INDICE INTRODUZIONE....................................................................................................................3 CAPITOLO I IL PROBLEMA DEI FINI DELLA CARCERAZIONE PREVENTIVA 1. Le finalità della carcerazione preventiva nel diritto intermedio.........................................7 2. L'Illuminismo e il principio di “stretta necessità”............................................................10 3. Progressi e riflussi: il carcere preventivo nello Stato liberale..........................................14 4. Lineamenti della carcerazione preventiva nel codice Rocco...........................................21 CAPITOLO II I PRINCIPI COSTITUZIONALI: LIBERTA' PERSONALE E PRESUNZIONE DI NON COLPEVOLEZZA 1. L'art. 13 Cost. e il suo “vuoto di fini”. ............................................................................31 2. La presunzione di non colpevolezza come parametro teleologico dell'art 13 Cost..........36 3. Oltre la custodia ante iudicatum?.....................................................................................42 4. Custodia preventiva e ragionevole durata del processo...................................................44 5. Le prospettive teleologiche elaborate dalla dottrina.........................................................47 5.1. Esemplarità e sedazione dell'allarme sociale.............................................................47 5.2. Finalità endoprocessuali............................................................................................50 5.3. Prevenzione speciale.................................................................................................52 6. Le esigenze cautelari nella Convenzione europea dei diritti dell'uomo...........................59 CAPITOLO III INTERVENTI LEGISLATIVI E GIURISPRUDENZIALI TRA “EMERGENZA” E SPIRITO RIFORMATORE 1. 1955-1974: la “stagione del garantismo”.........................................................................65 2. 1974-1982: custodia preventiva e difesa sociale nella “stagione dell'emergenza”..........72 2.1. Il d.l. n. 99 del 1974 e le prime aperture della giurisprudenza costituzionale alla finalità di prevenzione speciale............................................................................................74 2.2. La legge Reale e le sentenze nn. 88 del 1976 e 1 del 1980.......................................73 2.3. La legge Cossiga e la sentenza n. 15 del 1982..........................................................85 3. Oltre l'emergenza: verso il nuovo codice.........................................................................89 1 CAPITOLO IV L'ESIGENZA DI PREVENZIONE SPECIALE NEL NUOVO CODICE DI PROCEDURA PENALE 1. La codificazione della finalità specialpreventiva.............................................................99 1.1. Dalla legge delega del 1974 al testo definitivo dell'art. 274.1 lettera c)...................99 1.2. Le modifiche introdotte dalla legge n. 332 del 1995...............................................106 2. Automatismi cautelari e presunzioni di pericolosità sostanziale...................................112 2.1. L'art. 275.3...............................................................................................................112 2.2. L'art. 275.3 al primo vaglio della Corte costituzionale...........................................114 2.3. I nuovi automatismi introdotti dalla l. 128/2001.....................................................116 2.4. (segue)...e dal d.l. 11/2009. Le sentenze costituzionali nn. 265 del 2010 e 164 del 2011....................................................................................................................................120 3. I vari elementi della fattispecie disciplinata dall'art. 274.1 lett. c), alla luce dell'elaborazione giurisprudenziale....................................................................................125 3.1. Il concetto di pericolosità accolto dall'art. 274. Il rapporto con le misure di sicurezza. ............................................................................................................................................125 3.2. Il quantum di pericolosità........................................................................................128 3.3. Gli indici sintomatici della pericolosità. Il ruolo dei precedenti.............................130 3.4. La nozione di delitti della stessa specie...................................................................133 CAPITOLO V L'ESIGENZA DI PREVENZIONE SPECIALE E LE GARANZIE DI CONTESTO 1. Il ruolo della motivazione...............................................................................................135 2. Il fattore temporale.........................................................................................................138 2.1. Tutela della collettività e ragionevole durata del processo......................................138 2.2. Ragionevole durata della custodia cautelare...........................................................140 3. Le condizioni di detenzione...........................................................................................143 BIBLIOGRAFIA................................................................................................................147 2 INTRODUZIONE L'ultimo consistente intervento novellistico in materia cautelare, risalente ad oltre quindici anni fa (l. 332/1995), ha molto ridimensionato il dibattito sulle possibili giustificazioni della custodia cautelare alla luce del dettato costituzionale – in particolar modo dei principi affermati negli articoli 13 (inviolabilità della libertà personale) e 27.2 Cost. (presunzione di non colpevolezza). Nella prassi giurisprudenziale si tende addirittura ad accettare, quale insolubile aporia del sistema, che la detenzione ante iudicium rappresenti, in concreto, un'anticipazione della pena, resa necessaria dall'inefficienza del sistema processuale. In effetti, il tempo occorrente per giungere ad un accertamento definitivo di responsabilità determina lo spostamento del baricentro del processo penale verso il procedimento cautelare, i cui strumenti tendono ad essere surrettiziamente impiegati in funzione surrogatoria di quelli tipici del momento sanzionatorio. Ne consegue che quella pena certa, pronta, e perciò utile e giusta, teorizzata nell'età dei Lumi da Cesare Beccaria, lascia spesso spazio ad una pena anticipata, contrastante con i principi costituzionali e incapace di assolvere le necessarie funzioni della sanzione penale, irrogata in esito all'accertamento contenuto nella sentenza definitiva di condanna. La rilevanza crescente del procedimento cautelare deriva anche dalla periodica riemersione, nel tessuto sociale, di istanze securitarie, che non di rado trovano sponda nella legislazione, attraverso provvedimenti, giustificati da un richiamo spesso pretestuoso al concetto di emergenza, che comportano significative limitazioni alle garanzie della persona indagata o imputata. L'effetto di questa tendenza è il progressivo spostamento del confine fra prevenzione e repressione. In tale contesto, è evidente la centralità, tra le esigenze cautelari codificate nell'art. 274 c.p.p., della finalità di prevenzione speciale. Il cosiddetto “terzo scopo”, oggetto degli strali della dottrina più sensibile alle istanze garantiste, che, soprattutto a partire dagli anni Settanta – in concomitanza, dunque, con l'avvio di una stagione legislativa di ben diversa ispirazione – ne aveva denunciato l'inconciliabilità con i principi costituzionali, tende ad avere un ruolo preponderante nella concreta dinamica applicativa delle misure cautelari privative della libertà personale. Proprio la legislazione emergenziale, giustificata dalla necessità di arginare il fenomeno terroristico, ha determinato la progressiva emersione normativa della finalità allora definita di 3 “tutela della collettività”, che già permeava, benché inespressa, la disciplina del vecchio codice Rocco, fondato sul presupposto ideologico della prevalenza delle istanze di difesa sociale sui diritti dell'imputato, e, di conseguenza, sulla negazione della presunzione di non colpevolezza. Un ruolo significativo in tale processo si deve, peraltro, anche alla Corte costituzionale, la cui giurisprudenza sulla custodia preventiva, in virtù di un'ambiguità forse inizialmente non voluta ma rivelatasi poi particolarmente utile, ha fornito un autorevole avallo alla codificazione del terzo scopo nel nuovo codice di procedura penale. Ad accentuare il rilievo operativo dell'esigenza di prevenzione speciale hanno contribuito, in anni più recenti, le modifiche apportate al testo dell'art. 275 c.p.p., e in particolare il meccanismo presuntivo previsto dal suo terzo comma che, nell'esimere di fatto il giudice dalla verifica dell'effettiva sussistenza di esigenze cautelari, tende a valorizzare proprio la funzione di difesa sociale della custodia cautelare. Per quanto inserita in un contesto antitetico rispetto a quello del codice Rocco e ricondotta dal legislatore entro limiti apparentemente rigorosi, l'esigenza cautelare specialpreventiva continua ad esporsi a critiche che sono sostanzialmente di tre ordini. La più frequente si fonda sul riconoscimento dell'impossibilità di scindere il giudizio di pericolosità, che è alla base di tale esigenza cautelare, da un giudizio anticipato di responsabilità, e prospetta, dunque, un insanabile contrasto con la presunzione di non colpevolezza. Da una seconda prospettiva, si mette in luce la carenza di tassatività di una disposizione, come quella dell'art. 274.1 lettera c), che, nonostante i rimaneggiamenti novellistici, continua a configurarsi come fattispecie aperta, incapace di fornire un effettivo vincolo alla discrezionalità dell'applicatore e, dunque, suscettibile di vanificare le altre garanzie su cui si fonda il procedimento cautelare. Tale rilievo spiega, in parte, anche la connotazione sanzionatoria assunta dalla custodia cautelare: proprio la scarsa tassatività della fattispecie considerata consente che, nella prassi, attraverso il pericolo di commissione di reati facciano ingresso finalità atipiche, non consentite o addirittura espressamente escluse dal codice. Mentre il pericolo d'inquinamento probatorio, infatti, ha per previsione normativa una durata circoscritta e il pericolo di fuga richiede un maggiore sforzo argomentativo, il terzo scopo, per la vaghezza dei suoi presupposti e l'astrattezza della prognosi su cui si fonda, presenta una latitudine applicativa poco definita, prestandosi, oltretutto, a giustificare le detenzioni più lunghe. La critica più radicale mossa all'esigenza di prevenzione speciale, peraltro, travalica in un certo senso le precedenti, poiché si basa sul riconoscimento di un'incompatibilità logica, 4 prima ancora che giuridica, della custodia cautelare con il principio di giurisdizionalità (nulla poena sine iudicio), il quale, identificando nell'accertamento lo scopo del processo, esclude la possibilità di qualsiasi trattamento coincidente, sul piano afflittivo, con quello sanzionatorio. Tale prospettiva, senz'altro opinabile con riferimento alle esigenze autenticamente cautelari, che mirano a preservare lo scopo stesso del procedimento (e in ragione di ciò si può ritenere che giustifichino il temporaneo sacrificio della libertà personale), appare meno discutibile per quanto concerne il pericolo di commissione di reati; la finalità di prevenzione speciale, infatti, esprime un'esigenza estranea all'accertamento della responsabilità dell'imputato, e rientra, invece, tra le finalità della sanzione penale, che segue e presuppone quell'accertamento. Tali considerazioni, tuttavia, si scontrano non solo con il dettato normativo e con la prassi giudiziaria nazionale, ma anche con le indicazioni della Convenzione europea dei diritti dell'uomo. Gli artt. 273 e 274 c.p.p., infatti, pongono vincoli assai più stringenti di quelli ricavabili dalla poco felice formulazione dell'art. 5.1 Cedu, nell'interpretazione fornitane dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, la quale, oltre ad aver affermato la piena legittimità dello scopo di prevenzione speciale e avallato il meccanismo presuntivo previsto dall'art. 275.3 c.p.p., ha enucleato una quarta esigenza cautelare, identificata nella sussistenza di un pericolo per l'ordine pubblico. Pertanto, essendo poco plausibile l'ipotesi di una eliminazione dell'esigenza specialpreventiva dal tessuto normativo, non resta che spostare l'attenzione sugli strumenti che possono in vario modo contenerne la latitudine operativa. Da questo punto di vista, se sul piano della legislazione nazionale un ruolo significativo è svolto dall'obbligo motivazionale, sancito dalla Costituzione come imprescindibile componente del complesso di garanzie poste a tutela della libertà personale e minuziosamente disciplinato dal codice di rito, a livello sovranazionale la Corte di Strasburgo ha posto l'accento soprattutto sulla ragionevole durata della custodia cautelare, sottolineando che sia il rispetto dei termini di durata che la sussistenza di legittime esigenze cautelari non sono sufficienti a impedire la violazione della Convenzione europea dei diritti dell'uomo quando il procedimento si protragga per un tempo eccessivo rispetto alla sua concreta complessità. 5 6 CAPITOLO I IL PROBLEMA DEI FINI DELLA CARCERAZIONE PREVENTIVA 1. Le finalità della carcerazione preventiva nel diritto intermedio. La prima significativa analisi dell'istituto della carcerazione preventiva e delle sue finalità si colloca nel contesto della riflessione svolta dagli illuministi sui sistemi processuali penali vigenti negli stati europei del Settecento, eredi di una tradizione che trova origine nei secoli medievali e sulla quale è opportuno soffermarsi brevemente, in considerazione del fatto che «la storia delle restrizioni della libertà personale ante iudicatum affonda le proprie radici nella stessa origine del fenomeno processuale»1. Mentre nel diritto romano la detenzione preventiva, sempre possibile per gli schiavi, era per gli uomini liberi un'eventualità eccezionale, collegata alla confessione resa dall'imputato 2 e, dunque, attuabile solo in ragione dell'elevata probabilità di giungere ad un giudizio di colpevolezza3, nel periodo medievale, caratterizzato dall'assenza di una chiara distinzione tra la figura dell'imputato e quella del colpevole, la carcerazione preventiva diventa la regola. Tale fenomeno si manifesta chiaramente a partire dalla fine del XIII secolo: in questo periodo, sulla giustizia negoziata e privatistica della prima fase dell'esperienza comunale, per la quale il delitto non era altro che un'offesa privata che esigeva solo una soddisfazione per la vittima, prevale una giustizia dai caratteri egemonici. Il potere politico, compresa l'importanza del diritto penale quale strumento di governo, inizia ad interessarsene; di conseguenza, il delitto viene concepito come un'offesa recata anche alla collettività, e comincia a farsi strada l'idea che l'azione penale, almeno per i reati più gravi, deve essere pubblica e condotta da funzionari delegati dall'autorità politica4. Nel XVI secolo la concezione autoritativa della giustizia penale soppianta definitivamente quella comunitaria e negoziata; ne è segno l'adozione di un processo penale concepito per il nemico, cioè per la persecuzione dell'eterodossia religiosa e dell'opposizione 1 DI CHIARA G., Libertà personale dell'imputato e presunzione di non colpevolezza, in FIANDACA G.-DI CHIARA G., Una introduzione al sistema penale. Per una lettura costituzionalmente orientata, Napoli, 2003, p. 308; FERRAJOLI L., Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, Bari, Laterza, 1996, nota 28, p. 646. 2 Il termine “imputato” sarà spesso usato in senso lato, come comprensivo anche della situazione della persona indagata. 3 DE LUCA G., Lineamenti della tutela cautelare penale. La carcerazione preventiva, Padova, Cedam, 1953, p. 12, in nota; PISAPIA G., Orientamenti per una riforma della custodia preventiva nel processo penale, in Aa. Vv., Criteri direttivi per una riforma del processo penale, Milano, Giuffrè, 1965, p. 91. 4 SBRICCOLI M., Giustizia criminale, in Lo Stato moderno in Europa. Istituzioni e diritto, a cura di M. Fioravanti, Bari, Laterza, 2002, pp. 165-169; SORRENTINO T., Storia del processo penale. Dall'Ordalia all'Inquisizione, Catanzaro, Rubettino, 1999, p. 133. 7 politica radicale. Nasce così, insieme alla giustizia egemonica di apparato, il processo di tipo inquisitorio, modellato sul processo romano-canonico5, nel quale alla denuncia segue ordinariamente l'arresto dell'accusato, affinché l'autorità possa disporne nel corso del procedimento. Nei sistemi processuali vigenti tra XIII e XVIII secolo, dunque, la cattura dell'imputato perde progressivamente il suo carattere di eccezionalità, per diventare naturale conseguenza dell'avvio dell'istruttoria, sulla base di una concezione chiaramente ispirata al principio in dubio contra libertatem6; alla funzione, prettamente cautelare, insita nella carcerazione preventiva conosciuta dal diritto romano – volta ad assicurare l'esecuzione della pena 7 –, si sostituiscono ora due funzioni principali: una istruttoria, diretta ad ottenere dall'imputato la conferma dell'ipotesi accusatoria, e una punitiva, per cui si vuole che l'accusato, ritenuto già parzialmente colpevole sulla base dei soli indizi da cui ha preso le mosse l'accusa, possa espiare la sua colpa, e giudicarsi da sé.8 Archetipo delle forme storicamente assunte dalla detenzione preventiva, appare, nel XIII secolo, l'istituto dell'aprise: privazione della libertà originata dal semplice sospetto e finalizzata ad ottenere in primo luogo il consenso dell'accusato all'inchiesta, non ancora iniziata, quindi la sua confessione. Le modalità di esecuzione dell'aprise coincidono sostanzialmente con quelle di espiazione della pena, e anzi diventano talora anche più aspre, allo scopo di fiaccare la volontà dell'imputato e renderlo docile strumento nelle mani dell'autorità. Tale istituto è stato ritenuto «la sorgente di una rivoluzione completa nella procedura criminale le cui linee di tendenza modellano, da allora, gli istituti formali di giustizia in funzione di una repressione generalizzata» 9. La radicazione della custodia preventiva nei sistemi processuali continentali sarà tale che neanche il pensiero illuminista riuscirà a condurre la propria critica contro tale istituto fino al punto da rinnegarne ogni possibile giustificazione e propugnarne quindi la totale abolizione; e ciò ne consentirà l'ingresso nei codici e nelle prassi contemporanee. 10 Merita notare che l'aprise, frutto del consolidamento di autorità politiche vocate ad estendere il proprio raggio d'azione su tutti i gangli vitali della società, nasce anche con lo scopo di tutelare, a discapito dei diritti individuali, gli interessi collettivi dell'ordine pubblico e della pace sociale 11: si tratta di 5 SBRICCOLI M., op. cit., p. 182; ALESSI G., voce Processo penale (dir. interm.), in Enc. Dir., XXXVI, p. 371 ss.. 6 GREVI V., Libertà personale dell’imputato e Costituzione, Milano, Giuffrè, 1976, pp. 3-4. 7 DE LUCA G., op. cit., p. 13, in nota. 8 PISAPIA G., op. cit., p. 91; FOUCAULT M., Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Torino, Einaudi, 1993, pp. 45-46. 9 SORRENTINO T., op. cit., p. 139. 10 FERRAJOLI L., op. cit., nota 28, p. 563. 11 SORRENTINO T., op. cit., p. 140. 8 interessi che verranno riconosciuti come affatto estranei allo scopo del processo penale, ma dai quali quest'ultimo stenta tutt'ora ad affrancarsi. Tra l'esperienza tardo-comunale e quella degli Stati assoluti vi è una sostanziale continuità per quanto riguarda la struttura del processo penale, nonché i presupposti e le finalità dell'instaurazione dello status detentivo dell'imputato. Nel processo inquisitorio, ormai modellato sui tratti salienti dell'Inquisizione romana, la cattura – divenuta la regola per determinati reati – aveva l'immediato scopo di assicurare la persona dell'imputato agli inquirenti; ma la disponibilità dell'accusato non esauriva le funzioni della carcerazione, che era quasi sempre la premessa per ulteriori e più incisive lesioni della sua libertà personale12. Sulla base di determinati indizi, alla cui raccolta era preordinata l'inquisizione generale, era possibile restringere, senza limiti di tempo, la libertà personale dell'imputato attraverso il mandatum de capiendo, che apriva l'inquisizione speciale13. Gli elementi di prova necessari e sufficienti per imprigionare l'imputato, così come quelli su cui poteva fondarsi la condanna, erano regolati sulla base di una “aritmetica penale”14 disciplinata minuziosamente – in modo da garantire e amplificare la segretezza e l'inconoscibilità della procedura –, ma al tempo stesso manipolabile e fluida nella sua consistenza, fatta in larga parte della semplice vox populi15. L'obiettivo principale dell'istruttoria – scritta, segreta e condotta da magistrati al contempo inquirenti e giudicanti – era quello di ottenere dall'imputato ridotto in vinculis la confessione; se necessario, attraverso la tortura. Nella logica inquisitoria, scopo del processo è penetrare nella coscienza dell'imputato e raggiungere la “verità”16; perciò la macchina istruttoria, pur capace di produrre verità in assenza dell'accusato (attraverso il calcolo combinatorio degli indizi e delle prove legali), mira a ottenere quella che per secoli sarà considerata la “prova regina”, cioè la confessione, suggello orale dei risultati di un meccanismo scritto, e autentica vittoria sull'imputato, che da sé medesimo si giudica17 (nonché utile mezzo per precludergli l'appello contro la sentenza18). La carcerazione preventiva, dunque, era il mezzo per ottenere dall'imputato la prova della sua reità, ed era perciò il «presupposto ordinario dell'istruzione, basata essenzialmente sulla disponibilità del corpo dell'accusato quale mezzo per ottenerne la confessione per 12 GREVI V., Libertà personale dell’imputato e Costituzione, Milano, Giuffrè, 1976, p. 24; AMATO G., Individuo e autorità nella disciplina della libertà personale, Milano, Giuffrè, 1967, p. 60 e 70. 13 SALVIOLI G., Storia della procedura civile e criminale, in P. DEL GIUDICE, Storia del diritto italiano, Milano, Hoepli, 1927, III, p. 358. 14 FOUCAULT M., op. cit., p. 40. 15 AMATO G., op. cit., pp. 65-66; SALVIOLI G., op. cit., p. 359; FOUCAULT M., op. cit., p. 41. 16 ALESSI G., voce Processo penale (dir. interm.), in Enc. Dir., XXXVI, p. 377. 17 FOUCAULT M., op. cit., p. 43. 18 ALESSI G., voce Processo penale (dir. interm.), in Enc. Dir., XXXVI, p. 377. 9 tormenta»19. Ma la restrizione della libertà individuale e la tortura, oltre che strumento, erano già fine in sé: l'afflittività era dunque uno scopo, e non solo una conseguenza, della carcerazione preventiva. Incisivo è stato in proposito l'influsso della Chiesa, cagione di una ambigua e duratura sovrapposizione tra peccato e reato che impregna di contenuto penitenziale la sanzione penale e la stessa procedura. Se l'imputato-peccatore deve pentirsi del male commesso, è soprattutto nel processo che ciò può e deve avvenire 20: perciò la detenzione, subita spesso in condizioni tali da farne già una forma di tortura, e poi i supplizi cui veniva sottoposto il corpo dell'accusato miravano non solo all'accertamento della verità, ma anche alla mortificazione del corpo, necessaria per purgarsi del peccato.21 Nella tortura, dunque, «si mescolano un atto istruttorio ed un elemento di punizione» 22; il che, evidentemente, è possibile (benché non possa ritenersi sussistente un'autentica e consapevole presunzione di reità23) sul presupposto dell'assenza di una chiara distinzione tra accusato e colpevole24. Nel processo inquisitorio tardo-medievale e d'ancien régime l'imputato assume, infatti, l'ambigua, ancipite figura di imputato-reo. Ne consegue che il semplice indizio, di per sé insufficiente a fondare un giudizio di colpevolezza, non lascia il sospettato innocente, ma ne fa un semicolpevole, in quanto tale meritevole di una certa dose di punizione25, che viene inflitta attraverso la carcerazione e la tortura, al contempo mezzo di prova e pena. 2. L'Illuminismo e il principio di “stretta necessità”. Nel contesto dell'ampia e articolata critica, mossa in nome della ragione nei confronti della tradizione d'ancien régime, si innesta la polemica degli illuministi contro i sistemi processuali penali vigenti negli Stati europei alla fine del XVIII secolo. Fulcro di tale polemica è l'esigenza di legalità, che si vuole affermare in contrapposizione agli arbitrii e alla brutalità delle pratiche criminali. In seno a tale discorso, parallelamente all'elaborazione del principio della presunzione di non colpevolezza, si svolge un'analisi critica dello strumento della carcerazione preventiva 19 FERRAJOLI L., op. cit., p. 562. 20 DE LUCA G., loc. ult. cit. 21 PISAPIA G., op. cit., pp. 91-92; AMATO G., op. cit., pp. 70-71. 22 FOUCAULT M., op. cit., 1993, p. 45. 23 ILLUMINATI G., La presunzione d’innocenza dell'imputato, Bologna, Zanichelli, 1979, p. 14; v. anche AMATO G., op. cit., pp. 179-180, dove si evidenzia che la confusione tra imputato e colpevole era la conseguenza e non la premessa del trattamento processuale dell'imputato, trattamento dovuto al fatto che non fosse avvertito il problema di una limitazione dei poteri dell'autorità inquirente nei confronti dell'accusato. 24 PAULESU P.P., La presunzione di non colpevolezza dell'imputato,Torino, Giappichelli, 2009, nota 81, p. 33. 25 FOUCAULT M., op. cit., p. 45. 10 e di quelli che si ritiene possano essere, alla luce di quel principio, i presupposti della sua applicabilità e, soprattutto, le sue finalità. Unanime è la condanna dell'uso indiscriminato di tale istituto e della barbarie delle pratiche ad esso connesse; ma la critica degli illuministi, per quanto accesa, non giunge mai a propugnarne la radicale abolizione. La carcerazione preventiva, da contenere e limitare entro rigorosi presupposti, resta pur sempre, come dirà Francesco Carrara alla fine del XIX secolo, un' «ingiustizia necessaria»26. Ciò, peraltro, offusca solo in parte il merito che va riconosciuto all'età dei lumi per aver riaffermato l'esigenza di una legalità sostanziale, rispettosa di quelli che erano considerati diritti naturali degli individui, e per avere condannato la disumanità delle pratiche criminali. Invocando una rinnovata laicità del processo penale e sostenendo che «[u]n uomo non può chiamarsi reo prima della sentenza del giudice»27, gli illuministi escludono, anzitutto, che il trattamento dell'imputato possa essere connotato da finalità punitive, e quindi che la detenzione preventiva possa avere lo scopo di anticipare la pena. Essi riconoscono, tuttavia, la sostanziale identità afflittiva tra la detenzione in corso di processo e la detenzione subita in sede di esecuzione della condanna; e perciò ritengono che alla custodia preventiva dovrà farsi ricorso solo quando strettamente necessario. Viene così elaborato il principio di “stretta necessità”, in base al quale la libertà personale può essere sacrificata solo quando ciò sia richiesto da esigenze irrinunciabili e nella misura minima necessaria per far fronte a tali esigenze 28: tale principio, che sarà parzialmente espresso, non a caso contestualmente all'affermazione della presunzione d'innocenza, nell'articolo 9 della Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino del 1789 29, sarà poi ripreso, un secolo dopo, dal pensiero liberale. Ristabilito il processo come luogo dell'accertamento, fondato sulla legalità e non più sull'arbitrio, sancito il principio nulla poena sine iudicio, gli illuministi invocano dunque una rigorosa limitazione, sia nei presupposti che nella durata, della carcerazione preventiva. Nell'affermazione di questa esigenza di limitazione si annida un passaggio fondamentale. Il potere di restringere la libertà personale dell'imputato, nel processo d'ancien régime, non era assoluto, ma era soggetto a una disciplina – quella forgiata sulla logica degli indizi e delle 26 CARRARA F., Immoralità del carcere preventivo, in Opuscoli di diritto criminale (1870-1874), IV, Firenze, Fratelli Cammelli, 1909. 27 BECCARIA C., Dei delitti e delle pene (1764), a cura di A. Burgio, XII ed., Milano, Feltrinelli, 2007, p. 60. 28 Qui possono intravedersi le origini del principio del minimo sacrificio necessario, codificato attualmente negli artt. 275 e 277 c.p.p.. 29 «Tout homme étant présumé innocent jusqu’à ce qu’il ait été déclaré coupable, s’il est jugé indispensable de l’arrêter, toute rigueur qui ne seroit pas nécessaire pour s’assurer de sa personne, doit être sévèrement réprimée par la Loi.» 11 prove legali – piuttosto rigorosa; tale disciplina, tuttavia, si limitava a individuare un limite esterno ed esprimeva una forma di legalità meramente formale, che regolava l'esercizio del potere senza tuttavia porvi un argine di carattere contenutistico legato ai diritti dell'imputato. Non era presente, cioè, il moderno concetto sostanziale di limite, che individua non solo presupposti e finalità ma anche quei beni ritenuti in ogni caso insuscettibili di lesione. 30 Tale concetto emerge con l'illuminismo: l'individuo, ricostituito soggetto di diritto, riconosciuto detentore di diritti innati, non può più essere mero strumento per il raggiungimento della verità; quei diritti, perciò, vanno ad integrare il limite interno e sostanziale della detenzione preventiva. Le posizioni sono eterogenee, quindi diverse sono le esigenze che concretizzano, secondo i vari autori, il concetto di “stretta necessità”; ma rilevante è il fatto che per la prima volta si indaghi sulle finalità ritenute idonee a giustificare la carcerazione preventiva. Ne scaturirà un dibattito che non può ancora dirsi interamente placato. Delle varie posizioni espresse dagli illuministi merita prendere in considerazione, in particolare, quelle di Cesare Beccaria, Gaetano Filangieri e Francesco Mario Pagano. Beccaria affronta il tema del carcere preventivo nel capitolo XIX di Dei delitti e delle pene, intitolato alla «prontezza della pena». Si tratta di una collocazione significativa, che esprime un nesso ancora estremamente attuale, se è vero che il principale ostacolo ad un uso effettivamente eccezionale della custodia cautelare resta tutt'ora la difficoltà del processo penale di pervenire all'accertamento in tempi tali da garantire che la pena sia vicina al reato commesso e perciò «tanto più giusta e tanto più utile» 31. Alcune decisive considerazioni, peraltro, sono già espresse nel capitolo dedicato alla tortura, nel quale l'illuminista lombardo traccia i contorni della presunzione di non colpevolezza: «Un uomo non può chiamarsi reo prima della sentenza del giudice, né la società può togliergli la pubblica protezione, se non quando sia deciso ch'egli abbia violati i patti coi quali le fu accordata. Quale è dunque quel diritto, se non quello della forza, che dia la podestà ad un giudice di dare una pena ad un cittadino, mentre si dubita se sia reo o innocente? […] o il delitto è certo o incerto; […] se è incerto, e' non devesi tormentare un innocente, perché tale è secondo le leggi un uomo i di cui delitti non sono provati.»32 Le conseguenze in tema di libertà personale dell'imputato sono quasi scontate: «la 30 AMATO G., op. cit., pp. 72-73. 31 BECCARIA C., op. cit., p. 67. 32 BECCARIA C., op. cit., p. 60. 12 privazione della libertà essendo una pena, essa non può precedere la sentenza se non quando la necessità lo richiede»33. Compare, dunque, il riferimento alla necessità, cui segue l'ulteriore specificazione che la custodia «essendo sostanzialmente penosa, deve durare il minor tempo possibile e dev'essere meno dura che si possa» 34. Con estrema chiarezza Beccaria delinea i termini del principio di “stretta necessità”, per poi pronunciarsi su quelle che ritiene essere le uniche finalità che possono integrare tale necessità («[l]a strettezza della carcere non può essere che la necessaria, o per impedire la fuga, o per non occultare le prove dei delitti» 35): il pericolo di fuga e il pericolo di inquinamento delle prove sono gli unici scopi che possono giustificare la detenzione in corso di giudizio, secondo il principale esponente dell'illuminismo italiano, che nega, quindi, ogni legittimità alla finalità di difesa sociale. Su posizioni simili si attesta anche Gaetano Filangieri. L'accesa polemica da lui condotta contro la procedura inquisitoria vigente nei paesi dell'Europa continentale si salda ad un'apologia del diritto romano che, rispettoso della libertà personale dei cittadini, consentiva la custodia in carcere nel corso del processo solo per gravi delitti, nel caso vi fosse il pericolo di fuga dell'imputato, e comunque con modalità non «indegn[e] di un innocente» 36. Nella sua opera principale, “La scienza della legislazione”, il giurista partenopeo si rivolge ai legislatori d'Europa, invitandoli a recarsi nelle carceri dove «l'innocenza si trova confusa col delitto» 37, per prendere coscienza delle condizioni disumane in cui si trovano i reclusi e della necessità di una riforma della legislazione. Tale riforma, secondo Filangieri, dovrebbe trarre spunto proprio dal diritto romano: alla cattura, perciò, si dovrebbe fare ricorso solo «quando l'accusato non volesse obbedire alla citazione, o quando la gravezza del delitto, o la sua condizione priva di domicilio e di onore, lo rendesse sospetto di fuga»38. Merita, inoltre, sottolineare l'attenzione posta da Filangieri sull'esigenza di custodire gli imputati in luoghi separati dalle carceri ordinarie: non solo perché «[u]n uomo ch'è accusato, finché non è convinto di averlo commesso, non deve perdere il diritto all'opinione pubblica», ma anche per evitare «il contatto del delitto coll'innocenza», poiché «[u]n accusato non è sempre reo, ma può divenirlo con questo contagio pestifero»39. Le odierne statistiche sui tassi di recidivanza – molto più elevati per i condannati che scontano l'intera pena in carcere che 33 BECCARIA C., op. cit., p. 68. 34 BECCARIA C., loc. utl. cit. 35 BECCARIA C., loc. utl. cit. 36 FILANGIERI G., La scienza della legislazione (1780-1788), Milano, Società tipografica de' classici italiani, 1822, pp. 68-70. 37 FILANGIERI G., op. cit., p. 73. 38 FILANGIERI G., op. cit., p. 82. 39 FILANGIERI G., op. cit., pp. 82-83. 13 per quelli ammessi a misure alternative40 – dimostrano quanto fosse fondata l'intuizione del filosofo napoletano. Più cauta, infine, è la posizione di Mario Pagano, il quale, nel proporre il proprio progetto di riforma, esclude in ogni caso la custodia preventiva nel caso dei reati puniti con la reclusione fino a tre anni, prevede la libertà con malleveria per quelli puniti con la reclusione fino a dieci anni, ma consente la carcerazione preventiva per i reati più gravi, puniti con pena superiore ai dieci anni, pur ammettendo la possibilità di sostituire il carcere con la custodia nel domicilio dell'accusato41. Pagano non manca di sottolineare la necessità di riformare le carceri, in modo da renderle «sicura custodia, e non immatura pena dell'accusato» 42, ma mostra poi di accogliere solo parzialmente il principio della presunzione d'innocenza; il suo auspicio per un contenimento della carcerazione preventiva, infatti, non gli impedisce di rimarcare «quanto pericolo sia lasciar liberi que' famosi rei, i quali non sono dalla piena pruova convinti» 43, e di legittimare il carcere preventivo sul solo fondamento della gravità del reato di cui si ipotizza la commissione. In conclusione, mentre Beccaria e Filangieri, al pari di molti altri illuministi, circoscrivono l'uso della detenzione cautelare alle sole esigenze processuali, Mario Pagano allarga il perimetro della “stretta necessità” all'esigenza di difesa sociale, aprendo così la strada alla finalità di prevenzione speciale; lo seguirà, un secolo dopo, Francesco Carrara.44 3. Progressi e riflussi: il carcere preventivo nello Stato liberale. Erede della cultura illuminista, il pensiero liberale, nel cui solco s'inserisce la Scuola che fu detta classica, ne condivide lo sforzo di razionalizzazione e umanizzazione del diritto penale sostanziale e processuale, nonché l'idea di una maggiore incidenza dei diritti individuali rispetto al potere della pubblica autorità. Tale idea si salda, nella dottrina liberale, al principio retributivo – che la Scuola classica pone tra i fondamenti del diritto penale –, in base al quale la pena è la necessaria retribuzione del male compiuto attraverso il reato45. La priorità logica dei diritti soggettivi, e in particolare della libertà personale, implica, 40 Secondo uno studio relativo al periodo 1998-2005, il tasso di recidivanza sarebbe del 86,45 % tra coloro che hanno scontato l'intera pena in carcere, mentre solo del 19 % tra quanti hanno goduto di misure alternative, v. http://www.carcereaperto.it/giuridico/Indultorecidiva.pdf. 41 PAGANO M., Considerazioni sul processo criminale, Napoli, 1787, pp. 165-172. 42 PAGANO M., op. cit., p. 166. 43 PAGANO M., op. cit., p. 154. 44 FERRAJOLI L., op. cit., p. 563. 45 MANTOVANI F., Diritto penale, Padova, Cedam, 2007, p. 547. 14 come si è già visto, un limite alle restrizioni di tale libertà da parte dell'autorità pubblica, restrizioni che il principio retributivo legittima solo dopo l'accertamento della responsabilità penale. Nel corso del processo, quindi, la detenzione è possibile solo se depurata da ogni connotazione sanzionatoria e giustificata dalla “stretta necessità” 46; il dibattito si svolge tutto intorno alla questione dell'esatta determinazione dei fini e della durata della carcerazione preventiva. «Immoralità del carcere preventivo» è il significativo titolo dato da Carrara a un breve scritto nel quale, sulla scia delle riflessioni settecentesche, egli stigmatizza l'abuso della custodia prima della condanna, rassegnandosi però ad accogliere la tesi che si tratti pur sempre di una «ingiustizia necessaria». Ritorna con forza, nelle pagine di Carrara, il richiamo alla necessità. Quattro sono, secondo l'autore, le ragioni che costituiscono «la sola giustificazione possibile di quella ingiustizia», la quale «non è tollerabile, ed è un atto di vera tirannide dove cessano le anzidette ragioni»47; la carcerazione preventiva potrebbe profilarsi come necessaria per interrogare l'imputato «ad ogni bisogno dell'istruzione» (ma «questa ragione cessa quando i costituti sono esauriti»); per «raggiungere la verità, togliendo allo imputato i mezzi di subornare od intimidire i testimoni, o distruggere le vestigia e le prove del suo reato» (ma anche «questa ragione cessa quando il processo è compito»); per «la sicurezza, affinché lo imputato non abbia potestà, pendente il processo, di continuare nei suoi delitti» (necessità che viene meno «quando trattasi di reati commessi per una occasione o passione speciale che non offre i caratteri dell'abitualità»); infine, «per raggiungere la pena, affinché il reo non si sottragga alla medesima con la fuga» (ragione che però non sussiste «quando trattasi di reati ai quali è minacciata una punizione che è proporzionalmente meno grave del bando perpetuo dalla patria»).48 Due aspetti meritano particolare attenzione. In primo luogo, il fatto che Carrara evidenzi l'effetto criminogeno della detenzione preventiva, abitualmente scontata in carceri promiscue, dove gli imputati si mescolano ai condannati; perciò, nel proporre una riforma della carcerazione preventiva, egli ne invoca, oltre che la riconduzione al principio di stretta necessità, anche modalità di applicazione tali da non farne «tirocinio di pervertimento morale»: il che può avvenire, come già aveva proposto Filangieri, istituendo carceri 46 AMATO G., op. cit., p. 181. 47 CARRARA F., op. cit., p. 312. 48 CARRARA F., loc. ult. cit.; queste quattro finalità sono ridotte a tre nel Programma del corso di diritto criminale. 15 giudiziarie separate dalle carceri penali.49 Il secondo aspetto rilevante è la chiara presa di posizione di Carrara a favore della finalizzazione della custodia cautelare in chiave di prevenzione speciale. A fianco di funzioni legate alle esigenze del processo – l'accertamento, l'esecuzione dell'eventuale condanna –, l'autore colloca la necessità di «sicurezza», cioè di prevenire il compimento di delitti, da parte dell'imputato, nel corso del processo. Questa impostazione si trova delineata anche nel Programma del corso di diritto criminale, dove Carrara ammette che la custodia preventiva possa essere ordinata anche «per bisogno di pubblica difesa», cioè «per impedire a certi facinorosi di continuare pendente il processo nei loro attacchi al diritto altrui» 50. Insomma, il principio di “stretta necessità” non si declina come “stretta necessità processuale”, ma ricomprende anche la finalità, di natura sostanziale, di difesa della collettività. Tutta la dottrina liberale, in realtà, muove dalla constatazione che la limitazione della libertà personale degli imputati sia un'ingiustizia, ma pur sempre un'ingiustizia necessaria, una dolorosa necessità. Se ne stigmatizza l'abuso, che ne fa una «ingiustizia perché per sospetti troppe volte fallaci si reca lo scompiglio nelle famiglie, e si privano della loro libertà cittadini spesso onestissimi»51, ma non se ne pone mai in discussione l'utilità. E questo anche perché le ragioni dell'ordine, della difesa sociale, sono ben radicate nella cultura liberale, sicché il pur convinto sostegno alla presunzione di non colpevolezza non impedisce che la custodia preventiva sia tranquillamente intesa, oltre che come garanzia dell'accertamento e dell'esecuzione della pena, anche come «misura di sicurezza»52. Il punto di vista dei giuristi liberali è quello dell'innocente; a ben vedere, il problema dell'abuso del carcere preventivo diventa tangibile solo quando «mette in pericolo anche la libertà del galantuomo»53. Le istanze riformiste della cultura liberale, comunque, stentano ad incidere sul piano legislativo. Nel 1848 viene promulgato, nel Regno di Sardegna, lo Statuto albertino, che proclama, all'articolo 26, che «la libertà individuale è guarentita». Lo Statuto è però una 49 CARRARA F., op. cit., pp. 315-317. 50 CARRARA F., Programma del corso di diritto criminale. Parte generale (1859-1870), Firenze, Fratelli Cammelli, 1907, p. 395. 51 CARRARA F., op. cit., p. 312. 52 La tripartizione scandita nel Programma di Carrara («1° bisogno di giustizia; per impedire la fuga del reo – 2° bisogni di verità; per impedirgli d'intorbidare le ricerche dell'autorità, distruggere le vestigia del delitto, intimidare i testimoni – 3° bisogno di pubblica difesa [...]») è ripresa da Faustin Hélié, che indica la custodia preventiva come «une mésure de sureté, une garantie de l'exécutione de la peine, et un moyen d'instruction» (HÉLIÉ F., Traité de l'instruction criminelle ou Théorie du code d'instruction criminelle , vol. V, Paris, Hingray, 1853, p. 748). 53 LACCHÉ L., La giustizia per i galantuomini. Ordine e libertà nell'Italia liberale: il dibattito sul carcere preventivo (1865-1913), Milano, Giuffrè, 1990, p. 45. 16 costituzione flessibile, non sovraordinata rispetto alla legge ordinaria, e quindi incapace di porre a quest'ultima un effettivo vincolo contenutistico. Entro questa cornice va quindi letta la pur significativa proclamazione dell'articolo 26, che prosegue affermando che «[n]iuno può essere arrestato o tradotto in giudizio, se non nei casi previsti dalla legge e nelle forme che essa prescrive». I diritti individuali consacrati dal pensiero illuminista e liberale fanno parzialmente ingresso tra i valori riconosciuti dall'ordinamento albertino, ma pur sempre attraverso una tecnica normativa che ne rimette indiscriminatamente la disciplina alla legge. 54 Ciò non toglie che l'immediato riferimento alla situazione dell'imputato indichi una sintonia dello Statuto con le dottrine liberali, il cui punto di vista in materia di libertà personale è appunto quello dell'imputato; può dirsi, quindi, che lo Statuto contenga un implicito richiamo al criterio della stretta necessità, suggerendone l'applicazione nell'interpretazione della legge ordinaria.55 Tuttavia, l'assenza di una definizione precisa e vincolante del contenuto della libertà personale consentirà alla prassi legislativa di svuotare di significato il dettato costituzionale.56 La modesta evoluzione della disciplina della carcerazione preventiva nel corso dell'Ottocento e fino al codice di procedura penale del 1913, che segnerà l'apice della recezione delle istanze liberali, prima dell'avvento del fascismo e del codice Rocco, si deve al fatto che alle proposte di riforma della scuola classica si oppone l'inerzia delle antiche strutture, improntate ad una sostanziale equiparazione tra imputato e colpevole e alla commistione tra finalità cautelari e finalità punitive. Nel codice di procedura penale sardo del 1859, la disciplina della carcerazione preventiva è del tutto svincolata da necessità strettamente processuali; nella dialettica tra autorità e libertà, che nel del processo penale ha il suo luogo d'elezione, è decisamente il primo polo a prevalere. Il mandato di cattura, infatti, è previsto come obbligatorio per tutti i reati qualificati come crimini, nonché per i recidivi e per gli imputati appartenenti ad una serie di categorie sociali stigmatizzate dalla legge (oziosi, vagabondi, mendicanti e «sospetti»); nei casi in cui è previsto come facoltativo, il mandato di cattura diventa comunque d'obbligo ove l'accusato non adempia all'ordine di comparizione, e può inoltre essere emesso qualora durante l'interrogatorio emergano circostanze sfavorevoli all'inquisito57. La carcerazione preventiva, inoltre, non ha limiti di tempo, e le ipotesi di libertà provvisoria sono molto limitate. 54 AMATO G., op. cit., p. 171. 55 AMATO G., op. cit., p. 172. 56 LACCHÉ L., op. cit., pp 12-13. 57 Artt. 182-184 c.p.p. 1859. 17 La custodia cautelare appare giustificata dalla necessità di condurre davanti al giudice l'imputato in vinculis, per sottoporlo a interrogatorio: si legge infatti all'articolo 181 che «[i]l mandato di cattura è l'atto che ordina di procedere all'arresto dell'imputato, e di farlo tradurre nelle carceri per essere interrogato»; ma tale esigenza, frutto di una persistente contaminatio tra le due figure dell'imputato e del colpevole 58, «sta e cade con un sistema nel quale la libertà personale non ha ancora iniziato ad essere un bene commisurabile con i “desiderata” dell'autorità»59. Nell'ampio uso della carcerazione preventiva consentito dal codice del 1859 è ravvisabile anche una finalizzazione dell'istituto in chiave di prevenzione generale 60, in un'ottica di disciplinamento della società, in cui si inscrive anche il disfavore espresso nei confronti di oziosi, vagabondi, mendicanti e sospetti, che si trasmetterà nei codici di rito successivi, giustificato sulla base dell'ambiguo concetto, elaborato dal positivismo criminologico, di pericolosità sociale.61 Qualche progresso si registra nel primo codice di procedura penale post-unitario, quello del 1865, che parzialmente mitiga le asprezze del codice precedente. Il mandato di cattura è ora definito come «l'atto che ordina di procedere all'arresto dell'imputato, e di farlo tradurre nelle carceri per essere interrogato […] o perché il corso dell'istruzione rende necessaria la sua detenzione»62. L'introduzione di un richiamo alle necessità istruttorie, tuttavia, non ha alcun effetto limitativo sull'uso della carcerazione preventiva: non ancora affrancato dall'identificazione tra imputato e colpevole63, il codice del 1865 continua a concepire tale istituto principalmente come un mezzo di interrogatorio64, lasciato all'arbitrio del giudice istruttore. Non mancano, comunque, alcune significative innovazioni, legate alla notevole riduzione dell'area del mandato obbligatorio e alla previsione di una Camera di Consiglio, con il compito di convalidare i mandati e decidere sulla libertà provvisoria, ora concedibile in un più ampio spettro di ipotesi. L'istituzione della Camera di Consiglio, in particolare, cioè di un organo deputato a ordinare la scarcerazione del prevenuto qualora risultassero insufficienti gli indizi raccolti, segna la fondamentale trasformazione della libertà personale da valore sostanzialmente metagiuridico in valore positivo65; tuttavia, di fronte al permanere della trasformazione del 58 DE LUCA G., op. cit., p. 14, in nota. 59 AMATO G., op. cit., p. 185. 60 LACCHÉ L., op. cit., p. 31. 61 AMATO G., loc. ult. cit. 62 Art. 181 cpp 1865. 63 AMATO G., op. cit., p. 187. 64 DE LUCA G., loc. ult. cit. 65 AMATO G., op. cit., pp. 169 e 187. 18 mandato di comparizione rimasto inattuato in mandato di cattura e all'indiscriminata rimessione alla facoltà del giudice del potere di emettere il mandato di cattura, l'istituzione della Camera di Consiglio non sarà un ostacolo sufficiente al perdurare di un'atteggiamento giurisprudenziale improntato al principio dell'in dubio contra libertatem66. Il criterio della “stretta necessità” fa ingresso nella disciplina positiva del processo penale solo con la legge di riforma del 187667, che rende facoltative gran parte delle limitazioni della libertà personale prima obbligatorie, impone alcuni trattamenti di favore prima facoltativi e aumenta le ipotesi in cui può essere concessa la libertà provvisoria. Grazie a tale intervento normativo, la trasformazione, auspicata già dagli illuministi, del carcere preventivo da regola in eccezione, può dirsi realizzata sul piano legislativo 68. Tuttavia, la portata della riforma va letta anche alla luce dei criteri utilizzati, nella prassi giudiziaria, per legittimare il ricorso al carcere preventivo. Il richiamo alla sicurezza pubblica e alla condizione di immoralità di alcuni soggetti (oziosi, vagabondi, persone sospette, imputati di ribellione, resistenza, oltraggio alla pubblica autorità) rivela, infatti, oltre ad una logica classista, il permanere, negli interstizi di una disciplina apparentemente più avanzata, di un disegno politico funzionale alla tutela dell'ordine sociale69. Insomma, «la vecchia logica richiedente la prevalenza nel processo di interessi pur estranei alle esigenze processuali continuava a valere, con toni anzi ancora più accentuati a proposito dell'interesse il più gelosamente custodito dagli ordinamenti costituzionali del secolo scorso [XIX secolo]: la sacertà del pubblico potere»70. Questa logica è ben presente nelle posizioni della Scuola positiva, che vede nel delitto non l'espressione di una libera volontà ma la manifestazione necessitata di determinate cause fisiche e psichiche; il concetto di retribuzione, caro alla Scuola classica, viene soppiantato da quello di prevenzione; l'accento viene posto sul concetto di pericolosità sociale e quindi la funzione del processo è letta in una preminente chiave di difesa sociale71. I positivisti muovono da una radicale negazione della presunzione di non colpevolezza, che ritengono vada eliminata o almeno fortemente limitata, e, nel conflitto tra l'interesse pubblico alla repressione dei reati e l'interesse privato dell'accusato, si schierano nettamente a 66 GREVI V., op. cit., nota 19, p. 7; AMATO G., op. cit., p. 189. Nel suo scritto sull'Immoralità del carcere preventivo, Francesco Carrara affermava che «il codice di procedura penale del 1865 ha fatto della custodia preventiva il più intollerabile abuso, estendendola ai più lievi e insignificanti reati con universale lamento» 67 AMATO G., op. cit., p. 191; LACCHÉ L., op. cit., p. 90. 68 GREVI V., op. cit., p. 9; AMATO G., op. cit., p. 193. 69 LACCHÉ L., op. cit., pp. 93-94. 70 AMATO G., loc. ult. cit.. 71 MANTOVANI F., op. cit., p. 549. 19 favore del primo.72 Di conseguenza, essi ritengono che il carcere preventivo debba tornare ad essere la regola, cioè l'ordinaria conseguenza dell'inizio dell'istruttoria. «La detenzione preventiva non è poi quell'istituto barbaro, incompatibile con la civiltà, destinato ad essere progressivamente limitato ed infine soppresso del tutto, come predicarono alcuni retori o sofisti di quelli che sogliono guardare grettamente e dal solo punto dell'individualismo, tutt'i problemi sociali. A coloro che ripetono la solita vuota ed assurda frase della presunzione d'innocenza fino alla condanna definitiva, rispondo che molte volte il giudizio è anticipato e la condanna pronunziata dal tribunale della pubblica opinione». 73 Queste parole di Raffaele Garofalo sintetizzano la posizione della Scuola positiva in merito alla carcerazione preventiva. Abbandonato il principio della “stretta necessità”, nel pensiero positivista l'istituto perde ogni riferimento alle esigenze processuali e viene ricondotto ad una logica schiettamente preventiva, nella quale assumono rilievo, oltre all'esigenza di impedire all'imputato la commissione di reati ulteriori, anche la funzione di repressione esemplare e quella di placare l'allarme sociale procurato dall'illecito, dando adeguata soddisfazione al sentimento pubblico.74 Rinnegando le istanze razionaliste e legalitarie dell'illuminismo, i positivisti riesumano la logica del sospetto, ritenuto parametro sufficiente a giustificare la lesione della libertà individuale, e pongono l'accento, con scarso rigore scientifico, sulla personalità del (presunto) delinquente; giungendo persino a suggerire di sottoporre l'imputato a perizia, nel corso dell'istruttoria, per stabilirne le caratteristiche psichiche e il grado di pericolosità, in modo da meglio garantire la difesa della collettività.75 Insomma, nel pensiero positivista il processo penale dovrebbe trasformarsi «da istituzione disciplinata entro un'ottica garantista in uno strumento interamente polarizzato sulla “difesa sociale”, una formula che […] si presta a rappresentare come universali quegli interessi che in realtà sono particolari e propri degli assetti sociali dominanti».76 La prospettiva liberale continua comunque ad affermarsi, nonostante le spinte contrarie dei positivisti, raggiungendo la sua massima esplicazione nel codice di procedura penale del 1913. Vi si trovano riconosciuti, infatti, sia la presunzione di non colpevolezza che il criterio della stretta necessità, i quali non restano solo sul piano delle dichiarazioni di principio, ma 72 ILLUMINATI G., op. cit., p. 16. 