METODI DI STIMA DELL’IMPATTO DEL COMMERCIO INTERNAZIONALE SUL MERCATO DEL LAVORO Giuliana Caponera Centro Studi Confindustria Viale dell’Astronomia 30 00144 Roma Tel (06) 5903681 E-mail: [email protected] Abstract The growth of international trade has strengthened the connection between the labour markets of developed countries and those of emerging countries. Some analysts have suggested that in industrial economies globalisation may have been adversely affecting unskilled workers, reducing their wages and their level of employment. In order to obtain a reliable assessment of the impact of international trade on the labour market, it is necessary a methodological approach based on clearly defined and empirically verifiable economic relationships. The aim of this paper is to provide a complete overview of the methods proposed in the literature, in order to highlight their shortcomings and evaluate how such drawbacks make empirical results often unreliable. Keywords: International Trade and the Labour Market, Trade and Jobs. JEL Classification: F16. Indice 1. Introduzione………………………………………….…... 2. Il canale dei prezzi………………………………………... 2.1. I limiti dell’analisi attraverso il canale dei prezzi…….... 2.1.1. Il commercio intraindustriale…………………………. 2.1.2. La mobilità del capitale………………………….….. 2.1.3. Altri fattori che contribuiscono alla determinazione dei prezzi dei beni……………………………….….. 2.1.4. Disponibilità di dati………………………………… 3. Il canale delle quantità e il metodo del “factor content of trade”….…………………………………………….……. 3.1. Una versione modificata del “factor content”…………... 3.2. I limiti del metodo…………………………………... 3.2.1. La relazione tra “factor content” e prezzi dei fattori…………………………………………….... 3.2.2. Volume del commercio e gap salariale………………….. 3.2.3. La pressione concorrenziale……………………..…….. 3.2.4. Le determinanti del factor content………………….. 4. Un confronto tra i due metodi di analisi…………………... 5. Stima dell’impatto del trade sul mercato del lavoro attraverso le tavole delle interdipendenze settoriali………... 6. Osservazioni conclusive…………………………………... 5 6 8 8 10 11 12 12 14 17 17 18 20 20 21 23 24 1. Introduzione Dalla fine degli anni Settanta i mercati del lavoro dei paesi dell’Ocse sono stati caratterizzati da preoccupanti fenomeni di deterioramento: aumento della disoccupazione in Europa, rallentamento della crescita dei salari reali medi negli Stati Uniti e generale peggioramento della posizione relativa dei lavoratori c.d. lowskilled. Nello stesso periodo le economie dell’area industrializzata hanno fatto registrare considerevoli aumenti del grado di apertura commerciale, intensificando soprattutto gli scambi con i paesi emergenti. La forte accelerazione che entrambi gli eventi hanno mostrato nel corso degli anni Ottanta ha stimolato un’intensa attività di ricerca volta ad analizzare le interconnessioni tra i due fenomeni. I formidabili ritmi di crescita mostrati negli anni più recenti da alcune economie emergenti – tra le quali soprattutto quella cinese hanno contribuito ad aggiungere nuova enfasi alla questione, attirando l’attenzione sulle prospettive di de-industrializzazione che, nei paesi sviluppati, potrebbero aprirsi a interi ambiti merceologici, in ragione della crescente concorrenza sui prezzi subita sia sul loro territorio che sui loro mercati di destinazione. Per poter effettuare una stima dell’impatto del commercio estero sulle variabili del mercato del lavoro è necessario individuare il canale attraverso il quale i flussi commerciali agiscono su salari e occupazione. Su questo punto la letteratura si divide in due grandi filoni di analisi. Da una parte gli studiosi di economia internazionale spiegano gli effetti del commercio estero sul mercato del lavoro attraverso le variazioni che il trade produce nei prezzi dei manufatti scambiati sui mercati internazionali. Dall’altra parte gli studiosi di economia del lavoro focalizzano la loro attenzione sull’effetto prodotto sul mercato del lavoro da variazioni del volume del commercio, e quindi delle quantità dei beni scambiati. Tra i due filoni di analisi si è svolto un acceso dibattito, che ha condotto al delinearsi di due differenti metodologie di stima dell’impatto del commercio estero sul mercato del lavoro: una che utilizza il canale dei prezzi, l’altra che utilizza quello delle quantità. Nonostante la differente 5 procedura di analisi adottata, i due diversi orientamenti finiscono per produrre risultati molto simili: in entrambi i casi l’incidenza degli scambi internazionali sulla struttura e sull’andamento del mercato del lavoro appare molto limitata. Scopo di questa nota è fornire un’analisi dettagliata dei principali metodi di stima dell’impatto del trade sul mercato del lavoro1, evidenziando i loro limiti e sottolineando come questi suggeriscano prudenza nell’interpretare le stime ottenute. 2. Il canale dei prezzi Gli studi volti ad analizzare l’influenza del commercio estero su salari e occupazione attraverso le variazioni dei prezzi dei beni scambiati nei mercati internazionali affondano le loro radici nella “teoria ortodossa”, e in particolare nel teorema di Heckscher-OhlinStolper-Samuelson (HOSS). Il teorema di Heckscher-Ohlin spiega il commercio internazionale sulla base delle differenze nelle dotazioni fattoriali dei paesi che partecipano allo scambio; così, in un semplice modello a due beni, due paesi e due fattori produttivi, dove si suppone identità di gusti e tecnologia tra i due paesi, si dimostra che ciascun paese esporterà il bene la cui produzione richiede un impiego relativamente più intenso del fattore di cui il paese ha una dotazione relativamente più abbondante, mentre importerà quello intensivo del fattore relativamente scarso. Il teorema di Stolper-Samuelson si occupa invece della relazione tra prezzi dei beni e prezzi dei fattori e, sempre considerando uno scenario a due beni, due paesi e due fattori produttivi, stabilisce che se il prezzo di un bene aumenta (per qualsiasi ragione), allora la remunerazione reale del fattore usato in maniera più intensiva nella produzione di quel bene aumenterà, mentre diminuirà la remunerazione reale dell’altro fattore. Poiché l’apertura commerciale determina un aumento della domanda e quindi del prezzo del bene 1 Per un quadro sinottico dei lavori esaminati in questo studio cfr. tabella A.1 in Appendice. 