Potestà dei genitori La locuzione potestà genitoriale indica quell’insieme di diritti e di doveri, accordati dalla legge ai genitori nell’esclusivo interesse della prole minorenne non emancipata, volti a garantire un sano ed armonico sviluppo psico-fisico ad essa e a dare attuazione al precetto costituzionale e civilistico di educazione, istruzione e mantenimento (artt. 30 Cost. e 147 c.c.). L’esercizio della potestà, che varia nel corso del tempo in relazione al grado di maturità dei figli e della capacità di discernimento nel rispetto della loro autodeterminazione e delle inclinazioni naturali, comprende i poteri di amministrazione dei beni e degli interessi economici della prole, di rappresentanza e di decisione in relazione all’istruzione e all’educazione. Superata la concezione della potestà come complesso di poteri attribuiti dall’ordinamento ai genitori finalizzati a realizzare la funzione formativa che sono chiamati a svolgere e rispetto ai quali la prole era in stato di passiva soggezione, con una inversione dei canoni si è giunti ad affermare il profilo del dovere genitoriale come prius rispetto ai poteri; i quali poteri vengono così intesi come strumenti per l’adempimento del summenzionato dovere. In una tale ottica, l’esercizio della potestà genitoriale va a inquadrarsi, non già come un diritto, bensì come un munus volto alla realizzazione degli interessi della prole. Questa concezione della potestà genitoriale in termini di esercizio di funzione, elaborata già in epoca anteriore alla riforma del diritto della famiglia del 1975 dalla giurisprudenza del S.C., è da allora costantemente accolta senza riserve al punto da assurgere al rango di principio di diritto vivente 1; ciò ha trovato ulteriore vigore grazie all’emersione in ambito europeo dell’intendere la funzione genitoriale in chiave di responsabilità, secondo quanto stabilito nel Regolamento del Consiglio d’Europa del 27 novembre 2003 n. 2201/2003. Il Regolamento, posto sotto la rubrica Competenza, riconoscimento ed esecuzione delle decisioni in materia matrimoniale e in materia di responsabilità genitoriale, all’art. 2 definisce la responsabilità genitoriale come complesso di “diritti e doveri di cui è investita una persona fisica o giuridica in virtù di una decisione giudiziaria, della legge o di un accordo in vigore riguardanti la persona o i beni di un minore” e prosegue specificando che la dizione adoperata comprende in particolare il diritto di affidamento e il diritto di visita. È peraltro piuttosto agevole intravvedere in ciò la netta valorizzazione dell’aspetto degli obblighi dei genitori nei confronti dei figli, andandosi per tal via ad escludere in radice la posizione di soggezione del figlio, sia nella gestione ed amministrazione delle vicende patrimoniali inerenti i beni di cui il minore può esser titolare, sia – ed ancor di più – per quelle situazioni soggettive esistenziali ove non è ravvisabile una scissione della titolarità delle medesime dall’esercizio, né tantomeno è configurabile un potere sostitutivo da parte dei genitori. Ciò che mette conto chiarire è, però, la unitarietà della questione, andandosi a ricondurre la definizione dell’interesse morale e materiale della prole alla valorizzazione immediata e diretta, e non già riflessa, della personalità del minore. Così, individuandosi in concreto nella cura della prole il limite proprio della potestà genitoriale, gli interessi morali e materiali di essa debbono essere intesi come valori eteronomi rispetto al loro destinatario. 