Il testo poetico: che cos’è e come si legge Il testo poetico è un testo che esprime i sentimenti, i pensieri, le emozioni, le aspirazioni e gli stati d'animo dell'emittente, attraverso la mediazione dello strumento linguistico secondo criteri particolari o, più precisamente, in funzione poetica. Nel testo narrativo l'autore, per i suoi scopi, sfrutta tutte le funzioni della lingua e tra queste anche la funzione poetica. Nei testi che chiamiamo poetici, egli spinge l'utilizzo ditale funzione al massimo grado, giacché manipola la lingua in tutti i suoi aspetti e il modo in cui si esprime gli sta a cuore almeno quanto ciò che dice, cioè i sentimenti, le emozioni, le aspirazioni e i pensieri che esprime. La poesia, per usare il termine con cui di solito viene chiamato il testo poetico, non è, infatti, qualcosa di irrazionale o di misterioso come credevano alcuni filosofi antichi o taluni intellettuali romantici dell'Ottocento e come molti sembrano credere ancora oggi. La poesia è, indubbiamente, costituita da un elemento imponderabile e indecifrabile, legato alla particolare sensibilità di un singolo individuo, ma è anche costituita da una componente tecnica - in parte frutto di una predisposizione naturale ma in gran parte conseguenza di vaste letture e lunghi esercizi - che consiste nella capacità di manipolare le risorse della lingua comune, per esprimere, in modo personale e originale, il senso profondo delle sue esperienze e delle sue emozioni. lì poeta, infatti, per comunicare il suo messaggio agli altri, non deve aver solo qualcosa da dire, come succede nel caso di ogni atto comunicativo, ma deve anche saperlo dire in modo adeguato. e poiché il suo intento non è solo informativo o espressivo-emotivo o persuasivo, ma poetico, deve costruire il suo testo lavorando sia sulle forme della lingua, cioè sul piano del significante, scegliendo alcune parole piuttosto che altre in rapporto ai loro valori musicali, per creare particolari effetti sonori, ritmici e melodici, sia sul significato delle parole, per creare attraverso accostamenti inediti o forzature semantiche, immagini nuove e suggestive. Per capire che cos'è un testo poetico e per imparare a leggerlo e ad apprezzarlo è perciò opportuno analizzare gli aspetti tecnici che stanno alla base della costruzione del prodotto poetico, cioè ricostruire gli elementi costitutivi di tale prodotto e stabilire come e perché il poeta li ha utilizzati nel modo in cui li ha utilizzati. Così facendo, non riusciremo forse a cogliere quel non so che in cui si concentra il nucleo profondo della "poesia", ma certo impareremo a conoscere in profondità la struttura del testo poetico e ci approprieremo degli strumenti più adatti per leggerlo e cercare di capire in che cosa consiste la poesia I componimenti in versi e i generi poetici L'abitudine di esprimere il proprio mondo interiore, di descrivere le emozioni che si provano di fronte alla donna amata, di esporre le proprie gioie e i propri dolori, di celebrare divinità ed eroi, di descrivere la bellezza della natura o di esaltare le imprese della propria gente in una forma scandita da ritmi particolari, arieggiante la musica e il canto e spesso accompagnata dal suono di strumenti musicali, è antichissima: affianca e caratterizza le prime manifestazioni culturali di tutti i popoli. Oltre tutto, essa, in un'epoca in cui non si conosceva ancora la scrittura, aveva anche un'importante funzione pratica: il ritmo di quei testi, con le sue cadenze musicali e con la ripetizione di parole, facilitava la memorizzazione di brani anche lunghi, affidati solo alla tradizione orale. Con l'invenzione della scrittura questi testi vennero messi per iscritto e costituirono presso quasi tutte le civiltà la prima manifestazione letteraria, anteriore quindi alla prosa. Infatti come dimostra l'esame comparato della storia letteraria della maggior parte dei popoli, all'inizio gli uomini affidarono l' espressione dei loro pensieri, delle loro aspirazioni e passioni e dei loro problemi alla "poesia". In versi, anzi, furono trattati attraverso i secoli, i contenuti più disparati: sia quelli cui ancora oggi viene riservata la forma poetica sia altri, di argomento filosofico, giuridico e scientifico o di tipo narrativo, cui meglio si addice l'uso della prosa. Col tempo, per disciplinare l'estrema varietà della produzione in versi, i rètori (non i poeti!) provvidero a catalogare in generi i vari componimenti a seconda dei contenuti e delle destinazioni, e a fissare precise forme metriche, convenzioni retoriche e stili per i vari generi. Così, i testi poetici furono distinti nei seguenti generi, ciascuno con i suoi sottogeneri: genere epico-narrativo poema epico poema epico-cavalleresco poema eroicomico poemetto mitologico novella in versi genere lirico testi poetici genere didascalico genere drammatico lirica propriamente detta lirica amorosa lirica elegiaca lirica religiosa lirica civile o patriottica lirica giocosa o burlesca poemetto didascalico poema didattico.allegorico sermone in versi commedia tragedia dramma dramma pastorale melodramma Questa operazione dei rètori fu, per molti aspetti, responsabile della nascita di testi poetici di nome ma non di fatto, cioè di testi poetici perfettamente in linea con le regole e le norme del genere di cui facevano parte, ma assolutamente insignificanti in sede poetica. Essa tuttavia non impedì che, nel rispetto dei suoi canoni e delle sue regole, come successe per lo più fino a tuttc il Settecento, o al di fuori di essi, come successe a partire dall'età del Romanticismo, grandi autori elaborassero testi poetici di notevole pregio. Oggi tale codificazione non ha più alcun valore normativo, ma ha ancora una sua utilità: non condiziona più con le sue norme le scelte stilistiche dei poeti, ma permette agli studiosi e ai critici di classificare in modo adeguato i vari testi poetici. Quanto a noi, nelle pagine seguenti, ci occuperemo soprattutto dei testi poetici di genere lirico, e in particolare dei testi lirici propriamente detti, quelli cioè ai quali il poeta preferibilmente affida l'espressione del suo mondo interiore. Quello che diremo, però, vale anche per gli altri generi poetici, specialmente per il genere didascalico. Per il genere epico-narrativo, rimandiamo a quanto si è detto trattando del testo narrativo: infatti, benché sia scritto in versi e sfrutti i modi espressivi della “poesia”, esso racconta dei fatti e riduce anche i sentimenti e gli stati d'animo dei personaggi alle esigenze di questo racconto. La lettura La prima cosa da fare per apprezzare un testo poetico è, come nel caso del testo narrativo, leggerlo e capirlo: capire che cosa dice chi l'ha scritto, infatti,è un'operazione preliminare da cui non si può prescindere, se si vuole poi arrivare a un approfondimento del discorso poetico. Secondo taluni, anzi, leggere il testo poetico per il piacere di leggerlo è non solo la prima cosa da fare, ma addirittura. l'unica. Per potersi permettere questo lusso, però, bisogna avere una grande esperienza di lettura o, semplicemente, bisogna imparare a farlo. La prima cosa da fare, dunque, per comprendere che cosa dice l'autore è leggere il testo poetico e capire: il significato di tutte le parole e di tutte le immagini del testo; il significato globale del testo; che cosa ha inteso dire l'autore. In pratica, per conseguire questi scopi, è opportuno leggere attentamente le note esplicative, se il testo è inserito in un libro annotato, come quelli scolastici, oppure, se il testo è privo di note, controllare sul dizionario tutti i termini e le espressioni che risultano oscure, soprattutto se si tratta di testi poetici che risalgono ai secoli scorsi e, quindi, contengono parole o espressioni disusate, un vero e proprio repertorio di "parole poetiche" oggi incomprensibili. Fino a qui, il lavoro da fare corrisponde a quello che si fa per capire un testo narrativo: ma il testo poetico implica un lavoro ulteriore. Nel testo narrativo, infatti, le parole sono per lo più usate nel loro senso letterale o, con un termine più tecnico, nel loro senso denotativo. Nel testo poetico, invece, le parole sono usate per lo più in senso connotativo e, quindi, concentrano in sé un di più di significato che va al di là del loro significato letterale o addirittura presentano un significato trasposto, metaforico e figurato. E importante perciò interpretare le parole nel giusto senso, cioè decifrare il messaggio preciso di tutte le parole usate in modo particolare e cogliere il significato esatto di tutte le immagini costruite dall'autore. Questo paziente lavoro di lettura e di decodificazione del testo poetico può materializzarsi, almeno per le prime volte, in una parafrasi scritta del testo poetico, cioè nella cosiddetta "versione in prosa" del componimento. lì risultato di questa operazione è, di solito, un brutto testo in prosa in cui il lettore riesce a dire malamente ciò che il poeta ha detto, con un minor numero di parole e con ben altri effetti, nei suoi versi. Ma se la parafrasi è ben fatta, il lettore si trova ad avere in mano il contenuto del testo poetico nella sua globalità e sa che cosa il poeta voleva dire. Il contenuto del testo poetico non è mai univoco La comprensione del contenuto del testo poetico costituisce indubbiamente il livello più semplice e nello stesso tempo più alto della comprensione di un testo. Il contenuto, infatti, coincide in larga misura con il significato del componimento: averlo capito vuole dire aver capito il messaggio del poeta. A questo punto, però, bisogna fare una precisazione: una cosa è capire il significato letterale del componimento e una cosa è capire il suo significato vero. Per cogliere il significato letterale del componimento basta parafrasare il testo, ma questo tipo di conoscenza non è sufficiente a comprendere il vero significato di un testo. Ad essa va aggiunto un lavoro di approfondimento attraverso il ricorso a tutta una serie di elementi extratestnali, di elementi cioè che sono esterni al testo ma che sono strettamente legati ad esso. Bisogna, ad esempio, ricostruire le vicende biografiche del poeta in generale e in rapporto alla stesura del particolare componimento che si vuole esaminare, bisogna ricostruire la sua formazione culturale, le sue letture, le sue preferenze in campo letterario, bisogna ricostruire il contesto storico, sociale, politico e ideologico in cui il componimento in questione è stato concepito e scritto ecc. Solo cosi, il significato del contenuto di un testo apparirà in tutta la sua completezza. Prendiamo, ad esempio, un componimento apparentemente facile come Pianto antico di G. Carducci: G. Carducci, Pianto antico L'albero a cui tendevi la pargoletta mano, il verde melograno da' bei vermigli fior, nel muto orto solingo rinverdì tutto or ora, e giugno lo ristora di luce e di calor. Tu fior de la mia pianta percossa e inaridita, tu de l'inutii vita estremo unico fior, sei ne la terra fredda, sei ne la terra negra; né il sol più ti rallegra né ti risveglia amor. Per capire il contenuto di questo testo, non basta leggerlo e parafrasarlo. La lettura e la parafrasi ci dicono soltanto che il poeta piange la morte prematura di un figlioletto e che egli, di fronte a un così grande dolore, non riesce a rassegnarsi. Se vogliamo capire veramente il significato del componimento anche solo a livello del contenuto, dobbiamo avere qualche informazione circa il figlioletto che il poeta ha perduto, a quanti anni e come è morto; dobbiamo stabilire attraverso le lettere del poeta a parenti e amici e attraverso quanti altri elementi biografici è possibile, che cosa provò l'uomo-Carducci in quell'occasione e verificare se compose la lirica subito dopo la morte del figlio o se lasciò passare del tempo; dobbiamo stabilire da quale autore a lui precedente ricavò l'immagine della natura che annualmente si rinnova e torna alla vita, mentre l'uomo, una volta morto, non può più rinascere; dobbiamo stabilire da quale ideologia venga al poeta una visione così sconfortante della morte ecc. Tuttavia, neanche l'esame approfondito di tutti i possibili elementi extratestuali può dare al lettore la sicurezza di avere veramente capito il testo poetico che ha letto. Anche a quel punto, infatti, il testo poetico conserva qualcosa di non chiarito o, meglio, qualcosa che può essere interpretato e capito in modo diverso da un altro lettore e poi da un altro ancora e così via. Il testo poetico, infatti, è un testo ad alto tasso di ambiguità che presenta una vasta gamma di significati ed è aperto a più interpretazioni. I testi descrittivo-referenziaIi, quelli persuasivi e quelli metalinguistici, tanto per citare alcuni tipi di testo, hanno un unico significato o, al massimo, ammettono un significato apparente e un significato reale. Il testo poetico, invece, per sua na tura, è un testo polisemico, cioè con più significati: il suo contenuto, apparentemen te univoco, si presta infatti a essere interpretato in tanti modi quanti sono i lettori che lo leggono e lo sondano. Ogni testo poetico presenta, ovviamente, un suo significato di base, su cui tutti i lettori si trovano d'accordo, ma, al di là di esso, ogni lettore vi può trovare tanti altri significati particolari, spesso diversissimi, a seconda della sua cultura, della sua sensibilità, delle sue ideologie e del suo modo di porsi di fronte al testo. Si spiega in questo modo come uno stesso componimento di G. Leopardi, ad esempio L'infinito o La quiete dopo la tempesta, possa aver ricevuto, attraverso gli anni, tante interpretazioni che vanno dall'esaltazione più piena alla condanna più o meno velata e che, nel caso dell'esaltazione, segnalano volta per volta aspetti positivi sempre diversi. Il contenuto del testo poetico ha un valore universale La complessità e l'ambiguità del significato non sono però l'unico aspetto caratterizzante il testo poetico sotto l'aspetto