òς
European Journalism - GNS Press Ass.tion - The ECJ promotes publishing, publication and communication- P. Inter.nal
I COMPORTAMENTI A RISCHIO
LE DIPENDENZE ( I parte )
ANNO X N.RO 03
del 01/03/2014
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Pag. psicologica
Caro Presidente
Ser Lorenzetto
Il debito pubblico
Il teatro romano
De cognomine
Note antropologiche
Obiezione di Coscienza
Aisosopos et Faedrus
Il racconto del mese
Da Trapani
Momento tenero
La donna nella storia
Immagini d’un altro t.
Proverbi
Storia della musica
Nicodemate
La pagina medica
Storia della musica
La donna nella letter.ra
Personaggi illustri
Dentro la storia
Critica letteraria
I grandi pensatori
Politica e nazione
I piatti tipici
Dalla Red.di Bergamo
Il Conv. di S.Domenico
Regimen sanitatis
Opinione Eretica
Leviora
L’angolo della follia
Sul portale
http://www.andropos.eu/antroposint
heworld.html
La situazione attuale ci permette di interpretare l’uso delle sostanze come mezzi
aventi funzioni performative: sono quindi utilizzate per sentirsi più efficienti, prestanti, disinibiti, sempre più aderenti agli imperativi sociali del successo,
dell’iperattività e dell’efficienza.
Le droghe diventano un pretesto utilizzato dagli adolescenti per accrescere le proprie prestazioni, così da renderli in grado di funzionare all’interno di un sistema sociale che si aspetta da loro il massimo. Le droghe diventano per i giovani, e non solo, un supporto per potenziare e gestire le proprie capacità fisiche e relazionali all’interno del sistema sociale aderendo all’ideologia della
performance e dell’efficienza.
Viene naturale chiedersi il perché i giovani si avvicinano alla droga. Il problema è
che probabilmente le risposte sono più d’una e che non è sempre facile trovarle. A livello fisico si sa che le droghe agiscono nelle parti del nostro cervello che si attivano
quando riceviamo qualche stimolo gratificante. In pratica le droghe forniscono dei falsi segnali di benessere sostituendosi, con meccanismi chimici, a stimoli che potremmo
ricevere in maniera naturale. E’ in questo senso che si sente spesso parlare della droga
come di una “scorciatoia”, di un mezzo più facile e rapido per sentirsi bene. Bisogna
capire che comunque quel senso di benessere, che la droga da, è solo un qualcosa di
virtuale e passeggero. Capire perché l’individuo ricerca la droga è un altro problema
spinoso: alcuni sostengono che l’uso di droga possa favorire la meditazione e il rilassamento, una sorta di chiave per far aprire maggiormente le nostre “porte della percezione”. Il desiderio di modificare ed espandere gli stati di coscienza è sempre esistito
nell’umanità: si pensi a fenomeni come la meditazione, l’estasi, o lo stordimento rinvenibile perfino nei bambini. L’adolescenza è poi un periodo in cui si è alla ricerca
d’esperienze nuove, pronti a mettere alla prova le recenti capacità di “giovane adulto”.
L’adolescente è “affamato di sensazioni” che dare sfogo alla sua grande energia.
Purtroppo alla ricerca di sensazioni forti ci si imbatte in cose rischiose per la salute
come appunto le droghe. In tal senso, la droga è spesso una reazione alla noia e alla
routine della vita quotidiana.1
La canna è vista come un gioco, come qualcosa che unisce perché tutti se la passano e tutti tirano dallo stesso filtro. Bisognerebbe capire che il nostro organismo è capacissimo di produrre “droghe naturali” senza il bisogno di fumarsi dell’erba. Il problema non è tanto quello di reprimere questi bisogni che sono legittimi e naturali, ma
dal trovare il modo di soddisfarli senza nuocere alla propria salute. Lo spinello fumato
insieme testimonia per esempio la ricerca di solidarietà con gli amici. Il bisogno d’intimità con il gruppo rivela l’importanza e la bellezza di rapporti interpersonali positivi
e coinvolgenti. Bisogni di sensazioni forti o di evadere dalla routine possono anche essere interpretati come bisogni di divertirsi, scherzare, trasgredire, giocare, vivere. E’
l’adrenalina quello che si cerca. Si deve anche tenere presente la differenza che c’è tra
maschi e femmine. Nei maschi l’aggressività favorisce il comportamento d’abuso,
mentre la timidezza al contrario la riduce. La contemporanea presenza di sintomi attribuibili sia all’aggressività sia alla timidezza conferisce il massimo rischio rispetto
alla presenza di uno dei due fattori singolarmente. L’aggressività nei maschi è spesso
associata con l’incapacità di mantenere la concentrazione per periodi sufficienti a
svolgere con profitto i compiti scolastici. Per esempio per l’alcool, tra i giovani, si
rileva un approccio precoce, persino prima dei 12 anni in relazione ad una cultura del
bere come un non problema.
1) F.Pastore, LE PLOBLEMATICHE DELL’ADOLESCENZA, II VOL.
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Antropos in the world
CARO PRESIDENTE
Leggo di tante menti alte che offrono il fianco a
ogni causa nobile e giusta, quando c’è di mezzo il
carcere, penso che occorra avere rispetto per le vittime del reato, ma anche per il cittadino detenuto.
Indipendentemente dalle strumentalizzazioni, dalle
speculazioni, dalle pance bene pizzicate, questa
marmellata di parole e pronunciamenti, non è di
oggi, né di ieri, ma dell’altro ieri.
Allora perché un Governo dovrebbe accettare
un’eredità imposta e non condivisa? Perché dovrebbe sopportare un nodo storico che non le appartiene,
legando a propria volta una zavorra che la sua antitesi politica non ha voluto impegnarsi a sciogliere.
Di certo si potrà obiettare che impedimenti di
ordine tecnico e giuridico hanno fatto si che tale
argomento restasse a mezz’aria. Sta di fatto che ora
il fardello è rimpallato a destra, a sinistra, di volta
in volta rinculando senza alcun gioco di sponda.
Ecco perchè Le scrivo caro Presidente, vorrei dirLe
che davvero gli uomini cambiano, perché davvero
l’uomo della pena non è più l’uomo della condanna:
nonostante il carcere mantenga perversamente il suo
meccanismo di deresponsabilizzazione e infantilizzazione, di maggior riproduttore di sottocultura.
In questa condanna alla condanna, ci sono attimi
che attraversano l’esistenza dell’uomo detenuto, e
proprio nel sapere, nella ricerca della propria dignità, nasce l’esigenza di un’autoliberazione possibile
e non più prorogabile.
La vita, anche all’interno di una prigione, può
riservare incontri con te stesso e con gli altri, che
disotturano le intercapedini dell’anima: le visioni
unidimensionali, gli assoluti, i vicoli ciechi si sgretolano, i disvalori di un tempo si accasciano nei
valori che sono venuti avanti.
Allora l’uomo che convive con la propria pena,
coglie il senso di ciò che si porta dentro, il peso del
dramma, quel bagaglio personale come non è possibile immaginare.
Venti, trenta, quarant’anni di carcere demoliscono certezze e ideologie, rendono l’uomo invisibile a tal punto da risultare difficile dialogare con
un’identità scomposta, che occorre ritrovare e ricostruire, unicamente insieme agli altri.
Caro Presidente, chi sbaglia e paga ( assai meglio sarebbe ripara ) il suo debito con la collettività
con decenni di carcere, attraversa davvero tempi e
contesti di un lungo viaggio di ritorno, lento e sottocarico.
Non c’è più l’uomo sconosciuto a se stesso, ma
qualcuno che tenta di riparare al male
fatto, con una dignità ritrovata, accorciando le distanze tra una giusta
e doverosa esigenza di giustizia per
chi è stato offeso, quella società che è
tale perché offre, a chi è protagonista della
propria rinascita, opportunità di riscatto e di riconciliazione. Lei ha parlato con lo sguardo in alto del
fallimento e dell’ingiustizia in cui versa il carcere
italiano, ritengo sia stato un atto doveroso il Suo, che
non Le porterà voti o ulteriori consensi, un atto
coraggioso oltre che giusto, soprattutto per la ricerca
ostinata di una Giustizia giusta perchè equa, che
comprenda un granello di pietà, perché la pietà non è
un atto di debolezza. Penso ai tanti uomini che in un
carcere sopravvivono a se stessi, inchiodati alle loro
storie anonime, blindate, dimenticate.
Non esiste amnistia, indulto, sanatoria d’accatto,
per il detenuto, non esistono slanci in avanti utopistici, esistono solamente uomini sconfitti, perché in
un carcere non sopravvivono miti vincenti, ma esistenze sconfitte dal tempo e dalle miserie che ci portiamo addosso.
Caro Presidente, in conclusione che dirLe ancora,
se non che quando il carcere è allo stremo fino al
punto di uccidere, è un carcere senza scopo nè utilità,
forse c’è davvero bisogno di cambiarlo, non cancellarlo, ma neppure mantenerlo così com’è.
Cè urgenza e necessità di un nuovo percorso penitenziario che sappia finalmente scegliere fra tanti
dubbi, un progetto significativo su cui giocarsi un
pezzo di vita, per il bene di tutti, società libera e cittadini detenuti.
-2-
ANDRAOUS
Le prigioni del sé:
l’adolescente ritirato in casa
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Convegno del 15 marzo
Antropos in the world
Dalle memorie di Teruccio
SER LORENZETTO
All’ingresso della città c’era un antico arco, retaggio di un’epoca remota, ai piedi del quale, da un
lato avevano affisso un cartello di benvenuto, dall’altro, a mo’ di edicola, c’era una lapide su cui era
scritto: “Il nostro suffragio per la memoria di tanti
innocenti trucidati da Lorenzetto, feroce bandito che
ha turbato la nostra pacifica cittadinanza. Una prec e”.
Giunto in città domandai, tra le tante cose, chi
fosse questo crudele assassino, autore di efferati
crimini. Mi fu detto che era talmente feroce e aveva
seminato morte e terrore al punto tale che si aveva
paura di nominarlo; di lui si disse che, dopo la
morte, commise un altro delitto. A questa precisazione si aggiunse subito il desiderio di curiosità, per
cui fu necessario un supplemento di notizie più
circostanziate di questa trista figura. Lorenzetto,
nato da buona famiglia, figlio di un notaio, crebbe
nel lusso e non continuò la tradizione dell’arte
notarile. Fin da adolescente, circondato da pessimi
amici, si dedicò al furto e a trasgressioni più o meno
gravi, e poi, come avviene generalmente, il precipizio crea un altro burrone, col passar del tempo
commise una serie di omicidi; si diede alla latitanza,
finché non fu acciuffato e messo in galera; il processo fu celebrato in breve tempo e si concluse con
la condanna alla decapitazione.
Quando salì sul patibolo, Lorenzetto rifiutò i
conforti religiosi, e in alternativa chiese di salutare
la folla. Con freddo cinismo e studiata determinazione arringò i presenti: “Cittadini, prima di morire
vi voglio salutare. So che tra voi ci sono i curiosi,
coloro che mi disprezzano e i miei compagni di
sventura, che mi compiangono; a tutti voi non chiedo sentimenti di pietà, perché sono cosciente del
male che ho fatto. Se nella spontaneità del vostro
cuore alberga qualche sentimento, non abbiate pietà
di me, ma di voi stessi, perché ho superato i limiti
della morale e della ragione; voi, anche se in misura
diversa, siete nell’istinto come me. Mentre vi saluto
vi dico che il patibolo è la giusta retribuzione delle
mie malefatte. Forse ci sarà qualcuno che avrà pietà
di me”. Ciò detto si girò verso il boia che gli recise
il capo.
La testa fu raccolta in un cesto e la corte decise
di esporla al pubblico disprezzo. In piazza il popolo
si stava preparando ai festeggiamenti della festa
patronale: tra le tante attrazioni nel programma c’era
anche il palo della cuccagna; prima di completare i
-3-
preparativi i maggiorenti pensarono di esporre la testa di Lorenzetto alla sommità del palo e così fu.
Quando la notizia si diffuse in molti accorrevano
per assistere a questo macabro spettacolo; tra le tante
persone, una donna, una madre, a cui Lorenzetto
aveva assassinato l’unico figlio, tra la rabbia e il sentimento di vendetta, si avvicinò al palo e scuotendolo
gridava: “Finalmente per te è venuta la fine, hai
ricevuto quel che meritavi, or sono contenta che gli
avvoltoi ti consumino con i loro artigli”.
Scuotendo più fortemente il palo la disperata donna continuava a gridare e a dimenarsi; la vibrazione
causò la caduta della gabbia che conteneva la testa di
Lorenzetto; nel cadere precipitò sulla testa della
disgraziata donna: la morte fu immediata. Tra i tanti
commenti uno restò come monito perché non si
imitasse la ferocia di un assassino che, anche da
morto, causò un ulteriore sciagura. Di Lorenzetto si
disse, per dispregio, che commise da morto un altro
delitto.
Egidio Siviglia
A MASSIMO TROISI
Ci mancheranno , Massimo ,
in questo a volte strano divenire
la tua parlata , il tuo gesticolare ,
le battute istintive
la tua gran voglia di comunicare .
Ci mancheranno , Massimo ,
le tue mimiche uniche
ad effetto sicuro
inconfondibili
la tua maschera comica
che celava il segreto del tuo cuore
che ti tradì quel giorno all'improvviso
l'eco del tuo " Postino " di Neruda
è come un urlo , massimo ,
è dolore !
Guglielmo Somma
Antropos in the world
I GRANDI MISTERI
UNA TRUFFA CHE NON AVRA’ MAI FINE:
IL DEBITO PUBBLICO
Il debito pubblico italiano – nei disegni degli
usurai internazionali – è destinato a permanere in
eterno. Esattamente come il debito pubblico tedesco
o l’americano o quello di qualsiasi altro Paese. Gli
unici che potranno forse ripianarlo – e con fatica –
sono gli Stati ancòra proprietari delle proprie banche
d’emissione: cioè addire la Cina e pochissimi altri.
Come mai? Semplice: perché oggi – a conclusione di
un lunga stagione di riforme “liberiste” del sistema
bancario internazionale – le banche “centrali” che
stampano il danaro (dalla FED americana alla Banca
d’Italia ieri ed alla BCE oggi) non appartengono più
agli Stati, ma alle banche private azioniste, spesso a
loro volta possedute o partecipate dagli stessi soggetti
che sono i manovratori degli hedge funds, delle
agenzie di rating e di tutti gli altri dannatissimi
apparati della speculazione finanziaria internazionale.
Per sopperire alle proprie esigenze, oggi, le Nazioni
non possono più battere moneta tramite una banca
statale “d’emissione”, ma devono farsela prestare: o
dalla banca “centrale” (cioè privata) di riferimento, o
– sempre più spesso e più massicciamente – dai
“mercati”, cioè dalle banche “d’investimento” straniere e dai fondi speculativi internazionali. Dietro
corrispettivo – beninteso – di corposi interessi.
È questo il meccanismo per cui il debito pubblico
non potrà mai essere eliminato, ma – ad andar bene –
solamente ridotto. Siccome il denaro agli Stati lo
prestano le banche e siccome gli Stati non possono
crearne in proprio, questi potranno teoricamente
restituire il denaro che hanno ricevuto in prestito
(cioè il capitale iniziale), ma mai e poi mai una
somma maggiore (capitale più interessi), perché tale
somma semplicemente non esiste, non è stata mai
messa in circolazione. Come – sia detto per inciso –
ha brillantemente dimostrato il professor Cesare Pa-
Il ruolino di marcia prevede che, ad un certo
punto, i creditori “si accorgano” che il nostro debito continua a crescere, e ci chiedano di ridurlo.
Come? Con i “sacrifici”, cioè con i licenziamenti,
con le tasse, con i tagli alla spesa pubblica. Quando
poi i sacrifici non dovessero essere più materialmente possibili (e siamo ormai a questo punto),
allora ci si imporrà una sorta di commissariamento
per spremerci anche le ultime gocce di sangue,
come è già stato fatto ai danni della Grecia. Infine,
ci si chiederà di pagare in natura: con i resti della
nostra un tempo fiorente industria di Stato, con la
nostra riserva aurea o, chessò, con il Colosseo o
con l’isola di Capri. Sarebbe una seconda (e più
crudele) stagione di “privatizzazioni”, dopo quella
che i nostri governanti hanno allegramente attuato
negli anni ’90 e che è servita soltanto a pagare
qualche rata del nostro debito pubblico.
Già, perché un altro passaggio essenziale della
truffa del debito pubblico è proprio questo: i
proventi di dismissioni e privatizzazioni devono
servire soltanto a pagare una fetta di interessi. Ma il
debito – e non potrebbe essere diversamente – deve
restare. Questo perché, come insegnano i fatti della
cronaca nera, la vittima deve continuare ad avere
quel filo d’aria che le consenta di sopravvivere e di
rimanere sempre soggetta al ricatto degli usurai.
dovani.
Perché, allora, il sistema finanziario internazionale
(quello che impropriamente chiamiamo “le banche”)
continua a prestare soldi ad un soggetto (nella fattispecie lo Stato italiano) che non potrà mai restituirli?
Perché, abilissimi finanzieri, agiscono come non si
sognerebbe di agire neanche il più sprovveduto tra i
preposti bancari di periferia? Semplice: perché quei
signori non mirano ai nostri soldi (semplici pezzi di
carta a corso legale) ma alla nostra proprietà, ai nostri
beni reali, alle nostre industrie pubbliche, alla nostra
agricoltura, al nostro patrimonio culturale.
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Michele Rallo
(Già pubblicato sulsettimanale Social - Trapani)
Corso
Operatore di
Comunità
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Info e contatti:
ISPPREF Istituto di Psicologia e
Psicoterapia Relazionale e Familiare
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Antropos in the world
IL TEATRO COMICO ROMANO a cura di Andropos
La parola commedia è tutta greca: κωμῳδία, "comodìa", infatti, è composta da κῶμος, "Kòmos", corteo festivo e
ᾠδή,"odè", canto. Di qui il suo intimo legame con indica le antiche feste propiziatorie in onore delle divinità
elleniche, con probabile riferimento ai culti dionisiaci . Peraltro, anche i primi ludi scenici romani furono istituiti,
secondo Tito Livio, per scongiurare una pestilenza invocando il favore degli dèi. I padri della lingua italiana, per
commedia intesero un componimento poetico che comportasse un lieto fine, ed in uno stile che fosse a metà strada
fra la tragedia e l'elegia. Dante, infatti, intitolò comedìa il suo poema e considerò tragedia l’Eneide di Virgilio. La
commedia assunse una sua struttura ed una sua autonomia durante le fallofòrie dionisiache e la prima gara
teatrale fra autori comici si svolse ad Atene nel 486 a.C. In altre città si erano sviluppate forme di spettacolo
burlesche, come le farse di Megara, composte di danze e scherzi. Spettacoli simili si svolgevano alla corte del
tiranno Gerone, in Sicilia, di cui purtroppo, non ci sono pervenuti i testi.
A Roma, prima che nascesse un teatro regolare, strutturato cioè intorno a un nucleo narrativo e organizzato
secondo i canoni del teatro greco, esisteva già una produzione comica locale recitata da attori non professionisti,
di cui non resta tuttavia documentazione scritta. Analogamente a quanto era accaduto nel VI secolo a.C. in
Attica, anche le prime manifestazioni teatrali romane nacquero in occasione di festività che coincidevano con
momenti rilevanti dell’attività agricola, come l’aratura, la mietitura, la vendemmia.
PLAUTO: Truculentus (195 /198 a.C.)
