LE SCIENZE NATURALI NELLA SCUOLA Bollettino dell’A.N.I.S.N. Associazione Nazionale Insegnanti di Scienze Naturali Evoluzione tra ricerca e didattica Scuola estiva Anisn Viareggio Palazzo delle Muse 26 - 31 luglio 2004 periodico semestrale anno XIV n. speciale - maggio 2005 1 Direttore Responsabile: Eri Manelli Registrazione n. 4302 del Tribunale di Napoli del 30/06/92 Comitato di Redazione Sofia Sica (Caporedattore) Per il presente numero: Franca Cosci, Maria Luisa D’Eugenio, Nori Domenichini, Vincenzo Terreni Direzione Sede di Zoologia Federico Raffaele Dipartimento di Biologia animale e dell’uomo Viale dell’Università, 32 - 00185 Roma tel. 06-49914749 [email protected] Redazione c/o Società Naturalisti - Via Mezzocannone, 8 - 80134 Napoli [email protected] L’immagine di copertina è opera degli studenti del Liceo Artistico di Lucca Si ringrazia l’Assessorato alla Pubblica Istruzione della Provincia di Lucca per il concreto aiuto che ha reso possibile lo svolgimento del seminario e la pubblicazione degli atti. © ANISN Anno XIV - Numero speciale Abbonamento annuo: per l’Italia • 20,00; per l’estero • 30,00 Costo di un fascicolo: per l’Italia • 10,00; per l’estero • 15,00 Tutti i diritti sono riservati. nessuna parte di questa publicazione può essere tradotta, riprodotta, copiata o trasmessa senza l’autorizzazione dell’Editore. Periodico iscritto all’Unione Stampa Periodica Italiana La rivista viene inviata gratuitamente ai soci Anisn STAMPERIA EDITORIALE PISANA S. R. L. via delle Sorgenti, 81 56010 AGNANO 2 PISANO (PISA) Darwin è tornato Quando in Italia l’ansia riformista e revisionista dell’attuale Ministero dell’Istruzione (non più Pubblica) ha cercato di cancellare dai programmi scolastici le teorie sull’Evoluzionismo, tra scienziati, mondo della scuola e della cultura, si è creata una sinergia, un fermento che è sfociato in prese di posizione singole e collettive tese ad evitare lo scempio, riuscendo a far fare al Ministero un passo indietro. In quelle fasi di animoso confronto l’ANISN ha fatto una scelta coraggiosa e di più lunga durata: ha dedicato a questo tema, alla sua evoluzione storica, al dibattito scientifico una settimana di lavori, un vero e proprio aggiornamento per gli insegnanti. L’Amministrazione provinciale di Lucca ha collaborato alla realizzazione dell’iniziativa ed ho personalmente partecipato all’apertura dei lavori, convinta che sono occasioni come queste la più forte risposta a chi pensa di riscrivere con tanta facilità i contenuti dei manuali scolastici, ma la cosa che mi ha sorpreso maggiormente è stata il fatto di trovare un gruppo di insegnanti che, ad anno scolastico finito, decidono di dedicare altre energie per approfondire e confrontarsi, per chiudersi ancora una volta in aula, benché collocata nella splendida Viareggio. L’esito è rappresentato sicuramente da questi Atti, rivolti in primo luogo a chi non ha potuto partecipare, non solo agli insegnanti ma anche a quegli studenti appassionati di temi scientifici che vorremmo veder tornare ad iscriversi alle facoltà universitarie in cui si sviluppano queste competenze. La pubblicazione rappresenta perciò un punto di arrivo ed un nuovo punto di partenza, una base per proseguire il dibattito, per approfondire i temi proposti. Per tutto questo desidero rivolgere all’ANISN ed al suo Presidente, il prof. Vincenzo Terreni, un ringraziamento non formale e l’incoraggiamento a proseguire nell’ordinario quotidiano impegno che distingue l’associazione. Cecilia Carmassi Assessora alla Pubblica Istruzione Provincia di Lucca 3 Dalla parte della cultura V INCENZO T ERRENI Darwin, nonostante una vita schiva e ritirata con contatti esterni mediati da altri, ha mantenuto sempre un atteggiamento altamente prudente sulle interpretazioni non scientifiche della sua teoria e di netto rifiuto dei tentativi di strumentalizzazione. A distanza di tanto tempo è sempre difficile conservare la calma e la serenità di giudizio sul tema della teoria dell’evoluzione dei viventi: un argomento utilizzato da troppi come emblematico di una visione materialista del mondo da contrapporsi ad una spiritualista. L’anno scorso a Milano si è svolta la “Settimana antievoluzionista” con dibattiti e manifestazioni concluse con una particolarmente rilevante dal titolo “Evoluzione, una favola per bambini”. L’iniziativa venne, più che appoggiata, promossa da un autorevole esponente di un partito dell’attuale Governo. S. J. Gould ha raccontato in molti dei suoi saggi di quanta fatica avesse durato per ridare, in alcuni Stati dell’Unione, un posto nei libri di testo riservato all’Evoluzione: a molti di noi sembravano cose d’Olteoceano, lontanissime per cultura dalla nostra ormai aperta e tollerante, credevamo di essere al sicuro da attacchi di questo genere. Poi, tra la disattenzione generale dei cittadini e quella colpevole degli intellettuali, sono usciti i nuovi programmi per la Scuola primaria e secondaria di primo grado (elementari e medie): “Indicazioni nazionali per i piani di studio personalizzati”. Il Ministero chiese un parere alle Associazioni professionali dei docenti su questa fatica condotta da pochissimi in modo quasi nascosto ed anonimo. Con una lettera del 4 aprile 2003 il MIUR poneva scadenze molto strette per la formulazione dei pareri che dovevano essere inviati al Ministero entro il 30 dello stesso mese. La scadenza è stata rispettata e i pareri espressi sono stati raccolti dal Forum delle Associazioni professionali dei docenti con sede a Bologna nel volume: “Indicazioni nazionali e profili educativi. Pareri e commenti delle Associazioni disciplinari sui documenti per il primo ciclo dell’istruzione” del novembre del 2003. I pareri non sono lusinghieri, spesso sono molto negativi, un dato li accomuna: nessuno ha ricevuto risposta. L’Anisn non poteva che manifestare stupore e, dopo un esame puntuale, conclude così la sua nota inviata al Ministero dell’Istruzione: “Di ambiente o ecosistema non si parla più negli ultimi anni né di fenomeni di adattamento. Tanto meno di evoluzione: è chiaro che questo argomento nella scuola elementare rischia di essere molto banalizzato, dal momento che l’idea di tempo, le conoscenze dei meccanismi genetici, l’idea di specie sono ancora troppo abbozzate, ma la sua assenza crea sospetti; inoltre è quasi impossibile non affrontare il discorso con i bambini che attraverso i vari mezzi di comunicazione comunque vengono informati.” Questo parere era preceduto dal documento comune delle Associazioni di discipline scientifiche (Scienze Naturali, Fisica e Chimica) che tratteggiava un quadro di riferimento preciso per un curricolo di Scienze sperimentali nel primo ciclo di istruzione che risulti didatticamente e culturalmente sensato ed efficace. 4 All’inizio dell’anno nuovo (2004) cominciarono i primi articoli sui giornali sulla “scomparsa” di Darwin dalla scuola. Intervennero i grossi calibri dell’Università e della Ricerca che si erano finalmente accorti dei guasti avvenuti a danno della scuola in un ambito di grande delicatezza come quello della formazione scientifica. Naturalmente i giornalisti fecero la loro parte, quella di enfatizzare gli aspetti più appariscenti tralasciando il fatto che i programmi, indipendentemente da Darwin, erano da rifiutare per un’infinità di motivi. Inoltre è rimasto in ombra un fatto determinante per una discussione seria: Darwin e la sua teoria evolutiva erano, sono e rimarranno un tema da non trattare specificamente nella scuola cosiddetta dell’obbligo. Non è che i programmi siano inadeguati perché manca l’Evoluzione: sono inadeguati anche perché manca ogni idea evolutiva: sia in Biologia che in Geologia. Anche l’Astronomia viene proposta alle medie attraverso un percorso storico (molto sbilanciato) che tradisce quasi un rifiuto dell’osservazione diretta. Il dibattito si è quasi immediatamente infiammato su “Darwin sì o Darwin no”, perdendo di vista che si tratta del primo ordine di scuola, ordine in cui si rende necessaria una metodologia di lavoro completamente diversa da quella che emerge dai nuovi programmi. Insomma una discussione che poteva essere seria e costruttiva su come impostare l’insegnamento scientifico nella scuola del futuro si è trasformata in una sorta di partita di calcio tra due schieramenti che pensavano più a fare gol che ad analizzare con pacatezza una situazione di inadeguatezza che ha radici lontane e responsabilità diffuse. La scomparsa di ogni idea evolutiva e del dinamismo della materia è stata presentata come una acquisizione di una nuova forma di libertà e di pluralismo ed è stata presa come una provocazione! In questo modo si è persa definitivamente l’occasione di avviare un dialogo sull’efficienza del nostro sistema formativo che non si scolla mai dalla posizione di coda in ambito internazionale. La discussione si è poi arrestata del tutto in occasione della promessa televisiva, fatta dal Ministro, di una commissione di premi Nobel che si sarebbero dedicati alla revisione dei programmi di Scienze. Per quel che è trapelato, la Commissione si è riunita una sola volta su convocazione del Ministro, poi si è tentato un altro incontro con un paio di scienziati rimasti che hanno cercato aiuto all’esterno perché loro proprio di scuola non se ne intendono! Occorre riprendere con forza e pazienza la discussione su cosa deve dare la scuola ai nostri giovani: se vogliamo trasformare l’Italia in una società popolata da pochi laureati quasi tutti in discipline giuridiche o letterarie, allora va bene così, ma se c’è ancora chi pensa che la cultura sia un bene in sé e che non c’è cultura senza una adeguata conoscenza in campo scientifico, allora la riflessione deve essere più profonda e serrata a costo di affrontare argomenti dolorosi anche per coloro che si considerano progressisti. Il nostro Paese è ormai ai margini della ricerca scientifica di base e applicata e non riesce a trovare la forza di uscire da una situazione di grande difficoltà: meno la ricerca viene finanziata, meno produce attirando ancora minori finanziamenti: così si rischia l’implosione del sistema e anche la fine dell’insegnamento universitario. Le prime avvisaglie sono lontane nel tempo, il sistema si è mantenuto per alcuni decenni per poi avviarsi ad un declino quasi inarrestabile negli ultimi anni: i laureati in Fisica e 5 Chimica sono calati in modo impressionante, quelli in Biologia si mantengono artificiosamente perché sostenuti dai miraggi delle biotecnologie che non trovano riscontri lavorativi nel nostro Paese e che fanno considerare questi nuovi indirizzi di studio una vera e propria truffa nei confronti degli studenti nell’immediato, che si rivolgerà contro il sistema stesso tra pochi anni. Il problema oggi non è solo quello del mantenimento della qualità di minimo decoro nella Scuola di Stato, ma quello, ben più grave, del recupero culturale del nostro Paese che si sta avviando verso un analfabetismo molto moderno, ma non meno pericoloso di quello tradizionale. E’ necessario uscire, e farlo in fretta, dallo scontro tra chi, in nome di una presunta libertà e pluralismo, rivendica il diritto di mettere sullo stesso piano autentiche sciocchezze e teorie consolidate e chi, dall’altra parte, si limita a scontri verbali di breve respiro e di scarsa utilità volgendo lo sguardo ad un passato in cui le cose andavano forse meglio di ora, ma non abbastanza per collocare l’Italia nel novero dei Paesi più acculturati del mondo. L’Italia ha una caratteristica che la rende unica: quella di voler mantenere -qualcuno addirittura pretende di far credere di espandereil proprio tenore di vita senza adeguati investimenti nella ricerca pubblica e con pochissime tradizioni di ricerca privata. La ricerca ha bisogno di fondi, ma soprattutto di convincimento comune della sua utilità, questo convincimento non può che derivare da una buona scuola, una scuola che faccia ragionare e crescere giovani che avvertano in pieno la complessità delle scelte che sono chiamati a compiere, senza semplificazioni, ma con profondità di conoscenza e di giudizio. Questo seminario cade in un periodo in cui il dibattito sull’evoluzione è molto aspro, ma non è una risposta emotiva e immediata: sono anni che ci stiamo pensando e molti mesi sono occorsi per prepararlo, molti di più di quelli trascorsi dalle prime polemiche scoppiate sui giornali. Siamo profondamente convinti che il tema dell’evoluzione sia centrale nell’insegnamento biologico, e questa è la risposta. Una risposta che è un aiuto a coloro che dovranno affrontare l’insegnamento tra difficoltà vecchie e nuove in una scuola che sembra sempre più lontana non solo dai problemi concreti ma anche da una cultura solida e ben bilanciata. Dobbiamo pensare alla formazione dei giovani mediante la costruzione e il consolidamento di conoscenze attraverso l’acquisizione di chiavi interpretative in grado di evolversi. Una formazione data dalla scuola che faccia percepire a tutti come l’informazione non specialistica sia profondamente ignorante dei problemi scientifici che vengono ridotti o a pura tecnologia o a slogan privi di spessore, il tutto intriso quasi sempre di errori di fondo anche molto gravi. Questa impresa è stata possibile grazie all’aiuto dell’Amministrazione provinciale di Lucca e del Comune di Viareggio che ci hanno incoraggiato, fornito materiali, assistenza e ospitalità. Vincenzo Terreni Presidente Anisn 6 La storia 8. Il pensiero evoluzionista nell’Ottocento Pietro Omodeo 15. Dibattito 18. Tutto si trasforma L’origine del concetto di “evoluzione” fra Settecento e Ottocento Angela Bandinelli 26. Dibattito 30. L’attualità di Darwin Marcello Buiatti 43. Dibattito 7 Il pensiero evoluzionista nell’Ottocento P IETRO O MODEO Il lascito di Lamarck Quando Lamarck morì nel 1828, le sue idee sulla trasformazione dei viventi ebbero poco seguito, poiché il suo potente collega Giorgio Cuvier le aveva aspramente combattute in nome del conformismo politico e religioso. Il barone Cuvier morì solo quattro anni dopo Lamarck, ma lasciava molti allievi e seguaci ligi alle sue vedute e al suo volere, i quali continuarono la battaglia. Siccome detenevano le chiavi del potere accademico l’ebbero vinta, malgrado le proteste di alcuni coraggiosi naturalisti, tra i quali il chimico e botanico F. V. Raspail. Questi, insieme a Etienne Geoffroy St-Hilaire, sosteneva un trasformismo di stampo romantico che si ispirava alla Naturphilosophie tedesca. Questo trasformismo in Francia trovò seguito solo presso i geologi e i paleontologi estranei all’università, tra i quali c’era M. Boitard che riprese, intorno al 1859, il tema illuministico della derivazione dell’uomo da forme belluine. Tuttavia, in questo clima culturale sfavorevole, continuava ad agire un criterio introdotto da Lamarck nella grande Histoire naturelle des animaux sans vertèbres. Si tratta del criterio di esporre la Zoologia incominciando, per ciascuna classe, dalle forme più minute e semplici, risalendo poi verso quelle più complesse, riunendo inoltre i gruppi così ottenuti in alberi ramificati. Questo criterio, che favoriva l’accettazione di una evoluzione verso il complesso, era apparso comodo e razionale soprattutto ai naturalisti tedeschi che presero a organizzare le loro monumentali pubblicazioni secondo quest’ordine. Il primo a regolarsi così fu Oken, autore di una storia naturale in una quarantina di volumi. Dopo di lui pochissimi autori tornarono ai vecchi schemi, che invece in Francia dominarono, con poche eccezioni, fino al Novecento. Dubbi sulla creazione in actu In Gran Bretagna, intanto, era accaduto che un editore, di nome Chambers, si fosse entusiasmato sia dei risultati delle recenti ricerche di embriologia, sia della paleontologia dei vertebrati fondata da Cuvier, giungendo però a conclusioni del tutto opposte a quelle del naturalista francese. Chambers trovava infatti irriverente nei riguardi del Creatore l’idea che egli si fosse dovuto scomodare a creare animali insignificanti, o addirittura ripugnanti, per ogni isoletta dell’oceano, e a crearne di nuovi in sostituzione di quelli scomparsi. Di conseguenza, in un suo libro intitolato Vestiges of Natural Creation, propose candide idee sulla trasformazione e moltiplicazione delle specie, per le quali tirava in ballo anche l’embriologia. Il libro apparve nel 1844 ed ebbe un grande successo, nonostante il dilettantismo dell’autore; pare che piacesse molto anche al principe consorte della regina Vittoria. Spiacque invece al primo ministro Disraeli e a Charles Darwin per opposti motivi: a Disraeli perché conteneva idee molto sconvenienti; a Darwin, che aveva cominciato a elaborare la sua teoria, spiacque invece perché con la sua sciatteria screditava l’evoluzionismo. Darwin riteneva che chi l’aveva scritto 8 fosse un guastamestieri; ebbe poi occasione di conoscere Chambers e divennero amici e non seppe mai che era proprio lui l’autore del libro. Una circostanza curiosa accomunava questi due uomini. Darwin, quando intraprese il viaggio attorno al mondo, era deciso a fare il curato di campagna e non dubitava della creazione dei viventi. Quando però giunse alle Galapagos e si mise a studiarne la natura si chiese in tutta buona fede: perché mai la fauna e la flora di queste isole sono tanto diverse da quelle delle Isole del Capoverde? Eppure entrambi gli arcipelaghi sorgono nell’oceano sulla linea dell’equatore ed hanno origine vulcanica. Se si accoglie la tradizione che tutto sia diretta opera del Creatore, questi si sarebbe comportato in modo stranamente capriccioso, cosa non ammissibile e poco rispettosa. Concluse quindi che occorreva cercare altre strade per intendere l’economia del creato. Il trasformismo in Italia prima dell’Origine della specie In Italia tre studiosi si proposero di far conoscere le ipotesi di Lamarck sulla evoluzione dei viventi. Il primo è Giosuè Sangiovanni, un medico che era stato esiliato da Napoli dopo la tragica rivoluzione del 1799 e si era recato a Parigi per studiare con i grandi naturalisti che lì operavano: divenne discepolo di Lamarck e si convinse della bontà delle sue idee, senonché poco dopo che era rientrato a Napoli sopraggiunse la restaurazione borbonica e nulla poté fare. Simile fu la sorte di F. A. Bonelli, zoologo a Torino, che si era preparato in Francia e aveva steso note interessanti che rimasero nel cassetto: nel suo caso a indurlo a tacere fu la restaurazione sabauda. Per Fancesco Marmocchi, uomo di umili origini e di indomabile volontà, le cose andarono in altra maniera. Geografo autodidatta seppe scegliere il meglio dalla vastissima produzione naturalistica del suo tempo. Fu anche cospiratore mazziniano, cosa che gli procurò arresti ed esilio, tuttavia riuscì a pubblicare molte opere di pregio, in una delle quali introdusse un riassunto della teoria evoluzionistica che è il più completo e meglio articolato tra quelli che hanno preceduto l’Origine della specie di Darwin, ma che Marmocchi non poté vedere poiché morì a cinquantatre anni nel 1858. La nascita dell’evoluzionismo Torniamo a Darwin, il quale, perlustrando le isole Galapagos, non si pose soltanto il problema delle differenze tra il popolamento di questo arcipelago e quello di Capoverde, ma anche il problema delle differenze tra le specie di tartarughe che popolano le singole isole, delle differenze tra le specie di geospizini (i fringuelli di Darwin) presenti in ciascuna isola, delle reazioni istintive delle iguane marine, e tanti altri ancora. Cercando la risposta a tutti questi perché, giunse a ipotizzare , come avevano fatto tanti ricercatori prima di lui, che le specie si modificano nel tempo, ma le cause del processo non gli erano chiare. Qualche tempo dopo il rientro in patria, intorno al 1839, ebbe occasione di fare due letture suggestive: un saggio di A. P. de Candolle, botanico francese e l’opera di Malthus, studioso di sociologia e geografia antropica. Il primo insisteva sulla lotta per l’esistenza, il secondo sull’accrescimento esponenziale delle popolazioni umane e la 9 conseguente perdita di una quota di individui di ciascuna generazione, i perdenti appunto nella lotta per l’esistenza. Queste tesi, oltre a confermarlo nell’idea della trasformazione delle specie, gli aprirono uno spiraglio utile per la comprensione delle circostanze che innescano quel processo. Negli anni successivi, Darwin incominciò a riflettere sulle profonde trasformazioni ereditarie che allevatori e agricoltori riescono a introdurre negli animali e nelle piante, e si dedicò lui stesso a sperimentare nel campo della ereditarietà. Intorno al 1841 incontrò nel libro di un gentiluomo allevatore di pecore, di nome Youatt, la parola e il concetto magico di selezione, cioè di scelta del riproduttore. Darwin rifletté che, come l’allevatore sceglie il riproduttore più conforme alle richieste di mercato, così in natura i riproduttori delle nuove generazioni vengono scelti attraverso la selezione naturale conseguente al successo riproduttivo dei vincenti nella lotta per l’esistenza. Il percorso che lo porta a concludere in questo modo è delineato in una lunga nota programmatica scritta a matita nel 1842, indicata come Bozza. Nella Bozza non figura soltanto la soluzione citata, ma ne vengono considerate altre, meno limpide, che egli scarterà in seguito. Tra i molti esempi che compaiono in questo documento ve ne sono due che illuminano in modo perfetto il punto di maturazione -diciamo così- della teoria di Darwin. Nel primo si parla di una modifica dell’ambiente in conseguenza della quale i conigli spariscono e vengono sostituiti dalle lepri. Una popolazione di cani che si nutriva di conigli venne quindi obbligata a cambiare preda e in questo cambiamento risultarono avvantaggiati i cani più veloci, mentre i più lenti rimanevano digiuni e si riproducevano poco o niente. Conclusione: gli animali che nella lotta per l’esistenza -non necessariamente fratricida- risultano vincitori, diventano i principali riproduttori della generazione successiva, e così via generazione dopo generazione. Questo esempio, che ricompare con qualche variante nel Saggio, preparato nel 1844, e poi nelle varie edizioni dell’Origine, è paradigmatico del processo che secondo Darwin dà origine alle nuove specie. Il secondo esempio pone a confronto selezione artificiale e selezione naturale. Si tratta dei semi delle piante del cotone: l’agricoltore sceglierà come sementi quelle più ricche di lanugine, e cioè quelle più richieste dalle filande; in natura i semi più ricchi in lanugine sono quelli che vengono trascinati più lontani dal vento e quindi quelli che meglio contribuiscono al successo della popolazione. L’ereditarietà e gli sviluppi ulteriori del darwinismo La conclusione raggiunta da Darwin nel 1842, quando aveva 33 anni, rimaneva tuttavia aperta a due obiezioni. La prima riguardava l’eredità biologica, disciplina all’epoca quasi inesistente che veniva allora confusamente interpretata secondo gli schemi dell’eredità del patrimonio di beni. Darwin sostenne molto modernamente che questo tipo di eredità aveva le sue leggi e si propose di sperimentare in proposito. La seconda obiezione concerneva la variabilità: se non esistesse una fonte di variazione -rifletté- una popolazione quando ha esaurito la scorta presente in origine, non potrebbe adattarsi ed evolvere ulteriormente. 10 Nella Bozza compare un aspetto centrale dell’opera di Darwin che è stato poco considerato dalla più recente critica storica: si tratta del suo vivo interesse per l’ereditarietà biologica e per il suo contrario; la variabilità, che oggi chiameremmo mutabilità. Darwin si dedicò attivamente allo studio sperimentale dell’ereditarietà incrociando diverse razze di piccioni che si era procurato e anche varietà di primule per le quali indagava il significato funzionale di certe variabili del fiore. Si documentò inoltre sul più importante e esauriente trattato sull’ereditarietà allora esistente, opera di Prosper Lucas, un antitrasformista di cui il naturalista inglese dice un gran bene. Si deve notare anche che, tanto nelle 1550 pagine di Lucas, che sono del 1847-50, quanto negli scritti di Darwin che precedono l’Origine delle specie e nell’Origine stessa, viene formulato il principio dell’uniformità degli ibridi di prima generazione e viene formulata quella che ora si chiama Prima Legge di Mendel, riguardante la ricombinazione dei caratteri negli ibridi di seconda generazione. Ciò viene ricordato per spiegare come mai Darwin fu considerato, nella seconda metà dell’Ottocento, il fondatore degli studi sull’ereditarietà, e come mai ancora nei primi anni del Novecento, dopo la riscoperta dell’opera di Mendel, nella trattatistica si esponeva, in alternativa alla genetica mendeliana, la genetica darwiniana. La quale differiva da quella dell’abate boemo perché prendeva in considerazione le cause della perenne variabilità oppure, come si dice oggi, le cause della mutagenesi. Questo tema Darwin lo sviluppa nella Variazione degli animali domestici e nelle piante coltivate in cui individua tre cause della variazione: l’addomesticamento, gli sports e l’ereditarietà dei caratteri acquisiti. La variabilità secondo Darwin Delle tre cause della variabilità / mutabilità invocate da Darwin, due appaiono del tutto scontate. Gli sports, infatti, nel linguaggio degli orticoltori di quel tempo indicavano le mutazioni che appaiono inaspettatamente nelle coltivazioni (o negli allevamenti) . Darwin aveva di certo in mente la condrodistrofia della base del cranio dei “bovini niata”, anomalia su cui egli si era attentamente documentato in Sudamerica, e forse anche il caso delle pecore Ancon, dalle gambe cortissime. La terza causa, quella della variabilità conseguente all’acquisizione delle novità dovute all’uso e al disuso di un organo o di una funzione, è invece problematica. Che si verifichino modifiche ereditarie conseguenti e coerenti col disuso è ormai pacifico in base alle acquisizioni della genetica molecolare. Molto improbabile appare invece l’ereditarietà dei caratteri acquisiti attraverso l’uso. Darwin preparò una teoria particolare per rendere plausibile questo tipo di ereditarietà, nella quale egli fermamente credeva, come fermamente vi credevano naturalisti e medici fin dall’inizio del Cinquecento. Questa teoria, detta della pangenesi, è derivata dalla biologia di Buffon. Prospetta che da ogni minima struttura corporea si stacchino minutissime gemmule che ne trasportano in certo modo l’impronta negli organi della riproduzione. Quando gli organi della riproduzione producono i gameti, questi ricevono anche l’impronta trasportata dalle gemmule. 11 La pangenesi darwiniana fu combattuta aspramente sia da F. Galton, cugino di Darwin, sia da A. Weismann per il quale Darwin aveva scritto una elogiativa introduzione. Galton dimostrò che la teoria delle gemmule non era credibile, mentre Weismann sostenne che di fatto la variabilità del plasma germinale (cioè del genoma) non è ammissibile. L’origine delle specie attraverso la selezione naturale Torniamo indietro al 1858. Darwin continuava a raccogliere notizie utili alla sua teoria e ad elaborare una certa strategia per farla accettare sia dal pubblico scientifico sia dal pubblico profano, quando ricevette dalla Indonesia un articolo di Alfred Wallace. Wallace era, come Darwin, un bravo naturalista di campagna che già si era posto il problema della trasformazione delle specie. Durante una forzata pausa del suo lavoro Wallace aveva avuto occasione di leggere il saggio di Malthus sulla popolazione e lo trovò anche lui illuminante. Concluse che la mortalità conseguente alla crescita esuberante era differenziale, che gli individui che meglio soddisfacevano ai propri bisogni lasciavano più discendenti e che attraverso questo meccanismo si adattavano ai mutamenti dell’ambiente. Non parlava di selezione perché non conosceva questo neologismo, ma il suo ragionamento ricalcava quello di Darwin. L’articolo, e le insistenze degli amici che erano al corrente dei suoi studi, obbligarono Darwin a mutare i suoi programmi. Pubblicò insieme all’articolo di Wallace un breve riassunto delle proprie ricerche e, sospendendo il lavoro alla vastissima opera progettata, scrisse in pochi mesi L’origine delle specie per selezione naturale, ampliando e arricchendo il Saggio del 1844 che era rimasto nel cassetto per quindici anni. Wallace lasciò volentieri al più anziano collega la priorità della teoria e, quando anni dopo ritornò sul tema, intitolò il libro Darwinism. Quest’opera contiene la più bella ed equilibrata esposizione in chiave naturalistica della teoria darwiniana apparsa nell’Ottocento. L’opera di Lamarck e quella di Darwin sono complementari Talvolta gli storici amano inventare storie di invidia e antagonismo tra grandi protagonisti, che proprio non se le sognano. La più celebre è quella dell’invidia di Amerigo Vespucci, pilota e cartografo, nei riguardi di Cristoforo Colombo, ammiraglio della regina Isabella. La storia dell’antagonismo tra Darwin e Lamarck è altrettanto gratuita, poiché i due naturalisti hanno teorizzato su questioni diverse, anche se complementari. Lamarck si è occupato del problema della specie solo per dire, in modo molto moderno, che si tratta di un concetto che vale solo per un breve tratto di tempo; dell’origine delle specie non si è occupato. Darwin questo problema l’ha risolto nel modo che abbiamo visto. Lamarck si è interessato soprattutto all’evoluzione dei grandi gruppi di viventi e per essi ha proposto alberi filogenetici molto ingegnosi, mentre Darwin ha evitato di sviluppare questo tema che, allora come oggi, è difficile trattare in modo rigoroso e convincente. Per lo stesso motivo di prudenza Darwin ha evitato per lungo tempo di parlare dell’evoluzione dell’uomo, tema pericoloso che Lamarck aveva affrontato senza ritegno. 12 Che questi due autori avessero lavorato, su piani diversi, ad argomenti di vasto respiro, avendo l’uno uno sfondo culturale illuminista e l’altro uno sfondo culturale liberista, agli storici dell’Ottocento era ben chiaro, e chiaro era anche che l’evoluzionismo romantico di Goethe, Treviranus, Geoffroy St.-Hilaire e Owen era altra cosa. La confusione dei ruoli è nata in seguito, dopo il 1866. L’intervento di Haeckel Nel 1866 è comparsa la Generelle Morphologie del giovane Ernest Haeckel (del 1834) entusiasta dell’evoluzionismo. Haeckel aveva studiato passando da un’università all’altra per trovare i migliori maestri, che nella Germania di quel tempo non mancavano. Si era quindi laureato in Medicina dedicandosi però alla Zoologia, disciplina alla quale dette ottimi contributi. Nei due volumi di questa difficile opera, e nelle molte che le fecero seguito, Haeckel tentò la sintesi delle idee, spesso non congruenti, dei suoi predecessori, e in particolare di quelle di Goethe, Lamarck e Darwin, dando la preferenza ai temi dell’evoluzione di grandi gruppi, temi che oggi si riferirebbero alla ‘macroevoluzione’. Forte delle sue conoscente di zoologia dei Protisti e degli Invertebrati propose alberi filogenetici che ancor oggi appaiono validi nelle loro grandi linee. Introdusse le cognizioni di embriologia comparata, che nell’Ottocento progredivano in fretta e bene, allo scopo che fossero di guida nella ricostruzione della storia evolutiva. Coniò a questo proposito il discutibile principio che “l’ontogenesi ricapitola la filogenesi”, ripropose inoltre i temi illuministici dell’origine dell’uomo. Allargò, insomma, l’orizzonte dell’evoluzionismo. Lo rese però più confuso a causa della contaminazione, a volte inconsapevole, di diverse e inconciliabili correnti di pensiero. Dopo l’unificazione degli staterelli germanici nell’Impero prussiano (1870) Haeckel, che in Prussica era nato, aderì al Kulturkampf abbandonando le sue convinzioni religiose e mettendo al suo servizio un monismo materialistico nel quale confluivano idee materialistiche, idealistiche, irrazionalistiche e religiose. Questo sincretismo gli procurò opposizioni assai virulente e accuse infondate di falso, ma l’abile divulgazione gli procurò anche molti seguaci e obbligò altri autori a uscire dal loro riserbo e a impegnarsi sui temi che aveva rilanciato. Tra questi autori figura Charles Darwin che pubblicò L’Origine dell’uomo (1871). L’affermazione dell’evoluzionismo e i suoi oppositori In Gran Bretagna l’evoluzionismo darwiniano ebbe un rapido trionfo, oltre che per i suoi meriti intrinseci anche perché Darwin aveva una cerchia di amici altamente stimati per l’impegno scientifico e molto influenti sul piano culturale: Charles Lyell, Thomas Huxley, J. D. Hooker. Certo, non mancò un’opposizione terra terra che produsse una moltitudine di libelli denigratori più o meno divertenti, né mancò un’opposizione accademica paludata, capeggiata dall’anatomista Richard Owen e dal fisico W. Thompson (poi Lord Kalvin); si verificò anche un pittoresco scontro fra Thomas Huxley e il vescovo Wilberforce in un’aula dell’Università di Oxford (1860), scontro di cui il mondo pettegolo dei biologi non si stanca di parlare. 13 Anche negli Stati Uniti il darwinismo ebbe successo grazie a Asa Grey, corrispondente di Charles Darwin, che prontamente curò la prima edizione americana dell’Origine, ma il celebre L. Agassiz senior, oriundo svizzero, fu duramente contrario. In Francia l’accoglienza fu pessima. Pierre Flourens, un fisiologo cuvieriano di ferro, presidente dell’Académie des Sciences, non volle che Darwin ne divenisse socio. In seguito permise che fosse ammesso, ma solo per i suoi meriti di botanico. In Italia Bianconi, anatomista a Bologna, attaccò con argomentazioni scientifiche l’evoluzionismo e il reverendo Pianciani S. J. fece altrettanto, ma più aspramente, sulla CIVILTÀ CATTOLICA. Gli zoologi tuttavia si dichiararono a favore, primo fra questi Filippo De Filippi, un cattolico che con il suo gesto destò scandalo. Dopo la sua prematura morte tutta la scuola torinese sostenne e propagandò l’evoluzionismo ed altrettanto fece Canestrini a Padova. L’UTET si rese particolarmente benemerita pubblicando l’opera omnia di Darwin e di Haeckel e i libri di Canestrini a favore dell’evoluzionismo. L’eclissi dell’evoluzionismo In Germania, dopo i contributi di Haeckel e di Weismann, si ebbe lo sviluppo più vivace dell’evoluzionismo, tanto che nei repertori bibliografici editi prima a cura della Stazione zoologica di Anton Dohrn e poi a cura dello ZOOLOGISH ANZEIGER venne introdotta una apposita sezione. In quell’enorme massa di contributi si nota una verbosità erudita e un gusto per la polemica interminabile, rancorosa e poco costruttiva. Alcuni di quegli autori si dichiararono lamarckiani o neolamarckiani, ma del vecchio giacobino materialista rimaneva solo il nome o poco più, poiché secondo l’usanza introdotta da Haeckel fioriva un miscuglio di materialismo grossolano con finalismo e vitalismo. Orientarsi in quei dibattiti o soltanto riassumerli, è impresa da specialisti eruditi. Bisogna però porre in evidenza che i dibattiti prolissi e inconcludenti stancarono un po’ tutti. Inoltre, gli attacchi in nome della religione si moltiplicavano e si affermava il culto dei fatti, la più nociva presa di posizione per gli scienziati. Sicché si diffuse un grave disinteresse per l’evoluzionismo. Nel 1909, centenario della Philosophie Zoologique e della nascita di Darwin, nonché cinquantenario della pubblicazione dell’Origine delle specie, le commemorazioni in Inghilterra furono in tono minore, in Francia mancarono quasi del tutto. Pietro Omodeo (Cefalù, 1919) ha studiato presso la Scuola Normale di Pisa, laureandosi con Giuseppe Colosi. Ha insegnato Biologia, Zoologia, Zoogeografia in varie università, per poi diventare direttore dell’Istituto di Zoologia di Siena, dove attualmente è professore emerito. Sin dalla sua fondazione, è membro del Coordinamento Nazionale di Biologia Teorica (CNBT); ha curato la traduzione delle opere di Lamarck, Darwin e Diderot ed è autore di numerosi saggi. 14 Dibattito Intervento 1 Una curiosità mia, forse lei è la persona più adatta a rispondere perché ha studiato questi problemi a fondo. La domanda è : come è avvenuto che Darwin non abbia mai conosciuto (magari lei mi smentisce) l’opera di Mendel? Che cosa possiamo ipotizzare che sarebbe successo se l’avesse conosciuta? Non l’ha mai conosciuta veramente, o l’ha conosciuta e non l’ha considerata, e quale potrebbe essere l’ipotesi filosofica su ciò che sarebbe avvenuto se Darwin avesse considerato il lavoro di Mendel, pubblicato nel 1866, che solo successivamente ha ricevuto riconoscimento? Pietro Omodeo La risposta c’è; Darwin ricevette in omaggio da Mendel la sua famosa conferenza in cui vengono esposte le leggi statistiche che lui ha formulato, pare che non abbia neppure sfogliato le pagine, evidentemente ne è stato dissuaso sia dal tedesco in cui non era molto competente sia dal fatto che non cercava le leggi dell’ibridazione, che egli aveva controllato sperimentalmente, ma lui in quel momento era molto interessato al problema dell’origine della variabilità, ossia della mutagenesi per usare il linguaggio odierno, perché immediatamente si capisce che cosa volesse intendere, variabilità non dice tanto all’orecchio moderno anche perché per variabilità oggi si intende qualcosa di diverso da quello che intendeva Darwin e quindi non ritenne necessario aprire quel piccolo opuscolo e leggere cosa c’era dentro. Badate però che all’inizio del ‘900 in molti trattati si trova in alternativa la genetica mendeliana e la genetica darwiniana; negli autori francesi lo trovate, ma c’è anche un autore italiano che si sente in dovere di esporre tutti e due i tipi di genetica, quindi erano due cose parallele che si sono ignorate reciprocamente a meno che Mendel non avesse letto L’origine delle specie e non fosse stato indotto da L’origine delle specie a mettersi a fare quella sperimentazione. C’è un altro autore a cui Mendel si è certamente ispirato, ma il fatto che avesse mandato a Darwin il suo estratto sta a dire che sapeva che cosa aveva scritto e che cosa pensava, anche se non aveva letto L’origine delle specie. Intervento 2 La storia delle giraffe: non mi è mai riuscito di trovare dove fosse citata… lui cita ne L’origine delle specie il collo delle giraffe? Pietro Omodeo No, il collo delle giraffe è in Philosophie zoologique, un piccolo passaggio molto breve che è stato molto ridicolizzato dagli autori più recenti, non in antico. Lamarck godeva di una grossa stima nella prima metà dell’800, soprattutto per il primo trattato di Zoologia che sia mai stato scritto e che Darwin aveva con sé durante il viaggio; lo aveva comprato il capitano della nave, e quando classifica gli animali marini che vede, li classifica basandosi su Lamarck. Pensate che l’ Histoire naturelle in brevissimo tempo ebbe tre edizioni e nessuno si permetteva allora di prendere in giro un autore che era molto rispettato. Senza dubbio è ingenuo, però le cose ingenue hanno a volte un nocciolo importante, in questo caso viene messo in evidenza il problema della nascita della variabilità, anche se egli la interpreta in un modo che oggi non si accetta (però badate, io non sono del tutto sicuro che sia tutto da rifiutare). L’esempio che fa Darwin è quello dei cani che cessano di nutrirsi di conigli e si nutrono di lepri e debbono correre, quindi diventano più rapidi e trasmettono questo carattere modificato, e si può 15 spiegare allo stesso modo con cui Lamarck spiegava l’allungamento del collo delle giraffe. Qui Darwin non è esplicito sulle cause, però in tutti i suoi libri e anche nelle sue bozze e note private, evidenzia la convinzione che l’uso e il disuso siano causa di trasformazione, come anche l’addomesticamento. Oggi si sa che certi shock che colpiscono la popolazione aumentano la variabilità, lo shock termico per esempio è uno dei casi più comunemente trattati, ma anche uno shock che modifica tutti i rapporti di una popolazione con l’ambiente è da intendere allo stesso modo e quindi è causa di un aumento di variabilità, e questo oggi si accetta tranquillamente. Oggi si accetta tranquillamente che il disuso porti alla scomparsa del materiale ereditario o all’ammutolimento dei caratteri ereditari che presiedono alla definizione di quel carattere, quindi anche il non uso è tranquillamente accettato anche nelle sue cause molecolari. Che poi invece le trasformazioni indotte dall’uso possano essere iscritte nel patrimonio ereditario è una cosa più difficile da ammettere ma è comunque cosa che vale la pena di prendere in considerazione molto attentamente, perché di solito non si parla delle obiezioni all’evoluzionismo per carità di patria, per non dare argomenti alle persone che sono pronte a buttarvisi contro, però difficoltà nell’applicare le norme che si utilizzano nell’evoluzionismo non ne mancano. C’è una sola persona in Italia che vi si sia dedicata, D’Ancona, che una volta che spiegava l’evoluzionismo secondo Darwin agli studenti, e io dissi che trovavo questa difficoltà e quest’altra, mi rispose: “Si metta a sedere che ora le racconto io le difficoltà all’evoluzionismo” e tirò fuori molti argomenti ancora. Nondimeno, queste non sono crisi del sistema ma crisi nel sistema che comunque vanno considerate e vanno risolte. Io per esempio ho avuto due piante carnivore completamente diverse l’una dall’altra; si sa perché, a quale richiesta ambientale risponde la trasformazione delle piante carnivore, ma per quale via si possa arrivare alla comparsa non di uno ma di tre diversi ceppi di piante insettivore, questa è una cosa acrobatica per qualunque studioso di evoluzione. Intervento 3 Parlando di Darwin spesso si legge di un altro personaggio, Wallace, che nell’800 aveva elaborato una teoria simile prima di lui o contemporaneamente. Che ruolo ha avuto questo personaggio? Pietro Omodeo La questione di Wallace è molto interessante e anche il personaggio è interessante, certo, non è un personaggio secondario. Un inciso: quando tutta questa gente, sia Darwin, sia Huxley, sia Wallace, sia Heckel, entra in lizza sono tutti molto giovani, hanno meno di 40 anni e si lanciano in questi grandi problemi e li trattano in modo maturo, non da principianti. Detto questo devo delineare un momento la storia di Wallace: Wallace nasce da una famiglia molto povera; insieme con un collega, Bates, parte giovanissimo per l’Amazzonia, il santuario delle Scienze Naturali e dei naturalisti, viaggiano attraverso l’Amazzonia e raccolgono vario materiale, una parte del quale sarà poi venduto per sussistenza. Sono tutti e due persone che cominciano a porsi i problemi, che è ciò che fa grandi gli studiosi; di questo sono sicuro cioè che è proprio del vero studioso porsi dei problemi, porsi dei perché, ed è singolare quanti perché si pone Darwin su tutte le origini, sul perché sono salite le Ande, perché si sono formati i terrazzamenti della Patagonia, perché ci sono due specie di struzzi in Sudamerica e via discorrendo. Wallace ha lo stesso bagaglio dei perché si occupa, soprattutto in Amazzonia di Botanica e delle palme, infatti c’è una grossa monografia sulle palme di Wallace. Poi Wallace, dopo molti anni di vita di vagabondaggio, di studi intensivi sull’Amazzonia, rientra con tutti i suoi appunti e materiali; la nave su cui è imbarcato purtroppo prende 16 fuoco e tutto viene perso; lui salva soltanto gli appunti sulle piante e sarà l’unica pubblicazione importante che riesce a fare in quell’epoca. Chiede però soccorso alla Società Geografica inglese per ripartire e fare ancora raccolte, la Società Geografica inglese gli dà i soldi per l’imbarco e per studiare l’Indonesia, per cui questa volta va nella foresta pluviale indonesiana e lì ancora si pone grandi problemi: perché la distribuzione di questa specie ha questo confine, perché altre specie hanno distribuzioni con altri confini, e diventerà il fondatore della moderna biogeografia con dei trattati che ancora oggi si utilizzano con grande interesse, con grande vantaggio. E questo è Wallace, è in Indonesia e si ammala e nell’ozio della convalescenza continua a riflettere sull’origine delle specie, problema sul quale aveva già scritto qualche cosa sul vago, un po’ dilettantesco, che Darwin badate bene conosceva perchè Wallace glielo aveva già mandato prima della pubblicazione de L’origine delle specie. Convalescente, legge il libro di Malthus sulle popolazioni che gli offre lo spunto per capire e per dare una prima risposta al problema che si era posto, il problema dell’origine delle specie. Egli riflette sul fatto che la mortalità che si ha a ogni generazione non è casuale ma differenziale, saranno gli organismi che meno sopperiscono ai loro bisogni quelli a sparire, sopravvivono invece quelli che possono soddisfare meglio i propri bisogni. E’ un discorso molto lineare, molto tranquillo, tipico di un ecologo, su cui scrive allora un breve saggio di 15 pagine e lo spedisce a Darwin; non è una cosa casuale perché Darwin era un uomo conosciuto come naturalista viaggiatore perché aveva pubblicato quel bellissimo libro che se potete vi consiglio di leggere Viaggio di un naturalista intorno al mondo, un’opera bellissima di naturalista viaggiatore. A questo punto per Darwin c’è una crisi: sono 15 anni che lui sta lavorando intorno a questo problema e si trova scavalcato da un collega molto più giovane. Ne parla con gli amici e gli amici lo spingono a scrivere una bozza delle proprie idee che verrà pubblicata insieme con il saggio di Wallace sul Journal of Linnean Society, se non ricordo male, nel 1858 e poi Darwin si mette affannosamente a redigere L’origine delle specie che comparirà nel 1859. Questa è la storia del loro incontro. Wallace concederà di buonissimo grado la priorità delle sue idee sull’evoluzione, lui non introduce né la parola né il concetto di selezione, perché selezione è un neologismo che Darwin ha trovato in autori inglesi e quando poi pubblica un libro sulla evoluzione lo intitolerà Darwinism. Il libro di Wallace è il migliore riassunto dell’evoluzionismo naturalistico che viene fatto dopo Darwin. 17 Tutto si trasforma L’origine del concetto di “evoluzione” fra Settecento e Ottocento A NGELA B ANDINELLI Hence the modern discoveries in chemistry and in geology, by having traced the causes by the combinations of bodies to remoter origins, as well as those in astronomy, which dignify the present age, contribute to enlarge and amplify our ideas of the power of the Great First Cause. Erasmus Darwin, Zoonomia, or, the Laws of Organic Life (1794 -1796). Introduzione Ai primi del Settecento l’immagine cartesiana del corpo-macchina predisposto al moto fu messa in crisi con l’invenzione del termine “organismus” ad opera del filosofo tedesco Georg Ernst Stahl (1660-1734) secondo il quale il vivente si muoveva per moto intenzionale sostanzialmente diverso dal semplice meccanismo. Il processo di emancipazione del mondo della vita dalle leggi della meccanica aveva trovato una strada praticabile nella convinzione che le funzioni organiche fossero guidate dall’anima, vero e proprio principio di conservazione della vita. Nel corso del Settecento si diffuse così la consapevolezza che l’organismo non era un orologio messo in moto da Dio e che il suo funzionamento richiedeva leggi d’ordine dinamico. Ma com’è che funzionava, allora, questa macchina meravigliosa e naturale al contempo? Come poteva esser ridefinita la sua organizzazione? E ancora: le leggi dell’organico differivano da quelle del mondo inorganico? Se nel continente le discussioni fra i naturalisti si concentrarono perlopiù sull’eccezionalità della vita rispetto ai minerali, oltremanica, invece, era fiorente una tradizione sperimentale interessata alle analogie fra processi fisiologici e processi combustivi. La macchina vivente era considerata un luogo di continue fermentazioni che il chimico-filosofo poteva indagare. Allorché Antoine-Laurent Lavoisier (1743-1794) ridefinì la combustione come un processo fisicochimico distinto da un’esplosione infiammatoria, anche i processi fisiologici vennero compresi nelle loro regolarità di successive scomposizioni/composizioni materiali. Grazie alla nuova disciplina analitica il vivente diventò una naturale sostanza composta soggetta a continue trasformazioni, un’unità con caratteristiche emergenti e, dunque, distinte da quelle dei singoli Lavoisier, Trattato elementare componenti. Grazie alla nuova chimica, l’organismo di chimica 18 fu compreso nel suo essere un sistema fisico-chimico in continua evoluzione innovativa, un’unità analizzabile perché retta da due distinte leggi di conservazione: il principio di conservazione del calore (1783) e il principio di conservazione della materia (1789). Lavoisier aveva spiegato come la Natura non soltanto si muove, ma cambia evolvendosi. Grazie a queste nuove idee, infine, Jean Baptiste de Lamarck (1744-1829) poté sviluppare il suo originale progetto di una nuova Fisica biologica (1801-02), o disciplina dei corpi organizzati diversificatisi nel corso di più generazioni. La Biologie (1802) si costituiva infatti come osservazione naturalistica di tutte le forme osservabili, una nuova fisica dei corpi viventi. Si sostiene, dunque, che la riforma della Storia naturale nelle nuove discipline scientifiche ottocentesche è compresa nella sua complessità rivoluzionaria soltanto attraverso l’invenzione di una nuova filosofia della materia J. B.Lamarck, Idrogeologia che si “evolve” naturalmente grazie a giochi di affinità e calorico. Nel 1789 Antoine-Laurent Lavoisier (1743-1794) (1) pubblicò a Parigi il suo famoso Traité élémentaire de chimie (2) nel quale viene esposta la sintesi di vent’anni di ricerche sistematiche in Fisica, Chimica e Fisiologia capaci di ribaltare le concezioni comunemente accettate sulla materia e le sue modificazioni. Il nuovo sistema si basava infatti su una originale filosofia, diversa da quella cartesiana e da quella newtoniana: la materia cambia secondo precise ed identificabili leggi di conservazione tali per cui “niente si crea né si distrugge, tutto si trasforma.” In questa espressione apparentemente semplice lo scienziato francese concentrava il suo moderno pensiero proponendo un’immagine nuova della Natura, diversa dal vitalismo (o tradizioni di ricerca animate dall’idea che esistesse un principio vitale giustificante la vita) e diversa dalla meccanica (secondo cui la vita era organizzazione di parti con caratteristiche simili a livello elementare e composto). Secondo la nuova Chimica francese, nelle operazioni di laboratorio, come in quelle naturali, i cambiamenti in atto si spiegano in accordo con le leggi fisico-chimiche di conservazione e non con l’ipotesi di una fantastica creazione e neppure con quella di una improbabile scomparsa della materia in gioco. Una tale presa di posizione seguiva una stagione di intense ricerche caratterizzate da un preciso impegno metodologico: l’introduzione da parte di Lavoisier di strumenti tipici del laboratorio di Fisica sperimentale (come ad es., la bilancia idrostatica) nello studio delle reazioni chimiche aveva inaugurato un nuovo corso d’indagine basato sulla quantificazione delle sostanze con la conseguenza che le varie credenze d’origine alchemica (come, ad esempio, l’idea che l’acqua potesse trasmutare in terra) vennero sottoposte a rigoroso controllo sperimentale. A partire dalla metà degli anni ’60 del Settecento, l’approccio quantitativo lavoisieriano si distinse così a poco a poco dalle 19 altre tradizioni di ricerca chimica proprio nell’intenzione di procedere sulla base certa dei fatti e non su quella probabile delle ipotesi. Nel Discorso preliminare che introduce il trattato si dice a proposito che la conoscenza procede per analisi, ovvero “dal noto all’ignoto”, secondo i principi della logica condillachiana. (3) Questa innovativa scelta metodologica permise di scoprire molte verità: 1. La combustione è un’operazione di decomposizione del gas ossigeno per formare nuovi composti (ossidi); essa comporta un effettivo cambiamento nella natura dei componenti tale per cui il prodotto finale acquista proprietà nuove rispetto a quelle dei reagenti. L’acqua, ad esempio, deriva dalla combustione di due specifici gas e, a differenza del componente idrogeno, non mostra alcuna affinità per l’ossigeno; 2. L’acqua non è un elemento semplice, ma una sostanza composta. 3. L’idea tradizionale che identificava la combustione con un processo infiammatorio veniva definita falsa. 4. I corpi combustibili sono tali perché mostrano affinità per una particolare componente dell’aria atmosferica (l’ossigeno, principio di acidità) e non perché contengono una ipotetica sostanza infiammabile (il flogisto, principio di infiammabilità). 5. I metalli sono corpi semplici e non composti di flogisto. 6. La diversità delle arie (respirabile, nociva, infiammabile, atmosferica, etc.) non si spiega per quantità di flogisto in esse contenuto, ma per combinazione di specifiche basi (ossigeno, idrogeno, azoto, etc.) con il calorico (forza repulsiva) che conferisce alla materia lo stato aeriforme. Alla Chimica delle arie differenti Lavoisier opponeva la nuova chimica dei gas specifici con la conseguenza che anche la fisiologia della respirazione animale fu ridefinita come una lenta combustione di carbone e non come un atto di espulsione flogistica.Il rovesciamento rispetto alla tradizionale filosofia naturale era totale: la Natura, nella sua unità di corpi organici ed inorganici, procedeva per continue decomposizioni/composizioni mai casuali perché regolate da un principio di reversibilità del calore (Lavoisier-Laplace, Mémoire sur la chaleur, 1783) e da un principio di conservazione della materia (Lavoisier, Traité élémentaire de chimie, 1789). Dalle credenze di aristotelica memoria circa l’esistenza di pochi elementi semplici si passava ad altre immagini quali quelle suggerite da una materia scissa in sostanze semplici e composte che l’analisi si prefiggeva di individuare: “Questa operazione (fermentazione) è una delle più J. B. Lamarck, Ricerche sull’organizsconvolgenti e straordinarie di tutte quelle che la zazione dei corpi viventi 20 Chimica ci presenta e noi dobbiamo esaminare da dove viene il gas acido carbonico che si sviluppa, da dove viene lo spirito infiammabile (alkool) che si forma, e come avviene che un corpo dolce, un ossido vegetale possa trasformarsi in due sostanze così differenti, di cui l’una è combustibile, l’altra eminentemente incombustibile. Per arrivare alla soluzione di queste due questioni, bisogna innanzitutto conoscer bene l’analisi e la natura del corpo suscettibile di fermentare e i prodotti della fermentazione; poiché niente si crea, né nelle operazioni dell’arte, né in quelle della natura, e si può porre in principio che in tutte le operazioni c’è un’uguaglianza di quantità di materia prima e dopo l’operazione; che la qualità e la quantità dei principi è la stessa e che non avvengono che cambiamenti, modificazioni” (4). Sin dagli anni Settanta Lavoisier era perfettamente consapevole di lavorare ad un progetto di rifonda- J. B. Lamarck, Ricerche sulle cause dei zione generale della conoscenza: sappiamo che il 1° principali fenomeni fisiologici novembre 1772 il giovane scienziato, già membro dell’Académie des Sciences, consegnò al segretario perpetuo della prestigiosa istituzione parigina un plico contenente l’annuncio di scoperte rivoluzionarie e ben presto i dibattiti che ne seguirono si diffusero in tutto il territorio europeo (5). Gli scontri si fecero via via più accesi a seguito soprattutto della dichiarazione circa la natura composta dell’acqua avvenuta nel 1784 e videro il formarsi di due opposti partiti: da una parte stavano i sostenitori del flogisto e, dall’altra, stavano i nuovi chimici ben presto organizzatisi in una vera e propria scuola di pensiero, o coterie lavoisierienne. “Eccoci dunque d’accordo. Tutta questa famosa disputa è terminata e si riduce a una querelle di nomi. Si sostituisce il termine calorico combinato con quello di flogistico o principio infiammabile” (6). Le polemiche si esaurirono soltanto ai primi dell’Ottocento (7) con l’affermazione della chimica antiflogistica che, forte dei risultati sperimentali, si proponeva come scienza distinta dalla letteratura naturalistica sancendo in tal modo una distanza abissale rispetto alle altre tradizioni settecentesche. Lavoisier aveva imposto un aut aut a cui nessun savant poté sottrarsi: la Natura, organica ed inorganica, può esser sottoposta ad analisi quantitativa i cui risultati, non ottenibili altrimenti, permettono l’avanzamento delle conoscenze. E’ dunque evidente che i dibattiti fra le varie comunità europee non coinvolsero solamente i chimici tradizionali e i fisici, ma anche i medici, i naturalisti, i filosofi naturali in genere. Secondo la nuova chimica, i fenomeni organici potevano essere compresi a prescindere dalla postulazione di un principio vitale (o causa della vita) perché studi quantitativi avevano dimostrato che il sistema animale rinnova il calore interno per mezzo di lente combustioni. Paragonando il calore sprigionato dalla combustione del carbone con 21 la quantità di aria fissa (acido carbonico) che si forma in questa combustione, si ha il calore sviluppato nella formazione di una quantità di aria fissa; se si determina inoltre la quantità di aria fissa che un animale produce in un certo tempo, si avrà il calore che risulta dall’effetto della respirazione sull’aria; non si tratterà che di paragonare questo calore con quello che intrattiene il suo calore animale e che misura la quantità di ghiaccio che fonde all’interno delle nostre macchine; e se, come abbiamo trovato nelle esperienze precedenti, queste due quantità di calore sono quasi le stesse, si può concludere direttamente e senza ipotesi che è al cambiamento dell’aria pura in aria fissa per mezzo della respirazione che è dovuta, almeno in grande parte, la conservazione del calore animale (8). Questa nuova immagine del vivente, corpo combustibile che si conferma vivo per continue combustioni organiche, offriva una valida alternativa alla crisi nella quale versava la storia naturale: il naturalismo di fine Settecento risulta infatti caratterizzato perlopiù da speculazioni miranti a di- J. B. Lamarck, Confutazione della teoria stinguere la vita dal resto del mondo inanimato con la pneumatica conseguenza che i vari tentativi di definizione dell’organizzazione caratteristica dei corpi viventi si risolvevano in dispute vane sulla sua natura. Che cos’è dunque l’organizzazione? (9) Nel 1801 il medico parigino Pierre Jean Georges Cabanis (1757-1808) lesse ai colleghi dell’Accademia scientifica la decima memoria dei suoi Rapporti sul fisico e il morale dell’uomo, opera dedicata alla ridefinizione della Scienza dell’uomo in una sorta di Antropologia. Vi si legge che l’organizzazione caratteristica della vita si spiega coi principi della nuova Chimica ovvero come l’emergenza naturale di una specifica convergenza materiale: Forse oggi non proveremmo alcun stupore se le esperienze finissero per dimostrare che sono sufficienti alcune porzioni di materia, in un certo determinato stato, in contatto diretto per produrre esseri viventi dotati di certe proprietà particolari: proprio come un acido e una base alcalina, o terrosa, posti in contatto in uno stato favorevole alla loro combinazione formano un nuovo prodotto (10). Alla fine del Settecento la chimica lavoisieriana offriva un modello di spiegazione estraneo alla meccanica e al vitalismo e soddisfacente la complessità organica: non è un caso, dunque, se Erasmus Darwin (1731-1802), nonno di Charles, compose tra il 1794 e il 1796 un’opera di filosofia naturale intitolata Zoonomia, or, the Laws of organic Life nella quale il processo di generazione e di differenziazione embrionale sono spiegati per analogia ricorrendo alla logica delle composizioni chimiche. Se potessi abbandonarmi ad una similitudine in un lavoro filosofico, direi che le appetenze animali sono forse inizialmente meno numerose delle affinità chimiche, ma alla pari di queste ultime si modificherebbero ad ogni nuova combinazione: l’aria vitale e l’azoto combinandosi producono acido nitroso il quale acquista in tal modo la proprietà di sciogliere l’argento; analogamente io suppongo che a mano a mano 22 che nell’embrione si vanno aggiungendo nuove parti, come trachea o polmoni, vengono prodotte anche nuove appetenze animali (11). Contrariamente al collega Cabanis che aveva individuato nell’analisi lavoisieriana la strada aperta per una riforma della Storia naturale, Jean Baptiste de Lamarck (17441829), il più importante protagonista di questa rifondazione, preferì seguire la strada più tradizionale (12). Nel 1794 il naturalista francese decise di pubblicare un’opera composta ben diciotto anni prima, quasi a sottolineare l’estraneità della Storia naturale dalle recenti scoperte pneumatiche (13). In queste ricerche si sostiene in particolare che la vita è un fenomeno non naturale, dovuto ad un principio inconcepibile e, in quanto dinamica di resistenza alle forze corruttive della Natura, essa risulta investigabile da un punto di vista fisico. A differenza del naturalismo lamarckiano, la filosofia della materia di Lavoisier prescindeva dalla postulazione di principi extra-fisici: i viventi, secondo i nuovi chimici, sono corpi naturali che vengono analizzati nei loro legami con il resto dell’universo fisico. Invece di cercare una risposta all’insolubile “Cos’è la vita?”, Lavoisier aveva preferito indagare le modalità attraverso le quali i fenomeni vitali si conservano. Recuperando una tradizione sperimentale inglese (14) interessata alle analogie fra combustione e respirazione, Lavoisier arrivò a comprendere il processo fisicochimico attraverso il quale la vita, allo stesso modo della fiamma di una candela, si consuma inesorabilmente. Come un pezzo di carbone sottoposto a ripetuti incendi pian piano si volatilizza completamente, allo stesso modo il corpo vivente decompone l’aria che respira e gli alimenti necessari alla sua composizione. La crescita, secondo la nuova chimica della vita, si spiega attraverso specifici passaggi evolutivi e non più per aggiunte posticce di sostanze estranee: Osservazioni fatte sulla respirazione delle uova degli animali mi hanno insegnato che queste uova durante il loro sviluppo assorbono ossigeno; se questo gas manca loro, lo sviluppo è sospeso e questa respirazione, o piuttosto assorbimento d’aria, può essere accelerato o sospeso accelerando o fermando l’affluenza di ossigeno che influisce sullo sviluppo del germe. Le esperienze di William Cruicksank ci insegnano che l’orzo germogliando assorbe l’ossigeno e che questo assorbimento è in ragione dell’evoluzione del germe (15). Anche se Lamarck non riconobbe mai i suoi profondi debiti nei confronti della rivoluzione chimica, l’influenza che queste scoperte e riflessioni esercitarono sulla sua produzione sono evidenti nel passaggio da una concezione meccanico-vitalistica della materia ad una concezione trasformazionale per via di successive emergenze innovatrici: J. B. Lamarck, Filosofia zoologica 23 Come fa la Natura a creare i primi tratti di organizzazione in una data massa dove prima non ce n’erano i segni? (16) Nelle Recherches del 1802 Lamarck cambia decisamente opinione rispetto alla produzione precedente: attenua sensibilmente la distanza fra viventi e non-viventi, accoglie senza imbarazzo la teoria della generazione spontanea per spiegare la nascita dei primi lineamenti di organizzazione, ammette che la vita è un fenomeno naturale. L’adozione, peraltro mai ammessa, del nuovo materialismo scientifico permise al naturalista di sviluppare l’idea lavoisieriana di una Natura resa dinamica da “trasformazioni conservative” nell’originale direzione di una teoria evoluzionistica di tutte le specie viventi. Il genio lamarckiano trovò così la sua originalità nel limitare la generazione spontanea ai soli organismi più semplici e nel definire la varietà delle specie osservabili come il risultato storico di continue trasformazioni di generazione in generazione. La contraddizione che vede Lamarck un antilavoisieriano convinto e insieme il punto di inizio di una nuova scienza biologica (17) (basata sul concetto di organizzazione compreso dall’analisi chimica) si risolve probabilmente con l’ipotesi secondo cui il naturalista, affatto indifferente nei confronti di quella rivoluzione metodologica, abbia ciononostante deciso di continuare ad osservare, collezionare e descrivere teorie intese come una summa di riflessioni generali, ivi comprese quelle derivate da altri pensatori: Un savant célébre (Lavoisier, Chimie, T 1°, p. 202) a dit avec raison que Dieu, en apportant la lumière, avoit répandu sur la terre le principe de l’organisation, du sentiment et de la pensée (18). Per concludere, giova sottolineare che l’aver individuato nella dottrina lavoisieriana il contributo principale alla costruzione di una moderna immagine della Natura in evoluzione creativa non esclude affatto il verificarsi di isolate intuizioni evoluzionistiche ad essa precedenti, ma mira casomai a riconoscere al chimico francese il grande merito d’aver scoperto certe regolarità di trasformazione materiale, comuni al mondo inorganico ed organico. Segue che l’evoluzionismo lamarckiano, lungi dall’esser semplicemente lo sviluppo di preesistenti idee settecentesche, è piuttosto la felice sintesi naturalistica di informazioni in gran parte mutuate dalla nuova analisi chimica. Istituto e Museo di Storia della Scienza, Firenze. Angela Bandinelli Note (1) Vedi Marcelin Berthelot, La révolution chimique Lavisier, Paris, Alcan, 1890; MAURICE DAUMAS, Lavoisier téoricien et expérimentateur, Paris, 1955; HENRY GUERLAC, Lavoisier- The Crucial Year, Ithaca, Cornell University Press, 1961; Ferdinando Abbri, Le terre, l’acqua, le arie. La rivoluzione chimica alla fine del Settecento, Bologna, Il Mulino, 1984; Arthur L.Donovan, The Chemical Revolution: Essays in reinterpretation, «Osiris», 4, 1988; Frederic L. Holmes, Lavoisier and the Chemistry of Life, Madison, University of Wisconsin Press, 1985; Marco Beretta, A New Course in Chemistry, Firenze, Olschki, 1994. Vedi anche il museo virtuale curato da Beretta, Panopticon Lavoisier http://moro.imss.fi.it/ lavoisier (2) Antoine-Laurent lavoisier, Traité élémentaire de chimie, Paris, chez Cuchet Libraire, 1789, 2 voll. (3) Etienne Bonnot de Condillac, La Logique, ou les premiers développemens de l’art de penser (1780), in Oeuvres complètes, Paris, Dufart, 31 voll., 1803; vol. 30. Vedi in particolare, Beretta, The 24 Enlightenment of Matter: the Definition of Chemistry from Agricola to Lavoisier, Canton, Science History Publications, 1993; Maurice Crosland, Historical Studies in the Language of Chemistry, London, Heinemann, 1962. (4) Lavoisier, Traité..., op. cit.; vol. 1, pp. 140-41. La traduzione dal francese è mia e così per le altre citazioni. (5) Ferdinando Abbri, Bernardette Bensaude-Vincent (a cura di), Lavoisier in European Context Negotiating a New Language for Chemistry Canton, Science History Publications, USA, 1995. (6) Jean Claude Delamétherie, De la combustion, in « Observations sur la physique », t. 38, 1791, pp. 394-403: 395-96. (7) Vedi per il dibattito sulla nomenclatura, Pietro Corsi, Il prezzo della politica: ascesa e caduta di una nuova lingua per la scienza 1795-1802, in Marco Ciardi, Franco Giudice (a cura di), Atti del X Convegno Nazionale di Storia e Fondamenti della Chimica (Pavia, 22-25 Ottobre 2003), pp. 203-22 (8) Antoine-Laurent Lavoisier, Pierre Simon Laplace, Mémoire sur la chaleur, in Lavoisier, Œuvres publiées par les soins de S.E. le ministre de l’Instruction publique et des cultes, Paris, Imprimerie Impériale et Nationale, 1862-1893, 6 voll. ; vol. 2, pp. 283-333:332. (9) André De Luc,Vingt-deuxième lettre de M. De Luc à M. Delamétherie, remarques sur différentes origines particulières dans les phénomènes géologiques, 23 Avril 1792, «Observations sur la physique», t. 40, 1792, p. 367 (10) Pierre Georges Cabanis, Rapports du physique et du moral de l’homme, in Oeuvres complètes de Cabanis, Paris, Bossange Frères, Firmin Didot, 1823-1825, 5 voll.; vol. 1, p. 519. (11) Erasmus Darwin, Zoonomia, or, the Laws of organic Life, London, J. Johnson, 1794-1796, 2 voll.; vol. 1, pp. 499-500 (12) Jean Baptiste Pierre Antoine de Monet de Lamarck, Réfutation de la théorie pneumatique, ou de la nouvelle doctrine des chimistes modernes, Paris, chez l’Auteur, Agasse, 1796. Vedi, curato da Corsi, il sito su Lamarck, http://www.lamarck.net (13) Lamarck, Recherches sur les causes des principaux faits physiques, Paris, Maradan, 1794, 2 voll. (14) Robert Frank, Harvey e i fisiologi di Oxford. Idee scientifiche e relazioni sociali, Bologna, Il Mulino, 1983. (15) Victor Michelotti, Expériences et observations sur la vitalité et la vie des germes, « Journal de Physique, de Chimie et d’Histoire Naturelle », Paris, chez Cuchet, t. 9, 1801, pp. 185-94:193. (16) Lamarck, Recherches sur l’organisation des corps vivans, Paris, Maillard, An X, 1802. (17) Lamarck, Hydrogéologie... 1801-1802, Paris, chez l’Auteur, Agasse, An X. (18) Lamarck, Recherches sur l’organisation des corps vivans, op. cit., p. 102. Bibliografia essenziale di riferimento Paolo Rossi, La nascita della scienza moderna in Europa, Roma, Laterza, 1998. Marco Beretta, Storia materiale della scienza. Dal libro ai laboratori, Milano, Mondadori, 2002. Renato Giuseppe Mazzolini , I Lumi della Ragione: dai sistemi medici all’organologia naturalistica , in Mirko D. Grmek (ed.), Storia del Pensiero Medico Occidentale, Roma, Laterza, 1993-1996, 3 vols.; vol. 2, pp. 155-194. Ferdinando Abbri, J. Priestley e A.L. Lavoisier: il diverso significato di uno stesso esperimento, in Silvano Tagliagambe, Antonio Di Meo (a cura di), Scienza e Storia: analisi critica e problemi attuali, Roma, Editori Riuniti, 1980.Abbri , Le terre, l’acqua, le arie: la rivoluzione chimica del Settecento, Bologna, Il Mulino, 1984. Pietro Corsi , The Age of Lamarck. Evolutionary Theories in France 1790-1830, Berkeley, University of California Press, 1988. 25 Dibattito Pietro Omodeo Mi volevo complimentare e volevo fare alcune aggiunte. Erasmus Darwin era molto amico di Priestley, non so valutare fino a che punto le sue idee sulla chimica siano filtrate attraverso Priestley o siano diretto appannaggio da parte di Darwin. Tanto Priestley che Erasmus Darwin a quel tempo erano considerati e credo che si dichiarassero anche giacobini, come oggi dire stalinisti, più o meno. Infatti Priestley ebbe la casa saccheggiata e dovette scappare… Angela Bandinelli … e Lavoisier fece in modo di mandare a Priestley i soldi perché il laboratorio venisse ricostruito, fu un modo per riavvicinare i due. Priestley dovevo citarlo perché era forse uno dei più grandi sperimentatori, ma l’approccio non era quello lavoisieriano, era un approccio metodologico completamente diverso. Pietro Omodeo Storicamente io posso aggiungere solo questo dato: allora come adesso, le tendenze politiche e ideologiche pesavano molto anche nella presentazione e nella accettazione dei dati di laboratorio, dei dati scientifici e Lavoisier è considerato dall’estrema sinistra rivoluzionaria come uno sfruttatore del popolo e c’è quella parte estremamente patetica di Lavoisier che vede crollare il modo intorno a sé, il mondo di un fermier ricco a miliardi e miliardi, che aveva potuto finanziare la cinta daziale e torna a Parigi, e lui come uomo intelligente percepisce questa posizione di pericolo estremo e finanzierà addirittura due grosse città che ora non ricordo quali siano, senza interessi, perché provvedano ad alimentare la popolazione. Angela Bandinelli E’ stato anche rappresentante del terzo stato, prima del terrore, per cui non si capisce tanta ingenuità, l’ingenuità probabilmente si giustifica con il fatto che egli credeva di essere compreso come uno dei più grandi fautori della repubblica e quindi dell’avvento della democrazia e che quindi lo potessero risparmiare, però era troppo compromesso. Comunque Lavoisier era un borghese ma era anche facoltoso di famiglia e il laboratorio più all’avanguardia d’Europa, cioè quello costruito da lui all’Arsenale i cui strumenti Beretta ha quantificato per oltre 100 mila degli attuali euro, conservati ora a Parigi, è stato costruito probabilmente anche con i soldi che Lavoisier riceveva come fermier. Però, ce ne fossero oggi persone che investono così il denaro! Pietro Omodeo Su questo non c’è dubbio questa però è una visione un po’ moderna, il popolo francese allora non faceva queste riflessioni. Angela Bandinelli Io non voglio fare la difesa di Lavoisier da questo punto di vista, però nel 1789 scrisse queste cose, perché c’era un dibattito in corso, e contemporaneamente promuoveva, prese anche posizione nei confronti del nuovo corso, ciò nonostante ci rimise la testa perché erano anni e anni che era una delle autorità più importanti della ferma nazionale. 26 Pietro Omodeo Anche il suocero era un grande fermier e fu ghigliottinato con il genero. E’ commovente come percepisca la propria posizione di pericolo estremo e cerchi di rimediare e scrive anche, nell’imminenza del processo “io mi ritirerò in campagna, farò il farmacista, camperò di quello che renderà il mio lavoro manuale e intellettuale”. Certamente è un personaggio che merita molto. Angela Bandinelli Volevo sottolineare che è anche un grande filosofo. Io sono stata recentemente al Max Planck: i fisici lo considerano un chimico e i chimici lo considerano un fisico, insomma è uno sfortunato, io mi sono veramente stupita di questa cosa quindi ho rivendicato questa dimensione di un grande al pari di un Newton, o di un Leibniz, per cui dovrebbe entrare nei manuali di Storia della filosofia perché c’è filosofia nell’opera di Lavoisier. E’ un autore che ha lasciato tantissimi scritti, quindi ci vorrà tempo per affrontarne tutta l’opera, anche perché è un po’ faticoso, come quando fa le considerazioni relative al passaggio dall’aria pura al fluido igneo. Holmes, un grande studioso di Lavoisier, ha definito l’emergenza di questa carriera scientifica come l’imbarazzo di uno scienziato che, come si può leggere dalle note di laboratorio, prima prende posizione più vicine a Priestley, poi verso Sheley, quindi la sua è una carriera in fieri che non è così, ipso facto, delineabile. Comunque questa è una cosa importante da sottolineare, è un grande filosofo. Pietro Omodeo Quello che gli ha nociuto è stata la santificazione dopo la ghigliottina. Santificare non giova mai alle persone. Angela Bandinelli Poi i nazisti hanno pensato bene di buttarne giù la statua a Parigi, proprio intenzionalmente e c’è stata ora la riappacificazione Germania-Francia perché al Deutch Museum hanno messo tra tutti gli scienziati tedeschi anche il busto di Lavoisier. C’è stata proprio a settembre dell’anno scorso la proclamazione di questa pacificazione GermaniaFrancia a memoria di questo senso di colpa legato al busto di Lavoisier. Se si leggono le riviste specializzate relativamente al dibattito a seguito della natura composta dell’acqua, si nota che Priestley fino all’ultimo pensava che l’acqua precipitasse dalla rottura delle molecole d’aria, cioè che l’acqua fosse contenuta come altre sostanze nelle molecole d’aria, aveva dunque una concezione del composto come aggregazione. In lui non c’è assolutamente l’idea del mutamento chimico, che è lavoisieriano ed è proprio della chimica moderna, l’approccio di Priestley è di somma e sottrazione della quantità di materia in gioco, infatti egli spiegava tutto con il flogisto, c’è in lui un approccio di ordine meccanico. Io sono più propensa a pensare che Erasmus Darwin si fosse ben accorto delle discussioni che stavano incendiando l’Europa, era ormai evidente, alla fine degli anni ’90, che le cose si stavano sfrangiando e l’affermazione della nuova chimica era cosa fatta forte dei risultati sulle probabilità delle ipotesi. Un collega Una considerazione a fronte dell’importanza e dell’influenza di Lavoisier che emerge da questa relazione: credo che gran parte di noi insegnanti abbia di Lavoisier soltanto la citazione del principio di Lavoisier e, per quanto mi riguarda, io ho intuito l’importanza di Lavoisier indirettamente, leggendo un libro in cui due astronomi si 27 riferiscono alla situazione parigina e all’esperienza di Lavoisier nel campo della Scienza oltre che del governo. Mi domando: a scuola chi si deve occupare di questi personaggi la cui influenza nella scienza è indiscutibile, perché io sarei un po’ preoccupato che Lavoisier trovasse posto in un manuale di Storia della Filosofia. Angela Bandinelli Deve stare anche nei manuali di storia della Filosofia, ma senza toglierlo dai manuali di Fisica e di Chimica. Se siete interessati, ne parlavamo prima con il Prof. Omodeo perché è stata una delle discussioni al Max Planck; è noto che Lavoisier nel Trattato elementare di chimica, pone il calorico come elemento nella tavola delle sostanze ma vi pone anche la luce. Nella Memoria sul calore del 1783 scritta in collaborazione con il matematico Laplace, il calore viene definito come forza di resistenza alla gravità, vis viva, forza viva; intenzionalmente si decide di uscire dall’ottica newtoniana per cui la f = m · a e si definisce secondo l’ottica leibniziana il calore come mv2: è una intuizione che prelude a tutto un discorso di discipline ottocentesche, sono intuizioni, però in questa memoria sul calore, che è celeberrima e non è per niente facile da leggere, ci sono intuizioni di ordine filosofico che preludono a tutta la scienza ottocentesca, e siamo nel 1783, quindi che il calore sia una forza e non sia materia viene stabilito come ipotesi e richiamato nel Trattato elementare di chimica. Dice Lavoisier: “Non importa supporre che il calore sia materia, usciamo dalle discussioni circa la natura, a noi interessa misurare gli effetti o le quantità di calore”; siamo in un’ottica moderna che è assolutamente sconosciuta nelle tradizioni della Chimica e della Fisica settecentesche; quando nella prima memoria, nella Memoria sulla respirazione degli animali dice “Si potrebbe misurare ciò che c’è di meccanico nel lavoro di un filosofo che riflette”, cioè il corpo viene considerato come un laboratorio di operazioni chimiche, non più come una macchina, come si diceva stamattina, di ingranaggi i cui elementi hanno le stesse caratteristiche della macchina generale, c’è un senso di progressione, di interrelazione, c’è una tradizione assolutamente moderna. Altro intervento C’è qualche rapporto con Carnot? Ha detto che meno conosciuto è l’antagonismo con Senebier (?) Angela Bandinelli Sono i miei studi infatti, Joule, l’equivalente meccanico del calore; Senebier si convertì; io ho ricostruito il dibattito nell’ordine dei giorni attraverso le riviste scientifiche, è una cosa assolutamente esaltante vedere come questi scienziati ad uno ad uno cadessero in crisi e poi davanti alle discussioni mollassero; Priestley è uno di questi, che alla fine dice: “Ma ci sono esperimenti che possono dimostrare che l’acqua è l’una e l’altra cosa” cioè che l’acqua non sia un precipitato delle molecole d’aria ma che sia un prodotto derivato dai due gas, cioè piano piano scivola nell’accettazione dell’evidenza dei fatti sperimentali. Nella memoria sul calore quando arrivano a trattare la sezione combustione e respirazione alla fine si dice “ Siamo arrivati a capire che cosa è che conserva la vita e senza ipotesi” dice Lavoisier, si riferisce senza ipotesi del principio vitale, senza ipotesi del flogisto, cioè siamo arrivati a quantificare il rinnovamento delle funzioni vitali. Questi due scienziati hanno congegnato una macchina, il calorimetro a ghiaccio nato dall’idea di mettere un topolino dentro una sfera di ghiaccio concava e lasciato lì in ottime condizioni di salute per una decina di ore; poi il ghiaccio si scioglieva per evidente emissione calorica e l’acqua raccolta era secondo loro la misura della forza viva usata dal topolino per rinnovare la sua temperatura. Siamo quindi in un’ottica 28 assolutamente ottocentesca tramite questo tipo di analisi. Poi c’è tutto il discorso della introduzione dell’analisi matematica, delle equazioni lineari. Lavoisier aveva bisogno di un matematico che traducesse in una equazione lineare quella che era la sua idea, perché era la tradizione scozzese di Blake, Crawford; anche loro studiavano il problema della conservazione animale; avevano scoperto che due corpi a contatto dopo un po’ di tempo raggiungono la stessa temperatura, raggiungono la temperatura uniforme; per intuito si pensa che il calore vada da uno all’altro, giustamente; dopo un po’ di tempo si raggiunge l’equilibrio. Nella Memoria del calore si affronta lo stesso esperimento con un altro approccio; dice Lavoisier: “Siccome si suppone che il calore sia costante in un sistema di corpi allora la forza viva persa dall’uno è uguale alla forza viva acquisita dall’altro”; ecco l’equazione che poi dà una x che è il calore specifico e che mi permette con il metodo sperimentale e il calorimetro di avere valori di calore specifico. Altro intervento Una precisazione, a proposito delle molecole di acqua di Priestley, vorrei sapere se il termine esatto è molecola d’acqua o altro. Angela Bandinelli Molecule, sì, non con l’accezione della molecola ottocentesca, però si trovano questi termini come atomi ecc. ma da storica della scienza devo dire che anche se i termini sono gli stessi, nell’arco di pochi anni i significati cambiano inesorabilmete, per cui vanno sempre contestualizzati. 