A. A. 2012-2013
SP 2013
Prof. Uberto MOTTA
Le forme brevi della narrativa tra
Ottocento e Novecento
Orario delle lezioni
Martedì, 17.00-19.00, AULA MIS 3026
CALENDARIO
1)
2)
3)
4)
5)
6)
7)
19 febbraio
26 febbraio
5 marzo
12 marzo
19 marzo
GIOVEDÌ 21 marzo, 17-19h (recupero del 23 aprile) MIS 3026
26 marzo
2 aprile: vacanze di Pasqua
8) 9 aprile
9) 16 aprile
23 aprile: lezione sospesa – recupero: 21 marzo
10) 30 aprile
11) 7 maggio
12) 14 maggio: la lezione è anticipata: ore 15-17, MIS 3026
21 maggio: lezione sospesa – recupero: 23 maggio
13) GIOVEDÌ 23 maggio, 17-19h (recupero del 21 maggio) MIS 3026
14) 28 maggio
Due date simboliche
• 1880
G. Verga, Vita dei campi
C. Dossi, Goccie d’inchiostro
1985
G. Celati, I narratori delle pianure
A. Tabucchi, Piccoli equivoci senza importanza
Bibliografia
• Storia della letteratura italiana, a c. di E. Malato,
Salerno Editrice, voll. VIII e IX
• Letteratura italiana Einaudi, vol. Le forme del testo, II
(1984): Pieter De Meijer, La prosa narrativa moderna,
pp. 759-847
• SLI 79,1-4: Manuale di letteratura italiana. Storia per
generi e problemi (a c. di Brioschi-Di Girolamo)
• SLI 88,1-4: Testi nella storia (a c. di Segre-Martignoni)
• SLI 112,1-11: Storia della letteratura italiana (a c. di
Ferroni et alii)
• SLI 18,1-3: Letteratura.it (a c. di Langella et alii).
Quattro libri fondamentali
• G. Verga, Vita dei campi (1880)
Ed. consigliata: Verga, Tutte le novelle, a c. di G. Zaccaria, Einaudi
• L. Pirandello, Dal naso al cielo, vol. VIII di Novelle
per un anno (1925)
Ed. consigliata: Pirandello, Novelle per un anno, a c. di S.
Campailla, Newton Compton 2011
• C.E. Gadda, L'Adalgisa (1944)
Ed. consigliata: a cura di C. Vela, Adelphi 2012
• I. Calvino, Ultimo viene il corvo (1949)
Ed. consigliata: Mondadori Oscar
C. Baudelaire, Le Salon de 1846
« Le romantisme n’est précisément ni dans le
choix des sujets ni dans la vérité exacte, mais
dans la manière de sentir. Ils l’ont cherché en
dehors, et c’est en dedans qu’il était seulement
possible de le trouver. […] Qui dit romantisme
dit art moderne, – c’est-à-dire intimité,
spiritualité, couleur, aspiration vers l’infini,
exprimées par tous les moyens que contiennent
les arts ».
Cletto Arrighi, La Scapigliatura Milanese, 1858
In tutte le grandi e ricche città del mondo incivilito esiste una certa quantità di
individui di ambo i sessi – v’è chi direbbe: una certa razza di gente –, fra i venti e i
trentacinque anni non piú; pieni d’ingegno quasi sempre; piú avanzati del loro secolo;
indipendenti come l’aquila delle Alpi; pronti al bene quanto al male; inquieti,
travagliati, turbolenti - i quali - e per certe contraddizioni terribili fra la loro condizione
e il loro stato, vale a dire fra ciò che hanno in testa e ciò che hanno in tasca - e per una
loro particolare maniera eccentrica e disordinata di vivere […] meritano di essere
classificati in una nuova e particolare suddivisione della grande famiglia civile, come
coloro che vi formano una casta sui generis distinta da tutte quante le altre. Questa
casta o classe - che sarà meglio detto - vero pandemonio del secolo; personificazione
della storditaggine e della follia, serbatoio del disordine, dello spirito di indipendenza
e di opposizione agli ordini stabiliti, questa classe, ripeto, che a Milano ha più che
altrove una ragione e una scusa di esistere, io, con una bella e pretta parola italiana,
l’ho battezzata appunto: la Scapigliatura Milanese. […] Essa mi rende, quasi a
cappello, il concetto di questa della popolazione milanese, tanto diversa dall’altra pei
suoi misteri, le sue miserie, i suoi dolori, le sue speranze, i suoi traviamenti,
sconosciuti ai giovani morigerati e dabbene, ed agli adulti gravi e posati, che della vita
hanno preso la strada maestra, comoda, ombreggiata, senza emozioni, come senza
pericoli. […] La speranza nell’avvenire è la sua religione; la povertà il suo carattere
essenziale.
Camillo Boito (1836-1914)
• Storielle vane (1876)
► dare voce a quel “demonio muto” che si nasconde nel cuore
dell’uomo, come memoria o desiderio inconfessabile di peccato;
come “piccola ulcera venefica [che] un po’ alla volta s’allarga, si
estende e incancrenisce via via l’anima intera. Ci credevamo
giusti, ci troviamo iniqui”
• Nuove storielle vane (1883)
► comprende: Vade retro Satana, Macchia grigia, Il collare di
Budda, Santuario, Quattr'ore al Lido, Meno di un giorno, Il
demonio muto, Senso
Boito, Senso (1)
Ho bisogno di mortificare la vanità. Alla inquietudine, che rode la mia
anima e che lascia quasi intatto il mio corpo, s'alterna la presunzione
della mia bellezza: né trovo altro conforto che questo solo, il mio
specchio.
