òς European Journalism - GNS Press Ass.tion - The ECJ promotes publishing, publication and communication- P. Inter.nal I COMPORTAMENTI A RISCHIO LE DIPENDENZE ( I parte ) ANNO X N.RO 03 del 01/03/2014 Pag. psicologica Caro Presidente Ser Lorenzetto Il debito pubblico Il teatro romano De cognomine Note antropologiche Obiezione di Coscienza Aisosopos et Faedrus Il racconto del mese Da Trapani Momento tenero La donna nella storia Immagini d’un altro t. Proverbi Storia della musica Nicodemate La pagina medica Storia della musica La donna nella letter.ra Personaggi illustri Dentro la storia Critica letteraria I grandi pensatori Politica e nazione I piatti tipici Dalla Red.di Bergamo Il Conv. di S.Domenico Regimen sanitatis Opinione Eretica Leviora L’angolo della follia Sul portale http://www.andropos.eu/antroposint heworld.html La situazione attuale ci permette di interpretare l’uso delle sostanze come mezzi aventi funzioni performative: sono quindi utilizzate per sentirsi più efficienti, prestanti, disinibiti, sempre più aderenti agli imperativi sociali del successo, dell’iperattività e dell’efficienza. Le droghe diventano un pretesto utilizzato dagli adolescenti per accrescere le proprie prestazioni, così da renderli in grado di funzionare all’interno di un sistema sociale che si aspetta da loro il massimo. Le droghe diventano per i giovani, e non solo, un supporto per potenziare e gestire le proprie capacità fisiche e relazionali all’interno del sistema sociale aderendo all’ideologia della performance e dell’efficienza. Viene naturale chiedersi il perché i giovani si avvicinano alla droga. Il problema è che probabilmente le risposte sono più d’una e che non è sempre facile trovarle. A livello fisico si sa che le droghe agiscono nelle parti del nostro cervello che si attivano quando riceviamo qualche stimolo gratificante. In pratica le droghe forniscono dei falsi segnali di benessere sostituendosi, con meccanismi chimici, a stimoli che potremmo ricevere in maniera naturale. E’ in questo senso che si sente spesso parlare della droga come di una “scorciatoia”, di un mezzo più facile e rapido per sentirsi bene. Bisogna capire che comunque quel senso di benessere, che la droga da, è solo un qualcosa di virtuale e passeggero. Capire perché l’individuo ricerca la droga è un altro problema spinoso: alcuni sostengono che l’uso di droga possa favorire la meditazione e il rilassamento, una sorta di chiave per far aprire maggiormente le nostre “porte della percezione”. Il desiderio di modificare ed espandere gli stati di coscienza è sempre esistito nell’umanità: si pensi a fenomeni come la meditazione, l’estasi, o lo stordimento rinvenibile perfino nei bambini. L’adolescenza è poi un periodo in cui si è alla ricerca d’esperienze nuove, pronti a mettere alla prova le recenti capacità di “giovane adulto”. L’adolescente è “affamato di sensazioni” che dare sfogo alla sua grande energia. Purtroppo alla ricerca di sensazioni forti ci si imbatte in cose rischiose per la salute come appunto le droghe. In tal senso, la droga è spesso una reazione alla noia e alla routine della vita quotidiana.1 La canna è vista come un gioco, come qualcosa che unisce perché tutti se la passano e tutti tirano dallo stesso filtro. Bisognerebbe capire che il nostro organismo è capacissimo di produrre “droghe naturali” senza il bisogno di fumarsi dell’erba. Il problema non è tanto quello di reprimere questi bisogni che sono legittimi e naturali, ma dal trovare il modo di soddisfarli senza nuocere alla propria salute. Lo spinello fumato insieme testimonia per esempio la ricerca di solidarietà con gli amici. Il bisogno d’intimità con il gruppo rivela l’importanza e la bellezza di rapporti interpersonali positivi e coinvolgenti. Bisogni di sensazioni forti o di evadere dalla routine possono anche essere interpretati come bisogni di divertirsi, scherzare, trasgredire, giocare, vivere. E’ l’adrenalina quello che si cerca. Si deve anche tenere presente la differenza che c’è tra maschi e femmine. Nei maschi l’aggressività favorisce il comportamento d’abuso, mentre la timidezza al contrario la riduce. La contemporanea presenza di sintomi attribuibili sia all’aggressività sia alla timidezza conferisce il massimo rischio rispetto alla presenza di uno dei due fattori singolarmente. L’aggressività nei maschi è spesso associata con l’incapacità di mantenere la concentrazione per periodi sufficienti a svolgere con profitto i compiti scolastici. Per esempio per l’alcool, tra i giovani, si rileva un approccio precoce, persino prima dei 12 anni in relazione ad una cultura del bere come un non problema. 1) F.Pastore, LE PLOBLEMATICHE DELL’ADOLESCENZA, II VOL. -1- Antropos in the world CARO PRESIDENTE Leggo di tante menti alte che offrono il fianco a ogni causa nobile e giusta, quando c’è di mezzo il carcere, penso che occorra avere rispetto per le vittime del reato, ma anche per il cittadino detenuto. Indipendentemente dalle strumentalizzazioni, dalle speculazioni, dalle pance bene pizzicate, questa marmellata di parole e pronunciamenti, non è di oggi, né di ieri, ma dell’altro ieri. Allora perché un Governo dovrebbe accettare un’eredità imposta e non condivisa? Perché dovrebbe sopportare un nodo storico che non le appartiene, legando a propria volta una zavorra che la sua antitesi politica non ha voluto impegnarsi a sciogliere. Di certo si potrà obiettare che impedimenti di ordine tecnico e giuridico hanno fatto si che tale argomento restasse a mezz’aria. Sta di fatto che ora il fardello è rimpallato a destra, a sinistra, di volta in volta rinculando senza alcun gioco di sponda. Ecco perchè Le scrivo caro Presidente, vorrei dirLe che davvero gli uomini cambiano, perché davvero l’uomo della pena non è più l’uomo della condanna: nonostante il carcere mantenga perversamente il suo meccanismo di deresponsabilizzazione e infantilizzazione, di maggior riproduttore di sottocultura. In questa condanna alla condanna, ci sono attimi che attraversano l’esistenza dell’uomo detenuto, e proprio nel sapere, nella ricerca della propria dignità, nasce l’esigenza di un’autoliberazione possibile e non più prorogabile. La vita, anche all’interno di una prigione, può riservare incontri con te stesso e con gli altri, che disotturano le intercapedini dell’anima: le visioni unidimensionali, gli assoluti, i vicoli ciechi si sgretolano, i disvalori di un tempo si accasciano nei valori che sono venuti avanti. Allora l’uomo che convive con la propria pena, coglie il senso di ciò che si porta dentro, il peso del dramma, quel bagaglio personale come non è possibile immaginare. Venti, trenta, quarant’anni di carcere demoliscono certezze e ideologie, rendono l’uomo invisibile a tal punto da risultare difficile dialogare con un’identità scomposta, che occorre ritrovare e ricostruire, unicamente insieme agli altri. Caro Presidente, chi sbaglia e paga ( assai meglio sarebbe ripara ) il suo debito con la collettività con decenni di carcere, attraversa davvero tempi e contesti di un lungo viaggio di ritorno, lento e sottocarico. Non c’è più l’uomo sconosciuto a se stesso, ma qualcuno che tenta di riparare al male fatto, con una dignità ritrovata, accorciando le distanze tra una giusta e doverosa esigenza di giustizia per chi è stato offeso, quella società che è tale perché offre, a chi è protagonista della propria rinascita, opportunità di riscatto e di riconciliazione. Lei ha parlato con lo sguardo in alto del fallimento e dell’ingiustizia in cui versa il carcere italiano, ritengo sia stato un atto doveroso il Suo, che non Le porterà voti o ulteriori consensi, un atto coraggioso oltre che giusto, soprattutto per la ricerca ostinata di una Giustizia giusta perchè equa, che comprenda un granello di pietà, perché la pietà non è un atto di debolezza. Penso ai tanti uomini che in un carcere sopravvivono a se stessi, inchiodati alle loro storie anonime, blindate, dimenticate. Non esiste amnistia, indulto, sanatoria d’accatto, per il detenuto, non esistono slanci in avanti utopistici, esistono solamente uomini sconfitti, perché in un carcere non sopravvivono miti vincenti, ma esistenze sconfitte dal tempo e dalle miserie che ci portiamo addosso. Caro Presidente, in conclusione che dirLe ancora, se non che quando il carcere è allo stremo fino al punto di uccidere, è un carcere senza scopo nè utilità, forse c’è davvero bisogno di cambiarlo, non cancellarlo, ma neppure mantenerlo così com’è. Cè urgenza e necessità di un nuovo percorso penitenziario che sappia finalmente scegliere fra tanti dubbi, un progetto significativo su cui giocarsi un pezzo di vita, per il bene di tutti, società libera e cittadini detenuti. -2- ANDRAOUS Le prigioni del sé: l’adolescente ritirato in casa --------ISPPREF c.so Garibaldi, 31 – 84123 Salerno Tel./fax: 089.2582527 e-mail: [email protected] www.isppref-salerno.it Convegno del 15 marzo Antropos in the world Dalle memorie di Teruccio SER LORENZETTO All’ingresso della città c’era un antico arco, retaggio di un’epoca remota, ai piedi del quale, da un lato avevano affisso un cartello di benvenuto, dall’altro, a mo’ di edicola, c’era una lapide su cui era scritto: “Il nostro suffragio per la memoria di tanti innocenti trucidati da Lorenzetto, feroce bandito che ha turbato la nostra pacifica cittadinanza. Una prec e”. Giunto in città domandai, tra le tante cose, chi fosse questo crudele assassino, autore di efferati crimini. Mi fu detto che era talmente feroce e aveva seminato morte e terrore al punto tale che si aveva paura di nominarlo; di lui si disse che, dopo la morte, commise un altro delitto. A questa precisazione si aggiunse subito il desiderio di curiosità, per cui fu necessario un supplemento di notizie più circostanziate di questa trista figura. Lorenzetto, nato da buona famiglia, figlio di un notaio, crebbe nel lusso e non continuò la tradizione dell’arte notarile. Fin da adolescente, circondato da pessimi amici, si dedicò al furto e a trasgressioni più o meno gravi, e poi, come avviene generalmente, il precipizio crea un altro burrone, col passar del tempo commise una serie di omicidi; si diede alla latitanza, finché non fu acciuffato e messo in galera; il processo fu celebrato in breve tempo e si concluse con la condanna alla decapitazione. Quando salì sul patibolo, Lorenzetto rifiutò i conforti religiosi, e in alternativa chiese di salutare la folla. Con freddo cinismo e studiata determinazione arringò i presenti: “Cittadini, prima di morire vi voglio salutare. So che tra voi ci sono i curiosi, coloro che mi disprezzano e i miei compagni di sventura, che mi compiangono; a tutti voi non chiedo sentimenti di pietà, perché sono cosciente del male che ho fatto. Se nella spontaneità del vostro cuore alberga qualche sentimento, non abbiate pietà di me, ma di voi stessi, perché ho superato i limiti della morale e della ragione; voi, anche se in misura diversa, siete nell’istinto come me. Mentre vi saluto vi dico che il patibolo è la giusta retribuzione delle mie malefatte. Forse ci sarà qualcuno che avrà pietà di me”. Ciò detto si girò verso il boia che gli recise il capo. La testa fu raccolta in un cesto e la corte decise di esporla al pubblico disprezzo. In piazza il popolo si stava preparando ai festeggiamenti della festa patronale: tra le tante attrazioni nel programma c’era anche il palo della cuccagna; prima di completare i -3- preparativi i maggiorenti pensarono di esporre la testa di Lorenzetto alla sommità del palo e così fu. Quando la notizia si diffuse in molti accorrevano per assistere a questo macabro spettacolo; tra le tante persone, una donna, una madre, a cui Lorenzetto aveva assassinato l’unico figlio, tra la rabbia e il sentimento di vendetta, si avvicinò al palo e scuotendolo gridava: “Finalmente per te è venuta la fine, hai ricevuto quel che meritavi, or sono contenta che gli avvoltoi ti consumino con i loro artigli”. Scuotendo più fortemente il palo la disperata donna continuava a gridare e a dimenarsi; la vibrazione causò la caduta della gabbia che conteneva la testa di Lorenzetto; nel cadere precipitò sulla testa della disgraziata donna: la morte fu immediata. Tra i tanti commenti uno restò come monito perché non si imitasse la ferocia di un assassino che, anche da morto, causò un ulteriore sciagura. Di Lorenzetto si disse, per dispregio, che commise da morto un altro delitto. Egidio Siviglia A MASSIMO TROISI Ci mancheranno , Massimo , in questo a volte strano divenire la tua parlata , il tuo gesticolare , le battute istintive la tua gran voglia di comunicare . Ci mancheranno , Massimo , le tue mimiche uniche ad effetto sicuro inconfondibili la tua maschera comica che celava il segreto del tuo cuore che ti tradì quel giorno all'improvviso l'eco del tuo " Postino " di Neruda è come un urlo , massimo , è dolore ! Guglielmo Somma Antropos in the world I GRANDI MISTERI UNA TRUFFA CHE NON AVRA’ MAI FINE: IL DEBITO PUBBLICO Il debito pubblico italiano – nei disegni degli usurai internazionali – è destinato a permanere in eterno. Esattamente come il debito pubblico tedesco o l’americano o quello di qualsiasi altro Paese. Gli unici che potranno forse ripianarlo – e con fatica – sono gli Stati ancòra proprietari delle proprie banche d’emissione: cioè addire la Cina e pochissimi altri. Come mai? Semplice: perché oggi – a conclusione di un lunga stagione di riforme “liberiste” del sistema bancario internazionale – le banche “centrali” che stampano il danaro (dalla FED americana alla Banca d’Italia ieri ed alla BCE oggi) non appartengono più agli Stati, ma alle banche private azioniste, spesso a loro volta possedute o partecipate dagli stessi soggetti che sono i manovratori degli hedge funds, delle agenzie di rating e di tutti gli altri dannatissimi apparati della speculazione finanziaria internazionale. Per sopperire alle proprie esigenze, oggi, le Nazioni non possono più battere moneta tramite una banca statale “d’emissione”, ma devono farsela prestare: o dalla banca “centrale” (cioè privata) di riferimento, o – sempre più spesso e più massicciamente – dai “mercati”, cioè dalle banche “d’investimento” straniere e dai fondi speculativi internazionali. Dietro corrispettivo – beninteso – di corposi interessi. È questo il meccanismo per cui il debito pubblico non potrà mai essere eliminato, ma – ad andar bene – solamente ridotto. Siccome il denaro agli Stati lo prestano le banche e siccome gli Stati non possono crearne in proprio, questi potranno teoricamente restituire il denaro che hanno ricevuto in prestito (cioè il capitale iniziale), ma mai e poi mai una somma maggiore (capitale più interessi), perché tale somma semplicemente non esiste, non è stata mai messa in circolazione. Come – sia detto per inciso – ha brillantemente dimostrato il professor Cesare Pa- Il ruolino di marcia prevede che, ad un certo punto, i creditori “si accorgano” che il nostro debito continua a crescere, e ci chiedano di ridurlo. Come? Con i “sacrifici”, cioè con i licenziamenti, con le tasse, con i tagli alla spesa pubblica. Quando poi i sacrifici non dovessero essere più materialmente possibili (e siamo ormai a questo punto), allora ci si imporrà una sorta di commissariamento per spremerci anche le ultime gocce di sangue, come è già stato fatto ai danni della Grecia. Infine, ci si chiederà di pagare in natura: con i resti della nostra un tempo fiorente industria di Stato, con la nostra riserva aurea o, chessò, con il Colosseo o con l’isola di Capri. Sarebbe una seconda (e più crudele) stagione di “privatizzazioni”, dopo quella che i nostri governanti hanno allegramente attuato negli anni ’90 e che è servita soltanto a pagare qualche rata del nostro debito pubblico. Già, perché un altro passaggio essenziale della truffa del debito pubblico è proprio questo: i proventi di dismissioni e privatizzazioni devono servire soltanto a pagare una fetta di interessi. Ma il debito – e non potrebbe essere diversamente – deve restare. Questo perché, come insegnano i fatti della cronaca nera, la vittima deve continuare ad avere quel filo d’aria che le consenta di sopravvivere e di rimanere sempre soggetta al ricatto degli usurai. dovani. Perché, allora, il sistema finanziario internazionale (quello che impropriamente chiamiamo “le banche”) continua a prestare soldi ad un soggetto (nella fattispecie lo Stato italiano) che non potrà mai restituirli? Perché, abilissimi finanzieri, agiscono come non si sognerebbe di agire neanche il più sprovveduto tra i preposti bancari di periferia? Semplice: perché quei signori non mirano ai nostri soldi (semplici pezzi di carta a corso legale) ma alla nostra proprietà, ai nostri beni reali, alle nostre industrie pubbliche, alla nostra agricoltura, al nostro patrimonio culturale. -4- Michele Rallo (Già pubblicato sulsettimanale Social - Trapani) Corso Operatore di Comunità --- Info e contatti: ISPPREF Istituto di Psicologia e Psicoterapia Relazionale e Familiare Corso Garibaldi 31, Salerno Tel. 089 258527 – 3939862979 – Orari segreteria: lun-ven dalle ore 16.00 alle 20.00 [email protected] - www.isppref-salerno.it Antropos in the world IL TEATRO COMICO ROMANO a cura di Andropos La parola commedia è tutta greca: κωμῳδία, "comodìa", infatti, è composta da κῶμος, "Kòmos", corteo festivo e ᾠδή,"odè", canto. Di qui il suo intimo legame con indica le antiche feste propiziatorie in onore delle divinità elleniche, con probabile riferimento ai culti dionisiaci . Peraltro, anche i primi ludi scenici romani furono istituiti, secondo Tito Livio, per scongiurare una pestilenza invocando il favore degli dèi. I padri della lingua italiana, per commedia intesero un componimento poetico che comportasse un lieto fine, ed in uno stile che fosse a metà strada fra la tragedia e l'elegia. Dante, infatti, intitolò comedìa il suo poema e considerò tragedia l’Eneide di Virgilio. La commedia assunse una sua struttura ed una sua autonomia durante le fallofòrie dionisiache e la prima gara teatrale fra autori comici si svolse ad Atene nel 486 a.C. In altre città si erano sviluppate forme di spettacolo burlesche, come le farse di Megara, composte di danze e scherzi. Spettacoli simili si svolgevano alla corte del tiranno Gerone, in Sicilia, di cui purtroppo, non ci sono pervenuti i testi. A Roma, prima che nascesse un teatro regolare, strutturato cioè intorno a un nucleo narrativo e organizzato secondo i canoni del teatro greco, esisteva già una produzione comica locale recitata da attori non professionisti, di cui non resta tuttavia documentazione scritta. Analogamente a quanto era accaduto nel VI secolo a.C. in Attica, anche le prime manifestazioni teatrali romane nacquero in occasione di festività