MOSTRA UNIVERSITÀ CATTOLICA DEL SACRO CUORE Biblioteca di Ateneo della sede di Milano Istituto Giuseppe Toniolo di Studi Superiori Ente fondatore e garante dell’Università Cattolica del Sacro Cuore Pubbliche Relazioni La mostra è posta sotto l'Alto Patronato del Presidente della Repubblica pe rcorsi della scrittura Mostra in occasione della 80ª edizione della Giornata Universitaria 2004 Aula Leone XIII 25 aprile 2004 8 maggio 2004 Il segno memoria dell’uomo: A cura della Biblioteca di Ateneo Università Cattolica del Sacro Cuore – Milano aprile 2004 Errata corrige • Presentazione p. 3, riga 9: Alessandro Pratesi per Alessando Pratesi • Ringraziamenti p. 4, riga 13: Paolo Della Grazia per Paolo Della Pergola • § 4. La scrittura in Egitto p. 12, riga 6: γράμματα ίερογλυφικά per γrάμματα ίερογλυφικά • § 5. Le scritture consonantiche della regione siro-palestinese p. 15, righe 14-13 dal basso, leggere: «rappresentare le vocali: ’ălef → alfa; hē’ → e-psilon (= “e semplice”); hêt → ēta; yôd → iota;» • § 13. La scrittura nel mondo germanico p. 26, riga 8: aettir per settiz Mostra Il segno memoria dell’uomo: percorsi della scrittura “La capacità di esprimere il pensiero in segni grafici, destinati a tramandarlo oltre il momento in cui viene formulato, al di là della memoria e della stessa vita fisica di chi l’ha elaborato, è stata sempre accolta come espressione e misura di civiltà”. Alessando Pratesi Questa mostra, organizzata dalla Biblioteca dell’Università Cattolica, si propone di illustrare il percorso della scrittura dai primi graffiti fino alla scrittura digitale. Con questa iniziativa la Biblioteca vuole offrire al suo pubblico, oltre ai servizi istituzionali, un’occasione culturale, e far conoscere alcuni dei suoi tesori. Rivolgendosi in modo particolare agli studenti delle scuole superiori, la Biblioteca desidera, con la collaborazione del corpo docente, promuovere un’esperienza culturale che possa diventare punto di partenza per un ulteriore cammino di conoscenza. La storia della scrittura è antica perché antica è quella dell’uomo, e continua perché continua l’avventura umana. La Biblioteca di Ateneo In questo opuscolo sono raccolti nella loro versione integrale i testi dei pannelli della mostra “Il segno memoria dell’uomo: percorsi della scrittura” organizzata dalla Biblioteca dell’Università Cattolica, Sede di Milano, con la collaborazione di alcuni Istituti e Dipartimenti dell’Università. La Biblioteca intende così offrire al Visitatore un piccolo strumento per ulteriori riflessioni e indagini su un tema di grande interesse e in continua evoluzione come quello della scrittura. Si ringraziano in particolare, per la loro generosa e insostituibile collaborazione, Filippo Airoldi, Amedeo Alberti, Luigi Anolli, Mariavittoria Antico Gallina, Carla Balconi, Edoardo Barbieri, Luigi Bicchieri, Gian Antonio Borgonovo, Paolo Branca, Luciano Caramel, Giancarlo Caronni, Maria Grazia Celloni, Chiara Colombo, Paolo Della Pergola, Maria Luisa De Natale, Mirella Ferrari, Rosa Bianca Finazzi, Tino Foffano, Mario Iodice, Paolo Magnone, Celestina Milani, Orsolina Montevecchi, Anna Passoni Dell’Acqua, Claudia Perassi, Giancarlo Petrella, Chiara Piccinini, Maria Pia Rossignani, Giovanna Salvioni, Anna Soldati, Paola Tornaghi, Alfredo Valvo Un sentito grazie va inoltre a tutti coloro, colleghi e non, che, a vario titolo, hanno sostenuto l’iniziativa. Si ringrazia infine Ettore Antonini, grafico simpatico e geniale, per il logo creato appositamente per questa Mostra. Senza il gentile contributo del Museo e della Biblioteca del PIME, delle Cartiere di Fabriano, dell’Istituto dei Ciechi di Milano, del Museo bodoniano di Parma che hanno prestato le loro collezioni di documenti, questa Mostra sarebbe stata meno ricca. Quasi una premessa Lo scrittore inglese Gilbert Keith Chesterton usa più volte nei suoi romanzi l’immagine, paradossale, di un naufrago che approda sulle coste della Gran Bretagna. Una simile avventura unirebbe il fascino delle terre ignote alla sicurezza di essere a casa propria. Sfogliare un atlante per cercarvi paesi lontani, o navigare nel web credo che costituiscano un po’ esperienze simili. Questa è la prima impressione che si ha accedendo alla mostra “Il segno memoria dell’uomo: percorsi della scrittura”. Un gruppo di sagaci bibliotecari dell’Università Cattolica di Milano, non senza la collaborazione di alcuni docenti dell’ateneo, ha realizzato un viaggio ideale. Il tutto pensando a un particolare pubblico, quello dei giovani, studenti universitari e, soprattutto, delle medie superiori. Un viaggio nel tempo, visto che si passa dalla preistoria ai giorni nostri. Ma anche un viaggio nello spazio, visto che si visitano i quattro angoli della terra. Soprattutto, però, un viaggio alla scoperta dell’uomo, attraverso le tracce di sé che ha lasciato tramite la scrittura (le scritture). In un libro certo discutibile, ma affascinante, come Armi, acciaio e malattie. Breve storia del mondo negli ultimi tredicimila anni (Torino, Einaudi, 2001), il biologo Jared Diamond narra come l’invenzione della scrittura sia avvenuta forse una o due volte in modo indipendente in tutta la storia dell’umanità. Tutte le forme di scrittura a noi note deriverebbero da tale avvenimento, occorso appunto al massimo un paio di volte. Cosa vuol dire “inventare la scrittura”? Significa creare un sistema di segni che possano in qualche modo fissare nel tempo il linguaggio. Gli uomini hanno sempre parlato. Ma non hanno sempre scritto. Tanto è vero che ogni sistema di scrittura è sempre un po’ imperfetto rispetto alla lingua che documenta. La scrittura sorge nel momento in cui c’è qualcosa da ricordare. Il gruppo di uomini non vive più solo del prodotto occasionale della caccia o della raccolta. La vita non è scandita più solo dal ciclo annuale delle stagioni. Inventare il tempo e inventare la scrittura sono un po’ la stessa cosa. Da qui l’importanza di questa mostra, che si svolge assieme lungo le pareti e le vetrinette di una sala e tra le pagine di una pubblicazione. Nel primo caso comunica più sinteticamente, tramite brevi pannelli e oggetti esposti; nell’altro attraverso un discorso articolato, che vorrebbe essere l’occasione anche di possibili approfondimenti, o punto di partenza per altri percorsi. Dove sta l’importanza di questa iniziativa? Nel proporre un’occasione per riflettere su cosa significhi quello strumento che tutti usiamo, magari un po’ passivamente, e che chiamiamo scrittura. Basta pensarci un attimo ed ecco che si scopre che la scrittura ha tanti segreti, anche per noi. Pensavamo che i manoscritti fossero cose da Medioevo e invece tutti i giorni ne produciamo anche noi, su quaderni e fogli di appunti. Chiamiamo “stampatello” lo scrivere usando tutte lettere maiuscole e invece i libri stampati non sono mica scritti così. Pensiamo che i libri che leggiamo e usiamo siano stampati coi caratteri, e invece i caratteri da stampa non si usano comunemente più da un secolo e mezzo. Poi la scrittura cambia. Ci sono fenomeni della scrittura tipici ad esempio del mondo giovanile contemporaneo. C’è la scrittura abbreviata nata per scrivere gli sms ma usata anche in altri contesti (“nn”, “xké”, “cmq”). C’è la scrittura che mescola segni alfabetici e icone atte a rappresentare le emozioni, dette “emoticons”: -, /. C’è la scrittura dei graffiti murari, con le sue lettere deformate fino a raggiungere particolari effetti visivi. Ma non si scrive sul nulla. Ci sono anche i supporti (fossero pure digitali) che conservano la scrittura e la trasmettono. Se non ci pensiamo, i libri sono tutti uguali. Ma basta riflettere sulla nostra esperienza normale e saltano fuori tante differenze: ci sono libri piccoli e libri grandi, pesanti o leggeri, scritti con caratteri chiari o illeggibili, con le figure o senza, col commento o no, su carta bella o brutta, che si sfascicolano subito o resistono all’usura, che costano poco o tanto. Queste differenze dettano, almeno in parte, i modi di utilizzo del libro. Se vogliamo comprare un Pinocchio da regalare a un nostro piccolo parente o per rileggerlo noi (è una lettura assai più interessante di quanto si possa credere…) acquistiamo delle edizioni molto diverse. Allora, l’azione dello scrivere, che equivale a fissare nel tempo un’idea, un pensiero, un racconto resta come essenziale nella nostra civiltà. Esserne coscienti, iniziare a capire il suo funzionamento, porsi delle domande sul come e perché a esempio un testo venga scritto (e quindi divenga memoria condivisibile con altri) o meno, è passo di una conoscenza critica della realtà che fa (o dovrebbe fare) degli uomini adulti. Così si comprende meglio cosa volesse dire un grande pensatore del Novecento, Romano Guardini, quando nell’Elogio del libro scriveva : Avete mai pensato, amici miei, che meravigliosa opera della creatività umana è un libro? Con ciò non penso ancora affatto al suo contenuto spirituale: l’opera del poeta, o la rappresentazione dello storico, o la ideologia del filosofo – intendo bensì, come ho già detto, la cosa concreta, che si può tenere in mano e che appunto si chiama “il libro”. Chi ama il libro, prende in mano con il sentimento di una tranquilla familiarità, quell’oggetto che così si chiama, stampato su carta o rilegato in tela o cuoio o pergamena. Lo sente come una creatura, che si tiene in onore o si cura, e della cui concretezza materiale si è lieti. Anche se viviamo in una realtà nella quale altri mezzi di comunicazione sembrano in concorrenza col tradizionale mondo del libro e della scrittura, il libro conserva intatta la sua importanza. Cinema, musica, Internet interagiscono con le nostre conoscenze, ma non ne sono la base primaria. Tanto è vero, che anche l’evoluzione del computer, l’e-book, tende ad assomigliare semplicemente al solito, vecchio e caro libro. Grazie, dunque, a chi ha pensato e realizzato questa mostra: ci aiuta a conoscere di più la storia dell’uomo, e quindi anche a riflettere su noi stessi e il nostro futuro. Edoardo Barbieri Professore Ordinario di Bibliografia Università degli Studi di Sassari Indice degli argomenti secondo l’ordine espositivo dei pannelli della Mostra A) Percorso storico 1- L’origine della scrittura 2- La scrittura in Mesopotamia: Sumer e Accad 3- Le scritture egee 4- La scrittura in Egitto 5- Le scritture consonantiche della regione siro-palestinese 6- Gli alfabeti greci 7- La risoluzione delle scritture misteriose : i “decifratori” 8- I supporti scrittori dell’Antichità 9- Le scritture della Scrittura 10- La scrittura araba 11- Il mistero etrusco 12- Scritture e lingue dell’Italia antica 13- La scrittura nel mondo germanico 14- La scrittura ogamica 15- La scrittura armena 16- La scrittura glagolitica e la scrittura cirillica 17- Le scritture dell’India e dell’Indocina 18- La scrittura in Cina 19- Le scritture del continente africano 20- Le scritture del continente americano 21- L’alfabeto latino e la scrittura in epoca romana 22- La scuola e gli strumenti per la scrittura nell’antica Roma 23- La “rivoluzione” : il passaggio da rotolo a codice 24- Le scritture medievali 25- La scrittura carolina 26- Il libro e la nascita delle università 27- Dalla scrittura gotica alla scrittura umanistica 28- L’Umanesimo e la rivoluzione del canone grafico 29- L’invenzione della stampa 30- La stampa in Italia : da Subiaco a Venezia 31- La stampa a mano in Europa fino al XIX secolo 32- I materiali della stampa : i caratteri mobili e il torchio 33- I materiali della stampa : l’inchiostro e la carta 34- La calligrafia 35- La notazione numerale 36- La scrittura informatica applicata alle scienze umanistiche 37- La scrittura informatica e digitale B) Percorso complementare 38- Scrittura e arte 39- Scrivere la musica 40- La scrittura Braille Glossario Spunti di approfondimento 1. L’origine della scrittura Le scritture più antiche risalgono al terzo millennio a.C. Ripercorrendo lo sviluppo delle conoscenze umane, gli studiosi sono concordi nel ritenere che molte società umane erano giunte assai vicino all’invenzione della scrittura; ed è sorprendente constatare come si siano invece fermate ad uno stadio precedente l’invenzione dell’alfabeto. I dipinti e i graffiti delle società primitive contengono così tanti elementi di un sistema di scrittura che chiamarli “arte” anziché “scrittura” può sembrare una mera distinzione terminologica. Secondo Steven Mithen ed altri studiosi la presenza delle componenti cognitive (il bisogno di comunicare, la manipolazione della cultura materiale, una teoria della mente, l’abilità manuale, il pensiero simbolico, ma soprattutto il linguaggio) sarebbe stata molto importante, ma soltanto il contemporaneo verificarsi di condizioni socio-economiche e politiche favorevoli, come avvenne in Mesopotamia nel 3.200 a.C., portò all’invenzione della scrittura. L’invenzione della scrittura da parte delle più antiche civiltà ha trasformato il modo di immagazzinare, manipolare e trasmettere le conoscenze ed è pertanto alla base della lunga evoluzione che, partendo da quelle antiche civiltà, ha prodotto il mondo moderno; la straordinaria crescita della conoscenza a partire da quell’evento può essere senz’altro attribuita, in gran parte, al potere della scrittura. 2. La scrittura in Mesopotamia: Sumer e Accad Furono i Sumeri a dar vita, intorno al 3200 a.C., alla prima alta cultura urbana e a inventare la scrittura cuneiforme. Non ci è ancora dato sapere con esattezza, quando essi si stanziarono in Mesopotamia, tra l’odierna zona di Baghdad e la foce del Tigri e dell’Eufrate, e da dove provenissero. E’ improbabile, comunque, che fossero i primi colonizzatori della regione, poiché molti nomi di antichi insediamenti non sono di origine sumerica. Intorno al 2600 a.C., iniziò l’immigrazione di popolazioni nomadi semitiche nella regione, gli Accadi, che, lentamente, spinsero i Sumeri sempre più verso sud. Due popoli assai differenti, che parlavano due lingue diversissime, di origine ignota e agglutinante, l’una, semitica e flessiva, l’altra, ma che seppero creare nella loro interazione e integrazione una grande e duratura civiltà. Gli Accadi non avevano una propria scrittura perciò adottarono il cuneiforme per esprimere la propria lingua, limitandosi a “leggere” in accadico il segno cuneiforme sumerico, così ad esempio il segno “re re”, re in sumerico lugal, lugal era in accadico pronunciato šarru. šarru Solo con l’avvento della dinastia fondata da Sargon (2350-2140 a.C.) compaiono i primi documenti cuneiformi scritti in accadico. In questo periodo il processo di accadizzazione s’intensificò e i Sumeri furono lentamente, ma inesorabilmente soppiantati (il processo terminò intorno al 1900 a.C. circa): l’ultimo periodo di grande splendore fu quello detto Neosumerico (2140-2020 a.C.) che ci ha lasciato un numero impressionante di tavolette cuneiformi in sumerico, raccolte in numerosi archivi di documenti economici, provenienti dalle grandi città del regno, come Ur, Umma, Lagaš, Puzrišdagan. Fu però un regno di breve durata, a causa di forti contrasti interni e dell’arrivo degli Amorriti, popolazioni nomadi che fondarono vari regni in Sumer, tra cui quello di Babilonia. Anche sul medio-Eufrate si era stanziata un’altra popolazione che avrebbe presto scritto il suo nome nella storia: gli Assiri. I periodi successivi presero nome dalla supremazia politica e culturale di queste due culture: paleo-babilonese e paleo-assiro (sviluppatesi intorno al 1800 a.C.), medio-baliblonese e medio-assiro (sviluppatesi intorno al 1600 a.C.); neo-babilonese e neo-assiro (intorno all’800 a.C.). Nonostante tutti questi stravolgimenti, la lingua sumerica sopravvisse e divenne lingua di culto, rimanendo in vita fino a quando la scrittura cuneiforme cadde in disuso. Evoluzione del cuneiforme I più antichi documenti che contengono esempi di scrittura organizzata risalgono alla fine del IV millennio a.C. (c. 3200-3100 a.C.). Si tratta di tavolette di argilla rinvenute presso l’antica città di Uruk (odierna Warka), situata nel sud della Mesopotamia (odierno Iraq), sulle quali sono incise sequenze di pittogrammi (rappresentazioni rudimentali, veri e propri disegni che riproducono un oggetto così com’è in realtà) incolonnati e ripetuti. Si tratta di documenti economici che menzionano quantità di beni diversi (animali, derrate alimentari e merci varie), razioni e altro. I segni originali avevano già in questo periodo subìto un significativo cambiamento: erano stati ruotati verso sinistra di 90°. La scrittura ‘protocuneiforme’ delle tavolette di Uruk ebbe un’ulteriore trasformazione nella prima metà del III millennio a.C., quando gli scribi, per evitare le “sbavature” provocate dallo stilo appuntito nel tracciare linee curve, ma soprattutto per rendere più veloce la realizzazione del segno, preferirono imprimere, con uno stilo a punta, a sezione triangolare, tratti rettilinei a forma di cuneo. E proprio dal latino ‘cuneus’ (chiodo) deriva il suo nome la scrittura cuneiforme. cuneiforme Questo significativo cambiamento e l’adozione sempre più frequente di una scrittura fonetica avviò un lento processo di semplificazione dei segni originari. Nel corso di tre millenni essa si diffuse in tutto il Vicino Oriente e fu veicolo della cultura mesopotamica. Oltre agli Accadi, altri popoli, come gli Ittiti o gli Elamiti, l’adottarono per trascrivere la propria lingua, altri popoli se ne servirono per creare nuove scritture (come l’ugaritico). La collezione di tavolette cuneiformi dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano Giustino Boson, professore di filologia semitica e assiriologia (dal 1935) presso questo Ateneo, su segnalazione dell’insigne studioso P. Scheil, reperì a Parigi un lotto di un migliaio di tavolette sumeriche di origine clandestina, appartenenti al periodo della Terza dinastia di Ur (2112-2004 a.C.). Egli s’interessò immediatamente perché il governo italiano ne curasse l’acquisto: purtroppo non fu possibile acquisire l’intero lotto, fu allora che Boson decise di crearsi una piccola collezione privata, acquistando per sé 73 tavolette, che studiò e successivamente donò all’Università Cattolica. I suoi studi furono pubblicati in diversi articoli e in una monografia, quasi ottant’anni fa. Attualmente la collezione “G. Boson” è in corso di aggiornamento, rielaborazione e studio. Datazione Le tavolette, fatta eccezione per la n. 1, databile al periodo di Larsa, Larsa e quindi di una sessantina di anni più tarda, appartengono tutte alla Terza Dinastia di Ur di cui sono documentati tutti i re, tranne Ur-Nammu, fondatore della dinastia: Ur-Nammu (2112-2095 a.C.) Šulgi (2094-2047 a.C.) Amar-Suen (2046-2038 a.C.) Šu-Sin (2037-2029 a.C.) Ibbi-Sin (2028-2004 a.C.) Provenienza Le tavolette appartengono agli archivi delle città di Umma (odierna Jokha) e SellušDagan (odierna Drehem), importanti centri amministrativi situati nell’Iraq meridionale, nei pressi della capitale Ur. Ur Contenuti I testi sono tutti di natura economica e riguardano in generale: • prestito di orzo • distribuzione di orzo e altre derrate alimentari come salari • liste di personale • pagamento di imposte in natura • consegne di diverse derrate alimentari a diverso titolo (farina, latticini, sostanze grasse, birra e simili) • spedizione di oggetti d’oro dal palazzo reale alla città santa di Nippur. Nippur • provvigioni di viaggio per messaggeri • comunicazioni di natura commerciale 3. Le scritture egee Le scritture egee, geograficamente localizzabili nei territori che si affacciano sul mare Egeo, si sviluppano in un arco di tempo che va dalla seconda metà del III millennio a.C. alla fine del II millennio a.C. Scopritore e indagatore della civiltà minoica (così come viene denominata la civiltà dell’antica Creta) fu l’archeologo Arthur Evans, che con gli scavi iniziati nel 1899 raggiunse, in breve, ottimi risultati. Nell’isola di Creta, celebre per gli splendidi palazzi minoici e per i prosperi commerci con le civiltà della Mesopotamia, dell’Egitto e della Penisola anatolica, sono attestati tre differenti sistemi di scrittura sillabica: il geroglifico cretese, cretese la Lineare A, A e la Lineare B. B Le iscrizioni si trovano su tavolette d’argilla (documenti d’archivio), sigilli, vasi, elementi architettonici e altri supporti, e la loro stesura nasce dalle necessità concrete legate all’organizzazione del lavoro, alla registrazione di beni, alla contabilità. Il geroglifico cretese (o minoico), minoico attestato a Creta nel Medio Minoico I e II (20001700/1600 circa), è una scrittura di tipo ideografico, allo stato attuale non ancora decifrata. Se ne contano circa 331 testi tra documenti d’archivio e iscrizioni su sigilli. La Lineare A A, scrittura sillabica frammista di ideogrammi, così chiamata da Evans per il tracciato lineare e più semplice rispetto al geroglifico cretese e per la sua disposizione orizzontale, è documentata tra il 1700 e il 1450 a.C. a Creta. I testi sono 1472, e vi si contano circa un centinaio di segni, alcuni ideogrammi e un sistema numerico decimale. Essa nasce nel periodo dei primi palazzi ma si impone solamente nel periodo dei secondi palazzi quando sostituisce il geroglifico con cui era coesistita per secoli; a sua volta, verrà adottata dai micenei che successivamente creeranno la Lineare B. Sono venuti alla luce, su tavolette d’argilla e altro materiale, più di mille testi di carattere amministrativo e religioso. Si tratta di una lingua non ancora decifrata: tra le ipotesi si ricordano quella degli studiosi Meriggi e Palmer che pensano al luvio e quella di Georgiev che pensa piuttosto al greco o all’ittito. Più recente il tentativo di decifrazione avanzato da Consani e Negri. La Lineare B B, decifrata nel 1952 dall’architetto inglese Michael Ventris che si avvalse, in un secondo momento, dell’aiuto del glottologo John Chadwick, è una scrittura sillabica che semplifica la Lineare A e testimonia una lingua greca molto antica, precedente i tempi di Omero. Essa venne utilizzata tra il 1400 e il 1150 a.C., e si contano circa seimila tavolette scoperte sia nell’isola di Creta sia nella Grecia continentale, oltre ad iscrizioni dipinte su vasi. I segni sillabici sono circa 90; ad essi si aggiungono numerosi ideogrammi e un sistema numerico di tipo decimale. Tra le città che hanno restituito materiale si ricordano Cnosso, Cidonia, Pilo, Micene, Tirinto, Eleusi, Tebe, Orcomeno. Le tavolette di argilla venivano iscritte con uno stilo e poi lasciate seccare, ed erano successivamente conservate dentro casse o ceste in stanze chiamate ‘uffici d’archivio’. Gli incendi che distrussero gli antichi palazzi favorirono la cottura delle tavolette, che così si sono conservate fino ad oggi. Infatti la conservazione della scrittura dipende anche dal materiale scrittorio; scrittorio l’argilla, ad esempio, se non viene cotta o bruciata, rimane troppo friabile. La forma delle tavolette può variare: in genere presentano forma di pagina o di foglia e le dimensioni sono tendenzialmente piccole. All’interno del miceneo sono individuabili i sillabogrammi o fonogrammi (cioè segni che rappresentano delle sillabe) e gli ideogrammi (cioè segni che esprimono dei concetti). Una attenzione particolare merita inoltre il disco di Festòs. Festòs E’ un disco di argilla di colore rossastro, con un diametro di circa 16 cm. per uno spessore che varia tra 1,5 e 2 cm. Esso fu scoperto nel 1908 dall’archeologo italiano Luigi Pernier durante gli scavi all’estremità nord-est del palazzo di Festòs. E’ scritto su entrambe le facce e per ottenere l’iscrizione sono stati utilizzati 45 punzoni che corrispondono ai 45 segni differenti presenti sul disco. Per la prima volta nella storia sono stati utilizzati dei caratteri mobili (punzoni) per stendere un testo che si presenta così come un antichissimo esemplare di documento a stampa. L’andamento della scrittura è spiraliforme (nella lettura si parte dalla periferia per raggiungere il centro). I segni sono 242; la scrittura sembra di tipo sillabico e la sua origine è presumibilmente egea. La natura del testo è incerta, e problematica è la sua decifrazione che, nonostante molteplici tentativi, spesso fantasiosi e ingenui, rimane per ora enigmatica. Tra le scritture dell’area egea si ricorda anche il cipro-minoico utilizzato nell’isola di Cipro tra la fine del XVI secolo e il 1050 a.C. circa. Questa scrittura sillabica, non ancora decifrata, è testimoniata ad Enkomi, sulla costa orientale di Cipro e sulla costa siriaca, a Ugarit. Dal cipro-minoico è derivato il sillabario cipriota classico adottato a Cipro tra l’VIII e il VII secolo a.C. e rimasto in vigore fino al III secolo a.C. Tale sillabario conta 56 segni di cui 5 sono vocali; la sua decifrazione è avvenuta tra il 1872 e il 1875 per merito di George Smith che si servì di testi bilingui fenicio-ciprioti. 4. La scrittura in Egitto In Egitto la scrittura nacque in un’epoca grosso modo contemporanea a quella in cui la scrittura cuneiforme si affermò in Mesopotamia (circa 3200 a.C.). Platone nel Fedro riferisce la credenza egiziana secondo cui il dio Thot aveva inventato la scrittura e ne aveva fatto poi dono agli uomini. La prima scrittura che troviamo in uso nell’antico Egitto è quella geroglifica. geroglifica La definizione ‘geroglifici’ (dal greco γrάμματα iεroγλυφικά , cioè ‘lettere sacre incise’) è da attribuire a Clemente di Alessandria (secolo II d.C.), il quale non comprendendoli, e avendoli visti incisi soprattutto su monumenti di carattere religioso, erroneamente enfatizzò questo aspetto. In realtà i geroglifici non avevano nulla di sacro e venivano impiegati per scritti di ogni tipo. Essi furono dapprima pittografici o ideografici (cioè rappresentavano simbolicamente un oggetto o un’idea), successivamente anche fonetici (cioè rappresentavano un suono della lingua parlata). I geroglifici potevano essere letti da destra verso sinistra o dall’alto verso il basso e viceversa, a seconda della collocazione del testo. Per scoprire in qual senso il testo debba essere letto basta osservare la direzione dello sguardo degli esseri viventi (uomini o animali) rappresentati. Tale scrittura però, pur avendo un elevato numero di simboli (se ne conoscono circa tremila), aveva una limitata capacità espressiva: non era per esempio possibile esprimere concetti astratti o verbi. Nel tempo la scrittura geroglifica subì delle modificazioni. Durante la III dinastia (inizio del III millennio a.C.) comparve la scrittura ieratica (secondo Clemente Alessandrino “lingua sacerdotale”), uno sviluppo corsivo della precedente, ossia una semplificazione dei segni originari con lo scopo di ottenere una maggiore velocità nello scrivere. Essa fu in uso fino alla fine del Nuovo Regno (fine del II millennio a.C.) e venne adoperata per redigere tutti i documenti che riguardavano la vita pubblica e religiosa. Agli inizi si sviluppava su colonne verticali, ma successivamente si passò a una stesura orizzontale, da destra verso sinistra. In epoca tarda lo ieratico fu usato solo per testi religiosi. La forma demotica ebbe origine da un’ulteriore semplificazione della ieratica, con la differenza che, anziché semplificare singoli segni, ne venivano abbreviati gruppi interi che apparivano come un unico segno. Essa è quindi più difficile da leggere rispetto al geroglifico e allo ieratico. Il demotico, venne usato dall’epoca della XXVI dinastia (VII secolo a.C.), quando fu introdotto fino alla fine del periodo romano (IV secolo d.C.). Esso riflettè sempre più la lingua popolare e fu la scrittura favorita dagli scribi ‘ufficiali’. Proprio per questo motivo la demotica (dal greco δήμος = popolo) venne identificata con la scrittura popolare. Infine, in età romana, si andò formando la scrittura copta che troviamo in uso dal III secolo Essa altro non era che la trascrizione della lingua egiziana in caratteri greci e fu elaborata dagli egiziani di religione cristiana (i copti, appunto). La scrittura copta era, come quella greca, una scrittura fonetica. Venivano utilizzate infatti le lettere dell’alfabeto greco (comprese le vocali che nella lingua scritta egiziana non esistevano) con l’aggiunta di pochi altri segni derivati dal demotico. L’evoluzione della scrittura copta fu però indipendente da quella dell’alfabeto greco. In particolare, nel IX secolo d.C., lingua e scrittura copta dovettero soccombere di fronte a lingua e scrittura araba, pur continuando ad essere ancora in uso (veramente assai ristretto, particolarmente a partire dal secolo XIII) fino a che dal secolo XVII, non scomparvero completamente come scrittura e lingua vive, rimanendo tuttavia fino ad oggi come espressione ufficiale della Chiesa copta. La lingua e la scrittura greca in Egitto Almeno dal VII secolo a.C. in Egitto furono note anche la lingua e la scrittura greca, ivi introdotte dai soldati mercenari e dai mercanti (proprio a questo periodo risale infatti la fondazione, nel delta del Nilo, di Naukratis, colonia greca di Mileto). Nel 332 a.C., Alessandro Magno conquistò l’Egitto. Dopo la sua morte il paese divenne un regno indipendente sotto l’autorità di Tolemeo I Sotere e il greco ne divenne la lingua ufficiale. Chi parlava greco restava pur sempre una minoranza, ma con un rilevante peso sociale e politico. Il greco usato era quello della κοινή διάλεκτος, e l’alfabeto era lo ionico di Mileto che era stato adottato per decreto in Atene nel 404-403 a.C. Dal sec. III a.C. in poi i papiri testimoniano in Egitto la presenza diffusa della lingua e della scrittura greca non solo in testi documentari, ma anche letterari. Le forme grafiche in cui il greco si esprime, cioè quelle che noi diciamo maiuscole, risultano estremamente variate: eleganti forme librarie coesistono con la scrittura ‘svelta’ dei testi documentari. Ma accanto al greco, il demotico, insieme allo ieratico, è presente ancora nella documentazione privata della popolazione indigena. Quando, a partire dal 30 a.C., l’Egitto diviene provincia romana, il greco rimane la lingua ufficiale così come per tutte le provincie orientali dell’Impero romano; nei libri, ancora in forma di rotolo, troviamo un greco chiaro ed elegante, leggibile ancora oggi da un ‘profano’ che conosca un po’ l’alfabeto greco nella sua forma maiuscola. Tra il III e il IV secolo d.C. il rotolo lascia il posto al codice per i testi letterari, mentre le scritture corsive subiscono l’influsso delle coeve scritture latine e si evolvono rapidamente, ma si potrà parlare di scrittura minuscola solo alcuni secoli più tardi. Infine, nel VII secolo d.C., il paese viene conquistato dagli arabi e la grecità si estingue in Egitto sotto la pressione di un’arabizzazione sempre più diffusa; ma solo nell’VIII secolo l’arabo sostituisce definitivamente il greco: esso scompare anche come lingua parlata né si trovano più codici scritti in greco. La collezione di papiri dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano (identificati con la sigla P.Med. = Papyri Mediolanenses) si è costituita, nel Novecento, in periodi diversi: negli anni Venti, con le donazioni Jacovelli-Vita e Castelli, acquisite tramite Aristide Calderini, e successivamente, in acquisto, per opera di Orsolina Montevecchi. Si tratta in tutto di circa un migliaio di pezzi, tutti di provenienza egiziana, per la maggior parte scritti in greco, e in piccola parte in ieratico e copto. Tra i papiri greci se ne contano una quarantina fra biblici, liturgici, letterari e semiletterari, tutti gli altri sono documentari. In buona parte i papiri sono già stati editi su Aegyptus, rivista italiana di egittologia e di papirologia fondata nel 1920 da Aristide Calderini. I papiri documentari sono stati ripubblicati nei vari volumi del Sammelbuch griechischer Urkunden aus Aegypten. Alla collezione di papiri si aggiunge altro materiale antico, tutto in lingua greca proveniente dall'Egitto, e precisamente: una piccola collezione di ostraca tre tabelle lignee scritte in greco, di cui una liturgica circa duecento bolli d'anfora sei iscrizioni greche (esposte nell’atrio della Cripta dell’Aula Magna). 5. Le scritture consonantiche della regione siro-palestinese Il problema dell’origine dei sistemi di scrittura consonantica resta tuttora insoluto. Nel II millennio a.C. nella regione siro-palestinese ci furono diversi tentativi di creare sistemi di scrittura locali, come la scrittura pseudogeroglifica di Biblo (30 km. a nord di Beirut, sulla costa dell’attuale Libano), la scrittura protosinaitica e quella delle iscrizioni palestinesi protocananaiche. Tali sistemi erano indipendenti da quelli più antichi mesopotamico ed egiziano, benché questi, e specialmente il secondo, abbiano esercitato la loro influenza. L’origine remota del principio consonantico va cercata in Egitto, ma quanto al luogo e al tempo in cui tale principio si affermò nella regione siro-palestinese le opinioni degli studiosi sono diverse. La scrittura ugaritica fu elaborata e usata nella città di Ugarit (attuale Ras Šamra, in Siria): comprende 28 segni (30 computando le tre ’ălef) ed è di influenza mesopotamica (ovvero segni cuneiformi incisi su tavolette con uno stilo). Essa è la più antica fra quelle del II millennio a.C. ad essere stata decifrata ed è prova che il principio consonantico esisteva già nel XIV secolo a.C. Tra le scritture consonantiche semitiche vanno distinte la nord-semitica (la scrittura ugaritica e la fenicia, attestata dal XIII secolo a.C., con quelle da essa derivate) e la sud-semitica (i sistemi grafici ‘proto-arabo’ [testimoniato dal VIII-VI secolo a.C.], nord-arabico e sud-arabico [documentati dal IX secolo a.C.]), che presentano diversità non solo nei simboli grafici, ma anche nell’ordine di successione dei segni dell’‘alfabeto’. L’ordine sud-semitico, testimoniato anche dalla tradizione etiopica, è diverso da quello ugaritico e fenicio. L’ordine dei segni nord-semitico, che non corrisponde a nessuna logica né fonetica né grafica, è stato posto in connessione con un’origine astronomica: esso costituirebbe una specie di ‘calendario’ che ricorda le fasi lunari e rappresenta la situazione degli astri attorno al 2000/1600 a. C. [i 30 segni dell’‘alfabeto’ ugaritico rappresenterebbero l’intero mese lunare (compresa la fase oscura), i 22 dell’ ‘alfabeto’ fenicio solo le tre fasi luminose]. I nomi delle lettere alfabetiche ci sono conservati dalla tradizione greca, la quale ha reso propriamente alfabetico il sistema di scrittura fenicio. Le lingue semitiche hanno infatti un sistema fondamentalmente consonantico, mentre il greco e gli alfabeti da esso derivati esprimono anche le vocali. Alcune consonanti fenicie, che non avevano più corrispondenza di suono in greco, sono state utilizzate per rappresentare le vocali: ilef → alfa; hē’ → e-psilon (= «e semplice»); Krm → »ta y{d → iota; ‘ayin → o-micron («o piccolo»); waw ha dato origine col suono consonantico al digamma, con quello vocalico alla y-psilon («y semplice», rispetto al dittongo ou). Molte lettere greche hanno nomi semitici: oltre alle già citate, lettere greche che hanno nomi semitici sono beta, theta, kappa, lam(b)da, my, ny, pi, tau, koppa. Anche la direzione della scrittura era originariamente uguale: da destra a sinistra, come è rimasta per i semiti (tranne che nell’etiopica, scrittura di origine sud-arabica) e come è attestata in Grecia in età arcaica. In Grecia poi dal V secolo a.C. divenne usuale la direzione da sinistra a destra, dopo un periodo di transizione in cui fu usata la scrittura «bustrofedica», così chiamata dall’espressione greca che significa «che gira come il bue» quando ara un campo: da destra a sinistra, poi viceversa e così di seguito. Dalla scrittura fenicia sono derivate sia l’ebraica antica, detta paleoebraica (documentata dall’VIII secolo a. C.), sia l’aramaica (attestata dal X secolo a.C.), che dalla fine dell’VIII secolo è documentata anche in una forma corsiva (diffusa specie in Assiria). Dalla scrittura aramaica delle cancellerie di età persiana tarda si sviluppano dal III secolo a.C. varie scritture nazionali tra cui ricordiamo: la scrittura giudaica, detta anche ‘ebraica quadrata’ per la forma dei segni (dal III secolo a.C.) e la scrittura siriaca (la forma di nord-siriaca della zona di Edessa, dall’inizio del I secolo d.C.). 6. Gli alfabeti greci Gli alfabeti greci nascono da un adattamento degli alfabeti fenici. Lo storico Erodoto (Historiae, V, 85) racconta che i Fenici, guidati da Cadmo, giunsero in Beozia e qui portarono le lettere (τά γράμματα prima ignote ai Greci. La parentela tra i due alfabeti risulta evidente dalla forma dei segni, dalla loro successione, dai nomi delle lettere (in fenicio aleph, beth, gimel, delth…; in greco alpha, beta, gamma, delta…), dalla direzione della scrittura che, nelle prime iscrizioni, scorreva da destra a sinistra. Merito dei Greci fu aver introdotto le vocali nell’alfabeto fenicio che, invece, possedeva solamente le consonanti. Le 22 lettere dell’alfabeto fenicio trovano riscontro negli alfabetari greci: delle 4 sibilanti i Greci ne utilizzarono solo due, lo zayin per la zeta, sade o sin, per il sigma; il segno fenicio het venne usato ora come aspirata ora come eta a seconda delle località. E’ difficile determinare con esattezza dove e quando sia avvenuta l’’invenzione’ dell’alfabeto greco. Per la localizzazione, alcuni hanno proposto i nomi di Rodi, Tera, Creta, Cipro; bisogna comunque pensare ad un luogo di facile incontro tra Oriente e Occidente. Per la datazione è plausibile pensare agli inizi del IX secolo a.C. quando furono particolarmente intensi i rapporti commerciali e culturali tra i Greci e i popoli del Mediterraneo orientale. Le più antiche iscrizioni risalgono alla prima metà dell’VIII secolo a.C. Si pensi alla famosa iscrizione graffita sulla ‘coppa di Nestore’ proveniente dall’antica Pithekussa; nella Grecia continentale la più antica iscrizione è databile al 730 a.C. circa: si tratta di un testo graffito su una piccola brocca rinvenuta nella necropoli ateniese del Dipylon. Gradualmente, con il passare del tempo, si produssero degli adattamenti che portarono alla creazione di diversi alfabeti locali in cui si verificò la tendenza a invertire, elaborare, modificare i segni originari. Prevalse poi l’alfabeto usato a Mileto che prevedeva la distinzione tra suoni lunghi e brevi ( η/ω; ε/ο). Questo alfabeto, detto milesio, venne adottato ad Atene nel 403 a.C. sotto l’arconte Euclide e, a partire dal IV secolo a.C., divenne l’alfabeto d’uso comune in tutta la Grecia. Con il periodo ellenistico-romano si affermò una koiné linguistica basata sullo ionico-attico a cui corrispose una koiné di scrittura epigrafica in cui le forme delle lettere tesero ad omogeneizzarsi sempre di più. A completamento dell’alfabeto fenicio i Greci introdussero anche appositi segni per indicare tre consonanti aspirate (la dentale th, la gutturale kh, la labiale ph) e i nessi consonantici ks e ps. Sulla base del loro valore fonetico lo studioso Adolph Kirchhoff nel 1877, nell’opera Studien zur Geschichte des griechischen Alphabets, distinse due gruppi alfabetici, quello occidentale e quello orientale. Su una cartina geografica segnò in azzurro gli alfabeti di tipo orientale, in rosso gli alfabeti di tipo occidentale. Gli alfabeti in cui tali segni complementari non erano attestati sono evidenziati in verde. Alla luce delle acquisizioni più recenti la classificazione di Kirchhoff, pur rimanendo valida nella sua impostazione, necessita di qualche correttivo. Le lettere dell’alfabeto erano impiegate anche per esprimere i numeri e, con modificazioni, anche per indicare le note musicali. La direzione della scrittura si presenta o come retrograda (da destra a sinistra) o come bustrofedica (da destra a sinistra, da sinistra a destra e viceversa) o come progressiva (da sinistra a destra). Con il tempo si adottarono anche differenti mode grafiche in relazione alla varietà dei supporti scrittori. Si passò da una scrittura di tipo monumentale su pietra a scritture di tipo onciale, corsivo, minuscolo. Le scritture geometriche, armoniose e regolari dell’Atene del V sec. a.C, sul finire del IV sec. a.C., assunsero un aspetto caratterizzato dal rimpicciolimento delle lettere e dall’incurvamento delle linee rette. Nel III sec. a.C. si svilupparono anche le apicature e comparvero le lettere lunate. In età romana, intorno al III sec. d.C., sono attestate le lettere quadrate; in età imperiale si nota anche un caratteristico allungamento verso l’alto dei tratti obliqui delle lettere. I tratti linguistici ed epigrafici, un tempo molto più diversificati a seconda delle peculiarità locali, tesero ormai nel periodo ellenistico-romano a standardizzarsi secondo norme più generali e comuni. 