Titus Maccus Plautus, nacque a Sarsina, tra il 255 e il 250 a.C.; i tria nomina si usano per chi è dotato di cittadinanza
romana, e non sappiamo se Plauto l’abbia mai avuta. Un antichissimo codice di Plauto, il Palinsesto Ambrosiano,
rinvenuto ai primi dell’800 dal cardinale Angelo Mai, portò migliore luce sulla questione. Il nome completo del poeta
tramandato nel Palinsesto si presenta nella più attendibile versione Titus Maccius Plautus; da Maccius, per errore di
divisione delle lettere, era uscito fuori il tradizionale M. Accius . Plauto fu un autore di enorme successo, immediato e
postumo, e di grande prolificità. Inoltre il mondo della scena, per sua natura, conosce rifacimenti, interpolazioni,
opere spurie. Sembra che nel corso del II secolo circolassero circa centotrenta commedie legate al nome di Plauto:
non sappiamo quante fossero autentiche, ma la cosa era oggetto di viva discussione. Nello stesso periodo, verso la
metà del II secolo, cominciò una sorta di attività editoriale, che fu determinante per il destino del testo di Plauto
TRAMA DELLA COMMEDIA –
Fronesio, una
cortigiana ateniese, ha tre spasimanti dai quali vuol
trarre il massimo divertimento. Si tratta di Strabace, un
campagnolo che possiede un servo (appunto Truculento), Diniarco, un concittadino benestante e infine
Stratofane, un soldato straniero sbruffone e spaccone.
La ragazza ha progettato di ingannarli e costringerli a
pagare ciascuno un'ingente somma di denaro.
Il servitore Truculento è il primo ad accorgersi della
farsa e tenta di far andare via il suo padrone da quel
bordello, ma la serva di Fronesio glielo impedisce.
Subito ha inizio un'accesa disputa piena di offese e
frasi volgarissime, e alla fine Truculento cadrà anche
lui nella trappola della cortigiana.
Pianificando il suo ultimo atto, Fronesio, in compagnia di Stratofane, finge di aver generato un figlio
dalla loro unione e vorrebbe essere risarcita. In realtà il
pargolo è il frutto dell'unione di Diniarco con un'altra
donna (figlia del vecchio Callicle). Quest'ultimo sarà
costretto a sposarsi con la madre del bambino, mentre
Fronesio, accordandosi con Diniarco potrà continuare
ad ingannare i suoi due sciocchi amanti.
SINOSSI - Anche se l’opera mostra un gusto comico,
nelle sue battute, forse troppo distante dal nostro per
ottenere ancora l’effetto di irresistibile ilarità che Plauto sicuramente esercitava sul suo pubblico, questa
messa in scena risulta ugualmente pregevole, proprio
per il tentativo - riuscito perfettamente - di far rivi-
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vere un mondo che affrontava già, più di duemila
anni fa, gli stessi argomenti sui quali ancora oggi
basiamo gli spunti più divertenti del nostro teatro
comico : è sufficiente ricordare che il fulcro del
Truculentus è proprio questa donna disinibita, Fronesio, che, pur dalla sua bassa posizione sociale
(cortigiana), tiene in pugno ben tre uomini, senza che
nessuno di essi riesca mai a protestare efficacemente.
La modernità di Plauto risiede proprio in questa
amara ironia misogina che permea l’intera trama,
ingenerando negli spettatori maschi una sorta di
autocompiacimento per non essere così sciocchi da
farsi ingannare da una donna e, al contrario, nelle
spettatrici l’orgoglio di appartenere allo scaltro genere femminile. Potrà, dunque, essersi affievolito
l’effetto comico delle battute, ma non l’eterna freschezza del messaggio umano cui Plauto continuamente allude, “strizzando l’occhio” al suo pubblico.
ASSOCIAZIONE LUCANA
“G. Fortunato” - SALERNO
SEDE SOCIALE in Via Cantarella
(Ex Scuola Media “A. Gatto”)
Antropos in the world
DE COGNOMINE DISPUTĀMUS
“ Il soprannome è l’orma di una identità forte, che
si è imposta per una consuetudine emersa d’improvviso, il riconoscimento di una nobiltà popolare, conquistata in virtù di un ruolo circoscritto alla persona,
quasi una spinta naturale a proseguire nella ricerca
travagliata di un altro sé. Il sistema antroponimico
era dunque binominale, formato da un nome seguito
o da un’indicazione di luogo (per es.: Jacopone da
Todi), o da un patronimico (Jacopo di Ugolino) o da
un matronimico (Domenico di Benedetta) o da un
attributo relativo al mestiere (Andrea Pastore), et
cetera. Il patrimonio dei cognomi era pertanto così
scarso, che diventava necessario ricorrere ai
soprannomi, la cui origine non ha tempi e leggi tali,
da permettere la conoscenza di come si siano
formati, e la maggior parte di essi resta inspiegabile
a studiosi e ricercatori.
Spesso, la nascita di un soprannome rimanda ad
accostamenti di immagini paradossali ed arbitrari.
Inutilmente ci si sforzerebbe di capire il significato e
l’origine di soprannomi come "centrellaro" o come
"strifizzo" o "trusiano", lavorando solo a livello di
ricerca storica e filologica. E così, moltissimi soprannomi restano inspiegabili, incomprensibili, perché si è perso ormai il contesto storico, sociale e culturale o, addirittura, il ricordo dell’occasione in cui
il soprannome è nato. Verso il XVIII° secolo, il bisogno di far un po’ d'ordine e la necessità di identificare popolazioni diventate ormai troppo popolose
porta all'imposizione per legge dell'obbligo del cognome.
Questo mese, ci occuperemo del cognome: COPPOLA.
In Italia : 8.000 persone hanno il cognome Coppola
secondo i nostri dati ed è il 194° più diffuso in Italia.
Il cognome è diffuso in tutta la penisola, ma con
maggior espansione nel sud dell’Italia.
ETIMOLOGIA ONOM ASTICA
Coppola, berretto basso e rotondo, in genere provvisto di visiera. Il cognome nasce da un soprannome
scherzoso verso chi faceva uso frequente del copricapo. Ma può derivare pure dal mestiere di fabbricante di coppole.
Altre affermazioni parallele ci si sono avute con i
cognami: COPPOLA., COPPOLETTI, COPPOLETTA, COPPOLECCHIA, COPPOLONE. Esistono diverse famiglie di questo cognome, delle quali, oltre a
quelle esistenti nel Settecento, alcune sono venute
dall'ericino.
I Coppola hanno espresso alcuni
-6sacerdoti: Domenico (1821-1888),
Giuseppe
(1819-1906),
fratelli
Giuseppe Coppola D'Anna (1824-
a cura di Gaetano Rispoli
PERSONAGGI FAMOSI:
* Francis Ford Coppola (Detroit, 7 aprile 1939)
è un regista, sceneggiatore e produttore cinematografico statunitense, tra i più grandi cineasti della
storia del cinema. Insieme a colleghi e amici quali
Martin Scorsese, Brian De Palma, George Lucas e
Steven Spielberg ha contribuito in maniera determinante alla nascita della New Hollywood consacrandosi autore di grande prestigio con la regia de
Il Padrino e soprattutto con il celeberrimo vietmovie Apocalypse Now, premiato con la Palma
d'Oro a Cannes nel 1979.
*Aldo Coppola, maestro dei maestri del taglio,
che si rivelò fin da giovanissimo, quando a 15 anni
vinse il campionato italiano dell’acconciatura
femminile. A 21, la prima incursione nella moda,
come hair stylist delle modelle che sfilavano al
Pitti di Firenze.
*Ferdinando Coppola (Napoli,10 giugno 78)
è un calciatore italiano, portiere del Milan. Il
29 giugno 2007 viene acquistato in prestito
dalla Atalanta, in Serie A. Esordisce in maglia
nerazzurra il 26 agosto seguente, in occasione
della trasferta di Reggio Calabria contro la
Reggina, sua ex squadra, che vede gli orobici
pareggiare per 1-1. Con la società bergamasca
ottiene il record di essere stato l'unico calciatore, in quel campionato, ad aver disputato tutte le 38 partite senza aver mai saltato un minuto.
"STATI GENERALI DELLA SALUTE: ART. 32"
59.433.744 volte NO al titolo Quinto della
Costituzione *
* 15° Censimento popolazione italiana al 9
ottobre 2011 (dati ISTAT)
« DIRITTI ALLA SALUTE »
Venerdì, 7 marzo 2014 ore 08.30 - 18.30
Nuova Aula del Palazzo dei Gruppi
Parlamentari
Via di Campo Marzio, 74 - Roma (mappa)
Antropos in the world
NOTE ANTROPOLOGICHE
LEGALIZZIAMO LA NOSTRA IPOCRISIA
di V. Andraous
Insomma quando il gioco si fa duro ognuno spara
a destra e a manca senza badare troppo a chi colpisce,
quel che conta è fare muovere le pedine in un senso o
nell’altro, se poi ci va di mezzo un giovane, risulterà
una sofferenza accettabile.
Effettivamente non sempre accade che chi fa uso
di sostanze sia destinato a rovinarsi, a morire, a uccidere, non sempre la vita diventa un vicolo cieco. Alle
mie obiezioni sulla legalizzazione qualcuno risponde
così: non sempre, solo qualche volta, c’è il ferito, il
morto, il botto e il silenzio. Forse bisognerebbe farci i
conti con quel ”qualche volta”, con quelle vite dimezzate, azzoppate, disperate, annullate, scomparse, per
una svista, non certamente causata da un eccesso di
zuccheri.
Possiamo metterla giù come meglio crediamo e
vogliamo, ma legalizzare non toglierà mercato alle
mafie, non farà diminuire le utenze, la pratica del
minor danno-sballo non risulterà politica risolutrice.
Ciò che domani sarà mercato istituzionale, consegnerà percentuali importanti di principi attivi, guadagni e
sfruttamento dei più deboli e fragili, a un altro mercato parallelo, ben più efficace e provvisto di alternative comode, a pronta consegna.
Salute, vita umana, dignità, responsabilità, capacità di fare delle scelte, di avere soprattutto delle
scelte, stanno diventando concime per fintamente
nuove ideologie, le quali negano diritti fondamentali
ai più giovani, ai più esposti, dentro una società di
adolescenti al palo, in attesa di varcare la soglia del
vicolo cieco, perché di cecità giovanile si tratta,
quindi occorre fare i conti con il Dna di ogni nuova
generazione.
Anche e soprattutto con l’ottusità politica, etica,
morale, di quanti dovrebbero ergersi in piedi, non in
quanto rigoristi, ma perché in tutta coscienza e nel
rispetto degli altri, non intendono fare da rampa di
lancio, da spazio neutro, da finestra cui rimanere a
guardare, ingrossando le fila di una indifferenza sociale che non salverà vite umane, non maturerà individui disacerbati, non aiuterà a fare i compiti per
conoscere i propri limiti.
Campagne, slogan e manifesti, contro questo e
contro quello, adesso occorrerà farne anche contro la
Maria, la Giovanna, la Elisa, sarà necessario ferirsi e
lacerarsi ancora di più: auto sequestrate, patenti ritirate, pendenze penali, lavoro pubblica utilità, gambe
tranciate, corpi in scadenza, assenze eterne che diven-
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gono ulteriori presenze costanti. Qualcuno proporrà,
come accade sempre, altri interventi di ripiego,
cercheranno di tranquillizzarci sostenendo che i minori non potranno accedere a questo nuovo supermercato dello sballo, ma noi sappiamo bene che potranno ugualmente riempirsi gli zainetti di fumo e
erba, infatti c’è sempre chi scalpita e si presta alla
festa prossima.
La droga non è normale quanto un bicchiere di
vino, la droga non fa bene, uno spinello “aiuta” a
lenire “terapeuticamente” il dolore insopportabile a
chi è costretto a letto da un male terribile, ma non
rende lucidi coloro che sono protagonisti attivi della
propria vita e del proprio benessere, responsabili di
se stessi e degli altri, come libertà insegna a ognuno.
Uno spinello è sufficiente a pensare, sbagliando, di
essere a mezz’aria, sopra e sotto il tuo problema,
dentro un’esistenza mai sotto osservazione, subita
come una condizione di inferiorità.
Legalizzare la roba non renderà meno duro il linguaggio del mondo, meno feroce l’ansia e lo stress
per l’ignoto che ci attende, è puerile giustificarne
l’uso (e l’eventuale abuso ) per risolvere il sovraffollamento carcerario causato dalla severità di alcune
leggi di contrasto allo spaccio di sostanze.
Ho l’impressione ci sia davvero urgenza a mettersi di traverso a fronte di dichiarazioni semplicistiche, c’è bisogno di non dare mai le spalle a zone
buie come queste, perché sono volti e maschere della
stessa identica tragedia, che incombe, non s’allontana, e non sarà la legalizzazione a domare una violenza insita in ogni responsabilità negata.
Antropos in the world
OBIEZIONE DI COSCIENZA
La coscienza, secondo l'ambito nel quale viene
osservata, è intesa in vari modi; in campo etico essa
è la capacità di distinguere il bene e il male per
comportarsi di conseguenza.
Il Concilio Vaticano II afferma che “ Nell’intimo
della coscienza l’uomo scopre una legge che non è lui
a darsi, ma alla quale invece deve obbedire e la cui
voce, che lo chiama sempre ad amare e a fare il bene
e a fuggire il male, quando occorre, chiaramente parla alle orecchie del cuore.” (GS 16)
Pertanto, se si ritiene che ottemperando a un dovere imposto dall’ordinamento giuridico si avrebbero
effetti contrari alla “voce della coscienza” si ha il dovere morale di rifiutarne l’esecuzione.
In tal senso l’obiettore di coscienza è anche il
martire.
In senso proprio però il significato è più ristretto e
indica come obiettore di coscienza il cittadino che
rifiuta la prestazione del servizio militare obbligatorio per motivi di coscienza, siano essi umanitari,
morali o religiosi, sia in tempo di pace che, soprattutto, in tempo di guerra, in quanto l'assolvimento del
servizio può comportare l'uccisione di altre persone
in battaglia.
Il movimento degli obiettori di coscienza sorse per
motivi pseudoreligiosi di alcune sette protestanti
(Menoniti, Quacqueri, Testimoni di Geova, ecc.) che
male interpretavano alcuni passi scritturali. Dai paesi
protestanti si diffuse nei paesi latini, favorito dalla
visione degli orrori delle due guerre mondiali.
In campo cattolico era comunemente respinta la
tesi degli obiettori di coscienza e la loro resistenza
passiva veniva almeno considerata come una violazione ai doveri civici di giustizia legale.” Il bene
comune infatti esige che il cittadino partecipi come ai
vantaggi, così agli svantaggi della vita collettiva, tra
cui il servizio militare obbligatorio … i benefici individuali devono essere sacrificati alle superiori esigenze della compagine sociale” (Dizionario di teologia morale).
Non mancavano però voci che sostenevano la
legittimità dell’obiezione di coscienza, come quelle,
ad esempio, dei sacerdoti Balducci e Milani.
Il Concilio sull’argomento ha mutato atteggiamento: la citata Costituzione pastorale su “La
Chiesa nel mondo contemporaneo”, pur osservando
realisticamente che “La guerra non è purtroppo estirpata dalla umana condizione.
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E fintantoché esisterà il pericolo della guerra e non
ci sarà un’autorità internazionale competente, munita di forze efficaci, una volta esaurite
tutte le possibilità di un pacifico accomodamento, non si potrà negare ai
governi il diritto di una legittima difesa”, afferma in modo esplicito che
“Sembra inoltre conforme ad equità
che le leggi provvedano umanamente al
al caso di coloro che, per motivi di coscienza, ricusano l’uso delle armi …” (LG 79).
In Italia l’istituto dell’obiezione di coscienza di
fonda sull’art. 3 della Costituzione (Tutti i cittadini
hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla
legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua,
di religione, di opinioni politiche, di condizioni
personali e sociali) ed è quindi un diritto inviolabile
della persona.
Detto istituto è di carattere generale, non
riguarda cioè solo il servizio militare obbligatorio,
peraltro abolito. Vi sono infatti obiettori da parte dei
medici che si rifiutano di praticare l’aborto, perché
la loro coscienza non permette di sopprimere un
essere umano nel grembo materno. Così vi sono
obiettori tra i farmacisti di vendere prodotti anticoncezionali quali pillola, così come è previsto il
diritto all'obiezione di coscienza nei confronti della
sperimentazione animale.
L’aspetto contraddittorio e inquietante ad un
tempo è rappresentato dal Partito Radicale che nel
febbraio del 1970 prese l’iniziativa di fondare la
Lega degli obiettori di coscienza (LOC), mentre
oggi due suoi autorevoli esponenti - la Bonino,
che come attività in vita sua ha solo praticato aborti
con una pompa di bicicletta, e Rodotà che,
incredibile a dirsi, è stato addirittura in predicato in
quota grillina quale Presidente della Repubblica affermano (udite! udite!) che “in Italia c’è una malattia contagiosa, una epidemia rapida che si chiama
obiezione di coscienza” (Bonino), e che a più di
trenta’anni dall’approvazione della legge sull’interruzione della gravidanza la possibilità dell’obiezione di coscienza dei medici “andrebbe semplicemente abolita.” (Rodotà). Ne deriva che c’è gente
che non è disposta ad uccidere il nemico per difendere la Patria, ma è pronta a sopprimere la vita umana nel grembo materno.
Renato Nicodemo
Antropos in the world
IL CARCERE E’ DIVENUTO UNA CONDANNA A MORTE
Di V.Andraous
L’anno 2014 è iniziato da qualche giorno, suona la
campana a morto per qualche disgraziato garrotato dal
meccanismo perverso che il carcere mantiene, per poi
vergognarsene senza pudore.
Un altro poveraccio se ne è andato con le gambe in
avanti, un’evasione silenziosa, che non fa rumore come
quell’altra con lima e lenzuola annodate, da qualche
tempo s’evade così, con corda e sapone, senza documentazione, privati persino della propria storia personale,
quella che non è mai raccontata per quella che è.
In fin dei conti la prigione non è zona di mare, di sole
e divertimento, è quello che è, un lazzaretto disidratato,
un contenitore, una catasta di cose, di numeri, di eccedenze e scarti, di sovraffollamento, e dunque, c’è bisogno
di dare aria ai capannoni in disuso, consentendo disprezzo
e indifferenza ulteriore al lessico quotidiano, che parla
non di uomini, cittadini reclusi, non di pene da scontare,
non di carcere a norma di sicurezza.
Contese politiche e trabocchetti ideologici, dove la
sicurezza appunto è strattonata per meglio comprarla a
seconda dei punti di vista, delle prospettive, dei vantaggi
di casata, quindi per i detenuti rimane solo il tempo di un
urlo strozzato in gola, per gli altri cittadini liberi uno
sbadiglio, meglio sonnecchiare di fronte all’ultima
ingiustizia, perché fin troppe sono quelle irreggimentate
per rendere inquieta e preoccupata una società.
Un altro prigioniero è finito sul ben noto capitolato
degli “eventi critici”, letteratura amministrativa per
meglio rendicontare certi accadimenti insanabili, che
invece meriterebbero maggiore attenzione, dentro sensibilità certamente diverse, ma ognuna in possesso della
propria patente di circolazione, ben connessa alla sostanza
delle cose, non alla parzialità delle circostanze che di
volta in volta fanno gridare, sbattere i pugni, per rivendicare ruoli e competenze, rafforzando i silenzi.
Ci sarebbe bisogno di chiarire questo buco nero profondo in forza di autorevolezza, gli ammanchi esistenziali
di una giustizia anch’essa presa per i fondelli, infatti alla
galera è possibile trarre un riassunto sociale che non
lascia dubbio per il decoro venuto meno, perché autorizzato a scalare le vette più alte dell’inumanità.
Sovraffollamento, suicidi, malattia, solitudinarizzata
persino la morte, patologie border line, aree sempre più
corpose di doppia diagnosi, tumefazioni e sangue, confermano il pericolo di un vero e proprio regresso insanabile
del carcere italiano.