che coincidevano con momenti rilevanti dell’attività agricola, come l’aratura, la mietitura, la vendemmia. PLAUTO: Truculentus (195 /198 a.C.) Titus Maccus Plautus, nacque a Sarsina, tra il 255 e il 250 a.C.; i tria nomina si usano per chi è dotato di cittadinanza romana, e non sappiamo se Plauto l’abbia mai avuta. Un antichissimo codice di Plauto, il Palinsesto Ambrosiano, rinvenuto ai primi dell’800 dal cardinale Angelo Mai, portò migliore luce sulla questione. Il nome completo del poeta tramandato nel Palinsesto si presenta nella più attendibile versione Titus Maccius Plautus; da Maccius, per errore di divisione delle lettere, era uscito fuori il tradizionale M. Accius . Plauto fu un autore di enorme successo, immediato e postumo, e di grande prolificità. Inoltre il mondo della scena, per sua natura, conosce rifacimenti, interpolazioni, opere spurie. Sembra che nel corso del II secolo circolassero circa centotrenta commedie legate al nome di Plauto: non sappiamo quante fossero autentiche, ma la cosa era oggetto di viva discussione. Nello stesso periodo, verso la metà del II secolo, cominciò una sorta di attività editoriale, che fu determinante per il destino del testo di Plauto TRAMA DELLA COMMEDIA – Fronesio, una cortigiana ateniese, ha tre spasimanti dai quali vuol trarre il massimo divertimento. Si tratta di Strabace, un campagnolo che possiede un servo (appunto Truculento), Diniarco, un concittadino benestante e infine Stratofane, un soldato straniero sbruffone e spaccone. La ragazza ha progettato di ingannarli e costringerli a pagare ciascuno un'ingente somma di denaro. Il servitore Truculento è il primo ad accorgersi della farsa e tenta di far andare via il suo padrone da quel bordello, ma la serva di Fronesio glielo impedisce. Subito ha inizio un'accesa disputa piena di offese e frasi volgarissime, e alla fine Truculento cadrà anche lui nella trappola della cortigiana. Pianificando il suo ultimo atto, Fronesio, in compagnia di Stratofane, finge di aver generato un figlio dalla loro unione e vorrebbe essere risarcita. In realtà il pargolo è il frutto dell'unione di Diniarco con un'altra donna (figlia del vecchio Callicle). Quest'ultimo sarà costretto a sposarsi con la madre del bambino, mentre Fronesio, accordandosi con Diniarco potrà continuare ad ingannare i suoi due sciocchi amanti. SINOSSI - Anche se l’opera mostra un gusto comico, nelle sue battute, forse troppo distante dal nostro per ottenere ancora l’effetto di irresistibile ilarità che Plauto sicuramente esercitava sul suo pubblico, questa messa in scena risulta ugualmente pregevole, proprio per il tentativo - riuscito perfettamente - di far rivi- -5- vere un mondo che affrontava già, più di duemila anni fa, gli stessi argomenti sui quali ancora oggi basiamo gli spunti più divertenti del nostro teatro comico : è sufficiente ricordare che il fulcro del Truculentus è proprio questa donna disinibita, Fronesio, che, pur dalla sua bassa posizione sociale (cortigiana), tiene in pugno ben tre uomini, senza che nessuno di essi riesca mai a protestare efficacemente. La modernità di Plauto risiede proprio in questa amara ironia misogina che permea l’intera trama, ingenerando negli spettatori maschi una sorta di autocompiacimento per non essere così sciocchi da farsi ingannare da una donna e, al contrario, nelle spettatrici l’orgoglio di appartenere allo scaltro genere femminile. Potrà, dunque, essersi affievolito l’effetto comico delle battute, ma non l’eterna freschezza del messaggio umano cui Plauto continuamente allude, “strizzando l’occhio” al suo pubblico. ASSOCIAZIONE LUCANA “G. Fortunato” - SALERNO SEDE SOCIALE in Via Cantarella (Ex Scuola Media “A. Gatto”) Antropos in the world DE COGNOMINE DISPUTĀMUS “ Il soprannome è l’orma di una identità forte, che si è imposta per una consuetudine emersa d’improvviso, il riconoscimento di una nobiltà popolare, conquistata in virtù di un ruolo circoscritto alla persona, quasi una spinta naturale a proseguire nella ricerca travagliata di un altro sé. Il sistema antroponimico era dunque binominale, formato da un nome seguito o da un’indicazione di luogo (per es.: Jacopone da Todi), o da un patronimico (Jacopo di Ugolino) o da un matronimico (Domenico di Benedetta) o da un attributo relativo al mestiere (Andrea Pastore), et cetera. Il patrimonio dei cognomi era pertanto così scarso, che diventava necessario ricorrere ai soprannomi, la cui origine non ha tempi e leggi tali, da permettere la conoscenza di come si siano formati, e la maggior parte di essi resta inspiegabile a studiosi e ricercatori. Spesso, la nascita di un soprannome rimanda ad accostamenti di immagini paradossali ed arbitrari. Inutilmente ci si sforzerebbe di capire il significato e l’origine di soprannomi come "centrellaro" o come "strifizzo" o "trusiano", lavorando solo a livello di ricerca storica e filologica. E così, moltissimi soprannomi restano inspiegabili, incomprensibili, perché si è perso ormai il contesto storico, sociale e culturale o, addirittura, il ricordo dell’occasione in cui il soprannome è nato. Verso il XVIII° secolo, il bisogno di far un po’ d'ordine e la necessità di identificare popolazioni diventate ormai troppo popolose porta all'imposizione per legge dell'obbligo del cognome. Questo mese, ci occuperemo del cognome: COPPOLA. In Italia : 8.000 persone hanno il cognome Coppola secondo i nostri dati ed è il 194° più diffuso in Italia. Il cognome è diffuso in tutta la penisola, ma con maggior espansione nel sud dell’Italia. ETIMOLOGIA ONOM ASTICA Coppola, berretto basso e rotondo, in genere provvisto di visiera. Il cognome nasce da un soprannome scherzoso verso chi faceva uso frequente del copricapo. Ma può derivare pure dal mestiere di fabbricante di coppole. Altre affermazioni parallele ci si sono avute con i cognami: COPPOLA., COPPOLETTI, COPPOLETTA, COPPOLECCHIA, COPPOLONE. Esistono diverse famiglie di questo cognome, delle quali, oltre a quelle esistenti nel Settecento, alcune sono venute dall'ericino. I Coppola hanno espresso alcuni -6sacerdoti: Domenico (1821-1888), Giuseppe (1819-1906), fratelli Giuseppe Coppola D'Anna (1824- a cura di Gaetano Rispoli PERSONAGGI FAMOSI: * Francis Ford Coppola (Detroit, 7 aprile 1939) è un regista, sceneggiatore e produttore cinematografico statunitense, tra i più grandi cineasti della storia del cinema. Insieme a colleghi e amici quali Martin Scorsese, Brian De Palma, George Lucas e Steven Spielberg ha contribuito in maniera determinante alla nascita della New Hollywood consacrandosi autore di grande prestigio con la regia de Il Padrino e soprattutto con il celeberrimo vietmovie Apocalypse Now, premiato con la Palma d'Oro a Cannes nel 1979. *Aldo Coppola, maestro dei maestri del taglio, che si rivelò fin da giovanissimo, quando a 15 anni vinse il campionato italiano dell’acconciatura femminile. A 21, la prima incursione nella moda, come hair stylist delle modelle che sfilavano al Pitti di Firenze. *Ferdinando Coppola (Napoli,10 giugno 78) è un calciatore italiano, portiere del Milan. Il 29 giugno 2007 viene acquistato in prestito dalla Atalanta, in Serie A. Esordisce in maglia nerazzurra il 26 agosto seguente, in occasione della trasferta di Reggio Calabria contro la Reggina, sua ex squadra, che vede gli orobici pareggiare per 1-1. Con la società bergamasca ottiene il record di essere stato l'unico calciatore, in quel campionato, ad aver disputato tutte le 38 partite senza aver mai saltato un minuto. "STATI GENERALI DELLA SALUTE: ART. 32" 59.433.744 volte NO al titolo Quinto della Costituzione * * 15° Censimento popolazione italiana al 9 ottobre 2011 (dati ISTAT) « DIRITTI ALLA SALUTE » Venerdì, 7 marzo 2014 ore 08.30 - 18.30 Nuova Aula del Palazzo dei Gruppi Parlamentari Via di Campo Marzio, 74 - Roma (mappa) Antropos in the world NOTE ANTROPOLOGICHE LEGALIZZIAMO LA NOSTRA IPOCRISIA di V. Andraous Insomma quando il gioco si fa duro ognuno spara a destra e a manca senza badare troppo a chi colpisce, quel che conta è fare muovere le pedine in un senso o nell’altro, se poi ci va di mezzo un giovane, risulterà una sofferenza accettabile. Effettivamente non sempre accade che chi fa uso di sostanze sia destinato a rovinarsi, a morire, a uccidere, non sempre la vita diventa un vicolo cieco. Alle mie obiezioni sulla legalizzazione qualcuno risponde così: non sempre, solo qualche volta, c’è il ferito, il morto, il botto e il silenzio. Forse bisognerebbe farci i conti con quel ”qualche volta”, con quelle vite dimezzate, azzoppate, disperate, annullate, scomparse, per una svista, non certamente causata da un eccesso di zuccheri. Possiamo metterla giù come meglio crediamo e vogliamo, ma legalizzare non toglierà mercato alle mafie, non farà diminuire le utenze, la pratica del minor danno-sballo non risulterà politica risolutrice. Ciò che domani sarà mercato istituzionale, consegnerà percentuali importanti di principi attivi, guadagni e sfruttamento dei più deboli e fragili, a un altro mercato parallelo, ben più efficace e provvisto di alternative comode, a pronta consegna. Salute, vita umana, dignità, responsabilità, capacità di fare delle scelte, di avere soprattutto delle scelte, stanno diventando concime per fintamente nuove ideologie, le quali negano diritti fondamentali ai più giovani, ai più esposti, dentro una società di adolescenti al palo, in attesa di varcare la soglia del vicolo cieco, perché di cecità giovanile si tratta, quindi occorre fare i conti con il Dna di ogni nuova generazione. Anche e soprattutto con l’ottusità politica, etica, morale, di quanti dovrebbero ergersi in piedi, non in quanto rigoristi, ma perché in tutta coscienza e nel rispetto degli altri, non intendono fare da rampa di lancio, da spazio neutro, da finestra cui rimanere a guardare, ingrossando le fila di una indifferenza sociale che non salverà vite umane, non maturerà individui disacerbati, non aiuterà a fare i compiti per conoscere i propri limiti. Campagne, slogan e manifesti, contro questo e contro quello, adesso occorrerà farne anche contro la Maria, la Giovanna, la Elisa, sarà necessario ferirsi e lacerarsi ancora di più: auto sequestrate, patenti ritirate, pendenze penali, lavoro pubblica utilità, gambe tranciate, corpi in scadenza, assenze eterne che diven- -7- gono ulteriori presenze costanti. Qualcuno proporrà, come accade sempre, altri interventi di ripiego, cercheranno di tranquillizzarci sostenendo che i minori non potranno accedere a questo nuovo supermercato dello sballo, ma noi sappiamo bene che potranno ugualmente riempirsi gli zainetti di fumo e erba, infatti c’è sempre chi scalpita e si presta alla festa prossima. La droga non è normale quanto un bicchiere di vino, la droga non fa bene, uno spinello “aiuta” a lenire “terapeuticamente” il dolore insopportabile a chi è costretto a letto da un male terribile, ma non rende lucidi coloro che sono protagonisti attivi della propria vita e del proprio benessere, responsabili di se stessi e degli altri, come libertà insegna a ognuno. Uno spinello è sufficiente a pensare, sbagliando, di essere a mezz’aria, sopra e sotto il tuo problema, dentro un’esistenza mai sotto osservazione, subita come una condizione di inferiorità. Legalizzare la roba non renderà meno duro il linguaggio del mondo, meno feroce l’ansia e lo stress per l’ignoto che ci attende, è puerile giustificarne l’uso (e l’eventuale abuso ) per risolvere il sovraffollamento carcerario causato dalla severità di alcune leggi di contrasto allo spaccio di sostanze. Ho l’impressione ci sia davvero urgenza a mettersi di traverso a fronte di dichiarazioni semplicistiche, c’è bisogno di non dare mai le spalle a zone buie come queste, perché sono volti e maschere della stessa identica tragedia, che incombe, non s’allontana, e non sarà la legalizzazione a domare una violenza insita in ogni responsabilità negata. Antropos in the world OBIEZIONE DI COSCIENZA La coscienza, secondo l'ambito nel quale viene osservata, è intesa in vari modi; in campo etico essa è la capacità di distinguere il bene e il male per comportarsi di conseguenza. Il Concilio Vaticano II afferma che “ Nell’intimo della coscienza l’uomo scopre una legge che non è lui a darsi, ma alla quale invece deve obbedire e la cui voce, che lo chiama sempre ad amare e a fare il bene e a fuggire il male, quando occorre, chiaramente parla alle orecchie del cuore.” (GS 16) Pertanto, se si ritiene che ottemperando a un dovere imposto dall’ordinamento giuridico si avrebbero effetti contrari alla “voce della coscienza” si ha il dovere morale di rifiutarne l’esecuzione. In tal senso l’obiettore di coscienza è anche il martire. In senso proprio però il significato è più ristretto e indica come obiettore di coscienza il cittadino che rifiuta la prestazione del servizio militare obbligatorio per motivi di coscienza, siano essi umanitari, morali o religiosi, sia in tempo di pace che, soprattutto, in tempo di guerra, in quanto l'assolvimento del servizio può comportare l'uccisione di altre persone in battaglia. Il movimento degli obiettori di coscienza sorse per motivi pseudoreligiosi di alcune sette protestanti (Menoniti, Quacqueri, Testimoni di Geova, ecc.) che male interpretavano alcuni passi scritturali. Dai paesi protestanti si diffuse nei paesi latini, favorito dalla visione degli orrori delle due guerre mondiali. In campo cattolico era comunemente respinta la tesi degli obiettori di coscienza e la loro resistenza passiva veniva almeno considerata come una violazione ai doveri civici di giustizia legale.” Il bene comune infatti esige che il cittadino partecipi come ai vantaggi, così agli svantaggi della vita collettiva, tra cui il servizio militare obbligatorio … i benefici individuali devono essere sacrificati alle superiori esigenze della compagine sociale” (Dizionario di teologia morale). Non mancavano però voci che sostenevano la legittimità dell’obiezione di coscienza, come quelle, ad esempio, dei sacerdoti Balducci e Milani. Il Concilio sull’argomento ha mutato atteggiamento: la citata Costituzione pastorale su “La Chiesa nel mondo contemporaneo”, pur osservando realisticamente che “La guerra non è purtroppo estirpata dalla umana condizione. -8- E fintantoché esisterà il pericolo della guerra e non ci sarà un’autorità internazionale competente, munita di forze efficaci, una volta esaurite tutte le possibilità di un pacifico accomodamento, non si potrà negare ai governi il diritto di una legittima difesa”, afferma in modo esplicito che “Sembra inoltre conforme ad equità che le leggi provvedano umanamente al al caso di coloro che, per motivi di coscienza, ricusano l’uso delle armi …” (LG 79). In Italia l’istituto dell’obiezione di coscienza di fonda sull’art. 3 della Costituzione (Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali) ed è quindi un diritto inviolabile della persona. Detto istituto è di carattere generale, non riguarda cioè solo il servizio militare obbligatorio, peraltro abolito. Vi sono infatti obiettori da parte dei medici che si rifiutano di praticare l’aborto, perché la loro coscienza non permette di sopprimere un essere umano nel grembo materno. Così vi sono obiettori tra i farmacisti di vendere prodotti anticoncezionali quali pillola, così come è previsto il diritto all'obiezione di coscienza nei confronti della sperimentazione animale. L’aspetto contraddittorio e inquietante ad un tempo è rappresentato dal Partito Radicale che nel febbraio del 1970 prese l’iniziativa di fondare la Lega degli obiettori di coscienza (LOC), mentre oggi due suoi autorevoli esponenti - la Bonino, che come attività in vita sua ha solo praticato aborti con una pompa di bicicletta, e Rodotà che, incredibile a dirsi, è stato addirittura in predicato in quota grillina quale Presidente della Repubblica affermano (udite! udite!) che “in Italia c’è una malattia contagiosa, una epidemia rapida che si chiama obiezione di coscienza” (Bonino), e che a più di trenta’anni dall’approvazione della legge sull’interruzione della gravidanza la possibilità dell’obiezione di coscienza dei medici “andrebbe semplicemente abolita.” (Rodotà). Ne deriva che c’è gente che non è disposta ad uccidere il nemico per difendere la Patria, ma è pronta a sopprimere la vita umana nel grembo materno. Renato Nicodemo Antropos in the world IL CARCERE E’ DIVENUTO UNA CONDANNA A MORTE Di V.Andraous L’anno 2014 è iniziato da qualche giorno, suona la campana a morto per qualche disgraziato garrotato dal meccanismo perverso che il carcere mantiene, per poi vergognarsene senza pudore. Un altro poveraccio se ne è andato con le gambe in avanti, un’evasione silenziosa, che non fa rumore come quell’altra con lima e lenzuola annodate, da qualche tempo s’evade così, con corda e sapone, senza documentazione, privati persino della propria storia personale, quella che non è mai raccontata per quella che è. In fin dei conti la prigione non è zona di mare, di sole e divertimento, è quello che è, un lazzaretto disidratato, un contenitore, una catasta di cose, di numeri, di eccedenze e scarti, di sovraffollamento, e dunque, c’è bisogno di dare aria ai capannoni in disuso, consentendo disprezzo e indifferenza ulteriore al lessico quotidiano, che parla non di uomini, cittadini reclusi, non di pene da scontare, non di carcere a norma di sicurezza. Contese politiche e trabocchetti ideologici, dove la sicurezza appunto è strattonata per meglio comprarla a seconda dei punti di vista, delle prospettive, dei vantaggi di casata, quindi per i detenuti rimane solo il tempo di un urlo strozzato in gola, per gli altri cittadini liberi uno sbadiglio, meglio sonnecchiare di fronte all’ultima ingiustizia, perché fin troppe sono quelle irreggimentate per rendere inquieta e preoccupata una società. Un altro prigioniero è finito sul ben noto capitolato degli “eventi critici”, letteratura amministrativa per meglio rendicontare certi accadimenti insanabili, che invece meriterebbero maggiore attenzione, dentro sensibilità certamente diverse, ma ognuna in possesso della propria patente di circolazione, ben connessa alla sostanza delle cose, non alla parzialità delle circostanze che di volta in volta fanno gridare, sbattere i pugni, per rivendicare ruoli e competenze, rafforzando i silenzi. Ci sarebbe bisogno di chiarire questo buco nero profondo in forza di autorevolezza, gli ammanchi esistenziali di una giustizia anch’essa presa per i fondelli, infatti alla galera è possibile trarre un riassunto sociale che non lascia dubbio per il decoro venuto meno, perché autorizzato a scalare le vette più alte dell’inumanità. Sovraffollamento, suicidi, malattia, solitudinarizzata persino la morte, patologie border line, aree