P. Diadori, Come si traduce: la traduzione in prospettiva interculturale, in Semplici S., Gennai C. (cur.), Lo stile didattico del lettore di italiano L2: come si…, Atti del corso di aggiornamento per lettori di italiano all'estero organizzato dal MAE, dal MPI e dall'Università per Stranieri di Siena (26.11 –1.12.2001), Università per Stranieri, Siena 2003, pp. 55-85 Abstract: In questo articolo si considerano le strategie di traduzione adottate nel doppiaggio e nei sottotitoli dei film. Nel caso che l'originale presenti il fenomeno della mescolanza e dello slittamento di codici, viene rilevato il diverso trattamento del testo plurilingue, a seconda che si tratti di una traduzione per il doppiaggio o per i sottotitoli. Come si traduce: la traduzione in prospettiva interculturale Pierangela Diadori Università per Stranieri di Siena Lo stile didattico di un docente di italiano a stranieri deve tener conto anche di come si traduce da e in italiano, soprattutto in una prospettiva interculturale, dato l'ampio spettro di realtà di insegnamento e la diversificazione delle motivazioni allo studio di questa lingua, in Italia e all'estero, così come viene testimoniato dalla più recente indagine sulle motivazioni all'apprendimento/insegnamento dell'italiano nel mondo (De Mauro T., Vedovelli M., 2001)1. I tempi sembrano dunque maturi per una rivisitazione della traduzione come strumento didattico, alla luce di alcuni parametri di analisi che hanno vissuto una serie di svolte particolarmente significative nell'ultimo decennio: a. correnti traduttologiche dalla seconda metà del '900 a oggi; b. correnti glottodidattiche dalla seconda metà del '900 a oggi c. la traduzione nel Quadro comune europeo di riferimento per le lingue: una prospettiva di mediazione interculturale. 1. Le correnti traduttologiche dalla seconda metà del '900 a oggi Alcuni dei saggi più recenti contenenti una panoramica sulle teorie della traduzione (Nergaard, 1995, pp. 1-48; Borello, 1999, pp. 67-105) concordano nel suddividere la seconda metà del '900 in tre periodi corrispondenti a tre diverse impostazioni: 2 a. lo strutturalismo e la "scienza della traduzione" (anni '50-'60); b. l'analisi testuale e la "teoria della traduzione" (anni '70- inizio anni '80); c. la via sociolinguistica dei "translation studies" (anni '80-'90). Secondo Neergard (1995, p. 4) queste tre generazioni di studi traduttologici corrispondono, in base alla delimitazione del loro campo di indagine, rispettivamente: a. alla parola; b. al testo (in particolare quello letterario); c. al testo in senso lato, comprendente ogni tipo di genere testuale e discorsivo oggetto di traduzione. 1 L'indagine (identificata dal titolo "Italiano 2000"), è stata realizzata per via informatica, attraverso un questionario sottoposto ai circa 100 Istituti di Cultura Italiana nel mondo, ed ha confermato, oltre a un aumento complessivo di studenti che si dedicano allo studio dell'italiano presso queste istituzioni, un ampliamento della gamma di motivazioni (nell'ordine: interessi culturali, personali, lavorativi e di studio) che conferma una nuova spendibilità sociale della competenza in italiano L2. 2 Cfr. invece i contributi sulle teorie traduttive per aree geografiche, in Ulrich, 1997, pp. 195-349. 1.1. Lo strutturalismo e la "scienza della traduzione" (anni '50-'60) Le correnti di pensiero che caratterizzano questa prima fase vedono nella traduzione una disciplina esatta (da qui l'appellativo di "scienza della traduzione"), con tecniche che fanno costantemente riferimento alla linguistica: si pensa che i fenomeni della traduzione possano essere descritti, schematizzati e formalizzati in termini logici3, in particolare secondo la logica dei calcolatori. La "Scuola di Praga" considera la traduzione un'operazione particolarmente rilevante, come momento centrale della teoria linguistica e del processo semiotico: proprio in quest'ottica semiotica Roman Jakobson imposta, negli anni '50, il problema della traduzione come forma di "interpretazione" e distingue tre tipi di traduzione tuttora validi: - endolinguistica (riformulazione di segni linguistici tramite altri segni della stessa lingua); - interlinguistica (interpretazione di segni linguistici attraverso una lingua diversa); - intersemiotica (interpretazione di segni linguistici tramite segni non linguistici). Mounin (1963) rafforza l'idea di traduzione come luogo di contatto fra lingue da una prospettiva strutturalista, sostenendo che i problemi sulla legittimità o illegittimità, sulla possibilità o impossibilità della traduzione si possono chiarire solo considerandoli nell'ambito della scienza linguistica. Secondo lo strutturalismo ogni lingua è vista come un insieme di sistemi che conoscono solo il proprio ordine, ma trascurano il sistema di regole che determinano la funzione effettiva degli elementi nel testo4. Una corrispondenza esatta fra strutture e campi semantici della L1 e della L2 è impossibile: solo la conoscenza empirica, extralinguistica del traduttore permette di superare la traduzione letterale e arrivare a trasmettere il "senso" dell'originale. L'approccio generativista di Chomsky (1965) affronta il problema da un altro punto di vista: esistono degli "universali semantici", cioè strutture profonde che rappresentano le relazioni costanti stabilite dai processi cognitivi e soggiacciono a ogni manifestazione linguistica. Ogni lingua richiede dunque la trasformazione a livello di superficie di quelle realtà. Questa teoria (detta anche "teoria degli universali linguistici") non offre al processo traduttivo una collocazione adeguata: data la natura intralinguistica della struttura profonda chomskiana, ne resta esclusa la dimensione interlinguistica: si parla di traduzione a livello di parola o di frase, mentre il testo, specialmente quello letterario è troppo complesso e "incontrollabile" per essere analizzato in termini scientifici. Anche mettendo in risalto il carattere strutturale della lingua si può arrivare solo a segnalare l'opacità reciproca degli elementi strutturali da un sistema linguistico all'altro. 1.2. L'analisi testuale e la "teoria della traduzione" (anni '70- inizio anni '80) Gli anni '70 significano per la linguistica il passaggio dall'enunciato al testo: il linguaggio è visto nella sua funzione comunicativa tra i diversi contesti culturali. Già Richards (1953) aveva rilevato che il significato è qualcosa di complesso che implica aspetti espliciti e impliciti. Non si può porre il problema della traduzione solo sul piano formale, ma occorre coinvolgere altri aspetti relativi al contesto linguistico e extralinguistico: l'aspetto linguistico è solo uno dei tanti aspetti che interessano il processo traduttivo. La delusione per gli scarsi risultati offerti dalle discipline informatiche alla "scienza della traduzione", spingono a rifiutare il termine di "scienza" a favore di quello di "teoria": la "teoria 3 Vinay e Darbelnet, per esempio, nel loro studio sulla stilistica comparata del francese e dell'inglese (1958), individuano sette operazioni che il traduttore deve affrontare nel rapportarsi con il testo di partenza: 1) prestito (transliteration); 2) calco (loan translation); 3) traduzione letterale (literal translation); 4) trasposizione (transposition): cambiamenti morfosintattici richiesti dalla lingua di arrivo, obbligatori o facoltativi; 5) modulazione (modulation), che dimostra la conoscenza della mentalità e della cultura di arrivo, es. it. "imparare a memoria" - ingl. "to learn by heart"; 6) equivalenza (equivalence) nei proverbi e nelle frasi idiomatiche, es. it. "la goccia che fa traboccare il vaso" - ingl. "the last straw"; 7) adattamento (adaptation): adattare la traduzione alle conoscenze e alle consuetudini culturali dei destinatari per evitare incomprensioni. 4 Cfr. anche Catford (1965), che considera la traduzione come un'operazione fra lingue, mentre la contestualità non entra in gioco in quanto non completamente traducibile. della traduzione", o "traduttologia", non ha lo scopo di superare i problemi dell'atto di tradurre attraverso una serie di regole prescrittive, ma vuole piuttosto essere una disciplina a sé stante, che ha per oggetto la riflessione sulla traduzione in sé e sui fattori che la caratterizzano. Gli studiosi spostano il loro interesse dalle relazioni prettamente interlinguistiche a quelle intertestuali: il testo letterario, precedentemente escluso da ogni approccio scientifico ai problemi della traduzione, viene ad essere ora il "testo" per eccellenza, su cui verificare e discutere le problematiche della traduzione. Un anticipatore di questo spostamento di prospettiva era stato il tedesco Nida (1964), che pur partendo da basi cognitiviste, aveva dato importanza agli elementi testuali e contestuali. Basandosi sul concetto chomskyano di competence, Nida distingue infatti fra "equivalenza formale" e "equivalenza dinamica": in questa ottica, non si può considerare "fedele" la traduzione che privilegia la forma, e "libera" quella che privilegia il contenuto, ma è piuttosto la traduzione formale quella che produce interpretazioni non appropriate, mentre quella dinamica finisce per essere più fedele all'originale. Nella sua sperimentazione di queste teorie sulla traduzione della Bibbia, Nida rimane comunque legato all'illusione della "fedeltà all'originale": il testo tradotto deve, secondo lui, produrre sul lettore della lingua di arrivo gli stessi effetti che il testo di partenza produce sul lettore dell'originale. Negli anni '70 gli studi sulla teoria della traduzione del testo letterario prendono l'avvio dalle opere dei formalisti russi sul concetto di "letterarietà" e si espandono poi in tutta Europa, in particolare nei Paesi Bassi (con James S. Holmes, ) e in Francia (con Henri Meschonnic). Per reazione contro il carattere normativo degli studi sulla traduzione degli anni '50-'70, si riconosce ora l'impossibilità di ottenere una qualunque equivalenza (letterale o funzionale) rispetto all'originale: la traduzione comporta una inevitabile deviazione (Popovic,1970). Si criticano gli approcci linguistici alla traduzione: secondo Meschonnic (1973) la traduzione è un'operazione translinguistica che non può essere spiegata dalla semantica strutturale o dalla grammatica trasformazionale, dato che non può si separare forma e significato5. La traduzione coinvolge un ampio settore di esperienze linguistiche e culturali e da ciò derivano due principi traduttivi contrapposti, quello del "decentramento" e quello dell'"annessione": - con il "decentramento" si instaura un rapporto testuale tra due testi in due lingue-culture che comporta un'interpretazione da parte del traduttore: è evidente qui il duplice aspetto interlinguistico e interculturale; - con l'"annessione" si opera come se il testo di partenza fosse scritto nella lingua di arrivo, senza tener conto delle differenze di epoca, cultura e struttura linguistica: l'antinomia testotraduzione/scrivere-tradurre valorizza il testo e considera la traduzione inferiore alla letteratura.6 Newmark (1981 e 1982) distingue due modi di affrontare la traduzione: - la traduzione "comunicativa" (orientata verso il destinatario), che vuole produrre sul lettore degli effetti più vicini possibile a quelli ottenuti sul lettore dall'originale; - la traduzione "semantica" (orientata verso l'autore), per avvicinarsi più possibile, per quanto lo permettono le strutture semantiche e sintattiche della l2, all'esatto significato contestuale dell'originale. 1.2.1. Poesia e "metapoesia" nell'ipotesi di J.S. Holmes In un suo saggio del 1969 dal titolo Forms of Verse Translation and the Translation of Verse Form (ristampato in Holmes, 1988 e tradotto in Nergaard, 1995), James S. Holmes analizzava i vari tipi di traduzioni possibili in poesia. 5 Ladmiral (1979), partendo dalla sua esperienza di traduttore, rifiuta come Henri Meschonnic la dicotomia formasenso: per lui il traduttore è un "coautore", libero di operare delle scelte non arbitrarie nei confronti del destinatario. 