del contenuto. Esso, infatti, indipendentemente dal tipo di contenuto che trasmette e che, comunque, è sempre in linea con le esperienze, le emozioni, i desideri e le aspirazioni dell'autore, presenta due altre caratteristiche peculiari che lo differenziano da qualsiasi altro atto comunicativo. Di fatto, sia che interpreti lo stato d'animo dell'autore sia che ne esprima le emozioni, i desideri e le aspirazioni. Il contenuto del messaggio poetico è svincolato da qualsiasi contesto situazionale e, pur avendo precise radici e precise motivazioni personali e individuali, assurge a valori universali, validi per tutti. I normali atti comunicativi rimandano sempre a una situazione ben determinata nel tempo e nello spazio e presuppongono un emittente e un destinatario che, se anche non sono nominati direttamente nel testo, figurano realmente nel contesto in cui la comunicazione avviene. Il messaggio poetico, invece, pur avendo un'origine precisa nel tempo e nello spazio, assume un valore atemporale e assoluto che lo rende valido sempre e dappertutto. Il poeta infatti elimina ogni dimensione temporale e spaziale attraverso: l'uso del tempo presente, che trasferisce ogni evento su un piano temporale avulso da qualsiasi riferimento cronologico: L. Sinisgalli, I fanciulli battono le monete rosse I fanciulli battono le monete rosse contro il muro. (Cadono distanti per terra con dolce rumore...) l'uso di un tempo passato, che rapporta gli eventi non al tempo reale ma al tempo della memoria: G. Pascoli, Àndré No. No. La voce che giunge per l'aria fosca, da terra, come gridi umani era lo strillo della procelleria. l'uso di avverbi di luogo e di tempo generici, che rimandano a un contesto situazionale generico o assente: A. Parronchi, Guardando dalla finestra la madre che torna a casa Ora che il gelo rompe in una lieve follia di rami lucidi che squassa e sveglia dal torpore umido un vento fiducioso, quassù tra muro e muro. l'uso di pronomi dimostrativi, che non rimandano a niente di preciso e, anzi, neralizzano ciò che dovrebbero specificare: G. Ungaretti, Noia Anche questa notte passerà... E. Montale, Arsenio Sul Corso, in faccia al mare, tu discendi in questo giorno... Questa assolutezza delle situazioni temporale e spaziale investe anche l'emittente e il destinatario del messaggio, che, anche quando sono espressamente indicati per nome (io, noi, tu, amico mio, fratel mio, amore mio, Zacinto mia, compagni, Giuseppina, Laura, o sera, pallida luna ecc.), non assumono mai un'unica identità precisa. L’amica citata nel verso M. Luzì, Notizie a Giuseppina dopo tanti anni Che speri, che ti riprometti, amica, non rimanda a un destinatario ma a tutti i possibili destinatari, a tutte le possibili amiche e a nessuna. L'io dei versi seguenti M. Luzi, Come tu vuoi Sono qui, che metto pigne nel fuoco, porgo orecchie al fremere dei vetri, non ho calma né ansia non è legato a una situazione personale e contingente, ma a una situazione umana e universale in cui chiunque può, se vuole, identificarsi, perché è una metafora personalizzata dell'esistenza. Il contenuto del messaggio poetico non è tramite di informazioni pratiche sugli eventi e sulle cose, anche se in virtù della sua indeterminatezza e della sua universalità trasmette un volume di informazioni superiori a qualsiasi altro tipo di contenuto. Il messaggio poetico, infatti, anche quando narra e descrive, non si limita a dare informazioni o notizie: esso suscita, delle cose e degli eventi che narra e descrive, una nuova coscienza che non può essere collocata nello spazio o nel tempo, non può essere attribuita a un emittente preciso o diretta a un destinatario particolare, e non può servire per sapere chi è, cosa faceva o dove si trovava il poeta. Così nel verso: M. Moretti, A Cesena Piove. È mercoledì. Sono a Cesena le informazioni che il poeta dà, per quanto precise e documentate, non hanno nessun valore informativo: individuano e localizzano nello spazio e nel tempo una situazione che potrebbe essere collocata in qualche altra città e un giorno diverso da mercoledì; inoltre il fatto che piova non è in relazione con le condizioni atmosferiche, anche se “quel” mercoledì a Cesena, indubbiamente pioveva, ma con lo stato d'animo del poeta: imposta fin dall'inizio il motivo del grigiore uggioso, penoso c fastidioso che caratterizza l'intero componimento. Queste caratteristiche di atemporalità, aspazialità e imperson~lità fanno sì che il contenuto del messaggio poetico, anche se ricco di precisazioni e di indicazioni temporali, spaziali e personali, assuma valore e significato universali. Inoltre, proprio per queste caratteristiche, a differenza della maggior parte degli altri messaggi che si consumano, invecchiano, perdono di attualità e, quindi, di valore, il messaggio poetico, anche se storicamente datato, continuamente rinnova i suoi significati: è capace di coinvolgere lettori sempre nuovi in sempre nuove interpretazioni ed è fruibile a sempre nuovi livelli. La specificità del testo poetico Nonostante l'importanza e il valore del contenuto e nonostante che il contenuto sia elemento portante del testo poetico, il carattere distintivo del messaggto poetico non è costituito dal contenuto, ma dal modo in cui quel contenuto viene espresso. L'argomento che il testo poetico tratta, infatti, è indissolubilmente legato al modo in cui viene espresso ed è questo modo che costituisce lo specifico della poesia, l'elemento “poetificante" del testo. Va aggiunto che un argomento non è di per sé poetico o impoetico, anche se possono esistere argomenti e quindi contenuti più o melo poetici. I vari argomenti possibili, però, hanno un loro valore e possono essere liberamente utilizzati in testi di vario tipo, per trasmettere messaggi referenziali-denotativi (testi referenziali-denotativi), espressivi-emotivi (testi espressivi-emotivi), persuasivi (testi persuasivi) ecc. Così, l'argomento "Il ritorno del sereno dopo un violento temporale" può essere il contenuto di un testo referenziale-denotativo in cui l'autore si limita a descrivere, in maniera oggettiva, la cosa: Durante tutto il giorno ha piovuto violentemente, con fulmini e tuoni. Ora, però, il temporale è finito e la notte si preannuncia serena. Tutt'intorno, nella campagna, si sentono gracidare le rane e una lieve brezza muove le foglie degli alberi. Durante la giornata il temporale è stato davvero violento, ma adesso la sera appare tranquilla. Lo stesso argomento può fare da contenuto a un testo poetico, come il seguente: G. Pascoli, La mia sera Il giorno fu pieno di lampi; ma ora verranno le stelle, le tacite stelle. Nei campi c'è un breve gre gre di ranelle. Le tremule foglie dei pioppi trascorre una gioia leggera. Nel giorno, che lampi! che scoppi! Che pace, la sera! L'argomento dei due testi, come si vede, è lo stesso e quello che diversifica un testo dall'altro non è il contenuto ma è il modo in cui il contenuto viene espresso. Nel primo testo "Il ritorno del sereno dopo un violento temporale" viene espresso utilizzando la funzione denotativo-referenziale della lingua: l'autore si propone solo di descrivere un fenomeno atmosferico e, quindi, fa ricorso alla prosa e usa una lingua semplice, chiara, lineare e oggettiva. Nel secondo testo, invece, lo stesso argomento viene espresso usando la funzione poetica della lingua: l'autore non vuole soltanto descrivere oggettivamente un fenomeno atmosferico, ma presentano come proiezione di un suo stato d'animo e di una sua personale esperienza emotiva e quindi esprimere il senso di pace e di serenità che è subentrato nel suo cuore, come nella natura, dopo la fine del temporale. Per fare ciò utilizza tutta una serie di elementi tecnici, stilistici ed espressivi, che sono di per sé atti a trasferire l'argomento in una dimensione espressiva diversa da quella descrittivo-referenziale-denotativa. Gli "elementi poetificanti" non costituiscono un tipo di codice linguistico particolare - ad esempio un linguaggio settoriale o specialistico - ma sono solo modi diversi di utilizzare il codice linguistico comune. Il termine di confronto è, perciò, costituito dalla lingua comune e, anzi, si può dire che lo specifico del testo poetico consiste proprio nello scarto della lingua utilizzata dal poeta rispetto alla lingua comune, cioè nella capacità del poeta di evitare la piattezza, la banalità e l'automaticità del livello denotativo della lingua d'uso e di potenziare invece le risorse connotative della lingua stessa, sfruttandole sia sul piano del significante sia sul piano del significato. E poiché la tradizione retorica e letteraria ha provveduto, attraverso i secoli, a codificare lo specifico poetico in convenzioni retoriche, metriche e prosodiche, in figure retoriche e addirittura in parole e immagini poetiche, ogni testo poetico si realizza con uno scarto anche rispetto alla tradizione letteraria. Ogni poeta, infatti, oltre che con la lingua comune, deve confrontarsi con le norme, i moduli e i modelli della tradizione a lui precedente. Messo di fronte ad essi deve scegliere: può accettarli in blocco, modificarli in tutto o in parte o rifiutarli, ma è pur sempre nel loro ambito o in rapporto ad essi che egli opera le sue scelte tecniche ed espressive. È appunto sulla base dello scarto rispetto ad essi e a tutta la tradizione letteraria che si misura l'originalità creativa di ogni autore. La forma e il il significato del testo poetico Per produrre un testo poetico un autore, dopo aver scelto l'argomento, provvede a esprimerlo usando in modo particolare il codice della lingua comune. In questa operazione. egli lavora su due livelli: sul livello del significante, cioè sulla forma delle parole, costruendo - versi; - rime; - ritmi; - suoni e timbri; sul livello del significato delle parole, operando su - le scelte lessicali; - gli accostamenti semantici; - le combinazioni sintattiche delle parole; - le figure retoriche. I due livelli, però, non sono separati l'uno dall'altro. Nel linguaggio poetico il significato globale del messaggio è affidato non solo al significato delle parole, ma anche al significante. cioè a tutti gli elementi del significante che concorrono alla formazione del testo, da quelli metrici a quelli ritmici, da quelli fonico-timbrici a quelli morfosintattici. Così, il rapporto tra significato e significante, convenzionale nella lingua comune, si rinnova nella parola poetica: ogni elemento del significante si semantizza (acquista significato) e diventa parte essenziale del significato globale del messaggio trasmettendo messaggi nuovi e imprevedibili. La peculiarità più cospicua del testo poetico, di fatto, consiste proprio nell'interazione, ai fini del significato, di tutti gli elementi che lo compongono e che possono essere correlati tra loro sia in senso orizzontale, cioè all'interno del medesimo livello, sia in senso verticale, cioè tra livelli diversi. Nelle pagine seguenti analizzeremo nei particolari gli elementi costitutivi del linguaggio poetico sia sul piano del significante sia su quello del significato. Per farlo dovremo smontare il testo poetico e vedere come ognuno di quegli elementi, per suo conto e insieme con tutti gli altri, contribuisce a creare quella struttura unitaria, completa e complessa che costituisce il testo poetico. Il lavoro di manipolazione del codice linguistico che il poeta compie per produrre un testo poetico riguarda il momento della produzione. ma il componimento poetico, una volta finito, non presenta più tracce dl quel lavoro. Per capire in cosa consista tale lavoro, possiamo smontare il testo poetico e ripercorrere il processo di composizione. E possibile, però, avere un'idea generale del lavoro del poeta semplicemente mettendo a confronto due testi che trattano in modo diverso lo stesso argomento. Riprendiamo, ad esempio, in considerazione il testo in prosa in cui veniva svolto, utilizzando la funzione referenzia1e-denotativa della lingua, l'argomento "il ritorno del sereno dopo un violento temporale" e confrontiamolo con il testo, tratto dal componimento La mia sera di G. Pascoli, in cui lo stesso argomento è svolto utilizzando la lingua in funzione poetica. Dal confronto appare chiaro che il poeta, per costruire il suo testo: ha distribuito le parole in unità ritmiche particolari dette versi; ha collegato taluni di questi versi mediante l'identità delle sillabe finali, creando delle rime; ha creato un ritmo particolare all'interno dei singoli versi mediante una distribuzione particolare degli accenti; ha creato un ritmo particolare tra i vari versi sia in virtù dei collegamenti costituiti dalle rime sia variando la lunghezza dell'ultimo verso; ha utilizzato alcune parole più per il loro significante, cioè, nel caso specifico. per il loro suono, che per il loro significato (gre-gre); ha scelto e accostato parole per produrre, attraverso il significato, particolari effetti sonori ("un breve gre-gre di ranelle"); ha spezzato l'ordine sintattico normale nella prosa, posponendo di frequente il soggetto al predicato ("verranno le stelle") e anche al complemento oggetto ("Le tremule foglie dei pioppi/trascorre una gioia leggera"); ha sostituito al ritmo lineare della prosa un ritmo nuovo che coincide non più con gli accenti tonici delle parole ma con gli accenti ritmici dei versi e ha spezzato strutture sintattiche omogenee con frequenti a capo che hanno isolato l'uno dall'altro elementi costitutivi della stessa frase: così, nei versi 5-6, il complemento oggetto "le tremule foglie dei pioppi,” oltre che anticipato rispetto al soggetto e al predicato, è isolato dal suo predicato e dal soggetto; ha scelto parole di un registro ora letterario ("tacite") ora familiare ("lampi", "ranelle"); ha accostato l'una all'altra parole che sul piano del significato non hanno nessun rapporto logico, allo scopo di creare, attraverso la straordinarietà dell'accostamento, una sorta di cortocircuito