sempre più corpose di doppia diagnosi, tumefazioni e sangue, confermano il pericolo di un vero e proprio regresso insanabile del carcere italiano. Qualcuno ha detto che sulle brande arrugginite “ i cuscini puzzano di sudore “. No, non è così: quei cuscini, dove ci sono, perché mancano, sono invisi persino alla consorella discarica più vicina. A quante palline cadaveriche è arrivato il pallottoliere penitenziario? Siamo a inizio anno, eppure tra una imu reintrodotta con gli interessi, una tares reinventata, una tasi spocchiosa, lo scoramento di una collettività dise- -9- duca alla compassione, alla pietà, alla giustizia che salva dall’ingiustizia dell’abbandono. A volte si ha l’impressione di una discussione oziosa sul carcere, è tutto talmente incancrenito e marcio che non c’è difficoltà ad autoassolversi con un giro di parole, raccontandoci una realtà che non esiste, perché non deve esistere. A cosa serve una prigione che non custodisce, ma si limita a detenere, che non rieduca, ma addomestica all’attesa del morso che verrà, che determina un tempo bloccato, senza alcuna possibilità di crescere, di spostare l’asse di coordinamento sociale da puro terminale dell’esclusione, a linea di partenza per nuovi stili di vita, di responsabilità assunte. Un carcere che uccide non serve a nessuno, un carcere che accartoccia l’umanità non serve, un carcere della ingiustizia genererà soltanto mostri, forse vecchi nel fisico, ma bambini nella testa, deresponsabilizzati dalla sofferenza cieca che non consegna nuove punteggiature. Il carcere che uccide non serve perché non è con la vendetta travestita di buone intenzioni che si superano le gambe corte delle menzogne, delle panzane mediatiche, una galera che inghiotte, espelle carne morta, non sana il male di vivere, non ripara al male perpetrato, non diventerà mai protagonista attivo di un preciso interesse collettivo. Amnistia, indulto, decreti, falsi allarmismi, carceri nuove e mantenimento di una politica del più forte contro il debole, significa consolidare una galera dell’intolleranza, che scardina valore all’autorevolezza delle istituzioni. Non può esser considerata una pena affidabile, quella pena che priva di rispetto della dignità ognuno, una pena in cui il reato diventa l’unica identità possibile del detenuto, anche quando quella pena verrà scontata, non una volta come Costituzione comanda, ma una volta di più, rendendo vano ogni auspicio di risocializzazione, ogni richiesta di giustizia. Un anno di carcere e sembri un fantasma! Non so come, ma sono ancora vivo. Se la gente sapesse quanti ne muoiono! Antropos in the world IL RACCONTO DEL MESE: NUNZIATINA eBook - PC, Mac Os, Linux, iPhone, iPad, Android, HTC, Blackbarry, eReaders - ISBN 9788868143053 Oltre le gole selvagge del monte Marzano, la valle del Sele si estende a triangolo tra l'Alburno ed i monti Picentini. Tra i lembi estesi di terrazze fluviali‚ il Sele si allarga ad irrorare la pianura, un tempo inospitale e malarica. La nostra storia si svolge‚ agli inizi del ventesimo secolo, in quella parte della valle chiamata "fémmena morta", in seguito al ritrovamento del cadavere di una donna che non fu mai identificata. A quel tempo, vaste masse di proletari, coloni e contadini, si addensavano là dove forme capitalistiche di conduzione si erano insediate in un contesto sociale dominato da “residui feudali” e dalla assoluta mancanza di una regolamentazione giuridica‚ che garantisse la tutela dei prestatori di opera,vittima dei caporali. Questi ultimi attuavano una vera mafia d'ingaggio, impedendo il contatto diretto tra padroni e lavoratori ed avvantaggiandosi, indebitamente, sul compenso del lavoro. Nel contempo, taglieggiavano le loro vittime, pretendendo utili per l’arruolamento. Su di un guadagno complessivo di venticinque lire, essi truffavano sino a sei lire, continuando l'opera con atti di strozzinaggio ed imponendo prestiti iniziali a tassi impossibili. Altri ancora‚ contro ogni legge morale, pretendevano che le donne alzassero le gonne e soggiacessero alla loro voglie. Don Filippo Capo apparteneva a questi ultimi‚ e non perdeva nessuna occasione per trarre benefici economici e sessuali‚ in tutta la pianura. I Farnesi ed i Casati era i più grossi latifondisti della valle ed egli era procuratore di entrambe la famiglie. Senza figli, aveva per moglie un curioso animale, che somigliava ad una donna per via di due grosse protuberanze, che le gonfiavano la veste nella parte alta del corpo. Angelina, così si chiamava, spettegolava su tutti‚ compiacendosi del lavoro del marito e del timore che incuteva negli altri. Basso, tarchiato, con la barba rada, che si concentrava nella parte alta delle guance‚ portava a spasso un naso piuttosto grosso e sgraziato, sotto due occhi porcini. La pelle olivastra‚ sudaticcia e maleodorante, si accompagnava ad una voce roca, bassa e volgare. Un ciuffo di capelli, lisci, unti e neri come il carbone, gli cadeva sulla fronte, segnata da una brutta cicatrice. Uomo di fiducia, don Filippo percorreva la lunga "carrara" (1), sul leggero calesse, tirato da "Diavolo", un cavallo snello a nervoso, e sorvegliava i lavoranti, da un capo all'altro del territorio, compiendo‚ ogni giorno‚ un lungo giro per Pagliarone e la zona collinosa a valle di Capaccio. Al suo passaggio, le donne si facevano il segno della croce, mentre gli uomini, fingendo di ignorarlo‚ stringevano i denti e sbiancavano le nocche sull’asta delle zappe dalle lame lucenti. Erano circa la tredici, quando arrivò nella zona dei salici, che facevano da confine tra la terra buona ed il "deserto" : una lunga striscia di terra, oggi chiamata "Licinelle", bruciata dal sole a schiaffeggiata dal mare. Alcune donne si riparavano dal sole, sotto un grosso albero di gelsi rossi, tra esse vi era Nunziatina, una giovanetta di una bellezza esuberante: sedici anni‚ forse diciassette‚ con un casco di capelli neri‚ come i suoi occhi irrequieti‚ ma limpidi come l’acqua d’una fonte. La camicia leggera aderiva alla pelle sudata, mostrando l'abbondanza dei seni turgidi, sul ventre piatto. Una gonna a campana, che la leggera brezza incollava all'inguine, alle cosce ben fatte, metteva in risalto la figura agile a slanciata della giovane. Le donne si segnarono, la fanciulla scappò, scomparendo tra i cespugli ed i fichi d'India. Don Filippo spronò il cavallo e la seguì. Sudava, il fazzoletto, intorno al collo taurino, era bagnato e la camicia, aperta sul davanti, lasciava intravedere rivoli di sudore, tra i peli del largo torace. Ad un tratto, la vide. S'arrampicava sui sassi che delimitavano la terra dei Casati. La raggiunse. La fanciulla si girò prontamente‚ come una tigre che si prepara all'assalto: con la fronte corrugata, sugli occhi duri, fronteggiò l'uomo che, sceso da cavallo, si avvicinava lentamente a lei. Con le spalle contro il muretto a secco‚ Nun- - 10 - Antropos in the world ziatina ansimava, cercando scampo con gli occhi. Le braccia tese artigliarono all'indietro due grosse sporgenze nel muro. Fece forza ed una di queste cedette. La fanciulla si sentì protetta. Lanciò la pietra ed il sangue sprizzò fuori velocemente dalla fronte dell'uomo che, con un urlo di rabbia, si lanciò in avanti, afferrandola nel punto in cui i due seni formano il lungo solco d'amore. Il tessuto cedette e la fanciulla coprì‚ con le mani‚ la pelle eburnea. Negli occhi dell’uomo una luce torbida e cattiva. Intanto‚ l'altra mano artigliava le gonne che, strappate nella parte alta, si raccolsero ai piedi della fanciulla nuda e tremante. Uno stormo di uccelli volò via in direzione della piana‚ mentre l’eco di uno sparo si infranse sul fianco della collina‚ tra gli ulivi ricurvi. Le mani dell'uomo erano d'acciaio, un rivolo di saliva scendeva, dall'angolo della bocca, sul mento sudato. La terra secca graffiò le spalle delicate di Nunziatina che, esausta, abbandonò ogni resistenza. L'immagine del cielo divenne nebulosa e scomparve, mentre il membro dell'uomo le straziavano il ventre. Gocce di sangue bagnarono la leggera peluria, mentre, sui seni martoriati, tracce di bava inumidivano i piccoli capezzoli rosei. L'uomo si alzò, si chiuse i pantaloni‚ tolse con l'indice destro il sudore dalla fronte e sghignazzò: - O lupe s’è futtùte ‘a pecurèlla ... ‘a notte nù durmìa pensànne a tè ! Ma‚ te lo giuro! (bacia le dita a croce e sputa a terra) Da oggi, ci sarà sèmpe lavoro pe’ te a famiglia toia -. Salì a cavallo e scomparve. La fanciulla incominciò a riprendersi ed aprì lentamente gli occhi verso il cielo di un azzurro intenso. Un coro di cicale davano colore a quel maledetto pomeriggio. Nunziatina cercò di alzarsi, ma ricadde supina‚ con le mani sul ventre dolorante ed una sensazione di vomito l'assalì. Si girò di fianco a vomitò sulla terra bruciata. Si sentiva sporca insozzata ed aveva una gran voglia di morire. Si sentì chiamare, guardò giù verso il pendio e vide due donne, che venivano nella sua direzione. Non rispose. Raccolse accanto a lei quello che rimaneva dei suoi panni e cercò di coprirsi. La raggiunsero. - Non vergognarti, figlia mia!- Dio lo punirà quel mascalzone! -. Una della due, tolse dal capo il fazzoletto e cercò di pulirle le cosce, mentre l'altra le asciugava deli- catamente i seni. Nunziatina singhiozzava. Dopo circa una mezz’ora la fanciulla ripresasi alquanto, fu riaccompagnata a casa. Verso la otto di sera Felice‚ il fratello della ragazza, rincasò. La pallida luce del lume a petrolio rischiarava a mala pena l'ambiente‚ annerito dal fumo del focolare. In un angolo, un piccolo mucchio di legna secca, attendeva di essere acceso per la cena. Sulla spalliera d’una sedia impagliata, un asciugamano logoro gocciolava in una bacinella di acqua ed aceto. Felice entrò chiudendo la porta con un calcio all'indietro. Il saliscendi scattò. Andò verso la finestra aperta e fischiò, poi chiamò, con voce secca, ma non fredda: - Baró -. Il cane guardò verso di lui e si avvicinò, scodinzolando. Il giovane tolse la camicia, e prese a massaggiare, con la grossa mano, la braccia stanche. Di poi, chiamò: - Mamma! - Nunziatina! Nessuno rispose. Bussò‚ poi spinse adagio la porta della camera da letto : la sorella giaceva in un bagno di sudore : il delirio alterava i lineamenti della giovane, che sembrava rivivere l'incubo di quel pomeriggio. Una donna, sui cinquanta anni, alzò lo sguardo verso di lui: -Figlio mio‚ disse con voce rotta dal pianto, il disonore a la morte sono entrati in questa casa ! Sul vecchio comò, un lume ardeva davanti al ritratto di un uomo, mentre, al lato destro della cornice, l'immagine della Madonna di Pompei formava un singolare altare di numi tutelari‚ che sintetizzava un unico grande rispetto per la morte e la fede. Felice strinse i pugni: - Chi? - chiese, guardando con dolore la sorella; - Chi è stato! - ripeté con voce alterata, stringendo i pugni ed imprecando tra i denti. (Continua) - 11 - Antropos in the world DA TRAPANI L’ITALICUM: UNA RIFORMA PER CANCELLARE IL DISSENSO L’ultima trovata per fregare gli italiani ha un titolo latineggiante: Italicum. Che, nella fattispecie, non va confuso con la littorina di Cordero di Montezemolo (quella si chiama Italico), ma va piuttosto collegato ai precedenti sistemi elettorali – il Mattarellum ed il Porcellum – per i quali si sono scomodate desinenze della lingua dei nostri padri. Niente di nuovo sotto il sole. Dalle nostre parti, quando si vuol turlupinare la povera gente, la si stordisce con accenti latini. Il padre della lingua unitaria italiana, Alessandro Manzoni, lo faceva dire a Renzo Tramaglino, quando Don Abbondio – sotto ricatto da parte dei bravi di Don Rodrigo – biascicava citazioni latine per giustificare la mancata celebrazione delle nozze dello stesso Renzo con l’amata Lucia: «Si piglia gioco di me? – rispondeva il Tramaglino al parroco infedele – Che vuole ch’io faccia del suo latinorum?» Ma gli italiani di oggi non hanno l’intuito ruspante del personaggio manzoniano, e non capiscono che ci si sta prendendo gioco di loro. A giudicare almeno dai sondaggi, secondo i quali il 60% degli interpellati giudica positivamente il “latinorum” renziano. Eppure, dovrebbe essere chiaro a tutti il doppio inganno che si cela dietro questo ennesimo pastrocchio bipartisan. Primo inganno: si storna l’attenzione dell’opinione pubblica dai fatti concreti (disoccupazione, chiusura delle aziende, impoverimento diffuso) e la si dirotta verso problematiche che interessano soltanto il palazzo. La gente non mangia riforme, tantomeno riforme elettorali, eppure il 60% degli italiani riesce ad apprezzare la melina della proposta renzaian-berlusconiana. Secondo inganno: l’Italicum serve soltanto a privare di una rappresentanza parlamentare le forze politiche minori, alcune delle quali sono critiche nei confronti della globalizzazione economica e della perdita della nostra sovranità nazionale a pro di una Unione Europea che ci sta vampirizzando. L’operazione è stata avviata nel 2008, con un sistema elettorale che ha portato all’esclusione dal Parlamento italiano – guarda caso – proprio de La Destra e di Rifondazione Comunista. Adesso, con il sopraggiungere del Movimento 5 Stelle e con il riposizionamento della Lega Nord su posizioni di destra radicale, occorre escludere (o, almeno, depotenziare) anche loro. Ma, soprattutto, occorre sbarrare il passo ad una grande forza politica populista, antieuropea ed antiimmigrazione che, con ogni probabilità, nascerà in Italia dopo le elezioni europee del prossimo maggio, sull’onda del successo che analoghi schieramenti politici avranno registrato in Francia e altrove. L’Italicum, dunque, disegna un parlamento bipolare o quasi, nel presupposto che le due forze politiche che al momento appaiono più forti (PD e Forza Italia) continuino ad esserlo anche in futuro: beninteso, mantenendosi fedeli al verbo globalista ed europeista. Buttati nella spazzatura i vecchi arnesi appena utilizzati (Monti e Letta), l’apparato dell’Unione Europea sembra puntare adesso su Matteo Renzi come nuovo proconsole. A Berlusconi – troppo bravo per essere gettato via come una scarpa vecchia – viene offerta una via di fuga: archiviare i timidi sussulti populisti e le amicizie pericolose (leggasi Putin), tornare disciplinatamente nell’alveo dell’obbedienza a Santa Madre America, ed obbligarsi a rispettare gli “impegni con l’Europa” che ci stanno strangolando. Se sarà bravo ed obbediente, potrà partecipare alla lotteria della alternanza: una volta a te ed una a me, un colpo a destra ed uno a sinistra, una furbata di qua ed una di là. Tanto il popolo italiano è duro di comprendonio, e basta un po’ di latinorum per fargli perdere di vista le cose importanti.(1) Michele Rallo __________ 1) Da Social – Le opinioni eretiche di Rallo. - 12 - Antropos in the world MOMENTO TENERO Desiderare un bacio, nella carezza ruvida del tempo, è come chiedere forza di respiro, aria di vita, si, per non morire. Ecco perché, di notte, a cuor leggero, li sogno tutti i baci che ho avuto e dal ricordo, prendo vita ancora, sin dalle prime luci … dell’aurora. COMMIATO di Franco Pastore ________________ Dalla raccolta “OLTRE LE STELLE” Premio Artista Esemplare 2014 - Expo d'Arte Contemporanea "Luci in Avalon" Recentemente conclusosi con grande successo di pubblico e critica lo straordinario evento “Premio Artista Esemplare 2014”- Expo d’Arte Contemporanea “Luci in Avalon”,curato dell’associazione culturale AVALON ARTE, dal 4 al 13 gennaio, presso l’Archivio dell’Architettura Contemporanea in via porta Elina – Salerno. Ben 5 i momenti di approfondimento culturale offerti con grande professionalità alla cittadinanza. Sabato 4 Gennaio 2014 è stato assegnato a Giuseppe Antonello Leone il “Premio artista esemplare 2014”, riconoscimento tributato, dall’associazione Avalon Arte presieduta da Gerardina Scalera, annualmente a figure esemplari della ricerca estetica per risultati morali, materiali o didattici sortiti. Giuseppe Antonello Leone, decano dei maestri delle arti figurative, nato a Pratola Serra (Av) il 6/7/1917, è pittore scultore ceramista tra i massimi maestri del Futurismo, movimento che ha segnato una svolta fondamentale nel panorama artistico-letterario del Novecento. Il premio realizzato per l’occasione dal noto scultore Biagio Landi, è stato consegnato dal Vice Sindaco Eva Avossa, dopo una breve illustrazione dell’artista a cura del giornalista Rosario Ruggiero. Sono intervenuti alla cerimonia l’Assessore al turismo Vincenzo Maraio e Rosellina Leone. Nel corso della serata, vernissage della mostra “Luci in Avalon”, opere pittoriche e scultoree su tema libero di 23 artisti da tutt’Italia, presentate dal critico d’arte prof. Luigi Crescibene. La serata è stata allietata da brani di musica New Age del compositore Giuffrida Farina, tratti dal digital CD “Arcobaleni Specchiati”, eseguiti da Marcello Ferrante ed Arminio Capezzuto. Ai visitatori è stata offerta l’opportunità di approfondire le conoscenze sui processi culturali, sociali e storici connessi al consumo di cibo e di vino legati alla gastronomia italiana e internazionale, con "Wine Corner curato da Master Wine con la presenza del Presidente sommelier Andrea Moscariello". Domenica 5 gennaio 2014 vi è stata la presentazione del libro “Con il tempo” di Pina Marcantonio, Edizione Noitre a cura di Alessandra De Vita, con poesie declamate da Annamaria Ferraioli. Lunedì 6 gennaio, dalla celeberrima rubrica radiofonica Gran Varietà, ELEUTERIO E’ SEMPRE TUA, performance teatrale con Brunella Caputo e Davide Curzio, una satira leggera e gustosa della vita matrimoniale basata sullo scambio di lettere fra due coniugi in crisi di noia e sopportazione, ma profondamente legati. Mercoledì 8 gennaio 2014, “Napoletanità. Viaggio nella cultura e nei valori di una città grande quanto bistrattata”. Evento che avvalendosi di momenti spettacolari, poesie e canzoni a cura degli artisti Vincenzo de Simone , Nico Da Zara e Patrizia Pugliese ha proposto la migliore letteratura poetica e musicale di una città sicuramente per più versi unica al mondo, bandendo sin troppo abusati folclore ed oleografia, per presentarla in quella veste che, non a torto, a dispetto di una generale ignoranza odierna, ne ha fatto, per un secolo e più, capitale della cultura e dell’intera Europa. Sabato 11 gennaio 2014, Profilo d’autore, convegno su Giuseppe Antonello Leone, con interventi di: Rosellina Leone, Rosario Ruggiero e con esposizione di alcune opere del Maestro. Numeroso il pubblico nel corso dei 9 giorni della manifestazione, assai interessato e coinvolto dai vari momenti significativi innanzi citati, attratto dalla singolare bellezza e dal messaggio insito nelle stupende opere in rassegna, le creazioni degli