6 Questa posizione non riconosce però il ruolo che spesso la traduzione ha giocato nella lingua di arrivo: la traduzione non è un semplice testo che rimanda all'originale, ma è a sua volta un'opera di cui si può studiare la fortuna e l'influsso sui lettori. La traduzione in versi ("metapoesia") è il punto di incontro di relazioni convergenti da due diverse direzioni: la tradizione poetica della lingua di partenza e la tradizione poetica della lingua di arrivo. Il problema fondamentale è la scelta della forma in versi più appropriata in cui ricomporre la metapoesia. 7 Le soluzioni che Holmes propone sono varie forme di metapoesia: 1. "mimetica": la forma del verso della poesia originale è essenzialmente simile alla forma del verso della metapoesia; 2. "analogica": la forma del verso della poesia sta alla tradizione poetico-letteraria della lingua di partenza come la forma del verso della metapoesia sta alla tradizione poetico-letteraria di arrivo, ricoprendo la medesima funzione; 3. "organica": il punto di partenza è il contenuto della poesia e il materiale semantico, a cui è subordinata la forma della metapoesia; 4. "estranea": la metapoesia è calata in una forma non presupposta né dalla forma né dal contenuto della poesia originaria. Le prime due soluzioni sono derivate dalla forma, perché il traduttore cerca nella lingua di arrivo una forma di equivalenza della forma della poesia di partenza. La terza è derivata dal contenuto, mentre la quarta è deviante sia dal contenuto che dalla forma dell'originale.8 La scelta delle diverse forme di metapoesia dipende dal pubblico a cui si rivolge la traduzione: 1. la forma mimetica provoca nel lettore un senso di estraneità e di esotismo. Il lettore amplia la propria sensibilità letteraria; questo porta un arricchimento della tradizione letteraria di arrivo. E' usata nelle epoche con concetto di "genere" debole (es. '800); 2. la forma analogica permette di neutralizzare la poesia originale e di assorbirla nella propria tradizione. Usata in epoche con concetto di "genere" molto sviluppato (es. neoclassicismo del '700); 3. nella forma organica forma e contenuto sono inseparabili: il traduttore dimostra sfiducia nella possibilità di trasferimento transculturale (es. '900); 4. la forma estranea testimonia la libertà di trasferire il significato, con un minimo adattamento alla propria cultura formale, vicina all'imitazione (questa forma è sempre esistita, dal '600 a oggi). Riportiamo come esempi alcune traduzioni dal latino in italiano del famoso carme n. 5 di Catullo, con cui il poeta si rivolgeva alla sua Lesbia, probabilmente nel 61 a.C. Il testo originale è scritto in endecasillabi faleci, di cui riportiamo qui sotto la metrica: ' – – 1 ' ' ' ' – – – – – Vivamus, mea Lesbia, atque amemus 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 L'endecasillabo, verso lungo e variamente modulato nell'accento, è stato uno dei versi più usati nelle traduzioni in italiano dai classici latini e greci (si pensi all'Eneide tradotta da Annibal Caro, all'Iliade di Vincenzo Monti e a varie opere di Saffo e Orazio tradotte da Ugo Foscolo). Fra le numerose traduzioni di Catullo9 abbiamo scelto quelle che ci sono sembrate più rispondenti alla tassonomia di Holmes, ovvero: la traduzione "mimetica" in endecasillabi sciolti di D. Meneghini (1891); la traduzione "analogica" con ogni verso composto da due quinari accoppiati, il primo 7 Per comprendere meglio il concetto di "metapoesia" di Holmes è utile ricordare la divisione dei fenomeni letterari possono in due classi, operata da Roland Barthes: a) poesia, narrativa e teatro, b) scritti sulle formulazioni linguistiche prodotte da altri (linguaggio secondario, o metalinguaggio). Barthes si riferisce qui alla critica letteraria, ma ci sono anche altri generi metaletterari: 1) saggio critico redatto nella stessa lingua della poesia, 2) saggio critico in un'altra lingua, 3) traduzione in prosa, 4) traduzione in versi, 5) imitazione, 6) poesia sulla poesia, 7) poesia ispirata alla poesia. 8 Alla metà degli anni Settanta Lefevere (1975) propone sette strategie di traduzione poetica che riprendono l'impostazione descrittiva (non prescrittiva) inaugurata da Holmes: 1) fonemica, legata al suono ma non al significato; 2) letterale, attenta al contenuto semantico a scapito del valore letterario; 3) metrica, che conserva il metro ma non il significato e la sintassi; 4) in prosa, attenta al significato con perdita del suono poetico; 5) ritmica; 6) verso libero; 7) interpretazione, che perde il valore della struttura letteraria. 9 Per un confronto critico fra varie traduzioni del brano da noi scelto, si rimanda a Sega G. - Tappi O., Versioni latine. Avviamento alla traduzione, La Nuova Italia, Firenze, 1986, pp. 30-35. sdrucciolo e il secondo piano, dell'abate R. Pastore (1797), che censura l'ultima parte "erotica"; la traduzione "organica" di G. Cernetti (1969) e quella "estranea" di T. Rizzo (1977) in versi liberi. Vivamus, mea Lesbia, atque amemus rumoresque senum severiorum omnis unius aestimemus assis. Soles occidere et redire possunt: nobis cum semel occidit brevis lux, nox est perpetua una dormienda. Da mi basia mille, deinde centum, dein mille altera, dein secunda centum, deinde usque altera mille, deinde centum. Dein, cum milia multa fecerimus, conturbabimus illa, ne sciamus, aut nequis malus invidere possit, cum tantum sciat esse basiorum. TRADUZIONE MIMETICA Viviam, o Lesbia mia, viviamo amando e ad ogni ciarla degli austeri vecchi diamo il valor d'un asse: il sol cadere e sorgere può, ma se una volta il breve giorno tramontò per noi, dormir dobbiamo una perpetua notte. Mille baci mi da', poscia altri cento e mille ancora ed altri cento ancora, e mille e mille e cento e cento e infine dopo molte migliaia, mescoliamoli per non saperli o perché alcun maligno invidiar non ce li possa mai, de' nostri baci il numero sapendo. (trad. di D. Meneghini, Gallarate, 1891) TRADUZIONE ORGANICA Vita e amore a noi due, Lesbia mia e ogni acida censura di vecchi come un soldo bucato gettiamo via. Il sole che muore rinascerà ma questa luce nostra fuggitiva una volta abbattuta, dormiremo una totale notte senza fine. Dammi baci cento baci mille baci e ancora baci cento baci mille baci! Le miriadi dei nostri baci tante saranno che dovremo poi per non cadere nelle malie di un invidioso che sappia troppo, perderne il conto scordare tutto. (trad. di G. Ceronetti, Torino, 1969) TRADUZIONE IN PROSA Godiamoci la vita, o Lesbia mia, e amiamoci e non stimiamo più di un soldo tutti i borbottii dei vecchi troppo austeri. Il sole può tramontare e tornare: noi invece, una volta tramontata la breve vita, dobbiamo dormire una sola notte senza fine. Dammi mille baci, poi cento, poi altri mille e poi ancora cento, indi altri mille e poi cento. Poi quando ce ne saremo scambiati molte migliaia, ne imbroglieremo la somma, per ignorarla o perché un qualche malevolo non abbia a colpirci col malocchio, al saper esserci stati tanti baci. (trad. di L. Pepe e N. Scivoletto, Roma, 1968) TRADUZIONE ANALOGICA Viviam, mia Lesbia, e 'n pace amiamci, e tutti i strepiti tegniam per nulla de' vecchi rigidi: tramontar puote e poi rinascer a mane il sole: a noi perpetua da dormir resta notte nerissima, poiché una fiata questa ne spensesi fral luce breve. (trad. di R. Pastore, Venezia, 1797) TRADUZIONE ESTRANEA Viviamo, Lesbia, facciamo l'amore, lascia che i vecchi seriosi sbavino tutti quei loro discorsi da un soldo. Il sole tramonta, ma dopo torna: noi, una volta spento il lume, un'unica eterna notte ci addormenta. Dammi mille baci, poi cento, ancora mille, ed altri cento, ancora altri mille, e dopo cento. Infine, giunti a tante migliaia, ne faremo un dolce guazzabuglio, per non contarli più, o uno scalogno non possa invidiarci sapendo quanti mai sono i baci. (trad. di T. Rizzo, Roma, 1977) 1.3. La via sociolinguistica dei "translation studies" (anni '80-anni '90) La terza via per affrontare il problema della traduzione considera il processo traduttivo come un dialogo fra culture e integra gli studi letterari, semiotici e i cultural studies in quelli che si definiscono translation studies (usando la terminologia introdotta da Holmes). Già nei primi anni '70 James Holmes (americano trapiantato nei Paesi Bassi) aveva preso posizione contro la traduttologia come teoria astratta della traduzione, a favore di una disciplina empirica, essenzialmente descrittiva e esplicativa, che dovrebbe avere come oggetto di studio: 1. la descrizione dei fenomeni e la loro spiegazione, attraverso l'analisi: a. dei fenomeni traduttivi come si manifestano concretamente (area descrittiva preliminare a quella teorica); b. dei principi esplicativi dei fenomeni traduttivi (area teorica); 2. l'applicazione dei risultati della descrizione e spiegazione dei fenomeni, nell'ambito della formazione dei traduttori (inclusa la didattica della traduzione). Secondo Holmes l'area descrittiva dei fenomeni traduttivi si divide in: - "product-oriented": descrizione delle traduzioni e confronto fra traduzioni dello stesso testo; - "function-oriented": descrive la funzione delle traduzioni nel loro contesto di ricezione; - "process-oriented": studia quello che avviene nel processo traduttivo. La Scuola di Tel Aviv (con Itamar Even-Zohar e Gideon Toury) a sua volta fonda le basi per una teoria descrittiva della traduttologia e mette a punto la "Polysystem Theory" che analizza le condizioni storico-culturali in cui avviene la traduzione. Per "polisistemi" si intende un insieme di sistemi che costituiscono la letteratura, intesa non come un sistema astratto né isolata, ma piuttosto sottoposta a vari tipi di relazioni con altre letterature che Even Zohar (1990) chiama "interferenze". Il centro del sistema letterario è occupato dai testi canonici, cioè quelli filtrati dalla cultura ufficiale e che sono riusciti a ottenere la legittimazione dall'istituzione. Anche la letteratura tradotta è un sistema tra gli altri all'interno del polisistema letterario. Il polisistema ricevente seleziona la letteratura straniera secondo le convenzioni letterarie accettate al suo interno. Un sistema stabile tende a imporre i propri modelli alle traduzioni, mentre un sistema debole viene influenzato dai modelli che importa. La traduzione, in quanto scambio culturale, assume un ruolo centrale all'interno di una lingua quando: 1. è una letteratura giovane o in fase di stabilizzazione; 2. è una letteratura periferica o debole; 3. la cultura sta vivendo una fase di crisi. Da questi presupposti Gideon Toury (1995) parte per affermare che il traduttore decodifica un messaggio dalla lingua A alla lingua B per renderlo accessibile ai parlanti della lingua B (e rendendolo al tempo stesso privo di funzione per la lingua A). Il traduttore può commettere errori solo di tipo linguistico: qualunque altra scelta è una scelta di strategie. Lo studio descrittivo della traduzione analizza queste strategie, interessandosi solo al sistema di arrivo (target-oriented). La teoria polisistemica analizza dunque il modo in cui i testi tradotti sono assorbiti da una certa cultura in un certo periodo e il rapporto fra testo di partenza e testo di arrivo in relazione alla cultura e al ruolo del traduttore nella manipolazione del testo. La ricezione della traduzione viene ad assumere un ruolo cruciale in questo modello di analisi. Se tradurre vuole dire adottare strategie di volta in volta diverse, si può anche riformulare il messaggio alla luce della cultura a cui ci si rivolge. Per questo Susan Bassnett e André Lefevere (1990) parlano di traduzione come rewriting, cioè un'operazione di riscrittura. Secondo Lefevere la traduzione è un fenomeno interculturale, non è mai neutro e dipende dall'ambiente sociale e politico in cui si realizza, in base al concetto di patronage inteso come influsso sul lavoro di traduzione da parte di individui, gruppi o istituzioni. Quali sono dunque i concetti-chiave dei translation studies? Secondo Margherita Ulrich (1997, p. 231 sgg.) sono: a. la prospettiva storica (introdotta dalla teoria polisistemica), che mette in rilievo il ruolo che la traduzione letteraria ha avuto nel polisistema della letteratura occidentale; b. la prospettiva interculturale, in base alla quale gli elementi linguistici e testuali devono essere interpretati solo in base a come il testo funzioni (o debba funzionare) in un più vasto contesto culturale; c. la prospettiva ideologica, che tiene conto del fatto che il traduttore svolge un compito di mediazione fra due realtà culturali e subisce pressioni ideologiche legate a fattori economici, politici e sociali, d. la prospettiva del potere del lettore e del traduttore, che porta a mettere in discussione l'autorità dell'originale, data la pluralità di interpretazioni che il lettore gli può attribuire e al ruolo non secondario che la traduzione può giocare nel garantirgli continuità e sopravvivenza; e. la prospettiva dell'invisibilità, che prevede l'intervento del traduttore sul testo d'arrivo non come una presenza visibile ma come un filtro trasparente, una sorta di sottomissione alle norme stilistiche del plain writing imposto dall'ideologia di area statunitense (cfr. Venuti, 1994). 