73 GAROFALO R., La detenzione preventiva, in La scuola positiva, 2, 1892, p. 199, citato in LACCHÉ L., op. cit., p. 133. 74 DI CHIARA G., op. cit., p. 309; LACCHÉ L., op. cit., p. 135. 75 LACCHÉ L., op. cit., p. 137. 76 DOMINIONI O., La presunzione d'innocenza, in Le parti nel processo penale, Milano, Giuffrè, 1985, p. 223. 20 incidono significativamente sulla disciplina della libertà personale dell'imputato77. Anzitutto, il mandato di cattura rimane obbligatorio solo per una esigua minoranza di ipotesi, mentre per tutti i reati puniti con pena detentiva non inferiore nel minimo a tre anni si prevede la cattura facoltativa; inoltre, viene ulteriormente estesa la portata operativa della libertà provvisoria. Ma l'innovazione più rilevante è l'introduzione della scarcerazione automatica per decorrenza dei termini. Tale istituto, affermando che la libertà personale non può in ogni caso essere compressa oltre un certo limite temporale, sancisce per la prima volta la prevalenza del valore della libertà personale su ogni esigenza contraria; esso, inoltre, implica il rifiuto d'intendere la carcerazione preventiva come pena anticipata, fondata sul mero sospetto, collegandola tendenzialmente a sole funzioni processuali.78 Non mancano, tuttavia, le contraddizioni, frutto di un compromesso tra «vecchie motivazioni e nuovi principi»79. Il codice del 1913 non si affranca completamente dalla logica del sospetto e dal disfavore nei confronti di certe categorie sociali segnate da una presunzione di pericolosità. Il mandato di cattura, infatti, è prescritto come obbligatorio per le persone sottoposte a misure preventive, per quelle senza domicilio o residenza fissa, e per gli imputati già condannati due volte per delitti o anche una sola per un reato della stessa indole. 80 Il riferimento agli oziosi, vagabondi e mendicanti, scomparso dai presupposti per il mandato di cattura obbligatorio, ricompare tra i limiti alla concessione della libertà provvisoria, esprimendo il timore che la tutela della libertà personale possa andare a detrimento dei fini di difesa sociale.81 Infine, proprio nella disciplina della scarcerazione automatica si rivela l'incapacità di aderire fino in fondo al principio di tutela della libertà individuale. L'istituto, infatti, è previsto solo nella fase istruttoria, sicché, mentre la sua introduzione implica l'accoglimento della presunzione d'innocenza, il limite alla sua operatività sta a significare che dopo il rinvio a giudizio quella presunzione viene a cadere; e quindi, nella fase dibattimentale la carcerazione preventiva si ricollega ancora a finalità punitive, di anticipazione della pena, sulla base di una assimilazione tra imputato e colpevole.82 77 Artt. 303-350. 78 GREVI V., op. cit., p. 11; AMATO G., op. cit., p. 198. 79 AMATO G., op. cit., p. 197. 80 AMATO G., loc. ult. cit.; l'autore nota come il riferimento al reato della stessa indole (concetto già comparso nel codice Zanardelli) sia un portato del positivismo criminologico, che determina una «scientificizzazione» delle restrizioni alla libertà personale, sulla base di indici di pericolosità. 81 LACCHÉ L., op. cit., p. 192. 82 GREVI V., op. cit., p. 12; AMATO G., op. cit., p. 198-199. 21 4. Lineamenti della carcerazione preventiva nel codice Rocco. Con l'avvento del fascismo il rapporto tra autorità e libertà torna ad atteggiarsi secondo la logica dell'autoritarismo tradizionale. L'ideologia del regime si fonda sulla premessa che gli interessi collettivi prevalgono in ogni caso su quelli individuali: i diritti e le libertà dei singoli non precedono lo Stato, come aveva sostenuto l'illuminismo, ma discendono da esso, configurandosi come gentili concessioni dell'esecutivo. In tal modo l'esistenza di un conflitto tra Stato e individuo, ineliminabile dalla realtà storica, viene aprioristicamente negata attraverso una sorta di processo di rimozione che si serve anche della concezione fascista di Stato corporativo: gli interessi individuali sono assorbiti in quelli dei corpi intermedi, che sono a loro volta assorbiti nell'interesse superiore dello Stato.83 Dal punto di vista della scienza giuridica, vi è una sostanziale continuità tra la Scuola positiva e la dottrina di epoca fascista, entrambe partecipi di un unitario orientamento politico-giuridico fondato sul principio della difesa sociale, il quale si traduce, in ambito processuale, nella c.d. “teoria unitaria” del processo. Secondo tale teoria il fine del processo, apparentemente duplice (repressione dei reati e difesa dell'innocenza), in realtà si fonde nel concetto di difesa sociale: anche nel processo penale il contrasto tra individuo e Stato è negato formalmente, ma di fatto viene risolto nella prevalenza dell'interesse pubblico sui diritti dell'imputato, che vengono subordinati alla funzione di tutela della collettività, attribuita al rito giudiziario84. Di queste tendenze non poteva non risentire il codice di rito promulgato dal guardasigilli Alfredo Rocco nel 1930, soprattutto per quanto concerne la disciplina della libertà personale dell'imputato. Tra i tratti salienti di tale disciplina sono da rilevare in primo luogo la scomparsa della presunzione di non colpevolezza e del criterio di stretta necessità; in secondo luogo, il diverso peso riconosciuto alla libertà degli individui a seconda delle loro condizioni personali e sociali; infine, l'attribuzione al Pubblico Ministero, gerarchicamente subordinato all'esecutivo, del potere di disporre della libertà personale dell'imputato.85 La legge processuale del 1930 assegna di fatto una funzione polivalente alla carcerazione preventiva, nella cui struttura si riflette il processo di stratificazione storica analizzato in precedenza; ad alcune funzioni, peraltro, viene attribuito un significato 83 GREVI V., op. cit., p. 13; AMATO G., op. cit., pp. 261-266. 84 NOBILI M., La teoria delle prove penali e il principio della «difesa sociale»,in Materiali per una storia della cultura giuridica, IV, Bologna, Il Mulino, 1974, p. 439-441. 85 GREVI V., op. cit., p. 15; AMATO G., op. cit., p. 270. 22 prevalente, in linea con la matrice ideologica del codice.86 Il problema del trattamento processuale dell'imputato, infatti, viene sganciato dal principio della presunzione d'innocenza, e sulle necessità strettamente processuali prevalgono, come fondamento della custodia preventiva, le esigenze di difesa sociale, che la trasformano in una sorta di misura di sicurezza processuale, volta ad espellere dal tessuto sociale individui ritenuti pericolosi o non graditi. L'assenza di una priorità ontologica dell'individuo e dei suoi diritti sugli interessi dello Stato consente anche che dell'imputato si faccia mero strumento per placare l'allarme sociale generato dalla commissione di reati; si ammette, cioè, che la custodia preventiva possa servire anche come risposta politica agli ondeggiamenti del sentimento popolare, al di fuori di qualsiasi legame non solo con il processo ma anche con le istanze della difesa sociale.87 Sono conseguenza di questa impostazione i due aspetti della disciplina codicistica della libertà personale dell'imputato che più marcatamente segnano la decisa inversione di tendenza rispetto alla pur faticosa e lenta affermazione del principio di libertà nei codici liberali; si tratta da un lato del considerevole ampliamento delle ipotesi di cattura obbligatoria, e dall'altro dell'abolizione della scarcerazione automatica, ritenuta «aberrante e insidiosa» perché lesiva dell'interesse pubblico88. La custodia preventiva nel codice del 1930 consiste, dunque, in una privazione della libertà dell'imputato a tempo tendenzialmente indeterminato, che ha titolo in un provvedimento formale dell'autorità giudiziaria, che può assumere la forma del mandato o dell'ordine di cattura, a seconda che sia emesso dal giudice istruttore o dal PM. Gli articoli 253 e 254 elencano le ipotesi nelle quali la cattura è rispettivamente obbligatoria o facoltativa. L'art. 254 si limita a precisare solo che il giudice, nell'esercizio del proprio potere discrezionale, dovrà tener conto delle circostanze del fatto, nonché delle qualità morali e sociali della persona. L'unico presupposto per la cattura, comune alle due ipotesi, è la sussistenza di sufficienti indizi di colpevolezza a carico dell'imputato. Tale presupposto, d'altra parte, è previsto dall'art. 252 con riferimento a tutti gli ordini e mandati, compresi quelli di accompagnamento e di comparizione. Nessun maggior rigore, quindi, è richiesto per 86 PISAPIA G., Orientamenti per una riforma della custodia preventiva nel processo penale, in Aa. Vv., Criteri direttivi per una riforma del processo penale, Milano, Giuffrè, 1965, p. 92. 87 GREVI V., op. cit., pp. 31-32. 88 GREVI V., op. cit., p. 17; la scarcerazione automatica ricompare, in realtà, già nel 1944, con la prima legislazione antifascista, ma solo per i casi di cattura facoltativa, mentre bisognerà attendere fino al 1955 per un'estensione dell'istituto a tutti i casi di custodia preventiva, sia pure con il consistente limite temporale della sola fase istruttoria. 23 procedere alla custodia preventiva dell'imputato di quanto sia previsto per ordinargli semplicemente di comparire; si consente così una scelta, quando il reato non rientri tra quelli di cui all'art 253, tra diverse possibili modalità di chiamata dell'imputato 89, senza che la restrizione della libertà personale dell'imputato sia ancorata a condizioni e a finalità rigidamente determinate. Nella sua impostazione originaria, quindi, il codice Rocco non fornisce alcuna indicazione esplicita in ordine agli scopi della custodia preventiva, che non costituiscono quindi un limite al potere dell'autorità giudiziaria in ordine alla libertà personale dell'imputato, neanche nelle ipotesi in cui l'esercizio di tale potere è rimesso alla discrezionalità del giudice o del PM. E' stato fatto notare90, peraltro, che un richiamo alla classica tripartizione finalistica è ravvisabile negli artt. 282 e 283, che indicano gli obblighi cui l'imputato deve sottostare nel caso di concessione della libertà provvisoria e i fini degli istituti – cauzione e malleveria – surrogatori della carcerazione preventiva: è possibile, infatti, leggervi una esigenza cautelare di tipo processuale («obbedire agli ordini dell'autorità giudiziaria»), una di tipo finale («sottomettersi all'esecuzione della sentenza») e una di prevenzione speciale («non dimorare in un dato luogo o dimorare in comune lontano dai luoghi dove fu commesso il reato o nei quali il denunciante, il querelante o la persona offesa dal reato o alcuno dei suoi prossimi congiunti o lo stesso imputato ha residenza»). Al di là di tali indicazioni, una macroscopica indicazione del modo d'intendere la detenzione preventiva nel codice del 1930 è data dal regime della custodia nelle ipotesi di obbligatorietà della cattura91. Anzitutto tali ipotesi, prive di alcuna interna coerenza in una qualsivoglia prospettiva teleologica, sono accomunate solo da un giudizio di gravità espresso dal legislatore; è da notare come, affianco ad alcune fattispecie di reato connotate da oggettiva gravità o identificate con riferimento ad una pena edittale di un certo spessore, vi siano casi in cui la cattura è prevista come obbligatoria sulla sola base del grado di sospetto gravante sull'imputato. 89 DE CARO A., Libertà personale e sistema processuale penale, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2000, p. 40, in nota. 90 VASSALLI G., Libertà personale dell'imputato e tutela della collettività, in Giust. pen., 1978, I, pp. 27-28. 91 Ai sensi dell'art. 253 la cattura è obbligatoria quando si proceda per un delitto contro la personalità dello Stato per il quale la legge stabilisce la pena della reclusione non inferiore nel minimo a due anni o nel massimo a dieci anni; per omicidio volontario consumato o tentato, lesioni personali volontarie gravi o gravissime, rapina, estorsione o sequestro di persona a scopo di rapina o estorsione; per ogni altro delitto punito con la reclusione non inferiore nel minimo a cinque anni o nel massimo a dieci anni. La cattura, inoltre, è obbligatoria per l'imputato di un delitto non colposo punito con la reclusione che sia stato dichiarato delinquente abituale, professionale o per tendenza. 24 Inoltre, quando la cattura è obbligatoria, non solo, come si è detto, non è previsto alcun limite temporale alla detenzione, ma non è consentita neppure la concessione della libertà provvisoria (art. 277 cpv). La carcerazione può venir meno solo quando siano venute a mancare le condizioni che la legittimavano (art. 269), cioè quando non si ritengano più sussistenti i sufficienti indizi di colpevolezza o quando il capo d'imputazione sia stato modificato nel corso dell'istruttoria e il reato non rientri più tra quelli di cui all'art. 25392. L'obbligatorietà della cattura, dunque, si proietta su tutta la durata del procedimento, senza che a giustificarla vi siano esigenze legate al suo svolgimento. In questo contesto, la custodia preventiva non può che diventare un'anticipazione della pena, fondata sul solo fragile presupposto dei sufficienti indizi di colpevolezza in ordine a reati ritenuti gravi o commessi da persone su cui grava una presunzione di pericolosità93. Speculare è la disciplina prevista per le ipotesi di cattura facoltativa dall'art 254 94: al rigido automatismo dalla cattura obbligatoria si sostituisce, in questi casi, una discrezionalità talmente ampia da scivolare nell'arbitrio. In assenza di qualsiasi riferimento alle esigenze cui può legittimamente essere diretta la cattura facoltativa, l'unica indicazione prevista dall'art. 254, che impone di valutare le qualità morali e sociali dell'imputato e le circostanze del fatto, a parte la sua connotazione classista, resta sostanzialmente priva di significato. Da ciò scaturirà una tendenza della giurisprudenza a fare riferimento, nella valutazione di tali elementi, ai parametri di natura sostanziale dell'art. 133 c.p.: tendenza dalla quale si può dedurre, nella migliore delle ipotesi, la prevalenza di una prognosi sulla pericolosità sostanziale dell'imputato rispetto alla valutazione di esigenze strettamente processuali 95; nella peggiore, l'abitudine a leggere nella custodia preventiva una funzione di vera e propria anticipazione della pena96. In effetti, il silenzio del codice sembra lasciare volutamente una totale libertà di manovra per il magistrato, libero di piegare gli elementi dell'art. 254 in vista 92 Il giudice (o il PM o il pretore) ordina, anche d'ufficio, la scarcerazione dell'imputato «quando vengono a mancare a carico di questi indizi sufficienti, ovvero se risulta che la legge non autorizza il mandato di cattura» (art 269). 93 Il ruolo attribuito al mero sospetto gravante sull'imputato emerge anche dall'art 269, a detta del quale «[s]e la scarcerazione è ordinata per mancanza di sufficienti indizi, ma rimangono motivi di sospetto, può essere imposto all'imputato uno o più tra gli obblighi indicati nell'articolo 282», e cioè la cauzione, la malleveria, il divieto o l'obbligo di dimora. 94 Il mandato di cattura è facoltativo nei casi di delitti non colposi puniti con la reclusione non inferiore nel minimo a un anno o nel massimo a tre; di qualsiasi delitto non colposo punito con la reclusione quando l'imputato è già stato condannato più di due volte per delitto non colposo o anche una sola volta per delitto della stessa indole, oppure non ha residenza fissa nel territorio dello Stato o si è dato o sta per darsi alla fuga; di delitto colposo punito con la reclusione non inferiore nel minimo a due anni o nel massimo a cinque; di contravvenzione punita con l'arresto, quando l'imputato è stato dichiarato delinquente abituale, professionale o per tendenza o contravventore abituale o professionale (art 254). 95 GREVI V., Libertà personale, cit, p. 146. 96 ILLUMINATI G., Presupposti e criteri di scelta delle misure cautelari, in CONSO G. (a cura di), Il diritto processuale penale nella giurisprudenza costituzionale, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2007, p. 390. 25 di qualunque utilizzazione della custodia preventiva, quindi non solo per finalità strettamente processuali ma anche in funzione di prevenzione speciale, di tacitazione dell'allarme sociale, di esemplarità.97 D'altra parte, non essendo previsto alcun obbligo di motivazione per i provvedimenti restrittivi della libertà personale dell'imputato98, queste possibili finalizzazioni, per quanto aberranti e per quanto evidenti nella pratica applicativa dell'istituto, erano destinate a rimanere inespresse. Il codice Rocco non impone alcun obbligo di motivazione nemmeno in relazione al presupposto dei sufficienti indizi di colpevolezza, che costituisce, come si è visto, l'unico limite all'instaurazione dello status custodiae nelle ipotesi di cui all'art. 253; tale limite viene così sostanzialmente nullificato, accentuando ulteriormente l'automatismo della cattura obbligatoria.99 La mancata previsione della motivazione, d'altra parte, discende dal principio del segreto istruttorio, caratteristico del processo di tipo inquisitorio, che preclude la possibilità di svelare all'imputato gli elementi su cui si fonda l'accusa. L'assenza di motivazione, a sua volta, rende inutile la previsione di qualsiasi forma di gravame, che non avrebbe elementi su cui fondarsi; di conseguenza, all'imputato non è consentito impugnare né il provvedimento di cattura né l'ordinanza di diniego della scarcerazione; l'unica impugnazione concessagli è quella contro il rigetto della domanda di libertà provvisoria100 (art. 280). La totale incontrollabilità delle decisioni de libertate dell'autorità giudiziaria, del resto, è in piena sintonia con la posizione subordinata nella quale il rito inquisitorio relega l'imputato, le cui garanzie difensive sono viste principalmente come un ostacolo all'accertamento. Impossibilitato ad esercitare alcun tipo di controllo, egli si trova nella condizione di dover subire la custodia senza poter in alcun modo influire sulla propria condizione se non attraverso un comportamento collaborativo, cioè attraverso la confessione101. A tutto ciò è da aggiungere la peculiare configurazione della disciplina della libertà provvisoria. Già la denominazione dell'istituto esprime in modo eloquente i termini del rapporto tra lo status custodiae e la condizione di libertà dell'imputato, sancendo quest'ultima 97 AMATO G., op. cit., p. 428; CHIAVARIO M., voce Libertà personale (dir. proc. pen.), in Enc. giur., vol. XIX, Roma, Treccani, 1990, p. 6; GREVI V., op. cit., p. 144. 98 L'art. 264, che disciplina i requisiti formali dei mandati, richiede solo l'indicazione delle generalità dell'imputato e «un cenno sommario del fatto, con l'indicazione degli articoli di legge che lo prevedono». 99 AMATO G., op. cit., p. 426. 100 Successivamente alla reintroduzione della scarcerazione per decorrenza dei termini nei casi di cattura facoltativa, il potere d'impugnazione dell'imputato viene esteso alle ordinanze che provvedono sulla domanda di scarcerazione. 101 DE CARO A., op. cit., p. 42. 26 come eccezionale e, appunto, provvisoria, potendo la carcerazione essere ripristinata sia quando l'imputato violi gli obblighi eventualmente impostigli con l'ordinanza che concede la libertà provvisoria (art. 292), sia con la sentenza di rinvio a giudizio (art. 375). La libertà provvisoria, definita espressamente “beneficio” dall'art. 292, non è la diretta conseguenza del venir meno delle esigenze istruttorie che avevano giustificato la cattura, ma è intesa come espressione di un potere equitativo del giudice, alla cui clemenza l'imputato si rimette, senza poter vantare alcun diritto alla cessazione dello stato detentivo 102. Così come la cattura può essere disposta per qualsiasi ragione e anche in funzione semplicemente repressiva, in un'ottica di anticipazione della pena fondata sul mero sospetto, anche la concessione della libertà provvisoria è svincolata da un giudizio sulla permanenza di esigenze cautelari, configurando l'interesse dell'imputato alla liberazione come un mero interesse occasionalmente protetto103. Insomma, non essendo la custodia preventiva rigorosamente finalizzata alla tutela di esigenze tipizzate dal legislatore, non si prevede che, venute veno tali esigenze, la libertà dell'imputato debba necessariamente riespandersi. L'art. 277, infatti, si limita a stabilire che «all'imputato che si trova nello stato di custodia preventiva può essere conceduta la libertà provvisoria», senza nulla specificare circa i presupposti del beneficio. Perciò, nella valutazione della «opportunità della concessione del beneficio» possono concorrere le più svariate considerazioni, senza che nessun elemento risulti vincolante; il giudice decide, quindi, sulla base delle «esigenze tutte della istruttoria, e soprattutto tenendo conto delle norme di cui all'art. 133 c.p. richiamate dall'ultima parte dell'art. 254», nonché di altri elementi quali «il contegno dell'imputato, le sue condizioni di famiglia, il suo stato di salute, l'aver sofferto qualche mese di detenzione»104. Sono da considerare, infine, gli artt. 375 e 275, che disciplinano il trattamento della libertà personale dell'imputato in concomitanza rispettivamente con il rinvio a giudizio e con la sentenza di condanna. L'art. 375, distinguendo ancora tra mandato obbligatorio e facoltativo, impone la cattura dell'imputato rinviato a giudizio per uno dei reati di cui all'art. 253 e la consente per i reati ex art. 254, anche quando, come si è visto, sia stata concessa la libertà provvisoria. Anche in sede di rinvio a giudizio, l'automatismo della cattura obbligatoria non consente di individuare alcun vincolo finalistico alla restrizione della libertà personale, che potrà quindi piegarsi a qualsiasi 102 AMATO G., op. cit., p. 431; DE CARO A., op. cit., p. 41. 103 AMATO G., op. cit., p. 432. 104 PEZZANTINI P., op. cit., p. 121. 27 esigenza. E' possibile, invece, aggiungere qualche considerazione per quanto concerne i casi di cattura facoltativa. Essendo terminata la fase istruttoria, è da escludere che possa ancora sussistere un pericolo di inquinamento delle prove; l'ultimo comma dell'art. 375, inoltre, disponendo che «se non vi è sospetto di fuga, il giudice istruttore, prima di far eseguire il mandato di cattura, può far notificare all'imputato l'ingiunzione di costituirsi in carcere entro ventiquattro ore», esclude che la cattura discrezionale debba essere giustificata dall'esigenza di assicurare l'esecuzione dell'eventuale condanna. Quando non vi sia pericolo di fuga, quindi, la cattura facoltativa in sede di rinvio a giudizio è connessa, nella logica della norma, solo ad esigenze di natura extraprocessuale. L'art. 275, infine, vieta la scarcerazione dell'imputato detenuto quando sia intervenuta una sentenza di condanna a pena detentiva (a meno che la durata della custodia presofferta non superi quella della pena ritenuta in sentenza). Il significato di tale disposizione non sta tanto nella negazione della presunzione di non colpevolezza, che solo dalla Costituzione sarà sancita «sino alla condanna definitiva», essendo tale negazione ben più palese nelle fasi precedenti. La ratio dell'art. 275 sta piuttosto nel rendere irrilevanti gli eventuali vizi del titolo della custodia preventiva, che vengono sanati dalla sentenza di condanna; lo scarso peso che tale disposizione mostra di attribuire alla violazione della libertà personale dell'imputato è solo un'ulteriore dimostrazione dell'assoluta preminenza dell'interesse pubblico sui diritti individuali nel processo regolato dal codice Rocco, in cui la ripartizione del rischio tra Stato e imputato è completamente sbilanciata a favore del primo105. In conclusione, nell'impianto originario del codice di rito del 1930 la custodia preventiva non solo prescinde da un collegamento funzionale con la stretta necessità processuale ma è caratterizzata da un generale agnosticismo in ordine alle finalità della restrizione della libertà personale dell'imputato. Nei casi dell'art. 253, l'automatismo della cattura obbligatoria assorbe il problema dei fini attraverso una presunzione legale assoluta di pericolosità che, fondandosi solo su sufficienti indizi di colpevolezza, si risolve di fatto in una presunzione di colpevolezza 106. L'obbligatorietà della cattura, la mancata previsione dell'obbligo di motivazione in ordine all'unico requisito necessario per disporre la custodia e l'impossibilità per l'imputato di mettere in discussione il provvedimento dell'autorità giudiziaria, fanno della carcerazione preventiva nient'altro che una pena anticipata. Ma anche nei casi di cattura facoltativa, la libertà del magistrato in ordine alla 105 AMATO G., op. cit., p. 441. 106 FERRAJOLI L., op. cit., p. 564. 28 disposizione della custodia così come alla concessione della libertà provvisoria è tale da configurarsi non come discrezionalità tecnica ma come un potere equitativo del tutto svincolato dalla tutela di esigenze predeterminate, ed esercitabile senza controlli. In ultima analisi, dal complesso delle norme analizzate emerge chiaramente come il silenzio del legislatore sui fini della custodia, lungi dall'essere casuale, sia dettato da quella logica autoritaria che, come si diceva all'inizio, permea l'intero codice; esso, infatti, consente all'autorità giudiziaria – intesa come longa manus del governo – di agire nei confronti degli imputati con finalità repressive, nella prospettiva ultima della conservazione dell'ordine politico del regime107, al cui superiore interesse ogni diritto individuale è subordinato. 107 GREVI V., op. cit., p. 18. 29 30 CAPITOLO II I PRINCIPI COSTITUZIONALI: LIBERTA' PERSONALE E PRESUNZIONE DI NON COLPEVOLEZZA 1. L'art. 13 Cost. e il suo “vuoto di fini”. La disciplina costituzionale dei diritti e delle libertà è segnata da un radicale ribaltamento del rapporto tra autorità e individuo. Mentre il fascismo, negando il conflitto tra questi due poli, aveva consentito un illimitato sacrificio dei diritti individuali in vista della difesa del superiore interesse dello Stato, nel quale il regime mirava a identificarsi, la Costituzione del 1948 non nega più quel conflitto, ma afferma la prevalenza, in esso, dei diritti individuali1. L'impostazione personalistica della Costituzione è espressa chiaramente nell'art. 2, che individua nella persona il valore-base dell'ordinamento e consacra come fine ultimo dello Stato la massima tutela degli individui, sia come singoli che nelle formazioni sociali ove si esprime la loro personalità. Ma tale impostazione è ben percepibile anche nell'art. 13, che si apre con l'inequivoca affermazione dell'inviolabilità della libertà personale. La disciplina costituzionale della libertà personale contiene, in realtà, tracce di orientamenti diversi, storicamente precedenti alla Costituzione e non sempre tra loro conciliabili: un orientamento di matrice liberale, improntato all'affermazione di una assoluta priorità logica dell'individuo; un orientamento di tipo solidaristico, che, pur condividendo quella priorità, non accetta una concezione meramente “negativa” di libertà ma richiede un intervento dei pubblici poteri ai fini della promozione della libertà stessa; e persino un orientamento più tradizionale, legato al prevalere delle istanze della difesa sociale sugli interessi del singolo2. Tale intreccio di indirizzi non intacca, tuttavia, la portata innovativa dell'impianto complessivo della disciplina che, nell'affermazione dalla priorità dell'individuo sullo Stato e nella predisposizione di strumenti giuridici idonei a realizzare concretamente tale priorità, ha segnato una cesura netta nei confronti del passato non solo fascista ma anche liberale. Eppure, nei primi anni successivi all'entrata in vigore della Costituzione, tale portata innovativa è stata colta solo in parte, a causa non solo della vischiosità della prassi, 1 GREVI V., op. cit., p. 20; AMATO G., op. cit., p. 304. 2 CARETTI P., I diritti fondamentali: libertà e diritti sociali, Torino, Giappichelli, 2005. pp. 195-196; AMATO G., op. cit., pp. 362-363. 31 dell'impostazione autoritaria della legislazione varata negli anni precedenti e della prudenza della giurisprudenza costituzionale, ma anche di una lettura della Carta in chiave puramente polemica nei confronti del precedente regime. Fulcro della disciplina costituzionale della libertà personale è l'articolo 13, i cui primi tre commi disegnano una struttura a cerchi concentrici3, nella quale, all'affermazione dell'inviolabilità della libertà in oggetto, contenuta nel primo comma, segue la definizione di un duplice ordine di possibili limiti a tale libertà. Dalla struttura, anche sintattica, di questi primi tre commi emerge con assoluta chiarezza come il rapporto tra la libertà e le sue possibili limitazioni si configuri in termini di regola-eccezione. La norma configura una sfera di autonomia del singolo, suscettibile di essere compressa ma sempre tendente a riespandersi e munita degli strumenti giuridici per farlo4, e comunque inespropriabile per intero, come evidenzia la previsione del quarto comma, che vieta «ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà».5 Appare, inoltre, di immediata evidenza come l'art. 13 Cost. guardi principalmente – anche se non esclusivamente, data l'assolutezza della sua proclamazione iniziale – al procedimento penale, disciplinando le possibili limitazioni alla libertà personale connesse alle sue esigenze (nonché al suo obiettivo finale, essendo la sanzione penale la principale modalità di restrizione della libertà individuale legata al processo penale). Nella ricollocazione dei limiti alla libertà personale nell'alveo dell'eccezionalità potrebbe leggersi un ritorno al principio di stretta necessità o l'espressione a livello costituzionale di un principio generale di favor libertatis; è stato evidenziato, tuttavia, che tali letture, richiamando i limiti delle dottrine liberali se non addirittura un atteggiamento di paternalistica benevolenza, rischiano di risultare fuorvianti: la tutela offerta della Costituzione alla libertà personale si fonda, infatti, su basi più solide e tecniche, costituite dalla riserva assoluta di legge (art. 13 commi 2 e 3) e dalla riserva di giurisdizione (art. 13 comma 2), cui si aggiungono l'obbligo di motivazione dei provvedimenti de libertate (art. 13 comma 2 e art. 111 comma 6) e la loro ricorribilità in Cassazione per violazione di legge (art. 111 comma 7), il divieto «di ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni della libertà personale» (art. 13 comma 4) e l'obbligo per il legislatore di fissare i limiti 3 DI CHIARA G., op. cit., p. 306. 4 AMATO G., op. cit., p. 370. 5 Nota Di Chiara (op. cit., p. 305) come coerente con tale natura elastica della libertà personale sia la previsione dell'art. 277 del vigente codice di procedura penale, nel prevedere che le «modalità di esecuzione delle misure [cautelari] devono salvaguardare i diritti della persona ad esse sottoposta, il cui esercizio non sia incompatibile con le esigenze cautelari del caso concreto» 32 massimi della «carcerazione preventiva» (art. 13 comma 5)6. Il secondo comma dell'art. 13 sancisce, infatti, che non possa essere disposta alcuna forma di detenzione, ispezione, perquisizione né qualsiasi altra restrizione della libertà personale se non per atto motivato dell'autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge. Il terzo comma consente anche all'autorità di pubblica sicurezza di adottare provvedimenti provvisori restrittivi della libertà personale, ma solo in casi eccezionali, connotati dai requisiti della necessità e dell'urgenza, e tassativamente indicati dalla legge. L'art. 13 ha, pertanto, la precipua funzione di garantire l'imputato, attraverso la doppia riserva – di legge e di giurisdizione (quest'ultima solo relativa nella previsione del 3° comma) – dalle restrizioni connesse allo svolgimento del processo: sia le restrizioni minori, come le ispezioni e le perquisizioni, che quelle più incisive, come le c.d. precautele (arresto e fermo) e, soprattutto, le misure cautelari. A queste ultime, potenzialmente le più lesive, è dedicata anche la previsione dell'ultimo comma, che impone al legislatore di fissare i limiti massimi della custodia cautelare. Si è per ora posto in evidenza come il nucleo forte della disciplina costituzionale della libertà personale risieda negli artt. 13 e 111; tale disciplina, tuttavia, si dipana anche da una serie di altre disposizioni, ed è solo dal loro intreccio che si svelano compiutamente sia il significato che il costituente ha inteso attribuire alla nozione costituzionale di libertà che gli strumenti predisposti per la sua tutela. Il discorso non può che muovere dal già citato art. 2, che, nel riconoscere e garantire i diritti inviolabili dell'uomo, ingloba evidentemente nel raggio d'azione della sua tutela anche la libertà personale. Tale disposizione non ha però solo un valore riassuntivo dei diritti e delle libertà tutelati dalle altre norme costituzionali, ma – come ormai si tende a riconoscere – ha la natura di “clausola aperta”, ed è pertanto capace di introiettare i nuovi diritti emergenti nel tessuto sociale e ordinamentale così come i nuovi contenuti che vengano riconosciuti nei diritti già presenti nella Costituzione. In questo senso, l'art. 2 consente che l'interpretazione dei diritti costituzionalmente garantiti si evolva con l'evolvere della coscienza sociale. Per quanto concerne in particolare la libertà personale, proiettandosi sull'art. 13, l'art. 2 Cost. mette in evidenza come tale libertà, pur trovando il proprio nucleo essenziale nel concetto di “libertà dagli arresti”, non si riduca solo a questo. Sia la dottrina che la giurisprudenza, soprattutto in passato, hanno espresso in proposito posizioni molto divergenti, riconducibili a due principali filoni interpretativi. Per il primo, la libertà personale disciplinata dall'art. 13 Cost. coinciderebbe appunto con la libertà fisica, 6 GREVI V., op. cit., pp. 19-20. 33 poiché il Costituente avrebbe scorporato quell'unica libertà “individuale” che era l'oggetto dell'art 26 dello Statuto Albertino, elevando ad autonome fattispecie le libertà ora disciplinate negli artt. 14 ss. Cost7. La seconda e più ampia prospettiva ermeneutica, invece, include nella nozione di libertà personale accolta dall'art. 13 anche i concetti di dignità sociale e di libertà morale. Tale diversità di posizioni si deve anche al fatto che la libertà tutelata dell'art. 13 sfugge ad una precisa definizione, in quanto si riferisce ad una “libertà-situazione”, suscettibile di molteplici estrinsecazioni8. Ma è proprio questa caratteristica della libertà personale a precludere la possibilità di limitare lo sguardo al solo art. 13 Cost., imponendo di estrapolare la nozione costituzionale di libertà personale dall'insieme dalle disposizioni che la riguardano. Senz'altro il nucleo essenziale della libertà in oggetto coincide con la “libertà dagli arresti”, cioè con l'habeas corpus e concerne, dunque, la tutela da forme di coercizione fisica collegate allo svolgimento del processo penale, in continuità con il primo significato storico attribuito alla nozione moderna di libertà personale9. Ma lo stesso art. 13, al secondo comma, dopo aver fatto riferimento alla detenzione, all'ispezione e alla perquisizione personale, parla di «qualsiasi altra restrizione della libertà personale»; e su tale base la giurisprudenza costituzionale ha incluso nell'ambito della sua tutela non solo ogni forma di «menomazione della libertà morale quando tale menomazione implichi un assoggettamento totale della persona all'altrui potere»10, ma anche qualsiasi misura che provochi una «mortificazione della dignità o del prestigio della persona» 11, comportandone la degradazione giuridica12. Sulla stessa linea si è collocata anche la Corte di cassazione, che ha colto proprio nella formula di chiusura dell'art 13.2 la volontà del costituente di comprendere nel raggio d'azione della norma non solo le restrizioni che annullano totalmente la disponibilità che l'individuo ha della propria persona, ma anche quei provvedimenti che comunque comprimano o restringano la libertà personale13. Inoltre, è proprio l'art. 2 a mettere in luce, affianco ad una accezione meramente “statica” e “negativa”, l'aspetto dinamico della libertà personale, quale presupposto per lo sviluppo della personalità dell'individuo. In questa dimensione, la libertà si lega all'esigenza di 7 CARETTI P., loc. ult. cit. 8 CARETTI P., op. cit., pp. 197-198. 9 DI CHIARA G., op. cit., p. 304; CARETTI P., op. cit., p. 199. 10 Corte cost. sent. 30/1962. 11 Corte cost. sent. 68/1964. 12 Il criterio della «degradazione giuridica» è stato adottato dalla Corte costituzionale, in particolare, per ricondurre le misure di prevenzione alla disciplina dell'art. 13 Cost., a partire dalla sent. 11/1956. 13 Cass S.U. 10/10/1987, Tumminelli. Per una ricostruzione degli itinerari giurisprudenziali in merito all'art. 13 Cost, v. BRESCIANI L., voce Libertà personale dell'imputato, in Dig. pen., vol. VII, Torino, Utet, 1989, p. 438. 34 sicurezza, mostrando il suo volto di bene non solo strettamente individuale ma anche collettivo. In questo senso, non c'è conflitto, ma coincidenza, tra tutela della collettività e tutela della libertà: l'esigenza di sicurezza si riconduce alla libertà personale, di cui manifesta l'aspetto dinamico, collegato allo sviluppo della persona.14 E' bene sottolineare, peraltro, che da questo punto di vista l'art. 2 Cost. esprime solo un'esigenza di «sicurezza dei diritti» e non contempla, invece, come evidenzierà la Corte costituzionale nell'ordinanza n. 187 del 2001 15, un generico «diritto alla sicurezza»16. Si è detto in precedenza che la disciplina della libertà personale fu inizialmente individuata nei soli articoli 13 e 111 Cost., per il valore fortemente critico nei confronti dell'esperienza fascista che si leggeva nella riserva di giurisdizione, nell'imposizione di limiti di durata alla carcerazione preventiva e nella garanzia della ricorribilità, connessa all'obbligo di motivazione dei provvedimenti de libertate. La conseguenza di tale lettura riduttiva fu che, eliminate dalla legislazione ordinaria le più evidenti tracce dell'autoritarismo fascista, quando tornarono ad emergere gli interrogativi che avevano animato i dibattiti di liberali e positivisti, e degli illuministi prima di loro in ordine alle finalità della custodia preventiva, la Costituzione sembrò incapace di fornire risposte soddisfacenti. L'art. 13, in particolare, anche se letto congiuntamente all'art. 111, parve caratterizzato da un singolare “vuoto di fini” 17, dovuto alla natura non rinforzata della sua riserva di legge. In effetti, l'art. 13 Cost. impone al legislatore la fissazione di limiti massimi di durata della detenzione ante iudicium, ma non fornisce alcuna indicazione vincolante in merito alle sue possibili finalizzazioni, limitandosi apparentemente ad affidare la tutela della libertà personale dell'imputato alla sola garanzia formale della doppia riserva, di legge e di giurisdizione. Tale circostanza appare tanto più singolare se si considera il significativo ruolo svolto dallo strumento della riserva rinforzata nell'impianto costituzionale. E' stato messo in risalto, infatti, che la priorità dei diritti individuali affermata e garantita dalla Costituzione è collegata al venir meno di due circostanze che avevano caratterizzato tanto l'ordinamento fascista quanto il precedente ordinamento liberale, entrambi fondati sull'equivoco della volontà generale e, dunque, su una più o meno marcata prevalenza del principio di autorità sul 14 DE CARO A., Libertà personale e sistema processuale penale, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2000, pp. 179 ss. 15 V. infra, cap. 4 § 2.3. 16 RUOTOLO M., La sicurezza nel gioco del bilanciamento, in www.associazionedeicostituzionalisti.it. 17 ELIA L., Le misure di prevenzione tra l'art. 13 e l'art. 25 della Costituzione, in Giur. cost., 1964, p. 951. 35 principio di libertà: da un lato l'assenza di una sfera individuale sottratta alle scelte legislative, e dall'altro l'ulteriore remissione dei diritti e delle libertà dei singoli alla discrezionalità dell'applicatore, nelle vesti sia di pubblica amministrazione che di autorità giudiziaria18. La Costituzione repubblicana, rigida e non più flessibile come lo Statuto Albertino, ha eliminato queste due circostanze proprio attraverso il meccanismo della riserva di legge rinforzata. Sotto il primo profilo, la riserva rinforzata pone un vincolo al legislatore, predeterminando i limiti che possono essere posti a ciascuna libertà e i diversi interessi cui ciascuna libertà può essere subordinata19. Sotto il secondo profilo, la riserva rinforzata impone che, anche sul piano dell'applicazione, siano solo gli interessi individuati dalla norma costituzionale a poter limitare, in concreto, le libertà dell'individuo20. Non può che apparire singolare, quindi, che proprio la libertà personale sia sprovvista di tale strumento di garanzia. In realtà, già nei primi anni sessanta è stato posto l'accento sulla necessità di una interpretazione sistematica delle norme costituzionali, dalla quale è emerso il carattere «non autonomo» della riserva di legge contenuta nell'art. 13, «nel senso che i casi e i modi delle restrizioni dipendono da finalità che in tanto non sono enunciate nel testo dell'art. 13 in quanto sono contenute in altre disposizioni della Costituzione»21. Un primo limite contenutistico all'uso della custodia cautelare può trarsi già da una lettura combinata dell'art. 13 con l'art. 2. A fronte della tutela incondizionata della libertà personale offerta da tali disposizioni, la detenzione ante iudicatum non può che costituire un'eventualità del tutto eccezionale, una extrema ratio funzionale solo alla tutela di altri valori di assoluto rilievo costituzionale22, nell'ottica del bilanciamento tra diritti. Indicazioni più specifiche, tuttavia, la dottrina ha saputo trarre dall'art. 27.2 Cost. 2. La presunzione di non colpevolezza come parametro teleologico dell'art 13 Cost. Alle origini storiche del principio racchiuso nell'art 27.2 Cost si è già fatto cenno nel capitolo precedente; sarà quindi sufficiente ripercorrere le tappe principali del percorso che ha portato alla proclamazione della presunzione di non colpevolezza nella Carta costituzionale. La prima affermazione del principio si ravvisa in un passo del Digesto («Satius esse impunitum relinqui facinus nocentis, quam innocentem damnare»23), in cui si può scorgere 18 AMATO G., op. cit., p. 308. 19 AMATO G., op. cit., p. 309. 20 AMATO G., op. cit., p. 325. 21 ELIA L., op. cit., p. 950. 22 DE CARO A., op. cit., p. 202. 23 Digesto, 48.19.5. 36 l'origine della concezione antiautoritaria dell'accertamento giudiziario24, nella quale il rischio del processo dovrebbe tendenzialmente ricadere sullo Stato anziché sull'imputato. Si dovrà poi attendere fino al XVIII secolo per trovare, nel pensiero illuminista, uno sviluppo di quella prima intuizione. Si è visto quanto fosse marcata l'attenzione degli illuministi per il processo penale e per le sorti degli imputati che le procedure inquisitorie d'ancien régime equiparavano nella prassi a colpevoli o semi-colpevoli, comunque degni di un trattamento analogo, se non peggiore, rispetto a quello riservato ai condannati. E' dunque soprattutto al trattamento dell'imputato che gli illuministi guardano nell'affermare che «un uomo non può chiamarsi reo prima della sentenza del giudice, né la società può togliergli la pubblica protezione, se non quando sia deciso ch'egli abbia violati i patti coi quali le fu accordata»25. Le teorizzazioni degli illuministi sono portate avanti dagli esponenti della Scuola classica, che da un lato estendono la portata del principio al problema dell'incertezza processuale, da risolvere secondo il criterio dell'in dubio pro reo, dall'altro ribadiscono l'esigenza di tutelare la libertà personale l'imputato. Essi avvertono il legame tra la presunzione d'innocenza e la c.d. “teoria dualistica” del processo, la quale, riconoscendo il conflitto tra l'interesse dell'imputato e l'interesse pubblico alla repressione dei reati, attribuisce alla procedura penale una funzione di garanzia dei diritti individuali contro i possibili abusi dell'autorità, in polemica con la “teoria unitaria”, che invece nega quel conflitto risolvendolo di fatto a danno dell'individuo26. Tra i più lucidi sostenitori del principio vi è senz'altro Francesco Carrara, che lo eleva a postulato fondamentale del processo penale; nel 1881 egli scriveva che la scienza penale fa della presunzione d'innocenza «la sua bandiera per opporla allo accusatore ed allo inquisitore, non al fine di arrestare i movimenti dei medesimi nel loro legittimo corso, ma al fine di restringere quei movimenti nei modi, incatenandoli in una serie di precetti che sieno freno allo arbitrio, ostacolo allo errore, e per conseguenza protezione di quello individuo. [… La scienza] non ha che una sola parola: fate questo perché l'uomo da voi preso in sospetto è innocente; e voi non potete negare la sua innocenza finché non abbiate dimostrato la sua reità; né potete raggiungere siffatta dimostrazione se non correte per questa via che io vi segno ». 27 24 PAULESU P.P., La presunzione di non colpevolezza dell'imputato,Torino, Giappichelli, 2009, p. 32. 25 BECCARIA C., Dei delitti e delle pene,a cura di A. Burgio, XII ed., Milano, Feltrinelli, 2007, p. 60. 26 ILLUMINATI G., La presunzione d’innocenza dell'imputato, Bologna, Zanichelli, 1979, pp. 15-16; PAULESU P.P., op. cit., pp. 33-40. 27 CARRARA F., Opuscoli di diritto criminale, p. 19. 37 La valenza individualistica e antiautoritaria della presunzione d'innocenza ne fece l'oggetto delle critiche dei positivisti e poi della c.d. Scuola tecnico-giuridica, che, teorizzando la neutralità della funzione punitiva, fornirà gli strumenti scientifici per trasferire nel processo penale le istanze antilibertarie del regime fascista. Come i positivisti, anche gli esponenti della Scuola tecnico-giuridica, che ne ereditano l'idea della «difesa sociale», muovono dall'idea di fondo che le norme processuali sono rivolte alla repressione dei reati e non alla tutela dell'innocenza28. Si nascondeva, quindi, un'opzione politica ben precisa dietro agli argomenti a carattere logico-formale con cui fu condotto l'attacco alla presunzione d'innocenza29. Sono celebri le parole di Vincenzo Manzini: «Se si deve presumere l'innocenza dell'imputato, chiede il buon senso, perché dunque si procede contro di lui?» 30. Nella stessa direzione di uno svuotamento dall'interno del principio si colloca il sottile distinguo tra «innocenza» e «non colpevolezza» proposto da Ludovico Mortara («altro è dire che l'accusato non si deve ritenere colpevole, altro è dire che lo si deve presumere innocente. E' evidente l'esagerazione della seconda formula, nella quale si perverte il concetto della prima» 31) e poi ripreso da Alfredo Rocco («finché vi è procedimento in corso non vi è né un colpevole né un innocente, ma soltanto un indiziato»32). Tali distinzioni, benché chiaramente pretestuose, sopravviveranno alla dottrina fascista, inquinando per lungo tempo la lettura dell'art. 27.2 Cost., oggetto di interpretazioni riduttive sia da parte della dottrina che da parte della giurisprudenza 33, che vi hanno ravvisato solo la funzione di definire in modo generico la posizione dell'imputato rispetto all'accusa o ne hanno addirittura escluso l'afferenza alla tutela della libertà dell'imputato34. Ciò è stato possibile anche a causa della scelta poco felice effettuata dal Costituente nell'affermare la presunzione d'innocenza attraverso una negazione passiva («l'imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva»)35. Ma è ormai appurato che l'art. 27.2, al 28 DOMINIONI O., La presunzione d'innocenza, in Le parti nel processo penale, Milano, Giuffrè, 1985, p. 224. 29 ILLUMINATI G., op. cit., p. 18. 30 MANZINI V., Manuale di procedura penale italiana, Torino, 1912, p. 53. 31 MORTARA L., Discorso al Senato (5 marzo 1912) in Commento al codice di procedura penale, Torino, Utet, 1924, p. 153. 32 ROCCO A., Discorso al Senato (17 dicembre 1925) in Lavori preparatori del codice penale e del codice di procedura penale, Roma, 1929, vol. I, p. 273. 33 Scriveva Illuminati nel 1978 che «se l'esistenza, sul piano del diritto positivo, della presunzione d'innocenza dipendesse dall'applicazione del principio ad opera della giurisprudenza (analogamente a quanto avviene nei paesi di common law) si dovrebbe concludere che nulla di simile è riconosciuto dal nostro ordinamento» (ILLUMINATI G., Presunzione d'innocenza e uso della carcerazione preventiva come sanzione atipica, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1978, p. 929.) 34 V. Corte cost. sent. 124/1972, ma anche, in anni più recenti, Corte cost., ord. 450/1995. 35 Si è evidenziato come non sia possibile risalire con certezza al significato attribuito dai Costituenti alla formulazione adottata: la dottrina ha infatti ravvisato nei lavori preparatori indicazioni discordanti; alcune indicherebbero una scelta «compromissoria», altre solo la consapevolezza della distanza dal principio del 38 di là delle possibili disquisizioni in ordine alla sua formulazione, esprime una opzione ideologica “forte”, frutto di una scelta tra sistemi di valori, orientata a privilegiare la protezione dell'individuo sull'interesse collettivo alla repressione dei reati 36; il suo significato emerge soprattutto in relazione alla precedente, secolare tradizione storica intrisa di una più o meno profonda commistione tra accusato e colpevole37, rispetto alla quale l'affermazione contenuta nell'art. 27.2 Cost. ha «un valore di enunciazione generale a carattere eminentemente politico, piuttosto che strettamente logico»38. Il riconoscimento della valenza ideologica del principio consente di scartare anche l'interpretazione «probabilistica» che, facendo leva sul concetto tecnico di “presunzione”, ritiene di leggervi una regola basata sul criterio dell'id quod plerumque accidit. La presunzione di non colpevolezza ha invece una valenza “assiomatica”, in quanto mira ad assicurare il prioritario interesse della tutela dell'imputato nei confronti della potestà punitiva dello Stato.39 In questo senso, così come la tutela costituzionale della libertà personale non può ridursi ad un generico favor libertatis, anche la presunzione di non colpevolezza non va confusa con il principio del favor rei, che esprime un complessivo atteggiamento di favore dell'ordinamento nei confronti dell'imputato, avendo una valenza più circoscritta e al contempo più incisiva. E' possibile riconoscere già nelle elaborazioni del pensiero liberale la doppia dimensione della presunzione di non colpevolezza, che opera sia come regola di giudizio che come regola di trattamento. Nella veste di regola di giudizio, essa agisce sul piano della distribuzione degli oneri probatori, facendo ricadere l'onere della prova della colpevolezza sulla pubblica accusa e risolvendo, quindi, l'incertezza processuale secondo il criterio, favorevole all'imputato, dell'in dubio pro reo. Come regola di trattamento, invece, la presunzione di non colpevolezza, elevandosi a «criterio regolatore dei rapporti tra individuo e autorità nell'ambito del processo penale» 40, sistema processuale, altre ancora solo un'attenzione terminologica, volta ad evitare un uso improprio del termine tecnico «presunzione» (PAULESU P.P., op. cit., pp. 53-54). Di recente, peraltro, si è espresso in termini favorevoli a quest'ultima ricostruzione, MARZADURI E., Considerazioni sul significato dell'art. 27, comma 2, Cost.: regola di trattamento e regola di giudizio, in DINACCI F. (a cura di), Processo penale e Costituzione, Milano, Giuffrè, 2010, pp. 309-313. 36 PAULESU P.P., op. cit., p. 8. 37 AMATO G., op. cit., p. 378. 38 ILLUMINATI G., op. cit., p. 35. 39 PAULESU P.P., op. cit., pp. 60-61. 40 PAULESU P.P., op. cit., p. 10. 39 vieta ogni assimilazione dell'imputato al colpevole fino alla condanna definitiva, precludendo qualsiasi trattamento che nei presupposti o nelle modalità riveli tale assimilazione. La tutela offerta dall'art. 27.2 Cost. opera dunque fino alla “condanna definitiva”, cioè fino al momento in cui la colpevolezza dell'imputato non sia riconosciuta da una sentenza che abbia acquisito l'autorità del giudicato41. La durata della garanzia, peraltro, non influisce in alcun modo sulla sua portata: la presunzione di non colpevolezza costituisce, infatti, una «grandezza costante» che non varia con l'aumentare degli elementi a sostegno dell'ipotesi accusatoria (c.d. “concezione psicologica”), ma vieta sempre con la stessa forza fino alla sentenza irrevocabile di condanna, di assimilare l'imputato al colpevole (c.d. “concezione normativa”)42. La ragion d'essere della presunzione di non colpevolezza, anzi, si coglie proprio quando più robusto è il quadro probatorio a carico dell'imputato: è in questo momento che interviene la funzione di garanzia del principio in esame, il cui significato sta nel vietare non tanto di pensare che l'imputato possa essere colpevole, quanto di trattarlo come se fosse tale, a prescindere dall'evoluzione delle risultanze processuali43. Nella sua veste di regola di trattamento, dunque, l'art. 27.2 Cost. rivela il suo significato soprattutto nei confronti della custodia ante iudicatum e permette di colmare quel “vuoto di fini” che si è palesato nell'art 13 Cost. La presunzione di non colpevolezza, infatti, vieta di limitare la libertà personale dell'imputato «in forza della sola affermazione della sua colpevolezza, sia essa fondata su indizi, prove o sopra un accertamento contenuto in una sentenza non definitiva»44; ove ciò avvenisse, non essendo ravvisabile alcuna differenza sul piano afflittivo tra la pena e la custodia ante iudicatum45, quest'ultima non sarebbe altro che una pena anticipata. Ne consegue, secondo la maggior parte della dottrina, che la limitazione della libertà personale dell'imputato in tanto può ritenersi conforme all'art 27.2 in quanto si differenzi dal trattamento sanzionatorio nei fini e nella durata. 