semantico-concettuale che dà luogo a un'immagine originale e pregnante: "le tacite stelle" (le "stelle" di solito sono "luminose, brillanti, lontane, infinite" e simili: qualificandole come "tacite", il poeta non solo attribuisce alle stelle una qualità che le configura come silenziose abitatrici dei cieli, ma inserisce nel componimento l'idea del silenzio che crea l'atmosfera di serenità e di pace della sera in contrapposizione ai "lampi" e agli "scoppi" del dì); ha adattato una rarità lessicale-semantica, utilizzando il verbo trascorrere in senso transitivo; ha innervato il testo di ripetizioni ad effetto: "... ma ora verranno le stelle / le tacite stelle..."; ha costruito parallelismi ad effetto: "Nel giorno, che lampi, che scoppi / Che pace la sera". Si vedano da vicino i due testi e se ne valuti la differenza: Durante tutto il giorno ha piovuto Il giorno fu pieno di lampi; violentemente con fulmini e tuoni. ma ora verranno le stelle, Ora però il temporale è finito e la not- le tacite stelle. Nei campi te si preannuncia serena. Tutt'intor- c'è un breve gre-gre di ranelle. no, nella campagna, si sentono graci- Le tremule foglie dei pioppi dare le rane e una lieve brezza muo- trascorre una gioia leggera. ve le foglie degli alberi. Durante la Nel giorno, che lampi! che scoppi! giornata, il temporale è stato davvero Che pace, la sera! violento, ma adesso la sera appare tranquilla. Il piano del significante. Il livello metrico-ritmico: il verso, le strofe e le rime. Il primo livello di analisi riguarda gli aspetti metrico-ritmici, che costituiscono gli elementi caratterizzanti del testo poetico rispetto agli altri testi letterari. Perciò, individuato il genere letterario e chiarito il significato del componimento stesso, bisogna individuare, riconoscere e valutare gli elementi che, a livello metrico-ritmico, concorrono in maniera determinante alla formulazione e alla trasmissione dell'argomento del messaggio poetico: il tipo di verso scelto dal poeta; il sistema delle strofe in cui i versi si riuniscono; lo schema delle rime, quando ci sono. Il poeta, tra le tante possibilità che la tradizione gli offre, sceglie il tipo di verso, di strofa e di rima in rapporto a: il genere letterario in cui il componimento che intende scrivere si inserisce; il particolare effetto espressivo che vuole conseguire. Per quello che riguarda il genere letterario del componimento, la scelta di verso, strofa e rime fino a quasi tutto l'Ottocento era obbligata. La tradizione letteraria, infatti, aveva fissato una stretta corrispondenza tra genere e struttura metrica: così, l'endecasillabo organizzato in ottave era il verso della poesia epico-cavalleresca l'endecasillabo organizzato nell'ambito del sonetto il verso della lirica pura, l'endecasillabo sciolto il verso della lirica civile e didascalica e così via. Fino a quasi tutto l'Ottocento, dunque, salvo rare eccezioni, i poeti si sono attenuti ai vincoli imposti dai modelli. Con la fine dell'Ottocento, però, allo sbocco di una operazione di rinnovamento avviata da Giacomo Leopardi e continuata più tardi da Ciiosuè Carducci, si è arrivati non soltanto al superamento dell'automatismo del rapporto genere letterario-tipo di verso, ma anche alla dissoluzione degli schemi tradizionali dei versi, delle strofe e delle rime, con l'introduzione ad opera di Gabriele d'Annunzio del verso libero e con l'acquisizione, ad opera degli autori novecenteschi, di una pressoché totale libertà di organizzazione che, apparentemente priva di regole, trova le sue regole volta per volta, all'interno delle esigenze espressive di ogni singolo componimento. Per quello che riguarda invece la scelta, da parte del poeta, del tipo di verso, di strofa e di rime da usare a seconda dell'effetto che egli intende conseguire, il problema è più complesso e richiede un esame più approfondito. Il verso Il verso è il primo, anche se non l'unico, elemento formale che caratterizza un testo poetico ed è senz'altro il più evidente: l'effetto ottico di quelle righe, più o meno brevi, che non raggiungono quasi mai il margine laterale della pagina e lasciano ampi spazi bianchi, è indubbiamente una componente essenziale del testo poetico e, anzi, è il fondamento stesso dell’effetto poesia Esso è anche l'elemento minimo del testo poetico e, in quanto tale, va analizzato nei suoi aspetti tecnici, nei suoi rapporti con gli altri elementi del testo e soprattutto nei suoi riflessi sull'intero testo. Dal punto di vista tecnico, il verso è una struttura formata da un certo numero di sillabe e caratterizzata da un'alternanza di sillabe accentate e di sillabe atone e dalla presenza di una pausa principale alla fine e da una o più pause interne, o cesure. In base al diverso numero di sillabe e alla diversa distribuzione degli accenti e delle cesure, si possono avere più tipi di versi, ciascuno dei quali prende il nome dal numero delle sillabe che lo compongono: binario, ternano, quaternario, quinario, senario, settenario, ottonario, novenano, decasillabo, endecasillabo. Ogni verso della tradizione poetica italiana deve la sua specificità ritmica alla particolare combinazione tra il numero delle sillabe che lo costituiscono e la posizione degli accenti e delle cesure che caratterizzano le sillabe stesse. Il numero dclle sillabe Il numero delle sillate non solo determina i vari tipi di versi, ma scandisce in maniera diversa il discorso poetico. Il poeta, infatti, può scegliere, a seconda delle sue esigenze e a seconda degli effetti che vuole produrre, tra una vasta gamma di possibilità che spaziano dalla brevità dei ternari: A. Palazzeschi, La fontana malata Andate, correte, chiudete la fonte, mi uccide quel suo eterno tossire! alla lunghezza del dodecasillabo, o doppio senario: A. Manzoni, Adelchi Dagli atrii muscosi, dai Fori cadenti, dai boschi, dall'arse fucine stridenti, dai solchi bagnati di servo sudor, un volgo disperso repente si desta. L'accento ritmico L'accento ritmico o ictus che colpisce, a seconda dei versi, alcune sillabe piuttosto di altre, determina una musicalità particolare. Infatti, nonostante tutte le sillabe abbiano un valore musicale, le sillabe colpite dall'accento ritmico acquistano un rilievo particolare. Ciò comporta non solo l'individuazione di certe parole invece di altre all'interno del verso, ma anche la costruzione di una sequenza ritmica musicale che, per forza di cose, comporta uno scarto rispetto alla normale accentazione affidata all'accento tonico: ne nascono, di conseguenza, uno scarto rispetto all'intonazione di un testo in prosa e un vario rapporto di modulazione all'interno del verso stesso, dovuto anche al diverso ordine con cui le parole sono distribuite nel verso rispetto all'ordine che avrebbero nella prosa. Si osservi, ad esempio, la differenza sul piano del ritmo tra la seguente frase in prosa: La notte è dolce e chiara e senza vento, e la luna si posa quieta sopra i tetti e in mezzo agli orti. e i corrispondenti versi del componimento leopardiano: G. Leopardi, La sera del dì di festa Dolce e chiara è la notte e senza vento, e quieta sopra i tetti e in mezzo agli orti posa la luna... Le cesure e I'enjambemeut Anche le cesure, cioè le pause che caratterizzano i versi, segnando un'alternanza di suoni e di silenzi, hanno un grande valore ai tini del particolare ritmo del verso. Esse si presentano in una grande varietà di tipi, che offrono al poeta un'altrettanto ampia possibilità di scelta, a seconda delle sue esigenze espressive. Così, le pause ritmiche interne, o cesure, costituiscono uno dei più importanti elementi di variazione ritmica. Esse, infatti, dal punto di vista strutturale, possono, con effetti diversi anche ai fini del senso del componimento: coincidere con le pause sintattiche e semantiche segnate dalla punteggiatura: M. Moretti, A Cesena Piove. È mercoledì Sono a Cesena. I contraddire le pause sintattiche o semantiche segnalate dalla punteggiatura o dal senso, per creare un ritmo nuovo e per mettere in evidenza elementi o parti significativamente importanti del verso: U. Saba, La capra per cella, poi, perché il dolore è eterno Ben più rilevanti di quelli della pausa interna, sono gli effetti prodotti nel testo poetico dalla pausa ritmica primaria che coincide con la fine del verso e che, proprio perché delimita i versi separandoli gli uni dagli altri e determinando dopo ogni verso l'a capo, costituisce uno degli aspetti caratterizzanti il testo poetico. Nella prosa, infatti, l'unità minima del testo è costituita dalla frase, cioè da una struttura sintatticamente e logicamente completa, compresa tra due punti fermi e scandita al suo interno da pause regolate dalla punteggiatura. lì punto fermo finale, ad esempio, delimita, imponendo una pausa prolungata e spesso una lunga battuta d'arresto, una frase di senso compiuto: Piove a dirotto: dammi un ombrello. Nella frase in questione, la suddivisione del testo suggerita dalla sintassi e dalla punteggiatura coincide con la suddivisione legata al significato della frase e la scansione ritmica del testo potrebbe essere evidenziata in questo modo: Piove a dirotto: dammi un ombrello. Nel testo poetico, invece, l'unità minima non è costituita dalla frase, ma dal verso e la pausa metrica determinata dalla fine del verso non coincide sempre e necessariamente con la pausa logica, sintattica e semantica, cioè con la pausa segnata dalla punteggiatura o dal senso. Ad esempio, la frase precedente, in poesia potrebbe essere scandita, oltre che nel modo normale, anche così: Piove a dirotto: dammi un ombrello oppure: Piove a dirotto: dammi un ombrello oppure: Piove a dirotto: dammi un ombrello. Mentre nella prosa, dunque, regna il parallelismo tra sintassi, punteggiatura, senso e ritmo, nel testo poetico questo parallelismo può essere rotto ogni volta che il poeta ritiene opportuno romperlo per produrre tutti gli effetti che desidera, cioè per creare ritmi nuovi, per mettere in evidenza una parola rispetto ad altre, isolandola con un a capo, per stabilire parallelismi interni ai vari versi ecc. Così, nella prima scansione ritmica del nostro esempio, l'autore evidenzia, staccandola dalle altre parole e isolandola in un verso, la parola "un ombrello"; nella seconda scansione evidenzia, invece, a dirotto e nella terza crea addirittura un parallelismo tra i due. blocchi sintattico-semantici del testo allineando i due predicati (Piove / dammi) e le loro due determinazioni (a dirotto / un ombrello). Insomma, qualunque sia il tipo di verso, nel testo poetico la struttura ritmica libera la frase dall'ubbidienza all'ordine logico-sintattico della prosa, dove le pause sintattiche coincidono con le pause del pensiero, e suggerisce un'altra scansione ritmica, fondata su presupposti del tutto diversi e assolutamente imprevedibili. Ciò è essenziale ai fini della costruzione di un testo poetico, non perché basta di per sé a trasmettere un messaggio poetiéo (il testo del nostro esempio, quello della pioggia a dirotto e dell'ombrello, non è un testo poetico, nonostante la “forma” poetica), ma concorre in maniera determinante a crearlo. Infatti, può: far diventare suggestivo, attraverso la rottura della sequenza ordinaria delle parole, un messaggio di tipo descrittivo-referenziale. Si veda, ad esempio, come Salvatore Quasimodo trasformi un argomento di per sé prosastico, e per di più espresso in un linguaggio cronachistico di tipo descrittivo-referenziale, in un testo poetico, semplicemente rompendo nei versi il parallelismo tra le unità metriche costituite dai versi e le unità morfologiche e sintattiche della prosa: S. Quasimodo, Notizia di cronaca Claude Vivier e Jacques Sermeus, già compagni d'infanzia d'alti muri in un orfanotrofio, freddamente a colpi di pistola, senza alcuna ragione uccisero due amanti giovani in un'auto ferma al parco di Saint Cloud lungo il viale della Felicità sul calar della sera del ventuno dicembre millenovecentocinquantasei. modificare e ricostruire liberamente il senso del diiscorso, ora dilatandolo entro il confine del verso, ora restringendolo all'interno ditale confine, sottolineando certe parole piuttosto che altre, moltiplicando le ambiguità semantiche del testo e creando un continuo contrappunto di convergenze e di divergenze, di parallelismi e di contrasti e, quindi, dando corpo a un discorso che nel suo stesso fluire si carica di significati diversi, impossibili da esprimere in qualsiasi altra forma. In particolare, la struttura sintattica e semantica del discorso puo coincidere con la scansione del verso: E. Montale, Cigola la carrucola nel pozzo Cigola la carrucola nel pozzo, l'acqua sale alla luce e vi si fonde. Trema un ricordo nel ricolmo secchio, nel puro cerchio un'immagine ride. - occupare una parte più piccola del verso, in modo da frammentare il verso e creare pause interne, spazi di silenzi e indugi ritmici: G.. D'Annunzio, Consolazione Vieni, usciamo. Tempo è di rifiorire. Troppo sei bianca: il volto è quasi un giglio. - superare i confini del verso: è questo, almeno a partire dal XVI secolo, il caso più frequente nella lirica e dà luogo a effetti particolari. Di fatto, il superamento del limite di fine verso da parte di un nesso sintattico che prosegue nel verso successivo - detto enjambement con parola francese e, in italiano, marcatura o accavallamento viene usato sia per ampliare e dilatare il senso del verso, creando una fluidità ritmica che modifica la rigidità della scansione usuale dei versi, come nel seguente passo: G. Leopardi, L’infinito Ma sedendo e mirando, interminati spazi di là da quello, e sovrumani silenzi, e profondissima quiete io nel pensier mi fingo;... sia per dare al testo un andamento prosastico, come nel seguente passo: U. Saba, Ritratto della mia bambina Ed io pensavo: Di tante parvenze che s'ammirano al mondo, io ben so a quali posso la mia bambina assomigliare. Certo alla schiuma, alla marina schiuma che sull'onde