1.3.1. L'approccio integrato. I translation studies hanno tentato di rispondere alla domanda "Che cosa si fa con la traduzione?" o "Qual è la ricezione di una traduzione?", mettendo in secondo piano la domanda "Che cosa è una traduzione?" L'"approccio integrato" invece considera importanti sia gli aspetti culturali che quelli tipologici. In questo senso Mary Snell-Hornby (1988) propone un quadro in cui la tipologia è sostituita dall'individuazione di livelli in un quadro non deterministico con caselle dai contorni sfumati a seconda dei diversi tipi di testo: 1. livello A: tre aree generali di testi in traduzione: • literary translation; • general language translation; • special language translation. 2. livello B: alcuni tipi testuali di base. 3. livello C: discipline non linguistiche indispensabili per la traduzione. 4. livello D: criteri come: • comprensione del testo di partenza; • nozione di invarianza e equivalenza; • grado di differenziazione. 5. livello E: aree della linguistica importanti per la traduzione. 6. livello F: fonologia. Friedmar Apel (1993) osserva che i vari fattori coinvolti nella traduzione sono in continuo movimento, indipendentemente dal fatto che siano in gioco due testi: il testo originale e il testo tradotto. In realtà la traduzione permette di ampliare la comprensione del testo di partenza in un movimento circolare in cui il dopo è utile per intendere il prima. Nel processo di traduzione infatti esistono almeno tre livelli di comprensione: 1. ricostruzione dell'effetto sul lettore; 2. ricostruzione della comprensione del traduttore; 3. comprensione dell'esperto. L'approccio integrato sostiene dunque che nell'analisi della traduzione sono necessarie più competenze diverse, nessuna delle quali può pretendere di risolvere il problema se non restringendo il campo a una sola dimensione, sia essa linguistica, letteraria o traduttologica. 1.3.2. L'analisi dei corpora di testi tradotti Una nuova prospettiva che si apre ai translation studies riguarda l'analisi dei corpora di testi (orali e scritti) di traduzioni e dei relativi originali. A partire dagli anni '90 la linguistica dei corpora ha messo a frutto gli strumenti tecnologici capaci di immagazzinare e analizzare quantità sempre più ampie di dati (cfr. Baker, 1995). In questo campo si stanno costituendo vari tipi di corpora: a)testi originali in lingua A e loro traduzioni in lingua B; b)più corpora monolingui in lingue diverse;10 c)raccolte separate di testi nella stessa lingua (originali e traduzioni), es. dialoghi di film in versione originale e doppiata. Strumenti utili per il lavoro dei traduttori professionisti, i corpora plurilingui possono rivelarsi un campo di ricerca di enorme rilevanza anche per i traduttologi, nel momento in cui siano disponibili e facilmente interrogabili da programmi elettronici specifici. 1.3.3. La traduzione nei media: uno strumento orientato verso il pubblico L'idea che il traduttore debba in primo luogo interpretare le intenzioni dell'autore del testo originale e intervenire per adattare la propria traduzione al suo pubblico è già presente in un saggio di Umberto Eco (1995), che porta esempi di traduzioni del suo Il Pendolo di Foucault, ricche di espedienti linguistici e riferimenti culturali inesistenti nell'originale ma non per questo meno pertinenti ad una traduzione "target oriented". Se questo è vero per certi testi letterari (specialmente quelli di autori contemporanei, come Eco o Tabucchi, che, anch'essi traduttori, hanno avuto un rapporto stretto e dinamico con i traduttori delle proprie opere), è ancora più vero per quelle traduzioni "di servizio" che riguardano i mezzi di comunicazione legati alle tecnologie audiovisive e informatiche. Il doppiaggio dei film, in particolare, ha attratto l'attenzione degli studiosi di traduzione e i linguisti, vista la crescente presenza di film di origine angloamericana sul mercato italiano doppiati in italiano, come risultato di due tendenze concomitanti: la tradizione del doppiaggio italiano che risale all'epoca fascista e la grande professionalità dei doppiatori italiani, probabilmente fra i migliori al mondo in questo campo. La traduzione per il cinema è in realtà un adattamento, fatto a più mani (traduttore, adattatore, direttore del doppiaggio, doppiatore) fino ad ottenere un prodotto che si integri perfettamente con il personaggio che si muove sullo schermo e risponde anche alle aspettative del pubblico (cfr. Bollettieri Bosinelli - Heiss, 1996). Questo vale anche per le scelte linguistiche, che si avvalgono di strategie quali: - spostamento (espressioni più colorite di quelle originali); - aggiunta (parti di testo assenti nell'originale); - chiarificazione (spiegazioni su aspetti interculturali); - cancellazione (di espressioni che rimandano alla cultura di origine del film). Riprendendo il modello di Newmark (1981) sulla traduzione semantica e la traduzione comunicativa, possiamo dire che il doppiaggio italiano dei primi anni 2000 è orientato fortemente verso il secondo tipo (come si può notare anche dagli esempi riportati di seguito): TRADUZIONE SEMANTICA centralità dell'autore semantica e sintassi mantenuta 10 TRADUZIONE COMUNICATIVA centralità del destinatario aspetti formali sacrificati con più facilità Esempi di corpora per l'italiano: LIP, Lessico di frequenza dell'italiano parlato (De Mauro et al.,1993) con 500.000 occorrenze relative a testi registrati a Napoli, Milano, Firenze e Roma. Per l'inglese: London-Lund Corpus of Spoken English (Johannson et al., 1982) di 500.000 parole; British National Corpus (testi orali e scritti prodotti in Gran Bretagna) di un milione e mezzo di parole; Cobuild Bank of English (con testi prodotti in Gran Bretagna, Stati Uniti e Australia, pari a un totale di 323 milioni di parole). Per il francese: Français fondamental (Gougenheim et al., 1964), di 312.000 parole, contenente conversazioni fra amici e in famiglia registrate nella regione parigina. Per il tedesco: Lessico di frequenza del tedesco parlato (Ruoff, 1990). maggiore fedeltà più particolareggiata e complessa enfasi sulla lingua di partenza l'originale non deve essere modificato fuori dal tempo e dallo spazio unità di traduzione: parole, sintagmi e frasi il mestiere del traduttore è un'arte la traduzione è opera di un solo traduttore maggiore libertà scorrevole, semplice e chiara enfasi sulla lingua di arrivo si possono chiarire eventuali ambiguità radicata nel suo contesto unità di traduzione: enunciati e paragrafi il mestiere del traduttore è una professione la traduzione può essere opera di una équipe Versione originale in inglese Speaker: Oh, nanananana Picture a man going on a journey beyond sight and sound. He's left Crete and he's entered the demilitarized zone. Aaaaahhhh dadadada dadadada pum All right! What's the demilitarised zone and what do they mean for Police action? Maybe a couple of cops in Brooklyn pretty they mean: "Ehi, whatever it is, I like her 'cause if she gets on your toes is better and stronger than a cappuccino" What is the demilitarized zone? Something coming out of the Wizard of Oz? No! Don't go there! Oh ih oh, oh-ci-min. Oh, look! You landed in Saigon. Versione doppiata in italiano Speaker: Oh, nanananana Immaginate un uomo che durante un viaggio approdi ai confini della realtà. Ha lasciato Creta e è entrato nella zona smilitarizzata. Aaaaahhhh dadadada dadadada pum. Ehi, un momento, che cos'è questa zona smilitarizzata e che significa operazione di polizia? Forse due sbirri a Brooklyn che dicono: "Carina quella. Un'operazioncina gliela farei e comunque sia mi piace perché mi tiene sveglio più di un bel cappuccino con i fiocchi. Che cos'è la zona smilitarizzata? Sembra uscita dal Mago di Oz! Oh no tu non puoi entrare là dentro. Oh ih oh, oh-ci-min. Oh, guarda, sei finalmente atterrato a Saigon. (…) (…) Ehi, hi! What's your name? My name is Roosvelt E.Roosvelt. What are you stationed in? I'm stationed in Putain. Ehi, ascolta, come ti chiami? mi chiamo Roosvelt E. Roosvelt. In che località sei dislocato? Sono dislocato a Fikatang. da "Good morning Vietnam" (1987, doppiato nello stesso anno) Versione originale in inglese Versione doppiata in italiano Roxanne: Every guy in that gym must have Roxanne: I ragazzi della palestra hanno pensato a thought I had a coronary. They were all over me un infarto: me li sono trovati addosso tipo like white on rice. Asking me if they could help, mosche al miele. Chi tastava il polso, chi get me some water… massaggiava il petto. Lucy: Wow! Lucy: Premurosi! Roxanne: One guy even offered to take me to his Roxanne: Uno mi ha anche offerto di scortarmi own doctor. dal suo medico di fiducia Lucy: That's very generous! Lucy: Che generosità! Roxanne: Yeah, (laugh) Roxanne: Oh (ride) Dr. Green: Miss Knight, what do we have? Dr. Green: Cos'abbiamo, signorina Knight? Lucy: Roxanne Please, twenty-five, she was at Lucy: Roxanne Cats, venticinque anni. Era in the gym… palestra quando… (…) (…) Lucy: Ms Please… Lucy: Signorina Cats? Roxanne: Oh, please, call me Roxanne. I've Roxanne: Per carità, chiamami Roxanne: il mio been saying that my whole life, haven't I? cognome fa uno strano effetto sugli uomini! (laugh) da "ER Medici in prima linea", Episodio "Day for Knight" / "Il mondo reale" (2000) 2. Le correnti glottodidattiche dalla seconda metà del '900 a oggi: quale ruolo per la traduzione? Come "la linguistica del '900 è contrassegnata da due tendenze, quella dei formalisti, il cui oggetto sono le frasi ed i testi da interpretare, all'interno del contesto linguistico, e quella funzionalista, il cui oggetto è costituito dagli enunciati del discorso da interpretare nel contesto extralinguistico" (Borello, 1999, p. 84), analogamente la "sindrome del pendolo" interessa gli approcci glottodidattici (orientati alla forma o al significato) che si affermano nel corso dello stesso secolo nel mondo occidentale11, ora accentuando, ora rifiutando, ora accettando solo marginalmente la traduzione quale strategia didattica. Le origini di questa dicotomia si possono rintracciare nell'800, quando l'opposizione fra metodo grammaticale-traduttivo e metodo diretto misero le basi per un antagonismo che attraverserà tutto il secolo successivo, fino ai nostri giorni, al di là delle diverse correnti che caratterizzeranno la glottodidattica della seconda metà del '900, in particolare: - la via strutturalista del metodo "audio-orale" (anni '50-'60); - la via sociolinguistica dell'approccio comunicativo / situazionale" (anni '60-'70); - la via pragmalinguistica dell'approccio comunicativo / nozionale-funzionale (anni '70-'80); - la via psicolinguistica dell'approccio comunicativo / umanistico-affettivo (anni '80-'90); - la via comparativista dell'approccio comunicativo / lessicale e interculturale (anni '90-2000) 2.1. Metodo grammaticale-traduttivo vs metodo diretto. 