirli e che vanno sotto il nome di “rivoluzione della didattica delle
Scienze” sono stati pubblicati nel 1967-68-71, hanno 30-40 anni di storia alle spalle,
quindi è un ripensamento critico quello che io sollecito, in poche parole, relativo a chi
siamo e dove stiamo andando in relazione a quello che ci sta circondando. Sarebbe
opportuno forse riprendere in mano alcuni vecchi progetti a cui abbiamo lavorato
quattro anni a Livorno, dal 1971 al 1976 e non ne sa nulla nessuno, facendo analisi
specifiche sull’applicazione del misurare, a quale età degli allievi e come, in quali
contesti, riferiti a quali concetti naturalistici, per esempio le pozze di scogliera ecc.
abbiamo lavorato per anni su quelle cose. Allora, sarebbe bene riavere quei documenti
e rifletterci alla luce dei programmi varati ora, o meglio, non sono programmi, non si
sa bene che cosa siano, sono parole scritte, molto caotiche, non c’è una struttura, non
c’è una riflessione critica su quello che viene proposto, si butta là della roba sperando
che gli insegnanti siano in grado di filtrarla. Gli insegnanti non sono in grado di filtrarla
perché per filtrare quelle cose ci vogliono esperienza di 20-30-40 anni di lavoro, per
capire la portata di quello che viene ora.
Non parliamo poi del linguaggio usato nel documento scritto Moratti, ci vuole un
interprete: l’aspetto di natura epistemologica, l’aspetto di natura didattica e il tutto poi
deve servire come mediazione da parte nostra a produrre gli obiettivi specifici. Chi è
in grado di fare questo? Non c’è un’indicazione precisa, è lasciato tutto all’invenzione
o alla creatività della persona che legge, quindi è uno sgomento. Da che parte si deve
ricominciare oggi?
Vincenzo Terreni
Grazie per questa testimonianza un po’ sconfortata però il fatto che Lei continui
nonostante tutto a prendersi a cuore tutto e questo ci mette nelle condizioni di sperare
davvero di poter risolvere qualcosa. Si può anche dire che un tentativo di ripartire non
da zero ma per lo meno da tre c’è stato; le commissioni a cui anche Fabio Olmi, Catia
Pardini e Brunella Danesi hanno partecipato, hanno cercato di riprendere le tradizioni
che erano già state portate avanti sia dall’AIF che dall’ANISN che dalla SCI,
separatamente, ma facendone una sorta di sintesi per essere riproposte in quel
progetto che diceva prima. Ma certo, è una elaborazione che esiste solo da parte delle
221
associazioni e non si sa con quale possibilità di rientrare da una parte del ministero per
cui, se il quadro normativo rimane questo, penso che ci si debba riciclare tutti per
un’altra attività, perché non ci sono margini. Credo che il prof. Bargellini sia stato molto
chiaro e forse più crudo anche di quanto abbiamo fatto nel corso del nostro convegno
per quanto riguarda gli aspetti di praticabilità dei cosiddetti obiettivi specifici di
apprendimento della scuola media superiore, che dei piani di studio personalizzati, non
si sa bene poi da chi e come.
Fabio Fantini
Capisco che adesso stiamo andando alla conclusione, però vorrei dire due parole
soltanto a Catia: ho capito quello che dici, non te la posso dare io la risposta, io stavo
pensando che il dott. Valenzano che sentivamo alcuni giorni fa diceva di non aver mai
trattato l’evoluzione, probabilmente magari avrà avuto un’insegnante che gli diceva
che ne so le branchie sono un adattamento, insomma dava per scontate certe cose
senza averle formalizzate. A me sembra importante che le teorie evolutive rivestano
un ruolo tale nel lavoro che facciamo da dargli uno spazio d’argomento autonomo,
servendoci degli strumenti più opportuni, prima il collega parlava di un approccio
storico e credo anch’io che sia opportuno. Io non sono un grande amante dell’approccio
storico, però in alcuni casi mi sembra lo strumento migliore che abbiamo, per la
genetica classica, per la tettonica globale, penso anche per le leggi ponderali, in cui
un approccio storico è veramente lo strumento migliore e noi dobbiamo essere
pragmatici su queste cose, quindi secondo me, ripeto, merita un ruolo a sé l’argomento
teorie evolutive e come tale dovrebbe essere affrontato. Sul come inserirlo, io credo
che ognuno di noi abbia uno stile di insegnamento suo, diverso da altri ed è chiaro che
su questo ognuno di noi saprà come muoversi, ma credo che vitale sia il confronto con
gli altri, perché io posso avere una mia idea ma poi mi fa molto comodo cambiarla,
correggerla, adeguarla.
Aggiungo una cosa rapidissima su quello che diceva il prof. Bargellini: io sono
abbastanza in là con gli anni per aver sentito parlare di tanti di questi progetti, mi viene
in mente l’entusiasmo che c’era per esempio per il PSC, se ricordo bene, il BSCS, il
progetto Nuffield, tutte queste cose che sono state citate; ecco, se la scuola italiana
avesse fatto proprie quelle cose in modo reale e non soltanto verbale, oggi staremmo
molto meglio. Inoltre quello che mi spaventa è il fatto che quando si parla di ricerca
didattica non ci ricordiamo che abbiamo una formazione scientifica e invece dobbiamo
cercare di non dimenticarcelo. Qui la ricerca didattica, e sono volutamente polemico,
consiste nel fatto che uno si sveglia la mattina e dice che non si parla più di obiettivi,
cioè gli ultimi anni li abbiamo vissuti così, oppure, unità didattiche, moduli, poi non si
parla più di unità didattiche, i moduli non vanno più bene, si parla di unità di
apprendimento, insomma corriamo dietro a questioni sicuramente nominali e le
questioni sostanziali ci danno un entusiasmo che è un fuoco di paglia e nessuno ci ha
insegnato a maturare e a renderle veramente fruttuose. Io veramente sono spaventato da quello che succederà nei prossimi anni da questo punto di vista.
Una collega
Vorrei ritornare un po’ al tema di questo corso che secondo me è stato veramente
molto molto istruttivo e interessante. Voglio lanciare una provocazione: abbiamo
molto discusso tra di noi su come insegnare l’evoluzione con tutte le sfaccettature che
sono emerse, giustamente io credo, che forse è rimasta latente un’altra domanda che
secondo me poteva essere invece la parte prevalente: perché insegnare l’evoluzione
nella scuola? E’ così indispensabile insegnare l’evoluzione? Ovviamente noi diamo per
scontato che lo sia, però non abbiamo fatto una riflessione rispetto agli utenti, cioè i
222
ragazzi che in qualche maniera noi dovremmo motivare a questo studio, cercando di
giustificare il motivo delle nostre proposte didattiche. Allora, perché vogliamo che
l’evoluzione con tutto quello che vi è connesso diventi il fulcro del nostro insegnamento? Potremmo provare a motivarlo (certo non oggi, non in questa sede, ormai siamo
in fase finale) non per noi come insegnanti, ma cercare di trovare una motivazione che
sia condivisa anche dagli studenti. Io credo che noi dovremmo riuscire a fare questo
tipo di lavoro, cioè cambiare la prospettiva, non partire dal presupposto nostro di
docenti formati che hanno fatto un loro percorso di formazione e sono arrivati, se
siamo qui, a credere fermamente che l’approccio evoluzionistico sia fondamentale non
tanto nell’insegnamento delle Scienze, fondamentale come formazione dell’individuo,
consapevole di dover capire un po’ quello che lo circonda, e dovremmo anche motivare
la nostra scelta in termini un pochino più precisi, razionali, esplicitati anche ai nostri
studenti. Se infatti si ragiona, con gli studenti, almeno quelli del liceo, e si fanno questi
“contratti condivisi” io credo poi che gran parte dei problemi che potrebbero emergere
si potrebbero risolvere, però dovremmo rifletterci noi per primi.
