NIETZSCHE POLITICO O IMPOLITICO? Che al pensiero di Nietzsche possa essere attribuito un significato politico1 è cosa scontata: è di fatto accaduto, sia pure con intenzioni e modi talvolta esecrabili, talvolta per lo meno discutibili. Di una tale discussione potrà essere oggetto tanto un Nietzsche di destra, teorico del “radicalismo aristocratico” (secondo la formula creata da Georg Brandes2) e profeta del germanesimo (come 1 La bibliografia sul nesso tra filosofia e politica nel pensiero di Nietzsche si è fatta, negli ultimi anni, particolarmente nutrita. Ci limitiamo a segnalare i contributi più recenti: R. Escobar, Nietzsche e la filosofia politica del XIX secolo, Milano, il Formichiere, 1978; S.E. Aschheim, The Nietzsche Legacy in Germany 1890-1990, Berkeley-Los Angeles-London, University of California Press, 1992; K. Ansell-Pearson, An Introduction to Nietzsche as Political Thinker. The Perfect Nihilist, Cambridge, Cambridge University Press, 1994; H. Ottmann, Philosophie und Politik bei Nietzsche, Berlin-New York, De Gruyter, 19992; T. Shaw, Nietzsche’s Political Skepticism, Princeton and Oxford, Princeton University Press, 2007; H.W. Siemens-V. Roodt (a cura di), Nietzsche. Power and Politics, Berlin-New York, De Gruyter, 2008. 2 Georg Brandes (pseudonimo di Morris Cohen) (1842-1927), danese di famiglia ebrea, fu critico letterario e tenne a Copenhagen delle affollate conferenze su Nietzsche. Su di lui pubblicò due saggi: Radicalismo aristocratico. Dissertazione su Friedrich Nietzsche, apparso sulla “Deutsche Rundschau” del 1890, e Friedrich Nietzsche, in Uomini e opere, pubblicato nel 1893. Con ciò contribuì alla conoscenza di Nietzsche nei paesi scandinavi e, in particolare, alla sua influenza su Ibsen e Hamsun. Dell’attività di Brandes Nietzsche ebbe notizia. In un frammento (16[63]) della primavera-estate 1888 egli scrive, intendendo evidentemente far pubblicare la nota su qualche giornale: «Gli amici del filosofo Friedrich Nietzsche accoglieranno con interesse la notizia che, lo scorso inverno, il brillante danese dott. Georg Brandes ha dedicato a questo filosofo tutto un ciclo di lezioni all’università di Copenhagen. L’oratore […] ha saputo suscitare vivo interesse in un pubblico di più di trecento persone, per la nuova e audace maniera di pensare propria del filosofo tedesco» (NF, KSA, 13, 506-507). In Ecce homo egli osserva, lamentando al solito la mancata comprensione da parte dei compatrioti: «In quale università tedesca sarebbe oggi possibile tenere un corso di lezioni sulla mia filosofia, come fece a Copenhagen nella primavera scorsa il danese dottor Georg Brandes, che ha provato con ciò ancora una volta la sua qualità di psicologo?» (EH, KSA, 6, 363). Brandes avviò con Nietzsche uno scambio epistolare. Di rilievo particolare sono la lettera in cui egli gli contesta il suo antisocialismo e antianarchismo e il suo atteggiamento, mutatosi da amicizia in ostilità, nei confronti di Paul Rée (15-17 dicembre 1887, KGB, III/6, 129132); e quella in cui gli consiglia vivamente la lettura di Kierkegaard (all’epoca non ancora tradotto in tedesco): «C’è uno scrittore nordico le cui opere la interesserebbero, se soltanto esse fossero tradotte: Søren Kierkegaard; egli visse tra il 1813 e il ‘55, ed è a mio avviso uno degli psicologi più profondi che esistano in generale» (11 gennaio 1888, KGB, III/6, 143-144). Nietzsche spedì a Brandes in dono le sue opere, e questi lo ricambiò inviandogli il suo Romanticismo tedesco (uscito in seconda edizione nel 1883). Importante è la riflessione ispirata a Nietzsche da questo libro, che egli comunica all’autore in una lettera del 27 marzo 1888: «Il suo “Romanticismo tedesco” mi ha fatto riflettere su quanto tutto questo movimento abbia raggiunto propriamente il suo scopo soltanto come musica (Schumann, Mendelsohn, Weber, Wagner, Brahms): come letteratura è rimasto una grande promessa. I Francesi sono stati più fortunati» (KGB, III/5, 279). 1 lo voleva Alfred Baeumler), quanto un Nietzsche di sinistra3, ispiratore della Ideologiekritik grazie al metodo genealogico, maestro del sospetto e dello smascheramento, secondo un modello che accomuna la Dialettica dell’illuminismo e la ricezione di Nietzsche in Francia4 e in Italia a partire dagli anni sessanta. Che, invece, nel pensiero di Nietzsche sia contenuta una compiuta teoria della politica dev’essere negato con decisione. Questo non significa che la filosofia nietzschiana si precludesse esiti politici: di ciò Nietzsche stesso fu consapevole, e proprio qui sta, forse, uno degli aspetti del suo pensiero che oggi ci risultano più scomodi. Si può affermare, in questo senso, che tutta la filosofia nietzschiana sia percorsa da un’ispirazione politica, e la celebre dichiarazione d’intenti contenuta nella Prefazione alla II Considerazione inattuale (Sull’utilità e il danno della storia per la vita) – «Solo in quanto la storia serva la vita, vogliamo servire la storia» (HL, KSA, 1, 245) –, in quanto corrisponde ad un preciso impegno nei confronti del presente (il senso della filologia classica non può consistere che nell’agire nel tempo «in modo