Carissimi Amici,
è ormai una consolidata tradizione proporvi per l’Avvento il nostro Calendario con le classiche 24 finestre. Dietro ognuna di esse si cela una rappresentazione che rinvia ad accurate notizie storiche contenute in questo
fascicolo.
Il Calendario di quest’anno è speciale! Esso si colloca “al culmine” di un
itinerario volto a descrivere quel mondo medievale che fu anche di Francesco e Chiara. Piace ricordare la serie di Calendari che da qualche anno,
ovvero dal 2006, ci aiuta a immetterci in quell’età, lontana, ma anche per
tanti aspetti, vicina.
In questo Calendario del 2014 vi proponiamo un quadro d’insieme di
quella società complessa e varia. L’abbiamo volutamente intitolato “Uomini
e donne nel Medioevo” per mostrare il “lavoro” di entrambi, nonostante i
limiti imposti alla condizione femminile. Emerge di tutto: un mondo di
mestieri, di professioni, di attività, di rapporti familiari, religiosi, culturali;
insomma: un universo di uomini e donne che s’incontrano, che lavorano,
che vivono… che agiscono, che soffrono e che sperano…
Se era scontato che la storia fosse stata fatta dagli uomini, ci si avvede che
anche le donne hanno fatto ampiamente la loro parte a tutti i livelli degli
strati sociali.
Cari amici, ragazzi, genitori, nonni e lettori vari, speriamo di essere
riusciti a farvi comprendere, o almeno a suggerirvi, che l’età medievale non
è un tempo “oscuro” e “misterioso”, ma al contrario un’età creativa, inventiva, produttiva pur con tutte le sue durezze, contraddizioni, diversità, disuguaglianze e difficoltà.
Grazie per averci seguito fin qui! Con il solito affetto, vi giunga il mio
saluto e l’augurio di “Pace e Bene”.
Frate Indovino
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PREMESSA
In questo Calendario dell’Avvento, già preceduto da altri sei con tematiche specifiche relative all’età medievale intorno a Francesco e Chiara, ci lanciamo a prospettare uno sguardo panoramico sulla società nel
suo insieme, senza alcuna pretesa di esaurire la vastità dell’argomento.
La famiglia, in primo luogo, come nucleo-base di questa società, che
si rivela attiva, fattiva, produttiva, creativa, popolata di energie in grado di esprimersi a tutti livelli: da quello religioso, con le varie forme e
manifestazioni che comparvero in quest’epoca, alla sempre più vasta e
articolata gamma delle attività lavorative e professionali. Tra diversità,
disuguaglianze, difficoltà, fatiche, questo mondo è quello che ha posto le radici del nostro. Le differenze sono infinite, gli abissi profondi,
cambiamenti e trasformazioni d’ogni genere, ma l’età medievale ha dato il meglio di sé in termini di
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vita religiosa; di capacità organizzative dei mestieri e delle professioni; di forme di “democrazia”; di
innovazioni tecnologiche (dall’aratro al mulino, dalla bussola all’orologio); di inventività culturale
(dalle scuole alle università); di creatività artistica: pittura, scultura, letteratura, musica, architettura,
dando vita, quest’ultima, a strutture imponenti, le più grandi possibili per l’epoca, come le cattedrali,
le grandi chiese degli ordini Mendicanti, i grandi palazzi pubblici; di attenzione ai poveri e ai derelitti
con la creazione di istituti di accoglienza e di beneficenza (ospedali, confraternite). Gli uomini del
Medioevo hanno dimostrato di essere in grado di organizzarsi dal basso “inventando” originali forme
di aggregazione umana e politica come, ad esempio, i castelli e i Comuni.
Preambolo
e punti fermi
Uomini e donne nella società medievale! Attenzione però! Poniamo subito qualche punto fermo. Non esisteva nella lunga età medievale quella
parità – o quasi – che appartiene ai nostri tempi e alle nostre aree geografiche (euro-occidentali)! Il Medioevo fu epoca di disuguaglianze a tutti
i livelli: sociale, economico, politico, culturale e di “genere”, intendendo
per “genere” quello maschile e quello femminile. Sulla condizione della
donna nel Medioevo ha pesato un pensiero filosofico-teologico-dottrinale, un sostrato di mentalità, un retroterra di formulazioni legislative (ecclesiastiche
e civili) che l’ha
spesso relegata a
livelli d’inferiorità. Così, nel corso del Medioevo la donna non ebbe quel potere e quel peso
politico che fu proprio dell’universo maschile.
Considerata inferiore, era esclusa dall’esercizio delle armi1, le donne non potevano quindi essere cavalieri; dallo studio sistematico
quale venne svolgendosi nelle università; dalla vita pubblico-politico-amministrativa. Ciò
non significa che regine, imperatrici, feudatarie, donne dell’alta nobiltà e sante non abbiano esercitato una loro influenza, ma si tratta
di vette. Nella prassi quotidiana l’esclusione
delle donne da qualsiasi forma di carica pubblica fu una costante; la loro fatica di lavoratrici non fu posta sullo stesso piano di quella
dell’uomo. È ormai un’acquisizione storiografica irreversibile che le donne medievali po_
1. Il caso di Giovanna d’Arco (1412 circa -1431) è un’eccezione assoluta! Si colloca in un momento particolare e critico del regno di
Francia in piena Guerra dei Cento Anni (1339-1453) e la sua figura devota e religiosa, ispirata dalle “voci”, può aver attratto gli animi
a sollevarsi contro la presenza inglese.
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tevano giocare i loro spazi di vita tra matrimonio, da un lato, e monastero e forme varie di vita
religiosa, dall’altro.
Il tono delle disuguaglianze passava, ad esempio, per almeno tre aspetti fondamentali della vita
dell’uomo: la nutrizione, l’abbigliamento, l’abitazione.
Il nutrimento fu un’ossessione della società medievale. La massa contadina deve accontentarsi di
poco: la zuppa era la base della sua alimentazione, le erbe raccolte nei campi ne erano spesso il
principale contorno. Tuttavia nel XII e XIII secolo il companagium, il companatico, si diffonde
in tutte le categorie sociali ed è allora che il pane è sempre più base dell’alimentazione. La festa
alimentare dei contadini era l’immolazione del suino. Per gli strati sociali dominanti la manifesta-
zione della loro superiorità passava attraverso l’alimentazione più abbondante, variata e “lussuosa”.
I ceti più abbienti prendevano anche così le distanze dagli altri! L’abito nel Medioevo è un segno
distintivo: poveri gli abiti dei contadini; preziosi e adornati gli abiti dei ricchi; alcuni capi di abbigliamento si riferivano a specifici lavori. Circa l’abitazione, case di pietra e torri, casamenti e palazzi distinguevano i ceti sociali più elevati e abbienti; case-botteghe quelli mercantili-artigianali;
modeste le abitazioni contadine.
Un altro punto fermo: la libertà. Gli uomini e le donne medievali non avevano alcun concetto della libertà come noi modernamente la intendiamo; l’uomo medievale deve sentirsi parte di un organismo,
nel Medioevo si deve fare corpo, si deve appartenere a “qualcosa”: poteva essere un ente, un’ istituzione, una persona, ad esempio un “signore”. Si doveva necessariamente essere in qualche modo inseriti
in un organismo/struttura sociale, in primo luogo in famiglia. Nel Medioevo non esiste un significato
universale di libertà: le libertà sono sempre particolari, ovvero si incarnano in diritti e privilegi di cui
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Se Eva, vista come tentatrice, costituì l’emblema della negatività femminile, la Vergine
Maria, il cui culto trionfa tra XII e XIII secolo, s’impone come anti-Eva in quanto strumento
dell’incarnazione divina. Il riscatto della donna peccatrice è rappresentato dalla figura di
Maria Maddalena, il cui culto si avvia nel XII secolo.
godono solo alcuni ceti e corporazioni; la libertà non è un “qualcosa” di astratto, ma si concretizza
nella possibilità di fare qualcosa: è libero chi può fare qualcosa e ha il diritto di farlo.
Non esiste il concetto di libertà personale/
individuale: libertà di scegliere, di agire, di
muoversi, di fare. L’uomo e la donna medievali – e viepiù la donna – sono sempre
circoscritti in un certo ambito, né poteva
essere diversamente: essi erano sempre
vincolati da tutta una serie di condizionamenti e di legami, signorili, corporativi,
familiari, in mezzo a coercizioni e costrizioni di ogni sorta.
Se ancora oggi parlare di libertà non è facile, per tutta una serie di infiniti condizionamenti, nel Medioevo ciò era ancora più
complesso e limitativo.
Altro punto fermo: la durezza della vita!
Anche noi siamo abituati a dire “la vita è
dura” ed è vero, ma nel Medioevo lo era,
per certi versi, molto di più! Tutte le attività lavorative richiedevano molta fatica
umana e animale. L’uomo medievale era
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afflitto da carestie e pestilenze; da malattie impossibili da curare con i mezzi e le conoscenze
dell’epoca: oltre alla peste, molte altre erano le malattie che distruggevano la vita degli uomini come il vaiolo, il tifo, il colera, l’influenza con complicazioni bronco-polmonari, il fuoco di
sant’Antonio (ergotismo) – per la cura del quale si specializzò l’ordine ospedaliero degli Antoniti
– la scrofolosi, la tubercolosi, la malaria, la lebbra.
Le condizioni di vita erano al limite della sopravvivenza: fame, freddo, buio, niente privacy e
niente di quelle che oggi chiamiamo comodità e/o confort; il letto, ad esempio, poteva essere un
bene comune a più persone; basso era il livello igienico: scabbia, tigna, topi, pulci, pidocchi erano
all’ordine del giorno; si moriva di più e si viveva meno a lungo: la vita era breve, alta la mortalità
infantile.
A livello sociale molte erano le emarginazioni e le esclusioni. Gli ebrei, ad esempio, erano esclusi dal
possesso e anche dalla concessione della terra, dai mestieri e dall’attività mercantile. I lebbrosi venivano
fisicamente isolati; gli eretici perseguitati come pure i sodomiti; le prostitute dovevano ben distinguersi
dalle altre donne. Attenzione! Per gli uomini del Medioevo essere immersi in queste durezze era la
“normalità” come per noi l’opposto! Si trattava di una normalità ben diversa dalla nostra!
L’uomo medievale viveva nell’insicurezza materiale, avvolto da timori, minacce e pericoli, ma
sperava nella salvezza in un mondo “altro”, in un sostegno e/o aiuto superiori: la Vergine e i santi
e i loro miracoli, le reliquie, i sacramenti, le preghiere, per un verso, le pratiche magiche, per un
altro. Le paure, le guerre, i saccheggi, insomma la necessità di proteggersi determinò il diffondersi
dei castelli [cfr. “Nel castello medievale”, Calendario dell’Avvento 2010] e le città di distinguevano
proprio per essere cinte da mura.
Ma non dobbiamo neppure immaginare un Medioevo sempre triste e piangente: c’erano i giochi,
le giostre, i tornei, i balli, la musica, le grandi celebrazioni liturgiche, le fiere, i saltimbanchi, i cantastorie, i trovatori, i banchetti.
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Ancora un punto fermo! Un Medioevo non-immobile sia in termini di effettivi spostamenti logistici:
militari, mercantili e commerciali, religioso-devozionali [cfr. “Pellegrinaggi”, Calendario dell’Avvento 2012], culturali (università), lavorativi, maestranze esperte nell’edilizia che si muovevano da un
luogo all’altro, ad esempio i Maestri Comacini e i mastri costruttori delle cattedrali [cfr. “Il Medioevo
delle Cattedrali”, Calendario dell’Avvento 2013]; sia in termini di mobilità sociale, cioè era possibile
migliorare le proprie condizioni intraprendendo una qualche attività, imparando un’arte: si poteva
socialmente ascendere rientrando in tutta una fascia di ceti medi lavorativo-artigianali. Poteva
andare bene, poteva anche andar male e si poteva scivolare tra i poveri, ad esempio tra quelli cosiddetti vergognosi, cioè che vivevano il loro stato di povertà dignitosamente senza ricorrere alla
prassi della mendicazione.
Tutti i mestieri diventano leciti; il lavoro è un valore. Ha scritto Le Goff: Tra il secolo XI e il XIII
nell’Occidente cristiano avviene una rivoluzione economica e sociale, di cui lo sviluppo urbano è il
sintomo più lampante, e la divisione del lavoro l’aspetto più importante. Nuovi mestieri nascono o
si sviluppano, nuove categorie professionali appaiono o prendono corpo, gruppi socio-professionali
nuovi, forti del loro numero, del loro ruolo, reclamano e conquistano una stima, ossia un prestigio
adeguati alla loro forza. Essi vogliono essere considerati e ci riescono.