Vincenzo Terreni
Allora ci salutiamo dandoci l’appuntamento al prossimo anno: ci vorrà tutta l’estate per
recuperare la fatica e la tensione generate dall’organizzazione di questa esperienza.
E’ stata in compenso un seminario entusiasmante che ci ha messo in contatto con la
storia, la ricerca e la didattica dell’evoluzione.
Un ringraziamento a tutti coloro che ci hanno guidati in questa avventura: indipendentemente dall’età e dall’esperienza tutti hannno mostrato una freschezza di spirito e una
volontà di apprendere e confrontarsi veramente contagiosa.
Un ultimo saluto e un ringraziamento a chi ci ha ospitato e ci ha consentito di realizzare
e portare a termine con sucesso questa iniziativa: una delle più importanti che l’ANISN
abbia organizzato.
Grazie a tutti, buon viaggio e al prossimo seminario.
223
Appendice
Appendice
225. Archeologia, Linguistica e Scienze naturali: dalla
ricerca all’insegnamento Appunti per una discussione (e
spunti per qualche iniziativa didattica?)
Tomaso Di Fraia
231. Evoluzione e Teologia, dallo scontro alla sintesi
Lodovico Galleni
224
Archeologia, Linguistica e Scienze
naturali: dalla ricerca all’insegnamento
Appunti per una discussione (e spunti per qualche
iniziativa didattica?)
TOMASO DI FRAIA
Premessa
Si offrono qui, in forma molto schematica (a mo’ di appunti finalizzati a provocare
una discussione, cui non posso partecipare fisicamente in questa occasione, ma spero
di poter intervenire in seguito in qualche modo) alcune riflessioni sparse, da parte di
un archeologo che ha a lungo insegnato materie letterarie nella scuola superiore, o
meglio un docente della scuola superiore che ha mantenuto i contatti con la ricerca
scientifica nel campo dell’archeologia preistorica e che in qualche misura ha cercato di
farla. Per questa atipica combinazione, mi sono trovato nella felice (almeno obiettivamente) situazione di verificare direttamente i problemi sui due versanti e difficilmente
potrei fare un discorso puramente accademico e astratto rispetto alle esigenze della
scuola. Forse questi appunti potranno avere una qualche utilità più per i docenti di
materie umanistiche che per quelli di Scienze naturali, ma spero che in qualche misura
possano servire anche a questi ultimi.
Conseguenze dell’esperienza didattica nelle scuole superiori
Consapevolezza dell’inadeguatezza dei programmi e delle impostazioni tradizionali
nell’insegnamento della Storia; frustrazione per le potenzialità enormi che l’Archeologia (intesa nel suo senso più ricco, come vedremo fra poco) offre per la didattica della
storia (e di altre materie) e la sua effettiva scarsissima utilizzazione (solitamente ridotta
a qualche gita di istruzione); ulteriore frustrazione per la difficoltà, per non dire
impossibilità, di avviare iniziative interdisciplinari capaci di coinvolgere i colleghi, e in
particolare i docenti di Scienze naturali. Tuttavia il mio pessimismo non è mai stato
totale, specialmente se si considera la scuola in tutta la sua articolazione, a partire dalla
scuola elementare, che a mio parere ha costituito finora il fulcro di tutta la struttura
del nostro sistema educativo. Anche recentemente infatti mi è capitato di fare una
lezione in una scuola elementare; ebbene una delle cose più confortanti e incoraggianti
è stato vedere che una maestra aveva presentato ai suoi alunni gli aspetti fondamentali
della rivoluzione agricola (Neolitico), e soprattutto constatare che un gruppo di
bambini tra gli 8 e i 10 anni seguiva la mia presentazione di immagini (dia), oggetti e
concetti con attenzione e quindi, devo dedurre, con interesse, senz’altro fecondo.
Infatti sono profondamente convinto che nell’insegnamento la qualità paga sempre, la
quantità di per sé no; spesso la quantità serve soprattutto a tacitare la (cattiva) coscienza
del docente. Naturalmente il discorso è diverso a seconda delle materie; in discipline
come la Chimica, la Biologia e la Fisica immagino che probabilmente la parte
istituzionale dovrà occupare uno spazio significativo nell’insegnamento. Ma credo che
sia (stato e sia) un grosso errore o una mistificazione pensare che nell’insegnamento
225
della Storia (e in una certa misura di tutte le discipline storiche) la priorità sia garantire
la “copertura cronologica”; al contrario, e, in un certo senso, in analogia con le materie
scientifiche, credo che sia essenziale fornire i criteri metodologici fondamentali e
affrontare i principali nodi tematici; non si tratta quindi di rischiare di non completare il
programma ministeriale, bensì di stabilire programmaticamente una selezione degli argomenti da
trattare, ovviamente escludendone altri. Il problema si ripropone a tutti i livelli
scolastici, dalle (ex) elementari all’università. Sintomatica la recente diatriba fra coloro
(v. Pietro Citati) che lamentano la riduzione del numero di pagine previste per ciascun
esame universitario e quelli che (come Carlo Bernardini) sostengono che la crescita
intellettuale non si misura a metraggio o a peso. Si può certo discutere l’idea, senz’altro
troppo burocratica, di quantificare il numero delle pagine (e allora, già che ci siamo,
perché non delle parole, nell’era informatica?!) da studiare per un esame, ma credo che
il difetto o il merito stia sempre nel manico, cioè nel docente. Chi è portato ad
appiattirsi su di un’interpretazione puramente burocratica, arriverà (è un caso vero,
raccontatomi da una collega universitaria) a contestare il fatto che un elaborato
prodotto per la “prova finale” di una laurea triennale superi un determinato numero
di pagine (quello consigliato, cioè 50; nel caso specifico erano circa 60). Chi ha, e riesce
a promuovere negli studenti, interessi veri e propone metodi e percorsi di studio
stimolanti, non credo che abbia niente da temere (nel senso di risposte negative da parte
degli studenti) da indicazioni di questo tipo.
Conseguenze del lavoro di ricerca
Per valutare le potenzialità della ricerca archeologica o meglio paletnologica, è
necessario chiarire la natura del lavoro dell’archeologo. Egli infatti deve padroneggiare
le seguenti fasi (per questo è una sorta di “specialista della complessità” -quasi un
ossimoro!-; si tratta di un aspetto molto importante, anche sul piano
epistemologico): esplorazione del territorio, scavo e recupero di tutti i resti materiali,
che possono anche andare oltre la “cultura materiale” (diffusa ma brutta espressione,
accettabile se intesa come “aspetti materiali di una cultura” e non già contrapposta a
una -presunta superiore- cultura intellettuale o spirituale); studio ed elaborazione dei
dati, con molti apporti multidisciplinari, che impongono quanto meno la conoscenza
dei progressi nelle varie discipline, ma normalmente implicano un continuo chiarimento e dibattito tra diversi specialisti; interpretazione dei dati sulla base di ipotesi e
modelli di ordine ambientale (clima, risorse ecc.), socio-economico (attività economiche fondamentali, assetto sociale), culturale, linguistico, ideologico e “artistico”
(concezioni del modo, della vita e della morte ecc.); ipotesi e modelli che devono essere
integrati e, ove possibile, verificati, sulla base di conoscenze di ordine storico ed
etnografico. Indico ora due possibili piste di lavoro:
1. le interconnessioni tra: a) evoluzione biologica del genere Homo; b) sviluppo,
trasformazione e ibridazione delle culture; c) genesi, sviluppo e trasformazioni delle
lingue;
2. vari spunti, suscettibili di sviluppi interdisciplinari, sulla (prei)storia dell’alimentazione.
