l’antifascista fondato nel 1954 da Sandro Pertini e Umberto Terracini Periodico degli antifascisti di ieri e di oggi • anno LXII - n° 7-8 Luglio - Agosto 2015 Dai funerali di Casamonica alle ruberie, la Capitale sporca la sua immagine. Adesso basta ROMA CORROTTA, ITALIA INFETTA T di Gino MORRONE orniamo sul caso clamoroso dei funerali di Casamonica perché la vicenda è strettamente collegata alla crisi di Roma capitale, ai maneggi, alle ruberie di una classe dirigente che ha tanto da farsi perdonare e per dire a Roma e ai romani, come antifascisti che per l’Italia hanno dato tanto sangue, che è ora di dire basta con gli intrallazzi, con la corruzione diffusa davvero nauseante perché, come scriveva un grande giornalista recentemente scomparso, Manlio Cancogni, capitale corrotta è uguale a Nazione infetta. E deve farlo in fretta usando anche, se necessario, le maniere forti. Non è più il momento dei furbi e dei furbetti. È ora che Roma riprenda consapevolezza della sua grandezza, rialzi la testa, ritorni ad essere Capitale d'Italia, e caput mundi. La classe politica ha annunciato che farà la sua parte in questa operazione di nettezza urbana usando la ramazza e il tritarifiuti, a cominciare dal suo primo Cittadino Ignazio Marino sul quale non vogliamo infierire. Ricominciare da zero vuol dire non ripetere più, mai più, errori che possono essere letali. Per Roma e per il Paese. Chiudiamo il caso Casamonica, non parliamone più anziché, come hanno fatto la Rai e Bruno Vespa, riportare alla ribalta una famiglia che si è indebitamente e colossalmente arricchita con attività a dir poco criminali, mafiose scatenando un putiferio di polemiche. Né vale appellarsi all’audience, un servizio pubblico deve prima di tutto servire la verità. E ripartiamo. Ripartiamo mettendo al primo punto dell’azione amministrativa la legalità. Se davvero l’Italia sta uscendo dalle secche, a maggior ragione deve farlo la sua Capitale. L'EDITORIALE Il dramma della Grecia è anche la nostra crisi di Giorgio GALLI Il dramma della Grecia è la crisi dell’Euro e dell’Europa. Una situazione paradossale. Si è detto che i greci si sono indebitati per vivere al di sopra delle loro possibilità. In realtà, negli ultimi venti anni, in Grecia come in tutto l’Occidente sono aumentate le diseguaglianze. Minoranze privilegiate hanno vissuto sempre meglio e le masse non privilegiate sempre peggio, in termini di diritti e di livelli di vita. segue a pagina 2 Un numero scritto con un pennarello per identificare DEI rifugiati siriani Repubblica Ceca: la vergogna di quei marchi di Jean MORNERO Cara Europa, così non va. Non può esistere che Paesi membri, come la Repubblica Ceca, per esempio, segnino i profughi come fossero bestiame al macello, secondo un triste rituale burocratico che evoca gli anni atroci in cui si tatuavano i deportati nei campi di sterminio nazisti. È un atto che fa orrore alle coscienze anche perché la polizia ceca ha marchiato ogni migrante, compresi i bambini, in arrivo dall’Austria. Tra le foto che ritraggono agenti armati di pennarello per vergare cifre sulle braccia dei profughi, ce n'è una particolarmente agghiacciante: una bimba addormentata sulla spalla della madre che sul polso porta l'identificativo “C5”. segue a pagina 3 Poste Italiane s.p.a. - spedizione in abbonamento D.L. 353/2003 (conv.in. L. 46 del 27.02.2004) - Art.1, comma 2, DCB - Roma GOVERNO Renzi alla guerra d'autunno di N. CORDA a pag. 4 MEMORIA A 10 anni dalla scomparsa di Aniasi di C. TOGNOLI a pag. 6 ANTIFASCISMO Addio Gianfranco Maris di R. CENATI a pag. 8 BRESCIA Doppio ergastolo per i fascisti di S. FERRARI a pag. 10 Il dramma dei migranti 2 La foto shock che gela e cambia il mondo È l’immagine drammatica di un piccolo siriano trovato sulla spiaggia turca di Bodrum dopo essere annegato di Maurizio GALLI S crive Michele Smargiassi: “Foto con cadaveri di bambini affogati nella fossa del Mediterraneo stanno rompendo gli argini, sfondano l’interdetto del pudore”. Ma certo la foto di quel piccolo siriano senza vita portato sulla spiaggia di Bodrum dalle onde e recuperato da un poliziotto è una immagine raccapricciante e per la sua forza emotiva ha fatto in breve il giro del mondo. I siti dei giornali inglesi l’hanno giustamente scelta per attaccare la linea anti-migranti del premier David Cameron. Ma una foto può cambiare la politica dell'Europa sulla tragedia dei migranti? Forse sì. Almeno questa è la speranza cui vogliamo aggrapparci. Di immagini atroci, certo, questa storia ne ha già prodotte altre, ma ”Quando è troppo è troppo”, scrive sul suo sito il quotidiano “Independent” di Londra, decidendo di pubblicare il servizio fotografico, anche se agghiacciante, nella speranza di smuovere il governo britannico, finora preoccupato di chiudere le porte all'immigrazione, quella clandestina e perfino quella legale, come ha dimostrato l’altro giorno la sparata del ministro degli Interni Theresa May. segue dalla prima pagina La Grecia si è indebitata per pagare altri debiti, lungo un processo che ha visto persino, a livello di massa, aumentare la mortalità infantile per denutrizione. Se i lavoratori e i pensionati greci possono essere criticati, è per aver sopportato tutto, compresa l’evasione fiscale di armatori multimiliardari, senza ribellarsi. E quando hanno tentato di farlo, democraticamente, votando per la sinistra e in un referendum, l’Europa delle banche ha imposto un diktat paragonato a un colpo di Stato contro un governo legittimo. E, per singolare coincidenza, alla vigilia del 5 luglio del referendum greco, il direttore di questa rivista aveva promosso, al circolo De Amicis a Milano, la presentazione del libro “Il colpo di Stato del 1945”, di Michelangelo Ingrassia, racconto della caduta del governo Parri, espressione della Resistenza, nel gennaio di quell’anno. La definizione di “colpo di Stato” (orchestrato dalla destra, con l’accettazione della sinistra), era stata dello stesso Parri. Durante il dibattito si discusse se quella definizione fosse valida o meno, così come è discutibile se sia valida la stessa espressione per definire il diktat che ha posto fine, pure dopo cinque mesi, al governo Tsipras di sinistra, come è stato detto ad Atene. La differenza tra Parri, che non si è arreso, e Tsipras, che lo ha fatto, è a vantaggio del primo come persona; ma l’esito è eguale. Al di là delle definizioni, mi pare utile cogliere altre coincidenze, per concludere con una ipotesi provocatoria. Michelangelo Ingrassia mi ha poi fatto avere un altro suo libro, “La sinistra nazionalsocialista – Una mancata alternativa a Hitler” (Ed. Cantagalli). Lo scorso numero di questa rivista ha pubblicato la recensione di Arturo Colombo a un altro libro sul fascismo, “Altri duci. I fascismi europei tra le due guerre” (Ed. Mursia). L’autore, Marco Fraquelli, si era laureato con me all’Università di Milano (con una tesi sul filosofo fascista Julius Evola) e, pur formatosi nelle “ronde proletarie” sessantottine, aveva così cominciato a interessarsi della destra. Arturo Colombo conclude sul libro: “Si tratta di una ricostruzione degli eventi quanto più possibile vicina alla realtà e intellettualmente stimolante. Siamo d’accordo”. Questi libri attirano l’attenzione su un fenomeno in genere trascurato: nei fascismi degli anni Venti e Trenta era presente un aspetto di anticapitalismo di destra, aspetto presente anche nei cosiddetti populismi euroscettici attuali e che allora si esaurì, assorbito nei partiti e nei regimi autoritari della destra. E ora? Proprio in Grecia il movimento Alba dorata, definito neonazista, dopo aver affermato a gennaio che il vittorioso Tsipras avrebbe fallito, ha poi votato in Parlamento (ha diciassette deputati) a favore dell’indizione del referendum (osteggiato dalle altre opposizioni) e ha poi votato “no”, contribuendo alla sua affermazione oltre le previsioni. Ipotesi provocatoria a livello europeo: non è possibile, da sinistra, evitare l’assorbimento dell’anticapitalismo di destra nell’autoritarismo reazionario, per concordare una ristrutturazione del debito che sacrifichi le banche al progetto di un’Europa soggetto politico solidale, in grado di competere con gli altri grandi Stati continentali, dagli Stati Uniti alla Cina? Oggi il piccolo cabotaggio di governi e tecnoburocrati mediocri, condizionati da una Germania più propensa al dominio che all’egemonia, sta trasformando in un triste tramonto il grande progetto europeo di Altiero Spinelli e di Ernesto Rossi. Settanta anni fa, il grande progetto di Parri per un’Italia più democratica grazie al patrimonio della Resistenza, fu infranto in cinque mesi da personalità di rilievo (da Togliatti e De Gasperi), ma influenzati da ideologie partitiche. Dal nostro piccolo punto d’osservazione, avvertiamo le grandi lezioni della storia e possiamo trarre idee da quelle lezioni: per non ripetere gli errori degli anni Venti, Trenta e Quaranta dello scorso secolo. Il dramma dei migranti LA VERGOGNA DI QUEI MARCHI Q segue dalla prima pagina ueste immagini vergognose sono state subito postate in Rete, sollevando l’indignazione nel mondo intero. I “marchiati” sono 214 rifugiati, per lo più siriani, fermati due notti fa dalla polizia al confine austriaco. Perché un tale gesto? Perché con questo numero, si sono giustificati i cechi, è più facile identificare il treno e il vagone d’arrivo dei migranti, per eventualmente ricaricarceli e rispedirli indietro. “E visto il gran numero di bambini, è stato anche il modo per evitare che questi si smarrissero”, ha detto un portavoce del ministero dell’Interno. "Hanno pazientemente accettato la marchiatura perché sapevano che è nel loro interesse”, ha aggiunto il funzionario, ignorando forse che non esiste nessuna legge al mondo che permetta di marchiare le persone, anche se queste, come accade spesso in questi giorni, non hanno documenti d'identità. Anche in Italia l’operato della polizia ceca ha sollevato numerose polemiche. Secondo Renzo Gattegna, presidente dell’Unione delle Comunità ebraiche italiane, quanto è successo è un fatto gravissimo. Dice Gattegna: “Sono segnali che richiamano inevitabilmente il periodo più oscuro della storia contemporanea E sono soltanto gli ultimi di una serie d’inquietanti accadimenti contro i quali deve sentirsi la voce di tutte le società civili e progredite”. Per il presidente degli ebrei italiani “il futuro dei valori in cui crediamo e in cui ci riconosciamo, mai come adesso è posto a rischio, e la Storia ci ha insegnato che l’indifferenza non è una scelta accettabile”. Piero Terracina, 87 anni, sopravvissuto ad Auschwitz, dove fu deportato perché ebreo, giudica l’accaduto “un'orribile parodia di quello che è stato fatto ai prigionieri durante il nazismo”. Quest’uomo che ha passato la vita a raccontare il suo martirio per tenere viva la memoria della Shoah ricorda adesso come allora le cifre tatuate sulla pelle tolsero ai prigionieri la dignità di uomini. A differenza di altri Stati europei, la Repubblica Ceca sostiene che i migranti illegali, ossia la quasi totalità di coloro che in questi mesi fuggono da guerre o carestie, devono essere rispediti nei loro Paesi d'origine. Due giorni fa, l’ex presidente ceco Vaclav Klaus ha riassunto così questo sentimento: “L'immigrazione non è un diritto dell'uomo”. Wiesel: il Male può tornare Ed ecco cosa sostiene in un’intervista il professor Elie Wiesel, uno dei più grandi intellettuali della comunità ebraica, premio Nobel per la pace: “Voglio andare in Ungheria per raccontare come scampai ai lager e come fui accolto in Francia. Bisogna ricordare chi tendeva la mano a quelli che fuggivano, la Shoah non è paragonabile a nessun altro crimine nella storia dell' umanità. Però apprendendo quelle notizie da Praga confermate da Mlada Fronta Dnes (autorevole quotidiano ceco, ndr) mi chiedo: ma perché mai lo fanno? E perché mai lo fanno ancora proprio in Europa?” Come si sente davanti alle nuove ondate di ostilità e odio contro i migranti, all’Est e altrove? I mali oscuri e antichi dell’Europa tornano vivi? “Io voglio proprio sperare di no. E aggiungo, stiamo attenti: non paragoniamo la Shoah ad altri orrori pur scioccanti. Però tutti dovrebbero ricordare quell’espressione di Wojtyla, “male assoluto”, anche per evitare che accada ogni male minore. E tutti gli europei e gli altri cittadini del mondo globalizzato dovrebbero sempre rammentare che siamo e siamo stati tutti stranieri quasi sempre, da secoli. Io mi sento da una vita come straniero esterno in quanto ebreo, e ho imparato a sentirmi bene. Perché nello straniero noi dell’intelligecija ebraica - ma da secoli la pensano e l’hanno pensata così anche milioni e milioni di cittadini europei - lo straniero è qualcuno che ti arricchisce, perché ti porta un’altra cultura, una visione in più. Le società più aperte verso gli stranieri e la loro integrazione sono spessissimo quelle che ci guadagnano di più, acquisendo più cultura e più talenti. Tali successi non si conseguono scrivendo numeri sulle braccia dei migranti”. L'Europa ancora una volta ha paura dei migranti economici, gli Stati Uniti no. Perché? “Gli Usa hanno sempre saputo crescere come nazione di stranieri che pian piano imparano a crescere insieme come we, the people. Gli europei dovrebbero sapere, come Angela Merkel e le statistiche Onu ricordano, che il più numeroso gruppo di migranti sono siriani. Fuggono da guerra, persecuzioni della dittatura, terrorismo dell’Is e sono persone molto qualificate”. All'Est il nuovo razzismo quant'è allarmante? Prima contro ebrei, poi contro Rom, poi contro migranti. . . “È molto allarmante. In Ungheria, nei paesi Baltici, in Romania, altrove, bisogna fare chiarezza con il peso grave della Storia e capire che integrare gli stranieri è nell’interesse nazionale, non timbrarli. E poi trovo scioccante che Orbàn riabiliti Horthy, ideatore delle prime leggi razziali e complice dell’Olocausto. S’immagina Merkel che riabilita qualcuno che non voglio nominare? E quali servigi avrebbe mai reso l’antisemita Horthy al suo paese e al mondo? Ed Àgnes Heller, 87 anni, sopravvissuta all’Olocausto, aggiunge: L’Europa dell’Est è ostaggio del bisogno di odio, di esclusione del diverso, di ostilità razzista”. 3 Interni 4 Osservatorio politico Renzi alla guerra d’autunno di Nicola CORDA “L’Italia sta meglio di un anno fa” ha detto il presidente del Consiglio Matteo Renzi in Giappone, ultimo dei suoi viaggi prima della pausa estiva. Al ritorno dalle ferie i dati Istat sulla disoccupazione e il secondo trimestre di Pil positivo e al rialzo, gli danno ragione, anche se la strada per l’uscita dalla crisi è ancora lunga. L’ottimismo e la determinazione per far uscire l’Italia dalle secche non gli mancano e tuttavia per il governo Renzi e la sua maggioranza ci sono davanti forse i mesi più difficili. La ripresa d’autunno sarà un primo banco di prova per le riforme e la tenuta della coalizione che in una delle due Camere continua ad avere numeri che impongono continue mediazioni. Le tensioni nate sui temi della giustizia e delle intercettazioni tra Pd e Nuovo Centrodestra alla vigilia delle ferie estive sono state l’ennesimo segnale di un rapporto turbolento del premier con il Parlamento. Il confronto con la minoranza del suo partito sembra arrivato al punto di massima frizione: l’ultimo voto sulla riforma della Rai in Senato, che ha mandato sotto il governo, ha costretto Renzi a rinnovare i vertici con la vecchia legge Gasparri. Se con i centristi è bastato pagare un prezzo seppur elevato nel giro di poltrone delle presidenze di commissione, con i bersaniani e la sinistra non sarà altrettanto facile. “Questi segnali non ci fanno nessuna paura, saremo ancora più determinati” ha detto il presidente del consiglio dopo gli ultimi sgambetti della minoranza, lanciando così il guanto di sfida ai ribelli. A rendere agitate le acque tra i parlamentari Pd, è stata anche la nascita del gruppo di Alleanza liberal popolare per le Autonomie, con la benedizione di Denis Verdini che ha abbandonato dopo trent’anni Silvio Berlusconi. Se l’ex coordinatore azzurro ha messo subito in chiaro che non sarebbe entrato in maggioranza, ha però spiegato che i suoi numeri per la partita delle riforme ci saranno e saranno voti pesanti. La stampella di Verdini non imbarazza però Renzi che ha ricordato come le riforme siano state già votate dagli ex senatori azzurri. Un partito che sta cambiando pelle per Massimo D’Alema, che ha dato il via allo scontro d’autunno dalla Festa dell’Unità di Milano. Pd che ora è a un bivio che indica da una parte un centrosinistra rinnovato e dall’altra l’alleanza con “Casini, Alfano, Verdini e Cicchitto” ha ammonito l’ex premier e segretario. Dalle parti di Palazzo Chigi la dissidenza che ha alzato il tiro, ha rimesso in gioco il pallottoliere della maggioranza e fatto riemergere quell’ipotesi di urne anticipate che cova sotto traccia fin dall’approvazione dell’Italicum (che prevede nuove regole solo per l’elezione della Camera, ma entrerà in vigore solo nel luglio 2016). Se è vero che i vertici di Viale Mazzini avevano la necessità di essere rinnovati con o senza la riforma, è altrettanto vero che la scelta di procedere con la vecchia legge spiega che, nell’entourage renziano, la strada di un ricorso anticipato alle urne, non è un tabù e arrivarci con una Rai meglio sintonizzata sulla maggioranza, dà più sicurezza. Ma tra riforme fatte e quelle ancora in cantiere, il governo si troverà di fronte altre emergenze che, visti i chiari di luna sulla tenuta del Partito Democratico e le frizioni con il Nuovo Centrodestra sui temi della giustizia, non saranno facili da affrontare. Uno dei primi tasselli da sistemare sarà il completamento dell’esecutivo con la nomina di un ministro degli affari regionali (lasciato vacante da Maria Carmela Lanzetta), e due viceministri degli esteri (in sostituzione di Lapo Pistelli) e dello sviluppo economico (al posto di Claudio de Vincenti). Renzi potrebbe cogliere l’occasione per trovare un punto di mediazione e ricucire con la minoranza interna, ma le scelte soft non sono nel suo carattere e le minacce di “Vietnam parlamentare” evocate prima della pausa estiva non depongono certo a favore della tregua. Il punto cardine del programma renziano che potrebbe mettere a rischio la legislatura è sicuramente la riforma Costituzionale che proprio in queste settimane entra nel vivo della terza e quarta lettura. Dalla minoranza Dem è stato presentato il pacchetto di emendamenti che puntano a rimettere in gioco il Senato elettivo e a ridisegnarlo quale Camera di compensazione e di riequilibrio del potere ultramaggioritario che deriva dall’ultima versione della legge elettorale. In campo c’è anche l’ipotesi di cambiare il premio di maggioranza dell’Italicum (assegnandolo alla coalizione e tornando alla prima versione). È la richiesta della nuova formazione di Verdini, potrebbe far tornare al tavolo anche Forza Italia e soprattutto metterebbe fuori dai giochi del ballottaggio il Movimento 5 Stelle tornato a volare alto nei sondaggi. Sicuro di avere comunque i numeri per far passare il nuovo Senato senza fare marcia indietro e senza scossoni, Renzi si lascia ancora tutte le strade aperte. Finora ha fatto scelte che privilegiano le relazioni verso il centro a scapito dei rapporti a sinistra, ma anche dal fronte del partito di Vendola (dove c’è molto malumore) potrebbero arrivare nuovi innesti al progetto di “partito della nazione”. L’obiettivo non dichiarato è di rendere le opposizioni ininfluenti e arrivare al 2018 portando a casa le riforme promesse. Nel quadro di un Pd più eterogeneo e messo sottosterzo da Renzi, aumentano però le possibilità che in autunno nascano i gruppi autonomi formati dalla sinistra del partito, da Fassina e Civati (che hanno già lasciato) e Sinistra Ecologia e Libertà. Qualcosa si muove anche tra i fuoriusciti del Movimento 5 Stelle e l’idea di una componente di questa natura (per ora solo parlamentare e non di partito), potrebbe convincere altri a passare sulla rive gauche. Oltre che sulle riforme, un’opposizione più organizzata punta a ostacolare il governo sull’altra grande partita che si giocherà in autunno. Sul terreno dell’economia la prossima legge di stabilità sarà perciò il secondo banco di prova per Renzi. Da un lato c’è la necessità di spingere ancora sulla crescita e liberare risorse per gli investimenti, dall’altro ci sono una serie di ostacoli di bilancio su cui sono già accesi i fari della Commissione europea. Il cantiere della prossima finanziaria si aggira intorno ai 30 miliardi e tra gli obiettivi di revisione di spesa e la flessibilità concessa dall’Europa, sono coperti appena la metà. All’incirca sono quelli che servono a sterilizzare le clausole di salvaguardia ed evitare che scattino gli aumenti dell’Iva e le accise e rispettare le sentenze costituzionali sul rinnovo dei contratti pubblici e l’indicizzazione delle pensioni. Mancano all’appello anche i miliardi per rifinanziare gli incentivi per le nuove assunzioni, per il piano di contrasto alla povertà e sono ancora da trovare le risorse per coprire il taglio delle tasse sulla