AERONAUTICA MILITARE
COMANDO GENERALE DELLE SCUOLE
LEZIONI IN TEMA
DI DIRITTO COSTITUZIONALE
Compilato a cura di:
Prof. Vittorio DI CIOLO
FIRENZE 2001
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AERONAUTICA MILITARE
COMANDO GENERALE DELLE SCUOLE
ATTO DI APPROVAZIONE
Approvo la pubblicazione dell'opera:
Titolo: "Lezioni in tema di Diritto Costituzionale"
Autore: Prof. Vittorio DI CIOLO
Prima edizione: Marzo 2001
IL COMANDANTE
GENERALE DELLE SCUOLE
(Gen. S.A. Sergio TRICHES)
Guidonia, 15 Marzo 2001
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PRESENTAZIONE
L’autore ha raccolto nel presente volume gli appunti utilizzati nel corso degli ultimi
anni per alcune lezioni tenute presso la prestigiosa Scuola di Guerra Aerea. La speranza
è che tali appunti possano essere di qualche utilità per i cortesi lettori.
Un sentito ringraziamento l’autore rivolge al Comando della Scuola, che dirige l’Istituto con tanta passione e competenza, accordando altresì la massima libertà ai docenti
invitati a prestare la loro opera all’interno della Scuola.
Firenze, aprile 2000
Prof. Vittorio Di Ciolo
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REGISTRAZIONE DELLE AGGIUNTE E VARIANTI
N.
PROTOCOLLO E DATA DELLE
VARIANTI
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DATA
FIRMA
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INDICE
PARTE PRIMA: IL PERIODO DAL 1848 AL 1947 .........................................
Pag. 11
Capitolo primo: “Dal 1848 al 1922” ...................................................................
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13
Capitolo secondo: “Il periodo fascista” ..............................................................
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21
Capitolo terzo: “Dalla caduta del fascismo alla Costituzione Repubblicana” .........
"
29
PARTE SECONDA: LA COSTITUZIONE REPUBBLICANA .........................
"
35
Capitolo primo: “Le fonti di livello costituzionale” ............................................
"
37
Capitolo secondo: “Le fonti subcostituzionali” ..................................................
"
47
dei cittadini” ...................................................................................................
"
57
Capitolo quarto : “Il Parlamento” .....................................................................
"
63
Capitolo quinto: “Il Presidente della Repubblica” ..............................................
"
81
Capitolo sesto: “Il Governo” ............................................................................
"
91
Capitolo settimo: “La Magistratura” .................................................................
"
105
Capitolo ottavo: “Gli enti territoriali” (IN FASE DI AGGIORNAMENTO) ........
"
109
Capitolo nono: “La Corte costituzionale” ..........................................................
"
115
Appendice 1 - La giustizia costituzionale nel 1999 .............................................
" 121
Appendice 2 - Stato della giurisdizione e dei controlli della Corte dei conti ..........
" 133
Appendice 3 - L'istruttoria legislativa nelle commissioni ....................................
" 139
Appendice 4 - La riforma amministrativa ..........................................................
" 143
Capitolo terzo: “Principi fondamentali della Costituzione - Diritti e doveri
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PARTE PRIMA
IL PERIODO DAL 1848 AL 1947
CAPITOLO PRIMO
DAL 1848 AL 1922
1. CENNI SUL PENSIERO COSTITUZIONALE IN ITALIA ALLA VIGILIA DEL
1848
Tra gli autori che hanno profuso grande impegno nella ricostruzione della storia costituzionale italiana antecedente il 1848 vanno certamente annoverati Giuseppe Maranini e Carlo
Ghisalberti, i quali esprimono valutazioni non sempre convergenti su taluni punti importanti.
L’idea di costruire o ricostruire le linee fondamentali del sistema politico in un unico documento normativo scritto, organico e completo il più possibile, inteso ad offrire al cittadino
precise garanzie in confronto al potere, è, nei tempi moderni, figlia del razionalismo e della
rivoluzione. L’idea di un limite giuridico al potere, sul piano logico almeno, è poco conciliabile
con l’idea di una legittimità ereditaria di diritto divino. L’idea di una limitazione del potere
implica l’idea di una sua razionalizzazione: e la sua razionalizzazione, in un mondo dominato
dagli ideali cristiani, può essere solo una razionalizzazione democratica, intesa a porre il potere
al servizio della persona umana, e non viceversa. La negazione del diritto divino implica l’affermazione di un diverso principio di legittimità, che potrà dunque essere in definitiva solo il
principio della sovranità popolare (1).
Maranini individua nella Costituzione federale americana approvata nel 1787 il primo
esempio, nella storia dell’umanità, “di una stabile e vitalissima Costituzione scritta" (2).
Ma se in Inghilterra, lo sforzo centralizzatore della monarchia aveva assolto il suo compito di ricostruzione dello stato, raccogliendo in un tessuto organico - e non distruggendo - le forze
articolate delle libertà medioevali, una evoluzione ben diversa era maturata in Francia, dove le
libertà medioevali non avevano potuto perpetuarsi inserendosi nel tessuto del sorgente stato
nazionale. Qui “la formula dell’assolutismo trasformava il signore feudale in cortigiano, disarmava il suo castello, riconduceva idealmente tutti, nobili, borghesi e gente servile o meccanica,
alla comune condizione di sudditi. Una amministrazione finanziaria e militare accentrata cancellava il patrimonio delle istituzioni medioevali” (3).
(1) Cfr. G. Maranini, Storia del potere in Italia (1967), Firenze, Nuova Guaraldi Editrice, 1983, p. 51.
(2) Cfr. G. Maranini. op. cit, p. 54. “Alla fine del secolo XVIII la rivoluzione delle colonie inglesi d’America esprimeva in forma
esplicita e clamorosa tutti i valori che la storia costituzionale inglese, nelle sue lente oscillazioni, era venuta e veniva tuttavia maturando.
L’istituzione fondamentale del sistema delle libertà inglesi, il collegio uninominale a maggioranza relativa (a un solo scrutinio),
rimaneva la base delle libertà americane. Il valore sacro, e preminente sullo stato, della persona umana, implicito in tutta la concezione
britannica delle libertà, e ora colorato delle nuove fedi giusnaturaliste, trovava la sua solenne affermazione, per sempre vera, nel
preambolo della dichiarazione di indipendenza approvata dal Congresso continentale a Filadelfia nel 1776: Tutti gli uomini sono
creati eguali; essi sono dotati dal creatore di certi diritti inalienabili; tra questi diritti si trovano la vita, la libertà e la ricerca
della felicità. 1 governi sono stabiliti dagli uomini per garantire questi diritti.
(3) Cfr. G. Maranini, op. cit., p. 56.
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Secondo Maranini, le Costituzioni scritte sono sempre poco più che uno scheletro, rivestito poi di carne e sangue dalle idee dominanti, dalle condizioni sociali e storiche, dagli usi costituzionali. La Costituzione degli Stati Uniti senza dubbio aveva davanti a sé ben migliori prospettive della prima Costituzione francese, perché si rivolgeva a un Paese già esperto
nell’autogoverno e perché esprimeva nella sua sostanza una razionalizzazione di conquiste storiche, più che una costruzione arbitraria.
Nell’esperienza americana la grande forza regolatrice e stabilizzatrice fu (al contrario di
quanto doveva accadere in Francia) fin dal primo inizio proprio l’autorità morale dell’esecutivo.
Maranini rileva come per lungo tempo, anche dopo la restaurazione, tutte le forze più
moderne e vive della Francia sono portate a diffidare dell’esecutivo e a fare leva sull’assemblea
eletta. Così i problemi della divisione dei poteri, della amministrazione decentrata e delle autonomie, i problemi, in una parola, della libertà organizzata, rimangono o rimarranno insoluti.
Il problema nazionale e costituzionale italiano viene maturando nell’Europa della restaurazione. Con grande ritardo in confronto alla Francia, anche in Italia, o almeno in alcune regioni
italiane, sta sorgendo la forza nuova della borghesia moderna, che, contro la restaurazione e
contro i principi stranieri, si richiama ai diritti dell’uomo, alla ragione e al diritto naturale.
Da parte sua il Ghisalberti osserva che al crollo dell’ancien régime seguito all’espansione
ideologica e politica della Rivoluzione francese, la parte più evoluta della borghesia dei maggiori stati della penisola italiana non era giunta impreparata.
Secondo il Ghisalberti, “l’avvento del regime costituzionale in Francia, conseguente alla
vittoria della rivoluzione, modificò completamente i termini del dibattito politico in Italia. Quelle forze che ancora speravano in soluzioni riformistiche ottenute gradualmente attraverso l'intesa con i principi o le oligarchie aristocratiche, lasciarono il campo a chi, invece, riteneva l’esperienza d’oltralpe un modello da imitare in ogni circostanza. Così anche in Italia si venne affermando quella concezione democratica della sovranità popolare che aveva ispirato la Rivoluzione francese” (4)
Anche il Maranini procede ad un’attenta analisi della situazione italiana quale si configura
all’indomani del Congresso di Vienna. “Stavano davanti agli occhi degli italiani alcuni recenti
modelli costituzionali scaturiti direttamente o indirettamente dalla convulsione francese: e fra
questi sprigionava particolare suggestione la "Costituzione di Spagna", deliberata dalle cortes
di Cadice nel 1812, seguendo molto da vicino la Costituzione francese del 1791; l’accanita
difesa tentata dai liberali spagnoli di quella Costituzione, ne aveva fatto un simbolo per tutti i
liberali d’Europa, e soprattutto per i liberali italiani ( ... ).
L’importanza di una formula costituzionale, agli occhi dei liberali non era data dai suoi
pregi intrinseci, in rapporto a particolari orientamenti di scienza politica o a particolari rispondenze alla struttura della società italiana; ma piuttosto dalla sua capacità di mobilitare concrete
forze politiche al servizio della rivoluzione nazionale, borghese, unitaria. Frammentazione politica, preponderanza straniera, arbitrio dei principi erano agli occhi dei liberali i grandi ostacoli
da superare" (5).
Secondo il Maranini dunque, si spiega abbastanza facilmente la sterilità del pensiero costituzionale liberale e laico in Italia alla vigilia dello Statuto (6).
A tal proposito il Ghisalberti, in contrasto con la tesi del Maranini, rileva: “Si è spesso
erroneamente sostenuto che è mancata una consapevole meditazione italiana sulla portata dei
(4) Cfr, Ghisalberti, Storia costituzionale d’Italia (1848-1948), Bari, 1978, ed. Laterza, p. 3.
(5) Cfr. Maranini, op. cit., pp. 68-69. Una breve, ma efficace rassegna delle correnti di pensiero sulle nuove istituzioni (e cioè il
“Mazzinianesimo”, il federalismo cattolico e il federalismo laico) trovasi in G.Negri, Storia politica italiana dall’unità alla Repubblica,
Milano, ed. Giuffrè, 1994, pagg. 11-26.
(6) Cfr. Maranini, op. cit., p. 70. Per quanto riguarda invece la sterilità del pensiero cattolico il Maranini condivide le considerazioni di
Gianfranco Miglio, secondo cui il problema dello stato unitario nazionale si confondeva in primo luogo con quello del passaggio
dall’antico regime - a torto o a ragione ritenuto baluardo della religione - all’ordinamento liberale; in secondo luogo coinvolgeva la
questione delicatissima della legittimità dello stato pontificio e del destino che il dominio temporale dei papi avrebbe avuto nel quadro
dello stato unitario. Queste due condizioni storiche particolari hanno indubbiamente offuscato l’orizzonte del pensiero politico cattolico
di fronte al problema tecnico dello stato unitario.
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testi costituzionali che hanno disciplinato la vita degli ordinamenti statali in Europa dopo l’89,
e in particolare sulle circostanze che hanno accompagnato la loro emanazione e la loro caduta.
Se ne è attribuita la causa sia alla dominazione straniera, che certo non poteva favorire simili
aperture della cultura politica, sia alle contingenti preoccupazioni per l’azione risorgimentale,
tesa non già a ricercare i pregi intrinseci di una certa Costituzione, ma piuttosto a valutare la
sua possibilità di unificare le varie forze al servizio della rivoluzione nazionale, borghese e
unitaria. Tali affermazioni, ribadite anche di recente dal Maranini, non sembrano in realtà esatte”. Infatti l’adesione a un modello costituzionale piuttosto che a un altro, la scelta di un tipo di
ordinamento statale straniero per introdurlo negli Stati della penisola o la recezione di taluni
aspetti del diritto pubblico d’oltralpe da parte dei fautori di soluzioni liberali e costituzionali, in
Italia si sono sempre accompagnate a un’approfondita e consapevole meditazione delle loro
possibilità di rispondere ai bisogni della società italiana e di rinnovarla sul piano politico. Solo
così si può spiegare la lunga influenza esercitata sul pensiero politico italiano dalla Carta francese del 1814, il documento che costituiva, nonostante l’esplicita riaffermazione del diritto
divino del re, la prima, anche se estremamente moderata, testimonianza dell’adesione di un
regime tradizionale ai postulati giuridici del nuovo liberalismo europeo; o, ancora, si può comprendere il significato della scelta della Costituzione spagnola del 1812, importata e tradotta a
Napoli e Torino dai rivoluzionari del 1820-21; o, infine, si può giustificare il reiterarsi dei
tentativi liberali tendenti a instaurare ordinamenti politici, diversi nei caratteri e nelle norme, ma
tutti fondati sui canoni del costituzionalismo europeo (7). Lo stesso autore afferma inoltre: “Gli
scritti del Romagnosi, del Constant, del Rossi e del Balbo, redatti in momenti e in ambienti
diversi, testimoniano quanto forte sia stata la suggestione esercitata dall’idea di Costituzione
come strumento realizzativo della monarchia rappresentativa nella prima metà dell’Ottocento e
mostrano altresì con quanta consapevolezza i loro autori abbiano riflettuto sulle vicende delle
istituzioni politiche d’oltralpe, al fine di derivarne ispirazione e ammaestramento per la ricerca
delle migliori soluzioni sul piano del diritto pubblico” (8).
In particolare il Ghisalberti, sulla scorta dell’apologia fattane dal Rossi, rileva come la
Carta francese del 1830 assommasse una larga serie di pregi. Non più octroyée, ma stabilita di
comune accordo tra il nuovo sovrano e la Camera dei deputati che l’aveva elaborata, la Carta
del ’30 era infatti ben diversa dalla precedente (quella del 1814). Dichiarandosi re dei francesi,
Luigi Filippo tentava di contemperare il principio della legittimità dinastica con quello della
sovranità nazionale.
Questi fattori rendevano la Carta del 1830 maggiormente aderente al carattere borghese
impresso dalla Rivoluzione di luglio alla conduzione politica della Francia. Proprio per testimoniare e porre in evidenza il primato della borghesia rappresentata nelle due Camere, ma soprattutto in quella elettiva, il Rossi, come pure gli altri interpreti della Costituzione orléanista,
ritenevano ormai un dato acquisito di importanza fondamentale, destinato a qualificare per la
sua presenza il modo di essere di un regime, il carattere unitario e omogeneo del governo responsabile di fronte al Parlamento e ad esso legato da un rapporto di fiducia (9).
Pur senza sminuire l’apporto del pensiero democratico nella formazione dello spirito pubblico del Risorgimento, secondo il Ghisalberti è necessario sottolineare il profondo nesso che
unisce l’esperienza statutaria che si inaugura nell’Italia del 1848 alla grande evoluzione subita
dal costituzionalismo europeo dopo la Rivoluzione di luglio.
In un simile contesto ideologico si comprende facilmente come nell’Italla della Restaurazione la lotta per la Costituzione fosse diventata sinonimo della lotta per la libertà, perché la
concessione di essa non poteva significare se non l'instaurazione di un regime antitetico a quello
assoluto. Così quando nel 1848 le istanze costituzionali e le esigenze statutarie trionfarono nei
diversi Stati della penisola, trovarono il terreno ampiamente preparato dalla diffusione e dal
(7) Cfr. Ghisalberti, op. cit., pp. 22-23.
(8) Cfr. Op. cit., pag. 21.
(9) Ivi, pp. 24-25.
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successo delle idee liberali e si poterono imporre naturalmente a un’opinione pubblica che nella
Costituzione vedeva il coronamento supremo delle proprie aspirazioni politiche (10).
Coerente al pensiero del tempo appariva pertanto la definizione che della Costituzione
dava Pellegrino Rossi (11).
2. LO STATUTO ALBERTINO
Severo è il giudizio sugli statuti quarantotteschi formulato dal Maranini. Egli afferma
infatti: “E’ dunque a buon diritto che, parlando dello sviluppo storico della Costituzione italiana, mi riferisco esclusivamente alla carta albertina, e trascuro affatto le altre effimere Costituzioni, uscite bensì da un comune travaglio, e documento di una generale sensibilità dello spirito
italiano, ma rimaste prive di vitalità per non aver potuto assorbire la rivoluzione nazionale; e
troppo presto cadute, senza aver lasciato una qualunque eredità allo svolgimento successivo
delle istituzioni nazionali” (12).
Il Maranini fornisce anche un elenco delle Costituzioni apparse in Italia fra il 1797 e il
1849 con l’avvertenza: “Ma, considerata ognuna in sé medesima, queste Costituzioni meritano
appena di essere menzionate, in un saggio storico sopra l’evoluzione costituzionale italiana.
Effímere apparizioni, scaturite da profondi ma ancor confusi bisogni, imposte da armi straniere
o comunque più o meno frettolosamente e pedissequamente imitate da modelli stranieri, non
affondavano le loro radici nel genuino spirito giuridico e politico della nazione; e, presto travolte
dall’incalzare degli eventi, non poterono nemmeno in qualche modo stabilmente conformare secondo
il loro disegno la vita politica dei vari Stati, o lasciare qualunque durevole e riconoscibile traccia nella
Costituzione dell’Italia risorta, eccezione fatta per il solo Statuto albertino” (13).
E veniamo dunque alla concessione dello Statuto albertino.
Il 4 marzo 1848, “con lealtà di Re e con affetto di padre”, Carlo Alberto veniva a compiere
quanto aveva annunziato agli “amatissimi sudditi” con il proclama dell’8 febbraio 1848 ed
emanava lo Statuto del Regno, quale “legge fondamentale perpetua ed irrevocabile della Monarchia”. Al riguardo, l’opinione prevalente fu nel senso che perpetua ed irrevocabile dovesse
intendersi la rinuncia al potere assoluto, e non anche ogni singola disposizione dello Statuto.
Lo Statuto (composto di un preambolo e 84 articoli) deriva da un adattamento, e qualche
volta da una traduzione, delle costituzioni francesi del 1814 e del 1830, con qualche eco della
costituzione belga del 1831. Come quelle costituzioni, esso tende a realizzare, sia pure imperfettamente lo schema classico della tripartizione dei poteri.
In base all'art. 2 dello Statuto albertino, lo stato era retto "da un Governo Monarchico
rappresentativo".
(10) Ghisalberti, Op. cit., p. 28.
(11) Nelle celebri lezioni alla Sorbona, Pellegrino Rossi affermava tra l’altro che le libertà dell’uomo erano quasi del tutto scomparse dal
suolo d’Europa. Il potere assoluto era divenuto la regola generale nella maggior parte dell’Europa, o per lo meno, là dove non vi era
forma di governo assoluto, vi era una forma di potere ristretto all’aristocrazia. In breve, il privilegio dominava nell’organizzazione
degli Stati. Quando arrivò il momento di una reazione contro questo stato di cose, furono reclamate oppure si formarono quelle che
sono state chiamate Costituzioni, vale a dire furono ristabilite le leggi di organizzazione sociale e politica maggiormente adatte a
garantire i diritti di ciascuno e le libertà naturali dell’uomo. Ne sono derivati quegli accordi tra potere e paese, quelle Carte ed il
significato specifico della parola “Costituzione”. E’ in questo senso che si afferma oggi che un paese possiede o non possiede una
Costituzione. Questo significa: in questo paese si sono fatte delle conquiste in materia di libero governo, il regno del privilegio è
cessato. Cfr. Pellegrino, Rossi, Lezioni di diritto costituzionale alla Sorbona, Roma, Colombo editore, 1992, 4 1.
Sui rapporti tra costituzionalismo e Costituzione, si rinvia a N. Matteucci, Costituzionalismo, in Dizionario di politica, diretto da
Bobbio, Matteucci e Pasquino, Torino, Utet, 1983, G. Rebuffa, Costituzioni e costituzionalismo, Giappichelli, Torino, 1990 e
bibliografia ivi indicata, Constitutionalism and democray, edited by John Elster and Rune Slagstad, Cambridge University press,
1988-, L. Compagna, Dal costituzionalismo liberale alla democrazia politica, Milano: Giuffrè, 1988, Butta, Giuseppe John Adams
e gli inizi del costituzionalismo americano, Milano: Giuffrè, 1988; Fioravanti M., Stato e Costituzione: materiali per una storia
delle dottrine costituzionali, Torino, Giappichelli, 1993.
Sul problema dell’origine e del fondamento della Costituzione, sulla nozione di costituzione formale e materiale, sulla interpretazione
e sulle modifiche della Costituzione e sui limiti alla revisione costituzionale, resta indispensabile la consultazione della voce di C.
Mortati, Costituzione (dottrine generali), in Enciclopedia del diritto, vol. V, 1962 e dell’amplissima bibliografia ivi citata.
(12) Cfr. Maranini, op. cit., pag. 86.
(13) Ivi, pag. 92, nota 25.
16
L'art. 67 stabiliva che i Ministri erano "responsabili", senza precisare nei confronti di quale
organo (il Re?, il Parlamento, o entrambi?). Formula laconico, che secondo alcuni studiosi
lasciava aperta la possibilità tanto del governo costituzionale puro (con i ministri responsabili
dinanzi al re), quanto del governo parlamentare (con i ministri responsabili dinanzi al parlamento) (14).
Lo Statuto albertino prevedeva una forma di governo di tipo tendenzialmente dualista, ma
con un forte sbilanciamento dei poteri a favore del Re, al quale erano attribuiti sia la funzione
esecutiva in toto (articoli 5 e 6), sia ampi poteri di intervento sull’attività e sulla stessa struttura
delle Camere (si pensi al potere di sciogliere la Camera dei deputati e al potere di nomina dei
senatori in numero non limitato), sia la titolarità della funzione giurisdizionale, atteso che la
giustizia “emanava” dal Re ed era amministrata in suo nome dai giudici da lui istituiti (articolo
68). E la indipendenza dei giudici era tutelata solo in parte.
Come più volte è stato sottolineato dalla dottrina, nessun effettivo contrappeso era previsto
dalle disposizioni dello Statuto per controbilanciare gli amplissimi poteri spettanti al Monarca.
Osserva A. Marongiu che lo Statuto albertino non è stata una Costituzione perfetta, specie
dal punto di vista della tecnica giuridica, né è stata, nel suo nascere, frutto della libera volontà
del paese, cioè liberamente formata. Però sviluppò indubbiatnente una gran forza d’attrazione e
costituì un punto di forza veramente fondamentale nella costruzione di un’Italia libera, unita e
ben ordinata (15).
Secondo il Ghisalberti, lo Statuto albertino, il solo documento costituzionale rimasto in
vigore dopo l’ondata reazionaria seguita al fallimento della rivoluzione del 1848, divenne il
necessario fulcro delle speranze liberali in Italia. Grazie anche al suo carattere di Costituzione
flessibile, cioè modificabile con legge ordinaria, esso testimoniava quella profonda capacità di
adeguarsi alle trasformazioni politiche e di seguire l’evoluzione delle circostanze che ne caratterizzeranno la vita (16).
3. ALCUNE "MODIFICAZIONI TACITE" DELLO STATUTO ALBERTINO DAL
1848 AL 1922
Durante la sua lunga vita lo Statuto albertino non ha mai subito modificazioni testuali, ma
ha subito numerose modificazioni “tacite”. Infatti o in forza di fatti normativi (convenzioni e
consuetudini costituzionali) o in base a leggi formali lo Statuto albertino è stato più volte derogato o modificato nella sostanza, senza che ne venisse mai intaccato il disposto testuale.
Come segni della notevole flessibilità ed elasticità dello Statuto albertino, vorrei ricordare
alcune delle “modificazioni tacite” subite dallo Statuto nel periodo 1848-1922 e cioè:
- la evoluzione del potere di nomina dei senatori a vita;
- la trasformazione del regime da costituzionale puro in parlamentare;
- la vicenda dei decreti-legge.
(14) Così F. CUOCOLO, Istituzioni di diritto pubblico, ed. Giuffré 1988, pag. 148, il quale precisa subito dopo: “La consuetudine, o
forse meglio le convenzioni della costituzione che si affermarono fra gli organi supremi dello Stato, portarono subito, fin dalla caduta
dei ministero Balbo nel luglio 1848, all’affermazione della responsabilità del governo non solo nei confronti del re ma soprattutto nei
confronti della Camera dei Deputati, con soluzione generalmente accolta”.
Sul punto vedi altresì AMORTH, Problemi costituzionali dallo Statuto albertino alla Costituzione repubblicana, in “Quest. di
storia del Risorg. e dell’unità d’Italia”, 1951, 787 e JEMOLO-GIANNINI, Lo statuto albertino, Firenze, 1946, 70
(15) Cfr. A. Marongiu, Storia del diritto italiano, Milano, 1985, pag. 426, Secondo D, Zanichelli Studi di storia costituzionale e politica
del risorgimento italiano, Zanichelli, Bologna 1900, p. 145) “difetto grave dello statuto piemontese, ma comune a quelli degli altri
stati italiani, anche, sebbene in grado minore, al toscano, è la poca italianità e l’indeterminatezza, alle volte soverchia, delle espressioni”,
Probabilmente tale caratteristica deriva anche dai lavori preparatori dello Statuto. Infatti, le discussioni dei consigli di conferenza nei
quali fu formulato lo statuto, avvenivano in francese e, verosimilmente, lo statuto stesso fu scritto in quella lingua, e dopo tradotto in
italiano,
(16) Cfr. Ghisalberti, op. cit., pag. 35.
Afferma J. Bryce, Costituzioni flessibili e rigide, (a cura di A. Pace), Giuffrè ed. 1998, pag. 59, che lo Statuto veniva un tempo
considerato come un esempio di costituzione rigida. Ma precisa subito dopo: “Ora, tuttavia, si ritiene che sia una Costituzione
flessibile”.
17
a. L’articolo 33 dello Statuto elencava le categorie tra le quali dovevano essere scelti “in numero non limitato” i senatori.
Ebbene, è significativo constatare che, fin dai primi anni, fu riconosciuto al Governo il
potere di sottoporre al Sovrano l’indicazione delle persone meritevoli della dignità senatoria.
Tale prassi ebbe la sua consacrazione scritta con il R.D. 25 agosto 1876 n. 3289, il quale
elencava espressamente (articolo 1, n. 9) le nomine al Senato tra gli oggetti da sottoporre a
deliberazione del Consiglio dei Ministri. Il formarsi prima della prassi, e poi l’espressa
codificazione, che spettava al Governo il potere di proporre al Re la nomina dei senatori
denota chiaramente la trasformazione in potere sostanzialmente governativo di quello che,
almeno secondo la lettera dello Statuto albertino, sembrava essere stato concepito come un
potere esclusivamente regio.
E probabilmente non è senza significato il fatto che la consacrazione scritta della prassi
sia avvenuta nel 1876, nell’anno cioè dell’avvento della Sinistra al potere.
Secondo il Palma, in una monarchia parlamentare il Senato costituisce di fatto una
emanazione del Ministero, cioè della maggioranza della Camera dei deputati.
Per Santi Romano la nomina dei senatori aveva un duplice carattere: sostituire i senatori venuti a mancare; in secondo luogo la nomina poteva proporsi lo scopo di influire sull’atteggiamento politico del Senato, facendovi entrare contemporaneamente un notevole numero di persone nuove (le c.d. infornate), mediante le quali il Re poteva influire sulla composizione del Senato, che non poteva sciogliere, così come poteva influire sulla Camera dei
deputati sciogliendola ed indicendo nuove elezioni. Cioè il potere regio di nominare senatori
in numero illimitato corrispondeva al potere di scioglimento della Camera elettiva.
Giova altresì sottolineare, sia pure incidentalmente, che la trasformazione del potere di
nomina dei senatori da potere regio in potere sostanzialmente governativo consentì, sotto il
profilo dei regolamenti parlamentari, la presentazione alla Camera di atti del sindacato ispettivo
sul modo in cui detto potere di nomina era stato esercitato. Ricordiamo ad esempio la discussione della proposta del senatore Plezza di differire la verifica dei poteri dei nuovi senatori a
dopo la discussione della proposta di perequazione (Atti Senato, 17 marzo 1864); la discussione della interpellanza del deputato Crispi al Presidente del Consiglio dei Ministri sulla
nomina di ventitré senatori (Atti Camera, 17 marzo 1864); la nomina di nuovi senatori (Atti
Senato, 12 dicembre 1892); la discussione sulla interpellanza del senatore Parenzo al Presidente del Consiglio dei Ministri sui criteri seguiti o che intendeva seguire in avvenire sulle
proposte di nomina di senatori (Atti Senato, 12 gennaio 1897), e così via.
Poche osservazioni è opportuno aggiungere sulla convalida dei senatori del Regno.
Come è noto, dopo l’entrata in vigore della Costituzione repubblicana, i senatori nominati a vita acquistano le prerogative della carica e tutti i diritti inerenti alle loro funzioni
dalla comunicazione della nomina al Senato (art. 1 Reg. Senato).
Al tempo del Senato regio, invece, la comunicazione al Senato della nomina non
immetteva immediatamente il nominato nell’esercizio delle funzioni, occorrendo a tal fine il
previo verificarsi di due condizioni: la convalida dei titoli di nomina e la prestazione del
giuramento da parte del neo senatore. Il giudizio di convalidazione nell’ordinamento albertino
fu caratterizzato dal frequente variare delle norme regolamentari, che non è possibile illustrare in questa sede.
Sotto lo Statuto albertino non furono convalidate le nomine di una sessantina di senatori, o perché il nominato morì o dette le dimissioni prima della verifica dei titoli, o perché
l’apposita Commissione non riferì mai sulla nomina, o perché la convalida fu rifiutata dal
Senato. Per l’elenco dei senatori regi non convalidati, nel periodo 1848-1933, si rinvia al
volume I senatori del Regno, edito dal Segretariato Generale del Senato nel 1934.
Va sottolineata la tendenza del Senato regio a non limitarsi ad un mero controllo di
legalità formale del decreto reale di nomina dei senatori. Infatti la prassi costituzionale era
nel senso di ritenere consentito al Senato regio di valutare anche la personalità del nominato,
per accertare se questi era ritenuto degno di far parte dell’Assemblea; potere che incideva
pesantemente, come è chiaro, sulle prerogative del binomio Re-Governo. Tale prassi fu quindi
contestata.
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Secondo il Pagliano (Il Senato e la nomina dei senatori) doveva negarsi al Senato il
diritto di rifiutare la convalidazione per motivi extralegali, altrimenti si riconosceva al Senato un diritto di cooptazione. Il Pagliano ricorda una felice espressione di Silvio Spaventa,
secondo il quale “dei requisiti morali è pei senatori giudice il Re, come pei deputati sono gli
elettori”.
Anche il Crosa (La Monarchia nel diritto pubblico italiano) osservava: “occorrerebbe che
il giudizio del Senato avesse carattere esclusivamente giuridico e non anche morale e politico”.
b. Non è casuale nemmeno il fatto che la trasformazione del potere di nomina dei senatori da
potere esclusivamente regio in potere sostanzialmente governativo si accompagnò,
cronologicamente e logicamente, al contemporaneo progressivo svuotamento della prerogativa reale relativa alla nomina e revoca dei Ministri, a causa della rapida evoluzione del
sistema da costituzionale puro in regime parlamentare.
Occorre comunque sottolineare che la più recente dottrina è più cauta sulla trasformazione della forma di governo durante lo Statuto albertino. Ad esempio T. Martines (nella
Prefazione al libro di A. Pichierri su “La Costituzione provvisoria”, 1996) afferma che la
forma di governo si è trasformata da costituzionale pura in parlamentare dualista; ma precisa che quest’ultima non si è mai pienamente consolidata per la riassunzione da parte del Re,
in vari momenti della storia d’Italia, dei poteri e delle prerogative statutarie, quale Capo
supremo dello Stato.
Del resto, come è documentato da un saggio di F. Rossi (pubblicato sull’Annale 1998
dell’ISAP), anche le vicende relative alla fiducia preventiva nel sistema statutario sono più
complesse e meno lineari rispetto a quanto affermato dalla letteratura corrente.
Secondo il Ghisalberti, sarebbe stato ben difficile prevedere, nel momento della concessione dello Statuto, l’avvio di quella rapida trasformazione del regime da costituzionale puro
in parlamentare che ne caratterizzerà la vita nell’età liberale. Eppure, malgrado ogni previsione contraria della vigilia e nonostante le resistenze degli ambienti conservatori, si venne a
verificare quasi immediatamente quell’alterazione dei rapporti tra Corona e Camere, tra
prerogativa regia e prerogativa parlamentare.
Con riferimento al Ministero Casati, incerto tra la fedeltà all’ortodossia statutaria e le
aspirazioni parlamentari, dinanzi ai tragici eventi della guerra, che obbligarono il Governo
subalpino a chiedere alle Camere i pieni poteri, il Ghisalberti osserva che i pieni poteri
concessi al Governo per la condotta della guerra hanno modificato certamente i rapporti tra
Corona, Ministero e Camere, tra le quali quella elettiva appariva destinata logicamente ad
avere il maggior peso. Malgrado la sottile discussione fatta nel Senato subalpino sulla concessione al re o al Governo del re di tali poteri, nella prassi si venne a introdurre una scissione tra la Corona e il Ministero che non era stata prevista dallo Statuto: questo, infatti,
parlava solo di una titolarità dell’esecutivo spettante al sovrano, che nominava e revocava i
“suoi” ministri (articolo 65)
c. Un’altra importante e significativa “modificazione tacita” dello Statuto albertino riguarda
un istituto da esso non previsto (e secondo alcuni addirittura implicitamente vietato): ci
riferiamo alla vicenda dei decreti-legge.
Com’è noto, lo Statuto albertino non prevedeva il potere del Governo di emanare decreti-legge. Anzi, l’articolo 6 dello Statuto - a norma del quale il Re faceva i decreti e i regolamenti necessari per l’esecuzione delle leggi “senza sospenderne l’osservanza o dispensarne”
- poteva far ritenere (e vari studiosi lo ritennero) che lo Statuto contenesse un implicito, ma
fermo divieto al Governo del Re di emanare decreti aventi valore di legge. Scriveva, ad
esempio, il Cammeo: “Noi siamo quindi d’avviso che il divieto di sospendere le leggi, e con
esse la Costituzione, sia in Italia assoluto. E non possiamo quindi nemmeno ammettere che
la Costituzione italiana sia di quelle che tacciono delle ordinanze d’urgenza: essa ne parla e
ne parla per escluderle, secondo il testo e la storia dell’articolo 6. Del resto quand’anche lo
Statuto ne tacesse senza escluderle, non sarebbe questo un argomento buono per giustificar19
le: poiché i poteri dei Governo sono per noi enumerati espressamente e nel silenzio della
legge deve presumersi la competenza legislativa e non quella governativa”.
In realtà l’articolo 6 dello Statuto, derivato dall’articolo 13 della Carta francese del
1830, poteva suscitare dei dubbi interpretativi per talune considerazioni storico esegetiche.
Infatti l’articolo 6, che vietava al Re la sospensione delle leggi, non riproduceva la parola
“giammai” contenuta invece nel corrispondente articolo 13 della Carta francese.
Comunque nel 1859 fu emanato un decreto che è ritenuto il primo decreto-legge dello
Stato italiano (Si tratta del regio-decreto 1° dicembre 1859, n. 3811, concernente l’autorizzazione al Governo a dare piena ed intera esecuzione ai Trattati di Zurigo). Tale decreto è il
primo che reca la clausola: “sarà presentato alle Camere per la conversione in legge”.
Dopo il menzionato decreto del 1859, altri decreti dello stesso tipo furono emanati dal
Governo, senza che alcuna legge ne consentisse l’emanazione. Fu pertanto instaurato di
fatto il ricorso alla decretazione d’urgenza con forza di legge nonostante il silenzio dello
Statuto albertino. Ricordiamo, sia pure incidentalmente, che un’accurata statistica dei decreti-legge emanati fino al 1921 si trova in V. Scialoja, Sulla conversione in legge dei decreti-legge, in Arch. Giur., 1923. Il saggio, prezioso particolarmente per le indicazioni di giurisprudenza, costituisce la relazione dell’Ufficio centrale del Senato sulla proposta di legge
Scialoja e altri, S. n. 345 A.
Per quanto attiene alla fonte di legittimazione dei decreti-legge, la tesi prevalente invocava la necessità come fonte autonoma del diritto. Accanto allo jus necessitatis, la giurisprudenza si basò talvolta anche sulla c.d. consuetudine parlamentare che, nel silenzio dello
Statuto, avrebbe costituito - insieme con la necessità - la fonte di legittimazione dell’istituto.
Per alcuni decenni dunque il decreto-legge visse nella realtà costituzionale italiana,
senza che lo Statuto albertino o altra legge ne prevedesse l’emanazione o regolasse gli adempimenti successivi all’emanazione stessa.
Risulta quindi confermato che, anche se nel periodo esaminato, nessun progetto di
legge di modifica dello Statuto albertino fu approvato dalle Camere, tuttavia la interpretazione storica evolutiva della Costituzione allora vigente consentì la trasformazione di taluni
istituti verso mete non previste dal Re-costituente (vedi nomina dei senatori a vita e introduzione della forma di governo parlamentare) e la nascita e lo sviluppo di istituti (vedi il
decreto-legge) totalmente ignorati dallo Statuto (17).
(17) Per accurata ricostruzione storica delle vicende costituzionali in Italia nel periodo 1848-1948, vedi anche Labriola S., Storia della
Costituzione Italiana, Napoli, ESI, 1995.
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CAPITOLO SECONDO
IL PERIODO FASCISTA
1. PREMESSA
Il periodo in esame è assai interessante, ma anche difficile da interpretare. Non solo perché
le nostre categorie di interpretazione oggi non sono probabilmente le stesse che usavano gli
uomini che andavano costruendo il fascismo, non solo per la difficoltà di valutare quando il
movimento diventa regime e quando il consenso popolare finisce, con tutti quei problemi
epistemologici o metodologici su cui tanto ha indagato R. De Felice, ma anche per la difficoltà
di valutare quali elementi presenti nella parabola costituzionale del fascismo siano da privilegiare nella ricostruzione del periodo. E’ comunque necessario riflettere su taluni quesiti di natura giuridica.
2. ROTTURA O CONTINUITA’ CON L’ORDINAMENTO PRECEDENTE?
Il primo quesito da affrontare è il seguente: il fascismo crea una rottura nell’ordinamento
statutario, oppure vi è una sostanziale continuità, sia pure con notevoli modifiche e accelerazioni rispetto al passato? La tesi della “parentesi” di Croce costituisce un argomento a favore della
teoria della rottura; ma quella di Croce è soltanto una delle varie interpretazioni del fascismo.
Eppoi: rottura o continuità valutata in base a quali parametri? E inoltre: continuità o rottura per
il diritto interno e/o per il diritto internazionale?
Rinviando per la trattazione sistematica ai lavori sull’argomento (1) vediamo la posizione
di qualche autore.
Caretti e De Siervo (nelle “Istituzioni di diritto pubblico”, 1998) affermano che anche se
solo con il 1925/1926 può parlarsi di una irrimediabile cesura con il regime politico precedente
e della nascita di una vera e propria nuova forma di Stato e di una nuova forma di governo, nel
triennio 1922/1925 sono già evidenti, e progressivamente sempre più prevalenti, gli elementi di
rottura rispetto alle caratteristiche fondamentali che lo Stato italiano aveva assunto nel corso
dell’esperienza precedente.
E’ opinione diffusa che con il discorso del 3 gennaio 1925 alla Camera, Mussolini si
assume la responsabilità di tutto quanto avvenuto, e rompe definitivamente con lo spirito e gli
istituti dello Stato liberale, esponendo un esplicito programma di edificazione di uno Stato
fondato su una unica forza politica. Programma che concretamente troverà una rapida ed organica attuazione attraverso una serie di leggi adottate nel biennio seguente (non a caso definite da
vari autori come “leggi fascistissime”).
(1) Cfr. la voce “ Fascismo” , di Paladin, in Enciclopedia del diritto (1967) e Carlassare, “ La Rivoluzione fascista e l’ordinamento
statutario” in Diritto Pubblico 1996; nonchè A. Aquarone, L'organizzazione dello Stato totalitario, ed. Enaudi, 1965.
Per un'analisi storica del periodo fascista, cfr. E. Gentile, La via italiana al totalitarismo, ed. La Nuova Italia Scientifica, Roma
1995.
21
La legge 2263/1925, (“Attribuzioni e prerogative del Capo del Governo, primo Ministro
Segretario di Stato”), evidenzia la centralità della figura di quello che in precedenza era solo il
Primo Ministro, primus inter pares rispetto agli altri Ministri, ma che ora invece diviene il
“Capo del Governo”, dotato di un vero e proprio potere di direzione sui Ministri, i quali risultano così politicamente responsabili nei suoi riguardi, oltre che verso il Sovrano. Da un lato
viene ribadito il principio statutario che il Re ha il potere di nomina e revoca dei ministri, ma
dall’altro il Capo del Governo ne condiziona l’esercizio, essendo ora prevista la sua proposta
tanto per la nomina, quanto per la revoca dei Ministri.
Contemporaneamente, il Capo del Governo diviene titolare di penetranti poteri di controllo
sull’attività parlamentare: il suo consenso è indispensabile perché un oggetto possa essere messo all’ordine del giorno di una Camera; egli può addirittura imporre che una proposta respinta
da una Camera venga riproposta dopo tre mesi alla medesima Camera o anche subito presentata
all’esame dell’altra.
La stessa legge, risolvendo le vecchie questioni (che avevano caratterizzato tutto il periodo
albertino) circa l’organo competente in ordine alla costituzione dei Ministeri ed alla disciplina
delle loro attribuzioni, stabilì che la materia era regolata con decreti reali, adottati “su proposta
del Capo del Governo”.
A mio avviso, giustamente il Paladin e l’Aquarone individuano nella legge n. 2263/1925,
la prima legge fascista di portata veramente costituzionale.
L’anno successivo, la legge 100/1926 introduce una disciplina organica dei poteri normativi del Governo, razionalizzando in parte il settore rispetto alle precedenti oscillanti prassi del
periodo liberale, ma, nel complesso, legittimando un ampio potere dell’Esecutivo di emanare
norme di natura legislativa e regolamentare.
3. DIFFERENZA TRA LE LEGGI ORDINARIE E LE LEGGI COSTITUZIONALI
Data la flessibilità dello Statuto albertino si poteva distinguere una legge costituzionale da
una legge ordinaria soltanto in base alla materia? V. E. Orlando nel 1890 scriveva che nell’ordinamento italiano non era possibile sotto nessun profilo distinguere una legge ordinaria da una
legge costituzionale. Tale tesi era contestata da chi sosteneva che bisognava distinguere tra
potere costituente, potere di revisione costituzionale e la legislazione ordinaria. Sono tutte
problematiche che oggi - in cui si discute molto di riforme costituzionali - sono ritornate di gran
moda, come è testimoniato dai lavori di L. Compagna, di A. Barbera, dalla traduzione del libro
di Bryce sulle Costituzioni rigide e flessibili, ecc..
Ebbene, la legge del 1928 sul Gran Consiglio del Fascismo stabiliva che doveva essere
sentito il parere del Gran Consiglio su tutte le questioni aventi carattere costituzionale. E precisava che erano considerate sempre aventi carattere costituzionale le proposte di legge concernenti le materie ivi indicate. Anche se, come è noto, nel momento di crisi del regime (1943) la
legge non ha trovato applicazione, è apprezzabile lo sforzo di mettere ordine e dare certezze in
una materia così complessa ed opinabile.
4. INCIDENZA DELLA IDEOLOGIA FASCISTA SULLA ORGANIZZAZIONE
DELLO STATO
La questione è complessa e carica di forti implicazioni ideologiche. Anche per questo, la
risposta dovrebbe essere piuttosto lunga, articolata e con varie precisazioni metodologiche.
Tutte cose impossibili da fare in questa sede.
Mi limito a ricordare alcuni dati che appaiono, a mio avviso, assai significativi.
a. Il primo fatto è costituito dall’art. 11 della legge 17 maggio 1928 n. 1019, che abrogò tutte
le disposizioni sulle incompatibilità parlamentari. Il motivo di tale abrogazione risulta uffi22
cialmente nella relazione al disegno di legge divenuto poi la legge n. 1019, che sottolinea:
“L’ultimo articolo del disegno di legge stabilisce l’abrogazione di tutte le norme sulle incompatibilità parlamentari; ciò che è conseguenza necessaria della funzione deferita al Gran
Consiglio sulla designazione dei deputati”.
b. L’altro fatto si verificò allorché Dino Grandi, divenuto Presidente della Camera, mantenne il
portafoglio della Giustizia. Secondo alcuni commentatori, la riunione dei due uffici nella
stessa persona poteva essere pericolosa e creare confusione di compiti e di ruoli.
Ebbene, a tali interrogativi rispose Giovanni Giuriati con un articolo pubblicato sulla
Nuova Antologia (n. 6/1939); articolo di una chiarezza estrema, che non lasciava alcuno
spazio al dubbio.
Il ragionamento dell’autore era il seguente. Nel regime demoliberale la divisione dei
poteri era dogma basilare: essa si fondava sul presupposto di una parità teorica dei tre poteri
che si considerava essenziale alla vita e al buon andamento dello Stato.
Tutto ciò è stato demolito dalla Rivoluzione fascista. Con la legge sul Gran Consiglio
fu definitivamente abolito il mito della sovranità popolare togliendo al Parlamento la facoltà
di defenestrare il Governo e di indicare il successore. Con la legge sul Primo Ministro si è
stabilito il principio che i Ministri (e perciò anche il Guardasigilli) sono responsabili verso il
Capo del Governo, ponendo così il Duce sopra un piano diverso e più alto di quello dei suoi
collaboratori e riconoscendogli totalitariamente l’esercizio del potere statale. L’imperium
esercitato in tal modo da Uno solo, esclude la possibilità della consistenza di poteri di grado
minore, ciascuno dei quali abbia una propria autonomia formale e sostanziale, o possa ritenersi investito di una frazione della sovranità statale. Lo Stato continua ad assolvere le sue
funzioni, ma in un sistema armonico di collaborazione nel quale sono divenute inutili le
prerogative, perché è eliminata ogni possibilità di contrasto. Ciascuna di queste funzioni
trova la sua garanzia nell’autorità e nella giustizia del Duce, che ne disciplina l’attività
nell’ambito e nell’interesse dello Stato.
Data la chiarezza e perentorietà di tali affermazioni, ogni commento appare superfluo.
5. LA MILIZIA VOLONTARIA PER LA SICUREZZA NAZIONALE
Costituita con regio decreto 14 gennaio del 1923, n. 31. Mussolini eloquentemente scriveva al riguardo: la creazione della milizia è il fatto fondamentale, inesorabile che poneva il
Governo sopra un piano assolutamente diverso da tutti i precedenti e ne faceva un Regime
[anche qui sorgono problemi epistemologici: cosa intendeva Mussolini per regime?]. Il Partito
armato conduce al regime totalitario. La notte del gennaio del 1923, durante la quale fu creata
la Milizia, segnò la condanna a morte del vecchio Stato demoliberale, il quale, da allora, non
fece che attendere di essere sepolto; il che accadde con tutti gli onori il 3 gennaio del 1925.
6. SULLA FACOLTA' DEL POTERE ESECUTIVO DI EMANARE NORME GIURIDICHE (LEGGE 31 GENNAIO 1926, N. 100)
Per comprendere appieno la portata della legge n. 100 occorre collocarla nel contesto
storico costituzionale in cui fu approvata. Anche durante la discussione parlamentare del disegno di legge divenuto poi la legge n. 100/1926 vi furono espliciti riferimenti alla concezione
fascista dello Stato e dei rapporti tra gli organi costituzionali (2).
(2) Vedi ad es. le dichiarazioni del ministro Rocco nella seduta della Camera del 20 giugno 1925 e nella seduta del Senato del 14 dicembre
1925.
Sul pensiero di Rocco in generale, v. P. UNGARI, Alfredo Rocco e l’ideologia giuridica del fascismo, Brescia 1963.
23
L'art. 1 della legge disciplinava il potere regolamentare del Governo. Stabiliva infatti che
erano emanate con Reale decreto, previa deliberazione del Consiglio dei Ministri e udito il
parere del Consiglio di Stato, le norme giuridiche necessarie per disciplinare:
- 1° l'esecuzione delle leggi;
- 2° l'uso delle facoltà spettanti al potere esecutivo;
- 3° l'organizzazione ed il funzionamento delle Amministrazioni dello Stato, l’ordinamento del personale ad esse addetto, l’ordinamento degli enti ed istituti pubblici, eccettuati
i comuni, le provincie, le istituzioni pubbliche di beneficenza, le Università e gli Istituti
di istruzione superiore che hanno personalità giuridica, quand’anche si tratti di materie
sino ad allora regolate per legge.
Restava ferma la necessità dell’approvazione, con la legge del bilancio, delle spese relative
e dovevano, in ogni caso, essere stabilite per legge le norme concernenti l’ordinamento giudiziario, la competenza dei giudici, l’ordinamento del Consiglio di Stato e della Corte dei conti,
nonchè le guarentigie dei magistrati e degli altri funzionari inamovibili.
L'art. 3 disciplinava invece la potestà del Governo di emanare atti aventi forza di legge.
Infatti, con decreto Reale, previa deliberazione del Consiglio dei Ministri, potevano emanarsi norme aventi forza di legge:
- 1° quando il Governo fosse a ciò delegato da una legge ed entro i limiti della delegazione;
- 2° nei casi straordinari, nei quali ragioni di urgente ed assoluta necessità lo richiedano
(3). Il giudizio sulla necessità e sull’urgenza non era soggetto ad altro controllo che a
quello politico del Parlamento.
Nei casi indicati nel n. 2 del precedente comma il decreto Reale doveva essere munito della
clausola della presentazione al Parlamento per la conversione in legge, ed essere, a pena di
decadenza, presentato, agli effetti della conversione stessa, ad una delle due Camere, non oltre
la terza seduta dopo la sua pubblicazione.
Se una delle due Camere rifiutava la conversione in legge, il decreto cessava di aver vigore
dal giorno della pubblicazione della notizia nella G.U..
Se il decreto era convertito in legge con emendamenti, l’efficacia degli emendamenti decorreva dalla pubblicazione della legge.
Se entro due anni dalla sua pubblicazione, il decreto non fosse stato convertito in legge,
esso cessava di aver vigore dal giorno della scadenza di questo termine (4).
7. IL GRAN CONSIGLIO DEL FASCISMO
La legge 9 dicembre 1928, n. 2693 istituiva il Gran Consiglio del fascismo, e cioè (v. art.
1) l’organo supremo “che coordina ed integra tutte le attività del Regime sorto dalla Rivoluzione dell’ottobre 1922. Esso ha funzioni deliberative nei casi stabiliti dalla legge, e dà, inoltre,
parere su ogni altra questione politica, economica o sociale, di interesse nazionale, sulla quale
sia interrogato dal Capo del Governo”, il quale era, di diritto, il Presidente dell’organo (mentre
Segretario era il Segretario del Partito Nazionale Fascista).
In base all’art. 12 doveva essere sentito il parere del Gran Consiglio su tutte le questioni
aventi carattere costituzionale. E stabiliva che le proposte di legge nelle materie indicate dove-
(3) Modificato dall’art. 18 della legge 19 gennaio 1939, n. 129, che ammetteva di provvedere con decreto-legge solo quando si versi in
stato di necessità per causa di guerra o per urgenti misure di competenza delle Commissioni legislative permanenti, queste non avessero
adempiuto, nel termine prescritto, alla loro funzione.
(4) E’ superfluo sottolineare le differenze tra la legge n. 100/1926 e il testo dell’art. 77 della vigente Costituzione in ordine all’istituto dei
decreti-legge: vedi Parte II, Cap. II, punto 3.
24
vano considerarsi sempre come aventi carattere costituzionale (5).
L’art. 14 stabiliva altresì che con regio decreto, su proposta del Capo del Governo, il
Segretario del Partito Nazionale Fascista poteva essere chiamato a partecipare alle sedute del
Consiglio dei Ministri.
8. IL PARTITO NAZIONALE FASCISTA
Secondo l’art. 1 dello Statuto, il PNF era “una milizia civile volontaria” agli ordini del
Duce, al servizio dello Stato fascista.
I compiti del Partito erano (art. 3): la difesa e il potenziamento della Rivoluzione fascista
e l’educazione politica degli Italiani (6).
In base all’art. 11 dello Statuto, il PNF era “il partito unico del Regime” ed aveva personalità giuridica.
In dottrina si discuteva se il Partito Nazionale fascista fosse una persona giuridica pubblica o una istituzione avente natura diversa. Ad es. il Crosa affermava testualmente: "Che d’altra
parte questa posizione d’ente ausiliare dello Stato meglio convenga al P.N.F. che ogni altra di
organo dello Stato o di persona giuridica pubblica sarà agevolmente compreso quando si ponga
mente ai compiti che ne sono propri. Osserviamo anzitutto che la struttura di esso come organo
imporrebbe al Partito un’azione compresa nell’ambito della competenza ad esso attribuita e
determinerebbe la possibilità d’impugnativa per gli atti compiuti come avviene per ogni altr’organo anministrativo, il che frustrerebbe l’azione stessa del Partito che deve raggiungere, senza,
alcuna remora, i fini sociali e politici che esso si prefigge e ad esso sono assegnati dalle superiori gerarchie. Nè minori inconvenienti produrrebbe la considerazione di esso quale persona giuridica pubblica, perchè, in tal caso, dovrebbe essere sottoposto a controlli dello Stato i quali, per
contro sarebbero inconciliabili con la sua stessa natura di ente integratore dell’azione dello
Stato”. E concludeva nel senso che l’esame appunto delle finalità politiche del Partito come la
considerazione dei mezzi d’azione che gli debbono essere consentiti suffragano l’opinione che
esso sia un ente ausiliare dello Stato, poichè solo con questa configurazione giuridica raggiunge
la pienezza d’azione che gli dev’essere riconosciuta (7).
Nel caso di sanzioni disciplinari inflitte a senatori o deputati dal Segretario del Partito
Nazionale fascista, secondo la dottrina dovevano derivare conseguenze diversificate (8).
(5) Le materie indicate erano le seguenti:
1° la successione al trono, le attribuzioni e le prerogative della Corona (come si vede, trattasi di materia già regolata dallo Statuto
albertino, per cui eventuali leggi al riguardo avrebbero comportato una “modificazione tacita” dello Statuto); 2° la composizione e il
funzionamento del Gran Consiglio, del Senato del Regno e della Camera dei Deputati; 3° le attribuzioni e le prerogative del Capo del
Governo, Primo Ministro Segretario di Stato; 4° la facoltà del potere esecutivo di emanare norme giuridiche; 5° l’ordinamento sindacale
e corporativo; 6° i rapporti tra lo Stato e la Santa Sede; 7° i Trattati internazionali che importino variazione al territorio dello Stato e
delle Colonie, ovvero rinuncia all’acquisto di territori.
Inoltre, il Gran Consiglio, su proposta del Capo del Governo, formava e teneva aggiornata la lista dei nomi da presentare alla
Corona, in caso di vacanza, per la nomina del Capo del Governo, Primo Ministro Segretario di Stato.
Ferme restando le attribuzioni e le prerogative del Capo del Governo, il Gran Consiglio formava altresi e teneva aggiornata la lista
delle persone che, in caso di vacanze, esso reputava idonee ad assumere funzioni di Governo.
(6) Il R.D. 21 novembre 1938 n. 2154 stabilì che non potevano essere iscritti al PNF i cittadini italiani che, in base alla legge, erano
considerati di razza ebraica.
(7) cfr. E. Crosa, Diritto costituzionale, Utet, 1937, pp. 479-480.
(8) Ad es. P. Chimienti, Manuale di diritto costituzionale fascista, Utet, 1933, p. 395, afferma: "Vi sono alcune disposizioni di questo
Statuto che meritano un particolare rilievo. Un gruppo di esse si riferiscono ai rapporti tra il Partito ed i membri delle due Assemblee.
Questi, nella loro qualità di tesserati, hanno i medesimi doveri di ogni Fascista iscritto al Partito e, come abbiamo detto, vanno
soggetti, come tutti gli altri alle sanzioni disciplinari del Partito.
Data la differente origine di nomina, vi è qualche differenza tra i senatori e deputati. Per i deputati, nominati con la votazione
della lista totalitaria del Littorio nella quale entrarono per designazione del G. C. del F. nella qualità di fascisti tesserati, provvede
l’art. 29 del Reg. della Camera.
La ricordata disposizione del Regolamento della Camera è inoltre conseguenza costituzionale del carattere della votazione da
parte del corpo elettorale. Il deputato oltre perchè tesserato, deve fedeltà e leale collaborazione all’indirizzo generale del Governo,
almeno per i cinque anni della durata della Legislatura, in quanto fu eletto come candidato designato e compreso nella lista del
Littorio. Per il deputato la sanzione disciplinare inflitta dal Segretario del P. N. F. opera di pieno diritto anche agli effetti del suo
ufficio di membro dell’Assemblea.
Per i senatori, la cui nomina regia ha carattere di carica pubblica di nomina governativa, la sanzione disciplinare nei rapporti
con l’ufficio di senatore non può essere applicata se non dopo che il senatore abbia dato le sue dimissioni e queste siano state
accettate dal Senato".
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9. LA CAMERA DEI FASCI E DELLE CORPORAZIONI
Tra le leggi c.d. fascistissime va annoverata senz'altro la L. 19 gennaio 1939, n. 129 che
soppresse la Camera dei deputati ed istituì, in una sua vece, la Camera dei Fasci e delle Corporazioni, formata dai componenti del Consiglio Nazionale del Partito Nazionale Fascista e del
Consiglio Nazionale delle corporazioni.
La legge cit. denota chiaramente, ancora una volta, in quale considerazione il regime fascista teneva il principio della rappresentanza popolare, quale si era sviluppata nei Paesi europei
con le Costituzioni ottocentesche (9).
Ma la legge n. 129 mostra anche una precisa concezione dei rapporti intercorrenti tra
organi costituzionali: infatti l’art. 2 stabiliva che il Senato e la Camera dei Fasci “collaboravano” col Governo per la formazione delle leggi.
In questa sede è interessante sottolineare che l'art. 16 della legge prevedeva Commissioni
parl. in sede legislativa (o deliberante). Infatti, nei casi indicati, le norme approvate dalle Commissioni di Camera e Senato avevano “forza di legge a tutti gli effetti”.
Di tale istituto si ricordò, come è noto, l’Assemblea Costituente, che lo inserì in Costituzione (vedi art. 72, 3° comma, Cost.).
10. LA ISTITUZIONE DEL MARESCIALLATO DELL’IMPERO
Uno dei nodi più aggrovigliati del ventennio fascista, sotto il profilo costituzionale, è probabilmente quello di valutare se il fascismo si proponeva come obiettivo la creazione di un
“comando unico”, come scrive Edoardo Sulis su “Gerarchia” nel 1937, in un articolo che appare di particolare interesse in quanto pubblicato sulla rivista più rigorosa dal punto di vista
dottrinale fascista e posta sotto il controllo diretto di Mussolini.
La vicenda della legge n. 240 del 2 aprile 1938, con la quale fu creato il grado di primo
Maresciallo dell’Impero - grado che viene conferito “a S.M. il Re Imperatore e Benito Mussolini,
Duce del Fascismo” - va vista, appunto, sotto questa angolatura. Secondo De Felice “l’obiettivo
vero” della legge “non era quello di convalidare la diarchia (Re-Duce), che ormai era una realtà
pienamente in atto, ma al contrario quello di procedere al suo sgretolamento a tutto beneficio del
Duce”. Cosicché la istituzione del nuovo grado militare si dovrebbe iscrivere in un processo
avente come obiettivo finale il controllo diretto delle forze armate ed, in prospettiva, la titolarità
del “comando unico”. Il che spiega l’ira del Re, che aveva ben compreso le finalità vere, ancorché
non esplicite, della legge.
(9) Significativa al riguardo è la parte iniziale della relazione illustrativa al disegno di legge Senato n. 2686, comunicato alla Presidenza
del Senato dal Capo del Governo Mussolini il 14 dicembre 1938 (e cioè lo stesso giorno in cui il d.d.l. era stato approvato dalla
Camera dei Deputati (v. stampato n. 2655).
La relazione governativa al d.d.l. recitava come segue:
ONOREVOLI SENATORI. - Il presente disegno di legge, che ha già riportato l'approvazione della Camera dei Deputati, attua la
deliberazione presa dal Gran Consiglio del Fascismo nella sua seduta dell’11 marzo 1938-XVI, circa la soppressione della Camera dei
Deputati e la creazione della Camera dei Fasci e delle Corporazioni.