29 L’attualità di Darwin M ARCELLO B UIATTI Premessa Credo che sarebbe sbagliato e anche in parte controproducente affrontare il problema della eliminazione dello studio di Darwin e della sua opera dalle scuole patrie solo schierandoci in difesa dei valori laici e della svolta in questo senso che il grande evoluzionista ha determinato nel modo di pensare del Mondo occidentale. Non che non sia giusta questa posizione, in particolare in un Paese in cui per molto tempo e a tratti anche adesso, la Chiesa è stata fonte di idee oscurantiste e contrarie alla scienza. Tuttavia le cose sono molto cambiate da diverso tempo e, almeno in materia di evoluzione, non vi è dissidio sostanziale fra i cattolici ed i laici nell’ammettere che evoluzione vi sia stata salvo magari accentuare da parte dei credenti in questa religione la natura teleologica della storia degli esseri viventi, secondo alcuni tutta mirata alla nascita della nostra specie. Inoltre, trattare la questione in quel modo ci farebbe colpevolmente trascurare del tutto la discussione su Darwin all’interno della scienza e con essa il modo distorto con cui i concetti di Darwin sono stati e sono ancora presentati nei mezzi di comunicazione di massa, nelle scuole ed anche nella Università in nome del neo-darwinismo e della visione meccanica della vita che ne deriva. Secondo me è giunto il momento di tornare a Darwin dopo la ubriacatura positivista derivata dal dogma centrale anche sulla base di una visione materialista ma non meccanica che proprio molti dei nostri laici tendono colpevolmente a dimenticare. Ho sempre creduto che la equivalenza materialismo = meccanicismo sia stata una delle cause di molte delle sconfitte dell’area laica incapace di confrontarsi con i fenomeni dinamici complessi che pure a tanti sono stati sempre evidenti. Certo, la concezione meccanica, primo risultato della applicazione vincente del metodo riduzionista allo studio degli esseri viventi, ha avuto grandi e meritati successi e per questo ha dominato la scena della scienza fino a pochi anni fa. Prova ne sia la affermazione a lungo incontrastata del neo-darwinismo della “Sintesi moderna” di Huxley, del Dogma centrale che individua nel DNA l’“invariante” fondamentale” (Monod,1972) che ci determina completamente, della metafora informatica (Buiatti 1998) che identifica gli esseri viventi con un computer dotato di un unico ed invariabile programma. Non a caso infatti i nostri libri di testo identificano Darwin stesso con il neo-darwinismo e per questo lo snaturano in modo consistente. La ragione di questo mio insistere su questo punto sta invece nel fatto che Darwin aveva in realtà anticipato una serie di concetti che nel terzo millennio si stanno prepotentemente affermando e che invece non potevano essere popolari in un Novecento tutto teso ad affermare la onnipotenza degli esseri umani e la loro capacità di predizione totale delle dinamiche, molto rassicurante nei tempi di rivoluzione industriale. Non a caso è proprio la ideologia industrialista che è stata l’antagonista dell’ambientalismo che ha sempre identificato come limite invalicabile l’esistenza di aree di impredicibilità (ignoranza) intrinseca in tutta la natura e in particolare nei sistemi viventi. La divergenza fra Darwin e il neodarwinismo è particolarmente evidente in relazione ai due concetti di indipendenza ed additività dei componenti dei sistemi viventi da una 30 parte, di assenza di effetti significativi dell’ambiente dall’altra. Ambedue i concetti sono perfettamente adeguati alle macchine che infatti sono costituite di componenti indipendenti la cui natura non cambia se sono o no associati fra di loro in un assemblaggio, e il cui progetto, in quel caso di origine umana, non è in alcun modo influenzato dall’ambiente. Le macchine infatti non cambiano progetto durante la loro esistenza (non si adattano) ma possono solo essere degradate (perdere il progetto). Vediamo cosa dice Darwin:E’interessante contemplare una plaga lussureggiante... e pensare che tutte queste forme così elaboratamente costruite, così differenti l’una dall’altra in maniera così complessa, sono state prodotte da leggi che agiscono intorno a noi. Queste leggi, prese nel loro più ampio significato, sono la legge dell’accrescimento con riproduzione, l’eredità che è quasi implicita nella riproduzione; la variabilità per l’azione diretta e indiretta delle condizioni di vita e dell’uso e non uso; il ritmo di accrescimento così elevato da condurre ad una lotta per l’esistenza, e conseguentemente alla selezione naturale, che comporta la divergenza dei caratteri e l’estinzione delle forme meno perfette. Quindi, e qui, come spesso accade, Darwin ha del profetico, Un grandioso e pressoché inesplorato campo di ricerca si aprirà sulle cause e sulle leggi della variazione, sulla correlazione, sugli effetti dell’uso e del non uso, sull’azione diretta delle condizioni esterne e così via. Queste aree di ricerca, che avrebbero dovuto chiarire i temi più importanti per la comprensione completa dei processi evolutivi ancora oscuri al tempo di Darwin, sono state trascurate per moltissimo tempo ma hanno avuto tutte un forte sviluppo in anni più recenti e lo hanno ancora adesso. In particolare per Darwin il tema della correlazione fra parti era di grandissima importanza. Per Darwin infatti: La variabilità è regolata da molte leggi sconosciute, la più importante delle quali è forse quella dello sviluppo correlato. E ancora: Vediamo dunque che nelle piante, molti cambiamenti morfologici possono essere attribuiti alle leggi dell’accrescimento e della interazione fra le parti, indipendentemente dalla selezione naturale... Perciò sono incline a credere che le differenze morfologiche che consideriamo importanti,come la disposizione delle foglie, le divisioni del fiore e dell’ovario, la posizione degli ovuli ecc. inizialmente comparvero in molti casi come variazioni fluttuanti, che prima o poi divennero costanti a cagione della natura dell’organismo e delle condizioni ambientali,come pure a cagione dell’incrocio fra individui distinti, ma non per effetto della selezione naturale. Del resto anche negli animali le correlazioni sono di grande importanza in quanto, Affinché un animale possa acquisire una struttura sviluppata in modo particolare, è quasi indispensabile che diverse altre parti si modifichino e si adattino reciprocamente. Il termine variazione correlata viene infatti così definito da Darwin: Con questa espressione voglio indicare che le diverse parti dell’organismo sono così strettamente collegate durante l’accrescimento e lo sviluppo, che quando compaiono, in qualsiasi parte, leggere variazioni, e si accumulano per selezione naturale, le altre parti subiscono modificazioni. Detto in altri termini, questo sembrerebbe significare che le parti sono in qualche modo vincolate l’una all’altra di modo che una variazione non può essere fissata indipendentemente senza che si ripercuota sulle parti correlate a quella in cui è avvenuta. Ne discende che la correlazione, le cui leggi sono per Darwin misteriose, limita il numero di forme possibili in forza dei vincoli che legano le diverse parti. Queste affermazioni, ripetute più volte negli scritti di Darwin, introducono per la prima volta in Biologia il concetto di non additività degli eventi e cioè il fatto che una modificazione, inserita in un contesto, influisce in zone di questo contesto in cui non è avvenuta ma a cui è legata da una interazione, determinando effetti 31 non interamente prevedibili a partire dalla conoscenza della sua natura al di fuori del contesto. Questo, Darwin non l’ ha detto esplicitamente, ma dalla non additività e dal rapporto evento-contesto di cui si parlava, discende che ci possono essere regole del contesto legate al suo funzionamento che influiscono sulla “accettazione” di modificazioni in un componente prima che il tutto sia sottoposto al filtro finale che è quello selettivo.Ciò significherebbe l’esistenza di una certa “autonomia decisionale” dell’interno rispetto all’esterno, derivante dallo stato delle sue connessioni, dalle loro regole e dall’effetto che una modificazione potrebbe avere sulla vitalità dell’organismo a prescindere, in prima istanza, dalle sue interazioni con l’ambiente. Cito ancora il Darwin della Origine su questo punto: Geoffroy e il vecchio Goethe formularono, quasi contemporaneamente, la legge della compensazione o equilibrio dell’accrescimento ovvero, per usare la espressione di Goethe, per largheggiare da una parte la natura è costretta ad economizzare da un’altra. Per quanto riguarda le possibili interazioni fra ambiente e organismo va detto che Darwin non è mai giunto ad elaborare con chiarezza una teoria definitiva sulla origine della variazione. Nella sua monumentale opera su questo argomento Darwin si mostra infatti dubbioso quando dice: Se noi ci facciamo la domanda, perché questo o quel carattere sia stato modificato allo stato domestico, noi ci troviamo generalmente avvolti in dense tenebre. Molti naturalisti, e soprattutto quelli della scuola francese, attribuiscono quelle modificazioni al monde ambiant, ossia al cambiamento del clima con tutte le sue differenze di temperatura, di umidità e di siccità, di luce ed elettricità, alla natura del suolo e alla diversa qualità e quantità di nutrimento. Prosegue poi nel capitolo finale: Quantunque ogni modificazione debba avere la sua causa determinante, ed essere sottomessa ad una legge, noi possiamo così raramente intendere la relazione fra causa ed effetto che siamo portati a parlare delle variazioni come sorte spontaneamente. Noi possiamo chiamarle anche accidentali, ma nel senso soltanto che noi diamo al termine, dicendo, per esempio, che un frammento di roccia cadendo da una altezza deve la sua forma al caso. Questo non per dire che Darwin fosse lamarckiano ma per riaffermare che era ben cosciente che l’organismo, nella dinamica della sua struttura-funzione, è il risultato di una continua interazione fra interno ed esterno. Neodarwinismo fra additività e interazione Come è noto, la nascita della Genetica, avvenuta con la “riscoperta” delle leggi di Mendel, all’inizio del ’900, introdusse all’inizio elementi di pesante conflittualità nel dibattito sulla dinamica dei processi evolutivi. Dagli esperimenti di Mendel e dei suoi riscopritori, infatti, il patrimonio ereditario degli individui sembrava essere paragonabile ad un “sacco di fagioli” (Mayr), insieme di elementi discontinui non collegati, ad azione del tutto additiva, che si distribuivano a caso di generazione in generazione. Non a caso, Hugo de Vries, l’unico dei “riscopritori” a trarre delle conseguenze teoriche da questa visione, praticamente rifiutava gran parte del darwinismo e attribuiva l’evoluzione alla fissazione casuale di varianti (le mutazioni), negando il ruolo determinante della selezione e con esso anche le altre leggi delle variazioni.Il dibattito fra i mendeliani e i darwinisti puri della scuola di Galton fu accesissimo sia sulla alternativa fra caso (le mutazioni, l’assortimento) e la necessità (l’adattamento selettivo) che su quella fra discontinuità e continuità fino a quando il nascente neodarwinismo non costruì un 32 compromesso ritenuto, allora almeno, sufficiente. Secondo questo compromesso, come è noto, sia il caso (la cosiddetta deriva genetica e la mutazione) che la selezione hanno un ruolo nell’evoluzione e la continuità della distribuzione dei valori dei caratteri cosiddetti quantitativi come il peso, l’altezza ecc.) deriva da una somma di piccole discontinuità mendeliane sulla cui espressione influisce, a confondere ancora più le cose, l’ambiente. Il compromesso in questa sua prima versione non riguarda il problema della additività dei fattori, poco rilevante per gli oppositori del mendelismo che erano soddisfatti della interpretazione dei caratteri quantitativi e del fatto che anche l’evoluzione era interpretabile come un continuo succedersi di eventi piccoli e discontinui, evitando così il problema dei “salti” evolutivi introdotti dal solo DeVries. E infatti la genetica di popolazione, base della interpretazione neo-darwiniana della evoluzione, si fonda su estrapolazioni a n geni del comportamento probabilistico di un gene o meglio delle sue diverse forme (alleli) compresenti nelle popolazioni. Tutto deriva infatti dallo studio classico di un gene che possiamo indicare con la lettera a che ha due sole forme alleliche (A e a) a frequenza rispettivamente p e q negli individui di una popolazione, per cui i genotipi possibili, dato che ogni individuo ha due e due sole copie di un gene, saranno AA (frequenza p2), aa (frequenza q2), Aa (frequenza 2pq). Nel processo evolutivo, molto sinteticamente, la frequenza p tenderà a salire se l’allele A conferisce vantaggio selettivo e quindi maggiore capacità riproduttiva all’individuo che lo possiede nel suo genotipo mentre q salirà nel caso opposto. Questa la versione classica proposta dai fondatori della genetica di popolazione S. Wright, R. A. Fisher, J. B. S. Haldane e in particolare dal secondo di essi che fu anche quello complessivamente più rigido nel sostenerla. Le cose sono poi parzialmente cambiate nel senso che i dati sperimentali e il sorgere di sub-teorie derivate dal neodarwinismo hanno imposto aggiustamenti anche di non poco conto. Il primo di questi è derivato dalla scoperta, fatta quasi contemporaneamente da genetisti vegetali ed animali che si occupavano del miglioramento genetico delle specie domesticate, che gli individui che possedevano contemporaneamente due alleli diversi di molti geni (gli “eterozigoti” del tipo Aa, quindi) tendevano di per sé ad essere più vigorosi e quindi avvantaggiati. In questo caso, quindi, si era di fronte ad una interazione che determinava un effetto diverso da quello previsto dalla somma degli effetti dei due componenti presi a sé. Giova notare che il vantaggio selettivo dell’eterozigote tende a stabilizzare p e q e cioè verso p=q = 0,5, aumentando, a differenza della selezione naturale per uno degli alleli, l’ entropia del sistema per quanto riguarda le frequenze dei singoli alleli. La questione cambia se, invece, consideriamo i genotipi nel loro complesso, in quanto combinazioni di alleli di molti geni. In questo caso, il vantaggio selettivo delle combinazioni eterozigoti alza la probabiità di queste rispetto a quelle “omozigoti” (con i due alleli uguali) e in questo senso riduce l’entropia dei genotipi nel loro complesso. Si è visto poi che l’effetto dell’eterozigosi, detto “eterosi”, è essenzialmente dovuto ad una maggiore capacità di mantenere costante la strutturafunzione dell’organismo in presenza di variazioni ambientali. A questo tipo di “omeostasi” del fenotipo corrisponde una omeostasi genetica che è appunto data dalla tendenza a stabilizzare le frequenze alleliche della popolazione come ha discusso 33 approfonditamente I. M.Lerner nel suo famoso libro del 1954 intitolato appunto Genetic Homeostasis. Mentre questo avveniva, del resto, stavano nascendo la genetica biochimica e quella molecolare e cominciavano ad arrivare le prime dimostrazioni di interazione fra prodotti di geni diversi e fra i geni stessi. Si giunge così, alla fine degli anni ’70-inizio anni ’80 alla enunciazione del concetto di “paesaggio genetico”(genetic landscape), introdotto dal vecchio Sewall Wright che può anche essere chiamato, come lo ha chiamato molto dopo Stuart Kauffmann, “paesaggio di adattabilità” (fitness landscape ove per fitness si intende la capacità riproduttiva differenziale di individui con un determinato genotipo). Per capirci, diciamo che lo “spazio dei genotipi” è dato da tutti i genotipi possibili in una popolazione di un organismo. La genetica dei caratteri quantitativi e le correlazioni Come ho accennato precedentemente, i “compromessi” neodarwiniani fra darwinismo e genetica furono due. Il primo, ora discusso, verteva sulla teoria evolutiva, il secondo interpretava in termini mendeliani la variazione continua, quella dei caratteri detti quantitativi. La continuità, come si è detto, risultava dalla somma di molti cambiamenti numerici discontinui e dall’azione dell’ambiente sulla espressione dei geni relativi.Per la prima volta veniva così introdotto esplicitamente il concetto che il fenotipo è in realtà il derivato della interazione fra genotipo ed ambiente e non riflette quindi solo il primo come sembrava apparire dalla genetica mendeliana. La genetica dei caratteri quantitativi che nacque su questa base di principio, ha elaborato poi una serie di strumenti di calcolo statistico anche molto raffinato che permettono di valutare numericamente l’impatto relativo del genotipo e dell’ambiente sulla quantità e struttura della variabilità esistente in una popolazione. Dato che molti dei caratteri quantitativi hanno importanza per la produzione agricola sia animale che vegetale, è di facile comprensione il fatto che lo sviluppo di questa branca sia stato promosso da allevatori e coltivatori e sia stato in gran parte opera dei selezionatori (plant and animal breeders). Questi si sono subito dovuti confrontare con le darwiniane variazioni correlate in quanto si è osservato che selezionare per un carattere quantitativo poteva portare a modificazioni nella distribuzione dei valori di un altro, magari in modo imprevisto. Per questo sono stati elaborati metodi statistici che hanno permesso di valutare la stretta correlazione esistente fra diversi caratteri di una stessa popolazione permettendo anche in questo caso una analisi dell’importanza relativa della componente genetica e di quella non ereditaria. Si è potuto osservare così che il genotipo agisce in modo fortemente concertato, almeno per quanto riguarda questo tipo di caratteri, formando una fitta rete di correlazioni più o meno strette (il “coefficiente di correlazione” va da 0 ad 1 ed è 1 nel caso di completa linearità della corrispondenza dei valori di due parametri correlati). L’interpretazione della quota genetica delle correlazioni è qui sviluppata sulla base dell’ipotesi che gli alleli dei molti geni coinvolti nella determinazione dei valori di un carattere quantitativo (si parla appunto di sistemi “poligenici”), diano ognuno un contributo numerico più o meno alto alla determinazione dei valori di quel carattere in una popolazione. Una correlazione positiva fra due caratteri vorrà quindi dire che ad alte frequenze di alleli con contributo positivo per un carattere corrispondono 34 elevate frequenze di alleli con lo stesso tipo di effetto anche per l’altro e che lo stesso avviene per quanto riguarda i contributi che fanno abbassare la media in tutti e due i casi.Tutto questo significa, di nuovo che le distribuzioni degli alleli dei geni per i due caratteri sono tanto più vincolate quanto più alta è la correlazione. E’ evidente in ogni modo che da tutto questo appare chiara l’esistenza di un qualche ordine interno fra i geni che influiscono su questi caratteri relativamente complessi, di cui il selezionatore non può non tenere conto. Il risultato potrebbe infatti essere globalmente negativo se, selezionando per i valori positivi di un carattere, ci si “portassero dietro” i valori negativi di un altro, al primo correlato, e magari di uguale o maggiore importanza. Si può allora anche dire, darwinianamente, che, se questa è una modalità di comportamento dei corredi genetici per quanto riguarda la selezione artificiale, lo dovrebbe essere anche per quella naturale. In altre parole anche quest’ultima non potrebbe scegliere qualsiasi combinazione di geni ma sarebbe in qualche modo vincolata, nelle scelte, dalla esistenza di correlazioni. Conviene qui ancora considerare, per quello che implica per il ragionamento generale che sto cercando di sviluppare, che l’esistenza stessa di un vincolo di correlazione è fuori dal concetto di pura additività delle azioni geniche. Possiamo allora ricordare che è stata proprio la genetica dei caratteri quantitativi che ha elaborato metodi statistici per la analisi del fenomeno della eterosi, di ovvia, grande, importanza applicativa fino a permettere la valutazione in termini numerici del contributo alla eterosi stessa della componente additiva e di quella non additiva (la cosiddetta “abilità combinatoria specifica”). La suddivisione fra queste due componenti del resto è calcolabile numericamente mediante l’uso di una serie di metodi avanzati di scomposizione della variabilità dei caratteri quantitativi e comprende la stima sia delle interazioni fra alleli che di quelle fra geni (la cosidetta “epistasi”) che sono ambedue considerate sempre presenti come del resto lo è la componente non additiva della interazione con l’ambiente. Questa è un’altra quantità di variabilità di grande importanza che tiene conto del fatto che i diversi genotipi reagiscono diversamente a variazioni ambientali uguali dando ancora una volta risultati non interamente prevedibili sulla base della sola conoscenza degli ambienti e dei genotipi non interagenti. Ordine e processi di sviluppo Come ho accennato precedentemente, il concetto della esistenza di vincoli derivanti dalla interazione non additiva fra le parti, che riducono la libera azione della selezione naturale da parte dell’ambiente, è presente in Darwin e nella stessa genetica di caratteri quantitativi di derivazione neodarwiniana. Questa anzi giunge fino a valutarne numericamente l’impatto relativo, ma nonostante questo il concetto della indipendenza dei geni e dei caratteri non ne risulta inficiato e continua a permanere in praticamente tutti i testi di genetica di gran parte del Novecento, anche se, naturalmente non nel capitolo specifico dei caratteri quantitativi. Questa strana rimozione di dati e concetti non coerenti con lo spirito del tempo o, se vogliamo, con quella che Kuhn chiamava la “scienza normale”, penso derivasse anche dal fatto che le basi materiali di questi vincoli apparivano allora poco chiare ai genetisti ed agli evoluzionisti e che, nonostante 35 tutto, il modello additivo è nettamente più facile da analizzare ed era predominante in una Biologia che sembrava aver trovato nel funzionamento della macchina molecolare basata sul DNA la chiave per una interpretazione completamente meccanica e quindi additiva della vita. Sono non a caso gli embriologi ed in genere i biologi dello sviluppo e non i genetisti puri che invece si accorgono della difficoltà di comprendere su questa base i processi dinamici complessi della differenziazione cellulare che portano alla formazione dell’organismo intero dalla sola cellula uovo fecondata ed allo svolgersi del ciclo vitale. Sono ancora soprattutto alcuni biologi dello sviluppo che si accorgono del fatto apparentemente banale che l’evoluzione è fatta da un susseguirsi di cicli vitali e che quindi le regole di questi ultimi, se ve ne sono, possono essere utili anche per interpretare la dinamica evolutiva. Se vogliamo, la domanda fondamentale che molti si pongono è, innanzitutto, come possa, da un uovo indifferenziato, iniziare un processo che dura tutto un ciclo vitale, in cui si crea continuamente ordine ed un ordine con una storia, attraverso la ingestione e la eliminazione di materia non ordinata dall’esterno e di energia, e come parte di questo stesso ordine possa essere trasmesso di generazione in generazione. Conrad Hal Waddington, insieme genetista, biologo dello sviluppo ed evoluzionista, è stato probabilmente il primo a tentare una reale unificazione fra biologia dello sviluppo e genetica evoluzionistica sottolineando il fatto, ovvio, ma fino ad allora essenzialmente trascurato, che ad essere oggetto di selezione non è mai direttamente il genotipo ma il fenotipo, l’organismo nella sua interezza, per cui la storia vitale di questo deve essere tenuta presente nello studio della storia della vita nel suo complesso e cioè della dinamica evolutiva. Si tratta allora di studiare l’epigenesi e cioè l’insieme degli eventi che avvengono durante un ciclo vitale e che comportano per Waddington una progressiva acquisizione di informazione non contenuta nel genotipo ma derivante dalla interazione fra questo e l’ambiente. La dinamica della forma-funzione di un organismo risente tanto delle regole di coerenza del fenotipo da avere un continuo comportamento omeostatico o meglio,”omeorretico” nel senso che si mantiene coerente con sé stessa rispondendo alle variazioni ambientali ed interne con sistemi di “riparo”del cambiamento, ma contemporaneamente scorre utilizzando un fascio relativamente ampio di possibilità date, di nuovo, dalla interazione storica fra genotipo ed ambiente. Si può così individuare un “paesaggio” epigenetico concettualmente parallelo a quello genetico di cui si è parlato precedentemente, dato proprio dallo spazio di possibilità dell’organismo. La struttura di questo paesaggio, discussa ed elaborata da Waddington in stretta collaborazione con l’amico matematico René Thom, si può rappresentare come un insieme di valli (minimi) e di monti fra di esse. Un organismo quindi, allo stato di uovo, ha davanti a sé tutto il paesaggio possibile e, quando parte, il suo cammino si muove cercando, per quanto gli è permesso, di mantenersi in condizioni ottimali e cioè nei minimi. L’ambiente e la sua storia tendono quindi a influenzare il percorso che va avanti per scelte successive e quindi per successive “canalizzazioni” che comportano una progressiva perdita di gradi di libertà. In tutto questo i geni funzionano come un insieme tanto concatenato da far sì che, non essendo tutte le combinazioni necessaria36 mente compatibili con le regole armoniche del fenotipo, non tutte saranno possibili. Sul piano evolutivo questo significa che da un minimo non ci si potrà sempre muovere, nel paesaggio genetico, ad una posizione immediatamente vicina che potrebbe essere, appunto, incompatibile, ma si dovrà in alcuni casi “saltare” ad un nuovo equilibrio funzionale (un nuovo minimo) anche relativamente distante. Si verificherà quindi un evento “catastrofico” alla Thom, di passaggio da una forma, funzione ad un’altra nettamente diversa. In tutto questo, naturalmente, il ruolo della selezione naturale resta determinante ma non libero dai vincoli che derivano dalla struttura e dalle interazioni fra gli elementi che compongono il fenotipo. E’ in questo senso che Waddington invitava ad elaborare un nuovo paradigma dello sviluppo e della evoluzione, il “paradigma fenotipico”. Nonostante la costante presenza di una linea di pensiero che contestava anche pesantemente la antica visione del genotipo come somma di geni indipendenti che funzionano in modo totalmente deterministico, per lunghissimo tempo ha avuto partita vinta la visione neo-darwinista di Fisher, molto più coerente delle altre con quello che sembrava emergere dalla rivoluzione molecolare che, sfruttando la potente semplificazione del metodo riduzionista, sembrava aver risolto ogni problema. E’ stata poi questa la concezione che è durata di più e prevale tuttora non solo nei mezzi di comunicazione di massa ma anche nei libri di testo delle scuole ed anche in parte di quelli per la Università. La codificazione definitiva in termini moderni del determinismo in Biologia è stata in realtà introdotta da un fisico, Erwin Schrödinger. Questi, nel 1944, precorse di fatto la Biologia molecolare prevedendo la esistenza di una macromolecola in cui, secondo un codice preciso, sono scritte le indicazioni per tutti i caratteri degli esseri viventi. Per cui, diceva Schrödinger, “se si potesse leggere l’uovo si conoscerebbe la gallina”. Coerentemente con la previsione di Schrödinger, nel 1953, James Watson e Francis Crick scopersero la struttura del DNA che era stato poco prima individuato come la “molecola informazionale” e nel 1958, ad opera di Crick, apparve su NATURE un articolo dal titolo illuminante Il dogma centrale della Biologia molecolare. In questo articolo l’autore, sulla base dei dati derivanti da una serie di brillanti lavori sperimentali, affermava che l’informazione genetica, scritta nell’alfabeto a quattro lettere del DNA, viene trascritta senza possibilità di errore in un alfabeto simile nella molecola dell’RNA (acido ribonucleico) e poi tradotta nella lingua a venti lettere delle proteine, gli strumenti della vita, le macromolecole fondamentali per la nostra struttura ed il nostro metabolismo dalla nascita fino alla morte. Questo significa in parole povere che: a) i geni e cioè gli elementi ereditari sono fatti di DNA e le loro funzioni sono “scritte” su questo; b) ogni gene specifica una funzione indipendentemente dagli altri; c) quello che è scritto sul gene non è ambiguo e determina in tutto e per tutto il carattere; d) essendo i geni separati e non interattivi noi siamo completamente dati dalla somma dei nostri geni ; e) se leggiamo il DNA correttamente conosceremo e saremo in grado di predire perfettamente e compiutamente la nostra vita, morte e miracoli e se ne modifichiamo una parte secondo un nostro progetto le conseguenze saranno completamente prevedibili; f) la nostra storia di vita non conta nulla perché è completamente determinata all’inizio. 37 I sistemi viventi secondo questa concezione, sono, come disse nel 1971 Jacques Monod in un famoso libro, determinati dal caso e dalla necessità. La componente casuale era data dalle mutazioni (cambiamenti da una variante ad un’altra dei singoli geni e dall’assortimento casuale dei geni e degli alleli ad ogni generazione; la necessità dal DNA, chiamato da Monod non a caso lo “invariante fondamentale”, rigido e preciso determinante di tutti i sistemi viventi. Queste affermazioni, come il lettore avrà compreso, sono estremamente simili a quelle di Laplace se sostituiamo la vita all’Universo e noi esseri umani al suo “demone”. Secondo questa concezione gli esseri viventi si distinguono dal resto della materia solo per il meccanismo riproduttivo che trasmette di generazione in generazione il codice della vita. L’ambiente al massimo entra in tutto questo solo come giudice esterno che sceglie quelli che hanno avuto la fortuna di avere ricevuto i DNA migliori e sono quindi in grado di trasmetterli ad una progenie più numerosa di quella degli altri. La predicibilità da parte dell’uomo è comunque totale e dipende solo dalle sue capacità tecniche di lettura del patrimonio genetico degli organismi. Questa visione della vita è stata poi avvalorata nei primi anni ’60 del Novecento dalla decifrazione del codice secondo il quale la informazione contenuta negli acidi nucleici (DNA e RNA) viene tradotta in proteine e si è mantenuta largamente prevalente fino agli anni ’90 dello stesso secolo, anche se era dagli anni ’70 che si andavano accumulando le cosiddette eccezioni al dogma centrale. Può essere interessante notare che in Fisica il programma di Laplace era andato in crisi molto prima con la meccanica quantistica e poi nella seconda metà del Novecento con gli studi sempre più rilevanti sui “ sistemi complessi” su cui ritorneremo in seguito. Le cose hanno cominciato a cambiare solo negli ultimi decenni del Novecento a causa dell’accumularsi di dati, ottenuti anch’essi con il potente metodo di impostazione riduzionista della Biologia molecolare, che erano in contraddizione con la visione concettualmente derivata dal dogma centrale. In altre parole quella che è stata fortemente messa in dubbio è la cosiddetta “metafora informazionale” che assimila di fatto gli esseri viventi a computer che si auto-costruiscono sulla base di un progetto immutabile trasmesso di generazione in generazione. E’ andata cioè in crisi la versione più recente della “macchinizzazione della vita” (Buiatti, 1998) quando si è andato scoprendo che i sistemi viventi, per restare tali, hanno bisogno non di un programma rigido ma di plasticità, elemento essenziale per la sopravvivenza attraverso l’adattamento. Si parla adesso, con sempre maggiore chiarezza, di “strategie esplorative” e di “evolvibilità”. Con il primo termine si intendono appunto strategie che si basano sulla presenza, nei sistemi viventi, di “generatori di variabilità “ fissatisi durante la evoluzione, che mantengono alto il livello delle diversità fra cui scegliere di momento in momento i varianti più adatti all’ambiente ma anche, ad esempio, alla età ed allo stato del sistema stesso. Con evolvibilità si indica invece la capacità di un dato sistema di cambiare in modo da restare vivente di generazione in generazione. In altre parole un sistema vivente non è determinato interamente da quanto è “scritto” nel DNA dei suoi componenti, cellule, individui, popolazioni, ecosistemi che siano, ma anzi ha bisogno estremo del “disordine benevolo” (Buiatti, 2004) che gli permette di cambiare opportunamente di momento in momento. Come è stato visto anche nel laboratorio 38 di chi scrive, è lo stesso DNA a contenere veri e propri generatori di variabilità sotto forma di sequenze di “lettere” “ipervariabili”. Il DNA infatti, come è noto, non è altro che una sequenza di quattro “lettere” (A,T,G,C) che si susseguono con un ordine non necessariamente casuale. In particolare, le sequenze cosiddette “omogenee” e cioè costituite da ripetizioni dello stesso “motivo” (ad esempio tutte A, o tutte G-C o tutte A-T ecc.) tendono ad essere “fragili” e cioè a rompersi e riarrangiarsi con una frequenza maggiore delle altre. E’ interessante notare che sequenze di questo genere sono spesso presenti in geni che hanno a che fare ad esempio con la risposta a patogeni o in genere a stress proprio perché di fronte ad attacchi non previsti l’organismo ha bisogno di trovare sempre nuove “ armi” che gli permettano di respingerli. Sono anche ricche in zone omogenee le stringhe di DNA che non servono a fare le proteine ma a indicare quando, dove e quanto devono essere prodotte (sequenze “non codificanti” o “regolatrici”). L’importanza dei meccanismi di regolazione, ancora in via di chiarimento, risulta evidente da quanto si è appreso molto recentemente dal sequenziamento di un numero elevato di genomi fra cui quello umano. Queste analisi hanno ulteriormente dimostrato innanzitutto che la differenza fra i sistemi genetici degli eucarioti e dei procarioti è davvero grande. Non tanto però per il numero di geni che è di un paio di migliaia in un batterio e solo poco più di venti volte di più in un organismo complesso come il nostro. Il numero dei geni non sembra essere in alcun modo correlato con i livelli di complessità degli organismi e nemmeno con il numero di funzioni di cui sono capaci. Anche all’interno degli eucarioti infatti il moscerino dell’aceto (la Drosophila dei genetisti) ha circa metà geni di noi e il lievito, che è unicellulare, arriva a poco meno di un quarto. Inoltre moltissimi geni di organismi anche molto distanti dal punto di vista evolutivo sono quasi uguali. Ad esempio i geni nostri e quelli dello scimpanzé o del Bonobo, le due specie di primati che ci sono più vicine, sono praticamente gli stessi, mentre i cambiamenti sono più frequenti nelle zone non codificanti. Ma la scoperta forse più importante degli ultimi tempi è che se guardiamo alla quantità complessiva di DNA per cellula il divario fra noi e i batteri è veramente enorme ma a cambiare è soprattutto il rapporto fra DNA “codificante” (i geni in senso classico) e non codificante. Ebbene noi esseri umani abbiamo in ogni cellula circa tre miliardi di “lettere” mentre i batteri ne hanno da cinquecentomila a 56 milioni. Ne consegue che nei batteri i geni veri e propri, ovvero la porzione codificante di essi (quella che viene trascritta e tradotta in proteine) costituisce circa l’8090% dell’intero genoma mentre nel caso degli esseri umani la quantità relativa di queste sequenze si riduce al 2%. Il resto, di cui si conosceva già la esistenza da diverso tempo, veniva anche chiamato con sprezzo “DNA spazzatura”, ma spazzatura davvero non è in quanto contiene appunto gran parte delle indicazioni per le funzioni di regolazione. Appare quindi ormai evidente che l’aumento di complessità al passaggio fra procarioti ed eucarioti è essenzialmente correlato con l’incremento in sequenze regolatrici che sembrano essere anche responsabili di una parte consistente delle differenze morfofisiologiche fra animali e piante. Entra qui in gioco un complesso di altri meccanismi generatori di variabilità che potrebbero anche essere considerati come la fonte più importante della “ambiguità” dei geni e in genere dei genomi. Ove per ambiguità si 39 intende la capacità dei genomi dei singoli individui di fornire strumenti per la realizzazione di diversi percorsi vitali con la stessa informazione genetica. Si può dire che la ambiguità è possibile: a) modulando in modo concertato la attivazione e inattivazione e la regolazione di combinazioni diverse di geni dello stesso individuo; b) producendo proteine diverse, con funzioni diverse sulla base dello stesso gene; c) modificando in vario modo le proteine prodotte e sfruttando la loro versatilità di funzione. Per comprendere bene come funzionano questi diversi meccanismi di produzione di ambiguità bisogna qui introdurre un altro concetto di base della Biologia contemporanea e cioè quello di comunicazione fra componenti di un sistema vivente. La comunicazione è infatti uno degli elementi fondamentali della vita e si realizza attraverso il riconoscimento fra molecole, cellule, organismi. Il primo, che ci interessa immediatamente, avviene per “complementarietà” delle forme in termini sterici ed energetici. E’ con un meccanismo di questo genere che gli enzimi (le proteine catalitiche) riconoscono i substrati (le molecole che devono trasformare). I substrati infatti si complessano con gli enzimi e poi, una volta trasformati, se ne liberano. E’ così che noi assimiliamo ed eliminiamo, è così che costruiamo tutte le sostanze di cui abbiamo bisogno volta per volta. L’enzima in questa operazione dovrà quindi assumere una conformazione precisa per riconoscere e complessarsi con un substrato. Se la conformazione cambia, quel riconoscimento può non avvenire o, invece, la proteina può riconoscere un altro substrato e servire a produrre un’altra sostanza. Essere capaci di assumere più conformazioni significa quindi anche per singole proteine poter sintetizzare sostanze diverse. Si basano sul riconoscimento fra diversi (in questo caso proteine e DNA) anche i meccanismi di attivazione, in attivazione, modulazione dei geni. I geni infatti vengono trascritti in RNA da un enzima che riconosce il punto in cui la trascrizione del DNA deve avere inizio e poi scorre lungo la stringa abbandonandola ad un punto di termine della lettura. Perché questo enzima si attacchi al DNA, tuttavia, è necessaria la presenza, nella parte a monte del gene, di tutta una serie di proteine che devono riconoscersi fra di loro e riconoscere piccole sequenze del DNA. Su quest’ultimo quindi ci devono essere, nei diversi punti corti “motivi” con una composizione tale da poter assumere una conformazione locale complementare alla porzione della proteina con cui si dovranno complessare. Se quel gene verrà trascritto o no dipenderà quindi della esistenza nella cellula di tutte le proteine con cui la zona regolatrice del DNA si deve unire a formare quello che viene chiamato “ complesso di trascrizione”. Quanto sarà lo RNA trascritto invece deriverà dal livello di correttezza del riconoscimento fra le molte diecine di proteine diverse e il DNA regolatore e dalla sua stabilità. E’ quindi il livello di complementarietà fra partner dei complessi di trascrizione quello che conta nella regolazione della espressione dei geni, tutta basata sulla comunicazione fra molecole. La presenza di partner complementari in uno stesso momento e quindi l’espressione nonché il suo livello di intensità sono determinati dal contesto interno ed esterno all’organismo. Si può parlare di “concertazione” per definire i rapporti qualitativi e quantitativi fra i diversi geni e fra i loro prodotti. La concertazione, naturalmente, si ha fra molecole e gruppi di molecole 40 ma si è stabilizzata anche in senso temporale nel senso che, ad esempio, anche lo sviluppo procede per attivazioni successive di gruppi di geni diversi e in momenti diversi. In altri termini, durante lo sviluppo di un organismo multicellulare come il nostro, e in genere degli animali e delle piante superiori, bisognerà che fin dalle prime divisioni embrionali gli eventi si susseguano in un certo ordine temporale e con caratteristiche che, almeno nelle linee generali, si sono ottimizzate durante la evoluzione. Perché questo avvenga è necessario che geni diversi siano attivati in momenti diversi e, quando intervenga una differenziazione di tipi cellulari e tessuti, in luoghi diversi. Tutto ciò avviene perché la attivazione di un gene e i suoi prodotti fungono da segnale per una serie di atti regolativi che inibiscono/attivano altri geni dando luogo ad una cascata di eventi finemente regolata qualitativamente e quantitativamente anche se sufficientemente flessibile per poter rispondere ai cambiamenti ambientali che si verificano durante la vita. Le proteine per la trascrizione, anch’esse prodotte sulla base di geni corrispondenti, saranno presenti solo quando è necessario e cioè quando i segnali avranno “detto” che è il momento giusto per intervenire. Un organismo si svilupperà quindi secondo un piano che non è in quanto tale precostituito ma lo diventa automaticamente per la struttura della catena di eventi che si attivano l’un l’altro. Ne deriverà che ogni cellula di un organismo complesso esprime solo una parte dei suoi geni (poche migliaia) e che gli altri sono inattivati. Tutto ciò significa che l’evoluzione ha costruito in milioni e miliardi di anni un finissimo equilibrio dinamico basato sulla comunicazione fra componenti, proteine strutturali, enzimi, DNA, RNA le cui formefunzioni sono correlate, possono quindi riconoscersi ed agire di concerto. Ogni specie si è cioè via via differenziata costituendo una sua rete, diversa da quelle delle altre specie. Tutti gli individui di una stessa specie hanno esattamente gli stessi geni e quindi possono eseguire le stesse funzioni concertate anche se i geni sono presenti in diverse varianti (gli “alleli”). Questi dati dimostrano definitivamente che i diversi geni o meglio le diverse sequenze di DNA non possono che avere strutture correlate, fissatesi durante la evoluzione per permettere quella comunicazione plastica che è alla base della vita. Conclusioni La breve storia di alcuni concetti in Biologia che ho fatto si conclude, fino ad ora col ritorno, in modo ovviamente nuovo e molto più articolato, di concetti che Charles Darwin aveva in gran parte intuito, probabilmente per la sua formazione fortemente naturalistica che lo spingeva ad osservare gli organismi, gli ecosistemi e la Terra, nelle loro interezze e non frammentati in settori o componenti. A differenza di Mendel, che era un fisico, Darwin non conosceva il metodo riduzionista ed era ancora convinto della bontà della osservazione dall’esterno di cui è stato maestro insuperabile. All’epoca, nonostante i già numerosi tentativi, non si era affermata ancora una corrente meccanicista né il potente metodo riduzionista che l’avrebbe poi contraddistinta. E’ in parte a questo che dobbiamo le intuizioni incredibili di Darwin che probabilmente, se Darwin si degnassero di leggere, non piacerebbero nemmeno ad una parte consistente dei biologi applicati e non solo del nostro tempo. Questo per dire che anche quelli che non hanno bisogno davvero di essere convinti del fatto che gli esseri 41 viventi si sono evoluti, che l’uomo è un animale con caratteristiche particolari ma che nonostante questo appartiene di diritto ai Primati, farebbero molto bene a rileggersi Darwin, mettendo da parte per un momento il famoso disegnino della evoluzione della giraffa in versione lamarckiana accanto a quella data per darwiniana e in realtà coerente con le posizioni dei seguaci di Charles Darwin, come molti dei seguaci di chiunque, un po’ apocrifi e comunque fortemente, come tutti noi, influenzati dallo spirito del loro tempo industrialista e meccanicista. C’è un forte bisogno di ritorno a Darwin e non solo alle sue idee ma anche al suo atteggiamento di osservatore della realtà materiale vera, quella degli organismi, delle specie, della macro come della microevoluzione. Potremo così recuperare un tantinello di realtà in questo mondo che cerca di farci credere che gli esseri viventi siano spezzettati, fatti su ordine del loro immutabile DNA, assemblabili ad libitum in modi diversi senza che ne soffrano. Marcello Buiatti (Pisa, 1937) Laureato a Pisa in Agraria si perfeziona a Pavia in Genetica, disciplina che insegna al Corso di Laurea in Biologia a Firenze. Ricopre numerosi incarichi accademici e scientifici. Nell’attività di ricerca si avvale di metodi molecolari per l’analisi della variabilità genetica, lo studio dell’evoluzione di animali e piante, l’identificazione delle interazioni che si stabiliscono fra piante e loro patogeni; inoltre, nei suoi studi applica la modellistica matematica all’analisi dei processi di sviluppo in animali e nei batteri. Molto attento alla corretta divulgazione del pensiero scientifico, interviene nei mass media in Italia e all’estero per affrontare temi riguardanti le prospettive aperte dalle applicazioni della moderna biologia e argomenti inerenti la Biologia Teorica. Partecipa come relatore a corsi di aggiornamento per insegnanti promossi dall’ANISN tiene conferenze e dibattiti con gli studenti di numerose scuole. 42 Dibattito Fabio Fantini Una premessa: il padre della tendenza alla ipersemplificazione della genetica, che lei critica, è Mendel, ma chi, se non lui, è riuscito a individuare attraverso un modello ipersemplificato le regole di trasmissione dei caratteri ereditari? Allora come logica conseguenza diciamo che tutto sommato di modelli riduzionisti abbiamo bisogno per cominciare ad affrontare i problemi, se non ci fossero questi modelli non potremmo fare passi avanti. Io credo che dal punto di vista didattico, nella situazione italiana almeno per quello che la conosco io, noi dovremmo insistere, non la prenda come offesa, sulla teoria sintetica dell’evoluzione perché è questa che voglio insegnare, che manca e se non c’è questa base non possiamo affrontare gli approfondimenti successivi come quelli che lei ha fornito, e che sono in sostanza correzioni, verissimo. Crick ha usato il termine “dogma” in modo ironico rispetto alla formulazione. In ogni caso gli appunti che lei faceva, come diceva il Prof. Omodeo prima, sono discussioni all’interno di quel contesto. Per esempio quando lei ha detto giustamente che noi abbiamo un certo numero di geni e un numero molto maggiore di proteine che produciamo utilizzando il metabolismo, a me viene in mente che forse qualcosa che va rivista è la definizione di gene, perché quando diciamo che nel genoma umano ci sono 35.000 geni come li contiamo? Ci sono almeno 100 coppie di basi, 100 basi, tra un promotore e un terminatore conosciuti, dopo di che uno va a vedere con un calcolatore quante volte avviene questo contando tutti i geni che conosciamo, per cui siamo costretti a indicare come geni una routine di calcolo, non un’identificazione funzionale. Dopo di che se un gene si sovrappone a un altro, come da tantissimo tempo è noto per i genomi virali, non mi sembra uno scandalo, allora forse è il numero di geni che va rivisto, e il termine un gene-una proteina potrebbe ritornare ad avere una validità se noi cambiassimo questa definizione di gene. Un’ultima cosa, quando lei parla di genotipo iniziale da cui possono derivare molti fenotipi diversi, d’accordo, credo che questa sia una discussione ampiamente compresa all’interno del panorama della teoria sintetica, questo non è vero per tutti i geni: io ricordo quando si parla di norma di reazione per es., che per alcuni geni esiste una norma fissa. Quindi non generalizzerei quella affermazione. Marcello Buiatti Io sono assolutamente convinto che il metodo riduzionista sia di grandissima importanza, su questo non ci sono dubbi. Il metodo riduzionista che la Biologia ha ereditato dalla Fisica e dalla Chimica nella seconda metà dell’Ottocento essenzialmente ha permesso di fare tutto quello che si è fatto fino ad ora. Io non sono contro il metodo riduzionista, lo uso tutti i giorni, in quanto sono un Biologo molecolare. Io sono contro l’ideologia riduzionista, che è altra cosa, perché il metodo riduzionista vuol dire: si stanno studiando cose che si conoscono, si scinde l’organismo in pezzi più semplici perché si riesce a studiarlo molto meglio; basta che si tenga conto che è un organismo. E questo non lo dico solo ora, cioè io non sono contro la teoria sintetica, siamo fatti di parti interagenti, cioè se mi tolgo via un dito, né io né il dito siamo uguali dopo che l’ho tolto; quindi io devo studiare il dito e il resto a parte, ma devo essere cosciente che prima di dare una legge complessiva devo vedere come funziona il dito quando è su di me; dopo aver fatto la scomposizione, devo essere in grado di cercare una ricomposizione, ed è questo che non è stato fatto da alcuni neodarwinisti, quelli che poi si ritrovano nei libri di testo. Intendiamoci bene, io sono ben lontano dall’essere contro il neodarwinismo, Mike Lerner è un neodarwinista, Wright è uno dei tre fondatori della teoria sintetica, se si legge Julian 43 Huxley The modern synthesis o Ernest Mayr che sono stati i sostenitori del neodarwinismo, è Meyr che attacca tale concezione nel suo libro, che usa il termine “sacco di fagioli”, attaccando la concezione non il fatto che uno studi il singolo fagiolo, diamine che studia il singolo fagiolo, come fa a studiarli tutti insieme! Fabio Fantini Lei lo sa perché usava l’espressione “sacco di fagioli”; a scuola si usavano per le esperienze fagioli rossi e fagioli bianchi …. Marcello Buiatti Questo per far capire ai bambini, ma il concetto “sacco di fagioli” è quello che ho detto io, non c’è nessuna differenza; il concetto del “sacco di fagioli” non è sufficiente, non è che sia sbagliato, io ho detto prima che la vita è appunto multiversa; io non capisco perché si debba per forza insegnare una cosa anche nei suoi lati sbagliati, quando Darwin proponeva i dati giusti. E queste non sono idee nuove venute in mente adesso a me, sono le idee di Darwin che ora sono state tradotte in concetti diversi da quelli di Darwin. E’ vero che cambia sempre tutto, ma chiariamo che ci sono dei punti fermi: la selezione c’è, la deriva genetica c’è, la mutazione c’è, ma il funzionamento complessivo delle cose è diverso da quella che viene chiamata la subteoria classica del neodarwinismo sostenuta da Fisher e che non è stata seguita più quando sono venute le altre due teorie importanti del neodarwinismo che sono la selezione bilanciata e il neutralismo, tutte e due complementari alla teoria classica, perché ci sono fenomeni casuali e perché ci sono fenomeni di interazione genica su cui Lewontin che è un neodarwinista basa la teoria di selezione bilanciata. Quindi attenzione perché io sono d’accordo che si insegni l’evoluzione ai nostri figli, sono un evoluzionista, ma dando ai ragazzi una concezione che non è limitata a un pezzetto della teoria della nuova sintesi per di più non aggiornata, perché questo è sbagliato. Io sono un evoluzionista, sono anche fortemente darwinista, ho fatto pezzi di strada con la nuova sintesi però, come Sewall Wright io continuo a pensare, perché non ci sono dogmi, perché tutto cambia e ora abbiamo scoperto altri fatti che vanno detti ai ragazzi, anche perché altrimenti diventa ideologia ed è ideologia meccanica, non scienza, cioè se uno ci mette i dogmi o è fede o è ideologia. Io sono fortemente contrario alla cristallizzazione di alcuni dei concetti della vita in ideologie perché questo ha portato conseguenze spaventose in campo sociale, politico e sta portando in questo momento a conseguenze a cui un formatore dovrebbe stare attento, perché dovrebbe dare una interpretazione di tutto quello che dice non dogmatica, e lasciare che i ragazzi, soprattutto i più grandi ma anche i più piccini, abbiano diverse possibilità davanti e non si debbano fermare a un pezzetto di una teoria che sta cambiando continuamente. Per cui nessuna contrarietà alla sintesi, si usa il metodo riduzionista, serve assolutamente, non se ne può fare a meno, ma si deve fare la sintesi dopo aver fatto l’analisi. E la nuova sintesi conteneva tutti quegli aspetti che adesso noi consideriamo parte della nuova sintesi perché il libro di Julian Huxley The modern synthesis è la sintesi della nuova sintesi, ma fatta da uno che aveva anche interessi naturalistici come Mayr e vedeva anche l’organismo. Una collega Vorrei portare il discorso sull’aspetto della filosofia. Alla luce delle cose che ci ha detto, quale attualità mantiene la metafora della macchina per descrivere il vivente che ha citato lei, alla luce delle cose che la biologia contemporanea ha scoperto quali complessità, ambiguità dell’organismo; c’è un’altra immagine che risulta più soddisfacente e più pertinente all’organismo ad oggi? 44 Marcello Buiatti Io sono personalmente contrario alla reificazione delle metafore. Io dico “sono fatto come un computer”, perché mi è comodo e utile come metafora perché mi aiuta a spiegarmi, che è molto diverso dalla reificazione di questa metafora cioè dire “io sono un computer”. Io vorrei fare una distinzione che viene fatta in campo filosofico, essere materialisti non vuol dire essere meccanicisti; uno può essere convinto che siamo fatti di materia, però non essere meccanicisti, perché la macchina è materia naturalmente ma 1. è materia morta, 2. è fatta su progetto nostro, noi non siamo stati fatti su progetto nostro, il nostro progetto cambia continuamente. Noi abbiamo delle regole che sono diverse dalle regole delle macchine, tutto qui. Il pericolo anche qua non è fare la metafora della macchina, io posso dire che il DNA funziona come un computer perché per certi versi lo fa; ma non devo mai dire il DNA è un software; il DNA è DNA, è una molecola ecc. Io le uso le metafore, a lezione la metafora informazionale la uso dicendo tutto quello che vi ho detto, non dicendo mai il DNA è un software, ma dicendo il DNA in parte si comporta come un software, questo serve moltissimo per spiegare, è ottima come esplicativa, non va reificata perché reificare vuol dire far diventare cosa la metafora. Un’altra collega Allora nella macchina di Turing che viene assimilata al vivente, la macchina che conta lei ce lo vede il vivente? Marcello Buiatti Io uso come metafora anche quella, certo questa è un’altra metafora possibile perché anche noi computiamo perché noi continuamente cambiamo in base a un meccanismo che potrebbe anche richiamare il computer; il problema nostro è che noi non abbiamo un programma, noi abbiamo una enorme varietà di scelte nell’ambito degli strumenti che possediamo. La metafora, va bene anche quella. Il progetto non è invariante, cambia di generazione in generazione e anche durante la stessa generazione; infatti se lei vede anche fisicamente due gemelli che hanno lo stesso progetto in teoria, intanto il carattere è complementare, non è uguale, uno è più introverso e l’altro più estroverso, ma anche fisicamente l’aspetto è diverso; in due gemelli che sono nati insieme e hanno fatto due vite diverse anche l’aspetto è diventato diverso, perché abbiamo la faccia che ci meritiamo. Pietro Omodeo Se noi interpretiamo il vivente come un sistema sede di un flusso di materia, di energia e di informazione, la macchina di Turing ci spiega uno degli aspetti fondamentali dell’essere vivente; non ci spiega tutto … La collega precedente Un conto è l’ambiente in base al quale viene tenuta l’invarianza però computa e perciò sposa a mio parere l’invarianza con le variazioni. Marcello Buiatti E infatti io cosa ho detto: ho detto che noi variamo per restare uguali. Sandra Magistrelli Una osservazione che volevo dividere con lei. Mi sono occupata in questi ultimi mesi per passione e perché faccio parte dell’ANISN, della riforma Moratti della scuola media e dell’eliminazione dell’impianto evolutivo del pianeta; per capire meglio mi sono messa a guardare su Internet quelli che sono gli argomenti scientifici; lei dice la vita 45 è frutto del benevolo disordine, questo da una parte è vero ed è però un concetto potentissimo che fa paura; arrivare a padroneggiare un concetto del genere non è banale. Allora andando a scuola, giustamente lei raccomanda di non dare ideologia ai ragazzi, quindi di formarli ad un pensiero critico cosicché, poniamo, e poniamo in termini di teoria dell’evoluzione far loro notare anche quelli che sono i limiti, che sono i punti di fallacia. Però in questo giustissimo appello a una tolleranza mentale si insinuano tutta una serie di cunei, tra cui quello del disegno intelligente dei nostri creazionisti, che fa un po’ irrigidire anche l’uomo tollerante, non so se mi spiego. Andando avanti ho ripreso in mano tutta una serie di consapevolezze sul profondo timore che c’è nel comune sentire di ciò che è variabile, di ciò che cambia, che muta e quindi la difficoltà che abbiamo noi insegnanti nel proporre questo concetto base forte nello studio conservazione e della mutazione. E’ una domanda che non è una domanda, un aiuto a riflettere meglio: in che modo questo discorso conservazione-mutazione in senso lato si può provare a rendere vulgata? Marcello Buiatti Prima di tutto noi non abbiamo paura solo della variabilità perché siamo per esempio terrorizzati dall’immagine dei cloni, è terrorizzante il concetto di cloni perché probabilmente istintivamente sappiamo che non dobbiamo essere cloni; ci fa paura la diversità se pensiamo che rompa le nostre connessioni, ci distrugga: questo è il malevolo disordine. La diversità che ci permette di evitare la diversità distruttiva è il benevolo disordine, cioè la nostra capacità di cambiare. Come si insegna; è molto semplice: basta far vedere ai ragazzini, se uno li segue per 2-3 anni, che hanno cambiato continuamente altezza, peso ecc., basta dirgli che quando vanno al mare si abbronzano, che è vero che noi abbiamo il gene per gli occhi neri e il gene per gli occhi azzurri, che ci sono i neri e ci sono i bianchi, poi ci sono però tutte le popolazioni intermedie. Mi ricordo sempre, quando tanti anni fa mi specializzavo in Genetica a Pavia, venne fuori un libro di Gedda sulle razze, e c’era un colorimetro, per cui si poteva sapere quanto uno fosse negro dal colore della pelle; noi eravamo tutti abbronzati, e si era genetisti, e si scoprì che eravamo tutti negri. Il concetto fondamentale da far passare ai ragazzi, soprattutto ai più piccini ma anche ai più grandi, è il fatto che loro sono vivi, che cambiano continuamente, che si adattano perché sudano quando fa caldo e consumano di più quando fa freddo, che i loro nonni sono diversi da loro e i loro genitori lo stesso, le sorelle lo stesso, e eventualmente fare qualche piccolissimo esperimento di adattamento con i batteri per es., per fare vedere quanto è importante la variabilità. Non per dire che è la sola cosa è importante, anche la mia roba non è dogmatica, cambierà, ma io ora vedo queste cose. Se vogliamo insegnare la teoria sintetica insegniamo la teoria sintetica, ma non insegniamone un pezzetto come se fosse la teoria sintetica, per impedire che i creazionisti dicano: anche loro hanno dei dubbi. Il concetto è che non esiste una teoria dell’evoluzione, esiste l’evoluzione , è un fatto materiale che si è succeduto durante un sacco di tempo, ci siamo evoluti, noi siamo venuti da organismi che non erano uguali a noi, come quelli sono venuti da altri. Che l’evoluzione esiste, che è un fatto storico, una narrazione, come dicono tanti, che è avvenuta in miliardi di anni ecc.: questo va affermato con forza. I modi con cui è avvenuta sono tanti, tutta la teoria sintetica è dentro i modi, il dogma centrale (se non ci fosse la parola dogma) è vero, sono tutte cose vere, solo che andando avanti ne impariamo di più, allora non fossilizziamoci su certe cose. In questo modo si evita di essere tacciati di non essere certi; mica non sono certo perché penso che qualcuno abbia fatto l’uomo così; d’altra parte la nostra Chiesa, la Chiesa ufficiale non lo pensa, poi che ci siano persone di chiesa che lo pensano è altra cosa, ma ci sono anche tanti laici di una certa area politica che la pensano in questo modo. 46 La ricerca La ricerca 48. Temi dell’evoluzione nella Biologia contemporanea Dario Riccardo Valenzano 54. Dibattito 56. Il ruolo dell’Anatomia comparata nella ricerca e nella didattica universitaria fra ieri e oggi Vincenzo Caputo 74. Dibattito 76. L’evoluzione vista attraverso lo sviluppo Robert Vignali 83. Dibattito 89. Dai fossili alle molecole: nuovi indizi sull’evoluzione umana Olga Rickards 94. Dibattito 101. Un approccio evolutivo allo studio del cervello: la teoria del darwinismo neurale Yuri Bozzi 108. Dibattito 112. Basi biologiche dell’attrazione Alessandro Cellerino 133. Dibattito 137. Evoluzione e risposta cellulare allo stress Isabella Marini 158. Dibattito 47 Temi dell’evoluzione nella Biologia contemporanea D ARIO R ICCARDO V ALENZANO Teoria dei giochi La “Teoria dei Giochi”, nata nel XIX secolo in seno allo studio matematico delle dinamiche economiche della società umana, ha trovato nella biologia evolutiva un fecondo campo di applicazione. In particolare essa si è rivelata molto utile per comprendere e formalizzare i processi di interazione tra diverse strategie comportamentali (variabili in tipologia e frequenza) messe in atto tra gli individui di una popolazione animale che devono incessantemente negoziare i costi dell’adozione di una data strategia con i suoi benefici (in termini di fitness genetica). La strategia evolutiva ottimale per un individuo singolo è quella in cui la differenza tra benefici (in termini di fitness) e costi (in termini di sopravvivenza) è massimizzata. Considerando il vantaggio teorico per una rana maschio di avere un richiamo potente e quindi attrarre più femmine per l’accoppiamento, rispetto al costo di attrarre (con richiami estremamente intensi) molte più femmine di quante se ne possano fecondare (quindi disperdere energia), si possono disegnare le curve (fig. 1). Sovrapponendo le curve dei costi e benefici associati al volume del richiamo emesso, è evidente che la differenza tra le due curve non aumenta con l’aumentata intensità del canto (espressa in volume) (fig. 2). Il modello della strategia ottimale predice che il richiamo migliore non è il più intenso Fig. 1 (risultato atteso se non ci fossero i costi legati ai richiami più forti) ma è uno di intensità intermedia. Nella teoria della Strategia Ottimale si fanno previsioni circa il miglior comportamento per un particolare animale senza tener conto di quanto fanno gli altri. L’aspetto centrale della Teoria dei Giochi è che l’adozione di una particolare Fig. 2 strategia dipende dalle strategie adottate dagli altri. Un comportamento che funziona benissimo (garantisce una fitness ottimale a chi lo adotta) quando applicato di rado, come nel caso dei comportamenti di inganno, non è più vantaggioso se diventa diffuso nella popolazione, se quindi viene 48 più frequentemente a scontrarsi contro se stesso. Una rana maschio, ad esempio, potrebbe evitare di emettere il richiamo (annullando la curva dei costi) ed accoppiarsi con le femmine attratte dai richiami degli altri maschi. Se tuttavia questa strategia si diffondesse, un numero sempre minore di maschi emetterebbe il richiamo sessuale e quindi sempre meno femmine sarebbero attratte per l’accoppiamento. Questo significa che diminuirebbero in maniera analoga sia i costi che i benefici legati alla strategia adottata. La fitness per un individuo legata ad un dato comportamento è quindi strettamente dipendente dalla frequenza degli individui che adottano la stessa strategia e dalle frequenze delle strategie adottate dagli altri individui della popolazione. Nel nostro esempio, la fitness della rana maschio che non canta è strettamente dipendente dalla frequenza di rane maschio che cantano. Applicata a livello di popolazione, la Teoria dei Giochi considera come giocatori non più i singoli individui, ma le strategie stesse o i geni che specificano per dette strategie. Per cogliere questo concetto possiamo considerare l’esempio del successo della strategia “marcatura a zona” rispetto alla strategia “marcatura ad uomo” per le squadre di calcio di un campionato ideale. Il nostro gioco terrà conto della fitness complessiva di ciascuna strategia dopo tutti gli scontri possibili, espressa come il numero di goal subiti, alla fine di un girone del campionato, dalle squadre che applicano ciascuna strategia, moltiplicato per la probabilità di ciascuno scontro. Alla fine del gioco la strategia vincente passerà alla generazione successiva con un numero relativamente maggiore di copie (nel nostro esempio, nel girone o nel campionato successivo, un numero maggiore di squadre applicherà la strategia che è risultata essere più efficace). Quando una strategia è più efficace di tutte le altre strategie sperimentate o quando sono presenti più strategie e nessuna di queste è più efficace delle altre, si incorre in Stasi Evolutiva rispetto al comportamento considerato, cioè non c’è variazione nella frequenza relativa delle strategie nel tempo. Queste due situazioni sono note come Strategie Evolutivamente Stabili (ESS, Evolutionary Stable Strategies). Nel primo caso si parla di “ESS pure”, in cui cioè una strategia vince sulle altre ed è immune da fig. 1 invasioni da parte di altre strategie note, che quindi sono destinate a non diffondersi o ad estinguersi, data la loro fitness minore (formalizzato come E(A,A) > E(B,A), cioè l’esito dello scontro tra A ed A è più vantaggioso per A di quanto non sia per B lo scontro tra B ed A). Nel secondo caso si parla di “ESS miste”, in cui due strategie coesistono in maniera permanente. Le ESS possono essere adottate ciascuna da soggetti diversi (per esempio il 60% delle rane maschio canta sempre ed il restante 40% non canta mai), oppure tutti gli individui giocano una strategia mista (cantano il 60% delle volte o, nell’esempio calcistico, applicano la marcatura a zona con una frequenza che è la frequenza di equilibrio per questa strategia). In entrambi i casi di ESS mista, tutti i giocatori del nostro gioco hanno la stessa fitness. Se abbiamo due strategie, “A” e “B”, con le rispettive frequenze “a” e “b”, si ha che la fitness di ciascuna strategia F(A) ed F(B) è data da: F(A)= a*F(A,A) + b*F(A,B) F(B)= b*F(B,B) + a*F(B,A) 49 dove F(A,B) è punteggio ottenuto da A nell’incontro con B. Se, come detto F(A) = F(B), allora a*F(A,A) + b*F(A,B) = b*F(B,B) + a*F(B,A) dato che “A” e “B” sono le uniche due strategie in gioco, allora a+b=1 quindi, sostituendo 1 – a per b, si può risolvere come segue: a F(B,B) – F(A,B) = 1- a F(A,A) - F(B,A) da cui è possibile conoscere come variano F(A) ed F(B) in funzione di a. Infatti F(A) ed F(B) si possono esprimere nel seguente modo: F(A) = a*(F(A,A) - F(A,B)) + F(A,B) F(B) = a*[F(B,A) - F(B,B)] + F(B,B) Il punto di intersezione tra le due rette mostra il valore di a corrispondente alla ESS mista per A. E’ chiaro che il caso di una ESS pura o mista a due sole strategie è molto raro in natura. Più frequenti sono i casi in cui sono in gioco molteplici strategie allo stesso tempo e ciascuna strategia è applicata a seconda del contesto specifico. La Teoria dei Giochi ha posto le basi teoriche per capire da un’ottica evolutiva fenomeni biologici complessi come la cooperazione. La cooperazione sembra aver svolto un ruolo fondamentale nelle grandi transizioni evolutive, come nell’integrazione dei progenitori dei mitocondri e cloroplasti, un tempo liberi, nelle cellule eucariote (Maynard Smith & Szathmàry, 1995). Anche i progenitori degli organismi multicellulari erano un tempo cellule singole libere ed il passaggio da organismi unicellulari ad organismi multicellulari può essere stato promosso da meccanismi di tipo cooperativo (Buss, 1987; Maynard Smith & Szathmàry, 1995). Un esempio classico di approccio analitico al problema della cooperazione è il noto “Dilemma del Prigioniero” in cui due prigionieri sono arrestati perché sospettati di aver commesso un reato. Non ci sono prove schiaccianti della loro colpevolezza ed il loro giudizio dipende direttamente dall’esito dell’interrogatorio. I due vengono interrogati separatamente e possono rimanere in silenzio (cioè cooperare con il compagno) o confessare il reato (tradire il compagno). 50 Tale situazione può essere schematizzata nel modo seguente. Dove Coop (cooperare, cioè non confessare) e Trad (tradire, cioè confessare) sono le strategie possibili ed A, B, C e D sono gli esiti dell’incontro delle due strategie per la strategia in riga, ovverosia, come abbiamo già visto, A = E (Trad, Coop), dove E è l’esito dell’incontro di Trad con Coop. In particolare, per la strategia in riga A>B>C>D. Posto il gioco in questi termini, qualunque cosa faccia l’altro (qualunque sia la strategia in colonna), la cosa migliore da fare per ciascuno è confessare, cioè tradire. Infatti, per ciascuna colonna, il punteggio più alto lo si ottiene con la strategia Trad (perché A>B e C>D). La strategia Trad è stabile rispetto a Coop perché C>D quindi Coop non può soppiantare Trad. Questo vuol dire che in un mondo di non cooperatori, un mutante cooperativo sarebbe presto eliminato dalla selezione naturale. E’ quindi interessante capire come, da questa situazione, possa esserse evoluta la cooperazione nelle prime forme. Osservando che B>C risulta chiaro d’altra parte che, se l’esito dell’incontro delle strategie equivale alla fitness della stessa strategia, una società di cooperatori si espande più di una società di traditori. Ma come può evolvere tale società di cooperatori? Il modello del Dilemma del Prigioniero assume che ogni individuo che adopera una strategia (cooperare o tradire) possa interagire con tutti gli altri individui della popolazione. Ponendo invece un vincolo “locale” al modello, rendendo cioè possibile l’interazione solo tra individui che sono tra loro confinanti, come in un grosso gioco della dama, e ponendo che di generazione in generazione le caselle cambino strategia uniformemente a quella adottata dalla casella vicina di maggiore successo, si può dimostrare che l’esito del gioco per ciascuna strategia dipende direttamente dai valori di A, B, C, D (vedi tabella). A seconda di questi valori si possono avere situazioni variabili, come ad esempio “equilibri oscillanti” tra stati diversi (le distribuzioni spaziali delle frequenze di Trad e Coop, cioè, oscillano nel tempo tra due configurazioni fisse), oppure si può arrivare a situazioni di “flusso dinamico”, in cui, cioè, caselle che al tempo T(0) erano occupate dalla strategia Trad, al tempo T(n) sono occupate dalla strategia Coop e caselle che al tempo T(0) erano occupate dalla strategia Coop, al tempo T(n) sono occupate dalla strategia Trad. In sostanza, in questo modello non esiste una “strategia stabile” per la definizione data sopra. Nel “Dilemma del Prigioniero Continuo” invece di avere due strategie estreme (Coop e Trad), esistono infinite strategie intermedie. Quello che varia da strategia a strategia è l’investimento che essa comporta, espresso come differenza tra benefici e costi (fig. 3). Tale situazione è simulata per una popolazione spazialmente limitata, in cui ciascun individuo interagisce con gli individui ad esso più prossimi e paga i costi del proprio investimento rivolto a tutti gli individui adiacenti in cambio della somma dei benefici prodotti dagli investimenti dei vicini. In tale situazione, se ad ogni generazione ciascun 51 individuo adotta la strategia dell’individuo adiacente con la differenza più alta tra benefici e costi, il livello medio di investimento per l’intera popolazione cresce col succedersi delle generazioni fino ad un valore fisso che è una frazione significativa della differenza massima tra la curva dei benefici e quella dei costi nella figura precedente. Questo vale anche quando il livello di investimento medio alla ge- Fig. 3 nerazione zero è molto vicino allo zero, situazione paragonabile ad una strategia stabile in partenza del tipo Trad (fig. 4). Benché sembri sorprendente che elevati livelli di investimento possano evolversi da situazioni iniziali a basso investimento, bisogna osservare che gli individui che investono ottengono un mutuo beneficio nel raggrupparsi e quindi contaminano con la loro strategia tutti gli individui adiacenti con livelli di investimento più moderati. Questi modelli spiegano ragionevolmente l’evoluzione della cooperazione per popolazioni spazialmente limitate. Fig. 4 Computazione evoluzionistica La dialettica dell’evoluzione, consistente nel produrre una varietà di sistemi capaci di scambiare tra di loro informazioni e replicarsi per dar vita ad una continuità di tipi simili, è stata presa come modello per sviluppare algoritmi capaci di evolversi e produrre soluzioni nuove rispetto ad una classe specifica di problemi. Negli anni ’60, negli USA, John Holland (Holland, 1975) ha teorizzato gli Algoritmi Genetici (AG), capaci di produrre soluzioni di un problema procedendo da dati (stringhe di bit) organizzati “a cromosoma”. Questi “cromosomi di dati” vengono elaborati da operatori specifici di ricombinazione che li modificano in maniera analoga ad una riproduzione sessuata, in modo da preservare l’informazione critica dei dati stessi. Gli AG sono stati sfruttati per ottimizzare i processi di produzione di un articolo scritto, per ottimizzare la catena di montaggio di alcune case automobilistiche, per disegnare i motori delle turbine attualmente in funzione sui moderni aeroplani.Gli AG selezionano e riproducono, in una popolazione di cromosomi artificiali (cioè in uno spazio di operatori a struttura simile che danno soluzioni diverse ad un medesimo problema) quelli che offrono la soluzione ottimale, quella che (ad esempio) minimizza i consumi, velocizza il sistema, trova il minimo locale, etc. Gli AG operano per selezione, 52 ricombinazione e mutazione, in modo da generare cromosomi sempre rinnovati che producono soluzioni nuove al problema (un ottimo tutorial interattivo per la comprensione degli AG è fornito nel sito http://cs.felk.cvut.cz/~xobitko/ga/). Gli AG sono popolazioni di algoritmi che evolvono di generazione in generazione scambiando informazioni l’un l’altro per mezzo di crossing-over e che mutano a basse frequenze per produrre algoritmi capaci di dare nuove soluzioni nello spazio delle soluzioni in cui operano. Nato nell’ambito delle Scienze Naturali e della Biologia in senso lato, l’Evoluzionismo ha promosso una spinta rivoluzionaria in molteplici ambienti della ricerca scientifica. Ad oggi l’Evoluzione è studiata nei centri di matematica applicata e bioinformatica di tutto il mondo, dove vengono prodotti modelli matematici che svelano nuove possibilità interpretative per fenomeni naturali complessi, come abbiamo visto per l’evoluzione dell’altruismo e come è successo anche per alcuni aspetti della teoria della Selezione Sessuale. L’edificio teorico eretto da Darwin alla fine del XIX secolo si trova oggi in uno stato di ottima salute in ambito scientifico in quanto esso è sempre più lente essenziale per l’analisi di problemi scientifici nuovi e vecchi. L’Evoluzionismo è indiscutibilmente un patrimonio culturale di valore elevatissimo che, purtroppo, non è ancora considerato universalmente come uno dei pilastri fondamentali della società contemporanea. Dario Riccardo Valenzano Scuola Normale Superiore - Pisa Bibliografia Buss, L.W. 1987 The Evolution of individuality Menlo Park, CA: Princeton University Press Holland, J. H. 1975 Adaptation in Natural and Artificial Systems University of Michigan Press Maynard Smith, J. & Szathmàry, E.1995 The major transitions in evolution Oxford: W.H. Freeman & Co. 53 Dibattito Brunella Danesi Noi la ringraziamo molto perché l’argomento dell’invecchiamento e il valore selettivo, evolutivo diciamo, dell’invecchiamento si discute da tempo, soprattutto per quanto riguarda il discorso che fondamentalmente non si dovrebbe invecchiare perché è vero che il tasso di mutazione aumenta però le cellule cambiano continuamente, continuamente assumono materiale dall’esterno, continuamente ne buttano fuori, quindi la cellula non è mai perfettamente uguale a quella che era ieri. Dario Riccardo Valenzano Però comunque le cellule vanno incontro a disfunzione: si è visto in maniera chiarissima che la linea somatica rispetto alla linea germinale ha meccanismi di riparazione degli errori, meccanismi di prevenzione dell’accumulo di mutazioni radicalmente diversi, le cellule somatiche vanno incontro a disfunzione molto più rapidamente delle cellule germinali, proprio perché le germinali hanno bisogno di un’informazione tramandabile, quindi più pulita possibile. Brunella Danesi Tuttavia ormai mi sembra che la differenza tra cellule germinali e cellule somatiche sia diventata una distinzione piuttosto artificiosa con la scoperta delle biotecnologie. Robert Vignali Vorrei semplicemente chiederti che cosa si sa del DNA dei telomeri di questa specie, se è stato studiato, se è una cosa che intendete fare. Dario Riccardo Valenzano Sicuramente intendiamo farlo, però noi siamo i primi che abbiamo rivolto la nostra attenzione a questa specie, questi pesci non sono interessanti neanche per l’acquariofilia, perché vivono molto poco, e questo è un fatto davvero impressionante, in undici settimane sono tutti andati, quindi non hanno avuto neanche uno sviluppo commerciale tale da poter poi favorire un impiego scientifico, come per es. zebrafish ha avuto, ma non si sa assolutamente nulla perché noi siamo i primi che mettiamo le mani su questo modello. Intervento Io vorrei sapere, quanto nell’impostazione che avete dato all’approccio sperimentale, abbia pesato la valutazione della questione riduzionistica, perché nel momento in cui voi avete isolato gli individui rispetto all’ambiente, avete creato delle condizioni di non interazione tra individuo e ambiente. Ora, io penso che, da quello che ho capito, l’ambiente venga modificato dagli organismi e a sua volta l’ambiente seleziona gli organismi, quindi gli organismi creano l’ambiente che poi li seleziona. Ora, nei vostri esperimenti quanto peso avete dato a questo discorso di fondo? Dario Riccardo Valenzano Il massimo del peso perché mentre normalmente si lavora su organismi di laboratorio, essenzialmente su ratti, topi, rane che vengono tenuti in laboratorio e sono sottoposti a un tipo di selezione che è sostanzialmente affidata all’uomo, con condizioni costanti, diete sempre uguali, condizioni di luce e temperatura sempre uguali, noi invece ci siamo preoccupati proprio di avere un modello selvatico, per questo siamo andati 54 proprio in natura a prendere tali pesci, proprio per studiare la generazione F1, cioè la prima generazione ottenuta da questi pesci selvatici. E’ giustissimo quello che lei dice, l’ambiente modifica notevolmente le caratteristiche biologiche della specie, e l’ambiente di laboratorio altrettanto. Domanda Avete pensato alle implicazioni legate al fatto che nella popolazione non c’è la selezione poiché si trova in un ambiente artificiale? Dario Riccardo Valenzano Noi lo studio lo abbiamo fatto proprio sulla F1 dei selvatici quindi sulla popolazione meno influenzata possibile dalle condizioni artificiali; comunque questo lo abbiamo confrontato con delle curve ottenute su pesci della stessa specie, pescati alla fine degli anni Sessanta, era l’unico ceppo di Lotobranchius Furzeri disponibile al mondo, noi lo abbiamo avuto, lo abbiamo seguito, lo abbiamo anche studiato dal punto di vista sia demografico che immunochimico e i risultati che avevamo li abbiamo messi a confronto con quelli dei pesci selvatici, e i confronti dicono la stessa cosa, sono sovrapponibili, anzi siamo andati in Mozambico proprio perché questa popolazione di cui noi avevamo questa pescata nel ‘69 è stata molto incrociata, quindi dal punto di vista genetico è stata molto impoverita, perché era molto piccolo sostanzialmente. Domanda Che tipo di prospettive vede per la ricerca italiana? Glielo chiedo perché molti ragazzi a scuola vorrebbero una parola di speranza. Dario Riccardo Valenzano No, sinceramente non me la sento di seminare speranza, chiunque ha a che fare con la ricerca, soprattutto alla mia età, si sente dire questa cosa un po’ penosa, che c’è bisogno del periodo all’estero. Ora, chiaramente per questioni formative può essere utile però a volte c’è il timore che questo consiglio accorato nasconda dell’altro dietro. Sinceramente non vedo molto spazio, noi stiamo provando ad esplorare un campo nuovo, abbiamo proposto un soggetto nuovo e abbiamo avuto la fortuna di renderci subito interessanti anche per il privato, infatti la nostra missione è stata finanziata da una biotech privata, però io non posso costruire alcun tipo di progetto scientifico per me, che non vada al di là dei 3-4 anni, per l’Italia soprattutto. 55 Il ruolo dell’Anatomia comparata nella ricerca e nella didattica universitaria fra ieri e oggi V INCENZO C APUTO Cenni storici su origine e declino dell’Anatomia comparata nell’Università italiana L’Anatomia comparata andò configurandosi quale disciplina scientifica distinta rispetto agli altri campi della “Storia naturale” fra Settecento e Ottocento: nel 1807 venne istituita in Italia, presso l’Università di Napoli, la prima cattedra universitaria della Materia. Il primo titolare fu Giosuè Sangiovanni (1775-1849) (Fig. 1), già allievo di Lamarck a Parigi negli anni della restaurazione borbonica, seguita all’effimera rivoluzione giacobina del 1799 (Omodeo, 1949). Tale definizione, anche accademica, dell’Anatomia comparata, nacque dall’esigenza di un profondo rinnovamento dell’indagine morfologica che, da un mero livello descrittivoclassificatorio more Linnaei, si elevasse a scienza “filosofica” delle strutture e dei rapporti tra le forme Fig. 1. Giosuè Sangiovanni (Lau- (La Vergata, 1988). La visione della natura in questo rino, Salerno, 1775-Pozzuoli, Na- periodo, profondamente influenzato dalla poli, 1849), primo professore di Naturphylosophie tedesca, è dominata dall’idea che la Anatomia comparata in Italia (da molteplicità delle forme e delle strutture degli organismi un ritratto conservato presso la viventi possa essere ricondotta a dei piani di biblioteca del Dipartimento di organizzazione fondamentali comuni a più organismi. Zoologia dell’Università “Federi- La cause célèbre della Biologia di questo orientamento fu co II” di Napoli). la teoria vertebrale del cranio di Johann Wolfgang Goethe (1749-1832), secondo la quale la scatola cranica è il risultato dell’unione e della trasformazione di una serie di vertebre. Il regno animale è dunque visto come un unico grande organismo in continua metamorfosi e gli organismi individuali come una ripetizione e modificazione di parti fondamentali. Secondo Etienne Geoffroy SaintHilaire (1772-1844), forse il massimo esponente di questa corrente di pensiero, la natura ha formato tutti gli esseri viventi su un unico piano, essenzialmente lo stesso nel suo principio, ma ch’essa ha variato in mille modi nelle parti accessorie e le forme di tutti gli organismi risultano, per quanto variate, da organi comuni a tutte (cit. in La Vergata, 1988; Laurent, 2003). Secondo il grande anatomista e zoologo francese, la diversità dei piani corporei animali può essere in definitiva ricondotta a un unico archetipo originario: ben noto è l’esempio degli Artropodi e dei Vertebrati visti come versioni diverse dello stesso progetto base (cfr. Gould, 2003, 2004). 56 Fig. 2. Ipotesi di Meyrant & Laurencet sulla derivazione dei Molluschi dai Vertebrati per ripiegamento del corpo, raddoppiamento degli arti e trasformazione della colonna vertebrale in conchiglia (da Capanna, 1989). Alcune varianti del modello di Saint-Hilaire hanno contribuito a mettere in cattiva luce e quasi a ridicolizzare la sua idea originaria. Una è la teoria di due suoi discepoli, Meyrant e Laurencet, secondo i quali l’organizzazione dei Molluschi Cefalopodi si può considerare corrispondente a quella di un Vertebrato piegato a U e con le due branche dell’U saldate, in modo che l’intestino venga a sboccare al di sotto della bocca (Fig. 2). Tale ipotesi scatenò una celebre controversia il 15 febbraio 1830 presso l’Accademia delle Scienze, fra lo stesso Saint-Hilaire e Georges Cuvier (1769-1832) il quale riconduceva invece la diversità animale a quattro grandi tipi (embrachements). Un’altra è la teoria di Walter H. Garskell (1847-1914), anatomico umano inglese recentemente “portato alla ribalta” da Gould (2004), che ipotizzava una derivazione del piano organizzativo dei Vertebrati per inversione dorso-ventrale da un archetipo artropode. Ricordo, infine, Richard Owen (1804-1892), insieme a Darwin il più grande naturalista inglese dell’Ottocento, che portò alle estreme conseguenze la teoria vertebrale del cranio. Egli infatti sostenne che l’intero scheletro di ogni classe di Vertebrati potesse essere interpretato come una serie di vertebre ideali, ossia una successione di segmenti indifferenziati da cui si potevano derivare le modificazioni reali di ogni scheletro. Owen chiamò questa concatenazione “archetipo dei Vertebrati”: essa raffigurava lo scheletro nella sua forma più elementare, simile a quello dei pesci, con un accenno soltanto alle modificazioni che si riscontrano nei Vertebrati reali (Fig. 3). Al di là di questa teoria, ormai obsoleta, un frutto immediato e incontestato del suo lavoro fu la semplificazione e standardizzazione della terminologia relativa all’osteologia comparata e umana e la distinzione rigorosa fra omologia e analogia (La Vergata, 1988; Rupke, 2003). E’ interessante ricordare che queste visioni unitarie del piano corporeo animale trovano oggi un inatteso sostegno nelle recenti ricerche sui geni omeotici, come Stephen J. Gould (1941-2002) ha esemplificato nei suoi ultimi saggi (Gould, 2003, 2004; si vedano anche Gilbert, 2003 e Carrol et al., 2004). 57 Fig. 3. L’archetipo dello scheletro dei Vertebrati può essere interpretato secondo Owen come una serie di vertebre ideali, una successione di segmenti indifferenziati da cui si possono derivare le modificazioni reali di ogni scheletro (da Capanna, 1989). L’anno cruciale che segna il “prima” e il “dopo” nello studio delle Scienze naturali, è il 1859 che vede la pubblicazione de L’origine delle specie di Charles R. Darwin (18091882). Dal momento della pubblicazione di questa opera fondamentale, che dà avvio alla cosiddetta “rivoluzione darwiniana” (cfr. Continenza, 1998), la ricerca morfologica e anatomica si fonde con la teoria darwiniana per dare origine a quella “morfologia evoluzionistica” che dominerà tutta la seconda metà dell’Ottocento e i primi anni del Novecento (Capanna, 1989). D’ora innanzi il criterio esplicativo non sarà più il piano corporeo archetipico, ma l’antenato comune e obiettivo fondamentale della ricerca anatomo-comparativa diverrà la ricostruzione della filogenesi basata sulla ricerca di caratteri informativi di un’ascendenza comune. A tale riguardo, è interessante confrontare la prima edizione del classico manuale di Anatomia comparata di Karl Gegenbaur (1826-1903), che fu uno dei massimi anatomo-comparati dell’‘800, con l’edizione successiva alla pubblicazione del testo di Darwin: i termini “tipo morfologico” o “archetipo” vengono rimpiazzati dal nuovo termine “antenato comune”, anche se l’impostazione metodologica e la prassi scientifica della ricerca anatomica rimangono sostanzialmente immutate. L’autore che più di ogni altro nell’Ottocento si dedicò alla interpretazione in chiave filetica delle strutture anatomiche fu Ernst Haeckel (1834-1919), che fu uno dei primi evoluzionisti a dichiarare esplicitamente che ogni schema classificatorio non può che partire dalla definizione dei rapporti filetici tra gli organismi; la classificazione deve cioè derivare immediatamente dalla genealogia evolutiva (cfr. Minelli, 1991). Egli fu anche il primo autore a usare in modo sistematico la rappresentazione della filogenesi sotto forma di alberi genealogici (dendrogrammi), dove i vari livelli della classificazione scaturiscono dalla successione delle dicotomie evolutive (Fig. 4). Haeckel considerò infatti la rappresentazione grafica della filogenesi come il compito più importante e interessante per la morfologia del futuro, in ciò anticipando l’approccio tipico della Cladistica hennigiana (Jahn, 2003). In Italia il nuovo filone della morfologia evoluzionistica ebbe uno dei principali esponenti in Giovanni Battista Grassi (1854-1925), che si formò alla scuola di Gegenbaur a Heidelberg e insegnò Anatomia comparata per circa 30 anni presso l’Università di Roma (Capanna, 1989). Il suo fu un metodo di ricerca che mirava sempre alla conoscenza dell’intero ciclo dell’animale in esame, per la quale si serviva di osservazioni morfologiche, fisiologiche ed ecologiche. La sua ricerca morfologica toccò molti argomenti nell’ambito della zoologia e dell’Anatomia comparata dei Vertebrati: ad 58 esempio, scoprì la vera natura del Leptocephalus brevirostris come larva di Anguilla e scrisse un’ampia monografia sulle vertebre dei pesci (Alizi Cappelletti, 1989). Questo avvio promettente subì presto una brusca frenata e già nel 1937 Mario F. Canella, docente di Anatomia comparata nell’Ateneo bolognese, individuava come cause di una crisi già profonda: a) il sopravvento dello sperimentalismo, col suo approccio basato sulla riproducibilità dell’esperimento, più affine alla ricerca chimico-fisica che al metodo descrittivo dell’Anatomia comparata; b) gli entusiasmi suscitati daFig. 