Indice
Prefazione .............................................................................................. pag. 3
Prima di Pechino: le conferenze mondiali delle donne 1975-1985 ............................ pag. 4
La IV Conferenza mondiale delle donne: Pechino 1995 ......................................... pag. 6
Pechino +5 .............................................................................................. pag. 10
Pechino +10 ............................................................................................. pag. 12
Italia. Revisione dell’attuazione della Piattaforma d’azione di Pechino................. pag. 12
Shadow Report. Documento alternativo a quello del governo italiano ................. pag. 31
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Prefazione
I diritti umani delle donne e delle bambine sono parte integrante, inalienabile e indivisibile dei
diritti umani universali. Non dipendono dunque dalle leggi del singolo stato, ma dalla stessa
appartenenza al genere umano. Un genere umano composto di uomini e donne, diversi nel corpo
e nell’identità, ma eguali nei diritti.
La parola “genere” si riferisce ai ruoli - costruiti socialmente - ascrivibili ai maschi e alle femmine. Tali ruoli, anche se basati su differenze biologiche, sono appresi, cambiano continuamente, e variano enormemente fra le culture e al loro interno. L’acquisizione di un punto di vista di
genere su tutti i diritti significa, dunque, fare i conti con le differenze fra ciò che gli uomini e
le donne fanno, e con il modo in cui i loro ruoli definiti socialmente li avvantaggiano o li danneggiano.
Nell’evoluzione dei diritti umani delle donne, un ruolo fondamentale è stato svolto non solo dagli
strumenti giuridici, ma anche da una serie di posizioni politiche e culturali fatte proprie dalla
comunità internazionale nel corso degli anni.
In questo percorso, un passaggio importante è quello rappresentato nell’ultimo decennio del
‘900, dalle Conferenze mondiali dell’ONU sui temi della globalità, quali i diritti umani, il nesso
fra popolazione e sviluppo, lo sviluppo sociale. Queste Conferenze hanno prodotto importanti
Dichiarazioni e Piattaforme d’azione, che hanno riletto l’intero sistema dei diritti umani da un
punto di vista di genere.
Ciò vale soprattutto per le quattro Conferenze mondiali sulle donne (da Città del Messico nel
1975 a Pechino nel 1995), sedi appassionate di dibattito, scontro politico, costruzione di reti,
conquista di nuovi strumenti. E per le Sessioni speciali dell’Assemblea Generale (Pechino +5,
Pechino +10), che esaminano lo stato di applicazione delle piattaforme approvate e individuano
i nuovi obiettivi per rendere più efficace la loro realizzazione.
Abbiamo raccolto in questo opuscolo alcuni di questi documenti, nella convinzione che rappresentino un importante strumento politico per garantire davvero l’esercizio pieno ed effettivo dei
diritti umani a tutte le donne, in ogni parte del mondo.
Arianna Censi
Consigliera delegata alle politiche di genere
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Prima di Pechino:
le conferenze mondiali delle donne 1975-1985
CC
ittà del Messico, 1975. Il 1975 fu proclamato dalle Nazioni Unite “Anno internazionale
della donna” e dedicato alla promozione della parità fra uomini e donne, alla piena integrazione delle donne nel quadro complessivo dello sviluppo e al riconoscimento dell’importanza del loro contributo al rafforzamento della pace mondiale.
Nello stesso anno le Nazioni Unite convocarono la Prima Conferenza mondiale sulle donne, che
si svolse a Città del Messico. Alla Tribuna delle organizzazioni non governative (Ong) parteciparono 4 mila donne. Nella Conferenza di Città del Messico furono adottati due importanti documenti:
- la Dichiarazione sull’uguaglianza delle donne e sul loro contributo allo sviluppo e alla pace,
che comprende trenta principi e fa perno attorno al concetto che lo spreco del potenziale di
circa la metà della popolazione mondiale costituisca un serio ostacolo allo sviluppo sociale
ed economico;
- il Piano mondiale d’azione per il conseguimento degli obiettivi fissati dall’Anno internazionale della donna, che stabiliva obiettivi precisi per la prima parte del decennio 1976-1985
come ad esempio l’uguaglianza di accesso a tutti i livelli di istruzione, il riconoscimento del
valore economico del lavoro delle donne e misure più efficaci per l’educazione sanitaria, la
nutrizione, l’istruzione, la pianificazione familiare e altri servizi di assistenza. Proponeva
infine una seconda Conferenza mondiale per il 1980 per verificare i progressi compiuti nei
primi cinque anni.
Copenhagen, 1980. Alla Seconda Conferenza mondiale delle donne (conferenza “di metà
decennio”) i governi approvarono la Convenzione internazionale contro ogni forma di discriminazione verso le donne (Cedaw) un documento che delineava i principi e le iniziative per
realizzare i diritti delle donne.
A Copenaghen fu adottato il Programma d’azione per la seconda metà del decennio, in cui
venne modificata la definizione di “uguaglianza” che era stata elaborata alla Conferenza del
Messico: non più solo l’uguaglianza legale ma l’eliminazione de facto di ogni discriminazione. Nel
corso della Conferenza fu anche sottolineato come la partecipazione delle donne non dovesse
essere limitata solo allo sviluppo sociale ma essere una componente fondamentale di tutte le
dimensioni dello sviluppo.
Accanto alla Conferenza ufficiale, un Comitato promotore di cui facevano parte 34 organizzazioni non governative internazionali riconosciute dall’Ecosoc (il Comitato Economico e sociale
dell’Onu) organizzò il Forum delle ONG, la Conferenza alternativa delle donne, alla quale vi parteciparono 8.000 donne (i delegati della Conferenza ufficiale erano 1.200).
Nairobi, 1985. La terza Conferenza mondiale dell’Onu, a Nairobi, aveva lo scopo di valutare i risultati del decennio delle Nazioni Unite per la donna rispetto agli obiettivi fissati (uguaglianza, sviluppo e pace) e di approvare delle strategie di attuazione per il progresso delle donne
fino all’anno 2000.
Avendo verificato il non raggiungimento degli obiettivi stessi nel decennio trascorso, la
Conferenza rivolse un appello alla comunità internazionale affinché fossero applicate le leggi già
approvate per la parità delle donne, affinché le possibilità di istruzione e formazione fossero rese
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effettive, e affinché si riconoscesse che donne e bambini sono i più esposti tra le vittime della
povertà, della carestia, dell’apartheid, dei conflitti armati, della violenza familiare e dell’emarginazione dovuta alla loro condizione di rifugiati, emigranti o minoranza etnica. La
Conferenza si concluse con l’adozione di un documento intitolato Strategie future d’azione per
il progresso delle donne e misure concrete per superare gli ostacoli alla realizzazione entro l’anno 2000, degli scopi e degli obiettivi del Decennio.
Il Forum ’85 delle ONG ebbe luogo all’Università di Nairobi; oltre 14.000 donne provenienti
da più di 150 paesi parteciparono a 1.800 fra seminari, gruppi di lavoro e attività varie. Se Città
del Messico aveva rappresentato il momento della presa di coscienza, e Copenaghen aveva dato
vita alle prime reti a livello internazionale, a Nairobi le donne portarono le loro esperienze nei
campi più vari.
Un punto di consenso unanime furono i tre obiettivi del Decennio: uguaglianza, sviluppo e
pace.
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La IV Conferenza mondiale delle donne:
Pechino 4-15 settembre 1995
SS
e la Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne rappresenta il principale testo giuridicamente vincolante sui diritti delle donne, la Piattaforma
d’Azione approvata dalla Conferenza di Pechino è il testo politico più rilevante e tuttora più
consultato dalle donne di tutto il mondo. E’ a Pechino che i movimenti di tutto il mondo hanno
affermato la propria pretesa di “guardare il mondo con occhi di donna” e hanno proclamato che
“i diritti delle donne sono diritti umani”. Le parole chiave della conferenza, “punto di vista di
genere”, “empowerment”, “mainstreaming”, sono entrate nel dibattito femminista, e anche —
con risultati alterni — in quello dei governi.
Alla Conferenza dei governi hanno partecipato 5.307 delegate e delegati ufficiali, e 3.824
rappresentanti delle ONG. Erano inoltre presenti 3.200 operatori dei media e 4.041 giornalisti
provenienti da 124 paesi.
La dichiarazione politica di Pechino 1995
1. Noi, Governi partecipanti alla quarta Conferenza mondiale sulle donne,
2. Riuniti qui a Pechino nel settembre del 1995, nel cinquantesimo anniversario della fondazione dell’Organizzazione delle Nazioni Unite,
3. Determinati a far progredire gli obiettivi di uguaglianza, sviluppo e pace per tutte le donne,
in qualsiasi luogo e nell’interesse dell’intera umanità,
4. Ascoltando la voce delle donne di tutto il mondo e iconoscendo la diversità loro, i loro ruoli
e le loro condizioni di vita, rendendo omaggio a quante hanno aperto la strada davanti a noi
e ispirati dalla speranza incarnata nelle giovani di tutto il mondo,
5. Constatiamo che la condizione delle donne ha compiuto significativi progressi in certi settori importanti nel corso degli ultimi dieci anni, ma che tali progressi non sono stati uniformi
e che le disuguaglianze tra donne e uomini persistono e grandi ostacoli permangono, con
gravi conseguenze per il benessere di tutti gli esseri umani,
6. Constatiamo ugualmente che questa situazione è esacerbata dall’aumento della povertà, che
affligge la maggior parte della popolazione mondiale, in particolare le donne e i bambini, e
che ciò ha origini in contesti nazionali e internazionali,
7. Ci consacriamo senza riserve a eliminare questi problemi e ostacoli al fine di sostenere ulteriormente il progresso delle donne e l’accrescimento del potere di azione (empowerment)
per le donne di tutto il mondo, e concordiamo nel ritenere che questo richiede che siano
prese subito misure urgenti in uno spirito di determinazione, speranza, cooperazione e solidarietà, che ci porterà avanti nel prossimo secolo.
Riaffermiamo il nostro impegno per:
8. Realizzare la uguaglianza dei diritti e la intrinseca dignità umana di donne e uomini, conseguire gli altri obiettivi e aderire ai 3 principi consacrati nella Carta delle Nazioni Unite, nella
Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e negli altri strumenti internazionali sui diritti
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umani, in particolare la Convenzione sulla eliminazione di tutte le forme di discriminazione nei
confronti delle donne e la Convenzione sui diritti del bambino, così come la Dichiarazione sulla
eliminazione della violenza contro le donne e la Dichiarazione sul diritto allo sviluppo;
9. Garantire la piena realizzazione dei diritti fondamentali delle donne e delle bambine in
quanto parte inalienabile, integrante e indivisibile di tutti i diritti umani e libertà fondamentali;
10. Fondarsi sul consenso raggiunto e i progressi realizzati in precedenti conferenze e incontri di
vertice delle Nazioni Unite — sulle donne a Nairobi nel 1985, sui bambini a New York nel 1990,
sull’ambiente e lo sviluppo a Rio de Janeiro nel 1992, sui diritti umani a Vienna nel 1993,
sulla popolazione e lo sviluppo a Il Cairo nel 1994 e sullo sviluppo sociale a Copenhagen nel
1995 — per realizzare gli obiettivi di uguaglianza, sviluppo e pace;
11. Ottenere la piena ed effettiva applicazione delle Strategie future per il progresso delle
donne (Nairobi);
12. Assicurare il rafforzamento del potere di azione delle donne e il loro progresso, incluso il
diritto alla libertà di pensiero, coscienza, religione e opinione, contribuendo in tal modo a
rispondere ai bisogni morali, etici, spirituali e intellettuali di donne e di uomini, a livello
individuale e collettivo, e garantendo loro altresì la possibilità di realizzare appieno il proprio potenziale nella società e di vivere secondo le proprie aspirazioni.
Siamo persuasi che:
13. Il rafforzamento del potere di azione delle donne e la loro piena partecipazione su basi paritarie a tutti i settori della vita sociale, inclusa la partecipazione ai processi decisionali e il
loro accesso al potere, sono fondamentali per il raggiungimento della uguaglianza, dello sviluppo e della pace;
14. I diritti delle donne sono diritti fondamentali della persona;
15. Parità di diritti, di opportunità e di accesso alle risorse, uguale condivisione di responsabilità nella famiglia tra uomini e donne e una armoniosa collaborazione tra essi sono essenziali
per il benessere loro e delle loro famiglie così come per il consolidamento della democrazia;
16. L’eliminazione della povertà, per mezzo di una crescita economica sostenuta, dello sviluppo
sociale, della protezione dell’ambiente e della giustizia sociale, richiede la partecipazione
delle donne allo sviluppo economico e sociale, la parità delle opportunità e la piena e uguale partecipazione delle donne e degli uomini in qualità di protagonisti e beneficiari di uno
sviluppo durevole al servizio degli individui;
17. Il riconoscimento esplicito e la riaffermazione del diritto di tutte le donne a controllare tutti
gli aspetti della loro salute, in particolare la propria fecondità, sono di primaria importanza
per il rafforzamento del loro potere di azione;
18. La pace a livello locale, nazionale, regionale e mondiale può essere raggiunta ed è inestricabilmente legata al progresso delle donne, perché esse sono un motore fondamentale di
iniziative, per la soluzione di conflitti e per la promozione di una pace durevole a tutti i
livelli;
19. È essenziale delineare, applicare e verificare a tutti i livelli, con la piena partecipazione
delle donne, politiche e programmi efficaci, efficienti e in reciproco sostegno, che siano sensibili al tema della uguaglianza, inclusi i programmi e le politiche di sviluppo, allo scopo di
sostenere il rafforzamento del potere di azione delle donne e il loro progresso;
20. La partecipazione e il contributo di tutte le componenti della società civile, in particolar
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modo dei gruppi delle donne, e delle reti di contatto e delle altre organizzazioni non governative e comunitarie, nel pieno rispetto della loro autonomia, in collaborazione con i
Governi, sono importanti per la efficace applicazione e verifica del Programma di azione;
21. L’applicazione del Programma di azione richiede l’impegno dei Governi e della comunità
internazionale. Assumendo impegni nazionali e internazionali, inclusi quelli presi alla
Conferenza, i Governi e la comunità internazionale riconoscono la necessità di agire immediatamente per dare più potere alle donne e assicurare il loro progresso.
Siamo determinati a:
22. Raddoppiare gli sforzi e moltiplicare le azioni per raggiungere gli obiettivi prefissati nelle
Strategie future per il progresso delle donne (Nairobi) entro la fine del secolo;
23. Garantire il pieno esercizio da parte delle donne e delle bambine di tutti i diritti umani e libertà fondamentali, e adottare misure efficaci contro le violazioni di questi diritti e libertà;
24. Adottare tutte le misure necessarie per eliminare tutte le forme di discriminazione contro le
donne e le bambine e rimuovere tutti gli ostacoli alla parità tra i sessi, al progresso delle
donne e al rafforzamento del loro potere di azione;
25. Incoraggiare gli uomini a partecipare pienamente alle iniziative per la parità;
26. Promuovere l’indipendenza economica delle donne, in particolare per mezzo della occupazione, ed eliminare il perdurante e crescente peso della povertà sulle donne, affrontando le
cause strutturali della povertà per mezzo di cambiamenti nelle strutture economiche che
assicurino a tutte le donne – in particolare a quelle che vivono in aree rurali – pari accesso,
in quanto protagoniste essenziali dello sviluppo, alle risorse produttive, alle opportunità e ai
pubblici servizi;
27. Promuovere uno sviluppo durevole al servizio degli individui, in particolare una crescita economica sostenuta, sviluppando l’istruzione di base, l’educazione permanente, l’alfabetizzazione e la formazione, nonché l’assistenza sanitaria di base per donne e bambine;
28. Prendere iniziative concrete a favore della pace per il progresso delle donne e, riconoscendo il ruolo fondamentale svolto dalle donne nei movimenti per la pace, lavorare attivamente per un disarmo generale e completo, sotto lo stretto ed efficace controllo internazionale, e sostenere i negoziati per la conclusione, senza ulteriori rinvii, di un trattato universale, multilaterale ed effettivamente verificabile per la proibizione degli esperimenti nucleari, che possa contribuire al disarmo nucleare e alla prevenzione della proliferazione delle
armi nucleari in tutti i suoi aspetti;
29. Prevenire ed eliminare tutte le forme di violenza contro le donne e le bambine;
30. Assicurare pari accesso e uguale trattamento a donne e uomini nell’istruzione e nell’assistenza sanitaria, e migliorare la salute sessuale e riproduttiva delle donne così come la loro
istruzione;
31. Promuovere e proteggere tutti i diritti fondamentali delle donne e delle bambine;
32. Raddoppiare gli sforzi per assicurare l’uguale e pieno esercizio di tutti i diritti umani e libertà fondamentali per tutte le donne e le bambine che affrontano difficoltà molteplici, per ciò
che concerne la loro acquisizione di poteri e il loro progresso, a causa di fattori quali la loro
razza, età, lingua, etnia, cultura, religione, handicap, o perché sono donne indigene;
33. Assicurare il rispetto del diritto internazionale, in particolare il diritto umanitario, allo scopo
di proteggere le donne e le bambine in particolare;
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34. Creare le condizioni per realizzare al massimo il potenziale delle bambine e delle donne di
tutte le età, assicurare la loro piena e uguale partecipazione alla costruzione di un mondo
migliore per tutti e rafforzare il loro ruolo nel processo di sviluppo.
Siamo determinati a:
35. Assicurare l’accesso delle donne, in condizioni di parità, alle risorse economiche, in particolare alla terra, al credito, alla scienza e alla tecnologia, alla formazione professionale, all’informazione, alla comunicazione e ai mercati, come strumenti per far progredire le donne e
le bambine e attribuire loro poteri, anche attraverso lo sviluppo delle loro capacità, per
godere dei benefici che derivano dal pari accesso a queste risorse, tra l’altro, per mezzo
della cooperazione internazionale;
36. Assicurare il successo del Programma di azione, cosa che richiederà un forte impegno da parte
dei Governi, delle organizzazioni internazionali e delle istituzioni a tutti i livelli. Siamo profondamente convinti che lo sviluppo economico, lo sviluppo sociale e la protezione dell’ambiente siano interdipendenti e parti integranti dello sviluppo durevole, che è il nostro quadro
di riferimento per ottenere una migliore qualità di vita per tutti. Uno sviluppo sociale equo,
che permetta ai poveri, in particolare alle donne che vivono in condizioni di povertà, di utilizzare le risorse naturali in modo sostenibile, è una condizione necessaria per lo sviluppo
durevole. Riconosciamo inoltre che una crescita economica su larga scala e continua, nel contesto di uno sviluppo durevole, sia necessaria per lo sviluppo sociale e per la giustizia sociale. Il successo del Programma di azione richiederà anche una adeguata mobilitazione di risorse a livello nazionale e internazionale così come di risorse nuove e aggiuntive verso le nazioni in via di sviluppo da tutte le fonti di finanziamento disponibili, incluse fonti multilaterali,
bilaterali e private per il progresso delle donne; risorse finanziarie per rafforzare la capacità
di istituzioni nazionali, sub-regionali, regionali e internazionali; un impegno verso i pari diritti, pari responsabilità e pari opportunità e per una pari partecipazione delle donne e degli
uomini in tutti gli organismi nazionali, sub-regionali, regionali e internazionali e nei processi
politici decisionali; la istituzione o il rafforzamento di meccanismi di controllo a tutti i livelli, responsabili davanti alle donne di tutto il mondo;
37. Assicurare ugualmente il successo del Programma di azione nei Paesi la cui economia è in fase
di transizione, cosa che richiederà una continua cooperazione internazionale e assistenza;
38. Pertanto adottiamo – e ci impegniamo come Governi a tradurlo nei fatti – il seguente
Programma di azione, assicurando che il tema della parità tra i sessi sia riflesso in tutte le
nostre politiche e programmi. Chiediamo immediatamente al sistema delle Nazioni Unite,
alle istituzioni finanziarie regionali e internazionali, alle altre importanti istituzioni regionali e internazionali e a tutte le donne e uomini, così come alle organizzazioni non governative, nel pieno rispetto della loro autonomia, e a tutti i settori della società civile, di sottoscrivere risolutamente e senza restrizioni il Programma di azione e di partecipare alla sua
realizzazione in collaborazione con i Governi.