226
Evoluzione biologica ed evoluzione delle lingue
Chi è interessato alla problematica dell’intreccio fra archeologia, genetica e linguistica,
può utilizzare gli scritti apparsi su NATURALMENTE nella serie Culture, lingue e geni. Ci sono
almeno due modi di affrontare i possibili rapporti fra evoluzione biologica e
evoluzione delle lingue.
1. Si può indagare se esistano rapporti fra la dispersione e la differenziazione dei gruppi
umani e trasformazione e differenziazione delle lingue; è ciò che ha fatto per primo
e su ampia scala Cavalli-Sforza, con risultati senz’altro stimolanti, anche se molto
discutibili.
2. Si può studiare il meccanismo di evoluzione biologica per vedere se possa offrire
un modello interpretativo o comunque dei criteri utili per meglio comprendere la
dinamica del cambiamento linguistico. Qui accenno soltanto a questa seconda
ipotesi. Vediamo come la prospetta Mario Alinei, un linguista che sostiene il
principio della conservatività delle lingue. Di genetico vero e proprio, nelle lingue come tali,
non c’è assolutamente niente. La presenza massiccia di una terminologia genetica nella linguistica
è, in prima istanza, la conseguenza dell’enorme impatto che la teoria evoluzionistica ebbe sulla
linguistica storica nel periodo in cui nacque come disciplina scientifica...In realtà non è proprio vero
che non vi sia una geneticità reale nel fenomeno linguistico: vi è infatti quella, tutt’altro che
trascurabile, fra i parlanti... continuare una lingua significa, prima di tutto generare dei figli che
continuino a parlarla. Data per esistente una comunità omogenea di parlanti in un dato territorio,
confinante con altre comunità omogenee, possiamo ipotizzare due tipi di matrimonio, uno
endocomunitario, uno esocomunitario:
..I) nel caso di matrimonio endocomunitario si perpetua automaticamente la lingua dei genitori; nel caso
di matrimonio esocomunitario si possono avere tre risultati diversi:
II) si producono figli bilingui,
III) prevale una delle due lingue con scomparsa dell’altra,
IV) si produce una lingua ibrida. Come si vede, anche partendo dalla realtà individuale, e da una
geneticità reale e non metaforica, si producono quattro risultati linguistici di valore universale, che
rappresentano anche l’intera casistica: conservazione, bilinguismo, estinzione, ibridazione.
Tuttavia, accanto a queste considerazioni sostanzialmente condivisibili, Alinei sostiene
anche che:
1) in condizioni normali la perpetuazione della specie...produce inevitabilmente anche la perpetuazione
della lingua della comunità;
2) ciò rappresenta un’ulteriore conferma, vista questa volta dal punto di vista realmente genetico, della
legge della conservatività linguistica.
Nel suo argomentare astratto, e quindi tendenzialmente dogmatico, Alinei:
1. non considera la variabilità della lingua a livello di singoli individui (qualcosa di simile
alla variabilità biologica intraspecifica);
2. non considera la possibilità che, intenzionalmente o meno, un gruppo di parlanti
possa modificare la propria lingua senza apporti esterni;
3. se si accetta la possibilità del punto 2, la separazione di un gruppo di parlanti dalla
comunità d’origine tenderà a produrre in esso trasformazioni diverse da quelle che si
verificheranno nella comunità originaria;
227
4. Alinei ripetutamente sottolinea che i fenomeni da lui prospettati si verificano in
“condizioni normali” o “di normale stabilità sociale”; ebbene, queste sono proprio
condizioni che di regola mancavano nella maggior parte delle comunità preistoriche,
che erano poco numerose ed esposte a continui rischi di riduzione, separazione,
mescolamento o addirittura estinzione. In conclusione, occorrono molte cautele
prima di applicare a una determinata disciplina dei criteri ricavati da un’altra disciplina;
sarebbe necessaria maggiore umiltà, che, nel caso particolare, dovrebbe portare a
documentarsi meglio (sul piano archeologico) dei fenomeni di cui si discute.
228
Un esempio di possibile coinvolgimento multidisciplinare: la preistoria dell’alimentazione umana
Si tratta di una problematica che offre un ventaglio di piste di ricerca veramente
enorme ed estremamente interessante. Nello schema che segue, Borgognini e Altri
hanno cercato di rappresentare i collegamenti, le intersezioni e i feed-back della ricerca
archeologica e delle scienze naturali; e non si tratta di uno schema esaustivo. Voglio
infatti accennare a un problema che presenta molteplici implicazioni; si tratta
dell’adattamento dell’organismo umano all’assunzione di particolari alimenti. Il caso
più importante in assoluto è probabilmente quello del latte. Se è vero che gli uomini
in età adulta non possedevano un metabolismo in grado di digerire e assimilare il latte
prima del neolitico, cioè fino all’introduzione dell’agricoltura e dell’allevamento, e
quindi di una più o meno ampia disponibilità di latte animale, ci dobbiamo porre il
problema dei tempi che sono stati necessari per questo adattamento e dei metodi
approntati per aggirare l’ostacolo costituito dalla indigeribilità del latte in quanto tale.
Così sintetizza tale problematica l’archeologo Raffaele De Marinis: Dunque non solo
l’uomo ha saputo selezionare razze capaci di continuare a produrre latte anche dopo lo svezzamento
dei piccoli e disponibili a cederlo attraverso la mungitura, ma a ciò deve aver corrisposto in alcune
popolazioni umane una mutazione genetica vantaggiosa consistente nella produzione, anche in età
adulta, dell’enzima responsabile della scissione del lattosio. Tuttavia, probabilmente in origine il latte
è stato utilizzato sotto forma di formaggio e di yoghurt, prodotti in cui il lattosio si riduce a livelli così
bassi da essere digeribile da tutti.
Naturalmente lascio agli specialisti (biochimici, nutrizionisti ecc.) le precise valutazioni
tecniche sui singoli punti. Voglio comunque sottolineare almeno due cose:
1. La “rivoluzione neolitica” ha comportato una evoluzione accelerata nella biologia
delle piante e degli animali; e i nuovi sistemi di vita, di produzione e di alimentazione
di conseguenza hanno a loro volta favorito, in tempi più o meno lunghi, una serie di
mutazioni genetiche anche negli uomini (oltre al problema della digeribilità di alcuni
cibi, basti pensare alle malattie introdotte dalla convivenza con gli animali allevati in
cattività e alle relative risposte in termini di mutazioni vantaggiose).