Qualcuno ha detto che sulle brande arrugginite “ i
cuscini puzzano di sudore “. No, non è così: quei cuscini,
dove ci sono, perché mancano, sono invisi persino alla
consorella discarica più vicina.
A quante palline cadaveriche è arrivato il pallottoliere
penitenziario? Siamo a inizio anno, eppure tra una imu
reintrodotta con gli interessi, una tares reinventata, una
tasi spocchiosa, lo scoramento di una collettività dise-
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duca alla compassione, alla pietà, alla giustizia che salva
dall’ingiustizia dell’abbandono.
A volte si ha l’impressione di una discussione oziosa
sul carcere, è tutto talmente incancrenito e marcio che non
c’è difficoltà ad autoassolversi con un giro di parole,
raccontandoci una realtà che non esiste, perché non deve
esistere.
A cosa serve una prigione che non custodisce, ma si
limita a detenere, che non rieduca, ma addomestica all’attesa del morso che verrà, che determina un tempo
bloccato, senza alcuna possibilità di crescere, di spostare
l’asse di coordinamento sociale da puro terminale
dell’esclusione, a linea di partenza per nuovi stili di vita,
di responsabilità assunte.
Un carcere che uccide non serve a nessuno, un carcere
che accartoccia l’umanità non serve, un carcere della
ingiustizia genererà soltanto mostri, forse vecchi nel
fisico, ma bambini nella testa, deresponsabilizzati dalla
sofferenza cieca che non consegna nuove punteggiature.
Il carcere che uccide non serve perché non è con la
vendetta travestita di buone intenzioni che si superano le
gambe corte delle menzogne, delle panzane mediatiche,
una galera che inghiotte, espelle carne morta, non sana il
male di vivere, non ripara al male perpetrato, non diventerà mai protagonista attivo di un preciso interesse
collettivo.
Amnistia, indulto, decreti, falsi allarmismi, carceri
nuove e mantenimento di una politica del più forte contro
il debole, significa consolidare una galera dell’intolleranza, che scardina valore all’autorevolezza delle istituzioni.
Non può esser considerata una pena affidabile, quella
pena che priva di rispetto della dignità ognuno, una pena
in cui il reato diventa l’unica identità possibile del
detenuto, anche quando quella pena verrà scontata, non
una volta come Costituzione comanda, ma una volta di
più, rendendo vano ogni auspicio di risocializzazione,
ogni richiesta di giustizia.
Un anno di carcere e sembri un
fantasma!
Non so come, ma sono ancora vivo. Se la gente sapesse quanti ne muoiono!
Antropos in the world
IL RACCONTO DEL MESE:
NUNZIATINA
eBook - PC, Mac Os, Linux, iPhone, iPad, Android,
HTC, Blackbarry, eReaders - ISBN 9788868143053
Oltre le gole selvagge del monte Marzano, la
valle del Sele si estende a triangolo tra l'Alburno ed
i monti Picentini. Tra i lembi estesi di terrazze
fluviali‚ il Sele si allarga ad irrorare la pianura, un
tempo inospitale e malarica. La nostra storia si
svolge‚ agli inizi del ventesimo secolo, in quella
parte della valle chiamata "fémmena morta", in
seguito al ritrovamento del cadavere di una donna
che non fu mai identificata. A quel tempo, vaste
masse di proletari, coloni e contadini, si addensavano là dove forme capitalistiche di conduzione si
erano insediate in un contesto sociale dominato da
“residui feudali” e dalla assoluta mancanza di una
regolamentazione giuridica‚ che garantisse la tutela
dei prestatori di opera,vittima dei caporali. Questi
ultimi attuavano una vera mafia d'ingaggio, impedendo il contatto diretto tra padroni e lavoratori ed
avvantaggiandosi, indebitamente, sul compenso del
lavoro. Nel contempo, taglieggiavano le loro vittime, pretendendo utili per l’arruolamento. Su di un
guadagno complessivo di venticinque lire, essi truffavano sino a sei lire, continuando l'opera con atti di
strozzinaggio ed imponendo prestiti iniziali a tassi
impossibili. Altri ancora‚ contro ogni legge morale,
pretendevano che le donne alzassero le gonne e
soggiacessero alla loro voglie. Don Filippo Capo
apparteneva a questi ultimi‚ e non perdeva nessuna
occasione per trarre benefici economici e sessuali‚
in tutta la pianura.
I Farnesi ed i Casati era i più grossi latifondisti della valle ed egli era procuratore di entrambe la famiglie. Senza figli, aveva per moglie un
curioso animale, che somigliava ad una donna per
via di due grosse protuberanze, che le gonfiavano la
veste nella parte alta del corpo. Angelina, così si
chiamava, spettegolava su tutti‚ compiacendosi del
lavoro del marito e del timore che incuteva negli
altri. Basso, tarchiato, con la barba rada, che si concentrava nella parte alta delle guance‚ portava a
spasso un naso piuttosto grosso e sgraziato, sotto
due occhi porcini.
La pelle olivastra‚ sudaticcia e maleodorante, si
accompagnava ad una voce roca, bassa e volgare.
Un ciuffo di capelli, lisci, unti e neri come il
carbone, gli cadeva sulla fronte, segnata da una
brutta cicatrice. Uomo di fiducia, don Filippo
percorreva la lunga "carrara" (1), sul leggero calesse, tirato da "Diavolo", un cavallo snello a nervoso,
e sorvegliava i lavoranti, da un capo all'altro del
territorio, compiendo‚ ogni giorno‚ un lungo giro
per Pagliarone e la zona collinosa a valle di Capaccio. Al suo passaggio, le donne si facevano il
segno della croce, mentre gli uomini, fingendo di
ignorarlo‚ stringevano i denti e sbiancavano le
nocche sull’asta delle zappe dalle lame lucenti.
Erano circa la tredici, quando arrivò nella zona
dei salici, che facevano da confine tra la terra
buona ed il "deserto" : una lunga striscia di terra,
oggi chiamata "Licinelle", bruciata dal sole a
schiaffeggiata dal mare. Alcune donne si riparavano
dal sole, sotto un grosso albero di gelsi rossi, tra esse
vi era Nunziatina, una giovanetta di una bellezza
esuberante: sedici anni‚ forse diciassette‚ con un
casco di capelli neri‚ come i suoi occhi irrequieti‚ ma
limpidi come l’acqua d’una fonte. La camicia leggera
aderiva alla pelle sudata, mostrando l'abbondanza dei
seni turgidi, sul ventre piatto. Una gonna a campana,
che la leggera brezza incollava all'inguine, alle cosce
ben fatte, metteva in risalto la figura agile a slanciata
della giovane.
Le donne si segnarono, la fanciulla scappò,
scomparendo tra i cespugli ed i fichi d'India. Don
Filippo spronò il cavallo e la seguì. Sudava, il
fazzoletto, intorno al collo taurino, era bagnato e la
camicia, aperta sul davanti, lasciava intravedere rivoli di sudore, tra i peli del largo torace. Ad un
tratto, la vide. S'arrampicava sui sassi che delimitavano la terra dei Casati. La raggiunse. La fanciulla si girò prontamente‚ come una tigre che si prepara all'assalto: con la fronte corrugata, sugli occhi
duri, fronteggiò l'uomo che, sceso da cavallo, si
avvicinava lentamente a lei.
Con le spalle contro il muretto a secco‚ Nun-
- 10 -
Antropos in the world
ziatina ansimava, cercando scampo con gli occhi.
Le braccia tese artigliarono all'indietro due grosse
sporgenze nel muro. Fece forza ed una di queste
cedette. La fanciulla si sentì protetta. Lanciò la
pietra ed il sangue sprizzò fuori velocemente dalla
fronte dell'uomo che, con un urlo di rabbia, si lanciò
in avanti, afferrandola nel punto in cui i due seni formano il lungo solco d'amore. Il tessuto cedette e la fanciulla coprì‚ con le mani‚ la pelle eburnea. Negli occhi dell’uomo una luce torbida e
cattiva. Intanto‚ l'altra mano artigliava le gonne
che, strappate nella parte alta, si raccolsero ai piedi
della fanciulla nuda e tremante.
Uno stormo di uccelli volò via in direzione
della piana‚ mentre l’eco di uno sparo si infranse
sul fianco della collina‚ tra gli ulivi ricurvi.
Le mani dell'uomo erano d'acciaio, un rivolo
di saliva scendeva, dall'angolo della bocca, sul mento sudato. La terra secca graffiò le spalle delicate di
Nunziatina che, esausta, abbandonò ogni resistenza.
L'immagine del cielo divenne nebulosa e scomparve, mentre il membro dell'uomo le straziavano il
ventre. Gocce di sangue bagnarono la leggera peluria, mentre, sui seni martoriati, tracce di bava inumidivano i piccoli capezzoli rosei.
L'uomo si alzò, si chiuse i pantaloni‚ tolse con
l'indice destro il sudore dalla fronte e sghignazzò:
- O lupe s’è futtùte ‘a pecurèlla ... ‘a notte nù
durmìa pensànne a tè ! Ma‚ te lo giuro! (bacia le
dita a croce e sputa a terra) Da oggi, ci sarà sèmpe
lavoro pe’ te a famiglia toia -.
Salì a cavallo e scomparve. La fanciulla incominciò a riprendersi ed aprì lentamente gli occhi
verso il cielo di un azzurro intenso. Un coro di cicale davano colore a quel maledetto pomeriggio.
Nunziatina cercò di alzarsi, ma ricadde supina‚ con
le mani sul ventre dolorante ed una sensazione di
vomito l'assalì. Si girò di fianco a vomitò sulla terra bruciata. Si sentiva sporca insozzata ed aveva
una gran voglia di morire. Si sentì chiamare, guardò
giù verso il pendio e vide due donne, che venivano
nella sua direzione. Non rispose. Raccolse accanto a
lei quello che rimaneva dei suoi panni e cercò di
coprirsi. La raggiunsero.
- Non vergognarti, figlia mia!- Dio lo punirà quel mascalzone! -.
Una della due, tolse dal capo il fazzoletto e cercò
di pulirle le cosce, mentre l'altra le asciugava deli-
catamente i seni. Nunziatina singhiozzava. Dopo
circa una mezz’ora la fanciulla ripresasi alquanto, fu
riaccompagnata a casa.
Verso la otto di sera Felice‚ il fratello della ragazza, rincasò. La pallida luce del lume a petrolio
rischiarava a mala pena l'ambiente‚ annerito dal fumo
del focolare. In un angolo, un piccolo mucchio di
legna secca, attendeva di essere acceso per la cena.
Sulla spalliera d’una sedia impagliata, un asciugamano logoro gocciolava in una bacinella di acqua ed
aceto. Felice entrò chiudendo la porta con un calcio
all'indietro. Il saliscendi scattò. Andò verso la finestra
aperta e fischiò, poi chiamò, con voce secca, ma non
fredda: - Baró -. Il cane guardò verso di lui e si
avvicinò, scodinzolando. Il giovane tolse la camicia,
e prese a massaggiare, con la grossa mano, la braccia stanche. Di poi, chiamò:
- Mamma! - Nunziatina! Nessuno rispose. Bussò‚ poi spinse adagio la porta
della camera da letto : la sorella giaceva in un bagno
di sudore : il delirio alterava i lineamenti della
giovane, che sembrava rivivere l'incubo di quel
pomeriggio.
Una donna, sui cinquanta anni, alzò lo sguardo verso
di lui:
-Figlio mio‚ disse con voce rotta dal pianto, il disonore a la morte sono entrati in questa casa ! Sul vecchio comò, un lume ardeva davanti al ritratto di un uomo, mentre, al lato destro della cornice,
l'immagine della Madonna di Pompei formava un
singolare altare di numi tutelari‚ che sintetizzava un
unico grande rispetto per la morte e la fede. Felice
strinse i pugni:
- Chi? - chiese, guardando con dolore la sorella;
- Chi è stato! - ripeté con voce alterata, stringendo
i pugni ed imprecando tra i denti. (Continua)
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Antropos in the world
DA TRAPANI
L’ITALICUM: UNA RIFORMA PER
CANCELLARE IL DISSENSO
L’ultima trovata per fregare gli italiani ha un
titolo latineggiante: Italicum. Che, nella fattispecie,
non va confuso con la littorina di Cordero di
Montezemolo (quella si chiama Italico), ma va
piuttosto collegato ai precedenti sistemi elettorali –
il Mattarellum ed il Porcellum – per i quali si sono
scomodate desinenze della lingua dei nostri padri.
Niente di nuovo sotto il sole. Dalle nostre parti,
quando si vuol turlupinare la povera gente, la si
stordisce con accenti latini. Il padre della lingua
unitaria italiana, Alessandro Manzoni, lo faceva dire
a Renzo Tramaglino, quando Don Abbondio – sotto
ricatto da parte dei bravi di Don Rodrigo –
biascicava citazioni latine per giustificare la mancata
celebrazione delle nozze dello stesso Renzo con
l’amata Lucia: «Si piglia gioco di me? – rispondeva
il Tramaglino al parroco infedele – Che vuole ch’io
faccia del suo latinorum?»
Ma gli italiani di oggi non hanno l’intuito ruspante del personaggio manzoniano, e non capiscono che ci si sta prendendo gioco di loro. A giudicare
almeno dai sondaggi, secondo i quali il 60% degli
interpellati giudica positivamente il “latinorum”
renziano. Eppure, dovrebbe essere chiaro a tutti il
doppio inganno che si cela dietro questo ennesimo
pastrocchio bipartisan.
Primo inganno: si storna l’attenzione dell’opinione pubblica dai fatti concreti (disoccupazione,
chiusura delle aziende, impoverimento diffuso) e la
si dirotta verso problematiche che interessano soltanto il palazzo. La gente non mangia riforme, tantomeno riforme elettorali, eppure il 60% degli italiani
riesce ad apprezzare la melina della proposta renzaian-berlusconiana.
Secondo inganno: l’Italicum serve soltanto a
privare di una rappresentanza parlamentare le forze
politiche minori, alcune delle quali sono critiche nei
confronti della globalizzazione economica e della
perdita della nostra sovranità nazionale a pro di una
Unione Europea che ci sta vampirizzando. L’operazione è stata avviata nel 2008, con un sistema
elettorale che ha portato all’esclusione dal Parlamento italiano – guarda caso – proprio de La Destra e di
Rifondazione Comunista.
Adesso, con il sopraggiungere del Movimento
5 Stelle e con il riposizionamento della Lega Nord
su posizioni di destra radicale, occorre escludere (o,
almeno, depotenziare) anche loro. Ma, soprattutto,
occorre sbarrare il passo ad una grande forza politica
populista, antieuropea ed antiimmigrazione che, con
ogni probabilità, nascerà in Italia dopo le elezioni
europee del prossimo maggio, sull’onda del successo
che analoghi schieramenti politici avranno registrato
in Francia e altrove.
L’Italicum, dunque, disegna un parlamento bipolare o quasi, nel presupposto che le due forze politiche che al momento appaiono più forti (PD e Forza
Italia) continuino ad esserlo anche in futuro: beninteso, mantenendosi fedeli al verbo globalista ed europeista. Buttati nella spazzatura i vecchi arnesi appena
utilizzati (Monti e Letta), l’apparato dell’Unione Europea sembra puntare adesso su Matteo Renzi come
nuovo proconsole. A Berlusconi – troppo bravo per
essere gettato via come una scarpa vecchia – viene offerta una via di fuga: archiviare i timidi sussulti populisti e le amicizie pericolose (leggasi Putin), tornare
disciplinatamente nell’alveo dell’obbedienza a Santa
Madre America, ed obbligarsi a rispettare gli “impegni
con l’Europa” che ci stanno strangolando. Se sarà bravo ed obbediente, potrà partecipare alla lotteria della
alternanza: una volta a te ed una a me, un colpo a destra ed uno a sinistra, una furbata di qua ed una di là.
Tanto il popolo italiano è duro di comprendonio,
e basta un po’ di latinorum per fargli perdere di vista
le cose importanti.(1)
Michele Rallo
__________
1) Da Social – Le opinioni eretiche di Rallo.
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Antropos in the world
MOMENTO TENERO
Desiderare un bacio,
nella carezza ruvida
del tempo,
è come chiedere
forza di respiro,
aria di vita, si,
per non morire.
Ecco perché,
di notte,
a cuor leggero,
li sogno tutti
i baci che ho avuto
e dal ricordo,
prendo vita ancora,
sin dalle prime luci
… dell’aurora.
COMMIATO
di
Franco Pastore
________________
Dalla raccolta “OLTRE LE STELLE”
Premio Artista Esemplare 2014 - Expo d'Arte Contemporanea "Luci in Avalon"
Recentemente conclusosi con grande successo di pubblico
e critica lo straordinario evento “Premio Artista Esemplare
2014”- Expo d’Arte Contemporanea “Luci in Avalon”,curato
dell’associazione culturale AVALON ARTE, dal 4 al 13
gennaio, presso l’Archivio dell’Architettura Contemporanea
in via porta Elina – Salerno. Ben 5 i momenti di approfondimento culturale offerti con grande professionalità alla
cittadinanza. Sabato 4 Gennaio 2014 è stato assegnato a Giuseppe Antonello Leone il “Premio artista esemplare 2014”,
riconoscimento tributato, dall’associazione Avalon Arte presieduta da Gerardina Scalera, annualmente a figure esemplari
della ricerca estetica per risultati morali, materiali o didattici
sortiti. Giuseppe Antonello Leone, decano dei maestri delle
arti figurative, nato a Pratola Serra (Av) il 6/7/1917, è pittore
scultore ceramista tra i massimi maestri del Futurismo, movimento che ha segnato una svolta fondamentale nel
panorama artistico-letterario del Novecento.
Il premio realizzato per l’occasione dal noto scultore
Biagio Landi, è stato consegnato dal Vice Sindaco Eva
Avossa, dopo una breve illustrazione dell’artista a cura del
giornalista Rosario Ruggiero. Sono intervenuti alla cerimonia l’Assessore al turismo Vincenzo Maraio e Rosellina Leone. Nel corso della serata, vernissage della mostra “Luci in
Avalon”, opere pittoriche e scultoree su tema libero di 23
artisti da tutt’Italia, presentate dal critico d’arte prof. Luigi
Crescibene. La serata è stata allietata da brani di musica
New Age del compositore Giuffrida Farina, tratti dal digital CD “Arcobaleni Specchiati”, eseguiti da Marcello Ferrante ed Arminio Capezzuto. Ai visitatori è stata offerta l’opportunità di approfondire le conoscenze sui processi culturali, sociali e storici connessi al consumo di cibo e di vino
legati alla gastronomia italiana e internazionale, con "Wine
Corner curato da Master Wine con la presenza del Presidente
sommelier Andrea Moscariello". Domenica 5 gennaio 2014
vi è stata la presentazione del libro “Con il tempo” di Pina
Marcantonio, Edizione Noitre a cura di Alessandra De Vita,
con poesie declamate da Annamaria Ferraioli. Lunedì 6
gennaio, dalla celeberrima rubrica radiofonica Gran Varietà,
ELEUTERIO E’ SEMPRE TUA, performance teatrale con
Brunella Caputo e Davide Curzio, una satira leggera e gustosa
della vita matrimoniale basata sullo scambio di lettere fra due
coniugi in crisi di noia e sopportazione, ma profondamente
legati. Mercoledì 8 gennaio 2014, “Napoletanità. Viaggio
nella cultura e nei valori di una città grande quanto
bistrattata”. Evento che avvalendosi di momenti spettacolari,
poesie e canzoni a cura degli artisti Vincenzo de Simone ,
Nico Da Zara e Patrizia Pugliese ha proposto la migliore
letteratura poetica e musicale di una città sicuramente per più
versi unica al mondo, bandendo sin troppo abusati folclore ed
oleografia, per presentarla in quella veste che, non a torto, a
dispetto di una generale ignoranza odierna, ne ha fatto, per un
secolo e più, capitale della cultura e dell’intera Europa.
