Gabriele Antonini
Esaù, Giacobbe e altro.
Modelli biblici nelle opere di Italo Svevo.
La bibliografia sveviana ha spesso ragionato con scrupolo sull'importanza delle origini
ebraiche di Ettore Schmitz nella sua produzione letteraria 1; il dibattito critico in proposito ebbe
inizio con il celebre saggio di Debenedetti intitolato Svevo e Schmitz, datato 1929, nel quale il
critico e scrittore piemontese notava come nei personaggi sveviani
ritroviamo, accennati, i segni fisionomici di quell’astratto individuo psicologico, che
per essere astratto non è meno cocente e vivo, delineato da Otto Weininger in Sesso e
carattere, sotto il nome di “ebreo” (1945, 84)2.
In seguito a questo contributo si è venuta a creare un’animata controversia critica sul tema;
in questa sede ci limiteremo a ricordare le parole di Eugenio Levi che ha notato come
questo tipo d’Ebreo che inconsciamente si adombra nell’eroe dei tre romanzi che
Svevo ha scritto, rispettivamente, nel 1892, nel 1898 e nel 1923, va cercato fra gli Ebrei
moderni d’Occidente, quali tanti secoli di dispersione li hanno foggiati. [...] Non pare del
tutto privo di fondamento il sostenere – come qualcuno ha sostenuto – che Israele non sia
mai stato col suo tempo. [...] Del resto, anche se l’Ebreo lo volesse, non potrebbe
cancellarsi. Se pur gli riuscisse di camuffarsi del tutto da Ariano, la sua vecchia anima
ebraica [...] l’andrebbe a cercare. Ma altro è il non voler essere cancellati, e altro è
aspirare a essere accolti – per quel che si è – nel grembo della società dei connazionali,
senza sottintesi e senza riserve, da pari a pari. Ed è proprio questo il dono che a questi
Ebrei è mancato. Non è mai venuta meno ‘negli altri’ la tendenza a considerarli come dei
diversi. [...] Ed è proprio questo il doloroso momento dell’anima ebraica che affiora –
senza che bene lo scrittore se ne renda conto – nella pagina di Svevo (1964, 177-180).
Se, come si può dedurre da questi pochi esempi, numerosi studi hanno indagato a fondo la
questione del ruolo giocato dalle origini ebraiche del romanziere triestino all’interno della sua
produzione, con molta meno attenzione la critica ha invece cercato di capire se la conoscenza dei
testi biblici del romanziere triestino possa aver lasciato degli echi nei suoi scritti. Tale aspetto ci
pare di particolare interesse anche perché, non va dimenticato, il padre di Svevo ricopriva un ruolo
di spicco all’interno della comunità giudaica triestina; accettò infatti l’elezione a
Hatan Bereschit, che è una delle più importanti cariche ricoperte nel Tempio:
l’espressione significa “sposo del principio, della genesi” e indica una persona qualificata
e autorevole, designata a leggere l’inizio del Pentateuco (Camerino 1981, 2)3.
1
A tal proposito rimandiamo al capitolo Italo Svevo scrittore ebraico in Camerino 1994 e al lavoro di De Angelis
2006.
2
Vale forse la pena ricordare il profilo dell’ebreo che Debenedetti ricava a partire dagli scritti di Weininger:
“L’ebreo sarebbe dunque un diseredato di ogni felice istinto del vivere e privo di abbandono, a paragone con il tipo
antitetico dell’ariano; inoltre una instabile molteplicità del fondo morale lo renderebbe plastico, disponibile e
deformabile a tutti gli urti; femminilmente passivo, come dice il Weininger, che alla donna nega, come si sa,
immaginazione, intelligenza creatrice e moralità. Il personaggio che avevamo trovato nei romanzi di Svevo non è
evidentemente lontano di qui” (Debenedetti 1945, 85).
3
Il fatto è riportato da Elio Schmitz in un suo appunto di diario datato 27 settembre 1880: “Papà fu eletto a Hadan
Bereschid (sic)” (Maier 1973, 237).
1
Tale situazione, quella di essere di origini ebraiche e per giunta figlio di un importante
esponente della sinagoga triestina nonché lettore dei testi sacri, ci spinge a postulare una
conoscenza sicuramente approfondita della Bibbia da parte di Svevo e ci induce a sospettare che
tale competenza possa aver lasciato delle tracce nelle opere di Ettore Schmitz. Cercheremo quindi
in questo lavoro di riflettere su alcuni passi dell’autore triestino in cui è possibile ipotizzare un
prelievo di elementi tratti dalla Sacra Scrittura. Abbiamo deciso di suddividere questo catalogo in
due sezioni: una prima costituita da brani sveviani in cui il riamando a passi biblici o è
manifestamente dichiarato oppure è così evidente da sottintendere la volontà dell’autore di rendere
esplicita la propria fonte; una seconda, invece, che comprende testi in cui il prelievo biblico viene
investito da un processo di rielaborazione creativa che rende meno evidente la sua riconoscibilità.
1. Cominciamo con la famiglia dei richiami espliciti; il primo testo che prendiamo in esame,
La corruzione dell’anima, è uno scritto, a metà tra il saggio e l’apologo, di difficile datazione, forse
elaborato tra 1919 e 19224, in cui Svevo propone un’originale visione della nascita e dello sviluppo
dell’umanità:
Il signor Iddio aveva conchiusa la sua opera di creazione. Stancatosi dall’immane
lavoro riposò dopo di aver detto: Io riposerò ma la creazione continuerà a ricreare se
stessa. Io diedi all’essere animato un’anima e questa continuerà la mia opera (Svevo
2004c, 884).
Sono due gli spunti che emergono dall’analisi di queste poche righe. Innanzitutto il lapidario
incipit che chiama direttamente in causa il Padre Eterno, elemento questo per nulla inusuale nella
produzione sveviana: si possono ricordare in proposito l’esordio di una delle favole dell’autore
triestino scritte nel dicembre 1897 – “Il signor Iddio si fede socialista” (Svevo 2004b, 653) – o
alcuni frammenti narrativi – “Il padre eterno ebbe un giorno di buon umore e disse: Voglio liberare i
cosidetti diseredati” (Svevo 2004b, 774); “Il Signore aveva finita l’opera di creazione. Dichiarò agli
animali che li lasciava liberi di scegliersi l’elemento in cui volevano vivere” (Svevo 2004b, 776)5 –,
a conferma di un certo interesse da parte di Svevo per apologhi di oggetto religioso seppur animati
da uno spirito palesemente laico. L’altro aspetto che richiama l’attenzione del lettore è, ovviamente,
l’esplicito rimando all’episodio biblico della Creazione. Ciò che colpisce è il contesto in cui tale
riferimento viene calato; proseguendo con l’analisi del testo si legge infatti:
Le grandi e le piccole anime gridavano malcontente degli organismi in cui erano state
rinchiuse e subito risultò che l’anima era in primo luogo malcontento […]. E lentamente
causa tale malcontento l’organismo si trasformava accordando all’anima brevi intervalli
di soddisfazione.
Ma non da tutti gli animali il processo continuò. Intanto qualcuno di essi appena uscito
dalle mani del Creatore, proprio come era, […] s’accontentò e si sprofondò nell’acqua,
nel fango o nell’aria e si disse soddisfatto. Da lui col malcontento l’anima era perita e
continuò a vivere ma della vita più bassa non conoscendo che l’assimilazione e la
riproduzione e perdette la vita intensa, quella che segna il tempo. Rimase identico a se
stesso definitivamente cristallizzato.
4
Per ciò che concerne la datazione del testo si veda la nota introduttiva di Federico Bertoni (Svevo 2004c, 16631665).
5
All’interno di questi scritti raccolti sotto il nome di “Frammenti” è possibile individuare un altro manifesto
rimando ai Testi Sacri e in particolare al Libro di Gioele 4, 2-12: “Nella valle di Giosafatte fu fatto il processo all’uomo
e si chiamarono a dire il proprio parere quali testimoni tutti gli animali” (Svevo 2004b, 776). La medesima immagine
ricorre anche in un giovanile articolo sveviano, Un individualista, pubblicato nell’Indipendente il 20 ottobre 1886: “I
giudici della posterità hanno ad avere, se il desiderio di tutti quelli che l’invocano si compie, l’intelligenza che i nostri
antenati attribuivano ai giudici della valle di Giosafat” (Svevo 2004c, 1038).
2
Gli altri esseri intanto erano saturi di anima e di malcontento. Ma pochi fra loro
seppero indefinitamente conservarla. Perché il successo è un gran seduttore. Certi animali
crearono potenti organi d’offesa, zanne, artigli e corna, altri per assaltare o per difendersi
si fecero velocissimi e appresero anche a volare. Alcuni resistettero al freddo costruendosi
delle pellicce sufficienti mentre altri seppero sfuggire i tempi freddi emigrando ad ogni
mutamento di stagione (Svevo 2004c, 884-885).
Lo sfondo su cui si colloca il testo in questione è chiaramente di natura darwiniana (nelle
righe successive a quelle da noi riportate farà la sua comparsa anche “il malcontento e torvo
uomo”): è però paradossale che questa rivisitazione delle teorie del padre dell’evoluzionismo
prenda le mosse da una riproposizione in chiave ironico-parodica del racconto della Creazione;
molto pertinente in proposito ci pare il commento di Giuliana Minghelli:
Here Svevo parodically combines the oldest story of origin – the book of Genesis –
with its modern day counterpart – the Darwinian theory of evolution – in order to tell a
secularized myth of a weak humanity that survived and put a strong claim on the future
precisely by resisting the demands of nature (2002, 18-19).
Ci pare emerga in maniera evidente da queste parole il modo di procedere di Svevo: l’autore
attinge al materiale delle Sacre Scritture non limitandosi a servirsene come fonte, ma lavorando su
di esso, modificandolo, finanche intrecciandolo con altre teorie, giungendo così alla realizzazione di
un nuovo testo che esige però per la sua piena comprensione il riconoscimento del materiale iniziale
su cui è costruito6. Quel che risulta da quest’unione sincretica tra una visione del mondo (la teoria
creazionista) e il suo opposto (l’evoluzionismo) è il profilo di un autore che, per usare le parole di
Montale, “riflette al pari di pochissimi altri gli impulsi e gli sbandamenti dell’anima
contemporanea” (Montale - Svevo 1966, 93).
Proseguiamo ora con la proposizione di passi sveviani in cui è individuabile un esplicito
riecheggiamento della Bibbia e ci soffermiamo in particolare sulla produzione sveviana posteriore
alla Coscienza, nella quale ci pare di poter rilevare una più fitta occorrenza di episodi in cui si fa
riferimento apertis verbis alle Sacre Scrittura. Una burla riuscita, racconto dal forte sapore
autobiografico pubblicato per la prima volta nel 1928 su “Solaria”, ha come protagonista Mario
Samigli7, “un letterato quasi sessantenne” (Svevo 2004b, 1999) autore in gioventù di un romanzo,
Una giovinezza, rimasto senza fortuna. Trovato un lavoro come impiegato, Mario continua a
coltivare la sua passione per la letteratura che si manifesta nella produzione di brevi favole aventi
come protagonisti dei passeri. La vita tutto sommato serena e tranquilla del Samigli, vissuta al
fianco del fratello gottoso Giulio, viene sconvolta dal raggiro ordito ai suoi danni dal Gaia,
commesso viaggiatore anch’esso tentato in gioventù dalla letteratura, che lo illude di aver trovato
un editore disposto a tradurre il suo romanzo in tedesco. Inizia così una finta contrattazione che
termina con la vendita dei diritti di Una giovinezza per duecentomila corone; l’assegno viene
depositato in banca da Brauer, capoufficio e amico di Mario, che, su consiglio del cassiere, si
garantisce il cambio della giornata. A questo punto la novella diviene la cronaca di un lungo periodo
6
Per ciò che concerne l’opera in questione nel suo complesso, condivisibile ci pare il commento di Maxia: “Egli
svolge alcune considerazioni sull’evoluzionismo che costituiscono un significativo esempio di trasformazione
dall'interno in senso vitalistico-misticheggiante del discorso evoluzionistico. Le sue riflessioni si aggirano […] intorno
ad una tipologia metafisica, nell’ambito della quale il movimento è già dato, preesistente alla storia” (1971, 97).