41 Parte della dottrina ravvisa nell'art. 27.2 un fondamento costituzionale all'effetto sospensivo delle impugnazioni (art. 588 cpp 1989): v. CHIAVARIO M., Processo e garanzie della persona, II, Le garanzie fondamentali, Milano, Giuffrè, 1984, p. 274; PAULESU P.P., op. cit., p. 79; ORLANDI R., Provvisoria esecuzione delle sentenze e presunzione di non colpevolezza, in AA.VV., Presunzione di non colpevolezza e disciplina delle impugnazioni, Milano, Giuffrè, 2000, p. 127; Considerazioni sul significato dell'art. 27, comma 2, Cost.: regola di trattamento e regola di giudizio, in DINACCI F. (a cura di), Processo penale e Costituzione, Milano, Giuffrè, 2010, p. 315. 42 PAULESU P.P., op. cit., pp. 89-90; l'autore accoglie la distinzione operata da ORLANDI R., op. cit., p. 130. 43 PAULESU P.P., op. cit., pp. 90-91. 44AMODIO E., La tutela della libertà personale dell'imputato nella Convenzione europea dei diritti dell'uomo, in Riv. it. Dir. Proc. pen., 1967, p.864. 45 Il che è confermato dal meccanismo dello scomputo della custodia subita dalla pena detentiva inflitta con la condanna (art. 137 c.p.p. 1930; art. 285.3 c.p.p. 1989). 40 In passato parte della dottrina ha ritenuto che la scelta del costituente di formulare il principio in termini di “non colpevolezza” anziché di “innocenza” fosse da ricollegare proprio alla legittimazione della custodia preventiva, ravvisata anche nella previsione dell'ultimo comma dell'art. 13. La presunzione così formulata avrebbe avuto maggiori margini di cedevolezza46, e avrebbe consentito quindi un certo spazio alla previsione di istituti limitativi della libertà personale47, che sarebbero stati invece in contraddizione logica con la presunzione di “innocenza”48. Gli stessi interpreti ritenevano che in tal modo «tra il principio costituzionale della presunzione di non colpevolezza e la ratio della custodia preventiva astrattamente considerata non [esistessero] elementi di disarmonia», inquadrandosi entrambi «in un disegno programmatico ispirato a coerenza»49. La dottrina più recente50, tuttavia, tende a rifiutare quella “terza via” esegetica, che, facendo leva sulla formulazione dell'art. 27.2, individua una distinzione tra “innocenza” e “non colpevolezza”, ritenendola inutile, oltre che pericolosa, perché facilmente strumentalizzabile a danno dell'imputato. Questa lettura, d'altra parte, è imposta anche dall'art. 6.2 Cedu, che afferma che «ogni persona accusata di un reato è presunta innocente sino a quando la sua colpevolezza non sia stata legalmente accertata», tanto più a seguito delle sentenze della Corte costituzionale nn. 348 e 349 del 2007, in base alle quali il giudice nazionale è tenuto a interpretare le norme costituzionali in modo conforme alla Cedu (così come interpretata dalla Corte europea dei diritti dell'uomo). La stessa formulazione “in positivo” si trova, del resto, anche nell'art. 14.2 del Patto internazionale sui diritti civili e politici, che sancisce il diritto di ogni individuo accusato di un reato «di essere presunto innocente sino a che la sua colpevolezza non sia stata legalmente provata»51. Questa tendenziale condivisione sul significato del principio affermato nell'art. 27 cpv non ha però uniformato le opinioni della dottrina in merito alle conseguenze che dalla presunzione di non colpevolezza derivano in merito alla libertà personale dell'imputato. 46 AMATO G., op. cit., p. 379. 47 GREVI V., op. cit., p. 39; analogamente, VASSALLI G., Libertà personale dell'imputato e tutela della collettività, in Giust. Pen., 1978, I, p. 11. 48 PISANI M., La custodia preventiva: profili costituzionali, in Indice pen., 1970, p. 189. 49 PISANI M., loc. ult. cit.. Negli stessi termini, GREVI V., op. cit., p. 40. 50 PAULESU P.P., op. cit., pp. 55-57; DE CARO A., op. cit., p. 204; nello stesso senso, già ILLUMINATI G., op. cit., p. 35 Ma ancora prima, peraltro, non si è mancato di evidenziare che «la contrapposizione logico-intellettuale fra “presunzione di reità” e “presunzione d'innocenza” [...] non si sottrae al sospetto del sofisma e suggerisce istintivamente la figura letteraria della “litote”» (LIGUORI G., Custodia preventiva e libertà provvisoria, in Giust. pen., 1960, III, p. 625). 51 Art. 14.2 Patto internazionale sui diritti civili e politici. 41 Si è detto che l'art 27.2 è un fondamentale parametro teleologico dell'art. 13. Questa è in effetti, l'opinione della maggior parte degli autori che si sono avvicinati all'argomento, i quali, dando per presupposta la necessità della custodia ante iudicatum ritengono che la sua legittimità dipenda dalla sua durata e dai suoi fini. Anche la dottrina più sensibile e più rigorosa nel delimitare le finalità legittime della custodia preventiva muove, comunque, dalla «ineluttabilità di eventuali privazioni della libertà personale»52 dell'imputato, considerate una «componente ineliminabile della funzione giurisdizionale»53, peraltro esplicitamente legittimata dall'art. 13, e ritiene che la funzione dell'art. 27.2 sia proprio quella di evitare che la custodia preventiva sia applicata per perseguire scopi sanzionatori. 3. Oltre la custodia ante iudicatum? Alcuni interpreti, tuttavia, modificano tale premessa e, senza mettere necessariamente in discussione la legittimità di determinate finalità cautelari, ritengono che la custodia preventiva sia ontologicamente incompatibile con la presunzione di non colpevolezza, sicché quelle finalità andrebbero perseguite attraverso misure diverse, dotate di un minore contenuto afflittivo. Si mette in risalto, in questa prospettiva, il rapporto tra la presunzione di non colpevolezza e il principio di giurisdizionalità: esigendo che non si dia responsabilità, e quindi sanzione, senza giudizio, è tale principio a postulare la presunzione d'innocenza dell'imputato fino alla sentenza definitiva di condanna. Il divieto di identificare l'imputato con il colpevole, dunque, non è che una logica conseguenza dell'esistenza stessa del processo, il quale è finalizzato proprio all'accertamento di quella identità54. Perciò – si sostiene – «la stessa ammissione in via di principio della carcerazione ante iudicium, qualunque fine le si voglia associare, contraddice alla radice il principio di giurisdizionalità: che non consiste nel poter essere arrestati solo per ordine di un giudice, ma nel poterlo essere solo sulla base di un giudizio». In questo senso appare «un misero paralogismo dire che il carcere preventivo non contraddice il principio nulla poena sine iudicio – ossia la giurisdizionalità nel suo senso più lato – poiché non è una pena ma un'altra cosa: misura cautelare, o processuale o comunque non penale. Con simili truffe delle etichette 52 ILLUMINATI G., op. cit., p. 32. 53 PAULESU P.P., op. cit., p. 71. 54 In questi termini si erano espressi già, pur senza trarne le stesse conseguenze, PISAPIA G., Orientamenti per una riforma della custodia preventiva nel processo penale, in Aa. Vv., Criteri direttivi per una riforma del processo penale, Milano, Giuffrè, 1965, p. 94, e ILLUMINATI G., op. cit., p. 31. 42 – si afferma – è stata dissolta la funzione di tutela del diritto penale e il ruolo stesso della pena quale misura punitiva esclusiva, alternativa ad altre sicuramente più efficaci ma non altrettanto garantiste»55. In altri termini, la presunzione di non colpevolezza espressa nell'art. 27.2 Cost. non autorizzerebbe «nessuna restrizione qualitativamente vicina – ed a maggior ragione identica – a quelle applicabili al colpevole in funzione della netta distinzione sul versante del 'trattamento'»56 con l'imputato. E' interessante notare che entro questa prospettiva la famosa provocazione di Vincenzo Manzini («E poi di che innocenza si tratta? […] E allora perché non si applica il principio in tutte le sue conseguenza? Perché non si abolisce la detenzione preventiva?») può essere tranquillamente raccolta, condividendo con quell'autore la tesi dell'incompatibilità della custodia ante iudicium con la presunzione di non colpevolezza, ma risolvendo la contraddizione a beneficio di quest'ultima.57 La contraddizione tra il principio costituzionale e la carcerazione preventiva, in realtà, è sentita anche da una parte di quella dottrina che, entro una rigorosa delimitazione teleologica, ammette la legittimità dell'istituto. Lo dimostrano da un lato l'accento posto da alcuni interpreti sulla formulazione dell'art. 27 cpv in termini di “non colpevolezza” anziché di “innocenza”; dall'altro l'ammissione della natura compromissoria della soluzione accolta, che appare comunque «insoddisfacente di fronte ad una interpretazione rigorosa della presunzione d'innocenza» (sicché – si riconosce – si è ancora all'«ingiustizia necessaria» di cui parlava Francesco Carrara).58 La posizione c.d. “abolizionista”, d'altra parte, non può che uscire rafforzata dalla costatazione della permanente difficoltà di espungere dalla concreta realtà applicativa della custodia cautelare ogni connotato sanzionatorio. L'intero dibattito sulle finalità della custodia preventiva, infatti, è adombrato dal timore che «i vari scopi, cui apparentemente si ricollegano nelle loro motivazioni i provvedimenti restrittivi di libertà, non siano spesso, se non paraventi 55 FERRAJOLI L., Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, Bari, Laterza, 1996, p. 566. 56 DE CARO A., op. cit., p. 211. 57 FERRAJOLI L., op. cit., p. 566. 58 ILLUMINATI G., op. cit., p. 48. Una simile impostazione si ritrova anche nella dottrina meno recente: «sono proprio le parole adottate dal Manzini a sostegno della sua tesi a rafforzarci nel convincimento che il sacrificio preventivo dello status libertatis urti, inesorabilmente, in via di principio, il dettato costituzionale. […] Si parli, dunque, più propriamente di “male necessario”» (LIGUORI G., op. cit., pp. 625-626); l'autore riprende la peculiare posizione espressa da Giuseppe Sabatini (Trattato dei procedimenti incidentali nel processo penale, Torino, Utet, 1953, p. 432), il quale ravvisava nella carcerazione preventiva un contenuto al contempo etico e giuridico e riteneva perciò che «l'imputato ha il dovere di porsi a disposizione della collettività per contribuire fattivamente alla attuazione della potestà di giustizia», ma sostiene la prevalenza del fondamento etico, e su questa base giustifica la custodia preventiva al solo fine di ottenere la presenza dell'imputato al processo. 43 per coprire la più inaccettabile delle possibili funzionalizzazioni della carcerazione preventiva: quella che fa perno sull'”anticipazione” rispetto alla pena» 59: timore rafforzato dalle tesi giurisprudenziali che accolgono la «visuale di una carcerazione preventiva avente “funzione di anticipare il momento dell'espiazione della pena, quando si abbia la ragionevole certezza che il processo si concluderà con una sentenza di condanna”»60. L'interpretazione dell'art. 27.2 Cost. si è a lungo fondata sulla premessa dell'ineluttabilità della detenzione ante iudicium, perché condizionata dalla preesistenza dell'istituto e soprattutto dalla legittimità che la Costituzione sembra riconoscerle negli artt. 13, 111 e 68. Ma i riferimenti contenuti in quelle disposizioni – si sostiene – «non costituiscono limiti insuperabili dagli sviluppi e dai naturali ampliamenti degli spazi di garanzia connessi ai vari principi»61 (tanto che la cattura obbligatoria è stata eliminata nonostante l'esplicito riferimento contenuto nell'art 68), sicché non bisognerebbe «soggiacere alla fallacia […] secondo cui ciò che per ipotesi la Costituzione consente è anche giusto e incontestabile»62. 4. Custodia preventiva e ragionevole durata del processo. E' opportuno, a questo punto, esplicitare un dato solo apparentemente ovvio: «in un ordinamento processuale puramente ideale, in cui il provvedimento definitivo potesse sempre essere istantaneo, in modo che nello stesso momento in cui l'avente diritto presentasse la domanda, subito potesse essergli resa giustizia in modo pieno ed adeguato al caso, non vi sarebbe più posto per i provvedimenti cautelari» 63. Tuttavia, nella realtà accade che tra la situazione iniziale e quella finale «intercede un intervallo di tempo, durante il quale possono verificarsi eventi o circostanze che ostacolano l'evolversi della situazione finale»64. Tali considerazioni, riferibili ad un concetto ampio di cautela, sono valide anche con riferimento alla specifica realtà delle misure restrittive della libertà personale, purché siano lette con la consapevolezza che la strumentalità delle misure cautelari personali nel processo penale non può essere intesa come necessità di un intervento diretto ad anticipare gli effetti del procedimento futuro65. 59 CHIAVARIO M., Profili di disciplina della libertà personale nell’Italia degli anni Settanta, in ELIA L.-CHIAVARIO M. (a cura di), La libertà personale, Torino, Utet, 1977, p. 239. 60 CHIAVARIO M., Profili di disciplina, cit., p. 240. 61 DE CARO A., op. cit., p. 223. 62 FERRAJOLI L., op. cit., p. 567. 63 CALAMANDREI P., Introduzione allo studio sistematico dei provvedimenti cautelari, 1936, p. 20. 64 DE LUCA , Lineamenti della tutela cautelare penale. La carcerazione preventiva, Padova, Cedam, 1953, p.27. 65 FÙRFARO S., Le limitazioni alla libertà personale consentite, in SPANGHER G.-SANTORIELLO C. (a cura di), Le misure cautelari personali: aggiornato al D.L. 23 febbraio 2009, n. 11, Torino, Giappichelli, 2009, p. 12. 44 Ciò premesso, la sottolineatura del fattore temporale insita nelle affermazioni sopra riportate si rivela utile per far luce sul rapporto tra libertà personale dell'imputato e durata del processo. I problemi dell'eccessiva durata della custodia cautelare e del suo abuso in chiave sanzionatoria, infatti, sono strettamente correlati con la questione della durata del procedimento penale considerato nel suo insieme; tale connessione è stata chiaramente individuata quando si è affermato che sarebbe «illusorio pensare che una “carta delle libertà” (fosse pur la migliore tra quelle concepibili), una volta inserita nel codice, basti a ridurre il rischio che dei “poteri coercitivi” possa farsi un uso distorto ed irragionevolmente prolungato, se non si riesce ad incidere sul serio sulle cause che portano a procrastinare artificialmente il momento in cui l'innocente ha da andare per sempre sollevato dall'incubo dell'accusa pendente contro di lui, ma anche quello in cui la persona che è riconosciuta colpevole dev'essere assoggettata ad una sanzione correttamente inflittagli»66. L'inefficienza degli apparati giudiziari ha, infatti, come inevitabile conseguenza la tentazione ad utilizzare la carcerazione preventiva come sostanziale anticipazione della pena, anche in ragione della necessità di dare soddisfazione a un'esigenza primordiale di giustizia proveniente dalla collettività67. In altri termini, l'eccessiva durata del processo comporta il pericolo che si verifichi, al livello della prassi, il fenomeno della c.d. trasposizione delle mete, per cui un valore strumentale (la custodia cautelare) tende a trasformarsi in finale (la sanzione penale), e ci si serve quindi della carcerazione preventiva per irrogare una pena anticipata, come surrogato di una sanzione alla quale non si riuscirà mai ad arrivare68. Il legame tra detenzione preventiva e durata del processo si fa particolarmente stringente in relazione all'esigenza di prevenzione speciale, che esprime una finalità che si annovera tra quelle proprie della pena. La custodia cautelare, infatti, assume legittimazione sostanziale in diretta proporzione con l'allungamento dei tempi processuali69: proprio la lunghezza del processo, dilazionando sine die il momento della definitiva condanna – e quindi il momento in cui la sanzione viene, o dovrebbe venire, effettivamente espiata – finisce per dar forza alle 66 CHIAVARIO M., Variazioni sul tema delle «misure coercitive» tra nuovo codice e «legge anticipatrice», in Giust. Pen., 1989, III, p. 67 CHIAVARIO M., Problemi attuali della libertà personale. Tra «emergenze» e «quotidiano» della giustizia penale, Milano, Giuffrè, 1985, p. 15. 68 DE LUCA G., op. cit., p. 35. La considerazione, risalente a più di quarant'anni fa, appare ancora estremamente attuale. 69 GREVI V., Custodia preventiva e difesa sociale negli itinerari politico-legislativi dell'emergenza, in Pol. dir., 1982, p. 268; ILLUMINATI G., Presunzione d'innocenza e uso della carcerazione preventiva come sanzione atipica, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1978, p. 924; SIRACUSANO D., Tutela provvisoria e giustizia penale differita, in Pol. dir., 1981, p. 96; DE CARO A., op. cit., p. 31. 45 esigenze specialpreventive70. Si era detto in precedenza71 che la libertà personale, nella sua dimensione dinamica, connessa allo sviluppo della personalità individuale, esprime anche un'esigenza di sicurezza; in questa dimensione, quindi, tutela della libertà e tutela della sicurezza vengono a coincidere, in quanto esprimono istanze provenienti dagli stessi soggetti. Quando invece la libertà in gioco sia quella dell'imputato, la sua tutela può apparire in contrasto con l'esigenza di sicurezza (dei consociati). Perciò la disciplina della libertà personale nel processo è spesso intesa «come frutto del bilanciamento del naturale conflitto tra esigenze di difesa sociale e tutela della libertà del singolo»72. In realtà – si è detto – è innegabile che «il processo penale possa, anzi debba, inquadrarsi in una strategia globale di difesa della società contro la delinquenza, ma dev'essere altrettanto fuori discussione che il suo fine diretto ed istituzionale non è quello della difesa sociale, bensì quello, più immediato, di conseguire una risposta, nelle forme di legge, al quesito se un fatto di reato sia stato commesso, e se ne debbano rispondere gli imputati cui quel fatto sia stato attribuito»73. Di conseguenza, il processo «si configura solo indirettamente come strumento di difesa sociale, in quanto cioè consenta di pervenire celermente all'accertamento dei fatti e delle responsabilità: quindi, se del caso, all'irrogazione di quella pena “certa” e “pronta” nella quale si continua a ravvisare il più tipico strumento di protezione della collettività contro il delitto»74. La ragionevole durata del processo, garantendo una rapida irrogazione della sanzione penale nei confronti dell'imputato riconosciuto colpevole, tutelerebbe, dunque, al medesimo tempo: l'innocente, dal rischio di una detenzione ingiusta; il principio di giurisdizionalità e la presunzione di non colpevolezza, quindi anche la libertà personale dell'imputato che venga poi riconosciuto colpevole, fino a che tale colpevolezza non sia stata accertata oltre ogni ragionevole dubbio; la sicurezza dei consociati, e quindi la loro libertà in senso dinamico; infine, l'efficacia della sanzione penale in tutte le sue funzioni. 70 Si veda in proposito il ragionamento svolto dal giudice a quo nell'ordinanza della Corte costituzionale n. 187 del 2001: «il notevole lasso di tempo per giungere ad un provvedimento definitivo di condanna – vi si legge – rende impossibile rimettersi alla sola decisione esecutiva di condanna per ottenere l'interruzione di gravi condotte criminali, imponendo – nei casi in cui la legge lo consente – il ricorso a misure cautelari». 71 V. supra, § 1. 72 DE CARO A., op. cit., p. 31. 73 GREVI V., Custodia preventiva e difesa sociale, cit., p. 268. 74 GREVI V., op cit., p. 269. 46 5. Le prospettive teleologiche elaborate dalla dottrina. Rimanendo nell'alveo tracciato dalla dottrina maggioritaria, secondo la quale non può radicalmente escludersi la legittimità della detenzione preventiva, occorre notare che l'art. 27 cpv, nella sua veste di parametro teleologico dell'art. 13, pone un vincolo di carattere negativo, escludendo le finalizzazioni dotate di valenza sanzionatoria, ma non fornisce univoche indicazioni di segno positivo, sicché non appare possibile, anche alla luce di una lettura combinata con l'art 27, individuare nell'art. 13 una vera e propria riserva di legge rinforzata75. Dopo l'entrata in vigore della Costituzione, permanendo nel tessuto ordinamentale il codice di rito del 1930 – solo in parte depurato dai suoi connotati più marcatamente autoritari attraverso una serie di interventi novellistici –, si sono contrapposti orientamenti molto diversi in ordine alla funzione delle misure restrittive della libertà personale dell'imputato. Parte della dottrina ha ripreso l'impostazione liberale, articolata sulla trivalenza funzionale della carcerazione preventiva, in rapporto alle esigenze di «verità», di «giustizia» e di «pubblica difesa». Alcuni interpreti hanno invece insistito sulla necessità, alla luce della presunzione di non colpevolezza, di limitare la finalizzazione dell'istituto alle sole esigenze strettamente processuali. Infine, una parte della dottrina, adottando un atteggiamento polemicamente definito “eclettico” dai suoi detrattori, non ha esitato ad ampliare il ventaglio degli scopi della misura, assegnandole una funzione prevalentemente sostanziale76, e impostando il discorso in termini non molto distanti da quelli accolti dalla Scuola positiva e poi dalla Scuola tecnicogiuridica. La disciplina codicistica della carcerazione preventiva, d'altra parte, offriva una robusta sponda a tali orientamenti, dal momento che l'obbligatorietà del mandato di cattura veniva ricollegata unicamente alla gravità del reato, a prescindere da qualsiasi valutazione circa le concrete esigenze cautelari. 5.1. Esemplarità e sedazione dell'allarme sociale. Bisogna anzitutto rilevare che all'interno delle finalità di carattere sostanziale non sempre si è chiaramente distinto tra prevenzione speciale, prevenzione generale, funzione sedativa dell'allarme sociale e persino tutela dello stesso imputato dalle possibili reazioni della vittima e della collettività. Tutte queste funzioni sono state ritenute, da una parte minoritaria della dottrina, nient'altro che singoli aspetti di una strumentalità complessa della carcerazione preventiva, inquadrabile in chiave unitaria solo alla luce del principio di difesa sociale, 75 ILLUMINATI G., loc. ult. cit. 76 GREVI V., Libertà personale dell’imputato e Costituzione, cit., pp. 33-34. 47 «giustificazione dell'intero sistema criminale» e pertanto fondamento tanto delle pene e delle misure di sicurezze quanto della detenzione preventiva77. Da una prospettiva non dissimile, si è sostenuto che, nella sua strumentalità «imponente e ricca», la custodia preventiva tende principalmente ad assicurare «la sollecitudine dell'effetto reattivo della collettività giuridicamente organizzata, rispetto al delitto commesso, effetto reattivo che costituisce l'anima della pena e che, se si dovesse prima attendere l'esaurimento del processo, spesso andrebbe perduto»78. In termini simmetricamente opposti, vi è chi ha respinto in blocco gli scopi «di prevenzione speciale e generale, intesi ad evitare che l'imputato o altri commetta reati, e quelli di natura esemplare, miranti a compensare l'allarme sociale o il desiderio di vendetta della vittima», leggendovi una funzione di «anticipazione degli effetti della pena», incompatibile con la presunzione d'innocenza79. In verità, dietro ai concetti di esemplarità e di allarme sociale si celano esigenze non completamente sovrapponibili80. Il primo esprime la funzione intimidatoria e deterrente cui si vorrebbe ricollegare la carcerazione preventiva, che, in quanto trattamento afflittivo prontamente attuato nei confronti dell'imputato, servirebbe a dissuadere la collettività dalla commissione di fatti criminosi. Essa coincide con la funzione di prevenzione generale tipica della sanzione penale. Con il riferimento all'allarme sociale prodotto dal reato si sono indicate finalità diverse, solo in parte coincidenti con quella di esemplarità. Si è sostenuto che la restrizione in vinculis dell'imputato potesse servire a evitare ripercussioni contagiose, e in questo senso anche il placare lo stato d'animo collettivo può ricondursi alla funzione di prevenzione generale. Nell'esigenza di ripristinare il sentimento di sicurezza dei cittadini è però leggibile anche l'urgenza di sopperire alla possibile perdita di credibilità delle istituzioni circa la loro capacità di fronteggiare la criminalità, e quindi di ristabilire l'autorità dello Stato attraverso una immediata reazione contro il presunto autore del reato. Infine, la funzione sedativa dell'allarme prodotto dal reato mirerebbe anche alla tutela dell'integrità fisica dell'imputato, 77 In questi termini, MARUCCI A., Polemiche vecchie e nuove sulla custodia preventiva, in Giur. it., 1971, I, p. 146, che così conclude: «l'omicida sorpreso sul fatto e confesso davanti al magistrato […] non dovrebbe venir posto in stato di custodia preventiva, qualora a questo istituto si dovesse attribuire la sola funzione processuale della genuinità delle prove e simili. Vero è che esso mira a soddisfare esigenze diverse: in una parola, quelle di difesa sociale, cui deve sottostare per primo l'imputato quale membro della società». 78 FOSCHINI G., Le cautele penali, in Riv. it. Dir. Pen., 1956, p. 51. 79 DOMINIONI O., La presunzione d'innocenza, in Le parti nel processo penale, Milano, Giuffrè, 1985, pp. 241242. 80 Chiariscono tale distinzione sia GROSSO D., La carcerazione preventiva tra «emergenza» e Costituzione, in Giust. Pen., 1983, III, p.496, che VASSALLI G., op. cit., pp. 15-16. 48 evitando «indiscriminate attività di autogiustizia»81. Resta il dato che gli autori inclini ad assegnare alla custodia preventiva un fondamento prevalentemente sostanziale hanno ravvisato nell'esigenza di difesa della società la «giustificazione politico-sociale dell'istituto», dalla quale discende che gli scopi più importanti ed essenziali dell'istituto sarebbero «quelli che possono essere considerati, a rigore, come propri delle misure penali»82. I riferimenti all'esemplarità e all'allarme sociale, peraltro, hanno suscitato le critiche di molta parte della dottrina83 e tendono ormai ad essere espunti dal novero delle possibili giustificazioni teoriche dell'istituto. Tali finalizzazioni, infatti, presupponendo l'assenza di una netta distinzione concettuale fra la figura dell'imputato e quella del colpevole, appaiono inaccettabili alla luce dell'art. 27.2 Cost.. In particolare, si è evidenziato che «solo ragionando entro lo schema logico della presunta colpevolezza dell'imputato potrebbe concepirsi la sua incarcerazione come strumento sedativo delle ansie e dei timori suscitati dal reato, mentre una siffatta concezione appare insostenibile in un sistema processuale fondato sulla presunzione di non colpevolezza, ed anzi decisamente intollerabile là dove sembra riecheggiare il barbaro rituale del “capro espiatorio”»84. Eppure, il fine di placare l'allarme sociale, che nell'ordinamento italiano ha ricevuto una sia pur provvisoria legittimazione nei disegni di legge che hanno preceduto il testo definitivo della legge delega n. 108 del 1974 per la promulgazione del nuovo codice penale 85, ha trovato riconoscimento, sia pure in termini piuttosto circoscritti, nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo86. D'altra parte, sarebbe difficile sostenere che le ragioni dell'esemplarità e dell'allarme sociale, per quanto stigmatizzate dalla dottrina, non trovino ancora riconoscimento nella coscienza sociale e, di riflesso, nelle reali motivazioni che sorreggono i provvedimenti cautelari. Pur non avendo alcuna legittimazione sul piano della disciplina positiva vigente, tali finalità tendono a filtrare nelle dinamiche applicative dell'attuale art. 274 lett. c), forzandone senz'altro la portata, ma trovando sostegno nella natura sostanzialistica che condividono con 81 DEL POZZO C., La libertà personale nel processo penale italiano, 1962, p.79. 82 DEL POZZO C., op. cit., p.81. 83 DE LUCA G., voce Custodia preventiva (dir. proc. pen.) in Enc. dir., vol. XI, Milano, Giuffrè, 1977, p.588; PISAPIA G., op. cit., p. 93; PISANI M., op. cit., p. 190; GREVI V., op. cit., pp. 41-43; VASSALLI G., loc. ult. cit.; AMATO G., op. cit., p. 380; ILLUMINATI G., op. cit., p. 42; GROSSO D., op. cit., pp. 496-497; DOMINIONI O., op. cit., p. 242. 84 GREVI V., op. cit., p. 43. 85 Il riferimento all'allarme sociale verrà espunto solo nel testo definitivo del punto n.54 della legge delega del 1974. In proposito v. infra, cap. 4, § 1.1. 86 V. infra, § 6. 49 l'esigenza di prevenzione speciale.87 5.2. Finalità endoprocessuali. Identificate da Beccaria come le uniche finalità in vista delle quali l'imputato può legittimamente essere privato della libertà personale, e riprese poi nella tripartizione carrariana, le due esigenze endoprocessuali, generalmente individuate nel pericolo di inquinamento delle prove e nel pericolo di fuga, hanno trovato un diffuso riconoscimento nella dottrina che si è confrontata con le direttive costituzionali. Tali finalità, infatti, concretandosi nella tutela del processo e del suo risultato, sono quelle che meno sembrano presupporre una assimilazione dell'imputato al colpevole, consentendo quindi quella diversificazione teleologica della custodia cautelare rispetto alla pena che sola potrebbe legittimare, alla luce della presunzione di non colpevolezza, l'adozione di misure restrittive della libertà personale in corso di processo. In realtà, anche in merito a tali esigenze, non vi è stata una piena convergenza di opinioni. Di un riconoscimento più diffuso ha goduto la c.d. cautela strumentale, talora ritenuta l'unica88 o la principale89 funzione della custodia preventiva. Tale finalità è stata spesso intesa nella duplice dimensione di garanzia della presenza dell'imputato per gli scopi dell'istruzione e di tutela nei confronti del pericolo di occultamento o inquinamento delle prove. La prima dimensione è stata particolarmente valorizzata da quella dottrina che ha interpretato in chiave etica la sottoposizione dell'imputato a carcerazione preventiva, quale 87 Lo confermano le parole di Paolo Borgna, Procuratore Aggiunto presso la Procura della Repubblica di Torino, che richiamano da vicino quelle di Marucci (il cui scritto risale al 1971, v. supra, nota 48) : «se un marito si presenta in commissariato con in mano il coltello sporco di sangue e dice: “signor commissario, mi costituisco perché ho perso la testa ed ho ucciso mia moglie”, qualora noi applicassimo rigorosamente l'articolo 274 cpp, non emetteremmo alcuna misura cautelare. Non c'è il rischio di fuga: perché l'omicida non solo non scappa ma addirittura si costituisce volontariamente. Non c'è il pericolo di inquinamento probatorio: perché l'uomo ha confessato. Non c'è il pericolo di reiterazione del reato: perché di moglie ce n'è una sola. Eppure, è chiaro a tutti che quell'uomo verrà imprigionato: perché non è socialmente tollerabile che un uxoricida confesso venga lasciato libero un'ora dopo l'omicidio. E dunque ci si arrampicherà sugli specchi e si dilaterà la portata dell'art. 274 lett. c) cpp per tenere costui in galera» (Relazione tenuta al Convegno su Carcere e Costituzione, Sarzana, 15-16 aprile 2011). 88 PISAPIA G., op. cit., pp. 94-95: secondo l'autore la carcerazione preventiva «non sembra avere, in linea teorica, alcuna giustificazione, fatta eccezione per quelle limitazioni della libertà personale strettamente inerenti ai fini propri del processo e nei limiti imposti da tale funzione strumentale»; RICCIO G., Politica penale dell'emergenza e costituzione, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1982, p. 160, ove si sostiene che tale soluzione sarebbe imposta dalla necessaria «reversibilità» (intesa come provvisorietà) degli effetti della custodia preventiva, a sua volta imposta dalla presunzione di non colpevolezza. 89 AMATO G., op. cit., p. 376; l'autore ripercorre le tre finalità individuate dalla tradizione liberale, collocandole in un ordine graduale, che da un minimo (esigenze probatorie) giunge ad un massimo (finalità di difesa sociale) di identificazione tra imputato e colpevole. 50 segno della sua contribuzione personale al perseguimento del fine di giustizia 90. Sono stati bene evidenziati, peraltro, i rischi insiti in tale prospettiva, ove l'obiettivo di assicurare l'imputato al processo non sia perseguito solo per compiere atti che richiedono – per breve tempo – la collaborazione forzata dell'imputato (ispezioni, perquisizioni, ricognizioni, confronti), ma anche per giungere, attraverso l'interrogatorio, a dichiarazioni autoaccusatorie, «magari nella forma di uno squallido “baratto” fra libertà provvisoria e confessione».91 Qualche perplessità, peraltro, ha destato anche la seconda dimensione della cautela strumentale (l'unica accolta dal vigente codice di rito92), perché il timore che l'imputato inquini le prove si fonderebbe sull'ipotesi che egli «per dimostrarsi innocente, abbia bisogno di alterare lo stato dei fatti; il che [vorrebbe dire] che egli è colpevole» 93. In realtà – si è argomentato – tale conclusione non è scontata, essendo agevole immaginare che «anche un imputato non colpevole possa indursi a manipolare il quadro probatorio, ritenendo di avervi interesse, ad esempio perché, vedendosi indiziato a torto [...] paventi di rimanere vittima di un errore giudiziario, ovvero perché, pur non avendo commesso alcun reato, preferisca nondimeno evitare che vengano alla luce certe notizie sul suo conto»94. Dunque, l'esigenza cautelare di tipo strumentale non sarebbe incompatibile con l'art. 27.2 Cost., fondandosi su una valutazione di pericolosità “processuale” dell'imputato che si colloca «su un piano diverso e autonomo da quello di un anticipato giudizio sul merito dell'accusa»95. Anche in merito alla c.d. funzione cautelare finale, che esprime l'esigenza di garantire il risultato del processo, evitando che l'imputato si sottragga all'eventuale condanna, si sono profilati diversi orientamenti. Il pericolo di fuga è stato ritenuto da una parte della dottrina l'unica96 o principale97 ragione giustificatrice della custodia preventiva; altri autori invece vi hanno attribuito una rilevanza analoga98 o inferiore99 a quella degli altri pericula. Le varie opinioni discendono per lo più da una differente valutazione della compatibilità 90 SABATINI G., Trattato dei procedimenti incidentali nel processo penale, Torino, Utet, 1953, p.429. 91 GREVI V., op. cit., pp. 54; ILLUMINATI G., op. cit., p. 44. 92 Nell'art. 274.1 lett. a), modificato dalla l. 332/1995, a seguito della costatazione che, nonostante la formulazione originaria della disposizione non lasciasse apparentemente spazio a simili interpretazioni, la cautela strumentale aveva di fatto consentito una strumentalizzazione in chiave confessoria della custodia in carcere. Perciò si prevede ora che le situazioni di concreto ed attuale pericolo per l'acquisizione o la genuinità della prova non possano «essere individuate nel rifiuto della persona sottoposta alle indagini o dell'imputato di rendere dichiarazioni né nella mancata ammissione degli addebiti». 93 AMATO G., op. cit., p. 377; della stessa opinione, AMODIO E., op. cit., p. 882. 94 GREVI V., op. cit., pp. 55-56. 95 GREVI V., op. cit., p. 56. 96 DE LUCA G., Lineamenti, cit., p. 11. 97 ILLUMINATI G., op. cit., p. 47. 98 VASSALLI G., op. cit., pp. 17-18. 99 AMATO G., op. cit., p. 380-381; GREVI V., op. cit., p. 66. 51 dell'esigenza cautelare finale con la presunzione di non colpevolezza. Si è ritenuto infatti che «la carcerazione inflitta in vista della trasformazione dello status di imputato in quello di condannato [darebbe] ai sospetti emergenti dal processo una funzione che è quanto mai vicina a quella delle prove su cui si fonda la pena»100. Da una diversa prospettiva, tuttavia, si è messo in evidenza che la presunzione d'innocenza non impedisce ogni valutazione di probabile colpevolezza, ma mira a evitare che la carcerazione preventiva sia disposta solo sulla base di tale valutazione, venendo ad assumere così una funzione essenzialmente punitiva. Nei limiti in cui, accanto alla verifica della sussistenza di consistenti elementi di prova a carico dell'imputato (che, lungi dall'essere in contrasto con l'art. 27.2, configura una garanzia diretta a ridurre al minimo il rischio di incarcerare un individuo che risulterà poi innocente), vi sia un accertamento della reale esistenza del pericolo di fuga, la custodia preventiva non smarrirebbe la sua legittima funzione cautelare101. La restrizione in carcere dell'imputato verrebbe allora a giustificarsi non già perché lo si presuma colpevole «bensì perché, non essendo consentito allo stato degli atti di escludere che possa esserlo […] si tende a garantire in ogni caso il risultato del processo, ivi compresa l'ipotesi più sfavorevole per il giudicando»102. L'attenzione andrebbe posta, invece, sul fatto che l'impiego della custodia preventiva per l'esigenza cautelare finale difficilmente potrebbe giustificarsi nella fase iniziale del procedimento, quando il quadro probatorio è ancora troppo fluido; sicché, il pericolo di fuga potrebbe acquisire rilevanza solo dopo che l'imputato abbia avuto modo di contestare gli indizi a suo carico e l'ipotesi accusatoria abbia raggiunto una certa consistenza, quindi tendenzialmente dopo il rinvio a giudizio103. 5.3. Prevenzione speciale. «La società si ribella all'idea che, scoperta che sia stata la pericolosità immediata dell'individuo in occasione di un procedimento a suo carico, costui debba essere lasciato libero di nuocere fino a che la sua responsabilità nel procedimento in corso non sia definitivamente accertata»104: questo è il motivo di fondo che ispira le posizioni di quella parte della dottrina che sostiene la legittimità dell'esigenza di prevenzione speciale. 100 AMATO G., op. cit., p. 380. 101 ILLUMINATI G., op. cit., pp. 46-47. 102 GREVI V., op. cit., p. 61. 103 AMATO G., op. cit., p. 380; GREVI V., op. cit., pp. 64-65. 104 VASSALLI G., op. cit., p. 20. 52 Nel panorama dottrinale sono individuabili quattro posizioni in merito a tale finalizzazione della custodia preventiva. La prima è quella espressa da quanti hanno sostenuto la tesi della plurimità dei fini, rifiutando o banalizzando le connessioni tra la presunzione di non colpevolezza e il trattamento processuale dell'imputato, da disciplinare avendo riguardo principalmente al superiore principio della difesa sociale: è la posizione che si è già delineata quando si sono analizzati i criteri dell'esemplarità e dell'allarme sociale. La seconda e la terza posizione appaiono per molti aspetti sovrapponibili: espresse da autori tendenzialmente critici rispetto alle posizioni eclettiche e sensibili ad una rigorosa delimitazione dell'ambito applicativo della custodia preventiva, da ricondursi al principio del «sacrificio minimo» della libertà personale dell'imputato, tali posizioni convergono sul fatto che le istanze della prevenzione speciale, trovando riconoscimento nel dettato costituzionale, non andrebbero aprioristicamente escluse dal novero delle finalità cautelari. Non avrebbe, dunque, ragion d'essere la distinzione tra scopi endoprocessuali ed extraprocessuali, nella misura in cui anche questi ultimi esprimano esigenze degne di tutela sul piano costituzionale; l'attenzione andrebbe posta, piuttosto, sul fatto che «a tutte le possibili finalizzazioni [...] delle limitazioni della libertà personale possano accompagnarsi, e di fatto si siano accompagnati, pesanti rischi di abusi e di degenerazioni incostituzionali, e come perciò, nei confronti di ognuna di tali finalizzazioni, sia necessaria un'attenta predisposizione di limiti e di controlli»105. Secondo gli interpreti che condividono tale prospettiva la presunzione d'innocenza non sarebbe di ostacolo all'accoglimento dell'esigenza di prevenzione speciale. Se, infatti, non si esclude, sulla base dell'art. 27.2, la possibilità di una diagnosi provvisoria di colpevolezza (attraverso l'accertamento degli “indizi di colpevolezza”, necessario presupposto per l'adozione della custodia preventiva), parimenti non si può escludere «che, in materia di misure cautelari, si tenga conto di tutti i più consistenti “rischi” connessi allo svolgersi del processo nel tempo»106, purché «una particolare consistenza di elementi lato sensu probatori [sia] combinata con una oggettiva gravità del reato e con altre “spie” di pericolosità del 105 CHIAVARIO M., voce Libertà personale (dir. proc. pen.), in Enc. giur., vol. XIX, Roma, Treccani, 1990, p.7; a parere dell'autore, tali rischi sarebbero accresciuti da «quelle «letture» esasperatamente unilaterali dell'art. 27, 2° co., Cost., che, pretendendo di circoscrivere a priori in modo eccessivo l'ambito delle finalità cautelari «legittime» finiscono – neppur troppo paradossalmente – per favorire, nei fatti, le più gravi dilatazioni abusive dei poteri limitativi di libertà». 106 CHIAVARIO M., Profili di disciplina, cit., p. 238; la tesi della compatibilità di prevenzione speciale con la presunzione d'innocenza è espressa anche da VENDITTI R., Problemi e proposte in tema di carcerazione preventiva, in Giur. it., 1974, IV, pp. 27-28, nonché da CANZIO G., La libertà personale dell'imputato nelle legislazione dell'«emergenza» degli anni 1974-1980, in Giust. pen., 1981, III, p. 361. 53 soggetto sub iudice»107. Dunque, la previsione dell'esigenza di prevenzione speciale non sarebbe incompatibile con l'art. 27.2 Cost. nella misura in cui il giudizio sulla pericolosità dell'imputato non venga fatto discendere esclusivamente dagli indizi di colpevolezza gravanti su di lui108. Da questo punto di vista, non avrebbe peso l'argomento in base al quale accogliendo la finalità di prevenzione speciale si confonderebbe un istituto processuale con istituti di diritto sostanziale quali le misure di prevenzione e le misure di sicurezza. Una volta riconosciuta la legittimità dell'esigenza di tutela contro la pericolosità di un individuo, infatti, il problema sarebbe solo quello di accertare tale pericolosità sulla base di indici rigorosamente predisposti, per evitare «che la finalità difensiva travalichi i confini naturali della carcerazione preventiva e faccia di questa uno strumento di abusi e di abbreviazioni di quell'iter di accertamenti che è indispensabile anche rispetto alla pericolosità»109. Si è sostenuto, inoltre, che la prevenzione speciale propria della custodia cautelare non coinciderebbe con la prevenzione speciale che persegue la sanzione penale. Tale distinzione consente di chiarire un aspetto finora rimasto in ombra: «la “prevenzione speciale” propria della pena scaturisce dal rimprovero contenuto nella sentenza di condanna, non tende semplicemente a neutralizzare la pericolosità del reo, ma punta altresì alla sua rieducazione ed opera pertanto su un piano diverso dalla “prevenzione” perseguibile nel corso del processo»110. Esiste però – si ammette – «una parziale coincidenza, a questo riguardo, tra pena e misura cautelare, giacché entrambe possono essere impiegate allo scopo di preservare la collettività dal pericolo di reati futuri (cosiddetta prevenzione speciale negativa). […] E' invece esclusiva della pena la finalità di rieducazione e risocializzazione (prevenzione speciale positiva)»111. Si è detto che la seconda e la terza posizione non sono pienamente coincidenti. Esse, infatti, collimano nel ritenere la compatibilità tra prevenzione speciale e art. 27.2 Cost, ma, mentre la seconda posizione, ricalcando la tesi della trivalenza funzionale già espressa in epoca liberale da Francesco Carrara, afferma la pari dignità dell'esigenza specialpreventiva 107 CHIAVARIO M., Diritto processuale penale. Profilo istituzionale, Torino, Utet, 2006, p. 536. 108 Questa sembra essere la posizione espressa anche da GROSSO D., op. cit., p. 509; MARZADURI E., voce Custodia cautelare nel diritto processuale penale, in Dig. pen., vol. III, Torino, Utet, 1989, p. 285; nonché da ORLANDI R., op. cit., p. 139. 109 VASSALLI G., op. cit., p. 21. 110 ORLANDI R., op. cit., p. 136. 111 ORLANDI R., loc. ult. cit.. Mentre la prevenzione speciale positiva coincide con la finalità rieducativa della pena imposta dall'art. 27.3 Cost., la prevenzione speciale negativa opera sul doppio versante della neutralizzazione , che consiste nel porre un soggetto nell'impossibilità, materiale o giuridica, di delinquere, e dell'intimidazione, che dovrebbe operare come coazione psicologica a non commettere futuri reati (CANESTRARI S.-CORNACCHIA L.-DE SIMONE G., Manuale di diritto penale. Parte generale, Bologna, Il Mulino, 2007, pp. 61-63). 54 rispetto a quelle endoprocessuali, la terza posizione, che è stata sostenuta da Giuliano Vassalli, si mostra più cauta. Quest'ultimo autore, infatti, ha sostenuto che la prevenzione speciale possa essere accolta solo come «funzione subordinata ed eventuale ed in ogni caso priva di autonomia» 112. Pur ritenendo che una provvisoria valutazione della pericolosità di una persona indiziata di gravi reati possa essere fatta senza necessariamente presupporne la colpevolezza, egli ha riconosciuto che «una cosa è la pericolosità che può risultare dall'accertamento definitivo della sua responsabilità in relazione al reato per cui si procede ed altra cosa la pericolosità emergente con immediatezza» prima di tale accertamento.113 Alla difesa contro la prima si risponderà con la pena detentiva e con la misura di sicurezza; «alla difesa contro la seconda invece la custodia preventiva può sopperire svolgendo soltanto una funzione vicaria rispetto a quella delle misure di prevenzione o d'altre misure urgenti a tutela dell'ordine pubblico». Sicché si tratta di una finalità che, sebbene irrinunciabile, «non rientra tra gli scopi propri della carcerazione preventiva, tra le sue funzioni naturali od ontologiche»; di conseguenza, «se ci si trovasse in presenza di una carcerazione non fondata menomamente né su esigenze istruttorie né su esigenze di cautela finale, la restrizione della libertà non potrebbe, sul solo principio di prevenzione speciale, essere legittimamente adottata»114. A ben vedere, la posizione espressa da Vassalli sembra molto più vicina alla tesi «negazioniste» di quanto egli stesso sembri voler sostenere rimarcando che si tratterebbe pur sempre di funzione e non di «effetto pratico»115. Non può tacersi, peraltro, la rigorosa delimitazione con cui talora si è accolta la legittimità della funzione specialpreventiva, caratterizzata da una «estrema delicatezza», e destinata dunque «ad operare esclusivamente in circostanze davvero eccezionali, per scongiurare pericoli davvero di grande entità, ed in un contesto particolarmente rigoroso di garanzie», e «soltanto nell'ambito di un'area d'imputazioni ristrettissima [...] in presenza di un materiale indiziante di particolare consistenza ed univocità»116: tali indicazioni, come si vedrà117, non sono state accolte nel nuovo codice di procedura. Resta da considerare la quarta posizione, espressa da quanti hanno negato la compatibilità costituzionale della restrizione della libertà personale dell'imputato al solo fine 112 VASSALLI G., La riforma della custodia preventiva, in Riv. dir. proc. pen., 1954, p. 319; la stessa tesi viene poi ripresa in VASSALLI G., Libertà personale, cit., p. 23. 113 VASSALLI G., loc. ult. cit. 114 VASSALLI G., Libertà personale, cit., p. 24. 115 VASSALLI G., loc. ult. cit. 116 CHIAVARIO M., Problemi attuali della libertà personale. Tra «emergenze» e «quotidiano» della giustizia penale, Milano, Giuffrè, 1985, pp. 146-147. 117 V. infra, cap. 4. 55 di precludergli la commissione di futuri reati. Una volta esclusa dai più la legittimità di ogni finalizzazione in chiave di esemplarità, di soddisfazione del pubblico senso di giustizia o di sedazione dell'allarme sociale, la critica di molta parte della dottrina si è focalizzata proprio sull'esigenza di prevenzione speciale. La tesi della rigorosa delimitazione della custodia preventiva alle strette necessità processuali, il cui primo sostenitore fu Cesare Beccaria 118, ha avuto molto seguito finché il panorama legislativo è rimasto caratterizzato da un formale agnosticismo, per poi perdere di vigore man mano che, sotto la spinta dell'emergenza terroristica che ha segnato gli anni '70 e i primi anni '80, l'esigenza specialpreventiva ha ricevuto una sempre più chiara legittimazione sul piano normativo, per essere infine trasfusa, dopo aver ricevuto anche l'avallo della Corte costituzionale119, nell'art. 274 lett. c) del vigente codice di rito. Le critiche, peraltro, non si sono del tutto sopite e, nonostante il cospicuo mutamento del panorama normativo, ricalcano nelle linee di fondo quelle mosse dalla dottrina più risalente. Il principale parametro di riferimento resta, infatti, insieme all'art. 13 Cost, l'art. 27.2, che, come si è visto, vieta qualsiasi trattamento fondato su un'assimilazione tra imputato e colpevole. La custodia preventiva come rimedio contro la temuta pericolosità sostanziale dell'imputato troverebbe il suo fondamento proprio «nell'ipotesi che l'imputato sia colpevole del reato che gli è attribuito: si teme cioè che, avendo già delinquito, possa delinquere ancora, e ci si cautela dinanzi a tale rischio attraverso una carcerazione tipicamente destinata a finalità di sicurezza»120. La distanza tra le posizioni favorevoli e quelle contrarie all'esigenza di prevenzione speciale si coglie con particolare evidenza su questo piano, ossia sulla possibilità di formulare un giudizio di pericolosità che prescinda da un'anticipato giudizio di colpevolezza in ordine al reato per cui si procede.121 Autorevole dottrina122 ha negato tale possibilità, ritenendo che il giudizio di pericolosità 118 V. supra, cap. 1, § 2. 119 Soprattutto con la sentenza n.1 del 1980; v. infra, cap 3, § 2. 120 GREVI V., op. cit., p. 47. 121 Non a caso gli sforzi del legislatore per delimitare i contorni dell'esigenza cautelare accolta nell'art. 274 lett. c) si muoveranno proprio nella direzione di una rigorosa definizione dei parametri cui ancorare la prognosi di pericolosità al fine di slegarli da una valutazione di colpevolezza, incompatibile con l'art. 27.2 (v. infra, cap. 4). 122 PISAPIA G., op. cit., p. 94; PISANI M., op. cit., p. 190; DE LUCA G., voce Custodia preventiva, cit., p. 588; BRICOLA F., Politica criminale e politica penale dell'ordine pubblico (a proposito della legge 22 maggio 1975 n. 152), in La quest. crim., 1975, p. 248; AMATO G., op. cit., p. 380; DOMINIONI O., op. cit., p. 242; ILLUMINATI G., op. cit., p. 43; RICCIO G., Politica penale dell'emergenza e costituzione, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1982, p. 164; MITTONE A., Pericolosità sociale del recidivo e valori costituzionali da tutelare, in Giur. cost., 1971, p. 1104. 56 che fonda l'esigenza di prevenzione speciale postuli l'identificazione tra la figura dell'imputato e quella del colpevole, sicché «sembra inevitabile scivolare nell'anticipazione della pena: o, quanto meno, si apre un grosso varco all'utilizzazione delle misure cautelari per scopi esclusivamente punitivi, dal momento che i presupposti vengono ancorati ad una prognosi di pericolosità modellata soltanto su una presunzione di colpevolezza »123. A questa tesi si è obiettato che «la pericolosità dell'imputato può desumersi anche da un fatto diverso da quello che è oggetto del giudizio: per esempio da una sentenza passata in giudicato o da modalità della condotta che possono prescindere dall'ipotesi di colpevolezza in ordine al reato per cui si procede»124. Tuttavia, anche nei casi in cui l'imputato risulti pericoloso sulla base di indizi e di circostanze valutabili indipendentemente dall'ipotesi di colpevolezza per la quale si procede, il rilievo conferito all'esigenza di prevenzione speciale comporterebbe una distorsione dell'uso della custodia preventiva, che sconfinerebbe nell'alveo delle misure di prevenzione 125 oppure verrebbe impropriamente utilizzata per fini tipici della misura di sicurezza 126 o – appunto – della pena. La custodia ante iudicium, infatti, è istituto tipicamente riferito alla posizione dell'imputato nel processo, mentre in tali situazioni l'imputato verrebbe in evidenza non in quanto tale, bensì in quanto soggetto ritenuto socialmente pericoloso a prescindere dalla fondatezza dell'imputazione, sicché potrebbero al più essergli applicate misure meno gravi rispetto alla custodia in carcere127. La prevenzione speciale (negativa), inoltre, appartiene alle funzioni tipiche della pena, al pari, tra le altre, della funzione rieducativa; e così come non si reputa ammissibile, alla luce della presunzione d'innocenza, l'anticipazione di un trattamento rieducativo, allo stesso modo si deve escludere che la cattura possa essere disposta per prevenire la pericolosità dell'imputato128. Insomma, quand'anche la valutazione di pericolosità non si traducesse in una prognosi di recidiva, fondata sul presupposto della commissione del reato per cui si procede, non verrebbero comunque meno i profili d'illegittimità della finalità specialpreventiva, che continuerebbe a porsi in conflitto con la presunzione di non colpevolezza129. Tale conclusione 123 ILLUMINATI G., loc. ult. cit.. 124 NAPPI A., I presupposti per l'applicazione delle misure cautelari reali e personali, in CANZIO G.-FERRANTI D.PASCOLINI A. (a cura di ), Contributi allo studio del nuovo codice di procedura penale, Milano, 1989, p. 186. 125 PERONI F., Le misure interdittive nel sistema delle cautele penali, Milano, Giuffrè, 1992, p. 102. 126 GREVI V., op. cit., p. 50. 