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Pechino +5
New York, 5-10 giugno 2000
DD
opo la conferenza di Pechino, i problemi di applicazione della sua Piattaforma sono stati
discussi ogni anno dalla Commissione ONU sulla condizione delle donne (CSW), che ha
approvato “conclusioni concordate” su ciascuna delle dodici aree critiche. Nel 2000 a New
York dal 5 al 10 giugno si è tenuta la Sessione speciale dell’Assemblea generale ONU sulla revisione della Piattaforma di Pechino “Donne 2000”. Uguaglianza di genere, sviluppo e pace per il
21° secolo”, nota informalmente come “Pechino +5”.
In questa sede i governi hanno ribadito il proprio impegno nei confronti della quarta
Conferenza mondiale sulle donne del 1995.
Dichiarazione politica di Pechino +5
Noi, Governi partecipanti alla sessione speciale dell’Assemblea Generale,
1. Riconfermiamo il nostro impegno verso le mete e gli obiettivi contenuti nella Dichiarazione
di Pechino e nella Piattaforma d’Azione, adottate nel 1995 in occasione della Quarta
Conferenza Mondiale sulle Donne, e alle Strategie future di azione per il Progresso delle
Donne fino all’anno 2000 come culmine del Decennio 1976 — 1985 delle Nazioni Unite per le
Donne, adottate a Nairobi;
2. Riconfermiamo inoltre il nostro impegno nell’attuazione delle dodici aree critiche della
Piattaforma d’Azione di Pechino, che sono: le donne e la povertà, l’istruzione e la formazione delle donne, le donne e la salute, la violenza contro le donne, le donne e il conflitto armato, le donne e l’economia, le donne nel potere e nel processo decisionale, gli organismi istituzionali per il progresso delle donne, i diritti umani delle donne, le donne e i mezzi di comunicazione, le donne e l’ambiente, e le bambine; e chiediamo l’attuazione delle conclusioni
e delle risoluzioni concordate sul follow-up della Quarta Conferenza Mondiale sulle Donne
adottate dalla Commissione sulla Condizione delle Donne a partire dalla sua trentanovesima
sessione;
3. Riconosciamo di avere la responsabilità primaria della completa attuazione delle Strategie
future di azione per il Progresso delle Donne di Nairobi, della Dichiarazione di Pechino e della
Piattaforma d’Azione e di tutti i relativi impegni per il progresso delle donne, e, a tale fine,
chiediamo la costante collaborazione internazionale, compresa la riconferma dello sforzo per
raggiungere il traguardo concordato a livello internazionale e non ancora realizzato di devolvere lo 0,7 per cento del prodotto nazionale lordo dei paesi sviluppati all’aiuto pubblico complessivo allo sviluppo il più presto possibile;
4. Salutiamo con soddisfazione i progressi finora compiuti per l’uguaglianza di genere e l’attuazione della Piattaforma d’Azione di Pechino e riconfermiamo il nostro impegno ad accelerare il raggiungimento della ratifica universale della Convenzione sull’Eliminazione di Ogni
Forma di Discriminazione contro le Donne, e a questo riguardo prendiamo atto degli sforzi
compiuti a tutti i livelli dai Governi, dal sistema delle Nazioni Unite e, a livello intergovernativo, da altre organizzazioni internazionali e regionali ed esortiamo a compiere sforzi
incessanti per la completa attuazione della Piattaforma d’Azione di Pechino;
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5. Riconosciamo il ruolo e il contributo della società civile, in particolare delle organizzazioni
non governative e delle organizzazioni delle donne, nell’attuazione della Dichiarazione e
della Piattaforma d’Azione di Pechino e incoraggiamo la loro partecipazione ai processi per
la ulteriore attuazione e valutazione;
6. Sottolineiamo che gli uomini debbono essere coinvolti e debbono assumersi la responsabilità
congiuntamente con le donne per la promozione dell’uguaglianza di genere;
7. Riconfermiamo l’importanza dell’incorporazione (mainstreaming) di una prospettiva di genere nel processo di attuazione delle conclusioni di altre importanti conferenze e vertici delle
Nazioni Unite e la necessità di un follow-up coordinato di tutte le conferenze e vertici più
importanti delle Nazioni Unite da parte dei Governi, delle organizzazioni regionali, e di tutti
gli enti e le organizzazioni del sistema delle Nazioni Unite nell’ambito dei rispettivi mandati.
Noi Governi all’inizio del nuovo millennio,
8. Riconfermiamo il nostro impegno a superare gli ostacoli incontrati nell’attuazione della
Piattaforma d’Azione di Pechino e delle Strategie future di azione di Nairobi e a rafforzare e
salvaguardare un contesto nazionale e internazionale favorevole, e a tal fine ci impegniamo
(formalmente) a intraprendere iniziative per garantirne la completa e rapida attuazione,
inter alia, attraverso la promozione e la tutela di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali, l’incorporazione ( maintreaming) di una prospettiva di genere in tutte le politiche
e i programmi, e la promozione di una piena partecipazione e dell’empowerment delle donne
e di una intensificata cooperazione internazionale per la completa attuazione della
Piattaforma d’Azione di Pechino;
9. Concordiamo di valutare regolarmente l’ulteriore attuazione della Piattaforma d’Azione di
Pechino con il proposito di riunire nel 2005 tutte le parti interessate per valutare i progressi compiuti e prendere in considerazione nuove iniziative, se del caso, 10 anni dopo l’adozione della Piattaforma d’Azione di Pechino e 20 anni dopo l’adozione delle Strategie future
di azione di Nairobi;
10. Ci impegniamo ad assicurare la realizzazione di società in cui sia le donne che gli uomini lavorino insieme per un mondo in cui ciascun individuo possa godere dell’uguaglianza, dello sviluppo e della pace nel ventunesimo secolo.
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Pechino +10
New York, 28 febbraio - 11 marzo 2005
AA
dieci anni dalla Quarta Conferenza mondiale sulle donne di Pechino, a New York, presso le
Nazioni Unite è in corso, dal 28 febbraio all’11 marzo, la quarantanovesima sessione della
Commissione sulla condizione della donna (CSW: Commission on the Status of Women).
Durante le due settimane di lavori viene valutato lo stato di attuazione degli obiettivi contenuti nella Dichiarazione di Pechino e nella Piattaforma d’Azione, adottata dalla Quarta Conferenza
Mondiale sulle Donne del 1995, nonché nel documento finale della ventitreesima Sessione
dell’Assemblea Generale, conosciuta come Pechino +5.
Il Consiglio Economico e Sociale delle Nazioni Unite (ECOSOC: Economic and Social Council)
ha stabilito che la 49esima sessione del CSW rappresenta un incontro plenario ad alto livello
aperto a tutti gli Stati membri dell’Nazioni Unite e agli osservatori, incluse le diverse organizzazioni non governative invitate a partecipare.
Pubblichiamo di seguito il documento presentato dal Governo italiano in cui sono illustrate
le politiche attuate in relazione alle linee guida della Piattaforma di azione di Pechino.
ITALIA. Revisione dell’attuazione della piattaforma d’azione di Pechino e documentazione dei risultati della 23ma seduta speciale dell’Assemblea Generale
Il Governo nominato di recente dopo le elezioni del 2001 ha posto le politiche di pari opportunità tra le priorità della sua agenda politica. L’attività del Ministro per le pari opportunità si è concentrata, fin dalla sua nomina, su un concetto più ampio di pari opportunità mirato a combattere tutti i tipi di discriminazione basati su quanto rappresentato nell’art. 13 del Trattato di
Amsterdam nella Unione Europea.
Ciò ha portato a un intervento più ampio di politiche di pari opportunità oltre l’approccio
tradizionale di parità di genere.
L’ampio spettro di funzioni attribuite al Ministro delle Pari opportunità, comprese questioni
cruciali come l’immigrazione, le politiche per l’assistenza ai bambini e le adozioni internazionali, hanno contribuito a creare una rete di misure collaterali e strumentali che rappresentano la
base culturale e pratica delle politiche di pari opportunità, anche se superano i confini della
questione della parità di genere in senso stretto.
Da un punto di vista culturale, il Governo ha elaborato una nuova prospettiva sul ruolo
delle donne non solo sul posto di lavoro ma anche in tutti i processi decisionali in campo politico ed economico, come mostra la Risoluzione, approvata dal Consiglio del Ministri che si è
tenuto nel settembre 2003 a Siracusa - durante il semestre di presidenza italiana della U.E. e mirata a garantire che una parte adeguata di candidate donna sia rappresentata in tutti i
contesti elettorali.
Da un punto di vista pratico, il Governo ha mirato a fornire servizi di uso immediato (come gli
asili nido) creati per riconciliare il ruolo delle donne in famiglia con le loro responsabilità professionali. Mentre non si può negare che poco tempo dopo la piattaforma di Pechino l’Italia si è sforzata di perseguire un certo numero di politiche di pari opportunità, bisogna anche dire che solo
negli ultimi anni c’è stata un’armonizzazione e una razionalizzazione delle azioni qualitative e
quantitative del Governo in questo importante campo dell’agenda politica.
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Lo scenario politico-istituzionale, sociale ed economico
Il Trattato di Amsterdam riconosce pienamente il principio della parità di genere e delle pari
opportunità tra uomini e donne come reiterate nei quattro pilastri delle linee guida europee per
l’impiego.
• Dall’insediamento del nuovo Governo nel 2001, il contenuto democratico delle riforme istituzionali mira a superare lo squilibrio di genere nel processo decisionale e a dare pieno
accesso all’impiego, ai servizi sociali e alle risorse economiche. In una cornice così complessa, la sfida rappresentata dall’applicazione piena della Piattaforma di Pechino in Italia è correlata alla qualità e al significato del processo in corso,che mira all’introduzione di una prospettiva di genere in tutte le politiche di governo. Il relativo Piano di Azione, adottato nel
marzo 1997, ha preso la forma di Direttiva del Primo Ministro ed è ancora in vigore. Strumenti
aggiuntivi forniti, quali i Piani Nazionali settoriali della azioni (PA) addottati negli ultimi anni
in accordo con il Trattato di Amsterdam ed in linea con le direttive UE, il succitato Piano
Nazionale di Azione, che emana direttamente da Pechino, vengono considerati le direttive
principali per un’ulteriore attuazione, Il Piano mira a promuovere l’empowerment delle
donne e a riconoscere e garantire la libertà di scelta e la valorizzazione della qualità della
vita per gli uomini e per le donne. La Direttiva si concentra sui concetti chiave della
Conferenza di Pechino: empowerment e mainstreaming. La ‘costruzione di una cultura del
‘mainstreaming’, recita la Direttiva, ‘implica l’esigenza di superare una nozione settoriale
delle questioni femminili o un’idea convenzionale di pari opportunità, che consiste in un
insieme di azioni per superare lo svantaggio. L’aspetto più innovativo del mainstreaming consiste nell’esigenza di iniziative che attraversino in diagonale tutte le azioni governative. La
Direttiva identificava azioni prioritarie in Italia, alle quali sono state aggiunte sei voci (riportate in grassetto sotto) dalla Dichiarazione delle Pari Opportunità, pronunciata nel 2001 dal
neo-Ministro per le Pari Opportunità, On. Prestigiacomo. Le aree bersaglio di azione comprendono:
-
Promozione delle donne nei processi decisionali e rappresentanza delle donne a tutti i
livelli elettorali
Coordinamento e riforma di enti per azioni istituzionali e di pari opportunità;
Eliminazione delle discriminazioni;
Cooperazione internazionale;
Formazione ed istruzione;
Promozione dell’imprenditoria e dell’impiego femminile:
Politiche di genere sull’utilizzo del tempo, l’organizzazione del lavoro e gli orari di lavoro;
Piano nazionale per gli asili nido;
Lotta contro la pedofilia;
Violenza sulle donne e misure contro il traffico di esseri umani;
Assistenza sanitaria (compresa la lotta contro la mutilazione dei genitali femminili)
Sia il Piano di Azione Italiano (Direttiva 1997) che il Ministro per le Pari Opportunità (che è incaricato, inter alia, di coordinare le politiche nazionali relative e di monitorarne la realizzazione)
enfatizza con forza l’importanza del collegamento tra il mainstreaming di genere nelle politiche
del governo e il processo di empowerment delle donne a tutti i livelli.
Accogliendo appieno le Osservazioni Conclusive del Comitato per l’Eliminazione della
Discriminazione Contro le Donne del 1997 (A/52/38/Rev.1), il Governo Italiano le ha tradotte
quasi tutte in leggi nazionali e attuate con azioni concrete come segue:
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1. Per quanto riguarda le politiche di empowerment, un emendamento all’Articolo 51 della
Costituzione è stato approvato nel 2003 per concedere pari accesso alle cariche pubbliche ed elettive (vedi sotto);
2. La questione della ‘conciliazione’, cioè l’equa distribuzione delle mansioni casalinghe e
delle ‘responsabilità di cura’ è stata affrontata ampiamente negli ultimi due anni;
3. La discriminazione indiretta è stata a lungo tempo oggetto di attenzione del Ministero
delle Pari Opportunità, per raggiungere la parità di genere nel sociale e sul posto di
lavoro;
4. Per affrontare la questione della violenza domestica, è stato avviato un Progetto Pilota
«La Rete URBAN delle città contro la violenza» . Il progetto coinvolge 26 città ed è coordinato dal Dipartimento Pari Opportunità.
5. Gi sforzi dell’Italia hanno anche affrontato la lotta contro il traffico di donne e bambini
a scopi di sfruttamento sessuale;
6. Quanto alla raccomandazione di eliminare gli stereotipi di genere nei libri di scuola, il
cosiddetto progetto PO.LI.TE. ha portato a un Codice di Condotta di Auto-regolamentazione per gli Editori di testi scolastici.
Accesso alle cariche pubbliche; accesso al mercato del lavoro e politiche per la famiglia. Misure
legislative e azioni concrete:
In questo frangente il processo di riforma più significativo si concentra sulla rappresentanza delle
donne nei corpi elettorali e nelle cariche pubbliche, e su un accesso paritario al mercato del
lavoro.
Con riferimento alla parità di accesso ai pubblici uffici (cariche pubbliche), sono recentemente entrate in vigore due leggi (2/2001 and 3/2001) di revisione della Costituzione che hanno
introdotto principi importati nei programmi dei governi regionali e locali. Entrambe le leggi
richiedono alle regioni a statuto speciale e a quelle a statuto ordinario di adottare leggi per
rimuovere tutti gli ostacoli alla piena eguaglianza fra i sessi, e a promuovere l’accesso paritario
alle cariche elettive.
Si tratta di misure che sicuramente determineranno cambiamenti significativi nell’attuale
legislazione elettorale nelle regioni, specialmente per quanto riguarda i corpi elettorali delle
autorità regionali e locali. Alcune Regioni hanno già attivato queste riforme. Per quanto riguarda l’organizzazione statale, nel 2001, solo pochi mesi dopo l’entrata del nuovo Governo, il
Ministero delle Pari Opportunità ha fatto approvare un disegno di legge costituzionale promosso
dal governo, che modifica l’articolo 51 della Costituzione in materia di accesso alle cariche pubbliche e ad altre nomine elettive. Il principio costituzionale, che emana dalla nuova formulazione dell’art. 51, prevede che la Repubblica debba promuovere ‘pari diritti tra uomini e donne
attraverso misure adeguate» , dichiarando il diritto di tutti i cittadini di entrambi i sessi ad accedere, in condizioni legali ed effettive di parità, ai pubblici uffici e alle cariche elettive (ad esclusione della Francia, questa misura Costituzionale non ha precedenti in tutta Europa). Il concetto di pari opportunità è entrato nella Costituzione, obbligando così la Repubblica a favorire ‘le
pari opportunità per uomini e donne tramite misure adeguate’. Esso sancisce i diritti di tutti i
cittadini, su basi paritarie, all’accesso ai pubblici uffici e alle cariche elettive.
La crescente presenza femminile nel mercato del lavoro è una delle trasformazioni più significative che interessano la struttura di impiego e la partecipazione al lavoro, negli ultimi anni.
Tutti gli indicatori principali del mercato del lavoro mostrano chiaramente tendenze positive
della partecipazione femminile. Le donne hanno occupato il 66% dei nuovi posti di lavoro creati
tra il 1998 ed il 2001, superando gli uomini in fatto di crescita di impiego (rispettivamente +9,7%
per le donne e +2,8% per gli uomini). Il tasso di diffusione è 3,8% per e donne rispetto all’1,9%
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per gli uomini. La percentuale di impiego delle donne - calcolata sulla fascia di età 15-64 anni
ha raggiunto una media del 41,1% nel 2001. La ripresa dell’impiego negli ultimi anni ha aperto
spazi sempre più ampi alle donne che entrano nel mercato del lavoro, persino per le categorie
tradizionalmente sottorappresentate, come le donne coniugate, quelle che rientrano nel mercato del lavoro dopo un congedo di maternità o dopo periodi di assenza forzati. La percentuale di
attività (fascia di età 15-64 anni) è aumentata dell’1,7% tra il 1998 e il 2001: dal 58,7% al 60,4%.
Nonostante gli evidenti passi avanti, le regioni meridionali non seguono il passo. Qui la percentuale di impiego femminile identificata nel 2001 resta bassa (26%), anche se è in crescita
costante dalla fine degli anni ’90. La percentuale di impiego in totale ha raggiunto il 54,6%, ancora in ritardo rispetto agli altri partners europei; sebbene sia cresciuta del 4% dal 1995, resta del
9% inferiore alla media europea, e resta più del 15% inferiore all’obbiettivo fissato dalla Unione
Europea per il 2010. La componente femminile è aumentata di quasi il 6% (oltre il 41% in totale)
dal 1995, anche se qui il divario con il resto dei livelli attuali ed auspicabili dell’Unione aumenta ancora di più. Il tasso di occupazione è strettamente correlato all’istruzione. Laddove le
donne laureate nei gruppi di mezz’età raggiungono alti livelli occupazionali (quasi il 90% delle
donne laureate ha un impiego nella fascia dai 40 ai 44 anni), il tasso di occupate con basso livello di istruzione - scuola primaria o nessuna qualifica - è costantemente inferiore al 30%. Una cartina della distribuzione dell’impiego per macrosettori di attività economica evidenzierebbe che
la partecipazione femminile si concentra soprattutto nel settore dei servizi, molto più rispetto
al corrispettivo maschile. La presenza delle donne è ancora concentrata in settori tipicamente
‘femminili’, per un totale del 53,4% nei servizi pubblici, sociali e per la persona, e fino al 66,4%
nell’istruzione. I settori a forte prevalenza maschile sono l’informatica dove le donne rappresentano solo il 30,4%), i trasporti (15,2%), costruzioni ed edilizia (6%). In generale, l’accesso alle
mansioni direttive è estremamente difficile per le donne, anche in quei settori dove la presenza femminile è superiore alla media. Una cartina della distribuzione dell’impiego per posizione
professionale mostra una forte sotto-rappresentanza ai livelli direttivi e una sovrarappresentanza
in posizioni che richiedono qualifiche inferiori. Ad esempio, il rapporto delle donne imprenditrici e dirigenti è 2,2% rispetto al 5,2% degli uomini. Sebbene le donne possono superare le barriere all’accesso grazie alla loro miglior preparazione e specializzazione, gli ostacoli alla crescita
professionale (sia nel settore pubblico che in quello privato) continuano comunque a restare alti.
E’ anche opportuno ricordare che i divari nei salari restano ampi e le stime istituzionali (da fonti
quali il CNEL -il consiglio nazionale degli affari economici e del lavoro - e la Banca d’Italia) concordano sul fatto che il divario salariale varia dal 20% al 25%. Nello scenario globale dell’impiego, la percentuale di donne in part-time è molto più alta di quella degli uomini. Se da un canto
progetti di part-time di vario genere hanno contribuito ad aumentare la rappresentanza femminile nel mercato del lavoro, favorendo la riconciliazione degli impegni familiari e lavorativi, essi
tendono ad avere un impatto negativo sulle condizioni di lavoro, sulle qualifiche e sullo sviluppo professionale delle donne. La difficoltà delle donne nell’ottenere una collocazione adeguata
sul mercato del lavoro non è affatto dovuta alla mancanza di istruzione. Le donne hanno raggiunto gli stessi livelli di istruzione degli uomini - talvolta anche superiori. Il livello di istruzione
raggiunto dalle donne fino ai 39 anni di età è superiore al corrispettivo maschile; il divario maggiore si riscontra nella fascia di età 20-24, dove oltre il 70% delle donne ha un diploma di scuola superiore, rispetto al 63% degli uomini.