inattuale – ossia contro il tempo, e in tal modo sul tempo e, speriamolo, a favore di un tempo venturo», HL, KSA, 1, 247), corrisponde, di fatto, ad un programma politico. Così, almeno, la intende Karl Löwith, che ha dunque buon gioco nel contrapporre al falso inattuale Nietzsche l’inattuale autentico Burckhardt, la cui fede nella storia e il cui culto del passato gli consentono di prendere definitivamente congedo da una filosofia della storia di persistente ispirazione hegeliana (e, perciò, cristiana), in cui il presente è la rappresentazione conciliata della contraddizione posta dal passato, che non apre, perciò, alcuna drammatica frattura con il presente stesso. Mentre l’antistoricismo della II Inattuale, che privilegia la vita – e quindi il presente – contro la storia, continuerebbe ad avere «la sua ultima ragione storica nella religione cristiana, che di tutte le ore di una vita umana ritiene l’ultima la più 3 Sulle interpretazioni di Nietzsche da destra e da sinistra cfr. S.E. Aschheim, op. cit., pp. 164200. 4 Sul contributo che la ricezione francese ha dato alla costruzione di un Nietzsche di sinistra in quanto maestro dello smascheramento si veda J. Rehmann, Postmoderner Links-Nietzscheanismus. Deleuze & Foucault. Eine Dekonstruktion, Bonn, Argument, 2004. 2 importante», cosicché «la coscienza storica del “nuovo tempo” si rivela alla riflessione storica come essa stessa qualcosa di estremamente storico»5. Nietzsche stesso, dicevamo, è consapevole dei possibili esiti politici del proprio pensiero. Ne è riprova il ricorrere di immagini che, in molti dei frammenti che si sforzano di definire il concetto di volontà di potenza, stabiliscono un parallelo tra società, morale, mondo fisico e mondo politico. Si legge in un frammento (10[53]) dell’autunno 1887: Più naturale è la nostra posizione in politicis: vediamo problemi di potenza, di un quantum di potenza contro un altro quantum. Non crediamo a un diritto che non riposi sulla potenza per farsi valere: consideriamo tutti i diritti come conquiste con la forza. (NF, KSA, 12, 483)6 Difficile distinguere, a questo punto, gli esiti politici del pensiero nietzschiano dalle interpretazioni politiche che ne sono state date. Varrà qui la pena soltanto di accennare al fatto che proprio Heidegger, pensatore più che mai compromesso in politicis, si prese la cura di attaccare l’interpretazione politica di Baeumler – che aveva dissociato la volontà di potenza, in quanto dottrina autenticamente politica e germanica, dall’eterno ritorno dell’uguale, ridotto a pura e semplice dichiarazione di anticristianesimo7 – sulla base di un’errata 5 K. Löwith, Jacob Burckhardt. Der Mensch inmitten der Geschichte, in Sämtliche Schriften, vol. 7, Stuttgart, Metzler, 1984, pp. 69-70. 6 A conferma dell’unitaria ispirazione politica della filosofia di Nietzsche, si confronti questa affermazione con quella contenuta ne Lo stato greco, scritto compreso nelle Cinque prefazioni per cinque libri non scritti, opuscolo di cui Nietzsche aveva fatto omaggio a Cosima Wagner in occasione del Natale 1872: «La violenza fornisce il primo diritto, e non esiste un diritto che nel suo fondamento non sia arroganza, usurpazione e violenza» (GS, KSA, 1, 770). E si veda anche GM, KSA, 5, 358: «Il “diritto” è stato a lungo un vetitum, un’empietà, un’innovazione, si fece innanzi con violenza, come violenza a cui ci si adattò unicamente con vergogna dinanzi a se stessi». Sul rapporto tra diritto e potenza nel pensiero di Nietzsche si veda V. Gerhardt, Pathos und Distanz. Studien zur Philosophie Friedrich Nietzsches, Suttgart, Reclam, 1988, pp. 98-132. 7 L’eterno ritorno dell’uguale è per Baeumler estraneo alla filosofia di Nietzsche pensata come sistema; di più, questo pensiero non sarebbe neppure filosofia, ma una «concezione religiosa». Questo motiverebbe l’intenzione nietzschiana di procedere oltre Così parlò Zarathustra con la progettazione di un testo sistematico sulla volontà di potenza (cfr. A. Baeumler, Nietzsche der Philosoph und Politiker, Leipzig, Reclam, 1931, pp. 81-82). Dell’eterno ritorno come esperienza religiosa parla anche Giorgio Colli, che lo definisce una «folgorazione mistica» in cui viene 3 interpretazione di Eraclito. Fraintendendo la dottrina dell’eterno ritorno Baeumler parla, secondo Heidegger, contro la propria stessa interpretazione della volontà di potenza, che egli vorrebbe intendere in senso metafisico, ma in realtà «interpreta in senso politico». L’eterno ritorno di Nietzsche è dunque «in contrasto con la concezione della politica di Baeumler»8. Come che sia, ogni esito politico del pensiero di Nietzsche va letto sullo sfondo di quanto affermato nel Crepuscolo degli idoli: Tutte le grandi epoche della cultura (Cultur) sono epoche di decadenza politica: ciò che è grande nel senso della cultura è stato non politico (unpolitisch), addirittura antipolitico (antipolitisch). (GD, KSA, 106)9 Vale a dire, ogni senso politico della filosofia di Nietzsche va letto sullo sfondo di questa contrapposizione tra Kultur e Politik, che sta a significare lo smembramento dell’identità hegeliana di cultura e Stato: penetrato fino in fondo il «segreto della grecità» (cfr. G. Colli, Dopo Nietzsche, Milano, Adelphi, 1974, pp. 197-198). 