2.1.1. Il metodo "grammaticale-traduttivo" e l'emergenza "lingue straniere per i licei". Il metodo "grammaticale-traduttivo" nasce in Europa per facilitare lo studio delle lingue straniere nelle scuole secondarie dell'800, rispetto alla prassi in atto nel secolo precedente, basata sullo studio individuale dei testi con l'aiuto del dizionario. I testi originali vengono sostituiti da brevi frasi esemplificatrici delle regole grammaticali e la stessa traduzione (di parole e frasi isolate, da e nella lingua straniera) ha lo scopo di fare applicare agli studenti le regole apprese: è impossibile non riconoscere una forma di modernità e di utilità pratica di questo metodo, applicato per la prima volta in Germania per l'insegnamento del francese e dell'inglese all'inizio dell'80012, sulla spinta dell'emergente necessità di avvicinare a queste "lingue vive" decine e decine di studenti liceali, in condizioni di insegnamento a classi monolingui fuori dal Paese in cui si parlava la lingua obiettivo. Lo studio della grammatica e l'esercizio della traduzione erano già parte del background culturale dei docenti di lingua straniera dell'epoca, dato che la conoscenza delle lingue classiche era alla base della formazione delle persone di cultura. Nuovo è, se mai, il tentativo di facilitare l'acquisizione del sistema linguistico "estraneo" attraverso strumenti più accessibili a gruppi di adolescenti monolingui, di quanto non potesse essere il contatto diretto con il testo letterario (desiderato, apprezzato, cercato anche per il proprio piacere) da parte di un adulto colto, già esperto di altre lingue, in primo luogo il latino e il greco antico. 11 Per una storia degli approcci e dei metodi glottodidattici rimandiamo a Kelly (1971), Titone (1982), Richards - Rogers (1986), Cambiaghi (1987), Borello (1996), Serra Borneto (1998). Una panoramica sintetica dei principali approcci e metodi del XX secolo si trova anche in Omaggio Hadley (1993, pp. 41-124), Vignozzi (2001) e Balboni (2002, pp. 233244) 12 Ideatore del metodo grammaticale-traduttivo è considerato Johann Valentin Meidinger (1756-1822), autore di un manuale per l'insegnamento del francese per studenti tedeschi, a cui si ispirò Johann Finck (1763-1821) per realizzare il primo manuale per l'insegnamento dell'inglese basato sullo stesso metodo, anch'esso pubblicato in Germania (cfr. Borello, 1996, pp. 59 e segg.). In realtà la definizione "grammaticale-traduttivo" verrà coniata successivamente, per caratterizzare le evoluzioni deteriori del metodo, i cui epigoni13 accentuarono soprattutto gli aspetti più meccanici, mnemonici e avulsi dal contesto, realizzati nei manuali mediante liste di parole, regole generali della lingua scritta, frasi prive di utilità pratica, tecniche didattiche che consistevano essenzialmente nel memorizzare parole, tradurre frasi da e nella L2, coniugare verbi, ripetere e applicare regole grammaticali. 2.1.2. Il metodo "diretto" e l'emergenza "lingue per l'integrazione". Ma non tutti condividevano queste metodologie di insegnamento: l'attenzione alla forma e il procedimento deduttivo (dalla regola generale al caso particolare) venivano respinti in toto da coloro che si ispiravano invece all'idea di un "metodo naturale", un filone di pensiero mai sopito, ancorato alla tradizione pre-ottocentesca. Negli stessi anni di espansione del metodo "grammaticaletraduttivo" si attuano infatti anche forme antitetiche di insegnamento delle lingue moderne, basate sull'oralità e (nel caso di apprendenti adulti) sulla lettura di testi via via più complessi, ma soprattutto evitando l'insegnamento formale della grammatica e la pratica della traduzione a scopo didattico. I metodi "naturali", sperimentati all'inizio dell'800 in alcune scuole private di lingue in Nord America14 e in Irlanda15, furono rifiutati a lungo dalle istituzioni tradizionali, ma vennero ben presto ad affermarsi nell'insegnamento privato, specialmente rivolto a chi dovesse in breve tempo appropriarsi di una lingua "strumentale", come era il caso dell'inglese per le migliaia di immigrati che verso la fine dell'800 cominciarono a riversarsi negli Stati Uniti. E' in questa nuova emergenza che si afferma il metodo "diretto" di Maximilian Berlitz, nato nel 1852 in Polonia, vissuto in Svizzera, convinto assertore dei principi "mai tradurre: dimostrare; mai spiegare: agire". La sua rete di scuole private (uno dei primi esempi di "globalizzazione"), sorse alla fine dell'800 negli Stati Uniti e in vari Paesi europei, diffondendo ovunque fino ai nostri giorni gli stessi materiali e lo stesso metodo rigidamente monolingue, focalizzato sull'oralità, specializzato in corsi per principianti, con insegnanti di madrelingua che respingono programmaticamente il ricorso alla traduzione e alla riflessione metalinguistica. Quasi contemporaneamente, il filologo inglese Henry Sweet, partendo dalle sue ricerche sulla fonetica, si esprime a favore dell'insegnamento della lingua parlata16, così come fa anche l'anglista Otto Jespersen, che, come Sweet, rifiuta l'uso della traduzione verso la L2 come esercizio per il rafforzamento delle regole ai primi livelli di apprendimento.17 2.1.3. Metodo "grammaticale-traduttivo" vs metodo "diretto": un antagonismo duro a morire. Alla fine dell'800 queste due opposte tendenze metodologiche spingono gli studiosi al dibattito emerso in due importanti convegni (nel 1898 a Vienna, nel 1900 a Lipsia) che decretano l'affermazione del movimento di riforma, contrario al metodo "grammaticale-traduttivo". Ma negli anni successivi le esperienze concrete di insegnamento non sembrano coronate dal successo sperato. Come osserva Borello (1996, p. 73), "gli insegnanti si divisero in due scuole di pensiero: alcuni 13 Fra cui J. H. Seidenstücker e K. Plötz, autori di manuali di francese per germanofoni (1811 e 1853), J.G. Tiarks e T.H. Weisse, insegnanti di tedesco rispettivamente in un liceo di Londra e di Edinburgo e autori di manuali di tedesco per anglofoni (1864 e 1885). 14 G. Heness teorizzò i principi del metodo "naturale" per l'insegnamento del tedesco e fondò nel 1866 una scuola di corsi estivi di lingue in Massachusetts, frequentati anche dai poeti Eliot e Longfellow. 15 C. Marcel, console francese a Cork, nel 1840 aprì una scuola di lingue e scrisse vari saggi che davano sistematicità al metodo "naturale". 16 Il suo saggio The practical study of languages, del 1899, è considerato la prima trattazione sistematica dei metodi di insegnamento delle lingue straniere. 17 Sweet approvava l'uso della traduzione dalla L2 alla L1 per aiutare l'apprendente a comprendere l'esatto significato di parole e frasi idiomatiche, mentre Jespersen suggerisce di evitare anche questo tipo di traduzione, ricorrendo piuttosto ad altre tecniche, come la transcodificazione e riservando la traduzione (orale e scritta) verso la L1 solo agli studenti avanzati come esercizio di stile e di approfondimento. ritornano ai vecchi metodi grammaticali (…), altri invece tentarono una sorta di compromesso tra l'approccio orale e l'uso della lettura e della grammatica". A parte la rete di scuole Berlitz, tuttora fedeli al metodo "diretto", possiamo ancora riconoscere negli stili di insegnamento di molti insegnanti di lingue (forse più che nei materiali didattici) una predilezione ora per il metodo formalista, ora per l'altro più orientato al significato, secondo la situazione di insegnamento (es.: lingua straniera vs lingua seconda), ai destinatari (es.: adolescenti vs adulti), l'area di appartenenza e le rispettive tradizioni didattiche (es.: Paesi dell'Est europeo vs Paesi dell'Europa occidentale): si tratta, dunque, di un antagonismo di fondo, che va al di là dei successivi importanti sviluppi che le teorie glottodidattiche avrebbero vissuto, specialmente a partire dal Secondo Dopoguerra. 2.2.Lo strutturalismo e il metodo "audio-orale" (anni '50-'60) 2.2.1. L'esperienza americana. Il metodo "diretto", combinato con l'impiego dei primi strumenti tecnici (radio, audioregistratori, film) fu alla base del programma di insegnamento linguistico specificamente ideato per i soldati americani che sarebbero stati impegnati nel secondo conflitto mondiale ("Army Specialised Training Program" o ASTP, messo a punto nel 1943), in cui convergono anche le teorie del massimo rappresentante dello strutturalismo americano, il linguista e germanista Leonard Bloomfield. Nell'Outline Guide for the Practical Study of Foreign Languages (1942), Bloomfield aveva infatti elaborato la sua teoria sull'apprendimento linguistico (primato dell'oralità, fondamentale somiglianza fra l'apprendimento della L1 e della L2, comuni dinamiche di stimolorisposta e imitazione-generalizzazione, studio formale delle strutture non necessario), che poté essere direttamente realizzata su centinaia di soldati in attesa di partire per il fronte. L'esperienza dell'addestramento linguistico di questi soldati porterà nel decennio successivo all'affermazione del metodo "audio-linguale" (ribattezzato poi "audio-orale"), in cui convergono anche le teorie comportamentiste di Skinner e il concetto di "iperapprendimento". L'entusiasmo per il nuovo metodo, insieme alla fiducia nei nuovissimi laboratori linguistici, si accompagna alla ferma convinzione che imparare una lingua significhi apprendere e automatizzare nuovi comportamenti verbali: la riflessione metalinguistica non ha alcun ruolo in questa operazione prettamente meccanica, e ancor meno la traduzione. 2.2.2. Linguistica contrastiva e concetto di interferenza Se la pratica traduttiva esce dalla classe di lingua, non per questo la "scienza della traduzione" resta estranea alla riflessione glottodidattica: in particolare la "linguistica contrastiva" e il fenomeno dell'interferenza sono alla base delle teorie di Robert Lado, che vede negli errori causati dalla L1 sulla L2 il principale motivo di ostacolo all'acquisizione dei nuovi "abiti" linguistici.18 Sarà dunque il confronto fra strutture della lingua madre e strutture della lingua obiettivo (caratteristico anche della scienza della traduzione) a guidare i docenti nell'elaborazione di esercizi strutturali capaci di prevenire l'insorgere di tali errori (cfr. Lado 1957 e 1964). Nell'insegnamento grammaticale-traduttivo la base dello studio era la traduzione scritta e l'insegnamento tendeva a fornire equivalenze lessicali, morfologiche e sintattiche tra L1 e L2. Con lo sviluppo degli studi scientifici di fonetica e il riconoscimento dell'importanza della lingua parlata, gli insegnanti di lingua rilevarono immediatamente gli ostacoli derivati all'apprendimento della L2 non solo nello scritto ma anche nell'oralità: da qui la drastica soluzione del metodo diretto, che 18 Gli studi di linguistica contrastiva si fanno risalire al saggio Languages Across Culture di Uriel Weinreich (1953), il primo linguista che si sia occupato sistematicamente dei fenomeni di interferenza, e alle teorie di C. Fries (predecessore di Lado alla direzione del direttore dell'English Language Institute dell'Università di Ann Arbor, autore di Teaching and Learning English as a Foreign Language, del 1945) sulla necessità di descrizioni contrastive fra la L1 e la L2. Secondo l'ipotesi dell'analisi contrastiva, il trasferimento automatico di strutture di L1 nell'esecuzione di L2 è negativo quando le strutture di L1 e L2 sono diverse, è positivo quando sono le stesse. suggerisce di isolare totalmente la L2 dalla L1. Ma questa tecnica non elimina il fenomeno dell'interferenza, per questo Lado e i fautori dell'analisi contrastiva "forte" tentano di risolvere questo problema glottodidattico con gli strumenti offerti dalla linguistica contrastiva: secondo la loro ipotesi l'errore è patologico, ma può essere prevenuto con batterie di esercizi appositamente ideati a partire dai punti di divergenza fra L1 e L2. 