A. A. 2012-2013
SP 2013
Prof. Uberto MOTTA
Le forme brevi della narrativa tra
Ottocento e Novecento
Orario delle lezioni
Martedì, 17.00-19.00, AULA MIS 3026
CALENDARIO
1)
2)
3)
4)
5)
6)
7)
19 febbraio
26 febbraio
5 marzo
12 marzo
19 marzo
GIOVEDÌ 21 marzo, 17-19h (recupero del 23 aprile) MIS 3026
26 marzo
2 aprile: vacanze di Pasqua
8) 9 aprile
9) 16 aprile
23 aprile: lezione sospesa – recupero: 21 marzo
10) 30 aprile
11) 7 maggio
12) 14 maggio: la lezione è anticipata: ore 15-17, MIS 3026
21 maggio: lezione sospesa – recupero: 23 maggio
13) GIOVEDÌ 23 maggio, 17-19h (recupero del 21 maggio) MIS 3026
14) 28 maggio
Due date simboliche
• 1880
G. Verga, Vita dei campi
C. Dossi, Goccie d’inchiostro
1985
G. Celati, I narratori delle pianure
A. Tabucchi, Piccoli equivoci senza importanza
Bibliografia
• Storia della letteratura italiana, a c. di E. Malato,
Salerno Editrice, voll. VIII e IX
• Letteratura italiana Einaudi, vol. Le forme del testo, II
(1984): Pieter De Meijer, La prosa narrativa moderna,
pp. 759-847
• SLI 79,1-4: Manuale di letteratura italiana. Storia per
generi e problemi (a c. di Brioschi-Di Girolamo)
• SLI 88,1-4: Testi nella storia (a c. di Segre-Martignoni)
• SLI 112,1-11: Storia della letteratura italiana (a c. di
Ferroni et alii)
• SLI 18,1-3: Letteratura.it (a c. di Langella et alii).
Quattro libri fondamentali
• G. Verga, Vita dei campi (1880)
Ed. consigliata: Verga, Tutte le novelle, a c. di G. Zaccaria, Einaudi
• L. Pirandello, Dal naso al cielo, vol. VIII di Novelle
per un anno (1925)
Ed. consigliata: Pirandello, Novelle per un anno, a c. di S.
Campailla, Newton Compton 2011
• C.E. Gadda, L'Adalgisa (1944)
Ed. consigliata: a cura di C. Vela, Adelphi 2012
• I. Calvino, Ultimo viene il corvo (1949)
Ed. consigliata: Mondadori Oscar
C. Baudelaire, Le Salon de 1846
« Le romantisme n’est précisément ni dans le
choix des sujets ni dans la vérité exacte, mais
dans la manière de sentir. Ils l’ont cherché en
dehors, et c’est en dedans qu’il était seulement
possible de le trouver. […] Qui dit romantisme
dit art moderne, – c’est-à-dire intimité,
spiritualité, couleur, aspiration vers l’infini,
exprimées par tous les moyens que contiennent
les arts ».
Cletto Arrighi, La Scapigliatura Milanese, 1858
In tutte le grandi e ricche città del mondo incivilito esiste una certa quantità di
individui di ambo i sessi – v’è chi direbbe: una certa razza di gente –, fra i venti e i
trentacinque anni non piú; pieni d’ingegno quasi sempre; piú avanzati del loro secolo;
indipendenti come l’aquila delle Alpi; pronti al bene quanto al male; inquieti,
travagliati, turbolenti - i quali - e per certe contraddizioni terribili fra la loro condizione
e il loro stato, vale a dire fra ciò che hanno in testa e ciò che hanno in tasca - e per una
loro particolare maniera eccentrica e disordinata di vivere […] meritano di essere
classificati in una nuova e particolare suddivisione della grande famiglia civile, come
coloro che vi formano una casta sui generis distinta da tutte quante le altre. Questa
casta o classe - che sarà meglio detto - vero pandemonio del secolo; personificazione
della storditaggine e della follia, serbatoio del disordine, dello spirito di indipendenza
e di opposizione agli ordini stabiliti, questa classe, ripeto, che a Milano ha più che
altrove una ragione e una scusa di esistere, io, con una bella e pretta parola italiana,
l’ho battezzata appunto: la Scapigliatura Milanese. […] Essa mi rende, quasi a
cappello, il concetto di questa della popolazione milanese, tanto diversa dall’altra pei
suoi misteri, le sue miserie, i suoi dolori, le sue speranze, i suoi traviamenti,
sconosciuti ai giovani morigerati e dabbene, ed agli adulti gravi e posati, che della vita
hanno preso la strada maestra, comoda, ombreggiata, senza emozioni, come senza
pericoli. […] La speranza nell’avvenire è la sua religione; la povertà il suo carattere
essenziale.
Camillo Boito (1836-1914)
• Storielle vane (1876)
► dare voce a quel “demonio muto” che si nasconde nel cuore
dell’uomo, come memoria o desiderio inconfessabile di peccato;
come “piccola ulcera venefica [che] un po’ alla volta s’allarga, si
estende e incancrenisce via via l’anima intera. Ci credevamo
giusti, ci troviamo iniqui”
• Nuove storielle vane (1883)
► comprende: Vade retro Satana, Macchia grigia, Il collare di
Budda, Santuario, Quattr'ore al Lido, Meno di un giorno, Il
demonio muto, Senso
Boito, Senso (1)
Ho bisogno di mortificare la vanità. Alla inquietudine, che rode la mia
anima e che lascia quasi intatto il mio corpo, s'alterna la presunzione
della mia bellezza: né trovo altro conforto che questo solo, il mio
specchio.
Troverò, spero, un altro conforto nello scrivere i miei casi di sedici anni
addietro, ai quali vado ripensando con acre voluttà. Lo scartafaccio,
chiuso a tre chiavi nel mio scrigno segreto, non potrà essere visto da
occhio umano, e, appena compiuto, lo getterò sul fuoco,
disperdendone le ceneri; ma il confidare alla carta i vecchi ricordi deve
servire a mitigarne l'acerbità e la tenacia. Mi resta scolpita in mente
ogni azione, ogni parola e sopra tutto ogni vergogna di quell'affannoso
periodo del mio passato; e tento sempre e ricerco le lacerazioni della
piaga non rimarginata; né so bene se ciò ch'io provo sia, in fondo,
dolore o solletico.
O che gioia, confidarsi unicamente a sé, liberi da scrupoli, da ipocrisie,
da reticenze, rispettando nella memoria la verità anche in ciò che le
stupide affettazioni sociali rendono più difficile a proclamare, le
proprie bassezze!
Boito, Senso (2)
Era il luglio dell'anno 1865. Maritata da pochi giorni, facevo il
viaggio di nozze. Per mio marito, che avrebbe potuto essere mio
nonno, sentivo una indifferenza mista di pietà e disprezzo: portava i
suoi sessantadue anni e l'ampia pancia con apparente energia; si
tingeva i radi capelli e i folti baffi con un unguento puzzolente, il
quale lasciava sui guanciali delle larghe macchie giallastre. […]Lo
avevo pigliato spontaneamente, anzi lo avevo proprio voluto io. I
miei erano contrarii ad un matrimonio così male assortito; né,
bisogna dire la verità, il pover'uomo ardiva di chiedere la mia mano.
Ma io mi sentivo stufa della mia qualità di zitella: volevo avere
carrozze mie, brillanti, abiti di velluto, un titolo, e sopra tutto, la mia
libertà. Ce ne vollero delle occhiate per accendere il cuore nel gran
ventre del conte; ma, una volta acceso, non provò pace finché non
m'ebbe, né badò alla piccola dote, né pensò all'avvenire. Io, innanzi
al prete, risposi un Sì fermo e sonoro. Ero contenta di quello che
avevo fatto, ed oggi, dopo tanti anni, non ne sono pentita.
Boito, Senso (3)
La mia corte si componeva in massima parte di ufficialetti e d'impiegati
tirolesi piuttosto scipiti e assai tronfii, tanto che i più dilettevoli erano i
più scapati, quelli che avevano nella scostumatezza acquistato non
foss'altro l'audacia petulante delle proprie sciocchezze. Tra questi ne
conobbi uno, il quale usciva dal mazzo per due ragioni. Alla dissolutezza
sbadata, univa, per quanto i suoi stessi amici affermavano, una così
cinica immoralità di principii, che niente gli pareva rispettabile in questo
mondo, salvo il codice penale e il regolamento militare. Oltre a ciò era
veramente bellissimo e straordinariamente vigoroso: un misto di Adone
e di Alcide. […]Questo tenente di linea, il quale aveva solo ventiquattro
anni, due più di me, era riuscito a divorarsi la ricca sostanza paterna, e
continuando sempre a giuocare, a pagar donne, a scialarla da signore,
nessuno oramai sapeva come vivesse; ma nessuno lo vinceva nel nuoto,
nella ginnastica, nella forza del braccio. Non aveva mai avuto occasione
di trovarsi in guerra; non amava i duelli, anzi due ufficialetti mi
raccontarono una sera, che, piuttosto che battersi, aveva più volte
ingoiato atrocissimi insulti. Forte, bello, perverso, vile, mi piacque.
Boito, Senso (4)
La perfetta virtù mi sarebbe parsa scipita e sprezzabile al paragone
de' suoi vizii; la sua mancanza di fede, di onestà, di delicatezza, di
ritegno mi sembrava il segno di una vigoria arcana, ma potente,
sotto alla quale ero lieta, ero orgogliosa di piegarmi da schiava.
Quanto più il suo cuore appariva basso, tanto più il suo corpo
splendeva bello.
Boito, Senso (5)
— Non ti amo? io che ti darei volentieri tutto il mio sangue.
— Queste sono parole. Se non hai denaro, dammi i gioielli.
Non risposi e mi sentii impallidire. Accortosi della impressione che mi
avevano fatto le sue ultime parole, Remigio mi serrò tra le braccia di
ferro, e mutato tono, ripeté più volte:
— Sai che ti amo infinitamente, Livia mia, e ti amerò finché avrò un
soffio di vita; ma questa vita salvamela, te ne scongiuro, salvala per te,
se mi vuoi bene.
Mi prendeva le mani, e le baciava.
Ero già vinta. Andai alla scrivania a prendere le tre piccole chiavi dello
scrignetto: temevo di far romore; camminavo in punta di piedi, benché
avessi i piedi nudi. Remigio mi accompagnò nel gabinetto dietro
l'alcova; serrai l'uscio, perché il conte non potesse udire, ed aperto lo
scrigno con qualche difficoltà, tanto ero agitata, ne trassi un
fornimento intiero di brillanti, mormorando:
— Ecco, prendi. Costò quasi dodicimila lire. Troverai da venderlo?
Remigio mi tolse di mano l'astuccio; guardò i gioielli e disse:
— Usurai ce n'è dappertutto.
Boito, Senso (6)
— Generale — mormorai — vengo a compiere un dovere di suddita fedele. — La
signora contessa è tedesca? — No, sono trentina. — Ah, va bene — esclamò,
guardandomi con una cert'aria di stupore e d'impazienza. — Legga — e gli porsi in
atto risoluto la lettera di Remigio, quella che avevo ritrovata nel taschino del
portamonete. Il generale, dopo avere letto: — Non capisco; la lettera è indirizzata a
lei? — Sì, generale. — Dunque l'uomo che scrive è il suo amante.
Non risposi. Il generale cavò di tasca un sigaro e lo accese, s'alzò da sedere e si pose
a camminare su e giù per la sala; tutt'a un tratto mi si piantò innanzi e, ficcandomi
gli occhi in volto, disse: — Dunque, ho fretta, si sbrighi. — La lettera è di Remigio
Ruz, luogotenente del terzo reggimento granatieri. — E poi?
— La lettera parla chiaro. S'è fatto credere malato, pagando i quattro medici — e
aggiunsi con l'accento rapido dell'odio: — È disertore dal campo di battaglia.
— Ho inteso. Il tenente era l'amante suo e l'ha piantata. Ella si vendica facendolo
fucilare, e insieme con lui facendo fucilare i medici. È vero? — Dei medici non
m'importa. Il generale stette un poco meditabondo con le ciglia aggrottate, poi mi
stese la lettera, che gli avevo data:
— Signora, ci pensi: la delazione è un'infamia e l'opera sua è un assassinio.
— Signor generale — esclamai, alzando il viso e guardandolo altera — compia il suo
dovere.