1 Cfr., ex multis, Cass. 11 gennaio 1978 n. 83; Cass. 2 giugno 1983 n. 3776, in Dir. fam. pers., 1984, I, p. 39 ss.; Cass. 14 aprile 1988 n. 2964, in Foro it., 1989, I, c. 466 ss. Come accennato, i referenti normativi dai quali occorre prendere le mosse nell’analisi della potestà genitoriale sono ravvisabili nell’art. 30 Cost. e nell’art. 147 c.c., nonché nell’art. 315 c.c., secondo il quale ultimo, il figlio ha il dovere di rispettare i genitori esercenti la potestà e, se minore, di convivere con essi, nonché, finché convive, di contribuire al mantenimento della famiglia. L’art. 30 Cost. si pone in funzione di presupposto della potestà genitoriale informata all’eguaglianza morale e giuridica dei genitori, considerando la famiglia come cellula sociale primigenia di sviluppo della personalità dell’individuo (argomentando ex artt. 2 e 29 Cost.). Secondo la dottrina dominante, la norma in parola accorda ai genitori un diritto soggettivo perfetto, una posizione giuridica soggettiva piena volta a realizzare il progetto educativo della prole e diretta, tanto alla prole medesima, quanto allo Stato (art. 31, I comma, Cost.), individuando in capo ai genitori un interesse attivo – riconosciuto e costituzionalmente garantito – alla istruzione, al mantenimento ed alla educazione. L’art. 147 c.c. determina, nel concreto, i termini entro i quali l’ordinamento accorda ai genitori il dovere-diritto di istruire, educare e mantenere la prole, imponendo ad essi di adempiere a questo esercizio obbligatorio nel rispetto delle capacità (ossia delle attitudini psico-fisiche), della inclinazione naturale (delle propensioni in rapporto alla capacità) e delle aspirazioni dei figli (intese come fattore soggettivo determinante le scelte di vita). Nell’alveo concettuale della potestà così delineata è dato distinguere un profilo relazionale esterno, attinente alla sfera patrimoniale, ed un profilo interno di natura personale, ove la dimensione della potestà esercitata dai genitori si confronta maggiormente con le dinamiche evolutive della personalità dei figli e con la loro capacità autodeterminativa. L’aspetto esterno qualifica la funzione sostitutiva del genitore nelle attività relazionali con i terzi e nella cura degli interessi ad esse correlati per i quali lo svolgimento degli atti di diritto privato è precluso al figlio minorenne in quanto incapace di agire; mentre quello interno caratterizza il rapporto genitore-figlio con riferimento alla funzione educativa per la formazione della sua personalità. Sotto questa ultima prospettiva trovano terreno fertile le problematiche attinenti alla soggettività giuridica del minore di età e al rapporto dicotomico tra la capacità giuridica e di agire con precipuo riferimento alla indisponibilità delle situazioni esistenziali personalissime, sulla scorta della non scindibilità della titolarità di esse, dall’esercizio concreto. Al riguardo, la riflessione muove dal presupposto del contributo determinante che l’esercizio della potestà svolge sullo sviluppo della capacità del soggetto e dalla considerazione della evoluzione dinamica della capacità di discernimento del minore e della sua personalità. In tal senso, l’analisi si orienta nella direzione valutativa del portato dell’art. 2 c.c., conducendo ad argomentazioni in ordine alla stretta applicabilità della norma alle sole vicende di natura patrimoniale, sul presupposto appunto della non aderenza del concetto tradizionale della capacità di agire di diritto privato con riferimento alle situazioni c.d. “personalissime”. Per tal via si prospetta una rivisitazione della dicotomia capacità giuridicacapacità di agire sulla base del ritenere le due forme di capacità in rapporto di regola ad eccezione, considerando in particolare la prima come regola generale e la seconda come eccezione ad essa per le sole situazioni patrimoniali. In una siffatta prospettiva, l’aspetto definito come esterno della potestà comporta l’esercizio dei diritti patrimoniali del minore da parte del genitore in funzione sostitutiva potendosi ravvisare un compito tutoriale in capo