casa, promessa su cui il premier si gioca molta della sua credibilità. Perciò la sua guerra d’autunno sarà anche contro Bruxelles che ha già recapitato al ministro dell’economia Padoan due messaggi: non ci saranno ulteriori margini di flessibilità in deficit e il carico fiscale è ancora troppo spostato su lavoro e imprese mentre la riduzione delle tasse sul patrimonio non è una priorità. L'opinione IL "FUNERALE" DI ROMA di Alessandro VECCHI I l 20 di agosto si sono svolti al Tuscolano i funerali di Roma e quindi d'Italia. Ma, come sappiamo, i funerali non sono la morte, essa avviene nostro malgrado e il funerale ne è una rappresentazione, un modo per i vivi di affrontare la questione. Una ritualità che aiuta a mettere la parola fine a un'intera vita. Non possiamo quindi prendercela con il prete o con chi officia la funzione, non possiamo accanirci contro il nero della macchina (o della carrozza come in questo caso), il problema non saranno i vestiti scelti dagli invitati. Il Problema è la Morte. Al contrario, i funerali è bene che ci siano, perché dovrebbero essere il primo passo verso una presa di coscienza e una lenta, a volte lentissima, rinascita. Va detto da subito, la morte e le esequie di Vittorio Casamonica sono un tema spinoso. Lo dico quindi subito, anche se il titolo di questo giornale dovrebbe di per sé sgombrare la strada da qualsiasi dubbio: io sto dalla parte dei deboli, degli sporchi, degli emarginati, dei capri espiatori, io sto dalla parte degli ebrei, degli 'zingari' e dei 'negri'. E, al contempo, sto dalla parte della legalità. La colpa principale del funerale dell'anno è stato quella di aver fatto emergere, a suon di fanfara, in una scena che è tra i Monty Python e i cine-panettoni, il “mondo di sotto” agli occhi del “mondo di sopra”. La realtà sotterranea è tale perché fa comodo ad essa trovarcisi, ma anche perché evita imbarazzi a chi si trova di sopra. Ma, per cortesia, non ci venite a morire proprio sotto gli occhi(!). I Casamonica sono a Roma dagli anni ‘70 ed è più o meno da allora che una buona parte della Famiglia, nell'Urbe, si è immischiata in affari loschi che vanno dal racket allo spaccio. La sobrietà, a tutti i livelli, non è mai stata la loro cifra. Dalle ville faraoniche ai ragazzini temuti dai coetanei che li riconoscono da metri di distanza e che, nel caso ti fosse sfuggito, non tardano a ricordarti il loro cognome sapendo che chi lo ascolta lo collega a una famiglia con cui è meglio non scherzare. Nei quartieri, però, sono vissuti con l'indolenza romana della mamma che ammonisce il figlio con un laconico “Staje lontano”, rarissime le denunce, quasi nulla l'integrazione. È quest'indolenza, romana per antonomasia, ma italiana per estensione, che dobbiamo combattere, sono i risultati di quest'atteggiamento che si sono palesati nel funerale, ma soprattutto nelle reazioni del 20 di agosto. Don Manieri, il prete che ha celebrato il funerale e da cui molti, a posteriori, si aspettavano un gesto di eroismo, un rifiuto a celebrare, lo ha detto in varie interviste, non spettava certo a lui arrestare un - presunto - boss, per di più ormai defunto. La questione infatti, come detto all'inizio, non è la morte e a questo punto nemmeno la sua rappresentazione. La questione è come sia possibile che quello che ora tutti si affrettano a chiamare uno “sfregio alla Città” sia potuto avvenire senza che si avessero gli strumenti legali per impedirlo? Come, una persona ritenuta a dir poco criminale e a dir tanto mafiosa, di più, un capo mafia, fosse a piede libero? L'Italia si deve liberare dalla sindrome della matrona romana, piantarla di sbuffare tra le proprie mura “Staje lontano, lassali perde'”. Dobbiamo smettere di vivacchiare in una nazione che rischia il declino, cercando di ritagliare spazi nel nostro mondo di mezzo nella speranza che non vengano intaccati dagli scomodi vicini. Se di mafia si tratta, se i Casamonica sono dei mafiosi, non possono stabilirlo i vigili né tantomeno un prete. “Sventurata la terra che ha bisogno di eroi” diceva Brecht: Roma, l'Italia, non hanno bisogno dell'ennesimo prete di trincea, né di un eroico vigile che sbarri la strada al corteo, non abbiamo nemmeno bisogno di una valida contraerea che fermi un elicottero (un elicottero!) il quale, senza autorizzazione, da Napoli parte per svolazzare sopra la capitale. Tutti questi sono dettagli di un epilogo che non poteva svolgersi diversamente. La mafia va stroncata, il malaffare corretto, le finestre rotte aggiustate. Le connivenze e le ambiguità non possono più essere tollerate. Affinché un funerale “sui generis” diventi unicamente una questione di folclore e, perché no, di conoscenza reciproca. Come ci ricorda nell’intervista rilasciatami via email da Santino Spinelli, professore universitario ed esperto di cultura Rom, i Rom e i Sinti così celebrano le dipartite dei propri membri. I petali, i cavalli, la musica 5 non sono una novità per questo popolo. E dato che “Antifascismo” per me significa soprattutto cultura, permettetemi di includere in questo articolo le parole di Spinelli, per aggiungere quello che più è mancato in questo dibattito, la ricerca di conoscenza: “I cavalli nella cosmologia culturale romanì rappresentano il viaggio, la famiglia e soprattutto la libertà. La libertà di esistere con la propria irrinunciabile identità. I petali rappresentano la purificazione, buttare a terra i petali durante il passaggio del feretro è un atto catartico e di purificazione. La banda e la musica rappresentano la consolazione, la musica è presente in ogni momento dell'esistenza romanì. In pratica un funerale è l'equivalente del matrimonio, dove i “festeggiamenti”, seppur con le dovute differenze, sono rivolti ad onorare i partecipanti e rivolti alla comunità e non all'esterno. Ecco, i Rom lo fanno anche per i funerali, per onorare non solo il defunto ma anche i partecipanti. “Questo gli italiani non lo fanno e quindi non lo comprendono". Anzi, diventa scioccante, e un funerale così deve essere per forza riservato ad un re, una regina o un criminale. “Anche quando è morta mia nonna i giornali parlarono della regina degli ‘zingari’ senza sapere che mia nonna era una persona semplice e umile e non era neppure Rom! Mio nonno ebbe lo stesso funerale senza essere né re e né tantomeno un criminale, ma un uomo mite e semplicissimo”. Per tornare alle reazioni del funerale, nomi illustri dell'antimafia come Gratteri ci spiegano che in Calabria e in Sicilia i funerali si svolgono all'alba per evitare che diventino il pretesto per uno sfoggio di potere: d'altronde anche a Roma nel 2012 vennero proibite esequie solenni per il figlio del boss Moccia. Vale a dire che se la sentenza c'è, la legge, a volte, si può far rispettare. Ma se una condanna non arriva, non possono essere i salotti delle televisioni o la carta stampata, prima istigatori e poi megafono dalla pancia della gente, ad ergersi a giudice e a decretare chi sia e chi non sia un mafioso. Si indaghi dunque sulle falle della sicurezza, su come un elicottero possa essere giunto indisturbato fino a noi, si indaghi anche su come è stato gestito il traffico e si faccia chiarezza sul come mai “nessuno sapesse niente”, ma soprattutto si affronti il tema della connivenza delle istituzioni con determinati ambienti, non si permetta che a Roma viga la legge del più forte. Si cerchi di capire come un uomo in odore di mafia, nel cuore d'Europa, abbia dovuto aspettare il proprio funerale per essere pubblicamente accusato. Memoria 6 Memoria Dieci anni fa la scomparsa di Aldo Aniasi, presidente della Fiap e comandante partigiano CIAO ISO, NON TI DIMENTICHEREMO MAI Per circa un decennio sindaco di Milano, più volte ministro e vice presidente della Camera dei Deputati, è stato a lungo tra i protagonisti della storia politica italiana di Carlo TOGNOLI (Sindaco di Milano dal Maggio 1976 al Dicembre 1986) D ieci anni fa Iso ci ha lasciati. Nel ricordarlo, allora come oggi, il primo pensiero va al partigiano, il comandante ‘Iso Danali’, giovane intelligente e coraggioso che in poco tempo, divenne capo della brigata garibaldina ‘Redi’ con una grande capacità tattica e una forte influenza sui suoi compagni. Attivo in Valsesia, era solito dire “la guerriglia si impara praticandola”, ma il suo modo di agire militarmente si basava su una preparazione precisa delle imboscate, senza improvvisazioni o colpi di testa. Fu presente anche in Val d’Ossola, dove si costituì una ‘repubblica partigiana’, uno dei primi esperimenti democratici dopo oltre vent’anni di dittatura fascista. “Non vogliamo eroi, non vogliamo martiri, né vittime inutili” diceva ai suoi prima dei combattimenti, basati sulla sorpresa e sulla rapidità d’azione. Prudenza e audacia si intrecciavano con l’obbiettivo di vincere ogni scontro. Ancora in battaglia mentre si liberava Milano, arrivò nel capoluogo lombardo con la reputazione di ottimo comandante, amato e stimato. Dal PCI, partito al quale era iscritto come ‘garibaldino’, passò nel dopoguerra al Partito Socialista (PSIUP) iniziando un percorso politico che l’avrebbe portato nel PSDI, dopo la scissione di Palazzo Barberini (1947) e poi nel PSI, nel 1959, insieme alla sinistra socialdemocratica (MUIS) capeggiata da Matteo Matteotti e da Ezio Vigorelli, che propugnava l’unità socialista. Vigorelli (che aveva perso due figli nella Resistenza, Bruno e Fofi) fu uno dei suoi maestri sul terreno politico e su quello sociale. Iso collaborò con Vigorelli nel campo assistenziale dopo il 1945 quando l’Italia e Milano si trovavano in una situazione di diffusa povertà dopo le distruzioni belliche e il crollo dell’economia. L’Ente Comunale di Assistenza (ECA) e l’Associazione Nazionale degli Enti di Assistenza (ANEA) erano gli strumenti con i quali gli amministratori aiutavano la popolazione. Antonio Greppi, sindaco della Liberazione, Vigorelli e Aniasi erano i garanti (anche verso gli alleati angloamericani) della correttezza e dell’equità della distribuzione di generi alimentari, del vestiario e degli aiuti economici a cittadini impoveriti e spesso senza casa. Nei documenti del Comune di Milano si possono leggere i criteri che informavano questo lavoro e la precisione con cui venivano regolati gli aiuti. E compare frequentemente la firma di Aldo Aniasi. Il suo percorso politico comincia proprio in quel periodo ed è legato alla concretezza, che lo accompagnerà per tutta la vita. Eletto consigliere comunale nel 1951 con il PSDI, fu assessore dal 1954 al 1959, quando si dimise per entrare nel PSI con il Movimento Unitario di Iniziativa Socialista del quale facevano parte, oltre a Matteotti e Vigorelli, i parlamentari Schiano e Lucchi, Mario Zagari, Leo Solari, Giuliano Vassalli, Italo Pietra e Lamberto Jori (assessore a Milano). Nel PSI fu subito protagonista. Rieletto consigliere comunale nel novembre del 1960, divenne assessore ai Lavori Pubblici del centro sinistra formato da DC, PSI e PSDI, presieduto da Gino Cassinis. Case, scuole, verde, campi gioco per i bambini per lui non furono promesse elettorali, ma un imperativo cui tenne fede anche da sindaco. Dopo le dimissioni di Bucalossi in contrasto con la maggioranza del partito socialista unificato e del centro sinistra, perché riottoso all’utilizzo pieno della spesa pubblica, necessario in quel periodo di costante immigrazione e di rilancio della Metropolitana (linea verde) – fu eletto sindaco alla fine del 1967. Aperto e convinto sostenitore di Aniasi fu Craxi, allora segretario provinciale del PS unificato. E con lui Nenni. Il lancio della sua candidatura fu preceduto da un passaggio di straordinario stile politico: Aniasi e Craxi proposero a Greppi, deputato, il mitico sindaco della Liberazione, che era stato capolista del PSI anche nelle elezioni amministrative del 1964, di riassumere la carica di sindaco. Greppi declinò l’invito e ad Aniasi capitò la stessa sorte di Caldara dopo la rinuncia dell’anziano socialista avv. Maino nel 1914. Non era un uomo dei salotti, aveva dedicato la sua vita alla Resistenza, all’impegno sociale, alla causa dei lavoratori e alla pubblica amministrazione. Prima di essere eletto sindaco era stato il più popolare degli assessori, conosciutissimo nelle periferie, dove vivevano due terzi dei milanesi. Poi, con la sua giunta, venne incrementato il patrimonio di edilizia popolare, venne potenziato il trasporto pubblico, fu ampliato il verde urbano, i quartieri ‘dormitorio’ vennero dotati di servizi, decollò il decentramento amministrativo. Ebbi l’onore, come assessore alla Sicurezza sociale della Giunta da lui presieduta, di far partire l’assistenza domiciliare agli anziani che prevedeva assistenza sanitaria, presenza delle operatrici sociali e aiuto delle collaboratrici domestiche nelle abitazioni. I primi due centri furono inaugurati da Aniasi in Piazzale Accursio e in via Andrea Doria. Guidò il centro sinistra al governo di Milano per otto anni, tormentati dalla contestazione studentesca, non sempre garbata, dallo stragismo, dalle marce ‘silenziose’, dall’inizio degli anni di piombo. Si sforzò di comprendere i movimenti e i giovani per ciò cui aspiravano e cercò la strada del dialogo, senza mai dimenticare la via maestra della difesa della democrazia e della libertà. Rischiò la vita durante l’inaugurazione del busto a Calabresi, al fianco del Presidente Rumor, quando Bertoli seminò in via Fatebenefratelli la morte tra incolpevoli e inconsapevoli passanti. Dopo il 1975 fu il traghettatore verso la giunta di sinistra. In questa circostanza, politicamente importantissima, i socialisti milanesi furono molto uniti. Nel clima di incipiente ‘compromesso storico’, Aniasi condivise la posizione dei socialisti milanesi - cui si aggiunsero la pattuglia socialdemocratica guidata da Pillitteri e due consiglieri della DC - che ritenevano l’alleanza netta e chiara con il PCI preferibile alle ‘larghe intese’ (cioè il centro sinistra con l’appoggio esterno dei comunisti) dove la preponderanza di DC e PCI avrebbe emarginato il PSI. La comunanza dei programmi avrebbe favorito un’azione amministrativa senza contrasti. Del resto questa linea si era formata nel pieno della battaglia referendaria contro l’abrogazione del divorzio che aveva visto l’unità dei laici e un’azione comune di socialisti e comunisti. Aniasi fu l’interprete ideale per questa alleanza, proprio perché negli anni settanta era l’interlocutore privilegiato di una parte del PCI, in particolare sul terreno degli interventi concreti, che aveva consentito un dialogo costruttivo, senza rinunce ai ruoli diversi, dei socialisti (al governo della città) e dei comunisti (all’opposizione). Non fu tutto facile, allora, perché ci furono resistenze nel PCI e anche nel PSI (a livello nazionale). Ma il risultato finale fu eccellente. Aniasi, poi, lasciò, nel 1976, per continuare il suo impegno alla Camera dei deputati, nel partito e nel governo. Responsabile nazionale degli enti locali, ministro della Sanità, ministro delle Regioni, vice-presidente della Camera – mantenne sempre il legame con Milano e i suoi cittadini. Negli ultimi tempi, come tutti sanno, dedicò buona parte della sua attività per mantenere alta la bandiera della Resistenza, intesa come simbolo della democrazia e della libertà. Emblematica la splendida mostra dedicata a Pertini da lui fortemente voluta e organizzata, rivolta soprattutto ai giovani. 7 In occasione delle sue dimissioni da sindaco disse, tra l’altro, in Consiglio comunale, l’8 maggio 1986: “… Abbiamo lavorato per ottenere il miglioramento delle condizioni di vita nella città, soprattutto nella periferia; per cercare di far partecipare tutti i cittadini all’amministrazione, per creare un legame stabile, saldo e forte tra il Comune e i milanesi. Questo impegno amministrativo, questa ricerca di partecipazione, sono stati determinanti quando l’amministrazione comunale ha voluto appellarsi ai lavoratori, ai cittadini, ai sindacati per raccogliere attorno a sè quanti credono nella convivenza civile e nella democrazia, per respingere le provocazioni. … In quegli anni di tensione Milano, tra l’altro, manifestava la sua solidarietà ai perseguitati, agli esuli, dai greci ai cileni…” “…In quel periodo ho vissuto momenti difficili, ma ho potuto sentire il polso vivo della città anche in situazioni di lacerante drammaticità; posso concludere che Milano non è malata. Essa è stata invece in questi anni un punto di riferimento politico. Con tutte le sue contraddizioni, con i suoi problemi, con le tensioni e i drammi sociali, Milano è espressione di una realtà matura e moderna, di una cultura che si rinnova perché uscita fuori dai ghetti del privilegio per immergersi nella realtà popolare”.* Ho voluto ricordarlo soprattutto in relazione alla sua esperienza milanese - anche se fu un uomo politico nazionale (deputato dal 1976 al 1994 e ministro) - perché il suo percorso politico cominciò a Milano, al fianco di due grandi socialisti come Greppi e Vigorelli. Personaggi 8 La Crisi Greca 9 Presidente dei deportati, per anni è stato il tenace alfiere dei valori della democrazia e della libertà ADDIO A GIANFRANCO MARIS, GIGANTE DELL'ANTIFASCISMO di Claudio FANO di Roberto CENATI G ianfranco Maris nasce a Milano il 24 gennio 1921. Il 10 giugno del 1941, primo anniversario dell'entrata in guerra dell'Italia nel secondo conflitto mondiale, aveva ricevuto la nomina a sottotenente ed era stato subito spedito in Grecia. Dalla Grecia è spostato in Slovenia e in Croazia dove lo coglie, l'8 settembre 1943, l'annuncio dell'armistizio. Riesce a tornare in Italia e diventa così capo di una delle prime bande partigiane che si sono costituite in Val Brembana. Quando, nel gennaio del 1944, riceve l'ordine di portarsi a Milano per poi, di lì, raggiungere la Valtellina, Maris è arrestato, per delazione, alla stazione di Lecco. Comincia così la drammatica trafila tra il carcere di Lecco, le celle delle SS di Bergamo, quelle della Guardia Nazionale Repubblicana, quelle del carcere di Sant'Agata a Bergamo, quelle del carcere di San Vittore. Da Milano Maris il 27 aprile 1944 è avviato al campo di polizia e di transito di Fossoli. Alla fine del luglio 1944 il trasporto verso il campo di Bolzano è il preludio della deportazione, il 5 agosto, nel lager di Mauthausen, e poi in quello di Gusen, dove Gianfranco riuscirà a sopravvivere alle privazioni e alle violenze. Il 5 maggio 1945 sarà liberato dai soldati americani. Rientrato in Italia a bordo di un'autolettiga di un comando militare italiano, Maris, superato il trauma, riprende gli studi e si laurea in Legge. Eserciterà la professione a Milano, sempre in prima fila nella difesa dei valori della Resistenza, della Costituzione, dell'antifascismo e nel ricordo del periodo tragico della deportazione e del nazifascismo. Senatore comunista per diverse legislature, è stato membro del Consiglio Superiore della Magistratura. Presidente nazionale dell'ANED, per anni Vicepresidente nazionale dell'ANPI, attualmente componente della Presidenza onoraria dell'ANPI Nazionale e dell'ANPI Provinciale di Milano, Maris era Presidente della Fondazione Memoria della Deportazione. Da Presidente nazionale dell'ANED Maris ha sempre tenuto strettissimi rapporti di collaborazione con l'ANPI provinciale di Milano. La deportazione a Mauthausen “Dal campo di concentramento non esci Riflessioni a margine della vicenda ellenica più, ti resta dentro”, era solito affermare Maris. Gianfranco ha saputo resistere con grande forza a quella tragica esperienza e nel suo libro autobiografico Per ogni pidocchio cinque bastonate, scrive: “Dobbiamo reagire, reagire subito, per quanto possibile, alle regole di un trattamento di fame e di umiliazione. Non dobbiamo abbassarci, non dobbiamo naufragare nei nostri discorsi sui bei tempi del pranzo di Natale o di compleanno, non dobbiamo ricordare come stavamo bene a casa, con la mamma o la moglie... No: dobbiamo liberarci di tutto ciò e animare i rapporti fra di noi non di ricordi ma di speranze; non di lagnanze ma di ragioni per continuare a lottare e per vivere.” Sempre nel suo libro si legge: “ I tedeschi dicono cosi: ≪Organisieren≫ (Organizzare). Ce lo ripetono le SS in continuazione e ormai è diventata un’espressione comune anche fra noi deportati. Dobbiamo organizzarci, cioè ≪arrangiarci. Tutto si organizza: gli zoccoli, la camicia, la giacca, i pantaloni, il pane. Che cosa vuol dire organizzare gli zoccoli, la camicia, la giacca, i pantaloni, il pane? Vuol dire rubarli a un altro deportato. È la morale che gli aguzzini hanno imposto alle loro vittime: siccome nel campo tutti ti rubano qualcosa, ognuno di noi dovrebbe reagire rubando. E nessuno si deve sentire colpevole perchè ≪organisieren≫ è la legge del campo. Tremo per aver pensato che io, proprio io avrei potuto ≪organizzare. E cosi avrebbero vinto loro, i criminali che ci tengono qui dentro, perche io sarei diventato uno come tutti quelli che il campo ha piegato a ≪organizzarsi≫. La mia dignità sarebbe morta.” Questo era Gianfranco Maris. Il valore della Memoria Il tema sul quale Gianfranco si è sempre battuto riguarda la Memoria. Nella raccolta dei suoi interventi, Una sola