Il sistema punitivo e penitenziario in epoca romana – IV Ettore TOMASSI* Abstract It is reported throughout the literature on crime prevention in ancient Rome. The offenses in the historical evolution of ancient Rome. The prosecution and the formation of a practice procedural criminal. The penitentiary system between jail and custody. Keywords: Ancient Rome, punishment, crime, prison, jail, process, custody, jurisprudence. SOMMARIO: 3. Sistema detentivo tra carcere e custodia – 3.0. Premessa – 3.1. La custodia preventiva tra carcere e vincula – 3.2. Il carcere tra prevenzione e pena – 3.3. Conclusione – 4. Considerazione Generale 3. Sistema detentivo tra carcere e custodia 3.0 Premessa Il Lexicon Totius Latinitatis del Forcellini, tomo I (cfr. l’edizione anastatica 1965 presso l’Editore Arnaldo Forni) alla voce Carcer, riporta l’etimo da coercendo confermando quindi Varrone, Lingua Latina 5, 151 o più esattamente, aggiunge, riportandolo a septum o a carcer (da cui il germanico kerker) così definendo il termine carcer itaque est septum, cancelli, locus quomodocumque conclusus: sed duabus tantum significationebus scilicet (p. 534). Più propriamente aggiunge il Forcellini, speciatim Romae carcer absolute vocabatur is, iniquem rei de majestate conjimbantur;fuit nempe palatuim ab Anco Martio in foro Romano aedificatum, cuius pars inferior (quae a Livio 34, 44 carcer inferior vocatur) in carceris usus versa fuit a Servio Tullio, unde Tullianum est Appellatus (ibidem). Quindi, il termine carcer, derivi da coercendo o dai vocaboli greci ercos o carcaron da cui più esattamente il termine latino carcer, sta comunque, (quomodocumque) a significare un luogo chiuso. Più esattamente così si chiamò il luogo annesso al Palatino al tempo di Anco Marzio che, dal tempo di Servio * Ettore Tomassi dottore in Scienze dei Servizi Giuridici per Operatore Giudiziario. Il presente studio prosegue quelli comparsi in questa Rivista [2 (14) / 2009, pp. 209-255; 1 (15) / 2010, pp. 131-168; 2 (16) / 2010, pp. 77-120]. Caietele Institutului Catolic X (2011) 289-326 290 ETTORE TOMASSI Tullio in poi fu chiamato Tullianum che, nella parte più bassa, serviva a custodire persone prigioniere. Nel corso di questo capitolo vedremo come avvenisse questa custodia preventiva riandando anche al significato di vinculum, catena; passeremo poi a discutere, in connessione con il termine carcer, sulla distinzione tra prevenzione e pena per poi esaminare il raffronto fra carcere e custodia per tutto il periodo romano fino al tardo impero. 3.1 La custodia preventiva fra carcere e vincula Il carcere è legato ai vincula, o catenae o manicae o campedes o pedicae o nervi. 1._ vinculum, dice il Forcellini, op. cit., tomo IV, p. 995, “est quidquidconnectit et adstrengit legamen, nodus”, e del resto Isidoro di Siviglia, Etymologia, 5. 27. 6 dice così di vincula “a vincendo, id est artando dicta, eo quod constringant atque retineant:vel quia vi legant”. E lo studio del Poltier, alla voce Vinculum, in DAER, 5, Paris, 1904, p. 897 e ss., conferma nella ricerca delle fonti l’antico significato dato al termine da Isidoro di Siviglia. 2._ catena, sempre secondo il Forcellini, “ratione habitu etymi, quidam derivant a Graeco, qui varios anulos nectit atque unit, vel a monile: ex quo fortasse factum est, ut cathena a multis scriptum sit; quod certe est contra Latinam consuetudinem” e, subito dopo, sempre il Forcellini (ibidem, p. 555) aggiunge: “ceterum catena est vinculum ex connexis anulis compositum”. E con quest’ultimo significato il termine passa alla storia del diritto penitenziario e il termine viene testimoniato soprattutto per la storia delle persecuzioni cristiane (Cp. It. Rolland, Prisonnurs. Cept de, in DACL, 4.2, Paris, 1948, coll. 1874-1875). 3. _ manica (e al plurale manicae), continua il Forcellini, tomo III, p. 172 “sunt pars vestis qua brachia et manus tantum teguntur, ut docent auctores latini”. Specificatamente “manicae sunt etiam quibus manus legantur, manette, sicut pedicae, quibus pedes (ibidem) ed anche de ferreis manibus, quibus in navali proelio naves hostum captantur” (ibidem). 4. _ e quindi i compedes che, per dirla con il Lovato “consistevano in arnesi metallici che consentivano una certa libertà di movimento al prigioniero. Ma che, all’occorrenza, portavano alla immobilizzazione completa di costui attraverso il fissaggio ad n ceppo degli anelli posti alle caviglie” (A. Lovato, Il carcere nel diritto penale romano, dai Severi a Giustiniano, Bari, 1994, p. 7). 5. _ pedicae che, aggiunge Forcellini, tomo III, p. 612, ha il significato di lagneus, “quo pedes illigantur (it. Lacuo, pastora, ceppo; fr.: lun pour les Caietele Institutului Catolic X (2011) 289-326 Il sistema punitivo e penitenziario in epoca romana – IV 291 pieds, lacet, lacs; hisp. lazo corredizo para el pie; germ. Fuschlinge, dohne, fussfessel; angl. a felter, chain or shackle for the feet) 6. _ nervi che, riandando al Lovato (Il carcere nel diritto penale romano, cit., pp. 7-8), “erano invece composti da una trave di ferro fissata al suolo, munita di una serie di barre forate, attraverso i cui fori passava un’altra verga metallica idonea a bloccare i piedi del prigioniero”. Ebbene come ricorda il Metro (in L’obbligazione di custodire in diritto romano, Milano, 1966) seguito da Lovato, si ritrovano tutte nel determinare il valore di custodia che sta ad indicare: a) l’atto del custodire in sé per ragione di prevenzione, di difesa sociale, fino alla pronuncia giudiziaria; b) il luogo dove il condannato è rinchiuso in attesa dell’esecuzione della pena quale sinonimo di carcer (così nelle Declamationes minores pseudo quintilianae 277.4) c) gli stessi soggetti preposti alla custodia quali le sentinelle, le guardie (custodes) e, niente di meno, gli stessi custoditi (custodes anch’essi) (cfr. A. Metro, L’obbligazione di custodire, p. 7, alle note 9-10 dove sono riportate le fonti. Il termine custodia, infatti, si trova in endiadi con vincula e con carcer e questo indica perfettamente la connessione fra strumenti penitenziari che obbligano all’immobilità il detenuto al luogo (carcer) dove quest’ultimo è costretto a stare. 3.2 Il carcere fra prevenzione e pena Andrea Lovato, così rileva: “Una persona poteva essere sottoposta ad incatenamento in base a presupposti e per finalità molto differenti fra loro. A parte la custodia dei sospetti criminali o dei condannati in attesa dell’esecuzione, abbiamo visto che le catene, nella forma di vincula privata, potevano colpire tanto i debitori - e fra costoro anche i redempti ab hostibut quanto gli schiavi, per questi ultimi quale mezzo di punizione ‘domestico’. Ma la misura poteva anche essere imposta per l’esistenza di determinate condizioni personali del soggetto, come l’incapacità mentale del furiosus, al quale la comminazione dei vincula sarebbe servita per garantire la sua stessa integrità, oltre quella dei vicini. Le conseguenze giuridiche dell’essere in catene’ vanno esaminate tenendo conto non solo delle ragioni che avessero reso opportuno o necessario l’incatenamento, ma anche e soprattutto dello stato giuridico, di liberi o di servi, dei destinatari. Un effetto già descritto, comune alle varie ipotesi in cui la misura veniva inflitta a persona libera, era rappresentato dalla pronuncia in alcune circostanze della in integrum restitutio. La caduta in prigionia, per esempio, Caietele Institutului Catolic X (2011) 289-326 292 ETTORE TOMASSI “poteva impedire l’esercizio di un diritto e giustificarne la restituzione”: perciò il pretore sarebbe intervenuto a reintegrare il soggetto nella sua precedente situazione giuridica. Un’altra questione importante riguardava la infamia. A parte le limitazioni della capacità giuridica che vi erano collegate, essa si traduceva in una perdita del prestigio sociale e in un ostacolo alla carriera politica. Sarebbe stato colpito da questo marchio chi fosse stato gettato in carcere o sottoposto ai vincula? Il quesito, fra gli Antonini e i Severi, venne sottoposto all’imperatore: lo testimoniano i contenuti di un rescritto secondo cui la carcerazione o l’incatenamento, inflitti per ordine legittimo dell’autorità giudiziaria, non avrebbero di per sé arrecato infamia al soggetto. L’intento ‘garantistico’ è evidente... La situazione del soggetto in vinculis venne presa in considerazione dalla giurisprudenza anche per i riflessi civilistici che potevano derivare dallo stato di costrizione forzata. La tendenza è di escludere, per quanto possibile, eventuali conseguenze negative per chi vi era sottoposto. Un tale poteva, per esempio, aver contratto debiti o assunto obbligazioni da adempiere in un dato momento; Ulpiano, nel trentaquattresimo libro ad edictum, precisava che non sarebbe stato da considerarsi in mora non solo chi fosse stato assente rei publicae causa, ma anche colui che al momento in cui avrebbe dovuto adempiere, si fosse trovato in vinculis o sotto la potestà del nemico. Inoltre si doveva essere posto il problema della sorte del patrimonio della persona in vinculis, nel caso di decesso in stato di custodia. La regola presente nelle Sententiae pseudopaoline, per entrambe le specie di successione, testamentaria o legittima, è che i beni non possano essere sottratti agli eredi (D.49.14.45.1, Paul., 5 Sententiarum, L. 2052 = Pauli sent. 5.12.1). È da notare che in questo brano si precisa che la custodia può attuarsi anche compedibus, attraverso cioè l’incatenamento dei piedi, mentre di solito quest’ultimo termine è solo uno specificativo di vincula in senso ampio. Sotto lo stretto profilo delle conseguenze patrimoniali, sarebbe un errore vedere nell’inconfiscabilità dei beni dell’imputato in stato di custodia, l’espressione di particolari tendenze garantistiche dell’ordinamento. Si trattava piuttosto di una normale conseguenza del fatto che una condanna ancora non era stata pronunciata, e che l’imputato poteva essere innocente. Perciò anche il testamento di colui che fosse morto in carcere indemnatus avrebbe conservato piena validità Un peso notevole era dato alla condizione di chi fosse in vinculis nel campo del processo. Gli effetti potevano essere sia vantaggiosi che svantaggiosi. Fra i primi (a parte la in integrum restitutio) la exceptio concessa a chi non aveva Potuto presentarsi in giudizio perché ‘impedito’ dai vincula o dalla Caietele Institutului Catolic X (2011) 289-326 Il sistema punitivo e penitenziario in epoca romana – IV 293 custodia militaris; e la sospensione dei termini di prescrizione a favore di chi, trovandosi presso i nemici, o assente rei publicae causa, o in catene, o trattenuto in qualche luogo da una tempesta non avesse potuto né agire né dare incarico a qualcuno, e fosse perciò rimasto sfornito della potestas experiundi. Il problema del periodo di tempo trascorso in custodia, ai fini del computo dei termini di scadenza per l’accusatio adulterii, aveva offerto spunto a Papiniano per un interessante responso. Un tale, narra il giurista, voleva accusare,di adulterio la moglie, e chiedeva che non gli fossero computati i giorni che aveva trascorso in custodia. Il punto aveva dato adito a qualche contrasto di opinioni e Papiniano era stato consultato perché desse un parere risolutorio: come dies utiles per l’accusatore, rispondeva il giureconsulto, andavano considerati quelli in cui si fosse potuto adempiere alle formalità accusatorie; perciò i giorni trascorsi in custodia sarebbero rimasti fuori dal computo del tempo utile per l’esperimento dell’accusa. Vediamo gli effetti negativi. Una disposizione della lex Iulia de vi proibiva ad alcune categorie di persone di rendere testimonianza, e fra queste vi erano coloro che si trovassero in vinculis custodiave publica. L’inopportunità (o impossibilità) di proseguire nell’incarico ricevuto era probabilmente alla base della facoltà, per il rappresentato in giudizio, di sostituire, dopo la litis contestatio, il proprio procuratore processuale che fosse suspectus, o in vinculis, o in potestà di nemici o predoni. Anche per gli schiavi l’essere in vinculis aveva rilevanza. Tale condizione determinava una diminuzione del valore di mercato dello schiavo, oltre a configurare un vizio redibitorio nell’eventualità della vendita. L’alienante era tenuto a dichiararne l’esistenza al compratore, il quale altrimenti, a meno che fosse stato al corrente del difetto, avrebbe potuto avvalersi dei mezzi processuali previsti nell’editto degli edili curuli. Il proprietario dello schiavo poteva naturalmente disporre anche la revoca dell’incatenamento. Un problema particolare viene prospettato nelle Sententiae pseudopaoline, in Pauli Sententiae 4, 12, 8. Il dominus, oltre a procedere di persona all’applicazione della misura sui propri schiavi, poteva anche dare ordini in tal senso a qualcuno, oppure approvare la punizione già inflitta dal procuratore. In queste ipotesi sarebbe stato pregiudicato allo schiavo l’acquisto della libertà; tuttavia, nel caso che la punizione fosse stata disposta dal procuratore, se il padrone prima di sapere dell’avvenuto incatenamento, avesse approvato le ragioni di un’eventuale solutio, l’inflizione delle catene non sarebbe stata di ostacolo al successivo conseguimento della libertà. Se dunque l’incatenamento operato dal procuratore impediva la manumissio, la punizione poteva essere revocata dal proprietario anche implicitamente. Un’ipotesi in cui sembra prevalere la Caietele Institutului Catolic X (2011) 289-326 294 ETTORE TOMASSI considerazione del favor libertatis; elemento quest’ultimo che risulta espressamente da un’altra testimonianza delle Sententiae, in cui si giustifica il principio per cui l’incatenamento operato, sul servus communis, da uno dei comproprietari non compromette l’acquisto successivo della libertà da parte dello schiavo. E in Pauli sent. 4, 12, 5, la giustificazione fornita riflette una tendenza etica conforme, secondo le parole dell’epitomatore, alle esigenze della humana ratio. La interpretatio aggiunge che se poi lo schiavo venga manomesso da entrambi i proprietari, può diventare cittadino