2. Le sfide poste all’uomo da situazioni nuove e/o critiche hanno stimolato lo sviluppo
di innovazioni (culturali, nel senso più pieno della parola)che altrimenti non vi sarebbero
mai state. Per rappresentare in un solo esempio il senso di questa affermazione, si pensi
al nostro parmigiano: è appunto un caso di trasformazione complessa di un prodotto
naturale che prevede una lunga serie di passaggi e perfezionamenti, che qui posso
indicare solo in forma sequenziale e lineare: addomesticamento e allevamento dei
bovini → stimolazione ed effettuazione della mungitura → necessità di conservare il
prodotto (latte) e al tempo stesso di renderlo più digeribile → trasformazione
mediante il caglio → necessità di disporre di un conservante come il sale →
incentivazione della ricerca di fonti e metodi per la produzione del sale → circolazione
del sale e sviluppo degli scambi ecc. Ovviamenti molti sono i possibili intrecci e feedback tra i diversi fattori; ne ricordo soltanto due, cioè la conservazione del caglio sotto
sale e il fatto che nell’età moderna la valle del Po commerciava i suoi prodotti salati (salame,
prosciutto e formaggio) in cambio di sale. (Kurlansky).
229
Per concludere, vorrei sottolineare l’importanza di un’alfabetizzazione storico-archeologica
come capacità di leggere i prodotti del rapporto uomo-ambiente. Infatti analfabetismo e
denutrizione scientifica (denunciata già da Gramsci) investono purtroppo anche le
capacità di leggere le emergenze storico-archeologiche, di riconoscere i principali
manufatti, le trasformazioni del territorio nell’interazione tra natura e intervento
umano; insomma di riconoscere la storicità dell’ambiente in cui viviamo (da molti
aspetti del paesaggio, alla presenza di determinate piante e animali, alla tipologia delle
abitazioni, all’uso dei vari materiali ecc.).
Tomaso Di Fraia
Istituto di Antropologia Università degli Studi di Pisa
Qualche indicazione bibliografica
Alinei Origini delle lingue d’Europa. Il Mulino, 1996.
Borgognini, Minozzi, Masali Il contributo dell’Antropologia alla soluzione di problemi storico archeologici:
una riflessione metodologica, RIVISTA DI SCIENZE PREISTORICHE, XLIX, 1998, pp.561-569.
De Marinis L’età del Rame in Europa: un’epoca di grandi trasformazioni, in Casini (a cura di) Le Pietre
degli dei 1994.
Di Fraia Un contributo alla conoscenza della produzione e del consumo del sale nella preistoria, NATURALMENTE, settembre 2000, pp. 62-67.
Di Fraia Culture, lingue e geni, NATURALMENTE (12 puntate finora; v. in particolare la Parti 1-3, 7, 10).
Kurlansky Sale. Una biografia, RCS Libri, 2003.
230
Evoluzione e Teologia, dallo scontro alla
sintesi
L ODOVICO G ALLENI
Nel 1984 il teologo Carlo Molari pubblicava un libro dal titolo: Darwinismo e Teologia
cattolica (1) in cui ripercorreva dal punto di vista storico le principali tappe dello scontro
e poi dell’incontro tra l’evoluzione e la teologia e terminava con una prospettiva
decisamente ottimistica. In effetti Carlo Molari affermava che il darwinismo non
interessava più la teologia contemporanea perché ormai i problemi che poneva erano
stati risolti e quindi l’incontro scontro era di interesse solo per gli storici della teologia
(2).Se dunque non vi è più scontro, ma riflessioni comuni sui temi dell’evoluzione,
queste riflessioni hanno proposto piste che non sono state ancora percorse fino in
fondo e sulle quali è quindi utile cercare di ragionare. Sia ben chiaro che qui non
vogliamo ripercorrere polemiche a nostro parere assolutamente senza senso quali
quelle che ripropongono la lettura letterale della Bibbia, anche se occorre sempre
riflettere su questi ritorni del fondamentalismo religioso, anche in campo cristiano. D’altra
parte non si può non ricordare che in questo caso si presenta il racconto biblico della
creazione come un racconto storico e che, quindi, riporta come si sono svolti i fatti
che riguardano le origini dell’universo, delle specie e dell’umanità. Se il racconto è
veritiero ecco che si possono impostare dei programmi di ricerca scientifici che
possono controllarne la veridicità ed ecco quindi fiorire, negli Stati Uniti, fondazioni
che finanziano ricerche intese a dimostrare la correttezza scientifica del racconto della
creazione.E’ un aspetto da conoscere e comunque di cui tenere conto. Ma occorre
subito ricordare che questa è innanzitutto pessima teologia, perché ormai il modo di
leggere la Bibbia come testo teologico è stato acquisito da tutte le scuole teologiche
oggi esistenti. Quindi all’interno della teologia cattolica il problema del fondamentalismo, almeno in questa forma, è stato superato e da questo punto di vista ha ragione
Molari. Ormai il dato scientifico evolutivo è accettato (3). Possiamo, comunque,
ricordare, come punto di partenza, che l’evoluzione intesa come cambiamento
irreversibile nel tempo è un risultato di una ricerca di tipo storico altrettanto provata
quanto è provata l’esistenza dell’Impero Romano (4). Inoltre la trasformazione
irreversibile nel tempo, che viene messa in evidenza nelle scienze geologiche e
biologiche nel corso del diciottesimo e diciannovesimo secolo, viene poi recepita
anche dalla fisica e dalla cosmologia e diviene la caratteristica fondamentale della
descrizione contemporanea dell’Universo. Da questo punto di vista la teologia accetta
questo modello e ne tiene conto. Le indagini di filosofia della natura quindi mettono
in evidenza la trasformazione irreversibile nel tempo come caratteristica fondamentale, ontologica, del nostro universo. E’ chiaro perciò che questa caratteristica interpella
fortemente la teologia innanzitutto quando riflette su Dio come Creatore (5). Vi è
quindi un modo particolare di creare che emerge dalla visione che la scienza
contemporanea ci dà dell’Universo. Come si vede dunque il problema non è più la
disputa dell’evoluzione, ma al contrario la sua accettazione all’interno dell’indagine
231
teologica. E qui emerge il tema che vogliamo discutere: è tutto risolto o vi sono ancora
problemi aperti?A questo punto ecco che le piste rimaste aperte ci si pongono
prepotentemente davanti e chiedono di essere indagate. Il primo punto è che, con
l’evoluzione, come faceva giustamente notare Giulio Barsanti, la storia naturale diviene
storia della natura (6). Questo è un cambiamento fondamentale che interessa proprio
le scienze. Infatti la storia naturale era il racconto degli eventi naturali: descrizione di
oggetti e di esseri viventi, del loro comportamento, dei loro adattamenti, magari con
un interesse particolare per lo strano e l’assurdo. Dopo Galileo si passa alla
descrizione delle naturali esperienze che permettevano di descrivere meglio aspetti
del vivente e di definire leggi generali. Con l’avvento dell’evoluzione e quindi con
Lamarck ecco che la storia naturale diviene storia della natura cioè il racconto storico
del succedersi nel tempo dei viventi e della loro derivazione da antenati comuni. E’
la ricostruzione della storia e non più la narrazione delle storie che diviene la chiave
interpretativa della geologia prima e poi della biologia e delle altre scienze della natura.