artisti: Maria Eterna Baratta, Tommaso Campagnuolo, Biagio Catalano, Anna Ciufo, Antonio Cosimato, Filomena D’Antonio, Mimma De Luca, Angela Esposto, Adriana Ferri, Cristina Flaviano, Cono Giovanni Giardullo, Biagio Landi, Umberto Ligrone, Matteo Massa, Claudio Morelli,Teodoro Quarto, Marta Cecilia Quintana, Anna Sessa, Paola Siano, Giuseppe Torre, Francesco Tortora, SantinoTrezza, Elena Vorobyova. - 13 - Ariana Ferri (Dell’ufficio stampa di Avalon Arte) Antropos in the world LA DONNA NELLA STORIA ONORATA RODIANI Onorata Rodiani fu artista e soldato di ventura. Il primo a parlare di lei fu don Clemente Fiammeni o Fiammeno, nel 1630, nella sua Castelleonea, o Historia di Castelleone. Nel 1354, la cittadina venne conquistata dal Ducato di Milano, ma, tra il 1420 e il 1424, gli anni in cui la nostra vicenda ebbe inizio, fu affidata al marchese Cabrino o Gabrino Fondulo. Nel 1423, Honorata Rodiani stava dipingendo il Palazzo di Gabrino. E «ammazzò con un coltello un cortegiano di esso per un atto poco honesto», scrive Fiammeni. Un tentativo di stupro finito male per lo stupratore. A quel punto la ragazza, temendo vendette, si vestì da uomo e fuggì di notte, abbandonando la famiglia e la cittadina e dichiarando: «è meglio viver honorata fuori della patria, che disonorata in essa». La cosa mandò su tutte le furie Gabrino che la fece processare. Però subito dopo la perdonò, ma lei non tornò, perché, nel frattempo, sotto mentite spoglie, era diventata soldato a cavallo nella compagnia di Oldrado Lampugnano. Aggiunge don Clemente: «visse poi con habito e nome mutati sotto varij capitani, & hebbe officij militari». Ovvero visse vestita da uomo e fece carriera come ufficiale. Poi, nel 1452, quando era al servizio di Corrado, fratello del duca di Milano Francesco Sforza, giunse in soccorso di Castelleone, assediata dai veneziani «onde si diportò cõ il solito valore, e si levò l’assedio, ma fu ferita a morte». Portata dentro le mura di Castelleone e riconosciuta «con gran stupore», morì poco dopo, dicendo: «honorata io vissi, honorata io moro». Secondo don Clemente fu sepolta nella sua parrocchia il 20 agosto 1452. La storia ha avuto grande risonanza, in tempi recenti, all’estero: Onorata è stata subito battezzata “la Giovanna d’Arco di Castelleone”. Come data di nascita di Onorata viene indicato il 1403. Benché donna, era stata incaricata di affrescare il palazzo di Cabrino Fondulo, marchese di Castelleone, diventato signore di Cremona dal 1404 al 1419, conte di Soncino e vicario imperiale, oltre che feroce e coraggioso capitano di ventura. L’incarico dell’affresco è insolito: le pittrici rinascimentali dipingevano in genere al cavalletto. Non a caso la leggenda dice che la furia sessuale del cortigiano fosse stata suscitata dalle gonne e dalle maniche arrolati per lavorare sui ponteggi. Basta osservare l’autoritratto di Artemisia Gentileschi come Allegoria della pittura (1638-1639) per pensare che la furia della creazione rendeva in effetti accaldate. È probabile che Onorata fosse figlia o nipote del pittore Mario Rodiani, incaricato, pare, di affrescare il palazzo di Cabrino. La semi-leggenda vuole la ragazza orfana dei genitori e affidata a uno zio. Non abbiamo riscontri, se non la notizia che sarebbe poi fuggita con gli abiti di un fratello di latte. Dice la semi-leggenda che la diciannovenne e bellissima Onorata era entrata nel palazzo come dama di compagnia della moglie del feudatario, Pominia. E che avesse chiesto di affrescar le stanze della sua signora perché si annoiava. Il giovane molestatore la colse sola. L’assaltò e lei si difese. Benché Fiammeni parli di coltello, la leggenda racconta di un compasso conficcato in gola. Poi la fuga. Arrivata a casa della vecchia balia, Onorata decise di vestirsi da uomo e, dopo aver lasciato una lettera di confessione per la marchesa, partì a cavallo, facendo perdere le sue tracce. Sappiamo dell’ira di Cabrino, del suo perdono. Del fatto che Onorata non lo seppe. Destino volle che solo due anni dopo il marchese fu catturato con l’inganno a Cremona da Oldrado Lampugnani, ministro e uomo di fiducia di Filippo Maria Visconti, condannato a morte seduta stante e decapitato sulla piazza dei Mercanti. Nell’esercito di Lampugnani militava, sotto falso nome e false vesti, anche Onorata. Pare che, con gli anni, la fanciulla avesse conquistato il grado di capitano. Poi, nell’agosto del 1452 o del 1453, la battaglia per liberare Castelleone dall’assedio dei veneziani. Dice la semi-leggenda, che proprio sotto il Torrazzo, che stava per cadere in mano veneta, Onorata fu colpita da una sciabolata. Quando la trassero fuori dalla mischia e le tolsero l’armatura, i compagni, che pure la conoscevano da molti anni e con lei avevano condiviso battaglie e bivacchi, scoprirono che era donna. La battaglia avvenne tra il 16 e il 17 agosto: il funerale è stato subito dopo. L’anno invece non è così certo: potrebbe essere il 1452, quello cioè della presa del potere, a Milano, di Francesco Sforza, contro cui si schierarono quasi tutte le potenze dell’epoca. O il successivo, il 1453, che vide nuovi e sempre simili scontri, con continui e confusi cambiamenti di fronte. La Pace di Lodi, che pose fine all’interminabile e altalenante conflitto tra Milano e Venezia, è del 1454. Della pittrice Rodiani non resta nulla, o quasi, benché le siano state attribuite diverse tavole e anche gli affreschi in casa di don Lodovico Mondini, un sacerdote di Castelleone che scrisse di lei nel 1880. Nell’odierno palazzo GaleottiVertua sono stati riconosciuti i resti della dimora di Fondulo e, durante un restauro, è affiorato un affresco della Vergine con il Bambino e, ai lati, San Sebastiano e San Cristoforo, che forse le si possono attribuire. A lei è stata anche assegnata una santa Caterina, un olio su tela, che è ancora nella chiesa parrocchiale. Il mito di Onorata ha ispirato alcuni letterati, come Romualdo Cappi. - 14 - Valeria Palumbo Antropos in the world IMMAGINI D’UN ALTRO TEMPO – a cura di Maria Imparato Ca’ Foscari certificata Leed Ca' Foscari è Università, è Venezia, è storia, è regata. Dal 1457, quando fu abitato per la prima volta dal doge Francesco Foscari, nei suoi ultimi giorni di vita, il palazzo gotico di Ca’ Foscari, progettato da Bartolomeo Bono, è parte integrante della magnifica architettura cittadina di Venezia. Affacciato sul Canal Grande, “In volta del Canal”, è ancora oggi strettamente collegato al rituale della Regata Storica, che si svolge a Venezia nella prima domenica di settembre: da Ca’ Foscari si accede alla machina, ossia il palco dove siedono le autorità e dove i vincitori, i primi quattro classificati per ogni corsa, ritirano (da secoli) il premio più ambito, la bandiera. Dal secondo piano di questo magnifico palazzo gotico Canaletto dipinse due celebri vedute cittadine: Canal Grande da Ca' Balbi verso Rialto (1720-1723, Museo del Settecento veneziano a Ca' Rezzonico) e Regata sul Canal Grande (1732 circa, Windsor, Royal Collection). Il palazzo di Ca’Foscari è stato inoltre inserito fra i siti paesaggistici e beni culturali, a cui il Forum Nazionale dei Giovani ha assegnato il bollino di “meraviglia italiana” nell’ambito dell’omonimo Progetto, nato in occasione dei 150 anni dell’Unità d’Italia. Ebbene, Ca’ Foscari, dal 1868 sede storica dell’ Università di Venezia, ha oggi ricevuto la prestigiosa certificazione Leed (Leadership in Energy and Environmental Design), diventando così l’edificio ‘green’ più antico al mondo. Promossa da Us Green Building Council, la certificazione Leed attesta il livello di sostenibilità di un edificio nelle attività di conduzione e nelle operazioni di gestione e manutenzione dell’immobile. Ca’ Foscari è stato valutato, dunque, come palazzo straordinariamente all’avanguardia, nonostante la sua vetusta e splendida antichità, per efficienza idrica, efficientamento energetico e approvvigionamento da fonti rinnovabili, acquisti verdi, gestione rifiuti, prodotti delle pulizie sostenibili a bassa tossicità, mobilità sostenibile. “Sono molto soddisfatto di questo traguardo che certifica un insieme di scelte e politiche sostenibili portate avanti da Ca’Foscari in molteplici ambiti con il sostegno dei suoi organi attraverso la Carta degli impegni per la sostenibilità e il Report di sostenibilità pubblicato ogni anno - ha dichiarato il Magnifico Rettore dell’Università - 15 - “Ca’ Foscari” Carlo Carraro - L’assegnazione- della certificazione Leed per un palazzo, che ha secoli di storia e caratteristiche strutturali molto diverse dagli immobili contemporanei, riconosce l’impegno e gli sforzi concreti dell’Ateneo per il benessere degli studenti e del personale e il rispetto del territorio. Stiamo lavorando nello stesso modo anche per altri nostri edifici, in particolare sul nuovo Campus di via Torino e sul Campus di San Giobbe. L’auspicio è che altri atenei italiani raccolgano questa sfida”. Il traguardo raggiunto da Ca’ Foscari, capofila tra le università italiane in termini di sostenibilità, è il prestigioso risultato della partnership con Habitech,consulente per la riqualificazione sostenibile degli edifici esistenti, e Coster, azienda che opera nel settore del controllo dell’energia. La gestione virtuosa degli impianti e le politiche sostenibili dell’Ateneo veneziano hanno dunque permesso di raggiungere questo risultato ambizioso, che apre uno scenario nuovo sulla necessità di innestare la cultura della sostenibilità ambientale anche nel contesto della tutela e valorizzazione degli edifici storici. In quest’ottica è indispensabile un importante cambiamento nella cultura della conservazione dei beni storici ed architettonici, all’insegna del trinomio “conservazione restauro - ristrutturazione”, da realizzare mediante tecniche conservative innovative. La sfida è quella di integrare restauro e conservazione con tecnologie nuove, in grado di tendere verso il risparmio energetico e la sostenibilità ambientale. Una sfida audace ed intelligente, che apre a prospettive di straordinario interesse legate alla progettualità e all’innovazione. Antropos in the worldc PROVERBI E MODI DI DIRE - OVVERO ELEMENTI DI PAREMIOLOGIA * Ah si fosse stato! Oh si fosse mò ! Forse sar- Implicanze semantiche: rà, po’ essere ca sarrà … A vita è tutta’ccà; * A speranza è ‘u ppane d’ì puverielle; * Dicette 'a lucciola, io pure faccio luce; * L'omm nasce senza e corna... ma more curnut! Curnute: dal sostant. neutro latino cornua, corna. Metaforicamente, di uomo tradito dalla sua donna,ma anche di uomo furbo, senza scrupoli, cattivo, dritto. Esplicatio: In effetti, la vita è solo un susseguirsi di ipotesi, un groviglio di se avessimo fatto o non fatto una determinata cosa. Da sempre, la speranza è il sostegno dei non potenti, della povera gente, che si accontenta della fioca luce delle lucciole. Puveriélle: dal latino pauper-is, povero. Per evoluzione: pauperi, poveri, per perdita di vocale e mutamento della labiale b > v. e e e Derivati: puv rtà, pov r . e e Alterati; puveriell , puveracc Sirica Dora Fraseologia: Tiene ‘e ccòrne annanze ‘e arrète; Tiene cchiù corne e ‘na sporta ‘e marùzze; Tiene ‘e ccòrne a turcigliòne; Si curnùte e fume ‘a pippa Antropologia:Le corna son coltro il malocchio e le pratiche magiche;se ne costruiscono di ogni grandezza e materiale, da cui lo uso di portare il “curniciello” (aureo, argenteo o di avorio) nel taschino del gilet. Ovviamente, il corno non va mai comprato. Lo si riceve, infatti, in regalo. DALL’AGRO NOCERINO-SARNESE INIZIATIVE DI RECUPERO D’OPERE D’ARTE NELLE CHIESE DELLA DIOCESI Venerdì mattina del ventuno febbraio u.s., nel salone della Curia della Diocesi di Nocera-Sarno, è avvenuta una interessante conferenza stampa sul recupero delle opere d’arte, nelle chiese della Diocesi. S.E. Mons. Giuseppe Giudice, Vescovo della Diocesi ed il dott. Carlo Guardascione, della Direzione della Soprintendenza per i Beni storici, artistici ed etnoantropologici, per le provincie di Salerno ed Avellino, hanno incontrato la stampa ed i corrispondenti delle televisioni, ai quali hanno illustrato il programma degli interventi e - 16 - delle iniziative, per il recupero delle opere d’arte delle chiese della diocesi. Trattasi di interventi importanti e necessari, che riporteranno all’antico splendore opere che rappresentano la memoria visiva della spiritualità e della genialità artistica dell’agro e del meridione d’Italia. Se a ciò si aggiunge l’affezione che il popolo riversa su opere ed immagini iconografiche, di valenza secolare, allora si ha la netta misura dell’importanza di un recupero che esonda oltre ogni limite artistico e tracima in una visione sublimata della raffigurazione. Flaviano Calenda Ὁ μὲν βίος βϱαχύς, ἡ δὲ τέχνη μαϰϱά. Ho men bios brachys hē dè téchnē makrà La vita è breve, l’arte lunga. Ippocrate di Cos Antropos in the world LA PAGINA MEDICA: a cura di Andropos NICTURIA O POLIURIA NOTTURNA La nicturia è una disfunzione dell'apparato urinario, consistente nella necessità, anche molto frequente, di eliminazione dell'urina durante il riposo notturno; più propriamente si parla di nicturia quando si osserva una escrezione di liquidi notturna totale maggiore di quella diurna. Il paziente che urina la notte (nicturia) può essere affetto da svariate patologie, a cominciare dalla nevrosi e dall’ansia, per arrivare allo scompenso cardiaco con maggiore ritorno venoso al cuore durante il clinostatismo (quando cioè si è coricati), oppure il sintomo nicturia può dipendere più semplicemente da una cistite acuta. Ad ogni modo, la nicturia, cioè l’eccessiva minzione notturna, può essere causata da un'alterazione del normale ritmo diurno della concentrazione dell'urina o da sovrastimolazione dei nervi e muscoli che controllano la minzione. Normalmente, l'urina è più concentrata di notte che di giorno. Di conseguenza, la maggior parte dei soggetti elimina una quantità di urina tre quattro volte maggiore di giorno piuttosto che di notte e può dormire da 6 a 8 ore durante la notte senza urinare. In caso di nicturia, il paziente può svegliarsi una o più volte durante la notte per svuotare la vescica ed espellere 700 ml o più di urina. Sebbene la nicturia sia di solito conseguenza di disturbi renali o del tratto urinario inferiore, può essere causata da alcune malattie cardiovascolari, neoplastiche e metaboliche. Questo segno comune può anche dipendere da farmaci che inducono diuresi, specialmente se assunti di notte e dall'ingestione di grandi quantità di liquidi, soprattutto bevande a base di caffeina o alcol, prima di coricarsi. Approfondire l'anamnesi della nicturia. Quando è iniziata e con quale frequenza essa si manifesta, se ci sono dei fattori che la scatenano, per es. il consumo di caffè, o cibi ricchi di zuccheri (es. dolci). Il paziente ha solo degli stimoli ad urinare ed emette poche gocce di urine, con bruciore alla minzione (pensare a cistiti o infezioni delle vie urinarie). Il paziente ha notato che le sue urine sono torbide (prova del bicchiere, cioè osservare in un bicchiere trasparente il colore delle urine), che il loro odore è intenso, come di pesce marcio, che le urine sono di colore marsala o come acqua di pasta o a “lavatura di carne”. Nel frattempo, se il nostro urologo ha escluso eventuali problemi medici, ecco alcuni suggerimenti che possono aiutare a ottenere un buon sonno e una ininterrotta notte: - 17 - 1. Ridurre quel drink. Ridurre la quantità di liquido si beve prima di colpire il fieno è una soluzione ovvia per urinare meno durante la notte. In particolare, attenzione per i diuretici come l'alcol e la caffeina, che possono effettivamente aumentare l'urgenza di fare pipì. Evitare di berli a partire sino a quattro ore prima di coricarsi, per chi soffre di nicturia notturna 2. Ridurre il gonfiore alle gambe. Che ci si creda o no di sera le nostre gambe si gonfiano, prima di dormire, elevando le gambe gonfie in modo che siano all'altezza del cuore per circa un'ora, riduce l'urgenza di urinare durante la notte. "Quando ci corichiamo infatti, assorbiamo tutto il fluido dei nostri tessuti gonfi, che vanno poi drenati ai reni per la produzione di urina", spiega Ridgeway. Rilasciando così i liquidi in eccesso prima di coricarsi, è possibile ridurre la probabilità di dover usare il bagno più tardi. CONCORSO INTERN.LE DI POESIA RELIGIOSA “MATER DEI” E’ bandito dalla Rivista “Antropos in the world”, in collaborazione con la “ Chiesa Madre SS.Corpo di Cristo, la Fondazione Carminello ad Arco e l’Università Paganese “ S. Maria Luigia del Sacro Cuore”. Possono partecipare poeti ovunque residenti e di qualunque nazionalità, con una lirica dedicata alla Vergine Maria. La quota di partecipazione è di € 10,00, che dà diritto a ricevere la rivista per un anno. Sono ammessi a partecipare, per la prima volta, gli alunni della Scuola Elementare, che dovranno inviare un breve componimento in poesia o anche in prosa, purché nessun adulto vi abbia messo mano. La partecipazione dei bambini è gratuita. Inviare i lavori alla Direzione di Antropos in the world, via Posidonia,171/h – 84128 Salerno, entro il 18 aprile 2014. Antropos in the world I GRANDI PENSATORI: a cura di Andropos DIOGENE DI SINOPE Διογένης Suo padre, Icesio, era un cambiavalute e fu imprigionato oppure esiliato perché accusato di alterare le monete. Diogene si trovò anch'esso sotto accusa, e si spostò ad Atene con un assistente che poi abbandonò, dicendo: "Se Mane può vivere senza Diogene, perché non Diogene senza Mane?". Attratto dagli insegnamenti ascetici di Antistene, divenne presto suo discepolo, a dispetto della rudezza con la quale era trattato e del fatto che costui non lo voleva come allievo, ma ben presto superò il maestro sia in reputazione che nel livello di austerità della vita. Le storie che si raccontano di lui sono probabilmente vere; ad ogni modo, sono utili per illustrare la coerenza logica del suo carattere e la sua irriverenza. Si espose alle vicissitudini del tempo vivendo in una piccola vasca aperta che apparteneva al tempio di Cibele. Distrusse l'unica sua proprietà terrena, una ciotola di legno, vedendo un ragazzo bere dall'incavo delle mani. In viaggio verso Egina, venne fatto prigioniero dai pirati e venduto come schiavo a Creta ad un uomo di Corinto chiamato Xeniade (o Seniade). Venendo interrogato sul suo prezzo, replicò che non conosceva altro scambio possibile che quello con un uomo di governo, e che desiderava essere venduto ad un uomo che avesse bisogno di un maestro. « E chiedendogli l'araldo che cosa sapesse fare, Diogene rispose: Comandare agli uomini. Fu allora che egli additò un tale di Corinto che indossava una veste pregiata di porpora, il predetto Seniade, e disse: Vendimi