7. La risoluzione delle scritture misteriose: i “decifratori” I geroglifici egiziani, la scrittura cuneiforme e la lineare cretese non avrebbero mai rivelato i loro segreti senza l’accanita pazienza di alcuni appassionati ricercatori. Decifratori dell’incomprensibile, cacciatori di tesori oscuri, essi sono riusciti a strappare alle tenebre importanti documenti della nostra memoria. Champollion e i geroglifici Jean-François Champollion (1790-1832), studioso di lingue orientali e professore di storia, è il fondatore dell’egittologia moderna. Egli aveva un grande desiderio nella sua vita: decifrare i geroglifici. Per riuscire nella sua impresa studiò l’ebraico, il persiano, il siriaco, il cinese ed il copto. E i suoi sforzi non furono vani. A Parigi ebbe occasione di vedere una copia della ‘Stele di Rosetta’. Si tratta di una spessa pietra in basalto di colore nero sulla quale è riportato un decreto del sovrano Tolemeo V Epifane del 196 a.C. scritto in tre differenti lingue: geroglifico, demotico e greco. Rinvenuta a Rashid (Rosetta) durante la campagna napoleonica in Egitto del 1799, la stele è oggi conservata presso il British Museum di Londra. Champollion dunque, nel 1808, studiò a lungo la copia che era conservata a Parigi. Partì dall’osservazione dei due cartigli (sorta di piccole cornici che contenevano normalmente i nomi dei sovrani) e vide che i due nomi che in essi comparivano, Tolomeo e Cleopatra, erano presenti anche nel testo greco. Fino ad allora però si credeva che i geroglifici fossero ideogrammi, cioè che esprimessero un concetto. Mettendo a confronto il testo greco con quello geroglifico Champollion contò il numero di parole contenute nel testo greco e il numero di geroglifici e notò che questi ultimi quantitativamente superavano i termini greci. E proprio da questo egli intuì che ciascun geroglifico doveva avere in realtà un valore fonetico, alfabetico o sillabico (corrispondente cioè ad una singola lettera o ad una sillaba). E questo fu il punto di partenza. Con un paziente lavoro di osservazione e di confronto egli giunse ad abbinare ogni lettera o sillaba ad un geroglifico. La brillante intuizione di Champollion fu dunque che ogni geroglifico non fosse in realtà la rappresentazione di una immagine, ma quella di un suono. Si svelava così uno dei più grandi misteri della storia della scrittura. La decifrazione del cuneiforme Fin dal Medioevo, la Terra Santa fu meta di pellegrinaggi di coraggiosi viaggiatori cristiani che si avventuravano in quelle misteriose terre con il solo intento di visitare i luoghi sacri; ciò che si trovava al di là di essi e del deserto siro-palestinese, non suscitava ancora alcun interesse. Sarà Pietro della Valle Valle, nel 1614, il primo a intraprendere un viaggio attraverso la Mesopotamia e la Persia e a rinvenire le vestigia di antichissime civiltà. Fu così che s’imbatté in una misteriosa scrittura diffusa un po’ ovunque su monumenti, mattoni e mura; nei pressi di Persepoli, copiò tre serie di “strani segni” che, successivamente, inviò a un caro amico napoletano: era il 21 ottobre del 1621 e i primi caratteri cuneiformi avevano raggiunto l’Europa. La decifrazione dell’antico persiano Da quel momento in poi, copie e pubblicazioni di iscrizioni, molte trilingue, si susseguirono per circa un secolo e mezzo, senza che ci fossero, oltre alla ormai copiosa quantità di materiale epigrafico, significativi passi avanti nell’attribuzione o nella comprensione delle epigrafi. Un primo prezioso contributo venne da C. Niebuhr: Niebuhr egli riconobbe, nelle iscrizioni da lui copiate in Persia, tre diversi tipi di scrittura cuneiforme che corrispondevano a tre diverse lingue: l’antico persiano, nel quale individuò 42 caratteri “alfabetici”, quindi l’elamita e, il più difficile, composto da un elevato numero di segni, quello che sarà definito in seguito il babilonese. Successivamente, F. Münter scoprì che il cuneo obliquo nelle iscrizioni persiane aveva la funzione di separare le parole e ipotizzò, inoltre, che le iscrizioni persiane appartenessero alla dinastia degli Achemenidi. Di qui, prese avvio la ricerca del tedesco G. F. Grotefend, Grotefend a cui si deve la prima, seppur parziale, decifrazione del cuneiforme. Convinto della parentela tra l’antico persiano e la lingua dell’Avesta - la raccolta di testi sacri della religione zoroastrica persiana - ne confrontò i nomi propri, utilizzando anche le fonti greche, poiché esse riportavano l’esatta successione dei re achemenidi. Riuscì così a isolare 15 caratteri alfabetici, di cui 11 si rivelarono in seguito esatti. Era il 1803, ma i tempi non erano ancora maturi: lo scetticismo e l’indifferenza del mondo accademico resero vani tutti i suoi sforzi e la sua scoperta fu presto dimenticata. Il 1835 è un anno decisivo per la decifrazione dell’antico persiano: H. C. Rawlinson, Rawlinson ufficiale dell’Armata delle Indie, scopre a Behistun un’iscrizione trilingue di ragguardevoli dimensioni: la prima scrittura conta più di quattrocento righe, le altre due ne contengono un numero proporzionalmente più elevato. Si tratta di un testo commemorativo che annovera le vittorie del grande re persiano Dario I e, come tutte le iscrizioni di questa tipologia, essa contiene numerosi nomi di persona e un certo numero di toponimi, per buona parte allora già noti, che consentirono allo studioso di isolare tutti i 42 segni di cui si compone l’antico antico persiano e di completare così la decifrazione della prima lingua. Soltanto allora, con la decifrazione della prima scrittura, gli studiosi furono in grado di affrontare le altre due iscrizioni. La decifrazione dell’elamita Dalla comparazione col persiano antico, appare subito chiaro che la seconda scrittura ha una struttura sillabica, formata da sillabe semplici o complesse, da ideogrammi. Ma la difficoltà maggiore è dovuta al fatto che non esistono lingue a cui si possa comparare questa seconda scrittura, che verrà definita elamita dal nome della regione, Elam (regione a ovest del corso inferiore del Tigri, chiamata Susiana dai Romani), in cui era in uso. Grazie ai fortunati scavi a Susa, fu possibile avere a disposizione una copiosa documentazione in elamita che consentì l’identificazione di 111 segni. Si deve all’inglese E. Norris la redazione della seconda colonna e la decifrazione dell’iscrizione di Behistun. La decifrazione del babilonese La terza colonna annovera un numero impressionante di caratteri, se ne contano circa cinquecento. Di una cosa, tuttavia, si era consapevoli: si trattava della scrittura dei Babilonesi e degli Assiri. La difficoltà che i decifratori incontrarono fu dovuta soprattutto alla complessità della lingua, che non aveva pari e non poteva essere confrontata con nessun’altra lingua conosciuta. P. E. Botta e A. H. Layard, Layard nel frattempo, avevano riportato alla luce le città di Ninive, Khorsabad e Nimrud e qui avevano rinvenuto un’ingente quantità di materiale epigrafico con caratteristiche, se non uguali, molto simili alla terza scrittura, e questo suscitò un grande interesse nell’ambiente scientifico. Spetta tuttavia a E. Hincks il merito di aver intuito la struttura complessa di questa scrittura. A causa dell’alto numero di segni non poteva trattarsi di una scrittura alfabetica né tantomeno puramente sillabica, ma nessuno avrebbe mai potuto immaginare che in essa potessero coesistere sistemi diversi, perfettamente integrati in una scrittura che mescola a sillabe semplici o complesse (sillabogrammi), logogrammi. Così, ad esempio, il segno UD può avere valore fonetico: ud, ut, tu2, tam, par, pir, lah, lih, hiš, o logografico ud = sole, giorno; babbar = bianco, brillante; zalag = puro. Se uno stesso segno (come nel primo caso) può avere valori fonetici diversi (polifonia) è anche possibile che segni diversi abbiano lo stesso suono (omofonia): così il suono GU può essere espresso da segni diversi. Inoltre, esiste un’altra categoria di segni, detti determinativi, che, anteposti o posposti a una parola, ne indicano la categoria di appartenenza (sesso, divinità, toponimi, piante, materiale). Si può immaginare lo sconcerto nel mondo accademico e anche lo scetticismo nell’accogliere queste “ipotesi”. Occorreva una dimostrazione inconfutabile e la fortuna volle che, nel 1857, quattro valenti ricercatori si trovassero contemporaneamente a Londra: si trattava di H. C. Rawlinson, Rawlinson E. Hincks, J. Oppert e F. Talbot. Essi ricevettero l’incarico da parte della Royal Asiatic Society di decifrare, lavorando separatamente, un’iscrizione del re assiro Tiglatpileser I, rinvenuta nell’antica città di Assur. Quando ciascuno dei quattro studiosi, alcuni mesi dopo, presentò alla Royal Asiatic Society la propria traduzione, fu subito evidente la convergenza delle interpretazioni: nessuno, ora, avrebbe più potuto confutare la scientificità del metodo d’indagine adottato. Una nuova scienza era nata: l’assiriologia assiriologia. assiriologia Ventris e la sfida della Lineare B Anche a Creta le scritture lanciarono la loro sfida ai decifratori. In particolare la Lineare B, dopo molti anni di ricerca, venne definitivamente ‘decifrata’ nel 1952 da Michael Ventris e John Chadwick come una forma arcaica di greco (decifrazione di grande valore scientifico perché ottenuta senza l'aiuto di testi paralleli, come per esempio, nel caso della stele di Rosetta). Ventris, aviatore nell’ultima guerra mondiale, si era già occupato di criptoalfabeti. Ventris affrontò il lavoro seguendo questa tecnica: iniziò col calcolo statistico delle percentuali dei segni, giungendo alla conclusione che si trattava di una lingua flessiva. Dopo aver individuato il segno più ricorrente nelle tavolette, lo associò alla lettera più frequente in inglese (ma anche in italiano), la e; passò quindi al segno successivo, e così via. Il computo della frequenza di un simbolo grafico fu proprio il fondamento della decifrazione. A questo punto a Ventris non restava che provare a leggere nelle iscrizioni della Lineare B qualche vocabolo. Da dove cominciare se non dai toponimi? Decifrò allora, nelle tavolette di argilla, A-mi-ni-so, e di lì a poco anche Ko-no-so, ossia Cnosso, la residenza del mitico re Minosse. Ma ad un certo punto della sua avventura lo studioso ebbe necessità della collaborazione di uno specialista, e il caso volle che fosse un giovane studioso di dialetti greci, John Chadwick, il quale in seguito sarebbe diventato il principale esegeta della Lineare B. Ventris morì in un incidente stradale la notte del 6 settembre 1956, nei sobborghi di Londra, a soli trentaquattro anni. Il suo amico e compagno di lavoro, John Chadwick ha riassunto in poche parole il genio speciale di Ventris (che è poi quello di ogni decifratore): “Michael era capace di intuire nella frastornante diversità dei segni di quella scrittura, gli schemi e le costanti che rivelavano la sua struttura nascosta. E’ questa qualità, il dono di cogliere l’ordine sotto le apparenze della confusione, a rivelarsi il tratto distintivo dei grandi uomini in tutto quello che essi hanno prodotto”. 8. I supporti scrittori dell’Antichità Il papiro Molto usato in Egitto, esso veniva preparato tagliando sottili strisce dal midollo fibroso di una canna che cresceva spontaneamente nel delta del Nilo: due strati di strisce, l’uno sovrapposto all’altro ad angolo retto, venivano compressi insieme per formare i fogli, che potevano poi essere incollati insieme in una lunga fila per formare un rotolo. Chi leggeva lo doveva svolgere gradualmente, usando una mano per tenere la parte che aveva già visto, arrotolandola durante la lettura; il risultato era che, al termine della visione, la spirale risultava capovolta e chi avesse voluto leggere nuovamente il testo avrebbe dovuto srotolare di nuovo l’intero volume. Si facevano fogli di diverse misure, ma in media un libro accoglieva una colonna di testo alta tra i venti e i venticinque centimetri, con un numero di linee di scrittura variabile tra venticinque e quarantacinque. Il testo classico che riporta la tecnica di fabbricazione della carta di papiro è quello di Plinio (secolo I d.C.), Naturalis historia, (XIII, 74-77; 81-82). Gli ostraca Un materiale scrittorio accessibile a tutti e perciò molto usato nel mondo antico, sono gli ostraca: cocci di vasi di terracotta, raccolti tra i rifiuti e scritti nella parte convessa. Si adoperavano per scritture di ogni genere, ma è particolarmente noto l’uso che se ne faceva in Atene, per l’istituzione chiamata appunto ‘ostracismo’, una sentenza di esilio decennale contro i cittadini ritenuti pericolosi per l’equilibrio interno della vita dello Stato. Il nome della persona da ‘ostracizzare’, seguito dalla parola ‘via’ e talora anche da insulti, veniva scritto appunto su cocci di vaso che venivano poi depositati a rovescio per garantire la segretezza del voto. Le tavolette cerate Esse vennero impiegate inizialmente in ambito greco per scrivere testi correnti e presentano molto spesso gli stessi caratteri grafici dei papiri, cosicché sono ugualmente oggetto dell’epigrafia e della papirologia dal punto di vista scrittorio. Ne sono rimaste un discreto numero, provenienti da molte parti del mondo grecoromano. Ogni tavoletta lignea presenta una faccia perfettamente liscia e l’altra delimitata da una cornice; lo spazio rettangolare compreso all’interno di questa è di spessore minore ed è ricoperto di cera molto dura sulla quale si scrive incidendo i segni con uno stilo di metallo appuntito a una estremità, piatto, a spatola, dall’altra, per cancellare eventuali errori di scrittura. Due (o più) tavolette vengono accostate facendo combaciare i bordi rilevati, in modo che le due facce cerate rimangano all’interno senza toccarsi. Le etichette lignee Servivano a contrassegnare le mummie. Esse recavano il nome, la paternità, la maternità, il luogo di provenienza del defunto, il suo mestiere. Talora esse hanno testi più lunghi: portano le date di nascita e di morte, ed espressioni religiose, o di ricordo, o di affetto, e simili: sono, per la povera gente, un surrogato economico dell’iscrizione funebre. Le monete Pur non potendo essere considerate “materiale scrittorio” nel senso pieno della parola, anche le monete presentano generalmente una parte epigrafica, alla quale è affidato innanzitutto il rilevante compito di dichiarare l’autorità emittente. Le monete greche la enunciano al genitivo plurale (per es. “degli Ateniesi”), sottintendendo dunque una parola come “moneta”. L’uso del genitivo singolare è presente sulle monete dei sovrani ellenistici, sulle quali, dopo la morte di Alessandro Magno, l’autorità emittente viene espressa anche grazie al ritratto. La monetazione romana repubblicana, oltre all’indicazione “ROMA”, specifica anche il nome dei magistrati addetti all’emissione delle monete; in età imperiale, invece, il Diritto riporta il nome e le cariche ricoperte dall’imperatore (per es. Console, Pontefice Massimo), mentre la scritta del Rovescio commenta il soggetto raffigurato. A questo lato è spesso demandato il ruolo di amplificare aspetti dell’ideologia del potere, celebrando le virtù e le imprese dell’imperatore. Sulle monete medievali la parte epigrafica può sovrabbondare quella figurata, limitata talora ad una croce. Le scritte possono anche indicare il valore delle monete, tramite un nominale (per es. “X” per il denario romano che valeva 10 assi) e, dal XIV secolo, anche tramite il nome stesso della moneta. Fin dal III secolo d.C. può inoltre essere segnalato il nome della città sede della zecca. L’indicazione dell’anno di emissione è invece sporadica nel mondo antico. La consuetudine di datare le monete in base al calendario dell’era cristiana si diffonde in Europa solo dal XVI secolo in poi. Queste funzioni si mantengono nel sistema dell’Euro: così il pezzo del valore di 1 Euro coniato in Italia, reca sul Diritto il valore della moneta e sul Rovescio, ai lati dell’“Uomo di Leonardo”, la lettera “R”, iniziale della zecca di Roma, e l’anno di emissione. Diversamente dall’Italia, alcuni Stati come la Spagna e l’Olanda, indicano anche il nome della nazione. I bolli Firme, sigle, frasi, contrassegni, numeri o scolpiti o graffiti o impressi sulle più disparate categorie di oggetti, di tutti i materiali possibili e per i più svariati usi della vita privata, caratterizzano la vasta classe di suppellettili nota con il nome di instrumentum domesticum. Alcune scritte sono relative alla funzione dell’oggetto (pesi, stadere, tessere alimentari, teatrali, sigilli, anelli, anfore, ecc.), altre recano il nome del possessore o frasi (augurali, scherzose, ingiuriose), altre ancora contengono il nome del fabbricante. Ci troviamo in questo caso di fronte a un marchio di fabbrica, la cui validità giuridica è dimostrata dall’interesse della giurisprudenza nella tutela dei marchi e nella lotta contro la concorrenza sleale. Il nome del proprietario della cava (figlina) o della fabbrica (officina), il nome del gerente, talora combinato con quello dell’operaio sottoposto, garantiva la qualità del prodotto, la sua provenienza e consente oggi agli studiosi di comprendere il sistema organizzativo dell’impresa nel mondo antico. Le epigrafi Le epigrafi (in latino tituli) sono iscrizioni (incise, graffite o dipinte) di varia lunghezza e contenuto realizzate su materiale di supporto duro (pietra, marmo, bronzo, piombo, terracotta, ecc.) scelto a seconda dell’uso al quale era destinato o per garantire la durata del testo o documento inciso. Tuttavia, in molti casi, le vicende delle iscrizioni smentirono le previsioni: ad esempio, il bronzo, utilizzato soprattutto per conservare i documenti ufficiali, venne fuso in età tardoantica dalle popolazioni barbariche per altri usi pratici. Il materiale più usato era la pietra e, per le iscrizioni di maggior pregio, il marmo, mentre per l’uso più comune (instrumentum domesticum) si ricorreva a materiali economici e correnti come la terracotta e il ferro. L’uso delle iscrizioni, per la loro stessa natura, era ampiamente diffuso in molti settori della vita pubblica e privata del mondo antico, soprattuto greco e romano: in base al loro contenuto esse si distinguono in funerarie (la stragrande maggioranza), sacre ed ex-voto (per onorare le divinità o ringraziarle per benefici ricevuti), onorarie (ad esempio, gli elogia di generali ed uomini di stato e le iscrizioni imperiali romane) militari (contenenti indicazioni sui movimenti delle legioni,, la provenienza dei militari), ecc. La diffusione dell’epigrafia nel mondo antico è subordinata alla disponibilità o meno di materiale scrittorio appropriato e rispecchia l’evoluzione sociale e politica: ad esempio, le leggi scritte, incise su pietra o bronzo, ed esposte pubblicamente garantivano una oggettività nella loro applicazione. Ai testi epigrafici si faceva ricorso anche per ragioni propagandistiche e politiche (un caso particolare sono le pitture parietali di Pompei) o di comunicazione individuale. Spesso inserita in contesti monumentali, l’iscrizione era un modo di raggiungere incisivamente un pubblico ampio, di perpetuare la propria memoria o di testimoniare l’adesione a fedi religiose. In questo ultimo caso si faceva spesso ricorso a formule o espressioni e a simboli iconografici che indicavano il proprio credo (per i Cristiani, ad es., la colomba, la palma, il pesce). L’imponenza del numero di iscrizioni rimaste (solo in ambito romano esse ammontano ad oltre 300.000) indica l’importanza che esse hanno assunto per la ricostruzione storica del mondo antico. 9. Le scritture della Scrittura La Bibbia ebraica è stata tramandata in due lingue: la maggior parte in ebraico e alcune sezioni in aramaico (Daniele 2,4 - 7,28; Esdra 4,8 - 6,18; 7,12-26 e un versetto di Geremia 10,11). Nella Bibbia cristiana, ovvero Primo o Antico Testamento, ci sono libri e aggiunte che non fanno parte delle scritture ebraiche, ma provengono dal giudaismo di lingua greca, e sono inclusi nella Bibbia detta dei LXX (dal numero leggendario e simbolico dei traduttori). Alcuni di questi libri (Sapienza, 2Maccabei e alcune ‘aggiunte’ ai libri di Ester e di Daniele) sono stati composti direttamente in greco, altri (Tobia, Giuditta, Baruc, 1Maccabei) ci sono pervenuti in greco, ma il testo originale era in lingua semitica (ebraico o aramaico). Il Siracide (o Ecclesiastico), di cui ci è giunta interamente solo la versione greca, fu scritto in ebraico e e una buona parte di tale testo è stata rinvenuta nella G nîzâ di una sinagoga del Cairo (1896 e 1931); altri frammenti sono stati trovati poi a Qumrân (nel 1955) e a Masada (nel 1964), nel deserto di Giuda. Fra i testimoni del testo biblico ebraico/aramaico che ci sono pervenuti, distinguiamo i diretti, cioè i manoscritti in lingua originale che riproducono parti estese di testo, e gli indiretti, cioè le antiche versioni (soprattutto in greco, latino, aramaico, siriaco, copto, armeno, georgiano, etiopico, arabo), che ci danno il testo intero tradotto e le citazioni (ovvero parti brevi di testo in lingua originale). I manoscritti della Bibbia ebraica sono per la maggior parte di epoca medievale (dal IX secolo d.C.) e presentano il testo, anche vocalizzato, in scrittura ‘quadrata’. Le grotte di Qumrân (specie la 1 e la 4) ci hanno restituito manoscritti biblici databili sin dal II secolo a.C. e il I d.C. sia in scrittura paleoebraica (libri del Pentateuco) sia in scrittura ‘quadrata’ (di tutti i libri biblici tranne Ester), ma del solo testo consonantico [e della versione greca più antica, detta dei LXX, iniziata nella I metà del III sec. a. C.]. Molte varianti testuali sia dell’Antico sia del Nuovo Testamento sono sorte a causa della confusione fra lettere paleograficamente simili. Altre varianti traggono origine dal fatto che sia in greco sia in ebraico/aramaico le lettere hanno anche valore numerico. 10. La scrittura araba Iscrizioni in caratteri nabateni e sudarabici risalenti al III secolo della nostra era sono le prime attestazioni scritte della lingua araba, il cui più antico vero e proprio documento è l’epigrafe funeraria del leggendario re-poeta Imru’ l-Qays (328 d.C.). Dopo l’avvento dell’Islam, nel VII secolo d.C., la lingua araba ha conosciuto un’enorme diffusione e il suo alfabeto si è imposto anche presso popolazioni che parlavano lingue di ceppo diverso, come il persiano e il turco ottomano, di modo che i caratteri arabi sono quelli più utilizzati al mondo, subito dopo quelli latini. Le forme di base di tali caratteri erano in origine solo 18, ma l’introduzione dei punti diacritici ha generato 28 segni alfabetici differenti, ciascuno dei quali può assumere fino a 4 forme diverse a seconda della posizione che occupa rispetto ad altri caratteri (iniziale, mediana o finale all’interno di una parola, oppure isolata). La scrittura procede da destra a sinistra e nei testi comuni solitamente non riporta le vocali che non sono lettere, ma segni esterni al corpo della parola. Ciò rende difficile la lettura a chi non conosca il lessico e la grammatica, tant’è vero che un celebre detto arabo afferma: “Bisogna che tu capisca per leggere e che tu legga per capire”. Il divieto di raffigurare esseri animati ha indotto l’arte musulmana a sviluppare motivi ornamentali geometrici o floreali, ma la scrittura stessa è spesso utilizzata al medesimo scopo dando vita a una mirabile varietà di stili calligrafici che si distinguono per raffinatezza ed eleganza. 