6 esportato, e poiché ciascun paese esporta il bene intensivo del fattore di cui ha un’abbondanza relativa, il libero commercio dovrebbe determinare un miglioramento del prezzo relativo del fattore abbondante in un paese; il contrario avverrà invece per l’altro fattore. L’intuizione sottostante a questo modello è che il commercio internazionale produca una variazione dei prezzi dei prodotti nei vari paesi, che a sua volta si rifletterà sul prezzo dei fattori di produzione all’interno di ciascuno, influenzandone la domanda relativa. Applicando questo schema di analisi al commercio tra “Nord” e “Sud” del mondo (ossia fra area sviluppata e area in via di sviluppo) e supponendo che i due fattori produttivi siano il lavoro c.d. skilled, abbondante a Nord, e quello unskilled, del quale è invece ricco il Sud, si suppone che il Nord esporterà beni ad alto contenuto di lavoro skilled e importerà invece quelli intensivi di lavoro unskilled. Ciò determinerà a Nord una riduzione del prezzo relativo dei beni nonskill-intensive (sostituti di quelli importati), in risposta alla quale si avrà una caduta del salario relativo dei lavoratori con basse qualifiche. L’aumentata convenienza relativa nell’utilizzo di lavoro unskilled dovrebbe indurre ciascun settore produttivo ad aumentare il rapporto tra unskilled e skilled impiegati2. Esattamente l’opposto si realizzerà a Sud. L’obiettivo degli autori3 che partono da queste premesse di analisi è quello di definire se e in che misura il commercio internazionale sia responsabile degli squilibri nei mercati del lavoro delle economie industriali, valutando, sulla base dei meccanismi di aggiustamento descritti dalla teoria ortodossa, l’effettiva coerenza degli andamenti dei prezzi relativi dei beni con gli sviluppi osservati dei livelli salariali e occupazionali. E’ importante ricordare che si sta descrivendo uno scenario neoclassico, nel quale quindi la flessibilità di prezzi e salari è in grado di riportare il sistema economico al livello di pieno impiego dei fattori (tasso naturale di disoccupazione). 3 Lawrence e Slaughter (1993) hanno studiato, sulla base dell’andamento dei prezzi relativi dei beni, l’influenza del commercio estero sui salari relativi e sui salari medi, negli Stati Uniti, per il periodo 1980-1990. Tra gli altri che hanno fornito stime dell’impatto dei flussi commerciali sul mercato del lavoro utilizzando il canale dei prezzi cfr. anche Krugman e Lawrence (1994), Leamer (1994 e 1995). 2 7 Le analisi empiriche complessivamente svolte negano tuttavia l’esistenza di un effetto à la Stolper-Samuelson. Sulla base di questi risultati gli studiosi di economia internazionale sono stati portati a concludere che l’impatto del commercio sul mercato del lavoro è “surprisingly small”, attribuendo piuttosto al progresso tecnologico la responsabilità del peggioramento della posizione relativa dei lavoratori unskilled delle economie industriali. 2.1. I limiti dell’analisi attraverso il canale dei prezzi Le stime empiriche forniscono risultati la cui validità è fortemente condizionata dai molteplici limiti della metodologia di analisi adottata. 2.1.1. Il commercio intraindustriale E’ noto che soltanto il commercio di tipo interindustriale è in grado di alterare la scarsità relativa dei fattori in un paese, creando squilibri sul mercato del lavoro che vengono compensati, in un’ottica neoclassica, da variazioni nei salari relativi e nell’impiego degli stessi fattori. Solo il commercio interindustriale, dunque, determina variazioni dei prezzi dei beni che si traducono in variazioni dei prezzi - e quindi della domanda - dei fattori. E’ evidente, allora, che un’analisi empirica che utilizza il canale dei prezzi per stimare l’impatto del commercio estero sul mercato del lavoro non tiene conto degli effetti indotti su salari e occupazione dai flussi commerciali intraindustriali, che costituiscono una quota rilevante degli scambi. Da ciò segue che questo metodo di analisi rischia di fornire stime ampiamente sottovalutate dell’impatto in questione. Per superare questa difficoltà Slaughter4 ha proposto di valutare l’intensità della pressione del commercio estero sul mercato del lavoro attraverso le variazioni indotte dagli scambi internazionali nell’elasticità della domanda di lavoro, essendo tale elasticità 4 Cfr. Slaughter (1999). 8 influenzata da qualsiasi forma di commercio. Slaughter suppone che il commercio internazionale determini un aumento dell’elasticità della domanda di lavoro, sia attraverso un “effetto output” che attraverso un “effetto sostituzione”. Il primo effetto può essere considerato come un’applicazione di una delle leggi di Hicks-Marshall sulla domanda di fattori, secondo cui: “la domanda di qualsiasi cosa è probabile diventi più elastica, quanto più elastica è la domanda per ciò che essa contribuisce a produrre”5. Poiché il commercio internazionale rende il mercato dell’output più competitivo, facendo così aumentare l’elasticità della domanda di prodotto, esso, sulla base di quanto appena illustrato, dovrebbe essere in grado di produrre anche un aumento dell’elasticità della domanda di lavoro. Per quanto riguarda l’effetto sostituzione il commercio estero renderebbe la domanda di lavoro più elastica, determinando una maggiore sostituibilità del lavoro interno con quello estero. Slaughter considera poi che una domanda di lavoro più elastica implica una maggiore instabilità del mercato