2.3.La via sociolinguistica dell'approccio comunicativo / situazionale" (anni '60-'70) Negli anni '60 gli scarsi risultati ottenuti dai metodi strutturalisti e le aspre critiche a livello teorico mosse negli Stati Uniti da Chomsky e dalla scuola generativo-trasformazionale, portano a rivedere fortemente i principi che li avevano ispirati e le relative applicazioni.19, rivalutando l'uso creativo del linguaggio (rispetto alla ripetizione meccanica) e ridimensionando l'importanza delle interferenze dalla L1.20 Ma la reazione allo strutturalismo e alla sua filiazione "audio-orale" non viene solo dal cognitivismo chomskiano: sulla scia delle teorie sociolinguistiche che (su basi anti-chomskiane) mettono fortemente in relazione gli usi linguistici con il contesto sociale in cui avviene la comunicazione, si comincia a far strada già negli anni '60 la necessità di presentare la lingua nelle più comuni situazioni d'uso. Da qui il termine "situazionale", che rispecchia la via "sociolinguistica" (realizzata nei metodi "audiovisivi strutturali-globali" che per primi propongono l'accostamento di parole e immagini per facilitare l'apprendimento in una situazione comunicativa "globale") verso l'affermazione dell'approccio comunicativo. 2.4.La via pragmalinguistica dell'approccio comunicativo / nozionale-funzionale (anni '70-'80) Negli Stati Uniti il dibattito continua ad essere fortemente centrato intorno alle ipotesi antistrutturaliste. Se Chomsky (1965) aveva posto l'accento sulla competence, intesa come la "capacità di un parlante/ascoltatore ideale di produrre/riconoscere frasi corrette", qualche anno dopo Hymes (1972) elabora un concetto di competence più ampio, intesa come "capacità del parlante di esprimere giudizi sul proprio enunciato e scegliere le forme linguistiche più appropriate ai propri bisogni": sono messe le basi per una via pragmalinguistica dell'approccio comunicativo, che dà risalto alla lingua come interazione sociale. In Gran Bretagna la fervida attività scientifica di una serie di studiosi di discipline diverse porterà all'elaborazione organica di un vero e proprio approccio glottodidattico di stampo comunicativo, quello che influenza ancora oggi buona parte del modo di insegnare le lingue straniere. Il maggiore impulso, in questo senso, viene attribuito ai britannici Austin e Searle e alla loro teoria degli atti linguistici (speech acts),21 presenti in ogni lingua per realizzare degli scopi comunicativi ("presentarsi", "scusarsi", "offrire" ecc.), ed espressi in ogni lingua con forme linguistiche diverse. Gli atti comunicativi possono essere ricondotti a una serie limitata di funzioni comunicative (personale, interpersonale, regolativo-strumentale, referenziale, poetico-immaginativa, metalinguistica) secondo una tassonomia elaborata da Jakobson prima e successivamente da Halliday. A questi si aggiungono varie "nozioni" di tipo concettuale (spazio, tempo, quantità, dimensione ecc.), grammaticale (singolare/plurale/duale, maschile/femminile/neutro ecc.), 19 Nonostante ciò, tali metodi e soprattutto un certo tipo di esercizi strutturali continueranno ad essere ampiamente presenti nella manualistica e nei materiali audioregistrati per la didattica delle lingue straniere in Nord America e in Europa fino agli anni '70 e anche oltre. 20 Nel "Cognitive Anti-Method" elaborato da L. Newmark nel 1966 si sostiene, fra l'altro, che "l'interferenza dalla L1 scomparirà con una maggiore esposizione alla lingua obiettivo. L'analisi contrastiva e l'esplicito confronto della L1 con la L2 è perciò di scarsa utilità" (citato da Omaggio Hadley, 1993, pag. 100; la traduzione è nostra). 21 Cfr. il famoso saggio di J. Austin dal titolo How to do Things with Words, pubblicato a Oxford nel 1962, a cui fece seguito Speech Acts, di J. Searle, pubblicato a Cambridge nel 1969. culturale22 (formale/informale, polite/impolite, libero/tabù, forza mascherata/esplicita, ecc.) la cui conoscenza è indispensabile per un apprendimento di una lingua per fini comunicativi. Il raccordo fra teoria e applicazioni glottodidattiche diventa più stretto: Wilkins (1976) elabora le liste di contenuti "nozionali-funzionali" che dovrebbero costituire l'impalcatura di un corso di lingua straniera. Sillabi nozionali-funzionali sono anche i "Livelli soglia" prodotti dagli esperti del Consiglio d'Europa (fra cui Trim e Van Eck) per le principali lingue europee tra la fine degli anni '70 e l'inizio degli anni '80 (è del 1981 il Livello soglia per l'italiano, di N. Galli de' Paratesi). I "bisogni comunicativi" degli apprendenti assumono una rilevanza cruciale, tanto da spingere gli studi anche verso l'analisi delle motivazioni all'apprendimento23, che guideranno sempre, d'ora in poi, sia i teorici di didattica delle lingue moderne, sia i docenti nella costruzione di curricoli, sia gli autori di manuali didattici sempre più vari e diversificati. L'uso di "testi autentici" e non di frasi isolate costituirà d'ora in poi un'ulteriore conquista, che farà riavvicinare la glottodidattica all'analisi testuale e, visto il rilievo assunto dall'oralità, anche all'analisi conversazionale e agli studi sul parlato. Le applicazioni della didattica comunicativa si moltiplicano, prima per l'inglese L2, poi per le altre lingue europee. Si passa anche da una sua versione "forte" (orientata solo sui significati, con esclusione di ogni controllo formale) ad una versione più "debole" tuttora diffusa: la grammatica perde il suo ruolo centrale e totalizzante tipico del metodo grammaticale-traduttivo, ma viene ricollocata nella fase di "riflessione metalinguistica"; le batterie di esercizi strutturali (pattern drills) perdono il monopolio che avevano nel metodo strutturale ma continuano ad essere utilizzati come strumenti di "fissaggio" a fianco di altre tecniche didattiche più "comunicative" (come il role-play). E la traduzione? Negli anni '70 si era affermata in Europa la risposta britannica all'analisi contrastiva "forte" di Lado: Corder (1967, tradotto in Amato, 1981, pp. 33-41) propone una teoria dell'errore in L2 che riduce fortemente il ruolo dell'interferenza dalla L1, mostrando come in questo fenomeno entrino in gioco anche fattori individuali e sociali che ne impediscono una previsione puramente linguistica. Nella cosiddetta "analisi degli errori", questi ultimi non sono considerati affatto patologici, ma fisiologici, e testimoniano sia le errate strategie di apprendimento, sia i progressi dell'apprendente nelle varie fasi della propria "interlingua", cioè quel sistema approssimativo e soggetto a continui processi di sistematizzazione che costituisce la L2 di un apprendente (Selinker, 1972). In questa nuova prospettiva la traduzione perde nuovamente terreno, a favore di un'impostazione non solo interlinguistica ma anche endolinguistica della questione. 2.5.La via psicolinguistica dell'approccio comunicativo / umanistico-affettivo (anni '80-'90) A integrazione e parziale rinnovamento della didattica comunicativa vengono a diffondersi in Europa i principi di fondo di una serie di metodi per la didattica delle lingue moderne fioriti negli Stati Uniti fra l’inizio degli anni Settanta e la metà degli anni Ottanta.24 Questi metodi sono stati accomunati sotto l'etichetta dell'approccio “umanistico-affettivo” (Serra Borneto, 1998) dal momento che, al di là delle notevoli differenze, sono caratterizzati da un comune interesse pedagogico per gli aspetti psicologici dell’insegnamento linguistico25, in particolare: 22 Sulle diverse realizzazioni delle nozioni di tipo culturale, ovvero i diversi parametri per valutare i problemi comunicativi interculturali, cfr. Balboni (1999, pp. 34-38). 23 La prima di ampio raggio sull'italiano nel mondo, legata al nome di Ignazio Baldelli, è del 1979, i cui risultati sono stati pubblicati in Indagine sulle motivazioni all’apprendimento della lingua italiana nel mondo. Roma, Ministero degli Affari Esteri, Istituto della Enciclopedia Italiana 1981, a cui ha fatto seguito nel 2001 l'indagine di Tullio De Mauro e Massimo Vedovelli. 24 "The Silent Way" (di C. Gattegno); "Total Physical Response" (di J. Asher); "Community Language Learning" (di C. Curran); “Suggestopedia” (di G. Lozanov): tutti questi metodi nascono in ambito nordamericano, tranne la "Suggestopedia", il cui ideatore era di origine bulgara. 25 Gli ispiratori di questi metodi erano infatti non tanto dei linguisti quanto degli psicolinguisti o degli psicologi. • la multimodalità dell’apprendimento: non si apprende solo a livello verbale o consapevole, ma possono entrare in gioco altre dimensioni sensoriali (vista, tatto, olfatto, movimento, musica) che possono facilitare il processo di apprendimento; • gli aspetti olistici: l’apprendente visto nella sua interezza di persona, che vive come esperienza di crescita personale l’apprendimento di un’altra lingua; • l’atmosfera rilassata e collaborativa, che favorisce l’apprendimento; • il regresso all’infanzia del discente, che permette di recuperare le condizioni più favorevoli all’apprendimento; • il ruolo centrale del docente, leader carismatico di un percorso che porterà il discente a mutare (a livello di competenza linguistica) la propria personalità. Due di questi metodi, dettagliatamente descritti dai loro ideatori anche nelle loro applicazioni pratiche, prevedonono in classe il ricorso alla L1 e in certi casi l'uso della traduzione: • la "Suggestopedia" di Georgi Lozanov, che, nella sua versione originale, è proponibile solo a classi monolingui, dato che prevede l'uso di testi in versione bilingue, per la lettura nelle due versioni sinottiche, una in L1 e una in L2; • il "Community Language Learning" di Charles Curran, che usa spesso l'alternanza fra L1 e L2 tipica dell'educazione bilingue e prevede anche tecniche di traduzione orale. Si tratta comunque di un'introduzione della L1 essenzialmente finalizzata a evitare "vuoti" di comprensione (una delle fonti di ansia per l'apprendente). Analogamente, la "Strategic Interaction" di Robert Di Pietro (sebbene sia considerata una filiazione dell'approccio comunicativo) tiene conto di questa esigenza e prevede che i "copioni" (scenarios) possano essere indifferentemente in L1 o L2, ma che il testo venga riformulato in L2, secondo le competenze linguistiche degli studenti. La comprensione della L2 è il punto di partenza anche del "Natural Approach" (di S.D. Krashen e T.D. Terrell): una lingua si acquisisce solo quando si capisce ciò che si sente e si legge, e per comprendere facciamo uso non solo delle nostre conoscenze linguistiche, ma anche del contesto, delle nostre conoscenze del mondo e delle nostre esperienze. Stephen Krashen, nella sua ipotesi sull'input comprensibile (i + 1), non fa riferimento alla possibilità di transfer positivo dalla L1 alla L2, e tanto meno all'uso esplicito della traduzione, ma la riflessione metalinguistica (che può comprendere anche il confronto interlinguistico) viene comunque riportata all'ipotesi del monitor, meccanismo mentale di attivazione consapevole delle regole e delle conoscenze apprese.26 2.6.La via comparativista dell'approccio comunicativo / lessicale e interculturale (anni '902000) Nel corso del XX secolo abbiamo dunque assistito all'applicazione e al declino sia della traduzione come strumento iniziale di apprendimento delle lingue moderne, sia delle teorie contrastive "forti", che auspicavano il confronto fra singoli elementi di due sistemi linguistici allo scopo di elaborare batterie di esercizi capaci di prevenire negli apprendenti gli errori da interferenza. Tuttavia sembra anche crollato il mito dell'acquisizione della L2 da perseguire ricorrendo agli stessi meccanismi che intervengono per la L1: la mente di un apprendente che dispone già, anche parzialmente, di un sistema linguistico e culturale di riferimento non può prescindere da questo bagaglio di conoscenze e di esperienze, a cui farà ricorso, soprattutto nei primi stadi di apprendimento, indipendentemente dal metodo didattico adottato. Come rileva Bettoni (2001, p. 124)27 infatti: 26 "La grammatica di L1 viene usata nell'esecuzione di L2 in condizioni in un certo senso coincidenti con le condizioni in cui si attua l'elaborazione consapevole della lingua. Il monitor, quindi, è considerato un fattore importante associato all'uso di L1 nell'apprendimento di L2" (Dulay – Burt - Krashen, 1985, p. 159). 