biancheggia... La pausa di fine verso che di solito divide sequenze sintattiche complesse può separare anche termini strettamente legati sul piano morfologica e semantica. In questo caso, l'enjambement è particolarmente sensibile e ha l'effetto di conferire alle parole interessate un rilievo che altrimenti non avrebbero. Si veda, ad esempio, come nei versi seguenti la pausa ritmica di fine verso separi, evidenziandoli, il sostantivo e l'aggettivo ad esso attribuito: C. Sbarbaro, Padre se anche tu non fossi il mio Padre, se anche tu non fossi il mio padre, se anche fossi a me un estraneo, per te stesso egualmente t'amerei. Nell'esempio seguente, invece, l'enjambement separa addirittura il nesso preposizione-sostantivo: G. Pascoli, Commiato Crescono l'ombre e il silenzio sulla terra, nel cielo, nel cuore mio, per tutto. La manipolazione della struttnra dei versi a fini espressive Le variazioni ritmiche che il poeta può creare, sfruttando le molteplici possibilità di combinazione tra il numero delle sillabe e la posizione degli accenti e delle pause, sono numerosissime. Ad accrescerle ulteriormente e a consentire la creazione di un numero praticamente infinito di modelli ritmici, funzionali a tutte le esigenze espressive, interviene poi il fatto che le posizioni degli accenti ritmici e delle cesure non sono fisse, ma ammettono numerose varianti. Inoltre, numerose figure retoriche (l'elisione, la sinalèfe, la dialèfe, la dièresi, la sinèresi, la diàstole e la sinafìa) possono modificare anche il numero delle sillabe di un verso, accelerando o rallentando il ritmo del verso stesso e mettendo in evidenza le parole portatrici di accento ritmico. Tutto ciò non vale solo per i versi tradizionali. Anche i cosiddetti versi liberi dei testi poetici del Novecento che rifiutano gli schemi ritmici tradizionali ubbidiscono in realtà ciascuno a un proprio preciso schema ritmico, anch'esso funzionale alle esigenze espressive dell'autore e anch'esso significativo agli effetti del senso. Così la canzone leopardiana (ad esempio, A Silvia o Il sabato del villaggio) è solo apparentemente priva di vincoli ritmici. In realtà, la sua struttura ritmica metrica, se non è riconducibile a nessun modello preesistente, non è meno costruita e sorvegliata della struttura della più rigida e tradizionale canzone petrarchesca: ogni canzone leopardiana, infatti, ubbidisce a uno schema metrico-ritmico che opera solo in essa ed è valido solo per essa, ma che non è per questo meno perfetto, rigido e vincolato, pur nella sua assoluta libertà, di quello dei modelli petrarcheschi. La stessa cosa vale per le cosiddette strofe lunghe di Gabriele D'Annunzio: una strofa che sembra sgorgare sempre diversa e sempre nuova in un fluire sempre diverso e sempre nuovo di versi liberi, ma che in realtà è governata da leggi ritmiche ben precise, valide componimento per componimento, e che ogni volta dà attuazione a un progetto ritmica strettamente aderente alle esigenze espressive del poeta. Si veda, a mo' di esempio, Lo pioggia nel pineto: : Taci. Su le soglie del bosco non odo parole che dici umane; ma odo parole più nuove che parlano gocciole e foglie lontane. Ascolta. Piove dalle nuvole sparse. Piove su le tamerici salmastre ed arse, piove su i pini scagliosi ed irti, piove su i mirti divini, su le ginestre fulgenti di fiori accolti, su i ginepri folti di coccole aulenti, piove su i nostri vilti silvani, piove su le nostre mani ignude, su i nostri vestimenti leggeri, su i freschi pensieri che l'anima schiude novella, su la favola bella che ieri t'illuse, che oggi m'illude, a Ermione. Come si vede, la rottura dei modelli ritmici tradizionali e la disgregazione dei relativi versi regolari non hanno abolito la funzione ritmico-musicale dei versi: l'hanno soltanto modificata, conferendole talora una maggior ricchezza e, come ha osservato D.J. Tynjanov, nei testi poetici del Novecento, al metro come sistema è stato sostituito il metro come principio dinamico. Il poeta, dunque, può a seconda delle sue esigenze espressive, produce tutti gli effetti ritmico-musicali che vuole. Per ottenerli, gli basta manipolare opportunamente il numero delle sillabe dei versi, e costruire versi brevi o lunghi; la distribuzione degli accenti ritmici, e costruire versi lenti a veloci; la distribuzione delle cesure, e creare versi ritmati di pause più a meno lunghe e più o meno numerose; il rapporto tra l'unità metrica del verso e l'unità logico-sintattica costituita dalla due unità coincidono o versi fitti di enjambements. Si osservi, ad esempio, come nei seguenti endecasillabi, la semplice variazione della posizione degli accenti e delle cesure e la diversa lunghezza e frequenza delle parole producano volta a volta un ritmo: rapido e spezzato: ed el sen gì / come venne veloce (Dante) intimo e colloquiale: Vieni, usciamo. Tempo è di rifiorire (G.. D'Annunzio) lento e pausato: Lenta e rosata sale su dal mare la sera di Liguria (V. Cardarelli) dilatato e violento, quasi come un grido: La luce era gridata a perdifiato (L. Sinisgalli) disteso e amaro: La mia pena è durare oltre quest'anno (M. Luzi) aperto e quasi sciolto: d'altre valli profuse d'altro vento (A.. Parronchi) faticoso e aspro: era il rivo strozzato che gorgoglia (E. Montale) E se tanta varietà può caratterizzare un solo verso, pur ricco come l'endecasillabo, è facile immaginare quante sono le risorse che i vari versi della tradizione poetica italiana mettono a disposizione degli autori dei testi poetici. La strofe Nel testo poetico, i versi non hanno vita isolata, ma fanno parte di un insie me in cui, pur conservando ciascuno la propria specificità ritmico-musicale, trovano la loro vera dimensione sia ritmica sia musicale, oltre che logico-concettuale. Di fatto, se per comodità di analisi, è necessario esaminare singoli versi isolati, non bisogna dimenticare che, sul piano ritmico come sul piano semantico, un verso ha senso soprattutto in rapporto ad altri versi. Un insieme di versi, dotato di senso compiuto e fornito di una sua autonomia ritmico-musicale, è chiamato strofa. Premesso che un testo poetico può essere costituito da una o da più strofe, le strofe possono essere: costruite su schemi ritmici rigidi, che sono stati codificati dalla tradizione letteraria, come. la terzina, la quartina, la sestina, l'ottava, che hanno una struttura ritmica fissa pur nella sua ricchezza di varianti e che a loro volta si organizzano in strutture più ampie, che prendono il nome di metri, come il sonetto, la canzone, la ballata ecc. La forza della tradizione letteraria e la perfezione acquisita da queste strutture sono tali che, in talune forme strofiche, come la terzina dantesca o l'ottava di Ludovico Ariosto, o in alcune forme metriche, come il sonetto o la canzone di Francesco Petrarca, si realizza una così stretta convergenza tra schema ritmico e contenuto, che forma e contenuto, significante e significato formano un tutt'uno inscindibile. organizzate in schemi ritmici assolutamente originali che, anziché rifarsi a modelli preesistenti, si costituiscono in strofe in maniera autonoma, attraverso un libero gioco di ripetizioni, di porallelismi, di rime, di assonanze, di consonanze, di richiami interni che formano una fitta trama di rimandi fonico-ritmici significativi anche a livello semantico. È il caso delle già citate strofe della canzone libera leopardiana e della strofa lunga di certi testi poetici dannunziani: strofe che, come abbiamo già osservato, possono parere svincolate da qualsiasi norma e che invece sono regolate, volta per volta, da norme e vincoli rigidissimi, al cui rispetto esse debbono, oltre alla loro misura, anche gli effetti ritmici di cui sono portatrici. Il poeta può scegliere tanto di organizzare i suoi versi nelle strofe rigide della tradizione, quanto, come succede di solito dalla fine dell'Ottocento, nelle strofe libere da ogni vincolo apparente. La sua scelta sarà di per sé indicativa del tipo di componimento che intende produrre e il lettore, in sede di analisi, non avrà difficoltà a valutano. Nei secoli scorsi, tra l'altro, quando i poeti si orientavano verso le strutture chiuse della tradizione letteraria, l'adozione di un tipo di strofa o di metro era di per sé condizionata anche dal tipo di argomento che si voleva trattare: l'ottava era la strofa della poesia epico-cavalleresca, la terzina di Dante della poesia satirica, il sonetto della lirica e così via. Nel caso dei testi poetici del passato, quindi, il lettore ha anche la possibilità di stabilire, fin dalla scelta del sistema strofico e metrico operata dal poeta, il genere letterario e l'argomento in cui il poeta ha deciso di cimentarsi. lì compito e il pregio dell'analisi del lettore consisteranno poi nel valutare non soltanto il risultato che il poeta ha ottenuto in rapporto al tipo di strofa e di metro prescelti, ma anche il grado di convergenza o di divergenza del poeta rispetto ai modelli della tradizione. Così, il poeta che nel Cinquecento o nel Seicento voleva comporre un poema di argomento epico-cavalleresco non poteva non adottare l'ottava di Ludovico Ariosto. Di conseguenza, il lettore che si imbattesse in un testo del Cinquecento o del Seicento composto in ottave può ben desumere che il testo in questione sia un poema di argomento epico-cavalleresco. A quel punto gli toccherà solo analizzare come il poeta ha utilizzato le infinite risorse ritmico-espressive dell'ottava. La rima Gli aspetti ritmici del testo poetico sono per lo più rinforzati e amplificati anche da un altro elemento, di carattere fonico più che metrico: la rima. La rima consiste nella perfetta identità di suoni tra la parte finale di due parole a partire dall'ultima sillaba accentata e di solito marca la fine dei versi sottolineando tutti i caratteri della scansione in versi del testo poetico: G. D'Annunzio, Romanza Dolcemente muor Febbraio in un biondo suo colore. Tutta a 'I sol, come un rosaio la gran piazza aulisce in fiore La rima, però, può anche trovarsi all'interno di un verso: si parla allora di rima interna e, se coincide con la cesura principale del verso, di rima al mezzo: G. Leopardi, La quiete dopo la tempesta Passata è la tempesta: odo augelli far festa, e la gallina, Propriamente, quindi, la rima è un fenomeno fonico usato in funzione ritmica e, come tale, è usata dai poeti in una vasta gamma di combinazioni (rima baciata, alternata, incrociata, incatenata; rima derivata, equivoca, ipèrmetra. Ad esempio, l'uso di rime molto ravvicinate, specialmente in versi brevi, produce un ritmo molto celere e festoso, quasi cantilenante: G.. Giiusti, La Chiocciola Viva la Chiocciola, viva una bestia che unisce il merito alla modestia. Essa all'astronomo e all'architetto forse nell'animo destò il concetto del cannocchiale e delle scale. Viva la Chiocciola, caro animale. La rima, però, non ha soltanto una funzione ritmica e non si limita a produrre effetti di suono: infatti, poiché le parole che congiunge, attraverso l’uguaglianza di suoni, sono provviste, oltre che di un significante, di un significato, la rima attraverso l'uguaglianza del suono, congiunge anche i significati delle parole stabilendo un rapporto tra di esse che può essere di affinità o di opposizione. Si vedano, ad esempio, le prime due quartine di un sonetto di Ugo Foscolo: U. Foscolo, Alla Sera Forse perché della fatal quiete tu sei l'immago, a me si cara vieni, o Sera! E quanto ti corteggian liete le nubi estive e i zeffiri sereni, e quando dal nevosa aere inquiete tenebre e lunghe all'universo meni sempre scendi invocata, e le secrete vie del mio cor soavemente tieni. Come si vede, le rime collegano dapprima due parole di significato affine come "quiete" e "liete", poi collegano queste due parole con una parola di significato opposto, "inquiete”, sottolineando l'antitesi. Oltre che per avvicinare parole di significato diverso, la rima viene usata anche per mettere in evidenza alcune parole piuttosto che altre. La parola-rima, infatti, è, di per sé, la parola più importante di ogni verso, perché è quella su cui cade tutta la tensione ritmica-sonora del verso: l'autore, perciò, sfrutta l'importanza ditale posizione collocando in rima di volta in volta le parole più importanti anche dal punto di vista concettuale. Così, i poeti stimovisti del XIII secolo mettono in rima in fine di verso, e quindi collegano tra di loro, quelle che sono le parole-chiavi del loro linguaggio poetico: cuore e Amore: G. Cavalcanti, Voi che per li occhi mi passaste il core Voi che per li occhi mi passaste il core e destata la mente che dormia, guardate a l'angosciosa vita mia che sospirando la destrugge Amore Così, Giacomo Leopardi pone alla fine di tutte le sei strofe del Canto nottumo di un pastore errante dell'Asia sei parole che rimano in -ale: così facendo, il poeta non solo collega tra di loro, con l'identità della rima finale, le sei strofe, ma disloca, in quella che è una delle sedi più significative del componimento, quattro parole di grande importanza ai fini del significato del componimento: "(corso) immortale", "(vita) mortale", "(la vita) è male", "(è funesto a chi nasce il di) natale Allo stesso modo, Giovanni Pascoli, nella lirica La mia sera, chiude tutte e cinque le strofe in cui si articola il componimento su quella che è la parola-chiave del componimento: "sera". La rima, infine, può anche costituire un fatto di poetica, cioè individuare e caratterizzare un modo particolare di concepire la poesia e la sua funzione. Dante, per esempio, affida alle rime 'aspre" e difficili il compito di esprimere, insieme al ritmo martellante e incessante imposto dalle frequenti rime baciate, il senso della asprezza e della insensibilità della donna che ama: Dante, Così nel mio parlar voglio essere aspro Così nel mio parlar voglio essere aspro com'è nell i atti questa bella petra, la qual ognor impetra maggior durezza e più matura cruda, e veste sua persona