I Programmi co-finanziati dai Fondi strutturali della Unione Europea svolgono un ruolo importante per incoraggiare la crescita dell’impiego femminile e la riconciliazione tra responsabilità
familiari e lavorative. In particolare, viene riservata una quota del 10% del Fondo Sociale Europeo
per ogni Programma operativo che proviene dalle Regioni italiane, alle azioni mirate alla attua-
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zione dei principi di parità (Campo E della policy): stiamo parlando della percentuale più alta tra
tutti i Paesi Europei e ciò significa, nella nostra attuale fase di pianificazione (2000-2006), un
investimento da un miliardo di euro.
A livello più specifico, il Ministero per le attività produttive (ex Ministero dell’Industria,
Commercio e Artigianato) è attualmente impegnato a realizzare le proprie politiche per l’empowerment delle donne nell’imprenditoria. A tal riguardo, mentre il Ministero sta attualmente
monitorando la situazione delle donne imprenditrici in tutto il paese, in modo da redigere un
rapporto per misure future e iniziative da intraprendere, il Governo è pienamente impegnato a
tradurre le relative misure UE in legislazione nazionale. Di fatto, il Ministero ha richiesto ed ottenuto la trasposizione della Direttiva UE 2002/73 in Legge della Comunità nel 2003, per velocizzare la redazione del Decreto Legislativo relativo per la sua attuazione. Tale Direttiva introduce
novità significative sulla questione del pari trattamento tra uomini e donne in termini di accesso al lavoro, formazione professionale, avanzamento di carriera e condizioni di impiego. Con
l’approvazione della Legge Comunitaria del 2003, il Governo ha fatto dei passi concreti per
attuare detta Direttiva. Mentre sono state modificate le leggi del caso, la Legge n. 125/1991 è
stata emendata con il Decreto Legge n. 196/2000, che ha introdotto cosiddette azioni positive
nel campo dell’impiego ed ha istituito un funzionario ad-hoc, il ‘consulente di parità’, che opera
a livello provinciale, regionale e nazionale, per difendere le lavoratici. Si tratta di una norma
molto avanzata, che si occupa di donne che sono stata pregiudicate da un comportamento discriminatorio sul posto di lavoro, ma che deve essere ulteriormente aggiornata. I criteri fissati per
attuare detta Direttiva (articolo 16 del disegno di legge Comunitario, 2003), riportati nella misura di attuazione normativa approvata dal Consiglio dei Ministri, sono i seguenti:
a) garantire l’applicazione effettiva del principio di parità di trattamento tra uomini e
donne sul lavoro, assicurando che la differenza di genere non sia causa di discriminazione diretta o indiretta, in una prospettiva che prenda in considerazione lo stato civile o
la famiglia, in relazione a: condizioni di accesso al mercato del lavoro, sia in qualità di
dipendente o lavoratore autonomo; relazioni tra dipendente e datore di lavoro, remunerazione e condizioni di dismissione; accesso a tutti i tipi livelli di formazione professionale, corsi di specializzazione e riqualificazione, compresi gli apprendistati; attività
effettuate per le organizzazioni dei lavoratori o datori di lavoro e accesso a posti forniti da tali organizzazioni.
b) definire la nozione di discriminazione come ‘diretta’ quando una persona viene trattata in maniera meno favorevole in base al genere, rispetto a come un’altra persona è, è
stata, o sarebbe stata trattata in situazione analoga; definire la nozione di discriminazione come ‘indiretta’ quando una regola, un criterio, o una procedura apparentemente neutri, pongono in uno stato di svantaggio particolare un genere rispetto all’altro sesso, tranne nei casi in cui il trattamento diverso sia giustificato da ragioni obbiettive, ad esempio nel caso di mansioni in cui determinate caratteristiche sessuali siano
requisiti essenziali per lo svolgimento delle mansioni; definire la nozione di ‘molestie’
quando, per motivi correlati al genere, un comportamento indesiderato obiettivamente pregiudichi la dignità e libertà di una persona, creando un’atmosfera di intimidazione ostile e di umiliazione; definire la nozione di ‘molestia sessuale’ quando detto comportamento abbia dei connotati sessuali manifesti; e infine considerare la molestia e la
molestia sessuale come discriminazioni; c) prevedere l’attuazione del principio di parità di trattamento senza distinzione di genere in tutti i settori del lavoro, pubblico e privato, assicurando che, mentre si rispettano le norme del settore, coloro i quali abbia-
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no subito danni abbiano diritto a protezione legale e/o amministrativa, e abbiano garantito un risarcimento o una riparazione equivalente; d) riconoscere il diritto alle associazioni di rappresentanza di intraprendere azioni legali e/o amministrative quando i
membri si sentano discriminati, con delega della parte lesa, cioè prevedere casi di discriminazione collettiva quando i soggetti lesi non siano direttamente o facilmente identificabili, di modo che l’associazione possa rappresentarli nella vertenza. Riguardo alle
norme precedenti, la novità principale è l’introduzione di una norma specifica per combattere la molestia sessuale sul posto d lavoro. Il ministero delle Pari Opportunità ha
anche istituito un gruppo di studio, ‘Donne e lavoro’, (con Decreto Ministeriale del 1
luglio 2002) che sta esaminando la legislazione primaria e secondaria, al fine di valutare, durante la fase attuativa, la efficacia delle misure attuali nel combattere la discriminazione di genere sul lavoro. Lo studio, che è in corso, monitorizza gli strumenti legali forniti per la protezione delle donne rispetto a: 1) accesso al mercato del lavoro; 2)
ottenimento di vari tipi di contratti flessibili; 3) formazione professionale e riqualificazione, specializzazione e remunerazione; 4) adeguatezza degli strumenti esistenti per
difendere le donne in caso di molestie sessuali sul lavoro, in vista di elaborare nuove
proposte in linea con le misure europee; 5) problemi relativi alla gestione della famiglia; 6) misure che consentiranno alle donne lavoratrici di conciliare il loro orario di
lavoro con la vita familiare.
Misure di legge, politiche e azioni positive ulteriori
Il quadro delle politiche e della legislazione nazionale per le pari opportunità comprende misure per promuovere azioni positive nel campo della parità nel posto di lavoro, l’imprenditorialità
femminile, il sostegno alla maternità, l’organizzazione del lavoro, il sistema di azioni e politiche
sociali del lavoro. Al tal riguardo, negli ultimi anni gli sforzi del Governo si sono concentrati sul
principio di mainstreaming e sull’adozione di una prospettiva di genere in tutte le scelte, politiche ed azioni promosse dallo Stato a tutti i livelli amministrativi. Le politiche paritarie si sono
concentrate sulla parità sostanziale e sulle azioni potenziali per lottare contro tutte le forme di
discriminazione/segregazione, non più affrontando semplicemente i problemi delle donne.
E’ stato ampiamente sviluppato un nuovo concetto di Pari Opportunità. Molte misure introdotte negli ultimi anni hanno un impatto sia diretto che indiretto sulla parità. Le più significative azioni politiche mirate alle donne sono: l’Insieme di Norme per Ottimizzare il Processo di
Azioni a favore della Imprenditoria Femminile, emanate nel luglio del 2000, il Decreto Legislativo
n. 196 del 23 maggio del 2000, che contiene le nuove norme per i consulenti di parità e le misure in termini di azioni politiche; la legge n. 53/2000 sul sostegno alla maternità e paternità, il
diritto all’assistenza e alla formazione continua e il coordinamento dei tempi della città; il Testo
Unico n. 151 del marzo 2001, che raccoglie tutte le misure di legge sulla protezione e sul sostegno della maternità e della paternità. Oltre a ciò, molti benefits sociali sono stati forniti dalle
Leggi Finanziarie degli anni 1999, 2000 e 2001, rispettivamente per l’estensione della indennità
di maternità alle madri senza accesso ad altri tipi di sostegno economico alla maternità, assegni
familiari e indennità di malattia alle professioniste coordinate da un datore di lavoro, l’aumento dell’indennità di maternità a 250,00 euro mensili per le donne che non godono di indennità di
maternità e sgravi fiscali, e congedi retribuiti fino a due anni per genitori con figli disabili 1.
Le misure per la parità ad impatto indiretto (cioè quelle di argomento e fini generali con
effetti positivi sulle relazioni di genere) più degne di nota, emesse nel triennio 1998-2001, prevedono l’introduzione del telelavoro nel servizio pubblico; incentivi all’imprenditoria indipendente e al lavoro autonomo, oltre ad agevolazioni alle aziende con prevalenza di donne e l’obbligo per tutte le amministrazioni locali e nazionali di definire strumenti che consentano alle
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aziende gestite da donne un accesso più facile ai finanziamenti pubblici. Le ultime due misure
intendono promuovere la parità sostanziale e le pari opportunità ad uomini e donne nelle attività economiche ed imprenditoriali. E’ opportuno citare anche la trasposizione delle Decisioni
della Corte di Giustizia della CE sul lavoro notturno nella Community Legislation del 1998 e nella
Legge delega 532 del Novembre 1999. Queste norme contengono una garanzia implicita per le
donne. Di fatti riaffermano, inter alia, le norme che vietano il lavoro notturno alle madri, dalla
gravidanza al compimento del primo anno di età del figlio.
Data la sua particolare rilevanza, una delle misure elencate sopra merita un’attenzione maggiore: la Legge Delega n. 196/2000: Il Nuovo Profilo Funzionale dei Consulenti di Parità.
La politica di parità più significativa è stata stabilita con la Legge 125/91 sulle azioni positive, introducendo nella legislazione italiana azioni specifiche mirate alla promozione dell’impiego femminile e a raggiungere la parità di genere sostanziale sul posto di lavoro. Quanto sopra
implica la valorizzazione del ruolo e delle funzioni dei Consulenti di Parità, predisposto dalla
Legge Delega n. 196/2000, che a sua volta integra il quadro di azioni positive in termini di azioni, strumenti e mezzi finanziari. L’attuazione completa della Legge n.125/1991 che è correlata
alla decentralizzazione amministrativa del lavoro attivo, della formazione e delle politiche di
istruzione. La devolution alle Regioni e agli Enti locali rafforzerà le azioni positive per la parità
per le politiche del lavoro e i servizi all’impiego, e per il processo decisionale su questioni di sviluppo locale. Il decreto prevede che i consulenti per la parità collaborino con i Consiglieri del
Lavoro degli Enti Locali e con le organizzazioni per la parità attive a livello locale e che siano
membri di commissioni di parità locali. I Consulenti per la Parità svolgono un ruolo chiaro per
raggiungere gli obbiettivi previsti dalla Legge, grazie alla loro attività sul campo. Di fatti, a livello nazionale, regionale e provinciale, il loro compito è di promuovere le pari opportunità nelle
loro aree di competenza, e di monitorare il rispetto della normativa contro la discriminazione.
Quanto alle loro funzioni, i consulenti per la parità svolgono i compiti previsti dalla legge individuando squilibri di genere, promuovendo azioni positive, anche per mezzo della UE, del governo nazionale e degli enti locali.
Per quanto riguarda le azioni, più in generale, l’articolo 7 della Legge delega n. 196/2000 ha
rafforzato l’obbligo esistente per le pubbliche amministrazioni di realizzare dei piani di azioni
positivi triennali per assicurare, nelle loro rispettive aree di applicazione, la rimozione di ostacoli che impediscono la realizzazione piena delle pari opportunità tra uomini e donne sul posto
di lavoro.
Misure ulteriori. Breve lista delle attività e delle misure concrete attuate finora:
1. A livello educativo:
A causa dell’alto numero di famiglie di immigranti che si stabiliscono in Italia, il sistema scolastico italiano ha contribuito in maniera sostanziale alla questione dell’integrazione e delle pari
opportunità. L’arrivo di molti studenti e studentesse stranieri ha posto il sistema scolastico italiano di fronte ad esigenze nuove, in termini di assistenza, flessibilità e considerazione della
diversità e dei diritti di tutti i bambini ad essere istruiti, nel rispetto delle loro diversità. Il
modello scolastico italiano che si presenta allo studente straniero non è una semplice risposta
sintomatica alle nuove richieste poste dall’immigrazione. Esso è: integrazionista, nell’unire gli
studenti stranieri nelle classi di italiani; interculturale, consapevole della relazione tra conoscenza-scambio-reciprocità tra persone di origine diversa, e promotore di una cultura dinamica
e sfaccettata; attento a valorizzare la cultura e la lingua nativa degli studenti stranieri. La questione della parità di genere viene anche affrontata dal sistema istituzionale di istruzione. Questi
programmi sono in vigore dal 2000.
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Il Ministero dell’istruzione ha formato personale sulle questioni di genere e di pari opportunità; la promozione di una cultura di pari opportunità del Ministero, che è responsabile del
Programma Operativo Nazionale “La scuola per lo sviluppo”, co-finanziato dai Fondi strutturali
europei.
Questa iniziativa, lanciata nel 2000, e già pianificata fino al 2004, è stata realizzata in Italia
meridionale. In questo quadro, sono state prese iniziative specifiche, come corsi generali di
accompagnamento (tipo baby-sitting) per donne con problemi economici o familiari. Questi programmi hanno creato circa 1.200 progetti, che coinvolgono 25.000 donne e ragazze, con un costo
di circa 50 milioni ad oggi.
Quanto all’accesso a livelli di istruzione superiore, nel 1999, sotto la Presidenza Finlandese
della UE, è stato formato un Gruppo di Lavoro su «Donne e Scienza», è stato creato il cosiddetto
«Gruppo di Helsinki» allo scopo di favorire uno scambio di opinioni sulle migliori pratiche per
aumentare il numero di donne scienziate. Dalla sua creazione, il Governo italiano ha svolto un
ruolo di primo piano in questo gruppo di lavoro quale modo per promuovere il ruolo delle donne
nel campo scientifico.
2. Facilitazioni all’accesso al mercato del lavoro - TCI e politiche per la famiglia:
Nelle aziende della New Economy, il 12,8% dei manager sono donne, mentre resta un divario
nella distribuzione della retribuzione tra uomini e donne, pari al 27%. Nonostante tali dati, si sta
sviluppando una nuova tendenza in Italia: la scoperta della TCI per potere facilitare le donne nel
loro tentativo di gestire gli obblighi familiari e lavorativi.
Programma nazionale per gli Asili Nido
Per conciliare i molteplici ruoli delle donne in famiglia e sul lavoro, attraverso una serie di strumenti e servizi, vale la pena citare un piano nazionale per le scuole materne. Esso fornisce servizi immediatamente disponibili alle donne lavoratrici, permettendo loro di contemperare la loro
vita professionale e quella familiare. I risultati sono: creazione di un Fondo per Asili Nido per il
2002/2004, ammontante a 300 milioni di euro da stanziare per attività relative; ed un disegno di
legge, attualmente sotto l’esame del Comitato degli Affari Sociali alla Camera dei Deputati
(AC2020), che regolerà sistematicamente l’intera questione, prevedendo la creazione di asili
diurni e di piccole nursery sul posto di lavoro. Il disegno modifica e aggiorna la legge 1971, che
mal si adatta a un contesto sociale che è cambiato a causa dell’enorme aumento di presenza
femminile nel mercato del lavoro. Il disegno prevede un sostegno concreto alle famiglie. A tal
fine, l’art. 70 della Finanziaria n. 448/2001 e l’Art. 91 della Finanziaria n. 289/2002 stabiliscono la creazione di un fondo per la realizzazione di nursery e micro-nursery nei luoghi di lavoro.
Nel 2003, furono stanziati 10 milioni di euro da un comitato nazionale ai datori di lavoro
(compreso il settore pubblico) che avessero preso misure in questa direzione per assicurare il
finanziamento di circa 100 progetti equamente distribuiti sul territorio nazionale. Sono già state
% di donne
nel mercato
del lavoro *
Italia
39%
Differenza di
% di donne
salario tra donne e al
uomini nel settore Parlamento *
manifatturiero
83% (1990)
10%
% di tecnici o
professionisti
donna *
% di donne che
navigano su
internet **
% di donne che
usano siti e-gov.*
44%
35,4%
31,7%
Dati: Nielsen//NetRatings, Dicembre 2003
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prese misure specifiche a tal fine: 1. Il decreto legislativo 151/2001, a. congedo di maternità/paternità, congedo parentale per entrambi i genitori fino all’8° anno di età del figlio, congedo per malattia del figlio, periodi di riposo e permessi per ragioni familiari (su base oraria); b.
divieto di turni notturni in gravidanza e fino a un anno di età del figlio; possibilità di esenzione
dal lavoro notturno, in particolare in situazioni familiari con figli al di sotto dei tre anni di età,
o di assistenza a disabili a carico; c. è stato sottolineato in particolare il supporto alle famiglie
con disabili a carico.
Legge 53/2000 - Misure per Congedi Parentali e Formativi e Misure a sostegno della maternità e
della paternità, per il diritto di accudimento e di formazione e per coordinare gli orari urbani
hanno lo scopo di venire incontro ai genitori nella condivisione dell’accudimento dei figli, con un
sistema di protezione molto più ampio rispetto a quanto previsto dalla legislazione precedente,
rendendo finalmente possibile la conciliazione dei tempi lavorativi e la vita familiare. I notevoli vantaggi previsti da questa legge, non più limitati alle donne (e alle madri lavoratrici in particolare) , vengono estesi ai padri, a cui viene finalmente riconosciuto il diritto e a cui viene fornita la possibilità di prendere dei periodi di congedo relativamente lunghi per accudire e assistere i figli. La Legge n. 53/2000 è indubbiamente una delle più innovative nello scenario europeo. In particolare, l’articolo 9 di questa legge introduce la flessibilità nell’orario di lavoro, con
specifico (ma non esclusivo) riferimento alla cura dei figli. Stimola lo sviluppo di una cultura
imprenditoriale completamente nuova, a favore di nuovi strumenti di ‘libertà’ in ambito aziendale, e favorisce il dialogo responsabile tra l’Azienda e i dipendenti. L’art. 9 in particolare prevede incentivi alle aziende che sottoscrivano accordi contrattuali che realizzano azioni positive
per valorizzare la flessibilità. Possono richiedere il finanziamento quelle aziende che, avendo stipulato degli accordi contrattuali con Sindacati istituzionali, attuano azioni positive in favore
della flessibilità. Viene data priorità alle cosiddette piccole imprese, in quanto il 50% dei fondi
stanziati ogni anno è riservato ad aziende con meno di 50 dipendenti. Indubbiamente, l’accordo
collettivo come prerogativa per avere accesso ai finanziamenti è una delle innovazioni più significative previste da questa Legge. Lungo la stessa linea, infine, occorre citare la Legge 30/03.
Le azioni positive da aggiungere nei progetti per accedere ai fondi sono il part-time reversibile, il telelavoro, e programma per il lavoro da casa, orario di lavoro (inizio e fine) flessibile,
banca delle ore, turni flessibili, concentrazione delle ore di lavoro. I fondi stanziati dalla Legge
ammontano a circa 21 milioni di euro l’anno. La maggior parte dei progetti di azioni positive presentati ad oggi dalle aziende prevede progetti di part-time.