romano. La norma dirime possibili controversie alla luce di motivazioni giusnaturalistiche. La volontà manifestata per ultima dal dominus, che era quella rilevante sotto il profilo giuridico, poteva però esprimersi anche in senso sfavorevole all’acquisto della libertà per lo schiavo. Un’imposizione dei vincula attuata dopo aver formulato il proposito di affrancazione avrebbe avuto questo effetto. Scrive Paolo nel quarto libro ad Sabinum, L. 1691, in D. 40.543: “fideicommissa libertas non debetur ei, quem postea vinxit dominus”. In un caso opposto, sempre in tema di libertà fedecommissaria, Pauli sent. 4.12.4 esige che la volontà del padrone non venga mutata dall’erede, che per avventura abbia proceduto ad incatenare lo schiavo di cui era stata ordinata la manomissione. Il conseguimento della piena libertà, per gli schiavi sottoposti a vincula privata ovvero assoggettati a custodia pubblica, era subordinata alla revoca della misura o alla cessazione della causa per cui essa era stata imposta. Una manomissione attuata in qualsiasi forma, nonostante la presenza dei vincula, avrebbe portato alla condizione di dediticii, secondo le previsioni della lex Aelia Sentia. Ma la regola non era assoluta: così per lo schiavo dato in pegno, che fosse stato incatenato dal debitore o dal creditore, Pauli sent. 4.12.6 afferma che alter sine altero causam pignoris deteriorem facere non potest. Inoltre lo schiavo incatenato per ordine di un padrone incapace o impubere, e successivamente manomesso, non poteva essere annoverato fra i dediticii, perché né il furiosus né il pupillus sono capaci “di giusto intendimento” (Pauli sent. 4.12.7). La sottoposizione ai vincula poteva fungere talvolta, a favore degli stessi schiavi, come causa di esonero da responsabilità per la morte del dominus. Il senatoconsulto Silaniano escludeva dalla punizione i servi che al momento dell’uccisione del padrone si trovassero in vinculis, salvo che si fossero posti volontariamente in quello stato per non prestare soccorso. Il regime giuridico di proprietà sullo schiavo non mutava per l’imposizione dei vincula. Scrive Ulpiano, nel nono libro del De officio proconsulis, L. 2241, in D. 48.19.8.13: “Sed sive in perpetua vincula fuerit damnatus servus sive in temporalia, eius remanet, cuius fuit, antequam damnaretur”. Caietele Institutului Catolic X (2011) 289-326 Il sistema punitivo e penitenziario in epoca romana – IV 295 Queste parole, apparentemente semplici, introducono un delicato problema. Il giureconsulto non considera qui i vincula come forma di punizione privata, che si esplica e produce determinati effetti all’interno di una sfera potestativa ‘domestica’: non avrebbe avuto altrimenti senso porsi la questione di un eventuale trasferimento di proprietà dello schiavo, sia pure per risolverla negativamente. Il senso della riflessione ulpianea si chiarisce confrontando il passo con quello che precede, in cui il giureconsulto osservava che gli schiavi condannati al metallum o all’opus metalli; ovvero al ludus venatorius sono resi, per effetto della condanna, servi poenae, e non appartengono più a colui che prima della condanna ne era proprietario Ciò poteva avere rilevanza pratica nel caso in cui uno schiavo condannato al metallum venisse graziato dai principe; egli non sarebbe stato restituito al padrone, prosegue Ulpiano richiamandosi ad un rescritto, in quanto la condanna e la conseguente condizione di servus poenae hanno fatto cessare, una volta per tutte, la proprietà privata sullo schiavo. E’ chiara la differenza con quanto avviene nel caso dei vincula, la cui inflizione non incide sulla proprietà privata dello schiavo. Ma in tale contesto i vincula sono considerati come pena, e come pena pubblica: tant’è che il giurista usa il termine damnatus, che esprime appunto la pronuncia di condanna emessa nelle cognitiones dal Funzionario, per punire un individuo in relazione ad un dato crimine. Siamo dunque dinanzi ad un’altra accezione di vincula: non come vincula privata, ma neppure come vincula publica quale mezzo di attuazione della custodia preventiva, Apprendiamo pure che, in tale impiego, i vincula potevano avere due forme, perpetua e temporalia Abbiamo perciò toccato un punto che c’interessa da vicino; la possibile sussistenza di una forma di punizione attuata attraverso i vincula, posta in essere da organi dell’apparato giurisdizionale statuale. La poena vinculorum così chiamata dagli stessi giuristi romani, sarà fra breve oggetto di esame, nei suoi contenuti e nei possibili destinatari”1. Lo stesso così continua: “Le testimonianze sull’uso dei vincula in chiave di sanzione irrogata per scopi punitivi, provano che il divieto enunciato in D. 48.19.8.9 non poteva riguardare la poena vinculorum. Questa stessa espressione ricorre talvolta nelle fonti. Si indica con essa la sanzione pubblica comminata per la violazione di determinati precetti imposti dall’ordinamento; può colpire sia liberi che schiavi; in quest’ultimo caso la condizione servile dell’individuo dà luogo, come vedremo fra breve, ad una procedura del tutto particolare. Nell’esame della misura occorre però evitare due equivoci. Il primo consiste nel pensare che l’impiego come sanzione penale sia individuabile in quella forma di punizione che le fonti chiamano vincula privata, 1 in Il carcere nel diritto penale romano dai Severi a Giustiniano, Bari, 1994, pp. 63-73. Caietele Institutului Catolic X (2011) 289-326 296 ETTORE TOMASSI misura che Contardo Ferrini chiamava “carcere domestico” una sanzione irrogabile agli schiavi, ma che, per sua natura, non aveva effetti al di fuori della sfera potestativa del dorninus. La pena alla quale ci riferiamo è invece pena publica, inflitta ad un soggetto (eventualmente anche uno schiavo) dichiarato colpevole da organi dello stato forniti di poteri giurisdizionali, in relazione alla commissione di un fatto configurato come crimine dall’ordinamento. Il secondo equivoco può verificarsi attraverso una interpretazione forzata di alcune fonti, individuando cioè la poena vinculorum in casi in cui il termine vincula viene usato per tutt’altro scopo. Un esempio, alquanto curioso, di quanto appena detto è dato dalla lettura che di un testo ulpianeo appartenente al terzo libro de censibus, riprodotto in D. 50.1).4.8, L. 22, aveva fatto il Gemp: l’autore riteneva che chi avesse omesso di dichiarare un inquilino dovesse essere rinchiuso nel “carcere censuale”. Il Seyfarth precisava che in quel passo invece si ribadiva semplicemente la soggezione del locatore agli obblighi del censo (vincula censualia), e questa correzione era condivisa da M. A. de Dominicis. L’uso dei vincula in funzione sanzionatoria è documentato anche da fonti non giuridiche. In un passo della Institutio oratoria (7.1.54-56) Quintiliano ne fa menzione quale mezzo usato nelle controversie relative alla inosservanza degli obblighi alimentari dei figli verso i genitori. In chiave retorica l’autore si chiede se non occorra, prima di condannare il figlio, considerare la personalità del genitore e i suoi comportamenti. Sulla notizia noi potremmo fare assoluto affidamento. Non trova riscontro, nelle fonti giuridiche, un’imposizione dei vincula per coloro che avessero violato gli obblighi alimentari. Ma in questo caso, se rispondente alla realtà, i vincula non erano certo usati per impedire la fuga del reo, bensì dovevano servire piuttosto a costringere l’individuo all’osservanza dell’obbligo imposto. Sotto questo profilo la misura è coercitiva; ma essa potrebbe anche apparire come sanzione disposta, extra ordinem, per la violazione di un determinato precetto, perché intanto un individuo viene costretto, attraverso i vincula, ad adempiere al dovere che grava su di lui, in quanto fino a quel momento non lo ha assolto. Se poi Quintiliano, maestro di retorica latina sotto Vespasiano, ne parlasse per mera esercitazione accademica, è cosa che possiamo pure sospettare, ma non molto probabile nella misura in cui, per altri casi, esiste una documentazione fornita dalla letteratura giuridica sull’uso dei vincula in funzione sanzionatoria. All’interno della casistica offerta dalle fonti possiamo distinguere, sotto il profilo dei destinatari della sanzione due serie di ipotesi. In alcune fattispecie la misura appare usata contro persone che abbiano violato dati precetti nell’esercizio di particolari funzioni o di determinati mestieri; in altre essa risulta prevista, in via generale, contro quanti abbiano tenuto un dato Caietele Institutului Catolic X (2011) 289-326 Il sistema punitivo e penitenziario in epoca romana – IV 297 comportamento giudicato illecito, che viene delineato nelle sue linee essenziali. Alla tipizzazione del crimine segue la previsione della sanzione dei vincula publica. Alla prima serie di casi appartiene l’ipotesi dei tutori che non abbiano provveduto ad investire il denaro pupillare nell’acquisto di fondi, o a depositare le somme rinvenute nel patrimonio. Nell’ultima parte del testo Ulpiano sottolinea l’opportunità di infliggere i vincula publica solo ai tutori appartenenti ai rei i più modesti: in particolare questa forma di punizione non avrebbe dovuto colpire coloro che erano investiti di qualche “dignità”. Ciò prova che la misura non era esclusivamente destinata agli schiavi, mentre anche i liberi - perlomeno quelli di basso ceto - potevano esserne colpiti. Da Callistrato siamo informati circa un rescritto di Antonino Pio, che precisava i contenuti di una norma emanata dal padre in tema di obblighi gravanti sul delator, e di assoggettabilità ai vincula in caso di loro inosservanza. La questione che il rescritto intende risolvere non riguarda la legittimità della pena irrogabile, ma l’esatta individuazione dei presupposti che ne consentono l’irrogazione: la sanzione, espressamente qualificata come poena, colpisce il delatore che non renda pubblico l’eventuale rapporto di mandato. Un’altra fattispecie è configurata in Pauli sent. 5.21.1, in cui s’ipotizza la punibilità di una data azione posta in essere dagli indovini. Il comportamento criminoso dei vaticinatores consiste, potremmo dire, nel proclamarsi espressione della divinità: cosa che può portare, per l’”umana credulità”, alla corruzione dei costumi e al turbamento dell’ordine pubblico. Perciò i rei vanno fustigati ed espulsi dalla città; se recidivi, puniti probabilmente secondo la gravità del fatto - con l’assoggettamento ai vincula publica, con la deportatio in insulam o con la relegatio. In altri casi il soggetto attivo della fattispecie criminosa non è colui che esercita date funzioni o mestieri ma, più genericamente ‘chiunque’: per indicare il reo si usano termini come is o quis. L’editto pretorio prevedeva una punizione contro chi avesse forzato altri al gioco d’azzardo: Ulpiano commentava la clausola precisando anche le sanzioni che all’occorrenza sarebbero state inflitte (così in D 11. 5. 1. 4, Ulp. 23 ad edictum L. 705). Queste testimonianze consentono di dare il giusto peso ad una classificazione presente in i Pauli sent. 5. 17.2, che parla di vincula, minima poena. La qualifica attribuita ai vincula, minma poena, si pone in contrasto con l’opinione di chi vorrebbe definire la misura unicamente come “coercitiva” e “di Polizia”. Di qui alcuni tentativi di svalutare questa testimonianza: secondo Theodor Mommsen l’enumerazione delle pene Caietele Institutului Catolic X (2011) 289-326 298 ETTORE TOMASSI dell’opus e dei vincula, menzionate l’una accanto all’altra in Pauli sent. 5.17.2 (da correggere la citazione dell’autore, che appare come 5.17.1) sarebbe spiegabile con il fatto che nel caso di detenzione breve l’obbligo al lavoro passerebbe in secondo piano fino a sparire completamente; osserva il Balzarini che questa motivazione non regge e se reggesse finirebbe per deporre proprio in favore dell’esistenza di una pena detentiva non identificabile con l’opus publicum. La valutazione operata dall’epitomatore è semplice: i vincula rientrano fra le minimae poenae. Ogni tentativo di attribuire al termine vincula, in questo caso, un significato diverso da quello corrente, dovrebbe essere dimostrato con rigore. Nonostante il “filtro” dovuto alla mano dei commissari di Giustiniano una classificazione di questo tipo è avvertibile anche nel titolo De poenis dei Digesta. In un passo cui abbiamo accennato, appartenente al nono libro del De officio proconsulis e riprodotto in D. 48.19.6.2, Ulpiano procedeva alla enunciazione dei genera poenarum. A questo punto i compilatori inseriscono, curiosamente una esemplificazione delle pene che contengono la coercitio corporis, traendola dal sesto libro del De cognitionibus di Callistrato: veluti fustium, admonitio: flagellorum, castigatio vinculorum, verberatio. La logica della sistematica di Ulpiano ne risulta stravolta, in quanto l’enunciazione dei genera poenarum, che il giurista fa in D. 48.19.6.2, serviva a introdurre il discorso sulle singole species, infatti, subito dopo l’inserzione del passo di Callistrato, il discorso di Ulpiano riprende con la menzione delle ultime specie (aiut damnum cum infamia aut dignitatis aliquam depositionem aut alicuius actus prohibitionem, in D. 48.19.8 pr., L. 2239); e finalmente con la trattazione analitica delle singole sanzioni penali (nel seguito del nono libro e nel decimo del De officio proconsulis). Ci chiediamo perché mai il discorso unitario di Ulpiano venisse interrotto attraverso l’inserzione del breve passo di Callistrato: una esemplificazione di questo tipo non viene ripetuta per le altre specie di sanzioni penali, e inoltre nella sistematica dei genera poenarum formulata nelle pagine del De officio proconsulis non ritroviamo alcuna trattazione analitica delle pene quae coercitionem corporis contineant. Questa omissione, a mio avviso, forse non è casuale, e potrebbe non essere imputabile ad Ulpiano: non si comprende perché il giurista avrebbe dovuto usare un trattamento diverso per queste sanzioni rispetto a tutte le altre specie. Si potrebbe supporre invece che l’operazione omissiva fosse dovuta a Giustiniano, il quale