Viene così integrata, e portata al suo logico svolgimento la riforma costituzionale che, iniziata fin dal tempo della Marcia su Roma,
ebbe la sua prima decisa espressione giuridica nella legge fondamentale del 24 dicembre 1925-IV, n. 2263, e poi si andò continuamente
sviluppando, adeguandosi man mano al progredire e al perfezionarsi della nuova organizzazione della Nazione italiana, tutta ordinata
nei Fasci, nei Sindacati e nelle Corporazioni.
La riforma elettorale dell'anno VI (legge 17 maggio 1928-VI, n. 1019) trovava, infatti, il suo fondamento nell’organizzazione
sindacale creata dalla legge 3 aprile 1926-IV, n. 563, e affidava al Gran Consiglio del Fascismo, su designazione dei maggiori
organismi sindacali e rappresentativi, la scelta dei Deputati. Veniva così a cadere la base elettorale sulla quale, secondo le costituzioni
politiche del passato, era fondata la rappresentanza nazionale, giacchè secondo la legge del 1928-VI il popolo riunito in un collegiounico nazionale, era bensì chiamato a votare, ma la votazione non aveva più il significato di scelta o di designazione di individui,
sibbene quello di una adesione plebiscitaria all’indirizzo politico generale del Governo.
Intanto l’organizzazione data alla Nazione italiana con la legge 3 aprile 1926-IV si andava man mano perfeziondo. L'ordinamento
delle categorie raggiungeva la sua piena espansione, e venivano create le Corporazioni, come organi dello Stato, comprendenti tutti i
fattori della produzione, e queste si dimostrarono subito in grado di rappresentare in modo totalitario gli interessi generali e particolari
della Nazione.
(Segue nota)
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Sono noti i dubbi del Re sia sulla regolarità formale dell’iter legislativo compiuto dalla
proposta di legge di iniziativa di Costanzo Ciano ed altri, sia nell’attribuzione esclusiva, determinata dalla legge, del nuovo grado al Re e a “S.E. il Capo del Governo”. Con un parere Santi
Romano, Presidente del Consiglio di Stato, tentò di fugare i dubbi della Monarchia. A suo
avviso, “il conferimento simultaneo al Capo dello Stato e al Capo del Governo dei gradi di
Primo Maresciallo dell’Impero è pienamente legittimo, anche dal punto di vista costituzionale,
per l’ovvia considerazione che tale conferimento non deroga alla disposizione statutaria per cui
il Re è il Capo Supremo dell’Esercito”.
Secondo il Romano, nel caso concreto non si è voluto soltanto disporre positivamente
l’attribuzione dei nuovi gradi a S.M. il Re e a S.E. il Capo del Governo, ma si è voluto altresì
escludere che i gradi medesimi possano essere conferiti ad altri personaggi.
La reazione del Sovrano alla legge sul Maresciallato fu dura e gravida di conseguenze,
anche se controllata e dissimulata per qualche anno.
Del resto, è noto che durante il ventennio vi furono atti e fatti che dimostravano le riserve
mentali che Mussolini e vari gerarchi fascisti nutrirono nei confronti della Monarchia come
istituto.
11. LO STEMMA SABAUDO E I FASCI LITTORI
Anche l’araldica di Stato è importante per capire i rapporti di forza intercorrenti tra i
soggetti costituzionali. E’ un argomento poco studiato, ma a mio avviso merita di essere sottolineato, perché carico di significative implicazioni.
Con regio decreto-legge n. 2061 del 12 dicembre 1926 “ritenuto che il Fascio littorio è
divenuto ormai, per consuetudine assai lunga, emblema dello Stato; ritenuta la necessità assoluta ed urgente di tutelare tale emblema”, si decreta che esso “è considerato, a tutti gli effetti,
emblema dello Stato”. L’anno seguente, il regio decreto n. 1048 del 27 marzo, recava “Disposizioni circa l’uso del Fascio littorio da parte delle Amministrazioni dello Stato”.
Ma, forse - osserva acutamente G. Negri - la copresenza dello stemma reale e del Fascio
littorio nell’emblema dello Stato italiano non rende ancora adeguatamente sul piano iconografico
la rappresentazione della “monarchia fascista”: a ciò provvede allora il regio decreto n. 504
dell’11 aprile 1929 recante norme su “Foggia ed uso dello stemma e del sigillo dello Stato”. Il
provvedimento, “volendo regolare, secondo le tradizioni storiche e nazionali, la foggia e l’uso
dello stemma e del sigillo dello Stato”, prescrive all’art. 1 che “il grande stemma dello Stato sia
formato dallo scudo di Savoia, di sotto alla croce di argento, sormontato da un elmo Reale
d’oro, ecc. ecc., che abbia per sostegni: “due Fasci littori addossati con l’ascia all’infuori, legati
con strisce di cuoio intrecciate e formanti due nodi di Savoia......
Nello stesso processo di abbinamento di simboli della Monarchia e del Fascismo, va ricordato che l’inno nazionale abbinò gradualmente le note della marcia reale a quelle di “Giovinezza”.
In questo modo, accanto all’organizzazione politica del Partito Nazionale Fascista, che sintetizza le forze vive della Rivoluzione e
inquadra l’intero popolo italiano per i fini ideali della difesa e della valorizzazione della Patria, si era formata l’organizzazione
unitaria dei grandi interessi economici della produzione; e pertanto, si erano completati i quadri delle forze direttive, politiche ed
economiche della Nazione.
La rappresentanza politica ed economica della Nazione veniva così ad essere offerta nella sua organica e realistica costituzione
unitaria e si era posta quindi la convenienza di un ulteriore sviluppo della riforma costituzionale attuata nel 1928-VI. La Camera dei
Deputati, la quale già aveva perduto il suo vecchio carattere derivante dal concetto di delegazione di poteri - per cui aveva voluto
essere arbitra delle sorti dei Governi, ponendosi sulla via degli errori e dei danni di una progrediente e rovinosa demagogia - e si era
trasformata in un organo di alta collaborazione legislativa, deve assumere nettamente e definitivamente tale fisonomia, rinunciando
anche agli ultimi residui dell'antico elettoralismo. (omissis).
27
12. VIGENZA O QUIESCENZA DI PARTI DELLO STATUTO ALBERTINO DURANTE IL PERIODO FASCISTA?
A questo punto sorge il seguente quesito: con l’avvento del fascismo e con l’approvazione
delle varie leggi che sono state in parte elencate, lo Statuto albertino rimase vigente come costituzione dello Stato italiano, o esso entrò in una fase di quiescenza, in alcune parti, fino alla
riassunzione da parte del re delle prerogative regie, nel 1943?
Abbiamo visto come la forma di governo cambia durante il fascismo senza che fosse
operata alcuna modificazione testuale dello Statuto. Ma sappiamo che nella interpretazione
delle fonti del diritto bisogna tener conto non solo della law in the books, ma anche (per non dire
soprattutto) della law in the action.
Bisogna riconoscere che il quesito sollevato è di difficile e forse non univoca soluzione.
Abbiamo esaminato il quesito se il fascismo ha operato o meno una rottura con l’ordinamento statutario. Alle cose già dette è opportuno aggiungere la seguente considerazione.
Se noi volessimo trovare un elemento di continuità nello Statuto albertino dall’inizio alla
fine della parabola costituzionale del fascismo troveremmo qualche argomento a favore. Ad
esempio, nel 1924 il Re, invitato ad intervenire dopo il delitto Matteotti, afferma che un Re
costituzionale può intervenire solo se richiesto da Camera e Senato, poichè le orecchie e gli
occhi del Re sono Camera e Senato. Invitato ad intervenire (e forse lui stesso desideroso di
intervenire) nel 1943, interviene solo dopo la sollecitazione del Gran Consiglio del fascismo,
che rappresentava un organo dello Stato.
A questo punto però si apre un altro fronte: in base a quali poteri il re è intervenuto nel
luglio del 1943? In base allo Statuto o in virtù dei poteri di emergenza ed eccezionali che in quel
momento ha ritenuto e potuto esercitare, e cioè a prescindere dallo Statuto e quindi, in sostanza,
esercitando un potere extra ordinem? Sotto il profilo formale si è fatto riferimento (lo fecero
anche i membri del Gran Consiglio) alla riassunzione delle prerogative statutarie che evidentemente erano quiescenti e che il Re stesso pensava di non potere esercitare finché qualche organo
dello Stato non gli avesse chiesto di farlo.
Non ci soffermiamo sulla problematica, che oltretutto ha vari presupposti ideologici, se il
regime fascista sia stato un regime totalitario o autoritario. La risposta, a mio avviso, dipende
essenzialmente dai parametri che si assumono come punti di partenza (10).
(10) Sul totalitarismo, vedi da ultimo: Nolte E.-Marco c., Le ragioni della storia, Lungro, C. Marco Editore, 1999; Cattaneo Mario a.,
Terrorismo e arbitrio: il problema giuridico nel totalitarismo, Padova, CEDAM, 1998; Furet. F. e Nolte E., XX secolo. Per
leggere il Novecento fuori dai luoghi comuni, Roma, Atlantide Editoriale, 1997.
28
CAPITOLO TERZO
DALLA CADUTA DEL FASCISMO ALLA
COSTITUZIONE REPUBBLICANA
1. LA CADUTA DEL FASCISMO E GLI EVENTI SUCCESSIVI
Il 24 luglio 1943, in una seduta che durò dalle ore 17 alle ore 3 del successivo 25, il Gran
Consiglio del fascismo votò, a maggioranza, un ordine del giorno nel quale dichiarava che era
necessario l’immediato ripristino di tutte le funzioni statali (richiamando espressamente anche
lo Statuto albertino), e invitava il Capo del governo a pregare la Maestà del re affinché egli
volesse assumere, con l’effettivo comando delle Forze armate di terra, di mare e dell’aria, secondo l’art. 5 dello Statuto del Regno, quella suprema iniziativa di decisione che le istituzioni a
lui attribuivano.
Senza rispettare l’art. 13 della legge sul “Gran Consiglio”, il re, dopo aver revocato
Mussolini da Capo del governo, non attese alcuna designazione del successore da parte del
predetto organo costituzionale, e nominò di sua esclusiva iniziativa primo ministro il maresciallo Badoglio; il quale provvide subito a sopprimere, mediante decreti-legge, il partito fascista e
(quasi) ogni organismo dello stesso.
Infatti il 2 agosto 1943 fu soppresso il partito nazionale fascista e fu sciolta la Camera dei
fasci e delle corporazioni; il 9 agosto 1943 furono soppressi gli organi corporativi centrali.
Secondo alcuni autori, si trattava di un colpo di Stato della monarchia tendente alla restaurazione di un governo monarchico costituzionale puro.
Poco dopo seguì l’armistizio con gli alleati (8 settembre) e la dichiarazione di guerra alla
Germania con la conseguente assunzione da parte dell’Italia dello status di cobelligeranza coi
primi (13 ottobre 1943).
Dopo l’8 settembre, divisa l’Italia in due tronconi, l’uno occupato dalle forze tedesche e
l’altro da quelle alleate, sia a nord che a sud sorsero organismi che reclamarono una loro legittimità di fatto: si tratta dei Comitati di liberazione nazionale (1) affiancati dai gruppi della
Resistenza.
I primi raggrupparono i sei partiti che erano usciti dalla clandestinità dopo il 25 luglio
(partito liberale, partito democratico del lavoro, partito della democrazia cristiana, partito
(1) Sulla natura giuridica dei Comitati di liberazione nazionale la giurisprudenza del dopoguerra non è stata univoca.
Alcuni giudici li hanno definiti rappresentanti del legittimo Governo del Sud Italia, operanti con larga autonomia in virtù dei poteri
da questo delegati per l’esercizio delle funzioni che esso non era in grado di esercitare. Altri li hanno qualificati organi dello Stato, sia
pure eccezionali e provvisori. Altri infine hanno parlato di organi irregolarmente costituiti, esercenti di fatto funzioni pubbliche e
servizi pubblici urgenti.
29
d’azione, partito socialista italiano d’unità proletaria, partito comunista italiano) e che avevano deciso unità d’azione sia nel campo politico che in quello militare della lotta contro i
tedeschi ed i fascisti.
Al Nord, nel territorio occupato dai tedeschi, fu istituita la Repubblica Sociale italiana (2).
I C.L.N. costituiti nell’Italia liberata posero anzitutto la cosiddetta questione istituzionale”, e rifiutarono la collaborazione nel governo di Badoglio. Col “patto di Salerno” la soluzione fu trovata: dopo la liberazione di Roma, il re si sarebbe ritirato a vita privata, nominando il
figlio “luogotenente del Regno”, e un’assemblea costituente avrebbe deciso sulla forma istituzionale e sui caratteri del nuovo Stato.
Roma fu liberata il 4 giugno 1944: il 5 il re nominò il luogotenente (R.D. 5 giugno 1944,
n. 140). Il C.L.N. assumeva anche formalmente l’incarico costituzionale di designazione del
gabinetto alla Corona. Accanto all’altro organo straordinario, del tutto estraneo all’ordinamento statutario, costituito dalla “luogotenenza del Regno” (non di un re, che si era ritirato definitivamente “a vita privata”, come aveva dichiarato in un pubblico proclama) veniva a porsi
dunque un altro organo rivoluzionario, il Comitato centrale di liberazione nazionale, che teneva
sostanzialmente il posto delle Camere.
Restava il problema della titolarità e dell’esercizio della funzione legislativa: il D. Lg. Lt.
25 giugno 1944, n. 151, unitamente poi al successivo del 16 marzo 1946, n. 98, contiene le
norme della Costituzione provvisoria che resse l’Italia dal 1944 al 31 dicembre 1947.
Il D. Lg. Lt. 25 giugno 1944, n. 151, stabiliva:
- deferimento della scelta istituzionale (monarchia o repubblica) al popolo italiano, mediante l’elezione di un’assemblea costituente, dopo la liberazione;
- impegno dei ministri da un lato, e del luogotenente, dall’altro, di non compiere, frattanto, atti che potessero pregiudicare la “questione istituzionale”;
- autoassunzione del potere legislativo ordinario da parte del governo, mediante decreti
sanzionati e promulgati dal luogotenente; e ciò fino a che non fosse entrato in vigore il
nuovo Parlamento.
Queste norme furono integrate, ed in parte modificate, dal D. Lg. Lt. 16 marzo 1946. n.
98 il quale:
- sottrasse la decisione sulla questione istituzionale alla Costituente e la demandò alla
volontà diretta popolare mediante referendum;
- lasciò (salva peraltro la materia costituzionale, quella elettorale e quella oggetto dei
trattati internazionali) il potere legislativo nelle mani del governo anche per il periodo di
durata della Costituente;
- stabilì la responsabilità del governo verso la Costituente, tornando in tal modo all’antica “fiducia” del regime parlamentare.
Frattanto, con D. Lg. Lt. 5 aprile 1945 n. 146, era stata istituita la Consulta nazionale,
assemblea di tipo parlamentare ma con funzioni solo consultive, perché nominata dal governo,
e quindi solo presuntivamente rappresentativa (3).
Si era giunti in tal modo al maggio 1946. Il 9 maggio, il vecchio re, che si era ritirato in
maniera “definitiva ed irrevocabile” dalla vita pubblica all’atto della designazione della
luogotenenza, abdicò a favore del figlio: il quale - violando così la “tregua istituzionale” assunse la corona col nome di Umberto II. La manovra aveva uno scoperto fine politico venendo a pochi giorni di distanza dalla data fissata per il referendum (2 giugno successivo): ma il
governo preferì non opporsi, per non creare una crisi che avrebbe procrastinato la scelta istituzionale. E Umberto II fu re dal 9 maggio al 13 giugno. Il 2 giugno il referendum diede risultato
favorevole alla Repubblica.
(2) Circa la natura della Repubblica Sociale Italiana sono state espresse, in dottrina e giurisprudenza, varie opinioni.
Taluni hanno ritenuto che essa fosse uno Stato non dissimile dagli altri in quanto concorrevano tutti gli elementi che
contraddistinguono qualunque forma di Stato; altri invece hanno parlato di governo di fatto, limitatamente ad una parte di territorio
dello Stato italiano. Secondo altri infine la Repubblica Sociale Italiana sarebbe stata una realtà meramente fittizia, sorretta dalle armi
tedesche.
(3) Sulle vicende politico-costituzionali nel periodo dal 25 luglio 1943 al giugno 1946, vedi A. Pichierri, La Costituzione provvisoria,
Taranto 1996, assai utile anche per l’Appendice documentaria.
30
Il 13 giugno Umberto lasciò l’Italia, ritirandosi in esilio in Portogallo, senza attendere la
proclamazione definitiva dei risultati del referendum da parte della Corte di Cassazione (che
ebbe luogo il 18 giugno 1946) (4).
2. IN PARTICOLARE: LA LUOGOTENENZA GENERALE
Un momento di attenzione merita l’istituto della luogotenenza generale del Regno istituita nel 1944.
Nell’esperienza dello Statuto albertino un luogotenente del Re fu nominato in questi casi:
- presenza del sovrano al fronte in caso di guerra;
- assenza dal regno, per visite ufficiali all’estero;
- per gravi infermità (tale circostanza si è verificata una sola volta, nel 1849 quando, a
causa di una sua grave infermità, Vittorio Emanuele II, con r.d. 21 maggio 1849, n. 908,
nominò luogotenente generale il proprio fratello Ferdinando duca di Genova, riprendendo la firma il successivo 30 giugno).
Le luogotenenze dianzi ricordate presentano come costanti i caratteri della provvisorietà,
della revocabilità e della parzialità nelle funzioni delegate.
E veniamo ora alla luogotenenza generale affidata dal Re al figlio Umberto con r.d. n. 140
del 1944, a seguito di un accordo tra la monarchia, i comitati di liberazione nazionale e le forze
militari occupanti (c.d. Patto di Salerno). Ebbene, tale luogotenenza generale non presenta nessuno dei caratteri dianzi ricordati.
Essa infatti comporta una “irrevocabile rinuncia” all’esercizio dei poteri regi; il decreto
istitutivo inoltre disponeva il passaggio di tutti i poteri regi, nessuno escluso, nelle mani del
luogotenente generale del regno. Inoltre Umberto divenne Luogotenente non del Re, ma del
Regno. Infatti il D.L. Lgt. n. 151/1944 stabiliva che i decreti legislativi fossero sanzionati e
promulgati dal Luogotenente Generale del Regno.
E’ evidente che, rispetto al passato, venivano a mutare sia il fondamento politico della
luogotenenza, sia la posizione giuridica del luogotenente.
A seguito della Luogotenenza di Umberto si è verificato uno dei rari casi di scissione tra
capacità giuridica e capacità di agire, nel diritto costituzionale. In virtù del R.D. 5 giugno 1944
n. 140 infatti il Luogotenente poteva esercitare “tutte le prerogative Regie, nessuna eccettuata ,
pur non essendo formalmente Re (titolare della Corona rimase infatti Vittorio Emanuele fino al
9 maggio 1946, giorno della sua abdicazione).
3. LA COMMISSIONE FORTI PER LA RIORGANIZZAZIONE DELLO STATO
Sarebbe assai interessante valutare l’influsso sui Costituenti della seconda Commissione
Forti, che stranamente viene sempre tenuta un po' in ombra. Infatti non è molto citata nel lavori
della Costituente. Però se pensiamo che vari esponenti di spicco della Costituente avevano fatto
parte della Commissione Forti, questo fatto va considerato come assai positivo.
La seconda Commissione Forti è una delle tre Commissioni di studio nominate dal Ministro per la Costituente, Pietro Nenni, ed era composta da 90 membri (molti dei quali, e tra questi
anche lo stesso Presidente, avevano già fatto parte della prima Commissione per la riforma
(4) Il 18 giugno 1946 la Corte di Cassazione si riunì a Montecitorio (Sala della Lupa) e, sentite le conclusioni del Procuratore generale,
emise giudizio definitivo sulle contestazioni, le proteste e i reclami concernenti lo svolgimento delle operazioni relative al referendum.
Ai punti III e IV del verbale si legge: premesso che la Corte ha ritenuto che per “maggioranza degli elettori votanti”, di cui parla
l’art. 2 del decreto legislativo luogotenenziale 16 marzo 1946, n. 98, deve intendersi maggioranza degli elettori che hanno espresso
voti validi. Dà atto che i voti validi complessivi a favore della R e p u b b l i c a sono1 2 . 7 1 7 . 9 2 3
(dodicimilionisettecentodiciassettemilanovecentoventitre) e quelli a favore della Monarchia sono 10.719.284
(diecimilionisettecentodiciannovemiladuecentoottantaquattro) e che pertanto la maggioranza degli elettori votanti si è pronunziata
in favore della Repubblica . Dà atto che i voti nulli sono complessivamente in numero di 1.498.136
(unmilionequattrocentonovantottomilacentotrentasei).
31
dell’amministrazione nominata dal precedente Governo Bonomi nell’ottobre del 1944). La Commissione, insediatasi il 21 novembre 1945, discusse preliminarmente la questione dei limiti della
propria attività: alcuni commissari ritenevano che rientrasse nei poteri della Commissione la
predisposizione di uno schema di Costituzione da sottoporre poi all’esame dell’Assemblea Costituente. Il ministro confermò peraltro la natura essenzialmente tecnica e non politica della
Commissione, finalizzata alla “raccolta e allo studio degli elementi attinenti al riassetto dello
Stato”. Piace qui ricordare che la interpretazione “restrittiva” dei compiti della Commissione
era già stata sostenuta con chiarezza da autorevoli componenti, quali C. Mortati e M.S. Giannini,
allora Capo Gabinetto del Ministro per la Costituente. La Commissione presentò, all’Assemblea Costituente una relazione in tre volumi e fu sciolta il 30 giugno 1946. Il Ministero per la
Costituente fu soppresso con decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato 2 agosto
1946, n. 54 (5).
4. L'ASSEMBLEA COSTITUENTE
Il 2 giugno 1946 gli elettori deliberarono mediante referendum, sulla forma istituzionale
dello Stato ed elessero 573 deputati alla Costituente.
L’Assemblea Costituente si riunì per la prima volta il 25 giugno.
Il 28 giugno, Enrico De Nicola fu eletto dall’Assemblea costituente Capo provvisorio
dello Stato.
Il Governo non presentò all’Assemblea un progetto di Costituzione, ma si limitò a dar
conto degli studi eseguiti dal Ministero della Costituente con una serie di pubblicazioni.
Apparve subito necessario che l’Assemblea fosse chiamata a discutere, nelle sue riunioni
pubbliche, sopra un progetto di Costituzione organico e articolato. Fu nominata pertanto una
Commissione per la Costituzione (composta di 75 deputati), per la redazione di uno schema,
che l’Assemblea avrebbe poi esaminato.
La Commissione si suddivise in tre Sottocommissioni, e precisamente: la 1ª Sc. per i diritti
e doveri dei cittadini; la 2ª Sc. per l’ordinamento costituzionale della Repubblica; la 3' Sc. per i
diritti e doveri economico-sociali.
Tra i deputati, 104 erano del P.C.I., 114 del P.S.I.U.P. (dopo la scissione ne rimasero 67 al
P.S.I. e 47 al P.S.L.I.), 10 del partito d’azione e gruppi affini, 25 del P.R.I, 9 della Democrazia
del lavoro, 207 della D.C., 78 delle varie formazioni di Destra, gli altri pochi di colore politico
incerto.
Il problema che la Costituente dovè affrontare preliminarmente fu quello della delimitazione
dei suoi poteri. Il problema fu risolto sul piano concreto rispettando le grandi linee della Costituzione provvisoria, che erano state fissate d’accordo fra tutti i partiti politici prima delle elezioni.
Il decreto n. 98 del 1946 fu poi derogato dalla Costituente in relazione al termine di durata
della Costituente stessa, che dai previsti otto mesi (prorogabili a 12) passò ai 19, che intercorrono fra il 25-VI-1946 e il 31-1-1948.
Dopo sei mesi di lavoro, fu presentato il progetto all’Assemblea: ad esso si accompagnava
una relazione del presidente della Commissione, on. Meuccio Ruini, che porta la data del 6-111947. In 173 sedute, il progetto fu discusso e approvato (6). La Costituzione, approvata il 22XII-1947, fu promulgata il 27 successivo ed entrò in vigore il 1°-1-1948.
In base alla XVIII disp. trans. e finale, il testo della Costituzione fu depositato nella sala
comunale di ciascun Comune della Repubblica, per rimanervi esposto durante tutto l’anno 1948,
affinché ogni cittadino potesse prenderne cognizione.
(5) Sui lavori della "Commissione per studi attinenti alla riorganizzazione dello Stato", vedi il volume " Alle origini della Costituzione
Italiana", a cura di G. D'Alessio, Il Mulino, 1979.
(6) La votazione del testo finale effettuata a scrutinio segreto, dette questi risultati: presenti e votanti: 515; maggioranza: 258; voti
favorevoli: 453; voti contrari: 62.
32
Di tutte le discussioni in aula furono redatti un resoconto stenografico e un resoconto
sommario; di quelle nelle Sottocommissioni, Sezioni e Commissione dei 75 ampi resoconti sommari.
Il Comitato di redazione (dei 18) e il Comitato speciale per le autonomie locali (dei 10) non
fecero alcun verbale o resoconto delle sedute.
5. LA SORTE DEL SENATO ALBERTINO NEL PERIODO DELL'ASSEMBLEA
COSTITUENTE
Con effetto dal 25 giugno 1946 (data della prima seduta dell'Assemblea Costituente), fu
disposta la « cessazione dalle funzioni » del Senato vitalizio (7), ma non decisa la sua sorte
definitiva (di competenza dell’Assemblea costituente), e neppure definita la situazione giuridica
personale dei singoli senatori in carica (circa quattrocento), al riguardo espressamente rinviandosi a successiva deliberazione della stessa Costituente.
Tra l'altro, sulla situazione giuridica personale dei senatori in carica, andava intanto
incidendo - con possibili riflessi di profilo anche costituzionale - l’applicazione delle norme
sulle sanzioni contro il fascismo via via emanate a partire del d.lg.lt. 27 luglio 1944, n. 159
(G.U. 29 luglio 1944, n. 41), che colpivano espressamente anche i « membri delle Assemblee
legislative » (art. 8) (8).
La soppressione del Senato vitalizio venne infine deliberata dalla Costituente il 29 ottobre
1947, con la l. cost. 3 novembre 1947, n. 3 ed ebbe effetto dalla data della sua pubblicazione.
La stessa legge poi dispose anche la decadenza degli « ex senatori », « dalle prerogative, dalle
guarentigie e dai diritti inerenti alla carica (9).
Comunque la Costituente, poco più di un mese prima, si era pronunciata nel senso che il
Parlamento del nuovo ordinamento costituzionale sarebbe stato bicamerale, e che una delle due
Assemblee sarebbe stata il « Senato della Repubblica ».
6. DURATA DELL'ASSEMBLEA COSTITUENTE
L'assemblea costituente secondo il decreto istitutivo 16 marzo 1946, n. 98, avrebbe dovuto
esaurire il suo compito entro il 24 febbraio 1947. Essa si accordò due proroghe: la prima fino al
24 giugno 1947 con l. cost. 21 febbraio 1947, n. 1, la seconda fino al 31 dicembre 1947 con l.
cost. 17 giugno 1947, n. 2.
(7) D.lg.C.p.S. 24 giugno 1946, n. 48, pubblicato solo il 20 agosto (G.U. 20 agosto 1946, n. 186) perchè la Corte dei conti ne aveva prima
negato il visto e poi lo aveva ammesso a registrazione con riserva, ritenuto illegittimo per le seguenti motivazioni: « considerato che
il decreto-legge luogotenenziale 25 agosto 1944, n. 151, pur conferendo temporaneamente al governo, con l’articolo 4, tutto il potere
legislativo, ha esplicitamente escluso da tale conferirnento, con l’articolo 1, quanto attiene alla nuova costituzione dello Stato, riservando
tale materia alla competenza dell’Assemblea costituente; che tale riserva è stata corfermata anche dall’articolo 3 del decreto legislativo
luogotenenziale 16 marzo 1946, n. 98, che contempla modifiche ed integrazioni al predetto decreto-legge n. 151 del 25 giugno 1944;
... per tali motivi non può dubitarsi che il decreto legislativo presidenziale in esame esorbiti, nella disposizione di cui all’articolo 1, dai
poteri attribuiti al Governo ». Riportato da Cannarsa, Il Senato, agonia, morte e rinascita , Roma, 1962, 328.
(8) Su tali questioni vedi Pierandrei, La giustizia politica, la giustizia ordinaria e i senatori, in Giur. compl. cass. civ., 1947, 298 ss. e
Ferrari Zumbini, Di alcune singolarità giurisdizionali durante l'ordinamento provvisorio (1943-47), in Riv. stor. dir. it., 1988, 189
ss.
(9) Come si è precisato nel testo, alla del 25 giugno 1946 la sorte dell’istituzione Senato era ancora tutta da definire: nell’attesa, la sua
amministrazione fu affidata al commissario Raffaele Montagna, presidente di sezione del Consiglio di Stato, che esercitò le attribuzioni
spettanti, in materia al Presidenti ed al Consiglio di presidenza del Senato (d.lg.C.p.S. 6 settembre 1946, n. 117, in G.U. 27 settembre
1946, n. 219).
E' da rilevare peraltro - ancorchè la cosa appaia singolare - che l'attività del Senato del Regno non si esaurì con il 2 5 giugno 1946.
Come aveva fatto precedentemente (aprile 1946) in qualità di organo giurisdizionale speciale si riunì in sede ristretta (« Commissione
d’istruzione »), anche successivamente (l’ultima riunione della Commissione si tenne il 14 marzo 1947). Cfr. FerrariI Zumbini, Op.
cit., 192. Per una valutazione (critica) di tale ultrattività dell’organo, v. Mortati, Studi sul potere costituente e sulla riforma
costituzionale dello Stato. Raccolta di scritti, I, Milano, 1972, 231.
33
L'assemblea funzionò poi fino al 31 gennaio 1948, in applicazione della prorogatio prevista dalla XVII disposizione transitoria della Costituzione per deliberare la legge per l'elezione
del Senato della Repubblica, gli statuti delle regioni ad autonomia speciale e la legge per la
stampa.
7. FUNZIONI PARLAMENTARI DELL'ASSEMBLEA COSTITUENTE
L'Assemblea oltre che come costituente, funzionò anche come Parlamento, nei limiti precisati dall'art. 3 del d.l.lt. 16 marzo 1946, n. 98 (10).
Tra gli atti più importanti, si ricordano: la discussione sulle comunicazioni del Governo e
il voto. di fiducia al secondo Ministrero De Gaspari (13 luglio 1946-28 gennaio 1947), al terzo
Ministero De Gaspari (2 febbraio-31 maggio 1947), al quarto Ministero De Gaspari (31 maggio 1947-23 maggio 1948); l'approvazione del trattato di pace tra le potenze alleate ed associate
e l'Italia, firmato a Parigi il 10 febbraio 1947; la legge per la elezione dela Camera dei deputati;
la legge per l'elezione del Senato della Repubblica; l'approvazione dell'emblema della Repubblica; la rielezione di Enrico De Nicola (dimissionario) a Capo provvisorio dello Stato (26 giugno
1947).
(10) Il citato articolo 3 stabiliva: «Durante il periodo della Costituente e fino alla convocazione del Parlamento a norma della nuova
Costituzione il potere legiglativo resta resta delegato, salva la materia costituzionale, al Governo, ad eccezione delle leggi elettorali e
delle leggi di approvazione dei trattati internazionali, le quali saranno deliberate dall’Assemblea.
Il Governo potrà sottoporre all’esame dell’Assemblea qualunque altro argomento per il quale ritenga opportuna la la deliberazione
di essa.
Il Governo è responsabile verso l’Assemblea Costituente.
Il rigetto di una proposta governativa da parte dell’Assemblei non porta come conseguenza le dimissioni del Governo. Queste,
sono obbligatorie soltanto in seguito alla votazione di una apposita mozione di sfiducia, intervenuta non prima di due giorni dalla sua
presentazione e adottata a maggioranza assoluta dei Membri dell’Assemblea ».
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PARTE SECONDA
LA COSTITUZIONE REPUBBLICANA
.
CAPITOLO PRIMO
LE FONTI DI LIVELLO COSTITUZIONALE
1. IL METODO PER LO STUDIO DELLA COSTITUZIONE
Poche considerazioni sono sufficienti in questa sede.
a. la contrapposizione tra studiosi di opposti indirizzi metodologici è abbastanza nota. Recentemente, si è avvertita in modo sempre più imperioso la necessità di superare il formalismo
interpretativo senza correre i rischi insiti nella interpretazione casistica del diritto: il giurista,
cioè, deve seguire un metodo giuridico “integrale”, in modo da realizzare, per quanto possibile, una sintesi fra le esigenze storico-politiche ed il rigore della dogmatica pura.
Il giurista, pur tenendo conto del contesto storico-politico-economico-sociale su cui
insistono le istituzioni studiate, deve stare attento a non trasformare lo studio da giuridico in
economico, sociale, statistico, ecc. Pertanto il giurista non può seguire un metodo essenzialmente “behavioristico”; talune affermazioni (tipiche, ad esempio, della pubblicistica anglosassone) - secondo cui lo studio delle istituzioni mira a spiegare perché certi tipi di governo
esistono a date condizioni, o comunque a fare previsioni di tendenze e raccomandazioni
politiche - non interessano il giurista, ma, semmai, lo scienziato politico.
Peraltro, il giurista non deve limitarsi alla esegesi dei testi normativi (law in the books),
ma deve estendere lo studio anche all’applicazione concreta che le norme ricevono (o non
ricevono) nella realtà effettuale (law in the action). Questo concetto porta a sottolineare
l’importanza che nel diritto pubblico riveste la prassi.
Né si potrebbe fondatamente sostenere che l’esame della prassi sia di scarsa utilità
nello studio degli ordinamenti a costituzione rigida. Anche negli ordinamenti contemporanei,
nel quali la dominante tendenza alla razionalizzazione del potere ha molto esteso, rispetto al
passato, la disciplina rigida e minuziosa della norma scritta, i rapporti fra i supremi organi
dello Stato rimangono, almeno in parte, affidati alla correttezza, alla prassi e alle intese più
o meno tacite fra gli organi stessi (conventions), le quali, nel rispetto dei principi fondamentali dell’ordinamento, consentono ai titolari degli organi costituzionali di dare ai precetti
normativi elastici quel contenuto che appaia di volta in volta più corrispondente alle mutevoli esigenze della realtà. Pertanto, il giurista che si limitasse a studiare i testi normativi ignorando la prassi, le convenzioni e le consuetudini, avrebbe una visione inevitabilmente astratta e parziale, per non dire inesatta e fuorviante, del diritto vivente in un dato Paese.
b. Altre considerazioni meritano di essere accennate. Spesso la dottrina sottolinea il ruolo fondamentale che spetta alla Corte costituzionale nella interpretazione e quindi nella determinazione concreta di ciò che è la Costituzione. Tale atteggiamento si riassume nella nota formula secondo cui “la Costituzione è ciò che la Corte costituzionale dice che essa sia”.
Un punto fondamentale che lo studioso deve tener sempre presente è questo: che la
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coercibilità giuridica delle norme relative alla organizzazione ed al funzionamento degli organi supremi non può assumere le stesse forme e la stessa automaticità che caratterizzano la
coercibilità delle norme giuridiche degli altri rami del diritto (si pensi, ad esempio, al diritto
privato o al diritto penale). In questa luce non appare privo di significato, ad esempio, il fatto
che i poteri dello Stato (per alcuni decenni dopo l’entrata in vigore della Costituzione repubblicana) hanno preferito risolvere in via politica i contrasti che tra di essi sono certamente
insorti qualche volta, anziché ricorrere all’istituto del conflitto di attribuzione ex art. 134
della Costituzione. E’ pertanto da segnalare, come significativa inversione rispetto alla tendenza suindicata, il fatto che negli ultimi anni la Corte costituzionale sia stata chiamata a
pronunciarsi su alcuni conflitti di attribuzione tra poteri dello Stato (1).
c. Un altro punto va sottolineato. Lo studioso non può limitarsi allo studio delle fonti, intese in
senso tecnico-formale, ma deve altresì conoscere quell’importantissimo dato della conoscenza giuridica che è costituito dagli atti di indirizzo politico.
L’indirizzo politico, come è noto, non si estrinseca sempre in atti tipici e formali, ma
anche in atti eterogenei quanto alla forma ed alla efficacia formale. Per limitarci ad alcuni
degli atti e fatti che più direttamente interessano lo studioso della Costituzione, ricordiamo
(in ordine sparso e senza alcun criterio di priorità): le leggi che oggi vengono chiamate
“qualificanti”; i messaggi eventualmente inviati alle Camere dal Presidente della Repubblica, ai sensi degli artt. 74 e 87 Cost.; le dichiarazioni programmatiche del Governo, gli ordini
del giorno o le mozioni o le risoluzioni approvate da una o da entrambe le Camere; il messaggio che il neo eletto Presidente della Repubblica rivolge alle Camere riunite (e quindi al
Paese) subito dopo la sua elezione e così via.
Va sottolineato infine che la problematica relativa al metodo della interpretazione giuridica ed al ruolo dell’interprete nella costruzione della norma è oggetto, in questi ultimi
tempi, di vivaci dibattiti e polemiche tra giuristi (2). Alcuni, premesso che il problema del
metodo è in realtà un problema ideologico, affermano la necessità di studiare il ruolo che le
varie ideologie svolgono non solo nel procedimento di formazione delle norme, ma anche
nell’applicazione delle norme stesse.
2. LA COSTITUZIONE COME FONTE DI DIRITTO
La Costituzione è la più importante fonte del diritto di ogni Paese.
Ma che cosa si intende per “fonte del diritto”?
Per fonte del diritto, in senso tecnico, si intende ogni fatto, chiaramente individuato, idoneo
a produrre le norme in cui si sostanze l’ordinamento giuridico di una data istituzione.
Le fonti si distinguono in fonti-fatto e fonti-atto. Le prime consistono in meri eventi ai
quali si connettono dei convincimenti circa la costruibilità di norme giuridiche, senza che tale
risultato sia previsto da atti normativi. Le seconde sono quelle fonti consistenti in espresse
formulazioni prescrittive provenienti da una qualche autorità (e note sotto i nomi di leggi, regolamenti, statuti, decreti, ecc.).
(1) Cfr. ad esempio, la decisione n. 13 del 1975 (con la quale è stato deciso il conflitto di attribuzione sollevato dal giudice istruttore di
Roma nei confronti della Commissione parlamentare inquirente per i giudizi di accusa)-, la n. 231 dei 1975 (che ha deciso il conflitto
di attribuzione tra la A.G.O. e la Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno della mafia)-, la n. 129 dei 1981 (che ha deciso
il conflitto di attribuzione tra Camere e Corte dei Conti); la n. 78 del 1984 (sul calcolo degli astenuti nelle votazioni parlamentari ) la
n. 154 del 1985 (sulla insindacabilità dei Regolamenti parlamentare e sull’autodichia)-, la n. 1150 del 1988 (che ha deciso il conflitto
di attribuzione tra la A.G.O. ed il Senato in materia di iinmunità parlamentari); la 406 del 1989 (con cui è stato dichiarato inammissibile
il conflitto tra poteri promosso dalla Corte dei Conti avverso le Camere per l’approvazione di una legge, ritenuta dalla Corte dei Conti
lesiva di prerogative costituzionalmente garantite).
Da ultimo, v. la sentenza della Corte costituzionale 23 giugno 1999, n. 252, che ha dichiarato inammissibile il conflitto di attribuzione
proposto dal Trib. di Milano nei confronti della Camera dei Deputati, nonchè le sentenze Corte Cost. n. 10 e 11 del 17 gennaio 2000.
(2) Su questi temi, vedi da ultimo F. Modugno, Appunti dalle lezioni di teoria dell’interpretazione, Padova 1998.
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Si parla anche di fonti storiche, per indicare i fattori politici, economici e morali che di
fatto influenzano il sorgere, le modificazioni e la estinzione delle fonti del diritto positivo.
Nello studio delle fonti, occorre tenere presente che accanto (o dentro) all’ordinamento
giuridico generale dello Stato esistono vari ordinamenti speciali o di settore, i quali vengono in
rapporto con l’ordinamento generale sia mediante apposite forme di rinvio da questo a quelli e
viceversa (rinvii che una parte della dottrina chiama “infraistituzionali” perché avvengono all’interno della stessa istituzione statale), sia mediante altre figure di collegamento non sempre
chiaramente classificabili.
Infine, in senso lato anche la scienza giuridica (con i relativi risultati) potrebbe essere
considerata come una (sorta di) fonte del diritto, soprattutto per l’opera di sistematizzazione, di
razionalizzazione e di individuazione di principi e di concetti generali (magari in precedenza
ignoti) desumibili dalle norme e dai precedenti, principi che poi a loro volta condizionano l’applicazione delle norme e dei precedenti stessi.
Ricordiamo infine che dopo il 1948 e prima dell’entrata in funzione della Corte costituzionale (1956) la giurisprudenza ha riconosciuto natura ed efficacia legislativa alla Costituzione,
ma si è orientata verso una partizione delle disposizioni costituzionali le quali sono state distinte
in direttive (o programmatiche) e precettive, ripartendo a loro volta le seconde in due categorie:
ad applicazione immediata e differita.
Per disposizioni direttive (o programmatiche) si intendevano le disposizioni astratte, incompiute, insuscettibili di applicazione, per mancanza di qualche elemento essenziale e quindi
destinate ad una integrazione legislativa. Esse pertanto si rivolgevano al solo legislatore senza
vincolare gli altri soggetti.
Tutte le altre disposizioni erano precettive, ma alcune richiedevano per poter essere applicate, l’emanazione di norme integrative.
Comunque tale tripartizione ha cessato di avere rilevanza pratica con l’entrata in funzione
della Corte costituzionale dato che il contrasto tra disposizioni legislative e disposizioni costituzionali si pone ormai in termini di illegittimità costituzionale e non più in termini di abrogazione
o meno della disposizione legislativa contrastante con la norma costituzionale.
3. SULLA NATURA “COMPROMISSORIA” DELLA COSTITUZIONE ITALIANA
Ricorda Giovanni Spadolini (3) che la parola “compromesso” fu adottata da Saragat,
mentre Moro preferì usare il termine “convergenza”, “felice convergenza di posizioni”. “Non
possiamo dimenticare - diceva Aldo Moro - quello che è stato, perché questa Costituzione oggi
emerge da quella resistenza, da quella lotta, da quelle negazioni, per le quali ci siamo trovati sul
fronte della resistenza e della guerra rivoluzionaria ed ora ci troviamo insieme per questo impegno di affermazione dei valori supremi della dignità umana e della vita sociale”. Ecco perché la
nuova Costituzione, secondo Moro, nasceva non da una “Ideologia di parte”, ma da “una felice
convergenza di posizioni” (4).
(3) Nella sua lezione del 1988 all’Università di Firenze sul tema “Dallo Statuto albertino alla Costituzione repubblicana".
(4) Vedi intervento di A. Moro nella seduta del 13 marzo 1947 dell'Ass. Cost..
Intervenendo nella seduta dell'11 marzo 1947, P. Togliatti affermò tra l'altro: "nè io ritengo sia necessario per assolvere al compito
da me indicato, fare quella che che è stata chiamata una Costituzione di compromesso. Che cosa è un compromesso? Gli onorevoli
colleghi, che si sono serviti di questa espressione probabilmente lo hanno fatto dando ad essa un senso deteriore. Questa parola non ha
però in sè un senso deteriore; ma se voi attribuite ad essa questo senso, ebbene, scartiamola pure. In realtà noi non abbiamo cercato un
compromesso con mezzi deteriori (...). Meglio sarebbe dire che abbiamo cercato di arrivare ad una unità, cioè di individuare quale
poteva essere il terreno comune sul quale potevano confluire correnti ideologiche e politiche diverse ...".
Lo spirito compromissorio della Costituente si è potuto realizzare anche in virtù di utili decisioni procedurali. Per gli articoli più
controversi ed importanti, i relatori furono quasi sempre due, appartenenti ai due schieramenti opposti. Ad esempio, Moro e Marchesi
furono relatori sui problemi della scuola. Che poi il compromesso sia stato buono, che il testo definitivo approvato sia felice è opinabile,
però è importante che sia stata seguita questa procedura.
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Secondo Spadolini dunque l’intero testo costituzionale è il frutto di un’intesa fra i quattro
filoni scaturiti dalla Liberazione; cattolici, comunisti, socialisti e laico-democratici hanno contribuito, con uno sforzo congiunto, al nuovo ordinamento costituzionale. Da Dossetti a Togliatti,
da Nenni a La Malfa, da Ruini a Einaudi e a Calamandrei, il pluralismo politico espresso dalle
elezioni del 2 giugno 1946 ha segnato profondamente i lavori e il dibattito della Costituente,
lungo una linea direttrice che rende la Costituzione repubblicana patrimonio comune della democrazia italiana, senza diritti di primogenitura da parte di nessuno.
4. CARATTERI ESSENZIALI DELLA COSTITUZIONE ITALIANA
Essi possono essere così sintetizzati.
a. La Costituzione repubblicana, a differenza dello Statuto albertino, è una Costituzione “lunga”, destinata cioè a regolare minutamente sia il funzionamento dei massimi organi statali,
sia i rapporti fra lo Stato, le comunità intermedie e i cittadini.
b. La Costituzione è rigida, cioè non modificabile da leggi ordinarie; e la rigidità è garantita da
un controllo di conformità alla Costituzione delle leggi e degli atti aventi forza di legge,
affidato ad un organo costituzionale apposito: la Corte costituzionale. Con la conseguenza
che le norme dell’ordinamento supremo della Repubblica non possono essere cambiate al di
fuori del particolare procedimento di revisione previsto dalla stessa Costituzione e distinto
dall’ordinario procedimento legislativo.
Secondo alcuni autori, anzi se c’è una caratteristica che più di ogni altra distingue la
Costituzione repubblicana rispetto allo Statuto albertino dell’Italia liberale è la caratteristica di Costituzione “rigida” anzichè “flessibile” (5).
c. La Costituzione italiana realizza una forma di governo parlamentare in quanto il Governo,
nominato dal Presidente della Repubblica, deve presentarsi alle Camere e ottenere la fiducia
delle due Camere.
Ma la forma di Governo voluta dai Costituenti è “razionalizzata”. I Costituenti infatti
fecero tesoro (almeno in parte) dell’esperienza drammatica delle democrazie europee del
primo dopoguerra sconfitte dal totalitarismo, prima, fra tutte, la Repubblica di Weimar.
Con una profonda innovazione rispetto allo Stato liberale, il documento presentato alla
Costituente da Perassi, e accolto all’unanimità, prevedeva che il sistema parlamentare dovesse essere disciplinato “con dispositivi costituzionali idonei a tutelare le esigenze di stabilità dell’azione di governo e ad evitare le degenerazioni del parlamentarismo”; una previsione esplicita di cui, negli anni dell’attuazione della Costituzione fu data una interpretazione
certamente riduttiva.
d. La Costituzione ha cercato di realizzare una efficace balance of power. In particolare, al
Presidente della Repubblica è stato conferito un ruolo di garanzia. Egli infatti possiede poteri propri ed autonomi, fra cui il potere di scioglimento anticipato delle Camere (o anche di
una sola Camera), il potere di veto sospensivo in sede di promulgazione delle leggi, il potere
di nomina di un terzo dei giudici della Corte costituzionale. Per cui alcuni autori (Barile)
hanno affermato che egli è titolare di un indirizzo politico costituzionale, ben distinto dall’indirizzo politico di maggioranza, o governativo (vedi punto 5.).
(5) I giudici hanno considerato sempre "flessibile" l’ordinamento costituzionale anteriore all’entrata in vigore della Costituzione e comunque
sino al D. Leg. 16 marzo 1946 n. 98. Si è pertanto negato che in detto ordinamento esistessero leggi o principi formalmente costituzionali,
tali da vincolare il contenuto delle leggi ordinarie. Pertanto i giudici non potevano sindacare le leggi sotto il profilo sostanziale, ma
soltanto sotto il profilo formale.
La distinzione tra leggi costituzionali e leggi ordinarie fu effettuata dal citato D. Lgs. Lgt. n. 98/1946 che riservò la materia
costituzionale (oltre che quella elettorale e internazionale) all’Assemblea Costituente.
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e. Al Parlamento, e non ad una speciale assemblea costituente, è stato affidato (sia pure imponendo un procedimento legislativo aggravato) il potere di revisione della Costituzione.
f. Grande sviluppo la Costituzione dà alle autonomie: sia a quelle territoriali (creazione delle
regioni, e, fra queste, di quelle a statuto speciale, provviste di ancora maggiore autonomia,
rilevanza costituzionale delle autonomie dei comuni e delle province); sia a quelle istituzionali delle comunità intermedie (famiglia, associazioni civili, religiose, politiche, sindacali).
g. La Costituzione ha un carattere spiccatamente popolare: nel popolo risiede la titolarità e
l’esercizio della sovranità, e in seno alla comunità di cittadini devono essere osservati alcuni
principi fondamentali (democraticità, eguaglianza formale e sostanziale, diritto al lavoro,
parità fra le religioni). Tali principi non sono contenuti in un preambolo di natura politica,
ma fanno parte integrante della Costituzione, il che sottolinea la loro giuridicità.
Secondo vari autori la Costituzione italiana presenta altri due caratteri e precisamente:
- Costituzione programmatica. La portata del dettato costituzionale va colta non soltanto
nel sistema complessivo delle garanzie positive, ma anche negli obiettivi ai quali deve
tendere. Per tal motivo la Costituzione italiana è “Costituzione-programma” (Lavagna C.).
La caratterizzazione programmatica deriva dalla consapevolezza che esistono nella società profondi squilibri ed oggettive difficoltà per la piena e concreta realizzazione
dei principi di eguaglianza e di libertà, squilibri da rimuovere per garantire soprattutto,
come si esprime l’art. 3 Cost., “l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del paese”.
- Costituzione aperta. Conseguente al carattere compromissorio del patto costituzionale
ed al modo di proporsi della Carta come insieme di valori che devono indirizzare la
futura azione statale, risulta l’ulteriore caratteristica delineata con l’espressione “Costituzione aperta” (Onida V.). Si vuole con tale definizione significare che sono consentite
nella fase attuativa scelte diverse, secondo gli orientamenti di volta in volta prevalenti
fra le forze politiche detentrici della maggioranza parlamentare, perché la formulazione
delle norme presenta un oggettivo margine di elasticità nel momento applicativo (in
particolare questo carattere si rinviene in tema di rapporti economici e, per certi profili,
nel disegno delle autonomie regionali).
5. L’INDIRIZZO POLITICO NELLA COSTITUZIONE
Si “rimprovera” talvolta ai Costituenti di aver predisposto poche garanzie all’azione di
governo e di aver sottovalutato l’importanza che ha la funzione di indirizzo politico negli Stati
contemporanei. E’ un rilievo fondato o no? Il tema merita certamente qualche riflessione.
Come è noto, in Italia il concetto di indirizzo politico è stato studiato verso la fine degli
anni '30. Infatti il famoso saggio di Crisafulli negli “Studi Urbinati” è del 1939; la “Costituzione in senso materiale” di Mortati è del 1940.
Partendo dal presupposto che la categoria dell’indirizzo politico ha trovato poco spazio
nei lavori preparatori e nel testo costituzionale, qualcuno ha accusato i Costituenti di essere
stati miopi e non lungimiranti, perché mentre essi hanno ideato, voluto e potenziato i meccanismi di garanzia, non hanno assicurato efficacia ed incisività alla c.d. azione di governo, cioè non
hanno previsto meccanismi per realizzare effettivamente l’indirizzo politico concordato. Secondo noi, tre possono essere i motivi di tale atteggiamento dei Costituenti:
- poiché l’indirizzo politico si era attuato negli anni del fascismo soprattutto attraverso la
volontà del duce, capo del Governo (sul piano normativo basta ricordare la legge n.
2263/1925 sulle attribuzioni e prerogative del Capo del Governo), i Costituenti erano
abbastanza timorosi nell’attribuire un indirizzo politico forte a questo o a quell’organo
costituzionale;
- l’altro motivo è correlato alla cultura e alla formazione politica dei Costituenti. Molti di
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loro si erano formati nella clandestinità, nei conventi, nelle biblioteche, all’estero, eccetera; erano quindi più portati ad una cultura del ripristino e della garanzia dei diritti e
delle libertà dei cittadini, che non ai problemi di organizzazione dello Stato;
- terzo motivo: è vero che già erano stati istituiti alcuni enti di Stato, come l’IRI, i
“professorini” della Cattolica (Fanfani, Dossetti, Lazzati, La Pira, ecc.) avevano fatto
un buon lavoro di scavo nel campo dell’economia politica; ma ancora lo Stato non era
quello Stato imprenditore e interventista che si è manifestato poi negli anni successivi al
’50. In altre parole, la concezione del Welfare State era sicuramente estranea alla cultura politica di gran parte dei Costituenti.
Ciò premesso, vediamo a quali soggetti spetta l’indirizzo politico, non in astratto, ma
secondo la Costituzione vigente in Italia.
Afferma un autore, che recentemente si è occupato dell’argomento, che il Parlamento è
organo costituzionale dell’indirizzo politico, ed è titolare in via esclusiva della sua determinazione generale e puntuale. Ne consegue la inammissibilità del concorso di ogni altro organo su
tale piano. Infatti, il Capo dello Stato è estraneo alla funzione, ed al Governo spetta la iniziativa
e l’attuazione, ma non la determinazione.
Secondo la Costituzione del 1948, il Capo dello Stato è privo di ogni competenza in ordine
alla funzione di indirizzo, diversamente dal regime statutario. Il capo dello Stato non è organo
rappresentativo né può assumere alcuna responsabilità politica , non dispone di potere legislativo né fa parte del potere esecutivo.
Secondo lo stesso autore, nemmeno ha avuto seguito, nella pratica repubblicana, la teoria
sulla titolarità della c.d. funzione di indirizzo politico costituzionale che, secondo una nota
dottrina, sarebbe devoluta al presidente della Repubblica (ed anche all’altro organo di garanzia,
la Corte costituzionale). Ciò almeno fino alla transizione costituzionale degli anni ’90.
Indipendentemente dalla difficoltà di definire univocamente tale funzione dal punto di vista formale, resta il fatto che, nella esperienza repubblicana, non è mai avvenuto che il presidente abbia posto in essere atti o iniziative che possano farsi risalire ad essa. Nei casi in cui ciò è
sembrato avvenire, come ad esempio durante la presidenza Gronchi, nessun seguito ha avuto
l’iniziativa del presidente, relativa alla questione dei gravi inadempimenti costituzionali, se non
quando il Parlamento ha inteso, in autonoma manifestazione di volontà, porre in essere alcuni
(ma non tutti gli) adempimenti auspicati nel messaggio presidenziale. L'attuazione costituzionale è costantemente tema dell’indirizzo politico, resta nelle mani dei partiti e dipende dagli equilibri della costituzione materiale (6).
6. LA REVISIONE DELLA COSTITUZIONE. LE LEGGI COSTITUZIONALI
Tali istituti costituiscono la Sezione II del titolo VI della Costituzione, intitolato “Garanzie
costituzionali”.
Come osservò l’on. Perassi, la Commissione dei 75 si ispirò all’idea di rendere il procedimento di formazione delle leggi costituzionali più complicato di quello previsto per le leggi
ordinarie, senza tuttavia rendere troppo difficile la revisione della Costituzione e l’approvazione di nuove leggi costituzionali.
Il procedimento di revisione costituzionale richiede un aggravamento rispetto alla procedura ordinaria e una maggioranza qualificata nella seconda votazione.
Stabilisce infatti l’art. 138 Cost. che le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi
costituzionali sono adottate da ciascuna Camera con due successive deliberazioni ad intervallo
non minore di tre mesi, e sono approvate a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna
Camera nella seconda votazione.
Le leggi stesse sono sottoposte a referendum popolare quando, entro tre mesi dalla loro
pubblicazione, ne facciano domanda un quinto dei membri di una Camera o cinquecentomila
(6) Così S. Labriola, nel volume collettivo Il Parlamento repubblicano 1948-1988, Milano 1999, pp. 36 ss.
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elettori o cinque Consigli regionali. La legge sottoposta a referendum non è promulgata se non
è approvata dalla maggioranza dei voti validi.
Non si fa luogo a referendum se la legge è stata approvata nella seconda votazione da
ciascuna delle Camere a maggioranza di due terzi dei suoi componenti.
Il successivo art. 139 indica l’unico caso esplicito di inemendabilità costituzionale. Recita
infatti detto articolo che la forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale.
Il combinato disposto degli articoli 138 e 139 Cost. pongono alcuni quesiti all’interprete,
che possono essere sintetizzati come segue:
- il primo punto è quello relativo ai limiti impliciti alla revisione costituzionale. La
dottrina prima, la Corte Costituzionale poi hanno elaborato, per approssimazioni successive, la teoria che può essere definita del “nocciolo duro” della Costituzione. Cioè la
Costituzione formale racchiuderebbe una specie di supercostituzione sottratta allo stesso potere di revisione costituzionale (non al potere costituente, ovviamente).
Ma esistono criteri oggettivi - o comunque generalmente condivisi - per individuare tali limiti impliciti?
- Il secondo quesito è il seguente. L’articolo 138 Cost. è la procedura obbligata ed unica
per apportare modifiche costituzionali, oppure si può utilizzare l’articolo 138 Cost. per
adottare una procedura diversa da quella prevista da detto articolo? Sul piano storico la
risposta è certamente nel secondo senso. Infatti la legge costituzionale n. 1 del 1997
(istituzione di una Commissione parlamentare per la revisione della seconda parte della
Costituzione) prevedeva una procedura diversa da quella descritta dall’art. 138.
Sulla procedura adottata dalla citata legge costituzionale n. 1/1997 la dottrina è
stata generalmente assai critica (7)
Del resto, come è noto, il problema del metodo da seguire per le riforme fu posto
con forza, in sede istituzionale, anche dal Presidente della Repubblica Cossiga nel suo
messaggio alle Camere (26 giugno 1991), dove lucidamente si affermava che il problema del “metodo” non coinvolge solo i criteri storici, politici, sociologici e culturali che
debbono illuminare le scelte; ma è anche problema della individuazione delle istituzioni
e delle norme da rinnovare e delle procedure cui affidare la scelta, sul piano istituzionale, secondo una progettualità organica e coerente.
Il messaggio citato dette luogo ad ampia riflessione dottrinale sul metodo da utilizzare per le riforme costituzionali. Secondo tale messaggio deve attentamente valutarsi
se il potere di revisione costituzionale previsto dall'art. 138 Cost. trovi nel suo esercizio
non solo il limite esplicito contenuto nell'art. 139 Cost., ma anche altri limiti sostanziali
impliciti, connessi ai principi strutturali della Costituzione del 1948, ad esempio il principio del bicameralismo, il limite della forma di governo parlamentare, e così via: del
tutto semplificati - proseguiva il messaggio - risulterebbero i problemi giuridici e politici qualora si addivenisse ad una scelta radicalmente diversa: la convocazione cioè di
un'Assemblea Costituente. Una riflessione sul metodo fu fatta anche dalle varie forze
politiche in occasione del dibattito parlamentare sul messaggio citato. Alcuni parlamentari si pronunciarono sul punto se la procedura di cui all'art. 138 Cost. sia idonea e
sufficiente a consentire una riforma organica della Costituzione.
- Differenze qualitative e quantitative tra potere di revisione costituzionale e potere costituente: qui il problema è risalente. Proprio l’istituzione della Commissione bicamerale
per le riforme costituzionali ha costituito l’occasione per una serie di studi, nei quali si
è fatta la storia dei limiti del potere costituente, della differenza tra sovranità del popolo
e sovranità dello Stato o sovranità della Nazione; problemi che sono attualissimi (8).
- Con l’art. 138 Cost. si possono fare solo revisioni parziali della Costituzione, o anche
revisioni totali? In altre Costituzioni, la revisione totale è contemplata e disciplinata.
(7) v. per tutti i saggi di A. Pace e di G.U. Rescigno, nella Rivista diritto pubblico, n. 3/1997, nonché: S.P. Panunzio, Le forme e i
procedimenti per l'innovazione, nel volume La riforma costituzionale, Cedam, Padova 1999.
(8) Vedi ad esempio i saggi di L. Compagna, A. Barbera, A. Pace, U. Allegretti, A.A. Cervati, A. Di Giovine, G. Ferrara, F. Modugno, A.
Pizzorusso, P. Ridola e G. Silvestri, in Studi in onore di L. Elia, Milano 1999.
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Ad esempio, in Spagna (art. 168 Cost.) per procedure di revisione totale è previsto un
referendum finale obbligatorio (e confermativo) su tutto il testo della riforma. Vedasi
altresì gli artt. 118 e seguenti della Cost. svizzera e l'art. 44 della Cost. austriaca.
La grande maggioranza degli studiosi italiani ritiene che la c.d. revisione totale è in
realtà esercizio di potere costituente e quindi non può attuarsi mediante l’art. 138 (che è
ricompreso nel titolo VI “Garanzie Costituzionali”). Occorre allora un’Assemblea Costituente per una riforma totale? Anche su questo punto, la risposta dei costituzionalisti è netta:
l’Assemblea Costituente è al di fuori della Costituzione vigente. Può darsi che, storicamente
e per motivi politici, si dia vita ad una Assemblea Costituente, ma ciò significherebbe ammettere che si è in presenza di una diversa Costituzione (almeno in senso materiale) (9).