27 Camilla Bettoni (2001, pp. 116 sgg.), analizzando i fattori di variabilità dell'interlingua, nota che l'infuenza della L1 dipende da vari fattori (competenza linguistica del parlante, distanza tipologica fra L1 e L2, marcatezza degli elementi trasferiti, loro prototipicità, coerenza interna dell'interlingua) e può essere valutata a vari livelli di analisi (fonologico, pragmatico, lessicale, sintattico, morfologico). "Nei primi stadi dell'interlingua, la L1 interferisce pesantemente in fonologia e in pragmatica soprattutto, ma anche nel lessico, mentre per quanto riguarda la grammatica all'inizio prevalgono tendenze universali. Solo negli stadi intermedi, quando l'apprendente è in grado di mettere a confronto le due lingue e stabilirne somiglianze e differenze, il trasferimento di elementi grammaticali sarebbe più probabile. Negli stadi avanzati, l'influenza della L1 tende a diminuire a tutti i livelli". L'affermarsi di un concetto "ampio" di competenza comunicativa, che comprende le competenze linguistiche, sociolinguistiche e pragmatiche28 ha avuto come conseguenza la necessità di un confronto non solo fra singoli elementi, ma anche fra i due sistemi comunicativi in gioco (quello della lingua e cultura materna e quello della lingua e cultura obiettivo), e non solo in termini di "contrasto" (alla ricerca di punti di divergenza) ma piuttosto di "comparazione" a tutti i livelli. 1.6.1. L'approccio lessicale. Un recupero della traduzione in questa nuova prospettiva viene suggerito dall'"Approccio lessicale" (cfr. Willis, 1990; Lewis, 1993), che dà rilievo, nell'ambito dell'approccio comunicativo, all'acquisizione del lessico e dei chunks (unità lessicali superiori, ovvero unità di significato composte da più elementi lessicali, p. es. "sala da pranzo", "piove a catinelle", ecc. ). Fra le strategie di apprendimento si propongono infatti, oltre alla ripetizione, anche una serie di tecniche di elaborazione mentale del materiale lessicale della L2: associare, contestualizzare, visualizzare, raggruppare per mappe semantiche o gerarchie di parole, confrontare.29 Il confronto può avvenire, appunto, sia all'interno della stessa L2 (intralinguistico), sia fra la L2 e la L1 o altre lingue note all'apprendente (interlinguistico). Come osserva Carlo Serra Borneto nel capitolo dedicato a questo approccio (1998, pp. 242-43): "Quest'ultima forma [confronto fra L1 e L2], benché spesso criticata, è molto utile a livello di apprendimento lessicale, perché facilita la presa di coscienza delle differenze di significato e soprattutto di implicazione culturale tra il lessico della propria lingua e quello della lingua di apprendimento. Il confronto si fa quindi contrasto e il contrastare implica il distinguere, differenziare e separare gli oggetti nella memoria. Si tratta di strategie altamente cognitivizzanti che servono a mettere ordine nel lessico mentale dell'apprendente. " Un notevole contributo all'approccio lessicale è stato dato recentemente dall'analisi dei corpora (di produzioni orali e scritte) memorizzati in formato elettronico e dalla possibilità richiamare sullo schermo tutte le occorrenze contestualizzate di una certa parola30: questo consente di scoprire una serie di regolarità su singoli vocaboli della lingua obiettivo (le loro collocazioni tipiche, il loro essere o meno componenti di espressioni fisse o semifisse o frasi idiomatiche) e di metterle a confronto con caratteristiche analoghe o divergenti della lingua madre degli studenti.31 Questo nuovo atteggiamento "propone la centralità del lessico come indice dei diversi rapporti sociali tra 28 Questa tripartizione si trova nel Quadro di riferimento (2002, § 5.2.) e suddivide ulteriormente le competenze linguistiche in lessicali, grammaticali, semantiche, fonologiche, ortografiche e ortoepiche; quelle sociolinguistiche secondo alcuni parametri di appropriatezza (elementi linguistici che segnalano i rapporti sociali, regole di cortesia, espressioni di saggezza popolare, differenze di registro, varietà linguistica e accento); le competenze pragmatiche in discorsive (flessibilità in base alle circostanze, presa di turno, sviluppo tematico, coerenza e coesione) e funzionali (microfunzioni, macrofunzioni, schemi interazionali). 29 Fra i vari studi sugli aspetti neurolinguistici e psicolinguistici dell'apprendimento della L2 che considerano la dimensione lessicale ricordiamo Fabbro (1996) sul "cervello bilingue"; Roncato (1982) e Cardona (2001) sul ruolo della memoria. 30 L'interrogazione di un corpus mediante un programma per la generazione di concordanze elettroniche (p.es. Key Word in Context) permette di ottenere una serie di righe di una lunghezza prestabilita, al cui centro compare la parolachiave da analizzare. 31 Non sempre si tratta di conferme di quanto troviamo generalizzato nelle grammatiche, dal momento che i risultati si riferiscono a corpora realizzati su diversi tipi di testo (il parlato televisivo, radiofonico, dell'interazione in classe, ecc.; lo scritto della cronaca di giornale, dei testi letterari, giuridici, ecc.) riconducibili a particolari aree geografiche o un determinato periodo di tempo, legato all'epoca della rilevazione dei dati. Cfr. nota 10. parlanti (sociolinguistica), come elemento importante nella costruzione del testo e del discorso in genere e di diversi generi testuali (analisi del discorso) e come espressione di schemi concettuali e cognitivi fortemente influenzati dalle diverse culture (semantica cognitiva)" (Prat Zagrebelsky, 1998, p. 12). La via del confronto fra L1 e L2 si realizza, dunque, sotto l'egida della didattica comunicativa, in ambito lessicale, ma anche il confronto interculturale costituisce una delle sue chiavi interpretative più attuali. Come rileva Weidenhiller (1998, p. 214-215): "L'incontro con un'altra visione del mondo inizia a livello lessicale. Singole parole ed espressioni sembrano spesso facili da tradurre, possono però causare malintesi con parlanti stranieri perché vengono percepite differentemente nelle rispettive culture e implicano di conseguenza concetti diversi. "Prendere un caffè", "have a cup of coffee", "prendre un café", "Kaffee trinken", per esempio, sono attività simili solo apparentemente. In Germania essere invitati "zum Kaffee trinken" significa sedersi a tavola, prendere una o più tazze di caffè (lungo) insieme a un pezzo di torta – di solito tra le 15 e le 16 – mentre in Italia si usa prendere solamente una tazzina di caffè (espresso) soprattutto dopo i pasti, a casa o al bar. (…) Imparare a vivere con comportamenti linguistici dalle connotazioni culturali differenti significa sviluppare una particolare attenzione, una cosiddetta "consapevolezza linguistico-culturale". 1.6.2. Unione Europea e intercomprensione romanza. Un ambito particolare di contatto linguistico è rappresentato dall'Unione Europea che, nell'ultimo scorcio del XX secolo, ha visto progressivamente aumentare i propri Stati membri e, di conseguenza, le lingue rappresentate (attualmente undici, ma destinate ad crescere nei prossimi anni con l'ingresso degli Stati dell'est europeo di cui sono in corso le trattative). A livello comunitario le decisioni di politica linguistica diventano oggetto di dibattito: la scelta di una lingua unica (che cadrebbe probabilmente sull'inglese) viene immediatamente esclusa. Si riafferma il principio del plurilinguismo europeo, ma restano i problemi di comunicazione, che colpiscono soprattutto le lingue minoritarie, penalizzate in quanto meno insegnate e apprese. Il linguista Raffaele Simone invita le lingue romanze a unirsi in un patto linguistico basato sulla reciproca comprensione (Simone, 1997) e si fa promotore, insieme ad altri colleghi francesi, spagnoli e portoghesi, di un progetto (EuRom4) finalizzato allo sviluppo della comprensione scritta, da parte di cittadini europei di lingue romanze. Il progetto (descritto in Blanche Benveniste et al., 1997 e Bonvino, 1998: pp.270-285) prevede una banca dati di 24 articoli di giornale per ognuna delle quattro lingue, accompagnati da lettura del testo registrata da un nativo, note, traduzioni, informazioni grammaticali e enciclopediche, da utilizzare su supporto informatico per l'autoapprendimento. La traduzione non è uno scopo in sé, ma uno strumento per verificare la comprensione: si scoprono così i processi mentali che guidano la lettura, gli errori dovuti al lessico non inferibile dal contesto, quelli attribuibili a strutture sintattiche troppo complesse. Obiettivo del corso è quello di mettere in grado, dopo 50-60 ore in autoapprendimento, di capire un testo di media lunghezza in una lingua romanza diversa dalla propria, sfruttando essenzialmente le proprie conoscenze del mondo (relative ai contenuti degli articoli) e il proprio background linguistico e culturale comune,32 oltre alle nuove conoscenze e abilità di lettura acquisite in L2. Come rileva Borello (1999, p. 219): "La traduzione può essere didatticamente valida, non solo come strumento per l'apprendimento di una L2 quanto per la riflessione sulla lingua di partenza e di arrivo che un approccio metalinguistico porta con sé. E' fuori dubbio che valorizzando la competenza comunicativa si torna a far conoscere la linguistica contrastiva e con essa la traduzione, in un quadro metodologico allargato, libero da ogni ricetta ed aperto alle istanze dell'utente, che tende a comparare, a trasporre, a tradurre, e che deve essere guidato a riflettere 32 Si veda il concetto di valorizzazione delle "competenze parziali" per l'Europa plurilingue, richiamato nel Quadro comune europeo di riferimento per le lingue (AAVV, 2001), in cui si considera una forma di potenziale ricchezza il fatto di possedere una "competenza differenziata" che permette di passare da una lingua all'altra (language switching) secondo le necessità (§ 6.1.3. sulla "Competenza plurilingue e pluriculturale"). Cfr. anche infra il cap. 3.3. di questo contributo. su un fenomeno ricco come il linguaggio naturale in genere e delle diverse lingue che studia in particolare". 2.6.3. L'approccio interculturale. A partire dagli anni '90 si diffonde nel settore dell'insegnamento delle lingue straniere e parallelamente anche nella riflessione sui fenomeni della traduzione quella che viene definita l'"ondata interculturale". 33 Le teorie sulla competenza comunicativa si evolvono e, sulla spinta di una società sempre più multietnica e caratterizzata dalla mobilità delle persone, si ridefiniscono in un'ottica interculturale, in cui non basta tradurre linguisticamente i modelli della comunicazione quotidiana da una cultura nazionale ad un'altra. Si comincia a parlare a questo proposito di - cambiamento del proprio punto di vista per vedere il mondo con gli occhi dell'interlocutore (empatia); - conoscenza e corretta interpretazione del background culturale dell'interlocutore; - comprensione generale della diversità culturale e specifica degli aspetti di "civiltà" della cultura dell'interlocutore; - conoscenza e corretta interpretazione dei codici nonverbali della cultura dell'interlocutore.34 Nella didattica delle lingue moderne si dà maggiore rilievo agli aspetti affettivi, cognitivi e comunicativo-comportamentali del dialogo interculturale (Gertsen, 1995), anche per far fronte alle nuove spinte motivazionali all'apprendimento delle lingue moderne in area europea, sulla scia del moltiplicarsi dei contatti e della mobilità delle persone (flussi migratori verso l'Europa, progetti di mobilità accademica, turismo ecc.). La didattica della competenza culturale diventa uno degli obiettivi da raggiungere attraverso l'interesse e la motivazione, ma anche attraverso l'analisi comparativa fra cultura materna e cultura obiettivo (Benucci, 2001). Nel campo dei translation studies il concetto di "comunicazione" viene associato a quelli di "cultura" e di "traduzione" quando si osservano i malintesi derivati dalla errata interpretazione di atti linguistici. Se tradurre letteralmente il testo di superficie non basta a rendere lo stesso speech act nella lingua obiettivo, sarà necessario trovare un'espressione equivalente in termini di efficacia pragmatica e orientarsi verso la cosiddetta "traduzione comunicativa"35. I fenomeni del contatto fra lingue e culture, dunque, tornano a rivestire una comune rilevanza sia nel campo della glottodidattica come in quello della traduttologia, sotto il comune denominatore del confronto interculturale. 