òς
European Journalism - GNS Press Ass.tion - The ECJ promotes publishing, publication and communication- P. Inter.nal
ADDIO MATTEO
ANNO X
Edizione
straordinaria
28 luglio 2014
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Addio Matteo
Terra di nessuno
Siria ed Iraq
Mater Dei
Il teatro romano
De cognomine
Una donna nella lett.
Robespierre televisivo
Giovani e politica
Il racconto del mese
Momento tenero
Antonio Amico
Momento tenero
Proverbi e modi di dire
La pagina medica
Note sociologiche
La donna nella letterat.
Regimen sanitatis saler.
L’angolo del cuore
Sul portale
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Grave lutto per Rosamaria Pastore, la Direttrice di ANTROPOS IN
THE WORLD, è venuto a mancare Matteo Liguori, suo marito da
oltre trent’anni.
Matteo, un uomo mite e fortemente legato alla sua famiglia, dopo
una proficua esperienza di lavoro impiegatizio a Milano, aveva dato il
meglio di sé all’Ufficio provinciale del Tesoro, grazie alla sua ottima
preparazione in materia di ragioneria e contabilità.
Il professionista, molto considerato nel suo ambiente di lavoro, si
era distinto per attaccamento al lavoro e capacità organizzative.
I funerali, espletatisi nella chiesa di San Domenico , in Salerno,
hanno raccolto intorno al feretro, per l’ultimo saluto, numerosissimi
amici e parenti, da tutta la provincia.
Settantasette anni è una età giusta per morire? E come lo potrebbe
essere, quando, dopo una vita di lavoro frenetico e tanti sacrifici, si è
sul punto di assistere alla seduta di laurea dei due figlioli?
Quando Paolo e Daniela hanno ancora bisogno di consigli ed
amore paterno?
Quando dalla loro coesione, derivava tutto, dalla forza operativa a
quella economica, dalla perseveranza al conseguimento degli obiettivi? Ma questa è la vita, un breve disperatissimo sogno!
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Antropos in the world
CARCERE,UNA SORTA DI TERRA DI NESSUNO
Quanto più forte è uno Stato, più forte è il
diritto di indignarsi di quanti non vedono riconosciuti i propri diritti: fare giustizia significa
sanare una ferita, una lacerazione, costringendo
il dolore a trasformarsi nella sofferenza, nella
scoperta di essere meno indifesi e impreparati
se esiste la possibilità concreta di affidarsi agli
altri, a quegli altri che siamo noi.
Il carcere come unico baluardo al ripristino
della legalità, all’assunzione di responsabilità,
all’educazione da ritrovare: riesce difficile convincersi che sia la strada più efficace da percorrere per raggiungere gli obiettivi di cui sopra, un luogo deputato a saldare conti in sospeso con la collettività, uno spazio adibito alla
moltiplicazione del dolore, una sorta di terra di
nessuno, dove solo pochi intendono posare lo
sguardo.
Non c’è capacità di osservare quel che
accade dentro una cella, soprattutto ciò che non
accade, è lecito discuterne per ideologie d’accatto, per pancia buttata sottosopra, ma non ci
sarà mai abbastanza onestà intellettuale per
rimettersi in gioco, per ritrovarsi e infine riparare al male fatto. Finchè la Giustizia permarrà
signora costretta di spalle, con gli occhi bassi,
non potrà varcare con autorevolezza i cancelli
di una galera, per offrire forza sufficiente al
riappropriarsi del proprio ruolo e della propria
utilità al carcere e alla pena, nella differenza
che intercorre tra chi entra in carcere, alla meno
peggio rimane affondato al punto di partenza, e
chi invece azzera la propria esistenza con un
po’ di sapone e un laccio al collo.
Progetti a rimbalzare sulla realtà che non è
di carta, dove ci sono le persone, che fanno ben
sperare in una condizione umana migliore, persone che sebbene detenute non ci stanno a essere punite due o tre volte da una sopravvivenza
imposta.
Esistono le persone in questo pianeta, checchè ne faccia dubitare il disprezzo estremo cui
è ridotto il carcere, la disperazione delle parole
obbligate a rimanere monche, inutili, perciò impreparate a dare importanza ai morti che si affastellano dentro gli spazi iniqui, agli altri ma-
scherati da vivi ma annientati ulteriormente nella propria dignità. C’è
in atto una neanche tanto sottile strategia a significare che è tutto esagerato, eccessivo, un film squinternato nella sua sceneggiatura, eppure la prigione non è recinto per i
soli brutti, sporchi e cattivi, anche chi sta ai piani
alti, nel reame dei perennemente onesti, dei
buoni a tutti i costi, si muovono le pedine sacrificali, perché non solamente la libertà è comandata a sparire, con essa la dignità dell’ultima volontà di un perdono. Occorre davvero nutrirsi di
resilienza, rifiutando la quotidianità della deresponsabilizzazione, facendo un passo indietro,
scegliendo la fatica, la rinuncia, per non dichiararsi sconfitti alla propria ritrovata umanità, anche all’umanità di chi è disposto a tendere significativamente la mano: non si tratta di una mera
concessione statuale, bensì di una nuova condivisione che diventa conquista di coscienza.
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Antropos in the world
SIRIA ED IRAQ, VITTIME DELLA CROCIATA
CONTRO ARABI LAICI E SCITI
Che cosa sta succedendo in Iraq? Semplice: con
poche varianti, la stessa cosa che sta avvenendo in Siria.
Continua, cioè, la sanguinosa manovra per elimi-nare
fisicamente gli arabi laici e, con essi, le due comu-nità
religiose ostili al fondamentalismo jihadista: i musulmani sciiti ed i cristiani orientali. È una guerra sporca,
sporchissima, lorda di sangue, di petrolio e dell’inchiostro
bugiardo della stampa occidentale, che uccide quotidianamente la verità facendo passare quelle nefande guerre
d’aggressione per benemerite “rivolte democratiche” contro regimi impopolari perché dittatoriali. Ma, di grazia,
qualcuno vuole citarmi un solo Paese arabo che sia retto
da un sistema autenticamente democratico?
Sono due guerre – quella dell’Iraq e soprattutto quella
della Siria – che tanti punti in comune hanno con quella
che, tre anni or sono, fu mossa contro la Libia di Gheddafi, armando – a spese delle monarchie petrolifere del
Golfo e dei servizi occidentali – un esercito merce-nario
di sedicenti “ribelli” (peraltro in larga parte formato da
fanatici fondamentalisti) che in poche settimane distrusse
completamente la vita civile e l’economia di una delle
nazioni più floride del mondo arabo.
Le prove generali – a onor del vero – erano già state
fatte, otto anni prima, contro la prospera repubblica laiconazionalista dell’Iraq. Il suo Presidente-dittatore Saddam
Hussein era stato accusato di essere il protettore dei terroristi sunniti di al-Qaeda e di detenere grandi arsenali di
“armi di distruzione di massa”. Tutti sanno che le armi di
distruzione di massa non furono trovate, per il semplice
fatto di essere state soltanto un’invenzione dei servizi
segreti americani. Quel che molti ignorano, invece, è che
Saddam Hussein contrastasse i fondamentalisti religiosi
di al-Qaeda, e che addirittura fosse un elemento essenziale di quella “cintura sanitaria” che impediva al terrorismo
jihadista di penetrare nelle società arabe progredite, ivi
comprese quelle dei Paesi nostri dirimpettai nel Mediterraneo.
Queste cose, però, erano perfettamente note a tutti gli
“addetti ai lavori”, ivi compresi – naturalmente – gli
eccelsi strateghi americani; anche se questi, ufficialmente,
si affannavano a proclamare che quella di Bush era una
benemerita guerra “contro il terrore”. Non era vero
niente, anzi era vero l’esatto opposto: era – volontariamente o involontariamente – una guerra “per il terrore”,
per consentire ai qaedisti di dilagare in tutto il mondo
arabo e, come conseguenza diretta, di tenere sotto scacco
l’Europa. Perché tutto ciò? Perché – è la mia personalissima opinione “eretica” – perché solamente un’Europa che si sentisse minacciata dal fondamentalismo
islamico sarebbe stata disposta a sbracarsi ancor di più di
fronte ai padroni americani, accettando non soltanto il
vassallaggio militare di una NATO ormai senza più
ragion d’essere, ma anche quello economico (che sta
materializzandosi proprio in queste settimane) di una zo-
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na atlantica di libero scambio che è utile solo agli statunitensi.
Certo – è sempre l’eretico che parla – non posso
credere che gli spioni della CIA abbiano potuto pensare,
anche soltanto per un attimo, che il laicissimo Saddam
Hussein fosse alleato del fondamentalista Bin Laden. Così
come non posso credere che gli spioni di cui sopra non
avessero previsto la dissoluzione dell’Iraq, una volta
abbattuto il regime laicista che era faticosamente riuscito
a tenere unito il Paese. L’Iraq – sia detto per inciso – è
uno Stato artificiale, creato a suo tempo dagli inglesi per
motivi eminentemente petroliferi; creato – si badi bene –
costringendo ad una convivenza forzata la regione arabosunnita di Baghdad, quella sciita di Bassora e quella kurda
di Mosul, per tacere della (un tempo) numerosa comunità
arabo-cristiana.
Gli strateghi americani – dicevo – dovevano ben
sapere che l’Iraq sarebbe andato in frantumi e sarebbe
stato preda delle bande fondamentaliste. Esattamente
come la Libia, otto anni appresso. Esattamente come si è
tentato di fare in Siria, poco dopo. Esattamente come si
tenta di fare in questi giorni nuovamente in Iraq. Lì, come
in Siria, la barbarie avanza. Ed a farne le spese sono in
primo luogo i cristiani: uccisi, torturati, bruciati vivi nelle
chiese e – i più fortunati – espulsi dai loro paesi e costretti
all’emigrazione forzata.
Un’Europa imbecille, intanto, fa il tifo per gli “eserciti
dei ribelli” e lancia gridolini di gioia per ogni arretramento delle “milizie del regime”, obbedendo ai fogli
d’ordine americano-saudito-israeliani. Al contempo, gli
Stati Uniti – che nel 2003 rasero al suolo l’intero Iraq –
hanno fatto sapere che questa volta non invieranno soldati
e non bombarderanno nessuno; tutt’al più, interverranno
con i droni, gli aerei senza pilota. E che il governo sciita
dell’Iraq (alleato di quello dell’Iran) si arrangi come può
per difendersi dai terroristi. Le guerre “contro il terrore”
non si fanno più, le bombe “intelligenti” sono finite; e
verrebbe da dire che oggi si usano soltanto le bombe
cretine, quelle tanto care agli americani e a chi dà loro
credito.