11. Il mistero etrusco Artefici di una delle più ricche civiltà dei tempi antichi, gli Etruschi furono le prime genti italiche ad adottare l’alfabeto greco, che comprendeva 22 segni dell’alfabeto fenicio più quattro segni propri dei greci. La più antica attestazione è l’alfabetario di Marsiliana, che risale al 700 a.C. Si tratta di una tavoletta d’avorio che porta inciso sul contorno un alfabeto completo, modello di scuola ma anche, probabilmente, oggetto votivo. Gli Etruschi conservarono la serie alfabetica greca completa solo negli alfabetari; nell’uso testuale invece essi adattarono l’alfabeto alle specificità della loro lingua, abbandonando alcuni segni sentiti inutili per la fonetica dell’etrusco: segni per indicare tre consonanti sonore <b, d, g> e quello per la vocale <o>. Una caratteristica della scrittura etrusca è l’alternanza complementare di <k> davanti a <a>, <c> davanti a <i, e> e <q> davanti a <u>. A partire dal VI secolo l’alfabeto etrusco si diffuse in tutta l’Etruria propriamente detta, e poi a nord di essa e a sud, nell’Etruria campana, con varianti locali. Sappiamo che l’insegnamento della scrittura era praticato soprattutto presso i santuari, come Pyrgi o Veii. Gli Etruschi ci hanno lasciato nelle loro tombe splendide pitture e sculture. Sono state inoltre ritrovate circa 10.000 iscrizioni che si differenziano a seconda delle località. La lingua degli Etruschi continua tuttora a rimanere un mistero, vale a dire che può essere letta, ma non ancora interpretata; in pratica si conoscono i suoni dei segni alfabetici, quindi si possono ipotizzare le pronunce delle parole, ma spesso se ne ignorano i significati. I re etruschi regnarono su Roma fino al V secolo a.C., quando furono cacciati dalle popolazioni che vivevano nel Lazio. Con la romanizzazione scompare definitivamente anche la scrittura etrusca. 12. Scritture e lingue dell’Italia antica Le lingue dell’Italia antica presentano sistemi di scrittura derivanti dall’etrusco, dal greco e, in seguito all’espansionismo romano, dal latino. Tra il Piemonte orientale, la Lombardia, il Canton Ticino meridionale e la Liguria era parlato il leponzio. leponzio Iscrizioni leponzie sono state trovate nella Val d’Ossola, nelle zone del Lago di Como, di Lugano, Maggiore e d’Orta. Si tratta di circa una ottantina di testi che, in prevalenza, contengono nomi propri. La scrittura è di derivazione etrusca; l’iscrizione più lunga sembra essere quella di Prestino, presso Como. Il gallico era parlato in Piemonte, Lombardia ed Emilia. Un’iscrizione gallica, con alfabeto di derivazione etrusca, è stata trovata a Briona (Novara); una bilingue gallico-latina, della seconda metà del II secolo a.C., a Todi. Nel Tirolo settentrionale, nelle valli delle Dolomiti, a Verona, Padova e Sondrio è documentato, con un alfabeto di derivazione etrusca, il retico. A parte sono considerate le iscrizioni della Val Camonica, in prevalenza graffiti rupestri, che costituiscono il camuno. camuno Ben documentato è il venetico con documenti da Este, Padova, Vicenza, Treviso, Oderzo, Agordine, Làgale (Cadore), Gurina (Carnia), Belluno. E’ adottata una scrittura dalla forma documentata da iscrizioni funerarie e votive (molte provengono dal santuario della dea Reitia). L’alfabeto è di tipo etrusco, singolare l’interpunzione sillabica. Tra il VII secolo a.C. e il II a.C. è documentato il falisco con iscrizioni da Civita Castellana e da Falerii Novi. Con circa 300 testi, databili tra la fine del VI secolo a.C. e il I secolo a.C., è testimoniato il messapico, messapico diffuso nella penisola salentina (Lecce, Brindisi, Taranto). L’andamento di scrittura è destrorso (da sinistra verso destra), le parole in genere non sono separate. L’alfabeto, nei suoi tratti principali, è derivato da quello greco. Il piceno, piceno con alfabeto di derivazione etrusca, è conosciuto nella sua variante settentrionale con un’iscrizione scoperta a Novilara e con frammenti da Pesaro e Fano e nella sua variante meridionale con testi compresi in una zona tra le antiche regioni del Piceno e del Sannio. L’umbro umbro, umbro realizzato in alfabeto epicorico derivato dall’etrusco e dal latino, è documentato da sette tavole di bronzo trovate nel 1444 a Gubbio, l’antica Iguvium (da qui, tavole iguvine), scritte su entrambi i lati. Databili intorno alla seconda metà del II secolo a.C., scritte con caratteri epicorici o latini, costituiscono il più importante testo rituale dell’antichità classica. L’osco osco è redatto in tre alfabeti (greco, latino, epicorico derivato dall’etrusco) e copre un vasto territorio che va dall’Abruzzo fino a Messina. Sono attestati anche dialetti minori: tra di essi si ricordano quello dei Peligni, Peligni dei Marrucini, Marrucin dei Vestini, Vestini dei Volsci, Volsci dei Marsi, Marsi dei Sabini. Sabini In Sicilia sono attestati, con scrittura di tipo greco occidentale, il siculo e l’elimo elimo. elimo 13. La scrittura nel mondo germanico La scrittura runica La prima scrittura utilizzata nel mondo germanico è la scrittura runica, di tipo alfabetico e di uso epigrafico, attestata dalla fine del II o inizio del III secolo d.C. L’alfabeto runico germanico è detto fuþark dalle prime sei lettere che lo compongono; i segni sono 24 e la loro successione è diversa da quella di tutti gli altri alfabeti. Il fuþark antico è utilizzato dal 200 al 700 circa presso tutte le popolazioni germaniche. La forma originaria delle rune, suddivisa in tre gruppi di otto era la seguente: settiz gruppi di otto, è dovuta ad esigenze fuþarkgw hnijïpRs tbemlŋod. La sequenza in settiz, mnemotechiche. Nella loro forma le rune non presentano angoli retti né tratti orizzontali per esigenze di incisione. In origine le rune erano soprattutto incise su legno e l’incisione doveva con ogni probabilità assecondare l’andamento verticale delle fibre del legno. Il fuþark recente è costituito da 16 segni ma riguarda solo la Scandinavia dall’VIII secolo in poi. Il nuovo fuþark semplificato continuerà ad essere usato per lungo tempo e in alcune regioni svedesi si trovano attestazioni di rune fino al XV-XVI secolo. In Inghilterra l’antico fuþark di ventiquattro segni si è arricchito di ulteriori caratteri che riflettono l’evoluzione fonetica della lingua. L’alfabeto runico anglosassone passò dapprima a ventotto segni per poi arrivare a trentatré. Tra le più famose iscrizioni runiche anglosassoni si ricordano quelle del cofanetto Franks (Northumbria, inizio VIII secolo), e quelle della croce di Ruthwell (Northumbria, VIII secolo), entrambe di epoca cristiana. A lungo si è discusso sulla provenienza di questi misteriosi caratteri e si può ormai dire con certezza che derivano da alfabeti norditalici prelatini di origine etrusca e passati al mondo germanico nel corso del I secolo a.C. quando la zona del Norico, l’attuale Austria più una parte di Baviera e Boemia, fungeva da crocevia culturale tra Veneti e Germani. La scrittura runica si diffonde poi verso Nord a tutto il mondo germanico certamente seguendo la grande via commerciale dell’ambra, che collega l’Adriatico con l’attuale Danimarca. La somiglianza con l’alfabeto greco arcaico si spiega con il fatto che esso è stato il modello per l’alfabeto etrusco; l’identità di alcune lettere con quelle latine è conseguenza della conquista del Norico da parte di Roma nel 15 a.C. In base alle conoscenze attuali sembra quindi che il fuþark sia stato creato verso la fine del I secolo a.C. o l’inizio del I secolo d.C. Inoltre, le iscrizioni runiche sono spesso accompagnate da alcuni simboli pre-runici magico-rituali, antichissimi e diffusi in tutto il mondo indoeuropeo. I più frequenti sono la ruota, il cerchio, la svastica, e rappresentano tutti la potenza irradiante del Sole. A conferma di questa ricostruzione è l’iscrizione dell’Elmo B di Negau, rinvenuto nel 1811 nella Stiria (Austria orientale) e risalente all’inizio del I secolo a.C. Esso costituisce la prima testimonianza scritta del germanico: i caratteri appartengono all’alfabeto venetico ma il contenuto linguistico è germanico (formula di offerta alla divinità), dal che si deduce che i Germani delle Alpi conoscevano e utilizzavano la scrittura norditalica già nei secoli precedenti la nascita di Cristo. L’alfabeto gotico Anche i Goti, come tutti gli altri Germani, conoscono la scrittura nei primi secoli della nostra era attraverso l’alfabeto runico, che per la sua natura epigrafica e il suo uso magico-sacrale non può considerarsi adatto alla stesura di documenti letterari. Nel IV secolo avviene presso i Goti ciò che per lungo tempo ancora non accade altrove nel mondo germanico: nasce l’esigenza di creare un nuovo sistema grafico che si presti alla stesura di un testo di notevole lunghezza e di facile diffusione. L’iniziativa e il merito sono da attribuire interamente al vescovo Wulfila, Wulfila ‘piccolo lupo’, che per consolidare la fede ariana tra il suo popolo, convertito nel IV secolo, ritiene fondamentale tradurre la Bibbia nella lingua gotica, impresa tanto più ardua in quanto non esiste un alfabeto adatto allo scopo. La scrittura runica, oltre che scomoda, risulta troppo legata al culto magico-pagano per essere un buon tramite della nuova religione cristiana. Gli alfabeti greco e latino invece rischiano di eliminare la specificità del gotico e di portare all’assorbimento della cultura germanica da parte di quella classica, ben più strutturata e potente. Il fine di Wulfila, capo politico oltre che spirituale, è quello di dotare il popolo gotico di uno strumento culturale e religioso importante, senza per questo rinunciare alla propria identità. Wulfila, vescovo nel 348, nasce nel 311 e muore nel 382 a Costantinopoli. È trilingue: oltre al gotico, sua lingua natia da parte del padre visigoto, conosce il greco, appreso dalla madre cappadoce e indispensabile per il suo ruolo eminente in seno alla Chiesa d’Oriente, e il latino, necessario per i contatti con la Chiesa Cattolica e per studiare i testi classici. Wulfila, quindi, ha a disposizione tre alfabeti diversi e non sente la necessità di inventare alcun segno, bensì di armonizzare la scrittura onciale greca al sistema fonetico gotico, ricorrendo in sei casi al fuþark e in due all’alfabeto latino. L’alfabeto gotico è costituito da 25 segni alfabetici più due esclusivamente numerici (90-900), disposti quasi nella stessa sequenza dell’alfabeto greco, del quale mantiene anche l’abbinamento ad un nome e a un valore numerico. Un manoscritto del X secolo circa attribuito ad Alcuino e conosciuto come Codice 140 di Salisburgo, ma ora Codice 795 della Biblioteca Nazionale Austriaca di Vienna, contiene due alfabeti gotici, uno dei quali completo dell’unica versione esistente dei nomi delle lettere e della traduzione in antico alto tedesco. Questo codice è noto anche perché riporta la migliore tra le quattro versioni non epigrafiche dell’alfabeto runico anglosassone. Attraverso i manoscritti che contengono testi letterari gotici si conoscono due versioni dell’alfabeto che differiscono nella grafia di tre caratteri e nel ductus: inclinato a destra il primo, perfettamente diritto il secondo. A parte il bellissimo Codex Argenteus, i codici scritti con l’alfabeto gotico sono quasi sempre palinsesti del V-VI secolo, redatti in Italia e quindi ostrogotici. Quasi tutti i manoscritti riportano parti della Bibbia tradotta nella seconda parte del IV secolo da Wulfila, del quale non è sopravvissuto alcun testo originale ma solo copie di quasi due secoli più tarde. L’alfabeto gotico non sopravvive alla storia del popolo e della lingua gotica: rimane in uso almeno fino al VI secolo e poi scompare con la fine della lingua gotica stessa e non fu adottato da altre popolazioni germaniche. 14. La scrittura ogamica In Irlanda, Scozia, Galles, nell’isola di Man è attestata, con circa 350 iscrizioni comprese tra il V e l’VIII secolo d.C., la scrittura ogamica che deriva il suo nome dal dio Ogme. La scrittura, di tipo alfabetico, è caratterizzata da incisioni in prevalenza rettilinee che, in molteplici combinazioni, si dispongono ai lati di una linea centrale. Il nome di ogni lettera corrisponde al nome di un vegetale, la scrittura riprende quella latina, i segni sono 20 di cui cinque vocali e tre gruppi per un totale di quindici consonanti che si distinguono per le combinazioni fra il numero degli intagli (da uno a cinque) e per le quattro possibili posizioni rispetto allo spigolo della stele che rappresenta il rigo ideale. 15. La scrittura armena L’armeno è notato fin dal IV-V secolo d.C. in alfabeto autoctono. La fissazione per iscritto della lingua ha coinciso con l’evangelizzazione. Secondo la tradizione l’invenzione dell'alfabeto sarebbe da attribuire a Mesrop, detto Mast’oc, nato verso la metà del secolo IV, morto nel 441; segretario del re armeno Vramshapouch, e successivamente missionario, egli era conoscitore delle lingue e letterature greca, siriaca e persiana. L’Armenia storica si sovrappone in buona parte all’antica Urartu, ma è certo che la conoscenza dell’urarteo era ormai andata perduta per gli Armeni. In territorio armeno è attestato l’uso di altre lingue e scritture; vi sono state trovate anche iscrizioni in aramaico. Il greco, d’altro canto, era ben noto alle classi dominanti; insieme al siriaco esso era anche l’ovvio punto di partenza e di riferimento di tutta la produzione religiosa, biblica, patristica, liturgica. Prima dell’alfabeto inventato da Mesrop, la tradizione parla di un precedente, cioè di un ridotto alfabeto costruito fuori dall’Armenia da un religioso di nome Daniele, all’inizio del secolo V. Dall’alfabeto danielino sarebbe partito Mesrop, modificandolo notevolmente, in quanto egli si era reso conto dell'inadeguatezza di tale sistema, e aggiungendo altri segni fino ad ottenere il sistema che conosciamo. Infatti l’alfabeto armeno mostra in modo evidente un intervento razionale e pianificato che ha sfruttato al massimo le varianti dei tratti per ottenere 36 segni diversi. A questi 36 segni ne sono stati aggiunti due in epoca medievale per rendere f ed o aperta. Modellato sull'alfabeto greco, come si può notare dal fatto che il suono u è notato con il digramma ow come in greco, l'alfabeto armeno è rigorosamente fonetico, tendendo alla corrispondenza tra segno e suono. 16. La scrittura glagolitica e la scrittura cirillica Alfabeto glagolitico La scrittura glagolitica (in slavo glagolica, da glagol = parola, o glagola = disse) si compone di 40 lettere. E’ essenzialmente basata sulla scrittura greca minuscola del secolo IX, anche se questa derivazione non è di immediata evidenza. Si tratta infatti di un alfabeto complicato e singolare, che presenta un alto grado di originalità rispetto agli altri alfabeti coevi. Oltre alla derivazione greca, sono riscontrabili in esso elementi copti ed ebraici. I santi Cirillo e Metodio sono unanimemente ritenuti i creatori della scrittura glagolitica. Essi erano nati in una famiglia greca di Salonicco (Tessalonica) ed avevano appreso sin dall’infanzia lo slavo-macedone, a contatto con la numerosa comunità locale di origine slava. Nel secolo IX i santi Cirillo e Metodio diedero inizio alla evangelizzazione della Grande Moravia, potente Stato slavo governato dal principe Rostislav. Per questa missione essi portarono con sé il Vangelo tradotto in slavo-macedone e scritto in glagolitico. L’anno 863, quando Cirillo e Metodio furono inviati dall’imperatore bizantino Michele III in Moravia, è quindi il termine cronologico ante quem della invenzione della scrittura glagolitica. Il glagolitico fu utilizzato prevalentemente per i testi liturgici. Poiché secondo un principio stabilito in un concilio del secolo VIII, solo l’ebraico, il greco e il latino potevano essere usati (in quanto lingue sacre) per fini liturgici, l’uso liturgico del glagolitico venne in un primo tempo proibito, ma riammesso nell’880 per autorità papale. La scrittura glagolitica presto si diffuse in altri paesi slavi, come la Serbia, la Croazia, la Bulgaria. Il glagolitico venne col tempo sostituito, presso i popoli slavi che lo avevano adottato, dall’alfabeto cirillico, nato anch’esso nella seconda metà del secolo IX. Continuò ad essere usato nella sola Croazia e lungo le sponde adriatiche fino a tempi relativamente recenti. In questa regione soprattutto durante i secoli XV-XVI, esso fu utilizzato non solo per i testi di carattere liturgico, ma anche per opere di contenuto letterario e religioso. Storicamente si distinguono due tipi di alfabeto glagolitico: la glagolica bulgara, di forma rotondeggiante; la glagolica croata, dai caratteri più angolosi. Alfabeto crillico Nonostante la sua denominazione (kirilica), questo alfabeto non fu creato da san Cirillo, mentre è stato identificato in san Clemente di Ochrida, allievo dei santi Cirillo e Metodio, il suo probabile inventore. Evidente è la sua derivazione dall’alfabeto greco, e più precisamente dalla scrittura maiuscola onciale del secolo IX. Rispetto all’alfabeto glagolitico presenta una grafia molto semplice, benché inizialmente si componesse di 43 lettere, ridotte poi a 30. A partire dal secolo X la scrittura cirillica cominciò a sostituire il glagolitico presso i popoli slavi da cui era stato adottato. Verso la fine del secolo X, dopo la conversione al cristianesimo, nella Russia di Kiev, assieme ai manoscritti bulgari contenenti i testi liturgici e le Sacre Scritture, fu introdotta la scrittura cirillica. In un primo tempo l’alfabeto cirillico s’impose come scrittura ufficiale della Chiesa slava (sia ortodossa che greco-cattolica), diventando poi la scrittura nazionale degli slavi ortodossi (Bulgari, Serbi, Russi e Bielorussi) e degli slavi di rito greco-cattolico (Ucraini o Ruteni). I popoli slavi facenti parte della Chiesa cattolica romana (Polacchi, Cechi, Slovacchi, Sloveni e Croati) adottarono invece l’alfabeto latino come scrittura nazionale. L’alfabeto cirillico si diversificò sulla base delle differenze fonetiche delle varie lingue. Furono creati segni specifici atti ad esprimere alcuni suoni propri di una data lingua. Si crearono così diverse scritture (russa, bulgara, serba ed ucraina) che hanno come base comune il cirillico e che si differenziano per alcuni (pochissimi) segni o lettere particolari. 17. Le scritture dell’India e dell’Indocina La prima forma di scrittura del subcontinente indiano è attestata in qualche migliaio di iscrizioni su sigilli dell’antichissima civiltà vallinda fiorita nel bacino dell’IndoSarasvatī nel III e II millennio a.C. Si tratta di una scrittura probabilmente logo- fonetica, che ha finora resistito ai numerosi tentativi di decifrazione che si susseguono da oltre mezzo secolo a questa parte a causa della brevità delle iscrizioni, dell’assenza di testi bilinguie e dell’ignoranza della lingua sottostante. Dopo un intervallo di piú di un millennio compaiono negli editti rupestri dell’imperatore Aśoka (III secolo a.C) le prime attestazioni della scrittura che diverrà la capostipite di tutte le scritture antiche e moderne dell’India e dell’Indocina: la brāhmī (un’altra scrittura del medesimo periodo, la kharosthī, peculiare per la direzione sinistrorsa unica in India, cadde ben presto in disuso). Si tratta di una scrittura alfabetico-sillabica in cui ogni segno rappresenta una consonante accompagnata dalla vocale implicita ‘a’. Le sillabe formate dalla medesima consonante con le altre vocali richiedono l’uso di modificatori vocalici. Tutte le scritture indiane moderne si basano sullo stesso principio. La lingua delle prime iscrizioni brāhmī è una varietà di pracrito, un dialetto medioindiano del ceppo indoario della famiglia indoeuropea il cui esponente piú illustre è il sanscrito, la grande lingua classica dell’India aria. L’origine della brāhmī è tuttora controversa: l’ipotesi piú diffusa la riconduce a scritture del gruppo semitico settentrionale (fenicio o aramaico) penetrate in India nel V secolo a.C., ma non mancano tentativi di riconnetterla a sviluppi autoctoni della scrittura vallinda. Anche nell’ipotesi di un’origine vicino-orientale, la brāhmī si è comunque evoluta in maniera del tutto originale, adattando l’originario alfabeto semitico sprovvisto di vocali (conformemente alla struttura esclusivamente consonantica delle radici semitiche) alle esigenze della rappresentazione delle radici indoeuropee in cui consonanti e vocali rivestono pari importanza. Quest’opera di adattamento, cui ha contribuito l’antichissima tradizione degli studi foneticogrammaticali, culminati nell’opera eccezionale di Pānini (IV secolo a.C, forse il piú insigne grammatico di tutti i tempi e di tutte le latitudini), ha prodotto un alfabeto di circa cinquanta segni principali, organizzato secondo uno schema rigorosamente fonetico, e capace di rappresentare i fonemi del sanscrito in maniera perfettamente adeguata e priva di ambiguità. Nel corso della sua evoluzione, la brāhmī ha dato successivamente origine a due rami principali. Dal ramo settentrionale derivano tutte le scritture utilizzate per le lingue antiche e moderne di ceppo indoario dell’India settentrionale: in particolare, la scrittura devanāgarī (“la scrittura cittadina degli dei”) utilizzata generalmente per il sanscrito oltre che per la hindī, la lingua ufficiale dell’Unione Indiana. Le scritture settentrionali sono per la maggior parte caratterizzate da un tratto superiore continuo che connette la sommità delle lettere di ciascuna parola (o gruppo di parole) e da forme alquanto spigolose. Dal ramo meridionale derivano tutte le scritture utilizzate per le lingue antiche e moderne di ceppo dravidico (non indoeuropeo) dell’India meridionale e per la lingua indoaria di Sri Lanka: in particolare, la scrittura grantha, grantha utilizzata (ormai raramente) per il sanscrito e soprattutto (in una sua variante) per il tamil, la lingua classica dell’India dravidica. Le scritture meridionali non presentano il tratto superiore e hanno forme prevalentemente tondeggianti; dispongono inoltre di segni aggiuntivi per rappresentare fonemi ignoti all’indoeuropeo. Da una variante di devanāgarī si è originata anche la scrittura tibetana (introdotta intorno al VII secolo d.C. per influsso del buddhismo indiano). Da una variante di grantha deriva invece la scrittura khmer della Cambogia (VI-VII secolo d.C.), che ha dato origine a sua volta alla scrittura burmese (XII secolo), thai (XIII secolo) e lao (XIV secolo). Per effetto della dominazione islamica, un piccolo numero di lingue del subcontinente indiano, tra cui la lingua urdū parlata in Pakistan, fa inoltre uso dell’alfabeto arabo-persiano opportunamente adattato. 