In ambito monastico il valore del lavoro fu sancito dalla Regola di san Benedetto (sec. VI). Esso
fu ribadito come valore religioso, ad esempio, dai Cistercensi, dagli Umiliati, dai santi Francesco
e Chiara d’Assisi.
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Famiglia
e matrimonio
ne rispondenti a un “capofamiglia”, ivi incluso il
vasto mondo dei “servi”. Il termine con l’andare
del tempo cambia significato e da questa sorta di
famiglia “allargata” pervenne progressivamente a indicare una famiglia “ristretta”, ridotta agli
ascendenti e discendenti diretti. La famiglia, cioè,
venne prospettandosi come una comunità di residenti il cui nucleo sono i genitori e i figli, il gruppo fondamentale di discendenza biologica. Essa
così come verrà evolvendosi con l’avanzare del
Medioevo si concentrò nella coppia, con relativi
figli, dando vita a un nucleo familiare compren-
La famiglia – intesa come comunità
domestica o gruppo parentale – è il
nucleo-base della
so­cietà medievale.
In origine il termi­
ne “famiglia” (dal
latino familia) non
indicava la esclusi­
va discendenza di
san­gue, quanto piuttosto un insieme di perso-
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sivo di due generazioni! Tutte le testimonianze
che abbiamo in tempi e luoghi diversi del mondo
medievale indicano che le famiglie ricche erano
più grandi, e presumibilmente più complesse, di
quelle povere.
Famiglia significa necessariamente matrimonio.
La parola matrimonio deriva dal latino matrimonium, ossia dall’unione di due parole latine,
mater, madre, genitrice, e munus, compito, dovere; il matrimonium era nel diritto romano un
“compito della madre”, intendendosi il matrimonio come un legame che rendeva legittimi i figli nati dall’unione.
Quindi per la donna matrimonio
significava diventare madre in una
casa diversa da quella paterna.
Questo comportava molte conseguenze giuridiche e sociali e quindi
doveva essere un atto pubblico.
Progressivamente la Chiesa conferisce contorni sempre più precisi alla
sua dottrina circa il matrimonio,
concepito in termini monogamici
e indissolubili che doveva poggiare sul libero e reciproco consenso
degli sposi. Di fatto il matrimonio
nel Medioevo si configurò come un
contratto, stipulato davanti a un
notaio; la benedizione della coppia
da parte di un sacerdote non era
ritenuta necessaria ai fini della validità dell’unione, anche se era una
prassi usuale.
Il matrimonio non era affatto una
libera scelta e l’amore ben poco
c’entrava! In linea di massima le
unioni coniugali stabilite tra membri di ceti alti – per non dire regal-principeschi
– e “borghesi” erano tutte combinate, cioè frutto di accordi tra le famiglie per precisi intenti di
carattere economico e politico. Si può parlare di
“mercato matrimoniale” per cui le famiglie facevano le loro contrattazioni ricercando le condizioni più vantaggiose per sé e per i loro figli/e.
Notevole era in genere la differenza d’età tra uomini e donne: i primi si sposavano dai 20/25
anni ai 40/45; le seconde dai 12 ai 20. I vedovi si
risposavano più delle vedove. Per quest’ultime
– quando non facevano ritorno alla casa di ori-
gine riprendendosi la dote – la scomparsa del
marito poteva in taluni casi significare una condizione di vita con spazi di maggiore autonomia. Quanto la vita familiar-matrimoniale fosse
idilliaca è tutto da vedersi: le battiture potevano
essere frequenti dal momento che il marito poteva esercitare lo ius corrigendi. Certo la famiglia
“ideale” faceva perno sulla figura dell’uomo quale
pater familias e su quella della donna quale bona
mulier che, fedele al marito, si doveva occupare di
tutte le cose di casa. Questa era uno spazio a un
tempo protetto e chiuso, in cui certi spazi più segreti bene le si addicevano: la camera, la stanza da
lavoro, la cucina. La fragilità e la debolezza della
donna esigono protezione e sorveglianza. I suoi
andirivieni all’esterno devono limitarsi a percorsi ben controllati: chiesa, lavatoio, forno pubblico o fontana, luoghi che variano a seconda della
condizione sociale, ma esattamente delineati. La
“famiglia” è anche tutto un complesso di persone su cui la moglie deve vegliare ordinandone i
ritmi e le attività. In primo luogo il marito, che
conta di trovare, nel calore del focolare, il riposo
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Il matrimonio è sempre stato preceduto da atti, da formalità, da cerimonie e da feste,
sia nei ceti sociali più elevati, come in quelli più bassi. A Firenze, ad esempio, nel corso del XV
secolo, negli strati più ricchi della popolazione, il processo iniziava con un primo incontro non
pubblico (detto ‘impalmamento’ o ‘abboccamento’) fra i parenti dei due futuri sposi, preparato
dai sensali, nel corso del quale venivano stabilite le condizioni dell’accordo matrimoniale.
A distanza di pochi giorni aveva luogo un secondo incontro, solenne e pubblico, fra i membri
maschili delle due famiglie, che serviva a definire ed enunciare, con l’aiuto di un notaio, le
condizioni del matrimonio. Un terzo incontro avveniva, il ‘dì dell’anello’, a casa della fanciulla,
dove si recavano il fidanzato e i suoi parenti. Alla presenza di un notaio il promesso sposo
infilava al dito della donna l’anello nuziale. Infine, a distanza talvolta di molti mesi dal ‘dì
dell’anello’, aveva luogo la cerimonia nuziale, con festeggiamenti che si protraevano per alcuni
giorni. Negli strati più bassi della popolazione, invece, il numero degli incontri era minore e
più ridotte le formalità.
Nei secoli XII e XIII i canonisti introdussero la fondamentale distinzione fra ‘verba de futuro’
e ‘verba de presenti’, cioè parole per il futuro e parole per il presente. Il contratto per ‘verba
de futuro’ costituiva una promessa, un impegno per l’avvenire, il vero fidanzamento ed era
revocabile. Il contratto per ‘verba de presenti’, con il quale i due fidanzati si scambiavano,
di fronte a testimoni, formule come ‘io prendo te in moglie’ e ‘io prendo te per marito’,
costituiva il matrimonio e non era dunque revocabile. Fino alla metà del XVI secolo era questa
cerimonia, e non quella in chiesa, che creava l’obbligo legale vincolante. E non mancavano
cortei, festeggiamenti e banchetti più o meno sfarzosi… notevolmente sfarzosi in caso di ceti
alti che dimostravano così la solidità del loro status.
e i piaceri del bagno caldo, della tavola servita, del
letto pronto; poi i servitori, quando la famiglia è
abbastanza agiata da averne. I bambini, inoltre, la
cui prima educazione le spetta senza discussione.
Il culto crescente per Gesù Bambino può essere
letto come segno di attenzione affettiva verso i
bambini; questo, insieme a quello per la Vergine
Maria – e dal sec. XIV per san Giuseppe – proiettò a livello sacrale (Sacra Famiglia) l’immaginemodello della famiglia “reale”.
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DOTE
È il complesso di
beni che la donna
porta al marito per
sostenere gli oneri
del matrimonio.
È un istituto giu­ri­
dico sancito dal diritto romano.
Con la dissoluzione
dell’Impero e il formarsi di nuove culture dovute alla presenza dei popoli germanici,
ampiamente insediatisi con i loro usi e costumi
nelle zone dell’ex-Impero occidentale, le donne cominciarono a entrare in possesso di parte
dei beni dei mariti: la “terza” in ambito franco,
la “quarta” in ambito longobardo. In quest’ultimo
contesto, ad esempio, ebbe diffusione la Morgengabe, cioè il dono fatto dallo sposo alla sposa nel
mattino seguente alla prima notte di matrimonio.
Ma con la ripresa della vita economica e cittadina
e la riscoperta del diritto romano (dal sec. XI in
poi) la dote tornò in auge tanto da divenire l’unica parte del patrimonio di famiglia spettante alle
figlie! La dote passava tra i beni del marito; in
caso di morte di questi, si prevedeva la restituzione della dote alla vedova, se questa tornava alla
casa paterna. L’istituto della dote fu molto sostenuto dai Comuni italiani: escludendo con essa le
femmine dall’asse ereditario, si favoriva la linea di
discendenza maschile! La dote, comunque, non
era necessariamente indolore per le famiglie che
dovevano sborsarla. Per sovvenire a tale esborso
furono “inventati” con l’andare del tempo i “monti delle doti”, come ad esempio quello di Firenze
(1425). E la dote era necessaria sia che le donne
si sposassero, sia che entrassero in qualche monastero (in questo secondo caso in misura inferiore): dotare le fanciulle povere divenne una pia
opera di cristiana carità!
Alle donne toccava portare con sé il corredo
(biancheria, vesti…) chiuso in apposite casse o
cassepanche o cassoni.
A livello di ceti abbienti la coppia sposata aveva
una camera da letto sua e i cassoni diventavano
parte integrante del mobilio; in essi era custodita la biancheria personale e da casa degli sposi.
Gli uomini dovevano provvedere agli ornamenti
delle proprie spose (capi di abbigliamento, gioielli ecc.).
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Testamenti
Per quanto escluse
dall’asse ereditario,
limitate nel campo
degli offici, dei me­­
stieri e degli studi,
non certo era loro
negata la dignità di
“libere cittadine”,
cioè lo stato giu­
ridico di persone di
condizione li­be­ra
e quindi in grado di disporre dei loro beni, con
o senza il beneplacito del marito; se poi erano
vedove potevano fruire di maggiore autonomia
gestionale e amministrativa. Una quantità sterminata di atti privati mostra le donne attive in
contratti dei generi più diversi (compre, vendite, locazioni… e anche società commerciali …),
quindi le donne potevano disporre di beni immobili e mobili.
Tra i tanti atti privati un genere brilla per la sua
peculiarità: si tratta dei testamenti che uomini e
donne di solito dettavano ai notai per sistemare
“il mondo delle loro cose” e proiettarsi in quello
dell’Aldilà. I nostri archivi sono ricchissimi di tali
documenti ed attraverso di essi anche le donne
s’impongono per la loro capacità di decidere la
destinazione dei beni fruiti in terra. Esse mostrano, in linea di massima, rispetto agli uomini, una
forma di religiosità più concreta, fatta di persone
e non di sole istituzioni, lasciando trapelare una
sorta di solidarietà femminile. Comunque i testamenti sia degli uomini che delle donne palesano
attenzione per parenti e congiunti vari, amici, conoscenti, e tutta una varietà di chiese, monasteri,
conventi e specifici religiosi.
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Gerarchie
ecclesiastiche
Come è noto le
don­ne sono state
escluse dal sacerdo­
zio. Le motivazioni
di tale esclusione
sono molteplici; ad
esempio: nessuna di
loro era nel gruppo
dei Dodici Apostoli
all’atto del­­l’istituzio­
ne dell’Eucarestia.
Tuttavia ciò non significò che esse non potessero
essere partecipi di varie forme e manifestazioni
di vita religiosa [cfr. Finestre 5, 6, 7, 8]. Una volta
stabilito e consolidato il non-accesso delle donne al
sacerdozio ne conseguì (e ne consegue) che tutta la
gerarchia ecclesiastica fu ed è declinata al maschile:
papi, cardinali, vescovi e prelati vari erano e sono
tutti uomini. Ma proprio nel cuore del pieno Medioevo (secc. XIII-XIV) circolò una storia immaginaria che ha ideato la figura della papessa Giovanna.
In breve. Intorno all’anno 850 una donna di ascendenza inglese, ma nativa di Magonza, seguì il suo
amante, dedito agli studi, fino a Roma; avendo ella
stessa acquisito gli strumenti del sapere riuscì a infiltrarsi nella gerarchia curiale romana al punto da
essere eletta papa. Il suo pontificato sarebbe durato due anni e si sarebbe vergognosamente concluso
con la messa al mondo di un bambino durante una
processione per le strade di Roma. Questa storia immaginario-leggendaria ebbe “successo” fino al XVI
secolo: forse perché sottendeva aspirazioni sommerse? Forse per mettere in luce critica l’istituzione
del papato? La Chiesa temporalizzata? Forse serviva
a far discutere circa la legittimità dell’elezione papale
a seguito del Grande Scisma (1378-1417)? Nella figura della papessa Giovanna si vide anche la Grande
Meretrice di Babilonia (Gv, Apocalisse 17) dandole,
quindi, una connotazione apocalittica.
La storia si nutre anche di figure immaginarie il cui
successo si protrae nel tempo, si pensi al film del 2009.