del lavoro6. Shock esogeni di domanda di lavoro (causati, ad esempio, da un improvviso aumento o decremento nella produttività del lavoro) provocano risposte più volatili di salari e occupazione. L’apertura dunque amplifica gli effetti di shock esogeni di domanda. E’ evidente come questo possa incidere sull’aumento dell’ineguaglianza salariale: una maggiore apertura commerciale, integrandosi con le fluttuazioni di breve periodo della domanda di lavoro, dovrebbe tradursi in un più ampio gap salariale tra skilled e unskilled e in maggiori shift di occupazione. Ma l’effetto su salari e occupazione non si riduce a questo; bisogna considerare che l’aumentata instabilità del mercato contribuisce di per sé ad abbassare i salari dei lavoratori low-skilled, andando anche in questo modo ad accrescere l’ineguaglianza salariale. Ciò avviene perché i lavoratori con basse qualifiche quando perdono il lavoro si trovano in condizioni decisamente peggiori rispetto agli Cfr. Hicks (1963). Per una rassegna completa delle implicazioni di un aumento nell’elasticità della domanda di lavoro, cfr. Rodrik (1997). 5 6 9 high-skilled: i primi, infatti, sperimentano sia più lunghi periodi di disoccupazione, sia più larghi tagli salariali (rispetto ai guadagni dei precedenti impieghi) al reimpiego7. L’aumento dell’elasticità della domanda di lavoro, rendendo il mercato del lavoro più instabile, darebbe dunque origine ad una via addizionale attraverso la quale la globalizzazione può contribuire all’ampliarsi del gap salariale, che è quella dell’asimmetria nei comportamenti post-dismission tra skilled e unskilled. Sembrerebbe dunque che l’impatto del commercio estero sul mercato del lavoro possa essere colto in modo completo studiando gli effetti che gli scambi internazionali producono sull’elasticità della domanda di lavoro piuttosto che sulla domanda di lavoro di per sé. Sebbene questo metodo presenti rigore logico e coerenza di analisi, la sua applicazione empirica ha in realtà prodotto fin qui risultati molto confusi: le regressioni effettuate dallo stesso Slaughter non consentono di definire in modo chiaro se e in quale direzione il commercio estero agisca sull’elasticità della domanda di lavoro. 2.1.2. La mobilità del capitale Il modello HOSS assume che, a livello internazionale, non esista mobilità dei fattori produttivi, ma soltanto commercio in beni manufatti. Ipotizzando uno scenario più realistico, nel quale tra Nord e Sud del mondo si realizzino spostamenti di capitale, le variazioni dei prezzi dei beni scambiati sui mercati internazionali non sono più un fattore indispensabile affinché l’apertura commerciale influenzi salari e occupazione. 7 Farber (1995) ha stimato che, negli Stati Uniti, un laureato al college ha una probabilità di essere reimpiegato entro una certa data del 18% superiore a quella di un diplomato della high-school. I suoi studi lo hanno anche portato a concludere che un diplomato alla high-school al reimpiego incorre in una perdita salariale di 7 punti percentuali maggiore rispetto a quella di un laureato al college. 10 Supponiamo che a Nord esistano due tipi di industrie manifatturiere: una che usa lavoratori high-skilled e capitale, l’altra che utilizza lavoratori low-skilled e capitale. Il Sud è privo di lavoratori skilled e, inizialmente, anche del capitale necessario per produrre i beni non-skill intensive. Tuttavia, visto il basso livello dei salari a Sud, le imprese del Nord sarebbero incentivate a spostare il capitale a Sud, producendo ad un basso costo del lavoro, per poi riesportare a Nord. Tale fenomeno determinerebbe una caduta a Nord dei salari relativi dei lavoratori con basse qualifiche, ed una crescita delle importazioni di beni non-skill intensive dal Sud. A ciò non seguirebbe però alcuna variazione nell’intensità fattoriale delle produzioni dei due settori, né vi sarebbe alcuna variazione nei prezzi relativi degli output delle due industrie. Dunque la competizione internazionale può influenzare occupazione e salari anche senza shift à la HOSS nei prezzi relativi e nell’intensità fattoriale della produzione dei settori manifatturieri. Osservando i movimenti dei prezzi, quindi, non è possibile cogliere l’impatto dell’apertura commerciale dovuto agli investimenti diretti esteri. 2.1.3. Altri fattori che contribuiscono alla determinazione dei prezzi dei beni I prezzi dei beni scambiati dipendono da un ampio numero di fattori, oltre che dal commercio internazionale. Dunque, anche se i prezzi dei prodotti si muovessero in una direzione tale da confermare quanto previsto in un’ottica à la Stolper-Samuelson, non è detto che le variazioni dei prezzi possano attribuirsi all’aumentata integrazione economica internazionale piuttosto che a fenomeni di altra natura (ad esempio variazioni della domanda interna o cambiamenti tecnologici). Allo stesso modo, fattori interni che influenzino i prezzi dei beni in direzione opposta rispetto al meccanismo Stolper-Samuelson potrebbero ingannevolmente nascondere la stessa esistenza di quest’ultimo. Se da una parte, quindi, nonostante la ristrettezza delle ipotesi alla base della teoria ortodossa, il legame tra prezzi dei beni e 11 prezzi dei fattori appare descritto con coerenza e rigore logico, dall’altra parte non altrettanto può dirsi per la relazione tra flussi commerciali e variazioni dei prezzi dei beni, dal momento che il meccanismo à la HOSS non consente di distinguere quale parte della variazione dei prezzi sia attribuibile al commercio internazionale e quale a fattori di altra natura. 2.1.4. Disponibilità di dati Considerata la scarsa disponibilità di dati relativi agli andamenti dei prezzi dei beni è evidente che, anche volendo considerare la metodologia di calcolo attraverso il canale dei prezzi un buon approccio dal punto di vista teorico, la sua formulazione in termini empirici presenta comunque problemi rilevanti. 