3. Diritti delle donne: la violenza sulle donne e sui bambini
a. Nel quadro del sociale, il Governo italiano ha anche affrontato ampiamente la violenza domestica, introducendo il progetto Pilota, «La Rete URBAN delle città contro la violenza. Il progetto
fu lanciato nel 1998, ed è stato realizzato da 8 città. Nel 2001, il progetto ha ricevuto ulteriori
fondi CE che hanno permesso di coinvolgere 26 città in totale 2. Gli obbiettivi del progetto sono:
a) sviluppare una serie di indicatori comuni per individuare e analizzare le varie forme di violenza sulle donne: b)definire un protocollo di azione sulla prevenzione e sradicamento della
violenza sulle donne: c) definire una metodologia per la riorganizzazione dei servizi esistenti di assistenza alle donne vittime di violenza. La rete creata dal progetto ha pubblicato un
manuale di formazione sulle strategie per sradicare la violenza sulle donne e come organizzare servizi per assistere le vittime. Con particolare riferimento alle misure contro la violenza sessuale, molti elementi hanno contribuito alla sensibilizzazione su quanto sia efferata la violenza degli uomini contro le donne, sia per la sofferenza individuale causata, sia per
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gli effetti sociali ed economici perversi che essa scatena. Al di là dell’adozione della Legge
n. 66/1996, sono state intraprese molte azioni a diversi livelli dalle istituzioni pubbliche
locali e nazionali, come pure da associazioni di donne e da ONG. La Legge di cui sopra, ha
fornito uno strumento inestimabile a molte associazioni di donne, che da anni stanno cercando di affrontare la piaga della violenza sulle donne e di svolgere un ruolo chiave nel dare
sostegno alle vittime di mariti, compagni e padri violenti, ospitandole in centri di accoglienza. E’ opportuno citare in questo campo i traguardi raggiunti dalla Regione Emilia Romagna,
che ha aperto un centro anti-violenza in ogni provincia, ha fornito un coordinamento regionale a tutta la rete, ed ha effettuato approfondite analisi su particolari aspetti del fenomeno. Oltre 100 associazioni hanno organizzato centri di consulenza, centri di accoglienza, telefoni verdi di emergenza, e hanno fornito supporto legale e psicologico alle donne in difficoltà. Una legge recente, n. 154/2001 ‘Misure contro la Violenza nelle relazioni familiari’ e le
successive modifiche introdotte con la Legge n. 304/2003, ha introdotto delle misure innovative che già esistono nel diritto degli altri paesi. In particolare, ‘il divieto di frequentazione garantisce l’allontanamento del perpetratore della violenza dalla casa di residenza del
nucleo familiare.
b. Violenza sui bambini. Insieme a leggi specifiche, con il sostegno dei fondi forniti dalle Regioni
e dagli Enti Locali in base alla Legge 285/97 sui Diritti dei Bambini, sono state attivate oltre 300
strutture su iniziativa del Ministero delle Pari Opportunità, con la continua attività sul campo dei
servizi sociali e sanitari e delle ONG, specialmente quelle che si occupano di violenza infantile
e di abusi tra le mura domestiche. E’ stata anche creata una rete, che collega i servizi pubblici,
i centri antiviolenza e le associazioni che combattono contro la violenza alle donne. Il Governo
ha anche adottato un piano speciale sulla violenza sui bambini tra le mura domestiche, finanziando azioni prioritarie indicate dai Comuni, dalle ASL, dalle scuole e/o servizi sociali privati.
Con la legge n. 451 del 23 dicembre 1997 è stata creata una Commissione Nazionale speciale che
ha redatto le «Linee Guida contro la violenza e l’abuso sui bambini». Molta attività di ricerca su
aspetti particolari del fenomeno, insieme ad azioni e piani di sensibilizzazione, sono stati resi
possibili dai fondi versati ad associazioni di donne e alle università in base al finanziamento UE
del programma DAFNE. Negli ultimi anni, dal 1997 al 2000, le iniziative dell’Italia a tal riguardo
si sono triplicate.
Il Ministero della pari opportunità ha anche creato un comitato interministeriale, di nome
CICLOPE, che rappresenta una rete di tutte le amministrazioni pubbliche coinvolte nella lotta
contro la pedofilia, soprattutto contro le nuove espressioni di questo fenomeno su Internet.
c. Traffico di donne e bambini: L’Italia è anche pienamente impegnata nello lotta contro il traffico di donne e bambini a scopi di sfruttamento sessuale. Tale impegno è gia stato tradotto in
legge con un decreto Legge, n. 286/98 (la legge Italiana in materia di immigrazione) e una legge
recente, la n. 228/2003. Attraverso l’introduzione dell’Articolo 18 nel decreto Legislativo n.
268/98, l’Italia ha cercato di rispondere tempestivamente ed efficacemente al problema crescente creato dal traffico di persone. L’articolo 18 infatti permette la concessione di un permesso di residenza speciale alle vittime di commercio di persone, e prevede la loro partecipazione ad un programma sociale di assistenza per l’integrazione. La durata del permesso di residenza è sei mesi e può essere rinnovato per un anno o più.
Per la gestione e attuazione dell’Articolo 18, il Dipartimento italiano delle pari opportunità
coordina la Commissione interministeriale - composta da rappresentanti del Ministero del Lavoro,
dal Ministero dell’Interno e dal Ministero della Giustizia. Nel quadro dell’Articolo 18 vi sono dei
fondi nazionali, assegnati al Ministero per le pari opportunità, a sostegno e per l’attuazione dei
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progetti di protezione sociale; su tale questione, la Commissione interministeriale sopra citata,
fornisce le direttive e le politiche da adottare per la valutazione e selezione dei progetti. Questi
progetti si rivolgono a donne e bambini stranieri vittime di traffico, e l’obbiettivo primario è di
fornire loro un alto livello di protezione sociale, un rifugio adeguato, informazioni sui loro diritti umani, servizi socio-sanitari, assistenza medica e psicologica, assistenza nel trovare impiego,
formazione professionale, consulenza legale e i servizi di un traduttore competente in caso di
vertenze legali. Dal 1999 al 2004 il Ministero per le pari opportunità ha co-finanziato:
• 291 progetti di protezione sociale. Durante i primi tre anni di attività dei progetti in base
all’Art. 18 (dal 2000 al 2003):
• 5.313 donne vittime di traffico hanno partecipato ai progetti di protezione sociale.
Grazie all’art. 18 sono state intraprese ed attuate altre iniziative sociali, come il telefono verde
contro il traffico di persone, campagne ad hoc, la possibilità di rientro volontario al paese di origine. Il telefono verde ha iniziato ad operare nel luglio 2000 e consiste in una sede nazionale (con
venti operatori che lavorano 24 ore su 24), e 14 sedi locali. Dal luglio 2000 al Marzo 2003, il telefono verde ha ricevuto 194.250 chiamate. La recente legge italiana «Misure contro il traffico di
Esseri Umani « (approvata l’11.08.03, n. 228) si concentra sulla presentazione di una nuova definizione del reato di traffico di essere umani, che diventa passibile di una pena che va dagli 8 ai
20 anni di carcere. La Legge prevede una sentenza più severa in caso di circostanze aggravanti
che coinvolgono vittime di età inferiore ai 18 anni.
d. Lotta contro la Mutilazione dei Genitali Femminili: Una proposta di legge è stata già approvata da una delle due Camere del Parlamento, con il forte appoggio del Ministro delle pari opportunità, per introdurre nel Codice Penale italiano il reato specifico di Mutilazione dei Genitali
Femminili e allo stesso tempo per prevedere un intero pacchetto di misure preventive in termini di campagne di informazione e di sensibilizzazione per le comunità immigrate africane e corsi
di formazione per personale socio-sanitario che lavora a contatto con gli immigrati.
e. Lotta contro la discriminazione
Dopo aver attuato la direttiva UE n. 2000/43 con la legge delega n. 215/2003, il Governo ha stabilito, nel 2004, nell’ambito del Ministero delle Pari Opportunità, un Ufficio nazionale contro la
discriminazione razziale. A causa del grosso numero di donne immigrate vittime di razzismo e
discriminazione, il ruolo del nuovo Ufficio sarà molto importante per assicurare l’efficacia del
principio di pari trattamento, indipendentemente dal sesso, dalla razza, e dall’etnia.
Le funzioni dell’Ufficio saranno di raccogliere le relazioni delle vittime e delle ONG e di fornire assistenza alle vittime stesse di discriminazione.
Lezioni apprese: differenze di genere
L’aumento nell’attività e nelle percentuali di impiego delle donne è indice della pressione crescente sul mercato del lavoro di categorie quali donne sposate, donne che ritornano al lavoro
dopo responsabilità di accudimento di figli o dopo un congedo forzato, tutte categorie sottorappresentate fino a dieci anni fa. Nonostante l’aumentata presenza delle donne, la struttura
partecipative nel sistema economico continua ad essere caratterizzata da una segregazione
basata sul genere, sia verticale che orizzontale, in termini di impiego. Le variabili geografiche
hanno un’influenza significativa sull’accesso al mercato del lavoro per le donne, e accentua le
loro difficoltà rispetto a quelle degli uomini. Il mercato del lavoro nelle regioni dell’Italia meridionale si caratterizza per l’alto tasso di disoccupazione; una percentuale di attività femminile
pari a circa la metà di quella maschile; mancanza di trasparenza nei meccanismi di assunzione
e di collocamento risultante dalla mancanza di servizi per le persone in cerca di impiego; diffu-
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sa emarginazione e sotto-utilizzo delle risorse umane; una disparità ancora significativa nei livelli salariali; una bassa presenza di donne in posizioni direttive; e una predominanza di donne nel
mercato del lavoro ‘informale’. La natura tradizionalmente ‘temporanea’ dell’impiego femminile sta gradualmente scomparendo: nell’ultimo decennio le percentuali di impiego di donne con
figli sono cresciute costantemente. Tuttavia, tale incremento non si è accompagnato a una più
equa distribuzione delle responsabilità familiari: le mansioni non retribuite attinenti a questa
sfera ricadono quasi interamente sulle donne, in cui il totale delle ore lavorate, retribuite o
meno, è in media il 28% in più delle ore lavorate dagli uomini. Il 32,5% degli uomini che lavorano dedicano zero ore a mansioni attinenti alla sfera familiare. Da ciò possiamo dedurre che le
donne con doppio impiego e un ruolo familiare cercano dalle proprie scelte di impiego situazioni che offrano loro la maggiore flessibilità possibile nell’organizzazione e gestione dell’orario di
lavoro. Anche nell’Italia meridionale, le donne sono più spesso impiegate in lavori part-time, con
una proporzione dell’11,3%, rispetto al 14,8% al Centro e al Nord. Lo sviluppo di diverse forme
contrattuali, come il part time, ha incoraggiato l’incremento nell’impiego delle donne nel settore pubblico e nei servizi alla persona.
La questione della compatibilità delle responsabilità familiari e dell’attività lavorativa resta
un problema chiave. Le responsabilità familiari sono la ragione principale per cui le donne lasciano il posto di lavoro. Anche prendendo soltanto le generazioni più giovani (età dai 25 ai 34 anni),
possiamo stimare che oltre una donna su quattro con figli ha sospeso o abbandonato il lavoro
come diretto risultato della nascita del primo o secondo figlio. Dobbiamo soltanto considerare
che il 57,7% delle donne dipendenti con figli dell’età dai 3 ai 13 anni lavora 60 ore o più la settimana, tra lavoro in casa e impiego retribuito, rispetto al 21,9% degli uomini nelle stesse condizioni. E sono principalmente le donne che si occupano di assistenza anche al di fuori delle proprie famiglie. Nel 1998 un quarto delle donne, rispetto a un quinto degli uomini, forniva almeno
qualche tipo di assistenza gratuita ( agli anziani o ai bambini, aiuto con problemi di salute, compagnia, ecc.) a persone che non appartenevano al loro nucleo familiare, per un totale di 2 miliardi 849 milioni di ore nell’arco dell’anno. Due terzi delle ore di aiuto totale erano il risultato dell’impegno delle donne in queste attività.
Conferenze Internazionali - dalla Conferenza di Pechino in poi
Prendendo in considerazione l’esigenza di attività di follow-up alle conferenze globali, come la
Seduta Speciale dell’Assemblea Generale su HIV/AIDS (New York, 2001); la Conferenza Mondiale
contro il Razzismo, la Discriminazione Razziale, la Xenofobia e la Intolleranza (Durban, 2001), La
Conferenza Internazionale sul Finanziamento allo Sviluppo (Monterrey 2002), la Seconda
Assemblea Mondiale sull’invecchiamento (Madrid, 2002), e il Summit Mondiale sullo Sviluppo
Sostenibile (Johannesburg 2002), sono stati creati dei Comitati interministeriali, responsabili del
follow-up alle conferenze, come nel caso del follow-up a Durban, che comprende l’elaborazione
di Piani di Azione Nazionali ad hoc. Nonostante la loro creazione, in alcuni casi bisogna notare che
tali comitati non si incontrano regolarmente per definire linee guida di azione comuni. In questo
ambito, tuttavia, il Ministero per le Pari Opportunità collabora appieno con il Ministero degli Affari
esteri italiano, in particolare con la Direzione Generale Affari Esteri, responsabile dei diritti
umani. Sia il Ministero delle Pari Opportunità che il Ministero degli Affari Esteri partecipano e sono
coinvolti in tutti i forum relativi dove si discutono questioni di genere. Come follow-up, entrambi sono impegnati nel promuovere lo scambio inter-istituzionale e il mainstreaming di genere.
Le Conferenze Mondiali sulle Donne, iniziate nel 1975 con la Conferenza di Città del Messico,
con un seguito regolare ogni cinque o dieci anni, hanno aperto un dibatti su scala mondiale sulla
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violenza sulle donne, fissando obbiettivi concreti da raggiungere in tutti i Paesi e impegnando le
istituzioni ad affrontare questa emergenza. In seguito, la Conferenza di Pechino ha visto l’intensa
partecipazione di movimenti ed associazioni di donne. Dopo Pechino, le ONG e le associazioni di
donne che hanno partecipato alla Conferenza, hanno continuato a lavorare sui seguenti tre livelli: 1. espansione delle reti relative e delle iniziative internazionali; 2. dialogo con le istituzioni;
3. diffusione in Italia dei risultati della Conferenza e del Forum.
Con riferimento all’Assemblea Mondiale su ‘Donne ed Invecchiamento’, l’invecchiamento
della popolazione è una delle sfide del XXI secolo. Venti anni fa, l’argomento principale della
Prima Assemblea Mondiale sull’invecchiamento, tenutasi a Vienna, era l’invecchiamento nel
mondo sviluppato. Le fonti ONU stimano che l’Italia è il paese europeo con la più alta percentuale di persone di età superiore ai 65 anni e con la più bassa percentuale di persone al di sotto
di 14 anni e prevedono un aumento degli ultrasessantenni dall’attuale 24,1% al 27,2% entro il
2010 e al 42,3% entro il 2050. Dato l’allungamento della vita, le donne soffrono la solitudine,
anche a causa della differenza di età che spesso si ritrova nelle coppie (gli uomini in genere sono
più anziani). Inoltre, le donne a volte soffrono una forte emarginazione e povertà, dato l’ampio
divario sociale con gli uomini. In Italia, le implicazioni socio-sanitarie ed economiche di quanto
sopra hanno negli ultimi anni stimolato la trasformazione delle politiche per ammodernare le
strutture sociali ed economiche con una prospettiva di genere. Nell’anno 2000, la Legge Quadro
n. 328/2000 stabiliva la creazione di una rete di azioni e servizi sociali. Tale legge promuove un
modello assistenziale adattato alla demografia, che fornisce le facilitazioni necessarie, assistenza domestica, sistemi sanitari adeguatamente gestiti da servizi pubblici e privati, e la ‘valorizzazione delle responsabilità familiari e della solidarietà tra generazioni». Il Fondo Nazionale per
le Politiche Sociali ha assegnato ‘una quota riservata ai servizi agli anziani non autosufficienti,
per promuoverne l’autonomia e dare sostegno alle famiglie nel fornire assistenza domiciliare ai
richiedenti anziani». Inoltre, i progetti di ricerca come il Progetto Mirato del Consiglio Nazionale
delle Ricerche sull’Invecchiamento e il Progetto Strategico sull’Invecchiamento hanno prodotto
risultati interessanti per il miglioramento della qualità di vita degli anziani, e per la riduzione
delle malattie e dei ricoveri ospedalieri.
Quanto alla Prevenzione dell’HIV/AIDS orientata al genere, l’HIV/AIDS colpisce sempre di più
le donne: i dati disponibili confermano una tendenza in crescita che rende l’HIV/AIDS la quarta
causa principale di morte per malattie delle donne e la quinta per gli uomini. In linea con l’esito e il follow up dell’Assemblea Mondiale di cui parliamo, oggi è stato raggiunto un alto grado di
consapevolezza sulla gravità del problema, grazie alle campagne di informazione e prevenzione,
pianificate dal Ministero della Sanità, in cooperazione con il Ministero della Pubblica Istruzione,
che ha introdotto la questione di ‘comportamenti responsabili’ e di misure di prevenzione contro l’infezione. E’ stata sviluppata anche una prospettiva di genere; materiale informativo ideato ad hoc è stato messo a disposizione delle donne, in quanto l’aumento di donne sieropositive
è correlato a questioni importanti quali l’epidemiologia dell’HIV/AIDS durante la gravidanza e le
infezioni neonatali attese. Nel 2001, il Ministero della Sanità e la Commissione Nazionale sull’
HIV/AIDS hanno emesso le Linee Guida sulla Terapia Antiretrovirale per la Cura di HIV/AIDS, che
contengono anche le Raccomandazioni Generali per Prevenire la trasmissione Madre-Figlio
dell’HIV/AIDS, Durante la Gravidanza, la Nascita e l’Allattamento. In questo quadro, con Decreto
dell’8 agosto 2001, l’Italia ha ristabilito la Commissione Nazionale su HIV/AIDS per gli anni 2001
e 2002. La lotta contro HIV/AIDS è diventata una delle priorità degli aiuti allo sviluppo all’estero del governo italiano, che è il secondo contribuente al Fondo Globale contro l’HIV/AIDS, tubercolosi e malaria.
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In seguito al Summit Mondiale sullo Sviluppo Sostenibile (Johannesburg 2002), il Ministero
dell’Ambiente e il Ministero della Sanità sono responsabili dell’elaborazione e della proposta di
misure di follow-up, come progetti di cooperazione tecnica internazionale e campagne mediatiche ad hoc.
La Direzione Generale per la Cooperazione allo Sviluppo del Ministero degli Affari Esteri è
responsabile di politiche di ‘Genere e Sviluppo’ e del follow-up delle Conferenze ONU sulle
Donne. Le linee guida sul Genere, adottate nel 1998, sono ancora il principale quadro politico
delle attività sul campo. Queste linee guida affrontano gli Obbiettivi di Sviluppo del Millennio: la
terza, che riguarda la parità di genere e l’empowerment politico, direttamente, e le altre sette
indirettamente.
Dalla Seduta Speciale dell’Assemblea Generale WOMEN 2000, l’Italia ha sviluppato programmi di riduzione della povertà specificamente mirati all’empowerment economico delle donne e
al diritto delle donne alla riproduzione, attraverso una partnership con UNIFEM e UNFPA. In questo quadro, l’Italia ha dato priorità a:
1. programmi basati su un quadro concettuale globale che collega l’empowerment economico
delle donne, la salute riproduttiva e i diritti all’alleviamento della povertà nel contesto della
MDG;
2. sforzi per sostenere e sperimentare approcci e strategie innovative che possano aiutare a
soddisfare le varie esigenze culturali dei Governi e degli altri partner di sviluppo;
3. aumentare l’accesso all’informazione e ai servizi di salute riproduttiva, e riduzione di morbilità e mortalità tra le madri.
Specifica attenzione è stata dedicate alle donne in luoghi di conflitto: in particolare Afghanistan
e Palestina. Negli ultimi anni l’impegno italiano è stato molto forte, dopo le azioni intraprese
durante i conflitti nei Balcani e nella guerra del Kossovo. Attualmente in Afghanistan l’Italia
sostiene il mainstreaming di genere nella riforma giudiziale, in una partnership con la UNIFEM e
le associazioni di donne avvocato,. Al contempo, l’Italia lavora con le associazioni di donne nelle
aree più svantaggiate per l’empowerment economico e con l’UNFPA per la salute della riproduzione di donne e ragazze. In Palestina, l’Italia è direttamente coinvolta in una partnership, con
il neo-Ministro per gli Affari delle Donne, che ha l’obbiettivo di creare una pianificazione democratica e partecipativa che coinvolga le ONG femminili a livello locale e macro.
Altre caratteristiche importanti della cooperazione italiana per ‘Genere e Sviluppo’ , sono:
• le campagne internazionali contro la Mutilazione dei Genitali Femminili, in collaborazione
con l’UNFPA e UNICEF, in Kenya ed Africa Occidentale;
• l’approccio nella lotta contro il traffico delle donne e dei bambini in Albania e Nigeria;
• l’empowerment delle donne nelle attività di cooperazione decentralizzata in America
Centrale e nei paesi del Maghreb.