Sabato 11 gennaio 2014, Profilo d’autore, convegno su
Giuseppe Antonello Leone, con interventi di: Rosellina
Leone, Rosario Ruggiero e con esposizione di alcune opere
del Maestro. Numeroso il pubblico nel corso dei 9 giorni della
manifestazione, assai interessato e coinvolto dai vari momenti
significativi innanzi citati, attratto dalla singolare bellezza e
dal messaggio insito nelle stupende opere in rassegna, le
creazioni degli artisti:
Maria Eterna Baratta, Tommaso Campagnuolo, Biagio
Catalano, Anna Ciufo, Antonio Cosimato, Filomena D’Antonio, Mimma De Luca, Angela Esposto, Adriana Ferri,
Cristina Flaviano, Cono Giovanni Giardullo, Biagio Landi,
Umberto Ligrone, Matteo Massa, Claudio Morelli,Teodoro
Quarto, Marta Cecilia Quintana, Anna Sessa, Paola Siano,
Giuseppe Torre, Francesco Tortora, SantinoTrezza, Elena
Vorobyova.
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Ariana Ferri
(Dell’ufficio stampa di Avalon Arte)
Antropos in the world
LA DONNA NELLA STORIA
ONORATA RODIANI
Onorata Rodiani fu artista e soldato di ventura. Il
primo a parlare di lei fu don Clemente Fiammeni o
Fiammeno, nel 1630, nella sua Castelleonea, o Historia
di Castelleone. Nel 1354, la cittadina venne conquistata
dal Ducato di Milano, ma, tra il 1420 e il 1424, gli anni
in cui la nostra vicenda ebbe inizio, fu affidata al
marchese Cabrino o Gabrino Fondulo.
Nel 1423, Honorata Rodiani stava dipingendo il
Palazzo di Gabrino. E «ammazzò con un coltello un
cortegiano di esso per un atto poco honesto», scrive
Fiammeni. Un tentativo di stupro finito male per lo
stupratore. A quel punto la ragazza, temendo vendette, si
vestì da uomo e fuggì di notte, abbandonando la famiglia
e la cittadina e dichiarando: «è meglio viver honorata
fuori della patria, che disonorata in essa». La cosa mandò
su tutte le furie Gabrino che la fece processare. Però
subito dopo la perdonò, ma lei non tornò, perché, nel
frattempo, sotto mentite spoglie, era diventata soldato a
cavallo nella compagnia di Oldrado Lampugnano.
Aggiunge don Clemente: «visse poi con habito e nome
mutati sotto varij capitani, & hebbe officij militari».
Ovvero visse vestita da uomo e fece carriera come
ufficiale. Poi, nel 1452, quando era al servizio di
Corrado, fratello del duca di Milano Francesco Sforza,
giunse in soccorso di Castelleone, assediata dai veneziani
«onde si diportò cõ il solito valore, e si levò l’assedio, ma
fu ferita a morte». Portata dentro le mura di Castelleone e
riconosciuta «con gran stupore», morì poco dopo,
dicendo: «honorata io vissi, honorata io moro».
Secondo don Clemente fu sepolta nella sua parrocchia il
20 agosto 1452.
La storia ha avuto grande risonanza, in tempi recenti,
all’estero: Onorata è stata subito battezzata “la Giovanna
d’Arco di Castelleone”. Come data di nascita di Onorata
viene indicato il 1403. Benché donna, era stata incaricata
di affrescare il palazzo di Cabrino Fondulo, marchese di
Castelleone, diventato signore di Cremona dal 1404 al
1419, conte di Soncino e vicario imperiale, oltre che
feroce e coraggioso capitano di ventura. L’incarico
dell’affresco è insolito: le pittrici rinascimentali dipingevano in genere al cavalletto. Non a caso la leggenda
dice che la furia sessuale del cortigiano fosse stata
suscitata dalle gonne e dalle maniche arrolati per lavorare
sui ponteggi.
Basta osservare l’autoritratto di Artemisia Gentileschi come Allegoria della pittura (1638-1639) per
pensare che la furia della creazione rendeva in effetti
accaldate. È probabile che Onorata fosse figlia o nipote
del pittore Mario Rodiani, incaricato, pare, di affrescare il
palazzo di Cabrino. La semi-leggenda vuole la ragazza
orfana dei genitori e affidata a uno zio. Non abbiamo
riscontri, se non la notizia che sarebbe poi fuggita con gli
abiti di un fratello di latte.
Dice la semi-leggenda che la diciannovenne e
bellissima Onorata era entrata nel palazzo
come dama di compagnia della moglie del
feudatario, Pominia. E che avesse chiesto
di affrescar le stanze della sua signora
perché si annoiava. Il giovane molestatore la colse sola. L’assaltò e lei si difese. Benché Fiammeni parli di coltello, la leggenda racconta di un compasso conficcato in gola. Poi la fuga. Arrivata a casa della vecchia balia, Onorata
decise di vestirsi da uomo e, dopo aver lasciato una lettera di confessione per la marchesa, partì a cavallo, facendo perdere le sue tracce.
Sappiamo dell’ira di Cabrino, del suo perdono. Del fatto
che Onorata non lo seppe. Destino volle che solo due anni
dopo il marchese fu catturato con l’inganno a Cremona da
Oldrado Lampugnani, ministro e uomo di fiducia di Filippo
Maria Visconti, condannato a morte seduta stante e
decapitato sulla piazza dei Mercanti. Nell’esercito di
Lampugnani militava, sotto falso nome e false vesti, anche
Onorata. Pare che, con gli anni, la fanciulla avesse
conquistato il grado di capitano. Poi, nell’agosto del 1452 o
del 1453, la battaglia per liberare Castelleone dall’assedio
dei veneziani. Dice la semi-leggenda, che proprio sotto il
Torrazzo, che stava per cadere in mano veneta, Onorata fu
colpita da una sciabolata. Quando la trassero fuori dalla
mischia e le tolsero l’armatura, i compagni, che pure la
conoscevano da molti anni e con lei avevano condiviso
battaglie e bivacchi, scoprirono che era donna. La battaglia
avvenne tra il 16 e il 17 agosto: il funerale è stato subito
dopo. L’anno invece non è così certo: potrebbe essere il
1452, quello cioè della presa del potere, a Milano, di
Francesco Sforza, contro cui si schierarono quasi tutte le
potenze dell’epoca. O il successivo, il 1453, che vide nuovi
e sempre simili scontri, con continui e confusi cambiamenti
di fronte. La Pace di Lodi, che pose fine all’interminabile e
altalenante conflitto tra Milano e Venezia, è del 1454.
Della pittrice Rodiani non resta nulla, o quasi, benché le
siano state attribuite diverse tavole e anche gli affreschi in
casa di don Lodovico Mondini, un sacerdote di Castelleone
che scrisse di lei nel 1880. Nell’odierno palazzo GaleottiVertua sono stati riconosciuti i resti della dimora di Fondulo e, durante un restauro, è affiorato un affresco della
Vergine con il Bambino e, ai lati, San Sebastiano e San
Cristoforo, che forse le si possono attribuire. A lei è stata
anche assegnata una santa Caterina, un olio su tela, che è
ancora nella chiesa parrocchiale. Il mito di Onorata ha
ispirato alcuni letterati, come Romualdo Cappi.
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Valeria Palumbo
Antropos in the world
IMMAGINI D’UN ALTRO TEMPO – a cura di Maria Imparato
Ca’ Foscari certificata Leed
Ca' Foscari è Università, è Venezia, è storia, è regata.
Dal 1457, quando fu abitato per la prima volta dal doge
Francesco Foscari, nei suoi ultimi giorni di vita, il palazzo
gotico di Ca’ Foscari, progettato da Bartolomeo Bono, è
parte integrante della magnifica architettura cittadina di
Venezia. Affacciato sul Canal Grande, “In volta del
Canal”, è ancora oggi strettamente collegato al rituale
della Regata Storica, che si svolge a Venezia nella prima
domenica di settembre: da Ca’ Foscari si accede alla
machina, ossia il palco dove siedono le autorità e dove i
vincitori, i primi quattro classificati per ogni corsa, ritirano
(da secoli) il premio più ambito, la bandiera.
Dal secondo piano di questo magnifico palazzo gotico
Canaletto dipinse due celebri vedute cittadine: Canal
Grande da Ca' Balbi verso Rialto (1720-1723, Museo del
Settecento veneziano a Ca' Rezzonico) e Regata sul Canal
Grande (1732 circa, Windsor, Royal Collection).
Il palazzo di Ca’Foscari è stato inoltre inserito fra i siti
paesaggistici e beni culturali, a cui il Forum Nazionale dei
Giovani ha assegnato il bollino di “meraviglia italiana”
nell’ambito dell’omonimo Progetto, nato in occasione dei
150 anni dell’Unità d’Italia.
Ebbene, Ca’ Foscari, dal 1868 sede storica dell’ Università
di Venezia, ha oggi ricevuto la prestigiosa certificazione
Leed (Leadership in Energy and Environmental Design),
diventando così l’edificio ‘green’ più antico al mondo.
Promossa da Us Green Building Council, la certificazione
Leed attesta il livello di sostenibilità di un edificio nelle
attività di conduzione e nelle operazioni di gestione e
manutenzione dell’immobile. Ca’ Foscari è stato valutato,
dunque, come palazzo straordinariamente all’avanguardia,
nonostante la sua vetusta e splendida antichità, per
efficienza idrica, efficientamento energetico e approvvigionamento da fonti rinnovabili, acquisti verdi, gestione
rifiuti, prodotti delle pulizie sostenibili a bassa tossicità,
mobilità sostenibile.
“Sono molto soddisfatto di questo traguardo che
certifica un insieme di scelte e politiche sostenibili portate
avanti da Ca’Foscari in molteplici ambiti con il sostegno
dei suoi organi attraverso la Carta degli impegni per la
sostenibilità e il Report di sostenibilità pubblicato ogni
anno - ha dichiarato il Magnifico Rettore dell’Università
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“Ca’ Foscari” Carlo Carraro - L’assegnazione- della
certificazione Leed per un palazzo, che ha secoli di
storia e caratteristiche strutturali molto diverse dagli
immobili contemporanei, riconosce l’impegno e gli sforzi
concreti dell’Ateneo per il benessere degli studenti e del
personale e il rispetto del territorio. Stiamo lavorando
nello stesso modo anche per altri nostri edifici, in
particolare sul nuovo Campus di via Torino e sul
Campus di San Giobbe. L’auspicio è che altri atenei
italiani raccolgano questa sfida”.
Il traguardo raggiunto da Ca’ Foscari, capofila tra le
università italiane in termini di sostenibilità, è il prestigioso risultato della partnership con Habitech,consulente
per la riqualificazione sostenibile degli edifici esistenti, e
Coster, azienda che opera nel settore del controllo
dell’energia. La gestione virtuosa degli impianti e le
politiche sostenibili dell’Ateneo veneziano hanno dunque
permesso di raggiungere questo risultato ambizioso, che
apre uno scenario nuovo sulla necessità di innestare la
cultura della sostenibilità ambientale anche nel contesto
della tutela e valorizzazione degli edifici storici. In
quest’ottica è indispensabile un importante cambiamento
nella cultura della conservazione dei beni storici ed
architettonici, all’insegna del trinomio “conservazione restauro - ristrutturazione”, da realizzare mediante
tecniche conservative innovative. La sfida è quella di
integrare restauro e conservazione con tecnologie nuove,
in grado di tendere verso il risparmio energetico e la
sostenibilità ambientale. Una sfida audace ed intelligente,
che apre a prospettive di straordinario interesse legate alla
progettualità e all’innovazione.
Antropos in the worldc
PROVERBI E MODI DI DIRE - OVVERO ELEMENTI DI PAREMIOLOGIA
* Ah si fosse stato! Oh si fosse mò ! Forse sar-
Implicanze semantiche:
rà, po’ essere ca sarrà … A vita è tutta’ccà;
* A speranza è ‘u ppane d’ì puverielle;
* Dicette 'a lucciola, io pure faccio luce;
* L'omm nasce senza e corna... ma more curnut!
Curnute: dal sostant. neutro latino
cornua, corna. Metaforicamente, di
uomo tradito dalla sua donna,ma anche di uomo furbo, senza scrupoli,
cattivo, dritto.
Esplicatio: In effetti, la vita è solo un susseguirsi di
ipotesi, un groviglio di se avessimo fatto o non fatto
una determinata cosa. Da sempre, la speranza è il
sostegno dei non potenti, della povera gente, che si
accontenta della fioca luce delle lucciole.
Puveriélle: dal latino pauper-is, povero. Per evoluzione: pauperi, poveri, per perdita di vocale e
mutamento della labiale b > v.
e
e e
Derivati: puv rtà, pov r .
e
e
Alterati; puveriell , puveracc
Sirica Dora
Fraseologia: Tiene ‘e ccòrne annanze ‘e arrète;
Tiene cchiù corne e ‘na sporta ‘e marùzze; Tiene ‘e ccòrne a turcigliòne; Si curnùte e fume
‘a pippa
Antropologia:Le corna son coltro il malocchio
e le pratiche magiche;se ne costruiscono di ogni
grandezza e materiale, da cui lo uso di portare il
“curniciello” (aureo, argenteo o di avorio) nel
taschino del gilet. Ovviamente, il corno non va
mai comprato. Lo si riceve, infatti, in regalo.
DALL’AGRO NOCERINO-SARNESE
INIZIATIVE DI RECUPERO D’OPERE D’ARTE NELLE CHIESE DELLA DIOCESI
Venerdì mattina del ventuno febbraio u.s., nel
salone della Curia della Diocesi di Nocera-Sarno,
è avvenuta una interessante conferenza stampa sul
recupero delle opere d’arte, nelle chiese della
Diocesi.
S.E. Mons. Giuseppe Giudice, Vescovo della
Diocesi ed il dott. Carlo Guardascione, della
Direzione della Soprintendenza per i Beni storici,
artistici ed etnoantropologici, per le provincie di
Salerno ed Avellino, hanno incontrato la stampa
ed i corrispondenti delle televisioni, ai quali
hanno illustrato il programma degli interventi e
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delle iniziative, per il recupero delle opere d’arte delle chiese della diocesi.
Trattasi di interventi importanti e necessari,
che riporteranno all’antico splendore opere che
rappresentano la memoria visiva della spiritualità e della genialità artistica dell’agro e del
meridione d’Italia. Se a ciò si aggiunge l’affezione che il popolo riversa su opere ed
immagini iconografiche, di valenza secolare,
allora si ha la netta misura dell’importanza di
un recupero che esonda oltre ogni limite
artistico e tracima in una visione sublimata
della raffigurazione.
Flaviano Calenda
Ὁ μὲν βίος βϱαχύς, ἡ δὲ τέχνη μαϰϱά.
Ho men bios brachys hē dè téchnē makrà
La vita è breve, l’arte lunga.
Ippocrate di Cos
Antropos in the world
LA PAGINA MEDICA: a cura di Andropos
NICTURIA O POLIURIA NOTTURNA
La nicturia è una disfunzione dell'apparato urinario, consistente nella necessità, anche molto frequente, di eliminazione dell'urina durante il riposo
notturno; più propriamente si parla di nicturia quando
si osserva una escrezione di liquidi notturna totale
maggiore di quella diurna.
Il paziente che urina la notte (nicturia) può essere
affetto da svariate patologie, a cominciare dalla nevrosi e dall’ansia, per arrivare allo scompenso cardiaco con maggiore ritorno venoso al cuore durante il
clinostatismo (quando cioè si è coricati), oppure il
sintomo nicturia può dipendere più semplicemente da
una cistite acuta. Ad ogni modo, la nicturia, cioè
l’eccessiva minzione notturna, può essere causata da
un'alterazione del normale ritmo diurno della concentrazione dell'urina o da sovrastimolazione dei nervi e
muscoli che controllano la minzione.
Normalmente, l'urina è più concentrata di notte che di
giorno. Di conseguenza, la maggior parte dei soggetti
elimina una quantità di urina tre quattro volte
maggiore di giorno piuttosto che di notte e può
dormire da 6 a 8 ore durante la notte senza urinare. In
caso di nicturia, il paziente può svegliarsi una o più
volte durante la notte per svuotare la vescica ed
espellere 700 ml o più di urina. Sebbene la nicturia sia
di solito conseguenza di disturbi renali o del tratto
urinario inferiore, può essere causata da alcune
malattie cardiovascolari, neoplastiche e metaboliche.
Questo segno comune può anche dipendere da
farmaci che inducono diuresi, specialmente se assunti
di notte e dall'ingestione di grandi quantità di liquidi,
soprattutto bevande a base di caffeina o alcol, prima
di coricarsi.
Approfondire l'anamnesi della nicturia. Quando è
iniziata e con quale frequenza essa si manifesta, se ci
sono dei fattori che la scatenano, per es. il consumo di
caffè, o cibi ricchi di zuccheri (es. dolci). Il paziente
ha solo degli stimoli ad urinare ed emette poche gocce
di urine, con bruciore alla minzione (pensare a cistiti
o infezioni delle vie urinarie). Il paziente ha notato
che le sue urine sono torbide (prova del bicchiere,
cioè osservare in un bicchiere trasparente il colore
delle urine), che il loro odore è intenso, come di pesce
marcio, che le urine sono di colore marsala o come
acqua di pasta o a “lavatura di carne”. Nel frattempo,
se il nostro urologo ha escluso eventuali problemi
medici, ecco alcuni suggerimenti che possono aiutare
a ottenere un buon sonno e una ininterrotta notte:
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1. Ridurre quel drink. Ridurre la quantità di
liquido si beve prima di colpire il fieno è una
soluzione ovvia per urinare meno durante la
notte. In particolare, attenzione per i diuretici
come l'alcol e la caffeina, che possono effettivamente aumentare l'urgenza di fare pipì. Evitare
di berli a partire sino a quattro ore prima di
coricarsi, per chi soffre di nicturia notturna
2. Ridurre il gonfiore alle gambe. Che ci si
creda o no di sera le nostre gambe si gonfiano, prima di dormire, elevando le gambe gonfie in modo
che siano all'altezza del cuore per circa un'ora,
riduce l'urgenza di urinare durante la notte.
"Quando ci corichiamo infatti, assorbiamo tutto il
fluido dei nostri tessuti gonfi, che vanno poi
drenati ai reni per la produzione di urina", spiega
Ridgeway. Rilasciando così i liquidi in eccesso
prima di coricarsi, è possibile ridurre la probabilità
di dover usare il bagno più tardi.
CONCORSO INTERN.LE
DI POESIA RELIGIOSA
“MATER DEI”
E’ bandito dalla Rivista “Antropos in the
world”, in collaborazione con la “ Chiesa
Madre SS.Corpo di Cristo, la Fondazione
Carminello ad Arco e l’Università Paganese “
S. Maria Luigia del Sacro Cuore”. Possono
partecipare poeti ovunque residenti e di
qualunque nazionalità, con una lirica dedicata
alla Vergine Maria. La quota di partecipazione è di € 10,00, che dà diritto a ricevere
la rivista per un anno. Sono ammessi a partecipare, per la prima volta, gli alunni della
Scuola Elementare, che dovranno inviare un
breve componimento in poesia o anche in
prosa, purché nessun adulto vi abbia messo
mano. La partecipazione dei bambini è gratuita. Inviare i lavori alla Direzione di Antropos
in the world, via Posidonia,171/h – 84128
Salerno, entro il 18 aprile 2014.