Il Premio Nobel per la Pace Barack Obama è stato
chiaro, come si conviene ad un perfetto pacifista a stelle e
strisce. Le guerre si fanno soltanto contro i cattivi: il
Presidente siriano Assad è certamente un cattivo, perché
rifiuta di consegnare il suo Paese agli sceicchi sunniti; gli
iraniani sono cattivi per antonomàsia, perché stanno
antipatici a Israele; e il più cattivo di tutti è certamente
Putin, che non vuole vendere il gas a metà prezzo
all’Ukraina che gli americani gli hanno strappato giocando sporco. Certo, tutto sarebbe stato più facile se,
qualche mese fa, i russi avessero consentito al Presidente
abbronzato di radere al suolo la Siria di Assad, ma quel
dittatoraccio di Putin ha avuto il cattivo gusto di mettersi
di traverso.
M. Rallo
Antropos in the world
Pazienza, adesso gli americani dovranno far finta di
avversare i terroristi del fantomatico ISIS (Stato Islamico
dell’Iraq e della Siria), e i loro amici europei dovranno far
finta di crederci.
Il tutto – a modesto parere dello scrivente – stando
bene attenti a non intralciare il disegno del “Grande Medio
Oriente”, teorizzato da circoli sauditi e israeliani, le cui
Siamo seduti sopra una
Le guerre
si fanno solo contro polveriera!
cattivi!?
spire dovrebbero allargarsi a nord, fino al Caucaso ed al
M a r Ne r o .
Un Grande Medio Oriente con la Russia e l’Iran
fuori gioco e, comunque, non in grado di fare concorrenza al petrolio saudita, né al gas “di scisto” americano e, dopo l’entrata in produzione del nuovis-simo
giacimento Leviathan, neanche al gas israeliano che – ci
scommetto – prenderà il posto di quello libico diretto in
Europa.
Intanto, siamo tutti seduti su una polveriera. Anzi su
due polveriere. Una è l’Iraq, l’altra è l’Ukraina. Speriamo che non ci siano scintille.
Michele Rallo
Da “ Opinioni eretiche”
QUARTA EDIZIONE DEL PREMIO DI POESIA RELIGIOSA “MATER DEI” IUNIOR
E’ bandito dalla Rivista “ Antropos in the
world”, in collaborazione con la “ Chiesa Madre
SS.Corpo di Cristo, la Fondazione Carminello
ad Arco, e con il patrocinio del Comune di San
Valentino Torio, la seconda edizione del Premio
MATER DEI
Possono partecipare alunni delle scuole elementari e medie, con un breve componimento in
poesia o anche in prosa dedicata alla Vergine
Maria. E’ importante che nessun adulto ponga
mano all’elaborato.
La partecipazione è gratuita. Inviare i lavori
alla Direzione di Antropos in the world, via Posidonia,171/h – 84128 Salerno, entro il 30 giugno
2014. La Commissione è formata dalla prof.ssa:
Pastore Rosa Maria, dirett.ce di A. I. T. W.;
dott. Flaviano Calenda, Pres.Carminello ad Arco;
dott. Renato Nicodemo, mariologo;
dott. Franco Pastore, scrittore;
Geom. Carlo D’Acunzo, giornalista, redatt.re
capo della redazione Angri;
dott. Giuffrida Farina, saggista e poeta;
dott. Vincenzo Soriente della redaz. ne di San
Valentino Torio.
dott. Raffaele Villani.
Tra i concorrenti saranno scelti tre vincitori,
mentre saranno dati tre diplomi di merito a coloro che si sono comunque distinti nella
stesura dell’elaborato.
A tutti i fanciulli concorrenti, sarà consegnato un attestato di partecipazione. Le poesie
premiate figureranno sul giornale di ottobre.
Successivamente sarà comunicata la sede
della manifestazione che si terrà presumibilmente nella prima decade di settembre.
Per informazioni: 089.223738/ 089.723814
e-mail:
[email protected]
PER LUGLIO ED AGOSTO, IL GIORNALE ENTRA IN PAUSA ESTIVA
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Antropos in the world
IL TEATRO COMICO ROMANO a cura di Andropos
La parola commedia è tutta greca: κωμῳδία, "comodìa", infatti, è composta da κῶμος, "Kòmos", corteo festivo e
ᾠδή,"odè", canto. Di qui il suo intimo legame con indica le antiche feste propiziatorie in onore delle divinità
elleniche, con probabile riferimento ai culti dionisiaci . Peraltro, anche i primi ludi scenici romani furono istituiti,
secondo Tito Livio, per scongiurare una pestilenza invocando il favore degli dèi. I padri della lingua italiana, per
commedia intesero un componimento poetico che comportasse un lieto fine, ed in uno stile che fosse a metà strada
fra la tragedia e l'elegia. Dante, infatti, intitolò comedìa il suo poema e considerò tragedia l’Eneide di Virgilio. La
commedia assunse una sua struttura ed una sua autonomia durante le fallofòrie dionisiache e la prima gara
teatrale fra autori comici si svolse ad Atene nel 486 a.C. In altre città si erano sviluppate forme di spettacolo
burlesche, come le farse di Megara, composte di danze e scherzi. Spettacoli simili si svolgevano alla corte del
tiranno Gerone, in Sicilia, di cui purtroppo, non ci sono pervenuti i testi.
A Roma, prima che nascesse un teatro regolare, strutturato cioè intorno a un nucleo narrativo e organizzato
secondo i canoni del teatro greco, esisteva già una produzione comica locale recitata da attori non professionisti, di
cui non resta tuttavia documentazione scritta. Analogamente a quanto era accaduto nel VI secolo a.C. in Attica,
anche le prime manifestazioni teatrali romane nacquero in occasione di festività che coincidevano con momenti
rilevanti dell’attività agricola, come l’aratura, la mietitura, la vendemmia.
TERENZIO: Phormio (rappresentata nel 161 a.C.)
La data di nascita di Terenzio non è conosciuta con precisione; si ritiene sia nato lo stesso anno della morte di Plauto,
nel 184 a.C., e comunque tra il 195 e il 183 a.C.. Di bassa statura, gracile e di pelle scura, nacque a Cartagine ed arrivò
a Roma come schiavo del senatore Terenzio Lucano. Quest’ultimo lo educò nelle arti liberali, e in seguito lo affrancò
ed assunse il nome di Publio Terenzio Afro. Fu in stretti rapporti con il Circolo degli Scipioni, ed in particolare
con Gaio Lelio, Scipione Emiliano e Lucio Furio Filo: grazie a queste frequentazioni, apprese l'uso alto del latino e si
tenne aggiornato sulle tendenze artistiche di Roma. Il grammatico Fenestella cita però altri esponenti della "nobilitas",
ossia Sulpicio Gallo, Quinto Fabio Labeone e Marco Popillio. Durante la sua carriera di commediografo (dal 166, anno
di rappresentazione della prima commedia, Andria,al 160 a.C.), venne accusato di plagio ai danni delle opere di Nevio
e Plauto e di aver fatto da prestanome ad alcuni protettori, impegnati in politica, per ragioni di dignità e prestigio
(l'attività di commediografo era considerata indegna per il civis romano), tanto che Terenzio stesso si difese tramite le
sue commedie: nel prologo degli Adelphoe (I fratelli), per esempio, egli rifiuta l'ipotesi che lo vede prestanome di altri,
segnatamente dei membri dello stesso Circolo degli Scipioni. Venne accusato di mancanza di vis comica e di uso
della contaminatio. Morì mentre si trovava in viaggio in Grecia nel 159 a.C., all'età di circa 26 anni. Terenzio scrisse
soltanto 6 commedie, tutte giunte a noi integralmente.
TRAMA DELLA COMMEDIA – Protagonista è il SINOSSI - Formione è una rielaborazione dell'Epiparassita Formione, che riesce con vari strata- dikazòmenos di Apollodoro di Caristo. Fu rappregemmi a combinare l'unione dei due cugini, Fedria sentata per la prima volta nel 161 a.C. Anche qui,
e Antifone, con le due ragazze di cui sono inna- poi, si affaccia il tema del contrasto generazio-nale:
morati, una suonatrice di cetra e una ragazza po- esso avviene tra le due coppie genitori-figli, che
formano quasi due blocchi simmetricamente convera.
Durante l'assenza dei rispettivi padri (i fratelli Cre- trapposti, con funzione di protagonisti e con una
mète e Demifone), i loro figli Fedria e Antifonte prevalenza dello spazio e dell'importanza dei padri a
sono affidati al servo Geta: il primo è innamorato di confronto dei figli sulla scena (contrariamente a
una suonatrice di cetra e deve trovare trenta mine quanto avveniva in Plauto e a quanto avviene nell'
per riscattarla, il secondo di una ragazza di Lemno "Eunuchus"). Parallelamente e accanto a queste
libera ma povera. Geta, per aiutare i ragazzi si ri- coppie (veri e propri personaggi "doppi"), si delivolge a Formione, avido parassita che finge in tri- neano i protagonisti "singoli": Geta e Formione vibunale di essere un amico di famiglia di Fanio, la vono della loro individualità e della loro "singolare"
ragazza senza dote. Infatti per la legge ateniese se capacità d'infrangere gli equilibri codificati, per
una ragazza è senza dote, il parente più prossimo trasformare le realtà ed adattarla ai propri desideri;
può decidere la sua sorte. Formione quindi dice di ma più degli schiavi truffaldini di Plauto, essi
essere disposto a darla in sposa ad Antifone ma il agiscono all'interno del "sistema" utilizzando le sue
padre non approva il matrimonio del figlio. Torna a "falle" (i cavilli delle sue leggi) per irretire alcuni a
casa anche Cremete che, all'insaputa della moglie, vantaggio di altri e di se stessi.La commedia è
aveva avuto a Lemno una figlia, che vorrebbe dare tratta dall' "Epidicazòmenos" ("Quello che rivenin moglie al nipote.
dica"), di Apollonio di Caristo.