d'un diaspro tal che per lui, o perch'ella s'arretra non esce di faretra saetta che già mai la colga ignuda. Umberto Saba, invece, individua nelle rime facili, come la banale e abusata rima "fiore/amore", il simbolo della sua attività letteraria, incentrata sui valori della tradizione e sulla fedeltà alle cose semplici e frutto di una scelta tutt'altro che "facile": U. Saba, Amai Amai trite parole che non uno osava. M'incantò la rima fiore amore, la più antica, difficile del mondo. Giorgio Caproni, infine, individua nelle rime "chiare" 'in -are", quelle più consone al proprio mondo poetico e, di fatto, con le sue rime piane, dal suono aperto e di facile rispondenza, prende le distanze da ogni pretesa eroica e mitizzante per dare libero sfogo alla sua visione cordiale, aperta e familiare della vita: G. Caproni, Per lei 'i-, Per lei voglio rime chiare, usuali: in -ore. Rime magari vietate, ma aperte, ventilate. Rime coi suoni tini: (di mare) dei suoi orecchini. O che abbiano coralline le tinte delle sue collanine. I poeti dei secoli scorsi preferivano usare strutture poetiche a rime fisse, come il sonetto, la canzone, la ballata, l'ottava e simili. Con Giacomo Leopardi e, in generale, con l'Ottocento romantico, gli schemi strofici a rime fisse hanno lasciato il posto, come si è visto, a strutture libere, in cui il poeta collega i versi mediante una rete di rime che ubbidisce volta per volta soltanto alle sue esigenze espressive. L'esempio più significativo è ancora una volta Ciiacomo Leopardi che innerva i suoi componimenti poetici di fitti richiami ritmico-musicali, collocando rime e assonanze in modo del tutto libero eppure preciso e, comunque, immodificabile. Si veda, ad esempio, nei versi seguenti la rima in -ivi G. Leopardi, A Silvia Silvia, rimembri ancora quel tempo della tua vita mortale, quando beltà splendea negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi, e tu, lieta e pensosa, il limitare di gioventù salivi? e poi ritorna come richiamo musicale e concettuale allo stesso tempo, molti versi più avanti: degli sguardi innamorati e schivi né teco le compagne ai dì festivi Alla fine dell'Ottocento, poi, i poeti hanno creato il verso libero, privo di qualsiasi ricorrenza fissa di rime, ma, come si è visto a proposito dei componimenti di Gabriele D'Annunzio, ricchissimo di rime. Da ultimo, molti poeti contemporanei hanno rifiutato in blocco le rime, che considerano le prime responsabili della banalità e dell'inadeguatezza della poesia italiana tradizionale. Esse, però, rifiutate a parole, finiscono sempre per far capolino anche nei versi di questi poeti, più o meno volutamente dissimulate in un complesso gioco di rimandi musicali, di quasi rime, di assonanze e di consonanze. Si veda, ad esempio, come Eugenio Montale, che pure ne fa un abilissimo uso, sfruttandone tutte le risorse espressive, le condanni come noiose e dica che noiì c'è proprio modo di liberarsi di esse: E. Montale, Le rime Le rime sono più noiose delle dame di San Vincenzo: battono alla porta e insistono. Respingerle è impossibile e purché stiano fuori si sopportano. Il poeta decente le allontana (le rime), le nasconde, bara, tenta il contrabbando. Ma le pinzochere ardono di zelo e prima o poi (rime e vecchiarde) bussano ancora e sono sempre quelle. Il piano del significante: gli elementi fonico-timbrici Diversamente dal linguaggio comune, il linguaggio poetico, dunque, può dare significato anche al significante. Le rime, come il numero delle sillabe, gli accenti e le cesure del verso, però, non sono gli unici elementi di cui il poeta si avvale per produrre effetti ritmici che attraverso il significante coinvolgono anche il significato. lì poeta, infatti, tende a sfruttare le forme di semantizzazione proprie del linguaggio poetico dando un significato anche ai vari suoni delle parole: in pratica tende a scegliere e a distribuire nel testo le parole in modo tale che esse contribuiscano a produrre effetti sonori che siano fruibili non solo a livello musicale, cioè sul piano del significante, ma abbiano anche una funzione espressiva, cioè arricchiscano il significato delle parole e contribuiscano, anche attraverso i suoni di cui sono portatori, a fornire un di più di significato al testo. L'elemento fonico che più di ogni altro si presta a offrire materiale sonoro per questa operazione è il titnbro delle parole. lì timbro di una parola è il "colore" del suono della parola stessa e, come è ovvio, dipende dalla diversa qualità dei suoni che la compongono. Così, una parola costituita da suoni cupi e chiusi è una parola di timbro cupo: upupa, ululato; una parola costituita da suoni aperti e chiari ha un timbro aperto e luminoso: serenità, fiumana. I modi in cui il poeta può manipolare il diverso timbro delle parole a scopi espressivi sono vari. Egli infatti può ottenere effetti particolari: allineando nel verso una serie di parole in cui ritorna, con una frequenza superiore alla media, un certo suono in modo da produrre effetti ora gradevpli ora sgradevoli. Così, nei seguenti versi, la successione di parole ricche prima di r (vv. 1-2) e poi di u (vv. 3-9) sottolinea gli aspetti macabri, lugubri e cupi del desolato paesaggio descritto: U. Foscolo, Dei Sepolcri Senti raspar tra le macerie e i bronchi la denelitta cagna ramingando su le fosse e famelica ululando; e uscir del teschio, ove fuggia la luna, l'upupa, e svolazzar su per le croci sparse per la funerèa campagna e l'immonda accusar col luttuòso singulto i rai di che son pie le stelle alle obliate sepolture... Allo stesso modo, Giovanni Pascoli affida a parole di timbro aperto, limpide e squillanti, il compito di suggerire, anche attraverso il significante, la musicalità del canto di un pettirosso: G. Pascoli, Arano nelle siepi s'ode il suo sottil tintinno come d’oro. cioè il fischio improvviso di una locomotiva a vapore: ripetendo in posizione ravvicinata gli stessi nomi o le stesse parole. In questo caso gli effetti espressivi variano a seconda dei suoni e delle parole ripetute. Così, nel verso seguente, Giosuè Carducci affida anche al timbro delle parol il compito di esprimere quello che le parole già esprimono con il loro significato, G. Carducci, Alla stazione in una mattina d'autunno gitta il fischio che sfida lo spazio Giovanni Pascoli, invece, affida alla ripetizione delle medesime parole il compitc di accentuare il senso di sospesa lentezza che caratterizza una tranquilla nevicata invernale (e nel secondo verso, il rovesciamento del costrutto, con la collocazione del soggetto la neve" all'inizio del verso, e la sostituzione della parola ripetuta a fine di verso - "lenta" e non più "fiocca" - aumentano i valori semantici de suoni): G. Pascoli, Orfano Lenta la neve fiocca, fiocca, fiocca. […] La neve fiocca lenta, lenta, lenta. accostando parole brevi, battute da accenti regolari. Così l'uso di soli bisillabi piani dà al seguente verso di A. Serristori non solo un nt mo rapido e incalzante, ma suggerisce anche fonicamente il battito di un cuore A. Serristori, Inno Bàtte fòrte il cuòre in pétto accostando parole assonanti, cioè parole che hanno le vocali finali identi che. Così, nel seguente verso di Ciiovanni Pascoli, l'identità dei timbri vocali chiusi o in due parole vicine suggerisce, anche a livello fonico, l'idea del cupo rimbomb di un tuono: G. Pascoli, Il tuono rimbombò, rimbalzò, rotolò cupo. accostando parole consonanti, cioè parole che hanno le consonanti fina; identiche. Così, nel seguente verso di A. Serristori, l'identità delle consonanti tra le due ultime parole sottolinea l'impressione di immediatezza che l'apparizione delle stelle nel cielo sereno suggerisce al poeta: A. Serristori, Notturno nel cielo sereno improvvisa brilla la stella accostando parole che cominciano allo stesso modo o che presentano, al loro interno, sillabe identiche: si ha così la figura retorica di suoni che si chiama al litterazione e che non solo fa risaltare particolari effetti musicali, ma, al solito, attraverso i suoni ricrea musicalmente i significati e stabilisce stretti rapporti di senso tra le parole così accostate. Ad esempio, nei versi iniziali della Sera fiesolana, il ripetersi costante dei suoni f e s produce un senso di freschezza e di dolcezza che risulta perfettamente in linea con le sensazioni espresse dalle parole: G. D'Annunzio, La sera fiesolana Fresche le mie parole ne la sera ti sien come il huscio che tan le toglie Come si vede, l'allitterazione produce effetti timbrici e fonici che non hanno solo una valenza musicale, ma creano legami di senso con le parole e arricchiscono il significato del testo. Spesso la ricerca di nessi allitteranti viene spinta talmente oltre che finisce con il riprodurre, attraverso i suoni, versi di animali o rumori naturali. Si ha allora quella che si chiama onomatopea e che consiste proprio nell'utilizzare le parole in modo tale da suggerire il suono e il rumore delle cose o dell'animale che si vuole indicare non solo attraverso il significato ma anche attraverso il significante. Le onomatopee sono molto frequenti in Giovanni Pascoli. Si veda, ad esempio, come il gracidio delle rane, nel verso seguente, sia espresso non solo dal senso delle parole, ma anche dalla forma delle parole, sia con la trascrizione diretta del suono (gre-gre) sia con la disseminazione nel verso di allitterazioni: G. Pascoli, La mia sera c'è un bneve gre gre di ranelle Talvolta la ricerca dell'onomatopea è così voluta ed esplicita che risulta stucchevole, perché sovraccarica il messaggio poetico di eccessivi elementi musicali usati in funzione espressiva, come ad esempio nei seguenti versi in cui Ciiovanni Pascoli si propone di riprodurre il verso delle galline: G. Pascoli, Valentino e le galline cantavano, Un cocco! ecco ecco un cocco un cocco per te! Altre volte la ricerca onomatopeica è condotta con grande discrezione e produce effetti suggestivi sia sul piano musicale sia su quello semantica. Si veda, ad esempio, come lo stesso Giovanni Pascoli riesce, nei versi seguenti, a trarre dall'onomatopea eccezionali effetti espressivi: G. Pascoli, L'uccellino del freddo Il tuo trillo sembra la brina che sgrigiola, il vetro che incrina tr, tr tri; terit tirit. Gli elementi sonori e timbrici delle parole, dunque, non producono solo ef fetti musicali, ma posseggono uno straordinario potere di evocazione semantica, tanto che gli elementi del significante, come appunto i diversi suoni e i di-versi timbri delle parole, acquistano valore e forma di elementi di significato. Essi infatti danno alle parole un di più di significato e contribuiscono a ricreare gli aspetti della realtà. Quando, poi, come nel caso di talune onomatopee, il significante acquista un tale rilievo da acquisire di per sé un significato autonomo e il puro gioco dei suoni e dei timbri basta da solo a indicare, suggerire o simboleggiare un aspetto della realtà, si parla di linguaggio fono-simbolico: un linguaggio, cioè, in cui i suoni sono veicoli di per sé di signifi-cato. Naturalmente, tutti gli espedienti sonori e timbrici che per forza di cose abbiamo analizzato separatamente, nel testo poetico sono per lo più usati insieme. Anzi, combinandosi opportunamente con i vari elementi ritmico-musicali come il verso, con il suo numero variabile di sillabe, di accenti e di cesure, e le rime, costituiscono la complessa rete di elementi ritmico-musicali che caratterizza, in modo sempre diverso e con effetti non solo musicali, ogni testo poetico. Un testo poetico, infatti, vive anche, se non soprattutto, di queste cose ed è proprio alla sempre varia combinazione di questi elementi ritmici, metrici e timbrici, che esso deve sia la sua caratteristica precipua sia la varietà di forme e aspetti con cui si presenta sia la suggestione che veicola e trasmette e che lo individua tra tutti gli altri tipi di testo. E se questi elementi ritmici, metrici e timbrici - dal verso alla rima, dalla strofa al timbro - concorrono in modo tanto significativo alla formazione e alla trasmissione del linguaggio poetico, è chiaro che l'analisi del livello fonico-timbrico, come di quello metrico-ritmico, costituisce un momento fondamentale per la lettura e la comprensione del testo poetico. Il piano del siguificato Il poeta, nel comporre un testo poetico, non lavora solo sulla forma delle parole per ottenere gli effetti ritmici e fonico-timbrici voluti, ma interviene anche sul significato delle parole. Così, dopo aver analizzato gli elementi formali del testo poetico, è necessario esaminare gli elementi più propriamente legati alle scelte del poeta sul piano del significato delle parole. In particolare, bisogna prendere in esame: le scelte lessicali fatte dal poeta; i modi con cui le parole sono state combinate sul piano semantico; i modi con cui le parole sono state organizzate sul piano sintattico; le figure retoriche che sono state utilizzate dal poeta. Naturalmente, l'analisi del significato delle parole presenti nel testo poetico non deve essere disgiunta dall'analisi degli aspetti formali di quelle stesse parole. Le due analisi, infatti, devono procedere di pari passo, perché riguardano sostanzialmente lo stesso oggetto, la parola, nelle sue due componenti costitutive, il significante e il significato. Il poeta procede alla costruzione del suo testo lavorando contemporaneamente sia sulla forma sia sul contenuto: nello scegliere una parola piuttosto che un'altra ne valuta non solo il significato in rapporto a ciò che intende dire, ma anche la forma, in ordine alla possibilità di sfruttare le componenti ritmiche, foniche e timbriche. Nel nostro caso, siamo costretti, per forza di cose, a separare forma e contenuto, significante e significato, ma nella realtà del testo poetico i due livelli sono intimamente e dialetticamente collegati a costituire il testo poetico stesso. Il livello lessicale: la scelta delle parole. Il lessico dei testi poetici è, nella