Antropos in the world
I GRANDI PENSATORI: a cura di Andropos
DIOGENE DI SINOPE Διογένης
Suo padre, Icesio, era un cambiavalute e fu imprigionato oppure esiliato perché accusato di alterare
le monete. Diogene si trovò anch'esso sotto accusa, e
si spostò ad Atene con un assistente che poi abbandonò, dicendo: "Se Mane può vivere senza Diogene,
perché non Diogene senza Mane?". Attratto dagli
insegnamenti ascetici di Antistene, divenne presto
suo discepolo, a dispetto della rudezza con la quale
era trattato e del fatto che costui non lo voleva come
allievo, ma ben presto superò il maestro sia in reputazione che nel livello di austerità della vita.
Le storie che si raccontano di lui sono probabilmente vere; ad ogni modo, sono utili per illustrare la
coerenza logica del suo carattere e la sua irriverenza.
Si espose alle vicissitudini del tempo vivendo in una
piccola vasca aperta che apparteneva al tempio di
Cibele. Distrusse l'unica sua proprietà terrena, una
ciotola di legno, vedendo un ragazzo bere dall'incavo
delle mani.
In viaggio verso Egina, venne fatto prigioniero dai
pirati e venduto come schiavo a Creta ad un uomo di
Corinto chiamato Xeniade (o Seniade). Venendo
interrogato sul suo prezzo, replicò che non conosceva
altro scambio possibile che quello con un uomo di
governo, e che desiderava essere venduto ad un uomo
che avesse bisogno di un maestro.
« E chiedendogli l'araldo che cosa sapesse fare, Diogene rispose: Comandare agli uomini. Fu allora che
egli additò un tale di Corinto che indossava una veste
pregiata di porpora, il predetto Seniade, e disse: Vendimi a quest'uomo: ha bisogno di un padrone. »
(Diogene Laerzio, Vite dei Filosofi VI, Vita di Diogene, 32)
Come tutore dei due figli di Xeniade, nonché suo
amministratore domestico, visse a Corinto per il resto
della sua vita, che dedicò interamente a predicare le
virtù dell'autocontrollo e dell'autosufficienza, abitando in una botte. Ai Giochi Istmici tenne discorsi a un
pubblico consistente che lo seguiva dal periodo di
Antistene.
Fu probabilmente ad uno di quegli eventi che
incontrò Alessandro il Grande.
« Il re in persona andò da lui e lo trovò che stava
disteso al sole.
Al giungere di tanti uomini egli si levò un poco a
sedere e guardò fisso Alessandro. Questi lo salutò e
gli rivolse la parola chiedendogli se aveva bisogno di
qualcosa; e quello: "Scostati un poco dal sole". A tale
frase si dice che Alessandro fu così
colpito e talmente ammirò la grandezza d'animo di
quell'uomo, che pure lo disprezzava, che mentre i
compagni che erano con lui, al ritorno, deridevano il
filosofo e lo schernivano, disse:"Se non fossi Alessandro, io vorrei essere Diogene". »(Plutarco, Vite parallele,)ù
Diogene Laerzio, a differenza di Plutarco, riferisce
che successivamente, forse irritato dalla mancanza di
rispetto, Alessandro, per farsi gioco di lui che veniva
chiamato "cane", gli mandò un vassoio pieno di ossi
e lui lo accettò ma gli mandò a dire: "Degno di un
cane il cibo, ma non degno di re il regalo.
Alla sua morte, a 89 anni, sulla quale ci sono più
testimonianze, i Corinzi eressero un pilastro alla sua
memoria, sul quale v'era, inciso, un cane di marmo
pario. Il medesimo Eubulo attesta che Diogene
invecchiò presso Seniade e, morto, fu seppellito dai
suoi figli. Chiedendogli al tempo Seniade come
volesse essere seppellito, egli replicò: Sulla faccia.
Domandandogliene quello la ragione, Diogene soggiunse: Perché tra poco quel che è sotto si sarà
rivoltato all'insù. Disse questa battuta perché ormai i
Macedoni dominavano, o da umili erano diventati
potenti. »
La virtù, per lui, consisteva nell'evitare qualsiasi
piacere fisico superfluo: tuttavia Diogene rifiuta drasticamente, non senza esibizionismo, le convenzioni
e i tabù sociali, oltre che i valori tradizionali come la
ricchezza, il potere, la gloria; sofferenza e fame erano positivamente utili nella ricerca della bontà; tutte
le crescite artificiali della società gli sembravano
incompatibili con la verità e la bontà; la moralità
porta con sé un ritorno alla natura e alla semplicità.
Citando le sue parole, "l'Uomo ha complicato ogni
singolo semplice dono degli Dei."
È accreditato come uno strenuo sostenitore delle
sue idee, al punto da arrivare a comportamenti indecenti; tuttavia, probabilmente, la sua reputazione ha
risentito dell'immoralità di alcuni dei suoi eredi.
Diogene rivendica la libertà di parola, ma rifiuta
la politica, rivelando un concetto proto-anarchico.
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Antropos in the world
UNA DONNA NELLA LETTERATURA – A cura di Andropos
ISABELLA VILLAMARINA
Figlia di Bernardo conte di Capaccio e Grande Ammiraglio del Regno. Alla morte del padre, avvenuta nel 1512, ereditò il feudo di Capaccio e Altavilla.
Nel 1516, con il consenso del re Ferdinando II,
sposò Ferrante Sanseverino, principe di Salerno,
che non aveva ancora compiuto dieci anni. Era
rimasto orfano in tenerissima età, ed era stato
allevato dal padre di Isabella. I due fanciulli ebbero
per precettore uno dei più insigni umanisti napoletani, Pomponio Gaurico, il quale per dodici anni insegnò loro le lettere latine e greche.
Con il matrimonio di Isabella Villamarino e Ferrante
Sanseverino il governo napoletano aveva voluto riunire la dinastia di discendenza angioino-francese,
con quella di origine aragonese-catalana. Ferrante,
uno dei grandi feudatari del regno, valoroso soldato
fu anche poeta di stampo petrarchista e un ottimo e
più che raffinato musicista. Una sua canzone che si
cantava in tutta Italia cominciava con i versi: Ya
passò el tempo que era enamorado/ ya passò mi
gloria, ya passò mi ventura/ y ha llegado la ora de
mi sepoltura… Durante un primo soggiorno presso
la corte del re di Francia era stato molto apprezzato
anche come cantore.
Isabella fu una delle donne più note della sua
epoca, era celebrata non solo per la bellezza e la
grazia del viso e della persona ma anche per la sua
cultura. Paolo Manuzio, che la aveva conosciuta in
Avellino, scrive di averla sentita recitare prose e
versi da lei composti in latino e di essere rimasto
colpito dalla qualità di quei lavori.
Attorno a Isabella e a suo marito Ferrante, che
sembra si sia in seguito convertito al calvinismo, si
era sviluppata una vita culturale intensa, animata da
poeti, musicisti, scienziati ed umanisti, che dedicarono alla principessa opere e poesie. All’imperatore
Carlo V che, oltre alla celebre frittata dalle mille
uova a Padula, nei 4 giorni di soggiorno salernitano, nel 1535, potè rinfrancare lo spirito con le
grazie elargite da donna Sabella, come allora
chiamavano Isabella di Villamarina, contessa di
Capaccio e di Altavilla. Chi mi può in Napoli
comandare, soleva dire a tutti e l’imperatore, di
solito, lo confermava pubblicamente.
Isabella era piccola di statura, con un volto bellissimo e due grandi occhi neri. Dotata di una grazia
squisita e soavità nell’espressione verbale,cattura-
va facilmente l’attenzione ed il
desiderio della sua persona di
chiunque l’avvicinava.Tutto ciò,
unito alla cultura, le conferiva
un fascino senza eguali.
Ferrante ed Isabella, abitavano di fronte al palazzo Ruggi, in via Tasso. Fu proprio qui
che scoppiò il colpo di fulmine, tra lei e l’imperatore,
quello stesso che, da vecchio, s’incupì al punto di
inscenare il suo funerale, per poter pregare la sua anima. Fu allora che Carlo V notò la gentildonna salernitana e volle che lo seguisse a Napoli. Fu durante il lungo soggiorno napoletano, ben per quattro
mesi, che l’affascinante Isabella mise in atto le sue
strategie seduttive. Carlo V l’assecondava apertamente, cogliendo ogni occasione per starle vicino e
conversare con lei. Il corteggiamento era così palese, che il marchese Del Vasto avvisò, con discrezione, il Ferrante, ma Il principe di Salerno stette al
gioco ed infischiandosene delle corna, mirò a rafforzare il suo potere. Non accondiscendente fu il
principe, di fronte alle avances del cardinale Pompeo Colonna, Vescovo di Sarno, Nicotera, Geffoni ed
Aversa, che per aver messo gli occhi sulla bella Isabella, ci rimise la vita.
Alla partenza del re, già le cose cambiarono e
quando, nel 1547, Ferrante Sanseverino sostenne
l'opposizione popolare, contro l’introduzione
dell’inquisizione spagnola a Napoli, riuscendo ad
impedire questa grave sciagura, egli non poté evitare
la vendetta degli spagnoli e massimamente di don
Pedro, che gli confiscò tutti i suoi beni e lo obbligò,
nel 1552, ad andare in esilio2.
Invano Isabella chiede aiuto al vecchio re, che
rinnega l’antico legame e la lascia senza protezione, tanto che viene arrestata. Passati al fisco, i beni
dei Sanseverino vengono messi in vendita per volontà di Filippo II.
Colta da un ictus, il 14 ottobre del 1559, Isabella
moriva, pochi giorni dopo aver ottenuto il permesso
di ritornare in Italia.
Nel 1584, il palazzo Sanseverino, con i suoi giardini, fu venduto ai Gesuiti. (1)
___________
1) Da ISABELLA SANSEVERINO, di Franco Pastore, dramma
storico in tre atti – A.I.T.W. edizioni, Salerno 2014
- 19 -
Antropos in the world
QUANTI L’AVEVANO CAPITO?
IL BRUTTO PASTICCIO DELLA BANCA D’ITALIA
Di Michele Rallo
Decreto Imu-Bankitalia: una cosetta da nulla, un
trucchetto da baraccone per togliere dalle tasche
di tutti noi 7 miliardi e mezzo di euro (più o
meno equivalenti a 15.000 miliardi delle vecchie
lire) e regalarli alle banche private che sono
azioniste della Banca d’Italia. Più una sinecura
annua di altri 400 milioni di euro (ossia 800
miliardi di lire). Ma questi sono dettagli, perché
l’aspetto più grave della cosa è una sorta di riprivatizzazione della Banca d’Italia, cancellando ogni residua parvenza di statualità e
destinando definitivamente quello che era un
bene pubblico (cioè di tutti noi) alle banche
italiane e straniere. Rimandando per il dettaglio
ad un precedente articolo («De Benedetti e le
banche: beneficiati dal governo Letta» su “Social” del 20 dicembre scorso), vorrei ricordare
alcuni antefatti della vicenda.
Nata nel 1893 come banca privata, nel 1926
la Banca d’Italia aveva attribuito l’incarico
esclusivo della emissione monetaria e quello
della vigilanza sulle altre banche. Successivamente, nel 1936, il governo fascista la trasformava in “istituto di diritto pubblico”, espropriava gli azionisti privati e trasferiva le loro quote
alle banche d’interesse nazionale (che nel frattempo erano state nazionalizzate).
A partire dagli anni ’80 iniziava una manovra
della Comunità Europea (progenitrice dell’attuale Unione Europea) per imporre agli Stati
associati la “liberalizzazione” delle rispettive
economie nazionali e segnatamente dei sistemi
bancari. L’Italia aderiva con entusiasmo degno
di miglior causa, e nel 1990 la Legge-delega
Amato-Carli poneva le premesse per la privatizzazione del nostro sistema bancario, sancito poi
dal Testo Unico Bancario del 1993.
Le grandi banche italiane, che erano state
nazionalizzate dal fascismo, venivano adesso
privatizzate e, conseguentemente, l’azionariato
della Banca d’Italia passava dagli enti pubblici
ad aziende private. Aziende che, messe “sul
mercato”, venivano offerte alla partecipazione di
tutti i potenziali investitori, anche stranieri,
- 20 -
anche con interessi ipoteticamente contrari a
quelli dello Stato italiano. E, infatti,
nell’azionariato delle banche che detengono la
maggioranza delle quote della Banca d’Italia
troviamo soggetti quali: J.P. Morgan Chase &
Co Corporation, Harbor International Fund,
Aabar Luxembourg (emanazione dell’Aabar
Investments di Abu Dhabi), PGFF Luxembourg (emanazione del Pamplona Global Financial Istitution), Delfin SARL, Central Bank
of Libya, Libyan Arab Foreign Bank, Capital
Research and Management Company, European Pacific Growth Fund, Carimonte Holding, Abn AmRo, Abn AmRo Holding, Abn
AmRo Bank NV, Abn AmRo Bank Luxembourg, Algemene Bank Nederland BV. Piccole
partecipazioni, naturalmente, ma che adesso –
grazie ai meccanismi introdotti dalla legislazione lettiana – potrebbero ambire ad una più
robusta e diretta partecipazione all’azionariato
della Banca d’Italia.
A tale stato di cose aveva cercato di porre
rimedio Silvio Berlusconi (certamente il meno
peggio dei governanti italiani degli ultimi
anni) con la Legge 262 del 2005: pur senza
mutare il quadro generale del sistema bancario, veniva stabilito che, entro tre anni, le
quote di Bankitalia detenute da soggetti privati
tornassero allo Stato. Ma le elezioni dell’anno
seguente segnavano la vittoria di Mister Privatizzazioni – al secolo Romano Prodi – il quale
si affrettava a varare una legge di segno opposto, che abrogava il vincolo del controllo pubblico sulla Banca d’Italia.
E adesso questo incredibile Decreto ImuBankitalia viene a fugare definitivamente ogni
minaccia agli interessi di banche private e
fondi speculativi internazionali, sancendo l’irreversibilità della privatizzazione della nostra
banca centrale e la possibilità per le banche
straniere di partecipare direttamente al suo
azionariato. Oltre, naturalmente, alle regalìe in
moneta sonante.
( Da Social)
Antropos in the world
DALLA REDAZIONE DI BERGAMO
FOSCOLO E LEOPARDI: ARTE E VITA - PESSIMISMO COSMICO E ROMANTICISMO DELL’ESILIO
Opera vincitrice al Festival Letterario della Città di Bergamo. Quinta Ediz. 2013-2014
“L’uomo, in quanto pensa, si ama; non esiste se non per
amarsi e procurare il suo bene; naturalmente e immediatamente ama il suo bene, non la propria conservazione; in
ciascun punto della vita è in istato di pena; cresce la sua pena
nell’atto stesso del piacere; sempre che egli s’accorge
dell’esistenza, ama se stesso, e amando se stesso, desidera, e
desiderando è infelice: scontentezza e suicidio, in aperta
contraddizione con il suo istinto di conservazione; tutto è o
può essere contento di sé, eccetto l’uomo; l’uomo trova il
nulla nel tutto; non è contento del proprio stato, incapace
com’è della felicità; sua somma infelicità; niuna cosa maggiormente dimostra la grandezza e la potenza dell’umano
intelletto, che il poter l’uomo conoscere e sentire la sua
piccolezza.”
In un appunto di riflessione, così Leopardi descrive nello
Zibaldone di pensieri la condizione universale del genere
umano, all’insegna di quel pessimismo cosmico che non
sembra, apparentemente, lasciare spazio alla speranza. Che
sia l’Islandese o l’umile Pastore errante dell’Asia a rivolgere
domande di senso alla Natura, nulla cambia. Ostile, fredda,
indifferente, matrigna, onnipossente, la Natura - che sembra
spesso assumere i tratti duri ed inespressivi della madre di
Leopardi, Adelaide Antici, bigotta ed anaffettiva - non
risponde alle martellanti richieste dell’uomo, persa nella sua
siderale distanza dalle umane miserie, tutta immersa in quel
suo ciclico, presuntuoso, eterno divenire, che violentemente
contrasta con la condizione finita e mortale dell’uomo. Un
uomo ontologicamente infelice, in quanto condannato dalla
Natura stessa alla ricerca di un piacere infinito ed illimitato,
lui che infinito, illimitato e immortale non è. Ebbene, in
questa condizione di radicale pessimismo, che non sembra
offrire nessuna possibilità di riscatto, il giovane Leopardi
scopre la forza della Ragione, ”la potenza dell’umano intelletto”: l’unico strumento, né vile né codardo, concesso all’uomo per prendere radicalmente coscienza del proprio stato,
trovando in sé e nel fraterno abbraccio solidale degli altri
uomini la forza e il coraggio di vivere, di sopportare il dolore
e di lottare. Lottare contro la tentazione del suicidio eroico,
quello in cui precipitano Bruto e Saffo, nella rilettura di
matrice leopardiana, l’uno opponendosi fieramente all’avversità della storia (Bruto Minore, 1821), l’altra contrastando la
natura matrigna ed avversa, che ha imprigionato la sua mente
brillante in un corpo brutto e deforme (Ultimo Canto di Saffo,
1822). Contro la tentazione del suicidio, come estrema scelta
nichilistica per chiudere definitivamente con un’esistenza
colma di sofferenze e di sconfitte, tentazione accarezzata
anche dal filosofo neoplatonico Porfirio, nell’omonima Operetta Morale (cfr., Dialogo di Plotino e Porfirio, 1827), si
erge la voce dell’altro filosofo neoplatonico, Plotino.
Non è un diverso giudizio sull’umana miseria e infelicità
dell’uomo quello che Plotino suggerisce all’amico, ma piuttosto una lezione di “moralità pragmatica”, dove a prevalere
sono i valori relativi e terreni, anzi sociali, come la sofferenza
delle persone care, “gli amici buoni”, destinati a sopravvivere
allo evento tragico. “Viviamo, Porfirio mio, e confortiamoci
insieme … Sì bene attendiamo a tenerci compagnia l’un l’altro; e andiamoci incoraggiando, e dando mano e soccorso
scambievolmente; per compiere nel miglior modo questa
fatica della vita.” E proprio da questo straordinario,
potente messaggio solidaristico scaturirà,
pochi anni dopo, la fase del cosiddetto
“Titanismo eroico leopardiano” con la
composizione della Ginestra (1836), un
vero e proprio “miracolo”, se pensato nel
contesto amaro dell’ultima stagione di vita di Leopardi.Un Leopardi sempre più radicato nella sua lucida, lucreziana visione materialistica e meccanicistica dell’esistenza, ormai per sempre
lontano da Recanati, dopo la breve parentesi dei Canti
pisano-recanatesi del 1828-30, definitivamente disilluso sul
versante sentimentale, dopo la fine dell’amore per Fanny
(cfr., A se stesso, 1833); un Leopardi costretto a chiedere
negli ultimi anni di vita, segnati dal progressivo, rapido
peggioramento delle sue condizioni di salute, l’ospitalità
dell’amico Ranieri, a Napoli, dove si trasferirà nel 1833,
vivendo poi fra Torre del Greco e Torre Annunziata, fra il
1836 e il 1837 (il 1837 è l’anno della morte, avvenuta all’età
di 39 anni, non ancora compiuti), ai piedi del “formidabil
monte/Sterminator Vesevo”(cfr., La Ginestra, vv. 2-3), per
sfuggire all’epidemia di colera che si è intanto abbattuta su
Napoli. E sarà proprio l’ultimo Leopardi, nella primavera del
1836, dinanzi alla solitudine spettrale e desolante del
paesaggio lavico vesuviano, ad invitare tutti gli uomini ad
aprirsi alla solidarietà e all’umana compassione, in uno
slancio filantropico, all’insegna della pietas, pensato sotto
forma di una “social catena” fra tutti i componenti del
genere umano.