18. La scrittura in Cina L’origine pittografica della scrittura cinese è tuttora sconosciuta: come gli egizi, anche i cinesi attribuiscono ad essa una nascita leggendaria. All’origine vi sarebbero tre imperatori, ed in special modo l’imperatore Huang Di, vissuto intorno al 2600 a.C., alla cui corte il cronista Cang Jie avrebbe ‘inventato’ la scrittura dopo aver studiato i corpi celesti e gli oggetti naturali, in particolare le impronte degli uccelli e degli animali. I primi reperti di segni cinesi risalgono al XIV secolo a.C. e sono incisioni su frammenti di gusci di tartaruga utilizzati per la scapulomanzia, o di ossa (per l’osteomanzia): sono, cioè, interpretazioni oracolari delle tracce del fuoco lasciate su tali materiali. La scrittura cinese, dunque, aveva in origine una funzione prevalentemente rituale. Gradualmente, essa assunse anche funzioni amministrative e culturali e per questo scopo furono usate tavolette di legno e rotoli di seta (V-III secolo a.C.). Le tavolette erano di forma standard e contenevano un numero fisso di caratteri. Questo determinò la regola (mantenuta tutt’oggi) di inscrivere il carattere in un rettangolo ideale di dimensioni costanti, indipendentemente dalla sua complessità in numero di tratti. La prima razionalizzazione ufficiale della forma dei caratteri cinesi si ebbe durante la dinastia Zhou (1110-722 a.C.) con la creazione dello stile del ‘Grande Sigillo’ (dà zhuàn ). Successivamente, il ministro Li Si nel 213 a.C. realizzò i cosiddetti caratteri del ‘Piccolo Sigillo’ (xiǎo zhuàn ). Nello stesso periodo fu inventata la scrittura ‘a tratti’ (lì shū), la prima scrittura cinese ‘moderna’. A partire dal II secolo d.C. nacque il kǎi shū, o ‘stile regolare’, che permetteva di cogliere in modo preciso e distinto la struttura dei caratteri cinesi. Altri due stili si sono sviluppati parallelamente al kǎi shū: lo xíng shū ‘stile corsivo’ e lo cǎo shū “stile d’erba”, una sorta di scrittura abbreviata, utilizzata nell’arte della calligrafia. Il sistema di scrittura cinese in origine era costituito da ideogrammi con una forte componente iconica. Successivamente, essi hanno acquistato anche un valore simbolico: oggi possono essere suddivisi in caratteri ‘semplici’ e caratteri ‘composti’. I caratteri ‘semplici’ sono rappresentazioni dirette di oggetti: ad esempio rì ‘sole’, o dà ‘grande’; oppure sono simboli ideografici che indicano concetti astratti, come shàng ‘sopra’. I caratteri ‘composti’ possono derivare dall’unione di due semplici: ad esempio lóng ‘sordo’, formato dall’unione di lóng ‘dragone’ e di ěr ‘orecchio’. In generale, ogni carattere è ordinato per mezzo di una ‘chiave’ o ‘radice’, che permette di trovarlo sul dizionario e che ne dà la sfera semantica. Ad esempio, la chiave huǒ ‘fuoco’, è presente in molti ideogrammi collegati alla sfera semantica del fuoco: miè ‘spegnere’; dēng ‘luce’; ī ‘cenere’; yán • ‘infiammazione’; lú ‘fornello’. Il numero preciso dei caratteri cinesi non è stato stabilito ufficialmente. Il dizionario Hànyǔ dà cídiǎn , revisionato nel 1994, ne riporta circa 56.000. Un cinese minimamente alfabetizzato, tuttavia, ne conosce un numero molto inferiore: tra i millecinquecento e i duemila. L’ultima riforma fatta allo scopo di semplificare e razionalizzare l’uso dei caratteri fu messa in atto nel 1956. Alla semplificazione della scrittura corrispose l’adozione, nel 1958, di un sistema di trascrizione ufficiale della lingua cinese per tutta la Cina: il cosiddetto īī (lett. ‘mettere insieme i suoni’), con lo scopo di diffondere in tutta la nazione un’unica lingua parlata, chiamata ǔōà ‘lingua comune’ (il ‘mandarino’). Nell’area asiatica estremo e sud-orientale il sistema di scrittura cinese è il punto di riferimento culturale: il vietnamita è stato trascritto utilizzando gli ideogrammi cinesi fino al XVII secolo; il giapponese, oltre all’uso degli ideogrammi cinesi veri a propri, ha elaborato due sillabari su tale base, chiamati katagana e hiragana. Nella Corea del Sud sono in uso circa millecinquecento caratteri cinesi, che compaiono nei giornali e nelle opere scientifiche accanto alla lingua nazionale, lo hangul. 19. Le scritture del continente africano In Africa la maggior parte del sapere, altrove consegnato anche alla scrittura, è stato affidato alla trasmissione orale: genealogie, cronache, diritto, regole di comportamento, istruzioni scientifiche e linguistiche. Lo spazio lasciato al segno è rimasto molto esiguo e a coprirlo si è provveduto attraverso sistemi grafici con un’accentuata componente simbolica e pittografica (vedi i segni divinatori di molte popolazioni, le pitture e le scarificazioni facciali e corporee, i simboli grafici e i colori usati per decorare e rendere significativi oggetti d'uso, facciate di abitazioni, capi d'abbigliamento, ornamenti, ecc.). Accanto a questi antichi sistemi ve ne sono altri, nati in tempi relativamente recenti e come reazione a influssi esterni, che condividono la caratteristica di essere ormai sillabici, anche se la loro origine prima è a volte palesemente pittografica. Il più noto è quello vai (oltre 200 sillabogrammi) ideato nel 1833 da Momolu Duwalu Bukele. Durante lo scorso secolo sono stati creati diversi sillabari per il mende, il loma, lo kpelle ecc. Scritture alfabetiche sono state invece elaborate per il bassa della Liberia (1920 c.), il somalo (1920 c.), il malinke (1950), il wolof (1961) ecc. Nel Camerun, ad esempio, è notevole la scrittura bamum creata dal sultano Njoya di Fumban nel 1895; questa scrittura prevedeva inizialmente più di 1000 segni pittografici, ridotti poi a 70 attraverso semplificazioni successive. Quasi tutte queste lingue sono nate con l’obiettivo di costituire una scrittura nazionale, non debitrice a scritture esterne (araba e latina). Nel Nord Africa le scritture libica e berbera, nell'Africa orientale quella etiopica, comprese solitamente tra le scritture dette alfabetiche (in realtà meglio definibili come consonantiche), che si ricollegano alla famiglia semitica, sono invece già documentate nei primi secoli della nostra era. Carattere di originalità ha l'alfabeto tifinag dei nomadi Tuaregh, in tempi passati forse comune ad altri gruppi dell'area libico-algerina. 20. Le scritture del continente americano Le scritture dell’America meridionale I cronisti di lingua spagnola, concordi nel negare alle popolazioni sudamericane il possesso di una scrittura vera e propria, di fatto riferirono in seguito di forme di scrittura indigena e di sistemi mnemotecnici in uso nell’impero incaico (secolo XVXVI), sistemi che si basano sull’associazione di un testo imparato a memoria con pietruzze e semi vegetali di vario colore. Il sistema più complesso consiste nel modellare in argilla, in piccole dimensioni, i pittogrammi di un testo ed applicarli ad un supporto rigido. Ne risulta un testo tridimensionale, che viene letto esattamente come le pittografie bidimensionali. Le scritture mesoamericane I simboli nelle raffigurazioni murali mostrano che la scrittura era nota in Mesoamerica già fin dal I sec. d.C. I manoscritti mesoamericani erano eseguiti su vari materiali : carta di fibra vegetale, per lo più una specie di Ficus, a volte trattata con calce per sbiancarla e renderla liscia, pelle, tessuto di cotone. In seguito alla Conquista la maggior parte di questi codici mesoamericani andò perduta o fu volutamente distrutta dagli invasori. I Maya L’arco della cultura maya si estende dal sec. X a.C. fino alla Conquista. I Maya conoscevano una scrittura elaborata che abbiamo in due versioni, una monumentale e una nei manoscritti. La scrittura monumentale è attuata in glifi incisi ma più spesso scolpiti in rilievo su stele, altari ecc. Ciascun glifo è composto in modo da iscriversi in un rettangolo ad angoli arrotondati; il disegno è molto complesso ed elaborato. I Maya erano in possesso di notevoli conoscenze astronomiche e calendariali e la parte per noi più comprensibile dei loro testi è proprio quella che comporta l’uso di cifre e cronogrammi. Molti dei codici maya, sopravvissuti alla distruzione massiccia ordinata dai conquistatori, sono comunque andati distrutti o perduti per incuria o disinteresse. Nella sua Historia (o Relacion) de las cosas de Yucatán (circa 1566) Diego de Landa dà notizia del calendario maya, con i nomi dei mesi e dei giorni e con i loro glifi; riporta inoltre un ‘alfabeto’ di 27 segni, cosa molto improbabile visto che i glifi maya sono ben più numerosi. Sembra ormai acquisito che la scrittura maya combinava i vari principi noti della pittografia con quelli della logografia. logografia Scritture degli Indiani del Nordamerica L’unica forma di scrittura conosciuta degli Indiani del Nordamerica prima del contatto con gli Europei è quella pittografica. La attestano poche decine di winter counts datati tra il XVIII e il XX secolo e provenienti da popoli delle Pianure e degli Altipiani : Piedi Neri, Dakota, Kiowa ecc. Le pittografie dei winter counts, scritte in genere con una disposizione a spirale dall’esterno verso l’interno su pelli di grandi animali (alci o bisonti), sono quel che rimane di un doppio processo grafico-verbale. In ogni tribù c’era un uomo specialmente deputato alle cronache : ogni nuovo anno, dalla caduta della prima neve alla prima neve dell’anno successivo (da qui il termine winter counts, racconti d’inverno), egli sceglieva, consultandosi con gli altri, l’immagine che meglio sintetizzava pittograficamente l’anno appena trascorso, e insieme formulava una breve frase che si riferiva a quell’avvenimento. Il pittogramma veniva iscritto sul winter count, prolungando di un altro elemento la spirale, mentre la frase veniva memorizzata. A partire dal 1830 i missionari introdussero la scrittura tra gli Indiani delle praterie; anche per questo l’uso dei winter counts decadde rapidamente. 21. L’alfabeto latino e la scrittura in epoca romana Gli inizi della civilizzazione romana sono caratterizzati dai contatti con due culture: l’etrusca e la greca. Gli Etruschi utilizzavano un alfabeto simile a quello greco, comprendente 22 segni dell’alfabeto fenicio più 4 propri dei greci. Sembra oggi prevalere tra gli studiosi l’ipotesi di una derivazione diretta dell’alfabeto latino da quello etrusco, più che da quello greco: il sistema alfabetico che si impose fu comunque quello di 23 fonemi, misti fra vocali e consonanti. Nel mondo romano l’arte della scrittura fu per lungo tempo strumento di potere in mano ad un’oligarchia; furono le smisurate conquiste romane che resero la scrittura una pratica corrente e fecero sì che l’alfabeto latino fosse universalmente adottato in tutto l’Occidente. Alcune testimonianze di iscrizioni romane che risalgono al III-II secolo a.C. permettono di trarre conclusioni sintetiche sui caratteri generali della scrittura. La capostipite di tutte le scritture latine è la capitale arcaica (dal Lapis niger, la pietra nera scoperta nel 1899 nel Foro romano con iscrizione bustrofedica, è stato possibile ricostruire l’intero alfabeto latino arcaico) che veniva impiegata per iscrizioni di tipo monumentale, producendo così diversi stili: quadrata o epigrafica, scrittura elegante di grandi dimensioni e 1. la capitale quadrata, denominata ‘quadrata’ per la regolarità delle proporzioni tra l’altezza e la 2. 3. larghezza delle lettere (di norma eseguita su pietra con scalpello per iscrizioni funebri, onorarie o dedicatorie) la capitale attuaria usata per iscrizioni di tipo documentario, più agile e di forme spontanee. la capitale corsiva utilizzata per graffiti, di tipo attuario, ancora più spontanea perché realizzata con strumenti scrittori diversi (pennelli, pezzetti di gesso o carbone, con uno stilo su materia molle, calamo o fusto di canna tagliata) e su supporti più duttili (tessuti, scorza d’albero, legno, terracotta, cera, piombo, ecc.). Venne usata in seguito anche su papiro e impiegata come scrittura libraria dal IV secolo d.C. 22. La scuola e gli strumenti per la scrittura nell’antica Roma Il metodo di insegnamento della scrittura a Roma era simile a quello delle scuole greche; lo scolaro romano tuttavia, fino al II secolo d.C., doveva apprendere in due lingue (il greco e il latino). Gli alunni tenevano sulle ginocchia delle tavolette di legno ricoperte di cera sulle quali venivano tracciate le lettere con lo stilo, stilo una sorta di bastoncino appuntito da un capo per incidere le lettere e appiattito dall’altro per cancellare. Il maestro sedeva in cathedra e insegnava agli studenti gli elementi formanti la lettera, l’ordine e il senso con cui dovevano essere tracciati i tratti che la compongono (ductus ductus) ductus e come legare le lettere l’una all’altra. Si insegnava anche la tecnica della stenografia: divennero famose, riprese poi anche dalle scuole clericali dal VII secolo, le abbreviazioni e legature chiamate note tironiane, tironiane dal nome di Tirone, un liberto di Cicerone che aveva ideato questo sistema tachigrafico. Per le scritture esposte (murarie) si usavano anche il pennello, pennello pezzetti di gesso o carbone adatti a scrivere sui muri. Il calamo, calamo il fusto di canna tagliato o le penne volatili (per lo più d’oca), si rivelarono presto idonei a scrivere su papiro e pergamena. Dal IV secolo i termini di calamus e di pluma si confondono e si scambiano, tanto che è impossibile stabilire quando il calamo sia stato definitivamente abbandonato nell’uso. Le penne erano conservate in una theca, theca detta anche calamarium; calamarium nel recipiente detto atramentarium c’era l’inchiostro. Il processo di corsivizzazione della scrittura iniziato con l’impiego di supporti più duttili della pietra o del legno favorì l’impiego di una nuova scrittura comune (per cronache, testi di lavoro, corrispondenze, appunti). 23. La “rivoluzione”: il passaggio da rotolo a codice Fino al III secolo avanzato il libro, nell’aspetto da noi conosciuto, rimase una rarità. I vantaggi della forma a codice rispetto a quella del rotolo si resero da subito evidenti: più pratico, capace, facile da consultare; le pagine numerate (dal XIV-XV secolo in poi) rendevano più precisi i riferimenti e spesso l’aggiunta di un indice di contenuto difendeva il testo tramandato da false aggiunte o altre manomissioni. Questi erano argomenti molto validi in tempi in cui tanta parte della vita si imperniava sull’autorità dei testi delle Sacre Scritture e del Codice, perciò è chiara l’importanza della novità per la religione e per la legge. Ma fu rilevante anche per la letteratura: poter copiare in un solo libro il contenuto di diversi rotoli significava che una raccolta di scritti di argomento affine, o il meglio di un autore, poteva essere messa sotto una copertina ed essere fruibile e trasportabile in una forma maneggevole. Al papiro, che cresceva solo in alcune regioni, e al cuoio che, non avendo la stessa duttilità, poteva essere usato come supporto di emergenza, seguì un altro materiale scrittorio: al regno di Pergamo viene tradizionalmente attribuita l’invenzione di un trattamento per le pelli d’animale (specialmente di montone, pecora e capra, perché presentavano il vantaggio di poter essere scritte da entrambi i lati, ma anche gazzella, antilope e persino struzzo) allo scopo di produrre una superficie adatta alla scrittura. Ne risultò quello che oggi è chiamato appunto pergamena. pergamena Per fabbricare la pergamena il procedimento più usato era questo: si raschiavano le pelli e le si ripuliva da ogni pelo o pezzetto di carne, poi si immergevano in un bagno di calce. Prima di metterle a seccare su delle grate le si cospargeva di gesso che assorbiva le tracce di grasso, e infine venivano nuovamente raschiate con una spatola. Il primo lavoro del copista era quello di lisciare i fogli della pergamena con la lama di un coltello o con una pietra pomice per rimuovere macchie e asperità e ottenere un levigato leggermente granuloso che assorbisse l’inchiostro al punto giusto. L’esperimento da principio sembrò avere vita breve; ma dai primi secoli dell’era cristiana la pergamena diventò il materiale di uso comune per i libri: fra il II e il IV secolo il rotolo di papiro sparì gradualmente per far posto al codice di pergamena, cioè si adottò un libro essenzialmente simile a quello in uso anche oggi. La maggior resistenza della pergamena la rese idonea ad essere impiegata nella redazione di documenti destinati a durare: nell’uso diplomatico, e per documenti di forme tradizionali, la pergamena viene adottata fino al Cinquecento. 24. Le scritture medievali Nei manoscritti medievali troviamo grande varietà di tipi di scrittura ed in certi momenti si verificarono canonizzazioni caratteristiche dell’aspetto e delle forme della scrittura. Per tutto il Medioevo l’arte dello scrivere fu patrimonio quasi esclusivo della Chiesa e venne coltivata praticamente nelle scuole annesse a cattedrali o monasteri (scriptoria scriptoria). scriptoria Sulla base comune della minuscola corsiva si svilupparono le cosiddette scritture nazionali (dal VII all’VIII secolo). In Italia i principali centri scrittorii furono le scuole capitolari di Ivrea, Novara, Vercelli, Verona e Lucca, e i monasteri di Bobbio, Novalesa e Nonantola. Importantissimo nell’Italia meridionale il centro scrittorio di Montecassino che fu il punto di produzione della scrittura beneventana, beneventana così chiamata perché la sua area di diffusione coincise con il territorio dell’antico ducato di Benevento. Tutte le scritture minuscole pre-caroline sono state identificate dalla localizzazione geografica o per l’appartenenza ad un determinato scriptorium. E così vi fu la merovingica in Francia, la visigotica in Spagna, la precarolina della Germania, la precarolina svizzera, svizzera ecc. Accenno a parte meritano le scritture insulari (irlandese irlandese e anglosassone) anglosassone perché i manoscritti inglesi e irlandesi presentano caratteri diversi. L’importazione in Inghilterra di codici in scrittura latina si deve alla missione di quaranta monaci diretti da Agostino, poi arcivescovo di Canterbury (fine del sec. VI). L’’Irlanda si convertì al cristianesimo per opera di san Patrizio, che portò con sé anche testi sacri, e vide soprattutto la diffusione della scrittura semionciale. semionciale Arrivò nelle isole anche la conoscenza dei sistemi abbreviativi romani, comprese le notae iuris (abbreviazioni usate nei libri di diritto dal secolo II). Si distinguono due tipi di scrittura: la maiuscola insulare (o insulare rotonda usata per titoli e per codici interi, specie di carattere liturgico, che presenta spesso nei titoli un alfabeto simile a quello delle antiche scritture runiche) e la minuscola insulare (o insulare acuta, acuta di uso più comune, di forme più acute, con una variante corsiva dal tratto più libero). 25. La scrittura carolina Il risveglio culturale e artistico che accompagnò la formazione del Sacro Romano Impero e che va sotto il nome di ‘rinascita carolingia’ ebbe grande influenza anche sul versante della scrittura. Il ritorno allo studio degli autori classici ebbe come conseguenza l’imitazione delle antiche forme di scrittura. L’incontro tra il riproporsi di maiuscole librarie e delle nuove minuscole corsive generò uno stile di scrittura nuovo, particolarmente aggraziato e nitido alla lettura che cominciò ad imporsi negli ultimi decenni del secolo VIII e presto sostituì tutte le minuscole precedenti in uso nei vari paesi europei. Nel secolo IX la carolina si diffuse nella Catalogna, nell’XI in Inghilterra e nel XII anche nel resto della Spagna. Nata come scrittura libraria, entrò poi anche nell’uso documentario e cancelleresco. Nell’XI secolo fu adottata anche dalla Curia romana. Tra i principali centri scrittori si segnalano il monastero di S. Martino di Tours, Tours le scuole di Aquisgrana (sede imperiale), Treviri, Colonia e Magonza; i monasteri di Fulda e Lorsch in Germania, di S. Gallo e Einsiedeln in Svizzera, le scuole cattedrali di Verona e Vercelli, Vercelli i monasteri di Bobbio e Nonantola in Italia. In Francia e Germania si svilupparono anche scuole di miniatura specializzate nell’ornamentazione dei manoscritti di questo periodo. 