sostanza, lo stesso della lingua comune anche se appartiene a un registro linguistico più sorvegliato e più ricercato. Perciò, quello che, a livello lessicale, differenzia un testo poetico da un testo di tipo diverso, non è un fatto di qualità o di quantità di parole, ma semplicemente un fatto legato al particolare uso che il poeta fa delle parole stesse. Così, san Francesco d'Assisi utilizza il volgare umbro del suo secolo, con qualche influsso toscano e latino: Francesco d'Assisi, Cantico delle Creature Laudato sie, mi' Signore, cum tucte le tue creature, spezialmente messer lo frate sole, lo quale è iorno et illumini noi per lui. Et elIo è bello et radiante cum grande splendore: da te altissimo, porta significatione. E Francesco Petrarca usa il volgare fiorentino del suo tempo: F. Petrarca, Chiare, fresche, e dolci acque Da' be' rami scendea dolce ne la memoria, una pioggia di fior sovra 'I suo grembo, et ella si sedea umile in tanta gloria, coverta già de l'amoroso nembo; qual fior cadea sul lembo, qual su le treccie bionde, ch'oro forbito e perle erano quel di a vederle: qual si posava in terra, e qual su l'onde, qual con un vago errore girando parea dir: «Qui regna Amore.» Nei secoli successivi, fino a tutto l'Ottocento, la tradizione retorica, non la poesia, ha "costruito" una vera e propria lingua poetica del tutto diversa dalla lingua comune. Chi voleva scrivere in versi doveva scegliere entro un repertorio ben definito di "parole poetiche", considerate tali perché già usate dai grandi poeti e ritenute capaci di nobilitare un discorso rendendolo poetico. Perciò, per secoli, gli uccelli sono stati augelli, il desiderio desio, i capelli crini o capei, l'anima alma, lo spirito spiro, i raggi rai; sempre in poesia non si andava, ma si giva, furono si diceva lur ecc. La poesia, infatti, era diventata imitazione della poesia precedente; chi voleva scrivere versi, anziché esprimere liberamente ciò che sentiva, doveva, tranne poche eccezioni, atteggiare i propri stati d'animo su quelli dei grandi autori a lui precedenti e modellare la sua lingua sulla loro. Così, nel Cinquecento, un poeta come Giovanni della Casa che poetava d'amore e, quindi, non poteva non rifarsi al modello concettuale e linguistico offerto da Francesco Petrarca, scriveva in una lingua che non era la sua lingua quotidiana, ma una lingua letteraria, cioè, appunto, una lingua poetica: G. della Casa, O dolce selva solitaria, amica O dolce selva solitaria, amica de' miei pensieri sbigottiti e stanchi; mentre Borea ne' di torbidi e manchi d'orrido giel l'aere e la terra implica... La causa di questa fossilizzazione della lingua poetica, oltre che nella tradizione letteraria, è anche da ricercare nel fatto che, in Italia, fino a quasi tutto l'Ottocento, mancava una lingua nazionale e, quindi, i poeti usavano una lingua artificiale, libresca e accademica. Inoltre, dalla poesia erano obbligatoriamente esclusi tutti quegli aspetti della vita quotidiana che avrebbero dovuto necessariamente essere trattati in una lingua più semplice e più chiara. In questo modo, tra la lingua parlata e quella scritta e, in particolare, quella dei testi poetici, si aprì una frattura che si andò aggravando con il passare del tempo. Non è certo un caso che un testo poetico di Francesco Petrarca e quindi trecentesco risulti di più facile comprensione sul piano linguistico di un testo di un poeta del Seicento. Questo stato di cose cominciò a mutare, lentamente, solo nel secolo scorso. Con il Romanticismo, infatti, la lirica cessò di essere imitazione di modelli e tornò a essere libera espressione del proprio mondo interiore: accettò, inoltre, nuovi contenuti e anche sul piano linguistico si propose di adottare una lingua comune più comprensibile ai lettori contemporanei. Così, Giacomo Leopardi, pur continuando a usare una "lingua poetica", per molti aspetti ancora legata ai modelli della tradizione, fece spazio anche a parole della lingua comune. Si veda, ad esempio, come nella Quiete dopo la tempesta, lingua poetica e lingua comune coesistano e quasi si elidano a vicenda in nome di una sorta di equilibrio linguistico, nello stesso verso, nell'antiquato e poeticissimo "augelli" e nell'i mpoetico e realistico "galline": G. Leopardi, La quiete dopo la tempesta Passata è la tempesta: odo augelli far festa, e la gallina, tornata in su la via, che ripete il suo verso. i Per il resto, anche in Leopardi, la ragazza è una donzelletta, il ragazzo un garzoncello, il cuore un cor, il temporale una tempesta, la servitù di casa urt famiglia, la carrozza un carro, il domani un dimani, il rumore un romore, la speranza una speme ecc. Con la fine dell'Ottocento e nel Novecento, il rinnovamento in campo poetico diventa pressoché totale. In poesia entrano argomenti nuovi, legati agi aspetti più umili della realtà e della vita quotidiana, e, quasi di necessità, anche la lingua poetica si modernizza: abbandona il lessico tradizionale, si apre alla lingua quotidiana e accetta parnie che solo pochi decenni prima sat rebbero state ritenute assolutamente inadatte al linguaggio poetico. Si pensi, ad esempio, ai buoi (non bovi.'), ai pettirossi, al carbone, ai merli, alle trebbiatrici, agli insetti ("ella aveva nel becco un insetto"), ai vermi ("... tende quel verme a quel cielo lontano"), alle bambole ("portava due bambole in dono"), ai meli, alle cavallette, alle fragole di Giovanni Pascoli e a tutti gli ogget ti quotidiani e a tutte le persone di ogni giorno indicati uno ad uno con i loro nomi dai poeti crepuscolari: il caffè, l'avvocato, il farmacista, i solai, le stoviglie, i materassi, il suocero ecc. La lingua poetica, insomma, tornava, dopo secoli, a coincidere, pur nel suo particolare registro e pur con i suoi valori connotativi, con la lingua c~ mu ne. Anzi, i poeti del Novecento si fecero e si fanno un merito di usare una lingua semplice e piana, vicina alla realtà quotidiana che cantano e quindi alla lingua comune. Così, Eugenio Montale rifiuta programmaticamente il lessico della poesia tradizionale - quello dei "poeti laureati" - per adottare un lessico che, nella sua semplicità ed essenzialità, meglio aderisce alla realtà che egli vuole esprimere, alle immagini desolate del suo mondo, alla sua concezione esistenziale incentrata sul male di vivere e alla musicalità disarmonica dei suoi versi: E. Montale, I limoni Ascoltami: i poeti laureati si muovono soltanto tra le piante dai nomi poco usati: bassi ligustri acanti. Io, per me, amo le strade che riescono agli erbosi fossi dove in pozzanghere mezzo seccate agguantano i ragazzi qualche sparuta anguilla: viuzze che seguono i ciglioni, discendono tra i ciuffi delle canne e mettono negli orti, tra gli alberi dei limoni. Naturalmente, le scelte lessicali dei poeti non sono mai casuali e, quindi, in sede di analisi di un testo poetico è importante individuare le ragioni ditali scelte, ricostruire il lessico di ogni poeta e stabilire se esso è omogeneo o meno al contenuto che è chiamato ad esprimere. Infatti, ogni poeta sceglie, sempre e comunque, il suo lessico. Se vuole inserirsi pedestremente nella tradizione poetica del suo tempo, sceglie le parole da usare nel repertorio lessicale dei suoi modelli; se, invece, rifiuta i modelli, preleva le parole dalla lingua comune e le lavora, nei termini e nei modi che vedremo, in modo da renderle poetiche, cioè portatrici di particolari significati. Nel primo caso, il lavoro di analisi è abbastanza semplice: quando il poeta si inserisce nel solco di una tradizione letteraria, o come si dice in una "scuola", le sue scelte sono pressoché obbligate: ogni "scuola" poetica ha, oltre che contenuti rigidi, anche un lessico fisso e adotta parole che appartengono a un'area semantica ben precisa, collegate ai nuclei tematici della scuola. Così, nel campo della poesia lirica, i poeti stilnovisti del Duecento avevano non solo dei temi fissi da cantare (l'innamoramento, il potere miracoloso della donna amata e simili) ma anche un lessico convenzionalmente "dolce" atto a cantare quei temi e delle vere e proprie parole-chiave, che venivano utilizzate in quasi tutti i componimenti: Amore personificato, "gentile", "vertute e simili. Allo stesso modo, esiste un lessico specifico della poesia lirica di imitazione petrarchesca ed esiste un lessico specifico della poesia epico-cavalleresca. In questo caso, il lettore non ha difficoltà a individuare le caratteristiche del lessico di un testo e a ricostruire il senso e il valore delle scelte linguistiche del poeta: una volta che ha individuata il repertorio lessicale della scuola o del modello, può individuare a colpo sicuro tutti i testi che ne derivano e valutare le scelte lessicali di ogni singolo poeta in rapporto alla sua maggiore o minore aùtonomia dal modello. Nel caso, invece, in cui il poeta si pone al di fuori delle "scuole" e persegue una sua originalità espressiva, l'analisi lessicale risulta più complessa. lì lettore deve, infatti, analizzare il lessico dei testi del poeta in tutti i livelli passibili. Deve, cioè, individuare la direzione delle scelte lessicali operate dal poeta, per stabilire almeno in linea di massima se il poeta privilegia parole di registro aulico e nobilitante (cfr., ad esempio, le scelte linguistiche di Gabriele D'Annunzio) o di registro familiare e colloquiale (cfr., ad esempio, le scelte dei poeti crepuscolari), di matrice classicheggiante (cfr., ad esempio, le scelte di Giosuè Carducci) o di matrice popolare (cfr. le scelte dei poeti dialettali) ecc. individuare l'esistenza di eventuali parole-chiave a la presenza di particolari rapporti di significato che colleghino tra loro gruppi di parole a formare campi semantici riconducibili a nudei tematici particolari. Così, la presenza in un testo poetico di parole che appartengono al campo semantica dell'amore, e quindi del desiderio o del rimpianto della persona amata e della felicità a della disperazione, individua una tematica amoroso-sentimentale. Invece, la presenza di parole appartenenti al campo semantica del tempo come dimensione passata e contrapposta a una dimensione presente, individua una tematica di tipo memoriale, volta al recupero del passato e individuare gli eventuali debiti lessicali che il poeta ha nei confronti dei poeti a lui anteriori: infatti, il poeta, anche quando si muove al di fuori della tradizione, non può fare a meno di operare le sue scelte lessicali nell'ambito della produzione poetica a lui anteriore o contemporanea. Così, se ha letto gli autori classici, latini, italiani o stranieri, è inevitabile che gli rimangano in mente certe parole e che al momento di esprimere in un sua testo determinati concetti a determinati sentimenti, più o meno involontariamente le utilizzi o le riecheggi. Ad esempio, Ugo Foscolo, nel sonetto in cui ricorda la morte prematura del fratello - In morte del fratello Giovanni - non può non misurarsi con un testo di analogo argomento della lirica latina: il carme 101 di Catullo, dedicato anch'essa alla morte prematura del fratello del poeta. Di fatto, nel sonetto fascaliana, sono frequenti gli echi dal componimento catulliano: di gente in gente I multas per gentes... vectus (-- trasportato attraverso molte genti); parla di me con il tuo cenere muto / et mutam nequiquam adloquerer dnerem (= e parlassi invano con la tua muta cenere). individuare e misurare lo scarto tra il lessico del poeta e quello dei poeti a lui contemporanei: in questo scarto consiste l'originalità sul piano lessicale e quindi, in parte, anche su quello stilistico del poeta in questione. individuare e misurare lo scarto tra il lessico del poeta e quello della lingua comune: il poeta, che opera le sue sceltte lessicali nell'ambito della lingua comune, manipola opportunamente il lessico per renderlo capace di esprimere quello che egli vuole. Ma di questo argomento ci occuperemo nel paragrafo seguente. Il Iivello semantico I procedimenti attraverso i quali il poeta porta il lessico della lingua ad assumere una funzione poetica e ad avere quindi il forte valore espressivo che contraddistingue le parole nei testi poetici sono fondamentalmente due: il poeta potenzia la lingua comune arricchendo le singole parole mediante tutti gli elementi ritmici, metrici, fonici e timbrici che abbiamo analizzato nelle pagine precedenti. Nel testo poetico, infatti, la scansione del discorso in versi, con tutto ciò che qu~ sto comporta a livello di accenti e di cesure sul piano ritmico, e gli effetti sonori e musicali prodotti dai giochi delle rime e dalla fitta trama di rimandi sonori e tim brici che innervano il componimento, contribuiscono a dare un rilievo particolare al lessico e rendono formalmente poetico anche il discorso più piatto e banale. il poeta arricchisce la lingua comune sfruttando al massimo grado la possibili. tà della lingua di sviluppare, accanto ai significati puramente referenziali e denotativi, significati nuovi, di tipo connotativo. Del primo procedimento abbiamo già analizzato sia le tecniche sia gli effetti nel testo poetico. Il secondo, che non è meno specifico e meno essenziale del primo e quindi merita anch'esso una trattazione particolare, si articola in più livelli di intervento: la connotazione del lessico attraverso l'uso di particolari figure retoriche; la combinazione particolare delle parole a livello semantico; la costruzione particolare delle parole a livello sintattico. La connotazione del lessico attraverso le figure retoriche di significato Il poeta non usa la lingua in funzione referenziaìe-denotativa, ma in funzione connotativa. La funzione denotativa, infatti, per la sua oggettività descrittivo-referenziale, è tipica della comunicazione ordinaria e si addice ai testi di carattere descrittivo o espositivo o argomentativo. Invece, la connotazione, per la sua capacità di arricchire le parole di implicazioni soggettive, allusive, emòtive ed evocative, prestando loro