8 M. Heidegger, Nietzsche, Pfullingen, Neske, 1961, vol. I, p. 31. Secondo Heidegger, Baeumler intende Eraclito come se questi avesse insegnato «l’eterno fluire delle cose nel senso del loro “andare sempre avanti”»; mentre il senso profondo della filosofia di Eraclito è «che non necessariamente esiste una contraddizione tra la tesi “l’essere è divenire” e la tesi “il divenire è essere”» (ibid., vol. I, p. 30). 9 Il termine unpolitisch è, com’è noto, assurto a fama universale grazie all’interpretazione datane da Thomas Mann sul finire della I guerra mondiale; con esso lo scrittore intende caratterizzare la Kultur germanica di contro alla Zivilisation delle democrazie borghesi. La Zivilisation è per Mann una commistione di politica e letteratura: è il «borghese eloquente» e «l’avvocato letterato»; essa non è altro che la «marcia trionfale, l’espansione dello spirito politicizzato e intriso di letteratura fino a trasformare in una sua colonia tutto il mondo abitato. L’imperialismo della civilizzazione è l’ultima forma di quell’idea unificatrice romana contro la quale la Germania ‘protesta’» (Th. Mann, Betrachtungen eines Unpolitischen, Frankfurt a.M., Fischer, 1983, p. 51). Prima di Mann, tuttavia, già Hans Vaihinger aveva fatto ricorso al concetto di antipolitico per spiegare la presa di posizione nietzschiana contro il socialismo: «La tendenza antisocialista di Nietzsche cresce di quando in quando fino all’antipolitico, nel senso che egli si rivolge in generale contro lo Stato e la vita dello Stato. Nello Stato moderno, infatti, il socialismo di Stato va mano nella mano con la burocrazia, e in forza di innumerevoli regolamenti la libertà dell’individuo viene repressa» (H. Vaihinger, Nietzsche als Philosoph, Berlin, Reuther & Reichard, 1902, p. 76). 4 La cultura e lo Stato – non ci si inganni in proposito – sono antagonisti: “Stato di cultura” è soltanto un’idea moderna. L’una cosa vive dell’altra, l’una cosa prospera a spese dell’altra. (Ibid.) Solo sulla base di questa sua natura impolitica è possibile intendere l’unico concetto politico che Nietzsche abbia almeno tentato di definire: quello di grande politica (große Politik). Non si vorrebbe essere tentati dal simbolismo (per altro postumo) delle date, ma che il frammento intitolato La grande politica (25[1]) sia stato scritto tra la fine del dicembre 1888 e i primi del gennaio 1889 (dunque a pochi giorni dal crollo psichico) esercita una forte tentazione in tal senso. Tentazione, tra l’altro, accresciuta dalle parole che aprono il frammento: «Io porto la guerra» (NF, KSA, 13, 637), un’evidente allusione alle parole di Gesù in Mt 10, 34: «Non crediate che io sia venuto a portare la pace sulla terra; non sono venuto a portare la pace ma la spada». Non si può non pensare ai biglietti della follia spediti agli amici, pochi giorni dopo, da Torino, e firmati alternativamente Dioniso e Il crocifisso. A dispetto di queste suggestioni, tuttavia, l’argomentazione del frammento è oltremodo lucida. Questa guerra, spiega Nietzsche, non viene portata «tra popolo e popolo», poiché non v’è nulla che egli disprezzi di più dell’«esecrabile politica animata dagli interessi delle dinastie europee», che si fa «un principio e quasi un dovere» «dell’egoismo, anzi della presunzione dei popoli l’uno contro l’altro». E neppure dev’essere intesa come una guerra «tra i ceti», poiché ciò presupporrebbe l’esistenza di ceti superiori e ceti inferiori; ma, dal momento che non esistono oggi ceti superiori, non ne esistono per conseguenza neppure di inferiori. Questa guerra passa attraverso le categorie rappresentate da «popolo, ceto, razza, professione, educazione, istruzione». È una guerra resa necessaria dal fatto che la volontà non è più libera, in quanto il suo affermare e negare si limitano all’affermazione di «ciò che si è» e alla negazione di «ciò che non si è»; è una guerra contro la «volgarità del numero», che parla «a favore dei “cristiani”». Conseguenza, questa, del fatto che «per due millenni» gli uomini sono stati educati ad un «controsenso fisiologico», 5 la denigrazione degli istinti, e che, pertanto, la decadenza di tali istinti è divenuta un dato di fatto. Si tratterà, dunque, di «una guerra come tra l’ascesa e il declino, tra volontà di vita e sete di vendetta contro la vita». Poiché, com’è noto, Nietzsche identifica quest’ultima con il ressentiment che costituisce l’aspetto specificamente nichilistico del cristianesimo, la grande politica, in quanto mira a rimettere in auge la vita istintuale nel suo significato fisiologico, si presenta come una precisa Gegenbewegung avversa al nichilismo: La grande politica vuole affermare la fisiologia sopra tutti gli altri problemi; vuole creare una potenza abbastanza forte per allevare (züchten) l’umanità come un tutto superiore, con spietata durezza contro la degenerazione e il parassitismo della vita – contro ciò che corrompe, avvelena, calunnia, manda in rovina… (NF, KSA, 13, 638) La grande politica è «guerra mortale al vizio», dove per