ad esso, là dove, per lo svolgersi interno delle funzioni di potestà avente ad oggetto le situazioni personalissime del minore, in considerazione del suo sviluppo psichico e della sua capacità naturale e di discernimento, il ruolo genitoriale può essere inteso in chiave di curatela degli interessi del minore; in quest’ultimo senso, il genitore si affiancherà al minore al fine di agevolare la sua comprensione dell’atto personale che andrà a compiere e degli effetti che da esso deriveranno in capo a lui. Si pensi in particolare, non tanto alle situazioni personali parzialmente disponibili (quali ad esempio la prestazione del consenso al trattamento di dati personali, ovvero allo sfruttamento dell’immagine, le quali hanno una “porzione” patrimoniale disponibile), quanto piuttosto a quegli atti di natura esistenziale, come ad esempio la adesione ad un partito politico ovvero la scelta religiosa. Ai sensi dell’art. 316, I e II comma, c.c., la titolarità e l’esercizio della potestà spettano ad entrambi i genitori, sia legittimi che naturali purché la filiazione sia stata da questi riconosciuta o dichiarata giudizialmente, ovvero al genitore che abbia effettuato il riconoscimento (317 bis, I comma, c.c.). Prima dell’intervento normativo sull’affidamento condiviso (l. 8 febbraio 2006 n. 54), nei casi di separazione e divorzio, nonché nel caso di cessazione della convivenza more uxorio, si assisteva ad una scissione della titolarità dall’esercizio della potestà: la prima rimaneva in capo ad entrambi i genitori, là dove il secondo era esclusivo dell’affidatario, residuando all’altro un dovere di controllo sull’operato dell’affidatario, di concorso per le decisioni di maggior rilievo e la responsabilità per l’educazione e l’istruzione (nonché una legittimazione attiva a livello giudiziale avverso le decisioni dell’altro potenzialmente pregiudizievoli), salvo i casi di decadenza dalla potestà (art. 330 c.c.) ovvero di condotta pregiudizievole ai figli (art. 333 c.c.). L’esercizio congiunto o alternato della potestà era previsto come rimedio residuale dall’art. 6, II comma, della legge sul divorzio (e trovava così applicazione anche nelle separazioni, data la permeabilità della disciplina del divorzio e della separazione, e nelle cessazioni delle convivenze, grazie al ricorso all’analogia per casi simili e materie analoghe). Con la citata legge sull’affidamento condiviso i canoni si invertono e ciò che era eccezione diviene regola. L’intento normativo perseguito dal legislatore dell’affidamento condiviso di elevare quest’ultimo a regola generale nella disciplina delle sospensioni e delle cessazioni delle convivenze, coniugali e non, relegando il paradigma dell’affidamento esclusivo ad ipotesi residuale, muove da una duplice considerazione, largamente condivisa tanto in dottrina quanto in giurisprudenza. La riconosciuta necessità di impedire (per quanto possibile) che la crisi del rapporto della coppia genitoriale, già di per sé fatto traumatico per la psiche di un minore, possa sortire, per effetto di legge, conseguenze negative dirette o riflesse - su di esso in ragione della correlata esigenza di tutela forte degli interessi del minore ad un sano sviluppo psico-fisico, si fonde, infatti, con quello che viene definito da più parti diritto del minore alla bigenitorialità, andandosi a porre in chiave di premessa maggiore dell’intera costruzione normativa. Il principio secondo il quale è diritto dei figli ricevere cure, istruzione, educazione da entrambe le figure genitoriali (e quindi di avere, non solo il rapporto con entrambi, bensì l’apporto di entrambi) anche nelle fasi patologiche delle convivenze, definito, appunto, diritto alla bigenitorialità (cfr., per tutti, ROSSI CARLEO, La separazione e il divorzio, in Trattato di diritto privato, diretto