Attenzione! Immaginario chiama immaginario e
così comparve anche il mito della sedia per la verifica della virilità dei papi.
Una sedia simile esiste; quando un papa prendeva
possesso della sua Cattedra romana, in San Giovanni in Laterano, si sedeva tradizionalmente su due sedie di porfido (la pietra degli imperatori, assimilata
alla porpora), con la seduta dispiegata a ciambella.
Il motivo di questi fori è oggetto di discussione, ma
poiché entrambe le sedie, di età costantiniana, sono
più vecchie di secoli della storia della papessa Giovanna, esse non possono avere niente a che fare con
una verifica del sesso del papa.
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Monaci e monache
Il monachesimo be­
nedettino dominò
l’intera Europa occidentale e non si
trattò solo di grandi e potenti abbazie o monasteri riservati agli uomini
– i monaci, appunto – ma anche di
una nutrita quantità di insediamenti religiosi femminili riservati
alle donne, monache appunto! [cfr. “Dall’abbazia al convento”, Calendario dell’Avvento 2011].
In un mare di monaci e monache si stagliano figure di spicco per varie qualità.
Bernardo di Chiaravalle (1090/91-1153)si impegnò per il rinnovamento del monachesimo
benedettino nell’ambito dell’Ordine Cistercense;
si batté, infatti, per il rispetto della Regola di san
Benedetto secondo principi improntati a semplicità e povertà. Fondò monasteri in Francia
(Clairvaux = Chiara Valle) e in Italia (Chiaravalle nel milanese). Fu mistico, tutto teso all’amore
Nel mondo medievale popolato di monaci e monache non manca una celebre love-story: è quella di Abelardo
(1079 circa-1142) e di Eloisa (1100
circa-1164). Lui, maturo maestro
teologo, seduce la giovane Eloisa nipote di un canonico; lo scenario è la
Parigi del XII secolo quando la città
diviene anche vitale centro culturale, dotata di scuole. Abelardo intendeva sposare Eloisa rimasta incinta,
ma ciò gli fu drasticamente impedito
dallo zio della fanciulla che lo fece
evirare. Abelardo peregrinò di monastero in monastero e morì in un
priorato dell’ordine di Cluny. Eloisa
visse da badessa nel monastero
del Paraclito, costruito per lei
dallo stesso Abelardo. La storia non ebbe il felice epilogo del
“vissero felici e contenti”, ma la
loro relazione affettiva non ebbe
fine ed è rimasta affidata a un
Epistolario a tutt’oggi oggetto di
studi e ricerche.
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Perché nel Medioevo – e oltre – vi fu un gran numero di monache e religiose varie?
Perché il destino di una ragazza medievale, e non solo, era quello di divenire sposa o di un
uomo o di Cristo. Condizioni diverse da quella coniugale e monacale non davano, in linea
di massima, alle donne alcun riconoscimento sociale! Del resto la vita religiosa poteva essere
preferita a quella coniugale per vocazione, da un lato, ma anche per sfuggire a un pesante
destino, quello della cosiddetta “buona moglie”, dall’altro.
verso Dio, promotore del culto della Vergine2 e
della devozione delle Piaghe di Gesù, ma anche
uomo d’azione: dette slancio all’organizzazione
dell’ordine dei Templari; incoraggiò la Seconda
Crociata; predicò contro gli eretici. Numerosi i
suoi scritti e i suoi sermoni.
Ildegarda di Bingen (1098-1179), monaca
benedettina tedesca, fondatrice di monasteri
lungo la Valle del Reno, mistica, profetessa,
dotata di visioni divine, è autrice di un’imponente mole di opere che rivelano un sapere
enciclopedico: ella, oltre a libri di teologia e
di mistica, compose anche opere di medicina
e di scienze naturali. Numerose sono anche
le lettere – circa quattrocento – che indirizzò
a persone semplici, a comunità religiose, a
papi, vescovi e autorità civili del suo tempo,
tra cui l’imperatore Federico I Barbarossa.
Fu anche compositrice di musica sacra. Il
corpus dei suoi scritti, per quantità, qualità e varietà di interessi, non ha paragoni
con alcun’altra autrice del Medioevo. Fu un
raro caso di donna autorizzata a predicare
in pubblico; si impegnò a promuovere la riforma della Chiesa contribuendo a migliorare la disciplina e la vita del clero. È stata
proclamata Dottore della Chiesa e santa da
Benedetto XVI il 7 ottobre 2012.
Herrada, abbadessa del monastero di Hohenburg in Alsazia (1125/30 circa - 1195), è
la compilatrice dell’Hortus deliciarum, uno
scritto di carattere enciclopedico, costruito
come raccolta di testi tratti dalla Bibbia, dai
Padri della Chiesa, dagli scrittori medievali
(e anche da autori latini profani) relativi alle
varie discipline sacre e profane. Herrada vi
aggiunse poesie che in parte ella stessa dettò in esaltazione del Redentore, rivestendole di note musicali. Il prezioso manoscritto
dell’Hortus, ricco di centinaia di illustrazioni, fu distrutto nell’incendio della biblioteca
di Strasburgo (1870); il testo è stato ricostruito e pubblicato in base a precise copie
precedentemente realizzate.
_
2. Il Canto XXXIII del Paradiso si apre con la preghiera che il Santo rivolge alla Vergine Maria (vv. 1-45) perché Dante possa vedere
Dio: «Vergine Madre, figlia del tuo Figlio, umile ed alta più che creatura, termine fisso d’etterno consiglio, tu se’ colei che l’umana
natura nobilitasti si’, che ‘l suo Fattore non disdegnò di farsi sua fattura» (vv. 1-6).
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Frati e suore
A partire dal Due­cento
tutta l’Europa occidentale andò po­polandosi
di nuove presenze religiose: non più solo i
monaci e le monache,
ma tutto un universo molteplice di frati
e suore, ciò fu dovuto
all’apparire degli or­
dini Mendicanti [cfr.
“Dall’abbazia al Convento”, Calendario dell’Avvento
2011]. Se sul fronte francescano brillano le grandi figure di Francesco e Chiara d’Assisi, universalmente
note, sul fronte domenicano si stagliano le personalità di Domenico di Guzman (1170-1221), fondatore
dell’Ordine, e di Diana degli Andalò. Questa nacque, nei primi anni del sec. XIII, da nobile e potente
famiglia bolognese; già sensibile alla predicazione
domenicana, quando Domenico giunse a Bologna
(estate 1219), approvò la sua idea di entrare nell’Ordine dei
Predi­catori e accolse
la sua promessa insieme con quella di
altre quattro giovani dame di potenti
famiglie bolognesi.
Ostacoli furono frapposti dalla famiglia,
che arrivò anche a
segregarla per un anno. Domenico le inviò delle lettere per consolarla, oggi perdute. Dopo vicissitudini varie, Diana riuscì a portare a compimento il suo
proposito di dar vita a una comunità monastica; nel
1222 fondò il monastero di S. Agnese di Bologna
dove visse tutta la vita (morì nel 1236) e di cui fu
superiora. Nell’ambito agostiniano spiccano Nicola
da Tolentino (1245-1305) e Chiara da Montefal-
co (1268-1308). Il primo ancora adolescente entrò nell’Ordine Agostiniano. La sua caratteristica è
quella di un religioso semplice, molto caritatevole
verso i suoi confratelli e verso il popolo di Dio. Con
molta sollecitudine visitava gli infermi e gli indigenti, e molto volentieri chiedeva l’elemosina per la
sua comunità. Notevolmente efficace come predicatore, era particolarmente ricercato come direttore
spirituale. Si distinse per lo spirito di preghiera e di
penitenza, come anche per la sua carità per le anime
del purgatorio. La seconda nacque a Montefalco e lì
trascorse tutta la sua vita. La fama della sua santità, delle sue prerogative taumaturgiche (le si attribuivano, infatti, moltissime guarigioni), delle sue
capacità di percezione dei segreti del cuore umano
(si diceva che fosse in grado di intuire i peccati dei
suoi interlocutori senza che questi glieli rivelassero)
e, infine, la fama delle sue visioni profetiche si diffusero tanto rapidamente, che molti erano coloro che
esprimevano il desiderio di incontrarla. Fra questi
vi furono personaggi
di rilievo nella vita
politica e religiosa
del tempo che pare
apprezzassero in lei,
benché illicterata, la
straordinaria capacità di interpretare le
Scritture.
Minata dall’eccessivo
rigore della sua vita,
Chiara morì, appena
quarantenne, nel monastero della Croce a Montefalco. Si diffuse la voce che una suora, predisponendo il corpo alla venerazione dei fedeli, avesse visto
nel cuore della defunta i simboli della passione di
Cristo. La miracolosa scoperta venne messa in relazione con una frase, più volte ripetuta dalla Santa
durante la sua agonia, ed esprimente la certezza di
portare la croce nel cuore.
17
Conversi e oblati
L’universo religioso
medievale fu po­
polato anche da un
“sottobosco” di personaggi detti oblati
(dal latino offerre =
offrire) o conversi
(dal la­ti­­no convertere = convertire); si
trattava di uomini e
donne liberi che,
spinti da sentimento religioso o da qualche necessità, si appoggiavano alle più diverse istituzioni religiose, ecclesiastiche, caritativo-assistenziali legandosi a esse con una specifica promessa e
ricevendone protezione. Indossavano un
abito religioso e si possono includere – insieme a penitenti ed
eremiti vari – [cfr. Finestra 8]
nella denominazione di laicus
religiosus (= laico-religioso), coniata nel XIII secolo da Enrico
da Susa (1210-1271), cardinale
di Ostia, per indicare quegli uomini e quelle donne che vivevano la propria vocazione cristiana
senza abbandonare lo status laicale, consacrandosi a Dio senza
necessariamente abbracciare una
regola. In ambito monastico benedettino riformato (Camaldolesi,
Cistercensi, Vallombrosani) i conversi, distinti e separati dai monaci,
trovarono spazio e a loro erano in
genere demandati quei lavori che
assicuravano la sussistenza della comunità. La loro opera fu notevole presso gli ospedali
più vari, ivi inclusi i lebbrosari [circa gli ospedali cfr. Calendari dell’Avvento 2006, 2010, 2012],
dove forse fungevano anche da personale “infermieristico”. Quando fiorirono gli Ordini Mendicanti anch’essi “inglobarono” conversi/oblati
come, ad esempio, l’Ordine di S. Domenico che
fu molto aperto ad accoglierli. Non è infrequente
trovarli presso monasteri sia maschili che femminili, conventi, canoniche, vescovati, chiese, eremi
e perfino ponti, “conversi pontieri”! Si trattava
sovente di singoli individui (uomini e donne)
che donavano se stessi e i propri beni all’ente di
riferimento, ma poteva trattarsi anche di coppie:
marito e moglie o di altre soluzioni parentali. Si
stabiliva un rapporto di mutua “convenienza”: i
conversi/oblati trovavano uno spazio protetto,
so­ste­gno e una vita “dignitosa”, gli enti, dal canto loro, avevano a disposizione personaggi su cui
poter contare per varie necessità.
18
Penitenti, reclusi
e confraternite
Oltre al vitale
mondo dei con­
versi e degli oblati con le loro varie afferenze, il
Medioevo religioso vede i
laici attivi in
altre molteplici soluzioni. L’Ordine
della Penitenza-Terz’Ordine francescano
(ufficialmente dal 1289) e gli altri Terzi Ordini apparsi nel tempo furono un valido spazio per uomini e donne; grazie a regole e/o
norme di vita questi laici-religiosi avevano
precisi orientamenti su come condurre una
vita cristiana corretta improntata a preghiere, penitenze, opere di carità. Potevano vivere
nelle proprie case, essere coniugati3 e attivi
nelle “faccende” del mondo, ma anche nonconiugati e vivere in eremi e/o in comunità. Terziari francescani celebri sono: Pietro
Pettinaio di Siena (†1289)4, che fu commerciante
di pettini per telai; Angela da Foligno (1248-1309)
e Margherita da Cortona (1247-1297); in ambito
domenicano splende la figura di Caterina da Siena
(1347-1380), che si batté per il ritorno del papa da
Avignone a Roma e per la riforma della Chiesa.