- Altra domanda è la seguente: è possibile rivedere la sola seconda parte della Costituzione - come stabiliva la legge cost. n. 1/1997 - senza toccare i principi fondamentali
contenuti nella prima parte della Costituzione? Per taluni autori la risposta è negativa,
nel senso che eventuali alterazioni della forma dello Stato e della forma di governo si
rifletteranno (sia pur tacitamente) sull'insieme di tali principi.
- Altro quesito: una Costituzione può contemplare testualmente il diritto di resistenza dei
cittadini contro l’oppressione? Sul piano storico la risposta è certamente positiva, perché la Costituzione francese del 1793 prevedeva espressamente la resistenza all’oppressione come conseguenza degli altri diritti dell’uomo.
Ma sotto un profilo concettuale - oggi si direbbe di architettura costituzionale - è
concepibile che una Costituzione formale, che riconosce e garantisce i (moderni) diritti dell’uomo, preveda espressamente che si possa verificare un’oppressione di tali diritti, tale da giustificare una resistenza dei cittadini mediante strumenti non previsti dalla stessa Costituzione?
Secondo alcuni, una Costituzione non può prevedere tale diritto di resistenza per la
contraddizione che non lo consente. Infatti il diritto di resistenza si esercita proprio nelle
situazioni paradossali extra ordinem in cui vengono conculcati i diritti fondamentali del
cittadino, ma una Costituzione prevede meccanismi tali di prevenzione e di garanzia per
cui non può ammettere che tali diritti fondamentali siano compressi al punto tale da
giustificare l’esercizio di un diritto di resistenza extra ordinem, quale unica e residuale
forma di tutela di quei diritti.
7. LE CONSUETUDINI E LE CONVENZIONI COSTITUZIONALI
a. Anche se taluni studi sembrano aver steso l’ombra del dubbio su certi caratteri della consuetudine che sembravano ormai acquisiti e pacifici, appare preferibile (almeno per il momento)
continuare a ritenere che per l’esistenza di una consuetudine come fonte del diritto debbano
sussistere, simultaneamente, i seguenti elementi:
- la stabilizzazione di determinati comportamenti intersoggettivi, accertabile dalla loro
ripetizione nel tempo;
- l’opinio iuris seu necessitatis: la convinzione cioè che non seguendo il comportamento generalmente adottato dall’ambiente di cui si tratta, il contravventore si esporrebbe alla conseguenza di dover subire una sanzione giuridica.
Ci si è chiesti se negli ordinamenti a costituzione rigida e garantita -come è quella
italiana vigente - vi sia spazio per il sorgere e l’affermarsi di consuetudini costituzionali. La
migliore dottrina ha dato risposta positiva, se non altro per la possibilità, esistente in ogni ordinamento costituzionale, di lacune su questo o quell’aspetto della disciplina normativa (10).
(9) In tal senso vedi M. Scudiero, nel volume collettaneo La riforma costituzionale. Padova 1999, pag. 500.
(10) Anche secondo la Corte costituzionale - n. 129/1981 - la disciplina dettata dalle norme costituzionali scritte, quanto al regime
organizzativo e funzionale degli apparati serventi gli organi costituzionali, non è affatto compiuta e dettagliata. Ad integrazione di
esse ed in corrispondenza alle peculiari posizioni degli organi medesimi, si sono dunque affermati principi non scritti, manifestatisi
e consolidatisi attraverso la ripetizione costante di comportamenti uniformi, vale a dire nella forma di vere e proprie consuetudini
costituzionali.
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b. Diverse dalle consuetudini - per la natura ed efficacia giuridica -sono le convenzioni costituzionali. Esse, studiate da decenni dalla pubblicistica anglosassone, hanno attirato solo di
recente l’attenzione della dottrina italiana.
In via di prima approssimazione, le convenzioni costituzionali possono definirsi regole
liberamente create dagli operatori costituzionali mediante accordi più o meno taciti e sono
liberamente mutabili, anche per volontà di uno solo dei soggetti interessati. Per questa ragione si dice che le convenzioni non sono regole giuridiche: proprio perché non sono coercibili
giuridicamente da parte di un’autorità distinta rispetto agli operatori politici interessati.
Il collegamento della convenzione con le regole giuridiche è vario e molteplice. Talora
la convenzione serve a dare una particolare interpretazione di una norma costituzionale. Ad
esempio, l’art. 64 Cost. stabilisce che le deliberazioni delle Camere non sono valide se non
sono adottate a maggioranza dei “presenti”. Ebbene, alla Camera - ma non al Senato l’espressione maggioranza dei “presenti” è stata intesa come se dicesse “maggioranza di
coloro che esprimono voto favorevole o contrario”: cioè alla Camera gli astenuti non sono
computati tra i presenti; mentre al Senato gli astenuti sono computati come presenti ai fini
del calcolo della maggioranza. Vedi comunque ora l'art. 48, 2° comma, Reg. Camera.
L’esempio citato dimostra, tra l’altro, che nelle due Camere possono formarsi convenzioni diverse o addirittura antitetiche (come ad esempio nel modo di computare i presenti).
Talvolta la Costituzione attribuisce un potere ad un soggetto senza indicare come il
potere deve essere esercitato. Ad esempio, l’art. 92 Cost. si limita a prevedere che il Presidente della Repubblica nomina il Presidente del Consiglio dei ministri, e, su proposta di
questo, i ministri. Ebbene, per convenzione si seguono ormai delle procedure più o meno
tipizzate prima di arrivare alla nomina del Presidente del Consiglio (consultazioni degli ex
Presidenti della Repubblica, dei Presidenti dei Gruppi parlamentari, dei segretari dei partiti
politici, ecc.).
E’ possibile che una regola, che è vissuta a livello di convenzione per alcuni anni, dia
luogo ad un certo momento ad una norma scritta, identica o diversa (quanto a contenuto)
rispetto alla regola convenzionale. Un esempio è rappresentato dall’art. 116 del nuovo Regolamento della Camera, che ha modificato (almeno in parte) la precedente convenzione esistente in materia di questione di fiducia.
Oppure può accadere che una regola convenzionale si trasformi in regola consuetudinaria, allorché viene a rivestire tutti i caratteri propri della consuetudine. In tal caso la regola
diventa giuridica a tutti gli effetti, compresi quelli della sua coercibilità (nel senso, ovviamente in cui sono coercibili le norme giuridiche nel diritto costituzionale).
c. La prassi e i precedenti. I termini sono usati talvolta in modo più o meno promiscuo e ciò
contribuisce a creare difficoltà di definizione, oltre che confusioni terminologiche.
Il termine prassi è generico e comprensivo. Esso indica tutto ciò che accade con una
certa regolarità. Talvolta si fanno rientrare nella prassi le convenzioni, o addirittura le consuetudini.
Il precedente sta ad indicare la risoluzione di un caso determinato. Talvolta il presidente di una Camera, prima di decidere un caso controverso avverte espressamente che la decisione che si sta per prendere nel caso concreto “non deve costituire precedente”. Ebbene,
cosa significa che una certa decisione non deve costituire precedente? Ci sembra che una
soddisfacente precisazione al riguardo sia stata fornita dal Presidente della Camera (nella
seduta del 23 febbraio 1961), il quale affermò che un precedente tale è e rimane: cioè si pone
come fatto accaduto nella sequenza dei precedenti e come tale potrà essere richiamato. Ma la
potestà regolamentare della Camera non resta diminuita né vincolata da una soluzione adottata incidenter tantum.
Nella correttezza costituzionale rientrano le regole di fair play che normalmente si
osservano nei rapporti tra organi costituzionali, o, all’interno del Parlamento, nel rapporti
tra le varie componenti di esso; ad esempio, tra Presidente ed Assemblea, tra maggioranza
ed opposizione, ecc. Vi sono certi comportamenti, di per sé legittimi e regolamentari, che
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tuttavia vengono considerati scorretti in certe circostanze e corretti in altre. Per esempio,
ripetute richieste di verifica del numero legale (al fine di determinare il rinvio della seduta se
sia accertata la mancanza di detto numero) appaiono corrette, oltre che legittime, in clima di
ostruzionismo parlamentare o di forti contrasti tra maggioranza e opposizione; appaiono
scorrette, ancorchè legittime, ove non sorrette da evidenti e plausibili motivazioni politiche o
procedurali (11).
(11) Per lo studio della Costituzione italiana, vedi da ultimo: M. Ainis (a cura), Dizionario costituzionale, ed. Laterza, 2000; Cuccodoro
E., Il diritto pubblico della transizione costituzionale italiana, seconda edizione, Bologna, Monduzzi, 2000; Bilancia F., La crisi
dell'ordinamento giuridico dello Stato rappresentativo, Padova, ed. CEDAM, 2000; Cassese S., La nuova costituzione economica.
Lezioni, seconda edizione, Roma-Bari, ed. Laterza, 2000, Volpe G. Il costituzionalismo del Novecento, Roma- Bari, ed. Laterza,
2000.
Per uno stimolante (e ricorrente) problema di teoria generale, vedi: Desmons E. Droit ed devoir de résistance ed droit interne.
Contribution à une théorie du droit positif, Paris, libr. générale de droit et de jurisprudence, 1999.
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CAPITOLO SECONDO
LE FONTI SUBCOSTITUZIONALI
1. LA LEGGE FORMALE
Per legge, in senso formale, si intende l’atto approvato dal Parlamento, secondo la procedura indicata dall’art. 72 Cost. e dai Regolamenti parlamentari, e promulgato dal Presidente
della Repubblica, qualunque ne sia il contenuto.
La legge è quindi il risultato di un procedimento complesso che percorre varie fasi: l’iniziativa, l’istruttoria, l’approvazione delle Camere, la promulgazione del Presidente della Repubblica (Vedi Cap. IV, punto 8.).
Nell'ordinamento albertino la legge formale era la fonte regina e indiscussa, essendo gerarchicamente sovrordinata a tutte le altre. Oggi non è più così, perché la legge formale si trova ad
operare non solo nell’ambito di una Costituzione rigida; ma anche in mezzo ad una pluralità di
fonti, quali le leggi regionali, il diritto europeo e i regolamenti comunali, che hanno conosciuto
un ruolo espansivo nell’ultimo decennio.
Da più parti si osserva che negli ultimi decenni la legge statale sta attraversando una
profonda crisi strutturale e funzionale. Vediamo pertanto quali sono i motivi di tale crisi.
Innanzitutto occorre riflettere sulle modifícazioni strutturali che la legge (l’atto normativo
in generale, ma soprattutto la legge) ha subito negli ultimi decenni. L’idea di legge che abbiamo
ereditato dal XIX secolo (e cioè provvedimento legislativo che contiene norme generali e astratte, dirette ad una generalità di destinatari) è profondamente cambiata negli ultimi decenni. Perchè non solo oggi abbiamo moltissime leggi quali: leggi-provvedimento; leggi-singolari o addirittura leggi-fotografia e quindi l’astrattezza e generalità è venuta meno, ma anche perchè oggi
le leggi, per le mutate esigenze dello Stato, che si è trasformato in un Welfare State, hanno
cessato di essere semplicemente un insieme di comandi e di divieti, per contenere sempre di più
una serie di incentivi, di raccomandazioni, di interventi, di direttive in ordine all’economia, alla
scuola, alla sanità, al benessere dei cittadini, ecc..
Una volta era abbastanza facile introdurre un comando o un divieto: «non uccidere» oppure «fermati con il rosso» o ancora «tutti i ragazzi devono frequentare la scuola quando raggiungono l’età scolare». Oggi molte leggi finiscono col dire: «se tu costruisci in quella zona e lo fai
in un certo modo puoi usufruire di talune agevolazioni fiscali».
In tal caso, l’obiettivo che il legislatore persegue (costruire posti di lavoro, fabbriche, ecc.)
può mancare perchè c’è una variabile imponderabile, cioè legata al futuro comportamento del
destinatario di una norma (ed esempio, la norma rimane inapplicata perchè nessun imprenditore
è intenzionato a costruire in quella zona a quelle condizione).
Altro punto da considerare è il seguente: fino a qualche decennio fa, i codici erano la
struttura portante del nostro ordinamento, insieme a qualche legge fondamentale: la legge bancaria, la legge sull’assegno, la legge sulla tutela dei beni artistici (del 1939), ecc.
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Oggi il rapporto si è rovesciato. I codici sono residuali rispetto alle leggi singolari e alle
leggi-provvedimento; il che significa che l’operatore giuridico non deve ricercare cosa dice il
codice; deve chiedersi innanzi tutto se esiste qualche legge speciale sulla materia. Solo se non si
trova una legge speciale, o nella parte in cui quella materia non è regolata dalla legge speciale,
si può ricorrere alla legge generale, con una inversione di ottica e di interpretazione. D’altra
parte, è più difficile reperire la norma speciale che non trovare la norma nel codice.
Dunque la crisi attuale della legge è dovuta anche alla sua struttura interna. Generalità
astrattezza, universalità della legge, oggi vanno man mano scemando, non scomparendo, ma
sicuramente scemando. Tra l’altro, c’è minor tempo per preoccuparsi della forma della legge.
Se il legislatore intende fare un codice che deve durare decenni, pone molta cura nella redazione
del testo. Per contro una legge che viene approvata sotto la spinta della fretta è una legge che
spesso è carente (anche) sotto il profilo tecnico-giuridico.
2. I DECRETI LEGISLATIVI DELEGATI
L’istituto è previsto dall’art. 76 Cost. (1).
Successivamente è stato regolato dall’art. 14 della legge n. 400/1988, il quale tra l’altro al
comma 3 introduce la possibilità di un esercizio frazionato della delega da parte del Governo:
“se la delega legislativa si riferisce a una pluralità di oggetti distinti suscettibili di separata
disciplina, il Governo può esercitarla mediante più atti successivi per uno o più degli oggetti
predetti”. Infine, il quarto comma dell’art. 14 prevede un parere obbligatorio delle Camere sul
decreti delegati nel caso di delega che ecceda i due anni.
In base all’art. 6 della legge 15 marzo 1997, n. 59, sugli schemi di decreto legislativo di cui
all’art. 1 della stessa legge il Governo acquisisce il parere di una Commissione parlamentare
bicamerale (appositamente istituita), nonché i pareri della Conferenza Stato-Regioni e della
Conferenza Stato-Città: ora conferenza unificata (in base al D. lgs. 281/1997), e della Commissione parlamentare per le questioni regionali.
3. I DECRETI LEGGE
L’istituto è previsto dall’art. 77 Cost. (2).
Uno dei problemi più scottanti del dibattito istituzionale è stato, per decenni, quello della
proliferazione dei decreti legge, con negative conseguenze sul piano dei corretti rapporti tra
Parlamento e Governo e sul piano della ordinata programmazione dei lavori delle Camere.
L'inconveniente si aggravava in oltre a causa della cosiddetta reiterazione dei decreti-legge
non convertiti nei termini costituzionali (ma nemmeno respinti), con la conseguenza di moltiplicare le fasi parlamentari di esame di norme sostanzialmente identiche.
Per la prima volta nell’ordinamento repubblicano sono state dettate - con l'art. 15 della
legge n. 400/1988 - norme legislative sulla decretazione d’urgenza.
I limiti alla decretazione previsti nel testo sono di duplice natura. Alcuni riguardano i
caratteri cui i decreti devono uniformarsi.
I decreti in particolare debbono:
- contenere misure di “immediata applicazione” nel presupposto che solo misure di tale
genere possono configurarsi come urgenti;
(1) L'esercizio della funzione legislativa non può essere delegato al Governo se non con determinazione di principi e criteri direttivi e
soltanto per tempo limitato e per oggetti definitivi.
(2) Il Governo non può, senza delegazione delle Camere, emanare decreti che abbiano valore di legge ordinaria.
Quando, in casi straordinari di necessità e di urgenza, il Governo adotta, sotto la sua responsabilità, provvedimenti provvisori
con forza di legge, deve il giorno stesso presentarli per la conversione alle Camere che, anche se sciolte, sono appositamente
convocate e si riuniscono entro cinque giorni.
I decreti perdono efficacia sin dall'inizio, se non sono convertiti in legge entro sessanta giorni dalla loro pubblicazione. Le
Camere possono tuttavia regolare con legge i rapporti giuridici sorti sulla base dei decreti non convertiti.
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- avere un contenuto “specifico, omogeneo e corrispondente al titolo”, secondo la formula
proposta dal progetto dell’on. Fusaro volta a evitare i cosiddetti decreti omnibus, atti
normativi d’urgenza utilizzati come primo e più veloce veicolo a disposizione dell’Esecutivo (e, in fase emendativa, dello stesso Parlamento) per introdurre novazioni legislative della più diversa natura che spesso nulla hanno a che vedere né con l’urgenza del
provvedimento originario, né con il suo contenuto.
Limiti sono altresì posti al contenuto del decreto. Il Governo, mediante il decreto-legge,
non può:
- conferire deleghe legislative;
- provvedere nelle materie che l’art. 72, comma 4, della Costituzione riserva al procedimento legislativo ordinario (materia costituzionale ed elettorale, ratifica trattati internazionali, bilanci e consuntivi, oltre alle stesse deleghe legislative);
- rinnovare norme di decreti che siano stati respinti esplicitamente con un voto ad hoc, da
una delle due Camere: (non ritenendosi opportuno impedire all’Esecutivo di “reiterare”
norme - nel frattempo divenute, in ipotesi, ancora più urgenti - su cui il Parlamento non
si fosse ancora pronunciato);
- regolare i rapporti giuridici sorti sulla base dei decreti non convertiti (è l’ultimo comma
dell’art. 77 della Costituzione che affida alle Camere tale compito: anche se va riconosciuto che un’applicazione lenta della previsione costituzionale può determinare effetti
dannosi per i soggetti che, in ossequio alla legge, abbiano ottemperato alle previsioni del
decreto. Peraltro, ove sussista una concorde e forte volontà politica, la legge di sanatoria
può essere approvata nel giro di pochissimi giorni: vedi, ad esempio la legge 5 aprile
1995, n. 102 recante “Disciplina degli effetti prodotti dal decreto-legge 29 marzo 1995,
n. 90, non convertito in legge”);
- ripristinare l’efficacia di disposizioni dichiarate illegittime dalla Corte costituzionale,
per vizi non attinenti al procedimento.
Nonostante la legge n. 400 citata e varie disposizioni introdotte nei Regolamenti parlamentari per limitare il ricorso ai D.L., il numero di tali atti andava sempre più crescendo, soprattutto
in forza della prassi della reiterazione di precedenti D.L. non convertiti (in taluni casi la disciplina introdotta da un D.L. - e reiterata più volte - è rimasta in vigore per oltre due anni, in
sostanziale elusione dell’art. 77 Cost.).
Pertanto, con sentenza 360/1996 la Corte costituzionale ha statuito, in via generale, la
illegittimità cost. della reiterazione di precedente decreto-legge non convertito, a meno che nel
frattempo fosse insorta una nuova situazione di straordinaria necessità ed urgenza.
Va sottolineato che, a seguito della citata sentenza della Corte costituzionale il numero dei
decreti-legge è fortemente diminuito, ma è assai aumentato il numero dei decreti legislativi,
creando vari problemi di natura istituzionale, come è stato sottolineato dalla più recente dottrina
(3).
(3) Un autore che si è mostrato preoccupato dello sviluppo del fenomeno è P. Ciarlo Parlamento, Governo e Fonti normative, nel volume
La riforma costituzionale, promosso dall'Associazione It. dei costituzionalisti, Cedam, 1999. Egli osserva che alla crisi della legge
ordinaria e della capacità decisionale del Parlamento corrisponde l’espansione della normazione governativa e degli enti territoriali.
Governo ed enti territoriali stabiliscono un circuito decisionale che per molti versi emargina e distanzia un Parlamento che, per quanto
possa recuperare produttività, appare sembre meno competitivo.
Quando la normazione governativa era affidata soprattutto al decreto-legge, le reazioni in senso contrario erano immediate in virtù
dell’evidenza del fenomeno. Dinanzi a decreti reiterati decine di volte, spesso con modifiche, la reazione dell’ordinamento non poteva
non esserci, era attesa, è arrivata tardi, ma alla fine è arrivata. Oggi che la normazione governativa è affidata soprattutto al decreto
legislativo e alla delegificazione, la situazione è migliorata, non foss’altro perché i decreti da convertire non ingolfano più il Parlamento,
ma allo stesso tempo è diventata anche più complessa.
Delega legislativa e delegificazione, suscitando minori reazioni del decreto legge, tendono a stabilizzarsi, a far apparire normale
ciò che può anche non essere considerato normale, come l’eccesso derogatorio e correttivo, che, sotto la spinta della necessità di fare,
permea la legislazione delegata più recente. Più in generale la reiterazione della delega e la delegificazione in bianco pongono evidenti
problemi sistematici anche nella considerazione che attraverso di esse si associano alla produzione normativa statale gli enti territoriali
in forme che non possono non essere almeno in parte considerate surrettizie rispetto all’impianto costituzionale. Tutto si muove ai
limiti della costituzionalità, ma tutto sembra stabilizzarsi e radicarsi profondamente.
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E’ stata dibattuta in Parlamento la questione se del requisito dell'omogeneità (previsto
dall'art. 15, n. 3 della legge n. 400 del 1988) possa accogliersi un’interpretazione teleologica
(valorizzando cioè la finalizzazione unitaria delle disposizioni eventualmente varie e diverse,
contenute nel decreto-legge); oppure una interpretazione c.d. oggettiva. Sul tema vedi la deliberazione adottata dall’Assemblea del Senato in data 25 gennaio 1990.
A seguito di modifica introdotta dalla Camera all’art. 96 bis il 24 settembre 1997 ed
entrata in vigore il 1° gennaio 1998, i disegni di legge di conversione dei decreti-legge sono
assegnati, oltre che alle Commissioni competenti in sede referente, anche al Comitato per la
legislazione di cui all’art. 16 bis, il quale, esprime parere alle Commissioni competenti anche
proponendo la soppressione delle disposizioni del decreto-legge che contrastino “con le regole
sulla specificità e la omogeneità e sui limiti di contenuto dei decreti-legge previsti dalla vigente
legislazione”.
Da ultimo si ricorda che l’art. 99 del progetto di revisione della parte II Cost., presentato
alle Camere il 4 novembre 1997, stabiliva che tali provvedimenti devono recare “misure di
carattere specifico, di contenuto omogeneo e di immediata applicazione”, concernenti sicurezza
nazionale, pubbliche calamità, norme finanziarie, al di fuori delle materie riservate alle leggi
che devono essere approvate dalle due Camere.
4. I REGOLAMENTI PARLAMENTARI
Una fonte importante per lo studio del diritto costituzionale è rappresentata dai Regolamenti parlamentari.
Lo Statuto albertino (art. 61) stabiliva che il Senato e la Camera determinassero, per
mezzo di un regolamento interno, il modo secondo il quale dovevano esercitare le proprie
attribuzioni.
La Costituzione repubblicana dispone che “ciascuna Camera adotta il proprio regolamento a maggioranza assoluta dei suoi componenti” (art. 64).
La norma che esige una maggioranza qualificata per l’adozione del regolamento - norma
che non esisteva nello Statuto albertino - deriva da una proposta dell’on. Mortati (Ass. Cost.,
seconda Sottocommissione), preoccupato del pericolo che maggioranze occasionali potessero
attentare al normale svolgimento dell’attività parlamentare e conculcare i diritti delle minoranze. Tradizionalmente, infatti, una delle principali finalità attribuite ai Regolamenti parlamentari
è proprio quella di salvaguardare i diritti delle minoranze contro possibili abusi della maggioranza (oltre, naturalmente, di permettere l’ordinato svolgimento delle funzioni parlamentari).
Come la dottrina ha notato, l’art. 64 Cost. pone vari problemi. Innanzitutto quello del
fondamento della potestà regolamentare. La norma costituzionale cioè ha un valore meramente
ricognitivo di un potere che le Camere avrebbero anche in assenza di essa, oppure assume
valore costitutivo di detto potere?
Come è noto, il fondamento del potere regolamentare delle Camere è stato individuato, dai
vari autori, o in una delega della Costituzione, o nella autonomia di ciascuna Camera, o nel
potere di supremazia speciale, o nella generale facoltà di autorganizzazione degli organi costituzionali o nella consuetudine.
Inoltre, in base alla Costituzione, le Camere hanno l’obbligo o la facoltà di adottare il
Regolamento?
La dottrina più avveduta ha sottolineato come i Regolamenti parlamentari, disciplinando
in un modo o nell’altro le varie funzioni delle Camere e i rapporti Parlamento-Governo, possono
influire, direttamente o indirettamente, sulla stessa forma di governo vigente nel Paese.
Oltre ai Regolamenti parlamentari che disciplinano l’organizzazione, l’iter legis e lo svolgimento della funzione di controllo di ciascuna Camera (Regolamenti parlamentari che potremmo definire “generali”) esistono anche altri Regolamenti parlamentari, che potremmo definire
in senso lato “speciali” (per differenziarli dai regolamenti generali), i quali hanno finalità particolari e un più ristretto ambito di applicazione.
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Tra i regolamenti parlamentari speciali possono essere ricordati i seguenti: il Regolamento
per la verifica dei poteri; il Regolamento per i procedimenti di accusa; i Regolamenti delle
Commissioni parlamentari d’inchiesta; i Regolamenti interni per il personale e gli uffici delle
Camere, ecc.. Tali Reg. parl. speciali sono approvati con modalità assai diversificate.
5. LE LEGGI REGIONALI
Tale fonte rappresenta una delle più importanti innovazioni introdotte dalla Costituzione
repubblicana, in quanto nell’ordinamento albertino l’unico soggetto dotato di potere legislativo
era lo Stato.
La potestà legislativa regionale si suddivide in tre categorie: a)esclusiva; b) concorrente;
c) integrativa.
La competenza esclusiva è attribuita alle sole Regioni a statuto speciale, nelle materie
determinate dai rispettivi Statuti.
Le leggi concorrenti riguardano materie per le quali lo Stato detta i principi fondamentali
con legge, mentre le Regioni possono svolgerli mediante leggi proprie. La legge n. 62/1953
prescriveva che tali leggi regionali potessero essere adottate solo dopo l’approvazione, da parte
dello Stato, di leggi c.d. cornice. Per contro, la legge n. 281 del 1970 consente alle Regioni di
legiferare anche in assenza di leggi cornice, ma sempre nell’ambito dei principi fondamentali
quali si desumono dalle legge vigenti.
Le leggi integrative sono leggi regionali mediante le quali le Regioni applicano leggi statali concernenti determinate materie, In sostanza, dal punto di vista formale sono leggi, ma il
loro contenuto è simile ai regolamenti.
Ricordiamo infine che il Consiglio regionale, oltre ad esercitare la potestà legislativa descritta sopra, esercitava anche le potestà regolamentari attribuite alla Regione. Così stabiliva
l'art. 121 Cost. nel testo approvato dalla Costituente. La situazione è cambiata con la legge
costituzionale 22 novembre 1999, n. 1 (elezione diretta del Presidente della Giunta regionale).
Tale legge ha soppresso la potestà regolamentare del Consiglio regionale ed ha sostituito il 4°
comma dell'art. 121, così che attualmente il Presidente della Giunta non promulga più i regolamenti regionali, ma li emana.
6. I REGOLAMENTI GOVERNATIVI
Il potere regolamentare dell’esecutivo trovò una prima dettagliata disciplina con la legge
31 gennaio 1926 n. 100 (v. Parte prima, Capitolo secondo, punto 6).
La Costituzione ne fa un rapido cenno all’art. 87, 5° comma.
La materia è stata regolata dall’art. 17 della legge n. 400/1988 (4) .
Va ricordato che l’art. 13 della legge 15 marzo 1997 n. 59 ha aggiunto all’art. 17 della
legge 400/88 - un comma relativo ai regolamenti per l’organizzazione e la disciplina degli uffici
dei Ministeri.
(4) Con decreto del Presidente della Repubblica, previa deliberazione del Consiglio dei Ministri, sentito il parere del Consiglio di Stato
che deve pronunziarsi entro novanta giorni dalla richiesta, possono essere emanati regolamenti per disciplinare:
- l’esecuzione delle leggi e dei decreti legislativi;
- l’attuazione e l’integrazione delle leggi e dei decreti legislativi recanti norme di principio, esclusi quelli relativi a materie riservate
alla competenza regionale;
- le materie in cui manchi la disciplina da parte di leggi o di atti aventi forza di legge, sempre che non si tratti di materie comunque
riservate alla legge;
- l’organizzazione ed il funzionamento delle amministrazioni pubbliche secondo le disposizioni dettate dalla legge;
- l’organizzazione del lavoro ed i rapporti di lavoro dei pubblici dipendenti in base agli accordi sindacali.
Con decreto del Presidente della Repubblica, previa deliberazione del Consiglio dei Ministri, sentito il Consiglio di Stato, sono
emanati i regolamenti per la disciplina delle materie, non coperte da riserva assoluta di legge prevista dalla Costituzione, per le quali
le leggi della Repubblica, autorizzando l’esercizio della potestà regolamentare del Governo, determinano le norme generali regolatrici
della materia e dispongono l’abrogazione delle norme vigenti, con effetto dall’entrata in vigore delle norme regolamentari.
Con decreto ministeriale possono essere adottati regolamenti nelle materie di competenza del Ministro o di autorità sottordinate al
Ministro, quando la legge espressamente conferisca tale potere.
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Attualmente dunque l'organizzazione e la disciplina degli uffici dei Ministeri sono determinate, con regolamenti emanati su proposta del Ministro competente d’intesa con il Presidente
del Consiglio dei ministri e con il Ministro del tesoro, nel rispetto dei principi posti dal decreto
legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, e successive modificazioni, con i contenuti e con l’osservanza dei criteri che seguono: a) riordino degli uffici di diretta collaborazione con i Ministri ed i
Sottosegretari di Stato, stabilendo che tali uffici hanno esclusive competenze di supporto dell’organo di direzione politica e di raccordo tra questo e l’amministrazione; b) individuazione degli
uffici di livello dirigenziale generale, centrali e periferici, mediante diversificazione tra strutture
con funzioni finali e con funzioni strumentali e loro organizzazione per funzioni omogenee e
secondo criteri di flessibilità eliminando le duplicazioni funzionali; c) previsione di strumenti di
verifica periodica dell’organizzazione e dei risultati; d) indicazione e revisione periodica della
consistenza delle piante organiche; e) previsione di decreti ministeriali di natura non regolamentare per la definizione dei compiti delle unità dirigenziali nell’ambito degli uffici dirigenziali
generali.
7. FORZA, EFFICACIA E VALORE DI LEGGE
La legge n. 100 del 1926, codificando la tradizione precedente, stabiliva che con decreto
reale potevano emanarsi norme “aventi forza di legge”. E l’art. 77 Cost. prevede che i provvedimenti provvisori adottati dal Governo (e cioè i decreti-legge) abbiano “forza di legge”.
E’ noto che il concetto di forza di legge è attualmente sottoposto a profonde revisioni
critiche, anche a seguito della mutata collocazione della legge nel sistema delle fonti. Nel passato, la legge era l’atto sovrano per eccellenza, alla cui luce veniva qualificata ogni attività pubblica o privata. La legge era altresì la fonte a competenza tendenzialmente illimitata, rispetto
alla quale le altre fonti si trovano su posizione di (relativa) parità o di subordinazione, mai di
superiorità o di separazione materiale.
Il vigente sistema costituzionale rigido e pluralistico ha messo in crisi due dei concetti
chiave della teoria tradizionale delle fonti: il criterio della assoluta supremazia formale della
legge e la scala gerarchica delle fonti secondo forza formale, che su quella supremazia si incontrava. E - sia detto incidentalmente -non è certo un fatto casuale che la predetta crisi della forza
di legge abbia accompagnato, cronologicamente, il superamento del “mito” della sovranità del
Parlamento e l’insorgenza della c.d. crisi delle istituzioni parlamentari.
Per quanto ci interessa, la forza di legge può essere tuttora definita come la caratteristica
di una norma (rectius: una fonte) abilitata a prevalere - nella duplice estrinsecazione attiva e
passiva - sia su quelle precedentemente emesse nelle stesse forme, sia sugli atti di qualsiasi altra
volontà statale che non sia la volontà costituente o di revisione costituzionale.
Nell’ordinamento vigente, una norma legislativa può essere caducata, come è noto, non
soltanto ad opera di una norma legislativa posteriore e di contenuto contrario, ma anche a
seguito di una sentenza di illegittimità costituzionale pronunciata dalla Corte costituzionale
(vedi art. 136 Cost.) o mediante referendum abrogativo (vedi art. 75 Cost.).
8. LE RISERVE DI LEGGE NELLA COSTITUZIONE
La Costituzione italiana prevede numerose riserve di legge, in alcuni casi trattasi di riserve
assolute (ad es. art. 95: “La legge provvede all’ordinamento” ecc.); in altri casi, relative (ad es.
art. 23: “in base alla legge”, o art. 97: “secondo disposizioni di legge”).
Quale è la ratio di tali riserve di legge, soprattutto sotto l’angolo visuale del rispetto dei
diritti e delle libertà dei cittadini?
Secondo alcuni autori la riserva di legge andrebbe configurata in primo luogo come forma
di garanzia della minoranza contro la maggioranza; in secondo luogo come impedimento al
legislatore di far sì che i suoi atti eludano i limiti derivanti dal trattamento al quale sono assog52
gettati, per cui essa costituirebbe uno strumento rivolto ad assicurare una obiettiva tutela della
Costituzione.
Se dunque la riserva di legge costituisce, in primo luogo, una forma di garanzia della
minoranza nei confronti della maggioranza, è evidente che tale garanzia non sarebbe rispettata
ove nelle materie riservate intervenissero regolamenti o atti amministrativi, perché alla formazione di tali atti - data la monotitolarità della funzione amministrativa - le minoranze non contribuiscono in maniera istituzionalizzata ed efficace.
Diversamente accade allorché a disciplinare una materia sia il Parlamento: non solo infatti
le minoranze hanno modo di farsi ascoltare e di pubblicizzare le loro tesi, ma talvolta anche la
maggioranza parlamentare non sente all’unisono con il Governo, dissentendo da questo su aspetti
non marginali dei provvedimenti in discussione. L’intervento del Parlamento pertanto costituisce sempre una forma di garanzia per le opposizioni, una pubblicizzazione delle decisioni e
quindi uno strumento di democrazia.
Per quanto attiene al secondo scopo, che sarebbe proprio della riserva di legge (e cioè
quello di assicurare una obiettiva tutela della Costituzione), sembra che esso sia garantito dagli
atti aventi forza di legge all’incirca nella stessa misura della legge ordinaria.
Occorre riflettere se alla riserva di legge non siano da riconoscere altre funzioni rispetto a
quelle sopra indicate. Si potrebbe ritenere ad esempio che la riserva di legge sia specificamente
destinata ad assicurare una forma di garanzia per l'individuo. E’ probabile che la riserva abbia
anche tale scopo. Resterebbe però da accertare se tale garanzia si realizzi per il solo fatto che
l’atto legislativo proviene dal Parlamento, indipendentemente dal suo contenuto; o se tale garanzia si realizzi per il fatto che l’atto legislativo, da qualunque organo provenga, abbia quel
determinato contenuto prescritto dalla Costituzione e sia stato formato (in certi casi) tramite
una congrua consultazione degli interessi colpiti dall’atto stesso. In altre parole: nelle Costituzioni contemporanee, l’individuo è garantito nei suoi beni giuridici per il solo fatto che l’atto
legislativo proviene dal Parlamento, inteso come l’organo immediatamente e direttamente rappresentativo della volontà popolare e come tale rigoroso guardiano delle libertà e dei diritti dei
cittadini nei confronti degli altri organi dello Stato (e in particolare nei confronti dell’esecutivo);
oppure dal fatto che l’atto legislativo ha un determinato contenuto e si è formato tramite un
certo procedimento, indipendentemente dall’organo di provenienza?
Sembra che la giusta risposta da dare al suddetto quesito sia la seconda (ripetiamo: alla
luce delle Costituzioni contemporanee, e senza voler escludere che la risposta possa o debba
essere diversa in relazione ad altre epoche storiche). E’ noto infatti che, soprattutto in ordine alle
c.d. leggi-provvedimento, la provenienza dell’atto legislativo dal Parlamento non è, di per sé, condizione sufficiente ad assicurare che l’atto legislativo approvato sia rispettoso di tutte le condizioni
(sostanziali e procedurali) poste dalla Costituzione a presidio dei beni giuridici del cittadino.
Per le considerazioni suesposte, è possibile affermare che l’intervento di atti legislativi del
Governo anche in quelle materie che sono espressamente riservate alla legge, non costituisce
una deviazione rispetto a quello che si può definire l’ordinamento democratico delle fonti, ove si
tenga conto della suddetta evoluzione subita dal concetto di riserva di legge e anche del fatto che
gli atti legislativi sono sottoposti, nell’ordinamento vigente, ad un sindacato giurisdizionale
suscettibile di spingersi assai in profondità nel giudizio sulla legittimità del contenuto dell’atto.
Pertanto, anziché affermare che l’intervento del decreto-legge è sempre ammesso o è sempre vietato nelle materie riservate alla legge, occorre vagliare volta per volta quale sia la ratio
della singola riserva e decidere quindi sull’ammissibilità o meno dell’intervento del decretolegge: ove la ratio della riserva non sia chiaramente e manifestamente ostativa, l’intervento del
decreto-legge nelle materie riservate è da ritenere consentito.
La validità di tale criterio tendenziale e di massima sembra confermata dal seguente ragionamento per assurdo: se il decreto-legge non potesse disciplinare assolutamente quei rapporti,
per i quali la Costituzione ha previsto una riserva di legge, la funzione del decreto-legge sarebbe
assai compromessa, se non vanificata addirittura. Si pensi, ad esempio, che la maggior parte dei
decreti-legge impone ai contribuenti degli oneri finanziari, oppure incide sull’ordinamento dei
pubblici uffici, disponendo mutamenti di procedure, spostamenti di competenza da un ufficio
53
all’altro, ecc. Ebbene, sia la materia della imposizione patrimoniale obbligatoria,, sia la materia
dei pubblici uffici è riservata (in via relativa) alla legge (art. 23 e 97 Cost.): se il decreto-legge non
potesse intervenire su tali materie avrebbe perduto quasi interamente la sua ragione di essere.
Osserviamo da ultimo che la Costituzione italiana vigente prevede numerosi casi di riserva
di legge, ma non anche “riserve di regolamento” analoghe a quelle contenute nella Costituzione
francese del 1958.
Per quanto attiene al citato ordinamento francese, occorre peraltro tener presente che il
sistema delle fonti sancito dagli articoli 34, 37 e 38 di tale Costituzione si è evoluto rispetto a
quanto stabilito dalla lettera degli articoli stessi (5).
9. LEGGE E DIRITTO
E’ stato osservato giustamente che nel lessico delle fonti vigenti, il vocabolo “legge” quando non è accompagnato da aggettivi o complementi di specificazione ("legge costituzionale",
"legge dello Stato", "legge regionale", etc.) sembra usato in almeno tre sensi diversi (6).
a. Talvolta, il vocabolo "legge" si riferisce alla legge formale, e ad essa sola. Tra gli esempi
indiscussi si citano: l’esercizio provvisorio del bilancio non può essere concesso se non dalla
legge formale (art. 81, II c.), i rapporti giuridici sorti sulla base di decreti-legge non convertiti possono essere disciplinati solo dalla legge formale (art. 77 Cost.).
b. Altre volte, il vocabolo "legge" è comunemente inteso in senso più ampio, come riferentesi
non alla sola legge formale, ma a tutti gli atti con forza di legge, e dunque anche al decretilegge, al decreti legislativi delegati, nonché secondo taluni autori al referendum popolare
abrogativo. Così si usa interpretare le clausole costituzionali che istituiscono riserve di legge.
c. Altre volte ancora il vocabolo "legge" sembra riferirsi genericamente al diritto oggettivo o
all’insieme delle sue fonti, senza distinguere tra le leggi propriamente dette e fonti diverse
dalla legge. Sembra essere questo il senso che il vocabolo "legge" assume ad esempio nel
contesto dell’art. 54 Cost. (“Tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica
e di osservarne la Costituzione e le leggi”).
Se, dunque, è senz’altro escluso che tutte le disposizioni che si riferiscono alla "legge"
possano e/o debbano essere intese come riferite non alla legge strettamente intesa, bensì alle
fonti normative in genere, purtroppo, una regola di interpretazione chiara, univoca, e universalmente accettata, per stabilire quale senso assuma di volta in volta il vocabolo in questione, non
esiste. Insomma, ogni tesi in proposito è frutto di interpretazione.
(5) Occorre infatti tener presente i seguenti tre aspetti:
a) il regolamento non ha più un ambito riservato poichè, a poco a poco, le leggi sono intervenute nel suo settore di competenza, e ciò
malgrado che il Conseil constitutionnel debba vigilare sul confine fra le due fonti: il Parlamento, in realtà, d’accordo con il
Governo, ha progressivamente superato questo confine e le procedure previste per impedire tali violazioni non sono state efficaci.
Infatti, il procedimento previsto dall’articolo 41 della Costituzione e destinato a far sanzionare dal Conseil constituttionnel il
mancato rispetto dell’articolo 34 nella fase del voto della legge è praticamente caduto in desuetudine a partire dagli anni settanta;
b) esiste una decisione di principio del Conseil constitutionnel del 30 luglio 1982, secondo la quale il mancato rispetto della ripartizione
delle competenze da parte del legislatore non origina un vizio di incostituzionalità;
c) il regolamento così detto autonomo deve, sempre più spesso, rispettare la legge a rischio di essere invalidato. Infatti, sia il Conseil
constitutionnel sia il Consiglio di Stato hanno stabilito che i regolamenti di qualsiasi tipo, anche quelli che possono essere considerati
“autonomi”, devono rispettare le leggi, le quali invadono sempre più l’ambito che era a loro riservato. Come i regolamenti di
esecuzione delle leggi, i regolamenti autonomi devono essere conformi alle leggi.
La evoluzione del sistema delle fonti in Francia dopo il 1958 conferma, ancora una volta, che anche nello studio delle Costituzioni
occorre valutare l’applicazione concreta ricevuta dalle norme, più che la lettera delle disposizioni stesse.
(6) Cfr. R. Guastini, Teoria e dogmatica delle fonti, Milano, 1998, 85 ss.
54
10. I TESTI UNICI
Prescindendo qui da complesse disquisizioni di teoria generale - per le quali si rinvia alla
dottrina che se ne è occupata -, ritengo sia da accettare la impostazione di Esposito per il quale
“il Testo unico, sostituendo una legge unitaria ad una molteplicità di leggi, non può che mostrare divergenze dal diritto preesistente".
La tesi di Esposito può svelare a pieno i rischi della distinzione, un tempo consolidata
(anche) per i costituzionalisti, tra fonti di produzione e fonti di cognizione. Anzi la tesi di
Esposito sembra persino anticipare a tratti, sul piano più generale, le tesi più radicali, ormai
diffuse in dottrina, per cui ogni attività di interpretazione del diritto, e dunque di (ri)cognizione
dello stesso, quand’anche continui ad essere classificata tale, reca in sé inevitabilmente un quid
novum.
Inoltre, la tesi di Esposito sembra cogliere un’innegabile realtà che emerge da qualsiasi
testo unico: parrebbe arduo negare che, quando pure nella redazione del testo unico ci si limitasse a rimettere in fila le disposizioni contenute all’origine in diverse leggi o atti pubblici, lasciando formalmente intonsa ciascuna di esse (e magari esplicitando nel medesimo testo unico, come
avviene talvolta, la loro provenienza), questa semplice operazione sarebbe sufficiente a
dischiudere, per chi quelle disposizioni debba interpretare, nuovi orizzonti quanto alle loro
reciproche implicazioni ed al complesso sistematico che ne discende; e, del resto, se così non
fosse, se l’unificazione o il coordinamento di diverse disposizioni non mutasse davvero in nulla
il loro significato per l’interprete, la redazione del testo unico sarebbe inutile o vana.
La giurisprudenza della Corte costituzionale è stata abbastanza oscillante, forse perchè
non ha mai voluto prendere una posizione precisa al riguardo.
All'inizio, la Corte costituzionale adotta la distinzione tra testi unici autorízzati e testi
unici delegati.
Infatti con la sentenza 17 aprile 1957, n. 54 afferma: «Per quanto ormai la complessità
delle leggi renda poco facile, in pratica, la formazione di un testo unico se al Governo non sia
conferito il potere di modificare ed integrare le norme da coordinare e riunire, tuttavia resta
esatta la distinzione dei testi unici in due categorie: quelli che per la loro formazione non richiedono esercizio di potestà legislativa delegata e quelli che sono vere e proprie leggi delegate.
Stabilire a quale delle due categorie appartenga un determinato testo unico è cosa che deve
essere esaminata alla stregua della norma in base alla quale il testo unico è stato emanato.
Bisogna vedere se tale norma contiene una delega legislativa, nel qual caso il Governo riceve
facoltà di modificare, integrare, coordinare le norme vigenti, o se quella norma conferisce una
autorizzazione alla formazione del testo unico. Com’è noto, la differenza fondamentale tra i due
tipi di testi unici è che, mentre nel testo unico emanato nell’esercizio di poteri legislativi delegati
il testo unico è una vera e propria legge delegata, nel testo unico di mera compilazione la forza
di legge delle singole norme, raccolte nel testo unico, resta sempre ancorata alle leggi dalle quali
le norme stesse sono tratte».
E ancora (23 giugno 1964, n. 57): La questione sollevata muove evidentemente
dall’accoglimento dell’opinione, rappresentata da larga parte della dottrina, secondo la quale
ogni specie di testo unico la cui formazione sia avvenuta in virtù di apposita autorizzazione
legislativa viene ad essere necessariamente rivestito della forza di legge, quale che sia l’entità
degli adattamenti e variazioni del tenore originario delle norme da unificare, che ogni attività
rivolta a tale unificazione di per sé implica, e quindi rimane subordinata alle condizioni poste
dalla Costituzione per la valida emanazione degli atti governativi forniti di tale efficacia.
La Corte con sue precedenti pronunce ha ritenuto che tale orientamento dottrinale non
fosse da accogliere e che invece forza di legge possono venire ad assumere solo quelli fra i testi
unici i quali non si limitano ad operare un mero coordinamento fra le norme da riunire, ma siano
abilitati ad apportare innovazioni o integrazione alle norme stesse. La Corte non rinviene motivi
che la inducono a discostarsi dalla sua costante giurisprudenza.
Comunque la Corte prima ha ritenuto che i Testi Unici amministrativi non potessero essere
oggetto del giudizio di legittimità costituzionale, poi, con la sentenza n.166 del 1990, ha affermato il principio secondo cui la legge di autorizzazione a formare un Testo Unico non differisce
55
da una vera e propria delega legislativa sempre che siano rispettati i presupposti procedurali,
vale a dire che la legge di autorizzazione sia stata approvata non in Commissione ma in sede di
Assemblea, nel rispetto dell’art. 72, ultimo comma Cost.. Con la sentenza citata, la Corte costituzionale ha ammesso a giudizio di costituzionalità un T.U. compilativo emanato dal Presidente
della Regione Sicilia, in quanto l'articolo impugnato costituiva la testuale trascrizione di una
norma legislativa statale.
Attualmente si discute - in dottrina - e nelle aule parlamentari sulla opportunità di approvare una legge sui testi unici (7).
Al fine di rendere permanente il “consolidamento” della legislazione in vigore, sarebbe
opportuna l’adozione di una “norma sulla normazione”, cioè di una specifica legge che regoli il
procedimento e l’efficacia dei testi unici di coordinamento?
Questa scelta preliminare pone il problema del livello normativo in cui debba situarsi la
metanorma sul consolidamento della legislazione vigente. A tale riguardo, sono due le possibili
opzioni: intervenire a livello costituzionale, attribuendo in via permanente al Governo una generale competenza ad approvare testi unici di coordinamento con forza di legge; ovvero utilizzare
le procedure già esistenti della delega legislativa conferita di volta in volta su specifiche materie.
La prima ipotesi risulterebbe senza dubbio più efficace, ed è peraltro già presente nella
Costituzione della Grecia. Nel medesimo modo in Grecia si procede altresì al consolidamento
delle leggi esistenti.
In altri Paesi tuttavia si è provveduto senza incidere sulla normativa costituzionale. E’
questo il caso della Francia, dove il Governo attua la codificazione formale dei testi legislativi
avvalendosi della Commission supérieure de codification presieduta dal Primo ministro ed
istituita per l’appunto al fine di programmare e coordinare la redazione di codici settoriali; il
testo dei codici così compilati viene poi sottoposto, per la parte legislativa, alle Camere, che di
fatto sino ad oggi non sono intervenute sui singoli articoli, limitandosi ad una “convalida”
globale del testo. Anche nel Regno Unito il consolidamento della legislazione vigente (statute
law) avviene tramite la Law Commission, istituita con legge del 1965, che programma e prepara, direttamente o sotto la propria responsabilità, i testi di consolidamento; questi ultimi vengono quindi trasmessi al Parlamento a cura del Lord Cancelliere, e il Parlamento li esamina con
una procedura semplificata.
La via della legge ordinaria è dunque perseguita in taluni ordinamenti stranieri. A mio
avviso, anche in Italia sarebbe opportuna e sufficiente una legge generale su come formare i
Testi Unici.
Particolare attenzione merita intanto l'art. 7 della legge 8 marzo 1999, n. 50, in tema di
delegificazioni e testi unici di norme concernenti procedimenti amministrativi. Legge di semplificazione 1998 (c.d. Bassanini quater).
In questa sede riportiamo i commi 5 e 6 di detto articolo, che recitano come segue.
Il Governo può demandare la redazione degli schemi di testi unici ai sensi dell’articolo 14,
2°, del testo unico delle leggi sul Consiglio di Stato, approvato con regio decreto 26 giugno
1924, n. 1054, al Consiglio di Stato, che ha la facoltà di avvalersi di esperti, in discipline non
giuridiche, in numero non superiore a cinque, scelti anche tra quelli di cui al comma 1 dell’articolo 3 della stessa legge. Sugli schemi redatti dal Consiglio di Stato non è acquisito il parere
dello stesso previsto ai sensi dell’articolo 16, primo comma, 3°, del citato testo unico n. 1054
del 1924, dell’articolo 17, comma 25, della legge 15 maggio 1997, n. 127, e del comma 4 del
presente articolo. Le disposizioni contenute in un testo unico non possono essere abrogate,
derogate, sospese o comunque modificate se non in modo esplicito, mediante l’indicazione precisa delle fonti da abrogare, derogare, sospendere o modificare. La Presidenza del Consiglio dei
ministri adotta gli opportuni atti di indirizzo e di coordinamento per assicurare che i successivi
interventi normativi incidenti sulle materie oggetto di riordino siano attuati esclusivamente mediante la modifica o l’integrazione delle disposizioni contenute nei testi unici.
(7) In dottrina vedi da ultimo F. Mautino - R. Pagano, Testi unici. La teoria e la prassi, Milano 2000.
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CAPITOLO TERZO
PRINCIPI FONDAMENTALI DELLA COSTITUZIONE DIRITTI E DOVERI DEI CITTADINI
1. I PRINCIPI FONDAMENTALI
L’art. 1 sancisce chiaramente il principio democratico. Infatti il secondo comma stabilisce
che “La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”.
Con l’art. 2, la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come
singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento
dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.
Da notare che il riconoscimento dei diritti inviolabili dell’uomo, non solo come singolo, ma
anche “nelle formazioni sociali” costituisce un salto di qualità rispetto al costituzionalismo
ottocentesco, che riconosceva (almeno in parte) i diritti dei singoli come tali, ma ignorava (quando
non ostacolava) il sorgere delle formazioni sociali che si ponevano tra l'individuo e lo Stato.
L’aggiunta dei “doveri inderogabili” accanto ai diritti fu dovuta alla tenace insistenza
dell’on. Ruini.
L’art. 3 non si limita a stabilire la eguaglianza formale di tutti i cittadini davanti alla legge
(1° comma); questo tipo di eguaglianza si trova anche in molte costituzioni dell’800, ma aggiunge (2° comma) - e questo è un elemento di forte novità - che lo Stato ha il compito di
rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.
L’art. 4 riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro (c.d. principio lavorista).
Il lavoro richiamato dalla Costituzione non è tanto strumento per il conseguimento dei
mezzi di sussistenza, quanto strumento necessario per l'affermazione della personalità.
In base all’art. 5 la Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie
locali.
L’unità e l’indivisibilità della Repubblica impediscono certamente, a Costituzione vigente,
che possa riconoscersi il diritto di secessione dal territorio nazionale a questa o quella parte del
Paese.
L’art. 6 tutela le minoranze linguistiche.
Recentemente è stata promulgata la legge 15 dicembre 1999, n. 482, sulla tutela delle
minoranze linguistiche storiche. La legge - premesso che la lingua ufficiale della Repubblica è
l’italiano - afferma che, in attuazione dell’art. 6 Cost. e in armonia con i principi generali
stabiliti dagli organismi europei e internazionali, la Repubblica tutela la lingua e la cultura delle
popolazioni albanesi, catalane, germaniche, greche, slovene e croate e di quelle parlanti il francese, il franco-provenzale, il friulano, il ladino, l’occitano e il sardo.
57
L’art. 7 regola i rapporti tra lo Stato e la Chiesa cattolica. Questo articolo dette luogo ad
una lunga e appassionata discussione in seno all'Assemblea costituente (vedi seduta del 25
marzo 1947). Stabilisce dunque l’art. 7 Cost. che lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno
nel proprio ordine, indipendenti e sovrani. I loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi. Le
modificazione dei Patti, accettate dalle due parti, non richiedono procedimento di revisione
costituzionale. Infatti nel 1984, dopo un lungo periodo di gestazione, sono state approvate
consensualmente le modifiche alle norme del Concordato del 1929. E’ superfluo sottolineare
che le modifiche al testo originario del Concordato sono state rese possibili in virtù di un processo di maturazione civile e religiosa del popolo italiano favorito prima dalla Costituente e poi dal
Concilio Vaticano II. Le modifiche sono state approvate dal Parlamento italiano a larghissima
maggioranza (vedi legge 25 marzo 1985, n. 121).
L’art. 8 Cost. - premesso al primo comma che tutte le confessioni religiose sono ugualmente libere davanti alla legge - stabilisce poi che le confessioni religiose diverse dalla cattolica
hanno diritto di organizzarsi secondo i propri statuti, in quanto non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano. I loro rapporti con lo Stato sono regolati per legge sulla base di intese
con le relative rappresentanze. (1)
L’art. 9 garantisce lo sviluppo della cultura e della ricerca scientifica.
L’art. 10 stabilisce il c.d. adattamento automatico dell’ordinamento italiano al diritto internazionale generalmente riconosciuto.
Importante è la statuizione, contenuta nell'art. 10, in base alla quale lo straniero al quale
sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite
dalla legge. Non è ammessa l'estradizione dello straniero per reati politici.
V. anche la legge costituzionale 21 giugno 1967, n. 1 ("estradizione per i delitti di genocidio").
L’art. 11 consente, alle condizioni e per le finalità ivi indicate, alle limitazioni di sovranità
nazionale.
In realtà il citato art. 11 ha una pluralità di contenuti. Esso stabilisce infatti che l'Italia
ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle
limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le
Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.
L’art. 12 Cost. tratta della bandiera nazionale. Come è noto, la bandiera della Repubblica
è il tricolore italiano: verde, bianco e rosso, a tre bande verticali di eguali dimensioni.
2. I DIRITTI E DOVERI DEI CITTADINI
Sono stabiliti in maniera dettagliata dalla Parte prima della Costituzione.
Il titolo I (Rapporti civili) tratta della libertà personale, della inviolabilità del domicilio,
della libertà e segretezza della corrispondenza, della libertà di circolazione e soggiorno, del
diritto di riunione e di quello di associazione, del diritto di professare liberamente la propria
fede religiosa, del diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero, della tutela della cittadinanza, del diritto di difesa in giudizio, del c.d. principio di legalità, della estradizione, della
responsabilità penale e della responsabilità dei pubblici dipendenti.
Il titolo II (Rapporti etico-sociali) riconosce i diritti della famiglia, stabilisce i diritti e i
doveri dei genitori, tutela la salute, garantisce la libertà dell’arte e della scienza e il diritto
all’istruzione.
(1) Dal 1990 al 31.12.1999 sono state approvate le seguenti leggi per regolare i rapporti tra lo Stato e le varie confessioni religiose diverse
dalla cattolica:
- Chiesa avventista L. n. 637 del 20.12.96 (G.U. 299 del 21.12.96);
- Chiesa evangelica luterana in Italia (CELI) L. n. 520 del 29.11.95 (G.U. 286 S.O. dei 7.12.95);
- Unione cristiana evangelica battista d’Italia (UCEBI) L. n. 116 del 12.4.95 (G.U. 94 S.O. del 22.4.95);
- Tavola valdese L. n. 409 del 5.10.93 (G.U. 293 dell’1 I. 10. 93);
- Comunità ebraiche L. n. 638 del 20.12.96 (G.U. n. 299 del 21.12.96).
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Il titolo III (Rapporti economici) tratta della tutela del lavoro e dei lavoratori, dell’organizzazione sindacale, del diritto di sciopero, dell’iniziativa economica privata e della proprietà
pubblica e privata, della tutela del risparmio.
In ordine allo sciopero, è intervenuta dapprima la Corte costituzionale, che ha dichiarato la
illegittimità di varie disposizioni limitative del diritto. Poi è stata approvata la l. 12 giugno
1990, n. 146, che, relativamente all'esercizio del diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali, ha previsto taluni obblighi relativi al necessario preavviso dello sciopero ed alle prestazioni
minime indispensabili per assicurare il rispetto dei suddetti diritti. Inoltre è stato disciplinato
l’istituto della precettazione, qualora vi fosse un fondato pericolo di pregiudizio grave ed imminente a tali diritti.
L'applicazione di tale legge ha visto emergere, accanto alla conferma della validità di
alcune scelte e di talune norme a suo tempo adottate, nuovi e problematici aspetti, soprattutto a
causa della carenza di strumenti tesi a prevenire e a raffreddare i conflitti. Così dopo una laboriosa gestazione, è stata approvata una legge di modifica e integrazioni della legge n. 146/1990
(vedi legge 11 aprile 2000, n. 83, in G.U. 11 aprile 2000, n. 85).
Aspetto essenziale della nuova legge è il significato che si assegna al momento della prevenzione, alla conciliazione ed al raffreddamento dei conflitti.
Gli accordi ed i contratti collettivi devono individuare i servizi indispensabili e gli intervalli minimi tra scioperi proclamati, soprattutto quando incidono sul servizio finale o sullo stesso
bacino di utenza: si mira in tal modo ad impedire quello che viene definito «l’effetto annuncio»,
con le conseguenti revoche tardive e repentine degli scioperi, pratica che viene intesa come
sleale azione sindacale. Inoltre il sistema sanzionatorio è stato reso più robusto ed efficace nelle
misure di irrogazione ed applicazione delle sanzioni pecuniarie ed amrninistrative.
Appaiono, inoltre, rafforzati il ruolo e la funzione della commissione di garanzia, di cui
alla legge n. 146 del 1990, sia nella ricerca di accordi preventivi, che nel dettare norme di
regolamentazione, laddove queste manchino o risultino palesemente carenti o insufficienti.
Un'altra novità della legge è questa: i lavoratori autonomi, gli ordini professionali, i piccoli
imprenditori sono interessati dagli stessi principi della legge n. 146 del 1990. Quindi lavoratori
autonomi e professionisti insieme a lavoratori dipendenti.
Una critica rivolta alla nuova legge è che essa realizzerebbe una eccessiva invadenza della
norma rispetto alle possibilita di confronto tra le parti sociali: qualcuno ha affermato che si
passerebbe da una disciplina di carattere consensualistico ad un’altra caratterizzata da eccessiva rigidità legislativa (2).
In ordine all'art. 41 cost. la Corte costituzione ha precisato più volte (ad es. 14 giugno
1962, n. 54) che l'art. 41 va considerato nel suo complesso, vale a dire con l’indispensabile
riferimento non solo al primo, ma anche agli altri due commi, e in modo particolare al terzo.
Non è dubbio che il principio della libera iniziativa economica privata sia nettamente riaffermato
nel primo comma dell’art. 41, però con i limiti fissati dal secondo e terzo comma.
Anche l'art. 42 cost. è stato oggetto di numerose sentenze della Corte costituzionale. Ai
nostri fini è sufficiente riportare la n. 55 del 29 maggio 1968.
(2) Le luci e le ombre della nuova legge appaiono chiaramente dall'intervento del Sen. Smuraglia nella seduta pomeridiana del Senato
del 4 aprile 2000. Egli ha affermato tra l'altro: «Questo disegno di legge, così come verrà approvato tra poco da noi, ha bisogno
soprattutto di non essere caricato di troppe aspettative (né in senso positivo né in senso negativo) né di troppo disprezzo (...). Non
è pensabile che esso risolva alla radice tutti i problemi dello sciopero, per la semplice ragione che uno sciopero nei servizi pubblici
un qualche sacrificio lo comporta sempre e necessariamente, in qualunque paese e con qualunque legge. Lo si potrebbe eliminare
soltanto se si decidesse di eliminare il diritto di sciopero; il che, deve essere ben chiaro, non è possibile, dal momento che si tratta
di un diritto scritto nella Costituzione e, per tutti noi, assolutamente ineliminabile.