A questo punto il primo dato ontologico che si pone davanti alla teologia è che Dio
ha creato un universo soggetto ad un cambiamento irreversibile nel tempo: un
universo la cui caratteristica fondamentale è la storia (7). E’ chiaro che questo cambia
i punti di riferimento: non abbiamo più un universo statico, fisso e creato in maniera
perfetta e organizzata da un Creatore provvidente e previdente, un universo in cui
l’ordine è stato dato una volta per tutte nel passato e che l’uomo ha potuto solo alterare
in peggio col suo peccato. Al contrario è un universo in cambiamento continuo nel
tempo. D’altra parte, se si considera la Bibbia non tanto come il libro della storia delle
origini, ma come il libro della storia della salvezza ecco che le difficoltà, almeno da
questo punto di vista rapidamente sembrano sparire. Infatti la Bibbia è il libro della
storia dell’alleanza del popolo di Abramo con il Dio creatore e poi è la storia della
salvezza dell’Umanità intera redenta dall’opera salvifica di Cristo. Quindi ecco che la
storia dell’Umanità si collega alla storia della natura e quindi i due eventi storici trovano
una sintesi generale: il Dio creatore crea un universo caratterizzato dalla storia e questa
storia con la comparsa dell’uomo diviene storia di alleanza, redenzione e salvezza. Da
questo punto di vista possiamo trarre una prima conclusione: l’evoluzione, come si
vede bene, non è più un attacco ateistico e materialista alla visione cristiana del mondo
e dell’uomo ma è al contrario lo strumento che permette di unire, in un’unica sintesi
storica, la visione scientifica della vita e dell’universo con la visione salvifica dell’umanità.E’ quindi la chiave della storia la chiave di lettura che unisce la Bibbia e la sua
interpretazione teologica con la natura e la sua interpretazione scientifica. Per ritornare
alla metafora dei due libri cioè il libro della rivelazione ed il libro della natura, è la
prospettiva della storia la chiave di lettura comune (8). Ma naturalmente i punti di
discussione non si fermano qui. Una volta accettata la visione evolutiva possiamo fare
un passo avanti ed aprirci ad una ulteriore riflessione che a questo punto parte dalla
visione biblica. Infatti nella visione biblica non vi è solo la storia, ma la storia è vista
fondamentalmente come un muoversi verso. Abramo viene chiamato ad essere il
capostipite di un popolo, il popolo eletto, che si muove verso l’alleanza. E’ un’alleanza
difficile, fatta di tradimenti e di riconciliazioni, ma la cui caratteristica fondamentale è
232
quella di un popolo in cammino che muove verso: verso la terra promessa, verso
Gerusalemme, da cui talvolta il popolo eletto viene allontanato e poi ricondotto.
Fondamentalmente verso un futuro che poi, nel cristianesimo, si compie con la venuta
di Cristo. A questo punto la storia diventa storia dell’umanità che si muove verso la
redenzione e la salvezza. Per comprendere meglio questo secondo passaggio possiamo riferirci alla lezione di Pierre Teilhard de Chardin. Naturalmente non vogliamo
ripercorrerne la figura e l’opera e sottolinearne di nuovo l’importanza. Si tratta solo
di ricordare che fu un geologo, paleoantropologo e paleontologo, universalmente
riconosciuto, grazie ai lavori compiuti in Cina tra gli anni Venti e gli anni Quaranta del
ventesimo secolo come il fondatore della moderna geologia e paleontologia del sub
continente cinese (9). Fece anche parte dell’équipe che lavorò al cosiddetto uomo di
Pechino datandone i reperti e individuandone la cultura (10). Ma Teilhard de Chardin
fu anche un gesuita e da questo punto di vista può essere considerato il primo
scienziato, con buone competenze di filosofia e teologia, a proporre una sintesi tra
evoluzionismo e teologia. Il suo punto di partenza non si discosta da quanto abbiamo
appena ricordato: l’evoluzione implica un modo particolare di creare che interpella la
teologia. Questo naturalmente pone una serie di problemi non banali. Non si tratta
tanto della trasformazione nel tempo delle specie. Già durante le prime discussioni
che seguirono la pubblicazione del fascicolo della società Linneiana di Londra con gli
articoli di Darwin e Wallace sulla teoria della trasformazione dei viventi per selezione
naturale, e successivamente la pubblicazione del libro di Darwin sull’origine delle
specie, era emerso chiaro ai più seri ricercatori che l’evoluzione era difficilmente
confutabile. Quindi vi era una ipotesi scientifica robusta che parlava di discendenza
divergente tra le specie. Le specie non erano presenti come entità separate fin dall’inizio
della storia della vita né si originavano a tempi diversi ma in maniera indipendente le
une dalle altre grazie a vari e differenti meccanismi, sempre oggetto di descrizione
scientifica. Al contrario esse si originavano le une dalle altre e quindi più specie
potevano essere ricondotte ad antenati comuni che le avevano precedute nel tempo.
La grande scala degli esseri diviene un albero genealogico (11). In fondo è la
contrapposizione scientifica tra evoluzione e fissità delle specie che è oggetto di
indagine e discussione per tutto il diciannovesimo secolo. Ma questo non ha nulla a che
fare con la discussione e l’interfaccia con la teologia: come farà notare il primo
darwinista italiano, Filippo de Filippi, professore di zoologia a Torino ma anche
esponente di spicco degli intellettuali cattolici del tempo, e che quindi fu tra i primi a
indicare le piste per una conciliazione, si può essere benissimo atei e fissisti ed
evoluzionisti e credenti (12). Inoltre ancora de Filippi faceva notare come dal punto di
vista morfologico e fisiologico le differenze tra uomo e scimmie fossero estremamente piccole, così da far pensare che fosse ragionevolmente proponibile la loro
derivazione da un antenato comune. Ma dal punto di vista delle qualità intellettuali,
talmente alta è la differenza da richiedere un particolare intervento creatore da parte
di Dio. Come si vede, siamo nel 1864 e quindi lo sforzo di conciliazione è già di alto
livello: nessun problema per la derivazione comune delle specie, nessun problema per
un antenato comune tra uomo e scimmie, intervento di Dio Creatore solo per l’anima
233
umana. Era un buon punto di partenza. E d’altra parte su un’altra cosa de Filippi era
stato molto chiaro: la Genesi racconta che il corpo dell’uomo viene tratto dal fango:
non è molto più affascinante pensare che invece derivi da un processo di trasformazione lungo quanto tutta la storia della vita?Come si vede questi problemi erano già
stati risolti prima dell’avvento di Teilhard de Chardin, anche se ahimè rapidamente
dopo i primi anni di entusiasmo e di ricerca la Chiesa, preoccupata per la crisi
modernista si chiuderà e, con una forte dose di autolesionismo, interromperà queste
piste di indagine.Ma alcuni anni dopo, siamo ormai agli inizi degli anni Venti del