Troverò, spero, un altro conforto nello scrivere i miei casi di sedici anni
addietro, ai quali vado ripensando con acre voluttà. Lo scartafaccio,
chiuso a tre chiavi nel mio scrigno segreto, non potrà essere visto da
occhio umano, e, appena compiuto, lo getterò sul fuoco,
disperdendone le ceneri; ma il confidare alla carta i vecchi ricordi deve
servire a mitigarne l'acerbità e la tenacia. Mi resta scolpita in mente
ogni azione, ogni parola e sopra tutto ogni vergogna di quell'affannoso
periodo del mio passato; e tento sempre e ricerco le lacerazioni della
piaga non rimarginata; né so bene se ciò ch'io provo sia, in fondo,
dolore o solletico.
O che gioia, confidarsi unicamente a sé, liberi da scrupoli, da ipocrisie,
da reticenze, rispettando nella memoria la verità anche in ciò che le
stupide affettazioni sociali rendono più difficile a proclamare, le
proprie bassezze!
Boito, Senso (2)
Era il luglio dell'anno 1865. Maritata da pochi giorni, facevo il
viaggio di nozze. Per mio marito, che avrebbe potuto essere mio
nonno, sentivo una indifferenza mista di pietà e disprezzo: portava i
suoi sessantadue anni e l'ampia pancia con apparente energia; si
tingeva i radi capelli e i folti baffi con un unguento puzzolente, il
quale lasciava sui guanciali delle larghe macchie giallastre. […]Lo
avevo pigliato spontaneamente, anzi lo avevo proprio voluto io. I
miei erano contrarii ad un matrimonio così male assortito; né,
bisogna dire la verità, il pover'uomo ardiva di chiedere la mia mano.
Ma io mi sentivo stufa della mia qualità di zitella: volevo avere
carrozze mie, brillanti, abiti di velluto, un titolo, e sopra tutto, la mia
libertà. Ce ne vollero delle occhiate per accendere il cuore nel gran
ventre del conte; ma, una volta acceso, non provò pace finché non
m'ebbe, né badò alla piccola dote, né pensò all'avvenire. Io, innanzi
al prete, risposi un Sì fermo e sonoro. Ero contenta di quello che
avevo fatto, ed oggi, dopo tanti anni, non ne sono pentita.
Boito, Senso (3)
La mia corte si componeva in massima parte di ufficialetti e d'impiegati
tirolesi piuttosto scipiti e assai tronfii, tanto che i più dilettevoli erano i
più scapati, quelli che avevano nella scostumatezza acquistato non
foss'altro l'audacia petulante delle proprie sciocchezze. Tra questi ne
conobbi uno, il quale usciva dal mazzo per due ragioni. Alla dissolutezza
sbadata, univa, per quanto i suoi stessi amici affermavano, una così
cinica immoralità di principii, che niente gli pareva rispettabile in questo
mondo, salvo il codice penale e il regolamento militare. Oltre a ciò era
veramente bellissimo e straordinariamente vigoroso: un misto di Adone
e di Alcide. […]Questo tenente di linea, il quale aveva solo ventiquattro
anni, due più di me, era riuscito a divorarsi la ricca sostanza paterna, e
continuando sempre a giuocare, a pagar donne, a scialarla da signore,
nessuno oramai sapeva come vivesse; ma nessuno lo vinceva nel nuoto,
nella ginnastica, nella forza del braccio. Non aveva mai avuto occasione
di trovarsi in guerra; non amava i duelli, anzi due ufficialetti mi
raccontarono una sera, che, piuttosto che battersi, aveva più volte
ingoiato atrocissimi insulti. Forte, bello, perverso, vile, mi piacque.
Boito, Senso (4)
La perfetta virtù mi sarebbe parsa scipita e sprezzabile al paragone
de' suoi vizii; la sua mancanza di fede, di onestà, di delicatezza, di
ritegno mi sembrava il segno di una vigoria arcana, ma potente,
sotto alla quale ero lieta, ero orgogliosa di piegarmi da schiava.
Quanto più il suo cuore appariva basso, tanto più il suo corpo
splendeva bello.
Boito, Senso (5)
— Non ti amo? io che ti darei volentieri tutto il mio sangue.
— Queste sono parole. Se non hai denaro, dammi i gioielli.
Non risposi e mi sentii impallidire. Accortosi della impressione che mi
avevano fatto le sue ultime parole, Remigio mi serrò tra le braccia di
ferro, e mutato tono, ripeté più volte:
— Sai che ti amo infinitamente, Livia mia, e ti amerò finché avrò un
soffio di vita; ma questa vita salvamela, te ne scongiuro, salvala per te,
se mi vuoi bene.
Mi prendeva le mani, e le baciava.
Ero già vinta. Andai alla scrivania a prendere le tre piccole chiavi dello
scrignetto: temevo di far romore; camminavo in punta di piedi, benché
avessi i piedi nudi. Remigio mi accompagnò nel gabinetto dietro
l'alcova; serrai l'uscio, perché il conte non potesse udire, ed aperto lo
scrigno con qualche difficoltà, tanto ero agitata, ne trassi un
fornimento intiero di brillanti, mormorando:
— Ecco, prendi. Costò quasi dodicimila lire. Troverai da venderlo?