127 GREVI V., loc. ult. cit.. 128 ILLUMINATI G., loc. ult. cit.. 129 A tale conclusione giunge anche AMODIO E., op. cit., p. 882; l'autore escludeva la possibilità di fare uso della carcerazione preventiva per esigenze di prevenzione speciale sulla base dell'art. 5 Cedu, che, alla luce anche del 57 non pare smentita neppure dal riconoscimento di una funzione di prevenzione all'arresto in flagranza, poiché in tale istituto l'esigenza di prevenire si accompagna e si fonde con la necessità di interrompere l'attività criminosa in atto, cioè di impedire che il reato venga portato a conseguenze ulteriori130. Solo a patto di una rigorosa distinzione rispetto alla pena sul piano teleologico (oltre che su quello temporale), infatti, può accettarsi la sottoposizione dell'imputato a un trattamento del tutto analogo, dal punto di vista afflittivo, a quello sanzionatorio. Da questo punto di vista, la pur ineliminabile frizione tra il principio di giurisdizionalità e la limitazione della libertà personale prima dell'accertamento definitivo, si stempera solo quando tale limitazione sia l'unica via possibile per garantire proprio la funzione di accertamento. Il conflitto appare, invece, insuperabile, quando alla detenzione ante iudicium si assegni una funzione estranea alle esigenze dell'accertamento e appartenente invece al panorama teleologico della sanzione penale. Sotto un altro profilo, non si è mancato di rilevare che «è proprio la custodia preventiva […] a contenere in sé i principali germi di pericolo di ulteriori reati, [essendo] notoriamente fonte precipua di complessi criminali, soprattutto sui delinquenti primari»131. Infine, un ultimo argomento a sostegno della tesi contraria alla legittimità dell'esigenza preventiva è stato tratto dall'art 13 ult. co. Cost., ove si prevede che «la legge stabilisce i limiti massimi della carcerazione preventiva». Da tale disposizione si può desumere, infatti, che «i Costituenti hanno concepito la custodia dell'imputato come destinata ad assolvere una funzione temporalmente circoscritta nell'arco del procedimento», sicché non sarebbe «logicamente concepibile che si assegni alla carcerazione preventiva la finalità di soddisfare esigenze che potrebbero benissimo continuare a persistere oltre la scadenza di quei limiti temporali»132. Come si vedrà, le numerose perplessità espresse dalla dottrina in merito all'esigenza di prevenzione speciale non hanno impedito che tale periculum, già presente implicitamente tra dettato costituzionale, consentirebbe la restrizione della libertà personale dell'imputato solo per assicurare la disponibilità della sua persona in vista del compimento delle attività istruttorie e per evitare il pericolo di fuga. 130 GREVI V., op. cit., p. 49, nota 127; negli stessi termini PAULESU P.P., op. cit., p. 138, che conclude: «l'arresto in flagranza guarda soprattutto al presente, mentre la custodia cautelare in chiave preventiva è tutta proiettata in una dimensione futura». 131 LIGUORI G., op. cit., p. 626. 132 GREVI V., voce Libertà personale dell'imputato, in Enc. dir., vol. XXIV, Milano, Giuffrè, 1977, p.342; secondo l'autore, che, come si è visto, propende per la finalizzazione della custodia preventiva soprattutto in chiave di cautela strumentale, l'art 13 ult. co. Cost. costituirebbe un «sintomatico indice di “preferenza” costituzionale per una strutturazione della custodia preventiva in vista di esigenze connesse allo sviluppo istruttorio del processo, normalmente destinate in quanto tali a venir soddisfatte durante l'iter dell'accertamento giudiziale, e per lo più entro la chiusura dell'istruzione». 58 le pieghe del codice Rocco, trovasse un sempre più ampio ed esplicito riconoscimento, sotto l'etichetta delle «esigenze di tutela della collettività», nella stagione dell'emergenza terroristica. 6. Le esigenze cautelari nella Convenzione europea dei diritti dell'uomo. L'art. 5 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo esordisce con l'affermazione che «[o]gni persona ha diritto alla libertà e alla sicurezza», fissando così una regola rispetto alla quale le successive enunciazioni, relative alle possibili privazioni della libertà personale, costituiscono tassative eccezioni da interpretare restrittivamente133. I due concetti di libertà e sicurezza, nell'art. 5 Cedu – così come in altri documenti internazionali134 – non sono autonomi e contrapposti, ma operano nella stessa direzione, poiché la tutela della sicurezza è intesa quale garanzia da «arbitrarie interferenze della pubblica autorità nella libertà di un individuo»135. L'obiettivo dell'art. 5 è, infatti, quello di assicurare che nessuno possa venire arbitrariamente privato della propria libertà136, intesa nella sua accezione classica di «libertà fisica della persona»137. La disposizione in esame, dunque, ha ad oggetto la sola privazione della libertà personale, mentre esulano dal suo ambito applicativo le semplici limitazioni di tale libertà, benché tra la prima e le seconde non vi sia, secondo l'interpretazione della Corte europea dei diritti dell'uomo, una differenza di natura o di essenza, ma solo di grado e di intensità138. Alla proclamazione iniziale fa seguito, nel 1° comma dell'art. 5, l'elenco delle ipotesi in cui la privazione della libertà personale è ammessa, «nei modi previsti dalla legge»: attraverso tale riserva di legge, che ben può dirsi “rinforzata”139, la Cedu rinvia alla legislazione 133 Corte eur., 22 febbraio 1989, Ciulla c. Italia, § 41, in www.echr.coe.int. 134 Negli stessi termini, infatti, si apre l'art. 9.1 del Patto internazionale sui diritti civili e politici, che sancisce il diritto di ogni individuo «alla libertà e alla sicurezza della propria persona»; analogamente, l'art. 3 della Dichiarazione Universale dei diritti dell'uomo afferma che «[o]gni individuo ha diritto alla vita, alla libertà e alla sicurezza della propria persona». 135 CHIAVARIO M., Processo e garanzie della persona, II, Le garanzie fondamentali, Milano, Giuffrè, 1984, p. 315; DE MEYER J., Sub. Art. 5 § 1, in PETTITI L.-E.-DECAUX E.-IMBERT P.-H. (a cura di), La Convention europeenne des droits de l'homme: commentaire article par article, Paris, Economica, 1999, p. 190. 136 Corte eur., 18 dicembre 1986, Bozano c. Francia, § 54, in www.echr.coe.int; v. MURDOCH J., Safeguarding the liberty of the person: recent Strasbourg jurisprudence, in International and Comparative Law Quarterly, 1993, vol. 42, 3, p. 494. 137 Corte eur., 25 giugno 1996, Amuur c. Francia, § 42, in www.echr.coe.int; v. DEFILIPPI C., sub art. 5, Diritto alla libertà e alla sicurezza, in DEFILIPPI C. - BOSI D. - HARVEY R. (a cura di), La Convenzione europea dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2006, pp.161-162. 138 Corte eur., 6 novembre 1980, Guzzardi c. Italia, § 92, in www.echr.coe.int; v. DE SALVIA M., La Convenzione europea dei diritti dell'uomo, Napoli, Editoriale Scientifica, 2001, p. 198; DE MEYER J., op. cit., p. 190. 139 SPANGHER G.-SANTORIELLO C. (a cura di), Le misure cautelari personali, cit., p. 9. L'art. 9.1 del Patto internazionale sui diritti civili e politici si limita, invece, a stabilire che «[n]essuno può essere privato della propria libertà, se non per i motivi e secondo la procedura previsti dalla legge». 59 nazionale (con la conseguente illegittimità di un provvedimento adottato fuori dai presupposti fissati dal diritto interno), ma essa esige altresì la conformità di qualsiasi privazione della libertà ai principi enunciati nella Convenzione e, in particolare, allo scopo dell'art. 5, cioè la protezione dell'individuo contro l'arbitrio140, secondo quanto espressamente previsto dall'art. 18141. L'esigenza di conformità del provvedimento coercitivo alla legislazione nazionale è ribadita attraverso l'uso dei termini “legale” (lawful, nella versione inglese) o “regolare” (régulier, nella versione francese) che ricorrono in ciascuna delle ipotesi in cui è ammessa la privazione della libertà, ad eccezione di quella descritta nel comma 1 lett. c); l'assenza dell'attributo, peraltro, riguarda la sola versione francese del testo, e i giudici di Strasburgo ne hanno riconosciuto la sostanziale irrilevanza, dal momento che il principio da esso espresso domina comunque l'intero art. 5.1142. Come messo in evidenza dalla Corte già nella sua prima decisione (Lawless c. Irlanda)143, le fattispecie descritte nelle lettere da a) a f) dell'art. 5.1 costituiscono un elenco tassativo delle ragioni che sole possono giustificare la privazione della libertà personale. Tra queste, le esigenze cautelari sembrano essere l'oggetto della disposizione di cui alla lettera c), che consente la restrizione della libertà personale nei confronti dell'individuo che «è stato arrestato o detenuto per essere tradotto dinanzi all'autorità giudiziaria competente, quando vi sono motivi plausibili di sospettare che egli abbia commesso un reato o vi sono motivi fondati di ritenere che sia necessario impedirgli di commettere un reato o di darsi alla fuga dopo averlo commesso». Ad uno sguardo più approfondito, tuttavia, tale disposizione si rivela di non agevole interpretazione. Posto, infatti, che le tre ipotesi sono chiaramente enucleate come tra loro alternative e che la prima consente la privazione della libertà personale sulla sola base del ragionevole sospetto di commissione di un reato, si è argomentato che non avrebbe senso supporre l'avvenuta commissione di un reato anche nelle successive144. Pertanto, per quanto riguarda la 140 Corte eur., 6 novembre 1980, Guzzardi c. Italia, § 92; Corte eur., 14 ottobre 1999, Riera Blume e altri c. Spagna, § 31, in www.echr.coe.int; v. DE MEYER J., op. cit., p. 190; PISANI M., sub art. 5, Diritto alla libertà e alla sicurezza, in BARTOLE S.-CONFORTI B.-RAIMODI G. (a cura di), Commentario alla Convenzione europea per la tutela dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, Padova, Cedam, 2001, p. 118; DEFILIPPI C., op. cit., p. 162; UBERTIS G., Principi di procedura penale europea: le regole del giusto processo, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2009, p. 101. 141 L'art. 18 Cedu prevede infatti che «[l]e limitazioni che, in base alla presente Convenzione, sono poste a detti diritti e libertà non possono essere applicate che per lo scopo per il quale sono state previste». 142 Corte eur., 6 novembre 1980, Guzzardi c. Italia, § 102, in www.echr.coe.int; v. UBERTIS G., op. cit., p. 101. 143 Corte eur., 1 luglio 1961, Lawless c. Irlanda, § 9, in www.echr.coe.int; v. CHIAVARIO M., La “lunga marcia” dei diritti dell'uomo nel processo penale, in BALSAMO A. - KOSTORIS R. (a cura di), Giurisprudenza auropea e processo penale italiano: nuovi scenari dopo il caso Dorigo e gli interventi della Corte Costituzionale, Torino, Giappichelli, 2008, p. 12. 144 VAN DIJK P. (a cura di), Theory and practice of the European convention on human rights, Oxford, Intersentia, 2006, p. 471. 60 necessità di prevenire la commissione di reati, si ritiene che tale previsione abbia ad oggetto sia il caso di proroga di una misura di sicurezza in caso di pericolo di recidiva specifica145 sia la situazione della persona che si trovi sul punto di commettere o stia commettendo un reato (intendendo il termine «commissione» come sinonimo di «consumazione») 146: rientrerebbero, quindi, nel campo di applicazione della norma, le ipotesi di arresto in fase di tentativo (art. 56 c.p.), quelle di arresto dei responsabili di «accordo o istigazione per commettere un delitto» ( art. 115 c.p.), e quelle in cui l'intervento della forza pubblica renda “impossibile” il reato (art. 49 c.p.)147. L'esigenza di coerenza ermeneutica sottesa a tale interpretazione si scontra, tuttavia, con il disposto dell'ultima parte del comma 1 lett. c), perché porterebbe a ritenere che il tentativo di allontanamento dal locus commissi delicti integri di per sé una ragione di sospetto giustificatrice dell'arresto148: ma, considerato che tale lettura appare inconciliabile con la ratio garantista della norma, l'unica soluzione possibile è parsa quella di ritenere che il pericolo di fuga costituisca una giustificazione non tanto dell'applicazione quanto del permanere della misura privativa della libertà personale149. Lo stesso pericolo di commissione di reati, d'altra parte, costituisce a sua volta, secondo il costante orientamento dei giudici di Strasburgo, anche una legittimazione della durata della misura150. Un parziale contributo chiarificatore viene dalla giurisprudenza della Corte europea, la quale, già a partire dal caso Lawless, ha decisamente escluso la legittimità di misure privative di libertà adottate in funzione di prevenzione generica e indiscriminata di forme di pericolosità sociale non riconducibili ad atti diretti alla commissione di uno o più reati specifici151, affermando che la previsione di cui alla lettera c) consente soltanto privazioni della libertà personale disposte nel corso di un procedimento penale152; i giudici di Strasburgo hanno evidenziato come tale interpretazione sia imposta dal successivo comma 3 dell'art. 5, 145 UBERTIS G., op. cit., p. 106, che richiama la sentenza Eriksen (Corte eur., 27 maggio 1997, Eriksen c. Norvegia, §86, in www.echr.coe.int). 146 CHIAVARIO M., La Convenzione europea dei diritti dell'uomo nel sistema delle fonti normative in materia penale, Milano, Giuffrè, 1969, p. 198; UBERTIS G., op. cit., p. 106. 147 CHIAVARIO M., loc. ult. cit. 148 CHIAVARIO M., La Convenzione europea, cit., p. 200; UBERTIS G., op. cit., p. 107. 149 VAN DIJK P. (a cura di), op. cit., p. 472. 150 VAN DIJK P. (a cura di), loc. ult. cit.; UBERTIS G., loc. ult. cit. 151 Tale funzione, peraltro, non sembra del tutto estranea all'elenco dell'art. 5.1, che alla lettera e) consente la detenzione, oltre che di malati contagiosi e di alienati, anche di alcoolizzati, tossicomani e vagabondi. 152 Corte eur., 1 luglio 1961, Lawless c. Irlanda, § 14; Corte eur., 6 novembre 1980, Guzzardi c. Italia, § 102; Corte eur., 22 febbraio 1989, Ciulla c. Italia, § 38, in www.echr.coe.int; v. DE MEYER J., op. cit., p. 193; UBERTIS G., op. cit., p. 105; JACOBS F. G.- WHITE R., loc. ult. cit.; MERRILLS J.G.-ROBERTSON A. H., Human rights in Europe: a study of the European Convention on Human Rights, Manchester, Manchester University Press, 2006; APRILE E., Le misure cautelari nel processo penale, II ed., Milano, Giuffrè, 2006, p. 123. 61 che prescrive di tradurre al più presto «dinanzi a un giudice o a un altro magistrato» la persona detenuta o arrestata ai sensi della lettera c), la quale «ha diritto di essere giudicata entro un termine ragionevole o di essere posta in libertà durante l'istruttoria»153. Il nesso posto in evidenza dalla Corte consente, dunque, di chiarire che le garanzie fissate dall'art. 5 comma 3 riguardano ciascuna delle ipotesi contemplate dal comma 1 lett. c), e che, di conseguenza, quest'ultima disposizione concerne le sole misure disposte nel corso di un procedimento instaurato per accertare la responsabilità nella commissione di un reato, rimanendo escluse dal suo ambito applicativo le misure di prevenzione, anche se adottate per tutelare l'ordine pubblico o la sicurezza dello Stato o per contrastare fenomeni di criminalità organizzata quali quello mafioso154. E' evidente, peraltro, che le difficoltà interpretative sollevate dall'art. 5.1 lett. c) sono dovute sia alla mancata distinzione, nella Convenzione, tra condizioni generali di applicabilità delle misure ed esigenze cautelari, sia alla non perfetta coincidenza, nella giurisprudenza della Corte, tra le ragioni che possono giustificare l'inizio della detenzione e quelle che legittimano il suo perdurare155. La Corte europea, infatti, ha ripetutamente affermato che mentre le plausibili ragioni di sospetto nei confronti dell'indagato, intese come elementi idonei «a persuadere un osservatore obiettivo che la persona in questione possa aver commesso il reato» 156, sono di per sé sufficienti a legittimare l'instaurazione dello stato detentivo, dopo un certo periodo tale condizione non è più sufficiente, rendendosi necessaria la verifica della sussistenza di una o più esigenze cautelari157. In questa prospettiva, peraltro, l'elenco contenuto nel comma 1 lett. c) non costituisce più un elenco tassativo158, dal momento che i giudici di Strasburgo hanno riconosciuto come motivi legittimanti il protrarsi della custodia, oltre al pericolo di fuga e a quello di 153 Art. 5.3 cedu. 154 Corte eur., 18 gennaio 1978, Irlanda c. Gran Bretagna, § 196; Corte eur., 6 novembre 1980, Guzzardi c. Italia, § 92; Corte eur., 22 febbraio 1989, Ciulla c. Italia, § 40, in www.echr.coe.int; v. CHIAVARIO M., La Convenzione europea, cit., p. 198; UBERTIS G., op. cit., p. 105; MAZZA O., La libertà personale nella Costituzione europea, in COPPETTA M.G. (a cura di), Profili del processo penale nella Costituzione europea, Torino, Giappichelli, 2005, pp. 53-54; MURDOCH J., Article 5 of the European Convention on human rights: the protection of liberty and security of person, Strasbourg, Council of Europe press, 1994, p. 26. La tesi secondo cui la seconda delle ipotesi previste dall'art. 5.1 lett. c) avrebbe consentito misure privative della libertà personale ante delictum era stata sostenuta da AMODIO E., La tutela della libertà personale dell'imputato nella Convenzione europea dei diritti dell'uomo, in Riv. it. dir. proc. pen., 1967, p. 874. 155 UBERTIS G., op. cit., p. 115. 156 Corte eur., 30 agosto 1990, Fox e altri c. Regno Unito, § 32, in www.echr.coe.int; v. v. PISANI M., sub art. 5, cit., p. 122. 157 Corte eur., 24 agosto 1998, Contrada c. Italia, § 54, in www.echr.coe.int; Corte eur., 16 novembre 2000, Vaccaro c. Italia, § 36, in www.echr.coe.int. 158 VAN DIJK P. (a cura di), loc. ult. cit. 62 commissione di reati, non solo il pericolo di inquinamento probatorio 159, ma anche la presenza di un rischio per l'ordine pubblico. La Corte ha ammesso, infatti, che, in circostanze eccezionali, certi reati, per la loro gravità e per la reazione che suscitano nella collettività, possono determinare un allarme sociale tale da giustificare la custodia cautelare. E' necessario, ovviamente, che tali considerazioni siano previste dalla normativa interna di uno Stato 160 (per non incorrere in una violazione della riserva di legge contenuta nell'art. 5 Cedu) e che sia dimostrata l'esistenza di un rischio effettivo per l'ordine pubblico in caso di rilascio dell'imputato, non potendo comunque impiegarsi la custodia cautelare come strumento per anticipare la pena detentiva161. Tali precisazioni, peraltro, non diminuiscono i dubbi, sollevati da alcuni interpreti, sulla conciliabilità della posizione espressa dalla Corte con la presunzione d'innocenza sancita dall'art. 6.2 Cedu162. In conclusione, le previsioni dell'art. 5.1 Cedu, tanto più se lette alla luce dell'interpretazione della Corte europea dei diritti dell'uomo, risultano assai meno stringenti di quelle ricavabili dagli artt. 273 e 274 del vigente codice di procedura penale; all'autonoma operatività delle plausibili ragioni di sospetto di commissione di un reato e all'elaborazione giurisprudenziale di una quarta esigenza cautelare, si aggiunge anche il fatto che l'esigenza di prevenzione speciale non è accompagnata da nessuna delimitazione in ordine alla gravità dei reati di cui si teme la commissione da parte dell'accusato163. Occorre considerare, tuttavia, che alle carenze riscontrabili sotto il profilo dei presupposti per l'applicazione e il mantenimento della custodia cautelare fa da contrappeso, nella Convenzione, il riconoscimento di una serie di garanzie operanti nel periodo successivo alla fase genetica della misura, tra le quali appare particolarmente significativa quella consistente nel diritto della persona privata della libertà personale di «essere giudicata entro un termine ragionevole o di essere posta in libertà durante l'istruttoria»164. 159 Corte eur., 9 novembre 1999, Debboub alias Husseini Ali c. Francia, § 44, in www.echr.coe.int; v. UBERTIS G., op. cit., p. 117. 160 E' il caso dell'art. 144 del codice di procedura penale francese. 161 Corte eur., 26 giugno 1991, Letellier c. Francia, § 51; Corte eur., 27 novembre 1991, Kemmache c. Francia, § 52, in www.echr.coe.int. 162 UBERTIS G., loc. ult. cit.; MAZZA O., op. cit., p. 66. 163 La Raccomandazione R (80)11 del Consiglio d'Europa richiede, invece, che il pericolo riguardi la commissione di un «grave reato». 164 Art. 5.3 Cedu; v. infra, cap. 5 § 2.2. 63 64 CAPITOLO III INTERVENTI LEGISLATIVI E GIURISPRUDENZIALI TRA “EMERGENZA” E SPIRITO RIFORMATORE 1. 1955-1974: la “stagione del garantismo”. Un primo tentativo di ricondurre al dettato costituzionale la disciplina della libertà personale dettata dal codice Rocco fu attuato con la legge n. 517 del 1955. Si trattò di un intervento significativo ma parziale, condizionato dalla presenza di approcci ermeneutici riduttivi delle garanzie affermate dalla Costituzione, in un'epoca in cui si discettava in merito alla natura precettiva o meramente programmatica di molte norme costituzionali, propendendo spesso per questa seconda lettura. Soprattutto per quanto concerne la libertà personale, si è visto come inizialmente la disciplina costituzionale in materia fosse ricondotta esclusivamente agli artt. 13 e 111, sicché si riteneva che la previsione legislativa delle ipotesi di cattura, il rispetto della riserva di giurisdizione e la garanzia della ricorribilità per cassazione dei provvedimenti de libertate fossero sufficienti per dare attuazione alla Costituzione. Limitando lo sguardo agli interventi in materia di carcerazione preventiva, le modifiche di maggior rilievo apportate dalla riforma del 1955 riguardarono la previsione dell'obbligo di motivazione e della ricorribilità per cassazione con riferimento sia ai mandati e ordini di cattura e che ai provvedimenti sulla scarcerazione. Nell'art. 264, che disciplinava i requisiti formali dei mandati, fu introdotto un secondo comma, nel quale si prevedeva che i «mandati di cattura, di arresto o di accompagnamento devono contenere la sommaria enunciazione, compatibile con il segreto istruttorio, dei motivi che ne determinano l'emissione». La garanzia della ricorribilità per cassazione fu introdotta attraverso l'art. 263-bis («l'imputato può ricorrere per cassazione per violazione di legge contro l'ordine o mandato di cattura o di arresto emesso in qualsiasi stato e grado del procedimento») e l'art 272-bis, che introduceva la possibilità per l'imputato di chiedere la scarcerazione e di impugnare l'ordinanza di diniego. Altra innovazione di particolare rilievo ebbe la radicale modifica dell'art. 272, che introdusse nel codice l'istituto della scarcerazione per decorso dei termini. Accolto nel codice Finocchiaro-Aprile del 1913, tale istituto era stato significativamente ripudiato dal legislatore del 1930, per venire reintrodotto nel tessuto legislativo immediatamente dopo la caduta del 65 fascismo, ma in via transitoria e con riferimento ai soli casi di mandato di cattura facoltativo 1. Il nuovo art. 272 introduceva definitivamente la scarcerazione c.d. “automatica”, dando tuttavia un'attuazione solo parziale alla previsione dell'art. 13 ult. co., dal momento che la nuova disposizione, pur riferita anche alle ipotesi di cattura obbligatoria, riguardava solo la fase istruttoria, consentendo quindi che la carcerazione durasse indefinitamente dopo il rinvio a giudizio. Alla riforma del 1955 si deve anche l'introduzione dell'art. 277-bis, con il quale si consentiva all'autorità giudiziaria non solo di non emettere il mandato di cattura obbligatorio, in deroga all'art. 253, ma anche di disporne la revoca e concedere la libertà provvisoria, in presenza di cause estintive della pena e nella previsione dell'irrogazione di una pena rientrante nei limiti della causa di estinzione, tenuto conto della carcerazione preventiva sofferta. Di minor rilievo si possono considerare le modifiche apportate agli artt. 253 e 254, relativamente all'individuazione delle fattispecie di reato legittimanti rispettivamente il mandato di cattura obbligatorio e facoltativo, e ai parametri cui veniva ricondotta la discrezionalità del magistrato in questa seconda ipotesi, consistenti in un tendenziale aumento dei limiti edittali e nella scomparsa del riferimento alle «qualità sociali» dell'imputato (gli unici elementi da prendere in considerazione ai fini della cattura facoltativa restavano le «qualità morali della persona» e le «circostanze del fatto»). Le linee di fondo della disciplina del codice, imperniata intorno alla previsione di ipotesi in cui alla cattura obbligatoria si collegava il divieto di libertà provvisoria, rimanevano intatte. Eppure, la riforma del 1955, che interessò anche altre aree sensibili della legge processuale, ebbe un ruolo particolarmente incisivo, perché fu il primo intervento normativo di segno garantista e contribuì, pertanto, allo sviluppo delle riflessioni sulla tutela costituzionale della libertà personale e più in generale sui rapporti tra le garanzie costituzionali e la disciplina del procedimento penale. In quella che fu denominata “stagione del garantismo”, altri interventi legislativi estesero l'ambito delle modifiche del 1955, mentre cominciava a farsi strada l'idea della necessità di una revisione globale del sistema processuale, essendo troppo forte l'impronta autoritaria che lo caratterizzava perché fosse possibile ricondurne la disciplina entro l'alveo costituzionale per via di parziali modifiche: il contrasto era ideologico prima ancora che normativo, e concerneva due modi inconciliabili di vedere il rapporto tra individuo e potere. Un contributo significativo fu fornito, in questa stagione, dalla Corte costituzionale, che non lesinò esplicite indicazioni volte a indirizzare la politica legislativa. Per quanto concerne 1 Con il d.l. 194/1944, rimasto comunque in vigore fino alla riforma del 1955. 66 la disciplina della custodia preventiva, un ruolo pregnante si riconosce alla sentenza n. 64 del 1970, oggetto di innumerevoli commenti dottrinali, nonché di “interpretazioni autentiche” da parte della stessa Consulta. Ma fondamentali in tema di libertà personale appaiono già le prime due decisioni in cui la Consulta ebbe ad occuparsi dell'art. 13 Cost., le sentenze nn. 2 e 11 del 1956. Chiamata a pronunciarsi in merito alla legittimità costituzionale di due misure di prevenzione disciplinate dal testo unico delle leggi di pubblica sicurezza del 1931, la Corte affermò da un lato che anche le leggi anteriori alla Costituzione erano assoggettabili al sindacato di legittimità, dall'altro che l'art. 13 Cost. non era una norma meramente programmatica (e che, in ogni caso, era priva di rilevanza ai fini del giudizio di legittimità la distinzione tra norme precettive e norme programmatiche); di conseguenza dichiarò l'illegittimità delle due misure di prevenzione in esame per contrasto con l'art. 13, in quanto provvedimenti restrittivi della libertà personale disposti dall'autorità amministrativa anziché da quella giudiziaria. Con tali sentenze – si è detto – è iniziato «un dialogo tra Corte costituzionale e legislatore che si sarebbe protratto nel corso degli anni, e che è sicuramente alla base di alcune scelte di fondo anche del nuovo codice di procedura penale in materia di libertà personale dell'imputato»2. La prima significativa sentenza in materia di carcerazione preventiva è però la n. 64 del 1970, con la quale la Corte identificò la presunzione di non colpevolezza come parametro di legittimità delle norme sulla custodia preventiva, senza peraltro trarne tutte le conseguenze che ne sarebbero dovute derivare. La Corte era chiamata a pronunciarsi sulla legittimità degli articoli 253 (cattura obbligatoria), 272 (scarcerazione per decorrenza dei termini), 277.2 (divieto di libertà provvisoria nei casi di cattura obbligatoria) e 375.2 (obbligo di emettere il mandato di cattura a seguito del rinvio a giudizio nelle ipotesi ex art. 253) in relazione agli artt. 13, 27 cpv e 111 Cost. Nella motivazione si legge testualmente che «la detenzione preventiva – esplicitamente prevista […] dalla Costituzione (art. 13, ultimo comma) – va disciplinata in modo da non contrastare con una delle fondamentali garanzie della libertà del cittadino: la presunzione di non colpevolezza [il cui rispetto] necessariamente comporta che la detenzione preventiva in 2 ILLUMINATI G., Tutela della libertà personale ed esigenze processuali, in GIOSTRA G.-INSOLERA G. (a cura di), Costituzione, diritto e processo penale (Atti del convegno di Macerata, 28 e 29 gennaio 1997), Milano, Giuffrè, 1998, p. 110. 67 nessun caso possa avere la funzione di anticipare la pena da infliggersi solo dopo l'accertamento della colpevolezza: essa pertanto, può essere disposta unicamente in vista della soddisfazione di esigenze di carattere cautelare o strettamente inerenti al processo»3. In questa ultima affermazione, con la quale la Corte si è inserita nel dibattito sulle finalità dell'istituto, secondo un'interpretazione largamente condivisa nella dottrina dell'epoca 4 sarebbe stata leggibile l'intenzione di convalidare l'orientamento favorevole a circoscrivere il ventaglio teleologico della custodia preventiva alle sole esigenze strettamente processuali: mentre con «esigenze di carattere cautelare» la Corte avrebbe inteso la finalità di cautela finale, con «esigenze strettamente inerenti al processo» si sarebbe riferita alla finalità istruttoria, escludendo, quindi, la finalità di prevenzione speciale, nonché qualsiasi altra finalizzazione in chiave sostanzialistica5. Tale interpretazione, tuttavia, mal si concilia con l'argomentazione svolta dalla Corte per dichiarare infondata la questione di legittimità del mandato di cattura obbligatorio e del connesso divieto di libertà provvisoria: la Consulta, infatti, afferma che dalle norme Costituzionali invocate non deriva il divieto per il legislatore di stabilire ipotesi nelle quali, sussistendo sufficienti indizi di colpevolezza, il giudice sia tenuto ad emettere il mandato di cattura. Si sostiene nella motivazione che «se ed in quanto si tratti di una ragionevole valutazione dell'esistenza di un pericolo derivante dalla libertà di chi sia indiziato di particolari reati, il legislatore ha la facoltà di disporre che, entro predeterminati limiti temporali, egli ne sia privato»; infatti «non si può escludere che la legge possa (entro i limiti, non insindacabili, di ragionevolezza) presumere che la persona accusata di reato particolarmente grave e colpita da sufficienti indizi di colpevolezza, sia in condizione di porre in pericolo quei beni a tutela dei quali la detenzione preventiva viene disposta»6. In tale passaggio è stata vista un'apertura, sia pur cauta, alle finalità preventive in relazione ad una pericolosità di tipo “sostanziale” dell'imputato 7: apertura probabilmente 3 Corte cost. sent. n. 64 del 1970. 4 ILLUMINATI G., Tutela della libertà personale, cit., p. 117; ILLUMINATI G., Una discutibile interpretazione della presunzione di non colpevolezza: la recente riforma della libertà provvisoria davanti alla Corte costituzionale, in Giur. Cost., 1976, p.1672; GALLI G. (a cura di), Le recenti leggi contro la criminalità. Aspetti processuali, Milano, Giuffrè, 1977, p. 43; GREVI V., Libertà provvisoria ed esigenze di tutela della collettività: una questione di legittimità costituzionale, in Giur. it., 1976, II, p. 634; in termini più sfumati, CHIAVARIO M., La scarcerazione automatica tra la “scure” della Corte Costituzionale e la “restaurazione” legislativa, in Giur. Cost., 1970, p. 670, che parla di «tono chiaroscurale» di certe affermazioni contenute nella sent. n. 64 del 1970. 5 ILLUMINATI G., Tutela della libertà personale, cit., p. 117; una interpretazione solo formalmente diversa è prospettata in CONSO G., La libertà provvisoria a confronto con le esigenze di tutela della collettività, ovvero la “Legge Reale” tra politica e diritto, in Giur. cost., 1980, I, p. 471: secondo l'autore l'«o» delle formula non indicherebbe un'alternativa, ma solo una chiarificazione, al pari di «ossia». 6 Corte cost. sent. n. 64 del 1970. 7 VASSALLI G., Libertà personale, cit., pp. 22-23; secondo l'autore (che ritiene che nella formula «esigenze di carattere cautelare o strettamente inerenti al processo» sia individuabile una alternativa e non una 68 necessaria per salvare il meccanismo imperniato sulla cattura obbligatoria e sul divieto di libertà provvisoria, dovendo escluderne la ratio sanzionatoria (tutt'altro che inesistente nella concreta applicazione dell'istituto) ed essendo più difficile sostenere la possibilità di presumere ex lege la sussistenza di esigenze strettamente processuali sulla sola base della gravità del reato8. D'altra parte, la stessa Corte sembra rivelare qualche perplessità nei confronti della soluzione accolta in merito alla legittimità degli artt. 532 e 277.2, nell'affermare il necessario rispetto, da parte del legislatore, di «limiti, non insindacabili, di ragionevolezza» e la «preferibilità di un sistema che demandi sempre al giudice il potere di valutare di volta in volta se il lasciare in libertà l'imputato determini un pericolo di entità tale da giustificarne la cattura e la detenzione»9 La portata innovativa della sentenza 64/1970 può comunque essere colta su altri due piani: l'estensione dell'obbligo di motivazione in ordine alla sussistenza dei sufficienti indizi di colpevolezza nelle ipotesi di cattura obbligatoria (obbligo peraltro già sancito in via generale a seguito della riforma del 1955 dall'art. 264.2, ma eluso dalla giurisprudenza ordinaria) e, soprattutto, l'ampliamento dell'operatività dei termini massimi di carcerazione, anche nei casi di cattura obbligatoria, all'intero procedimento. Nel definire i termini dell'incostituzionalità degli artt. 272 e 375.2 in relazione all'art. 13, ult. co., la Corte sembra nuovamente propendere per una ricostruzione delle finalità della custodia preventiva in chiave strettamente processuale: essa afferma infatti che «a differenza di altre forme di restrizione della libertà personale, quali le misure di sicurezza detentive, dettate da esigenze diverse da quella tipicamente processuale della custodia preventiva, la Costituzione ha inteso evitare che il sacrificio della libertà che quella comporta sia interamente subordinato alle vicende del procedimento; ed ha, pertanto, voluto che, con la legislazione ordinaria, si determinassero i limiti massimi della carcerazione preventiva»10. Sembra, dunque, che l'ambiguità della posizione della Corte in merito alla questione dei fini dell'istituto fosse dovuta al timore di riconoscere appieno le conseguenze dell'affermazione costituzionale della presunzione di non colpevolezza sulla libertà personale chiarificazione) in quel passaggio «la finalità di prevenzione speciale non potrebbe essere più apertamente proclamata»; della stessa opinione, in epoca più recente, DI CHIARA G., op. cit, pp. 322-323; MARZADURI E., Considerazioni, cit., p. 319; DE CARO A., op. cit, pp. 138-139. 8 La Corte adduce come argomento a sostegno della legittimità della cattura obbligatoria anche il fatto che la stessa Costituzione mostrerebbe di riconoscere tale istituto nell'art. 68 cpv, che si riferiva esplicitamente all'ipotesi di parlamentare imputato di «delitto per il quale è obbligatorio il mandato o l'ordine di cattura». 9 Corte cost. sent. n. 64 del 1970. Per tali rilievi, v. GREVI V., Libertà personale, cit., p. 138 e CHIAVARIO M., La scarcerazione automatica, cit., p. 669. 10 Corte cost. sent. n. 64 del 1970. 69 dell'imputato e quindi alla necessità di salvare la legittimità della cattura obbligatoria. Tale ambiguità consentirà letture della sentenza 64/1970 di segno opposto, e non solo da parte della dottrina: la stessa Consulta, ritornando sul tema, si servirà di quel precedente in un primo momento per convalidare la tesi restrittiva, e poi per sancire expressis verbis la legittimità del fine di «tutela della collettività»11. La declaratoria d'incostituzionalità degli artt. 272 e 375.2 costrinse il legislatore ad un intervento d'urgenza, dal momento che la Corte, non potendo direttamente enucleare una nuova serie di termini per le fasi successive al rinvio a giudizio, si era limitata ad estendere l'ambito di operatività dei termini previsti dall'art. 272. Con il d.l. n. 192 del 1970 (conv. nella l. n. 406/1970) vennero perciò fissati per la prima volta dei limiti massimi di custodia con riferimento all'intera durata del procedimento, indicati nel doppio dei termini previsti per la fase istruttoria (rispettivamente di tre mesi, sei mesi, un anno, due anni, a seconda della gravità del reato); con la legge di conversione fu inserita, altresì, la previsione per cui «contro l'imputato scarcerato per decorrenza dei termini […] non può essere emesso nuovo mandato od ordine di cattura o di arresto per lo stesso fatto», al probabile fine di porre un ostacolo alla prassi delle c.d. “contestazioni a catena”. Un ulteriore, significativo passo avanti nel settore della libertà personale dell'imputato fu compiuto con la legge n. 773 del 1972, la c.d. “legge Valpreda” 12, che modificò l'art. 277 introducendo la possibilità di concedere la libertà provvisoria anche nei casi di cattura obbligatoria. Fino a quel momento, giova ribadirlo, l'obbligatorietà della cattura (che subiva una deroga solo nel caso dell'art 277-bis) si proiettava sull'intero procedimento, a prescindere dall'esistenza di esigenze cautelari; l'unico limite all'operare dell'automatismo era rappresentato dal venir meno dei sufficienti indizi di colpevolezza (che imponeva la revoca del mandato non ancora portato ad esecuzione o la scarcerazione dell'imputato detenuto, ai sensi, rispettivamente, degli artt. 260 e 269) o dalla scadenza dei termini di durata massima della carcerazione preventiva (art 272). La novità di rilievo introdotta dalla legge 773/1972 fu dunque quella di stemperare «il rigido automatismo imperniato sull'obbligatorietà della cattura, chiamando l'autorità giudiziaria a valutare, anche con riferimento ai reati per i quali la legge imponeva la cattura, la reale sussistenza di esigenze cautelari che giustificassero il protrarsi della custodia 11 In particolare con le sentt. n. 17 del 1974, n. 88 del 1976 e n. 1 del 1980. 12 Così denominata perché appositamente promulgata per consentire la liberazione dell'anarchico Pietro Valpreda, accusato e sottoposto a carcerazione preventiva per la strage di Piazza Fontana del 12 dicembre 1969 e successivamente assolto. 70 preventiva»13. Rimaneva, peraltro, l'assurdità di dover comunque disporre la custodia dell'imputato anche nel caso in cui l'autorità giudiziaria riconoscesse già prima dell'emissione del mandato i presupposti per la concessione della libertà provvisoria, escludendo la sussistenza di esigenze cautelari tali da richiedere la cattura; l'art. 277.1 autorizzava, infatti, la libertà provvisoria solo nei confronti dell'imputato che già si trovasse in stato di custodia preventiva.14 E rimaneva, inoltre, l'assenza di specifici criteri cui il giudice avrebbe dovuto attenersi nel concedere o negare la libertà provvisoria, necessari per poter configurare il suo potere come rigorosamente discrezionale; sicché la libertà provvisoria continuava ad atteggiarsi alla stregua di un beneficio dipendente dalla benignitas del giudice15. Da ultimo, va considerato il secondo comma del nuovo art. 277, che attribuiva al giudice il potere di revocare la libertà provvisoria con la sentenza di condanna per un delitto per cui il mandato di cattura era obbligatorio: tale disposizione attenuava la portata innovatrice del primo comma, poiché presupponeva che lo status custodiae potesse essere ripristinato sulla sola base dell'aumentata probabilità della colpevolezza dell'imputato in ragione di un accertamento non ancora definitivo (conclusione imposta dal fatto che al momento della sentenza di condanna le esigenze istruttorie sono tendenzialmente esaurite, mentre il pericolo di fuga era autonomamente contemplato dall'art. 292)16. Ciononostante, alla riforma del 1977 va senz'altro riconosciuto il merito di aver «incrinato la coerenza interna della disciplina imperniata sull'obbligatorietà della cattura, solo in minima parte intaccata dalla riforma del 1955, con l'introduzione dell'art. 277 bis»17. Nel complesso, le linee di riforma emerse nella stagione del garantismo apparivano dirette ad affievolire la connessione tra gravità del reato e obbligatorietà della cattura, che costituiva la chiave di volta della disciplina originaria del codice in materia di custodia preventiva, per sostituire alla logica sostanzialmente punitiva che vi era sottesa una logica cautelare, compatibile con la presunzione di non colpevolezza. La strada intrapresa, tuttavia, fu repentinamente abbandonata con l'avvento della c.d. stagione dell'emergenza terroristica, durante la quale sulle istanze garantistiche presero il 13 RICCIO G., Politica penale dell'emergenza e costituzione, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1982, p. 148. 14 Per questi rilievi, v. GREVI V., op. cit., p. 144. 15 ILLUMINATI G., Osservazioni in tema di libertà provvisoria (a proposito dell'art. 2 della l. 15 dicembre 1972), in Riv. it. dir. proc. pen., 1973, p. 607, ove si rammenta che la giurisprudenza della Corte di Cassazione aveva già in passato tentato di fissare dei criteri cui ancorare la discrezionalità del giudice, criteri individuati, peraltro, non nel venir meno di esigenze processuali, ma nella gravità del fatto e nelle qualità morali dell'imputato, cioè nelle medesime circostanze fissate come presupposto per l'emissione del mandato di cattura facoltativo. 16 ILLUMINATI G., Osservazioni in tema di libertà provvisoria, cit., p. 611. 17 GREVI V., Scelte politiche e valori costituzionali in tema di libertà personale dell'imputato, in Scritti in onore di Costantino Mortati, III, Milano, 1977, p. 561. 71 sopravvento le preoccupazioni per la tutela dell'ordine pubblico, alle quali si dimostrò particolarmente sensibile anche la giurisprudenza della Corte costituzionale. Fino al 1973, peraltro, la Consulta sembrava orientata a consolidare la tesi rigoristica della limitazione della custodia preventiva ai soli pericula di natura processuale, richiamandosi sempre alla sent. n. 64 del 1970. Su questa linea si collocano le sentenze n. 96 del 1970 (ove la Corte afferma che la carcerazione preventiva «ha un compito essenzialmente processuale» e pertanto «non è equiparabile alla misura di sicurezza detentiva» 18), n. 135 del 1972 (nella quale la custodia preventiva è definita «cautela processuale», la cui ratio è quella di «soddisfare concrete esigenze del processo»), n. 74 del 1973 (dove si ribadisce che «le misure di sicurezza detentive sono volte ad esigenze diverse da quella tipicamente processuale della custodia preventiva») e n. 147 del 1973 («la carcerazione preventiva ha scopi essenzialmente connessi al processo e natura prevalentemente cautelare»). Una pur vaga apertura a finalità extraprocessuali sembra profilarsi, tuttavia, nella sent. n. 100 del 1970, nella quale la Corte riconosce la legittimità del computo della recidiva ai fini della determinazione della pena per l'emissione del mandato di cattura 19. La Consulta conclude sostenendo che è «assurdo pensare che chi ha riportato precedenti condanne penali ed è indiziato di un nuovo delitto non possa, e non debba, venir considerato più pericoloso del cittadino incensurato»; viene così dato rilievo, sia pure indirettamente, alla pericolosità sociale sostanziale come parametro idoneo a giustificare la carcerazione preventiva.20 2. 1974-1982: custodia preventiva e difesa sociale nella “stagione dell'emergenza”. La prima esplicita presa di posizione della Corte costituzionale a favore della tesi della “finalità plurima” della carcerazione preventiva si ha con le sentenze nn. 17 e 21 del 1974, in concomitanza con l'avviarsi della legislazione a tutela dell'ordine pubblico, che, incidendo sensibilmente sulla disciplina della libertà personale dell'imputato, ripristinò l'impostazione autoritaria dell'impianto originario del codice Rocco, determinando così una netta involuzione rispetto alle riforme apportate con le leggi del 1955, del 1970 e del 1972. 18 Ragion per cui la Corte rigetta l'eccezione di incostituzionalità dell'art 206 c.p. nella parte in cui non consente di tener conto del periodo di carcerazione preventiva eventualmente subita ai fini del computo della durata minima della misura di sicurezza detentiva, essendo tale durata minima collegata al particolare trattamento terapeutico che la misura comporta: v. sent. n. 96 del 1970. 19 La questione di legittimità investiva l'art. 255 c.p.p. che, sulla base dell'interpretazione che ne dava la giurisprudenza, ricomprendeva la recidiva tra le circostanze aggravanti da prendere in considerazione nel computo della pena ai fini degli artt. 253 e 254. 20 MITTONE A., op. cit., p. 1101; GROSSO D., La carcerazione preventiva tra «emergenza» e Costituzione, in Giust. pen., 1983, III, p.502. Quest'ultimo autore nota, peraltro, che dalla lettura completa della sentenza non emergerebbe l'intenzione né la consapevolezza da parte della Corte di assumere una posizione suscettibile di ripercussioni di ordine sistematico. 72 Le sentenze sopra citate, in realtà, precedettero di poco il primo intervento della legislazione emergenziale in tema custodia preventiva, sicché esse «influirono in termini determinanti sulla successiva elaborazione legislativa di sapore controriformistico, fornendo anzi una sorta di avallo ante litteram alle scelte del legislatore dell'emergenza in tema di libertà personale»21. Sempre al 1974, tuttavia, risale anche la prima legge delega (n. 108/1974) per l'emanazione di un nuovo codice di procedura penale, nelle cui direttive si riversò la sensibilità costituzionale che era andata maturando negli anni precedenti. La nascita e lo sviluppo, nello stesso arco di tempo, di due «universi normativi costruiti su regole fra di loro antitetiche o, nelle migliori delle ipotesi, divaricate» ha fatto parlare di una «schizofrenia legislativa» della quale avrebbe sofferto l'opera del legislatore degli anni settanta 22. In realtà, per quanto concerne le finalità della custodia preventiva, anche la legge delega risentì del nuovo clima, consentendo al legislatore delegato di disporre misure di coercizione personale a carico dell'imputato oltre che per «inderogabili esigenze istruttorie» anche per non meglio precisate «esigenze di tutela della collettività». Emergeva così per la prima volta a livello legislativo una esplicita correlazione tra custodia preventiva e finalità di natura sostanziale (identificate non più nell'allarme sociale, come da una precedente formulazione, ma nella difesa della collettività). Il tratto peculiare della legislazione c.d. emergenziale, per quanto concerne i suoi riflessi sul procedimento penale, fu lo stravolgimento dello “scopo politico” del processo che, attraverso una strumentalizzazione degli istituti processuali in chiave preventiva, venne piegato a mezzo di controllo sociale: la tendenza, cioè, fu quella di affidare alle norme processuali – in particolare, ma non solo, a quelle sulla carcerazione preventiva – la tutela di esigenze di tipo sostanziale: tutela dell'ordine pubblico, sedazione dell'allarme sociale e, ovviamente, profilassi criminale23. Alla natura disorganica degli interventi legislativi ascrivibili a tale stagione, si 21 GREVI V., Custodia preventiva e difesa sociale negli itinerari politico-legislativi dell'emergenza, in Pol. Dir., 1982, p. 240. 22 DOMINIONI O., Un caso grave di schizofrenia legislativa: la coercizione dell'imputato fra riforma ed emergenza, in Pol. dir., 1982, p.131. 23 NOBILI, La procedura penale tra «dommatica» e sociologia: significato politico d'una vecchia polemica, in La questione criminale, 1977, p. 83; RICCIO G., voce Emergenza, in VASSALLI G. (a cura di ) Dizionario di diritto e procedura penale, Milano, Giuffrè, 1986, p. 303, dove si evidenzia che le strategie processuali della legislazione dell'emergenza operarono in più direzioni: una accelerazione del processo perseguita a discapito delle garanzie dell'imputato (attraverso, ad esempio, un abuso del giudizio direttissimo volto ad amplificarne il carattere di esemplarità), un rafforzamento dei poteri istruttori della polizia, e – appunto – un inasprimento della disciplina della carcerazione preventiva, sempre più apertamente finalizzata ad esigenze extraprocessuali; DE CARO A., op. cit., p. 58. 73 contrappose, quindi, la presenza di un disegno di politica criminale piuttosto coerente, tendente a riorganizzare la struttura del processo in funzione di immediata difesa sociale 24: di fronte all'aumento della criminalità comune e all'incedere del fenomeno terroristico da un lato, e all'inefficienza della macchina giudiziaria dall'altro, il legislatore non esitò a piegare sempre più esplicitamente l'istituto della custodia preventiva in strumento di difesa della società contro il crimine25. Il riflusso legislativo coinvolse proprio i tratti della disciplina della custodia preventiva che erano stati riformati nella stagione del garantismo, muovendosi lungo tre direttrici: l'estensione dei casi di cattura obbligatoria, l'allungamento dei termini massimi di durata della custodia, il ripristino del rapporto tra obbligatorietà della cattura e divieto di concessione della libertà provvisoria26. 2.1. Il d.l. n. 99 del 1974 e le prime aperture della giurisprudenza costituzionale alla finalità di prevenzione speciale. Il primo intervento legislativo in materia di libertà personale ascrivibile alla c.d. stagione dell'emergenza è il d.l. n. 99 del 1974 (convertito nella legge n. 220 del 1974). Il precedente d.l. 192/1970 aveva stabilito che i nuovi termini di custodia preventiva da esso fissati avrebbero iniziato a decorrere, nei procedimenti in corso, a partire dal 4 maggio 1970, data di entrata in vigore del provvedimento; di conseguenza, il 4 maggio del 1974 si sarebbe dovuto procedere alla scarcerazione degli imputati ancora detenuti. Ma il diffuso allarme che si creò per l'avvicinarsi di quella data, unito al consolidarsi dell'immagine di un sistema sanzionatorio permissivo e inefficiente, determinò il governo a intervenire con un decreto legge che riscrisse il testo dell'art. 272 al fine di prolungare i termini massimi della carcerazione preventiva. Fermi restando i termini già previsti per la fase istruttoria, vennero fissati 3 ulteriori periodi, collegati rispettivamente al rinvio a giudizio, alla sentenza di primo grado e alla 24 ILLUMINATI G., Una discutibile interpretazione della presunzione di non colpevolezza: la recente riforma della libertà provvisoria davanti alla Corte costituzionale, in Giur. Cost., 1976, p.1660. 25 GREVI V., Custodia preventiva e difesa sociale, cit., pp. 237-238. 26 Si è rilevato che in quella che viene definita “stagione dell'emergenza” è in realtà possibile distinguere tra una prima fase (1974-1979) durante la quale il legislatore ebbe come interlocutore privilegiato le forze di polizia, alle cui richieste di “mani libere” andarono incontro le leggi sull'ordine pubblico; in questo periodo, le leggi che incisero sulla carcerazione preventiva (l. 220/1974, l. 152/1975, l. 296/1977 e 533/1977) furono dirette non tanto a rafforzare lo strumento giudiziario quanto a limitare i poteri dei giudici attraverso il doppio automatismo dell'obbligatorietà della cattura e del divieto di libertà provvisoria, per aggirare il ruolo garantista della magistratura. Solo in una fase successiva (1979-1982) l'attenzione del legislatore si rivolgerà alla magistratura, la quale assumerà per intero il peso della lotta al terrorismo, attraverso nuovi strumenti normativi e nuove prassi giudiziarie (FERRAJOLI L., op. cit., pp. 853-856). 74 sentenza d'appello. Si veniva così a determinare un considerevole peggioramento contra reum rispetto alla normativa abrogata: in primo grado, infatti, i nuovi termini erano fissati nel doppio di quelli previsti per la fase istruttoria; in secondo grado i termini massimi corrispondevano a quelli del primo grado aumentati della metà; infine, per la fase successiva alla sentenza d'appello, erano previsti termini pari al doppio di quelli fissati per il primo grado, per un massimo raggiungibile per le fattispecie di maggiore gravità di 8 anni di custodia preventiva. L'istituto della detenzione preventiva risultava così palesemente impiegato quale strumento di politica criminale, per finalità estranee al processo, essendo prevalentemente diretto in funzione di difesa sociale27. Di fronte alla constatazione che il sistema processuale non era stato in grado di esaurire nell'arco di quattro anni i procedimenti già pendenti nel 1970, il legislatore scaricò sulla libertà personale dell'imputato i costi dell'inefficienza del sistema giudiziario28, in forza di una scelta che poteva spiegarsi solo «riconoscendo alle esigenze di difesa sociale un peso assolutamente prevalente rispetto alla necessità di contenere la durata della carcerazione preventiva entro limiti “ragionevoli”, cioè non incompatibili con la presunzione di non colpevolezza»29. In questo modo, a tacer d'altro, venivano disattese le indicazioni della Corte costituzionale che, nella sentenza n. 64 del 1970 aveva ritenuto che dall'art. 13 ult. co. discendesse l'esigenza di evitare che «il sacrificio della libertà personale dell'imputato» fosse, sotto il profilo della durata, «interamente subordinato alle vicende del procedimento». Considerato anche che, in virtù di una norma provvisoria, per i processi in corso alla data di entrata in vigore del d.l. 192/1970 i termini massimi potevano arrivare, nelle ipotesi delittuose più gravi, fino a 12 anni di detenzione preventiva, risultava piuttosto evidente che la ratio della nuova disciplina fosse quella di strutturare l'istituto come vera e propria esecuzione provvisoria, destinata a saldarsi con l'esecuzione a titolo definitivo se non a sostituirla interamente, eludendo così la previsione dell'art. 13 ult. co. Cost.30. Anche un'altra previsione del d.l. 99/1974 rivela l'inversione di tendenza rispetto alla legislazione precedente: si tratta della possibilità di riemissione di un nuovo mandato di cattura nei confronti dell'imputato scarcerato per decorso dei termini (nuovo art. 272, comma 10). Nella versione introdotta dalla novella del 1970, tale eventualità era di regola esclusa, e 27 GREVI V., Libertà personale, cit., p. 202; CANZIO G., La libertà personale dell'imputato nelle legislazione dell'”emergenza” degli anni 1974-1980, in Giust. pen., 1981, III, p. 366. 28 GREVI V., Custodia preventiva e difesa sociale, cit., p. 258; GALLI G. (a cura di), Le recenti leggi contro la criminalità. Aspetti processuali, Milano, Giuffrè, 1977, pp. 68-69. 29 GREVI V., loc. ult. cit. 30 ILLUMINATI G., La presunzione d’innocenza, cit., pp. 216-217. 