3. La traduzione nel Quadro comune europeo di riferimento per le lingue: una prospettiva di mediazione interculturale La tendenziale multiculturalità dei paesi europei si riflette nell'orientamento interculturale dell'insegnamento delle lingue straniere che emerge dal Quadro comune europeo di riferimento per 33 A livello di lessicologia contrastiva, già Lado (1964) aveva affermato più volte il ruolo della cultura per la didattica delle lingue e il testing. In particolare, secondo Lado, i rapporti fra parole di lingue diverse possono variare in termini di forma, significato e distribuzione, un concetto, questo, che può essere visto in termini linguistici (es. it. maiale, ingl. pig/porc, fr. cochon/porc, ted. Schwein), semantici (es. i colori che non hanno corrispondenza univoca fra lingua e lingua) e culturali (es. il vino che non ha la stessa frequenza sulla tavola di un italiano o un inglese, e quindi non ha lo stesso significato culturale). Sul confronto fra gamma cromatica dell'italiano e del francese, si veda, come esempio la dettagliata analisi nel capitolo dal titolo Universali cromatici e relativismo culturale, in Arcaini, 1991, pp. 238-287. 34 L'interesse per la comunicazione nonverbale viene testimoniato non solo dalla didattica della L2 in prospettiva interculturale, ma anche dai translation studies che, negli anni '90, danno rilievo anche a questa dimensione dell'interazione umana (cfr. Poyatos, 1997). 35 L'assenso garbato, per esempio, si esprime in francese con "si vous voulez", ma la traduzione letterale in tedesco "wenn Sie wollen" può dar luogo a gravi malintesi, visto che corrisponde invece ad una accettazione senza grande entusiasmo di una proposta. (cfr. Weidenhiller, 1998: 216 e 223). Analogamente, "Dimmi!", che in italiano implica "Ti sto ascoltando", non può essere tradotto in inglese con "Tell me!", che viene percepito come coercitivo, ma piuttosto con "Yes?" (cfr. Katan, 1997, p. 48). le lingue (detto comunemente Quadro di riferimento o Framework), un documento che, dalla metà degli anni Novanta è stato disponibile in rete come frutto del lavoro congiunto di un pool di esperti del Consiglio d'Europa (diretti da J.L. Trim, uno dei promotori dei Livelli soglia degli anni '80) e che ha trovato veste editoriale nella versione inglese (AAVV, Common European Framework…, 2001) e in quella tradotta in italiano (Quadro comune europeo…, 2002). Nel Quadro di riferimento in particolare la traduzione non è intesa in senso strutturalista di trasposizione fra sistemi linguistici astratti, ma piuttosto come una delle attività legate al fenomeno della mediazione interculturale: questa prospettiva ci sembra segnare un inevitabile riavvicinamento fra gli studi traduttologici e quelli glottodidattici. 3.1. Traduzione e interpretariato come mediazione interculturale Nel capitolo 2.1. dedicato all'approccio orientato all'azione come chiave per la didattica della lingua straniera, fra le attività linguistiche che il soggetto potrebbe compiere in L2 una volta acquisita un'adeguata competenza linguistico-comunicativa, si citano la ricezione, la produzione, l'interazione e la mediazione, che possono realizzarsi mediante testi orali, scritti o trasmessi: l'apprendimento di una seconda lingua, in altre parole, viene ricondotto non solo alle attività di comprensione e produzione di testi in L2, alle attività di interazione in L2 con altri parlanti (nativi o non nativi), ma anche attività di riformulazione di un testo (dalla L1 alla L2, dalla L2 alla L1, ma anche altri tipi di riformulazione endolinguistica) che permettano il trasferimento di messaggi fra persone altrimenti incapaci di comunicare. La decisione di ricondurre la traduzione e l'interpretariato sotto il comune denominatore della mediazione viene resa esplicita alla fine del paragrafo 2.1.3: (trad. it., 17): "Sia in ricezione sia in produzione, attività scritte e/o orali di mediazione rendono possibile la comunicazione fra persone che, per un qualsiasi motivo, non sono in grado di comunicare direttamente. La traduzione e l'interpretariato, la parafrasi, il riassunto e il resoconto consentono la (ri)formulazione del testo originario rendendolo accessibile a una terza persona che non potrebbe accedervi direttamente. Le attività linguistiche di mediazione – (ri)formulazione di un testo – occupano un posto importante nel normale funzionamento linguistico delle nostre società". e nel paragrafo 4.4.4. (p. 87), intitolato appunto "Mediating acrivities": (trad. it., 108): "Nelle attività di mediazione chi usa la lingua non intende esprimere il proprio pensiero, ma semplicemente agire da intermediario tra due locutori che non riescono a comprendersi direttamente – normalmente (ma non obbligatoriamente) persone che usano lingue diverse. Tra le attività di mediazione troviamo ad esempio l'interpretariato (orale) e la traduzione (scritta) ma anche il riassumere e il parafrasare testi nella medesima lingua, quando la lingua del testo originale non risulta comprensibile al destinatario". "Traduttore come mediatore culturale": Katan (1997) attribuisce a Bochner (1981) la paternità di questo termine di successo. Secondo Bochner la mediazione culturale è molto di più che una traduzione: il ruolo del mediatore culturale è analogo a quello di un mediatore in qualsiasi altro campo, dall'arbitro al terapista. Si tratta di un facilitatore (cfr. Taft, 1981) che permette la comunicazione e la comprensione fra persone di lingua e cultura diversa: è esattamente la funzione che verrà più volte proposta nel Quadro di riferimento venti anni dopo, mettendo anche in risalto la funzione sociale delle attività di mediazione, essenziale all'interno di una società sempre più caratterizzata dai contatti fra lingue e culture. Al tempo stesso, il traduttore/interprete viene accomunato a chi attui un processo di traduzione/facilitazione all'interno della stessa lingua, mediante altri tipi di riformulazione (riassunto o resoconto) tali da rendere accessibile un testo a chi fosse incapace di interpretarlo: riconosciamo in questo concetto più ampio di "mediazione" l'impostazione semiotica di fondo di Roman Jakobson, che negli anni '50, come abbiamo visto (§ 1.1. di questo contributo) aveva per primo inquadrato il problema della traduzione in termini di "interpretazione", realizzabile a livello interlinguistico, endolinguistico e intersemiotico. Ecco la definizione che viene data al paragrafo 4.6.4. (p. 99) delle attività di mediazione interlinguistica indicate come "traduzione" e "interpretariato": (trad. it., pp. 122-3): "La mediazione copre due attività: 1) Traduzione. Chi usa/apprende la lingua riceve un testo da un parlante o scrivente che non è presente, in una lingua o codice (Lx) e produce un testo parallelo in una lingua o codice diverso (Ly); il testo ha come destinatario un'altra persona, che può essere un ascoltatore o un lettore a distanza. 2) Interpretariato. Chi usa/apprende la lingua agisce da intermediario in un'interazione faccia a faccia tra due interlocutori che non condividono la medesima lingua o il medesimo codice; riceve un testo in una lingua (Lx) e produce il testo corrispondente in un'altra (Ly)." I riferimenti alle componenti essenziali dell'interazione (interlocutore, codice, messaggio, canale orale e scritto) collocano questi due tipi di mediazione nei loro reali contesti comunicativi, facendo riferimento ad una impostazione del fenomeno traduzione/interpretariato secondo i principi sociolinguistici dei translation studies (cfr. supra, § 1.3. di questo contributo). 3.2. Traduzione / mediazione e aspetti sociolinguistici e pragmatici della comunicazione. Ricondurre la traduzione e l'interpretariato sotto l'egida delle attività di mediazione interlinguistica e interculturale significa dunque accentuarne la prospettiva pragmatica, mettendo a fuoco anche le possibili vie di spendibilità sociale dell'apprendimento di una seconda lingua. Lo stesso approccio adottato dal Quadro di riferimento viene definito un "approccio orientato all'azione", (trad. it., p. 11) "nel senso che considera le persone che usano e apprendono una lingua innanzitutto come 'attori sociali', vale a dire come membri di una società che hanno dei compiti (di tipo non solo linguistico) da portare a termine in circostanze date, in un ambiente specifico e all'interno di un determinato campo d'azione. Se gli atti linguistici si realizzano all'interno di attività linguistiche, queste d'altra parte si inseriscono in un più ampio contesto sociale, che è l'unico in grado di conferir loro pieno significato. Si parlavi 'compiti' in quanto le azioni sono compiute da uno o più individui che usano strategicamente le proprie competenze per raggiungere un determinato risultato. L'approccio orientato all'azione prende dunque in considerazione anche le risorse cognitive e affettive, la volontà e tutta la gamma delle capacità possedute e utilizzate da un individuo in quanto attore sociale" 3.2.1. Conoscenze e competenze sociolinguistiche. Le "competenze generali" di un individuo, cioè quelle (non esclusivamente linguistiche) di cui ci avvaliamo per svolgere azioni di tutti i tipi, secondo il Quadro di riferimento (2.1.1.), comprendono il "sapere" (knowledge), il "saper fare" (skills), il "saper essere" (existential competence) e la "capacità di apprendere" (ability to learn). Il "sapere" (cioè tutto ciò che riguarda le conoscenze dichiarative di una persona) riguarda la conoscenza del mondo (conoscenze enciclopediche), le conoscenza socioculturali36 e la consapevolezza interculturale. Questo tipo di "sapere", ma anche la conoscenza e la consapevolezza del rapporto (somiglianze e differenze) che esiste fra il mondo di origine e quello di cui si impara la lingua sono alla base della "consapevolezza interculturale" (5.1.1.3). Nell'ambito delle più specifiche competenze "linguistico-comunicative", le competenze sociolinguistiche37 si riferiscono ai fattori socioculturali dell'uso linguistico e condizionano fortemente ogni comunicazione linguistica tra rappresentanti di culture diverse, benché spesso i protagonisti possano non esserne consapevoli. Secondo gli autori del Quadro di riferimento le abilità e il saper-fare interculturale (intercultural skills and know-how) comprendono dunque: 36 Conoscenze relative alla società, alla cultura della o delle comunità in cui si parla una determinata lingua (condizioni di vita, valori e atteggiamenti, linguaggio del corpo, convenzioni sociali, comportamenti rituali ecc.) (cfr. § 5.1.1.2 del Quadro di riferimento). 37 Competenze relative all'uso di elementi linguistici che segnalano i rapporti sociali, le regole di cortesia, le espressioni di saggezza popolare, le differenze di registro, la varietà linguistica e l'accento (cfr. 2.1.2. e 5.2.2.). (trad. it., p. 129): "la capacità di mettere in rapporto la cultura d'origine con quella straniera; la sensibilità culturale e la capacità di individuare e usare opportune strategie per entrare in contatto con persone di altre culture; la capacità di fungere da intermediario tra la propria cultura e quella straniera e di risolvere efficacemente fraintendimenti interculturali e situazioni conflittuali; la capacità di superare modalità di relazione stereotipate." 