Le aspirazioni di vita eremitica trovarono anche
una soluzione di tipo urbano nel fenomeno della
reclusione volontaria [cfr. “Reclusa nella celletta”,
Calendario dell’Avvento 2010], quando uomini – e
molte donne – si posero a vivere singolarmente – o
con poca compagnia – presso chiese, luoghi religiosi vari, ponti, porte, fonti, lungo vie nelle città e
nei loro pressi. Ne emerge un’immagine della
città marcata sì da chiese, monasteri, conventi, ma anche da un microtessuto di celle e
carceri dove questo genere di eremiti-reclusi (laici) vivevano in ritiro e preghiera
usufruendo della pubblica beneficenza
e delle elemosine dei fedeli. Ciò è apparso con evidenza, attraverso i documenti, per città, ad esempio, come Firenze,
Perugia, Pisa, Viterbo, Siena …
La vita religiosa dei laici trovò il suo
massimo spazio nelle associazioni
confraternali [per la loro
varietà, i loro scopi,
la loro natura ecc.
cfr. “Confraterni­te”
in Ca­lendario del­
l’Av­ven­to 2006] diffuse
capil­larmente ovun­
que e che sovente
contavano un cospicuo numero di aderenti. Poteva trattarsi
di confraternite esclusivamente maschili, talvolta
anche esclusivamente femminili, come quelle di devozione
alla Vergine; spesso si trattava
di confraternite miste quindi comprensive di uomini e
donne. Due casi opposti sono
la Misericordia di Perugia,
esclusivamente maschile, e la
Misericordia di Bergamo che
vanta un ramo femminile notevolmente numeroso.
_
3. Una coppia di Penitenti furono, a Poggibonsi, il beato Lucchese e sua moglie Bonadonna, nella prima metà del sec. XIII.
4. Viene citato nella Divina Commedia da Sapìa Salvani, che nel tredicesimo canto del Purgatorio afferma di esser stata aiutata dalle
sante orazioni di Pietro Pettinaio: « ...e ancor non sarebbe lo mio dover per penitenza scemo se ciò non fosse, ch’a memoria m’ebbe
Pier Pettinaio in sue sante orazioni, a cui di me per caritate increbbe» (Canto XIII del Purgatorio, vv. 125-129).
19
Cavalieri
Quando si parla di
“signori” nel Medioevo, specie italiano,
non si deve necessariamente pensare
all’alta nobiltà costituita da principi,
duchi, conti, marchesi, come ci ha
abituato l’immaginario della letteratura filmica e non solo, ma a una “folla” di milites,
cioè di uomini d’arme le cui famiglie vivevano
sulla base di più o meno estese proprietà terriere
sulle quali magari potevano aver edificato castelli.
Chiara d’Assisi proveniva proprio da una di queste
famiglie. [Per armi e armati nel Medioevo cfr. “Nel
castello medievale”, Calendario dell’Avvento 2010].
Bisogna però distinguere tra milites e milites! Erano tutti combattenti a cavallo, e quindi tutti “cavalieri” sul piano militare, ma non tutti avevano
ricevuto la dignità cavalleresca! Sino al XII secolo
essere cavaliere non significava necessariamente
essere nobile, perché la nobiltà era una questione
di nascita; ben presto però la dignità cavalleresca
venne riservata ai figli dei cavalieri dando così
vita a una classe ereditaria. Fu così che cavalleria
e nobiltà tesero a fondersi e a confondersi.
La cavalleria è una delle immagini classiche del
Medioevo, già mitizzata dalla letteratura epica
di quel tempo che faceva del cavaliere un guerriero portatore di pace, impegnato nella difesa
della cristianità. Al di là del mito, la realtà era
ben più dura e diversa! L’avventura cavalleresca
era essenzialmente la ricerca di nuove fonti di
ricchezza, ad esempio da parte dei cadetti, che
ereditavano meno ricchezza e potere rispetto
ai primogeniti. Si trattava di guerrieri a cavallo
strategicamente importanti nelle campagne militari, tant’è vero che la fine della cavalleria fu determinata dall’invenzione delle armi da fuoco.
Si diventava cavalieri dopo un lungo tirocinio.
Al primo gradino vi è il
paggio: impara a badare
al cavallo e a combattervi
sopra; al secondo gradino vi è lo scudiero: che
apprende il maneggio
delle armi, le regole del
combattimento e porta le armi e lo scudo del
suo signore; alla fine si
diventava cavalieri all’età
di 20-21 anni con una
specifica cerimonia d’investitura detta “addobbamento” che con­sisteva
nella consegna di speroni, dell’elsa della spada
e del morso del cavallo
dorati; del cinturone ar-
20
ricchito di rinforzi metallici dorati anch’essi e
del mantello foderato di vaio. Varie furono le
autorità che nel tempo ebbero il diritto di conferire la dignità di cavaliere: sovrani, capi militari, e gli stessi comuni italiani.
La fortuna di un cavaliere
Guglielmo il Maresciallo (1145-1219),
figlio cadetto, divenne cavaliere e come tale
si distinse in numerosi tornei conquistando
il favore dei signori, divenne così nel tempo
membro prestigioso in seno all’entourage
di re Enrico II d’Inghilterra. Fu tutore del
re bambino Enrico III, figlio di Giovanni
Senza Terra, e come reggente del regno, fu
uno degli uomini dell’Occidente più potenti
dell’epoca. Le sue gesta sono tramandate da
una composizione letteraria, la “Chanson di
Guglielmo”, redatta nel sec. XIII in lingua
anglonormanna.
Santi cavalieri
San Galgano, al secolo Galgano Guidotti
(1148/1152-1181), visse in Toscana nel XII
secolo all’epoca delle lotte per la successione dei
beni di Matilde di Canossa. Secondo i costumi
dell’epoca, essendo membro della piccola
aristocrazia del contado senese, fu avviato
alla vita militare in qualità di cavaliere. La
tradizione vuole che fosse un giovane violento,
ma destinato a cambiare vita e a diventare un
cavaliere di Dio come profetizzatogli da san
Michele Arcangelo in persona, di cui ebbe
due visioni. Nel 1180 Galgano abbraccia la vita
eremitica e a suggello della sua conversione
pianta la sua spada a mo’ di croce in terra e
trasforma il suo mantello in un saio.
Angelo da Rieti (†1258), figlio di Tancredi,
fu il primo nobile cavaliere che nel 1210 seguì
Francesco mentre si recava a Roma per ottenere
l’approvazione del suo modo di vita.
21
Donne di potere
La figura di Matilde di Canossa
(1045/ 1046-1115)
è legata al celebre
episodio del 1077
quando l’imperatore Enrico IV si recò
penitente a Canossa per im­petrare il
perdono del papa
Gregorio VII; da
qui l’espressione “andare a Canossa” per indicare
l’umiliazione di chi è costretto a pentirsi e ravvedersi. L’episodio s’inserisce nell’ambito della “lotta delle investiture” dei secoli XI e XII che vide
Papato e Impero contrapposti a motivo della nomina dei vescovi. Ma la stessa “lotta delle investiture” rientrava nel più vasto progetto di “riforma
della Chiesa” volto alla moralizzazione del clero,
all’eliminazione della simonia, a evitare l’ingerenza dei laici sulle cariche che avrebbero dovuto essere di esclusiva pertinenza ecclesiastica.
Contessa di città come Modena, Reggio Emilia,
Mantova, Brescia, Ferrara, il titolo più prestigioso
che ebbe fu quello di marchesa di Toscana. La vastità dei domini territoriali e la dignità dei titoli,
di cui rimase unica erede, conferirono a Matilde
un’autorevolezza che esercitò, ad esempio, amministrando la giustizia, organizzando eserciti, fondando monasteri. Tra il Papato e l’Impero in lot-
22
ta tra loro, ella operò una decisa scelta di campo
schierandosi attivamente dalla parte dei pontefici
riformatori da Gregorio VII (1073-1085) fino a
Pasquale II (1099-1118).
Matilde morì a Bondeno di Roncore il 24 luglio
1115. Fu sepolta, come voleva, nella chiesa abbaziale di S. Benedetto in Polirone, dove il suo corpo
rimase sino al 1632, quando fu venduto dall’abate
Andreasi a papa Urbano VIII e da questo trasferito in un sontuoso monumento in S. Pietro, opera
di Gian Lorenzo Bernini.
Eleonora d’Aquitania (1124-1204) visse 80
anni e fu protagonista della politica del suo
tempo; prima moglie di Luigi VII di Francia,
poi di Enrico II Plantageneto, re d’Inghilterra,
madre, tra gli altri, di Riccardo Cuor di Leone
e di Giovanni Senza Terra, condizionò il regno
di Francia e quello d’Inghilterra. Insieme a Luigi VII partecipò alla Seconda Crociata (11471148) dove palesò la volontà d’intervenire anche
in decisioni militari cercando di evitare l’assedio
di Damasco.
Varietà di mestieri
La varietà dei mestieri nelle città italiane ed europee era infinita! Alcuni lavori si connotano
per essere praticati esclusivamente da uomini, altri solo da donne, altri ancora da uomini e
donne. Macellai, fabbri, maniscalchi, tintori, cuoiai, falegnami, carpentieri, muratori, calzolai, calzaioli, notai, medici, salaioli, cambiatori, marinai, segantini, bottai, canapai, vasai,
vetrai… erano attività declinate quasi esclusivamente al maschile. Nel campo dell’edilizia gli
uomini ebbero una predominanza assoluta: maestri muratori, carpentieri la fanno da padroni [cfr. Calendari dell’Avvento 2006, 2007, 2013], sono loro i grandi artefici di cattedrali
e palazzi, tuttavia le donne venivano
impiegate come manovali nella preparazione della malta, nella copertura dei
tetti e anche nella lavorazione del vetro;
venivano retribuite a giornata e rappresentavano una forza lavoro più a buon
mercato rispetto ai lavoratori giornalieri maschi. Tuttavia una divisione del
lavoro rigida tra i sessi non vi fu; né gli
uomini lasciarono completamente alle
donne i campi delle attività specificatamente femminili – come la tessitura e la
lavorazione delle stoffe o la produzione
alimentare – né il lavoro femminile
poteva limitarsi a pochi specifici settori
come il lavoro di riproduzione, ostetricia, puericoltura, maternità, ricerca e
preparazione del cibo, economia domestica ecc. Le donne che lavoravano
erano molte e nei campi più disparati.
Notevole la loro presenza nell’industria tessile (scelta delle lane, filatura,
tessitura); esse potevano anche esercitare piccoli commerci porta a porta
23
o in strada; potevano vendere cibi cotti, verdura, frutta e prodotti del pollaio, panni vecchi,
cuffie e ornamenti. Inoltre le donne facevano le ricamatrici, le sarte, le lavandaie, le balie,
le levatrici, le erboriste; nelle città marinare rammendavano le reti da pesca; negli ospedali
erano tra il personale di fatica; le troviamo a far le serve nelle case dei signori e nelle terme;
a fare le portiere e le campanare, a portare acqua nei cantieri. Ed è in tutti questi luoghi che
possiamo incontrarle molto più spesso che non all’interno di un’organizzazione artigiana.
Spesso le donne erano coinvolte nelle aziende a conduzione familiare. I poderi, gli alberghi, le
botteghe, le osterie o le cartiere, erano tutti luoghi nei quali l’abitazione diveniva un tutt’uno
con il luogo di lavoro e tutti i membri della famiglia, compresi dunque donne e bambini,
erano coinvolti quotidianamente nelle operazioni di lavorazione e gestione. In casa si lavorava anche per l’esterno, svolgendo per esempio operazioni per conto della manifattura della
lana: la filatura, l’orditura e la tessitura. In tutte queste attività l’apporto della manodopera
femminile risultava decisivo e almeno in una di esse – la filatura – le forze lavorative erano
prevalentemente femminili. Le donne potevano diventare maestre nei settori della tessitura e
dell’abbigliamento, ma per lo più erano impiegate come aiutanti e/o lavoratrici giornaliere.
Le contadine lavorano duramente nei campi, le artigiane nella bottega del marito che, talvolta, rilevano alla sua morte. Anche dentro la casa, signorile o borghese che sia, non si lasciano
in ozio figlie e mogli. Vanno a costituire il nucleo degli eserciti di lavoratrici soprattutto le
vedove, troppo spesso minacciate dalla solitudine e dalla miseria. Anche nelle classi agiate
della società medievale la vedovanza minaccia le donne di un rapido declassamento, per cui
precipitano nella povertà quando non possono ottenere dagli eredi del marito il rispetto dei
loro diritti, cioè la restituzione della dote. Il lavoro nelle città italiane era organizzato soprattutto in corporazioni/arti che avevano il compito di tutelare gli interessi di chi esercitava una
stessa attività economica. Nella documentazione delle Arti delle città italiane le donne non
si incontrano quasi mai: quando emergono nomi femminili è probabile che esse siano vedove
che assumevano i diritti del marito od orfane di artigiani che, come i loro fratelli, potevano
ereditare l’arte dal padre e continuavano a esercitarla o a farla esercitare ad altri.