Ciò che invece si ritiene di combattere con questo provvedimento è l’abuso di un diritto, è la compressione dei diritti dei
cittadini, i quali, a loro volta, hanno interessi da tutelare che debbono essere rispettati (...). Non credo che ci sia nulla di liberticida
in una legge come questa, non credo che essa sfiori nemmeno lontanamente il diritto di sciopero per ciò che è intangibile: il
contenuto, la soggettività e la titolarità; credo che affronti - vedremo nel tempo se lo avrà fatto in termini definitivi o no - il
problema del contemperamento di diritti ugualmente meritevoli di rispetto. D’altra parte, metter mano a quest’opera dopo dieci
anni di sperimentazione di una legge che era stata molto tormentata e tribolata, mi sembra che sia un dovere a cui tutti noi dovevamo
attendere».
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Precisa dunque la Corte che la garanzia della proprietà privata è condizionata, nel sistema
della Costituzione, dagli artt. 41 al 44, alla subordinazione a fini, dichiarati ora di utilità sociale, ora di funzione sociale, ora di equi rapporti sociali, ora di interesse ed utilità generale. Ciò
con maggiore ampiezza e vigore di quanto è stabilito dagli artt. 832 e 845 del cod. civ., i quali,
per il contenuto del diritto di proprietà fondiaria in particolare, richiamano, rispettivamente, i
limiti e gli obblighi stabiliti « dall’ordinamento giuridico » e le regole particolari per scopi di
pubblico interesse.
Secondo i concetti, sempre più progredienti, di solidarietà sociale, resta escluso che il
diritto di proprietà possa venire inteso come dominio assoluto ed illimitato sui beni propri,
dovendosi invece ritenerlo caratterizzato dall’attitudine di essere sottoposto, nel suo contenuto,
ad un regime che la Costituzione lascia al legislatore di determinare.
Il titolo IV (Rapporti politici) garantisce il diritto di voto, il diritto dei cittadini di associarsi in partiti , il diritto dei cittadini di accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in
condizioni di eguaglianza, la difesa della Patria come sacro dovere del cittadino, l’obbligo di
tutti di concorrere alle spese pubbliche in ragione della propria capacità contributiva e - quasi
come “norma di chiusura” - il dovere di tutti i cittadini di essere fedeli alla Repubblica e di
osservarne la Costituzione e le leggi.
Sul principio costituzionale della uguaglianza del voto, va ricordata una perspicua sentenza della Corte cost., secondo la quale (11 luglio 1961, n. 43), l’esigenza sancita dall’art. 48
della Costituzione - che il voto, oltre che personale e segreto, deve essere anche eguale - riflette
l’espressione del voto, nel senso che ad essa i cittadini addivengono in condizioni di perfetta
parità, non essendo ammesso né il voto multiplo, né il voto plurimo. Ciascun voto quindi, nella
competizione elettorale, contribuisce potenzialmente e con pari efficacia alla formazione degli
organi elettivi dell’amininistrazione locale. Ma il principio dell’eguaglianza non si estende altresì al risultato concreto della manifestazione di volontà dell’elettore. Risultato che dipende
invece esclusivamente dal sistema che il legislatore ordinario, non avendo la Costituzione disposto al riguardo, ha adottato per le elezioni politiche e amministrative, in relazione alle mutevoli
esigenze che si ricollegano alle consultazioni popolari.
Posto ciò, non si possono fondatamente ritenere in contrasto con l’anzidetta norma della
Costituzione le disposizioni della legge ordinaria che, in casi eccezionali, comminano la nullità
della votazione, facendo venir meno l’efficacia di un certo numero di voti. Questa sanzione è
infatti indubbiamente determinata dalla necessità, rispetto al sistema elettorale adottato, di assicurare, quanto più è possibile, mediante la rigorosa osservanza delle disposizioni della legge, la
regolarità delle relative operazioni e, di riflesso, la libertà e genuinità del voto, che pure rientrano nell'ambito del precetto costituzionale.
Ricordiamo altresì, fra le tante, due sentenze della Corte cost., assai preziose per la interpretazione dell'art. 51 cost..
Con la sentenza 26 marzo 1969, n. 46, la Corte ribadisce che non è vietato alla legge di
stabilire in linea generale ed astratta cause di ineleggibilità per categorie di soggetti che, per gli
uffici ricoperti o per i loro rapporti con il comune, si trovino « in situazioni di incompatibilità
con la posizione di candidati alle elezioni », sia per l’influenza che da quelle circostanze può
derivare sulla libera espressione del voto, sia per l’incidenza che le circostanze medesime possono avere sull’esercizio delle funzioni di consigliere comunale. E' da soggiungere che lo stesso
art. 51, primo comma, nel ribadire, con particolare riguardo all’ammissione ai pubblici uffici e
alle cariche pubbliche elettive, il principio di eguaglianza, riserva alla legge la determinazione
dei requisiti di volta in volta necessari, e questi possono essere tanto positivi quanto negativi,
come appunto il non trovarsi in situazioni del genere di quella cui si è ora accennato.
Ferme restando tali considerazioni, è tuttavia evidente che le cause di ineleggibilità, derogando al principio costituzionale della generalità del diritto elettorale passivo, sono di stretta
interpretazione e devono comunque rigorosamente contenersi entro i limiti di quanto sia ragionevolmente indispensabile per garantire la soddisfazione delle esigenze di pubblico interesse cui
sono preordinate. Per l’art. 51 della Costituzione, l’eleggibilità è la regola, l’ineleggibilità l’eccezione.
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Nella stessa sentenza, la Corte precisa altrsì che il legislatore, nella sua dicrezionalità, può
variamente determinare, purché secondo criteri razionali, la data entro la quale deve verificarsi
la cessazione della causa di ineleggibilità, nei sensi sopra esposti; ma in nessun caso tale data
può essere successiva a quella prescritta per l’accettazione della candidatura, che rappresenta il
primo atto di esercizio del diritto elettorale passivo. Ond'è che, in mancanza di apposite disposizioni, è questo il momento cui deve farsi riferimento.
Anche l’incompatibilità rientra nell’ambito dell’aoplicazione dell’art. 51 cost..
Afferma infatti la Corte costituzionale, (10 giugno 1966, n. 60) se è vero che l'incompatibilità, a differenza dell’ineleggibilità, non incide sul rapporto di elettorato né spiega alcuna
influenza sulla validità dell’elezione, ciò non significa che la sua disciplina non debba conformarsi alla norma contenuta nell’art. 51 della Costituzione, giacché per una evidente ragione
logica non si può ritenere che la Costituzione abbia voluto imporre l’osservanza del principio di
eguaglianza nel momento elettorale e lasciare poi all’arbitrio del legislatore la regolamentazione
dei casi di decadenza dalla carica conseguita attraverso le elezioni. L’art. 51 in verità non ha
altro significato che quello di ribadire con particolare vigore quel principio che già in forza
dell’art. 3 deve informare l’intero ordinamento in tutte le sue manifestazioni, e perciò la norma
non può non riguardare ogni vicenda relativa alla preposizione del cittadino ad una carica
elettiva.
3. IN PARTICOLARE: IL DIRITTO DI VOTO DEI CITTADINI RESIDENTI ALL'ESTERO
Dopo una lunga e laboriosa gestazione (che è durata parecchi anni e che ha dovuto superare molti ostacoli di carattere politico e tecnico), è stata recentemente promulgata la legge
costituzionale 17 gennaio 2000, n. 1, recante modifica all'art. 48 della Costituzione concernente
l'istituzione della circoscrizione Estero per l'esercizio del diritto di voto dei cittadini italiani
residenti all'estero.
Tale legge cost., ha inserito all'art. 48 della Costituzione il seguente comma: "la legge
stabilisce requisiti e modalità per l'esercizio del diritto di voto dei cittadini residenti all'estero e
ne assicura l'effettività. A tale fine è istituita una circoscrizione Estero per l'elezione delle Camere, alla quale sono assegnati seggi nel numero stabilito da norma costituzionale e secondo
criteri determinati dalla legge" (3).
4. SERVIZIO MILITARE E FORZE ARMATE
Con sent. n. 172 del 1999 la Corte costituzionale è tornata sull'obbligo di prestazione del
servizio militare da parte dell'apolide, ribadendo l'infondatezza della questione, in un ordinamen-
(3) In base alla legge costituzionale dunque i cittadini italiani residenti all’estero vengono chiamati a votare nell’ambito di una loro
circoscrizione e non nell’ambito delle circoscrizioni metropolitane. Si tratta ovviamente di una scelta opinabile perché secondo alcuni
sarebbe stato più opportuno rendere effettivo e consentire attraverso idonei strumenti (ad esempio il voto per corrispondenza) l’esercizio del diritto di voto dei connazionali all’estero, nell’arnbito delle circoscrizioni e dei collegi nazionali.
Le ragioni per cui il legislatore ha scelto il collegio "Estero" sono fondamentalrnente due. La prima, diciamo così, è di ordine
pratico-organizzativo; la seconda di ordine politico. La prima consiste nel fatto che il computo dei circa 3 milioni e mezzo di italiani
residenti all’estero nell’ambito dei collegi avrebbe reso necessario una ridefinizione complessiva dei collegi nazionali. In regioni
come l’Abruzzo, il Friuli, la Basilicata, il Veneto, cioè regioni a grande tasso di emigrazione, alcuni collegi sarebbero stati addirittura
raddoppiati ove si fossero computati nel numero dei cittadini residenti coloro che, iscritti alle anagrafi di quel collegio, fossero residenti
all’estero. La seconda considerazione è di carattere politico. La politica è rappresentanza di interessi; ciascuna comunità esprime rappresentanti dei suoi propri interessi; i cittadini residenti all’estero hanno loro propri interessi da tutelare, nei rapporti con gli stati esteri
in cui vivono, con gli uffici dello Stato italiano all’estero, con le ambasciate, con gli uffici consolari. Vi sono problemi che riguardano
la diffusione della lingua e della cultura italiana, l’organizzazione degli istituti di cultura, i rapporti con lo Stato italiano, ad esempio,
nella materia previdenziale.
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mento in cui gli apparati militari non sono finalizzati all'idea di potenza, ma all'idea della garanzia della libertà dei popoli e dell”mtegrità nazionale. L’art. 52 della Costituzione stabilisce in
positivo il dovere del cittadino, ma non circoscrive in negativo l’estensibilità di tale dovere (art.
1, primo comma, lett. c), del d.P.R. 14 febbraio 1964, n. 237). In particolare il legislatore ha
apprestato per l’apolide una disciplina razionale, in quanto per costui non può ipotizzarsi alcun
conflitto di lealtà con diversi Stati e in quanto costui partecipa della comunità dei diritti previsti
dall’art. 2 della Costituzione.
La Corte ha stabilito altresì che la garanzia dei diritti fondamentali di cui sono titolari i
singoli "cittadini militari” non recede di fronte alle esigenze della struttura militare; sì che meritano tutela anche le istanze collettive degli appartenenti alle Forze armate, al fine di assicurare
la conformità dell’ordinamento militare allo spirito democratico. Il rilievo che la struttura militare non è un ordinamento estraneo, ma costituisce un’articolazione dello Stato che in esso vive,
e ai cui valori costituzionali si informa, non consente tuttavia di ritenere illegittimo il divieto
posto dal legislatore per la costituzione delle forme associative di tipo sindacale in ambito
militare. Se è fuori discussione, ifatti, il riconoscimento ai singoli militari dei diritti fondamentali che loro competono al pari degli altri cittadini della Repubblica, è pur vero che in questa
materia non si deve considerare soltanto il rapporto di impiego del militare con la sua amministrazione e, quindi, l’insieme dei diritti e dei doveri che lo contraddistinguono e delle garanzie
(anche di ordine giurisdizionale) apprestate dall’ordinamento. Qui rileva nel suo carattere assorbente il servizio reso in un ambito speciale come quello militare (art. 52 primo e secondo
comma, della Costituzione). Orbene, la declaratoria di illegittimità costituzionaie dell'articolo
nella parte denunciata, aprirebbe inevitabilmente la via a organizzazioni la cui attività potrebbe
risultare non compatibile con i caratteri di coesione interna e neutralità dell’ordinamento militare. Vedi Corte cost. n. 449 del 17 dicembre 1999.
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CAPITOLO QUARTO
IL PARLAMENTO
1. COMPOSIZIONE
Il Parlamento comprende due organi collegiali, la Camera dei deputati ed il Senato della
Repubblica. Le due Assemblee hanno pari attribuzioni (bicameralismo perfetto).
La seduta comune delle due Camere è eccezionale ed è espressamente prevista per l’elezione e il giuramento del Presidente della Repubblica, la nomina di un terzo dei membri della Corte
costituzionale, di un terzo dei membri del Consiglio superiore della Magistratura, la formazione
dell’elenco da cui si sorteggiano i giudici aggregati per i giudizi penali della Corte costituzionale e la messa in stato di accusa del Presidente della Repubblica, per i reati stabiliti dalla Costituzione. In ogni altro caso, ciascuna delle Camere si riunisce separatamente. Nei casi in cui è
prevista la seduta comune, le due Camere si riuniscono a Montecitorio.
Nelle riunioni del Parlamento in seduta comune dei suoi membri si applica normalmente il
Regolamento della Camera (vedi art. 35 Reg. Camera e 65 Reg. Senato, il quale ultimo precisa
espressamente: "Per le sedute in comune delle due Camere si applica il Regolamento della
Camera dei deputati, salva sempre la facoltà delle Camere riunite di stabilire norme diverse").
2. ELETTORATO ATTIVO E PASSIVO
Ai sensi dell’art. 56 (nell’odierna formulazione, dopo la legge costituzionale 9 febbraio
1963 n. 2) la Camera dei deputati, eletta a suffragio universale e diretto, si compone di
seicentotrenta membri. La ripartizione dei seggi tra le circoscrizioni si effettua dividendo il
numero degli abitanti della Repubblica, quale risulta dall’ultimo censimento generale della popolazione, per seicentotrenta e distribuendo i seggi in proporzione alla popolazione di ogni
circoscrizione, sulla base dei quozienti interi e dei più alti resti.
Ai sensi dell’art. 57 nel testo attualmente vigente, il Senato della Repubblica è eletto a base
regionale e si compone di trecentoquindici senatori elettivi. Nessuna Regione può avere un
numero di senatori inferiori a sette, tranne la Valle d’Aosta, che ha un solo senatore e il Molise
che ne ha due. La ripartizione dei seggi tra le Regioni, previa applicazione delle disposizioni
precedenti, si effettua in proporzione alla popolazione delle Regioni, quale risulta dall’ultimo
censimento generale, sulla base dei quozienti interi e dei più alti resti.
Attualmente la Camera dei deputati ed il Senato della Repubblica sono eletti per cinque anni. La
durata di ciascuna Camera non può essere prorogata se non per legge e soltanto in caso di guerra (1).
(1) La Cost. del 1948 stabiliva che la Camera dei deputati fosse eletta per 5 anni e il Senato per 6.
Nell'intenzione dei Costituenti la differenza della durata delle due Camere mirava a dare una diversa consistenza politica a ciascuna
di esse.
Ma la tenue differenza tra i due termini, se pure con lieve diversità nell’elettorato attivo e passivo, e nei sistemi elettorali hanno
tolto ogni ragione di differenziazione tra le Camere stesse. Tanto è vero che nel periodo 1948-1963 (anno in cui la durata delle due
Camere è stata parificata con legge cost. n. 2/1963) anche per motivi pratici, segnatamente economici, la scadenza delle legislature
venne fatta coincidere con il decorso del quinquennio di durata della Camera dei deputati.
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I requisiti per la nomina a senatore e a deputato (c.d. elettorato passivo) sono: possesso dei
diritti politici e compimento, rispettivamente, del quarantesimo e del venticinquesimo anno di
età. Quanto all’elettorato c.d. attivo, per poter essere elettore della Camera dei deputati occorre
aver raggiunto la maggior età (prima determinata al compimento del ventunesimo anno dall’art.
2 c.c., ed ora stabilita al compimento del diciottesimo anno dalla legge 8 marzo 1975 n. 39) alla
data fissata per le elezioni. Elettori del Senato sono coloro che a tale data, abbiano compiuto il
venticinquesimo anno.
Al numero fisso dei senatori elettivi occorre aggiungere i cinque senatori a vita, che il
Presidente della Repubblica può nominare fra i cittadini che abbiano illustrato la Patria per
altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario (attualmente, dicembre 1999,
sono: i sen.ri Bo, Bobbio, Andreotti, Agnelli, De Martino e Taviani) nonché gli ex Presidenti
della Repubblica, che diventano di diritto senatori a vita alla scadenza del loro mandato, salvo
rinunzia (attualmente: Leone, Cossiga e Scalfaro).
Sussistono dubbi, in dottrina, circa la interpretazione dell’art. 59 secondo comma Cost., in
quanto secondo alcuni, ogni singolo Presidente della Repubblica avrebbe il potere di nominare
cinque senatori a vita prescindendo dal numero di senatori già esistenti ed in carica, nominati
dai suoi predecessori. Il problema è tornato di viva attualità sotto la presidenza di Pertini. 1
sostenitori di tale soluzione si basano sulla considerazione che se fosse valida la tesi opposta
che vede nel numero di 5 un limite assoluto dei senatori di nomina presidenziale il Presidente
della Repubblica vedrebbe svuotato il suo potere ove, nel corso del mandato, fossero tuttora in
vita i cinque senatori nominati dai predecessori.
3. LE INELEGGIBILITA' E LE INCOMPATIBILITA'
Per lunga tradizione, ineleggibilità ed incompatibilità sono state sempre accomunate, nella
trattazione dottrinale e nella disciplina legislativa, quasi che la definizione delle prime fosse
possibile solo in relazione alle seconde. Al rigore, invece, le incompatibilità non appartengono
allo stesso campo delle ineleggibilità, dato che solo queste ultime concorrono a costituire la
materia elettorale in senso stretto.
Gli autori che si sono occupati delle ineleggibilità ed incompatibilità parlamentari hanno
sottolineato la confusione (non solo terminologica) esistente al riguardo, nella dottrina e nella
legislazione. Ciò deriva soprattutto dal fatto che il legislatore non ha mai seguito in materia una
linea chiara ed univoca.
Le norme sulle ineleggibilità perseguono fini molteplici. E precisamente: la ineleggibilità
delle persone che, in virtù della carica ricoperta, si ritiene possano esercitare indebite pressioni
sugli elettori mira a garantire soprattutto la libera e genuina manifestazione della volontà del
corpo elettorale; invece, l’ineleggibilità di chi si trova, ad esempio, in rapporti di affari con lo
Stato è stabilita prevalentemente perché tali persone « non danno garanzia di obiettività e di
disinteresse nell’esercizio delle funzioni alle quali aspirano ». Le ineleggibilità del primo tipo
hanno di mira soprattutto (anche se non esclusivamente) il momento di acquisizione della carica
elettiva; mentre le ineleggibilità del secondo tipo sono stabilite prevalentemente (anche se non
esclusivamente) a garanzia del corretto esercizio del mandato.
Più semplice appare invece la ratio delle incompatibilità parlamentari. Esse tendono ad
impedire che una persona, validamente eletta, ricopra determinate cariche o svolga comunque
certe attività, ritenute dal legislatore inconciliabili con il mandato parlamentare. I motivi per cui
è stabilita una incompatibilità sono (congiuntamente o disgiuntamente) i seguenti: motivi di
ordine morale (non sembra giusto che una stessa persona cumuli una pluralità di cariche e di
prebende); o funzionale (il parlamentare non può ricoprire cariche per nomina del Governo, che
deve controllare; né può rivestire cariche in enti che ricevano contributi statali, dal momento che
è lo stesso legislatore a stabilire l’ammontare e la destinazione di tali contributi); o materiale
(non si possono ricoprire contemporaneamente due incarichi, ciascuno dei quali è così gravoso, da
non consentire il contemporaneo svolgimento di un secondo incarico altrettanto impegnativo).
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Le cause ineleggibilità a deputato e senatore sono attualmente stabilite, in massima parte,
dagli artt. 7, 8, 9 e 10 T.U. 30 marzo 1957, n. 361.
La ineleggibilità è prevista anche per i giudici della Corte cost., e la XIII disp. trans. e
finale della Costituzione stabilisce una incapacità di diritto pubblico per i membri e i discendenti di Casa Savoia.
Alcune incompatibilità sono fissate dalla stessa Costituzione (vedi artt. 65, 84, 104, 122 e
135 cost.). Oltre i casi stabiliti dalla Costituzione, varie incompatabilità con il mandato parlamentare sono previste da leggi ordinarie. Tra queste deve essere citata soprattutto la legge 15
febbraio 1953, n. 60, che costituisce il testo base delle incompatibilità parlamentari.
In materia di ineleggibilità e incompatibilità vanno citate due sentenze delle Corte cost.: la
26 marzo 1969, n. 46 e 10 giugno 1966, n. 60.
4. LA VERIFICA DEI POTERI
L'art. 66 Cost stabilisce: «Ciascuna Camera giudica dei titoli di ammissione dei suoi componenti e delle cause sopraggiunte di ineleggibilità e di incompatibilità». Anche per l'art. 60
dello Statuto albertino ognuna delle Camere era «sola competente per giudicare della validità
dei titoli d'ammissione dei propri membri».
All'Assemblea costituente furono presentati vari emendamenti al testo della Commissione.
L'on. Romano voleva che fosse la Cassazione a giudicare di titoli d'ammissione dei membri
delle Camere; l'on. Mortati presentò il seguente emendamento: «Un tribunale elettorale, composto, in numero pari, di magistrati della Cassazione, del Consiglio di Stato e di membri elettri
dalle due Camere, e presieduto dal primo presidente della Cassazione, giudica del possesso dei
requisiti per la nomina a membro del Parlamento, nonchè delle questioni relative alla perdita del
mandato. Compete a ciascuna Camera la pronuncia definitiva sull'ammissione dei propri membri e sulla loro cessazione».
L'on. Ruini (Presidente della Commissione per la Costituzione) spiegò i motivi per cui la
Commissione era contraria a tutti gli emendamenti presentati.
Le due Camere procedono all'attività di verifica dei poteri, applicando le leggi elettorali e
i Regolamenti speciali all'uopo approvati dalle due Assemblee.
E precisamente: il Regolamento del Senato è stato pubblicato nella G.U. n. 25 del 31
gennaio 1992 (da notare che il Reg. Giunta Elezioni Senato contiene anche un articolo per la
verifica dei titoli d'ammissione dei senatori nominati a vita dal Presidente della Repubblica).
Il Regolamento della Giunta delle elezioni della Camera è stato pubblicato nella G.U. n.
246 del 21 ottobre 1998 ed entrerà in vigore a termine dell'attuale XIII legislatura.
5. DIVIETO DI MANDATO IMPERATIVO
A norma dell'art. 67 cost. «Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato».
Tale disposizione riproduce, con formulazione più sintetica, l'art. 41 dello Statuto albertino.
Sono note le ragioni storiche per cui il mandato di diritto privato fra elettori ed eletti, come
era all'origine, si è trasformato in una rappresentanza «senza vincolo di mandato». (per una
sintetica, ma efficace ricostruzione storica, vedi F. Racioppi e I. Brunelli, Commento allo statuto del Regno, sub art. 41).
All'Assemblea Costituente l'art. 67 fu votato, il 10 ottobre 1947, senza discussione. In
sottocommissione alcuni avevano sostenuto che la norma non dovesse far parte della Costituzione. Disse l'on. Terracini che la disposizione poteva avere la sua ragion d'essere nei tempi
passati e col collegio uninominale, quando il deputato si sentiva anche rappresentante di interessi di classe o vincolato al partito che ne aveva proposto e sostenuto la candidatura; oggi in ogni
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caso una norma costituzionale «non varrebbe a rallentare i legami tra l'eletto e il partito che esso
rappresenta o l'eletto e il comitato sorto per sostenere la sua candidatura» (2. Sc. pag. 222). Si
convenne tuttavia nell'opportunità di inserire la norma nella Costituzione. L'accordo fu raggiunto facilmente per la prima parte: «Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione»,
mentre per la seconda, relativo alla esclusione del mandato imperativo, vi fu qualche contrasto.
L'on. Grieco vi si dichiarò contrario perchè, disse «i deputati sono tutti vincolati ad un mandato:
si presentano difatti alle elezioni sostenendo un programma, un orientamento politico particolare» (2. Sc. pag. 223).
Alcuni autori affermano che vi è nella Costituzione italiana una antinomia tra l'anima
democratica (rappresentata dagli artt. 1 e 49) e l'anima liberal-garantista (rappresentata dall'art.
67).
Con la sentenza 7 marzo 1964, n. 14, (l'unica finora pronunciata sul tema) la Corte cost.
ha cercato di fissare un giusto equilibrio tra i due contrapposti principi. La Corte ha preso il via
dall'ordinanza del giudice a quo.
Secondo l’ordinanza, il vizio deriverebbe dal fatto che la legge 6 dicembre 1962 n. 1643,
è stata approvata da parlamentari i quali avevano dichiarato di dare il loro voto favorevole
soltanto in obbedienza alle direttive del loro rispettivo partito politico. E' da precisare che la
questione non è stata posta in riferimento a vizi della volontà nei singoli votanti. Difatti, l’ordinanza non denunzia l’invalidità delle deliberazioni delle Camere legislative perché la volontà
dei votanti fosse viziata, ma perché la votazione era stata influenzata da imposizioni dei partiti
in dispregio della norma costituzionale che proclama la libertà dell’eletto e pone il divieto del
mandato imperativo.
Ora, la Corte osserva che proprio da questa corretta ìmpostazione dell’ordinanza si trae la
prova dell’infondatezza della questione.
L’art. 67 della Costituzione, collocato fra le norme che attengono all’ordinamento delle
Camere e non fra quelle che disciplinano la formazione delle leggi, non spiega efficacia ai fini
della validità delle deliberazioni; ma è rivolto ad assicurare la libertà dei membri del Parlamento. Il divieto del mandato imperativo importa che il parlamentare è libero di votare secondo gli
indirizzi del suo partito ma è anche libero di sottrarsene, nessuna norma potrebbe legittimamente disporre che derivino conseguenze a carico del parlamentare per il fatto che egli abbia votato
contro le direttiva del partito.
Secondo alcuni autori (Zanon), la sentenza ricordata rendeva impossibile far finta che
l’art. 67 non esistesse. In ciò, la Corte pareva accettare quell'orientamento dottrinale (Crisafulli)
il quale - pur riconoscendo l’esistenza di un'antinomia fra l'anima democratica (artt. 1 e 49) e
l’anima liberal-garantista (art. 67) della nostra Costituzione, e pur riconoscendo una certa preponderanza alla prima - evitava di risolverla a tutto profitto del principio democratico, ed anzi
sottoli-neava come l’art. 67 avesse valore e contenuto di limite alle implicazioni più radicali,
altrimenti possibili, del principio democratico: revocabilità dei mandati, perdita del mandato in
conseguenza di espulsione o dimissioni dal partito, e così via.
Si trattava pur sempre, beninteso, di un’interpretazione restrittiva, giacché la portata dell’art.
67 risultava soltanto negativa e residuale, nel senso di escludere che l’ordinanamento giuridico
statale potesse conferire efficacia ai vincoli derivanti dalla disciplina di gruppo e di partito: ma
si trattava anche di un’interpretazione difficilmente contestabile sulla base di argomenti giuridico-formali.
Le prevalenti dottrine politiche ritengono che il principio del mandato non vincolato ha
vittoriosamente resistito: un autorevole storico delle istituzioni ha ancora recentemente affermato che il divieto di mandato imperativo è da considerarsi come un elemento strutturale della
democrazia rappresentativa, essendo una condizione necessaria “per rendere possibile l’attività
rappresentativa, intesa come agire per il popolo nella sua totalità” (Böckenförde).
Certamente, il principio del mandato libero ha resistito formalmente. Resta da chiedersi se
esso abbia resistito anche sostanzialmente.
La concezione originaria della democrazia non aveva tenuto conto della esistenza dei partiti.
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La formazione e la continua crescita dei partiti hanno finito per spezzare il rapporto diretto
fra elettori ed eletti, dando vita a due rapporti distinti, l’uno fra elettori e partito, l’altro tra
partito ed eletti, che rendono sempre più evanescente il rapporto originario e caratteristico dello
Stato rappresentativo fra il mandante e il mandatario.
Se poi si considera il mandato libero come un istituto caratteristico della democrazia rappresentativa, è vero che la critica più radicale di esso è venuta dal movimento d'ispirazione
marxista in base alle rivendicazioni di una rappresentanza vera e propria, e quindi con revoca
del mandato da parte del mandante. La revoca del mandato è stata introdotta nelle Costituzioni
sovietiche.
Addirittura secondo alcuni studiosi si verificherebbe attualmente una sorta di “rivincita"
della rappresentanza degli interessi sulla rappresentanza politica, sia per quel che riguarda la
decadenza dell’istituto tipico della rappresentanza politica, che è il mandato non vincolato, sia
per quel che riguarda, in una democrazia altamente competitiva, la pressione attraverso i partiti
degli interessi razionali. La differenza fra rappresentanza degli interessi particolari e rappresentanza politica - che è stata considerata per secoli decisiva - è diventata sempre più evanescente
e meno visibile.
Lo Sato contemporaneo dunque ha messo in discussione almeno due concetti classici della
teoria dello Stato rappresentativo: quello dell’indipendenza degli eletti dagli elettori, se pure
attraverso i partiti, e quello dell’interesse generale contrapposto agli interessi particolari.
La questione dei rapporti tra diritto statale (e, per esso, il diritto parlamentare) e il diritto
dei partiti è troppo complessa perchè possa essere affrontrata in maniera occasionale.
Qui ci limitiamo a sottolineare - come abbiamo fatto più volte - che il cosiddetto diritto dei
partiti (risultante dagli statuti dei partiti e dai regolamenti dei Gruppi parlamentari) può influenzare e condizionare, in vario modo, l’attività del Parlamento, sotto il profilo sia procedurale, sia
sostanziale. Sulle conseguenze della presentazione di proposte di legge, di interrogazioni, ecc.,
per le quali non sia stato richiesto o sia stato negato il prescritto nulla osta del Gruppo, i
regolamenti dei Gruppi parlamentari di solito tacciono, anche per evitare di evidenziare - affermano taluni autori - l’esistenza di contrasti tra l’ordinamento giuridico generale e l’ordinamento
interno dei partiti. Il silenzio dei regolamenti dei Gruppi non esclude però che gli organi direttivi
dei Gruppi stessi possano adottare, nella loro discrezionalità, sanzioni disciplinari, di varia
entità, contro gli inottemperanti.
In sede di elaborazione del Regolamento della Camera del 1971, alcuni deputati proposero
(senza successo) di inserire nel nuovo regolamento una norma relativa alla pubblicità dei regolamenti dei gruppi parlamentari.
Anche per questi motivi, merita apprezzamento l’art. 53, comma 7, Reg. Sen. - come
novellato il 30 novembre 1988 - il quale prevede che i Regolamenti interni dei Gruppi parla mentari stabiliscano procedure e forme di partecipazione che consentano ai singoli senatori di esprimere i loro orientamenti e presentare proposte sulle materie comprese nel programma dei lavori
o comunque all’ordine del giorno. Non essendo prescritta dall’art. 49 Cost. (a differenza dell’art.
39) la democraticità dell’ordinamento interno dei partiti, né in tal senso essendo stata approvata
una legge d’attuazione, si tratta dell’unico dato rinvenibile nell’ordinamento concernente la
democraticità della vita interna di un organo collegato ad un partito. Purtroppo, la norma si
configura come meramente esortativa, non essendo prescritte sanzioni al riguardo.
E' superfluo sottolineare che la mancata pubblicità dei regolamenti dei gruppi sottrae una
importante fonte del diritto parlamentare alla conoscenza non soltanto degli altri gruppi politici,
ma anche degli studiosi e, più in generale, della pubblica opinione.
Conclusivamente, concordiamo con quegli autori (Zanon) i quali affermano - quanto al
quadro normativo ricavabile dai regola menti parlamentari - che se si utilizza come chiave di
lettura il rapporto dialettico tra i valori accolti in Costituzione agli artt. 49 e 67, dovrà riconoscersi che i regolamenti parlamentari hanno tentato di operarne un bilanciamento, che è sostanzialmente riuscito: il diritto parlamentare italiano, pur riconoscendo in modo netto l’importanza
dei gruppi parlamentari e delle loro attribuzioni (soprattutto dopo la riforma del 1971) tutela in
modo adeguato le attribuzioni, i diritti e quindi la « qualità rappresentativa » del parlamentare
singolo.
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Attualmente sono all'esame della I Commissione della Camera alcune p.d.l. cost. (5923,
6663 e 6718) tendenti a modificare l'art. 67 cost..
Sulla necessità di individuare norme e strumenti "antiribaltone", la maggioranza dei gruppi parlamentari ha espresso un generale consenso.
Per altro una delle obiezioni più valide sollevate su tale questione e provenienti da autorevoli membri della I Commissione ed esponenti del Governo, è quella che sostiene la necessità
che le norme relative al divieto di mandato imperativo siano valutate nel quadro di una riforma
organica della forma di Stato e di governo.
Secondo alcuni deputati, strumenti più idonei, più che con riferimento alla appartenenza e
alla iscrizione ai gruppi parlamentari, potrebbero essere individuati incidendo, ad esempio, sul
potere di scioglimento delle Camere, da attribuire eventualmente, come previsto nell’ordinamento britannico, al Presidente del Consiglio (2).
6. PREROGATIVE E IMMUNITÀ
I membri del Parlamento (Deputati e Senatori) non possono essere perseguiti per le opinioni espresse e i voti dati nell’esercizio delle loro funzioni, anche se astrattamente configurano gli
estremi di un reato (art. 6 8).
A seguito della modifica cost. del 1993, senza autorizzazione della Camera alla quale
appartiene, nessun membro del Parlamento può essere sottoposto a perquisizione personale o
domiciliare, né può essere arrestato o altrimenti privato della libertà personale, o mantenuto in
detenzione, salvo che in esecuzione di una sentenza irrevocabile di condanna, ovvero se sia colto
nell’atto di commettere un delitto per il quale è previsto l’arresto obbligatorio in flagranza.
Analoga autorizzazione è richiesta per sottoporre i membri del Parlamento ad intercettazioni, in qualsiasi forma, di conversazioni o comunicazioni e a sequestro di corrispondenza.
Va sottolineato che prima della citata riforma costituzionale del 1993, nessun membro del
Parlamento poteva essere sottoposto a procedimento penale senza autorizzazione della Camera
di appartenenza. La grande innovazione apportata da tale riforma costituzionale si illustra da sola.
E' opportuno precisare che dopo l’abrogazione dell’istituto dell’autorizzazione a procedere il contenzioso costituzionale tra Parlamento e magistratura circa l’interpretazione dell’articolo 68, primo comma, della Costituzione, nella forma del conflitto di attribuzione tra i poteri
dello Stato, è sensibilmente aumentato. Dopo la legge costituzionale n. 3 del 1993 le sentenze
sulla materia, sono complessivamente una ventina. Numerosi ulteriori conflitti ancora pendono
in attesa di decisione, sebbene il numero dei conflitti rimanga, in definitiva, inferiore al numero
delle decisioni parlamentari nel senso dell’insindacabilità.
Come è noto, per quanto riguarda specifìcamente la materia dell’insindacabilità il quadro
normativo era costituito dai principi enunciati dalla Corte nella sentenza n. 1150 del 1988. Tale
sentenza ha fissato tre regole essenziali:
- poiché «le prerogative parlamentari non possono non implicare un potere da parte dell’organo a tutela del quale sono disposte », spetta a ciascuna Camera pronunciarsi in
materia di insindacabilità di opinioni espresse e voti dati dai propri membri;
- una pronuncia delle Camere sull’argomento inibisce una difforme pronuncia;
- la pronuncia delle Camere non può tuttavia essere « arbitraria o soggetta esclusivamente ad una regola interna di self restraint » ed, in quanto tale, è sottoposta, attraverso lo
strumento del conflitto di attribuzione, sollevato da parte dell’autorità giudiziaria, all’eventuale controllo della Corte Costituzionale per verificare l’assenza di vizi « in procedendo» ovvero la sua manifesta arbitrarietà.
(2) V. Crisafulli, L. Paladin, Commentario breve alla Costituzione, (art. 67), Padova 1990; N. Zanon, Il libero mandato parlamentare.
Saggio critico sull’articolo 67 della Costituzione, Milano 1991; P. Ridola, La rappresentanza parlamentare tra unità politica e
Pluralismo, in “Diritto e società”, n. 4/1994; G.U. Rescigno, Alcune note sulla rappresentanza politica, in “Politica del diritto”, n.
4/1995
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Con le recenti sentenze n. 10, 11, 56 e 58 del 2000 la Corte Cost. ha ulteriormente precisato, in senso restrittivo, i criteri precedentemente adottati.
Alcuni commentatori hanno osservato infatti che, mentre la Corte Cost. aveva, con le
prime sentenze, precisato che il proprio ambito di decisione era limitato ad una "verifica esterna" della legittimità della decisione parlamentare (alla luce dei parametri degli eventuali vizi del
procedimento e della corretta applicazione, in termini di sussistenza e di non arbitraria valutazione dei presupposti previsti dalla norma costituzionale) e non consisteva in una sorta di giudizio d'appello rispetto alla decisione delle Camere, più di recente la Corte sembra essersi riservata un più penetrante sindacato nel merito (3).
Va sottolineato che mentre l’immunità relativa alle opinioni e voti espressi, inerendo
all’imputabilità, permane anche successivamente alla cessazione del mandato, le altre immunità, subordinate alla concessione dell’autorizzazione, che è una condizione di procedibilità, sono
limitate al periodo in cui viene rivestita la carica di parlamentare.
In ordine all’applicazione dell’art. 68, 1° comma, Cost., la Corte Costituzionale ha esaminato recentemente la questione, nell'ipotesi di mutamento della Camera di appartenenza del
parlamentare, se la delibera di insindacabilità debba essere adottata dalla Camera cui il parlamentare apparteneva al momento del fatto o dalla Camera di appartenenza del parlamentare al
momento di adozione della delibera. La Corte (con sentenza 23 giugno 1999, n. 252) ha stabilito che spettano alla Camera cui il parlamentare appartiene al momento del fatto, e ad essa sola,
i poteri connessi alla prerogativa della insindacabilità, e innanzitutto il potere di valutare la
riconducibilità delle opinioni all’esercizio delle funzioni parlamentari.
7. LE INDENNITA' PARLAMENTARI
L’art. 50 dello Statuto albertino disponeva che le funzioni di senatore e di deputato non
comportassero alcuna retribuzione o indennità. Tale norma dette luogo a vivaci polemiche, sia
sul piano dottrinario, sia su quello politico. Numerose proposte di legge presentate alla Camera
per introdurre l’istituto dell’indennità non arrivarono in porto. Fu solo con la legge 30 giugno
1912, n. 365 che la indennità parlamentare fu introdotta nell’ordinamento italiano. L’ostacolo
rappresentato dall’art. 50 dello Statuto albertino fu superato mediante la formula del « rimborso spese ».
Attualmente l'art. 69 della Costituzione repubblicana dispone: « I membri del Parlamento
ricevono una indennità stabilita dalla legge ».
La II Sottocommissione dell'Assemblea Costituente motivò la proposta di indennità in
questo modo: « I deputati ricevono una indennità nella misura fissata dalla legge per garantire in
ogni caso l’indipendenza economica e il doveroso adempimento del mandato ». In queste ragioni, dunque, stanno il fondamento e l’esigenza dell’indennità: garanzia di non essere, economicamente, soggetti ad alcuno; garanzia di avere i mezzi necessari ad assolvere la funzione.
In base alla legge, non è ammessa rinunzia o cessione dell'indennità parlamentare. Inoltre
l'indennità mensile o la diaria non possono essere pignorate o sequestrate.
(3) In un articolo su "il Popolo" del 5 aprile 2000, L. Elia sottolinea che forse sfugge ai cittadini, ma anche a buona parte dei parlamentari,
che è in atto una situazione di tensione tra Corte Costituzionale e Camere in tema di interpretazione dell’art. 68, primo comma, della
Costituzione (insindacabilità dei parlamentari per i voti dati e le opinioni espresse nell’esercizio delle loro funzioni). Il contrasto si è
aggravate negli ultimi anni quando ai procedimenti penali per diffamazione si sono sostituite, dopo una svolta giurisprudenziale degli
anni ’80, le controversie civili per richiesta di risarcimento danni avanzate dalle persone che si sentono diffamate dalle dichiarazioni di
un deputato o di un senatore. Si aggiunga il sopravvenire nel 1993 della legge costituzionale che ha caducato l’istituto della autorizzazione
a procedere, al cui interno venivano risolte le questioni di insindacabilità.
Se si pensa - prosegue l'autore - che in questa legislatura le deliberazioni camerali sono state nel 90% dei casi per la insindacabilità
e solo nel 10% a favore della sindacabilità si può constatare come le prospettive di distensione siano tutt’altro che promettenti; d’altra
parte nel 2000 la Corte ha emesso una serie di decisioni favorevoli ai giudici e contrarie alle tesi sostenute dai difensori delle Camere.
Secondo Elia, inoltre, bisogna considerare che una interpretazione "estensiva” (in senso atecnico) della regola sul nesso funzionale
finisce per restringere la possibilitá di tutela giurisdizionale dei diritti del cittadino leso dalle opinioni offensive a lui indirizzate dal
parlamentare. Ciò spiega perché negli altri Paesi europei sia data una interpretazione strettissima di questa immunità. Sicché la
esenzione di responsabilitá vale solo per le attività parlamentari svolte intra moenia e cioè negli edifici di ciascuna Comera. Si noti che
in Germania la stessa Costituzione esclude dalla insindacabilità i reati di diffamazione.
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8. IL PROCEDIMENTO LEGISLATIVO
Nel procedimento legislativo si distinguono le seguenti fasi:
- l’iniziativa, che consiste nella presentazione di un progetto di legge ad una delle due Camere;
- l’istruttoria da parte di una Commissione permanente o speciale;
- l’approvazione da parte della Camera cui il progetto è presentato;
- l’invio del testo approvato all’altra Camera;
- l’approvazione da parte di tale Camera;
- la promulgazione da parte del Presidente della Repubblica.
In base all’art. 71 Cost. l’iniziativa delle leggi appartiene al Governo, a ciascun membro
delle Camere ed agli organi ed enti al quali sia conferita da legge costituzionale. Il popolo
esercita l’iniziativa delle leggi, mediante la proposta, da parte di almeno cinquantamila elettori,
di un progetto redatto in articoli.
Anche il C.N.E.L. ha l’iniziativa legislativa (art. 99 Cost.).
Il Consiglio regionale può fare proposte di legge alle Camere (art. 121 Cost.).
E’ dubbio invece se l’art. 133, comma 1 Cost., attribuisca o meno la potestà di iniziativa
ai Comuni, per le leggi concernenti il mutamento delle circoscrizioni provinciali o la istituzione
di nuove province.
E' opportuno tener presente che l’iniziativa legislativa popolare, ancor più dell’iniziativa
parlamentare, ha assunto nella prassi una funzione di controllo e di stimolo della maggioranza
e di integrazione nei confronti delle iniziative degli altri soggetti. Non va dimenticato che se,
sotto il profilo giuridico, la iniziativa popolare si colloca in maniera paritaria rispetto alle altre
iniziative, tuttavia nella coscienza collettiva e nelle stesse assemblee legislative la iniziativa
popolare sia stata valutata con notevole scetticismo, in quanto istituto che si colloca fuori dei
tradizionali canali di mediazione e di decisione partitica.
L’art. 87 Cost. stabilisce che il Presidente della Repubblica autorizza la presentazione alle
Camere dei disegni di legge di iniziativa del Governo.
La legge n. 400/1988 precisa che sono sottoposti alla deliberazione del Consiglio dei ministri i disegni di legge e le proposte di ritiro dei disegni di legge già presentati al Parlamento.
Altre disposizioni relative alla fase preparatoria dei disegni di legge governativi sono contenute nel Regolamento interno del Consiglio dei ministri. In base ad esso infatti il ministro che
intende proporre l’iscrizione di un provvedimento o questione all’ordine del giorno del Consiglio dei ministri, ne fa richiesta al Presidente del Consiglio allegando lo schema relativo, con la
necessaria documentazione. La richiesta è preceduta dall’acquisizione dei concerti previsti per
legge e delle intese ritenute opportune e, nel caso di schemi di provvedimenti che comportino
nuove o maggiori spese ovvero diminuzioni di entrate, della relazione tecnica verificata dal
Ministero del tesoro. E’ comunque necessario il concerto del ministro del tesoro, del ministro
del bilancio (ora: il Ministro del tesoro bilancio e programmazione economica) e del ministro
per la funzione pubblica nel caso di provvedimenti legislativi contenenti disposizioni relative
alla organizzazione e al funzionamento di amministrazioni pubbliche.
Gli schemi dei provvedimenti sono esaminati in una riunione preparatoria tenuta presso la
Presidenza del Consiglio, almeno due giorni prima della riunione del Consiglio, al fine di pervenire alla loro redazione definitiva.
Nessuna questione e nessuna proposta concernente disegni di legge, atti normativi o provvedimenti amministrativi generali può essere inserita nell’ordine del giorno del Consiglio dei
ministri se non sono state esaminate nella riunione preparatoria di cui sopra, salvo i casi di urgenza.
Ricordiamo infine che, a seguito delle dimissioni del Governo, il Presidente del Consiglio
emana abitualmente una circolare con la quale richiama l’attenzione dei ministri e dei sottosegretari sulla necessità di attenersi ad alcune direttive circa lo svolgimento delle proprie funzioni
durante il periodo di crisi.
Pertanto, in periodo di crisi (vedi ad esempio la circolare del 23 dicembre 1994) il Consiglio dei ministri non esaminerà nuovi disegni di legge, salvo quelli imposti, anche nei termini, da
obblighi internazionali o comunitari; tuttavia, ove ricorrano i presupposti di necessità ed urgenza di cui all’articolo 77 Cost., potrà procedere ad approvazioni di decreti-legge.
70
I progetti di iniziativa governativa vengono denominati “disegni legge” e quelli di iniziativa parlamentare “proposte di legge”. In tal senso si esprime il Regolamento della Camera dei
Deputati; quello del Senato parla, invece, di “disegni di legge” in ogni caso.
I disegni di legge sono esaminati dalle Commissioni delle Camere, secondo le norme del
regolamento, in sede referente e poi vengono discussi dall’Assemblea. Peraltro i disegni di legge
possono essere esaminati e approvati dalla Commissione in sede deliberante (senza essere portati in Assemblea).
La procedura normale (approvazione in Assemblea) è obbligatoria per i progetti di legge
in materia costituzionale ed elettorale e per quelli di delegazione legislativa, di autorizzazione a
ratificare trattati internazionali, di approvazione di bilanci e consuntivi (art. 72 u.c. Cost.).
Recenti modifiche apportate ai regolamenti parlamentari hanno limitato il ricorso al voto
segreto alle votazioni relative alle persone, o incidenti sui diritti di libertà, della persona umana
e della famiglia, o sulle modifiche al Regolamento, sulla istituzione delle Commissioni di inchiesta, sulle leggi relative agli organi costituzionali (Parlamento, Presidente della Repubblica,
Governo e Corte costituzionale) e sulle Regioni; al contrario il voto segreto è stato precluso in
materia di legge di bilancio, legge finanziaria, o comunque di deliberazione avente conseguenze
finanziarie (art. 49 Reg. Camera modificato il 13 ottobre 1988; similmente, ma non in modo
identico, art. 113 Reg. Senato modificato il novembre 1988); parimenti sono state introdotte
nuove disposizioni antiostruzionistiche concernenti la programmazione dei lavori .
Le leggi e gli atti aventi forza di legge possono essere abrogati, oltre che da altre leggi o atti
aventi forza di legge, mediante referendum popolare (c.d. referendum abrogativo), (art. 75 Cost.).
Il referendum abrogativo non è ammesso per le leggi tributarie e di bilancio, di amnistia e di
indulto, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali (per la indicazione di altri limiti vedi
peraltro Cap. IX, punto 3, d) Vedi infra, punto 19..
I regolamenti parlamentari prevedono una terza forma di esame ed approvazione dei disegni di legge, la cosiddetta sede redigente, il cui procedimento è peraltro diversamente disciplinato nei due rami del Parlamento.
9. IL DRAFTING FORMALE E IL DRAFTING SOSTANZIALE
Come è noto (4) la redazione tecnica dei testi normativi è sinteticamente designata, in
genere, con il termine inglese drafting. E’ nei Paesi anglosassoni, d'altra parte, che tale materia
ha conosciuto sviluppi, approfondimenti ed applicazioni certamente maggiori che altrove. In
Italia, la diffusione dell’interesse per il drafting è relativamente recente e sembra privilegiare gli
aspetti formali rispetto a quelli sostanziali.
Anche se il confine tra forma e sostanza non è sempre chiaramente delineabile, si può
intendere per drafting formale un complesso di regole essenzialmente stilistiche e grafiche necessarie per una corretta stesura dei testi normativi; il drafting sostanziale ha invece riguardo
alla complessa opera di traduzione in norma giuridica di indicazioni prettamente politiche, tese
ad evidenziare, per l’appunto, la necessità di un intervento normativo.
Nella sua più vasta accezione sostanziale, il drafting implica una serie di valutazioni ampiamente discrezionali, relative al soddisfacimento degli interessi che sono a fondamento dell’intervento normativo, all’impatto delle nuove norme sull’ordinamento ed al loro grado di
attuabilità amministrativa, nonché al monitoraggio della loro effettiva attuazione (5).
(4) Vedi sull’argomento C. D’Orta e V. Di Porto, “L’attività di drafting nel procedimento legislativo: strutture, regole, strumenti”, in
Formazione delle leggi e tecnica normativa, Ministero dell’Interno Scuola Superiore dell’Amministrazione dell’Interno, Roma,
1995, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, pag. 223 ss.
(5) Il tasso di discrezionalità insito nella definizione del drafting sostanziale è così alto che la sua applicazione pone il problema di
“contemperare l’esigenza di realizzare una maggior certezza dei diritto attraverso la redazione tecnica più perfezionata dei testi normativi
con l’esigenza di salvaguardare il principio democratico in base al quale l’esercizio dei pubblici poteri spetta al popolo, ovvero agli
organi rappresentativi di esso” (A. Pizzorusso, “Certezza del diritto - II) profili applicativi”, in “Enciclopedia giuridica Treccani”,
vol. VI, 1998). Sulla problematica del drafting sostanziale si veda anche il n. 1/1999 della Riv. trim. di scienza dell'amministrazione.
71
Una volta identificato il bisogno (la cui indicazione rientra, generalmente, in una fase
politica), occorre valutare l’effettiva necessità dell’intervento normativo e il suo impatto sull’ordinamento, innanzi tutto in termini di coerenza o innovatività.
Qualora si prevedano nuove funzioni, occorre valutare se attribuirle a strutture già esistenti o se occorra creare nuove strutture, disciplinandone la formazione, la composizione ed il
funzionamento, evitando di cadere nell’opposto pericolo di assegnare nuovi compiti ad una
struttura incapace di svolgerli o di crearne una che resti soltanto sulla carta.
Quando la norma sia entrata a far parte dell’ordinamento, occorre una verifica che investa
sia gli aspetti politici sia quelli tecnici, evidenziando l’efficacia o l’inadeguatezza dei risultati
ottenuti; in tale ultimo caso potrà emergere un nuovo bisogno politico e quindi la necessità di un
ulteriore intervento normativo (6).
10. PUBBLICAZIONE DEGLI ATTI NORMATIVI
Per realizzare, il più possibile, la certezza del diritto, oltre all’intellegibilità delle norme,
occorre la possibilità di venirne a conoscenza e quindi la loro divulgazione.
La pubblicità degli atti normativi è stata oggetto della legge 11 dicembre 1984, n. 839,
nonché di quattro provvedimenti pubblicati nella «Gazzetta Ufficiale» del 29 maggio 1986: il
testo unico delle disposizioni sulla promulgazione delle leggi, sulla emanazione dei decreti del
Presidente della Repubblica e sulle pubblicazioni ufficiali della Repubblica italiana, approvato
con DPR 28 dicembre 1985, n. 1092, emanato sulla base dell’articolo 13 della legge n. 839 del
1984, il regolamento di esecuzione del testo unico (DPR 14 marzo 1986, n. 217); le circolari
della Presidenza del Consiglio dei ministri in data 24 febbraio 1986, sulla formulazione tecnica
dei testi legislativi, e in data 13 maggio 1986, sui criteri orientativi per la redazione delle note
agli atti amministrativi. Va poi menzionato il D.P.R. 23 luglio 1986, n. 611, recante l’approvazione dell’elenco dei decreti e degli altri atti da inserire nella Raccolta ufficiale degli atti normativi della Repubblica italiana.
Il citato T.U. contiene disposizioni assai importanti, che agevolano l'opera dell'interprete.
Ne ricordiamo alcune.
Si prevede la ripubblicazione dei testi dei decreti-legge coordinati con le modificazioni
introdotte dal Parlamento in sede di conversione; in calce ad una norma modificativa di precedenti disposizioni, deve essere pubblicato il testo aggiornato delle medesime, comprensivo delle
modifiche; si prevede che, in presenza di leggi, decreti o altri atti aventi contenuto normativo,
che abbiano subito diverse e complesse modifiche, è data facoltà al Ministro competente di
predisporne un testo aggiornato; si deve dare notizia degli estremi dei lavori preparatori, cioé
dell’iter parlamentare delle leggi; quando vi sono numerosi e complessi rinvii ad altre disposizioni, queste devono essere riportate in nota (7).
11. PROCEDURE DI CONTROLLO E DI INDIRIZZO
Le Camere esplicano anche una funzione di controllo, che si attua:
- mediante l’esame e l’approvazione del bilancio e mediante l’autorizzazione all’esercizio
provvisorio finanziario (controllo contabile);
- mediante il sindacato politico (controllo politico), i cui mezzi sono costituiti dalle interrogazioni (domande che un membro del Parlamento rivolge per iscritto al Governo o ad
(6) Su tali problemi cfr. V. Di Ciolo, Fattibilità e monitoraggio delle leggi. Esperienze italiane e aspetti problematici, in Instrumenta,
gennaio-aprile 1999.
(7) Meritevole di apprezzamento è la disposizione contenuta nell'art. 17 della legge 15 maggio 1997, n. 127, in forza del quale quando gli
articoli di una legge o altro atto normativo risultino di particolare complessità a causa dell'elevato numero di commi, la Presidenza del
Consiglio dei Ministri ne predispone, per la pubblicazione in G.U., un testo corredato da sintetiche note a margine, che indichino in
modo sommario il contenuto dei commi.
72
un Ministro per sapere se un dato fatto sia vero e quali provvedimenti siano stati adottati o si intenda adottare su un oggetto determinato), dalle interpellanze (domande rivolte, anch’esse per iscritto, al Governo sui motivi o gli intendimenti della sua condotta su
questioni di particolare rilievo o di carattere generale).
Atti di indirizzo sono le mozioni che hanno il fine di promuovere una deliberazione dell’Assemblea su un determinato argomento. Le mozioni di fiducia o sfiducia al Governo debbono
essere motivate e votate per appello nominale. Altri atti di indirizzo sono le risoluzioni.
Per agevolare il controllo politico del Parlamento sull’attività del Governo, la Corte dei
Conti invia, ogni 15 giorni, al Parlamento, l’elenco delle registrazioni con riserva.
Le Camere possono disporre inchieste su materie di pubblico interesse (art. 82) v. punto 13.
Secondo vari autori fa parte della funzione legislativa (e non di quella di controllo) l’emanazione della legge finanziaria. Mentre infatti la legge di approvazione del bilancio è tale solo in
senso formale, la legge finanziaria è una legge anche in senso sostanziale e sopperisce all’esigenza di adeguare le entrate e le spese dello Stato alle necessità del bilancio e ritoccare quindi,
in conformità, le norme tributarie e le leggi di spesa. Il sistema della “legge finanziaria” che è
stato introdotto con L. 5 agosto 1978 n. 468, risponde al precetto costituzionale secondo cui con
la legge del bilancio non si possono stabilire nuovi tributi e nuove spese (art. 81 Cost.) e serve
sostanzialmente a modificare le norme in vigore per adeguarle alle esigenze economiche di un
certo anno finanziario, per una migliore programmazione economica.
12. LE RELAZIONI PERIODICHE AL PARLAMENTO
Varie leggi prevedono che alle Camere siano presentate Relazioni su questa o quella materia, da parte di singoli ministri o enti vari. Uno studio completo ed aggiornato su tali relazioni
(oltre un centinaio) non è stato ancora fatto. Anche nei primi decenni del secolo alcune leggi
prevedevano relazioni periodiche al Parlamento. La maggior parte delle leggi risale però agli
anni post 1948.
Talune relazioni governative al Parlamento concernono l’attuazione di questa o quella
legge. A titolo esemplificativo ricordiamo le seguenti Relazioni: Relazione sui risultati ottenuti
in conseguenza dell’applicazione delle norme di cui alla legge 23 dicembre 1996, n. 662, in
materia di dismissioni del patrimonio immobiliare dello Stato; Relazione contenente i dati raccolti attraverso l’Anagrafe delle prestazioni e degli incarichi conferiti ai pubblici dipendenti;
Relazione sull’attività svolta dal Comitato di coordinamento per la salvaguardia della Torre di
Pisa; Relazione sulla consistenza, destinazione, utilizzo dei beni sequestrati o confiscati e stato
dei procedimenti di sequestro e confisca; Relazione sull'andamento dell’attività degli organi di
giurisdizione tributaria; Relazione sull’organizzazione, sulla gestione e sullo svolgimento del
servizio civile; Relazione sull’attività svolta e sui programmi di lavoro dell’Autorità per le
garanzie nelle comunicazioni; Relazione sull’attività svolta dal Nucleo tecnico di valutazione e
verifica degli investimenti pubblici; ecc..
13. LE COMMISSIONI PARLAMENTARI D'INCHIESTA
In base all'art. 82 Cost. ciascuna Camera può disporre inchieste su materie di pubblico
interesse. A tale scopo nomina fra i propri componenti una Commissione formata in modo da
rispecchiare la proporzione dei vari gruppi parlamentari. La Commissione di inchiesta procede
alle indagini e agli esami con gli stessi poteri e le stesse limitazioni dell’autorità giudiziaria.
Secondo alcuni autori, l’art. 82 Cost. rappresenta una disposizione generale, diretta a
disciplinare tutti i possibili tipi di inchieste parlamentari e non soltanto quelle politiche e legislative. Altri hanno creduto di scorgervi una norma di carattere limitato, rivolta unicamente a
regolare le inchieste parlamentari con finalità politiche o legislative disposte da una sola Came73
ra. Altri ancora hanno ritenuto che l’art. 82 costituisca una norma valida per le inchieste parlamentari comunque decise, cioè tanto se deliberate con provvedimento monocamerale o bicamerale, quanto se disposte con legge. E tale avviso è prevalso nella pratica, avendo il Parlamento
repubblicano seguito costantemente questa interpretazione in tutte le inchieste disposte dal 1950
in poi, anche se deliberate con legge.
Il riferimento ai poteri dell’autorità giudiziaria non va inteso come limitato alla sola autorità giudiziaria ordinaria; è opinione assolutamente prevalente quella che nell’espressione costituzionale si ricomprendano anche il giudice penale, quello civile e quello amministrativo. Infatti, per l’acquisizione di prove testimoniali mediante il ricorso alle norme del Codice di procedura civile, v. il rapporto preliminare della Commissione d’inchiesta sul caso della filiale di Atlanta
della BNL (Atti Senato, X Leg., doc. XXII-bis n. 3, p. 3).
Comunque, nonostante recenti pregevoli contributi, l’estensione dei poteri delle Commissioni d’inchiesta rimane abbastanza controversa.
Pertanto, anche in considerazione di tali incertezze dottrinali, appare particolarmente proficua e interessante la consultazione delle relazioni presentate alle Camere dalle commissioni
parlamentari d’inchiesta, nelle quali si dà notizia della avvenuta utilizzazione di organi di polizia giudiziaria da parte delle commissioni stesse, sia per integrare il nucleo di funzionari e
impiegati parlamentari addetti a servizi di segreteria delle commissioni, sia per il compirnento
di specifici atti di polizia giudiziaria (quali, ad es., il sequestro di nastri magnetici, l’acquisizione
di documenti, ecc.).
Alla problematica già accennata (circa l’ampiezza dei poteri della commissione parlamentare d’inchiesta nel suo plenum), si aggiunge quella relativa alla ammissibilità che tutti o alcuni
dei poteri coercitivi spettanti alla commissione siano delegati o dalla legge istitutiva o da singole
delibere della commissione, in assenza di previsione legislativa, a sottocommissioni o comitati
interni della commissione o all’ufficio di presidenza della commissione stessa.