Igino Ugo Tarchetti (1839-1869),
Racconti fantastici, Milano 1869
Il volume contiene 5 testi: I fatali; Le
leggende del castello nero; La lettera
U; Un osso di morto; Uno spirito in un
lampone.
I. U. Tarchetti, I fatali
Esistono realmente esseri destinati ad esercitare un'influenza sinistra sugli
uomini e sulle cose che li circondano? È una verità di cui siamo testimonii ogni
giorno, ma che alla nostra ragione freddamente positiva, avvezza a non
accettare che i fatti i quali cadono sotto il dominio dei nostri sensi, ripugna
sempre di ammettere. […] Noi non possiamo non riconoscere che, tanto nel
mondo spirituale quanto nel mondo fisico, ogni cosa che avviene, avvenga e si
modifichi per certe leggi d'influenze di cui non abbiamo ancora potuto
indovinare intieramente il segreto. Osserviamo gli effetti, e restiamo attoniti e
inscienti dinanzi alle cause. Vediamo influenze di cose su cose, di intelligenze
su intelligenze, e di queste su quelle ad un tempo; vediamo tutte queste
influenze incrociarsi, scambiarsi, agire l'una sull'altra, riunire in un solo centro
di azione questi due mondi disparatissimi, il mondo dello spirito e il mondo
della materia. Fin dove la penetrazione umana è arrivata noi abbiamo portato
la nostra fede; il segreto dei fenomeni fisici è in parte violato; la scienza ha
analizzato la natura; i suoi sistemi, le sue leggi, le sue influenze ci sono quasi
tutte note: ma essa si è arrestata dinanzi ai fenomeni psicologici, e dinanzi ai
rapporti che congiungono questi a quelli. Essa non ha potuto avanzarsi di più,
e ha trattenuto le nostre credenze sulla soglia di questo regno inesplorato.
C. Dossi, Prima e dopo, da Goccie d’inchiostro, 1880
E, spesso, Giulio e Antonietta passàvano verso le tre, innanzi alle
scuole del pomo; di cui, apèrtasi a un tratto la pìccola porta,
rovesciàvasi fuori, come fantocci da un sacco, la melonìa de’ scolaretti,
isparpagliàndosi tosto per la contrada, a corsa, dimèntica già della noja
sofferta, e saltellante e giojosa; e spesso, di dopo-pranzo, sedèvano
tristamente su’na panchetta ai Giardini, Gullìveri nuovi in mezzo alla
gentile frugaglia del Lillipùt, che trottolava di su e di giù, vero moto
perpetuo, senza fastidi, senza pensieri e tutta amica; là, a fare i grandi
occhi intorno al bossolottajo, mago del buon comando; quà, a leccare
il cucchiajo, il piattello e le labbra intorno a quel dal sorbetto
dell’unghia, o a bevucchiare a due mani la consolina entro un tazzone;
in ogni parte, correndo coi cerchi, coi palloncelli, coi draghi-volanti o
sui bastoni dei babbi; facendo al signore e al soldato innocentemente,
o a rimpiattino dietro le gonne dell’aje; mentre i bebè dalle dande, che
incominciàvano a sentirsi i pieducci, con l’agitar delle alette e la voce,
credèvano còrrere anch’essi. Oh quanti maluzzi da unguento sputino,
tavane da pulci! oh liti, temporali di monte! o dispettini e capricci e
cattiverie adoràbili! oh paci! senza riserve, senza capi segreti.
Racconti della Scapigliatura
piemontese, a cura di G. Contini,
Milano, Bompiani, 1953.
Autori antologizzati:
Giovanni Faldella (Vercelli 1846-1928),
Roberto Sacchetti (Asti 1847-1881),
Achille Giovanni Cagna (Vercelli 1847-1931),
Edoardo Calandra (Torino 1852-1911)
La storia letteraria secondo G. Contini
(da La letteratura italiana. Otto-Novecento, 1974: Premessa)
“Che la storia letteraria, cioè una storia della cultura
morale (come per esempio delle poetiche), sia un
mero schema empirico volto ad abilitare alla
conoscenza dei singoli momenti poetici (e sarebbe
meglio dire, per fuorviare i residui di psicologismo
inerenti al procedimento monografico, delle singole
unità espressive), è teorema che non francherebbe
neppur la pena di ripetere. […] Ma sarebbe forse
tempo di praticare la così intesa storia letteraria
secondo l’approssimazione più probabile dell’atto
espressivo, cioè a dire quale storia della cultura
linguistica”.
G. Faldella, A Vienna. Gita con il lapis, 1874
(cap. Autobibliografia)
Vocaboli del Trecento, del Cinquecento, della
parlata toscana e piemontesismi; sulle rive del
patetico piantato uno sghignazzo da buffone:
tormentato il dizionario come un cadavere,
con la disperazione di dargli vita mediante il
canto, il pianoforte, la elettricità e il
reobarbaro... Così seguiterò finché avrò carta
e fiato. Tale il mio stile, come venne ridotto
dal mondo piccino e dai libri grossi.
G. Faldella, A Vienna. Gita con il lapis, 1874
La diligenza
Pernottiamo a Fluelen; e poi, appena giunto il mattino tagliente, montiamo
sopra una diligenza. Povera diligenza perseguitata dal vapore, che fra breve ti
caccerà dai valichi delle montagne, dove ti sei rincantucciata! Sono lieto di
essere venuto al mondo in tempo per conoscerti personalmente, per udire il
sonaglio dei tuoi cavalli e il corno de' tuoi postiglioni, e per vedere il loro
cappello incerato ed i loro bottoni gialli sul panciotto rosso.
I miei posteri non conosceranno più queste cose fuorché a qualche teatro
diurno o filodrammatico assistendo alla rappresentazione del Vetturale del
Moncenisio.
Per montagne irrugginite, per verdi di velluto, per ponti del diavolo e per
ponticini angelici, per nevi sucide e per fiorellini da portafogli, per cascate che
lanciano prismi di colori e sfondano la pietra incavandola in conche, e per
festoni vegetali, che si insinuano fra gli spacchi delle roccie e ne secondano
l'architettura, la diligenza ci conduce al San Gottardo, che l'ingegneria sta per
trafiggere luminosamente da parte a parte.
Quindi da una scala a zighizzaghi precipiti roviniamo in Italia.
G. Faldella, A Vienna. Gita con il lapis, 1874
Ritorno in Italia
Come sono dolci a chi ritorna gli spropositi di lingua italiana sulle
insegne del Canton Ticino! È tempo che io ricapitoli ciò che io ho
imparato nella mia gita ed assodi, se un viaggio allarga come un bistorî
la intelligenza.
Ho visto gli stessi tipi e le stesse faccie che io già conoscevo prima, salvo
che le trovai spostate ridicolosamente. Così un ministro italiano lo
scopersi che suonava il tamburo a Zurigo, ed il padre di un mio amico
che fa il farmacista in Italia lo rinvenni colonnello degli Ulani a Vienna.
Tutto il mondo è paese: Tirolesi, Bavaresi, Austriaci, Würtemberghesi,
Badesi, Svizzeri ed Italiani siamo tutti figli dello stesso Adamo, anziché
pronipoti di un orangotango diverso.
Questo pensiero di fratellanza cosmopolitana mi consola, e non mi
toglie la contentezza di rivedere la bella Italia e le amate sponde, dove
mi sento più fratello con il mio prossimo.
Racconti della Scapigliatura
piemontese, a cura di G. Contini
“In Faldella l’impressionismo (poiché per lui si
trattava qui, e in fondo sempre, di rendere delle
superfici, di rendere profondamente delle
superfici) porta a una tecnica, pur trattata con
mano di dilettante più che di scienziato, di
giustapposizione alla Monet, di divisionismo o
puntinismo verbali. La finalità intrinseca di
Faldella, quel tanto d’innovazione gnoseologica
che gli compete, è infatti… rappresentare cose
che non sono nel dominio dell’espressione del
pensiero che si giova delle lettere dell’alfabeto”.
G. Faldella, Degna di morire
“Nel principio dell’inverno seguente il cavaliere Alfredo,
già fatto deputato, si sentì stomacato dalla vita. Gli pareva
che l’umanità in generale e l’Italia in particolare fossero
carcasse fruste, e che i nostri scrittori e artisti più adulati
d’adesso, succeduti immediatamente alle olimpiche,
pelasgiche, basilicali intelligenze di Canova, di Leopardi, di
Gioberti e di Rossini fossero scarafaggi ischeletriti […] che
il resto del prossimo fosse bestiame di Sallustio; e che
intorno alla sua persona non si aggirasse più un solo
cervello integro. E sentiva una smania prepotente di dare
una presa di somaro a tutti, compreso il signor sé stesso”.
E. Zola, Il romanzo sperimentale, 1880 (I)
Lo scopo del metodo sperimentale in fisiologia ed in medicina è di
studiare i fenomeni per divenirne padroni. […] Dunque questo è lo
scopo, questa è la moralità della fisiologia e della medicina sperimentali:
divenire padroni della vita per dirigerla. Supponiamo che la scienza abbia
proceduto nel suo cammino e che la conquista di ciò che è sconosciuto
sia compiuta: […] allora il medico sarà padrone delle malattie; guarirà
infallibilmente agendo sul corpo umano per la felicità ed il vigore della
specie. Si entrerà in un secolo in cui l'uomo, divenuto onnipotente, avrà
soggiogato la natura utilizzandone le leggi per far regnare su questa
terra tutta la giustizia e la libertà possibili. Non vi è scopo più nobile, più
elevato, più grande. In esso consiste il nostro compito di esseri
intelligenti: penetrare il come delle cose per dominarle e ridurle allo
stato di meccanismi ubbidienti. Ebbene, questo sogno del fisiologo e del
medico sperimentale è anche quello del romanziere che applica allo
studio dell'uomo nella natura e nella società il metodo sperimentale.
E. Zola, Il romanzo sperimentale, 1880 (II)
Il nostro scopo è il medesimo; anche noi vogliamo essere padroni dei
fenomeni della vita intellett uale e passionale, per poterli guidare. In una
parola siamo dei moralisti sperimentali che mettono in luce mediante
l'esperimento come si comporta una passione in un dato ambiente sociale. Il
giorno in cui ci impadroniremo del suo meccanismo, si potrà curarla e placarla
o almeno renderla il più inoffensiva possibile. Ecco dunque in che consistono
l’utilità pratica e la elevata moralità delle nostre opere naturalistiche, che
sperimentano sull’uomo, e rimontano pezzo per pezzo la macchina umana
farla funzionare sotto l’influenza dei vari ambienti. Col procedere del tempo,
col divenire padroni delle leggi, si tratterà soltanto di agire sugli individui e
sugli ambienti, se si vuole arrivare allo stato sociale migliore. In tal modo
facciamo della sociologia pratica ed il nostro lavoro avvantaggia le scienze
politiche ed economiche. Non conosco, lo ripeto, un lavoro più nobile, né una
più ampia applicazione. Essere in grado di controllare il ben e il male, regolare
la vita, guidare la società, risolvere alla lunga tutti i problemi del socialismo,
conferire soprattutto solide basi alla giustizia dando una risposta con
l’esperimento ai problemi della criminalità, non è forse essere gli operai più
utili e più morali del lavoro umano?
Fantasticheria: pubblicata per la prima volta
sul settimanale “Fanfulla della domenica”, il
24 agosto 1879; poi testo d’apertura di Vita
dei campi (1880)
Definizione generale del tema del libro: “le tenaci
affezioni dei deboli”, “l’istinto che hanno i piccoli di
stringersi fra loro per resistere alle tempeste della
vita”.
Incipit del testo: «Una volta, mentre il treno passava
vicino ad Aci-Trezza, voi, affacciandovi allo sportello
del vagone, esclamaste: "Vorrei starci un mese
laggiù!"».
G. Verga, Fantasticheria (I)
Di tanto in tanto il tifo, il colèra, la malannata, la burrasca, vengono a dare
una buona spazzata in quel brulicame, il quale si crederebbe che non
dovesse desiderar di meglio che esser spazzato, e scomparire; eppure
ripullula sempre nello stesso luogo; non so dirvi come, né perché.