Una vera e propria “confederazione di spiriti”, unita e
compatta contro la Natura nemica e avversa, attraverso lo
strumento comune della Ragione, è dunque la proposta
ultima di Leopardi, il suo testamento spirituale, dopo aver
lucidamente preso coscienza della infelicità degli uomini e
del carattere illusorio di ogni forma di falsa ideologia
progressista, abbracciata dal suo tempo storico ( definito
come il “secol superbo e sciocco”).
Solo da questa coraggiosa, e tutt’altro che pessimistica,
consapevolezza critica e razionale potrà derivare, secondo il
pensiero dell’ultimo Leopardi, una radicale e definitiva
“svolta della civiltà”, dove a trionfare sarà proprio il simbolo
della ginestra, “il fiore del deserto”, dalla gentile e disadorna
bellezza, capace di consolare i deserti. L’umile fiore che,
nella sua nudità esistenziale di carattere antievangelico (si
veda l’epigrafe di apertura della Ginestra, tratta dal Vangelo
di Giovanni, III, 19, citata rigorosamente in greco: “E gli
uomini vollero piuttosto le tenebre che la luce”), traduce
simbolicamente la virile immagine dell’uomo moderno (e
contemporaneo), sottratto a tutte le illusioni, a tutte le speranze, a tutti gli “inganni mitologico-religiosi”, nell’accettazione dell’unica possibile tragica verità: l’orgogliosa e
coraggiosa coscienza critica circa la propria infelicità e
finitezza, senza mai precipitare nella tracotanza intellettuale,
ma neppure nella viltà e nella codardia, nei confronti di una
Natura matrigna, terribile, indifferente.
Altra, ma non meno complessa ed affascinante, è la para-
- 21 -
Antropos in the world
bolaartistico-esistenziale di Foscolo, interamente costruita sul
continuo alternarsi, sovrapporsi ed intrecciarsi tra codice
classico/neoclassico e codice preromantico. Fra i primi in
Italia ad introdurre le novità d’Oltralpe di gusto preromantico, attraverso la mediazione del Cesarotti,
Foscolo apre la sua carriera di scrittore con
il primo romanzo epistolare della nostra
tradizione letteraria: Le ultime lettere di
Jacopo Ortis. Cotruito sul modello goethiano del Werther e pubblicato a Milano
nel 1802, dopo una prima parziale stesura
nel 1798, fino all’ultima e definitiva edizione londinese nel 1817, l’Ortis trasferisce nella
finzione letteraria il complesso delle esperienze
autobiografiche giovanili dell’autore, negli anni 1799-1802.
Anche per Ortis (alter ego dello stesso Foscolo), come per
il primo Leopardi, si prospetta in questa fase iniziale, caratterizzata dal “romanticismo gridato”, la suggestione di
stampo plutarchiano (il Plutarco delle Vite parallele) ed alfieriano del suicidio eroico, come risposta del protagonista alla
negatività della storia e della vita. Sullo sfondo della vicenda
a esito tragico, interamente costruita sulla centralità dell’Io, si
profila infatti, fin dall’esordio romanzesco, accanto alla
disillusione sentimentale di ispirazione goethiana, il tema
della delusione politica, in seguito al trattato di Campoformio
del 1797, con cui Napoleone cede Venezia all’Austria (“Il
sacrificio della patria nostra è consumato: tutto è perduto”).
Si racconta così, attraverso la metafora letteraria, la condizione autobiografica del giovane Foscolo, riferita al periodo
veneziano: “Disperato d’ogni consolazione, suicida per indole d’anima e per sistema di mente” ( come scrive del suo
Ortis il Foscolo nella Notizia bibliografica), il protagonista
del romanzo risponde in chiave nichilistica alla tragedia del
suo esilio e del doloroso, bruciante fallimento sentimentale,
cercando nella morte di antica matrice stoica la risposta
definitiva e totale all’impossibilità di vivere secondo il
proprio codice etico e civile. Non così avviene per lo scrittore
Foscolo, che attraverso la maschera letteraria di Lorenzo
Alderani - il destinatario delle lettere del giovane Ortis, a cui
spetta l’ingrato compito di raccontare la parte conclusiva
della vicenda esistenziale del suo infelice amico - riesce a
superare la negatività del reale, trovando conforto nella scrittura letteraria.
Ma tutto questo non consente, comunque, a Foscolo di
superare la propria visione pessimistica della storia, se solo
nella bellezza altamente idealizzata della donna e nel mito
della poesia eternante, motivi celebrati nelle due Odi giovanili di gusto neoclassico (1802), il poeta troverà una
parziale consolazione, proiettando nella dimensione universale del Mito e del “Bello assoluto” il proprio tormento
esistenziale. Il desiderio di morte si traduce così, nel sonetto
“Alla sera” ( pubblicato nel 1803, caratterizzato dal codice
preromantico, ma con una forte componente classica), nella
equivalenza sera-morte.
Nel contemplare la pace della sera, il poeta evoca la
dimensione atarassica della morte, la “fatal quiete”, il “nulla
eterno” capace di azzerare il trascorrere inesorabile del “reo
tempo”, facendo per sempre tacere quello “spirto guerrier”
che travaglia la vita del giovane Foscolo. Ma non basta. Nel
sonetto A Zacinto, attraverso l’equivalenza antinomica Foscolo-Ulisse (“il diverso esiglio”) e l’equivalenza sino-nimica
Foscolo-Omero (la scelta del verbo “cantare” e la ripresa del
sostantivo“canto”), Foscolo contrappone, in forma mitica, al
codice classico del nostos (il ritorno a Itaca di Ulisse, l’eroe
classico, positivo, che conclude felicemente le proprie imprese,
cantato da Omero), il codice romantico dell’esilio (il destino
“fatale” di esule del poeta Foscolo, l’eroe romantico, negativo,
con esito tragico e infelice). Un fato tremendo, quello cantato
dal giovane Foscolo, che impone all’eroe romantico di morire
lontano dalla sua patria, in terre sconosciute, in una tomba
anonima, non confortata da lacrime pietose.
Proprio su questo tema, quello della tomba, si sviluppa il
Carme “Dei Sepolcri” (1807): alla concezione materialistica e
meccanicistica, abbracciata in apertura del Carme da Foscolo,
che definisce la tomba un “nudo sasso”, privo di ogni significato e conforto, secondo l’interpretazione di stampo sensista,
si contrappone, attraverso un “ma” fortemente avversativo
(v.23), l’interpretazione in chiave tutta emozionale e sentimentale, che trasforma, mediante la “teoria delle Illusioni”, la
tomba in un luogo sacro di “corrispondenza d’amorosi sensi”
fra vivi e morti. E sul tema della memoria, quel filo che dura e
illusoriamente sopravvive alla morte stessa dell’uomo (come
già poeticamente elaborato nel sonetto In morte del fratello
Giovanni), si realizza l’evoluzione storica e concettuale del
tema del sepolcro, fino ad assumere un valore altamente eticocivile (i “forti” di Santa Croce a Firenze) per tradursi infine in
una dimensione mitica ed epica (la “Troade inseminata”) di
stampo universale, destinata a durare per sempre, oltre lo scorrere inevitabile del Tempo, attraverso la poesia eternante di
Foscolo (“ Finchè il Sole risplenderà su le sciagure umane”).
Superata questa fase di intensa ed appassionata intonazione
epica, la poetica foscoliana, con la composizione delle Grazie
(1812-13), rimaste (non a caso) allo stato frammentario, si
chiuderà all’insegna del codice neoclassico della “Politicità
trascendentale”. Sarà una visione fortemente pessimistica della
storia, con la delusione nei confronti della realtà politica, in
particolare per gli esiti della campagna napoleonica, unita ad
una dimensione contemplativa della vita e ad un progressivo
isolamento personale, a dominare la produzione letteraria dell’ultimo Foscolo. Un illusorio distacco dal presente e un
ritorno al mondo idealizzato dell’antichità classica sono i motivi dominanti delle Grazie. Intese da Foscolo come “divinità
intermedie tra il cielo e la terra”, espressione sublime di
armonia, arte, bellezza, temperanza e civiltà, capaci di pacificare gli istinti selvaggi degli uomini per ricomporli in un
ordine superiore, le tre Grazie saranno contaminate dal contatto con l’umanità e con la storia, costrette a rendersi invisibili
agli occhi mortali, trovando rifugio in un’isola lontana e
remota, dove ancora regnano l’età dell’Oro e la perfetta armonia. Ma tutto questo avverrà solo ed esclusivamente fuori dalla
storia, come accadrà anche per l’ultimo Foscolo, costretto alla
solitudine londinese e all’allontanamento forzato dai suoi
Amori, dalla sua Terra e dalla Poesia stessa.
Maria Imparato
________
Alla Professoressa MARIA IMPARATO,
nostra validissima collaboratrice, le congratulazioni più vive della Direzione e di
tutto lo staff del giornale.
- 22 -
Antropos in the world
CRITICA LETTERARIA
E’ ben noto quale fonte ispirativa di cantori , musicisti ,
artisti, narratori e poeti sia
stato e lo sia tuttora il Cilento;
relativamente all’ambito letterario, è altresì risaputo che
diverse affascinanti storie della mitologia greco-latina delle quali per millenni la cultura occidentale si è nutrita, sono state ambientate sulle coste cilentane. Non poteva restare insensibile al fascino
di esse, alla imperiosa tentazione di riproporne l’incanto
in chiave moderna, il professore Franco Pastore, per anni
egli è stato docente di discipline umanistiche nonché
innamorato esperto/cultore del mondo greco e di quello
latino. Negli anni novanta il Nostro, la cui occupazione
abituale era l’insegnamento di discipline letterarie e
pedagogico/sociologiche, venne trasferito al Liceo di
Piaggine; in quel periodo nacquero, sotto l’influsso della
esperienza sociale e professionale, alcune opere:
la raccolta di liriche “All’ombra del Cervati” (Napoli
Editrice) , un testo per la scuola elementare intitolato
“Fabellae” (Paes Editore), antologia di drammatizzazioni
che divennero spettacoli teatrali rappresentati dal
“Gruppo 02” con l’ègida direttiva del regista Enzo
Fabbricatore, al Teatro di Piaggine; infine “Amore e
mito”, volume composto da otto poemetti proponenti in
versione contemporanea intensi racconti e sublimi
personaggi mitologici, tra i quali campeggiano Euridice
e Orfeo, il primo dei poeti, che per amore di Euridice
discese nel regno dei morti. In realtà il comune denominatore che correla le otto storie è l’animo umano, il
suo doloroso mistero divorato da due opposte forze in
perenne scontro (la folle “dionisiaca” volontà di potenza, e l’equilibrata ”apollinea” razionalità).
Relativamente all’intimismo lirico che comunque
permea l’animo dei guerrieri e mitici eroi, un posto di
spicco lo occupa Palinuro, nocchiero della mitologia
romana partorito da Venere e dal quale sarebbe poi sorta
la stirpe dei romani; il Libro V dell’Eneide è incentrato,
specificatamente, sul Cilento, nel testo di Virgilio è
difatti rinvenibile, quale perno della vicenda, lo scoglio
ubicato tra il golfo di Policastro e l’insenatura di
Pisciotta.
L’opera di Pastore è una libera divagazione poetica
sui temi della passione e delle “tempeste d’amore”,
quelle tempeste che fanno varcare i confini del tempo,
della storia; e rendono quasi “visuale” l’inesprimibile,
immenso sentimento che portò i Greci sotto le mura di
Ilio, che determinò la morte di Tristano e la fine dei
cavalieri della Tavola rotonda, che indirizzò le canzoni
del Convivio, che reca all’uomo millenni da vivere (sue
capacità intellettive permettendo) … Il libro non intende
ritornare nostalgicamente all’ideale nel neoclassico, che
proiettava mondo antico ogni modello estetico; ripropone
il tema dell’amore inteso quale valore che si concretizza
nel sublime: l’autore vuole trasmettere le sensazioni di un
sentimento forse un tempo assai più vivo e potente, che la
superficialità di una cultura massificata e da villaggio
globale dei tempi attuali, la stringatezza delle moderne
espressività e comunicazioni, hanno svilito di senso ed
impoverito di contenuti.
Per quanto concerne le liriche di un altro dei testi
innanzi citati, “All’ombra del Cervati”, il poeta ha colto
l’intenso significante
valore
del “messaggio”
nascosto nella vallata del Cervati; il Monte Cervati è
stato liricamente rappresentato assieme alla estesa valle
abbracciante il Cilento in una plastica fusione, con
l’armoniosa vegetazione che ne caratterizza il senso
profondo e che appare ai suoi occhi una sconfinata
distesa la quale “cattura frammenti d’eternità”
Il Monte, fonte ispirativa di una sequenza di poesie
assai delicate nella loro musicalità, ripropone alla mente il
“mar da lungi / e quindi il monte” di leopardiana
evocazione: il poeta “abbraccia”, dal picco, dal punto di
massima altezza “dove l'eterno amplesso /col cielo /si
nutre di aliti di vento”, il cuore del Vallo di Diano; poi è
la limpidezza del cielo ad aprire le sue porte a Capo
Palinuro e Maratea, “scrutando il mare / con nostalgia
d’amore” … Ed è su questa vetta che il poeta vorrebbe
“essere anima” dunque pura energia, è lassù che il vento
prende forma, si “materializza”: in questi attimi possiamo
cogliere un “panta rei all’opposto” nel senso che nulla
sembra travolgere le sorti di noi esseri umani,
l’attimo umano pare fermato, bloccato, parole pulite e
liberate dalle aderenze impure, parole incontaminate,
innocenti volano e restano sospese nel firmamento della
poesia.
E poi il Notturno si colora di fantastico, di ideale, ma
le notti sembrano diventare qualcosa di tangibile , dotate
di effettiva concretezza sulla cui superficie si notano i due
sentimenti più importanti: l’amore, soprattutto la predilezione che Dio (poeticamente trasfigurato in “lame di
sole”) manifesta verso le sue creature, e la tormentosa
solitudine compagna della sofferenza quando questa non
è illuminata dalla Sua luce e dal Suo calore, allora la
musica si trasforma in silenzio, muore.
Le opere di Pastore manifestano l’assai sensibile
mondo morale che lo animano, con uno stile realistico ed
introspettivo portato ad evidenziare il guasto dell’anima,
il male dello spirito nell’ambito realistico della descrizione d’una società, stile che permea di eguale morbidezza la solare altezza del Cervati, attraverso “volti rapiti
/ che si nutrono di cielo”, e l’angoscioso buio del
sopruso.
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Giuffrida Farina
Antropos in the world
STORIA DELLA MUSICA - A cura di Ermanno Pastore
Igor' Fëdorovič Stravinskij
Oranienbaum, Pietroburgo, 1882- New York 1971
Figlio di un famoso cantante dell'Opera imperiale di che tocca nel Sacre una complessità tale da interessare da
vicino anche le recenti avanguardie La violenza di questa
San Pietroburgo, fu avviato a studi di diritto,
partitura, ispirata a una mitica visione di una Russia
ma nel 1903 divenne allievo privato di N.
arcaica, è legata anche a una sorta di impassibile oggettività
Rimskij - Korsakov che, oltre a dargli lecon cui viene guardato lo scatenamento di barbariche forze
zioni (fino alla morte, nel 1908), si adoprimordiali. L'ineluttabilità del sacrificio nel Sacre, come
però perché le sue prime composizioni
l'amara sorte della marionetta in Petruška, rimanda
fossero eseguite. Una svolta decisiva
coerentemente agli sviluppi successivi del pessimismo
nella carriera di Stravinskij fu l'inconstravinskiano, che trova un'ulteriore, radicale espressione
tro con S. P. Djagilev, che gli propose di
(con mezzi musicali diversi) nella Histoire du soldat
collaborare per i suoi Ballets Russes e gli
(Losanna, 1918). Tralasciando pagine importanti come Le
commissionò la partitura de L'oiseau de feu
(Parigi, 1910; L'uccello di fuoco), prima grande affer- rossignol (Parigi, 1914; L'usignolo), Pribaoutki (1914),
mazione del compositore. La collaborazione con Djagilev, Renard (1916) e altre liriche, si può ravvisare nell'Histoire
cui sono legati molti dei suoi successivi capolavori (fino l'inizio di una netta svolta nello stile stravinskiano: alla
al 1928), lo spinse a prolungati soggiorni a Parigi e rese scelta della condizione di esule corrisponde l'abbandono di
più rari i soggiorni in Russia: negli anni del primo soggetti e di inflessioni musicali “russe”, accompagnato da
conflitto mondiale Stravinskij visse in Svizzera e decise di una forte semplificazione della scrittura ritmica e da un
non tornare più in patria in seguito alla Rivoluzione interesse per altri fenomeni musicali, come il jazz e la
d'ottobre, risiedendo in Francia dal 1920 al 1939 e musica di consumo. Il procedimento di personale approassumendo nel 1934 la cittadinanza francese. In quel priazione di formule, per esempio, del jazz prelude da
periodo si dedicò anche all'attività di pianista e direttore vicino alla svolta “neoclassica”, il cui clamoroso inizio si fa
d'orchestra. Nel 1939, accettò l’invito della Harvard Uni- risalire al balletto Pulcinella (Parigi, 1920) su musiche di
versity e si stabilì negli USA, assumendone la citta- G. B. Pergolesi (o ritenute sue). Riprendendo pagine, temi,
dinanza nel 1945, risiedendo a Hollywood. Dopo il se- o, più spesso, atteggiamenti stilistici del passato, dal
condo conflitto mondiale compì numerose tournée in barocco a Čajkovskij, Stravinskij abbandona le punte e le
Europa (nel 1962 anche in Russia), proseguendo inoltre tensioni che avevano spaventato il pubblico del Sacre, ma
l'attività compositiva fino agli ultimi anni. Il complesso questo “ritorno all'ordine” non è affatto un recupero
percorso stilistico che si ravvisa nell'ampia produzione di vitalistico e fiducioso della tradizione, non la ripropone
Stravinskij è caratterizzato da svolte che suscitarono come fosse cosa viva: al contrario è un'operazione eserciscandalo e parvero enigmatiche, anche se rivelano una tata con amara consapevolezza, con tagliente e ambigua
rigorosa coerenza interna. Gli esordi risentono dell'in- ironia su dei fossili, su stilemi rinsecchiti, svuotati di senso
fluenza di Rimskij-Korsakov e anche di P. I. Čajkovskij, dall'interno, collocati in un contesto deliberatamente
A. N. Skrjabin e C. A. Debussy: dopo pagine pur notevoli improprio. È il “ritorno” a un ordine morto e pietrificato,
come, tra l'altro, lo Scherzo fantastique (1907-08) e Feux lucido e consapevole frutto di una profonda sfiducia nella
d'artifice (1907-08; Fuochi d'artificio), L'uccello di fuoco storia, di un radicale pessimismo che rifiuta la possibilità di
segna nelle scelte timbriche e nell'invenzione ritmica di costruire un linguaggio “nuovo” ed esorcizza in un implaalcune parti la prima chiara affermazione dell'originalità cabile oggettivismo una catastrofica condizione esistendi Stravinskij, anche se vi si ravvisano ancora in larga ziale. Tra le pagine più alte della fase “neoclassica” devono
misura gli influssi sopra citati. Il “periodo russo” prose- essere ricordate almeno l'opera-oratorio Oedipus rex (1927;
gue con capolavori fondamentali: Petruška (Parigi, 1911), su testo di J. Cocteau tratto da Sofocle e tradotto in latino
Le sacre du printemps (Parigi, 1913), la cui prima da J. Danielou) e l'opera The Rake's Progress, su libretto di
rappresentazione, a causa della coreografia non conven- W. H. Auden e C. Kallman, (Venezia, 1951; La carriera di
zionale, le aspre dissonanze e i ritmi travolgenti, suscitò un libertino), dove più esplicito appare il tragico fatalismo
nel pubblico violente reazioni di dissenso e Les noces stravinskiano, i balletti Apollon Musagète (1928;), Le
(composte nel 1916-17), che sono forse le pagine che baiser de la fée (1928), Jeu de cartes (1937), la Sinfonia di
meglio rivelano il senso dirompente della presenza salmi (1930), la Sonata, la Serenata per pianoforte e il
stravinskiana nel quadro della musica di quegli anni. Lo Concerto per due pianoforti, e molta altra musica
caratterizzano la presenza di un melos slavo radicato in strumentale degli anni 1920-50. Tra i capolavori dell'ultimo
una sostanza popolare russa, l'originale concezione tim- periodo si ricordano il balletto Agon (1953-57), Canticum
brica, mirante ad asciutte profilature, o anche a duri sacrum (1955), la cantata Threni (1957-58), i Mouvements
blocchi sonori pietrificati, la frequente politonalità, e lo per pianoforte e orchestra (1958-59) e la sua ultima
composizione importante, i Requiem Canticles (1966).
scatenamento di un'invenzione ritmica senza precedenti,
- 24 -
Antropos in the world
POLITICA E NAZIONE
PARLIAMO UN PO’ DELLA RAI
Ovvero il pensiero spicciolo della gente comune
-
Da sempre il canone RAI è tra le imposte più
odiate, tanto che, spesso, questa tassa è evasa,
anche se obbligatoria, legata cioè alla detenzione dell’apparecchio.