24
Il contadino
e la contadina
Contadino: anti­ca­
mente valeva uomo
del contado, ma nel
senso di abitatore di
esso; poi si restrinse a designare colui
che lavora la terra. Infatti quando
si dice “contadini”
si allude al mondo
dei lavoratori della terra. Per un lungo periodo dell’età medievale
i contadini sovente non erano uomini liberi, ma
servi con tutta una serie di vincoli e obblighi che
li legavano alla terra e ai proprietari di
essa (signori); con il
tempo (sec. XIII) le
varie forme di servitù tesero a scomparire e i lavoratori della
terra conquistarono
anch’essi la dignità di
“liberi cittadini”; ma
la conquista di una
condizione giuridica
libera non portava
necessariamente con
sé un miglioramento delle condizioni
economiche di vita.
Con l’avanzare del
Medioevo – ormai
“conquistata” la condizione giuridica di
“liberi” – i contadini,
cioè gli agricoltori, potevano essere o proprietari o
affittuari e mezzadri; in quest’ultimo caso erano tenuti a spartire con il proprietario – aristocratico o
borghese che fosse – i prodotti ricavati dal lavoro
della terra. Si poteva essere semplicemente salariati
agricoli con una scarsa retribuzione e occupazione precaria. Per quanto liberi, la vita e il lavoro dei
contadini sono rimasti sempre duri!
Le loro misere condizioni di vita sono così descritte da Goffredo de Troyes5: I contadini che lavorano
per tutti – scrive – che si stancano continuamente,
con tutte le stagioni, che si danno ai lavori servili disprezzati dai padroni, sono oppressi incessantemente, e questo per provvedere alla vita, ai vestiti, alle
frivolezze degli altri.
Sono
perseguitati
dall’incendio, dalla
rapina, dalla spada;
sono gettati nelle prigioni e in catene, poi
costretti al riscatto,
oppure si fanno morire violentemente di
fame, si infliggono
loro ogni genere di
supplizi.
La donna è nel
mon­do contadino,
in fatto di lavoro,
quasi l’equivalente, se non l’uguale,
dell’uomo!
La donna affiancava
il marito nel lavoro
dei campi specie
in certi periodi,
_
5. Goffredo di Villehardouin (Castello di Villehardouin, 1160 – Messinopoli, 1213) partecipò alla conquista di Costantinopoli nel
corso della Quarta Crociata e alla formazione dell’Impero Latino con Baldovino VIII di Fiandra. Goffredo nacque nel castello di
Villehardouin, sito a circa 30 km ad est della città di Troyes, fra Arcis-sur-Aube e Bar-sur-Aube, nell’attuale dipartimento dell’Aube.
25
ad esempio, di raccolta; se l’aratura e la semina
erano occupazioni principalmente maschili, la
raccolta di cereali ed erbaggi era svolta da entrambi così come la vendemmia; a lei competeva
la cura dell’orto; e a lei spettavano lavori tessili
in casa (filatura, dipanatura e tessitura di lana e
lino) e a lei competevano tutte le attività domestiche quali po­te­vano essere
l’ap­p rovvigionamento
dell’acqua e della legna, la
stacciatura della farina, la
preparazione e cottura del
pane, la cura degli animali
da cortile (pollaio e porcile); la cura della famiglia
e dei bambini, “guardare i
bambini”; fare il bucato…
Se tu sposi un contadino,
mai donna sarà più infelice: ti farà filare, frantumare il lino, stigliare la canapa, battere i panni e cavare
le barbabietole.
Il breve racconto in versi Il massaro Helmbrecht,
composto da Wernher der
Gartenaere nella seconda
metà del XIII secolo, è forse l’opera tedesca più rappresentativa del suo tempo
e dei grandi mutamenti
politici, economici e sociali che l’hanno caratterizzato. Protagonista è un giovane contadino che, per la
sua smisurata ambizione e
insofferenza della vita dei
campi, diventa cavaliere
predone e sconta con una
morte orrenda i suoi crimini e la sua prima colpa:
aver infranto l’ordine della
società medievale, rifiutando il ruolo che gli era
stato assegnato dalla nascita. L’opera offre un quadro critico del suo tempo –
decadenza della cavalleria,
volontà di ascesa e di ricchezza dei contadini, dissoluzione dell’ordine sociale – discostandosi dalle immagini ideali della
letteratura cortese verso una rappresentazione
più concreta, quasi naturalistica, della realtà. Il
disprezzo per i contadini/villani fu una costante,
tant’è che ancora oggi si usa la parola “villano” in
senso dispregiativo e volutamente offensivo.
26
Servi/e, Schiavi/e
e apprendisti/e
In origine il termine
famiglia/familia non
indicava la esclusiva
discendenza di san­
gue, quanto piut­
tosto un insieme
di persone rispondenti a un “capofamiglia”, ivi incluso
il vasto mondo dei
servi-schiavi [cfr.
Fi­nestra 1]. Il Medioevo segnò per questo universo di lavoratori il progressivo superamento
della schiavitù in senso stretto, per passare a
vari stati di servitù e/o servaggio, cioè a tutta
una rete di rapporti-legami limitanti, condizionanti e tali da richiedere tutta una serie di
prestazioni e servizi. Fu nel corso del sec. XIII
che, attraverso le affrancazioni, questi lavoratori pervennero alla condizione di liberi cittadini,
cioè ottennero la condizione giuridica di liberi;
semplificando si può dire che si passò dall’antica condizione schiavile a quella servile e da
questa a quella di libere persone. Ciò non significò la totale sparizione della schiavitù, questa,
non più autoctona, ma di tratta, cioè legata alle
correnti commerciali che attraversavano il Mediterraneo: schiavi barbareschi, turchi, caucasici, tartari, “greci” cominciarono a comparire nel
XIII secolo nelle grandi metropoli di Spagna e
27
di Italia; prima come oggetti di lusso destinati a
rialzare con un tono di esotismo lo stile di vita
dei patrizi; più numerosi dal XIV secolo, furono
poi normalmente usati per funzioni domestiche
e artigianali.
Servi e serve, famuli e famule, attivi nelle case
dei ceti cittadini potevano trovarsi a condividere la pesantezza del lavoro quotidiano con gli
schiavi/e.
Se forse alle schiave venivano affidati i lavori
più pesanti, è anche possibile che non vi fosse
una ripartizione rigida dei ruoli. Cucinare, fare
il bucato, rassettare la casa, procurare legna e
acqua, alimentare il fuoco, badare ai bambini,
fare commissioni, accompagnare la padrona
erano gesti che probabilmente riempivano le
giornate sia delle serve che delle schiave.
La durezza della vita e del lavoro nonché umiliazioni e soprusi accomunavano, per certi versi, serve e schiave. La differenza sta nel fatto
che le prime erano donne di condizione libera,
ma povere, sia che fossero cittadine o che pro-
venissero dalla campagna, per cui dovevano
ripiegare su di un lavoro modesto, retribuito
sì, però poco e male! In qualche modo tuttavia
questi collaboratori domestici erano parte della
famiglia: lasciti testamentari, infatti, palesano
talvolta una certa attenzione rivolta loro.
Il caso di santa Zita di Lucca (1218-1278) è
rivelatore di quanto fosse diffusa la categoria
sociale dei servi domestici. Proveniente dal
contado lucchese, fin da dodicenne fu avviata a questo lavoro che svolse sempre presso
un’importante famiglia della città, dove visse
in castità, umiltà e devota penitenza; praticava
anche la misericordia verso i poveri, pur non
disponendo di mezzi personali, ricorrendo a
“santi furti” che interventi prodigiosi provvedevano a riparare. La figura di Zita si staglia
come esempio di onestà e moralità in rapporto
a una categoria che non godeva di buona fama.
La famiglia presso la quale lavorò e visse si fece
promotrice del suo culto.
Le case-botteghe degli artigiani accoglievano
28
anche gli apprendisti, ragazzi e ragazze collocati, tramite una qualche forma contrattuale, a
vivere e a prestare mano d’opera – nonché servizi vari – nelle abitazioni dei “maestri” presso
i quali avrebbero dovuto imparare “l’arte”. Po-
teva accadere che la famiglia che collocava il/
la giovane in apprendistato pagasse una qualche retta a quella del “maestro”; da parte sua il
“maestro” avrebbe dovuto provvedere a vitto,
alloggio e quant’altro dell’apprendista.
Il mercante
e sua moglie
Quando si pensa a un
mercante [cfr. “Mercanti”, Ca­­len­dario del­
l’Avvento 2006] nel­
la società italiana
medievale si pensa a
Francesco di Marco Datini di Prato
(1335-1410) che fece
la sua fortuna ad Avignone dove costituì
una compagnia individuale. Tornò a Prato nei
primi anni 80 del Trecento. Quand’era ormai in
età matura, più che quarantenne, sicuro dei ri-
sultati conseguiti, si decise al matrimonio e la
scelta della sposa cadde sulla fiorentina Margherita di Domenico Bandini, di quasi venticinque
anni più giovane. La riuscita del matrimonio,
celebrato con molto sfarzo, fu indubbia, anche
se Margherita non diede figli al Datini. I rapporti fra i coniugi, sia per le frequenti assenze del
mercante, sia per l’inclinazione a quegli amori
ancillari consueti nel suo mondo, furono spesso burrascosi, ma la profonda intesa che li unì
emerge – è il caso di dire – a chiare lettere dalla
corrispondenza che frequentemente si scambiarono e che si è in larga parte conservata: è sulla
base di questi documenti che è stato possibi-
29
le ricostruire, con notevoli approfondimenti
psicologici, un quadro della vita matrimoniale
dell’epoca, oltre a un profilo del Datini “intimo”. La loro corrispondenza, ricca di notazioni
ispirate al buon senso comune, punteggia gran
parte dei 34 anni di una vita matrimoniale nel
corso della quale gli episodi salienti (le assenze
del Datini, la tragica successione della morte
dei più fedeli collaboratori, i timori per la peste) videro i due sposi sempre affettuosamente
legati e solidali, con una forte propensione del
Datini ad affidare alla moglie, nell’ambito della
vita domestica, un ruolo di “padrona” che appare tutt’altro che insignificante. E d’altronde
Margherita (che sopravvisse al marito e venne a morte a Firenze nell’anno 1423) condivise fino in fondo questo “senso della famiglia”
che il Datini avvertiva assai forte. Accolse, ad
esempio, nella sua casa una figlia naturale, Ginevra, che il Datini aveva avuto da una schiava. Il Datini realizzò un sistema di aziende e
istituì una varietà di compagnie tra l’Italia e
l’Oltralpe creando fondaci in varie città; a Prato il Datini dette vita all’industria laniera. Mise
insieme una fortuna di 100.000 fiorini che destinò in gran parte per l’istituzione pratese del
Ceppo dei poveri di Cristo. La destinazione ai
poveri della fortuna accumulata in oltre sessant’anni di ininterrotto impegno mercantesco
può esser forse letta nella chiave di un estremo
atto contabile, volto a regolare il rapporto con
l’Aldilà, ma se si pensa, ad esempio, al tragico succedersi delle pesti, l’ipotesi di un’intima,
profonda conversione appare tutt’altro che improponibile.
Nel Medioevo, attivo di commerci, le donne
ebbero loro spazi in specie nel piccolo commercio al dettaglio – bottegaie, merciaie … –
ma non mancò neppure la loro presenza nel
grande commercio: ad esempio, in città italiane ed europee, appaiono anch’esse far parte di
società di commercio.
30
Proprietari/e,
poveri/e
Uomini e donne liberi godevano pie­ni
diritti di proprietà.
Lo studio degli atti
giuridici prova che
per quanto riguarda la gestione dei
beni della coppia,
la situazione della
donna è peggiorata
dal XII e XIII secolo. In un primo tempo con il matrimonio la donna
entrava in quota-parte dei beni del marito (terza/
quarta) [cfr. Finestra 2] e quindi erano frequenti
atti in cui marito e moglie agivano insieme; poi la
donna non entrerà più in parte dei beni del marito per favorire la linea agnatizia e non disperdere
i beni di famiglia; non rientrerà neppure nell’asse
ereditario di famiglia (padre, madre, fratelli…)
perché da ciò sarà esclusa a motivo della dote che
è quanto legalmente le spetta.
Tuttavia la documentazione del pieno e avanzato
Medioevo rivela molte donne in azione, in grado
di vendere, comprare, stabilire contratti vari, fare
testamento… e spesso da sole, ciò vuol dire che
erano in possesso di beni di cui poter disporre.