avrebbe inteso ‘compensare’ attraverso l’aggiunta del breve passo di Callistrato, la mancata inserzione della parte relativa alle pene contenenti una coercitio corporis, nella trattazione analitica delle singole species di sanzioni penali. Ciò pone il problema delle possibili motivazioni che avrebbero spinto i commissari ad una operazione del genere: la risposta non è Caietele Institutului Catolic X (2011) 289-326 Il sistema punitivo e penitenziario in epoca romana – IV 299 difficile, se si pensa che in epoca giustinianea, come vedremo, i vincula non erano più concepiti come sanzione pubblica; e perciò era superfluo, in un titolo dedicato alle pene, riportare un’anacronistica trattazione di questi mezzi, e se questa trattazione esisteva (come riteniamo esistesse nel discorso originario di Ulpiano) poteva essere tranquillamente omessa, e sostituita con una semplice esemplificazione. Nel secondo libro de publicis iudiciis, in D. 48.19.10 pr., L.39, Macro procede ad un confronto fra liberi e servi sotto uno specifico punto di vista: la differente sanzione penale irrogata. Il risultato è una precisa corrispondenza fra la Condizione giuridica della persona e la Pena che può essere inflitta. Un esempio pratico di questa distinzione,con riferimento ai vincula, lo troviamo in Pauli sent. 5.18.1 = Coll. 11.3, a proposito degli abactores; coloro che rubano una determinata quantità di bestiame, puntualmente riportata secondo le specie animali più comuni, sono considerate abactores; il reo risponderà di furto con la pena del doppio o del triplo,o sarà condannato ai lavori pubblici per un anno, dopo essere stato sottoposto a fustigazione,ovvero restituito al padrone sottola pena dei vincula. L’alternativa fra opus publicum unius anni e poena vinculorum dipende appunto dallo stato di libero o di schiavo del bestiame. Ilbrano non specifica se i vincula, in questo caso, dovessero essere inflitti in forma temporanea, come si precisa invece in Pauli sent.5.4.22, a proposito dello schiavo che abbia arrecato ingiuria lieve: una volta flagellato, costui sarà restituito al padrone sub poena vinculorum temporalium. Sempre le Sententiae c’informano su che cosa avveniva dopo la comminazione di questa pena ai servi: il caso proposto è quello dello schiavo che abbia invano cercato di provare l’avvenuto riscatto suis nummis; non può ovviamente chiedere la libertà, e va restituito al padrone sub poena vinculorum. Da questo testo apprendiamo un altro particolare interessante. Il proprietario poteva rifiutare di vedersi restituito uno schiavo sub poena vinculorum. Poteva perciò,qualora lo preferisse, rinunziarvi,e in questo caso lo schiavo veniva condannato ai lavori forzati. Anche Macro documenta il procedimento descritto - rifiuto del proprietario e condanna alternativa – sia pure con una lieve variante. Egli configura l’ipotesi che il padrone non intenda ricevere lo schiavo sub poena vinculorum; costui potrà essere venduto; in assenza di compratori,consegnato ai lavori pubblici in perpetuo. Papiniano affronta il problema delle aspettative patrimoniali nascenti dalla libertà, eredità o legato eventualmente disposti a favore degli schiavi condannati a vincula temporaria, ricordando i contenuti di un rescritto dei divi Fratres (D. 48.19.33, Pap. 2 quaest, L. 75). Caietele Institutului Catolic X (2011) 289-326 300 ETTORE TOMASSI La cancellazione della pena appare subordinata alla concreta operatività del meccanismo punitivo. Non si tratta dell’unica testimonianza sull’argomento. Una norma riportata in CI. 7.12.1 affronta la questione relativa alla possibilità per gli schiavi condannati ai vincula, di conseguire determinati vantaggi. Ma il punto fondamentale è un altro. Appare netta la contrapposizione, nel secondo testo esplicita, nel primo sottintesa, fra gli schiavi condannati ai vincula perpetua e quelli condannati ai vincula temporaria, sotto il profilo dell’acquisto di libertà, eredità, legati o fedecommessi. I primi non potranno mai conseguire alcunché, i secondi, decorso il “tempo della pena si troveranno nella condizione precedente la condanna e potrà essere concessa loro la libertà o quant’altro disposto in loro favore dai defunti proprietari: “senza alcuna questione relativa alla pena precedente”. Il confronto fra i due testi consente di chiarire un punto riguardante la motivazione del primo, del rescritto, cioè, di cui parla Papiniano. Per gli schiavi condannati alla pena in forma temporanea, l’eventuale acquisizione di libertà, eredità o legati, una volta scontata la condanna, viene giustificata in questi termini: la coercizione temporale, che deriva dalla sentenza, costituisce abolizione della pena (...quia temporaria coercitio, quae descendit ex sententia, poenae est abolitio). Stando alla lettera del passo dovrebbe dunque essere valida l’equazione ternporaria coercitio = abolitio poenae, ma una simile identificazione non risulta in alcun modo nelle fonti. Al contrario, nelle sistematiche relative ai genera poenarurn dei giuristi di epoca severiana si parla, come abbiamo visto, di pene contenenti una coercitio corporis o in corpus, per cui appare plausibile supporre che la temporaria coercitio fosse una specie di pena, non una forma di abolizione della stessa! Del resto ciò è quanto risulta espressamente dalla norma riportata in CL 7.12.1, in cui, a proposito del tempo trascorso in vinculis, si parla di tempora poenae e di tempus poenae, assegnando perciò alla misura una precisa e chiara qualifica, come sanzione penale. Se poi guardiamo ai possibili impieghi tecnici del termine abolitio, dobbiamo dubitare ancor più di quella curiosa affermazione, per la quale temporaria coercitio poenae est abolitio. Nelle fonti giuridiche il termine abolitio viene usato in riferimento al crimine o al reo, per indicare una forma di amnistia, oppure la desistenza volontaria dal processo, chiesta dall’attore, o ancora l’estinzione del processo per morte o impedimento ex iusta causa dell’accusator Si distinguono infatti varie specie di abolitiones; occorre insistere sui punto che il termine non viene mai impiegato genericamente, al contrario riveste un preciso significato tecnico, indica un determinato mezzo giuridico, senza il ricorso al quale la desistenza dall’accusa penale viene punita. Caietele Institutului Catolic X (2011) 289-326 Il sistema punitivo e penitenziario in epoca romana – IV 301 L’espressione abolitio poenae invece (a parte che non la ritroviamo altrove) in sé non dice nulla di concreto, anzi dice qualcosa di errato nello stesso contesto dei brano di Papiniano in D. 48.19.33, dato che i vincula, considerati come temporaria coercitio, costituiscono non un modo di estinguere la sanzione ma la sanzione stessa: la quale, una volta scontata, consente il ripristino della condizione precedente e il conseguimento di determinate aspettative. Ritengo perciò possibile in questo caso pensare ad un’aggiunta posteriore, da quia a abolitio, seguendo opinioni risalenti al Brasiello e al Beseler”2. 3.3 Carcere e custodia nel tardo impero romano Facendo ancora nostre le parole della dottrina ricordiamo che “intorno alla fine del terzo secolo la poena vinculorum era conosciuta e applicata quale mezzo di repressione di determinati crimini, come risulta dalle testimonianze già esaminate contenute nelle Sententiae pseudo paoline. Con l’avvento di Costantino ritroviamo ancora nella legislazione le tracce dei vincula, sia pubblici che privati. Con i primi s’incatenano i trasgressori di alcuni divieti, con i secondi i proprietari continuano a punire i propri schiavi. Cambia qualcosa, sotto quest’ultimo profilo, per effetto dell’influsso della nuova religione cristiana? Si è pensato — in epoca moderna soprattutto dal Burckardt in poi — che l’azione politico-legislativa di Costantino fosse animata non da fede sincera nella religione di Cristo, ma da esigenze di pura propaganda ideologica. Non è certo questa il luogo per ritornare sulla complessa problematica. In ogni caso, a Costantino poteva tornare utile l’adozione di misure idonee ad esercitare un controllo pubblico sulla sfera punitiva privata per frenarne gli eccessi. Provvidenze normative a favore degli schiavi erano mancate, nella legislazione imperiale precedente. Così non fu per il primo imperatore cristiano. Prevalse, fra altre ragioni, di non interferenza nell’esercizio dei poteri derivanti dalla proprietà sugli schiavi. Una norma de1l’anno 336 stabiliva il principio della irresponsabilità penale del dominus nell’uso di mezzi punitivi contro lo schiavo. Quest’ultimo era morto perché frustato a sangue o gettato in catene, a scopo di custodia? “Esclusa ogni disquisizione sui giorni (di custodia) o spiegazione, il padrone non sopporti il timore di alcun crimine, per il servo morto”: è la volontà imperiale. Si consiglia al proprietario moderazione nell’esercizio del 2 A. Lovato, Il carcere nel diritto penale romano dai Severi a Giustiniano, Bari, 1994, pp. 110128. Caietele Institutului Catolic X (2011) 289-326 302 ETTORE TOMASSI proprio diritto: “non usi invero del suo diritto in misura eccessiva”; ma in realtà i buoni propositi restano sulla carta. La possibilità di incriminazione del dominus per la morte dello schiavo viene fortemente limitata, sia dal punto di vista dell’elemento psicologico del reato, in quanto dev’essere provata l’intenzionalità dell’azione omicida, sia sotto il profilo della condotta considerata criminosa. L’accusa avrebbe dovuto essere accompagnata dalla (quasi sempre irraggiungibile) prova della volontà di uccidere, oppure il proprietario, per essere giudicato colpevole, avrebbe dovuto commettere qualcuno di quegli atti di grave ferocia puntualmente riportati e descritti nella norma, con il linguaggio crudo e immaginifico che ricorre talvolta nelle costituzioni costantiniane in materia penale. Alcuni anni più tardi le cose peggiorano ancora, sotto il profilo della irresponsabilità penale del domin-us per i uso di mezzi di correzione sugli schiavi. Con la normativa del 319 era almeno possibile desumere la volontà omicida del padrone da un’azione irrogata per finalità punitive, come l’ictus fustium, il percuotimento con bastoni. Nel 326 (o 329) invece Costantino accentua il valore esemplare del ius corrigendi: in Cth. 9.12.2 dispone che siano considerati “privi di colpa coloro che mentre correggono i peggiori, abbiano voluto aggiungere ai propri schiavi nati in casa, i migliori, e la conseguenza e i esonero da ogni responsabilità per la morte dello schiavo sottoposto a punizione. Viene addirittura esclusa qualsiasi ricerca sulla intenzionalità del comportamento omicida del dominus, purché morte dello schiavo sia derivata dai normali strumenti usati per la disciplina domestica. Non è ammesso alcun controllo sulle azioni disciplinari compiute dai domini perciò il fine di correggere giustifica perfino l’esito fatale della punizione; qualsiasi abuso viene consentito, purché non si fuoriesca dagli ordinari mezzi con cui si esercita la potestà domestica, ed entro questi limiti non, è neppure possibile provare la voluntas occidendi hominis. Non è privo d’interesse il rilievo che nel codice giustinianeo viene riportata solo la prima di queste due norme, che nel Teodosiano compongono il titolo De emendatione servorum; perciò il titolo corrispondente dei codice giustinianeo si riduce solo a CI. 9.14.1. Si è detto che le ragioni della scelta selettiva potrebbero dipendere dalla “ricca casistica” già presente nella prima norma, tale da rendere superflua l’inserzione, nei codice di Giustiniano, di quella successiva. Ma tenendo presente che la prima faceva almeno dipendere l’incriminazione per omicidio del dominus dalla provata volontà di uccidere, mentre la seconda escludeva perfino qualsiasi indagine in proposito, si potrebbe pensare che l’omissione fosse dovuta alla preoccupazione di non lasciare completamente mano libera ai proprietari, e alla necessità di controllarne in qualche modo le azioni ‘correttive’, consentendo Caietele Institutului Catolic X (2011) 289-326 Il sistema punitivo e penitenziario in epoca romana – IV 303 l’accertamento della colpevolezza sulla base della possibilità di provare la volontà omicida. Peccherebbe tuttavia di eccessivo ‘modernismo’, un’ottica che accusasse Costantino di non aver adottato per gli schiavi, sotto il profilo che stiamo esaminando, un trattamento più favorevole rispetto al passato. Sembra abbastanza sicuro che con il cristianesimo le cose peggiorarono per questa categoria di persone” Si è osservato che non esiste una ‘Lehre’ cristiana assoluta, fuori dal tempo e dallo spazio, e dunque dalla storia, cui commisurare l’eventuale ‘cristianesimo’ di alcune riforme costantiniane; e ampliando il discorso alle epoche successive, è Stato detto che anche grandi pensatori cristiani, come Agostino o Basilio, accettavano la schiavitù come volontà di Dio, parte dell’ordine naturale o conseguenza del peccato. Proprio sulla base di quest’ultima considerazione, è utile tener presente che le riforme di questo imperatore in tema di custodia preventiva non sono spiegabili necessariamente alla luce dell”influenza’ cristiana, come si potrebbe essere tentati di fare considerando alcuni indubbi progressi della legislazione per quanto riguarda le condizioni dei carcerati. Una norma importante, data a Serdica il 31 dicembre 320 e destinata al rationalis Florentinus, apre il titolo De custodia reorum di entrambi i codici. L’indicazione nella inscriptio del destinatario, un rationalis summae rei potrebbe far supporre una originaria delimitazione di questa disciplina, in particolare circa le modalità della custodia, a reati di natura tributaria; ma potrebbe anche trattarsi di una delle copie inviate ai principali funzionari imperiali, per ipotesi quella conservatasi nella tradizione manoscritta. Certo è che così come appare in entrambe le versioni, la teodosiana e la giustinianea, il tenore della costituzione è generale, a partire dalla formulazione iniziale: in qualunque processo, una volta esibito l’imputato perduri o no l’accusa privata