voce: scritti e discorsi contro l'oblio, curata da Giovanna Massariello, recentemente scomparsa, viene riportato un suo discorso tenuto a Milano davanti al Monumento del Deportato politico il 4 maggio 2008. Maris osserva: “Ogni giorno che passa aumenta, nel mio animo, il timore di 'lasciare' senza avere avuto il tempo di rendere tutta la mia testimonianza, per contribuire a consolidare una conoscenza indelebile di ciò che hanno veramente rappresentato in Europa, il fascismo e il nazismo nel secolo degli stermini, con il loro disegno di un “ordine nuovo”, basato sul razzismo come ideologia e sulla violenza criminale come sistema di governo”. “Ogni giorno che passa – sottolinea Maris - mi conferma che non abbiamo saputo ancora mettere la 'memoria dell'offesa' al riparo dall'assedio del revisionismo e dell'oblio, che si rinnovano a ogni stagione. Il giorno in cui gli orrori non saranno più conosciuti, se mai dovesse arrivare quel giorno, vorrà dire che il mostro non è stato vinto, che è pronto per scrivere una nuova cronaca di odio, di divisioni, di violenza, di ingiustizia e di morte” Per queste ragioni, nello struggente messaggio rivolto ai giovani, nell'incontro svoltosi a Palazzo Reale in occasione del Giorno della Memoria, il 27 gennaio scorso, Gianfranco Maris richiamava i ragazzi e le ragazze ad un forte impegno per la diffusione della memoria legata alla storia, perchè “il ricordo della deportazione, del genocidio degli ebrei, dell'assassinio dei dissidenti, dei diversi, dei combattenti per la libertà, dei partigiani, degli scioperanti, in una paola degli oppositori al regime nazifascista, non sia rimosso. Soltanto nella consapevolezza dei fatti storici nasce la memoria che ha un significato per il futuro dei popoli. Ecco il valore della testimonianza, che non deve restare soltanto patrimonio di chi ha vissuto quei tempi, ma deve diventare conoscenza di tutti, che vuol dire coscienza, perchè le donne, gli uomini, i giovani d'oggi possano veramente essere liberi ed operare senza condizionamenti le scelte della vita”. E concludeva il suo saluto, riprendendo il solenne giuramento dei sopravvissuti al lager di Mauthausen, dopo la sua liberazione, avvenuta il 5 maggio 1945, sollecitando Quando queste note saranno stampate sull’Antifascista, la vicenda della Grecia, che non si è esaurita con il referendum e con le misure poi adottate dal governo greco, avrà subìto altre evoluzioni. Non aggiungo quindi i miei commenti agli innumerevoli altri sull’argomento, perché non ne ho la competenza prima di tutto, e perché sarebbero comunque privi di attualità. Colgo però, un aspetto inquietante, il ruolo che ha e che sta avendo tuttora in questa vicenda la Germania, incapace di tradurre in pratica gli insegnamenti della sua storia, anzi, capacissima di ripercorrerla, ripetendo testardamente gli errori del suo passato, almeno quelli degli ultimi due secoli. Debbo obiettivamente premettere che nemmeno la Grecia, paese cicala, è esente da responsabilità nei confronti dell’Europa, per aver disinvoltamente fornito dati non veri sui suoi bilanci e per non aver fatto nulla per combattere la corruzione e rendere in generale più efficiente il Paese in termini di lotta all’evasione fiscale, evoluzione realistica del suo sistema pensionistico e quant’altro è stato abbondantemente illustrato sui mezzi di comunicazione. Proviamo a ripercorrere schematicamente la storia tedesca dal 1850 in poi, per cogliervi un filone ininterrotto e coerente, un – mai parola fu più adatta – leitmotiv che si esplicitava nella volontà di egemonizzare l’Europa, o quanto meno l’Europa continentale, vista come un contesto di popoli e territori direttamente o indirettamente soggetti alla supremazia tedesca – data per scontata e non contestabile - ma comunque retti da consenzienti regimi autoritari, o comunque conservatori. Il Cancelliere Bismarck indirizzò in questo senso tutta la politica del suo Paese nella seconda metà dell’Ottocento, in concorrenza ed in contrasto con la politica dell’Impero asburgico, non dissimile nelle ambizioni e non a caso altro Paese di lingua tedesca. La politica di Bismarck e di Francesco Giuseppe portò al massacro europeo della prima guerra mondiale, che fu marcato al suo epilogo, dall’errore imperdonabile di Francia e Gran Bretagna vincitori, che imposero agli sconfitti irrealistici risarcimenti. La sconfitta del nazismo e della Germania fu gestita saggiamente dagli Stati Uniti, che convinsero i loro Alleati Francia e Gran Bretagna, benché riluttanti, a richiedere danni di guerra moderati e dilazionati, quasi subito abbattuti del 60%, nonché a fornire aiuti diretti (per la ricostruzione della Germania). Gli Stati Uniti non vollero ripetere gli errori del passato, non vollero umiliare la Germania sconfitta, divisa in due, e le diedero credito per una sua rinascita democratica. Egualmente generosa fu la nuova Unione Europea nel favorire la riunificazione della Germania, nell’accollarsi gli oneri economici della parificazione del marco est a quello ovest, nell’accettare il tasso di cambio marco/Euro particolarmente favorevole ai tedeschi. Ma generosissima su di un altro aspetto fondamentale è stata la Grecia, i giovani “a mantenere viva la memoria delle finalità della lotta dei deportati e dei Combattenti per la Libertà: la costruzione di una società democratica, di uguali in cui siano riconosciuti e diffusi i diritti fondamentali delle donne e degli uomini a tutti i piccola nel contesto UE, ma comunque portatrice ed erede di valori europei fondamentali: non solo non ha mai levato la sua voce, dal 1945 in poi, contro le iniziative UE a favore della Germania appena descritte, ma ha accettato di rinunciare anche al risarcimento dei danni puramente materiali da lei subiti dalla Germania nazista nell’ ultimo conflitto. La Grecia, anche perché l’ occupazione nazista è stata più lunga, ha avuto, percentualmente rispetto alla popolazione ed al territorio, multipli delle stragi e delle deportazioni avvenute in Italia. Nessuno ha mai risarcito per questo la piccola Grecia. La Germania di Angela Merkel e Schäuble – ma abbiamo visto come nella vicenda greca essi si muovano in sintonia con una maggioranza ben più ampia di quella che li ha democraticamente eletti – è stata totalmente ingenerosa e dimentica degli insegnamenti della sua stessa storia. Atteggiamento del resto coerente con i valori espressi dal suo inno nazionale, mai sconfessato, « Deutschland, Deutschland über alles » (anche se detesto le parole di segno contrario dell’inno di Mameli «noi siamo da secoli calpesti e derisi»). La Germania di Angela Merkel e Schauble si è comportata e mossa su un piano puramente ragionieristico nel gestire ed indirizzare il debito greco : con l’arroganza di chi ritiene di non avere più alcuna responsabilità per le nefandezze del proprio passato, ha umiliato e distrutto la Grecia, così come la Germania sconfitta nel 1918, senza aver commesso alcunché lontanamente paragonabile a quelli che sarebbero stati poi i crimini di guerra nazisti, era stata umiliata da Francia e Inghilterra. Angela Merkel ha rifiutato di riflettere su quelle che erano state le dirette conseguenze degli errori della pace di Versailles, l’ascesa, plebiscitariamente condivisa dal popolo tedesco, di Hitler. Ha inteso solo perseguire lo scopo secondario, ma non meno importante, di far cadere il governo Tsipras, destinato ad essere sostituito da un regime «più moderato». Sarà perché il nazismo ha condizionato negativamente le mie esperienze di bambino e non solo, ma sento un forte senso di inquietudine per l’Italia e l’Europa, se l’arroganza della grande Germania della Merkel dovesse evolversi in egemonia, relegando me, se già non lo sono, tra i cittadini europei di serie B, classificati come «cicale» e «non virtuosi». livelli, in tutte le città ed in tutti i paesi del mondo.” Questo testo costituisce una sorta di testamento spirituale di Gianfranco Maris. Sta a tutti noi dare continuità al suo instancabile impegno, per mantenere viva la Memoria e per costruire una società più giusta, come quella prefigurata dalla Costituzione repubblicana nata dalla Resistenza. È questo il miglior modo per ricordarlo. 10 Strage di piazza della loggia DOPPIO ERGASTOLO PER I FASCISTI CONDANNATI CARLO MARIA MAGGI, IL CAPO DI ORDINE NUOVO NEL TRIVENETO, E MAURIZIO TRAMONTE L’UOMO DEL SID di Saverio FERRARI Condanna all’ergastolo per Maurizio Tramonte e Carlo Maria Maggi. Questa la sentenza della seconda Corte d’assise d’appello di Milano. Poco dopo le 21 di mercoledì 22 luglio, Anna Conforti, presidente della corte, dopo otto ore di camera di consiglio, ha letto il dispositivo finale, di fronte a un’aula gremitissima di avvocati, famigliari delle vittime e rappresentanti del comune e della Camera del lavoro di Brescia. Bisognerà ora attendere il deposito delle motivazioni. L’esito di questo appello-bis era in verità atteso, dopo il rigetto da parte della Cassazione della sentenza d’appello di Brescia accompagnato da rilievi assai critici sui «salti logici», «l’esasperata segmentazione del quadro complessivo», «l’ipergarantismo distorsivo della logica e del senso comune», operati dai giudici precedenti, pur in presenza di un complesso indiziario definito di estrema «gravità» nei confronti dei due imputati. LA FOTO DI TRAMONTE IN PIAZZA Il processo, apertosi lo scorso 26 maggio, non si è limitato a riconsiderare le carte. La corte ha, infatti, ritenuto utile valutare, rinnovando parzialmente il dibattimento, diversi nuovi indizi emersi di recente. In particolare le nuove testimonianze di alcuni detenuti che avevano condiviso con Maurizio Tramonte, tra il 2001 e il 2003, lo stesso carcere. Due di questi, Vincenzo Arrigo e Renato Bettinazzi, hanno riferito delle confidenze dello stesso Tramonte in ordine alla sua presenza in Piazza della Loggia al momento dello scoppio della bomba. Ad Arrigo, Tramonte mostrò anche una foto che custodiva in cella, scattata nei momenti immediatamente successivi alla strage, in cui si era riconosciuto confuso tra la folla. Una foto che il perito incaricato dalla Procura di Brescia ha ritenuto «compatibile» con le «caratterizzazioni morfologiche e metriche» di Maurizio Tramonte. Una rassomiglianza a dire il vero impressionante a occhio nudo comparando la foto in questione con quelle sue personali di quegli anni. Grazie alle nuove indagini è stata anche accertata la partecipazione di Tramonte, fatto di fondamentale rilevanza, «la sera del 25 maggio», alla riunione di Ordine nuovo ad Abano Terme. Riunione tenutasi, sotto la guida di Carlo Maria Maggi, in preparazione della strage. Da qui la sua presenza in Piazza della Loggia. Va detto che probabilmente non era stato il solo di Ordine nuovo a comparire su quella piazza con funzioni operative o solo per assistere in diretta all’attentato. Nello stralcio di indagini attualmente apertosi a Brescia a seguito di altre testimonianze si fa anche il nome di un altro ordinovista, all’epoca minorenne, forse a sua volta ritratto in alcune istantanee. LE CELLULE ARMATE Il Sid coprì Tramonte e Maggi, pur sapendo dei loro progetti criminali e nulla fece per impedire la strage. Un dato incontestabile sulla base delle informative che Tramonte, estremista di destra ma anche informatore dei servizi con il nome in codice di Tritone, inviava ai suoi superiori. Ordine nuovo poté in questo modo attivare i propri depositi di armi ed esplosivi, in primis quello occultato al ristorante Scalinetto a Venezia, nella disponibilità di Maggi e Carlo Digilio, l’armiere dell’organizzazione, dove fu prelevata la gelignite con cui fu confezionato l’ordigno di Brescia. In questo contesto, grazie al lavoro dell’Ispettore capo del Servizio antiterrorismo di Roma, Michele Cacioppo, si è anche riusciti a provare definitivamente l’esistenza della “santa barbara” di Paese, in provincia di Treviso, posta in un casolare gestito da Giovanni Ventura. Il nome di Ventura è di nuovo ricomparso in questo processo. Nella sua agenda, sequestrata nel dicembre 1972 e mai visionata con attenzione, compariva il numero di telefono di Carlo Digilio. Grazie alle ispezioni bancarie si è oltretutto appurato come i due fossero legati da rapporti economici. Si è così completato un quadro. Ordine nuovo nel Veneto si articolava in più cellule armate, da quella di Venezia-Mestre, con Maggi, Carlo Digilio e Delfo Zorzi, a quella di Padova, costituitasi attorno alle figure di Franco Freda e di Giovanni Ventura. Una rete eversiva che operò in funzione dello stragismo, da Piazza Fontana a Brescia. UN PEZZO DI VERITÀ Ora toccherà nuovamente alla Cassazione formulare il giudizio definitivo, in attesa che i nuovi atti investigativi, di cui abbiamo accennato, producano i loro effetti individuando altri responsabili. La storia giudiziaria di Piazza della Loggia, che si è protratta per moltissimi anni, quarantuno, si protrarrà dunque ancora. Parlare di giustizia potrebbe non avere più molto senso. Nei precedenti processi si era comunque riconosciuta la colpevolezza di altri esponenti di Ordine nuovo, da Carlo Digilio a Marcello Soffiati, non più processabili perché defunti, ora quelle di Maurizio Tramonte e di Carlo Maria Maggi, ormai ottantenne e malato. Non ci sarà il carcere per lui. Un pezzo comunque di verità in più. Una sentenza storica dopo le tante assoluzioni. Restano ancora sullo sfondo le responsabilità dello Stato e dei suoi apparati Attualità Sentenza beffa: slogan e saluti fascisti per il giudice non c'è reato, tutti prosciolti O gni anno a Milano viene ricordato il giovane Sergio Ramelli, morto quarant'anni fa a seguito di una sanguinosa aggressione squadrista condannata dalle Associazioni che si richiamano alla Resistenza, dalle Organizzazioni Sindacali e dalle forze politiche. Il pur legittimo ricordo di Ramelli si tramuta ogni anno in una manifestazione di aperta apologia del fascismo, con l’utilizzo e la magnificazione di simboli neonazisti e neofascisti che offendono Milano, Città Medaglia d'Oro della Resistenza. Per questa ragione l'ANPI Provinciale di Milano aveva presentato, in data 17 marzo 2014, un esposto indirizzato al Prefetto e al Questore di Milano in cui si chiedeva alle pubbliche autorità di “porre preventivamente in essere ogni più opportuna misura diretta ad evitare” di dover assistere “a palesi espressioni di apologia del fascismo”. Il Questore comunicò per iscritto agli organizzatori della manifestazione del 29 aprile 2014 prescrizioni ben definite (no a saluti romani, a croci celtiche, a simboli del passato regime). Nonostante questi precisi divieti, Milano dovette assistere alla ennesima parata nazifascista. L'ANPI di Milano decise allora di presentare il 19 maggio 2014, denuncia alla Procura della Repubblica di Milano, richiamando le Leggi Scelba e Mancino. Sulla base della denuncia dell'ANPI, corredata da documentazione fotografica, il Pubblico Ministero Piero Basilone chiese, il 16 dicembre 2014, il rinvio a giudizio di dieci imputati per concorso in apologia del fascismo, individuando la persona offesa nello Stato e nell'ANPI. Nel frattempo l'ANPI Nazionale si era costituita parte civile. Nel corso della prima udienza preliminare svoltasi il 24 febbraio 2015, due imputati fecero richiesta del rito abbreviato e due ricorsero al patteggiamento. Il Pubblico Ministero Basilone chiese la condanna a tre mesi di reclusione per le due persone che avevano scelto di essere processate con rito abbreviato. Ma è a questo punto che si è verificato il colpo di scena. Il 10 giugno 2015 il gup (giudice per le udienze preliminari) Donatella Banci Bonamici ha emesso la sentenza con la quale ha prosciolto i dieci imputati di estrema destra perché il fatto non sussiste. Il Pubblico Ministero Piero Basilone ha impugnato la sentenza, sottoponendo il caso alla Corte di Cassazione. Il Giudice Donatella Banci Bonamici ha assolto gli imputati ritenendo che le modalità di svolgimento della manifestazione del 29 aprile 2014 non abbiano creato concreti pericoli di ricostituzione del partito fascista, dando però una interpretazione restrittiva della legge Scelba. Non si è infatti voluto tenere conto, fra l'altro, di una sentenza della Corte Costituzionale nella quale si chiarisce che l'esigenza di impedire la ricostituzione del partito fascista, contemplata nella legge Scelba, deve comprendere le manifestazioni pubbliche idonee a provocare adesioni e consensi, e concorrere così alla diffusione di concezioni favorevoli alla ricostituzione di organizzazioni fasciste. La sentenza è estremamente grave, sia per le motivazioni addotte, sia perchè gesti e simboli di chi manifestava avevano una chiara connotazione fascista, debitamente documentati anche dalla Digos. La sentenza del gup si pone, inoltre, in aperto contrasto con recenti pronunciamenti della Suprema Corte di Cassazione che hanno confermato sentenze di condanna per il saluto romano in luogo pubblico. Il fatto risulta poi paradossale perché per gli stessi episodi accaduti il 29 aprile 2013, un altro giudice della stessa Procura di Milano ha rinviato a giudizio 16 neofascisti per concorso in apologia di fascismo. Il processo riguardante i 16 neofascisti si svolgerà a Milano nel mese di novembre. Ma il fatto resta e l’assoluzione dei dieci neofascisti è davvero inaccettabile, proprio per il netto contrasto con i valori e i principi cui si ispira la Costituzione repubblicana nata dalla Resistenza. (r.c.) 11 La Grande Guerra 12 La Grande Guerra Sulle montagne del Tonale, a Pontedilegno, rivivono grandi e mai sopite passioni del patriottismo Da Cazzullo a Giannini, mille passi nella neve “Passi nella neve”, la manifestazione diretta da Vittorio Pedrali, è giunta quest'anno alla decima edizione. Da sabato 18 luglio a domenica 23 agosto, incontri e letture sui luoghi che furono teatri di battaglia, durante la Guerra Bianca, ne hanno rievocato la memoria. Ai quattro spettacoli in alta quota (Aldo Cazzullo, Marco Baliani, Stefano Pameri e Giancarlo Giannini) si sono aggiunte quattro narrazioni in cammino con Roberto Mantovani, Davide Sapienza e Franco Michieli. “Passi nella neve”, si era prefissa lo scopo, come lo scorso anno, di commemorare il centenario della Grande Guerra nei luoghi dove essa è stata combattuta. Un teatro d’altura e a cielo aperto che coincide con quello che fu il teatro di guerra, in modo che - come ha sottolineato il direttore artistico Vittorio Pedrali - narrazione e rito laico della memoria trovino il loro suggello di fronte a uno scenario naturale di grande fascino ed emozione. Il primo ospite della rassegna è stato Aldo Cazzullo, editorialista ed inviato speciale del Corriere della Sera, che domenica 26 luglio (ore 16.30) alle Baite di Vescasa di Pontedilegno ha proposto alcune pagine dei suoi due ultimi libri, “La guerra dei nostri nonni” e “Possa il mio sangue servire”, ma anche testimonianze raccolte su Facebook, seguendo il fil rouge tra primo conflitto mondiale e Resistenza. All’appuntamento hanno partecipato il Coro Ana di Vallecamonica e l’attorelettore Luciano Bertoli. Sabato 1 agosto (ore 11) nel prato della chiesa di San Clemente a Vezza d’0glio, il protagonista è stato Marco Baliani, alfiere del teatro racconto, che L’intervista La Resistenza è di tutto il popolo italiano. Sulla montagna il sacro ha ancora diritto al suo posto, perché la montagna è da sempre custode di antichi valori, si tratti di sfide sportive in verticale o di aspre guerre in altura; come è capitato in passato. Perché i suoi spazi hanno quella bellezza solenne, a volte ascetica, che impone il rispetto della vita e della morte, che è fatta di ha dato voce a “La paura” (Adelphi) di Gabriel Chevallier, straordinaria testimonianza di un fante francese sull’orrore della guerra di trincea, che il fascismo censurò perché scomoda, nel senso che la paura è di per se stessa disonorante. Il giorno successivo, alle ore 11, al Corno d’Aola nei pressi del Rifugio Petit Pierre, Stefano Panzeri, attore cresciuto con Laura Curino, ha interpretato “Terra matta”, pièce tratta dall’omonimo libro di Vincenzo Rabito, ex bracciante siciliano e ragazzo del ’99. Evento clou quello di sabato 8 agosto, quando alle ore 8.30 del mattino alla conca della Baracca delle Fortificazioni di Costa di casa Madre, Giancarlo Giannini ha letto una riduzione del “Taccuino di un nemico” di Dario Malini in cui un soldato tedesco di religione ebraica registra la violenza del fronte ma anche gli squarci di vita che sbocciano in mezzo all’abominio. In programma anche quattro narrazioni in cammino, sorta di percorsi guidati tra archeologie belliche e paesaggi ad alta quota: la prima sabato 18 luglio con Roberto Montanari, storico dell’alpinismo, dal Passo del Tonale a Montozzo; la seconda e la terza (10 e 12 agosto) curate dal giornalista e blogger Davide Sapienza, rispettivamente a Cima Rovaia e a Punta del Castellaccio. Infine, il 23 agosto, il geografo Franco Michieli ha accompagnato i partecipanti a visitare le straordinarie architetture militari alle Bocchette di Val Massa. Gli spettacoli erano gratuiti. La rassegna, illustrata alla sede della Fondazione Asm, è stata