REGATT 04-2011.qxd
25/02/2011
15.51
Pagina
138
p
p arole
delle religioni
Sulla tradizione
Riti, celibato e qualche ipocrisia
L
e truppe ottomane avevano appena conquistata Costantinopoli quando Niccolò Cusano scrisse il suo
De pace fidei (1453). L’opuscolo si apre con un sogno apocalittico. La scena iniziale, infatti, è una visione celeste. Da essa prende le mosse un dialogo in cui da una parte sono presenti i rappresentanti di vari gruppi religiosi o etnici, mentre dall’altra vi sono i veri protagonisti delle tre
parti in cui è diviso il libro: rispettivamente il Verbo, Pietro
e Paolo. Le prime due sezioni, poste sotto il predominio del
Logos, esprimono la portata universale dei misteri cristiani
della Trinità e dell’incarnazione. La terza è invece dominata dalla questione dei riti.
Contiguità tra riti e tradizione
Quando parla l’«apostolo delle genti» il discorso si fa più
oscillante. Qui è più arduo proporre una reductio ad unum.
Da un lato, Cusano sembra giudicare la pluralità di riti un
bene perché aumenta il senso della devozione delle varie comunità, dall’altro egli ipotizza che, in alcune circostanze, sia
la maggioranza a essere invitata a conformarsi a determinati usi della minoranza; non mancano infine neppure passi in
cui si auspica, anche in questo campo, il raggiungimento di
qualche forma di unità. All’interno di una comune aspirazione alla concordia, i riti costituiscono un ambito soggetto
a modifiche ma, nello stesso tempo, si presentano come un
terreno su cui è difficile intendersi.
Nella sfera delle religioni il rito, se lo si guarda dall’interno, è la realtà legata, forse più d’ogni altra, alla dimensione
della Tradizione; di contro, se lo si osserva dall’esterno, esso
palesa un alto grado di convenzionalità. Si tratta di modalità di valutazione radicalmente diverse, esse però concordano su un aspetto: si mette in pratica un rito solo perché altri
lo hanno fatto prima di noi. Per questo motivo, mentre lo si
sta eseguendo, l’inizio storico di una prassi rituale non è mai
preso in considerazione. Ci si comporta come se essa fosse
sempre stata in vigore, anche se si è consapevoli che, dal
punto di vista storico, le cose stanno in tutt’altro modo.
Lo statuto particolare del rito fa sì che esso, di norma,
venga giudicato dalla mentalità razionalista come un baluardo dell’intolleranza e del fanatismo. In quest’ottica l’agi-
138
IL REGNO -
AT T UA L I T À
4/2011
re rituale fa sì che i fedeli assumano come assoluto quanto,
per sua natura, è invece convenzionale. Perciò quel tipo di
manifestazione fa insorgere le più incomprensibili ostilità. A
tal proposito risuonano ancora nelle orecchie le parole di
Voltaire, che si rivolgono al Signore affinché coloro che coprono la veste di una tela bianca per dire che bisogna amare Dio non detestino coloro che dicono la stessa cosa coperti però da un telo nero. Da tempo non c’è più bisogno di dimostrare il ben noto carattere riduttivo dell’antropologia illuminista. Ai nostri giorni l’homo symbolicus ha giustamente
rivendicato il proprio spazio. In ogni caso la ritualità costituisce un dato culturale e sociale così importante che, una
volta scacciata dalla porta, rientra inevitabilmente dalla finestra. Tuttavia, il problema dello statuto non solo simbolico, ma anche parzialmente convenzionale del rito non è ancora del tutto esorcizzabile. Lo si vede bene quando avvengono dei mutamenti.
Quando si modifica un rito all’interno di un sistema religioso, occorre, sempre, mettere in preventivo la presenza di
gruppi che gridano al tradimento o, quantomeno, denunciano un supposto vulnus arrecato alla Tradizione. Per loro
tutto deve rimanere come nel buon tempo antico; si finge,
infatti, che fin dal principio si sia sempre fatto così. A partire dal Vaticano II, la Chiesa cattolica ha sperimentato più
volte al suo interno questo stato di cose. Le vicende legate al
Messale latino di Pio V sono, in proposito, solo l’esempio più
ufficializzato. Tuttavia, in anni recenti, si assiste anche in
Italia a una specie di disagio connesso a un’imprevista contiguità di riti dovuta al semplice snodarsi di vicende storiche.