Le attività di cooperazione decentralizzata permettono al Governo italiano di ascoltare la voce
delle ONG e di includerle nell’attività di cooperazione allo sviluppo in questioni quali: le donne
nelle aziende, la violenza sulle donne, la salute della riproduzione, traffico di persone, la condizione dei bambini, e istruzione sensibile al genere. Tuttavia la cooperazione allo sviluppo è una
pratica di dialogo sociale per la parità di genere perché offre alle donne che sono spesso emarginate la possibilità di negoziare il loro empowerment con attori spesso influenti a tutti i livelli
dello spazio pubblico.
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Sviluppo Istituzionale (e Riorganizzazione degli Enti di Pari Opportunità)
Negli ultimi anni, i meccanismi istituzionali attivati in Italia per la promozione delle pari
opportunità per donne e uomini e che in gran parte sono ancora funzionanti, sono gli enti
seguenti:
1. Il Ministero delle Pari Opportunità, che è stato nominato per la prima volta nel 1996, e dotato di un’ampia gamma di strumenti e poteri relativi alle funzioni di mainstreaming che attraversano tutte le politiche del Governo. Tale competenza di mainstreaming è stata applicata nella
redazione dei Bilanci, nell’adozione di misure sull’immigrazione, nella riforma del sistema del
welfare e nella redazione, tra gli altri, di strumenti a livello internazionale. La gamma di compiti delegati al Ministero per le Pari Opportunità con Decreto del Presidente del Consiglio dei
Ministri il 14 febbraio 2002, conferma questo approccio trasversale, e amplia la portata delle
attività del Ministero ben al di là della parità di genere. Questo decreto dà al Ministro un ruolo
guida e di coordinamento nelle politiche nazionali in aree particolarmente delicate (tipo infanzia, immigrazione, adozione di bambini stranieri), che sono caratterizzate da difficoltà, oltre a
fornire protezione e garanzie contro tutte le forme di discriminazione, sia diretta che indiretta.
In particolare, vale la pena citare l’Osservatorio presso il Ministero impegnato nel monitoraggio
e nella valutazione di dati sulla pedofilia in Italia. L’Osservatorio è stato previsto nel Piano
Nazionale di Azione contro la pedofilia in Italia come formulato dal Comitato Interministeriale,
chiamato CICLOPE. Negli ultimi anni, il Ministero ha anche creato un certo numero di gruppi di
lavoro impegnati nell’analisi, monitoraggio e formulazione di proposte sulla discriminazione in
campi come la sanità, i mass media, lo sport e l’integrazione sociale.
2. Il Dipartimento Pari Opportunità, realizzato con Decreto del Primo Ministro n. 405/1997, è
l’ente amministrativo che sostiene il Ministero per le Pari Opportunità. Il Dipartimento è attualmente incaricato del coordinamento e del monitoraggio delle misure relative che vengono adottate in base al Piano Nazionale di Azione sulle Pari Opportunità (marzo 1997). Il Dipartimento
nelle sue attività riceve il sostegno dalla Commissione Nazionale per la parità e per le pari opportunità, che è stato riformato in base al Decreto Legge n. 226/2003.
3. La Commissione Nazionale per le pari opportunità tra uomini e donne, creata con la Legge
164/1990, e dipendente dall’Ufficio del Primo Ministro. Sebbene fosse stata creata come ente
consultivo, ha funto da coordinatore per tutte le azioni di Governo nel campo delle pari opportunità, fino al 1996. Negli ultimi anni, questo ente ha organizzato numerose conferenze, contribuendo a un’azione di sensibilizzazione sui diritti delle donne. Ha anche organizzato una serie di
gruppi di studio su molti degli argomenti di cui è responsabile il Ministero delle Pari Opportunità.
Attualmente, dopo la legge delega n. 226/2003, la commissione nazionale è un ente consultivo
del Ministro delle Pari Opportunità che lo presiede. Su richiesta del Ministro, la Commissione ha
creato un gruppo di studio con il compito di analizzare tutta la legislazione esistente relativa alle
pari opportunità. Questo studio porterà all’approvazione di un Codice sulle Pari Opportunità allo
scopo di organizzare la legislazione e renderla più accessibili a tutti.
4. Il Comitato Nazionale per l’attuazione dei Principi di pari opportunità tra uomini e donne
sul lavoro, istaurato a seguito della legge 125/1991 e dipendente dal Ministero del Lavoro e degli
Affari Sociali, al fine di promuovere azioni positive allo scopo di promuovere l’impiego delle
donne e il raggiungimento della parità di genere sostanziale sul posto di lavoro.
5. Il Comitato per l’imprenditoria femminile, istaurato con la legge 215/1992 e dipendente dal
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Ministero per l’Industria, il Commercio e l’Artigianato allo scopo di proporre azioni positive per
promuovere l’imprenditoria femminile.
6. I consiglieri per le Pari Opportunità, che erano presenti a livello nazionale, regionale e locale e che hanno agito da promotori dell’impiego femminile, sono stati sostituiti dai Consulenti per
la Parità (citati nella prima parte di questa Rassegna). A tal proposito, bisogna citare lo stanziamento di un Fondo per le attività dei consulenti di parità di genere che attualmente ammonta a
9.300.000 euro l’anno.
7. Al Senato è stata istaurata una Commissione Pari Opportunità, nel marzo 1999, composta
di donne Senatrici e impiegate di tutti i gradi
8. Un gruppo di lavoro è stato istituito con delega del Parlamento (Articolo 13, Legge no.
137/2002), composto da rappresentanti del Ministero delle Pari Opportunità e da autorità coinvolte nella ristrutturazione della struttura del Governo. E’ responsabile dell’esame dei problemi
istituzionali e normativi correlati alla riorganizzazione degli enti per le pari opportunità a livello nazionale.
9. L’ISTAT, l’Istituto italiano per la raccolta e analisi dei dati sugli affari economici e sociali
generali, ha sviluppato un sistema di analisi di dati disaggregati per sesso. Come risultato, nel
2003 è stato redatto un rapporto ad hoc sullo stato delle donne in Italia, intitolato «Come è cambiata la vita delle donne’. A tal proposito, due sfide da affrontare sono la riduzione delle risorse e la mancanza di coordinamento tra autorità centrali e locali. Ciò nondimeno, l’ISTAT intende effettuare, nel futuro prossimo, una ricerca approfondita e raccogliere dati su, inter alia:
donne emigrate; la violenza sulle donne, in particolare tra le mura domestiche; donne anziane
e donne imprenditrici.
Sfide principali ed azioni per fare progredire la dimensione di genere (mainstreaming di genere ed empowerment delle donne)
Quando si è istaurato l’attuale Governo, esso ha varato un programma di ampie riforme che interessano tutti i settori della vita politica, economica e sociale pubblica; un programma che, in
parte, deve essere attuato gradualmente a causa delle circostanze negative registrate in tutto il
mondo dopo gli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001. Ciò nondimeno, dal 2002, ci sono
stati progressi significativi e una rinnovata attenzione, ancora in corso, verso le donne con funzioni pubbliche; verso le donne e la prostituzione; e verso le donne e la sanità, compreso lo sradicamento della prassi della Mutilazione dei Genitali Femminili.
1. Il basso livello di partecipazione femminile nella politica è innegabile. Di fatto, le ultime elezioni hanno registrato ancor meno donne elette al Parlamento rispetto alla percentuale precedente, già bassa. Ciò è allarmante, dal punto di vista sociale, in quanto dimostra il distacco tra politica e società. Un’altra lacuna è evidente in quelle aree dove si trova una grande maggioranza di donne, con alti livelli di istruzione e di qualifiche professionali nell’elettorato, che sono purtuttavia rappresentate solo marginalmente nelle assemblee elettive.
Nonostante il fatto che le donne si siano distinte per il loro impegno e la loro abilità nei settori più importanti della vita economica e sociale, sono ancora svantaggiate rispetto agli
uomini, e non ricevono il riconoscimento dovuto. Il Ministero per le Pari Opportunità intende aiutare le donne ad effettuare il loro lavoro, permettendo loro di gradualmente accedere ai ruoli che sono stati per troppo tempo un’esclusiva maschile. Il Ministero per le Pari
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Opportunità è impegnato ad identificare gli strumenti amministrativi e regolatori che permetteranno alle donne di svolgere un ruolo primario in politica. E’ innegabile che la carenza di donne nelle istituzioni democratiche conferma lo squilibrio della rappresentanza negli
organi elettivi. E’ quindi necessario prendere misure più efficaci. La carenza di rappresentati femminili nell’arena politica è dovuta principalmente a due fattori che sono profondamente radicati nella cultura italiana. Il primo è collegato al fatto che le donne sono in genere dipinte come deboli, bisognose di protezione; una immagine che causa disaffezione tra le
donne stesse, inadeguata all’ambiente dove si esercita il potere. La seconda riguarda una
caratteristica intrinseca della classe al governo in Italia, che tende a rappresentarsi e a riprodursi, e così tende a sembrare chiusa in se stessa, perché non espleta il suo ruolo attraverso una relazione vitale ed aperta con la società civile. Oggi esistono ancora numerosi ostacoli per le donne che vogliono partecipare alla vita politica a causa delle difficoltà nel riconciliare il ruolo politico e quello familiare. Tuttavia, la presenza femminile è maggiore nelle
istituzioni politiche delle autorità regionali e locali che a livello nazionale (soprattutto perché l’area geografica più ristretta della politica locale è più compatibile con i ruoli molteplici delle donne).
E’ su quest’ultimo punto che è importante intervenire più efficacemente perché la carenza di
donne nelle istituzioni democratiche è segno di declino politico. Purtroppo, oggi, le donne sono
oberate da giornate di lavoro molto più lunghe a causa delle esigenze della società, degli affari
e della vita di città. Si tratta di identificare lo strumento adatto e le forme di organizzazione per
aiutare le donne ad esprimere le loro vere potenzialità ed incoraggiarle a svolgere un ruolo più
prominente, anche in politica. A tal proposito, è stato realizzato molto, ma altrettanto deve
ancora essere fatto. E’ evidente che il nuovo testo dell’articolo 51 della Costituzione introduce
soltanto un principio fondamentale ma, per attuarlo, sono necessarie ulteriori misure, cioè iniziative legislative e regolatrici per fornire gli strumenti necessari ad assicurare che il principio
diventi effettivo. Devono essere definiti vari tipi di azioni positive per realizzare, sia a livello politico che sociale, la parità formale tra i cittadini indipendentemente dal sesso, con la piena consapevolezza che la parità di diritti de iure non corrisponde necessariamente alla parità de facto.
Un esempio di buona prassi è la legge 157/99 relativa al rimborso delle spese elettorali, che,
in base all’art. 3, obbliga i partiti politici a stanziare almeno il cinque per cento del rimborso
alle iniziative a favore della partecipazione attiva delle donne in politica. In questo campo, un
obbiettivo recente del Ministero per le pari opportunità è stata l’approvazione dal Parlamento,
dietro proposta del Governo, della legge n. 90/2004 che obbliga i partiti politici a presentare
almeno un terzo di tutti i candidati di un sesso alle prossime elezioni per il rinnovo del
Parlamento UE. La legge prevede come sanzioni economiche la riduzione proporzionale del rimborso elettorale ai partiti.
2. Con specifico riferimento alle donne funzionario, il Ministero della Funzione Pubblica ha promosso il progetto intitolato ‘donne e leadership’, nel quadro delle attività dei gruppi di lavoro nazionali, chiamati ‘cantieri’. Entro la fine del 2004 si prevede una compilazione nazionale di dati disaggregati sulle carriere e sulla situazione delle donne funzionario che lavorano nelle amministrazioni regionali e locali. Lungo tale direttiva, il Ministero per le Pari
Opportunità ha creato un sito web e una rete on-line, intitolata ‘la rete per le pari opportunità’, per favorire uno scambio di opinioni tra le amministrazioni regionali e locali sulle iniziative che riguardano le questioni relative al genere, in modo da favorire l’avanzamento
delle questioni di genere. In linea con alcuni partner UE, alcune amministrazioni locali stan-
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no cercando di sviluppare linee guida sul bilancio di genere. In questo ambito, occorre citare le attività effettuate dal Consiglio Nazionale Economia e Lavoro (CNEL), che nel 2002 ha
creato un Gruppo di Lavoro sulle Pari Opportunità ed ha promosso varie iniziative allo scopo
di analizzare la condizione femminile in varie aree economiche e sociali e a introdurre la prospettiva di genere nel lavoro di ciascuna delle Commissioni relative (citate nella parte III di
questa Rassegna, sui meccanismi nazionali). Questa strategia ha permesso la pubblicazione
di vari rapporti sulle Donne e il Mercato del Lavoro e la organizzazione di seminari e conferenze in tutto il Paese.
3. Un’altra sfida per un’azione futura del Governo si concentra sullo sradicamento della prostituzione: è stata presentata una proposta di governo al Parlamento per combattere la prostituzione, che spesso rappresenta il più alto livello di sfruttamento delle donne. In Italia, infatti, a causa dell’aumento dell’immigrazione e del coinvolgimento della criminalità organizzata nello sfruttare la prostituzione, non c’è stato soltanto un aumento di persone che si impegnano volontariamente nella prostituzione, ma soprattutto della criminalità organizzata che
sfrutta la prostituzione altrui. La proposta proibisce la prostituzione in luoghi pubblici o aperti al pubblico, perché è qui che abbondano i peggiori casi di sfruttamento sessuale. Viene
quindi evidenziato il forte legame tra la prostituzione sulle strade e il fenomeno del traffico
di esseri umani. Tuttavia, a tal riguardo, al fine di evitare di criminalizzare le persone che
già sono state vittime di violenza grave, è previsto un caso di immunità specifica dalla pena,
che esclude le sanzioni contro i soggetti che possono dimostrare di essere state costrette a
prostituirsi contro la propria volontà.
4. Il traffico di esseri umani è una delle più nefande violazioni dei diritti umani. Nel quadro italiano, la maggior parte delle vittime sono donne, vendute per sfruttamento sessuale, e in
alcuni casi, a fini di lavoro e di schiavitù domestica. La lotta contro questo commercio è una
priorità estrema sia a livello nazionale che internazionale. Sono stati adottate nuove misure
e strumenti di cooperazione internazionale per perseguire i trafficanti; alcune misure di
diritto penale nazionale relative sono state emendate. Sinora, l’Italia è l’ ‘unico paese che,
nel rispetto delle direttive degli enti internazionali, ha affrontato la questione del sostegno
alle vittime introducendo una netta distinzione tra le responsabilità delle donne oggetto di
traffico e quelle dei trafficanti, con la legge 228/2003 che stabilisce programmi di aiuto e
protezione in favore di persone ridotte in condizioni di schiavitù, con particolare attenzione
alle donne costrette a prostituirsi.
Il Ministro delle Pari Opportunità ha anche nominato un Rappresentante Nazionale che riferisce su tutti i problemi relativi al traffico.
5. La Mutilazione dei Genitali Femminili è una questione complessa e dolorosa che comprende
molti aspetti: le relazioni di genere, la sessualità, l’assistenza sanitaria, l’istruzione, i diritti umani, i diritti delle donne e dei bambini, il diritto allo sviluppo.
Il primo approccio del governo nei confronti del problema risale al 1997, con l’organizzazione di un seminario Internazionale, al quale parteciparono professionisti della sanità e mirato alla sensibilizzazione sulla gravità e sulla diffusione in tutti il mondo di questa piaga (in
quanto a numero di donne e paesi coinvolti), insieme alle terribile implicazioni umanitarie e
sanitarie della Mutilazione. Vi sono oltre 40.000 donne sub-sahariane che vivono in Italia, e
questo numero è in costante aumento. E’ già presente in Italia una nuova generazione di
immigranti, o anche ragazze nate sul posto da immigrati, che crescerà lì e sarà comunque
esposta al rischio di essere mutilata.
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Il diritto delle donne all’autodeterminazione e alla salute (comprese le immigrate), è un
impegno costante del Governo italiano, al punto che una delle Misure della Direttiva del
Presidente protempore del Consiglio dei Ministri del 7 marzo 1997 ha prodotto come trasposizione della Piattaforma di Pechino, condanna apertamente la violenza, sia privata che pubblica, contro le donne in quanto violazione dei diritti umani. La Mutilazione dei Genitali
Femminili fa parte di questo scenario in aperta violazione dei diritti umani, in quanto menoma la integrità della persona. Nella ricerca di strumenti di scambio culturale ulteriori, è
stato creato un Comitato Multidisciplinare Inter-Ministeriale su iniziativa del Ministero della
Pari Opportunità, con il compito di trovare risposte adeguate e monitorare costantemente il
fenomeno. Il Comitato, composto di esperti, ha condotto udienze con associazioni ed esperti, donne nubili e assistenti sanitari, ha esaminato i documenti esistenti e infine ha redatto
‘Le Direttive Nazionali FGM», dirette agli assistenti sociali e sanitari, alle scuole, università
e centri sanitari, definendo i requisiti per affrontare il problema della Mutilazione, e per
ottenere una conoscenza più approfondita per agire nel migliore dei modi. In Italia è stata
fondata un’associazione dei medici contro la Mutilazione, i cui membri sono soprattutto africani, mentre in molti ospedali italiani importanti i medici si sono riuniti in èquipe dedicate
alla cura specialistica e alla de-infibulazione. Il Governo ha prestato attenzione alla questione spinosa della Mutilazione, appoggiando una Proposta che definisce la Mutilazione come
violazione della legge penale di per sé e nella extraterritorialità della perseguibilità, anche
se il reato viene commesso all’estero da cittadini italiani o da cittadini stranieri residenti in
Italia. Uno degli aspetti più interessanti di questo disegno di legge sono vari articoli che
riguardano la diffusione di informazioni e campagne di sensibilizzazione tra le comunità
immigrate africane e attività di formazione personale dei centri di consulenza sanitaria,
ospedali, scuole e le altre istituzioni che operano con gli immigrati. per l’esecuzione di queste attività è stata prevista una misura finanziaria da 5,5 milioni di euro.
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SHADOW REPORT. Documento alternativo a quello del governo italiano sulla situazione a 10
anni dalla Conferenza di Pechino
Il seguente documento, definito SHADOW REPORT, in quanto alternativo a quello del governo italiano sulla attuazione della Piattaforma di Pechino in Italia, è stato elaborato in seguito a una
decisione in tal senso assunta dall’Assemblea del 2 ottobre 2004, che si è svolta alla Casa
Internazionale delle Donne, ed è stata promossa da: Arcidonna, Candelaria, Casa Internazionale
delle donne, Caucus delle donne-Comitato romano, Cooperativa Generi e Generazioni,
Coordinamento italiano della Lobby europea delle donne, Paese delle donne, Associazione Zora
Neale Huston, “con l’obiettivo di dar vita a un Rapporto ‘OMBRA’ sulla situazione italiana e su
quella mondiale, vista con gli occhi delle donne italiane”.
Premessa
“La difficile situazione nazionale e internazionale non è riuscita a farci dimenticare le idee delle
donne su una nuova possibile convivenza globale, emerse nel Forum e nella IV Conferenza ONU
sulle donne di Pechino nel 1995. Infatti, nonostante gli anni duemila abbiano distrutto molta
parte delle speranze emerse nel corso degli anni novanta, quelle idee risultano tuttora valide e
degne di essere realizzate e migliorate, soprattutto se vogliamo porre una fine al regime di odio
e paura che sembra essersi impossessato del nostro pianeta. Non si può infatti trascurare il fatto
che gli eventi accaduti negli ultimi tre anni, dalla caduta delle Twin Towers alle guerra
dell’Afghanistan e dell’Iraq, alle ripetute stragi terroristiche degli ultimi mesi, hanno mutato
radicalmente lo scenario mondiale, trasformando in ‘guerra di civiltà, quella che negli anni
novanta chiamavamo globalizzazione.
Infatti, il mutamento delle forme della politica internazionale ha costretto molte di noi,
in poco tempo, ad avere una nuova consapevolezza dei diversi livelli in cui ‘si fa politica’
anche in un paese come l’Italia”. Situazione non facile poiché la consapevolezza politica, di
cui parlava il testo d’invito, è un dato contraddittorio. Infatti oggi, a differenza degli anni
90, il movimento femminista transnazionale si presenta in maniera segmentata e non riesce
a far percepire i collegamenti e gli incroci tra la soggettività femminile e il governo del
mondo.