Formione si propone per sposare la ragazza ma
a patto che Cremete la fornisca di una
-5dote di trenta mine (la somma necessaria
che serve a Fedria per riscattare la sua
amata citarista); Cremete accetta e
scopre che Fanio è sua figlia.
Antropos in the world
DE COGNOMINE DISPUTĀMUS
“ Il soprannome è l’orma di una identità forte, che
si è imposta per una consuetudine emersa d’improvviso, il riconoscimento di una nobiltà popolare, conquistata in virtù di un ruolo circoscritto alla persona,
quasi una spinta naturale a proseguire nella ricerca
travagliata di un altro sé. Il sistema antroponimico
era dunque binominale, formato da un nome seguito
o da un’indicazione di luogo (per es.: Jacopone da
Todi), o da un patronimico (Jacopo di Ugolino) o da
un matronimico (Domenico di Benedetta) o da un attributo relativo al mestiere (Andrea Pastore), et cetera. Il patrimonio dei cognomi era pertanto così scarso, che diventava necessario ricorrere ai soprannomi, la cui origine non ha tempi e leggi tali, da permettere la conoscenza di come si siano formati, e la
maggior parte di essi resta inspiegabile a studiosi e
ricercatori.
Spesso, la nascita di un soprannome rimanda ad
accostamenti di immagini paradossali ed arbitrari.
Inutilmente ci si sforzerebbe di capire il significato e
l’origine di soprannomi come "centrellaro" o come
"strifizzo" o "trusiano",lavorando solo a livello di ricerca storica e filologica. Così, moltissimi soprannomi restano inspiegabili, incomprensibili, perché si
è perso ormai il contesto storico, sociale e culturale
o, addirittura, il ricordo dell’occasione in cui il soprannome è nato. Verso il XVIII° secolo, il bisogno
di far un po’ d'ordine e la necessità di identificare
popolazioni diventate ormai troppo popolose porta
all'imposizione per legge dell'obbligo del cognome.
Questo mese, ci occuperemo del cognome: SALVI
Origini
L'origine del cognome Salvi è incerta. Alcuni
dicono che sia etnica perché i Salii, detti anche
Salluvii o Salvi, vivevano in Provenza in una confederazione celto-ligure e l'etimologia del cognome
deriverebbe così da "sale", che era il prodotto che
essi facevano passare prevalentemente in questa
zona: in modo che essi siano "quelli delle saline". Si
diceva che costoro fossero molto cruenti in guerra.
Alcuni dicono che il significato e le origini del nome
sono da attribuire invece a una sorta di devozione:
"salvi" starebbe per "salvi in Dio". Secondo alti,
invece, significherebbe "in buona salute, liberi dalla
schiavitù", quindi salvi nel senso di "liberi dagli altri,
salvati".Tra i cognomi italiani, è diffuso moltissimo
in Lombardia ma originariamente si trovavano
soprattutto a Genova, dove erano dediti al commercio ma erano anche abili notai.
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a cura di Andropos
Probabilmente questa loro dedizione al commercio spiegherebbe la diffusione anche, per
esempio, a Firenze. Sembra in particolare che il
nome dei Salvi ricorra soprattutto nella comunità
montana della Valle Stura, che si trova proprio
nell'Appennino Ligure, ma anche a Rossiglione (da
dove poi si spostarono ad Amalfi, città più adatta ai
mercanti). Infatti si trovano molte analogie araldiche tra lo stemma della città di Rossiglione e lo
stemma della casata dei Salvi.
L'araldica dei cognomi rappresenta i Salvi con
l'oro, il nobile metallo del blasone, simbolo della
potenza, del coraggio, della grandezza, ma anche
con l'argento, che rappresenta la purezza, l'innocenza e la giustizia. L'animale dei Salvi è l'aquila
nera, che si stende su un campo d'oro perché simbolo di concessione imperiale. La spada presente
nello stemma è il simbolo di volontà guerriera. Lo
stemma araldico della città di Rossiglione presenta
sempre l'oro, quindi lo stesso metallo prezioso, e lo
stesso animale: l'aquila. Coincidenza che fa dunque
pensare che i Salvi si siano stabiliti primariamente
in questa zona e che fa cadere l'ipotesi dell'origine
etnica del nome.
PERSONAGGI:
- Baldino De Salvo, 1117, è annoverato tra gli
ambasciatori che trattarono per la pace con il re
Guglielmo II di Sicilia. Tra i nomi noti, sono da
ricordare Nicola e Bartolomeo.
- Salvo D'Acquisto (Napoli, 15 ottobre 1920 –
Torre di Palidoro, 23 settembre 1943) è stato un
vice brigadiere dei Carabinieri, insignito di
Medaglia d'oro al valor militare alla memoria per i
fatti del 23 settembre 1943 che lo videro eroico
protagonista. Salvo offrì la sua vita, in sostituzione
di quella di 22 prigionieri e fu fucilato dai tedeschi
a Torrimpietra, il 23 settembre del 43, aveva 22
anni. Gli stessi tedeschi riferirono: "Il vostro
Briga-diere è morto da eroe. Impassibile anche di
fronte alla morte." Le sue spoglie sono conservate
nella prima cappella sulla sinistra, adiacente
all'ingresso, della Basilica di Santa Chiara di Napoli.
(E’ una forzatura voluta il nome al posto del, cognome per poter parlare dell’eroico carabiniere)
BRONTOLO
IL GIORNALE SATIRICO DI SALERNO
Direzione e Redazione
via Margotta,18 - tel. 089.797917
Antropos in the world
DE SATHANA CUM VIRGINE
IL LIBERO ARBITRIO
Di Remato Nicodemo
Il Diavolo, si sa, è il nuovo attore che comparve
sulla scena della vicenda umana introducendovi il
peccato e la morte (Gn 3,1 ss) ed è l’altro segno che
apparve in cielo, pronto a divorare il figlio della donna
appena fosse nato (Ap 12,3).
Sempre in lotta con Cristo (Lc 10,18; Gv 12,31) e
con i credenti in Cristo (2 Cor 11,14 s.; Gal 4,7; 1Pt 5,8
s.; Ap 12,17), contrariamente a quanto credono alcuni
teologi, egli non è un mito o un simbolo del male in
generale, ma persona; il Catechismo della Chiesa
Cattolica insegna, infatti, che “quando alla fine del
Padre nostro si dice <ma liberaci dal male>, con male
s’intende la persona del Maligno, non il male in
generale” (CCC n. 2851).
Egli è, come ebbe a dire Paolo VI, un agente perverso e pervertitore, libero, intelligente e dotato di
spirito d’iniziativa ed i suoi fumi sono penetrati
finanche nel tempio di Dio. Da grande falsario ha,
inoltre, la grande abilità di presentare il male sotto
forma di bene e di far credere addirittura di non
esistere.
Siccome nella Bibbia non mancano le sfide tra il
cielo e l’inferno (cf, ad es., Gb 1,6; Gd 9) e la Vulgata indicava la Vergine come la donna destinata a
contrastare il serpente ed a schiacciargli la testa (Gn
3,17), abbiamo avuto, soprattutto nella lette-ratura
medievale, la descrizione di una serie di contrasti tra
angeli, santi e demoni che si risolvono con l’inter-vento
della Vergine.
Dante Alighieri, nella Divina Commedia, dopo aver
descritto il contrasto con san Francesco per il possesso
dell’anima di Guido da Montefeltro, in cui il Demonio
sfoggiò con compiaciuta ironia la sua competenza
logica (If 27,112-129), ne riporta un altro con “l’angel
di Dio”, nel quale “quel d’inferno” poté solo sfogare
furiosamente con urla impotenti la propria rabbia,
perché a Buonconte, figlio di Guido, era bastata una
“lacrimetta” per morire nel nome di Maria (Pg 5, 101).
Un ulteriore celebre contrasto è quello che Bonvesin de
la Riva (1240 ca – 1315 ca) compose in versi alessandrini (doppi settenari ) e che così viene presentato in
un’apprezzata Antologia della letteratura italiana
(D’Anna, ME/FI 1977): “Tra i ‘volgari’ di Bonvesino
certamente uno dei più notevoli (…) è quello che introduce a contrastare tra loro il Demonio e la Vergine.
Luigi Russo ha posto acutamente in evidenza la
vigoria con cui il Demonio si oppone alla sua antagoni-
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sta, la loicità estrema e l’impegno del suo argomentare:
del resto Satana,nelle pagine dei moralisti lombardi, non
appare quasi mai come un essere inferiore, ma come un
emulo pericoloso di Dio, una forza che domina implacabile su una gran parte del mondo creato.
Il Demonio sarà alla fine sconfitto dalla Vergine;
tuttavia per tutta la durata del componimento incalza
senza requie.
Perché la Vergine, regina di giustizia, lo perseguita,
togliendogli la sua legittima preda, cioè i peccatori?
Perché la Vergine continua a rinfacciargli il suo
peccato antico, se proprio in seguito alla prima tentazione Cristo è disceso sulla terra e lei si è fatta madre di
Dio? Perché Iddio non lo ha creato puro e santo come
gli altri angeli? La Vergine ribatte che Iddio pose in lui
il libero arbitrio, e come libero avrebbe potuto
volgersi al bene invece che al male. Tuttavia Iddio
sapeva che egli sarebbe caduto, che egli si sarebbe
perso per un solo peccato. Perché dunque lo trasse dal
nulla? Io non sarei ora demonio s’Egli non mi avesse
creato”.
“Forse non è stato posto sufficientemente in
evidenza lo straordinario motivo che Bonvesino pone
in bocca alla Vergine, quando la Vergine risponde
all’ultima domanda. Poniamo che Dio, prevedendo la
dannazione di Satana, avesse tralasciato di crearlo.
Satana avrebbe potuto insorgere contro il Creatore, e
dall’increato, dal nulla, dalla zona nubilosa della sua
inesistenza, avrebbe potuto accusarlo di avergli negata
la vita: Se tu, Iddio, dovevi crearmi, non mi dovevi far
torto relegandomi nel nulla. Se tu sapevi che io sarei
stato peccatore, e che perciò? Era forse ciò affare tuo?
Forse che dovevi per questo tralasciare la tua opera?