4. Albero genealogico (dendrogramma) dei viventi, disegnato nel 1866 gli indirizzi di ridallo zoologo tedesco Ernst Haeckel (da Minelli, 1991). cerca “alla moda”; e c) la crisi dell’evoluzionismo darwiniano, che troverà una soluzione nella “Modern synthesis” negli anni Quaranta e Cinquanta (Mayr, 1990). In definitiva, col Novecento, la ricerca biologica in Italia vede la funzione sostituire la forma come obiettivo dell’indagine scientifica e come principio esplicativo. “L’enfasi viene posta sulla riduzione del numero delle variabili osservate, sulle condizioni controllate in laboratorio, sulla base del principio metodologico che la funzione di una parte isolata è la stessa della parte integrata nell’organismo, sull’uso di tecniche chimiche e fisiche” (Fantini, 1988). Nell’Università italiana degli inizi del terzo millennio il “compimento 59 del dramma” è sotto gli occhi di tutti: già pressoché scomparsa dalla ricerca accademica (cfr. Dallai, 1989), l’Anatomia comparata è stata drasticamente ridotta nei corsi di laurea biologico-naturalistici dell’attuale assetto curricolare universitario (il famigerato “3 + 2”). Presso l’Università “Federico II” di Napoli, dove pure è nata come disciplina accademica, l’Anatomia comparata è addirittura sparita come materia autonoma, travolta da esigenze di innovazione a tutti i costi che mascherano, a mio avviso, una sconfortante pochezza culturale. L’Anatomia comparata e le “due anime” della Biologia In realtà le due “anime” della Biologia, come le ha definite Mayr (1990), cioè la Biologia evolutiva e quella funzionale, vengono sicuramente a saldarsi nell’Anatomia comparata (Ghiara, 1992). Queste due anime hanno la loro ragione d’essere nel fatto che i viventi possiedono un programma genetico di cui la Biologia funzionale, quella che Mayr (per es., 1982a) chiama “Biologia del come”, studia le modalità di traduzione e di decodificazione; la Biologia evolutiva, che Mayr chiama “Biologia del perché”, si occupa invece dell’origine di questi programmi e del loro cambiamento storico. L’Anatomia comparata costituisce certamente un terreno comune di elezione per questi differenti approcci, dal momento che dei differenti sistemi dei Vertebrati è possibile delineare il percorso storico-evolutivo che li ha portati alla configurazione attuale e, di quest’ultima, è possibile analizzare gli aspetti funzionali da un punto di vista fisiologico e di sviluppo. Ad esempio, confrontando la funzionalità dell’orecchio medio nei Rettili e nei Mammiferi attuali, è possibile constatare come la maggiore acuità uditiva dei secondi nasca da una struttura profondamente diversa, con una membrana timpanica molto ampia che riesce a convogliare sulla staffa una quantità di energia tale da vincere l’impedenza dell’endolinfa; inoltre, la concatenazione degli ossicini dell’orecchio medio (staffa, incudine e martello) agisce come un sistema di leve in grado di aumentare fino a una volta e mezzo l’amplificazione del suono rispetto alla condizione rettiliana, caratterizzata da un singolo ossicino (corrispondente alla staffa dei Mammiferi) (Liem et al., 2002). E questo è il settore di pertinenza del biologo funzionale, ma anche il biologo evolutivo ha la sua voce in capitolo: per comprendere infatti come si sia arrivati alla configurazione attuale, non possiamo non tenere conto dei dati storici, documentati da una ricca serie di reperti fossili dei Terapsidi, i Rettili mammaliformi che hanno preceduto il piano strutturale dei Mammiferi (cfr. Carrol, 1988; Benton, 2000). In queste forme estinte si assiste al progressivo cambiamento di struttura e di funzione di due ossa di sostituzione (quadrato e articolare) originariamente e tuttora coinvolte nell’articolazione della mandibola al cranio nei Vertebrati con endoscheletro ossificato, ad eccezione dei Mammiferi dove tale articolazione coinvolge due ossa dermiche (dentale e squamoso). In questi ultimi il quadrato, come incudine, e l’articolare, come martello, sono contenuti nell’orecchio medio, fungendo, insieme alla staffa, da trasmettitori e amplificatori delle vibrazioni sonore. E’ molto probabile che quadrato e articolare iniziarono a svolgere una funzione legata all’udito durante il processo di perdita di quella precedente, strutturale-meccanica: infatti, la loro posizione di contiguità con la regione otica li rendeva già “disponibili” e adatti alla nuova 60 funzione. Essi erano “preadattati” al loro nuovo ruolo quando ancora funzionavano da ossa mascellari. Un carattere preadattato, dunque, svolge una funzione nel progenitore, ma è predisposto, in modo del tutto casuale e non per una sorta di “premonizione finalistica”, a svolgere una funzione differente nei discendenti. Gould (cfr., 2003) ha comunque proposto di sostituire il termine preadattamento, per i possibili fraintendimenti in chiave teleologica, con il termine certamente più neutro ma non altrettanto evocativo di exaptation. Anatomia comparata e Biologia evolutiva I caratteri anatomici possono essere utilizzati nella ricerca evoluzionistica in quanto indicatori del grado di parentela fra gli organismi di cui si tenti di ricostruire le relazioni tassonomiche. In quest’ottica, il carattere anatomico assume il valore di carattere tassonomico, cioè un qualunque attributo di un membro di un taxon, per il quale esso differisce o può differire da un membro di un taxon diverso (Mayr, 1982b). I caratteri tassonomici hanno una duplice funzione: permettono di effettuare la diagnosi delle specie e di altri taxa e di rilevare le affinità. L’utilità di un carattere per la classificazione dipende dal suo contenuto di informazione, cioè dalla sua correlazione con il raggruppamento reale dei taxa prodotto dall’evoluzione. Infatti le caratteristiche morfologiche e anatomiche più utili in tassonomia differiscono da un gruppo sistematico all’altro. Nei Mammiferi, ad esempio, sono particolarmente utili l’osteologia cranica e la struttura dentaria; negli Uccelli le caratteristiche del piumaggio; nei Rettili i diversi caratteri cranici, le dimensioni, il numero e la forma delle squame. Un altro concetto importante riguarda il fatto che i differenti caratteri morfoanatomici possono rivestire un diverso significato evolutivo e, conseguentemente, un differente grado di utilità ai fini tassonomici. In particolare, occorre distinguere fra quei caratteri che rappresentano degli adattamenti generali e quelli che costituiscono invece adattamenti speciali (cfr. Mayr, 1982b; Mayr & Ashlock, 1991). Gli adattamenti generali sono caratteri di tipo conservativo, che evolvono cioè lentamente e sono spesso condivisi in uno stato simile dalla maggioranza, se non da tutti i membri di un taxon. Essi costituiscono i caratteri chiave di un dato raggruppamento tassonomico, le strutture che si sono evolute agli albori della storia evolutiva del gruppo, consentendogli di occupare una nuova zona adattativa o un nuovo stile di vita: una volta affermatisi, questi caratteri non vanno più incontro a grossi cambiamenti perché rappresentano un adattamento alle condizioni ambientali più diverse. Di conseguenza, gli adattamenti generali sono utili per il riconoscimento delle categorie tassonomiche superiori, dagli ordini in su. Gli adattamenti speciali sono invece quei caratteri con un tasso evolutivo più rapido, che rappresentano la risposta a condizioni ambientali variegate e possono essere utilmente impiegati per diagnosticare i livelli tassonomici dalla famiglia in giù. Ad esempio, la struttura degli incisivi a forma di scalpello e a crescita continua nei Roditori attuali è molto simile a quella dei Roditori fossili più antichi, designando quindi il rango dell’ordine Rodentia: tutte le specie riferibili a questo taxon, dal più piccolo topolino della case al castoro o all’istrice, condividono questo stesso, comune, adattamento generale che costituisce il carattere chiave dei Roditori come gruppo 61 tassonomico, come ordine. Viceversa, se consideriamo altri caratteri della dentizione, per esempio i molari, osserveremo che le specie appartenenti alla famiglia Microtidae (le arvicole o topi campagnoli) hanno molte cuspidi taglienti come adattamento speciale a un’alimentazione che si basa su materiali vegetali; le specie riferibili ai Muridae (topi e ratti) possiedono invece dei molari di tipo bunodonte, cioè con cuspidi arrotondate, che rappresentano un adattamento speciale a un tipo di alimentazione onnivora (Fig. 5). In questi ultimi anni, gli approfondimenti metodologici della tassonomia cladistica hanno permesso di definire in modo rigoroso l’utilità dei caratteri tassonomici nella ricostruzione filogenetica e nella classificazione. E’ diventato sempre più chiaro che, oltre alla indispensabile distinzione tra omoplasie (caratteri condivisi per convergenza) e omologie (caratteri condivisi per eredità), occorre anche distinguere le omologie ancestrali o plesiomorfie da quelle derivate o apomorfie e ritenere solo quest’ultime ai fini filogenetici. Per la discriminazione tra omoplasie e omologie sono stati messi a punto vari approcci metodologici, ma sicuramente quello oggi più diffuso nella pratica tassonomica è il metodo basato sul principio di parsimonia (entia non sunt multiplicanda praeter necessitatem), che risale alla filosofia dello scolastico Guglielmo di Ockam (circa 1280-1347). Si dia per esempio il caso di dover classificare tre organismi, una trota, una balena e un topo, disponendo di un set di caratteri utili per inferire la parentela evolutiva. La balena ha una forma simile a quella della trota ed entrambe sono fornite di “pinne”, ma la balena ha un maggior numero di caratteri in comune con il topo (cuore quadriloculare, presenza di polmoni, endotermia, viviparità, etc.) che con la trota. E’ dunque più semplice fare l’ipotesi che la forma affusolata si sia evoluta due volte e rappresenti perciò un’omoplasia e non, al contrario, pensare che siano state tutte le caratteristiche comuni alla balena e al topo a evolversi Fig. 5. Adattamenti generali (incisivi a crescita continua) e due volte. Concludiamo quinspeciali (struttura dei molari) nei Roditori. M1 = primo molare di che quest’ultime caratteristisuperiore, in alto in un Microtide, in basso in un Muride che rappresentino delle omologie e che la balena abbia (modificato da Locatelli & Paolucci, 1998 e Nappi, 2001). 62 rapporti di parentela più stretti con il topo. Quando ci troviamo di fronte a dati contrastanti scegliamo sempre la spiegazione più semplice. L’importanza, poi, di discriminare tra plesiomorfie e apomorfie nasce dal fatto che solo queste ultime, cioè i caratteri ereditati dall’ultimo progenitore in comune, sono informativi della genealogia evolutiva. Ad esempio, la presenza di cinque dita, pur costituendo un’omologia, è un carattere ingannevole per la ricostruzione filogenetica all’interno del taxon Mammalia: infatti, l’antenato comune di tutti i Mammiferi possedeva già cinque dita e in alcune linee si è verificata una modificazione di questo carattere. Raggruppare tutti i Mammiferi con cinque dita separate significherebbe semplicemente individuare quelle linee in cui il carattere, inizialmente comune a tutti, non è andato perduto. La metodologia che la scuola cladistica ha introdotto per operare tale scelta è il confronto con un “gruppo esterno” (out group comparison), un taxon genealogicamente vicino (sister group o gruppo fratello) a quello di cui vogliamo ricostruire la filogenesi (in group). L’approccio cladista assume che lo stato del carattere condiviso da una o più specie del gruppo in esame con l’out group, costituisca lo stato ancestrale che si trovava nel più remoto antenato comune: per valutare, all’interno del taxon Carnivora, quale dei due stati sia quello apomorfo, se la mano con cinque dita libere presente nell’orso e nel cane, o la pinna di foche e otarie, si guarderà la condizione presente in un out group come l’uomo, appartenente all’ordine Primates. Dobbiamo infatti aspettarci che la condizione presente in quest’ultimo sia quella primitiva (adattamento generale), plesiomorfa, per il gruppo in esame. La mano pentadattila, che si trovava nel più remoto antenato comune a Carnivori e Primati, si è ragionevolmente conservata nell’uomo e in alcune specie del taxon Carnivora, mentre si è trasformata nel corrispondente stato apomorfo, la pinna, in foche e otarie. Possiamo quindi concludere che gli adattamenti generali rappresentino valide sinapomorfie ad alti livelli della gerarchia sistematica, mentre diventano delle simplesiomorfie quando scendiamo nella gerarchia tassonomica. Ad esempio, la colonna vertebrale è senz’altro una caratteristica sinapomorfica del subphylum Vertebrata, ma a livello della classe Mammalia, assume il valore di una plesiomorfia, priva di qualsiasi contenuto informativo circa la posizione dei Mammiferi rispetto alle altre classi di Vertebrati. Occorrerà quindi individuare altri caratteri in grado di designare il livello in cui i Mammiferi si sono “staccati” come ramo distinto della genealogia dei Vertebrati: alcuni esempi di sinapomorfie che segnano tale livello della gerarchia tassonomicofilogenetica potrebbero essere i peli o altri derivati cutanei, quali le ghiandole sudoripare o mammarie. Ma se scendiamo a livello di singoli ordini mammaliani, la presenza di peli diventa una plesiomorfia. Dobbiamo quindi rivolgere la nostra attenzione a “caratteri chiave” che hanno favorito la separazione di queste ramificazioni secondarie della genealogia mammaliana. Nel caso dell’ordine dei Primati, tali sinapomorfie sono senz’altro rappresentate dalle unghie piatte o dal pollice opponibile, chiari adattamenti allo stile di vita dell’antenato comune arboricolo delle scimmie attuali, uomo compreso. Il problema dell’utilizzo dei caratteri morfo-anatomici come indicatori di evoluzione offre non poche difficoltà a causa della natura adattativa della maggior parte di tali 63 caratteri. In ogni momento, infatti, le interazioni tra gli organismi e i loro ambienti definiscono una serie di più o meno vasti campi o zone adattative (Simpson, 1953). Tutti gli organismi che condividono uno stesso livello di organizzazione strutturale come adattamento ad una specifica zona adattativa costituiscono un grado evolutivo. Per clado si intende invece un gruppo di specie che condividono uno stesso comune progenitore, costituendo quindi un gruppo monofiletico (Fig. 6) (cfr. Futuyma, 1986). Non sempre i due concetti coincidono: scopo del sistematico evolutivo è di riconoscere e denominare i cladi, in quanto “prodotti” della filogenesi, escludendo i gradi in quanto possibile risultato di evoluzione convergente o parallela. La ricerca è tuttavia complessa: membri di uno stesso clado possono infatti appartenere a gradi differenti in virtù della differente velocità evolutiva a cui sono sottoposti i caratteri morfologici, “bersaglio” della selezione naturale. E’ il classico caso degli Uccelli e dei Coccodrilli che, pur appartenendo allo stesso gruppo monofiletico, o clado, degli Arcosauromorfi, si collocano in due zone adattative profondamente diverse: gli Uccelli si sono infatti allontanati moltissimo -in seguito ai molteplici adattamenti al volo- dal grado strutturale rettiliano. Spesso è dunque assai utile confrontare i dati della morfologia e dell’anatomia, che pure rappresentano l’insostituibile punto di partenza, con set di dati che siano indipendenti da questi, come quelli chimico-molecolari o ecoetologici. A proposito del diverso tasso evolutivo dei tratti morfo-anatomici, consideriamo il caso di una specie che evolve un nuovo piano organizzativo, un carattere chiave che le consente di accedere a una nuova zona adattativa. Mentre la penetrazione iniziale nella nuova zona è dovuta a un adattamento generale, l’evoluzione successiva determinerà una radiazione adattativa, in cui le specie discendenti divergeranno dalla forma ancestrale, adattandosi progressivamente alle varie sottozone o nicchie ecologiche particolari. Talvolta la divergenza sul piano morfo-anatomico è talmente marcata da “mascherare” le reali affinità filetiche fra i discendenti di questa specie ancestrale. Un caso emblematiFig. 6. Le interazioni tra gli organismi e i loro ambienti definiscono una serie di campi o zone adattative (aree co è quello dell’ordine dei Cetacei, in grigio). Membri di uno stesso clado possono comprendente i due grandi gruppi appartenere a gradi differenti a causa delle differenti degli Odontoceti e dei Misticeti, caratterizzati da anatomie, modi di velocità evolutive (da Futuyma, 1986). 64 Fig. 7. Il complemento cromosomico di un Misticeto, la Balenoptera borealis, in alto, è identico a quello di un Odontoceto, il Delphinus delphis, in basso. Ciò suggerisce che balene e delfini siano i discendenti di un antenato comune (da Austin & Short, 1980). vita e nicchie trofiche così divergenti da aver fatto ipotizzare, in passato, un’origine polifiletica per essi (cfr. Dal Piaz & Malaroda, 1966). Se però si guarda a caratteristiche genomiche come la struttura cromosomica, si scopre che è pressoché impossibile discriminare al microscopio i cromosomi di una balena da quelli di un delfino: i loro assetti cariotipici sono infatti del tutto sovrapponibili, non solo per quanto concerne il numero diploide (2n = 44), ma anche per la struttura e il bandeggio fine degli omologhi (Austin & Short, 1980, Fig. 7). La stessa classica dicotomia dei Cetacei in Odontoceti e Misticeti è stata recentemente messa in discussione; infatti, filogenesi molecolari basate sulla comparazione di geni mitocondriali hanno evidenziato una profonda unitarietà filogenetica del gruppo, con i Misticeti sister group dei capodogli (Milinkovitch et al., 1993). Se una faccia della medaglia è rappresentata dalla divergenza, l’altra è la convergenza, che si verifica quando strutture diverse tendono ad assumere forme e funzioni simili per effetto delle stesse pressioni selettive. Anche in tal caso il confronto con dati non morfologici può aiutare a chiarire punti controversi. Un esempio calzante è rappresentato dagli avvoltoi americani quali il condor delle Ande (famiglia Catarthidae), a lungo considerati un gruppo di Falconiformi, che comprendono i rapaci del Vecchio Mondo come falchi, aquile e avvoltoi. In particolare, con questi ultimi condividono becchi e artigli acuminati e, soprattutto, testa e collo nudi, caratteristiche che consentono di inserire il capo all’interno delle carogne per strapparne le viscere, senza 65 danneggiare il piumaggio. Osservando però l’assetto cromosomico del condor, si individua subito una particolarità, la cosiddetta bimodalità del cariotipo, con una serie di cromosomi di grandi dimensioni, i macrocromosomi, a cui si contrappone una serie di piccoli microcromosomi. L’assetto cromosomico di un Falconiforme che assomiglia molto al condor, l’avvoltoio del Capo, presenta un quadro molto diverso mentre, sorprendentemente, i Ciconiformi hanno un corredo cariotipico identico a quello degli avvoltoi americani (cfr. Capanna, 1989, Fig. 8). Queste evidenze citogenetiche, sono state anche confermate da esperimenti di ibridazione del DNA (Sibley & Ahlquist, 1999) e hanno portato alla conclusione tassonomica di includere i Catartidi all’interno dei Ciconiformi. Fig. 8. Il cariotipo del condor delle Ande, al centro, è confrontato con quelli della cicogna bianca, in alto, e dell’avvoltoio del Capo, in basso. La netta somiglianza cariotipica tra condor e cicogna è ben evidente non solo per la netta asimmetria del cariotipo con numerosissimi microcromosomi, ma anche per l’identità morfologica delle prime coppie di macrocromosomi (da Capanna, 1989). Anatomia comparata e Biologia funzionale Se la Biologia evolutiva enfatizza il significato dei tratti morfo-anatomici quali “indicatori filogenetici”, la Biologia funzionale ne esalta la loro utilità quali “indicatori di adattamento”. In particolare, le ipotesi sul valore adattativo di un carattere sono basate sull’assunzione che alcune particolari configurazioni di una struttura anatomica conferiscano a chi le possieda una maggiore capacità di sopravvivenza rispetto ad altre (Ridley, 2004). Queste ipotesi possono essere verificate con un approccio ingegneristico, cioè alterando sperimentalmente la struttura di cui vogliamo saggiare il significato adattativo, confrontandone poi la funzione, la performance, con il pattern inalterato. L’altro approccio è il classico metodo comparativo, che consiste nel confrontare la stessa struttura in specie correlate (cfr. Gans, 1974). Come esempio dell’approccio ingegneristico mi riferirò a un argomento che rappresenta un “cavallo di battaglia” dell’Anatomia comparata: il significato adattativo del palato secondario nei Mammiferi, evolutosi a partire da un palato primario in cui le narici interne o coane si aprivano anteriormente nella volta palatina. Nel corso dell’evoluzione dei Terapsidi, la posizione delle coane andò gradualmente arretrando 66 per il cambiamento dell’architettura di alcune ossa, in particolare mascellari, premascellari e palatine, che formarono come un ponte, un “controsoffitto”, che raddoppiò il palato originario formando il palato secondario. In classici testi di Anatomia comparata, quali ad esempio il Romer (1978) e il Padoa (1982), viene riportato in modo apodittico che il significato evolutivo-adattativo di questa struttura sarebbe legato alla separazione fra vie respiratorie e vie alimentari, e alla conseguente possibilità per i Mammiferi di realizzare un flusso respiratorio costante durante la masticazione. Alcuni autori americani hanno sottoposto a verifica questa ipotesi attraverso un approccio ingegneristico (Thomason & Russel, 1986; Russel & Thomason, 1993). A tale scopo hanno esercitato su crani di opossum forze tangenziali all’altezza degli archi zigomatici in strutture integre, fessurate a livello del palato e completamente private del palato secondario e hanno misurato la conseguente alterazione elastica del cranio. Nei crani integri la resistenza a queste forze è molto elevata, mentre è risultata minima in quelli mancanti delle strutture ossee palatali. La conclusione, molto ragionevole, è che il palato secondario abbia rivestito, nel corso dell’evoluzione dei Rettili mammaliformi prima e dei Mammiferi poi, una funzione primaria di irrobustimento meccanico della regione rostrale del cranio, in rapporto alla profonda riorganizzazione del complesso mascellare in cui si sono modificati a) la struttura della mandibola, b) i suoi muscoli adduttori e c) la dentizione che è diventata eterodonte. Una maggiore rigidità era necessaria proprio per garantire un’efficace resistenza alle sollecitazioni meccaniche che si sviluppavano durante periodi di masticazione progressivamente più lunghi rispetto alla condizione rettiliana. La funzione legata alla respirazione, richiamata nei testi di Anatomia comparata, rappresenta probabilmente una conseguenza secondaria, ma non il primum movens dell’evoluzione del complesso palatale dei Mammiferi (cfr. Caputo, 1991). Riguardo al metodo comparativo, richiamerò i risultati di ricerche che ho svolto su un gruppo di Rettili molto interessanti, le specie del genere Chalcides (Squamata, Scincidae) (Caputo, 2004; Caputo et al., 1995, 2000; Greer et al., 1998). L’interesse suscitato nell’anatomocomparato nasce dal fatto che specie strettamente affini mostrano piani corporei profondamente diversi, con forme tetrapode e pentadattile, tipicamente lacertiformi Fig. 9. Due specie di Scincidi del genere Chalcides. A = (Fig. 9A), e forme che hanno acgongilo (C. ocellatus); B = luscengola (C. chalcides). quisito una morfologia “da ser67 pente” (Fig. 9B) attraverso l’incremento nel numero di vertebre e la progressiva riduzione degli arti. Le specie allungate utilizzano sempre meno gli arti per la locomozione e sempre più l’ondulazione laterale del corpo e differiscono dalle specie congeneriche con gli arti ben sviluppati anche quanto ad ambienti di vita. Queste ultime vivono infatti in habitat caratterizzati da fitta vegetazione arbustiva, mentre le specie serpentiformi si sono adattate ad ambienti prativi o sono diventate fossorie in zone sabbiose. Una caratteristica che le specie del genere Chalcides condividono con gli altri Rettili è il fatto di essere animali assai criptici, trascorrendo gran parte della propria vita nascosti in cavità del terreno, fra le radici o nei tunnel che essi stessi provvedono a scavare. Vivere sotto terra ha dei chiari vantaggi, poiché il microclima sotterraneo è “tamponato” dal suolo circostante: vivere in un tunnel permette di sfuggire alla radiazione solare diretta e alla escursione termica notturna; le cavità entro il suolo hanno spesso un tasso di umidità più elevato rispetto alla superficie. La vita fossoria permette inoltre di sfuggire all’attenzione di molti predatori. Una “strategia adattativa” che ha spesso consentito ai Rettili di occupare queste nicchie sotterranee è stata la miniaturizzazione: già i primi Amnioti del Carbonifero medio, Hylonomus e Paleothyris, non erano più lunghi di 20 cm compresa la coda e si nascondevano in fessure del terreno e tronchi cavi, come testimoniano i fossili di queste forme ancestrali (Benton, 2000). La tendenza verso la miniaturizzazione ha infatti un ovvio vantaggio selettivo: poiché il costo energetico per scavare un tunnel aumenta in funzione del diametro del tunnel stesso, la diminuzione del diametro corporeo ridurrà l’ammontare di energia necessaria per penetrare nel terreno. Il risparmio energetico rappresenta quindi la “molla” che avrebbe innescato il rimpicciolimento corporeo, con profonde ripercussioni sull’anatomia e, in particolare, sul cranio. Nei Rettili, questo può essere visualizzato come due cilindri concentrici, uno più esterno, il dermatocranio che include uno più interno, il neurocranio che a sua volta avvolge e protegge l’encefalo. Inoltre, i vari segmenti del cranio rettiliano possono essere considerati come elementi funzionali relativamente indipendenti gli uni dagli altri (“cranio cinetico”), con due fondamentali punti cardine, il giunto mesocinetico e il giunto metacinetico (Fig. 10), che permettono al complesso mascelFig. 10. Modello di cranio cinetico di Squamato (da Arnold, 1998) lare un’ampia mo68 bilità rispetto alle altre componenti craniche: ciò consente alla mascella di fare una presa ottimale sulle prede, evitando che queste sfuggano al morso (cfr. Arnold, 1998). Un aspetto interessante è che, in conseguenza della miniaturizzazione, si riducono le dimensioni complessive del cranio, ma il neurocranio non può rimpicciolire oltre un certo limite, poiché i canali semicircolari in esso contenuti perderebbero altrimenti la loro funzionalità. Si può quindi osservare che, mano a mano che le dimensioni assolute del cranio si riducono, le dimensioni relative del condrocranio vanno viceversa aumentando. Questo fenomeno ha delle conseguenze funzionali, determinando nelle piccole specie fossorie del genere Chalcides l’obliterazione del giunto metacinetico. Infatti, col progressivo incremento delle dimensioni relative della scatola cranica, questa si fa sempre più vicina al dermatocranio, riducendo la finestra postemporale Fig. 11. Col progressivo incremento delle dimensioni relative del condrocranio, questo si fa sempre più vicino al dermatocranio, riducendo la finestra postemporale (Fp) a una sottile fessura. A = Chalcides polylepis, specie di grossa taglia; B = C. mauritanicus, specie miniaturizzata (crani in norma occipitale, disegnati a scala diversa. Da Caputo, 2004). a una sottile fessura e riducendo la mobilità tra la componente dermica e la componente condrale del cranio (Fig. 11). Per le stesse ragioni, anche la finestra temporale superiore tende a diventare una sottile fessura, determinando una maggiore compattezza del cranio. Queste stesse relazioni allometriche si osservano a livello intraspecifico quando si confrontino individui di differenti età, con i giovani caratterizzati da crani piccoli ma scatola cranica proporzionalmente maggiore rispetto agli adulti. E’ dunque chiaro che negli adulti miniaturizzati in seguito a eterocronia di svilupFig. 12. Nelle specie fossorie del genere Chalcides le po, la maggiore rigidità cranica possa ossa pre- e postfrontale (frecce), largamente separa- aver costituito un vantaggio adattativo te nelle forme meno specializzate (A = C. chalcides), poiché il cranio, in questi animali scavasono invece articolate fra loro (B = C. sepsoides) (da tori, costituisce il fondamentale organo Caputo, 2004). di scavo. Nelle radiografie mostrate in 69 Fig. 12 si può osservare, infine, un’altra caratteristica evolutasi nelle specie scavatrici del genere Chalcides, cioè la solida articolazione tra le ossa pre- e postfrontale, che sono invece largamente separate nelle forme meno specializzate. Tale articolazione, bloccando il movimento del giunto mesocinetico, impedisce la conseguente rotazione della regione del muso rispetto al dermatocranio, col possibile significato funzionale di rendere rigida la regione preorbitale del cranio, fortemente sollecitata durante lo scavo. Il confronto con specie appartenenti a famiglie filogeneticamente distanti da quella oggetto del mio studio, ma che hanno imboccato anch’esse la strada verso la fossorialità, indica soluzioni dello stesso tipo, quali una maggiore rigidità cranica e rapporti articolari modificati (cfr. Rieppel, 1984). Considerazioni conclusive In conclusione, voglio sottolineare che l’Anatomia comparata, nelle impostazioni più moderne, guarda all’evoluzione dei complessi morfo-funzionali dei Vertebrati in relazione all’occupazione di nuove zone adattative, abbracciando aspetti molteplici della Biologia di questi animali. Ed è proprio dall’integrazione dell’Anatomia comparata con la Biologia molecolare e la Genetica dello sviluppo, ma anche con l’Ecologia e la Biologia del comportamento (cfr. Liem et al., 2002), che sta emergendo una multidisciplinarità in grado di rivitalizzare una materia che molti ritengono, a torto, aver fatto definitivamente il suo tempo. Ciò non potrà che avere effetti positivi sulla didattica, considerato che l’insegnamento universitario è legittimato dall’esperienza scientifica del docente e dai suoi contributi originali alla conoscenza della materia, che ne arricchiscono di continuo il contenuto. Vorrei, infine, fare un cenno alla polemica della scorsa primavera sulla proposta legislativa di abolire l’insegnamento dell’evoluzionismo dalle scuole medie. In particolare, alcuni articoli giornalistici sembravano adombrare possibili ingerenze della gerarchia cattolica nella spinosa querelle (Fig. 13). In realtà, anche leggendo uno degli ultimi saggi di Gould (2004), mi sono convinto dell’infondatezza di questi sospetti. Fig. 13. Vignetta satirica, pubblicata sul quotidiano “La Re- Nell’articolo, in cui Gould tratpubblica”, in riferimento alla polemica sull’insegnamento ta dell’indipendenza dei magidell’evoluzionismo nelle scuole medie. steri della religione e della scien70 za, viene citata una frase molto significativa dell’attuale Pontefice, da cui si evince come la Chiesa cattolica abbia accettato l’evoluzione come fatto provato: “Oggi … nuove conoscenze hanno condotto a non considerare più la teoria dell’evoluzione come una mera ipotesi” (Giovanni Paolo II, discorso ai Membri della Pontificia Accademia delle Scienze nell’ottobre 1996). L’importanza attribuita da uno degli estensori della proposta di legge alla dimensione favolistica del mito, rispetto all’obiettività delle Scienze naturali, fa piuttosto pensare a una frettolosa rilettura della riforma Gentile del 1924. Il Filosofo siciliano, allora ministro della Pubblica istruzione, aveva infatti reintrodotto la religione fra le materie scolastiche delle elementari, come disciplina che dovesse gettare le basi per lo studio successivo della filosofia (cfr. Romano, 2004). Ma il pericolo incombente per l’Anatomia comparata e che, più in generale, sta minando alla base la raison d’être dell’insegnamento accademico (cfr. Ortega y Gasset, 1991), è la “metamorfosi aziendalistica” dell’università, cioè la sua trasformazione in senso sempre più tecnicistico e modulare (Derrida & Rovatti, 2002). In questa inquietante deriva aziendale, temo che le materie evoluzionistiche, non avendo un taglio immediatamente “produttivo”, saranno le prime a essere sacrificate: il caso emblematico di Napoli, dove l’Anatomia comparata è stata soppressa proprio nell’Ateneo in cui era nata come disciplina accademica, dà un’idea precisa del vento che spira. Concludo il mio intervento con una frase del grande anatomico umano Joseph Hyrtl (1887), che pur essendo un “applicativo”, era anzitutto un uomo di cultura, mercanzia ormai quasi introvabile nei nostri atenei-super market: L’Anatomia comparata non giova immediatamente come l’applicata anatomia ai bisogni del pratico, la sua nobiltà non poggia sulla considerazione materiale dell’utile, bensì sul perfezionamento dello spirito col vero. Vincenzo Caputo Istituto di Biologia e Genetica dell’Università Politecnica delle Marche Bibliografia M. Alizi Cappelletti 1989 La biologia italiana dell’Ottocento, pp. 492-533. In: Storia sociale e culturale d’Italia, volume quinto. Bramante Editrice, Busto Arsizio E. N. Arnold 1998. Cranial kinesis in lizards. Variations, uses, and origins EVOL. BIOL., 30: 323-357 C. R. Austin, R. V. Short 1980 The evolution of reproduction Cambridge University Press, Cambridge M. Benton 2000 Vertebrate palaentology Blackwell Science, Cambridge M. F. 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E ancora, quando si parla, in Anatomia comparata ma anche in altre discipline, si dice “si sono evoluti per” “questo gli permetteva di” e quindi “hanno modificato la loro struttura “in funzione di”, così è come metterci un finalismo, mentre quando si insegna ai ragazzi bisogna dire che non c’è finalismo. Quindi è difficile per degli insegnanti spiegare in modo non contraddittorio le varie discipline, tant’è vero che poi i ragazzi molto spesso fanno confusione, ma non solo i ragazzi, ma anche tutti gli articoli che si leggono sui normali mass media, direi di più, anche i ricercatori, i quali si esprimono in un modo in alcune discipline e in altro in altre discipline. Vincenzo Caputo Riguardo alla prima questione, forse questa nebulosità nasce dalla molteplicità dei meccanismi di speciazione: in certi casi, la popolazione fondatrice che darà origine a una nuova specie può essere costituita da pochi individui (una singola femmina gravida, nel caso di entità partenogenetiche), secondo il modello peripatrico o dell’isolato periferico di Mayr; al contrario, nel modello classico di speciazione allopatrica (modello dicopatrico di Mayr), una popolazione-specie ancestrale viene suddivisa in due da una qualche barriera geografica, e da tali ampie sottopopolazioni, costituite da un elevato numero di “progenitori”, si origineranno in seguito due specie distinte. Riguardo poi al “finalismo latente” che si annida nel nostro modo di esprimerci, è un chiaro esempio del retaggio culturale derivante dalla rappresentazione del processo evolutivo come un “cammino di progresso”, a sua volta scaturito dal modo di raffigurare la realtà biologica come una Scala naturae di progressivo perfezionamento, di derivazione scolastico-platonica. Bianca Isolani E’ proprio il retaggio delle culture che fanno sì che anche noi, nel XXI secolo, siamo pieni degli stessi pregiudizi che si avevano nei secoli scorsi e che noi siamo abituati a considerare dei secoli scorsi e che noi non ne abbiamo, invece, il fatto stesso che parliamo di peccato originale, di antenato comune ecc., ripercorre degli schemi che sono religiosi, perché è l’antenato comune che non si sa se è uno o è una coppia come dall’arca di Noè. Perché non si usa la terminologia plurale? Ma no, si è scelta la terminologia singolare. La stessa cosa si è fatta per il DNA , che viene considerato “il DNA”, e non “i DNA”: Perché si dice “le proteine” e invece si dice “il DNA”? Perché si è quasi divinizzata questa molecola. Io parlo da persona che durante la propria vita professionale è stata profondamente delusa dalla Scienza, la religione l’avevo già abbandonata perché non soddisfaceva la mia razionalità, la Scienza avrebbe dovuto soddisfarla, invece, ancora adesso, trovo che non viene soddisfatta, e questo vale non solo per me che ci ho riflettuto a lungo, ma molto probabilmente non soddisfa neanche i ragazzi e non soddisfa neanche l’opinione pubblica, tant’è vero che da parte dell’ANISN è stato fatto il lavoro “Il declino della Scienza”. Se un ragazzo è costretto ad usare schemi finalistici in certi momenti e non finalistici in altri, perché da un lato si dice che c’è il gradualismo, ma poi si parla di antenato comune, bisognerebbe che ci fosse un catastrofismo per cui quasi tutti muoiono e rimangono solo quelli che erano 74 adatti, però non è confermato, anche se in certi momenti può esserlo. Quando noi insegniamo ai ragazzini le Scienze pretendiamo che abbiano una visione razionalistica e molto critica mentre lo schema generale della Scienza non è razionale, dietro c’è tutta una filosofia che deriva dai nostri pregiudizi ancestrali e occorrerebbe che si facesse molta chiarezza su questo con tante, tante discussioni, soprattutto nell’ambito ANISN, perché siamo noi quelli che devono usare degli strumenti, dei cui difetti ci accorgiamo ma che non spetta a noi singoli mettere a punto. Ci vuole una riflessione collettiva, e questo non è stato mai fatto. Oggi parlare delle cose della natura, dando un quadro organico, come aveva fatto Lucrezio riprendendo da Epicureo, praticamente non è mai stato fatto ed invece è questo che noi dobbiamo pretendere che si faccia, dobbiamo avere anche la chiarezza, secondo me, di mettere in evidenza tutti i punti oscuri, invece, da molti colleghi, quando esprimo i miei dubbi, mi sento dire che ai ragazzi bisogna dare certezze, no, ai ragazzi non bisogna dare certezze, bisogna dare tanti dubbi: è questa secondo me l’educazione da dare; così ognuno può pensare che lui stesso può costruire qualcosa, che lui stesso,può arrivare a certe mete. E se ci sono cose che non vanno bene nei libri di testo, o nel nostro stesso insegnamento, se il ragazzino ci fa notare che ci sono contraddizioni, è corretto rispondere che, sì, ci sono contraddizioni, io stessa molte volte mi esprimo in modo contraddittorio. Però molto spesso la contraddizione non è difetto nostro, è difetto proprio della “scienza ufficiale” che, da una parte non ha raggiunto determinati risultati (e spero che non li raggiunga mai sennò agli altri che cosa resta da studiare!) e dall’altra molto spesso viene anche divulgata in modo molto negativo. Robert Vignali Hai illustrato una revisione della posizione tassonomica e filetica dell’avvoltoio americano sulla base dell’analisi cromosomica, e questo tipo di analisi è ovviamente abbastanza importante, però vorrei che tu commentassi altre evidenze che in altre specie mostrano come, invece, forme estremamente affini anche dal punto di vista genetico, abbiano assetti cromosomici completamente diversi e quand’è che possiamo dare più importanza all’assetto cromosomico e quand’è che invece due assetti cromosomici completamente distinti non implicano necessariamente una lontananza filetica fra due specie. Vincenzo Caputo E’ anzitutto chiaro che non è possibile fare generalizzazioni partendo dal mero studio dell’assetto morfologico dei cromosomi: non è assolutamente certo che una somiglianza complessiva del cariotipo indichi sempre una stretta parentela filogenetica e che, al contrario, assetti cromosomici diversi indichino distanza tassonomica. Occorrerà sempre, nello studio dei processi evolutivi, tener conto di una molteplicità di dati, che spazino dalla morfologia, alla genetica, ma anche all’eco-etologia. Come giustamente enfatizzato da “mostri sacri” della scienza tassonomica come Mayr o Simpson, la sistematica è una disciplina sintetica che deve tener conto di informazioni che riguardino vari aspetti biologici: è dunque una scienza “olistica”. 75 L’evoluzione vista attraverso lo sviluppo R OBERT V IGNALI Uno dei principali nodi da risolvere per comprendere l’evoluzione è costituito dai meccanismi genetici che sottintendono alle variazioni morfologiche. L’interesse dei biologi evoluzionistici verso lo sviluppo è, in un certo senso, abbastanza ovvio. Infatti, se vogliamo studiare come la morfologia di una certa struttura si sia modificata durante l’evoluzione, dobbiamo capire come tale struttura si formi durante lo sviluppo. E’ durante lo sviluppo che si realizza la morfogenesi e che dunque viene creata la morfologia; se la morfologia di una struttura o di un organo si modifica e la variazione è ereditaria, questo non può che avvenire attraverso la modificazione dei programmi genetici alla base del suo sviluppo. In questo contributo verranno considerati alcuni esempi di come i geni controllino lo sviluppo, e di come modulazioni nella loro attività possano essere alla base di importanti transizioni morfologiche comparse durante l’evoluzione. Uno dei primi studiosi ad interessarsi della natura della variazione morfologica fu William Bateson (1894). Egli si occupò di catalogare un gran numero di variazioni morfologiche osservate in numerose specie diverse, come, ad esempio, la sostituzione di un paio di antenne sul capo di un insetto con un paio di zampe; o come la modificazione della prima vertebra cervicale, l’atlante, che normalmente non porta coste, in una vertebra fornita di coste; o come la comparsa di vertebre soprannumerarie in individui di una determinata specie. Secondo Bateson, se fossimo stati in grado di capire come le variazioni morfologiche si originassero all’interno di una specie, allora saremmo forse stati anche in grado di spiegare la natura delle variazioni morfologiche che differenziano i diversi gruppi animali, e, quindi, di spiegare importanti transizioni evolutive. Bateson previde tuttavia che, per arrivare a questo, sarebbe stato necessario un lungo e paziente lavoro, realizzando incroci sistematici tra individui portatori delle variazioni, e studiandone quindi la progenie, per cercare in essa modificazioni di una qualche entità, la cui interpretazione avrebbe consentito di dischiudere i segreti della variazione. Seguendo un approccio sistematico di questo tipo è stato possibile, in tempi più recenti, decifrare le modalità con cui viene costruito il piano strutturale di un organismo, il comune moscerino dell’aceto, la Drosophila melanogaster. Numerosi ricercatori si sono impegnati in quest’impresa, e tre fra di loro sono stati abbastanza audaci, capaci e fortunati da essere premiati, per i loro risultati, col premio Nobel nel 1995: Ed Lewis, Cristiane Nusslein-Volhard ed Eric Wieschaus. Perché è stata scelta la Drosophila come organismo modello per lo studio dello sviluppo animale? Le ragioni sono varie. Un primo motivo sta nel fatto che si tratta di una specie d’insetto facile da allevare in laboratorio, per la quale erano noti numerosi mutanti, sia per caratteri come il colore degli occhi o il numero delle setole su una certa appendice, 76 che per modificazioni strutturali più ingenti, come ad esempio il mutante bithorax, in cui un bel paio d’ali compare sul terzo segmento toracico al posto di un paio di ali ridotte (bilancieri), quali si osservano in un moscerino normale. Un secondo motivo consiste nel fatto che la genetica di questa specie è stata ben caratterizzata per lungo tempo: infatti, nelle cellule delle ghiandole salivari, le larve di questa specie possiedono cromosomi giganti, sui quali è stato possibile mappare gli alleli collegati a tali mutazioni, costruendo così una mappa fine dei cromosomi di Drosophila, molti anni prima del sequenziamento del suo genoma. Inoltre, sono stati messi a punto sistemi di screening genetici somministrando composti mutageni a drosofile adulte, o irraggiandole con raggi X, e quindi incrociando gli individui trattati; la progenie di tali individui veniva poi analizzata alla ricerca di nuovi mutanti che manifestassero anomalie dello sviluppo, di cui i geni responsabili potessero quindi essere studiati. L’isolamento di tali geni è stato reso possibile dallo sviluppo delle tecnologie di biologia molecolare, che tra l’altro, hanno consentito l’analisi della espressione genica utilizzando procedure come la ibridazione in situ, che permette di determinare la localizzazione dei trascritti di specifici geni, o come l’immunoistochimica, che consente la localizzazione di specifiche proteine tramite l’utilizzo di opportuni anticorpi. La Drosophila presenta una organizzazione segmentale, con il corpo costituito da numerosi segmenti, ed una chiara polarità antero-posteriore (AP) e dorso-ventrale (DV). Ciascun segmento consta di un compartimento anteriore ed uno posteriore, e ciascun segmento ha una precisa identità. Ad esempio, il primo segmento toracico porta solo un paio di appendici deambulatorie (zampe) e nessun paio di ali, il secondo segmento toracico porta un paio di zampe ed un paio di ali, il terzo segmento toracico porta un paio di zampe ed un paio di ali ridotte o bilancieri; i segmenti addominali non portano tali appendici, ma ciascuno di essi ha una sua precisa identità, e così pure i segmenti cefalici. La comparsa dei segmenti è preceduta durante lo sviluppo da quella dei parasegmenti, che risultano leggermente sfasati rispetto ai segmenti, ma per i quali valgono essenzialmente le stesse considerazioni valide per i segmenti. Ma come vengono stabiliti durante lo sviluppo tutti questi segmenti, e come a ciascuno di essi viene attribuita una precisa identità? Oggi sappiamo che tutto questo avviene attraverso la attivazione di un preciso programma genetico. Ad esempio, per quanto riguarda l’asse AP dell’embrione, inizialmente i prodotti dei geni materni stabiliscono delle coordinate generali (anteriore, posteriore, terminale) lungo l’asse AP dell’embrione. I prodotti dei geni materni servono ad attivare la trascrizione dei geni zigotici, inizialmente silenti. Tra questi, hunchback è uno dei primi, assieme ad altri geni zigotici detti gap, che cominciano ad individuare nell’embrione ampie regioni di cui dirigono lo sviluppo. Successivamente entrano in azione i geni “pair rule”, che sono espressi, secondo una periodicità precisa, in sette strisce trasversali; questi geni cominciano ad individuare i confini dei parasegmenti (e quindi dei segmenti). Temporalmente successivi ai geni pair rule, i geni della polarità segmentale individuano un preciso orientamento AP all’interno di ciascun segmento (ad esempio individuano il compartimento anteriore e quello posteriore). Infine i geni omeotici attribuiscono a ciascun 77 segmento una precisa identità, stabilendo la natura delle strutture e delle appendici che ciascun segmento deve sviluppare. In senso figurato, è come se “dicessero” al primo segmento toracico (T1) che deve portare un paio di zampe, al secondo segmento toracico (T2) che deve portare un paio di zampe ed un paio di ali, al terzo segmento toracico (T3) che deve portare un paio di zampe ed un paio di bilancieri, e così via. Oggi sappiamo dunque tutto questo, ma all’inizio queste categorie di geni furono identificate sulla base “dei disastri e delle mostruosità che causano le loro mutazioni” (Carroll et al., 2004). Così, mutazioni dei geni materni, i quali identificano delle coordinate generali lungo l’asse AP, possono produrre grosse alterazioni e la mancanza dell’intera regione anteriore (mutante bicoid), posteriore (mutante nanos), o delle regioni terminali (mutante torso). Mutazioni a carico dei geni zigotici gap, invece, hanno come conseguenza l’assenza di intere porzioni di embrione, grosso modo corrispondenti alle regioni in cui tali geni normalmente si esprimono. Mutazioni a carico dei geni pair rule hanno conseguenze su segmenti o parasegmenti alterni. La mancata funzione di geni della polarità segmentale ha come conseguenza un’alterazione della normale polarità AP di ciascun segmento. Mutazioni dei geni omeotici producono trasformazioni dell’identità di uno o più segmenti: ad esempio, nel mutante Antennapedia, un paio di zampe compaiono sulla testa al posto delle antenne; nel mutante bithorax, un secondo paio d’ali compare al posto dei normali bilanceri presenti sul terzo segmento toracico (il terzo segmento acquisisce in effetti l’identità segmentale del secondo) (Gilbert, 2003). I geni omeotici sono un gruppo di otto geni che nella Drosophila si trovano tutti su un medesimo cromosoma, il numero 3. Cinque di essi (Labial, Proboscipedia, Deformed, Sex Comb Reduced, Antennapedia) si trovano sul braccio lungo del cromosoma; gli altri tre (Ultrabithorax, Abdominal A, Abdominal B) sul braccio corto. Questi geni mostrano due particolari proprietà: la colinearità temporale e quella spaziale. Procedendo da una estremità all’altra del cromosoma (fissate arbitrariamente come 3’ e 5’) si trova infatti che quelli più vicini al 3’ sono espressi per primi durante lo sviluppo, e successivamente seguono in sequenza quelli via via più vicini al 5’ del cluster (colinearità temporale). Inoltre, i geni più prossimi al 3’ controllano le identità di regioni più anteriori, in cui sono attivi, rispetto a quelli che si trovano via via verso il 5’ (colinearità spaziale). Infine, tutti questi geni condividono una sequenza nucleotidica conservata di 180 nt, l’homeobox, che codifica per un dominio peptidico di 60 aa, pure conservato, l’omeodominio. Questo dominio, è un motivo strutturale costituito da tre alfa eliche congiunte da un ripiegamento (motivo helix-turn-helix) e consente alle proteine che lo contengono, e quindi ai prodotti genici dei geni homeobox, di riconoscere specifiche sequenze nucleotidiche sul DNA e di legarsi ad esse. Queste proteine contenenti l’omeodominio sono infatti fattori di trascrizione, in grado di regolare l’espressione di altri geni. Per capire come i geni omeotici controllino le identità dei segmenti della Drosophila possiamo prendere ad esempio l’effetto della delezione completa del complesso bithorax (geni Ubx, AbdA, AbdB). In questo caso tutti i segmenti posteriori al T2 (in cui viene a mancare l’attività di questi geni, che vi sarebbero normalmente espressi, cioè attivi) assumono la stessa identità e divengono tutti fenotipicamente simili al T2. Quindi 78 perdono la loro identità per assumerne una più anteriore; questo ci illustra il principio che la perdita di funzioni omeotiche determina una trasformazione anteriore dei segmenti interessati dalla perdita di funzione. Se adesso immaginiamo di partire da questa condizione di base in cui il complesso bithorax è assente, e di restituire ad uno ad uno i tre geni che abbiamo tolto, osserveremo che i segmenti, inizialmente tutti T2, vengono progressivamente trasformati, questa volta in senso posteriore, a mano a mano che aggiungiamo nuovamente i tre geni. Questo ci illustra un secondo punto, quello per cui un guadagno di funzione (aggiunta di funzioni geniche) porta ad una trasformazione posteriore dei segmenti in cui tale guadagno si realizza. Quindi: perdita di funzione, trasformazione anteriore; guadagno di funzione, trasformazione posteriore. Benché questo assunto sia un po’ una semplificazione, in realtà ci consente di orientarci abbastanza e di capire come questi geni possano controllare le identità segmentali nella Drosophila. Quanto abbiamo detto vale per la larva, ma vale anche per l’adulto, che si forma da gruppi di cellule selezionate, i dischi imaginali. Le cellule dei dischi imaginali mantengono le informazioni posizionali che hanno ricevuto durante lo sviluppo. Ad esempio, il disco imaginale dell’ala si forma da cellule selezionate all’interno del segmento T2, mentre quello del bilanciere si forma da cellule del segmento T3. Il disco dell’ala non esprime Ubx, mentre quello del bilanciere lo esprime. Se adesso immaginiamo di togliere Ubx dal disco del bilanciere (perdita di funzione) avremo che queste cellule, in termini di espressione dei geni omeotici, si troveranno nella stessa condizione delle cellule del disco dell’ala, e formeranno un’ala. Viceversa, se immaginiamo di fare esprimere Ubx nelle cellule del disco dell’ala (guadagno di funzione) avremo che da esso formerà un bilanciere, in quanto esse si troveranno in una situazione simile, dal punto di vista dell’espressione di Ubx, alle cellule del disco posteriore. Una delle scoperte più importanti degli ultimi decenni è stata l’osservazione che questi geni sono estremamente conservati nei phyla animali. Un gruppo più o meno esteso di geni omeotici si trova infatti in tutti i Metazoi, con la sola eccezione (forse) delle spugne. Nei vertebrati esistono addirittura quattro gruppi di geni omologhi al complesso omeotico della Drosophila, chiamati geni Hox. Questi gruppi sono disposti su quattro cromosomi diversi, ed anche per tali gruppi valgono le regole della colinearità spaziale e temporale viste per l’unico gruppo di geni omeotici della Drosophila. Se il corpo della Drosophila, osservato dall’esterno, mostra immediatamente la sua organizzazione segmentale, metamerica, il nostro corpo di vertebrati non appare immediatamente suddivisibile in unità metameriche. Tuttavia anche i vertebrati sono metamerici e tale organizzazione diviene più manifesta quando si consideri l’organizzazione della nostra colonna vertebrale, costituita da una serie di pezzi seriali, le vertebre, ciascuna delle quali ha una precisa identità, esattamente come i segmenti del corpo della Drosophila. Ebbene, anche nei vertebrati, i geni Hox, come i loro corrispondenti in Drosophila, sono in grado di controllare le identità regionali lungo l’asse AP, e quindi, tra l’altro, le identità vertebrali. Ad esempio, il gene Hoxb4, normalmente è attivo fino ad un livello anteriore che include l’abbozzo della seconda 79 vertebra cervicale, l’epistrofeo. La perdita della funzione Hoxb4 lascia questo abbozzo privo di questa funzione genica, e in una condizione paragonabile a quella presente nell’abbozzo più anteriore. La conseguenza di questa perdita di funzione è la trasformazione, in senso anteriore, dell’epistrofeo in atlante (Ramirez-Solis et al., 1993). Gli stessi principi visti in Drosophila valgono quindi anche nei vertebrati. Lo studio dell’anatomia comparata ci mostra l’esistenza di una variazione morfologica tra i vari gruppi, e, coi fossili, ci consente di osservare e quasi di toccare l’evoluzione morfologica. Tuttavia, non ci spiega i meccanismi genetici attraverso cui queste transizioni si sono realizzate. Ad esempio, ci informa che ogni specie o gruppo di vertebrati possiede un numero caratteristico di vertebre; sappiamo che per ogni regione della colonna vertebrale (cervicale, toracica, lombare, sacrale, caudale) il numero degli elementi vertebrali è caratteristico anch’esso dei vari gruppi. E’ significativo che i confini tra le varie regioni vertebrali siano costantemente segnati, nei vari gruppi, dai confini dell’espressione di specifici geni Hox. Ad esempio il confine tra la regione cervicale e quella toracica coincide con il bordo anteriore dell’espressione di Hoxc6, quello tra la lombare e la sacrale con il bordo dell’espressione di Hoxc10 e Hoxd10, e così via (Gilbert, 2003). Nei serpenti, le vertebre più anteriori mostrano una morfologia di tipo toracico e portano coste, diversamente dalle vertebre cervicali; tuttavia un’attenta analisi comparativa rivela alcuni tratti di tipo cervicale, facendo pensare che in realtà possano essere il risultato di una trasformazione morfologica di preesistenti elementi cervicali. L’analisi della espressione molecolare dimostra che alcuni geni Hox, come Hoxc6 e Hoxc8, che nel pollo sono espressi nella sola regione toracica, nel pitone hanno invece un’espressione estesa più anteriormente, abbracciando gli abbozzi di quelle che sarebbero state vertebre cervicali (Cohn and Tickle, 1999). Lo spostamento della espressione di questi geni potrebbe quindi essere alla base della trasformazione di queste vertebre verso una morfologia di tipo toracico: un curioso esperimento di guadagno di funzione escogitato dalla natura. La prova che le cose sono veramente andate così la si avrebbe se potessimo “riportare indietro”, in posizione posteriore, l’espressione di questi geni Hox nei serpenti e restituire alle vertebre più anteriori del tronco l’originaria facies cervicale. Sarebbe come ripercorrere all’indietro l’evoluzione. Ma per ora questo particolare esperimento non è stato realizzato. Tuttavia esperimenti simili, che hanno consentito in un certo senso di “riportare indietro l’orologio dell’evoluzione”, sono stati effettivamente realizzati, e riguardano altri aspetti classici dello studio dell’anatomia comparata. Un primo esempio è quello relativo alla evoluzione della regione occipitale del cranio. Questa regione compare evolutivamente con l’inglobamento, nella regione posteriore del cranio, di un certo numero di abbozzi vertebrali. Questo evento è dimostrato dallo studio embriologico, ma le modalità genetiche, molecolari e di sviluppo che regolano questa transizione sono a lungo rimaste sconosciute. Tuttavia, nel 1993, è stato dimostrato che lo spostamento in avanti, a livello degli abbozzi pre-vertebrali occipitali della espressione di Hoxd4, un gene normalmente attivo fino alla prima vertebra cervicale, provoca la trasformazione degli esooccipitali e del sovraoccipitale in archi vertebrali: una vera 80 trasformazione omeotica che riporta pezzi normalmente destinati a contribuire all’occipite all’antica morfologia vertebrale (Lufkin et al., 1993). Un altro classico dell’anatomia comparata riguarda la specificazione degli archi viscerali, derivati dalle creste neurali, che mostrano diverse identità in senso anteroposteriore: il primo di essi, nei vertebrati gnatostomi, è modificato in un arco orale (mascella e mandibola), che si abbozza in due pezzi cartilaginei (cartilagine palatoquadrata, e cartilagine di Meckel); il secondo è modificato in arco ioideo, costituito principalmente da un pezzo superiore iomandibolare e da una cartilagine inferiore o iale; gli archi viscerali successivi sono morfologicamente simili tra loro (archi branchiali). L’embriologia e l’anatomia comparata ci mostrano una progressiva trasformazione evolutiva degli elementi che derivano dalla cartilagine palato-quadrata, dalla cartilagine di Meckel, e dall’arco ioideo. Già negli osteitti, le parti prossimali della cartilagine palatoquadrata e della cartilagine di Meckel forniranno gli elementi dell’articolazione mascellomandibolare, fornendo rispettivamente il quadrato e l’articolare; col passaggio alla vita terrestre, compare nei primi tetrapodi la staffa, il primo degli ossicini dell’orecchio medio, che deriva dalla trasformazione dell’iomandibolare. A questo si aggiungono, nei Mammiferi, l’incudine (derivata dal quadrato) e il martello (dall’articolare). L’identità del secondo arco (ioideo) è controllata dal gene Hoxa2; la perdita di questa funzione genica nel topo provoca la trasformazione di elementi del secondo arco in identità tipiche del primo arco: la staffa scompare e si osservano invece un secondo martello ed una seconda incudine (ed anche un secondo timpanico). La cosa estremamente interessante è la comparsa di un elemento, assimilabile allo pterigoquadrato dei rettili, di cui nel topo non esiste traccia. In un certo senso, l’eliminazione della funzione di Hoxa2 ha riesumato un pezzo di cui si era persa memoria, riportando davvero indietro l’orologio dell’evoluzione morfologica (Rijli et al., 1993). Mentre questi casi calzano come esempi di sbalzi morfologici piuttosto notevoli, ci sono modificazioni più fini e collegate ad adattamenti ecologici, delle quali oggi si cominciano a conoscere le basi durante lo sviluppo. Un recente esempio sarebbe piaciuto a Darwin. Alle isole Galapagos, il giovane naturalista inglese fu colpito dalle specie locali di fringuelli del genere Geospiza, i cui tratti morfologici del becco apparivano perfettamente adattati a diverse nicchie ecologiche. Queste differenze sono dovute, in gran parte, a variazioni nella entità di un segnale molecolare, prodotto dalle cellule mesodermiche nel becco dei giovani fringuelli durante lo sviluppo embrionale. Questo segnale è rappresentato dalla proteina secreta BMP-4, i cui RNA messaggeri sono maggiormente abbondanti nel mesenchima delle specie col becco più grosso. Esperimenti sugli embrioni di pollo hanno effettivamente dimostrato che l’aumento della produzione di BMP-4 nella porzione mesodermica dell’abbozzo del becco (ottenuta tramite infezione di virus opportunamente ingegnerizzati) produce un aumento nelle dimensioni del becco; d’altro canto, somministrando un inibitore di BMP-4, la proteina noggin, la morfologia del becco diviene più sottile (Abzhanov et al., 2004; Wu et al., 2004). In conclusione, l’analisi dello sviluppo sta fornendo i mezzi per comprendere alcuni dei principali passaggi morfologici-evolutivi in termini di modificazioni dei program81 mi genetico-molecolari costruttivi degli organismi. Nella Prefazione al suo “Manuale di Anatomia Comparata dei Vertebrati”, su cui generazioni di biologi si sono formati, Emanuele Padoa scriveva che “multa debetur reverentia alla vecchia morfologia, la quale può e deve essere integrata, ma non dimenticata”: non c’è dubbio che la moderna biologia dello sviluppo possa chiarire transizioni evolutive che i vecchi morfologi avevano già descritto, ma i cui meccanismi genetici essi non avevano allora potuto spiegare. Robert Vignali Dip. di Fisiologia e Bioch. - Labor. di Biol. cellulare e dello sviluppo - Università di Pisa Bibliografia essenziale Abhzanov et al. (2004) Science 305: 1462-1465 Bateson (1894) Materials for the study of variation. Macmillan, London Carroll et al. (2004) Dal DNA alla diversità. Zanichelli, Bologna Cohn and Tickle (1999) Nature 399: 474-479 Gilbert (2003) Developmental Biology. Saunders, Sunderland Lufkin et al. (1992) Nature 359 : 835-841 Ramirez-Solis et al. (1993) Cell 73 : 279- 294 Rijli et al. (1993) Cell 75 : 1333-1349 Wu et al. (2004) Science 305: 1465-1466 L’evoluzione vista attraverso lo sviluppo. L’osservazione dello sviluppo è stata tradizionalmente, con l’embriologia descrittiva e comparata, un supporto allo studio dell’evoluzione ed alla ricostruzione dei rapporti filetici tra gli organismi animali. Oggi la biologia dello sviluppo consente di osservare e decifrare alcuni dei meccanismi genetico-molecolari alla base di modificazioni morfologiche comparse durante l’evoluzione. 82 Dibattito Domanda Chiedo se nel vostro lavoro avete valutato l’importanza degli introni? Robert Vignali Noi personalmente non stiamo studiando l’importanza degli introni, però è chiaro che sono fenomeni di splicing alternativo e quindi giunzioni di introni e esoni che sono fondamentali per lo sviluppo di “novità” evolutive, basta per esempio ricordare che il meccanismo della determinazione del sesso in Drosofila è proprio basato su meccanismi di splicing alternativo e, a seconda dello splicing differenziale, si ha sesso maschile o femminile, quindi è chiaro che questo tipo di fenomeno è importantissimo. Per quanto riguarda più in particolare i geni Otx, posso dire che una parte del recupero funzionale ad opera di ortodentical di Drosofila è legato a sequenze che sono adiacenti al gene che noi inseriamo al posto di Otx 2, cioè se il gene ortodentical viene inserito nudo e crudo, rimovendo anche delle porzioni non codificanti di Otx2, allora il recupero non c’è o è molto inefficiente, se vengono lasciate delle regioni 3’ UTR, cioè un 3’ non tradotto nel gene e quindi queste regioni vanno a far parte del messaggero, allora il recupero è più efficiente. Questo fatto probabilmente è legato ad una diversa efficienza della traduzione degli RNA messaggeri e quindi ci dice che è vero che ci possono essere meccanismi di regolazione della trascrizione, ci possono essere meccanismi di modificazione delle proteine che acquisiscono nuove funzioni biochimico-molecolari, ci possono essere regolazioni nella quantità delle proteine presenti e questi effetti dose-dipendenti sono pure stati descritti proprio per i geni OTX e quindi sono anch’essi importanti. Domanda Nella penultima diapositiva che Lei ci ha presentato ha usato un verbo “possono”, cioè “…modificazioni dell’attività di questi geni possono spiegare importanti variazioni morfologiche e transizioni evolutive”. Io vorrei chiedere qual è secondo Lei la distanza tra i risultati di questi esperimenti e la possibilità che rappresentino delle prove sperimentali della teoria dell’evoluzione. Robert Vignali Che dire? Io posso dire quella che è la mia opinione, cioè nel momento in cui nel topo, dove non si forma il palatoquadrato completo, questo esce fuori eliminando la funzione di Hox2 questo ci dice che il programma genetico molecolare è probabilmente condiviso ed è stato ereditato da antenati, da progenitori comuni rettiliani e il programma genetico c’è, solo che non viene attivato per formare quel particolare pezzo completo. Quindi in un certo senso questo esperimento è una retrazione e, in che modo prova l’evoluzione? C’è ancora bisogno di provare l’evoluzione? Se vogliamo, è un dato di fatto, si tratta di capire qual è il meccanismo, e qui è chiaro che tutto questo porta nuovi contributi ed è in grado di fornire delle risposte anche se provvisorie, comunque, allo stato dell’arte questa è la situazione, nuovi esperimenti daranno nuove indicazioni e forse porteranno a revisioni dei nostri modelli. A volte propongo ai miei studenti dei modelli per spiegare certi fenomeni, questo è un modello, quest’altro è un modello, l’embrione è una cosa più complessa, come diceva ieri Marcello Buiatti, i modelli li facciamo per interpretare i dati e per programmare esperimenti che possono aiutarci a capire i fenomeni. L’embrione non si cura dei modelli, cioè ha i suoi geni che funzionano in un certo modo, possono cambiare le loro 83 sequenze e le loro regolazioni, è difficile capire tutta l’evoluzione, stiamo cercando delle risposte a come certe novità evolutive possono essersi generate nel corso del tempo, e alcuni di questi esperimenti tendono a dare un certo tipo di spiegazione. Per esempio, parlando dell’esperimento della eliminazione di Hoxa2 nell’arco ioideo, quando questo esperimento è stato fatto, è stato proposto che probabilmente nei vertebrati più ancestrali tutti agnati, che hanno una facies agnata, tutti gli archi viscerali probabilmente erano identici, o simili fra di loro e potevano trovarsi in una situazione, per es., in cui tutti i geni Hox fossero espressi fino all’arco più anteriore, omologando così anche l’arco orale ai successivi e posteriori, per cui quello che alcuni hanno pensato di fare è stato di andare a vedere qual è l’espressione di geni Hox negli agnati, e qui ci sono dati contrastanti per cui alcuni gruppi riportano che ci sono geni Hox espressi nelle creste neurali più anteriori, supportando in questo modo il fatto che è stato necessario spostarli indietro per consentire l’evoluzione di un arco orale, altri gruppi invece hanno riportato che non ci sono geni Hox espressi nel primo arco orale, e questo quindi va in direzione opposta. E’ chiaro che la risposta per adesso è parziale, noi non possiamo già risolvere tutto, stiamo cercando un nuovo strumento per leggere il libro dell’evoluzione e spiegare alcune transizioni che sono peraltro documentate dai fossili. Per il caso del passaggio quadrato e articolare nella catena degli ossicini dell’orecchio, ci sono dei fossili che indicano chiaramente la connessione fisica fra il quadrato e la staffa, nel cranio di alcuni rettili Cinodonti , se non sbaglio. Vincenzo Caputo Volevo solo dire appunto che l’evoluzione non è una teoria, è una realtà, semmai poi ci sono le teorie delle evidenze sperimentali che cercano di capire come funzioni, quali siano i meccanismi dell’evoluzione, ma l’evoluzione è documentata, appunto, dai fossili, dallo sviluppo, da tanto altro. Neanche il Papa oggi parla più dell’evoluzione come teoria, come dice chiaramente Gould in uno dei suoi ultimi saggi, questa è un’acquisizione su cui ormai nessuno discute, neanche il Papa. Sandra Magistrelli A proposito di questa certezza dell’evoluzione, e del fatto che ormai la scienza si occupa di spiegare i meccanismi all’interno della teoria e non più l’esistenza o meno della teoria, è una cosa di cui io pure ero certa fino a quest’anno. Quando è scoppiata la questione della riforma Moratti, di cui appunto mi sto occupando per l’ANISN, ho inviato una lettera a LE SCIENZE che è stata pubblicata a giugno e da allora è fiorito un forum sulla questione Darwin, pro, anti ecc., che dura tuttora e che chiunque può andare a vedere sul sito de Le Scienze, molto interessante non sul piano delle “giustificazioni” pro o contro la teoria, ma perché siamo a livello molto molto basso, basso nel senso migliore della parola, intendiamoci, di senso comune, ma per il fatto che anche da parte di coloro che credono in questa teoria, non è ancora chiara la sua assoluta e ineluttabile veridicità, tant’è vero che io privatamente ho ricevuto molte email di molti signori che avevano scritto in questo forum dove io mi ero firmata come facente parte dell’ANISN, dicendo se io potevo dar loro delle spiegazioni a proposito di questa realtà, qualche prova provata. Allora, il mio discorso è semplicemente questo: nel mondo della scienza e anche un po’ della scuola, si dovrebbe ogni tanto impattarsi con questo mondo del comune sentire, che pure è fatto magari di persone colte, che hanno degli interessi culturali, mondo che però è lontanissimo dall’aver acquisito queste problematiche, dall’averne colto il livello di sviluppo. Per quanto riguarda la Chiesa, poiché mi sono occupata proprio anche di queste questioni per organizzare il Darwin day, mi permetto di sottolineare che nella Chiesa non c’è nessuna parola, da parte dei Pontefici che si sono 84 espressi sull’evoluzionismo, (Pio XII e il Papa attuale) a favore della teoria, anzi ci sono sempre parole molto chiare per mettere in guardia da quella che sarebbe una malattia dello spirito. Io ho portato, e ne parlerò venerdì, proprio le parole che sono state scritte in Fides et ratio da papa Giovanni Paolo II a questo proposito. Ho detto questo per evidenziare che, senza volere uno dà per scontate delle cose che non lo sono affatto. Si dà per scontato per esempio il fatto che la Chiesa in fondo sia d’accordo, che ci sia una vasta parte dell’opinione pubblica che ormai è convinta per cui, di fatto, questo tipo di manomissioni per es. nei programmi può sembrare una piccola cosa, in realtà non turberà troppo l’insegnamento complessivo della biologia, perché l’evoluzione “è” la biologia, “è nella” biologia, e quindi è più forte di qualunque cosa. Ecco, volevo sottolineare questo pericolo, che c’è. Robert Vignali Non so se posso rispondere facendo una valutazione che parte dalla mia esperienza personale, riforma Moratti o no. Il fatto che ci sia questo tentativo di eliminare questa parte di, chiamiamola filosofia, o della scienza dall’insegnamento è, se non altro, poco democratico, non è corretto. Comunque, al di là di questo, io ho studiato al liceo vent’anni fa, nessuno mi ha detto nulla di evoluzione e quindi questo vuol dire che forse questo non è un problema di ministri ma di rapporti dell’italiano con la scienza, cioè io penso che in altri Paesi la scienza è più considerata, gli studi scientifici hanno più spazio, ma forse è solo una mia impressione, forse mi sbaglio, però di fatto la prima volta che io ho incontrato qualcuno che mi ha parlato di evoluzione in una lezione, è stato all’università, fino a quel momento nessuno me ne aveva parlato, e non perché avessi dei professori antievoluzionisti o clericali, ma perché probabilmente non era (è) ritenuta cosa importante da spiegare a lezione, dove vengono spiegate altre cose ritenute da loro più importanti. Anche a filosofia si parla di Kant, di Hegel, ma non si parla di Darwin, eppure la concezione darwiniana dell’uomo è, se vogliamo, in contrasto con tutto quello che c’è stato prima, è una visione completamente diversa. Quindi mi domando perché, forse siamo noi che consideriamo poco questi aspetti scientifici. Intervento Vorrei dire solo una piccola cosa a proposito di questo: l’esperienza di un insegnante di Scienze al liceo scientifico è che i ragazzi di seconda, di terza, di quarta svolgono le stesse ore di latino delle ore complessivamente dedicate a tutte le discipline scientifiche, quindi secondo me è proprio un problema di ristrutturazione dei programmi di studio perché la scienza è andata avanti, la ricerca ha visto tantissime innovazioni, con un’espansione enorme delle conoscenze scientifiche, però la struttura del sistema scolastico è rimasta estremamente arretrata. Il danno maggiore che si fa in questo momento è proprio quello di non considerare questo e addirittura restringere lo spazio dedicato allo studio delle discipline scientifiche nei livelli di scuola inferiori. Intervento Secondo me, nella scuola italiana non solo l’evoluzionismo ma la biologia non è considerata scientifica, perché non è falsificabile come le teorie fisiche in senso popperiano, quindi bisognerebbe che noi insegnanti di Scienze naturali fossimo disposti a occuparci anche di filosofia della scienza e ci facessimo un po’ ferrati in questo campo, senza delegare o lasciare la materia nelle mani dei colleghi di filosofia. Vorrei anche fare una domanda un po’ tecnica a proposito della trascrizione dell’RNA messaggero nella sintesi delle proteine, vorrei cioè sapere se può darmi qualche indicazione sulla velocità di trascrizione in termini di aminoacidi al secondo e se esiste 85 una stima attendibile in termini di kilobyte, per un parallelo con l’informatica, perché, a proposito di modelli, molto spesso si parla di una modellizzazione del programma genetico con programmi informatici e soprattutto nella sovrapposizione delle funzioni dei geni Hox, mi pare che si possa riconoscere la funzione End o forse or nelle porte logiche, quindi mi interessava avere qualche stima attendibile o almeno sapere se è stata fatta. Robert Vignali La risposta in tutta onestà è: non lo so; quando nel corso di studi ho affrontato Biochimica ho studiato qual era la velocità di replicazione del DNA ma non lo ricordo. Forse il prof. Omodeo nella parte informatica può rispondere. Pietro Omodeo Io ho sostenuto già da moltissimo tempo che c’è un rapporto molto preciso tra numero di basi nel patrimonio genetico del genoma e complessità dell’organizzazione, ma questa affermazione spesso è stata messa da parte perché si dimostra che certi anfibi hanno un numero di nucleotidi molto superiore a quelli dell’uomo e quindi viene falsificata la proporzione. Sta di fatto, come ha detto ieri Marcello Buiatti, che nel patrimonio ereditario dell’uomo, facciamo il caso più noto, ci sono 35000 geni sottintendendo geni strutturali o che specificano o incapaci di specificare proteine (34% del complesso del patrimonio ereditario); questo residuo enorme, il 96% del patrimonio ereditario dell’uomo, non è spazzatura -come è stato sostenuto molto a lungo- ma ha funzioni regolatrici. Queste funzioni regolatrici in larga parte dipendono dalla ridondanza, e qui faccio riferimento alla tecnologia moderna, soprattutto alla tecnologia dei satelliti, delle sonde spaziali: perché una sonda spaziale possa funzionare per anni e continuare a mandare messaggi utili al nostro pianeta, bisogna che tutte le strutture interne, soprattutto circuiti, siano altamente ridondanti perché se c’è un danno dovuto all’inefficienza nella costruzione o a un fattore esterno, questo viene automaticamente e immediatamente riparato dall’intervento di un altro circuito che sostituisce quello difettoso. Più alta è la ridondanza e più meticoloso è il controllo. Mi rifaccio alla citazione di Gould che hai portato che si può anche applicare a questa parte del problema: più alto è il controllo e più alta è la ridondanza e più grande è l’affidabilità del funzionamento dell’organismo. C’è poi anche una questione di economia: nel patrimonio ereditario di un organismo si può rinunziare per motivi fisiologici di economia metabolica a una parte della ridondanza se ciò mette a rischio la sopravvivenza di quel determinato ceppo, di quel determinato animale, però la descrizione funzionale del patrimonio ereditario rimane sempre valida, quindi io posso fare, con un quarto o una metà di geni esistenti, un topo perfettamente normale ma che ha poche prospettive di sopravvivere a lungo. Questa può sembrare un’affermazione di principio, però si può fare una verifica sulle cellule in coltura; quando si ha a che fare con le cellule in coltura ci si accorge che via via viene perso qualche cromosoma o alcuni pezzi di cromosoma e certe volte, come nel ceppo Chila si vede che il genoma si è materialmente ridotto a molto meno, eppure queste continuano a riprodursi e a fare tutto ciò di cui hanno bisogno perché si è persa la ridondanza, ma non si è perso però il messaggio genetico. Io insisto però soprattutto sui problemi della regolazione: la regolazione genetica si ottiene accendendo e spegnendo i geni al momento opportuno, e ciò sembra particolarmente vero quando si va a studiare lo sviluppo sotto questo profilo. Però accendere e spengere un gene richiede che ci siano delle molecole particolari, si pensa di solito che siano proteine, che siano capaci di impedire la traduzione del gene e sono costruite dal patrimonio ereditario stesso, vanno a far parte di quel 96% di DNA che esiste dentro la cellula e che ha appunto la 86 funzione di autocontrollo dello sviluppo. Il tema è stato sviluppato da Jacob e poi da Monod (Monod poi si è ritirato) che hanno avuto il premio Nobel quando hanno studiato l’operone nel batterio, in cui ha funzione chiave il repressore o il corepressore a seconda del tipo di controllo che esiste. Questo è estremamente importante per capire come funziona il patrimonio ereditario nei procarioti, che è molto più semplice, perché in questo caso non esiste praticamente ridondanza, esiste solo per i geni che fanno l’RNA ribosomale che io sappia, però il controllo si esercita non su singoli geni ma su gruppi di geni, sempre per motivi di economia perché costruire una proteina che controlla una sequenza di geni è molto costoso e molti hanno proposto che ci siano anche altri sistemi, come sequenze di RNA che hanno la funzione di bloccare in qualche caso la trascrizione, è un sistema molto più economico. Su tutta questa tematica c’è una notevole letteratura, non recentissima, degli anni Sessanta-Settanta, e la questione dell’autocontrollo del patrimonio ereditario è molto importante ed io insisto molto che venga ripresa, non conviene usare organismi pluricellulari perché troppo complessi e troppo costosi, ma su individui unicellulari questo lavoro si può fare, come già hanno fatto Jacob e Monod e la loro scuola. Robert Vignali Vorrei aggiungere a questo punto, relativamente alla ridondanza che rappresenterebbe un’aggiunta di meccanismi di sicurezza, che anche la presenza di più copie geniche facenti una stessa funzione può essere un meccanismo di sicurezza, per i geni Hox questo è vero, ci sono quattro gruppi di geni Hox; io vi ho presentato dei dati in cui eliminando la funzione di uno di questi geni, si ha una perturbazione strutturale enorme, però non è sempre vero, non è che possiamo eliminare ciascuno dei geni Hox ed osservare dei fenotipi di vertebrati così forti. Questo perché, e ritorno allo schema dei geni Hox, vedete che qui ci sono tre copie del primo gene, due copie del secondo, quattro copie del quarto, e se noi eliminiamo uno di questi quattro, magari non succede nulla, perché gli altri tre sono espressi in regioni simili, magari nelle stesse cellule, e possono vicariarne la funzione. Anche in questo caso si parla di ridondanza, è come se fosse un meccanismo di sicurezza: da questo punto di vista può essere un meccanismo che assicura un successo evolutivo, una prospettiva evolutiva, una plasticità maggiore, come mi pare dicesse ieri Marcello, però alcuni geni, come vi ho mostrato, hanno una funzione specifica, se si elimina selettivamente un particolare gene, quella funzione non la fa nessun altro, quindi ci sono delle valvole di sicurezza, ma non sempre. C’è un altro punto su cui vorrei tornare, ed è quello dell’importanza del controllo dell’attività dei geni, dell’espressione genica durante lo sviluppo nel tempo. Per esempio, vi ho detto che nella parte addominale della drosofila non si formano zampe, però ci sono larve di insetti che hanno zampe nella regione addominale, perché esiste un gene che serve per costruire queste zampe e che normalmente è espresso nei segmenti toracici, ma non in quelli addominali. Durante lo sviluppo delle larve di lepidotteri per es., che formano zampe posteriori, per lo meno parte di zampe posteriori, si rilassa il controllo di ultrabithorax che reprime distalles nella parte posteriore, cioè ultrabithorax spenge distalles normalmente per es. nella mosca, nella drosofila e fa lo stesso nelle fasi iniziali dello sviluppo della farfalla. A un certo punto però, questa repressione di ultrabithorax su distalles si rilassa in un certo numero di segmenti addominali, e le larve cominciano ad esprimere distalles, e si formano delle zampe su quei segmenti. Anche qui c’è un’importante osservazione da fare, che ultrabithorax contiene uno stretch di alanina dopo l’omodominio, che gli conferisce la specificità per bloccare l’azione di distalles, altri artropodi che hanno zampe anche addominali non hanno questo pezzo della proteina ultrabithorax e si trova solo negli 87 insetti, per cui probabilmente anche qui si tratta di un meccanismo addizionale che gli insetti hanno per reprimere distalles, cosa che non avviene in altri artropodi che di fatto formano appendici anche nelle parti posteriori del corpo. Fabio Fantini Un brevissimo intervento su due questioni. Intanto a proposito dell’atteggiamento nei confronti delle teorie evolutive, mi permetto di considerare significativo un aneddoto di vita scolastica: io ho un collega di Storia e Filosofia che è un grande tradizionalista, cattolico, integralista sotto molti punti di vista, e sembra che un giorno abbia apostrofato il collega di religione dicendogli “Ma come, sei evoluzionista anche tu?”. Voglio dire cioè che è molto articolato l’atteggiamento esistente all’interno del mondo cattolico in Italia nei confronti delle teorie evolutive. Ho poi una domanda tecnica: quando abbiamo visto per es. la mutazione che fa diventare bilancieri ali, a occhio almeno, osservando quelle e altre fotografie, viene da pensare che è T3 che è diventato T2, non è soltanto il bilanciere, allora nella segmentazione interna ci sono altri geni omeotici che riguardano non soltanto la morfologia esterna di cui finora abbiamo parlato, ma anche l’organizzazione interna del segmento, oppure sono gli stessi geni omeotici che agiscono anche sulla parte interna del segmento? Robert Vignali Vuoi dire per es. sull’endoderma? Che io sappia sono gli stessi geni che regionalizzano anche queste regioni. 88 Dai fossili alle molecole: nuovi indizi sull’evoluzione umana OLGA RICKARDS Gli ultimi anni hanno rappresentato per l’antropologia un periodo di intenso dibattito che ha modificato profondamente il modo di intendere alcuni dei passaggi fondamentali dell’evoluzione umana. Il dibattito è stato attivato dalle numerose scoperte di nuovi fossili e dalle ricerche condotte sul DNA delle popolazioni viventi e su quello estratto da reperti antichi.Particolarmente rilevanti sono state le scoperte che hanno permesso di identificare l’habitat nel quale l’uomo ha acquisito la stazione eretta e l’andatura bipede, cioè le caratteristiche che vengono ancora utilizzate per separare il gruppo zoologico umano da quello delle scimmie antropomorfe africane. A differenza di quanto si pensava, l’uomo non si è alzato in piedi nella savana, ma in un ambiente ancora forestale, e i suoi primi rappresentanti sapevano stare dritti e camminare su due gambe e allo stesso tempo muoversi sugli alberi. Queste ricerche fondamentali, svolte in Sudafrica e in Africa orientale, hanno consentito di sostituire uno dei modelli scientifici di riferimento più condivisi dagli antropologi durante i decenni passati. Dall’Africa orientale inoltre sono arrivate di recente alcune tra le più sensazionali scoperte di fossili: quelle relative al Kenyanthropus di 3,5 milioni di anni fa, all’Ardipithecus di 4,5 milioni di anni fa, all’Orrorin di 6 milioni di anni fa e al Sahelanthropus di circa 7 milioni di anni fa. Finalmente, nelle mani degli scienziati sono arrivati i documenti fossili per ricostruire la nostra prima immagine, così come l’evoluzione l’ha consegnata al mondo. Questi reperti così antichi sono di particolare rilevanza perché, fino al 2000, l’unica informazione che possedevamo sulla nostra origine era la data della separazione evolutiva uomo-scimpanzé, fissata dagli studi molecolari a 5-6 milioni di anni fa. Nei mesi di febbraio e luglio 2001, però, è giunta la notizia della scoperta di ben due fossili che potevano contendersi il ruolo di patriarca dell’umanità: l’Orrorin tugenensis (di 6 milioni di anni, trovato in Kenya Orrorin tugenensis (Kenya) 89 da Brigitte Senut del Museo di Storia Naturale di Parigi e Martin Pickford del Collegio di Francia) e l’Ardipithecus ramidus kadabba (di 5,2-5,8 milioni di anni, trovato in Etiopia dal gruppo di Tim White dell’Università di Berkeley). Nonostante l’acceso dibattito su quale fosse il più accreditato ad interpretare quella parte, il mondo accademico aveva maturato la convinzione di essere ormai giunto alla radice dell’albero filogenetico degli ominini (la sottofamiglia zoologica alla quale appartengono l’uomo e i suoi antenati fino alla separazione dallo scimpanzé). Ma come è avvenuto spesso in paleoantropologia, un nuovo rinvenimento ha costretto gli scienziati a cambiare profondamente la visione dell’evoluzione umana. Il reperto in questione (un cranio quasi completo, due frammenti di mandibola e tre denti) è stato trovato in Ciad nel 2002 da un’equipe francociadiana diretta dal Michel Brunet dell’Università di Poitiers.Oltre ad un’età davvero eccezionale, 6-7 milioni di anni, quel fossile presenta un insieme di caratteristiche morfologiche allo stesso tempo arcaiche e moderne, che ne fanno un rompicapo per gli antropologi. La scatola cranica è scimmiesca, con una capacità che non supera i 320380 cc; ma la conformazione del forame occipitale compatibile con la stazione eretta, la faccia piatta, con solo un leggero prognatismo sottonasale, il toro sopraorbitario largo, spesso e continuo, i canini piccoli e l’assenza del diastema l’avvicinano a nostri antenati molto recenti. Un’anatomia tanto unica ha convinto Brunet a definire una nuova specie, Sahelanthropus tchadensis, che considera, con il conforto di Tim White, la prima della sottofamiglia ominina e l’antenata dell’ardipiteco; mentre Orrorin sarebbe fuori dalla nostra evoluzione. Questa ricostruzione non è condivisa da tutti gli studiosi, alcuni dei quali non escludono che tchadensis possa essere la forma femminile di un progenitore dello scimpanzé e Brigitte Senut è addirittura certa che si tratti di un ascendente del gorilla. Come si vede, chi riporta alla luce un fossile reclama per la sua creatura il rango di avo dell’umanità e tende ad escludere i concorrenti.Per chi non è afflitto dal “complesso del genitore”, l’importanza del sahelantropo sta Sahelanthropus tchadensis più nei paradigmi che falsifica che nel posto occupato nell’albero filogenetico degli ominini. Intanto, supera il concetto di evoluzione lineare e accredita, come per tutti gli altri animali, il modello a cespuglio: secondo il quale fin dall’inizio molte specie sarebbero convissute; toglie poi fondamento all’idea che la nostra storia evolutiva possa essere raffigurata mediante un albero e dà enfasi a quella che possiamo meglio concepire come un cespuglio, di rapporti filogenetici; cancella quindi ogni residuo della suggestione che possa essere stato il cervello grande a farci uomini; e, infine, concede all’intera Africa, e non solo alle terre ad oriente del Rift Valley, il ruolo di “culla” del genere umano.L’ultimo punto in discussione l’ha sollevato l’età di tchadensis, perché si pone proprio al limite superiore dell’intervallo stimato da molti antropologi molecolari per la separazione ominini-scimpanzé: un evento che le ricerche molecolari collocano attorno a 5 milioni di anni fa. Tutto ciò 90 sembra rendere ragionevole la critica di chi, come Phillip Tobias dell’Università del Witwatersrand, sostiene che la datazione molecolare non sia attendibile e che la divergenza debba essere decisamente più antica, come i fossili starebbero a testimoniare. La ragionevolezza della critica, comunque, resiste solo se si accetta l’idea che l’evoluzione proceda per via parsimoniosa; tuttavia, un tale assunto sarebbe smentito dalla storia di diversi animali. Ecco allora che i tratti che consideriamo derivati e acquisiti solo dopo esserci separati dalle antropomorfe africane, e cioè l’andatura bipede e la faccia senza muso, potrebbero essere invece dei caratteri Sahelanthropus tchadensis primitivi, propri dell’antenato comune ed ereditati dai nostri avi, mentre il gorilla e lo scimpanzé andavano sperimentando delle vere e proprie invenzioni evolutive, come per esempio l’andatura sulle nocche. La visione di un’evoluzione non parsimoniosa, che potrebbe avere forse un punto di forza nell’oreopiteco, un primate vissuto circa 10 milioni di anni fa ma già bipede e dotato di presa di precisione, vanificherebbe la critica alla datazione molecolare, rendendola del tutto indiArdipithecus ramidus kadabba (Etiopia) pendente dai fossili, e allevierebbe almeno in parte l’acredine della discussione in corso. Altri ritrovamenti davvero eccezionali sono quelli relativi ai crani di Homo georgicus riportati alla luce a Dmanisi in Georgia e vecchi di 1,8-1,7 milioni di anni, e a diversi manufatti litici di età compresa tra 1,4 e 1,2 milioni di anni fa rinvenuti nella Valle del Giordano. Questi reperti hanno dimostrato con assoluta chiarezza che gli antenati dell’uomo sono usciti per la prima volta dall’Africa ben prima di quanto si fosse fino ad ora ritenuto. E fu l’Homo ergaster a intraprendere 2 milioni di anni fa quel viaggio che dal continente “culla” lo portò in tutto il Vecchio Mondo. Un tale evento però non rimase isolato, perché un’altra specie evolutasi in Africa da ergaster, l’Homo sapiens, ha ripetuto l’esperienza ed ha nuovamente raggiunto l’Asia e l’Europa. Il nostro viaggio verso oriente è cominciato circa 50.000 anni fa ed ha percorso la via che dal Corno d’Africa si snoda lungo le coste dell’Arabia 91 e dell’India. Poco dopo, altri uomini sapienti si sono diretti verso nord e attraverso il Medio Oriente hanno colonizzato il nostro continente, che allora era abitato dai neandertaliani. Se l’importanza dello studio dei fossili per ricostruire la nostra storia non può essere messa in dubbio da nessuna persona di buon senso, è pur vero che ormai l’analisi del DNA, quello degli uomini attuali e quello dei nostri antenati e parenti antichi, si è dimostrata assolutamente indispensabile per districare il percorso dell’evoluzione. L’antropoArdipithecus ramidus ramidus logia molecolare, dopo aver dimostrato che la separazione dei nostri antenati da quelli delle scimmie antropomorfe africane è piuttosto recente, 5-6 milioni di anni fa, ha messo in discussione che l’uomo ed i suoi ancestori diretti e collaterali costituissero una famiglia zoologica, gli Hominidae, diversa da quella dove erano inseriti lo scimpanzé ed il gorilla. Infatti, ora molti studiosi inseriscono le antropomorfe africane nella famiglia umana, creando per la nostra stirpe la sottofamiglia degli Homininae, e altri ancora addirittura nel nostro stesso genere, che così comprenderebbe oltre Homo sapiens anche Homo troglodytes, Homo paniscus (le due specie di scimpanzé) e Homo gorilla. Queste specie, insomma, sarebbero proprio molto simili, esattamente come aveva previsto Darwin un secolo e mezzo fa. L’analisi molecolare ha inoltre permesso di intervenire in una delle dispute più accese che hanno interessato l’antropologia della seconda metà del secolo appena trascorso: l’origine della nostra specie, Homo sapiens. Da una parte erano schierati i sostenitori del multiregionali- Kenyanthropus platyops (sinistra) e Homo rudolfensis (destra) smo, che sostiene che in ogni continente del Vecchio Mondo i primi uomini colà giunti, gli ergaster, si sarebbero evoluti parallelamente e indipendentemente verso i sapiens e questi ultimi non sarebbero diventati tante specie diverse, ma sarebbero rimasti una sola specie, grazie ad un elevato tasso di mescolamento tra le popolazioni delle varie aree geografiche. Dall’altra parte si contrapponevano i fautori del modello di un’evoluzione recente e africana dell’uomo moderno, secondo la quale sapiens sarebbe nato in Africa intorno a 100-200.000 anni fa e da lì sarebbe uscito -è questa la seconda migrazione del nostro genere- per occupare tutto il resto del mondo, dove avrebbe sostituito gli uomini arcaici senza ibridarsi con loro essendo una specie nuova. Ma i fossili non potevano 92 dirimere la questione. Gli studi molecolari invece hanno stabilito che la nostra origine è recente (150.000 anni fa) e africana, e che l’uomo moderno non si è mescolato a livello genetico in modo consistente con l’umanità più arcaica. Era questo un punto cruciale che assillava gli antropologi. I sostenitori dell’evoluzione multiregionale davano per certo che sapiens e neanderthal fossero una popolazione panmittica, ma le molecole hanno confutato l’ipotesi , forse definitivamente. Infatti, lo sviluppo delle tecniche per analizzare il DNA antico ha consentito di confrontare il DNA mitocondriale di alcuni neandertaliani, di sapiens fossili e di molti soggetti appartenenti a diverse popolazioni dell’umanità attuale, dimostrando che il numero di mutazioni accumulate dall’uomo di Neandertal era circa tre volte maggiore di quello che contraddistingue in media l’uomo moderno, decretando la completa estraneità dei neandertaliani dalla nostra linea evolutiva. Pertanto i due gruppi non sono certo sottospecie: Homo sapiens neanderthalensis e Homo sapiens sapiens, come i sostenitori dell’ipotesi multiregionale hanno a lungo sostenuto, ma due specie distinte: Homo neanderthalensis e Homo sapiens.Inoltre, lo studio del DNA di Neanderthal ha aperto la possibilità di sviluppare una vera e propria genetica di popolazione di questa specie fossile e così di chiarire i fattori evolutivi che hanno determinato la sua storia. Olga Rickards Centro di Antrop. molec. per lo studio del DNA antico - Dip. di Biologia - Università di Roma “Tor Vergata” Bibliografia G. Biondi, O. Rickards I sentieri dell’evoluzione. Nuovi indirizzi sull’origine dell’uomo CUEN Napoli, 2000 G. Biondi, O. Rickards Uomini per caso. Mito, fossili e molecole nella nostra storia evolutiva Editori Riuniti, Roma, 2000. 