75 consentita solo nelle ipotesi di fuga, pericolo di fuga o trasgressione degli obblighi imposti con l'ordinanza di scarcerazione. Nel 1974 a tali ipotesi fu aggiunta la possibilità, entro i limiti complessivi della carcerazione preventiva, di disporre la cattura contestualmente al rinvio a giudizio o alle sentenze di primo e secondo grado. In tale disposizione trova conferma la tesi della strutturazione della custodia preventiva come cautela operante prevalentemente sul piano sostanziale: scemate dopo il rinvio a giudizio le esigenze istruttorie, ed essendo il pericolo di fuga contemplato come ipotesi autonoma di riemissione del mandato di cattura, la previsione dell'art 272, co. 10, si giustificava solo nella logica della prevenzione speciale o dell'anticipazione della pena31. Quest'ultima previsione, d'altra parte, trovava legittimazione nella sentenza costituzionale n. 17 del 1974, di poco precedente, cui si deve la prima esplicita presa di posizione a favore di una finalizzazione della custodia preventiva non più limitata alle sole esigenze processuali. La Consulta era stata chiamata a pronunciarsi in ordine alla legittimità dell'art. 272, ultimo comma, nel testo modificato dal d.l. 192/1970, che vietava, nei confronti dell'imputato scarcerato per decorso dei termini, l'emissione di un nuovo mandato di cattura, con riferimento all'art. 3 Cost., in ragione della disparità di trattamento rispetto all'imputato di reato di pari gravità, soggetto a rimanere in carcere per il doppio del tempo solo perché raggiunto in tempi più brevi dalla sentenza di rinvio a giudizio. Facendo uso del principio di eguaglianza in malam partem, la Corte accoglie la questione di legittimità: il livellamento tra le due situazioni il cui trattamento è ritenuto irragionevolmente diseguale avviene, infatti, attraverso una reformatio in peius del trattamento “migliore”, anziché attraverso la sua estensione a tutte le situazioni32; ma soprattutto, la sentenza si conclude con l'affermazione che la soluzione accolta risulta «per di più, opportuna quale rafforzato presidio di difesa sociale». L'apertura alle finalità extraprocessuali viene confermata nella sent. n. 21 del 1974, nella quale la Consulta, rigettando la questione di legittimità dell'art. 253, ribadisce che «la finalità dell'istituto è plurima e non è limitata a quella di preservare la genuinità delle prove». A breve distanza di tempo, peraltro, la Corte ritornerà a sostenere la tesi della prevalente finalizzazione endoprocessuale, con le sentenze n. 68 del 1974 («la carcerazione preventiva […] è giustificata da esigenze eminentemente processuali»), n. 167 del 1974 (che richiama testualmente la sent. n. 68) e n. 146 del 1975 (dove si ribadisce la distinzione tra custodia 31 ILLUMINATI G., op. cit., pp. 218; GREVI V., op. cit., p. 214. 32 CHIAVARIO M., Scarcerazione automatica e riemissione del mandato di cattura: una reformatio in peius in nome del principio di eguaglianza, in Giur. cost., 1974, I, p. 551. 76 preventiva e pena, le quali «ancorché producano entrambe l'effetto di privare l'individuo della sua libertà personale, hanno scopi diversi, [poiché] la custodia preventiva […] può essere predisposta solo in vista della soddisfazione di esigenze di carattere cautelare e strettamente inerenti al processo»). Tuttavia, chiamata a pronunciarsi su alcuni degli interventi della legislazione emergenziale più incisivi sulla libertà personale dell'imputato, la Consulta non esiterà a fornire il proprio avallo, tornando ad allinearsi sulle precedenti aperture extraprocessuali. Le sentenze n. 88 del 1976, n. 1 del 1980 e n. 15 del 1982 saranno caratterizzate da una remissiva accettazione delle scelte del legislatore e dalla tendenza a nascondere dietro ad affermazioni apodittiche la rinuncia a fare della presunzione di non colpevolezza un effettivo parametro di legittimità costituzionale delle norme rimesse alla valutazione della Corte. 2.2. La legge Reale e le sentenze nn. 88 del 1976 e 1 del 1980. Le prime due sentenze sopra citate ebbero ad oggetto la legge n. 152 del 1975 (c.d. “legge Reale”, dal nome del Guardasigilli dell'epoca). Sotto la dizione di «disposizioni a tutela dell'ordine pubblico», furono introdotte una serie di norme dal carattere “eccezionale” e “temporaneo” (al pari del d.l. 99/1974, anche la legge Reale stabiliva che le sue disposizioni processuali si sarebbero applicate solo fino all'entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale33), contrastanti sotto più profili con il dettato costituzionale 34. Tale intervento normativo proseguì e rafforzò l'indirizzo già emerso con il d.l 99/1974, comportando un sacrificio della libertà personale dell'imputato «sull'altare dell'ordine pubblico, ossia di un concetto che, se non è correttamente precisato, non ha alcuna dimensione costituzionale»35. Oltre ad un aumento delle ipotesi di obbligatorietà della cattura (art. 12), l'intervento della legge Reale in materia di custodia preventiva riguardò principalmente la disciplina della libertà provvisoria, al «fine di fronteggiare l'allarmante recrudescenza del fenomeno della criminalità successiva all'emanazione della legge 15 dicembre 1972 n. 733, e quindi certamente o molto probabilmente favorita dalle libertà provvisorie accordate ad imputati assai pericolosi e proclivi alla recidiva»36. 33 Art. 35 l. 152/1975; art. 4 d.l. 99/1974. Osserva Illuminati (ILLUMINATI G., Una discutibile interpretazione della presunzione di non colpevolezza: la recente riforma della libertà provvisoria davanti alla Corte costituzionale, in Giur. Cost., 1976, p.1659, in nota) che «la puntualizzazione, chiaramente inutile da un punto di vista tecnico, assomiglia molto ad una “excusatio non petita”, e dà comunque la dimostrazione della precisa volontà di contraddire la legge delega». 34 Per un'analisi approfondita dell'intero provvedimento legislativo, v. BRICOLA F., Politica criminale e politica penale dell'ordine pubblico (a proposito della legge 22 maggio 1975 n. 152), in La quest. crim., 1975, p. 221. 35 BRICOLA F., op. cit., p. 240. 36 Relazione delle Commissioni riunite della Camera dei deputati, seduta 8 aprile 1975, cit. in CANZIO G., op. 77 Il suo principale effetto fu quello «di rendere irreversibili, nonostante qualsiasi mutamento delle esigenze processuali, provvedimenti assunti “allo stato degli atti”, nella fase iniziale del procedimento e, il più delle volte, per iniziativa della polizia giudiziaria, tramite i poteri di arresto o di fermo»37. Pur senza giungere a ripristinare il sistema antecedente la c.d. legge Valpreda, ma comunque travolgendo la conquista raggiunta con quella riforma, l'art. 1 della legge Reale, affiancandosi, senza sostituirlo, all'art. 272, stabilì due ordini di divieti alla concessione della libertà provvisoria, in relazione alla natura dell'imputazione (1° comma) o alla particolare posizione dell'imputato in altri procedimenti (2° comma). L'elencazione contenuta nel primo comma ricomprende quei reati il cui aumento, determinando un consistente allarme sociale, aveva costituito la ragione stessa della legge sull'ordine pubblico 38. Nel secondo comma l'esclusione della libertà provvisoria non è collegata esclusivamente alla natura dell'imputazione, ma richiede altresì la pendenza di un altro procedimento penale, che viene assunta quale sintomo di immeritevolezza del beneficio; il divieto, infatti, è previsto «a) se l'imputato di delitto per il quale è obbligatorio il mandato di cattura si trova in stato di libertà provvisoria concessagli in altro procedimento per un reato che comporta l'emissione obbligatoria del mandato di cattura; b) se l'imputato di uno dei delitti previsti dagli articoli 582, primo comma, 583, 588, secondo comma e 610 del codice penale [delitti per cui, salvo la fattispecie di lesioni gravissime di cui all'art. 583.2, il mandato di cattura era addirittura facoltativo] è sottoposto ad altro procedimento penale, per violazione di uno o più delle suddette disposizioni di legge». A fondamento di tali previsioni, ispirate «alla logica dell'uso della custodia in carcere quale misura di difesa sociale, aggravata da un palese vizio di apriorismo contra reum»39 e miranti ad una riduzione dello spazio di apprezzamento del giudice (il rigido automatismo previsto dai primi due commi, che prescinde del tutto dalla sussistenza di esigenze cautelari, è appena scalfito dalla deroga prevista dall'ultimo comma, per le persone che si trovino in condizioni di salute incompatibili con lo stato di detenzione), vi è chiaramente una presunzione assoluta di pericolosità riferita ad esigenze di natura extraprocessuale. Tra tali esigenze, quella di prevenzione speciale viene specificamente presa in considerazione dall'art 1, 3° comma, della legge Reale, che detta i criteri su cui dovrà fondarsi cit., p. 372. 37 ILLUMINATI G., Una discutibile interpretazione della presunzione di non colpevolezza: la recente riforma della libertà provvisoria davanti alla Corte costituzionale, in Giur. Cost., 1976, p.1664. 38 GALLI G., Le recenti leggi contro la criminalità, cit., p. 23. 39 GREVI V., Libertà personale, cit., p. 172. 78 il giudice nella concessione della libertà provvisoria, nei casi in cui questa è consentita. Si prevede che il giudice dovrà valutare «che non vi ostino ragioni processuali, né sussista la probabilità, in relazione alla gravità del reato ed alla personalità dell'imputato, che questi, lasciato libero, possa commettere nuovamente reati che pongano in pericolo le esigenze di tutela della collettività». Per la prima volta, sia pure ex adverso, cioè con riferimento al momento della caducazione e non a quello dell'instaurazione dello status custodiae, vengono enunciate le finalità della custodia preventiva, e tra queste compare espressamente la finalità specialpreventiva. Senza ritornare sulle posizioni espresse in merito alla compatibilità astratta di tale finalità con il dettato costituzionale, merita soffermarsi sulle più frequenti considerazioni formulate in merito all'art.1.3 della legge in esame. In primo luogo, è stato rilevata l'”eccentricità” rispetto alla presunzione di non colpevolezza di una disposizione che, invece di porre la sussistenza di determinate esigenze cautelari come presupposto dell'adozione della custodia preventiva, pone delle «presunzioni di pericolosità a carico dell'imputato richiedendo che il venir meno della sua coercizione sia condizionato alla verifica, in virtù di una sorta di probatio diabolica, che non sussista alcuna esigenza cautelare»40. Inoltre, la dottrina non ha mancato di evidenziare due aspetti: da un lato l'utilizzo dell'avverbio «nuovamente», sintomatico di una premessa – la commissione del reato per cui si procede – incompatibile con la presunzione di non colpevolezza; dall'altro, la vaghezza dell'espressione adottata per introdurre il criterio della prevenzione speciale come limite alla concessione della libertà provvisoria41. La formula «esigenze di tutela della collettività» ha destato, infatti, non poche perplessità, soprattutto in ordine alla sua compatibilità con la riserva di legge di cui all'art. 13 Cost., in quanto carente sotto il profilo della tassatività. Una parte della dottrina, pur critica nei confronti di una disciplina che, imperniata su un rigido sistema di presunzioni assolute di pericolosità, finiva per essere funzionale alle più disparate finalità sostanziali (sedare l'allarme sociale, dimostrare la “tenuta” delle istituzioni, nonché rapidità e rigore nella lotta alla criminalità), ha tuttavia ritenuto che l'intento del legislatore fosse comunque quello di circoscrivere l'area delle esigenze extraprocessuali perseguibili con la custodia preventiva alla sola finalità di prevenzione speciale 42; nella consapevolezza, peraltro, che l'indeterminatezza del linguaggio normativo finisse per 40 DOMINIONI O., Un caso grave di schizofrenia legislativa, cit., p. 138. 41 GALLI G., Primi appunti sui criteri per la concessione della libertà provvisoria, secondo la “legge sull'ordine pubblico”, in Riv. dir. proc., 1976, p. 180. 42 VASSALLI G., Libertà personale, cit., p. 38. 79 conferire all'autorità giudiziaria un potere di fatto incontrollabile, sia in ordine alla prognosi di pericolosità che in ordine alla riconducibilità dei futuri reati tra quelli suscettibili di porre «in pericolo le esigenze di tutela della collettività»43. Vi è però anche chi ha ritenuto deliberata la vaghezza dell'espressione «esigenze di tutela della collettività», congeniale all'intenzione del legislatore di dare ingresso al criterio dell'allarme sociale, in modo da condizionare il giudice anche negli spazi riservati alla sua discrezionalità (soprattutto attraverso le informative di polizia e i mezzi di comunicazione, termometri dell'allarme sociale facilmente influenzabili dal potere politico)44. In ogni caso, la portata delle riserve espresse sull'art. 1.3 non poteva che estendersi al momento dell'emanazione del provvedimento facoltativo di cattura; non si è mancato di notare, infatti, che le direttive enunciate in tema di libertà provvisoria avrebbero senz'altro influenzato gli indirizzi giurisprudenziali in tema di cattura facoltativa, determinando un implicito avallo all'instaurazione dello status custodiae per non ben definiti scopi di natura sostanziale45. Quale che fosse l'intenzione del legislatore, i pronostici della dottrina più critica vennero presto confermati dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione, che, accogliendo la tesi della «finalità plurima» e riconducendo i fini extraprocessuali al concetto di difesa sociale, giunse ad affermare che la custodia preventiva «in definitiva persegue finalità anticipatorie della pena»46 e a riconoscere rilevanza all'allarme sociale cagionato dal reato tra le ragioni idonee a legittimare la carcerazione dell'imputato per fini di difesa sociale47. La Corte costituzionale fu chiamata ad occuparsi della legge Reale in due occasioni, con le sentenze nn. 88 del 1976 e 1 del 1980: decisioni «palesemente condizionate dall'atmosfera dell'emergenza»48, con le quali la Consulta diede inizio ad una serie di «travisamenti della sentenza n. 64 del 1970, trasformando quella che era stata posta come condizione di legittimità della custodia cautelare (la custodia cautelare dev'essere disciplinata in maniera tale da non contrastare con la presunzione di non colpevolezza, quindi può essere utilizzata solo in vista di finalità processuali) in un criterio per escludere l'applicazione dell'art. 27 43 GREVI V., Custodia preventiva e difesa sociale, cit., p. 248. 44 BRICOLA F., op. cit., p. 250; lo stesso Grevi, peraltro, aveva in precedenza mostrato di condividere questa impostazione, v. GREVI V., Libertà provvisoria ed esigenze di tutela della collettività: una questione di legittimità costituzionale, in Giur. it., 1976, II, p. 637. 45 GREVI V., Libertà provvisoria ed esigenze di tutela della collettività: una questione di legittimità costituzionale, in Giur. it., 1976, II, p. 637. 46 Cass., 20 giugno 1975, Piaggio, in Cass. pen., 1977, p. 966. 47 Cass., 7 giugno 1976, Pifano, in Cass. pen., 1978, p. 463. 48 GREVI V., Custodia preventiva e difesa sociale, cit., p. 250. 80 comma 2 in materia»49. Nel 1976 fu sottoposto al giudizio della Consulta l'art. 1, secondo comma, lett. b) della legge Reale, in base al quale la libertà provvisoria non poteva essere concessa «se l'imputato di uno dei delitti previsti dagli articoli 582, primo comma, 583, 588, secondo comma e 610 del codice penale è sottoposto ad altro procedimento penale, per violazione di uno o più delle suddette disposizioni di legge». L'ordinanza di rimessione prospettava un conflitto di tale disposizione sia con l'art. 27 Cost., perché, «in contrasto con il principio di presunzione d'innocenza dell'imputato, dà al procedimento in corso lo stesso valore di una affermazione definitiva di responsabilità», sia con l'art. 3 Cost., perché «pone nella stessa posizione sia colui che ha riportato per i predetti reati una precedente condanna, sia chi essendo ancora in corso il procedimento potrebbe in tesi essere assolto»50. La dottrina critica nei confronti della finalità di prevenzione speciale aveva riscontrato nell'art. 1.2 lett. b) una duplice violazione dell'art. 27.2. La mera pendenza di un altro procedimento penale come criterio di esclusione dalla libertà provvisoria, infatti, poggia necessariamente su una utilizzazione della custodia preventiva in funzione di difesa sociale, essendo difficile ricollegarvi una presunzione di pericolosità di natura processuale; sicché la presunzione di non colpevolezza sarebbe stata violata da un lato attribuendo finalità sostanziali alla custodia preventiva (sia pure in una prospettiva di prevenzione speciale “specifica”), dall'altro facendo discendere conseguenze negative per la libertà personale dell'imputato dalla mera imputazione in un altro procedimento. Eludendo sostanzialmente le questioni sottoposte al proprio giudizio, la Consulta salvò la disposizione in esame, sulla base di due argomenti assai poco plausibili. Da un lato la Corte richiama le «gravi ragioni che hanno determinato il legislatore a ripristinare un sistema di limitazioni alla concessione della libertà provvisoria, dopo aver constatato gli effetti della riforma attuata con la legge 15 dicembre 1972, n. 733», e cita addirittura testualmente i lavori preparatori della legge Reale, giustificata dalla necessità «di fronteggiare l'allarmante recrudescenza del fenomeno della criminalità». In questo modo – si è detto – «le ragioni politico-legislative poste a base della disposizione rimessa al sindacato della Corte costituzionale sono state assunte esse stesse ad argomento per escludere il dubbio sulla legittimità di tale disposizione», oltretutto definendo la cornice del giudizio di costituzionalità «oltre che in rapporto alla realtà drammatica di un fenomeno criminale in espansione, anche in rapporto alla esigenza di reagire ad una asserita disfunzione nell'applicazione della 49 ILLUMINATI G., Tutela della libertà personale, cit., pp. 119-120. 50 Corte cost., sent. n. 88 del 1976. 81 normativa previgente»51. Dall'altro lato la Consulta ribadisce l'affermazione (tratta dalla sentenza n. 124 del 1972 in materia di assoluzione per insufficienza di prove) secondo cui il costituente non avrebbe sancito una presunzione di innocenza, che, intesa in senso assoluto sarebbe incompatibile con la carcerazione preventiva, ma avrebbe solo voluto asserire che «durante il processo non esiste un colpevole, bensì soltanto un imputato». E' proprio minimizzando la portata della presunzione di non colpevolezza che la Corte riesce, sia pure maldestramente, ad affermare la legittimità della norma in esame. Si afferma, infatti, che i reati presi in considerazione dall'art. 1.2 lett b) sono reati «la cui iterazione costituisce indice di probabile inclinazione alla violenza fisica e morale, e quindi di pericolosità per la vita, l'incolumità e la sicurezza dei cittadini» e che «il diniego della libertà provvisoria non implica una [presunzione di colpevolezza], perché la detenzione preventiva non ha la funzione di anticipare la pena, applicabile solo dopo l'accertamento della colpevolezza, ma ben può essere predisposta “in vista della soddisfazione di esigenze di carattere cautelare o strettamente inerenti al processo (sentenza n. 64 del 1970)”»52. Parlando di «iterazione» del reato, la Corte sottolinea involontariamente proprio il profilo di illegittimità di cui vuole dimostrare l'insussistenza, cioè la violazione dell'art. 27.2 Cost., adombrando una equivalenza tra imputazione e accertamento del reato 53. La Corte sostiene che la presenza di una precedente imputazione per reati della stessa natura e gravità sia sufficiente a fondare una «ragionevole presunzione che possano essere pregiudicate le finalità» della carcerazione preventiva. Ne deriva che quelle che dovrebbero essere argomentazioni volte a dimostrare la compatibilità della disposizione in esame con gli artt. 27.2 e 3 Cost. risultano mere petizioni di principio, con le quali si confonde l'essere con il dover essere: mentre nella sent. 64/1970 la Consulta aveva sostenuto che la detenzione preventiva «non può avere» la funzione di anticipare la pena, nella sent. 88/1976 si afferma che tale istituto «non ha» la funzione di anticipare la pena, e perciò è compatibile con la presunzione di non colpevolezza. Da questa impostazione discende anche il rilievo conclusivo con cui si esclude altresì la violazione del principio di eguaglianza, perché il divieto di libertà provvisoria è disposto «in quanto [l'imputato è] già sottoposto ad altro giudizio per uno dei delitti previsti, e non già sulla base di una inammissibile equiparazione alla posizione di un condannato». 51 GREVI V., Custodia preventiva e difesa sociale, cit., pp. 250-251. 52 Corte cost., sent. n. 88 del 1976. 53 ILLUMINATI G., Una discutibile interpretazione, cit., p. 1667. 82 Dallo stesso “circolo vizioso” è parsa affetta anche la motivazione della sentenza n. 1 del 1980: questa volta al giudizio della Corte costituzionale era stato sottoposto il 3° comma dell'art. 1 della legge Reale, proprio nella parte in cui, ai fini della concessione della libertà provvisoria, imponeva al giudice di valutare che non «sussista la possibilità in relazione alla gravità del reato e alla personalità dell'imputato, che questi, lasciato libero, possa commettere nuovamente reati che pongano in pericolo le esigenze di tutela della collettività»54. L'ordinanza di rimessione, oltre a rilevare una lesione dell'art. 13.2 Cost. a causa dell'estrema genericità dell'espressione, che non avrebbe consentito di emettere motivazioni controllabili, toccava direttamente il problema della legittimità della finalità specialpreventiva con riferimento all'art. 27.2 Cost.; in questo senso, sembrava costringere la Corte a confrontarsi con i propri precedenti e a sciogliere l'ambiguità che li aveva caratterizzati. Il giudice a quo, infatti, portava a sostegno della propria eccezione d'illegittimità le sentenze nn. 64 del 1970, 147 del 1973 e 146 del 1975, come interpretate da una larga parte della dottrina, ossia nel senso dell'esclusione di finalizzazioni extraprocessuali. Ebbene, proprio sulla base di quei precedenti la Consulta sostenne l'infondatezza della questione di legittimità con riferimento all'art. 27.2, assestandosi definitivamente sulla tesi della trivalenza funzionale della custodia preventiva. La motivazione poggia su tre presupposti, di cui uno, solo implicito, è stato individuato nella posizione assunta nella sent. n. 88 del 1976, che, con le sue considerazioni generali sulle premesse storico-politiche della legge Reale, nonché sull'accoglimento della pericolosità sociale come criterio legittimante il diniego di libertà provvisoria, non poteva che “ipotecare” la successiva decisione sull'art. 1.3 della stessa legge55. Gli altri due snodi dell'argomentazione con cui si salva la norma dal prospettato contrasto con l'art. 27.2 sono da un lato una sorta di rilettura “autentica” del precedente del 1970, dall'altro, quasi a cercare uno «schermo protettivo» 56, le previsioni della legge delega del 1974 e del relativo progetto preliminare; in questo modo, come già nella precedente sent. n. 88 del 1976, la Corte rinunciava aprioristicamente a sindacare la legittimità di una legge ordinaria, che, con un rovesciamento della corretta prospettiva, viene utilizzata quasi come parametro di costituzionalità della norma sottoposta al suo vaglio. Nel riferirsi alla sent. n. 64 del 1970, la Consulta fa leva, più che sulla ultracitata formula che riconduceva la custodia preventiva alla «soddisfazione di esigenze di carattere cautelare o strettamente inerenti al processo», sul passaggio nel quale, per sostenere la 54 Art. 1.3 l. n. 152 del 1975. 55 CONSO G., La libertà provvisoria a confronto con le esigenze di tutela della collettività, ovvero la “Legge Reale” tra politica e diritto, in Giur. cost., 1980, I, p. 471. 56 CONSO G., La libertà provvisoria, cit., p.476. 83 legittimità della cattura obbligatoria, si riconosce che la legge possa presumere che una persona «accusata di un reato particolarmente grave e colpita da sufficienti indizi di colpevolezza, sia in condizione di porre in pericolo quei beni a tutela di quali la detenzione preventiva viene disposta». Proprio in tale passaggio, si è visto, trovava un ostacolo l'interpretazione restrittiva della sentenza in questione; ed è su questo punto, infatti, che la Corte fa leva, nel 1980, per sostenere, in continuità con il suo precedente, che “esigenze di prevenzione”, così come legittimavano l'automatismo cattura obbligatoria-divieto di libertà provvisoria, possono legittimare anche il diniego, rimesso alla valutazione del giudice, della concessione del beneficio. Date queste premesse, appare scontata la conclusione cui perviene la Corte nel sostenere che «non vi è sostanziale differenza fra esigenze “strettamente inerenti al processo”, ed altre che comunque abbiano fondamento nei fatti per cui è processo, posto che anche la tutela di queste ultime abbia rilievo costituzionale»57, rilievo che espressamente si riconosce alla «tutela della collettività dalla commissione di gravi reati»58. La Corte si limita a riconoscere l'incompatibilità dell'art. 1.3 della legge Reale con la presunzione di non colpevolezza solo con riguardo all'avverbio «nuovamente», locuzione che farebbe presupporre l'avvenuta commissione da parte dell'imputato del reato per il quale si procede. In questo modo, tuttavia, la Consulta non ha fatto altro che rimuovere quello che era un sintomo dell'incostituzionalità della norma, e non il motivo di essa59. Tutta la sentenza 1/1980 appare segnata da un equivoco di fondo, derivante non tanto dall'aver riconosciuto la legittimità della funzione di prevenzione speciale, quanto dall'aver trascurato che nell'art. 1.3 la prognosi di pericolosità sostanziale imposta al giudice si fonda esclusivamente sugli indizi di colpevolezza gravanti sull'imputato; i generici riferimenti alla gravità del reato e alla personalità dell'imputato, infatti, appaiono inidonei «ad aggiungere alcun elemento, che consenta di fondare tale prognosi di pericolosità su qualcosa di diverso, e di obiettivamente apprezzabile, rispetto all'ipotesi della colpevolezza»60. Per quanto concerne la censura di legittimità sollevata in riferimento all'art. 13.2 Cost., 57 Equivalenza logicamente non ineccepibile, ma funzionale – si è detto – «a far entrare a pieno titolo fra i presupposti delle misure, come esigenze – impropriamente – cautelari, le “esigenze di tutela della collettività”, che in realtà, sono collegate solo occasionalmente all'esistenza di un processo, senza avere alcun valore strumentale ai suoi fini» (ILLUMINATI G., Presupposti e criteri di scelta delle misure cautelari, in CONSO G. (a cura di), Il diritto processuale penale nella giurisprudenza costituzionale, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2007, pp. 399-400.) 58 Corte cost., sent. n. 1 del 1980. 59 ILLUMINATI G., Tutela della libertà personale, cit., p. 122. 60 GREVI V., Custodia preventiva e difesa sociale, cit., p. 254; gli stessi rilievi sono presenti in GROSSO D., La carcerazione preventiva, cit., p. 509. 84 sotto il profilo della mancata specificazione dei reati suscettibili di porre in pericolo le esigenze di tutela della collettività, la Corte dichiara ancora una volta l'infondatezza della questione. Profilandosi, in questa parte della motivazione, come sentenza interpretativa di rigetto, la sent. 1/1980 riconduce la formula dell'art. 1.3 alla ratio della legge Reale, nata dall'esigenza di fronteggiare gravi episodi di criminalità comune e politica; i reati in questione sarebbero quindi quelli caratterizzati da «uso d'armi o di altri mezzi di violenza contro le persone, riferibilità ad organizzazioni criminali comuni o politiche, direzione lesiva verso le condizioni di base della sicurezza collettiva o dell'ordine democratico»61. Tali indicazioni saranno recepite dal legislatore delegato nell'art. 274 lett. c) del vigente codice di rito, per specificare le esigenze di tutela della collettività cui faceva genericamente riferimento l'art. 2 n. 59 della legge delega. 2.3. La legge Cossiga e la sentenza n. 15 del 1982. L'orientamento della legge Reale fu ulteriormente sviluppato dal d.l. n. 151 del 1977 (conv. nella l. n. 296 del 1977) con cui furono ampliate le ipotesi di sospensione dei termini, dalla legge n. 533 del medesimo anno (che, dettando ulteriori «disposizioni in materia di ordine pubblico», estese a nuovi reati il divieto di libertà provvisoria sancito dall'art.1.1 della legge Reale), e soprattutto dal d.l. n. 625 del 1979, contenente «misure urgenti per la tutela dell'ordine democratico e della sicurezza pubblica», convertito nella l. n. 15 del 1980. L'art. 8 della c.d. legge Cossiga (l. 15/1980), in particolare, determinò un nuovo ampliamento dell'area della cattura obbligatoria a tutti i delitti commessi per finalità di terrorismo o di eversione dell'ordine democratico, per i quali veniva altresì previsto il divieto di concessione della libertà provvisoria, sulla base, evidentemente, della solita presunzione assoluta di pericolosità sostanziale dell'imputato; lo steso divieto veniva esteso altresì ai delitti di cui agli artt. 416 c.p. e 165-ter c.p.p, dimenticando che molte di tali fattispecie già rientravano nella previsione dell'art.1.1 della legge Reale. L'art. 10 prevedeva, inoltre, per i delitti contemplati dall'art. 8, un nuovo aumento (di un terzo) dei termini di durata massima della custodia preventiva, che, ai sensi del successivo art. 11, sarebbe stato applicabile anche ai procedimenti in corso alla data di entrata in vigore del decreto. Nelle ipotesi delittuose più gravi la durata custodia preventiva poteva raggiungere i 10 anni e 8 mesi: sintomo, questo, ancora una volta, di una «non equivoca scelta di politica legislativa in ordine all'impiego – di fatto – della custodia preventiva quale strumento di 61 Corte cost., sent. n. 1 del 1980. 85 politica criminale e come anticipazione della pena»62. In sede di conversione del decreto, nell'art. 8 veniva inserito anche il ripristino dell'effetto sospensivo dell'impugnazione del pubblico ministero rispetto all'esecuzione dell'ordinanza di libertà provvisoria. L'unica disposizione di diversa ispirazione riguardava l'estensione del principio di proporzionalità risultante dall'art. 277-bis con riferimento alle ipotesi di probabile concessione della sospensione condizionale della pena (art. 8.3). Sugli artt. 10 e 11 della legge Cossiga fu chiamata a pronunciarsi la Corte costituzionale, che ne salvò la legittimità con una sentenza (la n. 15 del 1982), che – si è detto – ha rappresentato «la tappa di massimo avanzamento della tendenza volta a ricondurre [la custodia cautelare] nell'arsenale degli strumenti di politica criminale» 63. Oggetto delle censure mosse dalle tre ordinanze di rimessione erano l'allungamento dei termini massimi della custodia preventiva, ritenuto irragionevole alla luce dell'art. 5.3 Cedu, e la prevista applicabilità dei nuovi termini ai procedimenti in corso, in relazione agli artt. 3.1, 13 (1°, 2° e 5° comma), 25.2 e 27.2 Cost. Nell'affrontare la prima questione, ancora una volta la Corte prende le mosse dalle motivazioni poste dal legislatore a sostegno della disposizione impugnata, e cioè le «obiettive difficoltà che esistono per gli accertamenti istruttori e dibattimentali concernenti i reati in questione»64, utilizzando tali motivazioni come argomenti rilevanti a livello di costituzionalità65; nella sent. 15/1982, addirittura, è lo stesso concetto di “emergenza” che viene assunto quale parametro di legittimità costituzionale66. Sulla base di queste premesse si muove l'argomentazione della Corte, che sostiene che i nuovi termini non possano ritenersi irragionevoli, sia pure precisando che l'emergenza «legittima, sì, misure insolite, ma […] queste perdono legittimità, se ingiustificatamente protratte nel tempo», e che una legislazione d'emergenza non può non comprendere anche misure atte a rimuovere le cause dell'inefficienza dell'amministrazione della giustizia67. Il ragionamento svolto dalla Corte per respingere la prima censura di legittimità 62 CANZIO G., La libertà personale, cit., p. 370. 63 GREVI V., Custodia preventiva e difesa sociale, cit., p. 266. 64 Corte cost., sent. n. 15 del 1982. 65 GREVI V., loc. ult. cit.; lo stesso rilievo citico è presente in NOBILI M., Successione nel tempo di norme sui termini massimi della custodia preventiva e principi costituzionali, in Foro it., 1982, I, p. 2140. 66 PUGIOTTO A., La finalità processuale della custodia cautelare nella sentenza n. 74 del 1985: un definitivo ritorno della Corte alla sua migliore giurisprudenza, in Giur. cost., 1985, I, p 1404; in termini meno critici CARLASSARE L., Una possibile lettura in positivo della sent. n. 15?, in Giur. cost., 1982, I, p. 99; PACE A., Ragionevolezza abnorme o stato d'emergenza?, in Giur. cost., 1982, I, p. 111. 67 Corte cost., sent. n. 15 del 1982. 86 consente di valutare con cautela la parte più peculiare della sentenza, nella quale la Consulta sembra tornare con fermezza sulla tesi della finalità esclusivamente endoprocessuale della custodia preventiva, ricollegandosi oltretutto ad una lunga serie di sentenze, dal contenuto difficilmente conciliabile (compresa la sent. n. 1 del 1980), che tuttavia vengono poste sulla medesima linea interpretativa, volta ad escludere la «natura di diritto sostantivo dell'istituto della carcerazione preventiva». Tale passaggio, in realtà, risulta meramente strumentale al rigetto della censura relativa alla retroattività della norma che fissa i nuovi termini massimi, cosicché, paradossalmente, «la più robusta garanzia costituzionale in tema di carcere preventivo (cautela consentita per finalità processuali) viene […] impiegata proprio per negare l'applicabilità di uno fra i più elementari cardini dei sistemi penali moderni (c.d. divieto di retroattività)»68. L'apparente ritorno su una posizione di maggior rigore è reso poco convincente anche dal ragionamento con cui si afferma la compatibilità della custodia preventiva con l'art. 27.2 Cost.: «usando come argomento dimostrativo proprio quello che dev'essere dimostrato, che cioè la disciplina della carcerazione preventiva mira a finalità processuali poiché altrimenti sarebbe incostituzionale», la Corte sostiene che «non c'è violazione della presunzione di non colpevolezza, dato che la carcerazione preventiva non ha finalità sostanziali»69. Ma soprattutto, è l'inquadramento delle disposizioni della legge Cossiga «alla luce della necessità di tutelare l'ordine democratico e la sicurezza pubblica contro il terrorismo e l'eversione […] che sconta in partenza la finalizzazione dei nuovi termini massimi esclusivamente ad esigenze di difesa sociale»70; e lo stesso vale per la previsione dell'immediata applicabilità dei nuovi termini ai procedimenti in corso, «elemento necessario ed integrante della strategia legislativa di politica criminale che ha condotto al prolungamento di quei termini»71. Traendo le fila dell'analisi svolta sulla giurisprudenza costituzionale in materia di custodia preventiva nell'arco di tempo che va dal 1970 al 1982, si può concludere che in un primo momento una certa ambiguità è stata dovuta al timore di accogliere, in tutta la loro portata, le conseguenze derivanti da una corretta interpretazione dei principi costituzionali, in particolare degli artt. 13 e 27.2 Cost, e quindi di dichiarare l'illegittimità della cattura obbligatoria; in un secondo momento, invece, l'ambiguità dei suoi precedenti è tornata utile alla Corte quando, di fronte a scelte legislative di politica criminale palesemente stridenti con 68 NOBILI M., Successione nel tempo, cit., pp. 2134-2135. 69 ILLUMINATI G., Tutela della libertà personale, cit., p. 122. 70 GREVI V., Custodia preventiva e difesa sociale, cit., p. 260. 71 GREVI V., Custodia preventiva e difesa sociale, cit., p. 265. 87 quegli stessi principi, ha abdicato alla sua funzione critica nei confronti dell'operato del legislatore ordinario, cui ha offerto un'acritica copertura72: in questo modo, la Consulta, rinunciando a porre dei seri argini ad una normativa ordinaria modellata su finalità sostanziali, ha fornito un autorevole avallo sia ad una progressiva restrizione, per via legislativa, della tutela della libertà personale dell'imputato, sia ad una prassi giudiziaria incline ad un uso della custodia preventiva in funzione di anticipazione della pena73. La stagione dell'emergenza si conclude con la legge n. 304 del 1982, recante «misure per la difesa dell'ordinamento costituzionale». Si tratta di una legge che, pur rientrando ancora appieno in quella stagione, per la prima volta opera attraverso misure non repressive ma premiali; in particolare, vengono introdotte previsioni derogatorie alla disciplina ordinaria per gli imputati di reati commessi per finalità di terrorismo o di eversione dell'ordine democratico che abbiano tenuto comportamenti collaborativi, configurati come attenuanti dall'art. 3 dello stesso testo normativo. L'art. 6 della legge in esame consente, nei casi di comportamenti collaborativi di eccezionale rilevanza, che, in deroga all'art. 8 della legge Cossiga, all'imputato sia concessa la libertà provvisoria con la sentenza di primo grado o successivamente, «quando, tenuto conto della sua personalità, anche desunta dalle modalità della condotta, nonché dal comportamento processuale, il giudice possa fondatamente ritenere che si asterrà dal commettere reati che pongano in pericolo le esigenze di tutela della collettività»74. L'espressione riecheggia quella contenuta nell'art. 1.3 della legge Reale, salvo per il fatto che in questo caso il pericolo di commissione di futuri reati assurge ad unica possibile preclusione alla concessione del beneficio, senza che nessun rilievo sia conferito alle esigenze di natura processuale75. Nel momento conclusivo della legislazione emergenziale, l'art 6.1 della legge 304/1982 svela, dietro un apparente inversione di tendenza rispetto al progressivo inasprimento degli interventi normativi precedenti, una ulteriore e forse più esplicita conferma di quella deviazione del processo dalla sua natura di strumento neutro, volto esclusivamente alla verifica dell'ipotesi accusatoria, verso una funzione di immediata difesa sociale. La collaborazione con gli inquirenti, infatti, comporta non solo una diminuzione della pena irrogabile, quindi una conseguenza operante sul medesimo piano sostanziale su cui opera la 72 ILLUMINATI G.,Presunzione d'innocenza e uso della carcerazione preventiva come sanzione atipica, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1978, p. 930. 73 DOMINIONI O., La presunzione d'innocenza, in Le parti nel processo penale, Milano, Giuffrè, 1985, pp. 245246. 74 Art.6.1 della legge n. 304 del 1982. 75 CHIAVARIO M., Commento all'art. 6 della l. 29/5/1982 n. 304, in Legisl. pen., 1982, pp. 576-577. 88 prevista attenuante, ma anche un beneficio sul piano del trattamento custodialistico in atto. E la ragione sta nel fatto che la logica premiale esige un'immediata percezione del beneficio, impossibile se questo fosse ricondotto solo ad una riduzione di pena, dati i tempi lunghi dell'accertamento76. Quest'ultima considerazione rende opportuno ritornare su un tema cui si è già accennato (e sul quale non si potrà non ritornare quando si analizzerà la disciplina del codice di rito vigente anche alla luce della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo), e cioè il rapporto tra custodia cautelare e ragionevole durata del processo. Di fronte a tempi eccessivamente lunghi per pervenire all'accertamento e al conseguente svuotamento dell'efficacia della sanzione, nella stagione dell'emergenza si è verificato con particolare incisività il «fenomeno di trasposizione legislativa delle finalità tipiche della pena sul terreno del processo, e specialmente sul terreno delle misure processuali di coercizione personale»77. Il rapporto causale tra le disfunzioni della giustizia penale e l'impiego della carcerazione preventiva per finalità extraprocessuali ha assunto in quegli anni dimensioni tali che ci si è chiesti se tale inefficienza non sia stata, se non deliberatamente ricercata, almeno consapevolmente accettata a livello politico: un processo incapace di «irrogare sanzioni penali in maniera tempestiva e utile, consente», infatti, «il recupero di strumenti repressivi atipici [che] possono essere manovrati con la massima duttilità»78. 3. Oltre l'emergenza: verso il nuovo codice. La legge n. 532 del 1982 è il primo provvedimento legislativo in materia di coercizione ante iudicatum a collocarsi fuori dalla legislazione dell'emergenza, segnando una netta inversione di tendenza e un «deciso ritorno a principii di civiltà processuale e di rispetto della libertà»79. Nota come “legge istitutiva del Tribunale del riesame”, la l. 532/1982 rappresentò anzitutto l'adempimento di un impegno internazionale assunto dall'Italia con la Convenzione europea dei diritti dell'uomo (art. 5.4), e successivamente con il Patto internazionale sui diritti civili e politici (art. 9.4), resi esecutivi rispettivamente nel 1955 e nel 1978. In entrambi i documenti, infatti, si sancisce il diritto, per ogni persona privata della libertà personale mediante arresto o detenzione, di ricorrere ad un tribunale affinché questo decida, entro brevi 76 CORSO P., Nuovi profili della custodia preventiva, Milano, Giuffrè, 1983, pp. IX-X. 77 GREVI V., Custodia preventiva e difesa sociale, cit., p. 268. 78 ILLUMINATI G., Presunzione d'innocenza e uso della carcerazione preventiva come sanzione atipica, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1978, p. 922. 79 VASSALLI G., Premessa al commento della l. 12/8/1982 n. 532, in Legisl. pen., 1983, p.61. 89 termini, sulla legalità della detenzione e, in caso di esito negativo, ordini la scarcerazione. Fino al 1982 il sistema processuale penale italiano prevedeva solo (dal 1955) la possibilità del ricorso per cassazione, previsto dall'art. 111 Cost.; tale strumento, tuttavia, non rispondeva ai criteri richiesti dalla normativa internazionale, sia per i tempi lunghi richiesti sul piano procedurale, sia per la limitazione al profilo della violazione di legge (mentre il concetto di legalità contenuto sia nella Cedu che nel Patto abbraccia, per la sua derivazione dalla tradizione anglosassone, anche la possibilità di un sindacato nel merito80). Dunque, la più macroscopica innovazione apportata dalle legge del 1982 riguardò l'introduzione di un sistema di controllo anche sul merito dei provvedimenti de libertate, operante in tempi brevi, affidato ad un organo collegiale, azionato da una domanda di parte e svincolato dalle caratteristiche proprie delle impugnazioni ordinarie (artt. 263-bis e 263-ter). Non meno significativa, peraltro, fu anche la previsione introdotta nel nuovo terzo comma dell'art. 254, che consentiva al giudice di disporre con il mandato di cattura che l'imputato, anziché in carcere, rimanesse «in stato di arresto nella propria abitazione o in altro luogo di privata dimora ovvero in un luogo pubblico di cura o di assistenza» 81, oppure di limitarsi, in sostituzione del mandato di cattura, ad imporgli le prescrizioni di cui agli artt. 282.2 e 284.2 (cioè gli obblighi già previsti come accessori rispetto alla libertà provvisoria, e ora convertiti in autonome misure cautelari). Un ulteriore settore su cui incise la legge del 1982 fu quello concernente la motivazione dei provvedimenti di coercizione personale: attraverso un'interpolazione effettuata sul testo dell'art. 264.2, fu richiesta, in luogo della «sommaria enunciazione», la «specifica enunciazione degli indizi di colpevolezza», pur permanendo nel testo l'inciso relativo al segreto istruttorio. L'esigenza di specificità della motivazione, secondo una condivisa lettura del testo risultante dalla modifica, coinvolgeva anche gli altri motivi dell'emissione del provvedimento cautelare, e in particolare le esigenze cautelari enunciate per la prima volta proprio dalla legge 53282. Solo apparentemente secondaria nell'impianto della legge in esame, l'introduzione, nel tessuto dell'art. 254, dei motivi della coercizione cautelare, si rivela in realtà, già ad un primo esame, come l'antecedente logico di tutte le altre modifiche apportate al codice di rito 83. Da un lato, infatti, è la previsione di specifiche esigenze cautelari che consente, in relazione al grado 80 VASSALLI G., Premessa al commento, cit., p. 59. 81 Art. 254.3, come modificato dalla legge n. 532 del 1982. 82 ILLUMINATI G., Finalità della custodia preventiva e criteri di valutazione alla luce dell'art. 254 c.p.p., in Aa.Vv., Tribunale della libertà e garanzie individuali, Bologna, Zanichelli, 1983, p.71. 83 ILLUMINATI G., Finalità della custodia preventiva, cit., p.51. 90 in cui tale esigenze si riscontrino nel caso concreto, di modulare la risposta coercitiva, adottando eventualmente le misure alternative alla custodia in carcere. Ma soprattutto, è evidente la correlazione che esiste tra definizione legislativa dei presupposti delle misure cautelari, pregnanza della motivazione dei provvedimenti de libertate, e possibilità di un riesame nel merito. La previsione legislativa dei pericula libertatis consentiva finalmente di ricondurre il potere del giudice in ordine all'emissione del mandato di cattura facoltativo nell'alveo della discrezionalità tecnica, secondo lo schema per cui, verificata la sussistenza nel caso di specie dei presupposti normativi, si determina per il giudice il dovere di disporre la misura cautelare adeguata. Nella stessa ottica si possono leggere le conseguenze della nuova disposizione in tema di libertà provvisoria: individuate le uniche ragioni che legittimavano l'instaurazione (nei casi di cattura facoltativa) e il protrarsi (anche nei casi di cattura obbligatoria) della coercizione cautelare, la libertà provvisoria perdeva l'ambigua qualifica di “beneficio” per acquisire anch'essa i connotati della doverosità non appena accertato il venir meno di quelle ragioni84. L'importanza della previsione del nuovo art. 254 trascendeva, dunque, la stessa portata della legge 532/1982, tanto più poiché, imprimendo al sistema processuale una vera e propria “rivoluzione copernicana”85, essa veniva finalmente a colmare il “vuoto di fini” della legislazione ordinaria in materia di limitazioni alla libertà personale dell'imputato, conferendo identità normativa alle esigenze cautelari, che solo in “negativo” potevano dirsi formulate nell'art. 1.3 della legge Reale. Riallacciandosi sia alle previsioni della legge delega del 1974 e del progetto preliminare del 1978 che alle indicazioni espresse dal Consiglio d'Europa in tema di carcerazione preventiva, il nuovo art. 254 veniva ad accogliere, in termini espliciti, tra i motivi della coercizione cautelare la più dibattuta tra le finalità della coercizione cautelare, quella di prevenzione speciale; il legislatore si muoveva, peraltro, lungo una linea ormai già da tempo tracciata e che era destinata a trovare conferma nel nuovo codice. Sostituendosi alle ambigue indicazioni contenute nel vecchio testo dell'art. 254 (dovere di «tener conto delle qualità morali della persona e delle circostanze del fatto»), l'art. 4 della legge 532/1982 dispone che il giudice, del decidere se emettere il mandato di cattura facoltativo, dovrà «tener conto del pericolo di fuga dell'imputato o del pericolo per l'acquisizione delle prove, desunti da elementi specifici, nonché della pericolosità 84 DOMINIONI O., I motivi della coercizione cautelare, in Cass. pen., 1984, pp. 1564-1565; sull'utilizzabilità dei criteri fissati dal nuovo art. 254.2 ai fini della concessione della libertà provvisoria, anche nelle ipotesi di cattura obbligatoria, v. anche ILLUMINATI G., Finalità della custodia preventiva, cit., p.67. 85 DOMINIONI O., I motivi, cit., p. 1555. 91 dell'imputato, desunta dalla sua personalità e dalle circostanze del fatto, in rapporto alle esigenze di tutela della collettività»86. Occorre rilevare, anzitutto, che in un primo momento fu ipotizzata una peculiare interpretazione della norma citata – volta evidentemente a salvarla da censure di incostituzionalità – che, facendo leva sull'utilizzo del termine «nonché» per introdurre l'esigenza di difesa sociale, prospettava una sua collocazione in «posizione subordinata e accessoria rispetto alle altre»: i due pericula di natura processuale sarebbero stati «il metro fondamentale della scelta, sufficiente per l'emissione del mandato», mentre la pericolosità sostanziale dell'imputato sarebbe venuta in considerazione solo come «elemento concorrente di valutazione»87. Tale orientamento, rimasto pressoché isolato in dottrina, ha trovato accoglimento in alcune sentenze delle Cassazione88, ma non è andato immune da alcuni rilievi critici che ne hanno svelato non solo l'insostenibilità da un punto di vista d'interpretazione sistematica, ma anche l'intima incoerenza. L'interpretazione proposta, infatti, si rivela già piuttosto debole alla luce della correlazione tra l'art. 254.2 e l'art.1.3 della legge Reale, nel quale le tre esigenze cautelari sono poste in maniera inequivoca sullo stesso piano quali elementi impeditivi della libertà provvisoria89. Ma soprattutto, tale interpretazione, a ben vedere, conduce ad un risultato opposto a quello che si cercava di ottenere, infatti: o le ragioni processuali rappresentano una condizione necessaria e sufficiente per disporre la cattura, e allora il riferimento alle ragioni di tutela della collettività sarebbe del tutto irrilevante; oppure queste ultime sono sempre necessarie, anche se non sufficienti, divenendo quindi motivo primario della coercizione cautelare. Se nel primo caso a risentirne sarebbe l'aderenza della norma al principio di tassatività ex art. 13 Cost., nel secondo caso risulterebbe accentuata l'importanza dell'esigenza sostanziale90. Infine, la tesi dell'accessorietà di tale esigenza porterebbe a conseguenze razionalmente ingiustificabili: non avrebbe senso, infatti, una volta dato ingresso al terzo scopo, prescrivere che la sua tutela possa essere perseguita solo insieme alla tutela delle esigenze processuali; né avrebbe senso precludere la possibilità di disporre misure cautelari 86 Art. 254, 2° comma, come modificato dalla legge n. 532 del 1982. 87 VASSALLI G., Premessa al commento, cit., p. 63; la tesi è ripresa da FERRAIOLI M., voce Misure cautelari, in Enc. Giur., vol. XXII, Roma, Treccani, 1996, pp. 10-11. 88 Cass., 5 marzo 1985, Messina, in Cass. pen., 1985, p. 2267; Cass., 1 ottobre 1986, Paonessa, in Giur. it., 1988, II, p. 386. 89 GREVI V., Tribunale della libertà, custodia preventiva e garanzie individuali: una prima svolta oltre l'emergenza, in Aa.Vv., Tribunale della libertà e garanzie individuali, Bologna, Zanichelli, 1983, p.4. 90 ILLUMINATI G., La “pericolosità dell'imputato” nella motivazione dei provvedimenti sulla libertà personale, in Cass. pen., 1985, p.2272; PARENTINI M., Esigenze di prevenzione speciale e provvedimenti limitativi della libertà personale, in Giur. it., 1988, II, pp. 388-389. 92 contro i pericula processuali se non sia contestualmente formulabile anche un giudizio di pericolosità sostanziale dell'imputato91. Appare chiaro, quindi, che il legislatore abbia inteso dare ingresso, con pari rilevanza rispetto agli altri scopi, anche alla finalità di difesa sociale; il che, del resto, appariva naturale conseguenza, oltre che delle scelte operate dalla c.d. legislazione dell'emergenza, anche degli sviluppi cui era approdato il percorso di codificazione, nonché di una recente Raccomandazione del Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa nella materia de qua. L'art. 279 del progetto preliminare del 1978 prevedeva, infatti, la possibilità di disporre misure cautelari in presenza del «pericolo, desunto dalle modalità del fatto e dalla personalità dell'imputato, che questi commetta gravi delitti della stessa indole di quello per cui si procede». Analogamente, la Raccomandazione R (80) 11 del Consiglio d'Europa ammetteva tra le ragioni della «carcerazione provvisoria» il «pericolo che la persona commetta un grave reato»92. Più che il progetto preliminare, tuttavia, la formula con cui il legislatore ha dato ingresso alla finalità specialpreventiva riecheggia quella dell'art. 1.3 della legge Reale, con il riferimento alle «esigenze di tutela della collettività». Dal nuovo disposto emergente dall'art. 254.2 restava esclusa la possibilità di un impiego delle misure cautelari per finalità di natura sostanziale diverse dal pericolo di commissione di reati da parte dell'imputato, il che segnava un innegabile progresso rispetto al testo previgente dell'art. 254 93. Tuttavia, il riferimento alle «esigenze di tutela della collettività», inserito nel contesto codicistico senza ulteriori specificazioni, risultava ancora più indeterminato di quanto non fosse parso nella legge sull'ordine pubblico, essendo ancora meno evidenti i reati suscettibili di porre in pericolo quelle esigenze. Si ripresentava, insomma, in termini accentuati, lo stesso problema che aveva portato ad impugnare l'art. 1.3 davanti alla Corte costituzionale, la quale aveva tentato di colmare la lacuna legislativa individuando, per via d'interpretazione sistematica, quali fossero i reati cui 91 DOMINIONI O., I motivi, cit., p. 1556. 92 Raccomandazione R (80) 11, adottata il 27 giugno 1980, in Riv. it. Dir. Pric. Pen., 1980, p. 698, con commento di GIARDA A., Un'importante 'raccomandazione' del comitato dei ministri del Consiglio d'Europa in tema di carcerazione preventiva. La raccomandazione detta una serie di disposizioni fondamentali in tema di custodia ante iudicium, indubbiamente inquadrabili in un'ottica garantista, dal principio di stretta necessità, ai connessi principi di proporzionalità e di adeguatezza, all'esclusione dell'obbligatorietà della cattura o di una sua finalizzazione sanzionatoria, all'obbligo di motivazione specifica e al diritto ad un ricorso. Non si può non notare, peraltro, accanto all'accoglimento dell'esigenza di prevenzione speciale, anche la previsione secondo la quale «anche se non si potesse ritenere l'esistenza dei pericoli di cui sopra, la carcerazione provvisoria può tuttavia eccezionalmente giustificarsi in certi casi di reati particolarmente gravi». 93 GREVI V., Commento agli artt. 4 e 5 della l. 12/8/1982 n. 532, in Legisl. pen., 1983, p.81; DOMINIONI O., I motivi, cit., p. 156; ILLUMINATI G., Finalità della custodia preventiva, cit., p.61. 