I Social Forum Mondiali spesso usufruiscono degli interventi delle donne - da Arundati Roy a
Vandana Shiva a Shirin Ebadi – ma le più famose appaiono avulse dal contesto politico delle
donne. Non è quindi incomprensibile come anche all’interno delle Nazioni unite, che dal canto
loro stanno subendo una necessaria trasformazione, le donne stiano attraversando un periodo
molto complesso, che penalizza il percorso del “Pechino + 10”, cioè la verifica internazionale
dell’applicazione della Piattaforma di Pechino nelle diverse regioni del mondo. In questo contesto di assenza di un movimento femminista transnazionale, e di difficoltà delle strategie promosse dalle donne, che erano state sviluppate all’interno delle istituzioni globali nel decennio
precedente, occorre far sentire la voce autonoma delle donne ai vari livelli in cui si determinano le regole della convivenza nel nostro pianeta . A partire dai negoziati per il governo del territorio, fino alla discussione sui modelli di Welfare necessari alla nostra contemporaneità, che
toccano temi quali le migrazioni, le nuove reti di solidarietà globale e le nuove forme di cooperazione tra Nord e Sud del mondo.
Anche se la guerra è tornata ad assumere una legittimazione come strumento di governo del
mondo e ci fa vedere le donne come copie senza anima di una umanità priva di senso: al tempo
stesso aguzzine e vittime di violenza, soldatesse e crocerossine dedite ai bambini e all’assistenza . Anche se in Italia membri del Governo in carica insistono nel considerare le donne un
oggetto di tutela, relegandole all’interno della famiglia patriarcale. Noi donne italiane, noi fem-
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ministe abbiamo voluto essere presenti nel contesto internazionale non solo per denunciare le
menzogne di un governo del mondo iniquo.
Siamo consapevoli che il passaggio di civiltà che il pianeta ha dinanzi non potrà fare a meno
del dialogo tra le infinite differenze che donne e uomini di luoghi e generazioni diverse incarnano,
ma soprattutto non potrà fare a meno del pensiero critico della nostra differenza sessuale.
Parte prima: gli impegni disattesi
I. Le istituzioni non ascoltano le donne e promuovono controriforme inique
Tutte le più recenti analisi statistiche (Cfr.Istat-2004 “Come cambia la vita delle donne”) confermano la crescita della soggettività delle donne italiane, che sempre più si affermano in tutti
campi della vita sociale e culturale, anche se, dal punto di vista delle condizioni materiali di vita,
si registrano forti peggioramenti, le cui cause vanno ricercate nelle culture e nelle politiche dell’attuale governo. Il Documento del governo sulla applicazione della Piattaforma di Pechino in
Italia, invece, evita ogni riferimento alla realtà delle donne nel nostro paese e si limita a un elenco di leggi e provvedimenti che riguardano sostanzialmente l’attività del precedente governo di
centro-sinistra - che però non viene neppure nominato.
Tra questi, la Direttiva Prodi Finocchiaro del 1997, la legge 125/1991 e il D.L.196/2000 sulle
consigliere di parità, la legge sulla conciliazione tra lavoro e famiglia n° 53/2000 e il Testo unico
sulla maternità e sulla paternità. Probabilmente vi è un grande imbarazzo da parte delle istituzioni nazionali, poiché vi è una sorta di rimosso rispetto al ruolo politico delle donne. In riferimento al mainstreaming delle tematiche di genere nelle istituzioni, infatti, il rapporto, della cui
stesura la Ministra per le pari opportunità è la prima responsabile, non dice nulla. Non parla delle
politiche considerate positive da questa maggioranza, né tantomeno si citano quelle a nostro
avviso molto negative, portate avanti da altri ministri di questo stesso governo, come se la cosa
non riguardasse la Ministra per le pari opportunità.
Non esiste neppure un riferimento alla legge Bossi-Fini: mentre si sostiene l’impegno a svolgere politiche antidiscriminatorie, non si dice che questa legge colpisce gravemente i diritti delle
donne immigrate ed i suoi effetti danneggiano irreparabilmente l’attività di quante/i lavorano
da anni contro la tratta della prostituzione.
Non si fa riferimento al Libro bianco sul welfare, che contiene alcune affermazioni pericolose per la libera scelta delle donne, come quella sul “baratro demografico” italiano da cui deriverebbe la necessità di incentivare la natalità attraverso una politica demografica fatta sopra le
teste e i corpi delle donne. Non viene citata la legge sulla fecondazione assistita, in cui per la
prima volta , dopo l’approvazione della legge sull’aborto nel 1977, si torna a parlare dell’embrione come di un individuo dotato dei diritti di cittadinanza a scapito del corpo delle donne.
Quella legge infatti segna il culmine di una mancanza di considerazione del protagonismo delle
donne sui temi della convivenza civile e della maternità. Essa è costantemente oggetto di importanti critiche, espresse in primo luogo dai movimenti delle donne, ma anche da vari ambienti,
laici e religiosi. Il fatto che la legge determini discriminazioni tra le donne e soffochi la libertà
di ricerca è inaccettabile poiché fa dell’Italia un paese di retroguardia nel contesto europeo.
In modo analogo vanno le cosiddette riforme di questo Governo realizzate nel campo della
Pubblica Istruzione e del Lavoro. Per quanto riguarda la Pubblica Istruzione le riforme del
Ministro Letizia Moratti in materia sia di scuola che di università, sono destinate a penalizzare
le giovani generazioni, ragazzi e ragazze . Infatti a causa dell’anticipo dell’età di scelta dell’indirizzo di studi o di formazione professionale, non sono liberi di scegliere in base ai propri desideri e risentono in misura maggiore dell’influenza della famiglia. Per quanto riguarda il prolun-
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gamento della precarietà per l’accesso all’insegnamento universitario, la popolazione femminile soprattutto ne è molto colpita, poiché questo settore è tradizionalmente importante per l’impiego femminile. Per ultimo i tagli alla scuola a tempo pieno hanno comportato enormi problemi, in particolare alle donne che lavorano.
Per quel che riguarda il lavoro, non c’è collegamento tra le politiche dell’occupazione femminile e la nuova legge 30 /2003 (cd. Legge Biagi). Infatti le conseguenze del lavoro precario,
la giungla contrattuale rendono sempre più difficile il lavoro anche per le donne, sempre ricattabili a causa della maternità. “La famiglia esiste per permettere alle donne d’avere dei figli e
d’avere un uomo che le difenda”. Questa affermazione fatta dal Ministro Rocco Buttiglione al
Parlamento Europeo il 5 ottobre 2004 , ben riassume la cultura di questo governo e lo scarto
che esiste con il Paese reale.
II. Gender no Streaming
Nelle politiche del governo italiano l’approccio di gender mainstreaming è pressoché assente.
Nonostante sia stato puntualmente fatto presente da parte delle donne dei sindacati come l’insieme dei provvedimenti sopraelencati abbiano effetti negativi sulle lavoratrici, il Ministro non
ha esercitato alcun ruolo di mainstreaming, ma anche le istanze parlamentari hanno trascurato
di essere presenti in questo campo.
Sebbene il regolamento dei Fondi strutturali dell’U.E. richieda che si integrino l’ottica di
genere e le pari opportunità tra uomini e donne trasversalmente in tutta la programmazione
2000-2006, l’implementazione italiana è a dir poco carente. Dagli esiti dell’applicazione della
politica di pari opportunità e del mainstreaming di genere negli interventi FSE 2000-03 (analisi
dei risultati della valutazione di mid term) si evince che le pari opportunità tra uomini e donne
sono state trattate sostanzialmente solo nei progetti finanziati nell’asse specifico E (il 10% di cui
il Review governativo si vanta) , mentre, tra i beneficiari dei progetti finanziati negli altri assi,
le donne risultano svantaggiate sia a livello quantitativo che a livello qualitativo: sono in numero inferiore agli uomini; le donne sono state destinatarie soprattutto di azioni di formazione di
base e pochissimo di Alta Formazione; le azioni di formazione di base spesso non sono state unite
a misure di accompagnamento adeguate, o non sono state esse stesse adeguate alla domanda di
lavoro per cui si registra un alto tasso di abbandoni da parte delle beneficiarie.
Questa disattenzione alla tematica del Gender Mainstreaming ha causato danni più evidenti nelle relazioni internazionali . In quel contesto infatti gli anni immediatamente successivi a
Pechino avevano fatto registrare notevoli miglioramenti. Tali miglioramenti erano visibili sia nel
contesto istituzionale, in particolare nell’allargamento della presenza in sede Nazioni unite su
tematiche specifiche come quelle della tratta, e nella cooperazione allo sviluppo che era stata
molto attiva per quanto riguarda la condizione delle donne in situazioni di conflitto. Attualmente
l’incapacità da parte del Ministero delle Pari Opportunità di dialogare con le istituzioni della
politica estera e con la società civile sulle tematiche che riguardano il contesto della globalizzazione rende più difficile mantenere vive le buone esperienze avviate, soprattutto nel campo
della cooperazione allo sviluppo.
I programmi istituzionali di cooperazione allo sviluppo dedicati alle donne, sono infatti diminuiti a favore delle azioni a sostegno dei minori e c’è una tendenza da parte della Direzione per
la Cooperazione allo Sviluppo a confondere le giovani donne nella categoria neutra di minori.
Questa tendenza sottrae di fatto peso specifico alle analisi e alle strategie definite nell’ambito
della Piattaforma di Pechino e costituisce un forte impedimento per l’Italia a continuare con
coerenza l’azione avviata in sede multilaterale. L’unica prospettiva positiva deriva dalle amministrazioni locali e regionali, che in alcuni casi sono molto interessate alla valorizzazione delle
esperienze delle donne sul loro territorio, e intervengono a sostegno delle donne vittime di vio-
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lenza e soprattutto nelle aree del Bacino Mediterraneo, dove lo scambio di esperienze è reso più
facile dalla vicinanza territoriale. Non esistono tuttavia linee guida a favore delle donne nel settore della Cooperazione Decentrata.
III. La soppressione della “Commissione nazionale per la parità e le pari opportunità”
La Commissione Nazionale per le pari opportunità tra uomo e donna presso la Presidenza del
Consiglio, istituita nel 1984 e definita per legge nel 1990, è stata abrogata nell’agosto 2003 da
un decreto legislativo, pubblicato in gazzetta ufficiale il 22 agosto 2003. Al suo posto vi è ora
una Commissione presso il Dipartimento Pari Opportunità, presieduta dalla Ministra stessa, composta da 25 componenti, da cui sono state cancellate le rappresentanti femminili dei partiti politici. Il passaggio da un organismo autonomo a un organismo subordinato all’esecutivo azzera gli
stessi elementi fondanti della Commissione: la trasversalità, il pluralismo, l’essere sensore delle
istanze delle donne nella nostra società, il ruolo di iniziativa e di impulso alle politiche di pari
opportunità e soprattutto l’autonomia.
La Commissione - nella sua storia ventennale - è stata un luogo di democrazia, di partecipazione, di coordinamento delle commissioni regionali, di dialogo con le aggregazioni di donne presenti nella società, di promozione di politiche, autonoma e propositiva rispetto al governo, al
Ministero delle pari opportunità, al Parlamento. Questi principi hanno rappresentato in questi anni
i punti di forza delle politiche di pari opportunità e di questi principi la Commissione Nazionale si
è fatta garante. La Commissione Nazionale assolveva la funzione essenziale di raccogliere e mettere in rete le istanze delle forze femminili attive nella società, con quel ruolo di iniziativa e di
proposta autonoma che la Commissione ha sempre rivendicato nella sua storia ventennale.
E quella, altrettanto essenziale, della diffusione della cultura delle pari opportunità, non in
modo rituale e formale, ma in modo vivo e dialettico, perché nel nostro Paese non c’è ancora
un’accettazione sociale condivisa dell’importanza strategica delle politiche di pari opportunità.
Dunque la sua abrogazione e l’istituzione di una commissione appiattita sull’esecutivo toglie
forza non solo alle istituzioni, ma anche e soprattutto alle donne che lavorano per la cultura
delle pari opportunità in molteplici forme, istituzionali e non, con scarso coordinamento, ma in
modo vivo e propositivo.
La preparazione della Conferenza ONU di Pechino segnò l’avvicinamento delle donne immigrate alle donne italiane ed alle istituzioni per la promozione delle pari opportunità. Nel 1997 per
la prima volta una donna immigrata era entrata a far parte della C.N.P.O., il che aveva favorito
l’inserimento delle donne immigrate anche nelle Commissioni e Consulte regionali per le pari
opportunità. Con la riforma della C.N.P.O. le donne immigrate sono state escluse, interrompendo
un’esperienza positiva di partecipazione delle donne immigrate nelle istituzioni italiane a livello
nazionale. Solo a livello regionale alcune esperienze continuano. In questo momento, a livello
nazionale, l’Ufficio Antidiscriminazione, istituito dal decreto Legislativo 9 luglio 2003, n.215, in
attuazione della direttiva 2000/43/Ce per la parità di trattamento tra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica, potrebbe riaprire un’opportunità di collaborazione tra
l’associazionismo immigrato in genere, anche quello delle donne, con un’istituzione italiana.
Parte Seconda. I principali temi delle prossime Conferenze europee di Ginevra.
I. Women in economy
In sintesi.
A una crescita dell’occupazione femminile, della presenza femminile nel mercato del lavoro,
nell’istruzione - in particolare a livello universitario, anche se non ancora sufficiente nelle facol-
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tà scientifiche-tecnologiche - della partecipazione alle attività culturali; a una crescita contestuale delle contraddizioni - al conseguimento di capacità professionali non corrisponde un adeguato inserimento nel mondo del lavoro; permangono squilibri nelle carriere e nelle retribuzioni, la crescita dell’occupazione femminile è concentrata soprattutto nel Centro-Nord - non corrispondono reali politiche di sostegno da parte del governo, né un adeguato intervento rispetto
alle contraddizioni segnalate. Anzi, l’allarme sulla denatalità e le ridicole politiche che ne conseguono (bonus per il secondo figlio), se da una parte confliggono con la nuova libertà e soggettività femminile, dall’altra tendono a risospingerla indietro, ai vecchi ruoli familiari, a sovraccaricarla di tutte le responsabilità del lavoro di cura. Non vi sono politiche infatti volte a corresponsabilizzare donne e uomini: gli asili aziendali riguardano solo le lavoratrici madri e le esigenze delle aziende, non le responsabilità della coppia né la crescita educativa dei bambini. La
percentuale dei lavoratori padri che richiedono i congedi parentali per attività di cura supera di
poco l’1%, e inoltre riguarda periodi limitati di astensione dal lavoro e purché sia garantita la
massima retribuzione possibile.
Non sono state messe in atto politiche tese a determinare quelle condizioni di lavoro, di reddito e di servizi che possono permettere alle giovani di costruire liberamente il proprio percorso di vita; vengono perseguite invece politiche ideologiche che considerano la famiglia tradizionale quale attore sociale primario nella programmazione delle politiche sociali. La famiglia è
vista cioè come puro destinatario di agevolazioni fiscali, trasferimenti monetari, facilitazioni
all’acquisto della casa in una logica del tutto assistenziale, in cui scompare la soggettività e l’autonomia dei singoli in quanto persone titolari di diritti individuali esigibili.
In dettaglio.
La crescita dell’occupazione femminile
Negli ultimi 5 anni si è avuto un aumento di un milione e 622 mila posti di lavoro, di cui due terzi
sono andati alle donne, accompagnato da un’importante crescita dell’istruzione femminile - in
particolare a livello universitario, anche se non ancora sufficiente nelle facoltà scientifiche-tecnologiche – e della preparazione professionale delle donne, che a tutti i livelli si rivelano le vere
protagoniste della più generale qualificazione delle competenze registrata negli ultimi anni. Le
donne sono più istruite degli uomini, meglio formate, e tuttavia meno riconosciute sia nelle qualifiche che nelle retribuzioni (con stipendi che arrivano ad essere inferiori fino al 35% rispetto a
quelle degli uomini soprattutto nelle qualifiche più alte).
Nonostante i progressi registrati negli ultimi decenni, grazie ai quali le donne sono entrate
ormai a pieno titolo nel tessuto produttivo del Paese, sono ancora troppo poche le donne che
lavorano. Il tasso di occupazione che si attesta nel 2003 al 42,7 (fonte ISTAT) e il tasso di attività femminile in Italia del 48%, a fronte di una media europea del 60,8, sono ancora lontani dall’obiettivo di piena occupazione della Conferenza europea di Lisbona del 55% a medio termine del 2005 e del 60% del 2010.
Va anche sottolineato che la crescita dell’occupazione femminile è concentrata soprattutto
nel Centro-Nord, dove si registra un tasso di occupazione del 51,5 %, mentre al Sud si attesta al
27,1%. Il tasso di disoccupazione è del 6,5% al Centro-Nord e del 25,3% al Sud. Permangono i fenomeni di abbandono del lavoro dopo il primo figlio ( da un’indagine Istat del 2003 su un campione di 50.000 neomamme, il 20% ha abbandonato il lavoro dopo la nascita del bambino) e si moltiplicano le imposizioni da parte dei datori di lavoro alle giovani assunte di rinunciare dichiaratamente alla maternità.
Questi dati sintetici non mostrano però appieno come in Italia, dal Nord al Sud, le donne
(soprattutto le giovani) percepiscono il lavoro professionale come elemento fondante per l’autodeterminazione e per la libertà, non quindi “un di più” o “un optional” alternativo alla famiglia o ai figli.
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Sinteticamente si può affermare che oggi è in atto per le donne una transizione dal “lavoro
necessitato al lavoro come parte della propria identità”. Non è un caso che sta scomparendo la
figura della “casalinga”. Una donna che non lavora per alcun periodi si dichiara generalmente
disoccupata e questo avviene sempre più anche nel Mezzogiorno.
Il lavoro diventa dunque per le donne una parte fondamentale della propria identità personale, che è forse più complessa di quella degli uomini - il valore della differenza - e che comprende, oltre al lavoro, un sistema di relazioni affettive quali la famiglia, i figli, ma anche le
relazioni culturali, amicali e di impegno sociale.
A questi mutamenti e ai nuovi bisogni espressi dalle donne non corrispondono reali politiche
di sostegno da parte del Governo, né la dovuta attenzione da parte del Ministro per le pari opportunità. Il NAP (Piano di azione nazionale) 2003 - 2005 e il Libro bianco sul welfare non hanno dato
risposte a questi bisogni, nonostante le critiche e le proposte avanzate dai Sindacati Confederali
e dalle donne.
La conciliazione
L’occupazione femminile è fondamentale per il raggiungimento degli obiettivi di Lisbona, ma il
modello di società proposto attualmente assegna alle sole donne il lavoro di cura nella famiglia
(che rimane per il Governo quella fondata sul matrimonio, anche se di fatto aumentano le convivenze, le separazioni e i divorzi). Alle donne si offrono forme di lavoro sempre più atipiche da
sconfinare nella precarietà e la conciliazione fra tempi di vita e tempi di lavoro diventa sempre
più difficile, se non impossibile. Da un’indagine ISTAT risulta che tuttora il 52,4% delle donne
occupate e con un figli in età inferiore a 5 anni dichiara di lavorare più di 60 ore settimanali sommando il lavoro familiare e quello professionale, contro 21,7% degli uomini nella stessa condizione. La condivisione dei lavori di cura all’interno della coppia è invece il presupposto culturale indispensabile se si vuole arrivare all’affermazione di una diversa qualità del lavoro e della
vita e di una reale parità fra uomini e donne in tutti i campi della vita sociale, dal lavoro alla
rappresentanza nei luoghi elettivi delle istituzioni. E’ del tutto evidente, infatti, che se la cura,
sia degli anziani, sia dei bambini, rimane solo in capo alla donna, la parità nel mondo del lavoro non si otterrà mai.