2^ ed. 2003 93 Dibattito Una collega La mia domanda non riguarda tanto quest’ultima parte, ma quella precedente perché secondo me la questione più spinosa è ancora quella di stabilire quando c’è stata la divergenza tra l’uomo e lo scimpanzé e utilizzare anche i dati della biologia molecolare per arrivare a questo risultato; in particolare, quando si applica il metodo dell’orologio molecolare per determinare il momento in cui dovrebbe essere avvenuta questa divergenza, si tiene conto del fatto che il tasso delle mutazioni conservate nel genoma può non essere costante? Cioè le mutazioni possono verificarsi con una velocità costante, però vengono conservate da una generazione all’altra solo quelle che vengono scelte dalla selezione naturale: è questa in genere la critica che ho sentito fare e mi permetto di farla, all’applicazione di questo metodo per cui si dice che in pratica il metodo dell’orologio molecolare sottostima il tempo trascorso dal momento in cui c’è stata la divergenza, perché considera solo una parte delle mutazioni che si sono verificate. Olga Rickards Senza dubbio il concetto di orologio molecolare è uno di quelli che è stato più criticato in assoluto ed è anche quello che è più utilizzato in assoluto, per cui ci sono pro e contro. Allora, prima di tutto dico una cosa breve sull’orologio molecolare: adesso sappiamo, soprattutto con l’incremento degli studi a livello di DNA, che l’orologio molecolare non funziona proprio com’era stato detto all’inizio, quando è stato proposto, sappiamo che non esiste un orologio molecolare universale, ma esistono numerosi orologi molecolari locali. Bisogna infatti tarare l’orologio molecolare per ogni tratto di genoma, perché non tutto il genoma evolve allo stesso modo, per esempio le zone codificanti non possono evolvere a loro piacere, per es. l’emoglobina, che ha una funzione così primaria per la respirazione, non può accumulare mutazioni mentre una zona non codificante accumula mutazioni in maniera più “disinvolta”. Dunque abbiamo un orologio molecolare per ogni tratto di genoma ma anche per ogni gruppo di specie o di forme che siano molto simili tra di loro, perché un altro problema grosso è quello della “durata delle generazioni”. La durata delle generazioni influisce sulla velocità di accumulo delle mutazioni, per es. i primati non hanno la stessa velocità di accumulo di mutazioni che ha il topo, la cui durata di generazione è molto più bassa per cui se noi ammettiamo che per anno il numero di mutazioni sia uguale nelle due specie, è ovvio che uno deve fare più velocemente dell’altro. Anche tra i primati, l’uomo evolve più lentamente delle altre scimmie, per cui bisogna calibrare l’orologio molecolare in maniera opportuna, per tratto di genoma e per gruppo di specie. C’è un’altra cosa su cui io non sono perfettamente d’accordo ed è che le mutazioni si fissino, perché il tasso di evoluzione non è il tasso di mutazione, il tasso di evoluzione è dato dal tasso di mutazione per le mutazioni che vengono fissate, che sono due cose completamente diverse. L’orologio molecolare già si basa su un tasso di evoluzione e non tutti (io per es. sono completamente in disaccordo) accettano che l’evoluzione sia proceduta unicamente su base di mutazioni selezionate, per me il motore fondamentale dell’evoluzione (non a caso abbiamo scritto un libro Uomini per caso) è il caso, per cui le mutazioni si fissano in maniera per lo più casuale; ovviamente nessuno mette in dubbio che ci siano mutazioni che abbiano un forte valore selettivo, però non credo che siano state quelle che abbiano praticamente guidato il motore della nostra evoluzione. Questa non è una mia opinione, proprio i fossili stessi ci dicono 94 questo, perché ci sono una serie di esempi di mutazioni che si sono accumulate ancor prima che quel carattere modificato da quella mutazione potesse avere un valore adattativo. Un esempio: l’acquisizione della stazione eretta era già in l’Oreopitecus bambolii che viveva qui in Toscana 9 milioni di anni fa, per cui quelle sono una serie di mutazioni che avvengono per caso; per me, ripeto, l’evoluzione procede con un accumulo casuale di mutazioni che si fissano nel genoma, dopo di che, quando quel genoma, in un particolare ambiente si trova ad essere più adatto, allora quelle mutazioni possono poi prendere una forma più esplicita. Insomma ciò che lei dice è un problema di fondo, se le mutazioni siano assolutamente di tipo selezionato, adattative per cui quelle che si fissano sono soltanto quelle adattative, o no; è ovvio che se sono solo adattative l’orologio molecolare non funziona. Intervento Ho capito, ci possono essere delle mutazioni che non hanno influenza né in senso adattativo, né in senso non adattativo, però se una mutazione ha importanza dal punto di vista adattativo, allora la selezione naturale agisce. Olga Rickards Questa è una diatriba che sta andando avanti nel mondo scientifico da tantissimo tempo, il problema è che le mutazioni adattative ci sono sicuramente e, come dicevo prima, ci permettono di ricostruire la storia ecologica delle popolazioni, perché sono sicuramente quelle che hanno a che fare con un ambiente però, se noi vogliamo ricostruire la filogenesi con i rapporti evolutivi e non ecologici, tra le popolazioni, le mutazioni adattative non ci possono, per definizione, andare bene. Possiamo crederci o meno, ma siamo scienziati e non è che ci sono dei dogmi imposti, non solo ma con lo studio dell’evoluzione voi sapete che siamo nel campo di una scienza storica e non di una scienza esatta, per cui l’esperimento non lo possiamo ripetere -è quello che dico ai miei studenti- ci vorrebbe la macchina del tempo per tornare indietro e vedere se è andato bene o meno. L’unica cosa che noi possiamo fare è avere informazioni da più settori e vedere se queste informazioni coincidono, se coincidono è come una scommessa, e l’orologio molecolare si basa su due assunti principali: la neutralità delle mutazioni e l’evoluzione costante. Ancora lo stesso collega Il bipedismo è una mutazione neutra? Olga Rickards No, il bipedismo prima di tutto non si deve ad una sola mutazione, come tutti i caratteri quantitativi ha una genetica molto complessa, per cui devono essere stati coinvolti una serie di meccanismi molto particolari. A me è capitato ultimamente di leggere un articolo su un giornalino visto all’università, di quelli che danno sulla metropolitana, riguardante un fatto peculiare, un macaco che aveva sofferto di disturbi intestinali terribili che l’hanno portato quasi alla morte, gli hanno somministrato non so quante cure e quando si è riavuto camminava perfettamente eretto. Questo è un campo molto importante, se qualche danno cerebrale può influire sul tipo di postura. Adesso ci sono una serie di studi a livello molecolare che hanno preso in considerazione non solo mutazioni puntiformi molto semplici che vi ho fatto vedere io, ma stanno prendendo in considerazione i caratteri complessi, come quelli quantitativi e ci sono già alcune indicazioni abbastanza interessanti circa le capacità cognitive, il linguaggio. Il bipedismo ancora non è stato affrontato, e anche questo è uno dei problemi grossi, per es. per tantissimo tempo - proprio per rifarci a Darwin e all’adattabilità- si è pensato 95 che il bipedismo si fosse verificato in risposta al camminare in savana, in savana era più adatto essere bipedi perché ci si può guardare intorno, si può cacciare, mentre adesso sappiamo che è un falso, perché il bipedismo è sorto in ambiente forestale, e questo lo conosciamo dai resti fossili, perché i resti fossili dei nostri antenati bipedi sono stati trovati in associazione con fauna e flora di ambiente forestale. A questo proposito, ci sono quelli che io chiamo i famosi paradigmi dell’antropologia, che sono falsi (noi nel libro Uomini per caso li abbiamo considerati punto per punto) e una falsità è proprio il sorgere del bipedismo in savana, che sappiamo non essere vero. Allora, perché siamo diventati bipedi? E’ un altro punto interrogativo e ancora ce lo stiamo chiedendo, per questo parlo del caso, perché noi siamo diventati bipedi quando ancora non era poi così utile esserlo, ancora stavamo sugli alberi ma camminavamo dritti, per cui avevamo questo tipo di vita intermedia. Ancora la stessa persona Ho capito il senso, però mi chiedevo ancora un’altra cosa a proposito del fatto che anche questi nuovi ominidi scoperti, tipo Sahelantropus, di cui è provato dalle caratteristiche anatomiche che comunque erano bipedi, potessero essere antenati dello scimpanzé o del gorilla, mentre io ho sempre sentito dire che in realtà, dal momento che avevano sviluppato questo carattere, non poteva poi regredire nuovamente alla forma dello scimpanzé che non è bipede, cioè questo avrebbe dovuto comportare un ritorno indietro dell’evoluzione. Olga Rickards Allora, prima di tutto il bipedismo totale in questi resti non è provato, perché sono resti molto frammentari, non abbiamo lo scheletro completo per cui non possiamo ricostruire del tutto quello che è successo. Per quanto riguarda poi il regredire o meno, anche lì io sarei molto cauta perché quella che noi definiamo la polarità dei caratteri e cioè lo stabilire se un carattere è primitivo o derivato (dove primitivo si intende non in senso dispregiativo ma in senso evolutivo) sta cambiando tantissimo. Per es. uno dei caratteri primitivi e derivati discussi era lo spessore dello smalto dei denti, per cui io credo che una delle poche cose di cui siamo sicuri è che la nostra evoluzione è stata sicuramente, come quella di tutte le altre specie, a mosaico, cioè che ogni tratto di genoma, ogni tratto morfologico è andato evolvendo con tempi diversi, in forme diverse. Un altro modello evolutivo, che ormai per la nostra storia evolutiva è nel dimenticatoio e mi fa particolarmente piacere perché ancora una volta ci toglie da questa unicità che tante volte vogliamo pensare che sia la nostra peculiarità, è il fatto che non abbiamo avuto un’evoluzione di tipo lineare, cioè noi, come tutti gli altri animali, abbiamo avuto un’evoluzione a cespuglio, per cui non è esistita in ogni particolare periodo evolutivo un’unica forma che andava evolvendo nell’altra, come Darwin invece aveva intuito, ma noi in ogni periodo abbiamo più forme, ognuna delle quali va sperimentando l’evoluzione di caratteri differenziati. E’ ovvio che, all’interno di questi cespugli, una sola forma, quella fortunata, è quella che dà origine alla forma successiva, per questo vi dico quanto gioca il caso, perché l’Orepitecus bambolii, che viveva in Toscana 9 milioni di anni fa, quando la Toscana era un’isola all’interno del Mediterraneo, se fosse vissuto in un ambiente non insulare, e già sembrava che fosse eretto, magari sarebbe stato lui il nostro progenitore, e invece di avere l’origine degli Ominidi in Africa, l’avremmo avuta in Toscana. Quello sì, già aveva sperimentato la stazione eretta, però il fatto che vivesse in un ambiente insulare ha portato alla perdita di questo carattere che è ricomparso successivamente in Africa, intorno circa ai sette milioni di anni fa, e quella volta a questo carattere è andata bene. Ovviamente questa è una mia visione dell’evoluzione, condivisa anche da altri scienziati nel senso non è 96 un’intuizione mia particolare però, e per rispondere alla sua domanda, dico che ci sono visioni diverse, ci sono alcuni miei colleghi che pensano che la selezione sia stato il motore principale di tutta l’evoluzione, non solo dell’uomo ma delle altre specie. Per me il caso ha giocato un ruolo molto grosso e di questo ci sono proprio le prove a livello paleontologico. Bianca Isolani Anch’io la ringrazio molto perché è stata molto stimolante perché, pur preferendo alcune spiegazioni rispetto ad altre, le ha esposte tutte. Però io volevo far notare quanto ci sia ancora di incerto e di poco -se mi si permette- scientifico, non nella sua relazione ma in tutte queste ipotesi. Per es. non si può dire che il Neandertal ha un genoma completamente diverso dal nostro ovviamente,perché se noi abbiamo il 98% di similarità con lo scimpanzé, con il Neandertal magari ne abbiamo il 99,9%, allora come minimo occorrerebbe che gli antropologi e i genetisti definissero meglio il concetto di specie, che noi sappiamo non avere limiti netti, secondo la teoria dell’evoluzione non ha limiti netti. Invece di andare soltanto a ricostruire l’evoluzione degli umani, potremmo provare a farlo con i bovini, oppure con i cavalli e gli asini, che sono perfettamente interfecondi, anche se il bardotto o la mula sono sterili, però si sa che in certe occasioni sono in grado di riprodursi, la stessa cosa avviene persino per la pantera e il leone che alcuni ascrivono a generi diversi. Per questo povero Neandertal, io taglio molto, occorre definire il concetto di specie e occorre essere più puntuali, per es. si parla tanto dei famosi mitocondri e non si sa nemmeno quali siano molti loro geni, quindi non si può sapere se hanno un valore adattativo o di casualità; ci sono poi per es. dei dati sui microrganismi per cui si ascrivono alla stessa specie organismi che hanno il 70% di differenza nel DNA, e questo è un problema fondamentale. Altro collega Volevo chiedere l’influenza dei fattori culturali nell’evoluzione umana in relazione al continuo arretramento delle scoperte sull’uso del fuoco, per il quale siamo arrivati credo a un milione di anni fa. Olga Rickards Mi permetto di dissentire sul fatto che dei mitocondri non si sappia niente perché si sa tutto, cioè è l’unico genoma che si conosce completamente perché ne è stata stabilita la sequenza completa per l’uomo già dal 1981, è uno dei primi genomi che sono stati totalmente sequenziati, per cui sappiamo bene la funzione di ogni gene, di ogni RNAt, si sa tutto non solo nell’uomo ma anche in numerose altre specie. Sul fatto che il mitocondrio possa essere o meno selezionato, è il solito discorso di tutti i geni, se sono o non sono selezionati, questo è il problema proprio di fondo della biologia, perché molti tratti di genoma, per es. quando vi dico vi ho mostrato tutto quello, quello è stato fatto su un tratto del genoma mitocondriale che è la zona non codificante, allora, essendo non codificate si trovano ovviamente in queste zone i tratti di genoma che accumulano più velocemente mutazioni, per cui, essendo non codificante, per default noi diciamo che sono zone non soggette a selezione, molto verosimilmente però, nel senso di una differente interpretazione perché io posso anche avere dei dati sicurissimi di neutralità di un tratto di genoma, che però per il fenomeno di hitchhiking (autostop) magari è legato ad altri tratti di genoma che invece sono selezionati per cui viene trasmesso da una generazione a un’altra come pacchetto, allora, lui magari non è selezionato però viene selezionato perché viene portato appresso da un tratto che in effetti valore selettivo lo ha, eccome. Gli studi che sono stati fatti fino adesso non sembrano indicare che ci siano effetti selettivi nel genoma mitocondriale eclatanti. 97 Venendo poi alla questione dei mescolamenti tra i genomi, a proposito di quello a cui lei faceva riferimento, ci possono essere casi di mescolamento tra specie diverse che danno anche adito a prole fertile, son però dei casi peculiari, cioè non è la situazione comune in natura, infatti quello che vi dicevo prima di Neandertal è che noi al momento attuale non possiamo assolutamente dire, io non mi sento di dirlo, che ci sia stato un certo tipo di contributo tra Neanderthal e Sapiens, ma non mi interessa neanche, quello che mi interessa stabilire è quanto c’è questo contributo. Siamo una popolazione ibrida tra Sapiens e Neanderthal? Al momento attuale io mi sento di dire: non mi sembra che questo sia il caso, cioè non mi sembra che i dati che noi abbiamo adesso a disposizione indichino che ci sia questa mescolanza, perché se così fosse, le sequenze che noi andiamo a trovare in neandertal cadrebbero all’interno dell’intervallo che noi troviamo nella nostra specie. Le sequenze del DNA mitocondriale dell’ Homo sapiens che noi adesso abbiamo sono circa trentamila, possibile allora che in trentamila sequenze non ne troviamo nessuna che è simile a quella di Neanderthal? Ma è ovvio che abbiamo l’origine comune se andiamo indietro, però se fossero stati interfecondi noi avremmo dovuto trovare prove di questa interfecondità. C’è un’altra cosa che non ho detto per motivi di tempo, noi abbiamo studiato anche il DNA mitocondriale di rappresentanti antichi della nostra specie, io personalmente nel mio laboratorio ho studiato tutti i famosi resti di Balzi rossi e Arene candide, cioè resti gravettiani e rigravettiani, e qui siamo intorno a 20000-30000 anni fa, per cui siamo molto vicini al momento in cui Neandertal è scomparso. C’è stato un periodo in cui hanno convissuto, i rigravettiani sapiens rientrano totalmente all’interno delle nostre sequenze, infatti confrontando le sequenze delle popolazioni attuali (del Mediterraneo orientale, europei, africani, asiatici, indiani d’America, europei del nord), con quelle di sapiens di circa 20.000 anni si vede che ricadono all’interno della variabilità nota per la nostra specie, ma non è così per quelle dei Neanderthal. Queste sono tutte indicazioni, quando facciamo gli studi evolutivi, se dovessi scommettere, punterei sul fatto che tutto questo grosso mescolamento tra Neanderthal e sapiens non c’è stato, non siamo state popolazioni interfeconde. Anche se è ovvio che la differenza genetica tra sapiens e Neanderthal è sicuramente più bassa di quella che c’è tra sapiens e lo scimpanzé, questo è innegabile perché sono evolutivamente più vicini a noi. Il problema è stabilire quanto del loro patrimonio genetico ci sia nel pool genico della popolazione attuale e allo stato attuale delle conoscenze mi sembra che l’idea che ci sia stato un grosso mescolamento sia poco sostenibile. Per quanto riguarda il punto di vista culturale, e non ho parlato neanche di quello perché è tutto un altro mondo, la cultura ha influito sicuramente in maniera considerevole su tutta la nostra storia evolutiva. Per quanto riguarda l’utilizzo del fuoco, sicuramente lo aveva Homo ergaster per cui siamo intorno a due milioni di anni fa in Africa, però questo non vuol dire che per es. già gli australopiteci non potessero utilizzare il fuoco che trovavano in maniera occasionale. Questo della cultura è un problema molto grosso perché si basa anche sul fatto di che cosa definiamo noi cultura, che cosa definiamo arte. È lo stesso problema del dire che l’arte è cominciata con l’uomo di Cro-Magnon in Europa, per me è un po’ riduttivo perché l’industria litica trovata in Africa è molto più antica, l’uso di ocra trovato in tempi molto più antichi (ottocentomila anni fa ) in Africa per me potrebbe già essere indicazione di un certo spirito artistico; sono cose interpretabili in maniera un po’ discordante. Sandra Magistrelli La ominazione non è un’evoluzione di tipo lineare, si avvicina piuttosto al modello a cespuglio, ma come si spiega questo esplodere di specie? L’altro giorno il prof. Buiatti 98 parlava di un’ipotesi per cui si tratterebbe di una differente regolazione dei geni, per es. quelli che controllano lo sviluppo del cervello rispetto alla stessa batteria di geni che invece controlla fegato, reni ecc. Una volta si parlava addirittura di una mutazione cromosomiale, quasi una creazione di Adamo ed Eva, adesso a che punto siamo in questo senso? Olga Rickards Il punto è molto complesso perché, come vi dicevo prima, sono stati affrontati i grossi problemi di ominazione che sono appunto l’inizio delle capacità cognitive, o del linguaggio, caratteristiche che più ci differenziano rispetto allo scimpanzé, perché quando io vi dico che, a seconda delle stime, noi differiamo dallo scimpanzé soltanto dello 0,6 %, questo non vuol dire che quando ci guardiamo, non vediamo delle differenze a livello cognitivo, comportamentale, anatomico, che sono eclatanti, per cui si è cercato di trovare una risposta a “in che cosa siamo diversi”. All’inizio sembrava che fossero soltanto mutazioni di tipo qualitativo, poi sono stati studiati per dei tratti di genoma la quantità di RNA messaggero prodotta in tessuti diversi, tra l’uomo e vari gruppi di primati non umani, e si è visto che, mentre per il fegato l’uomo e lo scimpanzé hanno quantità di RNA messaggero molto simili e diverse dalle altre scimmie, per quanto riguarda RNA messaggero a livello cerebrale è completamente diverso, cioè l’uomo ha le stesse proteine ma le produce in maniera molto più elevata, per cui questo sembrerebbe indicare chiaramente che sia qualche cosa di tipo quantitativo, e non qualitativo. Altri studi, sul linguaggio (di cui è stata data notizia sui giornali al solito in maniera errata, perché si parlava del gene del linguaggio) hanno mostrato uno dei geni, che è implicato con il linguaggio -nel senso che, se ci sono delle mutazioni in questo gene, individui della nostra specie hanno delle difficoltà a livello lessicale, e grammaticale- e studiando quel gene si è visto proprio che il nostro gene è diverso in alcuni aminoacidi da quello dello scimpanzé e applicando l’orologio molecolare all’origine di questo gene nell’uomo, arriviamo sempre ai famosi duecentomila anni fa, per cui sempre questa data sembrerebbe indicare questa origine recente della nostra specie. Al momento attuale io credo che non sia più sostenibile che è soltanto a livello quantitativo ma, come ovviamente ci dobbiamo immaginare, è a carico sia di variazioni qualitative che quantitative, o almeno, queste sono le prime indicazioni che noi abbiamo a questo proposito. Fabio Fantini Vorrei dire due parole anche se magari non riguardano direttamente ciò che Lei ha detto. Io sono un po’ perplesso nel sentire che in questa sede facciamo carico spesso alle teorie scientifiche di non dare una verità certa. A me sembra che in realtà questa critica sia cavillosa, proprio se parliamo di teorie scientifiche dobbiamo sapere che la loro peculiarità è quella di essere aperte, a loro può essere applicata qualsiasi critica. Allora è vero che il concetto di specie fa acqua da tante parti, però, finché non ne abbiamo uno migliore che pragmaticamente ci dia qualcosa di meglio, è chiaro che quello usiamo. Inoltre, a proposito di datazioni molecolari, esiste un criterio che è abbastanza affidabile, io credo, che consiste nel fatto che quando metodi diversi concordano nel dare un certo risultato, quel risultato va preso non come la verità definitiva ma come quello sul quale, come diceva lei giustamente, si potrebbe scommettere. Spesso quelle critiche per cui si dice che le teorie evolutive sono teorie, non danno una certezza, quindi come tali vanno trattate alla stessa stregua di ipotesi creazioniste,, no, non è così. Dopodiché è chiaro che ognuno di noi ha anche delle preferenze personali, è chiaro che queste in qualche modo intervengono, che la teoria regionalista prenda qualche legnata a me fa anche un po’ piacere, per le implicazioni 99 razziste che ha, però cerchiamo di essere comunque coscienti di queste preferenze e muoverci in un ambito di ragionamento più generale. Olga Rickards Sono perfettamente d’accordo e voglio proprio dire una cosa a proposito del multiregionalismo: il multiregionalismo è ormai caduto pesantemente in disgrazia, cioè ci sono una percentuale minima di colleghi che pensano ancora che sia il modello più idoneo a spiegare l’origine della nostra specie, mentre fa troppa acqua da tutte le parti tanto che gli stessi sostenitori hanno dovuto rivederlo e rimodificarlo, insomma non ci sono dati che lo sostengono, né a livello molecolare, assolutamente no, ma neanche a livello paleontologico. Altro intervento Una domanda velocissima, prima si parlava del modello multiregionale e del modello out of Africa, quali sono secondo lei le ricadute socioculturali, nel caso prevalga il primo o il secondo modello? Olga Rickards Come diceva il suo collega precedentemente il modello multiregionale ha delle implicazioni a livello della possibilità di individuare, all’interno della nostra specie, razze biologiche diverse molto fortemente, nel senso che se noi, come i multiregionalisti sostenevano (ma ormai sostengono sempre meno) abbiamo iniziato la nostra storia evolutiva in maniera abbastanza differente, acquisendo delle caratteristiche anatomiche peculiari intorno a due milioni di anni fa nei vari continenti, allora c’è stato tempo a sufficienza perché si possano essere create all’interno della nostra specie delle categorie sottospecifiche che alcuni definiscono come razze. Questo però è sicuramente incompatibile con tutte le evidenze molecolari che sono state ottenute fino adesso, che ci dimostrano completamente il contrario, cioè ci dimostrano che il grado di variabilità che si riscontra tra le popolazioni è in quantità talmente bassa che non può assolutamente giustificare l’idea di poter discriminare le popolazioni. Con questo non voglio dire che se noi andiamo a guardare le varie popolazioni del mondo non vediamo delle differenze, gli scandinavi sono differenti dai pigmei, sono differenti per quei caratteri che, come vi dicevo prima, ci spiegano la storia ecologica delle popolazioni. Se noi andiamo a vedere le popolazioni dell’Africa, le popolazioni australiane, gli indiani dell’India, sono tutti scuri, sono dunque uguali filogeneticamente? Ma proprio per niente, cioè gli europei e gli africani sono tra loro a livello genetico molto più simili, quelli sembrano simili a livello morfologico perché vivono tra i due tropici dove l’insolazione è massima dove essere scuri è vantaggioso per cui ci raccontano un’altra storia, che può essere importantissima. Non è detto che la storia dei caratteri adattativi non sia importante, però è un’altra storia; se noi vogliamo fare filogenesi dobbiamo utilizzare i caratteri neutri, e quelli ci dicono qualche altra cosa, la teoria dell’out of Africa ci dice che siamo una specie nuova che non ha avuto neanche il tempo di poter accumulare quelle differenze a livello genetico che permetterebbero di individuare delle razze. 100 Un approccio evolutivo allo studio del cervello: la teoria del “darwinismo neurale” YURI BOZZI Un po’ di storia Il termine “darwinismo neurale” indica una precisa teoria (nota anche come “teoria della selezione dei gruppi neuronali”), proposta per la prima volta nel 1978 da Gerald Edelman (1) e poi pubblicata nel 1987 nel libro “Neural darwinism. The theory of neuronal group selection” (2, 3) per cercare di spiegare i processi di base di funzionamento del cervello e della mente. Edelman usa il termine “darwinismo” per indicare che nel cervello, in ogni istante della vita di ogni individuo, operano dei meccanismi di “selezione” a livello molecolare, cellulare ed anatomico. Quella di Edelman si presenta come una vera e propria teoria “evolutiva” del cervello. Secondo Edelman, la struttura e la funzione del cervello mutano ed evolvono continuamente, in base a fattori genetici ed ambientali; e continuamente le strutture cerebrali -a tutti i livelli: molecole, cellule, connessioni, gruppi di cellule- sono sottoposte ad una selezione ad opera di questi fattori, in modo tale che solo le migliori (le più “adattate”, si direbbe in termini evoluzionistici) sopravvivano e continuino ad evolversi. Il funzionamento del cervello, quindi, viene visto come un processo “evolutivo”, ma non su una scala temporale di milioni di anni, bensì nel corso della vita di un individuo. Secondo Edelman, questi processi selettivi agiscono a tutti i livelli stutturali e funzionali del cervello; la teoria proposta dovrebbe quindi spiegare, in maniera organica ed unitaria, tutti gli aspetti funzionali dello sviluppo del cervello umano, dallo sviluppo embrionale alla formazione della coscienza individuale. Prima di approdare alle neuroscienze, Edelman si era occupato, con grande successo, dello studio del sistema immunitario. Nel 1972, era stato infatti insignito del Premio Nobel per la Fisiologia e la Medicina, grazie alle sue rivoluzionarie scoperte sui meccanismi che regolano la produzione degli anticorpi. Sino a quel tempo, si pensava infatti che tutti gli anticorpi avessero la stessa sequenza aminoacidica e che ciascun antigene, entrando in contatto con il sistema immunitario, determinasse una diversa struttura tridimensionale dell’anticorpo stesso. Il più autorevole sostenitore di questa teoria “istruttiva” era il grande biochimico Linus Pauling, che nel 1954 aveva vinto premio Nobel per la chimica grazie ai suoi studi sulla struttura delle proteine. Edelman dimostrò invece che l’organismo possiede un repertorio pressoché infinito di anticorpi, ed ogni volta che un antigene penetra nell’organismo, “seleziona” uno specifico anticorpo (prodotto da un particolare clone di linfociti B) in grado di neutralizzarlo. Questa teoria (originariamente proposta, ma non dimostrata, già nel 1959 da MacFarlane Burnet) è conosciuta ancor oggi come “teoria della selezione clonale”. 101 Si coglie immediatamente la somiglianza tra la teoria della selezione clonale del sistema immunitario e la teoria della selezione dei gruppi neuronali del sistema nervoso: in entrambe, l’impianto evoluzionistico, darwiniano, è il punto centrale del pensiero scientifico di Edelman. E nel formulare la sua teoria del “darwinismo neurale”, Edelman attinge a piene mani dalla sua precedente esperienza di ricerca. E’ inoltre interessante osservare che le prime ricerche di Edelman nel campo delle neuroscienze furono strettamente correlate alle sue precedenti ricerche sul sistema immunitario. Per molti anni Edelman si è occupato infatti dello studio delle cosiddette “molecole di adesione cellulare del sistema nervoso” (“neuronal cell adhesion molecules”, NCAMs), che hanno una struttura molto simile a quella degli anticorpi e che svolgono un ruolo fondamentale nella formazione e nel funzionamento dei circuiti nervosi. Sin dal momento della sua pubblicazione, la teoria del darwinismo neurale di Edelman fu molto criticata, soprattutto per il linguaggio spesso di difficile comprensione usato dall’autore. In un polemico articolo del 1989, Francis Crick arrivò addirittura a definire la teoria di Edelman come “Edelmanismo neurale” (4). E nel 1993, sei anni dopo l’uscita del suo libro, Edelman continuava a scrivere articoli divulgativi su autorevoli riviste di neuroscienze per spiegare la sua teoria (5). Il darwinismo neurale non ha avuto quindi una vita assolutamente facile. Eppure, soprattutto per il periodo in cui è stato proposto, contiene molti spunti interessanti, che negli anni successivi hanno trovato piena conferma sperimentale. Una visione d’insieme Secondo la teoria di Edelman, il bersaglio principale della selezione neurale sono i gruppi neuronali. Un gruppo neuronale è definito come “un gruppo di cellule nervose (in numero variabile tra 50 e 10.000), più o meno strettamente connesse tra di loro, che presentano una risposta sincrona ad un determinato stimolo” (2, 3). Le connessioni tra i neuroni (connessioni sinaptiche) sono fortemente variabili da un gruppo neuronale all’altro, e ciascun gruppo neuronale avrà quindi una capacità di rispondere in modo diverso a segnali diversi. E’ su questa variabilità che agisce la selezione neuronale. Edelman propone tre meccanismi fondamentali responsabili del comportamento adattattivo del sistema nervoso (Fig. 1): la selezione durante lo sviluppo, la selezione durante l’esperienza e la segnalazione rientrante. Selezione durante lo sviluppo: regola il modo in cui le principali strutture nervose cominciano a formarsi durante la vita embrionale, sotto l’azione di fattori genetici. Selezione durante l’esperienza: opera durante la vita post-natale dell’organismo, e permette di rifinire la struttura e la funzione cerebrale in maniera adeguata ed in risposta agli stimoli ambientali (si parla di “plasticità sinaptica”). Segnalazione rientrante: i primi due processi selettivi sopra menzionati contribuiscono a creare “mappe” di gruppi neuronali specializzati a rispondere a specifici segnali che provengono dal mondo esterno. Mappe diverse controllano modalità sensoriali diverse, e rispondono preferenzialmente a caratteristiche diverse degli stimoli. In un sistema selettivo, le mappe sono sottoposte a continui riarrangiamenti. Edelman 102 propone quindi un complesso meccanismo di segnali tra gruppi neuronali diversi, che egli chiama segnalazione rientrante, che permetta la coordinazione tra mappe diverse. Nei paragrafi successivi analizzeremo in dettaglio i tre punti principali della teoria, cercando di evidenziare -in base a ricerche più recenti- la correttezza o l’inesattezza delle intuizioni di Edelman. La selezione durante lo Figura 1. Rappresentazione schematica dei processi di selezione sviluppo durante lo sviluppo, selezione durante l’esperienza e segnalazioLa selezione durante lo ne rientrante proposti da Edelman. Tratta da (5). sviluppo regola il modo in cui le principali strutture nervose cominciano a formarsi durante la vita embrionale, essenzialmente sotto l’azione di fattori genetici. Lo sviluppo embrionale del sistema nervoso dei Mammiferi consiste essenzialmente di quattro fasi principali: Proliferazione dei neuroni: durante questa fase vengono generate le cellule che daranno origine a tutto il sistema nervoso. Migrazione: dalla loro zona di origine, le cellule nervose migrano in altre aree del sistema nervoso in via di sviluppo, per raggiungere la loro posizione definitiva. Differenziamento: una volta migrate nella loro posizione definitiva, le cellule nervose si differenziano in vari tipi di neuroni. Crescita dei prolungamenti nervosi: i neuroni, mentre si differenziano, emettono prolungamenti e formano connessioni con altri neuroni. Lo sviluppo embrionale del sistema nervoso è caratterizzato da una fase iniziale in cui sia i neuroni che le connessioni tra i neuroni si formano in largo eccesso. La selezione durante lo sviluppo consiste proprio nell’eliminazione dei neuroni e delle connessioni in eccesso ad opera di meccanismi geneticamente predeterminati. Nella sua teoria, Edelman postulava che le cosiddette “molecole di adesione cellulare del sistema nervoso” (“neuronal cell adhesion molecules”, N-CAMs), svolgessero un ruolo fondamentale in questi processi (Fig. 1). Studi successivi alla pubblicazione del saggio di Edelman hanno solo parzialmente confermato la sua ipotesi. Attualmente si ritiene piuttosto che la “morte neuronale programmata” (apoptosi) ed alcune molecole note come “fattori neurotrofici” (tra cui il “Fattore di crescita nervoso”, NGF, scoperto da Rita Levi-Montalcini) siano importanti per regolare l’esatto numero di neuroni e di connessioni neuronali durante lo sviluppo embrionale (6). 103 La selezione durante l’esperienza La selezione durante l’esperienza opera durante la vita post-natale di un organismo, e permette di rifinire la struttura e la funzione cerebrale in maniera adeguata ed in risposta agli stimoli ambientali. Questo processo di riorganizzazione anatomica e funzionale del cervello avviene essenzialmente a livello delle connessioni sinaptiche tra le cellule nervose, e prende infatti il nome di “plasticità sinaptica”. Edelman ipotizza che questo avvenga essenzialmente attraverso la modificazione della “forza” delle connessioni sinaptiche, ma non del loro numero. Oggi sappiamo che questa è vera, ma non del tutto esatta. Più precisamente, la riorganizzazione anatomica delle connessioni neuronali in risposta a stimoli ambientali avviene attraverso la modificazione dell’efficacia delle connessioni stesse (alcune connessioni si rafforzano, altre si indeboliscono), ma anche del loro numero (alcune si formano ex novo, altre scompaiono). Lo sviluppo del sistema visivo dei Mammiferi rappresenta un esempio perfetto di “selezione durante sviluppo” e di “selezione durante l’esperienza”. In tutti i Mammiferi esiste una precisa area del cervello, posta nella zona posteriore degli emisferi cerebrali, che è deputata alla percezione dello stimolo visivo proveniente dagli occhi. In questa area, chiamata “corteccia visiva primaria”, arrivano informazioni distinte dai due occhi: essa infatti è anatomicamente organizzata in “colonne di dominanza oculare” che ricevono connessioni da un occhio o dall’altro. E’ ormai noto che le colonne di dominanza oculare si formano grossolanamente durante lo sviluppo embrionale, cioè in assenza dello stimolo visivo (7). Successivamente, durante lo sviluppo post-natale, l’esperienza visiva “modella” in maniera fine ed accurata, attraverso un processo di eliminazione e formazione (cioè, di “selezione”), l’organizzazione delle connessioni sinaptiche a livello della corteccia visiva primaria. Un caso limite di questo fenomeno, descritto negli anni ’60 del secolo scorso da David Hubel e Torsten Wiesel (Premi Nobel per la Fisiologia e la Medicina nel 1981), è rappresentato dagli effetti della deprivazione sensoriale nei Mammiferi. Se durante le prime fasi dello sviluppo postnatale viene persa la visione da un occhio (per esempio, nell’uomo, in seguito ad una cataratta congenita) le aree della corteccia visiva primaria normalmente connesse a quell’occhio si restringono, mentre quelle connesse all’altro occhio si espandono (7). In altre parole, l’esperienza sensoriale modifica la struttura anatomica delle aree cerebrali che si sono già formate durante lo sviluppo embrionale. La segnalazione rientrante I due processi selettivi descritti sopra contribuiscono a creare “mappe” di gruppi neuronali specializzati a rispondere a specifici segnali che provengono dal mondo esterno. Mappe diverse controllano modalità sensoriali diverse, e rispondono a caratteristiche diverse degli stimoli. In un sistema selettivo, le mappe sono sottoposte a continui riarrangiamenti. La “segnalazione rientrante” è il meccanismo di segnali tra gruppi neuronali diversi che permette la coordinazione tra mappe diverse. Le “mappe” sono una serie interconnessa di gruppi neuronali che rispondono selettivamente ad una specifica componente di uno stimolo sensoriale (per es., colore o movimento per lo stimolo visivo). La percezione di uno stimolo (visivo, acustico…) 104 deriva dalla sincronizzazione di molte mappe ciascuna relativa a diversi aspetti dello stimolo stesso. Questo processo è dinamico, in quanto le mappe si modificano in base all’esperienza (sono, cioè, “plastiche”). Le mappe inoltre sono reciprocamente connesse tra di loro, e proprio le estese connessioni tra le diverse mappe permettono la “segnalazione rientrante”, cioè la continua comunicazione tra le mappe (suscettibile anch’essa di essere modulata dall’esperienza). Ancora una volta, la corteccia visiva rappresenta un esempio perfetto di come le mappe sono organizzate nel cervello. La corteccia visiva ha infatti una struttura “modulare”, e contiene circa una trentina di mappe diverse ciascuna deputata alla percezione di una precisa caratteristica dello stimolo visivo (orientamento, colore, provenienza da un occhio o dall’altro...). Le informazioni visive provenienti da tutte queste mappe parallele convergono per formare un’unica rappresentazione dello spazio visivo. Si possono fare molti esempi della plasticità delle mappe cerebrali. Le mappe si modificano in seguito all’apprendimento (nei violinisti, la rappresentazione della mano sinistra nella corteccia motoria è tanto più estesa quanto prima hanno cominciato a suonare), oppure in seguito a lesioni periferiche (dopo l’amputazione di una mano, l’area della corteccia somato-sensoriale normalmente deputata al suo controllo viene occupata dalla rappresentazione del viso e delle labbra). Le mappe inoltre si influenzano a vicenda, secondo un fenomeno conosciuto come “plasticità crossmodale”: un classico esempio di questo tipo di plasticità è rappresentato dagli individui ciechi dalla nascita, nei quali la lettura in Braille attiva la corteccia visiva e non la corteccia somato-sensoriale (come avviene invece nei vedenti): per loro, la lettura in Braille equivale cioè ad uno stimolo visivo, non tattile. I modelli neurali e gli automi della serie “Darwin” Esistono dunque numerose evidenze dei processi di plasticità delle mappe cerebrali, che indicano chiaramente la stretta interconnessione ed il continuo scambio di informazioni tra mappe sensoriali diverse. Tuttavia, le evidenze a favore dell’esistenza di questo scambio di informazioni (che Edelman definisce appunto “segnalazione rientrante”) rimangono comunque indirette: ad oggi infatti, non è ancora possibile visualizzare in alcun modo, neppure con le più moderne tecniche di “imaging” cerebrale, il continuo scambio di informazione tra le mappe. Da questo deriva l’importanza dei modelli informatici di sistema nervoso (reti neurali) sviluppati da Edelman e dai suoi collaboratori. A partire dagli anni ’80 del secolo scorso, infatti, Edelman ed il suo gruppo hanno cercato di verificare ed ampliare le ipotesi sulla segnalazione rientrante sviluppando “reti neurali” e robot “intelligenti”, capaci cioè di apprendere e modificare il proprio comportamento in base all’esperienza. Già in “Neural darwinism”, Edelman aveva descritto il modello Darwin II, un automa dotato di un semplice “sistema nervoso” con due sole modalità sensoriali (visiva e tattile) ed in grado di imparare a riconoscere oggetti. Un passo decisivo nella costruzioni di robot intelligenti è rappresentato però dalla comparsa, nel 1992, di Darwin IV, costituito dall’automa NOMAD (“Neurally 105 Organized Multiply Adaptive Device) posto sotto il controllo di un sistema nervoso simulato al computer. NOMAD è un piccolo automa dotato di “braccia”, “gambe” e di varie modalità sensoriali. Possiede infatti un sistema visivo (una telecamera), dei sensori tattili, dei sensori di calore, dei sensori chimici di “gusto”; grazie alle informazioni che raccoglie attraverso questi “organi” impara a “categorizzare”, riconoscere e scegliere alcuni oggetti scartandone altri. In altre parole, impara e modifica il proprio comportamento in base all’esperienza. Gli aspetti teorici importanti sono essenzialmente due. Il primo è rappresentato dal fatto che NOMAD può funzionare solo grazie a dei cosiddetti “sistemi di valore”, che non sono altro che programmi che consentono al robot di eseguire alcuni compiti di base (muoversi, per esempio). Edelman fa notare che questi “sistemi di valore” sono presenti anche nel nostro cervello: si pensi alle strutture “vitali” che controllano tutte le funzioni vegetative quali ad esempio il respiro. Il secondo è rappresentato dal fatto che il “sistema nervoso” di NOMAD è controllato da un computer, che permette di monitorare costantemente lo scambio di informazioni che avvengono al suo interno (cioè, la segnalazione rientrante). Un paragone tra Edelman e Darwin Che cosa c’entra, tutto questo, con la teoria della selezione naturale proposta da Darwin? Si può tentare di fare un paragone tra le due teorie, mettendo in evidenza alcuni punti in comune (8). La teoria della selezione dei gruppi neuronali di Edelman propone che nel corso di tutta la vita di un individuo la struttura e la funzione del cervello evolvano costantemente, sulla base di un processo selettivo che premia le strutture cerebrali più adatte o, meglio, adattate. I bersagli della selezione (candidati cioè al possesso di “fitness”) nella teoria di Edelman sono le sinapsi, i neuroni, i gruppi neuronali e le mappe corticali, mentre nella teoria di Darwin sono costituiti da DNA, geni, cromosomi, organismi, popolazioni e specie. Un importante punto di contatto tra le due teorie è la correlazione tra “fitness” ed ereditarietà. Infatti, come in base alle teorie darwiniane le differenze nell’adattamento degli organismi ad un ambiente portano a differenze nel loro successo riproduttivo, cambiando di conseguenza le frequenze genotipiche in una popolazione, nella teoria di Edelman le differenze nella connettività dei gruppi neuronali portano a differenze nella loro iniziale risposta ad uno stimolo, e di conseguenza modificano la probabilità della successiva risposta di un gruppo neuronale allo stesso stimolo. Un secondo punto di contatto è il concetto di “variabilità del repertorio”. Una conseguenza fondamentale dell’evoluzione della specie è che il repertorio genico (e fenotipico) iniziale di una popolazione varia continuamente: alcuni genotipi (e fenotipi) si estinguono, altri si conservano. In maniera analoga, secondo Edelman il repertorio neuronale si modifica continuamente: durante lo sviluppo embrionale del cervello questo repertorio di neuroni e connessioni si forma inizialmente secondo un programma essenzialmente genetico, in maniera indipendente dall’ambiente. Poi però, sotto l’influsso dell’esperienza, questo repertorio cambia: alcuni gruppi neuronali rafforzano le proprie connessioni, altri le indeboliscono. 106 Conclusione La teoria di Edelman rappresenta un tentativo organico ed unico nel suo genere di descivere in maniera unitaria lo sviluppo e le funzioni del cervello umano. Dal 1987, anno in cui uscì “Neural darwinism”, alcune ipotesi di Edelman hanno trovato conferma, altre invece si sono rivelate inesatte. Un pregio della teoria di Edelman è certamente quello di aver spiegato che il cervello non è un computer che esegue in maniera automatica programmi prestabiliti, ma una struttura che si evolve di continuo, e che impara effettuando costantemente nuove “scelte”. Una conseguenza ovvia (e forse anche un po’ banale...) di questa teoria è una visione fortemente individualistica della natura umana: sotto la spinta dei processi selettivi, non può esistere un cervello (e, quindi, un individuo) uguale ad un altro. Edelman ha sempre difeso strenuamente e con grande presunzione le proprie idee, spesso accolte con poco entusiasmo (se non addirittura con aperta ostilità) dal mondo scientifico. Nel 1993, ad esempio, descrivendo il proprio lavoro nella prefazione al suo libro “Bright Air, Brilliant Fire”, egli scrisse: “Siamo all’inizio di una rivoluzione neuroscientifica. Alla fine, sapremo come funziona la mente, che cosa governa la nostra natura e in che modo conosciamo il mondo”. Da allora sono passati più di dieci anni, ed indubbiamente le neuroscienze hanno fatto molti progressi; ma siamo ancora molto, molto lontani dal conoscere i segreti della mente umana... Juri Bozzi Istituto di Neuroscienze del C.N.R. di Pisa Riferimenti bibliografici G. M. Edelman Group selection and phasic re-entrant signalling: a theory of higher brain function in: The mindful brain, MIT Press Cambridge, Massachusetts, 1978 G. M. Edelman Neural darwinism. The theory of neuronal group selection Basic Books, New York, 1987 G. M. Edelman Darwinismo neurale. La teoria della selezione dei gruppi neuronali Ed. Einaudi, 1992 F. Crick Neural edelmanism Trends Neurosci 12, 240-248, 1989 G. M. Edelman Neural darwinism: selection and reentrant signaling in higher brain function Neuron 10, 115-123, 1993 A. M. Davies Regulation of neuronal survival and death by extracellular signals during development EMBO J. 22, 2537-2545, 2003 L. C. Katz, J. C. Crowley Development of cortical circuits: lessons from ocular dominance columns NAT REV NEUROSCI 3, 34-42, 2002 R. Michod Neural edelmanism TRENDS NEUROSCI 13, 12-13, 1990 107 Dibattito Brunella Danesi Quando l’argomento del cervello viene affrontato a scuola c’è sempre qualcuno che chiede che cosa succederebbe se si riuscisse a fare un trapianto del cervello, dal momento che ci sono anche gli ormoni che sollecitano la fissazione della memoria. Yuri Bozzi E’ una mia idea, ma io sono estremamente scettico, credo molto nella individualità della struttura del cervello, almeno questo è quanto viene fuori da ciò che io studio, però quello a cui ho accesso e che studio lo possono studiare tante altre persone e non tutti la pensano assolutamente come me. Ora, un trapianto di cervello è cosa veramente inarrivabile perché c’è un “piccolo” aspetto tecnico che per il momento ostacola il trapianto del cervello, dove con cervello si intende il sistema nervoso centrale, e consiste nel fatto che, mentre le terminazioni nervose periferiche si ricostituiscono, quelle centrali, no. Se trapiantate un cervello, la ferita fra cervello e midollo per ora nessuno è riuscito a ricucirla. Ammettiamo comunque che lo si faccia, a qual pro si farebbe? Non credo che io sarei Einstein se avessi il cervello di Einstein. Il discorso del cervello trapiantato risente, secondo me, dell’idea di un cervello autonomo e staccato dall’organismo. Qualche giorno fa leggevo un articolo divulgativo di uno studioso della Columbia University esperto di sistema nervoso enterico, cioè di tutte le terminazioni nervose che abbiamo nella pancia, che egli chiama secondo cervello. Ora, è una bomba messa lì per attirare l’attenzione, però non ci si deve dimenticare di tutti i segnali che il nostro cervello riceve dal nostro corpo e viceversa, ed è vero che quelli che il cervello manda al corpo sono se volete più immediati, e questo è più intuibile pensarlo perché la percezione degli stimoli è immediata e dal cervello si trasforma in qualche modo in azione, però anche il nostro corpo in modo non cosciente manda dei segnali al cervello. Gli ormoni regolano la proliferazione dei neuroni, le connessioni tra i neuroni regolano la memoria, gli ormoni hanno importantissimi ruoli e non se ne sa quasi niente. Dunque, ammesso che sia fattibile, secondo me la risposta è: trapiantando a me il cervello di Einstein io non divento Einstein. La teoria di Edelman a suo tempo è stata criticata, i suoi libri sono molto difficili, però voleva essere, secondo me, abbastanza rivoluzionario, al di là dell’autocelebrazione, nel senso che si presentava come teoria globale di funzionamento del cervello e soprattutto cercava di spingere al massimo l’idea che il cervello si sviluppa, lavora e funziona in maniera assolutamente non separata da tutto ciò che circonda un organismo, un individuo, quindi spinge al massimo l’idea di individualismo. Yuri Bozzi Che la struttura tridimensionale degli anticorpi abbia un ruolo è fuori di dubbio perché non è solo la sequenza del DNA che determina la variabilità degli anticorpi. Io non sono un esperto di sistema immunitario, per cui magari posso dire delle sciocchezze, però nei mammiferi, durante lo sviluppo embrionale, quello che arriva al feto sono gli anticorpi della madre, quindi probabilmente più che di sviluppo embrionale si parla di vita postnatale come elemento selettivo della specificità anticorpale perché i bambini prima che nascano prendono solo gli anticorpi circolanti della madre, quindi lì ci sarà sicuramente un fenomeno selettivo dovuto all’ambiente. Quello è il bersaglio della selezione, come è inteso nella teoria di Edelman, però è anche vero che in fin dei conti è il meccanismo più utilizzato dai neuroni per comunicare, la sinapsi, e anche se è vero che comunicano poi anche attraverso fattori 108 diffusibili, non necessariamente rilasciati a livello della sinapsi, però lo scambio di informazione elettrica, quindi il segnale, fondamentalmente è a livello delle sinapsi, quindi quello è il punto della selezione, formazione di connessioni, in sostanza. Sandra Magistrelli Per quanto riguarda l’apprendimento, nel vostro lavoro avete scambi con pedagogisti o con esperti di altre discipline e di altri Istituti? Yuri Bozzi La risposta alla domanda diretta è:sì, e anche nel caso specifico del nostro Istituto, che è l’Istituto di Neuroscienze del CNR, ci sono delle persone affiliate al nostro istituto, per es. due professoresse, una delle quali insegna Psicologia a Firenze e un’altra a Milano, quindi ci sono almeno tre persone, una delle quali è la professoressa Berardi, che insegna Psicologia a Firenze, è una neurofisiologa, però insegna ed è un punto di contatto, i suoi studenti fanno esperimenti di comportamento animale, studiano per es. le basi cellulari o molecolari del comportamento nei roditori, a dimostrazione del fatto che punti di contatto ci sono. Il caso degli altri due professori che lavorano da noi, Dave Board e sua moglie Concetta Morrone, studiano principalmente la psicofisica del sistema visivo ed hanno rapporti molto stretti con cliniche nelle quali si studiano per es. bambini in età scolare che hanno non solo difetti della visione, anzi più spesso studiano aspetti di deficit visivi in bambini che hanno ritardo mentale e difficoltà di apprendimento, e questi sono i colleghi della Stella Maris del Calabrone di Pisa. Stella Maris è un IRCS centro di livello assolutamente alto, in Italia è uno dei centri migliori, dove si fa ricerca clinica su malattie del sistema motorio, autismo, da parte di medici che studiano riabilitazione motoria in bambini che hanno problemi motori magari conseguenti al parto, o comunque patologie piuttosto gravi, altri studiano l’epilessia, altri l’autismo, ed hanno sempre un approccio misto, medico ma anche psicofisico e psicologico: insomma persone che fanno da ponte ci sono, assolutamente sì. Una collega Che cosa si sa sull’apprendimento? Come si impara? Yuri Bozzi Io ho un bimbo di tre anni, e come impara? Mi sfinisce ripetendo dieci volte la stessa cosa, le canzoni, i movimenti, le domande, cioè ripete allo sfinimento e un motivo ci sarà, visto che tutti i bambini fanno così. Secondo me è proprio perché è la reiterazione martellante di un pattern neuronale, di una sequenza comportamentale che fissa un circuito e lo rende efficace. Tutto questo non è che lo dico io, si sa, e si può anche dimostrare magari sulle singole cellule, come vi ho fatto vedere: si dà una scarica elettrica di un certo tipo, in realtà è un treno di impulsi quindi un impulso ripetuto nel tempo e si forma una connessione. Allora, è molto probabile, anzi io penso che sia proprio così, che a livello comportamentale la ripetizione reiterata di un determinato schema comportamentale, fissi quel comportamento. Questo nei bambini è clamoroso quindi non vedo perché imparare una poesia a memoria, non solo ti fa ricordare “La nebbia agli irti colli”, ma ti abitua anche a ricordarne altre. Non c’è dubbio che il cervello vada tenuto in esercizio, e secondo me la memorizzazione era utile: se uno la usa, funziona. Sandra Magistrelli A proposito dei robot io mi chiedo, è partito dicendo che c’era, e c’è ancora, l’idea del cervello computer, è con Edelman che si cambia questa visione; allora, perché questo ritorno al robot, oppure, sono in antitesi queste ricerche? E costano soldi? 109 Yuri Bozzi Non credo che quelle siano le ricerche più costose perché l’hardware, il calcolatore in sé ha un costo che non è equiparabile agli equipaggiamenti da laboratorio di biologia cellulare o molecolare, inoltre se fai il programmatore, una volta che hai l’hardware, fai il programma, ma non usi nient’altro. Il robottino non so quanto è costato, ma credo non molto. Perché lo fanno? L’idea è di creare dei modelli di funzionamento del sistema nervoso per “tappare” quei buchi che per il momento non si possono fisicamente realmente dimostrare. In realtà lui insiste nel dire che quell’aggeggio non è un robot programmato, e questo è il punto, perché la differenza a proposito della quale il gruppo di Edelman stressa fino alla fine è questa: un conto è avere davanti un computer che appena premi un tasto fa una cosa, (uno potrebbe costruirsi un automa che appena messo in mezzo a una stanza va a prendere il primo cubo, lo porta nella tana e chiuso), altro è, come loro hanno fatto, costruire un automa che, messo lì nella stanza, comincia prima di tutto a guardarsi intorno, poi piano piano si avvicina, tocca, c’è un sensore di conduttanza elettrica, di calore o simile, che, eccolo lì, utilizzando un programmino -quello che loro chiamano sistema di valore- dirà: siamo in un range che per te va bene, è caldo a sufficienza, non è caldo a sufficienza. Qualche categoria di scelta preconfezionata la deve avere, ma a parte questo il robottino può andare a prendere prima il cubo bianco, o il rosso o il nero o quello con i pallini, e magari diversi robottini fanno cose diverse, cioè non sono automi nel senso che fanno sempre la stessa cosa, quindi sono guidati da un computer ma è un computer che impara strada facendo, esprimendo ogni volta delle preferenze. Robert Vignali Quanti sistemi diversi di memoria, apprendimento e “coscienza” potremmo generare facendo esperimenti di questo tipo, cambiando software, hardware? Yuri Bozzi Ho messo di proposito l’ultima diapositiva, perché se si diventa troppo gobbi sul computer si perde il filo della vita, questo è il rischio dei modellisti. Io non sono un modellista, non faccio modelli, sono uno sperimentatore, osservo e traggo delle piccole, minime conclusioni da quello che osservo. La domanda è giustissima, la risposta non ce l’ho, però mi viene da pensare, nell’esperienza comune, che fra noi individui, tutti diversi, uomini diversi, sicuramente esistono dei meccanismi di base di apprendimento che sono uguali in tutti, è incredibile che sia così ma a livello molecolare molto probabilmente non siamo tanto diversi, però siamo portati a pensare che la coscienza dell’uomo sia di un certo tipo; spesso si parla della coscienza e non si parla mai “delle” coscienze di ciascuno di noi, secondo me già qui dentro c’è una bella variabilità, c’è una variabilità anche in come noi percepiamo tutto quello che ci circonda. Da questo punto di vista non parlo da scienziato, parlo con il senso comune: viviamo in un mondo fatto di categorie, che ci siamo, in quanto tali, costruite noi, e parlando per es. dei colori, tutti li categorizziamo: blu, rosso, giallo, abbiamo categorizzato un po’ di sfumature e se uno ha un computer ne caratterizza in modo preciso la composizione delle varie componenti, però non prendiamo le sfumature tutti allo stesso modo: ciò ha chiaramente un substrato biologico perché sono i nostri pigmenti visivi che ci permettono una percezione del colore particolare, ma la sfumatura del colore non è uguale in tutti noi. Questo è un esempio stupidissimo però lo puoi riportare a qualunque livello della percezione e se vai anche sopra, ciascuna divisione ha la sua, quindi, senza stare nemmeno a pensare ai modelli di Edelman, è vero, un robottino può evolvere un proprio sistema completamente diverso dall’altro, ma forse quello che vuole dire è che in ciascuno di noi si verifica proprio questo: 110 l’evoluzione di un cervello che è diverso. Lo saprete meglio di me, ma in culture diverse esistono delle categorie percettive diverse, ci sono tribù nella cui lingua vengono usati 30-40 pronomi diversi che vogliono dire non “io”, “tu”, ma “io e altri due con i capelli rossi”, “io e il fratello di quella che ieri stava con te”, con una parola sola, e ciò condiziona per forza la capacità percettiva e la vita di relazione degli individui, porta ad avere in un individuo adulto un cervello che ragiona sicuramente in modo diverso dal mio, non voglio dire migliore o peggiore, ma diverso dal mio. Io non lo concepisco nemmeno di categorizzare due individui come “tu e la sorella di Beppe che ieri l’altro è stata con te”, e chiamare per esempio tutto questo “U”. Volevo dire allora che senza tirare in ballo i modelli probabilmente un grosso livello di variabilità lo abbiamo già noi stessi. Quindi esistono tanti apprendimenti e bisognerebbe non parlare di “apprendimento” al singolare ma di “apprendimenti”. Infatti i bambini imparano le stesse cose con strategie assolutamente diverse, ciascuno ha la sua strategia di apprendimento. Altra domanda Allora la scuola banalizza? Yuri Bozzi Secondo me no, molti insegnanti sì, probabilmente. Voi che siete qui sicuramente non banalizzate, non credo proprio, a questo rispondo, da studente che sono stato, effettivamente molti insegnanti banalizzano. Altro intervento Se a una certa domanda pretendiamo da tutti gli studenti la stessa risposta, banalizziamo? Noi diamo delle categorie e ciò non significa necessariamente banalizzare, e questo lo facciamo anche senza essere insegnanti, nelle scelte che una persona fa nella propria vita, nei rapporti sociali che ha, le amicizie che ha. Yuri Bozzi La scuola, da come me la ricordo io, può essere un grosso punto negativo perché incanala male le coscienze; di un ragazzo non si coglie il lato positivo fra le tante stramberie che ha, e lo si perde, magari un ragazzo strambo che però ha un grandissimo talento musicale e non è detto che l’insegnante se ne accorga. Il rischio della banalizzazione c’è e ce n’è molto anche all’università. Io ho un mia interpretazione sul discorso della banalizzazione: l’insegnante, a qualunque livello lavori, ha potere. Questo l’ho visto molto bene nei professori universitari, nel qual caso si tratta anche di potere politico, se uno fa male il suo lavoro e si fa prendere da questo, è ovvio, è semplice incanalare gli studenti in un binario, perché se li fai rispondere come vuoi tu, da lì non ti toglie nessuno, se invece li aiuti a ragionare non è detto. Comunque non tutti i sistemi educativi sono così, il sistema anglosassone è molto più aperto. Nel sistema universitario c’è un aspetto che mi ha sempre sconvolto quando ero studente quando tutti mi prendevano in giro perché studiavo, se facevo domande dicevano che ero un secchione, è il fatto che gli studenti non fanno domande, mentre il docente si propone come quello che tiene la verità in mano e quindi esercita un potere. 111 Basi biologiche dell’attrazione A LESSANDRO C ELLERINO Il titolo originale della relazione che avevo mandato era Evoluzione della sessualità, ma ciò di cui vi parlerò oggi, a parte una brevissima introduzione, è l’evoluzione del viso umano in relazione alla scelta sessuale. L’unica cosa che dirò rapidamente sull’evoluzione della sessualità è che, per quanto possa sembrare strano, il sesso, così come l’invecchiamento, rappresentano i due grossi problemi aperti della biologia. Questo perché, come tutti noi ben sappiamo, il sesso non è l’unico modo per riprodursi, ma anzi, la partenogenesi è un metodo altrettanto valido ed efficiente per propagare i propri geni, quindi in un’ottica di biologia evoluzionistica moderna in cui ogni strategia comportamentale è il risultato di un punto di bilancio tra costi e benefici, è a tutt’oggi difficile spiegare come mai un organismo, in modo particolare una femmina, decida di entrare in società con un maschio e quindi avere la proprietà solo del 50% dei geni della prole, piuttosto che riprodursi partenogeneticamente e avere quindi la proprietà del 100% dei geni della prole. In altre parole, il meccanismo di riproduzione sessuale può evolvere solo ed esclusivamente nella situazione in cui la sopravvivenza dei figli che si ottengono da una riproduzione sessuale è più che doppia di quella dei figli che si ottengono per partenogenesi. Esistono al momento due ipotesi che spiegano solo in parte questa cosa, la prima chiama in causa la resistenza ai parassiti, questo perché a noi sembra molto strano e molto buffo, in realtà il 95% della biologia evoluzionistica si occupa di resistenza dei parassiti, perché generalmente è molto più probabile che un organismo muoia a causa di una malattia che non perché predato. Basta solo pensare a come, fino alla scoperta della penicillina, morire di polmonite era comunissimo, e stiamo parlando solo di 60 anni fa. Perché il sesso è un’arma contro i parassiti? Perché i parassiti si evolvono a velocità molto più rapida dell’ospite e che cosa fanno, qual è l’habitat di un parassita? L’habitat di un parassita è il genotipo del suo ospite, quindi inevitabilmente i parassiti si adattano per attaccare il genotipo più comune. Siccome ogni volta che due organismi si riproducono sessualmente, a causa della ricombinazione vengono sempre prodotti genotipi nuovi, i genotipi nuovi e rari sono quelli più resistenti ai parassiti, anche se questo, chiaramente, durerà solo una generazione perché poi di generazione in generazione i parassiti si evolvono sempre, per attaccare il genotipo più comune. La riproduzione sessuale permette quindi di creare genotipi rari che sono anche più resistenti all’attacco dei parassiti. L’altro modello è invece quello che chiama in causa l’azione sinergica di mutazioni negative, ciò vuol dire che ogni organismo accumula mutazioni invalidanti e, nel caso della riproduzione per partenogenesi, praticamente è impossibile che avvenga una back mutation, cioè ogni organismo alla fine non fa altro che accumulare mutazioni su mutazioni, invece nel caso della riproduzione sessuale parte dei figli avranno un 112 numero di mutazioni identico a quelle dei genitori, parte dei figli avranno più mutazioni dei genitori, ma parte dei figli avranno meno mutazioni di entrambi i genitori, quindi da questo punto di vista la riproduzione sessuale è un meccanismo che permette di creare degli organismi che hanno un numero minore di mutazioni rispetto a entrambi i genitori. Qual è il problema di questi due modelli? Entrambi sono modelli matematici, che funzionano perfettamente all’interno di certe condizioni, se poi queste condizioni si verifichino realmente in natura o no è un problema tuttora aperto. In modo particolare, un parametro fondamentale per vedere se il modello è predittivo o no di quello che succede nel mondo reale, è sapere qual è il numero di mutazioni per genoma per generazione. La biologia molecolare ancora non ci sa dire per ognuno di noi nel corso della propria vita quante mutazioni accumula, quindi in mancanza di questa informazione non è possibile dire se questo modello, che teoricamente funziona molto bene, è realmente descrittivo del mondo nel quale viviamo. Detto questo da qui in poi io mi occuperò esclusivamente di facce e di come la preferenza per certi tipi di tratti facciali può aver poi scolpito l’evoluzione della specie umana. Allora, cominciamo facendo una piccola carrellata sulla storia naturale delle facce. Nella figura sono rappresenate alcune facce di primati. Ognuna di queste cinque specie possiede sulla sua faccia dei tratti che sono esclusivi di quella specie, ad es. le due produzioni alari del maschio di orango esistono solo nel maschio di orango, la faccia bianca e nera della velvet monkey Cercopythecus aethiops, esiste solo in questo, il maschio di mandrillo è l’unica scimmia ad avere il muso colorato in quel modo, il Sanguinus che è quella scimmia bianca e nera con questi baffoni bianchi, è l’unica scimmia con faccia nera e baffoni bianchi. Nel caso della nostra specie esistono almeno tre segnali che noi portiamo sulle nostre facce e che sono esclusivi della specie umana: le labbra everse, che non esistono in nessuna altra specie di primati, la sclera bianca, che non esiste in 113 nessuna altra specie di primati perché tutti gli altri primati hanno la sclera nera, e la barba nei maschi della nostra specie. Questi sono solo alcuni dei segnali che il viso umano presenta. Adesso, il fatto che questo tipo di segnali vari enormemente da una specie all’altra mentre poi alla fine della storia la maggior parte delle scimmie con la faccia devono fare la stessa cosa, cioè respirare mangiare guardare ascoltare annusare, dimostra come questo tipo di segnali non abbia alcun significato funzionale. Ad esempio io posso tagliarmi la barba e questo non ha alcuna conseguenza sulla mia fitness, non è che muoio perché mi taglio la barba, quindi evidentemente la forza evolutiva che è alla base della comparsa di questo tipo di tratti fenotipici non è una selezione naturale di tipo darwiniano, ma deve essere identificata come una forza selettiva di comunicazione tra individui della stessa specie. Incidentalmente, se noi ci pensiamo, le caratteristiche più tipicamente umane, specifiche della specie umana, cioè le sopracciglia, il bianco della sclera, le labbra everse, sono anche quelle che noi usiamo in maniera predominante nella espressione emotiva, quindi non solo abbiamo dei tratti specie specifici sul nostro viso, ma sono anche quelli che usiamo preferenzialmente per trasmettere le nostre emozioni, a maggior dimostrazione di quanto la forza evolutiva che è dietro la comparsa di questi tratti fisici è un’esigenza di segnalazione a individui della stessa specie e non un’esigenza di tipo meramente fisiologico. Si vede che le facce sono di fatto non un segnale ma una collezione di vari segnali che sono fondamentali per leggere una serie di variabili biologiche fondamentali, questi sono l’identità, il sesso della persona, la sua età, il suo grado di parentela con altri e gli stati interni, cioè ciò che noi chiamiamo emozioni: questi sono tutti segnali che vengono pubblicizzati in maniera visibile e facilmente percepibile da altri membri della nostra specie sulla nostra faccia. Nel caso particolare delle espressioni facciali, molto lavoro è stato fatto per dimostrare che le espressioni facciali sono segnali automatici e innati dei nostri stati interni. La prima persona a portare avanti questa ipotesi con la dovizia di documentazione che gli era propria è stato proprio Charles Darwin, che scrisse il famoso libro Le espressioni facciali nell’uomo e negli animali ed è stata poi ripresa in tempi più moderni soprattutto da Paul Eckmann che ha legato tutta la sua storia scientifica allo studio delle emozioni. Paul Eckmann mostrò delle foto alle popolazioni dell’altopiano dell’Iranyaia in Indonesia che si trova al di là di montagne quasi invalicabili (la scoperta dell’esistenza di popolazioni umane nell’altopiano dell’Iranyaia è stata fatta all’inizio del 1920) e quando, negli anni Settanta andò sull’altopiano, quella poteva essere considerata una popolazione che aveva avuto il minimo contatto con gli occidentali, ciononostante anche gli indigeni dell’altopiano dell’ Iranyaia erano perfettamente in grado di dire quali erano le sei emozioni che venivano espresse su quel viso. Per 114 contro, quando Paul Eckmann filmò quegli indigeni e poi fece vedere a degli occidentali le loro espressioni, gli occidentali non ebbero nessun problema a riconoscere su di loro queste sei espressioni. Infine, l’esperimento fondamentale fatto da Paul Eckmann fu quello di assoldare degli attori ai quali faceva mimare queste espressioni facciali senza dare però delle indicazioni esplicite, cioè non diceva: sorridi, diceva: solleva il lato sinistro della bocca, solleva il lato destro della bocca, alza il sopracciglio sinistro, alza il sopracciglio destro, cioè li costringeva ad utilizzare la muscolatura facciale che esprime una certa emozione senza dire esplicitamente: esprimi questa emozione. Poi, facendo delle misure poligrafiche, quindi misurando fondamentalmente l’attività elettrodermica, quella che viene misurata dalla famosa macchina della verità, riuscì a dimostrare che costringendo delle persone ad avere un certo tipo di espressione facciale, le loro variazioni neurovegetative erano consistenti con quello che quell’espressione facciale esprimeva, in altre parole, se costringeva un attore ad avere un’espressione sorridente o una triste, le variazioni del battito cardiaco, della respirazione, della pressione sanguigna nell’attività elettrodermica, erano consistenti con queste due emozioni. Quindi questo ha portato all’ipotesi in base alla quale le nostre espressioni facciali altro non sono che la espressione pubblica di quello che è un nostro stato interno emotivo, e sono di fatto automatiche tant’è vero che noi dobbiamo imparare a reprimerle, non dobbiamo imparare ad esprimerle. Quindi, almeno le espressioni facciali sono indubbiamente un segnale, che noi mandiamo all’esterno, di importanti variabili biologiche nostre, che però sono “variabili” nel tempo. Un pensiero che invece si è molto diffuso nella biologia evoluzionistica contemporanea è che le facce siano non solo un’espressione, un segnale esterno del nostro stato neurovegetativo, ma siano anche un’espressione dei nostri geni. A chiunque abbia dubbi su questa mia affermazione basta che guardi la foto di due gemelli che si chiamano non per niente gemelli identici, come, ad esempio queste due ragazze che, all’occhio non allenato sembrano assolutamente indistinguibili e questo dimostra quanto preponderante sia la componente genetica nello sviluppo dei nostri tratti facciali. Ciò significa che selezionando un tratto facciale rispetto ad un altro io di fatto sto selezionando alcuni geni rispetto ad altri. Già negli anni Settanta e poi in maniera preponderante quando è entrata in campo la possibilità di fare brain imaging, quindi di studiare l’attività del cervello nelle persone viventi al lavoro, diversi studiosi hanno deciso di vedere come le facce vengono rappresentate nel nostro cervello; essendo appunto le facce uno stimolo ecologicamente estremamente rilevante, era lecito supporre che alcune zone del cervello umano fossero particolarmente dedicate all’analisi delle facce rispetto ad altri compiti 115 cognitivi. Questi studi cominciarono verso la metà degli anni Settanta, quando un signore di nome Ian Perret ebbe la folle idea di registrare dal cervello della scimmia mentre le faceva vedere delle facce e scoprì che nel lobo temporale inferiore della scimmia si possono incontrare dei neuroni che rispondono in maniera preferenziale alla presentazione di facce, non alla presentazione di altri stimoli complessi, e che non solo rispondono a stimoli naturalistici ma addirittura a uno schemino, a uno scarabocchio che assomiglia ad una faccia. Questa fu la prima dimostrazione molto importante dell’esistenza di regioni nel cervello umano che specificamente rispondono quando il soggetto vede una faccia. Studi successivi hanno identificato una regione cerebrale, il giro fusiforme, che effettivamente risponde in maniera preponderante alla presentazione di facce rispetto ad altri stimoli e, ciò che è più importante, lesioni del giro fusiforme portano a una sindrome molto particolare, che si chiama prosopagnosia, per cui i soggetti non sono più in grado di riconoscere le persone e nemmeno loro stessi guardando la faccia, cioè non si riconoscono allo specchio né riconoscono i loro familiari, mentre sono perfettamente in grado di riconoscere le persone in base alla voce, all’odore e addirittura al modo in cui camminano, però non sono più in grado di analizzare le facce. Altri studi, sempre di neuroscienze cognitive, hanno individuato un’altra regione nel cervello umano, l’amigdala, che è specificamente legata al riconoscimento dell’espressione di paura, per cui i soggetti con lesione dell’amigdala riconoscono tutte le espressioni facciali tranne la paura, non solo, quello che è più importante, non hanno paura loro, cioè non solo non riconoscono la paura negli altri ma non provano essi stessi paura in situazioni che altrimenti sarebbero ansiogene. Infine, come è stato dimostrato molto elegantemente in Italia dal gruppo di Rizzolatti, questo succede perché, quando noi vediamo in un altro un’espressione facciale, quello che succede nel nostro cervello è attivare le stesse aree cerebrali che si attivano quando noi stessi proviamo questa emozione, questo è il concetto molto importante di mirror neurons (neuroni specchio) che ha proposto Rizzolatti cioè esistono dei neuroni che si attivano sia quando uno compie un gesto sia quando vede un’altra persona compiere lo stesso gesto. L’esperimento che è stato fatto in questo caso è stato quello di far annusare un odore disgustoso a delle persone oppure mostrare a loro il film di qualcuno che stava facendo la stessa cosa e in entrambe le condizioni si attivavano le stesse aree cerebrali. Quindi nel caso dello studio delle emozioni facciali, noi non solo stiamo portando all’esterno quello che è un nostro stato interno, ma questo nostro portare all’esterno un nostro stato interno induce nella persona che è di fronte a noi un’attivazione delle stesse regioni cerebrali che si attiverebbero se stesse vivendo questo stato interno. Sono state anche identificate delle regioni cerebrali che sono specificamente attivate quando le persone vedono dei visi attraenti o, per contro, quando vedono dei visi sgradevoli. Noi abbiamo fatto una serie di studi in cui fondamentalmente ciò di cui ci siamo occupati è la relazione tra variazione geometrica dei visi e percezione che le persone hanno di questi visi. La prima cosa che ci siamo chiesti è stata quali fossero le componenti della geometria facciale che ci fanno decidere se un viso è di uomo o di 116 donna, questo perché il sesso, abbiamo visto, ha due qualità interessanti: la prima è che è una variabile dicotomica contrariamente all’identità, e la seconda è che ha un’estrema validità ecologica per cui è ragionevole supporre che il cervello umano sia estremamente abile nel riconoscere il sesso dei visi, e questo è anche ciò che viene visto in laboratorio. Cioè, anche se mostro delle foto che sono in vario modo schermate, generalmente i soggetti hanno un’accuratezza del 96% nel giudicare il sesso delle persone, anche se magari faccio vedere solo gli occhi, oppure se faccio vedere il viso mostrando solo una parte del viso eliminando completamente i capelli e l’angolo della mascella. Dunque noi abbiamo creato dei visi medi, cioè abbiamo preso foto di persone reali, abbiamo prima di tutto calcolato la geometria media di questi visi reali, abbiamo deformato le mappe colore dei visi reali secondo la geometria media -noi lo chiamiamo secondo step normalizzazione in forma- dopodiché li abbiamo sovrapposti l’uno sull’altro. In questo modo si può creare un viso medio, in A in realtà un viso mediato maschile, in C un viso mediato femminile, in B la sovrapposizione dei due che è un viso androgino. Dopodiché abbiamo preso delle foto di persone reali, abbiamo spalmato addosso questa mappa-colore androgina, e a questo punto abbiamo creato una classe di stimoli che sono rappresentativi della variazione geometrica naturale delle facce e che sono omogenei per colore, quindi qualunque tipo di giudizio che le persone danno su questi visi può essere mediato solo dalla variazione di forma. Questo, perché? Negli ultimi anni è stata sviluppata una teoria matematica potente per analizzare variazioni complesse di forma, siamo invece molto lontani dall’avere alcun tipo di supporto matematico statistico per studiare variazioni in quella che si chiama texture, quindi, siccome una delle due variabili non la potevamo studiare, l’abbiamo eliminata. Abbiamo poi reclutato un centinaio di persone, 50 uomini e 50 donne, a cui abbiamo fatto vedere tutti questi visi in sequenza random sullo schermo di un computer e dovevano semplicemente dire se secondo loro erano un uomo o una donna. Il rapporto tra il numero di volte che dicevano uomo rispetto al numero totale di presentazioni veniva preso da noi come un indice di mascolinità percettiva, cioè quante più volte un viso veniva considerato maschile, tanto più il viso era maschile. Nella figura 0,1 corrisponde ad un viso che solo nel 10 % delle volte è stato considerato 117 un viso di uomo, mentre il valore 1 corrisponde a un viso che nel 100% delle volte è stato considerato di uomo. Per circa la metà dei visi maschili, nonostante che noi mettiamo una texture androgina, il 100% delle volte vengono considerati ugualmente come visi di uomo. In generale le persone sono abbastanza brave a discriminare anche quando si elimina la variabile colore, esiste però una certa sovrapposizione, ci sono cioè quei visi, tra 0,5 e 0,9 e che dunque vengono considerati visi di uomo dal 50% fino al 90%, che statisticamente possono essere visi di uomini o di donne, esiste cioè una zona grigia in cui le persone non sono in grado di essere particolarmente efficienti nel distinguere un viso di uomo da un viso di donna, il che ci fa comodo perché vuol dire che quella è precisamente la zona dove noi possiamo andare a studiare. A questo punto, mentre studiare la percezione delle persone è abbastanza facile, è molto più complicato studiare la geometria di oggetti così complessi come le facce. Quello che abbiamo fatto noi è stato ridurre la geometria a uno scheletro che abbiamo giudicato essere ragionevolmente rappresentativo e allo stesso tempo abbastanza semplice, quindi abbiamo identificato una serie di punti non equivoci sul profilo, che sono ad esempio il punto più sporgente, meno sporgente, più sporgente, meno sporgente e così via che quindi potevano essere estratti in maniera automatica, e abbiamo descritto la geometria dei volti maschili e femminili in base alla posizione di questi punti. Poi abbiamo fatto un paio di manipolazioni molto semplici che sono lo scalarli in modo che abbiano tutti la stessa area e ruotarli in modo che siano il più vicino possibile l’uno all’altro, e il risultato è quello che voi vedete in B: in nero sono i visi di donna, in grigio i visi di uomo, questo è lo scatter dei punti reali che abbiamo preso. La cosa che vi voglio far vedere, e che è fondamentale, è quanto piccola sia la distanza tra queste distribuzioni di punti e ciononostante quanto forte sia l’effetto sulla nostra percezione. Però la cosa importante è questa: sono riportate le due medie maschile 118 e femminile, vediamo quanto siano veramente simili l’una all’altra. Quello che noi abbiamo fatto, utilizzando “un’analisi discriminante” è stato di far fare al computer un semplice modello lineare, che aveva scritta una funzione lineare della posizione di tutti quei punti e, in base a questo banale modello, è possibile discriminare perfettamente il volto maschile dal volto femminile. E quello che apparentemente può sembrare stupefacente di fatto non lo è perché nella figura B: i due gruppi di punti, quello grigio e quello nero praticamente non si sovrappongono. Quindi, dopo che abbiamo scalato e messo in registro visi di uomini e visi di donne, ci sono alcuni punti geometrici che sono praticamente diagnostici del sesso di una persona, cioè facendo una combinazione lineare della posizione di questi pochi punti, i punti grigi e neri non si sovrappongono anzi facendo una semplice funzione lineare di soli tre punti si discriminano perfettamente i visi maschili dai visi femminili. Questo ci dice anche un’altra cosa, cioè che l’informazione statistica ci permette di discriminare perfettamente i visi di uomini dai visi di donne sulla base di questa informazione, confrontando la figura D con quella che invece è la performance che hanno le persone. Cioè gli osservatori reali fanno un uso molto poco efficiente della reale informazione statistica che è presente. A questo punto la cosa diventa ancora più complessa, ci siamo chiesti che cosa usiamo noi realmente per decidere se un viso è di uomo o di donna, per fare questo abbiamo utilizzato il modello del thin plate spline, molto utilizzato in fisica matematica: è la deformazione di una piastra metallica che si suppone infinitamente grande e infinitamente sottile. Quindi, se metto tutti i punti corrispondenti al viso medio su questa piastra metallica e poi li sposto, posso studiare come tutto il resto della piastra metallica segue questo spostamento. La cosa interessante è che posso differenziare due tipi di trasformazioni, dal viso femminile a quello maschile, in questo caso il viso femminile sarebbe una griglia tutta perpendicolare, se la trasformo nel viso maschile la griglia viene deformata in un modo, nell’altro caso è l’inverso, dal viso maschile a quello femminile. Per prima cosa si separano due componenti, quella che si chiama affine 119 dalla non affine, dove una componente affine altro non è che una rotazione del piano, che non comporta nessuna deformazione, si vede che effettivamente questa componente di trasformazione dal viso maschile al femminile sia imponente ed è statisticamente molto significativa. Però non è una cosa che utilizziamo nella nostra percezione, assolutamente, cioè, nonostante questa componente sia statisticamente predittiva del sesso di un volto, io posso prendere i visi e girarli e per le persone se prima era un viso di uomo diventa un viso di donna e viceversa. Invece, la componente non affine è una reale deformazione della griglia. A questo punto noi siamo andati a vedere dove realmente si deforma la griglia quando trasformiamo un viso di uomo in un viso di donna e viceversa, ma soprattutto qual è la differenza tra un viso geometricamente maschile e un viso invece percettivamente maschile. Allora, in un caso abbiamo fatto la media geometrica di tutti i visi, nell’altro caso abbiamo fatto la media geometrica pesata per quello che è il valore di mascolinità percettiva, quindi i visi percettivamente più maschili nella media pesavano di più, e quelli percettivamente meno maschili pesavano di meno. Questa è la differenza tra i due, dove bianco e nero rappresentano dif120 ferenze positive e negative: si vede che le zone fondamentali sono l’occhio, la bocca, il mento e un punto della mascella, cioè sono le zone che percettivamente vengono iper-rappresentate, che percettivamente hanno più peso di quello che dovrebbero avere statisticamente, in altre parole queste sono le zone che noi andiamo a scansionare quando guardiamo un viso. Per fare la cosa in maniera ancora più precisa abbiamo preso queste griglie di deformazione, relative a ognuno dei visi reali e li abbiamo decomposti nelle deformazioni principali, che sono, se vogliamo, come le armoniche di un suono, cioè come io posso separare un suono complesso in una serie di armoniche, così posso separare una deformazione complessa in una serie di deformazioni più semplici che si formano linearmente. In altre parole, un suono lo descrivo come la somma di tante note, una forma la descrivo come la somma di tante forme semplici, quindi, in modo particolare, questo viso è uguale alla trasformazione affine più queste altre deformazioni, quindi possiamo andare a vedere quale tra queste è più predittiva del sesso reale dei volti e quale di queste è più predittiva della nostra percezione. E’ un po’ come prendere un suono e vedere tra tutte le armoniche quali sono quelle che realmente portano informazione. E’ venuto fuori che queste variazioni di forma, sono quelle che dal punto di vista statistico sono più predittive del sesso di un volto, le altre sono quelle più predittive della percezione delle persone; la differenza fondamentale che voglio mostrare è questa: queste sono tutte deformazioni “morbide”, in gergo tecnico si dice che hanno una bassa energia di ripiegamento, sono tutte deformazioni molto localizzate, cioè in gergo tecnico si dice cha hanno un’alta energia di ripiegamento, tutto il resto della griglia rimane uguale e solo in un punto la griglia comincia a torcersi. I punti che vediamo avere la massima correlazione con la percezione delle persone sono l’occhio, il mento, la bocca e la posizione dell’angolo della mascella. Ma alla fine che cosa ci dice tutto questo? Ci dice una cosa abbastanza interessante e cioè che queste differenze sono, come vedremo anche più avanti, 1) le differenze tra il sapiens e il neanderthal, 2) queste caratteristiche cioè che il neanderthal ha la mascella rotonda ed è completamente privo di mento, e ha l’arcata sopraccigliare estremamente alta rispetto al sapiens. Se vado a studiare i fossili di 50.000 anni fa, tipo Cro-Magnon o i fossili asiatici, vedo che tutte queste caratteristiche fisiche, il mento, la mascella angolata, la bassa arcata sopraccigliare sono già presenti, quindi vuol dire che i segnali che noi estraiamo da questo tipo di analisi sono anche quelli che per primi si sono evoluti nella specie umana, quindi non stiamo guardando qualche tipo di strano artefatto, stiamo proprio guardando delle caratteristiche geometriche la cui comparsa è coincidente con la comparsa della specie umana in quanto tale. Abbiamo usato gli stessi metodi per studiare non solo le caratteristiche geometriche associate con la decisione sul sesso di un volto, ma anche quelle associate con la decisione della bellezza di un volto, con l’idea che, appunto, anche la bellezza ha un significato biologico, siccome le persone più belle si suppone teoricamente che abbiano avuto maggiori opportunità di riprodursi e che quindi selezionare un certo tipo di tratti rispetto ad altri ha effettivamente poi fatto evolvere il viso della nostra 121 specie. Dunque, esistono una serie di studi che dimostrano come almeno parte dei nostri giudizi sulla bellezza dei volti siano, se non innati, abbastanza invarianti. Il primo e tuttora più valido è lo studio fatto in bambini di 9 mesi che ha dimostrato come già a quella età guardano più a lungo i visi che anche gli adulti giudicano più attraenti. Un’altra evidenza che abbiamo confermato anche noi è che se faccio vedere a delle persone dei visi che non conoscono, e questo è importante, la correlazione tra il giudizio che danno sullo stesso viso è elevatissima, è circa intorno al 90%, questo valore dell’alfa di Crombach che appunto misura quanto affidabile è il giudizio che diversi osservatori danno sullo stesso fenomeno. Inoltre, alcune caratteristiche che sono associate con l’attrazione dei volti, ad esempio la simmetria, sono conservate tra culture diverse, infatti agli europei, agli africani, ai giapponesi piacciono volti simmetrici ed è stato isolato un locus neuropsicologico, cioè un locus cerebrale associato con la percezione dei visi attraenti ed infine che, in maniera transculturale è stato osservato che le donne vanno incontro a uno shift, a un cambiamento delle loro preferenze in corrispondenza dell’ovulazione, quindi esiste un’influenza neuroendocrina sulla percezione. Allora, quali sono le caratteristiche che sono state generalmente associate con la bellezza? La prima è la media, questo volto al centro è la media dei quattro volti sui lati e credo che siate tutti d’accordo nel dire che questo volto è più attraente dei quattro volti che lo compongono. Questo è un risultato molto robusto, è stato fatto vedere un numero incredibile di volte, anche se ci sono dei problemi tecnici dovuti al fatto che, nel momento in cui io sovrappongo la pelle di molte persone è come se ci mettessi il cerone quindi parte di questo effetto è dovuto al fatto che la texture della pelle di questi visi medi è particolarmente bella, però come vedremo esiste anche una certa influenza della media dal punto di vista geometrico sulla bellezza. 