La pluralità è accolta senza difficoltà quando ognuno sta a
casa propria o quando si dispiega all’interno di confini etnico-culturali ben distinti; suscita invece qualche sconcerto se
si è spalla a spalla.
Il ca so dei greco-cat tolici
Nel nostro paese sta prendendo piede il piccolo caso dei
preti greco-cattolici. A questo rito appartiene circa il 10%
dei romeni presenti in Italia. Come si sa, in quest’ambito esistono «da sempre» presbiteri sposati. Ciò rende evidente il
fatto che il celibato sacerdotale è questione rituale, non già
REGATT 04-2011.qxd
25/02/2011
15.51
Pagina
139
etica. Un conto, però, è sapere che esistono greco-cattolici
nella tradizionale enclave di Piana degli Albanesi, tutt’altra
questione è vederli operare all’interno della propria parrocchia di rito latino.1 La loro presenza rende palpabile alla
gente che ci sono preti cattolici legittimamente sposati. Ciò
ha suscitato disagi pastorali. Si sono registrati casi imbarazzanti, uno dei quali per esempio è avvenuto, tempo addietro, nella diocesi di Ferrara-Comacchio. In essa un grecocattolico è stato collaboratore attivo dell’intera comunità finché era diacono, ma poi è stato sollecitamente allontanato
una volta divenuto presbitero. La ragione di questo atto, inconcepibile sul piano del diritto, rivela un turbamento legato al fatto di rendere manifesta alla gente la convenzionalità
di un rito che presenta il prete cattolico come se «da sempre» fosse obbligatoriamente celibe.
Sul piano pratico, a livello mondiale, il celibato ecclesiastico è un terreno su cui l’inosservanza rivaleggia gagliardamente con l’osservanza. A tutti è noto che esistono aree del
mondo in cui esso è culturalmente inconcepibile e quindi
sistematicamente disatteso. Non si capisce, quindi, perché
in esse lo si debba tenere fatidicamente fisso. Tuttavia anche alle nostre latitudini non c’è fedele che non sappia, a livello di voci, di qualche prete che abbia relazioni con donne e abbia figli più o meno riconosciuti. Né si tratta sempre
di calunnie. Finché, però, tutto è tenuto nascosto, tutto può
continuare a procedere, più o meno, normalmente. Questo
confronto, uno solo dei molti possibili, rende scoperto il
cuore del problema: l’inquietudine suscitata dalla contiguità di riti diversi pone sempre in luce la convenzionalità
di quello che si sta praticando; tuttavia, a volte, questo dato di fatto evidenzia anche l’ipocrisia connessa alla regola a
cui si sta disattendendo.
I l d o n o d e l la ca s t i t à
Il pastore Paolo Ricca ha chiuso il suo intervento, pronunciato nel corso del convegno ferrarese dedicato a «Scandalo e riconciliazione nelle Chiese»,2 con parole particolarmente forti: «Sulla pedofilia, il mea culpa della Chiesa dovrebbe anzitutto riguardare la legge crudele e disumana del
celibato obbligatorio. Esso non spiega tutto, ma sicuramente molto. Finché questa legge non sarà abolita, la pedofilia
non sarà debellata». Ci sono fondati motivi per dubitare della fondatezza di questa analisi legata alla violenza sui minori. Appare invece certo che decidersi a consacrare presbiteri uomini sposati ridurrebbe, sia pure in maniera minima, il
tasso d’ipocrisia presente all’interno della Chiesa cattolica.