ventesimo secolo, Teilhard de Chardin, paleontologo già di chiara fama in Francia ed
in Europa, inizia ad insegnare all’istituto cattolico di Parigi (l’Università cattolica di
Francia) e quindi, dal momento che questa sua doppia posizione di paleontologo
consapevole dell’evoluzione e di gesuita è ben nota, viene rapidamente spinto a
confrontarsi con i problemi caldi. E uno di questi è il peccato originale: come si può
interpretare il peccato originale in una prospettiva evolutiva? E’ ovvio che a questo
punto emerge chiaro l’unico serio problema che l’evoluzione biologica pone alla
teologia cristiana. In fondo l’interpretazione tradizionale vedeva un universo uscito
ordinato e perfetto dalle mani del Creatore e semmai la sofferenza, il dolore, la morte
entravano nella natura come conseguenza del peccato dell’uomo. Ed in fondo tutta
la grande stagione della teologia naturale che studiava la perfezione degli adattamenti
dei viventi nella prospettiva apologetica di mostrare l’opera di un Creatore previdente
e provvidente, sembrava andare in questa direzione. La perfezione della natura era
un segno della qualità della creazione. La sofferenza, il dolore, la morte dovevano
essere entrati nel mondo per una rottura dell’ordine provvidenziale, un ordine
provvidenziale voluto da Dio e alterato drammaticamente dal peccato dell’uomo.L’evoluzione ed in particolare la teoria della selezione naturale altera questo
quadro perché non solo mette in discussione la possibilità di una creazione diretta delle
varie specie, cosa che come abbiamo detto non era affatto difficile da accettare da
parte della teologia, ma poneva anche, nella versione di Darwin e Wallace, come
meccanismo fondamentale dell’evoluzione meccanismi così drammatici come la lotta
per la sopravvivenza. E questi meccanismi, non caratterizzavano solo la condizione
umana, in fondo segnata dal peccato, come ancora si poteva dedurre dall’opera di
Malthus, ma venivano estesi a tutta la storia della vita. Il Dio previdente e provvidente
della teologia naturale diveniva così il grande allevatore che sceglieva i capi migliori e
li faceva incrociare e eliminava, in maniera più o meno violenta, gli altri. Il problema
dunque era questa visione drammatica dei meccanismi evolutivi che si estendeva a tutta
la natura. In fondo come Galileo aveva unificato lo spazio mostrando che non esisteva
più una distinzione tra i cieli incorruttibili e l’ambiente sublunare luogo della corruzione,
così Darwin unificava il tempo mostrando come non esistesse una natura incorrotta
prima della comparsa dell’uomo e del suo peccato, ma che la sofferenza, il dolore,
la morte facevano parte fin all’inizio della stoffa dell’universo. Questo aspetto, come
si vede, mal si concilia con la visione tradizionale del peccato originale che invece
sembra richiedere una frattura nella storia della vita. Inoltre era anche difficile dare una
connotazione storica precisa ai due progenitori. Già in parte Wiseman (13), intervenen234
do nella prima metà del diciannovesimo secolo nell’ambito ancora delle discussioni
sulle prospettive lamarckiane, aveva sottolineato come il dato teologico collegato alla
coppia originale era l’unità del genere umano, unità che poteva essere messa in
discussione dalle ipotesi trasformiste, dal momento che qualche interpretazione
sembrava suggerire la possibilità che differenti popolazioni umane potessero derivare
da differenti progenitori scimmieschi. Era dunque l’unicità del genere umano che
aveva un profondo valore teologico rappresentato dallo scrittore biblico col racconto
della nascita e dell’agire di un’unica coppia da cui veniva generato non solo fisicamente,
ma anche moralmente tutto il genere umano. L’errore della prima coppia si
ripercuoteva dunque su tutto il genere umano. La scienza sgombrerà il campo da
questo problema confermando la profonda unità del genere umano, ma gli altri
problemi rimangono intatti, conservando appieno la loro drammatica importanza.
Teilhard de Chardin, dunque, viene spinto a confrontarsi con questo problema e in uno
scritto privato, agli inizi degli anni Venti, pone il problema e offre due possibili
soluzioni. Una è collegata alla possibilità che la coppia originaria sia stata messa alla
prova al di fuori del tempo e dello spazio e sia poi stata immessa in un universo
segnato dall’errore. L’altra al contrario accetta in pieno tutte le conseguenze della
visione evolutiva. Da questo punto di vista non c’è frattura né rottura: la sofferenza,
il dolore, la morte entrano nel mondo fin dall’inizio e non sono conseguenza dell’errore
della prima coppia del resto impossibile da collocarsi storicamente con gli studi della
paleoantropologia (14). E qui ecco che riprendiamo il filo del nostro discorso. Per
Teilhard de Chardin il problema si può risolvere, ma solo ad una condizione, quella
che l’evoluzione non sia solo il risultato di meccanismi casuali e senza una qualche
precisa direzione, ma sia caratterizzata da un generale muoversi verso: della materia verso
la complessità e la vita, e della vita, verso la coscienza. Questa era una sfida importante
non tanto ai meccanismi darwiniani, quanto alle loro interpretazioni di filosofia della
natura, per le quali non vi era nessun particolare movimento verso l’uomo. L’uomo
era il risultato fortunato di un meccanismo fondamentalmente aleatorio e i meccanismi evolutivi sembravano sottolinearne l’imprevedibilità. Insomma non sembravano
esserci non solo leggi che permettessero di dedurre la comparsa dell’essere pensante,
ma nemmeno alcun altro meccanismo che in qualche modo suggerisse una qualche
direzionalità che potesse rendere ragione della comparsa dell’essere pensante (15).
Teilhard de Chardin considera subito come uno dei compiti fondamentali del suo
lavoro di paleontologo, quello di dimostrare di fatto la presenza di una qualche
necessità e realizza un vero e proprio programma di ricerca che sottolinea tutti i
possibili casi di parallelismi e canalizzazioni presenti. Inoltre per comprendere meglio
il problema della complessità sottolinea la necessità di considerare la biologia come la
scienza della complessità del vivente e di sviluppare tecniche di indagine globale
sull’evoluzione proponendo la Biosfera come oggetto ultimo di studio per poter
capire e descrivere parallelismi e canalizzazioni (16). Le necessità di trovare le ragioni
del muoversi verso permettono alla scienza di acquisire strumenti importanti quali i
concetti di complessità e l’attenzione alla Biosfera e già questa è una scoperta
interessante nel chiarire i rapporti tra scienza e teologia: piste di indagine che noi
235
riteniamo fondamentali per la biologia contemporanea nascono per risolvere dei
problemi posti dalla teologia. Ma andiamo avanti. Teilhard de Chardin ritiene di
dimostrare, grazie allo studio degli alberi filetici dei fossili e quindi essenzialmente dei