da Bessone, IV, Il diritto di famiglia, t. I, Torino, 1999, p. 238 ss.; ZATTI, Introduzione, in Trattato di diritto di famiglia, diretto da Zatti, I, Famiglia e matrimonio, a cura di Ferrando, Fortino, Ruscello, t. I, Relazioni familiari, Matrimonio, Famiglia di fatto, Milano, 2002, p. 42 ss.), trova riscontro normativo all’art. 24 della cd. Carta di Nizza (Carta europea dei diritti fondamentali, adottata a Nizza il 7 dicembre 2000), a norma del quale: “Ogni bambino ha diritto di intrattenere regolarmente relazioni personali e contatti diretti con i due genitori, salvo qualora ciò sia contrario al suo interesse”, ed è accolto anche dalla più recente giurisprudenza: v., ex multis, Trib. Catania 1° giungo 2006. L’esercizio esclusivo della potestà, che comporta, appunto, l’esclusiva rappresentanza legale e capacità decisionale per le questioni di ordinaria amministrazione, è dunque adesso consentito per i casi di impossibilità di uno dei genitori dovuti a lontananza, incapacità o altro impedimento (art. 317, I comma, c.c.), ovvero qualora si ritenga giudizialmente che l’esercizio condiviso possa recare pregiudizio alla prole (vd. artt. 330 e 333 c.c.). Come precedentemente riferito, ai sensi dell’art. 316 c.c. il figlio – legittimo o naturale che sia – è soggetto alla potestà dei genitori sino alla maggiore età o all’emancipazione e la potestà è esercitata di comune accordo dai genitori. Mentre per il caso in cui sussista un incombente pericolo di un grave pregiudizio per il figlio, il padre può adottare i provvedimenti urgenti e indifferibili (secondo quanto previsto al IV comma dell’art. 316 c.c.; norma, questa, che ha suscitato in dottrina perplessità di legittimità costituzionale), per il contrasto su questioni si particolare importanza, il III comma dell’art. 316 c.c. accorda la possibilità a ciascuno dei genitori di ricorrere al tribunale per i minorenni indicando i provvedimenti che ritiene più idonei. Il giudice, prosegue il V comma, sentiti i genitori ed il figlio se maggiore di 14 anni, suggerisce le determinazioni che ritiene più utili nell’interesse del figlio e della unità familiare e, se il contrasto permane, attribuisce il potere di decidere a quello tra i genitori che ritiene, nel caso di specie, più idoneo a curare l’interesse del figlio. Il provvedimento del tribunale, nella forma del decreto emanato in camera di consiglio sentito il P.M., è reclamabile avanti la sezione minorenni della Corte d’appello. Con riferimento all’amministrazione dei beni, la norma di cui all’art. 320 c.c. stabilisce che i genitori congiuntamente, o quello di essi che esercita in via esclusiva la potestà, rappresentano i figli nati e nascituri in tutti gli atti civili e ne amministrano i beni; mentre per gli atti di ordinaria amministrazione e la cura quotidiana della prole la potestà può essere esercitata disgiuntamente (con esclusione dei contratti con i quali si concedono o di acquistano diritti personali di godimento), l’atto di straordinaria amministrazione avente rilevante incidenza sulla vita della prole richiede sempre l’esercizio congiunto (a parte i casi di esercizio esclusivo); esercizio congiunto di per sé sufficiente, salvo il caso cui gli atti da compiere rientrino nel novero di cui al III e IV comma dell’art. 320, per i quali si richiede l’autorizzazione del giudice tutelare. Da ultimo, avuto riguardo all’esercizio di impresa, l’art. 320 c.c., ai commi V e VI, stabilisce che l’esercizio di impresa commerciale in nome e per conto del figlio è ammesso nel solo caso in cui si tratti di continuare nell’attività di una impresa il cui esercizio sia però cominciato prima di entrare nel patrimonio del figlio, ma solo con autorizzazione del tribunale e sentito il parere del giudice tutelare. Per il caso di conflitto di interessi tra