3. Il canale delle quantità e il metodo del “factor content of trade” Gli studiosi di economia del lavoro, per quantificare la relazione tra commercio estero e mercato del lavoro, hanno focalizzato la loro attenzione sui volumi dei flussi commerciali e sulle quantità di lavoro in essi incorporate, adottando come strumento di analisi il metodo del “factor content of trade”. Quest’ultimo consiste nel calcolare la quantità di lavoro skilled e unskilled necessaria per produrre i beni esportati e quella che sarebbe stata richiesta se i beni importati fossero stati prodotti all’interno. L’effetto netto del commercio è poi ottenuto come differenza tra il contenuto fattoriale di esportazioni e importazioni, laddove le esportazioni rendono l’offerta interna dei fattori in esse incorporati più scarsa, mentre il contrario avviene per le importazioni. Nell’ambito di un commercio Nord-Sud si suppone che il Nord importi beni intensivi di lavoro low-skilled, esportando, invece, prodotti intensivi di lavoro altamente qualificato; il contrario dovrebbe realizzarsi per il Sud. Così, i flussi commerciali 12 internazionali, alterando la scarsità relativa delle dotazioni dei fattori nei paesi coinvolti nello scambio, provocheranno variazioni dei livelli salariali: nel Nord dovrebbe ridursi il salario relativo del lavoro unskilled, divenuto più abbondante, ed aumentare quello del lavoro skilled, divenuto invece più scarso. Con il metodo del contenuto fattoriale degli scambi i flussi di esportazioni e importazioni vengono trasformati in unità equivalenti di lavoro sulla base del fabbisogno diretto di input di lavoro osservato nei vari settori manifatturieri. Il calcolo del contenuto fattoriale delle esportazioni è effettuato considerando il fabbisogno diretto di input osservato nelle industrie manifatturiere che producono i beni esportati. Le importazioni, invece, sono tradotte in unità equivalenti di lavoro skilled e unskilled sulla base delle quantità di fattori richieste dalle imprese interne che producono beni simili a quelli importati. Indicando, per un generico settore j, con Xj le esportazioni, Mj le importazioni, Qj la produzione e Nj gli occupati, la domanda di lavoro settoriale “contenuta” nell’interscambio con l’estero sarà data da: Dj = ( Xj – Mj )*(Nj/Qj) Dove se Dj>0 il settore presenta un saldo attivo, mentre se Dj<0 si avrà un saldo passivo8. Applicando questa metodologia, più studi empirici9 hanno evidenziato una bassa incidenza dei flussi commerciali sull’occupazione e soprattutto sui salari. Per una formalizzazione, cfr. de Nardis e Paternò (1997). Borjas, Freeman e Katz (1991) hanno stimato la quantità di lavoro, distinto in base al livello di istruzione, contenuta nelle esportazioni e nelle importazioni del settore manifatturiero statunitense. Il loro studio si basa sull’analisi degli effetti sia del commercio internazionale che dell’aumentato flusso di immigrazioni, per il periodo 1980-87. Sachs e Shatz (1994) ipotizzano invece uno scenario controfattuale in cui la penetrazione delle importazioni manifatturiere negli Stati Uniti è considerata una quota costante della domanda finale tra il 1978 ed il 1990. Così, l’aumento di occupazione che si avrebbe ipotizzando un’import penetration invariata rappresenta la perdita netta di occupazione dovuta al commercio. 8 9 13 3.1. Una versione modificata del “factor content” Wood ha in più occasioni10 osservato come il metodo del contenuto fattoriale convenzionale contenga nell’applicazione un’assunzione assolutamente fuorviante, che conduce a una sottostima dell’effetto sul mercato del lavoro dovuto al commercio. L’errore è relativo al calcolo del contenuto fattoriale delle importazioni, e deriva dall’assunzione che le importazioni di manufatti dal Sud competano con beni assolutamente identici prodotti a Nord. Sulla base di tale assunzione il contenuto fattoriale delle importazioni provenienti dal Sud viene stimato considerando il fabbisogno di input delle industrie del Nord che producono beni appartenenti alla stessa categoria statistica di quelli importati. In realtà, le importazioni di entrambi i gruppi di paesi sono, per usare un termine à la Wood, non-competing. I beni importati sia dal Nord che dal Sud, pur appartenendo alla stessa categoria statistica di quelli prodotti all’interno, se ne differenziano, in realtà, per intensità fattoriale11: le importazioni provenienti dal Sud avranno in particolare un contenuto di lavoro low-skilled sicuramente superiore rispetto a quello di beni appartenenti alla stessa categoria statistica ma prodotti a Nord. Il metodo convenzionale del contenuto fattoriale, non prendendo in considerazione questo aspetto, finisce per sottostimare l’impatto del commercio sul mercato del lavoro, poiché sottovaluta il contenuto di lavoro unskilled dei flussi commerciali da Sud a Nord, così come evidentemente quello di lavoro skilled dei flussi da Nord a Sud. Cfr. Wood (1991, 1994, 1995, 1997, 1998). Wood, considerando nella sua critica il commercio tra Nord e Sud del mondo, fa riferimento a due economie le cui dotazioni di fattori produttivi differiscono notevolmente; il problema è meno rilevante quando invece si considera l’interscambio tra due economie simili. Si suppone cioè che la differenziazione verticale dei flussi commerciali intraindustriali sia meno accentuata nel caso di commercio tra paesi con simili dotazioni fattoriali e simili livelli di reddito. 