Forse era una sufficiente ragione perché io non vivessi?
Crearmi tu dovevi ugualmente, trarmi dal nulla! e poi
punirmi come meritavo se avessi peccato.
Questo diritto della creatura (che è poi nella
fattispecie il Maligno, il Demonio) a vivere, ad essere,
al di là di ogni considerazione sulla sua sorte futura,
sulla sua dannazione, questa sorta di medioevale
esistenzialismo posto sulle labbra della Vergine, concludono - è di un tale rigore di un tal piglio
drammatico, di una tale modernità e novità di accenti,
che impressiona e sorprende il lettore”.
E’ chiaro dunque – e lo diciamo in maniera
temeraria – che forse Dio non sarebbe Dio se avesse
tolto a una delle sue creature il dono della libertà.
Antropos in the world
QUEL CHE PENSANO I GIOVANI
GIOVANI E POLITICA
Le ultime elezioni europee hanno evidenziato il
trionfo di uomini e partiti che, nel corso della loro
campagna elettorale, spesso con eccessi demagogici,
maggiormente hanno criticato l’operato dei politici
che, negli ultimi anni, hanno guidato il paese.
Tali risultati rappresentano un chiaro segnale della
voglia dei cittadini, giovani in primo luogo, di affidarsi a persone nuove, che potessero dare maggiori
speranze di ricostruzione politica e sociale de3l nostro
paese.
Tuttavia, la maggioranza dei partiti, contrariamente
a ciò che questi risultati esprimono, continuano ad
affidarsi a politici obsoleti, le cui motivazioni esondano esclusivamente nel conseguimento di potere,
prestigio della poltrona ed irrinunciabili vantaggi
economici. Tale situazione non ha fatto altro che dare
vita ad una vera e propria diaspora politica giovanile.
Le nuove generazioni, convinte che la politica sia una
loggia nella quale esistono gerarchie immutabili di
potere, hanno abbandonato qualsiasi attivismo politico
riducendo, ad esempio, gran parte degli scioperi e
delle occupazioni di istituti a meri pretesti per restare
a letto o fare una passeggiata in compagnia.
Ad alimentare ulteriormente questo distacco giovanile dal discorso politico, oltre alla serie di scandali
che hanno travolto e continuano a travolgere la politica italiana, hanno contribuito gli stessi partiti. Essi,
infatti, anziché unire le proprie forze nella speranza di
rilanciare la crescita del paese, hanno preferito piuttosto esprimere la loro autonomia rispetto ad altre fazioni; un’autonomia basata non tanto su differenze
ideologiche fondamentali, quanto su marginali aspetti
programmatici. Tutto ciò ha dato vita ad una frammentazione politica che ha avuto come maggiore, se
non unico risultato la creazione di una miriade di
partiti ideologicamente analoghi, che hanno finito col
confondere gli stessi elettori, in particolare le nuove
generazioni che si sono trovate ad affacciarsi per la
prima volta alla politica.
Noi giovani non possiamo però considerarci esenti
da colpe. Sembra infatti essere ormai scomparsa in noi
quella voglia di rivalsa e di cambiamento, quello spirito, a tratti patriottico, che animava invece i giovani
intellettuali antifascisti e le giovani generazioni sessantottine, eppure sono passati meno di 50 anni da
quelle proteste e quegli scioperi che, a detta di molti
storici e non solo, hanno radical-mente cambiato la
società mondiale e la dinamica delle relazioni interpersonali.
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Questo spirito patriottico emerge sfortunatamente
sempre più spesso nelle nuove generazioni solo in
concomitanza con grandi manifestazioni sportive
quali Mondiali ed Europei di calcio, a conferma di
un luogo comune diffuso in tutto il mondo sugli
italiani ed esplicitato chiaramente da un famoso
aforisma di Winston Churchill: “Gli Italiani perdono le guerre come se fossero partite di calcio e le
partite di calcio come se fossero guerre”.
Una svolta radicale alla politica italiana, che
permetta anche alle giovani generazioni di potersi
riavvicinare ad essa, non può che essere impressa
dagli stessi partiti. Questi ultimi potrebbero rinunciare ad evidenziare quelle piccole differenze di cui
si è parlato prima, ponendo invece l’accento su
quelli che sono gli obiettivi e le ideologie comuni.
Leggendo commenti sui social network e su altre
piattaforme, infatti, risulta sempre più evidente come la maggioranza dei cittadini comuni, giovani e
non, credano che la crisi della politica italiana sia
dovuta ad una fine totale delle ideologie.
Non dobbiamo invece dimenticare quella che è
stata la lezione di un grande cantautore italiano,
Giorgio Gaber, che, in un periodo difficile della storia della politica italiana, come quello degli anni
successivi allo scandalo Tangentopoli, cantava, nella sua “Destra-Sinistra”:- … l’ideologia malgrado
tutto credo ancora che ci sia…”.
Paolo Zinna
Non hic Centauros, non Gorgonas
Harpyiasque invenies:
Hominem pagina nostra sapit
Marziale
Antropos in the world
GRILLO: IL ROBESPIERRE TELEVISIVO CHE SPAVENTA GLI ITALIANI
di Michele Rallo
Perché Beppe Grillo non ha vinto? Perché, nel referendum fra la rabbia (rappresentata da lui stesso) e la
speranza (rappresentata da Renzi), gli italiani hanno
scelto la speranza. Molti, moltissimi, lo hanno fatto senza
convinzione, quasi come il naufrago che si aggrappa a un
relitto insicuro che difficilmente resisterà alle prossime
ondate. Eppure, malgrado la flebilità della speranza e, al
contrario, la forza della rabbia, a trionfare è stata la
prima. Come mai? Per due motivi, a modesto parere
dello scrivente: la paura e la “democrazia del web”.
Procediamo con ordine: la paura, dunque. Ad istillarla è stato proprio lo stesso Grillo. Con le sue invettive
fondatissime, sacrosante, ma gridate e non spiegate,
pronunciate con una fastidiosa voce stridula, fino al
falsetto, accompagnate da un ghigno giacobino e da minacce neanche tanto velate: i “saremo cattivissimi” (con
l’aggiunta di un “senza violenza” che non ha convinto
molto) e l’evocazione dei “tribunali del popolo” (e anche
qui l’aggiunta “mediàtici” non è servita a ras-sicurare).
Ciliegina sulla torta, infine, è stata la parteci-pazione dello
stesso Grillo a “Porta a Porta”. Una partecipazione che
sarebbe dovuta servire a conquistare il pubblico dei
“pensionati”, e che invece ha ottenuto l’esatto contrario:
allontanare anche una parte del pubblico meno attempato, che non ha apprezzato la performance dell’ex
comico, che ne è rimasta scossa, sgomenta. Molti “uomini della strada”, anche tra i più arrabbiati, all’indomani
dell’ospitata da Vespa si dicevano preoccupati del futuro
dell’Italia se le elezioni fossero state vinte da Grillo.
Eppure a “Porta a Porta” il leader di Cinque Stelle aveva
detto molte cose giuste, giustissime; ma le aveva dette col
tono sbagliato, tra il minaccioso e l’apocalittico.
Sull’Europa, in particolare: «Noi andremo a Bruxelles
insieme alla Spagna e agli altri paesi mediterranei e
stracceremo il Fiscal Compact. Il debito di tutti i paesi
deve essere spalmato e condiviso da tutta l’Unione
Europea. Altrimenti ce ne andiamo. Sull’Euro devono
decidere gli italiani e non quattro coglionetti.» Come
dargli torto? Ma, all’indomani della trasmissione, anche
fra la piccola borghesia antieuropeista erano in molti ad
interrogarsi sulla prospettiva di un’Italia che, uscita
ipoteticamente dall’Unione Europea, fosse stata governata da Grillo e dal suo partito.
E a lasciare sgomenti quei piccoli borghesi – ancorché non “moderati” – non era la prospettiva di un “dittatore” (che in molti anzi si auguravano), quanto piuttosto
quella di un capo rivoluzionario incapace di ridare ordine
e normalità al Paese. Sbagliato evocare Hitler (come ha
fatto Berlusconi) o Mussolini (come hanno fatto gli
antifascisti doc) o anche Lenin o Stalin (come hanno fatto
molti a destra). Grillo, in realtà, ricorda piuttosto
Robespierre “l’incorruptible”, la sua crudele persecuzione degli avversari, il suo violento estremismo giaco-
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giacobino. E tutto questo non è piaciuto agli italiani; anzi, li
ha spaventati.
Ma c’è stato anche un altro fattore che ha contribuito alla
sconfitta di Grillo: la cosiddetta “democrazia del web” che
– in assenza delle strutture di un partito – decide non
soltanto delle candidature e di altre piccole cose, ma anche
delle scelte fondamentali del movimento. E chi è disposto
ad affidare i destini suoi e della sua famiglia ad una ristretta
cerchia di smanettoni che, peraltro, non sono assolutamente
rappresentativi della realtà italiana? Tanto per dirne una:
pochi mesi fa i succitati smanettoni hanno deciso – contro il
parere di Grillo – che si doveva so-stenere l’abolizione del
reato di immigrazione clan-destina. E i deputati grillini
hanno votato di conseguenza, accomunati a PD e Forza
Italia in quella medesima ondata di masochistico buonismo
che ha generato la marea migratoria di questi giorni. Ora, vi
immaginate se, in un ipotetico domani con Grillo al potere,
le scelte fondamentali, vitali per questo Paese (la permanenza nell’Unione Europea, la politica monetaria, la
fiscalità, lo Stato sociale, per tacere della difesa dall’ondata
migratoria), se le decisioni vitali per il Paese – dicevo –
dovessero essere determinate da una votazione di pochi
intimi, come per Miss Italia o per il Grande Fratello? E se a
prevalere dovessero essere “quattro coglionetti”?