Remigio mi tolse di mano l'astuccio; guardò i gioielli e disse:
— Usurai ce n'è dappertutto.
Boito, Senso (6)
— Generale — mormorai — vengo a compiere un dovere di suddita fedele. — La
signora contessa è tedesca? — No, sono trentina. — Ah, va bene — esclamò,
guardandomi con una cert'aria di stupore e d'impazienza. — Legga — e gli porsi in
atto risoluto la lettera di Remigio, quella che avevo ritrovata nel taschino del
portamonete. Il generale, dopo avere letto: — Non capisco; la lettera è indirizzata a
lei? — Sì, generale. — Dunque l'uomo che scrive è il suo amante.
Non risposi. Il generale cavò di tasca un sigaro e lo accese, s'alzò da sedere e si pose
a camminare su e giù per la sala; tutt'a un tratto mi si piantò innanzi e, ficcandomi
gli occhi in volto, disse: — Dunque, ho fretta, si sbrighi. — La lettera è di Remigio
Ruz, luogotenente del terzo reggimento granatieri. — E poi?
— La lettera parla chiaro. S'è fatto credere malato, pagando i quattro medici — e
aggiunsi con l'accento rapido dell'odio: — È disertore dal campo di battaglia.
— Ho inteso. Il tenente era l'amante suo e l'ha piantata. Ella si vendica facendolo
fucilare, e insieme con lui facendo fucilare i medici. È vero? — Dei medici non
m'importa. Il generale stette un poco meditabondo con le ciglia aggrottate, poi mi
stese la lettera, che gli avevo data:
— Signora, ci pensi: la delazione è un'infamia e l'opera sua è un assassinio.
— Signor generale — esclamai, alzando il viso e guardandolo altera — compia il suo
dovere.
Igino Ugo Tarchetti (1839-1869),
Racconti fantastici, Milano 1869
Il volume contiene 5 testi: I fatali; Le
leggende del castello nero; La lettera
U; Un osso di morto; Uno spirito in un
lampone.
I. U. Tarchetti, I fatali
Esistono realmente esseri destinati ad esercitare un'influenza sinistra sugli
uomini e sulle cose che li circondano? È una verità di cui siamo testimonii ogni
giorno, ma che alla nostra ragione freddamente positiva, avvezza a non
accettare che i fatti i quali cadono sotto il dominio dei nostri sensi, ripugna
sempre di ammettere. […] Noi non possiamo non riconoscere che, tanto nel
mondo spirituale quanto nel mondo fisico, ogni cosa che avviene, avvenga e si
modifichi per certe leggi d'influenze di cui non abbiamo ancora potuto
indovinare intieramente il segreto. Osserviamo gli effetti, e restiamo attoniti e
inscienti dinanzi alle cause. Vediamo influenze di cose su cose, di intelligenze
su intelligenze, e di queste su quelle ad un tempo; vediamo tutte queste
influenze incrociarsi, scambiarsi, agire l'una sull'altra, riunire in un solo centro
di azione questi due mondi disparatissimi, il mondo dello spirito e il mondo
della materia. Fin dove la penetrazione umana è arrivata noi abbiamo portato
la nostra fede; il segreto dei fenomeni fisici è in parte violato; la scienza ha
analizzato la natura; i suoi sistemi, le sue leggi, le sue influenze ci sono quasi
tutte note: ma essa si è arrestata dinanzi ai fenomeni psicologici, e dinanzi ai
rapporti che congiungono questi a quelli. Essa non ha potuto avanzarsi di più,
e ha trattenuto le nostre credenze sulla soglia di questo regno inesplorato.
C. Dossi, Prima e dopo, da Goccie d’inchiostro, 1880
E, spesso, Giulio e Antonietta passàvano verso le tre, innanzi alle
scuole del pomo; di cui, apèrtasi a un tratto la pìccola porta,
rovesciàvasi fuori, come fantocci da un sacco, la melonìa de’ scolaretti,
isparpagliàndosi tosto per la contrada, a corsa, dimèntica già della noja
sofferta, e saltellante e giojosa; e spesso, di dopo-pranzo, sedèvano
tristamente su’na panchetta ai Giardini, Gullìveri nuovi in mezzo alla
gentile frugaglia del Lillipùt, che trottolava di su e di giù, vero moto
perpetuo, senza fastidi, senza pensieri e tutta amica; là, a fare i grandi
occhi intorno al bossolottajo, mago del buon comando; quà, a leccare
il cucchiajo, il piattello e le labbra intorno a quel dal sorbetto
dell’unghia, o a bevucchiare a due mani la consolina entro un tazzone;
in ogni parte, correndo coi cerchi, coi palloncelli, coi draghi-volanti o
sui bastoni dei babbi; facendo al signore e al soldato innocentemente,
o a rimpiattino dietro le gonne dell’aje; mentre i bebè dalle dande, che
incominciàvano a sentirsi i pieducci, con l’agitar delle alette e la voce,
credèvano còrrere anch’essi. Oh quanti maluzzi da unguento sputino,
tavane da pulci! oh liti, temporali di monte! o dispettini e capricci e
cattiverie adoràbili! oh paci! senza riserve, senza capi segreti.
Racconti della Scapigliatura
piemontese, a cura di G. Contini,
Milano, Bompiani, 1953.