3.2.2. Competenze pragmatiche Fra le competenze linguistico-comunicative, il Quadro di riferimento considera, oltre alle competenze linguistiche e sociolinguistiche (di cui abbiamo appena parlato), anche le "competenze pragmatiche",38 che riguardano essenzialmente la capacità di gestire un'interazione in cui ogni "mossa" contribuisce a fare avanzare l'interazione verso un certo scopo.39 Acquisire la competenza pragmatica significa dunque anche acquisire la conoscenza e la capacità di usare tali schemi di interazione sociale, culturalmente specifici, perché legati alle interazioni e agli ambienti culturali in cui i parlanti si sono formati, nonché ai modelli di interazione sociale (copioni) caratteristici di ogni cultura. Un esempio di "copione interazionale" (o "prassigramma") viene riportato al § 5.2.3.2: Schema generale (copione) per l'acquisto di merci e servizi: 1. recarsi sul luogo della transazione (trovare la strada che porta al negozio, trovare il reparto); 2. stabilire il contatto (saluti del commesso, del cliente); 3. scegliere merci/servizi (identificare la categoria richiesta, identificare opzioni; 4. discutere vantaggi e svantaggi, identificare la merce richiesta, esaminare la merce, accordarsi); 5. procedere al pagamento (accordarsi sul prezzo, fornire il pagamento, ringraziare); 6. accomiatarsi (esprimere soddisfazione, commenti interpersonali); 7. salutare prendendo commiato. Esistono dunque delle strategie peculiari dell'interazione che, secondo il Quadro di riferimento (4.4.3.5), prevedono le seguenti fasi: a) pianificazione (scegliere uno schema di interazione, identificare i vuoti informativi, giudicare cosa si può dare per presupposto, progettare le mosse), b) esecuzione (prendere la parola, cooperare con l'interlocutore,40 far fronte all'imprevisto, chiedere aiuto), c) valutazione (del successo dell'interazione), d) riparazione (chiedere e dare chiarimenti). Ma non tutte le culture adottano gli stessi "copioni" in relazione ad una determinata attività o contesto comunicativo: la competenza interculturale e pragmatica consiste, in questo caso, nel saper prevedere quali possano essere, in una data cultura, le mosse e gli scambi che si possono probabilmente verificare nell'interazione. 3.2.3. Impliciti culturali. Il successo di una strategia di interazione dipende anche dalla capacità di valutare e far fronte agli imprevisti che possono insorgere nell'applicazione di un copione interazionale. Fra i parametri di valutazione dei problemi comunicativi interculturali, Balboni (1999, pp. 34 sgg.) cita: a) formale vs informale; b) polite vs impolite; c) forza mascherata vs forza esplicita; d) politicamente corretto vs scorretto; e) uso libero vs tabù; f) cooperativo vs arroccato. In particolare esistono differenze interculturali in termini di testo e contesto: secondo Hall (1976) "gli individui, i gruppi e le culture attribuiscono priorità differenti in riferimento alla quantità di informazione (testo) che si rende necessario esplicitare affinché la comunicazione sia possibile: 38 La competenza pragmatica comprende la competenza discorsiva, funzionale e di pianificazione (cfr. 2.1.2 e 5.2.3). Le "mosse" rientrano nella sfera della psicologia relazionale, di cui la comunicazione è solo una componente. In Balboni (1999, pp. 83 sgg.) si considerano "mosse up" quelle che tendono a favorire chi le compie nel tentativo di prendere il controllo dell'evento comunicativo e "mosse down" quelle che mirano a evitare il diverbio (ammettere un errore, prendere tempo ecc.). 40 Si fa qui riferimento al principio di cooperazione di Grice (1975), secondo il quale (nella cultura anglosassone) il contributo di ogni partecipante all'interazione dovrebbe rispondere alla massima della qualità (dire il vero), della quantità (fornire tutte le informazioni necessarie e non altre), della relazione (non dire ciò che non è pertinente), del modo (evitare ambiguità e prolissità). 39 esistono culture più inclini a comunicare attraverso il testo (culture a contesto debole, che usano una "Comunicazione a Contesto da Definire" o CCD) e altre che tendono a comunicare attraverso il contesto (culture a contesto forte, che usano una "Comunicazione a Contesto Sottinteso" o CCS): a) nel primo caso le informazioni vengono fornite esplicitamente (p.es. la prassi britannica di elaborare dei dossier scritti per le abitazioni in vendita) e con maggiore autocontrollo (titoli dei giornali inglesi meno drammatici di quelli italiani), b) nel secondo caso si fa ricorso a una trasmissione delle informazioni meno esplicita e immediata, più emotiva (campagne ecologiche nord americane più emotive di quelle britanniche) e ancorata al contesto (uso dei gesti e altre forme di linguaggio non verbale nella comunicazione in Italia e in altri paesi mediterranei)41. Secondo Katan (1997, p. 47) "l'obiettivo di un mediatore culturale sarà quello di variare il carico informativo del testo della lingua di arrivo, tenendo presente quello del testo di partenza", in base al diverso orientamento verso il testo e il contesto delle due lingue e culture in contatto. 3.3. Traduzione / mediazione e sviluppo della personalità plurilingue e interculturale Nel capitolo 4, dal titolo "Language use and the language user/learner", si mette in relazione lo sviluppo della seconda lingua con gli usi linguistici dell'apprendente, rilevando che (trad. it., p. 55): "L'apprendente non acquisisce semplicemente due modi di agire e di comunicare, privi di relazioni reciproche. Chi apprende una lingua diventa plurilingue e sviluppa interculturalità. Le competenze linguistiche e culturali di ciascuna lingua vengono modificate dalla conoscenza dell'altra e contribuiscono alla consapevolezza interculturale, al saper essere e al saper fare Il rilievo dato nel Quadro di riferimento allo sviluppo della personalità plurilingue e interculturale richiama l'attenzione sugli aspetti psicologici dell'apprendimento, in particolare su una delle mete educative fondamentali dell'apprendimento linguistico definita "relativismo culturale". Questa presa di posizione è in sintonia con la vocazione plurilingue dell'Europa Unita, società complessa per eccellenza, in cui sempre di più le persone saranno esposte, nella lingua madre e nella cultura nativa, a diverse varietà linguistiche e varianti culturali. L'importanza di favorire l'evolversi di una società basata sulla comprensione e la tolleranza reciproca, in cui saranno presenti varie forme di "disequilibri" di questo tipo, è implicita nella connotazione positiva che emerge dal Quadro di riferimento in relazione al concetto di competenza plurilingue e pluriculturale, una competenza che "non implica affatto instabilità, incertezza o mancanza di equilibrio nella persona, ma, nella maggior parte dei casi, contribuisce a migliorare la consapevolezza della propria identità" (6.1.3.1) e al tempo stesso "migliora la percezione di come si organizzano lingue diverse, negli aspetti che hanno in comune e in quelli specifici (sviluppando una consapevolezza metalinguistica, interlinguistica o, per così dire, "iperlinguistica")" (6.1.3.3.). Perfino la competenza parziale in una L2, seppur limitata, diventa una ricchezza, dal momento che "entra a far parte di una competenza plurilingue, arricchendola" (6.1.3.4). Va da sé che gli insegnanti siano i primi ad aiutare gli apprendenti ad avvicinarsi a più lingue e culture, ovvero: (trad. it., p. 166): "a costruire la propria identità linguistica e culturale integrandovi un'esperienza diversificata dell'alterità; a sviluppare la propria capacità di apprendere attraverso questa esperienza diversificata, riferita a più lingue e a più culture" 3.4. Traduzione / mediazione e processi mentali. Che ruolo può avere dunque oggi la traduzione nella didattica della L2 secondo l'impostazione parzialmente innovativa del Quadro di riferimento? "Per traduzione nessuno intende più il dannoso 41 Anche il Quadro di riferimento riconosce la rilevanza della comunicazione non verbale per la didattica delle lingue in Europa. Fra le attività e strategie di comunicazione linguistica (§ 4.4.) si fa infatti riferimento alla comunicazione nonverbale (4.4.5), in particolare al linguaggio del corpo (in quanto veicola significati convenzionali che possono essere diversi da cultura a cultura), alle onomatopee e ai tratti prosodici, richiamandone l'importanza nell'ambito della "conoscenza socioculturale" (5.1.1.2). esercizio 'parola per parola' operato su frasi isolate e fuori contesto, ma un'attività che 'aiuti a capire le convergenze e le divergenze strutturali, discorsive e testuali tra la L1 e la L2 rilevabili negli usi linguistici reali'" (Borello, 1996, p. 130). Infatti, rispetto alla maggior parte delle tecniche proposte nei metodi glottodidattici nel corso del XX secolo (basate sulla manipolazione linguistica), "le tecniche preferite oggi mirano allo sviluppo di processi, piuttosto che alla realizzazione di prodotti quali frasi, testi ecc." (Balboni, 2002, p. 16). Questo atteggiamento sembra condiviso anche dagli autori del Quadro di riferimento. In particolare, al paragrafo 4.4.4., dopo aver brevemente indicato le più comuni attività di mediazione orale42 e scritta43, si elencano alcune "strategie di mediazione" che tengono conto sia del processo interpretativo che è alla base di ogni traduzione/interpretariato, sia dello sviluppo progressivo delle abilità traduttive e delle competenze in L2 dello stesso mediatore, in un'ottica di autoapprendimento: a)Pianificazione: richiamare conoscenze di sfondo, individuare elementi di supporto, preparare un glossario, considerare i bisogni degli interlocutori, scegliere le unità da interpretare; b)Esecuzione: anticipare ciò che sta per essere detto mentre si sta formulando ciò che è stato appena detto (simultanea), prendere nota di espressioni per estendere il proprio vocabolario, costruire delle "isole di sicurezza" che liberino la capacità di trattare il testo e alimentino la previsione (consecutiva); c)Valutazione: controllo a livello comunicativo (congruenza delle due versioni) e linguistico (coerenza d'uso); d) Riparazione: autocorrezioni (nell'oralità) e riparazioni (nello scritto) basate sulla consultazione di dizionari e repertori, esperti e fonti. L'iperonimo "mediazione" conferisce dunque al binomio traduzione / mediazione un nuovo ruolo nella didattica delle lingue moderne, secondo l'impostazione del Quadro di riferimento, come ambito privilegiato di attivazione di processi mentali, di consapevolezza interlinguistica e interculturale, di riferimento a modelli (comuni o divergenti) in ambito linguistico, sociolinguistico e pragmatico, non più legata al binomio L1-L2,44 ma piuttosto al contatto fra lingua/cultura materna più lingue/culture anche solo parzialmente possedute dal soggetto. Bibliografia di riferimento AAVV, Common European Framework of reference for Languages: Learning, teaching, assessment, Cambridge, Cambridge University Press, 2001 (trad. it. Quadro comune europeo di riferimento per le lingue: apprendimento insegnamento valutazione, Firenze, La Nuova Italia – Oxford, 2002) AMATO. A. (a cura di), Analisi contrastiva e analisi degli errori. 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Non così l'esposizione a e l'apprendimento di più lingue, che "favorisce il saper apprendere e la capacità di stabilire relazioni con altre persone e affrontare situazioni nuove" (6.1.3.3). 43 BALBONI, P. E., La comunicazione interculturale, Pordenone, Consulting Group, 1995 BALBONI, P. E., Parole comuni culture diverse. Guida alla comunicazione interculturale, Venezia, Marsilio, 1999 BALBONI, P.E., Le sfide di Babele. Insegnare le lingue nelle società complesse, Torino, UTET, 2002 BASSETT McGUIRE, S., La traduzione. Teorie e pratica, Milano, Bompiani, 1993 BASSNETT, S. – LEFEVERE A., Translation, History and Culture, London, Pinter, 1990 BENUCCI, A., La competenza interculturale, in P. DIADORI (a cura di), Insegnare italiano a stranieri, Firenze, Le Monnier, 2001 BETTONI, C., Imparare un'altra lingua, Bari, Laterza, 2001 BLANCHE BENVENISTE, C. et al. , EuRom4, metodo di insegnamento simultaneo delle lingue romanze, Firenze, La Nuova Italia, 1997 BOCHNER, S. 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