Grillo e Casaleggio devono decidersi: se vogliono continuare a fare politica ad un certo livello, devono rassegnarsi a creare un partito, un partito vero, serio, con gli
attributi che si convengono, con una classe dirigente
selezionata, con i suoi consiglieri comunali competenti, con
i suoi parlamentari rappresentativi del territorio, con una
base depurata da violenti e disadattati che potrebbero
allignare in un grande partito “populista”. Non si può fare
politica senza un partito, così come non si può giocare a
calcio senza un pallone. Né sono possibili surrogati: la
“democrazia del web” non esiste, è un “non partito”, è una
convenzione, è un’ipocrisia; è, soprattutto, una cosa
profondamente sbagliata in sé. Quando il cittadino dà un
voto, deve poter guardare in faccia il suo prescelto, deve
essere sicuro delle sue idee, e deve essere sicuro che quelle
idee non saranno cambiate domani, magari a seguito di una
consultazione via internet
Antropos in the world
Far West Trapani, tra immigranti
facinorosi e bulletti nostrani
Va dato atto al Prefetto di Trapani, dottor
Leopoldo Falco, di aver avuto il coraggio di dire –
pur senza travalicare di un millimetro il proprio
ruolo – alcune verità scomode sull’immigrazione
e sul suo impatto sul territorio. E tuttavia –
intervenendo al corso di formazione per giornalisti
tenutosi presso la Prefettura venerdì scorso – la
sua relazione mi è sembrata peccare per eccessivo
ottimismo. Attenzione, è certamente vero che le
lungaggini burocratiche esasperino i migranti che,
nei centri d’accoglienza, attendono di conoscere
l’esito delle loro richieste d’asilo. E, tra parentesi,
dirò che queste lungaggini, oltre ad esasperare i
“richiedenti asilo” e gli abitanti delle località
interessate (che non ne possono più), favoriscono
un giro d’affari che vede protagonisti anche soggetti non limpidissimi. E non guasterebbe, forse,
una qualche indagine della magistratura al riguardo.
Chiusa parentesi. Lo stress dell’attesa, comunque, non mi sembra possa giustificare la
violenta rivolta (con corredo di gravi danneggiamenti alle strutture) al CIE di Milo, causata dal
guasto dell’apparecchiatura televisiva; né, per
fare un altro esempio, i furti a tappeto (compresa
la biancheria stesa ad asciugare) registrati nel
territorio prossimo al CARA di Salinagrande; e
neppure le pesanti molestie – quando non altro –
di cui sono oggetto le ragazze che si trovino a
transitare in piazzale Ilio (di giorno) e a piazza
Vittorio (di sera). Sono anche costoro – i
protagonisti di questi episodi – delle “persone per
bene”? Agiscono così perché stressati dalla lunga
attesa? Credo proprio di no. Credo che si debba
onestamente prendere atto di due cose. Primo: che
i rifugiati sono coloro che scappano perché, se
restassero a casa loro, sarebbero massacrati: per
esempio, i cristiani in fuga dai “liberatori” della
Siria o dall’Iraq; gli altri, i tunisini o i ganesi o i
senegalesi in cerca di “una vita migliore” – come
si dice – sono normali migranti economici, che
possono – non devono – essere accolti in Paesi
economicamente floridi (e non è certamente il nostro
caso).
Secondo: che tra i migranti economici travestiti
da profughi v’è una certa aliquota di violenti, di
mascalzoni e di delinquenti. Questi violenti, questi
mascalzoni e questi delinquenti vanno identificati e
– se la nostra permissivissima normativa lo consente
– processati per direttissima ed esclusi dalla possibilità di ottenere ogni presente o futuro beneficio.
Ciò comporta che i nostri poliziotti, i nostri
carabinieri, i nostri vigili urbani debbano intervenire
con decisione ogni qual volta si trovino di fronte ad
un qualunque “segnale” di pericolo, anche per un
piccolo furto o per una avance troppo spinta. E ciò,
però, comporta pure che i nostri tutori dell’ordine
debbano sentirsi a loro volta tutelati, debbano sapere
che – se qualche imbecille dovesse accusarli di
razzismo per aver fatto soltanto il proprio dovere –
troveranno i Corpi e le Istituzioni al loro fianco,
pronti a difenderli con le unghie e con i denti.
Altrimenti, sarà fatale che il poliziotto lasci correre,
si giri dall’altra parte, finga di non vedere. Chi glielo fa fare di andare incontro a guai e processi, chi
glielo fa fare di rischiare addirittura il posto di
lavoro? Mi dicono – relata refero – che un poliziotto trapanese che avrebbe usato il manganello
su un immigrato, forse un po’ troppo esuberante, sia
stato denunziato all’autorità giudiziaria e che gli
siano stati richiesti danni per 70.000 euro. Non so se
le cose siano andate veramente così; ma, se così
fosse, credete voi che, in futuro, quell’agente o i
colleghi del suo Reparto faranno mai più uso del
manganello, anche se ciò dovesse essere necessario?
E voltiamo pagina, perché i problemi per l’ordine pubblico non vengono soltanto dagli immigrati,
ma anche dalla piccola delinquenza locale. Non mi
riferisco tanto alla microcriminalità classica (furti in
appartamento, scippi e cose del genere), quanto
piuttosto ad episodi di bullismo violento, messi in
atto da giovani e da giovanissimi, episodi che negli
ultimi tempi si sono andati moltiplicando con un
ritmo allarmante. È di pochi giorni fa una nota
dell’Osservatorio per la Legalità che segnala aggressioni e danneggiamenti nel lungomare Dante Alighieri, in Viale Marche, a Villa Rosina e nel quartiere Sant’Alberto. Episodi che vanno ad aggiungersi
agli altri, di poco precedenti, avvenuti nel centro
storico. Senza considerare, poi, i pestaggi del sabato
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Antropos in the world
notte, all’uscita dalle discoteche, in una città dove
un paio di volanti (sopravvissute ai “tagli lineari”
del governo) non possono fare miracoli.
Ma, anche di giorno, la città (e per “città”
intendo Trapani ed Erice) è sempre più insicura.
Adesso, sembra che ci si debba preoccupare anche
di bande di ragazzini che – sicuri di farla franca –
aggrediscono dei loro coetanei (ma, dicono, anche
anziani isolati) senza alcun motivo, li picchiano a
sangue, e immortalano il tutto con i selfi del telefonino, possibilmente da far circolare poi su Facebook.
Per dirla tutta, la nostra bella città è diventata
un piccolo Far West, dove immigrati facinorosi e
bulletti nostrani sono ogni giorno di più aggressivi e
prepotenti, mettendo in atto compor-tamenti che
fino a qualche anno fa sarebbero stati semplicemente impensabili. In questa situazione, i nostri
“sceriffi” fanno quello che possono, stretti fra una
normativa “buonista” e una demenziale riduzione
di fondi e di personale.
Fanno quello che possono – dicevo – e lo fanno
molto bene. Ma, purtroppo, non basta. Il Far West
avanza, e tanti banditi – grandi e piccoli, bianchi e
neri – sono liberi di fare quello che vogliono. La
gente è esasperata, e la situazione potrebbe precipitare da un momento
M. Rallo
MOMENTO TENERO
ζωή ωραία είναι
La tua vita si spegne,
spedita corre la mia,
insensate speranze
tra sterili litanie.
Un travaglio senza senso,
stravolge ciò che penso.
Tra pareti senza colore,
anche i santi
disertano il dolore.
Se si potesse
centellinare l’istante
e persino il baleno,
che ancora c’è dato,
saremmo almeno
ombre, nel flusso
eterno dell’universo.
LA VITA E’…
di
Franco Pastore
________________
da “OMBRE DI SOGNO”
- 11 -
Antropos in the world
DA ERICE
Ugo Antonio Amico letterato ericino
Ugo Antonio Amico è stato sicuramente uno dei
cittadini ericini più emeriti non solo per la cospicua
produzione di opere letterarie lasciate ma per l’immenso
amore alla sua Città, prodigo come fu a dare il suo contributo non solo a parole ma con i fatti per la risoluzione di
problemi che la riguardavano.
Antonio Rizzuto, nipote dell’Amico nella sua opera “Si
riparano bambole” ricorda spesso il nonno descrivendolo,
attraverso racconti e aneddoti della sua infanzia, come un
uomo pacato, sereno ed orgoglioso della sua Città natale.
La sua fu veramente una vita serena, nonostante alcune
vicissitudini, una vita dedita allo studio, alla sua attività di
professore prima nei Licei e dopo all’Università. Ad Erice
ritornava ogni anno, d’estate, nella sua casa di via Vittorio
Emanuele che fu del patriota ericino Rocco La Russa,
medico, fratello della moglie di Amico, morto a Ponte
dell’Ammiraglio durante la spedizione dei Mille. Nella sua
Città amava incontrare i suoi concittadini e disquisire con
loro degli argomenti più svariati senza ostentazione e
senza sfoggio della sua immensa cultura classica.
Era nato il 6 settembre del 1831. Conseguita la laurea in
lettere con la lode a Palermo, si trasferì a Torino e fu
segretario particolare di Carlo Matteucci, lo scienziato che
aveva conseguito obiettivi ragguardevoli nel campo dell’elettronica e che poi, senatore dal 1860 era stato Ministro
della Pubblica Istruzione nel Governo Rattazzi. Cessato
l’incarico ministeriale del Matteucci, l’Amico, senza
un’attività lavorativa, visse di lezioni private e collaborazioni a giornali o ad editori fra Pisa e Firenze. Vinto il
concorso per l’insegnamento nei Licei si trasferì a
Bologna per ricoprire la cattedra di lettere all’Istituto
Galvani, cattedra che fu di Giosuè Carducci che nel
frattempo era passato all’insegnamento universitario. Fra
lui e il Carducci si instaurò da subito una profonda amicizia
che durò a lungo e continuò anche quando Amico si
trasferì a Palermo. Non mancava, infatti, di inviare tutti i
suoi scritti a Carducci per il suo autorevole giudizio ed i
giudizi che il famoso Poeta espresse furono sempre positivi e lusinghieri. Quando, negli anni 1866-67, il Governo
disponeva l’applicazione in tutti i Comuni della legge
Casati sull’istruzione primaria obbligatoria, ad Erice come
in altri Comuni della Sicilia dove vigeva un’istruzione
affidata ad istituti religiosi o precettori, questa riforma
costituì un serio problema da affrontare. Si trattava di
rivoluzionare tutto il sistema di insegnamento sia della
docenza che dei giovani. Era necessario individuare bravi
insegnanti che riuscissero ad adeguarsi ai nuovi programmi scolastici molto più articolati che andavano oltre le
semplici lezioni di lettura e scrittura elementare o della
piccola contabilità. L’Amministrazione Comunale chiese ad
Ugo Antonio Amico, il cittadino che era vissuto per tanti
anni nelle grandi città ed aveva conosciuto grandi personalità della cultura, di intervenire per l’individuazione di
eccellenti insegnanti. Amico si rivolse quindi al Carduc-
ci che mandò ad Erice il
fratello Valfredo e il cugino
Valerio. Dal 1863 al 1868
tenne la cattedra di letteratura italiana nell’Università
di Palermo. Studioso e profondo conoscitore delle letterature classiche - sapeva a
memoria “La Divina Commedia” e l’Eneide”- fu apprezzato per le traduzioni di Claudio Claudiano e degli Inni
attribuiti ad Omero. Delicato poeta, diede il massimo della
sua vena artistica e versatilità nella raccolta “ Elegie
ericine” pubblicata a Firenze nel 1892 alla quale seguirono,
nel 1896, i Canti di Bonagia” e “ Sole sub occidio” versioni dal latino pubblicate a Palermo nel 1912. Curò attentamente le tradizioni popolari, gli usi e costumi, la storia della
città e del territorio ericino in “Leggende popolari ericine”
e “Cronistoria ericina” edite a Palermo nel 1910. Lasciò
anche numerose opere di storia e critica letteraria: Nicolò
Palmeri, pubblicata a Torino nel 1862 e Sebastiano Bagolino, poeta latino del sec. XVI pubblicata a Palermo nel
1880. Altre sue opere “ Per la solennità centenaria di
Antonio Veneziano” discorso letto alla Regia Accademia di
Scienze, lettere e belle arti di Palermo. “ Note sul Petrarca”
del 1898 e “Memorie sopra Francesco Baronio” pubblicate
nell’Archivio Storico Siciliano.