promossa dai Comuni di Pontedilegno, Temù e Vezza d’0glio. azioni e silenzi, che nutre la memoria, anche quando è intrisa di dolore. Aldo Cazzullo così commenta l’evento: “Non è un caso che la montagna risalti anche sulla copertina di La guerra dei nonni-. Le migliori pagine delle nostre due guerre sono state scritte in montagna. E’ un libro cui sono molto affezionato. Il libro ha avuto un considerevole successo editoriale (185 mila copie). Credo che noi italiani siamo legati all’Ita1ia più di quanto pensiamo e lo dimostriamo soprattutto quando la storia nazionale incrocia quella delle nostre famiglie. Quella che racconto è la guerra con le parole e gli occhi di chi l’ha combattuta, ma anche delle donne che a casa hanno contribuito a mandare avanti il Paese. Per entrambi i libri, attraverso Facebook ho raccolto molte testimonianze e tutti mi chiedevano di raccontare i loro nonni (nel caso della Grande Guerra) e i padri (nel caso della Resistenza). I nostri nonni e padri, mi dicevano, non erano eroi, ma brave persone che amavano l’Italia e non si riconoscerebbero nel Paese che oggi è diventato. È stato questo a colpirmi”. In “Possa il mio sangue servire” lei prende posizione, rifiutando quel revisionismo che porta a mettere sullo stesso piano etico entrambe le fazioni, quelle dei partigiani e quella dei ragazzi di Salò. “Proprio così. Per quarant’anni la resistenza è stata presentata come una cosa solo “di sinistra”, che riguardava solo i comunisti, con i fazzoletti rossi e cantando “Bella ciao”. Poi negli ultimi dieci anni i partigiani sono stati presentati come carnefici e i ragazzi di Salò, espressione consolatoria assoluta come vittime. Con questo libro ho voluto ribadire che non è andata così. La Resistenza è stata fatta anche da liberali, cattolici, monarchici, giellisti, preti e suore, ebrei, carabinieri e militari. Dagli alpini che fondarono le prime bande partigiane, dalla vittime di Cefalonia, dai 600 internati che preferirono stare nei lager piuttosto che andare a combattere per la repubblica di Salò. E tra questi ci sono anche alcuni bresciani, che io ricordo, come il capitano Giuseppe De Toni, il colonnello Giuseppe Bettoni, Astolfo Lunardi, padre Manziana e don Carlo Comensoli. Senza dimenticare Teresio Olivelli, che non era bresciano, ma operò in questo territorio. Grande Guerra e Resistenza: due contesti storici diversi, eppure legati da un filo rosso. E così? ”Io ho voluto sottolineare che in due epoche distinte della nostra storia sono esistiti uomini e donne per cui l’Italia era una cosa seria, un ideale che valeva una vita e che costoro dimostrarono una forza morale che tornerebbe molto utile oggi. Le idee fondanti di entrambi i miei libri sono queste: ogni generazione ha la sua guerra da combattere. Cent’anni fa i nonni, settanta anni fa i padri hanno vinto sulle montagne. La montagna come rifugio, come luogo di valori semplici e essenziali, simbolo di sacrificio e forza morale. Io sono convinto che quella forza morale non possa essere andata dispersa. Deve essere ancora da qualche parte, dentro di noi, e bisogna riaccenderla. Troppi cattivi esempi sono stati dati e li stiamo ancora dando. La nuova guerra che dobbiamo combattere è quella contro la sfiducia, la rassegnazione e l’indifferenza. I nostri ragazzi devono sapere della guerra dei nostri nonni e di quello che è successo a Sant’Anna di Stazzema, a Boves, a Civitella Val di Chiana, Marzabotto, ad Acerra e a Gubbio; e cito solo alcune delle stragi nazifasciste. È colpa nostra che non siamo riusciti a trasmettere passione civile. Che non siamo riusciti a raccontar loro che gli italiani non sono sempre stati i furbetti dell’arte di arrangiarsi. La Resistenza è stata un fatto di popolo, con le sue pagine nere, ma con dei valori su cui ci possiamo riconoscere”. C’era dunque solo un posto in cui stare? “Certo. C’è stata una parte giusta e una sbagliata. Chi ha combattuto contro i nazisti ha fatto la scelta giusta, gli altri quella sbagliata, magari in buona fede e pensando di servire davvero la patria”. Quali pagine ha scelto? “Quelle dei fratelli Calvi, per esempio, che conoscono in pochi. E ancora le lettere degli alpini che conoscevano la loro sorte, il coraggio delle donne che hanno difeso con fermezza un credo”. (g.m.) 13 Personaggi Personaggi 14 Il saggio del professor Ingrassia sul colpo di Stato del 1945 Parri è stato un gigante ma la tesi del complotto appare una forzatura di Antonio DUVA P ubblicare un saggio su Ferruccio Parri nell’anno in cui ricorre il 70° anniversario della liberazione dell’Italia dall’oppressione del nazi-fascismo è un bel modo per celebrare questa data memorabile e, insieme, per onorare la memoria di uno dei protagonisti di quella stagione. Del secondo Risorgimento italiano, infatti, Parri è, senza dubbio, una delle personalità più eminenti . Il messaggio che si coglie riflettendo sulla sua lunga vita - tutta spesa restando fedele, da autentico patriota, ad alti ideali - non è per nulla indebolito dalla prova del tempo. Risulta, anzi, tuttora carico di straordinario valore sul piano morale e civile prima ancora che politico. Averlo voluto riproporre all’Italia di oggi – che è davanti a sfide decisive per il suo futuro ed è alle prese con un clima politico e sociale gravido di incognite - rappresenta una scelta meritoria compiuta dall’autore del volume, il giovane storico siciliano Michelangelo Ingrassia. In questo saggio molte sono le pagine, dense ed entusiaste, in cui si tratteggia con ammirazione e rimpianto, la figura di “Maurizio”: testimonianza di uno sforzo di ricerca impegnato e generoso. Ma le argomentazioni di Ingrassia non appaiono sempre convincenti. Desta perplessità, in primo luogo, la circostanza che l’autore, per sostenere le sue tesi, faccia ricorso a fonti di valore spesso diseguale. Capita così che solide ricerche storiografiche o documenti ufficiali siano posti a confronto con memorialistica di minor rilievo o con interventi giornalistici di qualità discutibile. Questo limite, di metodo, pesa negativamente sulle conclusioni alle quali perviene l’autore, che appaiono, in definitiva, alquanto forzate. Sembra quasi che esse siano influenzate più da fattori legati al dibattito pubblico attuale che non ai risultati dell’analisi storica strettamente intesa. La tesi centrale del libro di Ingrassia, come si coglie già dal titolo stesso del volume, è che la caduta del governo Parri fu, in realtà, un colpo di stato e che questa vicenda ha determinato una sorta di lungo inverno della Repubblica i cui effetti negativi peserebbero ancora oggi. Affermazioni molto decise, che l’Autore propone al lettore dopo aver premesso che il suo intento è di ricostruire l’evolversi di quella crisi del novembre del 1945 badando :"più alla storia delle idee che alla storia dei fatti”. Scelta legittima quella di Ingrassia. A patto, tuttavia, di non trascurare che la linea di confine tra res facta e res ficta, per quanto possa risultare, in certe circostanze, mobile e magari incerta va comunque, quando ci si impegni nella formazione di un giudizio storico, ben individuata; e da essa le conclusioni della narrazione debbono scaturire come una conseguenza logica e non come l’enunciazione di un ferreo paradigma. Se si segue questo approccio è agevole allora constatare che parlare di “colpo di stato” a proposito della fine del Governo Parri è – sulla base delle testimonianze più attendibili e della produzione storica disponibile – quanto meno improprio. Certo quella fu una vicenda amara; essa segnò senza dubbio una battuta d’arresto grave nel processo di rinnovamento del Paese che aveva da poco ritrovato la sua libertà e stava faticosamente avviando la ricostruzione dopo i lutti e le macerie materiali e morali prodotti dalla dittatura e dalla guerra. Ma, per quanto dolorosa e preoccupante, non fu una vicenda che impedì di assicurare all’Italia, poco tempo dopo la sconfitta del nazifascismo, due conquiste estremamente importanti e destinate a durare nel tempo: l’avvento della Repubblica e il varo della Costituzione che entrò in vigore il 1˚ gennaio 1948: esito del lavoro efficace di un’Assemblea rappresentativa pienamente legittimata dal voto popolare. Questo è un punto essenziale anche per valutare, sotto il profilo storico, il senso profondo delle scelte e la reale dialettica delle forze in gioco in quei mesi cruciali. La caduta del governo Parri, come ampiamente mette in luce, per riferirsi a testi recenti, il lavoro di Luca Polese Remaggi (pubblicato nel 2004 e riedito nel 2013), costituisce un “nodo della memoria” carico di suggestioni simboliche. A distanza di tanto tempo da quell’avvenimento, enfatizzare ancora l’immagine meramente recriminatoria di una “rivoluzione democratica tradita” rischia peraltro di risolversi in un approccio analitico inadeguato :riduttivo, in definitiva, dello stesso rilievo storico della figura di Parri che – sia prima e sia dopo la breve esperienza di capo del Governo – ha mostrato forza morale, iniziativa politica e qualità di pensiero tali da assicurargli, con pieno merito, un posto eminente nella storia dell’Italia moderna, paragonabile, come molti autorevoli studiosi hanno fatto, a quello occupato da Giuseppe Mazzini nell’epopea risorgimentale. Ma, in quella specifica vicenda, l’azione di Parri non fu esente da limiti e da errori che non possono essere sottovalutati nell’ambito di un esame scevro da pregiudizi. Com’è noto la caduta del suo governo – che era nato come soluzione di compromesso fra due diverse ipotesi in campo (la candidatura di Alcide De Gasperi e quella di Pietro Nenni) e da molti considerato transitorio – fu causata dal concorso di vari fattori specifici (tensioni legate alla vertenza mezzadrile e ai provvedimenti sull’epurazione; incertezze in materia di politica monetaria; esitazioni sui tempi e sulle modalità del ripristino delle procedure elettorali; cattivi rapporti con le autorità alleate). A pesare di più appare, tuttavia, un altro elemento: le divergenze, in seno alla coalizione di governo, sul ruolo da attribuire ai Cln. Parri era dell’idea che questi organismi andassero considerati con rilievo nel processo di rifondazione dello Stato post bellico. “In virtù della guerra partigiana” – aveva detto nel suo primo discorso pronunciato a Roma da rappresentante del Cln dell’alta Italia – “si è determinata una situazione profondamente diversa… e noi siamo venuti per rappresentare al Governo la necessità che la politica italiana si adegui alla situazione nuova. E che esso si adegui rapidamente”. Da presidente del Consiglio, quindi , non poteva che operare per favorire il riconoscimento di un ruolo semi-istituzionale dei Cnl. Ma la sua impostazione era indebolita da un’intima contraddizione: per un verso nutriva la profonda convinzione che l’Italia della Resistenza avrebbe dovuto marcare la nuova stagione; per l’altro riteneva la Resistenza :“un fatto minoritario sia geograficamente sia socialmente”. Una visione dunque molto distante da quella di chi, come Benedetto Croce e Alcide De Gasperi, era convinto che il rinnovamento delle strutture giuridiche e amministrative dell’Italia rinata dopo la tragedia della guerra dovesse essere perseguito in una logica di continuità con gli ordinamenti dello Stato prefascista. È questo che, di fatto, avvenne, nel contesto che sarebbe stato poi profondamente modificato dalla nuova Carta costituzionale. Ma non si trattò di una scelta regressiva: questa continuità – come misero bene in luce, fra gli altri, gli studi di Carlo Ghisalberti – risultò infatti fondata sulla visione della Resistenza come di un secondo Risorgimento grazie al quale le garanzie e le libertà, che lo Statuto monarchico aveva introdotto a favore di ristrette élites, dovevano risultare finalmente estese alla generalità dei cittadini. Arduo, perciò, sostenere che nel novembre del 1945 sia stato consumato un “colpo di stato”. Va detto che il primo a fare ricorso a questa infelice espressione fu proprio Parri. Ma la sua fu una reazione “a caldo”, giustificata dall’amarezza nel vedersi abbandonato anche da forze – come la sinistra dello schieramento politico – sul cui sostegno credeva di poter contare. Diverso è, o dovrebbe essere, l’approccio di quanti studiano quelle vicende a distanza di tempo. A colpire Ingrassia è la descrizione di Carlo Levi che, nel suo “L’orologio”, rievoca la drammatica conferenza stampa convocata da Parri al Viminale durante la quale egli denunciò le manovre ai danni del suo governo parlando, appunto, di “colpo di stato”. L’artista torinese – che con Maurizio aveva un legame profondo – lo descrive, con trasporto affettivo, vittima delle mali arti di un “vecchio e navigato serpente”, nel quale è facile riconoscere la figura di De Gasperi. Ma quella di Levi non può essere considerata un’opera storica e, meno ancora, una fonte; è la sua intuizione artistica che gli permette, infatti, di cogliere l’essenza, amara e profonda, della crisi di novembre, ma è anche quella che lo portò a trasfonderla , per riprendere il giudizio dello stesso Parri , in “una crudele e deformante pittura”. Del resto se Parri avesse davvero considerato De Gasperi “un serpente” non avrebbe certo ripetutamente espresso fiducia, dai banchi del Senato, verso i governi guidati dallo statista trentino. Quanto alla Resistenza e ai primi passi del rinato Stato italiano, restano illuminanti i concetti che Parri volle esprimere molto più tardi, nel marzo del 1974, in vista del trentennale della Liberazione. La lotta militare e politica per cogliere questo obiettivo fu, sostiene, “un miracolo nella storia del nostro paese”. “Ma sarebbe stato – continua l’ormai vecchio capo partigiano – un miracolo impossibile poter organizzare una preparazione adeguata alla conversione e al governo di una società così diversa e lontana. Forse non ho io abbastanza apprezzato che è stato un mezzo miracolo essere usciti abbastanza rapidamente dalla tempesta senza disastrosi sconquassi nazionali”. Parri, con parole di grande onestà intellettuale, aggiunge: “Questo naturalmente non mi esonera, per quanto mi riguarda personalmente, dal riconoscere delusioni, errori di valutazione, arrendevolezze che io stesso mi rimprovero”. E sulla crisi del ’45 afferma: “Con la caduta del governo Parri finisce il primo tempo della “unità della Resistenza”. Ma la spinta della liberazione ha ancora forza sufficiente per arrivare alla Costituente. Non abbiamo capito allora, e capiamo solo adesso guardandoci indietro e guardando l’Italia di oggi, quale valore provvidenziale e forza permanente abbia avuto e conservi la Costituzione come difesa, come punto di riferimento di un sistema politico e civile fondato sui diritti di libertà”. 15 Un giudizio lucido e puntuale che fa tornare alla mente di chi scrive un colloquio che Parri concesse a lui e ad altri coetanei nei primi anni Sessanta. Si trattava di un gruppo di giovani che aveva dato vita a una associazione intitolata alla “nuova Resistenza”. Si pensò di illustrare l’iniziativa a Parri che, sempre assai generoso con i giovani, volle ricevere il gruppo dei promotori a Palazzo Madama. Si venne naturalmente a parlare dei fatti di Genova e delle preoccupazioni suscitate dalla vicenda Tambroni. “Siamo stati vicini a un colpo di stato”, dissero in molti. E chi scrive, incautamente, aggiunse :“Come quello del ‘45”. “No”, replicò subito Maurizio. “Sono state vicende molto diverse e, fra le due, quella del Sessanta è stata , senza dubbio, assai più pericolosa”. Michelangelo Ingrassia. “Il colpo di stato del 1945”. Edizioni PEOPLE&HUMANITIES, Palermo, maggio 2015, pagg. 179, Euro 15,00 Italia smemorata 16 Italia smemorata 17 LA PARTIGIANA FRANCESCA LAURA Si può immaginare una vita sulle spalle dei giganti? Sicuramente in un’altra Italia non fascista, dove la nobiltà si conquista con l’ardore e il coraggio. Un unico obiettivo senza condizioni e senza compromessi. di Filippo SENATORE Francesca Laura Wronowski, mi parli dei suoi antenati Gente anticonformista i miei. Il nonno paterno Napoleone, nobile polacco, aveva partecipato con i suoi contadini ai moti del 1863. Fu mandato in Siberia e scappò dalla prigione a cavallo. Percorse come un condottiero solitario la sterminata steppa e giunse dopo mesi a Varsavia. Il fratello aveva già indossato la divisa del nemico e il nonno, dopo una furibonda lite familiare, abbandonò le ricchezze della famiglia. Divenne un rinomato medico a Vienna e poi pari del Pascià turco. Quando si accorse di essere ammalato si ritirò nella sua Polonia, persuadendo la moglie, la genovese Clotilde Berio, a stabilirsi con i figli a Pisa, luogo simbolico dove era spirato Giuseppe Mazzini, fondatore della “Giovine Italia” e della “Giovine Europa”. Mio padre Casimiro, nato in Dalmazia, si era laureato in Legge a Pisa, e svolgeva prevalentemente l’attività di giornalista. Mia madre, Nella Titta, la conobbe sui banchi di scuola e si sposarono. Casimiro fu “scoperto” dal Direttore del “Corriere della Sera” Luigi Albertini, e assunto nel 1909. Casimiro si stabilì a Milano, in via San Giovanni sul Muro, con la moglie e figliolanza a venire. Una donna straordinaria e forte Nella: è stata un punto di riferimento per la mia famiglia. In casa aveva aperto un atelier con sei lavoranti e una tagliatrice: comprava tessuti pregiati e li cuciva per l’aristocrazia meneghina. Il babbo guadagnava all’epoca 100 lire al mese, e poteva permettersi una modesta servitù: cuoca, governante e tata. Nel 1910 Albertini aveva promosso Wronowski Capo Servizio e Responsabile della Biblioteca e del nuovo Centro Documentazione nella sede di Via Solferino 28. Oggi la biblioteca, arricchita di volumi e ritagli, è ancora quasi intatta (sebbene sia stata traslocata da poco tempo, dopo 105 anni, a Crescenzago). Munito di un formidabile strumento di conoscenza in pochi anni il “Corriere” diventò il maggior quotidiano dell’Italia giolittiana. Una carriera fulminea quella del babbo: persona colta ed erudita, raccolse libri, ritagli, foto, enciclopedie e documenti essenziali al giornale, modellando l’archivio su quello del “Times” di Londra. Mi parli degli altri familiari Il nonno materno era un artigiano, Oreste Titta. Una delle sorelle di mia madre, Fosca, cantante lirica, sposò Emerico Steiner, che a Milano impiantò una piccola fabbrica di pneumatici e successivamente divenne Amministratore Delegato della fabbrica che produceva Atala (l’auto del principe Borghese che, con Luigi Barzini, conquistò il trofeo del raid Pechino - Parigi del 1906). I loro figli erano Albe e Mino, entrambi futuri partigiani. Mino morì nel campo di sterminio di Ebensee, mentre Albe nel dopoguerra fu un caposcuola della grafica editoriale italiana. Il fratello di mamma, Ruffo, era già un affermato baritono che cantava con Enrico Caruso e le migliori compagnie del mondo. La bellissima sorella di mia madre, Velia, sposò un giovane avvocato ed esponente politico del Polesine, Giacomo Matteotti. Matteotti in pochi anni divenne un politico di rilievo nazionale nel partito socialista e poi avversario inflessibile del fascismo. Dopo l’omicidio del giugno 1924 ad opera dei fascisti, il “Corriere della Sera”, con in testa i fratelli Albertini, condusse una fiera campagna stampa contro Mussolini, nonostante le minacce prefettizie e i roghi delle edicole. L’estromissione dei fratelli Albertini dal giornale determinò Casimiro a rassegnare le dimissioni dal giornale. Lo zio Titta Ruffo, antifascista, smise di cantare in Italia. Quali conseguenze per la sua famiglia? Io avevo poco meno di un anno, ma la mamma mi raccontò il travaglio del licenziamento. La conseguenza fu la miseria e la perdita dello status sociale, ma l’onore fu salvo. La mamma rinunciò all’atelier ed alla casa di Milano, e fummo costretti a traslocare a Finale Ligure con la scusa della salute cagionevole mia e di mio fratello Pierlorenzo. Papà Casimiro, rimasto a Milano nella casa della madre e della sorella Mercedes, cercò lavoro con il risultato di compensi saltuari e modesti, comunque utili come sostegno per la famiglia. Angelo Rizzoli senior lo fece lavorare per la rivista “Cinema Illustrazione”, con compensi irrisori. Inoltre dirigeva il periodico di un noto caseificio milanese. Cosa ricorda di Finale? Scoprii la bellezza degli spazi infiniti, il mare e il nuoto. Scoprii i romanzi francesi e russi che mi inviava il babbo da Milano. Diventai amica del bagnino Memore, eleggendolo ad eroe e protagonista delle mie storie fantastiche di bambina. Sulle sue spalle vidi l’acqua azzurra prima di un tuffo. Immaginai di essere sulle spalle dei giganti, dello zio Giacomo, o sul destriero del nonno Napoleone che attraversava gli sconfinati orizzonti della steppa. Dopo che avvenne? In seguito alle sanzioni internazionali, imposte all’Italia per la guerra d’Africa, ci trasferimmo a Bordighera. C’erano tante case sfitte abbandonate dai turisti inglesi e costavano poco. Poi un altro trasloco a Lavagna. Dopo la morte di zia Velia, papà venne nominato tutore dei figli di Matteotti. Prendemmo una casa più grande a Chiavari per accogliere i cugini Giancarlo, Gianmatteo e Isabella. A 