122 Il secondo risultato, sul quale esiste un totale accordo, nel senso che chiunque ha ripetuto lo stesso esperimento ha ottenuto lo stesso risultato, è che, se prendo un viso Iperfemmina Volto medio medio e lo rendo più femminile esaltando le caratteristiche geometriche tipiche delle donne, cioè aumento il dimorfismo sessuale, ottengo un viso che viene giudicato più femminile. Noi abbiamo voluto vedere quanto questi due modelli erano validi, non in visi creati al computer ma in visi reali, quindi invece di muoverci in un ipotetico spazio delle facce secondo delle direzioni predeterminate, abbiamo voluto vedere che cosa succede se noi andiamo ad esplorare la naturale variazione di geometria dei volti, e non ci concentriamo esclusivamente su quell’asse di variazione di forma che è quello che passa tra i visi maschili e i visi femminili. Le tecniche sono quelle appena viste, cioè abbiamo creato questi visi che cambiavano solo per forma ma non per colore, poi diverse persone dovevano giudicare questi visi e dire, su un scala da 1 a 5, quanto li giudicavano attraenti. A questo punto potevamo misurare la distanza di questi visi dal viso medio femminile, semplicemente sommando la distanza di tutti i punti dai punti del viso medio. Emerge così una correlazione statisticamente significativa tra il rating (giudizio posto in ordinata) , dove 1 è il minimo e 5 è il massimo, e la distanza dal viso medio (in ascisse). Man mano che ci spostiamo verso destra, il viso è sempre meno medio: e la valutazione positiva (rating) diminuisce; dunque c’è una correlazione tra distanza dal viso medio e attrazione, quindi noi abbiamo potuto effettivamente confermare che i visi più vicini al viso medio vengono giudicati più attraenti. Abbiamo anche correlato il giudizio di attrazione di questi visi con quell’indice di cui ho parlato prima, che è l’indice di mascolinità, quindi in un asse, ancora, c’è il giudizio, inell’altro c’è quanto un viso viene giudicato maschile, e vedete che c’è una bella correlazione negativa, cioè quanto più un viso è facilmente riconosciuto come femminile, tanto più è anche considerato attraente. Però questo non spiega tutto, dunque, questo è il viso femminile, la trasformazione dal viso medio al viso femminile, 123 Effetti del sesso geometrico sull’attrazione questo è quello che noi chiamiamo l’attractive shape cioè un viso medio in cui il giudizio di attrazione è utilizzato come peso statistico, ovvero, mentre qua per calcolare la posizione di questi punti sommiamo la posizione dei punti di tutti i visi e dividiamo per il numero dei visi, in questo caso ognuno dei visi viene moltiplicato per quel valore da 1 a 5 e quindi i visi più attraenti pesano di più nella media. Questa è la differenza tra i due e si vede che mentre nella regione del viso attorno agli occhi, praticamente non esiste differenza tra un viso femminile ed uno maschile, la differenza nelle altre zone è abbastanza marcata. Questo abbiamo potuto dimostrarlo anche in un altro modo, cioè siamo andati di nuovo a scomporre la variazione in tutte le deformazioni principali e abbiamo cercato quali di queste erano massimamente correlate con il giudizio, ne abbiamo estratta una, correla molto bene con il giudizio delle persone ma, cosa importante, questa deformazione principale non distingue visi maschili da visi femminili; questa è la distribuzione dei valori di questa funzione tra visi maschili e visi femminili e vedete che sono praticamente completamente sovrapposti. 124 Alla fine dunque abbiamo dimostrato, nei visi reali, che quelle due componenti che erano state già suggerite da altri, cioè la media e la femminilità sono effettivamente associate con la bellezza del viso, ma esistono anche alcune componenti di forma che non sono associate con il dimorfismo sessuale e ciononostante sono altamente predittive del giudizio che le persone danno su questi visi. A questo punto la domanda è: che cos’è dunque che ha generato il dimorfismo sessuale del volto umano? Se non è semplicemente l’attrazione, che cosa è stato che ha generato il dimorfismo sessuale del volto umano? Bisogna a questo punto fare una piccola digressione sul processo di selezione sessuale: è un processo che è stato originariamente, tanto per cambiare, ipotizzato dallo stesso Darwin ed è quello che porta all’evoluzione di tratti fenotipici o, per quel che ci può interessare, anche comportamentali che non hanno alcuna funzione nell’aumentare la sopravvivenza di un individuo ma l’hanno nell’aumentare la sua riproduzione. Quindi l’evoluzione di questi sexual ornament, ornamenti sessuali, esempio classico la coda del pavone, è il risultato di due processi concatenati, la presenza del tratto in uno dei due sessi e la preferenza per quel tratto in un altro dei due sessi. Si può dimostrare che se esiste un linked genetico che in termini matematici vuol dire una covarianza tra l’espressione di un tratto in uno dei due sessi e la preferenza per quel tratto nell’altro sesso, in altre parole, se le figlie dei pavoni con una coda grande ereditano la preferenza per la coda grande, allora si scatena un meccanismo di feedback positivo che porta all’evoluzione del tratto e, quello che è importante, senza che questo tratto abbia alcun valore di sopravvivenza. Cioè questo tipo di fenomeno porta all’evoluzione di tratti che sono assolutamente neutrali per quanto riguarda la sopravvivenza e che hanno il loro pay-back, il loro controvalore, esclusivamente nel fatto che se una femmina decide di accoppiarsi con un maschio che possiede l’ornamento, i suoi figli maschi possiede125 ranno anche loro l’ornamento e quindi il vantaggio per la femmina è nel maggiore successo riproduttivo dei suoi figli maschi. Tutto questo nel caso che l’ornamento sia portato dai maschi e ovviamente l’opposto nel caso che l’ornamento sia presentato dalle femmine. Un caso particolare di selezione sessuale è quella che si chiama evoluzione sessuale divergente per cui, quando due specie strettamente correlate vivono in simpatria, cioè nella stessa regione, molto spesso evolvono alcuni segnali che sono divergenti, possono essere divergenti visivamente, ad es. una Un famoso esempio: Lake Victoria (Seehausen et al. SCIENCE, 1997) diventa bianca e l’altra nera, una a strisce e l’altra a pallini, una stretta e una lunga, oppure possono avere canti diversi, oppure odori diversi, comunque evolvono dei tratti fenotipici che non hanno nessun significato funzionale, che sono divergenti e che divergendo nel corso dell’evoluzione, portano alla nascita di due specie da una singola. L’esempio classico è l’evoluzione dei Ciclidi del lago Vittoria, e il caso più studiato è quello di due pesci. Tra l’altro sono estinti in natura ed esistono ormai solo come animali d’acquario, che vivono nella stessa isoletta del lago Vittoria, quelli rappresentati sono i maschi, le femmine sono assolutamente indistinguibili, i maschi di una specie sono rossi, e quelli di un’altra sono blu e il rosso e il blu sono i due estremi dello spettro. Ora, se queste due specie sono tenute in cattività, non danno luogo a ibridi ma, nel caso in cui vengano tenuti in acquari con una luce monocromatica, si ibridano tra di loro e gli ibridi sono fertili indefinitamente, in altre parole, l’unico meccanismo che mantiene separate queste due specie, è un meccanismo di tipo di scelta sessuale. Un esperimento naturale che ha dimostrato che ciò è vero è il fatto che nel lago Vittoria, che negli ultimi 20 anni è andato incontro a una fortissima eutrofizzazione, esiste una correlazione negativa molto precisa tra biodiversità e torbidità dell’acqua, ovvero, in zone del lago che hanno ancora acqua limpida ci sono molte diverse speModellizzazione della selezione sessuale disgregativa cie di Ciclidi, in zone del lago più torbide invece il numero di pesci è (Higashi et al. NATURE, 1999) 126 lo stesso ma il numero di specie si riduce sempre di più, cioè se viene impedito a questi pesci di riconoscersi questi si ibridano tra di loro. Che questo meccanismo realmente può funzionare è stato dimostrato da svariati modelli matematici, e questo è il più famoso ed infatti è stato anche pubblicato su NATURE: espressione del tratto nei maschi e preferenza nelle femmine, ovviamente sotto determinate condizioni del modello, si nota che nel corso delle generazioni il tratto sempre di più assume una distribuzione bimodale, la preferenza nelle femmine allo stesso modo assume una distribuzione bimodale. Quindi con questo modello, partendo da una sola specie, partendo da un modello di selezione sessuale, senza nessun altro tipo di ipotesi tranne il fatto che questi animali possono scegliersi tra di loro, si sviluppano due specie. Esistono svariati altri esempi, uno molto carino è quello dei cavallucci di mare. Questi animali possono variare moltissimo nelle dimensioni, e hanno l’interessante caratteristica di essere per lo più monogami, inoltre, siccome è il maschio che incuba le uova nel marsupio, quindi è il maschio che va incontro a gestazione, è il maschio che sceglie la femmina e non viceversa. Allora si è visto che i maschi scelgono le femmine in base alle dimensioni, maschi grandi preferiscono femmine grandi e maschi piccoli preferiscono femmine piccole. E’ stata fatta la filogenesi molecolare di tutte le specie di cavallucci conosciute: quella rappresentata in figura è la dimensione standard; ad es. in Florida, si trova l’Hippocampus erectus dalla dimensione media di 12 cm, l’Hippocampus zosterae che ha una dimensione media di 2,5 cm. Se però si va a fare la filogenesi molecolare, la specie più vicina a erectus è zosterae non un’altra che magari ha le stesse dimensioni. Allo stesso modo in Australia convivono Hippocampus breviceps e Hippocampus abdominalis, dove Hippocampus abdominalis ha una dimensione media di 20 cm, breviceps di 3,6cm , però la specie più vicina filogeneticamente ad abdominalis è proprio breviceps. Quindi nel caso dei cavallucci di mare effettivamente un meccanismo di questo tipo per cui maschi di una certa dimensione sceglievano preferenzialmente femmine della stessa dimensione, ha fatto sì che da una singola specie si siano separate due specie che variano in maniera estrema le dimensioni. Un esempio bellissimo che riguarda uno studio decennale fatto dal gruppo di Ole Seehausen in collaborazione con Axel Meyer, che è uno dei più Selezione sessuale disgregativa nei cavallucci di mare (Jones et al., PNAS, 2003) 127 grandi esperti di filogenesi molecolare dei pesci, ha studiato un enorme numero di specie presunte tali nel lago Malawi. Da una parte è rappresentata la filogenesi molecolare, e dall’altra l’aspetto fenotipico di questa specie: si vede che questi animali tendono ad essere blu o gialli. La domanda adesso è: tutti quelli blu sono imparentati tra di loro e tutti quelli gialli tra di loro? La risposta è: no, è vero assolutamente il contrario. Qua si vede che tra gruppi di specie sorelle molto spesso ce n’è una blu e una gialla, cioè le specie sorelle tendono ad essere più dissimili cromaticamente. Speciazione simpatrica nel Lago Malawi (Seehausen et al. PNAS, 2003) Torniamo dunque ora alla nostra specie e guardiamo di nuovo quelle caratteristiche già esaminate: neanderthal non ha il mento, noi abbiamo il mento, la mandibola di neanderthal è liscia, la nostra mandibola è angolata, l’orbita del neanderthal è molto aperta, rispetto alla nostra che è molto più chiusa, il prognatismo alveolare, l’angolo formato dai denti, che nel neanderthal è più tondo e nel nostro caso è più piatto. Queste sono esattamente le caratteristiche fisiche che abbiamo visto essere maggiormente associate con la percezione del sesso di un volto. Quindi facciamo l’ipotesi che durante l’evoluzione della specie umana i maschi con la faccia più dissimile da quella neandertaliana siano stati preferiti. Questa ipotesi ha due predizioni: 1 - che il dimorfismo sessuale di Homo sapiens deve ripercorrere in parte la differenza tra sapiens e neanderthalensis, in altre parole che la geometria facciale degli uomini deve 128 essere più diversa dal neanderthal di quella delle donne, perché le donne sceglievano gli uomini che erano più diversi dai neanderthal, quindi la pressione selettiva era più forte negli uomini che nelle donne; 2 - se cambio la forma del viso umano lungo l’asse sapiens-neanderthal devo cambiare la percezione del sesso di quel viso. Dunque abbiamo utilizzato di nuovo le nostre griglie, in questo caso sui crani e non sui volti, quindi questa è la trasformazione da sapiens a neanderthal e si può vedere che accade quanto previsto: è più tondo, l’angolo della mascella viene in su, il mento sparisce e si apre l’orbita. H. neaderthaliensis e H. sapiens E’ possibile operare la trasformazione inversa, da neanderthal a sapiens: si vede comparire il mento, si appiattisce e si chiude l’orbita, è quanto i paleoantropologi avevano descritto tante volte. Si può trasformare un cranio maschile in femminile e viceversa: la trasformazione dal cranio femminile al maschile è molto simile alla trasformazione dal neanderthal al sapiens: si può vedere il cambiamento del prognatismo alveolare, la riduzione del mento, oppure l’aumento del mento e la riduzione del prognatismo alveolare ecc.: in un caso la griglia è concava, nell’altro convessa. Per dimostrare che effettivamente la morfologia del cranio femminile è simile a quella del neandertaliano abbiamo utilizzato appunto l’energia di ripiegamento. Si può calcolare quanta energia ci vuole per trasformare l’uno nell’altro e viceversa utilizzando il nostro modello della piastra metallica e il risultato è proprio quello che noi ci aspettavamo, cioè che occorre più energia per trasformare il cranio maschile nel cranio di neanderthal di quanta ne occorra per trasformare il cranio femminile nel cranio di neanderthal. Quindi la prima delle nostre due predizioni è vera, cioè la forma del viso femminile è più vicina alla forma del cranio di neanderthal di quanto non lo sia il viso maschile. 129 Abbiamo poi fatto esperimenti in cui rendevamo i visi più simili o meno simili a quelli del neanderthal prendendo dei punti di riferimento sul profilo per i quali esistono statistiche in letteratura che ci dicono quanto è spesso il pannello di tessuti molli. Questo è il lavoro degli antropologi fisici (Figura) che non fanno altro che misurare persone dalla mattina alla sera, e che hanno dato misure estremamente precise di quanto siano spessi tutti questi pannelli di tessuto in corrispondenza dei punti di riferimento cranici e quindi di dove noi dovevamo piazzare i punti di riferimento sul viso per rendere un viso Morfometria geometrica sui crania umani umano più o meno neanderthaliano. Abbiamo quindi preso il viso androgino, che in una direzione veniva neanderthalizzato, nell’altra veniva deneanderthalizzato, poi abbiamo fatto il solito test, cioè mostrato questi visi a molte persone e abbiamo misurato quante volte dicevano uomo e quante donna: allora, è il viso medio femminile con texture androgina, e viene giudicato donna circa nel 40% delle volte, passando poi al viso maschile con texture androgina, questo è il viso androgino, sono cioè i tre punti di riferimento, e vedete come neandertalizzando questo viso diminuisce la mascolinità percettiva, deneandertalizzandolo aumenta la mascolinità percettiva. Creare un continuum morfologico Abbiamo fatto anche un’altra misura, cioè abbiamo misurato i tempi di reazione, ovvero abbiamo valutato quanto tempo le persone mettevano nel rispondere uomo, e vedete che i tempi di reazione diminuiscono man mano che il viso viene deneandertalizzato. 130 Queste sono due misure indipendenti che ci dicono che movendoci lungo l’asse sapiens neanderthal percepiamo il viso come più femminile o più maschile, quindi la seconda conclusione è che aumentando la distanza di una faccia umana mediata dal viso del neanderthal si aumenta la sua mascolinità percettiva. Noi proponiamo dunque che un meccanismo di selezione sessuale divergente sia stata una delle forze che hanno portato all’evoluzione del viso umano. Infine abbiamo fatto anche qualche studio in quel campo minato che è lo studio dell’attrazione dei visi maschili, perché in generale, mentre sono tutti abbastanza d’accordo nel Una faccia “iper-umana” è percepita come una faccia iper- dire che cosa è attraente in un mascolina viso femminile, non si trovano due persone che siano d’accordo nel dire che cosa è attraente in un viso maschile. Di nuovo abbiamo creato i nostri visi medi, un viso maschile femminilizzato, un viso maschile mascolinizzato, il primo è ipomaschile, il secondo è ipermaschile. Abbiamo dunque creato un film in cui si passava in maniera fluida dall’uno all’altro e abbiamo chiesto al bel numero di 236 donne di dirci, lungo questo film, qual era il punto in cui a loro sembrava di trovare il viso che giudicavano più fisicamente attraente. Il risultato è stato questo: sulla valutazione del viso medio maschile ci sono due picchi di preferenza abbastanza bilanciati tra di loro, cioè un 50% delle donne tende a preferire un viso femminilizzato e l’altro 50% uno mascolinizzato. Il che può essere interpretato in due modi che al momento non siamo in grado di distinguere, cioè o che esistono realmente due prototipi oppure che il viso maschile “ideale” contiene alcuni tratti maschili e alcuni tratti femminili per cui nessuno dei due è una buona approssimazione ma tutti e due vanno più o meno bene e quindi le donne tendono a scegliere da un lato e dall’altro. E’ ancora in corso un altro esperimento (abbiamo purtroppo per ora soltanto 30 soggetti), nel quale abbiamo studiato donne all’inizio del ciclo e poi al momento dell’ovulazione, controllando il momento dell’ovulazione con i livelli di ormoni nelle urine, abbiamo visto che, in fase follicolare precoce, il che vuol dire cinque giorni dopo l’inizio delle mestruazioni che è il momento di minima probabilità di concepimento, tendono ad essere da un lato, al momento dell’ovulazione tendono ad essere dall’altro. 131 Infine, un’altra cosa che abbiamo visto è che se invece di un viso mediterraneo, come quello che vi ho mostrato ora, utilizziamo un viso biondo, ci sono sempre due picchi di preferenza ma in quel caso prevale la preferenza per il viso femminile. Concludo dicendo chi sono le varie persone che mi hanno aiutato in questo studio: - per la parte di neurofisiologia (che in realtà non vi ho presentato) in cui abbiamo studiato la risposta dell’elettroencefalogramma ai visi di uomini e di donne, sono Davide Borghetti e Ferdinando Sartucci della Clinica Neurologica; - il programma di morphing (che tra l’altro è open source, quindi se qualcuno di voi ci vuole giocare se lo può scaricare dalla rete) è stato fatto da Andrea Mennucci della Scuola Normale Superiore; - la parte di morfometria geometrica è stata fatta con Dario Riccardo Valenzano, dottorando della Scuola Normale Superiore e Giandonato Tartarelli che in realtà è un antropologo ma fa il tecnico fotografico alla SNS ma che noi siamo riusciti a utilizzare per fare ricerca e non per fare foto agli studenti. Alessandro Cellerino Istituto di Neuroscienze - CNR Pisa 132 Dibattito Brunella Danesi Noi la ringraziamo perché la relazione è stata estremamente stimolante e penso si possa aprire un dibattito perché sulla selezione sessuale, come penso sappiate tutti, ci sono ancora in corso grosse discussioni, infatti secondo molti scienziati per es. essa potrebbe essere soltanto attinente ad animali che sono poligamici, mentre l’uomo teoricamente in molti casi dovrebbe essere monogamico, o comunque tutti hanno accesso alla riproduzione. Indipendentemente da quelle che volgarmente vengono chiamate corna, mi risulta che tutte le femmine e tutti i maschi umani hanno accesso alla riproduzione, quindi indipendentemente dal partner. E’ vero che quello che conta è il numero di figli che riesce a fare, cosa che non è nemmeno del tutto vera perché poi bisogna che campino: ecco, questa per me potrebbe essere una domanda, cioè avete valutato il fatto che, tutto sommato, quasi tutti gli uomini e quasi tutti i maschi hanno accesso alla riproduzione? E un’altra domanda: e gli omosessuali? Alessandro Cellerino Nel caso delle specie monogame rispetto a poligame, al di là del fatto che gli uomini dovrebbero essere monogami e non è detto che lo siano, ci sono moltissimi studi fatti negli uccelli, che pure dovrebbero essere monogami, e lì è entrata potentemente la biologia molecolare nello studio etologico. Oggi è possibile in maniera semplice, prendendo i pulcini all’interno di un nido, utilizzando il DNA microsatellite, vedere di chi sono effettivamente figli. Si scopre che, se ad es. si prende un nido di rondini, il 10-20% dei pulcini non sono figli del partner sociale, inoltre è stato fatto un bell’esperimento sulla lunghezza della coda che è sessualmente dimorfica, per cui maschi hanno la coda più lunga e questo è un parametro di scelta, cioè le femmine preferiscono i maschi con la coda più lunga. Allora, sono state prese alcune povere rondini maschi, a cui è stata tagliata un pezzettino di coda e appiccicato sulla coda di altre rondini, quindi si sono create delle rondini “brutte” e delle rondini “belle” per l’occhio della rondine, e quando si è andati a vedere nel nido delle rondini belle, tutti i pulcini erano figli del padre sociale, mentre in quello delle rondini brutte il numero di figli “illegittimi” era molto più alto e vi lascio indovinare chi era il padre di questi figli. Quindi nelle specie prevalentemente monogame, la selezione sessuale può giocare un ruolo importante, ma anche nelle specie esclusivamente monogame, infatti se c’è una correlazione fra il tratto che viene selezionato e la fitness dell’individuo (il tratto è quello che si chiama un indicatore di fitness) succede che, anche se si sceglie un solo partner, la scelta si vede nella seconda generazione, cioè le femmine e i maschi che hanno saputo scegliere il partner migliore avranno più figli che sopravvivono, quindi anche nelle specie monogame la selezione sessuale gioca un ruolo a patto che in quel caso il tratto che viene selezionato sia un indicatore di fitness, o un indicatore di qualità fenotipica. Adesso sorge però la domanda: i tratti che sono selezionati sono effettivamente indicatori di qualità fenotipica? Esistono molte evidenze equivoche nella letteratura e qualcuna che invece equivoca non è, come ad es. la colorazione dei maschi dello spinarello. Come probabilmente molti di voi sapranno, nel caso dello spinarello è stato estremamente studiato da Konrad Lorenz e dai vari etologi, le femmine scelgono e per esse un maschio è una cosa a forma di pesce con una macchia rossa, più rossa è la macchia più la femmina è motivata ad accoppiarsi. Adesso la cosa importante è questa, che i pesci non sono in grado di fare il colore rosso, dovuto semplicemente all’accumulo di carotenoidi, che devono assumere con il cibo, quindi di fatto il colore 133 rosso nel maschio di spinarello è una funzione abbastanza diretta di quanti carotenoidi ha mangiato, e siccome li può assumere soltanto mangiando crostacei, siamo in questo caso di fronte a un tratto fenotipico condizione-dipendente, quindi se non altro, la femmina, scegliendo il maschio più rosso ha per lo meno scelto il maschio che ha avuto la dieta migliore fino a quel momento. Sono stati fatti una quantità immensa di studi in cui si vedeva se la sopravvivenza dei figli di maschi più ornamentati era maggiore o minore di quella dei figli di maschi meno ornamentali e la risposta è: in alcuni casi sì, in altri no. Però esiste un numero di esempi in cui effettivamente il tratto che viene selezionato è veramente un indicatore di fitness, un indicatore di qualità fenotipica. Alessandro Cellerino L’ ipotesi è alla base di questo tipo di studi, però la media è solo una delle tante componenti e tra l’altro la cosa è un po’ più complicata perché quello che è stato fatto vedere è che se io abituo dei soggetti a vedere, e questo nel giro di minuti, visi con gli occhi piccoli, questi dopo una decina di minuti cominceranno a dare giudizi di attrazione più alta per i visi che hanno gli occhi piccoli, cioè questa media è una media appresa, tant’è vero che noi siamo attratti dalla media degli occidentali e gli africani sono attratti dalla media degli africani. E’ vero però che c’è anche un fenomeno di apprendimento percettivo che è abbastanza difficile da distinguere e tra l’altro una cosa alquanto difficile da risolvere, che noi stiamo cercando di risolvere, è vedere se una texture facciale, una struttura della pelle media è realmente attraente, perché chiaramente quando io faccio queste medie al computer, è come se ci spalmassi sopra il cerone, elimino tutte le impurità, quindi noi, o meglio Andrea Mennucci che è un matematico sta scrivendo dei programmi per creare delle pelli artificiali ma che hanno un numero di impurità medio rispetto a tutte quelle dalle quali è stato tirato fuori. Incidentalmente, qualche giorno fa io e lui abbiamo scoperto, mentre eravamo all’acquario di Berlino, che precisamente è quello che fa la sogliola, cioè se prendo la sogliola e la metto su della ghiaia bianca con qualche puntino nero qua e là la sogliola ci si mette sopra e diventa bianca con qualche puntino nero qua e là, se la metto sulla sabbia rossa con puntini gialli, nel giro di tre secondi diventa rossa con puntini gialli, la sogliola sa fare questo, noi non lo sappiamo ancora fare, nonostante il computer! Però la sogliola ha avuto più tempo per imparare. Fabio Fantini Sono un po’ incuriosito da un aspetto che discutevo anche con amici qualche tempo fa: noi abbiamo questa strabiliante capacità innata di riconoscere anche al primo sguardo; una persona e per un po’ di giorni se la incontrassimo la riconosceremmo sicuramente al primo sguardo, io sono incuriosito dal fatto che molti studenti e anche molti colleghi hanno sviluppato una capacità analoga nel riconoscere la primo sguardo alcuni manufatti costruiti dall’uomo, per es. alcune automobili da alcuni particolari come fanali, posizione delle ruote ecc. Che lei sappia, ci sono ricerche che sfruttano le tecniche di imaging che possono individuare una tale corrispondenza … Alessandro Cellerino Assolutamente sì, ad es. gli allevatori: se uno fa vedere a un allevatore di cavalli la faccia di un cavallo, gli si attiva l’area delle facce, che negli altri si attiva quando vedono la faccia delle persone. Fabio Fantini Lei sa se i progettisti di automobili sfruttano questo fatto coscientemente oppure solo inconsciamente? 134 Alessandro Cellerino Non lo so, però dal punto di vista di imaging, sì, gli esperti hanno proprio studiato gli esperti di automobili e quelli di cavalli e hanno visto che in tutti e due i casi… Non solo, noi riconosciamo molto peggio le persone se sono a testa in giù, se si fanno vedere delle foto a testa in giù e per gli esperti di cavalli è la stessa cosa , cioè non sono più in grado di riconoscere la faccia del cavallo se è a testa in giù, però in quel caso loro si appoggiano, un po’ come facciamo noi quando nuotiamo usando le braccia che servirebbero per fare qualcos’altro, cioè utilizzano un meccanismo che è innato per fare qualcos’altro. Sandra Magistrelli Volevo chiedere, sempre a proposito di chi paga o per lo meno di chi favorisce questo tipo di studi, poiché mi ha suscitato stupore questa questione dell’androgino e di come in qualche modo sia importante nella percezione e nella scelta come punto di separazione di due estremi, siccome il mondo della moda, il mondo della televisione, degli spettacoli di massa è pieno di volti androgini e di corpi androgini, mi chiedevo se questa è una cosa indotta da queste ricerche, oppure ci sono arrivati per caso. Alessandro Cellerino C’è una ragione specifica per la quale io non parlo mai di corpi, parlo solo di volti ed è questo: se io vedo il volto della regina Nefertiti che è del 1387 a. C. riconosco nel suo volto quello di una bella donna, di fatto l’unico ostacolo alla comparsa di volti che anche noi giudichiamo belli nell’arte antica è di tipo tecnico, cioè appena hanno imparato a disegnare e a scolpire hanno fatto volti che anche noi giudichiamo belli. Per i corpi non è assolutamente così, ad es. pochi oggi si riconoscerebbero non solo nelle donne di Rubens, ma anche nelle veneri greche che non sono conformi al nostro standard di bellezza, e questo almeno in parte perché (tra l’altro questo non è vero per il corpo maschile è vero soprattutto per il corpo femminile: gli atleti greci sono perfetti anche per i nostri standard) ha molto a che fare anche con una questione di status symbol, cioè infatti piace ciò che è raro, piace ciò che è difficile da ottenere per cui, molto banalmente, fino a quando la gente non aveva da mangiare, quindi fino agli anni Cinquanta, si cercava la donna in carne, la donna prosperosa perché in quella società era veramente sinonimo di salute perché per essere in carne doveva avere ben mangiato, perché allora le risorsa limitante era mangiare. Nella nostra società attuale la risorsa limitante è diventato andare in palestra, fare la dieta, perché c’è cibo dappertutto. Ciò che si dimostra con un corpo esageratamente magro significa avere molto tempo a disposizione che si può sottrarre alle attività produttive per dedicarsi al proprio corpo. In generale in biologia evoluzionistica si parla del principio dell’handicap, cioè si tende a dire che molti tratti selezionati sessualmente sono indicatori di fitness, in base a questo principio, ad es. la coda del pavone è indubbiamente un intralcio, se il pavone può permettersi di andare in giro con quella coda, vuol dire che ha delle qualità fenotipiche particolarmente buone e, siccome una femmina non può andare a fare l’analisi del DNA di tutti i vari pavoni prima di decidere con chi accoppiarsi, utilizza come indicatore di fitness, come proxy si dice in gergo, la coda perché solo i maschi che sono fisicamente forti possono avere la coda. Rigiriamo ora la cosa: se io guido una Ferrari voglio far vedere a chi mi guarda che, poco poco, avevo 150.000 euro che mi avanzavano, gli altri non possono guardare nel mio conto in banca, però se mi vedono sulla Ferrari dicono che come minimo avevo 150.000 euro da buttare via. Allo stesso modo, il corpo femminile è diventato uno status secondo lo stesso principio dell’ handicap, è sempre attraente ciò che è raro, mentre una volta era raro avere le persone in salute perché non c’era da mangiare, ora è il contrario, 135 è raro essere magri e scolpiti, essere androgino per una donna perché non tutti possono andare dal dietologo e farsi dodici ore di palestra alla settimana. Sandra Magistrelli Io non mi riferivo soltanto al corpo, mi riferivo anche al volto, il volto androgino è un volto ambiguo che si rivolge ad ambedue i sessi, ha un potere, diciamo così, evocatore, allora questo come viene collocato all’interno delle vostre ricerche perché è come se si avesse, da una parte, appunto, una mascolinizzazione legata a determinate caratteristiche, un’ iperfemminilizzazione legata a un rigonfiamento di certe caratteristiche neoteniche quasi verrebbe da dire e poi c’è questo androgino che pure ha una funzione attraente forte: come si spiega? Alessandro Cellerino In realtà nel caso dei volti femminili non è vero, perché più è femminile e più viene giudicato attraente, nel caso dei volti maschili si spiega abbastanza bene con quella famosa distribuzione bimodale che vi ho fatto vedere, cioè un volto androgino corrisponde a uno dei due picchi della distribuzione. 136 Evoluzione e risposta cellulare allo stress I SABELLA M ARINI Quae medicamenta non sanant, ferrum sanat. Quae ferrum non sanat, ignis sanat. Quae vero ignis non sanat, insanabilia reportare oportet. Ippocrate Più di 40 anni fa a Napoli, nel Laboratorio Internazionale di Genetica e Biofisica di Ferruccio Ritossa, qualcuno, forse inavvertitamente, ha regolato il termostato ad una temperatura più alta del solito e i cromosomi giganti delle ghiandole salivari di Drosophila, sottoposti ad uno shock termico, hanno mostrato i rigonfiamenti tipici di un’attività trascrizionale localizzata. I loci coinvolti codificano per quelle che da allora sono state chiamate proteine da shock termico, in inglese heat shock proteins (hsp), le più abbondanti ed ubiquitarie proteine solubili intracellulari. La “risposta allo stress”, che ha come elementi caratterizzanti l’incremento della produzione delle hsp ed un drammatico cambiamento dell’espressione genica (Figura 1), è un sistema generalizzato di difesa da attacchi proteotossici e genotossici, straordinariamente simile in cellule molto diverse tra loro sia dal punto di vista funzionale che evoluzionistico, che salvaguarda la vitalità cellulare. Questo meccanismo ancestrale di difesa non viene scatenato solo in seguito all’esposizione alle alte temperature, ma anche da una grande varietà di stress metabolici ed ambientali, nonché da vari stati patologici fra cui: intossicazioni da metalli pesanti, alcol o tossine, trattamenti con agenti chimici quali analoghi di amminoacidi, ossidanti, ionofori, modificatori dei sulfidrili proteici, veleni metabolici, inibitori della trascrizione e della traduzione, agenti teratogeni, infezioni virali, febbre, infiammazione, ischemie, neoplasie ed ipertrofie. Figura 1- Elettroforesi delle proteine di cellule di All’inizio le hsp costituivano una sorta Drosophila a diverse temperature. di “curiosità”, oggi invece sappiamo, 137 grazie ad una mole enorme di dati sperimentali, che sono indispensabili in molti processi fondamentali per la vitalità cellulare. Se volessimo dare una definizione sintetica del loro ruolo fisiologico potremmo dire che sono le principali protagoniste di quell’arsenale di strutture e strategie che la natura ha messo in atto per avere nella cellula proteine di altissima qualità. Le hsp sono quindi delle proteine che esercitano il loro ruolo su altre proteine, definite genericamente proteine bersaglio, sia in presenza di stress che in condizioni fisiologiche. Le hsp Le hsp rappresentano uno dei gruppi di proteine più conservate, sono una sorta di Matusalemme evoluzionistico; l’omologia di sequenza fra l’hsp di un batterio e quella di un uomo può anche essere superiore al 50%. Come esempio possiamo prendere le hsp a basso peso molecolare (small-hsp, shsp, polipeptidi con peso molecolare compreso tra 16 e 28 kDa) che in organismi diversi tra loro come piante, batteri, lieviti e animali hanno tutte in comune, nella porzione C-terminale il cosiddetto alpha-crystallin domain, un tratto omologo di circa 90 amminoacidi su una media di circa 130, responsabile del loro ruolo fisiologico. Le hsp sono presenti nei procarioti e in tutti i compartimenti subcellulari degli eucarioti; fin dalla loro scoperta sono state raggruppate in cinque famiglie principali: hsp100, hsp90, hsp70, hsp60 e shsp sulla base del loro peso molecolare. Per esempio l’acronimo hsp70 indica le proteine indotte dallo shock termico con peso molecolare di 70.000 Da. Adesso la disponibilità delle sequenze amminoacidiche e nucleotidiche consente una classificazione più sistematica su base filogenetica che sostanzialmente ha confermato i raggruppamenti originari. I membri appartenenti ad una stessa famiglia sono accomunati dalle dimensioni, dalla struttura, dalle funzioni e mostrano un alto grado di identità di sequenza, mentre tra famiglie diverse non c’è omologia. Il problema del ripiegamento delle proteine Questa non è certo la sede per descrivere le caratteristiche speciali delle proteine o la loro eccezionale versatilità funzionale, ricordo solo che le proteine, dopo l’acqua, sono le molecole più abbondanti nei viventi. Noi siamo capaci di produrre circa 100.000 proteine diverse, ma il numero di proteine possibili di 300 amminoacidi (la dimensione “media” di una proteina) supera di gran lunga il numero di atomi dell’universo (20300). Nelle proteine sono presenti diversi livelli di organizzazione strutturale e solo quando la molecola è ripiegata correttamente è in grado di funzionare. Il folding (ripiegamento) proteico è il processo mediante il quale amminoacidi vicini e distanti in un polipeptide lineare interagiscono per dar vita ad una struttura nativa con attività biologica unica, risultato del compromesso fra l’imperativo della stabilità strutturale da una parte e la flessibilità funzionale dall’altra (Figura 2); il folding è quindi un processo fondamentale per convertire l’informazione genetica lineare e unidirezionale nella struttura proteica tridimensionale funzionale, termodinamicamente stabile. Nel 1973 Anfinsen con il suo pionieristico esperimento sulla ribonucleasi bovina arrivò alla conclusione che le proteine denaturate, una volta rimosso l’agente denaturante, sono 138 capaci di ripiegarsi nella struttura terziaria nativa, la quale, a sua volta, è unicamente determinata dalla struttura primaria, ovvero dalla sequenza amminoacidica (Figura 3). Unfolded Molten globule Figura 2- Il folding proteico. Figura 3- L’esperimento di Anfinsen sulla ribonucleasi A bovina. 139 Native Ma come la topologia della struttura proteica è codificata dalla sequenza? La risposta a questa domanda è sempre oggetto di un ampio dibattito, vari approcci sperimentali suggeriscono che il pattern di residui idrofobici e idrofilici giochi un ruolo importante rispetto ai caratteri specifici dei residui coinvolti; è chiaro per esempio che lo stesso ripiegamento può essere ottenuto e generato da sequenze molto diverse. Comunque attualmente il folding proteico costituisce una delle sfide teoriche principali dei biologi; il paradigma dominante della chimica delle proteine: una sequenza Æ una struttura, adesso è in discussione perché pensiamo che la relazione fra sequenza e struttura sia probabilmente più profonda e indefinibile rispetto a quello che si riteneva originariamente, basta pensare ai prioni in cui la stessa struttura primaria dà origine a due forme tridimensionali diverse di cui una è addirittura patologica. C’è poi un secondo quesito: come fa una proteina a trovare la struttura nativa in un tempo finito? Nel folding proteico la differenza tra i dati calcolati teoricamente e quelli ottenuti sperimentalmente è detto paradosso di Levinthal. Considerando una piccola proteina costituita solo da 100 residui amminoacidici, Cyrus Levinthal ha calcolato che se ciascun residuo potesse assumere solo tre posizioni, il numero totale di strutture possibili sarebbe 3100 (5x1047 ); se occorressero solo 10-13 secondi per convertire una struttura in un’altra, il tempo totale per la ricerca della struttura termodinamicamente più stabile sarebbe di 3x1027 anni! Ma le proteine con alto contenuto di a-eliche si ripiegano mediamente in 50 msec e quelle con prevalenza di b-struttura possono richiedere un tempo solo di un ordine di grandezza superiore. Il folding nella cellula Quanto gli studi in vitro sono in grado di simulare la situazione reale dell’interno delle cellule? Il meccanismo alla base del folding è lo stesso in vitro e in vivo, solo che l’ambiente intracellulare in cui le proteine si ripiegano è certamente molto diverso rispetto alle condizioni utilizzate negli esperimenti in vitro; Anfinsen aveva scelto delle condizioni particolari, noi biochimici infatti spesso abbiamo l’abitudine di lavorare con soluzioni diluite e con molecole pure, prima di studiare qualcosa lo purifichiamo togliendolo dal contesto in cui opera. All’interno della cellula la concentrazione di macromolecole è spesso superiore ai 400 mg/ml e tutte le biomolecole si sono evolute per funzionare correttamente in tale ambiente. L’affollamento macromolecolare presente nella cellula comporterebbe per le proteine in via di sintesi o ripiegate non correttamente un inesorabile destino: l’aggregazione o l’associazione impropria con altri componenti cellulari; ma sappiamo che questo non avviene in realtà, se non in condizioni patologiche. Il folding proteico in vivo è stato a lungo considerato un processo autonomo e quasi automatico, non influenzato da altre proteine o da altri componenti cellulari. Questo paradigma è stato abbandonato con l’identificazione degli chaperone molecolari che assistono, facilitano ed accelerano il folding proteico; il loro ruolo nei confronti del ripiegamento e del controllo di qualità delle proteine potrebbe essere paragonato a quello svolto dagli enzimi sulle reazioni biochimiche: generare specificità e controllo dell’ambiente biologico. Nei sistemi viventi le proteine non vengono mai 140 lasciate sole, i problemi che sorgono durante la loro vita sono risolti infatti dagli chaperone molecolari e dalle proteasi, che assistono rispettivamente il refolding o indirizzano verso l’eliminazione le molecole che non soddisfano i requisiti di stabilità e funzionalità. La differenza fondamentale tra il folding in vitro e in vivo sta proprio qui: l’evoluzione ha selezionato un complesso sistema per controllare e regolare l’intero processo all’interno degli organismi. Il concetto di chaperone molecolare Molte hsp, ma non tutte, sono funzionalmente correlate con le attività di chaperone molecolare anche se spesso nella letteratura scientifica i due termini hsp e chaperone sono usati impropriamente come sinonimi. Gli chaperone molecolari prevengono le associazioni inter ed intramolecolari non corrette dei polipeptidi non ancora ripiegati, che porterebbero alla loro aggregazione; in altre parole agiscono come supervisori nel controllo della qualità delle proteine di nuova sintesi o danneggiate a vari livelli. La loro importanza fisiologica è facilmente dimostrabile. A causa della cooperatività dei processi di ripiegamento, la formazione di strutture terziarie stabili richiede la presenza di un polipeptide completo o comunque almeno di un domain proteico (circa 100 amminoacidi di lunghezza). Nella cellula le proteine durante la loro sintesi emergono dai ribosomi come catene non ripiegate dalla parte ammino-terminale e solo quando un domain è stato completamente sintetizzato raggiungono una parziale struttura tridimensonale corretta. Una situazione simile avviene anche quando le catene polipeptidiche devono attraversare in forma estesa la membrana di qualche organello intracellulare, per passare da un compartimento all’altro. Un polipeptide completamente esteso o parzialmente ripiegato espone al solvente acquoso delle superfici idrofobiche che nella proteina nativa si trovano normalmente nella parte interna della struttura. Nello stato non ripiegato, i polipeptidi potrebbero potenzialmente interagire l’uno con l’altro mediante le superfici idrofobiche esposte formando aggregati anche a concentrazioni relativamente basse. Gli chaperone hanno evoluto due distinti meccanismi per prevenire queste interazioni improduttive ed indesiderate e promuovere il folding. Il primo consiste nello schermare le superfici idrofobiche esposte per evitare l’aggregazione ad uno stadio in cui non è ancora possibile il ripiegamento corretto di una catena polipeptidica perché ancora incompleta; il secondo comporta l’allontanamento dal mezzo intracellulare di una proteina completa, ma ancora non correttamente ripiegata o parzialmente denaturata in seguito ad uno stress proteotossico, per prevenirne l’aggregazione ed allo stesso tempo consentirne il folding fino allo stato nativo (Figura 4). Le principali famiglie di hsp Hsp100- Sono poco espresse costitutivamente, ma dopo uno stress il loro livello aumenta moltissimo. Giocano un ruolo chiave nella sopravvivenza cellulare in condizioni estreme e nell’acquisizione della termotolleranza, la capacità di resistere a stress successivi ad un primo stimolo subletale. Mediante un meccanismo ATPdipendente sono in grado di disassemblare gli aggregati proteici e cooperano alla 141 Figura 4- Azione degli chaperone sul folding proteico. destrutturazione di proteine destinate alla degradazione. Molte evidenze sperimentali suggeriscono un loro coinvolgimento nella propagazione della forma prionica infettiva, la loro capacità disgregante libererebbe infatti i prioni monomerici che fungerebbero da nuovo innesco per le reazioni di “contagio” strutturale. Hsp90- Sono le proteine citosoliche più abbondanti negli eucarioti. In vivo sono dimeriche e regolano le funzioni delle loro proteine bersaglio che sono principalmente i recettori per gli ormoni steroidei, alcune proteine coinvolte nei processi di trasduzione di segnale e nella trascrizione. Sopprimono l’aggregazione aspecifica durante lo stress termico, stabilizzando le proteine in via di denaturazione. Dopo anni di studi dai risultati controversi, è stato accertato che la loro azione è ATP-dipendente (Figura 5). Hsp70- Sono chaperone molecolari monomerici o dimerici che assistono il folding di polipeptidi di nuova sintesi, l’assemblaggio di complessi multiproteici ed il trasporto intracellulare di proteine attraverso le membrane. La loro espressione è correlata con la proliferazione cellulare e con tumori maligni di varia origine. Fra le hsp sono le più antiche ed hanno un potente effetto anti-apoptotico. Stabilizzano le parti idrofobiche esposte in polipeptidi non ripiegati, abbracciando e contenendo la proteina bersaglio in una conformazione caratteristica che può essere paragonata ad una mandibola, che stringe il suo substrato mediante denti idrofobici impedendone l’aggregazione e mediandone il refolding. La loro azione è ATP-dipendente e necessita del cochaperone hsp40. Hsp60- Nella loro forma di tetradecamero a doppio toroide che delimita una cavità funzionale (denominata “Anfinsen cage”) ed in presenza del co-chaperone eptamerico hsp10 sono una vera e propria macchina per il folding proteico mediato dall’idrolisi di ATP. E’ noto in dettaglio il meccanismo molecolare d’azione di GroESGroEL, il sistema hsp60-hsp10 di E. coli (Figura 6). 142 Figura 5- Principali funzioni delle hsp90. A: con i recettori degli ormoni steroidei. B: con una tirosina chinasi. C: con proteine denaturate. Shsp- Il loro monomero ha un peso molecolare compreso tra 16 e 28 kDa e sono organizzate in grandi complessi multimerici con composizione dinamicamente variabile e modulabile a seconda delle condizioni presenti (Figura 7). Esercitano un potentissimo effetto antiaggregante stabilizzando le proteine stressate e sono fondamentali per l’acquisizione della termotolleranza. Salvaguardano la struttura del citoscheletro, mediano l’aumento dei livelli di glutatione in seguito ad uno stress ossidativo ed esercitano un effetto anti-apoptotico. Sono chaperone molecolari completi, infatti recentemente io insieme al gruppo di ricerca in cui opero abbiamo dimostrato che le a-cristalline, le principali proteine solubili del cristallino dei vertebrati e le shsp più rappresentative, sono sono in grado di promuovere il refolding di proteine denaturate chimicamente con un meccanismo indipendente dall’idrolisi di ATP. 143 Figura 6- Il ciclo di reazione di GroES e GroEL (hsp60). Nessuna delle classi di hsp esercita tutte le funzioni via via richiamate, anzi ciascuna è specializzata nello svolgimento di un particolare ruolo; in vivo i membri delle varie famiglie agiscono insieme in un processo concertato di folding e recupero proteico assistito (Figura 8). Misfolding e malattie Considerata l’importanza del folding proteico nella cellula, è inevitabile che un malfunzionamento di questo processo sia all’origine di varie forme patologiche. Sono note molte malattie da misfolding ed ogni anno se ne aggiunge qualcuna alla lista (Tabella I); molte di queste sono gravi patologie neurodegenerative, fra cui cui il morbo di Alzeheimer, il morbo di Parkinson, le malattie da prioni ed il morbo di Huntington. 144 Figura 7- Modello di una struttura oligomerica delle shsp. Figura 8- Un esempio di chaperone network. 145 146 Alcune forme patologiche sono dovute all’incapacità di una proteina essenziale a ripiegarsi correttamente. La fibrosi cistica è causata da una mutazione del gene relativo ad un canale di membrana che regola il trasporto dei cloruri (CFTR). Durante la sintesi della proteina mutata si produce un intermedio alterato di folding che viene riconosciuto come difettoso dal sistema di controllo-qualità. Il CFTR mutato quindi viene indirizzato verso la degradazione e non può raggiungere la membrana cellulare, nella quale peraltro sarebbe in grado di svolgere correttamente la sua funzione (Figura 9). Figura 9- La fibrosi cistica: una malattia da errato ripiegamento. 147 In altri casi, come nelle malattie da b-amiloide, l’incapacità a ripiegarsi o a rimanere ripiegato correttamente, provoca interazioni indesiderate, l’aggregazione e la deposizione degli aggregati che ne risultano, in uno o più tipi di tessuti. I sintomi della malattia possono dipendere dalla pura quantità di aggregati proteici disseminati in vari organi o, in alternativa, dalla funzione tossica esercitata dagli aggregati formati inizialmente. Varie recenti ricerche hanno suggerito che la capacità di formare fibre amiloidi stabili ed altamente organizzate sia una proprietà generale dei polipeptidi che interessa essenzialmente lo scheletro carbonioso delle proteine e non gli specifici gruppi laterali degli amminoacidi. Le sequenze che, in assenza di fattori stabilizzanti come gli chaperone, hanno una maggior propensione di altre a formare strutture amiloidi sono meno frequenti in natura, come se la selezione naturale avesse eliminato quelle tendenti a promuoverne la formazione. Comunque persiste la tendenza delle proteine a ritornare verso la “primordiale” struttura amiloide se la normale omeostasi dell’organismo è perturbata; questa tendenza non viene adeguatamente prevenuta nell’invecchiamento e le sue conseguenze risultano molto evidenti in cellule post-mitotiche come i neuroni. La pressione evoluzionistica ha fatto un lavoro enorme per prevenire l’aggregazione proteica nel periodo in cui passiamo i nostri geni e diamo assistenza alla nostra prole, ma in tarda età non c’è pressione per aumentare la capacità “vitale” delle nostre proteine o dei nostri sistemi di protezione. Una maggior comprensione del folding e del misfolding, dei meccanismi cellulari di sorveglianza interna e dei legami specifici fra il processo di aggregazione ed il comportamento patologico risulterà cruciale per lo sviluppo di strategie terapeutiche contro queste malattie. Potenziare e modulare opportunamente i sistemi naturali di controllo-qualità costituirebbe la soluzione generale a tutte queste forme patologiche. Se fosse così, uno dei principali obiettivi dei primi alchimisti, la produzione dell’elisir di lunga vita, potrebbe in futuro essere una realtà. Hsp e ciclo cellulare Grazie alla loro multifunzionalità, le hsp sono fra le principali proteine regolatorie della cellula per il mantenimento di un ciclo cellulare efficiente; sono presenti a livelli elevati in cellule di mammifero che proliferano, si trovano spesso associate transientemente a molecole chiave del sistema di controllo del ciclo cellulare e sono coinvolte nella localizzazione nucleare di proteine regolatorie e nel differenziamento. La controprova dell’importanza delle hsp in questo contesto è data dagli studi condotti su modelli sperimentali knock-out per i geni di alcune hsp. Knock-out per hsp70, hsp60 e a-cristalline mostrano instabilità genomica, tendenza alla iperproliferazione cellulare e difetti nella sintesi di DNA ed RNA. L’instabilità genomica provoca errori nell’organizzazione del fuso e nella replicazione che hanno come conseguenze evidenti aneuploidia ed aberrazioni cromosomiche (Figura 10). Proprio perché coinvolte nella regolazione del ciclo cellulare, le hsp possono svolgere un ruolo fondamentale nella progressione tumorale; infatti sono indotte in vitro da molti farmaci citotossici e sembrano in parte responsabili nella resistenza ai farmaci antitumorali. 148 A B Figura 10- Mitosi in cellule epiteliali di cristallino. A: distribuzione della subunità B delle αcristalline nel wild type (b-tubulina in rosso; DNA in blu; aB in verde). B: anormalità mitotiche in cellule knockout per le aB (b-tubulina in rosso; DNA in verde). Hsp e apoptosi La morte cellulare programmata, un processo generale ampiamente conservato che opera nel “modellamento” di organismi pluricellulari, così come nell’eliminazione di cellule vecchie, danneggiate o non desiderate, probabilmente si è evoluta nel contesto della risposta allo stress. Devono infatti esistere necessariamente delle interazioni fra questi due meccanismi fondamentali ed al tempo stesso funzionalmente opposti, che regolano la decisione cellulare di vivere o morire. Vari studi hanno stabilito che gli effetti delle hsp nel promuovere la sopravvivenza cellulare possono essere in parte attribuiti alla loro capacità di sopprimere l’apoptosi. Le differenti funzioni svolte dalle varie famiglie di hsp possono facilmente generare il potenziale di punti multipli di intervento lungo la via apoptotica per regolare e modulare la risposta cellulare a stimoli dannosi. Attualmente l’organizzazione molecolare delle vie apoptotiche viene descritta mediante un modello che prevede tre fasi funzionalmente distinte. La prima fase, la premitocondriale, comprende varie vie di trasduzione del segnale che dipendono dal tipo cellulare e dallo stimolo primario induttore di morte. Tutte queste vie convergono sul mitocondrio che le integra canalizzandole in una via finale comune, mediante la perdita irreversibile della funzione di barriera della membrana mitocondriale (seconda fase), punto di non ritorno in seguito al quale vengono rilasciate molte proteine potenzialmente apoptogeniche con attività biochimiche differenziate (fra cui l’AIF, il fattore induttore di apoptosi, ed il citocromo c). Secondo questo modello il mitocondrio funzionerebbe come una sorta di “vaso di Pandora”: il rilascio di proteine che normalmente sono ben segregate nel compartimento mitocondriale determina il destino della cellula. La catastrofe bioenergetica e redox che avviene in seguito alla permeabilizzazione della membrana mitocondriale è da sola sufficiente a determinare la morte della cellula. Nella terza fase, la post-mitocondriale, la cellula acquisisce i caratteri biochimici e morfologici tipici dell’apoptosi (Figura 11). 149 Figura 11- L’apoptosi. Sono stati finora identificati molti punti in cui le hsp interagiscono con molecole coinvolte nell’apoptosi. Le hsp60 interagiscono con la caspasi 3, una delle proteasi effettrici, mediando la sua attivazione e funzionano quindi come molecole proapoptotiche. Invece le shsp e le hsp70 hanno marcati effetti anti-apoptotici; le prime agiscono, tra l’altro, legando il citocromo c prevenendo così l’attivazione delle caspasi e le seconde bloccano specificamente l’AIF. A questo proposito è interessante notare come, così come le hsp, anche l’AIF ed il citocromo c siano proteine filogeneticamente antiche. C’è poi una modulazione dei modulatori: molte molecole apoptogeniche interagiscono con il fattore di trascrizione per le hsp bloccandone la sintesi. Il coinvolgimento delle hsp in molti meccanismi citoprotettivi le colloca come coordinatori centrali della decisione sul destino della cellula. I livelli delle varie hsp, così come la loro quantità in forma libera, possono risultare critici per la citoprotezione e per la sopravvivenza. Le hsp potrebbero essere utilizzate come nuovi bersagli farmacologici e terapeutici sia per prevenire che per provocare l’apoptosi. Hsp e sistema immunitario Durante l’evoluzione, partendo dalla presenza di sistemi multipli e ridondanti, i meccanismi di difesa e di sorveglianza immunitaria devono essere stati sottoposti ad una forte selezione. Un sistema sensoriale basato sul riconoscimento del rilascio di hsp nell’ambiente extracellulare in seguito a stress o a necrosi, potrebbe aver costituito l’archetipo di un sistema ancestrale di immunosorveglianza. Recentemente molti dati stanno dimostrando come le hsp possiedano delle caratteristiche uniche che consentono il loro utilizzo per generare risposte immunitarie specifiche contro i tumori e contro gli agenti infettivi, indicando un loro ruolo chiave nell’immunità innata ed acquisita. 150 Le hsp hanno un forte effetto immunogenico e risultano degli adiuvanti naturali molto potenti nei confronti dei peptidi che legano, per questo le proteine da stress sono talvolta coinvolte nell’eziologia di forme patologiche autoimmuni. Le hsp citosoliche e del reticolo endoplasmatico si associano con moltissimi peptidi generati all’interno della cellula, compresi quelli provenienti da antigeni tumorali, virali e batterici; i complessi hsp/peptide che ne derivano vengono indirizzati alle molecole del complesso maggiore di istocompatibilità (MHC) di classe I; i complessi esposti sulla superficie cellulare o rilasciati in seguito a stress o necrosi cellulare sono internalizzati, mediante dei recettori per le hsp, dalle circostanti APC (cellule che presentano l’antigene) che li ripresentano alle cellule effettrici della risposta immunitaria. Le hsp da sole, secrete in assenza di peptidi, sono in grado di attivare i macrofagi ed i linfociti T citotossici. In condizioni di stress la produzione di hsp aumenta, quindi aumentano i livelli dei complessi hsp/peptide che vengono esposti; se si supera il livello di guardia si scatena l’attivazione delle cellule natural killer e dei linfociti T citotossici che provvedono all’eliminazione delle cellule stressate. Quindi gli effettori dell’immunità innata e specifica usano le hsp ed i complessi hsp/peptide per rispondere sinergicamente ad una situazione di stress elevato. I dati sperimentali a nostra disposizione rendono plausibile l’ipotesi che le più abbondanti molecole solubili della cellula siano anche i più adatti messaggeri del danno cellulare; questo spiegherebbe anche la “strana” presenza di un recettore di superficie per le hsp che sono intracellulari. In questa prospettiva le proteine da stress non solo proteggono la singola cellula dagli attacchi esterni, ma fungono anche da messaggeri di stress o “sensori di pericolo” a livello pluricellulare. Ci sono alcuni aspetti delle proprietà immunologiche delle hsp che potrebbero essere rilevanti per l’immunobiologia applicata, infatti nei mammiferi le hsp si sono mostrate molto efficaci nel generare una protezione immunitaria antitumorale, antivirale ed antibatterica. Le proteine da stress potrebbero essere utilizzate a scopi terapeutici per bloccare o potenziare, secondo le necessità, la capacità di risposta degli effettori immunitari. Hsp, invecchiamento e aspettativa di vita L’invecchiamento è un processo lento e graduale di deterioramento di un organismo e ritardarlo è uno dei sogni più antichi del genere umano. J. Maynard Smith nel 1958 fu uno dei primi a notare che l’esposizione a un breve periodo di stress termico aumentava la lunghezza della vita di Drosophila. Questi effetti che aumentano la longevità e conferiscono altre caratteristiche anti-invecchiamento osservati dopo esposizione ad uno stress moderato, sono rappresentativi del fenomeno dell’ormesi. Durante l’invecchiamento la simultanea presenza di ossidazione, misfolding e aggregazione delle proteine, aumenta il divario tra la quantità di lavoro che le hsp devono svolgere e la loro effettiva disponibilità in forma libera. In queste condizioni il mantenimento della citoarchitettura, l’efficienza della trasduzione del segnale ed il blocco delle mutazioni silenti, competono con la presenza di proteine danneggiate. Se 151 le hsp non riescono a far fronte a tutte le richieste, le cellule perdono la loro rganizzazione, non rispondono più ad alcuni segnali e le mutazioni silenti sfuggono al loro controllo (Figura 12). Molte evidenze sperimentali suggeriscono che alcuni chaperone molecolari, e fra questi soprattutto le shsp, giochino un ruolo significativo come antagonisti del processo di invecchiamento. La transfezione di singoli chaperone comporta l’aumento dell’aspettativa di vita, così come una loro over-espresFigura 12- Invecchiamento ed hsp. sione o uno stress moderato correlano con una maggior longevità sia a livello cellulare che di organismo. Le shsp aumentano la sopravvivenza di cellule epatiche allo stress ossidativo, un fenomeno legato alla capacità di queste proteine di far calare i livelli intracellulari di specie reattive dell’ossigeno mediante una via glutatione-dipendente. In esperimenti condotti su Drosophila e C. elegans, le shsp hanno dimostrato di avere una enorme influenza sull’invecchiamento e la modulazione della loro espressione suggerisce un loro coinvolgimento in processi connessi con la longevità. I dati ottenuti indicano che queste proteine, oltre a conferire la capacità di resistere agli stress, sono in grado di allungare la vita degli organismi in esame fino a raddoppiarla. Il loro meccanismo d’azione in questo caso è per ora sconosciuto. Fra i vari tentativi di ritardare l’invecchiamento, la restrizione calorica della dieta è l’unico trattamento che ha mostrato una certa efficacia, dopo una ampia sperimentazione in varie specie. Questa condizione nei ratti rallenta la degenerazione legata all’età proteggendo gli enzimi glicolitici ed aumentando i livelli delle hsp mediante la stimolazione della trascrizione dei geni della risposta allo stress. Anche gli effetti benefici sull’invecchiamento confermano il ruolo centrale che le hsp svolgono per la vitalità cellulare; le proteine da stress sono molto di più che degli aspecifici chaperone! Hsp ed evoluzione Sessanta anni fa Conrad Waddington, osservando tra l’altro la grande stabilità degli organismi di tipo selvatico rispetto ai mutanti, ipotizzò che molti caratteri fenotipici celassero delle variazioni genetiche la cui espressione in condizioni ambientali normali era prevenuta da un processo di “tamponamento genetico”. Come egli stesso dimostrò in esperimenti condotti sulle ali di Drosophila, condizioni stressanti compromettevano il sistema di tamponamento influenzando negativamente il normale sviluppo e consentendo l’espressione delle variazioni genetiche criptiche sotto forma di cambiamenti fenotipici, che in apparenza sembravano “acquisiti”. Quando tali variazioni venivano sottoposte ad un periodo di selezione stabilizzante nelle genera152 zioni successive, il nuovo carattere era geneticamente “assimilato”, cioè veniva espresso anche quando l’agente stressogeno era assente. A questo proposito Waddington citava diversi esempi presenti in natura, di caratteri utili nell’organismo adulto, che si manifestavano già nel feto non avendo alcuna funzione a questo stadio, fra cui le callosità degli struzzi (Figura 13), l’ispessimento della pelle della pianta del piede degli uomini o le punte del dente molare del dugongo; l’esistenza di questi adattamenti poteva essere spiegata proprio in termini di “assimilazione genetica di un carattere acquisito”. Lo stesso autore non riuscì ad identificare né il meccanismo né gli agenti responsabili del processo osservato, ne intuì però la presenza; l’oggetto “sconosciuto” di Waddington è quello che oggi definiamo “canalizzatore adattativo inducibile” o “condensatore evoluzionistico”. E’ dello stesso autore il concetto di “paesaggio epigenetico” (Figura 14), una metafora in cui l’organismo è una pallina che rotola tra colline e valli a diversa profondità, che rappresentano i possibili percorsi dello sviluppo, determinati sia dal sistema genetico che dal contesto ambientale interno ed esterno dell’organismo. Un forte stimolo ambienFigura 13- Le callosità degli struzzi. tale provoca un punto di transizione tra le valli, a quel punto la pallina può essere spinta in una valle alternativa che risulta tanto più profonda quanto più si ha “canalizzazione” del fenotipo. Le hsp sono candidate ideali come condensatori evoluzionistici o molecole da tamponamento genetico; infatti in condizioni fisiologiche possono agire come “silenziatori” post-traduzionali di molte variazioni genetiche, assistendo efficientemente i difetti del folding e nascondendo mediante le loro interazioni le mutazioni che potrebbero essere dannose per la cellula. In caso di stress l’accumulo di proteine danFigura 14- Il paesaggio epigenetico di Waddington. neggiate comporta un calo nella capacità di riparazione hsp-mediata dei difetti conformazionali e quindi un decremento della capacità tamponante. La multifunzionalità delle hsp, da una parte coinvolte nel 153 ciclo cellulare, nella trascrizione, nell’interazione funzionale con proteine di trasduzione del segnale ed altre proteine regolatorie e dall’altra responsabili della sensibilità a variazioni ambientali, ed il loro essere organizzate in una via metabolica chaperoneassistita, le rende particolarmente adatte ad essere dei modulatori fra genotipo e fenotipo. Conferme a queste ipotesi sono venute da studi su Arabidopsis, Drosophila e lievito. In due articoli pubblicati su Nature il gruppo di Susan Lindquist lavorando con le hsp90 bloccate farmacologicamente, per mutazione o a seguito di un intenso stress termico ha notato la comparsa in Arabidopsis e Drosophila (Figura 15) di un notevole numero di varianti fenotipiche potenzialmente adattative. Questi nuovi tratti morfologici, dopo un periodo di selezione stabilizzante nelle generazioni successive, erano espressi anche quando l’attività fisiologica delle hsp90 veniva ripristinata. Il carattere era quindi stato geneticamente assimilato, c’era qualcosa che aveva fissato quel fenotipo nel genotipo, rendendolo ereditabile. L’ipotesi qual è? Figura 15- Diversi fenotipi associati al blocco delle hsp90 in Drosophila ed Arabidopsis. L’oggetto sconosciuto di Waddington forse sono le hsp90 e forse anche tutte le altre hsp, che agiscono da canalizzatori adattativi inducibili tamponando le variazioni genetiche accumulate senza avere alcun effetto sulle caratteristiche espresse, finché una loro ridotta funzionalità non consente la “liberazione” delle variazioni nascoste (Figura 16). Le hsp collegherebbero la risposta allo stress con il controllo dello sviluppo, fornendo uno strumento mediante il quale una maggior variabilità amFigura 16- I polimorfismi criptici possono essere bientale potrebbe essere accompagnata rivelati dallo stress ed arricchiti mediante selezione. ad una maggior varietà nella forma e 154 nelle funzioni di un organismo (Figura 17). Ancora una volta il mantenimento del folding appropriato e la regolazione delle varie attività degli chaperone sono cruciali ed il tamponamento genetico potrebbe essere uno degli elementi chiarificatori delle complesse interazioni molecolari fra genotipo e fenotipo. Questo meccanismo fornirebbe un mezzo tramite il quale cambiamenti radicali nella forma del corpo potrebbero essere notevoli e discreti piuttosto che incrementali e progressivi; d’altra parte i fossili contengono molti esempi di cambiamenti apparentemente rapidi della forma del corpo intercalati a periodi di relativa stabilità. Figura 17- La gerarchia dei vincoli che influenzano l’evoluzione. Il genoma non è un progetto deterministico per il fenotipo di un organismo; una miriade di influenze danno forma alla traduzione del genotipo nel fenotipo. Quando valutiamo ed analizziamo l’evoluzione fenotipica, si deve partire dal genotipo ed andare oltre, alla vasta, e ancora largamente ignota, complessità dei processi basati sulle interazioni proteina-proteina a livello intra ed intercellulare e dei meccanismi di controllo della “qualità strutturale” delle proteine. Colgo l’opportunità per ringraziare il Prof. Umberto Mura, del Dipartimento di Fisiologia e Biochimica dell’Università di Pisa, con cui lavoro da sempre, una delle persone che hanno reso possibile coltivare e tenere viva la mia passione per la ricerca e poi tutti gli altri componenti del Laboratorio di Biochimica per la loro collaborazione e per la loro disponibilità a favorire il mio lavoro di ricerca nei tempi che mi vedono libera dagli impegni istituzionali. Ringrazio gli organizzatori e fra questi soprattutto il Prof. Enrico Pappalettere, mio collega al Liceo Dini, per avermi “sopportato” nel discutere e commentare la parte 155 di Waddington e per avermi dato l’opportunità di presentare l’argomento su cui faccio ricerca rivisto da un punto di vista evoluzionistico. Questo per me è stato uno stimolo forte perché mi ha “costretta” a leggere cose che volevo leggere da tanto tempo. Studiare libri ed articoli vecchi e recentissimi mi ha confermato come il “fare scienza” sia un ricchissimo processo culturale e quanto il progresso scientifico non sia automatico, lineare e cumulativo; mi è venuta in mente a questo proposito una riflessione di Lucio Russo in La rivoluzione dimenticata: “…Un importante contributo contro la concezione del progresso automatico è venuto nel Novecento da Karl Popper… Un residuo resistente di questa pericolosa fede è nella diffusa abitudine degli studiosi di usare e citare nei propri lavori quasi esclusivamente pubblicazioni recentissime, come se l’essere aggiornati fosse di per sé una garanzia di qualità. In questo modo si assicura la subitanea diffusione di qualsiasi moda culturale, accelerando il progresso ma anche l’eventuale regresso delle conoscenze.” Dipartimento di Fisiol. e Biochimica - Università di Pisa Isabella Marini Bibliografia C. B. Anfinsen 1973 Principles that govern the folding of protein chains SCIENCE 181, 223-230 M. Bucciantini, E. Giannoni, F. Chiti, F. Baroni, L. Formigli, J. Zurdo, N. Taddei, G. Ramponi, C. M. Dobson, M. Stefani 2002 Inherent toxicity of aggregates implies a common mechanism for protein misfolding diseases NATURE 416, 507-511. J. Buchner 1999 Hsp70: a holding for folding TRENDS BIOCHEM. SCI. 24, 136-141 J. Frydman 2001 Folding of newly translated proteins in vivo: the role of molecular chaperones ANN. REV. BIOCHEM. 70, 603-647 J. Horwitz 2003 Alpha-crystallin EXP. EYE RES. 76, 145-153 A. L. Hsu, C. T. Murphy, C. Kenyon 2003 Regulation of aging and age-related disease by DAF-16 and heat-shock factor SCIENCE 300, 1142-5. Jacob, U., Buchner, J. (1994). Assisting spontaneity: the role of hsp90 and small hsps as molecular chaperones. Trends Biochem. Sci. 19, 205-211. I. Marini, R. Moschini, A. Del Corso, U. Mura 2000 Complete protection by a-crystallin on lens sorbitol dehydrogenase undergoing thermal stress J. BIOL. CHEM. 275, 32559-32565 I. Marini, R. Moschini, A. Del Corso, U. Mura 2005 Alpha-crystallin: an ATP-independent complete molecular chaperone toward sorbitol dehydrogenase CELL MOL. LIFE SCI. (in press) J. Martin, M. Mayhew, T.Langer, F. U. Hartl 1993 The reaction cycle of GroEL and GroES in chaperoninassisted protein folding NATURE 366, 228-233 P.Mehlen, K., Schulze-Osthoff, A. P. Arrigo 1996 Small stress proteins as novel regulators of apoptosis J. BIOL. CHEM. 271(28), 16510-16514 R. J. Menoret, N. Cohen, P. K. Srivastava 2001 Immunological properties of heat shock proteins are phylogenetically conserved ADV. EXP. MED. BIOL. 484, 237-249 C. Queitsch, T. A. Sangster, S. Lindquist 2002 Hsp90 as a capacitor of phenotypic variation NATURE 749, 1-7 S. L. Rutherford, S. Lindquist 1998 Hsp90 as a capacitor for morphological evolution NATURE 396, 336-42 P. Srivastava 2002 Interaction of heat shock proteins with peptides and antigen presenting cells: chaperoning of the innate and adaptive immune responses ANNU. REV. IMMUNOL. 20, 395-425 156 M. Stefani, C. M. Dobson 2003 Protein aggregation and aggregate toxicity: new insight into protein folding, misfolding diseases and biological evolution J. MOL. MED. 81, 678-699 F. Ritossa 1962 A new puffing pattern induced by temperature shock and DNP in ‘Drosophila’ EXPERIENTIA 18, 571-573 C. H. Waddington 1979 Evoluzione di un evoluzionista Armando Editore Roma C. H. Waddington 1987 Esperimenti sui caratteri acquisiti. LE SCIENZE QUADERNI 37, 78-82 W. J. Welsh 1993 Come le cellule reagiscono allo stress LE SCIENZE 299, 50-57 157 Dibattito Intervento Vorrei chiedere un chiarimento sulla fibrosi cistica. Io non so molto sull’argomento però avevo capito che la fibrosi cistica è indotta da una mutazione che modifica questa proteina di membrana per cui poi il cloro non transita; il chaperon quindi elimina la proteina: quelloc he è sbagliato è la proteina.. quindi se non ci fosse il chaperon funzionerebbe. Isabella Marini L’azione del sistema di controllo di qualità in questo caso è negativa, perché fa un danno nel senso che per voler fare le cose troppo bene alla fine eccede; d’altra parte per esempio le αβ che sono una delle due subunità delle α-cristalline sono il principale autoantigene della sclerosi multipla; queste proteine così antiche si somigliano tanto per cui quando mi aggredisce un batterio io posso fare anticorpi non solo contro l’hsp del batterio ma anche contro la mia, proprio perché si somigliano tanto e possono venir fuori le malattie autoimmuni. Per la sclerosi multipla è proprio stato dimostrato che il principale autoantigene sono le αβ, quindi non è che le hsp siano la panacea che facciano tutto bene, anche loro possono dare dei problemi. Bianca Isolani E’ molto interessante il fatto che a fenotipi uguali non corrispondono genotipi uguali e viceversa; penso si potrebbero fare molti esempi biologici come il ciclo dei parassiti in cui, pur avendo il parassita lo stesso genotipo, cambia molto l’aspetto a seconda dell’ospite; oppure le alghe aploidi e diploidi che sono estremamente differenti; oppure i microbi addirittura che hanno delle caratterizzazioni fenotipiche a cui non corrisponde per niente il genotipo che anzi varia per il 70%. Ecco questo discorso è estremamente interessante e penso che andrebbe molto più divulgato; visto che mi sembra che tu sia una brava divulgatrice. Isabella Marini E’ tutto il concetto di prione che è rivoluzionario in questo senso perché il prodotto genico è lo stesso, è la struttura superiore della proteina che cambia e cambia completamente il fenotipo; non solo, ci sono dei prioni di lievito -su cui tra l’altro lavora la stessa Lindquist che ha fatto gli esperimenti su Drosophila- che sembrano responsabili di un tipo di ereditarietà basata sulle proteine; quando la sup35, che è il prione del lievito, fa lo switch da α-elica a β-foglietto fa cambiare il fenotipo alla cellula e poi questo fenotipo viene ereditato. La fede cieca nel dogma centrale a questo punto è scardinata completamente. Però è una cosa che sta venendo fuori ora, è tutta da studiare, ci sono questi segnali che ci fanno capire che oltre ai geni c’è molto di più. Bianca Isolani Con ciò si ritorna un po’ alle origini quando, prima che fosse scoperta la doppia elica del DNA, c’era una grossa fetta di biologi che riteneva l’ereditarietà basata sulle proteine e non sul DNA. Pauling era un assertore di questo. Isabella Marini Sì, erano convinti di questo anche perché le proteine sono molto più variabili del DNA. D’altra parte ogni tanto mi viene in mente il libro La rivoluzione dimenticata di Lucio Russo che nella prefazione dice “noiscienziati molto spesso facciamo il gravissimo 158 errore di leggere la letteratura dell’ultimo periodo”, anzi anche noi facciamo lo stesso quando affrontiamo un lavoro scientifico; ricordo che per la mia prima tesi di dottorato avevo trovato un riferimento del 1800 ed ero incerta se mettercelo o no; invece ci sono tante idee che negli ultimi 20 anni di letteratura, si sono perse e che farebbe bene ogni tanto andarsi a riguardare. Intervento Visto che riesce a integrare queste due attività strepitose, la ricercatrice e l’insegnante, allora nel suo discorso come porta l’evoluzione ai ragazzi alla luce di questa esperienza complessa e variegata per cui vede l’evoluzione da tanti punti di vista, anche in qualche caso eretico rispetto al darwinismo ortodosso, come presenta la faccenda, come rispondonoi ragazzi? Isabella Marini Devo dire che al Liceo insegno solo da due anni, peraltro con il semiesonero lavorando anche alla SSIS e per questo non ho ancora un quadro completo del quinquennio. Io cerco (non so se ci riesco sempre) di dare l’evoluzione come impostazione, cioè come quadro di lettura dei vari argomenti. Cerco di presentare l’evoluzione non come fatto a se stante, staccato ma come filo conduttore che sta sotto a tutti quei fatti biologici che noi descriviamo e facciamo studiare ai ragazzi. Non so se ci riesco, bisognerebbe sentire i ragazzi, però l’idea è questa, la spinta è questa. Per quanto riguarda il presentare l’evoluzione da diversi punti di vista posso farlo solo con i ragazzi di quinta perché ci vogliono delle preconoscenze di base senza le quali uno deve fare l’atto di fede e allora non mi va bene. Altro intervento Che cosa si pensa nell’ambiente di ricerca a proposito delle proteine per cui il fenotipo sembra essere molto più potente di quanto si sospettava e di quanto si dice effettivamente? Costituisce uno stimolo all’interno della teoria evolutiva, perché bisognerebbe rivedere un bel po’ di dogmi. Isabella Marini Nella ricerca ciascuno è molto focalizzato sul suo tema; per me essere insegnante e poi lavorare anche alla SSIS è una grandissima fortuna perché invece di stare a guardare il mio argomento sperimentale, i risultati che ottengo e basta, io devo sempre passare dal molecolare al macro, da un approccio riduzionista ad uno più olista, e quindi devo pormi qualche problema in più di chi fa solo ricerca o comunque di chi la fa senza avere un certa sensibilità scientifica complessiva. In letteratura il dibattito c’è, ed è molto acceso, ma che questo porti a rivedere subito tutto è ancora presto per dirlo. Bianca Isolani E’ una bellissima teoria quella della simbiosi e bisognerebbe rivedere meglio i rapporti genotipo-fenotipo per cui vorrei proprio un evolution-day per far capire che è ancora tutto aperto e che, mentre l’evoluzione è un fatto, le spiegazioni sono ancora tutte ipotesi e anche perché per i ragazzi ci sia ancora qualcosa da scoprire perché se pensano che si è già scoperto tutto, è da morire. 