Vi siete mai trovata, dopo una pioggia di autunno, a sbaragliare un esercito
di formiche tracciando sbadatamente il nome del vostro ultimo ballerino
sulla sabbia del viale? Qualcuna di quelle povere bestioline sarà rimasta
attaccata alla ghiera del vostro ombrellino, torcendosi di spasimo; ma tutte
le altre, dopo cinque minuti di pànico e di viavai, saranno tornate ad
aggrapparsi disperatamente al loro monticello bruno. Voi non ci tornereste
davvero, e nemmen io; ma per poter comprendere siffatta caparbietà, che
è per certi aspetti eroica, bisogna farci piccini anche noi, chiudere tutto
l'orizzonte fra due zolle, e guardare col microscopio le piccole cause che
fanno battere i piccoli cuori. Volete metterci un occhio anche voi, a cotesta
lente, voi che guardate la vita dall'altro lato del cannocchiale? Lo spettacolo
vi parrà strano, e perciò forse vi divertirà.
G. Verga, Fantasticheria (II)
- Insomma l'ideale dell'ostrica! direte voi. - Proprio l'ideale dell'ostrica, e noi
non abbiamo altro motivo di trovarlo ridicolo che quello di non esser nati
ostriche anche noi. Per altro il tenace attaccamento di quella povera gente allo
scoglio sul quale la fortuna li ha lasciati cadere mentre seminava principi di qua
e duchesse di là, questa rassegnazione coraggiosa ad una vita di stenti, questa
religione della famiglia, che si riverbera sul mestiere, sulla casa, e sui sassi che
la circondano, mi sembrano - forse pel quarto d'ora - cose serissime e
rispettabilissime anch'esse. Parmi che le irrequietudini del pensiero vagabondo
s'addormenterebbero dolcemente nella pace serena di quei sentimenti miti,
semplici, che si succedono calmi e inalterati di generazione in generazione.
[…]
Mi è parso ora di leggere una fatale necessità nelle tenaci affezioni dei deboli,
nell'istinto che hanno i piccoli di stringersi fra loro per resistere alle tempeste
della vita, e ho cercato di decifrare il dramma modesto e ignoto che deve aver
sgominati gli attori plebei che conoscemmo insieme. Un dramma che qualche
volta forse vi racconterò e di cui parmi tutto il nodo debba consistere in ciò: che allorquando uno di quei piccoli, o più debole, o più incauto, o più egoista
degli altri, volle staccarsi dal gruppo per vaghezza dell'ignoto, o per brama di
meglio, o per curiosità di conoscere il mondo, il mondo da pesce vorace
com'è, se lo ingoiò, e i suoi più prossimi con lui. - E sotto questo aspetto vedete
che il dramma non manca d'interesse. Per le ostriche l'argomento più
interessante deve esser quello che tratta delle insidie del gambero, o del
coltello del palombaro che le stacca dallo scoglio.
G. Verga, Rosso Malpelo
• I ed. in 4 puntate sul quotidiano romano «Fanfulla» (2-5
agosto 1878).
• Genesi ispirata da L. Franchetti – S. Sonnino, La Sicilia nel
1876: cap. su Il lavoro dei fanciulli nelle zolfare siciliane,
Firenze 1877.
• Lettera di G. Verga a Filippo Filippi, 11.X.1880: «Il mio
studio è di fare eclissare al possibile lo scrittore, di
sostituire la rappresentazione all’osservazione, metter per
quanto si può l’autore fuori del campo d’azione, sicché il
disegno acquisti tutto il rilievo e l’effetto da dar completa
l’illusione della realtà. […] Io non giudico, non
m’appassiono, non m’interesso, o piuttosto non devo
mostrare nulla di tutto questo, sotto pena di veder mancare
uno dei più efficaci effetti dell’opera d’arte, e giudico,
m’appassiono, m’interesso soltanto colla scelta dei tipi che
presento».
G. Verga, Rosso Malpelo
Malpelo si chiamava così perché aveva i capelli rossi; ed aveva i capelli rossi
perché era un ragazzo malizioso e cattivo, che prometteva di riescire un fior di
birbone. Sicché tutti alla cava della rena rossa lo chiamavano Malpelo; e
persino sua madre col sentirgli dir sempre a quel modo aveva quasi
dimenticato il suo nome di battesimo.
Del resto, ella lo vedeva soltanto il sabato sera, quando tornava a casa con quei
pochi soldi della settimana; e siccome era malpelo c'era anche a temere che ne
sottraesse un paio di quei soldi; e nel dubbio, per non sbagliare, la sorella
maggiore gli faceva la ricevuta a scapaccioni.
Però il padrone della cava aveva confermato che i soldi erano tanti e non più; e
in coscienza erano anche troppi per Malpelo, un monellaccio che nessuno
avrebbe voluto vedersi davanti, e che tutti schivavano come un can rognoso, e
lo accarezzavano coi piedi, allorché se lo trovavano a tiro.
Egli era davvero un brutto ceffo, torvo, ringhioso, e selvatico. Al mezzogiorno,
mentre tutti gli altri operai della cava si mangiavano in crocchio la loro
minestra, e facevano un po' di ricreazione, egli andava a rincantucciarsi col suo
corbello fra le gambe, per rosicchiarsi quel suo pane di otto giorni, come fanno
le bestie sue pari; e ciascuno gli diceva la sua motteggiandolo, e gli tiravan dei
sassi, finché il soprastante lo rimandava al lavoro con una pedata.
G. Verga, L’amante di Gramigna (I)
Caro Farina, eccoti non un racconto ma l'abbozzo di un racconto.
Esso almeno avrà il merito di esser brevissimo, e di esser storico un documento umano, come dicono oggi; interessante forse per te,
e per tutti coloro che studiano nel gran libro del cuore. Io te lo
ripeterò così come l'ho raccolto pei viottoli dei campi, press'a poco
colle medesime parole semplici e pittoresche della narrazione
popolare, e tu veramente preferirai di trovarti faccia a faccia col
fatto nudo e schietto, senza stare a cercarlo fra le linee del libro,
attraverso la lente dello scrittore. Il semplice fatto umano farà
pensare sempre; avrà sempre l'efficacia dell'essere stato, delle
lagrime vere, delle febbri e delle sensazioni che sono passate per la
carne; il misterioso processo per cui le passioni si annodano, si
intrecciano, maturano, si svolgono nel loro cammino sotterraneo
nei loro andirivieni che spesso sembrano contradditorî, costituirà
per lungo tempo ancora la possente attrattiva di quel fenomeno
psicologico che dicesi l'argomento di un racconto, e che l'analisi
moderna si studia di seguire con scrupolo scientifico. Di questo che
ti narro oggi ti dirò soltanto il punto di partenza e quello d'arrivo, e
per te basterà, e un giorno forse basterà per tutti.
G. Verga, L’amante di Gramigna (II)
Noi rifacciamo il processo artistico al quale dobbiamo tanti
monumenti gloriosi, con metodo diverso, più minuzioso e più
intimo; sacrifichiamo volentieri l'effetto della catastrofe, del
risultato psicologico, intravvisto con intuizione quasi divina
dai grandi artisti del passato, allo sviluppo logico, necessario
di esso, ridotto meno imprevisto, meno drammatico, ma non
meno fatale; siamo più modesti, se non più umili; ma le
conquiste che facciamo delle verità psicologiche non saranno
un fatto meno utile all'arte dell'avvenire. Si arriverà mai a tal
perfezionamento nello studio delle passioni, che diventerà
inutile il proseguire in cotesto studio dell'uomo interiore? La
scienza del cuore umano, che sarà il frutto della nuova arte,
svilupperà talmente e così generalmente tutte le risorse
dell'immaginazione che nell'avvenire i soli romanzi che si
scriveranno saranno i fatti diversi?
G. Verga, L’amante di Gramigna (III)
Intanto io credo che il trionfo del romanzo, la più completa e la più
umana delle opere d'arte, si raggiungerà allorché l'affinità e la
coesione di ogni sua parte sarà così completa che il processo della
creazione rimarrà un mistero, come lo svolgersi delle passioni
umane; e che l'armonia delle sue forme sarà così perfetta, la
sincerità della sua realtà così evidente, il suo modo e la sua ragione
di essere così necessarie, che la mano dell'artista rimarrà
assolutamente invisibile, e il romanzo avrà l'impronta
dell'avvenimento reale, e l'opera d'arte sembrerà essersi fatta da
sé, aver maturato ed esser sorta spontanea come un fatto naturale,
senza serbare alcun punto di contatto col suo autore; che essa non
serbi nelle sue forme viventi alcuna impronta della mente in cui
germogliò, alcuna ombra dell'occhio che la intravvide, alcuna traccia
delle labbra che ne mormorarono le prime parole come il fiat
creatore; ch'essa stia per ragion propria, pel solo fatto che è come
dev'essere, ed è necessario che sia, palpitante di vita ed immutabile
al pari di una statua di bronzo, di cui l'autore abbia avuto il coraggio
divino di eclissarsi e sparire nella sua opera immortale.
G. Flaubert sul canone dell’impersonalità
• lettera del 9 dicembre 1852 a Louise Colet: « L'auteur, dans
son oeuvre, doit être comme Dieu dans l'univers, présent
partout, et visible nulle part. L'art étant une seconde
nature, le créateur de cette nature-là doit agir par des
procédés analogues : que l'on sente dans tous les atomes, à
tous les aspects, une impassibilité cachée et infini. L'effet,
pour le spectateur, doit être une espèce d'ébahissement.
Comment tout cela s'est-il fait ! doit-on dire, et qu'on se
sente écrasé sans savoir pourquoi ».
• lettera del 6 novembre 1853 a Louise Colet: « Rappelonsnous toujours que l'impersonnalité est le signe de la Force.
Absorbons l'objectif et qu'il circule en nous, qu'il se
reproduise au-dehors, sans qu'on puisse rien comprendre à
cette chimie merveilleuse. Notre coeur ne doit être bon
qu'à sentir celui des autres. - Soyons des miroirs
grossissants de la vérité externe».
L. Franchetti – S. Sonnino, La Sicilia nel 1876, Prefazione
Noi abbiamo inteso d'indagare le ragioni intime dei fenomeni morbosi
che presenta la Sicilia, e di ritrarre un quadro succinto delle sue
condizioni sociali, così diverse da quelle di alcune altre regioni del
nostro paese. Esprimendo in ogni singolo caso la nostra opinione
schiettamente e senza reticenze o falsi riguardi di convenienza,
crediamo di dimostrare nel miglior modo possibile la nostra gratitudine
verso i Siciliani, e abbiamo fede di giovare all'Isola più coll'esposizione
della verità che non coll'adulazione. Non ci siamo lasciati distogliere
dal timore di esser tacciati d'arroganza, perchè trattandosi di quistioni
che interessano l'avvenire del paese, riteniamo che ogni cittadino
abbia lo stretto dovere di dire apertamente la propria opinione.
Convinti che i fenomeni da noi descritti hanno la loro prima origine
nelle leggi della Natura, noi, nell'esporli, non intendiamo giudicar
nessuno, e tanto meno condannare. Non sappiamo vedere nei Siciliani
che altrettanti Italiani, e i mali dell'ultima estremità della Penisola ci
fanno provare dolore nel modo medesimo che quelli della nostra
provincia natale.
G. Verga, La roba (Novelle rusticane) I
Della roba ne possedeva fin dove arrivava la vista, ed egli aveva la vista
lunga - dappertutto, a destra e a sinistra, davanti e di dietro, nel monte
e nella pianura. Più di cinquemila bocche, senza contare gli uccelli del
cielo e gli animali della terra, che mangiavano sulla sua terra, e senza
contare la sua bocca la quale mangiava meno di tutte, e si contentava
di due soldi di pane e un pezzo di formaggio, ingozzato in fretta e in
furia, all'impiedi, in un cantuccio del magazzino grande come una
chiesa, in mezzo alla polvere del grano, che non ci si vedeva, mentre i
contadini scaricavano i sacchi, o a ridosso di un pagliaio, quando il
vento spazzava la campagna gelata, al tempo del seminare, o colla
testa dentro un corbello, nelle calde giornate della messe. Egli non
beveva vino, non fumava, non usava tabacco, e sì che del tabacco ne
producevano i suoi orti lungo il fiume, colle foglie larghe ed alte come
un fanciullo, di quelle che si vendevano a 95 lire. Non aveva il vizio del
giuoco, né quello delle donne. Di donne non aveva mai avuto sulle
spalle che sua madre, la quale gli era costata anche 12 tarì, quando
aveva dovuto farla portare al camposanto.