Di fronte a qualche precedente parlamentare in cui (a quanto pare) poteri istruttori sono
stati attribuiti a sottocommissioni, è stato affermato in dottrina che i poteri coattivi in tanto
possono essere legittimamente esercitati in quanto vi sia la rappresentanza di tutti i gruppi
politici: tutt’al più - si è detto - potrebbe proporsi che siano presenti alla raccolta delle prove
testimoniali se non proprio tutti i commissari, quanto meno i rappresentanti di tutti i gruppi.
Secondo tale tesi, dunque, sarebbe necessaria la presenza di almeno una rappresentanza per
ogni gruppo politico per esercitare quei poteri che la Costituzione riserva alla autorità giudiziaria
negli artt. 13 comma 2°, 14 comma 2°, 15 comma 2°, e 21 comma 3°.
Tale tesi sembra da condividere, anche per la evidente portata garantistica.
Opinioni divergenti sono state manifestate anche sulla ammissibilità (e limiti) di delegare il
compimento di atti istruttori all’ufficio di presidenza della commissione. Nella più recente prassi parlamentare, sembra essere prevalsa la tesi secondo cui - in assenza di disposizioni legislative - l’uffìcio di presidenza della commissione non ha poteri eccedenti quelli meramente ordinatori
circa la programmazione delle sedute e dei lavori (tali poteri, come è noto, sono attribuiti dai
vigenti regolamenti parlamentari agli uffici di presidenza delle commissioni parlamentari).
Nei regolamenti interni della Commissione sulla mafia e della Commissione sul terrorismo
è stato codificato il principio secondo cui debbono essere ascoltati in audizione libera i parlamentari, i membri del Governo, i magistrati incaricati di procedimenti relativi ai fatti che formano oggetto dell’inchiesta.
Circa l’assistenza del difensore di fiducia degli auditi, la prassi nelle Commissioni di inchiesta non è omogenea. Infatti, dopo una consolidata tendenza a non ammettere la presenza del
difensore, soprattutto sulla base del carattere politico dell’organo e dell'inchiesta parlamentare
(che escluderebbe l’obbligatoria adozione di procedure giurisdizionali), si sono verificati precedenti di segno contrario.
Ricordiamo infine che, a norma della legge fondamentale tedesca, il Bundestag ha il diritto
e, su richiesta di un quarto dei suoi membri, l'obbligo di costituire una Commissione d'inchiesta
(art. 44). Non sembra che tale sistema abbia dato buoni risultati nella pratica.
74
14.ORGANIZZAZIONE DEI LAVORI E SEGRETO FUNZIONALE DELLE COMMISSIONI D'INCHIESTA
Esiste una perspicua sentenza della Corte cost., la n. 231 del 1975, a conclusione del
giudizio per conflitto di attribuzione, promosso con ordinanze dei tribunali di Torino e di Milano nei confronti della Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della "mafia", a
seguito del rifiuto da questa opposto di trasmettere ai tribunali medesimi, che ne avevano fatto
formale richiesta, determinati atti e documenti in suo possesso, ritenuti dai giudici predetti
necessari ai fini dell’accertamento della verità nei rispettivi processi.
La Corte osserva che i fini delle Commissioni d’inchiesta differiscono nettamente da quelli
che caratterizzano le istruttorie delle autorità giudiziarie. Compito delle Commissioni parlamentari di inchiesta non è di "giudicare", ma solo di raccogliere notizie e dati necessari per
l’esercizio delle funzioni delle Camere; esse non tendono a produrre, né le loro relazioni conclusive producono, alcuna modificazione giuridica (com’è invece proprio degli atti giurisdizionali),
ma hanno semplicemente lo scopo di mettere a disposizione delle Assemblee tutti gli elementi
utili affinché queste possano, con piena cognizione delle situazioni di fatto, deliberare la propria
linea di condotta, sia promuovendo misure legislative, sia invitando il Governo a adottare, per
quanto di sua competenza, i provvedimenti del caso. L’attività di inchiesta rientra, insomma,
nella più lata nozione della funzione ispettiva delle Camere; muove da cause politiche ed ha
finalità del pari politiche; né potrebbe rivolgersi ad accertare reati e connesse responsabilità di
ordine penale, che, se così per avventura facesse, invaderebbe indebitamente la sfera di attribuzioni
del potere giurisdizionale. E, ove nel corso delle indagini vengano a conoscenza di fatti che
possano costituire reato, le Commissioni sono tenute a farne rapporto all’autorità giudiziaria.
Come sono diversi i fini, così differiscono o possono differire i mezzi di cui si valgono le
Commissioni parlamentari d’inchiesta, rispetto a quelli tipici dell’autorità giudiziaria. Il comma
2° dell’art. 82 Cost. attribuisce, bensì, alle prime "gli stessi poteri", e prescrive "le stesse limitazioni", di quest’ultima, e ciò per consentire loro di superare occorrendo, anche coercitivamente,
gli ostacoli nei quali potrebbero scontrarsi nel loro operare. Ma le Commissioni restano libere di
prescegliere modi di azione diversi, più duttili ed esenti da formalismi giuridici, facendo appello
alla spontanea collaborazione dei cittadini e di pubblici funzionari, al contributo di studiosi,
ricorrendo allo spoglio di giornali e riviste, e via dicendo. Come esattamente fu notato da una
antica dottrina, le persone dalle Commissioni interrogate non depongono propriamente quali
"testimoni", ma forniscono informazioni; e lo stesso è a dirsi delle relazioni varie che pubbliche
autorità possono, su richiesta delle Commissioni, ad esse presentare con riferimento a determinate situazioni e circostanze ambientali, tra cui bene possono trovar posto anche stati d’animo
e convincimenti diffusi, registrati per quel che sono, indipendentemente dalla loro fondatezza,
da chi, per la sua particolare esperienza o per l’ufficio ricoperto, sia meglio in grado di averne
diretta notizia.
Ma siffatti obiettivi e mezzi di azione, nella loro reciproca connessione, postulano logicamente che le Commissioni d’inchiesta abbiano il potere di opporre il segreto alle risultanze di
volta in volta acquisite nel corso della loro indagine, libere rimanendo di derogarvi, quando non
lo vietino altri principi, ogni qual volta non possano derivarne conseguenze tali da impedire o
intralciare gravemente l’assolvimento del loro compito specie per venire incontro a richieste
provenienti da autorità giudiziarie, in uno spirito di doverosa collaborazione tra organi di poteri
distinti e diversi, per fini di giustizia. In questo senso, il segreto delle Commissioni di inchiesta
non corrisponde, a rigore, ai vari specifici tipi di segreto previsti dalle norme dei codici di diritto
e procedura penale, ma può qualificarsi piuttosto, più genericamente, come un segreto funzionale, del quale spetta alle Commissioni medesime determinare la necessità ed i limiti.
Tali conclusioni, peraltro, valgono limitatamente alla documentazione relativa ad accertamenti svolti o direttamente disposti dalla Commissione, oltre che alle discussioni che hanno
avuto luogo nel corso delle sue sedute e alle valutazioni ed apprezzamenti in quella sede espressi, ma non divulgati attraverso le relazioni pubblicate, e sono logicamente estensibili ad esposti
ed anonimi ad essa rivolti.
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Entro l’ambito testé precisato - ha concluso la Corte cost. - il limite che dal segreto funzionale delle Commissioni d’inchiesta (cui esse soltanto hanno facoltà di derogare) può derivare
all’esercizio della funzione giurisdizionale al diritto di difesa delle parti, essenzialmente
connaturato al suo vario esplicarsi, non può essere giudicato illegittimo.
A criteri analoghi si è ispirata la sentenza n. 13 del 1975, Corte cost., in tema di rapporti
tra giurisdizione penale e potere politico; mentre, per quel che più particolarmente concerne il
diritto di difesa garantito nell’art. 24 Cost., la Corte nella sua giurisprudenza, costantemente
affermandone il carattere di diritto fondamentale, ha più volte avuto occasione di rilevare come
non sia da escludere che esso abbia ad incontrare determinati limiti, necessari a contemperarne
la tutela con quella pure spettante ad altri interessi costituzionalmente rilevanti; purché in ogni
caso detti limiti "non siano di entità tale da comprometterne seriamente l’esercizio" (sent. n. 175
del 1970), o peggio da ridurlo ad un nome vano.
Il che non si verifica quando una Commissione d’inchiesta si attenga al criterio di indicare
alle autorità che ad essa richiedono documenti coperti dal suo segreto "le fonti delle notizie
raccolte... in modo che le predette autorità siano poste in grado di svolgere in materia propri
autonomi accertamenti".
15. ALTRE ATTRIBUZIONI DELLE CAMERE
Le Camere possono deliberare lo stato di guerra (art. 78) e conferire al Governo i poteri
necessari; autorizzare con legge la ratifica dei trattati internazionali di natura politica o che
prevedano arbitrati o regolamenti giudiziari, che importino variazioni del territorio o onori alle
finanze o variazioni di legge (art. 80); concedere l’amnistia e l’indulto con legge approvata a
maggioranza di due terzi dei componenti di ciascuna Camera (art. 79, nel testo risultante dalla
modifica cost. del 1992).
16. IL BICAMERALISMO
In un capitolo dedicato al Parlamento, non può essere omesso un sia pur rapido cenno al
tema del bicameralismo così come realizzato in Italia. E’ un tema che è stato dibattuto, sviscerato sotto tutti i profili, in sede culturale e nelle aule parlamentari (8) ma una soluzione soddisfacente dell’annoso problema appare ancora lontana.
Tutte le Commissioni bicamerali per le riforme istituzionali istituite in Italia hanno dibattuto il tema. Ad esempio, la prima di tali Commissioni (la Commissione Bozzi) si è occupata a
lungo della scelta tra monocameralismo e bicameralismo. La Commissione Bozzi nella sua
maggioranza ha respinto le suggestioni del monocameralismo - opzione sempre propugnata dai
sostenitori più coerenti della sovranità popolare -, dichiarando però di condividere la necessità
di abbandonare il «bicameralismo perfetto» e cioè l’identità delle funzioni svolte dalle due Camere, che costituisce - nell’ambito degli Stati a struttura non federale del mondo occidentale pressochè un’anomalia dell’ordinarnento italiano. Alla pari dignità delle due Assemblee occorre
aggiungere una diversa specializzazione nello svolgimento di determinate funzioni, dando nel
contempo un più ampio spazio alle funzioni di controllo e al collegamento con le forze vive del
Paese che si esprimono nelle autonomie locali. Quanto alle funzioni - recita la relazione conclusiva - la Commissione si è orientata nel senso di attribuire alla Camera dei deputati una prevalenza nell’esercizio della funzione legislativa e al Senato una prevalenza nell’esercizio della
funzione di controllo (distinzione da molti ritenuta astratta).
(8) Vedi ad esempio l'approfondito dibattito sulla riforma del bicameralismo svoltosi nell'Assemblea del Senato il 23 e 24 maggio, il 5, 6
e 7 giugno 1990.
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E' da sottolineare - essendo questo un tema sempre ricorrente - che la Commissione Bozzi
non ha ritenuto di aderire alla richiesta intesa a trasformare il Senato in una «Camera delle
regioni», eletta in secondo grado dai Consigli regionali, in considerazione soprattutto della
preferenza manifestatasi in Commissione per il mantenimento ad entrambe le Camere di una
diretta derivazione popolare.Tuttavia la Commissione ha affrontato sotto altro profilo il problema della connessione tra il Parlamento e le regioni, specie per quanto concerne l’esercizio della
funzione legislativa, precisando ed espandendo i compiti della Commissione bicamerale per le
questioni regíonali, già prevista dalla Costituzione. Per rafforzare il raccordo tra Parlamento e
regioni si è prospettata l’opportunità di integrare detta Commissione, per le funzioni consultive
in campo legislativo, con rappresentanti delle venti regioni italiane.
Le critiche al vigente «bicameralismo perfetto» sono state recepite, tanto che la maggioranza della Commissione ha ritenuto opportuno proporre una differenziazione delle funzioni
delle due Camere. La valutazione delle esperienze costituzionali degli altri paesi porta però a
ritenere che ben difficilmente una differenziazione delle funzioni quale quella prospettata dalla
Commissione potrebbe evitare di tradursi in una riduzione del peso politico della seconda Camera. Sulla base dell’evoluzione costituzionale di paesi come la Francia e l’Inghilterra, è
prevedibile che l’accettazione delle proposte della Commissione Bozzi porterebbe ad un sostanziale monocameralismo, appena mitigato.
Poche osservazioni conclusive sul punto.
Non va dimenticato che in Italia si è attribuita al bicameralismo tutta una serie di disfunzioni che erano, invece, dovute al multipartitismo esasperato.
Al fine di diversificare le funzioni tra le due Camere, esistono tre possibilità: una prevedere leggi necessariamente bicamerali, l’altra con leggi eventualmente bicamerali e l’ultima con
leggi necessariamente monocamerali.
Riassumendo, le questioni da risolvere per giungere a un esito concreto sono le seguenti: 1)
modalità di costituzione delle due Camere; 2) poteri spettanti alle due Camere; 3) durata delle
due Camere; 4) numero dei componenti delle due Camere (vedi punto 8.).
17. LO STATUTO DELL'OPPOSIZIONE
In via di prima approssimazione, si intende per “statuto” dell’opposizione il complesso
delle regole che specificamente si riferiscono all’opposizione o comunque sono utili all’opposizione (9).
Tali regole possono essere collocate, congiuntamente o disgiuntamente, a livello di costituzione o di regolamento parlamentare o possono formarsi in via di prassi.
In generale, il sorgere e lo svilupparsi di uno statuto delle opposizioni è influenzato dalla
forma di Stato (unitario o federale) e dalla forma di Governo (presidenziale, semipresidenziale,
parlamentare).
L’esame di alcuni Paesi stranieri evidenzia che lo statuto dell’opposizione ha maggiore
spessore nel Regno Unito e in Germania, mentre si enuclea con maggiore difficoltà in Francia e
negli USA.
In Italia, da decenni esistono disposizioni contenute nella Costituzione e nei regolamenti
parlamentari che costituiscono un sistema di garanzia per le minoranze. Vedi ad es. nella Costituzione gli artt. 62, comma 2; 72, comma 3; 83 comma 2.
Più recente è invece la istituzionalizzazione della opposizione parlamentare; e cioè la
previsione di regole e istituti a disposizione della opposizione come tale, e non come minoranza.
In tal senso alcune interessanti realizzazioni (alcune delle quali hanno incontrato difficoltà a
decollare nella pratica) sono state effettuate mediante modifiche dei regolamenti parlamentari.
Vedi ad es. nel Reg. Camera, gli artt. 23, 24, 25, 16 bis; nel Reg. Senato, gli artt. 53, comma 3
e 151 bis, comma 4.
(9) Si veda sull’argomento il pregevole Quaderno di documentazione edito dal Servizio Studi del Senato, Roma luglio 1995.
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Esistono altresì proposte per inserire in Costituzione uno statuto delle opposizioni (10).
18. LA COMMISSIONE PARLAMENTARE PER LE RIFORME COSTITUZIONALI
L'Assemblea della Camera ha esaminato nei primi mesi del 1998 un progetto di legge
costituzionale (p.d.l. n. 3931-A) di revisione della seconda parte della Costituzione, approvato
in sede referente dalla Commissione parlamentare (bicamerale) per le riforme costituzionali,
istituita con la legge costituzionale 24 gennaio 1997, n. 1.
Tale legge costituzionale prevedeva l’istituzione di una Commissione parlamentare per le
riforme costituzionali, composta di trentacinque deputati e di trentacinque senatori, per l’esame
in sede referente di progetti di legge costituzionale di revisione della parte II della Costituzione.
Come previsto dalla legge istitutiva, entro il 30 giugno 1997 la Commissione ha trasmesso un
progetto di legge di revisione della parte II della Costituzione, per poi pronunciarsi sugli emendamenti presentati da deputati e da senatori nei successivi trenta giorni.
Erano poi previste due deliberazioni conformi delle due Camere, ad intervallo non minore
di tre mesi l’una dall’altra, con la necessità della maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera nella seconda deliberazione per il voto unico finale.
La legge di revisione costituzionale doveva essere sottoposta in ogni caso ad un unico
referendum popolare entro tre mesi dalla pubblicazione e promulgata se al referendum avesse
partecipato la maggioranza degli aventi diritto e fosse stata approvata dalla maggioranza dei
voti validi.
Davanti alla Commissione bicamerale hanno avuto luogo una lunga e reiterata discussione
generale, inoltre, molteplici audizioni di rappresentanti degli organismi e delle categorie, nonchè
di esperti, più direttamente interessati al processo di revisione costituzionale; infine, l'istituzione
di comitati ristretti per l’approfondimento specifico delle quattro distinte tematiche individuate
dalla legge istitutiva (forma di Stato, forma di Governo, Parlamento e fonti normative, garanzie).
Infine la Commissione ha approvato un progetto di revisione costituzionale nella seduta
del 30 giugno 1997, nel corso della quale è stata anche data lettura di due dichiarazioni di intenti
sulla materia elettorale (l'una firmata dai deputati Mattarella, Berlusconi ed altri, e l’altra presentata degli Onorevoli D'Amico, Spini, Occhetto e Passigli), di cui però la Commissione si è
limitata a prendere atto, senza alcuna votazione.
Come previsto dalla legge costituzionale istitutiva entro 30 giorni dalla data del 30 giugno,
ciascun deputato o senatore ha presentato alle Presidenze delle Camere emendamenti, sui quali
la Commissione si è pronunciata nei successivi 30 giorni. La Commissione nella seduta del 4
novembre 1997 ha proceduto alla trasmissione di una seconda proposta di revisione costituzionale, come modificata alla luce degli emendamenti presentati alle Presidenze ed approvati dalla
Commissione stessa (p.d.l. C. 3931-A - d.d.l. S. 2583-A).
(10) Ad esempio il Comitato di studio sulle riforme istituzionali, elettorali e costituzionali nominato con DPCM del 14 luglio 1994 ha
proposto una istituzionalizzazione dell’opposizione parlamentare e del Capo dell’opposizione. Le proposte del Comitato sono le
seguenti: (Opposizione parlamentare) Dopo l’articolo 96 della Costituzione inserire il seguente: “Articolo 96-bis: L’Opposizione
costituzionale è formata da tutti i deputati che, dopo la presentazione programmatica che il Primo Ministro svolge alla Camera dei
deputati entro dieci giorni dalla nomina, votano per appello nominale contro il programma del Governo. I deputati assenti possono
manifestare anche successivamente la loro adesione all’Opposizione costituzionale.
Il Capo dell’Opposizione è eletto da tutti i deputati appartenenti all’Opposizione costituzionale ai sensi del primo comma. Con le
stesse modalità può essere revocato”.
(Ruolo ed attribuzione del Capo dell’Opposizione) Dopo l’articolo 96-bis della Costituzione inserire il seguente: “Articolo 96ter: Il Capo dell’Opposizione rappresenta l’Opposizione costituzionale, come potenziale alternativa di governo, sia nella Camera dei
deputati sia nei rapporti con gli altri organi costituzionali.
Il Capo dell’Opposizione è sentito dal Presidente della Repubblica e dal Primo Ministro, oltre che in caso di guerra o di grave
emergenza nazionale, nei casi previsti dal regolamento della Camera o dalle leggi, nelle quali è stabilita la formazione di organi o di
autorità indipendenti di garanzia”.
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Successivamente, l’esame del progetto di revisione costituzionale è iniziato presso l’Assemblea della Camera dei deputati a partire dalla seduta del 26 gennaio 1998.
Il progetto licenziato dalla Commissione bicamerale conteneva le seguenti proposte: la
scelta per un bicameralismo ineguale; il Senato come «Camera delle garanzie»; particolari disposizioni in materia di poteri di nomina e di inchieste parlarmentari; il procedimento legislativo
tendenzialmente monocamerale in capo alla Camera, ma virtualmente bicamerale (nel senso che
su richiesta di un determinato quorum il Senato poteva pronunciarsi su un disegno legge, eventualmente proponendo modifiche, sulle quali spettava comunque alla Camera dei deputati deliberare in via definitiva), salve alcune materie di importanza primaria attribuite alla competenza
legislativa di entrambe le Camere; la posizione del Governo in Parlamento; la determinazione
dell’ordine del giorno; il voto (quasi) «bloccato», una serie di diritti per le opposizioni; una
riorganizzazione del sistema delle fonti (decretazione d’urgenza, decreti legislativi, delegificazione
e riserve di regolamento); le procedure per l’approvazione della manovra di finanza pubblica;
l’autorizzazione alla ratifica dei trattati internazionali; la concessione dell’amnistia e dell’indulto; il passaggio dal referendum abrogativo a quello propositivo, nel senso che, quando le Camere non abbiano deliberato entro 18 mesi sul progetto di legge popolare presentato da almeno
800.000 elettori, si prevede che potrebbe essere indetta una consultazione popolare per deliberarne l’approvazione.
Per quanto concerne la forma di Stato, si è adottata una soluzione di tipo federale, fondata
su un federalismo «ascendente» (basato sul principio di sussidiarietà).
Circa la forma di governo, lo stesso relatore Salvi ha fatto riferimento alla formula del
«semi-presidenzialismo temperato», vale a dire con un Presidente della Repubblica eletto direttamente dal popolo con un ruolo prevalentemente di garanzia, anche se parte della dottrina ha
ritenuto «ambiguo» il ruolo progettato dalla Commissione bícamerale per il Capo dello Stato.
A partire dal 26 gennaio e fino a giugno 1998 la Camera ha approvato quasi tutti gli
articoli del progetto relativi alla forma di Stato. Il 9 giugno 1998 il Presidente della Camera ha
fatto in aula il seguente annunzio: «Comunico che il presidente della Commissione parlamentare per le riforme costituzionali mi ha comunicato che l’ufficio di presidenza della Commissione,
integrato dai rappresentanti dei gruppi, nella sua odierna riunione ha preso atto del venir meno
delle condizioni politiche per la prosecuzione della discussione in Assemblea del progetto di
legge per la revisione della parte seconda della Costituzione; sono state quindi rimesse alla
Conferenza dei presidenti di gruppo le conseguenti determinazioni in ordine all’iter del progetto
di legge.
Sulla base di quelle condizioni politiche, era stato sospeso l’esame presso le Commissioni
affari costituzionali dei due rami del Parlamento dei progetti di legge costituzionale in materia;
il venir meno di quelle condizioni politiche fa si che ora le Commissioni stesse potranno procedere all’eventuale esame, ai sensi dell’articolo 138 della Costituzione, dei progetti di legge
costituzionale alle stesse assegnati, concernenti la parte seconda della Costituzione, secondo le
decisioni che i rispettivi uffici di presidenza riterranno di adottare.
La Conferenza dei presidenti di gruppo, nella riunione odierna, ha di conseguenza
unanimemente convenuto, sulla base delle conclusioni dell’ufficio di presidenza della Commissione bicamerale, di togliere dal programma e dal calendario dei lavori dell’Assemblea il seguito dell’esame del progetto di legge di revisione della parte seconda della Costituzione, salvo
successive diverse determinazioni.
Se non vi sono obiezioni, rimane così stabilito».
19. IL REFERENDUM ABROGATIVO
Il referendum abrogativo rappresenta la forma più incisiva di democrazia diretta prevista
dalla Costituzione, in quanto consente al corpo elettorale di abrogare, per intero o in alcune sue
parti, una legge o un atto con forza di legge.
In base all'art. 75 Cost., è indetto referendum popolare per deliberare l'abrogazione, totale
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o parziale, di una legge o di un atto avente valore di legge, quando lo richiedano cinquecentomila
elettori o cinque Consigli regionali.
Non è ammesso il referendum per le leggi tributarie e di bilancio, di amnistia e di indulto,
di autorizzazione a ratificare trattati internazionali (vedi Cap. IX, 3. d).
Hanno diritto di partecipare al referendum tutti i cittadini chiamati ad eleggere la Camera
dei deputati.
La proposta soggetta a referedum è approvata se ha partecipato alla votazione la maggioranza degli aventi diritto, e se è raggiunta la maggioranza dei voti validamente espressi.
La legge determina le modalità di attuazione del referendum (vedi la L. 25 maggio 1970, n.
352, e successive modificazioni).
Le opinioni principali sul ruolo del referendum possono ridursi alle seguenti:
- il referendum consente al popolo di sostituirsi al Parlamento per abrogare leggi ritenute
non più in sintonia con le esigenze sociali;
- il referendum garantisce le minoranze parlamentari, che possono - tramite tale istituto verificare se le loro tesi politiche, minoritarie in Parlamento, sono condivise dalla maggioranza del corpo elettorale.
In entrambi i casi, il referendum si configura come un istituto da utilizzare in via eccezionale.
Dopo le ultime consultazioni referendarie, nelle quali il quorum non è stato raggiunto, ci si
interroga sul futuro del referendum.
Il pensiero dei politologi e dei costítuzionalisti è diviso.
Le questioni più dibattute sono le seguenti:
- aumentare o meno il numero delle firme (da 500.000 a 800.000/un milione);
- abolire o meno il quorum, considerato anche che l’art. 138 Cost., che prevede il referendum confermativo, non lo richiede. Gli studiosi contrari alla abolizione del quorum
argomentano così: per approvare una legge è necessario che ci sia nelle Camere
il numero legale. Quindi, per analogia, occorre che vi sia un quorum per rendere valido
un referendum abrogativo di una legge.
Come è già stato accutamente osservato il referendum abrogativo (soprattuto quello tendente alla abrogazione parziale di una legge) è divenuto uno strumento di strategie popolari
alternative a quelle perseguite dai gruppi parlamentari in Parlamento. Si è manifestata cioè una
tendenza verso la "democrazia referendaria", che - almeno nelle forme estreme - non appare
facilmente conciliabile con la democrazia rappresentativa che connota, in via di massima, la
forma di governo italiana.
Questione delicata e controversa è quella relativa ai limiti che il risultato del referendum
pone all'attività legislativa del Parlamento.
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CAPITOLO V
IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA
1. SISTEMA PRESIDENZIALE E SISTEMA PARLAMENTARE
La natura della posizione costituzionale e l'ampiezza dei poteri del Capo dello Stato sono diverse, a seconda della forma di governo (presidenziale o parlamentare) adottato da ciascun Paese.
In particolare, il sistema presidenziale tende principalmente a garantire l'indipendenza e la
piena libertà d’azione del potere esecutivo rispetto a quello legislativo.
Nel sistema presidenziale (di cui l’esempio tipico è rappresentato dagli Stati Uniti di America) il Capo dello Stato è eletto (se pure in forma indiretta mediante la nomina di grandi elettori) dall’intera Nazione (e non dal Parlamento).
Egli è contemporaneamente anche Capo del Governo, che egli stesso forma, nominando
direttamente i Ministri, Segretari di Stato. I membri del Governo non possono appartenere al
Parlamento e non rispondono ad esso del loro operato. Tuttavia, la loro nomina deve essere
ratificata dal Congresso, che esprime il suo avviso e consenso.
In tale sistema il potere esecutivo si riassume nel Presidente, poiché i Segretari di Stato
sono semplicemente suoi collaboratori.
Una forma di Governo particolare è quella vigente in Francia dopo l’emanazione della
costituzione del 4 ottobre 1958, voluta dal generale De Gaulle. Questo regime è definito semipresidenziale, perché il Capo dello Stato (eletto dal popolo dopo la riforma costituzionale approvata con la legge 6 giugno 1962 n. 1292), è dotato di larghissimi poteri. In Francia, a
differenza dal sistema americano, la direzione della politica nazionale, pur fortemente influenzata dalle direttive del Presidente, spetta a un Governo da lui nominato e che deve godere della
fiducia del Parlamento. I poteri della Camera sono limitati e il potere esecutivo gode di un’ampia potestà regolamentare (1).
(1) Considerata la fortuna che il sistema semipresidenziale francese riscuote in Italia nella dottrina e nel mondo politico, è opportuno
spendere qualche parola per precisare gli effettivi rapporti intercorrenti tra il Presidente della Repubblica e il Primo Ministro in Francia.
E’ nota la dottrina secondo cui nel sistema francese vi sarebbe una netta prevalenza del Presidente della Repubblica. A prescindere
dalla evoluzione della prassi nel tempo, sembra che la realtà sia suscettibile della seguente lettura: a) il Presidente della Repubblica
determina la politica nazionale; b) il Primo Ministro la dirige conformemente agli orientamenti del Capo dello Stato; c) il Presidente
può avocare a se la gestione diretta degli affari che a suo avviso sono rilevanti.
Tre tecniche, a questo proposito, sono state compiutamente messe in luce nel corso degli anni, tecniche che sono d’altro canto tra
loro interrelate: a) quella delle direttive impartite dal Presidente al Governo; b) quella delle riunioni interministeriali presiedute dal
Capo dello Stato; c) quella del calendario dei lavori dell’Esecutivo adottato per decreto del Presidente.
Peraltro, la Costituzione del 1958 impone ai due vertici dell’Esecutivo una continua collaborazione ed è proprio in questi termini
che il sistema ha sempre funzionato. Al di là della controfirma della quasi totalità dei suoi atti. il Presidente non può in effetti fare a
meno della collaborazione del Primo Ministro allorquando si tratta di coordinare: - l’attività di governo e quella amministrativa; - la
messa in essere della procedura legislativa e, dunque, dei rapporti col Parlamento; - i rapporti con la maggioranza e con l’insieme della
opinione pubblica.
Inoltre non va dimenticato che il monopolio dei rapporti dell’Esecutivo con il Parlamento è appannaggio del Primo Ministro: al di
là del tradizionale messaggio dell’inizio di settennato, dello scioglimento dell’Assemblea e della convocazione del Parlamento in
sessione straordinaria, il Presidente della Repubblica non ha alcun contatto con il legislativo. E’ il Primo Ministro che controlla la
procedura legislativa e fa fronte al controllo parlamentare.
In conclusione il Governo continua a far uso di tutte le armi che gli consentono di opporsi alle iniziative parlamentari suscettibili
di snaturare i suoi progetti: a) irricevibilità ex articolo 40 della Costituzione; b) voto bloccato in virtù dell’articolo 44; c) ricorso alla
procedura della commissione mista paritetica prevista dall’articolo 45; d) "questione di fiducia” ex articolo 49, comma 3.
Alla luce di quanto esposto perciò, il semipresidenzialismo alla francese sembra più una forma di neoparlamentarismo razionalizzato
che di presidenzialismo.
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Il sistema parlamentare, adottato in Italia, postula, invece, la dipendenza politica del
Governo (formato dal Presidente del Consiglio e dai Ministri) dal Parlamento.
Il Capo dello Stato è, perciò, organo distinto dal Potere esecutivo e, non facendo parte del
Governo, non presiede mai il Consiglio dei Ministri.
2. NOMINA E DURATA
Nel nostro ordinamento il Presidente della Repubblica è eletto dal Parlamento in seduta
comune, con la partecipazione di tre delegati per ogni Regione eletti dal Consiglio regionale in
modo che sia assicurata la rappresentanza delle minoranze. La Valle d’Aosta ha un solo delegato.
La elezione del Presidente della Repubblica ha luogo per scrutinio segreto a maggioranza
qualificata (due terzi dei componenti dell’Assemblea), oppure a maggioranza assoluta (metà
più uno dei componenti stessi) dopo il terzo scrutinio (art. 83).
Dalla nascita della Repubblica ai nostri giorni solo il primo Presidente De Nicola, Cossiga
e Ciampi sono stati eletti a maggioranza qualificata (due terzi dei componenti dell’Assemblea)
in quanto tutti gli altri non hanno ottenuto nelle prime tre votazioni la richiesta maggioranza dei
due terzi.
I requisiti per l’elezione del Presidente della Repubblica sono: cittadinanza italiana, godimento dei diritti civili e politici ed età minima di anni 50 (art. 84).
Le funzioni del Presidente della Repubblica, in ogni caso in cui egli non possa adempierle,
sono esercitate dal Presidente del Senato (art.86). In caso di impedimento permanente, o di
morte o di dimissione del Presidente della Repubblica, il Presidente della Camera dei deputati
indice l’elezione del nuovo Presidente della Repubblica entro quindici giorni, salvo il maggior
termine previsto se le Camere siano sciolte o manchi meno di tre mesi alla loro cessazione.
Il Presidente della Repubblica dura in carica sette anni, che cominciano a decorrere non
dalla data della avvenuta elezione, bensì da quella in cui il Presidente eletto presta giuramento di
fedeltà alla Repubblica e di osservanza della Costituzione davanti al Parlamento riunito in
seduta comune.
Per evitare il verificarsi di soluzioni di continuità nell’ufficio di Capo dello Stato, l’art. 85
prevede che, trenta giorni prima che scada il termine (dei sette anni), il Presidente della Camera
dei deputati convochi in seduta comune il Parlamento e i delegati regionali per eleggere il nuovo
Presidente della Repubblica. E aggiunge che, se le Camere sono sciolte, o mancano meno di tre
mesi alla loro cessazione, l’elezione ha luogo entro quindici giorni dalla riunione delle nuove
Camere. Nel frattempo sono prorogati i poteri del Presidente in carica.
Quando l’impedimento sia temporaneo o permanente la Costituzione non lo dice, né esiste
alcuna legge al riguardo (2).
Il supplente, gode di tutte le prerogative del titolare dell’ufficio e ne esercita tutte le funzioni. Tuttavia, si ritiene che il Presidente supplente non possa sciogliere le Camere, né nominare i
senatori a vita e i cinque membri della Corte costituzionale .
3. ATTRIBUZIONI
Il Presidente della Repubblica è il Capo dello Stato e rappresenta l’unità della Nazione
(art. 87 primo comma).
(2) Quando si verificò nel 1964 la grave malattia del Presidente Segni, l’accertamento della malattia coinvolse, sia il Segretario generale
della Presidenza della Repubblica (da cui partì la comunicazione del bollettino medico), sia il Presidente dei Consiglio dei Ministri
(che fu informato dal primo), sia il Consiglio dei Ministri (che prese atto dell’impedimento), sia il Presidente del Senato (che divenne
Presidente supplente), sia il Presidente della Camera (che, infine, dopo le dimissioni di Segni, convocò il Parlamento in seduta comune
per la elezione del nuovo Presidente). In dottrina sono state sostenute diverse tesi: vi è chi attribuisce l’atto di accertamento al
Presidente del Senato, chi al Presidente della Camera, chi all’autorità governativa che se ne assumerebbe la responsabilità di fronte
alle Camere, chi al Parlamento in seduta comune e chi infine alla Corte costituzionale.
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a. In ordine al potere legislativo.
- Non ha più l'iniziativa legislativa che lo Statuto Albertino riconosceva al Re (art. 10
Statuto), ma può inviare messaggi alle Camere (art. 87 secondo comma);
- non ha più il diritto di sanzionare le leggi (artt. 3 e 7 Statuto), ma ha soltanto il dovere
di promulgarle, di regola entro un mese dall’approvazione (art. 73). Peraltro, prima
della promulgazione, segnatamente quando rilevi un vizio di forma o di costituzionalità, può con messaggio motivato alle Camere chiedere una nuova deliberazione. Ma,
se queste approvano nuovamente la legge, essa deve essere promulgata (art. 74); ma
secondo una autorevole dottrina, l’obbligo del Capo dello Stato non sussisterebbe nel
caso in cui la legge approvata dalle Camere importi un attentato alla Costituzione
(Mortati: trattasi ovviamente di ipotesi di scuola);
- autorizza con decreto la presentazione alle Camere dei disegni di legge di iniziativa
governativa, deliberati cioè dal Consiglio dei Ministri (art. 87 4° comma);
- emana i decreti legislativi (leggi delegate) e i decreti-legge, cioè i provvedimenti aventi
forza di legge, nonché i regolamenti (art. 87 5° comma) e può, sentiti i loro Presidenti, sciogliere le Camere o anche una sola di esse, sempre che non si trovi negli ultimi
sei mesi del suo mandato (3) (art. 88);
- nomina cinque senatori a vita, scegliendoli tra i cittadini che hanno illustrato la Patria
per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario (art. 59 2°
comma);
- indice le elezioni delle nuove Camere e ne fissa la prima riunione;
- indice il referendum popolare nei casi previsti dalla Costituzione.
b. In ordine al potere esecutivo.
Il Presidente della Repubblica:
- nomina il Presidente del Consiglio dei Ministri, scegliendo la persona che
presumibilmente potrà avere la fiducia del Parlamento, e quindi, su proposta del
Presidente del Consiglio dei Ministri, nomina i Ministri e, previa deliberazione del
Consiglio dei Ministri, i Sottosegretari di Stato;
- ha il comando delle Forze armate;
- presiede il Consiglio supremo di difesa e dichiara la guerra deliberata dalle Camere;
- nomina i funzionari dello Stato nel casi indicati dalla legge e, segnatamente, adotta,
su conforme deliberazione del Consiglio superiore della Magistratura, che presiede,
tutti i provvedimenti riguardanti i magistrati dell’Ordine giudiziario (art. 17 legge 24
marzo 1958 n. 195);
- decide i ricorsi straordinari al Capo dello Stato;
- accredita e riceve i rappresentanti diplomatici;
- ratifica i trattati internazionali, previa, quando occorra, l’autorizzazione delle Camere;
- conferisce le onorificenze della Repubblica.
Rare sono le pronunce della Corte costituzionale sui poteri del Capo dello Stato. Esiste
tuttavia una vecchia sentenza (19 aprile 1962, n. 35), che merita di essere riportata per la
sua chiarezza. Secondo la Corte cost., dunque, ai sensi dell’art. 92 della Costituzione, concernente la composizione del Governo, e dell’art. 95, che precisa le funzioni del Presidente
del Consiglio dei Ministri, relativamente all’attività governativa ed amministrativa, non può
ritenersi riconosciuto al Capo dello Stato quel complesso di poteri già spettanti, secondo la
precedente legislazione statutaria. Onde si ritiene generalmente che, alla stregua delle accennate disposizioni, il Presidente della Repubblica non può essere considerato come organo di
Governo, né come organo della pubblica amministrazione, anche se l’art. 87 della Costituzione gli deferisce particolari attribuzioni riferentisi all’una e all’altra funzione. E' da tenere
presente tuttavia che, per quanto attiene alla funzione amministrativa, secondo una prassi
seguita sin dall’entrata in vigore della Costituzione, molte leggi deferiscono alla firma del
Capo dello Stato, non soltanto i regolamenti, dei quali è espressa menzione nell’art. 87, ma
anche provvedimenti attinenti in concreto all’attività della pubblica amministrazione. At83
tualmente, la legge 12 gennaio 1991, n. 13, determina gli atti amministrativi che devono
essere adottati nella forma del D.P.R..
c. In ordine al potere giudiziario.
Il Presidente della Repubblica, ai sensi dell’art. 87 Cost. 11° comma “può concedere
grazia e commutare pene”. Presiede il Consiglio Superiore della Magistratura.
4. LA CONTROFIRMA MINISTERIALE DEGLI ATTI PRESIDENZIALI
Ai sensi dell’art. 89 Cost., nessun atto del Presidente della Repubblica è valido se non è
controfirmato dai Ministri proponenti , che ne assumono la responsabilità. Il principio, già
contenuto nello Statuto Albertino (art. 67), sancisce il carattere di irresponsabilità politica del
Capo dello Stato.
Esistono, tuttavia, anche atti in ordine ai quali la volontà del Capo dello Stato è esclusiva
o comunque prevalente rispetto alla volontà del Governo. Essi sono:
- la nomina del Presidente del Consiglio dei Ministri;
- la nomina dei cinque Senatori a vita;
- la nomina di cinque giudici della Corte costituzionale;
- l’invio di messaggi alle Camere;
- l’esercizio del potere di veto (sospensivo) in ordine alla promulgazione delle leggi;
- lo scioglimento anticipato delle Camere: secondo alcuni autori, invece, tale atto sarebbe
"duumvirale", spettante cioè in ugual misura al Pres. Rep. e al Pres. Consiglio dei Ministri.
Sono tutti atti che costituivano quelle che si chiamavano le prerogative regie. Essi rappresentano, in quanto atti squisitamente politici (Balladore Pallieri), un'eccezione alla regola sopraddetta, secondo cui occorre, per l’emanazione degli atti presidenziali, la proposta di un
Ministro, ed in relazione ad essi soltanto può forse conservarsi all’istituto della controfirma il
carattere di traslazione di responsabilità.
In base a tali considerazioni, alcuni autori hanno definito l’atto su controfirma, dal punto
di vista giuridico, come atto complesso, a contenuto ineguale, formato dalla volontà di entrambi
gli organi (Capo dello Stato e Governo), con prevalenza dell’uno o dell’altro a seconda che si
tratti di atti d’iniziativa presidenziale ovvero di atti di iniziativa ministeriale.
5. LA RESPONSABILITÀ DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA
In base all'art. 90 Cost., il Presidente della Repubblica non è responsabile degli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni, tranne che per alto tradimento o per attentato alla Costituzione. In tali casi è messo in stato di accusa dal Parlamento in seduta comune, a maggioranza
assoluta dei suoi membri.
Pertanto, diversamente dallo Statuto Albertino, il quale sanciva la sacralità e l'inviolabilità
della persona dei Re (art. 4) escludendo quindi, una responsabilità del monarca, la Costituzione
vigente sancisce la “non responsabilità”- tranne che nei casi specificamente indicati - del Capo
dello Stato quanto agli atti compiuti nell’esercizio delle funzioni presidenziali, mentre nulla è
esplicitamente disposto riguardo agli atti posti in essere al di fuori delle predette funzioni. Per
gli atti compiuti a causa dell’esercizio del suo mandato, il Presidente della Repubblica è penalmente responsabile solo nei casi di “alto tradimento” e di “attentato alla Costituzione” ed immune da qualsiasi giudizio politico (che dovrebbe ricadere solo sul Governo ex artt. 89 Cost e 279
c.p.). Questa è la posizione dominante in dottrina.
(3) Salvo che essi coincidano in tutto o in parte con gli ultimi sei mesi della legislatura (in tal senso è la modifica cost. art. 88 operata nel
1991).
84
Per i reati di alto tradimento e di attentato alla Costituzione, alcuni autori - in ossequio al
principio di legalità di cui all’art. 25 Cost. - ritengono che coincidano, rispettivamente, con le
fattispecie contemplate dall’art. 77 c.p. mil. di pace e dall’art. 283 c.p. - come modificato
dall’art. 2, legge 11.11.1947, n. 1317 - ma le difficoltà che presenta una tale soluzione appaiono
difficilmente superabili, per cui la maggioranza della dottrina è orientata nel senso dell’autonomia delle due ipotesi costituzionalmente previste.
Del resto, dai lavori preparatori dell’Assemblea costituente sembra desumersi la volontà
di non volersi riferire a fattispecie penali già esistenti.
In dottrina si controverte sulla punibilità dei reati (c.d. comuni) che il Presidente della
Repubblica potrebbe commettere durante il mandato, fuori dell’esercizio delle sue funzioni e
cioè come semplice cittadino.
Il citato articolo 279 c.p. deve essere interpretato tenendo presente quella che - a norma
della Costituzione vigente - è la posizione costituzionale del Presidente della Repubblica (4).
La dottrina (soprattutto quella penalistica) si è soffermata sulle questioni relative al soggetto passivo e all'elemento materiale del reato (5).
L’originaria formulazione della norma indicava quale soggetto passivo il Re o il Reggente.
L’attuale enunciazione dell’articolo deriva dalla modifica apportata con l’art. 2 l. 11.11.1947,
n. 1317. Questa fattispecie è caratterizzata dall’essere il reato diretto non contro la persona del
Presidente della Repubblica, ma contro la sua figura istituzionale, alla quale la condotta tende
ad attribuire determinate responsabilità. Conseguenza di ciò è che il soggetto passivo può identificarsi non solo nella persona del Presidente della Repubblica attualmente in carica, ma anche
in chi abbia ricoperto la carica in passato, purché all’epoca sia stato commesso l’atto per il
quale viene espresso il biasimo o viene addebitata la responsabilità (Manzini IV 466).
Secondo alcuni il delitto in esame è un reato di lesione, in base alla considerazione
dell’estraneità alla sua specifica oggettività giuridica del pericolo per la personalità dello Stato
(Manzini IV 474). A diverse conclusioni si è giunti laddove l’interesse tutelato viene delineato
in modo da comprendervi il valore dell’equilibrio istituzionale nella ripartizione delle prerogative dei diversi organi; in tale prospettiva la condotta indubbiamente appare caratterizzata dal
pericolo di compromissione di tale equilibrio (Marconi, 252). A prescindere da queste considerazioni, la condotta è in primo luogo riferita agli atti del Governo. Gli atti in questione vengono
identificati sia in quelli che il Presidente compie ufficialmente come Capo dello Stato, per essere
gli stessi attribuiti espressamente alla sua competenza dalla Costituzione (v. artt. 62, 73, 87, 88,
92 Cost.) o per essere, per consuetudine, manifestazioni di esercizio di attività costituzionale
(quali i discorsi, le missive, le risposte a messaggi), che in quelli propri dei ministri o di altri
organi dello Stato (Manzini IV 469 ss.); escludendosi da tale previsione i soli atti privati del
Presidente, essendo la sua irresponsabilità limitata dall’art. 90 Cost. agli atti compiuti nell’esercizio delle proprie funzioni. Vanno altresì esclusi gli atti riconducibili alle figure dell’alto tradimento e dell’attentato alla Costituzione, per le quali l’art. 90 Cost. prevede una responsabilità
propria del Capo dello Stato. Si è peraltro posto il proble ma degli atti compiuti dal Presidente
che non abbiano natura complessa, e siano quindi attribuibili all’esclusiva opera del Capo dello
Stato, quali le dichiarazioni, i discorsi e le missive. Tale problematica è strettamente legata al
riconoscimento o meno dell’esistenza di un’area di responsabilità politica propria del Presidente. Ove infatti si segua una impostazione che esclude l’esistenza di una siffatta responsabilità
(Mortati, 513), non può che aderirsi ad una concezione ampia dell’ambito degli atti di Governo,
per la quale lo stesso non si contrappone ad un campo di attività del Presidente della Repubblica, ma al contrario lo comprende, rimanendone assorbiti anche gli atti di cui sopra in quanto ad
(4) Art.. 279 c.p. - Lesa prerogativa della irresponsabilità del Presidente della Repubblica. - Chiunque, pubblicamente, fa risalire al
Presidente della Repubblica il biasimo o la responsabilità degli atti del Governo è punito con la reclusione fino ad anno e con
la multa da lire cinquemila a cinquantamila.
Per la bibliografia, vedi Barile, Il Presidente della Repubblica, Nss. DI, XIII, 720; Dean, Personalità interna dello Stato
(delitti contro la), Nss DI, XII, 1105; Fiore, I reati di opinione, Padova 1972; Marconi, Presidente della Repubblica (reati
contro il), ED, XXXV, 242; Mortati, Istituzioni di diritto pubblico, I, Padova 1969; Zuccalà, Irresponsabilità del Presidente
della Repubblica e tutela penale, Studi Guicciardi, Padova 1975, 741.
(5) Le considerazioni riportate nel testo sono tratte dal Codice Penale, a cura di T. Padovani, ed. Giuffrè.
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ognuno di essi corrisponde necessariamente un atto del Governo (Manzini IV 467). Se invece si
ritiene che il Presidente mantenga un suo spazio di responsabilità politica, attinente all’espressione della sua posizione di organo super partes (Barile, 720), se ne deve concludere che gli atti
in questione, in quanto riconducibili a tale finalità, non facciano parte degli atti di Governo nei
sensi di cui alla fattispecie commentata; e che la nozione di atti di Governo debba essere ristretta
agli atti dallo stesso deliberati. Il fatto che la condotta sia connotata dall’attribuire al Presidente
il biasimo o la responsabilità per gli atti sopra descritti comporta poi, nella definizione degli
stessi, un’ulteriore limitazione, nel senso di escludere la rilevanza della condotta in quanto
riferita ad atti di per sé non suscettibili di essere riprovati o imputati a taluno (Manzini IV 471).
Non occorre invece che l’atto attribuito sia stato effettivamente realizzato, essendo sufficiente
che esso possa astrattamente essere ascritto al Capo dello Stato (Manzini IV 472).
6. IL COMANDO DELLE FORZE ARMATE
Secondo la dottrina assolutamente prevalente, la funzione di comando delle Forze armate
è devoluta dall’art. 87, comma 9, Cost., al presidente della Repubblica quale capo dello Stato e
rappresentante dell’unità nazionale. Essa risponde, preliminarmente, a una fondamentale esigenza di garanzia dell’apoliticità (e quindi della neutralità politica) delle Forze armate e appare
strettamente connessa all’altra funzione presidenziale - pure prevista dall’art. 87, comma 9 della presidenza del Consiglio supremo di difesa (6).
Il comando delle Forze armate, com'è noto, rappresentava, nell’ordinamento statutario,
una tradizionale “prerogativa regia”. Vigeva la distinzione tra funzioni amministrative in tempo
di pace - affidate ai ministri, cui spettava anche di controfirmare gli atti del re relativi alle Forze
armate, sempre in tempo di pace - e funzioni di comando in tempo di guerra, esercitate dal
sovrano tramite il capo di stato maggiore, con esclusione di ogni potere di controfirma ministeriale.
La situazione mutò nel periodo del fascismo, quando il re affidò il comando effettivo delle Forze
armate al duce, capo del fascismo (salvo riassumerlo nuovamente il 25 luglio 1943) (7).
Un significato del tutto nuovo ha assunto la funzione di comando delle Forze armate nell’ordinamento costituzionale vigente. Anzitutto, appare ormai superata la tradizionale distinzione tra esercizio del comando in tempo di pace e in tempo di guerra. Al ministro della Difesa
spettano, in tempo di pace come di guerra, sia le ordinarie funzioni amministrative proprie di
ciascun capo dicastero, sia funzioni di direzione politica e strategica.
(6) Sul comando delle Forze armate, vedi da ultimo: Calandra P. - Presidente della Repubblica. Quaderni costituzionali 1986, P.551.
Manzella A. - Il capo dello Stato in “Consiglio Supremo di difesa”. Quaderni costituzionali 1987, p. 231. Galeotti S. - Brevi note
in tema di potere estero e divisione dei potere nella Costituzione italiana. Iustitia 1987, p. 218. Commissione, presieduta dal Prof.
L. Paladin, istituita dal Governo Goria per l’esame dei problemi costituzionali concernenti il comando e l’impiego delle Forze
armate. Relazione. Quaderni costituzionali 1988, p. 318. Motzo G. - Politica della difesa e comando costituzionale delle forze
armate. Quaderni costituzionali 1988, p. 297. Labriola S. - Consiglio supremo di difesa. Enciclopedia giuridica. Vol. VIII.
Roma, 1988. Guiglia G. - Il regolamento di attuazione del Consiglio supremo di difesa e i rapporti tra Presidente della Repubblica
e Presidente del Consiglio dei ministri. Quaderni costituzionali 1991, p. 124.
Per meglio comprende la posizione del Pres. Rep. rispetto alle Forze armate, è interessante ricordare anche il dibattito in
Assemblea costituente. Il relatore, on. Tosato, osservò: "Per quanto riguarda l'emendamento Gasparotto, Chatrian, Moranino ed
altri la commissione concorda perfettamente con l'esigenza, fatta presente dall’on. Casparotto , ri guardo alla necessità di
indicare che questo Consiglio supremo di difesa dovrà essere costituito secondo la legge.
Per quanto riguarda l’emendamento Azzi la Commissione non è concorde nel ritenerlo opportuno. L’on. Azzi propone di
aggiungere, alle parole ha il comando delle Forze armate, quelle e lo esercita in tempo di pace tramite il ministro della difesa
e in tempo di guerra tramite il capo di Stato Maggiore della difesa. Ora, osservo anzitutto che forse, a questo proposito, l’on.
Azzi ha manifestato delle preoccupazioni che non sono fondate, in quanto non bisogna dimenticare che il capo dello Stato non è
responsabile e che, quindi, i suoi atti devono essere coperti dalla responsabilità di un ministro. Pertanto è chiaro che in tempo di
pace l’esercizio effettivo del comando delle Forze armate, proprio del Presidente, è esercitato con la responsabilità del Governo e,
in particolare, del ministro della difesa; mentre per il tempo di guerra si regolerà il problema sempre in base all’identico principio
della irresponsabilità del capo dello Stato secondo la soluzione che, al problema dell’effettivo comando delle Forze armate in
tempo di guerra, sarà dato dalla legge. Abbiamo già approvato la formula secondo la quale la guerra è deliberata dalle Camere; è
chiaro che, una volta che ciò avvenga, occorre l’organo che dichiari all’esterno questa deliberazione; e pertanto è opportuno
ricordare, fra i poteri del Presidente della Repubblica, quello di « dichiarare lo stato di guerra deliberato dalle Camere ». (A. C.,
pagg. 1447-48).
(7) Sulla prerogativa regia nell'ordinamento albertino, vedi E. Crosa, Diritto costituzionale, Torino, Utet, 1941, pag. 475 seg.
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La questione della corretta interpretazione dell'art. 87, comma 9, Cost. ha richiamato per
altro l'attenzione, non solo, della dottrina, ma anche di un Presidente della Repubblica (Cossiga)
che, con lettere inviate ai Presidenti del Consiglio dell'epoca, poneva in prima linea la questione
delle implicazioni ricavabili da quella previsione costituzionale, manifestando senz’altro l’opinione che il detto comando non potesse avere «carattere puramente cerimoniale e simbolico».
Soprattutto in questa luce, dunque, il Capo dello Stato prospettava l’opportunità di emanare
«una disciplina sull’impiego delle Forze Armate» che si adeguasse al proliferare di situazioni
affatto nuove «di conflittualità e di emergenza».
Con decreto 1° dicembre 1987 il Governo Goria istituiva una «Commissione di esperti»,
con il «il compito di approfondire l’esame e lo studio... dei problemi concernenti la disciplina
dei poteri di comando delle Forze Armate e delle procedure e competenze per il loro impiego nei
casi di guerra, di crisi internazionali o di calamità pubbliche e di formulare conseguenti proposte in merito».
Un dato fondamentale per lo studio del problema è rappresentato dunque dalla Relazione
della Commissione istituita dal Governo Goria per l’esame dei problemi costituzionali concernenti il comando e l’impiego delle Forze Armate (c.d. Commissione Paladin, dal nome del suo
Presidente). (8).
La relazione della Commissione Paladin, molto ampia ed articolata merita attenta riflessione. Purtroppo nell'economia del presente lavoro non si possono affrontare i numerosi problemi trattati dalla Commissione. E' possibile riportare soltanto le conclusioni, peraltro assai chiare.
Conclusivamente la Commissione è partita dalla premessa chc «comando» delle Forze
Armate, attribuito al Presidente della Repubblica dalla Costituzione, non possa intendersi nel
senso tecnico del termine, dato il carattere parlamentare della forma italiana di governo: al pari
che in tutti gli analoghi regimi europei, gli effettivi poteri di comando competono invece al
Governo, nell’ambito del quale il punto di collegamento tra le strutture politiche e l’apparato
militare è rappresentato dal Ministro della difesa. Nondimeno, il «comando» costituzionalmente
conferito al Capo dello Stato non è puramente cerimoniale e simbolico, trattandosi piuttosto secondo l’unanime opinione degli studiosi - d’uno strumento per esercitare la peculiare funzione
presidenziale di garanzia dei valori costituzionali (dal ripudio della guerra fino alla necessaria
apoliticità delle Forze Armate). Ma è precisamente in vista di tale garanzia che il Capo dello
Stato deve essere in grado di verificare e sanzionare tempestivarnente le eventuali violazioni dei
valori stessi: il che, da una parte, consente che i relativi decreti presidenziali siano rinviati al
riesame del Governo o del Ministro proponente; e, d'altra parte, esige che il Presidente disponga
di un'adeguata e pronta conoscenza, relativamente a tutto ciò che riguardi l’impiego militare
delle Forze Armate, pur quando non si tratti di questioni da affrontare per mezzo di atti sottoposti alla sua firma.
Nel dare un organico seguito a tali criteri, il Governo e lo stesso Parlamento dovranno però
superare alcune ragioni di difficoltà, riscontrabili nell’ordinamento italiano. In particolar modo,
risulta lacunosa ed insoddisfacente la disciplina delle situazioni di crisi interessanti l’Italia, sia
nella fase prodromica che nella fase delle conseguenti misure militari. Diversamente da varie
altre Costituzioni europee, la Carta costituzionale italiana considera in tal campo il solo «stato
di guerra»; mentre la più specifica regolamentazione della guerra stessa e di alcune minori
emergenze, internazionali ed interne, risulta ancor oggi da una serie di leggi del periodo fascista,
nessuna delle quali è stata aggiornata e conformata alle norme costituzionali.
Per colmare lacune siffatte, se si scarta l’idea di una revisione costituzionale (che la Commissione non ha preso in specifica considerazione, dati i limiti della sua competenza), non resta
che ipotizzare - nel quadro delle previste riforme istituzionali - l’approvazione di un’apposita
legge sulla difesa e sulla sicurezza nazionale.
In estrema analisi (salve le più puntuali precisazioni offerte dalla relazione), una tale disciplina sarebbe destinata, in primo luogo, a sostituire la detta legislazione fascista; in secondo
luogo, essa dovrebbe chiarire che cosa debba o possa competere in materia al Parlamento; in
(8) Il testo della Relazione è pubblicato in Quaderni costituzionali, agosto 1988, pag. 318 ss.
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terzo luogo, ad essa spetterebbe prevedere le forme di coinvolgimento del Capo dello Stato; in
quarto luogo, essa andrebbe ancora utilizzata per rendere corrispondente la struttura del potere
esecutivo alle particolari necessità delle emergenze militari.
Nel medesimo tempo, la Commissione ha poi proposto di riformare anche la legge n. 624
del 1950, istitutiva del Consiglio supremo di difesa: sottraendo a quest’organo la determinazione dei criteri e la fissazione delle direttive concernenti la difesa stessa, dal momento che la
definizione defl’indirizzo politico militare spetta pur sempre al raccordo Governo-Parlamento;
e mantenendo invece al Consiglio il compito di esaminare i problemi attinenti alla difesa nazionale, cosi da consentire al Capo dello Stato di acquisire dati ed elementi di giudizio, nonché di
consigliare ed ammonire a propria volta i Ministri componenti quel collegio, nell’esercizio della
sua funzione di garante dei valori costituzionali.
7. PROPOSTE DI REVISIONE COSTITUZIONALE
La Commissione parlamentare per le riforme costituzionali (istituita con legge cost. n. 1/
1997) si è occupata, tra l'altro della revisione della forma di governo (relatore è stato il Sen.
Cesare Salvi).
Ebbene, fin dall’inizio dei suoi lavori, la Commissione bicamerale ha affrontato, come
possibile esito del dibattito sulla forma di governo, l’opzione del «modello semipresidenziale».
Numerose proposte, provenienti da diverse parti politiche, la contemplavano. E' significativo
notare che tutte o quasi tutte proponevano non la recezione integrale della Costituzione francese, ma adattamenti che consentissero di adeguare il modello alla tradizione istituzionale e parlamentare italiana.
La Commissione ha anzitutto discusso le obiezioni di ordine generale sui rischi connessi al
semipresidenzialismo. In primo luogo, il rischio di autoritarismo o plebiscitarismo, insito secondo alcuni nell’elezione diretta di una carica esecutiva; in secondo luogo, il rischio di conflitto in un esecutivo duale, accentuato in caso di doppia maggioranza e di possibile coabitazione;
infine, quello della compressione delle prerogative parlamentari, certamente verificatisi nell'esperienza francese.
Per quanto attiene al modello di riferimento, osserva giustamente il relatore che non esiste
un unico modello di sistema semipresidenziale. Certamente la V Repubblica francese può
essere assunta - in termini non cronologici, ma di peso politico della Francia - come il prototipo
dei sistemi semipresidenziali, così come il governo inglese il cosiddetto modello Westminster è assunto come il prototipo della forma di governo detta del primo ministro, e così come il
presidenzialismo di Washington è assunto come prototipo dei sistemi presidenziali.
Sottolinea la relazione della Commissione che, con l’esclusione del caso tragico della Repubblica di Weimar, riportabile ante litteram alla categoria « semipresidenziale », e che fu
segnato da problemi storici immani, tutti i sistemi semipresidenziali attualmente esistenti in
Europa hanno superato la duplice prova della democraticità e della governabilità.
Da questo punto di vista, la presenza al vertice delle istituzioni di due figure titolari in
diverso grado di funzioni di indirizzo politico - un Presidente direttamente eletto e un Primo
ministro che mantiene, assieme alla sua maggioranza, un rapporto fiduciario con il Parlamento
- non sembra aver comportato, nelle numerose esperienze contemporanee che la prevedono,
quelle conseguenze negative che vengono associate a tale forma di governo.
E' evidente - ed è stato affermato chiarmanete durante i lavori della Commissione bicamerale - che al fondo di molti argomenti polemici o di posizioni di principio contro l’elezione
diretta del Capo dello Stato sta la preoccupazione di evitare possibili derive plebiscitarie.
Questa preoccupazione, di per sé legittima, rivela però sfiducia nella maturità democratica
del nostro Paese.