Dalla seconda metà del secolo XIX Erice subì uno
spopolamento allarmante che preoccupava non poco i
cittadini che si vedevano sempre più isolati. Padre Giuseppe Castronovo, insigne storico e direttore della Biblioteca Civica, in un estratto delle sue “Memorie Storiche”
sotto il titolo “ Le colonie agricole di Erice”, confortato
dallo sviluppo delle frazioni, prospettava il trasferimento
globale della popolazione a Ragosia. L’opuscolo si chiudeva con una supplica firmata dai cittadini più in vista.
Amico si mostrò scettico alla proposta del Castronovo e
con argomentazioni persuasive e circostanziate rigettava
con garbo la tesi dello storico. Egli poneva l’accento sul
pro-blema della distanza sostenendo come i nuovi abitanti
di Ragosia non potevano essere né quelli che abitavano la
pianura dove vivevano e lavoravano né quelli dei luoghi più
lontani soprattutto in una fase dove venivano sviluppati i
mezzi di comunicazione, le strade e i collegamenti anche
con i centri più lontani erano più numerosi. Inoltre –
sosteneva ancora l’Amico – questa proposta giungeva in un
momento in cui il Comune, non riusciva a garantire i servizi
vitali quali scuole, uffici, chiese per mancanza di fondi
economici. Non sussistevano quindi né ragioni né mezzi.
L’argomento scottante discusso in Consiglio fu rinviato
sine die e mai più affrontato. Si spense a Palermo il 24
aprile del 1917.
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ANNA BURDUA
Antropos in the world
IL CACCIATORE di Egidio Siviglia
Giovanni aveva deciso di andare in campagna per dare sfogo al suo istinto venatorio. Volendo concedersi il meritato riposo domenicale
dopo una lunga settimana di lavoro, si recò dal
suo caro amico e padrino, Bartolomeo.
“Compare non ti vedevo da molto, sentivo il
bisogno di trascorrere un po’ di tempo con te e,
se me lo concedi, profitterò di trovare qualche
piacevole preda nel tuo campo e soddisfare la
mia passione vanatoria”.
“Potrai assecondare tutte le tue voglie, ma
prima gusteremo insieme un goccio di una
deliziosa bevanda preparata dalla mia consorte”.
I due, nell’atmosfera di una piacevole amicizia, bevvero e si raccontarono eventi relativi al
tempo in cui non si erano visti. Dopodiché Giovanni si rimise il grosso cappello e si inoltrò
nella proprietà del compare col segreto desiderio di abbattere qualche volpe o qualche volatile.
Il cane di Bartolomeo aveva seguito l’intero
quadro di tutto quanto era successo e, chissà
perché, contrariamente alle istintive abitudini
canine, invece di starsene col padrone, seguì
l’ospite attraverso le diverse fasi della cacciagione.
Al primo colpo il cane espresse il suo dissenso e fece sentire i suoi latrati fino alla casa
colonica. Giovanni, irritato per aver mancato la
preda e, reso più nervoso dal latrato del cane,
inveì: “Per tutti gli dei! Se non vai via ti faccio
fuori!”
Il cane con i suoi occhioni guardò Giovanni
e, fingendo di aver appreso la lezione, si fermò
in posizione di attesa.
Al secondo colpo, anche questo sparato a
vuoto, il cane si scagliò contro Giovanni, e addentandolo, gli staccò mezzo polpaccio e, dopo
aver dilaniato la parte posteriore dei pantaloni,
assaggiò con gli incisivi la profondità della
massa glutea del malcapitato cacciatore che, per
il dolore e per lo spavento, aveva gridato tanto
forte da richiamare l’attenzione di Bartolomeo.
Bartolomeo, che non aveva nessuna stima
per l’arte venatoria, in un primo momento si
limitò a dire:
“Se tu, per santificare la festa avessi scelto
qualche cosa di più utile o di più nobile, non ti
saresti cacciato nei guai”.
Ma Giovanni continuò:
“Ma che razza di cane à il tuo! Questo sarebbe l’amico fedele? Questa bestia non rispetta
neppure l’amicizia”.
Di questo tono il discorso precipitò e volarono parole grosse, tanto grandi che rasentarono
le offese; scomodarono addirittura i ricordi della
vita passata e ricordarono persino notizie spiacevoli dei propri avi. Con queste premesse i due,
tra minacce e insulti, giurarono che la questione
avrebbe avuto un seguito.
La controversia finì in tribunale: il dibattimento accese gli animi e bellissime furono le
arringhe degli avvocati dei due contendenti. Alla
fine apparve il giudice per la lettura della sentenza. Gli animi erano tesi e restarono tali fino alla
fine quando Bartolomeo capì che la sentenza per
lui era stata infausta. A Giovanni con la ragione
si doveva corrispondere anche un indennizzo
per il danno subito e per le spese affrontate.
Quando la corte si ritirò, scomparvero anche
gli avvocati che si erano precipitati in Cancelleria per percepire quanto i loro clienti avevano
sottoscritto al momento di richiesta di patrocinio. Giovanni al culmine della gioia attese il
suo avvocato per sapere quanto gli era dovuto.
Intanto l’avvocato si era dileguato, ma Giovanni lo attese davanti all’ingresso del Palazzo
di Giustizia. Quando lo vide prima ancora che
gli potesse parlare, disse: “Giovanni, hai visto,
quanta bravura e di quale destrezza mi sono
servito per la celebrazione del processo?”.
Giovanni voleva interloquire, ma imperterrito, il legale aggiunse: “fra qualche giorno vieni
allo studio per la regolarizzazione del mio
onorario”. Giovanni allora, timidamente e con
fare incerto, domandò: “Avvocato, ma di tutti i
soldi contenuti nella sentenza, quale sarà la mia
parte?”
La risposta fu netta: “Giovanni, hai avuto
ragione, perché avevi avuto i morsi dal cane; ora
cos’altro vuoi?”.
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Antropos in the world
I GRANDI ITALIANI
RAIMONDO SCINTU
Viene costituita ai primi del 1915 a Tempio
Sinnai, il comando brigata e il 152° reggimento dal
deposito del 45° fanteria (Ozieri S.), il 151° dal
deposito del 46° fanteria (Ozieri C.).
Il 24 luglio reparti della brigata passano l’Isonzo,
iniziando quella lunga marcia sulla strada del
sacrificio e della gloria che farà guadagnare due
Medaglie d’Oro al Valor Militare ai reggimenti della
“Sassari”. Tra la prima e la seconda guerra mondiale
la brigata cambia più volte fisionomia, seguendo i
mutamenti ordinativi voluti dalle nuove dottrine.
Nel 1926 assume la denominazione di XII Brigata
di Fanteria e inquadra, oltre al 151° e al 152°, anche
il 12° Fanteria della disciolta Brigata “Casale”.
Succes-sivamente la XII Brigata ed il 23° (già 34°)
artiglieria da campagna entrano a far parte della
Divisione di Fanteria del Timavo (12ª). Nel 1939, in
relazione al nuovo programma di trasformazione
dell’Esercito, si ricostituisce la Divisione di Fanteria
“Sassari” (12ª), ordinata sui due reggimenti della
vecchia brigata e sul 34° artiglieria.
Nel 1941 alla divisione viene assegnata la 73ª Legione CC NN nell’ambito dei provvedimenti organici che vedono i battaglioni CC NN alle dipendenze dei reggimenti di fanteria.
La “Sassari”, allo scoppio del conflitto con la Jugoslavia, opera prima alla frontiera orientale (i reggimenti 151° e il 152° sono sempre stati dislocati
nella Venezia Giulia), e poi nelle logoranti azioni di
rastrellamenti, guerriglie e conflitti civili in Slovenia, Croazia e Dalmazia.
Rientrata in Italia nell’aprile 1943, viene dislocata
nel Lazio e impiegata principalmente per la difesa
della città di Roma, ove si scioglie il 10 settembre
1943, dopo aver partecipato ai due giorni di lotta,
successivi all’armistizio, contro i tedeschi per la difesa della Capitale.
Alla Brigata Sassari apparteneva Raimondo Scintu,
nato a Guasilia il 29 settembre del 1889. “
«Caporale ciclista di un battaglione, in un momento critico del combattimento si offriva spontaneamente per recarsi da solo nella trincea nemica,
allo scopo di prendere prigionieri,per illuminare sulla situazione il proprio Comandante. Con mirabile
ardimento, ne catturava cinque successivamente.