10 11 14 Il tentativo di correggere questo errore di misura, individuando quali importazioni possano considerarsi non-competing e fornendo quindi un nuovo metodo di stima del loro contenuto fattoriale, è fallito, in virtù della scarsa disponibilità di dati altamente disaggregati, necessari per individuare le importazioni non-competing. Wood suggerisce un’approssimazione, considerando tutte le importazioni non-competing, e propone di calcolare il loro contenuto fattoriale sulla base dei coefficienti degli input dei fattori produttivi osservati nel paese partner commerciale che ha prodotto le importazioni noncompeting; in questo modo si tiene conto del paniere di beni che effettivamente bisogna considerare quando si calcola la quantità di fattori che sarebbe stata necessaria per produrre internamente i beni importati12. La correzione è dunque appropriata, ma non ancora completa. Una simile stima del contenuto fattoriale delle importazioni suppone implicitamente che la produzione interna utilizzi esattamente lo stesso mix di fattori produttivi usato nel paese partner commerciale. Ciò non appare plausibile, visto che Nord e Sud sono caratterizzati da dotazioni fattoriali profondamente differenti e quindi anche da differenti prezzi dei fattori, che indurranno le imprese dei due gruppi di paesi a scegliere tecniche diverse per produrre lo stesso bene13. Wood risolve questa imprecisione aggiustando il coefficiente delle esportazioni del paese partner commerciale per i prezzi interni dei fattori, così da individuare il set di fattori che risulterebbe più conveniente adottare se le importazioni non-competing dovessero essere prodotte internamente. Si deve però considerare che, se i beni usualmente importati dovessero essere prodotti internamente, questi avrebbero un prezzo superiore e, di conseguenza, sarebbero Tra gli studi più recenti cfr. Celi (2000), Celi e Smith (1999), Celi e Segnana (1998), che hanno sviluppato il concetto di importazioni non-competing all’interno di un rigoroso e sistematico approccio di differenziazione qualitativa del commercio intraindustriale, affrontando il problema dell’eterogeneità del prodotto ad un appropriato livello di disagreggazione. Tuttavia i risultati da essi ottenuti poggiano su relazioni statistiche molto deboli (coefficienti di determinazione molto bassi). 13 A Nord, per ragioni di minimizzazione di costo, un certo bene unskill-intensive sarà prodotto utilizzando meno lavoro low-skilled e più lavoro skilled e capitale rispetto a quanto avvenga a Sud. 12 15 domandati, e quindi prodotti, in quantità inferiore. Ignorando questo fattore si sovrastima l’ammontare di produzione interna spiazzato dalle importazioni. Per ovviare a questa ulteriore difficoltà Wood propone di trattare come beni differenti le esportazioni di manufatti del Nord e del Sud e di ipotizzare uno scenario controfattuale in cui si valuta quale sarebbe stata la produzione di ciascuno dei due beni da parte di entrambi i paesi in assenza di commercio Nord-Sud. In questo modo, considerando che il Nord esporta il bene skillintensive ed il Sud quello labour-intensive, l’impatto complessivo del commercio estero sul mercato del lavoro del Nord sarà dato dalla somma di due fattori: 1) la differenza tra il livello di output di bene skill-intensive effettivamente prodotto a Nord e quello ipotizzato nello scenario controfattuale, moltiplicata per il coefficiente delle esportazioni del Nord; 2) la differenza tra il livello del bene labour-intensive effettivamente prodotto a Nord e quello ipotizzato nello scenario controfattuale, moltiplicata per il coefficiente delle esportazioni del Sud aggiustato per i prezzi dei fattori nel Nord. In modo analogo sarà possibile stimare l’impatto del commercio sul mercato del lavoro del Sud14. Applicando la versione del metodo del contenuto fattoriale da lui stesso proposta, Wood conclude per un’influenza del commercio internazionale quasi doppia rispetto a quella calcolata con la metodologia convenzionale. Egli stesso però nota che questi risultati trascurano la considerazione di altre due fonti di sottostima. Una è relativa all’innovazione difensiva, verso la quale il commercio avrebbe spinto le imprese produttrici dei beni soggetti alla concorrenza estera: a Nord, le imprese produttrici di manufatti ad alta intensità di manodopera sarebbero state indotte ad adottare tecniche più innovative per combattere la concorrenza estera; ciò dovrebbe comportare una riduzione della domanda di lavoro unskilled di cui non si tiene conto nelle stime presentate. La seconda fonte di 14 Per una formalizzazione completa di quanto illustrato cfr. Wood (1994). 16 sottostima riguarda l’aver considerato soltanto il settore manifatturiero. In realtà gli effetti del commercio internazionale si riversano anche sui servizi - sia traded che nontraded -, dai quali le manifatture acquistano i beni intermedi. I dati che permettono di considerare gli effetti sulla domanda di lavoro nel settore servizi sono limitati, ma Wood ritiene che essi approssimativamente suggeriscano di raddoppiare l’impatto stimato per le manifatture da sole. Quindi Wood, partendo dalle stime ottenute con la versione modificata del contenuto fattoriale e raddoppiandole poi due volte giunge alla conclusione che il commercio con il Sud, durante gli anni Ottanta, avrebbe ridotto la domanda di lavoro unskilled per il Nord, complessivamente considerato, di circa il 20%. Questa stima ha però sollevato critiche molto vivaci fondate sull’eccessiva arbitrarietà dei calcoli di Wood15. 3.2. I limiti del metodo Nonostante le correzioni di carattere metodologico apportate da Wood, il metodo del factor content of trade poggia su basi teoriche incerte, che, in taluni casi, compromettono l’attendibilità delle stime ottenute. 3.2.1. La relazione tra “factor content ” e prezzi dei fattori Un aspetto che mette seriamente in discussione la validità del metodo del contenuto fattoriale per stimare gli effetti indotti dal commercio estero sui livelli salariali è quello relativo alla possibilità di fondare l’esistenza di una forte relazione tra variazioni del contenuto fattoriale e variazioni dei prezzi dei fattori. Deardoff e Staiger (1988) hanno dimostrato che il contenuto fattoriale dei flussi commerciali può essere utilizzato come indicatore degli effetti del commercio sui prezzi relativi dei fattori, solo sotto 15 A questo riguardo cfr. in particolare Leamer (1996). 