L’elezione popolare diretta del Capo dello Stato è presente nella grande maggioranza dei
Paesi europei: Austria, Irlanda, Islanda, Portogallo, Finlandia, Francia, senza contare i nuovi
Stati dell’Europa centro-orientale come Polonia, Romania, Bulgaria ed altri.
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Si può, dunque, affermare che l’elezione diretta del Capo dello Stato è il sistema più
diffuso in Europa, e che non ha dato luogo a degenerazioni plebiscitarie o a pericoli per la tenuta
democratica del sistema istituzionale.
In Commissione, vi è stata un'accesa discussione sui poteri del Presidente eletto, sul suo
ruolo e sul suo rapporto con il circuito fiduciario Parlamento-Governo.
E' singolare tuttavia, rilevare che il « Presidente eletto», come configurato nel progetto
della Commissione bicamerale sia criticato o perché avrebbe troppi poteri,o perché ne avrebbe
troppo pochi.
Come osservato dal relatore, il semipresidenzialismo disegnato dalla Commissione bicamerale rappresenta un semipresidenzialismo «temperato», innestato sulla tradizione parlamentare italiana, dotato di un equilibrio dei vari poteri.
Il carattere temperato dei poteri del Presidente risponde all’esigenza di evitare i due possibili rischi del semipresidenzialismo: il rischio di concentrazione di potere; quello di conflitto tra
Presidente e Primo ministro-maggioranza parlamentare in relazione alla presenza di indirizzi
politici diversi o magari contrapposti (la cosiddetta coabitazione).
Passando all'esame degli articoli del progetto della Commissione, notiamo che l’articolo
64 evidenzia la scelta fondamentale compiuta, quella di attribuire ai cittadini il potere di eleggere direttamente il Presidente della Repubblica.
L’articolo 65 individua i tratti fondamentali che caratterizzano la figura presidenziale.
L’articolo 66 elenca i poteri del Presidente della Repubblica. L’attribuzione della presidenza di un organo costituzionale di nuova istituzione, il Consiglio supremo per la politica
estera e la difesa (da istituirsi con legge) sottolinea, in primo luogo, l’influenza del Presidente
nella politica estera e militare.
La Commissione ha invece ritenuto che la Presidenza del Consiglio dei ministri debba
essere attribuita al Primo ministro.
Uno dei pilastri del progetto è certamente l'art. 71 dedicato alla controfirma.
La Commissione propone di confermare come regola generale il principio della Costituzione vigente; di individuare però, come espressione di un potere tipicamente presidenziale, gli
atti indicati nel secondo comma dell’articolo 71, che non richiedono nè la proposta governativa,
né la controfirma.
E' da notare tra gli atti sottratti alla controfirma ve ne sono alcuni di notevole rilevanza,
quali la nomina del Primo Ministro, lo scioglimento della Camera dei deputati, il rinvio delle
leggi, ecc.
La nomina del Primo ministro da parte del Presidente della Repubblica (in base all'articolo
66 del progetto) deve avvenire «tenendo conto dei risultati delle elezioni della Camera». Il
Primo ministro quindi è in una certa misura, di fatto ancorchè non di diritto scelto direttamente
dall'elettorato.
In conclusione, il Capo dello Stato così designato dovrebbe esercitare un ruolo prevalentemente di garanzia; ciò non toglie che alcuni parlamentari e molti autori hanno definito
insoddisfacente e comunque «ambiguo» il ruolo progettato dalla Commissione bicamerale per il
Capo dello Stato (soprattutto per quanto attiene alla determinazione dell'indizzo politico e dei
suoi rapporti con il Primo ministro).
Ricordiamo da ultimo che il Progetto della Commissione bicamerale non prevedeva lo
scioglimento del Senato, essendo tale organo configurato come «Camera delle garanzie». La
Camera dei deputati, che era la Camera politica, poteva invece essere sciolta.
8. MESSAGGIO AL PARLAMENTO DEL NEO ELETTO PRESIDENTE DELLA
REPUBBLICA
Il 18 maggio 1999, il neo eletto Presidente della Repubblica, Ciampi, ha rivolto al Parlamento in seduta comune un messaggio ricco di contenuti politico-istituzionali. Riportiamo la
parte che riguarda più direttamente il compito istituzionale dello Stato italiano.
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« Signor Presidente, il senso dell’unità nazionale ci deve guidare nel compito primario del
rafforzamento del nostro sistema politico.
Nel mio giuramento, che è prima di tutto impegno solenne e incondizionato di osservare il
dettato della Costituzione, c’è anche la consapevolezza dell’esigenza di un naturale sviluppo e
aggiornamento istituzionale.
Vi è una costituzione europea che nei principi democratici generali, nella tutela dei diritti
fondamentali, nelle fonti dei diritto fa già corpo unico con la Costituzione del 1948.
Ma molto ci resta da fare per portare il nostro sistema politico alla modernità costituzionale europea in numerosi suoi lineamenti:
- nelle istituzioni di un federalismo che risponda al principio di sussidia rietà, a partire
dalle autonomie comunali, e che già prima delle elezioni regionali del 2000 dovrebbe
vedere attuate le sue premesse costituzionali;
- nelle procedure elettorali, che devono costruire l’equilibrio tra la primaria esigenza di
esprimere un Governo di legislatura e la rappresentatività politica del paese;
- nella forma di governo e nei modelli di pubblica amministrazione, che devono garantire
requisiti europei di stabilità, di trasparenza, di efficacia ed efficienza;
- nell’organizzazione della politica, in cui i partiti si confermino, in forme moderne, strumenti indispensabili per esprimere la volontà dei cittadini e far corrispondere l’agire
politico al sentire comune;
- negli ordinamenti della giustizia, dal momento che la certezza del diritto e il principio
del giusto processo, garantiti dalla intangibile indipendenza della magistratura, sono un
bene pubblico che non può essere sacrificato ad alcuna altra esigenza;
- nei sistemi di sicurezza interna e di difesa comune, dove l’abnegazione e la capacità
degli uomini e delle donne delle Forze armate e delle forze dell’ordine possono essere
compiutamente valorizzate con una integrazione operativa sempre più profonda nella
dimensione europea, la sola in cui si possono trovare giuste soluzioni anche ai problemi
dell’immigrazione ». (omissis).
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CAPITOLO VI
IL GOVERNO
1. COMPOSIZIONE E FORMAZIONE
Il Governo è composto dal Presidente del Consiglio e dai Ministri, che costituiscono insieme il Consiglio dei Ministri (art. 92).
Spetta al Capo dello Stato la designazione del Presidente del Consiglio, dietro opportune
consultazioni.
Normalmente, la persona designata non accetta subito l’incarico, ma si riserva; all’atto
dello scioglimento della riserva, cioè dell’accettazione dell’incarico, presenta la lista dei Ministri. A questo punto il Capo dello Stato nomina il Presidente del Consiglio dei Ministri e, su
proposta di questo, i Ministri.
I decreti di nomina dei membri del Governo sono controfirmati dal Presidente del Consiglio subentrante (1).
Il Governo deve ritenersi in carica dal momento in cui i suoi membri prestano il prescritto
giuramento (la cui formula è stata recentemente definita dall’art. 1, 3° comma l. 1988 n. 400)
nelle mani del Presidente della Repubblica.
2. IL RAPPORTO FIDUCIARIO PARLAMENTO-GOVERNO
Dal citato art. 93 della Costituzione risulta dunque che il Governo, dopo avere prestato
giuramento nelle mani del Presidente della Repubblica, può esercitare le sue funzioni, essendo
perfetto ed efficace l’atto di nomina. Peraltro, l’art. 93 va interpretato, sistematicamente, con
l’art. 94, in forza del quale - come si è visto - il Governo deve avere la fiducia delle due Camere.
Pertanto, il nuovo Governo può esercitare le funzioni subito dopo il giuramento, ma non può
continuare ad esercitarle, e deve dimettersi, qualora non ottenga la fiducia delle due Camere.
Cioè solo la fiducia consente la ulteriore permanenza in carica del nuovo Governo. L’eventuale
rifiuto di una delle Camere di accordare la fiducia al nuovo Governo opera come condizione
(1) Molte discussioni sono sorte in merito alla competenza a controfirmare il decreto di nomina del Presidente del Consiglio. Anteriormente
all’avvento del Fascismo, la controfirma spettava al Presidente uscente; successivamente, invece, la l. 24 dicembre 1925 n. 2263
dispose che fosse lo stesso Primo Ministro a controfirmare il proprio decreto di nomina. Quest’ultima forma è stata sempre seguita fino
ad oggi.
La validità della forma finora adottata (controfirma del Presidente del Consiglio subentrante) è poi rafforzata dalla decisiva
considerazione della possibilità di una crisi di Gabinetto dovuta a impedimento o morte del Presidente del Consiglio dei Ministri.
Infatti, in tale ipotesi, senza alcun dubbio, dovrebbe essere il Presidente subentrante a controfirmare il proprio decreto di nomina.
Recentemente, la l. 23 agosto 1988 n. 400, contenente la nuova disciplina dell’attività di Governo e l’ordinamento della Presidenza
del Consiglio dei ministri, ha ribadito che “il decreto di nomina del Presidente del Consiglio dei ministri è da lui controfirmato, insieme
ai decreti di accettazione delle dimissioni del precedente Governo” (art. 1 secondo comma). Pertanto la questione si deve ritenere
legislativamente risolta.
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risolutiva non retroattiva; che non annulla la nomina presidenziale, né gli atti governativi compiuti nel frattempo, ma crea l’obbligo delle dimissioni governative.
Come si è detto, il nuovo Governo deve presentarsi alle Camere entro dieci giorni dalla sua
formazione.
Nonostante qualche opinione contraria, il termine dei dieci giorni deve ritenersi perentorio
e non meramente ordinatorio. E’ superfluo sottolineare che la fissazione costituzionale del termine entro il quale il Governo deve presentarsi alle Camere per ottenere la fiducia mira ad
impedire l’esistenza di governi immessi nelle funzioni ad opera del Capo dello Stato, ma privi
della investitura fiduciaria del Parlamento e, quindi, di legittimazione democratica e popolare
(situazioni di tal genere si verificarono, come è noto, in Francia nella seconda metà del secolo
scorso) (2).
E' stato sollevato il problema dei poteri del Governo nel breve periodo intercorrente tra la
nomina e la votazione sulla fiducia da parte di entrambe le Camere.
Nel periodo tra la nomina e la fiducia, alcuni autori affermano che il Governo deve limitarsi agli affari di ordinaria amministrazione, sebbene sia assai difficile precisare il vero significato di “ordinaria amministrazione”, almeno dal punto di vista giuridico.
La fiducia deve permanere anche dopo l’inizio dell’attività del Governo. Ma, per non
rendere eccessivamente precaria la vita dei singoli Governi, la Costituzione prevede che il voto
contrario di una o di entrambe le Camere su una proposta governativa non implichi automaticamente la sua caduta: art. 94 4° comma. Perché si verifichi tale grave conseguenza, occorre una
manifestazione formale di sfiducia, proposta con mozione motivata e firmata da almeno un
decimo dei componenti della Camera. Tale mozione di sfiducia non può essere discussa prima di
tre giorni dalla sua presentazione; essa, inoltre, deve essere votata per appello nominale ed
approvata dalla maggioranza dei votanti (art. 94 ultimo comma).
L’approvazione della mozione di sfiducia del Parlamento importa la c.d. crisi parlamentare di Governo. Tale forma peraltro non è stata mai seguita; invero, riguardo ai numerosi Gabinetti che si sono succeduti in Italia dopo la caduta del fascismo, pochissime volte le dimissioni
sono state provocate da crisi parlamentari, dovute comunque tuttavia non ad una mozione di
sfiducia ad hoc. Crisi parlamentare è quella che ha portato alla caduta del governo Prodi (1998).
Infatti, nella seduta del 9 ottobre 1998, la Camera ha respinto, per un solo voto, la risoluzione della maggioranza, sulla cui approvazione il Governo aveva posto la questione di fiducia.
Normalmente, invece, le crisi di Governo sono extra-parlamentari.
Diversa dalla crisi governativa è il c.d. “rimpasto”, in base al quale si addiviene a mutamenti in seno al Governo, con la sostituzione di Ministri.
I poteri del Governo dimissionario. In dottrina, è opinione abbastanza diffusa che il Governo-dimissionario debba limitarsi esclusivamente alla cosiddetta "ordinaria amministrazione". L’esame della (scarsa) giurisprudenza non offre indicazioni univoche. Ad esempio il Consiglio di Stato afferma che il Governo, il quale non ha ottenuto la fiducia , al pari del Governo
dimissionario, ha il potere e il dovere di compiere gli atti necessari per il normale svolgimento
della vita amministrativa dello Stato: che il Governo deve attenersi a particolari cautele o riser-
(2) Per informazione, può essere opportuno ricordare brevemente il procedimento di formazione del Governo in Germania e in Francia.
Nella Repubblica federale di Germania, il Cancelliere federale viene eletto, su proposta del Capo dello Stato, dal Bundestag. 1
ministri sono nominati e congedati dal Presidente federale su proposta del Cancelliere. Il Cancelliere e i ministri, al momento di entrare
in carica, prestano giuramento davanti al Bundestag. Quest’ultimo può esprimere la sfiducia al Cancelliere federale soltanto nel caso
in cui, a maggioranza dei suoi membri, elegga un successore e chieda al Presidente federale di congedare il Cancelliere (c.d. sfiducia
costruttiva). Il Presidente federale deve aderire alla richiesta e nominare l’eletto (vedi artt. 63, 64 e 67 della Legge fondamentale).
In Francia, secondo la Costituzione del 1946, il Presidente del Consiglio ed i ministri erano nominati dal Presidente della Repubblica,
solo dopo che il Presidente del Consiglio designato aveva ottenuto la fiducia dell’Assemblea nazionale. Attualmente, secondo la
Costituzione del 1958, il Presidente della Repubblica nomina il primo ministro e, su proposta di questo, nomina e revoca gli altri
membri del Governo. Il Governo è responsabile davanti al Parlamento nei modi indicati dagli articoli 49 e 50 della Costituzione. Il
primo ministro, su deliberazione del Consiglio dei Ministri, impegna dinanzi all’Assemblea nazionale la responsabilità del Governo
sul suo programma-o eventualmente su una dichiarazione di politica generale. Il primo ministro può inoltre richiedere al Senato
l’approvazione di una dichiarazione di politica generale. Quando l’Assemblea nazionale adotta una mozione di sfiducia o respinge il
programma o una dichiarazione di politica generale del Governo, il primo ministro deve presentare al Presidente della Repubblica le
dimissioni del Governo.
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ve nell’esercizio dei propri poteri; ma che tali limiti non sono definiti dalla Costituzione e non
possono formare oggetto di sindacato giurisdizionale (3).
Anche secondo la Corte di Cassazione, i limiti dei poteri spettanti al Gabinetto dimissionario sarebbero affidati alla sensibilità politica dei ministri e non invece desumibili da norme
concrete. Infine, la Corte costituzionale ha affermato che tra gli atti che il Governo dimissionario può legittimamente compiere rientra la deliberazione del Consiglio dei ministri concernente
la proposizione di una questione di legittimità costituzionale in via principale: la Corte costituzionale sembrerebbe quindi presupporre l’esistenza di alcuni atti (peraltro non specificati) che
un governo dimissionario non potrebbe legittimamente compiere.
Come abbiamo già osservato, a nostro avviso è assai dubbia la possibilità di configurare
un affievolimento giuridico dei poteri degli organi costituzionali in via di mera interpretazione
e cioè nell’assenza di norme che espressamente prevedano siffatto affievolimento (esiste, ad
esempio, una norma che esplicitamente vieta al Governo dimissionario di richiedere alla Corte
dei Conti la cosiddetta registrazione con riserva). Beninteso, non è escluso che limiti giuridici ai
poteri del Governo dimissionario possano enuclearsi anche in forza di consuetudini costituzionali. Riteniamo però che, allo stato, non esistano argomenti univoci e decisivi per affermare che
siffatte consuetudini si siano formate nel nostro ordinamento. Esistono anzi almeno due argomenti (uno di ordine lessicale ed uno fattuale) per sostenere che si sta delineando la formazione
di una consuetudine (o quanto meno di una convention) contraria a quella ipotizzata:
- innanzitutto, l’espressione abitualmente usata nei comunicati stampa e nella comunicazione che il Governo dimissionario fa alle Camere è nel senso che esso rimane in carica
per il disbrigo degli "affari correnti": orbene, gli affari correnti (e cioè gli affari in corso
al momento delle dimissioni) non si riducono, necessariamente, agli affari di ordinaria
amministrazione (anche a prescindere dalla difficoltà concettuale e pratica di distinguere, nel
diritto costituzionale, gli affari di ordinaria da quelli di straordinaria amministrazione);
- in secondo luogo, la prassi, soprattutto quella più recente, insegna che taluni governi
dimissionari hanno adottato rilevanti decisioni di politica interna ed internazionale.
Alla luce delle considerazioni suesposte, si può quindi affermare che l’opinione diffusa, secondo cui il Governo dimissionario deve limitarsi all’ordinaria amministrazione, va considerata, sul
piano strettamente giuridico, con molta cautela e cercando di evitare ingiustificate assolutizzazioni.
Naturalmente, diverso può essere il discorso da fare, volta a volta, qualora l’attività del
Governo dimissionario sia riguardata non sotto il profilo della mera legittimità costituzionale,
bensì sotto quello della correttezza, della opportunità e della sensibilità politica. In via generale,
la soluzione preferibile sembra essere quella di valutare l’attività del Governo dimissionario in
rapporto alle concrete circostanze storico-politiche che hanno portato alle dimissioni del medesimo. Per esempio, se il Governo è dimissionario per l’avvenuta rottura del rapporto fiduciario
con le Camere, è evidente che tale governo non potrà continuare ad attuare quell’indirizzo
politico programmatico che ha causato le sue dimissioni (4).
(3) Sostanzialmente conforme TAR Lazio, Sez. I, del 18 maggio 1983.
Sembra invece presumere l’esistenza di limiti giuridici C. Stato, Sez. VI, n. 244 del 29 marzo 1983, allorchè afferma non essere
illegittimo, sotto il profilo della violazione della circolare della Presidenza del Consiglio dei Ministri 26 maggio 1981, il decreto
del Ministro del lavoro di nomina di un nuovo commissario straordinario dell’Enpas adottato in periodo di « dimissioni » del
governo, perché la detta circolare, eccettuando dal divieto gli atti di ordinari amministrazione e quelli obbligatori per legge o per
regolamento, non poteva spiegare effetti nei confronti del surrichiamato provvedimento ministeriale di nomina, che era obbligatorio
per legge e vincolato nel tempo.
(4) Dopo le dimissioni del Governo, il Presidente del Consiglio invia ai ministri e sottosegretari una circolare contenente alcune
direttive circa lo svolgimento delle funzioni ministeriali durante il periodo della crisi.
Per le iniziative legislative, si precisa che il Consiglio dei Ministri non esaminerà nuovi disegni di legge provvedendo soltanto
alla immediata presentazione di quelli già deliberati. Tuttavia, ove ricorrano i presupposti di necessità ed urgenza previsti dall’art.
77 Cost., potrà esaminarsi se provvedere alla emanazione di decreti-legge. In caso di mancata conversione di decreti-legge potranno
essere approvati disegni di legge eventualmente necessari per regolare i rapporti sorti in conseguenza della mancata conversione.
Circa le relazioni parlamentari, il Governo sarà rappresentato in discussioni parlamentari relative a disegni di legge concernenti
conversione di decreti-legge. Sarà espresso avviso alla Presidenza delle Camere che ogni altra attività legislativa debba essere
sospesa. Comunque l’eventuale partecipazione di rappresentanti di Governo in Assemblea o Commissioni dovrà essere autorizzata
di volta in volta dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri e dovrà svolgersi secondo precise istruzioni che saranno impartite
d’intesa con i Ministri competenti. Il Governo non risponderà ad interrogazioni a risposta orale o interpellanze, salvo casi eccezionali
e previa intesa con la Presidenza del Consiglio.
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Un’ultima osservazione merita di essere qui nuovamente ribadita: il Governo dimissionario continua ad essere responsabile verso il Parlamento, anche se tale tipo di responsabilità non
può portare, evidentemente, ad un voto di sfiducia. Questa affermazione non deve destare meraviglia: infatti, come ha avvertito la più sensibile dottrina, forme di responsabilità ministeriale - e
quindi, correlativamente, di controllo parlamentare - possono sussistere anche al di fuori delle situazioni in cui è possibile applicare i meccanismi istituzionali previsti dall’art. 94 della Costituzione.
Procedura di presentazione del nuovo Governo alle Camere. Dal 22 ottobre 1980, a
seguito di intese tra i Presidenti delle Camere, previo parere delle due Giunte per il Regolamento, sono state semplificate le procedure di presentazione dei nuovi Governi alle Camere, senza
necessità di modificare la Costituzione o i Regolamenti parlamentari.
Le innovazioni apportate sono le seguenti. Le dichiarazioni programmatiche del Governo
che si presenta alle Camere per ottenere la fiducia, ai sensi dell’art. 94, terzo comma, della
Costituzione, sono rese oralmente alla Camera chiamata per prima - in base al criterio dell’alternanza - a discutere e ad esprimersi sulla fiducia.
All’altra Camera, all’uopo convocata, il Presidente del Consiglio reca nello stesso giorno
l’identico testo delle dichiarazioni pronunziate nella prima Camera.
Il Presidente - dopo aver dato comunicazione all’Assemblea dell’accettazione delle dimissioni del precedente Governo e della formazione del nuovo gabinetto - dà atto della avvenuta
consegna delle predette dichiarazioni programmatiche. La relativa discussione ha inizio dopo
che la Camera davanti alla quale le dichiarazioni sono state pronunciate ha concesso la fiducia.
3. IL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI
Lo Statuto albertino non faceva cenno di tale carica, in quanto (artt. 65-67) parlava soltanto di “Ministri”; ma la carica stessa si è andata affermando nella consuetudine costituzionale, la quale considerava il Presidente del Consiglio come un primus inter pares. Ma, con l’avvento del regime fascista, il Presidente del Consiglio assunse un ruolo particolare: per esso la l.
24 dicembre 1925 n. 2263 introdusse la nuova denominazione di Capo del Governo, Primo
ministro, Segretario di Stato, rendendo lo stesso individualmente responsabile verso il Re dell’indirizzo politico del Governo ed i singoli Ministri responsabili verso il Re e verso il Capo del
Governo di tutti gli atti e provvedimenti dei loro Ministeri. La Costituzione, ha mantenuto il
Presidente del Consiglio in una posizione indubbiamente preminente rispetto ai Ministri, ma
non lo ha configurato come un Capo del Governo.
Ad esempio, mentre egli viene nominato direttamente dal Presidente della Repubblica, i
Ministri sono nominati dal Presidente della Repubblica, su proposta del Presidente del Consiglio. Inoltre, il Presidente del Consiglio dirige la politica generale del Governo e ne è responsabile (verso il Parlamento), mantiene l’unità di indirizzo politico ed amministrativo, promuovendo e coordinando l’attività dei Ministri. Questi sono responsabili (verso il Parlamento)
collegialmente degli atti del Consiglio dei Ministri e individualmente degli atti dei loro Dicasteri
(art. 95).
Ora la legge n. 400 del 1988, ha precisato le competenze del Presidente del Consiglio.
Anche dopo tale legge, il Presidente del Consiglio non dispone di un vero ruolo predominante
all’interno del Governo, ma risulta dotato di singoli poteri che gli consentono lo svolgimento
delle funzioni costituzionalmente attribuitegli. In particolare, egli chiede la fiducia delle Camere
a nome del Governo, presenta alle Camere i disegni di legge governativi e rappresenta il Governo nei giudizi di fronte alla Corte costituzionale.
Numerose e importanti sono le attribuzioni che la legge n. 400/1988 affida al P. del C.M..
Infatti, il Presidente del Consiglio dei Ministri, ai sensi dell’articolo 95, primo comma, della
Costituzione:
- indirizza ai Ministri le direttive politiche ed amministrative in attuazione delle
deliberazioni del Consiglio dei Ministri nonché quelle connesse alla propria responsabilità di direzione della politica generale del Governo;
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- coordina e promuove l’attività dei Ministri in ordine agli atti che riguardano la politica
generale del Governo;
- può sospendere l’adozione di atti da parte dei Ministri competenti in ordine a questioni
politiche e amministrative, sottoponendoli al Consiglio dei Ministri nella riunione immediatamente successiva;
- concorda con i Ministri interessati le pubbliche dichiarazioni che essi intendano rendere
ogni qualvolta, eccedendo la normale responsabilità ministeriale, possano impegnare la
politica generale del Governo;
- adotta le direttive per assicurare l’imparzialità, il buon andamento e l’efficienza degli
uffici pubblici e promuove le verifiche necessarie;
- promuove l’azione dei Ministri per assicurare che le aziende e gli enti pubblici svolgano
la loro attività secondo gli obiettivi indicati dalle leggi e in coerenza con i conseguenti
indirizzi politici e amministrativi del Governo;
- esercita le attribuzioni conferitegli dalla legge in materia di servizi di sicurezza e di
segreto di Stato;
- può disporre, con proprio decreto, l’istituzione di particolari Comitati di Ministri;
- può disporre la costituzione di gruppi di studio e di lavoro.
Inoltre, il Presidente del Consiglio dei Ministri, direttamente o conferendone delega ad un
Ministro:
- promuove e coordina l’azione del Governo relativa alle politiche comunitarie;
- promuove e coordina l’azione del Governo per quanto attiene ai rapporti con le regioni
e le province autonome di Trento e di Bolzano; sovraintende all’attività dei commissari
del Governo ed esercita le altre attribuzioni conferitegli dalla legge.
Spetta al Presidente del Consiglio determinare l’ordine del giorno del Consiglio dei Ministri e sottoporre a quest’ultimo tutti i provvedimenti in ordine al quali ritenga opportuna una
deliberazione consiliare. Non spetta dunque al Presidente del Consiglio la determinazione della
politica generale del Governo, che viceversa compete all’intero Consiglio dei Ministri, ma soltanto una serie di poteri che gli consentano di assicurare che il programma governativo presentato alle Camere sia effettivamente perseguito dall’intera compagine ministeriale.
Vedi ora il D.Lgs. 30 luglio 1999, n. 303, recante ordinamento della Presidenza del Consiglio del Ministri.
4. I VICE PRESIDENTI DEL CONSIGLIO
Come già si era verificato nella prassi, anche la legge n. 400 prevede la figura dei
Vicepresidenti del Consiglio dei Ministri. Infatti, il Presidente del Consiglio dei Ministri può
proporre al Consiglio dei Ministri l’attribuzione ad uno o più Ministri delle funzioni di
Vicepresidente del Consiglio dei Ministri. Ricorrendo questa ipotesi, in caso di assenza o impedimento temporaneo del Presidente del Consiglio dei Ministri, la supplenza spetta al Vicepresidente
o, qualora siano nominati più Vicepresidenti, al Vicepresidente più anziano secondo l’età.
Se invece non è stato nominato il Vicepresidente del Consiglio dei Ministri, la supplenza
spetta, in assenza di diversa disposizione da parte del Presidente del Consiglio dei Ministri, al
Ministro più anziano secondo l’età.
5. I MINISTRI E I MINISTERI
I Ministri sono, nello stesso tempo, organi costituzionali, in quanto fanno parte del Consiglio dei Ministri, cioè del Governo, e organi amministrativi, in quanto sono preposti alla direzione dei Ministeri (o Dicasteri), che costituiscono branche della Pubblica amministrazione (5).
Non sempre i Ministri sono a capo di un dicastero: si ha allora il caso del Ministro senza
portafoglio, non previsto espressamente dalla Costituzione, ma non per questo, si ritiene, in
contrasto con essa.
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La nomina dei Ministri senza portafoglio, legata alla esigenza di aumentare la base politico-parlamentare del Gabinetto e costituente un fenomeno tipico dei Governi di coalizione, trova
oggi la sua istituzionalizzazione nella l. n. 400 del 1988 (art. 9). Essi sono organi costituzionalì,
in quanto partecipano al Consiglio dei Ministri, ma non amministrativi, poiché non stanno a
capo di un Dicastero.
Posizione in certo senso inversa a quella dei Ministri senza portafoglio era quella dei c.d.
Alti Commissari, i quali erano preposti alla direzione di una branca della Pubblica amministrazione che non aveva dignità di Ministero (ad es. Alto Commissariato per la sanità, poi divenuto
Ministero della sanità). Gli Alti Commissari non facevano parte del Consiglio dei Ministri e non
erano perciò organi costituzionali.
6. IL CONSIGLIO DEI MINISTRI
E’ il massimo organo deliberativo ed è, nella esplicazione delle proprie funzioni, organo
costituzionale.
Di esso fanno parte il Presidente del Consiglio dei Ministri ed i singoli Ministri, compresi
quelli c.d. senza portafoglio.
Intervengono alle riunioni del Consiglio dei Ministri i Presidenti delle Regioni a statuto
speciale ove il Consiglio deliberi su materie concernenti le rispettive Regioni (secondo lo Statuto Regione Sicilia, il Presidente della Regione partecipa al Consiglio dei Ministri con voto
deliberativo nella materie che interessano la Regione). Nei casi succitati, intervengono al Consiglio dei Ministri anche i Presidenti delle Provincie di Trento e Bolzano.
Attualmente, le attribuzioni del Consiglio dei Ministri sono stabilite dalla legge n. 400/
1988, a norma della quale il Consiglio dei Ministri determina la politica generale del Governo e,
ai fini dell’attuazione di essa, l’indirizzo generale dell’azione amministrativa; delibera altresì su
ogni questione relativa all'indirizzo politico fissato dal rapporto fiduciario con le Camere. Dirime
i conflitti di attribuzione tra i Ministri.
Il Consiglio dei Ministri esprime l’assenso alla iniziativa del Presidente del Consiglio dei
Ministri di porre la questione di fiducia dinanzi alle Camere.
Sono inoltre sottoposti alla deliberazione del Consiglio dei Ministri una serie di oggetti, i
più importanti dei quali sono qui elencati:
- le dichiarazioni relative all’indirizzo politico, agli impegni programmatici ed alle questioni su cui il Governo chiede la fiducia del Parlamento;
- i disegni di legge e le proposte di ritiro dei disegni di legge già presentati al Parlamento;
- i decreti aventi valore o forza di legge e i regolamenti da emanare con decreto del Presidente della Repubblica;
- gli atti di indirizzo e di coordinamento dell’attività amministrativa delle regioni e, nel
rispetto delle disposizioni statutarie, delle regioni a statuto speciale e delle provincie
autonome di Trento e Bolzano; gli atti di sua competenza previsti dall’articolo 127 della
Costituzione e dagli statuti regionali speciali in ordine alle leggi regionali e delle provincie autonome di Trento e Bolzano salvo quanto stabilito dagli statuti speciali per la
regione siciliana e per la regione Valle d’Aosta;
- le direttive da impartire tramite il commissario del Governo per l’esercizio delle funzioni amministrative delegate alle regioni, che sono tenute ad osservarle;
- le proposte che il Ministro competente formula per disporre il compimento degli atti in
sostituzione dell’amministrazione regionale, in caso di persistente inattività degli organi
nell’esercizio delle funzioni delegate, qualora tali attività comportino adempimenti da svolgersi entro i termini perentori previsti dalla legge o risultanti dalla natura degli interventi;
(5) A decorrere dalla prossima legislatura, il numero e l’organizzazione dei ministeri risulteranno profondamente cambiati. Si veda
infatti il decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 300, recante norme per la razionalizzazione, il riordino, la soppressione e la fusione
di ministeri, l’istituzione di agenzie e il riordino dell’amministrazione periferica dello Stato.
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- le proposte di sollevare conflitti di attribuzione o di resistere nei confronti degli altri
poteri dello Stato, delle regioni e delle provincie autonome;
- le linee di indirizzo in tema di politica internazionale e comunitaria e i progetti dei
trattati e degli accordi internazionali, comunque denominati, di natura politica o militare;
- gli atti concernenti i rapporti tra lo Stato e la Chiesa cattolica di cui all’articolo 7 della
Costituzione;
- gli atti concernenti i rapporti previsti dall’articolo 8 della Costituzione;
- i provvedimenti da emanare con decreto del Presidente della Repubblica previo parere
del Consiglio di Stato, se il Ministro competente non intende conformarsi a tale parere;
- la richiesta motivata di registrazione della Corte dei conti ai sensi dell’articolo 25 del
regio decreto 12 luglio 1934, n. 1214;
- le proposte motivate per lo scioglimento dei consigli regionali, ecc..
7. IL CONSIGLIO DI GABINETTO
La legge n. 400 - prendendo le mosse dalla esperienza britannica - prevede espressamente
la figura del Consiglio di Gabinetto, organo più ristretto (e quindi presumibilmente più agile
nell’azione) del Consiglio dei ministri.
Infatti, il Presidente del Consiglio dei Ministri, nello svolgimento delle funzioni previste
dall’articolo 95, primo comma, della Costituzione, può essere coadiuvato da un Comitato, che
prende nome di Consiglio di Gabinetto, ed è composto dai Ministri da lui designati, sentito il
Consiglio dei Ministri.
Il Presidente del Consiglio dei Ministri può invitare a singole sedute del Consiglio di Gabinetto altri Ministri in ragione della loro competenza.
8. SOTTOSEGRETARI DI STATO
I Sottosegretari di Stato, non previsti dallo Statuto albertino, sono stati introdotti nel nostro ordinamento giuridico dalla l. 2 febbraio 1888 n. 5195 e successivamente disciplinati dal
r.d. 14 novembre 1901 n. 466.
Nello Stato repubblicano hanno continuato a sussistere, nonostante il silenzio della Costituzione, che non li prevede.
La figura dei sottosegretari di Stato è ora disciplinata dalla legge in maniera abbastanza
analitica. Infatti, i sottosegretari di Stato sono nominati con decreto del Presidente della Repubblica su proposta del Presidente del Consiglio dei Ministri, di concerto con il Ministro che il
sottosegretario è chiamato a coadiuvare, sentito il Consiglio dei Ministri.
Prima di assumere le funzioni i sottosegretari di Stato prestano giuramento nelle mani del
Presidente del Consiglio dei Ministri.
I sottosegretari di Stato coadiuvano il Ministro ed esercitano i compiti ad essi delegati con
decreto ministeriale pubblicato nella Gazzetta Ufficiale.
Il compito più importante dei sottosegretari di Stato è, probabilmente, quello che essi
svolgono all'interno del Parlamento. Infatti i sottosegretari di Stato possono intervenire, quali
rappresentanti del Governo, alle sedute delle Camere e delle Commissioni parlamentari, sostenere la discussione in conformità alle direttive del Ministro e rispondere ad interrogazioni ed
interpellanze.
Oltre al sottosegretario di Stato nominato segretario del Consiglio dei Ministri possono
essere nominati presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri altri sottosegretari per lo svolgimento di determinati compiti e servizi.
I sottosegretari non fanno parte del Consiglio dei Ministri.
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9. LA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE
A tale importante tema, la Costituzione dedica due soli articoli (il 97 e il 98), peraltro assai
efficaci, che hanno trovato nella legge ordinaria svolgimento, attuazione e completamento (6).
I pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione.
Nell’ordinamento degli uffici sono determinate le sfere di competenza, le attribuzioni e le
responsabilità proprie dei funzionari.
E' da sottolineare che leggi recenti hanno distinto più nettamente i poteri e le responsabilità
degli organi di governo da quelli dei dirigenti. Infatti attualmente gli organi di governo esercitano le funzioni di indirizzo politico-amministrativo, definendo gli obiettivi ed i programmi da
attuare ed adottando gli altri atti rientranti nello svolgimento di tali funzioni, e verificano la
rispondenza dei risultati dell'attività amministrativa e della gestione agli indirizzi impartiti.
Per contro, ai dirigenti spetta l'adozione degli atti e provvedimenti amministrativi, compresi tutti gli atti che impegnano l'amministrazione verso l'esterno, nonchè la gestione finanziaria,
tecnica e amministrativa mediante autonomi poteri di spesa, di organizzazione delle risorse
umane, strumentali e di controllo. Essi sono responsabili in via esclusiva dell'attività amministrativa, della gestione e dei relativi risultati (v. art. 3 del testo aggiornato del D. Lgs. 3 febbraio
1993, n. 29).
Agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso, salvo i casi
stabiliti dalla legge.
I pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione.
Se sono membri del Parlamento, non possono conseguire promozioni se non per anzianità.
Si possono con legge stabilire limitazioni al diritto d’iscriversi ai partiti politici per i magistrati, i militari di carriera in servizio attivo, i funzionari ed agenti di polizia, i rappresentanti
diplomatici e consolari all’estero.
Nel progetto di Costituzione, un unico articolo (art. 91), disciplinava la materia ed era
comprensivo dei contenuti di quelli che, successivamente, divennero, gli arti. 97 e 98. Questi
sono il risultato di una non eccessivamente approfondita discussione in sede costituente (v.
Ass. cost., 2° sottocommissione, 1ª Sez., seduta 14-1-1947 e Ass. cost. 24-10-1947). La discussione infatti si sviluppò in termini molto generali e piuttosto su problemi riguardanti il pubblico
impiego che le pubbliche amministrazioni
Va sottolineato che dalla Costituzione si ricava un criterio organizzativo di fondamentale
importanza, quello cioè della democraticità dell’amministrazione. Esso è desumibile da tutto
il sistema e, in particolare, dal generale principio democratico (art. 1), che investe tutte le funzioni dello Stato, compresa quella amministrativa, nonché dal principio della partecipazione
popolare al potere pubblico (artt. 3 e 51) e dalla proclamazione esplicita dei carattere democratico fatta con riguardo alle forze armate (art. 52) (Esposito, Mortati).
(6) Le leggi che di recente hanno modificato radicalmente (qualcuno ha detto che hanno rivoluzionato) l’organizzazione e le attività
della P.A. sono le seguenti:
- LEGGE 15 marzo 1997, n. 59 (Delega al Governo per il conferimento di funzioni e compiti alle regioni ed enti locali, per
la riforma della pubblica amministrazione e per la semplificazione);
- LEGGE 15 maggio 1997, n. 127 (Misure urgenti per lo snellimento dell’attività amministrativa e dei procedimenti di
decisione e di controllo);
- LEGGE 16 giugno 1998, n. 191 (Modifiche ed integrazionoi alle leggi 15 marzo 1997, n. 59, e 15 maggio 1997, n. 127,
nonchè norme in materia di formazione del personale dipendente e di lavoro a distanza nelle pubbliche amministrazioni.
Disposizioni in materia di edilizia scolastica);
- LEGGE 8 marzo 1999, n. 50 (Delegificazione e testi unici di norme concernenti procedimenti amministrativi - Legge di
semplificazione 1998);
- DECRETO LEGISLATIVO 31 marzo 1998, n. 112 (Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle
regioni ed agli enti locali, in attuazione del Capo I della legge 15 marzo 1997. n. 59);
- LEGGE 8 giugno 1990, n. 142 (Ordinamento delle autonomie locali);
- LEGGE 3 agosto 1999, n. 265 (Disposizioni in materia di autonomia e ordinamento degli enti locali, nonchè modifiche
alla L. 8 giugno 1990, n. 142);
- DECRETO LEGISLATIVO 30 luglio 1999, n. 300 (Riforma dell'organizzazione del Governo).
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E' evidente che la Costituzione ha posto dei principi solamente per la parte che ha ritenuto
- in quel momento storico - di carattere e rilievo costituzionale, rimettendo la parte restante alla
disciplina di successive "leggi di organizzazione" e di altre leggi, che diano attuazione all’esigenza di "riforma", sottesa in tutte le disposizioni e le enunciazioni costituzionali che si riferiscono alla pubblica amministrazione.
Infatti negli anni successivi alla entrata in vigore della costituzione sono stati avviati studi
e proposte, aventi l’incarico specifico di studiare i modi e i contenuti delle riforme. Queste,
tuttavia, hanno riguardato - fino a pochi anni fa - soprattutto, il pubblico impiego senza incidere, in maniera determinante, sulle strutture amministrative, in tal modo adottando un criterio
opposto a quello richiesto dall’ordine logico secondo il quale la riforma delle strutture dovrebbe
precedere, in ogni caso, le riforme riguardanti il personale.
Molto si è discusso sul significato da dare alle due espressioni, "buon andamento" e
"imparzialità" del comma 1° dell’art. 97. Secondo alcuni si tratta in realtà di una "endiadi", e
la seconda espressione è "pleonastica", risultando già compresa nella prima. Altri invece ha
collegato la distinzione all'elemento "oggettivo" dell'ufficio, cui si riferirebbe il buon andamento, diversamente dall’imparzialità, attinente all’elemento "soggettivo".
Occorre infine sottolineare, sia pure incidentalmente, che la giurisprudenza costituzionale, seppure restia inizialmente ad ammettere il sindacato in ordine all’idoneità delle norme di
legge ad assicurare il buon andamento e l’imparzialità ha, poi, modificato tale indirizzo ammettendo il controllo di costituzionalità, nei limiti dell’accertamento della "non arbitrarietà" o della
"non irragionevolezza" della disciplina adottata (Corte cost. 8/1967; 123/1968; 86/1982; 277/
1983; 217, 268/1987; 238, 331 e 1130/1988; 21 e 56/1989).
10. GLI ORGANI AUSILIARI DEL GOVERNO
Sono organi ausiliari del Governo:
- il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro.
- il Consiglio di Stato,
- la Corte dei Conti;
Essi sono organi di rilevanza costituzionale (non costituzionali):
a. CNEL.
Il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro è composto, nei modi stabiliti dalla
legge, di esperti e di rappresentanti delle categorie produttive, in misura che tenga conto
della loro importanza numerica e qualitativa.
E’ organo di consulenza delle Camere e del Governo per le materie e secondo le funzioni che gli sono attribuite dalla legge.
Ha l’iniziativa legislativa e può contribuire alla elaborazione della legislazione economica e sociale secondo i principi ed entro i limiti stabiliti dalla legge.
Occorre ricordare che il Costituente non ebbe un sicuro modello di riferimento, cui
ispirarsi in organi analoghi, assai eterogenei del resto, anche nelle denominazioni, di altri
paesi (non soltanto europei), sebbene possa scorgersi una certa corrispondenza dell’organo
italiano al modello weimariano (del 1919).
Il CNEL fu dalla Costituzione "prefigurato" nei suoi caratteri e nelle sue funzioni essenziali, ma fu lasciato, nel contempo, alla legge un ampio margine perché ne fossero precisati i modi della composizione e il funzionamento. L’ordinamento e le attribuzioni del
Consiglio sono stati disciplinati con la legge di prima attuazione (l. 5/I/1957 n. 33), e con la
più recente legge di "riforma" (e abrogativa della legge del ’57) 30/XII/1986, n. 936. Altre
fonti riguardano la disciplina del personale, o sono espressione della sua "autonomia regolamentare" (v., in particolare, il regolamento interno e il regolamento di amministrazione e
di contabilità).
99
b. Consiglio di Stato.
E' organo di consulenza giuridico-amministratíva e di tutela della giustizia nell’amministrazione.
Al Consiglio di Stato, sorto nel 1831 per limitare il potere assoluto del sovrano, erano,
originariamente, attribuite le sole funzioni consultive. La sua trasformazione - conseguenza
dell’avvento del regime parlamentare - fu del tutto naturale e, almeno inizialmente, senza che
il cambiamento trovasse riconoscimento formale nelle leggi. Dopo le fondamentali leggi del
1889 e del l907, il suo complessivo ordinamento venne, soprattutto, con le riforme del 1923
(r.d. 30-12-1923 n. 2840) e del 1924 (t.u. 26-6-1924, n. 1054 delle leggi sul C.S.), seguite
dal regolamento esecutivo del t.u. (r.d. 21-4-1942, n. 444) e da successive leggi speciali, che
hanno integrato, per alcune parti, l’ordinamento del 1924.
Attualmente l'art. 17 comma 25, legge 15 maggio 1997, n. 127, stabilisce che il parere
del Consiglio di Stato è chiesto in via obbligatoria:
- per l'emanazione degli atti normativi del Governo e dei singoli Ministri, nonchè per la
emanazione di T.U.;
- per la decisione dei ricorsi straordinari al Presidente della Repubblica;
- sugli schemi generali di contratti tipo.
c. Corte dei Conti.
Esercita il controllo preventivo di legittimità sugli atti del Governo, e anche quello
successivo sulla gestione del bilancio dello Stato. Partecipa, nei casi e nelle forme stabilite
dalla legge, al controllo sulla gestione finanziaria degli enti a cui lo Stato contribuisce in via
ordinaria. Riferisce direttamente alle Camere sul risultato del riscontro eseguito.
Fino alla recente riforma, le competenze della Corte dei conti rientranti nella funzione
di controllo erano nell'ordine:
- controllo preventivo di legittimità sugli atti del Governo;
- controllo successivo sulla gestione del bilancio dello Stato;
- controllo sulla gestione finanziaria di enti cui lo Stato contribuisce in via ordinaria;
- attività referente al Parlamento, o, come altrimenti viene definita, controllo «informativo».
Da una parte , dunque, la disposizione del comma 2° dell’art. 100 recepisce la tradizionale funzione di controllo così come disciplinata nell’ordinamento anteriore, dall’altra innova
allo stesso, con la riserva esplicita alla legge di "stabilire casi e forme" del controllo sugli enti.
Il controllo preventivo (art. 13 legge istitutiva e art. 17 t.u. n. 1214) si esercitava su
tutti i "decreti reali, qualunque fosse il Ministero da cui emanavano e qualunque ne fosse
l'oggetto" (con eccezione degli atti previsti dal r.d. n. 1322 del 1934) e su atti ministeriali,
tassativamente previsti, al fine del riscontro della conformità alla legge (visto di legittimità), quale condizione della loro efficacia.
Tuttavia, il controllo preventivo sugli atti emanati ai sensi degli artt. 76 e 77 (decreti
delegati e decreti legge) è stato soppresso dalla legge del 1988 (n. 400), con una disposizione
"stralcio" (in attesa della riforma globale della funzione di controllo), la quale consente,
peraltro, alla Corte dei conti, su richiesta della Presidenza di una delle due Camere e su
iniziativa delle Commissioni competenti, di trasmettere al Parlamento le proprie "valutazioni" sulle conseguenze finanziarie che deriverebbero dalla conversione in legge di un decreto
legge o dalla emanazione di un decreto legisiativo.
La decisione del legislatore di sottrarre i decreti legisla tivi e i decreti-legge al controllo
preventivo della Corte dei conti risulta con chiarezza dagli atti parlamentari. Le ragioni
dell'esclusione dei decreti emanati ex artt. 76 e 77 della Costituzione si ricollegano alla
necessità di chiudere definitivamente un’antica querelle tra Corte dei conti e Parlamento,
originata dalla sopravvivenza delle vecchie norme, in base alle quali la Corte dei conti continuava a registrare decreti legislativi e decreti-legge.
Nel maggio 1989 la Corte dei conti ha fatto ricorso per conflitto di attribuzione a
100
seguito dell’omessa sottoposizione al controllo della Corte stessa del D.P.R. 27 dicembre
1985, n. 1142.
Ma la Corte costituzionale, con sentenza 14 luglio 1989, n. 406 ha dichiarato che
spetta al Governo adottare i decreti delegati e i decreti-legge ai sensi rispettivamente degli
artt. 76 e 77 della Costituzione, senza successivamente sottoporli a visto e registrazione
della Corte dei conti.
Con la legge 14 gennaio 1994, n. 20, la Corte dei conti ha cessato di esercitare il
controllo preventivo su tutti i decreti presidenziali.
Attualmente dunque il controllo preventìvo di legittimità della Corte dei conti si esercita esclusivamente sui seguenti atti non aventi forza di legge:
- provvedimenti emanati a seguito di deliberazione del Consiglio dei Ministri;
- atti del Presidente del Consiglio dei Ministri e atti dei Ministri aventi ad oggetto la
definizione delle piante organiche, il conferimento di incarichi di funzioni dirigenziali
e le direttive generali per l’indirizzo e per lo svolgimento dell'azione amministrativa;
- atti normativi a rilevanza esterna, atti di programmazione comportanti spese ed atti
gene rali attuativi di norme comunitarie;
- provvedimenti dei comitati interministeriali di riparto o assegnazione di fondi;
- provvedimenti di disposizione del demanio e del patrimonio immobiliare;
- decreti che approvano contratti delle amministrazioni dello Stato;
- ecc..
La Corte dei conti svolge, anche in corso di esercizio, il controllo successivo sulla
gestione del bilancio e del patrimonio delle amministrazioni pubbliche nonché sulle gestioni
fuori bilancio e sui fondi di provenienza comunitaria.
Nei confronti delle amministrazioni regionali, il controllo della gestione concerne il
perseguimento degli obiettivi stabiliti dalle leggi di principio e di programma.
La Corte dei conti riferisce, almeno annualmente, al Parlamento ed ai consigli regionali
sull’esito del controllo eseguito. Le relazioni della Corte sono altresì inviate alle amministrazioni interessate, alle quali la Corte formula, in qualsiasi altro momento, le proprie osservazioni. Le amministrazioni comunicano alla Corte ed agli organi elettivi le misure
conseguenzialmente adottate.
L'art. 3 del D. Lgs. 30 luglio 1999, n. 286, detta disposizioni per adeguare anche le
strutture di controllo della Corte dei conti al sistema dei controlli interni: sul punto si è
espressa anche la relazione del procuratore generale della Corte dei Conti, letta nell'udienza
del 17 gennaio 2000 (vedi Appendice 2).
11. LE AUTORITA' INDIPENDENTI
I motivi che hanno determinato la introduzione delle autorità indipendenti in Italia sono
vari e molteplici. Tra essi vanno compresi:
- la (vera o presunta) crisi della tradizionale organizzazione amministrativa ad adeguarsi
al processo di trasformazione dello Stato contemporaneo;
- l'esigenza di tutelare in modo specifico interessi diffusi di rilievo costituzionale;
- la influenza di modelli stranieri (soprattutto le Indipendent Regulatory Commissions
americane, o anche l'istituto dell'Ombudsman).
La legittimazione delle Autorità quali soggetti indipendenti si ricollega - in assenza di una
espressa previsione costituzionale - al principio della imparzialità della pubblica amministrazione, sancito dall’articolo 97 Cost. In base ad una interpretazione evolutiva, sono state individuate in tale disposizione le premesse di un’amministrazione diversa da quella soggetta al Governo ai sensi dell’articolo 95 della Costituzione.
A partire dagli anni 90, l’esigenza di sottrarre al circuito governativo l’assolvimento di
funzioni relative a importanti settori, viene appunto perseguita con l’istituzione di organismi
indipendenti.
101
In verità, casi di organismi autonomi sono già riscontrabili in anni precedenti, dalla Consob
(1974), al Garante dell’editoria (1981), all’ISVAP (1982). Il fenomeno assume peraltro dimensioni rilevanti proprio a partire dal 1990, anno cui risalgono le leggi istitutive dell’Autorità
garante della concorrenza e del mercato, del Garante per la radiodiffusione e l’editoria (poi
sostituito dall’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni) e della Commissione per l’attuazione della legge sullo sciopero nei servizi pubblici.
Nel periodo 1993-96 nascono l’Agenzia per l’informatica nella pubblica amministrazione,
l’Autorità per la vigilanza nei lavori pubblici, l’Autorità per l’energia elettrica ed il gas, il
Garante per la tutela delle persone rispetto al trattamento dei dati personali.
La proliferazione degli organismi indipendenti è accompagnata dalla loro eterogeneità,
derivante probabilmente da due cause: la frammentarietà degli interventi legislativi e la peculiarità di ciascun organismo, anche in relazione ai compiti ad esso affidati.
L’eterogeneità risulta evidente con riguardo ai seguenti elementi: la collocazione delle
Autorità nell’ordinamento; i poteri normativi; le garanzie del procedimento; i profili organizzativi; i criteri di composizione e di nomina; lo "status" giuridico ed economico del personale.
Le attività svolte dalle autorità indipendenti sono state ripartite in tre categorie:
- di carattere normativo;
- di carattere amministrativo;
- di carattere paragiurisdizionale.
Uno dei punti più discussi in tema di Autorità indipendenti è l’attribuzione ad alcune di
esse di poteri normativi.
L'attribuzione di poteri normativi solleva in realtà questioni di diverso ordine. Il problema
di fondo resta la giustificazione teorica di poteri di produzione normativa in capo ad organismi
che non godono di legittimazione democratica.
Si pone inoltre un problema di collocazione di tali norme nel sistema delle fonti normative,
ossia di come vadano risolte eventuali antinomie con norme di diverso rango.
Un altro aspetto problematico è costituito dai rapporti tra il Parlamento e tali autorità.
Come è stato sottolineato da alcuni autori, è il Parlamento che legifera sull'autorità. Le
Camere non hanno potere di indirizzo, ma conservano ovviamente il potere di legiferare.
Comunque il Parlamento resta titolare di un potere di «controllo» sulle Autorità, che se
non è tale in senso tecnico, sembra tuttavia indispensabile per instaurare il dialogo istituzionale
con tali organi e per evitare che da un lato l’indipendenza delle Autorità non si traduca in
autoreferenzialità e separatezza, dall’altro per evitare che il Parlamento stesso perda di vista i
processi decisionali di settore.
Il problema è di individuare i collegamenti specifici e gli strumenti attraverso i quali si
possa realizzare il dialogo istituzionale.
Strumento tipico, comune a tutte le Autorità, è la presentazione alle Camere della relazione annuale sull’attività svolta. Peraltro, nonostante tale adempimento, previsto dalle leggi
istitutive, sia stato, fino ad oggi, regolarmente osservato da parte delle Autorità, l’attenzione
dell’organo parlamentare è stata piuttosto scarsa.
D’altra parte, come è stato sottolineato, l’ipotesi di una previsione, in una legge quadro e
nei regolamenti delle Camere, della discussione delle singole relazioni, richiede un’attenta riflessione sui possibili esiti finali della discussione stessa. Infatti l’apertura di un dibattito su di
una relazione apre la possibilità della presentazione di documenti di indirizzo, quali ad esempio
mozioni, che esprimano giudizi dell’organo parlamentare in merito all’azione della determinata
Autorità. Inoltre il voto a maggioranza di uno strumento di indirizzo potrebbe comportare il
rischio di tentativi di allineamento delle Autorità alla maggioranza del momento, violando proprio le finalità per cui una data Autorità è stata istituita.
A conclusione di una Indagine conoscitiva sulle autorità amministrative indipendenti, la I
Commissione della Camera rileva (nel pregevole documento conclusivo approvato nella seduta
del 4 aprile 2000) la complessità del quadro e la necessità di calibrare in termini nuovi il rapporto tra Parlamento ed Autorità.
Prima della conclusione della legislatura è difficile immaginare interventi legislativi, so102
prattutto di ordine costituzionale. Tuttavia, il Parlamento potrebbe approfondire le tematiche
attinenti a tale profilo. In particolare, l’attenzione potrebbe concentrarsi sul raccordo tra Parlamento e Autorità, anche al fine di valutare le modifiche eventualmente da apportare ai regolamenti parlamentari. Successivamente si potrebbe dedicare un'ulteriore riflessione alle singole
Autorità, anche in relazione alla riforma della organizzazione dei ministeri delineata dal decreto
legislativo n. 300 del 1999, il quale prevede un diffuso utilizzo dello strumento delle agenzie.
Dall’indagine si possono comunque trarre alcune indicazioni per quanto attiene alla copertura costituzionale, all’opportunità di un intervento legislativo ordinario e alle modifiche che
potrebbero essere apportate al regolamento della Camera.
Per quanto riguarda l'aspetto della copertura costituzionale, la Commissione ritiene che
essa sia necessaria per dare una legittimazione anche in Costituzione ai poteri normativi conferiti alle Autorità.
La base di partenza per tale riflessione potrebbe essere rappresentata dal testo del progetto
di Legge costituzionale di revisione della parte II della Costituzione, predisposto dalla Commissione bicamerale.
Per quanto attiene alla utilità di una legge quadro valida per tutte le autorità, vi sono i
possibilisti e gli scettici. Questi ultimi osservano che la diversità delle esigenze cui rispondono
e i diversi compiti assegnati non consentirebbero di disegnare un quadro unico, se non talmente
minimalista da risultare inutile.
In ordine infine ai rapporti tra Parlamento ed autorità, il Documento conclusivo dell'Indagine fa presente l'esigenza di adeguare la struttura organizzativa del Parlamento per costruire
un dialogo più intenso con le Autorità.
Un obiettivo ambizioso potrebbe essere rappresentato, in prima istanza, dal ricondurre ad
unità le relazioni presentate dalle singole Autorità in ordine all’attività svolta, mettendo in evidenza i punti di raccordo ed eventuali distonie.
La auspicata riflessione dovrebbe comunque servire a rafforzare il ruolo del Parlamento e
meglio definirne il suo ruolo non soltanto di «distributore» di competenze tra altri organi incluse le Autorità - ma anche di snodo fondamentale in cui la molteplicità dei valori in campo
viene ricondotta a linee di politica unitarie (7).
12. LA RIFORMA DELLA PRESIDENZA DEL CONSIGLIO E DEI MINISTERI
L’articolo 11, comma 4, lettera a) l. n. 59/1997 delegava il Governo a razionalizzare
l’ordinamento della Presidenza del Consiglio e dei ministeri nel rispetto di principi e criteri
direttivi finalizzati a dare piena attuazione all'articolo 95 della Costituzione sulle funzioni di
impulso, indirizzo e coordinamento del Presidente del Consiglio, nonché a consentire la
razionalizzazione e redistribuzione delle competenze fra i ministeri.
Il Governo ha dato attuazione alla delega con due decreti di grande rilevanza politicoistituzionale, il primo relativo all’ordinamento della Presidenza del Consiglio, il secondo concernente la riforma dell’organizzazione del Governo.
- il decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 303, recante la riforma della Presidenza del
Consiglio, risponde ad una esigenza generale di carattere strategico: privare la Presidenza di tutte le funzioni spurie che le sono state attribuite nel tempo, per restituire alle
strutture di base della stessa, la fisionomia necessaria per sostenere il ruolo costituzionale di direzione impulso, indirizzo e coordinamento svolto dal Presidente del Consiglio.
Il decreto citato elenca poi le funzioni che il PDCM esercita avvalendosi della Presidenza.
(7) Per la dottrina, vedi AA.VV., Le autorità amministrative indipendenti. Spunti problematici, a cura di F.S. Severi, Milano 1998;
Le autorità indipendenti, a cura di S. Labriola, Milano, 1999.
Il 19.2.1999 si è svolta a Roma, presso il Senato, una tavola rotonda sulla «Disciplina generale della autorità dipendenti», in
occasione della presentazione di una ipotesi di progetto di legge elaborata dai frequentatori del X corso della Scuola di Scienza e
Tecnica della Legislazione dell'ISLE. L'ipotesi di progetto e le relazioni sono pubblicate in Rass. Parlamentare, n. 4/1999.
103
- Il decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 300 (recante la riforma dell’amministrazione
centrale) rappresenta la risposta all’esigenza di un riordino dell’apparato centrale dello
Stato.
Il processo di regionalizzazione, prima, e di privatizzazione, poi, hanno spogliato lo
Stato di numerose funzioni, pur permanendo le relative strutture centrali.
Il decreto n. 300 del 1999, rispondendo all’esigenza di razionalizzazione, si muove
lungo tre direttive.
La prima è relativa alla concentrazione dei ministeri, che passano da diciotto a dodici(8). Il decreto definisce poi le norme generali di organizzazione prevedendo due tipi di
strutture ministeriali, una articolata sul modello dei dipartimenti, l’altra sulle direzioni
generali.
La seconda finalità del riordino è quella del polincentrismo: sono state individuate
dodici funzioni tecnico-operative, che sono affidate ad altrettante agenzie, carattrizzate
da un direttore generale e da un comitato, sei delle quali dotate di personalità giuridica.
Le agenzie avranno obiettivi stabiliti previa convenzione con i ministri, propri mezzi,
autonome gestionale, contabilità privatistica, proprio personale, responsabilità di gestione.
Con le dodici agenzie, l’Italia si allinea al modello inglese.
La terza direzione del riordino è quella della concentrazione degli uffici periferici
dello Stato. Si trasformano così le prefetture in uffici territoriali del Governo e si riconoscono al prefetto nel capoluogo di regione le funzioni di commissario del Governo.
La riforma avverrà in due fasi, la prima (relativa ai Ministeri delle finanze e dell’istruzione e alle agenzie per la Protezione civile e per la Formazione e l’istruzione
professionale) più vicina, la seconda (quella relativa alla parte restante) legata alla fine
della legislatura.
(8) A decorrere dalla prossima legislatura, i ministeri residui sono i seguenti:
- Ministero degli Affari esteri;
- Ministero dell’Interno;
- Ministero della Giustizia;
- Ministero della Difesa;
- Ministero dell’Economia e delle finanze;
- Ministero delle Attività prduttive;
- Ministero per le Politiche agricole e forestali;
- Ministero delle Infrastrutture e dei trasporti;
- Ministero del lavoro, della salute e delle politiche sociali;
- Ministero dell'Istruzione, dell'università e della ricerca;
- Ministero per i Beni e le attività culturali.