Autori antologizzati:
Giovanni Faldella (Vercelli 1846-1928),
Roberto Sacchetti (Asti 1847-1881),
Achille Giovanni Cagna (Vercelli 1847-1931),
Edoardo Calandra (Torino 1852-1911)
La storia letteraria secondo G. Contini
(da La letteratura italiana. Otto-Novecento, 1974: Premessa)
“Che la storia letteraria, cioè una storia della cultura
morale (come per esempio delle poetiche), sia un
mero schema empirico volto ad abilitare alla
conoscenza dei singoli momenti poetici (e sarebbe
meglio dire, per fuorviare i residui di psicologismo
inerenti al procedimento monografico, delle singole
unità espressive), è teorema che non francherebbe
neppur la pena di ripetere. […] Ma sarebbe forse
tempo di praticare la così intesa storia letteraria
secondo l’approssimazione più probabile dell’atto
espressivo, cioè a dire quale storia della cultura
linguistica”.
G. Faldella, A Vienna. Gita con il lapis, 1874
(cap. Autobibliografia)
Vocaboli del Trecento, del Cinquecento, della
parlata toscana e piemontesismi; sulle rive del
patetico piantato uno sghignazzo da buffone:
tormentato il dizionario come un cadavere,
con la disperazione di dargli vita mediante il
canto, il pianoforte, la elettricità e il
reobarbaro... Così seguiterò finché avrò carta
e fiato. Tale il mio stile, come venne ridotto
dal mondo piccino e dai libri grossi.
G. Faldella, A Vienna. Gita con il lapis, 1874
La diligenza
Pernottiamo a Fluelen; e poi, appena giunto il mattino tagliente, montiamo
sopra una diligenza. Povera diligenza perseguitata dal vapore, che fra breve ti
caccerà dai valichi delle montagne, dove ti sei rincantucciata! Sono lieto di
essere venuto al mondo in tempo per conoscerti personalmente, per udire il
sonaglio dei tuoi cavalli e il corno de' tuoi postiglioni, e per vedere il loro
cappello incerato ed i loro bottoni gialli sul panciotto rosso.
I miei posteri non conosceranno più queste cose fuorché a qualche teatro
diurno o filodrammatico assistendo alla rappresentazione del Vetturale del
Moncenisio.
Per montagne irrugginite, per verdi di velluto, per ponti del diavolo e per
ponticini angelici, per nevi sucide e per fiorellini da portafogli, per cascate che
lanciano prismi di colori e sfondano la pietra incavandola in conche, e per
festoni vegetali, che si insinuano fra gli spacchi delle roccie e ne secondano
l'architettura, la diligenza ci conduce al San Gottardo, che l'ingegneria sta per
trafiggere luminosamente da parte a parte.
Quindi da una scala a zighizzaghi precipiti roviniamo in Italia.
G. Faldella, A Vienna. Gita con il lapis, 1874
Ritorno in Italia
Come sono dolci a chi ritorna gli spropositi di lingua italiana sulle
insegne del Canton Ticino! È tempo che io ricapitoli ciò che io ho
imparato nella mia gita ed assodi, se un viaggio allarga come un bistorî
la intelligenza.
Ho visto gli stessi tipi e le stesse faccie che io già conoscevo prima, salvo
che le trovai spostate ridicolosamente. Così un ministro italiano lo
scopersi che suonava il tamburo a Zurigo, ed il padre di un mio amico
che fa il farmacista in Italia lo rinvenni colonnello degli Ulani a Vienna.
Tutto il mondo è paese: Tirolesi, Bavaresi, Austriaci, Würtemberghesi,
Badesi, Svizzeri ed Italiani siamo tutti figli dello stesso Adamo, anziché
pronipoti di un orangotango diverso.
Questo pensiero di fratellanza cosmopolitana mi consola, e non mi
toglie la contentezza di rivedere la bella Italia e le amate sponde, dove
mi sento più fratello con il mio prossimo.
Racconti della Scapigliatura
piemontese, a cura di G. Contini
“In Faldella l’impressionismo (poiché per lui si
trattava qui, e in fondo sempre, di rendere delle
superfici, di rendere profondamente delle
superfici) porta a una tecnica, pur trattata con
mano di dilettante più che di scienziato, di
giustapposizione alla Monet, di divisionismo o
puntinismo verbali. La finalità intrinseca di
Faldella, quel tanto d’innovazione gnoseologica
che gli compete, è infatti… rappresentare cose
che non sono nel dominio dell’espressione del
pensiero che si giova delle lettere dell’alfabeto”.
G. Faldella, Degna di morire
“Nel principio dell’inverno seguente il cavaliere Alfredo,
già fatto deputato, si sentì stomacato dalla vita. Gli pareva
che l’umanità in generale e l’Italia in particolare fossero
carcasse fruste, e che i nostri scrittori e artisti più adulati
d’adesso, succeduti immediatamente alle olimpiche,
pelasgiche, basilicali intelligenze di Canova, di Leopardi, di
Gioberti e di Rossini fossero scarafaggi ischeletriti […] che
il resto del prossimo fosse bestiame di Sallustio; e che
intorno alla sua persona non si aggirasse più un solo
cervello integro. E sentiva una smania prepotente di dare
una presa di somaro a tutti, compreso il signor sé stesso”.