26. Il libro e la nascita delle università Nel rinnovamento di civiltà che interessò tutta l’Europa durante il XII secolo fu rilevante il progressivo diffondersi della cultura fuori dagli ambienti monastici ed ecclesiastici. In ogni paese sorgono le Università che trasformano le città in centri di produzione della cultura ai quali affluiscono in gran numero studenti di ogni condizione, ecclesiastici e laici. Nel 1158 ebbe riconoscimento imperiale lo Studio di Bologna; del 1215 sono i primi statuti dell’Università di Parigi, e poco dopo sorge quella di Oxford. In Italia, per citare soltanto le maggiori: Padova (1222), Napoli (1224), Roma (1303), Pisa (1340), Firenze (1349). Si creò dunque il bisogno di moltiplicare i manoscritti per provvedere i testi necessari all’insegnamento e si allestirono grandi officine librarie dove gli amanuensi copiavano a pagamento. Nei centri universitari i librarii, cioè gli incaricati alla produzione e alla vendita dei libri, si organizzavano in vere e proprie corporazioni, sotto la sorveglianza delle autorità accademiche e coinvolgendo anche gli studenti frequentanti. Si adottò il sistema della pecia (forse da petia, termine del latino volgare dall’etimologia incerta): consisteva nella copia simultanea di fascicoli sciolti (normalmente di 3 o 6 fogli) di un testo universitario; il risultato era la massima rapidità di trascrizione e una notevole moltiplicazione dell’esemplare copiato. La copia simultanea di esemplari diversi dello stesso testo, diviso in porzioni, diede vita ad una vera e propria categoria a sé stante di libri, sia per il contenuto e le caratteristiche esteriori, sia perché erano prodotti secondo norme fissate dalle autorità accademiche. La pagina scritta Entro la pagina del manoscritto veniva delimitato un rettangolo, denominato specchio di scrittura, traversato da una serie di righe tracciate con procedimenti diversi (a piombo, a matita, a secco o ad inchiostro). Inizialmente l’impaginazione era molto compatta, con parole e lettere serrate (nel mondo romano era in uso anche la scriptio continua, cioè le parole non venivano separate l’una dall’altra); poi si mirò a dividere, spaziare, evidenziare. Il testo poteva essere disposto a piena pagina o su due colonne. Potevano essere lasciati spazi per i capilettera decorati o miniature che solitamente venivano eseguiti in un secondo momento. Per i testi letterari, sacri o comunque destinati a libri preziosi, la scrittura tendeva alla massima leggibilità, riducendo cioè al minimo fenomeni di troncamento, abbreviazioni, ecc. 27. Dalla scrittura gotica alla scrittura umanistica Nei secoli XII e XIII il libro cominciò a diventare un prodotto commerciale, spesso a scapito della correttezza nella trasmissione dei testi. Si arrivò a un tipo calligrafico duro, angoloso, adatto per manoscritti solenni e testi ufficiali. Accanto ad esso sussisteva ancora una volta un tipo di scrittura più modesto, di ridotte dimensioni e meno artificioso che proseguiva più direttamente l’evoluzione della ‘carolina’. Le nuove forme vennero genericamente designate con il nome di gotica. Fra le scritture genericamente designate col nome di gotica si distinguono: • Textura: Textura scrittura usata soprattutto nei manoscritti liturgici, dalle lettere grandi e regolari • Littera bononiensis (dei manoscritti universitari bolognesi): di forma rotonda, regolare ed elegante. Si diffuse in molti altri centri italiani • Littera parisiensis (dei manoscritti universitari parigini): di ridotte dimensioni e di esecuzione meno calligrafica • Littera oxoniensis (dei manoscritti universitari inglesi): simile alla parisiensis ma più serrata e con tratti meno spezzati La minuscola gotica corsiva fu la scrittura di uso comune per i documenti, la corrispondenza privata, i libri di conti e i registri. Se ne fece grande uso nelle cancellerie sovrane (minuscola cancelleresca italiana) ma anche nei codici come scrittura libraria (gran parte della letteratura italiana delle origini fu ad esempio vergata in minuscola mercantile o mercantesca, mercantesca una variante della cancelleresca). La bastarda francese è un altro tipo di scrittura mista di elementi librari e corsivi, caratteristica per l’aspetto massiccio dell’attacco delle aste discendenti che terminano a punta verso il basso. 28. L’Umanesimo e la rivoluzione del canone grafico La riscoperta dei classici nelle biblioteche dei monasteri e delle cattedrali, ad opera degli umanisti del secolo XV, ripropose come canone grafico la scrittura carolina, che era appunto la grafia con la quale tali codici erano stati esemplati tra il IX e il XII secolo. Già Petrarca aveva biasimato la pratica contemporanea, disprezzando i tratti spigolosi, serrati e di difficile comprensione della gotica e ne aveva adottato una forma più rotonda e chiara. Gli umanisti si applicarono ad imitare le forme della carolina (denominata littera antiqua in contrapposizione alla littera moderna, moderna rappresentata dalla gotica) introducendo e diffondendo una nuova scrittura, l’umanistica umanistica, umanistica e la capitale umanistica copiata dalle epigrafi (per i titoli e laddove occorreva una scrittura distintiva maiuscola). Si individuano nei codici del periodo una umanistica libraria e una umanistica corsiva, corsiva due scritture minuscole che vennero adottate per tutto il Quattrocento. La minuscola umanistica libraria sta all’origine del carattere tondo impiegato dai primi tipografi italiani con l’invenzione della stampa. La corsiva deriva dall’incrocio tra la corsiva gotica italiana e l’umanistica libraria. Usata soprattutto per documenti (anche nei brevi pontifici) e carteggi, entrò anch’essa nell’uso tipografico più tardi, per opera di Aldo Manuzio e diede origine al carattere che anche oggi chiamiamo corsivo (in francese: italique). italique 29. L’invenzione della stampa Il passaggio dal manoscritto al libro a stampa rappresenta una svolta di enorme importanza per la comunicazione delle idee, per la trasmissione delle opere e dei messaggi culturali. Con l’invenzione della stampa a caratteri mobili si trasforma radicalmente la metodologia della tradizione delle opere scritte, cessa quasi completamente l’opera dell’amanuense e il libro da prodotto artigianale (ogni manoscritto era un esemplare unico) diventa prodotto industriale e ‘uniforme’ (ogni copia di una edizione è uguale alle altre). Gli autori non ricorrono più al copista, ma allo stampatore, che è in grado di fornire rapidamente molteplici copie della stessa opera e a prezzi decisamente inferiori, favorendo così la diffusione dei testi. Tuttavia è evidente da parte del tipografo il desiderio di “imitare” formalmente con i caratteri a stampa le scritture presenti nei codici medioevali e di utilizzare l’intero codice come ‘modello’; il libro non era altro che il logico proseguimento ‘meccanico’ del manoscritto - anche se, in realtà, la percentuale del lavoro dell’uomo era ancora assai superiore a quella della macchina. Gli incunabuli erano formalmente assai simili ai manoscritti, sia per il carattere che per la legatura: la differenza sostanziale stava dunque nel prezzo (un quinterno manoscritto costava dieci volte di più rispetto a un quinterno stampato!). La stampa Nel 1439 un orafo tedesco, Giovanni Gutenberg (1400-1468), cominciò a sperimentare un procedimento che consentisse di far concorrenza ai copisti, e pensò di fondere le lettere dell’alfabeto in altrettanti caratteri mobili, da combinare alla rovescia su un piano, ricavando così la matrice per ottenere una pagina stampata; in sostanza, l’idea era di trasformare in un carattere di metallo ciascuna delle lettere di un manoscritto, superando in tal modo in efficienza, velocità ed economicità (i caratteri potevano essere combinati e riutilizzati dopo la stampa di ciascuna pagina) anche la stampa a caratteri fissi che era convissuta con il manoscritto; questo tipo di stampa (silografia o stampa tabellare), già conosciuto in Cina probabilmente fin dal II secolo dopo Cristo, venne praticato in Europa nei secoli XIII e XIV ottenendo stampe a un solo foglio che riproducevano immagini sacre, calendari e carte da gioco. Dopo dieci anni di esperimenti finalmente Gutenberg - a cui si erano associati Giovanni Fust cittadino di Magonza e Pietro Schoeffer, copista e disegnatore che aveva già lavorato a Parigi - produsse tra il 1452 e il 1455 le matrici per il primo libro: si trattava di una Bibbia latina (detta Bibbia di 42 linee) in caratteri gotici - che si ispiravano alla scrittura dei manoscritti medioevali, in particolare alla solenne ‘textura’, con forme strette, angolose dal piede uncinato. La Bibbia di Gutenberg (o Mazarina), di cui esistono tuttora 48 esemplari, venne stampata in 190 copie a Magonza con l’aiuto di una pressa di legno azionata a mano ottenuta adattando un torchio per vino. L’invenzione di Gutenberg si impose al mondo. Si calcola che già nel Quattrocento siano state stampate 42.000 edizioni, mentre circa 520.000 titoli sono stati stampati nel Cinquecento. Poco dopo il 1460 altri tipografi appaiono in diverse città della Germania meridionale, espatriati da Magonza a causa della presa della città da parte di Adolfo di Nassau. La diffusione della tipografia segue dapprima il corso del Reno, antica e importante via commerciale, diffondendosi poi rapidamente in tutta Europa e sostituendo quasi completamente il manoscritto. I libri stampati nel Quattrocento vengono chiamati incunabuli, un termine convenzionale usato per la prima volta nel 1688, dal latino “in cuna”, cioè libro neonato. Non raramente gli incunabuli furono abbelliti da miniature nella tradizione dei codici, tanto che nella stampa si era soliti lasciare lo spazio per le iniziali, talvolta di grandi dimensioni, che successivamente venivano miniate. Ma venivano illustrati anche con incisioni in legno, e sempre in legno erano incise le marche tipografiche che, verso la fine del Quattrocento, erano usate dagli stampatori come simbolo della loro azienda e per garantire autenticità e garantirsi da contraffazioni 30. La stampa in Italia: da Subiaco a Venezia I primi tipografi arrivano in Italia verso il 1464, e precisamente a Subiaco, dove due allievi di Schoeffer avevano sistemato la loro stamperia e dove prendono a modello le scritture dei manoscritti posseduti dalla biblioteca del monastero. Qui venne creato un nuovo carattere, il tipo romano, dalle forme tonde e dalle linee regolari, che si ispirava alla scrittura carolina (a sua volta ripresa nel Quattrocento dalla scrittura umanistica libraria) così chiamato perché si ispirava alla scrittura latina degli antichi monumenti romani. La prima opera datata di tipografia italiana è il De divinis institutionibus di Lattanzio, stampata nel 1465. Da Subiaco l’arte della stampa si diffuse rapidamente dapprima a Roma e successivamente in tutta Italia; ma fu a Venezia, ponte tra Oriente e Occidente, dove venne introdotta nel 1469 da Giovanni da Spira - che ebbe maggior sviluppo e raggiunse un’altissima qualità. A Venezia operò tra la fine del Quattrocento e i primi anni del Cinquecento il più grande tipografo-editore italiano, Aldo Manuzio il Vecchio (1449-1515), umanista, autore di una grammatica greca e traduttore dal greco, che si dedicò alla diffusione dei testi classici - con la collaborazione di una Accademia di umanisti tra cui Pietro Bembo ed Erasmo -, per i quali ideò una collezione di formato maneggevole, economica, ma di alto livello. Manuzio utilizzò caratteri romani di grande perfezione, ma soprattutto lanciò il carattere corsivo (aldino, o italique) ideato per lui da Francesco Griffi di Bologna, che si era ispirato alla scrittura umanistica corsiva. Capolavoro tipografico del Manuzio è il Polifilo di Francesco Colonna, pubblicato nel 1499. L’attività del Manuzio venne continuata nel Cinquecento dal figlio Paolo e dal nipote Aldo Manuzio il Giovane. Altro importante centro tipografico italiano del Quattrocento è Milano, dove la stampa venne introdotta da italiani, e non da tedeschi, e dove venne per la prima volta pubblicato a stampa un libro a caratteri greci. Sempre all’Italia si deve la creazione dei caratteri tipografici ebraici, cui probabilmente furono interessati nel Quattrocento gli artigiani e i finanzieri ebrei sparsi per tutta la penisola. 31. La stampa a mano in Europa fino al XIX secolo La diffusione della stampa, se da una parte rinsalda i legami tra le nazioni europee e fa dei prodotti della mente umana patrimonio comune, dall’altra parte sottolinea l’esistenza delle frontiere linguistiche, in quanto presto gli autori e gli editori non poterono più contare sul latino come lingua comune: il pubblico comincia a preferire i libri stampati nella lingua madre. La cerchia dei lettori si allarga notevolmente e cambia: la diffusione della lettura apre il mercato del libro a stampa anche alla gente comune, oltre che agli studiosi, allargandolo anche alle donne e ai bambini. Il desiderio di una informazione rapida e regolare porta alla nascita della stampa periodica. Dopo il ”secolo eroico”della sua invenzione, la stampa si adegua al mutare degli indirizzi culturali e dei movimenti religiosi, Riforma, Controriforma e infine dell’Illuminismo, cambiando di volta in volta anche formalmente, assumendo a seconda del tipo di pubblicazione carattere di solennità o di grande semplicità e maneggevolezza. Il libro assume per sé regole precise, definendosi sempre meglio nei suoi elementi (frontespizio, marca tipografica, paginazione, tabelle, etc.). Nei secoli XVII e XVIII la figura del tipografo-editore va scomparendo, e si va affermando la divisione delle diverse competenze (disegnatore, fonditore, stampatore, editore, libraio). Non si ha alcun sostanziale progresso nelle tecniche di composizione e di stampa, i nuovi caratteri non nascono da originali concezioni stilistiche, ma si limitano ad imitare e raffinare le creazioni dei secoli precedenti. Brillanti disegnatori si dedicano a migliorare il disegno e la tecnica di fabbricazione dei punzoni e delle matrici. Sotto il regno di Francesco I è in Francia che nasce una vera dinastia di creatori di caratteri: sono gli Estienne, che, rifugiatisi a Ginevra, fecero di questa città un importante centro della editoria europea. Durante tutto il Seicento si va affermando la produzione editoriale dei Paesi Bassi, che offrono asilo ai tipografi perseguitati dalla Controriforma e dall’Inquisizione: qui si sviluppano le grandi case Plantin-Moretus e Elzevir che adottano i tondi e i corsivi diffusi dai punzonisti francesi. In Francia nel 1693 l’Académie royale des sciences è incaricata di studiare le tecniche di incisione, ed è l’incisore Philippe Grandjean che prepara una nuova serie di sontuosi caratteri, i “romains du roi”. In Gran Bretagna è John Baskerville che nel XVIII secolo rimedita lo stile imperante francese: l’arte tipografica diventa vero e proprio oggetto di studio. Possiamo ricordare alla fine del Settecento i Didot in Francia e in Italia Giambattista Bodoni. Bodoni (1740-1813), incisore e disegnatore di caratteri, dopo il tirocinio fatto a Roma e dopo aver diretto la Stamperia ducale, impiantò a Parma una propria tipografia, producendo stampe di gusto neoclassico di grande regolarità, severità e accuratezza, avendo a sua disposizione un vastissimo assortimento di caratteri (da lui prende il nome il carattere bodoni); egli teorizzò nel suo Manuale tipografico (1788) “che i soli tipi, l’elegante distribuzione di essi, la giusta proporzione dei margini, l’accuratezza dell’esecuzione” costituivano il pregio di una edizione. Nel XIX secolo, con l’avvento dei procedimenti meccanici, la tipografia, e con essa la produzione libraria ha avuto uno sviluppo enorme, il libro è diventato un prodotto industrializzato, ma non si è cessato, sull’esempio dei primi tipografi, di cercare un punto di incontro tra tradizione e innovazione. 32. I materiali della stampa: i caratteri mobili e il torchio I caratteri mobili Per superare l’antieconomica incisione o fusione di intere pagine a metà del secolo XV si realizzarono i caratteri mobili (cioè separati l’uno dall’altro). Era necessario partire dai punzoni: parallelepipedi di acciaio temprato lunghi circa 45 mm. che recavano intagliate in positivo lettere e segni ortografici precedentemente disegnati dal tipografo. Questi venivano pressati su di una matrice di rame (più tenera) dove la lettera risultava impressa in incavo. A sua volta la matrice veniva inserita in una forma dove si faceva colare a caldo una lega di piombo, stagno e antimonio. Il metallo raffreddato (carattere) veniva poi staccato dalla forma con grande abilità dal fonditore. Con questo procedimento, usando un’unica matrice, si potevano ottenere numerosi caratteri, che venivano poi levigati e rifiniti e allineati infine nella forma, in modo che non si spostassero durante l’impressione. Quando la matrice si logorava a causa delle numerose fusioni si poteva velocemente ottenerne un’altra riutilizzando lo stesso punzone. Nel secolo XV e all’inizio del Cinquecento il tipografo preferisce prepararsi da solo le matrici; solo più tardi la fusione dei caratteri diventa un vero e proprio mestiere a sé stante e il tipografo tende ad acquistarli come prodotto finito. Se agli inizi dell’arte tipografica i caratteri tendevano semplicemente a riprodurre le scritture manuali (gotica, rotonda, cancelleresca, scritture nazionali), col passare del tempo lo studio dei caratteri terrà conto dei canoni della bellezza, della ricerca di proporzione e di armonia diventando una vera e propria arte. Il torchio Con l’invenzione dei caratteri mobili e l’uso di inchiostri più densi e vischiosi il tipografo preferisce ricorrere alla pressione meccanica del torchio – sostituendola a quella manuale fino ad allora usata. Il torchio era già uno strumento familiare all’epoca di Gutenberg; già utilizzato per usi domestici o industriali, venne adattato all’uso tipografico e utilizzato per secoli senza variazioni strutturali importanti, ma costantemente migliorato nei suoi elementi. Nei secoli XV e XVI era semplicemente costituito da una struttura lignea sostenuta da montanti alti circa due metri composta da un carrello mobile (che trasportava carta e forma fino a posizionarli sotto la pressa, in modo da consentire l’inchiostrazione e la sostituzione di volta in volta del foglio stampato) e dalla pressa vera e propria - detta platina - (azionata da una vite a sua volta collegata ad una leva) che premeva il foglio di carta inumidito appoggiato sulla forma inchiostrata (pagine composte e chiuse in un telaio). Azionare il torchio, come si può immaginare, richiedeva un grande sforzo fisico (il lavoro combinato di due validi artigiani consentiva di stampare anche 250 fogli in un’ora) e grande attenzione per il corretto posizionamento della carta e per la giusta inchiostrazione, in modo da evitare macchie e sbavature. Dal secolo XVI in poi il torchio venne costantemente migliorato e razionalizzato dai tipografi, alcune parti in legno vennero sostituite da altre in metallo e granito. Agli inizi del XIX secolo si verificarono tali progressi in tutte le componenti della tecnica tipografica (carta, composizione, inchiostro, etc.), che si sentì l’esigenza di una innovazione radicale; venne progettata una macchina mossa dal vapore, e nel 1814 si potè stampare il “Times” in 1500 copie all’ora. Il torchio è tuttora usato da alcuni amatori, che nonostante le tecniche informatiche e l’offset attualmente in uso, lo considerano strumento insuperabile per ottenere impressioni impeccabili. 33. I materiali della stampa: l’inchiostro e la carta L’inchiostro L’inchiostro ‘al carbone’ (dal latino encaustum) era già conosciuto in Egitto fin dal IV millennio avanti Cristo, e lo stesso Plinio ci riferisce di diversi metodi usati per la sua preparazione. Ma sostanzialmente diverso dovette essere l’inchiostro tipografico usato da Gutenberg. Infatti le soluzioni acquose con nerofumo fino ad allora usate non potevano essere applicate in modo uniforme sulle superfici metalliche dei caratteri. Si dovette ricorrere ad un inchiostro oleoso, mutuato probabilmente dal mondo della pittura (la pittura a olio era già nota ai romani, e gli stessi fiamminghi più di recente la praticavano utilizzando olio di lino e noce). Le notizie storiche intorno all’inchiostro tipografico sono molto scarse, in quanto i tipografi erano reticenti a diffondere le ricette che utilizzavano. Di certo l’inchiostro utilizzato da Gutenberg e dai suoi successori era già di altissima qualità, e la stampa che ne risultava era priva di ombre o macchie, tanto che gli incunabuli potevano gareggiare in leggibilità e eleganza con i manoscritti del Quattrocento. Possiamo supporre che fosse composto essenzialmente di olio di lino, trementina, e di nerofumo o marcassite. Per spalmare in modo uniforme l’inchiostro sui caratteri veniva usato un tampone di lana o pelo di circa 7 centimetri rivestito di pergamena appositamente trattata. La carta La causa che spinse l’uomo a mettere a punto un materiale come la carta fu il bisogno di poter disporre di un supporto comodo, maneggevole e poco costoso su cui scrivere. La carta divenne materiale caratteristico della tipografia proprio per queste qualità. La sua invenzione sembra essere da collocare in Cina durante il I secolo d.C., dove per la fabbricazione si utilizzarono dapprima ritagli di seta ridotti in pasta, successivamente fibre di gelso e di bambù, lino, cotone, insomma materiale molto economico; ma furono gli arabi a diffonderla in Europa già nell’XI secolo attraverso i contatti che ebbero con la Penisola Iberica. Considerata all’inizio poco resistente, venne per lungo tempo vietato l’uso della carta per i documenti ufficiali e amministrativi. Tuttavia già nel XIII secolo in Italia, e precisamente a Fabriano, erano in funzione ben otto cartiere. Furono proprio i cartai italiani a perfezionare le tecniche di produzione, raggiungendo livelli qualitativi e quantitativi altissimi esportando la loro produzione in tutta Europa, dominando per secoli il mercato. Alla fine del XV secolo il primato della produzione della carta passò alla Francia, dove diffusa era la coltivazione del lino e della canapa. Punto di partenza per la produzione della carta furono prevalentemente gli stracci di origine vegetale, che venivano lavati, pressati nei tini e lasciati a fermentare per ottenere l’isolamento della cellulosa; in seguito venivano tritati e battuti da mulini a vento o ad acqua fino ad ottenere una pasta in cui veniva immersa la forma (telaio di legno su cui erano applicati fili metallici orizzontali e verticali – filoni e vergelle). Sulla forma la pasta si depositava in modo uniforme e veniva poi lasciata ad asciugare. Il foglio di carta ottenuto (che rispondeva nel formato a precise regole definite) veniva in seguito pressato per eliminare l’acqua residua e collato con gelatina animale o amido. Per distinguere la propria produzione i cartai utilizzarono la filigrana, marchio di fabbrica costituito da filo metallico piegato secondo disegni particolari e applicato alla forma: la pasta di carta, colando, risultava meno spessa in corrispondenza del disegno, che risultava così visibile. Una grande varietà di disegni è documentata dall’opera del Briquet (Les filigranes, 1907): ricordiamo ad esempio la testa umana, la croce greca, la mano guantata, la balestra di Fabriano. 