Il rapporto del governo afferma che la legislazione degli ultimi anni non solo ha di fatto
favorito l’incremento dell’occupazione femminile, ma ha anche fornito gli strumenti per conciliare i tempi di vita e i tempi di lavoro. Con la legge 53/2000 sui congedi parentali, con il
testo unico sulla maternità, ma anche con altri importanti atti legislativi dei governi precedenti, si era cominciato ad affermare una cultura che portava alla redistribuzione dei ruoli fra
uomini e donne nel lavoro e nella famiglia e a rendere la parola “conciliazione” non più declinata esclusivamente al femminile, ma anche al maschile.. Dopo l’entrata in vigore della legge,
vi era stato un generale aumento dell’utilizzo del congedo parentale: l’aumento, paragonando
il 1999 con il 2001, si era registrato sia per le donne che per gli uomini. Per questi ultimi l’aumento sembra comunque incidere di più (dallo 0,3% del totale di un vasto campione di dipendenti pubblici maschi all’1,2%), anche se ciò è almeno in parte dovuto al basso punto di partenza di tale dato. Tra uomini e donne restavano sostanziali differenze nelle modalità di fruizione dei congedi, rilevabili in particolare dal numero di giornate fruite e dalla presenza o
meno di retribuzione durante l’astensione (in relazione a un campione di più di mezzo milione
di dipendenti pubblici, mentre 7 uomini su 10 fruivano al massimo di 30 giorni di congedo, e
per lo più retribuiti per intero, 6 donne su 10 utilizzavano più di 30 giorni e l’82,6% del totale
delle madri utilizzava giornate retribuite solo al 30% o non retribuite affatto).
Comunque, il disegno che si è cercato di portare avanti nella precedente legislatura per una
parità reale fra uomini e donne nel mercato del lavoro e nella società registra oggi una preoc-
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cupante battuta di arresto, essendo cambiati, come abbiamo già detto, i presupposti culturali
delle politiche dell’attuale governo. Anche il “libro bianco” del Ministro del Welfare lo comprova: esso sembra prestare grande attenzione all’incremento dell’occupazione femminile e al tema
delle pari opportunità fra uomini e donne, che cita in abbondanza in tutti i capitoli, ma per rilanciare il tema dei provvedimenti da prendere per facilitare la conciliazione fra lavoro e famiglia,
ribadisce l’impegno del Governo a promuovere “ politiche sociali di sostegno alle donne sposate
che lavorano per dare loro la possibilità di meglio conciliare l’attività lavorativa con gli impegni
familiari”. Per quanto riguarda il prelievo fiscale sui redditi di lavoro asserisce di seguito che va
prestata particolare attenzione, affinché non disincentivi “il lavoro femminile anche quando
aggiuntivo all’interno di un dato nucleo familiare”. Anche qui evidentemente con - quell’aggiuntivo - si ripropone il modello sociale per cui il lavoro della donna ha un valore inferiore a
quello del marito.
Precarietà
Se è vero che l’aumento dell’occupazione femminile è il fenomeno più rilevante di questi ultimi
anni, occorre evidenziare nello scenario generale non solo la quantità, ma anche la qualità della
partecipazione femminile italiana al mercato del lavoro e le prospettive, in relazione alla recente legge di riforma del mercato del lavoro e alla grave crisi economica che sta attraversando il
nostro Paese.
Quello che il Governo propone non riguarda solo il mercato del lavoro, ma l’introduzione di
una cultura dove il lavoro diventa “merce”; si sostanzia in tal modo quell’operazione delineata nel Libro Bianco, che trova conferma non solo nella riduzione delle tutele per trovare e per
vivere serenamente il lavoro, ma nella più ampia strategia di attacco alla dimensione dei diritti
e della cittadinanza. Vi sono una sistematicità e una coerenza di fondo che legano il decreto
attuativo della legge 30/2003 sulla riforma del mercato del lavoro, la legge 30/2002 ( 189/2002)
Bossi-Fini sull’immigrazione, la riforma della scuola e dell’università della Ministra Moratti, la
proposta di riforma fiscale e la controriforma previdenziale, l’attacco al welfare nazionale e
locale. E’ l’egoismo sociale, è un’idea di competizione povera e al contempo selvaggia, è il principio del superamento di ogni corpo democratico intermedio a partire dal Sindacato Confederale.
Da un attenta lettura del “Libro Bianco” sul mercato del lavoro, della legge 30/2003 (nominata Legge Biagi) che ne rappresenta la coerente traduzione normativa, del decreto 276 attuativo e relative circolari applicative e del “Libro bianco sul welfare” emerge un modello di sviluppo che non è favorevole alle politiche di pari opportunità e all’avanzamento delle donne nelle
carriere.
La relazione di accompagno della legge 30/2003 (legge Biagi) la definisce come “una legge
per l’inclusione sociale delle donne”. Vi si afferma inoltre che “l’adozione di misure che agevolano l’accesso al lavoro a tempo parziale e ad altri contratti a orario modulato rappresenta
una importante strategia di azioni positive finalizzate, attraverso la conciliazione dei tempi di
vita e di lavoro, alla lotta contro le discriminazioni indirette nei confronti delle donne”. Si ribadisce quindi che part time e orari di lavoro anomali sono soprattutto adatti alle donne occupate
con impegni familiari, avvalorando così una realtà in cui queste forme di orario determinano una
segregazione femminile, precaria e senza prospettive. Il 17,3% delle donne occupate lavora a
part-time (3,2% invece è la percentuale degli uomini). Il 30% dichiara di farlo per scelta, soprattutto per conciliare lavoro e famiglia, il 27,1% per impossibilità di trovare un lavoro a full time
(42,3% per gli uomini). Anche nel lavoro a tempo determinato le lavoratrici prevalgono (12,2% di
donne contro l’8,2% di uomini). Anche qui è elevato il tasso di “non scelta” pari al 40,8%. Vi è
inoltre un aumento considerevole delle occupate in orari non standard (dal 1993 al 2003 l’incremento è stato del 16,9%, mentre per gli uomini si registra un decremento del 3,1%9 ).
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In realtà le norme contenute nel provvedimento puntano ad una frantumazione del mondo
del lavoro, ad una disarticolazione delle forme della rappresentanza, alla individualizzazione del
rapporto di lavoro, allo snaturamento, attraverso gli enti bilaterali, della stessa funzione del sindacato. Le circa quaranta forme di contratto avranno meno tutele e saranno senza un reale diritto alla retribuzione in caso di malattia e infortunio, senza una copertura previdenziale dignitosa. In sostanza il lavoro diventa “merce” e la lavoratrice (e il lavoratore) dovrà essere sempre
a disposizione dell’impresa.
Incerti sono inoltre i diritti legati alla maternità.
Sicuramente aumenterà la precarietà e di conseguenza aumenteranno i ricatti e le molestie
sessuali.
Saranno inoltre pesanti le ricadute sulla previdenza e sul futuro pensionistico delle nuove
generazioni.
Prendiamo ad esempio il part time. Il decreto introduce nuovi assetti normativi che dovrebbero incrementarne il ricorso , riducendo i vincoli e gli oneri del datore di lavoro, ma rendendo
la vita impossibile alle lavoratrici e ai lavoratori, che scelgono questa tipologia lavorativa proprio per conciliare i tempi di vita e i tempi di lavoro. Infatti le modifiche all’attuale normativa
ampliano il ricorso e l’incertezza della durata del lavoro supplementare e flessibilizzano la distribuzione dell’orario concordato, riducendo gli spazi di contrattazione e di volontarietà.
Vi è poi il “lavoro intermittente”. Esso è caratterizzato in via essenziale dall’incertezza della
prestazione, che dipende esclusivamente dall’atto della chiamata al lavoro da parte del datore
di lavoro e solo in via secondaria dalla disponibilità del lavoratore a farvi fronte. Il lavoro a intermittenza è immediatamente disponibile per i lavoratori con più di 45 anni espulsi dal ciclo lavorativo o iscritti in mobilità e al collocamento, o per i disoccupati con meno di 25 anni, confermando che per gli svantaggiati questo governo è particolarmente premuroso.
Persistono difficoltà interpretative rispetto alla proporzionalità di molti istituti. Ad esempio
non è chiaro nel caso dei periodi di maternità e di congedi parentali, cosa significa la proporzione temporale nella fruizione. Infatti il congedo per maternità è definito per legge come
“astensione obbligatoria”, il congedo parentale è invece un’astensione facoltativa. Ci auguriamo che il legislatore non abbia inteso prendere come riferimento il criterio delle ore prestate
nell’anno precedente, perché questo di fatto lederebbe i diritti legati alla tutela della maternità e della paternità.
Altra forma di contratto “innovativa” è il lavoro ripartito , conosciuto anche con il termine
“job sharing”. Esso prevede che si può lavorare in coppia sulla base di un unico rapporto di lavoro. Ciascun lavoratore stabilisce con l’altro la quantità di lavoro che svolgerà, e sarà retribuito
in conseguenza. Il testo non cita la maternità: sarà una dimenticanza o in quel caso si applica la
legge integralmente per entrambi?
Il venir meno della disponibilità di uno dei lavoratori a proseguire il rapporto determina automaticamente il licenziamento anche dell’altro, a meno che il datore di lavoro offra al lavoratore rimasto di restare in azienda con un “normale” rapporto di lavoro, anche a part-time.
L’impedimento di entrambi i lavoratori autorizza il datore di lavoro a sciogliere il vincolo contrattuale per entrambi.
Il paradosso è che questo insieme di norme che irrigidiscono la flessibilità, così decantata
dalla legge Biagi, non sembrano avere prodotto un risultato apprezzabile.
Il lavoro a tempo parziale è diffuso soprattutto fra le donne, ma occorre ricordare che prima
dell’introduzione della suddetta legge il part-time era un contratto di lavoro “tipico”, con le
stesse tutele del lavoro a tempo pieno. Dalle ultime rilevazioni sulle forze di lavoro risulta che
nel secondo trimestre del 2004 vi è un aumento dell’1,7% dell’occupazione a tempo pieno, una
diminuzione dello 0,4% di quella a part time rispetto al secondo trimestre del 2003. E’ del tutto
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evidente che è difficile fare un’analisi compiuta di questi dati che peraltro non sono disaggregati per genere, ma si può pensare che il nuovo part-time non è gradito dalle donne!
La previdenza
A proposito della cosiddetta riforma previdenziale recentemente approvata (legge 243 del 23
agosto 2004) è utile sottolineare come essa sia sostanzialmente contro le donne.
L’eliminazione della flessibilità dell’età pensionabile prevista nel sistema contributivo (57 -65
anni di età) ed il reinserimento di un’età pensionabile fissa ed obbligatoria (60 anni per le donne
e 65 anni per gli uomini) è cosa che ovviamente colpisce i diritti di tutti perché il diverso modo
di calcolo della pensione previsto nel sistema contributivo era ed è strettamente interconnesso
alla libera scelta delle lavoratrici e dei lavoratori di poter andare in pensione a determinate età,
con la consapevolezza di percepire un determinato trattamento. Per quanto riguarda la specificità di genere tale norma significa che le lavoratrici dovranno lavorare almeno tre anni in più
rispetto a prima, fermo restando il fatto che per poter andare in pensione a tale età dovranno
avere anche gli altri requisiti di legge e cioè almeno 5 anni di contributi e un importo di pensione pari ad almeno 1,2 volte l’importo dell’assegno sociale. Ricordiamo che nel sistema contributivo l’età pensionabile flessibile ha anche significato la parificazione dei requisiti per il diritto
alla pensione tra uomini e donne, cosa che ha permesso il superamento di vecchie e sterili polemiche che, purtroppo si ripropongono ogni volta che ci sono da recuperare nuove entrate previdenziali in merito alla presunta necessità, in nome di una parità assoluta, di prevedere l’innalzamento dell’età pensionabile obbligatoria delle donne, eguagliandola a quella degli uomini.
E’ previsto che la totalizzazione (cumulo) dei contributi sia possibile anche per coloro che
raggiungono il diritto alla pensione nel singolo fondo, gestione o cassa previdenziale, solo se si
hanno almeno 65 anni di età o si raggiungano i 40 anni di contribuzione, indipendentemente dall’età anagrafica, e semprechè ogni periodo contributivo versato presso ogni singolo fondo sia
stato di durata almeno pari a 5 anni
La norma è penalizzante per le lavoratrici, che maturando il diritto alla pensione di vecchiaia
a 60 anni, dovrebbero comunque attendere i 65 per poter usufruire della totalizzazione e quindi per poter percepire un unico trattamento di pensione, corrispondente al cumulo di tutti i
periodi contributivi versati o accreditati. La norma dovrebbe essere modificata facendo riferimento per il diritto alla totalizzazione al raggiungimento dell’età pensionabile prevista nel sistema pubblico obbligatorio.
La modifica delle norme sul diritto alla pensione di anzianità prevede, a decorrere dal 1 gennaio 2008, per tutti i lavoratori un innalzamento secco di almeno tre anni di età ( in alcuni casi
diventano anche cinque) per poter maturare l’accesso al trattamento pensionistico. Nel 2008
saranno infatti necessari, oltre ai 35 anni di contribuzione, 60 anni di età, che diventeranno 61 nel
2010 e 62 nel 2014. Ciò significa che di fatto per le lavoratrici la pensione di anzianità viene cancellata, dal momento che l’età prevista per il diritto alla pensione di anzianità coincide con l’età
prevista per il diritto alla pensione di vecchiaia ( a meno che nella mente del Governo non rimanga sempre il sottile pensiero di poter prima o poi procedere all’elevazione dell’età pensionabile
obbligatoria per le lavoratrici). Né è da prendere in alcuna considerazione la possibilità che viene
concessa, in via sperimentale e comunque fino al 2015, alle sole donne di poter continuare ad
andare in pensione di anzianità con i vecchi requisiti di 57 anni di età e 35 di contribuzione, alla
condizione che optino per il sistema di calcolo contributivo: si tratta di una misura ridicola, pericolosa e soprattutto estremamente penalizzante per le lavoratrici, alle quali verrebbe semplicemente riconosciuto il diritto ad andare in pensione prima, in cambio di un trattamento pesantemente ridotto. Non sono questi gli sconti che debbono essere fatti alle lavoratrici: si tratta, infatti, di misure false e demagogiche, che non salvaguardano assolutamente i diritti acquisiti.
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Lavoratrici Immigrate (Donne immigrate)
Per quanto riguarda le donne immigrate - importante risorsa sia per le famiglie (poiché le lavoratrici immigrate impegnate come ausiliarie famigliari permettono alle donne italiane la conciliazione lavoro-famiglia), sia per l’economia del paese - l’utilizzo del linguaggio di genere è
improprio. La segregazione orizzontale e verticale, oppure il soffitto di cristallo, non riguardano
il loro mondo del lavoro. L’unico linguaggio possibile è “segregazione, segregazione, e segregazione”. Il soffitto di cristallo diventa di cemento e la mobilità all’interno del mercato del lavoro è impossibile. Le lavoratrici immigrate, in maggioranza diplomate o laureate, arrivano in Italia
con una professionalità ed esperienza di lavoro che non sono mai riconosciute e sono costrette
a lavorare, salvo poche eccezioni, nel settore dell’assistenza alle persone ed alle famiglie o come
donne di pulizia.
Con la legge 30/2002, n. 189, la nuova legge sull’immigrazione chiamata Bossi-Fini, l’ingresso per lavoro è vincolato alla stipulazione del “contratto di soggiorno per lavoro” ed i lavoratori immigrati da cittadini stranieri diventano soltanto forza lavoro. L’ingresso regolare per le
donne diventa impossibile perché le famiglie italiane preferiscono l’assunzione diretta e difficilmente assumono una lavoratrice senza conoscerla.
La legge Bossi-Fini ha introdotto modifiche restrittive alcune delle più importanti riguardano la possibilità di ingresso e permesso di soggiorno per lavoro solo a seguito di un contratto di
soggiorno per lavoro e, in caso di perdita di lavoro, la possibilità di iscrizione nelle liste di collocamento per sei mesi. Il ricongiungimento familiare ha subito importanti restrizioni in particolare nel caso dell’ ingresso dei genitori e figli maggiorenni. Pur avendo parità di trattamento in
ambito previdenziale, sono penalizzate in caso di prestazioni di natura non contributiva, ovvero
le prestazioni assistenziali ( assegni di maternità e invalidità civile , ad esempio, solo con carta
di soggiorno) .
Questi aspetti evidenziano come oggi le donne regolari in Italia siano in una condizione di
precarietà e disagio. Il testo unico sull’immigrazione del 1998 aveva lo scopo di affermare quei
diritti di cittadinanza sociale che devono essere l’obiettivo di una seria politica dell’immigrazione in Italia; con la Bossi Fini si è tornati indietro perché quei diritti non sono garantiti come lo
erano in precedenza.
Per quanto riguarda le donne richiedenti asilo in Italia, le rifugiate, sono penalizzate dalla
mancanza di una legge organica sul diritto di asilo. Inoltre, in occorre ricordare che l‘Italia insieme alla maggiore parte dei paesi Ue non ha ancora ratificato la Convenzione Onu per la protezione dei diritti di tutti i lavoratori migranti e delle loro famiglie del 1990 .
Così si arriva con il visto per turismo e alla sua scadenza se passa alla clandestinità e conseguente precarietà. Il pericolo di finire in un CPT( Centri di Permanenza Temporanei ) è reale.
In questi centri si riuniscono tutti gli immigrati irregolari; molti avrebbero diritto alla richiesta
d’asilo; molte donne, vittime della tratta, alla protezione sociale e così via. L’impossibilità da
parte delle organizzazioni di volontariato di portare loro assistenza fa sì che siano espulsi
dall’Italia indipendentemente dai loro diritti.
La mancanza di garanzie reali rende l’accesso al credito impossibile. Non è possibile nemmeno fare un finanziamento per l’acquisto di un bene di consumo. L’unica possibilità di credito per
le immigrate in questo momento è attraverso due progetti pilota per il microcredito alle donne
immigrate. Uno in programma nella Provincia di Roma, promosso dalla Fondazione Risorsa Donna
di Roma e Compagnia San Paolo di Torino, in collaborazione con la Banca San Paolo Imi, che offre
alle donne immigrate la possibilità di avviare una microimpresa oppure di qualificarsi professionalmente, attraverso un percorso formativo che garantisca un sbocco occupazionale. L’altro nella
città di Torino, promosso dalla Ass. Alma Mater, in collaborazione con le banche etiche MAG 2,
MAG 4 e AGEMI, offre alle donne immigrate microcredito per soddisfare molteplici bisogni.
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Politiche sociali e sanitarie
Salute riproduttiva
Secondo l’organizzazione dei Servizi Sanitari della Repubblica Italiana, i consultori sono il presidio territoriale deputato alla prevenzione della salute delle donne. Relativamente ai Servizi di
Prevenzione rivolti alla donna, l’OMS definiva il Consultorio un ambulatorio di primo livello che
si occupa di salute riproduttiva e di prevenzione dei tumori femminili Tuttavia essi sono in progressiva smobilitazione. I Consultori dovevano essere potenziati fino a realizzarne uno per ogni
15.000 abitanti. Ma questo disegno non è mai stato portato a compimento, non c’è un censimento di quanti essi siano attualmente.
L’Italia è il secondo paese dopo il Brasile per il numero di Tagli Cesarei; non sono in atto
politiche tese a ridurre il fenomeno e a informare le donne sui rischi connessi.
Rispetto all’interruzione volontaria di gravidanza, non vengono messe in atto quelle : “ procedure più avanzate per le donne” (Legge 194/1978 art.15 ): gli aborti medici con RU486 (
Mefegyn), i cui vantaggi rispetto a quelli chirurgici sono ampiamente dimostrati a livello clinico,
psicologico ed economico, sono ampiamente realizzati in altri paesi europei (650.000 in Europa),
ma in Italia non sono di fatto consentiti .I medici italiani che praticano il servizio di IVG secondo la L.194/78 intendono fare una petizione alla ditta EXELGYN, al Ministero della Sanità, alla
Commissione del Farmaco affinché in Italia venga commercializzato il prodotto RU486 come negli
altri Paesi Europei.
Asili nido
La legge 285/1997 e la legge 265/2000 consentono e promuovono una nuova tipologia dei servizi per la prima infanzia, che prevede servizi gestiti dalle famiglie o da associazioni, micro-asili,
flessibilità negli orari, ecc. Alcune Regioni hanno già legiferato in questo senso e svariate sono
le iniziative dei Comuni. Sono in atto alcuni cambiamenti che occorre monitorare con attenzione, in modo che si mantengano gli standard di qualità cui non possiamo, né vogliamo rinunciare.