a quest'uomo: ha bisogno di un padrone. » (Diogene Laerzio, Vite dei Filosofi VI, Vita di Diogene, 32) Come tutore dei due figli di Xeniade, nonché suo amministratore domestico, visse a Corinto per il resto della sua vita, che dedicò interamente a predicare le virtù dell'autocontrollo e dell'autosufficienza, abitando in una botte. Ai Giochi Istmici tenne discorsi a un pubblico consistente che lo seguiva dal periodo di Antistene. Fu probabilmente ad uno di quegli eventi che incontrò Alessandro il Grande. « Il re in persona andò da lui e lo trovò che stava disteso al sole. Al giungere di tanti uomini egli si levò un poco a sedere e guardò fisso Alessandro. Questi lo salutò e gli rivolse la parola chiedendogli se aveva bisogno di qualcosa; e quello: "Scostati un poco dal sole". A tale frase si dice che Alessandro fu così colpito e talmente ammirò la grandezza d'animo di quell'uomo, che pure lo disprezzava, che mentre i compagni che erano con lui, al ritorno, deridevano il filosofo e lo schernivano, disse:"Se non fossi Alessandro, io vorrei essere Diogene". »(Plutarco, Vite parallele,)ù Diogene Laerzio, a differenza di Plutarco, riferisce che successivamente, forse irritato dalla mancanza di rispetto, Alessandro, per farsi gioco di lui che veniva chiamato "cane", gli mandò un vassoio pieno di ossi e lui lo accettò ma gli mandò a dire: "Degno di un cane il cibo, ma non degno di re il regalo. Alla sua morte, a 89 anni, sulla quale ci sono più testimonianze, i Corinzi eressero un pilastro alla sua memoria, sul quale v'era, inciso, un cane di marmo pario. Il medesimo Eubulo attesta che Diogene invecchiò presso Seniade e, morto, fu seppellito dai suoi figli. Chiedendogli al tempo Seniade come volesse essere seppellito, egli replicò: Sulla faccia. Domandandogliene quello la ragione, Diogene soggiunse: Perché tra poco quel che è sotto si sarà rivoltato all'insù. Disse questa battuta perché ormai i Macedoni dominavano, o da umili erano diventati potenti. » La virtù, per lui, consisteva nell'evitare qualsiasi piacere fisico superfluo: tuttavia Diogene rifiuta drasticamente, non senza esibizionismo, le convenzioni e i tabù sociali, oltre che i valori tradizionali come la ricchezza, il potere, la gloria; sofferenza e fame erano positivamente utili nella ricerca della bontà; tutte le crescite artificiali della società gli sembravano incompatibili con la verità e la bontà; la moralità porta con sé un ritorno alla natura e alla semplicità. Citando le sue parole, "l'Uomo ha complicato ogni singolo semplice dono degli Dei." È accreditato come uno strenuo sostenitore delle sue idee, al punto da arrivare a comportamenti indecenti; tuttavia, probabilmente, la sua reputazione ha risentito dell'immoralità di alcuni dei suoi eredi. Diogene rivendica la libertà di parola, ma rifiuta la politica, rivelando un concetto proto-anarchico. - 18 - Antropos in the world UNA DONNA NELLA LETTERATURA – A cura di Andropos ISABELLA VILLAMARINA Figlia di Bernardo conte di Capaccio e Grande Ammiraglio del Regno. Alla morte del padre, avvenuta nel 1512, ereditò il feudo di Capaccio e Altavilla. Nel 1516, con il consenso del re Ferdinando II, sposò Ferrante Sanseverino, principe di Salerno, che non aveva ancora compiuto dieci anni. Era rimasto orfano in tenerissima età, ed era stato allevato dal padre di Isabella. I due fanciulli ebbero per precettore uno dei più insigni umanisti napoletani, Pomponio Gaurico, il quale per dodici anni insegnò loro le lettere latine e greche. Con il matrimonio di Isabella Villamarino e Ferrante Sanseverino il governo napoletano aveva voluto riunire la dinastia di discendenza angioino-francese, con quella di origine aragonese-catalana. Ferrante, uno dei grandi feudatari del regno, valoroso soldato fu anche poeta di stampo petrarchista e un ottimo e più che raffinato musicista. Una sua canzone che si cantava in tutta Italia cominciava con i versi: Ya passò el tempo que era enamorado/ ya passò mi gloria, ya passò mi ventura/ y ha llegado la ora de mi sepoltura… Durante un primo soggiorno presso la corte del re di Francia era stato molto apprezzato anche come cantore. Isabella fu una delle donne più note della sua epoca, era celebrata non solo per la bellezza e la grazia del viso e della persona ma anche per la sua cultura. Paolo Manuzio, che la aveva conosciuta in Avellino, scrive di averla sentita recitare prose e versi da lei composti in latino e di essere rimasto colpito dalla qualità di quei lavori. Attorno a Isabella e a suo marito Ferrante, che sembra si sia in seguito convertito al calvinismo, si era sviluppata una vita culturale intensa, animata da poeti, musicisti, scienziati ed umanisti, che dedicarono alla principessa opere e poesie. All’imperatore Carlo V che, oltre alla celebre frittata dalle mille uova a Padula, nei 4 giorni di soggiorno salernitano, nel 1535, potè rinfrancare lo spirito con le grazie elargite da donna Sabella, come allora chiamavano Isabella di Villamarina, contessa di Capaccio e di Altavilla. Chi mi può in Napoli comandare, soleva dire a tutti e l’imperatore, di solito, lo confermava pubblicamente. Isabella era piccola di statura, con un volto bellissimo e due grandi occhi neri. Dotata di una grazia squisita e soavità nell’espressione verbale,cattura- va facilmente l’attenzione ed il desiderio della sua persona di chiunque l’avvicinava.Tutto ciò, unito alla cultura, le conferiva un fascino senza eguali. Ferrante ed Isabella, abitavano di fronte al palazzo Ruggi, in via Tasso. Fu proprio qui che scoppiò il colpo di fulmine, tra lei e l’imperatore, quello stesso che, da vecchio, s’incupì al punto di inscenare il suo funerale, per poter pregare la sua anima. Fu allora che Carlo V notò la gentildonna salernitana e volle che lo seguisse a Napoli. Fu durante il lungo soggiorno napoletano, ben per quattro mesi, che l’affascinante Isabella mise in atto le sue strategie seduttive. Carlo V l’assecondava apertamente, cogliendo ogni occasione per starle vicino e conversare con lei. Il corteggiamento era così palese, che il marchese Del Vasto avvisò, con discrezione, il Ferrante, ma Il principe di Salerno stette al gioco ed infischiandosene delle corna, mirò a rafforzare il suo potere. Non accondiscendente fu il principe, di fronte alle avances del cardinale Pompeo Colonna, Vescovo di Sarno, Nicotera, Geffoni ed Aversa, che per aver messo gli occhi sulla bella Isabella, ci rimise la vita. Alla partenza del re, già le cose cambiarono e quando, nel 1547, Ferrante Sanseverino sostenne l'opposizione popolare, contro l’introduzione dell’inquisizione spagnola a Napoli, riuscendo ad impedire questa grave sciagura, egli non poté evitare la vendetta degli spagnoli e massimamente di don Pedro, che gli confiscò tutti i suoi beni e lo obbligò, nel 1552, ad andare in esilio2. Invano Isabella chiede aiuto al vecchio re, che rinnega l’antico legame e la lascia senza protezione, tanto che viene arrestata. Passati al fisco, i beni dei Sanseverino vengono messi in vendita per volontà di Filippo II. Colta da un ictus, il 14 ottobre del 1559, Isabella moriva, pochi giorni dopo aver ottenuto il permesso di ritornare in Italia. Nel 1584, il palazzo Sanseverino, con i suoi giardini, fu venduto ai Gesuiti. (1) ___________ 1) Da ISABELLA SANSEVERINO, di Franco Pastore, dramma storico in tre atti – A.I.T.W. edizioni, Salerno 2014 - 19 - Antropos in the world QUANTI L’AVEVANO CAPITO? IL BRUTTO PASTICCIO DELLA BANCA D’ITALIA Di Michele Rallo Decreto Imu-Bankitalia: una cosetta da nulla, un trucchetto da baraccone per togliere dalle tasche di tutti noi 7 miliardi e mezzo di euro (più o meno equivalenti a 15.000 miliardi delle vecchie lire) e regalarli alle banche private che sono azioniste della Banca d’Italia. Più una sinecura annua di altri 400 milioni di euro (ossia 800 miliardi di lire). Ma questi sono dettagli, perché l’aspetto più grave della cosa è una sorta di riprivatizzazione della Banca d’Italia, cancellando ogni residua parvenza di statualità e destinando definitivamente quello che era un bene pubblico (cioè di tutti noi) alle banche italiane e straniere. Rimandando per il dettaglio ad un precedente articolo («De Benedetti e le banche: beneficiati dal governo Letta» su “Social” del 20 dicembre scorso), vorrei ricordare alcuni antefatti della vicenda. Nata nel 1893 come banca privata, nel 1926 la Banca d’Italia aveva attribuito l’incarico esclusivo della emissione monetaria e quello della vigilanza sulle altre banche. Successivamente, nel 1936, il governo fascista la trasformava in “istituto di diritto pubblico”, espropriava gli azionisti privati e trasferiva le loro quote alle banche d’interesse nazionale (che nel frattempo erano state nazionalizzate). A partire dagli anni ’80 iniziava una manovra della Comunità Europea (progenitrice dell’attuale Unione Europea) per imporre agli Stati associati la “liberalizzazione” delle rispettive economie nazionali e segnatamente dei sistemi bancari. L’Italia aderiva con entusiasmo degno di miglior causa, e nel 1990 la Legge-delega Amato-Carli poneva le premesse per la privatizzazione del nostro sistema bancario, sancito poi dal Testo Unico Bancario del 1993. Le grandi banche italiane, che erano state nazionalizzate dal fascismo, venivano adesso privatizzate e, conseguentemente, l’azionariato della Banca d’Italia passava dagli enti pubblici ad aziende private. Aziende che, messe “sul mercato”, venivano offerte alla partecipazione di tutti i potenziali investitori, anche stranieri, - 20 - anche con interessi ipoteticamente contrari a quelli dello Stato italiano. E, infatti, nell’azionariato delle banche che detengono la maggioranza delle quote della Banca d’Italia troviamo soggetti quali: J.P. Morgan Chase & Co Corporation, Harbor International Fund, Aabar Luxembourg (emanazione dell’Aabar Investments di Abu Dhabi), PGFF Luxembourg (emanazione del Pamplona Global Financial Istitution), Delfin SARL, Central Bank of Libya, Libyan Arab Foreign Bank, Capital Research and Management Company, European Pacific Growth Fund, Carimonte Holding, Abn AmRo, Abn AmRo Holding, Abn AmRo Bank NV, Abn AmRo Bank Luxembourg, Algemene Bank Nederland BV. Piccole partecipazioni, naturalmente, ma che adesso – grazie ai meccanismi introdotti dalla legislazione lettiana – potrebbero ambire ad una più robusta e diretta partecipazione all’azionariato della Banca d’Italia. A tale stato di cose aveva cercato di porre rimedio Silvio Berlusconi (certamente il meno peggio dei governanti italiani degli ultimi anni) con la Legge 262 del 2005: pur senza mutare il quadro generale del sistema bancario, veniva stabilito che, entro tre anni, le quote di Bankitalia detenute da soggetti privati tornassero allo Stato. Ma le elezioni dell’anno seguente segnavano la vittoria di Mister Privatizzazioni – al secolo Romano Prodi – il quale si affrettava a varare una legge di segno opposto, che abrogava il vincolo del controllo pubblico sulla Banca d’Italia. E adesso questo incredibile Decreto ImuBankitalia viene a fugare definitivamente ogni minaccia agli interessi di banche private e fondi speculativi internazionali, sancendo l’irreversibilità della privatizzazione della nostra banca centrale e la possibilità per le banche straniere di partecipare direttamente al suo azionariato. Oltre, naturalmente, alle regalìe in moneta sonante. ( Da Social) Antropos in the world DALLA REDAZIONE DI BERGAMO FOSCOLO E LEOPARDI: ARTE E VITA - PESSIMISMO COSMICO E ROMANTICISMO DELL’ESILIO Opera vincitrice al Festival Letterario della Città di Bergamo. Quinta Ediz. 2013-2014 “L’uomo, in quanto pensa, si ama; non esiste se non per amarsi e procurare il suo bene; naturalmente e immediatamente ama il suo bene, non la propria conservazione; in ciascun punto della vita è in istato di pena; cresce la sua pena nell’atto stesso del piacere; sempre che egli s’accorge dell’esistenza, ama se stesso, e amando se stesso, desidera, e desiderando è infelice: scontentezza e suicidio, in aperta contraddizione con il suo istinto di conservazione; tutto è o può essere contento di sé, eccetto l’uomo; l’uomo trova il nulla nel tutto; non è contento del proprio stato, incapace com’è della felicità; sua somma infelicità; niuna cosa maggiormente dimostra la grandezza e la potenza dell’umano intelletto, che il poter l’uomo conoscere e sentire la sua piccolezza.” In un appunto di riflessione, così Leopardi descrive nello Zibaldone di pensieri la condizione universale del genere umano, all’insegna di quel pessimismo cosmico che non sembra, apparentemente, lasciare spazio alla speranza. Che sia l’Islandese o l’umile Pastore errante dell’Asia a rivolgere domande di senso alla Natura, nulla cambia. Ostile, fredda, indifferente, matrigna, onnipossente, la Natura - che sembra spesso assumere i tratti duri ed inespressivi della madre di Leopardi, Adelaide Antici, bigotta ed anaffettiva - non risponde alle martellanti richieste dell’uomo, persa nella sua siderale distanza dalle umane miserie, tutta immersa in quel suo ciclico, presuntuoso, eterno divenire, che violentemente contrasta con la condizione finita e mortale dell’uomo. Un uomo ontologicamente infelice, in quanto condannato dalla Natura stessa alla ricerca di un piacere infinito ed illimitato, lui che infinito, illimitato e immortale non è. Ebbene, in questa condizione di radicale pessimismo, che non sembra offrire nessuna possibilità di riscatto, il giovane Leopardi scopre la forza della Ragione, ”la potenza dell’umano intelletto”: l’unico strumento, né vile né codardo, concesso all’uomo per prendere radicalmente coscienza del proprio stato, trovando in sé e nel fraterno abbraccio solidale degli altri uomini la forza e il coraggio di vivere, di sopportare il dolore e di lottare. Lottare contro la tentazione del suicidio eroico, quello in cui precipitano Bruto e Saffo, nella rilettura di matrice leopardiana, l’uno opponendosi fieramente all’avversità della storia (Bruto Minore, 1821), l’altra contrastando la natura matrigna ed avversa, che ha imprigionato la sua mente brillante in un corpo brutto e deforme (Ultimo Canto di Saffo, 1822). Contro la tentazione del suicidio, come estrema scelta nichilistica per chiudere definitivamente con un’esistenza colma di sofferenze e di sconfitte, tentazione accarezzata anche dal filosofo neoplatonico Porfirio, nell’omonima Operetta Morale (cfr., Dialogo di Plotino e Porfirio, 1827), si erge la voce dell’altro filosofo neoplatonico, Plotino. Non è un diverso giudizio sull’umana miseria e infelicità dell’uomo quello che Plotino suggerisce all’amico, ma piuttosto una lezione di “moralità pragmatica”, dove a prevalere sono i valori relativi e terreni, anzi sociali, come la sofferenza delle persone care, “gli amici buoni”, destinati a sopravvivere allo evento tragico. “Viviamo, Porfirio mio, e confortiamoci insieme … Sì bene attendiamo a tenerci compagnia l’un l’altro; e andiamoci incoraggiando, e dando mano e soccorso scambievolmente; per compiere nel miglior modo questa fatica della vita.” E proprio da questo straordinario, potente messaggio solidaristico scaturirà, pochi anni dopo, la fase del cosiddetto “Titanismo eroico leopardiano” con la composizione della Ginestra (1836), un vero e proprio “miracolo”, se pensato nel contesto amaro dell’ultima stagione di vita di Leopardi.Un Leopardi sempre più radicato nella sua lucida, lucreziana visione materialistica e meccanicistica dell’esistenza, ormai per sempre lontano da Recanati, dopo la breve parentesi dei Canti pisano-recanatesi del 1828-30, definitivamente disilluso sul versante sentimentale, dopo la fine dell’amore per Fanny (cfr., A se stesso, 1833); un Leopardi costretto a chiedere negli ultimi anni di vita, segnati dal progressivo, rapido peggioramento delle sue condizioni di salute, l’ospitalità dell’amico Ranieri, a Napoli, dove si trasferirà nel 1833, vivendo poi fra Torre del Greco e Torre Annunziata, fra il 1836 e il 1837 (il 1837 è l’anno della morte, avvenuta all’età di 39 anni, non ancora compiuti), ai piedi del “formidabil monte/Sterminator Vesevo”(cfr., La Ginestra, vv. 2-3), per sfuggire all’epidemia di colera che si è intanto abbattuta su Napoli. E sarà proprio l’ultimo Leopardi, nella primavera del 1836, dinanzi alla solitudine spettrale e desolante del paesaggio lavico vesuviano, ad invitare tutti gli uomini ad aprirsi alla solidarietà e all’umana compassione, in uno slancio filantropico, all’insegna della pietas, pensato sotto forma di una “social catena” fra tutti i componenti del genere umano. Una vera e propria “confederazione di spiriti”, unita e compatta contro la Natura nemica e avversa, attraverso lo strumento comune della Ragione, è dunque la proposta ultima di Leopardi, il suo testamento spirituale, dopo aver lucidamente preso coscienza della infelicità degli uomini e del carattere illusorio di ogni forma di falsa ideologia progressista, abbracciata dal suo tempo storico ( definito come il “secol superbo e sciocco”). Solo da questa coraggiosa, e tutt’altro che pessimistica, consapevolezza critica e razionale potrà derivare, secondo il pensiero dell’ultimo Leopardi, una radicale e definitiva “svolta della civiltà”, dove a trionfare sarà proprio il simbolo della ginestra, “il fiore del deserto”, dalla gentile e disadorna bellezza, capace di consolare i deserti. L’umile fiore che, nella sua nudità esistenziale di carattere antievangelico (si veda l’epigrafe di apertura della Ginestra, tratta dal Vangelo di Giovanni, III, 19, citata rigorosamente in greco: “E gli uomini vollero piuttosto le tenebre che la luce”), traduce simbolicamente la virile immagine dell’uomo moderno (e contemporaneo), sottratto a tutte le illusioni, a tutte le speranze, a tutti gli “inganni mitologico-religiosi”, nell’accettazione dell’unica possibile tragica verità: l’orgogliosa e coraggiosa coscienza critica circa la propria infelicità e finitezza, senza mai precipitare nella tracotanza intellettuale, ma neppure nella viltà e nella codardia, nei confronti di una Natura matrigna, terribile, indifferente. Altra, ma non meno complessa ed affascinante, è la para- - 21 - Antropos in the world bolaartistico-esistenziale di Foscolo, interamente costruita sul continuo alternarsi, sovrapporsi ed intrecciarsi tra codice classico/neoclassico e codice preromantico. Fra i primi in Italia ad introdurre le novità d’Oltralpe di gusto preromantico, attraverso la mediazione del Cesarotti, Foscolo apre la sua carriera di scrittore con il primo romanzo epistolare della nostra tradizione letteraria: Le ultime lettere di Jacopo Ortis. Cotruito sul modello goethiano del Werther e pubblicato a Milano nel 1802, dopo una prima parziale stesura nel 1798, fino