Si è lontani dall’aver trovato una panacea, tuttavia questa scelta renderebbe meno contorti i rapporti con la sessualità da parte del clero ed evidenzierebbe allo stesso spirito
clericale quanto, in molti casi, sia ardua la vita di famiglia
che ora troppo spesso è, sulla base di principi astratti, sottoposta a giudizio da parte di coloro che non se ne sono mai
assunti di persona il peso: «Legano infatti fardelli pesanti e
insostenibili e li impongono sulle spalle della gente» (Mt
23,4). Altro è ovviamente il discorso per coloro che vivono
concretamente la loro scelta celibataria sotto il primato del
servizio. Assai raramente, però, questi uomini di Chiesa sono contrassegnati dallo spirito di giudizio. Proprio perché
comprendono in loro la misericordia, la responsabilità e la
IL REGNO -
AT T UA L I T À
4/2011
139
«santa semplicità» prevalgono sull’astrattezza dei principi e
sull’alone d’ipocrisia che circonda la pretesa legata a un’applicazione, sedicente rigorosa, della legge.
Un canone del Concilio di Trento, dopo essersi dilungato nell’aggrovigliato linguaggio proprio degli anatemi, conclude affermando: «Dio non nega questo dono (quello della
castità; ndr) a chi glielo domanda con retta intenzione e non
permette che noi siamo tentati al di sopra delle nostre forze».3 Non è facile immaginare che la moltitudine di presbiteri che negli ultimi quattro secoli e mezzo si è trovata tentata su questo terreno si sia riconosciuta in queste parole.
Tanti avranno pregato sinceramente, ciononostante molti
tra essi non hanno ricevuto su di loro quel dono. Quando
poi quella mancanza dà origine a una vita umana, è obbligo dichiarare che il senso di accoglienza e di responsabilità
diviene il valore massimo a cui tutto il resto va subordinato.
Qui si tratta non di rito, ma di etica.
Piero Stefani
1
«La convenienza di tutelare il celibato ecclesiastico e di prevenire il
possibile sconcerto nei fedeli per l’accrescersi di presenze sacerdotali uxorate prevale infatti sulla pur legittima esigenza di garantire ai fedeli cattolici di rito orientale l’esercizio del culto da parte di ministri che parlano la
loro stessa lingua e provengono dai loro stessi paesi». Così il card. Bagnasco ha scritto nella risposta negativa, inviata a nome della Conferenza episcopale italiana il 13.9.2010, al primate della Chiesa greco-cattolica romena, mons. Lucian Muresan, che aveva chiesto alla CEI la dispensa dalla
norma che obbliga al celibato i preti delle Chiese cattoliche orientali che
esercitano il ministero al di fuori dei territori canonici (cf. Regno-att.
12,2010,419; Adista 4.12.2010, n. 93, 7).
2
A. ZERBINI (a cura di), «Scandalo e riconciliazione nelle Chiese. Atti del XVII Convegno di teologia della pace», Casa Giorgio Cini, Ferrara
25.9.2010, in Quaderni n. 12, Cedoc SFR, Ferrara, 32.
3
CONCILIO DI TRENTO, Dottrina e canoni sul matrimonio, n. 9.
Innocenzo Gargano
«Lectio divina»
sui Vangeli della Passione
Passione di Gesù secondo Matteo
capitoli 26 e 27 del Vangelo di Matteo
narrano la Passione. Descrivendo i fenomeni straordinari che accompagnano
la morte di Gesù, l’evangelista postula
il verificarsi di un nuovo inizio attraverso due chiavi di lettura del racconto: Dio
si manifesta (teofania) e il creato si rinnova (nuova creazione). Il volume offre
non un’esegesi ma una lectio divina.
Per meditare la Parola e trasformarla in
preghiera.
I
«Conversazioni bibliche»
pp. 160 - € 13,50
Dello stesso autore:
«Lectio divina» su il Vangelo di Matteo/4
Il Battista, i Detti, le Parabole (cc. 11–13)
pp. 128 - € 13,50
EDB
Edizioni
Dehoniane
Bologna
Via Nosadella 6 - 40123 Bologna
Tel. 051 4290011 - Fax 051 4290099
www.dehoniane.it
Scarica

REGDOC 21-2008 indici.qxd - Edizioni Dehoniane