Compito delle amministrazioni pubbliche è soprattutto quello di fissare e mantenere il controllo su tali standard, quando non sono più in grado di provvedere direttamente all’erogazione dei
servizi. Rispetto agli asili nido aziendali - alcuni, ma ancora molto pochi, sono stati aperti -, il
problema è estremamente controverso. Infatti da un lato si teme che si ritorni ad una logica di
tutela dell’azienda, come era prima degli anni settanta, quando aziende illuminate, come ad
esempio Olivetti o Pirelli, fornivano alcuni servizi ai propri dipendenti, per permettere a padri e
madri la permanenza nei luoghi di lavoro. Poiché in Italia è stato privilegiato, giustamente, nell’ultimo trentennio un sistema territoriale nel quale l’attenzione si è fortemente concentrata
sulle esigenze educative dei bambini e delle bambine, si paventa il rischio che i nidi aziendali
assumano una funzione di parcheggio, che siano collegati solo alle lavoratrici madri - e non ai
lavoratori padri - e che siano soprattutto funzionali alle esigenze delle aziende
Dall’altro lato, è innegabile che ci sia un estremo bisogno di asili nido, soprattutto se si considera il fatto che la copertura di posti è attualmente ferma al 6%, anche se la richiesta di copertura dell’Unione Europea per l’anno 2010 è al 33%.
II. Institutional mechanism to promote Gender Equality
Presenza delle donne nelle istituzioni: riforme elettorali e Statuti Regionali
In Italia il problema della rappresentanza delle donne nelle istituzioni pubbliche, e in particolare nella gestione politica, è ormai irrinviabile. Siamo al 73° posto in una graduatoria di 183 Stati,
con 71 donne alla Camera (11,05% del totale dei membri) e 26 al Senato (8,01%).
I dati dimostrano inequivocabilmente come le donne italiane siano in condizione di svantag-
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gio rispetto a quelle degli altri paesi europei e del resto del mondo. (In allegato i dati sulla presenza femminile nelle istituzioni locali elettive).
Il governo e la sua Ministra dovrebbero interrogarsi sul fallimento totale della loro azione e
sul non raggiungimento degli obiettivi definiti nella piattaforma di Pechino. Quali sono stati gli
interventi legislativi che ha messo in atto il governo italiano dopo la modifica degli art.51 ( all’articolo 51, primo comma, della Costituzione, è aggiunto, in fine, il seguente periodo: “A tal fine
la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini) e 117
comma 7° della Costituzione? Nessuna campagna di sensibilizzazione significativa sulle pari
opportunità è stata svolta dalla Ministra; l’unico intervento legislativo è stato fatto per le elezioni del parlamento europeo con la legge 6 aprile 2004 dove all’art.3 comma 1: “nell’insieme
delle liste circoscrizionali nessuno dei due sessi può essere rappresentato in misura superiore ai
due terzi”.
La norma introdotta è molto blanda. Nessun modifica è stata introdotta sulla legge elettorale nazionale e nessun intervento è stato promosso dal Governo nazionale sulle Regioni per
spingere queste ultime a rispettare il dettato costituzionale dell’art.117 comma 7° che prevede l’introduzione nelle leggi elettorali di norme per il riequilibrio della rappresentanza: “le leggi
regionali devono rimuovere ogni ostacolo alla piena parità tra donne e uomini nella vita sociale,
culturale ed economica, promuovendo la parità di accesso alle cariche elettive e di governo”. Le
uniche Regioni che hanno votato una nuova legge elettorale ad oggi sono la Sicilia e la Toscana.
La prima, grazie ad una forte campagna di pressione esercitata dalle associazioni di donne e
dall’intervento del Commissario dello Stato, è riuscita a introdurre l’alternanza uomo donna
nella lista regionale composta da otto candidati e la norma dei 2/3 nelle liste provinciali; la
Toscana ha eliminato la preferenza unica e ha inserito la norma dei 2/3. Se non interverranno
miracoli istituzionali nelle prossime elezioni regionali previste in primavera, le Regioni violeranno palesemente un dettato costituzionale, e a farne le spese saranno ancora una volta le donne
italiane.
Le Regioni che hanno approvato gli statuti sono: Abruzzo, Calabria, Emilia Romagna, Lazio,
Liguria, Marche, Puglia, Sardegna, Toscana, Umbria, Valle d’Aosta, ma su molti pendono i ricorsi del Governo.
Le politiche per le pari opportunità nel contesto europeo
Poiché l’Italia si appresta alla ratifica del Trattato Costituzionale sì che la Carta dei diritti fondamentali dell’UE possa diventare giuridicamente vincolante ( parte II del Trattato) e il diritto all’uguaglianza sostanziale tra uomini e donne diventi un obbligo, è particolarmente grave che il
Governo non rispetti neppure le disposizioni dei trattati dell’Unione Europea attualmente vigenti.
Sia il TCE (Trattato di Costituzione Europea) che la Carta di Nizza, infatti, oltre al divieto di
discriminazione di sesso inter alia contengono disposizioni specifiche e autonome per la promozione dell’uguaglianza tra uomini e donne. L’inserimento nella Carta di uno specifico e autonomo diritto all’uguaglianza tra uomini e donne è il risultato di una lunga battaglia condotta dalle
femministe in sede europea per affermare che le donne non sono un gruppo discriminato tra gli
altri. Dunque l’approccio del Ministero italiano delle pari opportunità finalizzato sulla lotta a
tutti i tipi di discriminazioni previste all’art 13 TCE, negando autonomia e specificità alle politiche di pari opportunità tra uomini e donne e sussumendole all’interno del generale approccio
antidiscriminatorio, si basa su una lettura parziale e riduttiva del TCE e della Carta di Nizza
Il TCE sia all’art 141 che agli art 2 e 3 configura un principio di uguaglianza tra uomini e
donne che va oltre il divieto di discriminazione/uguaglianza formale e include l’ uguaglianza
di opportunità come aspetto dell’uguaglianza sostanziale tra uomini e donne. Anche l’art 23
della Carta enuncia esplicitamente l’obbligo di non limitarsi all’uguaglianza di trattamento ma
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anche di promuovere politiche per perseguire l’uguaglianza effettiva di opportunità e risultati . L’approccio del Ministero fonda, invece, i suoi compiti e funzioni esclusivamente sull’art
13 TCE e, dunque, identifica e restringe la nozione di uguaglianza tra uomini e donne all’approccio
antidiscriminatorio/uguaglianza
di
trattamento/
uguaglianza
formale.
L’identificazione della nozione di pari opportunità con il divieto di discriminazione è in contraddizione con le menzionate disposizioni comunitarie e con il tradizionale approccio comunitario che fin dal 1976, oltre all’uguaglianza di trattamento, ha previsto azioni positive di promozione delle pari opportunità in ambito occupazionale e professionale.
Alla luce di queste disposizioni l’ attuale approccio del Ministero delle pari opportunità e la relativa definizione dei suoi compiti e funzioni risultano parziali e riduttivi.
L’annullamento della specifica prospettiva dell’uguaglianza di genere all’interno di un generale approccio antidiscriminatorio e la sovrapposizione/confusione/dissoluzione delle specifiche
politiche di uguaglianza di genere all’interno delle generali politiche antidiscriminatorie non corrisponde ne’ ad una corretta interpretazione del gender mainstreaming , né all’approccio duale
che secondo la Commissione Europea ne sarebbe il necessario presupposto. Al contrario, il rafforzamento della prospettiva dell’uguaglianza di genere all’interno delle politiche contro le discriminazioni di razza, etnia,età handicap, religione e orientamento sessuale richiede il rafforzamento degli organismi specificamente preposti alle politiche di uguaglianza di genere. Per perseguire, conseguire e assicurare l’uguaglianza sostanziale di cui all’art 23 della Carta è perciò
necessario correggere l’attuale tendenza a trasformare il Ministero delle pari opportunità in una
generica struttura responsabile di tutte le politiche antidiscriminatorie.
III. Trafficking of women in the context of migratory movements
Il fenomeno della prostituzione coatta e delle donne trafficate dimostra negli anni una grande
persistenza e si evolve continuamente per forme, luoghi, contesti, modalità: cambiano i Paesi di
provenienza, le modalità di ingaggio e di sfruttamento, cambiano i luoghi e i tempi della prostituzione. Sono in atto mutamenti dovuti anche a una maturazione delle reti di sfruttamento le
quali, in quanto vere e proprie aziende, sono in grado, a seconda di una analisi degli indicatori
di mercato, di diversificare investimenti, di modificare struttura ed organizzazione, pur di penetrare mercati nuovi e sempre più redditizi, assorbendo merce umana dagli sterminati mercati
della povertà e della miseria globalizzata.
L’art.18 della legge sull’immigrazione (legge Turco/Napoletano, n.40/1998)
In Italia dal 1996 si è cercato di affrontare il problema come proposto dalla Carta di Pechino,
assunta nella Direttiva Prodi-Finocchiaro del 1997, con l’introduzione dell’art. 18 nella legge sull’immigrazione. La scelta è stata ritenuta da tutti importante per i successi ottenuti con questa
norma e le politiche messe in atto dalla sua entrata in vigore sono diventate un modello seguito
con grande attenzione anche a livello internazionale.
Questo articolo, collocato non a caso nella sezione dell’aiuto umanitario è considerato fortemente innovativo per il rispetto dei diritti umani delle vittime di traffico, supera radicalmente la precedente legislazione premiale e permette di rilasciare un permesso di soggiorno sia che
la vittima denunci sia senza denuncia, per entrare in un percorso di protezione sociale e uscire
da condizioni di pericolo e di violenza da parte dei suoi sfruttatori. Una norma a difesa di diritti fondamentali delle persone vittime di reati che hanno vulnerato gravemente la loro dignità,
che in quanto tale si fa legge del più debole anche riguardo ai poteri dello stato le cui leggi, in
materia di ingresso e soggiorno degli stranieri, vengono derogate, mentre si impegnano risorse
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nell’opera di assistenza e integrazione sociale delle vittime. L’art.18 consente di realizzare un
percorso di inclusione sociale mediante programmi di assistenza e integrazione sociale intesi
come riformulazione del progetto migratorio in condizioni di legalità, sicurezza e autonomia. E’
il passaggio dalla vittimizzazione al diritto di cittadinanza, ponendosi in maniera alternativa e
antagonista alle reti di sfruttamento.
La norma ha dimostrato la sua efficacia sottraendo ai trafficanti, già nei primi tre anni della
sua applicazione, oltre 2000 donne con permesso di soggiorno (mentre sono oltre 5000 le domande presentate dalle donne) e costruendo le condizioni della loro autonomia attraverso la formazione e l’inserimento lavorativo per oltre 80% delle persone seguite dai progetti di protezione
sociale finanziati proprio grazie all’art.18 dallo stato, co-finanziati dagli enti locali, gestiti da
ong competenti, e supportati da azioni di sistema come il Numero verde nazionale.
I danni della legge Bossi-Fini (legge n.189/2002)
La mancata valorizzazione di questo modello dal 2002 in poi nasce dalla modificazione intervenuta nelle politiche sulla tratta che la legge Bossi-Fini ha determinato, nonostante le dichiarazioni
dei vari esponenti di governo sulla riaffermazione del valore e dell’importanza dell’art. 18.
Se infatti la Bossi-Fini mantiene l’art.18, cambiando completamente l’impianto e la filosofia
della legge in cui questa norma si situa, depotenzia le possibilità positive rappresentate dall’art.18
stesso rendendo difficile l’aiuto alle vittime di tratta e il contrasto alle organizzazioni criminali.
Infatti, parte delle Forze dell’Ordine e della Magistratura, che già tendevano a considerare
l’art. 18 come un dispositivo solo per i collaboratori di giustizia, sono state incoraggiate a mantenere la discrezionalità che impedisce a molte persone vittime di tratta di accedere alla protezione mediante il percorso sociale (senza denuncia), con la conseguenza di vanificare il regime del “doppio binario” previsto dalla legge, di ridurre quasi a nulla il rilascio di permessi per
protezione sociale, mentre per i permessi di natura giudiziaria i tempi si sono allungati a dismisura arrivando fino a oltre 12 mesi di attesa. Di contro, laddove il percorso sociale viene applicato, si registra la dimostrazione della sua efficacia anche nel contrasto alla criminalità, poiché
spesso, una volta rassicurate, le vittime decidono per la denuncia e comunque offrono informazioni preziose alle indagini. Si è creata quindi una grande divaricazione tra le questure che rilasciano il permesso di soggiorno per protezione sociale e le molte altre dove questo non è accettato, o dove la scarsità di personale o il cambio dei funzionari ha vanificato il lavoro di collaborazione precedentemente in atto ed è scomparsa la figura del referente unico.
Altri problemi derivano inoltre dall’allungamento dei tempi nelle procedure a causa dell’intasamento delle Questure per le rilevazioni delle impronte di tutti i richiedenti permesso di soggiorno. Questa obbligatorietà, che tocca anche le vittime di tratta, ha reso infiniti i tempi di
attesa, sia delle sospensioni delle espulsioni (all’atto della richiesta del primo art.18), che delle
revoche delle espulsioni (all’atto della trasformazione dell’art.18 in permesso di lavoro o attesa
lavoro). Le ragazze sono costrette a tornare anche sei/sette volte in Questura, in quanto la data
dell’emissione dei permessi viene continuamente posticipata. Sono stati segnalati casi di ragazze, in possesso di regolare permesso di soggiorno per lavoro, che sono state espulse dalle forze
dell’ordine perché considerate prostitute, “dimenticando” che in Italia la prostituzione non è
reato. Con la legge Bossi-Fini si è determinata quindi una situazione caratterizzata da confusione nell’applicazione dell’art.18 e abusi originati da errate interpretazioni, con grave difficoltà delle donne trafficate e dei progetti di protezione sociale.
Questi i danni principali:
Aumento dell’azione repressiva delle forze dell’ordine, rimpatri coatti e reclusione nei CPT
(Centri di permanenza temporanea). La politica del governo si sta traducendo in frequenti retate che hanno come esito rimpatri di massa che, ancor meno del passato, valutano la situazione
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del singolo, con conseguente violazione del diritto delle persone a beneficiare dei percorsi di
cui all’art.18. Per le donne vittime di tratta le più gravi conseguenze si registrano per il configurarsi del reato di clandestinità, che le rende soggetti particolarmente vulnerabili alla politica
repressiva attuata dal Governo. Non viene più offerta la possibilità del rientro assistito ed onorevole nei paesi di origine, progetto approvato come azione di sistema della Commissione art.18
nel 2001 che consentiva di circoscrivere fenomeni di immediato rientro nel territorio italiano ad
opera di organizzazioni mafiose che sempre più tendono a vanificare le espulsioni effettuate,
aggravando, fra l’altro, lo stato di soggezione delle vittime dello sfruttamento Le donne che sono
trattenute nei CPT, sono, nella quasi totalità, prostitute fermate sulla strada senza permesso di
soggiorno. Dal CPT si esce con l’ingiunzione a lasciare il territorio nazionale o con rimpatrio coatto, e le donne non vengono informate delle possibilità offerte dall’art.18. La nuova legge sull’immigrazione, spostando le risorse umane ed economiche delle forze dell’ordine dall’azione
investigativa (lotta ai trafficanti e sfruttatori) a quella repressiva (azioni ad alto impatto mediatico con retate ed espulsioni, facendo leva sul sentimento di insicurezza dei cittadini), con l’illusione di poter arginare l’immigrazione clandestina e di impedire i reingressi, criminalizza le
vittime di tratta, induce in loro la paura delle espulsioni e degli arresti, le sottrae alle possibilità di contatto da parte delle unità di strada e delle stesse forze dell’ordine, le spinge sempre
più ad invischiarsi per i loro progetti migratori con le reti di sfruttamento, individuando le forze
dell’ordine e quindi lo stato italiano non più come un soggetto a cui chiedere aiuto, ma come un
problema/nemico da cui difendersi. La nuova normativa cioè scoraggia le vittime dall’intraprendere un percorso di fuoriuscita, spingendole a rinsaldare la propria sottomissione allo sfruttatore che assume un più incisivo potere di controllo.
Diminuzione della prostituzione visibile in strada (fino al 50%, tra fine 2002 e inizio 2003)
ma accelerazione dei processi che stanno inducendo il racket ad organizzare lo sfruttamento
della prostituzione in luoghi chiusi. Lo spostamento del fenomeno dalla strada al “chiuso” favorisce l’attività sommersa, comporta maggiori difficoltà a contattare le vittime di tratta o ad
esserne contattati, aumenta il rischio di una recrudescenza delle forme di controllo e di violenza psico-fisica da parte degli sfruttatori, impedisce quindi il rapporto con gli operatori e riduce
di molto il conseguente ingresso, da parte delle donne, nel percorso di protezione sociale.
Diminuzione delle risorse a disposizione, non chiarezza da parte del Dipartimento pari opportunità, presso il quale è insediata la Commissione per l’attuazione dell’art.18, sui criteri di attribuzione dei finanziamenti ai progetti di protezione sociale - che crescono di numero ma perdono di efficacia e di stabilità -; mancato coordinamento delle diverse istituzioni coinvolte. Scarsa
pubblicizzazione del Numero verde, quando sarebbe necessario un potenziamento con campagne
locali e nazionali. Mancata pubblicizzazione dei dati aggiornati sugli esiti ottenuti o sugli elementi di criticità: il DPO non ha mai risposto alle numerose sollecitazioni in tal senso.
Sulla nuova legge penale sul reato di tratta (L.228/2003) - testo di legge già quasi concluso
nella precedente legislatura - la valutazione è generalmente positiva, ma non mancano critiche
severe e fondate dal momento che non è stato dato seguito alla legge con il regolamento di
attuazione, non c’è chiarezza sulla destinazione dei fondi stanziati dal parlamento e sui criteri
per la loro attribuzione, né si riesce a capire con quali modi e tempi saranno utilizzati i fondi
previsti per la cooperazione internazionale sul tema.
La legge sulla prostituzione proposta dal Governo - che con la cultura di fondo della BossiFini ha molto a che vedere - nel caso venisse approvata aggraverebbe ulteriormente la situazione, togliendo - forse - la prostituzione dalla vista, ma non dalla realtà, mentre è difficile non
vedere l’ incoraggiamento oggettivo alla criminalità che gestisce e sfrutta il mercato del sesso.
Se la stragrande maggioranza delle ragazze sparisce all’interno di locali o appartamenti, subisce un controllo molto più forte e con pochissime possibilità di aiuto dall’esterno, diminuisce il
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loro potere contrattuale anche nei confronti del cliente e la possibilità di rifiutare rapporti non
protetti. Dai racconti di alcune donne costrette a prostituirsi in case chiuse risulta una realtà
drammatica che la legge sulla immigrazione ha rafforzato e che la prossima legge sulla prostituzione strutturerà stabilmente, sancendo nei fatti una situazione su cui sarebbe necessario intervenire in modo completamente diverso. Sempre più infatti il contatto del cliente con la prostituta avviene attraverso annunci pubblicitari o informazioni date da persone coinvolte nella
gestione degli appartamenti. La gestione di appartamenti avviene attraverso una rete di intermediari\e che organizzano lo spostamento delle donne immigrate in diverse città, secondo i bisogni e per mantenere sempre una offerta differenziata. Questo determina uno sradicamento da
qualsiasi realtà territoriale e l’impossibilità di avere contatti con servizi ed associazioni.
Inoltre durante il periodo di permanenza nell’appartamento le donne hanno il divieto di uscire e restano segregate in quel luogo fino a quando non vengono spostate in altre città dove si
riproduce la medesima situazione. La tipologia delle prestazioni richieste è completamente
diversa da quelle che vengono richieste in strada. Queste richieste non possono essere rifiutate
dal momento che la maggior parte dei clienti va in appartamento per soddisfare tutta la vasta
gamma di desideri e perversioni legate alla sessualità maschile. Vengono effettuate anche prestazioni sessuali in gruppo e fino a 40\50 prestazioni al giorno. In queste condizioni le donne vivono isolamento e solitudine marcati, impossibilità di relazioni sociali e personali minime, sentimento di subordinazione e controllo in ogni momento della giornata, assoluta impossibilità di
scegliere il cliente, le prestazioni da erogare e il prezzo, mancanza di ogni forma di potere contrattuale sia nei confronti di chi gestisce l’appartamento sia nei confronti del cliente. Sono in
aumento casi di malattie e disagio pschico.
La lotta contro il traffico di esseri umani diventerà in questo caso molto più difficile e
potrebbe subire un pericoloso stallo in cui alla diminuzione dei diritti delle donne corrisponderà
non l’eliminazione dello scandalo della prostituzione e della tratta, ma solo un rafforzamento
delle reti criminali e la legittimazione palese dello sfruttamento.
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opuscolo Pechino +10 finale - Città metropolitana di Milano