mammiferi, che l’evoluzione non è un procedere a caso tra mille possibilità, ma segue
piste ben definite, in particolare presenta un deciso muoversi verso la complessità e la
coscienza. E’ il concetto di muoversi verso che chiarisce anche la posizione teilhardiana sul
peccato originale. In effetti non solo la storia è il punto di contatto e la chiave di lettura
comune tra i due libri, ma è anche una storia che si realizza nel muoversi verso. La vita muove
verso la complessità e la coscienza, in un gigantesco movimento che interessa tutto
l’Universo fin dal suo inizio. In un gruppo particolare di primati, dove si realizzano
tutte le condizioni necessarie, ecco che il muoversi verso diviene non solo un muoversi verso
la cerebralizzazione, ma anche verso la coscienza. La paleoantropologia ricostruisce
questi passaggi, ma alla teologia di fatto interessa il risultato finale, una umanità pronta
all’alleanza. E’ in fondo Abramo, non Adamo, la figura centrale, l’Abramo che
riconosce l’esistenza di un Dio personale che è altro da sé, ma che non è né negli i idoli
né nella natura, e che lo chiama all’alleanza (17). Il muoversi verso dell’evoluzione si collega
finalmente alla storia della salvezza che però, a questo punto, nella prospettiva
teilhardiana, è ancora un muoversi verso, muoversi verso l’alleanza, la redenzione e la salvezza,
perché in una prospettiva evolutiva caratterizzata da un generale muoversi verso la
complessità e la coscienza, l’ordine non può essere nel passato, ma va costruito verso
il futuro. E allora per costruire l’ordine nel futuro, occorre partire da un passato
disorganizzato da organizzare. Per avere ordine nel futuro occorre partire dal
disordine, per completare occorre partire dall’incompletezza. Insomma, la prospettiva si ribalta chiaramente: l’ordine, così mirabilmente descritto dallo scrittore biblico
nel giardino dell’Eden, non è un ordine nel passato che l’Uomo ha distrutto con il suo
peccato, ma è semmai un ordine da costruire nel futuro. La storia, dell’universo, della
vita, dell’uomo, non è solo storia di alleanza di redenzione di salvezza ma è una storia
che progetta il muoversi verso il futuro. Ma il muoversi verso non termina né con
l’accettazione dell’alleanza da parte di Abramo, né con la prospettiva salvifica legata
alla prima venuta di Cristo. Il muoversi verso continua (e qui veramente Teilhard de
Chardin recupera fino in fondo alla teologia cristiana la ricchezza dell’impostazione
evolutiva) anche come cammino dell’umanità sulla Terra. Ciò che conta è dunque la
prosecuzione del muoversi verso per creare un ordine nel futuro, un ordine che
permetterà alla nuova umanità di essere pronta per la convergenza verso quello che
Teilhard de Chardin chiama il punto omega, il momento della seconda venuta di
Cristo (18). E’ una progettualità importante, che rivaluta le realtà terrestri che sono
necessarie per costruire l’ordine nel futuro. E’ a questa progettualità, segno della grande
ricchezza che esprime una seria indagine sui rapporti tra scienza e teologia (19), che si
ispireranno le teologie delle realtà terrestri, la costituzione conciliare Gaudium et Spes, la
teologia della liberazione e la teologia ecologica (20). Dobbiamo ritornare al
ribaltamento di prospettiva: nella prospettiva evolutiva e del muoversi verso, l’ordine non
è più nel passato e non è più nel passato una armonia a cui bisogna tornare. L’ordine
è nel futuro e va costruito. Si propone dunque concretamente sulla Terra quella
236
prospettiva di cieli nuovi e terra nuova di cui parla il libro dell’Apocalisse. Questo
ovviamente vuol dire che se l’ordine è nel futuro occorre partire da una situazione di
disordine che caratterizza la natura fin dal suo inizio. Se il giardino dell’Eden si realizzerà
al momento della seconda venuta di Cristo, si deve partire da una situazione di
disordine che va recuperato e a poco a poco compensato e superato. Il disordine del
passato fa dunque parte della stoffa stessa dell’universo. E’ un disordine di cui fanno
parte anche i meccanismi drammatici che l’evoluzione racconta e descrive e che vanno
superati per il futuro. Occorre subito dire che questa visione teilhardiana non soddisfa
in pieno. In fondo vi è un dolore fisico, una sofferenza dell’innocente, legata alla stoffa
stessa della creazione, di quella creazione che la Genesi afferma essere cosa buona e
che non può essere vista solo nella entusiastica prospettiva della costruzione del
futuro. La sofferenza dell’innocente è, in fondo, ancora il tema chiave che la visione
evolutiva dell’universo e della vita pone alla teologia, ma in maniera ancora più
profonda e drammatica. Ancora va preso terribilmente sul serio il grido di angoscia
di Dostoevskij per cui anche la sofferenza di un solo bambino incrina la perfezione
dell’universo (21). Teilhard de Chardin ha pagine molto belle che vedono nella
sofferenza un prezzo da pagare per costruire il futuro (22), ma nonostante questo la
prospettiva non è ancora percorsa appieno. Non si tratta di aprire un nuovo capitolo
della Teodicea, ma di qualcosa di più profondo che va ancora indagato e compreso
fino in fondo. Teilhard de Chardin risolve il problema proiettando la costruzione della
Terra nel futuro e quindi ponendo nel futuro l’ordine finale che nella Genesi sembra
collocato all’inizio, nel giardino dell’Eden. Ma occorre andare avanti: vi è un terzo
aspetto importante, quello della libertà. Un universo che si muove verso senza sbavature,
cadute e drammi potrebbe realizzarsi solo in un modello strettamente deterministico
in cui ogni passo è ben calibrato e determinato dalle condizioni precedenti. Per capirci
un universo alla Laplace. Ma la prospettiva della complessità ci apre invece ad un
universo che muove verso, ma in maniera non deterministica, in cui anche aspetti casuali
e drammatici hanno il loro spazio. E’ un universo concepito per la libertà, la libertà della
creatura che può accettare o rifiutare l’alleanza con il Creatore. Ed è indubbiamente
una libertà talmente ampia e totale che permette anche alla creatura di crocifiggere il
Creatore. Ma ancora il problema del dolore nella creazione visto anche nella
prospettiva evolutiva e collegato agli spazi di libertà, non evita il problema della
sofferenza dell’innocente. E’ una pista importante ma che probabilmente non basta
ad affrontare il problema se non affiancata da una seria indagine sulla teologia della
Croce (23). E’ curioso ma affascinante che alla fine, la grande rivoluzione della biologia
evolutiva, invece di essere un attacco di una visione materialistica alla fede cristiana,
riproponga in pieno la necessità di una seria riflessione sulla teologia della Croce. Ma
questo naturalmente è un tema che supera i limiti delle competenze del biologo anche
se appassionatamente interessato all’opera di Pierre Teilhard de Chardin (24).