G. Verga, La roba (Novelle rusticane) II
Era che ci aveva pensato e ripensato tanto a quel che vuol dire
la roba, quando andava senza scarpe a lavorare nella terra che
adesso era sua, ed aveva provato quel che ci vuole a fare i tre
tarì della giornata, nel mese di luglio, a star colla schiena curva
14 ore, col soprastante a cavallo dietro, che vi piglia a nerbate
se fate di rizzarvi un momento. Per questo non aveva lasciato
passare un minuto della sua vita che non fosse stato
impiegato a fare della roba; e adesso i suoi aratri erano
numerosi come le lunghe file dei corvi che arrivano in
novembre; e altre file di muli, che non finivano più, portavano
le sementi; le donne che stavano accoccolate nel fango, da
ottobre a marzo, per raccogliere le sue olive, non si potevano
contare, come non si possono contare le gazze che vengono a
rubarle; e al tempo della vendemmia accorrevano dei villaggi
interi alle sue vigne, e fin dove sentivasi cantare, nella
campagna, era per la vendemmia di Mazzarò.
G. Verga, La roba (Novelle rusticane) III
Di una cosa sola gli doleva, che cominciasse a farsi vecchio, e la
terra doveva lasciarla là dov'era. Questa è una ingiustizia di Dio, che
dopo di essersi logorata la vita ad acquistare della roba, quando
arrivate ad averla, che ne vorreste ancora, dovete lasciarla! E stava
delle ore seduto sul corbello, col mento nelle mani, a guardare le
sue vigne che gli verdeggiavano sotto gli occhi, e i campi che
ondeggiavano di spighe come un mare, e gli oliveti che velavano la
montagna come una nebbia, e se un ragazzo seminudo gli passava
dinanzi, curvo sotto il peso come un asino stanco, gli lanciava il suo
bastone fra le gambe, per invidia, e borbottava: - Guardate chi ha i
giorni lunghi! costui che non ha niente! Sicché quando gli dissero
che era tempo di lasciare la sua roba, per pensare all'anima, uscì
nel cortile come un pazzo, barcollando, e andava ammazzando a
colpi di bastone le sue anitre e i suoi tacchini, e strillava: - Roba mia,
vientene con me!
G. Baldi, L’artificio della regressione. Tecnica narrativa e
ideologia nel Verga verista, 1980
Verga vuole mostrare gli effetti negativi prodotti nel personaggio
dalla dedizione totale all’accumulo, l’impoverimento umano,
l’alienazione nelle cose, l’insensibilità ai valori più sacri, come la
famiglia e gli affetti […], la brutalità dello sfruttamento esercitato
sui deboli […]. Ma lo scrittore non si arresta solo all’atteggiamento
di rifiuto moralistico, da destra, della realtà del denaro, della
proprietà, dell’interesse individuale, alla constatazione desolata e
radicalmente pessimistica dell’ineluttabilità della lotta per la vita. Ai
suoi occhi Mazzarò possiede veramente qualcosa di “grandioso”, i
suoi “vizi” si trasformano davvero in virtù; le proporzioni smisurate
della ricchezza da lui creata […] il suo ascetismo non possono non
suscitare stupefatta, sgomenta ammirazione, e finiscono per
ammantarsi a buon diritto di un alone mitico e leggendario.
C'era un uomo ricco, che era vestito di porpora e di bisso e tutti i giorni
banchettava lautamente. Un mendicante, di nome Lazzaro, giaceva alla sua
porta, coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi di quello che cadeva dalla mensa
del ricco. Perfino i cani venivano a leccare le sue piaghe. Un giorno il povero
morì e fu portato dagli angeli nel seno di Abramo. Morì anche il ricco e fu
sepolto. Stando nell'inferno tra i tormenti, levò gli occhi e vide di lontano
Abramo e Lazzaro accanto a lui. Allora gridando disse: Padre Abramo, abbi
pietà di me e manda Lazzaro a intingere nell'acqua la punta del dito e
bagnarmi la lingua, perché questa fiamma mi tortura. Ma Abramo rispose:
Figlio, ricordati che hai ricevuto i tuoi beni durante la vita e Lazzaro parimenti i
suoi mali; ora invece lui è consolato e tu sei in mezzo ai tormenti. Per di più,
tra noi e voi è stabilito un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da
voi non possono, né di costì si può attraversare fino a noi. E quegli replicò:
Allora, padre, ti prego di mandarlo a casa di mio padre, perché ho cinque
fratelli. Li ammonisca, perché non vengano anch'essi in questo luogo di
tormento. Ma Abramo rispose: Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino loro. E lui:
No, padre Abramo, ma se qualcuno dai morti andrà da loro, si ravvederanno.
Abramo rispose: Se non ascoltano Mosè e i Profeti, neanche se uno
risuscitasse dai morti saranno persuasi (Lc 16, 19-31).
Le ‘raccolte’ di Verga
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Vita dei campi, 1880
Novelle rusticane, 1883
Per le vie, 1883
Vagabondaggio, 1887
I ricordi del Capitano d’Arce, 1891
Don Candeloro e C.i, 1894
• Luigi Capuana (1839-1915)
Le appassionate, 1893 → «casi di coscienza
dolorosi o tragici»
Le paesane, 1894 → «studi di carattere e
d’ambiente»
• Federico De Roberto (1861-1927)
La sorte, 1887
Documenti umani, 1888
Processi verbali, 1890 → «la nuda e impersonale
trascrizione di piccole commedie e di piccoli
drammi colti sul vivo».
L’albero della scienza, 1890
F. De Roberto, Prefazione a Processi verbali (1890)
Processo verbale […] significa una relazione semplice, rapida e fedele di un
avvenimento, svolgentesi sotto gli occhi di uno spettatore disinteressato. Processi
verbali, io intitolo delle novelle, che sono la nuda e impersonale trascrizione di
piccole commedie e di piccoli drammi colti sul vivo. Se l'impersonalità ha da essere
un canone d'arte, mi pare che essa sia incompatibile con la narrazione e con la
descrizione. Nell'esporre in nome proprio gli avvenimenti, nel presentare i suoi
personaggi, lo scrittore si tradisce inevitabilmente; ch'ei voglia o no, finisce per
giudicare gli uni e commentare gli altri; e le fioriture di stile, con cui egli traduce le
impressioni suscitate dal mondo materiale, sono cosa tutta sua. L'impersonalità
assoluta, non può conseguirsi che nel puro dialogo, e l'ideale della
rappresentazione obiettiva, consiste nella scena come si scrive pel teatro.
L'avvenimento deve svolgersi da sé, e i personaggi debbono significare essi
medesimi, per mezzo delle loro parole e delle loro azioni, ciò che essi sono.
L'analisi psicologica, l'immaginazione di quel che si passa nella testa delle persone,
è tutto il rovescio dell'osservazione reale. […] La parte dello scrittore che voglia
sopprimere il proprio intervento deve limitarsi, insomma, a fornire le indicazioni
indispensabili all'intelligenza del fatto, a mettere accanto alle trascrizioni delle vive
voci dei suoi personaggi quelle che i commediografi chiamano didascalie.
F. De Roberto, Il rosario (da Processi verbali, 1890) I
Un leggiero colpo di martello all'uscio del giardino: tanto leggiero, da non poter
essere udito se non dalle donne che stavano ad aspettare lì dietro. —Chi è? —Io,
Angela...
Aprirono. —Che notizie? — chiesero tutte, a bassa voce.
La comare Angela, trafelata, con la fronte in sudore sotto il fazzoletto rosso, rispose,
piano. —Niente!... È morto!... Potete far conto che gli recitino il de Profundis... A
stasera non ci arriva!...
Le sorelle Sommatino fecero tutt'e tre lo stesso gesto di stupore doloroso,
guardando il cielo dell'alba. —Ma che non ci ha da essere un rimedio?
—Se vi dico che puzza già di cadavere!
Restavano un poco in silenzio, le une in giardino, l'altra nella via; l'uscio era aperto
a metà e Caterina, la maggiore delle vecchie zitelle, ci teneva sopra una mano, per
poterlo subito richiudere, come in tempo di peste. —Adesso, che cosa volete fare?
— riprese la donna. Le sorelle si guardarono, tutte imbarazzate, senza rispondere.
—Quella creatura non potete lasciarla così! È vostra sorella, finalmente. Può restar
sola, stanotte, col morto dentro? Agatina Sommatino alzò di nuovo gli occhi al cielo,
e le altre fecero come lei. —Noi non possiamo nulla, senza mammà!...
F. De Roberto, Il rosario (da Processi verbali, 1890) II
—È morto!... — diceva don Vincenzo, gesticolando. — Vostro cognato è morto!...
—E non gridate così!...
Don Vincenzo, turbato, agitatissimo, ripeteva a voce più bassa, dietro il cancello: —È morto...
or ora... Vostra sorella sembra una pazza... lo chiama, lo bacia, non c'è verso di levarla di lì...
Adesso, come si fa?
—Come si può fare? — si chiesero a vicenda le due zitellone, con un imbarazzo costernato.
—Non lo volete dire neanche adesso a donna Antonia?
—Caro don Vincenzo — rispose Filippina — voi lo sapete meglio di noi com'è mammà... e che
non le si può nemmeno nominare questa figliuola...
—Ma ora? anche ora che le restano i soli occhi per piangere? Scusate, questa è una cosa che
non si è letta mai!... Neanche se avesse ammazzato qualcuno!... Finalmente, il male l'ha fatto
a sé e non a voi...
—Che possiamo farci?... Lo sa Dio, se la disgrazia di nostra sorella ci affligge...
—Davvero, lo sa Dio!... — confermò l'altra.
—Con mammà, lo sapete, non si può parlare. Tutto il giorno chiusa nelle sue stanze: mangia
sola, non vuol veder nessuno. La sua conversazione è la sera, quando diciamo il rosario...
Stasera, vedremo...
—E intanto la gente vi legge la vita, che siete dei senza cuore, che è una porcheria tutta
nuova, dopo che li avete lasciati morir di fame!.. Lo sapete che non c'è di che pagare il
becchino, da vostra sorella?
F. De Roberto, Il rosario (da Processi verbali, 1890) III
Le tre sorelle Sommatino si erano già raccolte nello stanzone del presepe, al
lume di una lampada a olio, quando l'uscio di mezzo si schiuse e comparve
donn'Antonia, col bastone in mano. Malgrado l'età, si manteneva sempre dritta
e ferma; era vestita tutta a nero, con un fazzoletto nero in capo che le chiudeva
il viso magro, ossuto, dal naso ricurvo e dagli occhi scintillanti. Con un mazzo di
chiavi, le pendeva dalla cintura la corona del rosario. —Buona sera, mammà!
— augurarono le tre sorelle, ad una voce. —Buona sera.
[…]
—Vi ha disobbedito, è vero, mammà... si è preso uno che non era del suo
stato... vi ha dato tanti dispiaceri... ma adesso! se la vedeste, non si riconosce
più... Vuole buttarsi ai vostri piedi... per chiedervi perdono... Sapete: non ha
come fare, non ha più nulla!... Volete che venga a domandarvi perdono?...
—Padre nostro che state in cielo, santificato il vostro nome... —
Interrompendosi un poco, cogli occhi sempre socchiusi, donn'Antonia disse: —
Di chi stai parlando?
—Di Rosalia, mammà... di vostra figlia...
—Venga a noi il vostro regno, sia fatta la vostra santa divina volontà... Io non ho
figlie di nome Rosalia. Mia figlia è morta... Così in cielo come in terra... — E
suggerendo la ripresa alle figliuole, che restavano mute, con le schiene sulle
seggiole, continuò sola sino in fondo: — Dateci oggi il nostro pane quotidiano...
perdonate i nostri peccati, come noi perdoniamo i nostri nemici...
Federico De Roberto,
Il paradiso perduto,
da L’albero della scienza
(1890)
Matilde Serao, Il ventre di Napoli (1884)
La serva napoletana si alloga per dieci lire il mese, senza pranzo: alla
mattina fa due o tre miglia di cammino, dalla casa sua alla casa dei
suoi padroni, scende le scale quaranta volte al giorno, cava dal pozzo
profondo venti secchi di acqua, compie le fatiche più estenuanti, non
mangia per tutta la giornata e alla sera si trascina a casa sua, come
un'ombra affranta. Ve ne sono di quelle che pigliano due mezzi
servizi, a sei lire l'uno e corrono continuamente da una casa all'altra,
continuamente rimproverate per le tardanze. Ne ho conosciuta una,
io, si chiamava Annarella, faceva tre case al giorno, a cinque lire: alla
sera era inebetita, non mangiava, morta dalla fatica, talvolta non si
svestiva, per addormentarsi subito. Queste serve trovano anche il
tempo di dar latte a un bimbo, di far la calza, ma sono esseri
mostruosi, la pietà è uguale alla ripugnanza che ispirano. Hanno
trent'anni e ne dimostrano cinquanta, sono curve, hanno perso i
capelli, hanno i denti gialli e neri, camminano come sciancate,
portano un vestito quattro anni, un grembiule sei mesi.