figli o tra essi e i genitori (o quello che esercita la potestà in via esclusiva), verrà nominato dal giudice tutelare un curatore speciale ai figli; mentre se il conflitto sorge tra i figli ed uno solo dei genitori esercenti la potestà, la rappresentanza dei figli spetterà all’altro genitore in via esclusiva. Non è richiesta, altresì, autorizzazione per la partecipazione all’impresa familiare, là dove, nelle delibere di competenza del gruppo, i figli saranno rappresentati dal genitore (art. 320 bis, I comma, c.c.). Ai genitori (o al genitore, in caso di esercizio esclusivo) spetta, ex art. 324 c.c., l’usufrutto legale sui beni del figlio, eccezion fatta per i beni acquistati da questo con i proventi del proprio lavoro; i beni ad esso lasciati o donati per intraprendere una carriera, un’arte o una professione; ovvero quelli lasciati o donati sotto condizione che i genitori esercenti la potestà non ne abbiano l’usufrutto (condizione che non ha effetto per i beni spettanti al figlio a titolo di legittima); nonché i beni pervenuti al figlio per eredità, legato o donazione e accettati nell’interesse del figlio ma contro la volontà dei genitori esercenti la potestà. L’usufrutto legale – indisponibile, inespropriabile e intrasmissibile – segue le regole tipiche dell’istituto (artt. 978 ss. c.c.) ed il genitore ne può essere privato per cattiva amministrazione; esso dà diritto ai genitori di godere del bene usando la diligenza del buon padre di famiglia e nel rispetto della sua destinazione economica (art. 1001 c.c.). I genitori hanno l’obbligo di destinare i frutti percepiti al mantenimento della famiglia e all’istruzione ed alla educazione dei figli (art. 324, II comma, c.c.) e, avverso la violazione di detto obbligo, è esperibile il rimedio della distrazione dei redditi. Il vincolo di destinazione dei frutti li sottrae alla esecuzione forzata per i debiti che il creditore conosceva essere stati contratti per scopi estranei ai bisogni della famiglia (art. 326, II comma, c.c.). Il diritto si estingue per conseguimento della maggiore età del figlio, ovvero se contrae nozze, ovvero ancora con la morte dei titolari (mentre la morte di uno dei genitori accresce il diritto in capo all’altro). Cessato l’usufrutto, se il genitore ha continuato a godere dei beni del figlio convivente con esso senza procura ma senza opposizione, ovvero con procura ma senza l’obbligo di rendicontazione, egli o i suoi eredi sono esclusivamente tenuti a consegnare i frutti esistenti al tempo della domanda (art. 329 c.c.) Contro la violazione dei doveri genitoriali di mantenimento, istruzione ed educazione – che oltre ad essere penalmente sanzionata all’art. 570 c.p., legittima il risarcimento del danno non patrimoniale 2 – l’ordinamento accorda specifici strumenti di tutela come la decadenza dalla potestà (art. 330 c.c.), i provvedimenti a tutela del minore (art. 333 c.c.) e la rimozione dall’amministrazione (art. 334 c.c.). In particolare, contro l’inadempimento dell’obbligo di mantenimento ovvero il grave pericolo di esso, è possibile esperire i rimedi esecutivi e cautelativi e ricorrere giudizialmente per ottenere (con decreto emesso dal presidente del tribunale) la distrazione dei redditi del genitore inadempiente. Ai sensi dell’art. 330 c.c., qualora il genitore violi o trascuri i doveri inerenti la potestà, ovvero abusi dei relativi poteri con grave pregiudizio del figlio, il giudice può pronunziare – in camera di consiglio, su ricorso dell’altro genitore, di un parente, o del pubblico ministero e nel rispetto del diritto di difesa (art. 336 c.c.) – la decadenza dalla potestà e, per gravi motivi, l’allontanamento del figlio o del genitore ovvero del convivente che maltratta o abusa del minore dalla residenza della famiglia. Il presupposto per questo rimedio estremo è la condotta imputabile al genitore; il che esclude la pronunzia a fronte di comportamenti non imputabili, come ad esempio la perdita di capacità, comportante esclusivamente la privazione dell’esercizio della potestà. 