34. La calligrafia La calligrafia (secondo Plutarco “bella scrittura” o “bello stile”) è l’arte che insegna a tracciare la scrittura, cioè a vergare e collegare, in modo regolare ed elegante, le lettere e i numeri dell’alfabeto. La forma delle lettere dipende dallo strumento con cui vengono tracciate (scalpello, pennello, penna, etc.) e dal materiale usato (pietra, legno, terracotta, papiro, pergamena, carta). Per le scritture tracciate a penna il risultato dipende dalla punta della penna usata (acuta, quadra o rotonda). La tecnica scrittoria era molto considerata nel mondo antico, tanto che nelle civiltà orientali pre-elleniche era riservata ai sacerdoti. Nel mondo romano esistevano dei veri e propri ‘editori’ che riproducevano in più copie i manoscritti; un editto di Diocleziano fissava il compenso dovuto ai copisti a seconda che scrivessero in ‘scriptura optima’ o ‘communis’. Questa vera e propria ‘arte minore’ ebbe grande sviluppo in Occidente, ma anche in Egitto e presso gli arabi e gli ebrei, dai quali la scrittura era considerata un dono di Dio all’uomo: grandi e celebrati furono i maestri calligrafi arabi e nei paesi islamici l’arte della calligrafia venne tenuta in altissima considerazione fino al secolo scorso. Data la struttura stessa dell’ideogramma, in Cina e in Giappone la calligrafia è ritenuta vera e propria arte al livello della pittura, e come tale onorata. Se durante l’Impero romano la scrittura latina si caratterizzò soprattutto per le forme solenni e l’ampiezza dei margini (grande attenzione veniva portata dai latini alla chiarezza ed eleganza dei caratteri), durante le invasioni barbariche si cessò da parte dei copisti di ricercare una qualche forma artistica. Fu poi la chiesa, fino alla nascita delle università e quindi fino al secolo XII, a tenere in gran conto la scrittura per la tradizione dei testi sacri, e fu nelle scuole annesse alle cattedrali e nei monasteri che venne coltivata l’arte dello scrivere. Anche dopo l’avvento della stampa per secoli è continuata la produzione di libri manoscritti (scritti eruditi, testi proibiti per ragioni politiche o religiose, cronache, ma soprattutto libri liturgici, in particolare corali). Durante il XV secolo gli umanisti italiani svilupparono grande interesse per l’estetica della scrittura, che vide fiorire studi di architettura grafica dovuti all’interesse per l’epigrafia romana. L’interesse per l’arte dello scrivere portò a ricercare forme eleganti e raffinate e gli stessi amanuensi di professione, per quanto ovviamente diminuiti d’importanza, continuarono a confezionare esemplari manoscritti accurati e lussuosi. A partire dal Cinquecento vennero stampati numerosi trattati di calligrafia italiani (Luca Pacioli, De divina proportione, Venezia 1509, Sigismondo Fanti, Opera del modo de fare le littere maiuscole antique…, Milano 1517, Ludovico Arrighi, La operina di Ludovico Vicentino da imparare di scrivere littera cancellarescha, Roma 1522, Giambattista Palatino, Libro nuovo d’imparare a scrivere tutte sorte lettere antiche e moderne di tutte nationi, Roma 1540). I dettami dei calligrafi italiani (e soprattutto romani) vennero seguiti in tutta l’Europa, a parte nei paesi di lingua tedesca, dove si sviluppò una scuola indipendente che imponeva scritture di tipo gotico. Sull’opera dei calligrafi si fondarono i tipografi del secolo XV per fondere i loro caratteri (Aldo Manuzio usò i disegni dell’orafo e incisore Francesco Griffi utilizzando la cancelleresca per il suo corsivo). L’influenza della scrittura italica in Europa fu nei secoli successivi contemperata dalla presenza di scritture locali, come la ‘bastarda’; solo tra il XVIII e il XIX secolo si impose una corsiva semplice, elegante e più fluida. L’attenzione per la calligrafia si è rinnovata tra l’Otto e il Novecento soprattutto in Inghilterra. Mentre nell’Ottocento e fino agli inizi del Novecento la calligrafia ha costituito materia di insegnamento nelle scuole, il diffondersi di nuovi strumenti tecnologici ha oggi evidentemente ridotto fino quasi ad estinguerla l’importanza dell’arte calligrafica. 35. La notazione numerale Agli inizi della civiltà per rappresentare i numeri ci si serviva di aggregati di oggetti, corrispondenti alle unità da numerare: tacche in pezzi di legno, file o mucchietti di pietruzze, nodi in cordicelle, ma soprattutto la mano stessa dell’uomo o le due mani riunite. Si può dire che ogni società aveva un proprio sistema di numerazione. L’introduzione dei numeri arabi (o indiani, perché furono ideati in India) nell’Europa occidentale, pur essendo una delle più importanti innovazioni che dobbiamo al Medioevo, avvenne a prezzo di forti resistenze e opposizioni. Secondo lo storico inglese John Barrow (1764-1848), l’avvento dei numeri indoarabi è stato la più grande rivoluzione dell’ultimo millennio. La dobbiamo a papa Silvestro II (999-1003), eccezionalmente esperto di matematica e astronomia, che aveva studiato in Spagna e che insegnò il nuovo modo di contare a generazioni di ecclesiastici. Fu una battaglia epica ma alla fine i numeri arabi ebbero il sopravvento; erano più pratici di quelli romani e funzionavano meglio. In effetti ancora oggi, utilizziamo la numerazione romana in alcuni casi. In tale numerazione il numero I (uno) mantiene il proprio valore di unità qualsiasi posizione esso occupi : così, IV (quattro) vale come “uno meno cinque”, il XII (dodici) vale uno e uno più dieci e così via. Nella numerazione indo-araba, invece, un numero III ha un valore completamente diverso dalla somma delle singole cifre : vale infatti centoundici e non tre, come il numero III della numerazione romana. Proprio a causa di una differenza così grande non solo nella scrittura, ma proprio nel modo di pensare i numeri, per lungo tempo mercanti e banchieri si opposero ai numeri arabi. Secondo loro, i nuovi numeri si prestavano agli inganni e alle falsificazioni, mentre quelli romani erano più sicuri. E tuttavia, se è vero che papa Silvestro II conosceva e faceva conoscere i numeri arabi, non fu lui a diffonderne l’uso in Europa. Ci vollero infatti almeno altri due secoli prima che essi venissero adottati, grazie ai lavori di alcuni studiosi come lo spagnolo Gondisalvi (sec. XII) e l’italiano Fibonacci (sec. XII-XIII). Il primo scrisse un Libro dei numeri degli Indi e il secondo il Libro dell’abaco (antico pallottoliere o altro primitivo strumento per far di conto), due opere che furono utilizzate per tutto il Duecento. In esse si parlava di geometria, aritmetica, come pure di equazioni di primo e secondo grado. Il loro successo fu dovuto quindi alla necessità dei mercanti e dei banchieri del tempo di utilizzare tale numerazione a fini pratici. Infatti, secondo il cronista Villani (c. 1280-c. 1348), a Firenze nel 1340 ben mille ragazzi studiavano nelle scuole di abaco. La numerazione araba, inoltre, fu adottata dai naviganti e dagli astronomi per i loro calcoli. Questa lunga evoluzione della notazione numerale ha fornito gli elementi base per la nascita dell’informatica. 36. La scrittura informatica applicata alle scienze umanistiche A padre Roberto Busa, nato a Vicenza il 28 novembre 1913 e gesuita dal 1933, l’Enciclopedia Treccani attribuisce il merito di essere “riconosciuto universalmente come il pioniere dell’informatica linguistica”. Il suo nome è legato principalmente alla analisi linguistica computerizzata di 118 scritti tomistici e 61 opere di altri autori collegati, per un totale superiore ai 10 milioni di parole. Il monumentale lavoro, iniziato nel 1946, termina la sua prima fase con la pubblicazione dei 56 volumi che compongono l’Index Thomisticus nel 1980: “piú di 20 milioni di righe, quattro volte quelle dell’Enciclopedia Treccani”. Nel 1949, l’incontro a New York con Thomas Watson sr, fondatore dell’IBM, diede una svolta epocale al progetto di padre Busa e, insieme, all’informatica umanistica: dai previsti 12 milioni di schede perforate si passò a 1800 nastri magnetici di 800 m ciascuno. Attraverso varie generazioni di computer, il prodotto finale da cui fu ricavato l’Index Thomisticus trovò posto in circa 20 nastri, per un totale di soli 16 chilometri. Da questi, finalmente, nel 1992 fu tratta la prima versione su CD-Rom dell’Opera omnia di san Tommaso, interamente codificata e lemmatizzata. Nel corso della sua lunga pratica di elaborazione e lemmatizzazione dei linguaggi naturali, che prosegue ininterrotta ancora oggi, padre Busa valuta di aver trattato piú di 22 milioni di parole in una ventina di lingue almeno, promuovendo - da autentico ‘missionario’ - la diffusione dell’informatica umanistica nei piú diversi paesi del mondo. 37. La scrittura informatica e digitale Le origini della scrittura digitale Soltanto con l'invenzione della stampa tra il 1452 ed il 1455, comincia la differenziazione tra il processo della scrittura e quello della riproduzione del testo. Soltanto nell'Ottocento anche chi scrive comincia a far uso di una macchina, suscitando, proprio come il computer oggi, diffidenze ed entusiasmi. Tuttavia gli utensili che servono per scrivere a mano (penna) o per dattiloscrivere (i tasti della macchina) hanno una caratteristica comune: agiscono immediatamente sulla carta. La metamorfosi che conduce alla videoscrittura comincia da qui, dal dissociare il funzionamento degli utensili dall'azione immediata sulla carta. L'altro mutamento avviene quando alla macchina per scrivere elettrica si assegna un po' di memoria interna per conservare solo temporaneamente quantità più o meno ampie di testo: ciò rende più agevole fare correzioni. Infine alla memoria interna si aggiunge una memoria esterna su supporto magnetico, una cassetta prima, poi un dischetto. La svolta definitiva si ha quando si comincia a usare uno schermo per visualizzare la scrittura ed infine quando queste macchine sono connesse ad un computer, che nel frattempo, indipendentemente dalla videoscrittura ha sviluppato le proprie tecnologie. La scrittura diventa immateriale e si affida all’onda invisibile degli impulsi elettrici. Lo schermo sostituisce la carta. La comunicazione scritta è efficace soltanto se chi scrive sa affrontare con abilità i numerosi vincoli che gli vengono imposti dalla situazione. Chi scrive è come un centralinista nell'ora di punta, deve saper gestire contemporaneamente più esigenze. Scrivere è dunque un'attività complessa in cui la redazione del discorso si configura come un processo di graduale avvicinamento al testo definitivo. Questa è la tecnica di chi scrive da professionista, qualunque sia il suo mestiere: giornalista, redattore, scrittore, tecnico, studioso. La scrittura elettronica aiuta a gestire i molteplici vincoli cui è sottoposto chi scrive. La scrittura elettronica permette infatti di avere sotto gli occhi i diversi stati del discorso così come la mente li concepisce e di far lavorare su un oggetto testo, che si può correggere secondo propri criteri e giudizi. L'elaboratore non è una lampada di Aladino, cioè uno strumento che pensa per chi scrive, o che elimina la fatica del lavoro, è piuttosto uno strumento che può aiutare a rendere più produttivo l'atto dello scrivere. Il computer permette la stesura definitiva di diverse redazioni del testo, su cui è possibile intervenire a più riprese e con diversi obiettivi: prima l'individuazione delle informazioni, adatte ad esporre o ad argomentare un giudizio; poi la loro strutturazione; infine la correttezza e la cura della forma espressiva, che si adegua al destinatario del testo e allo scopo della comunicazione. L'elaboratore è una macchina che permette di concepire il testo come un oggetto in lavorazione. Chi scrive con carta e penna deve organizzare nella propria mente le sue frasi, anzi tende a "risparmiare" sulla scrittura, proprio perchè tende a limitare le correzioni, dunque tende ad inibirsi, a scrivere mentalmente il suo testo, anziché lavorarlo sulla carta. E' dunque sottoposto ad un lavorio di astrazione mentale che non sempre consente di affrontare al meglio i molteplici vincoli che la scrittura in ogni caso pone. Ebbene un sistema elettronico presenta un sicuro vantaggio: dà consistenza materiale alla scrittura. Il testo elettronico compare rappresentato non su carta, ma su uno schermo e, proprio per questo, può essere facilmente lavorato, cioè corretto, modificato, rivisto. Come un oggetto materiale che prende forma sotto gli occhi e le mani di chi lo sta pensando e scrivendo. Il testo elettronico non obbliga a risparmiare sulla scrittura, consente di oggettivare quanto si ha in testa e proprio per questo consente di sviluppare il discorso, tenendo conto di tutte le esigenze comunicative che la situazione impone. Un sistema elettronico di scrittura non equivale ad una macchina per scrivere. Dice Umberto Eco che il computer è una macchina molto spirituale, perchè permette di scrivere quasi alla velocità del pensiero. 1833 Macchina analitica di Babbage 1939 Entra in funzione il primo calcolatore funzionante con codice binario. L'inventore fu il matematico George Robert Stibitz, che aveva a disposizione solo lampadine e relè telefonici. Proprio perché il relè, per sua natura, può essere acceso o spento, il codice che ne derivò fu necessariamente quello dello "0" e "1" 1944 Entra in funzione il calcolatore elettromeccanico "Mark 1". Costruito nei laboratori della Industrial Business Machines (I.B.M.), funziona con dei programmi registrati su nastro perforato. Pesa quasi 5 tonnellate, e le sue 78 sezioni di calcolo sono comandate con più di 3000 relè 1946 il matematico americano John von Neumann teorizza il funzionamento di un calcolatore tramite programmi immessi nella memoria centrale, insieme a dati da elaborare. Fino ad allora, infatti, ogni calcolatore eseguiva solo le istruzioni per le quali era stato costruito 1956 Appare il primo hard-disk della storia. E' composto da un pila alta un metro e mezzo contenente una cinquantina di dischi metallici larghi quasi 62 cm.: questa straordinaria superficie magnetica (quasi 14 metri quadrati) ha una capacità di ben 5 megabytes, un vero record per quell'epoca 1963 Un gruppo di ricercatori americani progetta e realizza un rivoluzionario sistema di posizionamento rapido del cursore sullo schermo: per la sua forma particolare viene chiamato inizialmente "mouse", nome che lo accompagnerà per il resto della sua esistenza. Tuttavia, non fu introdotto nel mercato: solamente nel 1981 fece la sua comparsa insieme ad un computer della Xerox 1964 Vengono sviluppati alcuni dei software più importanti mai immessi nel mercato. A giugno la IBM mette a punto il primo "word processor" della storia, mentre un gruppo di ricercatori americani getta le basi del sistema OCR (riconoscimento automatico dei testi). Fu anche presentata la prima "tavoletta grafica" capace di inviare al computer i disegni tracciati sulla sua superficie da una stilo 1972 Viene annunciata la nascita del primo "floppy" disk. Il primo disco magnetico "flessibile" disponibile sul mercato ha un diametro di 8 pollici (più di 20 cm!) e può immagazzinare fino a 120 Kb di dati 1974 La rivista americana Popular Electronics annuncia il primo microcomputer venduto in kit: l'ALTAIR 8800 1979 Barnaby scrive l'editore di testo Wordstar 1984 APPLE commercializza Macintosh che integra interfaccia grafica e mouse 1985 ALDUS realizza il primo programma di editoria da tavolo, Page maker, permettendo il layout di pagina e la definizione dei caratteri tipografici sul desktop 1986 Viene distribuito sul mercato "Guide", il primo programma per la realizzazione di ipertesti studiato per i personal computers. Ideato inizialmente da Peter Brown come progetto di ricerca presso l'Università del Kent per l'utilizzo su grandi workstation , venne in seguito commercializzato dalla "Office Workstations Limited" (OWL) 1994 Viene lanciato sul mercato dall'IBM un software che permette a qualsiasi PC 486 di scrivere sotto dettatura in tempo reale. Il Personal Dictation System (IPDS) ha però una precisione del 98%, pari a uno-due errori ogni 106 parole. Sa scrivere in inglese, americano, francese, spagnolo, tedesco e italiano 1998 Nascono i primi dispositivi appositamente concepiti per fungere da lettori di e-book 2000 Viene presentato da Microsoft il prototipo del Tablet PC. Personal computer utilizzabile come una vera e propria lavagnetta 2001 Electronic Ink e Philips annunciano l'inchiostro elettronico 2001 Media lab MIT (Massachusets Institute of Technology) e Xerox Corporation presentano il progetto Gyricon, la carta elettronica 38. Scrittura e arte Dal cubismo e dal futurismo, agli inizi del Novecento, nel clima delle Avanguardie storiche, viene profondamente messa in discussione la separatezza tra parola e immagine, che s’era imposta con la vittoria sui pittogrammi e gli ideogrammi conquistata dagli alfabeti. Che ancorano il loro codice non più a un qualche rapporto visivo di ‘somiglianza’ col referente, ma a quello con gli elementi fonici, fondando così un sistema simbolico costitutivamente alieno da valenze iconiche. Di qui la inevitabile millenaria non coincidenza tra comunicazione scritta e rappresentazione visiva, tra letteratura e arti figurative, tra poesia e pittura. Quando si cerca una visualizzazione del significato in rappresentazioni grafiche figurali, nella poesia alessandrina e tardolatina o negli acrostici altomedievali, ciò avviene sempre di fatto all’interno del cosmo verbo-letterario. Come poi in certa poesia barocca e, tra Ottocento e Novecento, in ambito letterario simbolista, e in molte delle stesse ‘parolibere’ e ‘parole in libertà’ futuriste, tuttavia, qui, scavalcate in direzione di vere ‘paroleimmagini’, di parole che innovativamente si fanno immagini, come in certe ‘tavole’ di Marinetti, ove lettere e parole trovano la loro ‘libertà’ secondo norme interne all’opera, autonome nei confronti di dipendenze semantiche obbligate e della medesima simbolicità alfabetica. In quelle tavole, come nei Calligrammes di Apollinaire, in contatto con cubisti e futuristi, si verifica un radicale rimescolamento di codici: non solo la parola diviene immagine, ma dell’immagine assume le valenze rappresentative. Si realizzano ‘contaminazioni’, analogamente praticate in pittura, nell’area cubista, ancora, e futurista, attraverso associazioni e interferenze di parole e immagini, anche col ricorso al collage: in Carrà o Balla come in Picasso e Braque, e poi negli sviluppi dell’arte russa e quindi sovietica degli anni dieci e venti, dagli artisti cubo-futuristi fino a Majakovskij. Analoghi gli sviluppi, nella diversità, in altre emergenze dell’avanguardia della prima metà del secolo scorso, in particolare nel Dadaismo e nel Surrealismo, dove Magritte compone nel 1929 una sorta di manifesto teoricoprogrammatico, intitolato a Les mots et les images, le parole e le immagini. È il retroterra delle ricerche, vivacissime, diramate e numerose, che si affollano, anche in Italia, dal secondo dopoguerra lungo gli anni cinquanta, sessanta e settanta. Con episodi di grande rilevanza, quali la Poesia concreta, la Poesia tecnologia, la Nuova scrittura, e in genere la cosiddetta Poesia visiva, termine che dovrebbe comprendere tutte le ricerche in questo campo, ma che ha assunto anche un significato più specifico in rapporto a particolari autori e vicende svoltesi dalla seconda metà degli anni Sessanta, anche con intenzionalità ideologiche. Poi superate, negli anni settanta, dall’accentuarsi di istanze concettuali, che hanno riportato l’accento sullo spessore analitico, di indagine sul linguaggio – verbale, visivo, verbovisivo – , del resto sempre presente, seppur con peso diverso, in queste esperienze. 