19 anni salii in montagna in sella ad una bicicletta. La meta era Ferrada, in val Fontanabuona. Avevo le scarpe di città e non immaginavo che una gita si traducesse in un lungo soggiorno di quasi due anni. in clandestinità aveva contatti a Genova e promise di informarsi. Poi mi guardò negli occhi, chiedendomi di impegnarmi. Io non dissi di no: la mia paura era tenuta a bada dall’orgoglio della famiglia antifascista e dall’amore sbocciato da pochi mesi. Avevo 19 anni. Due anni prima ci eravamo conosciuti casualmente con Sergio Kasman, di quattro anni più vecchio di me. La mamma seppe subito dei miei sentimenti. Si faceva l’amore con gli sguardi. Non era permessa l’intimità. Parenti onnipresenti e qualche bacio innocente rubato nella penombra. Come maturò questa scelta? Qualche giorno prima, dal terrazzo di casa mia a Chiavari – era l’8 settembre 1943 – avevo visto un soldato tedesco che presidiava la piazza Roma con una mitragliatrice pesante. Ero corsa in casa, scoppiai a piangere e abbracciai la mia mamma. - Il peggio deve ancora venire mi sussurrò. Di mio fratello Pierlorenzo, soldato arruolato nella caserma di Bolzaneto, da giorni non si sapeva nulla. Mia madre aveva chiesto notizie ad un amico del Partito d’Azione. L’uomo Poi che accadde? Sergio partì in guerra e ci eravamo promessi reciproco amore. Avevamo tante affinità, nella vita e in letteratura. Una rarità. Sergente, poi Allievo Ufficiale di Artiglieria, era a Roma, a Porta San Paolo, al momento dell'armistizio. Aderì alla Resistenza, con il nome di battaglia di "Marco", nelle file dei Servizi speciali diretti da Nino Baccigaluppi, uno dei capi del Servizio informazioni di “Giustizia e Libertà”. Non ebbi notizie di lui per mesi e, alla fine della guerra, seppi della sua tragica fine. Nel marzo 1944, a soli 24 anni, venne no- minato, su indicazione di Ferruccio Parri, Capo di Stato Maggiore del Comando Piazza di Milano delle Squadre di Azione Patriottica, nelle file di “Giustizia e Libertà”. Arrestato due volte, riuscì a scappare (la prima sbattendo la sua cartella in faccia al fascista che lo tratteneva). Grazie ad informazioni estorte con la violenza a Giuseppe Piantoni, ex capo del GAP del settore milanese di Porta Venezia, appartenenti alla Repubblica Sociale Italiana poterono tendere un'imboscata a Sergio Kasman, che fu ucciso in Piazza Lavater a Milano, poco distante da Porta Venezia. Il "Comandante Marco" fu decorato con la Medaglia d’oro al Valor Militare alla memoria. Come era lei all’epoca? Io ero una ragazza taciturna che ascoltava molto. Poi giunse l’ora della consapevolezza. Quel pianto liberatorio dell’8 settembre la trasformò in protagonista di una storia drammatica. Con il suo spirito intransigente creò la sua resistenza che dura, in senso metaforico, ancora oggi. La mia prima azione fu di conse- Italia smemorata 18 Europa smemorata Auschwitz: docce contro l’afa ma ricordano le camere a gas Il caso del memoriale italiano realizzato da Belgioioso e Levi nelle baracche del lager, chiuso al pubblico e a rischio di trasferimento a Fossoli gnare al partigiano Paolino una mezza banconota da 2 lire. Paolino aveva l’altra metà, in segno di riconoscimento. Salii per una mulattiera e, aiutata da pochi contadini, organizzai da sola la logistica di un rifugio, creando le premesse per la formazione di un Distaccamento del Partito di Azione. In un luogo strategico, perché il territorio di Carasco è situato nella bassa val Fontanabuona, nell'immediato entroterra di Chiavari, anche se il suo territorio comunale è posto alla confluenza di altre due valli: la valle Sturla e la val Graveglia. Un collegamento da presidiare militarmente. La prima sera mangiai con i contadini, e con l’unico mestolo comune, una brodaglia affumicata in uno stanzino dove si batteva la testa. Dormii in una stanza infestata di topi con una coperta piena di buchi. Da sola, affrontando disagi e difficoltà, in pochi giorni trasformai dei luoghi impervi in covi sicuri di accoglienza. Arrivarono i primi clandestini per costituire il nucleo iniziale del Distaccamento. Con i miei compagni il rapporto fu di estrema cordialità e solidarietà. Laura, ha partecipato alla lotta armata? Ricordo ancora le imboscate ai nazifascisti. Bisognava aggredire l’ultimo mezzo del convoglio tedesco con l’audacia di pochi, malvestiti e male armati. I partigiani prima di tutto patirono il freddo, la fame e l’atroce dolore delle piaghe ai piedi non rimarginabili con facilità, essendo sguarniti di scarpe adatte. Una risorsa importante furono le castagne secche: le prendevo dalla posteria con il consenso del proprietario. Occorreva tenerle in bocca per evitare problemi odontoiatrici. Un magro nutrimento che però faceva passare la fame. Così passarono due inverni. Infatti i lanci aerei degli Alleati non sempre ebbero buon esito e ci fornirono merce utile. La carta igienica serviva poco, eppure fu il primo lancio, tra la frustrazione di tutti. Poi finalmente arrivarono le scarpe da montagna e il sollievo. Quale fu la vostra prima azione di guerra? Fu la liberazione del campo di concentramento dei tedeschi a Calvari. Un episodio non cruento: le due guardie italiane erano d'accordo con noi, bisognava quindi aspettare quando loro erano di turno, ore e ore nascosta sotto un cespuglio, fradicia per la pioggia e affamata. Ma una trentina di ebrei ritrovarono la libertà. Un colpo senza spargimento di sangue. Il primo combattimento vero risale al 1944. È la famosa battaglia di Barbagelata: noi azionisti insieme ai garibaldini, e bene armati, anche se non come i tedeschi. Un paio di morti per parte, ma vincemmo noi. Ha mai ucciso? Credo di sì. Tiravo mitragliate con gli “Sten” che gli inglesi ci paracadutavano, penso che qualcuno sia stato colpito. Intanto i suoi familiari dove erano? Il babbo era tornato in Liguria da Milano. Da Chiavari organizzai lo sfollamento dei miei genitori e di altri familiari, compresa la figlia di Matteotti Isabella. Alloggiavano in una piccola casa senza servizi, affittata dai coniugi Agostino e Caterina Musante. Dopo un rastrellamento i nazifascisti, a seguito di una delazione, irruppero nell’abitazione. La mamma non venne arrestata perché affetta da una flebite, ma i fascisti distrussero quei pochi beni che avevamo nascosto in casa, fra cui un servizio di piatti di Rosenthal, e rubarono il resto, comprese le medagliette da Deputato di Matteotti. Il babbo fu arrestato e portato alla “Casa dello Studente”: si salvò grazie alla mediazione di Ferruccio Parri, che lo fece liberare a Genova con uno scambio di prigionieri pochi giorni prima della Liberazione. Il 25 aprile del 1945 cosa avvenne? Niente di eroico. Scesi a Genova senza armi, e finalmente indossai i calzettoni bianchi salvati dal saccheggio della mia casa. Avevo deciso che li avrei messi soltanto quando l'Italia sarebbe stata liberata. Poi un incarico dalla mamma Nella: tornare a Chiavari con mio fratello e pagare i debiti a coloro che avevano aiutato i miei genitori ed i figli di Matteotti. Francesca Laura mostra vecchie foto degli affetti perduti. La fame del Dopoguerra si sentì tutta. Tornati a Milano, mio padre non venne reintegrato al “Corriere”: troppo scomodo il peso del cognato di Matteotti. Una sua direzione del giornale non era gradita ai fratelli Crespi. Divenne segretario del rinato sindacato dei giornalisti la cosiddetta “Lombarda”. Io trovai lavoro al “Sole” il quotidiano di Mario Bersellini, a 15 mila lire al mese. Il figlio Guido, antifascista, era Capo Redattore della testata. Per mesi mantenni la mia famiglia, raccolta in un minuscolo appartamento. Il “Sole” fu ceduto alla Confindustria, che lo unificò con il “24 Ore”. Cambiarono la redazione e il Direttore. Arrivarono ex fascisti a modificare la linea editoriale e nel frattempo mi ero sposata con Massimo Fabbri. Quando nacque mio figlio Maurizio, che scelsi di chiamare così per ricordare il nome di battaglia di Ferruccio Parri, lasciai il mio lavoro di giornalista. Tra alti e bassi siamo qui in una casa milanese colma di libri a ricordare un’esistenza unica piena di ricordi indelebili. Quest’anno, il 10 giugno, la Presidente della Camera Laura Boldrini mi ha invitato per la commemorazione dello zio Giacomo nell’anniversario del suo assassinio. È stato molto commovente per me sedere brevemente sullo scanno che fu occupato dal Martire. Ma è stato anche positivo vedere commemorata con grande partecipazione la figura di Matteotti dagli esponenti di quasi tutti i gruppi parlamentari. Tenere viva la memoria storica di quei drammatici eventi, lontani nel tempo ma sempre ricchi di insegnamenti per il nostro presente, è di fondamentale importanza. Spesso vado nelle scuole a parlare ai giovani, a dire loro che l’ignavia e la smemoratezza sono il più grave pericolo per la nostra democrazia. L a cronaca ci “regala” un episodio controverso che ha suscitato scandalo e curiosità. Per difendersi dall’afa la direzione del museo di Auschwitz ha autorizzato l’uso di docce rinfrescanti. Soltanto che l’effetto per molti visitatori non è stato gradevole. Ci dicono i resoconti sui giornali che faceva caldo ad Auschwitz con la temperatura che superava i 36 gradi. Si parla spesso dei rigori dell’inverno polacco, ma l’afa, in quella landa desolata della Slesia, dove morirono oltre un milione di persone soffocate nelle camera a gas, può risultare ancora meno sopportabile del freddo, scrivevano i cronisti. E allora la direzione del Museo, che ospita ciò che resta del lager nazista assurto al simbolo della Shoah, ha pensato di mettere davanti all'ingresso una serie di docce, nebulizzatori d’acqua, per dare refrigerio alla massa di turisti. Molti, specie tra gli ebrei israeliani, sono rimasti scandalizzati. E infatti, le docce, ad Auschwitz, inevitabilmente si associano alle camere a gas. La discussione è in corso e probabilmente, come tutte le contese che riguardano questo posto disgraziato e maledetto, dureranno a lungo e comunque faranno parte della storia della costruzione di Auschwitz come luogo per eccellenza della memoria, annota il giornalista Wlodek Goldkorn. Intanto il direttore del Museo, Piotr Cywinski, intellettuale cattolico sofisticato, formatosi nelle migliori scuole svizzere e francesi, in un forum chiuso su Facebook ha detto cha ha agito secondo le regole del buon senso. Ogni giorno, in questo periodo di afa eccezionale si verificavano tre o quattro casi di svenimenti e malori. E allora, meglio un muro d'acqua. Ha torto Cywinski? Qui torniamo alla natura del museo. Partendo da un numero: i visitatori sono quasi un milione e mezzo l’anno, poco meno di coloro che nello stesso arco di tempo mettono piede agli Uffizi. Ecco, Auschwitz, oggi è una costruzione culturale assai ambigua e ambivalente. Da un lato, è un luogo dove ogni anno i potenti della terra si radunano per dire: “mai più”, tra eccezionali misure di sicurezza e dove gite scolastiche vengono portate dall’intera Europa per far vedere ai ragazzi gli orrori del nazismo, ma è anche tappa obbligatoria di qualunque turista che viene a visitare gli splendori di Cracovia: tra Palazzo reale e La dama con l’ermellino di Leonardo. I turisti cercano e pensano di toccare con mano l’autenticità dell’orrore, o per parafrasare Benjamin, l’aura dell'indicibile. Ma quello che vedono - le cataste di occhiali, di giocattoli, di pennelli da barba e di capelli di donna – è una costruzione artistica (forse non di eccelso gusto), creata nel 1955. Dall’altro lato però Auschwitz è anche e forse prima di tutto un enorme cimitero. Lo è sicuramente nella sua parte più dura e forse meno visitata, a Birkenau, dove dai treni si andava direttamente nelle camere a gas. E allora, ad Auschwitz si viene per piangere i morti camminando sulle loro ceneri o per visitare il museo dell'orrore? È dalla risposta che si vuol dare a questa domanda che dipende il giudizio sulle docce ad uso dei turisti, osserva ancora Goldkorn. O forse ha ragione Halina Birenbaum, scrittrice polacca-israeliana e reduce del Lager. Ha annotato su Facebook, queste parole: “Non dimentico Auschwitz, ma vivo oggi, e non sono più prigioniera”. Quello che è successo ad Auschwitz non è un caso isolato dei luoghi della memoria “violentati” per facilitare la vita ai visitatori. Qui il buon senso non c’entra: se si va in un posto di dolore, bisogna anche fare qualche piccolo sacrificio personale, altrimenti non è una testimonianza di memoria ma una semplice gita turistica. A proposito di Auschwitz, si sta aprendo un problema che riguarda anche il nostro Paese: il memoriale italiano realizzato in alcune baracche nel lager di Auschwitz da Lodovico Belgioioso insieme a Primo Levi, Luigi Nono, Nelo Risi e Pupino Simonà rischia di essere smontato. Da tempo è inibito ai visitatori e c’è chi continua a prospettare un’altra soluzione e cioè trasferire il materiale del memoriale a Fossoli. I rilievi a questo progetto non mancano. Gli esperti sostengono che difficoltà e costi dell’operazione rendono praticamente sconsigliabile il rimpatrio del memoriale italiano. Ma certo una scelta l’Italia dovrà farla, non si può tenere chiuso un luogo di memoria così importante. (f.s.) 19 20 Memoria Fanatismo LA FIGLIA DEL SOLDATO NAZISTA RITROVA LA MADRE DOPO 70 ANNI Il nazista è corresponsabile di 300 mila omicidi. Spogliava gli ebrei di tutti i loro averi GRÖNING, SONO COLPEVOLE MA NON MI PENTO Nacque nel 1945 e fu subito allontanata dopo il parto. Ora finalmente ha abbracciato la sua mamma a Reggio Emilia U na bella e commovente storia è stata ricostruita e raccontata da “Repubblica” con un articolo a firma di Jenner Meletti. Si tratta di una vicenda che coinvolge un soldato nazista e una nostra connazionale con un epilogo sorprendente: la figlia nata da questa relazione è riuscita a trovare sua madre in Italia, a Novella in provincia di Reggio Emilia, dopo 70 anni. Ecco la storia. ”Aprile 1945, i partigiani in piazza, tedeschi in fuga che annegano attraversando il Po, - scrive Meletti.. - Ragazze che erano state alle feste dei tedeschi rasate a zero e insultate. In quei giorni una donna - la chiameremo Olga - torna dalla Germania dove era andata volontaria con un segreto pesante: ha amato un soldato tedesco, ha avuto una figlia che le è stata portata via una settimana dopo la nascita, il 25 ottobre 1944 a Heidelberg. Sabato 8 luglio 2015. Margot Bachmann, la figlia di Olga, si presenta in una casa di Novellara, assieme a un figlio e un nipote. -Mamma, sono qui, finalmente. Solo un anno fa ho saputo che eri ancora viva. Ti ho cercato tanto. Io ho sempre pensato che tu fossi morta-”. Abbracci, parole scambiate tramite interpreti. Solo Olga, 92 anni, non piange e il nipote tedesco quasi la sgrida. "Nonna, io piango e tu riesci a tenere gli occhi asciutti”. “Vedi, io piango da settant’anni. E sempre di nascosto”. Questa sembra una storia a lieto fine ma è un salto nel passato che ricorda giorni di disperazione. L'incontro è stato reso possibile dal Tracing Service (Its), centro tedesco di documentazione, informazione e ricerca sulla persecuzione nazista e dal Restoring Family Link della Croce rossa italiana. Ma solo ora la figlia Margot ha deciso di raccontare a tutti l'incontro con la madre. L'anziana donna, invece, ha pregato tutti di non fare il suo nome. Ha il terrore di tornare a quei giorni, quando le ragazze e le donne che avevano collaborato con i nazisti e i fascisti venivano “punite" con forbici e schiaffi. ”Rispetto il silenzio di questa madre”, dice Elena Carletti, 40 anni, sindaca di Novellara. “Qui nessuno ha dimenticato. Anche la mia generazione, conosce i nomi di chi, durante la guerra, stava da una parte o dall'altra”. Saputo dell'incontro, in paese c'è stato un po’ di fermento, con la caccia al nome. Ma subito si è capito che il silenzio è la cosa più importante, per meditare su storie che hanno ancora un peso molto grande in tante famiglie”. La lettera della figlia Margot viene spedita a Novellara il 17 luglio di quest’anno. "Per tutta la vita ho chiesto di te alla mia famiglia senza ottenere alcuna risposta… Per poterti riabbracciare vorrei venirti a trovare. Sono immensamente felice di poterti finalmente conoscere”. “Margot ha iniziato a cercare la mamma - racconta Laura Bastianetto, portavoce della Croce rossa italiana - un anno fa, quando è morto quel padre che l'aveva adottata - era già sposato con figli - e le aveva sempre negato notizie sulla vera madre. L'incontro è stato commovente. Un paio d'ore sabato pomeriggio, un altro incontro domenica mattina. Un bicchiere di spumante e poi l'impegno di Margot a tornare. La madre aveva conosciuto il militare tedesco in Italia e per lui è andata a lavorare in una fabbrica tedesca. La storia è un ‘ confusa, ma sembra che il soldato tedesco sia tornato a Novellara anche dopo la guerra, pensando che tutto fosse finito. Ci sarebbe stato anche un incontro. “Un giorno - ha raccontato l'anziana donna alla figlia - uno del paese mi ha detto che i partigiani avevano ucciso il mio moroso. Per questo non l'ho più cercato. Credevo che anche la bambina fosse morta di malattia o sotto i bombardamenti alleati”. In piazza dell'Unità d'Italia ci sono grandi fette di cocomero (di plastica) che annunciano l’elezione di “Miss anguria, la regina della bassa". Ma oggi si parla d'altro, sotto i portici. "Gli anziani - dice Dilva Daoli, classe 1920, staffetta partigiana - raccontano ai giovani che vogliono ascoltarli cosa successe in quei giorni. Io c'ero, ho visto le donne rasate a zero”. Incontri persone come Dilva Daoli e capisci perché, dopo il disastro della guerra, l'Italia sia riuscita a sollevarsi. “Io sono andata a fermare i partigiani più agitati, che stavano tagliando i capelli alle ragazze che con i tedeschi e i fascisti avevano suonato, ballato, cenato e poi passato la notte. Ho detto loro di fermarsi, perché il problema non erano i riccioli ma il cervello. Poverette, non capivano niente. E si vendevano per niente. Io e le altre del Gruppo difesa donne avevamo incontrato alcune di queste ragazze”. “I tedeschi sono invasori – spiegavamo - e mangiano in un giorno il Si è svolto a Lüneburg, una città tedesca di neanche 75000 abitanti della Bassa Sassonia, non lontana da Amburgo, in Germania, lo scorso aprile, il processo a Oskar Gröning, un contabile di Auschwitz- Birkenau il cui compito principale era quello di spogliare i detenuti ebrei di tutti i loro averi appena scendevano dai treni. Il novantaquattrenne ex soldato delle SS, che ha lavorato presso il campo di concentramento di Auschwitz, ha riconosciuto ancora una volta la sua complicità nell'Olocausto, ma non ha mostrato nessun pentimento davanti ai sopravvissuti o parenti, sostenendo che avrebbe potuto chiedere perdono solo a Dio. La Corte ha accusato il Gröning di essere corresponsabile di 300.000 omicidi, quasi tutti ebrei ungheresi deportati durante l'estate del 1944 ad Auschwitz, in Polonia. Se giudicato colpevole, potrebbe affrontare da 3 a 15 anni di carcere. Decine di persone si sono presentate all’udienza. Gröning, che ha prestato il suo servizio ad AuschwitzBirkenau dal 1942 al 1944, ha riconosciuto la sua colpa morale e la complicità ma si è rifiutato di chiedere perdono. Il suo caso, portato dai procuratori statali e 65 querelanti, sopravvissuti all'Olocausto e parenti, potrebbe essere l'ultima prova di un ex complice nazista nello sterminio di massa degli ebrei. Dei circa 6.500 membri delle SS impiegati per amministrare Auschwitz-Birkenau, solo 49 sono stati condannati per crimini di guerra. Gröning è stato aiutato da due medici durante il giorno del processo. La sua debolezza è aumentata durante la giornata ma sembrava perfettamente pronto una volta seduto tra i suoi due avvocati difensori. Nella dichiarazione letta da uno dei suoi avvocati, Susanne Frangenberg, Gröning ha prontamente riconosciuto la sua complicità nella Shoah, anche se ha ribadito che il suo lavoro ad Auschwitz era principalmente la raccolta di denaro all’arrivo dei prigionieri, e non lo sterminio degli ebrei e altri nelle camere a gas. "Anche se non ero direttamente coinvolto con questi omicidi, ho contribuito, attraverso le mie attività, al funzionamento del campo di Auschwitz. Sono consapevole di questo” ha dichiarato. Nel suo discorso di apertura Gröning ha descritto due atti di violenza orribile ai quali aveva assistito senza poter fare nulla: un bambino bastonato a morte da una guardia del campo, e la gassificazione di alcuni detenuti ammassati in una capanna. Però, entrambi gli episodi si sono verificati nel 1942, poco dopo il suo arrivo al cam- po, e non nel 1944, il periodo durante il quale doveva rispondere alle accuse durante questo processo. All’udienza Gröning ha detto che aveva lavorato sporadicamente sulla rampa, dove arrivavano i nuovi prigionieri in treno. Era lì, ha detto, che è stato testimone di scene terribili che lo hanno portato a presentare diverse richieste di trasferimento. Gröning ha attribuito il suo coinvolgimento nelle atrocità commesse ad Auschwitz per una forma di repressione psicologica che ancora non riesce del tutto a spiegare. "Forse era l'abitudine di accettare i fatti come erano apparsi, al fine di elaborare in un secondo momento", si legge la sua dichiarazione. "O forse era anche l’obbligo di obbedienza con cui siamo cresciuti, e che non ha permesso per le proteste." Altri due tedeschi novantenni sono stati accusati di reati connessi ai campi di sterminio nazisti, ma la loro età e i problemi di salute potrebbero rendere improbabile un loro processo. Irene Weiss, una sopravvissuta di Auschwitz, che ha testimoniato al processo e che oggi ha 84 anni, ha sostenuto di non essere in grado di perdonare il signor Gröning. “Ha detto che non si considera un autore, ma solo un piccolo ingranaggio di una macchina. Ma se fosse seduto qui con la sua divisa delle SS, rivivrei tutto l'orrore che ho vissuto allora quando avevo solo 13 anni. Qualsiasi persona che indossava l'uniforme in quel luogo rappresentava il terrore e l’aberrazione profonda in cui l'umanità può sprofondare, indipendentemente da quale funzione esercitasse”. Al termine della mattinata Gröning ha detto: "Considerando la dimensione dei crimini commessi ad Auschwitz e altrove, io posso solo chiedere perdono al Signore." Thomas Walther, il principale avvocato per i querelanti, ha espresso delusione per la dichiarazione dopo la sessione del tribunale sostenendo che: “Si tratta di colpa terrena, non di colpa davanti a Dio. Non siamo al Giudizio Universale ma siamo all'ultimo processo di Auschwitz sulla terra”. Così per l’ennesima volta e a distanza di settant’anni, c’è un processo per reati contro l’umanità, reati atroci che ancora oggi non riusciamo a comprendere, e l’imputato li ammette ma si rifiuta di chiedere perdono alle vittime o ai loro parenti. Il 15 luglio il tribunale di Lüneburg ha condannato Oskar Gröning per concorso in omicidio. La pena è stata fissata in quattro anni di carcere.