159 La didattica La didattica 161. Evoluzione ed altre storie Brunella Danesi 186. Dibattito 188. Chi ha paura di Carlo Darwin? Alessandra Magistrelli 196. Dibattito 203. Didattica dell’evoluzione Fabio Fantini 210. Dibattito finale 160 Evoluzione ed altre storie B RUNELLA DANESI Tra i problemi che ogni insegnante di Scienze naturali ha davanti quotidianamente nel suo lavoro, due presentano un particolare rilievo: l’uno riguarda le forme e i modi dell’assimilazione da parte degli studenti delle conoscenze scientifiche che consentono di interpretare la realtà naturale; l’altro concerne la storicità che, accompagnando la formulazione dei paradigmi scientifici, invita a leggere lo sviluppo della scienza nel contesto della cultura di un’epoca e di una società. Pensare di risolvere il primo problema integrando il manuale con l’uso anche sistematico del laboratorio sarebbe riduttivo e porterebbe gli studenti ad assimilare il lavoro scientifico ad una metodologia ingenuamente “verificazionista” e “induttivista”, da tacchino di Russell; d’altra parte, affrontare il secondo problema risolvendo la scienza nella cultura storica e quasi sommergendola in un generico “storicismo”, impedirebbe agli studenti di cogliere la specificità della conoscenza scientifica e, nel caso della nostra disciplina, di evidenziare la peculiarità delle questioni teoriche e metodologiche ad essa connesse. Come fare dunque per promuovere un apprendimento consapevole e motivato, che permetta di evitare i pericoli così dell’induttivismo ingenuo come di una cultura alla melting pot? Come fare per risvegliare l’attenzione per la disciplina e sostenere l’interesse per continuare a coltivarla? Come fare a precisare il contesto culturale in cui una teoria si è sviluppata? Per affrontare questi interrogativi senza semplificare, può essere utile prendere in considerazione, oltre ai mezzi tradizionali- manuale più laboratorio- l’opportunità di ricorrere a strumenti diversificati di “navigazione”, attraverso i quali compiere esplorazioni in territori altri -figurativi, letterari, artistici-, ma dai quali “ si ritorna” alla disciplina quasi “riscoprendola” in termini di avvertita problematicità e di maggiore consapevolezza circa il significato delle leggi e delle teorie apprese: incursioni e itinerari in altri contesti, che possiedono registri e linguaggi diversi da quelli propri del metodo e dei termini scientifici, ma che possono risvegliare il pensiero, attivare l’interesse, sollecitare approfondimenti, suggerire prospettive di ricerca. Né va tralasciata l’importanza di almeno due tra le ricadute didattiche non secondarie che questo tipo di lavoro può presentare: - la prima riguarda la maggiore vicinanza tra le discipline (si adopera volutamente questo termine, per evitare gli equivoci di una interdisciplinarietà che- pressoché sempre- sacrifica le specificità disciplinari); - la seconda è collegata alla formazione complessiva della personalità dello studente, perché gli itinerari sopra ricordati -quadri, racconti, romanzi, saggi- richiedono l’interazione tra l’ intelligenza, la fantasia, l’immaginazione, le emozioni. Relativamente al primo punto, nella scuola si fa ancora sentire la separazione delle culture, umanistica e scientifica, e ogni docente lavora facendo appello a quelle conoscenze “enciclopediche” che gli studenti dovrebbero possedere: quando vengo161 no lette, insieme ad insegnanti di materie umanistiche, pagine di Cartesio, Manzoni o Darwin, ad esempio, si fa implicitamente riferimento a presupposte informazioni “enciclopediche” possedute dallo studente, ma non sempre queste informazioni esistono, o, quando ci sono, non vengono ripescate e messe in relazione con ciò di cui si parla nell’ambito di un’altra disciplina, tanto che lo stesso Darwin studiato a Filosofia è altro rispetto a quello fatto a Biologia; ancora, malgrado la letteratura del Novecento sia ricchissima di scrittori, la cui formazione iniziale è stata di tipo scientifico (basti citare Gadda, Musil, Primo Levi), la separazione fra le culture fa sìche difficilmente ci si spinga ad introdurre argomenti di chimica utilizzando ad esempio Il sistema periodico di Levi, o ad inserire Mitosi e Meiosi di Calvino, parlando di biologia; in questo modo, certi autori perdono larga parte del loro fascino oppure certi loro percorsi vengono completamente tralasciati nell’insegnamento umanistico perché troppo difficili. Relativamente al secondo punto, la teoria dell’evoluzione, che rappresenta il quadro di riferimento essenziale ed indispensabile a qualunque argomento scientifico, si presta particolarmente bene al tipo di itinerari proposti in questa ipotesi di lavoro, anche perché proprio per la sua natura propone risposte, pur parziali e provvisorie, a domande esistenziali che gli adolescenti da sempre si sono posti ( chi siamo, da dove veniamo ). E’ anche una teoria che molti studenti hanno difficoltà ad accettare, proprio perché le loro preconoscenze li hanno convinti di tutt’altro, che cioè l’uomo non può essere paragonato a nessun animale o che comunque esso è al vertice di quella ideale scala, che dal protozoo giunge alle stelle, insomma, come per Panglosso “... i nasi son stati fatti per portar gli occhiali, infatti ci sono gli occhiali. Le gambe sono evidentemente istituite per esser calzate, ed ecco che ci sono i calzoni. Le pietre sono state formate per essere squadrate, e per farne castelli...” (1). Siamo di fronte alla convinzione incrollabile e consolatoria di uno sviluppo lineare e progressivo della vita, difficile da mettere in crisi e sostituire. Ritengo che al di là della conoscenza tecnica dei vari meccanismi che hanno determinato la micro e la macro evoluzione, sia importante mettere in evidenza, qualunque tema biologico venga affrontato, la “animalità” dell’uomo, la sua stretta dipendenza dagli altri organismi e, tutto sommato, la sua marginalità, pur mettendo in risalto che lo sviluppo della coscienza è stato l’avvenimento più sconvolgente della storia della vita sul nostro pianeta, se non altro perché ne siamo direttamente coinvolti. Questi sono i motivi per cui riterrei utile far leggere agli studenti libri di letteratura, affidati loro durante le vacanze estive e successivamente discussi in classe ad inizio dell’anno scolastico; è chiaro che sarebbe auspicabile svolgere questo lavoro con la collaborazione di altri docenti del corso, ma questo, in genere, si è sempre rivelato solo un pio desiderio. La mia relazione verterà su alcuni esempi, alcuni pensati per studenti di scuola media o di biennio, altri adatti ad un triennio superiore. Gli autori che verranno esaminati sono, per la scuola dell’obbligo, Frances Burnett e Jack London, mentre i percorsi suggeriti per il triennio riguardano Joseph Conrad, Samuel Butler ed Italo Calvino. In questo contesto è doveroso citare almeno uno fra gli scienziati che si sono cimentati in racconti sull’uomo primitivo, Bjorn Kurten, con la sua splendida saga familiare di cui sono protagonisti i Cro Magnon e i Neanderthal. 162 Per quanto riguarda le incursioni in storia dell’arte è doveroso fare almeno un piccolo accenno ad Aby Warburg e all’influenza che su di lui ebbe il lavoro L ‘espressione delle emozioni nell’uomo e negli altri animali di Charles Darwin La Natura salvifica Frances Burnett (Francis Eliza Hodgson, 1849-1924) nacque a Manchester ma alla morte del padre si trasferì in Knoxville, nel Tennessee (1865); la sua opera più nota è forse Piccolo Lord (Little Lord Fauntleroy ) del 1886, ma il libro più interessante per il nostro discorso è Il giardino segreto del 1888, da cui è stato anche tratto un film nel 1949, che vide come protagonista principale Margaret O’ Brien. La protagonista del racconto è Mary Lennox, una bambina cresciuta in India, circondata dalle sole cure dei domestici, che, rimasta improvvisamente orfana, viene mandata in Inghilterra presso uno zio, che vive in un tetro castello, circondato da un enorme parco, in mezzo alla brughiera. Mary, magra, pallida, sgraziata e sgradevole è abituata a farsi servire dai domestici e non ha mai conosciuto persone che le dessero affetto. Nel nuovo ambiente, ancora una volta abbandonata a se stessa, durante le sue solitarie escursioni nel parco, prende lentamente contatto con la natura. Saputo dalla domestica Martha dell’esistenza di un giardino segreto, chiuso da più di dieci anni, ne subisce immediatamente un irresistibile fascino; perché lo zio ne ha nascosto la chiave? Quali tesori nasconde? Un pettirosso, dall’alto delle fronde che sporgono dal muro di recinzione sembra invitarla a trovare la porta di accesso e a scoprire i segreti del giardino. Le lunghe passeggiate solitarie cominciano ad irrobustirla e a dare un po’ di colore alle sue pallide gote, impara a comprendere il linguaggio del pettirosso, il suo cuore si apre alla pietà per la storia legata al giardino; la natura ha iniziato ad operare in lei grandi trasformazioni. Quando finalmente, trovata la chiave del giardino, vi può penetrare, pensa di aver trovato il luogo più bello e misterioso. Mary scopre anche un altro mistero all’interno del castello, la presenza del cugino Colin, che dalla nascita è relegato nella sua camera, perché tutti temono che possa morire o diventare un povero storpio. Mary e Colin, aiutati da Dickon, il fratellino della domestica, che conosce la natura e ne sa interpretare il linguaggio, lavorano insieme a che il giardino ritorni allo splendore che doveva avere un tempo ed i due piccoli orfani si aprono lentamente alla vita, divengono disponibili agli affetti, cambiano anche nell’aspetto. Il tema fondamentale del racconto non è soltanto il giardino segreto, un posto magico, dove gli adulti non hanno accesso, dove i bambini possono coltivare i propri sogni, ma è anche la scoperta della Natura, una natura che è trasformata dai bambini e li trasforma: lo sporcarsi le mani con la terra per rimuovere le zolle indurite, il seminare e il piantare bulbi, il contatto con pettirossi, scoiattoli, caprette e farfalle, il volger delle stagioni che arrecano cambiamenti nei colori, negli odori e nei suoni all’esterno, porta anche sostanziali cambiamenti nei piccoli protagonisti, che vengono salvati dalla solitudine, l’aridità di cuore, la paura. Il libro è carico di messaggi, ma il più forte è a mio avviso quello legato alla coevoluzione, bambini-natura, possibile solo se i primi prendono con essa contatti non virtuali (2). E’ libro molto adatto anche per bambini della scuola elementare, non solo perché insegna a coltivare sogni, ma anche perché dà loro una 163 prima percezione del trascorrere del tempo e fa venir voglia di conoscere questa natura da cui molti bambini sono così lontani. La natura descritta dalla Burnet sprizza vitalità benefica, nel suo mondo non vi sono le ombre che solo un adulto disincantato potrebbe scorgere. Storie di cani, di lupi, di uomini John Griffith London (1876-1916) nacque a San Francisco, ma presto si trasferì, con la madre Flora Wellman e il patrigno, un veterano della guerra civile, a Oakland, dove fece gli studi primari per poi intraprendere vari mestieri, contrabbandiere di ostriche nella baia di San Francisco, lavoratore stagionale in vari stati dell’Unione, marinaio e cacciatore di foche, guarda-costa. A diciannove anni riprese gli studi e terminò la scuola secondaria. Nel 1897 il fallimento dei primi tentativi letterari lo portò a cercar fortuna nel Klondike, nel Canada Nord Orientale, alla ricerca dell’oro, dove rimase un solo anno, per far ritorno in California colpito dallo scorbuto; questa esperienza farà da sfondo a tutta una serie di racconti pubblicata inizialmente in riviste e poi raccolta nel libro Il figlio del lupo (1900); proprio in quelle terre selvagge saranno ambientate anche le sue opere più riuscite, come Il richiamo della foresta (1903) e Zanna Bianca (1906). La fama letteraria non calmò la sua natura inquieta; per sfuggire ad un matrimonio ormai in crisi, da cui aveva avuto due figlie, lo scrittore partì per Londra, dove frequentò le zone più degradate della città, raccogliendo materiale per il resoconto giornalistico Il popolo dell’abisso (1903). Ne seguì un periodo di intensa produzione letteraria, tanto che in soli 16 anni scrisse ben 50 libri, fra romanzi e saggi. Fra essi merita citare Prima di Adamo (1907), una storia sulla vita selvaggia dei primi uomini, Il tallone di ferro, un romanzo di fantapolitica in cui l’America, piegata da un capitalismo rapace, se ne libera raggiungendo il socialismo, Martin Eden (1909), il cui protagonista sale la scala sociale ed intellettuale, conquistando fama e prestigio in un mondo borghese che inizialmente lo aveva respinto, ma, disilluso, si toglie la vita. Si tratta di un’autobiografia romanzata della vita del suo autore che si mostrò profetica; London stesso, sette anni dopo la sua pubblicazione, minato dall’alcol, si toglierà la vita. Il pensiero di London, lettore vorace, anche se poco sistematico, fu profondamente influenzato da David Starr Jordan (1851 - 1931), Herbert Spencer, Thomas Huxley, Charles Darwin, Karl Marx, Ernst Haeckel, Friedrich Nietzsche. Proprio il darwinismo sociale di Spencer, Heackel e Jordan e il pensiero di Nietzsche contribuirono alla formazione della sua ideologia, basata sulla fiducia nelle capacità di miglioramento del singolo, in grado di emergere rispetto ad una massa informe. Agli inizi del secolo il dibattito sull’evoluzione era particolarmente vivace; molti sollevavano dubbi sulla incondizionata fiducia in un illimitato progresso dell’umanità e ad essa contrapponevano una progressiva degenerazione, un ritorno inesorabile al bruto o ad una stolida infanzia, come quella prefigurata da Wells nella Macchina del tempo (1895). Il riemergere all’interno della specie di caratteristiche rimaste sepolte per molte generazioni (reversione o atavismo) rappresentava un problema, il cui significato sarebbe stato pienamente compreso solo con lo sviluppo della genetica, ma su cui molti scrittori, come Zola (si pensi alla Bestia umana) e lo stesso London basarono molte loro opere. 164 L’americano, convinto che l’evoluzionismo fosse diretto da una lotta per la vita interpretata nella sua forma più elementare di “legge del bastone e della zanna” (3), nutrì un amore incondizionato per le terre selvagge, in cui la lotta per la sopravvivenza raggiunge gradi estremi di ferocia e in cui gli istinti primordiali potevano manifestarsi in tutta la loro forza. Fu particolarmente interessato al magico rapporto che è possibile stabilire fra l’uomo e il cane, o la sua forma selvaggia, il lupo, e probabilmente considerava gli altri mammiferi non umani molto più “umani” degli indigeni; del resto, anche Darwin nutriva dubbi sul livello di umanità degli Indiani d’America (4). Lo scrittore, nel saggio, dal significativo titolo Gli altri animali (1908), a quanti lo attaccavano di umanizzare gli animali, rispondeva: “...i cani che ho scelto come protagonisti non erano guidati da ragionamenti astratti, ma dall’istinto, dalla sensazione, dall’emozione e da ragionamenti semplici... ho cercato di far combaciare le mie storie con i fatti dell’evoluzione...” I movimenti animalisti nati a partire dalla seconda metà del Novecento e lo sviluppo degli studi etologici, d’altra parte, ci hanno resi convinti che la barriera che ci separa dai nostri fratelli minori è labile e pertanto si può benissimo perdonare a London antropizzazioni che a volte possono sembrare eccessive e dalle quali lo stesso Darwin non era immune. A difesa di London, accusato da più parti di razzismo, c’è da dire che nell’ambito del colonialismo di fine Ottocento il razzismo fu un atteggiamento assai diffuso sia in Europa, dove rappresentava una giustificazione all’espansione degli Stati-nazione, sia in America, le cui terre erano state recentemente sottratte ai loro antichi abitanti e gli scienziati amati da London, come Thomas Huxely, Davis Starr Jordan e Ernst Haeckel, non solo non ne erano immuni, ma lo teorizzavano, preparando il terreno a quel darwinismo sociale che in molti Paesi farà approvare leggi sull’eugenetica. I due racconti, Il richiamo della foresta (1903) e Zanna Bianca (1906) (5) sono fra loro complementari; nel primo Buck, un incrocio fra un san bernardo e un pastore scozzese, viene sottratto ad una vita sonnolenta ed agiata all’interno della grande tenuta californiana del suo padrone e venduto da un servitore infedele come cane da slitta, merce rara e preziosa nei tempi della caccia all’oro. Catapultato in Alaska, in un mondo “primordiale” dove l’unica legge è quella del più forte, dopo un iniziale periodo in cui a Buck sembra di vivere in un incubo, l’aggressività, sopita ma non spenta, durante la sua vita in California, coniugata ad un orgoglio ritrovato per le sue capacità di sopravvivere, lottare e lavorare, prendono il sopravvento; lo spirito dei suoi avi riemerge con tutta la sua forza e fa di lui un capo branco, “una creatura selvaggia, che avanzava furtiva a passi felpati, un’ombra fuggevole che appariva e scompariva fra le ombre” (da Il richiamo della foresta). Zanna Bianca percorre il cammino opposto: è un lupo, anche se con un nonno cane, è nato allo stato selvaggio, dove ha imparato a sopravvivere lottando, viene catturato dagli “dei” umani, di fronte ai quali rimane “impietrito” da un incantesimo ereditario, che consisteva nel timore e nel rispetto scaturito da secoli di lotte e dalle esperienze di generazioni e generazioni” (da Zanna Bianca) e incontra padroni indifferenti o folli, come Beauty Smith, che lo costringe a lottare con altri animali in un giro di scommesse 165 clandestine. È proprio in quest’ambiente, in cui Zanna Bianca ha raggiunto il massimo della ferocia e delle capacità di lottare per sopravvivere, che incontra un nuovo padrone che “sa amare”, da cui si farà lentamente sottomettere e al quale si abbandonerà incondizionatamente, rinunciando per sempre ad una vita selvaggia. Sia Buck che Zanna Bianca sono due personaggi indimenticabili, ma ai fini del nostro discorso sono preziosi per affrontare e discutere il tema della lotta per l’esistenza in London, per il quale, come già accennato, si risolve quasi esclusivamente nella legge del bastone e della zanna, e nella sua moderna accezione (che era poi quella di Darwin), in cui il termine si risolve in una metafora dal potente valore esplicativo. I personaggi di London, siano essi animali o uomini, si comportano, come Beauty Smith, secondo l’“argilla” di cui sono fatti e in base alle esperienze loro riservate dalla vita; Buck e Zanna Bianca sono plasmati da “buona argilla” e pertanto le vicissitudini della loro vita non riescono a piegarli, sono cani in grado di emergere dalla massa, prendere il comando del branco, eroi nietzschani. I due racconti, a parte il loro intrinseco valore, sono interessanti anche in quanto permettono di prendere in considerazione le omologie di comportamento di tutti gli animali (ivi compreso l’uomo) -già abbondantemente individuati di Darwin in L’espressione delle emozioni, che sul comportamento del cane e dei suoi antenati ha scritto pagine molto moderne- e di appassionarsi all’etologia, scienza comprensibile solo alla luce dell’evoluzionismo. London si rivela, infatti, un ottimo osservatore, non soltanto per le sue descrizioni delle terre selvagge, del loro immacolato biancore, dei loro suoni, mutevoli al variare delle stagioni e dell’ora del giorno, ma soprattutto quando narra le esperienze del cane o del lupo. Si tratta di pagine piene di poesia ma anche di grande sensibilità e intelligenza; la descrizione del lupacchiotto che si apre alla vita e alla conoscenza è insuperabile. Si tratta di temi che potrebbero benissimo introdurre argomenti legati ai meccanismi biologici che consentono l’apprendimento. A volte, però, London si lascia prendere la mano dal suo mondo in cui la lotta per la vita si tinge sempre e comunque di sangue, come nella descrizione del combattimento per la conquista della femmina, in cui Senz’occhio, il futuro padre di Zanna Bianca, ”...si abbassò di scatto e chiuse le zampe sulla gola del compagno: un morso profondo e nello stesso tempo lungo e lacerante... il giovane capo... pieno di sangue e ormai colpito a morte, si scagliò contro l’anziano rivale e combatté mentre già la vita lo abbandonava... e per tutto quel tempo la lupa rimase seduta, sorridendo...” (p. 65, op. cit) Da tempo sappiamo che negli animali le lotte intraspecifiche per la conquista del territorio che preludono all’accoppiamento sono altamente ritualizzate e regolate da coordinazioni motorie ereditarie che bloccano l’aggressività, quando questa potrebbe essere pericolosa per la sopravvivenza del conspecifico; è questo un ulteriore esempio a conferma dei meccanismi evolutivi che salvaguardano la sopravvivenza delle popolazioni; proprio a proposito dei lupi, Lorenz ha scritto in L’anello di re Salomone pagine scientificamente corrette che rivaleggiano quanto a poesia con quelle di London. 166 I due racconti insegnano l’amore e il rispetto per la natura e fanno anche comprendere che non esistono cani o lupi “cattivi”, sono gli uomini che questi incontrano che contribuiscono in modo decisivo a renderli amici per la vita o spietate macchine di morte. Ci sono state diverse trasposizioni cinematografiche sia di Zanna Bianca che di Il richiamo della foresta, ma si tratta, per quanto mi risulta, di operazioni commerciali, senza alcun valore artistico, in cui i due racconti vengono generalmente mescolati e falsati. Nowhere, anywhere L’inglese Samuel Butler (1835-1902), figlio e nipote di ecclesiastici della chiesa anglicana, destinato lui stesso a rivestire l’abito talare, studiò alla Shrewsbury School e frequentò il St John’s College di Cambridge. Negli anni 1858-59, per prepararsi al sacerdozio, visse in una povera parrocchia di Londra e in questo ambiente maturarono i primi dubbi sull’azione salvifica della religione: i fanciulli, sia che fossero o meno allevati nella fede religiosa, tenevano lo stesso comportamento; ingenuamente, ne scrisse al padre, sperando in una risposta che fugasse le sue perplessità, ma questi si mostrò estremamente contrariato, non potendo ammettere che il figlio potesse cambiare idea poco prima di prendere i voti. La reazione del padre confermò i dubbi di Samuel, che senza indugio nel 1859 decise di imbarcarsi in cerca di fortuna per la Nuova Zelanda . Qui fece con discreto successo l’allevatore di pecore ed ebbe anche il tempo di leggere molto; fu in questo periodo, fra l’altro, che si accostò al pensiero di Darwin, rimanendone entusiasta, tanto da scrivere allo scienziato una lettera di plauso a proposito dell’opera pubblicata nel 1859, L’origine della specie. Tornato in Inghilterra nel 1864, si stabilì a Londra a Clifford’s Inn, dove visse sino alla morte, scrivendo, dipingendo e dedicandosi alla traduzione dal greco dell’Iliade e dell’Odissea. Nell’ambiente londinese, il dibattito suscitato dall’Origine ferveva vivace e Butler pensò di poter dare il proprio contributo. Inizialmente appoggiò lo scienziato inglese, ma prontamente sottolineò che le modifiche apportate dall’ambiente erano fondamentali per la trasformazione della specie, concetto peraltro già presente nel pensiero di Darwin. Successivamente, dopo la lettura della Filosofia zoologica di Lamarck e del libro di Jackson Mivart, Genesi della Specie, in cui era attaccata l’ipotesi della selezione, Butler si convinse che in realtà Darwin non aveva detto niente di importante, niente per lo meno che non avesse già affermato, cinquanta anni prima, Lamarck, ed espresse questa convinzione in numerosi articoli e in due saggi, Life and habit (1878) e Evolution, Old and New (1879). In quest’ultima opera erano ulteriormente ribadite le critiche che egli muoveva alla teoria darwiniana, accusata di non lasciare margini di libertà all’individuo e di non consentire il controllo di una Mente creativa sul processo evolutivo, a differenza di quanto avevano sostenuto Lamarck ed Erasmo Darwin. L’ultimo suo approdo filosofico si espresse in un netto rifiuto del meccanicismo e si precisò in direzione del pragmatismo e del vitalismo di impronta bergsoniana. Erewhon (rovesciamento di no where, in nessun posto) è il romanzo più importante di Butler, originato da una serie di articoli che egli scrisse per il giornale neozelandese, The Press, tra il 1860 e il 1864: precisamente, Darwin among the machines, The mechanical Creation, 167 Lucubratio Ebria. La forma narrativa ripropone il tema del viaggio in un paese immaginario, inaugurato nella tradizione inglese da Daniel Defoe e Jonathan Swift. In realtà, il paese immaginario è l’Inghilterra del periodo vittoriano, la cui società, moralista e vacua, salutista e culturalmente povera, benestante e meschina, è rivisitata da Butler con sarcasmo e ironia. La trama ha come protagonista il biondo e ambizioso Higgs, che arriva in una colonia britannica di nuovo insediamento (la Nuova Zelanda) col dichiarato scopo di “potersi arricchire più rapidamente che in Inghilterra”. Le terre migliori sono però già occupate, cosicché egli pensa di recarsi al di là di impervie e invalicate montagne, che sembra nascondano terribili segreti, ma in cui probabilmente potrebbero esserci buone terre da pascolo non ancora sfruttate e forse qualche filone aurifero. Dopo un drammatico viaggio si ritrova, appunto, in Erewhon. Nel paese, retto istituzionalmente da una monarchia, gli uomini sono sani e forti e le donne gentili e belle; accoglienti gli alberghi, buono il cibo. La vita scorre senza scontri dovuti ad ambizione o a competizione e con la piena accettazione di alcune apparenti stranezze: i delinquenti sono sottoposti a visite mediche e curati, mentre i malati sono condannati ad ammende o alla prigione; i ladri sono valutati in base alla destrezza con cui hanno compiuto i furti, mentre gli ingenui sono severamente perseguiti; i luoghi di culto sono diventati Banche musicali dove si specula sulle ricompense eterne attraverso una contabilità particolare, fatta di versamenti dietro cambiali; le scuole insegnano agli alunni ragionamenti di ipotetica, la cultura impone la tirannia della maggioranza contro la genialità e una nuova divinità, Ydgrun (la vittoriana Mistress Grundy) (6) stabilisce le regole del bon ton; inoltre dalla realtà quotidiana sono state cancellate le macchine, i cui esemplari -dagli orologi alle locomotive- sono esposti nei musei, come cimeli di orrori che, se non estirpati in tempo, avrebbero ridotto gli uomini in servitù. Il giovane Higgs scoprirà a sue spese quanto conti in Erewhon un bell’aspetto -gli abitanti e in particolare i sovrani apprezzano molti i biondi-; è infatti grazie a questa qualità del tutto esteriore che sarà liberato dal carcere dove era finito per una colpa considerata dal tribunale molto grave, cioè il possesso di un orologio. Invitato a pranzo dal ricco Nosibor (è evidente il riferimento a Robinson, l’eroe di Defoe), un funzionario disonesto controllato da un “raddrizzatore” per essere curato, il nostro eroe si innamora di sua figlia Arowhena, la secondogenita, ma la sua richiesta si infrange contro le regole familiari che gli imporrebbero come consorte la primogenita. Higgs e Arowhena, però, riescono a fuggire su un pallone aerostatico; giunti in Inghilterra, sognano di tornare nel paese per convertirne gli abitanti. Questa, in sintesi, la trama. Qual è il significato dell’Erewhon di Butler? E perché proporne la lettura nell’ambito della disciplina di Scienze naturali? Erewhon è, in generale, una satira dell’Inghilterra vittoriana, impregnata di moralismo e di “materialismo onesto”, un paese i cui abitanti esibiscono con orgoglio e supponenza il proprio standard di vita e il proprio modello di civiltà e, nello specifico, rappresenta una critica impietosa e una protesta contro le istituzioni religiose, scolastiche, culturali proprie della società inglese a lui contemporanea, contro l’ipocrito perbenismo nei comportamenti e il vuoto appagamento delle persone nel benessere 168 materiale. Non si dimentichi che in Erewhon il conformismo è la regola e il genio è guardato con riprovazione; inoltre, la società è organizzata in modo da operare una sorta di selezione razionale e programmata: le persone sole e senza appoggio, i malati, i derubati vengono trattati da delinquenti e come tali puniti, selezionati negativamente, mentre i ladri, gli omicidi, gli amministratori disonesti sono considerati malati, curati amorevolmente e rieducati. Come si può notare, il registro stilistico è, sotto questo profilo, lo stesso dei dipinti di William Hogarth (1697-1764). Eppure, l’Erewhon di Butler non è solo questo, perché nei tre capitoli intitolati Il libro delle macchine l’incalzante ironia dell’autore contro la selezione darwiniana e la sua capacità di delineare come nuovo scenario della lotta per la sopravvivenza quello connesso all’antagonismo tra le macchine e l’uomo, per un verso conferiscono a molte di queste pagine quasi un tocco di divinazione sul futuro cibernetico che attendeva l’umanità, per l’altro attribuiscono a una prosa intensa e concitata i connotati di un manifesto postmoderno che enunci i rischi cui l’umanità è esposta per l’inarrestabile ascesa delle macchine e il conseguente dominio che esse riusciranno ad imporre sull’uomo. Questa parte del romanzo consente numerosi spunti di riflessione: LOTTA PER L’ESISTENZA Nel monologo della patata, si legge: “Metterò un tubero in questo punto e un altro un poco più in là, in modo da assorbire ciò che mi serve fra quanto mi circonda. Questa pianta vicina la soffocherò con la mia ombra, e quest’altra la scalzerò alle radici; e ciò che potrò fare sarà il limite di ciò che farò. Chi è più forte di me ed è meglio situato mi vincerà, mentre chi è più debole io lo vincerò” In questo brano, il riferimento alla lotta per l’esistenza di Darwin è quasi letterale. SVILUPPO DELLE FACOLTÀ MENTALI Mentre Darwin, nell’Origine dell’uomo affermava “..In qual modo si siano sviluppate dapprima le facoltà mentali negli organismi inferiori, è una ricerca senza speranza, come quella intorno al modo in cui si è sviluppata la vita....”, gli abitanti di Erewhon non hanno dubbi sul fatto che anche nelle macchine si formerà prima o poi una coscienza: “... Il fatto che attualmente le macchine posseggano ben poca coscienza, non ci autorizza affatto..a ritenere che la coscienza meccanica non raggiungerà col tempo il massimo sviluppo.Un mollusco non possiede gran che di coscienza.Pensate alla straordinaria evoluzione delle macchine in questi ultimi secoli e osservate con quale lentezza progrediscono il regno animale e vegetale. Le macchine più altamente organizzate sono creature non di ieri, ma addirittura degli ultimi cinque minuti, oserei dire, di fronte alla storia dell’universo”. QUESTIONI LEGATE AL GENOMA “...Chi può dire che la macchina a vapore non possieda una qualche sorta di coscienza? Dove comincia e dove finisce la coscienza? Chi può fissare il limite?” Quindi, perché non prendano il sopravvento, gli abitanti di Erewhon ritengono che è meglio abolirle completamente, altrimenti “... verrà un tempo in cui esaminando con un potente microscopio anche un solo capello, sarà possibile accertarsi se colui a cui quel capello apparteneva può venire insultato impunemente...” 169 Questa affermazione può anche essere letta come una sorta di profezia: non ci sono alcuni che sono completamente contrari al genoma perché in esso vedono proprio questo rischio? Nella valutazione complessiva del romanzo e nel giudizio del suo autore non possono peraltro essere trascurate due considerazioni. La prima è collegata alla constatazione che un mondo, come quello di Erewhon, in cui ha vinto il partito contrario all’esistenza delle macchine, non è però più libero e felice: attraverso una “selezione artificiale”, attuata in base alle leggi ipotizzate da Lamarck (adattamento all’ambiente) e Darwin (selezione differenziale), è stato possibile eliminare i malati, i poveri, le persone sole e tristi; le persone ottuse e conformiste vengono accolte con il massimo di benevolenza e premiate; in questa terra felice la società “ben pensante”, seria e ricca, non viene disturbata da visioni sgradevoli o da idee troppo intelligenti. La seconda riguarda la fuga, giacché di questo poi si tratta: una fuga resa possibile dal pallone aerostatico, in qualche modo connesso al mondo delle macchine. Il ritorno da Erewhon, effettuato da Higgs e Arowena , è dunque una sorta di ritorno dal futuro? E Butler, questo autore sarcastico e ironico, è davvero un rivoluzionario post-moderno? Per la verità, al termine della lettura si è orientati a rispondere negativamente ad entrambi i quesiti. Infatti, nel suo vero significato -soltanto in apparenza rovesciato- quel ritorno non è dal futuro al presente, bensì dal presente industrializzato a un presente industrializzato “corretto” e “controllato”, che poi ad un’analisi razionale risulta essere assai prossimo al passato pre-industriale (pallone aerostatico). E il nostro Butler? Fustigatore di costumi e anticonformista quanto si vuole, non riesce ad impedire che lo salutiamo lasciandolo in compagnia di William Morris (7) e George Bernard Shaw, e che prendiamo commiato da lui come da un conservatore illuminato. Joseph Conrad Teodor Josef Konrad Nalecz Korzeniowski, noto col nome di Joseph Conrad (18571924) è considerato uno dei maggiori esponenti della letteratura di lingua inglese della fine del Diciannovesimo secolo. Il padre, appartenente alla piccola aristocrazia polacca, era impegnato nella lotta di liberazione della sua terra dalla sudditanza zarista e fu presto condannato all’esilio, per cui con la famiglia condusse una vita errabonda; il giovane Joseph perse presto entrambi i genitori, ma durante la fanciullezza ebbe modo di apprendere il francese, l’inglese e, naturalmente, il polacco; fu un lettore onnivoro, con una profonda predilezione per i libri di avventure sul mare, probabilmente era stato “imprintato” da I lavoratori del mare di Hugo tradotto dal padre in polacco. Fra le sue prime letture vi fu anche l’opera di Alfred Wallace L’arcipelago malese (1869) e Il viaggio di Darwin. A soli diciassette anni si arruolò nella marina mercantile francese e nel 1878 ottenne l’imbarco in battelli inglesi, con cui percorse le acque comprese nel sud est asiatico fra Singapore e il Borneo; nel 1890 risalì le acque del fiume Congo, esperienza che sarà fonte di ispirazione per il suo capolavoro, Cuore di Tenebra; nel 1896 prese congedo dalla Marina, ritirandosi ad Ashford nel Kent. 170 Considerato inizialmente da molti suoi contemporanei come uno scrittore per ragazzi di avventure nei mari, presto ne è stata riconosciuta tutta la potenza espressiva e attualmente viene considerato uno scrittore in grado di indagare magistralmente il profondo della coscienza umana. Per comprendere appieno il suo pensiero è forse opportuno fissare qualche data, legata a libri che molto probabilmente l’autore lesse da cui fu influenzato: - Herbert Spencer (1820-1903) Developmental Hypothesis del 1852 - 1857 Herbert Spencer: Progess: Its Law and Causes, THE WESTMINSTER REVIEW, Vol 67 - 1859 Charles Darwin L’origine delle Specie - 1871 Charles Darwin L’origine dell’uomo - 1871 Edward Burnett Tylor (1832-1917) La cultura dei primitivi. L’autore, uno dei padri dell’antropologia propose un’ipotesi sullo sviluppo delle religioni: l’animismo si trasforma in magia che origina il politeismo che si evolve in monoteismo; nel saggio, come in altri suoi scritti, Tylor sostenne che gli uomini hanno tutti identiche capacità mentali, tesi estremamente rivoluzionaria per quegli anni; - 1872 Charles Darwin, L’espressione delle emozioni nell’uomo e negli altri animali - 1878 Sir Henry Morton Stanley (1841-1904) Attraverso il continente nero; il grande esploratore inglese, che aveva viaggiato a lungo nel continente asiatico, si fece affidare l’incarico di rintracciare Livingston, disperso in Africa e lo trovò, moribondo, a Zanzibar. Il lungo viaggio lo aveva portato a conoscere e descrivere ampie zone del territorio africano, esperienze riportate nel libro succitato, in cui è anche presente una forte denuncia del colonialismo belga. Per una curiosa coincidenza Cuore di tenebra venne pubblicato nel 1898, stesso anno della pubblicazione dell’Interpretazione dei sogni di Sigmond Freud. CUORE DI TENEBRA Su una iolla da crociera, nel sicuro porto di Londra, Marlow, uomo di mare ma soprattutto vagabondo, sotto un cielo immacolato, benigna immensità di luce pura, che però anch’esso, a suo tempo è stato un angolo tenebroso della terra, racconta a tre amici una delle sue esperienze inconcludenti, avvenuta quando decise di raggiungere un luogo che, anche se aveva cessato di essere uno spazio vuoto incantevole e misterioso -una macchia bianca che un bambino può riempire di sogni di gloria-, continuava ad affascinarlo perché conteneva un fiume, soprattutto, un fiume grandissimo che appariva sulla carta come un immenso serpente con la testa nel mare, mentre il corpo in riposo formava un’ampia curva su una vasta regione e la coda si perdeva nella profondità della terra. Grazie all’interessamento di una zia, riesce ad ottenere un ingaggio e giunge alla città (Bruxelles?), sede della Compagnia, dove viene accolto da “... Due donne, una grassa e l’altra magra, che sedevano su due sedie impagliate sferruzzando della lana nera...” (due parche?); il medico chiede il permesso di misurargli il cranio perché desidererebbe capire cosa cambia nella mente degli uomini che vanno a lavorare laggiù, anche se aggiunge: i cambiamenti avvengono dentro, sa. Il viaggio già nelle fasi iniziali si presenta angosciante e Marlow ha sempre più la sensazione di non appartenere più al mondo di fatti schietti; si imbatte in una nave da 171 guerra che assurdamente fa fuoco alla cieca contro il continente, dove sono annidati ipotetici nemici. Giunto alla stazione della Compagnia, incontra un gruppo di schiavi ”... che camminavano lenti col busto eretto, bilanciando sulla testa dei cestelli pieni di terra e il tintinnio seguiva il ritmo dei loro passi. Intorno ai lombi portavano degli stracci neri, le cui corte estremità si agitavano dietro come code. Potevo contar loro le costole, e le giunture delle membra parevano nodi su di una corda; intorno al collo avevano tutti un anello di ferro, i collari erano uniti l’uno all’altro da una catena che oscillava in mezzo a loro tintinnando ritmicamente...” e conosce un incredibile ragioniere, che sembrava indubbiamente il manichino di un parrucchiere, ma nella demoralizzazione generale di quella terra, continuava a curare il proprio aspetto. Da costui ha per la prima volta notizia dell’altro protagonista del racconto, Kurtz, agente di prima classe... una persona davvero notevole, in grado di mandare tanto avorio quanto tutti gli altri messi insieme. Partito verso l’interno, giunge finalmente alla stazione centrale, dove fa la conoscenza con il direttore, un fabbricante di mattoni che non possiede la materia prima per produrli, una serie di bianchi che vanno in giro con lunghi bastoni, tutte persone occupate in squallidi intrighi e preoccupate del potere acquistato da Kurtz; il battello che dovrebbe condurlo verso l’interno è danneggiato, per cui il viaggio di Marlow subisce ulteriori ritardi: i chiodi necessari per la riparazione non arrivano, arrivano solo frotte di bianchi, attirati da una terra che promette arricchimenti rapidi. Finalmente Marlow intraprende il viaggio verso la stazione interna, alla ricerca di Kurtz. Risalire quel fiume era come viaggiare a ritroso verso i più remoti primordi del mondo, quando la vegetazione invadeva la terra e i grandi alberi ne erano sovrani. E’ un viaggio verso il cuore delle tenebre, durante il quale Marlow prende sempre più coscienza di un’umanità altra, costituita dagli uomini sulle rive, che, malgrado le differenze, somigliano all’uomo occidentale. A poca distanza dalla stazione interna, in una capanna, Marlow trova un messaggio sibillino: “Affrettatevi. Avvicinatevi con cautela e un libro di questioni di tecnica di navigazione”. Il viaggio prosegue in un’atmosfera sempre più carica di presagi angoscianti, la nebbia, urla di dolore che risuonano dalle rive, tronchi affioranti che minacciano l’imbarcazione; improvvisamente figure umane si stagliano fra le fronde e nugoli di frecce piovono sull’imbarcazione. Finalmente giungono in vista della stazione interna dove li riceve una sorta di arlecchino, con gli abiti coperti dovunque di pezze multicolore che parla di Kurtz come di un eroe, che gli ha allargato la mente e a cui si sente devoto. Kurtz, gravemente malato, giace in una capanna, circondata da pali sulle cui cime sono ancorati dei teschi umani. Marlow viene a sapere che è stato Kurtz ad inviare i selvaggi nel tentativo di fermare il cammino del battello, Kurtz che non vuole allontanarsi dal regno che si è costruito e a cui si sente ormai indissolubilmente legato. Portato sull’imbarcazione, fugge per ritornare a quella che ormai è divenuta la sua terra, ma viene riportato a bordo. Mentre la nave si allontana, una donna selvaggia e superba, magnifica, con lo sguardo allucinato si protende dalle rive, osservata con desiderio disperato da Kurtz, che muore poco dopo mormorando orrore, orrore. Marlow, tornato in patria, sente il desiderio di conoscere la promessa 172 sposa di Kurtz e la va a trovare nella sua casa; la donna è bella e delicata, è il tipico archetipo della virtù vittoriana e parla del nobile Kurtz che ... aveva il dono dei grandi... Attirava gli uomini per quello che di meglio avevano in loro. Marlow, commosso, le mente, dicendo che Kurtz è morto con il suo nome sulle labbra. Cuore di tenebra è un capolavoro e sulla sua interpretazione sono stati scritti numerosi saggi, in cui sono stati esaminati gli intrecci fra l’autore e il colonialismo di fine secolo, il difficile rapporto di Conrad con le figure femminili (la zia, la nera, selvaggia e superba, la promessa sposa dai capelli chiari, il volto pallido, la fronte pura...) e vi si possono anche rintracciare suggestioni ecologiste; come non pensare, infatti, agli elefanti, oggi specie a rischio di estinzione, leggendo: “...Nell’aria risuonava la parola ‘avorio’, la si sentiva sussurrare, sospirare. Sembrava che le innalzassero preghiere. Da tutto ciò spirava un lezzo di rapacità imbecille, come una zaffata da qualche cadavere...”? In questo contesto, tuttavia, verranno esaminate soltanto le suggestioni che il nuovo pensiero evoluzionista determinò sul suo autore e che emergono dal racconto. Lo scrittore polacco aveva ben compreso che il processo evolutivo non consiste in uno sviluppo lineare e prevedibile, simile a quello prefigurato da Spencer, che paragona l’evolversi di una società a ciò che porta dal seme all’albero o dall’uovo all’animale, dall’uniforme al differenziato, attraverso un continuo progresso; gli era ben chiaro quanto fosse falsa questa visione, che ancora oggi in molti ambienti gode di ottima salute e che alla fine del Diciannovesimo secolo si incarnò nel darwinismo sociale giustificando, in nome del progresso, la conquista di territori appartenenti a popolazioni diverse da quella europea. L’albero, non la scala, rappresentano la corretta metafora dell’evoluzione, come aveva messo in evidenza Darwin e come successivamente ha esplicitato Gould nel saggio La vita meravigliosa. Anche la scelta della forma narrativa, non lineare e con più voci narranti, sembra voler sottolineare un’evoluzione (del racconto in questo caso) che procede attraverso soste, ritorni, percorsi secondari, involontaria metafora del processo evolutivo. L’evoluzione dell’uomo non è un dispiegarsi lento e solenne, dagli uomini bruti, immersi nelle tenebre, al civile uomo occidentale, portatore di luce; i comportamenti istintivi propri della bestia permangono in tutti gli uomini, sono segni anche questi della nostra comune origine, come Darwin aveva messo in luce nell’Origine e nell’Espressione (1872), ma Conrad va molto al di là dello stesso Darwin, le sue intuizioni si liberano dai preconcetti propri dell’epoca vittoriana; l’accorto, prudente scienziato aveva infatti affermato: “...Con i mezzi ora specificati e con l’aiuto forse di altri non ancora scoperti, l’uomo si è elevato al suo stato presente. Ma da quando ha raggiunto la sua posizione, si è diviso in razze distinte, che molto più propriamente si potrebbero chiamare sotto-specie. Alcune di queste, per esempio il nero e l’europeo, sono tanto distinte che, se ad un naturalista fossero stati presentati alcuni esemplari senza nessuna informazione precedente, egli le avrebbe senza dubbio considerate come vere e proprie specie. Con tutto ciò, tutte le razze concordano in tanti particolari poco importanti di struttura ed in tante facoltà mentali, che queste possono venire attribuite soltanto all’eredità da un progenitore comune; ed un progenitore così caratterizzato avrà molto probabilmente meritato il posto di uomo....” 173 Conrad supera il suo mentore, facendo dire a Marlow: “... No, non erano disumani. E, sapete, proprio questo era il peggio -il sospetto che non fossero disumani. Era qualcosa che saliva dentro lentamente. Quelli urlavano e saltavano, e giravano, e facevano smorfie orrende; ma quel che dava i brividi era il pensiero della loro umanità -pari alla nostra- il pensiero di una remota parentela con quel grido selvaggio e sfrenato. Brutt’affare. Brutt’affare davvero; eppure se eravate abbastanza uomini avreste dovuto confessare a voi stessi l’esistenza di un’eco, magari debolissima, alla tremenda franchezza di quel chiasso, un vago sospetto che contenesse un significato che noi -pur così lontani dalla notte dei primordi- potevamo comprendere...” In un periodo in cui la schiavitù veniva (e verrà ancora per lungo tempo) giustificata in nome della presunta non umanità dei neri, che notoriamente non possedevano un’anima, Conrad ci appare di una lucidità esemplare. La stretta parentela fra i bianchi e i neri si fa più pressante, grazie alla scoperta dell’esistenza di demoni, alcuni piccoli, incarnati nella menzogna, l’imbroglio, i piccoli maneggi, l’avidità, l’invidia, e annidati in uomini squallidi e con essi più o meno pacificamente conviventi; altri demoni sono invece titanici e restano per lo più nascosti in anime nobili, ma sono pronti, in condizioni opportune, a liberarsi dal controllo e portare alla pazzia. Kurtz, nella relazione da inviare ai suoi datori di lavoro, la società con sede nella città simile ad un sepolcro imbiancato, aveva scritto: ...noi bianchi, dato il livello di sviluppo raggiunto, “dobbiamo necessariamente apparire loro [ai selvaggi] con la natura di esseri soprannaturali -li avviciniamo con la potenza di una divinità”. “Attraverso il semplice esercizio della nostra volontà possiamo esercitare un potere benefico in pratica illimitato. Il nobile amministratore, partito dalla Inghilterra con la mente piena di grandi ideali, ha creduto alle menzogne della Compagnia sulla funzione salvifica dell’imperialismo nei confronti del Libero Stato del Congo (mai nome è suonato più beffardo), ma soccombe al fascino dei richiami istintuali provenienti dall’ immenso serpente e dalle sue rive. La cultura aveva imbrigliato le tendenze aggressive, distruttive ed autodistruttive, presenti in lui come in ogni uomo o animale, retaggio di lontane origini ancestrali in cui la lotta per la vita si manifestava in tutta la sua brutalità, ma l’istinto può riemergere in ogni momento e il passo che divide l’uomo civilizzato dai così detti primitivi è molto breve e può essere superato con estrema facilità; Kurtz, poeta e musicista nella sua patria, alla Stazione Interna si abbandona a riti orgiastici, uccide, depreda, ama una nera selvaggia e superba, magnifica, con lo sguardo allucinato e la guarda come se stesse osservando l’immagine della propria anima tenebrosa e appassionata... Arrivato convinto di avere una missione civilizzatrice, si lascia affascinare da questo mondo selvaggio ed oscuro che ...come il serpente ammalia l’uccello - un uccellino sciocco ..., libero dai condizionamenti che la società impone, si abbandona agli istinti, si fa re con la complicità dei neri che lo considerano un dio e per lui (e con lui) uccidono e depredano; solo al termine del suo viaggio senza ritorno, quando forse ripercorre tutta la sua vita, come trapela dal suo volto d’avorio in cui si manifesta l’espressione dell’orgoglio cupo, del potere spietato, del terrore vile -di una disperazione intensa e 174 irreparabile... riacquista la perduta razionalità e con le parole: “Che orrore, che orrore” misura il baratro in cui gli istinti lo hanno trascinato. Se, alla fine del racconto, proviamo a riproporre il quesito che accompagnò il darwinismo ottocentesco: “Sopravvive il più adatto o è il più adatto colui che sopravvive?”, che risposta daremo? Come intendere “il più adatto”? E’ ben vero che Kurz, tra “i più adatti” in Europa, non è “adatto” nella giungla, e infatti muore, mentre i nativi continuano a viverci ( e anche il direttore della stazione), ma come nella giungla non sopravvivono “i migliori”, così neppure in Europa. Kurtz , la cui fittness sembrava ottimale in Europa, non risulta “adatto” nella giungla, dove soccombe. Nel racconto sono anche presenti figure simboliche proprie di quello che Jung chiamerà inconscio collettivo e che Warburg identificherà come invarianti nell’arte figurativa di tutti i tempi: il fiume è un serpente, che terrorizza e nello stesso tempo ammalia; le donne, vestite di nero che lavorano a maglia, sono l’incarnazione di due parche, che detengono (e conoscono) il destino degli uomini che partono pieni di sogni dalla città; il bianco e il nero sono ambigui simboli di purezza e corruzione; la splendida selvaggia è forse la terza Parca, che ha partecipato, decretato e assistito al compiersi del destino di Kurtz. La teoria degli archetipi, formulata inizialmente in ambiente ellenistico, secondo cui questi sono modelli di forme di cui gli oggetti sensibili sono semplici copie, assume diverso significato a partire dal pensiero di Darwin, divenendo simboli di invarianti presenti nel cuore di ogni uomo, tracce indelebili di una comune origine. Nel romanzo c’è anche una forte percezione del tempo: “...Pensavo ai tempi antichi, quando arrivarono qui i Romani, mille e novecento anni fa – l’altro giorno... La luce irradia da questo fiume sin dai tempi dei -i Cavalieri dite? Sì, ma è come un incendio che corre sulla pianura, come un lampo tra le nubi. Noi viviamo nel suo guizzo- speriamo che duri fintanto che la vecchia terra continua a girare! Ma qui ieri c’erano le tenebre...” legata alla consapevolezza che tutte le civiltà sono sede di infinite trasformazioni che non necessariamente portano al migliore dei mondi possibili ma che inevitabilmente sono destinate a soccombere; come tutti i viventi sono incalzate dalla inesorabile falce dell’estinzione. Tenebre e luce, sembra suggerire l’autore, sono relative non solo nel tempo storico, ma anche all’interno del cuore degli uomini, in cui permangono indissolubilmente intrecciate. Del resto, i fatti accaduti in aprile 2003 in Irak, sono un’ulteriore testimonianza di come nel cuore di ogni uomo sia radicato un lato oscuro pronto a rinascere quando determinate condizioni ambientali si fanno propizie: le decapitazioni, gli stupri, la violenza di un uomo sull’altro non sembrano avere connotazione di religione, di nazione o di sesso. L’incontro Il finlandese Björn Kurtén (1924-1999), docente di Paleontologia presso l’università di Helsinki dal 1972 al 1988, è stato, insieme a George G. Simpson, il padre fondatore del movimento scientifico che rintracciò in numerosi dati paleontologici consistenti conferme alla teoria evolutiva di Darwin. Nei suoi studi Kurtén ha sempre mostrato una grande attenzione agli aspetti paleoecologici e questo aspetto della sua ricerca gli ha consentito di ricostruire con grande precisione la flora e la fauna del passato e le loro 175 reciproche interazioni. Le sue opere scientifiche più significative sono: Variazione e dinamica delle popolazioni di mammiferi fossili e recenti (1953), I mammiferi del Pleistocene in Europa (1968) I mammiferi del Pleistocene in Nord America (1980), Evoluzione e fossili di mammiferi (1988). Nel 1988 gli venne attribuito l’Unesco Kalinga Prize, premio conferito agli scienziati che si sono distinti per opere di divulgazione ; in questo campo, la sua produzione è stata numerosa: L’età dei dinosauri (1966), L’età dei Mammiferi (1972), Storia dell’Orso delle caverne (1976), Gli assassini innocenti (1991), I nostri più antichi antenati (1993). Kurtén si è misurato anche con due bei romanzi ambientati nelle terre del Nord di 30000 anni fa, La danza della tigre e Zanna sola (8). TRAMA E COMMENTO I due volumi costituiscono una sorta di saga familiare degna della migliore tradizione nordica; essi narrano la vita quotidiana nella Scandinavia del sud avvolta dai ghiacci, di un clan di Neri, che si autodefiniscono Uomini, i Cro-Magnon, e di un gruppo di bianchi Neanderthaliani. Questi ultimi raccolgono un giovane Nero ferito, Tigre, e lo curano con affetto e dedizione, vedendo in lui e nei suoi compagni personaggi simili a dei, per il loro aspetto elegante, mentre Tigre, a sua volta, lentamente rimane affascinato dalla loro dolcezza, dai modi gentili mascherati da un aspetto in apparenza feroce. Dall’incontro delle due popolazioni nascono i Bruni, intelligenti, agili e forti, ma segnati da un destino infelice; alcuni di loro tenteranno una disperata quanto vana rivolta che porterà solo lutti. I due libri sono innanzi tutto romanzi dalla trama avvincente, ma gran parte del loro fascino è strettamente legato alla capacità dell’autore di descrivere con efficacia un mondo completamente scomparso e nel restituire nuova vita al mammuth, alla tigre dai denti a sciabola, all’alce gigante e a tutti gli innumerevoli abitanti animali e vegetali delle foreste e delle steppe del Paleolitico. I Neri ed i Troll sono dolci o violenti, amanti fedeli o volubili, cercano scorciatoie per la felicità o si piegano al sacrificio per gli altri, hanno cura dei piccoli e dei vecchi o uccidono brutalmente per stupidità o ingordigia, temono gli dei o se ne fanno beffe, cercano il potere o le piccole felicità legate al quotidiano. Quegli uomini, insomma, sebbene molto più dipendenti dagli eventi naturali, siamo noi, nel bene e nel male, i loro bisogni e i loro desideri sono i nostri. Kurtén -e per chi si occupa di Scienze Naturali questa è la parte più interessante dei due libri- utilizza le sue conoscenze per ricreare una storia che, sebbene non avvalorata da evidenze sperimentali, risulta credibile sul piano scientifico. Ai fini di una possibile utilizzazione didattica nei due romanzi sono presenti contenuti e argomenti di indubbio rilievo. E’ avanzata una straordinaria ricostruzione degli uomini del Paleolitico, che può essere utilmente messa a raffronto con saggi di divulgazione scientifica sull’argomento e che può incuriosire il lettore tanto da spingerlo ad approfondire le conoscenze sulle nostre origini. Nei due romanzi i Bianchi neandertaliani sono descritti come ben adattati al clima freddo dei paesi del nord, dato che vivono da lungo tempo in Europa e sono stati soggetti alla selezione naturale che ha premiato gli individui di carnagione chiara , con ossa grosse e ben vascolarizzate; hanno il fisico potente, forti arcate sopraciliari, 176 volto largo, movimenti lenti e misurati; malgrado il loro linguaggio sia sgraziato, a causa della particolare conformazione delle strutture deputate alla fonazione, sono gentili e ospitali; portano nomi di piante -Alloro, Betulla Bianca, Centaurea, Angelicaa indicare il loro modo di mantenersi in contatto con gli spiriti dei vegetali; vivono in piccoli gruppi prevalentemente sedentari e presentano un’organizzazione sociale matriarcale dovuta anche ad un dimorfismo sessuale trascurabile. A loro volta, i CroMagnon, approdati recentemente al Nord, ma provenienti dalle assolate regioni del Sud, sono invece descritti neri, alti, agili, dai tratti del volto aggraziati; “...hanno un linguaggio tanto variato e flessibile quanto il canto degli uccelli”; vivono in piccole associazioni ad organizzazione patriarcale (in loro il dimorfismo sessuale è più marcato); gli uomini procurano la selvaggina, fabbricano strumenti per la caccia e la pesca, commerciano in selci, pellicce ed avorio con i gruppi vicini, con cui si incontrano durante grandi raduni annuali; intagliano le pietre e il legno, producendo oggetti di squisita fattura per scopi rituali o per puro piacere estetico; le loro donne raschiano le pelli, cuciono indumenti, cucinano e conservano gli animali portati all’accampamento; hanno nomi di animali- Tigre, Oriolo, Martora-, cercano di comprendere il volere dei Guardiani attraverso i segni che questi inviano attraverso il vento, la nebbia, il volo degli uccelli; conoscono l’esistenza dei Troll e li temono. - E’ chiarito il significato evolutivo della neotenia ed è sottolineata la sua importanza per l’affermarsi delle cure parentali nei mammiferi e (nel romanzo) per le scelte sessuali operate dai bianchi. - E’ messo in luce il significato genetico di vigore degli ibridi: i Bruni, nati dal matrimonio dei bianchi con i Neri sono forti, agili, intelligenti e sopravvivono alle malattie infantili che decimano gli altri bambini sia della tribù dei Bianchi che di quella dei Neri. - E’ chiarito come il dimorfismo sessuale, spiccato nei Neri, poco marcato nei Bianchi, possa essere uno dei motivi della diversa organizzazione di animali (o uomini) che vivono in società. - E’ utilizzato l’incrocio fra le due popolazioni per parlare della sterilità degli ibridi. In questo contesto è avanzata un’ipotesi intrigante, anche se non suffragata dai fatti, circa l’estinzione dei Neanderthaliani: Negli accampamenti dei Neandertaliani le donne neandertaliane preferiscono concepire figli con i Neri, che risvegliano i loro sentimenti di tenerezza, ma dal matrimonio nascono i Bruni, intelligenti, vigorosi, eppure sterili e quindi “morti viventi”; negli accampamenti dei Neri l’unione fra donne nere e Neandertaliani non è tollerato e comunque le altere Nere non si sentono attratte dai Bianchi. Sono esemplificati moduli comportamentali, presenti in tutti gli animali sociali, atti a rassicurare il con-specifico, da cui possono discendere approfondimenti in etologia: “...Così terribili erano gli occhi dei Bianchi, che era divenuto per loro un segno di deferenza passarsi le mani sul viso, nascondendo per un momento il luccichio delle pupille e la truce minaccia delle sopracciglia...”; Sono ricreate battaglie indimenticabili, come quella fra i mammut e la tigre. E’ presentata una straordinaria ricostruzione della geologia delle terre del Nord, strette nella morsa del ghiaccio, sono introdotti eventi, come un primo tentativo fallito di 177 domesticazione di animali simili ai caribù o l’uso di bacche per produrre bevande alcoliche, che sono credibili e certamente avvennero, con meccanismi simili, anche se in epoca molto successiva. E’ infine rappresentata in modo magistrale la tensione dell’artista che cerca di fissare nel legno o su una roccia le immagini di animali. Kurtén propone una elaborazione completamente nuova della nostra storia evolutiva. Gli sgraziati uomini di Neandertal, che nell’immaginario collettivo restano associati a forme bestiali e stupide, erano in realtà perfettamente umani: avevano una invidiabile capacità di controllo sul territorio, curavano i loro piccoli e gli anziani (cosa del resto testimoniata da resti fossili di anziani gravemente menomati); erano quindi simili ai nostri diretti antenati, i Cro-Magnon. Questi ultimi, che nei due romanzi hanno i volti con i primi caratteristici tratti dell’uomo moderno, furono indubbiamente in grado di costruire strumenti più sofisticati e si aprirono all’arte, lasciandoci gli enigmatici affreschi che in tante parti del vecchio continente ci danno testimonianza della loro civiltà, ma non appaiono i migliori, i più intelligenti, i più abili o i più feroci, come molti hanno ipotizzato; sono semplicemente i sopravvissuti nell’eterno gioco dei possibili che non necessariamente premia il più adatto in assoluto. I due racconti ci insegnano anche come l’uomo da sempre abbia temuto il diverso, per pelle, abitudini o credo religioso e come soltanto la sua conoscenza possa placare la diffidenza e mettere in luce le somiglianze. Sotto questo aspetto, il finlandese Björn Kurtén, fine poeta che faceva di professione il paleontologo, mentre tracciava una ricostruzione indimenticabile delle nostre radici, ci regalava una storia su cui continuare a riflettere. Nel 1857, in una piccola grotta attualmente distrutta, Neanderthal, in Vestfalia, alcuni operai trovarono dei resti di uno scheletro, ma Mayer e Virchow, autorità indiscusse in quel tempo, videro nell’esemplare niente altro che un uomo afflitto da malattie ossee degenerative. Nel 1886, vennero trovati, associati con resti ossei di animali estinti e strumenti di pietra più elaborati di quelli tipici di Homo erectus, due scheletri di Neanderthal; e nel 1908 a la Chapelle-aux-Saints, nel sud ovest della Francia fu trovato un esemplare in buono stato che venne studiato dal paleontologo Marcellin Boule, che, guidato dai pregiudizi propri del suo tempo, descrisse il reperto, e quindi tutti i Neanderthaliani, come individui simili a scimmie, che dovevano aver avuto una deambulazione incerta e strascicata, spalle curve, capacità intellettuali primitive. Questa ricostruzione fu accettata dalla comunità scientifica per molto tempo ed è rimasta sostanzialmente immutata nell’immaginario collettivo. I Neanderthal sono vissuti in Europa e nel Sud-Est dell’Asia in un periodo compreso fra i 130.000 e i 29.000 anni fa. E’ probabile che si siano evoluti da forme arcaiche di Homo sapiens o da Homo heidelbergensis in Europa Sud orientale. David Caramelli e il suo gruppo, dell’Università di Firenze, hanno recuperato materiale genetico appartenente a due Cro-Magnon, un maschio e una femmina, rinvenuti a Grotta Paglicci, un sito del paleolitico nel Parco Nazionale del Gargano. Il DNA mitocondriale esaminato è stato confrontato con quello di uomini moderni e con quello proveniente da uomini di Neandertal; l’analisi sembra dimostrare che non 178 esistono differenze sostanziali fra i Cro-Magnon e gli uomini moderni, mentre esistono sostanziali differenze rispetto alle sequenze genetiche di Neandertal. Le popolazioni di Cro-Magnon e di Neandertal, pertanto, pur essendo convissute non si sarebbero mai incrociate. L’incantamento della scienza “Le denominazioni animali o antropomorfe che le costellazioni portano ancora hanno perduto la loro carica mitica già dall’antichità. A ogni secolo e a ogni rivoluzione del pensiero sono la scienza e la filosofia che rimodellano la dimensione mitica della immaginazione, cioè il fondamentale rapporto tra gli uomini e le cose” (9). Italo Calvino (1923-1984) nacque a Santiago de las Vegas (Cuba), dove il padre, agronomo, dirigeva una stazione sperimentale di agricoltura; la madre, laureata in Scienze naturali, era assistente di Botanica presso l’Università di Pavia. La famiglia si trasferì presto in Italia, a San Remo, la patria di adozione dello scrittore. Il suo primo amore per la lettura scaturì precocemente, grazie alla scoperta dei romanzi di Kipling e sin dai primi anni del liceo classico iniziò a scrivere racconti e poesie. Iscrittosi alla facoltà di Agraria di Torino nel 1941, fu talmente colpito dalla morte di un partigiano a cui aveva assistito personalmente, da decidere di aderire alla Resistenza, militando nella Brigata Garibaldi in Liguria. Al termine della guerra, si laureò in Lettere, con una tesi su Conrad ed iniziò a lavorare presso la casa editrice Einaudi. Nel 1947, esortato anche da Pavese, scrisse il suo primo romanzo breve, Il sentiero dei nidi di ragno. La sua collaborazione con la casa editrice si intensificò e nel 1950 passò a dirigere la parte letteraria della collana “Piccola Biblioteca Scientifico-Letteraria”; in questo ambiente contrasse rapporti di amicizia con Elio Vittorini, Natalia Ginzburg, Delio Cantimori, Franco Venturi, Norberto Bobbio, Felice Balbo. La sua attività letteraria, inizialmente diretta prevalentemente verso opere di impianto realistico e sociale, subì una svolta decisiva negli anni Cinquanta, con Il visconte dimezzato (1952) e Le fiabe italiane (1956). A Il visconte dimezzato fecero seguito Il barone rampante (1957) e Il cavaliere inesistente (1959), che nell’insieme costituirono la trilogia I Nostri antenati (1960). Nel 1956, dopo i fatti di Ungheria, lo scrittore si allontanò dal PCI e progressivamente da qualunque impegno politico. La sua attività letteraria si intensificò con la stesura di nuovi romanzi quali La giornata di uno scrutatore (1963), Marcovaldo, ovvero le stagioni in città (1963), Le Cosmicomiche (1964) (10), Ti con zero (1967), Le città invisibili (1972), Il castello dei destini incrociati (1973), Se una notte d’inverno un viaggiatore (1979), Palomar (1983); si dedicò anche ad alcune traduzioni, fra cui spiccano I fiori blu di Raymond Queneau, e fu presente sul terreno della critica letteraria e della riflessione culturale con interventi e saggi sempre lucidi e stimolanti. Uscirono postume Lezioni americane (1988) e Perché leggere i classici (1991). Tra gli scritti di Calvino, quelli che ci interessano per il nostro percorso sono Le Cosmicomiche, una serie di racconti pubblicati in quattro raccolte (1965-1984), di cui la prima dal titolo omonimo.Gli argomenti dei vari racconti disegnano “storie”, ciascuna delle quali prende avvio da un enunciato di natura scientifica concernente uno specifico tema: l’origine dell’universo, il moto delle stelle, la formazione dell’atmosfera, l’organizzazione dei primi vertebrati, la scomparsa dei dinosauri ed altri ancora. 179 L’enunciato concettuale è la mossa di apertura verso il racconto, più precisamente verso il gioco autonomo delle immagini che lo sostiene e attraverso il quale si dispiegano le infinite forme del possibile e dell’impossibile. Il tema dell’immaginazione non tragga in inganno, poiché, come ci ricorda opportunamente l’autore, la molteplicità potenziale di immagini visuali -il modello della rete dei possibili- è indispensabile per ogni forma di conoscenza. Del resto, per la scienza e l’attività scientifica Calvino mostrò sempre grande interesse e attenzione: trasse dall’ ambiente familiare un appassionato amore per le scienze sperimentali, e rimase sempre un instancabile e curioso lettore di trattati di Informatica, Genetica, Evoluzione, Cosmologia. Le Lezioni americane testimoniano, appunto, questo legame esistente nell’autore tra l’interesse per la letteratura e l’interesse per la scienza. In questi interventi, tenuti all’università di Harvard, nel Massachussetts, nell’anno accademico 1985-1986, le categorie attraverso le quali viene “rivisitato” l’ambito della letteratura sono infatti le stesse che consentono di “rivisitare” l’ambito della scienza: leggerezza, rapidità, esattezza, visibilità, molteplicità. Ad esempio, dopo le notazioni sulla levità di elementi presenti nelle Metamorfosi di Ovidio (un gesto di rinfrescante gentilezza di Perseo verso la testa recisa della Medusa) o dopo la citazione delle tracce madreperlacee e dello smeriglio di vetro calpestato nei versi di Eugenio Montale (Piccolo testamento), ecco subito affiorare una riflessione relativa agli ultimi risultati della ricerca scientifica: “...oggi ogni ramo della scienza sembra ci voglia dimostrare che il mondo si regge su entità sottilissime come i messaggi del DNA, gli impulsi dei neuroni, i quarks, i neutrini vaganti nello spazio dall’inizio dei tempi...bits senza peso...” (11) Perché allora, non cercare la leggerezza nella scienza? Le Cosmicomiche sono dunque un’esperienza letteraria che attinge dalla scienza un’inesauribile fonte per l’affabulazione e mostrano come “...il discorso per immagini tipico del mito possa nascere da qualsiasi terreno: anche dal linguaggio più lontano da ogni immagine visuale come quello della scienza d’oggi. Anche leggendo il più tecnico libro scientifico o il più astratto libro di filosofia si può incontrare una frase che inaspettatamente fa da stimolo alla fantasia figurale...” (12). Attraverso l’utilizzazione delle scoperte scientifiche, Calvino riannoda un filo molto antico nella storia della poesia: il De rerum natura di Lucrezio è un poema che si sviluppa in poesia immortale partendo da una teoria proto-scientifica, quella di Epicuro, secondo cui la materia è costituita da atomi, che, pur ubbidendo a rigorose leggi meccaniche, sono anche in grado di deviare in modo imprevedibile dalla linea retta, consentono alle cose e agli uomini gradi di libertà e tolgono pesantezza al mondo, in quanto, circondati dal vuoto, sono minutissimi e invisibili; per contro le Metamorfosi di Ovidio attingono al pensiero di Pitagora e, invece di partire dalla realtà fisica, partono dai miti, che raccontano vicende di ordine superiore e i cui gradi di libertà, nel tessere relazioni fra figure e forme primordiali, sono infiniti; nel mito, infatti, a differenza che nella scienza, sono possibili la contraddizione e l’ambiguità, anzi, ne sono ingrediente fondamentale. Nelle Cosmicomiche, Calvino ha cercato di coniugare la razionalità della scienza con la dimensione mitica dell’immaginazione, costruendo racconti che possiedono, come molti critici hanno più volte sottolineato, eleganza, leggerezza, misura, chiarezza, razionalità, le stesse qualità possedute dalla Scienza quando riesce a formulare grandi 180 teorie, le stesse qualità che tutti dovrebbero poter imparare ad utilizzare per non cadere nei loro opposti. Il titolo, Cosmicomiche, è l’unione di due termini: Cosmico, che fa riferimento non tanto alle scoperte spaziali, quanto a qualcosa di molto più antico, qualcosa che rimanda al mito, al senso che del cosmo avevano gli antichi e Comico, che si riferisce sia alle comiche del cinema muto, che ai comics, le storielle a fumetti in cui il protagonista si trova di fronte a situazioni sempre nuove, fantastiche, improbabili e nello stesso tempo credibili e in cui le vignette hanno una forte valenza evocativa ed esplicativa. Le Cosmicomiche sono racconti che per la maggior parte possiedono una struttura omogenea: a poche righe introduttive, in cui viene enunciata una teoria scientifica, fa seguito un racconto breve; il protagonista -voce narrante- è il vecchio Qfwfq, di cui non si conosce nulla, tranne che ha più o meno l’età dell’universo ed ha visto e sperimentato tutta le trasformazioni subite dal cosmo in formazione e dalla Terra in continua evoluzione. Si tratta della narrazione poetica dei grandi miti sulle origini (dell’Universo, dei pianeti, della Terra, del Sole, della vita), sulla trasformazione continua che ha accompagnato tali eventi e sulla morte (individuale e di specie); la grande fonte di ispirazione è data dalle scoperte scientifiche del Novecento, trasfigurate e rese lievi dalla fantasia e l’umorismo; come si vede, si tratta degli stessi temi trattati da tutti i modelli evolutivi formulati in tutte le epoche. - Qfwfq, quando la Luna era molto vicino alla Terra, ha assistito ad enormi maree, continue eclissi, è stato attirato dalla forza di gravità del satellite e qui ha raccolto il latte, denso come una specie di ricotta; - è stato, bambino, sulle nebule, al freddo, rincalzato in uno strato di materia fluida e granulosa, contemplando il buio; - …quando i tempi dell’acqua erano finiti e quelli che si decidevano a fare il grande passo erano sempre in maggior numero…, ha avuto come prozio dalla parte della nonna paterna, nata dai Celacanti del Devoniano, il vecchio N’ba N’ga, che abitava in acque basse e limacciose, fra radici di protoconifere e, malgrado le insistenze dei parenti, si rifiutava di provare a frequentare la terra asciutta e nemmeno voleva assaggiare gli insetti nuovi che crescevano all’asciutto; malgrado fosse così antiquato, però, conquistò la bella Lll, che lo sposò e ritornò con lui alla vecchia vita fra le acque; - è stato dinosauro e, insieme ai suoi simili,… aveva la coscienza di essere nel giusto e si faceva rispettare ..., ma arrivò l’epoca della grande morìa e Qfwfq cercò scampo su altipiani deserti e quando ridiscese a valle, si trovò di fronte un mondo cambiato, irriconoscibile, popolato dai Nuovi che non lo riconobbero e lo considerarono un Nuovo, uno di loro, anche se il ricordo dei dinosauri era rimasto nell’intrico dei pensieri di chi resta. Dalla penombra delle paure e dei dubbi di generazioni ormai ignare, continuavano a protendere i loro colli, a sollevare le loro zampe artigliate, e quando l’ultima ombra della loro immagine s’era cancellata, il loro nome continuava a sovrapporsi a tutti i significati, a perpetuare la loro presenza nei rapporti tra gli esseri viventi.. (13); - ha assistito alla nascita degli uccelli, quando, quello dei volatili era considerato un capitolo chiuso, ormai. Non s’era detto e ripetuto che dai rettili tutto quello che poteva nascere era nato?..., 181 quando non esistevano più dubbi …su chi era mostro e chi non lo era: …non mostri siamo tutti noi che ci siamo e mostri invece sono tutti quelli che potevano esserci e invece non ci sono, perché la successione delle cause e degli effetti ha favorito chiaramente noi, i non mostri, anziché loro…; in quel periodo, per la prima volta, dalla nascita del mondo, ha udito un canto e ha potuto vedere animali ricoperti di cangianti piume multicolori e, affascinato, ha inseguito queste forme seducenti sino all’orlo della terra, dove ha visto i continenti alla deriva scontrarsi fragorosamente… I vari racconti prendono insomma spunto da un fenomeno scientifico, lo trasformano in mito, ritornano ai fatti scientifici e se ne allontanano nuovamente in un gioco di rimandi imprevedibili, in cui la fantasia e l’umorismo, proprio come nei fumetti, sono strettamente intrecciati e, come nelle strisce, ogni episodio è in sé concluso ed indipendente, ma nello stesso tempo la voce narrante, Qfwfq,-un nome tra l’altro impronunciabile per l’assenza di vocali- che durante la sua lunga vita ha subito diverse metamorfosi -corporeo oppure privo di sostanza, bambino, pesce-anfibio, dinosauro- ci rassicura che la vicenda che si svolge nel tempo e nello spazio è sempre la stessa e il vero protagonista ne è il Cosmo e la Terra e la loro continua evoluzione. Qfwfq, come un vecchio verboso, è sempre pronto al racconto, anche se i suoi ricordi sono pieni di contraddizioni e di volta in volta avallano ipotesi contraddittorie o addirittura opposte e inconciliabili, come quelle del big bang (Tutto in un punto) e dello stato stazionario (Giochi senza fine) e, prima che l’evento accadesse, il nostro eroe è sempre pronto a giurare che non sarebbe successo, ma chi, se fosse stato presente, avrebbe potuto prevedere l’origine del pianeta Terra o della vita, o ancora la “conquista” delle terre emerse, la nascita degli uccelli o la venuta dell’uomo? Qfwfq ha spesso sbagliato le sue previsioni, ma la storia, quella degli uomini, quella della vita sulla terra, quella del cosmo, è ricca di biforcazioni, destini incrociati, strade a fondo cieco, percorsi che, con piccole variazioni, riportano a situazioni precedenti e gli sconfitti, gli estinti non sempre sono i peggiori. Calvino ci dimostra, insomma, con ironia, con leggerezza, a volte con struggente malinconia, ma sempre con rigore, quanto sia grande la forza mitica della scienza e la lettura di alcuni di questi racconti, anche in forma decontestualizzata, si presta molto bene per trasmettere l’infinito stupore per le inenarrabili avventure che hanno portato la Terra ad essere quella che noi oggi conosciamo, lo stesso incantamento che si può provare nel vedere per la prima volta il Diplodocus, un dinosauro estinto, esposto nella prima sala del museo di Storia Naturale di Londra. Aby Warburg Aby Warburg (1866-1929) nacque ad Amburgo da una ricca e colta famiglia di banchieri israeliti. Destinato come primogenito a succedere al padre nella gestione della banca di famiglia, preferì dedicarsi agli studi di Storia dell’arte a Firenze, Bonn e Strasburgo. Il suo nome è legato alla sua prestigiosa Biblioteca per la scienza della cultura, organizzata da lui ad Amburgo sin dai primi anni dei suoi studi ed oggi divenuta a Londra il Warburg Institute (14). Alla sua maturazione intellettuale contribuirono Hermann Usener, il filologo delle religioni primitive che privilegiava l’analisi comparata fra arte e mito, filosofia e religione, Karl Lamprect, particolarmente interessato 182 al significato dei gesti e dei rituali e alla loro evoluzione nel corso della storia, Tito Vignoli e Charles Darwin. Warburg rivolse i suoi studi al Rinascimento italiano; poco interessato agli aspetti estetici dell’opera d’arte, privilegiò un approccio interdisciplinare, unito ad un’attenta ricerca filologica; negli archivi fiorentini andò alla ricerca di notizie che gli permettessero di ricostruire il mondo sociale ed intellettuale che circondava Lorenzo dei Medici per comprendere che cosa ricercassero i committenti del Quattrocento nell’antichità classica e per quale motivo simboli creati in un contesto pagano avessero ripreso vita nel Rinascimento. Il nuovo paradigma che guidò i suoi studi fu pertanto l’influsso dell’antico sugli aspetti sociali, politici, religiosi, scientifici, filosofici, letterari ed artistici della civiltà moderna; anche i libri della sua biblioteca amburghese furono raccolti secondo questa logica di “buon vicinato”. Nel 1889 Warburg, a Firenze, nella Biblioteca Nazionale, lesse il libro di Charles Darwin sull’Espressione delle emozioni nell’uomo e negli animali, trovandovi una serie di risposte ai suoi problemi, tanto da annotare: finalmente un libro che mi aiuta (15) Interessato in quel momento a comprendere l’evoluzione dell’espressione dei volti in Masolino e Masaccio, lo studioso amburghese trovò illuminanti le convinzioni di Darwin e i dati da lui riportati a proposito ad esempio dell’espressione del dolore con l’analisi dei muscoli responsabili dell’abbassamento degli angoli della bocca e quelli coinvolti nell’aggrottamento delle sopracciglia e ... L’energica chiusura delle palpebre e la conseguente compressione dei globi oculari ... servono a proteggere gli occhi da un eccessivo afflusso di sangue.. (16). Warburg fece proprio il significato del lavoro di Darwin: i nostri antenati, come gli altri animali, maturarono comportamenti istintivi per reagire a situazioni di pericolo o per comunicare con i conspecifici; tali reazioni persistono anche nell’uomo civilizzato, trasformati in archetipi dell’esperienza umana, rielaborati sotto forma di simboli che si ritrovano con poche variazioni in molte espressioni artistiche e in altre manifestazioni sociali; i simboli non sono altro che forme cristallizzate di un immaginario collettivo “...che la volontà selettiva di un’epoca riattiva ed inevitabilmente polarizza. Nel confronto con la carica energetica addensata nei simboli, l’artista o ne è travolto, come accadde allo stesso Antonio Pollaiuolo e ai seguaci di Raffaello e Michelangelo, o ne controlla l’insita minaccia, come seppero fare Dûrer e Rembrandt. Se questa teoria della memoria sociale era legittima -e le analisi compiute da Warburg sulle forme artistiche del Rinascimento italiano e nordico lo dimostravano- allora era possibile arrivare a concepire la stessa storia della cultura occidentale come uno straordinario viaggio attraverso il labirinto delle immagini e dei segni. Nel 1926, col progetto Mnemosyne (17), Warburg divenne “l’affascinante signore del labirinto”. Per giungere a questo risultato egli aveva dovuto però fare un’altra importante scoperta: quella delle immagini astrali e delle loro “migrazioni”. Nel ciclo degli affreschi di Ferrara il Warburg decifrò l’origine delle figure, alcune delle quali oscuramente scomposte, che stanno nella fascia mediana, occupata dai segni zodiacali: sono i decani dei mesi identificabili nelle antiche divinità astrali di Babilonia... a Ferrara i demoni babilonesi sopravvivevano, ma ricondotti nel loro luogo più proprio, quello mediano, che le divinità olimpiche ora controllavano dalla fascia superiore in cui erano collocate, libere dalla sovrapposizione con i segni 183 astrologici, avendo riacquistato le forme originarie in cui le aveva cantate Manilio: tutrici benefiche dei vari mesi dell’anno. Esse, dall’alto, attraverso gli astri, seguivano le opere e i giorni del principe giusto, Borso d’Este, rappresentati nella fascia inferiore degli affreschi...” (18). Brunella Danesi Direttore del Seminario Note (1) Da Candido, Rizzoli 1974, pp 18-20 (2) La natura descritta dalla Burnet è un canto armonioso: “...Quel pomeriggio era splendido: la natura pareva essersi vestita a festa solo per far contento Colin, e la primavera pareva essersi preoccupata di rendere bello solamente quel pezzetto di terra. ... Avevano fermato il carrozzino di Colin sotto un prugno tutto fiorito e carico di api ronzanti: un candido baldacchino preparato per il re delle fate. Più in là erano allineati ciliegi e meli coi loro boccioli rosa e bianchi, che già cominciavano ad aprirsi; tra l’intrico dei rami in fiore s’intravedevano lembi di cielo... (3) ... La legge del bastone e della zanna è il titolo del secondo capitolo di Il richiamo della foresta (4) Si legga il seguente passo, tratto da Second notebook on trasmutation of Species (1838) di Darwin, riportato nel libro di Antonello La Vergata L’evoluzione biologica da Linneo a Darwin, ed. Loescher, 1979 : L’uomo (l’uomo rozzo e incivile) non avrebbe potuto vivere mentre erano in vita certi altri animali che poi sono periti. L’uomo vada a vedere l’orangutan in cattività, ascolti il suo espressivo piagnucolare, veda la sua capacità di intendere quando gli si parla, come se capisse ogni parola che si dice, veda il suo affetto per quelli che conosce, veda la sua passione e la sua ira, la sua scontrosità e la sua estrema disperazione; guardi il selvaggio, che arrostisce il genitore, nudo e senz’arte, che non progredisce, eppure può progredire, e allora si provi a vantarsi della sua orgogliosa preminenza. L’incomprensibile linguaggio dei Fuegini li pone al livello delle scimmie. (5) Le citazioni sono riprese dai libri: Zanna Bianca, Piemme Pocket, 2003; Il richiamo della foresta, Marsilio, 2003 (6) Mrs Grundy è un personaggio assurto a simbolo dell’atteggiamento ipocrita e perbenista della società vittoriana (7) William Morris (1834 - 1896) studiò ad Oxford; le letture di Carlyle, Kingsley and Ruskin, lo indussero a dedicare la sua vita all’arte; molto interessato alla pittura preraffaellita, frequentò e fu influenzato da Dante Gabriel Rossetti, per dedicarsi poi alle arti decorative e divenire uno dei fondatori della moderna grafica di design. Nel 1888 fondò il movimento Arts and Crafts, attraverso cui intendeva opporsi alla degenerazione del gusto provocata dalla rivoluzione industriale e dall’uso delle macchine, con un ritorno all’artigianato; collaborò con molti architetti, facendo i cartoni per vetrate di chiese, carta da parati, stoffa e disegnando mobili e oggetti d’arredo (8) Kurtén Björn La danza della tigre, Muzzio, 2002; Zannasola, Editori Riuniti, 1990 (9) Da Il Corriere della Sera, 7 settembre 1975, nella rubrica Osservatorio del signor Palomar. (10) Le cosmicomiche sono state pubblicate in quattro raccolte: Le cosmicomiche, Einaudi, Supercoralli, 1965; Ti con zero, Einaudi, Supercoralli, 1967; La memoria del mondo e altre storie cosmicomiche, Club degli editori, 1968; Cosmicomiche vecchie e nuove, Garzanti, 1984 (11) Da Lezioni americane, Leggerezza, 1985 (12) Da Lezioni americane, Leggerezza, 1985 (13) Da La memoria del mondo, Mondadori, Oscar, 2000 (14) Per maggiori informazioni, si visiti il sito: http://www.sas.ac.uk/warburg/institute/ institute_introduction.htm (15) Si veda Ernst Gombrich, “Aby Warburg una biografia intellettuale”, Feltrinelli, 2003, pg. 71 184 (16) Da L’espressione delle emozioni nell’uomo e negli altri animali con introduzione, postfazione e commenti di Paul Ekman, Bollati Boringhieri, 1998, pg. 183 (17) La Mnemosyne, nelle intenzioni dell’autore, doveva essere una sorta di atlante fotografico che testimoniasse il percorso compiuto attraverso i secoli dagli uomini del bacino del mediterraneo; anche in questo caso, il progetto risentì dell’influenza di Darwin, che nell’Espressione aveva riconosciuto l’importanza del documento fotografico, come eccellente strumento di studio, in quanto copia fedele e, a differenza del disegno, non soggetta ad interpretazione. (18) Da G. Perugi, M. Bellucci, Storiografia 2, Zanichelli, Aby Warburg e l’istituto Warburg,(pp. 444-447) 185 Dibattito Una collega Mi sembra che tu abbia troppa fiduzia nelle capacità di lettura dei ragazzi. Brunella Danesi Una critica sbagliata; probabilmente ho anche sbagliato mestiere ma se c’è una cosa che dobbiamo trasmettere è inutile dire agli studenti “dovreste leggere….” quando poi l’insegnante non legge mai nulla, e questo è un aspetto; l’altro aspetto è che per me insegnare ha sempre voluto dire crescere con gli studenti e crescere con gli studenti vuol dire anche leggere con gli studenti, quindi dare libri da leggere durante l’estate è un compito che non si dà solo agli studenti, ma si dà anche all’insegnante. E’ chiaro che io ho raccolto tutta una serie di cose che ho fatto nell’arco di 35 anni perché sono carica d’anni e di poche virtù, però un libro l’anno si può leggere secondo me utilmente, non soltanto prendendo come tema l’evoluzione, perché altrettanto si potrebbe fare prendendo altri temi come per esempio la neurologia oppure saggi scientifici perché non è detto che uno si debba buttare nella letteratura, quella mi diverte, io non sono potuta andare a Lettere (veramente volevo andare a Storia) ma il pallino mi è rimasto; i saggi sono tanti e sono, vi assicuro, estremamente accessibili e, o io mi sono illusa per 35 anni o, secondo me, funziona. Sandra Magistrelli Questo che proponi è un itinerario meraviglioso nel vero senso della parola, che desta meraviglia, che fa riflettere su tante cose. Io mi chiedo però, da un punto di vista strettamente didattico, se facciamo leggere ai ragazzi quel libro di Kurtèn sull’incontro romanzato del Neandertal con il Cro-Magnon, con tutte queste varianti, se così facendo non si corra il rischio che i ragazzi escano dalla scuola convinti che quello sia vero, a meno che tu non faccia un lavoro molto complicato e serrato di comparazione tra quello che si sa fino adesso sull’ominazione che come abbiamo sentito è tanto ma è anche poco e comunque anche fonte di incertezze e dubbi, rispetto a una cosa romanzata che per la sua simpatia risulta molto più convincente. Concludo: il lavoro didattico è difficile perché si tratta sempre di andare contro corrente; si tratta, come dire, di annoiare piano piano il ragazzo, nel senso di fargli capire che ci sono degli escamotage mentali, purtroppo però le cose non stanno esattamente così. Brunella Danesi E’ chiaro, non c’è stato tempo e forse ho esagerato con le sollecitazioni, ma io ti spiego per esempio come ho utilizzato il libro di Kurtèn : il libro fu utilizzato in una terza, cioè alla fine della seconda fu dato agli studenti il libro che fu letto durante l’estate, chiedendo come compito semplicemente di parlarne e di mettere in luce gli aspetti salienti e la faccenda è finita lì. A gennaio di quell’anno si è preso un altro libro che però leggevamo insieme, Il cammino dell’uomo di Tattersal, che è un libro sull’uomo con tutta una serie di sollecitazioni scientifiche su quanto se ne sa, ma senza annoiarli troppo, senza entrare mai in particolari come sono quelli riportati dalla prof. Rickards, perché a me interessava che capissero che sono convissute tutta una serie di popolazioni, che capissero il concetto di neotenia ecc. In quel libro c’era, quel libro è stato letto in classe a brani, la tecnica che seguivo era di dare un capitolo al mese dopo di che ci si faceva una relazione scritta in classe, con delle domande specifiche altrimenti non lo avrebbero letto, e contava come valutazione quadrimestrale. Alla fine 186 di questo lavoro ci siamo rivisti e in questo caso è stato costruito un ipertesto sull’uomo, un lavoro sugli altri autori potrebbe benissimo essere fatto a più voci e in certi casi lo puoi fare. Quella volta mi è riuscito di coinvolgere l’insegnante di inglese; perché è importante coinvolgere altre persone, perché i ragazzi risparmiano, è vero che forse gli fai leggere un libro in più però è anche vero che quello che studiano a Scienze possono utilizzarlo a Inglese perché per esempio ci fanno la relazione, invece di parlare di letteratura, tanto per l’insegnante di inglese l’importante è l’acquisizione linguistica, e anche l’acquisizione dell’inglese scientifico visto che io ho insegnato in un liceo Scientifico. E’ vero, sembra un grosso lavoro, però se uno riesce a utilizzarlo facendo tutto un lavoro in parallelo, e soprattutto non presentando agli studenti un libro e pretendendo che lo leggano subito e che traggano conclusioni, il libro è vero, non ti risolve, ma al libro poi ritorni. Sandra Magistrelli La mia paura è che, proprio per ritornare alla questione “morattiana”, essendo nei giovani e anche in noi tanto forte l’anelito mitologico, l’istanza favolistica, perché è una forma di pensiero sicuramente molto potente che alla fine dà una soluzione rapida, diventi un escamotage cognitivo rispetto ad altre soluzioni che sono lunghe, difficili, che molto spesso non sono soluzioni ma interrogativi, che è un po’ il nostro compito, e qui faccio la parte dell’avvocato del diavolo mentre peraltro sono d’accordo con te su questa sistemazione di input, di interessi. E’ dal punto di vista cognitivo che mi pongo domande, non certo dal punto di vista delle difficoltà concrete di portare avanti un lavoro del genere, possibilmente in concomitanza con i colleghi di altre discipline. Brunella Danesi Io ribadisco questo, siccome l’ho fatto diverse volte è un modo come un altro per fare scienza. Io vi dico la mia esperienza: se riesco a catturare l’interesse dell’insegnante di Inglese e indurlo a far leggere Conrad agli studenti, gli faccio notare che la cultura serve e non soltanto quella umanistica: per es. gli archetipi non li hanno studiati, ma li ha studiati anche Darwin perché sono un invariante biologico, cioè metto il naso in altri campi per insegnare la mia disciplina. E’ chiaro che se vado a insegnare nella scuola elementare quindi sono una maestra, è fondamentale che i bambini acquisiscano la capacità di lettura, allora perché non leggere per esempio un libro per poi andare a cercare le piante e gli animali che sono descritti. Ecco, questo è il mio intento, cioè ritagliare dei percorsi là dove i percorsi sono sempre stati negati e con ciò mi è sembrato anche di risparmiare. Anche il fare leggere d’estate serve per guadagnare tempo; io addirittura al liceo scientifico entravo nelle prime a fine anno e mi presentavo dando un libro, per esempio Della misura giusta di Haldane che tra l’altro si poteva fare come un lavoro interdisciplinare perché riguarda Matematica, perchè parla appunto delle lunghezze e ci sono delle cose strepitose, per esempio perché un topo che cade dalle scale non si spacca. Sia chiaro, il libro di testo è fondamentale, non ci voglio rinunciare come non voglio rinunciare al laboratorio, non è questo il punto, il mio problema e il mio scopo è che io dimostri che la scienza è cultura, e la strada che mi è riuscito di trovare è questa di fare percorsi altri, poi faccio leggere anche articoli de Le Scienze anche perché nei libri di Biologia questo si vede poco e male, eppure sono argomenti che interessano ai ragazzi. 