93 riferire la prognosi di pericolosità94; peraltro, già attraverso il censurato avverbio «nuovamente» l'art. 1.3 esprimeva l'esigenza di un collegamento tra il reato temuto e quello in corso d'accertamento, assente invece nella nuova norma. Non è mancato, comunque, chi ha tentato di prevenire per via interpretativa il possibile contrasto con l'art. 13 cpv Cost., inserendo il nuovo art. 254.2 all'interno del medesimo contesto normativo – quello relativo alla disciplina della libertà personale – comprensivo anche della legge Reale, così da poter applicare i risultati ermeneutici elaborati in tema di divieti alla libertà provvisoria95. Più spesso, tuttavia, si è ritenuto di non poter fare altro che costatare nella nuova disposizione una incolmabile carenza sotto il profilo della tassatività96, involontariamente confermata dallo stesso legislatore nel prescrivere che l'accertamento delle esigenze cautelari dovesse avvenire sulla base di «elementi specifici» solo con riferimento alle esigenze processuali97. Si è sostenuto, infatti, che la specificazione dei reati contenuta nella sent. 1/1980 anzitutto non potesse avere efficacia vincolante, risolvendosi in un elenco meramente esemplificativo, e che comunque, essendo dedotta da un'interpretazione sistematica della legge 152/1975, fosse difficilmente riferibile ad una disposizione inserita non nella legge speciale ma nel codice di procedura penale98. Sicché, il risultato della formula accolta nell'art. 254.2 è apparso «una sorta di rinvio all'apprezzamento del giudice, destinato a risolversi, verosimilmente, nell'uso di una motivazione apodittica, o comunque ridotta ad un giudizio sulla gravità del reato» 99 e, in definitiva, in una discrezionalità ancora più ampia di quella consentita nel contesto dell'art. 1.3 della legge Reale100. Quest'ultima considerazione consente d'introdurre un ulteriore rilevo critico sul nuovo art. 254.2, espresso con riferimento agli elementi dai quali il giudice sarebbe stato tenuto a desumere la pericolosità sociale dell'imputato: il generico riferimento alla «personalità» e alle «circostanze del fatto» (parametri che richiamano quelli dell'art. 133 c.p.) lasciava poco spazio, infatti, per formulare un giudizio di pericolosità che prescindesse dall'ipotesi di colpevolezza e che non si riducesse, quindi, ad una mera prognosi di recidiva, palesemente 94 Corte cost, sent. n. 1 del 1980, v. supra, § 2. 95 DOMINIONI O., I motivi, cit., p. 1562. 96 GREVI V., Tribunale della libertà, cit., p.9; ILLUMINATI G., Finalità della custodia preventiva, cit., p.61; GROSSO D., La carcerazione preventiva, cit., p. 518. 97 GREVI V., Tribunale della libertà, cit., p. 24. 98 GREVI V., Commento., cit., p. 83; ILLUMINATI G., loc. ult. cit.; MARZADURI E., voce Custodia cautelare nel diritto processuale penale, in Dig. pen., vol. III, Torino, Utet, 1989, p. 285. 99 ILLUMINATI G., loc. ult. cit.. 100 GREVI V., Commento., cit., p. 84. 94 contrastante con la presunzione d'innocenza101. Appariva così con tutta evidenza uno degli aspetti – l'impossibilità di scindere il giudizio sulla pericolosità da quello sulla colpevolezza – su cui parte della dottrina aveva fondato il proprio giudizio negativo in ordine alla compatibilità teorica dell'esigenza di prevenzione speciale con il principio costituzionale della presunzione di non colpevolezza. In conclusione, non può tacersi che, a monte di ogni possibile rilievo critico sulla formulazione della funzione di prevenzione speciale, la portata riformista della legge sul Tribunale del riesame scontava la perdurante incapacità di incidere su alcune scelte di fondo del codice, fatte proprie dalla legislazione emergenziale e funzionali ad una strumentalizzazione sanzionatoria della carcerazione preventiva. Rimaneva intatta, infatti, l'obbligatorietà della cattura, con le sue conseguenze in tema di libertà provvisoria (i limiti introdotti dalle leggi speciali erano stati rimossi solo per i casi di cattura facoltativa); inoltre, la legge del 1982 non si era preoccupata né di introdurre una piena giurisdizionalizzazione del procedimento cautelare, sottraendo al PM il potere di emettere i relativi provvedimenti, né di riconsiderare i limiti massimi della custodia preventiva102. Tutto ciò, ovviamente, non stempera il significato politico della riforma, che rivelava una decisa presa di distanza dalle soluzioni normative degli anni precedenti, confermata due anni dopo dalla legge n.398 del 1984. Il nuovo intervento normativo incise in modo altrettanto penetrante sulla disciplina della libertà personale dell'imputato, sopperendo ad alcune delle carenze della legge del 1982. Fu rivisitata la disciplina dei termini, attraverso un ridimensionamento dei termini massimi e la previsione di termini autonomi per ciascuna fase del procedimento, in modo da scoraggiare il “gioco al riporto” consentito dalla precedente disciplina, in cui i termini massimi risultavano dalla somma tra il termine previsto per la fase anteriore e un segmento aggiuntivo 103; furono modificati i criteri di computo della pena ai fini dell'emanazione dei provvedimenti cautelari, eliminando dal calcolo tutte le aggravanti comuni e introducendo invece alcune attenuanti; attraverso l'abrogazione dei divieti posti dall'art. 1 della legge Reale e dall'art. 8 della legge Cossiga, venne esteso l'ambito di concedibilità della libertà provvisoria, la cui disciplina veniva ricondotta all'interno del solo art. 277 del codice di rito; l'art. 277-bis venne riformulato in modo da dare più ampia attuazione al principio di proporzionalità tra cautela e pena irroganda; infine, fu introdotto l'obbligo, per il giudice, di interrogare l'imputato in stato 101 GREVI V., Tribunale della libertà, cit., p. 13; GROSSO D., La carcerazione preventiva, cit., p. 518; MARZADURI E., loc. ult. cit.. 102 GREVI V., Tribunale della libertà, cit., pp. 41-43. 103 CHIAVARIO M., Premessa al commento alla l. 28/7/1984 n. 398, in Legisl. pen., 1985, p. 63. 95 di custodia cautelare entro il termine perentorio di quindici giorni dall'arresto, scaduti i quali l'imputato doveva ritornare in libertà. Merita soffermarsi, però, su una modifica per certi aspetti di minore risonanza, quella apportata dall'art. 11 della legge 398/1984, che testualmente disponeva: «nel codice di procedura penale e nelle altre leggi le espressioni: “carcerazione preventiva”, e: “custodia preventiva”, sono sostituite dalla seguente: “custodia cautelare”»104. Scompariva, dunque, sia dal codice di procedura che dal codice penale il termine «carcerazione», sostituito con quello di «custodia». Tale scelta era in qualche modo imposta dalla volontà di assimilare gli effetti della custodia in carcere a quelli degli arresti domiciliari, e quindi di considerare in stato di «custodia cautelare» anche l'imputato sottoposto a quest'ultima misura. Già in questa prima modifica, peraltro, sono state colte delle rilevanti conseguenze sul piano della natura stessa dell'istituto, non essendo più possibile argomentare, come talora si era fatto, sulla base dell'art. 137 c.p. 105, che, in ragione dell'identità terminologica tra pena e cautela, il legislatore avesse inteso quest'ultima quale espiazione anticipata106. Ma ancora più significativa appariva la seconda modifica, con cui l'aggettivo «cautelare» prendeva il posto di «preventiva». Se a questo termine, infatti, poteva anche essere attribuito un significato neutro, di tipo meramente classificatorio, collegato alla semplice necessità di distinguere la misura coercitiva ante iudicatum da quella eventualmente applicata in esito al giudizio, è evidente che nella realtà applicativa esso diveniva l'espressione più eloquente dell'uso della coercizione cautelare come anticipazione della sanzione. Attraverso l'idea del “pre-venire”, infatti, passava la concezione della restrizione della libertà personale dell'imputato come misura che inesorabilmente anticipa la pena107; ma ancora più direttamente il termine «preventiva» richiamava la funzione di prevenzione speciale, divenuta, negli anni della legislazione emergenziale, al contempo strumento e sintomo di quella trasformazione del processo penale a strumento di controllo sociale di cui si è parlato in precedenza. La modifica terminologica introdotta dalla riforma del 1984, come si è rilevato anche alla luce dei lavori parlamentari, esprimeva la volontà del legislatore di impedire per il futuro gli abusi che la precedente stagione normativa aveva ampiamente consentito e di ricollocare 104 Art. 11 della legge n. 398 del 1984. 105 Che dispone che «[l]a carcerazione sofferta prima che la sentenza sia divenuta irrevocabile (648 c.p.p) si detrae dalla durata complessiva della pena temporanea detentiva o dall'ammontare della pena pecuniaria». 106 PISANI M., Commento all'art. 11 l. 28/7/1984 n. 398, in Legisl. pen., 1984, pp.174-175. 107 PISANI M., Commento, cit., p. 178. 96 in secondo piano la finalità di prevenzione speciale rispetto alle necessità rigorosamente cautelari108. Non può nascondersi, tuttavia, la contraddittorietà della posizione espressa in questo contesto dal legislatore. Effettivamente, nel disegno di legge n. 495 A del Senato si affermava che nell'introduzione del concetto di «cautela» andasse letta «l'esclusione, perentoria, di utilizzazione [delle misure coercitive] in funzione di scopi che siano estranei alle necessità strettamente e rigorosamente cautelari»109. Senonché, si è osservato110 che a rendere poco plausibile la tesi secondo cui la riforma del 1984 avrebbe puntato a strutturare la custodia ante iudicium come misura deputata alla tutela delle sole esigenze endoprocessuali vi erano sia il mantenimento del mandato di cattura obbligatorio sia l'assenza di qualsiasi riferimento normativo in grado di dare concretezza all'esclusione o almeno alla riduzione della rilevanza di quell'«esigenza di tutela della collettività», che continuava a permanere, con tutti i suoi profili critici, nell'art. 254.2, e che si ritrovava ora anche nel nuovo testo dell'art. 277111. Uno spiraglio per la tesi più restrittiva fu intravisto nella sentenza costituzionale n. 74 del 1985: nel dichiarare l'illegittimità dell'art. 309 del codice penale militare di pace, che consentiva di disporre misure restrittive della libertà personale del militare imputato di un reato senza prevederne i presupposti, la Consulta ribadì quanto affermato nella sentenza n. 68 del 1974, affermando che «la carcerazione preventiva, che è giustificata da esigenze eminentemente processuali, non si atteggia in modo diverso, quanto alla sua funzione e alla sua finalità, nel rito ordinario e nel rito militare»; descrivendo, inoltre, le misure coercitive come dirette a «fronteggiare […] eventuali pericoli di fuga dell'imputato o di inquinamento delle indagini», la Corte sembrava essere ritornata «alla sua migliore giurisprudenza»112. Contrariamente agli auspici che si potevano trarre dalla sentenza 74/1985, tuttavia, l'opzione per la trivalenza funzionale delle misure cautelari fu confermata dalla legge n. 330 del 1988, la c.d. “legge anticipatrice”, varata meno di due mesi prima dell'approvazione del nuovo codice di procedura penale, e diretta ad anticiparne i principali contenuti, con specifico riferimento al sistema delle misure cautelari (in primis la piena giurisdizionalizzazione del 108 PISANI M., Commento, cit., p. 181. 109 D.d.l. n. 495 A, Senato, Atti Parlamentari, IX legislatura. 110 TRANCHINA G., voce Custodia cautelare, in VASSALLI G. (a cura di ) Dizionario di diritto e procedura penale, Milano, Giuffrè, 1986, pp. 147-148. 111 «Nel concedere la libertà provvisoria, nei casi in cui è consentita, il giudice valuta che non vi ostino ragioni processuali o che non sussista la probabilità, in relazione alla personalità dell'imputato e alle circostanze del fatto, che questi, lasciato libero, possa commettere reati che pongano in pericolo le esigenze di tutela della collettività» (art. 277.3, come modificato dalla legge n. 389 del 1984). 112 PUGIOTTO A., La finalità processuale della custodia cautelare nella sentenza n. 74 del 1985: un definitivo ritorno della Corte alla sua migliore giurisprudenza, in Giur. cost., 1985, I, p 1400. 97 procedimento cautelare con la sottrazione del potere di cattura al PM, trasformato in organo puramente richiedente, e l'eliminazione della cattura obbligatoria). Eliminato l'automatismo della cattura obbligatoria, la possibilità di disporre provvedimenti cautelari si fondava ora solo sui due presupposti del fumus commissi delicti (integrato ora da «gravi», non più «sufficienti», indizi di colpevolezza) e del periculum libertatis. Trasferite nel corpo dell'art. 253, le esigenze cautelari furono parzialmente modificate nella direzione di una più rigorosa articolazione, ma a tale processo restò indenne proprio la finalità che più era stata criticata per l'eccessiva vaghezza dei propri contorni: con riferimento all'esigenza di prevenzione speciale, infatti, ci si limitò a chiarire sul piano sintattico la connessione tra la pericolosità dell'imputato e le esigenze di tutela della collettività113, sicché, sorvolando sugli altri profili critici, continuava a rimanere un ampio margine all'interpretazione degli applicatori, in contrasto con il principio di tassatività sancito dall'art. 13.2 Cost114. Un ultimo aspetto merita di essere indagato, prima di spostare l'analisi sul percorso che condusse, a partire dalla legge delega del 1974, alla definizione dell'esigenza di prevenzione speciale nell'art. 274 del codice vigente. Si tratta della previsione, inserita nel testo dell'art. 254, di un meccanismo che veniva in qualche modo a sopperire all'abolizione della cattura obbligatoria, una sorta di «“strascico nostalgico” della logica dell'automatismo tra gravità del reato e cattura»115: senza giungere a fissare una presunzione iuris tantum di pericolosità, che avrebbe sollevato il giudice dall'onere di motivare sulla sussistenza delle esigenze cautelari, si prevedeva, per alcuni gravi reati, che, qualora ritenesse di non emettere mandato di cattura per insussistenza delle esigenze cautelari, egli avrebbe dovuto darne atto con decreto motivato116. 113 Ai sensi del nuovo art. 253 il mandato di cattura poteva essere emesso «quando, per la pericolosità dell'imputato desunta dalla sua personalità e dalle circostanze del fatto, sussistono esigenze di tutela della collettività». 114 CHIAVARIO M., Variazioni sul tema delle “misure coercitive” tra nuovo codice e “legge anticipatrice”, in Giust. pen., 1989, III, p. 7. 115 DE CARO A., Libertà personale e sistema processuale penale, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2000, p. 84. 116 CHIAVARIO M., Variazioni, cit., p. 9. 98 CAPITOLO IV L'ESIGENZA DI PREVENZIONE SPECIALE NEL NUOVO CODICE DI PROCEDURA PENALE 1. La codificazione della finalità specialpreventiva. 1.1. Dalla legge delega del 1974 al testo definitivo dell'art. 274.1 lettera c). Con la legge delega per l'emanazione di un nuovo codice di procedura penale promulgata nel 1974 (legge 3 aprile 1974 n. 108) compare per la prima volta in un testo legislativo quella formula – «esigenze di tutela della collettività» – che, come si è visto, sarebbe poi stata trasfusa nella c.d. legge Reale per conferire identità normativa alla finalità di prevenzione speciale. Già nella prima legge delega vi è, dunque, un esplicito riconoscimento della pluridimensionalità funzionale della custodia ante iudicium, che il legislatore avrebbe poi confermato nella legge 532/1982. Nel punto n. 54 dell'art. 2, infatti, la legge 108/1974 prevedeva la possibilità di disporre misure di coercizione personale, oltre che per «specificate, inderogabili esigenze istruttorie»1, anche «a carico dell'imputato, nei cui confronti ricorrano sufficienti elementi di colpevolezza, quando, per la sua pericolosità e per la gravità del reato, sussistano esigenze di tutela della collettività»2. A tale formulazione, peraltro, si arrivò solo in una fase inoltrata del travagliato iter legislativo percorso dalla legge 108/1974. Nel disegno di legge delega n. 2243 del 1965, la possibilità di disporre misure cautelari veniva ricollegata unicamente alla (presunta) commissione di «un delitto che determini grave allarme sociale o per la gravità di esso, o per la pericolosità dell'imputato, quando ricorrano sufficienti indizi di colpevolezza»3. La stessa formula incentrata sul criterio dell'allarme sociale si ritrova, seguita questa volta da un riferimento alle esigenze istruttorie, nella prima versione del successivo disegno di legge delega n. 380 del 1968; nella versione definitiva le esigenze istruttorie vengono anteposte all'allarme sociale, ma il rilievo che continua a essere attribuito a tale criterio traspare chiaramente dalla Relazione di maggioranza sul disegno di legge n. 380, nella quale si legge che quando l'opinione pubblica sia «turbata e allarmata da delitti particolarmente efferati […] si impone la necessità di provvedimenti esemplari, che soddisfino non soltanto la parte offesa 1 Formula, questa, che sarà poi interpretata estensivamente dal legislatore delegato, in modo da comprendervi anche l'esigenza di cautela finale. 2 Art. 2 n. 54 l. n. 108 del 1974. 3 Art. 2 n. 27 d.d.l. n. 2243 del 1965. 99 ma soprattutto il generale sentimento di giustizia»4. L'ambiguità terminologica riscontrabile nella relazione, che parla genericamente di esigenze di difesa sociale, non può nascondere che a venire in rilievo sia, in questa fase, non tanto l'esigenza di prevenzione speciale, quanto quelle, unanimemente stigmatizzate in dottrina, dell'esemplarità e dell'allarme sociale. Soltanto con il disegno di legge delega n. 864 del 1972 il criterio dell'allarme sociale viene abbandonato per essere sostituito dal riferimento alle «esigenze di tutela della collettività», contenuto nel testo definitivo della legge delega del 1974. La scelta di includere tali esigenze tra i motivi della coercizione cautelare fu oggetto di un intenso dibattito in seno alla Commissione ministeriale incaricata di redigere il progetto del nuovo codice. Non mancarono, da parte di chi sosteneva l'assoluta incompatibilità del terzo scopo con la presunzione di non colpevolezza, proposte volte a risolvere il problema di legittimità in due possibili direzioni: o ammettendo il criterio della prevenzione speciale come ipotesi sussidiaria e integrativa rispetto alle necessità processuali, oppure consentendo di adottare per finalità preventive solo le misure diverse dalla custodia cautelare. Tali proposte non furono accolte, ma gli sforzi della Commissione furono comunque diretti a contenere l'ambito di operatività della prevenzione speciale, in modo da ridurre il più possibile il conflitto con gli artt. 13 e 27 Cost.5 Tale scelta appare già dall'autonoma collocazione dell'esigenza di tutela della collettività, cui è dedicato l'intero art. 279 6 del Progetto preliminare del 1978, quasi a sottolinearne la natura derogatoria rispetto alle ordinarie esigenze cautelari disciplinate nel 4 Relazione di maggioranza sul disegno di legge n. 380, cit. in VASSALLI G., Libertà personale dell'imputato, cit., p. 29, in nota. 5 Relazione al Progetto preliminare del 1978, in CONSO G.- GREVI V.-NEPPI MODONA G., Il nuovo codice di procedura penale: dalle leggi delega ai decreti delegati, Padova, Cedam, 1989, p. 697. 6 «Qualora esistano sufficienti elementi di colpevolezza, e vi sia pericolo, desunto dalle modalità del fatto e dalla personalità dell'imputato, che questi commetta gravi delitti della stessa indole di quello per cui si procede, le misure di coercizione possono essere applicate, nei limiti previsti dalle disposizioni che seguono, anche in mancanza delle condizioni stabilite dall'articolo precedente. A norma del primo comma il giudice può disporre: 1) una o più misure, tra quelle previste dagli articoli 269, 270, 271 e 272 nel caso in cui si proceda per delitto punibile con la reclusione non inferiore nel minimo a un anno; 2) la sospensione della potestà del genitore, nel caso in cui si proceda per taluno dei delitti indicati nell'articolo 273; 3) la sospensione da un pubblico ufficio o servizio, nel caso in cui si proceda per un delitto, punibile con la reclusione non inferiore nel minimo a un anno, commesso con abuso dell'ufficio o del servizio, ovvero per il delitto di interesse privato in atti d'ufficio; 4) il divieto temporaneo di esercitare determinate attività professionali o imprenditoriali, nel caso in cui si proceda per un delitto punibile con la reclusione non inferiore nel minimo a un anno, commesso con abuso dell'attività professionale o imprenditoriale. In tutti i casi previsti dai commi precedenti, il giudice può disporre, in luogo delle misure ivi indicate, la custodia provvisoria, tenuto conto di quanto stabilito dall'ultimo comma dell'articolo 264. Nessuna misura può essere disposta, a norma di quanto stabilito dal presente articolo, dopo che sia stata pronunciata ordinanza di giudizio immediato o di rinvio a giudizio». 100 precedente art. 278. L'operatività dell'esigenza specialpreventiva fu subordinata, inoltre, a tre ordini di condizioni: l'imputazione per un delitto connotato dal requisito della gravità; la presenza di «sufficienti elementi di colpevolezza», anziché di «sufficienti indizi», come richiesto in genere per l'adozione di misure cautelari; infine, la riconduzione dell'esigenza in questione alla sola necessità di prevenzione di «delitti della stessa indole» di quello per cui si procede7. Da ultimo, l'art. 279 escludeva che le esigenze di tutela della collettività potessero avere rilievo in fasi successive alla chiusura dell'istruttoria, in sintonia con la previsione dell'art. 2 n. 58 della legge delega; in relazione a tale previsione, peraltro, si è acutamente osservato che – derivando il punto 58 dal punto 50 della prima versione del disegno di legge delega del 1972, ancora recante il riferimento all'allarme sociale – in essa sia ravvisabile non tanto una scelta d'ispirazione garantista, quanto piuttosto l'eco del fatto che l'allarme sociale si manifesta nell'immediatezza del reato molto più che nelle fasi successive8. E' da rilevare, infine, che le esigenze di difesa sociale costituivano l'implicito fondamento della disciplina prevista dall'art. 280 del Progetto preliminare di codice del 1978; pur rispettando la scelta della legge delega di abolire il meccanismo della cattura obbligatoria, il legislatore delegato sentì la necessità di elaborare una peculiare disciplina per i procedimenti relativi ai reati di maggiore gravità, prescrivendo in tali ipotesi al giudice di pronunciarsi in ogni caso, al più tardi con l'ordinanza conclusiva dell'udienza preliminare, sulla sussistenza o meno di esigenze cautelari. Terminata la stagione dell'emergenza terroristica, che aveva impedito di portare a termine il progetto di codificazione nel timore che il nuovo codice non sarebbe stato abbastanza efficace per contrastare i fenomeni criminali in atto, nel 1987 venne approvata una nuova legge delega (l. 16 febbraio 1987 n. 81), che avrebbe condotto in breve tempo alla promulgazione dell'attuale codice di procedura. Nella seconda legge delega il settore della libertà personale dell'imputato presentava un più elevato livello di elaborazione rispetto al testo del 1974, tale da configurare un vero e proprio sottosistema normativo, ispirato al principio di “stretta necessità” per quanto riguardava la definizione dei limiti di operatività delle misure e al correlativo principio del “sacrificio minimo” in relazione alla loro concreta incidenza soggettiva9. Lo sforzo di 7 La Commissione ritenne, in proposito, che il semplice pericolo indeterminato della commissione di ulteriori “gravi delitti” sarebbe stato insufficiente ad evitare arbitri applicativi; si giudicò opportuno, perciò, introdurre, con il riferimento ai delitti della stessa indole, un «nesso oggettivamente riconducibile all'id quod plerumque accidit» tra il reato oggetto dell'imputazione e quello da prevenire (v. Relazione al Progetto preliminare del 1978, in CONSO G.- GREVI V.-NEPPI MODONA G., Il nuovo codice di procedura penale, cit., vol. I, p. 698). 8 VASSALLI G., Libertà personale dell'imputato, cit., p. 34. 9 GREVI V., Le garanzie della libertà personale dell'imputato nel progetto preliminare: il sistema delle misure cautelari, in Giust. pen., 1988, I, p. 481. 101 ridimensionamento dell'impiego delle misure cautelari personali non poteva non dirigersi anche verso una maggiore definizione dei relativi presupposti, sia sul versante del fumus commissi delicti, in relazione al quale l'art. 2 n. 59 esigeva la presenza di «gravi» indizi di colpevolezza, sia con riferimento al periculum libertatis. Tuttavia, mentre si richiedeva la sussistenza di «inderogabili esigenze attinenti alle indagini» e si circoscriveva la rilevanza della fuga o del «concreto pericolo di fuga» ai soli reati di «particolare gravità», paradossalmente proprio il terzo scopo non fu oggetto di tentativi di specificazione, rimanendo imperniato sulla generica formula delle «esigenze di tutela della collettività»10; queste ultime dovevano presentarsi come «inderogabili», ai sensi dell'art. 2 n. 63, solo per legittimare l'applicazione di misure coercitive nei confronti dell'imputato che venisse condannato dopo una precedente sentenza di assoluzione (scompariva, infatti, nella nuova legge delega, anche la delimitazione temporale all'operatività dell'esigenza specialpreventiva con riferimento alla sola fase istruttoria); di «speciali» esigenze di tutela della collettività parlava, invece, l'art. 2 n. 32, nel dettare i criteri per determinare i reati in flagranza dei quali l'arresto poteva essere obbligatorio. Come già era accaduto nel 1978, il legislatore delegato si trovò dunque nuovamente a dover definire i concreti contorni dell'esigenza cautelare di natura sostanziale, non potendo evidentemente recepire la generica formula adottata dalla delega senza violare il principio di legalità-tassatività sancito dall'art. 13.2 Cost. e ribadito nell'art. 272 del nuovo codice. Si optò, tuttavia, per una soluzione diversa da quella cui era approdato il precedente Progetto preliminare. Nel 1980, infatti, la Corte costituzionale era stata chiamata a pronunciarsi sull'art. 1.3 della legge Reale – che aveva recepito dalla legge delega del 1974 la formula delle «esigenze di tutela della collettività» – e ne aveva escluso la censurabilità sotto il profilo della determinatezza11, specificando che il contesto normativo consentiva di identificare i reati suscettibili di porre in pericolo tali esigenze in quelli caratterizzati da «uso d'armi o di altri mezzi di violenza contro le persone, riferibilità ad organizzazioni criminali comuni o politiche, direzione lesiva verso le condizioni di base della sicurezza collettiva o dell'ordine democratico»12. 10 Art. 2 n. 59 legge delega n. 81 del 1987 («previsione di misure diverse di coercizione personale, fino alla custodia in carcere; potere-dovere del pubblico ministero di richiedere, presentando al giudice gli elementi su cui si fonda la sua richiesta, e del giudice di disporre, con provvedimento motivato, le misure di coercizione personale a carico della persona nei cui confronti ricorrono gravi indizi di colpevolezza, quando sussistono inderogabili esigenze attinenti alle indagini e per il tempo strettamente necessario ovvero quando sussistono esigenze di tutela della collettività o, se il reato risulta di particolare gravità, quando la persona si è data alla fuga o vi è concreto pericolo di fuga [...]»). 11 V. supra, cap. 3, § 2.2. 12 Corte cost., sent. n. 1 del 1980. 102 Le indicazioni della Consulta rappresentavano, dunque, un punto di riferimento obbligato per la Commissione incaricata di dare attuazione alla delega del 1987. Perciò, nell'art. 274.1 lett. c) del Progetto del 1988, rimasero pressoché immutati rispetto al testo del 1978 i parametri di valutazione della pericolosità dell'imputato (le «modalità del fatto» diventavano «specifiche modalità e circostanze del fatto», mentre restava invariato il riferimento alla «personalità dell'imputato»), ma fu ridefinito il versante delle fattispecie delittuose oggetto della prognosi, con il riferimento a «gravi delitti della stessa indole di quelli per cui si procede o diretti contro la sicurezza collettiva o l'ordine costituzionale, ovvero gravi delitti di criminalità organizzata»13. Nella formula adottata era evidente l'eco della sentenza costituzionale 1/1980, ma vi si è intravisto anche il «disagio della traduzione in termini normativi non arbitrari di una formula assai più politica che giuridica, come quella imperniata sullo scopo della “tutela della collettività”»14. Si è sottolineato15, inoltre, il diverso ruolo assunto dal criterio della medesimezza dell'indole rispetto al testo dell'art 279 del Progetto precedente: mentre in quest'ultimo, infatti, l'identità di indole tra il reato oggetto d'imputazione e quello da prevenire era stato lo strumento per delimitare l'area d'incidenza delle esigenze di tutela della collettività, nel nuovo Progetto preliminare il riferimento ai delitti della stessa indole assumeva un significato estensivo rispetto all'interpretazione fornita dalla Consulta. In proposito, la stessa Commissione bicamerale cui fu sottoposto il testo del Progetto rilevò la non rispondenza dell'inciso «gravi delitti della stessa indole di quelli per cui si procede» alla direttiva n. 59 della legge delega, proponendo una riformulazione del testo dell'art. 274.1 lett. c) più aderente al dettato della sentenza n. 1 del 198016. Le osservazioni della Commissione bicamerale furono solo parzialmente recepite nel testo del Progetto definitivo. Ulteriori indicazioni furono tratte dalla sentenza del 1980, portando alla riformulazione della parte finale della lettera c), con il riferimento a gravi delitti «commessi con uso di armi o di altri mezzi di violenza personale o diretti contro l'ordine costituzionale ovvero gravi delitti di criminalità organizzata»17. Rimase però immutato il 13 Art. 274.1 lett. c) del Progetto preliminare del 1988. 14 GREVI V., Le garanzie della libertà personale dell'imputato, cit., p. 487. 15 CHIAVARIO M., Variazioni sul tema delle “misure coercitive” tra nuovo codice e “legge anticipatrice”, in Giust. pen., 1989, III, p. 7. 16 La Commissione propose il seguente testo: “quando, per specifiche modalità e circostanze del fatto e per la personalità dell'imputato, sussiste il concreto pericolo che questi commetta gravi delitti con l'uso di armi o di altri mezzi di violenza personale o contro l'ordine costituzionale ovvero di criminalità organizzata” (Parere della Commissione parlamentare, in CONSO G.- GREVI V.-NEPPI MODONA G., Il nuovo codice di procedura penale, cit., vol. IV, p. 696). 17 Art. 274.1 lett. c) del Progetto definitivo. 103 riferimento ai gravi delitti della stessa indole di quello oggetto d'imputazione, poiché si ritenne18 che l'interpretazione prospettata dalla Consulta nella sentenza 1/1980 trovasse un limite nel contesto della legge sull'ordine pubblico, sicché da quella pronuncia non si poteva trarre un'indicazione tassativa in ordine alla specificazione delle esigenze di tutela della collettività. A sostegno della soluzione accolta si argomentò altresì che le esigenze di tutela della collettività andassero viste anche in relazione alle misure minori rispetto alla custodia cautelare, che era invece la sola ad entrare in gioco nella sentenza del 198019: è plausibile ritenere, perciò, che nell'intenzione del legislatore, la custodia cautelare – già configurata come misura di extrema ratio – potesse essere adottata per prevenire reati della stessa indole solo in via del tutto eccezionale20. I rinnovati rilievi della Commissione bicamerale condussero, infine, alla sostituzione del concetto di “indole” con quello di “specie”, inteso come più restrittivo e più idoneo a garantire la determinatezza della fattispecie; poco coerente con tale scelta fu però l'eliminazione, nella versione definitiva del testo, del requisito della gravità, che assisteva precedentemente il riferimento ai delitti della stessa indole. Alle riserve avanzate dalla Commissione bilaterale seguirono, subito dopo la promulgazione del codice, quelle della dottrina, che, oltre a prevedere la portata estensiva che il criterio dell'identità di specie avrebbe avuto sugli spazi applicativi della finalità di prevenzione speciale, criticò la mancanza di un collegamento tra il pericolo di commissione di delitti della stessa specie e le esigenze di tutela della collettività, sottolineando come la cautela giustificata da tale pericolo sembrasse perseguire «obiettivi di natura extraprocessuale assai più consoni al mezzo sanzionatorio che allo strumento cautelare processuale»21. In conclusione, nel testo definitivo dell'art. 274, dopo la definizione dei pericula di natura processuale22, l'esigenza di prevenzione speciale veniva così delineata: «quando, per specifiche modalità e circostanze del fatto e per la personalità dell'imputato, vi è il concreto pericolo che questi commetta gravi delitti con uso di armi o di altri mezzi di violenza 18 Relazione al Progetto definitivo, in CONSO G.- GREVI V.-NEPPI MODONA G., Il nuovo codice di procedura penale, cit., vol. V, p. 226. 19 Relazione al Progetto definitivo, loc. ult. cit. 20 SARACENI L., Il sistema cautelare nel nuovo processo penale: lineamenti generali e valori di fondo, in CANZIO G.- FERRANTI D.- PASCOLINI A. (a cura di), Contributi allo studio del nuovo codice di procedura penale, p. 178, in nota. 21 PERONI F., voce Misure interdittive (dir. proc. pen.), in Enc. Dir., Agg. IV, p. 741; GARUTI G., voce Misure coercitive (dir. proc. pen.), in Enc. dir., Agg. VI, Milano, Giuffrè, 2002, p. 750. 22 Nelle lettere a) e b) le esigenze processuali venivano così definite: «a) quando sussistono inderogabili esigenze attinenti alle indagini, in relazione a situazioni di concreto pericolo per l'acquisizione o la genuinità della prova; b) quando l'imputato si è dato alla fuga o sussiste concreto pericolo che egli si dia alla fuga, sempre che il giudice ritenga che possa essere irrogata una pena superiore a due anni di reclusione». 104 personale o diretti contro l'ordine costituzionale ovvero delitti di criminalità organizzata o della stessa specie di quello per cui si procede»23. La scelta di definire i tre pericula libertatis nella medesima disposizione – diversamente da quanto avveniva nel primo Progetto preliminare – se da un lato ne evidenzia il carattere tassativo, e dunque l'illegittimità di provvedimenti limitativi della libertà personale disposti per esigenze di altro tipo (quale l'allarme sociale, l'esemplarità, o l'anticipazione della pena), dall'altro tacita ogni dubbio sulla possibile minor rilievo dell'esigenza di prevenzione speciale; traspare chiaramente, infatti, l'intenzione legislativa di attribuire autonoma ed eguale rilevanza a ciascuna esigenza cautelare24. Per quanto riguarda gli indici della pericolosità sostanziale, cioè le specifiche modalità e circostanze del fatto e la personalità dell'imputato, è percepibile l'eco dei parametri fissati dall'art. 133 c.p., ai quali, del resto, la giurisprudenza faceva già riferimento sotto la vigenza del vecchio codice. La specificazione delle esigenze di tutela della collettività si articola, quindi, in quattro categorie di reati: l'ultima, di cui si è già detto, individuata per relationem tramite il concetto dell'identità di specie, le prime tre, invece, tratte dalla sentenza costituzionale sull'art.1.3 della legge Reale. Per quanto concerne la prima categoria, il riferimento ai «gravi delitti con uso di armi o di altri mezzi di violenza personale» riproduce quasi letteralmente le parole della sentenza, con la sola aggiunta del requisito della gravità del delitto, in un'ottica di maggiore delimitazione della fattispecie. In assenza di altri referenti interpretativi, tale parametro è stato inteso nel senso di ritenere “grave” «il delitto punito con una pena “apprezzabilmente” superiore a tre anni di reclusione, che è quella minima prevista per l'applicabilità delle misure cautelari»25. Lo stesso requisito si applica anche alla seconda categoria di reati, integrata dai delitti «diretti contro l'ordine costituzionale». In tale espressione si è colto da un lato l'intento di specificare il concetto di «direzione lesiva verso le condizioni di base della sicurezza 23 Si può qui rilevare che la finalità di prevenzione speciale si rinviene anche nelle normative processuali di altri Paesi: è il caso, ad esempio, dell'art. 144 del codice di procedura penale francese (che prevede, oltretutto, accanto alla finalità di «mettre fin à l'infraction ou prévenir son renouvellement», anche quella di «mettre fin au trouble exceptionnel et persistant à l'ordre public provoqué par la gravité de l'infraction, les circonstances de sa commission ou l'importance du préjudice qu'elle a causé») e del par. 112 a della STPO tedesca. 24 AMATO G., Sub art. 274, in AMODIO E.- DOMINIONI O., Commentario al nuovo codice di procedura penale, Milano, Giuffrè, 1990, p. 38; CHIAVARIO M., Commento al nuovo codice di procedura penale, III, Torino, Utet, 1990, pp. 40 e 44. 25 AMATO G., Sub art. 274, in AMODIO E.- DOMINIONI O., Commentario al nuovo codice di procedura penale, Milano, Giuffrè, 1990, p. 37. 105 collettiva o dell'ordine democratico», contenuto nella sentenza del 1980; dall'altro, l'eco della legge n. 304 del 1982, il cui art. 11 stabiliva che all'espressione «eversione dell'ordine democratico» corrisponde, per ogni effetto giuridico, l'espressione «eversione dell'ordinamento costituzionale». L'intrecciarsi di questi riferimenti ha prodotto, tuttavia, un'«inedita mescolanza, essendosi finito col parlare di “ordine costituzionale” anziché di “ordinamento costituzionale”»26. La terza categoria di fattispecie criminose riguarda i «delitti di criminalità organizzata», formula che riassume quella della «riferibilità ad organizzazioni criminali comuni o politiche», contenuta nella pronuncia della Consulta; manca, con riferimento a tali delitti, il requisito della gravità, presente nel Progetto definito e scomparso nell'ultima fase dell'iter legislativo senza che se ne trovi spiegazione nella Relazione al testo definitivo. Nel complesso, la disposizione dell'art. 274 lett. c) ha rappresentato un cospicuo avanzamento rispetto alla generica formula incentrata sulle «esigenze di tutela della collettività»; eppure, la finalità di prevenzione speciale è apparsa ancora quella meno rispondente all'esigenza di tassatività espressa dall'art. 13.2 Cost. e, di conseguenza, quella meno capace di costituire un vincolo effettivo per la discrezionalità del giudice27. A tale carenza il legislatore tenterà di sopperire nel 1995. 1.2. Le modifiche introdotte dalla legge n. 332 del 1995. Più che una innovazione, la legge n. 332 del 1995 (intitolata “Modifiche al codice di procedura penale in tema di semplificazione, misure cautelari e diritto di difesa”) ha costituito – si è detto – «un ritorno allo spirito e alla lettera dell'originario impianto codicistico, deformato dalle leggi dell'emergenza e dalle deviazioni della prassi giudiziaria»28. Nei primi anni novanta, infatti, nel contesto di una nuova “stagione dell'emergenza”, il codice era stato oggetto di una “controriforma”, ad opera, oltre che della Corte costituzionale, anche di alcuni interventi legislativi, in particolare i d.l. 152/1991 (conv. nella l. 203/1991), 345/1991 (conv. nella l. 410/1991) e 306/1992 (conv. nella l. 356/1992), che avevano 26 CHIAVARIO M., Commento, cit., p. 58; il riferimento riguarda dunque fattispecie quali quelle degli artt. 270-bis (associazioni con finalità di terrorismo anche internazionale o di eversione dell'ordine democratico), 276 (attentato contro il Presidente della Repubblica), 277 (offesa alla libertà del Presidente della Repubblica), 280 (attentato per finalità terroristiche o di eversione), 283 (attentato contro la Costituzione dello Stato), 289 (attentato contro organi costituzionali e contro le assemblee regionali), 289-bis (sequestro di persona a scopo di terrorismo o di eversione). 27 PERONI F., Le misure interdittive nel sistema delle cautele penali, Milano, Giuffrè, 1992, p. 135; FERRAIOLI M., voce Misure cautelari, in Enc. Giur., vol. XXII, Roma, Treccani, 1996, p. 10; SCAPARONE M., La libertà personale, in Aa. Vv., Il codice di procedura penale. Esperienza, valutazioni, prospettive, Milano, Giuffrè, 1994, p. 115; GARUTI G., voce Misure coercitive (dir. proc. pen.), in Enc. dir., Agg. VI, Milano, Giuffrè, 2002, p. 749. 28 AMODIO E. (a cura di), Nuove norme sulle misure cautelari e sul diritto di difesa, Milano, Giuffrè, 1996. p. 16. 106 rafforzato i poteri del pubblico ministero, a discapito delle garanzie dell'imputato. La riforma del 1995 fu dunque promulgata con l'obiettivo di riequilibrare le prerogative della difesa rispetto a quelle dell'accusa e di garantire una maggiore tutela della libertà personale dell'imputato. Per quanto concerne, in particolare, il settore delle misure cautelari l'intervento legislativo fu dettato soprattutto dalla necessità di contrastare la tendenza giurisprudenziale, riscontrata soprattutto nelle grandi inchieste sui fenomeni di corruzione politica, a dilatare i presupposti e le finalità della coercizione cautelare, strumentalizzando la custodia in carcere al fine di ottenere confessioni o chiamate in correità. Tale prassi era stata avallata da alcune decisioni della Corte di cassazione29, nelle quali si ammetteva che l'esercizio del diritto al silenzio da parte dell'imputato potesse integrare la situazione di pericolo per l'acquisizione delle fonti di prova richiesta dall'art. 274 lett. a); in questo modo, la custodia cautelare si trasformava, in palese contrasto con lo spirito della norma, da mezzo per tutelare la prova a mezzo per ottenerla. Con l'art. 3 della legge in esame, dunque, l'art. 274 venne riformulato, nel tentativo di definire in modo più dettagliato e rigoroso i presupposti applicativi delle misure e, quindi, di arginare le deviazioni della prassi giudiziaria. La prima modifica fu apportata alla configurazione dell'esigenza istruttoria, con l'inserimento del divieto di individuare le situazioni di pericolo per l'acquisizione o la genuinità della prova nel rifiuto della persona sottoposta alle indagini o dell'imputato di rendere dichiarazioni o nella mancata ammissione degli addebiti. La scelta di confinare tale previsione nell'ambito delle sole esigenze istruttorie ha inizialmente suscitato alcune perplessità, poiché si è temuto che potesse essere interpretata (sia pure in contrasto con l'intento del legislatore) nel senso che il silenzio dell'imputato potesse consentire una prognosi sfavorevole circa gli altri pericula libertatis e in particolare quello di commissione di reati30. La giurisprudenza di legittimità, tuttavia, ribadendo che l'ordinamento vieta di trarre dall'esercizio del diritto al silenzio qualsiasi conseguenza negativa per l'imputato, ha decisamente respinto tale lettura, ritenendola «così lontana dalla realtà e dal sistema processuale vigente da non essere stata neppure presa in considerazione prima dai compilatori e poi dai riformatori del codice di procedura penale vigente»31. L'art. 3 della legge 332/1995 ha inciso sensibilmente anche sul testo della lettera c) 29 Cass., 18 agosto 1991, Schiavone, in Cass. pen., 1993, p. 1507; Cass., 25 gennaio 1993, Damiani, in Cass. pen., 1994, p. 1187. 30 ILLUMINATI G., Commento all'art. 3 l. 332/1995, in Aa. Vv., Modifiche al codice di procedura penale. Nuovi diritti della difesa e riforma della custodia cautelare, Padova, Cedam, 1995, p. 69; CONTI G., La «radiografia» della nuova normativa su misure cautelari e diritto alla difesa, in Guida al diritto, 1995, n.33, p. 46. 31 Cass., 27 marzo 1997, Papagna, in Foro it., 1997, II, p. 177. 107 dell'art. 274 c.p.p., nel tentativo di rendere più stringente il giudizio prognostico. Una prima modifica ha riguardato la sostituzione del riferimento alla «personalità dell'imputato» con la dizione «personalità della persona sottoposta alle indagini o dell'imputato»: precisazione non solo lessicalmente ridondante, ma anche superflua, essendo pacifico che le disposizioni in tema di libertà personale si applichino tanto all'imputato quanto all'indagato, anche in ragione della previsione dell'art. 61 c.p.p. Nella nuova versione della lettera c) si prescrive, inoltre, che la personalità dell'imputato, dalla quale potrà ricavarsi la prognosi di pericolosità, deve a sua volta essere desunta da «comportamenti o atti concreti o dai suoi precedenti penali». Attraverso tale modifica si è tentato di contrastare quegli orientamenti giurisprudenziali che ricollegavano la pericolosità all'ambiente socio-economico dal quale proveniva l'imputato32 o addirittura alla mera gravità del reato33, reintroducendo surrettiziamente un meccanismo simile alla cattura obbligatoria prevista dal vecchio codice34. La nuova norma esprime, quindi, l'esigenza che il giudizio sulla personalità non sia meramente ipotetico, tale cioè da potersi applicare a qualunque altro imputato di analogo reato, né attinto genericamente da fattori ambientali, ma sia specificamente riferito al soggetto e tratto dagli elementi sintomatici indicati35. Il riferimento ai «comportamenti o atti concreti» induce a ritenere, inoltre, che ai fini del giudizio sulla personalità «non dovrebbe mai rivestire un ruolo assorbente il profilo relativo a ciò che l'imputato è, ma quello inerente a ciò che l'imputato realmente fa»36. Ne risulta, tuttavia, una formulazione piuttosto ridondante, sia perché difficilmente possono immaginarsi comportamenti o atti “astratti”, sia per il duplice riferimento all'esigenza di concretezza, che già era associata al pericolo di commissione di reati37; non si è invece ritenuto di imporre che tale pericolo, come quello ridefinito nella lettera a), sia connotato anche dal requisito dell'attualità. Si è evidenziato, inoltre, come l'uso della congiunzione disgiuntiva sminuisca sensibilmente la portata effettiva della specificazione38. 32 Cass., 25 agosto 1991, Ligresti, in Cass. pen., 1993, p. 548; Cass., 25 gennaio 1993, Damiani, in Cass. pen., 1994, p. 1187; Cass., 4 febbraio 1993, Trotta, in Cass. pen., 1994, p. 1554. 33 Cass., 26 ottobre 1990, Crippa, in C.e.d. n. 186442. 34 PETRACHI G., Alcune considerazioni sulla valenza da attribuire all'elemento oggettivo indicato dall'art. 274 lett. c) c.p.p. ai fini della configurabilità del periculum libertatis, in Cass. pen., 1998, VI, p. 1695; l'autore ricorda che nel vigore del testo originario la Cassazione si era orientata nel senso di attribuire una certa rilevanza alla gravità dei reati commessi, nel senso che più grave fosse il reato, maggiori erano considerate le spinte criminogene del soggetto e minori i freni inibitori volti a neutralizzare quelle spinte. 35 ILLUMINATI G., Commento all'art. 3, cit., p. 77; RIVIEZZO C., Custodia cautelare e diritto di difesa: commento alla Legge 8 agosto 1995, n. 332, Milano, Giuffrè, 1995, pp. 48-49. 36 PAULESU P.P., op. cit., p. 135; analogamente, PETRACHI G., op. cit., p, 1698. 37 CONTI G., La «radiografiia», cit., p. 47. 38 CONTI G., loc. ult. cit. 108 Per quanto concerne poi il riferimento ai precedenti penali, la scelta di includerli tra gli elementi da cui desumere il giudizio sulla personalità è apparsa contraddittoria rispetto alla modifica contestualmente apportata all'art. 278, con la quale si escludeva la recidiva dal computo della pena da effettuare in vista dell'applicazione di misure cautelari 39. E' da ricordare, inoltre, che riserve sulla possibilità di ravvisare nella recidiva una forma di pericolosità sociale erano già state espresse in passato dalla dottrina, nel contesto di una posizione nettamente contraria alla compatibilità della finalità di prevenzione speciale con la custodia preventiva40. In una precedente versione, l'art. 3 della legge 332/1995 prevedeva la possibilità di prendere in considerazione anche i precedenti giudiziari, ossia i carichi pendenti e le decisioni non ancora passate in giudicato; nella versione definitiva, tuttavia, si è preferito limitarsi alla considerazione dei precedenti penali, per non andare incontro a quella che sembrava una manifesta violazione della presunzione di non colpevolezza. L'esplicitazione del ruolo dei precedenti nella prognosi di pericolosità, tuttavia, ha avuto un effetto probabilmente non previsto e contrario rispetto all'obiettivo di delimitare l'ambito di applicazione dell'esigenza specialpreventiva attraverso una più dettagliata definizione dei suoi presupposti; la rilevanza della recidiva, infatti, tende a conferire un maggior rilievo alla categoria dei delitti della stessa specie, cioè quella dai contorni meno definiti e nei cui riguardi erano state espresse, nel corso dei lavori preparatori, le maggiori riserve. Tale effetto non trova un significativo ostacolo nell'ultima innovazione introdotta dalla riforma del 1995, con la quale si è previsto che, qualora il pericolo abbia ad oggetto la commissione di delitti della stessa specie di quello per cui si procede, la custodia cautelare possa essere disposta solo se si tratti di delitti puniti con la pena della reclusione non inferiore nel massimo a quattro anni. Il limite coincide, infatti, con quello previsto in generale per l'applicazione della custodia in carcere (con riferimento, ovviamente, al reato per cui si procede) dal nuovo art. 280.2, il quale a sua volta pone un vincolo solo in apparenza molto più stringente di quello fissato per l'applicazione di qualsiasi misura dal primo comma dell'art. 28041. La nuova formulazione lascia comunque salva la possibilità di applicare misure diverse 39 FERRAIOLI M., voce Misure cautelari, cit., p 11. Il riferimento alla recidiva, assente nel testo originario del codice, era stato introdotto dal d.l. n. 60 del 1991 (conv. nella l. 133/1991). 40 MITTONE A., Pericolosità sociale del recidivo e valori costituzionali da tutelare, in Giur. cost., 1971, p. 1106; a margine della sua argomentazione l'autore ricordava anche che nei sistemi di common law la valutazione dei precedenti penali è del tutto assente nella parte iniziale del procedimento, potendo avvenire solo quando, a seguito di una pronuncia di colpevolezza, il giudice è chiamato a determinare l'entità della pena; ne consegue che i provvedimenti restrittivi della libertà personale in corso di giudizio avvengono con modalità da cui è assente ogni riferimento ai precedenti penali. 41 ILLUMINATI G., Presupposti delle misure cautelari e procedimento applicativo, in Aa. Vv., Misure cautelari e 109 dalla custodia cautelare qualora il pericolo riguardi la commissione di delitti della stessa specie puniti con pena inferiore nel massimo a quattro anni42. Si è giustamente rilevato che l'ultimo periodo della lettera c) richiede al giudice una «difficilissima e incontrollabile prognosi di reiterazione con riferimento non già solo a una determinata tipologia di delitti (della stessa specie, appunto, di quello per cui si procede), ma addirittura a determinate fattispecie criminose», e quindi di «verificare se tale vaticinato reato raggiunga o meno la soglia di pena edittale stabilita»43. In conclusione, nonostante gli sforzi compiuti dal legislatore, la prognosi di pericolosità resta sostanzialmente astratta, perché fondata da un lato su parametri che consentono valutazioni ampiamente discrezionali, dall'altro su uno o più riferimenti ipotetici44, e quindi, ancora poco conforme al principio di legalità-tassatività espresso dall'art. 13.2 Cost. Le altre principali modifiche apportate dalla l. 332/1995 sul terreno cautelare furono dirette principalmente a rivitalizzare i principi di adeguatezza e proporzionalità e a restituire alla custodia in carcere il ruolo di extrema ratio. A tale scopo, oltre alla modifica dell'art. 275.3, di cui si dirà in seguito, fu introdotto il divieto (già presente nell'art. 277-bis del vecchio codice, come modificato dalla legge 398/1984, ma non riprodotto nel nuovo) di disporre la custodia cautelare nei casi in cui il giudice ritenga di poter concedere la sospensione condizionale della pena (art. 275 comma 2-bis); l'applicabilità della custodia cautelare in carcere fu circoscritta ai delitti puniti con la reclusione non inferiore nel massimo a quattro anni (art. 280.2); fu abrogato il comma 1-bis dell'art. 291, che vietava al giudice di applicare una misura meno grave di quella richiesta dal PM, e imposto allo stesso PM di presentare al giudice non solo gli elementi su cui si fonda la richiesta di misura cautelare, ma anche tutti gli elementi a favore dell'imputato e le eventuali deduzioni e memorie difensive; infine, furono inserite nel testo dell'art. 292 alcune previsioni volte a rendere più stringente l'obbligo di motivazione dei provvedimenti cautelari. Oltre a quest'ultima modifica, rilevante sul piano di tutti i pericula libertatis, ha un riflesso sull'esigenza di prevenzione speciale soprattutto il disposto del nuovo art. 275, comma 2-bis, che vieta di disporre la custodia cautelare nei casi di prevedibile concessione della diritto di difesa nella l. 8 agosto 1995 n. 332, Milano, Giuffrè, 1996, pp. 70-70; l'autore rileva, infatti, che saranno poche le ipotesi in cui la pena calcolata ai fini dell'applicazione delle misure cautelari si collocherà tra il limite della reclusione superiore nel massimo a tre anni e quello della reclusione non inferiore a quattro anni. 42 AMODIO E. (a cura di), Nuove norme, cit., p. 16; KOSTORIS R., La riforma della custodia cautelare e i nuovi diritti della difesa, in Studium iuris, 1995, p. 166; ILLUMINATI G., Commento all'art. 3, cit., p. 78. 43 CONTI G., La «radiografia», cit., p. 49, dove sarcasticamente si nota che «non constano altre norme, nel nostro ordinamento penale, che presuppongano simili facoltà divinatorie». 44 SPANGHER G. (a cura di), Trattato di procedura penale, II, Prove e misure cautelari, II, Le misure cautelari, Torino, Utet, 2008, pp. 70-71. 