(e.v.) maiale che basta a una famiglia per un anno”. Con i tedeschi le più spudorate si facevano vedere anche in piazza. Ma noi donne avevamo problemi anche con i nostri compagni partigiani. Erano uomini che volevano una donna di casa, di letto, di servizio e di silenzio; Taci tu che sei donna: l’abbiamo sentito tante volte anche dopo la Liberazione. Ma piano piano siamo riuscite a uscire dal quel medioevo. Furono una ventina, le donne rasate per oltraggio. “Il dopoguerra non è stato facile. C'era gioia per la libertà, c'era il dolore per chi aveva perso la vita”. Ci sono 104 nomi, sulle lapidi del paese dei Nomadi. “Ricordo il canto dei fascisti: Avversari e traditori ad uno ad uno sterminerem. Povera gente. Erano stupidi come l'erba gramigna e cattivi. Mio fratello Mario, classe 1901, fu ucciso a botte già nel 1922 perché era militare e gli avevano trovato l'Ordine nuovo di Antonio Gramsci in tasca. Dopo la Liberazione, il custode del Casino di Sotto, dove c'era il comando tedesco, ci disse di scavare nel letamaio. C'erano pezzi di antifascisti e di partigiani”. “Questo incontro fra madre e figlia - dice la sindaca - ci ricorda un pezzo di storia complicata. Ci deve fare meditare. Possibilmente lontano dai riflettori”. (j.m.) 21 22 Memoria Cultura Il racconto di Elena Kagan, l’interprete russa, oggi ultranovantenne, che scoprì i resti del fürher Dolce vita: così nasce il made in Italy di Claudia SCORZA di Martina PARODI S u “Repubblica" è apparso un interessante racconto che val la pena di riprendere per i suoi riferimenti storici e per i suoi coinvolgenti risvolti umani. Nel giugno 1941, quando scatta l’invasione nazista dell’Unione Sovietica, - scrive Susanna Nirenstein su “Repubblica” - Elena Kagan studia filosofia a Mosca. Come gran parte del popolo russo vuole solo arruolarsi, combattere. Sarà la donna che all’inizio del maggio di 4 anni dopo, entrata da poco nella Berlino appena conquistata dall’Armata Rossa, scoprirà i cadaveri semicarbonizzati di Goebbels, della moglie Magda, dei 6 piccoli figli assassinati da loro stessi, quattro spessi quaderni di diari del gerarca che tradurrà. E subito dopo i resti dei corpi di Hitler, di Eva Braun, dell’ “amato” cane Blondie usato come cavia del veleno predisposto per il suicidio. Elena identificherà i resti studiando le migliaia di carte conservate nel sotterraneo della Cancelleria del Reich e nel Bunker, individuando i testimoni giusti da ascoltare, a tu per tu con grandi e piccoli criminali nazisti e con gli alti comandi del1'Urss, entrando a passi decisi nel cuore della Storia. Per ora siamo all'inizio. Mandata a produrre bossoli in una fabbrica di orologi riconvertita, a Elena le retrovie non bastano. Farà l’interprete: parte con la vecchia coperta in valigia verso quattro mesi frettolosi di corso a Stravopol, una cittadina sul Volga che quando ghiaccia il fiume non è collegata al resto del mondo né da ferrovie né da strade. Dopo poche settimane ecco comunque arrivare fuggiaschi, sfollati, e anche i primi soldati con la Stella Rossa che “arrancano trascinando i piedi, congelati, stremati” decisi a riorganizzarsi nella Russia profonda. Lo shock della disfatta è terribile. Elena ha 22 anni, continua la Nirenstein. Mentre impara il lessico tedesco, tra cui un dizionarietto di parolacce inventato dal maestro Auerbach (“chiamate il nemico lacché di merda”, gli suggerisce), si trova a tradurre i consigli per il freddo che lo Stato Maggiore Generale del Terzo Reich distribuisce ai suoi militari: “nell'elmetto inserite del feltro, un fazzoletto, carta di giornale appallottolata”, “indossate due camicie”, "mettete uno strato di giornali tra la camicia e la maglia, fra le mutande e i pantaloni”. Roba da poveracci, ma pensavano di conquistare Mosca in quattro e quattr’otto e invece non va così. Alle porte della capitale i potenti eserciti nazisti vengono fermati dai russi. Si combatte metro per metro. Elena Kagan, che sotto il nome di Elena Rzevskaja (in onore della città martire di Rzev) a 92 anni (ora ne ha 95) ha scritto il nostro Memorie di una interprete di guerra, ora in uscita da Voland, parte finalmente per il fronte: 100 verste in una slitta tirata dai cavalli del kolchoz lungo il Volga, con i piedi sotto il fieno. Senza paura, stranamente senza paura. Viene assegnata – racconta ancora la giornalista - all’VIII Brigata aerotrasportata anche se non ha mai visto un velivolo, né un paracadute. È pronta a buttarsi giù se si deve: si sente incorporea mentre sul treno nel buio e poi a piedi sulle traversine innevate circondate da izbe bruciate, va ad affrontare un ignoto così profondo: il comandante non vuole pivellini, la manda in fanteria. È il gennaio 1942, la temperatura è meno 40. Arrivano slitte con i feriti coperti di paglia. Male alle mani, ai piedi, a tutto. Cadaveri congelati quasi conficcati nel terreno. Dopo chilometri di bianco, sale su un treno che parte: prende appunti frenetica, qualcuno grida ad un altro “Vedi di non pisciare contro vento”. Primo paese, Kaluga, combattimenti, fuoco alle case. Arrivano 17 prigionieri tedeschi: Elena inizia tremante il suo primo interrogatorio: cognome, età, luogo di nascita. Quello cerca di simpatizzare, ha freddo, vuole una coperta, “Gli domandi un po’ se pure il russo, quando è prigioniero, chiede una coperta” ribatte il commissario Bacurin. Un altro della Wehrmacht, le racconta di essere un entomologo: “sarò fucilato subito?” le chiede. In un'isba una bandiera con la svastica ripara la parete interna dagli spifferi: piomba dentro una granata nemica che fa quasi fuori Elena. Zajmisce, Rzev, Smolensk, Varsavia, Bydgoszcz, Poznan... Interrogatori, marce, feriti, morti, cecchini, cittadine distrutte, catapecchie, tempeste di neve, gelo, eroi, vittime delle stragi tedesche, fuochi della battaglia, documenti tradotti, ordini di Hitler (“Tu non hai cuore … Uccidi”), lettere delle o alle SS da capire, telegrammi, piccoli dialoghi. Il racconto è caldo, palpita come quello di una bambina stupita. A metà del libro diventa più convincente, serrato. Perché tappa dopo tappa siamo arrivati a Berlino e qui Elena Rzevskaja come abbiamo detto, guarda la Storia e la fa: capisce anche, da un foglio sottolineato, perché Hitler si sia fatto bruciare: non voleva che nessuno si accanisse sul suo cadavere come era avvenuto pochi giorni prima su quello di Mussolini in Italia, e infine trova la dentista del Führer e le fa identificare l’unico organo rimasto intatto, la mascella che le viene affidata in una scatola rossa da non lasciare mai. Identificazione tenuta segretissima da Stalin, convinto che la minaccia di un Hitler vivo gli permetterà chissà quali giochi politici. Manda nel gulag per dieci anni anche la povera dentista. E molti altri testimoni, sembra. Il ritrovamento di Hitler molto più sommariamente, Kagan/Rzevskaja l’aveva scritto in un libro del 1965, ora lo arricchisce efficacemente di dati, personaggi, documenti, ritmo. Ci sentiamo lì, a Mosca, nel bunker del dittatore, di fronte alla resa incondizionata degli invincibili assassini, aggiunge Nirenstein. Come si sente Elena? Mormora: “Tutto quello che si è vissuto in guerra, non lo si può tradurre in una lingua comprensibile in tempo di pace”. Mancano alcune cose però, importanti. Mancano quasi gli ebrei: anche se lei stessa è un’ebrea, ne accenna solo qua e là, le vittime rimangono i russi, i civili secondo la vulgata dello Stato Sovietico. La parola ebreo appare di volata. Altra cosa la denuncia di 23 Sontuosa esposizione al Musée d’Orsay su liberty e design italiano “Dolce vita” è una formula felice, ma inflazionata, ambigua quanto basta nel suo venire usata per definire uno stile, un modello comportamentale, un carattere e una psicologia. Con l’aggiunta di un punto interrogativo (Dolce vita? Du Liberty au design italien 1900-1940, fino al 13 settembre) il Musée d’Orsay la utilizza per questa sontuosa esposizione che allinea più di 180 “pezzi” fra quadri, vasi, mobili e oggetti d’uso quotidiano. Come spiega Beatrice Avanzi, Conservatrice del Museo e co-curatrice della mostra (con Irene de Guttry), “per l’Italia si tratta di un periodo complesso, dal punto di vista politico, economico, sociale, e però culturalmente ricchissimo, quasi gioioso”. È allora che come nazione entriamo a pieno titolo nella modernità e trasformiamo una ricca eredità di artigianato (scuole e botteghe) e tradizione (usi, costumi, riti e miti plurisecolari) in qualcosa di completamente nuovo eppure intrinsecamente italiano. L’artigiano diventa designer, l’artista entra da protagonista nel dibattito ideologico, l’architettura è chiamata a disegnare un ordine nuovo, movimenti culturali e movimenti politici si intrecciano e reciprocamente si influenzano. Scandita in sezioni contrassegnate da un uso intelligente del colore (rosa lampone per il futurismo, mauve intenso per il Liberty…), Dolce vita? racconta il passaggio dall’Art Nouveau, con il suo trionfo della natura, alla ricostruzione futurista dell’universo, al successivo “ritorno all’ordine” post bellico che finirà poi per trovare una sua quadratura del cerchio razionalista e astratta. Spesso gli stessi nomi si rincorrono nel cambiamento e insieme lo giustificano. Il “futurista” Sironi sarà anche il Sironi “novecentista” che con Funi, Oppi, Marussig insegue un’idea figurativa in grado di riscattare l’antico e non esaurirsi negli “ismi” del moderno. Il “dadaista” Evola lascerà il posto al teorico della Tradizione, il Profilo continuo. Dux di Renato Bertelli, maiolica a vernice nera, campeggerà nella prima esposizione d’arte astratta a fianco delle opere di Fontana e Melotti, Casorati e Licini. Nella mostra, la parte del leone la fa però il design, ovvero l'applicazione industriale della creazione artistica secondo l’indicazione di Gio Ponti, direttore fra le due guerre della Richard Ginori, fondatore della rivista Domus, teorico dell’industria “come stile del XX secolo”. È un vero e proprio parterre du roi quello che scorre sotto Vassilj Grossman, il celebre autore di Vita e destino: il suo scandalo di fronte alla Shoah fu denunciato in tempo reale nelle sue corrispondenze dal fronte che spesso gli organi di stampa del regime rifiutavano proprio per questo (che meraviglia che ora gli occhi del visitatore: il simbolismo tormentato di Adolfo Wildt, le sculture e le ebanisterie di Duilio Cambellotti e di Carlo Bugatti, le ceramiche di Galileo Chini, il ferro lavorato di Mazzucotelli, i vetri di Vittorio Zecchin per Venini, le "provocazioni" di Franco Albini. Di questo ultimo sono esposte la radio in vetro e cristallo del 1938; la poltronaseggiovia retta da un lungo gancio in ferro da appendere al soffitto, realizzata a righe bianche e blu nel 1940 per una sala da soggiorno in una villa al mare sospesa su un pavimento in vetro con sotto prato e fiori, accompagnata da una voliera di rete di nylon; un grande mobile in ebano progettato per la casa dell’asso dell’aviazione Ferrarin, intarsiato con cornici di ottone. Fu a causa di quel mobile che Albini lasciò lo studio di Ponti per stringere sempre più rapporti con Edoardo Persico. Da qui la riconversione al razionalismo. Albini, il già citato Ponti, Pizzigoni, Portaluppi, Mollino, Libera, Figini impongono la figura dell'architetto-designer e creano le basi per una prima primazia del made in Italy che da allora non sarà più smentita. siano pubblicati in Uno scrittore in guerra dell’Adelphi). Nelle memorie della Kagan scritte negli anni duemila pare ancora che i polacchi siano stati occupati solo dal III Reich. Come se la perseguitasse ancora la censura, la paura primordiale, ancestrale, in- culcata dal comunismo. Un resoconto di grande interesse storico, dunque, e anche estremamente attuale, che fa capire come i regimi, alla fine seguano tutti la stessa assurda logica: il dominio e il sopruso. Arte 24 Arte 25 interessante mostra a Roma sul fascismo giudicato dallo scrittore tedesco e da Luchino Visconti Mario e il mago: Thomas Mann racconta l’Italia di Mussolini di Elisabetta VILLAGGIO I n occasione del 60° anniversario della morte e del 140° anniversario della nascita di Thomas Mann (18751955), la Casa di Goethe, a Roma, gli ha dedicato una mostra: Mario e il mago. Thomas Mann e Luchino Visconti raccontano l’Italia fascista. Mario e il mago è considerato il racconto più italiano dello scrittore tedesco ed è forse uno dei meno noti. Il testo nasce da un’esperienza personale quando Thomas Mann fece una vacanza in Versilia, a Forte dei Marmi, con la moglie e i due figli più piccoli nell’estate del 1926, e s’imbatté in questo ipnotizzatore che lo inquietò a tal punto che scrisse una novella su un mago che “sfruttava il muto volere collettivo”. Lo scritto dell’autore, premio Nobel per la letteratura, uscì solo nel ’29 quando le ombre del nazionalsocialismo si allungavano sulla Germania e, la vicenda dell’ipnotizzatore Cipolla, che durante le sue performance serali soggioga e manipola il pubblico, diventa metafora del clima contemporaneo. Eppure questo straordinario racconto non ha mai avuto vita facile in Italia. Giudicato sin dalla sua prima pubblicazione nel 1930 racconto “anti-italiano”, per motivi di censura poté apparire in traduzione solo nel 1945 edito da Mondadori. Trascurato dalla critica, il racconto ha però stimolato l’interesse creativo di tre grandi artisti. Molto prima della trasposizione cinematografica della Morte a Venezia Luchino Visconti compose, nei primi anni ’50, l’“Azione coreografica” in due atti di Mario e il mago con musica di Franco Mannino e coreografia di Léonide Massine. Il balletto fu rappresentato con grande successo alla Scala di Milano nel febbraio 1956. L’allestimento presenta per la prima volta una scelta dei bozzetti e dei figurini che la grande scenografa e collaboratrice di Visconti, Lila de Nobili, aveva realizzato per lo spettacolo. La mostra è curata da Elisabeth Galan che dice: “L’idea di questo allestimento è nata qualche anno fa quando la Buddenbrookhaus di Lubecca, città natale dell’autore tedesco, ha dedicato una mostra a questo racconto e mi parve subito chiaro che un allestimento del genere e questo tema fosse di grande interesse anche per l’Italia ma che una mostra italiana avrebbe richiesto una concezione nuova che mettesse in evidenza e portasse alla luce i tanti e variegati legami che questo racconto ha con la cultura e la politica italiana”. Questa mostra, infatti, è nata anche dalla constatazione del fatto che è abbastanza paradossale che in Italia si conoscano testi di Thomas Mann come Morte a Venezia, che viene intesa come la sua novella italiana, mentre il suo vero racconto italiano è molto meno conosciuto. Mario e il mago è il racconto italiano per eccellenza, non solo perché lo ha ambientato in Versilia ma, soprattutto, perché racconta una parte e un momento cruciale della storia italiana. Ambientato alla fine degli anni '20 Thomas Mann descrive con grandissima lucidità e precisione, l’atmosfera e il clima culturale e politico dell’epoca e solo tre anni dopo quell’esperienza italiana si trasforma in letteratura. Il mago Cipolla, che attraverso l’ipnosi soggioga e manipola il pubblico, diventa così la metafora del pericolo imminente che in Italia era già realtà, e ora incombe anche sulla Germania. La storia ci insegna che il monito che l’autore ha voluto lanciare al proprio paese con il suo racconto è rimasto inascoltato. In Italia questo capolavoro della letteratura mondiale, tuttora poco conosciuto, ha colpito l’immaginazione creativa di due artisti italiani: Luchino Visconti e Franco Mannino che nei primi anni ‘50 scrivono insieme, a Ischia, l’azione coreografica di Mario e il mago riportando, in un certo senso, questo racconto a casa, in Italia, da dove era partito e lo trasformano in esempio di scambio culturale di intermedialità ad altissimo livello. Visconti trasforma il testo narrativo in azione drammatica e Mannino lo traduce in musica. Questo balletto ha fatto sì che Thomas Mann, Luchino Visconti e Franco Mannino si fossero incontrati, nell’aprile del ’53 a Roma, in occasione di un soggiorno dell’autore tedesco nella nostra penisola che, in quell’occasione, ha letto il libretto e lo spartito. La mostra è organizzata in quattro blocchi tematici e si compone di oggetti, lettere, foto d’epoca, libri, acquarelli e dipinti. C’è da guardare ma anche da leggere, è una mostra che vuole essere esplorata con calma. Ci sono anche tavole tematiche che presentano i temi trattati. C’è una prima sezione dedicata alla genesi del racconto e all’ambientazione storica a Forte dei Marmi, la seconda dedicata al contesto storico politico negli anni ‘20 e qui ci sono altri documenti PER IL CINQUANTENARIO DELLA MORTE Tutto Le Corbusier in mostra a Parigi L’importante non è essere moderni, l’importante è essere eterni, scriveva Le Corbusier anticipando in vita le tesi critiche contemporanee”. Pseudonimo di Edoard Jeanneret-Gris, architetto, urbanista, pittore e design, svizzero naturalizzato francese (La Choux de Fond-6 ottobre 1887/Roquebrune – Cap Martin 27 agosto 1965), un’esposizione estiva al Centre Pompidou (Le Corbusier. Mesures de l’hommes , catalogo Editions Centre Pompidou-280 pagine, 42 Euro) oggi lo celebra e ne sottolinea ancora una volta l’ eccezionale attualità. In occasione del cinquantenario della morte, Frèdéric Migayrou e Olivier Cinqualbre, i due curatori, mettono in mostra 60 anni della sua attività e lo fanno a partire dagli esordi, opere e scritti teorici, specie intorno agli anni Venti, in pieno post-cubismo. Incontriamo i suoi primi esperimenti pittorici sulle orme di Braque, Picasso, Lèger e Gris, composizioni dove gli elementi di realtà fanno da sfondo a una ricerca più astratta, pura, dove le linee si intersecano con i colori e i volumi che troveremo anche nelle sue architetture, in alcuni casi questi ultimi sono sospesi su pilastri (pilotis) per consentire alla natura di entrarvi. L’architettura per Le Corbusier era -ricerca paziente-, l’uso logico di un metodo per poter pensare la forma in funzione dei principi razionali, un gioco sapiente di volumi sotto la luce: -I cubi, i coni, le sfere, i cilindri e le piramidi, sono le più grandi forme primarie che la luce invera con efficacia, perché sono forme belle, le forme più belle…-. Rifacendosi alla lezione del maestro del modernismo pittorico Paul Cézanne diceva che -… è necessario partire dalle forme geometriche originarie, per l’appunto, in quanto necessarie per fare dell’architettura e dell’arte in generale, un processo compiuto, ossia trascrivere un’idea epigrafica, cristallizzata-. Una delle 14 sezioni della mostra è dedicata al concetto di -modulor-, dove si comprende come Le Corbusier iniziò i suoi passi studiando - l’uomo vitruviano -, già ripreso da Leonardo e basato sull’altezza ideale della razza umana (1 metro e 83 cm) e con braccio e mano tesa in alto (2 metri e 20) usato come misura per concepire oggetti ed edifici. Uno studio che gli era servito per studiare spazi come soffitti, porte, finestre, mobili…Il risultato è un’architettura fredda, rigorosa, metodica, sintattica, intersecata da combinazioni irregolari. Come fondatore del Movimento Moderno -Le Corbu- aveva stabilito dei criteri oggettivi alla base della progettazione (come il famoso decalogo degli elementi architettonici che tutti gli