l’istruttoria dev’essere svolta subito, in modo da punire il colpevole o assolvere l’innocente. E evidente l’esigenza di ‘stringere’ i tempi dell’indagine, per arrivare, subito dopo il dibattimento, alla pronuncia di condanna o di assoluzione. Perciò anche se; l’accusatore sia assente per un certo tempo, o risulti necessaria la presenza dei correi, occorre provvedere quanto più celermente possibile. Viene poi il punto a nostro avviso fondamentale, relativo alle modalità di attuazione dell’incatenamento: non catene “avvinte alle ossa”, ma tanto ampie da consentire la fine di ogni inutile tortura e, insieme, la certezza di una custodia fidata. Degno di rilievo il fatto che questo è l’unico luogo, salvo una successiva variante di poco conto, in cui la versione giustinianea della costituzione presenta un’aggiunta: mentre nel testo del Teodosiano non vi è Caietele Institutului Catolic X (2011) 289-326 304 ETTORE TOMASSI alcuna specificazione dei casi in cui dovranno essere applicate le catene, quello giustinianeo inserisce un inciso, si criminis qualitas etiam catenarum acerbitatem postula verit. L’incatenamento doveva essere imposto, per i giustinianei, solo quando ciò era necessario per la natura del crimine di cui si fosse accusati e per il quale si era stati incarcerati. Questa norma, nella versione teodosiana non ci è stata tramandata attraverso il Breviarum Alarici perciò il testo in nostro possesso è immune almeno da ‘interventi’ di mano visigotica, non si potrebbe dunque supporre che l’inciso in discussione fosse presente anche nella versione originale della nonna, omesso dai visigoti, ‘restituito’ dai giustinianei. Si può pensare invece che la versione teodosiana fosse vicina a quella originaria; ciò significa che per Costantino l’incatenamento doveva necessitariamente accompagnare la custodia preventiva dell’imputato, secondo una regola che abbiamo supposto essere vigente anche in epoca tardoclassica; mentre in un momento successivo che cercheremo di individuare, ci si orientò per l’abolizione delle catene quale complemento della carcerazione (almeno nella generalità dei casi), e l’incatenamento venne mantenuto solo per gli imputati di crimini gravi, probabilmente secondo una valutazione discrezionale dell’autorità giudiziaria. L’aggiunta presente nella versione giustinianea della norma attesterebbe questo mutamento. Le tendenze ‘di favore’ non si manifestano solo con modalità più miti nell’incatenare i carcerati. Costantino dispone che le celle abbiano luce sufficiente, che solo di notte la custodia si attui completamente al chiuso, in luoghi salubri, mentre, “al primo sorgere del sole”, il recluso debba essere condotto all’aperto: un linguaggio ampolloso esprime queste disposizioni pratiche, tese — conclude l’imperatore — ad evitare la morte “attraverso le pene del carcere”; ne segue un giudizio di netto disfavore verso l’istituto carcerario, misura intollerabile per gli innocenti, ma non abbastanza rigorosa per i colpevoli È da notare l’impiego atecnico del termine poena, che con riferimento al carcere indica qui, abbastanza chiaramente, non una sanzione ma il luogo dove si attua la custodia cautelare. Tuttavia ciò non significa che il carcere fosse ora usato esclusivamente per finalità di prevenzione; alcuni indizi, come vedremo, sembrano deporre in senso contrario. Il seguito di questa normativa intende proteggere gli innocenti da una carcerazione ingiusta e vessatoria: in particolare, ai carcerieri è assolutamente vietato farsi corrompere dagli accusatori, lasciar morire gli innocenti in carcere, ovvero, far “consumare” lentamente, attraverso una lunga “putrefazione” coloro che siano stati sottratti alle attività di udienza. Il rischio, naturalmente, è quello di una lunga detenzione senza attività istruttorie. Caietele Institutului Catolic X (2011) 289-326 Il sistema punitivo e penitenziario in epoca romana – IV 305 Non solo. Anche i giudici sono resi responsabili per azioni vessatorie commesse dai sorveglianti che abbiano causato la morte dei reclusi per inedia o in qualsiasi altro modo e la sanzione consiste nella pena capitale. CTh. 9.3.1.1 = CI. 9.4.1.5: ...Non enim existimatiois tantum, sed etiam periculi metus iudjci imminebit, si aliquem ultra debitum tempus inedia aut quocumqe, modo aliquis stratorum exhauserit et non statim eum penes quem officium custodiae est adque eius ministros capitali poena subiecerim. Dat. prid. Kal. Iul. Serdicae Constantino A. VI et Constantino Caes. Conss. La normativa appena esposta era finalizzata indubbiamente a mitigare le condizioni della reclusione in carcere e rientrava in una serie di misure adottate dall’imperatore in campo penale, tendenti alla ‘umanizzazione’ del trattamento dei condannati. Vi si potrebbe scorgere l’influenza di concezioni cristiane; il Gotofredo giudicava questa norma humanissima et christianissima, e così altri autori molto più vicini a noi. Ma dietro la statuizione poteva pure nascondersi un disegno più sottile e complesso. Si è osservato che l’organizzazione dello stato tardoromano, nelle mani di imperatori come Diocleziano o Costantino si resse principalmente sulla coercizione. Può condividersi pure l’affermazione che, per Costantino, il metodo migliore per assicurare il buon funzionamento delle istituzioni fosse la costruzione di un apparato repressivo rigoroso. A questo disegno fu molto probabilmente funzionale l’aspra recrudescenza delle pene in genere, realizzata in quegli anni. Ma ciò non escludeva necessariamente — anzi fino ad un certo punto implicava che su questioni specifiche venissero ‘allestite’ operazioni propagandistiche di regime; una poteva essere rappresentata dall’adozione di principi umanitari ispirati ad un certo garantismo per gli imputati in carcere, salvo poi ad escogitare le pene più efferate per coloro che fossero stati giudicati colpevoli Vi è, Sotto questo profilo, qualche cosa che non convince nella norma costantiniana che abbiamo appena esaminato. Il pensiero fondamentale che regge queste innovazioni è fin troppo banale: il carcere è penoso per gli innocenti (quod innocenti bus miserum), quindi è opportuno limitarne l’impiego. Ma l’accertamento dell’innocenza dell’imputato è un punto di arrivo, non di partenza: il rischio implicito nell’accelerazione delle attività istruttorie è che si faccia giustizia sommaria attraverso condanne tanto rapide quanto ‘facili’. Il che, ovviamente non avrebbe giovato ai condannati possibili vittime di errori giudiziari Aveva il sopravvento l’ottimistica fiducia imperiale nella infallibilità della giustizia penale:… statim debet quaestio fieri, ut noxius puniatur, innocens absolvatur. L’esigenza di salvaguardare gli imputati da Caietele Institutului Catolic X (2011) 289-326 ETTORE TOMASSI 306 una carcerazione troppo lunga avrebbe almeno richiesto tempi massimi di custodia preventiva, che invece non risultano da questa disciplina e che verranno stabiliti, per quanto ne sappiamo, solo da Giustiniano, In ogni caso, anche problemi di organizzazione carceraria potevano spingere verso una rapida conclusione dell’istruttoria, in modo da evitare il rischio di sovraffollamento nelle prigioni. Sarebbe pure interessante poter accertare il peso che ebbe, nell’adozione di questa normativa, il contrasto con Licinio. Rimane l’indubbia constatazione che la volontà imperiale si manifestava a favore di condizioni carcerarie migliori, e che questo intento era perseguito anche attraverso la lotta alla corruzione e alla crudelitas di giudici e carcerieri”3. 3.4 Conclusione Nessuna pagina ci sembra più opportuna per concludere questo capitolo, che quella della dottrina, quando “si è scritto che la storia delle idee non e mai separabile dalla storia dei testi, che le trasmettono nello spazio e nel tempo. Abbiamo avuto modo di verificare questa affermazione con riguardo al divieto del carcere come sanzione penale, considerato uno dei principi fondamentali nella storia della repressione criminale romana, principio strettamente legato al testo ulpianeo che lo esprimeva. Quest’ultimo, sottoposto ad alterazioni e isolato dal contesto del discorso giurisprudenziale, sarebbe diventato ben presto una proposizione di stampo normativo, come d’altra parte l’antologia in cui èra contenuto. Tutto questo è nell’ordine naturale delle cose: il diritto muta per l’usus hominum, e i testi si adattano a quei mutamenti. Si è tentata una ricostruzione del testo di Ulpiano attraverso il confronto con gli scolii bizantini, l’analisi del contesto in cui si colloca il discorso del giurista, l’esame della tradizione testuale; è ovvio, peraltro, che questa ipotetica ricostruzione si fonda su indizi, e lascia spazio a dubbi e incertezze. Risalire alla sorgente primaria unica del testo è molto spesso un mito filologico, impossibile da tradurre in realtà. Ma più importante che condividere le singole ipotesi formulate, è la possibilità di rimettere in discussione un principio che non regge, nella forma ‘massimata’ che si suole dare alle parole ulpianee, al confronto con alcune testimonianze importanti: quelle sulla poena vinculorum, quelle fornite da rescritti, da documenti epigrafici, dalla letteratura apologetica cristiana; una serie di indizi che non possono 3 A. Lovato, Il carcere nel diritto penale romano dai Severi a Giustiniano, Bari, 1994, pp. 171 e ss. Caietele Institutului Catolic X (2011) 289-326 Il sistema punitivo e penitenziario in epoca romana – IV 307 essere trascurati, e che l’epoca tardoantica, pur con le sue tendenze normative rivolte a stabilire una velox poena, non è riuscita del tutto a cancellare. Il processo storico non si conclude con Giustiniano, e continua a presentarsi in forma problematica nelle varianti offerte dalla tradizione manoscritta, sul punto specifico rappresentato dall’aut della proposizione iniziale di D. 48.19.8.9, e nella interpretazione dei vecchi maestri europei che si ostinano, giustamente, ad annotare come vinculis perpetuis, carceres perpetuos, perpetua vincula, i riferimenti a carcere e catene che trovano senza aggettivi e senza limitazioni nel Corpus Iuris Civilis. Ma da Giustiniano la tradizione giuspubblicistica europea eredita il principio fondamentale: la funzione preventiva del carcere. La storia giuridica non vi è ammessa. L’indice alfabetico ragionato delle Pandette di Giustiniano riordinate da R. G. Pothier, compilato per la prima volta per cura di Antonio Bazzarini, pubblicato a Venezia nel 1835, alla voce carceri, riporta. l’una di séguito all’altra, disposizioni tratte dal Digesto, dalle Novelle, dal Codice, e conclude nel modo consueto, citando il nostro testo: “Il carcere è destinato ad assicurarsi delle persone, non a punirle”. Ben poco è cambiato nei tredici secoli che dividono quest’opera dalla composizione del titolo De custodia reorum del codice giustinianeo, il quarto del libro nono. L’impianto sistematico non lascia spazio per una funzione diversa. Apre il titolo la solenne dichiarazione di Costantino, giù vista, relativa alla speditezza dei processi e alla rapida punizione del colpevole, ovvero al rapido proscioglimento dell’innocente. Segue la regola processuale che coerentemente esige nel più breve tempo possibile la presenza dell’accusatore, il quale, temporaneamente, sia venuto a mancare, ovvero dei complici; vengono poi le modalità pratiche dell’imprigionamento, le limitazioni alla reclusione durante il giorno, il divieto di comportamenti vessatori completano il titolo alcune disposizioni processuali, la regola della separazione di uomini e donne in carcere, le sanzioni per i custodi negligenti, istruzioni ‘amministrative’ e la disciplina dei termini massimi di custodia preventiva. Tutte queste norme, tranne naturalmente l’ultima, che è dello stesso Giustiniano sono riportate anche nel Codice Teodosiano. Ciò non esclude però qualche differenza, e su una di queste, alla quale abbiamo già accennato, intendiamo ancora soffermarci per un momento. In CI. 9.4.1.2 si regola l’incatenamento dell’exhibitus ma solo in parte si avverte la voce di Costantino, al quale appartiene l’importante normativa. All’imputato si devono applicare non ferreas manicas et inhaerentes ossibus, sed prolixiores catenas, diceva il primo imperatore cristiano; il fine era quello di far cessare ogni tormento (id est, ut ambulare, incedere non incommode possint, commentava Jacopo Gotofredo), pur mantenendo una custodia sicura. I giustinianei vi aggiungono un inciso Caietele Institutului Catolic X (2011) 289-326 308 ETTORE TOMASSI interessante: si criminis qualitas etiam catenarum acerbitatem postulaverit. L’incatenamento aveva accompagnato, come sappiamo l’arresto e la custodia dell’imputato dall’epoca severiana a quella tardoantica. Teodosio I aveva vietato l’incatenamento prima che fosse provata la colpevolezza Ci si orienta ora per l’abolizione delle catene, quale mezzo complementare alla detenzione carceraria, salvo che per crimini gravi. La modifica si riflette anche sul lavoro che si compie nell’antologia giurisprudenziale. Immaginiamo accogliendo le ipotesi formulate, che i giustinianei avessero dinanzi agli occhi il passo di Ulpiano in cui si diceva che il carcere era vietato se inflitto in catene e in perpetuo. L’idea della perpetuità di tale condizione non aveva senso nella loro ottica: se l’unica funzione legittimamente svolta dalla misura era quella preventiva, era da escludere, ovviamente, che ne fosse possibile un impiego ininterrotto e interminabile. Ma attraverso l’omissione dell’avverbio o dell’aggettivo che esprimeva l’idea della perpetuità, si poteva attribuire alle parole di Ulpiano un significato nuovo, coerente con l’orientamento che vietava, salvo casi eccezionali, la custodia preventiva in catene. Ut in vinculis contineantur poteva rappresentare la modalità vietata della custodia, bastava omettere perpetuis. L’applicazione delle catene all’imputato avrebbe avuto uno scopo inutilmente afflittivo. e illegittimo, perché il carcere doveva servire a custodire gli nomini, non a punirli. Ci spieghiamo così l’omissione, che non convinceva Bartolo, Zasio o Dionigi Gotofredo. Il passaggio da una concezione giurisprudenziale ad una legislativa del diritto cristallizza per sempre il mutamento. L’affermazione giurisprudenziale, astratta dal contesto originario, è pronta per essere usata, ma “in veste di normativa ermeneutica astrattamente vincolante”. Anche dal nostro limitato punto di vista, è vero che l’impero bizantino fu responsabile della conservazione di una eredità culturale”4. 