Matilde Serao, Il ventre di Napoli (1884)
Non si lamentano, non piangono: vanno a morire, prima di
quarant'anni, all'ospedale, di perniciosa, di polmonite, di
qualche orrenda malattia. Quante ne avrà portate via il colera!
[…]
Sono brutte, è vero: si trascurano, è verissimo: fanno schifo,
talvolta. Ma chi tanto ama la plastica, dovrebbe entrare nel
segreto di quelle esistenze, che sono un poema di martirio
quotidiano, di sacrifici incalcolabili, di fatiche sopportate senza
mormorare. Gioventù, bellezza, vestiti? Ebbero un minuto di
bellezza e di gioventù, furono, amate, si sono maritate: dopo, il
marito e la miseria, il lavoro e le busse, il travaglio e la fame.
Hanno i bimbi e debbono abbandonarli, il più piccolo affidato
alla sorellina, e come tutte le altre madri, temono le carrozze, il
fuoco, i cani, le cadute. Sono sempre inquiete, agitate, mentre
servono.
Racconti dell’Italia post-unitaria (1880-)
• Renato Fucini (1843-1921), Le veglie di Neri (1882)
• Carlo Lorenzini, detto Collodi (1826-1890),
Macchiette (1880) e Occhi e nasi. Ricordi dal vero
(1881)
• Mario Pratesi (1842-1921), In provincia (1883)
• Alfredo Oriani (1852-1909), Gramigne (1878) e
Quartetto (1883)
• Edmondo De Amicis(1846-1908), Cuore (1886)
E. De Amicis, Cuore, mese di ottobre (I): Il piccolo patriota padovano
Non sarò un soldato codardo, no; ma ci andrei molto più volentieri alla
scuola, se il maestro ci facesse ogni giorno un racconto come quello di
questa mattina. Ogni mese, disse, ce ne farà uno, ce lo darà scritto, e sarà
sempre il racconto d'un atto bello e vero, compiuto da un ragazzo. Il piccolo
patriotta padovano s'intitola questo. Ecco il fatto. Un piroscafo francese
partì da Barcellona, città della Spagna, per Genova; e c'erano a bordo
francesi, italiani, spagnuoli, svizzeri. C'era, fra gli altri, un ragazzo di undici
anni, mal vestito, solo, che se ne stava sempre in disparte, come un
animale selvatico, guardando tutti con l'occhio torvo. E aveva ben ragione
di guardare tutti con l'occhio torvo. Due anni prima, suo padre e sua
madre, contadini dei dintorni di Padova, l'avevano venduto al capo d'una
compagnia di saltimbanchi; il quale, dopo avergli insegnato a fare i giochi a
furia di pugni, di calci e di digiuni, se l'era portato a traverso alla Francia e
alla Spagna, picchiandolo sempre e non sfamandolo mai. Arrivato a
Barcellona, non potendo più reggere alle percosse e alla fame, ridotto in
uno stato da far pietà, era fuggito dal suo aguzzino, e corso a chieder
protezione al Console d'Italia, il quale, impietosito, l'aveva imbarcato su
quel piroscafo, dandogli una lettera per il Questore di Genova, che doveva
rimandarlo ai suoi parenti; ai parenti che l'avevan venduto come una
bestia.
Rosso Malpelo
Malpelo si chiamava così perché aveva i
capelli rossi; ed aveva i capelli rossi perché
era un ragazzo malizioso e cattivo, che
prometteva di riescire un fior di birbone.
[…] Però il padrone della cava aveva
confermato che i soldi erano tanti e non
più; e in coscienza erano anche troppi per
Malpelo, un monellaccio che nessuno
avrebbe voluto vedersi davanti, e che tutti
schivavano come un can rognoso, e lo
accarezzavano coi piedi, allorché se lo
trovavano a tiro. Egli era davvero un brutto
ceffo, torvo, ringhioso, e selvatico. Al
mezzogiorno, mentre tutti gli altri operai
della cava si mangiavano in crocchio la loro
minestra, e facevano un po' di ricreazione,
egli andava a rincantucciarsi col suo
corbello fra le gambe, per rosicchiarsi quel
suo pane di otto giorni, come fanno le
bestie sue pari; e ciascuno gli diceva la sua
motteggiandolo, e gli tiravan dei sassi,
finché il soprastante lo rimandava al lavoro
con una pedata.
Il piccolo patriotta padovano
C'era, fra gli altri, un ragazzo di undici anni,
mal vestito, solo, che se ne stava sempre in
disparte, come un animale selvatico,
guardando tutti con l'occhio torvo. E aveva
ben ragione di guardare tutti con l'occhio
torvo. Due anni prima, suo padre e sua
madre, contadini dei dintorni di Padova,
l'avevano venduto al capo d'una
compagnia di saltimbanchi; il quale, dopo
avergli insegnato a fare i giochi a furia di
pugni, di calci e di digiuni, se l'era portato
a traverso alla Francia e alla Spagna,
picchiandolo sempre e non sfamandolo
mai. Arrivato a Barcellona, non potendo
più reggere alle percosse e alla fame,
ridotto in uno stato da far pietà, era
fuggito dal suo aguzzino, e corso a
chieder protezione al Console d'Italia, il
quale, impietosito, l'aveva imbarcato su
quel piroscafo, dandogli una lettera per
il Questore di Genova, che doveva
rimandarlo ai suoi parenti; ai parenti che
l'avevan venduto come una bestia.
E. De Amicis, Cuore, mese di ottobre (II): Il piccolo patriota padovano
Il povero ragazzo era lacero e malaticcio. Gli avevan dato una cabina nella
seconda classe. Tutti lo guardavano; qualcuno lo interrogava; ma egli non
rispondeva, e pareva che odiasse e disprezzasse tutti, tanto l'avevano
inasprito e intristito le privazioni e le busse. Tre viaggiatori, non di meno
a forza d'insistere con le domande, riuscirono a fargli snodare la lingua, e
in poche parole rozze, miste di veneto, di spagnuolo e di francese, egli
raccontò la sua storia. Non erano italiani quei tre viaggiatori; ma
capirono, e un poco per compassione, un poco perché eccitati dal vino,
gli diedero dei soldi, celiando e stuzzicandolo perché raccontasse altre
cose; ed essendo entrate nella sala, in quel momento, alcune signore,
tutti e tre, per farsi vedere, gli diedero ancora del denaro, gridando: —
Piglia questo! — Piglia quest'altro! — e facendo sonar le monete sulla
tavola. Il ragazzo intascò ogni cosa, ringraziando a mezza voce, col suo
fare burbero, ma con uno sguardo per la prima volta sorridente e
affettuoso. Poi s'arrampicò nella sua cabina, tirò la tenda, e stette queto,
pensando ai fatti suoi. Con quei denari poteva assaggiare qualche buon
boccone a bordo, dopo due anni che stentava il pane; poteva comprarsi
una giacchetta, appena sbarcato a Genova, dopo due anni che andava
vestito di cenci; e poteva anche, portandoli a casa, farsi accogliere da suo
padre e da sua madre un poco più umanamente che non l'avrebbero
accolto se fosse arrivato con le tasche vuote. Erano una piccola fortuna
per lui quei denari.
E. De Amicis, Cuore, mese di ottobre (III): Il piccolo patriota padovano
E a questo egli pensava, racconsolato, dietro la tenda della sua cabina,
mentre i tre viaggiatori discorrevano, seduti alla tavola da pranzo, in
mezzo alla sala della seconda classe. Bevevano e discorrevano dei loro
viaggi e dei paesi che avevan veduti, e di discorso in discorso, vennero a
ragionare dell'Italia. Cominciò uno a lagnarsi degli alberghi, un altro delle
strade ferrate, e poi tutti insieme, infervorandosi, presero a dir male
d'ogni cosa. Uno avrebbe preferito di viaggiare in Lapponia; un altro
diceva di non aver trovato in Italia che truffatori e briganti; il terzo, che
gl'impiegati italiani non sanno leggere. — Un popolo ignorante, — ripeté
il primo. — Sudicio, — aggiunse il secondo. — La... — esclamò il terzo; e
voleva dir ladro, ma non poté finir la parola: una tempesta di soldi e di
mezze lire si rovesciò sulle loro teste e sulle loro spalle, e saltellò sul
tavolo e sull'impiantito con un fracasso d'inferno. Tutti e tre s'alzarono
furiosi, guardando all'in su, e ricevettero ancora una manata di soldi sulla
faccia. — Ripigliatevi i vostri soldi, — disse con disprezzo il ragazzo,
affacciato fuor della tenda della cabina; — io non accetto l'elemosina da
chi insulta il mio paese.
D’Annunzio novelliere
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1882 (II ed. ampl. 1894) Terra vergine (9+2 testi)
1884 Il libro delle vergini (4 racconti)
1886 San Pantaleone (17 novelle)
1892 I violenti (3 novelle)
1902 Le novelle della Pescara (18 testi: 1 da LV,
15 da SP e 2 da IV)
G. D’Annunzio, Fiore fiurelle, in Terra vergine (1882)
Che rosseggiare lussurioso di peperoni e di pomidori, al sole di luglio,
tra la verzura folta, mentre Nara abbeverava i solchi arsicci
cantilenando! L'acqua fresca spariva con un gorgoglìo di schiume
dentro la terra arida: tutta quella plebe di piante, oppressa dall'afa
enorme del meriggio, rilucente di riflessi metallici, bruciacchiata qua e
là, rabbrividiva di piacere sentendo ascendere per tutte le fibre, dalle
radici alle ultime cime, il succo trionfale; la canzone pigra di Nara vi si
sperdeva dentro, sotto le larghe foglie flosce, tra le zucche simili a
mostruosi teschi gialli, tra i poponi verdastri e i cocomeri lucidi come di
smalto.
Nara, china, con la schiena al solleone, colla gonna bianca, pareva una
pecora, da lontano; ma quando si rizzò su, tutta, parve una bella
femmina fiorente di salute in mezzo alla rifioritura violetta dei
ramolacci. Cantava più forte: il petto pregno di latte le ondeggiava in
un alenare largo e profondo; rossa nella faccia, ombrata dalla pezzuola
sgargiante, e su il rossore due grandi occhi grigi, sereni più di quelle
infinite lontananze estive, sereni più di quelle immense azzurrità
adriatiche dove le vele arance sciamavano. Il canto fluiva limpidamente
per la calma meridiana: era una scaturigine selvatica e fresca di note...
Verga, Rosso Malpelo
Malpelo si chiamava così perché aveva
i capelli rossi; ed aveva i capelli rossi
perché era un ragazzo malizioso e
cattivo, che prometteva di riescire un
fior di birbone. Sicché tutti alla cava
della rena rossa lo chiamavano
Malpelo; e persino sua madre col
sentirgli dir sempre a quel modo
aveva quasi dimenticato il suo nome
di battesimo. Del resto, ella lo vedeva
soltanto il sabato sera, quando
tornava a casa con quei pochi soldi
della settimana; e siccome era
malpelo c'era anche a temere che ne
sottraesse un paio di quei soldi; e nel
dubbio, per non sbagliare, la sorella
maggiore gli faceva la ricevuta a
scapaccioni.
D’Annunzio, Dalfino
Nella spiaggia lo chiamavano Dalfino; e
il nomignolo gli stava a capello, perché
dentro l′acqua pareva proprio un
delfino, con quella schiena curvata dal
remo e annerita dalla canicola, con
quella grossa testa lanosa, con quel
vigore sovrumano di gambe e di braccia
che gli facea far guizzi e salti e tonfi da
raccapriccire. Bisognava vederlo
buttarsi giù con un urlo dallo scoglio de′
Forroni, come un aquilastro ferito
all′ala, e poi ricomparire venti braccia
più in là, fuor dell′acqua verde, con
tanto d′occhiacci aperti contro il sole:
bisognava vederlo! Ma forse era più
bello su la paranza, aggrappato
all′albero, mentre lo scirocco sibilava a
traverso le funi e la vela rossa stava lì lì
per stracciarsi e la tempesta mugghiava
sotto che pareva se lo volesse ingoiare.
G. D’Annunzio, Fiore fiurelle, in Terra vergine (1882)
Fiore de line, / lu line ca le fa lu fiore chiare; / la donne ci ji tesse lu
panne fine.