Mai come quest’anno i cittadini sono furiosi
perché dopo le stangate della TARES, TASI e
mini IMU è arrivato anche il momento del
pagamento del tanto contestato canone RAI.
Gli Italiani pensano che il canone RAI sia
diventato lo “scarico” delle inefficienze della
azienda pubblica e della politica perché va a colmare spese ingiustificate e favori clientelari.
E’ convinzione degli italiani che pagare il canone RAI serve per :
- foraggiare rapporti e collaborazioni clientelari;
-pagare i gettoni di presenza milionari per
comparse di pochi minuti;
- Stipendiare il personale non necessario, che
non può essere licenziato per favori politici.
Peccato che il costo delle continue assunzioni
clientelari (pensate che solo tra il 2008 e il 2010
sono state assunte in RAI 1.121 persone) , come
sempre ricadrà sulle tasche dei contribuenti e le
continue assunzioni andranno a rimpinguare un
carrozzone già stracolmo.
Infatti la RAI ha circa 13.000 (tredicimila)
dipendenti in organico di cui 1.700 giornalisti.
Tutta gente che non ha partecipato ad alcun
concorso per essere assunta. C’è poi il colmo
dei dirigenti che sono circa 600 e, guarda caso,
la maggior parte e imparentata ad uomini
politici.
I dirigenti in RAI guadagnano in media da
100mila ai 500mila euro all’anno.Poi ci sono
circa 320 dirigenti giornalisti che guadagnano
anch’essi tra i 200mila ai 500mila euro l’anno.
Quindi non ci dobbiamo meravigliare se gli
italiani, specialmente in questo momento critico, sono arrabbiati contro un carrozzone politico ove non viene rispettato alcun criterio di
pubblicità, trasparenza e, soprattutto, di imparzialità.
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Il tutto si traduce in una avversione contro la
Rai ed il pagamento del canone che non viene
pagato da cica otto /dieci milioni di italiani
nonostante la RAI martelli di continuo i telespettatori con infiniti spot.
In Campania solo il 56,57 per cento ha pagato
il canone RAI. In Sicilia il 57,82 per cento e
in Calabria il 61,57 per cento.
Per questo motivo, invece di fare il mea culpa e programmare procedure trasparenti e imparziali, i politici stanno pensando di far riscuotere il canone dal fisco perché deve essere
considerato un tributo erariale.
In questo modo i politici potranno continuare ad attingere a piene mani in questo carrozzone politico che rappresenta un pozzo senza
fine per soddisfare i loro interessi a danno del
popolo italiano.
Mario Bottiglieri
Se non avete pagato il canone
non vedrete il resto della storia!!
Antropos in the world
PIATTI TIPICI DEL MEDITERRANEO - A cura di Rosa Maria Pastore
LA PATATA
Pianta delle Solanacee, dal nome scientifico Solanum tuberosum,questo tubero è arrivato nel vecchio continente solo nel
1500, proveniente dall'America centro-meridionale (a detta degli
esperti si ritiene dal Perù) per conoscere solo dopo svariato tempo una meritata e trionfale entrata ufficiale nella cucina di mezza
Europa. L'occasione che ha permesso alla patata di assurgere fra
gli alimenti di maggior consumo, fu offerta da una carestia che
imperversò in Francia nella seconda metà del 1700. Fu solo
allora che si ricorse a questo tubero per supplire alle terribili
carenze alimentari della popolazione, grazie soprattutto all'intervento di Antoine A. Parmentier, nome cui ancora oggi sono
legate diverse preparazioni gastronomiche a base di patate.
Così dopo due secoli dal suo arrivo, la patata ha avuto una
rapida diffusione e ascesa. Oltre ai grossi pregi alimentari, la
patata presenta enormi vantaggi sul mercato per la facilità di
coltivazione e commercializzazione; questo tubero infatti non
subisce gravi deterioramenti se non dopo un anno dalla sua
raccolta e cresce, senza grossi problemi, in qualsiasi clima, tipo
di terreno e altezza. La pianta, a crescita annuale,è costituita da
rami striscianti (detti stoloni) che si diramano sotto terra, e dai
tuberi dalla forma mutevole. La presenza di solanina nelle fibre
della patata rende pericolosa l'ingestione di qualsiasi altra parte
della pianta, tranne il tubero notoriamente commestibile. Consumiamo perciò serenamente questo prezioso e insostituibile alimento, risorsa tra le più importanti del patrimonio orticolo esistente.
VALORE ALIMENTARE E DIETETICO - La patata è un
tubero dalla pasta particolarmente farinosa che offre il non
trascurabile pregio di saziare rapidamente e di essere facilmente
digeribile, specie se cucinata bollita e senza l'aggiunta di
condimenti.
Le percentuali delle sostanze nutritive in essa contenute
rivelano la predominanza di amidi ( a parte naturalmente l'acqua
che occupa l'80% circa della parte edibile); seguono poi le
proteine e i grassi, ma in quantità estremamente ridotta rispetto
agli amidi. Tra i sali minerali occorre ricordare principalmente il
potassio, seguito dal fosforo, calcio e ferro; tra le vitamine troviamo la vitamina A, B1, B2, C. Sono in generale le patate non
conservate a registrare i maggiori quantitativi di sostanze nutritive. Per quanto riguarda le calorie, 100 grammi di alimento
svi-luppano 69 calorie se si tratta di bulbi novelli, 77 quando la
patata ha già un anno di vita. Esiste persino una dieta a base di
sole patate: è bene però seguirla per non più di una settimana
perché la patata non è un alimento completo da un punto di vista
dietetico. Tale dieta prevede l'esclusivo consumo di patate lesse
e non condite (ovviamente).
LE DIVERSE QUALITA' - Ad un primo esame superficiale le
patate sembrano tutte uguali: la buccia scura e la forma
approssimativamente arrotondata le unificano tutte, tanto da
pensare che non esistano sostanziali differenze fra una patata e
l'altra. In realtà si contano ben 600 varietà di patate che, con le
ibridazioni e le ricerche tuttora in corso, sono senz'altro destinate
ad aumentare.
Le distinzioni fra tipo e tipo di tubero si basano specificamente sulla forma, colore della buccia, precocità e sviluppo
nella crescita. Tuttavia, una prima sommaria distinzione, più
utile e immediata per la massaia, si basa sul tipo di polpa, che
nella patata può essere di due generi: bianca o gialla.
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La prima è a più rapida cottura, la seconda a cottura più
lunga; fra questi tipi, si annoverano poi diverse qualità.
Ottima varietà italiana, forse la migliore, è senz'altro
la patata trentina, più in particolare la varietà majestic, a polpa bianca, che cresce fino a mille metri
di altezza. Dall'Olanda invece arriva la bintje, ricercata per i molteplici usi che se ne possono fare in cucina; essa infatti offre la prerogativa di riunire i pregi delle patata a polpa gialla e bianca ed in
questo modo si presta alle più svariate preparazioni culinarie.
CRITERI DI ACQUISTO E CONSERVAZIONE - In
commercio si trovano molte qualità di patate; per un buon
acquisto si deve preferire la più indicata per il tipo di
preparazione scelta. Come già accennato in precedenza, la
patata si può distinguere in base alla polpa (bianca o gialla) e
in relazione al raccolto (novella o tardiva). Le patate novelle
del nostro paese provengono dalla Sicilia, Liguria Emilia e
Marche; vengono introdotte sul mercato alla fine della primavera, quando le restanti patate tardive sono troppo vecchie e
quindi destinate come mangime per il bestiame o per l'estrazione della fecola. La patata a pasta bianca, che cuoce rapidamente, e di tipo tardivo, è più indicata per preparazioni come
passati, puree, minestre e zuppe. La patata a pasta gialla, a
cottura più prolungata, si presta meglio alla cottura in umido,
arrosto, al forno. Per determinare preparazioni come le patate
al burro o arrosto, se la stagione ne permette l'acquisto, è particolarmente adatta la patata novella. Dopo un primo esame
sulla scelta della qualità della patata, deve seguire, per un
acquisto soddisfacente, un'analisi più dettagliata del tubero.
Ecco le principali caratteristiche che deve avere la patata ,
per dare un buon rendimento dopo la cottura:
- la buccia non deve essere grinzosa e molle, caratteristica che
denota un eccessivo invecchiamento, né presentare germogli;
- la buccia non deve avere chiazze verdastre, perché indicano
la presenza di solanina, una sostanza velenosa formatasi per
un'eccessiva esposizione alla luce;
- la buccia non deve presentare macchie nerastre né ammaccature che presuppongono una prima fase di marcescenza;
- le patate devono essere tutte della stessa dimensione, perché
solo così potranno cuocere contemporaneamente.
Per quanto riguarda la conservazione, la patata, per le sue
caratteristiche, è uno dei pochi ortaggi che si conservano facilmente per un periodo abbastanza lungo. Dopo la raccolta, le
patate si conservano in ambienti poco illuminati e ad una
adeguata temperatura fino alla primavera successiva. Dopo tale
periodo, i bulbi cominciano ad emettere germogli verdi e rigogliosi (quelli che molti chiamano gli "occhi" o "butti"); la buccia si fa molle e grinzosa, impoverendosi dei valori nutritivi.
SISTEMI DI COTTURA - Stando alle ultime statistiche, è
possibile cucinare le patate in ben 200 modi; vi sono comunque delle cotture base che si possono di volta in volta variare a
seconda delle preparazioni e dei gusti. Fra queste vi è la
cottura a lesso, a vapore, al forno, arrosto e la frittura. Si possono inoltre cucinare nel latte o nella panna, in umido, impanate o trifolate, oppure farcire con carni, uova e funghi. Si
possono preparare soufflés, sformati e tortini che, per la ricchezza degli ingredienti, possono essere serviti anche come
piatto di mezzo.
Antropos in the world
DENTRO LA STORIA
IL CASO DELL’ELECTROLUX
LA CINA E’ VICINA
L’Electrolux è una multinazionale svedese che
è al secondo posto nel mondo per la produzione di
elettrodomestici. Nel tempo, ha assorbito diverse
aziende italiane del settore (Zanussi, Zoppas, Rex,
Castor e forse altre minori), rilevando – oltre alle
quote societarie – anche gli stabilimenti di produzione, i macchinari e le migliaia di dipendenti: un
patrimonio umano e professionale preziosissimo,
formatosi alla universalmente apprezzata “scuola”
italiana degli elettrodomestici nata negli anni ’60,
ai tempi del boom. Orbene, qualche settimana fa
l’Electrolux ha annunziato di voler chiudere gli
stabilimenti italiani e di voler trasferire i relativi
settori di produzione in Polonia, paese dove la
manodopera costa assai meno che da noi. È seguìta la rituale protesta di politici e sindacalisti,
cui la Electrolux ha risposto con una sorta di piano
B: mantenimento delle attività in Italia, a fronte di
una drastica riduzione dei salari; sembra –
secondo le valutazioni dei sindacati – attorno ai
900 euro mensili. E, ad un operaio che protestava,
uno sbuffante industrialotto del nord-est (che ho
ascoltato in tv in una delle tante trasmissioni d’approfondimento) ha replicato grosso modo così: se
lei pensa che, oggi, possa arrivare qualcuno che le
offra 1.500 euro al mese, non si rende conto che
viviamo in un mondo diverso rispetto a quello di
vent’anni fa.
Ecco. Il succo del discorso sta proprio in questo
concetto: viviamo in un mondo diverso, viviamo nel
mondo della globalizzazione economica, in un
unico immenso mercato mondiale. La qualcosa conviene a chi detiene capitali enormi con i quali mettere alla corda la concorrenza di qualunque imprenditoria “normale”. La qualcosa fa anche sognare
quelle anime belle che teorizzano un caritatevole
mondo senza frontiere e senza barriere.
La qualcosa, però, non conviene a noi popoli
europei, destinati ad essere invasi da una marea di
disperati alla ricerca di un po’ di benessere; non
conviene alle nostre imprese, oggetto di una
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concorrenza sleale cui non sono in grado di opporsi; e non conviene soprattutto ai nostri lavoratori,
che per conservare i loro posti di lavoro dovranno
rassegnarsi a livelli retributivi miserevoli.
I 900 euro offerti oggi dalla Electrolux saranno, da qui a qualche anno, un ricordo. Un ricordo
del passato, in un mercato globale dove i livelli
retributivi polacchi (quelli che oggi si vogliono
propinare come un’amara medicina ai nostri operai) saranno considerati non concorrenziali rispetto
a quelli cinesi o a quelli africani.
La nostra classe politica sa benissimo che la
globalizzazione economica ci condurrà a questo.
Ma non ha intenzione di opporsi a tutto ciò. Non
ne ha intenzione la pseudodestra, quella dell’unione dei moderati, quella che crede che l’America
sia il faro del Bene nel mondo e che il pericolo
siano “i comunisti” (che non ci sono più). E non
ne ha intenzione la pseudosinistra, quella che ha
venduto l’anima alla Goldman Sachs, quella che
vuol farci sommergere dalla marea migratoria,
quella che crede che il pericolo siano “i fascisti”
(che non ci sono più).
Destra e sinistra o, meglio, pseudodestra e
pseudosinistra si sono ormai liquefatte nel grande
calderone del “pensiero unico” liberal-liberista
(nulla a che vedere con il Liberalismo illuminato
dell’Ottocento); del “politicamente corretto” più
stupido e melenso; della rinunzia alla sovranità
nazionale a pro di un europeismo d’accatto; dell’accettazione acritica di tutte la porcherie (riforma
delle pensioni, riduzione della spesa sociale, tassazione spropositata, privatizzazioni, eccetera) che
ci vengono imposte dalla speculazione finanziaria
internazionale. Possiamo venirne fuori? Certamente. Basterebbe ritornare alla Politica, quella
con la P maiuscola. Basterebbe ritornare alla
Destra e alla Sinistra, quelle vere. Senza estremismi, senza infantilismi, ma anche senza genuflessioni verso i poteri forti.
Michele RALLO
Antropos in the world
SOCIAL NETWORK, RISORSA O PERICOLO?
L’11 febbraio si è celebrato in tutta Europa il
Safer Internet Day, ossia la cosiddetta Giornata della
sicurezza in Internet. Lo scopo di questa iniziativa è
stato quello di cercare di sensibilizzare le nuove
generazioni ad un uso più consapevole e sicuro di
quella grande risorsa che è la Rete.
Sempre più frequentemente, infatti, leggiamo sui
quotidiani o sentiamo nei telegiornali di ragazze che
vengono adescate da uomini di età tale da poterne
essere i genitori se non addirittura i nonni, o ragazzi
spinti all’isolamento fisico, o anche al suicidio, da
insulti e minacce ricevute. Il teatro di questi atti
ugualmente deprecabili è uno solo: la grande piazza
virtuale dei social network.
Sorge a questo punto spontanea una domanda:
questi social network (e quindi la Rete in generale)
sono una risorsa per le nuove generazioni o costituiscono solo un altro pericolo da fronteggiare?
Indubbiamente questi nuovi mezzi di comunicazione non possono che essere un grande vantaggio
nelle mani dei giovani. Grazie ad essi infatti i
ragazzi, e non solo, possono restare in contatto con le
persone care della loro vita e condividere con esse, o
con chi si voglia, le proprie idee, i propri momenti
importanti e le proprie emozioni.
Dietro questa felice apparenza, si cela spesso però
una realtà ben più triste ed oscura popolata, come si è
detto, da pedofili e da quelle figure che ormai è in
uso definire cyber-bulli. Questi soggetti, approfittando il più delle volte di falsi profili e di ragazzi
giovanissimi, inesperti ed insicuri, realizzano quelle
“gesta” già descritte, con la certezza, in molti casi
fondata, di poterle portare a termine senza il minimo
rischio per la propria persona.
Non si deve però pensare che questi luoghi virtuali
siano incontrollabili e quindi arrendersi a ciò che in
essi si può incontrare, o addirittura vietare ai giovani
di visitarli. Ciò difatti potrebbe riflettersi in un
isolamento reale oltre che virtuale.
Le soluzioni per prevenire questi problemi, contrariamente a quanto si possa pensare, sono molteplici e disparate. Innanzitutto è necessario che i
giovanissimi non siano lasciati soli nei loro primi
approcci con la rete ed i social network, ma vengano
guidati in questa fase per far comprendere loro il
modo più corretto e sicuro di utilizzare tali strumenti.
Un genitore, o chi per lui, dovrebbe far capire al
ragazzo, poco più che adolescente, che
deve essere in grado, in ciascun momento della
propria vita, della propria crescita, di gestire in modo
corretto il dialogo e l’utilizzo di questi strumenti;
spiegargli i motivi per cui non deve comunicare o
parlare con sconosciuti, oppure non dare immagini o
foto o dati personali a soggetti terzi che si conoscono
solo ed esclusivamente in rete.
I ragazzi arrivano così a capire come usare in modo
sicuro la Rete ed i suoi contenuti anche quando non
saranno, com’è normale, più accompagnati dai
genitori.
Un altro rimedio contro i pericoli del web e dei
social network in particolare, ci viene fornito proprio
da questi ultimi che mettono a disposizione degli
strumenti per segnalare abusi, situazioni pericolose e
anche comportamenti scorretti aiutandoci così a
contrastarli.
Come abbiamo visto, la Rete è quindi allo stesso
tempo sia una grande risorsa che un pericolo. Sta a noi
entrare in essa cercando di non rimanervi intrappolati.
Paolo Zinna
VIOLENZA DAL WEB, COMMENTO DI
VINCENZO ANDRAOUS
______
“… Una cretinetti come
tante altre , circondata da
altri ebeti che fanno platea
plaudente, che fanno stadio,
che fanno gabbia, che fanno
recinto dove tutto può e deve
esser condiviso.
Una platea di stacanovisti
della noia che paralizza i neuroni,della adrenalina agognata invano, del vicolo
cieco da perforare con urgenza, un miscuglio di
disagi e compromissioni familiari, scolastiche, una
adultità perennemente votata all’assenteismo.