Ritornava, poi, in compagnia di pochi coraggiosi,
nel trinceramento avversario, e vi catturava altri quaranta nemici. Spingendosi
quindi in una caverna, ove
erano ricoverati degli ufficiali, intimava loro la resa
e, ferito gravemente al petto da due pallottole tirategli a bruciapelo da un ufficiale superiore, aveva l'indomita forza di ucciderlo e catturare un altro ufficiale.
Sempre ed ovunque luminosissimo esempio a tutti
del più fulgido eroismo di soldato e delle più belle
qualità della gente di Sardegna.»
Medaglia d’oro al valor militare, l’eroico Caporale
moriva a Roma nel 1968. Il 19 maggio 2011 la Giunta
regionale della Sardegna, guidata da Ugo Cappellacci,
ha intitolato al Maresciallo Scintu una delle due navi
traghetto noleggiate dalla Saremar, la Scintu, mentre
l'altra è stata dedicata ai Dimonios della Brigata Sassari.
Giovedì 26 Giugno 2014, presso il Teatro Fratelli
Medas - Piazza Municipio, il Comune di Guasila, in
collaborazione con l’Associazione Figli d’Arte Medas,ha dedicato all’eroico caporale guasilese della Brigata Sassari, una giornata celebrativa dal titolo “Guasila ricorda Raimondo Scintu”.
Lo Spettacolo: In un’Europa devastata dalla Guerra, nella quale i Confini si confondono e il Senso di
Appartenenza si disperde, un Ragazzo del cuore della
Trexenta si trova nel bel mezzo di uno scontro di
portata mondiale. La storia di una Medaglia al Valore,
quella data al Caporale ciclista del 151° Reggimento
Fanteria della Brigata Sassari, viene raccontata, dalla
voce intrigante di Gianluca Medas, dalle note elegiache della chitarra di Andrea Congia e dalla tromba
di Riccardo Pittau.
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ASSOCIAZIONE LUCANA “G.Fortunato”
Presidente
Rocco Risolia
Via Cantarella Salerno
LA PAGINA MEDICA: a cura di Andropos
LA FIBROSI CISTICA
Da alcuni anni la Fondazione per la Ricerca sulla Fibrosi
Cistica si è data l'obiettivo di contribuire a sconfiggere la
malattia genetica più diffusa nel nostro Paese.
Il traguardo si sta avvicinando, ma non sappiamo ancora
quando si potrà cantare vittoria, nel frattempo ci siamo resi
conto che si è avviato un percorso di ricerca ad altissimo
livello che può avere ricadute positive che vanno anche
oltre la Fibrosi Cistica.
Un altro fatto che ci ha colpito è stato l'interesse
dimostrato per la ricerca, le sue metodologie e la sua
organizzazione da parte di vari mezzi di comunicazione
che stanno dedicando a questi argomenti spazi sempre più
ampi.
In medicina si definisce fibrosi il processo per il quale in
un organo o in un tessuto aumentano le componenti
connettivali rispetto a quelle parenchimali. La fibrosi
determina importanti conseguenze sulla struttura e sulla
funzione specifiche di quell'organo o tessuto. La fibrosi si
verifica attraverso due principali vie patogenetiche. Nella
prima si osserva un aumento primitivo delle cellule del
tessuto connettivo (fibroblasti, adipociti e, più raramente,
cellule endoteliali, cellule muscolari lisce, istiociti e altre
cellule connettivali) e delle molecole della matrice
extracellulare (collagene, glicoproteine, proteoglicani e
altre molecole); le cause e la progressione di questo tipo di
fibrosi sono legate a un'alterazione dell'equilibrio tra
produzione e demolizione dei componenti connettivali.
Nella seconda via patogenetica le cellule specifiche di un
organo o di un tessuto vengono danneggiate fino alla necrosi e sono gradualmente sostituite da tessuto connettivo;
la progressione di questo tipo di fibrosi, che pertanto è
secondario alla risposta riparativa attivata in seguito a un
danno prolungato oppure cronico del tessuto parenchimale, è connessa con il persistere del danno e il perdurare
della risposta riparativa. A un certo punto del processo, le
due vie patogenetiche possono coesistere e potenziarsi a
vicenda.
Le cellule del tessuto connettivo propriamente detto (v.
connettivo) sono i fibroblasti che producono la matrice
connettivale, una sostanza con costituenti amorfi e fibrillari, che rappresenta l'asse portante e nutritivo degli altri
tessuti. Una quota rilevante (circa 1%) di queste cellule è
costituita da una popolazione staminale ad alto potenziale
proliferativo, capace di differenziarsi in fibrociti maturi
(specializzati nella produzione di matrice connettivale) e
in altre cellule di derivazione connettivale, come angioblasti (da cui derivano i nuovi vasi), cellule muscolari lisce,
adipociti, istiociti ecc. I fibroblasti produ-cono la maggior
parte delle molecole della matrice connettivale.
- 15 -
Una quota più piccola è prodotta dalle altre cellule
connettivali e dalle cellule epiteliali.
Le molecole della matrice comprendono collagene, glicoproteine, proteoglicani ed elastina.
Dal momento che la fibrosi è un processo che si svolge
nell'arco di un lungo periodo di tempo, è necessario per
qualunque intervento farmacologico agire tempestivamente, prima che la componente fibrosa abbia sostituito il
parenchima specifico. Per questo è necessario anzitutto
riconoscere precocemente il danno che uccide le cellule ed
eliminarlo, o almeno minimizzarlo, in maniera da permettere al ricambio cellulare di sostituirle efficacemente. Un
secondo aiuto può derivare dalla stimolazione specifica
alla crescita e alla proliferazione della componente
staminale del parenchima. Specialmente in organi e
sistemi in cui le cellule staminali sono abbondanti, come il
sistema immunitario, il fegato e molti tipi di epitelio,
questa via è diventata praticabile, almeno in linea teorica o
in animali da esperimento, grazie alle citochine e ai fattori
di crescita ricombinanti messi a disposizione dalla
moderna biologia molecolare. Recentemente, inoltre, è
stato evidenziato il grande ruolo dell'apoptosi nel controllo
negativo delle cellule staminali, per cui è stata anche
prospettata la possibilità di controllare l'equilibrio tra
proliferazione e apoptosi, a favore della prima, mediante
l'uso di fattori di sopravvivenza cellulare o di inibitori
farmacologici dell'apoptosi. L'uso dei glicocorticoidi,
empirico fino a pochi anni fa, trova alcune basi di
utilizzazione razionale, nell'inibizione del processo di
riparazione mediato dal TGF-β e dalla regolazione del
processo di apoptosi, soprattutto nei fibroblasti. Inoltre, si
stanno esplorando altre vie (anticorpi e ligandi inibenti)
che agiscono sui recettori del TGF-β, maggiormente
interessati nella neoformazione del tessuto connettivale
fibroso. Le cure per la fibrosi cistica vengono impostate e
mo-nitorate presso centri specializzati e, in base alla legge
nazionale 548/1993, ogni Regione dispone di un centro
specializzato per la patologia.
La fibrosi cistica è dovuta ad alterazioni del gene CFTR,
che codifica per una proteina coinvolta nella regolazione
del flusso di acqua e ioni attraverso la membrana cellulare.
La malattia si trasmette con modalità autosomica recessiva:
per manifestarla bisogna ereditare un gene difettoso da
ciascuno dei genitori, entrambi portatori sani (e che non
manifestano alcuna sintomatologia).
In Italia si stima che ci sia un portatore sano del gene della
fibrosi cistica ogni 25-30 persone. A ogni gravidanza una
coppia di portatori sani ha una probabilità su quattro di
avere un figlio affetto da fibrosi cistica.
Antropos in the world
NOTE SOCIOLOGICHE
E’ TEMPO DI TRAGEDIE
E’ un tempo vestito rosso scarlatto, di tragedie e
angoli bui, un tempo in cui non è salutare per niente
rimuovere per dimenticare, dunque sarà bene ricordare fino all’ultimo pugno nello stomaco.
Donne a morire, a lasciare spazi vuoti, momenti di
vita dilaniati dallo strapotere e dal delirio di onnipotenza maschile. Donne, ridotte a cose, a oggetti, a insopportabili presenze, non soltanto da spostare, allontanare, sostituire, bensì, da annientare, devastare, ridurre a un buco nero profondo, dove non vi è più possibilità di accesso, di un ritorno.
Donne,compagne,mogli,diventate parti offese della
inadeguatezza maschile, donne a perdere nella ragione, donne sconfitte dalla fiducia spogliata di ogni
onore, figuriamoci di un qualche amore. Donne e
madri accasciate, con gli occhi sgranati, le mani a
proteggersi, supplicando la pietà ammutolita e in ritirata.
Donne e madri insufficienti a pagare dazio, divenute insostenibili, irrappresentabili, congrue assenze a
rappresentare una ignobile “liberazione”. A quelle
madri colpite, dilacerate, niente va lasciato al caso,
neppure i propri figli, i bambini, innocenti, quelli che
ancora non fanno carico di colpa, di giustificazione,
di pesi e di misure mai concordate.
Bambini fatti a pezzi in tanti modi differenti, un
rituale dove la mamma è protagonista designata da
accompagnare alle altre vittime sacrificali, bambini
che s’accorgono delle bestemmie, delle offese, delle
violenze, bambini che ascoltano e tacciono per paura
e per amore.
Uomini che non possono esser declinati semplicemente delle bestie, infatti gli animali non fanno
di questo male il proprio agire, piuttosto sono persone
che non sanno più coniugare l’istinto alla ragione,
non riescono più a collocare nel posto dovuto la
compassione, si tratta di uomini che non hanno i polsi
legati dalle periferie ben note, dai portoni blindati,
dalle celle chiuse, uomini che non sono di un ambiente sub-urbano ben conosciuto, sono persone vestite di agio, di benessere, di normalità, di stima tutto
intorno. Uomini di una tranquilla esistenza, dove ogni
cosa evidentemente non è al suo posto, non quadra
più, qualcosa manca all’appello. Innumerevoli donne
maltrattate sono la traccia marcata di una cultura del
possesso, del dominio, del sopruso, cultura di una
libertà costretta come una puttana.