7
A sottolineare il fatto che la storia del protagonista del racconto è ispirata all’esistenza del nostro autore basti
ricordare che Samigli è uno dei nom de plume utilizzati da Ettore Schmitz. Lo stesso Svevo non ha fatto mistero del
carattere autobiografico del racconto; nella lettera che il 2 giugno 1927 Svevo inviò al Paul Henri Michel, il traduttore
in francese della Coscienza di Zeno per l’editore Gallimard, possiamo leggere: “Proprio mi sembra di essere divenuto
Mario Samigli. Sogno di quel redoutable M. Gallimard che mandò a quel paese me e il mio romanzo, visto che neppur
con un rigo prese mai l’impegno di pubblicarlo” (Svevo 1966, 857).
3
di trepidante attesa da parte di Mario che si concluderà con la tremenda scoperta della burla; il
finale riserva comunque un lieto fine per il Samigli: in seguito al crollo di valore della moneta
austriaca e grazie alla cautele sul cambio prese da Brauer, il protagonista del racconto sveviano
guadagna settantamila lire che garantiscono a lui e al fratello una vita agiata. Ora noi ci
soffermiamo sull’episodio in cui il Samigli, il Gaia e il finto rappresentante dell’editore Westermann
si riuniscono intorno al tavolo per trattare le clausole della vendita del romanzo; nel giro di poche
pagine troviamo per due volte ripetuto un riferimento, a metà tra il proverbio e la citazione, ad un
celeberrimo episodio della Genesi:
Il Gaia, Mario e il rappresentante di Westermann furono tanto puntuali che si
trovarono insieme alla porta del caffè. Vi si trattennero parecchio perché vi costruirono
una piccola torre di Babele (Svevo 2004b, 229).
Attorno al tavolo, nel caffè a quell’ora deserto, ci fu ancora un po’ di torre di Babele
(Svevo 2004b, 231).
Come si è detto in precedenza, il rimando è forse poco rilevante in quanto più vicino alla
tradizione del motto popolare che a quella biblica; è tuttavia bene ricordare che, per quanto detto in
apertura di queste riflessioni, è molto probabile che Svevo, riproponendo la forma proverbiale,
avesse ben presente anche il significato profondo del passo veterotestamentario a cui tale detto
rimanda. In questo senso potrebbe essere significativa la parziale inibizione alla comunicazione che
colpisce Mario in seguito a questo incontro: l’illusione della pubblicazione crea infatti numerosi
problemi nei rapporti con il fratello Giulio e sta all’origine di un blocco creativo del protagonista
del racconto che cessa la produzione delle sue favole; va poi notato che, proprio come nel racconto
biblico, i protagonisti di questa nuova Babele verranno dispersi per il mondo: conclusasi la guerra,
il finto rappresentante di Westermann tornerà in Austria mentre il Gaia sarà per lungo tempo assente
da Trieste a causa delle numerose “visite ai suoi clienti dell’Istria vicina” (Svevo 2004b, 239-240).
Lasciamo Una burla riuscita e concentriamo le nostre attenzioni su Corto viaggio
sentimentale: questa lunga novella (Svevo, in una lettera a Marie Anne Comnène, moglie di
Benjamin Crémieux, la definì “lunga come una serpe lunghissima”, 1966, 768), probabilmente
cominciata nel 1925 e rimasta incompiuta, è il resoconto del viaggio in treno da Milano a Trieste
effettuato dall’anziano protagonista del racconto, il signor Giacomo Aghios. Molto sommariamente
il contenuto del racconto è il seguente: il signor Aghios, dopo aver salutato la moglie alla stazione,
lascia Milano con una cospicua somma di denaro, trentamila lire, ben custodita nella tasca interna
della sua giacca. Il viaggio assume agli occhi del protagonista i contorni della fuga dal soffocante
mondo familiare. Il narratore commenta infatti:
Il signor Aghios aveva bisogno di vita e perciò viaggiava solo. Si sentiva vecchio e
ancora più vecchio accanto alla vecchia moglie e al giovane figliuolo. […] Ogni
malessere che sentisse il signor Aghios lo diceva vecchiaia ma pensava che una parte di
tale malessere gli venisse dalla famiglia. Sta bene che vecchio come ora egli non era mai
stato, ma mai s’era sentito oltre che vecchio anche tanta ruggine. E la ruggine proveniva
sicuramente dalla famiglia, l’ambiente chiuso ove c’è muffa e ruggine (Svevo 2004b,
504).
Nel corso di questo viaggio si susseguono diversi incontri, che rappresentano “una divertita,
ironica e affettuosa rappresentazione dei tipi umani” (Maier 1961, 156): possiamo ricordare ad
esempio il ragioniere Ernesto Borlini, ispettore viaggiante di una società d’Assicurazioni, il giovane
biondino Giacomo Bacis, che intrattiene a lungo il signor Aghios con il racconto delle sue
vicissitudini amorose, e il vigoroso e forte gondoliere Bortolo. La narrazione si interrompe nel
4
momento in cui il protagonista si accorge di essere stato derubato di parte del denaro che portava
con sé.
Anche all’interno di questo testo possiamo notare un evidente richiamo a un episodio
biblico; ci troviamo nel tratto di viaggio tra Verona e Padova e nel mezzo della conversazione tra il
signor Aghios e il ragioniere Ernesto Borlini. Quest’ultimo sta descrivendo la stravaganza del suo
figlio minore, Paolo detto Paulucci; le bizzarrie del fanciullo colpiscono molto il protagonista del
testo in questione che non esita a definirlo “il suo vero fratello” (Svevo 2004b, 544)8. Tra le varie
stramberie riportate dal personaggio nella sua narrazione abbiamo la seguente:
Mentre il suo fratellino maggiore camminava sicuro attaccato alla mano del padre,
Paulucci si faceva sempre trascinare. Era come la moglie di Lot e guardava dietro a sé.
Certo per vedere più a lungo le cose (Svevo 2004b, 544).
Il rimando all’episodio della Genesi è anche in questo caso evidente; tuttavia
l’interpretazione di tale richiamo non ci appare di immediata comprensione. Tradizionalmente il
voltarsi indietro della moglie di Lot viene letto come simbolo della forza devastante e distruttiva del
rimpianto; in questo contesto tale genere di esegesi non ci pare però calzante: non ci sono motivi
infatti per interpretare come modello negativo il personaggio del piccolo Paulucci che anzi, come
sottolineato in precedenza, suscita nel vecchio Aghios un sentimento di fratellanza spirituale. Per
giungere alla corretta lettura del richiamo biblico vale forse la pena di porre attenzione a un’altra
figura infantile presente nel racconto sveviano; poco prima della partenza da Verona fa la sua
comparsa nella carrozza una coppia di contadini che porta con sé la piccola figlia, la quale, alla
partenza del treno, comincia a mostrare una certa agitazione:
Il treno correva da una decina di minuti e la fanciullina si guardava intorno come se
cercasse qualche cosa. Poi si piegò sul grembo della madre e mormorò: – Mama, voio
veder (Svevo 2004b, 540).
A questo punto il signor Aghios non esista a concedere alla fanciulla il suo sedile a fianco
del finestrino; lo stato d'animo della piccola tuttavia non muta neppure in seguito al cambio di
posto:
La piccina guardò la campagna che fuggiva e per qualche minuto stette silenziosa. Poi
aderì con tutta la faccia al vetro e il signor Aghios sorrise perché intese che faceva così
per vedere meglio. Indi si volse al padre piagnucolando: – Mi voria veder.
– E no ti vedi? – domandò il padre stupito.
– Mi no che no vedo! – esclamò la fanciulla e volse alla madre i chiari occhi resi
anche più chiari dalle lacrime che cominciavano a formarvisi.
La madre accorse e sedette fra il padre e la bambina così che il signor Aghios dovette
spostarsi ancora una volta per fare luogo, fatica che gli fu resa più facile da un cordiale: –
El scusa tanto! – del contadino, mentre il Borlini lanciava un biasimo parlante traverso ai
suoi occhiali.
La madre domandò: – Ma coss’ti vol veder? No ti vedi tuto?
La fanciullina scoppiò in pianto: – No vedo el treno.
Il Borlini scoppiò in una risata e i genitori risero anche loro un po’ imbarazzati dalla
bestialità della figliuola. Il solo Aghios fu commosso. Egli solo sentiva e sapeva il dolore
di non poter vedere se stesso come viaggiava (Svevo 2004b, 541).
I due episodi, quello del piccolo Paulucci e della bambina veneta, sono in stretta relazione
8
Nel giro di poche righe Paulucci viene definito: “suo vero fratello”, “fratello suo” e “caro, piccolo fratellino”
(Svevo 2004b, 544-545).
5
tra loro: oltre ad avere entrambi come protagonisti due fanciulli, infatti, sono anche costruiti intorno
al medesimo tema di fondo, l’azione del vedere, già parzialmente introdotto al momento della
partenza da Milano quando il signor Aghios si incanta “a guardare il fumo che denso usciva dal
camino di una locomotiva” (Svevo 2004b, 511). È questo l'elemento che spinge i due giovani
protagonisti verso quei comportamenti che agli occhi degli altri personaggi sembrano tanto ridicoli
e che invece suscitano la commozione dell’anziano protagonista del racconto9. Tenendo presente
questa considerazione, ci pare di poter affermare che il rimando all’episodio biblico della moglie di
Lot vada letto proprio alla luce dell’importanza decisiva che il tema della vista ha all’interno di
Corto viaggio sentimentale; in questo senso riteniamo condivisibile l’interpretazione che Caterina
Verbaro dà del personaggio di Paulucci:
Il racconto che il padre fa del bambino si costruisce significativamente attorno al topos
dello sguardo distorto […]. Egli diventa per Aghios l’alfiere del vedere ciò che è in
ombra, portatore di un punto di vista straniato e fantasioso e, per ciò stesso, analitico e
capace di vera conoscenza (2009, 109).
Questo aspetto è molto significativo all’interno della costruzione del racconto; prima
dell’inizio dell’itinerario in treno il narratore aveva commentato: “In viaggio bisognava conquistarsi
degli amici perché altrimenti si percorre questa terra ch’è la vera, la grande nostra patria col cipiglio
dello straniero” (Svevo 2004b, 508); ora, anche alla luce del riferimento al passo biblico di Lot, la
scelta del signor Aghios è evidente: la sua amicizia va a tutti coloro che sanno guardare il mondo
con uno sguardo originale. Possiamo quindi concludere che Svevo si serve in maniera faziosa della
fonte biblica a cui fa riferimento: l’allusione al testo della Genesi viene svuotata del suo significato
morale e viene invece isolato all’interno della narrazione biblica un unico particolare, quello della
vista (peraltro sottolineata dalla frase riferita a Paulucci che chiude l’episodio: “Certo per vedere più
a lungo le cose”), che viene assunto come elemento simbolo dell’episodio veterotestamentario e
come connotato predominante del piccolo Paulucci e dei personaggi che, come lui, hanno “di tali
rane” (Svevo 2004b, 543), la figlia dei contadini e lo stesso signor Aghios.
Continuiamo la nostra breve rassegna di tessere bibliche riecheggiate da Svevo prendendo in
considerazione l'episodio che apre il Libro primo dei Re:
Il re Davide era vecchio e avanzato negli anni e, sebbene lo coprissero, non riusciva a
scaldarsi.
I suoi ministri gli suggerirono: “Si cerchi per il nostro re una vergine giovinetta, che
assista il re o lo curi e dorma con lui; così il re nostro signore si scalderà”.
Si cercò in tutto il territorio di Israele una giovane bella e si trovò Abisag da Sunem e
la condussero al re.
La giovane era molto bella; essa curava il re e lo serviva, ma il re non si unì a lei (1Re
1, 1-4).