edifici dovevano seguire). Per fare un esempio il tetto piano, il tetto giardino, i pilotis (casa sospesa sulla natura), le finestre a nastro orizzontale, l’abolizione del cornicione e l’uso dell’intonaco bianco. L’interno doveva avere spazi fluidi e composti, le scale erano delle rampe lineari per mettere in comunicazione i vari piani: si vedano la Ville Savoye a Poissy (Parigi) del 1929, Casa Ozenfant, oggi Fondazione Le Corbusier del 1922, l’Immeuble Clartè a Ginevra del 1928. Sulla base di questo decalogo oggettivo, l’artista introduceva poi degli elementi poetici ed emozionali: è il caso del Centrosoyuz a Mosca del 1929; del Convento di Sainte Marie de Notre Dame du Haut a Ronchamp del 1950-55; del Convento de la Tourette del 1953-59; del Padiglione della Philips all’Esposizione Universale di Bruxelles 1958… Un discorso a parte merita la progettazione della città di Chandigarh, “nuova” capitale dello Stato indiano del Punjab, iniziata nel 1951, un progetto articolato di strade e palazzi dove tutto si giocava sulla concezione urbanistica. Da un lato gli edifici governativi (il Campidoglio, Il Palazzo di Giustizia, il Segretariato e l’Assemblea Nazionale) e dall’altro abitazioni e vie spesso scavate nel terreno per proteggersi dall’alta temperatura, come sarà anche il caso nei progetti per il Brasile…, città create sulla base di un percorso autostradale con i complessi abitativi sotto il nastro infrastrutturale. Per il Centro Olivetti a Rio de Janeiro, i criteri saranno gli stessi. Architetture bianche o colorate (colori puri), linee e materiali rimangono un ordine precostituito: un esempio per tutti è l’Unitè d’Habitation di Marsiglia del 1950 (che, da ministro della Cultura, André Malraux farà classificare tra i monumenti nazionali). Qui, all’interno delle abitazioni, quadri, chaises-longues, poltrone in pelle e metallo, sedie e tavoli a misura d’uomo, con vasche tonde di pesci rossi che si stagliavano sul bianco delle pareti dei bagni e delle cucine essenziali disegnati con le minime dimensioni possibili come faceva anche l’architetto tedesco Klaine, rimandavano all’idea stessa di funzionalità. In mostra ci sono i suoi testi più famosi (tutti tradotti anche in italiano): da “Il poema dell’angolo retto” (Mondadori, Electa), a “L’urbanistica” (Il Saggiatore), da “La mia opera” (Bollati e Boringhieri) a “Sulla pittura moderna” (C. Marinetti) e “Oltre il Cubismo” (C. Marinetti)… (m.p.) preziosi che provano il rapporto dell’autore con l’Italia e il suo impegno politico in Germania negli anni ‘20 per allertare il suo paese sul pericolo alla “mago Cipolla”. La terza è dedicata al mago Cipolla, che prende come modello Cesare Gabrielli, un personaggio che apparve anche in un film di De Sica. Gabrielli era amico personale di D’Annunzio, aveva partecipato alla presa di Fiume ed era molto vicino al potere. Questa terza sezione gira intorno anche alle tematiche sulla psicologia delle masse e l’indottrinamento come forma di potere. L’ultima è tutta italiana: dalla ricezione del racconto in Italia alla ricostruzione del balletto di Visconti per la Scala. La ricostruzione è stata possibile anche grazie all’archivio Visconti e alla famiglia Mannino che ha messo a disposizione la musica. “Il tema principale di questa storia si trova nel carattere brutale, demagogico e cinico del mago e ipnotizzatore Cipolla, demone in posizione dominante negli anni venti in Italia dove il fascismo è narrato come un rappresentante del male” sostiene Frido Mann il nipote preferito di Thomas Mann, aggiungendo che questa è “una mostra carica di significato politico e un monito contro l’oblio. Oggi il terrore minaccia una deflagrazione mondiale sul nostro pianeta”. Mario e il mago va quindi interpretato come il monito contro il fascismo in generale e, per Mann, il fascismo non era solo un fenomeno politico ma, soprattutto, culturale e rappresentava una regressione dello stato evolutivo umano. Dopo l’interesse suscitato a Roma la mostra, leggermente modificata, andrà a Forte dei Marmi nel 2016 in occasione del 90esimo anniversario del soggiorno di Mann. 26 Attualità Cultura Finalmente si apre una varco in direzione dell’antifascismo autentico Molte città e comuni rifiutano Mussolini cittadino onorario 27 “Mingo il Ribelle” il libro su Domenico Giannace Biografia di un’Antifascista di Giuseppe CISTERNA C i sono voluti un po’ di anni (tanti, per la verità), ma alla fine qualcosa sta muovendosi in direzione di un antifascismo vero, concreto, senza ipocrisia e che faccia onore alla storia e alla verità. In diverse amministrazioni comunali si è fatta largo l’idea di dare un ulteriore colpo di spugna alle “tracce” del fascismo revocando la cittadinanza onoraria a Benito Mussolini, che molti sindaci del regime, per pura piaggeria e servilismo, avevano concesso al duce con motivazioni al limite del ridicolo. Molte delle cittadinanze vennero concesse a Mussolini tra il 1923 e il 1924 per celebrare un doppio anniversario e cioè il primo anno della rivoluzione fascista e il decimo anno dall’inizio della Grande Guerra. Motivazioni o gesti goffi, dicevamo come quella per esempio del podestà di Aulla, paese in provincia di Massa Carrara, il quale si recò di persona a Predappio per consegnare “l’alta onorificenza” al duce. Dopo 70 anni, nemesi storica quanto mai opportuna, il sindaco dello stesso comune, Lucio Barani revocò la delibera con un altro gesto simbolico: promise di andare a riprendersi il documento a Predappio. A Firenze, una delle prime città che volle Mussolini come cittadino onorario, la relativa delibera venne votata il 19 giugno del 1923 da un governo di larghe intese. Dissero sì al duce non solo i fascisti, come è ovvio, ma anche i liberali e i cattolici. La giunta era guidata da una maggioranza detta “L’unione”. Anche a Firenze si ripete il caso di una “vendetta” postuma ma giustificatissima: il sindaco Leonardo Domenici, a conclusione del suo mandato abrogò quella delibera conferendo la cittadinanza onoraria a Beppino Englaro. Tornando al duce, negli anni Venti i lecchini facevano a gara per ingraziarsi il capo del fascismo. A Bologna, per esempio, pensarono di conferirgli una laurea ad honorem in legge. Fu un fallimento perché nonostante Mussolini avesse preparato una tesi su Machiavelli, la cerimonia sfumò e con essa anche il sogno del “dottor” Mussolini. A Bologna, comunque, Mussolini risulta ancora cittadino onorario nonostante una iniziativa dei grillini che venne, non si sa perché, respinta. E così il duce è ancora “bolognese” e in ottima compagnia con personaggi come Garibaldi, Gorbaciov, il Dalai Lama e, persino, Roberto Saviano. Lasciamo Bologna e ci spostiamo a Cinisello Balsamo, un grosso centro attaccato a Milano. Dopo una visita, in tenuta da pilota, al campo di aviazione di Cinisello, che allora era diviso in due, entrambi i comuni gli conferirono la doppia cittadinanza. In questa veloce carrellata manca la “perla” confezionata da un paesino in provincia dell’Aquila, Massa d’Albe. Il podestà di questo borgo mandò una pergamena al fondatore del fascismo giurandogli che “la cittadinanza onoraria, fino a quel momento non era stata offerta a nessuno e goduta da nessuno”. E aggiunse: “Il riconoscimento è stato approvato con la solennità data dalla voce di 5000 persone”. Per la cronaca gli abitanti di Massa d’Albe all’epoca erano appena 1500! Ma, naturalmente, in Italia, paese dei campanili, non tutti la pensano allo stesso modo, così a Ravenna, nonostante una proposta di revoca, quasi tutti i partiti vogliono tenersi Mussolini come cittadino. Il Pd, che in altre città si è mosso nella direzione giusta (Firenze, Torino, Bologna) a Ravenna ha così spiegato il suo no alla revoca attraverso le parole del consigliere comunale Andrea Tarroni: “Nel diritto romano esisteva una condanna, la più cruda che si potesse attribuire a chi avesse amministrato la res publica, che si definiva damnatio memoriae. Comprendeva il fatto che ogni statua, monumento o documento che si richiamava al condannato dovesse venire distrutto. Per cancellarne la memoria. Parlando di Mussolini verrebbe la tentazione di applicare questa condanna, ma se la cittadinanza venisse revocata 90 anni dopo non avrebbe senso e rischierebbe di far dimenticare le nefandezze del Ventennio fascista”. Sarà ma la spiegazione non soddisfa, anzi sembra D un giro di parole per tenersi Mussolini come cittadino onorario. Contento lui. Ma il vizietto di incensare il potente di turno, non vogliamo dire tipicamente italiano, divenne ben presto un’epidemia e interessò circa la metà dei comuni italiani impegnati ad attribuire al fondatore dei fasci onori e trionfi. A Varese il consiglio comunale invece si è spaccato sulla cittadinanza onoraria a Benito che, a mo’ di ringraziamento, tre anni dopo il conferimento dell’onorificenza riconobbe lo status di capoluogo provinciale a Varese. Ora il consiglio comunale deve deliberare sulla proposta di un consigliere pd che dice: “La cittadinanza a Mussolini va revocata considerato il negativo giudizio storico, morale e politico condiviso sulla sua figura”. Non tutti sono d’accordo. Anzi un assessore scrive: "Sua Eccellenza Benito Mussolini fu l’unico a pensare ad una grande Varese: non solo fu l’ideatore della città, che fino ad allora era divisa in castellanze autonome, ma pensò e volle fortemente una grande provincia di confine. Gli stessi che vorrebbero torgliergli la cittadinanza onoraria sono gli artefici della morte della provincia di Varese, che diventerà periferia di Monza o addirittura di Como”. Testuale. Ma allora, che Paese è questo? Che classe politica abbiamo allevato? Stiamo parlando di un dittatore, di un uomo asservito a Hitler, che ha trascinato il nostro Paese in una guerra assurda provocando milioni di morti e distrutto l’Italia e l’Europa, che ha approvato le leggi razziali applicandole in modo sistematico e pervicace. Ma per la destra varesina, Mussolini è soltanto Sua Eccellenza!(g.mor.) a lunghi anni Domenico Giannace gode della stima del mondo politico e sindacale della Lucania. Di lui si occupa l’ultima opera dello storico pisticcese prof. Giuseppe Coniglio – “Mingo il Ribelle”, biografia di un antifascista, “storia di un giovane antifascista lucano che si profuse sul territorio nel diffondere gli ideali democratici” – presentata con un doppio appuntamento nel territorio comunale di Pisticci, venerdì 31 luglio e sabato 1° agosto 2015 alla presenza di tanti cittadini e autorità e di coloro che hanno voluto questa iniziativa e che l’hanno sponsorizzata e patrocinata - fra queste in primo luogo l’ANPPIA (Associazione Nazionale Perseguitati Politici Italiani Antifascisti), di cui Giannace è dirigente regionale. Il libro gode anche del patrocinio della Regione Basilicata, e del Comune di Pisticci. In questo libro la sua figura e il suo pensiero, nella ricorrenza dei suoi “primi” 91 anni, è raccontata attraverso le storie personali e tanti ricordi di vita politica, sindacale, istituzionale-amministrativa negli anni 60-70, le lotte contadine, i confinati politici che lo considerarono la loro mascotte nella colonia confinaria di Pisticci (centro agricolo), fino agli ultimi anni quando costituì il Comitato Difesa Ospedale di Tinchi. Hanno partecipato diverse personalità istituzionali, il sindaco di Pisticci Vito Di Trani; il presidente della giunta regionale di Basilicata Marcello Pittella; l’ex consigliere Gabriele Di Mauro; lo storico Angelo Tataranno e l’onorevole Domenico Izzo. Il libro ricostruisce in duecento pagine la biografia di Domenico Giannace conosciuto come “Ming a logn”, che fu apprendista carrettiere in tenera età e divenne la mascotte dei confinati politici antifascisti del centro agricolo di Pisticci, testimone di tante ingiustizie ed abusi che venivano commessi in colonia; in quegli anni conobbe Carlo Porta, Renato Bitossi, il principe Andrea Doria Pamphilj, primo sindaco di Roma del dopoguerra, Umberto Terracini e tanti altri. Militante antifascista nel dopoguerra entra nel sindacato, diventa un importante dirigente della Camera del Lavoro di Pisticci dal 1946-1960: in quegli anni furono molte le battaglie sostenute nelle lotte contadine per l’occupazione delle terre e contro il padronato per cancellare le forme di schiavitù e sfruttamento imposte ai lavoratori e alle lavoratrici; questo costo a Giannace un periodo di detenzione nel carcere di Matera dove conobbe Rocco Scotellaro, sindaco di Tricarico, anche lui arrestato per motivi politici. Fu Segretario provinciale della “Federbraccianti” di Matera dal 1958 al 1959; dirigente della “Confcoltivatori”di Pisticci dal 1961 al 1990; Sindaco di Pisticci dal 1963 al 1964 quando subentrò a Nicola Cataldo appena eletto alla Camera dei Deputati; consigliere comunale e provinciale fino a diventare Consigliere Regionale del PCI eletto nel 1980. Come candidato alla Camera dei Deputati, anche se non fu eletto, fu premiato da un ottimo risultato. Nel 2003 è stato insignito anche del titolo di “Ufficiale dell’ordine al merito della Repubblica Italiana”, dal Presidente della Repubblica Carlo Azelio Ciampi. L’antifascismo ha caratterizzato tutto l’arco della vita di Domenico Giannace, un antifascismo contraddistinto da un forte progetto politico di società e dalla voglia di costruire istituzioni democratiche e di rispettarle perché erano il risultato di profondi sacrifici e di lotte coraggiose della parte migliore del popolo italiano. Il presidente della Regione Marcello Pittella, ha ripercorso la vita di Giannace con un particolare focus sulla sua “appassionata” esperienza politica, le capacita, la saggezza, l’equilibrio che non sempre e legato all’età, che è un esempio per la società che ha bisogno di recuperare attraverso uomini semplici, umili e veri come Domenico Giannace, storia, cultura e condivisione; “Giannace è ancora oggi un trascinatore di popolo, un leader autentico, un punto di riferimento della comunità pisticcese – ha concluso Pittella – un pezzo senza fine di onore e di orgoglio”. Sono seguiti gli interventi del sindaco Vito Di Trani: “Mingo, un protagonista indiscusso della storia del nostro Comune e sicuro riferimento per quelle persone che non si lasciano tentare dalle sirene dell’antipolitica”; di Gabriele Di Mauro che ha ricordato gli anni delle occupazioni delle terre con Mingo protagonista; del già parlamentare Izzo: “Onore e omaggio al “ribelle” del passato”; di Angelo Tataranno “Un personaggio straordinario, bravo anche ad apprendere e studiare nella ‘università’ del partito”. Ha tratto le conclusioni delle due serate l’autore, prof. Giuseppe Coniglio, che nel ringraziare tutti, ha ricordato l’amata moglie di Mingo, Antonietta De Marsico, scomparsa il 23 marzo scorso, “Aspettava con ansia l’uscita del libro”. L’opera è stata dedicata alla memoria della signora Antonietta. 28 Attualità Attualità RIABILITARE I SOLDATI ITALIANI FUCILATI NELLA GRANDE GUERRA di Giorgio GIANNINI Dalla fine del Novecento, in alcuni Paesi si è iniziato a parlare di “riabilitare” i soldati fucilati in seguito a sentenza di condanna a morte emessa dai Tribunali Militari o “morti per mano amica”, per restituire ad essi l’onore di “caduti in guerra” o di “morti per la Patria”. Successivamente, in alcuni Paesi sono state approvate delle Leggi e sono stati realizzati dei monumenti per ricordare questi soldati. Il primo Paese è stato nel 2000 la Nuova Zelanda, seguito dal Canada nel 2001, dalla Gran Bretagna nel 2006 e dalla Francia nel 2013. Nel 2014 sono state prese anche nel nostro Paese delle iniziative per la riabilitazione dei soldati condannati a morte e fucilati e di quelli uccisi “per mano amica”, in base all’art. 40 del Codice Penale dell’Esercito, approvato con il Regio Decreto 28 novembre 1869, ed in base alla Circolare n. 2910, avente valore di Legge data la situazione di Guerra, emanata dal Capo di Stato Maggiore dell’Esercito, Gen. Luigi Cadorna, il 1 novembre 1916. L’art. 40 prevedeva l’obbligo per il Superiore gerarchico di far uccidere, o di uccidere personalmente, immediatamente, con “esecuzione sommaria”, il soldato autore di un grave reato, come la diserzione e la disobbedienza, soprattutto collettiva (ammutinamento o rivolta). In caso contrario, il Superiore era ritenuto corresponsabile e quindi passibile della stessa pena dell’autore del reato. Spesso, alla “esecuzione sommaria” dei soldati che tardavano ad uscire dalla trincea in caso di attacco, provvedevano i Carabinieri presenti nella stessa trincea. La Circolare n. 2910, invece, prevedeva l’obbligo per il Comandante del Reparto, in caso di ammutinamento o di rivolta, di ordinare la “decimazione” ( la fucilazione di un soldato ogni dieci, scelto a sorte o mediante la conta del reparto schierato), per “dare l’esempio”. In particolare, il Comune di Santa Maria La Longa (Udine), nel marzo 2014 ha apposto una lapide commemorativa della fucilazione dei 28 soldati della Brigata Catanzaro che, nel luglio 1917, mentre si trovavano in questa località per un periodo di riposo dal fronte, si ammutinarono perchè non volevano ritornare in prima linea, sul monte Hermada, nel quale molti di loro commilitoni erano morti in seguito ai continui e cruenti combattimenti con gli Austriaci. Inoltre, il 4 novembre 2014 (anniversario della “Vittoria” nella Grande Guerra) è stato lanciato un Appello al Presidente della Repubblica ed al Presidente del Consiglio, sottoscritto da centinaia di docenti universitari e delle Scuole di ogni ordine grado e da rappresentanti di Associazioni culturali, per chiedere la riabilitazione dei soldati condannati a morte dai Tribunali Militari e fucilati sommariamente al fronte, per i reati di insubordinazione, chiedendo che fossero considerati “caduti per la Patria”. L’APPROVAZIONE DELLA LEGGE ALLA CAMERA DEI DEPUTATI In seguito alle suddette iniziative, sono state presentate alla Camera dei Deputati due Proposte di Legge per la riabilitazione dei circa 350 soldati italiani fucilati in seguito a sentenze di condanna a morte emesse dagli oltre cento Tribunali Militari di Guerra, in gran parte Straordinari, e dei soldati uccisi “da mano amica”, al fronte, con le decimazioni e le esecuzioni sommarie: la prima, è stata presentata il 21 novembre 2014 da 68 Deputati ,in gran parte del PD (Atti Camera n. 2741, primo firmatario l’On. Gian Paolo Scanu, Capogruppo PD nella Commissione Difesa); la seconda Proposta di legge è stata presentata il 14 aprile 2015 da 7 Deputati (Atti Camera n. 3035, primo firmatario l’On. Basilio). Le due Proposte di legge sono state discusse insieme, nella IV Commissione Permanente Difesa della Camera, Presieduta dall’On. Elio Vito (FI), dal 14 aprile 2015 al 13 maggio 2015, quando ha espresso parere favorevole all’approvazione della Proposta in un testo unificato ed ha incaricato il Relatore, l’On. Giorgio Zanin, di riferire oralmente in Aula. La discussione in Aula si è svolta il 20 e 21 maggio, con l’obiettivo di arrivare all’approvazione della Legge prima della ricorrenza del Centenario dell’entrata in guerra del nostro Paese (24 maggio 1915). Il 21 maggio 2015, la Camera dei Deputati ha approvato, con 331 favorevoli, nessun contrario ed un astenuto, in prima lettura la Legge per la “riabilitazione” dei soldati italiani condannati a morte per alcuni gravi reati previsti dal Codice Penale dell’Esercito, approvato con il Regio Decreto 28 novembre 1869. Il testo di Legge ora passa al Senato e speriamo che sia approvato definitivamente prima del 4 novembre, anniversario della fine della Grande Guerra, in modo da restituire ai nostri soldati fucilati o “morti per mano amica”, lo status di “caduti in guerra”. LA PROCEDURA PER LA RIABILITAZIONE La Legge prevede due diverse procedure per la riabilitazione. In base all'articolo 1 della Legge, il procedimento per la riabilitazione dei soldati fucilati in seguito a condanna a morte emessa da un Tribunale Militare è affidato al Procuratore Generale Militare presso la Corte Militare d’Appello (con sede a Roma e con competenza su tutto il territorio nazionale), il quale presenta d'ufficio, entro un anno dall’entrata in vigore della Legge, la richiesta al Tribunale Militare di Sorveglianza competente (in base al luogo di residenza dei militari condannati a morte). I reati gravi, che hanno comportato la condanna a morte dei soldati, e per i quali è possibile la riabilitazione, sono la diserzione, la disobbedienza, l’ammutinamento e la rivolta. Sono invece esclusi dalla riabilitazione i soldati condannati a morte per i reati comuni di omicidio, saccheggio, violenza sessuale e spionaggio. La riabilitazione è dichiarata, “ a seguito di autonoma valutazione”, dal Tribunale Militare di Sorveglianza ed estingue le “pene accessorie”, sia civili che militari, come la degradazione, cioè la perdita del grado militare ricoperto. Invece, per i soldati uccisi “per mano amica”, in forza dell’art. 40 del Codice Penale dell’Esercito (mediante le “esecuzione sommarie”) o in base alla Circolare n. 2910 del 1 novembre 1916 (mediante le “decimazioni”), la Legge prevede, all’art. 2, 1° Comma, che i loro nomi siano inseriti, ”su istanza di parte” (la “parte” può