110 sospensione condizionale della pena (art. 163 c.p.). L'operatività di tale norma trova, infatti, un implicito limite proprio nell'eventuale sussistenza del pericolo di commissione di reati 45, posto che l'art. 164.1 c.p. prevede che la sospensione condizionale della pena sia ammessa «soltanto se, avuto riguardo alle circostanze indicate nell'art. 133, il giudice presume che il colpevole si asterrà dal commettere nuovi reati» 46. Già prima della riforma del 1995, peraltro, la giurisprudenza47 aveva individuato la reciproca incompatibilità tra la prognosi di pericolosità integrante l'esigenza di prevenzione speciale e quella, del tutto speculare, richiesta ai fini della concessione della sospensione condizionale: in entrambi i casi, infatti, si richiede un giudizio circa la probabile commissione di reati da parte dell'imputato. La prognosi richiesta dall'art. 164 del codice penale sarebbe destinata ad operare in esito all'accertamento di responsabilità dell'imputato, e quindi, coerentemente, si prevede che venga formulata sulla base dei parametri che devono indirizzare la discrezionalità del giudice nell'irrogazione della pena. L'anticipazione di quella prognosi, sulla base di un giudizio “allo stato degli atti”, appare una logica esplicazione del principio di proporzionalità, nonché una garanzia della presunzione di non colpevolezza, ove sia funzionale, come nella previsione del nuovo art. 275, comma 2-bis, ad escludere l'applicazione di misure custodiali nei casi di prevedibile concessione della sospensione condizionale. Opera invece contra reum l'anticipazione della stessa prognosi richiesta ai fini dell'applicazione di misure cautelari. Perciò le perplessità della dottrina sulla fattispecie descritta nell'art. 274 lett c), anche a seguito delle interpolazioni effettuate nel 1995, non si riducono alla carenza di tassatività, ma riguardano soprattutto il contrasto con la presunzione di non colpevolezza, poiché la privazione della libertà personale dell'imputato si fa discendere da una valutazione di pericolosità sostanziale indissolubilmente legata a un giudizio anticipato di responsabilità48. 45 ILLUMINATI G., Presupposti delle misure cautelari e procedimento applicativo, in Aa. Vv., Misure cautelari e diritto di difesa nella l. 8 agosto 1995 n. 332, Milano, Giuffrè, 1996, p. 91; KOSTORIS R., La riforma, cit., p. 166. 46 Art. 164.1 c.p. 47 Cass., 25 maggio 1993, Covelli, in Cass. pen., 1995, p. 640; successivamente alla novella del 1995, v. Cass., 10 aprile 2003, in Giur. it., 2004, n. 3, p. 592, con nota di VENTURA N., Esigenze cautelari e pericolo di reiterazione delittuosa; Cass., Sez. Un., 28 ottobre 2010, Giordano e altri, in C.e.d. n. 248866 (dove si afferma che la ritenuta sussistenza del pericolo di reiterazione del reato esime il giudice dal motivare sulla prognosi relativa alla sospensione condizionale della pena). 48 ILLUMINATI G., Presupposti delle misure cautelari, cit., p. 86; PAULESU P.P., La presunzione di non colpevolezza, cit., p. 138. 111 2. Automatismi cautelari e presunzioni di pericolosità sostanziale. 2.1. L'art. 275.3. Il codice del 1989 era venuto alla luce senza contenere alcuna presunzione di pericolosità, né meccanismi come quelli previsti dall'art. 280 del Progetto preliminare del 1978 e dall'art. 254 del vecchio codice (nella versione introdotta dalla legge n. 330 del 1988), che, per determinati gravi reati, imponevano al giudice un onere di motivazione sull'insussistenza dei pericula libertatis ove ritenesse di non disporre misure cautelari. Tale scelta, tuttavia, fu presto rinnegata con la modifica apportata dal d.l. n. 152 del 1991 (conv. nella legge n. 203 dello stesso anno) al 3° comma dell'art. 275, nel quale si prevedeva, per una lunga serie di delitti, che, rilevata la presenza dei gravi indizi di colpevolezza, fosse sempre applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che fossero acquisiti elementi da cui risultasse l'insussistenza di esigenze cautelari (o che queste potessero essere soddisfatte con altre misure: riferimento repentinamente caducato con il d.l. 292/1991, conv. nella l. 356/1992). La nuova norma veniva a porre, dunque, una duplice presunzione: relativa, con riferimento all'an della cautela, cioè alla sussistenza delle esigenze cautelari 49; assoluta riguardo al quomodo, ossia all'adeguatezza e proporzionalità della sola misura carceraria. Di fatto, però, il risultato era quello di reintrodurre surrettiziamente l'obbligatorietà della custodia in carcere per tutti i reati contemplati dal nuovo art. 275.350. La riforma del 1995 ha drasticamente ridotto il novero dei reati contemplati dall'art. 275.3, e ha imposto al PM, con la modifica dell'art. 291, di presentare al giudice competente, oltre agli elementi su cui si fonda la richiesta di misura cautelare, anche tutti gli elementi a favore dell'imputato e le eventuali deduzioni e memorie difensive depositate. Per le fattispecie rimaste (416-bis, delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dall'art. 416-bis o al fine di agevolare l'attività delle associazioni previste dal medesimo articolo), tuttavia, rimaneva lo speciale regime di quasi automaticità della custodia carceraria 51: una deroga 49 Tale lettura, generalmente condivisa dalla dottrina, è contestata da FURFARO S., Le limitazioni alla libertà personale consentite, in SPANGHER G.-SANTORIELLO C. (a cura di), Le misure cautelari personali: aggiornato al D.L. 23 febbraio 2009, n. 11, Torino, Giappichelli, 2009, p. 78: l'autore ritiene, infatti, che, per quanto riguarda il profilo delle esigenze cautelari possa parlarsi di presunzione solo in relazione alla gravità dei pericula eventualmente individuati, ma non in relazione all'esistenza nel caso concreto di tali esigenze. 50 PERONI F., Le misure interdittive nel sistema delle cautele penali, Milano, Giuffrè, 1992, p. 145; ILLUMINATI G., Presupposti delle misure cautelari, cit., p. 92; NEGRI D., Sulla presunzione assoluta di adeguatezza della sola custodia cautelare in carcere nell'art. 275 comma 3 c.p.p., in Cass. pen., 1996, II, p. 2838; PASQUARIELLO C., La vicenda cautelare. Difesa sociale e garanzie nei «disorientamenti» giurisprudenziali, in Arch. pen., 1995, p. 179; di «quasi obbligatorietà» parlava FASSONE E., Garanzie e dintorni: spunti per un processo non metafisico, in Quest. giust.,1991, p. 120, nota 9. 51 Meccanismo i cui effetti sono destinati a operare, in forza della clausola introdotta dal d.l. 292/1991 nel testo dell'art. 299.2 (revoca e sostituzione delle misure cautelari), anche dopo l'applicazione della custodia carceraria. 112 motivata dalla particolare complessità di accertamento dei reati in questione, dall'elevato grado di pericolosità (sostanziale) degli autori52 e dall'esigenza di protezione dei magistrati coinvolti in tali procedimenti. La presunzione relativa di periculum libertatis crea infatti una sorta di “scudo normativo” per il giudice, che viene sollevato dall'onere di motivazione sull'esistenza di esigenze cautelari, dovendo, invece, motivare solo circa la loro insussistenza ove ritenga di non applicare la misura cautelare 53. Si tratta, tuttavia, di un meccanismo che si colloca ai limiti della compatibilità con l'art. 13.2 Cost., il quale richiede l'«atto motivato dell'autorità giudiziaria» ai fini dell'applicazione, e non del diniego, delle misure restrittive della libertà personale54. La delimitazione attuata nel 1995 non ha diminuito le perplessità della dottrina sul congegno delineato dell'art. 275.3, nonostante la sua conformità alla Raccomandazione R (80) 11 del Consiglio d'Europa che, come si è già notato55, dispone che anche in assenza di esigenze cautelari «la carcerazione provvisoria può tuttavia eccezionalmente giustificarsi in certi casi di reati particolarmente gravi». Oltre allo stravolgimento dei criteri di proporzionalità e di adeguatezza, nonché della concezione della misura carceraria come extrema ratio, l'art. 275.3 crea di fatto un collegamento pressoché automatico tra la gravità del reato e la custodia in carcere, una volta riscontrata la sussistenza dei gravi indizi di reità. Il giudice per le indagini preliminari, infatti, non gode di poteri di integrazione probatoria ex officio quando è chiamato a pronunciarsi, inaudita altera parte, sulla domanda cautelare, e l'obbligo posto dall'art. 291 è poco vincolante, in quanto privo di meccanismi sanzionatori in caso d'inosservanza; né, infine, la situazione può dirsi cambiata a seguito dell'introduzione dell'art. 391-octies 2° comma, che consente al difensore di presentare direttamente al GIP elementi di prova a favore dell'imputato affinché questi ne tenga conto ove debba adottare una decisione senza l'intervento dell'imputato stesso56. Il difensore, infatti, si trova dinanzi ad «un diabolico onere della prova in merito agli elementi dai quali si desuma la non necessità di misure cautelari» 57, dovendo dimostrare che non esiste nessuna delle esigenze cautelari contemplate dall'art. 274: una probatio diabolica che permane anche dopo il momento applicativo, poiché l'art. 299, 52 KOSTORIS R., La riforma, cit., p. 167. 53 GREVI V., Misure cautelari, in CONSO G.- GREVI V. (a cura di), Compendio di procedura penale, Padova, Cedam, 2008, p. 399; CORSO P. (a cura di), Commento al codice di procedura penale, Piacenza, La Tribuna, 2005, p. 864. 54 PERONI F., loc. ult. cit. 55 V. supra, cap. 3, § 3, nota 92. 56 PAULESU P.P., op. cit., p. 144. 57 ALTIERI G., Applicazione della misura cautelare e illegittimità costituzionale del d.l. 9 settembre 1991, n. 292, in Arch. n. proc. pen., 1992, p. 88. 113 stante l'inciso che introduce il 2° comma («salvo quanto previsto dall'articolo 275 comma 3»), esclude la sostituzione della custodia inframuraria con una misura meno grave, consentendone solo la revoca, ove risulti che non sussistono (più) esigenze cautelari. La presunzione iuris tantum di sussistenza del periculum libertatis tende, dunque, a trasformarsi, nella prassi, in una presunzione assoluta58, comportando una palese violazione della presunzione di non colpevolezza. La giurisprudenza è orientata, infatti, a ritenere che «il soggetto raggiunto da gravi indizi di colpevolezza in ordine ad un reato di cui all'art. 275, comma 3, è per definizione pericoloso e quindi professionalmente proteso alla commissione di fatti criminosi»59, e che la presunzione di sussistenza del periculum libertatis possa essere vinta solo «con la dimostrazione in positivo che ogni legame con l'organizzazione malavitosa è stato definitivamente e irreversibilmente troncato»60. Si ritiene, pertanto, che il provvedimento cautelare possa limitarsi a dare atto dell'inesistenza di elementi idonei a vincere la presunzione, senza dover specificamente motivare sul punto, a meno che non sia la difesa ad allegare circostanze dirette a provare l'assenza di ogni esigenza cautelare61. La riforma del 1995 veniva così a consolidare, sul terreno delle misure cautelari, il sistema del c.d. “doppio binario”, per cui per determinate fattispecie di particolare allarme sociale si giustifica un regime normativo derogatorio e più rigoroso rispetto a quello previsto per la generalità dei reati62. Sulla base di quanto si è detto, è evidente che a venire in rilievo, nell'art. 275.3 sia soprattutto una presunzione di pericolosità sostanziale63; l'esigenza di prevenzione speciale dimostra così, ancora una volta, la sua tendenza espansiva, soprattutto nel contesto di situazioni più o meno giustificatamente riconducibili al concetto di emergenza criminale64, e la sua riluttanza a depurarsi completamente da rimandi ai criteri dell'esemplarità e dell'allarme sociale. 2.2. L'art. 275.3 al primo vaglio della Corte costituzionale. A pochi mesi dall'entrata in vigore della legge n. 332/1995 la Consulta fu chiamata a 58 PAULESU P.P., op. cit., p. 143. 59 Cass., 17 dicembre 2002, Vetrugno, in Arch. n. proc. pen., 2003, p. 368; Cass., 5 aprile 2000, p.m. In c. Basile, in C.e.d., n. 215859; Cass., 7 ottobre 1997, Crea, in Arch. n. proc. Pen., 1997, p. 762. 60 Cass., 20 settembre 2002, Di Mauro ed altro, in Guida al diritto, 2002, n. 49, p. 93. 61 Cass. Sez.Un., 5 ottobre 1994, Demitry, in Cass. pen., 1995, p. 842. 62 SPANGHER G. (a cura di), Trattato di procedura penale, II, Prove e misure cautelari, II, Le misure cautelari, Torino, Utet, 2008, p. 59. 63 FIORIO C., La presunzione di non colpevolezza, in DEAN G. (a cura di), Fisionomia costituzionale del processo penale, Torino Giappichelli, 2007, p. 136; PASQUARIELLO C., op. cit., p. 183; GREVI V., Misure cautelari, in CONSO G.- GREVI V. (a cura di), Compendio di procedura penale, loc. ult. cit. 64 Nel Preambolo al d.l. n. 292 del 1991 la presunzione relativa di sussistenza del periculm libertatis veniva giustificata dalla necessità di fronteggiare i recenti «gravissimi fenomeni di criminalità organizzata». 114 pronunciarsi sulla legittimità dell'art. 275.3, nella formulazione precedente la suddetta riforma; in particolare, veniva sottoposta al giudizio della Corte la presunzione assoluta di adeguatezza della custodia carceraria con riferimento agli artt. 3, 13.1 e 27.2 Cost. Nell'ordinanza di rimessione, pronunciata nell'ambito di un procedimento per delitti aggravati dalla finalità di agevolazione di associazioni di tipo mafioso, la disciplina in questione veniva censurata in primo luogo con riferimento al principio di ragionevolezza ricavabile dall'art. 3 Cost.: sottraendo al giudice la possibilità di modulare la risposta cautelare in relazione alla situazione concreta, l'art. 275.3 si sarebbe posto in collisione con i principi di adeguatezza e di proporzionalità e con la conseguente configurazione della misura inframuraria come extrema ratio. L'art. 3 Cost., inoltre, sarebbe stato violato anche in relazione al principio di eguaglianza, poiché la norma avrebbe “appiattito” «situazioni obiettivamente e soggettivamente diverse, sia un astratto che in concreto, così determinando eguale “risposta cautelare” per casi diversi tra loro»65. Infine, il giudice rimettente prospettava un conflitto della disposizione impugnata con gli artt. 13.1 e 27.2 Cost., dalla cui combinata lettura emerge l'esigenza di circoscrivere allo strettamente necessario le misure limitative della libertà personale e quindi, in primis, la custodia in carcere. L'ordinanza di manifesta infondatezza pronunciata dalla Consulta (ord. n. 450 del 1995) segna forse il punto di massima sottovalutazione dei rapporti tra presunzione di non colpevolezza e procedimento cautelare66; nei noti precedenti in materia di carcerazione preventiva67, infatti, la Corte non si era mai spinta fino ad affermare che il riferimento all'art. 27.2 è «manifestamente non conferente, data l'estraneità di quest'ultimo parametro all'assetto e alla conformazione delle misure restrittive della libertà personale che operano sul piano cautelare, che è piano del tutto distinto da quello concernente la condanna e la pena». Si tratta di un asserto «sconcertante, e che – si è detto – parrebbe azzerare d'un sol colpo un intero percorso storico volto al progressivo affrancamento delle misure [cautelari] dalle vischiosità di una tradizione imperniata su una concezione marcatamente sanzionatoria» delle stesse68. Passando ad analizzare gli altri profili di illegittimità prospettati dal giudice a quo, la Corte era innanzitutto chiamata ad esprimere un giudizio di ragionevolezza i cui termini erano costituiti da un lato dai principi di adeguatezza e proporzionalità, in quanto principi generali del diritto processuale penale determinati dallo stesso legislatore delegante, dall'altro dal 65 Corte cost., ord. n. 450 del 1995. 66 MARZADURI E., Considerazioni sul significato dell'art. 27, comma 2, Cost., cit., p. 321. 67 V. supra, cap. 3, § 2. 68 RUGGERI S., Commento all'art. 2 d.l. 23/2/2009 n. 11, in Legisl. pen., 2009, III, p. 444. 115 regime derogatorio rispetto a tali principi contenuto nel terzo comma dell'art. 275 69. La Consulta argomenta sul punto che la delimitazione della norma all'area dei delitti di criminalità organizzata di tipo mafioso (delimitazione invero attuata solo con la novella del 1995, successiva all'ordinanza di rimessione) rende manifesta la non irragionevolezza del regime derogatorio, in ragione del «coefficiente di pericolosità per le condizioni di base della convivenza e della sicurezza collettiva che agli illeciti di quel genere è connaturato»; secondo la Corte, infatti, la Costituzione non imporrebbe «di affidare sempre e comunque al giudice la determinazione del […] contemperamento tra il sacrificio della libertà personale e gli antagonisti interessi collettivi, anch'essi di rilevo costituzionale». I giudici della Consulta sembrano, dunque, affermare che l'elevato grado di offensività, quindi in sostanza la gravità del reato, è parametro idoneo a far presumere la sussistenza di un periculum libertatis di natura sostanziale, in una gradazione tale da rendere sempre necessaria la misura cautelare di maggior rigore. Si è notato 70 come sia sintomatico, in proposito, il richiamo della Corte alle sentenze n. 64 del 1970 e n. 1 del 1980 71, e quindi ad un orientamento secondo cui «la salvaguardia di un interesse – la tutela della collettività dalla commissione di reati – d'indubbio rilievo costituzionale» avrebbe legittimato l'obbligatorietà della cattura e il correlato divieto di libertà provvisoria. Per quanto riguarda infine, la prospettata violazione del principio di eguaglianza, la Corte rigetta la questione in ragione del fatto che le ipotesi delittuose contemplate dall'art. 275.3 troverebbero un «comune denominatore» nel fatto di porre a rischio, «per comune sentire […] beni primari individuali e collettivi», secondo quanto già affermato dalla sentenza n. 1 del 1980. In questo passaggio è forte l'eco del vischioso intreccio tra il criterio dell'allarme sociale (il «comune sentire») e l'esigenza di prevenzione speciale: intreccio che conduce a negare le cospicue differenze che possono connotare nel concreto le fattispecie di reato riconducibili all'art. 275.3, sia sul piano dell'offensività della condotta criminosa che su quello della pericolosità sociale del loro presunto autore. 2.3. I nuovi automatismi introdotti dalla l. 128/2001... Ulteriori automatismi operanti sul terreno cautelare sono stati introdotti prima dalla legge n. 128 del 2001 (Interventi legislativi in materia di tutela della sicurezza dei cittadini), quindi dal d.l. n. 11 del 2009 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla 69 NEGRI D., op. cit., p. 2839. 70 NEGRI D., op. cit., p. 2840. 71 E' evidente che, citando insieme le due pronunce, la Corte abbia inteso richiamare la lettura “autentica” data dalla sentenza 1/1980 al precedente del 1970. 116 violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori, conv. nella l. n. 38 del 2009). Entrambi i provvedimenti hanno operato sul testo dell'art. 275, nel primo caso sui commi 1-bis e 2-ter, con i quali si è inteso indirizzare la discrezionalità del giudice chiamato a pronunciarsi sul terreno cautelare a seguito di una sentenza di condanna in primo o in secondo grado. Il nuovo comma 1-bis prescrive, infatti, che nella valutazione sulla sussistenza delle esigenze cautelari, formulata contestualmente ad una sentenza di condanna, il giudice deve tener conto anche «dell'esito del procedimento, delle modalità del fatto e degli elementi sopravvenuti, dai quali possa emergere che, a seguito della sentenza, risulta taluna delle esigenze indicate nell'articolo 274, comma 1, lettere b) e c)». Il comma 2-ter prescrive invece che, nei casi di condanna in appello, le misure cautelari siano sempre disposte (in deroga, quindi, al principio della domanda cautelare) «contestualmente alla sentenza, quando, all'esito dell'esame condotto a norma del comma 1-bis, risultano sussistere esigenze cautelari previste dall'articolo 274 e la condanna riguarda uno dei delitti previsti dall'articolo 380, comma 1, e questo risulta commesso da soggetto condannato nei cinque anni precedenti per delitti della stessa indole». Il comma 1-bis apparentemente non fa altro che evidenziare che l'accertamento degli elementi di fatto che hanno condotto alla decisione di primo grado impone una più rigorosa valutazione delle esigenze cautelari72. L'esclusivo riferimento ai pericula libertatis sembra esonerare il giudice dall'obbligo di valutare in maniera autonoma i gravi indizi di colpevolezza: interpretazione, questa, coerente con gli orientamenti della Cassazione, che ha ritenuto «paradossale» l'ipotesi che il giudice possa valutare ex novo il quadro indiziante dopo l'intervento di una sentenza di condanna73; sulla stessa linea, del resto si era collocata la Corte costituzionale con la sentenza n. 71 del 1996, che ha riconosciuto la validità del c.d. principio di assorbimento, in base al quale, ove intervenga una decisione che «contenga in sé una valutazione del merito di tale incisività da assorbire l'apprezzamento dei gravi indizi di colpevolezza», può dirsi precluso il giudizio su questi ultimi 74. Tale orientamento, che pure, come si è evidenziato, sembra poggiare su una concezione «psicologica» della presunzione di non colpevolezza, appare ineccepibile (tanto più alla luce dell'introduzione, nel testo dell'art. 533, del parametro dell'oltre ogni ragionevole dubbio75), finché il principio di assorbimento 72 SPANGHER G. (a cura di), Trattato di procedura penale, II, Prove e misure cautelari, II, Le misure cautelari, Torino, Utet, 2008, p. 82. 73 Cass., 27 ottobre 1995, Liotta, in Arch. n. proc. pen., 1996, p. 645; Cass., 7 dicembre 1995, Rillo, in Foro it., 1996, II, c. 352; Cass., 7 dicembre 1995, Trimarchi, ivi, c. 352. 74 Corte cost., sent. n. 71 del 1996. 75 Avvenuta con la l. n. 46 del 2006. V. PAULESU P.P., op. cit., p. 148. 117 non travalichi i limiti del fumus commissi delicti76. Tuttavia, proprio questo rischio è stato paventato come conseguenza, forse involontaria, delle modifiche apportate all'art. 275: il rilievo sul terreno cautelare conferito, dai nuovi commi 1-bis e 2-ter, alla sentenza non definitiva di condanna rischia, infatti, di riverberarsi sul piano della valutazione delle esigenze cautelari, inducendo a ritenere superfluo l'autonomo vaglio su di esse77. E' evidente che si giungerebbe così, in dispregio dell'art. 27.2 Cost., a fare della misura cautelare un'anticipazione del trattamento sanzionatorio, attraverso la trasformazione della sentenza di condanna, «specie se ad una pena non lieve, in una sorta di lasciapassare all'applicazione della misura restrittiva, creando, in tal modo, una confusione tra gravità indiziaria ed esigenze cautelari»78. Il meccanismo predisposto dal nuovo comma 2-ter, in particolare, stante il richiamo all'arresto obbligatorio in flagranza e alla recidiva, rasenta una presunzione di pericolosità sociale, in capo al soggetto che si trovi nelle condizioni descritte, tale da annullare lo spazio della discrezionalità del giudice, e trasformare la cautela in esecuzione anticipata della sanzione79. E' evidente che, dietro gli automatismi operanti sul terreno cautelare tendono a celarsi, appena un passo dietro la logica dell'anticipazione della pena (e non necessariamente autonome da essa), presunzioni di pericolosità sostanziale commiste a logiche fondate sull'esemplarità e sull'allarme sociale; le situazioni di (vera o presunta) emergenza criminale, che sono il terreno di gestazione di quegli automatismi, continuano infatti a comportare, anche sotto la vigenza del nuovo codice, la tendenza a contaminare lo scopo del processo – l'accertamento – con finalità di difesa sociale. Sintomatiche della stessa logica sono le previsioni del 5° comma dell'art. 391 (come modificato prima dal d.lgs. n. 12 del 1991 e poi dalla l. 128/2001), che disciplina l'ipotesi di applicazione di misure cautelari in sede di convalida dell'arresto in flagranza o del fermo. Si consente, infatti, che, quando l'arresto sia stato eseguito per uno dei delitti ex art. 381.2 (arresto facoltativo in flagranza) o per uno dei delitti per cui è consentito l'arresto anche fuori 76 NEGRI D., Il rapporto tra misure cautelari e sospensione dell'esecuzione della pena alla luce della presunzione di non colpevolezza, in AA.VV., Presunzione di non colpevolezza e disciplina delle impugnazioni, Milano, Giuffrè, 2000, p. 199. Coerente con tale auspicio, Cass., 10 aprile 2003, in Giur. it., 2004, n. 3, p. 592, con nota di VENTURA N., Esigenze cautelari e pericolo di reiterazione delittuosa. 77 MARZADURI E., Commento all'art. 14 l. 26 marzo 2001 n. 128, in Legisl. pen., 2002, p. 459; SPANGHER G.SANTORIELLO C. (a cura di), Le misure cautelari personali: aggiornato al D.L. 23 febbraio 2009, n. 11, Torino, Giappichelli, 2009, p. 82; PAULESU P.P., loc. ult. cit.. 78 SPANGHER G. (a cura di), Trattato di procedura penale, loc. ult. cit. 79 FIORIO C., La presunzione di non colpevolezza, in DEAN G. (a cura di), Fisionomia costituzionale del processo penale, Torino Giappichelli, 2007, p. 137; SPANGHER G.-SANTORIELLO C.(a cura di), Le misure cautelari, cit., p. 83. 118 flagranza, l'applicazione della misura richiesta dal PM sia disposta anche al di fuori dei limiti di pena previsti dall'art. 280 e dall'art. 274.1 lett. c)80. Desta particolare interesse la posizione espressa nell'ordinanza n. 187 del 2001 dai giudici costituzionali, chiamati a pronunciarsi sulla legittimità del nuovo art. 391.5; a pochi mesi dalla modifica legislativa, la nuova norma era stata impugnata dal GIP del Tribunale di Latina per contrasto con gli artt. 2 e 3 Cost., in quanto, per i reati di cui all'art. 381.2, non consentiva di disporre misure cautelari fuori dai casi di arresto in flagranza. Oltre a lamentare la disparità di trattamento tra situazioni ritenute identiche, l'ordinanza di rimessione si soffermava sulla violazione dell'art. 2 Cost., che implicitamente tutelerebbe anche il diritto «a vedere protetta la propria sicurezza dalla commissione di fatti puniti come reato», mediante interventi dell'autorità giudiziaria diretti a limitare la libertà personale, anche con l'applicazione di misure cautelari81. La Consulta ha decisamente respinto tale interpretazione, affermando che «tra i diritti inviolabili dell'uomo non rientra l'aspettativa dei consociati di vedere tutelata la propria sicurezza mediante una disciplina legislativa – quale quella auspicata dal remittente – volta a generalizzare il ricorso alle misure cautelari limitative della libertà personale»82. L'ordinanza in esame non è andata esente da critiche, poiché non avrebbe evidenziato il fatto che l'emersione di nuovi diritti costituzionali trova un limite nella garanzia dei diritti già espressamente riconosciuti dalla Costituzione83. Tuttavia, per quanto apodittica, l'affermazione della Consulta appare particolarmente significativa, specie se confrontata con le posizioni espresse nella sentenza n. 1 del 1980 (richiamate nell'ordinanza n. 450 del 1995), nella quale i giudici costituzionali sostennero che la «tutela della collettività dalla commissione di gravi reati [è un interesse] d'indubbio rilievo costituzionale» e perciò è in grado di consentire limitazioni della libertà personale dell'imputato84. L'ordinanza 187/2001 sembra almeno porre in dubbio l'assunto per cui il “diritto alla sicurezza” in quanto tale sarebbe senz'altro idoneo ad entrare nel gioco del bilanciamento con altri diritti costituzionalmente protetti 85, quale la libertà personale. 80 Prima dell'intervento novellistico, sul punto si era espressa la Corte costituzionale, la quale, nell'ordinanza n. 148 del 1998, aveva escluso che fosse irragionevole, come sostenuto dal giudice a quo, che la deroga fissata dall'art. 391.5 non riguardasse anche il limite previsto dall'ultimo periodo dell'art. 274.1 lett. c). 81 Corte cost., ord. n. 187 del 2001. 82 Corte cost., ord. n. 187 del 2001. 83 Quindi il riconoscimento di un “diritto alla sicurezza” tra quelli tutelati dall'art. 2 Cost. sarebbe inammissibile in quanto si porrebbe in contrasto con le specifiche regole costituzionali che garantiscono la libertà personale: PACE A., L'accesso alla categoria «aperta» dei diritti inviolabili incontra solo puntuali dinieghi o anche limiti?, in Giur. cost., 2001, II, p. 1440. 84 Corte cost., sent. n. 1 del 1980. 85 RUOTOLO M., La sicurezza nel gioco del bilanciamento, in www.associazionedeicostituzionalisti.it, p. 4. 119 2.4. (segue)... e dal d.l. 11/2009. Le sentenze costituzionali nn. 265 del 2010 e 164 del 2011. Sono da considerare, infine, le nuove interpolazioni attuate sul testo dell'art. 275 dal d.l. n. 11 del 2009, intervento normativo ascrivibile all'ultima della quattro fasi in cui, secondo una periodizzazione recentemente proposta in dottrina86, è possibile suddividere l'esperienza del nuovo codice di procedura penale, ossia quella stagione dell'«ossessione securitaria», deflagrata a seguito degli episodi dell'11 settembre 2001 e progressivamente diffusasi ben oltre il contesto della criminalità internazionale, interferendo sia sul terreno penale sostanziale, attraverso una anticipazione delle soglie di punibilità, che sul terreno processuale, attraverso un «uso degli strumenti cautelari in funzione di neutralizzazione della pericolosità»87. A seguito dell'ennesima situazione di allarme sociale, generata dal presunto aumento di episodi criminosi, il governo è intervenuto per mezzo della decretazione d'urgenza, aggiungendo al 3° comma dell'art. 275 un elenco estremamente eterogeneo di fattispecie di reato: oltre alle ipotesi dell'art. 51, commi 3-bis e 3-quater, c.p.p.88 non ancora contemplate dalla norma, i delitti di cui agli artt. 575 (omicidio), 600-bis, primo comma (prostituzione minorile), 600-ter (pornografia minorile), escluso il quarto comma, e 600-quinquies c.p. (iniziative turistiche volte allo sfruttamento della prostituzione minorile), nonché, salvo che ricorrano le circostanze attenuanti ivi previste, i delitti di cui agli artt. 609-bis (violenza sessuale), 609-quater (atti sessuali con minorenne) e 609-octies c.p. (violenza sessuale di gruppo). Ferme restando le riserve già espresse sul meccanismo dell'art. 275.3, la dottrina non ha mancato di sollevare ulteriori perplessità con riguardo all'espansione operata dal d.l. 11/2009, anche in relazione a quanto affermato nell'ordinanza n. 450 del 1995. Si è rilevato, infatti, che in quell'occasione la Corte aveva ritenuto la disciplina de qua coerente con il principio di ragionevolezza in virtù della delimitazione della norma all'area dei delitti di criminalità organizzata di tipo mafioso89; la Consulta avrebbe così lasciato «un messaggio operativo, se non addirittura un monito velato, al legislatore futuro»90. 86 Il triennio sperimentale (1989-1992), l'epoca di “Mani pulite” (1992-1997), l'epoca del “giusto processo” (1997-2001), e, appunto, l'epoca della “ossessione securitaria” e dell'apertura allo spazio giuridico europeo (2001-2011), ORLANDI R., Diritti individuali e processo penale nell'Italia repubblicana, in http://cms.aspp.it/opinioni/items/contributi. 87 ORLANDI R., op. cit.; v. sul punto anche PAULESU P.P., op. cit., p. 112 ss. 88 Ovvero associazione per delinquere diretta a commettere taluno dei delitti di cui agli artt. 473, 474, 600, 601 e 602 e 630, nonché delitti con finalità di terrorismo. 89 MARANDOLA A., I profili processuali delle nuove norme in materia di sicurezza pubblica, di contrasto alla violenza sessuale e stalking, in Dir. pen. proc., 2009, p. 950; 90 RUGGERI S., Commento all'art. 2 d.l. 23/2/2009 n. 11, in Legisl. pen., 2009, III, p. 446. 120 Lo stesso approccio ermeneutico, del resto, era stato seguito, nel frattempo, anche dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, a partire dalla sentenza Pantano del 6 novembre 2003 91, nella quale la Corte si era pronunciata su un ricorso diretto a censurare l'irragionevole durata della custodia cautelare in un processo per il reato di cui all'art. 416-bis. Merita riportare un passaggio della motivazione: «una presunzione come quella prevista dall'articolo 275 § 3 CPP rischia di impedire al giudice di adattare la misura cautelare alle esigenze di ogni caso di specie e potrebbe quindi apparire eccessivamente rigida. Tuttavia […] bisogna tenere conto del fatto che il procedimento a carico del ricorrente riguardava delitti legati alla criminalità di stampo mafioso». In questo contesto – prosegue la motivazione – «una presunzione legale di pericolosità può essere giustificata, in particolare quando non è assoluta, ma si presta ad essere contraddetta dalla prova contraria [considerato che] la carcerazione provvisoria delle persone accusate del delitto previsto dall'articolo 416 bis in Italia tende a tagliare i legami esistenti tra le persone interessate e il loro ambito criminale di origine, al fine di minimizzare il rischio che esse mantengano contatti personali con le strutture delle organizzazioni criminali e possano commettere nel frattempo delitti simili»92. Sia la Corte costituzionale che la Corte europea dei diritti dell'uomo, dunque, hanno “salvato” il regime cautelare disciplinato dall'art 275.3, nella versione precedente all'intervento del 2009, in ragione della natura associativa dei delitti ivi contemplati e della pericolosità connessa al fenomeno mafioso, sottolineando il potere di apprezzamento comunque lasciato al giudice in ordine all'effettiva sussistenza nel caso concreto delle esigenze cautelari. Come prospettato dalla dottrina, le premesse poste dalle decisioni ora menzionate sono state sviluppate dalla Consulta in due recenti pronunce (sentt. nn. 265 del 2010 e 164 del 2011), configurabili come sentenze manipolative di tipo additivo. Le censure mosse dai giudici rimettenti, al pari delle argomentazioni della Corte e delle conclusioni cui le pronunce giungono, consentono di focalizzare l'analisi sulla sentenza n. 265 del 2010. Nelle quattro ordinanze di rimessione introduttive del giudizio di legittimità costituzionale, l'art. 275.3 viene censurato nella parte in cui non consente di applicare misure diverse e meno afflittive della custodia inframuraria alla persona raggiunta da gravi indizi di 91 MANTOVANI G., Dalla Corte europea una “legittimazione” alla presunzione relativa di pericolosità degli indiziati per mafia, in Legisl. pen., 2004, p. 525. 92 Corte eur., 6 novembre 2003, Pantano c. Italia, in www.echr.coe.int. 121 colpevolezza in ordine ai reati di cui agli artt. 609-bis (violenza sessuale), 609-quater (atti sessuali con minorenne) e 600-bis, 1° comma (induzione o sfruttamento della prostituzione minorile)93. Il principale parametro del giudizio di costituzionalità viene individuato, come già era avvenuto nel 1995, nell'art. 3 Cost., con riferimento al quale i giudici a quibus denunciano in primo luogo l'irragionevolezza della deroga apportata dall'art. 2 del d.l. 11/2009 ai principi di adeguatezza e di proporzionalità, rilevando come tale deroga non sarebbe sorretta, con riferimento ai delitti a sfondo sessuale, dalle ragioni che avevano indotto a ritenere legittimo il regime previsto dell'art. 275.3 in quanto limitato ai delitti di tipo mafioso. L'art. 3 Cost. viene in rilievo anche sotto il profilo del principio di eguaglianza, che verrebbe violato sia in astratto che in concreto. Sul piano delle fattispecie normative, infatti, la riforma del 2009 avrebbe introdotto un trattamento da un lato ingiustificatamente identico a quello previsto per i delitti già elencati nell'art. 275.3, dall'altro ingiustificatamente più severo di quello stabilito per altre fattispecie criminose, cui il regime presuntivo non è stato esteso, benché punite con pene più gravi; richiamando l'ord. 450/1995, si rileva in particolare l'irragionevole equiparazione tra i reati a sfondo sessuale, che offendono un bene individuale, e quelli di tipo mafioso, che invece, come aveva sostenuto in quell'occasione la Corte, mettono in pericolo la condizioni di base della convivenza e della sicurezza collettiva. Il principio di eguaglianza verrebbe violato, infine, per l'equiparazione, sul piano del trattamento cautelare, tra episodi criminosi che possono presentare, in concreto, livelli di gravità della condotta e di lesività dei beni protetti significativamente differenti. Le ordinanze di rimessione lamentano altresì la violazione dell'art. 13 Cost., da cui si fa derivare il criterio del “minor sacrificio necessario” imposto alla discrezionalità legislativa nella materia de libertate, nonché dell'art. 27.2 Cost., poiché le norme impugnate, precludendo la possibilità di graduare la risposta cautelare sulla base delle concrete esigenze cautelari, finirebbero per attribuire alla custodia in carcere una funzione di anticipazione della pena. Da ultimo, una delle quattro ordinanze di rimessione profila anche una lesione dell'art. 117 Cost. per il contrasto delle norme impugnate con l'art. 5 par. 1 lett. c) e par. 4 della Cedu. Dinanzi a censure sostanzialmente analoghe a quelle mosse nell'ordinanza da cui era scaturita la pronuncia di manifesta infondatezza del 1995, viene in risalto, nella sentenza in esame, un netto mutamento esegetico in merito al rapporto tra presunzione di non 93 La medesima censura è mossa, nelle ordinanze che hanno portato alla pronuncia della sent. n. 164 del 2011 con riferimento al delitto di cui all'art. 575 c.p. (omicidio). 122 colpevolezza e misure cautelari94. La sent. 265/2010 muove proprio dalla ricostruzione della cornice costituzionale della disciplina cautelare, costituita dagli artt. 13 e 27 Cost., e proiettata nel tessuto codicistico, sulla scorta delle indicazioni della legge delega 81/1987, attraverso i principi di adeguatezza e di proporzionalità e la configurazione della custodia carceraria quale extrema ratio. In questo primo passaggio della motivazione può leggersi il superamento non solo dell'affermazione per cui l'art. 27.2 Cost. sarebbe «manifestamente non conferente»95 sul terreno delle restrizioni della libertà personale in corso di giudizio, ma anche di quell'atteggiamento più obliquo consistente nella travisazione tra essere e dover essere, che aveva portato a sostenere che la detenzione preventiva è compatibile con la presunzione di non colpevolezza perché «non ha la funzione di anticipare la pena» 96. Nella sent. 265/2010, la Consulta afferma che «l'applicazione delle misure cautelari non può [in tondo nel testo] essere legittimata in alcun caso esclusivamente da un giudizio anticipato di colpevolezza, né corrispondere – direttamente o indirettamente – a finalità proprie della sanzione penale, né, ancora e correlativamente, restare indifferente ad un preciso scopo»97. La Corte riconosce, quindi, che il meccanismo predisposto dall'art. 275.3 si discosta vistosamente dai principi ordinatori della disciplina cautelare, ma, ricollegandosi sia al precedente del 1995 che alla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo (sent. Pantano), rimarca come tale regime derogatorio sia ragionevole se delimitato ai delitti di mafia. In questo passaggio la Consulta sembra affrontare e risolvere, con riferimento a tali delitti, una questione già sollevata ma sostanzialmente elusa98 nell'ord. 450/1995, e cioè la possibile violazione “interna” del principio di eguaglianza per l'equiparazione di trattamento tra fattispecie che, soprattutto in concreto, possono presentare un ben diverso grado di offensività. La Corte argomenta, infatti, che le presunzioni assolute sono compatibili con il principio di eguaglianza solo se «rispondono a dati di esperienza generalizzati, riassunti nella formula dell'id quod plerumque accidit»99. Ma, mentre nel caso dei delitti di mafia si può affermare che dalla struttura della fattispecie e dalle sue connotazioni criminologiche «deriva, nella generalità dei casi concreti […] e secondo una regola di esperienza sufficientemente condivisa, una esigenza cautelare alla cui soddisfazione sarebbe adeguata solo la custodia in 94 DI CHIARA G., Custodia in carcere e presunzioni assolute di adeguatezza, in Dir. pen. e proc., 2010, 10, p. 1150. 95 Corte cost., ord. n. 450 del 1995. 96 Corte cost., sent. n. 88 del 1976; negli stessi termini, sent. n. 15 del 1982. V. supra, cap. 3, § 2. 97 Corte cost., sent. n. 265 del 2010. 98 NEGRI D., Sulla presunzione assoluta di adeguatezza, cit., p. 2843. 99 Corte cost., sent. n. 265 del 2010, che richiama in tale passaggio la sent. n. 139 del 2010. 123 carcere», tale conclusione non è riportabile anche ai delitti a sfondo sessuale, che concretamente possono presentare disvalori differenziati ed esigenze cautelari suscettibili di essere soddisfatte con diverse misure100. In questo modo, dunque, la Consulta giunge ad escludere la legittimità dell'estensione del meccanismo derogatorio dell'art. 275.3 ai delitti di cui agli artt. 609-bis, 609-quater e 600-bis c.p., per i quali risulta carente la “base statistica” necessaria a sorreggere la presunzione assoluta prevista. Tuttavia, coerentemente con le censure mosse dai giudici a quibus, la Consulta conclude che per ricondurre nell'alveo della legittimità le norme impugnate non sia necessario rimuovere del tutto la presunzione di adeguatezza della custodia carceraria, essendo invece sufficiente trasformarla in presunzione relativa. Prima di pervenire a tale conclusione, nell'ultimo punto delle considerazioni in diritto, la Corte rileva come la presunzione assoluta di adeguatezza non sia giustificabile, per le nuove fattispecie in esame, nemmeno in relazione all'esigenza di contrastare situazioni causa di allarme sociale (convinzione che, invece, traspare dai lavori preparatori del d.l. 11/2009). Sostiene, infatti, la Consulta che l'eliminazione o riduzione dell'allarme sociale cagionato dal reato non può essere annoverata tra le finalità della custodia cautelare e non può essere considerata una sua funzione. Se tale affermazione, alla luce dell'elaborazione dottrinale, può apparire scontata, lo è meno quella contenuta nel periodo seguente, nel quale si sostiene che «[l]a funzione di rimuovere l'allarme sociale cagionato dal reato (e meglio che allarme sociale si direbbe qui pericolo sociale e danno sociale) è una funzione istituzionale della pena, perché presuppone, ovviamente, la certezza circa il responsabile del delitto che ha provocato l'allarme». E' singolare che la Consulta abbia annoverato la rimozione dell'allarme sociale cagionato dal reato tra le finalità della sanzione penale, ma tale anomalia si stempera nella precisazione secondo cui, più che di allarme sociale, dovrebbe parlarsi di «pericolo sociale» (e danno sociale): propria della pena è, dunque, la funzione di rimuovere il pericolo sociale, cioè la funzione di prevenzione speciale. Ma la Corte aveva esordito rimarcando che dall'art. 27.2 Cost. deriva che l'applicazione di misure cautelari non può «corrispondere […] a finalità 100 Com'è stato osservato, i giudici costituzionali hanno applicato alla materia cautelare il principio popperiano di falsificabilità delle ipotesi, distinguendo tre categorie di massime d'esperienza: quelle la cui tenuta va valutata in concreto e che non si prestano quindi alla formulazione di alcuna presunzione; quelle di cui non è possibile escludere in astratto la falsificazione, che possono essere poste alla base di presunzioni relative; infine, quelle – appartenenti alla categoria che desta più perplessità – non falsificabili, le quali costituiscono la base delle presunzioni assolute: v. TONINI P., La Consulta pone limiti alla presunzione di adeguatezza della custodia cautelare in carcere, in Dir. pen. e proc., 2010, 8, p. 953. 124 proprie della sanzione penale»; e infatti, nel sancire l'incostituzionalità della norma impugnata, afferma che essa viola, tra l'altro, l'art. 27.2 «in quanto attribuisce alla coercizione processuale tratti funzionali tipici della pena». E' indubbio che non fosse nelle intenzioni della Consulta esprimere un giudizio negativo sulla legittimità dell'esigenza di prevenzione speciale; anzi, una sicura indicazione in senso contrario è leggibile nel richiamo al dovere del legislatore ordinario di individuare esigenze cautelari, diverse dall'anticipazione della pena, soprattutto all'interno ma «talora anche all'esterno» del procedimento101. Tuttavia, la sent. 265/2010 sembra aver involontariamente messo in dubbio tale legittimità in rapporto all'art. 27.2 Cost., e non tanto in relazione alla possibilità di formulare una prognosi di pericolosità autonoma da un giudizio di colpevolezza (possibilità che una parte della dottrina non esclude), quanto in relazione alla finalità che si conseguirebbe con la custodia cautelare, coincidente con una di quelle tipiche della pena. 3. I vari elementi della fattispecie disciplinata dall'art. 274.1 lett. c), alla luce dell'elaborazione giurisprudenziale. 3.1. Il concetto di pericolosità accolto dall'art. 274. Il rapporto con le misure si sicurezza. La natura sostanziale del periculum codificato nell'art. 274.1 lett. c) ha indotto dottrina e giurisprudenza a interrogarsi sui rapporti tra la pericolosità richiesta ai fini dell'applicazione delle misure cautelari e la pericolosità sociale definita dall'art. 203 c.p. quale presupposto per l'applicazione, anche provvisoria (artt. 206 c.p., 312 e 313 c.p.p.), di misure di sicurezza102. Le analogie sono evidenti: il codice penale definisce, infatti, socialmente pericolosa «la persona, anche se non imputabile o non punibile, la quale ha commesso taluno dei fatti indicati nell'articolo precedente [reato o quasi reato], quando è probabile che commetta nuovi fatti preveduti dalla legge come reati»103; la disposizione specifica altresì che la qualità di persona socialmente pericolosa si desume dalle circostanze indicate nell'art. 133 c.p., essendo di regola l'applicazione delle misure di sicurezza, al pari dell'applicazione della pena, 101 Corte cost., sent. n. 265 del 2010, punto 5 delle considerazioni in diritto. Un'ulteriore indicazione in tal senso si trova nella parte finale della motivazione della sent. n. 164 del 2011, dove si esclude la legittimità della presunzione assoluta di adeguatezza della sola custodia in carcere per il delitto di omicidio doloso, poiché non è possibile escludere che una misura meno grave possa comunque «neutralizzare il “fattore scatenante” o impedirne la riproposizione». 102 Ai sensi dell'art. 215 c.p. sono misure di sicurezza personali detentive: l'assegnazione ad una colonia agricola o ad una casa di lavoro (per gli imputabili), il ricovero in una casa di cura e di custodia (per i semiimputabili), il ricovero in un manicomio giudiziario (per i non imputabili), il ricovero in un riformatorio giudiziario (per i minori d'età); sono invece misure di sicurezza personali non detentive: la libertà vigilata, il divieto di soggiorno in uno o più Comuni o in una o più Province, il divieto di frequentare osterie e pubblici spacci di bevande alcooliche, l'espulsione dello straniero dallo Stato. 103 Art. 203 c.p.. 125 conseguenza dell'accertamento contenuto nella sentenza definitiva (artt. 530.4 e 533.1 c.p.p.). E' prevista, tuttavia, anche la possibilità che le misure di sicurezza vengano applicate in via provvisoria in intinere iudicii: quando sussistano «gravi indizi di commissione del fatto» e non ricorrano le condizioni previste dall'art. 273.2 104, il minore d'età, l'infermo di mente, l'ubriaco abituale, la persona dedita all'uso di sostanze stupefacenti o in stato di cronica intossicazione da alcool o stupefacenti possono essere provvisoriamente ricoverati in un riformatorio, in un ospedale psichiatrico giudiziario o in una casa di cura e custodia, purché sia stata previamente accertata la loro pericolosità. L'introduzione di tale istituto nel nuovo codice di procedura ha destato non poche perplessità in dottrina, per ragioni in parte coincidenti con quelle per cui si dubita della legittimità dell'esigenza cautelare di prevenzione speciale; si riproporrebbe, infatti, il problema di compatibilità con l'art. 27.2 Cost. di un giudizio di pericolosità anticipato rispetto all'accertamento definitivo della colpevolezza (o, comunque, della commissione del fatto) 105. In passato si era obiettato che a ridurre il contrasto con la presunzione di non colpevolezza vi sarebbe il fatto che ai fini dell'applicabilità dell'art. 313 è determinante la particolare situazione psicofisica dell'imputato: le misure di cui è prevista la provvisoria applicazione, infatti, sono misure nelle quali, accanto alla finalità di prevenzione speciale, vi è uno scopo terapeutico, che si ricollega a valori di rilevanza costituzionale quali la protezione dei minori (art. 31.2 Cost.) e la tutela della salute (art. 32.1 Cost.) 106. Tuttavia, alla costatazione della preponderante valenza custodialistica di alcune delle misure in questione (è il caso, in particolare, degli ospedali psichiatrici giudiziari), si aggiungono le numerose critiche della comunità scientifica (si ritiene107, infatti, pur nel silenzio del codice, che il mezzo per l'accertamento della pericolosità sociale richiesto dall'art. 313 c.p.p., sia quello della perizia, anche in virtù della previsione dell'art. 220.2 108) circa l'accertabilità clinica della pericolosità sociale, concetto dai contorni estremamente vaghi. Un'ulteriore perplessità era stata espressa in dottrina 109 in relazione alla diversità tra il regime previsto dagli artt. 312 e 313 e quello previsto invece dagli artt. 73 e 286, nell'ipotesi 104 Sui problemi di coordinamento creati da tale ultima previsione, v. MITTONE A., Sub. art. 312 c.p.p., in CHIAVARIO M., Commento al nuovo codice di procedura penale, III, Torino, Utet, 1990, p. 296. 105 MITTONE A., op. cit., p. 289, che richiama la posizione già espressa da ILLUMINATI G., La presunzione d’innocenza dell'imputato, Bologna, Zanichelli, 1979, p. 56. 106 GREVI V., Libertà personale dell’imputato e Costituzione, Milano, Giuffrè, 1976, pp. 312-313. 107 MITTONE A., Sub. art. 313 c.p.p., in CHIAVARIO M., cit., p. 301. 108 Che esclude il ricorso alla perizia «salvo quanto previsto ai fini dell'esecuzione della pena o della misura di sicurezza». 109 MITTONE A., Sub. art. 312 c.p.p., in CHIAVARIO M., cit., p. 293; per la tesi favorevole alla fungibilità tra custodia cautelare disposta in funzione di prevenzione speciale e le misure di sicurezza, v. CERRI A., voce Libertà personale (dir. cost.), in Enc. giur., vol. XIX, Roma, Treccani, 1991, p. 9. 126 in cui l'esigenza cautelare riscontrata fosse quella dell'art. 274.1 lett c). Il presupposto comune è che l'imputato, infermo di mente, sia anche socialmente pericoloso; ma se l'infermità è precedente alla presunta commissione del reato e si rientra dunque nell'art. 206 c.p., in presenza di gravi indizi di commissione del fatto, il giudice dovrà disporre il ricovero provvisorio in un ospedale psichiatrico giudiziario; se invece l'infermità è sopravvenuta, in presenza di gravi indizi di colpevolezza, il giudice potrà disporre, in luogo della custodia cautelare, il ricovero in idonea struttura del servizio psichiatrico ospedaliero. La questione è stata sottoposta al giudizio della Corte costituzionale, prospettandole la possibile violazione dell'art. 3 Cost. per l'irragionevolezza di un sistema che renderebbe infungibili le due misure, entrambe fondate sul medesimo requisito della pericolosità sociale dell'imputato derivante da infermità psichica, ma comportanti un trattamento in concreto molto differente. Nel respingere la questione, con la sentenza n. 228 del 1999, la Consulta ha evidenziato la differenza tra il concetto di pericolosità accolto dall'art. 274.1 lett. c) e quello definito dall'art. 203 c.p.. «Nel codice penale – sostiene la Corte – la pericolosità sociale è la pericolosità criminale cosiddetta generica, e cioè la probabilità che la persona commetta nuovi fatti preveduti dalla legge come reati (art. 203, primo comma, cod. pen.), mentre nell'art. 274 cod. proc. pen., la pericolosità consiste nel concreto pericolo che la persona imputata commetta gravi delitti specificamente indicati dalla legge o delitti della stessa specie di quello per cui si procede»110. La distinzione tra pericolosità generica, rilevante ex art. 203 c.p., e pericolosità “specifica”, integrante il periculum libertatis dell'art. 274. 1ett. c), è stata recepita dalla Corte di cassazione, che ha ribadito l'infungibilità tra la misura di sicurezza dell'ospedale psichiatrico giudiziario e la custodia cautelare in una struttura del servizio psichiatrico ospedaliero111. Tuttavia, questa actio finium regundorum operata dalla giurisprudenza non ha del tutto convinto la dottrina. Al di là del fatto che il rapporto tra pericolosità generica e specifica non sembra configurarsi in termini di reciproca esclusione, quanto, appunto, di specificazione, la finalità perseguita dalla cautela disposta ex art. 274.1 lett. c) è pur sempre quella di prevenzione speciale negativa: una finalità che rientra tra quelle tipiche sia della pena che della misura di sicurezza; e mentre nel caso dell'applicazione provvisoria di misure di 110 Corte cost., sent. n. 228 del 1999, commentata da ICARDI L., Applicazione provvisoria di misure di sicurezza e misure cautelari personali: la Corte rimarca le differenze, in Giust. cost., 1999, p. 712. 111 Cass., 11 luglio 2003, PM in c. G., in Dir. pen. e proc., 2004, IV, p. 487, con nota di ALONZI F., Misure cautelari personali e misure di sicurezza provvisorie; Cass., 10 dicembre 2003, Murro, in C.e.d. n. 229889. 127 sicurezza l'esigenza di tutela della collettività si affianca, almeno nella previsione normativa, ad una esigenza di tutela dello stesso imputato, lo stesso non può dirsi per l'applicazione di misure cautelari custodiali, che appaiono quindi identiche, per contenuto e finalità, alla pena e alla misura di sicurezza applicata in via definitiva. Da qui l'opinione per cui, con «metamorfosi poco felice», attraverso l'art. 274.1 lett. c) si sarebbe trasformato l'intervento cautelare in misura di sicurezza (atipica)112, e l'auspicio a far confluire ogni valutazione di pericolosità sostanziale nella tematica delle misure di prevenzione post delictum113. Tale auspicio è mosso anche dalla costatazione che, a fronte di un frequente ricorso all'art. 274.1 lett. c), solo in pochi casi isolati si giunge, con la sentenza definitiva, all'applicazione di una misura di sicurezza114; il che sembrerebbe confermare la tesi per cui l'esigenza di prevenzione speciale si trasformerebbe, nella prassi, in una giustificazione generale, dietro cui si nascondono spesso scopi privi di legittimità sul terreno cautelare115. 