Questo passo viene ricordato da Svevo in tre diverse sue opere, La novella del buon vecchio
e della bella fanciulla, Corto viaggio sentimentale e La rigenerazione:
E il terzo pensiero importante ch’ebbe il vecchio sentendosi deliziosamente colpevole
e deliziosamente giovane fu: “La gioventù ritorna”. L’egoismo del vecchio è tanto grande
che il suo pensiero non resta attaccato all’oggetto del suo amore neppure per un istante
senza ritornare subito a vedere se stesso. Quando vuole una donna ricorda re Davide che
dalle giovinette si aspettava la gioventù (Svevo 2004b, 446).
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A proposito di Paulucci rammentiamo anche questa frase del padre: “Vedeva tutte le cose che non importavano, le
automobili che passavano lontane e non quelle che minacciavano di schiacciarlo, e il palazzo alto e non la pietra su cui
incespicava” (Svevo 2004b, 542).
6
Oggidì era acquisito dalla scienza che le giovani e belle donne erano più necessarie ai
vecchi che ai giovani. Naturalmente, oltre che la sorpassata legge morale perché a questa
necessità sia corrisposto c’era l’ostacolo che anche alle giovani e belle donne era
concessa la libertà di disporre di sé. Forse contro ogni giustizia perché per la loro
giovinezza e per la loro bellezza esse alla libertà non sono preparate. Oggetti troppo
preziosi, venivano distribuiti anche più ingiustamente dell’oro stesso. Si conquistavano
anche con un paio di mustacchi bene impomatati. Ai vecchi non si concedevano che in
casi rarissimi: Gerontomania. Ma se si confermava quello che Woronoff e Stirnach
asserivano? Meglio di loro sarebbe servita a ridestare nei vecchi organismi la memoria,
l’attività, la vita, una bellissima fanciulla o, più precisamente, una bellissima fanciulla
alla settimana. Già i vecchi ebrei pensavano così e per tenere in vita re Davide, gli
offersero una bella fanciulla. Ma egli non volle toccarla e dovette miseramente perire
(Svevo 2004b, 522-523).
Tante volte i vecchi maiali hanno ragione. Nella mia lunga vita io l’ho osservato. Il
vecchio casto invece è più vecchio del vecchio maiale. Con te io sto splendidamente
bene. (Stirandosi.) Gli ebrei diedero una donna al re Davide. Il quale non la volle e per
questo perì miseramente (Svevo 2004c, 728).
Il fatto che il medesimo passo biblico venga ripreso da Svevo in tre suoi lavori è cosa di per
sé singolare, a conferma di un particolare interesse che l’episodio deve aver suscitato
nell’immaginazione dell’autore triestino. Le particolarità però non si limitano a questo; se si
considera la trasposizione che viene fatta del racconto biblico nella Novella ci si accorge che essa si
discosta in maniera significativa da quella degli altri due testi e dalla stessa narrazione
veterotestamentaria: Svevo afferma, infatti, che era “re Davide che dalle giovinette si aspettava la
gioventù” mentre nell’episodio biblico sono i servitori del re a procurargli una fanciulla che si curi
di lui e il re non ha con lei rapporti sessuali (cosa che nel testo sveviano non viene affermata ma a
cui, velatamente, si allude). Come sono da interpretarsi tali discrepanze? Giuseppe Langella, a
proposito della relazione che il sessantasettenne Zeno intrattiene con la ventiquattrenne tabaccaia
Felicita nel Mio ozio, uno dei testi che compone la costellazione delle Continuazioni alla Coscienza
di Zeno, commenta molto giustamente:
L’amore, dunque, viene piegato essenzialmente a una funzione di profilassi, fa parte
integrante di un sistema preventivo di “misure igieniche” col quale Zeno cerca di resistere
all’invecchiamento, parandone i colpi e mitigandone, per quanto possibile, le
conseguenze (1995, 133).
E allargando il discorso agli altri testi dell’ultimo Svevo in cui si riflette sull’amore senile
aggiunge:
Per rendere ancora più “casto” e “morale” - o santo addirittura – l’uso geriatrico
dell’eros, Svevo ricorre persino a una citazione biblica autorevole e nobilitante, in cui
peraltro le sue radici ebraiche, sempre più sotterranee nella sua opera, vengono
inaspettatamente allo scoperto, come a dire, insomma, che tutta la sua cultura concorre a
incanalare l’esperienza senile dell’amore in una prospettiva “salutare”. […] È
sintomatico, del resto, che questo riferimento biblico torni anche, con singolare
insistenza, nella Novella del buon vecchio e della bella fanciulla, nella Rigenerazione e in
Corto viaggio sentimentale, gettando un’ulteriore luce chiarificatrice – se ce ne fosse
bisogno – sulla natura “igienica” del rapporto di Zeno con la tabaccaia (1995, 134-135).
Se ne deduce che questi personaggi sveviani vivono l’amore per fanciulle più giovani di loro
7
come una pratica medica preventiva necessaria per tenere lontana la “malattia” della vecchiaia: è
questa, quindi, la chiave di lettura attraverso la quale deve essere interpretato il riferimento biblico
presente nelle opere dell’autore triestino, nel quale i servi di Davide proponevano la vicinanza a una
giovinetta come possibile “cura” alla sempre più prossima morte del re 10. Se è vero che questo tipo
di lettura si adatta perfettamente a Corto viaggio sentimentale e a La rigenerazione (e forse spiega
anche la secca conclusione che contraddistingue le due narrazioni: in entrambi i casi si dice che re
Davide “perì miseramente”, volendo probabilmente porre l’accento sugli eventi devastanti che
possono derivare dal non seguire la “cura” indicata), testi nei quali la natura medica degli episodi è
sottolineata dal riferimento alle ricerche di endocrinologia di Voronoff e Steinach volte a restituire
energia agli organismi anziani mediante l’innesto testicolare, ci pare che però abbia una minore
attinenza con la narrazione della Novella, e, forse, a partire da questo elemento, possiamo provare a
dare ragione delle discrepanze che abbiamo rilevato nella trasposizione dell’episodio biblico
inerente al re Davide.
Giorgio Bárberi Squarotti ha giustamente fatto notare che il tema della Novella
è, senza troppi infingimenti e tentativi di nascondere la verità del fatto o, almeno, di
attenuarne la crudezza, quello del rapporto amoroso fra il vecchio e la giovane subito
disponibile (Bárberi Squarotti 1994, 451).
Il carattere del buon vecchio è quindi ben diverso da quello del signor Aghios e di Giovanni
Chierici: il protagonista della Novella non si avvicina alla bella fanciulla con l’intento medico di
tenere lontana da sé la vecchiaia ma il suo comportamento è piuttosto guidato da un autentico
impulso erotico. Guido Baldi ha ben sottolineato come dal fitto gioco che si instaura tra personaggio
e narratore risulti che le giustificazioni avanzate dal vecchio per spiegare il suo approccio alla
giovane alla guida del tram altro non siano che tentativi “di nobilitare il semplice desiderio
sessuale” (2009, 68-69)11. Così, ad esempio, quando il protagonista ipotizza che il suo impulso sia
dettato dall’“occhio infantile della giovinetta” (Svevo 2004b, 446) il narratore non esita a
commentare: “I vecchi quando amano passano sempre per la paternità e ogni loro abbraccio è un
incesto di cui ha l’acre sapore” (Svevo 2004b, 446), ponendo in questo modo in primo piano la
pulsione sessuale che guida il vecchio nelle sue azioni. Ancora più esplicita, se possibile, la
confessione che il protagonista fa a sé stesso: “Ecco una giovinetta ch’io comprerò... se è in
vendita” (Svevo 2004b, 447). Guido Baldi sottolinea che da questi elementi traspare
il cinismo del borghese che, spinto dal puro desiderio sessuale e da un egoistico
bisogno di recuperare una vitalità perduta a causa della sottomissione di tutta la sua vita
alla logica degli affari, valendosi della superiorità economica e sociale è pronto a sfruttare
sessualmente la proletaria in situazione di indigenza, riducendola a merce da comprare
(2009, 69).
Se, come si è cercato di evidenziare, i motivi che muovono il vecchio sono da identificarsi
nell’attrazione sessuale che prova nei confronti della giovane, allora, a partire da questa
constatazione, ci pare di poter dar ragione delle discrepanze che abbiamo rilevato a proposito della
medesima citazione biblica nei tre testi a cui abbiamo fatto riferimento in precedenza: se in Corto
viaggio sentimentale e in La rigenerazione l’accento cade sul fine medico dell’amore senile, nella
10
“Il prologo tratteggia un’immagine vivida del declino di Davide. Egli è costretto a rimanere a letto e a soffrire di
gravi disturbi circolatori. La terapia proposta, cioè il contatto con il calore e la salute di una giovane vergine, è attestata
anche nella letteratura medica del mondo greco. Anche la virilità del re è in questione: un re impotente sarebbe ritenuto
non più adatto al governo. L’osservazione laconica che ‘il re non si unì a lei’ non è un commento sulla virtuosa
continenza di Davide, ma una prova definitiva della sua infermità”(Walsh-Begg 1997, 212).
11
In questo saggio Baldi sottolinea anche dal punto di vista formale gli aspetti peculiari che rendono La novella un
unicum nel panorama della produzione sveviana.
8
Novella del buon vecchio e della bella fanciulla il nodo della questione si pone attorno al desiderio
erotico del vecchio: per questo motivo l’episodio biblico citato viene modificato, vengono esclusi
dalla rievocazione i servi che proponevano a re Davide di unirsi ad Abisag per recuperare il suo
calore e tutto il richiamo si avviluppa intorno all’unico elemento funzionale alla narrazione, ovvero
l’amore tra un vecchio e una giovane. Non è un caso, inoltre, che nella Novella non si faccia
riferimento alla morte di Davide: in questo caso non vi è alcun bisogno di sottolineare gli effetti che
possono derivare dall’astenersi dalla “cura”, e, al contrario, sarà proprio la relazione con la giovane
a causare la morte del buon vecchio 12.
2. Passiamo ora alla seconda categoria di riecheggiamenti biblici a cui abbiamo accennato
all’inizio di questo studio e per farlo continuiamo a frequentare le pagine della Novella. Carlo
Annoni, riflettendo sull'abitudine al “bagno quotidiano” (Svevo 2004b, 443) della bella fanciulla, ha
avanzato questa ipotesi:
L’informazione viene infatti data troppe volte, in evidente spreco per le necessità
diegetiche del testo, al punto da far nascere il sospetto, e più che il sospetto, di
un’allusione cifrata. Ci chiediamo: vorrà l'autore citare dal Libro di Daniele l’episodio di
“Susanna al bagno” o, detto più svevianamente e in accordo con una secolare tradizione,
di “Susanna e i vecchioni” (da cui la filiazione del “vecchione” del “quarto romanzo”)?
(Annoni 1993, 74-75).
L’ipotesi ci sembra stimolante e ci offre il destro per porre a fianco di questa tessera biblica
un’altra che può aver interagito con quella tratta dal Libro di Daniele nella composizione del
personaggio della bella fanciulla. Si è riflettuto a lungo in precedenza sull’episodio ricavato dal
Libro primo dei re avente come protagonista Davide e inserito da Svevo all’interno della Novella;
può darsi che l’insistenza con cui l’autore triestino ricorda i bagni della protagonista femminile del
racconto sia dovuta alla memoria anche di un altro passo biblico concernente l’uccisore di Golia:
Un tardo pomeriggio Davide, alzatosi dal letto, si mise a passeggiare sulla terrazza
della reggia. Dall’alto di quella terrazza egli vide una donna che faceva il bagno: la donna
era molto bella di aspetto.