Tutto l'orto d'intorno e il campo di fave e l'aia accanto risonavano; il
grecale alitante dal mare invadeva quell'altro piccolo mare verde, con
un fruscìo odoroso; più sopra, Francavilla dal gentile profilo moresco,
candida, in una gloria di sole, intarsiata sul fondo azzurro del cielo.
Malamore, che era a mietere sotto l'arsura crudele, riconobbe la voce
della sua donna, e stette in ascolto: pensava al refrigerio di una bella
fetta di cocomero diaccio, a un'allegria di risa là nell'aia fra le ruote de'
tacchini, al borbottìo del bimbo brancicante in un canestro di ciliege
mature...
E il canto: Fiore de mende, / senza la mende nen ze po 'mmendare; /
senza l’amande n’n ze po fa’ l’amore!
L. Pirandello, Lettera alla sorella Lina, 31.X.1886
Noi siamo come i poveri ragni, che per vivere han bisogno d’intessersi in
un cantuccio la loro tela sottile, noi siamo come le povere lumache che per
vivere han bisogno di portare a dosso il loro guscio fragile, o come i poveri
molluschi che vogliono tutti la loro conchiglia in fondo al mare. Siamo
ragni, lumache e molluschi di una razza più nobile – passi pure – non
vorremmo una ragnatela, un guscio, una conchiglia – passi pure – ma un
piccolo mondo sì, e per vivere in esso e per vivere di esso. Un ideale, un
sentimento, una abitudine, una occupazione – ecco il piccolo mondo, ecco
il guscio di questo lumacone o uomo – come lo chiamano. Senza questo è
impossibile la vita. Quando tu riesci a non avere più un ideale, perché
osservando la vita sembra un’enorme pupazzata, senza nesso, senza
spiegazione mai; quando tu non hai più un sentimento, perché sei riuscito
a non stimare, a non curare più gli uomini e le cose, e ti manca perciò
l’abitudine, che non trovi, e l’occupazione, che sdegni – quando tu, in una
parola, vivrai senza la vita, penserai senza un pensiero, sentirai senza
cuore – allora tu non saprai che fare: sarai un viandante senza casa, un
uccello senza nido. Io sono così. [...] Io scrivo e studio per dimenticare me
stesso – per distormi dalla disperazione.
L. Pirandello, Lettera alla sorella Lina, 31.X.1886
I.
Noi siamo come i poveri ragni, che per vivere han bisogno d’intessersi
in un cantuccio la loro tela sottile, noi siamo come le povere lumache
che per vivere han bisogno di portare a dosso il loro guscio fragile, o
come i poveri molluschi che vogliono tutti la loro conchiglia in fondo
al mare. Siamo ragni, lumache e molluschi di una razza più nobile –
passi pure – non vorremmo una ragnatela, un guscio, una conchiglia –
passi pure – ma un piccolo mondo sì, e per vivere in esso e per vivere
di esso. Un ideale, un sentimento, una abitudine, una occupazione –
ecco il piccolo mondo, ecco il guscio di questo lumacone o uomo –
come lo chiamano. Senza questo è impossibile la vita.
II. Quando tu riesci a non avere più un ideale, perché osservando la vita
sembra un’enorme pupazzata, senza nesso, senza spiegazione mai;
quando tu non hai più un sentimento, perché sei riuscito a non
stimare, a non curare più gli uomini e le cose, e ti manca perciò
l’abitudine, che non trovi, e l’occupazione, che sdegni – quando tu, in
una parola, vivrai senza la vita, penserai senza un pensiero, sentirai
senza cuore – allora tu non saprai che fare: sarai un viandante senza
casa, un uccello senza nido.
III. Io sono così. [...]
IV. Io scrivo e studio per dimenticare me stesso – per distormi dalla
disperazione.
L. Pirandello, L’umorismo, 1908
Vedo una vecchia signora, coi capelli ritinti, tutti unti non si sa di qual
orribile manteca, e poi tutta goffamente imbellettata e parata d'abiti
giovanili. Mi metto a ridere. Avverto che quella vecchia signora è il
contrario di ciò che una rispettabile signora dovrebbe essere. Posso
così, a prima giunta e superficialmente, arrestarmi a questa
impressione comica. Il comico è appunto un avvertimento del
contrario. Ma se ora interviene in me la riflessione, e mi suggerisce che
quella vecchia signora non prova forse nessun piacere a pararsi così
come un pappagallo, ma che forse ne soffre e lo fa soltanto perché
pietosamente s'inganna che, parata così, nascondendo le rughe e le
canizie, riesca a trattenere a sé l'amore del marito molto più giovane di
lei, ecco che io non posso più riderne come prima, perché appunto la
riflessione, lavorando in me, mi ha fatto andar oltre a quel primo
avvertimento, o piuttosto, più addentro: da quel primo avvertimento
del contrario mi ha fatto passare a questo sentimento del contrario. Ed
è tutta qui la differenza tra il comico e l'umoristico.
L. Pirandello, L’umorismo, 1908 (II)
In certi momenti di silenzio interiore, in cui l’anima nostra si spoglia di tutte le finzioni
abituali, e gli occhi nostri diventano più acuti e più penetranti, noi vediamo noi stessi
nella vita e in sé stessa la vita, quasi in una nudità arida, inquietante; ci sentiamo
assaltare da una strana impressione, come se, in un baleno, ci si chiarisse una realtà
diversa da quella che normalmente percepiamo, una realtà vivente oltre la finzione
colorata dei nostri sensi, oltre la vista umana, fuori delle forme dell’umana ragione.
Lucidissimamente allora la compagine dell’esistenza quotidiana, quasi sospesa nel
vuoto di quel nostro silenzio interiore, ci appare priva di senso, priva di scopo, e
quella realtà diversa ci appare orrida nella sua crudezza impassibile e misteriosa,
poiché tutte le nostre fittizie relazioni consuete di sentimenti e d’immagini si sono
scisse e disgregate in essa. Il vuoto interno si allarga, varca i limiti del nostro corpo,
diventa vuoto intorno a noi, un vuoto strano, come un arresto del tempo e della vita,
come se il nostro silenzio interiore si sprofondasse negli abissi del mistero. Con uno
sforzo supremo cerchiamo allora di riacquistar la coscienza normale delle cose, di
riallacciar con esse le consuete relazioni, di riconnetter le idee, di risentirci vivi come
per l’innanzi, al modo solito. Ma a questa coscienza normale, a queste idee
riconnesse, a questo sentimento solito della vita non possiamo più prestar fede,
perché sappiamo ormai che sono un nostro inganno per vivere e che sotto c’è
qualcos’altro, a cui l’uomo non può affacciarsi, se non a costo di morire o d’impazzire.
È stato un attimo; ma dura a lungo in noi l’impressione di esso, come di vertigine, con
la quale contrasta la stabilità, pur così vana, delle cose: ambiziose o misere
apparenze. La vita, allora, che s’aggira piccola, solita, fra queste apparenze ci sembra
quasi che non sia più per davvero, che sia come una fantasmagoria meccanica. E
come darle importanza? come portarle rispetto?
L. Pirandello, L’umorismo, 1908 (II)
I.
II.
III.
IV.
In certi momenti di silenzio interiore, in cui l’anima nostra si spoglia di tutte le
finzioni abituali, e gli occhi nostri diventano più acuti e più penetranti, noi
vediamo noi stessi nella vita e in sé stessa la vita, quasi in una nudità arida,
inquietante; ci sentiamo assaltare da una strana impressione, come se, in un
baleno, ci si chiarisse una realtà diversa da quella che normalmente percepiamo,
una realtà vivente oltre la finzione colorata dei nostri sensi, oltre la vista umana,
fuori delle forme dell’umana ragione.
Lucidissimamente allora la compagine dell’esistenza quotidiana, quasi sospesa nel
vuoto di quel nostro silenzio interiore, ci appare priva di senso, priva di scopo, e
quella realtà diversa ci appare orrida nella sua crudezza impassibile e misteriosa,
poiché tutte le nostre fittizie relazioni consuete di sentimenti e d’immagini si sono
scisse e disgregate in essa. Il vuoto interno si allarga, varca i limiti del nostro
corpo, diventa vuoto intorno a noi, un vuoto strano, come un arresto del tempo e
della vita, come se il nostro silenzio interiore si sprofondasse negli abissi del
mistero.
Con uno sforzo supremo cerchiamo allora di riacquistar la coscienza normale delle
cose, di riallacciar con esse le consuete relazioni, di riconnetter le idee, di
risentirci vivi come per l’innanzi, al modo solito. Ma a questa coscienza normale, a
queste idee riconnesse, a questo sentimento solito della vita non possiamo più
prestar fede, perché sappiamo ormai che sono un nostro inganno per vivere e
che sotto c’è qualcos’altro, a cui l’uomo non può affacciarsi, se non a costo di
morire o d’impazzire.
È stato un attimo; ma dura a lungo in noi l’impressione di esso, come di vertigine,
con la quale contrasta la stabilità, pur così vana, delle cose: ambiziose o misere
apparenze. La vita, allora, che s’aggira piccola, solita, fra queste apparenze ci
sembra quasi che non sia più per davvero, che sia come una fantasmagoria
meccanica. E come darle importanza? come portarle rispetto?
Numeri e dati della novellistica pirandelliana
• La prima novella pubblicata si intitola Capannetta, ed esce
nel 1884, sul supplemento domenicale della “Gazzetta del
Popolo”.
• La novella Effetti di un sogno interrotto esce sul CS il 9
dicembre 1936, il giorno precedente la sua morte.
• Tra il 1894 di Amori senza amore e il 1919 di Il carnevale dei
morti escono 17 raccolte.
• Dopo il 1920 viene concepito il progetto Novelle per un
anno
 disegno originario = un vol. di 365 testi;
 progetto definitivo = 24 libri di 15 testi;
 realizzazione effettiva = 15 libri (1-13: 1922-28; 14: 1934;
15: 1937), per un totale di 225 novelle
B. Terracini, Analisi stilistica, 1966, pp. 327-8
«Le novelle sono l’espressione più genuina di
quel suo dicotomismo spirituale cui lo scrittore
si è sforzato di dare una giustificazione poetica
ne L’umorismo. Da quel dualismo sorge nitida
tutta la problematica che è stata alla base della
sua produzione narrativa, l’angoscia cioè
dell’individuo, dinanzi al disgregarsi di ogni
realtà, contenuta nelle dimensioni di una
tragedia soggettivamente umana che ad ogni
caso si profila, si risolve e si ripropone».
Luigi Pirandello, Romanzo, racconto, novella,
«Le Grazie», 16.II.1897 (poi rifuso nel saggio Soggettivismo e
oggettivismo nell’arte narrativa, in Arte e scienza, 1908)
Ogni letterato nel trarre dalla vita presente o passata o dalla propria
fantasia una favola qualsiasi, o la considera nel suo complesso,
sinteticamente, nei suoi momenti culminanti e più determinanti, e ne
farà allora una novella, o la considera in tutti i suoi particolari, analisicommento, per gradi evolutivi, e ne farà allora un romanzo. Di questo
o di quella potrà tuttavia far sempre un racconto lungo o breve, quante
volte gli piaccia a seconda del modo che presceglierà nell’esporlo.
Giacché racconto è componimento d’arte narrativa condotto in una
data maniera e con propri caratteri, senza delimitazione alcuna nella
lunghezza o nella brevità. […] La novella e la tragedia classica […]
pigliano il fatto, a dir così, per la coda; e di questa estremità si
contentano: intese a dipingerci non le origini, non i gradi della
passione, non le relazioni di quella con i molti oggetti che circondano
l’uomo, e servono a sospingerla, a ripercuoterla, ad informarla in mille
modi diversi, ma solo gli ultimi passi, l’eccesso insomma.