187 Chi ha paura di Carlo Darwin? A LESSANDRA M AGISTRELLI La scienza è dogmatica perché non dimostra, né può farlo, che esista il suo oggetto Giovanni Gentile Lei crede che il Sole ruoti attorno alla Terra o che sia la Terra a ruotare intorno al Sole? Questa domanda fu rivolta qualche tempo fa a Tom Willis, leader del creazionismo statunitense, che così rispose: Molti lettori si divertiranno per questa mia risposta, ma devo dire che non lo so. Qualunque fisico che se ne sia occupato seriamente deve ammettere che non possiamo saperlo con certezza. Perché Dio avrebbe creato Darwin? Dio ha detto chiaramente che a coloro che rifiutano di amare la verità avrebbe inviato uno spirito ingannevole che li avrebbe costretti a credere in una falsità. Penso che Darwin sia stato creato per dare al mondo qualcosa in cui credere. Qualsiasi bambino che abbia letto L’Origine delle specie può constatare che le sue argomentazioni non stanno letteralmente in piedi. Io l’ho letto quando non credevo in Dio; eppure ho riempito i margini del libro di note che esprimevano con parole irripetibili il mio stupore che simili assurdi ragionamenti e non ragionamenti potessero essere accettati e chiamati scienza. Geografia del creazionismo Il creazionismo, e in particolare il creazionismo scientifico, è un fenomeno più diffuso di quanto si possa pensare. Il movimento è presente in tutto l’Occidente, oltre che negli Stati Uniti si ritrova in Canada, dove però l’evoluzione viene insegnata nelle scuole, e in Gran Bretagna dove, sorto nel 1932, conta oltre 2000 membri. E’ molto forte nei Paesi Bassi in cui l’evoluzionismo è rimasto fuori dalla scuola fino al 1976. Esiste in Russia, ben 100 scienziati farebbero parte della creation science, in Turchia, in Corea, in Australia, in Nuova Zelanda. In Italia nel 2004, l’AISO (Associazione Italiana Studi sulle Origini), sostituisce il preesistente Centro Studi sul Creazionismo. L’articolo 2 del nuovo statuto afferma che: L’evoluzionismo non è scienza bensì ipotesi a sfondo filosofico mentre, a proposito della scuola e della società, nel giornale dell’AISO Eco creazionista si dice che ...si vuol dare anche in Italia una informazione più equilibrata affinché i giovani e le persone più attente possano fare la loro scelta fra la visione del mondo evoluzionista e quella basata sulla Bibbia. L’associazione, oltre a pubblicare Eco creazionista, ha un sito: www.creazionismo.org. L’affaire Cerullo e la Riforma Moratti Nel gennaio 2003 sui giornali compare la notizia che Alleanza Studentesca e alcuni esponenti di Alleanza Nazionale, tra cui spicca l’ex parlamentare di AN Pietro Cerullo, stanno organizzando a Milano una settimana antievoluzionista, con dibattiti, incontri con le autorità cittadine, volantinaggio davanti al Museo Civico di Scienze naturali. La settimana sarà chiusa dal convegno Evoluzionismo, una favola per le scuole. 188 Si vuole denunciare pubblicamente il fatto che nei libri, scientifici e scolastici, il darwinismo viene considerato una verità assoluta mentre, parole di Cerullo: Dagli studi compiuti da numerosi scienziati, sia in campo biologico che geologico, la tesi evoluzionista sia ormai considerata impossibile, mentre prevale quella creazionista..... (i giovani organizzatori) vogliono sottolineare come il presentare il darwinismo come una verità assoluta porti poi a considerare la scienza come una verità assoluta e a una visione del mondo totalmente meccanicista. Mentre così non è. Nel febbraio 2004 vengono pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale i nuovi programmi per la scuola media e, per quanto riguarda le Scienze, sono scomparsi i capoversi barrati e sono invece comparsi gli argomenti segnalati in corsivo: Evoluzione della Terra Comparsa della vita sulla Terra. I fossili . Il tempo geologico Il sistema eliocentrico Il sole e il sistema solare: dalle osservazioni degli antichi alle ipotesi della scienza contemporanea Struttura, Funzione ed Evoluzione dei viventi Origine ed evoluzione biologica e culturale della specie umana La funzione nutritiva: gli alimenti e i loro componenti, controllo dell’alimentazione, sostanze dannose. Sistema nervoso umano ed effetti di psicofarmaci, sostanze stupefacenti od eccitanti Malattie da lavoro Le problematiche affettive e psicologiche tipiche della preadolescenza e le manifestazioni psicosomatiche Malattie che si trasmettono per via sessuale Nella materia Tecnologia, insegnata probabilmente dallo stesso insegnante di Matematica e Scienze, compaiono i vecchi/nuovi Principi di economia domestica in cui si dice di: ...Individuare e praticare esperienze di design, cucitura, tessitura e ricamo per scopi funzionali ed estetici. E ancora: La biotecnologia e il mondo dello sport, dove non è chiara la relazione esistente tra i due settori. Alcune risposte delle autorità competenti alle critiche rivolte da ricercatori, giornalisti, insegnanti Perché il tema dell’evoluzione è stato tolto dai nuovi programmi? Risposta di Letizia Moratti, Ministro del MIUR: Le indicazioni nazionali privilegiano le narrazioni fantastiche, i cosiddetti miti delle origini che favoriscono l’approccio del bambino al dato scientifico... Risposta del Prof. Criscuoli, dirigente del MIUR e membro della Commissione Nuovi Programmi: L’evoluzione veniva insegnata come filosofia e non come ipotesi scientifica ed inoltre è troppo difficile per i ragazzi. Risposta del Prof. Bertagna, pedagogista e coordinatore dell’intero progetto di riforma scolastica Moratti: Solo dopo i primi otto anni di scuola è possibile affrontare in modo adeguato le teorie sull’evoluzione della specie umana, solo allora i giovani sono in grado di apprendere con una complessità e comparazione diverse. 189 Come preparare i ragazzi (su questo tema)? Risposta di Bertagna: Non bisogna trascurare gli aspetti narrativi ... ad esempio i bambini si appassionano ai cartoni animati che raffigurano gli uomini mentre combattono con i dinosauri... (Da un’intervista comparsa su La Repubblica il 23/4/04). Il darwinismo in Italia e nella scuola italiana E’ noto che sin dalla sua pubblicazione nel 1859, L’Origine delle specie suscitò nel mondo culturale, scientifico e religioso un gran trambusto. Le idee di Darwin erano tali da dividere i lettori in pro e contro. In Italia è solo nel 1864 che lo zoologo Filippo de Filippi tiene all’università di Torino una conferenza dal titolo L’uomo e le scimmie in cui parla a favore delle idee darwiniane. Nello stesso anno Zanichelli pubblica L’Origine delle specie tradotta dallo zoologo Giovanni Canestrini. I maggiori esponenti del positivismo italiano si dichiarano pro Darwin, tra cui Mantegazza, Lombroso, Cattaneo, Sergio Sergi, Morselli, Maria Montessori. Nel 1875 Darwin è nominato membro dell’Accademia dei Lincei e nel 1878 lo è Huxley. In ambiente cattolico ci fu un sollevamento di scudi, soprattutto per quanto riguarda l’origine dell’uomo. L’accusa per chi condivideva le idee di Darwin era di ateismo. Le critiche si appuntavano sulla questione dell’origine animale dell’uomo e sulla conseguente caduta della teleonomia presente in natura secondo le precedenti visioni fissiste e creazioniste. La selezione naturale infatti è una vis a tergo che agisce come forza anticaso sulla gamma di variabilità creata da processi puramente casuali quali le mutazioni e la ricombinazione genica. La teoria veniva considerata pericolosa soprattutto per le classi sociali inferiori. Così scrisse Raffaele Lambruschini, direttore de La Nazione di Firenze, il 24 marzo 1869: (Non è opportuno infatti)...trattare dinanzi a uditori mal preparati un argomento intorno al quale s’aggruppano questioni che tengono agitati gli spiriti non tanto degli uomini di scienza quanto degli uomini di mondo e della gente timorata. Tra i maggiori oppositori delle idee darwiniane spicca il letterato N. Tommaseo (1802-1874) che tentò di demolire ... la lieta novella che ha messo gli Italiani alla pari non solamente coi Russi e gli Ottentotti, ma con le scimmie. Più tardi si aggiunsero personalità come B. Croce e G. Gentile. In ambiente scientifico si schierarono contro il geografo A. Stoppani, autore del Bel Paese e lo zoologo Bianconi. Oggi, in Italia, tra gli scienziati antidarwinisti si fanno i nomi del genetista G. Sermonti (Dopo Darwin, 1980,e Dimenticare Darwin, 1999) e del fisico A. Zichichi (Perché io credo in Colui che ha fatto il mondo 1999). Per quanto riguarda l’accoglienza riservata alle idee darwiniste ed evoluzioniste da parte della scuola italiana mi viene alla mente il ricordo di un’esperienza personale. Nell’archivio del liceo “Terenzio Mamiani” di Roma, dove ho insegnato dal 1976 al 1981, si conservano ancora alcuni documenti relativi al prof. Carlo Anfosso che fu ordinario di Scienze naturali nel liceo dal 1905 al 1918. Carlo Anfosso, medico e naturalista, nacque a Torino dove frequentò i circoli positivistici della città. Fu amico di Faldella, di Lessona, di De Amicis, di Lombroso e di altri scienziati e liberi pensatori del suo tempo. Iniziò a insegnare a Venezia, poi andò Milano e infine a Roma, al liceo Mamiani. Partecipò a una commissione 190 ministeriale per la revisione dei libri di testo scolastici , scrisse molti libri di divulgazione (La fisica dilettevole, La fisica per ridere, I mestieri strani, La chimica dilettevole, ecc.) e testi per le scuole. Organizzò il museo di Scienze naturali, ricco di collezioni e di materiali ostensivi, e il laboratorio del liceo Mamiani per una didattica basata sulla osservazione e la sperimentazione. Alla morte (1918) nella scuola fu istituito un premio annuale in suo onore destinato all’allievo autore del migliore tema scientifico. Dopo la riforma Gentile (1924) e fino al 1940 il “premio Anfosso” rimase nel liceo, ma il tema scientifico fu sostituito da uno a carattere letterario. La cura investita dal prof. Anfosso nell’allestimento della collezione naturalistica del liceo Mamiani e la nascita di collezioni simili in molte altre scuole di Roma e d’Italia, confermano che l’insegnamento scientifico, nei primi anni del Novecento, doveva essere di buon livello, secondo un’accezione moderna del termine, e attento alle idee positiviste ed evoluzioniste. La riforma Gentile sancì poi, come sappiamo, il prevalere dell’impronta idealista nella cultura scolastica del Paese per cui l’insegnamento scientifico si ridusse nella maggior parte dei casi a recita mnemonica di nomi e concetti. Passano gli anni e ancora ricorro a un ricordo personale. Nel 1963, mi preparai alla maturità classica senza aver mai studiato l’evoluzione che né la professoressa di Scienze, eppure molto brava, né i libri di testo nominarono mai. Dal 1963 al 1968 frequentai all’università La Sapienza di Roma il corso di laurea in Scienze Biologiche. Nemmeno lì ebbi occasione di fare uno studio organico delle teorie di Darwin e dell’evoluzionismo moderno, solo qualche cenno sull’argomento, e questo nonostante lo studio di due materie fondamentali di chiaro stampo evoluzionista: Anatomia Comparata e Paleontologia umana. Nel 1972 l’editore Zanichelli traduce e pubblica per la scuola superiore il testo americano BSSC Dalle molecole all’uomo. Finalmente Darwin e l’evoluzionismo entrano nella scuola italiana, 113 anni dopo L’Origine delle specie e 101 anni dopo L’Origine dell’uomo che è del 1871. Nel 1978 viene varata la riforma della scuola media unica e nei nuovi programmi di Scienze appare un impianto evoluzionista. Ma già nel 2004, riforma Moratti e scomparsa dell’impianto evoluzionista dai programmi della scuola elementare e media. La posizione della Chiesa Cattolica Molti in ambiente ecclesiastico accettarono l’idea di una evoluzione preordinata dal Creatore e di una selezione naturale intesa come forza causale e diretta al perfezionamento delle forme viventi. Nel 1950 Pio XII scrisse nell’Enciclica Humani generis: ...il Magistero della Chiesa non proibisce che, in conformità dell’attuale stato delle scienze e della teologia, sia oggetto di ricerche e di discussioni, da parte dei componenti di tutti e due i campi, la dottrina dell’evoluzionismo, in quanto cioè essa fa ricerche sull’origine del corpo umano, che verrebbe da materia organica preesistente (la fede cattolica ci obbliga a ritenere che le anime sono state create immediatamente da Dio). Però questo deve essere fatto in modo che le ragioni delle due opinioni, cioè quella favorevole e quella contraria all’evoluzionismo, siano ponderate e giudicate con la necessaria serietà, moderazione e misura, e purché tutti siano pronti a sottostare al giudizio della Chiesa, alla quale Cristo ha affidato 191 l’ufficio d’interpretare autenticamente la Sacra Scrittura e di difendere i dogmi della fede. Però alcuni oltrepassano questa libertà di discussione, agendo in modo come fosse già dimostrata con totale certezza la stessa origine del corpo umano dalla materia organica preesistente, valendosi di dati indiziali finora raccolti e di ragionamenti basati sui medesimi indizi; e cioè come se nelle fonti della divina Rivelazione non vi fosse nulla che esiga in questa materia la più grande moderazione e cautela. E nel 2003 Giovanni Paolo II nell’Enciclica Fides et ratio scrive: (I filosofi e i teologi)... devono conoscere queste opinioni, sia perché le malattie non si possono curare se prima non sono ben conosciute, sia perché qualche volta nelle stesse false affermazioni si nasconde un po’ di verità, sia infine perché gli stessi errori spingono la mente nostra a investigare e scrutare con più diligenza alcune verità sia filosofiche che teologiche. Le teorie sostitutive del darwinismo in Italia Agli inizi del Novecento lo zoologo Daniele Rosa parla di preformismo nel senso che l’evoluzione sarebbe determinata da forze interne insite nei viventi e previste da una Mente superiore, sviluppando l’idea lamarckiana di progresso e di perfezionamento presente nel mondo organico. Altra corrente di pensiero di stampo finalista fu il neolamarchismo basato sul concetto di eredità dei caratteri acquisiti, idea perseguita da A. Weissman e da E. Haeckel alla fine dell’Ottocento e da Lysenko in Unione Sovietica negli anni Trenta-Quaranta del ’900. Oggi si è già detto del creazionismo scientifico che, sorto negli Stati Uniti negli anni Settanta, si propone di rivalutare le idee creazioniste alla luce della scienza e di esaminare con più cura le, inevitabili, carenze della teoria evolutiva. Per quanto riguarda la scuola si propone di affiancare l’insegnamento dell’evoluzione a quello del creazionismo. Ma chi ha paura di Carlo Darwin? Non è un caso che proprio oggi, in un clima nazionale e internazionale che si distingue per il suo fondamentalismo oscurantista, le richieste della parte più arretrata del nostro mondo politico, accademico, e ministeriale (mai, mai scomparso) siano state accolte nella riforma scolastica appena varata. Ecco che dai programmi della scuola media scompare il concetto di evoluzione e di altri argomenti connessi. I programmi della scuola superiore al momento non sono ancora noti per cui sospendiamo il giudizio. Il metodo utilizzato per far passare queste decisioni è sempre lo stesso, il preferito dalla nostra classe dirigente e ben radicato nella nostra storia culturale, infatti: L’emarginazione della scienza nella cultura italiana si è venuta svolgendo secondo modalità che non sono di rifiuto o di critica radicale del discorso scientifico, ma di liquidazione della sua componente critica e problematica, liquidazione che si è accompagnata spesso con l’esaltazione della componente pratica, operativa e strumentale (Micheli, p. XVIII, in ANNALI DELLA STORIA D’ITALIA, 1980, Einaudi). Seguendo l’esortazione Sopire, dormire, le innovazioni dei programmi Moratti sono state imposte in una situazione di confusione politica, di assenza di dibattito critico e di ogni possibilità di emendamento. Non c’è dubbio, tuttavia, che il creazionismo scientifico e la critica antidarwiniana siano in fase di ripresa in gran parte del mondo occidentale. Ma perché e a chi Darwin, allora, fa ancora tanta paura? 192 I fatti Da E.Mayr cito: Spero di essere riuscito a illustrare l’ampia portata delle idee di D. Egli fondò una filosofia della biologia introducendovi il fattore tempo, dimostrando in primo luogo l’importanza del caso e della contingenza, e in secondo luogo che le teorie evoluzionistiche si basano più sui concetti che sulle leggi. Ma al di là di ciò- e questo forse è il più grande contributo di D.- egli sviluppò un insieme di nuovi principi che oggi influenzano il pensiero di chiunque: l’evoluzione può spiegare il mondo dei viventi senza ricorrere a interventi soprannaturali; occorre pensare in termini di popolazioni, ossia di gruppi all’interno dei quali ogni individuo sia unico (un concetto vitale ai fini dell’educazione e del rifiuto del razzismo); la selezione naturale applicata ai gruppi sociali è sufficiente a spiegare le origini e il mantenimento di sistemi etici altruistici; il finalismo cosmico -che postula l’esistenza di un processo intrinseco rivolto a una sempre maggior perfezione- si fonda su false premesse, giacché tutti i fenomeni apparentemente teleleologici possono essere spiegati attraverso processi naturali; e in questa concezione il determinismo viene ripudiato, il che rimette totalmente il destino nelle nostre mani di creature evolute. Le opinioni Coloro che hanno paura di Darwin erano già previsti da Darwin stesso e dai darwinisti della prima ora. Ecco cosa ne dice T. Huxley dopo aver insistito sulla parentela dell’Uomo coi bruti, ma anche sulla profonda differenza fisica e fisiologica che lo separa dagli altri animali: Da ogni parte sentirò gridarmi: Noi siamo uomini e donne e non una specie semplicemente migliorata di scimmie, un po’ più lunga di gambe, col piede a dita non opponibili, col cervello più grande dei vostri brutali scimpanzé e gorilla. Il potere della conoscenza, la coscienza del bene e del male, la tenerezza e la pietà degli affetti umani ci innalzano al di sopra di ogni reale consorteria coi bruti, per quanto essi ci possano sembrare strettamente affini. Ed io posso solamente rispondere che queste recriminazioni sarebbero giustissime ed avrebbero la mia simpatia se non fossero semplicemente irrilevanti. (...) Io ho tentato di mostrare che tra il mondo degli animali e noi non si può tirare una linea di demarcazione assoluta o comunque più ampia di quella che separano gli animali che vengono subito dopo di noi nella scala... Nello stesso tempo nessuno maggiormente di me è convinto dell’ampiezza del golfo tra l’uomo civilizzato ed i bruti; e nessuno più certo che l’Uomo, derivi dai bruti o no, certamente non è uno di loro. La paura di essere confusi coi bruti, il timore di contraddire la tradizione religiosa e il senso comune, la sensazione sempre più forte che la costruzione crolla!, per usare le stesse parole di Darwin, erano e sono ancora alla base dell’ostilità di molti per il pensiero darwiniano. Esiste però anche una malafede antidarwiniana propria di coloro che vogliono ricollocare la nostra specie in cima alla Grande catena dell’essere (Bonnet,1764) per cui, sono parole di Linneo: Il fine della creazione della terra è la gloria di Dio a partire dalle opere della natura, attraverso l’Uomo, lui solo. In effetti costoro sembrano essere alla ricerca dell’autorizzazione a usare il mondo organico e inorganico come una proprietà assoluta dell’uomo di cui si può decidere il destino al di là delle leggi di natura che, viceversa, ci invitano in continuazione a una maggiore prudenza e umiltà. Quanti poi protestano contro il darwinismo sociale, oltre a ignorare che fu Herbert Spencer e non Darwin a introdurre il concetto di sopravvivenza del più adatto, sono spesso 193 i più devoti seguaci della sopraffazione di uomo su uomo. Darwin detestava invece la violenza, da uomo mite e ragionevole qual era e come sa chiunque abbia scorso le sue opere. Nella sua Autobiografia ad esempio critica duramente Carlyle, idealista fanatico e sostenitore della dottrina dell’eroe: ...Carlyle ridusse tutti al silenzio tenendo per tutta la durata del pranzo una concione sui pregi del silenzio....D’altra parte le sue idee sulla schiavitù erano rivoltanti. Ai suoi occhi potenza valeva diritto. Ed ecco cosa dice nell’Origine dell’uomo a proposito delle “qualità sociali” dell’uomo primitivo: Dovevano sentirsi a disagio quando erano separati dai compagni per cui provavano un certo grado d’amore; si saranno avvertiti reciprocamente del pericolo e si saranno aiutati scambievolmente quando attaccavano o si difendevano. Tutto ciò comporta un certo grado di generosità, fedeltà e coraggio ... Quando due tribù di uomini primitivi abitanti nella stessa zona venivano in conflitto, se ( a parità di altre circostanze) una delle due contava un maggior numero di membri coraggiosi, generosi e fedeli....questa tribù doveva avere miglior successo e conquistare l’altra. Omodeo ci spiega come sia stato possibile confondere il darwinismo col darwinismo sociale in quanto: Col negare l’ereditarietà dei caratteri acquisiti, Weismann (1) sposta infatti tutto l’accento sul fenomeno concorrenziale nell’interno della specie e conferisce accenti hobbesiani all’evoluzionismo che diventa bellum omnium contra omnes. In effetti il problema più generale, e complicatissimo, di cosa sia l’aggressività distruttiva dell’uomo, con i suoi corollari estremi (violenza fisica e morale, torture, guerre) , ha a che vedere con la teoria dell’evoluzione delle specie e con la storia naturale dell’uomo come qualunque altro problema riguardante la nostra specie. Sono in molti, tra i naturalisti (Lorenz, Storr, Wilson), tra gli psicologi (in parte lo stesso Freud), oltre che tra i filosofi, i politici e gli economisti a credere nella naturale e invincibile propensione dell’uomo per il male, ma questo non vuol dire che le cose stiano esattamente così. Studi recenti e recentissimi sull’attaccamento infantile (Bowlby), sulla psicologia del Sé e sul comportamento di affiliazione gettano una luce diversa sulla belluinità umana, che sembra essere, in fondo, più culturale di quanto si voglia credere. Un silenzio assordante Qui sono riportate alcune tra le iniziative sorte per contrastare l’eliminazione dell’evoluzionismo dai programmi Moratti. - 10 marzo 04: Stefano Della Casa ([email protected]), studente di Scienze naturali a Bologna, per primo -per quanto ne so- scrive alla rubrica Lettere di C. Augias in La Repubblica, denunciando la scomparsa di Darwin dai programmi della scuola media. - 27 marzo 04: Mozione dell’ANISN approvata all’unanimità al convegno di Torino, 27 marzo 2004 e inviata al MIUR - marzo - aprile 04: Il Prof. M. Mandrioli, genetista dell’università di Modena, si fa promotore di organizzare in tutti gli atenei una Settimana pro Darwin per i primi di giugno con seminari, conferenze, dibattiti ecc. - 18 aprile 04: Risposta del ministro all’interpellanza parlamentare rivolta al MIUR dall’on. Vittoria Franco dei DS in cui si lamenta l’assenza di riferimenti all’evoluzione dei viventi e alle teorie di Darwin nelle Indicazioni nazionali per i piani di studio personalizzati allegate al d.l. n.59 del 19-02-04 194 - 25 aprile: Esce su La Repubblica un appello dal titolo Un danno per la cultura scientifica a firma, tra gli altri, di C. Bernardini, E. Boncinelli, R. Dulbecco, M. Hack, L. Cavalli Sforza, A.Piazza in cui si chiede al ministro di ... rivedere i programmi colmando una dimensione dannosa per la cultura scientifica delle nuove generazioni. Si raccolgono rapidamente oltre 50.000 firme. L’on.Moratti promette di formare una Commissione per la revisione dei programmi presieduta da R. Levi Montalcini e costituita da C. Rubbia, V. Sgaramella, U. Colombo. - 27 maggio: La Settimana pro Darwin promossa dal prof. Mandrioli non decolla perché le università, inizialmente favorevoli, danno forfait fidandosi della Commissione di revisione promessa dal ministro Moratti. Rimane solo il Darwin day organizzato dall’ateneo di Bologna, di Padova e di Firenze e dall’Anisn in tutta Italia con importanti manifestazioni a Napoli, Bari e in molte altre città (www.anisn.it) - luglio 04: Siamo in attesa di: a) insediamento della commissione per la revisione dei programmi di scuola media b) OSA della scuola superiore per le Scienze. Speriamo bene e ad majora! Responsabile Anisn per i programmi di Scienze Naturali Alessandra Magistrelli Note (1) Entomologo tedesco che studiò e diffuse con successo i temi dell’eredità e dell’evoluzionismo. Bibliografia e sitografia C. Darwin Autobiografia Feltrinelli, 1967 C. Darwin L’origine dell’uomo Editori Riuniti, 1966 T. H. Huxley Il posto dell’uomo nella natura Feltrinelli, 1956 P. Omodeo Creazionismo ed evoluzionismo Laterza, 1984 C. von Linné Systema naturae in A. La Vergata L’evoluzione biologica da Linneo a Darwin Loescher, 1979 E. Mayr L’influenza di Darwin sul pensiero moderno in LE SCIENZe, numero 385, settembre 2000 P. Piazzano Perché Dio creò Darwin? in LE SCIENZE, numero 385, settembre 2000 F. de Zulueta Dal dolore alla violenza Cortina, 1999 www.cicap.org www.creazionismo.org 195 Dibattito Fabio Fantini Faccio solo un appunto, nel senso che condivido quasi tutto quello che hai detto. Secondo me è un po’ pericoloso valutare la correttezza di una teoria scientifica in funzione di quanto ci piace, allora è vero che ci può dare preoccupazione una natura magari aggressiva dell’uomo, però bisognerebbe valutare sulla base di una serie di dati comparativi; io non sono pessimista da questo punto di vista, non credo nella specie umana comunque destinata ad un comportamento aggressivo, ma è indubbio che noi abbiamo nel nostro repertorio comportamentale da specie territoriale quale siamo una serie di moduli per l’aggressività e forse se c’è una speranza questa è nella cultura perché la plasticità del cervello umano, come ci è stato ricordato da molti relatori nei giorni precedenti, ci consente di modificare i moduli comportamentali di cui disponiamo. Su questa base io starei un po’ attento nel dire che certe formulazioni vanno rigettate perché ci stanno antipatiche, anche se è vero che ci stanno antipatiche, anche perché una ragione dell’aggressività che caratterizza le nostre società attuali, sta nel fatto che ormai è diffuso a livello planetario un concetto che è quello che si chiamava della mano invisibile, cioè la gente agisce per il proprio tornaconto, alla fine ci sarà comunque una somma delle varie componenti che porteranno a un beneficio complessivo della società. Questo è chiaro che favorisce l’uso nel repertorio comportamentale di quei moduli che incoraggiano l’aggressività, voglio dire che noi come animali culturali possiamo superare questo limite che la natura ci dà, che è nostra eredità e che non possiamo rigettare, però dobbiamo sapere che esiste questa possibilità in noi, cioè non diciamo che non siamo aggressivi. Sandra Magistrelli Mi rendo conto che è stato detto in modo molto superficiale, ma tra dirlo e non dirlo ho preferito tirarlo fuori. E’ un discorso che mi sta molto a cuore questo dell’aggressività umana. Anche io penso che la nostra specie sia potenzialmente distruttiva, aggressiva ecc., però qui si tratta di vedere in che momento la cultura, intesa in senso antropologico, può intervenire, deve intervenire e va fatta intervenire per limitare questa caratteristica. Io non voglio negare l’istintualità aggressiva, voglio dire che tutte le derive orribili di un eccesso di aggressività portano a conseguenze che non è detto che siano scritte nel DNA della specie e che siano, come dire, inevitabili e ineluttabili, mentre sono in molti in fondo a pensare questo. Tu dici che sei ottimista, ma per essere ottimisti bisogna agire presto e molto rapidamente, gli studi sono tanti, sono stati fatti soprattutto da psicologi e psicanalisti, gente che ha lavorato con i bambini. L’altro giorno mi stavo interessando alla letteratura che riguarda la violenza fisica e psichica su donne e bambini, c’era veramente da avere paura ma era interessante capire e vedere che ci sono persone che ci si sono avvicinate con un occhio più lucido e anche speranzoso: considerando che cosa si può fare. Il confine è stato superato con la seconda guerra mondiale con l’olocausto che ha dato come un altolà è vero e da allora gli studi si sono andati infittendo, perché pensare adesso a come un popolo colto, esemplare come era, e come è, il popolo tedesco abbia potuto produrre a livello di massa un fenomeno del genere ci rende molto prossimi alla fine del mondo. Adesso non voglio fare la catastrofica ma non possiamo neanche scherzarci sopra. Per questo dico: studiamo come naturalisti anche questo, però sono d’accordo con te che non basta una simpatia per dire no. 196 Una domanda Vorrei sapere che spazio hanno nei nuovi programmi soprattutto delle scuole superiori l’Etologia e l’Antropologia, che permettono un approccio particolare, una attenzione e una sensibilità particolari rispetto a quella che è l’evoluzione e ai rapporti tra le varie specie. Sandra Magistrelli Non sappiamo ufficialmente come sono questi programmi in modo ufficiale, abbiamo dato un’occhiata in modo ufficioso e sembra di vedere giustappunto l’indice del libro sul quale ho studiato nel 1963, Maria Cori Biologia edito da Cappelli, cioè diciamo che la Biologia è ritornata ad essere non le Scienze Naturali, magari!, ma una Storia naturale estremamente osservativa, descrittiva, molto ricca di nomenclatura, per cui la evoluzione è un capitolo, non è l’impianto, non è la filosofia che ti permette di capire che cosa succede nei viventi, è un capitolo che come tale può essere senz’altro eliminato se non hai tempo. Quindi l’Etologia, l’Antropologia che, in quanto scienze di confine stanno tra la natura e la cultura, non sono assolutamente contemplate; il che non toglie che se uno vuole credo possa fare, però il livello culturale, mi permetto di dire, che i programmi così come sono ora manifestano, è assolutamente datato e comunque molto basso. Altra domanda Io vorrei ritornare al discorso precedente anche se sì, mi sembra molto opportuno discorso della collega; esistono già dei programmi? il Sandra Magistrelli Ci sono delle bozze che girellano, non si sa … Una collega Le tue conclusioni sono state interessanti perché hai messo in luce che l’aspetto dell’aggressività può essere un prodotto della cultura più che dell’istinto. Adesso mi viene in mente una cosa che fa parte degli adagi, proverbi, non si è mai vista una specie più aggressiva di quella umana in realtà, è l’unica specie capace di organizzare in maniera così sistematica e razionale l’aggressività contro i componenti della stessa specie. Mi sembra comunque che il darwinismo ha messo in luce la competizione tra i componenti della stessa specie, ma non l’aggressività diretta e volontaria che è una cosa un po’ diversa, quindi selezione naturale in cui l’effetto selettivo è determinato dall’ambiente, da una scarsità di risorse, ma non c’è un atteggiamento di predominio e di aggressività, di sopraffazione di un individuo di una specie su un individuo della stessa specie; questo è un carattere che invece è tipico nostro e secondo me è tipico non tanto della cultura umana in genere ma proprio della cultura occidentale. Il fatto che la cultura occidentale sia permeata anche di spirito cattolico fa pensare, perché il fondamentalismo religioso che è stato introdotto anche dal cattolicesimo molte volte nella storia, ha introdotto molte forme di aggressività e sopraffazione verso altri gruppi umani. Quindi penso che il discorso aggressività può essere impostato dal punto di vista biologico ma ha una componente culturale così importante che non può essere assolutamente trascurato. Secondo me il pensiero di Darwin è stato utile invece per impostare il superamento dell’aggressività dell’uomo nei confronti delle altre specie, cioè il pensiero evoluzionistico in campo biologico ci ha fatto comprendere bene che noi siamo una parte del mondo vivente e che dobbiamo inserirci all’interno del mondo vivente, capire e accettare le sue leggi, essere in armonia con queste leggi, evitare in ogni modo l’aggressività verso il mondo naturale anzi cercare di conoscere il più 197 possibile il mondo naturale, perché attraverso il mondo naturale possiamo conoscere noi stessi. Beatrice Lenzi Vorrei chiarimenti su tre punti che hai toccato. Il Papa non approva in modo esplicito l’evoluzionismo: vorrei sapere da te se questo fatto che non assuma una posizione netta ma lasci aperto il campo non può essere visto anche in modo positivo, cioè il rovescio della medaglia, non è il suo ruolo, non tocca certo a lui esprimersi, non è uno scienziato se un domani dovesse approvare, a me come credente non piacerebbe per niente perché oggi lo fa con l’evoluzionismo, e a me piace, a me sta bene, ma domani lo può fare su qualcosa che a me può non piacere. Un altro punto è: in questa sede ho sentito portare avanti il discorso della contrapposizione tra creazionismo e evoluzionismo, aiutami perché io non riesco proprio a mettermela nella testa perché io vedo la contrapposizione evoluzionismo/fissismo, il creazionismo è secondo me un altro campo di indagine: c’è il mondo della materia che io posso vedere in evoluzione o fisso, poi cosa c’è prima … Poi un’ultima cosa: tu hai esposto il rischio morattiano, di chi ha una certa visuale, se vediamo l’uomo come derivato dagli animali allora l’aggressività ecc., io darei molto più risalto al rischio morattiano che deriva dal voler riproporre la lettura dei testi sacri come testi scientifici, il vero grosso rischio è questo. Mi sarebbe piaciuto che fosse stata data più forza a questo aspetto. Come insegnanti noi abbiamo il dovere di insegnare ai ragazzi a leggere il libro della natura, come qualcuno qualche secolo fa ci ha insegnato, poi altri tipi di libri glieli insegnerà qualcun altro. Sandra Magistrelli Creazionismo, fissismo, evoluzionismo, è giusto sono cose diverse. Allora per quello che ho potuto vedere perché io non mi sono formata una specializzazione sul creazionismo scientifico, il creazionismo scientifico si propone di rivalutare l’interpretazione scientifica dei sacri testi. Come faccia questo non lo so, mi interessa e quindi cercherò di approfondirlo perché è anche interessante cercare di capire come, chi non la pensa come noi, intende portare avanti il discorso. Io vi ho dato anche la sitografia del Cicap, che è il centro contro le affermazioni del paranormale fondato da Piero Angela, che offre molti spunti e molte informazioni interessanti. Fino ad ora per quel che ho potuto vedere non si tratta di affermazioni scientifiche, cioè non c’è un lavoro scientifico di esegesi seria; anche negli stessi libri di Sermonti e Zichichi ci sono più che altro dichiarazioni di principio, afflati, rivelazioni, si va avanti con le visioni, con gli insight. Fino ad ora siamo a questo punto, ecco perché risulta ancora più strano voler affiancare l’ipotesi evoluzionista e la creazionista, perché se c’è un’ipotesi evoluzionista -io dico che è una teoria ma per tanti aspetti sicuramente è un’ipotesi-, sicuramente sembra che non ci sia un’ipotesi creazionista perché non si vede su che cosa si possa basare. Se io voglio riportare all’attenzione questi testi letti sempre in modo metaforico e li voglio leggere in modo letterale, bene, allora andiamo avanti, vediamo su che cosa si basa, e fino adesso tutto questo non si vede. Poi, per quanto riguarda fissismo e creazionismo in termini storici, per quello che posso nel mio piccolo ricordare, sono cose diverse ma chiaramente parenti quindi se a volte nel linguaggio comune si confondono credo che non ci sia da meravigliarsi, comunque sono cose diverse. Il fissismo è quella teoria del ‘700 per cui “tot sunt species quot creavit Ens” cioè tante sono le specie quante ne creò l’ente supremo, quindi non ci sono stati cambiamenti nelle specie, i fossili venivano interpretati nei modi più fantasiosi possibile anche se non mancava chi, come Leonardo, aveva già capito tutto. 198 Il creazionismo nasce con i diluviazionisti nel ‘700 quando si cominciano a studiare i fossili come tali, come prove provate di specie che non esistono più, uno di questi fu Cuvier come sappiamo, però per mettere d’accordo la fede con la scoperta innegabile, trovarono un escamotage, la teoria dei diluvi universali: ogni volta che c’era un diluvio scomparivano molte specie vegetali e animali e poi Dio ricreava, quindi si avevano creazioni continue e quindi sono cose simili per quanto riguarda l’apriorismo, il ragionamento circolare, dove la ricerca di una causa esterna non c’è mai perché dobbiamo rimanere sempre all’interno di questo ragionamento. Per quanto riguarda il pensiero della Chiesa in merito all’evoluzionismo -pensiero che io rispetto profondamente- diciamo che la Chiesa ha un atteggiamento di ascolto, ferma restando la posizione di dire l’ultima parola per quanto riguarda l’anima, la rivelazione, e va benissimo. Il discorso che si fa a volte polemicamente è quello che le auree parole del Papa diventano parole del comune sentire e spesso cambiano connotazione e valenza, da parole alte e ispirate diventano parole di parte, ed ecco che questo rende un lettore critico un po’ più critico di quanto sarebbe giusto, però sono d’accordo con te, che la Chiesa deve fare la sua parte, però solo la sua. Per quanto attiene poi al rischio della lettura dei testi sacri come testi scientifici, io non ho fatto una lettura accurata dei programmi morattiani, ora la porterò avanti; comunque nei programmi di scienze non c’è un esplicito richiamo alla lettura dei sacri testi, vi si dice piuttosto di leggere i libri sui miti delle origini, ma tutte le culture hanno i miti delle origini, noi stessi nella nostra piccola storia personale andiamo sempre a raccontare le noiosissime vicende dei nostri nonni, abbiamo bisogno di una mitologia personale, quelli che si chiamano i miti fondanti, su cui basare la nostra identità, tanto più quindi a livello di grandi gruppi; fino a qui potremmo anche intenderci però a latere, non in sostituzione, sono d’accordo con te che i pericoli ci sono. Bianca Isolani Io sono senz’altro d’accordo con la collega che creazionismo e evoluzionismo non sono in contrapposizione; cioè, la definizione che noi diamo di questi termini non è giusta infatti sostengo e ho sostenuto con un progetto che stiamo portando avanti a Livorno, che noi a questo punto facciamo spesso del creazionismo evoluzionista e ormai quasi nessuno, solo Sermonti e Zichichi sono rimasti a fare creazionismo in Italia e infatti non hanno nessun seguito. Quello che invece la biologia contemporanea sostiene è un creazionismo evoluzionista che va benissimo alla Chiesa, magari per alcuni credenti non va bene, ma è perfettamente adeguato a spiegare ciò che spiega la Chiesa. Dobbiamo allora chiederci perché è stato accettato e sicuramente Darwin ha fatto un’opera di una sottigliezza (del resto suo padre diceva che Darwin era abilissimo) ha fatto un’opera sottilissima, tanto è vero che la sua teoria sull’evoluzione è stata accettata dai religiosi molto presto, tanto che è sepolto nell’Abbazia di Westminster. Quindi tutte le volte che si dice che Darwin non è stato accettato dalla Chiesa è veramente un falso storico perché è sepolto vicino a Newton. E’ stato accettato anche in America perché la questione della selezione naturale e del caso si presta magnificamente ad essere integrato nel Protestantesimo. Tutta questa aggressività come la regoli, questa visione che noi diamo ai ragazzi così terrificante della natura che alternative ha? L’unica alternativa è la religione. Ed allora ecco perché questo neodarwinismo piace agli atei, perché per loro dire che l’uomo discende dagli animali è bello, li fa sentire moderni, e piace anche ai cristiani, soprattutto ai protestanti. Io comunque ho scritto un articolo, l’ho presentato al gruppo italiano di biologia evoluzionistica La teoria Neodarwiniana: una forma di concordismo interdisciplinare? E la mia risposta è: assolutamente sì. Noi veicoliamo ai ragazzi delle teorie che se non nella religione non hanno molto sbocco etico, e sono teorie terrificanti. Si continua a 199 parlare di teoria dell’evoluzione quando l’evoluzione come fatto è stata dimostrata e proclamata l’11 Maggio 1800 cioè 59 anni prima di Darwin, dallo scienziato Lamarck che l’ha dimostrata con tutti i fossili e tutti gli organismi nello spazio e nel tempo. Quindi continuare a parlare di teoria è stato un escamotage visto che Lamarck era stato bloccato per questioni religiose perché metteva in crisi la visione dell’uomo come uno che si modifica in meglio, è stata accettata quella di Darwin. Ci si chiede allora se è giusto continuare a discutere in questo modo e facciamo il Darwin day e non l’evolution day per discutere quella teoria magnifica discussa in Russia prima e poi in America, che è quella della simbiosi che dimostra, a mio parere in modo notevolmente approfondito, anche se è ancora una teoria, che i grandi salti evolutivi, cioè la macroevoluzione di cui Darwin non si è occupato, trova una spiegazione migliore con la simbiosi che con la teoria darwiniana. Oggi ormai tutti dicono che gli eucarioti derivano dai procarioti per simbiosi genomica, allora io dico, vediamo di discutere anche questo. Piepaolo Putzolu La mia è una percezione che ti sottopongo a smentita o conferma, è più introspettiva rispetto alla classe di insegnanti di scienze e nasce da un’esperienza di un conflitto con un collega di storia e filosofia che per tutto l’anno in un Liceo Classico aveva teorizzato che l’evoluzione è una teoria e che come tutte le teorie ha puramente un valore ipotetico. Nella mia piccola esperienza, andando a ricostruire i programmi di biologia di molti insegnanti sia nelle scuole sia a volte pubblicati su Internet, ho notato che l’evoluzione come tema è carente e la stessa cosa io riscontro nei libri, non è il tema portante ispiratore del testo, non ne è l’impianto, è solo uno dei capitoli. Allora, poiché abbiamo visto che si tratta di una battaglia culturale, quindi di confronto con il mondo scientifico ma anche con quello della cultura italiana in genere, forse anche gli insegnanti di biologia dovrebbero allentare un po’ l’impeto riduzionista e spostare un po’ di più l’attenzione sull’impianto che dovrebbe avere il loro insegnamento ed essere volto cioè un po’ più all’evoluzione e forse un po’ meno alla biologia molecolare, perché io noto che anche negli umanisti il DNA viene accettato da tutti come dogma perché ha un’enorme ricaduta dal punto di vista biotecnologico, ma per loro l’evoluzione in fondo è una teoria, un’ipotesi da dimostrare. La mia percezione è che anche nella nostra categoria bisogna crederci veramente tutti perché la battaglia si fa nelle scuole, è una battaglia culturale che dobbiamo fare con i colleghi, con i ragazzi, con i genitori e ci vorrebbe un po’ più di militanza da questo punto di vista perché il rischio è che il riduzionismo che io chiamo ideologico abbia una prevalenza e una ricaduta proprio su questo tema. Una collega Finora è stato posto l’accento sull’aspetto legato all’aggressività dell’uomo e a come la teoria di Darwin abbia innescato una serie di riflessioni in questo senso; invece tu in un passaggio hai fatto riferimento al valore della teoria darwiniana come un aspetto dello spostamento del baricentro dall’uomo alla natura; quindi hai messo in luce che per il creazionismo è l’uomo che diventa dominatore, signore della natura per mandato divino, invece Darwin sposta l’uomo a un elemento di un insieme più unitario e organico. Maria Teresa d’Eramo Vorrei ritornare sul darwinismo sociale che mi ha colpito molto, perché è una tematica importante; io reputo che sia un po’ preoccupante traslare un discorso prettamente scientifico, naturalistico ad un discorso antropologico perché si presta a più interpretazioni; faccio riferimento anche ai colleghi di filosofia che spesso giustificano il 200 darwinismo riferendosi a Malthus, e quello darebbe tutta una spiegazione a carattere antropologico-culturale e secondo me va gestita in modo adeguato. Non sono preoccupata però sicuramente va gestita in modo adeguato anche perché ritengo che quello che riguarda la natura spesso ci sfugge, dobbiamo avere un certo rispetto e non dobbiamo farlo diventare troppo antropico, di tipo culturale, le due cose vanno separate, distinte. Poi una cosa che mi sembra importante è dire questo: spesso noi insegnanti di scienze facciamo la storia della biologia e puntiamo poco alla lettura di argomenti scientifici attraverso le fonti. Ho notato con alcuni colleghi di filosofia, secondo me intelligenti, perché poi è un discorso di persone e non solo di impostazione culturale, che loro spesso hanno deviato la storia e la filosofia attraverso le fonti mentre noi insegnanti di biologia trattiamo la sequenza degli avvenimenti attraverso la storia della biologia e non diamo scientificità. Sandra Magistrelli Sono tutte domande che aprono punti interessanti ed è bello che ciò si verifichi, che vengano fuori, i momenti di discussione sono sempre fertili. Rispondo un po’ senza seguire l’ordine. Bianca ha sottolineato la questione giusta di “Evolution day” e non “Darwin day”, come per dire: spostiamo la nostra attenzione non tanto sul darwinismo quanto sul processo in sé che fa da cornice al divenire del mondo naturale. Questa è una questione che si può benissimo prendere in considerazione perché nella scelta del Darwin day siamo stati un po’ spinti dai tempi, di fatto, nonostante i nostri sforzi di lungimiranza, anche noi siamo figli dei nostri tempi nel senso che siamo spinti a rispondere fuoco a fuoco; Darwin d’altra parte è il personaggio che tutti conoscono, ci sono state trasmissioni ecc. ecc., colpisce parlare di lui, non a caso è stato lui a porre delle basi inoppugnabili alla spiegazione dell’evoluzione, quindi il darwinismo è diventato la punta di lancia dell’evoluzionismo tutto, però sappiamo che le cose non sono esattamente così, siamo tutti d’accordo nel rimodellare in modo più colto e più idoneo tutte queste tematiche. Per quanto riguarda quello che diceva il collega: a scuola poi che si fa. Poco si fa, non c’è un impianto evolutivo, prevale un impianto riduzionista, meccanicista, è così perché di fatto non è facile per dei poveri untorelli come noi siamo -e lo dico in senso affettuoso e scherzoso- abbandonare quello che è il comune sentire biologico che è riduzionista e trasformarlo nella visione di insieme quale è quella che ci può dare la biologia evoluzionista, senza contare che per farla bisogna conoscerla molto bene. Abbiamo visto che razza di problemi ci sono, sono prove dentro l’evoluzione e già questo distinguo è difficile da far capire a chi non è del campo, e a chi lo è non è facile entrare un po’ meglio nella biologia evoluzionistica allora molte volte ci si rifugia nel DNA, ci si rifugia in questi nomi-mostro, togliendo ai ragazzi una grande linfa di pensiero, perché io insisto sempre su questo punto: l’evoluzione, la teoria evolutiva e tutti i suoi addentellati, anche quelli critici, sono motori di pensiero perché suscitano una serie di riflessioni che aumentano le sinapsi, mentre altri no, sono molto più costrittivi, mnemonici. Una collega Non colpevolizziamoci troppo. Io quest’anno ho provato a fare le teorie evolutive in una terza, lo sai che cosa mi hanno detto i ragazzi? Professoressa, perché non abbiamo fatto un po’ di fisiologia, anatomia, ci sono tante altre cose. Per affrontare il problema dell’evoluzione dobbiamo dare comunque delle basi, sono prerequisiti il DNA, la genetica mendeliana, la struttura della cellula, come facciamo a parlare anche di evoluzione? 201 Sandra Magistrelli Io su questo mi permetto di dissentire, non dalle tue giustissime osservazioni. Appunto per questo la nostra associazione dovrebbe sforzarsi di pensare a dei contenuti, parliamo delle superiori per ora, in cui l’impianto evolutivo è veramente il contesto su cui si proiettano la cellula, e questo e quell’altro, è cosa non è facile ma si può provare, certo ci vuole l’ingegno di tutti e la buona volontà. Comunque è un discorso che faremo presto perché l’associazione ha intenzione di sviluppare questa ricerca sui contenuti e siete pregati tutti vivamente di collaborare con noi perché tutti quanti gli spunti e le idee sono preziosissimi. Ancora una cosa a proposito dell’aggressività. L’idea che mi sono fatta leggendo è quella che il discorso dell’aggressività può fare comodo. Noi siamo animali aggressivi, siamo animali distruttivi, abbiamo un istinto, una pulsione che Freud chiama pulsione di morte e così tutti i suoi epigoni, e sono forti e importanti come formatori di pensiero, e questa pulsione in qualche modo ci rende quelli che siamo; come tutti gli istinti non è facile da superare nemmeno con la cultura, ergo, tanto vale “civilizzare” l’istinto aggressivo attraverso forme di convivenza che siano aggressive controllate, come quelle del mondo in cui viviamo dove c’è questa competizione in tutti i settori della vita. Questo è presentano quasi come l’unico modo di ragionare, mentre non lo è ma ce ne sono altri, lo stesso Darwin ci ha detto che cos’è l’altruismo, ma lo sappiamo bene anche da noi. Il problema è quello di riuscire a dare ai ragazzi questo convincimento ottimista, rasserenante, perché vivere in un mondo così non ci piace, non so che cosa ne pensate ma non è bello, invece il mondo è tanto bello. Infine, a proposito di quello che Maria Teresa dice sul darwinismo sociale: sono d’accordo, non bisogna troppo addentrarci in quelle che sono le extra moenia, può essere rischioso andare avanti per luoghi comuni, però è pure vero che noi siamo un tutt’uno, la nostra natura biologica è di fatto strettamente connessa con il nostro essere esseri culturali, quindi è molto difficile ma sta alla nostra prudenza, saggezza, cultura, equilibrio, e poi ci pensano i ragazzi. 202 Didattica dell’evoluzione F ABIO F ANTINI Le interpretazioni scientifiche del mondo richiedono sforzo di elaborazione e raramente sono spontanee. Guidare alla loro conoscenza, comprensione e concettualizzazione rappresenta un compito impegnativo per il docente. Un modello scientifico entra spesso in conflitto con la rappresentazione immediata e ingenua che il nostro cervello tende a costruirsi della realtà. La cosa non è sorprendente, se pensiamo che il nostro sistema nervoso centrale si è evoluto per reagire in modo rapido a stimoli ambientali anche complessi e tende pertanto a inserire i dati raccolti in un contesto noto per giungere a conclusioni veloci e coerenti con quel contesto. La cura nella raccolta dei dati, la riflessione ponderata sul loro significato, la verifica delle regolarità che sembrano emergere dalla loro analisi sono attività non sempre favorite nell’ambiente nel quale la nostra specie è vissuta durante l’evoluzione del suo grande encefalo. Allo stesso modo non è facile abbandonare il contesto usuale e oltrepassare le barriere del cosiddetto “senso comune”. Il vantaggio legato a una previsione e un controllo più accurati dei fenomeni naturali ha fatto sì che le spiegazioni ingenue abbiano lasciato il passo ad altre sempre più raffinate. Si tratta di spiegazioni complesse, permesse dal contributo cumulativo di molte generazioni e da un meccanismo di trasmissione e di accumulo extragenetico dell’informazione. Le spiegazioni sono state selezionate in base alla efficacia, secondo un criterio puramente pragmatico. Le spiegazioni efficaci, che chiamiamo spiegazioni scientifiche, sono spiegazioni materialistiche, le uniche per le quali è possibile ricorrere alla verifica sperimentale. Le spiegazioni materialistiche hanno il vantaggio di essere provvisorie e autocorrettive: non hanno in sé alcunché di definitivo e possono essere adeguate a nuove, più ampie o più precise, acquisizioni di dati. Le spiegazioni dogmatico-idealistiche sono costruite su verità assolute, rassicuranti ma ingombranti, perché non correggibili e prima o poi inevitabilmente destinate a entrare in contrasto con i dati sperimentali. Mentre le spiegazioni scientifiche si adattano ai dati sperimentali e possono essere abbandonate quando le correzioni imposte sono troppo radicali, le spiegazioni dogmaticoidealistiche cercano di adattare i dati ai propri contenuti e giungono a imporne la negazione nel caso in cui questi dati siano in contrasto troppo aperto con le spiegazioni stesse. Si potrebbero ragionevolmente indicare campi distinti e separati per l’applicazione delle spiegazioni scientifiche e di quelle dogmatico-idealistiche, e ciò accade spesso; ma in certi momenti storici riemerge il mai sopito bisogno di assolutismo delle spiegazioni dogmatico-idealistiche, che tendono a estendere la propria integralità di dominio su tutte le interpretazioni del mondo. Le spiegazioni scientifiche devono spesso vincere un ostacolo rappresentato dalla forza della percezione immediata dei dati sensoriali. Ad esempio, l’immagine immediata fornita dai nostri sensi ci spinge a pensare a una superficie della Terra piatta e immobile, 203 intorno alla quale sono in movimento numerosi corpi celesti. Codificata in alcuni modelli dogmatico-idealistici del mondo, questa immagine della Terra è messa in crisi da osservazioni sensate, ma è dura a lasciare il passo a una visione più efficace. Secondo un’indagine condotta alcuni anni fa, la stragrande maggioranza delle persone che abitano nei Paesi industriali risponde senza esitazione alla domanda se la Terra sia sferica o piatta propendendo per la prima alternativa. Ma la convinzione interiore non sempre si adatta a questa conquista razionale, se una percentuale variabile da Paese a Paese, ma mai irrilevante, ritiene che un osservatore posto a Lisbona potrebbe osservare, se disponesse di un cannocchiale sufficientemente potente, i grattacieli di New York. Allo stesso modo in cui la forma della Terra è percepita come piatta per il grande raggio di curvatura della superficie, le specie viventi sono percepite come fisse nel tempo per la lentezza con la quale i fenomeni evolutivi avvengono. Sarebbe interessante verificare se anche per le teorie evolutive la formale conoscenza del fenomeno si accompagna a una mancata comprensione delle sue implicazioni. Come docenti non abbiamo però molti dubbi sul fatto che un numero consistente dei nostri alunni conserva fraintendimenti più o meno gravi del significato delle teorie evolutive. Farò riferimento a cinque ordini principali di fraintendimenti: - l’individuo visto come soggetto dei processi evolutivi; - l’idea dell’evoluzione biologica come un continuo progresso; - l’idea di una scala evolutiva; la personalizzazione della selezione naturale; - il finalismo dei processi evolutivi. Il soggetto dell’evoluzione Uno degli errori più comuni riguarda chi si evolve, cioè il soggetto dell’evoluzione. La nostra percezione del mondo è fortemente individualizzata e siamo portati a ritenere l’individuo soggetto di ogni fenomeno biologico. Per l’evoluzione ciò non è vero. I singoli individui non evolvono nel corso della propria esistenza. I fenomeni evolutivi riguardano le popolazioni, la cui composizione cambia da una generazione all’altra in conseguenza delle diverse capacità riproduttive degli individui che le compongono. L’idea un po’ semplicistica che i singoli individui si modifichino nel corso della propria vita e trasmettano i caratteri così acquisiti ai propri discendenti ha tentato più volte gli studiosi dell’evoluzione. L’influenza dell’ambiente sugli individui può essere molto forte e determinare cambiamenti morfologici rilevanti. Il portamento del faggio, in natura, è molto variabile: da albero maestoso, nelle formazioni ad alto fusto, ad arbusto basso e contorto sui crinali delle montagne spazzate dai venti. Se vive isolato, il suo tronco è tozzo e breve e mette rami fin dal basso. Al contrario, se vive in un bosco, si sviluppa in altezza, in lotta con le altre piante. Una pianta di faggio cresciuta in un bosco ha un aspetto assai diverso da una pianta cresciuta da sola in un prato. I cambiamenti causati dall’ambiente non sono però ereditabili e non provocano evoluzione. I semi prodotti da un albero di faggio in un bosco e piantati in un prato si sviluppano in piante che assomigliano al faggio cresciuto in un prato, non al loro genitore. 204 I cambiamenti rilevanti per l’evoluzione sono quelli che alterano la composizione del serbatoio genico di una popolazione. I singoli individui determinano questo cambiamento in modo indiretto. Ogni individuo che si riproduce trasmette i propri geni alla generazione successiva. Gli individui che sono sopravvissuti fino a riprodursi possiedono, alla prova dei fatti, i geni adatti all’ambiente in cui si trovano. Questi geni sono ereditati dalla generazione successiva e continueranno a fare parte del serbatoio genico della popolazione. I geni degli individui che non si sono riprodotti sono eliminati dal serbatoio genico. Per evidenziare come a cambiare nel corso dei processi evolutivi siano le caratteristiche medie della popolazione, non le caratteristiche dei singoli individui, si può paragonare una popolazione a una squadra di calcio. Anno dopo anno, la squadra rimane la stessa, anche se alcuni giocatori sono ceduti e altri acquistati. Nelle squadre di calcio i cambiamenti nella composizione del gruppo sono i risultati delle operazioni di calciomercato, nelle popolazioni sono dovuti alla riproduzione, alla variabilità e alla selezione naturale. L’evoluzione come progresso Un altro modo errato di guardare ai processi evolutivi nasce da una concezione del mondo che considera la specie umana come il prodotto più elevato dell’evoluzione. I fenomeni evolutivi sono visti come un processo ascendente e lineare, culminato con la comparsa di Homo sapiens. Anche se la maggior parte delle persone dotate di cultura biologica rifiuta la concezione antiquata rappresentata dalla scala del progresso lineare, l’adesione inconscia a questa visione del mondo emerge frequentemente. Ad esempio l’iconografia classica dell’evoluzione della specie umana consiste in una sequenza lineare che passa da scimmie antropomorfe quadrupedi dal piccolo cranio a ominidi bipedi sempre più eretti e dal volume cranico sempre maggiore. L’idea dell’evoluzione come progresso trova una sua ragione nello studio dei fossili. I resti degli antichi sistemi viventi delineano infatti un quadro sempre meno vario e meno complesso man mano che si risale indietro nel tempo. I primi sistemi viventi, generati spontaneamente da materia non vivente, erano caratterizzati dalla minima complessità possibile. La diversificazione delle forme di vita poteva procedere solo verso l’occupazione di nicchie ecologiche adatte a organismi più complessi. La via verso l’aumento di complessità è la via obbligata nell’evoluzione dei sistemi viventi, l’unico percorso reso possibile dalla presenza di organismi semplici già bene adattati. La simbiosi endocellulare che segnò la comparsa delle cellule eucariote, la conquista della pluricellularità da parte degli Animali, la colonizzazione delle terre emerse con l’acquisizione della pluricellularità delle Piante rappresentano probabilmente gli eventi evolutivi che maggiormente hanno contribuito all’aumento di complessità dei sistemi viventi. Si è trattato di percorsi quasi obbligati, vie d’uscita nell’unica direzione possibile, piuttosto che tappe di un ideale percorso verso la complessità. Il diverso grado di evoluzione delle specie Un’altra fonte di confusione riguardo alle teorie evolutive proviene dall’uso di un linguaggio ambiguo, che però continua a essere usato per ragioni di semplicità. Anche 205 testi scientifici, per brevità di espressione e per immediatezza di comprensione, indulgono nell’uso di termini come “specie primitive” e “specie evolute”, oppure “organismi inferiori” e “organismi superiori”. Poiché tutti gli organismi derivano da un antenato comune, la durata del percorso evolutivo è la stessa per tutte le specie attualmente viventi (sempre che non vogliamo misurarla in termini di numero di generazioni). I termini “primitivo” e “evoluto” vanno sempre intesi come relativi e, in genere, riferiti a particolari processi che si sono verificati all’interno di una specifica linea evolutiva. Quando ci si riferisce a una specie come “avanzata” o “specializzata”, ciò non implica un giudizio di maggiore perfezione. Si intende semplicemente che quella specie presenta adattamenti a un particolare ambiente, che non erano presenti nelle forme più arcaiche dello stesso gruppo. “Primitive” sono definite le specie che possiedono numerose caratteristiche che si ritiene siano state proprie del ceppo ancestrale da cui la linea evolutiva ha avuto origine. Una specie non è mai “evoluta” o “primitiva” in assoluto. Il possesso di caratteri specializzati si accompagna spesso a quello di caratteri primitivi. La specie umana, per esempio, presenta un adattamento primitivo con la mano a cinque dita, mentre il cavallo ha sviluppato un adattamento molto più avanzato con la conservazione di un solo dito equipaggiato dallo zoccolo. Viceversa, la nostra specie è più evoluta per quanto riguarda la posizione frontale degli occhi, mentre il cavallo ha una posizione laterale più primitiva. Queste affermazioni derivano dal fatto che gli antenati comuni di cavallo e uomo, vissuti prima di 65 milioni di anni fa, possedevano una struttura dell’arto anteriore a cinque dita e gli occhi posti lateralmente nel cranio. I termini “primitivo” e “evoluto” possono risultare fuorvianti soprattutto se impiegati nella comparazione di gruppi diversi. Se si tiene conto, ad esempio, del fatto che gli organismi pluricellulari si sono evoluti da quelli unicellulari, si può affermare che questi ultimi sono più primitivi. Il termine “primitivo” suona però un po’ inadatto per molti organismi unicellulari, la cui cellula presenta un grado di differenziazione interna che non ha eguale presso i pluricellulari. Spesso ci si riferisce con il termine “superiore” a specie che hanno seguito particolari tendenze evolutive. Il termine “inferiore” è invece usato a proposito di specie che si sono come attardate rispetto a quella tendenza evolutiva, perché occupano ambienti che non richiedono ulteriori specializzazioni. Ad esempio ci si riferisce spesso a Poriferi e Cnidari come ai gruppi inferiori tra gli Animali oppure a Muschi ed Epatiche come ai gruppi inferiori tra le Piante. Infatti si ritiene che questi gruppi si siano originati, con gran parte delle caratteristiche che li contraddistinguono, in tempi molto remoti. Da ciò non segue però che Poriferi e Cnidari, o Muschi ed Epatiche, siano primitivi sotto tutti i punti di vista. Soprattutto, ciò non significa che gli Animali superiori si siano evoluti direttamente da Poriferi e Cnidari e che le Piante superiori si siano evolute direttamente da Muschi ed Epatiche. La personalizzazione della selezione Esistono anche altre situazioni in cui il linguaggio tecnico ricorre a espressioni sintetiche che rischiano di rafforzare concetti errati. E’ il caso, ad esempio, di espressioni come 206 “pressione selettiva”, intendendo quasi che un determinato ambiente spinga una popolazione verso lo sviluppo di particolari adattamenti. La selezione non è in alcun modo una forza né una entità consapevole, ma solo un effetto. La selezione consiste nel vantaggio riproduttivo di certe varianti genetiche comparse casualmente in una popolazione, senza in alcun modo contribuire alla loro comparsa. Un altro comune caso di immagini suscitate erroneamente da un linguaggio un po’ troppo sbrigativo riguarda l’antropomorfizzazione del comportamento dei sistemi viventi. Sembra quasi che piante, animali e perfino geni si comportino in base a motivazioni coscienti. Spesso si usano espressioni come “il camaleonte rende il proprio colore simile allo sfondo dell’ambiente in cui si trova perché questo comportamento favorisce la sua sopravvivenza”. In modo più preciso occorrerebbe dire “i camaleonti che, a causa delle caratteristiche del loro genoma, rendono il proprio colore simile allo sfondo dell’ambiente in cui si trovano sono favoriti dalla selezione naturale più dei camaleonti che, a causa delle caratteristiche del loro genoma, non adottano questo comportamento”. La lunghezza della seconda locuzione è effettivamente scoraggiante; sarebbe però opportuno usare la prima locuzione solo in un contesto in cui si è certi di non essere male interpretati. Il finalismo dei processi evolutivi La quotidiana esperienza di docenti ci mostra una preoccupante frequenza nell’uso da parte degli studenti di espressioni che lasciano trasparire una visione finalistica dei fenomeni evolutivi (e anche di molti altri fenomeni biologici). L’emergere delle concezioni finalistiche è un po’ l’equivalente dell’idea di potere osservare i grattacieli di New York da Lisbona. Si concede che le specie siano in evoluzione, ma non si interiorizza il concetto che sta alla base del pensiero popolazionale, cioè che variabilità casuale e selezione guidata dalle necessità ambientali producano gli adattamenti dei sistemi viventi; si tende piuttosto a pensare all’intervento di una guida superiore. Il nostro cervello si è evoluto in un contesto popolato da attori intenzionali, capaci di programmare comportamenti di varia complessità per raggiungere uno scopo. Un leopardo si mette sottovento alla potenziale preda e le si avvicina con grande circospezione perché vuole catturarla. Attribuire uno scopo a comportamenti apparentemente non collegati tra loro consente di prevedere le intenzioni di altri sistemi viventi e porvi, se necessario, riparo. La capacità di intuire le intenzioni altrui è di vitale importanza, in particolare nelle interazioni sociali tra animali capaci di apprendere dall’esperienza e anche di mentire. Potremmo dire che la tendenza all’interpretazione finalistica è un prodotto della nostra evoluzione. L’interpretazione finalistica va in direzione opposta a quella della scienza. L’indagine scientifica spiega i fenomeni di un dato livello di complessità in base a proprietà dei livelli di complessità inferiori, dei quali sono note le regole e le proprietà. L’interpretazione finalistica corre invece a inserire i fenomeni studiati in un livello di complessità superiore, per il quale possono essere postulate proprietà emergenti che spesso sono ad hoc. Ad esempio, se consideriamo la polarità della molecola d’acqua, la spiegazione 207 scientifica di questa proprietà fa ricorso alle caratteristiche degli atomi di idrogeno e di ossigeno, alla loro differente capacità di attrarre gli elettroni di legame, alla struttura dei due atomi. La spiegazione finalistica è che la molecola dell’acqua è polare perché la sostanza abbia quelle caratteristiche di calore specifico, temperatura di solidificazione e di ebollizione, densità del solido rispetto al liquido che rendono possibile la vita sul nostro pianeta. L’interpretazione finalistica ha un grande valore adattativo tutte le volte che abbiamo a che fare con agenti complessi, capaci di memoria e apprendimento. Il ricorso a questa interpretazione è però fuori luogo nella maggior parte dei casi che sono oggetto della ricerca scientifica. E’ tempo che le teorie evolutive riacquistino un ruolo centrale nella trattazione scolastica della biologia. Non possiamo più dare per scontata una conoscenza diffusa e sufficientemente precisa di queste teorie; pertanto occorre farne l’asse portante dei progetti didattici. Penso a due distinti livelli di acquisizione, corrispondenti a diverse età scolari. Nella scuola di base mi sembra importante graduare una serie di osservazioni problematiche che portino a maturare il concetto di evoluzione dei sistemi viventi. La sistematizzazione teorica di questo concetto è fornita dalla teoria darwiniana dell’evoluzione per selezione naturale e può essere raggiunta nella scuola media. Nella scuola media superiore si può procedere con il consolidamento critico del concetto di evoluzione; in particolare, è importante ricordare che le teorie evolutive non sono ferme alla originaria formulazione darwiniana e che in circa 150 anni sono state apportate correzioni e integrazioni, mentre ogni aspetto dell’impetuoso sviluppo delle conoscenze biologiche ha confermato la correttezza delle teorie evolutive. La spiegazione degli adattamenti come prodotto di un processo evolutivo lento e senza scopo, guidato unicamente dal differenziale riproduttivo, richiede una meditata acquisizione del pensiero popolazionale. Un argomento che si presta a verificare la solidità del pensiero evolutivo acquisito dallo studente è l’interpretazione di un albero genealogico, in particolare di un albero genealogico ricavato dall’analisi molecolare. Applicare in campo molecolare i principi dell’evoluzione rappresenta un utile esercizio e una verifica della comprensione delle teorie evolutive. Le omologie dei geni, la cui scoperta è stata resa possibile dal sequenziamento del DNA e dal confronto dei dati inseriti nelle banche dati elettroniche, forniscono una ulteriore convincente prova dei processi evolutivi in tutti i fenomeni che hanno interessato i sistemi viventi. Nei mesi scorsi la revisione dei programmi della scuola media ha fatto molto discutere per la eliminazione dei riferimenti alle teorie evolutive. Indipendentemente dagli esiti del successivo ampio moto di protesta e delle promesse correzioni di tiro, è certo che molti insegnanti affronteranno con prudenza gli argomenti dell’evoluzionismo e altri si sentiranno perfettamente legittimati nel non affrontarli affatto. Il mancato raggiungimento dei livelli di conoscenza e comprensione delle teorie evolutive auspicati per la scuola di base si rifletterà sulla scuola superiore, non tanto per il tempo occorrente a recuperare gli argomenti tralasciati, quanto per la difficoltà di intervenire su sistemi di credenze non scientifiche ormai radicati nella mente degli 208 studenti. Per molti e decisivi anni, infatti, ai giovani studenti sarà offerta, senza confronti con l’impostazione scientifica, una interpretazione vecchia di millenni e ignara delle conoscenze che la nostra cultura ha saputo sviluppare successivamente alla rivoluzione francese. Fabio Fantini Docente di Scienze naturali L. Sc. Galilei di Ancona 209 Dibattito finale Sandra Magistrelli Mi farebbe piacere sentire il vostro parere sulle proposte per l’insegnamento dell’evoluzione nella scuola di base e nella scuola superiore mostrate da Fabio Fantini. Aggiungo un’altra che era già venuta fuori dal direttivo ANISN del 6 giugno e cioè fare un gruppo di ricerca non teorica, ma di ricerca calata nella scuola a proposito dell’insegnamento dell’evoluzione, quindi lavorare sulla base di una traccia contenutistica quale quella che ha molto efficacemente mostrato Fabio, integrarla con altri tipi di interventi sui ragazzi, che possono essere la conoscenza dei loro prerequisiti, dei loro preconcetti, la valutazione ecc., e lavorare a questo progetto in modo da fare dell’evoluzione la cornice teorica in cui proiettare i programmi, i contenuti, che non possono essere solo quelli dell’evoluzione, per i vari livelli di scuola. Sapete che, per quanto riguarda la scuola elementare, c’è già un gruppo coordinato da Silvia Caravita, Clementina Todaro e da Bernardini di Pavia, che si dovrebbe occupare dell’educazione scientifica nelle elementari; per la scuola media si sta costituendo un gruppo, coordinato da Lina Stramondo di Palermo; per le superiori volevo appunto occuparmene direttamente ma solo per coordinare perché i problemi sono immensi; infine Rosa Roberto pensava di coordinare una riflessione su un curricolo verticale dalle elementari alla fine della scuola superiore e che appunto abbia come filo rosso concettuale l’evoluzione. Allora, per fare tutto questo gran lavoro è necessario il contributo di tutti, e l’intervento che tu Bianca stai per fare credo che sia assolutamente in quella direzione, proprio per non far cadere queste proposte, queste idee. Come educatori e cittadini, mi permetto di aggiungere -in un momento un po’ difficile per la cultura in generale del Paese e anche, mi sembra, dell’Occidente- che bisogna stare attenti a non far contaminare, come diceva anche Fabio, i livelli della scienza con quelli di altri settori con cui la scienza non ha molto a che vedere. Questa è soltanto un’informazione, naturalmente avremo modo di contattarci, di organizzarci, vorremmo vederci a settembre per fare il punto dopo le vacanze e vedere la programmazione di questo tipo di impegno che non è una piccola cosa, si può magari pensare di farla per piccoli campioni qua e là. Il coordinamento però deve crearlo questo gruppo, e tutto questo è semplicemente un indirizzo a cui fare riferimento anche solo per dire che interessa. Catia Pardini Tutto questo ha una finalizzazione puramente culturale nella scuola o ha anche come obiettivo quello dei programmi che devono essere ancora organizzati a livello ministeriale? Ora, sebbene sappia benissimo come è andata a finire per la scuola di base e di I° grado., chiedo: noi, come ANISN, abbiamo presentato qualcosa per la scuola secondaria, ci è stato chiesto niente? Sandra Magistrelli Rispondo io: certo, questo è un progetto culturale e professionale forte perché un’Associazione si denota anche dalle sue capacità di ricerca culturale e se questa iniziativa parte e comincia a camminare, è chiaro che l’ANISN è un interlocutore per quanto riguarda i problemi di cui parli. Per la secondaria superiore le cose stanno così: a noi ANISN è arrivata la richiesta di rivedere le indicazioni nazionali, cioè quella specie di cappello teorico generale che dice che cosa deve diventare il ragazzo alla fine: il ragazzo alla fine deve diventare un aristotelico, questo è detto espressamente nel testo, nel senso che questo è il modello di riferimento culturale. 210 Bianca Isolani Dalle conchiglie alla pace sembra un’estrapolazione un pochino folle. Noi stiamo lavorando su questo da molto tempo, esattamente dal ’96, abbiamo fatto una mostra “Le conchiglie di Lamarck”, di cui qui vedete alcuni pannelli, fra cui un quadro che è stato fatto proprio per noi perché intendiamo valerci di molti pittori, perché come è stato detto in questi giorni, c’è anche un discorso di sollecitazione estetica ed emotiva, e lo abbiamo portato, in questa mostra partita nel ’96 a Livorno alla Fortezza nuova, poi l’ha fatta l’ANISN della Valle d’Aosta che è bilingue (e siamo riusciti a trovare i fondi per tradurre il libro anche in francese) l’abbiamo fatta anche con i francesi del paese di Lamarck e circonvicini, in Piccardia, con cui continuiamo ad avere molti contatti, scambi e gemellaggi. Abbiamo fatto questa mostra con lo scopo preciso di rivalutare la figura di Lamarck, che è stata di proposito svalutata ed è ancora tanto svalutata che Lamarck viene citato soltanto per il collo delle giraffe di cui ha parlato in appena 15 righe. E’ stato invece il creatore della Biologia, a cui ha dato per l’appunto anche il nome, il creatore della terminologia vertebrati e invertebrati, il creatore della sistematica degli invertebrati, perché ai tempi suoi la cattedra era costituita da “ Insetti, vermi e animali microscopici”: questo era lo stato degli studi sugli invertebrati al suo tempo; su questi argomenti ha prodotto sette libri che sono stati consideratissimi per tutto l’Ottocento e che Darwin stesso aveva sul Beagle, altrimenti, come vi è stato detto da qualche relatore precedente, non avrebbe saputo classificarli. Quindi per noi il fatto importante era rivalutare la figura di questo scienziato perché era deriso, non a caso, come poi vedremo. Il discorso fondamentale era dunque di rivalutare come egli ha scoperto l’evoluzione, perché tutti sapete che viene considerato il padre dell’evoluzione ma un padre, tutto sommato, un po’ cretino. Egli invece ha dimostrato l’evoluzione come fatto, l’ha enunciato come fatto non come teoria l’11 maggio 1800 e noi l’11 maggio del 2000 abbiamo celebrato questa ricorrenza a Livorno, a Milano, nel paese di Lamarck e al museo di Storia naturale di Parigi in contemporanea. Per arrivare a enunciare l’evoluzione come fatto si è basato proprio sugli invertebrati, in particolare si è basato sulle conchiglie: ecco perché “Dalle conchiglie…”, perché gli hanno permesso di fare degli studi nello spazio e nel tempo. Nello spazio: lavorando su una enorme quantità di esemplari che si faceva portare da tutto il mondo e per il qual motivo si ridusse in miseria, dimostrava che le specie sono variabili gradualmente e ogni specie sfocia nei generi vicini. Nel tempo: Lamarck era nato e vissuto nel bacino di Parigi, che è un bacino fossilifero del Terziario per cui ci sono tantissimi fossili e anche qui ha veduto la gradualità fra specie attuali e specie più antiche. Quindi il suo ragionamento è stato induttivo: se le specie sono variabili nello spazio e se le specie sono variabili nel tempo, o si formano dalla terra -ma era già stato dimostrato da Redi, Spallanzani ecc. che la generazione spontanea di questo tipo non sussisteva- oppure quelle più complesse dovevano derivare dalle più semplici, e tertium non datur, non esiste un’alternativa per cui, continuare a parlare a 200 anni di distanza, di teoria dell’evoluzione è improprio. L’evoluzione è un fatto. Ecco perché qui si può considerare Lamarck come Copernico, perché mentre tutti studiavano gli animali superiori come mammiferi, uccelli ecc., egli ha studiato gli invertebrati e ha detto che i piani degli invertebrati sono molto molto più differenziati di quelli dei vertebrati, quindi per studiare l’evoluzione occorre studiare gli invertebrati, che egli diceva essere oltre l’86 % degli animali. Nel 1820 ha proposto anche un albero evolutivo, quindi molto prima dei famosi alberi evolutivi di Darwin e di Heckel (quelli di Heckel sono degli anni Settanta dell’Otocento). Da questo concetto di albero evolutivo che noi abbiamo voluto che fosse espresso in un quadro (al pittore era stato chiesto di mettere in evidenza l’importanza del mare e secondo noi lo ha fatto) oggi 211 è scaturito questo moderno albero evolutivo che dà pienamente ragione a Lamarck, infatti i vertebrati sono rappresentati solo in questa piccola parte di tutto l’albero evolutivo, quindi è vero che per capire l’evoluzione occorre studiare gli invertebrati. Per Lamarck alla base stavano degli organismi unicellulari: addirittura pensava, contrariamente agli studi dell’epoca, che fossero nati per generazione spontanea e continuassero a nascere per generazione spontanea. Vincenzo Terreni Sarebbe opportuno utilizzare quest’ultimo scorcio di convegno per una discussione su tutti gli aspetti didattici dell’evoluzione. Mi auguro poi che il discorso che presentava Bianca Isolani sulla mostra di Lamarck abbia un seguito con la provincia di Lucca. A questo punto invito i colleghi a porre delle domande, a Fabio Fantini e anche a Brunella Danesi per recuperare un po’ della discussione di ieri sera e arrivare, non dico a una conclusione del nostro convegno, perché sono stati sollevati molti più problemi di quelli che possiamo essere in grado di risolvere da qui a quando ce ne andremo, ma per lo meno fissare alcune questioni aperte, altre visioni su quello che è stato presentato che credo, e di questo sono sicuro, sia stato uno spaccato estremamente stimolante di grande profondità e interesse scientifico. Invito dunque i colleghi a porre domande, e non solo domande ma riflessioni, invitando contemporaneamente però anche ad una certa stringatezza. Pier Paolo Putzolu Alla luce di tutto quello che abbiamo ascoltato anche in questi giorni, ma soprattutto della relazione di Fantini, non so se una proposta, per riuscire ad affrontare l’evoluzione organicamente e con tutte le valenze che può avere anche dal punto di vista formativo, può essere quella di tornare al percorso storico, presentandola quindi con i suoi passaggi storici, a partire dai primi dell’Ottocento fino alla teoria sintetica dell’evoluzione e a quello che di problematico sta emergendo oggi. Fabio Fantini Sono d’accordo, secondo me il percorso storico è una possibilità. Ci sono alcuni argomenti nelle materie che insegniamo in cui l’aspetto storico è rilevante, perché in effetti certi concetti, per maturare, hanno bisogno di una base, spesso sbagliata ma il superamento è comunque un progresso, e credo che l’evoluzione sia uno di questi. Penso che tutti quanti noi citiamo i primi evoluzionisti per spiegare come il concetto di evoluzione si sia fatto strada facilmente per i motivi che dicevo prima, però c’è un passaggio decisivo che è quello che si ha con Darwin, e Darwin è vissuto circa 150 anni fa, quindi bisogna fare anche un po’ di storia per capire il contesto in cui Darwin lavorava, in cui si passa da un meccanismo immediato, ingenuo, ad uno un po’ più articolato, che richiede una riflessione maggiore sui dati. L’altro percorso che ho presentato è ugualmente in qualche modo storico perché parte dagli inizi del Novecento e arriva agli anni Ottanta del Novecento e giusto in mezzo c’è il DNA con tutto quello che ha significato. Adesso non devo stare a ricordare qui che il bello della Biologia -e non è detto che durerà per sempre probabilmente no, anzi- è che tutto si tiene, anche se qualche crepa comincia ad emergere, e questo secondo me è importante che noi agli studenti lo comunichiamo, quindi quello che è accaduto nel ‘900 che si può chiamare a ragione il secolo della Biologia, il secolo per noi biologi meraviglioso, pieno di scoperte entusiasmanti, può darsi che il 2000 sia anche meglio. Però il percorso storico in un argomento come questo secondo me è veramente importante, anche se forse non decisivo ma tale comunque da facilitare molto il nostro compito di insegnanti. 