Davide mandò a informarsi chi fosse la donna. Gli fu detto: "È Betsabea figlia di
12
Ricordiamo in conclusione che Clotilde Bertoni, in virtù di alcune discrepanze tematiche, strutturali e linguistiche
contenute nel testo della Novella del buon vecchio e della bella fanciulla a confronto con le opere dell’ultimo Svevo, tra
cui anche le diverse modalità con cui viene riferito l’episodio del Libro primo dei re, ha proposto di retrodatare il
racconto e di “collocarlo al tempo della composizione del terzo romanzo, o addirittura in epoca anteriore, intorno al
1919 (nel momento definito dal Profilo autobiografico di ‘forte travolgente ispirazione’)” (Svevo 2004b, 1151). Meno
convincente risulta l’interpretazione che la studiosa dà delle modalità con cui Svevo riporta l'episodio biblico,
giustificate, ci pare di capire, con un difetto di memoria: “L’episodio è ricordato con maggiore precisione in Corto
viaggio sentimentale […] e nella Rigenerazione” (Svevo 2004b, 1158). Va poi segnalato che anche Gabriella Contini ha
preso in considerazione, nelle sue riflessioni sull’ultimo Svevo, questi riferimenti biblici, pur non soffermandosi sulle
differenze: “‘Vegliardo’ sottolinea una condizione umana che va oltre la vecchiaia, un territorio del tempo dove si
procede a tentoni [...]. Alcune coincidenze con La novella del buon vecchio aiutano il lettore a definire meglio la
sensazione iniziale di trovarsi di fronte a un vocabolo premeditatamente arcaico, dal gusto in qualche modo già noto,
collegato ad altre situazioni già incontrate. La definizione ‘buon vecchio’, prima che il testo gratifichi il personaggio
della sua perplessa ironia, lo relega in una remota e ‘biblica’ solitudine. ‘Dunque il vecchio partiva dal principio come la
Bibbia’; ‘[Il vecchio] quando vuole una donna ricorda il re Davide che dalle giovinette si aspettava la gioventù’; ‘Dio
mio! La Bibbia non è mica stata scritta invano! Doveva la gioventù obbedienza alla vecchiaia?’. E il vecchione esala
l’‘ultimo anelito suo’ mentre stende le sue personali tavole della legge. Altre reminiscenze bibliche, più brutalmente
desacralizzate nella Rigenerazione [...]. La parola ‘patriarca’ circola indisturbata e inquietante per tutta l’ultima opera di
Svevo” (1980, 24-25). Anche Giovanni Palmieri nella sua relazione Le sviste del ‘buon vecchio’ nella novella sveviana
della ‘bella fanciulla’ tenuta nel corso del convegno oxoniense Italo Svevo and his legacy si è soffermato sul significato
di questa citazione biblica all’interno della novella sveviana.
9
Eliàm, moglie di Uria l’Hittita".
Allora Davide mandò messaggeri a prenderla. Essa andò da lui ed egli giacque con lei,
che si era appena purificata dalla immondezza (2Sam 11, 2-4).
Crediamo che sia possibile che il passo biblico segnalato da Annoni e quello che abbiamo
noi qui sopra riportato, entrambi caratterizzati dalla presenza di una fanciulla nell’atto di lavarsi,
abbiano consuonato assieme come fonte della Novella: dal primo Svevo potrebbe aver ricavato il
tema dell’eros senile, dal secondo quello del rapporto sessuale consumato tra un uomo e una donna
e da entrambi il motivo della “fanciulla al bagno”13.
Facciamo ora qualche passo indietro nella cronologia sveviana e spostiamoci all’interno del
racconto mutilo La buonissima madre. La breve narrazione tratta del matrimonio tra l’“ottima
fanciulla” (Svevo 2004b, 269) Amelia e il “milionario” (Svevo 2004b, 270) Emilio Merti, gravato
da una zoppia causata – si dice – da una caduta dalle braccia della balia in seguito alla quale “la sua
gamba destra aveva cessato di crescere” (Svevo 2004b, 271). Dall’unione tra Amelia e Emilio nasce
il piccolo Achille, anche lui afflitto dallo stesso problema anatomico del padre 14. L’ultimo arrivato
nella famiglia ha però vita breve e muore in seguito a un violento attacco di febbre; nel cuore di
Amelia il posto lasciato vuoto da Achille viene presto occupato dalla piccola Bianca, una delle figlie
del romano Carini, amico d’affari del signor Merti venuto a soggiornare con tutta la famiglia per
qualche giorno in casa di Amelia e Emilio. Anche questa “maternità” è però breve, in quanto Bianca
dopo qualche tempo fa ritorno con i genitori a Roma; Amalia è tuttavia ben intenzionata ad avere
della prole e a tal fine si concede segretamente al “forte, bruno” (Svevo 2004b, 276) signor Carini e
da questa unione nasce la sanissima Donata.
Ora, al fine del nostro studio a noi preme soffermarci sulla zoppia che affligge Emilio e il
piccolo Achille: una fonte del peculiare marchio di famiglia può essere ricavata a partire dal nome
del figlio della coppia protagonista del racconto, Achille, con un manifesto riferimento al tallone
dell’eroe omerico. A fianco di questa memoria esplicitata si può ipotizzarne anche una sottaciuta,
quella al mito dello zoppo Edipo 15, peraltro evocato da un’affermazione di Amelia riferita alla balia
di Emilio che rimanda direttamente a uno degli episodi più noti della tragedia sofoclea: “‘Oh! Se
fossi stata sua madre” pensò “io le avrei strappati gli occhi’” (Svevo 2004b, 271). A questa coppia
di rimandi di origine classica possiamo aggiungerne un altro, stavolta di natura biblica; dobbiamo
anche in questo caso fare riferimento a un episodio del Libro secondo di Samuele:
13
Anche Langella ha proposto un ricco catalogo di passi sveviani che potrebbero nascondere una genesi biblica:
“Subito a inizio di capitolo, ci viene incontro una ‘fantasia’ di Umbertino che palesemente rinvia alla decollazione del
Battista […]. Inoltre, per una frase di Antonia, che dà fondo al proprio dolore di vedova, compiangendo la sua ‘sventura
enorme, la maggiore che sia mai toccata ad una donna’, viene citato esplicitamente il libro di Giobbe. […] E non basta:
la vicenda sentimentale – così inconsueta – di Antonia, la quale, innamoratasi di un uomo, dopo la sua tragica morte in
guerra ne aveva sposato il fratello, e poi, perduto anche questo, il giorno stesso del funerale aveva ricevuto un’indiretta
proposta di matrimonio dal suo più ‘fraterno’ amico, sembra ricalcata sul caso analogo, riferito dai sinottici, della donna
che, rimasta vedova del primo marito, secondo quanto prescritto dalla legge mosaica, ne aveva sposato, uno dopo
l’altro, i sei fratelli. […] In un capitolo che prende le mosse proprio da un evento luttuoso (la morte di Valentino) può
sorprendere, fra gli altri, un rimando all’Apocalisse, che di tutti i libri della sacra scrittura è l’escatologico per
eccellenza? […] Nella Novella del buon vecchio e della bella fanciulla […] aveva citato il Siracide (3, 1-16) [...]. Nella
scena culminante della Rigenerazione (II, XIV) […], in tema di tentazione era ricomparso l’antico serpente dell’Eden,
in forma di braccio galeotto intorno alla vita della cameriera. Nel Mio ozio […] la ‘stupida commedia’ che recitano
Zeno e Misceli […] ricorda le reciproche cautele dei due anziani giudici del popolo che avevano tentato di insidiare
Susanna” (1995, 212-214). Da segnalare anche l’ipotesi di Giovanni Palmieri che ha proposto come ipotesto del finale
della Coscienza di Zeno un passo dell’Apocalisse (1997).
14
Facciamo notare che Svevo fa riferimento al tema della trasmissione ai figli di caratteri fisici acquisiti dai padri
anche in uno breve testo autobiografico, La nascita di Francesco Schmitz, suscitato dalla supposizione (poi rivelatasi
erronea) dell’arrivo di un erede: “Dubito che la mia dolorosa lotta non abbia impresso sul mio fisico dei segni avvilenti,
degradanti che tramanderò a lui” (Svevo 2004b, 711).
15
Si veda in proposito il commento di Clotilde Bertoni (Svevo 2004b, 1006).
10
Giònata, figlio di Saul, aveva un figlio storpio di ambedue i piedi. Egli aveva cinque
anni, quando giunsero da Izreèl le notizie circa i fatti di Saul e di Giònata. La nutrice
l’aveva preso ed era fuggita, ma nella fretta della fuga il bambino era caduto e rimasto
storpio. Si chiamava Merib-Bàal (2Sam 4,4).
La parentela tra questo episodio biblico e quello sveviano è evidente: anche se alcuni
elementi non sono perfettamente sovrapponibili, come ad esempio il fatto che il trauma coinvolga
entrambi gli arti e non uno solo, il peculiare della balia disattenta che fa cadere a terra il piccolo è
un riferimento troppo preciso per essere casuale. A partire da queste possibili fonti che abbiamo
elencato, facciamo notare il particolare modo di procedere dell’autore triestino, peraltro già
evidenziato da Carlo Annoni nella sua illustrazione del collegium trilingue di Svevo (Annoni 1993),
volto ad unire in una mescolanza sincretica elementi provenienti da diverse tradizioni letterarie: da
una parte abbiamo le memorie classiche incarnate nei riferimenti ad Achille ed Edipo; dall’altra
un’ascendenza biblica, con il rimando all’episodio di Merib-Bàl. A tutto questo va infine aggiunto
un ulteriore componente che rende, se possibile, ancora più originale l’impasto di elementi
amalgamato da Svevo; facciamo riferimento al forte contesto darwiniano che aleggia lungo tutto
l’episodio e che è ben sottolineato dal ricordo che suscita in Amelia la vista della gamba più corta di
Emilio: “Questo per un istante ricordò ad Amelia certi studi di Darwin sugli astici che hanno il lato
destro più grosso del sinistro” (Svevo 2004b, 271), aggiungendo così un’ulteriore allusione alle già
numerose presenti nel racconto.
Proseguendo con le nostre riflessioni varchiamo ora i limiti dell’Antico Testamento e
prestiamo attenzione ai Vangeli. La decisione non deve stupire: è noto, infatti, che sebbene di
origini ebraiche, Svevo si convertì, per accondiscendere a un desiderio della moglie Livia, al
cattolicesimo; è quindi da darsi per certa, e probabilmente non solo per questo elemento biografico,
la sua conoscenza dell’intero catalogo dei Testi Sacri e non esclusivamente di quella parte che
compone il canone ebraico 16. Prendiamo in esame un passo della prima stesura del racconto mutilo
Marianno17:
Ricordò sempre l'impressione che gli aveva fatto un libro di lettura che Adele e lui
lessero da capo a fondo più volte. Era la storia di un ragazzo che aveva dato grandi
dispiaceri a suo padre e che poi aveva voluto avere prontamente la sua parte di eredità e
con quella s’era allontanato dalla casa paterna. In poco tempo a forza di giuoco e di altre
cose che il libro non diceva, era rimasto privo di tutto. Poi con il dolore era venuto il
pentimento ed egli s’era dato a lavora[re] indefessamente. Prima come manovale; poi
inventò una macchina e con quella guadagnò milioni. Naturalmente quando ritornò con
tutti quei denari al padre, costui lo accolse molto bene. E tutti furono felici (Svevo 2004b,
353).
La prima parte del testo rivela in maniera inequivocabile una memoria della parabola
evangelica del figliol prodigo (Lc 15, 11-32): i particolari della richiesta della propria parte di
16
Vale la pena ricordare che anche Zeno Cosini per un breve periodo della sua vita si interessa ai testi del Nuovo
Testamento: “Per qualche tempo mi dedicai agli studi di religione. Mi parve di riprendere lo studio che avevo iniziato
alla morte di mio padre. Forse questa volta fu per un tentativo energico di avvicinarmi ad Augusta e alla sua salute. Non
bastava andare a messa con lei; io dovevo andarci altrimenti, leggendo cioè Renan e Strauss, il primo con diletto, il
secondo sopportandolo come punizione. Ne dico qui solo per rilevare quale grande desiderio m’attaccasse ad Augusta.