4.0 Considerazioni generali Lo svolgimento storico del diritto penale romano, sia nella sua fase sostanziale che in quella processuale mostra chiaramente che lentamente ma progressivamente lo Stato interviene sempre di più, a partire dalle XII Tavole in poi fino a Giustiniano, a gestire l’ordine pubblico e a includere i reati sempre più nella sfera statuale. 4 A. Lovato, Il carcere nel diritto penale romano dai Severi a Giustiniano, Bari, 1994, pp. 245249. Caietele Institutului Catolic X (2011) 289-326 Il sistema punitivo e penitenziario in epoca romana – IV 309 Il problema resta, qui come in altri casi dell’esperienza giuridica romana, quello di individuare il rapporto fra i beni patrimoniali (e in generale la res) e l’azione persecutoria quando il bene viene leso nella sua entità fino a far coincidere la lesione al bene come lesione compiuta al proprietario del bene: quando ciò avviene l’illecito privato diventa illecito pubblico. Chiarificatore in questa prospettiva dottrinaria è l’indagine di Bernardo Albanese alla voce Illecito (istoria) in Enciclopedia del diritto, XX, pp. 50-90, Varese, 1970, ed in particolare pp. 83-90 che ci appaiono ben corrispondenti anche ad una conclusione generale del tema da noi trattato in questa nostra prova finale al termine del nostro Corso di laurea in Scienze dei Servizi Giuridici per Operatore Giudiziario. Il problema resta, a detta di Albanese (cosa che noi condividiamo completamente) il rapporto che viene a formarsi, nell’ambito della giurisprudenza romana, fra res e poena. Ebbene, dice Albanese, “il punto di partenza – il pensiero di Cassio – ci mostra che la giurisprudenza romana della prima età classica, ha ben netto il concetto di poena e il concetto di rei persecutio. Tuttavia, codesti concetti non possono, in questa fase, dato lo stato del diritto, essere utilizzati per costruire delle categorie contrapposte di azioni penali e azioni reipersecutorie. Un simile schema di contrapposizione potrebbe valere – e forse sarà anche valso, sebbene non ne abbiamo, a quanto ci risulta, prove esplicite nelle fonti – a distinguere azioni (civili) ex maleficio e azioni (civili) non ex maleficio, in quanto solo alle prime ineriscono i rigidi caratteri già accennati, in ordine alla nossalità, all’inesperibilità in heredem, al cumulo con azioni civili di ogni tipo e alla solidarietà cumulativa passiva e attiva dei legittimati. Tuttavia, i classici di quest’epoca ebbero ben ragione di non costruire una categoria di azioni penali (sia pur limitatamente al solo ius civile), per la circostanza, che non dev’essere dimenticata, che forti caratteri di penalità - cioè, di afflizione - continuano ad inerire a tutte le azioni, e quindi anche a quelle non ex maleficio. Dev’essere ricordato, soprattutto, il sistema delle poenae processuali accennato (infitiatio, sponsiones dimidiae vel terziae partis, iusiurandum in litem, iusiurandum calumniae, processo interdittale cum poena, ecc.). Questo sistema rende certa un’affermazione: che non vi è azione alcuna, nel sistema del diritto privato classico, che non abbia o non possa avere un certo carattere penale, almeno nel senso di condurre a conseguenze nettamente afflittive e non solo reipersecutorie. Come questa situazione non sia altro che il riflesso, in età avanzata, di quella generale concezione penale di tutto il diritto privato (anzi, di tutto il diritto), che più su ci siamo sforzati di mostrare vera per le origini, non mette conto di sottolineare diffusamente. Richiameremo solo, come indizio particolarmente significativo di quanto assumiamo, il modo di esprimersi di Gaio, nelle sue Istituzioni, Caietele Institutului Catolic X (2011) 289-326 310 ETTORE TOMASSI allorquando accomuna sotto una medesima visione penale tutte le azioni. Gaio, infatti, in occasione della trattazione delle pene processuali, esposte le singole figure (e si badi che la menzione di poena pecuniaria si ritrova espressamente nel mutilo inizio di Gai 4, 171), conclude il suo discorso, in maniera estremamente significativa: « Statim autem ab initio pluris quam simpli actio est, velut furti... » (4, 173); Dal che si vede come, tanto le azioni ex maleficio, quanto le azioni non ex maleficio, nelle quali tuttavia sia predisposto dall’ordinamento un sistema afflittivo del convenuto condannato, sono da Gaio accomunate sotto il profilo della poena. In queste circostanze, parlare, senz’altra specificazione, di « azioni penali » avrebbe significato costruire una categoria inutile, e pericolosa, ed in ogni caso non contrapponibile alle azioni reipersecutorie posto che anche queste ultime hanno una poena, o possono averla. I rilievi ora fatti danno, intanto, ragione di un dato sistematico importante: i classici, allorché designano le azioni, che oggi la dottrina usa chiamare, senz’altro, penali, si servono di una terminologia estremamente significativa. Parlano, infatti, di ex maleficiis poenales actiones (cfr., per tutti, Gai :4, 112, in riferimento - prezioso perché, con certezza allusivo all’origine civilistica,della terminologia - ad una ceirtissima iuris regula). L’aggiunta delle parole ex maleficiis - tutt’altro che ridondante, come pure si è da taluno ritenuto - mostra come la semplice locuzione actiones poenales sarebbe stata, agli occhi di giuristi prevalentemente solleciti del ius civile, e ancor più, da un certo punto di vista, agli occhi degli stessi giuristi classici, equivoca ed insignificante. Il carattere generico di actio poenalis non si sarebbe potuto negare, ad esempio, all’agere cum poena ex interdictio;. o all’agere nelle cause che dan luogo alla litiscrescenza; o, per risalire più indietro, alla legis actio per sacramentum; o a qualunque azione che comportasse il rischio dell’afflizione personale tramite la manus iniectio. In ogni caso, quella qualifica di actio poenalis non si sarebbe potuta negare alle azioni pretorie sorgenti da atto corrispondente sostanzialmente al maleficium, e cioè, a comportamenti illeciti non inclusi nelle tipiche figure civili del furtum, del damnum iniuria e dell’iniuria, e colorate di caratteristiche afflittive, e pure, tuttavia, esperibili, sia pure in misura particolare, contro gli eredi. Se scolorita, e ambigua, dunque, per i classici, sarebbe stata la categoria di actio poenalis (senz’altra specificazione), tanto meno ammissibile, ai loro occhi, sarebbe stato uno schema contrapposto: actio poenalis - actio rei persecutoria. Ecco perché Cassio, allorquando, spinto da esigenze pratiche già lumeggiate avverte la necessità di isolare l’elemento reipersecutorio in talune azioni (e precisamente, in talune azioni onorarie), tace del tutto di una Caietele Institutului Catolic X (2011) 289-326 Il sistema punitivo e penitenziario in epoca romana – IV 311 categoria di actiones poenales, e parla invece di actiones quae rei persecutionem habeant e di ceterae actiones. E passando al pensiero di Gaio - sebbene ormai sia, ai fini di una discutibile generalizzazione e di un discutibile completamento dello schema cassiano, emersa all’esplicita menzione la poena, come oggetto e fine dell’azione deve sempre notarsi come ancora si eviti con cura la terminologia actio poenalis, e, del pari, la contrapposizione netta tra azioni penali e azioni reipersecutorie. Del resto, Gaio è quello stesso che, come si vide poco più su, parla con rigore tecnico di actio poenalis ex maleficio, mostrando nel modo più chiaro - come ancor meglio si vedrà tra poco, in riferimento alla terminologia dell’illecito - di concepire actiones poenales non ex maleficio. Pure, è innegabile - ed estremamente significativo, sul piano dello sviluppo storico - che Gaio, con il suo schema più generale, si sposti sostanzialmente verso la possibilità d’una schematizzazione di generale contrapposizione tra azioni penali e azioni reipersecutorie. Ciò emerge in Gaio, solo come possibilità, dalla stessa esigenza di simmetria e di completezza che ispira il suo tentativo. In Giustiniano, infine, lo schema si articola ancora - in modo da evitare una generale e rigorosa contrapposizione tra azioni penali e azioni reipersecutonie: « ex nialeficiis vero proditae actiones aliae tantum poenae persequendae gratia comparatae sunt, aliae tam poene quam rei persequendae » (I. 4, 6, 18). Ma in Giustiniano questo è, ormai, un omaggio solo formale alla storia ed all’autorità dei modelli classici. Un omaggio solo formale, perché alcune delle conseguenze pratiche dello schema giustinianeo sono ormai quelle che sarebbero derivate da una contrapposizione esplicita fra azioni penali e azioni reipersecutorie. Segnaliamo una sola, la più grave e la più importante, di queste conseguenze: la necessità logica, implicita nel testo di Giustiniano, di considerare non penale e puramente reipersecutoria, in certe ipotesi, l’actio vi bonorum raptorum (precisamente, quando è esperita post annum) o l’actio legis Aquliae (precisamente, quando non vi sia stata differenza di valore dell’oggetto danneggiato nel periodo di tempo previsto dalla legge). Alle medesime conseguenze si dovrà giungere, nello spirito della sistemazione giustinianea, in altre simili situazioni giuridiche. La distinzione tra res e poena, profondamente vera e densa di potenze evolutive, ha ormai dato il suo primo, fondamentale frutto. Se questo frutto si è maturato stentatamente (cioè, sul piano di un faticoso adattamento di uno schema, nato a fini particolarissimi, a categoria sistematica generale) e infelicemente (cioè, in un necessario compromesso fra un attaccamento tenace alle forme e alla sostanza di un sistema tradizionale ed una volontà di Caietele Institutului Catolic X (2011) 289-326 312 ETTORE TOMASSI adeguarsi a nuove idee e a nuove realtà), questo è soltanto il prezzo del tipo di evoluzione cui è stato sottoposto il diritto romano. Il vero è che la radice più profonda, che anima tutto il moto di cui si è cercato di riassumere le tappe salienti, sotto il profilo della distinzione tra res e poena, consiste nell’avvertenza crescente della necessità di affrancarsi sempre più efficacemente dall’originaria concezione indiscriminatamente penale dell’illecito privato e quindi di « depenalizzare », se così si può dire, alcune figure di illecito privato assai importanti. Questo moto si coordina, dunque, a perfezione con tutti gli altri fenomeni già descritti; ed in particolare con quella fondamentale innovazione pretoria costituita, come vedemmo, dall’introduzione - sul suggerimento sostanziale, come pur si vide, dell’originalissimo sistema dei capi I e III della lex Aquilia - della poena (in simplum) risarcitoria. Non per un caso, il terreno pratico su cui più profondamente hanno inciso i fenomeni descritti è costituito da quella actio legis Aquiliae, in cui più urtante, ad una mentalità progredita, doveva apparire la concezione penale, afflittiva, via via sempre più intollerabile di fronte ad una costante interpretazione giurisprudenziale tendente a farne uno strumento di generale risarcimento del danno. Emergendo in primo piano sempre più la funzione risarcitoria dell’actio legis Aquiliae, fino al limite, addirittura, della responsabilità quasi automatica per ogni immaginabile danneggiamento, tanto più doveva, via via, scomparire nello sfondo l’originario carattere di maleficium di un comportamento, che ben poteva essere, come sottolineano i giuristi, frutto soltanto di levissima culpa (per non dire, addirittura, di nessuna vera culpa). E tanto più, quindi, doveva via via scomparire nello sfondo la natura penale dell’azione relativa. Come questo non sia del tutto raggiunto neppur con Giustiniano, il quale non può e non osa dichiarare indiscriminatamente - ma solo implicitamente, e per certi casi soltanto - la natura reipersecutoria dell’actio legis Aquiliae, è stato poco più su mostrato. Ma, ovviamente, la via verso le moderne concezioni (quali si rispecchiano nell’art. 2043 c.c., ad esempio) era definitivamente aperta. Del resto, l’indagine romanistica è venuta mostrando come, a sua volta, questa evoluzione nel settore della lex Aquilia può esser compresa solo ponendola al centro dell’intero sviluppo del diritto romano. In tutto questo sviluppo, ripetiamo, si manifesta, più o meno intensamente, l’identico fenomeno di progressiva i depenalizzazione i, per opera prevalente e cospicua della giurisprudenza. Se il pretore ha contribuito - e non mancammo di sottolinearlo a suo tempo - potentemente a questo complesso fenomeno evolutivo, mediante la creazione delle azioni penali in simplum, e prima di tutto con la creazione della Caietele Institutului Catolic X (2011) 289-326 Il sistema punitivo e penitenziario in epoca romana – IV 313 generale e sussidiaria actio de dolo; se lo stesso pretore opera, sostanzialmente, nel medesimo senso, in concorso con la giurisprudenza (del resto, si pensi che l’actio de dolo è introdotta da un pretore che era un grande giureconsulto: Aquilio Gallo), mediante la creazione di azioni esemplare sull’actio legis Aquiliae, è soprattutto, sempre sul medesimo piano di assestamento generale del settore dell’illecito lungo la direttrice fondamentale della degradazione della penalità e dell’emersione della reipersecutorietà, il titanico e secolare sforzo giurisprudenziale di reciproco assestamento dei delitti privati a realizzare quella che, con un’espressione semplificatrice, potremmo designare come la riduzione ad un comune denominatore reipersecutorio di numerose figure di delitti privati. Qui basterà, al riguardo, ricordare solo quel che a noi pare il più importante tratto di quest’opera giurisprudenziale, inquadrata e sorretta nell’omogenea attività creatrice del