E. Zola, Il romanzo sperimentale, 1880 (I)
Lo scopo del metodo sperimentale in fisiologia ed in medicina è di
studiare i fenomeni per divenirne padroni. […] Dunque questo è lo
scopo, questa è la moralità della fisiologia e della medicina sperimentali:
divenire padroni della vita per dirigerla. Supponiamo che la scienza abbia
proceduto nel suo cammino e che la conquista di ciò che è sconosciuto
sia compiuta: […] allora il medico sarà padrone delle malattie; guarirà
infallibilmente agendo sul corpo umano per la felicità ed il vigore della
specie. Si entrerà in un secolo in cui l'uomo, divenuto onnipotente, avrà
soggiogato la natura utilizzandone le leggi per far regnare su questa
terra tutta la giustizia e la libertà possibili. Non vi è scopo più nobile, più
elevato, più grande. In esso consiste il nostro compito di esseri
intelligenti: penetrare il come delle cose per dominarle e ridurle allo
stato di meccanismi ubbidienti. Ebbene, questo sogno del fisiologo e del
medico sperimentale è anche quello del romanziere che applica allo
studio dell'uomo nella natura e nella società il metodo sperimentale.
E. Zola, Il romanzo sperimentale, 1880 (II)
Il nostro scopo è il medesimo; anche noi vogliamo essere padroni dei
fenomeni della vita intellett uale e passionale, per poterli guidare. In una
parola siamo dei moralisti sperimentali che mettono in luce mediante
l'esperimento come si comporta una passione in un dato ambiente sociale. Il
giorno in cui ci impadroniremo del suo meccanismo, si potrà curarla e placarla
o almeno renderla il più inoffensiva possibile. Ecco dunque in che consistono
l’utilità pratica e la elevata moralità delle nostre opere naturalistiche, che
sperimentano sull’uomo, e rimontano pezzo per pezzo la macchina umana
farla funzionare sotto l’influenza dei vari ambienti. Col procedere del tempo,
col divenire padroni delle leggi, si tratterà soltanto di agire sugli individui e
sugli ambienti, se si vuole arrivare allo stato sociale migliore. In tal modo
facciamo della sociologia pratica ed il nostro lavoro avvantaggia le scienze
politiche ed economiche. Non conosco, lo ripeto, un lavoro più nobile, né una
più ampia applicazione. Essere in grado di controllare il ben e il male, regolare
la vita, guidare la società, risolvere alla lunga tutti i problemi del socialismo,
conferire soprattutto solide basi alla giustizia dando una risposta con
l’esperimento ai problemi della criminalità, non è forse essere gli operai più
utili e più morali del lavoro umano?
Fantasticheria: pubblicata per la prima volta
sul settimanale “Fanfulla della domenica”, il
24 agosto 1879; poi testo d’apertura di Vita
dei campi (1880)
Definizione generale del tema del libro: “le tenaci
affezioni dei deboli”, “l’istinto che hanno i piccoli di
stringersi fra loro per resistere alle tempeste della
vita”.
Incipit del testo: «Una volta, mentre il treno passava
vicino ad Aci-Trezza, voi, affacciandovi allo sportello
del vagone, esclamaste: "Vorrei starci un mese
laggiù!"».
G. Verga, Fantasticheria (I)
Di tanto in tanto il tifo, il colèra, la malannata, la burrasca, vengono a dare
una buona spazzata in quel brulicame, il quale si crederebbe che non
dovesse desiderar di meglio che esser spazzato, e scomparire; eppure
ripullula sempre nello stesso luogo; non so dirvi come, né perché.
Vi siete mai trovata, dopo una pioggia di autunno, a sbaragliare un esercito
di formiche tracciando sbadatamente il nome del vostro ultimo ballerino
sulla sabbia del viale? Qualcuna di quelle povere bestioline sarà rimasta
attaccata alla ghiera del vostro ombrellino, torcendosi di spasimo; ma tutte
le altre, dopo cinque minuti di pànico e di viavai, saranno tornate ad
aggrapparsi disperatamente al loro monticello bruno. Voi non ci tornereste
davvero, e nemmen io; ma per poter comprendere siffatta caparbietà, che
è per certi aspetti eroica, bisogna farci piccini anche noi, chiudere tutto
l'orizzonte fra due zolle, e guardare col microscopio le piccole cause che
fanno battere i piccoli cuori. Volete metterci un occhio anche voi, a cotesta
lente, voi che guardate la vita dall'altro lato del cannocchiale? Lo spettacolo
vi parrà strano, e perciò forse vi divertirà.
G. Verga, Fantasticheria (II)
- Insomma l'ideale dell'ostrica! direte voi. - Proprio l'ideale dell'ostrica, e noi
non abbiamo altro motivo di trovarlo ridicolo che quello di non esser nati
ostriche anche noi. Per altro il tenace attaccamento di quella povera gente allo
scoglio sul quale la fortuna li ha lasciati cadere mentre seminava principi di qua
e duchesse di là, questa rassegnazione coraggiosa ad una vita di stenti, questa
religione della famiglia, che si riverbera sul mestiere, sulla casa, e sui sassi che
la circondano, mi sembrano - forse pel quarto d'ora - cose serissime e
rispettabilissime anch'esse. Parmi che le irrequietudini del pensiero vagabondo
s'addormenterebbero dolcemente nella pace serena di quei sentimenti miti,
semplici, che si succedono calmi e inalterati di generazione in generazione.