E lei questo desiderio non indovinò quando mi vide nelle mani i Vangeli in edizione critica. Preferiva l’indifferenza alla
scienza” (Svevo 2004a, 800). Si ricordi inoltre che Renan fu oggetto di un articolo, La verità, scritto da Svevo e apparso
sull’“Indipendente” il 14 agosto 1884 (Svevo 2004c, 1008-1009). Questo nome ritorna poi nel Profilo autobiografico
(Svevo 2004b, 801), nel saggio Del sentimento in arte e negli articoli Un individualista e Per un critico (Svevo 2004c,
829, 1040, 1046).
17
Per ciò che concerne la vicenda redazionale del racconto si veda il commento di Clotilde Bertoni (Svevo 2004b).
11
eredità, dell’abbandono della casa paterna, della vita dissoluta e del pentimento rimandano senza
dubbio al racconto dell’evangelista Luca. Sorprendente però è la continuazione della vicenda: nel
caso del racconto letto “da capo a fondo più volte” da Marianno e dalla sorellastra Adele non
abbiamo il ritorno alla casa paterna e la conseguente scena di perdono e riconciliazione, ma un esito
ben diverso: il giovane protagonista si rimbocca le maniche e incomincia un lungo percorso di
risalita che lo porta al successo e alla ricchezza. Solo a questo punto avviene il ricongiungimento
con il padre che, visti i buoni risultati conseguiti dal figlio, non può che accoglierlo a braccia aperte.
Anche in questa occasione crediamo emerga in maniera abbastanza evidente il sofisticato modo di
procedere di Svevo: nella medesima occasione troviamo intessute insieme due tradizioni, quella
proveniente dal Vangelo e quella nata intorno al mito del self-made-man, che si uniscono a formare
un unicum del tutto originale. Ricordiamo poi che Claudio Magris, nelle sue riflessioni su Joseph
Roth e la tradizione ebraico-orientale, ha sottolineato che la parabola del figliol prodigo incarna “la
consapevole sottomissione e autointegrazione in un ordine” (1971, 34). Le variazioni che Svevo
apporta a questo modello, considerate in quest’ottica, appaiano ancora più significative: Marianno,
come accade in ultima istanza al protagonista del racconto letto con la sorellastra Adele, non sogna
tanto di fuggire dall’opprimente universo chiuso in cui si trova a vivere, ma immagina piuttosto di
ottenere il successo che gli permetta di integrarsi all’interno di tale universo e di condurre
un’esistenza alla pari, e non da sottomesso, con gli altri componenti.
Anche nella commedia Un marito possiamo individuare un riferimento evangelico, ancora
una volta ricavato dal vangelo di Luca. Come noto l’opera è completamente costruita intorno al
dramma psicologico del protagonista, l’avvocato Federico Arcetri, che anni addietro aveva ucciso la
moglie Clara dopo averla scoperta con l’amante e che ora si trova a rivivere la stessa situazione
perché tormentato dal dubbio che l’attuale coniuge, Bice, lo tradisca; la trama è ulteriormente
complicata dalle vicende di un concittadino, tale Vincenzo Cerigni, che si macchia dello stesso
delitto di Federico e di cui il protagonista, per coerenza con il proposito che lo condusse
all’uxoricidio, assume la difesa legale. All’inizio del terzo atto, Alfredo Reali, vecchio amico di
Federico e fratello di Bice, nomina un opuscolo scritto in gioventù dall’Arcetri:
Cercai e trovai un opuscolo pubblicato da lui poco dopo finiti gli studi. È magnifico di
entusiasmo; contiene vera scienza enunciata da un poeta. La Morale scientifica. La
citazione sotto il titolo è la sincera sintesi del lavoro: Molto sarà perdonato a chi molto ha
amato, ma molto sarà perdonato anche a chi non ha amato affatto (Svevo 2004c, 349350).
“La citazione sotto il titolo” riecheggia l’episodio evangelico in cui Gesù rimprovera
Simeone per non avergli offerto la stessa ospitalità indirizzatagli invece dalla peccatrice:
E volgendosi verso la donna, disse a Simeone: “Vedi questa donna? Sono entrato nella
tua casa e tu non m’hai dato l’acqua per i piedi; lei invece mi ha bagnato i piedi con le
lacrime e li ha asciugati con i suoi capelli. Tu non mi hai dato un bacio, lei invece da
quando sono entrato non ha cessato di baciarmi i piedi. Tu non mi hai cosparso il capo di
olio profumato, ma lei mi ha cosparso di profumo i piedi. Per questo ti dico: le sono
perdonati i suoi molti peccati, poiché ha molto amato. Invece quello a cui si perdona
poco, ama poco” (Lc, 7, 44-47).
La dipendenza del testo sveviano da quello evangelico appare indubitabile; e tuttavia non si
può non notare che la seconda parte del sottotitolo dell’opera di Federico Arcetri si discosta
sensibilmente dal suo archetipo: nella commedia sveviana si afferma infatti che “molto sarà
perdonato anche a chi non ha amato affatto” mentre nel vangelo di Luca si dice che “quello a cui si
perdona poco, ama poco”. Discostandosi in questo modo dal modello, Svevo ha con tutta
probabilità voluto mettere ancor più in evidenza il dramma interiore di Federico: come sottolineato
12
dallo stesso Reali, il protagonista della commedia “appartiene alla schiera di coloro che molto
amarono” (Svevo 2004c, 350) (anche se, evidentemente, il sentimento di Federico è un sentimento
malato che lo porta all’uxoricidio e a venerare poi per il resto della vita lo moglie defunta); alla
schiera di “chi non ha amato affatto”, a causa del suo tradimento, appartiene invece Clara, a cui, per
quanto l’omicidio e i sistemi di negazione messi in atto da Federico possano far pensare il contrario,
tutto è stato perdonato, come testimonia il profondo affetto che il protagonista ha conservato per la
prima moglie e che lo porta a trascurare pesantemente Bice.
Volgiamo ora la nostra attenzione al terzo romanzo dell’autore triestino: tra i numerosi
contributi di critica sveviana che hanno cercato di indagare le fonti di cui si sarebbe servito Svevo
nella stesura della Coscienza di Zeno, uno statuto certamente particolare spetta al saggio di
Gabriella Moretti apparso sulla “Rivista di letteratura italiana” circa quindici anni fa (1995), nel
quale l’autrice segnala una serie di elementi che mettono in stretta relazione alcuni episodi narrati
da Zeno nelle sue memorie scritte come “preludio alla psico-analisi” (Svevo 2004a, 625) alle
vicende bibliche del patriarca Giacobbe. Riportiamo schematicamente di seguito il catalogo dei
punti di contatto tra i due racconti segnalati dalla Moretti:
1) Zeno, come Giacobbe, è un sognatore;
2) le vicende che legano Zeno al suocero, Giovanni Malfenti, sono assimilabili ai rapporti
che intercorrono nella Genesi tra Giacobbe e Labano: “Prima ancora di conoscere le figlie, poi, il
personaggio Zeno incontra il futuro suocero Malfenti, l’uomo attivo, il commerciante astuto cui si
accompagna per tentare di imparare i segreti del commercio e del gioco della Borsa. Come
Giacobbe va a lavorare presso il suo parente, così Zeno si accompagna a Malfenti [...] che non si
perita di imbrogliare o tentare di imbrogliare l’ingenuo Zeno, che però, per caso o per benedizione
(proprio come il biblico Giacobbe), riesce poi ad avere degli inaspettati successi commerciali”
(Moretti 1995, 148);
3) come Giacobbe prende moglie lontano dalle sue terre natali, così Zeno, per via
dell’iniziale del suo nome, al momento dell’ingresso nella casa delle figlie “che avevano tutte
l’iniziale in a” dichiara di sentirsi come se stesse “per prendere moglie lontano dal [suo] paese”
(Svevo 2004a, 692-693);
4) la coppia di sorelle della Coscienza di Zeno Augusta-Ada ricorda quella biblica LiaRachele: sia Augusta che Lia infatti soffrono di un disturbo agli occhi e non sono oggetto delle mire
matrimoniali dei personaggi maschili che invece si innamorano delle loro sorelle Ada e Rachele;
5) “Come Giacobbe sposò Lia per uno scambio di persona, credendola, nel buio della
cerimonia nuziale, la sorella Rachele, così Zeno Cosini [...] fa una dichiarazione d’amore ad
Augusta, credendola Ada, durante il buio di una seduta spiritica” (Moretti 1995, 150);
6) la lotta ingaggiata da Zeno con Guido per il possesso di Ada ricorda, almeno nelle
conseguenze subite dal protagonista, lo scontro di Giacobbe con l’angelo: “Così come Giacobbe
lottò con l’angelo [...] e ne riportò una lesione all’anca e al nervo sciatico, così Zeno durante la
rivalità con Guido [...] comincia a soffrire di un dolore d’origine nervosa a un’anca, e verrà curato
appunto al nervo sciatico” (Moretti 1995, 152).
Le analogie segnalate dall’autrice tra il racconto di Zeno e le storie di Giacobbe appaiono
molto convincenti e, come lei stessa afferma, “troppe e troppo precise per dirsi casuali” (Moretti
1995, 154); in questo nostro scritto proveremo ad ampliare queste osservazioni e cercheremo di
indicare altri punti della Coscienza nei quali è possibile individuare una memoria dei capitoli della
Genesi dedicati alla narrazione delle vicende del patriarca bilico.
Per prima cosa, ci soffermiamo sul primo punto sottolineato dalla Moretti, la propensione,
comune sia a Zeno sia a Giacobbe, al sogno. Per fare questo prendiamo in considerazione la
seconda parte della quarta visione onirica presente nel romanzo, il cosiddetto sogno di Basedow:
Poi ci fu un intervallo di notte vuota. Indi, subito, Ada ed io ci trovavamo soli sulla più
erta scala che ci fosse nelle nostre tre case, quella che conduce alla soffitta della mia villa.
13
Ada era posta per alcuni scalini più in alto, ma rivolta a me ch’ero in atto di salire, mentre
lei sembrava volesse scendere. Io le abbracciavo le gambe e lei si piegava verso di me
non so se per debolezza o per essermi più vicina. Per un istante mi parve sfigurata dalla
sua malattia, ma poi, guardandola con affanno, riuscivo a rivederla come m’era apparsa
alla finestra, bella e sana. Mi diceva con la sua voce soda: “Precedimi, ti seguo subito!”
Io, pronto, mi volgevo per precederla correndo, ma non abbastanza presto per non
scorgere che la porta della mia soffitta veniva aperta pian pianino e ne sporgeva la testa
chiomata e bianca di Basedow con quella sua faccia fra timorosa e minacciosa (Svevo
2004a, 962).
Questo passo della Coscienza è uno dei più conosciuti e dibattuti dalla critica; secondo
Lavagetto questo sogno andrebbe letto come il centro di tutti i racconti onirici presenti nel romanzo,
come “quello a cui tutti gli altri sono collegati e attorno a cui ruotano, sia pure a distanze variabili”
(1975, 94). La critica ha già ravvisato al suo interno la presenza di diverse tracce letterarie; tra le
analisi più puntuali ricordiamo quella di Giovanni Palmieri secondo il quale
il modello letterario della prima parte del sogno è certamente l’incubo manzoniano di
Don Rodrigo: fra Cristoforo, in veste di terribile ammonitore, appare nel sogno del
reprobo come un vecchio con la barba bianca, e la gente che gli sta intorno porta vestiti
laceri che lasciano intravedere le macchie e i bubboni della peste18. Per la seconda parte
del sogno è necessario ricorrere invece a Freud […] secondo cui l’atto di salire e scendere
le scale è rappresentazione simbolica dell’atto sessuale (Palmieri 1994, 305) 19.