39. Scrivere la musica La scrittura musicale: il tentativo millenario di trasmettere la voce dello Spirito Ogni forma di scrittura rappresenta una tappa nel cammino della consapevolezza storica da parte dell’uomo e un tentativo di fissare il ricordo e la memoria di avvenimenti ed episodi. La musica nata nel contesto delle prime liturgie cristiane è un’esemplare testimonianza di questo cammino, costellato di momenti significativi anche per l’intera storia della musica. Gli inni delle prime liturgie, che trovano una formalizzazione nei secoli III e IV, sono la testimonianza di fede delle prime comunità cristiane, composti da autori che hanno segnato la storia del pensiero ecclesiale e teologico, quali S. Agostino e S. Ambrogio. La Bibbia è il libro a cui si fa riferimento nella stesura dei testi e le melodie, da cui nascerà il canto gregoriano, sono semplici, senza accompagnamento strumentale, austere per sottolineare la loro esclusiva destinazione: l’atto sacro. La trasmissione orale delle melodie non fa perdere l’originalità dei movimenti musicali degli anonimi compositori: ciò è dovuto anche al fatto che quelle che diverranno le melodie del canto gregoriano si ispirano ad alcuni schemi che vengono ripetuti. L’applicazione di tali schemi ai testi crea dei modelli musicali, poi definiti come gli “otto toni” gregoriani: una sorta di codificazione modale ante litteram. E’ attorno ai secoli VIII-XI che si inizia a fissare le melodie con neumi in campo aperto: sopra i testi dei canti sacri per la liturgia vengono posti dei segni per indicare l’andamento dei suoni da eseguirsi e il movimento melismatico (un’unica vocale cantata da più note). Tali notazioni (oggi identificate come codici di Laon, San Gallo, Einsiedeln, Beneventano, ecc.) non servivano però a definire l’altezza dei suoni: l’assenza di un riferimento lasciava alla libertà dell’esecutore l’applicazione di quella che con linguaggio moderno chiamiamo “tonalità”. Questa prima scrittura musicale è la testimonianza della diffusione del canto sacro in tutta Europa: l’avvento dell’unità politica e culturale rappresentata dal Sacro Romano Impero permette la circolazione del canto in tutti i monasteri e nelle principali chiese. E’ importante creare dei riferimenti scritti perché tale diffusione non perda le tracce originali delle melodie. In un secondo tempo vennero applicate ai neumi delle righe di riferimento per delimitare l’altezza dei suoni: la riga gialla per il Do e quella rossa per il Fa. Fa Questo episodio diede l’idea al monaco Guido d’Arezzo (c. 990-1050) per l’aggiunta di altre due righe: si giunse così a creare il tetragramma, prima vera codificazione musicale universale, sul quale si potevano fissare i suoni, le altezze, le lunghezze in modo uguale per tutti. Nascono le sette note che oggi conosciamo e l’evoluzione del tetragramma porta alla nascita, in epoca rinascimentale, del pentagramma. Le note ricalcano ancora i segni del canto gregoriano nello stile e nelle figure (virga, punctus, ecc.), ma il distacco dall’antico cantus planus è ormai senza ritorno. Nel XVIII e XIX secolo la scrittura musicale diviene non più solo una libera traccia per l’ispirazione dell’esecutore (tale era il principio dell’improvvisazione barocca) ma un riferimento quasi assoluto: alle note sul pentagramma si aggiungono i segni dinamici ed espressivi. Questa evoluzione, per altro inevitabile data la diversità dei molteplici stili musicali, segna una sorta di tentativo di intrappolare nella scrittura tutto il linguaggio musicale, con lo scopo di dare all’esecutore ogni informazione possibile in merito al contenuto della partitura. Solo nel XX secolo si tornerà ad una scrittura musicale più libera, meno vincolante, capace di tradurre sulla carta anche i nuovi suoni, le forme della dodecafonia, i ritmi e i contenuti culturali di un secolo tormentato. Le partiture di grandi compositori contemporanei non hanno più nulla della partitura classica, quella dei secoli XVIII e XIX, ma la ricerca di nuovi segni rappresenta un tentativo interessante che ci riporta all’origine del canto sacro, quando, cioè, la voce dello Spirito era libera da codificazioni e affidata unicamente alla trasmissione della fede nella liturgia. 40. La scrittura Braille Il primo tentativo volto a consentire l’accesso alla lettura in modo serio ed organizzato ai non vedenti si deve al filantropo francese Valentin Haüy (17451822), funzionario del Ministero degli Esteri. Egli ideò la lettura per ciechi a segni orizzontali: dopo aver fabbricato delle lettere di legno, Haüy aveva in seguito fissato su del cartone dei caratteri ordinari stampati in rilievo che formavano, così delle sporgenze rilevabili al tatto. Facili a leggersi per i vedenti, erano invece difficili da distinguere per mezzo dei polpastrelli delle dita; d'altra parte erano molto ingombranti e la loro composizione richiedeva parecchio tempo. Malgrado questi inconvenienti, l'invenzione apriva la via alla lettura mediante il tatto. La scuola di Haüy però non prosperò molto, ed in seguito fu unita al Ricovero per ciechi invalidi fondato da Luigi IX, e dopo pochi anni definitivamente chiusa. Successivamente, nella seconda metà dell’Ottocento, Luigi Ballù inventò un ingegnoso sistema di scrittura in rilievo a punti che, se pure a costo di molta fatica, consentiva ai non vedenti una primordiale comunicazione scritta. Il metodo di lettura di Valentin Haüy ed il successivo sistema di punteggio di Ballù non avevano però risolto definitivamente il problema dell’educazione dei non vedenti: il cieco poteva infatti solo leggere, i libri erano pochi e la velocità di lettura era inoltre bassissima. Rivoluzionario fu il sistema di scrittura in rilievo inventato intorno al 1829 da Louis Braille (1809-1852) per la sua perfetta aderenza alle esigenze del tatto. Il sistema Braille è il perfezionamento di una scrittura tattile inventata da un ufficiale dell’esercito napoleonico, Charles Barbier, che l’aveva inventata per redigere messaggi nell’oscurità decifrabili fra ufficiali impegnati nelle campagne militari. La sua caratteristica fondamentale è quella di essere a punti in rilievo che si incidono procedendo da destra verso sinistra in modo che, girando il foglio, si possa leggere normalmente da sinistra a destra. Per scrivere in Braille occorrono un’apposita tavoletta munita di un regolo mobile ed un punteruolo. Il regolo consta di due righe di 24 rettangoli ciascuna, in ognuno dei quali si possono incidere sei punti. I singoli segni vengono rappresentati mediante un differente numero di punti da uno a sei, e in totale si possono ottenere 63 segni che coprono tutte le esigenze di ogni forma di linguaggio scritto e di tutte le segnografie matematiche e musicali. La scrittura Braille, pur rappresentando una scoperta eccezionale, non fu subito accettata negli istituti, che erano diretti da vedenti non favorevoli a dover imparare una nuova scrittura. Solo intorno al 1850 il sistema di Louis Braille fu pienamente accettato a Parigi, città dove era nato. Nel 1865 gli allievi milanesi lo accettarono con entusiasmo mentre il Inghilterra il metodo Braille fece la sua comparsa verso il 1868. Oggi il Braille è l’unico sistema di scrittura e lettura per ciechi diffuso in tutto il mondo. Il Congresso Internazionale di Parigi del 1878 lo aveva infatti dichiarato ufficiale per tutti gli stati, e l’U.N.E.S.C.O. ha un comitato apposito con il compito di adattarlo a tutte le lingue. Anche in Cina è stato adottato facendo corrispondere i segni Braille non agli ideogrammi, ma ai suoni da essi rappresentati. Glossario Apicatura: i sottili trattini (lat. apices) che tagliano le aste delle lettere, soprattutto delle litterae longae come I e T, nelle epigrafi romane. Attuario: nell’antica Roma, ufficiale dell’esercito incaricato dell’approvvigionamento, della distribuzione dei viveri alle truppe e della registrazione delle operazioni militari; anche lo scrivano incaricato di raccogliere i discorsi pronunciati nel senato o nelle assemblee politiche. Da cui la scrittura di tipo attuariale, cioè per appunti, cronache, etc. Binario, codice: (ingl. binary) un sistema di numerazione che abbia come sua base 2 (e non 10, come nel sistema decimale, o 16 dell’esadecimale). In esso l’informazione può essere espressa combinando insieme in vario modo le cifre 0 e 1, il cui valore, ovviamente, dipende dalla loro posizione nella stringa numerica. E’ il linguaggio con cui si esprime l’informatica. Il termine è la ripresa da parte della matematica del vocabolo binarius (deriv. di bini, ‘ a due a due’), usato però nel latino tardo per indicare ‘doppio’. Bolla: il termine indica sia il sigillo autenticante un documento imperiale o pontificio, sia il documento stesso. Le bolle papali, ovvero le comunicazioni del papa su questioni importanti, sono rigorosamente in latino e ciascuna prende il suo nome dalle parole d’inizio. Breve: termine latino medievale che indica uno scritto o una lettera pontificia, munita di sigillo in ceralacca, meno solenne di una Bolla. Bustrofedico: detto riguardo all’andamento delle righe scritte sull’esempio delle iscrizioni arcaiche, alternativamente da sinistra a destra e da destra a sinistra. Dal greco boustrophedon ‘ che va nella direzione del bue che ara’. Byte (simbolo B): gruppo di 8 bits (acronimo di binary digits). E’ una delle unità di misura usate per indicare la quantità di informazione, per esempio, per i supporti di memoria (Floppy disk, RAM, CD-ROM, hard disk), corrispondente alla dimensione occupata da 1 carattere. In alcuni sistemi di codificazione vengono usati invece 2 bytes per rappresentare un carattere ideografico cinese o di altra lingua la cui scrittura sia tipologicamente affine alla scrittura ideografica cinese. Calamo: cannuccia appuntita (da intingersi nell’inchiostro) con la quale gli antichi scrivevano sul papiro e sulla pergamena. Cuneo: prisma a sezione triangolare per lo più isoscele, di materiale duro, usato per fendere, spaccare o bloccare. Realizzato come uno stilo dagli Assiro-Babilonesi e dagli Ittiti per realizzare la scrittura cuneiforme, consistente appunto in incisioni lineari a forma di cuneo impresse nella pietra o nell’argilla. Demotico: popolare, volgare. Tipo di scrittura dell’antico Egitto, derivante dalla ieratica, di cui costituisce una forma abbreviata a partire dal VII sec. a.C. e un surrogato normale a partire dall’età tolemaica. Da demos, popolo. Diacritica: L’insieme dei segni supplementari per precisare particolarità di pronuncia non rese dai segni consueti, come il tilde nelle lingue spagnole (ñ) o la pipa delle lingue slave ( c ) usati per le traslitterazioni fonetiche per segnalare processi di nasalizzazione e di palatalizzazione; oppure la dieresi italiana (es. rëale) per sottolineare il valore bisillabico del gruppo ea. Dal greco diakritikos, atto a distinguere. Dodecafonia: moderna tecnica di composizione musicale ideata verso il 1920 legata al nome di Arnold Schönberg e basata sul principio dell’atonalità. In questa visione non esistono più relazioni di importanza o funzione tra i gradi della scala ma soltanto una libera successione di 12 semitoni sui quali poi verranno costruite le nuove melodie. Ductus: indica il tratteggio dei singoli elementi della lettera, l’ordine di successione degli stessi e anche l’andamento generale del tracciato, con riferimento ai tempi di esecuzione (lento, veloce, etc.). Filigrana: impressione di un disegno, cifra o simbolo, fissata nel corso di fabbricazione della carta, visibile in controluce. Costituisce il marchio di fabbrica della cartiera e serve a contraddistinguere il prodotto, la qualità e la zona di origine. Utile per datare i manoscritti e le edizioni antiche e per individuarne il luogo di fabbricazione. Venne usata per la prima volta in Italia nel 1282 a Fabriano. Vi sono repertori che ne censiscono oltre 16.000 tipi ( prodotti tra il secolo XIII e il secolo XVII). Filone: nella fabbricazione della carta è il filo metallico disposto verticalmente che sorregge le vergelle disposte orizzontalmente e parallele al lato maggiore del foglio. Le impronte lasciate dai filoni si scorgono guardando la carta in controluce. Fonetica: Fonetica scienza dei suoni tradizionalmente intesi, e quindi considerati isolatamente secondo i processi delle loro singole articolazioni. Fonetica, scrittura scrittura: un sistema di scrittura si dice fonetico quando i suoi segni sono concepiti per riflettere più o meno specularmente la catena dei suoni di una data lingua; ogni singolo elemento della scrittura rimanda quindi innanzitutto a un segmento di suono della lingua e non ad un significato di essa. Forma: in tipografia indica la composizione della pagina chiusa nel telaio, pronta per la stampa. E’ detta forma di bianca quella stampata per prima e forma di volta quella stampata per seconda, sul lato opposto del foglio. Glifo: Glifo incavo a sezione tonda o angolare, come ornamento architettonico. Impiegato nella realizzazione della scrittura monumentale Maya. Grafema: in linguistica, segno che in un sistema grafico (alfabetico, sillabico o ideografico) costituisce l’unità grafica minima. Derivato dal greco grapho, scrivere. Ieratico: sviluppo corsivo della scrittura geroglifica egiziana elaborato e ordinariamente impiegato dai sacerdoti in epoca tolemaica romana. Dal greco hieros, sacro. Ideogramma: simbolo grafico che rappresenta non un valore fonetico ma un’immagine o un’idea. Da cui scrittura ideografica. Incunabulo: dal latino incunabula, ‘in culla, in fasce’, il termine indica i libri stampati fra il 1450 ed il 1500 incluso. Interfaccia: linea o superficie che costituisce un confine comune tra due entità oggettuali, in senso concreto o figurato. Nel complesso insieme hardware e software di un computer, indica ogni congegno – o configurazione di congegno – che provveda a collegare due o più unità di vario genere tra di loro, a fini comunicativi o operativi. Esempi di interfacce: porte per le unità periferiche del PC o lo schermo del monitor. Il termine inglese ha avuto enorme diffusione a partire dagli anni ’60 del secolo XX, inizialmente in ambiente informatico e poi in un numero incalcolabile di altri ambienti culturali, addirittura inflazionato. Ipertesto: l’insieme dei file-documento, dei file-immagine e dei file-suono che, a prescindere dalla collocazione fisica dei files componenti, può essere percorso in modo multidirezionale dall’utente-lettore che si avvalga dei numerosi links preconfigurati. Un ipertesto può essere tematicamente coerente (al pari di un testo, romanzo, etc.) oppure no (ad es. una home-page che di solito presenta realtà disparate). Koinè diálektos: termine greco usato per indicare una lingua comune che si sovrappone ai dialetti locali. Per analogia, si può parlare di koiné culturale per definire una civiltà comune accettata da popolazioni diverse. Logografia: termine coniato da Leonard Bloomfield (Language, New York 1933). Scrittura in cui ogni elemento sta a simboleggiare una parola della lingua. Lunate, Lunate lettere (o ( lettere con gli occhiali): sono segni di un alfabeto storico (greco, ebraico, etc.) i cui tratti terminali sono chiusi con piccoli occhielli. La denominazione (dal francese lettres à lunettes) fu coniata da Moïse Schwab nel 1899 per il tipo ebraico, ma si tratta di una deformazione assai diffusa dal tardo antico al medioevo. Matrice: blocchetto metallico recante l’impronta di una lettera o di un fregio e, per estensione, qualsiasi forma da cui si ottiene la stampa (lastre litografiche, zinchi, ecc.). Melisma: Figurazione tipica del canto gregoriano. Dal greco mélisma, melodia. Successione di note eseguite su un’unica sillaba. Mnemotecnica (o mnemonica): mnemonica : l’insieme degli espedienti atti a facilitare, specialmente a scopo didattico, il ricordo di dati e nozioni. Uno dei più usati è quello di mettere in versi ciò che si deve ricordare. Un altro sistema consiste nel formare delle parole o frasi che hanno un suono simile alle parole che si vogliono ricordare. Nabateni, caratteri: caratteri scrittura adottata dai Nabatei, antica popolazione con centro nella città di Petra, a sud-Est del Mar Morto. In origine nomadi, divenuti in seguito sedentari, diedero vita ad un regno di notevole importanza tra il secolo II a.C. e il I d.C. Neuma: nella notazione musicale medievale segno grafico di forma quadrata che indicava un certo movimento della linea melodica o un certo modo di esecuzione. Caratteristico del canto gregoriano e della scrittura musicale precedente all’introduzione delle indicazioni di durata, oltre che di altezza, del segno musicale. Note tironiane: tironiane sistema stenografico ideato da Marco Tullio Tirone, liberto di Cicerone, per raccogliere più facilmente i discorsi pubblici dell’oratore; consisteva in una serie di segni tachigrafici per rendere agevole e veloce la scrittura che creavano un sistema complesso ma capace di abbreviare tutte le parole della lingua latina. I Commentarii notarum Tironianarum raccolgono circa 13.000 segni. Le note tironiane furono usate nelle cancellerie fino all’epoca carolingia. Ostrakon: Ostrakon Indicava in origine ‘guscio di testuggine’, ‘conchiglia’ (cfr. il lat. ostrea, ‘ostriche’) e poi ‘vaso di terracotta’, ‘coccio’. Nell’antichità i cocci erano spesso usati, in quanto materiale di poco prezzo, come supporto scrittorio: sappiamo dell’uso ateniese di scrivere su ostrakon i nomi dei concittadini da condannare all’esilio (ostracismo). Palinsesto: manoscritto il cui testo originario è stato raschiato o tolto con un lavaggio, per essere sostituito con un nuovo scritto. Termine che può essere esteso anche ad altri tipi di reimpiego di fogli manoscritti (per dorsi, copertine, ecc,) Pecia: Pecia nome dato nel Medioevo ad ognuno dei fascicoli formati dalla piegatura in quattro della pezza di pergamena (o membrana) ricavata da una pelle intera, e perciò di 8 pagine. Nella produzione libraria universitaria (secolo XIII-XIV) il testo utilizzato per l’insegnamento era suddiviso in pecie sciolte e numerate, depositate (in una copia ufficiale approvata dall’università) presso un funzionario (stationarius) che le affittava agli studenti secondo le tariffe stabilite ed imposte dai commissari nominati dall’università (petiari) con scopi di controllo. Inoltre la pecia costituiva l’unità di misura del lavoro eseguito da un copista, che veniva retribuito secondo il numero di pecie da lui trascritte. Pentagramma: serie di cinque righe orizzontali e parallele utilizzata per le scritture musicali (dal greco pentagrammos, ‘di cinque righe’). Suo antenato fu il tetragramma (quattro righe), oggi usato solo nella notazione del canto gregoriano. Pittogramma: elemento grafico legato in modo riconoscibile al significato di un termine, più spesso ad un’area di significati, che esso sta a rappresentare. Ad esempio, l’immagine del sole starà a significare, oltre che ‘sole’, anche ‘giorno’, ‘calore’, ‘brillare’, ecc. Progressivo: Progressivo è così definito il nostro andamento di scrittura da sinistra a destra. Punzone: asta di acciaio duro recante all’estremità tronco-piramidale una sigla, una lettera o un numero o altro segno particolare inciso, che serve per contrassegnare una superficie. Con essi si preparavano le matrici per la stampa. Retrogrado: Retrogrado andamento della scrittura da destra a sinistra. Dal lat. retrogradus, che cammina in senso contrario. Scriptio continua: scrittura senza divisione delle parole, tipica per esempio dei codici dell’antichità classica e indiani, ma non di tutte le tradizioni scrittorie. Nei manoscritti greci la scriptio continua viene meno verso il III sec. Scriptorium: locale situato accanto alla biblioteca ove gli amanuensi svolgevano la loro attività di copiatura, decorazione e rilegatura dei manoscritti. I principali monasteri possedevano un proprio scriptorium posto sotto la diretta sorveglianza dell’abate o di un magister. Durante l’alto medioevo le fondazioni ecclesiastiche furono sicuramente gli unici centri di produzione libraria. Silografia (o ( xilografia): xilografia) dal greco xylon , legno e grapho, scrivo. Arte di incidere, di intagliare su legno caratteri e figure in rilievo. I libri antichi contenenti figure o tavole riprodotte con tali tecniche vengono detti, dagli antiquari, ‘con legni’. L’utilizzo della silografia fu ridotto dalla metà del sec. XVI per l’introdursi dell’incisione su metallo. Stilo: asticella di legno, osso od altri materiali con un’estremità appuntita e l’altra piatta (per eradere) usata nell’antichità per scrivere sulle tavolette di argilla o di cera. Theca libraria: astuccio in cui venivano riposti gli arnesi per scrivere. Tipo: dal greco túpos, ‘colpo, impressione’; dal significato originario il termine è passato ad indicare ‘immagine’ e poi ‘archetipo’, ‘modello’. Oggi usato come sinonimo di carattere tipografico. Tonalità: Tonalità in musica il complesso delle relazioni (intervalli) che legano una serie di note o di accordi alla nota fondamentale (detta tonica) sulla base della scala (maggiore o minore), da cui tonalità in do maggiore, tonalità in re minore, etc. Torchio: la prima macchina usata per la stampa tipografica, funzionante manualmente. Da principio fu costruito interamente in legno (in seguito di metallo) e conservò funzioni e fisionomia per tutti i 400 anni della sua storia, dal XV al XIX secolo. Il principio di funzionamento del torchio fu fornito ai prototipografi tedeschi dall’osservazione delle presse usate dai fabbricanti di vino della Valle del Reno. Vergella: filo metallico teso orizzontalmente che con il filone forma la trama della rete necessaria a trattenere l’impasto nella forma con la quale si fabbrica la carta a mano. 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