17 l’assunzione di una funzione di produzione con elasticità di sostituzione unitaria16. Ciò consente di stabilire in autarchia una relazione molto forte tra prezzi e dotazioni dei fattori. Poiché ciascun equilibrio di autarchia può essere associato ad un equivalente equilibrio commerciale, le cui dotazioni fattoriali differiscono da quelle autarchiche per un ammontare esattamente pari al contenuto fattoriale del commercio, dalla relazione prezzi-dotazioni dei fattori in autarchia segue un’altrettanto forte relazione tra variazioni dei prezzi dei fattori e contenuto fattoriale del commercio in un equilibrio di libero scambio. In questo modo è possibile dimostrare che il contenuto fattoriale del commercio, come frazione della dotazione di ciascun fattore, è una misura esatta della quota del prezzo di ciascun fattore attribuibile al commercio17. 3.2.2. Volume del commercio e gap salariale In letteratura sono state sollevate serie obiezioni in merito all’importanza che il metodo del factor content of trade ha attribuito al volume degli scambi quale determinante dei livelli salariali18. Tale perplessità deriva dalla considerazione che i prezzi, sia dei beni che dei fattori, si determinano al margine e sono quindi indipendenti dal volume del commercio. Da ciò segue che, anche se i flussi commerciali sono di piccola entità, le variazioni nei prezzi dei beni scambiati possono avere un grande effetto sui prezzi dei beni prodotti internamente. Si osserva, in particolare, che il teorema di Deardoff e Staiger (1988) fanno riferimento ad una funzione di produzione CobbDouglas, che appunto presenta un’elasticità di sostituzione pari ad 1. 17 Va sottolineato che comunque la variabile che permette il collegamento prezzi dei fattori e contenuto fattoriale è sempre l’andamento dei prezzi dei prodotti derivante dalle variazioni del commercio internazionale. Dunque, anche supponendo valide le restrittive condizioni dettate da una funzione di produzione Cobb-Douglas, risulta evidente la difficoltà di stabilire un legame tra flussi commerciali e salari, senza il tramite del canale dei prezzi. 18 Su questo punto cfr., tra gli altri, Leamer (1994 e 1995), Lawrence e Slaughter (1993). 16 18 Stolper-Samuelson dimostra l’esistenza di una relazione tra prezzi dei beni e prezzi dei fattori nella quale non entrano i volumi del commercio. Tuttavia l’ipotesi che i prezzi dei beni scambiati sui mercati internazionali siano indipendenti dal volume dei flussi commerciali appare poco convincente. Krugman (1995) fa in particolare notare, a questo riguardo, come tale asserzione contenga un vizio di fondo derivante dall’incapacità di discernere dalla realtà quello che è un semplice modello teorico19. L’assenza del volume del commercio nella formulazione del teorema non significa infatti che esso sia irrilevante nel determinare l’impatto del commercio sui prezzi dei beni e quindi dei fattori. Del resto, anche supponendo che un paese si comporti come price-taker rispetto ai prezzi che si formano sul mercato mondiale e che all’interno di ciascun paese i prezzi si determinino effettivamente al margine20, comunque non si può non considerare che i prezzi del mercato mondiale non sono indipendenti dal volume dei flussi commerciali. Questa seconda critica al metodo del factor content of trade sembra essere in realtà meno fondata. Infatti, abbandonando la questione prettamente teorica finalizzata a stabilire la natura della relazione tra prezzi dei beni e prezzi dei fattori, e considerando piuttosto la necessità di dedurre gli effetti del commercio sul mercato del lavoro in un’ottica controfattuale, si capisce come il volume del commercio non solo non sia irrilevante, ma sia addirittura una variabile cruciale per determinare l’impatto dei flussi commerciali sul mercato del lavoro. 19 Ciò corrisponde a quello che Krugman chiama un “compito in classe”, necessario per la spiegazione della teoria; quando ad esempio si esaminano gli effetti di una variazione esogena nei prezzi mondiali, si sta effettuando un “esperimento mentale”, le cui caratteristiche sono individuate al solo scopo di evidenziare i meccanismi di funzionamento di un modello teorico. 20 Se dunque il paese importa una quantità, anche molto piccola, di un bene, ad un prezzo inferiore rispetto a quello vigente sul mercato interno per lo stesso bene, allora il prezzo del bene sostituto di quello importato scenderà immediatamente al livello del prezzo di importazione. 19 3.2.3. La pressione concorrenziale Con il metodo del factor content non è possibile tenere conto degli effetti indotti sui salari dalla semplice minaccia di importazioni. Questa considerazione appare tuttavia più pertinente in un contesto di flessibilità salariale, come quello statunitense, piuttosto che in un contesto, come quello europeo, in cui vigono legislazioni di minimo salariale. Infatti negli Stati Uniti la minaccia dell’aumentata competizione internazionale dovrebbe aver indotto una rapida caduta della remunerazione dei lavoratori low-skilled, il che, a sua volta, avrebbe indubbiamente contribuito a frenare le importazioni dai PVS. Tuttavia, il fatto che una parte delle importazioni sia stata bloccata non sta a significare che essa non abbia prodotto effetti sui prezzi dei fattori, visto che proprio la minaccia delle importazioni avrebbe prodotto un abbassamento del salario degli unskilled tale da impedire l’effettivo realizzarsi delle stesse importazioni. In una simile situazione, il factor content, non essendo in grado di cogliere gli effetti prodotti dalla minaccia di quelle importazioni poi non realizzate, sottostima l’effetto del commercio sul mercato del lavoro. Non altrettanto può dirsi in un contesto di rigidità salariale, dove le importazioni non sono frenate dalla caduta della remunerazione reale degli unskilled. Questa critica sembra pertanto essere limitata alle analisi effettuate in un contesto di rigidità salariale. 