[…]
Mi è parso ora di leggere una fatale necessità nelle tenaci affezioni dei deboli,
nell'istinto che hanno i piccoli di stringersi fra loro per resistere alle tempeste
della vita, e ho cercato di decifrare il dramma modesto e ignoto che deve aver
sgominati gli attori plebei che conoscemmo insieme. Un dramma che qualche
volta forse vi racconterò e di cui parmi tutto il nodo debba consistere in ciò: che allorquando uno di quei piccoli, o più debole, o più incauto, o più egoista
degli altri, volle staccarsi dal gruppo per vaghezza dell'ignoto, o per brama di
meglio, o per curiosità di conoscere il mondo, il mondo da pesce vorace
com'è, se lo ingoiò, e i suoi più prossimi con lui. - E sotto questo aspetto vedete
che il dramma non manca d'interesse. Per le ostriche l'argomento più
interessante deve esser quello che tratta delle insidie del gambero, o del
coltello del palombaro che le stacca dallo scoglio.
G. Verga, Rosso Malpelo
• I ed. in 4 puntate sul quotidiano romano «Fanfulla» (2-5
agosto 1878).
• Genesi ispirata da L. Franchetti – S. Sonnino, La Sicilia nel
1876: cap. su Il lavoro dei fanciulli nelle zolfare siciliane,
Firenze 1877.
• Lettera di G. Verga a Filippo Filippi, 11.X.1880: «Il mio
studio è di fare eclissare al possibile lo scrittore, di
sostituire la rappresentazione all’osservazione, metter per
quanto si può l’autore fuori del campo d’azione, sicché il
disegno acquisti tutto il rilievo e l’effetto da dar completa
l’illusione della realtà. […] Io non giudico, non
m’appassiono, non m’interesso, o piuttosto non devo
mostrare nulla di tutto questo, sotto pena di veder mancare
uno dei più efficaci effetti dell’opera d’arte, e giudico,
m’appassiono, m’interesso soltanto colla scelta dei tipi che
presento».
G. Verga, Rosso Malpelo
Malpelo si chiamava così perché aveva i capelli rossi; ed aveva i capelli rossi
perché era un ragazzo malizioso e cattivo, che prometteva di riescire un fior di
birbone. Sicché tutti alla cava della rena rossa lo chiamavano Malpelo; e
persino sua madre col sentirgli dir sempre a quel modo aveva quasi
dimenticato il suo nome di battesimo.
Del resto, ella lo vedeva soltanto il sabato sera, quando tornava a casa con quei
pochi soldi della settimana; e siccome era malpelo c'era anche a temere che ne
sottraesse un paio di quei soldi; e nel dubbio, per non sbagliare, la sorella
maggiore gli faceva la ricevuta a scapaccioni.
Però il padrone della cava aveva confermato che i soldi erano tanti e non più; e
in coscienza erano anche troppi per Malpelo, un monellaccio che nessuno
avrebbe voluto vedersi davanti, e che tutti schivavano come un can rognoso, e
lo accarezzavano coi piedi, allorché se lo trovavano a tiro.
Egli era davvero un brutto ceffo, torvo, ringhioso, e selvatico. Al mezzogiorno,
mentre tutti gli altri operai della cava si mangiavano in crocchio la loro
minestra, e facevano un po' di ricreazione, egli andava a rincantucciarsi col suo
corbello fra le gambe, per rosicchiarsi quel suo pane di otto giorni, come fanno
le bestie sue pari; e ciascuno gli diceva la sua motteggiandolo, e gli tiravan dei
sassi, finché il soprastante lo rimandava al lavoro con una pedata.
G. Verga, L’amante di Gramigna (I)
Caro Farina, eccoti non un racconto ma l'abbozzo di un racconto.
Esso almeno avrà il merito di esser brevissimo, e di esser storico un documento umano, come dicono oggi; interessante forse per te,
e per tutti coloro che studiano nel gran libro del cuore. Io te lo
ripeterò così come l'ho raccolto pei viottoli dei campi, press'a poco
colle medesime parole semplici e pittoresche della narrazione
popolare, e tu veramente preferirai di trovarti faccia a faccia col
fatto nudo e schietto, senza stare a cercarlo fra le linee del libro,
attraverso la lente dello scrittore. Il semplice fatto umano farà
pensare sempre; avrà sempre l'efficacia dell'essere stato, delle
lagrime vere, delle febbri e delle sensazioni che sono passate per la
carne; il misterioso processo per cui le passioni si annodano, si
intrecciano, maturano, si svolgono nel loro cammino sotterraneo
nei loro andirivieni che spesso sembrano contradditorî, costituirà
per lungo tempo ancora la possente attrattiva di quel fenomeno
psicologico che dicesi l'argomento di un racconto, e che l'analisi
moderna si studia di seguire con scrupolo scientifico. Di questo che
ti narro oggi ti dirò soltanto il punto di partenza e quello d'arrivo, e
per te basterà, e un giorno forse basterà per tutti.
G. Verga, L’amante di Gramigna (II)
Noi rifacciamo il processo artistico al quale dobbiamo tanti
monumenti gloriosi, con metodo diverso, più minuzioso e più
intimo; sacrifichiamo volentieri l'effetto della catastrofe, del
risultato psicologico, intravvisto con intuizione quasi divina
dai grandi artisti del passato, allo sviluppo logico, necessario
di esso, ridotto meno imprevisto, meno drammatico, ma non
meno fatale; siamo più modesti, se non più umili; ma le
conquiste che facciamo delle verità psicologiche non saranno
un fatto meno utile all'arte dell'avvenire. Si arriverà mai a tal
perfezionamento nello studio delle passioni, che diventerà
inutile il proseguire in cotesto studio dell'uomo interiore? La
scienza del cuore umano, che sarà il frutto della nuova arte,
svilupperà talmente e così generalmente tutte le risorse
dell'immaginazione che nell'avvenire i soli romanzi che si
scriveranno saranno i fatti diversi?