Oltre ai giusti rilievi manzoniani e freudiani avanzati da Palmieri crediamo che possa aver
avuto un ruolo nella composizione di questo passo sveviano anche la celebre visione onirica di
Giacobbe a Betel:
Giacobbe partì da Bersabea e si diresse verso Carran. Capitò così in un luogo, dove
passò la notte, perché il sole era tramontato; prese una pietra, se la pose come guanciale e
si coricò in quel luogo. Fece un sogno: una scala poggiava sulla terra, mentre la sua cima
raggiungeva il cielo; ed ecco gli angeli di Dio salivano e scendevano su di essa. Ecco il
Signore gli stava davanti e disse: “Io sono il Signore, il Dio di Abramo tuo padre e il Dio
di Isacco. La terra sulla quale tu sei coricato la darò a te e alla tua discendenza”. (Gen 28,
18
Riportiamo la prima parte della visione onirica: “Ecco il sogno: eravamo in tre, Augusta, Ada ed io che ci
eravamo affacciati ad una finestra e precisamente alla più piccola che ci fosse stata nelle nostre tre abitazioni, cioè la
mia, quella di mia suocera e quella di Ada. Eravamo cioè alla finestra della cucina della casa di mia suocera che
veramente si apre sopra un piccolo cortile mentre nel sogno dava proprio sul Corso. Al piccolo davanzale c’era tanto
poco spazio che Ada, che stava in mezzo a noi tenendosi alle nostre braccia, aderiva proprio a me. Io la guardai e vidi
che il suo occhio era ridivenuto freddo e preciso e le linee della sua faccia purissime fino alla nuca ch’io vedevo coperta
dei suoi riccioli lievi, quei riccioli ch’io avevo visti tanto spesso quando Ada mi volgeva le spalle. Ad onta di tanta
freddezza (tale mi pareva la sua salute) essa rimaneva aderente a me come avevo creduto lo fosse quella sera del mio
fidanzamento intorno al tavolino parlante. Io, giocondamente, dissi ad Augusta (certo facendo uno sforzo per occuparmi
anche di lei): ‘Vedi com’è risanata? Ma dov’è Basedow?’. ‘Non vedi?’, domandò Augusta ch’era la sola fra di noi che
arrivasse a guardare sulla via. Con uno sforzo ci sporgemmo anche noi e scorgemmo una grande folla che s’avanzava
minacciosa urlando. ‘Ma dov’è Basedow?’ domandai ancora una volta. Poi lo vidi. Era lui che s’avanzava inseguito da
quella folla: un vecchio pezzente coperto di un grande mantello stracciato, ma di broccato rigido, la grande testa coperta
di una chioma bianca disordinata, svolazzante all’aria, gli occhi sporgenti dall’orbita che guardavano ansiosi con uno
sguardo ch’io avevo notato in bestie inseguite, di paura e di minaccia. E la folla urlava: ‘Ammazzate l’untore!’” (Svevo
2004a, pp. 961-962).
19
Oltre a quelle segnalate da Palmieri, un’altra possibile fonte dell’episodio onirico è stata individuata da Carlo
Annoni che, dopo averne ravvisato gli echi manzoniani, ha messo in relazione questo sogno del romanzo sveviano con
il finale dell’Ernani di Verdi: “Svevo ricorda e riusa l’ordine secondo il quale il librettista di Verdi scandisce in tre
tempi le didascalie verso la climax finale dell’opera, la sua stretta luttuosa: a. Elvira (Ada) sale alla camera nuziale; b.
Ernani (Zeno) si avvia per raggiungere la donna; c. Silva (Cosini padre) appare in cima allo scalone” (1994, 73).
14
10-13).
In entrambi gli episodi onirici, quello di Zeno e quello di Giacobbe, possiamo rintracciare la
presenza di una simbologia comune, rivista, nel caso del romanzo, secondo i dettami della
psicoanalisi: innanzitutto la scala, che nella Coscienza, come giustamente sottolineato da Palmieri,
si riveste freudianamente anche di un ulteriore significato, quello dell’atto sessuale 20; simile nei due
sogni è anche l’apparizione improvvisa di una figura: nel caso del patriarca biblico si tratta di Dio,
mentre, nel romanzo, della rappresentazione onirica del morbus Basedowii che ha colpito Ada. A
suggerire una possibile parentela tra le due figure contribuiscono alcuni elementi: innanzitutto gli
abiti regali stracciati attribuiti a Basedow nella prima parte del sogno 21 che lo connotano come
figura di un sovrano decaduto, iconografia che per l’ateo Svevo lettore di Nietzsche può forse essere
ricondotta a quella di Dio; inoltre la testa “chiomata e bianca” di Basedow rimanda alla “bianca
chioma ricciuta” (Svevo 2004a, 667) del padre di Zeno 22, figura (quella del procreatore), che, a sua
volta, potrebbe rimandare a quella del Creatore23.
Proviamo ora a integrare le osservazioni di Gabriella Moretti coinvolgendo nella nostra
analisi un altro personaggio che ricopre un ruolo fondamentale nei capitoli della Genesi dedicati a
Giacobbe: Esaù. Possiamo ipotizzare, infatti, che le figure bibliche dei fratelli-oppositori figli di
Isacco e Rebecca trovino qualche eco all’interno della Coscienza nella coppia di cognati-antagonisti
Zeno-Guido.
Cominciamo col dire che la possibilità di leggere la storia delle relazioni tra il Cosini e lo
Speier come la narrazione delle vicende di due fratelli è autorizzata dal romanzo stesso: innanzitutto
perché i due sono sposati a due sorelle e quindi, per legge, fratelli; si può poi ricordare che alcuni
studi hanno sottolineato i legami che intercorrono tra la figura del fratello naturale di Zeno come
compare nei sogni del capitolo Psico-analisi e quella del marito di Ada: ad esempio, Teresa De
Lauretis ha fatto notare che l’invidia provata da Zeno per il fratello che può godere della presenza
della madre mentre lui è costretto a recarsi a scuola (Svevo 2004a, 1051-1052) e la sua volontà
castratoria nei confronti del germano che si manifesta nell’atto di sottrargli il cucchiaio (Svevo
2004a, 1053), “trova[no] riscontro nell’impulso di Zeno di uccidere Guido per avere Ada tutta per
sé” (De Lauretis 1976, 106); è infine una battuta di Augusta rivolta a Zeno dopo la morte di Guido a
confermare questa parentela: “Tu sei stato un fratello per lui” (Svevo 2004a, 1032).
A partire da questa valutazione proviamo a considerare come la figura di Esaù, fratello di
Giacobbe, possa aver lasciato delle tracce in quella di Guido, “fratello” di Zeno. Nel racconto della
Genesi, Esaù, fin dalla sua prima apparizione, viene caratterizzato da alcuni particolari: “Uscì il
primo, rossiccio e tutto come un mantello di pelo, e fu chiamato Esaù” (Gen 25, 25). La descrizione
biblica pone quindi l’accento su due tratti distintivi: la folta peluria e il colore rosso. Rimandiamo
ad un successivo momento le riflessioni sul secondo particolare e ci concentriamo
momentaneamente sul primo; per farlo prendiamo in considerazione la descrizione che Zeno dà di
Guido al momento della sua prima comparsa nel romanzo:
Era un bellissimo giovine: le labbra naturalmente socchiuse lasciavano vedere una
bocca di denti bianchi e perfetti. L’occhio suo era vivace e espressivo e, quando s’era
20
“Scale, scale a pioli, scalinate e rispettivamente il fare le scale, tanto in salita quanto in discesa, sono
rappresentazioni simboliche dell’atto sessuale” (Freud 1971, 326).
21
“Era lui che s’avanzava nella folla: un vecchio pezzente coperto di un grande mantello stracciato, ma di broccato
rigido”, (Svevo 2004, 962). Cfr. nota 24.
22
A suggerire un’identificazione tra il sovrano decaduto Basedow e il padre contribuiscono anche gli insegnamenti
di Freud: “L’imperatore e l’imperatrice (re e regina) di solito rappresentano in realtà i genitori di chi sogna” (Freud
1971, 325).
23
“Sappiamo innanzitutto che Dio è un sostituto del padre, o più precisamente è un padre che è stato innalzato,
oppure, ancora, è una copia del padre, così come il padre è stato visto e vissuto nell’infanzia, dal singolo nella sua
infanzia personale, e dal genere umano, nella sua preistoria, come padre dell’orda primordiale” (Freud 1977, 539).
15
scoperto il capo, avevo potuto vedere che i suoi capelli bruni e un po’ ricciuti, coprivano
tutto lo spazio che madre natura aveva loro destinato, mentre molta parte della mia testa
era stata invasa dalla fronte (Svevo 2004a, 735).
Possiamo individuare in queste poche righe una prima tessera testuale che accomuna la
coppia Zeno-Guido a quella biblica: così come Esaù è peloso mentre Giacobbe è glabro, a tal punto
da doversi rivestire le mani e il collo con le pelli dei capretti al momento di presentarsi davanti a
Isacco per chiedere la benedizione al posto del fratello, allo stesso modo Guido presenta una folta e
riccia chioma mentre Zeno è quasi completamente privo di capelli.
Continuiamo a percorrere il racconto biblico; pochi versetti più avanti la Genesi ci riferisce
della crescita dei due fratelli: “I fanciulli crebbero ed Esaù divenne abile nella caccia, un uomo della
steppa, mentre Giacobbe era un uomo tranquillo, che dimorava sotto le tende” (Gen 25, 27). Ci pare
che questi particolari trovino riscontro nel capitolo del romanzo dedicato all’associazione
commerciale tra i due cognati:
Per vari giorni alla settimana, Guido non si faceva neppur vedere in ufficio perché
s’era appassionato alla caccia e alla pesca. Io, invece, dopo il mio ritorno, per qualche
tempo vi fui assiduo, occupatissimo nel mettere a giorno i libri (Svevo 2004a, 936-937).
Anche in questo luogo testuale è plausibile ipotizzare un riuso da parte di Svevo di alcuni
elementi prelevati dal racconto biblico: infatti sia Esaù che Guido sono dei cacciatori, a differenza
dei rispettivi “fratelli” che invece disprezzano tale pratica (all’invito rivoltogli da Guido di prendere
parte con lui a una battuta di caccia Zeno commenta: “Egli m’invitò a caccia e a pesca. Io aborro la
caccia e decisamente mi rifiutai di accompagnarvelo”, Svevo 2004, 937); inoltre, proprio come
Giacobbe rimane sotto le tende mentre Esaù esce per la caccia, allo stesso modo, quando Guido
decide di darsi all’arte venatoria, Zeno si rintana nel proprio ufficio, luogo che fino a quel momento
aveva sempre disertato per portare avanti la propria relazione con Carla.
Proseguiamo ora nella nostra lettura affiancata prendendo in considerazione un altro celebre
episodio della Genesi che vede protagonisti i due figli di Isacco: facciamo riferimento ai versetti in
cui Giacobbe, guidato dalla madre Rebecca, si traveste da Esaù e si presenta al cospetto del padre
per ottenere la benedizione al posto del fratello. Ci pare che questa scena sia riverberata nella
Coscienza in un passo anche in questo caso tratto dal settimo capitolo:
Parlammo insieme per molte ore, ma la proposta del Nilini di proseguire nel gioco
iniziato da Guido, arrivò in ultimo, poco prima del mezzodì e fu subito accettata da me.
L’accettai con una gioia tale come se così fossi riuscito di far rivivere il mio amico. Finì
che io comperai a nome del povero Guido una quantità di altre azioni dal nome bizzarro:
Rio Tinto, South French e così via (Svevo 2004a, 1033).