3.2.4. Le determinanti del factor content La possibilità di stimare in modo corretto l’impatto del commercio estero sul mercato del lavoro con il metodo del contenuto fattoriale non è compromessa esclusivamente dalla difficoltà di fondare una relazione tra prezzi e dotazioni dei fattori. 20 Infatti, pur volendo reputare valide le assai restrittive condizioni (funzione di produzione con elasticità di sostituzione unitaria) che consentono di stabilire il legame tra prezzi e dotazioni dei fattori, comunque il metodo del factor content of trade non riuscirebbe ad evidenziare quale porzione del trend dei salari relativi dei lavoratori skilled e unskilled possa effettivamente attribuirsi all’aumentata integrazione economica internazionale21. Cambiamenti nel contenuto fattoriale come quota dell’offerta interna possono derivare sia da cambiamenti nei prezzi internazionali dei beni (quindi da variazioni dei flussi commerciali mondiali), sia da fattori interni quali i gusti dei consumatori, la tecnologia e l’offerta di fattori. Pertanto, l’entità del contenuto fattoriale del commercio può essere attribuita interamente al commercio estero solo se non ci sono contemporanei cambiamenti interni di gusti, tecnologia e offerta di fattori. Del resto, considerando che il contenuto fattoriale non è nient’altro che la realizzazione dell’eccesso di domanda di un fattore, ciò che inficia la validità di questo metodo per calcolare gli effetti del commercio sul mercato del lavoro è proprio il fatto che fattori interni possano incidere sulla domanda e sull’offerta di lavoro in direzione opposta rispetto ai flussi commerciali, compensando o più che compensando gli effetti da questi ultimi prodotti. Quindi, anche se il metodo del contenuto fattoriale portasse a concludere per la mancanza di effetti del commercio sul mercato del lavoro, questi, in realtà, potrebbero essere semplicemente nascosti dall’azione di fattori interni. 4. Un confronto tra i due metodi di analisi Un’osservazione che immediatamente deriva dalla comparazione tra i due metodi di analisi è relativa alla differente prospettiva dalla quale i due orientamenti hanno affrontato il problema della relazione tra commercio estero e andamento del mercato del lavoro. 21 Per una trattazione dettagliata dell’argomento cfr. Leamer (1996). 21 Il calcolo del contenuto fattoriale implicitamente ipotizza che, attraverso gli scambi, venga modificata la dotazione di fattori di un paese: ceteris paribus, le importazioni aumentano la dotazione di fattori di un paese, mentre le esportazioni la riducono. In quest’ottica, dunque, il commercio agisce sul mercato del lavoro attraverso l’offerta dei fattori, piuttosto che tramite la loro domanda. L’analisi attraverso le variazioni dei prezzi suppone invece che la concorrenza internazionale modifichi i prezzi dei prodotti nei diversi paesi, e che questi a loro volta - agendo sulla domanda dei beni e conseguentemente sulla loro produzione - influenzino anche i prezzi dei fattori. Il collegamento tra prezzi dei beni e prezzi dei fattori si realizza cioè dal lato della domanda di fattori. Tale differenza tra i due metodi di analisi può essere facilmente evidenziata considerando il primo metodo come un approccio “supply side” e il secondo come un approccio “demand side”. Come Sachs e Shatz (1994) evidenziano, il metodo del factor content è più adatto per l’analisi di variazioni dell’occupazione, mentre il metodo che utilizza il canale dei prezzi è più appropriato per stimare gli effetti indotti dal commercio sui salari. Ciò è del resto conforme con l’ipotesi che il primo sia un approccio “supply side” ed il secondo “demand side”. Infatti, fenomeni che agiscono dal lato della domanda di fattori anziché dell’offerta sono preponderanti nell’influenzare proprio l’andamento dei prezzi (dei salari), mentre i livelli di occupazione risultano più strettamente collegati a fenomeni di offerta di fattori. Del resto, nell’analisi attraverso il canale dei prezzi la relazione tra prezzi dei beni e prezzi dei fattori appare chiaramente specificata da un punto di vista teorico. I problemi derivano piuttosto dalla difficoltà di sviluppare analisi di tipo empirico, sia in relazione alla scarsa disponibilità di dati relativi agli andamenti dei prezzi, sia a causa dell’impossibilità di cogliere gli effetti prodotti dai flussi commerciali intraindustriali e dai movimenti di capitale. Si deve dall’altra parte notare che i limiti dell’approccio factor content sono principalmente relativi al calcolo degli effetti indotti dal commercio sui salari, in conseguenza dell’impossibilità di fondare una relazione tra dotazioni e prezzi dei fattori al di fuori di condizioni 22 molto restrittive e assolutamente irrealistiche. L’approccio factor content non presenta invece particolari problemi per quanto riguarda la stima dell’impatto del commercio sul livello di occupazione. Al di là di tali considerazioni, comunque, la difficoltà comune ai due metodi di analisi è relativa all’incapacità di entrambi di isolare gli effetti prodotti sul mercato del lavoro dal commercio estero da quelli attribuibili invece a fattori di origine interna. Inoltre, sebbene il commercio internazionale sia trattato, nelle analisi relative alla sua influenza sul mercato del lavoro, come una grandezza esogena, esso è invece il risultato endogeno di interrelazioni che legano gusti, tecnologie e dotazioni dei fattori nei diversi paesi. Sotto questo specifico profilo, la considerazione del trade alla stregua di una variabile endogena non è comunque possibile al di fuori di un modello di equilibrio economico generale. 