pretore. Per meglio intendere quel che qui ora si vuol dire, bisogna ricordare al lettore una premessa importante: la nozione di furtum, in epoca, a quel che sembra, non lontana da quella della definitiva sanzione in via pecuniaria di questo delitto privato ad opera del pretore, trapassa - e certo non in breve volgere d’anni, sebbene i dettagli evolutivi ci restino celati - dalla ristretta accezione originaria di «sottrazione di cosa altrui», ad un ambito assai più vasto e indeterminato. Nel furtum, praticamente, viene a ricomprendersi ogni ipotesi di perdita dolosamente provocata e, più in generale, di comportamento doloso, relativamente a cose rispetto alle quali altri abbia un diritto, e che non ricada sotto uno degli specifici precetti decemvirali. Il fenomeno di un così smisurato ampliarsi della nozione di furtum deve essere qui valutato soprattutto sotto il profilo d’uno sforzo giurisprudenziale, volto ad assicurare tutela a pregiudizi derivanti ai privati da dolosi comportamenti altrui, non specificamente previsti nel sistema decemvirale. Il risultato pratico fu quello di creare, assai precocemente, una figura generale di illecito privato, il furtum appunto, dai confini molto vaghi, e sanzionato molto duramente. Orbene - ed ecco il fenomeno di cui ora dobbiamo rilevare l’importanza ai fui del nostro discorso - a partire dagli ultimi secoli della Repubblica, come è possibile cogliere nettamente nelle fonti, si sviluppa un indirizzo tutto contrario. Precisamente, da un lato, si vengono a determinare ad opera della giurisprudenza - dei requisiti positivi del furtum (contrectatio e animus furandi), con il risultato di espellere dalla grave categoria del furtum un notevole numero di fattispecie illecite concrete. Da un altro lato, si creano - o ad opera della legge (e il caso più importante è proprio quello della legge Aquila), o ad opera del pretore (e il caso più importante è quello delle actiones Caietele Institutului Catolic X (2011) 289-326 314 ETTORE TOMASSI in factum penali con pena risarcitoria: fondamentale, tra tutte, per la sua ampiezza, l’actio de dolo) - nuove figure di illecito. Cosicché, mentre, da un lato; si specifica in modo assai più netto l’ambito del furtum e si creano numerosi nuovi illeciti pretori con sanzione in simplum o in multiplo. (ad esempio: actio servi corrupti; actio vi bonorum raptorum; edictum de turba; actio quod metus causa; actio de incendio ruina naufragio rate nave expugnata; ecc.), che però, diventano, post annum, in simplum, e quindi sono tutti mezzi più miti, sostanzialmente, dell’actio furti; da un altro lato, si creano due settori generalissimi dell’illecito privato: danno e dolo, nei quali le caratteristiche penali, certamente esistenti, sono assai meno intense, in quanto assai meno gravemente affiittive, in confronto di quanto avviene nel furtum; e sono, inoltre, assai vivamente sollecitate, ad opera dell’interpretazione giurisprudenziale, verso una totale obliterazione. Gli ambiti rispettivi del furtum (costantemente ridotto), del dannum iniuria (costantemente allargato), del dolo (che segue, via via, i movimenti delle due precedenti sfere, non fosse che in virtù del principio generale di sussidiarietà dell’actio de dolo) sono costantemente in travaglio per tutta l’età classica, ad opera della giurisprudenza. Il risultato generale nel diritto giustinianeo sembra essere: la sostanziale acquisizione di una natura reipersecutoria dell’actio legis Aquiliae, almeno in alcune ipotesi; e la riduzione del furtum a limiti molto rigorosamente precisati. E, se si pensa che la pena dell’actio legis Aquiliae è spesso praticamente coincidente con il risarcimento; se si riflette ancora che, tramite altre azioni in simlum - o ridotte, post annum, in simplum - vasti territori di illecito vengono ad esser coperti dall’idea di risarcimento; se si riflette, inoltre, all’actio iniuriarum aestimatoria che ben consente, ove sia il caso, un semplice risarcimento, si giustificherà il nostro giudizio di progressiva depenalizzazione sostanziale, in diritto classico avanzato, e tanto più in diritto giustinianeo, dello illecito privato. A di più, a partire dall’età dei Principato e, via via, in modo crescente, come a suo tempo si vide, viene a svilupparsi il germe posto già dalle questiones repubblicane: vale a dire, cresce i fenomeno dell’attrazione di fattispecie di illecito privato nel settore più propriamente pubblico e criminale. Come anche da questo fenomeno derivi un’incisiva restrizione pratica dell’illecito penale privato non è chi non veda. Qui, su tal via, rileviamo un solo punto fondamentale: in età post-classica, a quel che sembra, vien tolto via praticamente dal settore dell’illecito privato quel vasto bastione della più netta penalità rappresentato dal furtum. Vedemmo, si ricorderà, il «nunc furti plerumque criminaliter agi» di D. 47. 2, 93; inoltre, accennammo alle molte ipotesi di crimina extraordinaria del tipo dei fures balnearii, ecc. Caietele Institutului Catolic X (2011) 289-326 Il sistema punitivo e penitenziario in epoca romana – IV 315 L’intero moto, dunque, del settore dell’illecito penale verso l’illecito non penale, in dritto privato, e la specializzazione dell’illecito penale prevalentemente nell’ambito del diritto pubblico, presentano, quanto più dal diritto arcaico si avanzi verso il diritto giustinianeo, una chiarezza e una coerenza esemplari. Da quel che, a grandi linee, abbiamo veduto - sia nel campo del ius civile, sia nel campo del diritto pretorio; sia nell’attività della giurisprudenza, sia in quella degli imperatori - emerge, in primo luogo, l’individuazione sempre più netta, nel diritto privato, entro il totalitario concetto originario di poena, di una rei persecutio; e cioè, l’individuazione di un atto illecito privato sanzionato con la neutralizzazione e la riparazione, piuttosto che con l’ambizione. In secondo luogo, emerge, lungo la via di delicatissimo travaglio giurisprudenziale, la riassunzione sotto il profilo della distinzione tra poena e rei persecutio, dell’intero moto evolutivo del diritto privato in corso nell’età classica, in relazione al progressivo spostarsi della reazione all’atto illecito privato sempre più dalla forma della poena a quella della rei persecutio. In terzo e ultimo luogo, da quel che fin qui s’è detto, emerge anche una netta tendenza a scalzare sempre più dal diritto privato, riservandola all’ambito del diritto pubblico, la nozione stessa di poena. Un gran cammino, certo non del tutto compiuto neppure in età giustinianea ma, pure, già in età classica, ormai, avviato in senso irrevocabile: dalla poena, universale dominatrice, alle origini, nel settore dell’illecito, si passa alla scoperta ed alla progressiva espansione della rei persecutio (ai danni della poena) nei diritto privato e si pongono le basi della moderna pertinenza esclusiva, o quasi, della poena al diritto pubblico. Interessantissimo sarebbe, a questo punto, una volta che si è colto nel suo insieme - sotto il profilo della reazione dell’ordinamento (poena e rei persecutio) - lo svolgimento di massima dell’idea di atto illecito, ritornare sul processo veduto, da un altro importante punto di vista. Precisamente, dal punto di vista del criterio di imputazione soggettiva via via adottato dall’ordinamento romano di fronte all’obiettiva constatazione di un atto,in sé e per sé, contrario all’ordine giuridico. Vedere come i germi di una distinzione antichissima tra atteggiamenti pienamente imputabili e atteggiamenti, invece, meno responsabili - quelli dell’impubes, quelli di chi si fa sfuggire il telum di mano, che vedemmo già nelle XII Tavole - distinzione colta nelle sue manifestazioni più impressionanti e macroscopiche, si sviluppino, dapprima nel campo dell’illecito pomo in via corporale e poi, in tutto il settore dell’illecito privato, fino a raggiungere le categorie generali del dolo e della culpa; vedere come quest’ultimo concetto specie dopo l’introduzione della lex Aquilia (che, anche e soprattutto in questo Caietele Institutului Catolic X (2011) 289-326 316 ETTORE TOMASSI campo, occupa un ruolo centrale nell’esperienza romana), venga sottoposto a incessanti chiarimenti e a sottili analisi pratiche da parte della giurisprudenza; vedere come si atteggi questo stesso concetto generale di culpa nel settore specifico del contegno negoziale, in costante concomitanza con il fenomeno diverso ma non disgiungibile - dell’emersione della voluntas e della causa dall’uniforme piano del rigore civilistico; vedere come convergano, in unitari indirizzi, sviluppi apparentemente separati - e pensiamo ad esempio alle analisi relative all’animus in materia possessoria e a quelle relative all’animus in materia di furtum e di iniuria - una secolare elaborazione; vedere, infine, come cominciano a delinearsi criteri uniformi di responsabilità in tutto il settore dell’illecito nel suo senso più lato, sarebbe un compito affascinante e, malgrado tutte le incertezze ancora non risolte tra i romanisti, forse non difficile. Tuttavia, è facilmente comprensibile come un’indagine di questo genere implicherebbe un aumento della già, forse, eccessiva, ampiezza del presente scritto. E inoltre, implicherebbe la necessaria considerazione - posto che il problema della responsabilità non è, sostanzialmente separabile dal problema generalissimo della volontà, in una visione storica di tutta una Serie di fenomeni che non hanno relazione diretta con il settore dell’illecito È perciò necessario rinviare a trattazioni che, specificamente, affrontino il tema della responsabilità. E qui, ormai, converrà raccogliere le fila del discorso, per sintetizzare il già detto, e per confrontare i risultati relativi all’esperienza romana con le attuali esigenze dogmatiche Il disegno storico di massima che è emerso, nel corso delle pagine precedenti relativamente alla visione romana dell’illecito, è facile da riassumersi Da una visione totalitariamente ed esclusivamente afflittiva dell’illecito, si passa gradualmente ad una visione più articolata, conseguita la quale, l’illecito si distingue in illecito cui segue una pena, e illecito sanzionato altrimenti. Quasi tutta l’esperienza giuridica romana in età storica, dalle XII Tavole a Giustiniano, è coperta da questo graduale passaggio ora accennato. Le tappe salienti del passaggio possono essere così riassunte, per il diritto privato: innanzi tutto, la progressiva mitigazione, riduzione a casi espressamente previsti e, infine, abolizione, della manus iniectio; l’introduzione già embrionalmente rappresentata dalla legis actio per sacramentum a noi nota attraverso Gaio, ma più decisamente dalle legis actiones per iudicis arbitrive postulationem e per condictionem, e poi dal procedimento formulare - di un processo dichiarativo, cui l’impostazione penale tende sempre più ad accedere soltanto (sotto il profilo dell’esecuzione del giudicato e sotto il profilo della pena processuale), senza rappresentarne, come prima, il fine strutturale; la Caietele Institutului Catolic X (2011) 289-326 Il sistema punitivo e penitenziario in epoca romana – IV 317 sostituzione crescente e totale della poena corporale con quella patrimoniale; l’introduzione, a partire dalla lex Poetelia, dell’esecuzione patrimoniale per i debiti; l’introduzione della lex Aquilia, con le due grandi innovazioni della responsabilità per culpa e della pena, almeno tendenzialmente, risarcitoria; il grande sviluppo delle actiones in factum onorarie con pena risarcitoria; l’assestamento graduale dei rispettivi ambiti delle figure di illecito penalmente sanzionate (e specialmente: furtum, damnum iniuria datum, dolus); l’esplicitazione, sollecitata da esigenze sistematiche, di un generale concetto di poena; l’emersione, nell’ambito espresso delle azioni onorarie ed a fini particolari, della rei persecutio; la sistematica utilizzazione, a far sempre più ampi e in ambito sempre più ampio, della contrapposizione tra rei persecutio e poena; la specializzazione crescente del diritto privato, e in particolare dell’illecito privato, nei confronti del diritto e dell’illecito pubblico, con tendenza ad una crescente attrazione di figure di illecito privato nel settore del diritto pubblico. E, ponendosi sotto il profilo del diritto pubblico, le tappe salienti dell’evoluzione, che tende ad una decisa articolazione dell’illecito sotto i due distinti profili dell’illecito cui segue la pena e dell’illecito altrimenti sanzionato, sembrano potersi così riassumere: la specializzazione (comiziale; quaestiones; cognitio extra ordinem) dell’irrogazione delle pene pubbliche; il crescente processo attrattivo, già di nuovo accennato or ora, di fattispecie privatistiche di illecito nel settore della persecuzione pubblica; la tendenza, infine, verso il monopolio dell’idea di poena nel settore del diritto pubblico. Va da sé - ed è questo un punto cui non abbiamo potuto volgerci più su e che, ora, possiamo soltanto accennare - in uno sviluppo così complesso e, si potrebbe dire, alluvionale, qual è quello che si presenta la storia giuridica romana, sia per ragioni di durata che per ragioni legate alle modalità proprie della produzione del diritto nella società romana, va da sé (si diceva) che, in no cosiffatto sviluppo, il processo ora riassunto è, in pratica, tutt’altro che di ripensamenti, di incertezze, di contraddizioni. L’esempio più impressionante di queste inflessioni di sviluppo è, certo, costituito da alcuni atteggiamenti sorprendenti del diritto postclassico in cui sembra, a volte, e piuttosto largamente, rioscurarsi il processo: progressiva differenziazione tra la sanzione penale e quella non penale dell’illecito. Basti accennare alle involuzioni della tutela possessoria e al fenomeno dell’esecuzione manu militari. Come in questi fenomeni, legati certo alle condizioni politiche dell’impero assoluto, si ritrovino i germi della rinnovata confusione di prospettive che il diritto intermedio presenterà, tra fenomeno penale e fenomeno non penale - e ricorderemo solo l’afflizione corporale dei debitori, durata fino