Antologia pirandelliana
• 1911 (9 agosto CS) La patente (vol. III, La rallegrata, 1922)
• 1912 (29 dicembre CS) Ciaula scopre la luna (vol. VIII, Dal
naso al cielo, 1925)
• 1914 (22 febbraio CS) Il treno ha fischiato… (vol. IV, L’uomo
solo, 1922)
• 1915 (17-18 gennaio «Giorn. di Sic.») La carriola (vol. XIII,
Candelora, 1928)
• 1914-15 Berecche e la guerra (vol. XIV, Berecche e la
guerra, 1934)
• 1934 (6 maggio CS) Di seria un geranio (vol. XIV, Berecche e
la guerra, 1934)
• 1936 (24 settembre CS) Una giornata (vol. XV, Una
giornata, 1937)
La patente
• CS, 9 agosto 1911
• Nel volume La trappola, Milano 1915
• Nel volume La rallegrata, Novelle per un anno III, Firenze 1922
• 1917-18, Adattamento teatrale (commedia in un atto o
«novella sceneggiata»), a stampa per la prima volta nel 1918
(31 gennaio, «Rivista d’Italia»)
La patente (I)
Così sbilenco, con una spalla più alta dell’altra, andava per via di
traverso, come i cani. Nessuno però, moralmente, sapeva rigar più
diritto di lui. Lo dicevano tutti. Vedere, non aveva potuto vedere molte
cose, il giudice D’Andrea; ma certo moltissime ne aveva pensate, e
quando il pensare è più triste, cioè di notte. […]
Il pensare così di notte non conferisce molto alla salute. L’arcana
solennità che acquistano i pensieri produce quasi sempre, specie a
certuni che hanno in sé una certezza su la quale non possono riposare,
la certezza di non poter nulla sapere e nulla credere non sapendo,
qualche seria costipazione. Costipazione d’anima, s’intende. E al
giudice D’Andrea, quando si faceva giorno, pareva una cosa buffa e
atroce nello stesso tempo, ch’egli dovesse recarsi al suo ufficio
d’Istruzione ad amministrare – per quel tanto che a lui toccava – la
giustizia ai piccoli poveri uomini feroci.
La patente (II)
Era veramente iniquo quel processo là: iniquo perché includeva una
spietata ingiustizia contro alla quale un pover’uomo tentava
disperatamente di ribellarsi senza alcuna probabilità di scampo. C’era
in quel processo una vittima che non poteva prendersela con nessuno.
[…] Perché, in verità, era un caso insolito e speciosissimo quello d’un
iettatore che si querelava per diffamazione contro i primi due che gli
erano caduti sotto gli occhi nell’atto di far gli scongiuri di rito al suo
passaggio.
Diffamazione? Ma che diffamazione, povero disgraziato, se già da
qualche anno era diffusissima in tutto il paese la sua fama di iettatore?
se innumerevoli testimonii potevano venire in tribunale a giurare che
egli in tante e tante occasioni aveva dato segno di conoscere quella sua
fama, ribellandosi con proteste violente? Come condannare, in
coscienza, quei due giovanotti quali diffamatori per aver fatto al
passaggio di lui il gesto che da tempo solevano fare apertamente tutti
gli altri, e primi fra tutti – eccoli là – gli stessi giudici?
La patente (III)
Quella volta il giudice D’Andrea, appena alzò gli occhi a guardar il
Chiàrchiaro, che gli era entrato nella stanza, mentr’egli era intento a
scrivere, ebbe uno scatto violentissimo e buttò all’aria le carte, balzando
in piedi e gridandogli:
– Ma fatemi il piacere! Che storie son queste? Vergognatevi!
Il Chiàrchiaro s’era combinata una faccia da iettatore, ch’era una
meraviglia a vedere. S’era lasciata crescere su le cave gote gialle una
barbaccia ispida e cespugliata; si era insellato sul naso un paio di grossi
occhiali cerchiati d’osso, che gli davano l’aspetto d’un barbagianni; aveva
poi indossato un abito lustro, sorcigno, che gli sgonfiava da tutte le parti.
Allo scatto del giudice non si scompose. Dilatò le nari, digrignò i denti
gialli e disse sottovoce:
– Lei dunque non ci crede?
– Ma fatemi il piacere! – ripeté il giudice D’Andrea. – Non facciamo
scherzi, caro Chiàrchiaro! O siete impazzito? Via, via, sedete, sedete
qua.
La patente (IV)
Il Chiàrchiaro ebbe un prorompimento di stizza per la durezza di mente del giudice
D’Andrea; si levò in piedi, gridando con le braccia per aria:
– Ma perché io voglio, signor giudice, un riconoscimento ufficiale della mia potenza,
non capisce ancora? Voglio che sia ufficialmente riconosciuta questa mia potenza
spaventosa, che è ormai l’unico mio capitale! […]
– E poi?
– E poi? Me lo metto come titolo nei biglietti da visita. Signor giudice, mi hanno
assassinato. Lavoravo. Mi hanno fatto cacciar via dal banco dov’ero scritturale, con la
scusa che, essendoci io, nessuno più veniva a far debiti e pegni; mi hanno buttato in
mezzo a una strada, con la moglie paralitica da tre anni e due ragazze nubili, di cui
nessuno vorrà più sapere, perché sono figlie mie; viviamo del soccorso che ci manda
da Napoli un mio figliuolo, il quale ha famiglia anche lui, quattro bambini, e non può
fare a lungo questo sacrifizio per noi. Signor giudice, non mi resta altro che di
mettermi a fare la professione del iettatore! Mi sono parato così, con questi occhiali,
con quest’abito; mi sono lasciato crescere la barba; e ora aspetto la patente per
entrare in campo! Lei mi domanda come? Me lo domanda perché, le ripeto, lei è un
mio nemico!
– Io?
– Sissignore. Perché mostra di non credere alla mia potenza! Ma per fortuna ci
credono gli altri, sa? Tutti, tutti ci credono! E ci son tante case da giuoco in questo
paese! Basterà che io mi presenti; non ci sarà bisogno di dir nulla. Mi pagheranno per
farmi andar via! Mi metterò a ronzare attorno a tutte le fabbriche; mi pianterò innanzi
a tutte le botteghe; e tutti, tutti mi pagheranno la tassa, lei dice dell’ignoranza? io dico
la tassa della salute! Perché, signor giudice, ho accumulato tanta bile e tanto odio, io,
contro tutta questa schifosa umanità, che veramente credo d’avere ormai in questi
occhi la potenza di far crollare dalle fondamenta una intera città!
La patente (V)
Il giudice D’Andrea, ancora con la testa tra le mani, aspettò un pezzo
che l’angoscia che gli serrava la gola desse adito alla voce. Ma la voce
non volle venir fuori; e allora egli, socchiudendo dietro le lenti i piccoli
occhi plumbei, stese le mani e abbracciò il Chiàrchiaro a lungo, forte
forte, a lungo.
Questi lo lasciò fare.
– Mi vuol bene davvero? – gli domandò. E allora istruisca subito il
processo, e in modo da farmi avere al più presto quello che desidero.
– La patente?
Il Chiàrchiaro protese di nuovo il braccio, batté la canna d’India sul
pavimento e, portandosi l’altra mano al petto, ripeté con tragica
solennità:
– La patente.
Ciàula scopre la luna
Tradizione editoriale del testo
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29.12.1912 sul CS
1914 nel volume Le due maschere
1920 nel volume Tu ridi
1925 nel volume VIII delle Novelle per un
anno, Dal naso al cielo
Ciàula scopre la luna (I)
I picconieri, quella sera, volevano smettere di lavorare senz’aver finito
d’estrarre le tante casse di zolfo che bisognavano il giorno appresso a caricar la
calcara. Cacciagallina, il soprastante, s’affierò contr’essi, con la rivoltella in
pugno, davanti la buca della Cace, per impedire che ne uscissero.
– Corpo di... sangue di... indietro tutti, giù tutti di nuovo alle cave, a buttar
sangue fino all’alba, o faccio fuoco!
– Bum! – fece uno dal fondo della buca. – Bum! – echeggiarono parecchi altri; e
con risa e bestemmie e urli di scherno fecero impeto, e chi dando una
gomitata, chi una spallata, passarono tutti, meno uno.
Chi? Zi’ Scarda, si sa, quel povero cieco d’un occhio, sul quale Cacciagallina
poteva fare bene il gradasso. Gesù, che spavento! Gli si scagliò addosso, che
neanche un leone; lo agguantò per il petto e, quasi avesse in pugno anche gli
altri, gli urlò in faccia, scrollandolo furiosamente:
– Indietro tutti, vi dico, canaglia! Giù tutti alle cave, o faccio un macello!
Zi’ Scarda si lasciò scrollare pacificamente. Doveva pur prendersi uno sfogo,
quel povero galantuomo, ed era naturale se lo prendesse su lui che, vecchio
com’era, poteva offrirglielo senza ribellarsi. Del resto, aveva anche lui, a sua
volta, sotto di sé qualcuno più debole, sul quale rifarsi più tardi: Ciàula, il suo
caruso.
Ciàula scopre la luna (II)
Ciàula stava a rivestirsi per ritornare al paese.
Rivestirsi per Ciàula significava togliersi prima di tutto la camicia, o quella che un
tempo era stata forse una camicia: l’unico indumento che, per modo di dire, lo
coprisse durante il lavoro. Toltasi la camicia, indossava sul torace nudo, in cui si
potevano contare a una a una tutte le costole, un panciotto bello largo e lungo,
avuto in elemosina, che doveva essere stato un tempo elegantissimo e sopraffino
(ora il luridume vi aveva fatto una tal roccia, che a posarlo per terra stava ritto).
Con somma cura Ciàula ne affibbiava i sei bottoni, tre dei quali ciondolavano, e
poi se lo mirava addosso, passandoci sopra le mani, perché veramente ancora lo
stimava superiore a’ suoi meriti: una galanteria. Le gambe nude, misere e
sbilenche, durante quell’ammirazione, gli si accapponavano, illividite dal freddo.
Se qualcuno dei compagni gli dava uno spintone e gli allungava un calcio,
gridandogli: – Quanto sei bello! – egli apriva fino alle orecchie ad ansa la bocca
sdentata a un riso di soddisfazione, poi infilava i calzoni, che avevano più d’una
finestra aperta sulle natiche e sui ginocchi: s’avvolgeva in un cappottello d’albagio
tutto rappezzato, e, scalzo, imitando meravigliosamente a ogni passo il verso della
cornacchia – cràh! cràh! – (per cui lo avevano soprannominato Ciàula), s’avviava al
paese. […]
Cosa strana: della tenebra fangosa delle profonde caverne, ove dietro ogni svolto
stava in agguato la morte, Ciàula non aveva paura, né paura delle ombre
mostruose, che qualche lanterna suscitava a sbalzi lungo le gallerie, né del subito
guizzare di qualche riflesso rossastro qua e là in una pozza, in uno stagno d’acqua
sulfurea: sapeva sempre dov’era; toccava con la mano in cerca di sostegno le
viscere della montagna: e ci stava cieco e sicuro come dentro il suo alvo materno.
Aveva paura, invece, del bujo vano della notte.
Ciàula scopre la luna (III)
Curvo, quasi toccando con la fronte lo scalino che gli stava di sopra, e su la cui
lubricità la lumierina vacillante rifletteva appena un fioco lume sanguigno, egli
veniva su, su, su, dal ventre della montagna, senza piacere, anzi pauroso della
prossima liberazione. E non vedeva ancora la buca, che lassù lassù si apriva
come un occhio chiaro, d’una deliziosa chiarità d’argento. Se ne accorse solo
quando fu agli ultimi scalini. Dapprima, quantunque gli paresse strano, pensò
che fossero gli estremi barlumi del giorno. Ma la chiarìa cresceva, cresceva
sempre più, come se il sole, che egli aveva pur visto tramontare, fosse
rispuntato. Possibile?
Restò – appena sbucato all’aperto – sbalordito. Il carico gli cadde dalle spalle.
Sollevò un poco le braccia; aprì le mani nere in quella chiarità d’argento.
Grande, placida, come in un fresco luminoso oceano di silenzio, gli stava di
faccia la Luna. Sì, egli sapeva, sapeva che cos’era; ma come tante cose si sanno,
a cui non si è dato mai importanza. E che poteva importare a Ciàula, che in cielo
ci fosse la Luna? Ora, ora soltanto, così sbucato, di notte, dal ventre della terra,
egli la scopriva. Estatico, cadde a sedere sul suo carico, davanti alla buca. Eccola,
eccola là, eccola là, la Luna... C’era la Luna! la Luna!
E Ciàula si mise a piangere, senza saperlo, senza volerlo, dal gran conforto, dalla
grande dolcezza che sentiva, nell’averla scoperta, là, mentr’ella saliva pel cielo,
la Luna, col suo ampio velo di luce, ignara dei monti, dei piani, delle valli che
rischiarava, ignara di lui, che pure per lei non aveva più paura, né si sentiva più
stanco, nella notte ora piena del suo stupore.
Il treno ha fischiato
• CS, 22 febbraio 1914
• 1915, nella raccolta La trappola
• 1922, nel vol. IV delle Novelle per un anno
intitolato L’uomo solo.