Da sottolineare, in questa concentrazione, l’unificazione Tesoro-Finanze (i due apparati erano stati definitivamente separati all’inizio
del secolo); la concentrazione di Commercio estero, Comunicazioni, Industria e Turismo nel Ministero delle attività produttive; la
scomparsa dei Lavori pubblici, le cui funzioni passano in parte al Ministero dell’Ambiente, che così guadagna la tutela del territorio,
in parte al Ministero dei Trasporti, che così si arricchiscono delle infrastrutture, l’unificazione delle Politiche sociali (Lavoro, Previdenza
e Sanità).
104
CAPITOLO SETTIMO
LA MAGISTRATURA
1. L'ORDINAMENTO GIURISDIZIONALE
La materia è regolata dagli artt.: 101 - 113 della Costituzione.
La giustizia è amministrata in nome del popolo. I giudici sono soggetti soltanto alla legge
(art. 101).
Per valutare appieno il mutato status dei giudici, è sufficiente ricordare che, in base allo
Statuto albertino, la giustizia emanava dal Re ed era amministrata in suo nome dai giudici da lui
istituiti.
Nei primi anni dello Statuto albertino, la magistratura di fatto fu un corpo sostanzialmente
sottoposto all’esecutivo (presiedendo in pratica il Guardasigilli alla carriera di tutti i funzionari
giudiziari ed essendo il P.M. strutturato quale rappresentante del potere esecutivo presso ogni
autorità giudiziaria). E questo tipo di organizzazione fu consacrato nell'"ordinamento giudiziario": il r.d. 2626/1856, che durò inalterato (salvo marginali modifiche), fino alla "legge Zanardelli"
6878/1890. Detto provvedimento disciplinò l’accesso alla magistratura generalizzando il principio del concorso, e aprì una serie di interventi normativi che - pur senza innovare l'organizzazione precedente - mirarono ad accentuare le garanzie d’indipendenza del giudice.
Il testo costituzionale (artt. 101-110) stabilisce in maniera inequivocabile le guarentigie
del giudice (inamovibilità, e sottoposizione al CSM per ogni provvedimento sullo status); la
differenziazione (solo) funzionale dei magistrati; la collocazione del P.M. nell'ordinamento giudiziario; la previsione del Consiglio Superiore come organo di autogoverno non avulsa dal
collegamento con gli altri poteri; ribadisce la scelta del principio dell'unità della giurisdizione,
precisa quali devono essere i rapporti tra la magistratura , autonoma ed indipendente, ed il
Ministro della Giustizia, politicamente responsabile del funzionamento amministrativo della
giustizia, nonchè titolare della facoltà dell'azione disciplinare.
Le norme costituzionali presupponevano una coerente attuazione legislativa. Del resto, la
VII disp. trans. della Costituzione aveva testualmente previsto che dovesse essere emanata una
"nuova legge sull’ordinamento giudiziario in conformità con la Costituzione". La legislazione
successiva ha stentato, invece, ad intraprendere la via di una organica riforma dell’ordinamento
giudiziario (autorevolmente sollecitata dalla Corte costituzionale, nella motivazione della sentenza 86/1982). Si è preferito invece operare con interventi parziali e settoriali.
Ciò detto in ordine all'inquadramento della magistratura nella Costituzione repubblicana,
passiamo rapidamente in rassegna le principali disposizioni costituzionali in materia.
La funzione giurisdizionale è esercitata da magistrati ordinari istituiti e regolati dalle norme sull’ordinamento giudiziario (art. 102).
Non possono essere istituiti giudici straordinari o giudici speciali. Possono soltanto istituirsi presso gli organi giudiziari ordinari sezioni specializzate per determinate materie, anche con
la partecipazione di cittadini idonei estranei alla magistratura.
105
La legge regola i casi e le forme della partecipazione diretta del popolo all'amministrazione
della giustizia.
Il Consiglio di Stato e gli altri organi di giustizia amministrativa hanno giurisdizione per la
tutela nei confronti della pubblica amministrazione degli interessi legittimi e, in particolari materie indicate dalla legge, anche dei diritti soggettivi (art. 103).
La Corte dei conti ha giurisdizione nelle materie di contabilità pubblica e nelle altre specificate dalla legge.
I Tribunali militari in tempo di guerra hanno la giurisdizione stabilita dalla legge. In tempo
di pace hanno giurisdizione soltanto per i reati militari commessi da appartenenti alle Forze
armate.
L’art. 104 - dopo aver stabilito al 1° comma che la magistratura costituisce un ordine
autonomo e indipendente da ogni altro potere - istituisce un nuovo organo, il Consiglio Superiore della Magistratura, le cui funzioni sono descritte dall’art. 105.
Spettano al Consiglio superiore della magistratura, secondo le norme dell’ordinamento
giudiziario, le assunzioni, le assegnazioni ed i trasferimenti, le promozioni e i provvedimenti
disciplinari nei riguardi dei magistrati (art. 105).
Con la istituzione del Consiglio Superiore della Magistratura, i Costituenti hanno voluto
sottrarre le più delicate attribuzioni concernenti la Magistratura al Governo, che in precedenza
le esercitava per mezzo del Ministro Guardasigilli.
Gli artt. 106-109 dettano disposizioni sullo status dei magistrati.
Apparentemente il Ministro della Giustizia ha un ruolo abbastanza modesto. Infatti egli ha
facoltà di promuovere l’azione disciplinare e ferme le competenze del Consiglio superiore della
magistratura, spettano al Ministro della giustizia l’organizzazione e il funzionamento dei servizi relativi alla giustizia.
Nella prassi, tra Consiglio Superiore della Magistratura e Ministro della Giustizia si sono
verificati contrasti, talvolta risolti dalla Corte Costituzionale in sede di conflitto di attribuzioni
(1).
2. LE NORME SULLA GIURISDIZIONE
La Costituzione contiene anche alcune importanti norme sulla giurisdizione.
Tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati (art. 111).
Contro le sentenze e contro i provvedimenti sulla libertà personale, pronunciati dagli organi giurisdizionali ordinari o speciali, è sempre ammesso ricorso in Cassazione per violazione di
legge. Si può derogare a tale norma soltanto per le sentenze dei tribunali militari in tempo di
guerra.
Contro le decisioni del Consiglio di Stato e della Corte dei conti il ricorso in Cassazione è
ammesso per i soli motivi inerenti alla giurisdizione.
A questo punto occorre ricordare che il legislatore - dopo molte polemiche e vivaci discussioni, e tenendo conto di fatti giudiziari degli ultimi anni che hanno avuto notevole risonanza
sulla stampa e nel dibattito politico-istituzionale - ha approvato la legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2, recante l’inserimento dei principi del giusto processo nell’articolo 111 della
Costituzione.
La legge ha premesso i seguenti commi al primo comma dell’art. 111 Cost.: «La giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge. Ogni processo si svolge nel
contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale. La legge
(1) Il caso si è verificato per un provvedimento di copertura di uffici direttivi. Esso è adottato dal plenum del CSM, previo “concerto"
con il Ministro.
Ebbene non risulta chiaro il ruolo del Ministro in tale complessa procedura. E l’oscurità non è stata completamente chiarita
dalla sentenza 379/1992 della Corte Costituzionale, pronunciata in sede di conflitto d’attribuzione tra CSM e Ministro, in quanto
la Corte si è limitata a precisare che il concerto del Ministro deve essere effettivo ma che, una volta esaurita la fase della concertazione,
il Ministro non possa ostacolare le decisioni del Consiglio.
106
ne assicura la ragionevole durata. Nel processo penale, la legge assicura che la persona accusata di un reato sia, nel più breve tempo possibile, informata riservatamente della natura e dei
motivi dell’accusa elevata a suo carico; disponga del tempo e delle condizioni necessarie per
preparare la sua difesa; abbia la facoltà, davanti al giudice, di interrogare o di far interrogare le
persone che rendono dichiarazioni a suo carico, di ottenere la convocazione e l’interrogatorio di
persone a sua difesa nelle stesse condizioni dell’accusa e l’acquisizione di ogni altro mezzo di
prova a suo favore; sia assistita da un interprete se non comprende o non parla la lingua impiegata nel processo.
Il processo penale è regolato dal principio del contraddittorio nella formazione della prova. La colpevolezza dell’imputato non può essere provata sulla base di dichiarazioni rese da
chi, per libera scelta, si è sempre volontariamente sottratto all’interrogatorio da parte dell’imputato o del suo difensore.
La legge regola i casi in cui la formazione della prova non ha luogo in contraddittorio per
consenso dell’imputato o per accertata impossibilità di natura oggettiva o per effetto di provata
condotta illecita» (2).
Dopo aver illustrato i principi del giusto processo, inseriti recentemente in Costituzione
all’art. 111, riprendiamo l’esame delle altre norme costituzionali sulla giurisdizione.
Il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale (art. 112).
Contro gli atti della pubblica amministrazione è sempre ammessa la tutela giurisdizionale
dei diritti e degli interessi legittimi dinanzi agli organi di giurisdizione ordinaria o amministrativa (art. 113).
Tale tutela giurisdizionale non può essere esclusa o limitata a particolari mezzi di
impugnazione o per determinate categorie di atti.
La legge determina quali organi di giurisdizione possono annullare gli atti della pubblica
amministrazione nei casi e con gli effetti previsti dalla legge stessa.
Per quanto attiene, al Consiglio di Stato è sufficiente ricordare che esso fu istituito da
Carlo Alberto nel 1831, composto di funzionari che godevano la fiducia del Sovrano, con compiti politici.
(2) Come ha osservato il relatore al Senato sul d.d.l. costituzionale n. 3619 e altri (sen. Pera), la nozione di giusto processo ha una
“tessitura aperta”, nel senso che non è esauribile tramite un’elencazione esaustiva di criteri congiuntamente definitori. Essa racchiude
una serie di principi che sono aperti all’evoluzione della coscienza e della cultura civile e politica dei diritti umani, della dottrina
e della giurisprudenza. Questi principi hanno varia natura. Sono di tipo sostanziale (ad esempio il diritto dell’accusato alla presunzione
di innocenza, ad un’informazione tempestiva delle accuse a suo carico, al tempo per approntare la propria difesa, eccetera), di tipo
processuale (ad esempio il diritto alla parità fra accusa e difesa, al contraddittorio fra le parti, alla ragionevole durata del procedimento,
eccetera), di tipo ordinamentale (ad esempio il diritto ad un giudice indipendente e imparziale).
E' convinzione ampiamente diffusa che i principali ed essenziali fra i diritti che caratterizzano la nozione di giusto processo
accusatorio, quale è recepita dal nostro codice, siano almeno i seguenti quattro: la indipendenza e imparzialità del giudice, la parità
delle parti innanzi al giudice, la formazione della prova mediante il contraddittorio fra le parti, la ragionevole durata del procedimento
a carico dell’indagato e dell’imputato.
Imparzialità dei giudice. Le convenzioni e i patti internazionali parlano sistematicamente di «indipendenza e imparzialità del
giudice». I due concetti, ancorchè collegati non sono sinonimi.
L’indipendenza riguarda lo status istituzionale del giudice: egli non deve essere sottoposto ad alcun altro potere, ma solo alla
legge che deve applicare. L’imparzialità attiene allo status personale del giudice. E ciò va inteso sia nel senso soggettivo di mancanza
di pregiudizi o preconcetti, sia nel senso oggettivo di possesso dell’apparenza di neutralità.
Parità delle parti. Questo diritto fondamentale non deve essere frainteso. La parità non attiene ai mezzi o agli strumenti. In
questo senso, è evidente che accusa e difesa non possono che essere impari, essendo la prima pubblica e provvista dei mezzi dello
Stato. La parità non attiene neppure ai poteri dato che, in questo senso esiste una asimmetria del processo penale soprattutto in un
processo accusatorio, più che una impossibile uguaglianza di posizioni soggettive, la parità, per essere concreta e reale, implica la
reciprocità di diritti. In particolare, essa richiede uguale diritto alla prova.
C’è parità laddove le parti hanno lo stesso diritto ad addurre prove giudicate rilevanti e ad ottenerne l’ammissione da parte del
giudice, nonchè lo stesso diritto a richiederne la valutazione. Per converso, c’è violazione della parità non quando elementi di prova
acquisiti da una parte entrano nel dibattimento, ma quando entrano nel dibattimento elementi di prova di una parte dalla cui
formazione l’altra parte venga esclusa. Analogamente, non costituisce violazione della parità l’acquisizione d’ufficio di prove da
parte del giudice, ma la mancata partecipazione a queste prove delle parti.
Richiamato esplicitamente dall’articolo 2, comma 3, della legge n. 81 del 1987 - il quale parla esplicitamente di «partecipazione
dell’accusa e della difesa su basi di parità in ogni stato e grado del procedimento» -, il diritto alla parità manca di una esplicita
copertura costituzionale.
Contraddittorio. Questo principio ha due sensi: diritto dell’imputato e del suo difensorc ad interrogare il teste di accusa, e
canone della formazione della prova e della verità processuale.
107
Nel 1889, accanto alle tre sezioni consultive, fu istituita la quarta sezione per la giustizia
amministrativa. Nel 1907 è stata istituita una quinta sezione; nel 1948 è stata aggiunta una
sesta sezione giurisdizionale.
Attualmente quindi il Consiglio di Stato ha tre sezioni consultive, più una di recente costituzione per gli schemi normativi del Governo, e tre sezioni gìurisdizionali.
Dopo la istituzione dei TAR il Consiglio di Stato svolge un ruolo di giudice di appello. Il
Consiglio di Stato è rimasto giudice di unico grado per un limitatissimo numero di controversie.
Ci si è chiesti talvolta se anche nei confronti degli uffici giudiziari deve essere assicurato
"il buon andamento" dell'amministrazione, che l'art. 97 Cost. colloca nella sezione dedicata alla
Pubblica Amministrazione. Qui è sufficiente sottolineare che, alla stregua della consolidata
giurisprudenza della Corte cost., il principio del buon andamento dei pubblici uffici non si
riferisce all’attività giurisdizionale in senso stretto, bensì ai profili organizzativi e funzionali
dell’amministrazione della giustizia (v. da ultimo sentenze n. 381 del 1999 e n. 53 del 1998).
3. ORDINE GIUDIZIARIO E POTESTA' LEGISLATIVA REGIONALE
La Corte costituzionale ha precisato che il legislatore regionale non può statuire in ordine
a rimedi giurisdizionali, ovvero a facoltà o poteri dell’Autorità giudiziaria, dato che l’art. 108
della Costituzione riserva la materia della giurisdizione e quella processuale alla competenza
del legislatore statale (sent. n. 86 1999).
Tanto premesso in via generale, si è tuttavia precisato, in materia di incarichi
extraistituzionali affidabili a magistrati, che la riserva di legge dello Stato riguarda i limiti, le
condizioni e le modalità per l’attribuzione di incarichi estranei al loro compiti di istituto. Ma,
una volta intervenuta tale disciplina, la legge regionale, nel rispetto di essa, può prevedere
l’utilizzazione degli appartenenti all’autorità giudiziaria (ordinaria o speciale) nell’ambito della
competenza circa l’organizzazione di apparati o di attività della Regione stessa. Fermo restando
peraltro che, se anche tali incarichi siano ritenuti necessari per la legge regionale, tanto non
comporta che il magistrato sia obbligato ad accettarli né l’obbligo da parte del Consiglio cui
appartiene di conferirli.
108
CAP- VIII
GLI ENTI TERRITORIALI
LE PAGINE 109 A 113 SONO ATTUALMENTE OGGETTO DI
REVISIONE A SEGUITO DELL’ENTRATA IN VIGORE DELLA
LEGGE COSTITUZIONALE 18 OTTOBRE 2001 N. 3:
"Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione"
(Pubblicata nella G.U. serie generale n. 248 del 24 ottobre 2001)
Nelle pagine successive è riportato il testo derivante dalle modifiche introdotte con la Legge
Costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, che hanno riguardato gli articoli 121, 122, 123 e 126 della
Costituzione e dalle modifiche previste dalla legge costituzionale approvata definitivamente con il
referendum del 7 ottobre 2001 (art.114, 115, 116, 117, 118, 119, 120, 123 4° comma, 124, 125 1°
comma, 127, 128, 129, 130 e 132).
TITOLO V - LE REGIONI, LE PROVINCE, I COMUNI
Art. 114
La Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e
dallo Stato.
I Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni sono enti autonomi con propri statuti,
poteri e funzioni secondo i principi fissati dalla Costituzione.
Roma è la capitale della Repubblica. La legge dello Stato disciplina il suo ordinamento.
Art. 115
(abrogato)
Art. 116
Il Friuli Venezia Giulia, la Sardegna, la Sicilia, il Trentino-Alto Adige/Südtirol e la Valle
d'Aosta/Vallée d'Aoste dispongono di forme e condizioni particolari di autonomia, secondo i
rispettivi statuti speciali adottati con legge costituzionale.
La Regione Trentino-Alto Adige/Südtirol è costituita dalle Province autonome di Trento e di
Bolzano.
Ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, concernenti le materie di cui al terzo comma
dell'articolo 117 e le materie indicate dal secondo comma del medesimo articolo alle lettere l),
limitatamente all'organizzazione della giustizia di pace, n) e s), possono essere attribuite ad altre
Regioni, con legge dello Stato, su iniziativa della Regione interessata, sentiti gli enti locali, nel
rispetto dei principi di cui all'articolo 119. La legge è approvata dalle Camere a maggioranza
assoluta dei componenti, sulla base di intesa fra lo Stato e la Regione interessata.
Art. 117
La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché
dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali.
Lo Stato ha legislazione esclusiva nelle seguenti materie:
a) politica estera e rapporti internazionali dello Stato; rapporti dello Stato con l'Unione europea;
diritto di asilo e condizione giuridica dei cittadini di Stati non appartenenti all'Unione europea;
b) immigrazione;
c) rapporti tra la Repubblica e le confessioni religiose;
d) difesa e Forze armate; sicurezza dello Stato; armi, munizioni ed esplosivi;
e) moneta, tutela del risparmio e mercati finanziari; tutela della concorrenza; sistema valutario;
sistema tributario e contabile dello Stato; perequazione delle risorse finanziarie;
f) organi dello Stato e relative leggi elettorali; referendum statali; elezione del Parlamento europeo;
g) ordinamento e organizzazione amministrativa dello Stato e degli enti pubblici nazionali;
h) ordine pubblico e sicurezza, ad esclusione della polizia amministrativa locale;
i) cittadinanza, stato civile e anagrafi;
l) giurisdizione e norme processuali; ordinamento civile e penale; giustizia amministrativa;
m) determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che
devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale;
n) norme generali sull'istruzione;
o) previdenza sociale;
p) legislazione elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città
metropolitane;
q) dogane, protezione dei confini nazionali e profilassi internazionale;
r) pesi, misure e determinazione del tempo; coordinamento informativo statistico e informatico dei
dati dell'amministrazione statale, regionale e locale; opere dell'ingegno;
s) tutela dell'ambiente, dell'ecosistema e dei beni culturali.
Sono materie di legislazione concorrente quelle relative a: rapporti internazionali e con l'Unione
europea delle Regioni; commercio con l'estero; tutela e sicurezza del lavoro; istruzione, salva
l'autonomia delle istituzioni scolastiche e con esclusione della istruzione e della formazione
professionale; professioni; ricerca scientifica e tecnologica e sostegno all'innovazione per i settori
produttivi; tutela della salute; alimentazione; ordinamento sportivo; protezione civile; governo del
territorio; porti e aeroporti civili; grandi reti di trasporto e di navigazione; ordinamento della
comunicazione; produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell'energia; previdenza
complementare e integrativa; armonizzazione dei bilanci pubblici e coordinamento della finanza
pubblica e del sistema tributario; valorizzazione dei beni culturali e ambientali e promozione e
organizzazione di attività culturali; casse di risparmio, casse rurali, aziende di credito a carattere
regionale; enti di credito fondiario e agrario a carattere regionale. Nelle materie di legislazione
concorrente spetta alle Regioni la potestà legislativa, salvo che per la determinazione dei principi
fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato.
Spetta alle Regioni la potestà legislativa in riferimento ad ogni materia non espressamente riservata
alla legislazione dello Stato.
Le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano, nelle materie di loro competenza,
partecipano alle decisioni dirette alla formazione degli atti normativi comunitari e provvedono
all'attuazione e all'esecuzione degli accordi internazionali e degli atti dell'Unione europea, nel
rispetto delle norme di procedura stabilite da legge dello Stato, che disciplina le modalità di
esercizio del potere sostitutivo in caso di inadempienza.
La potestà regolamentare spetta allo Stato nelle materie di legislazione esclusiva, salva delega alle
Regioni. La potestà regolamentare spetta alle Regioni in ogni altra materia. I Comuni, le Province e
le Città metropolitane hanno potestà regolamentare in ordine alla disciplina dell'organizzazione e
dello svolgimento delle funzioni loro attribuite.
Le leggi regionali rimuovono ogni ostacolo che impedisce la piena parità degli uomini e delle donne
nella vita sociale, culturale ed economica e promuovono la parità di accesso tra donne e uomini alle
cariche elettive.
La legge regionale ratifica le intese della Regione con altre Regioni per il migliore esercizio delle
proprie funzioni, anche con individuazione di organi comuni.
Nelle materie di sua competenza la Regione può concludere accordi con Stati e intese con enti
territoriali interni ad altro Stato, nei casi e con le forme disciplinati da leggi dello Stato.
Art. 118
Le funzioni amministrative sono attribuite ai Comuni salvo che, per assicurarne l'esercizio unitario,
siano conferite a Province, Città metropolitane, Regioni e Stato, sulla base dei principi di
sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza.
I Comuni, le Province e le Città metropolitane sono titolari di funzioni amministrative proprie e di
quelle conferite con legge statale o regionale, secondo le rispettive competenze.
La legge statale disciplina forme di coordinamento fra Stato e Regioni nelle materie di cui alle
lettere b) e h) del secondo comma dell'articolo 117, e disciplina inoltre forme di intesa e
coordinamento nella materia della tutela dei beni culturali.
Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l'autonoma iniziativa dei
cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del
principio di sussidiarietà.
Art. 119
I Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni hanno autonomia finanziaria di entrata e
di spesa.
I Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni hanno risorse autonome. Stabiliscono e
applicano tributi ed entrate propri, in armonia con la Costituzione e secondo i principi di
coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario. Dispongono di compartecipazioni al
gettito di tributi erariali riferibile al loro territorio.
La legge dello Stato istituisce un fondo perequativo, senza vincoli di destinazione, per i territori con
minore capacità fiscale per abitante.
Le risorse derivanti dalle fonti di cui ai commi precedenti consentono ai Comuni, alle Province, alle
Città metropolitane e alle Regioni di finanziare integralmente le funzioni pubbliche loro attribuite.
Per promuovere lo sviluppo economico, la coesione e la solidarietà sociale, per rimuovere gli
squilibri economici e sociali, per favorire l'effettivo esercizio dei diritti della persona, o per
provvedere a scopi diversi dal normale esercizio delle loro funzioni, lo Stato destina risorse
aggiuntive ed effettua interventi speciali in favore di determinati Comuni, Province, Città
metropolitane e Regioni.
I Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni hanno un proprio patrimonio, attribuito
secondo i principi generali determinati dalla legge dello Stato. Possono ricorrere all'indebitamento
solo per finanziare spese di investimento. E' esclusa ogni garanzia dello Stato sui prestiti dagli stessi
contratti.
Art. 120
La Regione non può istituire dazi di importazione o esportazione o transito tra le Regioni, né
adottare provvedimenti che ostacolino in qualsiasi modo la libera circolazione delle persone e delle
cose tra le Regioni, né limitare l'esercizio del diritto al lavoro in qualunque parte del territorio
nazionale.
Il Governo può sostituirsi a organi delle Regioni, delle Città metropolitane, delle Province e dei
Comuni nel caso di mancato rispetto di norme e trattati internazionali o della normativa comunitaria
oppure di pericolo grave per l'incolumità e la sicurezza pubblica, ovvero quando lo richiedono la
tutela dell'unità giuridica o dell'unità economica e in particolare la tutela dei livelli essenziali delle
prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, prescindendo dai confini territoriali dei governi
locali. La legge definisce le procedure atte a garantire che i poteri sostitutivi siano esercitati nel
rispetto del principio di sussidiarietà e del principio di leale collaborazione.
Art. 121
Sono organi della Regione: il Consiglio regionale, la Giunta e il suo presidente.
Il Consiglio regionale esercita le potestà legislative attribuite alla Regione e le altre funzioni
conferitegli dalla Costituzione e dalle leggi. Può fare proposte di legge alle Camere.
La Giunta regionale è l’organo esecutivo delle Regioni.
Il Presidente della Giunta rappresenta la Regione; dirige la politica della Giunta e ne è responsabile;
promulga le leggi ed emana i regolamenti regionali; dirige le funzioni amministrative delegate dallo
Stato alla Regione, conformandosi alle istruzioni del Governo della Repubblica.
Art. 122
Il sistema di elezione e i casi di ineleggibilità e di incompatibilità del Presidente e degli altri
componenti della Giunta regionale nonché dei consiglieri regionali sono disciplinati con legge della
Regione nei limiti dei princìpi fondamentali stabiliti con legge della Repubblica, che stabilisce
anche la durata degli organi elettivi.
Nessuno può appartenere contemporaneamente a un Consiglio o a una Giunta regionale e ad una
delle Camere del Parlamento, ad un altro Consiglio o ad altra Giunta regionale, ovvero al
Parlamento europeo.
Il Consiglio elegge tra i suoi componenti un Presidente e un ufficio di presidenza.
I consiglieri regionali non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti
dati nell’esercizio delle loro funzioni.
Il Presidente della Giunta regionale, salvo che lo statuto regionale disponga diversamente, è eletto a
suffragio universale e diretto. Il Presidente eletto nomina e revoca i componenti della Giunta.
Art. 123
Ciascuna Regione ha uno statuto che, in armonia con la Costituzione, ne determina la forma di
governo e i principi fondamentali di organizzazione e funzionamento. Lo statuto regola l'esercizio
del diritto di iniziativa e del referendum su leggi e provvedimenti amministrativi della Regione e la
pubblicazione delle leggi e dei regolamenti regionali.
Lo statuto è approvato e modificato dal Consiglio regionale con legge approvata a maggioranza
assoluta dei suoi componenti, con due deliberazioni successive adottate ad intervallo non minore di
due mesi. Per tale legge non è richiesta l'apposizione del visto da parte del Commissario del
Governo.
Il Governo della Repubblica può promuovere la questione di legittimità costituzionale sugli statuti
regionali dinanzi alla Corte costituzionale entro trenta giorni dalla loro pubblicazione.
Lo statuto è sottoposto a referendum popolare qualora entro tre mesi dalla sua pubblicazione ne
faccia richiesta un cinquantesimo degli elettori della Regione o un quinto dei componenti il
Consiglio regionale. Lo statuto sottoposto a referendum non è promulgato se non è approvato dalla
maggioranza dei voti validi.
In ogni Regione, lo statuto disciplina il Consiglio delle autonomie locali, quale organo di
consultazione fra la Regione e gli enti locali.
Art. 124
(abrogato)
Art. 125
Nella Regione sono istituiti organi di giustizia amministrativa di primo grado, secondo
l'ordinamento stabilito da legge della Repubblica. Possono istituirsi sezioni con sede diversa dal
capoluogo della Regione.
Art. 126
Con decreto motivato del Presidente della Repubblica sono disposti lo scioglimento del Consiglio
regionale e la rimozione del Presidente della Giunta che abbiano compiuto atti contrari alla
Costituzione o gravi violazioni di legge. Lo scioglimento e la rimozione possono altresì essere
disposti per ragioni di sicurezza nazionale. Il decreto è adottato sentita una Commissione di deputati
e senatori costituita, per le questioni regionali, nei modi stabiliti con legge della Repubblica.
Il Consiglio regionale può esprimere la sfiducia nei confronti del Presidente della Giunta mediante
mozione motivata, sottoscritta da almeno un quinto dei suoi componenti e approvata per appello
nominale a maggioranza assoluta dei componenti. La mozione non può essere messa in discussione
prima di tre giorni dalla presentazione.
L'approvazione della mozione di sfiducia nei confronti del Presidente della Giunta eletto a suffragio
universale e diretto, nonché la rimozione, l'impedimento permanente, la morte o le dimissioni
volontarie dello stesso comportano le dimissioni della Giunta e lo scioglimento del Consiglio. In
ogni caso i medesimi effetti conseguono alle dimissioni contestuali della maggioranza dei
componenti il Consiglio.
Art. 127
Il Governo, quando ritenga che una legge regionale ecceda la competenza della Regione, può
promuovere la questione di legittimità costituzionale dinanzi alla Corte costituzionale entro sessanta
giorni dalla sua pubblicazione.
La Regione, quando ritenga che una legge o un atto avente valore di legge dello Stato o di un'altra
Regione leda la sua sfera di competenza, può promuovere la questione di legittimità costituzionale
dinanzi alla Corte costituzionale entro sessanta giorni dalla pubblicazione della legge o dell'atto
avente valore di legge.
Art. 128
(abrogato)
Art. 129
(abrogato)
Art. 130
(abrogato)
Art. 131
Sono costituite le seguenti Regioni: Piemonte; Valle d'Aosta; Lombardia; Trentino-Alto Adige;
Veneto; Friuli-Venezia Giulia; Liguria; Emilia-Romagna; Toscana; Umbria; Marche; Lazio;
Abruzzi; Molise; Campania; Puglia; Basilicata; Calabria; Sicilia; Sardegna.
Art. 132
Si può, con legge costituzionale, sentiti i Consigli regionali, disporre la fusione di Regioni esistenti
o la creazione di nuove Regioni con un minimo di un milione di abitanti, quando ne facciano
richiesta tanti Consigli comunali che rappresentino almeno un terzo delle popolazioni interessate, e
la proposta sia approvata con referendum dalla maggioranza delle popolazioni stesse.
Si può, con l'approvazione della maggioranza delle popolazioni della Provincia o delle Province
interessate e del Comune o dei Comuni interessati espressa mediante referendum e con legge della
Repubblica, sentiti i Consigli regionali, consentire che Provincie e Comuni, che ne facciano
richiesta, siano staccati da una Regione e aggregati ad un'altra.
Art. 133
Il mutamento delle circoscrizioni provinciali e la istituzione di nuove Province nell'ambito di una
Regione sono stabiliti con leggi della Repubblica, su iniziative dei Comuni, sentita la stessa
Regione.
La Regione, sentite le popolazioni interessate, può con sue leggi istituire nel proprio territorio nuovi
comuni e modificare le loro circoscrizioni e denominazioni.
CAPITOLO IX
LA CORTE COSTITUZIONALE
1. NATURA
Dopo aver adottato il principio della rigidità della Costituzione, l'Assemblea Costituente
volle istituire un organo apposito che vigilasse e controllasse il rispetto della Costituzione stessa
da parte di tutti i poteri dello Stato e delle Regioni.
“... Non è stata accolta l’idea di affidare un controllo di costituzionalità, che è giurisdizionale,
ma su materie anche politiche, alla Magistratura ordinaria. E’ sembrato opportuno un organo
speciale e più alto, come custode supremo della Costituzione...“ (Relaz. Ruini all’Ass. cost. 6
febbraio 1947, p. 14).
La Corte costituzionale è stata creata dal Costituente, sul modello della Corte suprema
degli Stati Uniti, e della Corte costituzionale austriaca con funzioni di carattere giurisdizionale
(Mortati, Sandulli), risolventisi nella garanzia dell’osservanza della Costituzione.
Nelle motivazioni della sentenza n. 13 del 1960, la Corte costituzionale ha delineato i
caratteri dell’attività da essa svolta, affermando di esercitare una funzione di controllo costituzionale e di garanzia dell’osservanza della Costituzione da parte degli organi costituzionali
dello Stato e di quelli delle Regioni. Pertanto la Corte non può essere inclusa tra gli organi
giudiziari, ordinari o speciali che siano.
2. COMPOSIZIONE
Ai sensi dell’art. 135 Cost., nel testo modificato dalla legge cost. 27 novembre 1967 n. 2,
la Corte costituzionale è composta di quindici giudici nominati per un terzo dal Presidente della
Repubblica , per un terzo dal Parlamento in seduta comune e per un terzo dalle supreme magistrature ordinaria ed amministrativa.
La nomina dei cinque membri della Corte costituzionale da parte del Presidente della Repubblica è squisitamente discrezionale, rientrando fra gli atti di iniziativa presidenziale, soggetti solo alla controfirma del Presidente del Consiglio dei Ministri (cfr. art. 4 1° comma l. n. 87 del
1953, cit.). La l. 11 marzo 1953 n. 87 ha stabilito che dei cinque membri di nomina delle
Supreme Magistrature, tre sono eletti dalla Corte di cassazione, uno dal Consiglio di Stato e
uno dalla Corte dei conti.
I giudici della Corte costituzionale sono scelti fra i magistrati anche a riposo delle giurisdizioni superiori ordinaria ed amministrativa, i professori ordinari di università in materie giuridiche e gli avvocati dopo venti anni di esercizio.
I giudici della Corte costituzionale sono nominati per nove anni, decorrenti per ciascuno di
essi dal giorno del giuramento, e non possono essere nuovamente nominati.
115
riforma costituzionale dello Stato conferirebbe infatti maggiore certezza a tutto il processo di
decentramento amministrativo in corso.
Con il congelamento di fatto dei lavori della Commissione Bicamerale per le riforme costituzionali si è bloccato l’ennesimo tentativo di riformare la forma Stato.
Il progetto di revisione costituzionale predisposto dalla Commissione Bicarnerale rappresentava, per quanto riguarda in particolare la riforma della forma Stato e la trasformazione del
nostro ordinamento in un ordinamento di tipo federale, un risultato di buon livello, anche se
necessitava di ulteriori specificazioni, in particolare per le norme relative al federalismo fiscale,
e per la istituzione di un Senato federale.
La scelta di fondo della Commissione Bicamerale si caratterizzava per individuare due
livelli legislativi - Stato e Regioni - e due livelli di amministrazione attiva: Comuni e Provincie.
Corollario essenziale di questo sistema istituzionale deve essere un vero federalismo fiscale. Il decentramento finanziario e fiscale deve infatti essere ripensato, al fine di mettere in condizione ciascun ente locale di poter usufruire di una quota significativa di risorse proprie e non
trasferite, in modo da responsabilizzare le scelte degli amministratori locali, commisurandole
alle effettive esigenze dei cittadini.
In questo senso, il progetto di riforma costituzionale predisposto dalla Commissione bicamerale prevedeva che “i Comuni, le Province e le Regioni dispongono di una quota non inferiore
alla metà del gettito complessivo delle entrate tributarie erariali”.
Comunque, pur mancando ancora una riforma costituzionale in senso federalista dello
Stato, è stato realizzato il massimo di decentramento amministrativo possibile a Costituzione
invariata.
Vedi soprattutto i seguenti provvedimenti:
- conferimento funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle Regioni e agli enti locali: D. L.vo 31 marzo 1998, n. 112;
- disposizioni integrative del D. L.vo n. 112 del 1998 in materia di compisizione e funzionamento del comitato provinciale per l'ordine e la sicurezza pubblica: D. L.vo 27 luglio
1999, n. 279;
- disposizioni in materia di federalismo fiscale: D. L.vo 18 febbraio 2000, n. 56.
Ovviamente, la data del 1° gennaio 2001, entro la quale dovrà essere pienamente operativo
il trasferimento di funzioni amministrative dallo Stato alle regioni ed agli enti locali, rende
essenziale il completamento del quadro di adempimento necessari per garantire l'operatività del
decentramento stesso.
114
I giudici della Corte costituzionale nominati prima della l. cost. 22 novembre 1967 n. 2
duravano in carica dodici anni.
Alla scadenza del termine il giudice costituzionale cessa dalla carica e dall’esercizio delle
funzioni.
La Corte elegge tra i suoi componenti , secondo le norme stabilite dalla legge, il Presidente,
che rimane in carica per un triennio, ed rieleggibile, fermi in ogni caso i termini di scadenza
dall’ufficio di giudice.
L’ufficio di giudice della Corte è incompatibile con quello di membro del Parlamento, di un
Consiglio regionale, con l’esercizio della professione di avvocato e con ogni carica ed ufficio
indicati dalla legge.
E’ competenza della Corte costituzionale accertare l’esistenza dei requisiti soggettivi di
ammissione dei propri componenti e dei cittadini eletti dal Parlamento per i giudizi di accusa ai
sensi dell’ultimo comma dell’art. 135 della Costituzione, deliberando a maggioranza assoluta
dei suoi componenti.
3. ATTRIBUZIONI
La Corte costituzionale giudica:
a. sulle controversie relative alla legittimità costituzionale delle leggi e degli atti aventi forza di
legge dello Stato e delle Regioni (art. 134 Cost. 1° comma).
Qualora la Corte - adita nelle forme stabilite dalla legge - ritenga incostituzionale la
norma impugnata, quest’ultima cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione, con l’effetto della reviviscenza ex nunc delle norme precedenti a quella
dichiarata incostituzionale e da questa, a suo tempo, implicitamente o esplicitamente abrogate (op. controversa). Tale principio, in aderenza ai criteri generali sull’efficacia della legge
nel tempo è applicabile a tutte le situazioni giuridiche pendenti (fra le quali, ovviamente,
quella che ha portato alla rimessione degli atti alla Corte cost. per il giudizio) nonché a
quelle future, che sarebbero ricadute sotto l’impero della legge dichiarata inefficace.
Restano fuori, definitivamente intangibili, i casi decisi con sentenze passate in giudicato anteriormente alla decisione di incostituzionalità della legge.
Peraltro, per quanto concerne la materia penale, sembrano applicabili le norme vigenti
in tema di abrogazione; cioè, se un fatto non costituisce più reato per dichiarata illegittimità
della legge relativa, ove vi sia stata condanna (ovviamente se pure passata in giudicato) ne
cessano gli effetti penali (art. 2 c.p.).
Data la dizione dell’art. 134 1° comma (“ leggi e atti aventi forza di legge... ”), sfuggono al controllo di costituzionalità i regolamenti, i quali, benchè norme sostanziali, non sono
atti aventi forza di legge e, in quanto formalmente atti amministrativi, sono di regola
impugnabili con ricorso di legittimità davanti al giudice amministrativo.
Se la Corte costituzionale respinge la questione di costituzionalità proposta, adottando
quindi una sentenza detta “di rigetto”, il giudice a quo non può risollevare nuovamente la
stessa questione davanti alla Corte ed è tenuto ad applicare la legge. E’ però possibile che,
ripresentata la legge da altro giudice innanzi alla Corte costituzionale per altri (o anche per
gli stessi) vizi di costituzionalità, la Corte dichiari la illegittimità della legge; in tal senso la
sentenza di rigetto, a differenza della sentenza di accoglimento, è “non definitiva” e non
acquista quindi la forza di “giudicato”.
Con il passare degli anni la tipologia delle sentenze della Corte si è arricchita di ulteriori forme: in primo luogo vi sono le sentenze interpretatìve (di rigetto o di accoglimento), nelle
quali la Corte, reinterpretando la questione di costituzionalità sottopostale, la rigetta o l’accoglie, ovvero dichiara la disposizione rispettivamente conforme o difforme rispetto alla
Costituzione proprio in quanto la disposizione sia interpretata nel senso specificato dalla
stessa Corte nella motivazione della sentenza.
116
La Corte costituzionale ha pìù volte affermato di dover tenere conto della costante
interpretazione giurisprudenziale che conferisce al precetto legislativo concretezza storica,
visto che le norme sono non quali appaiono in astratto, ma come sono applicate nella quotidiana opera del giudice. Tale principio deve tuttavia coesistere con quello della interpretazione adeguatrice.
La Corte ha affermato infatti che ove la norma legislativa impugnata sia suscettibile di
essere interpretata tanto in senso conforme quanto in modo contrario alla Costituzione, il
dubbio è solo apparente, perché la norma stessa deve essere interpretata nel senso costituzionalmente legittimo.
Nel passato, vari commentatori avevano lamentato la mancanza di raccordi ufficiali e soddisfacenti tra l’attività della Corte e l’attività del Parlamento. Tale inconveniente avrebbe acuito
la preoccupazione della Corte costituzionale di evitare, per quanto possibile, «vuoti» legislativi.
Tale preoccupazione avrebbe spinto la Corte, piuttosto che espungere subito la norma
dall’ordinamento, esercitando così una forma di pressione vigorosa sul legislatore ad adempiere al suo dovere, a «preservare al massimo grado i testi legislativi», a eliminare «dalle
norme quel tanto, e solo quel tanto, che risulti contrastare con la Costituzione»; così che la
Corte ha elaborato, di là dalla semplice alternativa fondatezza-infondatezza, tecniche
interpretative sempre più raffinate, che la dottrina (sulla base anche della distinzione normadisposizione), ha battezzato sentenze «condizionali», «interpretative di rigetto o di
accoglimento», «correttive», «adeguatrici», «manipolative», «creative», o «interpretative»
tout court o «integrative», «sentenze-delega», «didascaliche», e così via (1).
Per migliorare il collegamento tra l’attività della Corte e il Parlamento un passo avanti
è stato fatto con i regolamenti parlamentari del 1971 : cfr., in particolare, gli artt. 139 reg.
Senato e 108 reg. Camera, dedicati al cosiddetto seguito parlamentare delle sentenze della
Corte costituzionale; ma assai di più potrebbe essere realizzato a livello normativo e (soprattutto) a livello organizzativo delle singole Camere. I nuovi regolamenti hanno inteso attuare,
per quanto di loro competenza, l'art. 136, comma 2, Cost..
Occorre comunque osservare che l’ottica restrittiva dei Costituenti affiora non soltanto
nel primo comma dell’art. 136 Cost., ma anche nel secondo, relativo al seguito parlamentare
delle decisioni della Corte: come è noto, «la decisione della Corte è pubblicata e comunicata
alle Camere e ai Consigli regionali interessati, affinché, ove lo ritengano necessario, provvedano nelle forme costituzionali». In altre parole, i costituenti sottovalutarono l’importanza
delle decisioni di rigetto e, in genere, delle motivazioni contenute nelle sentenze costituzionali: il secondo comma dell’art. 136 va letto infatti congiuntamente al primo, che riguarda le
sole pronunce di accoglimento. Anche la comunicazione alle Camere è pertanto doverosa per
questa categoria di decisioni, ma non per quelle di rigetto.
b. Sui conflitti di attribuzione tra i poteri dello Stato e su quelli tra lo Stato e le Regioni e tra le
Regioni (art. 134 2° comma).
Si ha conflitto di attribuzione quando due o più organi si ritengano competenti (conflitto positivo), o escludano la propria competenza (conflitto negativo), in ordine ad una determinata materia. In conformità all’art. 134, quanto all’ipotesi di conflitti tra i poteri dello
Stato, deve, nella specie, ritenersi che, per aversi conflitto di attribuzione, occorre che si
tratti di organismi appartenenti a distinti poteri dello Stato, non essendo ammissibile che il
conflitto possa sorgere tra organi dello stesso potere, siano pure costituzionali.
Viceversa, è da ritenere, in conformità alla volontà del Costituente, che, per quanto
attiene ai conflitti tra Autorità ammininistrativa ed Autorità giudiziaria (c.d. di giurisdizione) in generale, competente a dirimerli resti la Corte di cassazione a Sezioni unite, ai sensi
della L. 31 marzo 1877 n. 3761.
(1) Su tale problematica, cfr. il saggio di N. Occhiocupo, La Corte costituzionale come giudice di «opportunità» delle leggi, che
costituisce l’introduzione al volume La Corte costituzionale tra norma giuridica e realtà sociale. Bilancio di vent’anni di attività,
Padova, 1984.
117
c. Sulle accuse promosse contro il Presidente della Repubblica a norma della Costituzione (art.
134 3° comma).
Nei giudizi d’accusa contro il Presidente della Repubblica intervengono, oltre i giudici
ordinari della Corte, sedici membri tratti a sorte da un elenco di cittadini aventi i requisiti per
l’eleggibilità a senatore, che il Parlamento compila ogni nove anni mediante elezione con le
stesse modalità stabilite per la nomina dei giudici ordinari.
Per i reati di attentato alla Costituzione e di alto tradimento commessi dal Presidente
della Repubblica la Corte costituzionale nel pronunciare sentenza di condanna, determina le
sanzioni penali nei limiti del massimo di pena previsto dalle leggi vigenti al momento del
fatto, nonché le sanzioni costituzionali, amministrative e civili adeguate al fatto.
d. La l. cost. 11 marzo 1953 n. 1, art. 2, ha attribuito alla Corte cost. una quarta funzione: il
giudizio sull’ammissibilità del referendum abrogativo (art. 75 Cost., e l. 25 maggio 1970 n. 352).
Tale giudizio di ammissibilità si rende necessario, in quanto l'art. 75, comma 2° Cost
stabilisce che il referendum abrogativo non è ammesso per le leggi tributarie e di bilancio, di
amnistia e di indulto, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali.
Va sottolineato peraltro che ulteriori limiti sono stati introdotti in virtù di giurisprudenza della Corte Costituzionale. Questa infatti ha affermato che non possono essere oggetto di
referendum abrogativo le leggi di rango costituzionale, gli atti legislativi dotati di una forza
passiva peculiare, cioè non abrogabili da parte di leggi ordinarie successive (come, ad esempio, le leggi di esecuzione del Concordato tra la Santa Sede e l’Italia, cui si riferisce l’art. 7
Cost.), e le leggi a contenuto costituzionalmente vincolato (che rappresentano, cioè, l’unica
attuazione possibile di istituti previsti dalla Costituzione). Ancora, attraverso una interpretazione estensiva del comma 2 dell’art. 75, la Corte costituzionale ha ritenuto sottratte al
referendum anche le leggi il cui ambito di operatività sia strettamente collegato a quello delle
leggi espressamente indicate nell’art. 75. Le leggi elettorali sono sottoponibili a referendum
abrogativo, a patto che si eviti il pericolo di una «paralisi di funzionamento» dell’organo
costituzionale cui si riferiscono.
Il quesito referendario deve possedere altresì le caratteristiche di omogeneità, coerenza
e univocità per consentire all’elettore una chiara scelta alternativa, essenziale per uno strumento di «genuina manifestazione di volontà popolare» (2).
4. PROPOSTE DI REVISIONE DELLE COMPETENZE DELLA CORTE COSTITUZIONALE
La Commissione bicamerale per le riforme costituzionali proponeva di ampliare notevolmente le attribuzioni della Corte costituzionale.
Infatti, il progetto presentato alle Camere il 4 novembre 1997 prevedeva che la Corte cost.
giudicasse:
a) sulle controversie relative alla legittimità costituzionale delle leggi e degli atti, aventi
forza di legge, dello Stato e delle Regioni;
b) sulle controversie relative alla legittimità costituzionale dei regolamenti che disciplinano l’organizzazione dell’amministrazione statale;
c) sui conflitti di attribuzione tra i poteri dello Stato e su quelli tra lo Stato e le Regioni, e
tra le Regioni;
(2) Alcuni autori hanno osservato che la prassi italiana ha conosciuto varie ipotesi di referendum «manipolativi», caratterizzati, cioè,
dalla richiesta di abrogazione di parti di disposizioni o addirittura di singole parole, il cui scopo consiste non nell’eliminazione della
disposizione medesima, ma nel suo mutamento di significato (si pensi, per fare un esempio noto a tutti, al referendum sulla legge
elettorale del Senato del 18 aprile 1993, che attraverso l’abrogazione dell’inciso «non inferiore al 65 per cento dei votanti» ha dato vita
a un sistema di tipo maggioritario). Nonostante i dubbi avanzati in dottrina sulla legittimità di siffatte operazioni di «ritaglio» del
quesito, la Corte costituzionale le ha ritenute ammissibili, e probabilmente a ragione, dato che lo stesso art. 75 parla di abrogazione
«totale o parziale».
118
d) sui conflitti di attribuzione in cui siano parti Province e Comuni, nei casi e con le
modalità stabiliti con legge costituzionale;
e) sulle accuse promosse contro il Presidente della Repubblica, a norma della Costituzione;
f) sui ricorsi in materia di elezione del Presidente della Repubblica e sulle relative cause di
ineleggibilità e incompatibilità;
g) sui ricorsi in materia di elezione dei componenti delle due Camere, nei casi stabiliti
dalla Costituzione;
h) sulla ammissibilità dei referendum abrogativi di leggi e di atti aventi valore di legge e
dei referendum sulle proposte di legge di iniziativa popolare;
i) sui ricorsi per la tutela, nei confronti dei pubblici poteri, dei diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione, secondo condizioni, forme e termini di proponibilità stabiliti con
legge costituzionale.
Risulta evidente che le competenze di cui alle lettere b), d), f), g), h) (secondo alinea) e i)
sono nuove e ulteriori rispetto alle competenze attuali.
Per quanto attiene al giudizio di costituzionalità sui regolamenti del Governo (lett. b)), il
relatore della Commissione bicamerale (On. Boato) osserva che i regolamenti così richiamati
sono quelli previsti dall’articolo 106 del progetto che statuisce che «organizzazione dell’amministrazione statale è disciplinata con regolamento dal Governo». Con tali disposizioni si introduce, per la prima volta nel nostro ordinamento, il principio della riserva di regolamento.
In ordine alle nuove competenze di cui alla lettera f), a favore della individuazione nella
Corte costituzionale dell’organo competente per questi ricorsi milita la particolare posizione nel
sistema della Consulta, dotata del prestigio e della indipendenza necessari per assumere decisioni di così grande delicatezza. Sulla base delle medesime ragioni, anche altri paesi (Francia,
Portogallo, Austria) hanno attribuito la competenza in questione alle rispettive Corti costituzionali.
La compenza di cui alla lettera g) deriva dalla soluzione scelta dalla Commissione, dopo
un lungo dibattito. Secondo il progetto, ciascuna Camera delibera sulle elezioni contestate entro
termini stabiliti dal proprio regolamento; contro le relative deliberazioni, o nel caso di decorso
del termine, l’interessato può proporre ricorso alla Corte costituzionale entro quindici giorni.
Conseguentemente, l’articolo 134, lettera g) registra tale competenza tra le funzioni assegnate
alla Corte.
Peraltro la innovazione più significativa è quella contenuta nella lettera i).
Al riguardo, la relazione della Commissione bicamerale osserva che ci troviamo di fronte
ad uno strumento già in uso presso altri ordinamenti: l’ Amparo spagnolo, la
Verfassungsbeschwerde tedesca e l’analogo istituto previsto in Austria hanno quale comune
denominatore il riconoscimento ai singoli soggetti (persone fisiche e in alcuni casi anche persone giuridiche) della facoltà di adire direttamente l’organo di giustizia costituzionale per la tutela
di diritti costituzionalmente riconosciuti, che si ritengano violati da atti dei pubblici poteri.
In tutti i paesi in cui è previsto, questo canale di accesso è configurato come una sorta di
ultima ratio per la protezione dei diritti fondamentali, ove altri strumenti di tutela non siano
disponibili o si siano rivelati inefficaci.
In considerazione della portata, potenzialmente illimitata, dell’ambito applicativo di uno
strumento di questo tipo, i sistemi stranieri che lo prevedono ne limitano l’applicabilità sia con
riferimento a particolari categorie di atti (ad esempio in Spagna sono escluse dalla possibilità di
Amparo le leggi, mentre in Austria non sono impugnabili per questa via i provvedimenti
giurisdizionali), sia in relazione alla presenza di altri mezzi di tutela.
In Germania il ricorso è proponibile «dopo l’esaurimento delle vie legali», in altri termini,
per gli atti amministrativi e giurisdizionali, dopo che siano stati percorsi tutti i possibili gradi di
giudizio presso i tribunali amministrativi ed ordinari. La Corte costituzionale tedesca può
tuttavia intervenire anche in una fase precedente, quando al ricorso sia riconosciuto un interesse
generale o possa derivare al ricorrente un danno grave ed irrimediabile dal previo esperimento
della via legale.
119
Per valutare pienamente l’opportunità di introdurre nel nostro ordinamento il ricorso diretto, è necessario inoltre tenere conto che, nei paesi che ammettono questa forma di tutela, essa
impegna in modo assolutamente prevalente il lavoro degli organi di giustizia costituzionale,
segnando un trend in continuo aumento, cui le Corti faticano a tenere dietro.
Il progetto elaborato dalla Commissione bicamerale proponeva di rinviare ad una legge
costituzionale la definizione delle condizioni, delle forme e dei termini di proponibilità dei ricorsi.
Più difficile appare l’ipotesi che la legge costituzionale possa definire un elenco dei «diritti
fondamentali» la cui violazione legittimerebbe l’azionabilità della nuova forma di tutela. E' vero
che la Costituzione italiana - a differenza, ad esempio, di quella tedesca - non definisce la
categoria dei diritti fondamentali; ma sembra tuttavia opportuno che questa categoria rimanga
una fattispecie «aperta», la cui elaborazione continui ad essere affidata alla giurisprudenza
della Corte costituzionale.
La Commissione bicamerale si è occupata anche degli effetti delle pronunce della Corte.
Era stata esaminata l’opportunità di introdurre, come ipotizzato in alcuni progetti all’esame
della Commissione, una modifica all’articolo 136 della Costituzione, finalizzata a precisare che
le decisioni della Corte sono di accoglimento, di rigetto, di inammissibilità.
La questione riguarda evidentemente l’opportunità di ricondurre il ruolo della Consulta a
quello di «legislatore negativo», disincentivando per il futuro le tentazioni per l’organo di giustizia costituzionale di supplire il legislatore attraverso sentenze che di fatto introducono nuove
discipline di carattere positivo nell’ordinamento.
Rispetto a tale ipotesi, sono state tuttavia espresse perplessità in relazione al rischio di
irrigidire eccessivamente gli strumenti di intervento della Corte.
Il progetto della Commissione bicamerale prevedeva altresì la facoltà della Corte di modulare l’incidenza temporale delle proprie pronunce, posticipando gli effetti caducatori delle sentenze per un termine massimo di un anno dalla pubblicazione delle decisioni. Tale innovazione
pare opportuna per ridurre gli effetti destabilizzanti che si possono determinare in relazione
all’immediata applicabilità soprattutto delle sentenze che comportano effetti finanziari. La
posticipazione degli effetti di alcune sentenze di incostituzionalità potrebbe infatti permettere al
Governo e al Parlamento di provvedere nel frattempo alla copertura dei maggiori oneri comportati o alla revisione dell’intera disciplina su cui incidono le pronunce.
Sulla base dell'esperienza di altri paesi il progetto prevedeva altresì l'istituto della dissenting
opinions, cioè si stabiliva che le decisioni della Corte costituzionale fossero pubblicate con le
eventuali opinioni in dissenso dei giudici.
120
Appendice 1
CORTE COSTITUZIONALE
LA GIUSTIZIA COSTITUZIONALE
NEL 1999
(STRALCI)
RELAZIONE DEL PRESIDENTE
GIULIANO VASSALLI
ALLEGATO ALLA CONFERENZA STAMPA
PALAZZO DELLA CONSULTA, 20 GENNAIO 2000
.
IL PROCESSO COSTITUZIONALE
IL CONTROLLO DI LEGITTIMITA' COSTITUZIONALE
1. NATURA, FUNZIONE ED OGGETTO DEL GIUDIZIO DI LEGITTIMITÀ
COSTITUZIONALE
Come di consueto, il resoconto si apre con le affermazioni generali sulla funzione del
giudizio di legittimità costituzionale che, anche nell’anno trascorso, sono state occasionate da
tentativi di un uso improprio di tale giudizio. Si è infatti dovuto ribadire che il controllo di
legittimità costituzionale è volto a rimuovere i dubbi di compatibilità di una norma con la Costituzione e che è estraneo alle finalità di tale controllo proporre una questione allo scopo di
proteggere l’emananda pronuncia dall’alea di un”impugnazione (ord. n. 54). Né il giudizio di
legittimità costituzionale può essere diretto a stabilire se il giudice faccia in concreto una corretta applicazione di una norma (ord. nn. 106 e 107). E tanto meno a risolvere problematiche di
mero fatto, frutto di un contrasto tra uffici e tale da generare una stasi del procedimento, la cui
causa generatrice non dipende da una supposta carenza del quadro normativo (ord. n. 176).
Oggetto del giudizio di costituzionalità è la norma quale introdotta dall’atto avente forza di
legge. Il trasferimento della norma da un atto ad un altro, a seguito della proposizione del
giudizio, consente alla Corte di portare il suo controllo sulla nuova fonte, cosa che è avvenuta
nella sent. n. 327.
Sotto il profilo della norma impugnabile, la sent. n. 87 mostra come non riguardino il
giudizio di costituzionalità le eventuali distorsioni applicative che possono derivare dall’inosservanza di leggi. Né sono proponibili questioni che derivino da situazioni patologiche (ord. n.
173), ovvero da interpretazioni in contrasto col diritto vivente, scelte a bella posta per sollevare
la questione di legittimità costituzionale (ord. n. 174).
Il requisito dell’idoneltà dell’oggetto del giudizio comporta anche che la norma impugnata
sia in astratto applicabile (prima ancora che la questione rilevante). Pertanto è inammissibile il
controllo di un testo legislativo sostituito anteriormente alla proposizione della questione, senza
che il giudice a quo mostri di averne contezza (ord. n. 52, v. anche ord. n. 53, 162, 213, ove,
peraltro, si pone l’accento sull’obbligo di motivazione della rilevanza). Ancora, oggetto inidoneo alla verifica di legittimità costituzionale è una norma che sia stata già dichiarata costituzionalmente illegittima (ord. n. 247, ord. n. 257, ord. n.263, ord. n. 275, ord. n. 366, ord. 434).
Segnalato dalla dottrina, ma non ancora espressamente considerato dalla giusprudenza, è
l’ulteriore problema, sempre relativo alla norma impugnabile, della parcellizzazione delle prescrizioni normative e - correlativamente - del livello sul quale si deve attestare il controllo di
legittimità costituzionale, onde evitare che, concepito come magistero per discipline generali ed
astratte, si trasformi in una verifica, sia pure di costituzionalità, di massime di decisione applicabili
solo a situazioni concrete. Un caso (risolto peraltro con una dichiarazione di manifesta
infondatezza) è stato oggetto dell’ord. n. 313 in cui si chiedeva una pronunzia additiva dell’art.
34, conuna 2, c.p.p., la quale, per certi imputati, prevedesse l’incompatibilità dei giudici che si
erano pronunciati sulla strage di Capaci a decidere in ordine alla strage di via D’Amelio.
123
Di notevole importanza per la puntualizzazione dei rapporti tra controllo di legittimità
costituzionale e conflitto di attribuzione dei poteri dello stato è la sentenza n. 457, che costituisce la tappa conclusiva di un’evoluzione giurisprudenziale iniziata con la sentenza n. 406 del
1989 e proseguita con la sentenza n. 161 del 1995 e l’ordinanza n. 480 del medesimo anno. La
giurisdizione costituzionale sui conflitti è determinata in relazione alla natura dei soggetti che
confliggono e delle loro competenze, la cui integrità essi difendono e se il giudizio incidentale è
il mezzo per sottoporre, nella generalità dei casi, le leggi al controllo di costituzionalità, da ciò
non può derivare che all”invalidazione della legge non si possa eventualmente giungere all’esito
di un conflitto, garanzia dell’ordine costituzionale delle competenze, quale che sia la natura
dell’atto cui sia ascrivibile la lesione. Resta comunque fermo che, proprio per l’anzidetto carattere di generalità, deve escludersi, nella normalità delle ipotesi, l’esperibilità del conflitto tutte le
volte in cui la lesione delle competenze sia denunciabile dal soggetto interessato nel giudizio
incidentale, come accade quando l’usurpazione o la menomazione del potere costituzionale riguardi l’autorità giudiziaria nell’esercizio delle sue funzioni.
2. FORZA DI LEGGE
Come si è detto, la norma su cui si esercita il controllo deve, per espressa previsione
dell’art. 134 della Costituzione, essere introdotta da un atto avente forza di legge. E' questo un
tema che nelle passate stagioni della Corte costituzionale appassionò i giuristi, per l’obbiettivo,
perseguito dalla maggior parte di loro, ma da altri fortemente contrastato, di devolvere a questo
Giudice il controllo su ogni atto normativo.
La Corte, sin dai suoi esordi, ha resistito a una simile tendenza, presaga che la sensibilità
costituzionale si sarebbe diffusa in ogni sede giurisdizionale e che quindi il motivo di fondo
dell’auspicata concentrazione sarebbe stato presto superato.
Divenuta l’osservanza dei principi costituzionali patrimonio culturale comune di ogni operatore, si registra da tempo la sdrammatizzazione del problema dei criteri in base al quali stabilire il requisito della forza di legge. Questo requisito nell’anno trascorso non è stato ravvisato in
due casi.
Privi di forza di legge e quindi non sottoponibili a controllo della Corte costituzionale sono
stati ritenuti i decreti ministeriali 22 giugno 1984, n. 1542 e 19 giugno 1979, n. 1626. Per
giungere a tale conclusione la Corte ha considerato l'intitolazione degli atti, la definizione datane dall’atto legislativo che li prevede, come pure la procedura seguita per la loro adozione (ord.
nn. 160 e 291). Egualmente privo di forza di legge è, in quanto tale, il regolamento di esecuzione
del nuovo codice della strada (d.P.R. 16 dicembre 1992, n. 495): ord. n. 430.