a tempi assai recenti - è discorso che sarebbe fuor luogo Caietele Institutului Catolic X (2011) 289-326 318 ETTORE TOMASSI seguire in questa sede. Esso potrà esser chiarito, piuttosto, in una specifica trattazione dell’idea di responsabilità nel diritto intermedio. Ma, anche se vi abbiamo potuto semplicemente accennare, questa circostanza di un rioscurarsi parziale, in età postclassica, di taluni risultati già sostanzialmente raggiunti dall’elaborazione classica, ed in particolare il persistere, anzi il rinforzarsi, di talune prospettive penali nell’ambito del diritto privato, forniscono tuttavia - ed egualmente l’analogo riprodursi di contaminazioni tra illecito privato e prospettiva penale nel lungo periodo del diritto intermedio - occasione ad una rapida considerazione finale della recente dogmatica giuridica. La categoria pandettistica del «delitto civile», dell’«atto illecito privato» - applicata, in senso tecnico e ristretto, ai fenomeni del danneggiamento ingiusto e dell’inadempimento dell’obbligazione - categoria che, come accennavamo proprio all’inizio di queste pagine, è stata, nella sua tenace persistenza, causa non ultima del disagio e delle difficoltà rinvenuti dalla dottrina sulla via d’una soddisfacente sistemazione dogmatica dell’illecito privato, è strettissimamente legata all’esperienza giuridica romana. In essa, risorge a nuova vita - o forse, sarebbe più esatto dire, si perpetua - un vecchio fenomeno che noi, ormai, conosciamo bene. Il fenomeno, cioè, del persistere, malgrado ogni sforzo progressivo di distinzione operato soprattutto dalla giurisprudenza classica e dal pretore, di un’intensa sfumatura di afflittività nel settore dell’illecito privato. In altre parole, si rispecchia, in quella categoria pandettistica, una situazione dogmatica più civilistica che pretoria: la concezione del delictum, fonte di obbligazione civile, sanzionato con pena, che il corso del diritto romano più avanzato era venuto, via via, scalzando, per tante vie che vedemmo. Quella concezione civilistica permane, nella categoria moderna, in maniera paradossale - ed è probabile che qui abbiano operato anche concezioni germanistiche rispetto alle sole fattispecie dell’inadempimento e del danneggiamento, dopo che il corso dei secoli ebbe completato quella attrazione delle restanti categorie romane di illecito privato nella sfera del diritto pubblico che noi notammo già marcatamente avviata in età classica e postclassica. In maniera paradossale, diciamo, perché la qualifica di delitto privato rimase, in tal modo, solo per le due fattispecie (inadempimento e danneggiamento) per le quali, più compiutamente e più precocemente, s’era attuata - come vedemmo - in Roma, la «depenalizzazione». Per quel che riguarda l’inadempimento dell’obbligazione, la sistemazione pandettistica, che parla, al riguardo, di torto civile, di illecito privato tipico, ecc., va, addirittura, oltre le più rigorose formulazioni romane, avvicinandosi concettualmente, perfino, alla situazione precedente alla lex Caietele Institutului Catolic X (2011) 289-326 Il sistema punitivo e penitenziario in epoca romana – IV 319 Poetelia. Molto precoce fu infatti in Roma, come si vide, la « depenalizzazione » riguardo al fenomeno dell’inadempimento dell’obbligazione Sicché, non si può non riconoscere come, sulle concezioni pandettistiche, abbia prevalso, rispetto a quella romana, l’influenza di idee giuridiche del diritto intermedio. Un grave passo indietro, dunque, della civiltà giuridica, che si riflette nella sistematica scientifica Per quel che riguarda, poi, il danneggiamento ingiusto, anche qui l’inclusione di esso in una sfera tipica di illecito civile, e quindi implicita o esplicita che sia la considerazione del risarcimento dei danno come pena, rappresenta una sistemazione più intonata alla classificazione formale è alla reale situazione sostanziale dello stesso diritto romano più progredito. Vedemmo, infatti, come, portando al suo termine logico un processo storico già profondamente avanzato nel diritto classico, Giustiniano aveva finito per considerare, almeno implicitamente e almeno in certi casi, l’actio legis Aquiliae come un’azione meramente reipersecutoria, Talché, almeno dal punto di vista dell’analisi scientifica dei fenomeni, lo schema pandettistico appare, anche sotto questo riguardo, un residuato storico superato. È toccato all’esperienza giuridica degli ultimi decenni, in una faticosa e incerta opera, il compito di realizzare normativamente, e di darne conto nella sistemazione scientifica, quel distacco netto e, si spera, definitivo della pena dal campo del diritto privato, che già dl senso di equità e la progredita coscienza umana dei giuristi classici avevano, in larga misura, raggiunto”. Ciò per quanto riguarda l’illecito civile. Per quanto attiene all’illecito penale, invece, riandiamo alle pagine della voce del Crifò, Illecito, in Nov. Dig. It., citato che qui riportiamo per la parte dell’illecito extracontrattuale e quindi di natura penale (a differenza dell’illecito contrattuale, e quindi civile): “Nel considerare ora l’illecito extracontrattuale, occorre anzitutto specificare le differenze che intercorrono fra il diritto moderno ed il diritto romano, il quale conosce un diritto penale privato in cui l’atto illecito di diritto penale viene punito ad iniziativa della parte lesa, la quale, d’altra parte, ottiene una poena, con una funzione che è afflittiva per il colpevole e di riparazione del torto subito per la parte lesa. Si ha quindi una grande partizione tra quegli atti illeciti extracontrattuali che colpiscono un interesse de,l singolo e sono soggetti quindi a persecuzione penale privata e gli atti illeciti che offendono gli interessi della comunità e sono soggetti, conseguentemente a persecuzione pubblica. Si è affermato che, nelle fonti giuridiche classiche, delinquere sia il termine (tecnico) per indicare il comportamento qualificabile come atto illecito in generale, l’atto illecito punito con pena privata dall’ius civile, quello analogamente punito con pena privata ma dall’ius honorarium. quello punito con pena afflittiva o pecuniaria extra ordinem, espressione di cui i giustinianei si Caietele Institutului Catolic X (2011) 289-326 320 ETTORE TOMASSI servirebbero anche per indicare il crimen ordinario. Ma. in linea di massima le fonti offrono una grande diversità terminologica. senza che le distinzioni sostanziali siano rese sempre esattamente, dato l’uso spesso sinonimico di termini come scelus, fraus, maleficium, delictum, flagitium, facinus, peccatum, delictum, probrum, crimen, ecc., ciascuno dei quali deve aver avuto, però, almeno all’origine, un ambito specifico di applicazione. Di tale specializzazione non molte tracce restano nel diritto classico e meno ancora in quello postclassico, in cui tali diversi termini non sembrano rispondere a nozioni dogmaticamente valide, con eccezione però di delictum e crimen, che le indagini dell’Albertario hanno tentato di far valere siccome termini tecnici del diritto classico per designare rispettivamente l’atto illecito generatore di obligatio, disciplinato dall’ius civile che vi ricollega come sanzione una poena privata e (crimen) l’atto illecito punito dall’ius publicum con pena pubblica. Solo nell’età successiva (ma ciò viene affermato svalutando le testimonianze anche non giuridiche dell’età repubblicana), si sarebbe giunti ad un’equivalenza dei due termini che avrebbero perduto il loro rigore. Ma le molte critiche rivolte al tentativo dell’Albertario fanno escludere tale tecnicismo, pur se si deve riconoscere una forte tendenza dei classici ad usare i due termini nel senso voluto dall’Albertario. Comunque sia dell’indagine terminologica, il diritto penale romano presenta la fondamentale distinzione tra atti lesivi di interessi collettivi, puniti dallo Stato, ed atti lesivi di interessi individuali, che sinteticamente si possono far rientrare o tra le lesioni alla persona (iniuria) o tra quelle al patrimonio (furtum). Da questi ultimi illeciti, « privati », sorge una obligatio (ex delicto) che rappresenta il punto terminale di un’evoluzione per cui dal primitivo potere di vindicta, attraverso l’uso della composizione pecuniaria volontaria (Lex XII tab., VIII, 3: «pro fure damnum decideire»; cfr. C, 6, 2, 13; Ulp., D, 2, 14, 7, 14), poi legalizzata (non contemporaneamente per le varie fattispecie già previste: Tab., VIII, 12-16; Gai., 3, 189; Gell., 20, 1, 7; Cic., pro Tull., 21, 50; Gai., D, 9, 2, 4, 1; Paul., Sent., 5, 4, 6), e l’eliminazione della pene corporali, si giunse alla nascita, dall’illecito stesso, di una obbligazione diretta ad ottenere la riparazione del torto subito (poena). Ai quattro antichi delitti dell’ius civile (furto, rapina, iniuria, damnum iniuria datum), si aggiunsero poi le altre fattispecie configuranti illeciti sanzionati da azioni pretorie e che in parte rientrarono nell’elaborazione che delle fonti di obbligazione fu fatta dai compilatori giustinianei, nella figura dei quasi-delitti. In via generale, l’atto illecito penale è quello che va contro una disposizione giuridica penale: se manca la norma, che deve essere identificata, anche oltre la lettera della legge, nello scopo che essa voleva raggiungere (Ulp., D, 2, 1, 7, 2; D, 3, 2, 13; D, 9, 3, 5, 12; D., 48, 10, 22, 8; Tac., Ann., J, 72), tale Caietele Institutului Catolic X (2011) 289-326 Il sistema punitivo e penitenziario in epoca romana – IV 321 mancanza impedisce la qualificazione dell’atto siccome illecito (Mod., D, 48, 4, 7, 3). Elementi dell’illecito penale. - L’elemento oggettivo è il torto, la lesione d’un diritto (Cic., de invent., I, 15; Ulp., D, 9, 2, 5, 1; Coll., 2, 5, 1), che manca quando si pone in essere, per es., un dato comportamento esercitando un proprio diritto (valutazione modificatasi in diritto postclassico, in rapporto alla diversa considerazione della violenza privata: cfr. Ulp., D, 47, 8, 2, 18; Paul., Sent., 5, 6, 7; Ulp., D, 47, 2, 56 (55); D, 4, 2, 12, 2 e C, 8, 4, 7; C, 9, 3, 33; Paul., D, 48, 7, 7, ecc.). Il profilo del torto viene meno anche nel caso in cui vi sia stato consenso da parte del proprietario della cosa danneggiata a che essa venisse danneggiata (Ulp., D, 9, 2, 7, 4), decisione alla cui base si trova un principio che ha numerose altre applicazioni nelle fonti [nulla iniuria est, quae in volentem fiat: cfr. Ulp., D, 47, 10, 1, 5; eod. tit., 15, 34; eod. tit., 17; eod. tit., 26, pr.; Paul., D, 2, 4, 11; Ulp., D, 47, 2, 46, 7-8 (consenso del derubato); Paul, D, 39, 3, 9, 1; Ulp., D, 47, 10, 1, 5] (1); ovvero si sia trattato di legittima difesa (Paul., D, 9, 2, 45, 4; Cic., pro Tull., 24), esercizio di un proprio diritto, esercizio di atti connessi alle proprie pubbliche funzioni: Ulp., D, 47, 10, 13, 1: «qui iure publico utitur non videtur iniuriae faciendae causa hoc facere; iuris enim executio non habet iniuriam» [applicazioni: Ulp., D, 47, 10, 13, 2; eod. tit., 15, 39; Paul., D, 18, 6, 13 (12); eod. tit., 14 (13); Ulp., D, 9, 2, 29, 7]; ecc. La classificazione riferita in Claud. Sat., D, 48, 19, 16, appartiene ad un periodo dominato da concezioni in netto contrasto con quelle che vigevano in origine, allorché si dava prevalente importanza all’evento, al fatto oggettivo dell’essersi verificata una lesione ai danni di altri (Fest., paricidii, Serv., ad egl., 4, 43; Gai., D, 47, 9, 9). Le nuove valutazioni sono invece espresse, per es., da un rescritto di Adriano (Call., D, 48, 8, 14): « in maleficiis voluntas spectatur, non exitus »; Paul., Sent., 5, 23, 23: « … consilium enim uniuscuiusque, non factum puniendum es t»; cfr. Coll., 1, 6, e Marcian., D, 48, 8, 1, 3; Paul., D, 47, 2, 54 (53): « nam maleficia volunnas et propositum delinquentis distinguit ». Il contrasto, per il quale si è potuto parlare di una fase oggettiva del diritto penale intendendosi escludere, ai fini dell’imputabilità, che occorresse un elemento intenzionale qualificante l’evento dannoso, ha un fondamento di verità storicamente accertabile, la non punibilità del tentativo. Ma già il Ferrini, contro il Mommsen dava conto della incertezza di una postulata mancanza dell’elemento soggettivo a proposito della norma delle XII Tavole (8, 24 a) «si telum manu fugit magis quam iecit aries stibicitur». Le fonti, comunque, indicano siccome elemento soggettivo del reato il dolo, che non è da confondere con quello che si ritrova nel cosiddetto delitto di dolo, al quale i classici non avrebbero mai attribuito la qualifica di atto illecito punito dall’ius civile con pena privata. La nozione di dolo che è presente in tale fattispecie (nella quale Caietele Institutului Catolic X (2011) 289-326 322 ETTORE TOMASSI si dà appunto in via sussidiaria l’azione di dolo) (D, 4, 3) è contenuta nella definizione di Servio in Ulp., D, 4, 3, 1, 2: «machinatio quaedam alterius decipiendi causa, cum aliud simulatur et aliud agitur», criticata per vero da Labeone, il quale ne enuncia un’altra, accettata anche da Ulpiano che le riferisce entrambe (es., Ulp., D, 4, 3, 7, 10; eod. tit., 6 a 9, pr.; eod. tit., 1; Ulp., D, 17 1, 42). Per quanto riguarda invece il dolo siccome elemento soggettivo del reato in genere, occorre distinguere secondo che si tratti di crimina o di delicta, secondo la differenziazione già indicata: nel primo caso vi è dolo quando vi sia l’intenzione di incendiare, uccidere, ecc., indipendentemente dal motivo che spinge a ciò come pure dalla presenza di circostanze quali la violenza, l’agguato, ecc. Nel secondo, pur senza insidia o premeditazione, si ha dolo se risulti la voluntas di commettere quel dato illecito [Paul., D, 47, 2, 54 (53)]: perciò chi, per es., sfonda le porte dell’altrui casa per recare un’iniuria, risponderà solo a questo titolo e non anche per il furto che, per avventura, a seguito dell’effrazione si sia verificato di oggetti della casa. In sintesi, il significato più generale di dolo è quello di consapevole, cosciente intenzione del torto che si commette. Alcuni Autori, in verità, ritenevano che non si costituisse per i Romani la fattispecie del