all’ultima e definitiva edizione londinese nel 1817, l’Ortis trasferisce nella finzione letteraria il complesso delle esperienze autobiografiche giovanili dell’autore, negli anni 1799-1802. Anche per Ortis (alter ego dello stesso Foscolo), come per il primo Leopardi, si prospetta in questa fase iniziale, caratterizzata dal “romanticismo gridato”, la suggestione di stampo plutarchiano (il Plutarco delle Vite parallele) ed alfieriano del suicidio eroico, come risposta del protagonista alla negatività della storia e della vita. Sullo sfondo della vicenda a esito tragico, interamente costruita sulla centralità dell’Io, si profila infatti, fin dall’esordio romanzesco, accanto alla disillusione sentimentale di ispirazione goethiana, il tema della delusione politica, in seguito al trattato di Campoformio del 1797, con cui Napoleone cede Venezia all’Austria (“Il sacrificio della patria nostra è consumato: tutto è perduto”). Si racconta così, attraverso la metafora letteraria, la condizione autobiografica del giovane Foscolo, riferita al periodo veneziano: “Disperato d’ogni consolazione, suicida per indole d’anima e per sistema di mente” ( come scrive del suo Ortis il Foscolo nella Notizia bibliografica), il protagonista del romanzo risponde in chiave nichilistica alla tragedia del suo esilio e del doloroso, bruciante fallimento sentimentale, cercando nella morte di antica matrice stoica la risposta definitiva e totale all’impossibilità di vivere secondo il proprio codice etico e civile. Non così avviene per lo scrittore Foscolo, che attraverso la maschera letteraria di Lorenzo Alderani - il destinatario delle lettere del giovane Ortis, a cui spetta l’ingrato compito di raccontare la parte conclusiva della vicenda esistenziale del suo infelice amico - riesce a superare la negatività del reale, trovando conforto nella scrittura letteraria. Ma tutto questo non consente, comunque, a Foscolo di superare la propria visione pessimistica della storia, se solo nella bellezza altamente idealizzata della donna e nel mito della poesia eternante, motivi celebrati nelle due Odi giovanili di gusto neoclassico (1802), il poeta troverà una parziale consolazione, proiettando nella dimensione universale del Mito e del “Bello assoluto” il proprio tormento esistenziale. Il desiderio di morte si traduce così, nel sonetto “Alla sera” ( pubblicato nel 1803, caratterizzato dal codice preromantico, ma con una forte componente classica), nella equivalenza sera-morte. Nel contemplare la pace della sera, il poeta evoca la dimensione atarassica della morte, la “fatal quiete”, il “nulla eterno” capace di azzerare il trascorrere inesorabile del “reo tempo”, facendo per sempre tacere quello “spirto guerrier” che travaglia la vita del giovane Foscolo. Ma non basta. Nel sonetto A Zacinto, attraverso l’equivalenza antinomica Foscolo-Ulisse (“il diverso esiglio”) e l’equivalenza sino-nimica Foscolo-Omero (la scelta del verbo “cantare” e la ripresa del sostantivo“canto”), Foscolo contrappone, in forma mitica, al codice classico del nostos (il ritorno a Itaca di Ulisse, l’eroe classico, positivo, che conclude felicemente le proprie imprese, cantato da Omero), il codice romantico dell’esilio (il destino “fatale” di esule del poeta Foscolo, l’eroe romantico, negativo, con esito tragico e infelice). Un fato tremendo, quello cantato dal giovane Foscolo, che impone all’eroe romantico di morire lontano dalla sua patria, in terre sconosciute, in una tomba anonima, non confortata da lacrime pietose. Proprio su questo tema, quello della tomba, si sviluppa il Carme “Dei Sepolcri” (1807): alla concezione materialistica e meccanicistica, abbracciata in apertura del Carme da Foscolo, che definisce la tomba un “nudo sasso”, privo di ogni significato e conforto, secondo l’interpretazione di stampo sensista, si contrappone, attraverso un “ma” fortemente avversativo (v.23), l’interpretazione in chiave tutta emozionale e sentimentale, che trasforma, mediante la “teoria delle Illusioni”, la tomba in un luogo sacro di “corrispondenza d’amorosi sensi” fra vivi e morti. E sul tema della memoria, quel filo che dura e illusoriamente sopravvive alla morte stessa dell’uomo (come già poeticamente elaborato nel sonetto In morte del fratello Giovanni), si realizza l’evoluzione storica e concettuale del tema del sepolcro, fino ad assumere un valore altamente eticocivile (i “forti” di Santa Croce a Firenze) per tradursi infine in una dimensione mitica ed epica (la “Troade inseminata”) di stampo universale, destinata a durare per sempre, oltre lo scorrere inevitabile del Tempo, attraverso la poesia eternante di Foscolo (“ Finchè il Sole risplenderà su le sciagure umane”). Superata questa fase di intensa ed appassionata intonazione epica, la poetica foscoliana, con la composizione delle Grazie (1812-13), rimaste (non a caso) allo stato frammentario, si chiuderà all’insegna del codice neoclassico della “Politicità trascendentale”. Sarà una visione fortemente pessimistica della storia, con la delusione nei confronti della realtà politica, in particolare per gli esiti della campagna napoleonica, unita ad una dimensione contemplativa della vita e ad un progressivo isolamento personale, a dominare la produzione letteraria dell’ultimo Foscolo. Un illusorio distacco dal presente e un ritorno al mondo idealizzato dell’antichità classica sono i motivi dominanti delle Grazie. Intese da Foscolo come “divinità intermedie tra il cielo e la terra”, espressione sublime di armonia, arte, bellezza, temperanza e civiltà, capaci di pacificare gli istinti selvaggi degli uomini per ricomporli in un ordine superiore, le tre Grazie saranno contaminate dal contatto con l’umanità e con la storia, costrette a rendersi invisibili agli occhi mortali, trovando rifugio in un’isola lontana e remota, dove ancora regnano l’età dell’Oro e la perfetta armonia. Ma tutto questo avverrà solo ed esclusivamente fuori dalla storia, come accadrà anche per l’ultimo Foscolo, costretto alla solitudine londinese e all’allontanamento forzato dai suoi Amori, dalla sua Terra e dalla Poesia stessa. Maria Imparato ________ Alla Professoressa MARIA IMPARATO, nostra validissima collaboratrice, le congratulazioni più vive della Direzione e di tutto lo staff del giornale. - 22 - Antropos in the world CRITICA LETTERARIA E’ ben noto quale fonte ispirativa di cantori , musicisti , artisti, narratori e poeti sia stato e lo sia tuttora il Cilento; relativamente all’ambito letterario, è altresì risaputo che diverse affascinanti storie della mitologia greco-latina delle quali per millenni la cultura occidentale si è nutrita, sono state ambientate sulle coste cilentane. Non poteva restare insensibile al fascino di esse, alla imperiosa tentazione di riproporne l’incanto in chiave moderna, il professore Franco Pastore, per anni egli è stato docente di discipline umanistiche nonché innamorato esperto/cultore del mondo greco e di quello latino. Negli anni novanta il Nostro, la cui occupazione abituale era l’insegnamento di discipline letterarie e pedagogico/sociologiche, venne trasferito al Liceo di Piaggine; in quel periodo nacquero, sotto l’influsso della esperienza sociale e professionale, alcune opere: la raccolta di liriche “All’ombra del Cervati” (Napoli Editrice) , un testo per la scuola elementare intitolato “Fabellae” (Paes Editore), antologia di drammatizzazioni che divennero spettacoli teatrali rappresentati dal “Gruppo 02” con l’ègida direttiva del regista Enzo Fabbricatore, al Teatro di Piaggine; infine “Amore e mito”, volume composto da otto poemetti proponenti in versione contemporanea intensi racconti e sublimi personaggi mitologici, tra i quali campeggiano Euridice e Orfeo, il primo dei poeti, che per amore di Euridice discese nel regno dei morti. In realtà il comune denominatore che correla le otto storie è l’animo umano, il suo doloroso mistero divorato da due opposte forze in perenne scontro (la folle “dionisiaca” volontà di potenza, e l’equilibrata ”apollinea” razionalità). Relativamente all’intimismo lirico che comunque permea l’animo dei guerrieri e mitici eroi, un posto di spicco lo occupa Palinuro, nocchiero della mitologia romana partorito da Venere e dal quale sarebbe poi sorta la stirpe dei romani; il Libro V dell’Eneide è incentrato, specificatamente, sul Cilento, nel testo di Virgilio è difatti rinvenibile, quale perno della vicenda, lo scoglio ubicato tra il golfo di Policastro e l’insenatura di Pisciotta. L’opera di Pastore è una libera divagazione poetica sui temi della passione e delle “tempeste d’amore”, quelle tempeste che fanno varcare i confini del tempo, della storia; e rendono quasi “visuale” l’inesprimibile, immenso sentimento che portò i Greci sotto le mura di Ilio, che determinò la morte di Tristano e la fine dei cavalieri della Tavola rotonda, che indirizzò le canzoni del Convivio, che reca all’uomo millenni da vivere (sue capacità intellettive permettendo) … Il libro non intende ritornare nostalgicamente all’ideale nel neoclassico, che proiettava mondo antico ogni modello estetico; ripropone il tema dell’amore inteso quale valore che si concretizza nel sublime: l’autore vuole trasmettere le sensazioni di un sentimento forse un tempo assai più vivo e potente, che la superficialità di una cultura massificata e da villaggio globale dei tempi attuali, la stringatezza delle moderne espressività e comunicazioni, hanno svilito di senso ed impoverito di contenuti. Per quanto concerne le liriche di un altro dei testi innanzi citati, “All’ombra del Cervati”, il poeta ha colto l’intenso significante valore del “messaggio” nascosto nella vallata del Cervati; il Monte Cervati è stato liricamente rappresentato assieme alla estesa valle abbracciante il Cilento in una plastica fusione, con l’armoniosa vegetazione che ne caratterizza il senso profondo e che appare ai suoi occhi una sconfinata distesa la quale “cattura frammenti d’eternità” Il Monte, fonte ispirativa di una sequenza di poesie assai delicate nella loro musicalità, ripropone alla mente il “mar da lungi / e quindi il monte” di leopardiana evocazione: il poeta “abbraccia”, dal picco, dal punto di massima altezza “dove l'eterno amplesso /col cielo /si nutre di aliti di vento”, il cuore del Vallo di Diano; poi è la limpidezza del cielo ad aprire le sue porte a Capo Palinuro e Maratea, “scrutando il mare / con nostalgia d’amore” … Ed è su questa vetta che il poeta vorrebbe “essere anima” dunque pura energia, è lassù che il vento prende forma, si “materializza”: in questi attimi possiamo cogliere un “panta rei all’opposto” nel senso che nulla sembra travolgere le sorti di noi esseri umani, l’attimo umano pare fermato, bloccato, parole pulite e liberate dalle aderenze impure, parole incontaminate, innocenti volano e restano sospese nel firmamento della poesia. E poi il Notturno si colora di fantastico, di ideale, ma le notti sembrano diventare qualcosa di tangibile , dotate di effettiva concretezza sulla cui superficie si notano i due sentimenti più importanti: l’amore, soprattutto la predilezione che Dio (poeticamente trasfigurato in “lame di sole”) manifesta verso le sue creature, e la tormentosa solitudine compagna della sofferenza quando questa non è illuminata dalla Sua luce e dal Suo calore, allora la musica si trasforma in silenzio, muore. Le opere di Pastore manifestano l’assai sensibile mondo morale che lo animano, con uno stile realistico ed introspettivo portato ad evidenziare il guasto dell’anima, il male dello spirito nell’ambito realistico della descrizione d’una società, stile che permea di eguale morbidezza la solare altezza del Cervati, attraverso “volti rapiti / che si nutrono di cielo”, e l’angoscioso buio del sopruso. - 23 - Giuffrida Farina Antropos in the world STORIA DELLA MUSICA - A cura di Ermanno Pastore Igor' Fëdorovič Stravinskij Oranienbaum, Pietroburgo, 1882- New York 1971 Figlio di un famoso cantante dell'Opera imperiale di che tocca nel Sacre una complessità tale da interessare da vicino anche le recenti avanguardie La violenza di questa San Pietroburgo, fu avviato a studi di diritto, partitura, ispirata a una mitica visione di una Russia ma nel 1903 divenne allievo privato di N. arcaica, è legata anche a una sorta di impassibile oggettività Rimskij - Korsakov che, oltre a dargli lecon cui viene guardato lo scatenamento di barbariche forze zioni (fino alla morte, nel 1908), si adoprimordiali. L'ineluttabilità del sacrificio nel Sacre, come però perché le sue prime composizioni l'amara sorte della marionetta in Petruška, rimanda fossero eseguite. Una svolta decisiva coerentemente agli sviluppi successivi del pessimismo nella carriera di Stravinskij fu l'inconstravinskiano, che trova un'ulteriore, radicale espressione tro con S. P. Djagilev, che gli propose di (con mezzi musicali diversi) nella Histoire du soldat collaborare per i suoi Ballets Russes e gli (Losanna, 1918). Tralasciando pagine importanti come Le commissionò la partitura de L'oiseau de feu (Parigi, 1910; L'uccello di fuoco), prima grande affer- rossignol (Parigi, 1914; L'usignolo), Pribaoutki (1914), mazione del compositore. La collaborazione con Djagilev, Renard (1916) e altre liriche, si può ravvisare nell'Histoire cui sono legati molti dei suoi successivi capolavori (fino l'inizio di una netta svolta nello stile stravinskiano: alla al 1928), lo spinse a prolungati soggiorni a Parigi e rese scelta della condizione di esule corrisponde l'abbandono di più rari i soggiorni in Russia: negli anni del primo soggetti e di inflessioni musicali “russe”, accompagnato da conflitto mondiale Stravinskij visse in Svizzera e decise di una forte semplificazione della scrittura ritmica e da un non tornare più in patria in seguito alla Rivoluzione interesse per altri fenomeni musicali, come il jazz e la d'ottobre, risiedendo in Francia dal 1920 al 1939 e musica di consumo. Il procedimento di personale approassumendo nel 1934 la cittadinanza francese. In quel priazione di formule, per esempio, del jazz prelude da periodo si dedicò anche all'attività di pianista e direttore vicino alla svolta “neoclassica”, il cui clamoroso inizio si fa d'orchestra. Nel 1939, accettò l’invito della Harvard Uni- risalire al balletto Pulcinella (Parigi, 1920) su musiche di versity e si stabilì negli USA, assumendone la citta- G. B. Pergolesi (o ritenute sue). Riprendendo pagine, temi, dinanza nel 1945, risiedendo a Hollywood. Dopo il se- o, più spesso, atteggiamenti stilistici del passato, dal condo conflitto mondiale compì numerose tournée in barocco a Čajkovskij, Stravinskij abbandona le punte e le Europa (nel 1962 anche in Russia), proseguendo inoltre tensioni che avevano spaventato il pubblico del Sacre, ma l'attività compositiva fino agli ultimi anni. Il complesso questo “ritorno all'ordine” non è affatto un recupero percorso stilistico che si ravvisa nell'ampia produzione di vitalistico e fiducioso della tradizione, non la ripropone Stravinskij è caratterizzato da svolte che suscitarono come fosse cosa viva: al contrario è un'operazione eserciscandalo e parvero enigmatiche, anche se rivelano una tata con amara consapevolezza, con tagliente e ambigua rigorosa coerenza interna. Gli esordi risentono dell'in- ironia su dei fossili, su stilemi rinsecchiti, svuotati di senso fluenza di Rimskij-Korsakov e anche di P. I. Čajkovskij, dall'interno, collocati in un contesto deliberatamente A. N. Skrjabin e C. A. Debussy: dopo pagine pur notevoli improprio. È il “ritorno” a un ordine morto e pietrificato, come, tra l'altro, lo Scherzo fantastique (1907-08) e Feux lucido e consapevole frutto di una profonda sfiducia nella d'artifice (1907-08; Fuochi d'artificio), L'uccello di fuoco storia, di un radicale pessimismo che rifiuta la possibilità di segna nelle scelte timbriche e nell'invenzione ritmica di costruire un linguaggio “nuovo” ed esorcizza in un implaalcune parti la prima chiara affermazione dell'originalità cabile oggettivismo una catastrofica condizione esistendi Stravinskij, anche se vi si ravvisano ancora in larga ziale. Tra le pagine più alte della fase “neoclassica” devono misura gli influssi sopra citati. Il “periodo russo” prose- essere ricordate almeno l'opera-oratorio Oedipus rex (1927; gue con capolavori fondamentali: Petruška (Parigi, 1911), su testo di J. Cocteau tratto da Sofocle e tradotto in latino Le sacre du printemps (Parigi, 1913), la cui prima da J. Danielou) e l'opera The Rake's Progress, su libretto di rappresentazione, a causa della coreografia non conven- W. H. Auden e C. Kallman, (Venezia, 1951; La carriera di zionale, le aspre dissonanze e i ritmi travolgenti, suscitò un libertino), dove più esplicito appare il tragico fatalismo nel pubblico violente reazioni di dissenso e Les noces stravinskiano, i balletti Apollon Musagète (1928;), Le (composte nel 1916-17), che sono forse le pagine che baiser de la fée (1928), Jeu de cartes (1937), la Sinfonia di meglio rivelano il senso dirompente della presenza salmi (1930), la Sonata, la Serenata per pianoforte e il stravinskiana nel quadro della musica di quegli anni. Lo Concerto per due pianoforti, e molta altra musica caratterizzano la presenza di un melos slavo radicato in strumentale degli anni 1920-50. Tra i capolavori dell'ultimo una sostanza popolare russa, l'originale concezione tim- periodo si ricordano il balletto Agon (1953-57), Canticum brica, mirante ad asciutte profilature, o anche a duri sacrum (1955), la cantata Threni (1957-58), i Mouvements blocchi sonori pietrificati, la frequente politonalità, e lo per pianoforte e orchestra (1958-59) e la sua ultima composizione importante, i Requiem Canticles (1966). scatenamento di un'invenzione ritmica senza precedenti, - 24 - Antropos in the world POLITICA E NAZIONE PARLIAMO UN PO’ DELLA RAI Ovvero il pensiero spicciolo della gente comune - Da sempre il canone RAI è tra le imposte più odiate, tanto che, spesso, questa tassa è evasa, anche se obbligatoria, legata cioè alla detenzione dell’apparecchio. Mai come quest’anno i cittadini sono furiosi perché dopo le stangate della TARES, TASI e mini IMU è arrivato anche il momento del pagamento del tanto contestato canone RAI. Gli Italiani pensano che il canone RAI sia diventato lo “scarico” delle inefficienze della azienda pubblica e della politica perché va a colmare spese ingiustificate e favori clientelari. E’ convinzione degli italiani che pagare il canone RAI serve per : - foraggiare rapporti e collaborazioni clientelari; -pagare i gettoni di presenza milionari per comparse di pochi minuti; - Stipendiare il personale non necessario, che non può essere licenziato per favori politici. Peccato che il costo delle continue assunzioni clientelari (pensate che solo tra il 2008 e il 2010 sono state assunte in RAI 1.121 persone) , come sempre ricadrà sulle tasche dei contribuenti e le continue assunzioni andranno a rimpinguare un carrozzone già stracolmo. Infatti la RAI ha circa 13.000 (tredicimila) dipendenti in organico di cui 1.700 giornalisti. Tutta gente che non ha partecipato ad alcun concorso per essere assunta. C’è poi il colmo dei dirigenti che sono circa 600 e, guarda caso, la maggior parte e imparentata ad uomini politici. I dirigenti in RAI guadagnano in media da 100mila ai 500mila euro all’anno.Poi ci sono circa 320 dirigenti giornalisti che guadagnano anch’essi tra i 200mila ai 500mila euro l’anno. Quindi non ci dobbiamo meravigliare se gli italiani, specialmente in questo momento critico, sono arrabbiati contro un carrozzone politico ove non viene rispettato alcun criterio di pubblicità, trasparenza e, soprattutto, di imparzialità. - 25 - Il tutto si traduce in una avversione contro la Rai ed il pagamento del canone che non viene pagato da cica otto /dieci milioni di italiani nonostante la RAI martelli di continuo i telespettatori con infiniti spot. In Campania solo il 56,57 per cento ha pagato il canone RAI. In Sicilia il 57,82 per cento e in Calabria il 61,57 per cento. Per questo motivo, invece di fare il mea culpa e programmare procedure trasparenti e imparziali, i politici stanno pensando di far riscuotere il canone dal fisco perché deve essere considerato un tributo erariale. In questo modo i politici potranno continuare ad attingere a piene mani in questo carrozzone politico che rappresenta un pozzo senza fine per soddisfare i loro interessi a danno del popolo italiano. Mario Bottiglieri Se non avete pagato il canone non vedrete il resto della storia!! Antropos in the world PIATTI TIPICI DEL MEDITERRANEO - A cura di Rosa Maria Pastore LA PATATA Pianta delle Solanacee, dal nome scientifico Solanum tuberosum,questo tubero è arrivato nel vecchio continente solo nel 1500, proveniente dall'America centro-meridionale (a detta degli esperti si ritiene dal Perù) per conoscere solo dopo svariato tempo una meritata e trionfale entrata ufficiale nella cucina di mezza Europa. L'occasione che ha permesso alla patata di assurgere fra gli alimenti di maggior consumo, fu offerta da una carestia che imperversò in Francia nella seconda metà del 1700. Fu solo allora che si ricorse a questo tubero per supplire alle terribili carenze alimentari della popolazione, grazie soprattutto all'intervento di Antoine A. Parmentier, nome cui ancora oggi sono legate diverse preparazioni gastronomiche a base di patate. Così dopo due secoli dal suo arrivo, la patata ha avuto una rapida diffusione e ascesa. Oltre ai grossi pregi alimentari, la patata presenta enormi vantaggi sul mercato per la facilità di coltivazione e commercializzazione; questo tubero infatti non subisce gravi deterioramenti se non dopo un anno dalla sua raccolta e cresce, senza grossi problemi, in qualsiasi clima, tipo di terreno e altezza. La pianta, a crescita annuale,è costituita da rami striscianti (detti stoloni) che si diramano sotto terra, e dai tuberi dalla forma mutevole. La presenza di solanina nelle fibre della patata rende pericolosa l'ingestione di qualsiasi altra parte della pianta, tranne il tubero notoriamente commestibile. Consumiamo perciò serenamente questo prezioso e insostituibile alimento, risorsa tra le più importanti del patrimonio orticolo esistente. VALORE ALIMENTARE E DIETETICO - La patata è un tubero dalla pasta particolarmente farinosa che offre il non trascurabile pregio di saziare rapidamente e di essere facilmente digeribile, specie se cucinata bollita e senza l'aggiunta di condimenti. Le percentuali delle sostanze nutritive in essa contenute rivelano la predominanza di amidi ( a parte naturalmente l'acqua che occupa l'80% circa della parte edibile); seguono poi le proteine e i grassi, ma in quantità estremamente ridotta rispetto agli amidi. Tra i sali minerali occorre ricordare principalmente il potassio, seguito dal fosforo, calcio e ferro; tra le vitamine troviamo la vitamina A, B1, B2, C. Sono in generale le patate non conservate a registrare i maggiori quantitativi di sostanze nutritive. Per quanto riguarda le calorie, 100 grammi di alimento svi-luppano 69 calorie se si tratta di bulbi novelli, 77 quando la patata ha già un anno di vita. Esiste persino una dieta a base di sole patate: è bene però seguirla per non più di una settimana perché la patata non è un alimento completo da un punto di vista dietetico. Tale dieta prevede l'esclusivo consumo di patate lesse e non condite (ovviamente). LE DIVERSE QUALITA' - Ad un primo esame superficiale le patate sembrano tutte uguali: la buccia scura e la forma approssimativamente arrotondata le unificano tutte, tanto da pensare che non esistano sostanziali differenze fra una patata e l'altra. In realtà si contano ben 600 varietà di patate che, con le ibridazioni e le ricerche tuttora in corso, sono senz'altro destinate ad aumentare. Le distinzioni fra tipo e tipo di tubero si basano specificamente sulla forma, colore della buccia, precocità e sviluppo nella crescita. Tuttavia, una prima sommaria distinzione, più utile e immediata per la massaia, si basa sul tipo di polpa, che nella patata può essere di due generi: bianca o gialla. - 26 - La prima è a più rapida cottura, la seconda a cottura più lunga; fra questi tipi, si annoverano poi diverse qualità. Ottima varietà italiana, forse la migliore, è senz'altro la patata trentina, più in particolare la varietà majestic, a polpa bianca, che cresce fino a mille metri di altezza. Dall'Olanda invece arriva la bintje, ricercata per i molteplici usi che se ne possono fare in cucina; essa infatti offre la prerogativa di riunire i pregi delle patata a polpa gialla e bianca ed in questo modo si presta alle più svariate preparazioni culinarie. CRITERI DI ACQUISTO E CONSERVAZIONE - In commercio si trovano molte qualità di patate; per un buon acquisto si deve preferire la più indicata per il tipo di preparazione scelta. Come già accennato in precedenza, la patata si può distinguere in base alla polpa (bianca o gialla) e in relazione al raccolto (novella o tardiva). Le patate novelle del nostro paese provengono dalla Sicilia, Liguria Emilia e Marche; vengono introdotte sul mercato alla fine della primavera, quando le restanti patate tardive sono troppo vecchie e quindi destinate come mangime per il bestiame o per l'estrazione della fecola. La patata a pasta bianca, che cuoce rapidamente, e di tipo tardivo, è più indicata per preparazioni come passati, puree, minestre e zuppe. La patata a pasta gialla, a cottura più prolungata, si presta meglio alla cottura in umido, arrosto, al forno. Per determinare preparazioni come le patate al burro o arrosto, se la stagione ne permette l'acquisto, è particolarmente adatta la patata novella. Dopo un primo esame sulla scelta della qualità della patata, deve seguire, per un acquisto soddisfacente, un'analisi più dettagliata del tubero. Ecco le principali caratteristiche che deve avere la patata , per dare un buon rendimento dopo la cottura: - la buccia non deve essere grinzosa e molle, caratteristica che denota un eccessivo invecchiamento, né presentare germogli; - la buccia non deve avere chiazze verdastre, perché indicano la presenza di solanina, una sostanza velenosa formatasi per un'eccessiva esposizione alla luce; - la buccia non deve presentare macchie nerastre né ammaccature che presuppongono una prima fase di marcescenza; - le patate devono essere tutte della stessa dimensione, perché solo così potranno cuocere contemporaneamente. Per quanto riguarda la conservazione, la patata, per le sue caratteristiche, è uno dei pochi ortaggi che si conservano facilmente per un periodo abbastanza lungo. Dopo la raccolta, le patate si conservano in ambienti poco illuminati e ad una adeguata temperatura fino alla primavera successiva. Dopo tale periodo, i bulbi cominciano ad emettere germogli verdi e rigogliosi (quelli che molti chiamano gli "occhi" o "butti"); la buccia si fa molle e grinzosa, impoverendosi dei valori nutritivi. SISTEMI DI COTTURA - Stando alle ultime statistiche, è possibile cucinare le patate in ben 200 modi; vi sono comunque delle cotture base che si possono di volta in volta variare a seconda delle preparazioni e dei gusti. Fra queste vi è la cottura a lesso, a vapore, al forno, arrosto e la frittura. Si possono inoltre cucinare nel latte o nella panna, in umido, impanate o trifolate, oppure farcire con carni, uova e funghi. Si possono preparare soufflés, sformati e tortini che, per la ricchezza degli ingredienti, possono essere serviti anche come piatto di mezzo. Antropos in the world DENTRO LA STORIA IL CASO DELL’ELECTROLUX LA CINA E’ VICINA L’Electrolux è una multinazionale svedese che è al secondo posto nel mondo per la produzione di elettrodomestici. Nel tempo, ha assorbito diverse aziende italiane del settore (Zanussi, Zoppas, Rex, Castor e forse altre minori), rilevando – oltre alle quote societarie – anche gli stabilimenti di produzione, i macchinari e le migliaia di dipendenti: un patrimonio umano e professionale preziosissimo, formatosi alla universalmente apprezzata “scuola” italiana degli elettrodomestici nata negli anni ’60, ai tempi del boom. Orbene, qualche settimana fa l’Electrolux ha annunziato di voler chiudere gli stabilimenti italiani e di voler trasferire i relativi settori di produzione in Polonia, paese dove la manodopera costa assai meno che da noi. È seguìta la rituale protesta di politici e sindacalisti, cui la Electrolux ha risposto con una sorta di piano B: mantenimento delle attività in Italia, a fronte di una drastica riduzione dei salari; sembra – secondo le valutazioni dei sindacati – attorno ai 900 euro mensili. E, ad un operaio che protestava, uno sbuffante industrialotto del nord-est (che ho ascoltato in tv in una delle tante trasmissioni d’approfondimento) ha replicato grosso modo così: se lei pensa che, oggi, possa arrivare qualcuno che le offra 1.500 euro al mese, non si rende conto che viviamo in un mondo diverso rispetto a quello di vent’anni fa. Ecco. Il succo del discorso sta proprio in questo concetto: viviamo in un mondo diverso, viviamo nel mondo della globalizzazione economica, in un unico immenso mercato mondiale. La qualcosa conviene a chi detiene capitali enormi con i quali mettere alla corda la concorrenza di qualunque imprenditoria “normale”. La qualcosa fa anche sognare quelle anime belle che teorizzano un caritatevole mondo senza frontiere e senza barriere. La qualcosa, però, non conviene a noi popoli europei, destinati ad essere invasi da una marea di disperati alla ricerca di un po’ di benessere; non conviene alle nostre imprese, oggetto di una - 27 - concorrenza sleale cui non sono in grado di opporsi; e non conviene soprattutto ai nostri lavoratori, che per conservare i loro posti di lavoro dovranno rassegnarsi a livelli retributivi miserevoli. I 900 euro offerti oggi dalla Electrolux saranno, da qui a qualche anno, un ricordo. Un ricordo del passato, in un mercato globale dove i livelli retributivi polacchi (quelli che oggi si vogliono propinare come un’amara medicina ai nostri operai) saranno considerati non concorrenziali rispetto a quelli cinesi o a quelli africani. La nostra classe politica sa benissimo che la globalizzazione economica ci condurrà a questo. Ma non ha intenzione di opporsi a tutto ciò. Non ne ha intenzione la pseudodestra, quella dell’unione dei moderati, quella che crede che l’America sia il faro del Bene nel mondo e che il pericolo siano “i comunisti” (che non ci sono più). E non ne ha intenzione la pseudosinistra, quella che ha venduto l’anima alla Goldman Sachs, quella che vuol farci sommergere dalla marea migratoria, quella che crede che il pericolo siano “i fascisti” (che non ci sono più). Destra e sinistra o, meglio, pseudodestra e pseudosinistra si sono ormai liquefatte nel grande calderone del “pensiero unico” liberal-liberista (nulla a che vedere con il Liberalismo illuminato dell’Ottocento); del “politicamente corretto” più stupido e melenso; della rinunzia alla sovranità nazionale a pro di un europeismo d’accatto; dell’accettazione acritica di tutte la porcherie (riforma delle pensioni, riduzione della spesa sociale, tassazione spropositata, privatizzazioni, eccetera) che ci vengono imposte dalla speculazione finanziaria internazionale. Possiamo venirne fuori? Certamente. Basterebbe ritornare alla Politica, quella con la P maiuscola. Basterebbe ritornare alla Destra e alla Sinistra, quelle vere. Senza estremismi, senza infantilismi, ma anche senza genuflessioni verso i poteri forti. Michele RALLO Antropos in the world SOCIAL NETWORK, RISORSA O PERICOLO? L’11 febbraio si è celebrato in tutta Europa il Safer Internet Day, ossia la cosiddetta Giornata della sicurezza in Internet. Lo scopo di questa iniziativa è stato quello di cercare di sensibilizzare le nuove generazioni ad un uso più consapevole e sicuro di quella grande risorsa che è la Rete. Sempre più frequentemente, infatti, leggiamo sui quotidiani o sentiamo nei telegiornali di ragazze che vengono adescate da uomini di età tale da poterne essere i genitori se non addirittura i nonni, o ragazzi spinti all’isolamento fisico, o anche al suicidio, da insulti e minacce ricevute. Il teatro di questi atti ugualmente deprecabili è uno solo: la grande piazza virtuale dei social network. Sorge a questo punto spontanea una domanda: questi social network (e quindi la Rete in generale) sono una risorsa per le nuove generazioni o costituiscono solo un altro pericolo da fronteggiare? Indubbiamente questi nuovi mezzi di comunicazione non possono che essere un grande vantaggio nelle mani dei giovani. Grazie ad essi infatti i ragazzi, e non solo, possono restare in contatto con le persone care della loro vita e condividere con esse, o con chi si voglia, le proprie idee, i propri momenti importanti e le proprie emozioni. Dietro questa felice apparenza, si cela spesso però una realtà ben più triste ed oscura popolata, come si è detto, da pedofili e da quelle figure che ormai è in uso definire cyber-bulli. Questi soggetti, approfittando il più delle volte di falsi profili e di ragazzi giovanissimi, inesperti ed insicuri, realizzano quelle “gesta” già descritte, con la certezza, in molti casi fondata, di poterle portare a termine senza il minimo rischio per la propria persona. Non si deve però pensare che questi luoghi virtuali siano incontrollabili e quindi arrendersi a ciò che in essi si può incontrare, o addirittura vietare ai giovani di visitarli. Ciò difatti potrebbe riflettersi in un isolamento reale oltre che virtuale. Le soluzioni per prevenire questi problemi, contrariamente a quanto si possa pensare, sono molteplici e disparate. Innanzitutto è necessario che i giovanissimi non siano lasciati soli nei loro primi approcci con la rete ed i social network, ma vengano guidati in questa fase per far comprendere loro il modo più corretto e sicuro di utilizzare tali strumenti. Un genitore, o chi per lui, dovrebbe far capire al ragazzo, poco più che adolescente, che deve essere in grado, in ciascun momento della propria vita, della propria crescita, di gestire in modo corretto il dialogo e l’utilizzo di questi strumenti; spiegargli i motivi per cui non deve comunicare o parlare con sconosciuti, oppure non dare immagini o foto o dati personali a soggetti terzi che si conoscono solo ed esclusivamente in rete. I ragazzi arrivano così a capire come usare in modo sicuro la Rete ed i suoi contenuti anche quando non saranno, com’è normale, più accompagnati dai genitori. Un altro rimedio contro i pericoli del web e dei social network in particolare, ci viene fornito proprio da questi ultimi che mettono a disposizione degli strumenti per segnalare abusi, situazioni pericolose e anche comportamenti scorretti aiutandoci così a contrastarli. Come abbiamo visto, la Rete è quindi allo stesso tempo sia una grande risorsa che un pericolo. Sta a noi entrare in essa cercando di non rimanervi intrappolati. Paolo Zinna VIOLENZA DAL WEB, COMMENTO DI VINCENZO ANDRAOUS ______ “… Una cretinetti come tante altre , circondata da altri ebeti che fanno platea plaudente, che fanno stadio, che fanno gabbia, che fanno recinto dove tutto può e deve esser condiviso. Una platea di stacanovisti della noia che paralizza i neuroni,della adrenalina agognata invano, del vicolo cieco da perforare con urgenza, un miscuglio di disagi e compromissioni familiari, scolastiche, una adultità perennemente votata all’assenteismo. Platea vociante di bestemmie e invocazioni a fare più male, a essere più cattivi, a colpire subito senza attendere oltre, giovani a perdere un briciolo di pietà per chi urla disperata: AIUTATEMI VI PREGO…” - 28 - Antropos in the world EVENTI PRESENTATO NEL SALOTTO DI PALAZZO FORMOSA IL LIBRO DEDICATO AL PAESE DELL’AMORE San Valentino Torio 13 Febbraio 2014 – Presentazione di "OLTRE LE STELLE", il libro di liriche di Franco Pastore,dedicato al paese dell'amore ed offerto in sala a tutti i presenti Nella foto: Felice Luminello, Franco Pastore, Pastore Rosa Maria (direttrice di Antropos in the world );Renato Nicodemo, Ermanno Pastore il dott. Strianese e Giuffrida Farina. La Kermesse è avvenuta nel salotto culturale del palazzo Formosa ed è stata un felice ed armonico connubio, tra musica spagnola e poesia. Infatti, il flamenco ha fatto da cornice alle belle liriche del libro. Momenti esaltanti di commozione hanno avvinto i presenti, che si sono congratulati con l’autore per il gusto estetico e con il Sindaco Luminelli, per la ottima impostazione della manifestazione. In sala, il presidente dell’Associazione S. Valentino che, con il Comune del paese dell’amore, ha organizzato e supportato la Kermesse. Nella esposizione delle finalità della silloge, l’autore ha sottolineato il ruolo di “mecenate dell’arte” del Luminello, che ha proiettato, con simili attività, il paese in un futuro dinamico di cultura. Di qui, la nuova posizione di San Valentino Torio, divenuto punto di riferimento nella vita culturale dell’agro. Il pubblico, formato esclusivamente da persone di provata sensibilità culturale, ha applaudito con calore i momenti esondanti d’arte autentica e poesia, segnando, in tal modo, una tappa indelebile nella elevazione del complesso storico Formosa, a salotto culturale dell’Agro nocerino-sarnese. Dopo le parole di ringraziamento del dott. Luminello, la “Dedica” al paese dell’amore ha chiuso magnificamente la manifestazione: Ricordi incessanti, come pispiglianti aneliti, l’animo catturano ed il cuore. Rarefatte dal tempo, emozioni