3.2. Il quantum di pericolosità. Il raffronto appena richiamato induce a prendere in considerazione l'intensità del pericolo necessario ai fini dell'applicazione di misure cautelari per esigenze di prevenzione speciale. A rigore, infatti, la distinzione tra pericolosità generica e pericolosità specifica non dovrebbe incidere sull'intensità ma sulla specificità della prognosi, che solo nel secondo caso deve essere riferita ad una o più delle fattispecie individuate dall'art. 274.1 lett. c). Il concetto di pericolosità sostanziale, infatti, si distingue da quello di capacità a delinquere di cui all'art. 133.2 c.p. (nella sua dimensione prognostico-preventiva), proprio per il grado d'intensità della prognosi: mentre la capacità criminale esprime un'attitudine alla commissione di reati, la pericolosità richiede un'attitudine particolarmente intensa, cioè la probabilità – non solo la possibilità – che il soggetto delinqua116. In giurisprudenza, tuttavia, si riscontrano orientamenti divergenti in relazione all'intensità del pericolo necessario ad integrare l'esigenza cautelare di prevenzione speciale. A fronte di decisioni nelle quali si sostiene che «l'analisi in questione non può limitarsi alla semplice ipotizzazione di ricaduta [sic] ma deve fondarsi su elementi concreti che rendano altamente probabile, cioè quasi certa, presentandosene l'occasione, la ricaduta nel reato» 117, si 112 CORDERO F., Procedura penale, Milano, Giuffrè, 2006, 482; impostazione che sembra condivisa da SPANGHER G. (a cura di), Trattato di procedura penale, cit., p. 71. 113 DE CARO A., Libertà personale, cit., p. 33. 114 DE CARO A., Libertà personale, cit., pp. 33 e 175. 115 DE CARO A., loc. ult. cit.; SPANGHER G. (a cura di), Trattato di procedura penale, cit., p. 71; ILLUMINATI G., Ripartire dalla Costituzione, in Legisl. pen., 2006, p. 388. 116 MANTOVANI F., Diritto penale, Padova, Cedam, 2007, p. 670. 117 Cass., 1 agosto 1995, Masi, in C.e.d. n. 202197, dove si afferma anche che la finalità specialpreventiva è 128 rinvengono anche pronunce nelle quali si richiede un pericolo «di qualsiasi intensità, purché concreto, di reiterazione [sic] della condotta criminosa»118. Talora si afferma che il giudizio prognostico deve essere espletato in termini di «concreta probabilità, cioè sulla base dell'id quod plerumque accidit»119, talora, invece, che la prognosi di pericolosità «consiste nella concreta possibilità» che l'imputato commetta i reati in ipotesi 120. Non sembrano almeno esservi dubbi sul fatto che, mentre il presupposto per l'applicazione delle misure ante delictum è costituito da comportamenti solamente “sintomatici” della pericolosità, per l'applicazione di misure cautelari la pericolosità deve essere dimostrata, e non essere quindi solo frutto di sospetto121. Come si vede, è frequente la sottolineatura della «concretezza» del pericolo, richiesta dall'art. 274.1 lett. c) già nella sua originaria formulazione. Tale requisito, peraltro, sembra risolversi nella concretezza degli elementi su cui la prognosi si deve fondare: si sostiene, infatti, che «il requisito della concretezza deve essere riconosciuto allorché esistano elementi concreti sulla base dei quali è possibile affermare che l'imputato, verificandosene l'occasione, potrà commettere nuovi reati»122. L'inciso è volto ad escludere, in linea con l'orientamento prevalente, che sia necessaria anche l'”attualità” del pericolo di commissione di reati, cioè l'esistenza di condizioni prossime favorevoli alla condotta criminosa (e, a maggior ragione, che il «concreto pericolo» debba essere inteso come realizzazione delittuosa in itinere)123. Si ritiene, inoltre, che la concretezza del periculum in esame non sia esclusa né dallo stato di incensuratezza dell'imputato124, né dal fatto che la presunta commissione del reato sia risalente nel tempo125; si è però osservato, anche in relazione alla previsione dell'art. 292.2 lett. c)126, che il notevole lasso di tempo trascorso dal fatto costituisce indizio della quella «meno allineata ai postulati garantistici fondanti la Costituzione repubblicana». Il requisito dell'alta probabilità, peraltro, è nel caso di specie riferito all'ipotesi di persona incensurata imputata di un reato la cui presunta commissione risalirebbe a 8 anni prima rispetto al momento di formulazione della prognosi di pericolosità. 118 Cass., 23 giugno 1999, PM in proc. D'Alessandro, in C.e.d. n. 214924. 119 Cass., 15 gennaio 1990, Flora, in Arch. n. proc. pen., 1990, p. 612; Cass., 15 giugno 2004, PM in proc. Torsello, in C.e.d. n. 229911. 120 Cass., 24 ottobre 1990, Ferrari, in C.e.d. n. 186167; Cass., 26 ottobre 1990, Crippa, in C.e.d. n. 186442; Cass., 11 febbraio 1991, Fabiano, in Arch. n. proc. Pen., 1991, p. 456; Cass., 17 maggio 1993, Barini, in Arch. n. proc. Pen., 1994, p. 269; Cass., 27 luglio 1993, Sanfilippo, in Cass. pen., 1994, p. 2492; Cass., 29 maggio 1996, Senesi, in Arch. n. proc. Pen., 1997, p. 98. 121 Cass., 22 maggio 1991, Prestianni, in Arch. n. proc. pen., 1991, p. 630. 122 Cass., 5 novembre 1992, Conti, in Arch. n. proc. pen., 1993, p. 467; Cass., 30 aprile 1993, Angrisani, in Arch. n. proc. pen., 1993, p. 798; Cass., 20 gennaio 2004, Catanzaro, in C.e.d. n. 227227. 123 Oltre alle decisioni citate nella nota precedente, Cass., 28 giugno 1995, Bogetto, in R. pen., 1996, p. 468; Cass., 15 giugno 2004, PM in proc. Torsello, in C.e.d. n. 229911. Contra: Cass., 19 settembre 1995, Lorenzetti, in Cass. pen., 1997, p. 459. 124 Cass., 19 settembre 2002, Laino, in Guida al dir., 2003, n. 3, p. 77. 125 Cass., 26 giugno 2007, Rocchetti, in C.e.d. n. 239019. 126 Che, a seguito delle modifiche introdotte dalla l. 332/1995, impone di motivare l'ordinanza cautelare, in 129 diminuzione delle esigenze cautelari, sicché in tali ipotesi il giudice è tenuto a motivare sul punto in modo particolarmente specifico e dettagliato127. Si riconosce, inoltre, che, nel caso di pluralità di soggetti, il dato della concretezza implica che il giudice sia tenuto a dare concreta e specifica ragione dei criteri logici adottati senza poter assumere determinazioni complessive e generali128. 3.3. Gli indici sintomatici della pericolosità. Il ruolo dei precedenti. La prognosi richiesta dalla lettera c) dell'art. 274 deve fondarsi su un elemento oggettivo – le specifiche modalità e circostanze del fatto – e un elemento soggettivo – la personalità dell'imputato, desunta da comportamenti o atti concreti o dai suoi precedenti penali – 129. E' evidente, come si è già detto130, l'eco dei parametri fissati dall'art. 133 c.p. per l'esercizio del potere discrezionale del giudice nell'applicazione della pena. E infatti, secondo un costante orientamento giurisprudenziale, il giudice della cautela, al fine di formulare il giudizio prognostico, potrà valutare gli elementi dell'art. 133 c.p., sia sotto il profilo della concreta gravità del reato131 che sotto quello della capacità a delinquere132. Sono riscontrabili, tuttavia, due diversi orientamenti in merito alla valutazione degli indici di pericolosità. Per una parte della giurisprudenza, infatti, è necessario procedere ad una specifica e distinta valutazione dei due elementi – oggettivo e soggettivo –, sicché il giudizio di pericolosità non si può trarre esclusivamente dalle modalità dei fatti criminosi accertati, dovendo essere desunto anche dalla valutazione della personalità 133; ne discende che l'espressione «modalità e circostanze del fatto» andrebbe riferita solo al fatto-reato, mentre l'espressione «comportamenti o atti concreti» andrebbe riferita alla condotta antecedente o successiva al reato134. Tale interpretazione, del resto, era stata prospettata dalla dottrina già relazione al profilo del periculum libertatis, tenendo conto anche del tempo trascorso dalla commissione del reato. 127 Cass., 15 dicembre 1997, Di Giorgio, in Cass. pen., 1999, p. 587; Cass., 27 marzo 2000, Galluccio, in C.e.d. n. 215850; Cass., 10 giugno 2009, Scollo, in C.e.d. n. 244417; Cass., Sez. Un., 24 settembre 2009, Lattanzi, in C.e.d. n. 244377. V., però, contra: Cass., 17 dicembre 2009, Lo Vasco, in C.e.d. n. 245637, dove si sostiene che l'omissione del riferimento al tempo trascorso dalla commissione del reato non determina la nullità dell'ordinanza allorchè risulti l'incidenza complessiva degli elementi di giudizio a carico dell'indagato, atteso che il riferimento al decorso del tempo, introdotto nel testo dell'art. 292, comma secondo lett. c), cod. proc. pen. dall'art. 1 della L. 8 agosto 1995 n. 332, non ha valenza semantica autonoma ed indipendente dalla disposizione nella quale è inserito. 128 Cass., 16 aprile 1998, Accardo, in C.e.d. n. 210595; Cass., 20 gennaio 1994, Stanislao, C.e.d. n. 197719. 129 UGUCCIONI L., Libertà e cautele nel processo penale, Torino, Utet, 1996, p. 26. 130 V. supra, § 1.1. 131 Cass., 3 luglio 2007, Cavallari, in C.e.d. n. 237240, dove giustamente si afferma che «non deve essere considerato il tipo di reato o una sua ipotetica gravità». 132 Cass., 11 novembre 1998, Barreca, in C.e.d. n. 212192. 133 Cass., 21 novembre 1999, Accardo, in Riv. pen., 1996, p. 676. 134 Cass., 17 aprile 1996, Paglia, in C.e.d. n. 204765; Cass., 20 novembre 1996, Vallo, in Cass. pen., 1998, VI, 130 prima dell'intervento novellistico del 1995, ritenendosi che «l'inequivoco tenore della norma impone[sse] al giudice di orientare il proprio apprezzamento lungo due direttrici sintomatiche», quella oggettiva e quella soggettiva, e che dunque su tale duplice profilo dovesse «congiuntamente articolarsi lo spazio di discrezionalità giudiziale»135. E' nettamente prevalente, peraltro, l'indirizzo opposto, secondo cui le «modalità e circostanze del fatto» avrebbero una duplice valenza, poiché la condotta tenuta in occasione del reato costituisce un elemento significativo per valutare la personalità dell'agente 136. In linea con questo indirizzo, si sostiene che la pericolosità può essere desunta «anche dalla molteplicità dei fatti contestati, in quanto essa, considerata alla luce delle modalità della condotta concretamente tenuta, può essere indice sintomatico di una personalità proclive al delitto»137. Quest'ultimo orientamento è andato incontro alle critiche di una parte della dottrina, che sostiene che l'art. 274 non escluda di valutare la condotta criminosa ai fini del giudizio di pericolosità, ma imponga una distinta valutazione delle modalità del fatto-reato e della personalità; appare perciò in contrasto con il dettato normativo, oltre che logicamente scorretto, valutare due volte gli stessi elementi allo stesso fine (cioè desumerne la pericolosità dell'imputato)138. In questo modo, inoltre, lo spazio per una valutazione della pericolosità almeno in parte autonoma dall'accertamento dei fatti per cui si procede si riduce notevolmente, fino ad annullarsi nell'ipotesi di soggetto incensurato, la cui personalità sia desunta solo dalle modalità e circostanze del fatto. L'orientamento giurisprudenziale ora indicato, in questo senso, sembra avallare la tesi di quanti, in dottrina, escludono la compatibilità dell''art. 274.1 lett. c) con l'art. 27.2 Cost. proprio per il rapporto eziologico che tale disposizione crea tra un giudizio anticipato di colpevolezza (in ciò si risolverebbe, infatti, la prognosi di pericolosità) e la limitazione della libertà personale cui va incontro imputato. Non confortano, d'altra parte, i risultati cui perviene il tentativo di rendere autonomo il p. 1694, con nota di PETRACHI G., Alcune considerazioni sulla valenza da attribuire all'elemento oggettivo indicato dall'art. 274 lett. c) c.p.p. ai fini della configurabilità del periculum libertatis, il quale sostiene che tale interpretazione sarebbe imposta dalla lettera della norma; Cass., 3 dicembre 2003, Scotti, in Guida al dir., 2004, n. 17, p. 94; Cass., 1 aprile 2004, Albanese, in C.e.d. n. 229141. 135 PERONI F., Le misure interdittive nel sistema delle cautele penali, Milano, Giuffrè, 1992, pp. 142-143. 136 Cass., 19 maggio 1999, Marchegiani, in C.e.d. n. 214230; Cass., 20 febbraio 2002, Frasheri, in C.e.d. n. 222242; Cass., 19 settembre 2002, Laino, in Guida al dir., 2003, n. 3, p. 77; Cass., 6 novembre 2003, Barbieri, in C.e.d. n. 227904; Cass., 21 gennaio 2004, Raniolo, in C.e.d. n. 227277; Cass., 12 marzo 2004, Tanzi, in Dir. giust., 2004, n. 27, p. 37; Cass., 5 novembre 2004, Esposito, in C.e.d. n. 231276; Cass., 24 novembre 2004, Filippelli, in C.e.d. n. 231170; Cass., 19 gennaio 2005, Miranda ed altri, in C.e.d. n. 231583; Cass., 17 febbraio 2005, Genna, in C.e.d. n. 231323. 137 Cass., 7 aprile 2004, Rascunà, in C.e.d. n. 228098; Cass., 3 febbraio 2005, Scianò, in C.e.d. n. 230912; Cass., 16 novembre 2005, Salucci, in C.e.d. n. 233222. 138 SPANGHER G.-SANTORIELLO C. (a cura di), op. cit., pp. 68-69. 131 vaglio sull'elemento soggettivo rispetto agli elementi riconducibili al fatto-reato; a tal fine, infatti, si sostiene che la personalità «deve essere ricollegata a elementi diversi che, complessivamente considerati, si mostrino significativi di una inclinazione a delinquere, quali le specifiche caratteristiche soggettive (indole, condizione sociale, culturale, ecc.), gli eventuali ed ulteriori fatti o comportamenti concreti posti in essere, l'esistenza di precedenti penali»139. In questo modo, infatti, vengono eluse le indicazioni espresse dal legislatore con l'intervento novellistico del 1995, che ha inteso escludere la valutazione delle “caratteristiche soggettive”. L'indicazione degli elementi da cui desumere la personalità ha posto ulteriori questioni interpretative in merito alla valutazione da dare ai precedenti. Se è pacifico che il giudice debba porre particolare attenzione «ai dati riguardanti i precedenti penali, stante l'alta significanza, [ai fini della prognosi di pericolosità], della recidiva nel reato» 140, non vi è, invece, uniformità di vedute sul ruolo dei precedenti giudiziari. Secondo un primo indirizzo interpretativo, coerente con i lavori preparatori 141, l'art. 274.1 lett. c) imporrebbe di valutare i soli precedenti penali in senso stretto, poiché la mera pendenza di indagini e anche l'esercizio dell'azione penale senza la verifica giudiziale del suo fondamento non possono assumere alcun significato probatorio al fine della prognosi di commissione di reati142. E' prevalente, tuttavia, l'orientamento favorevole a prendere in considerazione anche i carichi pendenti, i quali, benché non qualificabili come precedenti penali in senso stretto, sarebbero tuttavia riferibili ai «comportamenti o atti concreti» 143. In tale prospettiva si è affermato che «il pericolo di reiterazione [sic] di cui all'articolo 274, comma 1, lettera c) può ben essere fondato anche su fatti criminosi in corso di accertamento giudiziale […], senza che ciò violi la presunzione di innocenza del cittadino non ancora raggiunto da sentenza di condanna passata in giudicato, trattandosi di giudizio incidentale, allo stato degli atti» 144. Oltre ai carichi pendenti, si è sostenuta persino la possibilità di considerare le condotte illecite per le quali l'azione penale non è stata promossa per difetto di querela145. Benché si ponga in evidente contrasto con la presunzione costituzionale di non 139 Cass., 17 aprile 1996, Paglia, in C.e.d. n. 204765; Cass., 10 giugno 1997, Sanfilippo, in A. n. proc. Pen., 1998, p. 279. 140 Cass., 1 agosto 1995, Masi, in C.e.d. n. 202197; Cass., 17 aprile 2009, Fiori, in C.e.d. n. 243887. 141 V. supra, § 1.2. 142 Cass., 19 maggio 1992, Figura, in Cass. pen., 1993, p. 2891. 143 Cass., 3 dicembre 2003, Scotti, in Guida al dir., 2004, n. 17, p. 94; Cass., 19 ottobre 2004, Scettro, in Guida al dir., 2004, n. 49, p. 92; Cass., 15 luglio 2008, Magnante, in C.e.d. n. 240761. 144 Cass., 3 dicembre 2003, Scotti, in Guida al dir., 2004, n. 17, p. 94. 145 Cass., 15 giugno 1998, Inchingolo, in C.e.d. n. 211688. 132 colpevolezza, l'orientamento prevalente sembra trovare conforto nel disposto dell'art. 66-bis c.p.p. (introdotto dalla l. n. 155 del 2005), che consente la circolazione del “curriculum criminale” tra i procedimenti penali, prevedendo che in ogni stato e grado del procedimento l'autorità competente ai fini dell'applicazione della legge penale sia resa edotta dei precedenti giudiziari dell'imputato146. Dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo non sembrano pervenire indicazioni di maggiore rigore, per quanto concerne gli elementi da cui desumere la pericolosità dell'imputato ai sensi dell'art. 274.1 lett. c). I giudici di Strasburgo hanno affrontato l'argomento in due sole pronunce, nelle quali hanno affermato che il pericolo di commissione di reati può fondarsi sulla valutazione dei precedenti147, nonché sulla continuazione dei comportamenti illeciti, sull'entità dei danni cagionati, e sulla nocività dell'imputato148. 3.4. La nozione di delitti della stessa specie. La circolazione del curriculum criminale ha le sue maggiori ripercussioni sulla valutazione del pericolo di commissione di delitti della stessa specie di quello oggetto d'imputazione. La mera pendenza di un'altra indagine, infatti, laddove riguardi ipotesi delittuose della stessa specie di quella per cui si procede, costituisce un dato valutabile come pericolo di reiterazione della medesima condotta149. La conseguenza del peso dato alla valutazione dei precedenti è che nella prassi giudiziaria l'ultima parte dell'art 274.1 lett c) (cioè quella nei cui confronti furono espresse, anche nel corso dei lavori preparatori, le maggiori perplessità) tende a prevalere sulla prima150. In passato si è molto discusso, sia in dottrina che in giurisprudenza, sull'interpretazione da dare alla formula «delitti della stessa specie»; si sono contrapposti, in particolare, due orientamenti. Secondo una prima opinione, favorevole a considerare la formula dell'art. 274 come una variante lessicale dalla locuzione «stessa indole», adottata dall'art. 101 c.p. 151, si dovrebbe tener conto non solo della struttura oggettiva delle singole fattispecie criminose ma 146 PAULESU P.P., op. cit., p. 116. 147 Corte eur., 12 dicembre 1991, Clooth c. Belgio, § 40, in www.echr.coe.int. 148 Corte eur., 10 novembre 1969, Matznetter c. Austria, § 9, in www.echr.coe.int. 149 SPANGHER G.-SANTORIELLO C. (a cura di), op. cit., p. 70. 150 Come riportato dal segretario dell'ANM Giuseppe Cascini nella relazione tenuta al Convegno su Carcere e Costituzione, Sarzana, 15-16 aprile 2011. 151 Ai sensi dell'art. 101 c.p., «sono considerati reati della stessa indole non soltanto quelli che violano una stessa disposizione di legge, ma anche quelli che, pur essendo preveduti da disposizioni diverse[...], per la natura dei fatti che li costituiscono o dei motivi che li determinarono, presentano, nei casi concreti, caratteri fondamentali comuni». 133 anche delle condizioni ambientali e personali che qualificano il reato152. In senso diverso, ritenendo il concetto di «specie» più circoscritto di quello di «indole», si è proposto di adottare il criterio delle categorie omologhe di reati, sulla falsariga dei parametri individuati in tema di concorso apparente di norme e di principio di specialità153. La giurisprudenza, comunque, sembra essersi stabilmente attestata nel senso di riferire la formula in esame ai delitti «che presentino lo specifico carattere comune costituito dal bene primario posto a fondamento della fattispecie tipica ascritta all'imputato» 154. In altri termini, per «delitti della stessa specie» – avendo il legislatore valorizzato con tale espressione l'elemento oggettivo – devono essere intese le fattispecie delittuose che offendono lo stesso bene giuridico155, cioè che presentino «una uguaglianza di natura in relazione al bene tutelato e alle modalità esecutive»156. 152 Cass., 31 marzo 1994, in Arch. n. proc. pen., 1994, p. 726. In dottrina, AMATO G., Sub art. 274, in AMODIO E.DOMINIONI O., Commentario al nuovo codice di procedura penale, Milano, Giuffrè, 1990, p. 36. 153 CONTI G.- MACCHIA. A., Il nuovo processo penale: lineamenti della riforma, Roma, Buffetti, 1990. 154 Cass., 14 aprile 2000, Piras, in Cass. pen., 2001, p. 1555. 155 Cass., 25 agosto 1992, Ligresti, in Cass. pen., 1992,3, p. 2573, con nota di BERETTA C., Sui rapporti tra irrevocabilità dei provvedimenti di custodia cautelare e diritto alla loro revoca e sulla individuazione dei reati della «stessa specie». 156 Sulla base di tale assunto, sono stati ritenuti delitti della stessa specie, ad esempio, il reato di violenza sessuale (art. 609-bis c.p.) e quello di rapina (art. 628 c.p.), in quanto accomunati dall'elemento della violenza contro la persona: Cass., 5 luglio 2001, Vasiliu, in C.e.d. n. 220031. V. anche Cass., 3 dicembre 2003, Scotti, in Guida al dir., 2004, n. 17, p. 94. 134 CAPITOLO V L'ESIGENZA DI PREVENZIONE SPECIALE E LE GARANZIE DI CONTESTO 1. Il ruolo della motivazione. Si è già parlato1 della rilevanza dell'obbligo di motivazione nel disegno costituzionale di tutela della libertà personale: già sancito dall'art. 111.6 Cost. con riferimento a tutti i provvedimenti giurisdizionali, tale obbligo è ribadito dall'art. 13.2 Cost., in quanto strumento fondamentale, insieme alla doppia riserva – di legge e di giurisdizione – e alla previsione della ricorribilità per cassazione, per garantire una tutela effettiva, e coerente con l'affermazione della sua inviolabilità, alla libertà personale. Vi è una stretta relazione tra i vari strumenti cui la Costituzione affida la tutela della libertà personale: come ha osservato la stessa Corte costituzionale 2, la riserva di giurisdizione è intimamente connessa con il principio di legalità-tassatività, poiché l'intervento del giudice non avrebbe alcun significato sostanziale se non fosse preordinato a garantire l'accertamento di fattispecie legali predeterminate. Il provvedimento giurisdizionale è una decisione che si giustifica in ragione della sua conformità ad un modello normativo 3; e tale conformità è garantita dall'obbligo di motivazione: non vi può essere, infatti, legittimo esercizio del potere giurisdizionale che non sia legato all'obbligo di dare conto delle ragioni che ne sono a fondamento4. La motivazione, d'altra parte, è indispensabile per consentire il controllo, anche nel merito, del provvedimento adottato. A questo complesso di garanzie il codice di procedura dà piena attuazione, nel settore della libertà personale dell'imputato, disponendo che il giudice verifichi, sulla base degli elementi presentati dal PM (art. 291), la sussistenza nel caso concreto dei presupposti fissati dal legislatore, cioè dei gravi indizi di colpevolezza (art. 273.1) e di almeno una delle esigenze cautelari (art. 274). L'obbligo di motivazione, già previsto a pena di nullità per tutti i provvedimenti che rivestono la forma dell'ordinanza dall'art. 125, è ribadito dall'art. 292.2, che fissa i requisiti necessari, a pena di nullità rilevabile anche d'ufficio5, delle ordinanze 1 V. supra, cap 2 § 1. 2 Corte cost., sent. n. 177 del 1980. 3 NAPPI A., I presupposti per l'applicazione delle misure cautelari reali e personali, in CANZIO G.-FERRANTI D.PASCOLINI A. (a cura di ), Contributi allo studio del nuovo codice di procedura penale, Milano, 1989, p. 187. 4 SPANGHER G.-SANTORIELLO C. (a cura di), cit., p. 104. 5 Si tratta di un'ipotesi eccezionale di nullità relativa rilevabile anche d'ufficio. 135 cautelari. Per quanto riguarda, in particolare, il profilo del periculum libertatis, alle lettere c) e c-bis), l'art. 292.2 richiede «l'esposizione delle specifiche esigenze cautelari» nonché, «in caso di applicazione della misura della custodia cautelare in carcere, l'esposizione delle concrete e specifiche ragioni per le quali le esigenze di cui all'art. 274 non possono essere soddisfatte con altre misure». Tale meccanismo dà attuazione al c.d. principio di adeguamento del dato giuridico al fatto reale, il quale esclude qualsiasi restrizione della libertà personale non fondata sull'effettivo riscontro delle esigenze che, in conformità al dettato costituzionale, il legislatore ha tassativamente previsto come suscettibili di limitare tale libertà 6. A fronte della definizione legislativa dei presupposti delle misure cautelari, la valutazione che compete al giudice rientra nel concetto di discrezionalità tecnica; in altri termini, si è detto che al giudice compete una discrezionalità esclusivamente ricognitiva, e non strumentale, essendo il profilo della strumentalità già assorbito dalla previsione legislativa7. Nella parte motivazionale dell'ordinanza cautelare, quindi, il giudice della cautela dovrà dimostrare la ricorrenza, nel caso concreto, delle esigenze cautelari previste dall'art. 274, oltre che, ovviamente, dei gravi indizi di colpevolezza ex art. 273. Se però è vero, come si è detto, che la riserva di giurisdizione, con il connesso obbligo di motivazione, è strettamente collegata con la riserva di legge, sì che il mancato rispetto dell'una vanifica l'altra, allora la condizione necessaria per l'assolvimento dell'obbligo di motivazione è che i presupposti per l'adozione del provvedimento cautelare siano stati definiti dal legislatore con sufficiente determinatezza. Tuttavia, i contrasti giurisprudenziali che si sono rilevati su alcuni elementi significativi della finalità specialpreventiva (es. la valutazione della personalità), la tendenza a dilatare la portata di altri (es. i comportamenti o atti concreti, nei quali si ricomprendono i precedenti giudiziari), e la natura sostanzialmente prognostica del vaglio sulle esigenze cautelari ma in particolar modo sul pericolo di commissione di reati inducono a qualificare la fattispecie dell'art. 274.1 lett. c) come fattispecie aperta, i cui contorni, nonostante la proliferazione di aggettivi cui si è affidato il legislatore, restano sostanzialmente sfumati. Una delle principali critiche rivolte alla finalità di prevenzione speciale muove proprio dalla tesi secondo cui la carenza di tassatività sarebbe in qualche modo connaturata al terzo scopo: secondo tale opinione, non vi sarebbe «raffinatezza lessicale capace di eliminare il margine di arbitrio nel quale necessariamente si incorre tutte le volte in cui ci si discosta da 6 AMATO G., Individuo e autorità, cit., p. 383. 7 NAPPI A., op. cit., p. 185. 136 “specificate” ed “inderogabili” esigenze istruttorie, od almeno processuali», poiché «[q]uanto più ci si allontana da elementi sicuramente suscettibili di un riscontro oggettivo, anche nella loro relativa elasticità, non solo si realizzano situazioni di frizione a livello costituzionale, ma si corre il rischio dell'appoggio a reazioni emozionali, e di offrire così il destro ad applicazioni forse non arbitrarie ma sempre discutibili nella soggettività che necessariamente ne deriva, con il diffuso ed immanente rischio della tentazione ad adottare provvedimenti “esemplari”»8. Da quanto si è detto in precedenza, risulta evidente la negativa ricaduta della carenza di tassatività della previsione legislativa sull'adempimento dell'obbligo di motivazione. Da questa visuale, la tesi sopra esposta sembra trovare conferma 9 in quella giurisprudenza che si limita a motivare in ordine alla pericolosità dell'imputato attraverso un pedissequo riferimento alle «specifiche modalità e circostanze del fatto» e alla «personalità della persona sottoposta alle indagini o dell'imputato»10, cioè attraverso espressioni semplicemente ripetitive della formula normativa e prive, quindi, di concreta sostanza contenutistica (c.d. “motivazione apparente”). D'altra parte, a fronte di una scarsa determinatezza della fattispecie normativa, può essere proprio il prudente apprezzamento del giudice a garantire la necessaria tutela della libertà personale, attraverso lo sforzo di circoscrivere in concreto l'ambito di applicazione dell'esigenza di prevenzione speciale11. In questa prospettiva sembrano collocarsi almeno le indicazioni della giurisprudenza di legittimità dirette al contenimento dell'uso della c.d. motivazione apparente; proprio con riferimento al pericolo di commissione di reati, infatti, la Cassazione ha ritenuto «non sufficiente l'impiego di formule rituali o di stile, dovendo la motivazione essere spiegata in modo tale da esprimere le concrete ragioni, rapportate allo specifico caso in esame, che sono state prese in considerazione dal giudice di merito nell'adozione del provvedimento», sicché non si potrà ritenere correttamente motivata la prognosi di pericolosità del soggetto desunta solo dall'estrema gravità dei fatti attribuiti all'imputato e dalla negativa personalità emergente dai precedenti penali12. Negli stessi termini, più di recente, la suprema Corte ha ritenuto la nullità, per mancanza assoluta di motivazione, dell'ordinanza applicativa di misura cautelare che si limiti 8 GALLI G., Primi appunti sui criteri per la concessione della libertà provvisoria, secondo la «legge sull'ordine pubblico», in Riv. dir. proc., 1976, p. 181. 9 MARZADURI E., Note di sintesi (...con alcune considerazioni a margine) del forum sulla disciplina delle misure cautelari personali, in Legisl. pen., 2006, p. 394. 10 Cass., 17 aprile 2004, Sissoko, in Guida al dir., 2004, n. 49, p. 92. 11 ILLUMINATI G., Ripartire dalla Costituzione, in Legisl. pen., 2006, p. 388. 12 Cass., 5 luglio 1990, Ranucci, in Arch. n. proc. pen., 1991, p. 124. 137 all'enunciazione di mere formule di stile, comuni a tutte le posizioni degli indagati, senza fare riferimento, sotto il profilo del periculum libertatis, agli elementi concreti e attuali dai quali dedurre il pericolo di commissione di reati13. 2. Il fattore temporale. 2.1. Tutela della collettività e ragionevole durata del processo. In concomitanza con l'entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale, dalla dottrina era giunto un ammonimento che continua a essere attuale: «è illusorio pensare – si diceva – che una “carta delle libertà” (fosse pur la migliore tra quelle concepibili), una volta inserita nel codice, basti a ridurre il rischio che dei “poteri coercitivi” possa farsi un uso distorto ed irragionevolmente prolungato, se non si riesce ad incidere» sulle cause dell'eccessiva lunghezza dei tempi processuali. Il rapporto tra inefficienza del sistema processuale e ricorso alla custodia cautelare è particolarmente stringente, come si è già rilevato 14, con riferimento all'esigenza di prevenzione speciale, che consente di limitare la libertà personale per una finalità che rientra tra quelle tipiche della pena: l'incapacità di giungere all'accertamento definitivo della responsabilità, e quindi all'irrogazione della sanzione, in tempi ragionevoli, diventa l'alibi per un uso eccessivo dello strumento cautelare. In tal senso, la carenza di determinatezza della fattispecie definita dall'art. 274.1 lett. c) si rivela funzionale alla trasformazione della custodia cautelare in pena anticipata15. Con la riforma dell'art. 111 Cost., attuata dalla legge costituzionale n. 2 del 1999, il legislatore ha affermato, tra i principi del c.d. “giusto processo”, anche l'esigenza della sua ragionevole durata: la prospettiva oggettiva coltivata dall'art.111.2 Cost., che fissa un canone obiettivo della giurisdizione, più che una garanzia per il singolo, trova un completamento nell'art. 6.1 Cedu, che sancisce il diritto soggettivo dell'imputato ad essere equamente giudicato «entro un termine ragionevole»16. Con l'introduzione, ad opera del d.l. n. 92 del 2008 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica), del c.d. giudizio immediato “custodiale”, il legislatore sembra aver predisposto un utile meccanismo per diminuire i tempi dell'accertamento quando l'imputato si 13 Cass., 22 ottobre 2004, Nero e altri, in Cass. pen., 2006, I, p. 553, con nota di SPAGNOLETTI V., Brevi riflessioni sulla c.d. motivazione «apparente» in tema di provvedimenti de libertate. 14 V. supra, cap. 2 § 4. 15 DE CARO A., op. cit., pp. 173-174. 16 CIGLIONI A., La ragionevole durata del processo penale, in DEAN G. (a cura di), Fisionomia costituzionale del processo penale, Torino Giappichelli, 2007, pp. 197-198. 138 trovi in stato di custodia cautelare. Il nuovo comma 1-bis dell'art. 453 prevede, infatti, che, in tale ipotesi, il PM debba richiedere il giudizio immediato per il reato in relazione al quale è stata disposta la misura coercitiva, entro 180 giorni dall'esecuzione della misura, salvo che la scelta del rito speciale pregiudichi gravemente le indagini; si prevede, altresì, che tale richiesta possa essere formulata solo dopo che il Tribunale del riesame abbia confermato la misura o dopo che sia inutilmente decorso il termine per presentare richiesta di riesame. In dottrina, tuttavia, sono state avanzate serie perplessità in merito alla nuova ipotesi di giudizio immediato, che non solo appare poco coerente con la dichiarata finalità di accelerare i tempi processuali17, ma comporta anche una rilevante compressione del diritto di difesa dell'indagato in vinculis18, che viene privato delle possibilità difensive esercitabili a seguito dell'avviso di conclusione delle indagini e nell'udienza preliminare. Con l'introduzione dell'art. 453.1-bis, inoltre, il legislatore è ritornato a riconoscere all'incidente cautelare una rilevanza nel procedimento principale, come già aveva fatto con la legge n. 46 del 2006, che aveva introdotto il comma 1-bis dell'art. 40519. Nel giudizio immediato “custodiale”, infatti, il requisito dell'evidenza della prova è sostituito dal fumus commissi delicti, sul presupposto che i gravi indizi di colpevolezza, dopo aver raggiunto un certo grado di stabilizzazione, sarebbero dotati di una valenza probatoria superiore alla mera sostenibilità dell'accusa in giudizio, rendendo così superflua la celebrazione dell'udienza preliminare20. Se, quindi, ci si trova nuovamente di fronte ad un meccanismo che consente all'incidente cautelare di influire sul procedimento principale, la previsione dell'art. 453.1-bis, diversamente da quella dell'art. 405.1-bis, è per di più destinata a operare contra reum21. Com'è noto, con la sentenza n. 121 del 2009, la Corte costituzionale ha dichiarato l'illegittimità dell'art. 405.1-bis, sottolineando, tra l'altro, come con tale disposizione si fosse rovesciato il rapporto fisiologico tra cautela e merito, improntato al principio di “impermeabilità” del procedimento principale agli esiti del procedimento incidentale de libertate. Pur non potendosi escludere in assoluto – ha sostenuto in quell'occasione la Corte – la legittimità di disposizioni derogatorie nei confronti di tale principio, «è tuttavia evidente 17 ORLANDI R., Note critiche, a prima lettura, in tema di giudizio immediato “custodiale” (art. 453, 1° co.-bis c.p.p.), in Osservatorio del processo penale, 2008, 3, p. 11; LORUSSO S., Il giudizio immediato (apparentemente obbligatorio) e la nuova ipotesi riservata all'imputato in vinculis, in LORUSSO S. (a cura di), Le nuove norme sulla sicurezza pubblica, Padova, Cedam, 2008, p. 153. 18 ORLANDI R., loc. ult. cit.; LORUSSO S., op. cit., p. 151. 19 La nuova norma imponeva al PM di formulare, al termine delle indagini, richiesta di archiviazione, quando la Cassazione si fosse pronunciata in ordine alla insussistenza dei gravi indizi di colpevolezza ex art. 273 e non fossero stati successivamente acquisiti ulteriori elementi a carico dell'indagato. 20 TONINI P., Considerazioni sul giudizio immediato custodiale, in Dir. pen. e proc., 2010, 12, p. 1393. 21 LORUSSO S., op. cit., p. 152. 139 che l'inversione dell'ordinario rapporto tra procedimento cautelare e procedimento principale dovrà esprimersi in una regola rispondente a solidi canoni di razionalità, quanto a presupposti ed effetti»22. Non sembra, tuttavia, che la disposizione dell'art. 453.1-bis rispetti tali canoni: oltre alla compressione del diritto di difesa, il rito immediato “custodiale” determina anche irragionevoli disparità di trattamento23; ma soprattutto, tale istituto si fonda su un'implicita equazione tra custodia cautelare e presunta colpevolezza 24, e, dunque, su uno stravolgimento della funzione riservata al presupposto del fumus commissi delicti nel procedimento cautelare. La necessaria sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza ai fini dell'adozione di misure cautelari è, infatti, una conseguenza della presunzione di non colpevolezza: proprio perché l'imputato è presunto innocente, si vuole ridurre al minimo il rischio che il sacrificio della sua libertà personale si riveli ingiustificato. Appare quindi tutt'altro che ragionevole servirsi di una valutazione imposta da una necessità di tutela dell'imputato per farne discendere conseguenze a lui sfavorevoli. Con l'introduzione del rito immediato “custodiale” il legislatore sembra aver perseguito non tanto un'accelerazione dei tempi processuali – obiettivo che, se raggiunto senza una irragionevole compressione delle garanzie, dovrebbe costituire una forma di tutela sia per la collettività che per l'imputato, tanto più se in vinculis – quanto piuttosto, direttamente, generiche esigenze di tutela della collettività, le quali, dopo essere presumibilmente già state il fondamento della misura coercitiva, si ripercuotono negativamente anche sulle garanzie difensive del soggetto, determinando, in ultima istanza, una sopraffazione della pretesa punitiva dello Stato rispetto alle ragioni dell'individuo. 2.2. Ragionevole durata della custodia cautelare. L'introduzione, nell'art. 111.1 Cost., del “giusto processo” quale modalità di estrinsecazione della giurisdizione, ha implicazioni ancora più dirette, sulla libertà personale dell'imputato (per cui l'art. 13.2 sancisce la riserva di giurisdizione), di quelle legate alla ragionevole durata del processo, sancita dal secondo comma dell'art. 111. La legalità del giusto processo, infatti, non si riduce alla legalità formale, ma esige anche l'effettivo rispetto, nel concreto svolgersi della giurisdizione, dei diritti fondamentali della persona, quali affermati dalla Costituzione ma anche dalle principali Convenzioni 22 Corte cost., sent. n. 121 del 2009. 23 V. sul punto CONSO G.- GREVI V. (a cura di), Compendio di procedura penale, cit., p. 649; LORUSSO S., op. cit., pp. 152-153. 24 LORUSSO S., op. cit., p. 151. 140 internazionali, e in particolar modo dalla Convenzione europea dei diritti dell'uomo, dal cui art. 6 è stata recepita la formula del “giusto processo”25. La libertà personale dell'imputato, tradizionalmente garantita a livello costituzionale dagli artt. 13 e 27.2 Cost., trova, quindi, ulteriore tutela nei requisiti di legalità dei provvedimenti coercitivi fissati dalla Cedu, nella ricostruzione fattane dalla Corte europea dei diritti dell'uomo26. Si è già visto27, in realtà, come dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo non giungano indicazioni più restrittive, per quanto concerne le esigenze cautelari, di quelle ricavabili dall'art. 274 c.p.p. Occorre considerare, tuttavia, che nel contesto dell'art. 5 Cedu, la legittimità della detenzione ante iudicium è rigorosamente condizionata, oltre che alla sussistenza dei presupposti per l'applicazione e il mantenimento delle misure custodiali – in parte descritti nel comma 1 lett. c) e in parte enucleati dalla Corte –, anche alle garanzie fissate nei commi successivi, tra cui figura, in particolare, il diritto della persona detenuta di «essere giudicata entro un termine ragionevole o di essere posta in libertà durante l'istruttoria»28. Tale previsione, a ben vedere, non configura un'alternativa, rimessa alla libera scelta delle autorità nazionali, tra un giudizio celere e la rimessione in libertà dell'accusato, dal momento che l'art. 6.1 Cedu prescrive che il processo si svolga entro un termine ragionevole; il suo significato sta, piuttosto, nell'imporre la liberazione dell'imputato quando la sua detenzione superi i limiti della durata ragionevole29. Il diritto ad una durata ragionevole della custodia cautelare costituisce un caposaldo della giurisprudenza della Corte europea, che da tempo afferma che la liberazione dell'imputato diviene obbligatoria nel momento in cui la privazione della libertà, considerate le concrete circostanze del caso, non possa più essere ragionevolmente inflitta a una persona presunta innocente30. Da questo punto di vista, mentre il mancato rispetto dei termini di durata della custodia cautelare previsti dal diritto interno comporta automaticamente una violazione del requisito 25 DI BITONTO M.L., Libertà personale dell'imputato e “giusto processo”, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2007, pp. 868-869. 26 DI BITONTO M.L., op. cit., p. 869. 27 V. supra, cap. 2 § 6. 28 Analogamente, l'art. 9.3 del Patto internazionale sui diritti civili e politici prevede che «[c]hiunque sia arrestato o detenuto in base ad un'accusa di carattere penale […] ha diritto ad essere giudicato entro un termine ragionevole, o rilasciato». 29 Corte eur., 29 aprile 1999, T.W. c. Malta, § 41, in www.echr.coe.int; v. UBERTIS G., Principi di procedura, cit., p. 112. 30 Corte eur., 27 giugno 1968, Wemhoff c. Germania, § 5 del “considerato in diritto”, in www.echr.coe.int. 141 della legalità della misura coercitiva, non può dirsi che il loro rispetto sia in ogni caso garanzia di una durata ragionevole della misura custodiale31. Secondo i giudici di Strasburgo, infatti, non è possibile stabilire in astratto il termine oltre cui la detenzione diventa irragionevole, dovendosi valutare caso per caso non solo la sussistenza di un'effettiva necessità di interesse pubblico che giustifichi, nonostante la presunzione d'innocenza, un'eccezione alla regola del rispetto della libertà personale, ma anche l'adozione, da parte delle autorità nazionali, di una particolare diligenza nella conduzione del procedimento32. Di conseguenza, il precetto della ragionevole durata della custodia cautelare verrebbe violato qualora, pur permanendo i presupposti relativi al fumus commissi delicti e al periculum libertatis, il procedimento si protraesse in maniera eccessiva rispetto alla sua effettiva complessità e al comportamento dell'imputato33. E' da rilevare, tuttavia, che il diritto della persona in vinculis ad essere «giudicata entro un termine ragionevole», sancito dall'art. 5.3 Cedu, è circoscritto alle fasi del procedimento che precedono la decisione di primo grado: il termine «giudicata», infatti, è inteso dalla Corte europea come sinonimo di «giudicata nel merito in primo grado» 34, sicché resta un considerevole vuoto di tutela rispetto ai successivi gradi di giudizio 35, ai quali l'art. 6.2 Cedu non estende la garanzia della presunzione d'innocenza. La tutela fornita dall'art. 27.2 Cost., invece, permane fino al momento in cui la colpevolezza sia accertata con sentenza definitiva, e integra, quindi, la previsione dell'art. 13.5 Cost. («[l]a legge stabilisce i termini massimi della carcerazione preventiva»), la quale, se da un lato impone di evitare che la custodia duri fino alla conclusione del procedimento, dall'altro non preclude che essa raggiunga e superi la durata della pena prevista per il reato per cui si procede. Tale preclusione è imposta proprio dalla presunzione di non colpevolezza, che vieta di sottoporre l'imputato a quella che sarebbe, di fatto, un'anticipazione del trattamento sanzionatorio36. Da simili considerazioni trae origine l'indirizzo giurisprudenziale37 che tende a sostenere 31 MAZZA O., La libertà personale nella Costituzione europea, in COPPETTA M.G. (a cura di), Profili del processo penale nella Costituzione europea, Torino, Giappichelli, 2005, pp. 63-64. 32 Corte eur., 24 agosto 2998, Contrada c. Italia, § 54 in www.echr.coe.int; Corte eur., 6 aprile 2000, Labita c. Italia, § 153, ivi; Corte eur., 16 novembre 2000, Vaccaro c. Italia, § 36, ivi; Corte eur., 6 novembre 2003, Pantano c. Italia, § 66, ivi. 33 Corte eur., 27 agosto 1992, Tomasi c. Francia, § 102, in www.echr.coe.int. 34 Corte eur., 27 giugno 1968, Wemhoff c. Germania, § 9; v. sul punto UBERTIS G., I limiti della custodia cautelare, in www.leduecitta.com. 35 MAZZA O., La libertà personale, cit., p. 68. 36 PAULESU P.P., op. cit., p. 122. 37 Espresso principalmente dal Tribunale del Riesame di Bologna e dettagliatamente descritto in AA.VV., Seminari di riflessione giuridica in materia penale: l'osservatorio cautelare, Quaderni della Fondazione Forense bolognese, n. 8, 2011, pp. 87 ss. 142 l'autonomia del profilo quantitativo del principio di proporzionalità – ricavabile dal complesso degli artt. 275.2, 299.2 e 304.6 – rispetto agli altri parametri che disciplinano la custodia cautelare. La necessità di confrontare la durata della cautela con la pena irroganda o irrogata esprime, infatti, la fondamentale esigenza che la coercizione cautelare non si traduca in esecuzione anticipata della pena, in violazione dell'art. 27.2 Cost. Ciò impone che il profilo quantitativo del principio di proporzionalità conservi una propria autonomia operativa non solo rispetto al profilo qualitativo (proporzionalità della cautela rispetto all'entità del fatto), ma anche rispetto al principio di adeguatezza della misura rispetto alle esigenze cautelari da soddisfare nel caso concreto, nonché ai termini di durata. Secondo tale orientamento, dunque, il perdurare di una o più esigenze cautelari non potrebbe comunque giustificare il mantenimento della misura cautelare allorché risulti violato il principio di proporzionalità, il quale inizierebbe ad operare, sotto il profilo aritmetico, nel momento in cui la custodia abbia raggiunto i due terzi della pena inflitta, secondo l'indicazione contenuta nell'art. 304.6. Inizialmente avallato dalla Corte di Cassazione 38, e oggetto in seguito di decisioni contrastanti, l'orientamento in esame è stato di recente respinto dalle Sezioni Unite. Con la sentenza n. 16085 del 2011, la Suprema Corte ha riconosciuto che il principio di proporzionalità, al pari di quello di adeguatezza, trova espressione non solo nella fase genetica della misura, ma per tutto l'arco del procedimento cautelare; tuttavia, ha ritenuto che adeguatezza e proporzionalità non siano «parametri autodefiniti e indipendenti», riflettendosi entrambi sull'esistenza e sulla quantità delle specifiche esigenze cautelari riscontrate nel caso concreto. In altri termini, il canone di proporzione non avrebbe una sfera operativa autonoma rispetto alle esigenze cautelari, e quindi non potrebbe mai consentire la caducazione della misura cautelare ove sia ancora sussistente un periculum libertatis, ma si limiterebbe ad imporre una costante verifica dell'idoneità della misura adottata alle esigenze che residuino nel caso concreto39. 3. Le condizioni di detenzione. Non si può prescindere, in conclusione, da alcune brevi considerazioni relative al trattamento dell'imputato detenuto. La necessità di una diversificazione teleologica e 38 Cass., 29 marzo 1995, Ragaglia, in Cass. pen., 1996, p. 213. 39 Cass., Sez. Un., 31 marzo 2011, Khalil, in C.e.d. n. 249323. In termini adesivi alla decisione, v. GAETA P., Solo un giudizio sull'attualità delle esigenze riesce a garantire veramente l'imputato, in Guida al dir., n. 21, p. 54. 143 temporale della custodia cautelare rispetto alla pena discende, come si è avuto modo di illustrare in precedenza40, dalla sostanziale identità strutturale tra le due misure, che si risolvono in una privazione della libertà personale, cioè nella massima sanzione prevista dal nostro ordinamento41. Tale omologazione afflittiva, di cui è sintomo l'evidente simmetria tra detenzione e custodia in carcere da un lato e detenzione domiciliare e arresti domiciliari dall'altro 42, è riconosciuta anche dal legislatore, essendo alla base del meccanismo di scomputo previsto dagli artt. 285.3 e 657 c.p.p. E' da evidenziare, peraltro, che sia dalla Costituzione che dalle Convenzioni internazionali emergono alcune indicazioni relative allo status dell'imputato detenuto che dovrebbero almeno in parte ridurre quella omologazione. E' evidente che alcune fondamentali disposizioni in tema di trattamento dell'individuo privato della libertà personale abbiano come destinatari tanto i condannati quanto gli imputati: è il caso dell'art. 13.4 Cost., che punisce «ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà» e dell'art. 10.1 del Patto internazionale sui diritti civili e politici, per cui «[q]ualsiasi individuo privato della propria libertà deve essere trattato con umanità e col rispetto della dignità inerente alla persona umana». Lo stesso art. 27.3 Cost., nel sancire che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità, implica che, a fortiori, la custodia cautelare non possa estrinsecarsi in trattamenti del genere43. D'altra parte, sia l'art. 3 Cedu che l'art. 7 del Patto internazionale prevedono il divieto di tortura, nonché di punizioni o trattamenti crudeli, inumani o degradanti. E', tuttavia, la presunzione di non colpevolezza, intesa come regola di trattamento, a imporre che lo status dell'imputato detenuto non sia sproporzionato rispetto alla posizione di chi «non è considerato colpevole»44. Un'eco di tale impostazione si trova nell'art. 277 c.p.p, che dispone che le modalità di esecuzione delle misure cautelari «devono salvaguardare i diritti della persona ad esse sottoposta , il cui esercizio non sia incompatibile con le esigenze cautelari del caso concreto». Ma è soprattutto nell'ordinamento penitenziario che si prevede, expressis verbis, che il trattamento degli imputati «deve essere rigorosamente informato al 40 V. supra, cap. 2 § 2. 41 ILLUMINATI G., La presunzione d’innocenza, cit., p. 38. 42 Ma che si estende in realtà all'intero panorama delle misure cautelari, cui corrispondono varie modalità esecutive della pena; tale simmetria, è frutto della riforma penitenziaria del 1975, che, umanizzando la pena, ebbe l'effetto paradossale di rendere più afflittiva la condizione dell'imputato in custodia cautelare di quella del condannato, sicché, le riforme del 1982 e 1984 portarono la normativa cautelare ad adeguarsi a quella penitenziaria: v. ORLANDI R., Provvisoria esecuzione delle sentenze, cit., p. 138, nota 29. 43 PISANI M., La custodia preventiva, cit. p. 200. 44 PISANI M., loc. ult. cit. 144 principio che essi non sono considerati colpevoli sino alla condanna definitiva» 45, e che deve essere assicurata «la separazione degli imputati dai condannati» 46. Tali disposizioni appaiono pienamente corrispondenti al dettato dell'art. 10.2 del Patto internazionale, per cui «gli imputati, salvo circostanze eccezionali, devono essere separati dai condannati e sottoposti a un trattamento diverso, consono alla loro condizione di persone non condannate». Eppure, all'interno della stessa normativa di ordinamento penitenziario sono presenti alcune disposizioni che determinano una tendenziale assimilazione dell'imputato al condannato, e dalle quali emerge un generico concetto di “detenzione”, che prescinde dal titolo giuridico legittimante la restrizione della libertà personale47. L'art. 33.3 ord. penit., ad esempio, ammette l'isolamento continuo anche nei confronti delle «persone sottoposte alle indagini preliminari, se e fino a quando ciò sia ritenuto necessario dall'autorità giudiziaria»; l'art. 15.3 prevede che gli imputati siano ammessi – sia pure a loro richiesta, non avendo senso, nei loro confronti, l'imposizione di un trattamento rieducativo – alle stesse attività educative, culturali, ricreative, lavorative e di formazione professionale predisposte ai fini del trattamento dei condannati e degli internati; infine, del tutto comune appare la regolamentazione in materia di colloqui, corrispondenza, regime disciplinare, impiego della forza fisica o di mezzi di coercizione, trasferimenti e traduzioni 48. Ne deriva, dunque, una «penitenziarizzazione» dello status dell'imputato detenuto che mal si concilia con la presunzione di non colpevolezza49. Il sintomo più marcato di tale fenomeno è l'applicazione dell'art. 41-bis ord. penit. anche ai detenuti “provvisori”, conseguenza dell'estensione del c.d. “doppio binario” (i cui riflessi sul terreno cautelare si sono già visti in relazione all'art. 275.3) anche nel momento esecutivo del processo penale50. L'art. 41-bis ord. penit. consente, infatti, per «gravi motivi di ordine o di sicurezza pubblica», di sospendere, in tutto o in parte, le regole di ordinamento penitenziario nei confronti dei detenuti per taluno dei gravi delitti indicati nell'art. 4-bis o per un delitto commesso avvalendosi delle condizioni previste dall'art. 416-bis c.p o al fine di agevolare l'associazione di tipo mafioso, quando vi siano collegamenti con l'associazione criminale, terroristica o eversiva. Pur trattandosi di una misura tipicamente “penitenziaria”, tale disposizione è ritenuta applicabile, dalla giurisprudenza, anche agli imputati, in ragione del 45 Art.1.5 ord. penit. (l. n. 354 del 1975). 46 Art. 14.3 ord. penit.; l'art. 59 distingue gli istituti penitenziari in istituti di custodia cautelare, istituti per l'esecuzione delle pene, istituti per l'esecuzione delle misure di sicurezza e centri di osservazione. 47 PAULESU P.P., loc. ult. cit.; FIORIO C., La presunzione di non colpevolezza, cit., p. 138. 48 GREVI V., Libertà personale, cit., p. 271 ss. 49 DOMINIONI O., La presunzione d'innocenza, cit., p. 251. 50 FIORIO C., loc. ult. cit. 145 fatto che le esigenze di ordine o di sicurezza pubblica prescinderebbero dal titolo che legittima la restrizione della libertà personale51. Tale interpretazione è stata avallata, nel 1997, anche dalla Corte costituzionale, la quale ha sostenuto – in termini che ricordano quelli dell'ordinanza 450/1995 – che «non può invocarsi la presunzione di non colpevolezza per impedire l'applicazione di misure che non hanno e non possono avere natura e contenuto di anticipazione della sanzione penale, bensì solo di cautela in relazione a pericoli attuali per l'ordine e la sicurezza, collegati in concreto alla detenzione di determinati condannati o imputati per delitti di criminalità organizzata»52. L'applicazione agli imputati detenuti dell'art. 41-bis ord. penit. è forse l'ultima e più radicale conferma del fatto che, come si ipotizzava già a pochi anni dall'entrata in vigore della legge sull'ordinamento penitenziario, «nella quotidiana esperienza giudiziaria, le ragioni di difesa sociale [sono] di gran lunga prevalenti rispetto a quelle di cautela processuale in senso stretto»53. 51 PAULESU P.P., op. cit., p. 121. 52 Corte cost., sent. n. 376 del 1997. 53 GIARDA A., Il regime carcerario dell'imputato in custodia preventiva, in GREVI V. (a cura di), Diritti dei detenuti e trattamento penitenziario, Bologna, Zanichelli, 1981, p. 248. 146 BIBLIOGRAFIA Dottrina: AA.VV., Seminari di riflessione giuridica in materia penale: l'osservatorio cautelare, Quaderni della Fondazione Forense bolognese, n. 8, 2011. ALBIANI A., Le misure cautelari personali: un equilibrio in divenire fra tendenze conservatrici e (non contenibile) spirito innovatore, in Legisl. pen., 2006, p. 375. 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