Ecco quindi anche nel romanzo una scena di sostituzione tra i due personaggi: così come
Giacobbe veste i panni di Esaù per ottenere la benedizione del padre, allo stesso modo Zeno assume
l’identità del defunto cognato e acquista azioni a nome suo al fine di recuperare il capitale perso
dalla ditta. Paragonabili nei due racconti ci paiono anche le modalità con cui si sviluppa la scena. In
entrambi i casi, infatti, possiamo rilevare la presenza di un aiutante che suggerisce ai protagonisti
l’idea della sostituzione e li assiste nello svolgimento del loro piano: nel caso biblico è Rebecca,
madre di Giacobbe e Esaù, ad architettare l’episodio e a predisporre tutto in modo che il
travestimento non venga scoperto (è lei a preparare la vivanda saporita da servire a Isacco, a
rivestire Giacobbe con le vesti del fratello e a ricoprire le sue mani e il suo collo con le pelli dei
capretti); nel caso del romanzo invece è Nilini a consigliare a Zeno l’idea dell’acquisto delle azioni
e a recarsi alla Borsa a svolgere tale pratica. Questo passo del romanzo ci offre anche l’occasione
16
per riprendere una questione che avevamo lasciata aperta in precedenza: si è detto che nel racconto
della Genesi fin dai primi versetti, oltre alla folta peluria, il narratore biblico evidenzia un altro
particolare legato ad Esaù: il colore rosso. Questo tratto peculiare è peraltro rimarcato nel celebre
episodio della vendita della primogenitura:
Una volta Giacobbe aveva cotto una minestra di lenticchie; Esaù arrivò dalla
campagna ed era sfinito. Disse a Giacobbe: “Lasciami mangiare un po’ di questa minestra
rossa, perché io sono sfinito”. Per questo fu chiamato Edom (Gen 25, 29-30).
Ci pare possibile ipotizzare che anche questa caratteristica fisica abbia lasciato un ricordo,
seppur sapientemente celato, nella Coscienza; a nostro modo di vedere questa possibile eco va
individuata nel nome di uno dei due titoli finanziari acquistati da Zeno in vece di Guido: Rio Tinto.
“Il nome bizzarro” di queste azioni aveva già avuto l’onore di una precedente apparizione nel
romanzo: dobbiamo retrocedere all’episodio in cui, per far fronte alle difficoltà commerciali in cui
si era imbattuta la nuova casa commerciale dei due cognati, il marito di Ada decide di giocare in
Borsa. Zeno, che ne era completamente all’oscuro, viene informato di questa scelta di Guido da una
visita del Nilini, venuto a mettere al corrente il signor Speier dell’andamento di certe azioni di cui
gli aveva suggerito l’acquisto e che invece il cognato del protagonista aveva rifiutato:
Del resto era venuto solo per raccontare a Guido che certe azioni dallo strano nome di
Rio Tinto e di cui egli a Guido aveva consigliato l’acquisto il giorno prima – sì, proprio
ventiquattr’ore prima – erano quel giorno balzate in alto di circa il dieci per cento (Svevo
2004a, 999).
L’insistenza con cui il narratore sottolinea nelle due circostanze, la seconda 24 delle quali
rimarcata dall’uso del corsivo, la particolarità del nome di queste azioni (che, si badi, sono in
entrambi i casi legate al personaggio di Guido, sebbene formalmente nella seconda occorrenza siano
acquistate da Zeno) lascia pensare che dietro a tale titolo azionario si celi un indizio che l’autore
vuole suggerire al lettore: ci pare probabile che questo messaggio camuffato vada cercato nel
significato in spagnolo di queste parole, fiume rosso, espressione che per il suo riferimento
cromatico potrebbe voler suggerire un collegamento tra la figura di Esaù e quella di Guido. A
conferma di questa ipotesi va detto che, per quanto al narratore Zeno questo nome potesse suonare
“strano” e “bizzarro”, lo stesso effetto non doveva avere alle orecchie di Guido che, ricordiamo,
aveva padre argentino e che quindi conosceva perfettamente lo spagnolo 25. Alcuni spunti che ci
spingono a muoverci verso questa interpretazione ci pare siano offerti anche dalle due circostanze in
cui Svevo nomina questo titolo azionario. Come si è detto in precedenza, nella sua prima
occorrenza nel romanzo il nome Rio Tinto entra in relazione con Guido in seguito a un affare
offertogli da Nilini; ci pare interessante notare che anche Esaù assume il nome di Edom (il rosso)
alla conclusione di un affare, la vendita della primogenitura. La seconda comparsa delle azioni in
questione avviene invece nel mezzo di quella che noi abbiamo definito una scena di sostituzione;
anche in questo caso la collocazione ci appare tutt’altro che casuale: se Giacobbe, fingendosi il
24
Facciamo riferimento all’ordine di questi episodi nel romanzo e non a quello da noi riproposto nelle nostre
osservazioni.
25
Facciamo infine notare che Svevo può aver ricavato direttamente dalla sua vita di commerciante questo nome: Rio
Tinto Company Limited, infatti, è una compagnia che nasce a Londra nel 1873 per sfruttare le risorse minerarie della
provincia spagnola dell'Huelva. Per una breve storia della compagnia si vada all’indirizzo internet:
http://www.riotinto.com/aboutus/history.asp. Il fatto che questa compagnia fosse realmente attiva ai tempi di Svevo non
pare un ostacolo a un’interpretazione che cerchi di leggere dietro tale nome un significato simbolico. La decisione del
triestino di soffermarsi su questo titolo azionario fra i molti da lui conosciuti rappresenta, al contrario, uno stimolo
ulteriore per indagare i motivi di tale scelta.
17
fratello, si era presentato al cospetto del padre come cacciatore (offrendogli dei capretti da
allevamento al posto della cacciagione richiesta da Isacco) e ricoperto di pelo, Zeno, simulandosi
Guido, acquista le azioni “dal nome bizzarro” che rimandano al colore rosso, facendo suo l’unica
marca peculiare di Esaù di cui non si era impossessato Giacobbe. Valicando i limiti della Coscienza
di Zeno, è poi possibile notare che questi particolari riferiti dal narratore biblico che caratterizzano i
due figli di Isacco tornano frequentissimamente nelle opere di Svevo e lungo tutto il corso della sua
produzione. Consideriamo ad esempio il primo racconto noto dell’autore triestino: Una lotta. I
protagonisti della breve narrazione sono il “celebre poeta” Arturo Marchetti e “l’altro altrettanto
celebre però quale lottatore, schermitore, cultore dello sport” (Svevo 2004b, 7) Ariodante Chigi che
si contendono l’amore della bella Rosina; molto interessanti alcuni tratti distintivi che caratterizzano
i due personaggi: di Arturo si sottolinea “la bellezza del suo volto, senza pelo, purtroppo” (Svevo
2004b, 7); di Ariodante invece si rimarca la perizia nell’arte venatoria: “ciarlava con molta scienza
di cani e cavalli” (Svevo 2004b, 9). Spostandoci nei testi dell'ultimo Svevo, tali caratteristiche
oppositive tra i personaggi rimangono costanti: in Una burla riuscita il protagonista Mario è
caratterizzato fisicamente da una “canizie che si estende a tutto il suo pelo” (Svevo 2004b, 220),
mentre dell'antagonista Gaia si dice che “a cinquant'anni i suoi capelli bianchi avevano un candore
che rifletteva la luce come se fosse stato metallico” (Svevo 2004b, 219); ancora più significativa la
descrizione dell’aiutante del Gaia nella sua burla, il finto rappresentante dell'editore Westermann:
nonostante sia calvo, anche questo personaggio può essere ascritto alla categoria dei pelosi per via
dell’abbigliamento con cui si presenta all’appuntamento concordato per trattare la vendita del
romanzo giovanile di Mario:
La sua pelliccia dal collare ricco, di pelo di foca, era la cosa più importante di tutto
l’individuo, e molto più importante della giacca e dei calzoni sdruciti che si
intravedevano. Non fu mai deposta, anzi riabbottonata subito dopo che s’era dovuta
schiudere per dar l’accesso ad una tasca interna. L’alto collare coronò sempre la faccina
fornita di una barbetta e di mustacchi radi e fulvi sotto ad una testa radicalmente calva. Ed
un’altra cosa Mario osservò: il tedesco si teneva tanto rigido nella pelliccia in cui era
sepolto, che ogni suo movimento appariva angoloso (Svevo 2004b, 230-231).
Quello del pelo non è l’unico particolare di Esaù attribuito al rappresentante di Westermann;
Svevo non dimentica infatti di fare un breve cenno anche al colore che contraddistingue il fratello di
Giacobbe:
La calvizie del tedesco, che gli era rivolta come una faccia muta, cieca e priva di naso,
era molto seria, perché le mancavano gli organi per ridere. Anzi – pelle rossa sporcata da
qualche pelo fulvo – era tragica (Svevo 2004b, 234).
Torniamo ora alla Coscienza per notare come le due scene di sostituzione che abbiamo
affiancato nel percorso della nostra lettura si possano prestare a ulteriori riflessioni: ci pare
interessante notare, infatti, che equiparabili, a nostro modo di vedere, sono anche gli esiti che
derivano da tali scambi d’identità. Il racconto biblico ci dice che Giacobbe riuscirà a ottenere la
benedizione del padre e a usurpare il posto del fratello (ricordiamo che Giacobbe vuol dire
“soppiantatore”, Gen 27, 36); Zeno invece procederà al recupero di tre quarti del passivo della ditta
e in virtù di questo successo economico sancirà definitivamente la sua superiorità rispetto a Guido.
Nel caso del romanzo, la “benedizione” che certifica la vittoria di Zeno viene enunciata
direttamente da Ada: “Così hai fatto in modo ch’egli è morto proprio per una cosa che non ne
valeva la pena!” (Svevo 2004a, 1042). E ancora poco dopo:
Guardavo ai tuoi rapporti con tua moglie e li invidiavo. Mi parevano migliori di quelli
18
ch’egli mi offriva. Ti sono grata di non essere intervenuto al funerale perché altrimenti
non avrei neppur oggi compreso nulla. Così invece vedo e intendo tutto. Anche che io
non l’amai: altrimenti come avrei potuto odiare persino il suo violino, l’espressione più
completa del suo grande animo? (Svevo 2004a, 1043).
Le parole di Ada sono inequivocabili: la vittoria di Zeno è indiscutibile, sia dal punto di
vista degli affari (“è morto proprio per una cosa che non ne valeva la pena!”) sia da quello degli
affetti (“Guardavo ai tuoi rapporti con tua moglie e li invidiavo”), fino a indurre la secondogenita di
casa Malfenti a negare ogni sentimento per il defunto marito e a cancellare per sempre quella prima
vittoria ottenuta da Guido ai danni del Cosini grazie alla sua abilità col violino 26. Tirando le fila del
discorso possiamo quindi concludere che anche Zeno, come Giacobbe, riesce nell’impresa di
“soppiantare” dal suo posto il fratello-oppositore aggiudicandosi il titolo, come Ada aveva
affermato già prima della morte del marito, di “migliore uomo della [...] famiglia” (Svevo 2004a,
987).
Da quanto abbiamo detto finora ci pare che si possa concludere che le figure archetipiche
che sono state assunte da Svevo come modello nell’ideazione dei personaggi di Guido e Zeno siano
i fratelli figli di Isacco Esaù e Giacobbe. Se la nostra impressione è giusta crediamo che
l’individuazione di tale fonte imponga una revisione di parte degli studi di natura psicoanalitica che
hanno preso in considerazione le relazioni che intercorrono tra i due cognati del romanzo sveviano.
Gran parte della critica ha infatti letto i rapporti tra il Cosini e lo Speier alla luce del complesso
edipico da cui il primo sarebbe afflitto; in altre parole Guido non sarebbe altro che una delle tante
maschere dietro la quale si celerebbe la figura del padre. Ad esempio Franco Petroni interpreta così
gli avvenimenti che chiudono le memorie scritte da Zeno come preludio alla psicoanalisi:
Guido rovinato e ridotto al rango di paria in casa Malfenti; Ada che considera il marito
un bambino bisognoso di protezione; lui, Zeno, “miglior uomo della famiglia” [...]. Zeno
per un momento sembra aver vinto la sua battaglia con l’ombra del padre: la sostituzione
è avvenuta, il padre ormai è lui (1977, 278).