Come erano entrate in possesso di beni? Anche
se ufficialmente escluse dall’asse ereditario, poteva comunque accadere che mancassero figli maschi e quindi il loro posto veniva preso dalle figlie
femmine; inoltre i beni potevano essere acquisiti attraverso vari lasciti di madri, padri, fratelli,
congiunti e/o conoscenti vari… e forse anche attraverso l’esercizio di una qualche attività lavora-
31
tiva… ; le vedove poi talvolta erano eredi del marito, talaltra fidecommissarie dello stesso e dallo
stesso potevano essere designate destinatarie di
lasciti vari. Un bell’esempio di donna, vedova, in
grado di gestire il patrimonio familiare è quello
di Alessandra Macinghi Strozzi (1406-1471). La
raccolta delle sue lettere contiene molte testimonianze relative ai rapporti della Macinghi con gli
uffici del Fisco, e consentono di ricostruire con
precisione i vari passaggi seguiti nella conduzione dei beni e i criteri che la stessa intese adottare
per assicurare ai figli un degno futuro nella città
natale. Costretta a numerose vendite, fu l’attività
svolta a Napoli dal figlio Filippo a consentire la
ricostruzione del patrimonio familiare. La Macinghi vi concorse con la saggezza delle sue scelte
e con la forte impronta di una educazione morale
e civile di alto profilo. Le lettere rivelano anche la
grande attenzione della Macinghi per tutto ciò
che accadeva nella vita politica interna a Firenze.
Se il Medioevo pieno-centrale e avanzato presenta tutta una gamma vasta, variata e variegata
di situazioni economico-sociali che vanno dagli alti livelli aristocratico-nobiliari a tutta una
“folla” di ceti mercantili, proto-imprenditoriali,
medio- produttivi, lavorativi, medio-piccoli
proprietari, ceti abbienti di articolata entità collegati all’esercizio di svariate attività lavorative, non sono mai mancati i meno-abbienti e/o
non-abbienti, cioè i poveri di cui il Medioevo è
disseminato. Chi sono i poveri nel Medioevo?
Si tratta di un mondo molto variegato che va
dai miserabili ai poveri vergognosi, dai carcerati
agli storpi. Come si sopperiva alla povertà? Con
l’elemosina e il fiorire di istituzioni caritativoassistenziali come le confraternite, che non solo
elargivano elemosine, ma gestivano ospedali e
ospizi di accoglienza.
Il mondo della tessitura
e dell'abbigliamento
Intorno all’universo
di vesti e ornamenti ruotava nella città
medievale una mi­
riade di artigiani:
assortitori di lana,
borsai, berrettai, calzaioli, canapai, cimatori, cinturai, conciatori, cucitori di borse, cuoiai, farsettai,
fibbiai, filatrici, guantai, lanaioli, merciai, orafi,
pannaioli, pellicciai, pettinatori di lana, pianellai,
ricamatori, sarti, scarsellai, setaioli, tessitori, tintori, tiratori di panni, torcitori di refe, zoccolai e via
dicendo [cfr. Calendario dell’Avvento 2006]. Nella produzione tessile le donne furono vastamente
impiegate fin dai ginecei dell’alto Medioevo, dove
32
le donne del castello si affaccendavano sotto la direzione della moglie del signore: si fila, si tesse, si
approntano le fibre. In particolare la filatura competeva pressoché esclusivamente a maestranze
femminili.
Il ricamo e la filatura erano attività svolte frequentemente dalle donne: «l’ago e ‘l fuso e l’arcolaio»
(Boccaccio, Decameron, Proemio) erano inseparabili compagni delle donne medievali per contrastare malinconia e ozio.
I ricamatori più famosi, vale a dire quelli che lavoravano per le principali corti d’Italia e d’Europa, erano solitamente uomini; e mentre quest’ultimi erano specializzati nell’operare con fili d’oro
e d’argento, le donne maneggiavano fili di seta
per arricchire non solo vesti, ma anche paliotti e
gonfaloni.
Per ottenere fili d’oro e d’argento erano necessarie
numerose operazioni. La prima era svolta da uomini (i battiloro) che fondevano il materiale prezioso, verghe d’argento e monete, e ne ricavavano,
a forza di martellate, foglie di metallo che unite
insieme formavano delle lastre. Queste, a loro
volta, venivano assottigliate fino a ottenerne foglie sottilissime che venivano inviate alla filatura.
A questo punto intervenivano le donne che con
forbici lunghe e taglienti riducevano le foglie in
strisce sottilissime e le avvolgevano intorno a un
filo di seta giallo, ottenendo un filo che alla vista
era tutto d’oro, lucido e brillante, pronto per eseguire i ricami.
Tra i ricami medievali più famosi, l’arazzo di Bayeux, opera che celebra la conquista normanna
dell’Inghilterra, fu realizzato da ricamatrici anglosassoni, probabilmente a Canterbury, tra il
1066 e il 1082.
In pieno Quattrocento ricamatori e ricamatrici
furono impiegati a Ferrara per gli arazzi voluti
dal duca Borso d’Este (1450-1471); il lavoro delle
ricamatrici era sottoposto a quello dei ricamatori e diversamente retribuito (esse lavoravano a
cottimo). Nel settore della manifattura tessile si
trovano casi di intraprendenza femminile come
in città quali Lucca, Londra, Parigi, Colonia; in
città come Colonia e Parigi esistevano anche delle
corporazioni esclusivamente femminili.
33
Tavernieri
e albergatori
Nel Medioevo l’in­
cremento dei traffici
commerciali e l’af­
fiancarsi quindi di
altre classi di viaggiatori a quella tipica dei pellegrini [cfr.
Calendario dell’Avvento 2012] aveva
reso insufficiente il
si­stema altomedievale degli hospitia istituiti da chiese e monasteri
e ciò fece sì che si sviluppasse un altro genere di
accoglienza non più caritativo, ma a pagamento con personale di mestiere (osti, tavernieri,
albergatori) che dava alloggio e a volte vitto al
viaggiatore.
Le città si popolarono di alberghi e taverne la
cui attività era regolamentata da apposite norme
statutarie tese a evitare che divenissero dei postriboli, che si facessero giochi d’azzardo (dadi),
che scoppiassero risse e incidenti vari a motivo
di ubriachezza, e si ordinava che fossero chiuse
dopo la terza ora di notte.
Tavernieri e albergatori si co­stituirono anch’essi in corporazioni [cfr. “Corporazioni” in Ca­
len­dario dell’Avvento 2006]; queste avevano un
ruolo rilevante ad esempio a Padova e Torino
e di scarsa portata a Milano, Brescia, Cremona e Mo­­dena; l’attività poteva essere esercitata
anche da donne, da sole o con i mariti. In particolare a Siena, nel 1288, si contavano ben 90
albergatori.
Nelle campagne si potevano incontrare luoghi
di sosta, più modesti, che svolgevano funzioni
polivalenti: fungevano da taverne per gli abitanti del luogo, ma potevano offrire un pasto
caldo e un letto a chi era di passaggio nonché ricoverare i mezzi di
trasporto dell’epoca
(asini, muli, cavalli).
Oltre a bere il vino,
nelle taverne, appunto, si poteva
mangiare e in ta­
luni casi erano gli
stessi macellai che
aprivano una taverna e offrivano
ai propri clienti le
carni da loro stessi
macellate.
Così era, ad esem­
pio, a Parigi e a
Pisa, dove, fino al
calare del Tre­cento
il termine tabernarius indi­cava il macellaio.
34
Mestieri alimentari
Numerosi e sparsi nella città per ri­spondere
ai bisogni della clientela, i me­­­stie­ri legati
al­l’alimen­tazione co­
sti­tuiscono un settore
vitale del­l’economia
cit­ta­dina; in questo ambito le donne
sono notevolmente
presenti. Il pane [cfr.
“Fornai” in Calendario dell’Avvento 2006] è senza dubbio l’alimento essenziale e quotidiano: se in
campagna ogni famiglia contadina faceva il pane
e andava a cuocerlo nel forno di qualche signore,
questa pratica era vietata nella maggior parte delle
città dove la produzione del pane era monopolio
di alcuni mestieri: i mugnai fanno la farina per i
panettieri, che impastano il pane che verrà cotto
dai fornai. A Parigi gli statuti del 1305 obbligavano i fornai a cuocere il pane ogni giorno, eccetto
la domenica. I fornai erano controllati dalle autorità annonarie (fuoco, igiene, scorte, prezzi) e da
loro dipendeva il vettovagliamento delle città; sono
considerati un’arte minore, ma assai numerosa.
Al contrario di quanto si ritiene comunemente, i
cittadini nel Medioevo sono grossi consumatori di
carne (bovina, d’agnello, di capra, di lepre, di coniglio e di pernice e/o volatili vari). Questo è un
mercato in continua crescita che fa la ricchezza dei
macellai: essi, infatti, figurano in tutte le città medievali dell’Occidente tra i contribuenti più facoltosi. Benché abbiano successo, i macellai sono poco
amati, invidiati per le loro ricchezze e disprezzati
perché esercitano un mestiere sporco a contatto
con il sangue. Alla fine del Medioevo per questioni
di igiene si istituiscono i mattatoi. I macellai vendono sì la carne, ma fanno anche commercio dei
35
prodotti relativi alla loro attività, come la lana, le
pelli, il sego (cioè il grasso animale importante per
la fabbricazione delle candele).
Alcuni macellai si servivano di scuoiatori e di macellatori che ricevevano un compenso per ogni
capo abbattuto ed era loro vietato di appropriarsi
della carne sia per il consumo personale che per la
vendita.
Se questi erano mestieri praticati solo da uomini, quello del
pollaiolo era declinabile tanto
al maschile quanto al femminile, come si può vedere nelle
miniature. I pollaioli oltre ai
pollami offrivano le interiora
di questi e vendevano le uova.
Anche nella vendita delle spezie potevano cimentarsi le
donne. L’uso delle spezie nella preparazione del cibo permetteva di mascherare sapori
poco gradevoli e inventare una
varietà di gusti. Il mestiere del
formaggiaio era tanto maschile
quanto femminile. Gli obblighi
religiosi fanno sì che la consumazione di pesce occupi una
parte importante dell’alimentazione medie­vale; corpora-
zioni di pescatori sono presenti in varie città italiane:
Padova, Reggio, Modena,
Como, Torino … Nessuna
meraviglia! Le città lontane
dal mare potevano fruire
del pesce di acqua dolce!
Alla vendita al minuto del
pesce provvedevano i pescivendoli considerati tra le
arti medio-inferiori.
A Roma vi era uno specifico mercato ittico attestato
già dalla fine del sec. XII; la
zona era quella della chiesa
di S. Angelo detta per questo motivo “in Pescheria”; il
pesce veniva esposto e venduto al pubblico su pietre
raramente di proprietà dei
pescivendoli, mentre a Perugia, Bologna e Verona la corporazione di questi era proprietaria delle
strutture di vendita.
La gamma dei mestieri alimentari è quasi inesauribile: ortolani, fruttivendoli, erbivendoli, salaioli
[cfr. Calendario dell’Avvento 2006], pizzicagnoli,
lardaioli…
36
MEDICI
Nel corso del Me­
dioevo la medicina
ufficiale fu sem­pre,
in linea di massima, esercitata da
uomini [cfr. Finestra 20].
Si diventava medici professionisti
fre­quentando apposite scuole e poi
le università [cfr. Finestra 20]. Nel Duecento e
Trecento erano celebri per tale corso di studi, ad
esempio in Italia, le università di Padova, Pisa,
Firenze, Siena, Perugia, Roma, Napoli per non
parlare di Salerno e Bologna già fiorenti nel sec.
XII. A Bologna il corso di medicina si basava
su i testi obbligatori di Ippocrate (460 a.C. circa -370 a.C. circa), Galeno (130 d.C. circa -200
d.C. circa), Avicenna (980-1037) e Averroè
(1126-1198). Anche la curia pontificia incoraggiò studi di medicina. Nell’Italia comunale pure
i medici si organizzarono in corporazioni e in
questo generale slancio corporativo appaiono le
specializzazioni: medici dell’università, chirurghi, cerusici, speziali. La separazione tra medici
37
Per spiegare la struttura del corpo umano e la patologia a esso connessa la medicina medievale poggiava su di un sistema quaternario. Il corpo umano era
formato da quattro umori: sangue, flegma, bile gialla e bile nera. Queste sostanze, corrispondenti ai quattro elementi
cosmici (aria, acqua, fuoco, terra), di
cui possedevano le stesse qualità (caldo,
umido, secco, freddo), erano responsabili
dello stato o meno di salute dell’individuo, nonché del suo temperamento, distinto in impulsivo, flemmatico, collerico
e melanconico. La condizione di armonia psichica e di sanità fisica consisteva
nello stato di equilibrio di questi quattro
umori, collegati a loro volta all’influenza del clima, dell’ambiente, delle stagioni, degli astri.
fisici (specialisti della natura/physis) e medici
chirurghi era netta.