3. RICORSO IN VIA INCIDENTALE (omissis)
Nell’anno trascorso è stato individuato quale giudice a quo anche il Consiglio della Magistratura militare in sede disciplinare (ord. n. 116).
Si è poi ritenuto che non fosse stata emessa nel corso di un giudizio un’ordinanza di
rimessione adottata dal Consiglio Nazionale forense, senza che fosse stato in alcun modo assicurato un contraddittorio tra le parti (ord. n. 183). Il Presidente del Tribunale, in ragione del suo
ufficio, è titolare di funzioni non solo giurisdizionali, ma anche organizzative ed amministrative. La designazione di coloro che potranno essere chiamati a comporre il collegio arbitrale di
disciplina (art. 2 L. 23 ottobre 1992, n. 421) riguarda queste ultime funzioni e non è perciò
sollevata nel corso di un giudizio una questione di legittimità costituzionale promossa in tale
sede (ord. n. 437).
Il giudice deve individuare la disposizione da cui trae la norma impugnata. L’errata
individuazione (specie in caso di richiesta additiva) è causa di inammissibilità (ord. n. 163).
124
L’art. 23 L. 11 marzo 1953, n. 87, pone a presupposto del ricorso incidentale la circostanza che il giudice non possa decidere indipendentemente dalla risoluzione dell’eccezione di costituzionalità. Si tratta del requisito della rilevanza, che può considerarsi sotto due aspetti:
applicabilità della norma nel giudizio a quo, influenza della decisione della Corte costituzionale
sul giudizio medesimo (strumentalità necessaria tra la risoluzione della questione e la decisione
del giudizio principale, come si esprime la sent. n. 65).
L’applicabilità va intesa in senso proprio: essa non consiste in una mera operazione logica
(per esempio di confronto di normative) seppure necessaria a fini argomentativi, ma
nell’individuazione della norma cui è sottoponibile la fattispecie concreta (ord. n. 192).
L’ordinanza di rimessione, in ordine all’applicabilità alla specie della norma denunciata e
all’influenza della decisione costituzionale, deve essere congruamente motivata in fatto e in
diritto, a pena di inammissibilità (cfr. ord. n. 19, ord. n. 25, ord. n. 37, ord. n. 53, ord. n. 55, ord.
n. 72, ord. n. 93, ord. n. 210, ord. 211, ord. n. 212, ord. n. 213, ord. n. 222, ord. n. 236, ord.
251, ord. n. 274, ord. n. 282, ord. n. 289, ord. n. 300, ord. n. 314, ord. n. 317, ord. n. 353, ord.
n. 367, ord. n. 409, ord. n. 440, ord. n. 450, ord. n. 455, ord. n. 460).
In presenza di una motivazione, il riesame della sussistenza del requisito della rilevanza è
svolto dalla Corte in via sommaria: la premessa da cui muove il rimettente, per ritenere applicabile
la norma denunciata, può essere disattesa solo se essa risulti palesemente arbitraria (sent. n. 14,
sent. nn. 147 e 179, sent. n. 327). Ed in questo senso è ad esempio arbitrario assumere
immotivatamente e contro il diritto vivente che l’incompatibilità del giudice possa essere fatta
valere quale causa di nullità della sentenza di primo grado dinanzi al giudice di appello e quindi
dichiarare rilevante in questa sede una questione di legittimità costituzionale che condurrebbe a
rendere incompatibile il primo giudicante, ma che non varrebbe ad invalidare la sentenza da lui
emessa (ord. n. 36. V. per altri casi ord. n. 59, ord. n. 76, ord. nn. 96 e 99, ord. n. 122, ord. n. 157,
ord. n. 190, ord. n. 233, ord. n. 237, ord. n. 256, ord. n. 258, ord. n 355, ord. n. 377).
Esistono peraltro situazioni tipiche di irrilevanza, la più ricorrente delle quali è denominata difetto di legittimazione e deriva dal fatto che il giudice a quo ha già definitivamente risolto la
controversia prima di sollevare la questione (cfr. ord. n. 22, ord. n. 40, ord. n. 45, ord. n. 94,
ord. nn. 144 e 145). (omissis).
4. IL RICORSO IN VIA PRINCIPALE
L’altra via d’accesso al giudizio di legittimità costituzionale è costituita dal ricorso in via
principale. Le condizioni formali di ammisibilità di tale giudizio sono considerate dalla sent. n.
384: esso deve soddisfare a requisiti argomentativi e all'indicazione dei termini normativi della
controversia. E in questo senso non basta assumere che le norme regionali violerebbero i principi di libera concorrenza, senza dimostrare in che modo tali principi assurgano a rango costituzionale. Sotto altro profilo si è osservato che il ricorso ovviamente confígura un controllo di
legittimità e non di merito. Deve quindi indicarsi un parametro legale di giudizio e non può
lamentarsi una generica lesione dell’interesse nazionale (sent. n. 382).
Il ricorso in via principale è un giudizio di parti. Se promosso dalla Regione deve essere
sorretto da un interesse costituito dalla finalità di ripristinare l’integrità delle proprie competenze lese dalla legge statale. In questi limiti le Regioni sono legittimate a far valere la violazione di
norme diverse da quelle concernenti l’autonomia regionale, soltanto ove ne derivi una diretta
incidenza sulle loro competenze (sent. n. 171).
Lo Stato, a tutela dell’unità dell’ordinamento, può far valere ogni vizio di legittimità costituzionale. Ma parametro di valutazione del ricorso proposto dalla Stato avverso delibere legislative regionali può anche essere una norma del trattato CEE, cui l’art. 11 della Costituzione
offre copertura costituzionale (cfr. sent. nn. 85 e 424). (omissis).
E' ormai un luogo comune l’osservazione che le decisioni della Corte costituzionale presentano una varietà di contenuti dispositivi, non immagmabile sulla base della semplice lettura
delle fonti che regolano la sua attività. Nel precedente resoconto, relativo all’anno 1998, è stato
125
osservato come tale varietà tragga radice prima dai poteri interpretativi connessi al controllo di
legittimità costituzionale delle leggi e dalla conseguente scissione della norma dal testo perciò
operabile. Va ancora sottolineato che questa attività interpretativa della Corte risponde a diverse e convergenti esigenze istituzionali.
V’è in primo luogo un'interpretazione correttiva a trarre dal testo una norma diversa da
quella la cui esistenza è stata erroneamente supposta dal giudice a quo. La necessità di simile
intervento discende da evidenti ragioni, dovendo la Corte giudicare appunto su norme e non su
opinioni soggettive di singole autorità giudiziarie.
Questa interpretazione non traspare dal dispositivo, ma conduce ad una dichiarazione di
infondatezza o di manifesta infondatezza della questione (cfr. ad es. ord. 48, sent. n. 199, sent.
n. 200, sent. n. 201, ord. n. 215, ord. n. 335) e ciò anche quando sia necessario operare una
ricognizione sistematica particolarmente impegnativa (come è avvenuto ad esempio, per la responsabilità extracontrattuale della pubblica amministrazione, nella sent. n. 156, o per l’applicazione provvisoria delle misure di sicurezza nella sent. n. 228, o per lo stato giuridico degli
appartenenti al corpo della Croce Rossa: ord. n. 273, o per l’adozione tra i parenti entro il
quarto grado: sent. n. 383).
Si riversa invece nel dispositivo (“dichiara non fondata nei sensi di cui in motivazione”), almeno
tendenzialmente (cfr. sent. n. 202, n. 271, n. 395), l'interpretazione adeguatrice, quella con cui la
Corte trae dal testo di légge, combinaandolo con le norme costituzionali, un senso compatibile con la
Costituzione, al quale condiziona la decisione di infondatezza della questione sollevata.
Svolgendo un’interpretazione adeguatrice, la Corte dà un esempio che richiama ciascun
operatore allimmediata applicazione della norma costituzionale e quindi al dovere di preferire,
in ogni sede, il significato della disposizione ordinaria che superi il contrasto con la Carta
fondamentale. (omissis).
Cessate le polemiche, che si sono registrate a cavallo tra gli anni ’60 e’70, nessuno ormai
dubita della legittimazione della Corte a porsi come polo interpretativo delle norme costituzionali e ad entrare in questo senso nel circuito giudiziario. Tant’è che nell’anno trascorso si è
risposto con sentenze adeguatrici interpretativi di rigetto ad eccezioni di legittimità costituzionale sollevate dal Consiglio di Stato (sent. n. 197) o addirittura dalle Sezioni Unite della Corte
di cassazione (sent. n. 196). Va anzi aggiunto che proprio le Sezioni Unite della Cassazione
penale hanno risolto un contrasto accogliendo un’interpretazione adeguatrice della Corte, in
base alla consolidata premessa che tra più interpretazioni possibili occorre dare la preferenza a
quella compatibile con la Costituzione, come dà atto l’ord. n. 269.
Ma sentenze interpretativi di rigetto si danno anche a seguito di ricorsi in via principale (v.
per es. sent. n. 198). Ed è qui evidente che spetta alla stessa Corte costituzionale assicurare
l’osservanza della propria interpretazione, negli eventuali conflitti di attribuzione tra Stato e le
Regioni, che al dictum della Corte non si siano uniformati.
Nella summa divisio la dicotomia è rappresentata da sentenze di rigetto e di accoglimento.
L’efficacia di queste ultime è presidiata dall’art. 136 della Costituzione (cfr. ord. n. 461), che,
nei confronti del legislatore, vieta la riproduzione della norma dichiarata incostituzionale. Spetta
naturalmente alla Corte accertare il carattere riproduttivo o meno della norma (cfr. sent. n. 347).
L’influenza dei poteri interpretativi riguarda anche le sentenze di accoglimento. Può darsi
infatti il caso in cui non il testo per quello che prevede sia costituzionalmente illegittimo, ma
l’omissione del legislatore da intendersi non quale lacuna, ma quale implicita esclusione, illegittima, da un determinato trattamento. Riconosciuta l’incostituzionalità di una norma esclusiva
implicita, la Corte procede ad un intervento additivo, laddove esista un modello legislativo
idoneo a ripianare immediatamente ed in maniera costituzionalmente adeguata all’esclusione in
parola. Così è stata dichiarata l'incostituzionalità dell’art. 18 L. regione Siciliana 1 settembre
1993, n. 25 nella parte in cui non prevedeva l’applicabilità dell’art. 15 l. 30 dicembre 1971, n.
1204. Si è cioè operata l’estensione della tutela delle lavoratrici madri alle donne impegnate in
lavori socialmente utili, unica soluzione costituzionalmente obbligata all’omissione-esclusione
da una protezione costituzionalmente necessaria (sent. n. 310, v. ancora, e sempre in via esemplificativa, la sent. n. 341, che si segnala per l’impiego della terminologia “sentenza additiva”).
126
Quando alla inadeguatezza della norma non fa riscontro una possibilità da parte della
Corte di individuare una normativa specifica perché esiste da parte del legislatore una
discrezionalità attuativa della lacuna (e non si tratti di affermare un principio, v. in seguito), la
risposta è in genere quella dell’inammissibilità della questione, appunto perché rimessa alla
discrezionalità politica. V. peraltro la sent. n. 379 che sembra risolvere una specie del genere nel
senso della non fondatezza.
In alcune materie, per diversi motivi, la Corte ritiene di non poter supplire alle omissioni
legislative. Tipico è il caso degli interventi che recherebbero trattamenti penali sfavorevoli, su
cui convergono i principi di legalità e di irretroattività. Ribadiscono l'inammissibilità di interventi additivi in materia penale le ordd. nn. 51, 67, 245, e 337.
Per altri campi, specie in materia fiscale vige un self restraint: il controllo delle scelte
legislative in materia di esenzioni comporterebbe una evidente intromissione nell’ambito della
discrezionalità politica riservata alle Camere (sent. n. 119, in materia di riordino della finanza
degli enti territoriali art. 8 comma 4 d. lgs. 30 dicembre 1992, n. 504, pagamento dell’ICI per gli
immobili degli IACP. Stessa soluzione per gli oneri deducibili dall’IRPEF nell’ord. 370 a proposito dell’art. 10 lett. h) d.P.R. n. 597 del 1973, ma vedi la sent. n. 154 che estende al procedimento di separazione l’esenzione fiscale prevista per quello di divorzio).
La dichiarazione di inammissibilità della questione additiva si dà dunque quando la Corte,
priva di poteri discrezionali, non possa operare una scelta tra le varie soluzioni rimesse al
legislatore, cosa che certo non impedisce alla Corte di ritenere non fondata o manifestamente
infondata nel merito una questione additiva, quando l’omissione legislativa non vulneri l'invocato principio costituzionale (per es. ord. n. 10, sent. n. 400).
A partire dagli anni ’90 la Corte, accanto alle consuete decisioni additive, pronunzia, a
volte, sentenze additive di principio con le quali, pur riconoscendo margini di discrezionalità
all’intervento del legislatore, dichiara l’incostituzionalità di un testo legislativo nella parte in
cui non prevede un principio costituzionahnente necessario (e espresso nella decisione) che
spetterà poi al legislatore sviluppare in una compiuta normativa. (omissis).
Una diffusa opinione vuole che le sentenze additive di principio vengano emanate dalla
Corte esclusivamente in materia di difesa di diritti sociali e che esse siano per così dire necessitate dall’esigenza di evitare improvvisi e gravi ammanchi nei bilanci pubblici. Sennonché nell’anno trascorso si sono date decisioni additive di principio in tipiche materia di libertà.
La prima concerne la garanzia giurisdizionale contro i provvedimenti dell’amministrazione penitenziaria riguardanti coloro che sono sottoposti a restrizioni della libertà personale (sent.
n. 26). La constatazione che non esiste un modello unitario di procedimento, su cui sia possibile
operare un’estensione additiva al fine di rendere generale il controllo del giudice sul rispetto dei
diritti dei detenuti, non ha fermato la Corte. Non l’ha cioè indotta ad una dichiarazione di
inammissibilità della questione per la presenza di una discrezionaliti del legislatore, ma l’ha
invece spinta ad una dichiarazione immediata di illegittimità costituzionale delle norme che
prevedevano solo un reclamo amministrativo (artt. 35 e 69 l. 26 luglio 1975, n. 354) e ad un
richiamo al legislatore affinché eserciti la funzione normativa che gli compete.
La seconda sentenza (n. 32) ha ad oggetto la mancata previsione dell’istituto dell’interrogatorio di garanzia nel periodo di tempo intercorrente tra la trasmissione degli atti al giudice del
dibattimento e l’apertura del dibattimento stesso (art. 294, comma 1, C.P.P.). (omissis).
GLI ALTRI GIUDIZI
1. CONFLITTI FRA POTERI
Va registrata, nell’anno trascorso, una accresciuta frequenza nella richiesta di risoluzione
di conflitti fra poteri dello Stato, tanto che potrebbe paventarsi per questo giudizio quella
“banalizzazione” già temutasi per il controllo di legittimità costituzionale.
127
In ogni caso va segnalato un tentativo di uso improprio del conflitto fra poteri da parte di
autorità giudiziaria. Infatti il giudice, legittimato ad attivare il controllo di legittimità costituzionale, non può sollevare conflitto rispetto ad atti aventi forza di legge, inidonei a ledere le sue
attribuzioni perché riguardanti l’esercizio dell’azione e quindi i diritti delle parti, quando su
questi atti avrebbe potuto e dovuto correttamente promuovere questione di legittimità costituzionale (nella specie il Pretore di Brescia aveva sollevato conflitto in relazione alle norme che
subordinano l’esercizio dell’azione del dipendente di una p.a. al decorso di un termine dal tentativo obbligatorio di conciliazione: ord. n. 308, cfr. anche quanto osserva la sentenza n. 457
richiamata in Natura e funzione del controllo di legittimità costituzionale ed infra).
Con il conflitto si denunciano le usurpazioni o le menomazioni di un’attribuzionec spettante ad altro potere dello Stato. Queste non dipendono dalle sole conseguenze concretamente
prodotte dagli atti o comportamenti contestati, ma si misurano alla luce della intrinseca entità
delle pretese che abbiano determinato la situazione di conflitto (nella specie il Pretore aveva
avviato, sia pure in relazione a specifici casi sottoposti al suo giudizio, una consulenza sulla cd.
“cura di Bella” tale da costituire una sperimentazione alternativa a quella in corso da parte del
Ministero della Sanità): sent. n. 121.
Il conflitto tra poteri si apre con un ricorso alla Corte da parte del potere che assume
lese le proprie attribuzioni. Le condizioni formali di ammissibilità del ricorso con riguardo
all'indicazione dell’esposizione dei fatti e delle ragioni del conflitto sono considerate nell’ord. n.
318.
La Corte con procedimento de plano procede alla dichiarazione di ammissibilità o di
inammissibilità del conflitto.
Dichiarazione di inammissibilità, nell’anno trascorso, si è data nei seguenti casi. Difettano
i presupposti di un conflitto nel caso in cui un deputato, rinviato a giudizio per diffamazione,
ricorra alla Corte per far valere le sue prerogative prima che la Camera di appartenenza abbia
dichiarato l’insindacabilità delle opinioni espresse. In questa situazione il Tribunale può incidenter
tantum valutare la sindacabilità delle opinioni ed il deputato sollecitare la Camera di appartenenza (ord. n. 131).
Non è legittimato a sollevare un conflitto nei confronti del Parlamento il giudice di pace
che agisca in qualità di coordinatore dell’ufficio (e quindi al di fuori dell’esercizio delle funzioni
giurisdizionali), lamentando la lesione delle proprie funzioni per effetto della legge sul garante
per la protezione dei dati personali (ord. n. 244, medesima decisione per un conflitto col Governo si è avuta con ord. n. 340).
La Corte dei conti, nel rivendicare le sue attribuzioni in materia di controllo, agisce quale
potere unitario. Pertanto non è legittimata a sollevare il conflitto una singola sezione della Corte
dei Conti (ord. n. 322).
Difettano i presupposti di un conflitto in ricorso proposto da un difensore sorto a seguito di
una sentenza della Cassazione.
Sono, di converso, stati ritenuti ammissibili conflitti promossi dal p.m. contro la Camera
dei deputati in ordine al potere di autorizzazione all’acquisizione ed all’utilizzazione di tabulati
documentanti il traffico telefonico di un’utenza in uso a un deputato (ord. n. 60). Tra il Tribunale e la Camera dei deputati relativi al collegamento tra le opinioni espresse e le funzioni esercitate (ord. n. 129, ord. n. 130, ord. n. 238, ord. n. 362, ord. n. 363, ord. n. 399, ord. n. 414, ord.
n. 447, ord. n. 459). Tra il GIP e la Camera dei deputati avente lo stesso oggetto (ord. n. 319).
Tra il Presidente del Consiglio dei ministri ed il GIP in ordine all’utilizzazione di atti segretati
(ord. n. 320). Tra il Presidente del Consiglio dei ministri ed il Procuratore della Repubblica
avente lo stesso oggetto (ord. n. 321). Tra il Sostituto Procuratore della Repubblica ed il Presidente del Consiglio dei ministri, in ordine alla determinazione di quest’ultimo di non costituirsi
in un conflitto tra Regione e Stato occasionato da atti adottati dal pubblico ministero, nei limiti
in cui tale determinazione non sia stata preceduta da un’intesa o da una richiesta di parere allo
stesso pubblico ministero (ord. n. 470).
Ed è ancora ammissibile il conflitto tra la Corte dei conti ed il Presidente del Consiglio dei
ministri relativo a funzioni di controllo che si assumono lese da decreti legislativi delegati (ord.
128
n. 323). La sentenza n. 457, risolutiva del caso, ha aggiunto, come s’è già detto, che in materia
di conflitto non ha alcun rilievo la natura degli atti da cui può derivare una lesione della sfera di
attribuzioni. (omissis).
LE FONTI
1. LEGGI PROVVEDIMENTO
Le leggi provvedimento, derogando ai principi generali in ordine alla distribuzione delle
funzioni, sono soggette a “scrutinio stretto” da parte della Corte. In base ad esso è stata ritenuta
l'incostituzionalità della legge della Regione Abruzzo approvata il 23 settembre 1997, con la
quale si cercava di derogare ad un giudicato del Consiglio di Stato in materia di un concorso
pubblico, immettendo direttamente nei ruoli le parti soccombenti e così per di più violando il
principio di parità di condizioni nell’accesso dei pubblici uffíci (sent. n. 364).
Due decisioni della Corte (sentt. nn. 225 e 226) hanno preso in considerazione la legge
della Regione Lombardia 29 aprile 1995, n. 39, con cui la Regione aveva approvato il piano del
parco naturale di Montevecchia e della Valle del Curone, secondo le norme della legge regionale
30 novembre 1983 n. 86. Di questa sequenza procedimentale si è offerta un’interpretazione
adeguata che fuga il dubbio della perdita di garanzia da parte del cittadino, derivante dall’adozione di una legge provvedimento. Si è infatti ritenuto che la legge regionale interviene esclusivamente sulla approvazione del piano, elaborato da parte dell’ente gestore e modificato dalla
Giunta in sede di verifica, in funzione di controllo e di compartecipazione, come atto di consenso (espressione di scelta politica) alla decisione dell’atto sottoposto ad approvazione finale. In
tal modo la legge non vale né come conversione dell’atto contenente la sostanziale programmazione pianificatoría, né come forma di validazione legislativa, né come sanatoria del piano
stesso, né fa assumere al complesso del piano anzidetto (composto da una serie di elaborati)
valore di legge. La fase amministrativa del piano, con le garanzie proprie del giusto procedimento, resta così intatta ed intatto resta il potere delle autorità giurisdizionali di verifica della
legittimità del provvedimento.
2. LEGGI RETROATTIVE, DI INTERPRETAZIONE AUTENTICA E DI
SANATORIA
Fermo il disposto dell’art. 25 della Costituzione, una legge può agire sul piano sostanziale
con effetti retroattivi, salva l’osservanza dell’affidamento del cittadino nella sicurezza giuridica
che, quale essenziale elemento dello Stato di diritto, non può essere leso da disposizioni che
trasmodino in regolamento irrazionale di situazioni sostanziali fondate su leggi precedenti (sent.
n. 416).
La legge insomma può intervenire retroattivamente onde eliminare istituti la cui sopravvivenza, sia pure a limitati fini, si ritenga irrazionale (cfr. ord. n. 44) ovvero incidere sulla tutela
giurisdizionale diretta ad applicare il diritto oggettivo. E' tale il caso delle leggi di interpretazione autentica per le quali l’efficacia retroattiva, con effetto anche sul contenzioso in corso, trova
una giustificazione nell’esistenza di un obbiettivo dubbio enneneutico in sede giurisdizionale e
dottrinale (sent. n. 229 a proposito dell’art. 28 L. 27 dicembre 1997, n. 449).
Anche per le leggi di sanatoria non v’è preclusione, in via di principio. Esse tuttavia sono
ragionevolmente giustificate soltanto dallo stretto collegamento con le specifiche peculiarità del
caso, così che resti fugata ogni arbitrarietà nella sostituzione della disciplina generale, originariamente applicabile, con quella eccezionale successivamente emanata, convalidante situazioni
già considerate illegittime.
129
Muovendo da tale premessa, la Corte svolge un esame approfondito delle motivazioni che
hanno condotto al provvedimento legislativo, controllando in particolare i lavori preparatori
della legge e gli orientamenti che da essi emergono. Ed è in base ad un simile controllo che
nell’anno trascorso la sent. n. 14 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 15, comma
1, l. 21 dicembre 1996, n. 665, il quale prevedeva la salvezza di provvedimenti relativi al
personale di assistenza di volo, provvedimenti adottati sulla base di un decreto legge non convertito e già annullati anche per vizi sostanziali dal TAR Lazio. E' stato osservato che una simile
convalida si connotava unicamente come legittimazione di quanto attribuito in modo illegittimo,
essendo rimasta estranea la considerazione di ogni esigenza connessa alla realizzazione di un
interesse generale correlato all’organizzazione dell’organismo di appartenenza dei soggetti
beneficiati. Simile normativa, in questo modo, costituiva un esempio di diseducazione civile,
negativa di una razionale e coerente attività di amministrazione.
Ancora una dichiarazione di illegittimità costituzionale si è avuta per l’art. 3 della legge
approvata dalla Regione siciliana il 23 dicembre 1997, con cui, con formula contorta, già di per
sé sospetta, si sanava l’utilizzazione illegittima di fondi da parte di enti aventi finalità di carattere culturale. La volontà di sanatoria, per poter legittimamente superare una precedente valutazione dell’interesse pubblico già operata dalla legge, deve essere sostenuta dall’assunzione di
un altro interesse pubblico, non irragionevolmente ritenuto idoneo a giustificare il contrasto di
valutazione. Nel caso di specie (essendo stata approvata la norma senza alcuna discussione e
senza nemmeno un’illustrazione, quale emendamento di un articolo riguardante tutt’altra materia) non risultava essere stato perseguito alcun pubblico interesse (sent. n. 141).
3. DECRETI LEGGE E LEGGI DI CONVERSIONE
A chiarire la portata della sentenza n. 360 del 1996, si è precisato che nessun dubbio
sussiste circa il potere spettante al legislatore di regolare autonomamente un determinato rapporto, assumendo come proprio il contenuto di un decreto legge a suo tempo decaduto. In questi
casi infatti non si tratta di reiterazione di decreti legge, ma di leggi adottate con l’ordinario
procedimento legislativo (sent. n. 416).
4. LEGGI DI DELEGAZIONE E DECRETI DELEGATI
L’art. 76 della Costituzione non elimina ogni margine di scelta nell’esercizio della delega:
i principi e criteri direttivi servono sì da un lato a circoscrivere il campo della delega, per evitare
che essa venga esercitata in modo divergente dalle finalità che l’hanno determinata, ma dall’altro devono consentire al potere delegato la possibilità di valutare le particolari situazioni giuridiche da regolamentare nella fisiologica attività di “riempimento” che lega i due livelli normativi (ord. n. 8, v. anche ord. n. 209). Tale orientamento risulta ribadito dalla sentenza n. 15, nella
quale si aggiunge che i principi costituiscono anche un criterio interpretativo delle norme delegate che vanno lette, fin tanto che ciò sia possibile, nel significato compatibile con quelli (v.
anche sent. n. 49).
I principi e criteri direttivi sono traibili, in caso di delega dettata per adempiere ad obblighi
comunitari, anche dal contenuto delle singole direttivi comunitarie cui deve farsi riferimento
(sent. n. 49).
5. REGOLAMENTI STATALI, DIRETTIVE CEE E LEGGI REGIONALI
Sotto il profilo del rispetto delle competenze regionali o provinciali, l’attuazione regolamentare di direttivi comunitarie è ammissibile in quanto le norme statali attuative sono cedevoli
a fronte di diverse scelte normative regionali o provinciali, nei limiti in cui queste siano costituzionalmente e statutariamente anmissibili. Sotto il profilo del rispetto del principio di legalità
130
nei rapporti Stato-Regioni, l’attuazione regolamentare è ammissibile in quanto il regolamento
non vincoli al di là di quanto già non discenda dagli obblighi comunitari e i poteri che prevede si
inseriscano in compiti già affidati in capo alle autorità competenti (sent. n. 425).
ORDINAMENTO DELLA REPUBBLICA
1. ORGANI COSTITUZIONALI
In ordine alle prerogative del Parlamento, la sent. n. 252 osserva che l'insindacabilità di
cui al primo comma dell’art. 68 della Costituzione è diretta a garantire, in via primaria, non già
la persona del parlamentare, ma la libertà e l’autonomia delle Camere. La garanzia, investendo
le opinioni espresse nell’esercizio della funzione parlamentare, ha necessariamente riguardo
alle funzioni esercitate dal deputato o dal senatore nel momento in cui le opinioni vengono
espresse. E' pertanto alla Camera cui il parlamentare appartiene al momento del fatto (e non a
quella a cui eventualmente appartiene al momento del processo) che competono i poteri connessi alla prerogativa dell'insindacabilità ed il potere di valutare la riconducibilità delle opinioni
all’esercizio delle funzioni parlamentari.
Il presupposto dell’operatività della prerogativa è dunque quello della connessione funzionale tra le opinioni e l’esercizio delle funzioni proprie del parlamentare. Non è possibile d’altra
parte ricondurre nella sfera delle finzioni parlamentari l’intera attività politica dei membri delle
Camere, perché una tale interpretazione allargata finirebbe per vanificare il requisito stesso del
nesso funzionale, trasformando la prerogativa in un privilegio personale. Ciò non significa che
il collegamento dipenda da criteri formali o di sede in cui venga espressa l’opinione, occorre
invece una connessione con l’attività svolta dal parlamentare in Parlamento e la manifestazione
del pensiero (sent. n. 417). Va quindi annullata la delibera parlamentare in cui l'insindacabilità
di un’opinione veniva ricollegata ad ogni attività politica lato sensu intesa, prescindendo da
ogni nesso funzionale (sent. n. 329).
Le rispettive sfere di attribuzioni dell’Autorità giudiziaria e del Potere esecutivo sono state
prese in considerazione nella sentenza n. 121 relativa alla cd. “cura Di Bella”, in relazione alla
quale il Pretore di Maglie aveva ritenuto di avviare una consulenza che, per dimensioni, materiale da esaminare, pertinenza di esso al processo, trascendeva l’ambito del giudizio, per porsi
quale momento di verifica e di controllo dell’intera spenmentazione effettuata in base al d. l. 17
febbraio del 1998 n. 23, se non addirittura quale sperimentazione alternativa. Poiché, dunque,
nella vicenda non si riscontrava quel necessario rapporto di congruenza tra gli accertarnenti
peritali e i casi concreti rimessi alla cognizione del giudice, è stato ritenuto che l’operato del
Pretore eccedeva i limiti naturali della funzione giurisdizionale determinando un’indebita interferenza nella sfera di attribuzione spettante al potere esecutivo.
E' rimesso alla discrezionalità del legislatore configurare, in attuazione dell’art. 100 della
Costituzione, le forme possibili di partecipazione al controllo della gestione finanziaria degli
enti a cui lo Stato contribuisce in via ordinaria da parte della Corte dei conti. Una configurazione legittima è quella del controllo successivo, esercitato unicamente sui conti consuntivi degli
enti, al fine della relazione annuale al Parlamento ( d. lgs. 30 gennaio 1999, n. 19, n. 27 e n. 36:
sent. n. 457).
2. PRINCIPI SUI PUBBLICI UFFICI E SUL PUBBLICO IMPIEGO
Principio discendente dall’art. 97 della Costituzione in materia di creazione e organizzazione dei pubblici uffici è quello del divieto di subordinare le esigenze funzionali e organizzative
della pubblica amministrazione all’interesse del personale ad un posto di lavoro. Il controllo
della Corte al riguardo non può peraltro eccedere i limiti del sindacato di ragionevolezza.
131
La legge regionale siciliana approvata il 29 ottobre 1997 ha assunto l’attività di catalogazione delle cose d’arte quale compito stabile dell’amministrazione al fine di valorizzare il patrimonio storico-culturale dell’isola. Dinanzi a tale ragionevole finalità, la Corte deve fermarsi e
non può, senza sconfinare nel merito, valutare le ulteriori scelte della Regione in ordine alla
configurazione dei profili professionali ed ai ruoli del personale, determinati a seguito di verifica delle esigenze specifiche dell’amministrazione del settore. Le quali scelte saranno state pure
occasionate da un problema occupazionale, ragione ulteriore che tuttavia non prevale sulla
finalità indicata (sent. n. 141).
Altro principio costituzionalmente imposto è quello della provvista del personale mediante
concorso.
Sulla necessità che i titoli di partecipazione richiesti siano razionalmente collegati all’impiego per il quale il concorso è stato indetto cfr. la sent. n. 343 relativa agli artt. 2 e 11 d. l. 6
novembre 1989, n. 357, sul reclutainento del personale della scuola.
La decisione n. 141 appena ricordata ha ribadito l’esigenza, in tema di concorsi pubblici,
dell’imparzialità amministrativa. Ha quindi ritenuto illegittime le norme della legge regionale
nella parte in cui affidavano ad una società di servizi, privata, la predisposizione delle graduatorie
in base ad un’autovalutazione dei titoli operata dai candidati e salvo un controllo ex post da
parte dell’amministrazione (omissis).
3. REGIONI
Un primo gruppo di decisioni riguarda gli organi regionali.
La garanzia prevista dall’art. 122 per i consiglieri regionali si estende a quei comportamenti che, pur non rientrando fra gli atti tipici, siano collegati con nesso funzionale con l’esercizio delle attribuzioni proprie dell’organo di appartenenza. Onde va ricompresa nella guarentigia
la riproduzione all’estemo di interpellanze ed interrogazioni (sent. n. 391).
Va ricondotta all’immunità per le opinioni espresse e i voti dati l’attività di gestione dei
fondi stanziati per le esigenze funzionali dei Consigli regionali. Si tratta di immunità non assoluta che non copre gli atti non riconducibili ragionevolmente a quelle esigenze. Ma proprio per
ciò non può essere sindacato un atto di gestione assumendosi che esso non sia utile o proficuo,
o eccessivo nella spesa rispetto alla ricaduta di vantaggi (sent. n. 392).
La partecipazione del Presidente della Regione al Consiglio dei ministri è garantita solo
quando siano in discussione oggetti che coinvolgono un interesse differenziato proprio e peculiare della Regione. Ciò vale anche per la Sicilia, non differenziandosi, sotto questo aspetto,
l’art. 21 dello Statuto della Regione siciliana dalle analoghe norme contenute in altri Statuti
(sent. n. 92) (omissis).
132
Appendice 2
RELAZIONE DEL PROCURATORE GENERALE
VINCENZO APICELLA
SULLO STATO DELLA GIURISDIZIONE E DEI
CONTROLLI DELLA CORTE DEI CONTI
1999
(STRALCI)
UDIENZA 17 GENNAIO 2000
PRESIDENTE FRANCESCO SERNIA
.
INAUGURAZIONE ANNO GIUDIZIARIO 2000
1. INTRODUZIONE E IMPOSTAZIONE GENERALE
Con prevedibile enfatizzazione, si è atteso, prima, e si è accolto, poi, questo anno 2000
come l’ultimo del secolo XX e come la soglia di quel terzo millennio dell’era moderna che si è
costretti a vedere gravido di preoccupazioni, non meno che venato di promesse.
Al di là, però, della magia che il tanto atteso numero pieno esprime, può ben dirsi che, se
accelerazione storica è riscontrabile nel nostro tempo, questa vi è stata nell’ultimo decennio del
secolo testé trascorso, allorché abbiamo assistito, talvolta inconsapevoli e talvolta sorpresi, ad
una trasformazione epocale che ha visto, nel mondo, come in Italia, lo svanire di utopie, l’eclissi
di ideologie, il crollo di potenze.
Non solo questo, però. Accanto alle ricorrenti e perciò “normali” crisi mondiali e locali di
ordine economico, politico, sociale, etnico, con risvolti anche bellici, sono esplosi i problemi
della sempre più disarmonica crescita demografica, dell’allungamento più o meno generalizzato
della durata media della vita dell’uomo, dell’incalzare del progresso tecnico, dell’estendersi del
doloroso fenomeno della disoccupazione, e del sopravvenire dei problemi ecologici.
Correlativamente, in un rapporto di causa ed effetto non sempre distinguibile, vi è stato
anche, nella coscienza e nell’atteggiamento dei popoli, una trasformazione di valori, e talvolta
una inversione di essi, con l’ulteriore conseguenza di un mutare del modo di concepire la vita e
la società e quindi di tendere verso nuove e diverse fmalità. Vi è stato, in definitiva, un'accelerazione di quel lento processo culturale e politico delle società, specie di quelle occidentali, così
come si era dipanato nell’arco di poco meno di due secoli, con l’influenza di storicamente
importanti, pur se ormai politicamente superate, esperienze di origine rivoluzionaria.
L’aspetto più significativo di questa evoluzione è stato da molti ravvisato nella preminenza
che, nella conduzione politica delle nazioni, e più marcatamente dell’Italia, è stata data alla
prospettiva economica rispetto a quella giuridica, con forse la sola eccezione rappresentata
dallo sforzo che gli stati più evoluti producono per tutelare il più possibile i diritti civili.
Quest’ultima mutazione (il termine non paia improprio) si è introdotta lentamente nella
nostra società, ma già ora appare ben visibile, e da tempo comporta il sopravvenire di problemi
riguardanti specificamente l’amministrazione della cosa pubblica nei suoi momenti gestionali,
in quelli del controllo e anche in quelli giurisdizionali.
Semplificando al massimo il discorso, mi azzardo a dire che l’arretramento della cultura
della legalità di fronte all’affermarsi della cultura dei risultati sta trasformando radicalmente il
diritto pubblico, sicché esso appare indirizzato a dare maggiore spazio all’autonomia dell’azione amministrativa, e quindi a dare minore presenza ai tradizionali tipi di controllo, in certo qual
modo riducendo l’ampiezza e l’incisività del potere di regolamentazione della vita amministrativa dello Stato, proprio, anzi essenziale, della funzione legislativa.
Si parla, cosi, di “principio di legalità in senso sostanziale”, in quanto ispirata, questa come è stato autorevolmente affermato - “a criteri in base ai quali la decisione amministrativa
venga a risultare non solo formalmente legittima, ma anche sostanzialmente adeguata ai parametri di ottimizzazione del risultato”.
135
Per quanto riguarda le funzioni della Corte dei conti, la conseguenza che ne è derivata è
stata quella della riduzione del controllo di legittimità sugli atti, e della contemporanea introduzione e amplificazione del controllo di gestione sulle amministrazioni.
Continua tuttavia a porsi il problema se la corrispondenza a legge degli atti amministrativi
attraverso i quali l’azione amministrativa si attua debba considerarsi necessaria, e in quale
misura, e quale debba essere il compito degli organi preposti al controllo di economicità, di
efficacia e di efficienza, di fronte a gestioni condotte anche con l’adozione di atti illegittimi. Ci
si domanda, a questo punto, perché le Amministrazioni pubbliche, che più di ogni altro soggetto
debbono ispirarsi ai principi di garanzia costituzionale, possano prescinderne e, quindi, di fatto
possano non incorrere nel sindacato di legittimità. Del resto, molte recenti leggi ordinarie ciò
consentono, limitando l’area di cogenza di norme amministrative e dando così spazio ad una
regolamentazione di tipo dispositivo che allarga il tasso di flessibilità, e quindi l’ambito di
discrezionalità, dell’azione dell’Amministrazione.
Il discorso, ad un tempo politico e giuridico, che tenti la realizzazione di un sistema che
faccia funzionalmente convivere i due tipi di controllo è assai complesso e forse solo il tempo,
con la maturazione di fatti, di idee e di esperienze, potrà chiuderlo. Perché - e qui esprimo una
convinzione che non è solo mia - il principio di legittimità non è un feticcio, ma non può essere,
in uno Stato di diritto, a pena di contraccolpi assai pericolosi, abbattuto e neppure emarginato.
Né ciò è in contrasto con la cultura dei risultati: è autorevolmente stato infatti sottolineato
che di un controllo sui risultati “si arricchisce il principio di legalità, che diviene, anzi rimane,
guida principale per l’esercizio dei poteri pubblici”.
Il problema di fondo su cui mi sono soffermato è reso più serio dal fatto che il momento di
accelerazione storica che stiamo attraversando ha fatto invecchiare, di fronte all’incalzare dei
tempi, buona parte del nostro ordinamento, che, malgrado gli sforzi effettuati, attualmente si
presenta non sempre adeguato a regolare, come sarebbe sua naturale funzione, la nuova realtà,
nell’ambito, altresì, dalle regole cogenti del diritto comunitario.
Per cui, oggi, l’operatore del diritto, sia esso amministratore, funzionario o magistrato, e
anche il singolo cittadino, non sa sempre quante leggi del passato siano ancora vigenti, applicabili
e in concreto applicate, alla luce della normativa più recente, e quanto con essa siano integrabili,
e in che modo. Ciò anche per la presenza di molte leggi verbose e di qualcuna inutile.
Quella che ne scapita, in ultima analisi, è la certezza del diritto, preziosa, non del tutto
recente, e non ancora perfettamente realizzata, conquista storica degli Stati moderni di tradizione occidentale.
Di questa situazione hanno preso coscienza i Presidenti dei due rami del Parlamento che
nel giugno scorso, nel presentare il rapporto sullo stato della legislazione redatto dall’apposito
“Osservatorio” istituito presso il Servizio studi della Camera dei deputati, hanno sollecitato ai
vertici delle magistrature e alle Authorities di segnalare fenomeni di dannosa sovrapposizione,
di contraddizione di leggi e regolamenti e di incertezza normativa. Ciò al fine di porre legislativamente rimedio almeno alle discrasie più stridenti.
A questo appello ho dato una prima doverosa risposta, trasmettendo, sulla base della
quotidiana esperienza di lavoro, una relazione, con la quale ho segnalato, appunto, alcuni fenomeni di dannosa sovrapposizione, di contraddizione e di incertezza, riguardanti norme che la
Corte dei conti, nelle sue funzioni giurisdizionali, è chiamata ad applicare.
Aggiungo anche che, in questa prospettiva, recenti leggi delegate hanno opportunamente
previsto la formazione di testi unici riguardanti alcune importanti materie. Si auspica che tale
disegno venga realizzato presto e bene e che da ciò derivi una riduzione del c.d. “stock normativo”,
oggi invero esorbitante e tale da dare, tra l’altro, incentivo al già pesante contenzioso giudiziario.
Ho il dovere, peraltro, di rappresentare che la Corte dei conti, nell’esercizio di attività di
referto esplicata in sede di annuale giudizio di parificazione, ha sempre e costantemente provveduto a segnalare al Parlamento “le variazioni e le riforme che crede opportune per il perfezionamento delle leggi e dei regolamenti sull’amministrazione e sui conti del pubblico denaro", così
come espressamente richiestole dall’art. 41 del T.U. n. 1214 del 1934.
136
2. OGGETTO DELLA RELAZIONE
Ho ritenuto necessaria questa mia breve premessa generale per introdurre quello che è
l’oggetto più specifico del mio discorso, che è di rappresentare, in necessaria, estrema sintesi, lo
“stato” attuale delle funzioni istituzionali della Corte dei conti, cioè di quella di controllo, di
referto e giurisdizionale, così come si presentano alla luce dell’attuazione che è stata data, nel
1999, alla normativa che le regola. Non solo però: mi soffermerò anche a rappresentare i
problemi di fondo che esse presentano e le prospettive future del loro esercizio.
3. L’ATTIVITÀ DI CONTROLLO E DI REFERTO
Intensa, come sempre, è stata l’attività delle sezioni e degli uffici della Corte dei conti
preposti all’esercizio della funzione di controllo e di referto, sia in sede centrale che decentrata,
sia nell’ambito del controllo preventivo di legittimità, che in quello successivo di gestione, sia
nella materia dei controlli, anch’essi successivi, sul bilancio dello Stato e sulla gestione fina
nziaria degli enti pubblici, per terminare alla specialissima funzione, che non può tecnicamente
definirsi di controllo, riguardante gli enti locali. I numeri che rappresentano questa attività
(dovrei dire: queste attività) sono esposti nei quadri allegati al testo scritto di questa relazione.
Questi dati, però, da soli non danno integrale contezza circa il peso, il valore e la posizione
della funzione di controllo nel suo complesso, e di quella, sempre più importante e sempre più
visibile, di referto, così come sono state delineate dalla riforma del 1994-96 e così come si
presenta per l’avvenire, anche a seguito delle nuove prospettive nate dal decreto legislativo n.
286 del 1999.
Non vi è dubbio che la detta riforma ha di molto ridotto l’area di incidenza del controllo
preventivo di legittimità e, nel contempo, ha introdotto un controllo successivo di gestione su
tutte le amministrazioni pubbliche e sulle amministrazioni regionali, con ciò concentrando in in
solo istituto, appunto la Corte, due tipi di controllo: ciò nel preordinato disegno di una valutazione unitaria della finanza pubblica e della correlativa e connessa attività di referto al Parlamento, secondo parametri più avanzati e più atti a cogliere i risultati dell’azione amministrativa.
Non mi soffermerò sui dettagli di questo assetto. Dirò solo che esso, indubbiamente valido,
non fu assistito, al momento in cui fu disposto, da una sufficiente normativa riguardante gli
strumenti organizzativi.
A questa carenza ha posto rimedio l’art. 3, comma 2, del già ricordato decreto legislativo
n. 286, laddove si affida alla Corte il compito di determinare “il numero. la composizione e la
sede” dei propri organi di controllo preventivo o successivo, e ciò “anche in deroga a previgenti
disposizione di legge”.
Con questa norma il legislatore delegato ha dimostrato di avere fiducia nelle capacità di
autoregolamentazione del nostro Istituto, addossando comunque ad esso una responsabilità che
è tanto più grande in quanto l’ampiezza e l’eccezionalità del mandato indica che, se questo verrà
lodevolmente eseguito, ne deriverà una più mirata e più utile garanzia di buona gestione della
cosa pubblica. Inoltre, con l’esercizio dei poteri che la legge delegata le affida, la Corte potrà
meglio definire la propria posizione nell’Ordinamento, utilizzando al meglio, nell’interesse della Nazione, la potenzialità che la propria specializzazione e la propria esperienza sono in condizione di esprimere. Senza che si possa essere accusati di enfasi, è lecito dire che questa è
un’occasione storica per l’Istituto stesso, ma, anche e specialmente, per la Repubblica.
La Corte è ben consapevole della grande importanza del compito che, con ciò, le viene ora
affidato. Ne fa fede l’attenzione che ad esso viene riservata dalle strutture di studio della Corte
(mi riferisco in particolare al Seminario sui controlli operante nell’Istituto) e dai singoli magistrati.
Ma il rilievo istituzionale maggiore è rappresentato, oggi, dal lavoro svolto, al riguardo,
dal Consiglio di Presidenza e, al di fuori di esso, da una speciale commissione all’uopo nominata, i cui risultati presto confluiranno, per le definitive determinazioni, all’organo collegiale di
vertice dell’Istituto.
137
Posso dire che la qualità e le ampie concordanze, di finalità e di. contenuti, di tale lavoro,
peraltro non ancora completato, appaiono tali da promettere soddisfacenti risultati. (omissis).
4. IL CONTENZIOSO DI RESPONSABILITÀ
La giurisdizione della Corte, che la Costituzione sancisce all’art. 103, ha trovato il suo più
recente assetto nella riforma contenuta nella legge n. 19 del 14 gennaio 1994 di conversione di
precedenti decreti legge, nella coeva legge n. 20 e nella legge n. 639 del 20 dicembre 1996.
Il mio predecessore, nella prolusione di inaugurazione dell’anno giudiziario 1999, tra l’altro si è soffermato sul grado di applicazione di tale riforma, sulle problematiche da essa originate e sulle zone d’ombra che hanno continuato a permanere nel sistema di garanzia cui è preposto
l’istituto della responsabilità amministrativa.
Riallacciandomi a questo discorso, desidero aggiungere, ora, alcune brevi considerazioni.
La riforma degli anni 1994-1996, pur se nata da un lungo travaglio, ed espressa, dopo
numerosi decreti d’urgenza, da tre diverse leggi, che, sovrapponendosi. hanno determinato qualche
problema di diritto intertemporale e anche di interpretazione ha tuttavia formato un fondamentale tessuto normativo sufficientemente aderente a quelle più avvertite esigenze di certezza nelle
scelte, di tranquillità operativa, di ricerca dell’economicità, dell’efficacia e dell’efficienza, che
appartengono ai moderni modelli dell’azione amministrativa (omissis).
138
Appendice 3
CIRCOLARE SULLA ISTRUTTORIA
LEGISLATIVA NELLE COMMISSIONI,
EMANATA DAI PRESIDENTI DELLE CAMERE
IL 10 GENNAIO 1997
(STRALCI)
.
(omissis)
COMPLETEZZA DELLA ISTRUTTORIA LEGISLATIVA
L’istruttoria deve svolgersi secondo metodi che. consentano alle Commissioni di elaborare
testi legislativi chiari ed efficaci. Inoltre, è questa la sede più appropriata per verificare gli effetti
dei provvedimenti in esame sulla legislazione vigente, allo scopo di semplificarla e riordinarla. Una
esauriente istruttoria in sede referente deve pertanto comprendere i seguenti profili:
- la valutazione della necessità di un intervento con legge, avendo riguardo alla possibilità di
ottenere i medesimi risultati con norme di altro tipo (regolamenti, contratti collettivi, etc.),
preferibili per la loro maggiore flessibilità rispetto alla legge;
- la valutazione della coerenza della disciplina proposta con la Costituzione, anche alla luce
delle indicazioni contenute nella giurisprudenza della Corte Costituzionale;
- la valutazione della coerenza della disciplina proposta con le normative dell’Unione europea;
- il rispetto delle competenze delle Regioni e delle autonomie locali;
- la definizione degli obiettivi dell’intervento e la valutazione di congruità dei mezzi per conseguirli, con gli eventuali problemi applicativi;
- l’analisi dei costi e dei benefici, con particolare verifica dei costi per i cittadini, la pubblica
amministrazione e le imprese;
- l’inequivocità del significato delle singole disposizioni, anche in relazione al contesto normativo vigente in cui si inseriscono;
- la congruità dei tempi previsti per l’attuazione delle nuove norme e dei termini da esse
stabiliti.
Gli elementi che concorrono all’istruttoria legislativa affluiscono alle Commissioni da diverse
fonti:
- il Governo e la pubblica amministrazione, ai quali sono richiesti gli elementi informativi
necessari per compiere le valutazioni che attengono alla necessità, alla congruità e all’efficacia dell’intervento legislativi;
- i pareri delle altre Commissioni, che devono essere sufficientemente articolati;
- la eventuale consultazione, nelle forme ritenute opportune, di soggetti esterni costituzionalmente rilevanti e di quelli rappresentativi degli interessi coinvolti (omissis).
141
.
Appendice 4
COMMISSIONE PARLAMENTARE CONSULTIVA
IN ORDINE ALL'ATTUAZIONE
DELLA RIFORMA AMMINISTRATIVA
AI SENSI DELLA LEGGE 15 MARZO 1997, N. 59
RELAZIONE SEMESTRALE SULLO
STATO DELLE RIFORME
(STRALCI)
Trasmessa alle Presidenze il 9 dicembre 1999
.
1. PREMESSA
Il disegno di riforma della pubblica amministrazione avviato dalla legge delega 15 marzo
1997, n. 59 risulta completamente delineato con l’emanazione dei decreti legislativi attuativi del
Capo II relativo alla riorganizzazione degli apparati centrali.
La riforma ha preso in considerazione i principali aspetti dell’organizzazione amministrativa: la distribuzione delle competenze tra Stato, regioni, comuni, province ed altri enti locali,
con il conseguente decentramento di numerose funzioni statali; la riforma della dirigenza pubblica e il completamento della cosiddetta privatizzazione del rapporto di lavoro dei pubblici
dipendenti; l’aziendalizzazione delle amministrazioni e l’introduzione di principi di responsabilità, produttività, efficacia, professionalità; la previsione di nuovi sistemi di controllo e di valutazione dei risultati dell’attività amministrativa; la semplificazione di numerose procedure amministrative e l’introduzione della semplificazione come strumento normale dell’agire amministrativo; la liberalizzazione di molte attività economiche, con la riforma delle attività commerciali e l’istituzione dello sportello unico per le attività produttive; e infine una radicale riforma
del Governo, con trasformazione e accorpamento delle strutture ministeriali tese a superare la
frammentazione delle competenze e le duplicazioni organizzative oggi esistenti. (omissis).
(omissis)
2. LA RIFORMA DELLA PRESIDENZA DEL CONSIGLIO E DEI MINISTERI
(omissis)
Il testo del Governo non ha recepito la proposta di rendere flessibile la struttura del Governo introducendo una nuova figura di Ministro responsabile di singole politiche di settore.
Considerando che non risulta sancito in Costituzione che la responsabilità politica deve
necessariamente coincidere con la titolarità di un ministero, era apparsa possibile e opportuna
un’articolazione delle responsabilità di direzione politica e di coordinamento affidata ai singoli
ministri all’atto della formazione del Governo, distinta dall’articolazione organizzativa dei ministeri.
Il Governo, pur trovando interessante la proposta, ha ritenuto che non rientrasse nella
delega.
Tuttavia la consapevolezza della possibilità di intervenire sulla struttura del Governo attraverso strumenti normativi primari, non necessariamente di grado costituzionale, induce ad
evidenziare in questa sede l’opportunità di una proposta di legge ordinaria che affronti tale
materia. In tal modo si eviterebbe di ricorrere alla procedura aggravata richiesta per il disegno
di legge costituzionale presentato dal Governo per modificare l’articolo 95 della Costituzione.
Nel disegno di legge citato si distinguono due figure di ministro, come peraltro avviene nella
maggior parte dei Paesi europei: accanto al ministro titolare di un dicastero figura anche un
ministro cui si affida la direzione politica e amministrativa di singole strutture dicasteriali. Si
tratta di un ministro delegato che siede in Consiglio dei Ministri e al quale la responsabilità
viene affidata dal Presidente della Repubblica, su proposta del Presidente del Consiglio, al
momento della formazione del Governo.
La proposta di legge costituzionale di modifica dell’articolo 95 della Costituzione insieme
con i decreti legislativi di riforma della Presidenza del Consiglio e dei ministeri introducono
meccanismi che consentono una più efficiente e trasparente formazione della politica generale
del Governo, superando la frammentazione che sino ad oggi ha caratterizzato l’assetto delle
145
amministrazioni centrali mediante un’organizzazione accorpata in un numero limitato di grandi
ministeri, e, allo stesso tempo, consentono di mantenere un responsabile politico anche per
comparti o settori accorpati all’interno di un unico grande ministero.
Funzionalmente connessi con il riordino della Presidenza del Consiglio e dei ministeri sono
stati emanati - in attuazione della delega di cui all’articolo 11, comma 1, leggera a) della legge
n. 59 del 1997 - i seguenti provvedimenti:
- decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 287 recante il riordino della Scuola superiore della
pubblica amministrazione e riqualificazione del personale delle amministrazioni pubbliche. (omissis).
(omissis)
3. LA SEMPLIFICAZIONE
Nel semestre preso in considerazione dalla presente relazione appare delineato anche il
terzo pilastro del disegno di riforma avviato dalla legge 15 marzo 1997, n. 59: la semplificazione.
Attuando quanto previsto nella prima legge di semplificazione (legge 8 marzo 1999, n.
50), il Governo ha presentato in data 6 luglio 1999 la relazione per l’adozione del programma di
riordino delle norme legislative e regolamentari.
L’esame parlamentare della relazione si è concluso con un atto di indirizzo generale in
analogia con il modello già previsto per deliberazioni di massimo livello politico quali quelle sul
documento di programmazione economica e finanziaria.
La scelta è strettamente connessa alla rilevanza istituzionale del tema della semplificazione normativa.
La partecipazione all’Unione europea, i processi di decentramento e di privatizzazione
hanno evidenziato l’esigenza di una politica di riordino normativa. Considerando, poi, che il
riordino normativo costituisce una misura del grado di competitività del sistema-Paese sul piano internazionale, il metodo della programmazione delineato nella legge n. 59 del 1997, prima,
e nella legge n. 50 del 1999, poi, consente di rendere stabile e continua nel tempo l’azione di
riordino, realizzando una delle forme di raccordo istituzionale tra Camere e Governo previste
dalla stessa legge n. 50 del 1999.
Invitando il Governo anche a coordinare l’azione di riordino attraverso i testi unici con le
altre misure di semplificazione normativa nonché con le procedure parlamentari sull’istruttoria
legislativa, la Camera ha impegnato il Governo ad attuare la innovativa previsione di cui all’articolo 7, comma 2, della legge n. 50 del 1999 riguardante l’emanazione di testi unici a carattere
« misto », legislativo e regolamentare, mediante la predisposizione contestuale in ciascun settore di due distinti provvedimenti di riordino, uno di rango legislativo e l’altro di livello regolamentare, da rifondere in un testo unico misto a carattere ricognitivo che contenga tutte le norme
rilevanti per il settore considerato. (omissis).
(omissis)
4. CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE
La presente relazione si colloca al termine del processo di attuazione delle deleghe contenute nella legge 15 marzo 1997, n. 59.
Con l’emanazione degli ultimi provvedimenti deliberati nel mese di ottobre il Governo ha
completato il disegno di riforma della pubblica amministrazione.
Nel riferire al Parlamento, la Commissione reputa opportuno segnalare due ordini di problemi: il primo connesso a valutazioni di politica istituzionale; il secondo connesso al processo
di attuazione della riforma delineata.
146
5. PROFILI DI POLITICA ISTITUZIONALE
Nell’ambito della funzione consultiva esercitata attraverso pareri obbligatori ma non vincolanti la Commissione ha registrato un rapporto di fattiva e proficua collaborazione con il
Governo.
In effetti la discussione parlamentare ha contribuito non solo a garantire la conformità dei
testi governativi ai principi e criteri direttivi indicati dalla delega, ma anche a definire nel merito
aspetti controversi, al fine di una migliore e puntuale razionalizzazione del profilo amministrativo da riordinare.
Le lettere delle Presidenze di Camera e Senato in merito all’eventuale difformità tra
gli schemi di decreto legislativo, sui quali la Commissione esprime il parere, ed i testi
successivamente deliberati in via definitiva, hanno sicuramente contribuito a delineare l’ambito di un corretto esercizio delle prerogative parlamentari nel procedimento di legislazione
delegata.
Attraverso la Commissione il Parlamento si è inserito in un processo di legislazione delegata di grande rilievo istituzionale, incidendo così sulla modernizzazione degli apparati amministrativi e quindi sul nuovo modo di configurare il « servizio » al pubblico; in molteplici casi
l’apporto della Commissione è stato determinante per individuare la normativa di riordino.
(omissis).
A fronte di un riconoscimento dell’attività svolta così incisivo, la Commissione rileva
tuttavia alcuni casi di inottemperanza agli indirizzi parlamentari che rendono opportuna una
riflessione sul procedimento di legislazione delegata con particolare riferimento al raccordo
Parlamento-Governo.
In primo luogo si registrano casi - sicuramente limitati - di decreti legislativi deliberati con
l’inserimento di parti nuove rispetto al testo dello schema trasmesso al Parlamento, con violazione dei principi sanciti dai Presidenti di Camera e Senato con le lettere del 12 febbraio e 3
novembre 1998. (omissis).
In secondo luogo, si segnalano decreti legislativi nei quali risulta disattesa dal Governo la
soluzione di aspetti controversi definita dalla Commissione con il consenso del Governo medesimo. (omissis).
In terzo luogo, si segnalano casi di decreti legislativi nei quali non risultano recepite le segnalazioni della Commissione volte a definire aspetti di carattere meramente
tecnico per il non recepimento dei quali non sembrano sussistere ragioni politiche
ostative. (omissis).
L’esperienza maturata ha indotto a rilevare l’opportunità di una riflessione di carattere
generale sugli strumenti istituzionali che siano in grado di garantire in futuro una migliore
definizione del raccordo fra Parlamento e Governo in qualsiasi tipo di procedimento di legislazione delegata.
Nella prospettiva di definizione del corretto esercizio delle prerogative parlamentari in
riferimento a provvedimenti governativi, si inquadrano anche le determinazioni dei Presidenti di
Camera e Senato circa i rapporti tra Parlamento e Governo nella procedura per l’emanazione
dei decreti del Presidente del Consiglio dei ministri.
Il decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112, prevede che per l’elaborazione degli schemi
di DPCM la Conferenza unificata Stato-regioni-città e autonomie locali promuova accordi tra il
Governo, le regioni e gli enti locali. La procedura negoziale così introdotta sostituisce alcune
delle fasi consultive originariamente previste all’articolo 7, comma 2, della legge n. 59 del
1997, salva in ogni caso la competenza della Commissione parlamentare bicamerale. In caso di
mancato accordo, il Presidente del Consiglio dei ministri procede comunque, acquisito il parere
della Conferenza unificata, secondo il modello originario dell’articolo 7 della stessa legge
n. 59.
La procedura introdotta dal decreto legislativo n. 112 del 1998 ha suscitato perplessità
circa il rapporto tra parere parlamentare e accordo raggiunto tra Governo, regioni ed enti locali.
(omissis).
147
6. PROFILI DEL PROCESSO DI ATTUAZIONE DEL DISEGNO DI RIFORMA
Il completamente del disegno di riforma rende determinante, la fase di attuazione del disegno medesimo.
Il successo dell’opera di modernizzazione è infatti strettamente connesso alle scadenze
temporali e alle modalità di attuazione dei diversi decreti legislativi emanati ai sensi delle deleghe contenute nella legge n. 59.
Mentre nessun rilievo può essere ancora formulato sullo stato di attuazione dei provvedimenti di cui al Capo II in quanto troppo recente risulta la deliberazione degli stessi, presenta
aspetti problematici lo stato di attuazione dell’operazione di decentramento amministrativo di
cui al Capo I. (omissis).
148
Finito di stampare presso la Tipografia
Quartier Generale
della Divisione Formazione Superiore SGA/SAAM - Firenze
Aprile 2001 - B.L. n. 85 - C. n. 600
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Lezioni in tema di Diritto Costituzionale