quest’ultimo si intende lo screditamento degli istinti imposto dalla morale cristiana. La grande politica è, in questo senso, il progetto di una nuova Kultur che dovrà consentire la selezione «delle razze, dei popoli, degli individui» in base alla loro volontà di futuro (ibid.)10. È da sottolineare come Nietzsche identifichi la presentita catastrofe dell’Europa con la propria personale catastrofe. Egli parla in prima persona: «Io porto la guerra». Questa identificazione la si coglie pienamente in un altro frammento (25[6]) dello stesso periodo, che è in realtà una diversa stesura del capitolo conclusivo di Ecce homo, Perché io sono un destino: 10 Che Nietzsche elabori, in questo programma, suggestioni provenienti da letture tardopositivistiche è evidente. Il richiamo alla fisiologia è indice, secondo D. Losurdo, di una «tendenza a leggere in chiave naturalistica la storia e il conflitto», e se, per fisiologia, egli intende quel complesso di scienze «che prendono le mosse dalla natura e dal corpo», ad esse egli affida il compito di liquidare una volta per sempre l’idealismo ossia, nel suo intendimento, l’intera eredità della Rivoluzione francese; cfr. D. Losurdo, Nietzsche, il ribelle aristocratico. Biografia intellettuale e bilancio critico, Torino, Bollati Boringhieri, 2002, pp. 626-629. Discutere la possibilità che questo richiamo alla fisiologia rappresenti un’adesione al programma di un’eugenetica razzista porterebbe troppo al di là dei limiti di questo intervento. 6 Conosco la mia sorte. Al mio nome si legherà un giorno il ricordo di qualcosa di immenso, di una crisi, come non ce n’è stata ancora sulla terra, di una profondissima collisione di coscienze, di una decisione evocata contro tutto ciò che era stato creduto, preteso, consacrato. (NF, KSA, 13, 639) Fin qui il frammento coincide con il testo di Ecce homo. Ma, a questo punto, il frammento prosegue: E con tutto ciò non c’è in me niente del fanatico; chi mi conosce, mi ritiene uno studioso semplice, forse con un po’ di cattiveria, che sa essere allegro con tutti. (Ibid.) Queste parole, di quasi rassegnata modestia, sono sostituite nel testo pubblicato, a sottolineare la volontà di identificazione con un destino che non è più quello del semplice studioso, dal celebre proclama: «Io non sono un uomo, sono dinamite» (EH, KSA, 6, 365). Come ha osservato Löwith, «il destino dell’Europa coincide nel sentimento e nel pensiero di Nietzsche con lui stesso». Questo è ciò che, della riflessione nietzschiana, è propriamente politico; e «questa prospettiva politica non si colloca ai margini della filosofia di Nietzsche, ma al suo centro»11. In questo centro sta l’idea-cardine del radicalismo aristocratico. «Non parlo mai alle masse», prosegue il testo di Ecce homo, che insiste sull’identificazione con Gesù: «Io sono un lieto messaggero (ein froher Botschafter) quale mai si è visto» (EH, KSA, 6, 366) (e stavolta è la versione scartata del frammento a sottolineare il senso universale della propria sorte: «per quanto sia anche destinato a essere l’uomo della catastrofe», NF, KSA, 13, 640). Quel che il lieto messaggero annuncia è la fine della «millenaria menzogna», ossia della morale: è la «guerra degli spiriti» in cui deve trasformarsi tutto ciò che 11 K. Löwith, Der europäische Nihilismus. Betrachtungen zur geistigen Vorgeschichte des europäischen Krieges (1940), in Sämtliche Schriften, vol. 2, Stuttgart, Metzler, 1983: Weltgeschichte und Heilsgeschehen. Zur Kritik der Geschichtsphilosophie, pp. 508-509. 7 sinora è andato sotto il nome di politica, e a cui seguirà ogni genere di cataclismi fisici e politici: Avremo degli sconvolgimenti, uno spasimo di terremoti, monti e valli che si spostano, come mai prima si era sognato […] tutti i centri di potere della vecchia società salteranno in aria – sono tutti fondati sulla menzogna: ci sarà guerra, come mai prima sulla terra. (EH, KSA, 6, 366) Il brano si conclude con un proclama nel quale diagnosi storico-politica e destino personale tornano ad identificarsi: «Solo a partire da me ci sarà sulla terra grande politica» (ibid.). Date le premesse poste nel brano, si deve concludere che la visione nietzschiana della politica, anzi della grande politica, è interamente determinata dalla posizione nei confronti della morale. Politica è la lotta per lo smantellamento della morale; questo smantellamento passa, in primo luogo, attraverso la separazione delle passioni dall’ornamento (Aufputz) morale che viene loro applicato, in modo che, tramite esse, torni a parlare direttamente la natura. In un frammento (9[75]) dell’autunno 1887 Nietzsche scrive: Un periodo in cui ripugnano le antiche mascherate e le acconciature morali (Moral-Aufputzung) delle passioni (Affekte): la natura nuda, in cui le quantità di potenza (Macht-Quantitäten) sono semplicemente riconosciute come decisive (come determinatrici della gerarchia); in cui il grande stile ritorna in auge, come conseguenza della grande passione. (NF, KSA, 12, 375) In altre parole, questa separazione è opera della volontà di potenza, in cui si riconosce l’essenza di una natura nuda12, privata cioè dei falsi