Professione di prestigio e redditizia, i medici
guadagnavano molto e potevano accumulare
patrimoni. L’abito stesso li distingueva: indossa-
vano mantelli foderati di vaio (pelliccia morbida e pregiata di colore grigio) e il berretto rosso.
La diagnostica si basava su scarsi elementi fondamentali; ogni visita medica seguiva una sorta
di rituale: osservazione dell’aspetto del malato,
Un polifarmaco diffuso era la teriaca, il cui nome deriva dal vocabolo greco therion, usato per
indicare la vipera o gli altri animali velenosi in genere. Dotata di virtù magiche e capace di risolvere ogni tipo di male, fu prescritta ininterrottamente dai medici per 18 secoli. Fino al XII secolo
fu preparata dai medici, poi nel 1233, con l’editto dell’Imperatore Federico II di Svevia, noto
come “L’Ordinanza Medicinale”, si ebbe una netta separazione tra la professione medica e la
professione farmaceutica, per cui ai medici fu vietata la preparazione dei farmaci. Dal XIII secolo, perciò, le preparazioni medicamentose furono affidate alla Corporazione degli Aromatari e
poi agli Speziali. La migliore teriaca era quella che si preparava a Venezia, dal momento che gli
speziali della Serenissima potevano utilizzare più facilmente le droghe provenienti dall’Oriente,
la cui fragranza e rarità conferivano al preparato una qualità superiore. L’elemento più curioso
della preparazione sono i “trocisci” di vipera, vale a dire carne di vipera femmina, non gravida,
catturata qualche settimana dopo il letargo invernale, privata della testa, della coda e dei visceri,
bollita in acqua di fonte salata e aromatizzata con aneto, triturata, impastata con pane secco,
lavorata in forme tondeggianti della dimensione di una noce e posta a essiccare all’ombra. La
teriaca era il rimedio sovrano per un’infinità di malattie che spaziavano dalle coliche addominali alle febbri maligne, dall’emicrania all’insonnia, dall’angina ai morsi delle vipere e dei cani,
dall’ipoacusia alla tosse.
38
Uno strano caso di medico
Medici famosi
Taddeo Alderotti, fiorentino (1223-1295),
dette inizio a una scuola medica che segna
la rinascenza della medicina antica nello
Studio bolognese e che si protrasse fino alla
seconda metà del XV secolo. Fu tenuto in
gran stima dai bolognesi che gli concedettero
ampli privilegi; per la sua fama fu chiamato
anche al capezzale di Onorio IV, durante l’ultima malattia del papa.
Aldobrandino da Siena (†1287?) è celebre
per il suo trattato Le Régime du corps ovvero De regimine santitatis. Esso è diviso in
quattro parti principali: a) igiene generale;
b) cure particolari; c) dietetica; d) fisionomia, tratti psicofisici. Dell’opera, che ebbe
particolare fortuna nel Medioevo, esistono
due volgarizzamenti italiani.
Arnaldo da Villanova (1240-1313), detto il “Catalano”, è stato un medico, alchimista e scrittore del XIV secolo. Fu un
personaggio influente nelle corti europee
dell’epoca, consigliere del re d’Aragona,
del papa e del re di Sicilia. Subito dopo
la sua morte, la sua personalità e i suoi
studi gli conferirono fama di alchimista
e mago. Nel 1305 l’inquisizione catalana
proibì la lettura dei libri di Arnaldo, che
spaziavano dalla medicina all’astrologia,
dalla teologia all’alchimia, ecc., nei quali,
con uno spirito apocalittico, il Villanova
prevedeva, per la metà del XIV secolo, la
fine di un’era e la venuta dell’Anticristo.
Dopo la sua morte, nel 1316, i suoi libri furono confiscati e bruciati.
esame del polso, delle orine, del sangue, dello
sputo. I rimedi consigliati consistevano in salassi, bagni e diete.
Nel Medioevo si sviluppa la
dietetica e molti medici davano appositi consigli in merito. La terapia medicamentosa poggiava in gran parte
su erbe e radici, ma anche
su rimedi di origine animale e vegetale.
Con l’accentuarsi delle
specializzazioni
la pre­parazione
dei “farmaci”
spettò agli speziali
[cfr. “Speziali” in Calendario dell’Avvento
2006].
Le cognizioni erano
ridotte e carenti; le
conoscenze anatomiche scar­se (non si
praticava la dissezione) e l’efficacia delle cure
era tutta da vedere come prova l’ampia richiesta di miracoli. Una professione di
tipo paramedico fu quella
dei barbieri ai quali competevano sa­lassi, estrazioni
di denti, inci­sioni di
ascessi, applicazioni di mignatte, cu­ra
di ferite semplici; spesso
rappresen­
tavano il medico della gente povera e dei piccoli
vil­laggi di contado6.
_
6. Per contro sembra che le donne esercitassero il mestiere di barbiere in senso stretto.
39
Levatrici
e curatrici
Se la pratica della
medicina, specie in
senso accademico,
fu di pertinenza
maschile, tuttavia
pare che non siano
del tutto mancate
donne-medico.
C’è una Trotula
leggendaria e una
Trotula storica: la
prima nata da nobile famiglia, i De Ruggiero,
moglie del medico Giovanni Plateario e madre
di due medici illustri, sarebbe stata famosa per la
sua bellezza oltre che per la sua scienza e abilità
diagnostica. Un dato è sicuramente documentato:
le donne erano presenti e operanti nell’ambiente
medico salernitano. Dal XII secolo in avanti abbiamo te­stimonianza
di un nutrito numero di donne esperte
nell’arte di Ippocrate:
Abella, Rebecca Guarna, Fran­cesca di Romana, fino a Costanza
Calenda che nel XV
secolo divenne dottore in medicina all’Università di Napo­li. Inoltre ricordiamo che
secondo il medico e
scienziato spagnolo
Arnaldo da Villanova [cfr. Finestra 18],
non poche mulieres
salernitanae
aiutavano le partorienti
e cu­­ra­vano malattie
fem­minili. Quanto a
Tro­tula il documen-
to fi­no a oggi più interessante è un breve testo
manoscritto che contiene osservazioni sulle mestruazioni, sulle terapie atte a favorire il concepimento, ma anche suggerimenti pratici contro
il vomito, la pazzia, i morsi dei serpenti, ossia
consigli più generali che riguardano gli uomini
come le donne.
Fin dal più profondo Medioevo vi fu tutto un
mondo di donne che praticavano una sorta di attività paramedica: si tratta di levatrici e curatrici.
Nell’alto Medioevo, ad esempio, le herbarie, erano
le esperte delle erbe di cui conoscevano proprietà e virtù ed erano in grado di ricavare con esse
pozioni, decotti, cataplasmi, filtri e così curavano
le malattie più diverse: febbri, ferite e quant’altro.
Per tutto il Medioevo le donne occupano un posto ben definito nella terapeutica a base di erbe,
erano loro, del resto, le incaricate della cura del
corpo nella vita quotidiana! Il campo in cui
per tutto il Medioevo
le donne dominarono
in­contrastate fu l’oste­
tricia. Le donne pre­
ferivano ricorrere ad
altre donne per tutto
quello che riguardava
l’aspetto ginecologico.
Il parto era un mo­
mento/evento di e­­sclu­­
siva pertinenza fem­
minile; solo le­vatrici
e balie vi assistevano
senza il controllo dei
medici che consideravano l’os­ tetricia un’attività per loro poco
qua­lificante.
Il parto, quindi, era un
“affare di donne”!
40
L’ UniversitA
L’Università è una
delle grandi creazioni del Medioevo.
Si stabilizzò in una
i­stituzione di tipo
corporativo legata
al­lo sviluppo urbano e destinata a ciò
che oggi chiamiamo in­segnamento
superiore. Prima
dell’università vi erano scuole ecclesiastiche sia
presso monasteri e/o canoniche sia presso cattedrali; comparvero anche scuole private. Alla
base dell’insegnamento c’erano le sette arti liberali (il “trivio”: grammatica, dialettica e retorica;
il “quadrivio”: matematica, geometria, musica,
astronomia), al vertice la teologia. Già in pieno
secolo XII Bologna era celebre per lo studio del
diritto. Parigi pullulava di scuole e fu qui che nel
primo decennio del secolo XIII si costituì l’“università dei maestri e degli scolari” riconosciuta
dal papa; in particolare nel 1231 il pontefice Gregorio IX ne confermò gli statuti e le conferì privilegi con eccezionale solennità. Le varie scuole,
raggruppate in discipline, dettero vita alle facoltà.
Contemporaneamente a quella di Parigi si formò l’Università di Bologna quale organizzazione
comunitaria di studenti. Nel corso del Duecento sorsero in modo spontaneo altre università
come quella celeberrima di Oxford in Inghilterra; altre sorsero per iniziativa del papato (Tolosa) e altre per iniziativa di sovrani (Napoli per
volontà di Federico II). Nel corso del Trecento
41
Medioevo notarile
Nel pieno Medioevo, quando gli scambi e le transazioni s’incrementarono, per dare loro validità
giuridica si affermò un ceto di professionisti in grado di redigere gli atti più diversi, un ceto che
si organizzò in collegi/corporazioni e che con il proprio lavoro si guadagnò uno spazio sociale di
tutto rispetto! I notai! [cfr. “Notaio” in Calendario dell’Avvento 2006]. I notai sono una peculiarità
dell’Italia medievale. Il loro compito era di scrivere documenti, quei documenti (carte e registri)
che riempiono i nostri archivi storici. Per fare ciò essi dovevano seguire un corso di studio ed essere
riconosciuti dalla pubblica autorità. Dove studiavano i giovani che volevano avviarsi alla professione? Nelle città, questo è certo; ma bisogna distinguere. In un primo periodo si formavano nelle
scuole cattedrali, dove imparavano la scrittura professionale, la grammatica cioè il latino, il diritto
e il dictamen ossia l’arte di scrivere documenti e lettere. Dal Trecento in avanti queste funzioni
passarono a vere e proprie scuole professionali, gestite dall’organismo che riuniva tutti i notai
esercitanti in quel territorio, sia che tale organismo si chiamasse Collegio o Arte o Consorzio dei
notai. Quelli più ambiziosi e ricchi di famiglia invece andavano a studiare presso le Università in
cui c’era una facoltà di diritto civile e canonico, presso la quale era attivata una scuola di notariato;
le più importanti all’epoca erano quelle di Bologna, Padova, Napoli e Perugia. I notai che avevano
ottenuto il titolo universitario si riconoscono perché, quando sottoscrivono un documento, affiancano alla qualifica di notarius quella di iudex ordinarius. Dopo questo corso di studio (cittadino
o universitario), che durava due o tre anni, bisognava – come oggi – fare pratica presso uno studio
notarile (allora si chiamava statio). Alla fine del praticantato, ci si presentava all’esame di notariato presso il Collegio della propria città e, se bravi, si otteneva la licenza di esercitare la professione.
e Quattrocento, con fasi di maggiore o minore
espansione, tutta l’Europa si “rivestì” di università che, grandi o piccole che fossero, creavano
un clima universalistico e movimentavano studenti7 e docenti. Furono favorite dal Papato, da
sovrani e principi e dai Comuni. Inizialmente
non ebbero una sede specifica, ma i corsi, le
dispute, gli esami e quant’altro si svolgevano
in luoghi diversi tra i quali quelli religiosi e/o
ecclesiastici (chiese, conventi ecc.). Le singole
università ebbero propri statuti e governi con
a capo il rettore. Funzione sociale dell’università – oltre la diffusione delle idee e del sapere
– fu quella di favorire l’ascesa sociale di molti
laureati grazie al riconoscimento della competenza intellettuale individuale. Già si è detto
dei medici [cfr. Finestra 18], ma vi fu, ad esempio, un’altra categoria di esperti professionisti
che nel Medioevo praticamente trionfarono:
è quella dei giurisperiti8, cioè degli esperti in
diritto civile e canonico; essere, infatti, dottori
in utroque iure era quanto di meglio si poteva
ambire!
Cosa si studiava nelle università medievali? S’insegnavano le sette arti liberali per poi accedere a
studi superiori di teologia, diritto (civile e canonico), medicina. I corsi di studio duravano anni e il
conseguimento del dottorato era il grande punto
di arrivo che veniva solennizzato con la consegna
del berretto, dell’anello, del libro.