significati nuovi e accrescendone il valore suggestivo a discapito di quello descrittivo, meglio si addice ai testi letterari e in particolare ai testi poetici. Il meccanismo linguistico che carica le parole di significati nuovi sollevandole dal piano della pura denotazione a quello della connotazione è quello dello spostamento di significato, che si realizza mediante l'uso di varie figure retoriche dette appunto di significato, perché incidono sul significato della parola, mutandolo, ampliandolo, evidenziandolo o trasferendolo dall'una all'altra, insomma rendendolo diverso. È infatti l'uso delle figure retoriche di significato che consente al poeta di ricreare continuamente il linguaggio per dar vita a immagini inattese e rappresentare, mediante le parole usuali, una visione sempre nuova, medita, originale, pregnante, ambigua, suggestiva e, quindi, “poetica” delle cose, delle persone e del proprio mondo interiore, evitando gli scontati rapporti parole-cose e le immagini abusate della comunicazione ordinaria. Così, il poeta, anziché descrivere un oggetto o una persona o una qualità, può rappresentare oggetti, persone e qualità attraverso una similitudine, cioe attraverso altri oggetti, persone o qualità cui quelle assomigliano. Ad esempio, Guido Cavalcanti, per descrivere la propria posizione di innamorato non ricambiato, non si perde in una analisi oggettiva del proprio stato d'animo, che sarebbe stata più adatta a una pagina di prosa introspettiva, ma ricorre a una similitudine, stabilendo un paragone tra se stesso e un automa, che si muove solo per artificio meccanico: G. Cavalcanti, Tu m'hai si piena di do/or la mente 1' vo come colui ch'è fuor di vita, che pare, a chi lo sguarda ch'omo sia fatto di rame o di pietra o di legno, che si conduca sol per maestria. Allo stesso modo, Alessandro Manzoni, per descrivere il senso di angoscia che prende Napoleone quando, nella solitudine dell'esilio, è assalito dal peso dei ricordi, ricorre a una similitudine e costruisce l'immagine di un naufrago che sta per essere sommerso dalle onde: A. Manzoni, Il Cinque Maggio Come sul capo al naufrago l'onda s'avvolve e pesa, l'onda su cui del misero, alta pur dianzi e tesa, scorrea la vista a scernere prode remote invan; tal su quell'alma il cumulo delle memorie scese Altre volte, il poeta compendia in una sola immagine il confronto che la si militudine istituisce tra due immagini: produce, allora, una metafora, cioe usa in luogo di una parola un'altra che ha con essa un rapporto di somiglianza o di analogia. La metafora, o traslato, è di gran lunga la più usata delle figure retoriche e, anche, quella che, con le sue immagini, più di ogni altra connota in senso specifico il testo poetico. Così, Francesco Petrarca, anziché dire che "i capelli biondi di Laura erano splendenti e luminosi come l'oro", condensa il concetto in un'unica immagine metaforica e parla di' "capei d'oro”: F. Petrarca, Erano i capei d'oro a l'aura sparsi Erano i capei d’oro a l'aura sparsi... Allo stesso modo, Ugo Foscolo, partendo dal fatto che tra la giovinezza di una persona e un fiore che sboccia c'è un evidente rapporto di somiglianza, può metaforicamente chiamare la giovinezza "fiore degli anni" e alludere alla morte prematura del fratello dicendo che piange U. Foscolo, In morte del fratello Giovanni il fior de' suoi gentili anni caduto. Così, sempre per effetto di una metafora, le bacche rosse del ginepro, per Pascoli, possono ridere" in mezzo alle siepi verdeggianti: G. Pascoli, Sera d'ottoòre Lungo la strada vedi su le siepi ridere a mazzi le vermiglie bacche mentre il rumore ritmica e costante di una trebbiatrice lontana, sempre per Pascoli, può essere sentito come il battito di un cuore che pulsa: G. Pascoli, Patria Il palpito lontano di una trebbiatrice e le stelle che sembrano staccarsi dal cielo nelle sere di agosto sono, agli occhi del poeta triste e sconvolto, un "pianto del cielo": G. Pascoli, X agosto San lorenzo, io lo so perché tanto di stelle per l'aria tranquilla arde e cade, perché sì gran pianto nel concavo cielo sfavilla Così, l'aria limpida e cristallina del mattino è, per Eugenio Montale, "un'aria di vetro"; la vita intera, nel suo scorrere senza fine e senza perché con tutti i suoi dolori e le sue pene è "una muraglia/che ha in cima cacci aguzzi di bottiglia"; l'insieme dei pensieri che vengono improvvisi alla mente è "lo sciame dei /.../ pensieri". Per Vittorio Sereni, le difficoltà che è costretto ad affrontare nella vita quotidiana sono "marosi di città". Tutta una metafora è il componimento seguente di Salvatore Quasimodo: S. Quasimodo, Ed è subito sera Ognuno sta solo sul cuore della terra trafitto da un raggio di sole: ed è subito sera. La metafora, come si vede, non solo riscatta la lingua dal rischio della banalità e della convenzionalità dandole uno spessore "poetico", sviluppandane le componenti suggestive e moltiplicandone i significati, ma, con la sua singolarità, la sua pregnanza e vivacità attiva l'attenzione del lettore, ne stimola l'intuito e lo coinvolge fattivamente nel processo poetico. Il lettore, però, deve saper valutare attentamente le metafore usate dal poeta e distinguere quelle che svolgono efficacemente il loro compito, facilitando la comprensione e producendo immagini originali e significative, dalle metafore incongrue o assurde, che generano confusione o dalle metafare ormai talmente abusate da risultare stilizzate e altrettanto banali del linguaggio comune. Un altro strumento retorico che permette di rivitalizzare il linguaggio utilizzando le parole in senso figurato è la metonimia: essa consiste nell'usare invece di un termine proprio un altro termine, che gli è legato da un rapporto di contiguità, cioè da affinità di tipo logico o materiale. Così, scambiando l'effetto con la causa, Giacomo Leopardi, per indicare i libri e i quaderni su cui sudava di fatica, parla di "sudate carte": G. Leopardi, A Silvia lo gli studi leggiadri talar lasciando e le sudate carte Scambiando la materia di cui un oggetto è fatto con l'oggetto stesso, Guido Cavalcanti può chiamare le barche o le navi "legni": G. Cavalcanti, Biltà di donna e di saccente care adorni legni in mar forte correnti Scambiando il contenuto ("vino") con il contenente ("bicchiere"), Giosuè Carducci può invitare il "cittadino Mastai" a G. Carducci, Il canto dell’amore bere un bicchiere e così via. Per moltiplicare l'effetto delle proprie parole, evitando, specialmente nelle descrizioni, quella precisione che è più propria dei testi scientifici che non dei testi poetici, il poeta spesso ricorre all'iperbole, cioè utilizza parole esagerate per esprimere un concetto a un'idea. Così, Eugenio Montale, per dire che ha vissuto a lungo con la propria donna e che ne ha avuto conforto e aiuto, dice che ha sceso con lei "almeno un milione di scale": E. Montale, Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale e ora che non ci sei è il vuoto a ogni gradino. -Sempre per evitare una precisione eccessiva e nomenclatoria, il poeta può indicare una persona o una cosa anziché con il termine proprio, con una perifrasi, cioè un giro di parole. Così, Ugo Foscolo, nel suo carme ricorre a una perifrasi per citare Niccolò Machiavelli, Michelangelo Buonarroti e Galileo Galilei: U. Foscolo, Dei Sepolcri ...lo quando il monumento vidi ove posa il corpo di quel grande che temprando lo scettro a' regnatori gli allor ne sfronda, ed alle genti svela di che lacrime grondi e di che sangue; e l'arco di colui che nuovo Olimpo alzò in Roma a' Celesti; e di chi vide sotto lietemo padiglion rotarsi più mondi, e il Sole irradiarli immoto... Per dare forza a cose, idee o concetti, il poeta può ricorrere anche alla perso. nificatione, che consiste nel dare a cose e idee aspetto umano, nell'interpellarle o farle parlare come esseri umani. Così, i poeti stimovisti del Duecento personificano costantemente l'amore: G. Cavalcanti, Chi è questa che vèn, ch'ogn'om la mira O deo, che sembra quando li occhi gira dical' Amor, ch'i' noi savria contare Francesco Petrarca personifica l'Italia: F. Petrarca, Italia mia Italia mia, ben che 'l parlar sia indarno... Gabriele D'Annunzio personifica la sera in una languida creatura femminile il cui pallido viso è il cielo grigio azzurro e i cui grandi occhi sono le pozzanghere in cui il cielo si specchia: G. D'Annunzio, La sera fiesolana Laudata sii pei tuo viso di perla, o Sera, e pe' tuoi grandi umidi occhi ove si tace l'acqua del cielo! Infine, per evitare la perentorietà o la banalità di certe affermazioni o definizioni, il poeta può fare ricorso alla lilote, che gli permette di esprimere un concetto in forma attenuata, per lo più negando il concetto opposto. Così, invece di far dire alla fanciulla che parla Sono morta", Ciiovanni Pascoli le fa dire che è viva solo nel cuore della persona che l'amava, cioè nel suo ricordo: G. Pascoli, La tessitrice Mio dolce amore, non t'hanno detto? Non lo sai tu? io non son viva che nel tuo cuore. La connotazione del lessico attraverso la particolare combinazione delle parole Nella lingua comune, la possibilità di combinazione delle parole ha dei limiti ben precisi: è subordinata ad alcuni criteri di correttezza imposti non solo dalla morfologia e dalla sintassi, ma anche dal senso. Nella lingua comune un'espressione come La sera mesce chiarori nell'ombra è corretta sul piano della morfologia e della sintassi, ma è assurda sul piano del senso: il soggetto "sera” non puo combinarsi con il predicato "mesce chiarori nell'ombra" perché da una parte il predicato non è pertinente al soggetto e dall'altra il nome sera non è compatibile con verbi come mescere , in quanto la “sera" non può essere intesa come un essere vivente capace di compiere azioni volontarie come “mescere". Insomma, nella lingua comune e quindi nei testi descrittivo-referenziali, nei testi scientifici, nei testi tecnici e simili, la sera può subentrare al di può cominciare" e "finire", ma non può "mescere chiarori nell'ombra". Nei testi poetici, invece, le parole non conoscono limiti di combinazione e, una volta rispettate le norme fondamentali della morfologia e della sintassi, ogni combinazione è possibile e, anzi, proprio le combinazioni apparentemente più as surde producono le immagini più poetiche, più intense e più suggestive. Così, un poeta, per dire che di sera nel cielo gli ultimi colori vivaci e luminosi del dì coesistono con le prime ombre della notte, può dire che "la sera mesce chiarori nell'ombra" come fa Dino Campana nei seguenti versi: D. Campana, L invetriata La sera fumosa d'estate dall'alta invetriata mesce chiarori nell 'ombra e mi lascia nel cuore un suggello ardente. La lingua poetica, infatti, esprime i suoi concetti e le sue immagini non tanto attraverso schemi logici, come la lingua dei testi denotativo-descrittivo-referenziali, ma quanto attraverso rapporti di tipo irrazionale, illogico o analogico. Così, tramite combinazioni nuove e inedite o accostamenti apparentemente assurdi, le parole della lingua comune, già scelte non tanto in virtù del loro significato letterale quanto per la loro ambiguità e per la rete di associazioni semantiche che possono produrre, acquistano nuovi significati e nuove capacità espressive che danno vita a immagini inedite e suggestive. lì poeta sfrutta in tutti i modi l'assoluta libertà di combinazione delle parole a livello semantica e ne trae effetti di grande efficacia. Una delle figure più usate è l'ossimoro, che consiste nell'accostare, in una medesima locuzione, parole di significato opposto, che si contraddicono a vicenda: "grido silenzioso", "amara dolcezza", "oscura luce" e simili. Così, Giovanni Pascoli, accostando un aggettivo che implica silenzio e tranquillità ("tacito") a un nome che indica rumore e confusione ("tumulto") suggerisce l'idea di tensione creata dall'approssimarsi di un temporale, quando nel silenzio sospeso di una natura sconvolta dalla paura, scoppia improvviso un lampo: G. Pascoli, Il lampo bianca bianca nel tacito tumulto una casa apparì sparì d'un tratto Allo stesso modo, Giorgio Caproni parla di una "disperazione I calma, senza sgomento": G. Caproni. Congedo del viaggiatore cerimonioso Di questo sono certo: io sono giunto alla disperazione calma, senza sgomento e Montale di una "morte che vive": la morte, la morte che vive Molto frequente nei testi poetici dell'ultimo Ottocento e del Novecento è poi la sinestesia, una figura di grande effetto espressivo che consiste nell'associare, all'interno di un'unica immagine, nomi e aggettivi appartenenti a sfere sensoriali diverse che in un rapporto di reciproca interferenza danno origine a un'immagine vividamente medita: ad esempio "colore caldo", in cui la sensazione visiva ("colore") è unita a una sensazione tattile ("caldo"); "voce chiara", in cui la sensazione acustica ("voce") è unita a una sensazione visiva ("chiara"). Così, in un verso di Salvatore Quasimodo: S. Quasimodo, Alle fronde dei salici E come potevamo noi cantare all'urlo nero della madre che àndava incontro al figlio... crocefisso sul palo del telegrafo? due sensazioni diverse, che interessano la prima ("urlo") il campo sensoriale dell'udito, la seconda ("nero") quello della vista, si fondono in un'immagine che suggerisce l'idea, viva e vibrante, di un'angoscia e di una disperazione senza fine. Allo stesso modo, Eugenio Montale parla di fredde luci" e di "trillo d'aria" e Mario Luzi di "voce abbrunata". E già alla fine dell'Ottocento, Giovanni Pascoli creava una suggestiva sinestesia accostando un nome relativo alla sfera uditiva “voci") a due nomi - tra l'altro in rapporto ossimorico tra loro - relativi alla sfera visiva ("tenebra azzurra"), per indicare il suono delle campane nella notte: G. Pascoli, La mia sera voci di tenebra azzurra... Ma la libertà di combinazione che caratterizza la lingua poetica non riguarda solo singoli nessi, cioè singole parole o singoli costrutti: essa coinvolge l'intera struttura del testo poetico. Infatti, nel testo poetico, soprattutto nel Novecento ma anche nei secoli passati, la successione delle idee e delle immagini per lo più non segue un criterio di consequenzialità logica, ma si esplica attraverso procedimenti analogici, cioè tramite passaggi imprevisti e apparentemente immotivati, tramite scarti improvvisi da un tema a un altro, da un discorso a un altro, da un'immagine a un'altra e tramite giustapposizione di concetti incongrui sul piano razionale. Di fatto, nella totale o parziale mancanza di un'ossatura logica "normale", le varie parti del discorso sono connesse tra loro sul piano delle emozioni o su quello delle immagini o della musicalità, cioè su piani non immediatamente evidenti e non sicuramente individuabili e afferrabili, ma non per questo meno vincolanti o necessari all'economia generale del messaggio che il testo poetico intende trasmettere. Per questo motivo, tra l'altro, non ci sono nel testo poetico passaggi secondari che possano essere soppressi o riassunti: tutto è essenziale e necessario e il destinatario il lettore o l'ascoltatore - deve continuamente cooperare alla costruzione del significato totale del messaggio stesso. Il procedimento analogico è evidente, ad esempio, nella seguente lirica di Dino Campana: in essa sono solo le emozioni, le suggestioni e le ossessioni di carattere acustico, espresse attraverso richiami ritmici e sonori e attraverso continue riprese foniche, a connettere tra loro le varie immagini in cui la lirica consiste. D. Campana, L'invetriata La sera fumosa d'estate dall'alta invetriata mesce chiarori nell'ombra e mi lascia nel cuore un suggello ardente. Ma chi ha (sul terrazzo sul fiume si accende una lampada) a la Madonnina del Ponte chi è chi è che ha acceso la lampada? c'è nella stanza un odor di putredine: c'è nella stanza una piaga rossa languente. Le stelle sono bottoni di madreperla e la sera si veste di velluto: e tremola la sera fatua: è fatua la sera e tremola ma c'è, nel cuore della sera c'è, sempre una piaga rossa languente. La lirica, come si vede, non ha un significato" univocamente individuabile, ma ètutta un accavallarsi di immagini e un impasto di sensazioni, ai limiti dell'inconscio. Per questo, è inutile e controproducente tentarne una spiegazione": meglio seguirne il suggestivo sviluppo attraverso il motivo centrale del bagliore del tramonto riflesso dalla vetrata e delle prime luci della sera e attraverso le reazioni che quel bagliore suscita nell'animo del poeta, scatenando in lui una sorta di ossessione visiva che deforma i dati della realtà e si carica di un senso di sgomento e di pena. La connotazione del lessico attraverso particolari costrutti sintattici. Le figure dell'ordine. Il testo poetico non è vincolato, sul piano della sintassi, al rispetto delle norme che regolano la successione dei vari elementi all'interno della frase e delle frasi all'interno del periodo nei testi in prosa. Anche da questo punto di vista, il testo poetico conosce una grande libertà e, anzi, fa della rottura e spesso del ribaltamento totale delle strutture sintattiche "normali" un altro elemento della sua specificità. Per lo più, la struttura sintattica nel testo poetico è strettamente legata all'andamento ritmico imposto dal verso usato dal poeta. Di fatto, il verso con il suo numero di sillabe e con i suoi accenti ritmici più o meno fissi, impone di necessità costruzioni sintattiche che si discostano da quelle usuali. Così, la sintassi normale fissa la posizione reciproca del soggetto e del predicato stabilendo che il soggetto deve precedere il predicato e, quindi, suggerisce un costrutto come: La tempesta è passata. Ma la versificazione di questa frase, con la necessità di inserire le parole in un verso - il settenario che ha sue caratteristiche precise, implica un'inversione dell'ordine sintattico regolare e quindi Leopardi scrive: G. Leopardi, La quiete dopo la tempesta Passata è la tempesta dando con ciò stesso alle parole un ritmo poetico che nella sequenza normale (La tempesta è passata) non avevano. Nei quattro versi successivi ordine sintattico e ordine ritmico coincidono: odo augelli far festa, e la gallina, tornata in su la via, che ripete il suo verso. Ecco il sereno rompe là da ponente, alla montagna. Il poeta, infatti, ha fatto coincidere i due livelli espressivi per ottenere un effetto descrittivo-referenziale e ha affidato la produzione di un minimo di "tono poetico" a altri elementi ritmici: la rima nel mezzo, l'alternanza di endecasillabi e settenari, la variazione delle cesure, gli enjambements e simili. Poi, però, nei due versi successivi il parallelismo si rompe e la sintassi poetica ribalta la struttura della sintassi" normale": Sgombrasi la campagna e chiaro nella valle il fiume appare... Talora è il poeta stesso che, indipendentemente dai vincoli imposti dai versi, disarticola le strutture sintattiche "normali" per conseguire effetti particolari. Il poeta, infatti, sa bene che le parole assumono un rilievo semantico maggiore o minore anche a seconda della posizione che hanno nel testo poetico. Perciò, manipola la distribuzione delle parole in modo tale da collocare le parole che più gli interessano in posizioni strategiche. Le posizioni più importanti sono: quella all'inizio di verso: U. Foscolo, Dei Sepolcri A egregie cose il forte animo accendono l'urne de' forti, o Pindemonte. quella in rima: G. Pascoli, La mia sera stanco dolore, riposa! La nube del giorno più nera f fu quella che vedo piò rosa nell'ultima sera! quella evidenziata dagli accenti o dalle cesure: G. Leopardi, La sera del dì di festa Dolce e chiara è la notte e senza vénto Oppure costruisce posizioni artificiali ad effetto regolando le relazioni reciproche tra le parole mediante il ricorso alle cosiddette figure retoriche dell'ordine. Uno dei procedimenti più usati ed efficaci, da questo punto di vista, è l’inversione o iperbato, che consiste nel rovesciare l'ordine sintattico normale per lo più per ritardare l'apparizione del soggetto, su cui poggia tutta la tensione del discorso o dell'immagine: G. Leopardi, Il sabato del villaggio Siede con le vicine su le scale a filar la vecchierella per dare maggior evidenza a un termine piuttosto che a un altro. E. Montale, Spesso il male di vivere ho incontrato Bene non seppi, fuori del prodigio che schiude, la divina Indifferenza per avviare il componimento su ritmi e timbri funzionali alla musicalità del testo: G. Leopardi, La sera del dì di festa Dolce e chiara è la notte, e senza vento Simile all'inversione è l'anastrofe, che consiste nell'invertire l'ordine usuale delle parole, allo scopo di conferire particolare risalto al termine cui tocca il primo posto nel nuovo ordine sintattico. Si vedano, ad esempio, i seguenti versi: G. Carducci, Traversando la Maremma toscana e in quelle seguo de' miei sogni l’orme G. Carducci, Davanti Son Guido Di cima al poggio allor, dal cimitero, giù de'cipressi per la verde via, alta, solenne, vestita di nero parvemi riveder nonna Lucia: Un altro tipo di figura dell'ordine è il chiasmo, che consiste nella disposizione incrociata di due coppie di parole di una frase. Ad esempio, nel verso: G. Leopardi, Il passero solitario brilla nell'aria, e per li campi esulta Giacomo Leopardi ha posto dapprima il verbo ("brilla") davanti alla determinazione locativa ("nell'aria") e poi ha invertito la sequenza ponendo il verbo ("esulta") dopo la determinazione di luogo ("per li campi"): così facendo ha collocato agli estremi del versole due forme verbali ("brilla... esulta") e ha avvicinato al centro le due determinazioni locative ("... nell'aria, e per li campi"), creando un forte effetto descrittivo. Lo stesso espediente è usato nei versi seguenti: G. Leopardi, Il passero solitario Odi greggi belar, muggire armenti G. Carducci, Davanti San Guido bei cipressetti, cipressetti miei G. Carducci, Pianto antico Né il sol più ti rallegra Né ti risveglia amor Così chiamato dalla lettera dell'alfabeto greco che si pronuncia "chi" e lo visualizza graficamente il chiasmo serve soprattutto a mettere in evidenza singoli gruppi di parole attirando l'attenzione del lettore su di esse. Figura dell'ordine, volta a mettere in evidenza singole parole e a creare, oltre che un particolare effetto ritinico, una notevole tensione espressiva, è anche l'antitesi, che consiste nell'accostare termini e concetti di senso opposto, all'interno della stessa frase. Un simile accostamento, che non di rado è reso più incisivo e netto dalla struttura simmetrica dei versi, accentua, per contrato, il significato dei singoli termini. Si veda, ad esempio, la seguente terzina di Dante: Dante, Interno, XIII Non fronda verde, ma di color fosco non rami schietti, ma nodosi e 'nvolti, non pomi v'erano, ma stecchi con tosco. Particolari effetti, sia sul piano del ritmo poetico sia sul piano del significato, il poeta può ottenere anche mediante l'enumerazione, che consiste nell'accumulare una sequenza di parole o di proposizioni collegandole per polisindeto, cioè mediante una serie di congiunzioni coordinative, come nei versi di F. Petrarca: F. Petrarca, Solo e pensoso, i più deserti campi sì ch'io mi credo ormai che monti e piagge e fiumi e selve sappian di che tempre sia la mia vita, ch'è celata altrui o per asindeto, cioè senza l'ausilio di alcune particelle coordinative o disgiuntive, come nei versi seguenti di E. Montale: E. Montale, Ho sceso, dandoti il braccio almeno un milione di scale . . .né più mi occorrono le coincidenze, le prenotazioni, le trappole, gli scorni di chi crede che la realtà sia quella che si vede Tanto l'asindeto quanto il polisindeto se adeguatamente utilizzati, possono imprimere ai versi ora un andamento concitato e incalzante ora un ritmo sospeso, quasi di attesa. Talvolta, i due espedienti tecnici vengono usati insieme, per produrre particolari effetti espressivi. Così nei seguenti versi di Giacomo leeopardi, prima l'accumulo di nessi collegati dalla ripetizione della congiunzione e e dopo la giustapposizione senza coordinazione di varie forme verbali imprimono ai versi un ritmo travolgente che suggerisce l'ansia che travaglia il povero "vecchierel" nella sua spasmodica corsa verso il nulla: G. Leopardi, Canto notturno di un pastore errante dell'Asia Vecchierel bianco, infermo, mezzo vestito e scalzo, con gravissimo fascio in su le spalle, per montagna e per valle, per sassi acuti, ed alta rena, e fratte, al vento, alla tempesta, e quando avvampa l'ora, e quando poi gela, corre via, corre, anela, varca torrenti e stagni, cade, risorge, e più s'affretta, senza posa o ristoro, lacero, sanguinoso; infin ch'arriva colà dove la via e dove il tanto affaticar fu volto: abisso orrido, immenso, ov'ei, precipitando, il tutto obblia. Vergine luna, tale è la vita mortale. Con l'anafora, cioè con la ripetizione di una parola o di un gruppo di parole all'inizio di più versi successivi, il poeta può sottolineare in modo enfatico un determinato elemento o concetto, o imprimere al testo un ritmo incalzante e martellante. Ad esempio, nei seguenti versi di Dante la ripetizione di per me" all'inizio di tre versi successivi, scandisce in modo ossessivo, alle soglie stesse dell'lnferno, la pena che incombe sui dannati: Dante, Inferno, III Per me si va nella città dolente, per me si va nell'etterno dolore, per me si va tra la perduta gente. Nei versi seguenti, invece, la ripetizione di “Tu", di “sei ne la terra" e di nè", oltre tutto evidenziata come nell'esempio precedente dalla struttura parallela dei versi, martella i versi suggerendo l'idea di un dolore senza conforto: G. Carducci, Pianto antico Tu fior de la mia pianta percossa e inaridita tu de l'inutil vita estremo unico fior sei ne la terra fredda sei ne la terra negra né il sol più ti rallegra né ti risveglia amor. Più parco, ma non meno efficace, è l'uso dell'anafora nei testi poetici del Novecento, come testimoniano i seguenti esempi: E. Montale, Non chiederci la parola Codesto solo oggi posso dirti, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo E. Montale, Spesso il male di vivere ho incontrato Spesso il male di vivere ho incontrato: era il rivo strozzato che gorgoglia, era l'incartocciarsi della foglia riarsa, era il cavallo stramazzato Simile all'anafora è l'anadiplosi, che consiste nel riprendere, all'inizio di un verso, una parola o un gruppo di parole poste alla fine del verso precedente. L'effetto che il poeta si propone di conseguire con questo espediente è quello di mettere in risalto le parole coinvolte e, ovviamente, il concetto che esprimono, come appare dai seguenti versi: U. Saba, Lo capra Questa voce sentiva gemere in una capra solitaria. In una capra dal viso semita Figura dell'ordine è anche il climax, che consiste nel disporre le parole in una progressione "a scala cioe secondo una gradazione ascendente (o discendente: anticlimax) a suggerire un effetto progressivamente più intenso (o meno intenso). Si veda, ad esempio, come nei seguenti versi la progressiva intensità semantica degli aggettivi - dal più debole al più forte -' incrementata dal doppio asindeto, contribuisca sia ad aumentare i valori ritmici e fonici dell'insieme sia a creare, ali-vello di significati, l'atmosfera di terrore che precede lo scoppio di un lampo: G. Pascoli, Il lampo La terra ansante, livida, in sussulto; il cielo ingombro, tacito, disfatto Infine, figura dell'ordine, con forti effetti semantico-espressivi più che ritmici, è l'ipallage, che consiste nell'attribuire a un termine qualcosa (qualificazione, determinazione o specificazione) che logicamente spetterebbe a un termine vicino. Così, nei versi di Giovanni Pascoli G. Pascoli, Arano un ribatte le porche con una marra paziente; l'aggettivo "paziente" è riferito all'arnese "marra", ma logicamente va riferito a "un (contadino)", cioè al contadino che usa la "marra" e che è "paziente".