essere, oltre ad un familiare del soldato fucilato, anche il Comune di nascita del soldato) “nell’Albo d’oro del Commissariato Generale per le onoranze ai caduti” e nel contempo “è data comunicazione al Comune di nascita del militare per la pubblicazione nell’albo comunale”. La Legge, inoltre, prevede, in base all’art. 2, 2° Comma, che “in un'ala del Complesso del Vittoriano”, a Roma (cioè il cosiddetto Monumento al Milite Ignoto), sia posta una “targa in bronzo”, con la quale la Repubblica manifesti “la volontà di chiedere il perdono dei militari caduti, che hanno conseguito la riabilitazione”. In base al 3° Comma, il testo inciso sulla “targa in bronzo” sarà scelto in base ad un Concorso nazionale, indetto dal MIUR e riservato agli Studenti delle Scuole Secondarie di Secondo Grado (le Scuole Superiori). Il testo sarà anche esposto “con adeguata collocazione, in tutti i Sacrari militari”. Inoltre, l’art. 2, 4° Comma, della Legge dispone la “piena fruibilità” degli archivi delle Forze Armate e dell’Arma dei Carabinieri per tutti gli atti, relativi “alle fucilazioni ed alle decimazioni”, che non siano già stati versati agli Archivi di Stato, in modo da fare piena luce sui tragici fatti delle decimazioni, delle esecuzioni sommarie, anche da parte dei Superiori, compiuti andando oltre i casi previsti dal Codice penale Militare, come affermò la specifica Commissione di inchiesta nel 1919. Infine, l’art. 3 della Legge dispone che il Comitato tecnico-scientifico per la promozione di iniziative di studio e ricerca sul tema del “fattore umano” nella Prima Guerra Mondiale, istituito dal Ministero della Difesa con Decreto 16 ottobre 2014, pubblichi i propri lavori in modo da assicurarne la “massima divulgazione”. ALCUNE RIFLESSIONI SULLA LEGGE L’aspetto più discutibile della Legge è il fatto che la Riabilitazione dei soldati fucilati sia disposta, in base all’art. 1, 3° Comma, dal Tribunale Militare di Sorveglianza a seguito di una sua “autonoma valutazione”, caso per caso. Nelle due Proposte di Legge non era prevista questa “autonoma valutazione” da parte del Tribunale Militare di Sorveglianza, che pertanto doveva accogliere e ratificare la richiesta di riabilitazione presentata dal Procuratore Generale Militare presso la Corte Militare d’Appello. In verità, la 1˚ Commissione Permanente della Camera (Affari Costituzionali) nell’esprimere il parere favorevole sulla Proposta di Legge n. 2741 aveva chiesto alla Commissione Difesa di valutare “l’opportunità di definire… i presupposti su cui il Tribunale Militare di Sorveglianza fonda la decisione sulla richiesta di riabilitazione e di chiarire in particolare se la riabilitazione consegua al verificarsi del presupposto della condanna alla pena capitale per i reati previsti o se il Tribunale possa effettuare un’autonoma valutazione”. Speriamo, pertanto, che la “autonoma va- 29 lutazione” da parte del Tribunale Militare di Sorveglianza, che dovrà accertare caso per caso i presupposti per la concessione della riabilitazione, non comporti un “esame puntiglioso” degli atti processuali (in caso di sentenza di condanna a morte, in seguito ad un processo) o dei documenti comunque trovati sul “singolo caso” (che sono molto rari nel caso di esecuzione sommaria o di decimazione), magari per non sconfessare l’operato dei Tribunali Militari dell’epoca e dei Comandanti militari, con la conseguenza di negare in parecchi casi la riabilitazione. Se questo dovesse accadere, sarà snaturato lo “spirito” della Legge, approvata all’unanimità (con una sola astensione) dalla Camera dei Deputati il 21 maggio 2015. In quel caso, sarebbe stato meglio disporre con Legge il “perdono” o la “riabilitazione militare”, a tutti i soldati caduti “per mano amica”, come hanno fatto nei Paesi anglosassoni ed in Francia,eccettuati i casi di condanna morte per la commissione di reati comuni (omicidio, stupro...). Un altro aspetto importante di riflessione riguarda le funzioni del Comitato tecnicoscientifico per la promozione di iniziative di studio e di ricerca sul tema del “fattore umano” nella prima Guerra Mondiale, istituito dal Ministero della Difesa con il Decreto 16 ottobre 2014, che in base all’art. 3, semplicemente “promuove la pubblicazione dei propri lavori, in forme che assicurino la massima divulgazione”. Invece, secondo l’art. 1, 1° Comma, della Proposta di Legge n. 3935, non recepito dalla Legge, il suddetto Comitato aveva il compito di predisporre “entro sei mesi dall’entrata in vigore della Legge, una Relazione sulla pena di morte irrogata al personale militare durante il conflitto, nonché sui casi di decimazioni e di esecuzioni sommarie verificatisi durante le operazioni belliche”. Inoltre, non è stata recepita nella Legge la previsione dell’art.1, 3° Comma, della Proposta di Legge 3035, secondo il quale “Ogni cittadino … può inviare al (suddetto) Comitato relazioni, richieste e materiali utili alla ricostruzione degli eventi”. Inoltre, appare singolare la previsione dell’art.2,1°Comma, della Legge ( presente in verità anche nelle due Proposte di Legge) che i “nomi dei militari… fucilati… ( in seguito a “esecuzioni sommarie” o a decimazioni”) sono inseriti,su istanza di parte presentata al Ministro della Difesa, nell’Albo d’oro del Commissariato Generale per le onoranze ai caduti “. Perché si richiede la “istanza di parte”? Non era meglio inserire automaticamente i nomi dei soldati fucilati e riabilitati “nell’Albo d’Oro”, senza fare nessuna richiesta al Ministero della Difesa? Inoltre, sarebbe stato opportuno prevedere espressamente, all’art. 2, 1° Comma, l’obbligo per i Comuni, ai quali sono comunicati i nomi dei caduti riabilitati, di inserire i loro nomi, se non presenti, nelle lapidi e nei monumenti commemorativi dei caduti della Grande Guerra, posti soprattutto nei cosiddetti Viali e nei Parchi della Rimembranza, creati nei Comuni all’inizio degli anni Venti. Infine, sarebbe stato opportuno stabilire all’art. 2, 4° Comma, della Legge che il Governo non può porre il “segreto militare o di Stato”, come era previsto dalla Proposta di Legge n. 3035, sugli archivi delle Forze Armate e dell’Arma dei Carabinieri, per fare piena luce sulle decimazioni e sulle esecuzioni sommarie. Noi Noi ANPPIA NAZIONALE BOLOGNA La nostra Biblioteca UNA STAFFETTA 70 ANNI DOPO: IO CI SARÒ 30 Memorie della compagna Gabriella Zocca Nel Novembre 2012 la Biblioteca dell’ANPPIA risultava essere una raccolta di volumi e periodici totalmente disorganizzata; priva, cioè, di un qualsiasi catalogo, informatizzato e non, e di una razionale e strutturata collocazione fisica dei documenti. Nel marzo 2013 ha preso avvio il progetto per l’apertura al pubblico della Biblioteca, volto a rendere possibile la fruibilità di circa 5000 testi – tra monografie e riviste - di cui l’Associazione dispone. Con l’avvio del menzionato progetto la Biblioteca è entrata a far parte del Sistema Bibliotecario Nazionale, facendo capo al Polo degli Istituti Culturali di Roma. Durante il corso dell’anno 2014 si è provveduto alla catalogazione dei documenti ed alla loro corretta collocazione fisica. Inoltre, a seguito di un atto di liberalità operato dalla Biblioteca di Storia Moderna e Contemporanea di Roma, trovano collocazione nella struttura diversi volumi specializzati sulla Russia del Professor Andrea Graziosi. Il progressivo arricchimento del patrimonio librario della Biblioteca è avvenuto anche grazie all’interessamento di personaggi cari all’ANPPIA: merita, al riguardo, di essere menzionata la generosa e cospicua donazione di testi sulla Resistenza e sull’antifascismo del dott. Tullio Migliori di Roma, nel giugno 2015. Per accogliere questo numero sensibilmente maggiore di libri la terza stanza dell’appartamento ove è ubicata la Biblioteca è stata riorganizzata ed ampliata mediante la sistemazione di tre scaffalature che ne hanno permesso una più razionale disposizione. Grazie al patrimonio librario posseduto dalla Biblioteca, è stato possibile avviare una serie di attività volte a diffondere e a rendere maggiormente conoscibile la storia dell’antifascismo italiano. Degni di nota, in proposito, sono anche le collaborazioni con gli Istituti delle scuole medie e superiori italiane. Merita a riguardo di essere ricordato l’ausilio fornito ai ragazzi dell’Istituto Allende di Paderno Dugnano nella ricerca sulla figura di Fernanda Wittgens, volta alla realizzazione di una rappresentazione teatrale. È attualmente in essere, inoltre, un progetto finalizzato alla donazione a diversi Istituti Superiori romani di testi di agevole consultazione che mirano ad una sempre viva memoria della nostra storia. Al momento si sta lavorando all’aggiornamento del catalogo on line (OPAC) attraverso la revisione dell’inventario e la catalogazione di ogni singolo volume tramite soggettazione, classificazione Dewey, collocazione e sistemazione fisica dei singoli documenti. Il catalogo della Biblioteca è consultabile quindi on line e dal sito internet dell’Associazione è inoltre possibile effettuare ricerche bibliografiche, mediante la consultazione degli strumenti di ricerca informatizzati. È infine possibile interagire via e-mail con il personale ([email protected]), suggerendo acquisti o formulando proposte. Comunicazione Urgente ANPPIA di Roma L’ ANPPIA Provinciale di Roma (Associazione Nazionale Perseguitati Politici e Razziali) informa che nell’assolvimento del proprio compito istituzionale volto a far ottenere ai propri iscritti il c.d. assegno di benemerenza, richiede agli interessati esclusivamente quanto segue: - iscrizione all’associazione - un contributo pari a 50 euro al momento dell’istruttoria della pratica - un rimborso spese forfetario, solo ad assegno ottenuto, di 200 euro. Di recente abbiamo celebrato il 70° anniversario della RESISTENZA con molte e sentite manifestazioni. È stata veramente una bellissima mobilitazione popolare. Ma ora? Sono davanti allo specchio e mi interrogo: quella vecchia e malandata che mi guarda si chiede se vale la pena di continuare, con tanta fatica, a portare la nostra presenza di ex-Partigiani nelle scuole, nei cortei, nelle manifestazioni, in una società che sta distruggendo le cose che avevamo faticosamente costruito. Alla fine del conflitto, alla fine della Resistenza combattuta, certi che il fascismo era stato debellato “per sempre”, avevamo salutato i compagni di brigata e ci eravamo buttati a corpo morto nella costruzione delle istituzioni democratiche, nonché nella ricostruzione di un’Italia distrutta materialmente e moralmente. Con la forza della nostra giovinezza colma di certezze. Nei momenti di tregua, in Brigata, avevamo a lungo e animatamente discusso su cosa, e come, avremmo dovuto fare “dopo”. Le parole democrazia e libertà erano sconosciute perché il fascismo le aveva trasformate in strumenti di persecuzione. Noi le avevamo issate a bandiera e volevamo collocarle nell’effettiva vita politica. Come? I partiti politici erano già costituiti ed erano molto importanti nell’organizzazione della Resistenza, ma erano “partiti di guerra”. Ma nella pace? Soprattutto, noi eravamo sicuri di costruire un mondo libero e migliore. Ci buttammo nella mischia: organizzammo i contadini, i braccianti, i lavoratori che nelle fabbriche cercavano di ripartire anche con le macchine che avevano nascoste, salvandole dalle razzie dei Tedeschi. Avevamo scoperto che i sindacati non erano il male che ci propinava il fascismo, ma organizzazioni di lavoratori liberi. A Bologna, sotto la guida di Onorato Malaguti, un gruppo di giovani che venivano dalla Resistenza o che avevano aderito dopo, costituirono la sede locale della CGIL. I “Gruppi di difesa della donna”, che tante eroine avevano dato alla Resistenza (a Bologna 128 cadute) confluirono nell’importante organizzazione UDI, che si è battuta a lungo per l’affermazione dei diritti delle donne. Ma c’era – soprattutto – tanto da lavorare: montagne di macerie da rimuovere, le case e le fabbriche da ricostruire. Soprattutto c’era da creare la “società Italia”, nella democrazia e nella libertà: così nac- que la nostra bella Costituzione. Perché ci eravamo liberati subito delle scorie del fascismo. Furono anni difficili, molto difficili, impegnativi e tali da impedire una serena vita privata. Ma il fascismo, la reazione, non erano affatto debellati. Erano “acquattati” e in attesa di strisciare alla riconquista del potere. Anche se in modo meno “marziale”. La reazione alle nostre azioni è sempre stata durissima ed è costata vittime. La polizia ci inseguiva nelle piazze. A questo punto i Partigiani uniti nell’ANPI – che accoglie anche gli antifascisti – hanno capito di dover dare un impulso importante alla riproposizione pubblica degli ideali per i quali avevano combattuto e per i quali tanti compagni erano morti. Attività molto impegnativa: abbiamo portato la nostra parola per la difesa della democrazia e della Costituzione e per non ritrovare quel mondo terribile che avevamo vissuto nella nostra giovinezza. Siamo andati - e tutt’ora andiamo – nelle scuole, nelle organizzazioni politiche, nelle strade, ovunque qualcuno era disposto ad ascoltarci. Noi c’eravamo, noi ci siamo. Ma oggi mi guardo intorno e mi chiedo se vale la pena di consumare le nostre ultime energie, e soprattutto se serve, in una società che demolisce pezzo per pezzo la nostra Costituzione; confonde la direzione delle Istituzioni politiche e amministrative con il diritto ad intrallazzare e rubare, creando una società dove solo il “danaro”, anche rubato senza vergogna, è importante; le bande più o meno mafiose imperversano e comandano; i cittadini, delusi, rinunciano a votare, lasciando ancora più spazio alla ragione del malessere. Purtroppo il tempo passa e siamo rimasti in pochi, e molti tra i pochi sono limitati dalle malattie. Contro il malessere diffuso e i tentativi di revanscismo, noi proponiamo – ora e sempre – un progetto di società democratica e giusta, non schiava del dio denaro e della violenza. L’immagine dello specchio mi ricorda che, in fondo, sono una nonna e le nonne hanno il dovere di offrire saggezza e indicare le strade dell’avvenire. Pertanto: fino a quando una classe scolastica mi chiama e mi ascolta, fino a quando un pubblico mi ascolta quando parlo, io ci sarò. Perché ci ho creduto e ci credo. - nessuna percentuale sugli arretrati o sulle mensilità così ottenute viene richiesta. Per maggiori informazioni potete contattare l’Associazione al numero 06.6896959 (gli uffici sono aperti il martedì e il giovedì dalle ore 9:30 alle 13:30) o scrivere all’indirizzo di posta elettronica [email protected]. SOTTOSCRIZIONI: QUEL 25 LUGLIO E GARIBALDO Sono quattro mesi che ci ha lasciato Garibaldo Benifei, persona amata da tutti coloro che lo hanno conosciuto, stimato per non aver mai rinunciato ai suoi ideali di pace, uguaglianza e solidarietà. Per la sua storia di antifascista e perseguitato politico teneva molto alle celebrazioni del 25 luglio, la data in cui Mussolini perse il potere e di fatto iniziò la fine del fascismo. Il 25 luglio rappresentò quindi per gli antifascisti senz'altro una rottura e ne abbiamo prova leggendp, ad esempio, i rapporti di polizia che descrivono una situazione fuori controllo sia nel Paese ma sopratutto nelle fabbriche, nei luoghi di lavoro, negli uffici pubblici, dove ogni rapporto gerarchico fondato sull'autorità e la fedeltà al regime saltò. Vogliamo ricordare quindi del 25 luglio come gli italiani abbiano iniziato un percorso difficile e pieno di sofferenze per riappropriarsi della democrazia e della libertà. Questo è quello che voleva sempre ricordare Garibaldo Benifei, e noi con lui. Questo discorso non arriva mai ad un compimento definitivo, ma sempre ha nuove mete da raggiungere e nuovi nemici con cui misurarsi. 31 Noi LIVORNO 25 Luglio: per la pace di ieri e per la pace di oggi di Mauro NENCIATI Il 25 Luglio per l’Anppia di Livorno assume da sempre un particolare significato, e quest’anno ancora di più: sono infatti 3 mesi che ci ha lasciato Garibaldo Benifei, nostro Presidente e Presidente Onorario Nazionale dell’Associazione Nazionale Perseguitati Politici Italiani Antifascisti. Garibaldo, persona amata da tutti coloro che lo hanno conosciuto e stimato per non aver mai rinunciato ai suoi ideali di Pace, Uguaglianza e Solidarietà per cui il regime lo aveva condannato a sette anni di carcere per la sua attività di antifascista e comunista, teneva particolarmente alla celebrazione, che abbiamo sempre fatto, del 25 luglio: la data in cui Mussolini perse il potere e di fatto iniziò la fine del fascismo. Certo, la libertà e la Democrazia in Italia furono raggiunte solo quasi due anni dopo con la lotta di Liberazione e la Resistenza, a prezzo di migliaia di morti ed innumerevoli distruzioni, ma la caduta di Mussolini fu immediatamente percepita dal Paese per quello che significava, la fine di un’epoca o meglio di un incubo. Ci furono immediatamente manifestazioni spontanee in moltissimi centri in cui si inneggiava al ritorno della libertà ed anche la stampa nazionale, nel riferire la notizia dell’arresto del duce, in quei primi giorni si mosse secondo la stessa lunghezza d’onda. La popolazione, a Roma ed in altre città, dimostrò davanti alle prigioni reclamando la liberazione dei detenuti politici. Il tribunale speciale, che aveva comminato centinaia di ergastoli con migliaia di anni di galera e sentenze di morte, era decaduto e così poterono tornare alle loro famiglie tutti coloro che erano stati imprigionati, anche se spesso fu solo una felice ma breve parentesi Mensile dell’ANPPIA prima di scomparire per partecipare alla lotta partigiana: così fu per molti livornesi di cui Associazione Nazionale Perseguitati ricordiamo tra tutti Benifei, Conti, Raugi, Giachini, Geppetti, Nenciati. Politici Italiani Antifascisti Ma il 25 luglio rappresentò senz’altro una rottura e ne abbiamo prova leggendo, ad esempio, i rapporti di polizia che descrivono, con estrema preoccupazione, una situazione fuori Direttore Responsabile: controllo sia nel Paese ma soprattutto nelle fabbriche dove ogni rapporto gerarchico fonLuigi Francesco Morrone dato sull’autorità e sulla fedeltà al regime è saltato: “Dall'epoca dell'assunzione del nuovo Governo e conseguente scioglimento del partito fascista, e soprattutto per la campagna In Redazione: svolta nei primi giorni dalla stampa di Milano che inneggiava alla riacquistata libertà, nelMaurizio Galli la massa operaia è subentrata la convinzione di poter fare il proprio comodo… i dirigenti degli stessi stabilimenti per essere già in vista durante il cessato regime fascista, non riSEDE: scuotono la fiducia dei dipendenti, i quali ne profittano per fare il proprio comodo con preCorsia Agonale, 10 – 00186 Roma giudizio della produzione” (Regia Questura di Livorno 16 Agosto 1943 N° 09398 Div. Gab.) Tel 06 6869415 Fax 06 68806431 Vogliamo ricordare del 25 luglio proprio questo, per come allora gli italiani abbiano iniwww.anppia.it ziato un percorso, difficile e pieno di sofferenze, per riappropriarsi della democrazia e, [email protected] in definitiva, della propria sorte, della propria storia. Questo è quello che voleva sempre ricordare Garibaldo Benifei e noi con lui. Ma Garibaldo, insieme a sua moglie Osmana, ci HANNO COLLABORATO A ha sempre spinto anche a considerare questo come un percorso che non arriva mai ad un QUESTO NUMERO: compimento definitivo e che ha sempre nuove mete da raggiungere e nuovi nemici con cui misurarsi. Guardiamo, ad esempio, a quello che sta accadendo proprio in questi giorni in Roberto Cenati, Giuseppe Cisterna, Europa, con le vicissitudini delle popolazioni ed i diktat di certi organismi internazionali, Nicola Corda, Antonio Duva, una vicenda che ha portato alla ribalta e posto in discussione politiche economiche che Claudio Fano, Saverio Ferrari, stanno mostrando limiti e difficoltà. Queste vicende ci spingono a richiamare con forza la Giorgio Galli, Maurizio Galli, necessità di ricordare, oggi più che mai, come la Democrazia e la dignità dei popoli siano Giorgio Giannini, Mauro Nenciati, i valori primari, valori con i quali chiunque deve confrontarsi “a priori”. Martina Parodi, Claudia Scorza, È con questo doppio ricordo, di Garibaldo e del 25 luglio, e con la necessità di alimentare Filippo Senatore, Carlo Tognoli, la memoria e di guardare alle sfide che verranno, che quest'anno siamo tornati a celebrare Alessandro Vecchi, Elisabetta Villaggio, questa ricorrenza. Lo abbiamo fatto in forma più “sommessa” di altre volte deponendo Gabriella Zocca una corona al Monumento degli Antifascisti e dei Perseguitati Politici della nostra città, ma lo abbiamo fatto con lo spirito di chi vuole onorare con forza le idee e l'esempio di chi TIPOGRAFIA ci ha preceduto e di chi ha lottato per donarci la libertà e la democrazia. Graffietti Stampati l’antifascista PROGETTO GRAFICO Marco Egizi www.3industries.org Prezzo a copia: 2 euro Abbonamento annuo: 15,00 euro Sostenitore: da 20,00 euro Ccp n. 36323004 intestato a l’antifascista Chiuso in redazione il: 2015 finito di stampare il: 2015 Registrazione al Tribunale di Roma n. 3925 del 13.05.1954