212 Una collega Mi è piaciuta molto la relazione del prof. Fantini e anche quella della prof. Danesi; mi è piaciuta molto la sua relazione, molto bella, molto incisiva, però ho notato una cosa: lei non ha affrontato l’aspetto dell’approccio macroevolutivo e l’aspetto della storia naturale. Io penso che una delle difficoltà maggiori nell’affrontare l’evoluzione biologica è proprio quella che noi non abbiamo l’approccio storicistico perché, purtroppo, l’analisi degli aspetti geografici e degli aspetti geologici connessi con l’analisi dell’evoluzione biologica, quindi la storia naturale, è confinata soltanto in una parte molto ristretta dei nostri programmi di Scienze. Noi siamo portati quindi dai programmi tradizionali, ministeriali ad affrontare prima la Biologia, poi la Chimica e non si sa perché poi la Chimica, e poi gli aspetti della geologia. Diceva il prof. Terreni ieri: non sono solo storie di cicce ma sono anche storie di sasso, ma in realtà sono storie di cicce e di sasso messe insieme, perché è proprio tutta l’evoluzione biologica il risultato di una relazione tra gli organismi e l’ambiente, cioè un’integrazione tra litosfera, biosfera, atmosfera e idrosfera e un approccio complesso come questo è proprio quello che ci serve per capire che questi organismi si evolvono. Non si evolvono perché vogliono diventare migliori, sarebbe più corretto dire che vengono evoluti, cioè man mano che l’ambiente cambia cambia anche il sistema naturale, l’ecosistema e quindi qui c’è tutto un discorso anche ecologico da considerare in relazione all’evoluzione biologica, e qui entrerebbe anche la Biologia. Secondo me dunque un ripensamento dei programmi è proprio indispensabile altrimenti noi queste difficoltà le abbiamo nel trasmettere certi concetti ai ragazzi, non riusciamo ad affrontarli adeguatamente perché siamo abituati ad un approccio microevolutivo, perciò -come diceva il relatore-: abituare i ragazzi a pensare il pensiero popolazionista, non è semplice. Invece, se noi cominciamo con il parlare della storia naturale, col parlare dell’evoluzione in termini di cambiamenti dei sistemi viventi, relazioni tra gli organismi e l’ambiente, poi il pensiero popolazionistico viene percepito meglio, e secondo me dovrebbe venire dopo. Il problema è che il nostro sistema scolastico non è assolutamente coerente con questo tipo di approccio che invece è l’approccio che la scienza oggi segue, anche se è vero che la gran parte delle conoscenze poi si ottengono con un tipo di sperimentazione riduzionista, però lo sforzo attuale e più moderno è quello di integrare l’approccio riduzionistico con questo più globale, cioè integrare tutte queste posizioni per arrivare ad una comprensione più completa del nostro sistema vivente. Questo è quanto volevo dire al prof. Fantini. Alla prof. Danesi: mi è piaciuta molto anche quella relazione perché dice che l’emotività, quindi l’affettività deve essere inserita nei processi di apprendimento, perché soltanto attraverso questo tipo di passaggio si può avere anche un apprendimento efficace, in grado di sviluppare la personalità complessiva dell’individuo, quindi è giusto coniugare alla lettura quello che è il freddo manuale. Io però vedo la lettura molto importante anche da un altro punto di vista, perché, e qui allargo un po’ il discorso ai diversi sistemi di comunicazione, oggi non abbiamo soltato la lettura ma abbiamo tutti i media, fumetti, televisione, cinema, e tutti questi sistemi di comunicazione risentono un poco di quella che è la nostra cultura occidentale. Noi “latini”, europei, abbiamo un forte difetto di conoscenze scientifiche, gli anglosassoni pure, però sotto un altro aspetto, nel senso che loro magari a scuola studiano meglio le materie scientifiche, però poi studiano poco in generale e quindi ci sono delle grosse misconoscenze sul piano scientifico. Quindi secondo me utilizzare la nostra attività didattica per fare un tipo di analisi di questo genere nelle comunicazioni dei mass media non è una cosa sbagliata: per esempio potremmo prendere un film dove si parla, non so, di un marziano che fa delle cose stranissime, perché nella 213 fantascienza c’è moltissimo che può porre un dubbio, che può coinvolgere in maniera sbagliata i ragazzi, così come è sbagliata la divulgazione scientifica quando è una forma di promozione delle innovazioni tecnologiche e non semplicemente una forma di comunicazione e di diffusione dell’innovazione scientifica. A questo proposito mi riferisco in particolare alle innovazioni biotecnologiche, che pur essendo produzioni serissime in questo campo, ci danno però una visione solo parziale degli effetti dell’introduzione delle nuove tecnologie, per cui secondo me compito nostro potrebbe essere anche quello, ma termino qui perché questo discorso non c’entra molto con l’evoluzione. Fabio Fantini La questione della microevoluzione: è vero che insistere sull’aspetto della microevoluzione in qualche modo è più facile, perché ci sono gli strumenti per trattarla e dunque, poter disporre di uno strumento efficace dal punto di vista teorico per trattare il fenomeno secondo me è molto vantaggioso dal punto di vista didattico, non si naviga a vista, e questo è il motivo per cui la microevoluzione io l’ho indicata tra le righe, ma come il primo punto da affrontare. Sulla macroevoluzione ci muoviamo invece in modo più incerto, l’ortodossia direbbe che la macroevoluzione non è altro che l’estrapolazione della microevoluzione, poi ci sono state alcune integrazioni. Allora ci sono gli isolati periferici a cui facevo riferimento prima, in cui c’è un’accelerazione per motivi che non sto a ricordare, ancora, ci sono le mutazioni nei geni omeotici, però tutti questi sono spunti che abbiamo e non sono inquadrati in una teoria così facile da usare come quella della microevoluzione; secondo me comunque quella teoria a un livello di base è essenziale. Rapidamente sulla mia esperienza e sui programmi: io insegno in un liceo scientifico tradizionale, i miei programmi ufficiali non farebbero cenno neanche della parola “genetica” perché risalgono al 1946, ma c’è una grande libertà, la tolleranza che c’è stata in Italia per ogni tipo di sperimentazione ha anche prodotto il fatto che nessuno mi viene a dire che devo o non devo fare questo o quest’altro, dopodiché credo che conti un po’ quello che noi riteniamo opportuno trattare e per la formazione e per la conoscenza che i nostri studenti debbono avere. Da questo punto di vista confesso che mi sento molto libero anche se sono legato (ma in qualche modo ho accettato questo vincolo) al 2-3-3-2 Biologia-Biologia-Chimica-Scienze della Terra. Volendo, so che potrei cambiarlo, al momento però non mi sembra il problema più importante. Brunella Danesi Intanto voglio fare una precisazione: quando ho parlato di fare appello al sentimento era soprattutto per ritornare poi alla ragione, altrimenti davvero si cade nell’irrazionale, e questo non lo vorrei per gli studenti. Ritorno poi a quello che ha detto Magistrelli e che secondo me è fondamentale, cioè se vogliamo avere un insegnamento significativo dobbiamo avere una visione verticale. In questo caso penso per esempio ai tedeschi, non perché mi stanno particolarmente simpatici ma perché, in qualche modo che mi risulta misterioso, i ragazzini di 14 anni escono dalla scuola e sanno dare un nome alle cose, c’è scritto anche nella genesi, però i ragazzini tedeschi, e questo l’ho visto perché sono stata ospite in Germania, mostruosamente riconoscevano farfalle, insetti, non confondevano i serpenti con i lombrichi, cosa che invece i nostri studenti fanno serenamente per cui tutto ciò che striscia è verme, e si va a poco altro. Questo accade perché, secondo me, bisognerebbe davvero ritornare agli alberi genealogici, ricordando, tanto per fare un’altra citazione, ciò che dice Bateson a proposito della struttura che connette, facendo riferimento al fatto che anche un bambino sa riconoscere un sasso 214 da un vivente perché il vivente è dotato di organizzazione, ha le zampe in genere a sinistra e a destra, le zampe sono appunto fra loro molto simili. Qui si potrebbero fare tutta una serie di considerazioni per esempio sulla simmetria e così via, quindi sarebbe opportuno che questi argomenti, che sono abbastanza semplici, venissero affrontati nell’età dello sviluppo in cui fra l’altro la memoria è molto sovrabbondante, e quindi possono fissarsi i vari termini. E, badate, non chiedo molto, ma chiederei che distinguessero per esempio il pino dall’abete -questo si può fare alle elementari-, che riuscissero a capire che gli insetti hanno sei zampe, anche perché il fatto che gli insetti hanno sei zampe li porta a vedere che, appunto, tutti gli insetti hanno sei zampe e guarda caso, tutte queste zampe guardate con una lente presentano strutture che sono equiparabili, e qui non dico di voler usare il termine omologo, però il ragazzino certe cose potrebbe imparare a vederle, e a vedere anche che il gatto, il cane, l’uomo e la scimmia (anche se per questa bisogna andare allo zoo) hanno molte parti simili. E questa sarebbe la prima parte, dopodiché si può andare all’evoluzione e cominciare a parlare dei modelli evolutivi, ma, al di là di questo, secondo me ha molto ragione Fabio Fantini quando dice: va bene io parlo, che so, di genetica e faccio vedere quello di cui ha parlato la prof. Marini (certo non a quel livello), cioè faccio vedere una variazione adattativa a livello genetico; se parlo di macroevoluzione, e così via. Un altro discorso sollevato, per il quale invece non sono d’accordo con Fantini, è a proposito dell’insegnamento delle Scienze nel liceo scientifico: secondo me la Chimica, lo abbiamo detto tante volte, dovrebbe precedere la Biologia. Bianca Isolani Io devo fare una precisazione in riferimento a quanto si diceva e cioè che tutti i lavori fatti spesso vengono dimenticati. Noi, 20 anni fa, prima della riforma Brocca, eravamo stati invitati a proporre dei modelli di programmi, i quali vedi caso, erano proprio nel senso che dicevi tu, cioè prima c’era la Chimica, poi la Scienza della Terra, poi la Biologia, che è l’approccio assolutamente più ragionevole, che veniva usato anche 2300 anni fa dai naturalisti greci e che è stato poi divulgato da Lucrezio nel De rerum natura e, vedi caso, la scienza moderna è stata riscoperta quando è ricominciato a circolare il De rerum natura, anche tradotto in italiano. Queste sono le nostre basi, e queste andrebbero rimesse in auge. Una collega Premetto che non sono una chimica però, per rispondere anche alla collega riguardo al discorso dell’organizzazione in un liceo scientifico in cui la Chimica è posizionata in un anno che sembra strano, tra la Biologia e le Scienze della Terra, io credo che voglia rivendicare il fatto che la Chimica ha una sua connotazione, un suo preciso significato in quanto disciplina che un ragazzo deve conoscere a prescindere dalla sua funzione “ancillare” cioè propedeutica ad altre. E’ vero che è una disciplina di base, come lo è la Fisica, come lo è la Matematica per l’elaborazione di modelli, però non la possiamo vedere esclusivamente in questa veste, perché allora dovremmo fare anche la Fisica solamente funzionale all’insegnamento della Biologia e delle Scienze della Terra; ogni materia scientifica ha una sua epistemologia, un suo statuto ben preciso che è giusto che un ragazzo di liceo scientifico conosca, a prescindere dalle altre. Riflettendoci, sono d’accordo che dovrebbe essere insegnata parallelamente per tutti gli anni, nel senso che l’ideale sarebbe questo. Brunella Danesi Forse non mi sono spiegata: io per tanti anni ho trattato prima la Chimica, ma ciò non vuol dire che la Chimica è ancillare alla Biologia, è che molte parti della Biologia, se 215 non si sa bene il concetto di ossidoriduzione, secondo me non si possono fare, o comunque si fanno in maniera più difficile, e poi probabilmente, sacrificando la Biologia mi sembrava di avere più spazio, nel senso che, impegnata la seconda e metà anno della terza, mi sembrava di avere più spazio, piuttosto che relegarla in quarta e vedere questo stacco grosso fra Biologia prima e Geologia poi. Ora è chiaro che l’ideale sarebbe averle come discipline separate, come sembrava che sarebbe successo, ma come in realtà non succederà, perché credo fermamente che le uniche persone interessate a questo sono gli insegnanti, che non contano niente. Vincenzo Terreni E’ venuto a trovarci il prof. Alberto Bargellini che ha saputo della nostra iniziativa dai giornali e ci fa molto piacere perché è una persona che ha dato moltissimo per l’insegnamento scientifico in Toscana e in Italia, ha diretto una grande quantità di progetti per l’introduzione di un insegnamento scientifico corretto nella scuola elementare e ha precorso, purtroppo, ma non per causa sua, i tempi con risultati attesi un po’ diversi da quelli ottenuti. E’ ospite della nostra iniziativa e ci fa molto piacere. Rispetto alla questione che ora ha sollevavato anche Brunella Danesi e che credo sia particolarmente interessante, cioè quella dell’insegnamento della Chimica e della Biologia, mi è venuto in mente uno scritto ormai famoso di Paolo Guidoni in un libro che tutti hanno letto: ..fare finta di…, fare finta di sapere la Chimica per poter studiare Biologia, fare finta di sapere che cosa sono le proteine per imparare come funzionano, e così via, io credo che siamo ancora a questa situazione, che non siamo ancora riusciti a prendere consapevolezza delle difficoltà oggettive ma che si proceda, specialmente con gli ultimi programmi che sono stati pubblicati in maniera un po’ clandestina, con questo gioco delle parti in cui gli insegnanti fanno finta di insegnare e gli studenti fanno finta di imparare e tutti facciamo finta di avere un sistema scolastico adeguato alle nostre esigenze. Scusate l’amarezza con cui esprimo queste considerazioni, però io sono reduce dall’utilizzazione di un bel libro adottato dalla maggior parte dei colleghi in seconda liceo, l’Helena Curtis che parte proprio da questo punto: facciamo finta di sapere la Chimica, e da lì poi fa un bel trattato di Biologia che purtroppo ai ragazzi di seconda passa sopra come acqua sulla roccia. Fabio Olmi Allora, prima di passare alla risposta a Fantini volevo rispondere alla collega: dal 1984 la Divisione didattica si era data una struttura per studiare la fattibilità dell’insegnamento della Chimica anche a livello elementare, in una struttura curricolare per cui ci sono stati dei responsabili, non sempre i soliti perché si sono alternati nel tempo, che vi si sono dedicati e ci sono anche dei libri appositi come La Chimica alle elementari, La prima Chimica ecc., secondo l’idea che la Chimica, come tutte le altre discipline, che hanno avuto origine storica diversa, possono essere anche a livelli più semplici, ma è mancata a volte la ricerca didattica che avrebbe potuto suggerire come farle, comunque anche la Chimica, come tutte le Scienze può farsi alle elementari sia pure su livelli elementari di approccio. Quanto alla scuola media, non si deve pensare di affrontare la struttura atomica che, direi, è vietata ai minori di 16 anni o anche di 17, come peraltro la mole è vietata ai minori di 10 anni e potrei continuare con i tanti divieti, però ci sono delle concessioni che si possono fare. E dico a voi insegnanti di Scienze -ed è una sfida che ho lanciato già ad altri- che non si possono fare le cose che non sono state affrontate all’università e che quindi gli insegnanti non hanno digerito, per non parlare dei libri di testo di Biologia che si ostinano a inserire nelle prime venti pagine tutta la Chimica, il che è impossibile, e questo ve lo dico come appartenenza 216 disciplinare perché sono 30 anni che insegno anch’io queste discipline, quindi appartengono anche a me in qualche modo, pur con la mia formazione d’origine di chimico. Allora, non si può ragionare sempre con mente da adulto perché la mente dell’allievo è diversa quando è al livello di scuola media, quindi bisogna calarsi e fare in modo che gli insegnanti che non hanno avuto una formazione adeguata, possano entrare in un’ottica, che non hanno mai avuto di considerare i bambini non adulti, come sembrano spesso considerarli i libri di testo e come facciamo noi immaginando di poter insegnare alla scuola media come si insegna a livello liceale, non si può. Io, guardando dalla parte della SSIS e da 5 anni di esperienza, ho constatato situazioni disastrose di insegnamenti completamente fasulli delle Scienze nella scuola media, è uno scandalo e io l’ho chiamato il buco nero del nostro livello di insegnamento, e mentre le elementari ancora si reggono con certi tipi di sperimentazioni, la scuola media è il buco nero del nostro livello di formazione. Dunque, noi dobbiamo incidere a quel livello in modo effettivo, non continuando a far aggiornare gli insegnanti per via telematica -che anche se è utile non può essere esclusivo- ma guardandoci in faccia in laboratorio e dobbiamo dar vita, e questa è la proposta che volevo fare al termine del mio discorso, ad un progetto fra le diverse Associazioni. Leggiamo con attenzione i nuovi programmi e vediamo che hanno obiettivi che sono stati preparati da gente che non li ha mai formulati, perché la prima colonna delle conoscenze ci sono i contenuti, gli obiettivi si formulano in altro modo, non sono operativi, quindi quelli che li hanno fatti sono ignoranti. I programmi sono prescrittivi ed è intollerabile che l’insegnate debba insegnare quelle cose lì, ma possono diventare meno intollerabili ed essere anche comprensibili se l’insegnante sa progettare e ha l’intelaiatura di formazione che lo rende capace in tal senso, cosa che attualmente non è, l’insegnante non è in grado di fare ciò, quindi dobbiamo aiutarlo noi a progettare qualcosa di sensato, proponibile, appetibile e comunque digeribile per gli allievi. Questa è l’operazione da fare e se ci riusciamo, riusciremo probabilmente a smuovere qualcosa, altrimenti faremo grandi convegni sulla soddisfazione culturale con cui ognuno di noi si sentirà beato -io sono stato affascinato alla presentazione di certe cose- però il discorso effettivo di modificare la scuola è lontano da questo tipo di lavoro, bisogna farlo fermentare in operazioni concrete, concordate fra diverse associazioni e mirate, dico ancora una volta, alla scuola media. I programmi del liceo ormai sono tradizionali e riguardano marginalmente secondo una recente inchiesta, il 10-15 % della scuola italiana perché nemmeno i licei sono tradizionali, io per esempio vengo da un liceo sperimentale in cui i programmi di quel tipo lì semplice pane-salame-pane si facevano nell’uno quando non c’era nessuno, mentre oggi anche gli insegnanti del corso tradizionale fanno in ordine scalato la Chimica, la Biologia modulando le diverse parti delle diverse discipline, comprese le Scienze della Terra. Vincenzo Terreni Un’informazione che credo sia doverosa dopo le considerazioni di Fabio Olmi sulla formazione dei docenti: quello che ha detto mi trova d’accordo, trova d’accordo l’ANISN ovviamente, ma anche la DDSCI e l’AIF: è partito un progetto di cui è stata presentata la richiesta di finanziamento al Ministero e le vie per raggiungere l’obiettivo forse ci sono, si tratta di unificare la gestione della formazione in rete e la formazione in presenza e finalmente creare delle strutture attrezzate per la formazione in sede che possono costituire dei laboratori aperti, verticali per la formazione dei docenti. Questa proposta è stato accolta bene alla direzione del personale e si spera che possa andare avanti, per cui dal punto di vista delle Associazioni siamo credo sulla strada giusta, si tratterebbe di vedere se ci sono dei varchi all’interno dei quali inserirsi nella 217 politica che stanno portando avanti ora, per vedere se, da una parte si può procedere alla formazione, e dall’altra se si può procedere alla strutturazione di un ordinamento scolastico che non consideri sempre le Scienze marginali. E appunto, tanto per inserire un altro elemento di riflessione e di pianto, ho visto i programmi di studio e l’articolazione oraria sebbene soltanto quella del liceo classico (gli altri non sono ancora arrivati, e già questa reticenza è inspiegabile) comunque la distribuzione oraria del classico è identica a quella del liceo di Gentile con due ore in più di lingua dalla quarta alla quinta ginnasio, che mi sembra abbia conservato il nome; le Scienze compaiono (per ora), provate a indovinare: 4^ ore in prima, 3^ in seconda e 2^ in terza liceo. Maria Teresa Eramo Sono d’accordo con l’ultimo intervento, nel senso che secondo me è molto sentito il fatto che la Chimica debba essere la materia cardine entro cui la Biologia, quella seria -come se ce ne fosse una subalterna- deve avere assolutamente quell’impostazione, lo sento molto anch’io perché è una discussione che faccio continuamente con le colleghe quando organizziamo la programmazione, invece io sono d’accordo che ci sono dei livelli e va stabilito un determinato livello a seconda della fascia di età. Per esempio, ho fatto un lavoro in verticale sull’acqua con una collega delle elementari, e vi garantisco che i ragazzini (chiaramente tutto sta a come si porgono i contenuti, a quali livelli si arriva) con questa collega facevano delle cose estremamente interessanti a livello sperimentale, avendo magari una metodologia diversa da quella della scuola media e del superiore, ma riuscivano a capire con esperienze anche semplici. Certo a quel livello non si possono fare le grandi disquisizioni scientifiche, però ecco, al loro livello riuscivano a capire la polarità dell’acqua, facevano esperimenti estremamente interessanti, tant’è che io alla collega (preciso, laureata in Scienze) chiedevo come mai questi ragazzini così bravi, così interessati, così stimolanti una volta arrivati al liceo diventano sempre meno stimolati. Quindi qualche interrogativo bisogna pur porsi quando si vede che in Chimica ci sono tanti di quei debiti che è una cosa spaventosa, e capita anche a me, non è che per questo voglio criticare i colleghi che danno i debiti. Evidentemente, deve essere ripensata la metodologia della Chimica perché noi pretendiamo di fare cose estremamente complicate già nella prima con risultati deludenti e vedo però che, se si affrontano certi argomenti con il laboratorio di Fisica e Chimica, i ragazzini riescono ad acquisire molto più e meglio. Quando si arriva in terza, e stranamente nel liceo scientifico uno può trovarsi neanche con tre ore: in alcuni corsi abbiamo solo due ore, ditemi voi come si possa fare un discorso estremamente specialistico e pensare di avere dei buoni risultati che, chiaramente, invece non sono soddisfacenti, con la conseguenza che magari allontaniamo i ragazzi da questa disciplina che sicuramente invece va ripensata, perché è una disciplina importante, stabilendo però dei livelli anche rispetto alle ore che si hanno. C’è appunto un dato di fatto: io per esempio nel Brocca ho potuto lavorare in un cero modo, però in un corso dell’autonomia scientifica mi devo adeguare, ho due ore e non posso fare cose straordinarie. Ecco, io voglio puntate l’accento proprio sul discorso delle ore perché pur essendo in un liceo scientifico e nella migliore delle situazioni nel tecnologico, mi ritrovo oggi ad avere tre ore in prima, a differenza della collega di italiano che magari insegna dieci ore, e questo è forse è un discorso brutale, però per veicolare anche solo delle informazioni, o meglio per fare una cultura scientifica seria ed adeguata ci vuole un numero di ore congruo. Ora, è vero che non ci vogliono solo le ore ma ci vogliono anche le ore, che consentono di fare un lavoro adeguato, consentono di portare i ragazzi in laboratorio, di fare determinate esperienze. 218 Secondo me proprio su questo discorso bisogna premere, non solo le ore per affrontare i contenuti ma soprattutto le ore che consentono di fare un discorso di qualità. Volevo poi dire una cosa alla collega Danesi: sicuramente il lavoro che propone è affascinante, e anch’io con alcune colleghe magari sensibili, oppure con le compresenze, ho fatto sia con Filosofia che con Italiano per esempio T0, però la mia preoccupazione (poi chiaramente ognuno si difende la sua fetta di torta) è di non venire fagocitati da un asse umanistico che comunque rimane estremamente forte e ci tiene a restare tale, anche in un liceo scientifico a carattere tecnologico. Quando io vedo che mi ritrovo con 2-3 ore e la collega di lettere con 10, non è solo una questione di ore, è anche una questione di informazioni che io riesco a dare, e di posti di lavoro. A questo proposito, la mia tirocinante della SSIS all’interno di questa situazione, ma quando lavorerà mai? Catia Pardini Io vorrei riportare la discussione sulla didattica dell’evoluzione perché ho il sospetto che il solito discorso della separazione delle discipline ci porti un po’ fuori dal seminato. In questi giorni che cosa abbiamo sentito di assolutamente vero? Che la maggior parte delle persone a scuola non ha mai sentito parlare di evoluzione. Quando i giovani ricercatori hanno fatto questa affermazione Fabio Fantini ha detto: meno male perché forse, se ne avessero sentito parlare può darsi che non avrebbero preso la carriera che hanno preso! Comunque, noi siamo di fronte al problema di affrontare l’insegnamento della Biologia in chiave evolutiva, cosa che in realtà non c’è. Noi ci siamo indignati quando abbiamo visto che dai programmi era scomparsa questa parola e forse, da addetti ai lavori, sul momento l’abbiamo vista come una mancanza di considerazione nei nostri confronti, però la reazione che c’è stata successivamente dai non addetti ai lavori è stata quella che ha scatenato poi l’opinione pubblica e quella che a mio avviso ha creato anche momenti di malintesi e di fraintendimenti all’interno degli insegnanti: perché questo? Qualcuno mi deve dare anche delle risposte. Alcuni hanno interpretato il fatto di non mettere l’evoluzione nella scuola dell’obbligo (continuo a esprimerla così anche se non si chiama più così) come un fatto positivo perché l’evoluzione è un fatto teorico e nella scuola fino ad oggi se è stata insegnata lo è stata in maniera teorica. Si è osservato appunto che, siccome viene proposta in modo teorico, viene raccontata, allora è bene che non si faccia. Altri poi dicono: perché vi scandalizzate, tanto non è mai stata fatta! Ecco, allora io chiedo come possiamo noi insegnanti di Scienze che siamo più sensibili a questo tipo di discorso, non ci basta il contentino che la Moratti ha dato in TV, far conoscere all’opinione pubblica da una parte, ma soprattutto a tutti gli altri colleghi, forse meno sensibilizzati rispetto a noi, che di evoluzione si parla sempre e comunque dicendo che non si possono fare le Scienze fin dalla scuola dell’infanzia se non in chiave di evoluzione, pur senza usare la parola evoluzione, però noi la facciamo e la dobbiamo fare così. Comunque l’opinione pubblica si contenta di questo ma noi, come addetti ai lavori, non possiamo essere soddisfatti.Ecco, io chiedo a tutti come si può uscire, come si può essere presenti nelle scuole per tutto questo. A proposito del discorso del Ministro Moratti in TV vorrei ricordare che ci disse che avrebbe istituito una commissione per rivedere la questione evoluzione mentre poi non ha fatto né la commissione né i programmi né nulla, però non più tardi di una settimana fa Augias nelle sue risposte su Repubblica dava per scontato che fosse stata rivista e che l’evoluzione fosse stata inserita, e forse bisognerebbe comunicare ad Augias che le cose non sono veramente così. Brunella Danesi Rispondo brevemente alla collega che ha affermato che la mia proposta è di spostare l’asse culturale in senso umanistico: evidentemente sono stata fraintesa, perché la mia 219 proposta volge proprio dalla parte opposta, cioè a sfruttare ciò che letterati e umanisti hanno sfruttato, cioè: Calvino leggeva libri scientifici, Primo Levi era un chimico, Musil era un ingegnere e hanno fatto delle opere d’arte. Ho la profonda convinzione -che è mia ma che non vuol difendere nessuna bottega- che la cultura è una e all’interno di questa cultura la cultura scientifica ha un grandissimo valore e, per es. nella fattispecie la filosofia non può essere insegnata nel vuoto come invece viene fatto spesso e volentieri non può fare a meno delle acquisizioni scientifiche di questi anni. Per quanto riguarda il fatto di riferirmi per esempio a T0 o anche a saggi: nella proposta che ho presentato avevo preso come tema la letteratura, però un tema altrettanto importante sono per esempio i saggi di divulgazione scientifica, perché far leggere brani di Gould credo che sia altrettanto importante che far leggere Cuore di tenebra. E’ questo il punto fondamentale: nella scuola io mi sono difesa e avendo pochissime ore a disposizione ho cercato di erodere le ore là dove potevo andarle a elemosinare. La mia proposta era dunque di pura sopravvivenza, cioè avendo un curricolo verticale che fa pena, poter far fare per esempio in quinta, un compito di italiano su temi evoluzionistici evidentemente fa risparmiare quelle tre ore di tema che non sono andate a carico dell’insegnante di Scienze ma a carico del collega di lettere, quindi la situazione semmai si è capovolta. Alberto Bargellini Ringrazio il prof. Terreni per le parole che ha usato nei miei riguardi. Volevo partecipare a questo convegno ma per una serie di problemi familiari e anche di salute non ho potuto e mi dispiace di non essere intervenuto prima. Credo che uno dei problemi più urgenti da chiarire sia quello di una lettura critica e molto attenta di quanto è scritto nei documenti della commissione Moratti. C’è una confusione spaventosa, in primo luogo fra gli obiettivi delle tabelle del sapere e del saper fare, e di quanto viene scritto su quelli che sono intesi come obiettivi specifici degli insegnanti, cosa che fino ad oggi non era mai accaduta nei programmi ministeriali; non sono per gli allievi sono per gli insegnanti: quadri di riferimento generali per gli insegnanti. Per gli allievi si prefigurano nella parte introduttiva obiettivi formativi che non sono assolutamente chiariti né definiti, né in termini di concetti né in termini di procedimenti. In una situazione come quella attuale della scuola italiana con l’autonomia, dove ogni scuola praticamente è abbandonata, una confusione di questo genere fa dei danni irreparabili e incalcolabili, quindi ci sarebbe bisogno di una serie di interventi chiarificatori perché non è soltanto la filosofia degli obiettivi, ma questi obiettivi vanno ad incidere sulle verifiche e sugli standard, cioè alla fine dell’obbligo che cosa devono avere acquisito questi ragazzi in termini concettuali e che cosa devono saper fare in termini procedurali? Non si tratta quindi della filosofia degli obiettivi, si tratta di definire quali competenze devono avere questi allievi alla fine dell’obbligo. Da questo punto di vista gli altri Paesi europei hanno detto queste cose e le hanno specificate in termini operativi, cioè quali tipi di attività procedurali si devono fare in relazione a quali concetti da acquisire, quindi una raccomandazione di tipo teorico da parte dei responsabili dell’ANISN può chiarire bene questi tipi di obiettivi e può guardare alle competenze standard, cioè alla fine cosa devono sapere e cosa devono saper fare gli allievi. Il lavoro che personalmente ho fatto alla SSIS di Pisa -e qui ci sono delle persone che hanno lavorato con me molto intensamente- mirava proprio a dare delle risposte a questi problemi. Abbiamo sviluppato attività di laboratorio scientifico non sulla base di obiettivi generici ma sulla base di attivazione di procedimenti scientifici graduati e mirati alla formazione scientifica degli allievi, distinguendo tra le competenze procedurali, saper fare, viste in una chiave relativa all’età degli allievi. Da questo punto di 220 vista, io giudico molto antiquati i contenuti che noi svolgiamo, i modi e i contenuti sono molto antiquati, la didattica di oggi sta invece cercando di applicare questi procedimenti scientifici a situazioni del quotidiano.Gli italiani sono nel complesso estranei a questa situazione, perché, date le nostre capacità e la nostra creatività, noi potremmo portare a questo livello dei contributi straordinari. Per essere più preciso, i metodi scientifici applicati a situazioni del quotidiano, alla Coca Cola, agli oggetti che si trovano in cucina, dando a queste attività uno spessore scientifico che fino ad ora non avevano. E’ tutta una didattica scientifica da costruire almeno qui da noi, quindi io sollecito, raccomando un’attenzione a queste cose, e raccomando un’altra cosa: di recuperare materiali che sono modernissimi e di cui gli insegnanti italiani non sanno nulla, lo SCIS, il Nuffield ecc., tutti lavori fatti all’IRRSAE e pubblicati che sono scomparsi dalla circolazione, nessuno ne sa nulla e tutte le volte si ricomincia da capo. Si dovrebbe smetterla di ricominciare sempre da capo, ma fare dei riferimenti; gli insegnanti dovrebbero avere dei riferimenti concreti, i giovani non sanno nulla dello SCIS quando parlo loro di concetti e di procedimenti, ed è roba di cui si parlava 30-40 anni fa, rappresentava una rivoluzione trenta anni fa e si riparla ancora oggi delle stesse cose come innovazione forte. Al seminario didattico di Bologna Maria Ferretti e gli altri hanno parlato di queste cose nel 1967, quindi un ripensamento da parte nostra su quello che è accaduto e su quello che stiamo facendo oggi è necessario. I procedimenti che io insegno agli allievi della SSIS che hanno difficoltà a seguirli e che vanno sotto il nome di “rivoluzione della didattica delle Scienze” sono stati pubblicati nel 1967-68-71, hanno 30-40 anni di storia alle spalle, quindi è un ripensamento critico quello che io sollecito, in poche parole, relativo a chi siamo e dove stiamo andando in relazione a quello che ci sta circondando. Sarebbe opportuno forse riprendere in mano alcuni vecchi progetti a cui abbiamo lavorato quattro anni a Livorno, dal 1971 al 1976 e non ne sa nulla nessuno, facendo analisi specifiche sull’applicazione del misurare, a quale età degli allievi e come, in quali contesti, riferiti a quali concetti naturalistici, per esempio le pozze di scogliera ecc. abbiamo lavorato per anni su quelle cose. Allora, sarebbe bene riavere quei documenti e rifletterci alla luce dei programmi varati ora, o meglio, non sono programmi, non si sa bene che cosa siano, sono parole scritte, molto caotiche, non c’è una struttura, non c’è una riflessione critica su quello che viene proposto, si butta là della roba sperando che gli insegnanti siano in grado di filtrarla. Gli insegnanti non sono in grado di filtrarla perché per filtrare quelle cose ci vogliono esperienza di 20-30-40 anni di lavoro, per capire la portata di quello che viene ora. Non parliamo poi del linguaggio usato nel documento scritto Moratti, ci vuole un interprete: l’aspetto di natura epistemologica, l’aspetto di natura didattica e il tutto poi deve servire come mediazione da parte nostra a produrre gli obiettivi specifici. Chi è in grado di fare questo? Non c’è un’indicazione precisa, è lasciato tutto all’invenzione o alla creatività della persona che legge, quindi è uno sgomento. Da che parte si deve ricominciare oggi? Vincenzo Terreni Grazie per questa testimonianza un po’ sconfortata però il fatto che Lei continui nonostante tutto a prendersi a cuore tutto e questo ci mette nelle condizioni di sperare davvero di poter risolvere qualcosa. Si può anche dire che un tentativo di ripartire non da zero ma per lo meno da tre c’è stato; le commissioni a cui anche Fabio Olmi, Catia Pardini e Brunella Danesi hanno partecipato, hanno cercato di riprendere le tradizioni che erano già state portate avanti sia dall’AIF che dall’ANISN che dalla SCI, separatamente, ma facendone una sorta di sintesi per essere riproposte in quel progetto che diceva prima. Ma certo, è una elaborazione che esiste solo da parte delle 221 associazioni e non si sa con quale possibilità di rientrare da una parte del ministero per cui, se il quadro normativo rimane questo, penso che ci si debba riciclare tutti per un’altra attività, perché non ci sono margini. Credo che il prof. Bargellini sia stato molto chiaro e forse più crudo anche di quanto abbiamo fatto nel corso del nostro convegno per quanto riguarda gli aspetti di praticabilità dei cosiddetti obiettivi specifici di apprendimento della scuola media superiore, che dei piani di studio personalizzati, non si sa bene poi da chi e come. Fabio Fantini Capisco che adesso stiamo andando alla conclusione, però vorrei dire due parole soltanto a Catia: ho capito quello che dici, non te la posso dare io la risposta, io stavo pensando che il dott. Valenzano che sentivamo alcuni giorni fa diceva di non aver mai trattato l’evoluzione, probabilmente magari avrà avuto un’insegnante che gli diceva che ne so le branchie sono un adattamento, insomma dava per scontate certe cose senza averle formalizzate. A me sembra importante che le teorie evolutive rivestano un ruolo tale nel lavoro che facciamo da dargli uno spazio d’argomento autonomo, servendoci degli strumenti più opportuni, prima il collega parlava di un approccio storico e credo anch’io che sia opportuno. Io non sono un grande amante dell’approccio storico, però in alcuni casi mi sembra lo strumento migliore che abbiamo, per la genetica classica, per la tettonica globale, penso anche per le leggi ponderali, in cui un approccio storico è veramente lo strumento migliore e noi dobbiamo essere pragmatici su queste cose, quindi secondo me, ripeto, merita un ruolo a sé l’argomento teorie evolutive e come tale dovrebbe essere affrontato. Sul come inserirlo, io credo che ognuno di noi abbia uno stile di insegnamento suo, diverso da altri ed è chiaro che su questo ognuno di noi saprà come muoversi, ma credo che vitale sia il confronto con gli altri, perché io posso avere una mia idea ma poi mi fa molto comodo cambiarla, correggerla, adeguarla. Aggiungo una cosa rapidissima su quello che diceva il prof. Bargellini: io sono abbastanza in là con gli anni per aver sentito parlare di tanti di questi progetti, mi viene in mente l’entusiasmo che c’era per esempio per il PSC, se ricordo bene, il BSCS, il progetto Nuffield, tutte queste cose che sono state citate; ecco, se la scuola italiana avesse fatto proprie quelle cose in modo reale e non soltanto verbale, oggi staremmo molto meglio. Inoltre quello che mi spaventa è il fatto che quando si parla di ricerca didattica non ci ricordiamo che abbiamo una formazione scientifica e invece dobbiamo cercare di non dimenticarcelo. Qui la ricerca didattica, e sono volutamente polemico, consiste nel fatto che uno si sveglia la mattina e dice che non si parla più di obiettivi, cioè gli ultimi anni li abbiamo vissuti così, oppure, unità didattiche, moduli, poi non si parla più di unità didattiche, i moduli non vanno più bene, si parla di unità di apprendimento, insomma corriamo dietro a questioni sicuramente nominali e le questioni sostanziali ci danno un entusiasmo che è un fuoco di paglia e nessuno ci ha insegnato a maturare e a renderle veramente fruttuose. Io veramente sono spaventato da quello che succederà nei prossimi anni da questo punto di vista. Una collega Vorrei ritornare un po’ al tema di questo corso che secondo me è stato veramente molto molto istruttivo e interessante. Voglio lanciare una provocazione: abbiamo molto discusso tra di noi su come insegnare l’evoluzione con tutte le sfaccettature che sono emerse, giustamente io credo, che forse è rimasta latente un’altra domanda che secondo me poteva essere invece la parte prevalente: perché insegnare l’evoluzione nella scuola? E’ così indispensabile insegnare l’evoluzione? Ovviamente noi diamo per scontato che lo sia, però non abbiamo fatto una riflessione rispetto agli utenti, cioè i 222 ragazzi che in qualche maniera noi dovremmo motivare a questo studio, cercando di giustificare il motivo delle nostre proposte didattiche. Allora, perché vogliamo che l’evoluzione con tutto quello che vi è connesso diventi il fulcro del nostro insegnamento? Potremmo provare a motivarlo (certo non oggi, non in questa sede, ormai siamo in fase finale) non per noi come insegnanti, ma cercare di trovare una motivazione che sia condivisa anche dagli studenti. Io credo che noi dovremmo riuscire a fare questo tipo di lavoro, cioè cambiare la prospettiva, non partire dal presupposto nostro di docenti formati che hanno fatto un loro percorso di formazione e sono arrivati, se siamo qui, a credere fermamente che l’approccio evoluzionistico sia fondamentale non tanto nell’insegnamento delle Scienze, fondamentale come formazione dell’individuo, consapevole di dover capire un po’ quello che lo circonda, e dovremmo anche motivare la nostra scelta in termini un pochino più precisi, razionali, esplicitati anche ai nostri studenti. Se infatti si ragiona, con gli studenti, almeno quelli del liceo, e si fanno questi “contratti condivisi” io credo poi che gran parte dei problemi che potrebbero emergere si potrebbero risolvere, però dovremmo rifletterci noi per primi. Vincenzo Terreni Allora ci salutiamo dandoci l’appuntamento al prossimo anno: ci vorrà tutta l’estate per recuperare la fatica e la tensione generate dall’organizzazione di questa esperienza. E’ stata in compenso un seminario entusiasmante che ci ha messo in contatto con la storia, la ricerca e la didattica dell’evoluzione. Un ringraziamento a tutti coloro che ci hanno guidati in questa avventura: indipendentemente dall’età e dall’esperienza tutti hannno mostrato una freschezza di spirito e una volontà di apprendere e confrontarsi veramente contagiosa. Un ultimo saluto e un ringraziamento a chi ci ha ospitato e ci ha consentito di realizzare e portare a termine con sucesso questa iniziativa: una delle più importanti che l’ANISN abbia organizzato. Grazie a tutti, buon viaggio e al prossimo seminario. 223 Appendice Appendice 225. Archeologia, Linguistica e Scienze naturali: dalla ricerca all’insegnamento Appunti per una discussione (e spunti per qualche iniziativa didattica?) Tomaso Di Fraia 231. Evoluzione e Teologia, dallo scontro alla sintesi Lodovico Galleni 224 Archeologia, Linguistica e Scienze naturali: dalla ricerca all’insegnamento Appunti per una discussione (e spunti per qualche iniziativa didattica?) TOMASO DI FRAIA Premessa Si offrono qui, in forma molto schematica (a mo’ di appunti finalizzati a provocare una discussione, cui non posso partecipare fisicamente in questa occasione, ma spero di poter intervenire in seguito in qualche modo) alcune riflessioni sparse, da parte di un archeologo che ha a lungo insegnato materie letterarie nella scuola superiore, o meglio un docente della scuola superiore che ha mantenuto i contatti con la ricerca scientifica nel campo dell’archeologia preistorica e che in qualche misura ha cercato di farla. Per questa atipica combinazione, mi sono trovato nella felice (almeno obiettivamente) situazione di verificare direttamente i problemi sui due versanti e difficilmente potrei fare un discorso puramente accademico e astratto rispetto alle esigenze della scuola. Forse questi appunti potranno avere una qualche utilità più per i docenti di materie umanistiche che per quelli di Scienze naturali, ma spero che in qualche misura possano servire anche a questi ultimi. Conseguenze dell’esperienza didattica nelle scuole superiori Consapevolezza dell’inadeguatezza dei programmi e delle impostazioni tradizionali nell’insegnamento della Storia; frustrazione per le potenzialità enormi che l’Archeologia (intesa nel suo senso più ricco, come vedremo fra poco) offre per la didattica della storia (e di altre materie) e la sua effettiva scarsissima utilizzazione (solitamente ridotta a qualche gita di istruzione); ulteriore frustrazione per la difficoltà, per non dire impossibilità, di avviare iniziative interdisciplinari capaci di coinvolgere i colleghi, e in particolare i docenti di Scienze naturali. Tuttavia il mio pessimismo non è mai stato totale, specialmente se si considera la scuola in tutta la sua articolazione, a partire dalla scuola elementare, che a mio parere ha costituito finora il fulcro di tutta la struttura del nostro sistema educativo. Anche recentemente infatti mi è capitato di fare una lezione in una scuola elementare; ebbene una delle cose più confortanti e incoraggianti è stato vedere che una maestra aveva presentato ai suoi alunni gli aspetti fondamentali della rivoluzione agricola (Neolitico), e soprattutto constatare che un gruppo di bambini tra gli 8 e i 10 anni seguiva la mia presentazione di immagini (dia), oggetti e concetti con attenzione e quindi, devo dedurre, con interesse, senz’altro fecondo. Infatti sono profondamente convinto che nell’insegnamento la qualità paga sempre, la quantità di per sé no; spesso la quantità serve soprattutto a tacitare la (cattiva) coscienza del docente. Naturalmente il discorso è diverso a seconda delle materie; in discipline come la Chimica, la Biologia e la Fisica immagino che probabilmente la parte istituzionale dovrà occupare uno spazio significativo nell’insegnamento. Ma credo che sia (stato e sia) un grosso errore o una mistificazione pensare che nell’insegnamento 225 della Storia (e in una certa misura di tutte le discipline storiche) la priorità sia garantire la “copertura cronologica”; al contrario, e, in un certo senso, in analogia con le materie scientifiche, credo che sia essenziale fornire i criteri metodologici fondamentali e affrontare i principali nodi tematici; non si tratta quindi di rischiare di non completare il programma ministeriale, bensì di stabilire programmaticamente una selezione degli argomenti da trattare, ovviamente escludendone altri. Il problema si ripropone a tutti i livelli scolastici, dalle (ex) elementari all’università. Sintomatica la recente diatriba fra coloro (v. Pietro Citati) che lamentano la riduzione del numero di pagine previste per ciascun esame universitario e quelli che (come Carlo Bernardini) sostengono che la crescita intellettuale non si misura a metraggio o a peso. Si può certo discutere l’idea, senz’altro troppo burocratica, di quantificare il numero delle pagine (e allora, già che ci siamo, perché non delle parole, nell’era informatica?!) da studiare per un esame, ma credo che il difetto o il merito stia sempre nel manico, cioè nel docente. Chi è portato ad appiattirsi su di un’interpretazione puramente burocratica, arriverà (è un caso vero, raccontatomi da una collega universitaria) a contestare il fatto che un elaborato prodotto per la “prova finale” di una laurea triennale superi un determinato numero di pagine (quello consigliato, cioè 50; nel caso specifico erano circa 60). Chi ha, e riesce a promuovere negli studenti, interessi veri e propone metodi e percorsi di studio stimolanti, non credo che abbia niente da temere (nel senso di risposte negative da parte degli studenti) da indicazioni di questo tipo. Conseguenze del lavoro di ricerca Per valutare le potenzialità della ricerca archeologica o meglio paletnologica, è necessario chiarire la natura del lavoro dell’archeologo. Egli infatti deve padroneggiare le seguenti fasi (per questo è una sorta di “specialista della complessità” -quasi un ossimoro!-; si tratta di un aspetto molto importante, anche sul piano epistemologico): esplorazione del territorio, scavo e recupero di tutti i resti materiali, che possono anche andare oltre la “cultura materiale” (diffusa ma brutta espressione, accettabile se intesa come “aspetti materiali di una cultura” e non già contrapposta a una -presunta superiore- cultura intellettuale o spirituale); studio ed elaborazione dei dati, con molti apporti multidisciplinari, che impongono quanto meno la conoscenza dei progressi nelle varie discipline, ma normalmente implicano un continuo chiarimento e dibattito tra diversi specialisti; interpretazione dei dati sulla base di ipotesi e modelli di ordine ambientale (clima, risorse ecc.), socio-economico (attività economiche fondamentali, assetto sociale), culturale, linguistico, ideologico e “artistico” (concezioni del modo, della vita e della morte ecc.); ipotesi e modelli che devono essere integrati e, ove possibile, verificati, sulla base di conoscenze di ordine storico ed etnografico. Indico ora due possibili piste di lavoro: 1. le interconnessioni tra: a) evoluzione biologica del genere Homo; b) sviluppo, trasformazione e ibridazione delle culture; c) genesi, sviluppo e trasformazioni delle lingue; 2. vari spunti, suscettibili di sviluppi interdisciplinari, sulla (prei)storia dell’alimentazione. 226 Evoluzione biologica ed evoluzione delle lingue Chi è interessato alla problematica dell’intreccio fra archeologia, genetica e linguistica, può utilizzare gli scritti apparsi su NATURALMENTE nella serie Culture, lingue e geni. Ci sono almeno due modi di affrontare i possibili rapporti fra evoluzione biologica e evoluzione delle lingue. 1. Si può indagare se esistano rapporti fra la dispersione e la differenziazione dei gruppi umani e trasformazione e differenziazione delle lingue; è ciò che ha fatto per primo e su ampia scala Cavalli-Sforza, con risultati senz’altro stimolanti, anche se molto discutibili. 2. Si può studiare il meccanismo di evoluzione biologica per vedere se possa offrire un modello interpretativo o comunque dei criteri utili per meglio comprendere la dinamica del cambiamento linguistico. Qui accenno soltanto a questa seconda ipotesi. Vediamo come la prospetta Mario Alinei, un linguista che sostiene il principio della conservatività delle lingue. Di genetico vero e proprio, nelle lingue come tali, non c’è assolutamente niente. La presenza massiccia di una terminologia genetica nella linguistica è, in prima istanza, la conseguenza dell’enorme impatto che la teoria evoluzionistica ebbe sulla linguistica storica nel periodo in cui nacque come disciplina scientifica...In realtà non è proprio vero che non vi sia una geneticità reale nel fenomeno linguistico: vi è infatti quella, tutt’altro che trascurabile, fra i parlanti... continuare una lingua significa, prima di tutto generare dei figli che continuino a parlarla. Data per esistente una comunità omogenea di parlanti in un dato territorio, confinante con altre comunità omogenee, possiamo ipotizzare due tipi di matrimonio, uno endocomunitario, uno esocomunitario: ..I) nel caso di matrimonio endocomunitario si perpetua automaticamente la lingua dei genitori; nel caso di matrimonio esocomunitario si possono avere tre risultati diversi: II) si producono figli bilingui, III) prevale una delle due lingue con scomparsa dell’altra, IV) si produce una lingua ibrida. Come si vede, anche partendo dalla realtà individuale, e da una geneticità reale e non metaforica, si producono quattro risultati linguistici di valore universale, che rappresentano anche l’intera casistica: conservazione, bilinguismo, estinzione, ibridazione. Tuttavia, accanto a queste considerazioni sostanzialmente condivisibili, Alinei sostiene anche che: 1) in condizioni normali la perpetuazione della specie...produce inevitabilmente anche la perpetuazione della lingua della comunità; 2) ciò rappresenta un’ulteriore conferma, vista questa volta dal punto di vista realmente genetico, della legge della conservatività linguistica. Nel suo argomentare astratto, e quindi tendenzialmente dogmatico, Alinei: 1. non considera la variabilità della lingua a livello di singoli individui (qualcosa di simile alla variabilità biologica intraspecifica); 2. non considera la possibilità che, intenzionalmente o meno, un gruppo di parlanti possa modificare la propria lingua senza apporti esterni; 3. se si accetta la possibilità del punto 2, la separazione di un gruppo di parlanti dalla comunità d’origine tenderà a produrre in esso trasformazioni diverse da quelle che si verificheranno nella comunità originaria; 227 4. Alinei ripetutamente sottolinea che i fenomeni da lui prospettati si verificano in “condizioni normali” o “di normale stabilità sociale”; ebbene, queste sono proprio condizioni che di regola mancavano nella maggior parte delle comunità preistoriche, che erano poco numerose ed esposte a continui rischi di riduzione, separazione, mescolamento o addirittura estinzione. In conclusione, occorrono molte cautele prima di applicare a una determinata disciplina dei criteri ricavati da un’altra disciplina; sarebbe necessaria maggiore umiltà, che, nel caso particolare, dovrebbe portare a documentarsi meglio (sul piano archeologico) dei fenomeni di cui si discute. 228 Un esempio di possibile coinvolgimento multidisciplinare: la preistoria dell’alimentazione umana Si tratta di una problematica che offre un ventaglio di piste di ricerca veramente enorme ed estremamente interessante. Nello schema che segue, Borgognini e Altri hanno cercato di rappresentare i collegamenti, le intersezioni e i feed-back della ricerca archeologica e delle scienze naturali; e non si tratta di uno schema esaustivo. Voglio infatti accennare a un problema che presenta molteplici implicazioni; si tratta dell’adattamento dell’organismo umano all’assunzione di particolari alimenti. Il caso più importante in assoluto è probabilmente quello del latte. Se è vero che gli uomini in età adulta non possedevano un metabolismo in grado di digerire e assimilare il latte prima del neolitico, cioè fino all’introduzione dell’agricoltura e dell’allevamento, e quindi di una più o meno ampia disponibilità di latte animale, ci dobbiamo porre il problema dei tempi che sono stati necessari per questo adattamento e dei metodi approntati per aggirare l’ostacolo costituito dalla indigeribilità del latte in quanto tale. Così sintetizza tale problematica l’archeologo Raffaele De Marinis: Dunque non solo l’uomo ha saputo selezionare razze capaci di continuare a produrre latte anche dopo lo svezzamento dei piccoli e disponibili a cederlo attraverso la mungitura, ma a ciò deve aver corrisposto in alcune popolazioni umane una mutazione genetica vantaggiosa consistente nella produzione, anche in età adulta, dell’enzima responsabile della scissione del lattosio. Tuttavia, probabilmente in origine il latte è stato utilizzato sotto forma di formaggio e di yoghurt, prodotti in cui il lattosio si riduce a livelli così bassi da essere digeribile da tutti. Naturalmente lascio agli specialisti (biochimici, nutrizionisti ecc.) le precise valutazioni tecniche sui singoli punti. Voglio comunque sottolineare almeno due cose: 1. La “rivoluzione neolitica” ha comportato una evoluzione accelerata nella biologia delle piante e degli animali; e i nuovi sistemi di vita, di produzione e di alimentazione di conseguenza hanno a loro volta favorito, in tempi più o meno lunghi, una serie di mutazioni genetiche anche negli uomini (oltre al problema della digeribilità di alcuni cibi, basti pensare alle malattie introdotte dalla convivenza con gli animali allevati in cattività e alle relative risposte in termini di mutazioni vantaggiose). 2. Le sfide poste all’uomo da situazioni nuove e/o critiche hanno stimolato lo sviluppo di innovazioni (culturali, nel senso più pieno della parola)che altrimenti non vi sarebbero mai state. Per rappresentare in un solo esempio il senso di questa affermazione, si pensi al nostro parmigiano: è appunto un caso di trasformazione complessa di un prodotto naturale che prevede una lunga serie di passaggi e perfezionamenti, che qui posso indicare solo in forma sequenziale e lineare: addomesticamento e allevamento dei bovini → stimolazione ed effettuazione della mungitura → necessità di conservare il prodotto (latte) e al tempo stesso di renderlo più digeribile → trasformazione mediante il caglio → necessità di disporre di un conservante come il sale → incentivazione della ricerca di fonti e metodi per la produzione del sale → circolazione del sale e sviluppo degli scambi ecc. Ovviamenti molti sono i possibili intrecci e feedback tra i diversi fattori; ne ricordo soltanto due, cioè la conservazione del caglio sotto sale e il fatto che nell’età moderna la valle del Po commerciava i suoi prodotti salati (salame, prosciutto e formaggio) in cambio di sale. (Kurlansky). 229 Per concludere, vorrei sottolineare l’importanza di un’alfabetizzazione storico-archeologica come capacità di leggere i prodotti del rapporto uomo-ambiente. Infatti analfabetismo e denutrizione scientifica (denunciata già da Gramsci) investono purtroppo anche le capacità di leggere le emergenze storico-archeologiche, di riconoscere i principali manufatti, le trasformazioni del territorio nell’interazione tra natura e intervento umano; insomma di riconoscere la storicità dell’ambiente in cui viviamo (da molti aspetti del paesaggio, alla presenza di determinate piante e animali, alla tipologia delle abitazioni, all’uso dei vari materiali ecc.). Tomaso Di Fraia Istituto di Antropologia Università degli Studi di Pisa Qualche indicazione bibliografica Alinei Origini delle lingue d’Europa. Il Mulino, 1996. Borgognini, Minozzi, Masali Il contributo dell’Antropologia alla soluzione di problemi storico archeologici: una riflessione metodologica, RIVISTA DI SCIENZE PREISTORICHE, XLIX, 1998, pp.561-569. De Marinis L’età del Rame in Europa: un’epoca di grandi trasformazioni, in Casini (a cura di) Le Pietre degli dei 1994. Di Fraia Un contributo alla conoscenza della produzione e del consumo del sale nella preistoria, NATURALMENTE, settembre 2000, pp. 62-67. Di Fraia Culture, lingue e geni, NATURALMENTE (12 puntate finora; v. in particolare la Parti 1-3, 7, 10). Kurlansky Sale. Una biografia, RCS Libri, 2003. 230 Evoluzione e Teologia, dallo scontro alla sintesi L ODOVICO G ALLENI Nel 1984 il teologo Carlo Molari pubblicava un libro dal titolo: Darwinismo e Teologia cattolica (1) in cui ripercorreva dal punto di vista storico le principali tappe dello scontro e poi dell’incontro tra l’evoluzione e la teologia e terminava con una prospettiva decisamente ottimistica. In effetti Carlo Molari affermava che il darwinismo non interessava più la teologia contemporanea perché ormai i problemi che poneva erano stati risolti e quindi l’incontro scontro era di interesse solo per gli storici della teologia (2).Se dunque non vi è più scontro, ma riflessioni comuni sui temi dell’evoluzione, queste riflessioni hanno proposto piste che non sono state ancora percorse fino in fondo e sulle quali è quindi utile cercare di ragionare. Sia ben chiaro che qui non vogliamo ripercorrere polemiche a nostro parere assolutamente senza senso quali quelle che ripropongono la lettura letterale della Bibbia, anche se occorre sempre riflettere su questi ritorni del fondamentalismo religioso, anche in campo cristiano. D’altra parte non si può non ricordare che in questo caso si presenta il racconto biblico della creazione come un racconto storico e che, quindi, riporta come si sono svolti i fatti che riguardano le origini dell’universo, delle specie e dell’umanità. Se il racconto è veritiero ecco che si possono impostare dei programmi di ricerca scientifici che possono controllarne la veridicità ed ecco quindi fiorire, negli Stati Uniti, fondazioni che finanziano ricerche intese a dimostrare la correttezza scientifica del racconto della creazione.E’ un aspetto da conoscere e comunque di cui tenere conto. Ma occorre subito ricordare che questa è innanzitutto pessima teologia, perché ormai il modo di leggere la Bibbia come testo teologico è stato acquisito da tutte le scuole teologiche oggi esistenti. Quindi all’interno della teologia cattolica il problema del fondamentalismo, almeno in questa forma, è stato superato e da questo punto di vista ha ragione Molari. Ormai il dato scientifico evolutivo è accettato (3). Possiamo, comunque, ricordare, come punto di partenza, che l’evoluzione intesa come cambiamento irreversibile nel tempo è un risultato di una ricerca di tipo storico altrettanto provata quanto è provata l’esistenza dell’Impero Romano (4). Inoltre la trasformazione irreversibile nel tempo, che viene messa in evidenza nelle scienze geologiche e biologiche nel corso del diciottesimo e diciannovesimo secolo, viene poi recepita anche dalla fisica e dalla cosmologia e diviene la caratteristica fondamentale della descrizione contemporanea dell’Universo. Da questo punto di vista la teologia accetta questo modello e ne tiene conto. Le indagini di filosofia della natura quindi mettono in evidenza la trasformazione irreversibile nel tempo come caratteristica fondamentale, ontologica, del nostro universo. E’ chiaro perciò che questa caratteristica interpella fortemente la teologia innanzitutto quando riflette su Dio come Creatore (5). Vi è quindi un modo particolare di creare che emerge dalla visione che la scienza contemporanea ci dà dell’Universo. Come si vede dunque il problema non è più la disputa dell’evoluzione, ma al contrario la sua accettazione all’interno dell’indagine 231 teologica. E qui emerge il tema che vogliamo discutere: è tutto risolto o vi sono ancora problemi aperti?A questo punto ecco che le piste rimaste aperte ci si pongono prepotentemente davanti e chiedono di essere indagate. Il primo punto è che, con l’evoluzione, come faceva giustamente notare Giulio Barsanti, la storia naturale diviene storia della natura (6). Questo è un cambiamento fondamentale che interessa proprio le scienze. Infatti la storia naturale era il racconto degli eventi naturali: descrizione di oggetti e di esseri viventi, del loro comportamento, dei loro adattamenti, magari con un interesse particolare per lo strano e l’assurdo. Dopo Galileo si passa alla descrizione delle naturali esperienze che permettevano di descrivere meglio aspetti del vivente e di definire leggi generali. Con l’avvento dell’evoluzione e quindi con Lamarck ecco che la storia naturale diviene storia della natura cioè il racconto storico del succedersi nel tempo dei viventi e della loro derivazione da antenati comuni. E’ la ricostruzione della storia e non più la narrazione delle storie che diviene la chiave interpretativa della geologia prima e poi della biologia e delle altre scienze della natura. A questo punto il primo dato ontologico che si pone davanti alla teologia è che Dio ha creato un universo soggetto ad un cambiamento irreversibile nel tempo: un universo la cui caratteristica fondamentale è la storia (7). E’ chiaro che questo cambia i punti di riferimento: non abbiamo più un universo statico, fisso e creato in maniera perfetta e organizzata da un Creatore provvidente e previdente, un universo in cui l’ordine è stato dato una volta per tutte nel passato e che l’uomo ha potuto solo alterare in peggio col suo peccato. Al contrario è un universo in cambiamento continuo nel tempo. D’altra parte, se si considera la Bibbia non tanto come il libro della storia delle origini, ma come il libro della storia della salvezza ecco che le difficoltà, almeno da questo punto di vista rapidamente sembrano sparire. Infatti la Bibbia è il libro della storia dell’alleanza del popolo di Abramo con il Dio creatore e poi è la storia della salvezza dell’Umanità intera redenta dall’opera salvifica di Cristo. Quindi ecco che la storia dell’Umanità si collega alla storia della natura e quindi i due eventi storici trovano una sintesi generale: il Dio creatore crea un universo caratterizzato dalla storia e questa storia con la comparsa dell’uomo diviene storia di alleanza, redenzione e salvezza. Da questo punto di vista possiamo trarre una prima conclusione: l’evoluzione, come si vede bene, non è più un attacco ateistico e materialista alla visione cristiana del mondo e dell’uomo ma è al contrario lo strumento che permette di unire, in un’unica sintesi storica, la visione scientifica della vita e dell’universo con la visione salvifica dell’umanità.E’ quindi la chiave della storia la chiave di lettura che unisce la Bibbia e la sua interpretazione teologica con la natura e la sua interpretazione scientifica. Per ritornare alla metafora dei due libri cioè il libro della rivelazione ed il libro della natura, è la prospettiva della storia la chiave di lettura comune (8). Ma naturalmente i punti di discussione non si fermano qui. Una volta accettata la visione evolutiva possiamo fare un passo avanti ed aprirci ad una ulteriore riflessione che a questo punto parte dalla visione biblica. Infatti nella visione biblica non vi è solo la storia, ma la storia è vista fondamentalmente come un muoversi verso. Abramo viene chiamato ad essere il capostipite di un popolo, il popolo eletto, che si muove verso l’alleanza. E’ un’alleanza difficile, fatta di tradimenti e di riconciliazioni, ma la cui caratteristica fondamentale è 232 quella di un popolo in cammino che muove verso: verso la terra promessa, verso Gerusalemme, da cui talvolta il popolo eletto viene allontanato e poi ricondotto. Fondamentalmente verso un futuro che poi, nel cristianesimo, si compie con la venuta di Cristo. A questo punto la storia diventa storia dell’umanità che si muove verso la redenzione e la salvezza. Per comprendere meglio questo secondo passaggio possiamo riferirci alla lezione di Pierre Teilhard de Chardin. Naturalmente non vogliamo ripercorrerne la figura e l’opera e sottolinearne di nuovo l’importanza. Si tratta solo di ricordare che fu un geologo, paleoantropologo e paleontologo, universalmente riconosciuto, grazie ai lavori compiuti in Cina tra gli anni Venti e gli anni Quaranta del ventesimo secolo come il fondatore della moderna geologia e paleontologia del sub continente cinese (9). Fece anche parte dell’équipe che lavorò al cosiddetto uomo di Pechino datandone i reperti e individuandone la cultura (10). Ma Teilhard de Chardin fu anche un gesuita e da questo punto di vista può essere considerato il primo scienziato, con buone competenze di filosofia e teologia, a proporre una sintesi tra evoluzionismo e teologia. Il suo punto di partenza non si discosta da quanto abbiamo appena ricordato: l’evoluzione implica un modo particolare di creare che interpella la teologia. Questo naturalmente pone una serie di problemi non banali. Non si tratta tanto della trasformazione nel tempo delle specie. Già durante le prime discussioni che seguirono la pubblicazione del fascicolo della società Linneiana di Londra con gli articoli di Darwin e Wallace sulla teoria della trasformazione dei viventi per selezione naturale, e successivamente la pubblicazione del libro di Darwin sull’origine delle specie, era emerso chiaro ai più seri ricercatori che l’evoluzione era difficilmente confutabile. Quindi vi era una ipotesi scientifica robusta che parlava di discendenza divergente tra le specie. Le specie non erano presenti come entità separate fin dall’inizio della storia della vita né si originavano a tempi diversi ma in maniera indipendente le une dalle altre grazie a vari e differenti meccanismi, sempre oggetto di descrizione scientifica. Al contrario esse si originavano le une dalle altre e quindi più specie potevano essere ricondotte ad antenati comuni che le avevano precedute nel tempo. La grande scala degli esseri diviene un albero genealogico (11). In fondo è la contrapposizione scientifica tra evoluzione e fissità delle specie che è oggetto di indagine e discussione per tutto il diciannovesimo secolo. Ma questo non ha nulla a che fare con la discussione e l’interfaccia con la teologia: come farà notare il primo darwinista italiano, Filippo de Filippi, professore di zoologia a Torino ma anche esponente di spicco degli intellettuali cattolici del tempo, e che quindi fu tra i primi a indicare le piste per una conciliazione, si può essere benissimo atei e fissisti ed evoluzionisti e credenti (12). Inoltre ancora de Filippi faceva notare come dal punto di vista morfologico e fisiologico le differenze tra uomo e scimmie fossero estremamente piccole, così da far pensare che fosse ragionevolmente proponibile la loro derivazione da un antenato comune. Ma dal punto di vista delle qualità intellettuali, talmente alta è la differenza da richiedere un particolare intervento creatore da parte di Dio. Come si vede, siamo nel 1864 e quindi lo sforzo di conciliazione è già di alto livello: nessun problema per la derivazione comune delle specie, nessun problema per un antenato comune tra uomo e scimmie, intervento di Dio Creatore solo per l’anima 233 umana. Era un buon punto di partenza. E d’altra parte su un’altra cosa de Filippi era stato molto chiaro: la Genesi racconta che il corpo dell’uomo viene tratto dal fango: non è molto più affascinante pensare che invece derivi da un processo di trasformazione lungo quanto tutta la storia della vita?Come si vede questi problemi erano già stati risolti prima dell’avvento di Teilhard de Chardin, anche se ahimè rapidamente dopo i primi anni di entusiasmo e di ricerca la Chiesa, preoccupata per la crisi modernista si chiuderà e, con una forte dose di autolesionismo, interromperà queste piste di indagine.Ma alcuni anni dopo, siamo ormai agli inizi degli anni Venti del ventesimo secolo, Teilhard de Chardin, paleontologo già di chiara fama in Francia ed in Europa, inizia ad insegnare all’istituto cattolico di Parigi (l’Università cattolica di Francia) e quindi, dal momento che questa sua doppia posizione di paleontologo consapevole dell’evoluzione e di gesuita è ben nota, viene rapidamente spinto a confrontarsi con i problemi caldi. E uno di questi è il peccato originale: come si può interpretare il peccato originale in una prospettiva evolutiva? E’ ovvio che a questo punto emerge chiaro l’unico serio problema che l’evoluzione biologica pone alla teologia cristiana. In fondo l’interpretazione tradizionale vedeva un universo uscito ordinato e perfetto dalle mani del Creatore e semmai la sofferenza, il dolore, la morte entravano nella natura come conseguenza del peccato dell’uomo. Ed in fondo tutta la grande stagione della teologia naturale che studiava la perfezione degli adattamenti dei viventi nella prospettiva apologetica di mostrare l’opera di un Creatore previdente e provvidente, sembrava andare in questa direzione. La perfezione della natura era un segno della qualità della creazione. La sofferenza, il dolore, la morte dovevano essere entrati nel mondo per una rottura dell’ordine provvidenziale, un ordine provvidenziale voluto da Dio e alterato drammaticamente dal peccato dell’uomo.L’evoluzione ed in particolare la teoria della selezione naturale altera questo quadro perché non solo mette in discussione la possibilità di una creazione diretta delle varie specie, cosa che come abbiamo detto non era affatto difficile da accettare da parte della teologia, ma poneva anche, nella versione di Darwin e Wallace, come meccanismo fondamentale dell’evoluzione meccanismi così drammatici come la lotta per la sopravvivenza. E questi meccanismi, non caratterizzavano solo la condizione umana, in fondo segnata dal peccato, come ancora si poteva dedurre dall’opera di Malthus, ma venivano estesi a tutta la storia della vita. Il Dio previdente e provvidente della teologia naturale diveniva così il grande allevatore che sceglieva i capi migliori e li faceva incrociare e eliminava, in maniera più o meno violenta, gli altri. Il problema dunque era questa visione drammatica dei meccanismi evolutivi che si estendeva a tutta la natura. In fondo come Galileo aveva unificato lo spazio mostrando che non esisteva più una distinzione tra i cieli incorruttibili e l’ambiente sublunare luogo della corruzione, così Darwin unificava il tempo mostrando come non esistesse una natura incorrotta prima della comparsa dell’uomo e del suo peccato, ma che la sofferenza, il dolore, la morte facevano parte fin all’inizio della stoffa dell’universo. Questo aspetto, come si vede, mal si concilia con la visione tradizionale del peccato originale che invece sembra richiedere una frattura nella storia della vita. Inoltre era anche difficile dare una connotazione storica precisa ai due progenitori. Già in parte Wiseman (13), intervenen234 do nella prima metà del diciannovesimo secolo nell’ambito ancora delle discussioni sulle prospettive lamarckiane, aveva sottolineato come il dato teologico collegato alla coppia originale era l’unità del genere umano, unità che poteva essere messa in discussione dalle ipotesi trasformiste, dal momento che qualche interpretazione sembrava suggerire la possibilità che differenti popolazioni umane potessero derivare da differenti progenitori scimmieschi. Era dunque l’unicità del genere umano che aveva un profondo valore teologico rappresentato dallo scrittore biblico col racconto della nascita e dell’agire di un’unica coppia da cui veniva generato non solo fisicamente, ma anche moralmente tutto il genere umano. L’errore della prima coppia si ripercuoteva dunque su tutto il genere umano. La scienza sgombrerà il campo da questo problema confermando la profonda unità del genere umano, ma gli altri problemi rimangono intatti, conservando appieno la loro drammatica importanza. Teilhard de Chardin, dunque, viene spinto a confrontarsi con questo problema e in uno scritto privato, agli inizi degli anni Venti, pone il problema e offre due possibili soluzioni. Una è collegata alla possibilità che la coppia originaria sia stata messa alla prova al di fuori del tempo e dello spazio e sia poi stata immessa in un universo segnato dall’errore. L’altra al contrario accetta in pieno tutte le conseguenze della visione evolutiva. Da questo punto di vista non c’è frattura né rottura: la sofferenza, il dolore, la morte entrano nel mondo fin dall’inizio e non sono conseguenza dell’errore della prima coppia del resto impossibile da collocarsi storicamente con gli studi della paleoantropologia (14). E qui ecco che riprendiamo il filo del nostro discorso. Per Teilhard de Chardin il problema si può risolvere, ma solo ad una condizione, quella che l’evoluzione non sia solo il risultato di meccanismi casuali e senza una qualche precisa direzione, ma sia caratterizzata da un generale muoversi verso: della materia verso la complessità e la vita, e della vita, verso la coscienza. Questa era una sfida importante non tanto ai meccanismi darwiniani, quanto alle loro interpretazioni di filosofia della natura, per le quali non vi era nessun particolare movimento verso l’uomo. L’uomo era il risultato fortunato di un meccanismo fondamentalmente aleatorio e i meccanismi evolutivi sembravano sottolinearne l’imprevedibilità. Insomma non sembravano esserci non solo leggi che permettessero di dedurre la comparsa dell’essere pensante, ma nemmeno alcun altro meccanismo che in qualche modo suggerisse una qualche direzionalità che potesse rendere ragione della comparsa dell’essere pensante (15). Teilhard de Chardin considera subito come uno dei compiti fondamentali del suo lavoro di paleontologo, quello di dimostrare di fatto la presenza di una qualche necessità e realizza un vero e proprio programma di ricerca che sottolinea tutti i possibili casi di parallelismi e canalizzazioni presenti. Inoltre per comprendere meglio il problema della complessità sottolinea la necessità di considerare la biologia come la scienza della complessità del vivente e di sviluppare tecniche di indagine globale sull’evoluzione proponendo la Biosfera come oggetto ultimo di studio per poter capire e descrivere parallelismi e canalizzazioni (16). Le necessità di trovare le ragioni del muoversi verso permettono alla scienza di acquisire strumenti importanti quali i concetti di complessità e l’attenzione alla Biosfera e già questa è una scoperta interessante nel chiarire i rapporti tra scienza e teologia: piste di indagine che noi 235 riteniamo fondamentali per la biologia contemporanea nascono per risolvere dei problemi posti dalla teologia. Ma andiamo avanti. Teilhard de Chardin ritiene di dimostrare, grazie allo studio degli alberi filetici dei fossili e quindi essenzialmente dei mammiferi, che l’evoluzione non è un procedere a caso tra mille possibilità, ma segue piste ben definite, in particolare presenta un deciso muoversi verso la complessità e la coscienza. E’ il concetto di muoversi verso che chiarisce anche la posizione teilhardiana sul peccato originale. In effetti non solo la storia è il punto di contatto e la chiave di lettura comune tra i due libri, ma è anche una storia che si realizza nel muoversi verso. La vita muove verso la complessità e la coscienza, in un gigantesco movimento che interessa tutto l’Universo fin dal suo inizio. In un gruppo particolare di primati, dove si realizzano tutte le condizioni necessarie, ecco che il muoversi verso diviene non solo un muoversi verso la cerebralizzazione, ma anche verso la coscienza. La paleoantropologia ricostruisce questi passaggi, ma alla teologia di fatto interessa il risultato finale, una umanità pronta all’alleanza. E’ in fondo Abramo, non Adamo, la figura centrale, l’Abramo che riconosce l’esistenza di un Dio personale che è altro da sé, ma che non è né negli i idoli né nella natura, e che lo chiama all’alleanza (17). Il muoversi verso dell’evoluzione si collega finalmente alla storia della salvezza che però, a questo punto, nella prospettiva teilhardiana, è ancora un muoversi verso, muoversi verso l’alleanza, la redenzione e la salvezza, perché in una prospettiva evolutiva caratterizzata da un generale muoversi verso la complessità e la coscienza, l’ordine non può essere nel passato, ma va costruito verso il futuro. E allora per costruire l’ordine nel futuro, occorre partire da un passato disorganizzato da organizzare. Per avere ordine nel futuro occorre partire dal disordine, per completare occorre partire dall’incompletezza. Insomma, la prospettiva si ribalta chiaramente: l’ordine, così mirabilmente descritto dallo scrittore biblico nel giardino dell’Eden, non è un ordine nel passato che l’Uomo ha distrutto con il suo peccato, ma è semmai un ordine da costruire nel futuro. La storia, dell’universo, della vita, dell’uomo, non è solo storia di alleanza di redenzione di salvezza ma è una storia che progetta il muoversi verso il futuro. Ma il muoversi verso non termina né con l’accettazione dell’alleanza da parte di Abramo, né con la prospettiva salvifica legata alla prima venuta di Cristo. Il muoversi verso continua (e qui veramente Teilhard de Chardin recupera fino in fondo alla teologia cristiana la ricchezza dell’impostazione evolutiva) anche come cammino dell’umanità sulla Terra. Ciò che conta è dunque la prosecuzione del muoversi verso per creare un ordine nel futuro, un ordine che permetterà alla nuova umanità di essere pronta per la convergenza verso quello che Teilhard de Chardin chiama il punto omega, il momento della seconda venuta di Cristo (18). E’ una progettualità importante, che rivaluta le realtà terrestri che sono necessarie per costruire l’ordine nel futuro. E’ a questa progettualità, segno della grande ricchezza che esprime una seria indagine sui rapporti tra scienza e teologia (19), che si ispireranno le teologie delle realtà terrestri, la costituzione conciliare Gaudium et Spes, la teologia della liberazione e la teologia ecologica (20). Dobbiamo ritornare al ribaltamento di prospettiva: nella prospettiva evolutiva e del muoversi verso, l’ordine non è più nel passato e non è più nel passato una armonia a cui bisogna tornare. L’ordine è nel futuro e va costruito. Si propone dunque concretamente sulla Terra quella 236 prospettiva di cieli nuovi e terra nuova di cui parla il libro dell’Apocalisse. Questo ovviamente vuol dire che se l’ordine è nel futuro occorre partire da una situazione di disordine che caratterizza la natura fin dal suo inizio. Se il giardino dell’Eden si realizzerà al momento della seconda venuta di Cristo, si deve partire da una situazione di disordine che va recuperato e a poco a poco compensato e superato. Il disordine del passato fa dunque parte della stoffa stessa dell’universo. E’ un disordine di cui fanno parte anche i meccanismi drammatici che l’evoluzione racconta e descrive e che vanno superati per il futuro. Occorre subito dire che questa visione teilhardiana non soddisfa in pieno. In fondo vi è un dolore fisico, una sofferenza dell’innocente, legata alla stoffa stessa della creazione, di quella creazione che la Genesi afferma essere cosa buona e che non può essere vista solo nella entusiastica prospettiva della costruzione del futuro. La sofferenza dell’innocente è, in fondo, ancora il tema chiave che la visione evolutiva dell’universo e della vita pone alla teologia, ma in maniera ancora più profonda e drammatica. Ancora va preso terribilmente sul serio il grido di angoscia di Dostoevskij per cui anche la sofferenza di un solo bambino incrina la perfezione dell’universo (21). Teilhard de Chardin ha pagine molto belle che vedono nella sofferenza un prezzo da pagare per costruire il futuro (22), ma nonostante questo la prospettiva non è ancora percorsa appieno. Non si tratta di aprire un nuovo capitolo della Teodicea, ma di qualcosa di più profondo che va ancora indagato e compreso fino in fondo. Teilhard de Chardin risolve il problema proiettando la costruzione della Terra nel futuro e quindi ponendo nel futuro l’ordine finale che nella Genesi sembra collocato all’inizio, nel giardino dell’Eden. Ma occorre andare avanti: vi è un terzo aspetto importante, quello della libertà. Un universo che si muove verso senza sbavature, cadute e drammi potrebbe realizzarsi solo in un modello strettamente deterministico in cui ogni passo è ben calibrato e determinato dalle condizioni precedenti. Per capirci un universo alla Laplace. Ma la prospettiva della complessità ci apre invece ad un universo che muove verso, ma in maniera non deterministica, in cui anche aspetti casuali e drammatici hanno il loro spazio. E’ un universo concepito per la libertà, la libertà della creatura che può accettare o rifiutare l’alleanza con il Creatore. Ed è indubbiamente una libertà talmente ampia e totale che permette anche alla creatura di crocifiggere il Creatore. Ma ancora il problema del dolore nella creazione visto anche nella prospettiva evolutiva e collegato agli spazi di libertà, non evita il problema della sofferenza dell’innocente. E’ una pista importante ma che probabilmente non basta ad affrontare il problema se non affiancata da una seria indagine sulla teologia della Croce (23). E’ curioso ma affascinante che alla fine, la grande rivoluzione della biologia evolutiva, invece di essere un attacco di una visione materialistica alla fede cristiana, riproponga in pieno la necessità di una seria riflessione sulla teologia della Croce. Ma questo naturalmente è un tema che supera i limiti delle competenze del biologo anche se appassionatamente interessato all’opera di Pierre Teilhard de Chardin (24). Lodovico Galleni Università di Pisa, Dipartimento di Chimica e biotecnologie agrarie 237 Note (1) C. Molari, Darwinismo e teologi a cattolica, Borla, Roma, 1984 (2) “Il confronto è durato per circa un secolo, al termine del quale,s comparsi in gran numero i fautori del vecchio paradigma, il problema si è dissolto quasi naturalmente e senza rumore. Ora non esiste più. Ma non perché l’evoluzione sia stata dimostrata vera o sia stata accolta dai teologi, ma perché allo stato attuale essa non pone più problemi alla teologia.” C. Molari, op. cit, p.: 13 (3) Da questo punto di vista mi fa piacere ricordare che ho scritto la voce “Evoluzione” per il DIZIONARIO INTERDISCIPLINARE DI SCIENZA E FEDE e che nessuna critica è stata rivolta all’articolo dal magistero cattolico italiano. Cfr. L. Gallerni, Evoluzione, in: Dizionario Interdisciplinare di Scienza e Fede ( a cura di G. Tanzella Nitti e A. Strumia), Urbaniana University Press e Città Nuova, Roma, 2002, pp.:575-590 (4) Cfr. L. Galleni, Evoluzione, op. cit, p.: 577 (5) Cfr. L. Galleni, Scienza e Teologia, proposte per una sintesi feconda, Queriniana, Brescia, 1992 (6) G. Barsanti, Dalla storia naturale alla storia della natura, Feltrinelli, Mlano, 1979 (7) L. Galleni, Biologia, La Scuola, Brescia, 2000, pp.:78-88 (8) Per la metafora dei due libri si veda: L. Conti, Raimondo di Sabunde: l’originaria rivelazione divina scritta nell’infalsificabile libro della Natura, in: Scienza e Teologia, un nuovo campo di ricerca e insegnamento per antichi problemi ( acura di L. Galleni), Quaderni Stenoniani, n. 9, Pisa, 2001, pp.: 79-96 (9) Cfr. L. Galleni, Teilhard de Chardin, in: Dizionario Interdisciplinare di Scienza e Fede ( a cura di G. Tanzella Nitti e A. Strumia), Urbaniana University Press e Città Nuova, Roma, 2002, pp.:21112124 (10) Cfr. L. Galleni et M.. C. Groessens-Van Dyck, Lettres d’un paléontologue. Neuf lettres inédites de Pierre Teilhard de Chardin à Marcellin Boule, Revue des Questions Scientifiques, 172, 2001, pp.: 5-104 (11) Cfr. G. Barsanti, La scala, la mappa e l’albero, Sansoni, Firenze, 1992 (12) F. de Filippi, L’Uomo e le simie, Daelli, Milano, 1865 (13) N. Viseman, Conferenze sopra la connessione delle scienze con la religione rivelata, vol. I, Società Tipografica dei classici italiani, Milano, 1841, pp.:156-157 (14) P. Teilhard de Chardin, La mia fede, trad. it. Queriniana, Brescia, 1993 (15) Si veda a questo proposito, per una interpretazione contemporanea: J. Monod, Il caso e la necessità, trad. it. Mondadori, Milano, 1970 e S. J. Gould, La vita meravigliosa, trad.it. Feltrinelli, Milano, 1990. Per una discussione generale del problema del caso nella biologia evolutiva si veda: L. Galleni, Biologia, op. cit. pp.: 114-124. (16) L. Galleni, Il messaggio di Teilhard de Chardin, in: Concilium, n. 1 2000, pp.: 153-166. Tutto il fascicolo della rivista, che è una rivista internazionale di teologia pubblicata in sette lingue, edito da H. Haring, B. van Iersel e C. Theobald, è dedicato all’evoluzione. Il titolo è infatti: Evoluzione e fede. (17) E’ interessante notare come la centralità della figura di Abramo, sia sottolineata anche da un altro scienziato che è arrivato a riflettere sui rapporti tra la scienza e la fede con un percorso completamente diverso. Si tratta infatti di Silvano Arieti, psichiatra, che si interroga sui rapporti tra ebraismo e scienza nel libro: S. Arieti, Abraham and the Comtemporary Mind, Basik Books, New York, 1981 (18) P. Teilhard de Chardin, L’ambiente divino, trad. it. Queriniana, Brescia, 1994 e P. Teilhard de Chardin, Il fenomeno umano, trad. it. Queriniana, Brescia,1995 (19) L. Galleni, Scienza e Fede: è possibile una relazione non conflittuale? NATURALMENTE, anno 16, n. 4, pp.: 31-35, 2003 238 (20) Queste sono piste che non possiamo seguire. Possiamo rimandare a: L. Galleni, Il progetto scientifico e la sintesi di Teilhard de Chardin nell’ottica della salvezza della Biosfera, Convergere, anno 1, nr 0, pp.: 23-39 (21) L. Galleni, Biologia evolutiva e teologia, quali problemi per una sintesi, in: Teoria dell’evoluzione: lo sguardo della scienza e della fede cristiana, Centro per il dialogo italo russo di Gargnano,Gargnano, 2004, pp.: 34-57. Testo italiano con traduzione russa a fronte. (22) P. Teilhard de Chardin, Sulla sofferenza, trad. it. Queriniana, Brescia. 1991 (23) L.Galleni, Pierre Teilhard de Chardin: scienza e teologia nella prospettiva del terzo millennio, Revista Portuguesa de filosofia, in stampa.(24) Non possiamo c he dare alcuni suggerimenti d lettura: K. Kitamori, Teologia del dolore di Dio, trad. It. Queriniana, Brescia, 1975; AA. VV. Il bene e il male dopo Auschwitz, a cura di E. Baccarini e L. Thrson, Paoline, Milano, 1998 Bibliografia essenziale di riferimento Paolo Rossi, La nascita della scienza moderna in Europa, Roma, Laterza, 1998. Marco Beretta, Storia materiale della scienza. Dal libro ai laboratori, Milano, Mondadori, 2002. Renato Giuseppe Mazzolini , I Lumi della Ragione: dai sistemi medici all’organologia naturalistica , in Mirko D. Grmek (ed.), Storia del Pensiero Medico Occidentale, Roma, Laterza, 1993-1996, 3 vols.; vol. 2, pp. 155-194 Ferdinando Abbri, J. Priestley e A.L. Lavoisier: il diverso significato di uno stesso esperimento, in Silvano Tagliagambe, Antonio Di Meo (a cura di), Scienza e Storia: analisi critica e problemi attuali, Roma, Editori Riuniti, 1980 Abbri , Le terre, l’acqua, le arie: la rivoluzione chimica del Settecento, Bologna, Il Mulino, 1984. Pietro Corsi , The Age of Lamarck. Evolutionary Theories in France 1790-1830, Berkeley, University of California Press, 1988 239 Evoluzione tra ricerca e didattica Scuola estiva Anisn Viareggio Palazzo delle Muse 26 - 31 luglio 2004 3 Darwin è tornato Cecilia Carmassi 4. Dalla parte della cultura Vincenzo Terreni La storia 8. Il pensiero evoluzionista nell’Ottocento Pietro Omodeo 15. Dibattito 18. Tutto si trasforma L’origine del concetto di “evoluzione” fra Settecento e Ottocento Angela Bandinelli 26. Dibattito 30. L’attualità di Darwin Marcello Buiatti 43. Dibattito La ricerca 48. Temi dell’evoluzione nella biologia contemporanea Dario Riccardo Valenzano 54. Dibattito 56. Il ruolo dell’Anatomia comparata nella ricerca e nella didattica universitaria fra ieri e oggi Vincenzo Caputo 74. Dibattito 76. L’evoluzione vista attraverso lo sviluppo Robert Vignali 83. Dibattito 89. Dai fossili alle molecole: nuovi indizi sull’evoluzione umana Olga Rickards 94. Dibattito 101. Un approccio evolutivo allo studio del cervello: la teoria del darwinismo neurale Yuri Bozzi 108. Dibattito 112. Basi biologiche dell’attrazione Alessandro Cellerino 133. Dibattito 137. Evoluzione e risposta cellulare allo stress Isabella Marini 158. Dibattito La didattica 161. Evoluzione ed altre storie Brunella Danesi 186. Dibattito 188. Chi ha paura di Carlo Darwin? Alessandra Magistrelli 196. Dibattito 203. Didattica dell’evoluzione Fabio Fantini 210. Dibattito finale Appendice 225. Archeologia, linguistica e scienze naturali: dalla ricerca all’insegnamento Appunti per una discussione (e spunti per qualche iniziativa didattica?) Tomaso Di Fraia 231. Evoluzione e teologia, dallo scontro alla sintesi Lodovico Galleni ISSN 1721-9892 Registrazione del Tribunale di Napoli del 30/06/92 Spedizione in abbonamento postale art. 2 comma 20/C legge 662/96 - Filiale di Napoli In caso di mancato recapito restituire all’ufficio C.M.P. di Napoli per la restituzione al mittente che si impegna per il pagamento delle tasse dovute 240