orpelli della 12 In un frammento (14[79]) della primavera 1888 che ha per titolo Volontà di potenza/Filosofia e, come una sorta di sottotitolo, «Quanti di potenza. Critica del meccanicismo», Nietzsche sostiene che occorre sbarazzarsi dei «concetti popolari» di «“necessità”» e «“legge”». Essi presuppongono che ogni accadimento si realizzi in virtù della costrizione o della libertà, mentre in natura è determinante soltanto «il grado di resistenza e il grado di prepotere»; ogni pensiero che ponga la natura come qualcosa di diverso dal puro e semplice scontro di quanti di forza (come avviene nell’ipotesi meccanicistica che spiega la natura sulla base del concetto di causa) è un pensiero morale: «Ma noi non portiamo una “moralità” nel mondo per il fatto di fingerlo obbediente» (NF, KSA, 13, 257-258). In un altro frammento (14[81], Critica del concetto di “causa”) dello stesso 8 morale. Riconoscere questa natura significa essere capaci di grande stile. Volontà di potenza, grande stile, grande passione, grande politica sono espressioni quasi sinonime che stabiliscono tra loro forme di mediazione. La violenza reclamata dalla «guerra degli spiriti» contro la morale è quella stessa violenza con cui gli uomini meglio riusciti sottomettono, innanzitutto, le proprie passioni. Nietzsche identifica questa classe di uomini con gli aristocratici. Già questo basta ad intendere come essi costituiscano per lui una categoria morale e non meramente sociale; la genealogia di questa categoria è infatti ricostruita in Al di là del bene e del male e nella Genealogia della morale. La definizione del typos dell’aristocratico è il risultato della definizione dell’uomo del grande stile, che Nietzsche è venuto man mano costruendo già negli anni precedenti. Non potendo qui soffermarci sull’intero sviluppo di questo concetto, che ha la sua origine già nelle Considerazioni inattuali13, prendiamo in esame almeno il modo in cui esso viene proposto nella Gaia scienza. Qui, nell’af. 290 (Una cosa sola è necessaria), Nietzsche afferma: “Dare uno stile” al proprio carattere: è un’arte grande e rara. L’esercita colui che abbraccia con lo sguardo tutto quanto offre la sua natura in fatto d’energie e debolezze, e che inserisce quindi tutto questo in un piano artistico, finché ogni cosa non appare come arte e ragione, e perfino la debolezza incanta l’occhio. (FW, KSA, 3, 530) È in ciò implicita una violenza, e un atto di arbitrio, a cui corrisponde una passione che è il segno delle nature dominatrici: Infine, quando l’opera è compiuta, si rivela che fu la costrizione imposta da uno stesso gusto a dominare e a plasmare nel grande come periodo Nietzsche parla di «quanti di energia (Kraft-Quanta) la cui essenza consiste nell’esplicare potenza su tutti gli altri quanti di energia» (NF, KSA, 13, 261). Circa il fatto che questa natura della volontà di potenza come scontro di quanta di forza, e dunque come principio plurale, smentisca l’interpretazione heideggeriana della stessa volontà di potenza come principio unico posto a fondamento del reale, e dunque come ens metaphyisicum, cfr. W. Müller-Lauter, Nietzsche-Interpretationen I. Über Werden und Wille zur Macht, Berlin-New York, De Gruyter, 1999, pp. 38-44. Rimando inoltre al mio Nietzsche, Madrid, Biblioteca Nueva, 2004, pp. 380-393. 13 Rimando, per questo, di nuovo al mio Nietzsche, cit., pp. 115-124. 9 nel piccolo: se il gusto era buono o cattivo, ha meno importanza di quel che si pensi – è sufficiente che esso sia un gusto unitario! Saranno le nature forti e dominatrici a godere in una tale costrizione, in una tale vincolata disciplina e compiutezza sotto una propria legge, la loro gioia più sottile; la passionalità del loro possente volere (die Leidenschaft ihres gewaltigen Wollens) si addolcisce allo spettacolo di ogni natura stilizzata, di ogni natura vinta e ridotta in servitù. (Ibid.) In un frammento (14[61]) della primavera del 1888, intitolato “Musica” e il grande stile, Nietzsche descrive la grandezza di un artista come la sua capacità di grande stile, che ha in comune con la «grande passione» «il fatto che disdegna di piacere, che dimentica di persuadere, che comanda, che vuole». Quel che segue è la definizione compiuta del grande stile: «Dominare il caos che si è, costringere il proprio caos a diventare forma: a diventare logico, semplice, univoco, matematica, legge»14. Nietzsche definisce gli uomini capaci di ciò «uomini della violenza» (Gewaltmenschen): «intorno ad essi si forma un deserto, un silenzio, una paura come di fronte a un grande sacrilegio» (NF, KSA, 13, 247). Il contesto in cui Nietzsche colloca l’espressione Gewaltmenschen indica chiaramente come egli derivi il termine da Burckhardt15. Questo Gewaltmensch ha i tratti inconfondibili del tiranno rinascimentale – del Gewaltherrscher – tratteggiato da Burckhardt nella prima parte della Civiltà del Rinascimento in Italia, intitolata Lo Stato come opera d’arte (Der Staat als Kunstwerk), in cui l’agire soggettivo e 14 Gioverà anche solo accennare al fatto che attorno a questo concetto ruota, per buona parte, l’interpretazione heideggeriana della volontà di potenza come arte; cfr. M. Heidegger, Nietzsche, cit., vol. I, pp. 146-162. 