5. Stima dell’impatto del trade sul mercato del lavoro attraverso le tavole delle interdipendenze settoriali Dalle osservazioni effettuate è emerso come entrambe le metodologie analizzate presentino limiti che non consentono di attribuire assoluta validità alle stime da esse fornite. Il problema che è apparso più rilevante è quello che deriva dalla necessità di isolare gli effetti su salari e occupazione attribuibili all’aumentata integrazione economica internazionale da quelli indotti, invece, da fattori di origine interna. Alcuni studiosi, attraverso l’utilizzo delle tavole intersettoriali22, sono riusciti a misurare l’impatto dell’apertura commerciale sul numero di occupati, indipendentemente dall’azione di fattori di origine interna23. Le tavole input-output consentono infatti di 22 Questo metodo di stima è stato proposto da Kubo, Robinson e Syrquin (1986) ed è stato successivamente ripreso da Oecd (1992), i cui risultati sono stati proposti in uno dei Job study Oecd (1994). 23 de Nardis e Paternò (1996) hanno utilizzato le tavole intersettoriali dell’economia italiana per stimare l’impatto del commercio estero italiano sul numero di occupati, nel periodo 1982 -1988. 23 valutare l’effetto che una variazione esogena della domanda può avere, sia sull’economia nel suo complesso, sia nei diversi settori in cui il sistema economico è organizzato. Ma, in primo luogo, questo metodo di stima consente di calcolare soltanto gli effetti prodotti sul numero di occupati, senza fornire alcuna indicazione circa i cambiamenti eventualmente determinati dal commercio nei livelli salariali. In secondo luogo, anche questo metodo di stima incontra limiti rilevanti: l’analisi con le tavole intersettoriali, infatti, fornisce una descrizione esclusivamente meccanica delle interconnessioni, dirette e indirette, tra i vari settori dell’economia, senza dare alcuna spiegazione relativa ai sottostanti comportamenti economici degli operatori. Inoltre, l’utilizzo delle tavole input-output si basa sulla irrealistica ipotesi di economie di scala costanti in tutti i settori dell’economia (il fabbisogno unitario di input produttivi è supposto costante al variare dei volumi di produzione). Non ultimo si deve considerare il forte ritardo temporale con cui le tavole molto spesso vengono rese disponibili, tale per cui, al momento dell’utilizzo, esse fotografano relazioni economiche non più esistenti. 6. Osservazioni conclusive Il dibattito sulla relazione intercorrente tra commercio estero e andamento del mercato del lavoro è ancora oggi aperto. Considerata la sostanziale inconsistenza dei risultati empirici proposti in letteratura (molto spesso tra loro incomparabili24), in questa nota il problema è stato affrontato da un punto di vista prettamente metodologico, ritenendo che non si possa effettuare nessuna stima attendibile dell’impatto del trade sul mercato del lavoro senza 24 Le specificità dei mercati e dei periodi temporali sui quali le varie stime sono state effettuate, unite alle differenti modalità di rilevazione dei dati e alle divergenze nelle proxy utilizzate isolano la validità dei risultati ottenuti al contesto specifico in cui l’analisi è stata condotta, non consentendo di asserire la validità di un risultato rispetto ad un altro. 24 utilizzare una metodologia di analisi fondata su relazioni economiche forti ed empiricamente verificabili. Alla luce delle difficoltà incontrate dai metodi di stima esistenti in letteratura, l’unica strada che sembra effettivamente percorribile per risolvere le questioni di carattere metodologico è quella di sviluppare un’analisi sistematica nell’ambito di scenari controfattuali, nei quali si indaghi su quale sarebbe stato il livello di salari e occupazione in assenza di commercio estero. Ma, soprattutto, quanto alla presunta modestia dell’impatto del trade sul mercato del lavoro che le analisi qui richiamate per lo più evidenziano, va sottolineato che un’adeguata valutazione del fenomeno richiede che venga analizzata non solo la rilevanza quantitativa dei flussi commerciali, ma anche il grado di overlap della loro composizione merceologica rispetto alla struttura produttiva del paese in questione. L’ipotesi, sostenuta da molti studiosi, sia di economia internazionale che di economia del lavoro, secondo la quale l’impatto del commercio con i Pvs è irrilevante date le assai modeste dimensioni del fenomeno, non sembra infatti sempre condivisibile. Come dimostra l’enfasi recentemente attribuita agli effetti della concorrenza cinese su alcune specifiche produzioni italiane, un alto grado di overlap tra flussi di importazione e produzione interna può procurare per un singolo paese conseguenze economiche tutt’altro che irrilevanti. 25 Appendice Tab. A.1 – Quadro sinottico dei lavori esaminati Autore Mercato e periodo di analisi Metodo Dati Frequenza rilevazioni Livello di disaggregazione Risultati: incidenza del commercio internazionale sul mercato del lavoro Borjas G.J, Freeman R.B., Katz L.F. (1991) Stati Uniti 1967-1985 Factor Content Annuale 4 digit (Sic) Debole Lawrence R.Z., Slaughter M.J. (1993) Stati Uniti 1980-1990 Canale dei prezzi Annuale 3 digit (Sic) Debole Sachs e Shatz (1994) Stati Uniti 1978-1990 Factor Content Annuale 3 digit (Sic) Debole Wood (1994) Commercio Nord-Sud 1960-1990 Factor Content Annuale 3 digit (Sitc) Forte Leamer (1995) Stati Uniti 1960-1990 Canale dei prezzi Annuale 2 e 4 digit (Sic) Forte De Nardis S., Malgarini M. (1996) Italia 1982-1988 Tavole intersettoriali Periodo unico 44 branche (Nace-Clio) Media Celi G., Segnana M.L. (1998) Italia 1993 Factor Content Periodo unico 3 e 8 digit (Sitc) Forte Slaughter (1999) Stati Uniti 1961-1991 Elasticità della domanda di lavoro Annuale 4 digit (Sic) Indeterminata 26 Riferimenti bibliografici Borjas G.J., Freeman R.B., Katz L.F. (1991), On the Labour Market Effects of Immigration and Trade, NBER, Working Paper n. 3761. Celi G. (2000), The Impact of International Trade on Labour Markets. 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