riemerse rinnovano la mia storia. Come ombre di memoria, sovviene l’infanzia con l’umido delle strade di basalto e, più in alto, - 29 - i balconi di rose, dove m’attendeva mamma mia … Era l’amor di casa e della terra mia, che contornava tutto di poesia. Torna il passato nel canto del silenzio, ma i morti non hanno più voce! Rosa Maria Pastore Antropos in the world Fattucchiere ed Eremiti del Vesuvio da “Gente del Vesuvio” di Umberto Vitiello Solitamente alle falde del Vesuvio ci si affida all’osservazione dell’olio versato nell’acqua. La fattucchiera si fa il segno della croce, dicendo con voce devota e pia “In nome della Santissima Trinità”. Traccia poi col pollice un piccolo segno di croce sulla fronte del paziente, versa sette gocce d'olio in un piatto o bacinella contenente acqua e recita, ma senza parlare, uno scongiuro che deve restare segreto. Se le gocce d’olio rimangono inalterate, si tratta di un comune mal di testa; se invece si spandono, ci si trova di fronte ad un inequivocabile caso di malocchio, dal quale la vittima riesce a liberarsi soltanto dopo che è stato versato per strada il contenuto del piatto o della bacinella. Se il malocchio è resistente, il rito si ripete per tre volte consecutive. In caso di risultato ancora negativo, il rito è ripetuto dopo due ore da un'altra fattucchiera e, nei casi di particolare resistenza, da una terza fattucchiera a distanza di altre due ore. Secondo un rituale leggermente diverso, per verificare la presenza o meno del malocchio oltre alle sette gocce di olio vengono versati nel piatto anche sette chicchi di grano. Solo se sotto ciascuno di essi si forma una bollicina d'olio si è certi della presenza del malocchio. Tra i rituali del tutto diversi, il più diffuso è quello che si fonda esclusivamente sulla forza magica delle parole e dei gesti della fattucchiera. Tra le fattucchiere vi sono anche alcune che evocano i morti, come nel passato facevano tante maghe delle falde del Vesuvio, tra cui la famosa Adrianella del Casamale, borgo di Somma Vesuviana 1, nata in uno stabile in cui viveva il medium Vincenzo Menna, una ventina d’anni più grande di lei, e di notte non rare volte si faceva vivo un fantasma: ’o munaciello. Non mancano poi le cartomanti, dotate quasi tutte di sorprendenti capacità intuitive sulle motivazioni e le aspettative delle persone che le consultano. Alle falde del Vesuvio e in molte altre località della Campania e del Sud Italia la cartomanzia viene praticata con le carte napoletane. Dal mazzo vengono però eliminate dodici delle sue quaranta carte: i 4 e i 6 di tutti i quattro semi (denari, spade, coppe e bastoni); il 7 di spade, il 7 di bastoni, il 5 e il 7 di coppe. Ogni carta ha uno o più significati. La chiromante, una volta capito le motivazioni per cui viene consultata, di ogni carta presa dal mazzo sceglie il significato 1 più confacente alle aspettative di chi l’ascolta. Vi sono poi altri tipi di indovine, come le chiromanti e quelle che si servono di metodi di divinare da loro stesse inventati. E infine, ma non certamente ultime, alle falde del Vesuvio non sono mai mancate le veggenti. Di queste voglio ricordare donna Teresa dei Mastrojanni, “pettoruta e occhialuta, indovina en titre di Torre del Greco”, trascrivendo integralmente un breve brano da “Vita in villa” di Clotilde Marghieri, come sono le parole virgolettate qui sopra riportate. Donna Teresa lavorava in virtù del “sesso benigno” che, secondo lei, aveva sede nella testa, ed il potere di leggere nel destino altrui; e tutto ciò spiegava pomposamente, cambiando le finali in “i”, che qui è il segno del parlare dotto. Così lei aveva “ispirazioni santissimi”della Madonna di Pompei, a differenza di quelle cha hanno “il sesso maligno” e cioè traggono voce dai diavoli. “Come ti chiami e che vuoi da me, buona donna?” chiese donna Teresa. “Voglio notizie del figlio mio, soldato; mi chiamo Nannina.” “Dove sta, sto figlio soldato? “In Greggia, sta.” Donna Teresa guardò prima la carta geografica, appesa di fronte a sé, poi si segnò tre volte, sputò, disse tre gloria patri, ed infine abbassò il volto sul libro degli enigmi; si fece assente e lontana. Seguì un lunghissimo silenzio. Poi, di botto, come avesse colto nell’aria l’ingiunzione di un comando perentorio, e che non ci fosse un minuto da perdere, afferrò la mano della contadina e le sussurrò: “Nannì, jammo ‘int’a Greggia”. Quando la vecchia Nannina, fedele ad ogni particolare, ci raccontava tutta la scena, a questo punto, gli occhi ancora abbagliati dalla meraviglia, soggiungeva: “E ci trovammo in Greggia, signora, e, credetemi, quanto è vero Iddio, ci volle meno di un minuto per arrivarci.” Ci giunsero in Grecia, ma il figlio non c’era più; e da allora, Nannina aspetta sempre. (continua) - 30 - Antropos in the world DA ERICE IL CONVENTO DI SAN DOMENICO E IL CENTRO DI CULTURA SCIENTIFICA “ ETTORE MAJORANA” Il convento di San Domenico si trova nel centro di Erice nel quartiere San Cataldo. Fu il secondo costruito ad Erice dopo quello di San Francesco. Fin dal 1485 i capi del Municipio ericino avevano chiesto al Rettore dell’Ordine Domenicano di mandare ad Erice dei frati per fondare un Convento e diffondere la devozione al Santissimo Rosario di Maria. La richiesta fu accolta tanto che il Generale ordinò al Provinciale di Sicilia di andare ad Erice per disporre la costruzione del convento domenicano vicino la chiesa di San Michele. Chiesa e convento furono, nel corso degli anni, notevole punto di riferimento della vita religiosa, ma anche culturale e civile della Città. La chiesa, d’ordine dorico, era a tre navate con sei colonne, tre per ogni lato con gli archi che sostenevano il cornicione. A destra l’altare di San Pietro martire, effigie a fresco dipinta sulla parete, nel secondo San Vincenzo Ferreri, statua lavorata a stucco; il terzo altare, statua in marmo bianco, era dedicato alla Nostra Signora del Soccorso, in esso si veneravano anche le immagini dipinte in piccoli quadri dei Santi Ignazio Loyola e Francesco Saverio. Nell’area del Cappellone si venerava la Nostra Signora del Rosario, opera in stucco di Pietro Orlando. Nel lato destro del cappellone la cappella di San Michele Arcangelo statua di stucco in oro e pittura. A sinistra l’altare di Santa Rosa di Lima. Secondo altare di Sant’Eligio, statua in legno, terzo altare di San Domenico dipinto a olio. A lato del cappellone la cappella del Santissimo Crocifisso in legno. Nella cappella maggiore si venerava la beata Vergine del Santissimo Rosario opera di Pietro Orlando. Il primo orologio pubblico della nostra Città sorse in questa chiesa che rimase aperta al culto fino alla fine degli anni trenta. Il convento, molto piccolo, non aveva rendite ed i frati vivevano solo del loro duro lavoro e della carità del popolo ericino. Questo stato durò fino al 1618, anno in cui, il nobile don Nicola Gervasi, cappellano curato della Matrice e commissario del Santo Officio, detto il padre dei poveri, temendo che a lungo andare venisse meno la carità del popolo ericino verso i frati predicatori, lasciò ad essi nel suo testamento, redatto nel 1618, un giardino a Ragosia e una tenuta di terre a Mocata oltre ad altri beni stabili con molte rendite in cambio di quattro messe ogni settimana che egli volle si celebrassero nella chiesa di San Michele. Da allora altri emeriti cittadini seguirono l’esempio del Gervasi con lasciti e donazioni a favore del convento. Nel 1618 gli Officiali della cappella donarono ai frati un vaso in argento per la pisside del convento ed un organo che fu collocato vicine la porta principale inoltre contribuirono anche per fondere le due campane. Nel 1658, Papa Innocenzo X emanò una bolla che prevedeva la soppressione di tutti i piccoli conventi e il convento domenicano, piccolo e angusto, nonostante le rendite e gli ultimi legati provenienti dalla famiglia Palma, fu soppresso. I frati si ritirarono a Trapani lasciando sgomento ed attonito il popolo ericino che da subito si prodigò affinché il convento fosse riaperto con elargizione di nuove e cospicue rendite. Nel 1660 il convento disponeva di una rendita annua di 585 scudi. Ormai nulla impediva la sua reintegrazione che avvenne dopo quattro anni, dieci mesi e venticinque giorni. con somma gioia di tutta la città e dei capi del Municipio. I nuovi frati accrebbero il dormitorio, di sei celle, il refettorio, la cucina e cantina. Gli anni che seguirono furono importanti e decisivi per il Convento. Nel 1670 il Convento fu dichiarato Priorato nel Capitolo Generale di Roma. Nel 1671 tornò nella chiesa di San Michele l’Accademia dei Difficili che aveva fondato lo storico ericino Antonio Nordici. Per l’occasione fu cambiato il nome in Ravvivati per ricordare la felice reviviscenza della domenicana famiglia in Monte San Giuliano. In seguito alla soppressione degli Ordini religiosi del 1866 il Convento passò al Comune che lo utilizzo fino al 1962, come sede delle Scuole Elementari. L’intero isolato, rimasto inutilizzato nel 1964, fu ceduto al Centro di Cultura Scientifica “Ettore Majorana”, fondato e diretto dall’emerito professore Antonino Zichichi che ne ha curato il restauro generale e l’adattamento per le proprie attività istituzionali. La chiesa è stata trasformata in moderna e funzionale Aula Magna, capace di 250 posti. Anna Burdua ___________ A.Burdua, la scrittrice di Oltre la collina, è un’ autrice di rilievo, che ha al suo attivo numerose e significative pubblicazioni, vive e lavora ad Erice. - 31 - Antropos in the world Regimen Sanitatis Salernitanum - Caput XXXII/XXXIII DE OVO ET PISIS ET POTUS ALTERNATIONE Inter prantendum sit saepe parumque bibentum Si sumas ovum, molle sit atque novum. Pisam laudare decrevimus ac reprobare: pellibus ablatis est bona pisa satis: est inflativa cum pellibus atque nociva. Mentre pranzi allegramente, bevi poco ma sovente. Se recar fai l’uovo al desco,che sia molle, oppure fresco. Al pisello non ci gode di dar bisimo né lode: se ne avessi la semente, sano sia bastantemente; nuoce al ventre, che stende e cruccia se lo manci con la buccia L’ANGOLO DEL CUORE OMBRA DI SOGNO χἱὂ Nascondo tra i sogni la mia anima inquieta, non vi sono più vincoli, né più capanne, nel nulla del mondo. In palazzi di vuote parole, ombre di sogno ignorano la forza dell’amore ed incapaci d’emozioni, graffiano l’animo ingombro, se non sbraciato, o smarrito. I miei occhi son capaci ancora di pianto. _____________ - 32 Dalla raccolta OMBRE DI SOGNO, di Franco Pastore PEZZI DI NOTTE κομμάτια της νύχτας Quando la pioggia spilucca terra ai vasi e sui terrazzi corre l’urlo del vento, pezzi di notte scandagliano i ricordi. pescando, tra i frastagli, grumi di storia, immagini vissute, polvere di memoria, che mi rammenta come passa il tempo, cancellando la vita, giorno per giorno. Poi, per fortuna, interviene il sonno. Antropos in the world LEVIORA BRONTOLO IL GIORNALE SATIRICO DI SALERNO Direzione e Redazione via Margotta,18 tel. 089.797917 COSE DA PAZZI - Da sola nel grande letto durante la prima notte di nozze, la giovane moglie di un carabiniere si sta chiedendo come mai il marito non ne voglia sapere di rientrare dal terrazzo. Stanca di tanta attesa decide di chiederglielo anche a lui: «Ma caro, sono già due ore che sei lì fuori in terrazzo... perchè non vieni a letto? Prenderai freddo!». «Non posso! Mio padre mi ha sempre detto che questa sarebbe stata la notte più bella della mia vita ed io non voglio perdermela!». - 33 - Antropos in the world UNA OPINIONW ERETICA DA SOCIAL CHI HA DETTO CHE IL GOVERNO LETTA ha imposto sacrifici a tutti? Chi ha detto che il governo Letta impone sacrifici a tutti? Non è vero. C’è chi da questo governo è beneficiato. A spese, naturalmente, di tutti noi, che dovremo coprire i costi di queste regalìe. Chi sono i fortunati? Non si ha la lista completa, ma due, almeno, sono stati identificati, stando a quanto rivelato da “Il Giornale” e dai blog di Beppe Grillo e di Roberto D’Agostino. Il primo dei beneficiati è Carlo De Benedetti, l’industriale ebreo-svizzero con interessi in Italia e tessera numero 1 del PD in tasca. Il secondo è un soggetto plurimo; e non soltanto perché abbraccia le diverse banche private che sono proprietarie della Banca d’Italia, ma anche perché il giulivo Enrico e il draghesco (da Draghi) Saccomanni, nella loro immensa bontà, hanno pensato anche alle banche estere che – secondo la loro lungimirante visione – potranno in futuro papparsi qualche porzione della nostra “banca centrale”. Incominciamo da De Benedetti. Un articolo di Marcello Zacchè pubblicato l’11 dicembre da “Il Giornale” – e ripreso dal sito “Dagospia” – rivela che una bozza della legge di stabilità prevedrebbe sovvenzioni pubbliche alle centrali elettriche per assicurarne la funzionalità. Da calcoli effettuati, tale misura porterebbe nelle casse della Sorgenia (società del ramo facente capo al gruppo De Benedetti) un contributo pubblico di circa 100 milioni di euro. I rappresentanti grillini in Commissione Bilancio, inoltre, avrebbero scoperto un ulteriore “aiutino” di 22 milioni di euro: lo prevede un emendamento, presentato da Scelta Civica e già approvato in Commissione, volto ad esentare la centrale turbogas di Turano-Bertonico (di proprietà Sorgenia) dall’obbligo di sborsare la cifra – appunto – di 22 milioni per gli oneri di urbanizzazione. Complessivamente, quindi, la sommetta di denaro pubblico che dovrebbe affluire nelle casse della CIR (la holding debenedettiana) dovrebbe aggirarsi attorno ai 120 milioni di euro, pari a circa 240 miliardi del vecchio conio (come direbbe Bonolis). Ma queste sono noccioline, in confronto alla pioggia di soldi (nostri) che un decreto-legge del Saccomanno ha già assicurato alle banche. Salto a piè pari tutte le premesse di ordine tecnico e vengo direttamente alle conclusioni pratiche, che ho desunto dalla denuncia dell’esperto finanziario Lucio Di Gaetano: il capitale sociale della Banca d’Italia passa dagli attuali simbolici 156.000 euro a 7,5 miliardi di euro (non chiedetemi come). La qualcosa – per le banche private proprietarie di Bankitalia – comporta: 1) una regalìa di “valore patrimoniale aggiuntivo” di 7 miliardi e mezzo; 2) l’attribuzione di dividendi annui per 450 milioni di euro, a fronte dei 50-70 milioni percepiti oggi. In ogni caso, quindi, anche a non voler considerare il valore patrimoniale aggiuntivo, il decreto in questione regala letteralmente 400 milioni di euro l’anno alle banche. Ma l’aspetto più preoccupante è un altro: il definitivo accantonamento della vecchia (e inattuata) legge del 2° governo Berlusconi che si muoveva in direzione di una parziale pubblicizzazione della banca centrale, e il compiersi dell’ultimo atto di una completa e totale privatizzazione della stessa. E non solo. Perché il decreto espressamente prevede che le quote che secondo il decreto berlusconiano avrebbero dovuto tornare allo Stato, potranno essere vendute a soggetti bancari e parabancari “italiani ed europei”. Chiaro, no? Non soltanto la Banca d’Italia deve essere proprietà delle banche private, ma proprietà anche delle banche private straniere. È un altro passo sulla via della completa colonizzazione dell’Italia. M.Rallo - 34 - Antropos in the world L’ANGOLO DELLA FOLLIA: MICRO DISEGNI E MICRO ACQUERELLI Le MICROUSCOLE, di cui sopra l’esempio, sono elaborazioni di ridottissime dimensioni. I micro disegni e micro acquerelli, infatti, sono dell’ordine di pochi centimetri, variano da un centimetro sino, al massimo, a quattro centimetri. Questo secondo gruppo, fanno parte di circa 200 fotografie, da me realizzate con una tecnica che non prevede l’utilizzo della macchina fotografica, bensì l’impiego di una emulsione fotografica sensibilizzata. Esposta ai raggi del sole, con impressi sopra degli oggetti, l’emulsione ne imprime l’impronta, che resta dunque “impressionata”. Come si può vedere, si formano immagini singolari, senza alcun intervento della creatività di un artista. L’abilità è tutta apriori, nel predisporre l’impressione. AUCTOR INSANUS: Giuffrida Farina, salernitanus, qui in urbe vivit, laborat, deditusque operibus insanis est usque ad finem. - 35 - Membership in the GNS Press Association Reg. ID 7676 8 – IPC / Richiesta autorizz.ne al Tribunale di Salerno del 25.03.2008 / Patrocinio Comune di Salerno prot. P94908 – 27.05.2009 / Patrocinio Prov. Avellino – prot. 58196 – 16.10.2012 / Patroc. Com. Pagani – prot. 0023284 – 29.07.2008 / Patroc. Prov. Salerno – prot. 167/st – 23.09.2009 / Patroc. Com. di S. Valentino Torio – 24.05.2008 – Acquisto Spazio/web del 26/04/06-Aruba S.P.A. ANTROPOS IN THE WORLD, Rivista e Teleweb, hanno, inoltre , il patrocinio degli Enti Carminello e SS. Corpo di Cristo. Il giornale è a disposizione dei nostri lettori sul portale: http://www.andropos.eu/antroposintheworld.html Rivista e tele-web omonima: ma può essere richiesto anche in forma cartacea, previo la sottoscrizione di un abbonamento annuale http://www.andropos.it http://www.andropos.eu Canale videoYutube La teleweb ANTROPOS IN THE WORLD e la sua rivista non hanno finalità lucrative, né sono esse legate ad ideologie politiche. Perciò, agiscono nella totale libertà di pensiero, in nome di una cultura, che ha a cuore i valori che rappresentano il cardine della società civile e della vita,nel pieno rispetto per la persona umana e contro ogni forma di idiosincrasia. Pro pace, sempre contra bellum. http://www.youtube.com/user/MrFrancopastore Direzione e gestione Via Posidonia, 171/h, Salerno telefono/segr.tel: 089.723814 Fax: 089.723814 – ECDL:IT1531440 Contatti telematici: [email protected] Distribuzione: Lettura on line Ai sensi e per gli effetti del D. Lg. 196/03, le informazioni contenute in queste pagine sono dirette esclusivamente al destinatario. È Vietato, pertanto, utilizzarne il contenuto, senza autorizzazione, o farne usi diversi da quelli giornalistici . Fondatore/Editore/Dir.responsabile: Member of G.N.S PRESS Association European Journalist dott. 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Prof. Giuffrida Farina Paolo Zinna Mario Bottiglieri Redazione di Pagani Piazza Corpo di Cristo 84016 dott. Flaviano Calenda [email protected] Gli indirizzi e-mail in nostro possesso, in parte ci sono stati comunicati, in parte provengono da elenchi di pubblico dominio in Internet, altri sono stati prelevati, da messaggi e-mail a noi pervenuti. Secondo l'articolo n. 1618 Par. 111 deliberato al 105° congresso USA, in conformità alla D.Lgs. 196/2003 ed a norma della Leg. 675/96, nel rispetto del trattamento dei dati personali, il suo indirizzo è stato utilizzato esclusivamente per l’invio della presente rivista. 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