15 Nella seconda parte del frammento citato (14[61]), Nietzsche si chiede: «Perché un musicista non ha mai costruito finora come l’architetto che creò il Palazzo Pitti?» (NF, KSA, 13, 247). In un frammento (11[197]) della fine di agosto del 1881 aveva esplicitato la sua fonte: «“Evitare tutto quanto è grazioso e piacevole, come un uomo violento che disprezza il mondo (als ein weltverachtender Gewaltmensch)” dice Jacob Burckhardt vicino a Palazzo Pitti» (NF, KSA, 9, 520). Ancora, successivamente, in un frammento (25[117]) della primavera 1884: «Si è considerato “impersonale” ciò che era l’espressione delle persone più possenti (Jacob Burckhardt con buon istinto davanti a Palazzo Pitti). “Uomo della violenza” (Gewaltmensch)» (NF, KSA, 11, 44). Entrambi i passi rimandano al Cicerone, in cui Burckhardt scrive, a proposito di Brunelleschi e di Palazzo Pitti: «Viene naturale la domanda chi fosse quest’uomo dispotico, spregiatore del mondo (der weltverachtende Gewaltmensch), che grazie ai mezzi di cui disponeva, cercava di tenersi lontano da tutto ciò che fosse piacevole e leggiadro» (J. Burckhardt, Der Cicerone. Eine Einleitung zum Genuss der Kunstwerke Italiens, vol. I, in Gesammelte Werke, vol. IX, Basel, Schwabe, 1958, p. 149). 10 arbitrario del signore diviene forma oggettiva nello Stato: «L’illegittimità, circondata da continui pericoli, isola il tiranno: l’alleanza più onorevole ch’egli possa stringere, è quella degli uomini superiori, senza riguardo alla loro origine». Delegittimato al governo dalla propria origine, spesso umile, il tiranno rinascimentale trova nell’arte la propria, nuova, legittimazione: «Assetato di gloria e desideroso di trionfi e di monumenti, egli apprezza l’ingegno e se ne giova. Col poeta e con l’erudito si sente sopra un terreno nuovo, e quasi in possesso di una nuova legittimità»16. La capacità di legittimarsi attraverso l’arbitrio e la capacità artistica sono, per Nietzsche, i tratti essenziali dell’aristocratico. La figura burckhardtiana del Gewaltherrscher fornisce il modello di un’aristocrazia della Kultur capace di un esercizio della bellezza per il quale le masse non hanno intelligenza. Il proclama di Ecce homo – «non parlo mai alle masse» – ha il senso di una dichiarazione politica in quanto si richiama ad una presa di posizione estetica: è il punto, in altre parole, in cui il grande stile si traduce in grande politica, e rende quest’ultima comprensibile solo sulla base del primo17. A riprova di ciò, consideriamo il modo in cui Nietzsche spiega l’origine dello Stato nella seconda dissertazione della Genealogia della morale. Esso è il risultato di uno spaventoso atto di arbitrio, «meccanismo stritolatore e senza scrupoli», grazie al quale una «materia grezza di popolo e di semianimalità» viene impastata e, finalmente, «dotata di una forma». Gli autori di questa violenza sono descritti con parole volutamente crude: Un qualsiasi branco d’animali da preda (Raubthiere)18, una razza di conquistatori e di padroni che, guerrescamente organizzata e con la forza di organizzare, pianta senza esitazione i suoi terribili artigli su 16 J. Burckhardt, Die Kultur der Renaissance in Italien. Ein Versuch, in Gesammelte Werke, vol. III, Basel, Schwabe,1955, p. 5. 17 Così Heidegger, sebbene non sul fondamento di un’analisi prettamente politica: «Il grande stile può essere creato soltanto con la grande politica, e la grande politica ha l’intima legge della sua volontà nel grande stile» (Nietzsche, cit., vol. I, p. 185). 18 Il testo tedesco ha in realtà irgend ein Rudel blonder Raubthiere, e cioè: «un qualsiasi branco di biondi animali da preda». Il passo sta dunque in analogia con la «bionda bestia germanica» della prima dissertazione della Genealogia della morale (GM, KSA, 5, 275 e 276). 11 una popolazione forse enormemente superiore di numero, ma ancora informe, errabonda. In questo modo ha inizio sulla terra lo “Stato”. (GM, KSA, 5, 324) In maniera tacita, Nietzsche indica il suo contrappunto polemico; come sempre, Rousseau: «Penso che sia liquidata quella fantasticheria che lo [sc. lo Stato] faceva cominciare con un “contratto”» (ibid.). E, sempre in maniera tacita, indica anche il suo riferimento; che è, ancora una volta, Burckhardt. L’opera di questi dominatori «è un’istintiva plasmazione di forme, espressione di forme»; essi sono «gli artisti più spontanei, più inconsapevoli che esistano» (GM, KSA, 5, 325). Insomma, un concreto richiamo alla formula burckhardtiana dello Staat als Kunstwerk. E, se ci fosse bisogno di una verifica, pochi passi dopo Nietzsche chiama i creatori dello Stato «artisti della violenza» (Gewalt-Künstler) (ibid.): termine che è un calco evidente del Gewaltmensch e del Gewaltherrscher di Burckhardt. Qui, però, assistiamo nuovamente al modo in cui tematica politica e tematica estetica figurano intrecciate, e sostanzialmente coincidenti, con la tematica morale. Quella stessa «forza attiva» che spinge i Gewalt-Künstler ad edificare Stati li spinge anche a crearsi la «cattiva coscienza» e ogni ideale negativo. Questa