Ancor più orientato verso una lettura edipica il commento di Gioanola:
La rivalità [...] risprofonda nella clandestinità dell’inconscio e ritorna a pascersi delle
predilette fantasie sadico-distruttive, dirette contro i portatori simbolici della sessualità
adulta, Guido, il rivale per eccellenza, e Ada, la donna per lui. Tutto il lungo capitolo
Storia di un’associazione commerciale è il luogo di una sfida non più condotta sul piano
dei rapporti reali, che sono anzi intonati alla più dichiarata delle amicizie, ma su quello
dei fantasmi ostili [...]: l’imago paterna continua ad essere il vero oggetto immaginario di
questo libro del padre che è la Coscienza (1995, 308).
Se però, come abbiamo cercato di dimostrare in precedenza, la coppia Zeno-Guido riverbera
in controluce quella Giacobbe-Esaù allora ci pare più corretto parlare a proposito delle relazioni tra
i due cognati di un’ostilità non legata al complesso edipico ma di una più generica rivalità tra
fratelli in contesa tra loro per l’affetto genitoriale 27; in sostanza, quindi, a Guido spetta il ruolo del
26
Ci pare che il critico che più di ogni altro abbia sottolineato come, da quanto emerge dal romanzo, Zeno debba
essere considerato come la figura vincente all’interno della narrazione sia Giuseppe Langella: “Quest’altra opposizione
esemplare, con il cognato millantatore, completa il quadro trionfale dei successi di Zeno. […] Tutte queste circostanze
sono disseminate ad arte lungo il romanzo perché alla fine risalti l’abilità del protagonista, che s’impone non soltanto
sui ciarlatani come Guido, ma anche su gente del mestiere, ottimamente reputata, scostandosi dai loro insegnamenti”
(Langella 1992, 158-160).
27
“Il bambino piccolo non ama necessariamente i suoi fratelli, spesso palesemente non li ama affatto. È indubbio
che egli odia in essi i propri concorrenti, ed è noto quanto spesso questo atteggiamento permanga ininterrottamente per
19
germano mentre il ruolo del padre è, a nostro avviso, da attribuirsi ad Ada. Più volte la critica ha
sottolineato come la bella Malfenti possa nascondere uno dei tanti fantasmi paterni che terrorizzano
Zeno: ricordiamo ad esempio l’opinione di Giuditta Rosowsky, secondo la quale “Ada correspond
plutôt à un substitut du père, puisque, comme lui, elle apparaît sérieuse, sévère et absolument
dépourvue d’humour” (1970, 56); dello stesso giudizio è anche Elio Gioanola: “Ada è donna
paterna” (1995, 292). Tale interpretazione è supportata dalle stesse parole del romanzo:
Sembra dunque ch’io non abbia subito vista tutta la grazia e tutta la bellezza di Ada e
che mi sia invece incantato ad ammirare altre qualità ch’io le attribuii di serietà e anche di
energia, insomma, un po’ mitigate, le qualità che io amavo nel padre suo (Svevo 2004a,
698).
È inoltre molto significativo il fatto che le parole scritte nel suo memoriale da Zeno al
momento di descrivere la partenza di Ada per l’Argentina – “Ecco che essa ci abbandonava e che
mai più avrei potuto provarle la mia innocenza” (Svevo 2004a, 683) – ricordino in maniera
inequivocabile quelle annotate alla morte del padre – “io non potevo più provargli la mia
innocenza!” (Svevo 2004a, 1047)28. Se c’è più di un elemento che può spingere il lettore a vedere in
Ada una figura paterna nei confronti di Zeno, crediamo che una simile riflessione possa essere
allargata anche al personaggio di Guido: il fatto che la bella Malfenti sia la vera detentrice del
potere paterno e che invece Guido si trovi in una posizione subalterna rispetto ad essa ci pare
confermato da alcune vicende del romanzo. Come primo elemento ricordiamo che, dopo il tracollo
economico della ditta Speier & C., Guido si rivolgerà alla moglie per risolvere le sue difficoltà. Le
titubanze di Ada di fronte alla possibilità di cedere parte del proprio patrimonio in favore del marito
lo spingeranno a mettere in scena due falsi suicidi, il secondo dei quali conclusosi in tragedia. Il
potere economico è uno degli attributi che più contraddistinguono la figura paterna 29; lo stato di
superiorità che Ada dimostra in questo settore la dipingono inequivocabilmente come imago patris
anche nei confronti del marito. L’atteggiamento paternalistico della primogenita Malfenti in
relazione al suo sposo è poi chiaramente espresso da questa battuta che la donna rivolge a Zeno: “È
un ragazzo e bisogna trattarlo come tale” (Svevo 2004, 1022). Non va infine dimenticato che c’è più
di un elemento nel romanzo che spinge a vedere come figure strettamente correlate Ada e il padre di
Guido: per prima cosa si ricorderà il fatto che il vecchio Speier e la nuora godono di uno status di
superiorità economica nei confronti del figlio/marito in quanto, l’uno fin dal principio, l’altra, come
molti anni, fino al tempo della maturità e persino più in là ancora” (Freud 1976, 373). Le relazioni fraterne sono prese in
considerazione da Freud anche nell’Interpretazione dei sogni (Freud 1971, 233-237).
28
Cfr. Saccone 1973, pp. 83-84.
29
Ricordiamo a questo proposito anche le parole di Camerino: “Il mondo dei padri è quello stesso dei padroni, dei
borghesi, degli assimilati, dei giudici, degli accusatori, dei funzionari, dei parassiti; degli amministratori di morale, di
religione, di virtù domestica” (Camerino 1996, 23). In base a questa riflessione ci pare evidente che all’interno del
nucleo familiare fondato da Ada e da Guido il ruolo del padre va affidato alla donna: è lei a incarnare, dal punto di vista
sia economico sia “morale”; Guido invece, oltre a rappresentare con i suoi fallimenti e i suoi tradimenti il trasgressore
di questo codice, appare nel romanzo come l’uomo (il figlio) oppresso dalla legge della moglie (il padre). Celebri sono
le manifestazioni di insofferenza dello Speier nei confronti della famiglia nel capitolo Storia di un’associazione
commerciale: “Quando Guido voleva farmi ridere, camminava su e giù per l’ufficio battendosi il tempo con le parole: –
Una moglie... due bambini... due balie!” (Svevo 2004a, 953). Noti anche i tentativi di Guido di tenersi alla larga da
questo mondo; proponiamo ad esempio questo dialogo tra Ada e Zeno: “Mi stese con grande affetto la mano:– Già lo
so, – mi disse – tu approfitti di ogni istante per venir a riveder tua moglie e la tua bambina. [...] Interpretai le parole che
m’aveva indirizzate quale un rimprovero rivolto a Guido, e bonariamente risposi che Guido, quale proprietario della
ditta, aveva maggiori responsabilità delle mie che lo legavano all’ufficio. Mi guardò indagatrice per assicurarsi ch’io
parlavo sul serio. – Ma pure – disse – mi sembra che potrebbe trovare un po’ di tempo per sua moglie e i suoi figli”
(Svevo 2004a, 955).
20
si è detto poco fa, solo in seguito al primo falso suicidio, sono i finanziatori della Speier & C. 30; ci
pare molto significativa anche la decisione di Ada di recarsi in Argentina presso la casa del suocero
dopo la morte del marito, come a suggellare una stretta fratellanza tra le due figure; potrebbe infine
non essere casuale la forte comunanza onomastica che unisce i due personaggi: come il padre di
Zeno, infatti, anche quello di Guido può vantare un soprannome, il “signor Cada” (Svevo 2004,
841), espressione che al suo interno ingloba il nome della bella protagonista del romanzo
(ricordiamo inoltre che il nome di battesimo del signor Speier è Francesco, dato forse non del tutto
privo di significato nella nostra interpretazione dei personaggi di Zeno e Guido come fratelli, dal
momento che Francesco era il nome del padre dello stesso Ettore Schmitz). In base a queste
considerazioni e risalendo alle fonti bibliche da cui siamo partiti crediamo non sia troppo azzardato
accostare la figura di Ada, donna-paterna, a quella di Isacco, padre a tutti gli effetti; tale
accostamento ci pare ancora meno azzardato se si considera il loro atteggiamento nei confronti di
quelli che nella nostra lettura parallela sono i loro figli: infatti, come Isacco ha una predilezione per
Esaù ma finisce per benedire Giacobbe, allo stesso modo Ada inizialmente riserva tutto il proprio
affetto per Guido ma, in ultima istanza, proclamerà la superiorità di Zeno31. È poi interessante
notare che Ada è anche il nome che nella Bibbia viene attribuito a una delle mogli di Esaù (“Esaù
prese le mogli tra le figlie dei Cananei: Ada, figlia di Elon, l’Hittita [...]”, Gen 36, 2); se, come
abbiamo cercato di dimostrare, nella composizione della Coscienza di Zeno Svevo aveva realmente
presenti questi episodi biblici, la comunanza onomastica tra una delle mogli di Esaù e quella di
Guido non può considerarsi casuale.
In conclusione ci pare con questo nostro catalogo di citazioni bibliche nelle opere sveviane
di aver riconosciuto qualche nuovo elemento che ci può spingere a porre il materiale delle Sacre
Scritture come una delle fonti a cui Svevo ha abitualmente fatto ricorso durante la sua attività
creativa; inoltre crediamo di aver sottolineato ancora una volta il particolare modus operandi
dell'autore triestino volto a intrecciare nei medesimi luoghi testuali elementi provenienti da diversi
ambiti del suo bagaglio culturale: così, ad esempio, passi della Bibbia possono servire da overture
per una rivisitazione delle teorie darwiniane, oppure fare da contrappunto a riflessioni di natura
medica sul ringiovanimento, armonizzarsi con fonti classiche e con studi scientifici intorno al tema
della zoppia, fondersi in un’unica musica con il mito del self-made-man, oppure consuonare con le
teorie freudiane per mettere in scene la lotta tra fratelli, il tutto in un’unione sincretica che non è
mai la semplice somma delle parti ma che finisce col creare una nuova e originale tessitura,
interpretabile solo a partire dal riconoscimento degli elementi che la compongono.
Gabriele Antonini
30
Proponiamo di seguito alcuni passi che ci paiono significativi: “Intanto da Buenos Aires arrivarono i pesos”; “Ebbi
subito una scaramuccia con Guido [...]. Occupatosi con tanta passione di contabilità, egli si mise in capo di mettere le
sue spese di famiglia nel conto delle spese generali. Dopo di essermi consultato con l’Olivi, io mi vi opposi e difesi
gl’interessi del vecchio Cada. [...] Poi, in compenso, suggerii di scrivere a Buenos Aires per accordarsi un salario per
Guido. Il padre si rifiutò di concederlo osservando che Guido percepiva già il settantacinque per cento dei benefici
mentre a lui non toccava che il residuo”; “Vuoi che domani faccia una copia del bilancio per tuo padre? [...] Intanto gli
avevo ricordato ch’egli in quell’ufficio non era il solo padrone”; “Mi disse poi che la perdita a prima vista sembrava
ingente, ma che non lo era poi tanto se non doveva sopportarla tutta da solo. Avrebbe pregato Ada di addossarsene la
metà e in compenso le avrebbe concesso una parte degli utili dell’anno seguente”; “A un certo momento Guido
spalancò gli occhi, trasse di sotto al guanciale un assegno su cui subito vidi la firma di Ada, me lo consegnò, mi pregò
di farlo incassare e di accreditarne l’importo in un conto che dovevo aprire al nome di Ada. – Al nome di Ada Malfenti
o Ada Speier? – domandò scherzosamente ad Ada”(Svevo 2004a, 915, 920, 971, 975 e 984).
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Ricordiamo che nella Bibbia si dice che “Isacco prediligeva Esaù, perché la cacciagione era di suo gusto” (Gen
25, 28). In questo senso non priva di significato può essere questa nota di apprezzamento di Ada nei confronti nel
marito: “Con una volubilità che mi stupì raccontò dei cibi prelibati che si mangiavano alla loro tavola in seguito alla
caccia e alla pesca di Guido” (Svevo 2004a, 956).
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Università Cattolica del Sacro Cuore
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Esaù, Giacobbe e altro. Modelli biblici nelle opere di