2 Cass. 7 giugno 2000 n. 7713, in Giust. civ., 2000, I, p. 2219 ss. Il provvedimento può essere revocato dal giudice, anche su istanza del genitore interessato, qualora, cessate le ragioni per le quali la decadenza è stata pronunziata, la reintegrazione nella potestà escluda ogni pericolo di pregiudizio per il figlio (art. 332 c.c.). Per il caso in cui la condotta di uno o di entrambi i genitori, pur non essendo tale da integrare gli estremi dell’art. 330 c.c., appaia comunque pregiudizievole al figlio, il giudice può adottare i provvedimenti (sempre revocabili) che ritiene maggiormente convenienti e può anche disporre l’allontanamento dalla residenza familiare del figlio o del genitore ovvero del convivente che maltratta o abusa del minore (art. 333 c.c.). In entrambi i casi (artt. 330 e 333 c.c.), in mancanza dell’altro genitore titolare, si deve procedere alla nomina di un tutore e può essere disposto, se del caso, un affidamento familiare. Da ultimo, l’art. 334 c.c. dispone in ordine alla rimozione dalla amministrazione del patrimonio del minore per il caso di cattiva amministrazione, rimanendo, altresì, inalterati i poteri di educazione e di istruzione. Il tribunale può stabilire le condizioni cui i genitori debbono attenersi nell’amministrazione ovvero può rimuovere entrambi o uno solo di essi e privarli, in tutto o in parte, dell’usufrutto legale. Per il caso in cui vengano rimossi entrambi i genitori, l’amministrazione è affidata ad un curatore. Cessati i motivi che hanno portato alla rimozione, il tribunale può riammettere il genitore nell’esercizio dell’amministrazione, o anche nel solo godimento dell’usufrutto (art. 335 c.c.). Gianni BALLARANI Bibliografia: PELOSI, La patria potestà, Milano 1965, passim; ID, voce Potestà dei genitori sui figli, in Noviss. dig. it., App., Torino 1984, p. 1127 ss.; BUCCIANTE, La patria potestà nei suoi profili attuali, Milano 1971, passim; ID., La potestà dei genitori e l’emancipazione, in Trattato di diritto privato, diretto da Rescigno, 4, Torino, 1982, p. 537 ss.; ID., voce Potestà dei genitori, in Enc. dir., XXXIV, Milano 1985, p. 774 ss.; BESSONE, Personalità del minore, funzione educativa dei genitori e garanzia costituzionale dei diritti inviolabili, in Giur. merito, 1975, I, p. 346 ss.; MORO, Il diritto dei minori, Bologna, 1974, passim; BESSONE, Personalità del minore, funzione educativa dei genitori e garanzia costituzionale dei diritti inviolabili, in Giur. merito, 1975, 1, p. 346 ss.; GIARDINA, I rapporti personali tra genitori e figli alla luce del nuovo diritto di famiglia, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1977, p. 1352 ss., spec. p. 1376 ss.; ZATTI, Rapporto educativo e intervento del giudice, in L’autonomia del minore tra famiglia e società, a cura di De Cristofaro e Belvedere, Milano, 1980, p. 250 ss.; VERCELLONE, Libertà dei minorenni e potestà dei genitori, in Riv. dir. civ., 1982, 1, p. 530 ss.; ID., La potestà dei genitori, in Trattato di diritto di famiglia, diretto da Zatti, II, Filiazione, a cura di Collura, Lenti e Mantovani, Milano, 2002, p. 937 ss.; FERRI L., Della potestà dei genitori, in Comm. cod. civ. 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(ed ora raccolti tutti in ID. Le nuove frontiere della giurisprudenza, Milano, 2001, pp. 461 ss., 581 ss., 629 ss.; ID., “Genitorilità sociali” e principio di solidarietà: riflessioni critiche, in Dir. fam. pers., 2005, I, p. 152 ss.; ID., Potestà dei genitori e progetto educativo¸ in Trenta anni dalla riforma del diritto di famiglia, a cura di Frezza, Milano, 2005, p. 113 ss.