Lodovico Galleni
Università di Pisa, Dipartimento di Chimica e biotecnologie agrarie
237
Note
(1) C. Molari, Darwinismo e teologi a cattolica, Borla, Roma, 1984
(2) “Il confronto è durato per circa un secolo, al termine del quale,s comparsi in gran numero i
fautori del vecchio paradigma, il problema si è dissolto quasi naturalmente e senza rumore. Ora
non esiste più. Ma non perché l’evoluzione sia stata dimostrata vera o sia stata accolta dai teologi,
ma perché allo stato attuale essa non pone più problemi alla teologia.” C. Molari, op. cit, p.: 13
(3) Da questo punto di vista mi fa piacere ricordare che ho scritto la voce “Evoluzione” per il
DIZIONARIO INTERDISCIPLINARE DI SCIENZA E FEDE e che nessuna critica è stata rivolta all’articolo dal
magistero cattolico italiano. Cfr. L. Gallerni, Evoluzione, in: Dizionario Interdisciplinare di Scienza
e Fede ( a cura di G. Tanzella Nitti e A. Strumia), Urbaniana University Press e Città Nuova, Roma,
2002, pp.:575-590
(4) Cfr. L. Galleni, Evoluzione, op. cit, p.: 577
(5) Cfr. L. Galleni, Scienza e Teologia, proposte per una sintesi feconda, Queriniana, Brescia, 1992
(6) G. Barsanti, Dalla storia naturale alla storia della natura, Feltrinelli, Mlano, 1979
(7) L. Galleni, Biologia, La Scuola, Brescia, 2000, pp.:78-88
(8) Per la metafora dei due libri si veda: L. Conti, Raimondo di Sabunde: l’originaria rivelazione divina
scritta nell’infalsificabile libro della Natura, in: Scienza e Teologia, un nuovo campo di ricerca e
insegnamento per antichi problemi ( acura di L. Galleni), Quaderni Stenoniani, n. 9, Pisa, 2001,
pp.: 79-96
(9) Cfr. L. Galleni, Teilhard de Chardin, in: Dizionario Interdisciplinare di Scienza e Fede ( a cura di
G. Tanzella Nitti e A. Strumia), Urbaniana University Press e Città Nuova, Roma, 2002, pp.:21112124
(10) Cfr. L. Galleni et M.. C. Groessens-Van Dyck, Lettres d’un paléontologue. Neuf lettres inédites
de Pierre Teilhard de Chardin à Marcellin Boule, Revue des Questions Scientifiques, 172, 2001, pp.:
5-104
(11) Cfr. G. Barsanti, La scala, la mappa e l’albero, Sansoni, Firenze, 1992
(12) F. de Filippi, L’Uomo e le simie, Daelli, Milano, 1865
(13) N. Viseman, Conferenze sopra la connessione delle scienze con la religione rivelata, vol. I, Società
Tipografica dei classici italiani, Milano, 1841, pp.:156-157
(14) P. Teilhard de Chardin, La mia fede, trad. it. Queriniana, Brescia, 1993
(15) Si veda a questo proposito, per una interpretazione contemporanea: J. Monod, Il caso e la
necessità, trad. it. Mondadori, Milano, 1970 e S. J. Gould, La vita meravigliosa, trad.it. Feltrinelli,
Milano, 1990. Per una discussione generale del problema del caso nella biologia evolutiva si veda:
L. Galleni, Biologia, op. cit. pp.: 114-124.
(16) L. Galleni, Il messaggio di Teilhard de Chardin, in: Concilium, n. 1 2000, pp.: 153-166. Tutto il
fascicolo della rivista, che è una rivista internazionale di teologia pubblicata in sette lingue, edito
da H. Haring, B. van Iersel e C. Theobald, è dedicato all’evoluzione. Il titolo è infatti: Evoluzione
e fede.
(17) E’ interessante notare come la centralità della figura di Abramo, sia sottolineata anche da un
altro scienziato che è arrivato a riflettere sui rapporti tra la scienza e la fede con un percorso
completamente diverso. Si tratta infatti di Silvano Arieti, psichiatra, che si interroga sui rapporti
tra ebraismo e scienza nel libro: S. Arieti, Abraham and the Comtemporary Mind, Basik Books, New
York, 1981
(18) P. Teilhard de Chardin, L’ambiente divino, trad. it. Queriniana, Brescia, 1994 e P. Teilhard de
Chardin, Il fenomeno umano, trad. it. Queriniana, Brescia,1995
(19) L. Galleni, Scienza e Fede: è possibile una relazione non conflittuale? NATURALMENTE, anno 16, n.
4, pp.: 31-35, 2003
238
(20) Queste sono piste che non possiamo seguire. Possiamo rimandare a: L. Galleni, Il progetto
scientifico e la sintesi di Teilhard de Chardin nell’ottica della salvezza della Biosfera, Convergere, anno 1,
nr 0, pp.: 23-39
(21) L. Galleni, Biologia evolutiva e teologia, quali problemi per una sintesi, in: Teoria dell’evoluzione:
lo sguardo della scienza e della fede cristiana, Centro per il dialogo italo russo di Gargnano,Gargnano,
2004, pp.: 34-57. Testo italiano con traduzione russa a fronte.
(22) P. Teilhard de Chardin, Sulla sofferenza, trad. it. Queriniana, Brescia. 1991
(23) L.Galleni, Pierre Teilhard de Chardin: scienza e teologia nella prospettiva del terzo millennio, Revista
Portuguesa de filosofia, in stampa.(24) Non possiamo c he dare alcuni suggerimenti d lettura: K.
Kitamori, Teologia del dolore di Dio, trad. It. Queriniana, Brescia, 1975; AA. VV. Il bene e il male dopo
Auschwitz, a cura di E. Baccarini e L. Thrson, Paoline, Milano, 1998
Bibliografia essenziale di riferimento
Paolo Rossi, La nascita della scienza moderna in Europa, Roma, Laterza, 1998.
Marco Beretta, Storia materiale della scienza. Dal libro ai laboratori, Milano, Mondadori, 2002. Renato
Giuseppe Mazzolini , I Lumi della Ragione: dai sistemi medici all’organologia naturalistica , in Mirko D.
Grmek (ed.), Storia del Pensiero Medico Occidentale, Roma, Laterza, 1993-1996, 3 vols.; vol. 2, pp.
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Ferdinando Abbri, J. Priestley e A.L. Lavoisier: il diverso significato di uno stesso esperimento, in Silvano
Tagliagambe, Antonio Di Meo (a cura di), Scienza e Storia: analisi critica e problemi attuali, Roma,
Editori Riuniti, 1980
Abbri , Le terre, l’acqua, le arie: la rivoluzione chimica del Settecento, Bologna, Il Mulino, 1984.
Pietro Corsi , The Age of Lamarck. Evolutionary Theories in France 1790-1830, Berkeley, University
of California Press, 1988
239
Evoluzione tra ricerca e didattica
Scuola estiva Anisn
Viareggio Palazzo delle Muse
26 - 31 luglio 2004
3 Darwin è tornato
Cecilia Carmassi
4. Dalla parte della cultura
Vincenzo Terreni
La storia
8. Il pensiero evoluzionista nell’Ottocento
Pietro Omodeo
15. Dibattito
18. Tutto si trasforma L’origine del concetto
di “evoluzione” fra Settecento e Ottocento
Angela Bandinelli
26. Dibattito
30. L’attualità di Darwin
Marcello Buiatti
43. Dibattito
La ricerca
48. Temi dell’evoluzione nella biologia contemporanea
Dario Riccardo Valenzano
54. Dibattito
56. Il ruolo dell’Anatomia comparata nella
ricerca e nella didattica universitaria fra
ieri e oggi
Vincenzo Caputo
74. Dibattito
76. L’evoluzione vista attraverso lo sviluppo
Robert Vignali
83. Dibattito
89. Dai fossili alle molecole: nuovi indizi
sull’evoluzione umana
Olga Rickards
94. Dibattito
101. Un approccio evolutivo allo studio del
cervello: la teoria del darwinismo neurale
Yuri Bozzi
108. Dibattito
112. Basi biologiche dell’attrazione
Alessandro Cellerino
133. Dibattito
137. Evoluzione e risposta cellulare allo
stress
Isabella Marini
158. Dibattito
La didattica
161. Evoluzione ed altre storie
Brunella Danesi
186. Dibattito
188. Chi ha paura di Carlo Darwin?
Alessandra Magistrelli
196. Dibattito
203. Didattica dell’evoluzione
Fabio Fantini
210. Dibattito finale
Appendice
225. Archeologia, linguistica e scienze naturali: dalla ricerca all’insegnamento Appunti per una discussione (e spunti per qualche iniziativa didattica?)
Tomaso Di Fraia
231. Evoluzione e teologia, dallo scontro
alla sintesi
Lodovico Galleni
ISSN 1721-9892
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