G. Verga, L’amante di Gramigna (III)
Intanto io credo che il trionfo del romanzo, la più completa e la più
umana delle opere d'arte, si raggiungerà allorché l'affinità e la
coesione di ogni sua parte sarà così completa che il processo della
creazione rimarrà un mistero, come lo svolgersi delle passioni
umane; e che l'armonia delle sue forme sarà così perfetta, la
sincerità della sua realtà così evidente, il suo modo e la sua ragione
di essere così necessarie, che la mano dell'artista rimarrà
assolutamente invisibile, e il romanzo avrà l'impronta
dell'avvenimento reale, e l'opera d'arte sembrerà essersi fatta da
sé, aver maturato ed esser sorta spontanea come un fatto naturale,
senza serbare alcun punto di contatto col suo autore; che essa non
serbi nelle sue forme viventi alcuna impronta della mente in cui
germogliò, alcuna ombra dell'occhio che la intravvide, alcuna traccia
delle labbra che ne mormorarono le prime parole come il fiat
creatore; ch'essa stia per ragion propria, pel solo fatto che è come
dev'essere, ed è necessario che sia, palpitante di vita ed immutabile
al pari di una statua di bronzo, di cui l'autore abbia avuto il coraggio
divino di eclissarsi e sparire nella sua opera immortale.
G. Flaubert sul canone dell’impersonalità
• lettera del 9 dicembre 1852 a Louise Colet: « L'auteur, dans
son oeuvre, doit être comme Dieu dans l'univers, présent
partout, et visible nulle part. L'art étant une seconde
nature, le créateur de cette nature-là doit agir par des
procédés analogues : que l'on sente dans tous les atomes, à
tous les aspects, une impassibilité cachée et infini. L'effet,
pour le spectateur, doit être une espèce d'ébahissement.
Comment tout cela s'est-il fait ! doit-on dire, et qu'on se
sente écrasé sans savoir pourquoi ».
• lettera del 6 novembre 1853 a Louise Colet: « Rappelonsnous toujours que l'impersonnalité est le signe de la Force.
Absorbons l'objectif et qu'il circule en nous, qu'il se
reproduise au-dehors, sans qu'on puisse rien comprendre à
cette chimie merveilleuse. Notre coeur ne doit être bon
qu'à sentir celui des autres. - Soyons des miroirs
grossissants de la vérité externe».
G. Verga, La roba (Novelle rusticane)
Della roba ne possedeva fin dove arrivava la vista, ed egli aveva la vista
lunga - dappertutto, a destra e a sinistra, davanti e di dietro, nel monte
e nella pianura. Più di cinquemila bocche, senza contare gli uccelli del
cielo e gli animali della terra, che mangiavano sulla sua terra, e senza
contare la sua bocca la quale mangiava meno di tutte, e si contentava
di due soldi di pane e un pezzo di formaggio, ingozzato in fretta e in
furia, all'impiedi, in un cantuccio del magazzino grande come una
chiesa, in mezzo alla polvere del grano, che non ci si vedeva, mentre i
contadini scaricavano i sacchi, o a ridosso di un pagliaio, quando il
vento spazzava la campagna gelata, al tempo del seminare, o colla
testa dentro un corbello, nelle calde giornate della messe. Egli non
beveva vino, non fumava, non usava tabacco, e sì che del tabacco ne
producevano i suoi orti lungo il fiume, colle foglie larghe ed alte come
un fanciullo, di quelle che si vendevano a 95 lire. Non aveva il vizio del
giuoco, né quello delle donne. Di donne non aveva mai avuto sulle
spalle che sua madre, la quale gli era costata anche 12 tarì, quando
aveva dovuto farla portare al camposanto.
Le ‘raccolte’ di Verga
•
•
•
•
•
•
Vita dei campi, 1880
Novelle rusticane, 1883
Per le vie, 1883
Vagabondaggio, 1887
I ricordi del Capitano d’Arce, 1891
Don Candeloro e C.i, 1894
• Luigi Capuana (1839-1915)
Le appassionate, 1893 → «casi di coscienza
dolorosi o tragici»
Le paesane, 1894 → «studi di carattere e
d’ambiente»
• Federico De Roberto (1861-1927)
La sorte, 1887
Documenti umani, 1888
Processi verbali, 1890 → “la nuda e impersonale
trascrizione di piccole commedie e di piccoli
drammi colti sul vivo”.
L’albero della scienza, 1890
F. De Roberto, Prefazione a Processi verbali (1890)
Processo verbale […] significa una relazione semplice, rapida e fedele di un
avvenimento, svolgentesi sotto gli occhi di uno spettatore disinteressato. Processi
verbali, io intitolo delle novelle, che sono la nuda e impersonale trascrizione di
piccole commedie e di piccoli drammi colti sul vivo. Se l'impersonalità ha da essere
un canone d'arte, mi pare che essa sia incompatibile con la narrazione e con la
descrizione. Nell'esporre in nome proprio gli avvenimenti, nel presentare i suoi
personaggi, lo scrittore si tradisce inevitabilmente; ch'ei voglia o no, finisce per
giudicare gli uni e commentare gli altri; e le fioriture di stile, con cui egli traduce le
impressioni suscitate dal mondo materiale, sono cosa tutta sua. L'impersonalità
assoluta, non può conseguirsi che nel puro dialogo, e l'ideale della
rappresentazione obiettiva, consiste nella scena come si scrive pel teatro.