Quei bambini azzerati senza un sussulto di pietà, non
sono il frutto di una cultura dell’iracondia delinquenziale, di una legge di sangue omertosa, ma il risultato di una inutilità personale-esistenziale, come se a
ogni piè sospinto, fosse in agguato la ferocia di una
relazione incompiuta, di un amore idealizzato in divieto di sosta, una affettività emozionale inesistente, una
spietatezza incolore, dentro una calma piatta, dove chi
agisce e si muove non si aspetta più nulla dal presente,
perché è già futuro scalzato all’indietro.
Ho chiesto lumi a Massimo, uno mio amico psicologo assai perspicace, il quale alla mia domanda: come
è possibile toccare l’intoccabile? Mi ha risposto: è la
solitudine, quella dimensione che ti fa sentire solo, che
non ti chiama alla responsabilità, ti disgiunge dalla fortezza del sapere chiedere aiuto, ti inchioda nella trappola di una “scissione” silenziosa e opprimente, che scalza
ogni emozione approdando a una scelta folle e imperdonabile. Mi ha fatto l’esempio dei binari, l’equilibrio
delle distanze parallele, finchè la solitudine più acciaiosa, non consente più di sopportare il peso del proprio
malessere, inadeguatezza, rifiuto, improvvisamente le
linee s’allargano, biforcano, si sovrappongono, contorcendosi, dimenandosi, lamentandosi, con l’unico risultato del silenzio nella follia sopraggiunta. Noi continueremo a parlare di colpa inusitata, di inasprimento delle
pene, di fiamme dell’inferno senza possibilità di comprendere questi comportamenti, forse occorrerà parlarne di più e meglio, con un senso ritrovato sugli stili vita,
non tanto e non solo legati al vivere civile, ma al modo
in cui fare davvero comunità. Cesare Pavese poco prima
del suo lungo viaggio ebbe a dire: “ Domani tornerà
l’alba tiepida con la diafana luce e tutto sarà come ieri,
e mai nulla accadrà”.
- 16 -
Andraous
Antropos in the world
Regimen Sanitatis Salernitanum
- Caput XXXVIII
DE MODO EDENDI ET BIBENDI
Inter prandendum sir saepe parumque bibendum: ut minus aegrotes,
non inter fercula potes. Ut vites poenam, de potibus incipit coenam.
Singula post ova pocula sume nova. Post pisces nux sit: post carnes
caseus adsit. Unica nux prodest, nocet altera, tertia mors est.
Mentre pranzi allegramente, // bevi poco ma sovente: // perché il corpo men si guasti,
mai poi bere fra i due pasti. // Da col ber principio a cena,//se non vuoi pagar le pene.
al di sopra ciascun uovo, // bevi sempre un bicchier nuovo. // Pon la noce sopra i pesci,
alle carni il cacio accresci; // una noce ai ghiotti arride,// due nuocion, la terza uccide.
DALLA REDAZIONE DI PAGANI
PAGANI FESTEGGIA DON FLAVIANO
Don Flaviano Calenda, ordinato sacerdote nel
1974, attualmente parroco del SS.mo Corpo di
Cristo, domenica 29 giugno, festeggia i quarant’anni di sacerdozio.
Quarant’anni di fuoco, a mio avviso, perché
vissuti all’insegna della cultura, dell’operatività
concreta e della lotta alla tipica staticità di certe
istituzioni, più disposte all’attesa ed alla cura del
tempo, che alla concretezza del fare.
Responsabile del Servizio di Musica Sacra,
Presidente del Carminello ad Arco, padre amorevole di un’ampia comunità bisognevole, ha dato, in ogni circostanza, il meglio di sé.
Nato nell’anno referendario del 1948, dopo di
aver completato, cum laude, gli studi ecclesiastici, si è dedicato alla filosofia ed alla pedagogia,
conseguendo il dottorato in filosofia presso l’Ateneo napoletano e quello in pedagogia presso
l’Ateneo salernitano.
Dunque, ha insegnato, ha elargito un pensiero
illuminato dalla cultura, è stato mecenate dell’arte
e del teatro, insomma, ha migliorato tutto ciò cui
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si è avvicinato, compreso
la bella Chiesa Madre di
Pagani, destreggiandosi abilmente tra invidie
e cattiverie, tipiche della paesanità. Nonostante
una palese avversione di
squallide figure di una infima
politichese, ha fatto a Pagani il più bel regalo
che una città potesse avere: LA MENSA DI
TOMMASO. L’istituzione, perfettamente operante, provvede a centinaia di bisognosi, divenendo un supporto inusitato per numerosissime
famiglie di Pagani e dell’Agro nocerino-sarnese.
Allora, va da sé che dir male di don Flaviano,
vuol dire appartenere al gregge degli stolti, che
rubano il pane agli uomini ed i giorni al Buon
Dio.
Franco Pastore
ēthos anthrōpō daimōn
Il carattere è il destino dell'uomo
Antropos in the world
LA STRAGE DI USTICA
Chi sa e non parla non è un
uomo,chi sa e nasconde ha
ucciso per la seconda volta.
I morti gridano vendetta ed
essa. prima o poi, giungerà
inesorabile:.
E’ il 27 giugno del 1980. Ottantuno passeggeri, madri con bambini, adolescenti e
giovani coppie, si imbarcano sul volo IH870
diretto da Bologna a Palermo. Sono le venti
ed otto minuti, con due ore di ritardo, rispetto all’orario previsto.
Le operazioni di partenza avvengono
normalmente e con il permesso della torre di
controllo l’aereo si alza in volo, iniziando a
procere agevolmente per la sua rotta. Nella
cabina, il comandante ed Enzo Fontana, il suo
pilota, sono di buon umore, del resto, quello
era un volo di routine e non vi era alcun
motivo di preoccupazione. Anche i passeggeri
sono tranquilli: i più giovani sono allegri ed
eccitati, Paola osserva dall’oblò i colori della
prima sera, mentre Tiziana e Daniela fanno
piccoli progetti per l’indomani.
Alle venti e cinquantotto, avviene l'ultimo
contatto radio con il controllore procedurale
di Roma: tutto regolare, un volo come tanti,
solo un poco più vivo, per la presenza di
tredici bambini. La signora Marianna si sta
riposando con gli occhi chiusi, dietro di lei,
Luciana ha in grembo la pagella di quinta
elementare, tra breve la mostrerà al papà che
l’attende a Palermo, mentre l’aereo scivola
sull’aria con il suo bagaglio d’uomini e di
sogni.
Sono le 20 e ventisei, da Ciambino:
- Qui Ciambino identificatevi!-.
- Qui Ciambino, il segnale è piuttosto confuso!Siamo allineati con il radiofaro di Firenze! –
risponde il volo IH770 –
- Si, vediamo che state rientrando, mantenete
la rotta!-
- Non ce ne siamo mai allontanati! – replicano dall’aereo. Cosa stava succedendo?
Alle ventuno e 04, chiamato per l'autorizzazione di inizio discesa su Palermo, il Dc-9
non risponde.
L'operatore di Roma replica le chiamate,
ma invano, l’aereo sembra scomparso nel
nulla.
Inutili i tentativi di contatto dai due voli
dell'Air Malta, che seguono sulla stessa rotta.
I minuti scorrono inesorabi-li, continuano le
chiamate dal radar militare di Marsala e
dalla torre di controllo di Palermo … nessuna risposta.
Alle ventuno e tredici, l’ora prevista per
l’arrivo, l’aereo non atterra. Agitazione nell’aeroporto di Palermo, cresce l’asia dei parenti in attesa. Le prime notizie incerte, mentre qualcuno incomincia a piangere. Altri si
precipitano all’aeroporto e la speranza è l’ultima a morire.
Improvvisamente esplode la notizia: l’aereo è disperso!- Che significa disperso?- chiede qualcuno.
Ventidue minuti dopo, il comando del Soccorso Aereo di Martina Franca assume la direzione delle operazioni di ricerca, allerta il
15º Stormo a Ciampino ed alle 21 e 55 il
primo elicottero decolla per perlustrare l'area presunta dell'eventuale incidente, ma
dell’aereo nessuna traccia. Si crea un’atmosfera di mistero, che alimenta l’inquietudine
di tutti. Le ricerche procedono per tutta la
notte, senza venire a capo di una benché minima traccia.
Sul far dell'alba, un HH-3F del Soccorso
- 18 -
Antropos in the world
Aereo, scopre una chiazza oleosa ad alcune
decine di miglia a nord di Ustica e, quando
iniziano ad affiorare i primi relitti e i primi
corpi, si ha la conferma che che lì in quella
zona del Tirreno è precipitato l’aereo.
Alla fine delle operazioni, solo trentotto
corpi di furono recuperati.Quarantatrè vittime rimasero sepolti in mare, e tra essi, quei
bambini che le mamme tenevano fermi a fatica sulle poltroncine dell’aereo.
Da quel momento, inizia il vortice assurdo delle bugie, delle verità mezze dette, per
nascondere chissà quali fatti e quali vergogne.
Alla fine, un povero muratore aspetta
ancora la sua famiglia ed Antonella, Vincenzo e Giuseppe, in tre non facevano 18 anni.
E che dire di Francesco, un ragazzone di appena vent’anni, convinto di andare in licenza premio, invece che incontro alla morte?
Il 26 gennaio del 2006, i pezzi dell’aereo
ritornarono, sui tir, nel luogo di provenien-.
za, sotto la plastica trasparente, sembravano
immobili spettri all’ultimo viaggio.
Quello di Ustica è un atto di guerra in tempo
di pace? Da Cossiga l’ultima fandonia: È stato
un attentato fallito ad un aereo che si riteneva
portasse Cheddafi.
Sono parole che non fanno storia, son so-lo il
termometro del nostro tempo, ove che gli
uomini tacciono e bestie senza scrupoli seguono le orme di Caino.
[ Da ”Il gusto della vita”, di Franco Pastore, II edizione A.I.T.W. - Salerno 2014]
L’ANGOLO DEL CUORE
IL SAPORE DEL NULLA
Soccombe
ogni progetto fiero,
quando il cuore
s’adagia nel limbo
del mio pensiero.
L’anima corre,
dove non può:
soggiace ai tempi
l’amore,
lo scempio
la scorza devasta
e tu vivi
quel tanto che basta.
Mi fa male il ricordo,
ora, che non è più
tempo di sogni.
Com’è cara l’estate,
quando la pioggia
impantana,
ed ogni ora lontana
ha l’amaro sapore
del nulla.
Franco Pastore
- 19 -
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