I papi del Duecento avvertirono l’importanza delle
università; da esse doveva uscire personale specializzato a servizio della Chiesa e della Santa Sede. In
tale prospettiva tutti i maestri e gli studenti, anche
se laici, godevano i privilegi dei chierici e dipendevano dalla giurisdizione ecclesiastica (universitari
= chierici). L’Università di Parigi si specializzò, ad
esempio, in teologia e vi insegnarono san Bonaventura e san Tommaso d’Aquino. Con l’avanzare
del Medioevo e l’affermarsi degli Stati le università divennero centri di formazione professionale a
servizio di questi.
_
7. Per accogliere questi si crearono appositi collegi come quello della Sorbona a Parigi (1257).
8. Tra i celeberrimi figurano Bartolo da Sassoferrato (1314-1357) e Baldo degli Ubaldi (1327-1400).
42
Donne intellettuali
e "teologhe”
Le donne furono
escluse dall’accesso agli studi uni­
versitari! Ma ciò
non impedì che
alcune di loro si
affermassero per le
loro qualità intellettuali. Celebre è il
caso di Cristina de
Pizan (1364-1430),
nata in Italia, fu educata alle lettere e alle scienze
dal padre, prima docente di medicina e astronomia
all’università di Bologna, poi consigliere di Carlo V,
re di Francia. Cristina stessa ricorda che il maggior
ostacolo alla sua istruzione – raro percorso per una
donna di quei secoli – era rappresentato dalla opposizione della madre che avrebbe preferito per lei la
tradizionale istruzione femminile (“ago e filo”), più
adatta a una futura moglie.
La morte del padre e del marito la costrinsero – come
lei stessa dice – a “diventare uomo” e a mettere a frutto la sua cultura e le sue capacità: divenne la prima
scrittrice della storia francese in grado di provvedere con il suo lavoro alla famiglia, conquistandosi un
ruolo sociale e intellettuale di prestigio. Le sue due
opere più importanti sono La città delle dame (1405),
in cui rovescia i luoghi comuni dell’inferiorità femminile che risalivano all’autorità di Aristotele, e il
Dettato dedicato a Giovanna d’Arco scritto poco prima di morire. Nella prima opera Cristina racconta di
aver ricevuto la visita di tre donne, Ragione, Rettitudine e Giustizia, che la invitavano a costruire una fortezza per difendere le donne dalle maldicenze e dai
pregiudizi avversi. L’opera dedicata a Giovanna d’Arco è una dimostrazione nei fatti della teoria dell’au-
43
trice sulla parità naturale del genere femminile. Che
onore per il sesso femminile quando questo nostro regno interamente devastato, fu risollevato e salvato da
una donna, cosa che cinquemila uomini non hanno
fatto... scrive Cristina. Non sappiamo se abbia vissuto
abbastanza per conoscere la tragica conclusione della storia di Giovanna (condannata nel maggio 1430):
per pochi mesi forse la notizia le è stata risparmiata.
Presso le università la teologia era una disciplina di
punta ed in tal senso brillò quella di Parigi dove insegnarono Tommaso d’Aquino (1225-1274), domenicano, e Bonaventura da Bagnoregio (1217 circa
-1274), francescano. Le donne non potevano essere
teologhe in senso accademico; Dio però si rivela agli
uomini attraverso la via dell’istruzione e della ragione
(scientia) e attraverso quella dell’amore (sapientia); tenuto conto che la scientia è il terreno dei teologi dove
la ragione è signora e padrona, e che la sapientia è una
conoscenza ispirata direttamente da Dio a chi ritiene
opportuno, nel progredire del Medioevo si ebbe una
fioritura di donne mistiche, dotate di visioni, in grado
di dialogare con Dio e con Gesù in particolare. Tra le
tante si ricorda Angela da Foligno (1248-1309), proclamata di recente santa da papa Francesco (9 ottobre
2013), qualificata come “maestra dei teologi” per essere “autrice” di un Liber, opera di grande intensità e
testo fondamentale della mistica, che ripercorre la sua
esperienza dal raggiungimento della consapevolezza
del peccato fino all’unione con la Trinità, dalla necessità della conoscenza di sé fino al desiderio di dare
istruzioni ai figli spirituali.
Mestieri esclusivamente
al femminile
Il mestiere del ba­lia­
tico fu, ov­viamente,
tutto al femminile
(si potevano chia­­
ma­­re balii i mariti
delle balie che, ad
esempio, interve­
nivano nella stipula
di contratti di baliatico) così come
tutto al femminile,
per altri versi, era quello della prostituzione, attività sempre condannata, ma anche tollerata fino
a “inventare” luoghi specifici – i postriboli – per
il suo esercizio.
La pratica di ricorrere alle nutrici per l’allattamento dei neonati si diffuse dal XIII e XIV secolo ed ebbe ampio successo nel corso del XV.
Vi facevano ricorso le classi sociali più elevate
e/o abbienti. Non vi è un’univoca motivazione per tale diffusa pratica: mancanza di latte
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delle madri; lo scarso ricorso al
latte animale; desiderio di una
maggiore fecondità femminile; modo di ritardare l’affezione verso figli destinati
sovente a morte prematura;
ripresa dei rapporti coniugali; volontà di alleggerire le
donne dal compito dell’allattamento.
Le balie svolgevano il loro
lavoro o nelle proprie
case in campagna e/o in
città, dove i bambini venivano, appunto, “mandati a balia”, o nelle case
private; qui il loro lavoro si assimilava in
parte con quello delle
serve, ma erano più
considerate e meglio
Francesco da Barberino
Francesco da Barberino (1264-1348), notaio e poeta fiorentino, è autore del Reggimento
e costumi di donna. L’opera riguarda l’educazione e il contegno delle donne a seconda della
loro condizione. È, tra l’altro, una sorta di “enciclopedia” dei mestieri femminili: balie,
levatrici, fornaie, barbiere, serve, “treccole”, cioè venditrici di frutta e verdura, tessitrici,
filatrici, molinare, pollaiole, caciaiole, taverniere e albergatrici. Per suggerire loro corretti
comportamenti lascia intravvedere astuzie, furbizie, inganni perpetrati ai danni dei datori
di lavoro e/o dei clienti. Ad esempio: alle treccole raccomanda di non porre la frutta migliore
sopra quella meno fresca; alle mugnaie di non cambiare la farina migliore con quella meno
buona; alle pollaiole e caciaiole di non lavare le uova e il cacio perché paiano più freschi a chi li
compra; alle serve di non rubare.
pagate; o presso gli enti ospedalieri deputati ad stiere, “regolarmente” retribuito. Francesco da
Barberino vi dedica un intero capitolo del suo
accogliere i bambini abbandonati.
Quello delle balie fu un vero e proprio me- Reggimento.
Bambini e bambine
Nel Medioevo si
sviluppò un’atten­
zione “scientifica”
per il trattamento
dei bambini [cfr.
“Bambini” e “A
scuola” in Calendario dell’Avvento
2006], una sorta
di pediatria/pueri­
coltura; ad esempio
vi dedica attenzione il medico Aldobrandino da
Siena nella sua opera Le régime du corps [cfr. Finestra 18].
Punire i bambini fisicamente era un fatto quotidiano e anche gli insegnanti non scherzavano in
termini di battiture; fu Aldobrandino a consigliare un trattamento più “affettuoso” nella prassi
della loro educazione.
Presso le classi aristocratiche accadeva che i figli
fossero affidati ad estranei di fiducia: l’imperatri-
ce Costanza, ad esempio, affidò il piccolo Federico alla duchessa di Spoleto; in genere i giovinetti
erano inviati a casa di altri signori per imparare
le belle maniere; qui le fanciulle fungevano da damigelle e i ragazzi da paggetti cui competeva, tra
l’altro, il servizio a tavola… Per i giovani nobili
era importante apprendere l’equitazione, la scherma, la caccia.
Fu prassi ampiamente diffusa nel Medioevo collocare bambini e bambine in monasteri; essi venivano
offerti/oblati dai genitori; lì crescevano e venivano
educati alla vita monastica che – giunti all’età “giusta” – avrebbero abbracciato.
I parti si succedevano quasi senza soluzione di continuità e l’allattamento era ovviamente la cura più
immediata da rivolgere ai neonati; questi potevano
essere allattati direttamente dalle madri, ma divenne
di moda affidare tale impegno alle balie/nutrici [cfr.
Finestra 22]. Ma vi fu anche un’altra realtà! Numerose furono le donne che si trovavano costrette dalla miseria, dalla malattia, dalla pubblica disappro-
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vazione ad abbandonare, più o meno in fretta, i loro
bambini. Il rifiuto del neonato sembra una pratica
molto diffusa per lo meno nelle città: la alimentano
le gravidanze delle domestiche, libere o schiave, e
la povertà, cronica o legata a crisi di sussistenza. I
miserabili o comunque i ceti in stato di precarietà e indigenza lasciavano presso gli ospedali delle
città i loro figli legittimi, nella speranza, talvolta, di
poterli riprendere in seguito e altresì confidando
che l’ospedale potesse salvarli dalla morte meglio
di quanto avrebbero potuto fare loro. In genere si
trattava di neonati che potevano essere “deposti”
in qualche specifico “posto” prossimo all’ingresso
dell’ospedale, in anonimato, di nascosto, magari di
notte; oppure “recati” da qualcuno; alcuni potevano
portare addosso oggetti e/o “scritte”, patetico segno
di “affetto” da parte di chi li abbandonava. Bambini
e bambine (più femmine che maschi) abbandonati
erano fortunati – diciamo così – se venivano lasciati
presso un ente ospedaliero che in qualche modo se
ne prendeva cura, in primo luogo provvedendo al
loro allattamento tramite balie, interne all’ospedale stesso o sovente esterne. Se i piccoli abbandonati
riuscivano a sopravvivere alla fase dell’allattamento,
in genere rientravano nell’ospedale, qui venivano
accuditi e anche sommariamente istruiti, potevano
essere adibiti a servizi interni o esterni all’ospedale.
Una volta raggiunta l’età di 10-12 anni venivano avviati al lavoro o a una qualche collocazione: restavano in servizio presso l’ospedale; affidati a comunità
religiose; indirizzati ad attività artigianali; le femmine assegnate come famule, cioè serve domestiche e, comunque, veniva loro assegnata una piccola
dote perché l’orientamento era quello, se possibile,
di maritarle.
Nonostante la frequenza dei parti, nel quotidiano
succedersi delle nascite e delle morti, le case della fine del Medioevo, quando si dispone di “censimenti”, ospitano in media poco più di due figli
viventi. Anche i testamenti dei genitori si rivolgono a un giro non cospicuo di figli. Pure in seno
alle famiglie facoltose molti figli non superavano
i vent’anni. Le partorienti morivano, forse, più di
rado di quanto spesso non si dica. Tuttavia, anche
le donne ricche, attraversano uno dei momenti più rischiosi della vita: una su tre delle mogli
fiorentine, nell’avanzato Medioevo, che muoiono
prima del marito soccombe mettendo al mondo
un bambino o muore per le conseguenze immediate del parto. Il fardello delle gravidanze e dei
parti solo una volta su due ha la speranza di portare il bambino all’età adulta.
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NATIVITA
La festa del Natale,
consolidatasi tra IV
e V secolo, nel corso
del Medioevo, e in
particolare nel pieno
Medioevo tra i secoli XII-XIV, divenne
sempre più centrale,
conferendo devota
solennità al mistero
dell’Incarnazione.
Fu un fiorire di rappresentazioni dell’Evento, sia
in forme artistico-figu­
rative che in termini di
espressioni lette­rarie.
Tra Duecento e Trecento, si impon­gono laudi e
sacre rap­­presentazioni
in­centrate su i misteri della Fede, quindi
su episodi della vita di
Cristo e della Ver­gine,
tra cui non manca di
certo la Natività!
Famosi sono i laudari
redatti in area centroitaliana, tra questi è celeberrimo il Laudario
di Cortona (seconda
metà del sec. XIII) da
cui questa splendida
lauda.
Gloria ‘n cielo e pace ‘n terra:
nat’è ‘l nostro salvatore!
Nat’è Cristo glorioso,
l’alto Dio maravellioso:
fact’è hom desideroso
lo benigno creatore!
De la vergene sovrana,
lucente stella diana,
de li erranti tramontana,
puer nato de la fiore.
Pace ‘n terra sia cantata,
gloria ‘n ciel desiderata;
la donzella consecrata
parturit’à ‘l Salvatore!
Nel presepe era beato
quei ke in celo è
contemplato,
dai santi desiderato
reguardando el suo
splendore.
Parturito l’à cum canto,
pieno de lo Spiritu
santo:
de li bracia li fe’ manto
cum grandissimo
fervore.
Poi la madre gloriosa,
stella clara e luminosa,
l’alto sol, desiderosa,
lactava cum gran
dolzore.
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