comportamento doloso, se mancasse una qualificazione d’immoralità della voluntas diretta all’illecito o non vi fosse intenzione diretta a provocare un danno. Ma già il Segrè obiettava che per ciò che concerne l’immoralità dell’intenzione, dalle fonti risulta punito sia il dolo cosiddetto di proposito, sia quello non premeditato e senza impulso malvagio e disonorevole. Quanto poi all’argomento che a favore della seconda qualificazione viene desunto da Ulp., D, 9, 2, 5, 1 («iniuriam hic damnum accpiemus culpa datum etiam ab eo qui nocere noluit» a parte il sospetto di interpolazione del testo, non riprodotto nella Coll., 2, 7, 3, qui è la fattispecie stessa dell’illecito, e cioè il danneggiamento, che obbliga a che l’elemento doloso consista nell’intenzionalità dell’evento, differentemente, ad es., dal furto, dove il dolo è dato dall’appropriazione della res invito domino. E’ evidente in ogni caso quel che diceva il Segrè, che ciò che identifica il comportamento doloso dell’agente è il fine antigiuridico che si compie, ponendo in essere una data attività: perciò si comprende che Ulpiano (D, 11, 3, 5, itp.?) veda presente il dolo anche nell’attività di corruzione rivolta verso chi si ritiene essere libero, proprio perché la corruzione in sè è uno scopo antigiuridico. Quando alla culpa, essa è limitata do un lato dal caput (Alf., D, 9, 2, 52, 4: «cum casu magis quan culpa videretur factum»), dal dolus dall’altro; concetto, quest’ultimo in funzione proprio della culpa, come è provato da ciò che nei crimina e nei delicta in cui occorre il dolo, la stessa culpa [usata nel senso non già di imputabilità, indicativa cioè del semplice nesso causale, o addirittura comprensiva di ogni elemento d’imputabilità (Marcian D, 48, 8, 1, 3: «casu Caietele Institutului Catolic X (2011) 289-326 Il sistema punitivo e penitenziario in epoca romana – IV 323 magis quam voluntate»; Coll., 1, 6, 1; Gai., D, 9, 16, 4, 5, 47, 7, 9) bensì in senso tecnico cioè come difetto di prudenza o di cura, perizia, esperienza, ecc. (Gai., D, 9, 2, 8, 1; D, 50, 17, 132; Ulp., D, 1, 18, 6, 7; D, 4, 3, 7, 1)], è detta casus. Come si deve valutare, però, l’espressione culpa lata? Nelle fonti, infatti, tale espressione è equiparata al dolo (2) (Ulp., D, 50, 16, 213, 2; Paul., eod. t., 223 pr.; Coll., 12, 5, 2 [Gai., 3, 202]). Ora il Binding, partendo dall’idea che l’elemento del dolo possa aversi solo in presenza d’un impulso malvagio che spinga a tenere il dato comportamento dannoso, ritenne che la culpa lata stesse a indicare la conoscenza dell’obiettiva illiceità dello scopo che si vuole raggiungere e che si raggiunge pur senza quei tali abietti motivi. Non è il caso di esporre qui le critiche alla teoria del Binding; piuttosto, si è osservato dalla dottrina che i testi in cui compare la menzione della culpa lata e la sua equiparazione al dolo sono testi interpolati (4), con eccezione di alcuni che si riferiscono però ad illeciti puniti con pena pubblica (Ulp., Coll., 12, 5, 3; Marcian., D., 47, 9, 11; Call., D., 48, 3, 12) sicché potrebbe aversi una conclusione nel senso di una elasticità della culpa lata siccome criterio di imputabilità in alcuni crimina. Ed è anche interessante la congettura del Segrè che vede una possibile applicazione classica della culpa lata in ordine all’onere della prova: quando fosse risultato necessario provare il dolo, l’accertamento della culpa lata avrebbe prodotto una inversione dell’onere della prova in ordine al dolo, nel senso che sarebbe spettato all’agente di dimostrare l’assenza di dolo: dopo di che, i compilatori avrebbero senz’altro equiparato dolus e culpa lata . E’ da vedere a questo punto se, nell’ambito degli illeciti di diritto privato, sia altresì esclusa la culpa, come elemento sufficiente allo qualificazione dell’atto siccome punibile (e il discorso si fa sempre per il diritto classico, giacché le generali prospettive dell’imputabilità mutano, in diritto postclassico e giustinianeo, in senso nettamente soggettivistico, ed introducono quindi ogni sorta di indagine sull’elemento soggettivo, ecc.). Orbene, va anzitutto detto che il dolo è l’elemento necessario per il furto (Ulp., D, 47, 2,50, 2; Paul., Sent., 2, 31, 1; Paul., D, 47, 2, 1; Gai., 3, 195, 197; Ulp., D, 4, 1. 6; Macer, D, eod. tit., 8), la rapina, che è furto aggravato (UIp., D, 47, 8, 2, 23; Gai., 4, 182), l’iniuria (Ulp., D. 47, 2, 21, 7). Per quanto riguarda, invece, il delitto di danneggiamento (damnum iniuria datum) è proprio nell’ambito della lex Aquilia (che introduceva una disciplina organica, rispetto alle precedenti disposizioni della legge delle XII Tavole in ordine al risarcimento del danno, in fattispecie peraltro limitate: cfr. Fest., rupitias sarcito; Ulp., D, 9, 2, 1) che si rinviene il termine colpa. Occorre però vedere se l’elemento soggettivo non sia indicato piuttosto dall’altro elemento della iniuria; nel primo caso, invero, la culpa è Caietele Institutului Catolic X (2011) 289-326 324 ETTORE TOMASSI comprensiva anche del dolo e neppure si può intendere il testo di Ulp., D, 9, 2, 44 («in lege Aquilia et levissirna culpa venit») diversamente da un invito a non porre in questione, nella valutazione dell’imputabilità, indagini tendenti a rilevare una gradazione di responsabilità, che nulla avrebbero a che fare nell’ambito della responsabilità extracontrattuale. L’imputabilità, invero, a stregua del plebiscito aquiliano, dovrebbe considerarsi individuata nella sola presenza di un nesso causale univoco fra il comportamento dell’agente e l’evento dannoso, ciò che induce l’esclusione di una responsabilità per omissione, nonché, appunto, la ricerca di elementi soggettivi di valutazione, in ordine cioè alla maggiore o minore diligenza, ecc. Alcuni Autori affermano conseguentemente che la nozione di culpa non trova applicazione neppure nel delitto aquiliano e che le fonti che potrebbero deporre nel senso di una valutazione del genere risultano interpolate dai compilatori che avrebbero invece fatto rientrare anche la culpa aquiliana nell’ambito dei criteri da essi elaborati. Ma a tale risultato si opponeva il Segrè, il quale riteneva che addirittura nell’ambito originario di applicazione della lex Aquilia si avesse necessità di individuare la stregua di imputabilità in un momento soggettivo, oltre quindi la presenza di un semplice nesso causale: giacché, egli dice, oltre i requisiti obiettivi dell’alienità della cosa, della distruzione o deterioramento arrecato alla cosa, essa accenna anche alla necessità che il fatto avvenga iniuria (Gai., 3, 210, 217), alludendo ad un momento subiettivo. Non sembra, invece, proponibile il dubbio che, se vi è differenza fra il senso che aveva originariamente iniuria nella lex Aquilia e quello che assunse nel diritto classico, questa differenza non potrebbe consistere che in ciò, che per la lex Aquilia il requisito subiettivo richiesto fosse il dolus, mentre poi si ammise che bastasse anche la semplice colpa, mentre vale invece l’osservazione del Betti che la responsabilità aquiliana non potesse essere comunque obiettiva, perché l’obbligazione che ne nasceva (dato il carattere dell’obbligazione romana siccome vincolo di garanzia gravante sulla persona, ecc.) « non poteva venire in essere senza un fatto precisamente riferibile alla volontà di quella determinata persona». Vi è però anche da considerare quale sia la situazione per una serie di atti illeciti non costituenti delicata (per i quali, Gai., D, 44, 7, 4; J., 4, 1, 2; 3; 4; Gai., 3, 182-225; 4, 112; J., 4, 12, 1; Gai., D, 50, 17, 3, 1; Ulp., D, 44, 7, 25, 1) e di cui sono esemplificati nelle fonti i seguenti casi: iudex qui litem suam fecerit (dolo o imprudentia [Gai., 4, 52] non dà la sententia o la dà ingiusta); habitator cenaculi ex quo deiectum effusumque aliquid sit ita ut alicui noceret; positum et suspensum; damnum e furtum commesso da dipendenti di caupo exercitor stabularius (J., 4, 5). Caietele Institutului Catolic X (2011) 289-326 Il sistema punitivo e penitenziario in epoca romana – IV 325 Le obiezioni del Segrè a che il criterio discretivo tra queste fattispecie e quelle costituenti delicta fosse che si trattasse di illeciti puniti dall’ius pretorio; in particolare, che è strano, che è strano che non si faccia menzione tra esse di ben più importanti azioni pretorie penali (de dolo; de servo corrupto, quod metus causa, Fabiana e Calvisiana per atti del liberto in frode dei diritti successori del patrono, Pauliana, ecc.); inoltre, che neppure ci si può servire dell’elemento soggettivo, perchè accanto alla responsabilità incolpevole del nauta, ecc., vi è la richiesta del dolo o almeno dell’imprudentia per l’iudex; non sono accettabili se non per quanto riguarda la rilevanza dell’elemento, soggettivo, di cui in effetti si servono proprio i giustinianei per operare la differenziazione scolastica tra obligationes quae ex delicto - e obligationes quae quasi ex delicto nascuntur, richiedendosi per le prime il dolo quale elemento soggettivo dell’illecito, rimanendo invece sufficiente per le seconde la culpa. Il Betti in vari studi ha precisato il modo con cui i bizantini operarono nella formazione ditali fonti di obbligazione: 1° (elevando) «senz’altro a fonti di obbligazioni quei medesimi atti illeciti di diritto pretorio che i classici equiparavano, dal punto di vista processuale, all’obligari ex delicto per la responsabilità (actione teneri) che ne conseguiva; 2° (convertendo) l’equiparazione classica in una… assimilazione discretiva, che viene fondata sopra un raffronto delle diverse fattispecie dal punto di vista sostanziale della loro natura e cioè, dall’un canto, sopra la loro fondamentale affinità reciproca quali atti illeciti, dall’altro canto, sopra un carattere differenziale, che rende impropria per le une la qualifica di delictum, propria dell’altra; 3° (creando) in modo artificioso codesto carattere differenziale per quel che si riferisce al maggiore o minore grado di imputabilità la quale viene fatta consistere — almeno normalmente e tendenzialmente — nel dolo per i delitti e nella colpa per i quasi delitti». Per quanto si riferisce poi a quelle fattispecie illecite in cui, pur mancando del tutto l’elemento soggettivo, viene tuttavia riferita ad una data persona la sanzione, casi nei quali, a dire la verità, non sussiste un vero e proprio torto secondo la nozione che se ne è data, il particolare atteggiarsi di queste fattispecie (actio de pauperie [Ulp., D, 9, 1, 1]; effusum et deiectum; positum et suspensum [Ulp., D, 9, 3, 5, 6]), ed in genere di tutti quei fatti o atti che determinano una lesione del diritto altrui, senza che sussista però la possibilità di valutare siccome illecito il fatto o l’atto, in quanto manchi l’iniuria, dando luogo a casi di responsabilità obiettiva, involgono problemi che meglio si troveranno trattati nelle singole voci pertinenti alle diverse fattispecie. Analogamente per le altre figure di illeciti pretori che troveranno adeguata trattazione nelle relative voci. Caietele Institutului Catolic X (2011) 289-326 326 ETTORE TOMASSI Per quanto riguarda la sussistenza di cause escludenti o attenuanti l’imputabilità di un dato atto illecito penale (sicché torniamo ad occuparci della teoria generale), vi sono molte fonti nelle quali si fa questione se l’età sia o meno scriminante: in alcune di esse anzi si afferma senza discussione che solo il maggiore di età può essere punito in quei delitti nei quali la valutazione dell’elemento soggettivo è particolarmente rigorosa. Così nel delitto cosiddetto di dolo (Ulp., D, 4, 3, 13, 1) o nel caso di complicità nel furto (Ulp., D, 47, 2, 23, i. f.) non è chiamato. a rispondere il minore di età che, invece, è imputabile per il furto che egli, abbia direttamente commesso (Ulp., D., 9, 2, 5, 2) e per il danneggiamento (Ulp., D, 9, 2, 5, 2). La continua discussione che peraltro si verificava tra i giuristi in ordine all’imputabilità o meno dell’impubere (per. es., Ulp., D, 43, 4, 1, 6; D, 47, 8, 19; D, 47, 10, 3, 1; D, 47, 12, 3, 1; D, 4, 3, 13, 1; D, 4, 7, 10, 1, ecc.) ebbe una risposta legislativa con la costituzione di Alessandro Severo (C, 9, 47, 7) in cui si affermava che «impunitas delictis propter aetatem non datur, si modo in ea. quis sit, in quam crimen quod intenditur cadere potest». Sicché, in linea di massima, non è chiamato a rispondere colui il quale sia infans (ed alla stessa sua stregua è valutato il comportamento del furiosus, tranne che tale comportamento non si sia verificato durante un lucido intervallo); la minore e tarda età, come il sesso, non valgono invece ad escludere, ma valgono, in certi casi, ad attenuare la sanzione dell’illecito commesso. Non si ha invece responsabilità per quelle lesioni che siano arrecate ad altri fortuna ovvero necessitate (ad Her., 1, 14; 2, 16; Liv., 5, 11, 12; 26, 3; Ulp., D, 47, 6, 1, 1; Uip., D, 48, 5 [14], 13, 7; Ulp., D, 49, 16, 14 pr.; C, 9, 20, 20). Nel caso in cui sia contestabile l’ignoranza di fatto in ordine a qualcuno degli elementi costitutivi dell’illecito, le fonti danno alcune soluzioni da cui appare escluso il profilo dell’imputabilità, proprio perché l’ignoranza, ad es., esclude il dolo, senza il quale non è possibile qualificare il dato comportamento (valutabile a stregua, appunto, di dolo) siccome illecito. Esempi in Ner., D, 47, 2, 84 (83) da cfr. con Paul., D, 46, 19, 6; Gai., 3, 197 e Pani., D, 47, 2 47, 7; Ulp., D, 47, 10, 3, 4; eod. tit,, 15, 45; Paul., eod. .tit, 18, 5; Ulp., eod. tit., 17 pr. per quanto riguarda i delitti privati e analogamente, nei caso di illeciti puniti con pena pubblica in via ordinaria e straordinaria: Pap., D, 48. 5, 12 (11), itp.; Ulp., D, 48, 5, 30 (29), pr. Da altre decisioni (per es., Paul., D, 47, 10. 18, 3-4-5; D, .9, 2, 45, 2) appare invece che l’errore sia pure di fatto su circostanze non essenziali alla qualificazione di illiceità del comportamento de quo; non escludendo, per es., l’elemento soggettivo sufficiente a tale qualificazione, non dà luogo a scriminanti in ordine all’imputabilità”. Caietele Institutului Catolic X (2011) 289-326