L'avvenimento deve svolgersi da sé, e i personaggi debbono significare essi
medesimi, per mezzo delle loro parole e delle loro azioni, ciò che essi sono.
L'analisi psicologica, l'immaginazione di quel che si passa nella testa delle persone,
è tutto il rovescio dell'osservazione reale. […] La parte dello scrittore che voglia
sopprimere il proprio intervento deve limitarsi, insomma, a fornire le indicazioni
indispensabili all'intelligenza del fatto, a mettere accanto alle trascrizioni delle vive
voci dei suoi personaggi quelle che i commediografi chiamano didascalie.
F. De Roberto, Il rosario
—È morto!... — diceva don Vincenzo, gesticolando. — Vostro cognato è morto!...
—E non gridate così!...
Don Vincenzo, turbato, agitatissimo, ripeteva a voce più bassa, dietro il cancello: —È morto...
or ora... Vostra sorella sembra una pazza... lo chiama, lo bacia, non c'è verso di levarla di lì...
Adesso, come si fa?
—Come si può fare? — si chiesero a vicenda le due zitellone, con un imbarazzo costernato.
—Non lo volete dire neanche adesso a donna Antonia?
—Caro don Vincenzo — rispose Filippina — voi lo sapete meglio di noi com'è mammà... e che
non le si può nemmeno nominare questa figliuola...
—Ma ora? anche ora che le restano i soli occhi per piangere? Scusate, questa è una cosa che
non si è letta mai!... Neanche se avesse ammazzato qualcuno!... Finalmente, il male l'ha fatto
a sé e non a voi...
—Che possiamo farci?... Lo sa Dio, se la disgrazia di nostra sorella ci affligge...
—Davvero, lo sa Dio!... — confermò l'altra.
—Con mammà, lo sapete, non si può parlare. Tutto il giorno chiusa nelle sue stanze: mangia
sola, non vuol veder nessuno. La sua conversazione è la sera, quando diciamo il rosario...
Stasera, vedremo...
—E intanto la gente vi legge la vita, che siete dei senza cuore, che è una porcheria tutta
nuova, dopo che li avete lasciati morir di fame!.. Lo sapete che non c'è di che pagare il
becchino, da vostra sorella?
Federico De Roberto,
Il paradiso perduto,
da L’albero della scienza
(1890)
Matilde Serao, Il ventre di Napoli (1884)
La serva napoletana si alloga per dieci lire il mese, senza pranzo: alla mattina fa due o tre
miglia di cammino, dalla casa sua alla casa dei suoi padroni, scende le scale quaranta volte
al giorno, cava dal pozzo profondo venti secchi di acqua, compie le fatiche più estenuanti,
non mangia per tutta la giornata e alla sera si trascina a casa sua, come un'ombra affranta.
Ve ne sono di quelle che pigliano due mezzi servizi, a sei lire l'uno e corrono continuamente
da una casa all'altra, continuamente rimproverate per le tardanze. Ne ho conosciuta una, io,
si chiamava Annarella, faceva tre case al giorno, a cinque lire: alla sera era inebetita, non
mangiava, morta dalla fatica, talvolta non si svestiva, per addormentarsi subito. Queste
serve trovano anche il tempo di dar latte a un bimbo, di far la calza, ma sono esseri
mostruosi, la pietà è uguale alla ripugnanza che ispirano. Hanno trent'anni e ne dimostrano
cinquanta, sono curve, hanno perso i capelli, hanno i denti gialli e neri, camminano come
sciancate, portano un vestito quattro anni, un grembiule sei mesi.
Non si lamentano, non piangono: vanno a morire, prima di quarant'anni, all'ospedale, di
perniciosa, di polmonite, di qualche orrenda malattia. Quante ne avrà portate via il colera!
[…]
Sono brutte, è vero: si trascurano, è verissimo: fanno schifo, talvolta. Ma chi tanto ama la
plastica, dovrebbe entrare nel segreto di quelle esistenze, che sono un poema di martirio
quotidiano, di sacrifici incalcolabili, di fatiche sopportate senza mormorare. Gioventù,
bellezza, vestiti? Ebbero un minuto di bellezza e di gioventù, furono, amate, si sono
maritate: dopo, il marito e la miseria, il lavoro e le busse, il travaglio e la fame. Hanno i
bimbi e debbono abbandonarli, il più piccolo affidato alla sorellina, e come tutte le altre
madri, temono le carrozze, il fuoco, i cani, le cadute. Sono sempre inquiete, agitate, mentre
servono.
Racconti dell’Italia post-unitaria (1880-)
• Renato Fucini (1843-1921), Le veglie di Neri (1882)
• Carlo Lorenzini, detto Collodi (1826-1890), Macchiette (1880)
e Occhi e nasi. Ricordi dal vero (1881)
• Mario Pratesi (1842-1921), In provincia (1884)
• Alfredo Oriani (1852-1909), Gramigna (1879) e Quartetto
(1883)
• Edmondo De Amicis(1846-1908), Cuore (1886)
Scarica

A. A. 2012-2013 SP 2013 Prof. Uberto MOTTA Le forme brevi della