forza attiva è l’«istinto della libertà» – «(per esprimermi nel mio linguaggio: la volontà di potenza)» (GM, KSA, 5, 326). Sia detto per inciso, se politica e morale sono per Nietzsche due risvolti dello stesso problema, la Genealogia della morale – insieme magari ad Al di là del bene e del male – è l’autentico libro politico (sia pure con tutte le limitazioni accennate all’inizio) di Nietzsche. La libera creazione della cattiva coscienza è il risultato dell’applicazione a se stessi della «natura plasticamente formatrice e tirannica», della «segreta tirannide su se stessi», della «crudeltà di artisti». E questo risultato può essere colto come bellezza, anzi come «la bellezza». Una bellezza, dunque, che si discrimina come tale in riferimento ad altri stati interni (perciò estetica e morale si trovano a coincidere) avvertiti come brutti: 12 Che cosa, infatti, sarebbe “bello”, se prima la contraddizione non fosse divenuta cosciente a se stessa, se prima il brutto non avesse detto a se stesso: “Io sono brutto”? (Ibid.) La distinzione bello/brutto (nel suo duplice senso estetico e morale) è insomma il risultato di una dimidiazione del sé che ha la sua ragione nella smisurata forza, libertà, generosità e grandezza d’animo riconosciute ai dominatori. Vale a dire, è un trasferimento al soggetto «uomo» in generale («lo stesso uomo, il suo intero, animalesco, antico sé», ibid.) di quel sentimento che, letto in questo caso nel suo significato sociale, nell’ultimo capitolo di Al di là del bene e del male (Che cos’è aristocratico?) e nella prima dissertazione della Genealogia della morale, Nietzsche definisce come pathos della distanza (Pathos der Distanz). È questo il sentimento che definisce la natura dell’aristocratico. Questo tema ci dà conferma, innanzitutto, della sostanziale unità della riflessione nietzschiana. Pur nella diversità degli argomenti, può esser fatto ancora valere come un essenziale avvertimento metodologico quanto Nietzsche aveva affermato nella Filosofia nell’epoca tragica dei Greci, dichiarando la propria indifferenza ai primordi della filosofia «poiché ovunque inizio significa rozzezza, mancanza di forma, vuoto e bruttezza, e poiché in ogni campo hanno importanza soltanto gli stadi superiori» (PHG, KSA, 1, 806). Non ha un senso diverso l’affermazione che si legge in Al di là del bene e del male: «La classe aristocratica è stata sempre, in principio, la casta barbarica» (JGB, KSA, 5, 206). Il che significa, tenendo presente quanto detto sopra a proposito dei Gewalt-Künstler, che la forma presuppone sempre l’informe come condizione e continua a conservarlo, per così dire, nella propria ombra. Come conferma la Genealogia della morale: Sono le razze nobili ad aver lasciato su tutte le loro orme la nozione di “barbaro”, ovunque siano esse passate; il loro superiore livello di cultura tradisce ancora una consapevolezza di questo fatto e persino un orgoglio a questo riguardo. (GM, KSA, 5, 275) 13 Ciò che determina lo scarto tra forma e mancanza di forma è il pathos della distanza. E forma è in questo caso, innanzitutto, la forma della vita sociale: una società «che crede in una lunga scala gerarchica e in una differenziazione di valore tra uomo e uomo, e che in un certo senso ha bisogno della schiavitù» (JGB, KSA, 5, 205). Gli aristocratici sono dunque gli autori della prima forma sociale. Senza questa originaria manifestazione esteriore, senza questa dimidiazione di fatto, non potrebbe prodursi quella interiore dimidiazione, di cui si è detto più sopra, che si traduce in termini specificamente morali. Se il pathos della distanza non nascesse innanzitutto «dalla incarnata diversità delle classi, dalla costante ampiezza e altezza di sguardo con cui la casta dominante considera sudditi e strumenti», non potrebbe nascere neppure «quel desiderio di un sempre nuovo accrescersi della distanza all’interno dell’anima stessa» (ibid.). Siamo con ciò di fronte ad un rovesciamento per cui il supposto primato nietzschiano della morale sulla politica si rivela in realtà come primato della politica? Non proprio. Già l’accenno all’altezza di sguardo, nel brano appena citato, è rivelatorio. Nietzsche non usa qui – o, piuttosto, non presume di usare – argomenti politici, ma psicologici o fisiologici. La continuità che si stabilisce tra Al di là del bene e del male e la Genealogia della morale riguardo al tema dell’aristocratico porta all’evidenza l’autentico interesse che muove Nietzsche alla stesura di questi due testi. Il secondo è l’esito inevitabile del primo, e l’obiettivo finale della ricerca – secondo quanto Nietzsche afferma nella Prefazione della Genealogia della morale – è l’esposizione dei suoi «pensieri sull’origine dei nostri pregiudizi morali» (GM, KSA, 5, 248)19. Questa esposizione inizia, di fatto, con l’analisi dell’origine del 19 Va da sé che l’inizio di questa ricerca può essere spostato molto all’indietro. Di fatto, come Nietzsche stesso afferma nella Prefazione alla Genealogia della morale, almeno fino a Umano, troppo umano. Questa precisazione gli serve anche per prendere le distanze dall’amico di quel tempo, Paul Rée, del cui libro sull’Origine dei sentimenti morali (1877) egli ammette, in definitiva, un’influenza su Umano, troppo umano, dichiarando che da quel «libriccino chiaro, pulito e accorto, pure saputello» gli era venuto l’impulso a manifestare le sue prime ipotesi «sulla genesi della morale» (fase che corrisponde, appunto, a Umano, troppo umano); ma dichiarando anche, con postuma fermezza: «Forse non ho mai letto nulla, cui dentro di me avessi detto a tal punto no, frase per frase, conclusione per conclusione, come a questo libro» (GM, KSA, 5, 250). 