• 1936, ulteriori aggiustamenti
Bisogna condurre la spiegazione là, riattaccandola a quelle condizioni di vita
impossibili, ed essa apparirà allora semplice e chiara. Chi veda soltanto una
coda, facendo astrazione dal mostro a cui essa appartiene, potrà stimarla per se
stessa mostruosa. Bisognerà riattaccarla al mostro; e allora non sembrerà più
tale; ma quale dev'essere, appartenendo a quel mostro.
Una coda naturalissima.
Non avevo veduto mai un uomo vivere come Belluca.
Ero suo vicino di casa, e non io soltanto, ma tutti gli altri inquilini della casa si
domandavano con me come mai quell'uomo potesse resistere in quelle
condizioni di vita.
Aveva con sé tre cieche, la moglie, la suocera e la sorella della suocera: queste
due, vecchissime, per cataratta; l'altra, la moglie, senza cataratta, cieca fissa;
palpebre murate.
Tutt'e tre volevano esser servite. Strillavano dalla mattina alla sera perché
nessuno le serviva. Le due figliuole vedove, raccolte in casa dopo la morte dei
mariti, l'una con quattro, l'altra con tre figliuoli, non avevano mai né tempo né
voglia da badare ad esse; se mai, porgevano qualche ajuto alla madre soltanto.
Con lo scarso provento del suo impieguccio di computista poteva Belluca dar da
mangiare a tutte quelle bocche? Si procurava altro lavoro per la sera, in casa:
carte da ricopiare. E ricopiava tra gli strilli indiavolati di quelle cinque donne e di
quei sette ragazzi finché essi, tutt'e dodici, non trovavan posto nei tre soli letti
della casa.
Il treno ha fischiato
Assorto nel continuo tormento di quella sua sciagurata esistenza, assorto tutto
il giorno nei conti del suo ufficio, senza mai un momento di respiro, come una
bestia bendata, aggiogata alla stanga d'una nòria o d'un molino, sissignori, s'era
dimenticato da anni e anni - ma proprio dimenticato - che il mondo esisteva.
Due sere avanti, buttandosi a dormire stremato su quel divanaccio, forse per
l'eccessiva stanchezza, insolitamente, non gli era riuscito d'addormentarsi
subito. E, d'improvviso, nel silenzio profondo della notte, aveva sentito, da
lontano, fischiare un treno.
Gli era parso che gli orecchi, dopo tant'anni, chi sa come, d'improvviso gli si
fossero sturati.
Il fischio di quel treno gli aveva squarciato e portato via d'un tratto la miseria di
tutte quelle sue orribili angustie, e quasi da un sepolcro scoperchiato s'era
ritrovato a spaziare anelante nel vuoto arioso del mondo che gli si spalancava
enorme tutt'intorno. […]
C'erano, mentr'egli qua viveva questa vita «impossibile», tanti e tanti milioni
d'uomini sparsi su tutta la terra, che vivevano diversamente. Ora, nel medesimo
attimo ch'egli qua soffriva, c'erano le montagne solitarie nevose che levavano al
cielo notturno le azzurre fronti... Sì, sì, le vedeva, le vedeva, le vedeva così...
c'erano gli oceani... le foreste...
E, dunque, lui - ora che il mondo gli era rientrato nello spirito - poteva in
qualche modo consolarsi! Sì, levandosi ogni tanto dal suo tormento, per
prendere con l'immaginazione una boccata d'aria nel mondo.
Gli bastava!
Il treno ha fischiato
Naturalmente, il primo giorno, aveva ecceduto. S'era
ubriacato. Tutto il mondo, dentro d'un tratto: un
cataclisma. A poco a poco, si sarebbe ricomposto. Era
ancora ebro della troppa troppa aria, lo sentiva.
Sarebbe andato, appena ricomposto del tutto, a chiedere
scusa al capo-ufficio, e avrebbe ripreso come prima la sua
computisteria. Soltanto il capo-ufficio ormai non doveva
pretender troppo da lui come per il passato: doveva
concedergli che di tanto in tanto, tra una partita e l'altra
da registrare, egli facesse una capatina, sì, in Siberia...
oppure oppure... nelle foreste del Congo.
Il treno ha fischiato
La conclusione di Il treno ha fischiato: giudizi a confronto
• L. Lugnani: “Non è la felicità quella che il misero Belluca ha trovato, ma un
modesto talismano per la sopravvivenza e, contro le ridicole diagnosi
iniziali, un surrogato alla vera pazzia e nel contempo un rudimentale
farmaco contro il rischio della follia”.
• P. Rocchi: “Egli tornerà al mondo delle forme, ricomincerà a vivere tra
obblighi e costrizioni, ma senza più sentirne il peso, nella consapevolezza
del vuoto che è nascosto al loro interno. Chiedere di fare dal mondo delle
forme, di tanto in tanto, una capatina in cerca d’aria, è la più piccola delle
pretese per chi ha conosciuto la forza dirompente delle vita”.
• G. Langella: “È la rivincita, per quanto esclusivamente virtuale, della vita,
libera e varia, sulla forma che opprime tutte le creature di Pirandello.
Belluca può tornare, così, alla sua sorte grama, ma non una risorsa che
prima non aveva: il piacere di evadere lontano. […] L’immaginazione che lo
trasporta in un batter d’occhio nei luoghi più remoti della terra, salvandolo
dalla sua condizione infelice, è in fondo l’espressione galoppante di una
facoltà poetica. La sua via di fuga è la magia dell’arte”.
L. Pirandello. Una giornata
Strappato dal sonno, forse per sbaglio, e buttato fuori dal treno in una stazione
di passaggio. Di notte; senza nulla con me.
Non riesco a riavermi dallo sbalordimento. Ma ciò che più mi impressiona è
che non mi trovo addosso alcun segno della violenza patita; non solo, ma che
non ne ho neppure un’immagine, neppur l’ombra confusa d’un ricordo.
Mi trovo a terra, solo, nella tenebra d’una stazione deserta; e non so a chi
rivolgermi per sapere che m’è accaduto, dove sono.
Ho solo intravisto un lanternino cieco, accorso per richiudere lo sportello del
treno da cui sono stato espulso. Il treno è subito ripartito. È subito scomparso
nell’interno della stazione quel lanternino, col riverbero vagellante del suo
lume vano. Nello stordimento, non m’è nemmeno passato per il capo di
corrergli dietro per domandare spiegazioni e far reclamo.
Ma reclamo di che?
Con infinito sgomento m’accorgo di non aver più idea d’essermi messo in
viaggio su un treno. Non ricordo più affatto di dove sia partito, dove diretto; e
se veramente, partendo, avessi con me qualche cosa. Mi pare nulla.
Italo Svevo, Pagine di diario: 1902
“Io, a quest’ora e definitivamente ho eliminato
dalla mia vita quella ridicola e dannosa cosa che
si chiama letteratura. Io voglio soltanto
attraverso queste pagine arrivare a capirmi
meglio. [… ] Dunque ancora una volta, grezzo e
rigido strumento, la penna m’aiuterà ad arrivare
al fondo complesso del mio essere”.
Italo Svevo, Diario per la fidanzata (1896)
Un uomo può avere solo due grandi fortune a questo mondo: quella di amare
molto oppure quella di combattere vittoriosamente nella lotta per la vita. Si è
felici in un modo o nell’altro ma non avviene spesso che il destino conceda
ambidue queste felicità. Mi pare perciò che dei caratteri umani, i felici son
quelli che sanno rinunciare all’amore o quelli che si tolgono dalla lotta.
Infelicissimi son quelli che si frazionano come desiderio o come attività nei due
campi tanto opposti. Strano che pensando alla mia Livia io ci veda e l’amore e
la vittoria.
La mia indifferenza per la vita sussiste sempre: anche quando godo della vita a
te da canto, mi resta nell’anima qualche cosa che non gode con me e che
m’avverte: Bada, non è tutto come a te sembra e tutto resta comedia perché
calerà poi il sipario. Di più l’indifferenza per la vita è l’essenza della mia vita
intellettuale. In quanto è spirito o forza, la mia parola non è altro che ironia ed
io ho paura che il giorno in cui a te riuscisse di farmi credere nella vita (è cosa
impossibile) io mi troverei grandemente sminuito. Quasi, quasi, ti pregherei di
lasciarmi stare così. Ho un grande timore che essendo felice diverrei stupido e,
viceversa poi, son felice (quale confessione ti faccio) soltanto quando sento
movermi nella grossa testa delle idee che credo non si movano in molte altre
teste.
I racconti di Italo Svevo
La stagione dell’esordio
• Una lotta (1888); personaggi: Rosina, Arturo Marchetti
e Ariodante Chigi
• L’assassinio di via Belpoggio (1890); personaggi:
Giorgio e Antonio
La stagione della maturità
• La novella del buon vecchio e della bella fanciulla e altri
scritti (1929): comprende i racconti Vino generoso, Una
burla riuscita e altri
• Corto viaggio sentimentale e altri racconti inediti
(1949)
Un sogno atroce: mi trovai in una costruzione complicata, ma che subito intesi
come se io ne fossi stato parte. Una grotta vastissima, rozza, priva di quegli
addobbi che nelle grotte la natura si diverte a creare, e perciò sicuramente
dovuta all’opera dell’uomo; oscura, nella quale io sedevo su un treppiedi di
legno accanto ad una cassa di vetro, debolmente illuminata di una luce che io
ritenni fosse una sua qualità, l’unica luce che ci fosse nel vasto ambiente, e
che arrivava ad illuminare me, una parete composta di pietroni grezzi e di
sotto un muro cementato. Come sono espressive le costruzioni del sogno! Si
dirà che lo sono perché chi le ha architettate può intenderle facilmente, ed è
giusto. Ma il sorprendente si è che l’architetto non sa di averle fatte, e non lo
ricorda neppure quand’è desto, e rivolgendo il pensiero al mondo da cui è
uscito e dove le costruzioni sorgono con tanta facilità può sorprendersi che là
tutto s’intenda senza bisogno di alcuna parola.
Io seppi subito che quella grotta era stata costruita da alcuni uomini che
l’usavano per una cura inventata da loro, una cura che doveva essere letale
per uno dei rinchiusi (molti dovevano esserci laggiù nell’ombra) ma benefica
per tutti gli altri. Proprio così! Una specie di religione, che abbisognava di un
olocausto, e di ciò naturalmente non fui sorpreso.
Era più facile assai indovinare che, visto che m’avevano posto vicino alla cassa
di vetro nella quale la vittima doveva essere asfissiata, ero prescelto io a
morire, a vantaggio di tutti gli altri. Ed io già anticipavo in me i dolori della
brutta morte che m’aspettava. Respiravo con difficoltà, e la testa mi doleva e
pesava, per cui la sostenevo con le mani, i gomiti poggiati sulle ginocchia.
Vino generoso
E allora io urlai ancora: – Se non si può altrimenti, prendete mia figlia. Dorme
qui accanto. Sarà facile. – Anche questi gridi furono rimandati da un’eco
enorme. Ne ero frastornato, ma urlai ancora per chiamare mia figlia: – Emma,
Emma, Emma!
Ed infatti dal fondo della grotta mi pervenne la risposta di Emma, il suono
della sua voce tanto infantile ancora: – Eccomi, babbo, eccomi.
Mi parve non avesse risposto subito. Ci fu allora un violento sconvolgimento
che credetti dovuto al mio salto nella cassa. Pensai ancora: “Sempre lenta
quella figliuola quando si tratta di obbedire”. Questa volta la sua lentezza mi
rovinava ed ero pieno di rancore.
Mi destai. Questo era lo sconvolgimento. Il salto da un mondo nell’altro. Ero
con la testa e il busto fuori del letto e sarei caduto se mia moglie non fosse
accorsa a trattenermi. Mi domandò: – Hai sognato? – E poi, commossa: –
Invocavi tua figlia. Vedi come l’ami?
Fui dapprima abbacinato da quella realtà in cui mi parve che tutto fosse
svisato e falsato. E dissi a mia moglie che pur doveva saper tutto anche lei: –
Come potremo ottenere dai nostri figliuoli il perdono di aver dato loro questa
vita?
Ma lei, sempliciona, disse: – I nostri figliuoli sono beati di vivere.
La vita, ch’io allora sentivo quale la vera, la vita del sogno, tuttavia
m’avviluppava e volli proclamarla: – Perché loro non sanno niente ancora.
Vino generoso
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A. A. 2012-2013 SP 2013 Prof. Uberto MOTTA Le forme brevi della