Platea vociante di bestemmie e invocazioni a fare
più male, a essere più cattivi, a colpire subito senza
attendere oltre, giovani a perdere un briciolo di pietà
per chi urla disperata: AIUTATEMI VI PREGO…”
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Antropos in the world
EVENTI
PRESENTATO NEL SALOTTO DI PALAZZO FORMOSA
IL LIBRO DEDICATO AL PAESE DELL’AMORE
San Valentino Torio 13
Febbraio 2014 – Presentazione di "OLTRE LE STELLE", il libro di liriche di
Franco Pastore,dedicato al
paese dell'amore ed offerto
in sala a tutti i presenti Nella foto: Felice Luminello, Franco Pastore, Pastore Rosa Maria (direttrice di
Antropos in the world );Renato Nicodemo, Ermanno Pastore il dott. Strianese e Giuffrida Farina.
La Kermesse è avvenuta nel salotto culturale
del palazzo Formosa ed è stata un felice ed armonico connubio, tra musica spagnola e poesia.
Infatti, il flamenco ha fatto da cornice alle belle
liriche del libro.
Momenti esaltanti di commozione hanno
avvinto i presenti, che si sono congratulati con
l’autore per il gusto estetico e con il Sindaco
Luminelli, per la ottima impostazione della manifestazione.
In sala, il presidente dell’Associazione S.
Valentino che, con il Comune del paese dell’amore, ha organizzato e supportato la Kermesse.
Nella esposizione delle finalità della silloge,
l’autore ha sottolineato il ruolo di “mecenate
dell’arte” del Luminello, che ha proiettato, con
simili attività, il paese in un futuro dinamico di
cultura. Di qui, la nuova posizione di San
Valentino Torio, divenuto punto di riferimento
nella vita culturale dell’agro. Il pubblico, formato esclusivamente da persone di provata sensibilità culturale, ha applaudito con calore i momenti esondanti d’arte autentica e poesia, segnando, in tal modo, una tappa indelebile nella
elevazione del complesso storico Formosa, a salotto culturale dell’Agro nocerino-sarnese.
Dopo le parole di ringraziamento del dott.
Luminello, la “Dedica” al paese dell’amore ha
chiuso magnificamente la manifestazione:
Ricordi incessanti,
come pispiglianti aneliti,
l’animo catturano
ed il cuore.
Rarefatte dal tempo,
emozioni riemerse
rinnovano la mia storia.
Come ombre di memoria,
sovviene l’infanzia
con l’umido delle strade
di basalto e, più in alto,
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i balconi di rose,
dove m’attendeva
mamma mia …
Era l’amor di casa
e della terra mia,
che contornava
tutto di poesia.
Torna il passato
nel canto del silenzio,
ma i morti
non hanno più voce!
Rosa Maria Pastore
Antropos in the world
Fattucchiere ed Eremiti del Vesuvio
da “Gente del Vesuvio”
di Umberto Vitiello
Solitamente alle falde del Vesuvio ci si affida
all’osservazione dell’olio versato nell’acqua. La
fattucchiera si fa il segno della croce, dicendo con
voce devota e pia “In nome della Santissima Trinità”. Traccia poi col pollice un piccolo segno di
croce sulla fronte del paziente, versa sette gocce
d'olio in un piatto o bacinella contenente acqua e
recita, ma senza parlare, uno scongiuro che deve
restare segreto.
Se le gocce d’olio rimangono inalterate, si tratta
di un comune mal di testa; se invece si spandono, ci
si trova di fronte ad un inequivocabile caso di malocchio, dal quale la vittima riesce a liberarsi soltanto
dopo che è stato versato per strada il contenuto del
piatto o della bacinella.
Se il malocchio è resistente, il rito si ripete per
tre volte consecutive. In caso di risultato ancora negativo, il rito è ripetuto dopo due ore da un'altra
fattucchiera e, nei casi di particolare resistenza, da
una terza fattucchiera a distanza di altre due ore.
Secondo un rituale leggermente diverso, per verificare la presenza o meno del malocchio oltre alle
sette gocce di olio vengono versati nel piatto anche
sette chicchi di grano. Solo se sotto ciascuno di essi
si forma una bollicina d'olio si è certi della presenza
del malocchio.
Tra i rituali del tutto diversi, il più diffuso è
quello che si fonda esclusivamente sulla forza magica delle parole e dei gesti della fattucchiera.
Tra le fattucchiere vi sono anche alcune che
evocano i morti, come nel passato facevano tante
maghe delle falde del Vesuvio, tra cui la famosa
Adrianella del Casamale, borgo di Somma Vesuviana 1, nata in uno stabile in cui viveva il medium
Vincenzo Menna, una ventina d’anni più grande di
lei, e di notte non rare volte si faceva vivo un
fantasma: ’o munaciello.
Non mancano poi le cartomanti, dotate quasi tutte
di sorprendenti capacità intuitive sulle motivazioni e le
aspettative delle persone che le consultano. Alle falde
del Vesuvio e in molte altre località della Campania e
del Sud Italia la cartomanzia viene praticata con le carte
napoletane. Dal mazzo vengono però eliminate dodici
delle sue quaranta carte: i 4 e i 6 di tutti i quattro semi
(denari, spade, coppe e bastoni); il 7 di spade, il 7 di
bastoni, il 5 e il 7 di coppe. Ogni carta ha uno o più
significati. La chiromante, una volta capito le
motivazioni per cui viene consultata, di ogni carta presa
dal mazzo sceglie il significato 1 più confacente alle
aspettative di chi l’ascolta.
Vi sono poi altri tipi di indovine, come le
chiromanti e quelle che si servono di metodi di divinare
da loro stesse inventati. E infine, ma non certamente
ultime, alle falde del Vesuvio non sono mai mancate le
veggenti. Di queste voglio ricordare donna Teresa dei
Mastrojanni, “pettoruta e occhialuta, indovina en titre
di Torre del Greco”, trascrivendo integralmente un
breve brano da “Vita in villa” di Clotilde Marghieri,
come sono le parole virgolettate qui sopra riportate.
Donna Teresa lavorava in virtù del “sesso benigno”
che, secondo lei, aveva sede nella testa, ed il potere di
leggere nel destino altrui; e tutto ciò spiegava
pomposamente, cambiando le finali in “i”, che qui è il
segno del parlare dotto. Così lei aveva “ispirazioni
santissimi”della Madonna di Pompei, a differenza di
quelle cha hanno “il sesso maligno” e cioè traggono
voce dai diavoli.
“Come ti chiami e che vuoi da me, buona donna?”
chiese donna Teresa.
“Voglio notizie del figlio mio, soldato; mi chiamo
Nannina.”
“Dove sta, sto figlio soldato?
“In Greggia, sta.”
Donna Teresa guardò prima la carta geografica,
appesa di fronte a sé, poi si segnò tre volte, sputò, disse
tre gloria patri, ed infine abbassò il volto sul libro degli
enigmi; si fece assente e lontana. Seguì un lunghissimo
silenzio. Poi, di botto, come avesse colto nell’aria
l’ingiunzione di un comando perentorio, e che non ci
fosse un minuto da perdere, afferrò la mano della contadina e le sussurrò: “Nannì, jammo ‘int’a Greggia”.
Quando la vecchia Nannina, fedele ad ogni
particolare, ci raccontava tutta la scena, a questo punto,
gli occhi ancora abbagliati dalla meraviglia, soggiungeva: “E ci trovammo in Greggia, signora, e, credetemi,
quanto è vero Iddio, ci volle meno di un minuto per
arrivarci.” Ci giunsero in Grecia, ma il figlio non c’era
più; e da allora, Nannina aspetta sempre. (continua)
- 30 -
Antropos in the world
DA ERICE
IL CONVENTO DI SAN DOMENICO E IL CENTRO
DI CULTURA SCIENTIFICA “ ETTORE MAJORANA”
Il convento di San Domenico si trova nel centro di
Erice nel quartiere San Cataldo. Fu il secondo costruito
ad Erice dopo quello di San Francesco. Fin dal 1485 i
capi del Municipio ericino avevano chiesto al Rettore
dell’Ordine Domenicano di mandare ad Erice dei frati
per fondare un Convento e diffondere la devozione al
Santissimo Rosario di Maria. La richiesta fu accolta
tanto che il Generale ordinò al Provinciale di Sicilia di
andare ad Erice per disporre la costruzione del convento
domenicano vicino la chiesa di San Michele. Chiesa e
convento furono, nel corso degli anni, notevole punto di
riferimento della vita religiosa, ma anche culturale e
civile della Città.
La chiesa, d’ordine dorico, era a tre navate con sei
colonne, tre per ogni lato con gli archi che sostenevano il
cornicione. A destra l’altare di San Pietro martire, effigie
a fresco dipinta sulla parete, nel secondo San Vincenzo
Ferreri, statua lavorata a stucco; il terzo altare, statua in
marmo bianco, era dedicato alla Nostra Signora del
Soccorso, in esso si veneravano anche le immagini
dipinte in piccoli quadri dei Santi Ignazio Loyola e
Francesco Saverio. Nell’area del Cappellone si venerava
la Nostra Signora del Rosario, opera in stucco di Pietro
Orlando. Nel lato destro del cappellone la cappella di
San Michele Arcangelo statua di stucco in oro e pittura.
A sinistra l’altare di Santa Rosa di Lima. Secondo altare
di Sant’Eligio, statua in legno, terzo altare di San Domenico dipinto a olio. A lato del cappellone la cappella
del Santissimo Crocifisso in legno.
Nella cappella maggiore si venerava la beata Vergine
del Santissimo Rosario opera di Pietro Orlando. Il primo
orologio pubblico della nostra Città sorse in questa chiesa
che rimase aperta al culto fino alla fine degli anni trenta.
Il convento, molto piccolo, non aveva rendite ed i frati
vivevano solo del loro duro lavoro e della carità del
popolo ericino. Questo stato durò fino al 1618, anno in
cui, il nobile don Nicola Gervasi, cappellano curato della
Matrice e commissario del Santo Officio, detto il padre
dei poveri, temendo che a lungo andare venisse meno la
carità del popolo ericino verso i frati predicatori, lasciò
ad essi nel suo testamento, redatto nel 1618, un giardino
a Ragosia e una tenuta di terre a Mocata oltre ad altri
beni stabili con molte rendite in cambio di quattro messe
ogni settimana che egli volle si celebrassero nella chiesa
di San Michele. Da allora altri emeriti cittadini seguirono
l’esempio del Gervasi con lasciti e donazioni a favore
del convento. Nel 1618 gli Officiali della cappella
donarono ai frati un vaso in argento per la pisside del
convento ed un organo che fu collocato vicine la porta
principale inoltre contribuirono anche per fondere le due
campane.
Nel 1658, Papa Innocenzo X emanò una bolla che
prevedeva la soppressione di tutti i piccoli conventi e il
convento domenicano, piccolo e angusto, nonostante le
rendite e gli ultimi legati provenienti dalla famiglia Palma,
fu soppresso. I frati si ritirarono a Trapani lasciando
sgomento ed attonito il popolo ericino che da subito si
prodigò affinché il convento fosse riaperto con elargizione
di nuove e cospicue rendite.
Nel 1660 il convento disponeva di una rendita annua di
585 scudi. Ormai nulla impediva la sua reintegrazione che
avvenne dopo quattro anni, dieci mesi e venticinque
giorni. con somma gioia di tutta la città e dei capi del
Municipio. I nuovi frati accrebbero il dormitorio, di sei
celle, il refettorio, la cucina e cantina. Gli anni che
seguirono furono importanti e decisivi per il Convento.
Nel 1670 il Convento fu dichiarato Priorato nel
Capitolo Generale di Roma. Nel 1671 tornò nella chiesa
di San Michele l’Accademia dei Difficili che aveva
fondato lo storico ericino Antonio Nordici. Per l’occasione
fu cambiato il nome in Ravvivati per ricordare la felice
reviviscenza della domenicana famiglia in Monte San
Giuliano.
In seguito alla soppressione degli Ordini religiosi del
1866 il Convento passò al Comune che lo utilizzo fino al
1962, come sede delle Scuole Elementari. L’intero isolato,
rimasto inutilizzato nel 1964, fu ceduto al Centro di
Cultura Scientifica “Ettore Majorana”, fondato e diretto
dall’emerito professore Antonino Zichichi che ne ha
curato il restauro generale e l’adattamento per le proprie
attività istituzionali. La chiesa è stata trasformata in
moderna e funzionale Aula Magna, capace di 250 posti.
Anna Burdua
___________
A.Burdua, la scrittrice di Oltre la collina, è un’ autrice di
rilievo, che ha al suo attivo numerose e significative pubblicazioni, vive e lavora ad Erice.
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Antropos in the world
Regimen Sanitatis Salernitanum
- Caput XXXII/XXXIII
DE OVO ET PISIS ET POTUS ALTERNATIONE
Inter prantendum sit saepe parumque bibentum
Si sumas ovum, molle sit atque novum.
Pisam laudare decrevimus ac reprobare:
pellibus ablatis est bona pisa satis:
est inflativa cum pellibus atque nociva.
Mentre pranzi allegramente, bevi poco ma sovente.
Se recar fai l’uovo al desco,che sia molle, oppure fresco.
Al pisello non ci gode di dar bisimo né lode:
se ne avessi la semente, sano sia bastantemente;
nuoce al ventre, che stende e cruccia se lo manci con la buccia
L’ANGOLO DEL CUORE
OMBRA DI SOGNO
χἱὂ
Nascondo tra i sogni
la mia anima inquieta,
non vi sono più vincoli,
né più capanne,
nel nulla del mondo.
In palazzi di vuote parole,
ombre di sogno ignorano
la forza dell’amore
ed incapaci d’emozioni,
graffiano
l’animo ingombro,
se non sbraciato,
o smarrito.
I miei occhi son capaci
ancora di pianto.
_____________
- 32 Dalla raccolta OMBRE DI SOGNO, di Franco Pastore
PEZZI DI NOTTE
κομμάτια της νύχτας
Quando la pioggia
spilucca terra ai vasi
e sui terrazzi corre
l’urlo del vento,
pezzi di notte
scandagliano i ricordi.
pescando, tra i frastagli,
grumi di storia,
immagini vissute,
polvere di memoria,
che mi rammenta
come passa il tempo,
cancellando la vita,
giorno per giorno.
Poi, per fortuna,
interviene il sonno.
Antropos in the world
LEVIORA
BRONTOLO
IL GIORNALE SATIRICO DI
SALERNO
Direzione e Redazione
via Margotta,18
tel. 089.797917
COSE DA PAZZI - Da sola nel grande letto durante la prima notte di nozze, la giovane moglie di un carabiniere si sta chiedendo come mai il marito non ne voglia sapere di rientrare dal terrazzo. Stanca di tanta
attesa decide di chiederglielo anche a lui:
«Ma caro, sono già due ore che sei lì fuori in terrazzo... perchè non vieni a letto? Prenderai freddo!».
«Non posso! Mio padre mi ha sempre detto che questa sarebbe stata la notte più bella della mia vita ed io
non voglio perdermela!».
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Antropos in the world
UNA OPINIONW ERETICA DA SOCIAL
CHI HA DETTO CHE IL GOVERNO LETTA
ha imposto sacrifici a tutti?
Chi ha detto che il governo Letta impone sacrifici a tutti? Non è vero. C’è chi da questo
governo è beneficiato. A spese, naturalmente, di tutti noi, che dovremo coprire i costi di queste
regalìe. Chi sono i fortunati? Non si ha la lista completa, ma due, almeno, sono stati identificati,
stando a quanto rivelato da “Il Giornale” e dai blog di Beppe Grillo e di Roberto D’Agostino. Il
primo dei beneficiati è Carlo De Benedetti, l’industriale ebreo-svizzero con interessi in Italia e
tessera numero 1 del PD in tasca. Il secondo è un soggetto plurimo; e non soltanto perché abbraccia
le diverse banche private che sono proprietarie della Banca d’Italia, ma anche perché il giulivo
Enrico e il draghesco (da Draghi) Saccomanni, nella loro immensa bontà, hanno pensato anche alle
banche estere che – secondo la loro lungimirante visione – potranno in futuro papparsi qualche
porzione della nostra “banca centrale”.
Incominciamo da De Benedetti. Un articolo di Marcello Zacchè pubblicato l’11 dicembre
da “Il Giornale” – e ripreso dal sito “Dagospia” – rivela che una bozza della legge di stabilità
prevedrebbe sovvenzioni pubbliche alle centrali elettriche per assicurarne la funzionalità. Da calcoli
effettuati, tale misura porterebbe nelle casse della Sorgenia (società del ramo facente capo al gruppo
De Benedetti) un contributo pubblico di circa 100 milioni di euro. I rappresentanti grillini in
Commissione Bilancio, inoltre, avrebbero scoperto un ulteriore “aiutino” di 22 milioni di euro: lo
prevede un emendamento, presentato da Scelta Civica e già approvato in Commissione, volto ad
esentare la centrale turbogas di Turano-Bertonico (di proprietà Sorgenia) dall’obbligo di sborsare la
cifra – appunto – di 22 milioni per gli oneri di urbanizzazione. Complessivamente, quindi, la
sommetta di denaro pubblico che dovrebbe affluire nelle casse della CIR (la holding
debenedettiana) dovrebbe aggirarsi attorno ai 120 milioni di euro, pari a circa 240 miliardi del
vecchio conio (come direbbe Bonolis).
Ma queste sono noccioline, in confronto alla pioggia di soldi (nostri) che un decreto-legge
del Saccomanno ha già assicurato alle banche. Salto a piè pari tutte le premesse di ordine tecnico e
vengo direttamente alle conclusioni pratiche, che ho desunto dalla denuncia dell’esperto finanziario
Lucio Di Gaetano: il capitale sociale della Banca d’Italia passa dagli attuali simbolici 156.000 euro
a 7,5 miliardi di euro (non chiedetemi come). La qualcosa – per le banche private proprietarie di
Bankitalia – comporta: 1) una regalìa di “valore patrimoniale aggiuntivo” di 7 miliardi e mezzo; 2)
l’attribuzione di dividendi annui per 450 milioni di euro, a fronte dei 50-70 milioni percepiti oggi.
In ogni caso, quindi, anche a non voler considerare il valore patrimoniale aggiuntivo, il decreto in
questione regala letteralmente 400 milioni di euro l’anno alle banche.
Ma l’aspetto più preoccupante è un altro: il definitivo accantonamento della vecchia (e
inattuata) legge del 2° governo Berlusconi che si muoveva in direzione di una parziale
pubblicizzazione della banca centrale, e il compiersi dell’ultimo atto di una completa e totale
privatizzazione della stessa. E non solo. Perché il decreto espressamente prevede che le quote che
secondo il decreto berlusconiano avrebbero dovuto tornare allo Stato, potranno essere vendute a
soggetti bancari e parabancari “italiani ed europei”.
Chiaro, no? Non soltanto la Banca d’Italia deve essere proprietà delle banche private, ma
proprietà anche delle banche private straniere. È un altro passo sulla via della completa colonizzazione dell’Italia.
M.Rallo
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Antropos in the world
L’ANGOLO DELLA FOLLIA: MICRO DISEGNI
E MICRO ACQUERELLI
Le MICROUSCOLE, di cui sopra l’esempio, sono elaborazioni di ridottissime dimensioni. I micro disegni e micro acquerelli, infatti, sono dell’ordine di pochi centimetri,
variano da un centimetro sino, al massimo, a quattro centimetri.
Questo secondo gruppo, fanno parte di circa 200 fotografie, da me realizzate
con una tecnica che non prevede l’utilizzo della macchina fotografica, bensì
l’impiego di una emulsione fotografica sensibilizzata. Esposta ai raggi del sole,
con impressi sopra degli oggetti, l’emulsione ne imprime l’impronta, che resta
dunque “impressionata”. Come si può vedere, si formano immagini singolari, senza
alcun intervento della creatività di un artista. L’abilità è tutta apriori, nel
predisporre l’impressione.
AUCTOR INSANUS: Giuffrida Farina, salernitanus, qui in urbe vivit, laborat, deditusque operibus
insanis est usque ad finem.
- 35 -
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Giornale del 01/03/2014