14 concetto di buono contenuta in Al di là del bene e del male, basata sull’essenziale distinzione tra una «morale dei signori» e una «morale degli schiavi»: Le differenziazioni morali di valore sono sorte o in mezzo a una stirpe dominante, che con un senso di benessere acquistava coscienza della propria distinzione da quella dominata – oppure in mezzo ai dominati, gli schiavi e i subordinati di ogni grado. (JGB, KSA, 5, 208-209) La designazione di buono è il modo in cui il dominatore avverte se stesso, attraverso i propri sentimenti («gli stati di elevazione e di fierezza dell’anima»), come appartenente al grado più alto della gerarchia. Qui è all’opera il pathos della distanza, espressione in cui il termine pathos sta ad indicare il sentire se stesso, proprio dell’aristocratico, come determinato dalla distanza: «L’uomo nobile separa da sé quegli individui nei quali si esprime il contrario di tali stati d’elevazione e di fierezza – egli li disprezza» (JGB, KSA, 5, 209). Sul lato opposto, quello della morale degli schiavi, vengono messi in luce quelle qualità «che servono ad alleviare l’esistenza ai sofferenti»: «la pietà, la mano compiacente e soccorrevole, il calore del cuore, la pazienza, l’operosità, l’umiltà, la gentilezza» (JGB, KSA, 5, 211). Nel complesso, una visione negativa dell’umanità, «forse una condanna dell’uomo unitamente alla sua condizione» (ibid.). Per conseguenza, solo la morale aristocratica può essere una morale positiva, che rivendica con orgoglio a se stessa una visione affermativa dell’uomo in generale. Solo gli aristocratici possono chiamare se stessi «“Noi veritieri”» (“Wir Wahrhaftigen”): «così i nobili chiamavano se stessi nell’antica Grecia» (JGB, KSA, 5, 209). Su questo punto si innesta, con maggior precisione e ricchezza di argomenti, l’analisi della prima dissertazione della Genealogia della morale. Richiamandosi a Teognide di Megara, definito «portavoce» (Mundstück) dell’aristocrazia greca, Nietzsche osserva come l’aristocratico greco chiamasse se stesso ejsqlovı, ossia «qualcuno che è, che ha realtà, che è reale, che è vero». All’opposto, i termini 15 kakovı e deilovı designano «il plebeo in contrapposizione all’ajgaqovı» come mentitore e codardo (GM, KSA, 5, 263). Nietzsche riproduce qui, pressoché alla lettera, la posizione della silloge teognidea. E, anzi, riprende i temi già svolti nella Dissertatio de Theognide Megarensi, l’esercitazione con cui, nel 1864, si era congedato dal “ginnasio” di Pforta. In essa egli osservava come Teognide discriminasse una parte del popolo come «toùs agathoùs ossia gli ottimati, gli uomini dabbene, depositari di tutto il culto religioso (omnis erga deos religio pietasque)», e un’altra come «toùs kakoùs o deiloùs, gravati di ogni perversione morale, di ogni empietà e scelleratezza» (KGW, I/3, 455). Teognide illumina insomma «illam superbam Doriensis nobilitatis persuasionem» (KGW, I/3, 459), che soltanto la nuova oligarchia del denaro, nutrita dei patrimoni accumulatisi con i proventi dei traffici marittimi, scalza dal potere minando quei valori (la «erga deos religio pietasque») dei quali l’aristocrazia era stata fondatrice e custode. Una polemica antiborghese, quella di Nietzsche, che si fa carico di tutte le ambiguità del caso, non esclusa l’esaltazione dell’origine ariana di ogni aristocrazia di contro all’origine pre-ariana della classe plebeo-borghese. Ambiguità che diventa esplicito segno ideologico quando lo sguardo passa dalla Grecia inattuale agli imminenti destini dell’Europa: Chi ci garantisce che la moderna democrazia, l’ancor più moderno anarchismo, e specialmente quella tendenza alla “commune”, alla forma più primitiva di società, che è oggi comune a tutti i socialisti d’Europa, non debba significare essenzialmente un enorme contraccolpo – e che la razza dei conquistatori e dei signori, quella degli ariani, non sia per soccombere anche fisiologicamente? (GM, KSA, 5, 264). Si tratta di un evidente venir meno, da parte di Nietzsche, alla propria dichiarazione di impoliticità, alla necessità di guardare alla politica da una prospettiva inattuale per poterne recuperare il senso autentico. È questo smottamento della impoliticità ad essere, in Nietzsche, propriamente politico. Ma 16 si tratta, anche, di quella inevitabile resa dei conti con la storia che ogni pensiero, per quanto inattuale, deve affrontare come un destino. Ed è, alla fine dei conti, grazie anche a queste inconciliabili contraddizioni che leggere Nietzsche, e comprenderlo, ci si presenta ancora oggi come un compito del pensiero. Carlo Gentili 17